DA SAN PIETRO A PIO XII (13)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

PARTE SECONDA

DAL 1000 AI NOSTRI GIORNI

CAPO III.

LA SCHIAVITÙ AVIGNONESE E LO SCISMA D’OCCIDENTE

PREAMBOLO

1 – DECADIMENTO POLITICO DEL PAPATO

Il tramonto dell’Impero d’Occidente s’iniziò con la morte di Federico II avvenuta nel 1250. Ma, come l’impero, decadde poi politicamenteanche il Papato.

Nel 1294 morto Nicolò IV, i Cardinali, dopo un conclave di 27 mesi, elessero Papa un eremita abruzzese, Pietro del Monte Morone, che prese il nome di Celestino V, e, nauseato della politica, dopo soli quattro mesi, « fece… il gran rifiuto », cioè rinunciò al Pontificato. La tiara passò a Bonifacio VIII, che, malgrado le mutate condizioni dei tempi, volle seguire le idee di Gregorio VII. Per evitare un possibile scisma, Bonifacio tenne prigioniero il vecchio Celestino e, per realizzare il suo sogno politico, bandì nel 1300 il primo GIUBILEO. A Napoli favorì gli Angioini contro gli Aragonesi, in Firenze inviò Carlo di Valois per difendere i Neri e cacciare i Bianchi, a Roma, si schierò contro i Colonna, fautori di Celestino, e, fuori d’ Italia, osteggiò Filippo il Bello che, in lotta con gl’Inglesi ed avendo bisogno di denaro, aveva tassato gli ecclesiastici e steso il « suo braccio secolare » sui beni dei Templari.

* * *

BONIFACIO VIII E FILIPPO IL BELLO

D. Che aveva portato la lunga lotta degl’imperatori tedeschi contro la Chiesa?

— Un indebolimento delle forze dell’impero, di modo che i Papi dovettero procacciarsi l’aiuto della Francia, frattanto cresciuta in prosperità e potenza dopo il governo di San Luigi IX.

D. Ma come rispose il governo degli Angioini?

— Con disordini e distrazioni in Italia, da dove furono cacciati nel 1282 nei famosi Vespri Siciliani, e in Francia con l’ambizione sfrenata di Filippo il Bello, nipote di S. Luigi IX, inteso ad assicurarsi un’assoluta indipendenza dalla Chiesa, usando a tal fine l’ingiustizia, la slealtà e la frode.

D. Chi gli si parò contro a difendere i diritti della Chiesa?

— Bonifacio VIII (1294 – 1303), uno dei Papi più grandi del Medio Evo e dei più calunniati.

D. Quale fu il suo proposito?

— Risollevare e consolidare l’autorità dei Papi e della Chiesa, come avevan fatto Gregorio VII e Innocenzo III, ma i tempi erano mutati e divenuti assai più difficili.

D. Che tentava Filippo il Bello?

— Emancipare la Francia dall’autorità della S. Sede e perciò cominciò a stendere le sacrileghe mani sui beni ecclesiastici.

D. Che cosa emanò Bonifacio VIII allora?

— La famosa Bolla « Clericos laicos », con cui decretava che re e principi non potessero, senza il consenso del Papa, esigere le decime dal clero, sotto pena di scomunica, tanto per i principi quanto per gli ecclesiastici.

D. Come rispose Filippo?

— Dichiarò, continuando la sacrilega rapina, che la Francia non avrebbe più sofferto altra autorità che quella di Dio e del re. Fece poi imprigionare il Legato che il Papa gl’inviava per indurlo a più miti consigli, gli distrusse i documenti ufficiali che egli portava, e inviò al Papa una lettera di villanie, insolenze e calunnie.

D. Come ribatté il Papa?

— Con l’ancor più famosa Bolla « Unam Sanctam » del 1302, con la quale rinnovava l’idea di Gregorio VII e di Innocenzo III, del dominio universale della Chiesa, non soggetta a principe alcuno.

D. Che cosa provocò l’« Unam Sanctam »?

— Le più assurde accuse di Filippo e suoi perfidi consiglieri, contro cui il Papa lanciò la scomunica. Allora il re mandò il francese Nogaret che, con Sciarra Colonna, assalì papa Bonifacio in Anagni, lo insultò e imprigionò. Fu poi liberato dal popolo e ricondotto, fra grandi dimostrazioni di rispetto, a Roma, ma un mese dopo per i dispiaceri e strapazzi sofferti morì (1303).

D. Chi successe a Bonifacio VIII

— Benedetto XI, che tentò di pacificare Filippo il Bello con la Chiesa; ma avendo scomunicato, per il fatto sacrilego di Anagni, il Nogaret e il Colonna, morì improvvisamente, pare di veleno da parte di questi e per istigazione di Filippo il Bello.

2 – L A SCHIAVITÙ’ AVIGNONESE

PREAMBOLO

Il papato avignonese

Clemente V, eletto Papa per influenza di Filippo il Bello, restò in Francia e la sede del Papato rimase in Avignone per 72 anni, dal 1305 al 1377. Durante questo periodo di umiliante asservimento, che a ricordo della schiavitù del popolo ebreo, fu detto « cattività avignonese » o babilonica, si acuirono le lotte della Chiesa e si favorì lo smembramento d’Italia in piccole Signorìe: gli Ordelaffi a Forlì, i Malatesta a Rimini, i Pepali a Bologna, i Da Polenta a Ravenna. Morto Clemente V, i Cardinali discordi, dopo due anni di lotte, elessero Giovanni XXII che aumentò i danni della Chiesa. I francescani  erano divisi in due partiti, i Zelanti o Fraticelli, rigidi seguaci del Poverello d’Assisi, ed i Conventuali, propensi all’acquisto di ricchezze. Il Papa si scagliò contro i primi e poiché, alla morte di Enrico VII, erano stati eletti ad un tempo Ludovico il Bavaro e Federico d’Austria, e Giovanni XXII aveva preso le parti di quest’ultimo, Ludovico appoggiò i Fraticelli, scese in Italia e nominò antipapa Nicolò V. – Roberto di Napoli come capo dei Guelfi marciò in difesa di Giovanni XXII e Ludovico, avendo poche milizie, lasciò Roma ed abbandonò l’antipapa al suo destino. Le lotte e le scomuniche continuarono fino alla morte di Ludovico, ed il Papa riuscì a far riconoscere come imperatore Carlo IV di Boemia. A Giovanni XXII successe Benedetto XII, poi Clemente VI, ed a Roma si disputarono il potere gli Orsini ed i Colonna. Di queste lotte approfittò Cola di Rienzo, figlio di un oste e di una popolana, per restaurare l’antica repubblica. Proclamato tribuno, Cola per le sue stranezze fu obbligato a fuggire presso Carlo IV, che prima lo imprigionò, poi lo mandò ad Avignone. Il nuovo pontefice Innocenzo VI inviò il tribuno in Italia con il card. Egidio d’Albornoz per occupare pacificamente Roma. Ritornato nella Città eterna e fatto senatore, Cola riprese la lotta contro i nobili, ma in un tumulto fu ucciso. L’Albornoz con le armi e con l’astuzia restaurò lo Stato pontificio ed il nuovo papa Urbano V, venuto a Roma, al rinnovarsi dei disordini dopo la morte dell’Albornoz, ritornò ad Avignone. Solo nel 1377 Gregorio XI, esortato da S. Caterina da Siena, si trasferì definitivamente a Roma.

D. Che cosa causarono le tristi condizioni in cui si trovò la S. Sede?

— Una sua vacanza per undici mesi e poi l’elevazione dell’Arcivescovo di Bordeaux, che prese il nome di Clemente V; ma le lotte che tenevano in perturbazione l’Italia fecero rifiutare a Clemente V di recarsi a Roma. Fissò la sua sede ad Avignone nel 1305 ed iniziò così quel calamitoso periodo della Chiesa che fu detto « Schiavitù Avignonese » e che durò fino al 1377.

D. Che cosa rappresenta la Schiavitù Avignonese?

— Uno dei periodi più funesti per la Chiesa in generale e per lo Stato Pontificio in particolare; perché l’autorità del Papa vide assai diminuito il proprio prestigio, apparendo influenzata dai re di Francia; e inoltre la lontananza della s. Sede dall’Italia procurò lo smembramento dello Stato Pontificio, con funeste conseguenze per l’ordine pubblico e per le condizioni di vita della città di Roma, divenuta null’altro che una miserabile borgata.

D. Chi caldeggiò il ritorno del Papa a Roma?

— Un’umile fanciulla senese, Caterina Benincasa, le cui suppliche accorate finalmente esaudite indussero Gregorio XI a rientrare a Roma. Era il 17 gennaio del 1377. I Romani l’accolsero con immensa festa.

3 – IL GRANDE SCISMA D’OCCIDENTE

PREAMBOLO

La parola scisma deriva dal greco « schizo », che significa « divido » ed è appunto, lo scisma, una divisione religiosa per cui, rifiutata la comunione con quella società religiosa cui prima si apparteneva, si fa corpo separato, scisso. Alla base di questa lacerazione dell’unità della Chiesa come Corpo mistico di Cristo sta, quindi, il rifiuto — per lo più collettivo — di ubbidienza, una ribellione per sé solo disciplinare alla autorità della Chiesa. Senonchè, dato il dogma del Primato di Pietro, lo scisma implica anche eresia sul piano pratico (C. J. C. can. 1325). Anche in Occidente si ebbe dal 1378 al 1429 un luttuoso periodo storico durante il quale la Cristianità, benché una nella Fede e nello spirito di ubbidienza ad un solo Pietro, non sapeva quale persona fosse il suo legittimo successore.

• * •

D. Quale conseguenza portò la « schiavitù avignonese »?

— Il grande scisma d’Occidente.

D. Come nacque?

— Quando alla morte di Gregorio XI (1378) si adunò il Conclave, venne eletto Urbano VI, santo uomo, ma di carattere focoso, non gradito ai cardinali francesi, che, riunitisi a Fondi, il 20 settembre 1378, fra l’universale sbalordimento, elessero Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII. Morto Urbano VI, gli successero poi Bonifacio IX (1389 – 1404), Innocenzo VII (1404 – 1406), e Gregorio XII (1406 – 1417). All’antipapa Clemente VII, trasferitosi ad Avignone, successe Pietro di Luna (1394 – 1437) con il nome di Benedetto XIII.

D. Che si fece per risolvere la questione?

— Dopo infinite discussioni, nel 1409, si apri a Pisa un concilio di cardinali delle due obbedienze (romana e avignonese), depose i due Papi, come fautori di scisma eretici e, nel conclave che ne seguì, uscì eletto Alessandro V .

D. Quale la conclusione?

— Invece dell’unità della Chiesa si ebbero tre Papi simultanei a disputarsi il supremo potere.

D. Che cosa provocarono queste vicende della Chiesa?

— Provocarono dei moti ereticali. L’inglese Giovanni Wycliff, precorrendo Lutero, ammise la superiorità della Bibbia sul Papa e rimproverò al clero lo sfruttamento delle indulgenze.

D. Fu ben accolta in Inghilterra questa eresia?

— Fu avversata. Tuttavia essa trovò in Boemia un campione in Giovanni Huss e, siccome l’agitazione ebbe carattere nazionale e antitedesco, l’imperatore Sigismondo promosse a Costanza il 5 novembre 1414 un concilio che affermò la sua autorità sullo stesso Pontefice e mandò al rogo Huss ed il suo discepolo Girolamo da Praga.

D. Che fece inoltre il Concilio?

— Il concilio depose Giovanni XXIII, che era succeduto ad Alessandro V, scomunicò Benedetto XIII, accettò le volontarie dimissioni del Papa romano Gregorio XII (il Papa legittimo – n.d.r.), ed elesse il cardinale Ottone Colonna, che prese il nome di Martino V (11 novembre 1417).

D. Che fece Martino V?

— Aprì a Basilea, poco prima della sua morte, un altro Concilio, che il successore Eugenio IV cercò di sciogliere, per evitare che affermasse di nuovo la sua superiorità sul Papa. Vi furono delle proteste ed Eugenio IV trasferì il Concilio prima a Ferrara e poi a Firenze, anche per tentare, con la venuta dei prelati greci, la riunione della Chiesa latina con l’ortodossa.

D. Che avvenne intanto?

— Si riaprì lo scisma, perché alcuni Padri del Concilio di Basilea, non volendo ubbidire, deposero Eugenio IV ed elessero Amedeo VIII di Savoia con il nome di Felice V.

L’energia di Eugenio IV e del suo successore Nicolò V posero fine allo scisma, che fu detto « d’Occidente», per distinguerlo da quello d’Oriente provocato nell’880 da Fozio. Felice V depose volontariamente la tiara, ed una Bolla dichiarò eretico il principio della superiorità del Concilio sul Papa.

D. Avrebbe resistito un’istituzione terrena alla fiera tempesta?

— No, risponde il protestante Gregorovius, « ma così meravigliosa era l’organizzazione della Chiesa e indistruttibile l’idea del Papato, che la divisione ne mostrò l’indivisibilità ».

L’IDEA RIPARATRICE (7)

L’IDEA RIPARATRICE (7)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

Come riparare?

Tutti quanti i Cristiani sono tenuti alla riparazione, noi l’abbiamo visto fin qui: non tutti però debbono riparare allo stesso modo. Una madre di famiglia potrà essere una  « riparatrice », ma non come lo dovrà essere una Suora Carmelitana. – I doveri dello Stato, l’attraimento della grazia divina, l’indirizzo di un buon direttore, sono tre fattori che concorrono a formare lo spirito e la pratica della riparazione in ciascuno di quelli che volonterosi si mettono sulla « Via Regale della Croce ». Premessa questa distinzione del tutto elementare, possiamo determinare due gradi nell’offerta di sé all’idea riparatrice, secondo la parte più o meno grande che si vorrà dare alla Croce nella propria vita. Noi l’abbiamo detto: l’elemento principale in questa materia non è altro che la generosità d’animo: tutti dovranno riparare con una vita ordinaria, i più generosi tenderanno invece ad una vita perfetta.

CAPO PRIMO

COME RIPARARE NELLA VITA CRISTIANA ORDINARIA.

Troppo spesso si crede che per darsi alla Riparazione sia necessario ritirarsi nel silenzio d’un chiostro e nelle austerità della vita monastica, e praticare gli esercizi più duri della penitenza cristiana. Questo è un errore. La Riparazione non consiste in un insieme di pratiche presentate con programma determinato, è piuttosto un indirizzo spirituale che facilmente si adatta alle varie condizioni di vita, supponendo però che questa sia sinceramente cristiana. Un indirizzo spirituale. Quindi prima di ogni altra cosa convien porre per base una chiara conoscenza e un intimo sentimento della verità di un Dio Crocifisso e Crocifisso per noi, ma che aspetta la nostra cooperazione, mentre intorno a noi v’hanno delle anime, e purtroppo sono in gran numero, che vanno perdute. Questa Conoscenza è di somma importanza: eppure quanti Cristiani ne sono totalmente privi! Or bene è appunto nel viver animati intimamente da queste due grandi idee che consiste l’indirizzo spirituale o se si vuole lo spirito di riparazione (Il Can. LEROUX di Bretagna dice molto bene: « La vita riparatrice non è per sé una forma speciale di vita cristiana, ma neppure si può dire che sia una vita comune, poiché non si trova purtroppo presso tutti i fedeli ». E la ragione si è che per l’una parte conviene sforzarsi a menare una vita veramente cristiana, il che è più raro di quanto si creda; e dall’altra parte « le attrattive che sente l’anima che pur cerca di santificarsi non sono sempre verso questo ideale particolare. Può provar desideri anche forti della santità in genere senza fissarsi esplicitamente nella pratica della riparazione ». “La vie reparatrice”). E questo ce spirito » manifesta subito le sue esigenze. Un’anima cristiana dominata dall’idea riparatrice comprende che prima di tutto essa dev’esser fedele alle promesse fatte nel S. Battesimo, ai comandamenti di Dio e della Chiesa, e non solo con una fedeltà trasandata come per lo più accade a molti, ma interamente, rigorosamente, senza scuse, senza transazioni, sia nella vita individuale che in quella sociale e famigliare. L’orizzonte si delinea fin dal principio nella sua vastità. Un romanziere americano prese come tema delle sue opere la seguente storia: Un pastore dovendo preparare il suo sermone scelse come testo: « Ecco la vostra vocazione. Gesù Cristo ha sofferto per voi, questo esempio dev’esser seguito da voi passo a passo fino alla perfezione ». Venuta la domenica egli recita il suo discorso dinanzi ad un uditorio mondano che l’ascolta colla solita attenzione. D’un tratto un vecchio mendicante entra precipitoso e grida: « Come non sentite voi vergogna? Voi che osate cantare: Gesù io presi la mia croce pesante E per seguirti tutto abbandonai? e poi vivete così come fate? ». Al termine della sua sfuriata egli cade morto. Impressione enorme tra gli uditori, anche maggior impressione nell’animo del Pastore. Venuta la domenica seguente egli propone alle sue pecorelle di fondare una lega in cui ciascun membro si obblighi a interrogare se stesso al cominciare di ogni azione: « Che farebbe Gesù se fosse qui in questo momento? ». Molti vi danno il loro nome: degli uomini politici, dei commercianti, dei giornalisti… e tosto in conseguenza della parola data s’accorgono di dover mutar completamente la loro vita. Il sig. E. Norman, direttore del Raymond Daily News, è uno dei segnatari: gli si presenta un lungo articolo sulle corse, tre colonne e mezza. Egli s’interroga: « Se Gesù Cristo avesse la responsabilità del giornale lascerebbe Egli uscire queste tre colonne di scritto così com’è…? …No ». E l’articolo è cestinato. E queste notizie politiche?… E gli annunzi di quarta pagina?… ». E il giornale muore. È questo un romanzo — e portato all’esagerazione; — però l’idea non è cattiva, tutt’altro. Quanta perfezione di vita cristiana si potrebbe facilmente avere se, come gli ascritti alla lega del romanzo americano, noi ci proponessimo di riflettere al cominciare delle nostre azioni: « Qui. a mio posto, in questa circostanza, che farebbe Gesù Cristo? ». E chi non vede che d’un tratto noi avremmo certamente una profonda mutazione nella condotta dei singoli individui, nelle relazioni tra i popoli, nella vita delle famiglie e della società? Studiando la questione, delicata insieme e importantissima ai nostri giorni, del ripopolamento della famiglia, materia in cui purtroppo molti Cristiani mancano ad un preciso loro dovere, un autore diede all’opera sua questo titolo : « La Francia ripopolata dai Cristiani praticanti », titolo con cui si formula tutto un programma mentre si esprime ancora unacondanna. – Come in siffatta materia così in tutte le altre di dominio della morale pubblica nulla si potrà « riparare » senza l’intervento efficace dei veri Cristiani: e ancora conviene che non vengano meno al loro compito ma siano Cristiani intrepidi, tutti d’un pezzo, come si esprimeva L. Veuillot, anche « sfrontati ». Le occasioni di praticar la propria fede fino al sacrifizio non mancano mai per le anime generose. Noi abbiamo già combattuta la tendenza che hanno molti Cristiani a farsi una Religione che non li disturbi troppo. Il Card. Manning scriveva: « Noi viviamo in tempi facili. Chi digiuna ancora ai nostri giorni? ». E vero che la Chiesa si mostra indulgente, tuttavia « riflettiamo che anche ai nostri giorni gli israeliti tre volte nell’anno non prendono cibo alcuno dal levare al tramontar del sole: amaro rimprovero per noi che siamo discepoli di Gesù Crocifisso ». Quali sofferenze non hanno dovuto sostenere durante l’ultima guerra certi nostri soldati, ad esempio quei fucilieri di marina dell’epopea di Dixmude, che dovettero rimanere coi piedi nell’acqua per ventisei giorni senz’altro nutrimento che qualche scatola di conserva? La causa che difendevano ne valeva certo la pena. Ma la causa di Gesù Cristo non è forse più nobile ancora? Perché noi vorremmo limitare i nostri sacrifizi? Intorno a noi che non si fa per seguire il mondo, per adattarsi alla moda del giorno! E per le anime? — Per Gesù Cristo? Noi amiamo piuttosto i crocifissi di lusso, non troppo sofferenti, d’avorio su fondo vellutato. Lasciatecelo ripetere: non son quelli i « veri » crocifissi. I veri sono meno fini e sopra di essi non vi si sta troppo comodamente. Quando Eraclio poté ricuperare la Croce, rimasta per quattordici anni bottino di guerra nelle mani dei persiani di Cosroe, volle portarla egli stesso fino alla sommità del Calvario ed a questo fine rivestì gli abiti regali più sfarzosi, colle perle preziose e la sua corona da imperatore. « Non così, Maestà, gli disse il Vescovo di Gerusalemme, non così! C’è troppo contrasto tra il lusso del vostro abbigliamento e la povertà della Croce ». E l’imperatore cambiò il suo oro e le sue perle con un povero cilicio. La Croce del Salvatore è una croce che crocifigge. Infatti è una vera contraddizione quella che vediamo praticare da molti Cristiani, che pretendono seguire Gesù Cristo e poi mettono ogni cura per evitare le penitenze più semplici e più ordinarie imposte per legge dalla Chiesa. Scherzando il Cardinale Manning si rivolge ad essi: « Permettetemi ch’io vi domandi se voi stessi credete al vostro prossimo quando lo sentite dire che non può digiunare, fare le astinenze del venerdì, che queste cose nuocciono alla sua salute, ecc.? » E poi aggiunge: «Se io pervenissi a turbare qualche poco la vostra coscienza non ne proverei dispiacere, poiché io son convinto di vivere in un tempo in cui la mollezza dei costumi tende a far «comparire la dolce severità delle leggi ecclesiastiche ». – Così si vede che senza andar troppo lontano, col solo praticare la lettera — o almeno lo spirito — dei comandamenti di Dio, si presentano a mille a mille le occasioni di offrire al Signore dei sacrifizi ben meritorii per la riparazione. Accettiamo dunque per prima cosa le mortificazioni che ci vengono imposte dalla Chiesa e poi in secondo luogo quelle che ci si presentano nelle diverse circostanze della nostra vita. Anche queste abbondano: rovesci di fortuna, malattie, lutti, disgrazie, dispiaceri d’ogni sorta. La vita ne è colma e può esser paragonata ad una lira con sette corde, sei dedicate al dolore e una alla gioia. Bossuet comparava i minuti di vera felicità nella nostra vita a quei chiodi d’oro che adornano una porta; visti di lontano sembrano migliaia; strappateli, appena riempiono il cavo d’una mano. Le nostre gioie sono come le pietre di un torrente, instabili, e lontane l’una dall’altra, che se volete passarlo appena ponete il piede sopra l’una di esse, subito dovete saltare ad un’altra e così di seguito senza potervi arrestare. Ma tu chi se’ che sì se’ fatto brutto? domanda Dante (Inf. C. 8, v. 35) a un dannato mentre questi lo vede passare nella barca di Virgilio. Rispose: « Vedi che son un che piango ». « Uno che piange!». Ecco quella che può dirsi la definizione di ogni uomo quaggiù, specialmente in certi giorni. E allora come fa pena il vedere che non si sa trarre profitto da quelle lagrime che pur non si può non versare! Ciascuno di noi colla somma dei patimenti di cui è formata la vita, come con un capitale, avrebbe modo di guadagnare dei meriti immensi. E la maggior parte non ne fa nulla, non ci pensa: invece di utilizzare le proprie croci per il Cielo e per le anime, le sciupa, non ne ritrae nulla… peggio, ribellandosi, trova in esse un’occasione di nuovi peccati. Che si direbbe di un uomo che possedendo una fortuna in tutte monete d’oro, invece di portarle alla banca per la « ristorazione nazionale » le andasse gettando ad una ad una dall’alto di un ponte in un profondo abisso?… – Appena siam raggiunti da un qualche patimento la prima cosa che facciamo è per lo più il lamentarci, il prendercela con Dio: « Io vorrei, diceva Nostro Signore a S. Geltrude, che almeno i miei amici non mi giudicassero tanto crudele. Dovrebbero farmi l’onore di pensare che se talvolta li obbligo a servirmi con fatica, e quasi con loro sacrifizio, io lo faccio pel loro bene, anzi pel loro maggior bene. Io vorrei che invece di irritarsi contro i loro dolori, vedessero in essi uno strumento del mio amore di Padre… ». I Cristiani ferventi lo comprendono benissimo. Ai piedi del letto di morte di un loro figlio, giovane religioso, loro rapito da un morbo fulminante, il padre e la madre si scambiano le seguenti parole: « Vuoi che recitiamo il Te Deum? — Oh sì, di tutto Cuore! ». Ampère si era da poco sposato. La vita gli si affacciava tutta in festa: quand’ecco una malattia colpisce la sposa e minaccia di rapirgliela. Ampère, benché tutto immerso nella trepidazione, ha la forza di scrivere: «Mio Dio, io vi ringrazio… Io vedo che voi volete che io viva solo per voi, che tutti i miei istanti vi siano dedicati. Volete voi togliermi tutta la felicità che io posseggo quaggiù? Voi ne siete il padrone, o mio Dio! le mie colpe meritano bene questa punizione. Ma io spero che voi ascolterete ancora una volta la voce della vostra misericordia ». Qual meravigliosa forza può dare al povero cuore di un uomo una fede veramente profonda! – Una madre riceve la notizia che il figliuolo suo è ferito da un obice e spaventosamente mutilato, ma non ha perduto per nulla il suo coraggio eroico. Essa scrive di lui : « Egli soffre una vera passione in unione col nostro caro Gesù e fa meraviglia il veder questo mio figlio felice, crocifisso, steso sulla croce sanguinolente, rimanersene tranquillo e sorridente nel suo martirio di ogni momento… Io ringrazio il Signore… che l’ha messo a parte dei patimenti redentori del Calvario. Noi non possiamo comprendere, così afflitti come siamo, i misteri di misericordia che rimangono nascosti sotto queste prove, ma io credo che in cielo ci saranno svelate le ricchezze di queste sanguinose immolazioni e che intanto questi poveri feriti sono ben potenti presso Dio ». Il povero mutilato si preparava pel sacerdozio, quindi la madre continua: « Poco importa il modo con cui vien fatto il sacrifizio, purché il Signore prenda quanto Egli crede bene e ritragga dalla sua creatura quella gloria che gli è gradita… Se L . . . non potrà più essere sacerdote, sarà certamente Ostia e questo è l’Ufficio di Gesù Cristo: chi dunque potrà lamentarsi nel vedersi trattato come lo fu il Figlio di Dio? ». Poco tempo dopo anche il fratello del povero mutilato cade gloriosamente sul campo; e la madre, forte sempre, esce in questi accenti di rassegnazione: « Povera piccola vittima che si aggiunge a tante altre! Ci fu dato da Dio perché lo conducessimo al Cielo; egli vi è arrivato. Ringraziamo il Signore. Tuttavia per noi che abbiamo una fede ancora debole è cosa dolorosa ». Quante madri, quante sorelle, quante spose che per ragione della grande guerra sono ormai destinate ad essere altrettanto « dolorose »! Così tutte avessero il coraggio di trasformare il sacrifizio che venne loro « imposto » in sacrifizio « volontario » e dicessero al Signore: « Gesù, grazie per avermi associata in questo modo alla vostra Croce. Voi avete voluto il sangue di chi era come una parte di me stessa, voi volete le mie lagrime., io ve le offro tutte quante. Forse in me stessa non troverei la forza di dirvi: prendete… Ma ormai voi avete preso quanto avete voluto, io voglio almeno aver il coraggio di dirvi che voi avete fatto bene… che ho capito… che io mi rassegno… – Io non mi sento ancora di pronunziare l’Alleluja, mormorerò per ora sommessamente: Amen, così sia ». Parlando del proprio figliuolo, vittima come tanti altri nella gloriosa ma sanguinosa guerra, una persona diceva in confidenza ad una sua amica: « Voi lo sapete benissimo, già prima io l’avevo offerto al Signore, quindi al presente rimetto nelle mani sue il mio olocausto non soltanto accettando ma volendo quanto Egli ha disposto ». Si noti che le parole furono sottolineate dalla madre stessa. « II mio povero cuore, scrive una delle sì numerose e sì valorose nostre vedove di guerra, i l mio povero cuore che non può abituarsi alla solitudine prova un’ardente sete di darsi ancor più completamente a Dio, di offrirsi totalmente senza riserva ». — Sete avventurata, così il Divin Maestro la comunicasse questa sete ad un grande numero di anime. — Essa riconosce che « il suo amore era forse troppo umano, diventerà ora più sovrannaturale » . — Questo è appunto il desiderio del Signore, quello che forse Egli aveva di mira nel permettere la tribolazione. — Ed essa prega per « avere il grande coraggio di offrirsi sempre più al Signore ». – Le ammirabili suore che dirigono la Casa di salute di Villepinte hanno fondato fra le loro ammalate un’associazione detta « della riconoscenza ». Una delle ragazze esitava nel darvi il suo nome: « Io temo, diceva, di non saper dire grazie al Signore, quando io soffro ». per riuscire a trionfare di un siffatto timore, ecco un eccellente mezzo e molto pratico per tanti poveri cuori che sanguinano disorientati per gli ultimi avvenimenti: offrirsi a Dio in « ostia » di amore e di riparazione. « Questa è la più grande ricchezza dell’anima, diceva S. Giovanna Francesca dì Chantal, soffrire molto per amore ». I veri Cristiani non lo ignorano e lo mettono in pratica. « L’anima si può unire a Dio colla preghiera, come pure lo può fare col lavoro: ma il patimento accettato per piacere a Dio, il patimento offerto a Dio, il patimento diventato caro per amore di Dio unisce l’anima al suo Signore ben più intimamente. Un patimento simile è la migliore delle preghiere, è la più fruttuosa delle fatiche ». Son queste parole del P. Ramière, ed il P. Ponlevoy rincalza: « La più dolce consolazione di questa vita e la più grande fortuna dell’anima nostra è certamente quella li unirci a Gesù Cristo. Ma non si può negare che v’ha ancora di meglio: ed è di conformarci alla volontà di Dio e di esser confitti in croce insieme a Gesù Cristo, o, che è la stessa cosa, attaccati a Gesù Cristo per mezzo della sua Croce ». – È nota l’ammirabile « Preghiera di Pascal per il tempo delle infermità. » In essa, meglio che altrove, si manifesta l’intenzione di trarre grande profitto dalle malattie tanto penose e così facilmente riparatrici. « Non permettete, Signore, che io possa ricordare l’anima vostra contristata fino alla morte e il vostro corpo pesto dai flagelli e dissanguato per i miei peccati senza sentirmi contento di patir qualche cosa anch’io nel mio corpo e nella mia anima. Difatti che v’ha di più vergognoso e tuttavia anche più frequente nei Cristiani e in me stesso, che mentre voi agonizzate e trasudate sangue noi viviamo tra le delizie? Liberatemi, o Signore, dalla tristezza che l’amor sregolato di me stesso mi potrebbe suggerire… ma infondete nell’anima mia una tristezza conforme alla vostra. Che i miei patimenti servano a dissipare la vostra collera… Io non vi domando né sanità, né malattia, né vita, né morte: ma che voi disponiate della mia sanità e della mia infermità, della mia vita e della mia morte per vostra gloria, per mia salvezza eterna, e per l’utilità della Chiesa e dei vostri Santi ». Degne d’esser citate a fianco della Preghiera di Pascal riferiamo alcune frasi di un’anima che pur visse nel mondo e che aveva per divisa preferita « adoratrice, riparatrice e consolatrice » : « Mio Dio, diceva Elisabetta Leseur (dal suo diario), io sono e voglio esser sempre tutta vostra nella pena e nella gioia, nell’aridità e nella consolazione, nella sanità e nella malattia, nella vita e nella morte. Io non desidero che una cosa sola: che la vostra volontà sia fatta in me e per mezzo mio. Io non ho altra mira e sempre più desidero di non averne mai altra che questa: raggiungere la vostra maggior gloria corrispondendo il meglio che posso ai vostri disegni sopra di me. Io mi offro a voi in un’intima e completa immolazione e vi supplico di servirvi di me come di un vile ed inutile strumento in favore delle anime che vi sono care per vostro servizio ». Secondo il parere di tutti gli autori ascetici le « croci » che ci vengono imposte sono le migliori, « Le migliori croci sono le più pesanti, e sono più pesanti quelle che vanno contro il nostro gusto, quelle che non sono sottoposte al nostro arbitrio: le croci che incontriamo per via. e anche meglio quelle che troviamo in casa nostra… Queste sono più utili che i cilici, le discipline, i digiuni e quante altre austerità si possano inventare. Le croci che sono oggetto di nostra scelta hanno sempre alcun che di amabile e di gradito, perché in esse c’è del nostro, quindi sono meno atte a crocifiggerci. Umiliatevi dunque e ricevete con gaudio quelle croci che vi vengono imposte contro il vostro genio ». Abbiamo riconosciuto in queste parole S. Francesco di Sales. Dobbiamo dunque conchiudere, come per lo più si fa coi Cristiani ordinari, che le penitenze volontarie sono da lasciarsi esclusivamente ai religiosi ed ai claustrali? No, certamente. Ascoltiamo a questo proposito il Card. Manning il quale dopo aver raccomandato la fedeltà alle mortificazioni raccomandate per legge dalla Chiesa come il meno che siamo tenuti a fare, aggiunge: « Andrò più innanzi. V’ha ancora ai nostri tempi chi abbia il coraggio di condurre la vita dei santi? Noi ne leggiamo la vita e li ammiriamo: conosciamo le austerità con cui si affliggevano e la povertà in cui vivevano e ne facciamo oggetto delle nostre lodi, intanto però ci sentiamo i brividi nelle ossa. Che sappiamo noi fare? Quali sono le nostre penitenze? Dov’è per noi la livrea di Gesù Cristo?… Noi cerchiamo… che il mondo ci ponga nelle file di quelli che gli appartengono. E noi ci crediamo Cristiani!». Egli parlava ai suoi compatrioti, gli inglesi, grandi amatori, come tutti sanno, del « comfort »; ma il consiglio non è inopportuno anche al di qua della Manica. Quanti Cristiani in punto di morte non dovranno rivolgere a sé stessi quello stesso rimprovero che in tempo di Esercizi Spirituali e per umiltà Paolina Reynolds (Entrata in convento tra le Carmelitane di Avranches in età di 57 anni) faceva a se stessa: « Non trovo più modo di dilatare questo povero mio cuore destinato ad esser ricolmo di vita divina. Non c’è più tempo. Avrei potuto dispormi con una più fedele corrispondenza a riceverne centomila volte più nell’eternità e non l’ho voluto fare, lo non mi sono voluta disturbare che con “misura” ». Se invece di una fedeltà qualsiasi, d’una fedeltà « dosata abilmente » ci decidessimo ad esser generosi senza alcuna misura, quale cumulo di meriti noi non potremmo versare nel tesoro della Comunione dei santi! Ecco in quale maniera, secondo l’autore della Mission du Saint-Esprit dans les àmes (Card. Manning, p. 450)), noi dovremmo riparare: « Anzitutto colla nostra prontezza nel seguire le inspirazioni dello Spirito divino, poi con una fedeltà proporzionata alla sua grazia e nella stessa misura dei suoi doni e non già con un gesto gretto nascondendo sotterra il talento ricevuto: conviene farlo fruttificare e di mille talenti riprodurne diecimila… Finalmente bisognerebbe servirlo con grande purità di cuore, e con questo intendo due cose: non soltanto l’evitare tutto quanto potrebbe macchiare il nostro cuore, ma ancora il rinunziare a tutto quello che lo potrebbe dividere… ». Come si vede non manca modo di riparare: ma una cosa manca purtroppo! E queste sono le anime che diano mano a questi diversi modi, le anime che accettino di combattere non solo contro il peccato ma contro i minuti difetti; le anime che si consacrino risolute non già a pratiche straordinarie ma al perfetto compimento dei piccoli doveri per riparare. Noi spesso sogniamo imprese impossibili. « È invece nelle piccole cose che si rivela un grande amore; per le cose grandi siamo come portati e non ne sentiamo la difficoltà, ma per le ordinarie, le meschine, le noiose è necessaria una dimenticanza di sé che supera le forze comuni » (Vallery-Radot: Le vase d’albatre, nella Revue des Jeunes del 25 settembre 1917). Mgr. De Ségur diceva colla solita sua finezza e col suo buon senso: « La nostra santificazione è come un edifizio fatto di grani di sabbia e gocce d’acqua; un’occhiata repressa, una parola trattenuta, un sorriso interrotto, una linea incompiuta, un ricordo soffocato; una lettera cara percorsa rapidamente e poi riposta; un piccolo movimento naturale coraggiosamente frenato: un importuno, un noioso dolcemente sopportato: una scappata, un ghiribizzo immediatamente compresso: la privazione di una spesa inutile; una nube di tristezza dolcemente dissipata; una gioia naturale temperata con uno sguardo all’Ospite divino del proprio cuore; una ripugnanza vinta; che so io? cose da nulla, impercettibili all’occhio degli uomini ma ammirabilmente visibili allo sguardo interiore di Gesù Cristo; su queste cose fissiamo tutta la nostra attenzione, esse sono nello stesso tempo piccolissime e grandissime fedeltà che attirano sulle anime nostre veri torrenti di grazie… ». – Oh! i poveretti che siamo noi se queste minuzie di rinunzie bastano a misurare le nostre forze. Ma questo è un fatto e nessuno che abbia provato a praticare di cotali piccole immolazioni, potrà contradire all’osservazione che l’abate Perreyve deduce dall’esperienza: « Quando si è ancor fanciulli sembra cosa del tutto facile e naturale l’essere degli eroi o dei martiri. Ma coll’avanzarsi nella vita si viene a scoprire il prezzo d’un semplice atto di virtù e Dio solo può darci la forza di esercitarlo ». Siamo dunque i fedeli operai delle umili fatiche. Chi potrà dire se durante la guerra la salvezza di più d’uno, caduto nelle trincee o mentre marciava all’assalto non fu il frutto di una povera preghiera d’una umile vecchierella che offriva i suoi dolori pel nipote lontano? Chi sa dove va a colpire durante la mischia la palla tirata dal più umile fantaccino? E non si dica: « Con che cosa e come riparare? Io sono sì miserabile; io non posso che dire col Profeta : A, a, a et nescio locui, io non posso che dare un gemito inarticolato e confessare la mia impotenza. Che potessero riparare i Santi, si comprende., ma io? ». — Voi il potete fare, così quale voi siete, colla vostra fedeltà, compensando per le vostre miserie e facendo un’opera di giustizia. Voi potete fare ancor più: per le vostre miserie lasciate fare al Signore, e i vostri meriti offriteli a Lui per compensare le colpe e i peccati altrui. Noi presi da soli per la riparazione nulla possiamo, è verissimo; ma insieme colla grazia di Dio, che non manca agli umili e ai volonterosi, siamo una forza, siamo un valore più grande di quello che possiamo immaginarci. Gesù Cristo quando tolse la fame ai cinque mila uomini nel deserto, di che si volle servire? Di soli cinque pani e due pesci. Anche allora i mezzi furono per se stessi insufficienti al fine. Per finire di convincerci di questa verità ascoltiamo ancora una « professionista » della Riparazione (Simona Denniel: Une ame réparatrice, p. 75): « Per fare un’ostia il Signore non volle servirsi dell’oro, dell’argento o di pietre preziose, ma di un misero pezzetto di pane, cosa del tutto volgare e di nessun valore ». Chi si faceva coraggio in questa maniera dimostrava pure la sua umiltà, ma per noi le sue parole sono principalmente una verità sicura che deve infonderci lena e coraggio nel praticare la riparazione.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/12/lidea-riparatrice-8/

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VI – “IN GRAVISSIMIS”

In questa drammatica lettera Enciclica, scritta a ridosso dei funesti avvenimenti della massonica rivoluzione francese del 1789, il Santo Padre Pio VI, concede agli ecclesiastici coinvolti dalle tragiche conseguenze della ribellione a Dio e alla sua Chiesa, una serie di indulti straordinari per regolare situazioni anomale concernenti questioni diverse. Ecco come il Sommo Pontefice, nella sua qualità di Vicario di Cristo, assumendosi tutte le gravi responsabilità che il suo augusto ruolo gli impone, interviene in questioni della massima importanza dottrinale e giurisdizionale. Nel suo esordio si citano le parole che San Paolo rivolgeva al suo amato discepolo e da lui fatto Vescovo: Timoteo, parole particolarmente idonee nel rappresentare, seppur succintamente, le condizioni in cui i prelati dovevano operare:  « … in questi tempi pericolosi, nei quali molti, anzi troppi, figurano nel numero di coloro di cui parla profeticamente l’Apostolo, di coloro cioè che “non sopportano più la sana dottrina e si circondano di maestri che corrispondano ai loro desideri, rifiutando di dare ascolto alla verità“… »; sono queste parole che oggi soprattutto sono quanto mai opportune per inquadrare le vicende spirituali e dottrinali dei nostri tempi, tempi in cui ognuno si affida alle proprie fantasie dottrinali, alle favole massoniche spacciate per verità e mascherate da culti blasfemi che solo gli ignoranti [di cose religiose] non riescono a cogliere e delle quali non avvertono il fetore nauseabondo con cui vengono avvolti riti anticristiani, blasfemie diaboliche, adorazioni luciferine, come quelle della messa del baphomet, “signore dell’universo” [quella di BUAN 1365/75 e del patriarca universale degli Iluminati], della setta modernista del N. O. M., che si è insediata là.. dove abita satana (Apoc. ii) , cioè sul colle Vaticano, ove un tempo S. Pietro aveva la sua cattedra di Verità usurpata da Simon mago, anzi dai “simon maghi” della cattedra pestilenziale. Non parliamo poi delle fantasie apocalittiche di cabarettistici eretici e scismatici sedevacantisti, nonché dei paramassonici fallibilisti gallicani, i falsi sacrileghi prelati creati dal 30° F. M. cavaliere kadosh di Lille, fiancheggiatori dei servi della “bestia”, con i quali sono “una cum” e dai quali ricevono prebende e sostegni. Ma tutto Dio permette a nostro castigo e per trarre maggior gloria dall’empietà confusa degli uomini.

Pio VI
In gravissimis

Roma, 19 marzo 1792

1. Nelle gravissime e molteplici preoccupazioni che dobbiamo continuamente sostenere, per quella sollecitudine a favore di tutte le Chiese che Ci è stata affidata dal supremo Principe dei Pastori, Gesù Cristo, in questi tempi pericolosi, nei quali molti, anzi troppi, figurano nel numero di coloro di cui parla profeticamente l’Apostolo, di coloro cioè che “non sopportano più la sana dottrina e si circondano di maestri che corrispondano ai loro desideri, rifiutando di dare ascolto alla verità, Noi non troviamo maggiore e più dolce conforto che comunicare con i Nostri Fratelli Vescovi che, chiamati a far parte della Nostra stessa sollecitudine, si dedicano con animo alacre e coraggioso ad eseguire i doveri del loro ufficio e a provvedere alla salvezza del gregge loro affidato con grande diligenza e nel migliore modo possibile.

2. Abbiamo provato recentemente una grande consolazione quando abbiamo letto e riletto la lettera piena di zelo che Ci avete inviato il 16 dicembre dello scorso anno voi che vi trovate a Parigi, e quella che Ci hanno scritto l’8 gennaio del corrente anno i vostri Fratelli Vescovi che risiedono a Roma. Da queste lettere abbiamo appreso che Ci chiedevate di investire con un indulto generale tutti i singoli Vescovi del Regno di Francia e gli amministratori delle Diocesi (per il tempo in cui sono vacanti le Sedi Episcopali) di alcune più ampie facoltà, onde possano pascere e governare più facilmente il gregge affidato.

3. Non abbiamo trovato alcuna difficoltà a riconoscere quanto giusta fosse questa richiesta, così corrispondente alla malvagità dei nostri tempi e così degna dei sacri Presuli che riconoscono i doveri del loro ufficio e intendono compierli con tutte le loro forze. – Alla fine delle lettere di cui abbiamo parlato, essi testimoniano l’ossequio che le Chiese Gallicane professano verso l’autorità della Sede Apostolica mediante alcune dichiarazioni, due delle quali vogliamo riportare. – La prima dichiarazione è: “Non si deve esercitare nessuna facoltà proveniente dalla Santa Sede o in proprio o da usare attraverso delegati subalterni senza una previa dichiarazione da iscriversi nello stesso corpo dell’atto, cioè che si proceda in virtù del potere delegato dalla Sede Apostolica, annotando anche la data della concessione. La seconda dichiarazione è: “Si osserveranno rigorosamente i decreti e le disposizioni dei Sommi Pontefici, dei Concilii, nonché le consuetudini della Chiesa di Roma verso la Chiesa Gallicana nel concedere dispense, nell’assolvere da censure e in tutti gli altri atti compiuti in forza di indulti.

4. Pertanto su consiglio di una speciale Congregazione di Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa tenuta in Nostra presenza il 19 gennaio scorso, concediamo alle vostre Fraternità e a voi diletti Figli amministratori delle Diocesi, per mezzo della presente lettera, per il tempo e nel modo precisati nel presente indulto, le facoltà qui descritte e delle quali devono valersi alcune Sedi Episcopali più di altre.

5. Pertanto confortatevi, Venerabili Fratelli nel Signore, e per la potenza del suo braccio, indossando l’armatura di Dio contro i dominatori di questo mondo di tenebre, combattete come già avete fatto, quali valorosi militi di Cristo. Più che mai in tempo di tribolazione è necessario che i sacri Presuli mostrino quella solida virtù cristiana e quella sacerdotale costanza della quale devono essere dotati, secondo le parole dell’Apostolo, “al fine di essere in grado di esortare i potenti nella sana dottrina e di richiamare coloro che la combattono. – Vi assicuriamo pertanto, sempre, ogni miglior difesa da parte della Nostra autorità pontificia, e la testimonianza della Nostra paterna benevolenza. Come pegno di entrambe impartiamo a voi, diletti Figli, Venerabili Fratelli, con tanto affetto la Benedizione Apostolica. Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 marzo 1792, anno diciottesimo del Nostro Pontificato.

* * *

FACOLTÀ CONCESSE DALLA SEDE APOSTOLICA

Ai singoli Arcivescovi e Vescovi e Amministratori delle Diocesi del Regno di Francia, che hanno comunione e grazia con la Sede Apostolica.

6. I. Facoltà di assolvere da tutti i casi in qualsiasi modo riservati alla Santa Sede, e particolarmente di assolvere da tutte le censure ecclesiastiche qualsiasi laico ed ecclesiastico, sia secolare, sia regolare, di ambedue i sessi; e anche coloro che aderirono allo scisma e prestarono giuramento civile e perseverarono in esso oltre i quaranta giorni stabiliti nella lettera apostolica del 13 aprile dello scorso anno per la sospensione a divinis, purché tuttavia abbiano ritrattato pubblicamente e palesemente tale giuramento, e abbiano riparato nel miglior modo possibile allo scandalo dato ai fedeli.

7. II. Facoltà di dispensare coloro che, già iniziati allo stato ecclesiastico, devono essere promossi agli Ordini minori o anche agli Ordini sacri, dalle irregolarità contratte in qualsiasi modo; anche da quella che hanno contratto i violatori della sospensione latæ sententiæ comminata con la stessa lettera del 13 aprile, purché essi, prima di essere dispensati, ritrattino il giuramento civile, prestato in modo puro e semplice, con una ritrattazione pubblica e palese. Si eccettuano tuttavia quelle irregolarità che provengono da bigamia accertata o da omicidio volontario: ma anche in questi due casi si concede la facoltà di dispensare se ci fu una precisa necessità o costrizione di lavoratori buoni e probi, purché, riguardo all’omicidio volontario, non sorga scandalo da una tale dispensa.

8. III. Facoltà di dispensare e commutare anche i voti semplici di castità, per una causa ragionevole, in altre pie opere; e questo per quelle Congregazioni di uomini e donne che sono stretti da questi vincoli, ma non dal voto (solenne e perpetuo) di religione.

9. IV. Facoltà di dispensare nei matrimoni già contratti o da celebrare sull’impedimento di pubblica onestà derivante da legittimi sponsali. – Di dispensare sull’impedimentum criminis se nessuno dei due coniugi ha collaborato, e di restituire il diritto di risarcimento del debito perduto in conseguenza dell’impedimento. – Di dispensare negli impedimenti di cognazione spirituale fuorché tra il padrino e il figlioccio. Di dispensare nel terzo e quarto grado di consanguineità e di affinità semplice e anche mista, tanto nei matrimoni già contratti quanto in quelli da contrarsi, e non solo tra i poveri, ma anche tra i ricchi. – Di dispensare anche nel secondo grado di consanguineità semplice e mista, purché in nessun modo si tocchi il primo grado, sia nei matrimoni già contratti, sia in quelli da contrarsi, e non solo tra i poveri, ma anche tra i ricchi. Tutte queste dispense matrimoniali non devono essere concesse se non con la clausola: “Purché la donna non sia stata rapita, e, qualora fosse stata rapita, finché resta in potere del suo rapitore.

Inoltre gli Arcivescovi, i Vescovi e anche gli Amministratori delle Diocesi (onerata con somma gravità la loro coscienza) sono tenuti a trascrivere tutte e singole le dispense matrimoniali concesse o da concedersi in un registro autenticato, che deve essere conservato presso di loro accuratamente e occultamente, con i nomi di tutti coloro che hanno ottenuto la dispensa.

10. V. La facoltà di dispensare, in caso di minore età, di tre mesi per ricevere gli Ordini sacri, salvi gli indulti di dispensare di tredici mesi, in caso di minore età, già concessi dalla Sede Apostolica ad alcuni Vescovi e Amministratori di Diocesi.

11. VI. La facoltà di conferire gli Ordini al di fuori dei tempi stabiliti in caso di utilità o di necessità, se si tratta di Vescovi; e di dispensare a favore di chi deve ricevere gli Ordini fuori dei tempi stabiliti, se si tratta di Amministratori delle Diocesi vacanti.

12. VII. Facoltà di disporre dei benefici parrocchiali e di altri titoli ecclesiastici ai quali è connessa la cura d’anime, in favore di sacerdoti secolari oppure di regolari, di qualsiasi Istituto, senza tener conto della secolarità o della appartenenza religiosa di tali titoli, in mancanza di sacerdoti secolari ai quali conferire i predetti benefici secolari, o in mancanza di sacerdoti religiosi ai quali conferire i benefici degli Ordini religiosi. Si concede pure facoltà di conferire questi benefici, nonostante la regola dei mesi e l’usanza di alternare, per quelle Diocesi nelle quali si osservano la predetta regola dei mesi e l’usanza di alternare.

13. VIII. Facoltà di concedere ai religiosi di qualsiasi Ordine o Congregazione la possibilità di passare in altro Istituto, anche se la regola vigente in quest’ultimo fosse meno austera di quella dell’Istituto nel quale fecero la loro prima professione.

14. IX. La facoltà di concedere ai religiosi regolari esenti e anche non esenti, di qualsiasi Ordine o Istituto, che furono costretti a vivere fuori del convento e a deporre l’abito religioso, di indossare abiti secolari, purché convenienti ad un ecclesiastico; e di continuare a vestire tali abiti sotto l’obbedienza del Vescovo, qualora manchino i relativi Superiori regolari oppure non siano in grado di esercitare qualsiasi giurisdizione sui loro sussidi, fermo sempre restando l’obbligo di osservare i voti solenni.

15. X. La facoltà di presiedere alle elezioni e di confermarle e di dare le obbedienze e di esercitare tutti gli uffici dei superiori immediati nelle case delle fanciulle soggette alla direzione di religiosi, ogni qualvolta questi siano assenti o impediti o negligenti nell’esercizio del loro ufficio. I Vescovi possono procedere come delegati della Sede Apostolica, salvo tuttavia i diritti notoriamente esistenti per qualsiasi titolo nei confronti delle stesse case e delle persone, a norma di speciali clausole canoniche. Parimenti ai medesimi, come delegati della Sede Apostolica, è data facoltà di concedere ai religiosi di ambedue i sessi, anche esenti, sia a tutti collettivamente, sia in particolare ai singoli, la dispensa dall’osservare quella parte di regole e costituzioni che nella presente situazione non può essere osservata senza grave pregiudizio.

16. XI. Facoltà di impartire l’indulgenza plenaria in articulo mortis nella forma prescritta dal Sommo Pontefice Pio VI nella sua costituzione del 7 aprile 1747.

17. XII. Facoltà di rinnovare e prorogare le indulgenze concesse ad tempus dai Sommi Pontefici alle case religiose e alle congregazioni, secondo che sarà richiesto dalle necessità dei tempi e delle circostanze. Inoltre, la facoltà di trasferire tutte le indulgenze (concesse e assegnate per qualsiasi titolo alle Chiese cattedrali o parrocchiali che sono state invase e occupate da pseudo-pastori) a quelle Chiese nelle quali i cattolici possono convenire per celebrare i divini misteri.

18. XIII. Facoltà di estendere e comunicare tali facoltà – eccetto quelle che richiedono l’Ordine episcopale – in toto o in parte, come la loro coscienza avrà suggerito, anche ai sacerdoti idonei, sia per tutti i luoghi, sia per alcuni delle loro Diocesi, per il tempo che riterranno più opportuno, come meglio giudicheranno in Domino; non solo, ma anche facoltà di revocare tali concessioni e anche di moderarne l’uso, sia in relazione al luogo, sia al tempo di esercitarle.

19. XIV. Concediamo il potere di subdelegare ai singoli presbiteri quelle facoltà che non richiedono la consacrazione episcopale e che furono concesse agli Arcivescovi e ai Vescovi di Francia in forza dell’indulto generale del 10 maggio dello scorso anno. Agli Arcivescovi e Vescovi di Parigi e di Lione, e ai Vescovi delle Diocesi più antiche di ogni provincia del regno di Francia, concediamo il potere di subdelegare anche quelle facoltà che in forza delle risoluzioni del 18 agosto furono concesse loro in modo speciale in data 26 settembre dello scorso anno. Queste facoltà vengono prorogate per tutto il tempo di questo indulto.

20. Tutte le predette facoltà vengono concesse per un anno, cominciando da questo giorno, se così a lungo durerà la calamità di questi tempi. Vengono concesse pertanto a condizione che per nessuna ragione si possa usarne fuori delle Diocesi di competenza e neppure nei luoghi non soggetti al Re cristianissimo.

Infine, vengono concesse sotto la precisa condizione che gli Arcivescovi, i Vescovi e gli Amministratori delle Diocesi, nell’esercizio di tali facoltà, espressamente dichiarino che le stesse vengono concesse da loro come delegati dalla Sede Apostolica; tale dichiarazione deve essere inserita nel corpo stesso dell’Atto.

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2020)

X DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2020).

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia di questa Domenica ci insegna il vero concetto dell’umiltà cristiana che consiste nell’attribuire alla grazia dello Spirito Santo la nostra santità; poiché le nostre azioni non possono essere soprannaturali, cioè sante, se non procedono dallo Spirito Santo, che Gesù mandò agli Apostoli nel giorno della Pentecoste e che dona a tutti quelli che glielo chiedono. Dunque la nostra santificazione è impossibile se vogliamo raggiungerla da soli, perché, abbandonati a noi stessi noi non siamo che impotenti e peccatori. Dobbiamo a Dio se evitiamo il peccato, se ne otteniamo il perdono, se riusciamo a fare il bene, poiché nessuno può pronunciare neppure il santo nome di Gesù con un atto di fede soprannaturale, che affermi la sua regalità e divinità, se non mediante lo Spinto Santo. L’orgoglio è, dunque, il nemico di Dio, perché si appropria dei beni che solo lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno nella misura che crede conveniente e impedisce alla potenza divina di manifestarsi nelle nostre anime in modo da farci credere che noi bastiamo a noi stessi. Come Dio potrebbe perdonarci (Oraz.), se noi non vogliamo riconoscerci colpevoli? Come potrebbe aver compassione di noi ed esercitare su noi la sua misericordia (Oraz.), se nel nostro cuore non vi è nessuna miseria riconosciuta cui il suo Cuore divino possa compatire? L’umile, invece, riconosce il proprio nulla perché sa che solo a questa condizione discenderà su lui la virtù di Cristo. Mentre la Chiesa sviluppa in questa Domenica tali pensieri, le letture, che fa durante questa settimana nel Breviario, danno due esempi di orgoglio e di grande umiltà. Dopo la figura del profeta Elia che si oppone così fortemente a quella di Achab e di lezabele, dei quali nell’ufficio è ricordato il terribile castigo, vi è quella del giovane Gioas che contrasta fortemente con quella di Atalia. Figlia di Achab e di lezabele, empia come sua madre, Atalia sposa il re di Giuda loram, che morì poco dopo. Allora la regina si trovò padrona del regno di Giuda e per esserlo per sempre fece massacrare tutta la famiglia di David. Ma losabeth, sposa del gran sacerdote Joiada tolse dalla culla l’ultimo nato della famiglia reale e lo nascose nel Tempio. Questi si chiamava Gioas. Per sei anni Atalia regnò ed innalzò templi in onore del dio Baal perfino nell’atrio del Tempio. Nel settimo anno il gran sacerdote attorniato da uomini risoluti e armati, mostrò Gioàs che allora aveva sette anni e disse: « Voi circonderete il fanciullo regale e se qualcuno cercherà di passare fra le vostre file, lo ucciderete! ». E quando il popolo si riversò nell’atrio, all’ora della preghiera, Joiada fece venire avanti Gioas, l’unse e lo coronò al cospetto di tutta l’assemblea che applaudi e gridò: «Viva il Re!». Quando Atalia intese queste grida, uscì dal palazzo ed entrò nell’atrio e quando vide il giovane re assiso sul palco, circondato dai capi e acclamato dal popolo col suono delle trombe, stracciò le sue vesti e gridò: «Congiura! Tradimento!». Il gran sacerdote ordinò di farla uscire dal sacro recinto e quando essa giunse nel suo palazzo venne uccisa. La folla allora saccheggiò il tempio di Baal e non lasciò pietra su pietra. E il re Gioas si assise sul trono di David, suo avo; regnò quarant’anni a Gerusalemme e si dedicò a riparare e abbellire il Tempio (All., Com.). La Scrittura fa di lui questo bell’elogio: «Gioas fece quello che è giusto agli occhi di Dio» È questa l’Antifona del Magnificat dei Vespri alla quale fa eco quella dei II Vespri che è tratta dal Vangelo di questo giorno: « Questi (il pubblicano) ritornò a casa sua giustificato e non quello (il fariseo), poiché chi si esalta sarà umiliato e chi s’umilia sarà esaltato ». – « Quelli che si innalzano sono visti da Dio da lontano, dice S. Agostino. Egli vede da lontano i superbi, ma non perdona loro. « L’umile invece, come il pubblicano, si riconosce colpevole! ». Egli si batteva il petto, si castigava da sé, e Dio perdonava a quest’uomo perché confessava la sua miseria. Perché meravigliarsi che Dio non veda più in lui un peccatore dal momento che si riconosce da sé peccatore? Il pubblicano si teneva lontano ma Dio l’osservava da vicino » (Mattutino). Così l’umile fanciullo Gioas fu gradito a Dio perché la sua condotta avanti a Lui era quale doveva essere. Egli fece ciò che era giusto agli occhi del Signore. Atalia, invece, orgogliosa ed empia, non fece ciò che era giusto avanti al Signore, e sdegnò e insultò quelli che facevano il loro dovere, poiché l’orgoglio verso Dio si manifesta ogni giorno nel disprezzo verso il prossimo. Dice Pascal che vi sono due categorie di uomini: quelli che si stimano colpevoli di tutte le mancanze: i Santi; e quelli che si credono colpevoli di nulla: i peccatori. I primi sono umili e Dio li innalzerà glorificandoli, i secondi sono orgogliosi e Dio li abbasserà castigandoli. « Il diluvio, dice S. Giovanni Crisostomo, ha sommerso la terra, il fuoco ha bruciato Sodoma, il mare ha inghiottito l’esercito degli Egiziani, poiché non è altri che Dio, il quale abbia inflitto ai colpevoli questi castighi. Ma, dirai tu, Dio è indulgente. Tutto ciò allora non è che parola vana? E il ricco che disprezzava Lazzaro non fu punito? … e le vergini stolte non furono discacciate dallo Sposo? E quegli che si trova nel banchetto con le vesti sordide non verrà legato mani e piedi e non morrà? E colui che richiederà al compagno i cento denari non sarà dato al carnefice? Ma Dio si fermerà solo alle minacce? Sarebbe molto facile provare il contrario e dopo quello che Dio ha detto e fatto nel passato possiamo giudicare quello che farà nell’avvenire. Abbiamo piuttosto sempre in mente il pensiero del terribile tribunale, del fiume di fuoco, delle catene eterne nell’inferno, delle tenebre profonde, dello stridore dei denti e del verme che avvelena e rode » (2° Nott.). Questo sarà il mezzo migliore per rimanere nell’umiltà, che ci fa dire con la Chiesa: « Ogni volta che io ho invocato il Signore, questi ha esaudita la mia voce. Mettendomi al sicuro da quelli che mi perseguitavano, li ha umiliati, Egli che è prima di tutti i tempi » (lntr.). « Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dei tuoi occhi, perché i tuoi occhi vedono la giustizia » (Grad.). « Signore, io ho innalzata l’anima mia verso te, i miei nemici non mi derideranno perché quelli che hanno confidenza in te non saranno confusi » (Off.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LIV: 17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Ps LIV: 2
Exáudi, Deus, oratiónem meam, et ne despéxeris deprecatiónem meam: inténde mihi et exáudi me.

[O Signore, esaudisci la mia preghiera e non disprezzare la mia supplica: ascoltami ed esaudiscimi.]
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.

[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobisfacio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.

[“Fratelli: Voi sapete che quando eravate gentili correvate ai simulacri muti, secondo che vi si conduceva. Perciò vi dichiaro che nessuno, il quale parli nello Spirito di Dio dice: «Anatema a Gesù»; e nessuno può dire: «Gesù Signore», se non nello Spirito Santo. C’è, sì, diversità di doni; ma lo Spirito è il medesimo. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore; ci sono operazioni differenti, ma è il medesimo Dio che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia d’utilità. Mediante lo Spirito a uno è data la parola di sapienza, a un altro è data la parola di scienza, secondo il medesimo Spirito. A un altro è data nel medesimo Spirito la fede; nel medesimo Spirito a un altro è dato il dono delle guarigioni: a un altro il potere di far miracoli; a un altro la profezia; a un altro il discernimento degli spiriti; a un altro la varietà delle lingue, a un altro il dono d’interpretarle. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, il quale distribuisce a ciascuno come gli piace”].

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,1921]

LE DIVERSE CONDIZIONI SOCIALI

Nei primi tempi della Chiesa, quando essa aveva maggior bisogno di prove esterne per affermarsi e dilatarsi, ai fedeli venivano concessi, visibilmente e in abbondanza, doni spirituali. Erano doni che dovevano servire non al vantaggio personale di chi li possedeva, ma per il bene generale della comunità cristiana. Nell’Epistola riportata, S. Paolo ne enumera nove. I Corinti, abbondantemente forniti di questi doni se ne insuperbivano. L’Apostolo per togliere tale abuso, stabilita la regola che, per conoscere se tali doni vengono da Dio o dal demonio, è da attendere se promuovono la fede in Gesù Cristo e il suo amore, insegna che, sebbene questi doni siano vari, distribuiti parte agli uni, parte agli altri; è lo stesso Spirito Santo che li distribuisce. Se sono molteplici e diversi i ministeri che si esercitano nella Chiesa; quelli che li esercitano sono tutti servi dello stesso Signore, Gesù Cristo. Se sono molteplici gli effetti prodotti da questi doni e da questi ministeri, è lo stesso Dio che opera in tutti. Il dono, poi, a chiunque sia stato concesso, è stato concesso per utilità degli altri. – La conseguenza da tirare è facile. I Corinti non avevano nessun motivo di orgoglio o di vanità per ì doni ricevuti. Quelli poi che avevano i doni più umili non dovevano invidiare quelli che avevano doni più eccellenti. Conseguenza pratica per noi: date le disuguaglianze che ci sono nella società:

1 I meno favoriti non devono rammaricarsi,

2 I più favoriti non hanno motivo di insuperbire,

3 Tutti devono cooperare a vivere in armonia.

1.

Quella distinzione di grazie, di attività, di misteri, che fa notare S. Paolo nel mistico corpo della Chiesa, può applicarsi alla società in generale. Anche questa, così varia nelle condizioni degli individui, vive una vita unica, a cui partecipano, come parte di un sol corpo, tutti i suoi membri. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore. Altro è il ministero dell’Apostolo, altro quello del Vescovo, altro quello del sacerdote; ma è uno solo che dispensa questi ministeri: Dio. Nella società altra è la funzione di chi governa e di chi è governato; altra quella del ricco e altra quella del povero; altra quella del pensatore e altra quella del bracciante: ina tutti hanno un compito che va a risolversi nell’armonia sociale voluta da Dio. – Si usa considerare la società come divisa in due campi: quello dei ricchi, dei gaudenti, dei parassiti, e quello dei diseredati, degli infelici, dei lavoratori. Naturalmente quelli d’una classe non hanno sempre sentimenti lodevoli verso quelli dell’altra. Ma non dovrebbe essere così. Cominciamo dalla classe dei meno favoriti. Vediamo i lavoratori. Generalmente il lavoro manuale viene considerato come un lavoro di poca considerazione, che avvilisce i lavoratori, mettendoli al disotto di coloro che non attendono a simili lavori. Se il lavoro manuale avvilisse, se mettesse i lavoratori in condizione di inferiorità di fronte agli altri, non si capirebbe come Gesù Cristo abbia lasciato gli splendori del cielo, la compagnia degli Angeli per sudare in una bottega. Quando in un lavoro si ha per compagno Gesù Cristo, chi può affermare che è un lavoro che disonora? Chi lavora, sia pure manuale il suo lavoro, può portar la testa alta come il grande pensatore. Ciò che disonora non è il genere di lavoro, è l’ozio. Vediamo coloro che nella società sono trascurati, non compresi, dimenticati, accanto a coloro che godono onori, posseggono titoli, gradi ecc. Anche questi non dovrebbero rammaricarsi, darsi alla tristezza. Le cose non continueranno sempre così. È questione di un po’ di pazienza. Sulla scena del teatro, chi rappresenta la parte di re, chi di suddito, chi di mecenate, chi di protetto, chi di padrone, chi di servo. Gli uni indossano abiti preziosi, gli altri portano abiti dimessi. Nessuno però, ha invidia della parte rappresentata da un altro, o degli abiti che indossa. Tanto è una scena di breve durata. Quando cala il sipario, tutte le grandezze scompaiono. Quando cala il sipario che chiude la nostra vita, tutti siamo eguali; nessuno porta di là blasoni, titoli, onorificenze. Ci sono i poveri di fronte ai ricchi. Qui il motivo di rammaricarsi è minore ancora. Sorge dalla falsa persuasione che ricchezza e felicità siano una cosa sola. S. Giuseppe Oriol, era chiamato dai suoi Catalani il «Santo allegro ». Un giorno fu visto in coro in preda a una certa inquietudine. Chiestogli da chi gli stava vicino che cosa gli fosse accaduto, rispose di aver in tasca un certo diavoletto che gli cagionava molto fastidio. E, uscito subito dal suo posto, diede a un povero, che trovò nella chiesa, la moneta che lo tormentava. Così riacquistò la sua tranquillità abituale (M. Carlo Salotti, Vita di S. Giuseppe Oriol; Roma, 1909). Si tratta di un Santo, direte; è vero. Ma persuadiamoci pure che le ricchezze turbano l’animo anche di chi non è santo. Per chi si lascia da esse dominare, le ricchezze sono «splendidi tormenti», come le chiama S. Cipriano» (Ad Donatum, 12). E, naturalmente, sono tormenti tanto più gravi, quanto più sono abbondanti. Ne abbiamo la prova ogni giorno. Chi sono quelli che si tolgono la vita, incapaci di resistere alle prove che l’accompagnano? Sono quasi sempre dei ricchi; e tra questi è preponderante il numero dei ricchissimi.

2.

A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia di utilità. Qui è dichiarato lo scopo di questi doni soprannaturali. Essi sono dati non in vista dell’individuo che è ne è fornito, ma in vista dell’utilità della Chiesa. Questi doni hanno un’unica origine, il Signore, hanno un unico fine, l’utilità della Chiesa. Sbagliano, quindi, quei Corinti che si lamentano per averne ricevuti meno che gli altri; e sbagliano quei Corinti che diventano orgogliosi per averne ricevuti di più. Anche rispetto alla società civile possiamo dire che sbagliano tanto quelli che si rattristano, perché si trovano inferiori agli altri, quanto quelli che vanno gonfi, perché si trovano superiori. Se tu hai beni, gradi, titoli che ti fanno superiore agli altri, non devi credere che dipenda tutto da te. Se il Signore non avesse benedetto le tue fatiche, i tuoi tentativi, se non ti avesse posto in particolari condizioni e in particolari circostanze, saresti povero, dimenticato, sconosciuto come gli altri. Quanti hanno sudato, pensato, osato più di te, e si trovano in condizione ben inferiore alla tua. Dove Dio aiuta ogni cosa riesce. Senza la benedizione di Dio, al contrario, tutte le fatiche e tutti i pensamenti degli uomini non riescono a nulla. «Se il Signore non edifica la casa, inutilmente vi si affannano i costruttori» (Ps. CXXVI, 1).Se ti trovi in condizioni sociali migliori di quelle degli atri, pensa che è anche maggiore la tua responsabilità. « A chi molto fu dato, molto sarà richiesto» (Luc. XII, 48) è scritto nel Vangelo. In certo modo, invece di disprezzare chi ti è inferiore, dovresti onorarlo, perché egli ha meno responsabilità della tua, e a lui sarà chiesto conto con meno rigore che a te. L’uomo si giudica dalle sue opere. Se tu con tutti i tuoi privilegi e i tuoi beni, non fai niente di buono; e un altro, povero, disprezzato compie delle buone opere; chi è più degno di stima di rispetto, di considerazione? Se poi entriamo nel campo spirituale, quello che tu stimi a te inferiore, può essere cento volte superiore a te. Chi più grande: S. Isidoro, agricoltore; S. Giuseppe Benedetto Labre, pellegrino medicante; S. Zita, domestica, o tanti fortunati del mondo, che passarono all’altra vita senza biasimo e senza lode?Per quanto possono essere notevoli le disuguaglianze su questa terra, non dovrebbero essere motivo di tristezza o di orgoglio. «Tutte queste disuguaglianze possono essere uguagliate dalla grazia divina, perché quei che restano fedeli fra le tempeste di questa vita non possono essere infelici» (S. Leone M. Epist. 15, 10).

3.

Lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno come gli piace. Nessuno, quindi, può domandargli conto o lamentarsi, se agli uni distribuisce doni più abbondanti che agli altri. Se lo Spirito Santo distribuisce a suo piacimento, non fa, però, una distribuzione capricciosa. Tutti i doni distribuiti debbono cooperare al bene comune della Chiesa; perciò, tra essi bisogna che ci sia quella comunicazione che c’è tra le varie membra di un sol corpo. Lo stesso possiam dire delle varie mansioni nella società. La natura della società, stabilita da Dio, è tale che le varie classi, sono collegate tra di loro in maniera che una non possa far senza dell’altra. Esse sono destinate ad armonizzare fra loro, in guisa da produrre un completo equilibrio.Ci deve essere armonia tra padroni e dipendenti. I padroni, i superiori in genere, devono essere animati dal pensiero di procurare la felicità dei loro dipendenti. Proteggerli se deboli; difenderli, se vessati; procurare il loro benessere se bisognosi. Non devono dimenticarsi che i loro dipendenti hanno un’anima da salvare. Perciò devono facilitar loro il vivere secondo le leggi dell’onestà e secondo i comandamenti di Dio. Sull’animo dell’uomo, sia pure un dipendente, nessuno può aver un dominio maggiore di quello che ha Dio. Nessuno, quindi, può comandare ciò che è contrario ai comandi di Dio. Alla loro volta i dipendenti devono considerare i padroni e i superiori come quelli che sono stati da Dio destinati a curare il loro bene, a esser sostegno nelle difficoltà della vita, a esser guida nelle incertezze. E neppure ci deve essere contrasto tra il lavoro della mente e il lavoro della mano. È necessaria l’uno ed è necessario l’altro. Una macchina che proceda senza chi la guidi non potrà andare avanti bene. La sua forza, invece di produrre benefici, produce danni. Lavora tanto chi studia e dà l’indirizzo, quanto chi eseguisce il lavoro. L’importante è che lavorino tutti, poiché «chi non vuol lavorare non deve neppure mangiare» (2 Tess. III, 10). – Armonia ci dev’essere anche tra ricchi e poveri. La sollecitudine moderata di migliorare la propria condizione e di provvedere all’avvenire non è proibita, ma con tutte le sollecitudini e con tutte le provvidenze, non si chiuderà mai la porta alle miserie: queste si affacceranno sempre. E qui il ricco può colmarsi di meriti e di benedizioni: «Se hai dei beni terreni — scrive S. Agostino — usane in modo da far con essi molti beni e male nessuno» (Epist. 220, 11 ad Bonif.). Ti acquisterai vera gloria, poiché « gloria del buono è l’aver chi possa ricolmare dei suoi benefici » (S. Giovanni Grisostomo. In II Epist. ad Thess. Hom. 3, 12). Ti acquisterai la ricompensa delle preghiere dei beneficati, e farai un sacrificio molto accetto a Dio, come ti assicura l’Apostolo: «Non vogliate dimenticarvi di esercitare la beneficenza e la libertà, perché con tali sacrifici si rende propizio Dio» (Ebr. XIII, 16).

Graduale

Ps XVI: 8; LXVIII: 2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.

[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]

V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem.

[Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

 Ps LXIV: 2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem.
Allelúja.

[A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII: 9-14.
In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisæus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri. Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.” 

 [“In quel tempo disse Gesù questa parabola per taluni, i quali confidavano in se stessi come giusti, e deprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio: uno Fariseo, e l’altro Pubblicano. Il Fariseo si stava, e dentro di sé orava così: Ti ringrazio, o Dio, che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri; ed anche come questo Pubblicano. Digiuno due volte la settimana; pago la decima di tutto quello che io posseggo Ma il Pubblicano, stando da lungi, non voleva nemmeno alzar gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi dico, che questo se ne tornò giustificato a casa sua a differenza dell’altro: imperocché chiunque si esalta, sarà umiliato; e chi si umilia, sarà esaltato”].

Omelia II

Sopra la superbia.

Omnis, qui se exaltat humiliabitur; et qui se humiliat exaltabitur. Luc.XVIII

Noi vediamo, fratelli miei, nell’odierno Vangelo un vivo ritratto del vizio della superbia e della virtù dell’umiltà ad esso contraria. Due uomini, dice il Salvatore, salirono al tempo per farvi le loro orazioni. L’uno era fariseo, l’altro pubblicano, il fariseo, tutto pieno di stima per se stesso, stavasene in piedi, ed indirizzavasi a Dio con queste parole: Io vi ringrazio, o Signore, perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, né tale come quel pubblicano; io digiuno due volte alla settimana, do la decima di tutti i miei beni. Il pubblicano dal canto suo stando lontano, non ardiva neppur alzar gli occhi al cielo, ma percuotevasi il petto, dicendo: Mio Dio, siate propizio ad un peccatore come son io. La preghiera di questi due uomini, come vedete, era molto differente l’una dall’ altra; quindi ebbero ancora un effetto molto differente. Quella del fariseo, che partiva da un cuore orgoglioso e gonfio del suo merito, fu riprovata da Dio e non servì che a renderlo più colpevole: laddove quella del pubblicano, che era il linguaggio della umiltà, gli ottenne il perdono dei peccati, e di peccatore che era , ne fece un giusto ricolmo delle grazie del Signore. Così conchiuse Gesù  Cristo: chiunque s’innalza sarà abbassato, e chiunque s’abbassa sarà innalzato; Omnis, qui se exaltat humiliabitur; et qui se humiliat, exaltabitur. Egli è facile, fratelli miei, il comprendere l’istruzione che Gesù Cristo ha voluto darci nel ritratto di questi due uomini. Nel primo ci fa vedere il carattere ed i castighi della superbia; e nell’altro ci rappresenta le ricompense dell’umiltà. Il fariseo, in vece di comparire in umile atteggiamento come conviensi al luogo santo e davanti alla maestà di Dio, vi sta ritto in piedi, stans; il che fa vedere la gonfiezza e l’orgoglio del suo cuore. In vece di render gloria a Dio di tutto il bene che credeva aver fatto, egli si vanta, si fa gloria d’un merito immaginario; la sua preghiera non è che una ostentazione, un racconto delle sue lodi; e perciò egli vien riprovato da Dio. Il pubblicano, al contrario, è sì penetrato di infusione alla vista dei suoi peccati, che non osa neppure alzar gli occhi al cielo; e per quest’umile via, per questi bassi sentimenti, che ha di se stesso, merita gli sguardi favorevoli del Signore. Il fariseo s’innalza, e Dio s’allontana da lui. Il pubblicano si abbassa, e Dio se gli accosta. Il fariseo esce dal tempio più colpevole che non vi era entrato, ed il pubblicano se ne ritorna giustificato alla sua casa. Ecco, fratelli miei, dei motivi molto atti a farci detestar la superbia, amar l’umiltà. Castigo della superbia nel fariseo; ricompensa dell’umiltà nel pubblicano; due soggetti che danno materia a due istruzioni. – Quest’oggi, non ne tratteremo che uno, che sarà la superbia, riserbandoci di parlar un’altra volta sopra l’umiltà. Come il superbo resiste a Dio, primo punto. Come Dio resiste ai superbi, secondo punto. Innalzamento colpevole e giusta umiliazione del superbo: il suo peccato, il suo castigo.

I. Punto. Ella è cosa sohrprendente, fratelli miei, che l’uomo trovando in se medesimo tanti motivi di umiliarsi, sia nulladimeno così pieno di superbia. Questo vizio infetta quasi tutti gli stanti del mondo; il suo dominio si estende sì lungi, che ben pochi vi ha, che non gli siane soggetti. Per guarire dunque coloro che non sono macchiati, e preservarne quelli che nol sono ancora, bisogna quest’oggi farvene conoscere il carattere, la malizia e gli effetti. Che costi è la superbia? È, dice s. Tommaso, un amor disordinato della propria eccellenza, fondato sulla buona opinione di se stesso, il quale fa che uno si stima e ricerca ariosamente la gloria e l’onore: Superbia est amor inordinatus propriæ excellentiæ; e perché il superbo non istima che se stesso, così non ha per gli altri che del dispregio; egli si sforza, per quanto può, di abbassarli per innalzarsi sopra di essi. Stimar se stesso, dispregiar gli altri; ecco il carattere della superbia, quale ci è rappresentato nel fariseo. Quest’uomo, infatuato d’un merito che crede d’avere, si vanta, si applaudisce, racconta le buone azioni che ha fatte. Ma che dice egli degli altri? Li biasima, li carica di delitti, perché crede mettere la sua virtù in maggior luce per lo confronto, che ne fa con gli altrui difetti. – Notate bene la superbia, dice s. Agostino. Io non sono – dice egli – come gli altri uomini. Dicesse almeno come alcuni uomini, come la maggior parte degli uomini; ma si preferisce a tutti, si crede il solo uomo dabbene sopra la terra: qual vanità! Quanti non ne vediamo ancora noi di questo carattere? Ripieni di se stessi, si vantano, si fanno gloria, l’uno della sua nobiltà o delle sue ricchezze, l’altro del suo potere; questi del suo talento, della sua abilità, quegli delle sue virtù, delle sue buone azioni! Quanti che si applaudiscono d’un merito che non hanno! E perché questi superbi credonsi soli degni d’essere stimati e onorati, non hanno per gli altri che del dispregio; li abbassano quanto possono per stabilire la loro riputazione sulla rovina dell’altrui. Or volete voi sapere, fratelli miei, quanto questo peccato è opposto a Dio? Giudicatene dai tratti, che sono per darvene. La superbia rapisce al Creatore la gloria, che gli è dovuta per attribuirla ad altra creatura; distrugge la carità, che si deve avere pel prossimo, ed è la sorgente funesta d’infiniti altri peccati: quale orrore non dobbiamo noi averne? A Dio solo l’onore e la gloria appartengono, dice l’Apostolo: Soli Deo honor, et gloria (1. Tim. 2). L’uomo non ha da se stesso, che il nulla ed il peccato; tutto quel che possiede, lo tiene dalla mano liberale di Dio; vita, sanità, ricchezze, spirito, talenti, beni di natura, di fortuna e di grazia, tutto abbiam ricevuto da Dio. Senza di Lui noi saremmo nel nulla, nell’indigenza d’ogni cosa: non siamo da noi stessi capaci di cosa alcuna, neppure di aver un buon pensiero per la salute. Alla sua grazia noi dobbiamo tutto il bene, che abbiamo fatto, se pure abbiamo fatto qualche cosa per il cielo. Qual ingiuria non fate voi dunque a Dio, uomini vani e superbi? In vece di rendergli gloria dei beni, dei talenti che avete ricevuti, voi vi prevalete dei suoi doni, come se venissero da voi medesimi; invece di riferir a Dio il successo delle vostre intraprese, voi le attribuite alla vostra industria; in vece di riconoscerlo per principio e autore di tutte le vostre buone azioni, ve ne arrogate la gloria, vantandole, pubblicandole, come se fossero unicamente opera vostra, e non già della grazia di Dio. Se tutti i beni, che possedete nell’ordine della natura e della grazia, voi li tenete dalla mano liberale di Dio, perché gloriarvene come se non li aveste ricevuti? dice l’Apostolo. Quid gloriaris, quasi non acceperis (1 Cor. IV)? Non è forse un rapire a Dio la gloria che gliene ritorna? Non è forse imitare l’audacia dell’angelo ribelle, che portò il suo orgoglio sino a disputare a Dio la sua gloria, e la sua indipendenza? Mentre questo fu, come sapete, il suo peccato e la cagione della sua disgrazia. Questo celeste spirito, la più bell’opera che fosse uscita dalla mano di Dio, si accecò coi suoi propri lumi; invaghito della bellezza del suo essere, dell’eccellenza delle sue perfezioni, talmente se ne compiacque, che si credette indipendente da tutti: in vece di sottomettersi a Dio, pretese sollevarsi sino a Lui, rendersi simile all’Autore del suo essere: Similis ero Altissimo. Tale è l’eccesso di temerità, a cui l’orgoglio è capace di portar la creatura. Usurpar gli onori divini, affettar l’indipendenza, che non appartiene che all’Essere supremo; tale è stata l’audacia negli angeli ribelli. che hanno avuto degli imitatori negli uomini, sin dai primi secoli del mondo. Imperciocché, donde pensate voi, fratelli miei, che sia venuta l’idolatria, la quale sparse sì dense tenebre sulla faccia dell’universo, che quasi tutto il genere umano ne fu involto? Fu dalla superbia degli uomini, che ripieni di sé medesimi, infatuati, ebri della loro grandezza, della loro possanza, del loro merito, giunsero a tale accecamento da farsi rispettare come dei da quelli, che erano cotanto ciechi per condiscendere ai loro sentimenti. Gli uni fecero fabbricar tempi in loro nome, gli altri rizzare statue, cui si rendevano onori divini. Tal fu l’orgoglio d’un Nabucco che fece mettere nella fornace tre figliuoli ebrei, che ricusarono di adorarlo. Così la superbia degli uomini è venuta a capo di rapir al Creatore la gloria che gli era dovuta, per attribuirla alla creatura: quale ingiustizia! qual disordine! Se la superbia non porta presentemente gli uomini ad eccessi così mostruosi, non se veggono forse ancora che vorrebbero, per così dire, esser riguardati come divinità sulla terra, sia elevandosi al di sopra degli altri, che pretendono far abbassare avanti ad essi, sia esigendo che si abbiano per essi certi riguardi, perché hanno più di nobiltà, più di beni, più di credito, più d’autorità, più di talento, più di spirito, e perché sono in un grado più elevato? Cenere e polvere, di che v’insuperbite? Quid superbis, terra et cinis (Eccl. III)? Che cosa siete voi avanti a Dio? Nulla e peccato. Ecco di che potete voi vantarvi, o piuttosto di che dovete umiliarvi; tutto il restante non è vostro, la gloria ne appartiene a Dio solo. Voi rassomigliate ad un vaso di terra adornato di vesti preziose, e che non diviene perciò più prezioso in sé stesso: mentre deve tutto il suo splendore a chi l’ha rivestito. Voi dovete tutto a Dio; dunque è un rapirgli la gloria che gli è dovuta il gloriarvi voi medesimi di ciò che avete ricevuto. – Perciocché finalmente, per farvi ancora meglio conoscere l’ingiustizia del vostro orgoglio, e quanto sia egli mal fondato, su di che l’appoggiate voi? Qual è il fondamento della stima che avete di voi medesimi? È forse la nobiltà della vostra origine? Ma questa nobiltà non viene da voi, ella è una cosa straniera; non è già vostro merito l’esser nati da genitori illustri. Sono forse i beni che vi rendono orgogliosi? Ma questi beni non danno il merito, neppur lo suppongono; quelli che han ricchezze sono spesse volte più viziosi. Che avete voi fatto a Dio per avere più beni di tanti altri, che sono nell’indigenza, e forse più dabbene che voi? Donde vi vengono questi beni? Sono le eredità dei vostri antenati che nulla vi han costato; forse sono essi il frutto delle loro ingiustizie, o delle vostre, e per conseguenza non vi appartengono: voi non avete dunque motivo di vantarvene. Ma io voglio che vi appartengano per giusti titoli; forse saranno essi la causa della vostra riprovazione, e lo saranno infatti, se voi ne fate un malvagio uso. Non è forse questo piuttosto un motivo d’umiliarvi? Di che vi gloriate voi ancora? Delle qualità del corpo, dello spirito, della sanità, della bellezza, dei vostri talenti? Ma tutto questo non viene forse da Dio? Non dipendeva che da Lui di ridurvi in uno stato così umiliante come quelli che dispregiate, perché non hanno quell’avvenenza, quelle qualità personali, che sono materia della vostra superbia. La sola cosa che vi fa onore si è la virtù; ma di questa virtù, di queste buone opere, a Dio dovete il merito e per conseguenza la gloria. Se l’attribuite a voi medesimi, voi fate ingiuria a Dio, e la vostra virtù cessa per questo appunto d’essere vera virtù; ella è una virtù farisaica, riprovata da Dio; poiché dal momento che cercate la vostra gloria nella pratica della virtù, che fate buone azioni in vista di piacere agli uomini, di attirarvi la loro stima, non è più la gloria di Dio che si ricerca, come si deve ricercare, ma è un bene che gli appartiene. – Non è forse tuttavia quello che voi fate in mille occasioni, allorché praticate certe azioni virtuose avanti gli uomini, le quali non fareste in segreto e prevedete che vi loderanno, che vi stimeranno? Non è forse anche per un principio di superbia , che voi vi date delle lodi; che raccontate il bene che avete fatto, affinché gli altri ve ne diano; che vi vantate dei vostri talenti, delle vostre belle qualità, delle vostre virtù ? Quante volte per una dannevole ipocrisia vi siete coperti del mantello della virtù, che non avevate, per occultare i difetti cui eravate soggetti, evitando il peccato per il solo timore dal disonore, ma sempre pronti a commetterlo da che l’onor vostro non vi andasse? Forse anche per una detestabile vanità voi vi siete fatta gloria di ciò che doveva coprirvi di confusione, mentre la superbia fa tutto servir ai suoi disegni, così le malvage azioni come le buone. Qual ingiuria non fa dunque a Dio questo peccato? – Ma egli non è già men opposto alla carità, che si deve avere per il prossimo. Il superbo, che non stima che se stesso, tratta gli altri con un sommo disprezzo. Ascoltate il discorso del fariseo. Io non sono – dice egli – soggetto a vizi vergognosi come quel pubblicano: Non sum velut iste publicanus. Egli sparge su la condotta di lui la censura la più inoltrata. Quindi è che il superbo si preferisce a tutti. Io non sono – dice egli – come il tale ed il tale: io avrei fatto meglio in tal occasione. Egli si crede solo aver più di spirito, intendere meglio gli affari. Tutto quel che egli pensa, tutto quel che dice, tutto quel che fa, è sempre meglio che quello che possa pensare, dire o fare gli altri. Unicamente occupato del suo merito, esso non trova negli altri che difetti: sempre a farsi vedere nel bello, non studia che di far scorgere il debole degli altri, sul riflesso che il dispregio che se ne farà, servirà d’ombra al ritratto che egli fa di sé medesimo. Se è forzato di rendere giustizia al merito, egli fa tutto quel che può per oscurarne la gloria  con maligne interpretazioni, che dà alle azioni. Geloso dell’altrui innalzamento non evvi rigiro alcuno, che non metta in opera per soppiantarlo. Egli vuole aver dappertutto il miglior posto nelle assemblee, sino ai piè del santuario. È egli superiore ad altri? Li riguarda come vermi di terra. Quindi quella fierezza, quell’aria d’alterigia, che affetta a loro riguardo: quindi quell’affettazione di non conoscere coloro che gli appartengono per i legami del sangue, perché sono i miseri ridotti in una povera e bassa condizione, mentre d’altra parte egli si vanterà d’appartenere a persone più ricche e più elevate, e che sovente nulla gli sono. Quindi quelle pretensioni ridicole, che tutti accondiscendano al suo parere vero o falso, mentre egli medesimo non ha veruna condiscendenza per l’altrui sentimento. – A questi tratti, fratelli miei, che non fanno che abbozzare il ritratto del superbo, riconoscete, che egli abbia molta carità pel prossimo? Ah! come questa virtù è difficile a trovarsi nei superbi! La carità pensa bene di tutti e non giudica male d’alcuno, dice l’Apostolo. Il superbo fa tutto il contrario; egli la fa da giudice critico dell’altrui condotta e condanna tutti. La carità è paziente per sopportare gli altrui difetti, non si adira punto del male, che le vien fatto; ma un superbo nulla vuol tollerare, si offende del minimo disprezzo, d’una parola talvolta sfuggita a caso, senza disegno di recargli disgusto. Egli è un monte che getta neri vapori, tosto che vien toccato: tange montes, et fumigabunt. Quindi quegli sdegni, quei trasporti cui si abbandona; quelle maledizioni, quelle ingiurie che proferisce; quelle vendette che medita, e che effettivamente eseguisce contro coloro che hanno avuto per lui quei riguardi che si crede meritare. Ed è ciò, che mi ha fatto dire, che la superbia era la sorgente di molti peccati. – Non si attribuiscano – fratelli miei – ad altre cagioni fuorché alla superbia, tanti contrasti e nimicizie, che regnano tra gli uomini. Perché mai quelle persone tra loro nemiche da sì lungo tempo, non sono ancora riconciliate, malgrado gli avvisi d’un confessore? Si è la superbia che le ritiene. Ciascuno crede aver la giustizia dal suo canto, o se conosce il suo torto, non vuol confessarlo. Egli si stima più che un altro, crederebbe abbassarsi, e troppo costerebbe all’amor proprio il fare i primi passi; così rimane esso sempre nel medesimo stato, cioè in uno stato di dannazione. Perché mai s’intentano liti da lui in occasione delle ingiurie reali o pretese? Perché è egli intrattabile su i mezzi d’accomodamento che si propongono? Conviene, dice egli, aver soddisfazione d’un’ingiuria ricevuta, conviene sostenere il proprio onore. Ma che cosa si cerca in questo? Il soddisfare la sua passione, l’umiliare gli altri per innalzarsi. Donde vengono le maldicenze, le calunnie, di cui altri si serve per macchiare la reputazione altrui, se non dalla brama di mettersi al di sopra del prossimo? Così la superbia, il primo dei peccati capitali, ne strascina dopo di sé un’infinità d’altri. Ella fa venire al suo seguito l’invidia, l’ingiustizia, l’ira, la vendetta. Che dirò di più? Initium omnis peccati, superbia (Eccl. X). Ella acceca lo spirito e lo getta in mille errori; ella gonfia il cuore e gli ispira mille sentimenti d’ambizione; ella acceca lo spirito e gl’impedisce di vedere le verità, che deve credere; combatte anche con un’ostinata resistenza quelle che riconosce. Tale è stata l’origine fatale delle eresie, che hanno desolata la Chiesa di Gesù Cristo fin dal suo cominciamento. Uno spirito di superbia, che si è impadronito d’uomini che abbondavano nel loro senso, fece loro preferire i lumi d’un certo ingegno agli oracoli della verità eterna: hanno spregiate le rispettabili decisioni della Chiesa, quantunque abbiano riconosciuto che la sua autorità era la sola regola capace di fissare la loro certezza; ma troppo costava alla loro superbia il ritrattarsi ed essere tenuti per uomini soggetti ad ingannarsi; e perciò ostinati rimasero nel loro errore; hanno fatto naufragio, quando una umile sommissione li avrebbe condotti al porto della salute. Tanto è vero, che, quando la gonfiezza della superbia è giunta sino ad un certo punto, egli è molto difficile il guarirla. Questo veleno s’inoltra anche nel cuore per via delle brame smisurate che vi fa nascere, d’innalzarsi agli onori, di pervenire a certe dignità, ch’esso non è capace di riempiere. La buona opinione ch’egli ha di se stesso, fa tutto intraprendere per venire a capo de’ suoi disegni; e quando una volta si è giunto al punto che erasi proposto, si fanno cadute deplorabili per l’incapacità di adempiere i doveri d’uno stato temerariamente abbracciato. Tali sono le funeste conseguenze della superbia. – Del resto, non crediate, fratelli miei, che questo vizio non s’insinui che nelle case dei grandi; egli regna nelle condizioni più vili e più abbiette. Sovente v’ha più di superbia sotto un abito plebeo, che sotto la porpora ed il diadema: si vede nel semplice popolo la medesima brama di dominar gli uni su gli altri; la medesima ostinazione: il medesimo attaccamento al suo parere; ciascuno vuol comandare; niuno vuol soffrire riprensioni, niuno vuol essere avvertito, corretto de’ suoi mancamenti; li pallia, li scusa, né vuol confessare di aver fatto male. Si giunge anche all’eccesso di giustificare i suoi delitti; si prendono tutte le precauzioni possibili per nascondere quel che è, e farsi vedere quel che non è. Egli è anche rarissimo che tra le persone che fan professione d’una vita regolata, non se ne trovi alcuna che non abbia qualche macchia di superbia. Voi vedrete di quelli che non possono sopportar una parola, un dispregio che offenda la loro delicatezza; che vogliono essere applauditi in tutto e non essere giammai contradetti. Qual cura non hanno essi di mostrare sempre le loro virtù e di occultar i loro difetti? Non ricercano le lodi, ma sono ben contenti di riceverle; amano essi molto meglio gli adulatori che i censori del vizio; non sono disgustati di essere conosciuti per certi tratti che fanno onore, di avere una riputazione nel mondo; ed hanno in orrore tutto ciò che chiamasi umiliazione, abbiezione. – Quante compiacenze e riflessioni non hanno della loro propria virtù, su qualche buon’opera che hanno fatta? Si preferiscono d’ordinario quelle, che fanno onore a quelle, che si fanno nell’oscurità. Qual destrezza a rigettare i loro mancamenti sull’ignoranza, la sorpresa, o qualche altra circostanza che ne sminuisca la confusione? Qual attenzione a far scorgere tutto ciò che può far onore! Ecco ciò che prova che la superbia è un veleno sottile, cui è molto difficile preservarsi. Non è che a forza di combattimenti, che si può sperar di vincere questo formidabile nemico della storia di Dio e della salute dell’uomo. Mentre se la superbia è opposta a Dio, Dio non le è meno opposto; il che si può conoscere dai castighi con cui la punisce.

II Punto. Ella è una regola della giustizia di Dio di proporzionare il castigo alla malizia del peccato, che vuol punire; il che ha Egli osservato ed osserva ancora nei castighi, che esercita sopra il superbo. L’uomo con la sua superbia rapisce a Dio la gloria, che gli è dovuta: Dio vicendevolmente umilia l’uomo superbo e l’opprime di confusione. L’uomo superbo dispregia gli altri; Dio permette che divenga anch’esso l’oggetto dello scherno, e del dispregio degli uomini. La superbia finalmente è una sorgente avvelenata, donde nasce un’infinità di vizi e di peccati; questa sorgente con la sua contagione distrugge il merito delle virtù. Qual colpi fatali non porta ella dunque a coloro che ne sono infetti? Ancor un momento d’attenzione. – In ogni tempo Dio, il quale dà la sua grazia agli umili, ha resistito ai superbi: più i superbi han voluto innalzarsi, più Iddio gli ha abbassati. Noi abbiamo una prova convincente nel castigo degli angeli ribelli, che la superbia sollevò contro Dio, sino all’eccesso di volersi a Lui uguagliare. Appena ebbero essi formato i loro baldanzosi progetti, che furono nell’istante spogli dei doni di natura e di grazia, di cui li aveva Iddio arricchiti. Scacciati dal cielo furono precipitati nel profondo dell’abisso: Quomodo cecedisti de cœlo Lucifer (Isai. XIV). Come mai Lucifero è caduto dal cielo coi suoi partigiani? Come mai quelle sublimi intelligenze di perfette creature che erano, sono divenute orribili demoni? Si è per la superbia. Egli è questo peccato, che ha aperto l’inferno, quella orribil dimora, ove saranno essi per tutta l’eternità, e che sarà il retaggio di tutti coloro, che avranno imitato gli angeli prevaricatori nelle loro ribellioni. – Noi abbiamo ancora nella sacra Scrittura un gran numero di esempi dei castighi della superbia: eccone dei più memorabili. Assalonne, il figliuolo di Davide, è sospeso ad una quercia, e percosso dal colpo della morte, in punizione del progetto ambizioso che aveva formato di salir sul trono di suo padre. Nabucco, spinto da un eccesso di superbia, vuol essere riguardato come il Dio della terra; egli fa erigere una grande statua per essere adorato dagli uomini; ma nel tempo medesimo che s’innalza e si perde nelle sue grandi idee, Dio l’abbassa e l’umilia togliendogli il suo regno, levandolo dalla società degli uomini, e riducendolo alla condizione delle bestie, con cui è obbligato di abitare e di mangiare l’erba nelle foreste. Non è che dopo sette anni d’una sì dura penitenza, che Dio perdona a quel principe cosi umiliato. Tale fu ancora l’umiliazione del superbo Amano, allorché si vide condannato a morire sul patibolo, che aveva fatto alzare per Mardocheo, il quale non voleva piegar il ginocchio avanti a lui. Cosi Dio si compiace di umiliar i superbi: e senza uscir dal nostro Vangelo, consideriamo come Dio vi tratta il superbo fariseo. L’umile pubblicano merita per la sua umiltà il perdono de suoi peccati; ma il fariseo è riprovato da Dio: egli ritorna a casa più colpevole di quel che era prima, che entrasse nel tempio del Signore per farvi comparire la sua superbia. – Questo è ciò, che accade ogni giorno ai superbi; mentre essi cercano d’innalzarsi, di distinguersi, di meritar la gloria e la stima degli uomini, Dio si allontana da essi, ritira da loro le grazie, gli abbandona ai loro sregolati desideri, come dice l’Apostolo, a passioni d’ignominia che li disonorano; così cadono in mancamenti considerabili, che li caricano d’obbrobrio o di Confusione; a misura, che si perdono le idee lusinghiere del loro spirito, la carne li strascina nel fango il più profondo, essendo la superbia ordinariamente seguita dall’impurità. Essere superbo e casto è una specie di chimera: Dio ritira il suo spirito dall’uomo superbo; e tosto che l’uomo non è più condotto dallo spirito di Dio, diventa tutto carne e si abbandona alle sue sregolate passioni; funesto castigo del peccato di superbia, che ricopre l’uomo di obbrobrio avanti a Dio ed agli uomini: Odibilis coram Deo, et hominibus est superbia (Eccl. X). – Così il superbo, che dispregia gli altri, diventa vicendevolmente l’oggetto del loro dispregio, sia per i vizi cui la sua superbia lo strascina, sia per la superbia medesima, che lo rende a tutti insopportabile. No, non si amano punto le persone che presumono tanto, che non fanno che lodarsi, che vantarsi di ciò che han detto o fatto. Se per una condiscendenza che si ha per esse, o per tema di loro dispiacere, altri qualche volta applaudisce, internamente le dispregia, sa benissimo ritrattare in loro assenza le lodi, che in presenza di esse ha loro date; egli si beffa a suo bell’agio della loro maniera di parlare o di agire. Niuno ama d’essere dispregiato, insultato e trattato con alterigia, e siccome il superbo dispregia ed insulta sovente gli altri, e vuole dappertutto signoreggiare, non occorre stupirci se niuno può tollerarlo nel mondo. Tutto dispiace in lui, le sue parole, le sue maniere, il suo contegno, non si vede, che con noia comparire nelle assemblee » perché vi cagiona turbolenze, e si vede sempre uscirne con piacere. Si preferisce anche nel mondo profano la conversazione d’una persona umile e riserbata a quella d’un superbo, che vuol sempre vincerla su tutti: tanto è vero, come diceva il savio, che la gloria fugge il superbo che la ricerca, e segue l’umile, che la fugge: Superbum sequitur humilitas , humilem spiritu suscipiet gloria (Prov. XIX). La sola confusione, che è anche in questa vita il castigo della superbia, dovrebbe bastare per guarir da questa malattia chiunque ne sia attaccato, se vi facesse attenzione. Ma il proprio della passione, principalmente di questa, si è di accecare lo spirito, e di corrompere il cuore. Un superbo non vuol confessare il suo mancamento, e s’inasprisce anche di ciò che dovrebbe guarirlo. I dispregi, le umiliazioni, non fanno che accrescere il suo male. Qual passione più pericolosa per la salute? Ella è la sorgente di tutti i vizi, ella riduce al nulla la virtù. Ella è un vento ardente, dice la Scrittura, che disecca, che consuma ogni cosa. No, fratelli miei, non evvi più merito nelle azioni delle virtù le più eroiche, se l’orgoglio vi ha parte. Recitate lunghe preci, date tutti i vostri beni ai poveri, digiunate, mortificatevi con le più austere penitenze, affaticatevi quanto gli Apostoli alla salute degli uomini, soffrite quanto i martiri; se voi cercate in tutto questo di piacere agli uomini, di meritar la loro stima: se è la vanità che vi anima e non il desiderio di piacere a Dio, di glorificar Dio, voi non ne riceverete giammai ricompensa alcuna nel cielo. Vi si dirà, come ai farisei, che facevano lunghe preghiere, limosine abbondanti, che digiunavano in vista della gloria degli uomini: voi avete ricevuta la vostra ricompensa: receperunt mercedem suam (Matth. VI). La vostra superbia vi farà naufragar con tutte le vostre virtù ed i vostri meriti; e non arriverete al porto della salute. Qual disgrazia! Ma qual follia più tosto! Quale accecamento di tanto travagliarsi inutilmente, di faticare, e di consumarsi per correre dietro ad un fumo d’onore, ove sovente non si può giungere, o che si dissipa tosto che vi si giunge  Mentre che cosa è la stima degli uomini, che voi ricercate nelle vostre azioni? Ella è un’ombra che svanisce. Oggi gli uomini vi lodano, domani vi biasimano. Non si deve dunque fare maggior conto dei loro sentimenti, che dei loro sogni, dice s. Gregorio Nazianzeno; essi s’ingannano sovente nei loro giudizi, stimano ciò che dovrebbero dispregiare, dispregiano ciò che dovrebbero stimare. Non bisogna dunque attaccarsi alla loro stima; ma non ricercare che quella di Dio, il quale sa fare il giusto discernimento della virtù: Quem Deus commendat, Me probatus est (2 Cor. X). Non siamo sicuri di avere la stima degli uomini, quando la ricerchiamo, ma lo siamo sempre di avere quella di Dio. Non ricercate che la sua gloria in tutte le cose, e troverete la vera e soda gloria per voi.

Pratiche. Per preservarsi ancora dal veleno della superbia, osservate la massima seguente. Il proprio della superbia è di stimar se stesso e dispregiar gli altri: fate tutto al contrario; non abbiate che del dispregio per voi medesimi, e della stima per gli altri. Per ciò fare, bisogna cangiar d’oggetto. Esaminate i vostri difetti per considerare le buone qualità del prossimo. La vista dei vostri difetti v’inspirerà del dispregio per voi medesimi, e le perfezioni degli altri ve li faranno stimare. – Ciascuno ha i suoi difetti e le sue buone qualità. Dio ha divisi i suoi doni in diverse maniere, dice s. Paolo: Divisiones gratiarum sunt (1 Cor. XII). Affinché l’uno non avendo ciò, che l’altro possiede, questi non possa innalzarsi su di quello. Non evvi alcuno, che sia perfetto, e che non possa riguardarsi inferiore ad un altro per quel che non ha. Se voi avete qualche talento, qualche virtù che altri non hanno, voi siete soggetti a mancamenti, cui non sono essi soggetti; hanno virtù e qualità, che voi non avete. Sono queste virtù che convien riguardare in essi per stimarle, giacché in questo vi sorpassano; voi troverete nei vostri difetti di che dispregiarvi e nelle loro virtù di che stimarli: se sono caduti in qualche mancamento, che voi non abbiate commesso, non dovete prevalervene, perché non avvi alcuno, dice s. Agostino, che non possa cadere nei medesimi traviamenti che un altro, se Dio l’abbandonasse a sé stesso; quell’ uomo, che voi dispregiate più, sarà forse un più gran santo che voi. Non vi gloriate di cosa alcuna, non vi vantate giammai dei vostri beni, né dei vostri talenti, della vostra origine, della nobiltà dei vostri congiunti, ancor meno delle vostre virtù. – Rimandatene tutta la gloria a Dio, senza il cui aiuto noi non siamo capaci, dice l’Apostolo, di pronunziar solamente il nome di Gesù. Il vostro motto il più frequente sia quello del medesimo Apostolo: Soli Deo honor, et gloria. Siate contenti che le vostre buone opere siano conosciute da Dio solo, giacché egli solo ne deve essere la ricompensa. Così sia.

Credo…

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Offertorium

Orémus
Ps XXIV: 1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.

[A Te, o Signore, ho innalzata l’anima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]

Secreta

Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres.

[A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]

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Communio

Ps L: 21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine.

[Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.

[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]

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https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

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LO SCUDO DELLA FEDE (123)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO II.

La necessità dì una scuola per la vera fede.

I. Vi ha una fede al mondo? Dunque havvi parimente una scuola dov’ella insegnisi dai mortali. Altrimenti non volendo Iddio farsi a tutti, come ad alcuni, immediato maestro di verità soprannaturali, avverrebbe di leggieri nelle cose udite quello che avviene nell’udito medesimo, che tra i sensi è il più difficile a perfezionarsi, ed è il più facile a perdersi (Arist. Probl., sec. 11. n . 11). 0 non si conseguirebbe mai la dottrina celeste, o si perderebbe di breve per lo mescolamento di vari errori su lei trascorsi. E pure chi può dire quanto rilevi serbarla intatta? Senza di essa qualunque scienza è una totale ignoranza: Et si quis erit consummatus inter filios hominum, si ab illo abfuerit sapientia tua, Domine, in nihilum computabitur (Se anche uno fosse il più perfetto tra gli uomini, mancandogli la tua sapienza, sarebbe stimato un nulla.- Sap. VIII. 6). Ora questa scuola, con termine più usuale è detta Chiesa: e quei che apprendono in essa la verità sono intitolati fedeli, tanto più scelti, quanto più disposti ad apprenderla facilmente: Erunt omnes docibiles Dei (Iob. VI. 45). E perché il maestro primario di questa scuola è l’istesso Dio, conviene che ella abbia in sé di legittima conseguenza questi tre pregi: che sia antichissima di tempo: infallibilissima d’insegnamenti: apertissima a chi che sia che desideri quivi luogo.

I.

II. E primieramente, antichissima ella è di tempo. Il paradiso terrestre, avanti ch’egli servisse, con una specie di antiperistasi tormentosa a rincrudelire le nostre piaghe, qual più nobile uso ebbe in terra, che l’essere la prima scuola apertasi dall’Altissimo per addottrinare in Adamo tutti i mortali? Non prima Adamo ebbe l’essere, che comparvegli quivi Dio a manifestargli i suoi disegni segreti, fermando quasi con esso lui questo patto da tramandarsi a’ suoi posteri: Che Dio all’uomo desse l’aiuto della sua grazia bastevole ad operare, e la rimunerazione della sua gloria: l’uomo a Dio rendesse vicendevolmente l’ossequio del culto impostogli, e l’ubbidienza alle leggi che a tempo a tempo ne venisse a ricevere. Tale fu la prima lezione necessarissima. Altrimenti come avrebbe l’uomo potuto mai indovinare quelle verità che sono sopra di lui, e singolarmente la norma di una religione vera e valevole, se Dio stesso non gliele avesse amorevolmente date a sapere? Può forse vedersi il sole, senza il sole medesimo che apparisca, o possono scoprirsi i suoi raggi, senza che la sua luce benefica sia la prima, la quale venga ad incontrar le pupille di lei mancanti?

III. E quindi e l’antichità della fede (L’uomo primo fu creato intelligente e credente ad un tempo, ed il suo Creatore gli apparve insiememente oggetto della sua intelligenza e della sua fede, nel duplice ordine della ragione e della rivelazione, della natura e della grazia) che, coetanea del mondo, nacque con esso ad un parto: in quanto Quegli che fu il creator delle cose, con fabbricar l’universo, intese di fabbricare ancora un liceo, dov’Egli fosse maestro di verità: non potendo avvenir di meno, che se la sua somma bontà lo aveva indotto a formare l’uomo, così la sua somma sapienza non lo inducesse ancora ad ammaestrarlo. Tanto è vaga la sapienza di diffondere se medesima, quanto ne sia la bontà. Onde, siccome a questa par che disdica lo starsene sempre oziosa, senza operare mai nulla in altrui servizio; così a quella par che disdica lo starsene sempre muta senza dir nulla.

IV. È dunque un discorrere da ignorante distinguere tre vere religioni, corrispondenti alle tre leggi di natura, di Mosè, del Vangelo. Un medesimo sole non può mai fare, salvo che un medesimo giorno, quantunque in esso distinguansi rettamente i chiarori dell’alba dagli splendori del sol nascente, e gli splendori del sol nascente dalla luce perfetta del mezzodì.

V. Dopo le tenebre della prima colpa sorsero quei crepuscoli fortunati della promessa di un redentore, ristoratore a suo tempo delle umane rovine, e ristoratore vantaggiosissimo: nella fede di cui si compiacque Dio che Adamo rimanesse giustificato dalla sua colpa, conforme a quello: Eduxit illum a delicto suo (Sap. X. 2). E il credere in questo Redentore il desiderarlo, il domandarlo, il valersi de’ suoi meriti con offerta sì anticipata a salute propria, fu la religione de’ primi secoli.

VI. Seguì Mosè con bell’ordine di profeti, i quali, a guisa degli altissimi monti, scorgendo dalle lor vette i primi raggi del venturo Messia, prima che egli spuntato al nostro emispero si facesse universalmente vedere anche ai piani bassi della gente più comunale, l’additarono con l’ombra delle figure e con l’oscurità delle forme, come si fa nel favellar delle cose che son da lungi.

VII. Finalmente giunta la pienezza de’ tempi comparve il Redentore stesso in persona, compiendo tutti i presagi e tutte le promesse del suo venire, fece di chiaro, e colmò tutto il mondo a un’ora di luce (Così Cristo appare l’alfa e l’omega della vera religione, la pienezza dei tempi, il centro in cui s’appunta ogni “ubi”, ed ogni quando della credente umanità: Ipso res. Quæ nunc religio Christiana nuncupatur, erat et apud antiquos, dice sant’Agostino (L. 1. Retr., c. 12): Nec defiut uti ab initio generis humani, quousque ipse veniret in carne; unde vera religio, quæ itimi erat, cœpit appellavi Christiana. Ecco dunque dal principio de’ secoli sino ad oggi una medesima religione insegnata da un sol maestro. Ecco una medesima verità, ma sempre più dichiarata: ecco una medesima scuola, ma sempre più alta (S. Th. 2. 2. q. 1. art. 7). La distinzione è solo ne’ tempi, nella dottrina è la connessione: Divina eloquia, etiamsi temporibus distincta. sunt tamen sensibus unita. Così anche egli il pontefice s. Gregorio ce lo conferma (In Ezech. hom. 6).

II.

VIII. Che poi questa scuola sia nelle sue dottrine infallibile, non sarà punto malagevole a credere, se si miri, che per maestro ell’ha Dio: Ponam universos filios tuos doctos a Domino (Is. LIV, 13). Pertanto la sapienza di tutte le scuole aperte dai Platoni, dai Socrati, dai Senofonti, dagli Aristoteli e da qualunque altro sia de’ savi terreni, è sottoposta ad errare. L’acque loro sono come l’acque che scorrono sulla terra: tutte però capaci d’intorbidarsi. Ma la sapienza di sì nobile scuola, qual è la chiesa, non erra mai. Le sue acque sono come l’acque riposte sul firmamento, tutte purissime, come son purissimi i cieli dove hanno il letto: Principium verborum tuoruni veritas (Ps. XVIII). La prima Verità, non soggetta né a macchinare inganno né a riportarlo, è il fondamento di ciò che insegna la Chiesa: e però come volete che ella sia soggetta ad errore? Questo è quel padiglione fortunatissimo dove Dio per gran sorte nostra promette di custodirci dalle contraddizioni delle varie lingue che ci assaliscono a guisa di tanti dardi: Protege eos in tabernaculo tuo a contradictione linguarum. I maestri della terra ci pongono tutto in lite, fino se ci moviamo, come Zenone; e fino se vegliamo o se vaneggiamo in guisa di addormentati, come gli scettici. E quel che è più, non fanno altro che dirci cose contrarie, senza convenire neppure in un punto massimo, qual è quel dell’ultimo fine. Chi potrà pertanto sperare d’imparar mai nulla di vero fra le contraddizioni di tante lingue? (Come al di sopra della molteplicità delle dissi leali e fallaci sette filosofiche sta immutabile e sempre vero il lume di ragione, fonte del senso comune, cosi sopra delle molteplici ed erronee religioni umane sta la vera religione, figlia del cielo, e madre della retta umanità). Eccovi chi, ripiglia sant’Agostino. Chiunque se n’entri in questa scuola autorevole della chiesa, dove Dio parla, e ponga mente a ciò che si approvi in essa, o che si ripruovi: Diversæ doctrinæ personant, d.iversæ hæreses oriuntur. Curre ad tabernaculum Dei, id est ccclesiam catholicam, ibi protegeris a contradictione linguarum (S. Aug. conc. 1. in Ps. XXIX).

IX. Ha poscia Iddio, per giunta de’ suoi favori, dato a questa scuola un tal libro, presso cui gli altri libri possano dirsi tante fiaccole spente, se alla fiamma di quello non piglian lume. Tal è la divina scrittura, compresa ne’ due testamenti, vecchio e nuovo, che si riguardano insieme, come i due cherubini su l’istess’arca. concorrendo ambo d’accordo a beneficarci. Mentre noi diveniamo dal vecchio dotti, dal nuovo anche doviziosi. Erudimur prædictis. et ditamur impletis (S. Leo ser. 11): possedendo in virtù del nuovo, ciò che in virtù del vecchio ci fu annunziato. Leggansi ambedue di proposito: e si vedrà, che il testamento vecchio promette il nuovo, il testamento nuovo dichiara il vecchio (S. Greg. hom. 6. in Ez.).

X. So non esser mancati, singolarmente tra’ maomettani, certi uomini di mezza testa, che questo divin volume hanno detto di ripudiare, perché egli falsificato da’ Cristiani, non sia più quello (Chi dice falsificato col tempo il divino volume, suppone di necessità, che esso fosse verace e degno di fede nella sua prima origine; e per di più deve riconoscerne anche di presente l’esistenza, a fine di paragonarne il vero col falsificato): ma sia quel rio che dal lungo correre l’atto sopra la terra abbia a poco a poco perduta la limpidezza donata a lui dalla vena.

XI. Ma io dico in prima, secondo tutte le leggi (Bal. in rub. de fide instrum.), che per togliere fede ad un istrumento ricevuto per vero da lungo tempo, non basta l’asserire animosamente che sia falsato, convien provarlo. Potranno gli avversari provare ne’ libri sacri il falsificamento da loro opposto? Su quali autori lo fondano? su che testi? Su che tradizioni, o di qual maniera possono i meschini affermar che egli succedesse?

XII. Anzi, ripiglio io, che da’ nostri non solamente non è stato adulterato mai questo libro dalla prima sua dettatura, ma che nemmeno era possibile adulterarlo.

XIII. Pruovo che non fu adulterato: altrimenti quella parte in cui fosse avvenuto un tale adulteramento non corrisponderebbe più con l’altre, come era innanzi, ma ne discorderebbe. E pure tutte le corde di un istrumento, il più armonico che si trovi, non concordano mai tra sé tanto giustamente, quanto giustamente concordano tutte le pagine e tutte le proposizioni di questo gran volume, puro affatto da ogni contraddizione, benché lievissima: di modo che questo solo argomento dovria bastare a qualunque sano intelletto. Per fargli credere, che se de’ vari libri, onde vien formata la bibbia sacra, furon diversi i secoli e gli scrittori, l’autore nondimeno ne fu sempre uno, cioè Colui che è sopra tutti i tempi o tutte le teste, né mai si muta.

XIV. Pruovo che non fu né anche possibile adulterarlo: attesoché gli esemplari, tanto del vecchio testamento, quanto del nuovo, furono fin dai principii della Chiesa divulgati per tutto il mondo, per l’Europa, per l’Asia, per l’Africa, e in ogni parte allor conosciuta. Furono trasportati in tutte 1e lingue, nella caldaica, nella greca, nella latina, nell’arabica, nell’armena, nell’etiopica, nella schiavona. nella siriaca. Furono del continuo letti pubblicamente, nelle occasioni che i Cristiani concorrevano insieme alle lor vigilie devote, a stazioni, a salmeggiamenti. Come sarebbe però potuto riuscire, né ad un uomo privato, né ad una setta falsificare tutte le copie di ciò ch’era in man di tanti?Non fiorirono sempre tra’ Cristiani uomini eminentissimi, che non avrebbero mai, come dotti ignorato un tale adulteramento, né mai, come zelanti dissimulatolo? per non ricorrere ora alla provvidenza, la quale, se in tante vicende di questo basso mondo non ha lasciato mai perire una specie di creature, per minima ch’ella fosse, come poteva lasciar perire la verità di quei libri, nei quali ella ci aveva dettata di bocca propria la via che dovevamo tenere nel venerare il nostro padron Sovrano sopra la terra, e nell’incamminarci a goderlo in cielo? Possiamo noi sospettare, ch’ella sia vaga di un culto falsificato, e che s’ella è curante de’ nostri affari minori, trascuri il sommo, sino al permettere che tante migliaia di persone piissime, le quali giorno e notte meditano la legge divina attentissimamente su questo libro, abbiano ad abbracciare una vana larva, invece di una solida verità? Non possono queste cose cadere in capo, se non a chi vi falsifichi il suo cervello, per poter con più libertà tener chi gli piace in conto di falsatore (Che non fosse possibile adulterare il divino volume, io ne scorgo un nuovo argomento in questo che Dio non può fallire al suo scopo provvidenziale: e fallito avrebbe, se, dopo di avere largito all’uomo il libro delle verità religiose, avesse poi permesso, che venisse adulterato a segno da non potersi più riconoscere la sua divina impronta).

XV. Ma ciò che ha più da stimarsi, è che Iddio insieme col libro ha data alla sua Chiesa la mente sì per intenderlo e sì per interpretarlo. Altrimenti a che gioverebbe quello, senonché a rendere gli errori più perniciosi? Come non v’è cicuta la più nocevole di quella che si beve nella malvagia; così non vi sarebbe inganno più pestilente di quello che si bevesse nella parola divina intesa a capriccio. E pure chi può dire per altro quanto sia facile, ora il cavar da esso gli errori, ora il confermarli, all’usanza di tanti eretici abusatori del sacro testo, sol perché ciascuno si arroga una stessa miniera si cava e terra e metallo e medicamenti e veleni. Ora su questo affare è così protetta e così privilegiata da Dio la Chiesa, che un Agostino protestò ad alta voce che non crederebbe neppure al Vangelo stesso, se l’autorità della Chiesa Cattolica non fosse quella che glielo porgesse in mano, con accertarlo, che quella è dettatura di Dio. Ego evangelio non crederem, nisi me catholicæ ecclesiæ eommoveret auctoritas (Cont. ep. fond. c. 5. 6). E perché ciò, se non perché ad essa da Dio fu conferito lo spirito necessario a discerner bene qual sia la parola di Dio, e quale non sia? Per questa prerogativa si mostra ella degna del titolo più sublime di cui l’ornò l’Apostolo, ove chiamolla colonna e fermamento di verità: Ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis (1. Tim. III. 13. s. Th. ib.) Colonna per la saldezza ch’ella ha in se stessa: fermamento per lo sostegno che dà ad altrui. Non è adunque la interpretazione delle scritture quella che rende ferma la Chiesa, ma è la Chiesa quella che rende ferma la interpretazione delle scritture, come non è l’edifizio quello che rende stabile la colonna, ma la colonna quella che rende stabile l’edifizio. Né da ciò ne vien che la Chiesa si arroghi superbamente d’esser da più delle scritture divine (come i suoi calunniatori tentarono fin di apporle), ma d’ essere bensì da più di quegli uomini particolari e privati, i quali espongono le scritture divine.

III.

XVI. E pur tutti questi pregi sarebbero, per dir così, un tesoro nascosto, e conseguentemente di nessun prò, so con essi non andasse congiunto l’essere questa scuola una scuola pubblica che sta sempre aperta a ciascuno. Se ella fosse scuola ignota, o invisibile, ne seguirebbero que’ medesimi sconci i quali avverrebbero, se o non fosse al mondo questa comunanza di uomini da Dio retta con certezza infallibile nel suo culto; o se, essendovi, non fosse discernevole agevolmente dalle altre comunanze che non son tali. Rileverebbe per ventura gran fatto, che non mancasse al mondo il vero sentiero dì andare a Dio, quando questo fosse sì inospito o sì intralciato, che non si potesse discernere dai sentieri al tutto contrari? In tal caso quella provvidenza medesima che si stende a fornire i vermicciuoli più vili di conoscimento bastevole a rintracciare con sicurezza i mezzi proporzionati a trovar i lor cari pascoli, avrebbe poi lasciati gli uomini in una ragionevole dubbietà di ciò che sia d’uopo al conseguimento del loro ultimo fine. Proposizione che da nessuna bocca può vomitarsi senza appestar tutta l’aria. Il che per più forte ragione hanno da concedere ancora lo tanto sette de’ Cristiani, che, o per l’eresie o per lo scisma, si son divise dalla comunione cattolica. Conciossiaché, avendo il Figliuolo di Dio comandato sì espressamente a’ propri seguaci, che ne’ loro dubbi faccian ricorso alla chiesa, die ecclesiæ, sotto pena che sia contato tra gl’infedeli chi contumace ricusi di accertarne le decisioni: Si ecclesiam non audierit. sit tibi sicut ethnicus et publicanus (Matt. XVIII); qual dubbio c’è che evidentemente si debba poter discernere quale sia questa Chiesa ornata da Dio di tanto incontrastabile autorità? da che più d’una (come sopra mostrammo) non può mai essere: onde chi da lei si diparte, non può non perdersi, quasi fuori dell’arca, in un generale diluvio che non ha scampo.

XVII. Oltre a che, se tutti i Cristiani hanno un precetto sì rigoroso di amarsi scambievolmente, con un amore più nobile e più notabile di quello che regni in altri: In hoc cognoscent omnes, quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem (Io. XIII, 35): come potrebbero essi adempire sì bel precetto, se non si distinguessero apertamente i fratelli dagli inimici, i fedeli dagli increduli, e i confederati dagli stranieri?

XVIII. Finalmente questa Chiesa, che in riguardo agli uomini è scuola di verità, in riguardo a Cristo è suo regno. E però quale onore, o quale ossequio ritrarrebbe egli mai da questo suo dominio sopra la terra, se fosse, dirò così, una terra incognita, e non avesse altri vassalli, che alcuni uomini, o smarriti o sepolti? Infino la sinagoga da lui distrutta lo potrebbe insultare di miserabile, con dimostrarsi ella più nota nelle sue sconfitte medesime che non sarebbe il reame di Cristo nei suoi trionfi.

XIX. Però la Chiesa non è invisibile ad altri, che a chi (come disse sant’Agostino) vuol chiudere apposta gli occhi per non vederla: Hanc ignorare nulli licet (Tr. 2. in ep. Io). E Chiesa? Dunque è congregazione, mentre tal è la forza del suo vocabolo. E s’ella è congregazione, come almanco non è ella visibile ai congregati? Né poteva da Cristo venire paragonata, or ad aia, or a cena, or a convito, ora greggia, se uno che è quivi non sapesse nulla dell’altro. Che più? Non è ella quella città, non posta al piano, ma posta sulla montagna? Civitas super montem posita (Is. XVI. 18). Adunque non solo è nota a chi dentro v’abita, ma ancora a chi ne sta fuori. Ben ha da stimarsi cieco chi non arriva a scorgerla fin da lungi. Tanto più che Isaia la chiamò la città del sole, civitas solis vocabitur; e però niun potrà dire che non la scorse, perché egli si abbatté a passarvi di notte.

IV.

XX. Tale adunque è la scuola, maestra di fede alle genti, antichissima di tempo, infallibilissima negl’insegnamenti, apertissima a chi brami di entrarvi qual suo scolaro. Solo qui si vuole avvertire, com’ella ha una porta bassa per cui non è permessa l’entrata che a capo chino (Qui ci soccorrono alla mente quei versi manzoniani del Cinque maggio: » Che più superba altezza » Al disonor del Golgota » Giammai non si chinò). Certe menti orgogliose non v’hanno luogo: Non est fides ruperborum, sed humilium (S. Aug. ser. 36. de verb. Dom.). Iddio è un sole, ma non già un sole simile al materiale, il quale illumina di necessità da per tutto: Sol iliuminans per omnia (Eccli. 42. 15): né è mai padrone di ritirare i suoi raggi quando a lui piaccia. E sol volontario, che se diffonde la luce, la diffonde per elezione. Onde, invece d’illustrar maggiormente le cime più rilevate, ritira da esse i suoi splendori ad un tratto e le lascia nelle tenebre folte da loro elette. Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam (Iac. 1. 21).

L’IDEA RIPARATRICE (6)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (6)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO II

Chi deve riparare?

CAPO TERZO

IL SACERDOZIO E LA RIPARAZIONE.

Nell’annunciare un volume di Lettres des Prètres aux armées. G. Goyau definisce la S. Messa « il più grande avvenimento della Storia umana ». poi soggiunse: « Ogni giorno il Sacerdote introduce nei destini della famiglia umana l’azione efficace del Dio Redentore: con un gesto sovrano fa entrare nella trama dei nostri peccati quotidiani il riscatto divino: al disopra del caos delle colpe pubbliche e delle colpe private egli solleva in alto la vittima di espiazione. Per alcuni, e diciamo pure per molti, questo compenetrarsi della storia umana per mezzo del moltiplicato sacrifizio di un Dio — moltiplicato e nello stesso tempo sempre unico — non è che una cerimonia priva di valore. Eppure sotto i loro occhi per opera del sacerdote si ripete l’ora decisiva in cui il genere umano, tutto insieme peccatore e giustamente diseredato, fu d’un tratto rimesso sulla via della pienezza della vita soprannaturale per mezzo di due portenti inauditi: l’Incarnazione e la Redenzione. « Operaio scelto da Dio per continuare attraverso ai secoli questi stessi portenti, il Sacerdote non si lascerà distogliere, avvengano pure le più rovinose catastrofi, da un tale impegno, il quale dal giorno della sua ordinazione si è come identificato colla stessa vita dell’anima sua per l’eternità ». Non si saprebbero condensare in più breve giro di parole la grandezza e la responsabilità del sacerdozio. Che fa il Sacerdote? Egli continua la vita di Gesù Cristo. Orbene Gesù Cristo .è venuto sulla terra per dare al Padre in se stesso un Pontefice, un Sacerdote capace di adorare e di espiare in modo conveniente. Il Sacerdote, destinato a continuare Gesù sulla terra, dovrà imitarlo offrendosi con Lui in testimonianza di adorazione e di espiazione. Come è consecrante con Gesù, il Sacerdote sarà anche « ostia » con Gesù. Egli non comprende che la metà del suo ministero se, mentre accetta la parte attiva di distributore del Corpo SS., della parola e del perdono di Gesù Cristo non accetta pure insieme la parte passiva di vittima del suo Maestro, di Colui di cui fa le veci e perpetua le funzioni. In tutto il tempo di sua vita quaggiù il divin Salvatore fu « ostia ». Non contento, volle, prima di morire, prolungare il suo sacrifizio, e nell’ultima Cena ne diede l’incarico ed il potere all’uomo. Così noi abbiamo la Messa che riproduce con rito incruento l’immolazione cruenta del Calvario. Sul Golgota Gesù Cristo, sospeso tra cielo e terra, faceva da schermo tra la giustizia di Dio e il peccato dell’uomo. E la sua mediazione era accetta al Padre per causa delle sue piaghe aperte e del suo sangue sparso. Nella Messa Gesù Cristo, posto sull’altare tra cielo e terra, ancora una volta fa da schermo tra la giustizia di Dio e il peccato dell’uomo: ciascuna « elevazione » compensa per le molte nostre bassezze, per le nostre cadute nel peccato e questo perché  la medesima virtù del sangue e delle piaghe divine estende la sua efficacia attraverso ai tempi; non vi hanno due sacrifizi, ma quello stesso della Croce che si manifesta in maniera diversa. Su questo punto le parole del Concilio di Trento sono chiare (La stessa vittima e lo stesso offerente ora per ministero dei sacerdoti, Colui che offrì se stesso in Croce, ma il modo di offrirsi è diverso (Conc. Trid., Sess. XXII, c, 2 –  Nel divin sacrifizio della Messa è presente lo stesso Cristo e viene immolato in modo incruento Colui che in Croce si offrì in modo cruento (ibid). – Non è nostro compito lo svolgere questa tesi e tantomeno l’entrare in discussioni teologiche sulla maniera di spiegare l’immolazione mistica. Nessuno meglio di Bossuet – Meditaz. sul Vangelo, la parte, « La Cena » – presenta quanto dobbiamo sapere su questo punto. Altri si potrà servire anche dei Metodi e formole per ben ascoltare la S. Messa, che ha scritto l’autore della Pratica progressiva della Confessione. Potremmo citare dei trattati speciali, ci basti indicare come eccellenti: CONDREN, Le Sacerdoce et le Sacrifice de Jéau-Christ. — GIRAUD, Jesus Prétre et victime é Prètre et Hostie. Non è questa tuttavia una bibliografia completa. ma la citazione di qualche opera di polso che non si può ignorare del tutto senza inconveniente. – opere di prossima pubblicazione tradotte sul blog – ndr. -): Quanti purtroppo assistono alla Messa senza dar segno di pur sospettare un così adorabile mistero! Quanti, se pregano, si valgono di formole adatte a tutt’altra circostanza. Quanti sanno a memoria le parole: « Santo Sacrifizio della Messa » , ma non comprendono a quale realtà precisa e terribile esse corrispondono. Si cita il caso di quel buon contadino che durante la Messa della domenica se ne stava colle spalle volte all’altare pregando ai piedi d’un gran Crocifisso di un’antica Missione collocato ad un pilastro. Un cotale gli fece osservare che il Signore era presente sull’altare, si voltasse per adorarlo: ed egli rispose tranquillamente: « Il vostro Signore sarà come voi dite sull’altare, il mio eccolo qui », e indicò il Crocifisso. Ignoranza più comune di quanto si creda. Ma di quelli stessi che credono fermamente l’identità del sacrifizio dell’altare con quello della Croce, non tutti conoscono il preciso loro dovere di offrire se stessi insieme coll’ostia santa che si offre a Dio. Se vogliono assistere alla Messa secondo lo spirito della Chiesa e l’intenzione di Nostro Signore. – Eppure questa necessità di unire nella S. Messa la propria all’immolazione del divin Salvatore è provata da molti argomenti: dalla nozione stessa di sacrifizio e dall’uso fattone fin dai tempi più antichi; dalla tradizione cattolica fin dalle origini; dalla dottrina comune dei SS. Padri sull’Eucaristia; dalla liturgia della Messa; da certi riti particolari, come dalla composizione delle specie sacramentali… ecc…. Per quanto andiamo indietro nella storia del Sacrifizio, si trova sempre che la vittima sostituisce quelli che assistono alla sua distruzione per esprimere a Dio i loro sentimenti di adorazione e di riparazione. Questa sostituzione diventerebbe un atto farisaico e puramente materiale quando per mezzo del Sacerdote e insieme con lui i fedeli non offrissero a Dio l’omaggio della loro religione e del loro pentimento, omaggio di cui nell’immolazione dell’Ostia abbiamo come un simbolo. Nell’antica Legge ciascuno posava la mano sulla vittima per dimostrare che si univa ad essa. La stessa cosa fa al presente il Sacerdote quando prega colle parole: « Noi vi scongiuriamo, Signore, ricevete quest’oblazione della nostra servitù e di tutta la vostra famiglia » (« Oblationem servitutis nostræ sed et cunctæ familiæ tuæ ». Molte preghiere della Messa esprimonol’unione del Sacerdote e dei fedeli con Nostro Signore — delle piccole ostie colla Grande. — servi tui sed et plebs tua. Noi tuoi servi e tutto il tuo popolo ..). Nei primi tempi del Cristianesimo ciascun fedele presentava la sua offerta, una parte del pane e del vino che doveva esser consacrato simbolo della sua partecipazione spirituale al S. Sacrifizio. Per formare le oblata — notano i Santi Padri — fa d’uopo unire insieme molti chicchi di grano e molti acini d’uva: questo prova che tutti i fedeli riuniti in un solo corpo si debbono offrire a Dio. Sempre la stessa dottrina veramente magnifica e fondamentale: Gesù Cristo non è « completo » se non unito al suo corpo mistico; la sua oblazione non sarà intera che per l’unione della nostra alla sua. Bossuet nella sua Exposition de la doctrine catholique, libro scritto per i protestanti, così spiega il modo con cui i fedeli assistono alla Santa Messa: « Presentando Gesù Cristo a Dio noi impariamo nello stesso tempo ad offrire noi stessi alla Maestà divina, in Lui e per mezzo di Lui quasi altrettante ostie viventi ». E S. Agostino: « Nell’offerta che la Chiesa fa al Signore del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, essa offre ed immola se stessa… Il vero sacrifizio del Cristiano consiste nel non fare che un corpo solo in Gesù Cristo » (De Civ. Dei, 1. 10, c. 6). Ahimè! Troppo spesso i fedeli son ben lontani da questo ideale che pur dovrebbe esser la regola comune. La regola comune per ogni Cristiano, quanto più per ogni Sacerdote! « Che bello spettacolo presenterebbe la Chiesa se tutti i Cristiani — e noi aggiungiamo: se tutti i Sacerdoti — comprendessero così la legge del proprio Sacrifizio! Tutti intorno a Gesù, che si posa come morto sull’altare, i Cristiani spiritualmente immolati dovrebbero formare una sola Ostia di adorazione riparatrice. Fate, o mio Dio, che così sia di noi tutti; dateci di esser delle ostie immolate con Gesù-Eucaristia » (GRIMAL: Le sacerdoce et le Sacrifice de Jesus-Christ. p. 277. Libro utilissimo ai sacerdoti per comprendere la necessità che hanno di vivere come «Ostie ». Noi l’abbiamo consultato spesso nello scrivere il presente capitolo.). Un Sacerdote che comprenda appieno la Messa che celebra e per così dire la viva integralmente, tutto opera colla sua « Ostia » e nulla senza essere unito ad Essa. Per Ipsum et cum Ipso et in Ipso. Tutto per per mezzo di Gesù « Ostia » , insieme con Gesù « Ostia », in Gesù « Ostia » . Vivere senza esser crocifisso dovrebbe essere per lui una contraddizione. Victima Sacerdotii

sui et sacerdos suæ victimæ, diceva San Paolino: « Vittima del proprio Sacerdozio e sacerdote della propria vittima ». Certo, debole e fiacco, avrà sovente delle manchevolezze, ma il suo ideale sarà questo: Esser l’uomo del Santo Sacrifizio, l’uomo del Sacrifizio. – La sorella di Mgr. d’Hulst, dietro ad una immagine che gli mandava in occasione dei suo suddiaconato, aveva scritto: « Non essere mai Sacerdote senza essere ostia » . — Bel motto che fa per noi tutti. Non soltanto la vera e completa intelligenza della S. Messa dovrebbe condurre naturalmente ogni fedele — e a più forte ragione ogni Sacerdote — ad offrirsi a Dio in immolazione ogni qual volta gli è concesso assistere al divin Sacrifizio o celebrare, ma anche la vera e completa intelligenza della S. Comunione dovrebbe spingere ugualmente ogni fedele — e a più forte ragione ogni Sacerdote — ad una offerta analoga ogni volta che ha la buona sorte di ricevere Gesù « Ostia ». Possiamo considerare la S. Comunione sotto due aspetti, ambedue essenziali, ambedue dogmatici, che possono ad ugual misura influire nella pietà cristiana: la Comunione, incorporazione alla vita di Nostro Signore; la Comunione, incorporazione alla sua morte. Praticamente però, questi due diversi aspetti della Comunione non trovano nelle anime uguale accoglienza. Quanti si accostano alla S. Comunione conoscono e vi cercano l’unione colla vita del Salvatore. Forse pochi conoscono e vi cercano la partecipazione al suo Sacrifizio, alla sua immolazione, alla sua morte, che pure è il tema obbligato della predicazione eucaristica di S. Paolo. « Poiché la morte di Gesù è sempre presente nell’Eucaristia — dice Bossuet (Meditazioni sul Vangelo, ll parte, «La Cena», 46° giorno.) — l’impressione della morte di Gesù Cristo dev’essere sentita in ogni fedele che deve rendersi vittima anch’esso ad imitazione del Figliuolo di Dio. Questa è la virtù della Croce, virtù sempre vivente nell’Eucaristia ». « Non dimenticate — scriveva S. Paolo ai Corinti — che nel comunicarvi voi “annunziate la morte del Signore ” ( I Cor., XI). Voi dovete dunque, tale è la mente di S. Paolo, unirvi alla sua immolazione, comunicare colla sua morte » (Id., ibid., 19° giorno). La stessa dottrina troviamo neWImitazione di Cristo (lib. IV, c. 8): « Nella stessa maniera che io mi sono offerto spontaneamente al Padre pei suoi peccati, le mani stese sulla Croce e il corpo tutto impiagato, nulla risparmiando che mi appartenesse, ma tutto offrendo in sacrifizio per la divina riconciliazione, così anche tu devi spontaneamente offrire te stesso a me in oblazione pura e santa, ogni giorno nella S. Messa, quanto più intimamente puoi con tutte le tue forze e con tutti gli affetti tuoi ». S. Paolo dice ancora: « Quelli che mangiano le carni immolate forse che non partecipano al Sacrifizio? » ( I Cor.. X, 18). Parole che non si possono comprendere che ricordando i riti e il simbolismo dei sacrifizi offerti nel tempio di Gerusalemme. Mangiare delle carni offerte voleva dire collocare se stessi sull’altare e domandare di esser considerati come parte della vittima: e questo sapevano benissimo i Corinti. Sempre il cibarsi dell’oblazione fatta fu considerato come una intima unione con la stessa oblazione. L’Apostolo quindi colle sue parole altro non fa che ricordare come nella nuova legge si continua lo spirito dell’antica, e l’effetto della nostra partecipazione all’« Ostia » è ancor sempre di unirci strettamente al Cristo immolato, di metterci in « comunione » con Lui. Comunione vuol dire appunto unirsi, diventare una cosa sola con l’Ostia — quindi offrirsi in ispirito con essa — dunque « offrire la propria carne ad esser crocifissa coi suoi vizi e colle sue concupiscenze » (Gal., V, 24), abbandonare nelle mani di Nostro Signore la propria vita, le fatiche, le pene, le preghiere affinché Egli le pervada tutte dello spirito di sacrifizio. Al IV secolo era di consuetudine, appena comunicati, di posar il dito sulle labbra ancor umide del Preziosissimo Sangue e segnarsi poi con esso sugli occhi, sulla fronte e sulla bocca. Al contatto dell’Ostia impariamo ancor noi a purificare e santificare le nostre affezioni e i nostri pensieri, il nostro cuore e i neutri occhi, tutte le nostre membra, tutta l’anima nostra e imporci a questo fine i sacrifizi necessari. – « Voler ricavare profitto dal S. Sacrifizio  nella S. Comunione senza fare dei sacrifizi, volerci divinizzare per mezzo dell’Ostia senza immolarci con Essa. è pretendere di vivere come “parassita dell’Altare”. è cercare la salvezza fuori della Croce » (GRIMAL: Ibid., pag. 329). La Comunione ben intesa non è soltanto divinizzante, ma deve esser pure immolante. anzi perché divinizzi conviene che immoli. – L a Comunione ben intesa non è soltanto un tesoro che ci viene dato, non consiste solo nel ricevere un’ostia, ma anche nell’offrire, nel darne un’altra. Non si può ricevere degnamente la Vittima dell’altare se non a condizione che noi pure ci offriamo sull’altare come vittima in ispirito di adorazione e di espiazione (« La doppia funzione dei fedeli alla S. Messa, li costituisce offerenti e offerti nello stesso tempo, è così vera che la liturgia del S. Sacrifizio non si può intendere altrimenti, se non vogliamo avere delle contraddizioni in termini » . DOM VANDEUR O. S. B., La Sainte Messe,  p. 135). Mgr. Batiffol ha lasciato scritto: « Il concetto di S. Paolo della comunione al Sacrifizio è destinato a rimaner sempre oscuro per la pietà cristiana, la quale sarà sempre più attirata dal concetto di S. Giovanni: che cioè la S. Comunione è una partecipazione alla vita divina » . Noi non crediamo questo giudizio definitivo, anzi vogliamo sperare invece che quando ciascun Sacerdote sarà meglio penetrato egli stesso della dottrina di S. Paolo sulla « Comunione che immola » , egli si troverà in grado di insegnare pure ai fedeli la necessità in cui sono di offrirsi con Gesù in Sacrifizio ogni volta che si accostano a riceverlo nell’Ostia santa. È un fatto che le anime riparatrici sono in piccolo numero: esse si moltiplicheranno certamente quando molti siano i Sacerdoti che posseggono a fondo la dottrina della Riparazione. Come possono sapere i semplici fedeli se coloro che li istruiscono non sanno, o se possedendo in teoria la grande idea paolina sulla comunione o partecipazione al Sacrifizio di Gesù Cristo, essi poi in pratica non la vivono e non si danno attorno con tutte le loro forze per farla vivere nel gregge di Cristo? Molto a proposito dice l’autore di Sacerdoce et Sacrifice de Jésus-Christ: « Lo spirito di sacrifizio è la grande lezione che cidà l’Ostia. L’Eucaristia riproduce la Croce…L’effetto immediato e necessario dellaS. Comunione è unirci all’’Ostia come tale,cioè a Gesù che è immolato e che immola.« Riceve la S. Comunione con vero spirito chi vede nell’Ostia Gesù Crocifisso ed entra nelle sue intenzioni di Ostia. Chi non si comunica con questo spirito di sacrifizio, benché sia in istato di grazia e provi certi sentimenti di divozione, si potrebbe dire che non si comunica che per metà (Si noti il « si potrebbe dire ». Non intendiamo affatto negare il valore dell’opus operatum). Egli non comprende che voglia dire Ostia, forse perché nelle spiegazioni, che gliene vennero fatte, troppo si è indugiato sulla virtù eucaristica secondaria o metaforica a danno di quanto v’ha di più importante. Egli non scorge sui nostri altari sempre presente e operante la Croce, forse perché  chi doveva farlo non gliel’ha mostrata coll’insistenza dovuta ». E poi continua: Nella nostra predicazione eucaristica noi avremo di mira sovratutto il far vedere sui nostri altari il Memoriale vivente della Morte di Nostro Signore per istillare nelle anime questo spirito d’immolazione che le renderà Ostie insieme con Gesù nella loro vita quotidiana… (Grimal, ibid. p. 357). Non temiamo d’incorrere nel rimprovero di troppo insistere sul lato doloroso del Cristianesimo, di presentare tanto la Passione di Nostro Signore, quanto la vita e la morte di ogni Cristiano come un’immolazione espiatrice. Potremmo noi fare altrimenti… attenuare o nascondere il dogma fondamentale di nostra fede, di nostra salute? Predichiamo questo dogma sempre e tutto intero: L a Croce che si continua nell’Eucaristia e ci porta al Cielo; — la Croce retaggio del credente che si comunica immolandosi per mezzo di Essa ma per vivere in eterno; — la Croce che sempre attraverso ai secoli, ed oggi più che mai, attira le anime privilegiate, le anime più pure, le più nobili che s’innamorano dei patimenti per continuare e completare la Passione di Gesù. Chi potrà dire la bellezza, la fecondità della Croce quando domini tutto l’orbe cristiano? Chi potrà dire la bellezza, la fecondità di queste anime elette  che attingono nell’Ostia lo spirito di vittima, che immolate con Gesù sono il profumo e la salvezza del nostro povero mondo? « Concedeteci, o Gesù, d’esser nel bel numero di queste anime, concedeteci di moltiplicarlo questo numero col nostro insegnamento e colla nostra direzione » (Grimal, l. cit.). Ai nostri giorni poi, mentre si propaga ognor più la divozione alla S. Eucaristia e Roma favorisce in tutte le maniere e incoraggia la Comunione frequente e quotidiana, sforziamoci ancor noi affinché quanti si accostano di frequente alla S. Mensa lo facciano collo spirito di cui abbiamo ragionato: quali « Ostie ». Praticare la mortificazione è cosa buona ma non basta; bisogna « vivere » mortificati abbracciando con ardore tutte quelle mille occasioni di vincersi che si presentano ad ogni istante lungo il giorno. E si può fare meglio ancora: nei SS. Tabernacoli, sugli altari, Gesù benché vivo vuol stare in sembianza di morto; Egli si abbandona nelle mani del Sacerdote che lo muove e lo distribuisce a sua volontà: « A me pare, scrive un’anima santa, che il rimetterci totalmente al volere di Dio, l’abbandonare nelle sue mani quanto possiamo fare, soffrire e meritare perché Egli ne disponga come gli piace, anche senza che noi ne possiamo saper nulla, quest’atto, dico, di abbandono completo, a me pare che sia il più grande sacrifizio possibile per un’anima, quello che più glorifica Gesù-Ostia perché spoglia l’anima di quello che ha, di quello che è, per farne un omaggio all’Ostia divina e arricchirne la povertà volontaria con tutto quello che una creatura può dare e possedere » Essa aggiunge e a proposito: «Questo dovrebbe essere lo stato ordinario delle anime che si uniscono spesso a Lui nel suo Sacramento di amore perché un tale abbandono si può dire la condizione richiesta per la unione eucaristica come ne è il frutto e la conseguenza necessaria … Quello che rende più amara la tristezza del Cuore di Gesù si è che le sue più care anime sono per lo più dominate dallo spirito egoistico che loro fa dimenticare quello che sono per ufficio e per dovere, cioè un supplemento di espiazione e di intercessione per tutto il genere umano e quindi esse non appartengono più a sé stesse ma a Gesù ». Molte anime, vogliam dire di quelle che frequentano la S. Comunione, certo procederebbero più innanzi nella santità se invece di badare quasi esclusivamente ai propri interessi anche spirituali, cercassero prima di tutto quello di Dio, e invece di comunicarsi a proprio profitto, si comunicassero a « profitto di Gesù ». La divozione eucaristica di un’anima riparatrice deve tendere a questo ideale. Sul cominciare, il sentimento che domina un amore di compassione: il disprezzo, l’indifferenza, gli oltraggi: alcuni non sanno, altri non se ne curano, altri, ancor peggio, perseguitano; delitti degli empii, colpe dei buoni, peccati dei migliori, di quelli cioè che Gesù Cristo chiama « suoi », che si è particolarmente eletti — pur troppo ve n’ha anche di questi! — e si cerca di riparare. Il Maestro è troppo spesso lasciato solo; e si va a visitarlo. Durante la S. Messa le chiese sono purtroppo vuote; e il più spesso possibile si assiste al S. Sacrifizio. Nelle chiese vuote, le Sacre Pissidi restano colme; e ogni giorno si va alla Sacra Mensa. La Riparazione porta così all’Eucaristia. Or ecco a sua volta l’Eucaristia che conduce alla Riparazione; l’Eucaristia non considerata tanto dal suo lato, se si può dire così, esteriore (il poco valore attribuito dagli uomini alla « moneta » troppo comune dei tabernacoli), ma piuttosto nella sua realtà intima; l’Eucaristia che dà al mondo Gesù, la Vita eterna nello stato di vittima espiatrice. Il pane ed il vino sono « apparenze morte »; il Cristiano che si comunica « apparenza vivente » del Salvatore; quanto tutto questo supponga di immolazione l’abbiamo già visto (si rilegga ove furono ricordati i desideri eucaristici del Cuore del Divin Salvatore). L’altare del Sacrifizio sarà sempre la miglior scuola del Sacrifizio. Tocca al Sacerdote di acquistare per sé e trasfondere in altri una intelligenza netta e profonda di quello che è il Sacramento per eccellenza dell’amore reciproco fra Dio e l’uomo. – Del resto, se pur non si è perduta la memoria e non si sono dimenticati anche i desideri della giovinezza e le aspirazioni della propria ordinazione, il Sacerdote deve riconoscere che le aspirazioni al Sacerdozio sentite in cuor suo allora si confondevano con dei sogni ardenti di sacrifizio, che le sue risoluzioni d’esser fedele sempre ai doveri del Sacerdozio nel giorno dei suoi impegni definitivi coincidevano nel suo cuore colla promessa di una donazione completa e di una cosciente immolazione. I desideri di un giovane che si prepara al Sacerdozio! Chi potrà dire le ambizioni che spuntano in un cuor di fanciullo alla lettura della vita d’un S. Francesco Zaverio. d’un S. Damiano apostolo dei lebbrosi, d’un missionario qualunque dell’Alaska o dello Zambese, o del Santo Curato d’Ars? « Si isti et illi curnon et ego? Quello che hanno operato costoro per Gesù Cristo, perché noi potrò anch’io? ». Ancor piccini hanno imparato alla scuola d’una santa donna, la madre loro, a fissar lungamente il Crocifisso. Certe cose facilmente si comprendono quando si ha la fortuna d’aver una santa per madre. Il loro cuore di fanciullo ha intuito nel Crocifisso qualche cosa di misterioso e di straordinario che l’invita ad una impresa che ancora non comprende troppo, pel presente e per l’avvenire. Gesù si è sacrificato per loro, è ben giusto che essi si sacrifichino per Gesù. E in una maniera od in un’altra avranno anch’essi imitato il gesto di quel bambino a cui essendo stata narrata la storia della Passione di Gesù, si stende subito lungo il muro colle braccia in croce domandando alla sua serva che gli pianti dei chiodi nelle mani e nei piedi … Come si può « star bene » quando Gesù « soffre tanto? ». Questi sentimenti naturali e profondi il fanciullo li prova certamente se tra le mura domestiche si ha cura di sviluppare in lui l’educazione del Sacrifizio. Ma si danno dei genitori che su questo punto sono completamente nulli; altri all’opposto fanno di questo « particolare » l’oggetto essenziale delle loro cure e avvezzano i loro figliuoli a punirsi per sé stessi nei loro falli, ad essere austeri nella loro vita, e spiegano loro non solo la Passione che Gesù Cristo dovette soffrire un tempo andato, ma anche la sua presente Passione nella Chiesa di Dio e fanno loro capire, anche senza dirlo in modo esplicito, che il Signore aspetta da loro più tardi qualche prova d’amore in compenso. Così quel padre di famiglia che, in occasione degli Inventari, va alla Chiesa per fare il suo atto di protesta col suo figlio per mano, e al momento in cui si forzano le porte per 1’entrata degli inviati dal governo persecutore egli alza il proprio figlio al disopra del proprio capo perché veda meglio come si difendono le libertà di Dio. Così pure quella donna, madre di Mgr. de Quélen, la quale durante la grande Rivoluzione del 1789 conduce il proprio figlio alle prigioni dei Carmelitani perché sappia come sono trattati i sacerdoti di Gesù Cristo e non si spaventi. Così ancora quest’altra, la madre del P. Varin, che spesso vuole che i suoi piccini si mettano in ginocchio dicendo: « Recitiamo un’Ave Maria per Giuseppe (altro suo figlio) perché egli non è ove la vocazione del Signore lo vuole »: e poi morrà sul patibolo offrendo la propria vita affinché quel suo figlio non resista più a lungo al volere di Dio che lo chiama al sacerdozio. Dopo i desideri della giovinezza ecco le aspirazioni verso il sacerdozio. Il sacerdote non potrà mai dimenticare che dedicandosi al sacerdozio aveva già ben compreso fin d’allora che si dedicava ad una vita di sacrifizio. Il giorno di sua ordinazione — giorno forse già lontano ma sempre dinanzi agli occhi come presente — quando prostrato sul pavimento davanti all’altare, uno degli avventurati della bianca schiera palpitante, egli si offriva a Dio. non comprendeva forse che da quel momento unico suo «mestiere», o meglio unico suo « sogno » sarebbe stato il vivere in Croce col suo Maestro? « Ricevi la potestà di offrire il divin Sacrifizio » ha detto il Vescovo ordinante, e poi ha continuato : « Quello che tu tocchi, la patena, il Calice e gli altri strumenti dell’olocausto, pensa che sono pure gli strumenti del suo sacrificio. Imitamini quod tractatis. Tu avrai tra le tue dita l’Ostia. Pensa che dovrai imitare quello che ogni giorno avrai da trattare ed essere Ostia anche tu nella tua vita. Quatenus mortis dominicæ mysterium celebrantes, mortificare membra vestra a vitiis et concupiscentiis procuretis. Gesù Cristo è morto, converrà vivere mortificandosi, ostia colla tua Ostia, vittima colla tua Vittima. Altrimenti non sarai un vero sacerdote, « procuretis ». Questa dev’esser la tua principale cura, accordare, intonare la tua vita sopra quella di Gesù Cristo per farne due vite sincrone, due oblazioni, due immolazioni anch’esse sincrone ». « Io mi prendevo gusto — così parla il Sig. Olier — di guardar nelle chiese attraverso alle fessure e vedendo le lampade accese: Ah! io dicevo, come voi siete felici nel consumarvi completamente alla gloria di Dio e nell’ardere continuamente per onorarlo! È l’ufficio dei sacerdoti il consumarsi così, poiché essi debbono essere insieme come Nostro Signore e sacrificatori e ostie. Se dei Cristiani tutti è detto: Fate dei vostri corpi un’ostia vivente: con più forte ragione va detta questa parola dei sacerdoti i quali ogni giorno ripetono: Hoc est corpus meum ». I veri sacerdoti ci danno esempio magnifico nella pratica di questo spirito di vittima, in cui sanno bene che consiste la parte essenziale del loro ministero. – L’Abate Perreyve nel giorno della sua ordinazione domanda al Signore queste tre grazie: « Non cadere mai in colpa grave: restar sempre un semplice sacerdote; dare il proprio sangue per Gesù Cristo » . E celebra con paramenti di color rosso, color di sangue, per dar maggior forza alla sua ultima preghiera con un segno simbolico del sacrifizio. Prima di restituire a Dio la sua anima generosa aveva scritto sulla morte del Sacerdote una meditazione ove faceva notare che « il sacerdote deve riguardare la morte come una delle funzioni del suo ministero. Dev’esser per lui come la sua ultima Messa ». Imitando il Maestro divino egli deve servirsi essenzialmente del proprio corpo non per altro che per immolarlo. Egli deve incominciare questa morte nella castità, continuarla nella mortificazione, terminarla finalmente nella vera morte, che è la sua oblazione finale, il suo ultimo sacrifizio. Essi, come avete fatto voi, Signore, debbono incominciare ben da lontano a morire… ». – Un giovane chierico del Seminario Maggiore di Nevers, morto il 6 aprile 1907, non ancora suddiacono, aveva lasciato scritto nel suo testamento spirituale: « Io rimetto la mia anima nelle mani di Dio in unione di Nostro Signore Gesù Cristo che muore, desideroso di morire, vittima come Lui, con Lui ed in Lui. Questo che dovrebbe essere il carattere dell’intera mia vita per vocazione e per dovere, lo sia almeno dei miei ultimi istanti … Volendomi distaccare sempre meglio da me stesso in Dio perché  Egli regni totalmente sul mio cuore, io godo nell’offrir a questo divin Maestro i dolori benefici della mia agonia e il sacrificio della mia vita in riparazione della sollecitudine con cui troppo sovente ho cercato di evitare i patimenti e le mortificazioni. Io vi offro pure la mia vita per la Chiesa, per la patria, per la mia famiglia… » (Grimal, in op. cit. p. 385). Durante l’ultima guerra, molti prevedendo che il Signore poteva loro domandare il sacrifizio della vita si sono offerti di gran cuore all’immolazione totale. – « Oh! quanto è bello, scrive il P. Gilbert de Gironde, morire giovane… morire sacerdote sotto le armi, attaccando il nemico, correndo all’assalto, in pieno esercizio del ministero sacerdotale, forse impartendo un’ultima assoluzione… versare il mio sangue per la Chiesa, per la patria, per i miei amici, per tutti quelli che hanno in cuore la stessa mia fede e per gli altri ancora, affinché possano godere la gioia di credere… Oh! quanto è bello …! ». E l’Ab. Liégeard, del Gran Seminario di Lione, caporale nel 28° battaglione dei cacciatori alpini: « Io offro la mia vita perché siano dissipati i malintesi tra il popolo di Francia e i suoi sacerdoti ». –  E il P. Federico Bouvier, della Compagnia di Gesù, uno dei più eruditi nella Storia delle religioni: « Io do volentieri la mia vita, egli dice, per i miei commilitoni dell’ 86° Reggimento, affinché questi uomini retti e onesti a cui non manca altro che il vivere in Dio e secondo la loro fede, ritornino sinceramente a Lui ». Un seminarista, caporale del 90° di Fanteria, l’Ab. Chevolleau, che abbiamo già citato, scriveva in una sua lettera: « Pregate perché il mio abbandono in Dio sia perfetto. Che vale la vita, l’altare visto in lontananza, le anime da salvare in tempi che non verranno per me, se al presente il Signore mi vuole per sua vittima? ». Come non ricordare qui due valorosi a cui mi legano memorie personali troppo forti perché possa lasciarli da parte: il P. Gabriele Raymond e l’Ab. de Chabrol, l’uno e l’altro cappellani militari? Il primo — che già conoscevo da lungo tempo — venne a prendere il mio posto in fondo alla mia tana di prima linea nell’Artois, di fronte alle famose costruzioni bianche del «Plateau d’Angres » fra Loos e Souchez. Al secondo io a mia volta succedetti a Tracy-le-Val nell’agosto 1916: e tutti e due furono uccisi poco appresso. E soldati e ufficiali erano concordi a magnificare il loro coraggio e una cosa appariva evidente, che essi erano troppo facili ad esporsi, quindi la loro affrettata morte. Nessuno mai potrà sapere quale fu l’eroismo di tali uomini, sempre calmi e dimentichi di sé stessi. Il P. Raymond fu schiacciato sotto un riparo. Dell’Ab. de Chabrol così parla un « ordine del giorno » commemorando un attacco e attestando il suo coraggio: « Le ondate dei nostri uomini che si succedevano, si sono inchinate dinanzi al rappresentante di Dio, il cappellano della Divisione, de Chabrol, che sotto la mitraglia tracciava colla sua mano il segno della redenzione e della vittoria ». In un attacco il cappellano fu colpito dalla mitraglia e cadde, avendo egli da lungo tempo fatto l’offerta della sua vita, come il P. Raymond – e « come mille e mille altri – per la Redenzione del mondo e per la vittoria. – Un ultimo esempio, quello del P. Lenoir, anch’egli cappellano militare, morto sul campo dell’onore il 9 maggio 1917, vittima della sua carità verso i feriti. Dopo la sua morte fu trovato sulla sua persona il seguente scritto che il Luogotenente Colonnello volle comunicare al Reggimento per cui il glorioso caduto dopo trenta mesi di fatiche aveva sacrificato la propria vita: « In caso di mia morte, Io rivolgo la mia parola a tutti i miei figliuoli del caro reggimento 4° Coloniali e dico loro — arrivederci —.  Con tutto l’affetto di sacerdote e di amico io li supplico a volere assicurare la salvezza eterna dell’anima loro restando fedeli a Nostro Signore Gesù Cristo e alla sua legge, facendo penitenza delle loro colpe e unendosi a Lui nella S. Comunione il più spesso che sarà loro possibile. A tutti io do appuntamento in cielo; per loro a quest’intenzione io offro, ben contento, se sarò esaudito, il sacrifizio della mia vita nelle mani del Divin Maestro Gesù Cristo. Viva Gesù! Viva la Francia! Viva il 4° Coloniali! P. LENOIR S. J. » .

L’Ab. Buathier, nel suo libro Le Sacrifice, ha tracciato questa bella pagina:« Un’anima sconosciuta abbandona questo esilio, a cento passi da essa il fatto è ignorato e nessuno si turba. Tutt’al più qualche vicino dirà senza dare nessuna importanza alle sue parole: “il tale è morto”, e tutto finirà lì, tutti gli altri han visto nulla.« Ma nella sua umiltà quest’anima oscura è unita alla Vittima del Calvario, essa conosce intimamente il valore dell’atto che compie: essa comprende che non solo paga il debito dei propri peccati ma che può ancora pagare per altri, moltiplicare i propri meriti e rifonderli nel tesoro di Santa Chiesa, far vivere colla sua morte molte anime e darle a Gesù: essa conosce tutto questo, lo vuole, lo desidera e si offre. La sua offerta sale verso il Cielo e nel breve giro delle sue ultime ore il suo sacrifizio si termina in una gioia raggiante pace e gloria celeste. Per essa come per Gesù sulla Croce la morte non è altro che il supremo slancio dell’amore. Gli uomini nulla possono scorgere di tutto questo, ma gli Angeli ne restano ammirati ed il Signore premia colla gloria del Paradiso » . — Qualche cosa di simile noi troviamo nei poveri morti di cui abbiamo parlato. – Son pochi anni che si andava dicendo: « La Chiesa di Francia ha bisogno di Santi ». E la Chiesa di Francia ebbe i suoi Santi, come ne ha pure al presente. Gli esempi recati fin qui ce l’attestano e noi potremmo moltiplicarli (« Che diremo del nostro Clero? … V’ha chi dice che al presente non abbiamo più dei santi. Oh! Se la Chiesa mel permettesse io direi che ce ne sono ancora e saprei dire pure ove si trovano! ». Lettera inedita di E. Psichari all’abate Tournebize.). Verrà giorno, si può sperare, in cui ci sarà dato conoscerli tutti e ciascuno in particolare. Ma non dimentichiamo che se avvenimenti straordinari, come fu la guerra ultima, ci rivelano tanto la santità come l’eroismo, essi non hanno potuto crearli di sana pianta: già esistevano. La morte di quelli che così generosamente si danno come vittima riparatrice col Maestro Divino, non è cosa impensata, che avviene per caso, ma suppone una lunga preparazione, un proposito chiaramente voluto. Nessuna improvvisazione; al contrario: conclusione necessaria di premesse. Immolarsi ogni giorno nell’oscurità della vita ordinaria colla mortificazione, colla castità, coll’umiltà, collo zelo… questo solo può render capaci a mostrarsi poi nell’ultimo sanguinoso istante, che chiude la vita, così spontanei, così generosi, nel darsi totalmente come « ostia » alla riparazione. Questi valorosi sono morti così come noi abbiamo ricordato, sol perché ben « alla lunga si sono avvezzati a morire ».

SACRO CUORE DI GESÙ (33): CONSACRAZIONE AL CUORE DI GESÙ

Sac. Prof. Albino CARMAGNOLA: La vittima della carità ossia IL SACRO CUORE DI GESÙ; Società Editrice Internazionale, TORINO, 1920

DISCORSO XXXIII.

Consacrazione al S. Cuore di Gesù.

Una sera gelata d’inverno un uomo si aggirava solingo e pensieroso in luogo alquanto remoto della vicina città. Egli era un genio, ma accasciato sotto il peso di gravi sventure. Dopo di avere camminato alquanto, lo ferisce all’orecchio il suono della campana d’un vicino convento. A quel suono, come alla voce d’un amico, che lo chiamasse per consolarlo, quell’uomo volge ad un tratto i suoi passi frettolosi a quel convento e ne batte alla porta. Un frate si avanza, ed aprendo, così saluta: La pace sia con te, o pellegrino; che cerchi tu? — Che cerco io? Cerco appunto la pace che tu mi auguri, ma che finora non ho trovato. Cerco la pace! Miei cari, questo anelito così ardente di Dante Alighieri è l’anelito di tutta l’umanità. Pace, pace si cerca da tutti; pace, pace da tutti si invoca. Ciascuno vuol pace nel suo cuore; ogni famiglia vuol pace nel suo seno; ogni società vuol pace tra i suoi membri; e tutto il mondo vuol pace fra i suoi stati. E per avere, per mantenere, per promuovere la pace si istituiscono dei comitati, si fanno dei congressi, si diramano circolari, si fanno proposte, si suggeriscono mezzi, si danno delle norme; e ciò si fa dagli stessi più grandi sovrani del mondo. Tanto è vero che la pace è uno dei maggiori beni che si possa godere quaggiù dall’umanità. Ma con questa brama irrefrenabile, che da tutti si ha della pace, con questa aspirazione sì infuocata di tutti gl’individui, di tutte le famiglie, di tutti gli stati, di tutto il mondo si cerca davvero la pace là dove essa esiste? La pace, ha detto il più grande dottore, S. Agostino, è la tranquillità dell’ordine. Ma la base, il principio, la radice di ogni ordine serbato e tranquillo è la conoscenza, l’amore, il servizio di Gesù Cristo, la totale consacrazione della nostra vita a Lui. Senza la nostra vita in Cristo è scossa, è tolta anzi la base di ogni ordine, ed allora non più pace, ma agitazione, scompiglio e guerra. Sì, Gesù Cristo è la nostra pace: ipse est pax nostra; (Eph. II, 14) Gesù Cristo è colui che la può far regnare in mezzo al mondo, perché Egli è il principe della pace: princeps pacis; (Is. IX, 6) Gesù Cristo è colui che la dona, perché è il Dio della pace: Deus pacis. (Hebr. XIII, 20) Appena nato sopra questa terra la fece annunziare agli uomini per mezzo degli Angeli: Et in terra pax hominibus; (Luc. II) prima di andare a morire per noi la lasciò come in retaggio a’ suoi apostoli: Pacem relinquo vobis; (Io. XXI) e dopo la sua risurrezione, il primo saluto, il primo augurio, la prima promessa, che fece ai discepoli, fu la pace: Pax vobis. (Luc. XXIV, 36). È da Lui pertanto, da Lui solo, che ci può venire la pace, opperò è in Lui, in Lui solo che dobbiamo ricercarla. E chi fra di noi, riconoscendo dove stia la pace, non vorrà recarsi lì a farne l’acquisto? Miei cari, siamo arrivati al termine del mese consacrato al Cuore di Gesù. In questo mese ci siamo studiati di conoscere questo Cuore più intimamente che ci fu possibile, ed abbiamo cercato di metterci innanzi i motivi più grandi che devono spronarci a crederlo, ad amarlo e servirlo fedelmente. Ora che altro ci rimane se non risolvere di mantenere costantemente il frutto di queste sante cognizioni? A tal fine non dobbiamo far altro quest’oggi che consacraci interamente a Lui. Ma intendiamoci bene, o miei cari. Invitandovi io quest’oggi, a fare la vostra consacrazione al Cuore Santissimo di Gesù, non crediate, che io vi inviti ad una funzione religiosa vaga e indeterminata, ad un’espansione passeggera di una tenerezza sensibile verso di Lui: no affatto. Io vi invito a fare una consacrazione soda, totale e costante di voi medesimi al Cuore di Gesù Cristo, a prendere cioè una risoluzione decisiva di vivere d’ora innanzi unicamente in Lui, con Lui e per Lui, nella fede ferma alla sua dottrina, nella pratica esatta della sua legge, nel servizio fedele della sua Persona; giacché, orMai lo abbiamo ben inteso, dire Cuore di Gesù è dire Gesù Cristo Figliuolo di Dio fatto uomo per nostro amore e per nostra salute è sempre la stessa cosa. E la salute nostra non sta in altri che in Lui: Non est in alio aliquo salus.(Act. IV, 12) Non altro Nome vi è sotto il cielo, che possa essere il segno della nostra elezione divina; Gesù Cristo principio di tutte le cose ne è pure il fine; tutto da Lui procede e tutto mette capo a Lui. Nessuno va al Padre se Egli non lo conduce colla grazia, con quella grazia che ha la sorgente nel suo Sacratissimo Cuore: Gratia Dei per Iesum Christum Dominum nostrum.- (Rom. VII, 25) Se noi pertanto cercassimo la verità fuori di Lui, non la troveremmo che incompleta e mutilata, perché è Egli la verità; se noi camminassimo verso i nostri destini lontani da Lui, noi ci perderemmo, perché Egli è la via unica e sicura: se noi pretendessimo di vivere senza di Lui, noi resteremmo mai sempre in potere della morte, perché Egli è la vita. Ego sum via, veritas et vita. (Io. XIV, 17) Insomma pensieri, affetti, nobili e sante abitudini, buone opere tutto sarebbe inutile, tutto andrebbe irrimediabilmente perduto, se noi non ci unissimo a Lui, se non ci dessimo a Lui del tutto, se a Lui non ci consacrassimo, giacché senza di Lui non possiamo far nulla: Sine me nihil potestis facere. Tutto per Lui, tutto con Lui, tutto in Lui: Per ipsum, cum ipso et in ipso! Oh quanto importa adunque che noi ci consacriamo con una consacrazione vera, soda, decisiva al Cuore SS. di Gesù: Egli ne ha tutti i titoli e noi ne abbiamo tutto l’interesse. Ed ecco appunto ciò che vi dirò in quest’oggi: —O Cuore adorabile di Gesù, dona oggi tale forza alla mia parola che valga ad ottenere davvero che tutti questi cuori si rifuggano per sempre dentro di te.

I. — Il primo titolo che il Cuore SS. di Gesù ha alla nostra consacrazione si è l’essere Egli il Cuore del nostro Maestro divino, sia perché come tale fu veramente mandato da Dio, sia perché è Dio Egli stesso. No, in Gesù Cristo non abbiamo soltanto uno di quei grandi sapienti e profeti, quali furono quelli che Iddio inviò nell’antica legge; in Lui non v’ha soltanto un semplice riflesso della luce eterna, ma è il sole medesimo sorto nel inondo per inondarlo della sua luce, penetrarlo del suo calore, è la Sapienza divina incarnata, è il Verbo, la Parola divina fattasi vivente in un corpo e in un’anima umana, è insomma il Maestro supremo, il Maestro dei maestri. Se adunque Gesù Cristo è il Maestro nostro per eccellenza, non dovremo noi consacrarci del tutto al Cuore divino per accettare e credere tutti gl’insegnamenti e per osservare tutti i precetti che ne ha fatto uscire per la salvezza nostra? Oh! sì, senza dubbio. Che importa adunque che Egli ci apprenda delle verità che noi colla sola nostra ragione non possiamo né presentire, né penetrare? Che importa che egli ci ammaestri intorno a misteri inscrutabili e superiori al nostro intendimento? Le verità non lasciano di essere verità dal momento che partono dalla bocca di un Maestro divino, che le vede e le afferma. Vi sono stati, vi sono tuttora dei maestri dotati di gran genio, che si impongono per tal guisa alle menti dei loro discepoli da ingenerare in essi una sicurezza la più grande della loro dottrina; sicurezza tale per cui questi discepoli a qualsiasi obbiezione, a qualsiasi difficoltà fosse loro fatta contro la dottrina del maestro rispondono decisamente: L’ha detto il nostro maestro : Magister dixit. Ma questa fiducia così imprudente, che non tiene conto della debolezza che trovasi nella mente umana, fosse pure la più elevata, la più nobile, a quanti sbagli, a quanti errori può andare incontro! Or si potrà dire la stessa cosa di noi quando noi prestiamo fede a Gesù Cristo, ancorché Egli ci insegni cose incomprensibili alla mente nostra? No, non mai, perché se noi a qualsiasi obbiezione o difficoltà che alla dottrina di Gesù si affacci alla mente nostra sia per parte della nostra ragione riottosa, sia per parte dei falsi maestri del mondo, se noi, dico, a qualsiasi obbiezione o difficoltà rispondiamo: Magister dixit, è lo stesso che rispondere: Deus dixit: l’ha detto Iddio, quel Dio che è di una scienza infallibile e di una veracità suprema, ragione per cui noi saremmo del tutto colpevoli se gli rifiutassimo la perfetta sommissione del nostro spirito. Dunque fede piena e totale a tutto ciò che Gesù Cristo ci insegna intorno alla natura di Dio, alla vita delle tre Persone divine, alla sua eterna generazione, alla sua propria Persona, al valore delle sue azioni, all’estensione de’ suoi meriti, alla comunicazione della sua vita, a’ suoi santi Sacramenti, alla virtù della sua grazia, alla nostra origine, ai nostri destini. Sì, fede piena e totale, senza riserva alcuna, senza alcuna restrizione. È vero, oggi non è più la sua bocca divina quella che direttamente ci ammaestra intorno a tutto ciò che dobbiamo credere, ma è la sua Chiesa docente, quella Chiesa che Egli ha costituita a tenere le sue veci, che ha fatta depositaria sicura della sua dottrina, che ha resa infallibile nella promulgazione della medesima, ed alla quale perciò dobbiamo quella medesima fede che si deve a Gesù Cristo, avendo Egli detto alla Chiesa: Qui vos audit me audit; chi ascolta voi, ascolta me, (Luc. x, 16) e chi disprezza voi, disprezza me, e chi disprezza me, disprezza Colui che mi ha mandato: Qui vos spernit, me spernit. Qui autem me spernit, spernit eum qui me misit. (Ib.) Ma il nostro divino Maestro Gesù non solamente ci insegna le verità che dobbiamo credere, ma eziandio le opere che dobbiamo compiere, e non solo ce le insegna, ma ce le comanda. Propriamente perché Egli è il Maestro divino, perciò ancora è il precettore, quegli cioè che ci dà dei precetti e ci ordina di eseguirli, e se noi ci sottraessimo alla sua indiscutibile autorità, se noi non lo volessimo obbedire, se noi avessimo la stolta pretesa di obbedire a Lui ed obbedire alle nostre passioni, alle massime del mondo, ai suggerimenti di satana, guai! noi saremmo perduti, perché è solo nell’obbedir a Gesù Cristo e nell’obbedire a Lui unicamente che siamo certi di far sempre il bene, evitar sempre il male, ed operare la nostra salvezza. La legge di Gesù è una legge che non soffre rivalità di sorta, avendo detto Egli stesso apertissimamente, che nessuno può servire a due padroni ad un tempo: nemo potest duobus domini servire. Sarà vero adunque che per osservare i precetti di Gesù Cristo noi dovremo fare violenza a noi stessi,giacché regnum Dei vim patitur et violenti rapiunt illud: il regno di Dio patisce forza e solamente quei che si fanno violenza riescono a guadagnarlo; sarà vero che perciò dovremo rassegnarci a sacrificare il nostro orgoglio, il nostro amor proprio, il nostro io; sarà vero che dovremo mortificare i nostri sensi, contenere le nostre ambizioni, moderare le nostre cupidigia, regolare i nostri affetti, vegliare sui pensieri della nostra mente, comprimere i traviamenti dell’immaginazione, soffocare i desideri malnati del nostro cuore, distaccarci dai beni miserabili e caduchi del mondo per attaccarci unicamente ai beni veri ed imperituri del cielo; sarà vero in una parola che dovremo rinunciare all’amore di noi per crocifiggere la nostra carne con quella di Gesù Cristo: ma questo è tutto ordinato e voluto da Lui. È Egli che ci comanda di essere mansueti ed umili di cuore, come lo è Lui; è Egli che ci ordina di essere casti e mortificati; è Egli che ci impone di essere benefìci, misericordiosi,generosi nel perdonare; è Egli che ci intima di pregare,di onorarlo sempre, ma specialmente nei giorni a Lui consacrati;è Egli che vuole che noi andiamo a gettarci ai piedi del sacerdote suo rappresentante per confessargli e piangere i nostri peccati, Egli che ci chiama ad accostarci a riceverlo nei nostri cuori colla santa Comunione, Egli! E siccome Egli continua ad esercitare il suo impero sopra di noi in modo visibile per mezzo della sua Chiesa, alla quale ha dato la facoltà di prescriverci tutto ciò che ella crede più conveniente, più utile, più necessario per ottenere da noi l’adempimento vero e perfetto dei precetti di Lui, perciò è anche ai precetti della Chiesa, che dobbiamo assolutamente obbedire per poterci dire veri obbedienti di Gesù Cristo in tutto e per tutto. Ecco, o miei cari, il primo titolo che Gesù Cristo ha alla consacrazione nostra al suo Sacratissimo Cuore, e che cosa importa per questo riguardo la nostra consacrazione: il Cuore di Gesù è il cuore del nostro Maestro e noi dobbiamo credere tutti i suoi insegnamenti e praticare tutti i suoi precetti. -Ma a questo primo titolo un altro se ne aggiunge anche più toccante per il nostro cuore. Gesù Cristo non è solo il nostro Maestro, ma è pure il nostro amico. Sì, incredibile a dirsi, ma pur vero. Gesù è il nostro amico. Egli non fa come i maestri e precettori di questo mondo, che tolta qualche rarissima eccezione, pur prendendo a nutrire dell’affetto ai loro discepoli, difficilmente li ammettono a godere della loro intima amicizia, troppo temendo che questo sentimento che conduce alla famigliarità riesca di danno al rispetto che desiderano mai sempre ottenere. No, Gesù Cristo non fa così; Egli si sbriga da questi riguardi e costumanze umane, perché  Egli sa che quanto più noi diventeremo famigliari con Lui, quanto più ci stringeremo a Lui intimamente e teneramente, tanto più diventerà profonda in cuor nostro la riverenza per Lui e tanto più affettuosi e perfetti saranno i servigi che gli renderemo. Epperò fin dal tempo della sua vita mortale Egli ha preso a nutrire verso tutti coloro che lo volevano corrispondere il sentimento della più tenera amicizia. E non si rivelò egli il più affezionato degli amici verso de’ suoi Apostoli, e non li riguardò, essi, come amici suoi? Ah! udite le commoventi parole che loro indirizza: Voi siete gli amici miei. No, non vi chiamerò Io col nome di servi, perché il servo non sa quello che faccia il padrone; ma vi chiamerò con quello di amici, perché Io non tengo con voi segreto alcuno, e tutto quello che Io intesi dal Padre mio, tutto ve lo feci sapere. (Io. XV, 14, 15). E in conformità a questa professione di amicizia Gesù vuole gli Apostoli sempre con sé, e non ostante che siano sì rozzi, sì difettosi, sì meschini, li compatisce nei loro difetti, li avvisa dei loro mancamenti, li assiste nei loro bisogni, li difende nei loro pericoli, li anima nelle difficoltà, li premunisce contro le persecuzioni,nulla, assolutamente nulla risparmia di fare per rendere onore alla sua parola, per dimostrare che Egli è veramente il loro amico e che essi sono gli amici suoi. Ma quella bontà e tenerezza di amicizia che Gesù Cristo ha dimostrato durante la sua mortal vita, ritenetelo bene, non è venuta meno presentemente per nessuno di noi. Basta che noi rispondiamo all’amor suo perché anche a noi Egli faccia il grande e affettuosissimo onore di averci per amici suoi e di far sentire a noi tutti gli effetti dolcissimi della sua amicizia,per largire cioè e comunicare anche a noi nella massima abbondanza quei tesori di grazie che egli ha fatto scaturire dal Cuore suo durante la sua vita e’ soprattutto durante la sua passione e morte. Sì, il Cuore di Gesù sarà sempre anche per noi il cuore del vero amico, dell’amico per eccellenza, dell’amico potente ed amoroso al quale attingeremo a piene mani tutti i beni di cui abbiamo bisogno. Siamo noi nella nostra intelligenza offuscata da dubbi, da incertezze, da esitazioni intorno alla fede? Rechiamoci al Cuore dell’amico Gesù, ed egli spanderà nel cuor nostro la luce. Vogliamo noi essere diretti sapientemente nei nostri studi, ne’ nostri lavori, nelle nostre imprese, nei nostri interessi sì temporali che eterni affine di non giovare soltanto a noi, ma anche ai nostri prossimi? Andiamo al Cuore dell’amico Gesù, ed Egli verserà nel cuor nostro il dono del Consiglio.Ci sentiamo freddi nell’adempimento dei nostri doveri, soprattutto nell’adempimento di quelli che abbiamo con Lui, ci sentiamo freddi nella divozione, nella pietà, nella pratica della Religione? presentiamoci al Cuore dell’amico Gesù ed egli è la fornace dell’amore. Ci sentiamo assaliti dalle tentazioni terribili di satana, dalle lusinghe prepotenti del mondo, dalle punture stimolanti delle nostre passioni? Corriamo al Cuore dell’amico Gesù: Egli è la forza dei deboli. Abbiamo l’anima lacerata pei dispiaceri avuti dagli uomini, pei tradimenti che ne abbiamo patito, per le calunnie di cui ci hanno oppressi, per la guerra che ci hanno fatto, pel disonore che ci hanno causato, per la rovina che ci han procacciata, per la miseria a cui ci hanno ridotti? Oh! non tardiamo un istante ad appressarci al cuore dell’amico Gesù, ed egli verserà nel cuor nostro il balsamo della consolazione. Finalmente siamo noi oppressi dalle colpe della nostra vita passata, gemiamo noi sotto il peso di tanti peccati? Ebbene anche allora rechiamoci al Cuore dell’amico Gesù, perché neppur allora Gesù, se noi lo vogliamo davvero, neppur allora Ei ci rifiuta la sua misericordia;anzi è allora che più particolarmente ce la farà sentire,perché anche allora continua ad essere l’amico nostro.Non di meno, o miei cari, non dimentichiamoci che la vera amicizia non è riposta nello sfruttare l’altrui cuore per sé, no; essa suppone e vuole reciprocanza di affetti, scambio di doni,serie non interrotta di generosità. È vero, noi siamo poveri,pur tuttavia Gesù si accontenta che noi gli diamo quel poco che noi abbiamo; si accontenta del nostro cuore per quanto meschino, si accontenta della nostra buona e risoluta volontà di amarlo, si accontenta del nostro impegno costante per non offenderlo, si accontenta della nostra compassione e della nostra riparazione per gli oltraggi che Egli riceve, massimamente nel Sacramento d’amore; si accontenta delle nostre preghiere, delle nostre pratiche devote, delle nostre comunioni, delle nostre mortificazioni; si accontenta dell’offerta delle opere nostre e noi diamogli volentieri tutto questo. Che anzi diamogli qualche cosa di più. Giacché con satanico furore si fa di tutto per togliere Gesù di mezzo alla società, di mezzo alla scienza, di mezzo alle lettere, di mezzo alle arti, di mezzo alla scuola,di mezzo all’officina, di mezzo alla famiglia, e noi pieni di zelo lavoriamo per quanto possiamo ad impedire sì esecrando e sì fatale delitto; lavoriamo a mantenere Gesù dappertutto, lavoriamo a rimetterlo in onore ed in amore per ogni dove. Lavoriamo colla preghiera, lavoriamo col buon esempio, lavoriamo coll’impiego del denaro alla sua santa causa, lavoriamo col partecipare vivamente e seriamente all’Azione Cattolica, lavoriamo col sacrificare perciò generosamente lo nostre mire personali e le nostre comodità. Oh allora sì, Gesù sarà sempre l’amico nostro e noi saremo sempre gli amici suoi: e sempre ci farà risuonare all’orecchio questa dolce parola: vos amici mei estis.Ma un terzo titolo che ha Gesù Cristo alla nostra consacrazione al suo Santissimo Cuore si è che desso è vita della nostra vita.Ego sum vita, Egli ha detto, e per questo sono venuto al mondo, perché gli uomini abbiano per me la vita e l’abbiano abbondantemente: Ego veni in mundum ut vitam habeant et abundantius habeant. (Io. x, 10) Né crediate che quando Gesù asserisce di essere la nostra vita adoperi un linguaggio poetico e figurativo, no; Egli adopera un linguaggio vero, reale, profondamente vero e reale. Egli è anzitutto vita della nostra stessa vita fisica, giacché questa vita corporea che noi abbiamo è Egli che come Dio ce l’ha data, Egli che come Dio cela conserva, Egli che come Dio è padrone di togliercela quando gli pare e piace. Ma soprattutto Egli è vita della nostra vita spirituale, vita dell’anima nostra elevata all’ordine soprannaturale. Questa vita è vero noi l’avevamo perduta per il peccato del nostro primo padre. Ma Gesù venendo sopra di questa terra a patire e morire per noi ce l’ha sovrabbondantemente riacquistata. Epperò questa ce l’ha ridonata, a ciascuno di noi, quando l’acqua salutare del santo Battesimo discendendo esteriormente sul nostro corpo purificò interiormente l’anima nostra per mezzo della grazia. Questa vita fu rafforzata in noi in quel dì, in cui lo Spirito Santo, che Gesù Cristo ha mandato, è disceso nell’anima nostra per mezzo della santa Cresima, apportandoci insieme con un’altra grazia abbondantissimi tesori. Da ultimo questa vita fu resa più ricca, più feconda, più gloriosa ogni qual volta noi ci siamo accostati alla mensa eucaristica a nutrirci delle carni immacolate di Cristo e a bere il suo preziosissimo Sangue. Ora, dopo tutto ciò, essendo stati noi pienamente vivificati da Gesù Cristo,non è Egli in diritto, nell’assoluto diritto che noi ci consacriamo a Lui, al suo Sacratissimo Cuore, e che prendiamo pur noi a vivere della vita sua? Sì certamente; ognuno di noi dobbiamo vivere in guisa da poter dire ognuno: Mihi vivere Christus est. (Philipp, I, 21) Vivo ego, iam non ego, vivit vero me Christus.Ma poniamo ben mente che vivere della vita di Gesù Cristo, menar davvero vita cristiana non importa soltanto una certa conformità dei pensieri nostri coi pensieri suoi, di affetti co’ suoi affetti, di azioni colle, sue azioni, ma soprattutto una penetrazione permanente della vita di Gesù Cristo in noi, un’abitazione continua sempre più attiva della sua grazia per modo che le nostre opere, le nostre parole, i nostri pensieri, i nostri affetti siano impregnati di questa grazia e di questa vita di Gesù Cristo e in tutto quel che facciamo, in tutto quel che diciamo, in tutto quel che pensiamo, in tutto abbiamo a farci dei meriti innanzi a Dio per Gesù Cristo, con Gesù Cristo e in Gesù Cristo. Ahimè! quanti vi sono che si credono vivi della vita di Gesù Cristo e invece sono morti!quanti vi sono che meritano ciascuno quel rimprovero dell’Apocalisse; Nomen habes quod vivas, et mortuus es! Non parlo no, di coloro, i quali rinnegando il loro battesimo e la loro educazione cristiana ricevuta sulle ginocchia della madre-Chiesa e della Chiesa-madre vorrebbero ora se fosse possibile cancellare dall’anima loro l’indelebile carattere del battesimo. Ah!costoro non ignorano di essere morti alla vita di Gesù Cristo e forse anche son arrivati a tal punto di irreligiosità e demenza da farsene vanto. Io parlo invece di coloro che conservano la fede, che pregano ben anche, che frequentano le Chiese, che si sottomettono volentieri e persino con ostentazione alla legge del magro e del digiuno, che accorrono sollecitamente ad ascoltare la parola di Dio, che si consolano della pietà delle loro mogli, che esigono le pratiche religiose nei loro figli, che mirano con spavento i progressi dell’irreligione, che provano sdegno contro ogni pubblica dimostrazione dell’empietà,che quando si parla di Cristiani Cattolici, servi ed amici di Gesù, si fanno anche arditamente innanzi per dire: noi siamo del loro numero; ma che intanto sono morti alla vita di Gesù Cristo, perché resistono alla sua volontà dichiarata, perché rimangono da anni e da anni schiavi del peccato, perché da anni e da anni non vanno più a gettarsi ai piedi di un confessore per riacquistare la grazia divina, perché da anni e da anni non si accostano più alla sacra mensa. Ah! miei cari, che gran pena al cuore il pensare a costoro! Perciocché sia pure che costoro per non avere totalmente abbandonato Gesù Cristo possono sperare che Gesù Cristo non abbandoni totalmente essi, ma intanto se essi continuano in questo stato di morte non si va sempre più aggravando sopra il loro capo lo sdegno del cielo? e non potrà essere che in quel dì istesso a cui han rimandato la loro risurrezione alla vita cristiana,in quel dì istesso, prima che’ essi la compiano, siano chiamati dallo stesso Gesù Cristo a render conto dell’abuso continuato che fecero delle sue misericordie? Ah! miei cari, se mai vi fosse tra di voi qualcuno di questi sventurati, si decida ormai a risorgere e a riacquistare la vita di Gesù Cristo, non rimandando neppur più a domani quello che potrà fare ancor oggi. Tutti poi dandoci alla vita veramente cristiana, facciamo di essere perseveranti in essa; no, non più infedeltà; non più ricadute, non più ingratitudini. Che ciascuno di noi possa sempre ripetere in fondo dell’anima sua con tutta verità: Ho trovato alfine chi ama l’anima mia, ho trovato il cuore di un Maestro divino, di un amico divino, di una vita divina; ho trovato il Cuore SS. del mio Gesù, al quale mi dono e mi consacro per tutta la vita senza più mai separarmi da lui: Inveniquem diligit anima mea, tenui eum nec dimittam. (Cant. III, 4)

II. — Ed è questo il nostro supremo interesse: l’unico mezzo, col quale potremo godere la pace in vita, in morte e dopo morte. Taluni pensano che la pace consista nel possesso delle ricchezze, epperò si danno a ricercarne l’acquisto con un ardore di passione. Ah! esclama qualcuno, se io arriverò a possedere qualche centinaio di migliaia di lire sarò felice. E perciò va, viene, compra, vende, si agita, si sacrifica… e poi? Il denaro, miei cari, non dà la pace; quanto più se ne ha, tanto più se ne vorrebbe; e per poco che se ne abbia, sempre si sta in agitazione per la paura di perderlo. Gesù Cristo ha chiamato le ricchezze spine, e le spine, tutt’altro che contentare il cuore dell’uomo, lo pungono e lo fanno soffrire. Perché nelle ricchezze l’uomo trovasse la pace, bisognerebbe che queste fossero il suo ultimo fine. Ma è forse così? L’oro e l’argento, secondo il piacevole modo di esprimersi di S. Bernardo non è altro che terra rossa e terra bianca, terra rubra et terra alba; e l’uomo creato da Dio, ad immagine e somiglianza di Dio, avrà per suo ultimò fine la terra che calpesta co’ suoi piedi? Il pretenderlo sarebbe un avvilire la nostra natura e rendere il nostro cuore schiavo miserabile della materia. – Tali altri credono trovare la pace nei godimenti e vi si abbandonano senza tregua. Festini, balli, teatri, gozzoviglie, piaceri del senso, si succedono, si avvicendano, si intrecciano del continuo nella loro vita gaudente. Ma sono essi felici? No, certamente. È questo il caso di dire col poeta:

Se a ciascun l’interno affanno – Si leggesse in fronte scritto, – Quanti mai che invidia fanno – Ci fariano pietà. – Si vedria che i lor nemici – Hanno in seno, e che consiste – Nel parere a noi felici – Ogni lor felicità. Rincasando la sera, o dirò meglio il mattino, dalle ore del piacere, cotesti bruti non possono tuttavia aver perduto ogni avanzo della loro grandezza per non sentire in fondo all’anima un vuoto e più ancora un rimorso, che li strazia o li getta per lo meno nella più cupa malinconia. No, noi non siamo fatti per contender le ghiande dei sensuali diletti agli animali immondi. Se fosse così non capirei più perché Dio mi abbia dato l’intelligenza ed il cuore. Se fosse così, dignità, onore, virtù, dovere, sacrifizio sarebbero parole da stupido.Non pochi altri sperano trovar pace negli onori. – La bramosia della gloria li punge, e lavorano a tutta possa per conseguirla.Ma quando pure siasi conseguita per vie onorate,senza averla vilmente comprata col denaro o col sacrificio della propria libertà, si avrà trovato in essa il pieno appagamento del proprio cuore? No, neanche allora. Ogni gloria dicono le Sacre Scritture, è come un fiore, che in uno stesso giorno si chiude e cade a terra avvizzito: Omnis gloria… sicut flos agri. (Is. XL, 6) E la storia dei più grandi uomini è lì ad attestarlo: oggi il Campidoglio e domani la Rupe Tarpea: oggi viva! e domani morte! E quando la gloria non avesse nemico né il tempo, né lo spazio, avrebbe pur sempre nemica l’invidia, che nasce insieme con lei, con lei vive per tormentarla e solo con lei morirà. – Adunque non denari, non piaceri, non onori danno all’uomo la pace. Tutto ciò, se anche si potesse sommare insieme e riunirlo nella vita di un sol uomo, sarebbe sempre troppo meschino e troppo indegno della sua grandezza; il mondo intero non arriverebbe a soddisfarlo.Dove adunque si trova la pace? Dove? La pace risulta dall’armonia delle parti, che compongono un tutto, dall’equilibrio degli elementi, che si incentrano in un punto, a cui tendono di lor natura. Se nel cielo, ad esempio, è pace, ciò proviene dall’ammirabile armonia degli Astri i quali con quella duplice forza di attrazione e di ripulsione, di cui sono dotati, si equilibrano perfettamente tra di loro,aggirandosi gli uni attorno agli altri e tutti intorno al centro, che Dio ha loro fissato. Così se vi ha pace nel seno di un popolo, ciò accade, perché tutti gli elementi che lo compongono, letterati, filosofi, poeti, artisti, operai, soldati, magistrati, ricchi, poveri, tutti di comune accordo convergono verso uno stesso ideale, che li soddisfa, la prosperità della patria. E se tutte le nazioni, per quanto diverse per clima, per indole, per bisogni, per industrie, per cultura cercano tuttavia ciascuna nella sua sfera ciò che può formare l’ideale completo del genere umano, la ricchezza, la grandezza, la sicurezza dell’intera umanità, allora nell’accordo di queste forze molteplici,nel loro equilibrio allo scopo ad esse proporzionato si ha la pace nel mondo. Ma se invece nel cielo, per ipotesi, un qualche astro volesse, rompendo l’ordine stabilito, deviare dalla sua orbita per non più aggirarsi intorno al suo centro;se presso un popolo taluno degli elementi, che lo compongono, si fa a scindere il comune accordo e diverge dal comune scopo; se nel mondo un qualche stato trasmoda nelle relazioni, che lo congiungono agli altri stati, e volge le sue forze aduna mira, che non è quella dagli altri stati voluti, allora la pace vien meno e vi sottentra il disordine, la lotta e la guerra.Così pure, perché vi sia pace nell’uomo, fa d’uopo che tutti gli elementi, che la compongono, in perfetta armonia tra di loro, tendano tutti a quel punto, cui devono tendere di lor natura; solamente per tal guisa vi può essere nell’uomo la tranquillità dell’ordine, ossia la pace. L’intelligenza umana fu da Dio creata con una capacità infinita di conoscere; epperò per quanto vaste siano le cognizioni che acquista, non dice mai basta. Sempre vuole acquistarne delle altre, sempre vuol andare più innanzi in ciò, che le è ancora incognito,essa tende insomma a conoscere la Verità influita, la Verità assoluta, che è Dio. Epperò è Dio solo che può contentarla e darle pace. Così si dica del cuore. Anch’esso fu da Dio creato con una capacità infinita di ricevere il Bene. E per quanto siano numerosi e grandi i beni di questo mondo non lo sazieranno mai. Egli griderà sempre: Ancora! Ancora! Di più! Di più. Perché esso vorrebbe possedere tutto, godere tutto, possedere e godere insomma il bene infinito ed assoluto, che è ancora Dio. Epperò è anche Dio solo che può contentare il cuore umano e dargli pace. Dirò di più. Siccome l’uomo non è solo spirito, ma è anche carne, così non è soltanto col suo spirito, che tende a Dio, ma vi tende altresì colla sua carne, colle sue ossa, co’ suoi sensi. Senza dubbio la pace materiale.de’ suoi sensi, delle sue ossa, della sua carne esiste, quando gli elementi, che lo compongono, essendo tra di loro giustamente equilibrati, lo tengono in sanità. Ma per rapporto alla vita, che il corpo deve menare in unione collo spirito, solamente allora vi ha pace per la stessa carne, quando può esultare al cospetto di Dio, pura dalla macchia del peccato. Che importerà che materialmente non sia in pace, perché informa o ben anche travagliata da luride piaghe? Vivente per Iddio, off 5therta e sacrificata a Lui, troverà ne’ suoi patimenti una ragione di più per poter dire col santo Re Davide: Cor meum et caro mea exsultaverunt in Deum vivum:(Ps. LXXXIII, 3) Exsultabunt Domino ossa humiliata. (Ps. L, 10) Ecco adunque l’Uno necessario, a cui è di mestieri che l’uomo rivolga e consacri tutto se stesso, la sua mente, il suo cuore, gli stessi suoi sensi per stabilire l’ordine e l’armonia della sua natura e conseguentemente godere la pace. Ma appunto perché non solo colla mente e col cuore, ma eziandio coi sensi noi dobbiamo volgerci e consacrarci a Dio per godere la pace, anche per ciò Iddio si è manifestato agli uomini e si è messo in comunicazione con loro per mezzo di Gesù Cristo, suo Divin Figliuolo Incarnato. Ed è perciò ancora,che secondo il detto dell’Apostolo è Gesù Cristo la nostra pace: ipse est pax nostra. Sì, Gesù Cristo solo, via, verità e vita di quanti uomini vengono al mondo, può dare la pace alla nostra mente, la pace al nostro cuore, la pace ai nostri sensi, la pace a tutto il nostro essere: ipse est pax nostra, purché noi con tutto il nostro essere a Lui solo tendiamo, e Lui crediamo, Lui amiamo, Lui serviamo fedelmente. Colui pertanto che non dà a Gesù Cristo la sua mente, che cioè non s’applica alla sua scienza, non crede alle sue dottrine, non si affida del tutto a’ suoi santi insegnamenti,che non ha la fede in Lui, ancorché ricco di ogni genere di cognizioni umane, sarà sempre agitato, incerto ed infelice. Perciocché quest’uomo scompiglia l’ordine di sua natura. In lui non è più Iddio che pasce e nutre la sua intelligenza della sua divina verità, ma è la creatura che si forma la scienza,scienza terrena e vana, incapace di contentarla.Così è di colui che a Gesù Cristo nega il suo cuore, che non segue la sua legge e i suoi esempi, che non pratica le sue virtù, che in fatto di morale prende per unica sua norma i suoi istinti e le sue passioni, che non pensa che alle creature, che le idolatra e non vive che per esse. Anche costui diverge una delle sue forze dal centro che le è proprio, rompe l’armonia voluta dalla sua natura ed invece del riposo della pace, della vera felicità, non trova sul suo cammino che il dolore e la tortura del cuore istesso: Contritio et infelicità in viis eorum, et viam pacis non cognoverunt. (Ps. XIII, 3) Che anzi, il suo cuore, come ha detto Isaia, sarà simile ad un mare, perpetuamente in preda alle più furiose tempeste: Cor impii, quasi mare fervens, quod quiescere non potest- (LXXVII, 20). E così è infine di chi a Gesù Cristo nega l’omaggio de’ suoi sensi, della sua stessa carne. Giacché essendo essa destinata,conforme alla bella dottrina di S. Paolo, a portare e glorificare Iddio in se stessa, non può fare a meno che trovare il tormento nel rendersi carne di peccato. E qui, bisogna pur dirlo, quando è la carne che si strappa dalla mortificazione di Gesù Cristo per abbandonarsi in preda al disordine, all’ebbrezza, allo stravizio, al piacere infame, non è più la pace morale soltanto che si perde, ma è pur anche la pace materiale del corpo, la sanità e la bellezza. L’estasi dei sensi tramonta ben presto. Il voluttuoso a forza di godere distrugge se stesso e non tarda a sorgere per lui il giorno, in cui sentirà alle spalle il passo del becchino, che viene a coprire di terra i suoi scomposti e ignominiosi avanzi. « Tant’è – esclama S. Agostino – e così hai stabilito, o Signore, che ogni animo disordinato sia pena a se stesso. E gira e rigira, tutto è duro,tutto è aspro, tutto è penoso, e tu solo sei pace. »Or ecco adunque perché Gesù Cristo che tanto ci ama e che altro non desidera che di vederci nella pace, con parole così tenere, con espressioni così calde, con accenti così insistenti ci invita e ci sprona a recarci a Lui, a consacrarci alla sua fede, al suo amore, al suo servizio, a dedicarci massimamente al suo Cuore Sacratissimo, fonte di ogni conforto e di ogni felicità. Auditis ut suavissimis invitet omnes vocibus? « Venite a me, o voi tutti, che siete affaticati e vi curvate sotto il peso della miseria della vita, ed Io vi ristorerò. Prendete sopra di voi il giogo della mia fede, del mio amore, del mio servizio, ed imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore, e troverete il riposo alle anime vostre: poiché il mio giogo è soave ed il mio peso è leggiero. Venite ad me omnes qui laboratis et onorati estis, et ego reficiam vos. Tollite iugum meum super vos et discite a me, quia mitis sum et humilis corde, et invenietis requiem animabus vestris. Iugum enim meum suave est, et onus meum leve. » (MATTH. XI, 28, 29). -Ed, oh fortunato colui, che ascoltando questo affettuosissimo invito farà davvero una totale consacrazione di se stesso a Gesù Cristo, al suo Sacratissimo Cuore. Egli avrà eletto davvero optimam partem, la parte migliore, cioè la migliore ricchezza, la migliore felicità, la migliore gloria, la migliore pace, quella pace che al dir di S. Paolo supera tutti i godimento sensibili: Pax Dei exsuperat omnem sensum, (Phil. IV, 7), quella pace che conforme al Salmista, non si perde per alcun inciampo: Pax multa diligentibus legem tuam, et non est illis scandalum; (CXVIII, 165) né per l’ingiustizia degli uomini,né per la perdita dei beni terreni, né per quella della sanità,della libertà, dell’onore, né per qualsiasi altro male del mondo che possa incorrere, quella pace insomma, che qui in terra è pregustazione dolcissima della pace che si godrà in cielo.

III. — Ma se bella è la pace in vita, più bella ancora è la pace a quel punto di morte, da cui dipende la eternità. Ah! miei cari. Dibattiamoci pur fin che vogliamo: facciamoci pure un nome grande nella politica, quella scienza, nell’arte, nell’industria nel commercio; sudiamo pure da mane a sera a conquistar tesori e raccogliamone anche dei mucchi smisurati; incoroniamoci pur di rose e inebriamoci di ogni piacere; con tutto ciò non varremo giammai e rattenere la vita. Essa va, essa corre, essa precipita e in un baleno si trova a quel giorno, in cui è giocoforza si estingua. E allora… quello è il giorno del conoscimento: In die cognitionis (Eccl., XXVIII VII, 9) il morente si trova ad un supremo convegno colla verità: ed alla luce che questa gli sfavillerà alla mente, lo sciagurato che è vissuto lontano dalla fede, dall’amore e dal servizio di Gesù Cristo, dovrà pure suo malgrado riconoscere lo sbaglio spaventoso che egli ha commesso. Egli non credeva a Gesù Cristo, non l’amava, avrebbe fatto per sempre senza di Lui … ed ora sta per presentarsi al suo divin tribunale, sta per essere colpito dall’ira sua. E come mai a questo pensiero non si sentirà schiantare l’anima dal petto! E che cosa gli gioverà ora l’essersi fatto un nome grande, anche come quello di Cesare o di Napoleone? l’essersi ingolfato in ogni sorta di godimenti, anche come un Tiberio nell’isola di Capri? l’aver ammassate tante ricchezze, anche come un Creso o un Saladino? Tutto ciò non gli gioverà ad altro che a rendere più triste e più agitato il suo passaggio dalla vita alla morte. Avrà un bel ricercare la pace, un beli’ invocarla a gran voce, ma indarno, perciocché non potrà sfuggire il tormento della sua mala coscienza. Tant’è: lo Spirito Santo lo ha detto, e la sua parola si va pur troppo ogni giorno avverando: Angustia surperviente, pacem requirente et non erit: conturbati!) super conturbationem veniet. (EZECH. VII, 25) Ben diversamente invece coloro che avranno creduto, amato e servito Gesù Cristo, che si saranno consacrati al suo Cuore Sacratissimo ed in Lui saranno vissuti, moriranno un giorno nella più bella pace: Iustorum animæ in manu Dei sunt; non tanget illos tormentum mortis  autem sunt in pace. (Sap. III, o) Il padre Suarez morì con tanta pace, che morendo giunse a dire: Non mi sarei mai creduto che fosse così dolce il morire. S. Luigi Gonzaga al ricevere l’annunzio della sua prossima morte, proruppe giubilando in quelle .parole del Salmo: Lætatus sum, in his, quæ dieta sunt mihi, in domum Domini ibimus. (CXXXI) S. Francesco di Assisi morendo cantava allegramente ed invitava gli altri al canto, tanta era la consolazione che provava. E l’invitto Cardinal Roffense condannato da Enrico VIII ad essere decollato, perché  non aveva voluto sottoscrivere alle sue ingiustizie ed empietà, uscì dalla prigione squallido, dimagrato e che stentava a dare un passo per la podagra. Ma a vista del ceppo su cui doveva lasciare il capo, riempitosi di brio e di gioia, buttato via il bastone disse: Suvvia, piedi miei, suvvia, fate bene il vostro ufficio, il Paradiso non è lontano. E prima di morire intonò il Te Deum. Ma non crediate da questi esempi che la pace in morte sia privilegio soltanto dei servi famosi di Gesù Cristo, no. Essa è propria di ogni Cristiano timorato, che assecondando la grazia di Dio, in qualsiasi condizione, in qualsiasi stato, in qualsiasi età abbia fatto quanto gli era concesso dalle suo deboli forze “per conoscere, amare e servire Gesù Cristo. È bensì vero, che questo cristiano, gettando lo sguardo sulla vita passata, vedrà egli pure dei giorni, dei mesi e forse degli anni senza Dio, senza fede, senza Cristianesimo, e tale vista dovrebbe riempirlo di amaritudine e di spavento. Ma se egli ricorda i suoi trascorsi, ricorda pure quel giorno sì bello, in cui tocco dalla grazia di Gesù Cristo ha detto con fermezza: Nunc cœpi! Ora comincio davvero ad essere quel che devo essere, buon Cristiano! Ricorda pure quelle lagrime di pentimento, colle quali a somiglianza di Pietro e di Maddalena ha lavato le sue colpe; ricorda pure quel distacco dalle cose terrene, in cui d’allora in poi è vissuto; ricorda quelle preghiere, quelle visite a Gesù in Sacramento, quelle Comunioni, quelle pratiche ad onore del Cuore di Gesù Cristo fatte ogni anno, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno… E a questi soavi ricordi gli pare di sentirsi a ripetere in fondo all’anima: Pax tecum: ego sum, noli timere: Pace, pace a te, mio amico fedele: sono io, Gesù Cristo, che te l’auguro, che te la voglio, che te la dono: non avere alcun timore: io ti ho perdonato, io più non ricordo le tue passate colpe, io non vedo più altro in te che gli anni della tua vita cristiana: pax, pax tecum! E pace gli darà Gesù Cristo pel sacerdote che verrà ancor una volta nel Sacramento della Penitenza ad assolverlo dalle sue colpe; pace gli darà nel Sacramento dell’Estrema Unzione, con cui gli toglierà dall’anima ogni avanzo di peccato; pace gli darà nel Sacramento dell’Eucaristia, per cui anche lì, sul letto di morte, Gesù Cristo verrà ad unire il suo Cuore adorabile al cuore del suo amante per accompagnarlo nel gran viaggio dal tempo all’eternità; pace nel Santo Crocifisso che bacerà con tutto il cuore sulle labbra; pace nell’immagine del Sacratissimo Cuore che gli starà appesa innanzi e gli ricorderà la divozione per esso avuta, pace negli stessi parenti Cristiani, che sebbene gravemente afflitti per la sua morte imminente, lo aiuteranno tuttavia coi loro santi suggerimenti a ben morire; pace insomma, giocondissima pace, sicché potrà ben ripetere col Santo re Davide: In pace idipsum dormiam et requiescam: (VI, 9) Io muoio in Dio, nel Cuore di Gesù Cristo, e muoio in pace. Ma non finisce lì la ricompensa della nostra vera e totale consacrazione al Cuore di Gesù Cristo. Se Egli ha promesso di portare in sé scritti i nomi de’ suoi devoti, non è in certa guisa, se non per ricordarli nel giorno della retribuzione, e dopo la pace in vita ed in morte donare agli stessi la pace del cielo. L’infelice, che vive lontano dalla fede, dall’amore e dal servizio di Gesù Cristo, comincia ora a menare giorni di angoscia e di agitazione; al termine della vita farà una morte piena di spavento; e poi… dopo morte cadrà nella disperazione eterna. La disperazione!… E che cosa è la disperazione se non la suprema convulsione di un’anima, che invoca la pace, ed a cui nessuno risponde, nemmeno la propria illusione? La disperazione eterna! E che cosa è questa eterna disperazione se non la eterna negazione della pace? Sventurato peccatore! Eccolo, lì per sempre a soffrire, per sempre in pianto, per sempre in rimorsi, per sempre in imprecazioni, in maledizioni, in lotta con se. stesso, per sempre senza pace. Ah! davvero che egli ha guadagnato assai nel fidarsi di sua ragione, nel vivere a suo capriccio. Ma, oh sorte al tutto contraria e felicissima di chi è vissuto nella fede, nell’amore e nel servizio di Gesù Cristo! Ricordando le tendenze della nostra natura, noi abbiamo conosciuto che l’uomo cerca e attende la felicità, che la vuole piena ed immutabile, quella sola che vale a saziarlo, che le viene dall’unico Vero, dall’unico Bene, dall’unico Necessario, da Dio. E sarà appunto questo il gran premio, che nell’altra vita toccherà a ohi avrà amato davvero Gesù Cristo e sarà vissuto consacrato al suo servizio. Ah! udite questa parola adorabile dello stesso Dio: Ego merces tua magna nimis; (Gen. XV, 1) Io stesso sarò la tua ricompensa: Io, senza immagini, senza velo, senza distanza, ma ricolmando d’ogni bene l’abisso de’ tuoi desideri, e donandoti perciò la pace suprema, che accheterà le voglie tutte della tua mento, del tuo cuore, della tua carne, di tutto il tuo essere: Ego merces tua magna nimis. Sì, lassù in cielo nell’ordine perfetto di tutto ciò che lo forma, nell’armonia ammirabile di tutti gli esseri che vi appartengono, nell’intimità dolcissima di tutti gli eletti e soprattutto nella visione incessante, nell’amore imperituro, nel possesso indefettibile di Dio, di Gesù Cristo, del suo Cuore Sacratissimo, fonte di ogni gaudio, il Cristiano che lo ha creduto, che lo ha amato, che lo ha servito in vita, godrà la pace senza fine. O pace ultima, o pace suprema, o pace inalterabile, o pace che cominci quaggiù nell’intelligenza per la fede alla parola di Gesù Cristo e discendi nel cuore per la pratica de’ suoi divini precetti, e circoli nelle nostre membra per la cristiana mortificazione, e ne consoli al punto di morte per la vita passata nel divin servizio, o pace che ti fai piena e perfetta in tutto il nostro essere e per tutta l’eternità lassù in cielo, tu sarai sempre il nostro ideale, la nostra mira, l’oggetto continuo delle nostre brame. È vero hl, noi dovremo interrompere vane amicizie, dovremo troncare relazioni peccaminose, dovremo vincere cattive abitudini, dovremo frenare impeti malvagi, dovremo scuoterci dalla nostra indifferenza, dovremo credere fermamente, dovremo operare in conformità alla nostra fede, dovremo praticare i doveri religiosi, pregare, confessarci, comunicarci, ascoltar Messa, frequentar la Chiesa, vivere insomma uniti a Gesù Cristo, nascosti nel suo Cuore Divino, ma tutto è poco per noi che siam risoluti di possederti in vita, in morte e in cielo! – Se è adunque così, o miei cari, non tardiamo più un istante a gettarci ai piedi di Gesù Cristo per fare al suo Cuore Sacratissimo la nostra Consacrazione. Vengano gli Angeli e i Santi del Paradiso ad essere testimoni del grande atto, che stiamo per compiere; venga Maria, la Madre Santissima di Gesù e nostra a darci il suo aiuto e la sua assistenza; venga Santa Margherita Alacoque, l’apostola della divozione al Sacro Cuore a suggerirci ella medesima la formula, con cui dobbiamo esprimere i nostri sentimenti ed i nostri propositi. Io intanto andrò innanzi a voi nel recitarla, parola per parola, e ciascuno di voi la ripeterà dopo di me a voce alta e con tutto l’affetto.

Formula di consacrazione al Divin Cuore

COMPOSTA DA SANTA MARGHERITA ALACOQUE

Io consacro e dono al santissimo Cuore del nostro Signore Gesù Cristo la mia persona, la mia vita, le mie pene, i miei patimenti, per dedicarmi in avvenire interamente alla sua gloria ed al suo amore. È mia ferma ed irrevocabile intenzione di darmi perfettamente a Lui, di compiere ogni cosa per amor suo, e con tutta l’anima mia rinunziare a quanto può dispiacere a questo Divin Cuore. – Perciò io Vi eleggo, o Sacratissimo Cuor di Gesù, ad unico oggetto del mio amore, a sostegno della vita mia, a sicurezza della mia salute, ad appoggio della mia debolezza. O Cuore della bontà e della mansuetudine, siate Voi il mio sicuro rifugio anche nell’ora della morte, siate Voi la mia giustificazione innanzi a Dio, e da me allontanate i castighi della giusta sua collera. O Cuore di amore, io ripongo in Voi tutta la mia speranza. Dalla mia malizia io temo tutto, dalla vostra bontà tutto io spero. Togliete da me quanto Vi dispiace, e quanto Vi è contrario. Imprimete così profondamente nel mio cuore l’amor vostro, che non mai Vi dimentichi, non mai da Voi ini separi. O Divin Cuore, io Vi scongiuro per l’infinita vostra bontà, che il mio nome sia scritto dentro di Voi, poiché nel vostro servizio io voglio vivere e morire. Così sia.

DA SAN PIETRO A PIO XII (12)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

DAL 1000 AI NOSTRI GIORNI

CAPO II

LE CROCIATE

PREAMBOLO

Il papato alla difesa dell’Europa

La santa vitalità dimostrata dalla Chiesa nella lotta per sopprimere le investiture, per correggere nel Papato stesso le infiltrazioni profane e per riformare gli alti gradi della gerarchia, non le permette soltanto di dominare i microbi che si attaccano al suo organismo, ma si manifesta con delle iniziative audaci.

Il Papato di natura sua ha dalla Provvidenza un mandato di civiltà. E allora gl’incombono due doveri:

— difenderla nei suoi credenti,

— diffonderla presso gl’infedeli.

Difatti la sua storia si svolge su questo binario.

Sempre, anche nel Medioevo. Abbiamo già accennato all’opera di evangelizzazione dei popoli barbari svolta con tenace penetrazione in ogni paese d’Europa, sino a creare un’unità di fede come mai si vide l’uguale. Ma la civiltà d’ Europa corse un pericolo grave: i MUSULMANI.

I Musulmani avevano il fanatismo della conquista. Soggiogata la Palestina, la Siria, la Mesopotamia e la Persia dal 632 al 639, conquistata tutta l’Africa settentrionale dal 647 al 698, soggiogarono la Spagna e parte della Francia meridionale nel 711, occuparono la Sicilia nell’ 828. Con ciò ebbero il dominio del Mediterraneo, che divenne teatro delle loro gesta piratesche; ebbero basi sicure per lanciarsi a scorrerie in Sardegna, in Corsica, nella Provenza, su, tutte, le coste italiane, nella Dalmazia. Intanto molestavano anche l’impero d’Oriente: due volte (668 e 713) diedero l’assalto alla stessa Costantinopoli, e dal 1072 al 1091 riuscirono ad occupare tutta l’Asia Minore. Sicché l’Europa cristiana veniva presa in un cerchio formidabile sempre più stretto, con ruberìe e stragi senza numero; la civiltà, cristiana correva un serio pericolo. Come difendersi? — Nella Provenza li tenevano a bada i Franchi, a incominciare da Carlo Martello, che inflisse loro una sconfitta memorabile a Poitiers nel 732. In Italia svolsero azione efficace e assidua i Pontefici.

Ma non sarebbe stato più efficace attaccarli sul loro territorio? Questa idea si fece più strada quando, dopo un periodo di tolleranza con i pellegrini Cristiani, in Palestina, si ebbero distruzioni e massacri. Liberando i fratelli d’Oriente ed il S. Sepolcro, si avrebbe anche fiaccato la tracotanza dei Turchi e assicurata la tranquillità delle coste mediterranee. L’idea, concepita prima da S. Gregorio VII, lanciata poi da Urbano II, fu accolta con entusiasmo universale. Re e, sudditi, feudatari e, vassalli, prìncipi, e popolani, anche donne e fanciulli, al Nord come al Sud dell’Europa, si sentirono presi da un fascino irresistibile verso la Terra Santa: ogni barriera di censo, di nazionalità scomparve dinanzi al comune ideale: alla parola del Papa come ad un oracolo divino, lo spirito cavalleresco del tempo si polarizzò verso la liberazione del S. Sepolcro.

E si ebbe l’epopea delle Crociate.

Benedetta epopea! anche se troppe volte fallì allo scopo per disobbedienza alle direttive, pontificie e per l’affiorare di passioni umane, perché, grazie alla partenza degli uomini d’arme, ebbero più pace i popoli rimasti in patria; sul campo si creò maggior contatto fra le diverse classi sociali; al ritorno dei reduci si sviluppò il senso della libertà, avviando le città verso il regime comunale; si mise l’Occidente a contatto con la cultura orientale; si ritardò di alcuni, secoli la caduta dell’impèro greco; soprattutto si salvò l’Europa e la civiltà dal piccone demolitore dei Musulmani.

***

D . Qual è uno degli avvenimenti più importanti del Medioevo!

— Le Crociate.

D. Che cosa sono le Crociate!

— Le guerre combattute dai popoli europei contro i Musulmani dal sec. XI al XIV con l’intento di liberare i Luoghi Santi. Esse si fondono con l’attività espansionistica delle vive forze euro-mediterranee; ma le domina e le colorisce la passione religiosa, benché i moventi delle Crociate siano vari.

D . Di chi l’iniziativa delle Crociate!

— Ad una spedizione contro la potenza turchesca e in aiuto dell’impero Cristiano d’Oriente aveva già pensato Gregorio VII, come rivela una sua lettera a Enrico IV e un’altra a Matilde di Canossa; ma il Papa che tradusse in realtà il grande disegno è URBANO II.

D. E l’opera di Pier l’Eremita?

— Una leggenda della metà del sec. XII, coniata con la preoccupazione di attribuire tutto ciò che veniva fatto di buono ai frati, fa risalire a lui l’iniziativa delle Crociate. La realtà invece è che egli la predicò e fu capo di una spedizione, ma nient’altro. L’iniziativa spetta solo a Urbano II.

D. Dove ve prese l’idea Urbano II!

— Non si sa. In questa impresa egli fu guidato dal pensiero di metter fine ai dolori che gli oppressi Cristiani d’Oriente soffrivano per mano dei Musulmani e togliere intanto anche i dissapori dell’Occidente, affratellando in una grandiosa idea comune i popoli tutti e togliendo il tempo di contendere tra loro.

D. Che cosa doveva essere dunque la Crociata secondo Urbano?

— Una guerra religiosa, predicata a nome della Chiesa, fatta da un esercito cosmopolita, sostenuta da privilegi ecc… con lo scopo di liberare i Cristiani e i luoghi di Terra Santa.

D. Che cosa occorreva a questo riguardo?

— Occorreva che il popolo Cristiano acquistasse coscienza di costituire un’unità vivente, altrimenti l’impresa sarebbe stata inconcepibile.

D. L’impresa delle Crociate conseguì una durevole conquista della Terra Santa?

— No; tuttavia le Crociate (1075 – 1270) mettono l’Islam in condizioni tali da non poter più nuocere per parecchi secoli e rafforzano anche nei Cristiani la coscienza della loro unità.

D . Quando ne parlò Urbano II!

— Al termine del Concilio di Clermont.

 L’eloquenza con cui parlò della desolazione della Terra Santa, dei templi devastati, dei fratelli dispersi… eccitò ad emulare le glorie dei padri e a vendicar l’onore cristiano. Parlava ancora, quando dalla moltitudine s’alzò il grido: « Dio lo VUOLE!», grido che il Papa ripeté e propose come parola d’ordine e grido di guerra.

D. Ebbe seguito l’appello del Papa?

— Moltissimi si dichiararono pronti a partire. Ripetuto poi l’appello da monaci e pellegrini, l’Europa rispose con uno scoppio di entusiasmo unico nella storia.

D. Che cosa apparve allora il Papa?

— Nel momento in cui i più grandi sovrani, scomunicati, si isolavano nella loro astensione, il Papa appariva il solo vero sovrano e vero organizzatore dei popoli.

D . Quando partì la prima Crociata?

— Il 15 agosto 1096. Quattro eserciti mossero verso Oriente: uno lorenese con a capo Goffredo di Buglione, uno francese capitanato da Ugo di Vermandois, un terzo in cui era il Legato pontificio e un quarto di Normanni guidati da Tancredi. Punto di concentramento era Costantinopoli.

D. Come li accolse l’imperatore d’Oriente?

— Tentò di servirsi dei Crociati per i suoi scopi guerreschi, quali la riconquista, di Nicea, ribellatasi all’imperatore, e la rioccupazione della Siria, non più in sua mano.

D. Che cosa si notò intanto nell’esercito dei Crociati?

— Il serpeggiare di epidemie micidiali, dovute ai nuovi climi, e, peggio ancora, l’affermarsi delle discordie dei capi, che ne decimarono le file; sicché solo in numero di 40.000 (erano partiti in 600.000) giunsero in vista di Gerusalemme, che conquistarono dopo 39 giorni d’assedio, facendo un massacro di Turchi (15 luglio 1099).

D. Come si ordinò il governo di Terra Santa?

— Goffredo di Buglione fu eletto capo; ma non prese il titolo di re, bensì di « Barone del s. Sepolcro ».

D. In quali condizioni si trovò il Regno di Gerusalemme?

— Ben presto tristi. Nell’agosto dello stesso 1099 Goffredo difese la recente conquista da 200.000 Fatimiti; rinacquero le discordie degli stessi Cristiani, che avevano divisa la Palestina in tanti stati vassalli di Gerusalemme. Tali gelosie, sorte tra i principi cristiani, contribuirono ad indebolire la signoria latina di Oriente e ad affrettarne la caduta.

S. BERNARDO

L E ALTRE CROCIATE

D. Chi è S. Bernardo?

— Dice il Todesco: « Uno dei più grandi personaggi del sec. XII, mescolato a tutti gli avvenimenti del suo tempo, pacificatore di principi e di repubbliche, consigliere di Papi, oracolo di Concili ».

D. Dove rifulse specialmente il suo zelo ?

— Contro gli eretici Abelardo e Arnaldo da Brescia.

D. Che cosa vennero essi, a rappresentare?

— Abelardo fu il precursore del razionalismo e Arnaldo precursore dei nemici dell’autorità pontificia e in particolare precursore del Protestantesimo.

D. Che fece S. Bernardo contro di loro?

— Combatté per l’ortodossia contro Abelardo e per la dottrina sociale della Chiesa contro Arnaldo.

D. Qual è il momento culminante della sua vita!

— Quello della predicazione della 2a Crociata (1146 – 1150), in cui sembra veramente incarnare l’unità cristiana dell’Europa medioevale. Con la sua predicazione compì il miracolo di lanciare in Oriente due armate e due re: Luigi VII di Francia e Corrado III di Germania.

D. Quale esito ebbe la Crociata ?

— Un esito fallimentare; fu come un torrente che precipita dalla montagna e tosto scompare al piano nella sabbia. Nel 1187 il Saladino, sultano di Egitto, riconquistava Gerusalemme.

D. E S. Bernardo?

— Benché amareggiato per l’immenso disastro, adorò umilmente i disegni imperscrutabili di Dio.

D . Che cosa determinò la caduta di Gerusalemme?

— La 3a Crociata, bandita da papa Clemente III. Essa vide partire i tre più grandi sovrani della Cristianità: il Barbarossa, Filippo Augusto di Francia e Riccardo Cuor di Leone d’Inghilterra, ma con il solo effetto della riconquista di S. Giovanni d’Acri (1191).

D. Chi ebbe animatore la quarta Crociata?

— Innocenzo III, uomo di attività sorprendente, che affrontò e risolse tutte le questioni religiose, morali, disciplinari, politiche del suo tempo, e con il quale il Pontificato raggiunse l’apogeo del suo splendore, cogliendo il frutto dell’opera eroica di Gregorio VII e di Alessandro III. – La 4a Crociata da lui indetta però nel puntare su Costantinopoli si esaurì nella creazione dell’impero latino di Oriente.

D. Innocenzo III ebbe da sostenere lotte in Europa?-

— Sì, combatté con estrema energia le diverse eresie, particolarmente quella degli Albigesi, contro i quali da prima invitò una missione apostolica, diretta da S. Domenico di Guzman, e infine bandì una Crociata.

D . Chi propugnò la quinta Crociata?

— Innocenzo III e Onorio III; si diresse verso l’Egitto, sostenuta dalla, parola e dalla presenza di S. Francesco d’Assisi, con l’intenzione di passare poi in Palestina, ma non raggiunse la Terra Santa, per il mancato aiuto dell’imperatore d’Oriente, Onorio (1218-1221).

D. E la Crociata di Federico II nel 1228-1229?

— Fu una farsa. Per liberarsi dalle scomuniche, toccate nella sua diuturna lotta contro il Papato, e per riabilitarsi presso la Cristianità, partì senza esercito per l’Oriente e stipulò con il Sultano d’Egitto un patto che concedeva Gerusalemme ai Cristiani, ma a condizioni talmente svantaggiose, che era infamia accettarlo. Ciò nonostante si coronò di propria mano re di Gerusalemme. È questa l a VI Crociata.

S. Chi ebbero animatori la VII (1248) e l’VIII Crociata (1270)?

— Il piissimo re di Francia, S. Luigi IX, il quale non raggiunse neppur egli il nobile sogno propostosi, perché nella prima fu fatto prigioniero e nella seconda morì di peste a Tunisi. Così si chiude il periodo delle Crociate.

GLI ORDINI RELIGIOSI

PREAMBOLO

Provvidenziale risanamento spirituale

Gli abusi ecclesiastici, che scomparvero soltanto con la fine della lotta delle investiture, e le diverse eresie che pullulavano in quel tempo, avevano portato gli uomini a un grande rilassamento religioso. Chi contribuì efficacemente al risanamento spirituale della società fu il rifiorire della vita claustrale.

D . Chi aveva favorito la liberazione del potere spirituale dai tanti nemici durante l’ « epoca di ferro »?

— Specialmente la congregazione claustrale di Clunv. Ispirato da Cluny, il Papato corresse se stesso, intraprendendo la riforma di tutta la gerarchia.

D, Sorsero altre istituzioni?.

— Sì. I cosiddetti ORDINI MENDICANTI, più consoni alle esigenze dell’epoca in quanto, fuori delle pareti dei chiostri, annunziarono pubblicamente al mondo la povertà, sublimata dall’esempio di Cristo e l’abbracciarono eroicamente.

D. Era necessario tale culto della povertà?

— Sì. L’amore disordinato alle ricchezze era la causa principale dell’universale rilassamento. Era necessario che il popolo vedesse, attraverso esempi tangibili, la povertà cristiana veramente praticata e vissuta.

D. Quali furono gli ORDINI RELIGIOSI invocati dalle necessità del momento?

— 1) L’ordine dei Frati Minori fondato da S. Francesco d’Assisi (1209) con la missione di combattere l’amore per la ricchezza mediante la pratica della povertà e dell’umiltà.

2) L’ordine dei Frati Predicatori fondato da San Domenico di Guzman (1206) per estirpare l’eresia.

LETTURA

IL POVERELLO D’ASSISI

Siamo nel 1209. Il Laterano è il simbolo della Chiesa e della Società cristiana: mentre, considerata dall’esterno, sembra essere indistruttibile, vista dall’intimo, cova le insidie dell’esaurimento. Chi la soccorre? Un giovane, Francesco (n. 1182) precoce nell’ingegno e nei sentimenti più nobili, è ben presto soldato della sua Città e si appresta a partire per la Crociata quando una malattia lo richiama in patria. Un viaggio a Roma (1206) gli fa sentire più forte l’appello di Dio e poi, ad Assisi, rinuncia all’eredità paterna e si dà all’apostolato della povertà e della parola. Giovane era il Papa, a trentasette anni; ventenne l’imperatore svevo: giovane Francesco e giovani, in prevalenza, i suoi seguaci; da quel primo, di Assisi, rimasto senza nome, di cui sappiamo solo che era « spirito puro e semplice », a Bernardo, suo compagno d’infanzia e di poco più grande di lui: a Egidio « fedelissimo e devoto ». Giovani ardenti e puri ai quali si associarono fraternamente due preti, più anziani, Pietro e Silvestro. Dante ricorda la giovinezza di Francesco perché dice di lui che fece sentire alla terra il fascino della santità quando « non era ancor molto lontan dall’orto » (dalla nascita). Come dalla giovinezza Francesco traeva le origini della sua milizia di uomini, così dalla giovinezza faceva nascere la milizia delle pie dame; S. Chiara — che doveva essere madre di tanta famiglia spirituale — aveva dodici anni e già, dice lo storico, era « giovane prudente, savia, bella e gentile di viso e di bello e buono aspetto e di bellissima eloquenza nel parlare e ornata di tutti i buoni e bei costumi ».

Il genio di Francesco si rivela, in quanto fondatore, soprattutto, del Terzo Ordine: il principio del monachismo quale legge di vita che dall’eremo e dal chiostro si diffonde in tutta la società, clero e laicato, trova nel Terzo Ordine la applicazione più geniale e feconda. Sul piano della Povertà, attuata come regime di solidarietà, l’azione dei monaci si trasforma nell’azione dei « fratelli» cioè dei frati. Questi vivono di elemosina — cioè di libero scambio di beni — e ricambiano il dono con altrettanti doni di carità. – Come dice Fra Guidino, nei « Promessi Sposi», parlando di ciò che il convento riceveva e di ciò che dava: « … Si faceva tant’olio, che ogni povero veniva a prenderne secondo il suo bisogno; perché noi siamo come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi ». Per attuare questo ideale di povertà — cioè di solidarietà nella distribuzione dei beni —, Francesco e i suoi si propongono di vivere nella società e per la società, di praticare l’apostolato in mezzo ai fratelli tutti; egli è il primo ad asserire questo dovere e ad organizzare definitivamente le missioni tra gli infedeli. I frati (Primo Ordine), le suore (Secondo Ordine) formano una sola grande famiglia con i secolari del Terzo Ordine, laici e preti che vivono nel secolo. È un grande appello al laicato, che torna a porre il problema dei mezzi di perfezione cristiana (un problema che di quando in quando sì impone alla coscienza dei credenti). Scriveva nel sec. IV S. Giovanni Crisostomo: « La fonte dei grandi disordini del mondo sta nel credere che i soli monaci siano obbligati alla perfezione e che i secolari possano farne a meno ». La soluzione francescana del Terzo Ordine che aggrega laici di ogni condizione e porta nella famiglia, nel lavoro, nella professione, lo spirito dell’Ordine, tanto rispondeva alla necessità che, presto o tardi, gli altri ordini religiosi ebbero i loro, terziari; non solo i Domenicani (i quali, si può dire, nacquero insieme con i Francescani) ma anche gli Agostiniani, i Servi dì Maria, i Carmelitani, i Minimi, ì Premostratensi, i Benedettini. – II Terzo Ordine faceva appello a tutti e non solo ai giovani, perché  tutti andavano ‘incontro a S. Francesco e volevano seguirlo

CATERINA DA SIENA E GIOVANNA D’ARCO

Sono due giovanette, che Dio chiama « a miracol mostrare »: terziaria domenicana, Caterina — patrona d’Italia — e terziaria francescana, Giovanna — patrona di Francia — l’una e l’altra incarnazioni del genio di due grandi, popoli cristiani. Caterina è la confortatrice, la predicatrice, l’ambasciatrice, la mistica eloquente che restituisce all’Italia e a Roma il Papato; Giovanna, con il suo genio militare, incarnazione femminile della cavalleria cristiana, restituisce alla patria il suo re con l’impeto di strabilianti vittorie e sale impavida il rogo, a 19 anni, martire di carità.

L’IDEA RIPARATRICE (5)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (5)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO II

Chi deve riparare?

CAPO SECONDO

L’ANIMA RELIGIOSA E LA RIPARAZIONE.

« V’hanno al mondo delle strade il cui nome non può esser dimenticato » . La prima ha nome Regina delle strade. Regina viarum; passando per Capua, Benevento, Brindisi e il mar Jonio metteva in comunicazione Roma colla Grecia ed era come un legame tra i due poli del mondo. Era la via battuta dagli artisti e dai poeti. La seconda viene chiamata Via sacra. Passava a fianco del colle Palatino e attraversando il Foro romano saliva al Campidoglio. Era la via percorsa dai trionfatori. Ve n’ha una terza ancora: la Via dolorosa. Parte dalla torre Antonia, abitazione di Pilato in Gerusalemme, e ci mena, passando per la casa di Anna e quella di Caifa, fino alla sommità del Calvario. Questa fu la via battuta dal divin Salvatore ed è ancora quella per la quale si mettono tutti i giorni i suoi discepoli avidi di seguire le orme del Dio Crocifisso… la via dolorosa o, come si esprime l’Imitazione di Cristo, la via regia, la via regia della Croce. Il fondo stesso di ogni vocazione religiosa forse che non consiste in un invito ad unirsi più strettamente a Gesù? È vero, anche solo per la grazia santificante, Iddio ci permette un’ammirabile intimità con Lui che diventa così nostro Padre e che rimane ad abitare dentro di noi. Ne abbiamo trattato in un opuscolo a parte (v. Dio in noi, pubblicato su questo blog). Ma se lo stesso nome di Sposo conviene a “rigore per un Dio che vive intimamente con ciascun uomo battezzato, qual significato prenderà quando si tratti non più soltanto d’un’anima che batte la via della legge divina, ma di un’anima che Dio si è scelta da tutta l’eternità per il suo servizio particolare, ch’Egli da tutti i tempi si è eletta, separata dalle altre, attirata a sé e consacrata interamente ai suoi divini voleri? L’anello nuziale è offerto e accettato; gli impegni contratti. Un vero matrimonio di spiriti, l’unione tra Dio e il Cristiano, effetto del rito battesimale: che dire dell’unione di Dio colle anime di predilezione, conseguenza del voto di castità e delle altre promesse religiose? Orbene è proprio della sposa il partecipare intimamente collo sposo alle sue gioie, alle sue sofferenze, alle sue inquietudini, ai suoi dolori, alle sue perplessità, alle sue angosce e ai suoi desideri. I loro due cuori si uniscono ora in un solo cuore. Se l’anima è sincera deve dire a Nostro Signore: « Amore per amore, vita per vita, sangue per sangue, ostia per ostia, tutto deve essere comune fra noi. Voi ora non siete più in grado di soffrire, ma la vostra missione Voi l’avete affidata a me e mi consacrerò ad essa senza riserva alcuna. Per consolarvi e per salvare insieme con Voi questi poveri peccatori per cui vi siete sacrificato, io voglio soffrire per quelli che godono, io voglio amarsi per quelli che vi bestemmiano, io voglio umiliarmi per quelli che si esaltano, io voglio piangere per quelli che ridono, io voglio conservarvi ben dentro al mio cuore per quelli che vi scacciano da loro col peccato. « Io ascolto il vostro lamento: “il mio amore perseguitato e disprezzato cerca un luogo di riposo ed è il tuo cuore che io mi sono scelto per dimora”. Ed io pure come la vostra serva carmelitana, Elisabetta della Trinità, voglio “offrirvi una dimora, un rifugio nell’anima mia ove col mio amore cercherò farvi dimenticare tutte le abbominazioni dei malvagi”. Ben lo comprendo, è in me, in questo tempio, che per ragione della grazia santificante voi abitate, è in questo tempio che voi volete vedere rizzato l’altare del sacrifizio sul quale si compiranno i misteri di misericordia e di perdono. Io vi offrirò la materia da sacrificare, voi la trasformerete, la divinizzerete con la vostra presenza, con l’opera vostra. Voi stesso in me farete l’offerta al Padre, e offrirete tutto senza eccezione. Non badate alle mie resistenze e ripugnanze. Strappate tutto quello che vuol opporsi ai vostri desideri. Non è forse necessario che io sia consumato nell’unità per poter lavorare efficacemente affinché tutti sieno una cosa sola? Se voi non siete perfettamente in me, come potrò io fare che vai siate tutto in tutti? « Maestro divino, voi siete già in me per la vostra grazia ch’io ho ricevuta nel santo Battesimo: da questo momento per i miei voti religiosi Voi sarete anche più profondamente in me. Voi distruggerete in questo mio cuore, da Voi scelto per il sacrifizio, tutto quello che non vi è gradito. Io rassegno nelle vostre mani tutte le mie potenze dell’anima, e il mio compito per l’avvenire mi è ben chiaro avanti alla mente: non avrò più altra mira che riparare gli oltraggi che tanti ingrati vi fanno continuamente, e povera infermiera inesperta sì, ma che vuol essere tutta sacrificata, povera Veronica la quale non possiede che un misero pannolino e un misero cuore, io passerò la mia vita a consolare le vostre tristezze, e a curare le vostre ferite. Io stringo tra le mani il Crocifisso dei miei santi voti, delle nostre reciproche promesse, e mi faccio ardita — voi me lo concederete — di posar le mie labbra sopra le vostre piaghe divine. Io bacio la piaga delle mani affine di riparare per quelli che operano il male; io bacio la fronte trapassata dalle spine affine di riparare per quelli che non pensano a Voi, per quelli che ci pensano solo per insultarvi: io bacio la piaga del Costato affine di riparare per quelli che non amano, per quelli che amano disordinatamente. E vorrei procedere ancor più innanzi: Non sono quelli che dicono: Signore, Signore! che si mostrano sinceramente sacrificati. Io vorrei potervi dimostrare col fatto la mia generosità e imprimere nella mia vita, se non posso farlo sul mio corpo, le sacre stimmate della vostra Passione. « Certo l’offerta che io vi prego di gradire sarà ai vostri occhi ben miserabile: ma mi consola il pensare che per formare un‘ostia basta unpo’ di frumento, alcuni grani ben stritolati sotto la macina. E dell’ostia voglio imitare tutte le qualità: la sua piccolezza, e nell’esercizio di una vita umile e povera sarà mio motto: che io diminuisca perché Egli cresca; il suo candore, e il mio ideale sarà la purezza degli Angeli: la sua immobilità, l’ostia si lascia portare per ogni dove senza resistenza, ed io obbedirò senza alcuna difficoltà ». – Molti poi cercano di venire a cose più determinate e al di fuori e al disopra dei voti religiosi, i quali già contendono una completa oblazione di sé in una vita di crocifissione continua, si prendono come intenzione che domini ogni loro azione il sacrifizio senza tregua e a dose massima possibile, l’immolazione costante, radicale, perpetua                                                                                       insieme con Gesù Cristo per il bene delle anime. Noi stessi abbiamo avuto occasione di descrivere altrove la genesi di simili offerte in cui s’insiste presso il Signore per ottenere come un favore di partecipare non più con una approssimazione alquanto mitigata, ma rigorosamente alla lettera e il più intimamente possibile tra le mura d’un chiostro o anche in mezzo al mondo all’immolazione redentrice di Gesù Cristo.(Ames Réparatrices. Articolo del « Messager du Coeur de Jesus », poi pubblicato i n volumetto separato). Ma basti delle vocazioni particolari: ritornando alla vocazione religiosa in genere noi ripetiamo ancor una volta: essa può e deve essere una vocazione riparatrice. Essa lo è per sé stessa e noi possiamo più o meno esplicitamente riconoscerlo praticamente (Lo spirito della vita di sacrificio nello stato religioso  prit et de la vie de sacrifice dans l’état religieux, del P. Giraud, già superiore dei PP. de la Salette).Alla vista delle rovine che si accumulanoe del bisogno di lavoratori che ponganomano a ristorarle, a ripararle, molti vannomormorando entro di sé: ce Certo converrebbeche qualcuno si mettesse all’opera …ma perché dovrò farlo io? ». Altri, in piccolo,anzi troppo piccolo numero, umilmente ma con volontà risoluta, dicono senz’altro: « Certo converrà che qualcuno si ponga all’opera… perché non mi ci metterò io stesso? » . E incominciano subito; ecco la vocazione religiosa mossa dal desiderio della riparazione. Anime energiche, non si arrestano dinanzi agli ostacoli, esse camminano per la loro strada. V’ha chi le voglia trattenere? Esse non ci badano. « Magister adest, vocat te ». Ecco il Maestro che ti chiama ed esse partono. Converrà spezzare i vincoli più cari. Che importa? Coll’aiuto del Signore tutto si sacrifica. — « Quand’anche avessi avuto cento padri e cento madri — diceva Giovanna d’Arco — io sarei partita ». E si ripetono le sue parole: Cento madri! In quelle circostanze è già ben doloroso l’averne anche soltanto una. Con tutto ciò, si parte. La fermezza di proposito non toglie però il dolore. « Che portate con voi entrando in convento? ». — « Nulla, o piuttosto una dozzina di fazzoletti per asciugarmi le lacrime ». In quei momenti anche un nonnulla si fa sentire intimamente: ma si parte lo stesso (La psicologia di questi momenti ci vien descritta con mano maestra nell’Isolée da RENÉ BAZIN, quando la figlia del canuto lionese abbandona il proprio padre e dà l’ultimo addio alla casa e a tutti gli oggetti famigliari.) . -— « Io debbo andare incontro al Re ». Questa è l’ultima parola di tutte le anime a cui si è fatto sentire l’invito: « Vieni, figlia di Dio, vieni, vieni », e fu concesso dallo stesso Dio il coraggio di corrispondervi. Il mondo non comprende queste cose, non comprende nulla. Alla vista di siffatte scene di generosità va mormorando: « Follie, stoltezze! », se pur si degna di fermarsi a considerarle. Follìe? Sì, sieno pur follìe. Un giorno alla Camera francese l’abate Gayraud, allora deputato di Finisterre, prendendo la difesa delle Congregazioni religiose che si volevano cacciare di Francia, segnalava la grandezza d’animo di tutte queste anime generose che si separano dal mondo e fanno da parafulmini al mondo stesso vivendo crocifisse con Gesù Cristo. E l’oratore ricordava i Fratelli di S. Giovanni di Dio che passano la loro vita al servizio dei mentecatti, le piccole Suore dei Poveri che serbano per sé non altro che gli avanzi dei pasti dei loro « poveri vecchi » e non hanno per campare esse e i loro infermi fuorché quanto raccolgono mendicando di porta in porta… — Ma tutti costoro convien dire che sono dei pazzi! — gridò una voce dall’estrema sinistra. — Sì, sono dei pazzi, signor Allentane — riprese l’abate drizzandosi ancora qualche poco, quasi per misurare la grettezza morale dell’interruttore — , essi sono posseduti da una follìa che da secoli è conosciuta in mezzo ai Cristiani e S. Paolo già ai suoi giorni la definiva: « La follìa della Croce ». Nei punti estremi la logica della ragione e quella della Fede, confondendosi colla logica del cuore, ci dà quel che il mondo definisce una follìa! Sì, questa follìa esiste ma non già da quella parte che si vuol immaginare.

La follìa della Croce!

Oh! Ecco Gesù, il povero Gesù Crocifisso! Costoro, tutti quelli dominati da siffatta follìa, l’hanno visto passare un giorno dinanzi a loro per la via; l’hanno visto col sembiante tutto mesto e l’hanno udito mormorare sommesso: « Sequere me, vieni dietro di me! ». In quel momento in cuor loro spuntò un non so qual desiderio, non solo di non darsi ad altri che a Lui, di porgere a Lui in tutta la sua freschezza tutto il proprio cuore, tutto il proprio amore, ma ancora di abbandonarsi completamente a Lui, definitivamente, con tutto il proprio essere, di darsi a Lui per soffrire con Lui, di offrirsi per accompagnarlo sempre e per tutto, fino a Betlemme, al Tabor, al Cenacolo, non solo, ma anche fino al Getsemani, fino al palazzo di Pilato ov’è motrato alla folla: Ecce Homo!, fino alla colonna della flagellazione ove lo si batte e s’insulta, fino alla Croce ov’Egli muore coperto di ferite e dissanguato per espiare i nostri peccati. – La Croce! Fino a quel momento, spesso si era fatta oggetto di contemplazione, ma non l’avevano compresa. L’abitudine di vedere per lo più ci impedisce di scorgere bene quello che ci sta dinanzi agli occhi. Ed ecco che questa volta la Croce si mostrò tutt’altra dal grossolano Crocifisso al crocicchio della strada o dall’elegante Crocifisso della camera da letto. Per la prima volte le parole di Nostro Signore a S. Angela da Foligno penetrarono in fondo al cuore: « Non è per ischerzo che io ti ho amato! » . — Per ischerzo… oh! no, si è detto in cuore suo: « Una Croce un giorno fu adoperata, una vera croce di legno fu adoperata sulla sommità di un monte una volta quale giorno! Accanto a tutte quelle croci da cui non pendono che dei Gesù morti, un giorno vi fu una croce a cui hanno confitto un Gesù vivo ancora, un Gesù inchiodato, un Gesù sanguinante, morto per me, per tutti gli uomini… » E mirando da una parte Gerusalemme che bestemmia e ignora il mistero compiuto, dall’altra il mondo sempre indifferente od ostile: « Se Nostro Signore ritornasse in questo mondo certo Egli sarebbe nuovamente posto in croce e più presto ancora di quella prima volta ». Quando si è rimasti colpiti da questo doppio spettacolo di luce sinistra, qualche cosa noi troviamo di cambiato nella nostra vita e ripetiamo con Pascal: « Gesù Cristo sarà agonizzante fino al terminar dei secoli: in tutto questo tempo noi non dobbiamo dormire ». – Dormire! Come si può dormire mentre il Maestro, Gesù, è là sulla Croce sospeso e soffre, ahimè!, per molti anche invano. « Oh! no — diceva Uria a David — , mentre Gioab, mio generale, è sul campo e dorme

sotto la tenda sul nudo terreno, io non andrò a riposare comodamente nel mio palazzo! no, non accetto questo indegno privilegio! ». Contemplando Gesù sulla Croce si perde il coraggio di vivere senza Croce. Ad una futura Carmelitana si fa la descrizione della vita austera che le toccherà quando veramente si decida di chiudersi nel monastero: « Nella cella troverò almeno un Crocifisso? », risponde essa. — « Oh! sì », le si aggiunge. — ce Ebbene — conchiude essa — non parlate più oltre, lasciatemi andare che nulla più mi sarà difficile vicino a Gesù Crocifisso ». Così e non altrimenti dicevano i Santi. S. Filippo Neri se ne moriva sfinito di forze; per fortificarlo il dottore gli ordina un buon brodo. Gli si porta il brodo ed egli già incominciava a prenderne qualche sorso, quando s’interrompe bruscamente esclamando: « Oh! mio Gesù! Quanta differenza tra me e voi! Voi foste inchiodato sopra il duro legno della Croce ed io mi riposo in un comodo letto! Voi foste abbeverato di aceto e di fiele ed a me si prodigano delizie d’ogni fatta! Intorno a voi nemici che v’insultano, intorno a me tanti amici che si studiano di porgermi consolazione! ». E un tale contrasto gli strappò le lacrime in tanta copia che non poté continuare a bere il brodo di cui aveva tanto bisogno. Ecco il gran segreto delle vocazioni riparatrici!: Gesù fu povero, lo sarò anch’io; Gesù ha sofferto, soffrirò anch’io; Gesù Cristo è stato preso a schiaffi, anch’io accetterò i dispregi, l’oscurità, l’abbandono di tutti, la persecuzione. Gesù Cristo, in una parola, fu posto in Croce, ben venga anche per me la Croce. – Nostro Signore compare un giorno a S. Margherita Maria e le presenta due quadri, l’uno lo rappresenta in Croce, l’altro nella gloria della sua Risurrezione, e le dice: « Scegli a tuo piacere ». La Santa, senza esitare, stende le braccia verso Gesù sofferente (Al cominciar della sua carriera Margherita Maria avrebbe preferito una santità meno dolorosa. Confessa di sé che percorse le vite dei santi per trovarne uno che non avesse sofferto e non lo trovò e dovette rendersi all’evidenza che non v’ha Santo senza Croce). – Qualche cosa di somigliante troviamo nella vita della contessa d’Hoogworst. Emilia d’Oultremont. fondatrice dell’Istituto di Maria Riparatore. (La Société de Marie Riparatrice, par le P. DE LAPORTE S. J.). Era a Roma nel 1843, quando Nostro Signore le rivelò il suo Cuore, « Egli mi si presentò — così essa lasciò scritto — con due corone tra le mani, l’ima di rose, l’altra di spine ». Senza lasciargli proferire parola. Emilia afferrò la corona di spine « con tutto l’affetto del proprio cuore » , e da quel momento, essa lo confessa sinceramente, « la corona di spine mi fu sempre carissima » (Emile d’Oultremont (La Mère Marie de Jesus) — par le P. SUAU, S. J., Casterman, Tournai). – Donde queste inclinazioni e gusti ben singolari, questo attraimento anormale; donde queste preferenze che hanno qualche cosa di strano? (L’Istituto delle Figlie del S. Cuore di Gesù ha fondato nel 1904 per le persone secolari che desiderassero menar vita di riparazione una Associazione detta delle Anime Vittime del Cuor di Gesù, di cui il nome non è a tutti gradito, ma lo spirito è da tutti ben accolto. Pio X nel benedirne l’istituzione si degnò farne parte iscrivendosi come membro. Per altra parte è noto quanto Egli amasselo spirito di riparazione.). La ragione si è che l’anima ha scoperto più o meno esplicitamente che soltanto il dolore può unirla intimamente a Colui che ha voluto esser l’uomo dei dolori — Vir dolorum ». In tutto il resto tra noi e Gesù la distanza è enorme: dall’una parte il nulla, dall’ altra 1’infinito; la povertà estrema, la ricchezza senza limiti. La gara è impossibile; dove trovare un punto di rassomiglianza?… Oh! Eccolo… addolorato Gesù… addolorata l’anima mia. In tutto il resto Egli mi sfugge; Egli è lo stesso Dio. Col dolore io lo raggiungo perché anch’Egli ce soffre ». Su questo terreno posso tentare d’imitarlo. La strada che Egli batte per venire fino a me posso tentar di percorrerla anch’io per arrivare fino a Lui. Così sparisce la distanza fra noi due. Il nostro comune procedere ha qualche cosa di identico e i nostri due esseri, differenti in tutto il resto, in questo diventano simili. Colla sua sofferenza l’anima ce afflitta » diviene per Dio 1′ « adiutorium simile sibi », degna perciò delle carezze divine. Si può ammettere come tesi generale — fa notare l’autore della Vita di S. Liduina — che tutti i servi generosi di Gesù Cristo sono da Lui adoperati per l’espiazione Oltre la loro particolare missione, che non sempre coincide colla riparazione, poiché altri sono più particolarmente destinati o per fare delle conversioni, o per riformare dei monasteri, o per predicare al popolo, o per altro ancora spesso noto a Dio solo; a tutti nondimeno vien rivolto l’invito di arricchire il tesoro comune della Chiesa con le loro sofferenze, tutti si trovano in grado di presentare al loro divin Maestro quella autentica prova del vero amore che è il sacrifizio di sé. Però anche tra questa schiera eletta si trovano delle anime più particolarmente segnate per servire di vittima propiziatrice, quelle che il Signore destina alla nobiltà speciale del « suo proprio blasone ». Non vi mancano gli uomini, « Ancora, ancora sofferenze », mormorerà agonizzando in vista della Cina un S. Francesco Zavério. — « Soffrire ed essere disprezzato », dirà un S. Giovanni della Croce; e noi vedremo nel capitolo seguente degli esempi eloquenti, fra i sacerdoti, di vocazione riparatrice, ai quali possiamo aggiungere quelli del Ven. P. De la Colombière (Ecco il testo della sua oblazione: « O Cuore dei mio Gesù…, acceso dal desiderio di riparare e di espiare tante e si grandi offese che vi si fanno… io vi offro e vi abbandono interamente il mio cuore e tutto il mio essere, ecc ».), del signor Olier (egli si era offerto come « ostia » a Montmartre. « Io godevo, Mio Dio, nel venire alla vostra presenza in qualità di ostia e pregare: O Dio del mio cuore, non mi risparmiate, tagliate, spezzate, riducete a brani questa vostra vittima ». Nella sua Vita.), del P. Surin e del P. Ginhac (vita scritta dal P. CALVET — Un altro maestro di vita spirituale, autore di due stimati scritti sulla « Orazione », il P . de Maumigny, morendo ringraziava il Signore specialmente « per avergli concesso trentacinque anni di dolori ».)Fra i laici, ben innanzi inprima fila, il sig. Dupont. « il santo di Tours » (Vita, di Léon Aubinau, 1878).Però non si può negare, come osservaHuysmans, che il desiderio di ripararespunta ancor più frequente nel cuore delladonna, e ne porta la ragione:« Il Signore si direbbe aver riservato piùparticolarmente alla donna il compito diumile e nascosta pagatrice. I Santi invecehanno un mandato che si estende tra lemasse e si impone ai popoli: essi percorronola terra predicando, fondano o riformanoOrdini religiosi, convertono gli idolatri, insegnano la verità coll’eloquenza delpulpito, mentre più passiva la donna, cheper altro non può esser insignita del caratteresacerdotale, si contorce in silenzio sopraun letto di dolori. È un fatto che l’animadella donna e il suo temperamentosono più affettuosi, più sacrificati, menoegoisti che quelli dell’uomo. Così pure ladonna è più impressionabile e più facilealla commozione. Quindi Gesù presso ladonna trova accoglienza più premurosa; ladonna per istinto ha delle attenzioni, delledelicatezze, delle cure minute verso di Lui,quali non sa trovare un uomo quando nonsia un altro Francesco d’Assisi. Inoltre leverginelle, per aver rinunziato alle caste gioie dell’amor materno verso le creature,hanno tutto un tesoro di affetti che viene arinforzare l’amore per lo Sposo celeste, ilquale, quando esse lo desiderano, diventaper loro il Santo Bambino; le sante allegrezzedi Betlemme saranno sempre più accessibilialla donna che all’uomo, e allorafacilmente si capisce come la donna nonpossa più nulla negare al suo diletto Gesù…Nonostante il loro carattere incostante e facileall’illusione, sarà sempre tra le donneche lo Sposo divino troverà le sue vittimepiù generose ». – « O patire o morire! » , esclama S. Teresa.— « No », corregge Maria Maddalena de’ Pazzi, « non morire, ma sempre continuarea patire ».Marcellina Pauper, Suora di Carità chesi era offerta al Signore come vittima perriparare soprattutto le profanazioni del SantissimoSacramento e i furti di sacre Ostie,confessava di sé: « La mia vita è un delizioso Purgatorio: il corpo soffre, ma l’anima gode ».Veronica Giuliani diceva: « viva, vivala Croce tutta sola e tutta nuda, viva la sofferenza! ». E la M. Maria De Bourg: « Se le sofferenze fossero in vendita al mercato, mi farei ben premura d’andare a provvedermene ».

S. Liduina anch’essa, in mezzo ai suoi più atroci dolori, esclamava: « Non compatitemi, io sono felice, e se con una sola Ave Maria potessi ottenere la mia guarigione, io non la reciterei mai ». E non si dica: « Queste scene sono di altri tempi, ora di anime simili non ne esistono più ». Ascoltatene una proprio dei nostri giorni: « Io ho bisogno di soffrire, io voglio soffrire perché Gesù ha sofferto per me, perché il Signore lo desidera per l’espiazione dei delitti del mondo. Io voglio soffrire perché il dolore è la più potente delle preghiere… perché il dolore purifica, perché il dolore c’innalza … Io voglio soffrire perché nel dolore si trova la felicità e l’anima è assetata della vera felicità. Non mori, sed pati. Patire, patire per cent’anni se è necessario, per salvare le anime e glorificare il Signore. Ho bisogno di preghiera continua, robustezza dell’anima, chiave dei tesori celesti. La preghiera unisce a Gesù, aiuta a sopportare tutto per la sua gloria. La preghiera è sorella del patimento, l’uno e l’altra si uniscono per offrirsi a Dio e salvare il mondo. Gesù non li ha mai separati nella sua vita nascosta, nella sua Passione, sulla Croce ». Così scrive Hervé Bazin (Une Religieuse réparatrice. Perrin, 1903. (Préface de R. Bazin). Notiamo però che se gli esempi recati fin ora mettono in mostra specialmente il « dolore », rimane sempre vero che il criterio della Riparazione dev’esser l’ « Amore» di cui il dolore non è che la prova più sicura), il quale ebbe una sorella, Simona Denniel, anch’essa religiosa di Maria Riparatrice. Eccone i sentimenti: « Le rose per Lui, per me le spine. Ostia coll’Ostia… ossia per l’Ostia, questa mi pare la sostanza di tutta la mia vita » (Une àme réparatrice. Simone Denniel. Vittel,  Lyon, 1916).Si possono consultare a questo propositomolte altre biografie di contemporanei oltrea quelle da noi ricordate: Zaveria DeMaistre, Teodolinda Dubouché,Maddalena Ulrich, Teresa Durnerin,la M. Maria del Divin Cuore, CatterinaClement e molte altre ancora.E non convien dimenticare che oltre aquesti pochi nomi che la storia può registraree il Signore manifesta a tutti per confortoinsieme e confusione degli uomini,molto più numerose sono certamente quelleanime che si offrono alla riparazione nelsilenzio e nell’oscurità, si consacrano congrande slancio all’opera riparatrice e nonsono conosciute fuorché dal Signore.Oh! sieno benedette queste anime, equelle che rimangono ignorate, sia per lagloria che esse procurano al Sovrano Signoredi tutte le cose, sia per la protezione di cui, anche a nostra insaputa, ci vannoricoprendo. Certi saputi di quaggiù, scrisseRoberto Vallery-Radot, ce si credono invincibili perché ben forniti di cannoni e di munizioni da guerra; essi non si accorgono che sotto la trama degli avvenimenti mostruosi e riboccanti di sangue si svolge tutto un dramma spirituale ineluttabile, il sacrifizio dei più puri … È l’Agnello e non il lupo che scancella i peccati del mondo… Quando i retori dell’antica Roma vedevano nel circo, fra due rappresentazioni degli istrioni, i Cristiani dati in pascolo alle fiere, non vi scorgevano altro che un numero di un trattenimento secondo il gusto di quei giorni. Si sarebbero ben meravigliati quando loro si fosse predetto che quell’oscuro sangue assorbito dalla terra avrebbe germinato un nuovo mondo; e non sarebbe stato preso come un pazzo quel magistrato che dichiarasse le catacombe ben più forti del Foro romano? ». – Anche al presente, come sempre, quelli che soffrono e che espiano « nelle catacombe » sono i principali e più operosi autori della ristorazione soprannaturale. [Tra questi il Santo Padre Gregorio XVIII – ndr.]

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/07/lidea-riparatrice-6/

DA SAN PIETRO A PIO XII (11)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

PARTE SECONDA

DAL 1000 AI NOSTRI GIORNI

CAPO I .

LA LOTTA DELLE INVESTITURE

PREAMBOLO

1 – L’ETÀ FERREA DEL PAPATO

All’epoca delle invasioni normanne, i re sono incapaci di difendere i loro stati. Ogni proprietario influente deve organizzare per proprio conto la resistenza: s’inizia così il FEUDALISMO. Sotto questo regime i signori potenti ed anche i re che hanno conservato qualche potere, affidano volentieri importanti principati a vescovi o ad abati (Liegi, Stavelot, Malmédy); questi uomini di chiesa, essi credono, saranno più sottomessi dei vassalli laici. Inoltre, sul letto di morte, alcuni feudatari legano una parte dei loro beni alla Chiesa. Non è forse giusto? Essa è incaricata del culto, dell’istruzione pubblica, della beneficenza. In questi due modi, affluiscono alla Chiesa ricchezze e potenza. Tale situazione, apparentemente vantaggiosa, è tuttavia origine di tre mali che metteranno in pericolo la sua vita:

la dipendenza dal potere temporale,

la simonìa (= da Simon Mago, che volle comprare da Pietro la grazia dei Sacramenti),

il rilassamento dei costumi del clero.

1) I signori potenti che lasciano per testamento una delle loro terre ad un Vescovo o a un’abazia, intendono stabilire sulla sede episcopale o abaziale il candidato di loro scelta. Pretendono conferirgli  l’autorità episcopale mediante il conferimento del Pastorale, e dell’Anello (investitura « per mezzo del pastorale e dell’anello »). Il signore loca locale agisce nello stesso modo riguardo ai parroci. I laici giungono anche ad asservire il Papato. La deposizione, di Carlo il Grosso (887) e la vacanza della sede imperiale lo privano del suo protettore. Si trova allora dominato dalle famiglie italiane (867-962). La restaurazione dell’Impero (= Sacro Romano Impero Germanico, 962) gli rende un protettore, ma non gli restituisce la libertà, poiché questi si arroga il potere di eleggere il Sommo Pontefice. Parroci, vescovi, abati, Papi, tutti sono sottomessi al potere temporale. La Chiesa non è forse ridotta alla condizione di una gerarchia feudale privilegiata?.

2) In tali condizioni le cariche ecclesiastiche sono brigate e comprate come feudi temporali. Il Vescovo paga la propria carica al re o al principe; in compenso vende delle parrocchie e dei canonicati. I parroci si rifanno delle spese facendo commercio dei Sacramenti, talmente che la simonia si stabilisce ovunque.

3) Si desidera trasmettere a proprio talento una carica pagata a sì caro prezzo. Questi ecclesiastici interessati e, ordinariamente, sprovvisti di vera vocazione, giudicano ormai caduto in disuso l’obbligo del celibato: prendono moglie: hanno figli che sono i loro eredi. L’immoralitàdel clero scandalizza il popolo cristiano. Ignorante e poco premuroso nel compimento dei suoi doveri, questo clero non istruisce i fedeli. Lascia che l’eresia si propaghi tanto più facilmente in quanto il popolo è disamorato della religione. « Gli scandali del clero hanno aperto la porta dalla quale le moltitudini si precipitano fuor della Chiesa » (G. Kurth).

L’ora è grave: il feudalesimo gaudente e la barbarie finiranno con il dominare la società spirituale e pacifica che è la Chiesa? Ma la Provvidenza di Dio veglia e interviene con il suo aiuto straordinario. Sorgono anche allora uomini insigni per santità e scienza, che, quali fari luminosi, diradano le dense tenebre e purificano l’atmosfera della società cristiana; appaiono allora difensori intrepidi dei diritti della Chiesa, che coraggiosamente affrontano dure battaglie per ridarle la sua indipendenza e dignità.

La più notevole di queste battaglie fu la lotta contro le investiture.

D. Che cosa significa «Investitura » ‘?

— Significa immissione in possesso di territori e di uffici da parte di sovrani

D. Quando cominciò l’istituto dell’ investitura ?

— Nel Medioevo, allorché anche gli ecclesiastici divennero feudatari per la concessione di territori e uffici da parte di sovrani. Si chiamò investitura l’immissione in possesso feudale di cotesti ecclesiastici da parte del signore laico.

D. Come venne preparata l’investitura?

— Dall’uso invalso, all’epoca di Carlo Magno e della dinastia sassone, di investire i Vescovi e gli abati di funzioni politiche, per limitare la potenza dei signorotti locali.

D. Fu vantaggiosa alla Chiesa l’investitura?

— No, portò anzi un grave danno alla libertà della Chiesa. Clero e popolo, infatti, cui spettava l’elezione dei Vescovi, furono messi presto in disparte, e spesso bastava una semplice raccomandazione del re, perché il Metropolita consacrasse la persona raccomandata, senza tener conto se era o no degna.

D. Quali conseguenze sì verificarono?

— Si finì con il non tenere quasi più conto dei meriti del consacrando e membri di nobili famiglie, senza nessuna preparazione, talvolta in giovanissima età, ascesero le cattedre episcopali. Non solo; nell’atto dell’investitura, i principi non consegnarono più ai nuovi vescovi lo scettro e lo stendardo — simboli dell’autorità politica —, ma addirittura il pastorale e l’anello — simboli del potere spirituale. La consegna poi avveniva con le parole: « Ricevi questa Chiesa ».

D. Quale fisionomia perciò assunse la dignità episcopale?

— Una fisionomia sempre più spiccatamente politica e terrena, a scapito della sua natura religiosa.

D. A chi andavano le sedi episcopali e abbaziali?

— Ai membri dell’alta aristocrazia. Tali sedi, dotate di ricche prebende, ne stuzzicavano l’avidità, cosicché essi davan loro la caccia esclusivamente con la mira di goderne le laute rendite.

D. Che cosa portò questo stato di fatto?

— Un deplorevole deterioramento nei costumi dell’alta gerarchia ecclesiastica e un accentuarsi della simonia, poiché uffici e benefici sacri si distribuivano dietro il versamento di forti somme, al punto che le dignità ecclesiastiche furono messe all’asta e cedute al miglior offerente, il quale a sua volta, per rifarsi delle spese, faceva mercimonio delle dignità minori fra i suoi subalterni.

D. Come si giustificava questa condotta?

— Con l’asserire che il potere religioso, come il civile, proveniva direttamente dalla volontà del principe.

D. Intanto che cosa si notò fra il clero?

— L’infierire dei vizi più vergognosi, particolarmente il concubinato.

D. Che cosa apparve assolutamente inderogabile?

— Il risorgere da uno stato sì miserando; e, poiché alla radice di tutti questi mali stava l’intromissione del potere laico nell’organismo ecclesiastico, era evidente che il segreto della vittoria consisteva soprattutto nell’eliminare tale abusiva intromissione.

D. Da dove partì lo stimolo della riforma?

— Dai chiostri, nei quali in quel tempo si notò un rifiorire di vita monastica, come a Cluny, a Camaldoli, a Vallombrosa. Non va taciuto tuttavia il nome di S. Pier Damiani, il focoso ravennate, che con gli scritti e la parola rivendicò ad oltranza la libertà ecclesiastica contro gli abusi del potere laico.

2 – GREGORIO VII

PREAMBOLO

Il liberatore

« Secoli di ferro» furori detti quelli (X-XI) nei quali il clero e il monachismo erano in gran parte decaduti dalla loro dignità e indipendenza spirituale sotto la pressione delle armi e dei poteri del laicato politico, organizzato nei feudi e nell’impero. Sicché non pochi abati e Vescovi e finanche Papi diventarono funzionari dell’imperatore e strumenti di ambizioni e di interessi di potenti famiglie.

La Chiesa era schiava.

Chi l’avrebbe liberata? – Gregorio VII.

D. Chi fu il campione vittorioso di quella lotta gigantesca?

— Il monaco ILDEBRANDO, che cinse la tiara con il nome di GREGORIO VII.

D. Chi fu Gregorio VII?

— Uno dei massimi successori di Pietro.

Un gigante.

Un lottatore formidabile.

Il Carducci lo paragonò ad uno scoglio che, in mezzo all’infuriar dell’onde oceaniche, non crolla. Napoleone ebbe a dirne : « Se non fossi chi sono, vorrei essere Gregorio VII ». Ed era, Gregorio, un omino di piccola statura e di gamba corta: uno scricciolo. Ma c’era in lui la fortezza suprema. La fortezza di Dio.

D. Dove nacque Ildebrando?

— A Soana (Grosseto) nel 1013. Per l’ingegno e pietà .che in lui rilucevano, i genitori lo affidarono ai Benedettini dell’Avventino. Essi educarono in lui il necessario liberatore della Chiesa.

D. Come gli nacque l’idea della riforma?

— Recatosi in Germania, al seguito di Gregorio VI, là poté constatare — inorridito — il mercimonio che si compiva dei benefìci ecclesiastici. Fu allora che concepì il pensiero di riformare la gerarchia ecclesiastica sottraendola alla nefasta influenza del potere imperiale, e di trasformare il clero, fiacco e rammollito, staccandolo dall’avida sete delle ricchezze terrene.

D. Dove perfezionò il suo programma di riforma!

— Nella sacra solitudine di Cluny, da dove uscì nel 1048, per accingersi con zelo all’ingrata fatica, a fianco dei Papi, di cui godé piena fiducia.

D. Come iniziò l’opera sua?

— Nel 1049 Leone IX venne eletto Papa dall’imperatore Enrico III; Ildebrando lo indusse a non assumere le insegne pontificali, finché non avesse avuto la conferma dell’elezione da Roma. Era un primo passo nel processo di rivendicazione della libertà d’elezione del Papa.

D. Che fece dopo questo primo passo?

— Gli riuscì di far eleggere un intrepido assertore della riforma, Nicolò II, il quale nel 1059 emanò alcuni decreti di capitale importanza per la libertà e la riforma della Chiesa, in quanto colpivano con pene gravissime il concubinato, rivendicavano la nomina dei Vescovi al Papa e al clero, deputavano l’elezione del Papa a un collegio permanente, composto di soli Cardinali. Con il successore, Alessandro II, batté la stessa strada.

D . Che si venne a notare intanto?

— I primi sintomi di lotta, con la reazione dei vescovi simoniaci colpiti dai decreti della riforma, i quali tentarono di appoggiare l’antipapa Onorio II, ma, alla morte di Alessandro II, lo scisma era cessato, e Ildebrando, eletto Papa nel 1073 per acclamazione, trovò sgombro il campo da competitori.

D. Che fece eletto Papa?

— Proseguì con energia decuplicata l’opera di riforma. Scrisse ad abati e Vescovi e re, deplorando le misere condizioni in cui versava la Chiesa.

D. Dov’è che la posizione morale del clero era peggiore?

— In Germania e per gran colpa di Enrico IV imperatore, per la sua condotta riprovevole e per la nomina di Vescovi simoniaci e libertini.

D. Che fa Gregorio VII nel Concilio Lateranense del 1074?

— Rinnova i decreti antecedenti contro la simonia e il concubinato e la promessa di servigio (specie di vassallaggio) all’autorità secolare.

D. Che cosa suscita questo rinnovo?

— Un’enorme opposizione da parte di Vescovi e di preti, ma il Papa resta irremovibile.

— Se noi, scrive egli, consentissimo di tacere davanti, alle iniquità dei prìncipi della terra, potremmo certamente avere la loro amicizia regale, sudditanza e grandi onorificenze… ma preferiamo piuttosto morire che tradire il nostro dovere. Non siamo liberi di trascurare, per riguardo a qualsiasi persona, la legge di Dio e deviare dal retto sentiero in grazia del favore degli uomini, poiché l’Apostolo dice: « Se io piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo ».

D. Che fa ancora per recidere il tumore alla radice?

— Nella quaresima del 1075 vieta a Vescovi, abati e preti di ricevere qualsiasi investitura di uffici sacri dai laici; a conti, duchi, re e imperatori di concedere per l’avvenire simili investiture; pena, in ambedue i casi, la scomunica.

D. Chi ora si ribella?

— Enrico IV, che, raccolta a Worms una dieta, nel gennaio 1076, dichiara deposto Gregorio VII e invia un messo a recare il decreto di deposizione al Pontefice, che si trova a Roma a presiedere un concilio in Laterano.

D. Come risponde Gregorio?

— Con la scomunica contro Enrico, che dichiara deposto dal trono, e scioglie inoltre i sudditi dal giuramento di fedeltà.

D. Che provocò la scomunica?

— La ribellione dei re vassalli contro Enrico e l’abbandono di tutti. Anzi le cose giungono al punto che nell’ottobre del 1076 la dieta di Tribur sta per eleggere un nuovo sovrano. La grave decisione viene a stento rimandata all’altra dieta da convocarsi ad Augusta nel febbraio successivo, da presiedersi dallo stesso Pontefice.

D. Che fa Enrico?

— Decide di prevenirla, non volendo comparire davanti ai suoi nemici in veste di accusato. Valica, benché d’inverno, le Alpi e scende nel piano lombardo.

D. E Gregorio?

— Sorpreso a Mantova da questa notizia, temendo in Enrico propositi di vendetta, si rifugia a CANOSSA, piccolo feudo della contessa Matilde, fra le montagne del Reggiano. Enrico sale lassù e chiede un colloquio con il Papa.

D. Viene accolta la richiesta?

— Sì, dopo che, per tre giorni, l’imperatore ha atteso in abito da penitente (25 – 27 gennaio 1077) davanti alle mura del castello. Viene assolto dalla scomunica solo dopo aver giurato che avrebbe aderito alle decisioni della dieta di Augusta.

D. È sincera la conversione dell’imperatore?

— No, infatti manda a monte la dieta di Augusta e ostacola quella di Forscheim.

D. Che fanno intanto i princìpi tedeschi?

— Per rappresaglia eleggono re Rodolfo di Svevia. Si scatena la guerra civile, che produce tante rovine, mentre Enrico compone il suo stato maggiore di vescovi e abati simoniaci e concubini.

D. E il Papa?

— Tenta invano di interporre la sua opera per giungere ad una pacificazione; e allora colpisce Enrico con una seconda scomunica, sciogliendo di nuovo i sudditi dal giuramento di fedeltà (7 marzo 1080).

D. Come reagisce Enrico?

— Deponendo Gregorio ed eleggendo antipapa Guiberto di Ravenna. Nel tentativo, ch’egli fece, di insediare l’antipapa in Roma, fu impedito dai Normanni di Roberto il Guiscardo. Vi riesce nel marzo del 1084, ma alla notizia che il Guiscardo s’avvicina a Roma con 30.000 soldati, fugge precipitosamente, lasciando la città preda delle soldatesche normanne.

D. Che fa Gregorio?

— Non potendo tollerare di vedere lo scempio che vi è compiuto, si ritira a Salerno, dove, stremato dalle fatiche e dai dolori, spira la sua grande anima il 24 maggio 1085.

D. Quali furono le sue ultime parole?

— « Amai la giustizia, odiai l’iniquità; per questo muoio in esilio ». Queste parole, grido ultimo della sua coscienza rettissima, ne sono il più fedele ritratto.

D. Simile fine non lo fa apparire uno sconfitto?

— Parve uno sconfitto…

Ma i Papi, si sa, non sono mai così vittoriosi come quando sembrano vinti. Gli avvenimenti susseguitisi infatti lo dimostrano vittorioso. Giacché si trovano compiute le imprese da lui incominciate, da lui ispirate, cioè:

stabilito il celibato ecclesiastico,

tolte di mezzo la simonia e le investiture feudali delle chiese,

tralasciata la conferma imperiale del Sommo Pontefice,

due dei designati da lui fatti Papi,

la potenza temporale accresciuta dalle donazioni della contessa Matilde,

già fatte sin dai giorni di Canossa,

le Crociate, da lui escogitate, effettuate,

la potenza imperiale abbattuta così, che non si rialzò mai più ad assoluta in Italia,

e quindi (ciò che importa qui particolarmente) i Comuni costituiti, e il nome di lui, bestemmiato dai contemporanei, santificato dalla Chiesa… (così Cesare Balbo).

D. Quale l’interpretazione migliore della supremazIa esercitata da Gregorio su popoli e sovrani?

— Quella che ammette nella Chiesa una « potestas indirecta » sullo Stato, in ordine agl’interessi spirituali.

D. Secondo tale dottrina, che può fare un Papa?

— Può deporre un capo di Stato (naturalmente cattolico), quando il suo contegno gravemente lede i diritti della Chiesa e delle anime.

Del resto, come dice Pio IX, il diritto di deporre i re, riconosciuto ai Papi, era una conseguenza del diritto pubblico d’allora e del consenso delle nazioni cristiane.

PREAMBOLO

Vindice di giustizia e libertà

Il parlamentarismo, che sembra il massimo portato della moderna democrazia, come impallidisce di fronte alle Wittenagemote di Bretagna, ai Campi di Maggio dei Franchi, alle Diete di Roncaglia in Italia, alle Cortes di Spagna, alle Assemblee Portoghesi nella pianura di Bakot, in cui rappresentanti di ogni ordine di persone si raccoglievano per discutere leggi, di cui neppur un articolo aveva valore senza. l’approvazione della maggioranza!

Il giuramento dì Pontìda e ì notturni convegni svizzeri sotto la quercia di Truns o nella prateria del Rutli, nulla hanno da invidiare alle rivoluzioni moderne per l’indipendenza dei popoli.

La « Magna Charta», imposta al tiranno Giovanni Senza Terra, dalla armata « di Dio e della S. Chiesa » raccolta dai baroni con a capo il rappresentante d’Innocenzo III, Stefano Longton, arcivescovo di Cantebury, e gli Statuti dei Comuni, sono modelli di legislazione, in cui autorità e libertà, giustizia e carità si fondono e armonizzano stupendamente. – Ma nonostante tutto spesso avveniva che i popoli erano alla mercé dei prìncipi, ritenuti da questi come gente da sfruttare, anziché accolte di uomini liberi da governare; e allora ecco levarsi, grondanti di sangue, figure di tiranni come Giovanni Senza Terra ed Ezzelino da Romano; di strozzatori di libertà come Enrico IV, Barbarossa, Federico II.

Chi sorse a rivendicare i diritti dei popoli?

Chi si levò vindice di giustizia e di libertà?

— Il Papa!

Tale egli appariva in quei tempi di gran fede, venerato dai popoli e temuto dai prìncipi; perciò a lui appellavano gli oppressi, dinnanzi a lui dovevano giustificarsi o fare ammenda gli oppressori. Canossa, che vide Enrico IV umiliato ai piedi di Gregorio VII, e Venezia, che vide il Barbarossa curvarsi vinto dinanzi ad Alessandro III, più che trionfi del Papato furono trionfi della libertà, furono pietre miliari sul cammino dei popoli verso l’emancipazione da servaggi assurdi. Quando l’autocratismo cesareo si riaffermerà con il Rinascimento, e, causa un rilassamento nella fede, verrà a mancare in questo campo il prestigio dei Papi, i popoli finiranno con il farsi giustizia da sé e con il rivendicare nel sangue i diritti alla libertà, che sarà momentaneamente libertinaggio, alla giustizia, la quale temporaneamente trascenderà nella violenza. La Rivoluzione Francese ed il bolscevismo russo insegnano qualche cosa.

D. Fu ripreso dai successori il programma gregoriano!

— Sì, specialmente da Urbano II, l’animatore infaticabile delle Crociate, che nel concilio di Melfi del 1089 rinnovò il divieto contro l’investitura laica e contro la simonia e il concubinato.

D . Che fece Urbano II contro Enrico IV?

— Rinnovò contro di lui e contro l’antipapa Giliberto (Clemente III) la scomunica.

D. Come si liberò dall’antipapa?

— Caldeggiò le nozze di Matilde di Canossa con Guelfo di Baviera, unione che unì per un momento la Germania meridionale con l’Italia settentrionale e provocò la cacciata dell’antipapa da Roma (1089).

D. Con quale rappresaglia rispose Enrico IV!

— Ripassa le Alpi e prende a devastare gli Stati dì Matilde; ma costei non piega e resiste virilmente allo scomunicato, la cui stella sta tramontando dopo l’abbandono del figlio Corrado e della moglie, e il rafforzarsi del partito cattolico.

D. Come si diportò il successore di Enrico IV?

— Enrico V, costretto il padre ad abdicare, continuò nella linea di condotta paterna in tema di investiture. Infatti, rivalicate le Alpi, piegò al suo volere il papa Pasquale II, che gli accordò il privilegio di conferire l’investitura mediante il pastorale e l’anello a quei vescovi ed abati che non fossero stati eletti simoniacamente.

D . Quanto durò cotesto privilegio?

— Dal 1111 al 1112, poiché la protesta di numerosi Cardinali e Vescovi fece pentire il Papa del suo gesto e lo spinse a revocare il privilegio estorto con la frode e la violenza (Conc. Laterano – 1112).

D. Come reagì Enrico V?

— Ritornò in Italia per trattare con il Papa, ma questi nel 1116 lancia la scomunica sul privilegio ingiustamente carpito; succedono poi gravi torbidi, che si ripercossero sul successore di Pasquale II, Gelasio II, che andò a morire, poverissimo, a Cluny.

D. Come terminò la cosa?

— Papa Callisto II nel 1122, convocata la dieta di Worms, fece accettare a Enrico VI il cosiddetto PATTO di CALLISTO, con cui l’imperatore rinunciava all’investitura dei Vescovi mediante il pastorale e l’anello, riservata esclusivamente alla Chiesa, garantiva la libertà delle elezioni e restituiva al Papa i possessi usurpati.

D. Che cosa dava il Papa come contropartita?

— Consentiva che in Germania, dove tutti i Vescovi ed abati erano anche principi, le elezioni venissero fatte alla presenza del legato imperiale — esclusa ogni simonia — e l’eletto ricevesse l’investitura del feudo, ma soltanto con la consegna dello scettro, fatta prima della consacrazione e dell’investitura ecclesiastica.

D. In Italia come avveniva ogni elezione?

— Senza la presenza di alcun legato regio; l’eletto veniva subito consacrato e riceveva l’investitura dei feudi dopo la consacrazione e mediante lo scettro.

D. Gli altri paesi furono funestati dalla lotta delle investiture ?

— Sì, ma in Inghilterra fu definita con concordato del 1105 e in Francia terminò l’anno prima.

D. Che cosa si ebbe con il patto di Worms?

— Si ebbe salva la libertà della Chiesa e si accettò il principio

dell’assoluta distinzione fra il potere temporale e spirituale, concretato nella doppia investitura: dello scettro per i feudi vescovili concessa dall’autorità statale, e del pastorale e dell’anello per la missione religiosa, concessa dall’Autorità Ecclesiastica.

D. Che cosa rappresentava tutto questo?

— L’attuazione dell’opera di Gregorio VII.

D. Quanto durò la pace tra Impero e Papato?

— Circa 30 anni, finché sorse Federico Barbarossa, infatuato dell’ambizione di ricondurre l’impero al fastigio di Carlo Magno o anzi dell’età romana.

D. Chi si oppose a tali progetti?

— Il Papato e i Comuni. I Comuni erano sorti come reazione contro gli arbitri dei feudatari, che rendevano i sudditi servi della gleba.

D. Chi appoggiò i Comuni nelle rivendicazioni delle libertà democratiche

— L’episcopato e la S. Sede. Il primo a gettare le basi del glorioso

Comune di Milano f u il Vescovo ARIBERTO da INTIMIANO, che nel 1036 raccolse attorno al Carroccio le truppe del popolo per resistere ai soprusi dell’imperatore Corrado e dei suoi feudatari.

D. Quale fu il partito del rinnovamento democratico della .società?

— Il GUELFO, che faceva capo idealmente al Papa, in contrapposto al GHIBELLINO, sostenitore del feudalesimo aristocratico e imperiale.

D. Tu che cosa si risolse la storia civile italiana nel medioevo?

— Soprattutto nelle lotte cruente di queste due opposte correnti politiche.

D . Che fece il Barbarossa!

— Riprese aspra la lotta contro la Chiesa sul tema delle investiture e provocò guerre su guerre contro i Comuni italiani, i quali nell’affermarsi delle loro fortune in una salda concezione e pratica cristiana della vita privata e pubblica, spronati dall’esempio e dall’accordo con il Papato (Alessandro III), ressero all’urto e ne ebbero ragione con la vittoria di Legnano (1176). cui seguì la pace di Venezia (1177) tra Federico e il Papato, e la pace di Costanza (1183) tra Federico e i Comuni.

D. Che cosa rappresentò la vittoria di Legnano!

— Una tappa decisiva nella storia d’Italia.

LA CHIESA E LA CULTURA

Chi, nella storia della scuola e perciò della cultura lasciò un’impronta luminosa quanto mai, fu Carlo Magno. Divenuto imperatore, egli fece della scuola una passione e la diffuse ovunque poté. Per agevolarla impose ai monaci di Francia la regola di S. Benedetto, perché più favorevole allo studio, subordinò alla cultura sia la concessione dei benefici ai sacerdoti che l’accesso alle cariche dello Stato ai nobili e, mentre si adoperò attivamente per organizzare nell’Impero una scuola di Stato, alla sua corte fondò una scuola superiore per i nobili, la SCUOLA PALATINA, ed una specie di accademia, prevenendo quelle del Rinascimento italiano, in cui i soci assumevano un nome antico: per es. Carlo Magno, Alenino ed Angilberto si chiamavano rispettivamente David, Fiacco ed Omero.La Chiesa in più modi esercitò influenza in questa rinascita della cultura. – Influì sulla formazione di Carlo Magno, istruito da un diacono: Pietro da Pisa. Cooperò all’attuazione del programma di lui, attraverso il monaco Alcuino, fondatore della Scuola Palatina, in cui i primi maestri furono uomini di Chiesa. E quando i successori di Carlo Magno parvero incuranti della scuola, furono i Vescovi, come Teofilo di Orleans, a ordinare ai sacerdoti di tener scuola nei borghi e nelle campagne e a sollecitare l’imperatore a fondare scuole pubbliche. Quando le scuole di Stato cominciarono a declinare (intorno all’825) e si chiese la separazione delle scuole di Stato da quelle ecclesiastiche, le prime decaddero, le seconde si rinvigorirono e fiorirono, ancora distinte in tre specie: parrocchiali, vescovili e monastiche. Dalle scuole vescovili, secondo l’opinione più accreditata, derivarono le UNIVERSITÀ’.