UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – QUOD APOSTOLICI MUNERIS

«… Quindi con empietà nuova, sconosciuta perfino agli stessi pagani, si costituirono Stati senza alcun riguardo a Dio ed all’ordine da Lui prestabilito; si andò dicendo che l’autorità pubblica non riceve da Dio né il principio, né la maestà, né la forza di comandare, ma piuttosto dalla massa popolare la quale, ritenendosi sciolta da ogni legge divina, tollera appena di restare soggetta alle leggi che essa stessa a piacere ha sancite …».  La lettera enciclica « Quod Apostolici » è l’ennesimo grido di allarme di un Pontefice Romano contro la scellerata empietà del delirio socialista, il cui vero unico scopo è quello di riportare l’umanità alla condizione di schiava del demonio liberandosi del giogo lieve, ma foriero di benefici materiali e spirituali dell’Uomo-Dio incarnato e della Chiesa suo Corpo mistico, riportare il mondo civile alla totale barbarie precristiana, ed instaurare una sorta di panteismo gnostico rivoluzionario ed infernale.  Qui ogni espressione è da valutare attentamente e da meditare ripetutamente per gustare e far proprie le verità divine e soprannaturali che la Santa Madre Chiesa, per bocca del Vicario di Cristo non cessa di applicare per il benessere materiale dei popoli e per la salvezza eterna dell’anima. Oggi poi i risultati funesti di queste ideologie insane e deliranti, un tempo limitate ad alcune Nazioni e Stati, rigidamente laici, sono evidenti in tutto l’orbe perché instaurate a livello mondiale, anche se hanno assunto il nome tetro e sinistro di “mondialismo”, nome che figura il dominio delle sette di perdizione in tutto il mondo, dominio garantito da organizzazioni apparentemente dedite al benessere dell’umanità, come l’ONU, l’O. M. S. [organizzazione mondiale della satanità], ed altre di carattere spudoratamente gnostiche, panteiste o addirittura esoteriche… ovviamente anticristiane, nemiche del soprannaturale, dell’Incarnazione di Dio in Gesù Cristo. Tra queste è da segnalare la sinanoga di satana vaticana, la setta della bestia decollata, quella che sotto il nome di Cristo, adora lucifero ivi insediato il  29 giugno del 1963, con apposita messa nera ed oggi attivamente presente – anzi in prima linea con i sepolcri imbiancati ventriloqui – nel supportare il mondialismo luciferino dell’eone cabalistico: Corona – nome in codice di Lucifero. Ecco a cosa mirava il socialismo (pseudo) democratico, il comunismo [oggi in salsa mondialista] e tutte le bestialità ad essi connesse. Il mondo intero sta già pagando e pagherà fino all’ultimo spicciolo, il non avere ascoltato le salvifiche parole di questa e di altre encicliche simili e di essersi fidato invece di lupi rapaci, i falsi profeti vestiti da agnello, ma che potevano essere smascherati facilmente ricordando gli avvertimenti del divin Redentore. Le illusioni e l’errare nei pascoli del demonio, si pagano caramente e già ne stiamo vedendo i frutti, anche se … il bello deve ancora arrivare, e là … sarà pianto e stridor di denti.

Leone XIII
Quod Apostolici muneris

Lettera Enciclica

Già dall’inizio del Nostro Pontificato, secondo quanto richiedeva la natura dell’Apostolico ministero, con Lettera enciclica a Voi indirizzata, Venerabili Fratelli, segnalammo la micidiale pestilenza che serpeggia per le intime viscere della società e la riduce all’estremo pericolo di rovina; indicammo contemporaneamente i rimedi più efficaci per richiamarla a salute e per salvarla dai gravissimi pericoli che la sovrastano. Ma nel giro di poco tempo crebbero talmente i mali che allora deplorammo, da sentirci ora costretti a rivolgervi di nuovo la parola, come se alle Nostre orecchie risuonasse la voce del Profeta: “Grida, non darti posa; alza la tua voce come una tromba” (Is LVIII, 1). Comprendete facilmente, Venerabili Fratelli, che Noi parliamo della setta di coloro che con nomi diversi e quasi barbari si chiamano Socialisti, Comunisti e Nichilisti, e che sparsi per tutto il mondo, e tra sé legati con vincoli d’iniqua cospirazione, ormai non ricercano più l’impunità dalle tenebre di occulte conventicole, ma apertamente e con sicurezza usciti alla luce del giorno si sforzano di realizzare il disegno, già da lungo tempo concepito, di scuotere le fondamenta dello stesso consorzio civile. Costoro sono quelli che, secondo le Scritture divine, “contaminano la carne, disprezzano l’autorità, bestemmiano la maestà” (Gd 8), e nulla rispettano e lasciano integro di quanto venne dalle leggi umane e divine sapientemente stabilito per l’incolumità e il decoro della vita. Ai poteri superiori (ai quali, secondo l’ammonimento dell’Apostolo, conviene che ogni anima si tenga soggetta, e che da Dio ricevono il diritto di comandare) ricusano l’obbedienza e predicano la perfetta uguaglianza di tutti nei diritti e negli uffici. Disonorano l’unione naturale dell’uomo e della donna, rispettata come sacra perfino dai barbari, e indeboliscono e anche lasciano in balìa della libidine il vincolo coniugale per il quale principalmente si mantiene unita la società domestica. Presi infine dalla cupidigia dei beni terreni, che “è radice di tutti i mali, e per amore della quale molti hanno traviato dalla fede” (1 Tm VI, 19), impugnano il diritto di proprietà stabilito per legge di natura, e con enorme scelleratezza, dandosi l’aria di provvedere e di soddisfare ai bisogni e ai desideri di tutti, si adoperano per rubare e mettere in comune quanto fu acquisito o a titolo di legittima eredità, o con l’opera del senno e della mano, o con la frugalità della vita. Rendono pubbliche queste mostruose opinioni nei loro circoli; le consigliano nei libercoli; le diffondono nel popolo con un mucchio di gazzette. Pertanto si è accumulato tanto odio della plebe sediziosa contro la veneranda maestà e l’impero dei Re, al punto che scellerati traditori, sdegnosi di ogni freno, più volte a breve intervallo di tempo, con empio ardimento rivolsero le armi contro gli stessi Sovrani. – Queste audaci macchinazioni degli empi, che ogni giorno minacciano all’umano consorzio più gravi rovine e tengono in ansiosa trepidazione l’animo di tutti, traggono principio e origine da quelle velenose dottrine che, sparse nei tempi passati quali semi malsani in mezzo ai popoli, diedero a suo tempo frutti così amari. Infatti Voi ben conoscete, Venerabili Fratelli, che la guerra implacabile mossa fin dal secolo decimosesto dai Novatori contro la fede cattolica, e che venne sempre crescendo fino ai giorni nostri, ha per scopo d’aprire la porta a quelle idee e, per dir più propriamente, ai deliri della ragione abbandonata a se stessa, eliminata ogni rivelazione e rovesciato ogni ordine soprannaturale. Tale errore, che a torto prende nome dalla ragione, siccome solletica e rende più viva l’innata bramosia d’innalzarsi, ed allenta il freno ad ogni sorta di cupidigie, senza difficoltà s’introdusse non solo nella mente di moltissimi, ma giunse anche a penetrare ampiamente nella società civile. Quindi con empietà nuova, sconosciuta perfino agli stessi pagani, si costituirono Stati senza alcun riguardo a Dio ed all’ordine da Lui prestabilito; si andò dicendo che l’autorità pubblica non riceve da Dio né il principio, né la maestà, né la forza di comandare, ma piuttosto dalla massa popolare la quale, ritenendosi sciolta da ogni legge divina, tollera appena di restare soggetta alle leggi che essa stessa a piacere ha sancite. – Combattute e rigettate come nemiche della ragione le verità soprannaturali della fede, si costringe lo stesso Autore e Redentore del genere umano ad uscire insensibilmente e a poco a poco dalle Università, dai Licei e dai Ginnasi e da ogni pubblica consuetudine della vita. Infine, messi in dimenticanza i premi e le pene della eterna vita avvenire, l’ardente desiderio della felicità è stato rinserrato entro gli angusti confini del presente. Con queste dottrine disseminate in lungo e in largo, e con tale e tanta licenza d’opinare e di fare accordata dovunque, non deve recare meraviglia che gli uomini della plebe, stanchi della casa misera e dell’officina, anelino a lanciarsi sui palazzi e sulle fortune dei più ricchi; non deve recare meraviglia che, scossa, vacilli ormai ogni pubblica e privata tranquillità, e che l’umanità sia giunta quasi alla sua estrema rovina. – Ma i supremi Pastori della Chiesa, ai quali incombe il dovere di difendere dalle insidie nemiche il gregge del Signore, si adoperarono per scongiurare tempestivamente il pericolo e per provvedere all’eterna salute dei fedeli. Infatti, non appena si cominciarono a formare le società segrete, in mezzo alle quali fin d’allora covavano i germi degli errori che abbiamo rammentato, i Romani Pontefici Clemente XII e Benedetto XIV non omisero di scoprire gli empi disegni delle sette e d’avvertire i fedeli di tutto l’universo della rovina che nell’oscurità si preparava. E quando poi coloro che si vantavano del nome di filosofi vollero concedere all’uomo una libertà sfrenata, e si prese ad inventare un nuovo diritto e a stabilirlo contro ogni legge naturale e divina, il Papa Pio VI di felice memoria mostrò immediatamente con pubblici documenti la malvagia indole e la fallacia di quei principi, e contemporaneamente con Apostolica antiveggenza vaticinò le rovine alle quali sarebbe stato tratto il popolo miseramente ingannato. Però, non essendosi in alcun modo provveduto a che quelle prave teorie non venissero instillate ogni giorno più nelle menti dei popoli e non entrassero nei pubblici decreti di governo, Pio VII e Leone XII colpirono d’anatema le sette segrete, e di nuovo ammonirono la società dei pericoli che per opera loro incombevano. Infine è noto a tutti con quali gravissime parole e con quanta fermezza d’animo e costanza il Nostro glorioso Predecessore, il Papa Pio IX di felice memoria, sia con le Allocuzioni, sia con Lettere encicliche mandate ai Vescovi di tutto il mondo, abbia combattuto contro gl’iniqui sforzi delle sette e specificatamente contro la peste del Socialismo, che da quelle sin da allora germogliava. – Ma per somma sventura, coloro ai quali venne affidata la cura di promuovere i comuni vantaggi, circonvenuti con gli artifici di perfidi uomini e spaventati dalle loro minacce, tennero sempre in sospetto la Chiesa e l’avversarono, non comprendendo che gli sforzi delle sette sarebbero andati a vuoto se la dottrina della Chiesa cattolica e l’autorità dei Romani Pontefici, sia presso i Principi, sia presso i popoli, fosse sempre rimasta nell’onore dovuto. Infatti, “la Chiesa del Dio vivente, che è colonna e fondamento di verità” (1Tm 3,15), insegna dottrine e dà precetti che largamente provvedono al benessere ed al quieto vivere della società, e per i quali l’infausto germe del Socialismo è divelto dalle radici. – Sebbene i Socialisti, abusando dello stesso Vangelo per ingannare gl’incauti, abbiano il costume di travisarlo secondo i loro intendimenti, tuttavia è tanta la discordanza delle loro perverse opinioni dalla purissima dottrina di Cristo, che non se ne può immaginare una maggiore: “Infatti, quale consorzio della giustizia con l’iniquità? o quale società della luce con le tenebre?” (2Cor VI, 14). Costoro invero non smettono di blaterare – come abbiamo già accennato – che tutti gli uomini sono per natura uguali fra loro, e quindi sostengono non doversi prestare alle autorità né onore, né riverenza, né obbedire alle leggi se non forse a quelle redatte a loro piacimento. All’opposto, secondo gl’insegnamenti del Vangelo, tutti gli uomini sono uguali in quanto avendo tutti avuto in sorte la medesima natura, tutti sono chiamati alla medesima altissima dignità di figliuoli di Dio; avendo tutti lo stesso fine da conseguire, dovranno essere giudicati a norma della stessa legge, per riceverne premi o pene secondo che avranno meritato. Tuttavia l’ineguaglianza di diritti e di potestà proviene dall’Autore medesimo della natura, “dal quale tutta la famiglia e in cielo e in terra prende il nome” (Ef 3,15). Gli animi poi dei Principi e dei sudditi, secondo la dottrina e i precetti della Chiesa cattolica, sono così legati attraverso scambievoli doveri e diritti, che ne resta temperata la passione sfrenata del comandare, e diviene facile, costante e nobilissima la ragione dell’ubbidienza. – E valga il vero: la Chiesa inculca sempre nei sudditi il precetto dell’Apostolo: “Non esiste potestà se non da Dio, e quelle che ci sono, sono ordinate da Dio. Pertanto chi si oppone alla potestà, resiste alla disposizione di Dio, e coloro che resistono si comprano la condanna”. E di nuovo comanda “di essere soggetti, come è necessario, non solo per timore dell’ira, ma anche per riguardo alla coscienza, e comanda di rendere a tutti quello che è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi la gabella, la gabella; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore” (Rm XIII,1-2.5-7). Pertanto, Colui che creò e governa ogni cosa, nella sua provvida sapienza dispose che le infime cose attraverso quelle di mezzo, e le cose di mezzo attraverso le altissime arrivino ciascuna al proprio fine. Perciò, come nello stesso regno celeste volle che vi fossero cori di Angeli distinti fra loro e gli uni agli altri soggetti; nello stesso modo stabilì anche nella Chiesa vari gradi di ordini, ed una moltitudine di ministeri, onde non tutti fossero Apostoli, non tutti Pastori, non tutti Dottori (cf. 1Cor XII, 28-30); così dispose del pari che nella società civile fossero vari ordini distinti per dignità, per diritti e per potere, onde la comunità, a somiglianza della Chiesa, rendesse l’immagine di un corpo che ha molte membra, le une più nobili delle altre, ma insieme scambievolmente necessarie e sollecite del bene comune. – In pari tempo, però, affinché i capi dei popoli si servano della potestà ad essi data ad edificazione e non a distruzione, la Chiesa di Cristo opportunamente ricorda che anche sui Principi sovrasta la severità del Giudice Supremo. Avvalendosi delle parole della divina Sapienza, essa grida a tutti nel nome di Dio: “Porgete le orecchie, voi che avete il governo dei popoli e vi gloriate di dominare molte nazioni: la potestà è stata data a voi dal Signore, e la virtù dall’Altissimo, il quale esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri pensieri… Poiché un giudizio severissimo si farà di coloro che sovrastano… Dio infatti non esonererà nessuno dal giudizio, né temerà la grandezza di chicchessia, perché Egli ha fatto il grande e il piccolo, e di tutti tiene eguale cura. Ma ai maggiori sovrasta un maggiore tormento” (Sap VI, 2-8). Tuttavia se accada talvolta che la pubblica potestà venga dai Principi esercitata a capriccio ed oltre misura, la dottrina della Chiesa Cattolica non consente ai privati d’insorgere a proprio talento contro di essi, affinché non sia vieppiù sconvolta la tranquillità dell’ordine, e non derivi perciò maggior detrimento alla società. E quando le cose siano giunte a tal punto che non sorrida alcun’altra speranza di salvezza, vuole che si raggiunga il rimedio coi meriti della pazienza cristiana e con insistenti preghiere al Signore. – Se la volontà dei legislatori e i decreti dei Principi comanderanno qualche cosa che sia contraria alla legge divina o naturale, allora la dignità e il dovere del nome cristiano, e il pensiero Apostolico esigono “doversi obbedire più a Dio che agli uomini” (At V, 29). – La stessa società domestica, che è alla base di ogni comunità e di ogni regno, sente e sperimenta necessariamente questa benefica virtù della Chiesa che influisce sull’ordinatissimo regime e sulla conservazione della società civile. Infatti, ben sapete, Venerabili Fratelli, che questa società, retta secondo l’esigenza del diritto naturale, si fonda principalmente sopra l’unione indissolubile dell’uomo e della donna, si completa negli scambievoli doveri e diritti tra i genitori e i figli, tra i padroni e i servi. Sapete ancora che essa va quasi a disciogliersi secondo le dottrine del Socialismo; in quanto, perduta la stabilità che le deriva dal matrimonio cristiano, ne consegue che venga pure ad indebolirsi in straordinaria maniera l’autorità dei padri sopra i figli, e la riverenza dei figli verso i genitori. Al contrario, la Chiesa insegna che il matrimonio, “degno di essere in tutto onorato” (Eb XIII,4), istituito da Dio fin dal principio del mondo per propagare e conservare l’umana specie e da Lui voluto indissolubile, crebbe a condizione ancora più stabile e più santa per opera di Cristo che gli conferì la dignità di Sacramento e volle che ritraesse in sé l’immagine della sua unione con la Chiesa. Pertanto, secondo quanto insegna l’Apostolo (Ef V, 22-24), come Cristo è il capo della Chiesa, così il marito è il capo della sposa; e come la Chiesa si tiene soggetta a Cristo che nutre per lei un amore castissimo ed eterno, così conviene che le spose siano soggette ai loro mariti, i quali a loro volta le debbono amare di affetto fedele e costante. – Analogamente la Chiesa tempera in tal modo la potestà dei padri e dei padroni i quali, senza trascendere la giusta misura, riescono a contenere dentro i confini del rispetto i figli ed i servi. Stando infatti agli insegnamenti cattolici, nei genitori e nei padroni si trasfonde l’autorità del Padre e del Padrone celeste; perciò essa non solo trae da Lui origine e forza, ma ne mutua anche necessariamente la natura e l’indole. Conseguentemente l’Apostolo esorta i figli “ad obbedire ai loro genitori nel nome del Signore, ad onorare il padre e la madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa” (Ef VI, 1-2). Ai genitori poi ingiunge: “E voi, padri, non provocate ad ira i vostri figli, ma allevateli nella disciplina e nell’istruzione del Signore” (Ef VI, 4). Di nuovo poi ai servi ed ai padroni dallo stesso Apostolo viene inculcato il comandamento divino: obbediscano “ai padroni carnali come alla persona di Cristo… servendo con amore come al Signore”; questi alla loro volta “mettano da parte l’asprezza, ben sapendo che il Signore di tutti è nei cieli, e che presso di Lui non v’è preferenza di persone” (Ef VI, 5-7). Se tutte queste cose fossero diligentemente compiute secondo il volere divino da tutti coloro che ne hanno il dovere, sicuramente ogni famiglia presenterebbe una certa somiglianza con la dimora celeste, e i preclari benefìci che ne seguirebbero non sarebbero solo ristretti entro i confini delle pareti domestiche, ma si riverserebbero altresì in abbondanza a vantaggio degli Stati medesimi. – Inoltre la sapienza cattolica, costruita sui precetti della legge naturale e divina, mirabilmente provvide alla pubblica e domestica tranquillità anche con le dottrine che professa ed insegna intorno al diritto di proprietà e alla divisione dei beni, che sono fatti per le necessità ed i comodi della vita. Pertanto, mentre i Socialisti rappresentano il diritto di proprietà come un ritrovato umano contrario alla naturale eguaglianza degli uomini, ed anelando alla comunanza dei beni ritengono non doversi sopportare di buon animo la povertà, e potersi impunemente violare i beni e i diritti dei più ricchi, la Chiesa molto più saggiamente ed utilmente anche nel possesso dei beni riconosce disuguaglianza tra gli uomini, naturalmente diversi per forze fisiche ed attitudine d’ingegno, e vuole intatto ed inviolabile per tutti il diritto di proprietà e di possesso che dalla stessa natura deriva. Infatti sa che Iddio, autore e vindice di ogni diritto, vietò il furto e la rapina in modo che neppure è lecito desiderare l’altrui: gli uomini ladri e rapaci, non altrimenti che gli adulteri e gli adoratori degli idoli, sono esclusi dal regno dei cieli. Tuttavia non dimentica per questo la causa dei poveri, né avviene che la pietosa Madre trascuri di provvedere alle loro indigenze: ché anzi, con materno affetto, se li stringe al seno, e ben sapendo che essi impersonano Cristo, il quale considera come fatto a se stesso il beneficio elargito anche all’ultimo dei poveri, li tiene in grande onore, con ogni mezzo possibile li solleva; si adopera con ogni sollecitudine affinché in tutte le parti del mondo s’innalzino case ed ospedali destinati a raccoglierli, a mantenerli, a curarli, e prende quegli asili sotto la propria tutela. Incalza poi i ricchi col gravissimo precetto di dare ai poveri il superfluo, e li spaventa intimando loro il giudizio divino, secondo il quale se non verranno in aiuto dell’indigenza saranno puniti con eterni supplizi. Da ultimo ricrea e conforta considerevolmente gli animi dei poveri sia proponendo l’esempio di Cristo “il quale, essendo ricco, si fece povero per noi” (2Cor VIII, 9), sia ripetendo quelle parole di Lui, con le quali chiama i poveri beati, e comanda loro di sperare i premi dell’eterna beatitudine. Ora, chi non vede come questa sia la più bella maniera di comporre l’antichissimo dissidio tra i poveri ed i ricchi? Come infatti dimostrano la natura delle cose e l’evidenza dei fatti, esclusa o accantonata quella maniera di componimento, è necessario che accada una delle due: o che la massima parte dell’umanità ricada nella turpissima condizione di schiavi che fu lungamente in uso presso i Gentili; ovvero che la società umana rimanga in balìa di continui rivolgimenti e sia contristata da rapine e da latrocini, come deploriamo essere avvenuto anche in tempi recenti. – Stando così le cose, Venerabili Fratelli, Noi a cui presentemente è affidato il governo di tutta la Chiesa, come fin dall’inizio del Nostro Pontificato mostrammo ai popoli ed ai Principi sbattuti da violenta procella il porto ove riparare, così adesso, preoccupati dall’estremo pericolo che sovrasta, di nuovo indirizziamo loro l’Apostolica voce; ed in nome della loro salvezza e di quella dello Stato di nuovo li preghiamo insistentemente e li scongiuriamo di accogliere ed ascoltare come maestra la Chiesa, tanto benemerita della pubblica prosperità dei regni, e si persuadano che le ragioni della religione e dell’impero sono così strettamente congiunte che di quanto viene quella a scadere, di altrettanto diminuiscono l’ossequio dei sudditi e la maestà del comando. Anzi, conoscendo che la Chiesa di Cristo possiede tanta virtù per combattere la peste del Socialismo, quanta non ne possono avere le leggi umane, né le repressioni dei magistrati, né le armi dei soldati, ridonino alla Chiesa quella condizione di libertà, nella quale possa efficacemente compiere la sua benefica azione a favore dell’umano consorzio. – E Voi, Venerabili Fratelli, che ben conoscete l’origine e la natura delle imminenti sciagure, rivolgete tutte le forze dell’animo Vostro a che la dottrina cattolica sia accolta negli animi di tutti e vi penetri fino in fondo. Procurate che fin dalla prima età tutti si avvezzino ad amare Dio con tenerezza filiale e a riverirne la maestà; che prestino ossequio all’autorità dei Principi e delle leggi, e che, frenate le cupidigie, custodiscano gelosamente l’ordine stabilito da Dio nella civile e nella domestica società. Inoltre ponete ogni studio affinché i figli della Chiesa Cattolica non aderiscano né diano alcun favore alla detestabile setta; anzi, con azioni egregie e con un contegno assolutamente lodevole, dimostrino quanto prospera e felice sarebbe la società, se tutte le sue membra si abbellissero dello splendore di opere compiute correttamente, e di virtù. – Infine, siccome i seguaci del Socialismo principalmente vengono cercati fra gli artigiani e gli operai, i quali, avendo per avventura preso in uggia il lavoro, si lasciano assai facilmente pigliare all’esca delle promesse di ricchezze e di beni, così torna opportuno di favorire le società artigiane ed operaie che, poste sotto la tutela della Religione, avvezzino tutti i loro soci a considerarsi contenti della loro sorte, a sopportare la fatica e a condurre sempre una vita quieta e tranquilla. – Iddio, a cui siamo tenuti a riferire il principio ed il fine di ogni santa impresa, assecondi i Nostri e i Vostri intendimenti, Venerabili Fratelli. Del resto, la stessa ricorrenza di questi giorni, nei quali si celebra solennemente il giorno natalizio del Signore, Ci solleva alla speranza di opportunissimo aiuto. Infatti Cristo fa sperare anche a noi quella salutare salvezza che Egli nascendo portò al mondo invecchiato e corrotto da tanti mali, e ci promette quella pace che allora per mezzo degli Angeli fece annunziare agli uomini. Infatti “né la mano del Signore si è accorciata così che non possa salvare, né le sue orecchie sono chiuse sicché non possa sentire” (Is LIX, 1). Pertanto, in questi faustissimi giorni, augurando a Voi, Venerabili Fratelli, ed ai fedeli delle Vostre Chiese ogni più lieto e prospero evento, insistentemente preghiamo il Datore di ogni bene affinché nuovamente “appaiano agli uomini la benignità e l’amore del Salvatore nostro Dio” (Tt III, 4), il quale, sottrattici dalla potestà dell’implacabile nostro nemico, ci sollevò alla dignità nobilissima di figli. Affinché più presto e più pienamente conseguiamo il nostro desiderio, innalzate Voi stessi, Venerabili Fratelli, insieme con Noi fervide preci a Dio ed interponete presso di Lui il patrocinio della Beata Vergine Maria, Immacolata fin dall’origine, del di Lei Sposo Giuseppe e dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, nell’intercessione dei quali poniamo la massima fiducia. – Intanto, auspice delle divine grazie, con tutto l’affetto del cuore a Voi, Venerabili Fratelli, al Vostro Clero ed a tutti i popoli fedeli impartiamo nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 28 dicembre 1878, anno primo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE – 2020 –

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La storia di Tobia che si legge nell’Officio divino a questa epoca, coincide spesso con questa Domenica. Sarà dunque cosa utile, continuare a studiare la Messa in relazione col biblico racconto. Tobia sarebbe vissuto, sembra, sotto il regno di Salmanasar, verso la fine del secolo VIII prima di Cristo, al tempo della deportazione degli Israeliti in Assiria. Come Giobbe, questo santo personaggio, diede prova di costanza e di fedeltà a Dio in mezzo a tutte le sue afflizioni. « Non abbandonò mai la via della verità, distribuendo ogni giorno quanto poteva avere ai fratelli e a quelli della sua nazione, che con lui erano in prigionia e, quantunque egli fosse il più giovane nella tribù di Nephtali, nulla di puerile riscontravasi nei suoi atti ». Il Salmo dell’Introito può essergli applicato, poiché parla di un adolescente che fin dai suoi più teneri anni ha camminato nella legge del Signore. Fino dagli anni della sua fanciullezza, dice la Sacra Scrittura, «Tobia osservava ogni cosa conformemente alla legge di Dio. Sposata una donna della sua tribù, per nome Anna, ne ebbe un figlio cui diede il proprio nome e al quale insegnò fin dall’infanzia a temere Iddio e ad astenersi da ogni peccato. Condotto prigioniero a Ninive, Tobia di tutto cuore si ricordò di Dio, visitando gli altri prigionieri e dando loro buoni consigli, consolandoli e distribuendo a tutti del proprio avere, secondo quello che poteva. Nutriva chi aveva fame, vestiva quelli che erano nudi, e seppelliva con cura quelli che erano morti o che erano stati uccisi». Dio permise che venisse cieco, affinché la sua pazienza servisse di esempio alla posterità come quella del sant’uomo Giobbe. « Avendo sempre temuto il Signore fin dalla sua infanzia ed avendo osservato i suoi comandamenti, non si rattristò contro Dio per essere stato colpito da questa cecità, ma rimase fermo nel timore di Dio, rendendogli grazie tutti i giorni della sua vita ». « Noi siamo figli dei santi, soleva dire, e attendiamo quella vita che Dio deve dare a coloro che non hanno mai cambiato la loro fede verso di Lui ». E poiché sua moglie insultava alla sua disgrazia, Tobia proruppe in gemiti e cominciò a pregare con lagrime (Allel.), dicendo parole che sono identiche a quelle dell’Introito: «Tu sei giusto, Signore, tutti i giudizi tuoi sono equi e tutti i tuoi disegni sono misericordiosi. Ed ora, o Signore, trattami secondo la tua volontà ». E, parlando a suo figlio Tobia, disse: « Figlio mio, abbi sempre in mente Dio tutti i giorni della tua vita, e guardati bene dall’acconsentire ad alcun peccato. Fa elemosina dei tuoi beni e non distogliere il tuo volto dal povero. Sii caritatevole in quel grado che puoi e quello che ti dispiacerebbe fosse fatto a te, guardati bene dal farlo ad altri ». Questo precetto dell’amore di Dio e del prossimo e la sua attuazione sono inculcati dall’Epistola e dal Vangelo: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, tutta l’anima tua e tutto il tuo spirito, e il prossimo tuo come te stesso» (Vang.). «Camminate in umiltà, dolcezza e pazienza, sopportandovi a vicenda con carità, sforzandovi di mantenere l’unità di spirito nei vincoli della pace » (Ep.). Tobia mandò suo figlio presso Gabelo a Rages, sotto la guida dell’Arcangelo Raffaele. Per via, l’angelo disse a Tobiolo di prendere un pesce che lo aveva voluto divorare e di serbarne il fegato per scacciare ogni specie di demoni e gli indicò inoltre il mezzo per prendere in moglie Sara, senza che il demonio, che aveva già uccisi i suoi primi sette mariti, potesse fargli del male. « Il demonio, spiegò l’Arcangelo, ha potere su coloro che nel contrar matrimonio bandiscono Dio dal loro cuore e ad altro non pensano se non a soddisfare la loro passione». L’Orazione prega Iddio di dare al suo popolo la grazia di evitare i contatti diabolici, « affinché possa con puro cuore essere unito a te solo che sei il suo Dio ». « Come figli di Dio, noi non possiamo, dissero Tobia e Sara, sposarci come pagani, che non conoscono Dio», e «pregarono insieme istantemente il Signore che ha fatto il cielo e la terra, il mare, le sorgenti ed i fiumi con tutte le creature che contengono ». E Dio « benedisse il loro matrimonio, come aveva benedetto quello dei patriarchi, affinché essi avessero dei figli della stirpe di Abramo » (Graduale). Tobia ritornò con Sara e guarì suo padre dalla cecità e questi allora intonò un cantico di ringraziamento, una specie di Benedictus o di Magnificat, nel quale scoprì le grandiose aspettative messianiche: « Gerusalemme tu castigata per le sue opere malvagie, ma essa brillerà di fulgida luce e si rallegrerà nei secoli dei secoli. Dai lontani paesi verranno verso lei le nazioni, portandole delle offerte e adoreranno in essa il Signore. Maledetti saranno coloro che la disprezzeranno e quelli che la bestemmieranno saranno condannati. Beati, continua egli, coloro che ti amano! lo sarò felice se qualcuno della mia stirpe sopravvivrà per vedere lo splendore di Gerusalemme. Le sue porte saranno di zaffiri e di smeraldi e tutta la cinta delle sue mura sarà di pietre preziose. Tutte le pubbliche piazze saranno lastricate di pietre bianche e pure e nelle strade si canterà: Alleluia. La rovina di Ninive è vicina, poiché la parola di Dio non resta senza effetto ». È questo il « cantico nuovo che troviamo nel Salmo del Graduale « Dio è fedele alla sua parola; Egli dissipa i progetti delle nazioni e rovescia i consigli dei principi. Beato il popolo che Egli ha scelto per suo retaggio. Palesa, o Signore, la tua misericordia su di noi, secondo la speranza che abbiamo posta in te». E il Salmo del Communio aggiunge: « Dio ha infranto tutte le forze nemiche, i re superbi sono stati abbattuti e i loro eserciti distrutti. Offrite dunque sacrifizi di ringraziamento a questo Dio terribile », poiché, continua l’Offertorio, « Egli ha gettato uno sguardo favorevole sul popolo in favore del quale il suo nome è stato invocato ». – Gerusalemme, ove il popolo di Dio regna e ove affluiscono tutte le nazioni per lodare il Signore, è il regno di Dio, è la Gerusalemme celeste. Tutti vi sono chiamati con una comune vocazione a formarvi « un solo corpo », la Santa Chiesa, che è una nuova creazione, dice S. Gregorio Magno, e che è animata da « un solo Spirito, una sola speranza, un solo battesimo e una sola fede in un solo Signore » (Epistola). È Gesù Cristo, Figlio di Dio e Figlio di David, che il « Dio unico e Padre di tutti gli uomini, ha fatto sedere alla sua destra fino al giorno in cui tutti i suoi nemici, vinti, saranno sgabello ai suoi piedi». Questo Dio sia benedetto nei secoli dei secoli» (Epistola). L’unità della nostra fede, del nostro battesimo e delle nostre speranze, come pure dello Spirito Santo, di Cristo e di Dio Padre, dice S. Paolo, fa a tutti noi un dovere di essere uniti dai vincoli della carità, sopportandoci a vicenda. Il comandamento di Dio di amare il prossimo è simile a quello che ci fa amare Dio, poiché è per amor suo che amiamo il prossimo. « Doppio è il comandamento, dichiara S. Agostino, ma una è la carità ». E per consolidare il suo insegnamento agli occhi dei farisei, Gesù Cristo dà loro, in un testo di David, una prova della sua divinità. Dobbiamo dunque, nella fede e nell’amore, essere uniti a Cristo Gesù. « Interrogato circa il primo comandamento, Gesù rivela il secondo, che non è inferiore al primo, facendo loro comprendere che lo interrogavano soltanto per odio, poiché la carità non è invidiosa » (I Cor. XIII, 4). Egli dimostra inoltre il suo rispetto per la legge ed i profeti. Dopo aver risposto, Cristo interrogò a sua volta, e dimostra che pur essendo figlio di David, ne è il Signore, essendo Egli il Figlio unico del Padre, e li spaventa dicendo che un giorno avrebbe trionfato su tutti coloro che si oppongono al suo regno, poiché Iddio farà dei suoi nemici sgabello ai suoi piedi. Con ciò dimostra la concordia e l’unione che esiste fra Lui e il Padre » (S. Giov. Crisostomo – Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps CXVIII: 137;124
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini retti: che procedono secondo la legge del Signore.]

Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secundum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Oratio

Oremus.
Da, quǽsumus, Dómine, populo tuo diabólica vitáre contágia: et te solum Deum pura mente sectári.

[O Signore, Te ne preghiamo, concedi al tuo popolo di evitare ogni diabolico contagio: e di seguire Te, unico Dio, con cuore puro.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 1-6
“Fatres: Obsecro vos ego vinctus in Dómino, ut digne ambulétis vocatióne, qua vocáti estis, cum omni humilitáte et mansuetúdine, cum patiéntia, supportántes ínvicem in caritáte, sollíciti serváre unitátem spíritus in vínculo pacis. Unum corpus et unus spíritus, sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestræ. Unus Dóminus, una fides, unum baptísma. Unus Deus et Pater ómnium, qui est super omnes et per ómnia et in ómnibus nobis. Qui est benedíctus in saecula sæculórum. Amen.”

[“Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati, con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi con carità scambievole, solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un sol corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati a una sola speranza per la vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, che opera in tutti, che dimora in tutti. Egli sia benedetto nei secoli dei secoli. Così sia.”]

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,]

LA FAMIGLIA CRISTIANA

L’epistola di quest’oggi è una continuazione di quella della domenica scorsa. L’Apostolo, ricordato agli Efesini che devono vivere in modo consono alla grande dignità di Cristiani, alla quale furono chiamati, scende al particolare, e viene a parlare dell’unione degli animi che deve regnare tra di loro. Essi devono conservare l’unione, perché uno solo è il corpo mistico a cui appartengono, la Chiesa; uno solo è lo spirito che anima questo corpo, lo Spirito Santo; uno solo è il fine per il quale sono stati chiamati, la speranza di trovarsi uniti con Dio in cielo; uno solo è il Signore al quale credono con una stessa fede; uno solo è il Battesimo che li ha fatti entrare nella Chiesa. Vi è un solo Dio. che è il Padre comune. Se, per tutti i motivi addotti, deve regnare una perfetta armonia nella famiglia cristiana, quest’armonia non dev’essere minore nelle singole famiglie, che formano la società. E questa armonia non manca:

1. Se ciascuno adempie i suoi obblighi con spirito di fede,

2. Se c’è pazienza e mansuetudine,

3. Se c’è carità.

1.

Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati. Gli Efesini, come tutti i Cristiani, sono stati chiamati a far parte della grande famiglia di Dio. La grande dignità di questa condizione esige che essi vivano, non più secondo le norme del mondo pagano, ma che vivano santamente, corrispondendo alle grazie ricevute.La grande famiglia cristiana è formata da tante piccole famiglie che richiedono, da coloro che la compongono, l’adempimento di particolari doveri, che dovrebbero essere come il santuario dell’armonia e della pace, e sarebbero tali, se si imitassero le mirabili virtù con le quali Gesù ha consacrato la vita domestica. La condizione di chi è senza famiglia non è rosea. Fa compassione l’orfanello senza la guida e il sostegno dei genitori; muove a pietà il vecchio abbandonato; ci fa pena l’infermo che non ha un congiunto che vegli al suo letto, e lenisca i suoi dolori. Ma non è neppur rosea la condizione di tante famiglie nelle quali invece dell’armonia e della pace, si trova l’inferno. Chi è a capo della famiglia non pensa: sono in questa condizione per volontà di Dio; devo, dunque, diportarmi in maniera degna della mia vocazione, e vedere, quindi, ciò che Dio stabilisce in proposito. — Dio stabilisce, per bocca dell’Apostolo – «Le donne siano soggette ai mariti come al Signore, poiché l’uomo è il capo della donna, come Cristo è il capo della Chiesa, essendo il Salvatore del suo corpo» (Ef. V, 22-23.). Qui è stabilita l’autorità del marito nella famiglia, e gli è posto davanti il modello da imitare nell’esercizio di questa autorità: Gesù Cristo. Egli ha salvato la Chiesa, sacrificandosi per essa, la conserva, l’assiste, la governa. Così il marito è capo della moglie, non per tiranneggiarla o maltrattarla, ma per guidarla, proteggerla, e prestarle quegli aiuti e quell’assistenza di cui potrebbe abbisognare. Il marito non deve considerare la casa come un luogo di gioie, di vantaggi, senza voler portarne i pesi, le amarezze, le disillusioni. – Da Dio son stabiliti anche i privilegi e i doveri della moglie. «Come la Chiesa è soggetta a Cristo, così ancora le donne ai loro mariti in ogni cosa» (Ef. V, 24.). Essa non deve pretendere di dominare, usurpando l’autorità del marito, e molto meno deve pretendere di comandare a lui. La sua libertà è limitata. «Egli ti comanderà», aveva già detto Dio a Eva (Gen. III, 16). Questo però non vuol dire che la moglie debba vivere da serva o da schiava. La sua soggezione al marito è basata sull’amore, sull’esempio della soggezione della Chiesa a Gesù Cristo. Perciò l’Apostolo soggiunge: «I mariti devono amar le mogli come i propri corpi» (Ef. V, 28). – Anche le relazioni tra i figli e i genitori sono stabilite da Dio: «Figliuoli, siate ubbidienti ai vostri genitori nel Signore; perché ciò è giusto. Onora il padre tuo e la madre tua: ecco il primo comandamento della promessa, affinché tu sii felice, e abbia lunga vita sulla terra» (Ef. VI, 1-3). Purtroppo l’ubbidienza ai genitori è generalmente trascurata, e l’onore si confonde, il più delle volte, con una confidenza illimitata, poco dignitosa, che presto diventa padronanza, e cambia le parti nella famiglia. Si preferiscono gli insegnamenti della moda a quelli dello Spirito Santo. – I genitori hanno anch’essi tracciata la norma rispetto ai figli. «E voi, padri, non irritate i vostri figliuoli, ma allevateli nella disciplina e negli ammonimenti del Signore » (Efes. VI, 4). I genitori amino sinceramente i loro figli, non passino la misura nel correggerli, lasciandosi guidare dalla passione, invece che dalla ragione; l’affetto paterno, però, non impedisca di osservare i loro difetti e di correggerli, di avvezzarli all’obbedienza e alla mortificazione, e di allevarli nel timor di Dio. – Prima condizione, dunque, per vivere in pace e armonia nella vita domestica è il regolarsi secondo le norme che Dio ha stabilito per i vari membri della famiglia.

2.

Nella grande famiglia cristiana non ci può essere unione, se domina lo spirito della superbia e dell’ira; perciò l’Apostolo vuole che i Cristiani si diportino con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza. Questo contegno è necessario soprattutto nella vita domestica. I motivi di contrasto si hanno maggiormente con chi ci sta vicino. C’è la diversità di carattere. Per quanto due caratteri si assomiglino, non si accordano mai in tutto; e poi c’è sempre qualche circostanza che può metterli in urto tra di loro. Purtroppo la diversità di carattere è il pretesto più frequente della disunione e della rovina delle famiglie. – Dopo un po’ di tempo cominciano gli screzi, poi vengono i contrasti aperti, poi uno diventa uggioso all’altro. La famiglia non è più un dolce nido, è diventata una casa di punizione. Le conseguenze ciascuno può immaginarle. Quasi sempre però si potrebbero evitare se almeno uno dei coniugi fosse stato educato di buon’ora a vincer se stesso con l’esercizio della pazienza. La Beata Anna Maria Taigi visse col suo sposo, sotto i medesimo tetto, per quarant’anni continui, senza che da una parte o dall’altra ci fossero risentimenti o rimpianti, tanta era l’unione degli spiriti. Eppure si trattava di due caratteri disparatissimi. Lei dolce, soave, composta; lui aspro, rozzo, inquieto, e talvolta anche violento. Ma la Beata non si offese mai di questi modi, né mai la si vide contendere con lui. Egli, come dicevano i vicini, aveva un carattere da cagionare continui incendi, ma la dolcezza e il tatto della santa consorte sapeva evitare l’incendio e mantenere l’armonia nella casa (Mons. Carlo Salotti. La Beata Anna Maria Taigi madre di famiglia. Roma 1924, p. 89-90). Sopportiamo il carattere dei compagni di lavoro, sopportiamo il carattere delle persone con cui si tratta per affari o per ufficio, perché non dobbiamo sopportare il carattere di quei che compongono la nostra famiglia? « Quel dovere che ti obbliga verso gli estranei — dice S. Ambrogio al marito — t’incombe maggiormente verso la moglie, col tollerarne e correggerne la condotta » (Exp. S. Evang. sec. Lucam, L. 8, n. 4). Lo stesso si dica della moglie rispetto al marito. Pazienza vince in tutte le guerre. – Nella vita domestica o un momento o l’altro vengono le ore grigie. Con le lamentele, con le imprecazioni, con lo scoraggiamento non si rimedia. Il rimedio più efficace, l’unico rimedio che il capo famiglia deve adottare è quello di una grande pazienza. Deve in quei momenti ricordarsi in modo speciale delle parole del Salvatore: «imparate da me », e sull’esempio di Lui, che governa la gran famiglia cristiana dalla croce, guidare, rassegnato e da forte, la propria famiglia con grande spirito di sacrificio. – Nel cielo della famiglia può sorgere qualche leggera nuvola. Ma questa nuvola bisogna procurare di fugarla subito. « Il sole — dice S. Paolo — non tramonti sul vostro sdegno» (Ef. IV, 26). E ‘ una scena abbastanza brutta, vedere in una casa, al medesimo desco, gente che non parla, facce che si voltano per non incontrarsi negli sguardi, visi corrucciati e fronti tristi. Non è abbastanza pesante la vita che si conduce fuori di casa, per volerla triste anche tra le pareti domestiche? Non dovrebbe mai tramontare il sole prima che la pace familiare sia riacquistata, primi che i malintesi siano dissipati, prima che le piccole tempeste siano sedate.

3.

Tutti i membri della società cristiana, e, più ancora tutti i membri di una famiglia devono sforzarsi di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Questo si ottiene con la carità. «La pace e la carità sono sorelle senza bisogni e senza cure». Quando nella famiglia domina la carità, tutto si appiana. Il marito cerca di provvedere a tutto. Non solo trova ragionevoli i sacrifici che gli si domandano, ma sa indovinare e comprendere anche quelli che non gli si domandano; e, per quanto sta in lui, accontenta e previene. Egli sa apprezzare la parte importante e delicata che in seno alla famiglia compie la moglie, e cerca di alleggerirne i pesi con le sue premure. Quando nella famiglia domina la carità, la moglie non si acciglia se il marito è di malumore, soprappensiero. Il lavoro giornaliero, l’andamento degli affari, le preoccupazioni per la famiglia possono spiegare benissimo questi momenti tristi. Essa conosce la propria missione: addolcire, mitigare, rasserenare. Quando nella famiglia domina la carità, i figli non vengono considerati come un peso; non ci si disinteressa di loro. Si ringrazia Dio che li dona e si trattano come li trattava Gesù quando le madri glieli conducevano perché li benedicesse. Egli li trattava come tesori preziosi. Minacciava chi avesse tentato di scandalizzar questi innocenti i cui Angeli vedono continuamente la faccia del Padre celeste, e che hanno diritto al regno del cielo. E quando i genitori considerano i loro figli come tesori preziosi, loro affidati da Dio,usano tutte le precauzioni per tenerli lontani da tutto quello che potrebbe renderne l’anima meno bella agli occhi dei loro Angeli custodi; li correggono quando prendono cattiva piega. Sarebbe un grave errore credere che il castigo escluda l’amore. È questione di lasciarsi guidare dall’amore e non dall’ira. «Non credere di amar tuo figlio, quando non lo castighi… ; — dice San Agostino — questa non è carità, ma languore» (In Epist. Ioannis Tract. 7, 11). – E quando i figli sono trattati con amore illuminato, non rimangono insensibili. Il ripicco, il puntiglio, la cocciutaggine sono rari: è più facile che traggano profitto dalla correzione, rientrando in se stessi. Se vogliamo che nella famiglia regni veramente, come dovrebbe regnare, l’armonia e la pace, non prendiamo per guida gli insegnamenti della moda, ma il santo timor di Dio: nei contrasti, nelle difficoltà non perdiamo mai la calma, in tutto e sempre siamo animati dalla carità. La nave, quando il mare è in tempesta, procede male anche lontana dagli scogli: nella calma, fila sicura anche tra gli scogli, se chi la guida ha occhio attento e cuor generoso.

Graduale

Ps XXXII: 12;6
Beáta gens, cujus est Dóminus Deus eórum: pópulus, quem elégit Dóminus in hereditátem sibi.

[Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore: quel popolo che il Signore scelse per suo popolo.]

Alleluja

Verbo Dómini cœli firmáti sunt: et spíritu oris ejus omnis virtus eórum. Allelúja, allelúja

[Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Allelúia, allelúia]
Ps CI: 2
Dómine, exáudi oratiónem meam, et clamor meus ad te pervéniat. Allelúja.

[O Signore, esaudisci la mia preghiera, e il mio grido giunga fino a Te. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. XXII: 34-46

“In illo témpore: Accessérunt ad Jesum pharisæi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Jesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisæis, interrogávit eos Jesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cujus fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius ejus est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogáre”.

[“In quel tempo, accostandosi i Farisei a Gesù, avendo saputo com’Egli aveva chiusa la bocca ai Sadducei, si unirono insieme: e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: Maestro, qual è il gran comandamento della legge? Gesù dissegli: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta l’anima tua, e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta quanta la legge, e i profeti. Ed essendo radunati insieme i Farisei, Gesù domandò loro, dicendo: Che vi pare del Cristo, di chi è egli figliuolo? Gli risposero: di Davide. Egli disse loro: Come adunque Davide in ispirito lo chiama Signore dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, sino a tanto che io me etta i tuoi nemici per sgabello ai tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, come è Egli suo figliuolo? E nessuno poteva replicargli parola; né vi fu chi ardisse da quel dì in poi d’interrogarlo”.]

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la castità

Glorificate, et portate Deum in corpore vestro.

I Cor. VI

Tale è, Fratelli miei, l’istruzione salutevole, che S. Paolo dava ai primi Cristiani loro inspirare l’amor della purità, che loro aveva sì fortemente raccomandata; fuggite, loro diceva quel grande Apostolo, la fornicazione, perché chi la commette pecca contro il suo corpo. Or voi dovete sapere, che i vostri corpi sono i tempi dello Spirito Santo, che dimora in voi; che voi non siete più padroni di voi medesimi, poiché siete stati riscattati ad un gran prezzo: glorificate dunque Dio, e portatelo nel vostro corpo: Glorificate, et portate Deum in corpore vestro. Questa dottrina c’insegna, che il peccato opposto alla santa virtù della purità, è più degno di biasimo in un cristiano, che in tutti gli altri; poiché il Cristiano appartiene a Dio in una maniera particolare; il suo corpo è stato consacrato per mezzo del Battesimo, divenendo il tempio dello Spirito Santo, e deve per conseguenza conservarlo in una purezza irrevocabile, che bandisca da questo tempio mistico tutto ciò, che può oscurarne la bellezza. La purità deve dunque essere la virtù prediletta di un Cristiano; ella è uno dei più belli ornamenti del corpo mistico di Gesù Cristo, che è la Chiesa, ed ogni membro di questo corpo, che è imbrattato del vizio contrario, deve essere riguardato come un membro putrido, ed infetto, che merita di esserne reciso. Con tutto ciò, Fratelli miei, quanto questa virtù è necessaria ad un Cristiano, altrettanto ella è rara a trovare. Questo bel fiore ha perduto il suo splendore in mezzo di un mondo perverso, che sparge la corruzione onde egli è infetto, in tutte quasi le condizioni, che in sé contiene. Donde viene questo male? Perché non si conosce il prezzo della virtù – della castità, né si adoperano i mezzi propri per conservarla. Su di questo mi propongo d’istruirvi in quest’oggi. La castità è una virtù molto preziosa; dobbiamo dunque averne una grande stima; primo punto. La castità è una virtù molto delicata; bisogna dunque usare molta precauzione per conservarla; secondo punto. Perché non posso io in quest’oggi parlare col linguaggio degli Angeli per inspirare l’amore di una virtù, che rende gli uomini simili a quei puri spiriti? Chiediamola per mezzo dell’intercessione della Regina dei Vergini.

I. Punto. Una virtù che viene dal Cielo in terra, che innalza l’uomo al Cielo per la somiglianza, che essa gli dà cogli Angeli, e con Dio medesimo, e per la certezza, in cui lo mette della sua eterna felicità, non merita forse, Fratelli miei, il titolo di virtù preziosa, e degna di tutta la mostra stima? Or tale è la virtù della castità: sì, la castità è la figliuola del Cielo, essa vi ha preso la sua sorgente, e la sua origine. Non eravi altri fuori che Dio medesimo, che potesse insegnare, ed inspirare agli uomini la pratica di una virtù così sublime, e così perfetta. Gli uomini carnali ne erano troppo lontani per potere insegnarla: e per verità, in che guisa l’uomo che il peccato aveva reso affatto sensuale, avrebbe egli potuto pervenire alla perfezione di una virtù, che combatte le inclinazioni della natura? Necessario gli era un soccorso dall’alto, che lo rendesse superiore a se medesimo, che superiore lo rendesse a’ suoi sensi, ed alle sue inclinazioni. Ciò ben conosceva il più saggio tra gli uomini, quando diceva, che la continenza è un dono di Dio, che gli bisognava domandare: Sivi quoniam continens esse non possem, nisi Deus det. Il che ha voluto Gesù Cristo ancora farci intendere, quando ci dice nel suo Vangelo, che non tutti comprendono il merito, ed il pregio della castità, ma solamente quelli cui Dio ha fatto parte di questo dono prezioso: Non omnes capiunt verbum istud, sed quibus datum est. Se l’antichità pagana ha somministrati alcuni esempi di castità, ciò non era nella maggior parte, che una virtù di ostentazione o apparente, che serviva di velo a vizi enormi, o per lo meno che non sarà giammai simile a quella che la perfezione della Religion Cristiana inspira ai suoi discepoli. Si videro mai nella gentilità anime cotanto generose, che facessero a Dio il sacrificio della loro vita in favore di questa virtù? Se ne videro giammai di assai costanti per obbligarsi a conservarla per un sacro vincolo, che dura quanto la vita? No, non è che nel seno della santa Religione che professiamo, che vedere si possono dei cristiani separarsi da ogni commercio col mondo, per questa virtù in tutta la sua perfezione. Si richiede per questo una grazia affatto particolare, e non si può negare, che la castità è veramente un dono del Cielo, ma un dono sì prezioso, che nulla si ritrova nel mondo, che agguagli il suo prezzo. L’oro, e le ricchezze perdono tutto il loro splendore, se si paragonano alla bellezza di questa virtù. Ma la castità viene dal Cielo; il Figliuolo di Dio, che il suo amore ha spinto a scender dal Cielo, ci ha lasciato un mirabile esempio della stima, che ha per questa virtù. Dio, infatti, avendo risoluto, per riscattare l’uomo, di prendere una natura simile alla sua, scelse una Vergine per sua madre. Quindi aveva Egli predetto per uno de’ suoi Profeti, che una Vergine concepirebbe, e partorirebbe un figliuolo, che si chiamerebbe Emanuello, cioè, Dio con noi: Ecce Virgo concipiet, et pariet Filium, et vocabityr nomen ejus Emmanuel. Tutt’altro concepimento, che quello di una Vergine, non avrebbe punto convenuto al Dio d’ ogni purità, egli avrebbe in qualche modo oscurato lo splendore della sua santità, dice S. Bernardo. Siccome il Figliuolo di Dio era generato fin dall’eternità da un Padre vergine; così doveva in qualità di uomo essere generato da una madre vergine, e siccome una vergine, aggiunge S. Bernardo, non poteva avere altro figliuolo, che un Dio, così Dio non poteva avere altra madre, che una vergine. Ma quale fu questa creatura privilegiata, su cui il Signore gettò gli occhi per innalzarla ad una sì alta qualità? Fu l’incomparabile Maria, che prevenuta sin dall’istante del suo concepimento, dalle grazie le più abbondanti del suo Dio, vi corrispose con tanta fedeltà, che dai suoi più teneri anni ella si consacrò interamente allo Sposo delle vergini col sacrifizio che gli fece del suo corpo, e della sua anima: sacrifizio che essa rinnovò nel tempio del Signore, allorché vi fu presentata da suoi genitori. Sacrifizio il più santo, ed il più perfetto, che Dio avesse sino allora ricevuto sopra i suoi altari, ma sacrifizio che Maria sostenne con una fedeltà inviolabile nel conservare la sua purità, ed evitare tutto ciò, che avrebbe potuto oscurarne lo splendore. Ella stimava cotanto questa virtù, che sebbene grande fosse per essa la gloria della divina maternità, avrebbe piuttosto rinunciato a questa eminente dignità, se non avesse potuto esservi innalzata, che cessando di esser vergine: Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco? Rassicuratevi, Vergine santa; lo Spirito Santo, che vi ha scelta per sua sposa, opererà in voi questo grande mistero: si è per la virtù dell’Altissimo, che voi concepirete questo Figliuolo adorabile, il quale deve essere il Salvatore del mondo Spiritus Sanctus superveniet in te, et virtus Altissimi obumbrabit tibi. A queste condizioni Maria si sottomette ai voleri del suo Dio, e conserva lo splendore della sua verginità con la gloria della fecondità: si è dunque per la sua inviolabile purezza, che Maria ha meritato di divenire il Santuario della Divinità, e che si è veduta onorata della più alta dignità, ove una pura creatura possa essere innalzata: qual forte motivo di stimare una virtù, che innalza an cora l’uomo al Cielo per la rassomiglianza, che gli dà cogli Angeli, e con Dio medesimo? No, Fratelli miei, le anime caste non appartengono più alla terra; questa virtù le innalza sino nei Cieli, dice S. Ambrogio: fæc nubes, aéraque trascendit. E come questo? Perché facendole trionfare delle debolezze umane, ed allontanandole dai piaceri sensuali, ella le rende superiori alla nostra corrotta natura, e coi suoi sentimenti, e desiderj un’anima casta vive della vita mede sima degli Angeli: il che Gesù Cristo c’insegna nel suo Vangelo, allorché parlando dello stato d’incorruttibilità, in cui saremo nel giorno della risurrezione, egli aggiunge che noi saremo simili a quei felici spiriti: Sicut Angeli, cui nubent, neque nubentur. Poiché, notate la ragione, che ne dà il Salvatore, poiché non evvi più allora società coniugale; donde ne segue, che la castità, la quale ci libera dai legami del matrimonio, rappresenta in questo luogo di miseria, e di esilio, il felice stato, in cui saremo nella gloriosa immortalità, con questa differenza ancora, che gli Angeli della terra hanno per virtù ciò che gli Angeli del Cielo hanno per natura; nel che, dice il Crisostomo, purità degli uomini, benché inferiore a quella degli Angeli, la sorpassa tuttavia in merito. Gli Angeli, non essendo composti di carne, e di sangue, non hanno passioni a combattere per conservare il tesoro della castità; gli Angeli non conversando con gli uomini non sono esposti agli scogli, che convien evitare; ma noi siamo attorniati da pericoli, ove la castità è incessantemente esposta; noi abbiamo nemici a combattere, passioni a superare, una violenza continua a farci per non perdere questa preziosa virtù; e se noi la conserviamo, siccome essa ci rende simili agli Angeli, così ci dà ancora un carattere di rassomiglianza con Dio. – Sì, Fratelli miei, le anime caste, dice S. Cipriano, sono le vive immagini di Dio sopra la terra, perché più un’anima è staccata dal suo corpo, più si unisce a Dio; e siccome Dio è tutto spirito, chi si unisce a Lui, diventa un medesimo spirito con Lui, dice l’Apostolo: Qui adhæret Deo, unus spiritus est. E per un felice contraccambio, Dio si unisce altresì all’anima casta, la riguarda come sua sposa diletta, ne fa l’oggetto delle sue compiacenze, si compiace di abitare in essa come in un luogo di delizie: Qui pascitur inter illa. Quindi quella ferma certezza, che la castità dà ad un’anima della sua eterna felicità. Io non ho bisogno d’altra prova della verità che avanzo, che le promesse, le quali Gesù Cristo ha fatte nel suo Vangelo alla purezza del cuore, Beati, dice egli, coloro che hanno il cuor puro, perché essi vedranno Dio: Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt. Or la castità, è inseparabile dalla purezza del cuore. Si è ai Vergini, dice S. Giovanni, che è riserbato il vantaggio di seguire dappertutto l’Agnello nel soggiorno della gloria: Virgines sequuntur Agnum quocumque ierit. Da queste testimonianze sì consolanti, che possiamo noi, e che dobbiamo conchiudere? Che la castità è un segno di predestinazione, poiché i vergini avranno nel Cielo dei posti, e delle corone distinte, anche al disopra degli altri predestinati. – Se noi vogliamo esaminare più da vicino, perché la castità è uno dei più sodi fondamenti di nostra speranza alla felicità eterna, si è, che essa ci attira dalla parte di Dio grazie particolari e di elezione, che decidono di nostra predestinazione, e che le anime caste sono ordinariamente più fedeli a corrispondere a queste grazie. Infatti, se la castità dà ad un’anima un carattere di rassomiglianza con Dio, che la riguarda come sua sposa diletta, e se l’amicizia regna ordinariamente tra i simili, si può forse dubitare, che l’anima casta non possegga l’amicizia del suo Dio? Qui diligit cordis munditiam, habebit amicum regem. E se l’amor divino non è mai sterile, possiamo noi dubitare che Dio non si comunichi ad un’anima casta con una infusione di grazie, e di favori, come supporre si devono tra uno sposo benefico, ed una sposa diletta? Quindi quei vivi lumi, che egli sparge nel suo spirito per rischiararla, quell’intelligenza che le dà dei misteri della religione i più occulti, come la ricevette il diletto discepolo S. Giovanni, il quale meritò per la sua purità di riposare sul cuore del suo divin Maestro, e di trarne cognizioni che l’innalzarono come un’aquila nel seno della Divinità; siccome essa è più suscettibile, che le altre di questi divini influssi, Egli rianima la sua fede, le fa conoscere la bellezza della virtù, la magnificenza delle ricompense che le promette: quindi ancora quei buoni movimenti, che la portano al bere quella devozione tenera, quella facilità, che essa ritrova nel servigio del Signore; e siccome le anime pure apportano dal canto loro una grande fedeltà alla grazia, si è ciò che perfeziona e consuma l’opera della loro santificazione. Ed in vero, datemi un’anima casta; io vi dirò, dopo S. Basilio, che essa è nella disposizione la più felice per la santità, e la perfezione. Ella è un’anima dotata di tutte le virtù cristiane, o per lo meno cui la pratica ne è facile: e come ciò? si è, che per essere casta, bisogna farsi grandi violenze; e tosto che si è riportata questa vittoria, il restante nulla quasi costa. Un’anima che signoreggia con tanto d’impero sopra un corpo sensuale, supera facilmente tutti gli ostacoli, che essa incontra nella via della santità. Qual sacrificio le resta più difficile a fare di quello che essa ha fatto per arrivarvi? Qual nimico più formidabile di quello che essa ha incatenato consacrandosi al suo Dio, come una vittima pura, e senza macchia? Forse il demonio con le sue tentazioni? Ma esse non sono ordinariamente a temere, se non perché l’angelo delle tenebre è d’intelligenza col nimico domestico farci cadere nelle insidie: ora da che la carne, che è questo nemico domestico, è ridotta in ischiavitù, il demonio vede mancare i suoi disegni. Sarebbe forse il mondo coi suoi beni, e i suoi piaceri? Ma questa lusinga perde tutta la sua forza contro un’anima casta, e pura, che la castità ha sciolta dai piaceri sensuali, perché essa non vi rimira che un rischio necessario di farvi un tristo naufragio; e siccome l’amore delle ricchezze e degli onori è una conseguenza ordinaria dell’amor del piacere, perché si trova in questa mescolanza di che contentare le sue passioni; tosto che si dispregiano i piaceri del mondo, si fa altresì poco caso dei suoi falsi beni, si riguardano con l’Apostolo come fango, indegni di legare un cuore che si è dato a Dio: la castità riporta dunque la vittoria su tutte le tentazioni, e sopra tutte le passioni. – Ella è la compagna di tutte le virtù, poiché bisogna possederle tutte per arrivare a queste; bisogna esser umile, mortificato, dispregiare tutti gli oggetti sensibili, innalzarsi sopra di se medesimo, spogliarsi dell’amor proprio, crocifiggersi incessantemente; non è forse la perfezione del Vangelo, e la via della santità, che Gesù Cristo ci ha rappresentata in essa? Quindi vediamo, che coloro, i quali sono veramente casti, sono i Cristiani i più perfetti; essi sono riserbati nelle loro parole, modesti nel loro procedere, sobri nelle loro mense, rispettosi nei luoghi santi, esemplari in tutta la loro condotta: essi somigliano, dice S. Agostino, ai gigli, che s’innalzano verso il Cielo, e che spargono all’intorno di essi un soave odore; la sola presenza ispira, dell’amore per la virtù. Né è cosa difficile a comprendere, come la castità è una via sicura per giungere alla santità la più consumata, principalmente per le anime, che fanno una professione particolare della verginità. Tosto che un’anima ha scelto Gesù Cristo per suo sposo, ella è libera da un’infinità di oggetti che allontanano dalla via della perfezione: unicamente attenta a piacere a questo divino sposo, essa è esente, come dice l’Apostolo, da tutte le cure, da tutti gli imbarazzi, in cui si trovano le persone; che hanno il loro cuore diviso con alcuni altri oggetti: Virgo cogitat quae Domini sunt, ut sit sancta corpore, et spiritu. Essa non pensa, che ad unirsi a Dio con una vita più perfetta; l’amor divino trova più di sito in un cuore che non è diviso: questo cuore ne è tutto penetrato, tutto in fiammato, e possiede in questo amore il pegno sicuro di sua predestinazione. – Egli è vero che la castità, di cui parla qui l’Apostolo sotto il nome di verginità non è virtù di tutti gli stati; non è dato a tutti di menare un genere di vita così perfetto come quello delle persone che si consacrano a Dio col celibato o nella religione o nel mondo. Ma v’è una castità comune che conviene, e che è necessaria in tutti gli stati: vale a dire che, in qualunque genere di vita sia uno impegnato, si deve evitare tutto ciò che è capace di appannare questo bel fiore; la castità impone ancora alcuni obblighi a coloro che sono impegnati nel vincolo matrimoniale, come a quelli che non vi sono. Io non prendo qui a spiegare questi obblighi; mi contento di dire in generale che ogni Cristiano, in qualunque stato egli sta, deve stimare la castità come una virtù che fa uno dei più begli ornamenti della Religione cristiana; che ogni Cristiano essendo divenuto, per via del Battesimo, membro di Gesù Cristo, tempio dello Spirito Santo, deve avere un grande rispetto per sé medesimo, e non profanare questo tempio con macchie che ne oscurerebbero la bellezza; che per sbandire dal suo spirito e dal suo cuore ogni oggetto straniero, ogni inclinazione sregolata ed ogni pensiero contrario alla santa virtù della purità. Se qualcheduno, dice l’Apostolo, ha la temerità di profanare il tempio del Signore, sappia che Dio lo sterminerà e lo manderà in perdizione: Si quis violaverit templum Dei, disperdet illum Deus. Per preservarsi da questa disgrazia,qual precauzione convien prendere? Voi lo vedrete nella seconda parte di questo discorso.

II. Punto. Bisogna confessarlo, fratelli m 06iei, se la castità è preziosa e stimabile, ella è molto difficile a conservare e molto facile a perdere; non v’è virtù alcuna che sia così esposta ai pericoli. Tutto ciò che è al di’ fuori e al di dentro di noi ci mette in un rischio quasi continuo di perderla. Al di fuori, quanti oggetti non trova essa che con le loro lusinghe ed attrattive le portano colpi tanto più funesti, quanto che essa se ne accorge meno. Ella è circondata ed assalita da ogni parte da nemici, cui i sensi danno l’entrata nel nostro cuore. Qui è una Gezabele che si presenta per attirarsi gli sguardi di Jeu, la quale adopera nelle sue vestimenta, nel suo sembiante tutti gli artifici capaci di portare la contagione nel suo cuore. Basta uno sguardo per dare a questa virtù un colpo mortale; la vista di certi oggetti fa talvolta sul cuore sì vive impressioni che è difficilissimo di cancellarle. Sono parole oscene, canzoni lascive, che si odono nelle compagnie ove taluno si trova, e dove, oimè! La castità troppo sovente riceve assalti mortali. – A qual rischio questa virtù non è ella ancora esposta in quelle amicizie che si formano tra persone di diverso sesso? In quelle visite premeditate, con cui, sotto pretesto di un’amicizia sensibile, innocente, si mantiene un fuoco nascosto che non è men vivo, e che si manifesta spesso per via di certe libertà che si prendono, di cui non si suole aver troppo scrupolo, perché si riguardano come segni di amicizia, ma che avanti a Dio sono libertà colpevoli che conducono finalmente ai più gravi disordini. Queste mutue inclinazioni cominceranno da sentimenti di stima che ha l’uno per l’altro, fondati sul merito, sulle buone qualità personali; ma insensibilmente vi entrano ora la passione, i sensi vi prendono la loro parte, il cuore ne rimane soggiogato; e dopo aver cominciato per lo spirito, come dice l’Apostolo, si finisce vergognosamente per la carne. Egli è vero che l’onestà e la convenienza, di cui le persone ben educate seguono le regole, le ritengono ancora nei limiti di un certo dovere. Ma non è men vero che nelle conversazioni frequenti, nelle assiduità continuate, la purità resta ordinariamente infetta dal soffio del serpente infernale; che non se ne esce giammai così puri, come quando vi si è entrato. Questi trattenimenti passansi forse senza sguardi di compiacenza, senza qualche protesta di amicizia? Or qual impressione non fanno su di un cuore già portato al male quegli sguardi, quelle parole, quelle proteste, quei modi piacevoli, quell’umor dilettevole di una persona che ha avuta l’arte di piacere? Non ne è forse egli continuamente occupato quando la lascia, e non sospira dopo forse il momento di rivederla? Or da che il cuore è così schiavo di un amor profano, la castità vi può ella sussistere? Ah! che si estingue del tutto! Invano dirassi che si resiste agli assalti del nemico, rinunciando alle idee e alle impressioni che ricevute si sono da tal sorta di compagnie; ma non è forse sempre mettere la castità a critiche prove l’esporla ad un’aria infetta? Si può forse ignorare infatti che è molto difficile resistere a tutte le lusinghe che presenta l’occasione, e non lasciarsi andare ad una certa sensibilità che strascina il cuore? E non si sa forse che i pensieri contrari alla purità, benché disapprovati e rigettati, sono volontari nella causa che li fa nascere? il che basta per offendere la delicatezza di questa virtù. – Egli è dunque vero che la castità è una virtù molto delicata e molto difficile a conservare per il gran numero di nemici che l’attaccano al di fuori. Ma quand’anche nessun oggetto esteriore le portasse dei colpi, noi abbiamo dentro di noi medesimi il principio e la cagione della sua rovina; noi portiamo questo tesoro in vasi fragili, pronti ad ogni momento a rompersi. Noi sentiamo nei nostri membri una legge funesta che combatte contro quella dello spirito, e di cui può la virtù più soda e più severa con grande stento trionfare. Testimonio l’apostolo s. Paolo, che se ne lamentava egli medesimo, e che, malgrado le austerità con cui affliggeva il suo corpo; aveva ancora bisogno della grazia per rispingere gli assalti dello spirito impuro; testimoni i Girolami, i Bernardi, i Benedetti, i quali si percuotevano aspramente, si ravvolgevano nelle spine, si gettavano in stagni gelati per smorzare il fuoco nascente della concupiscenza. Or se i santi hanno sostenuto questi umilianti assalti, sì lontani com’erano dalle occasioni, estenuati dai rigori della penitenza; se han gemuto sì lungo tempo sopra la dolorosa necessità in cui erano di risentire gli stimoli della carne, come assicurarci della vittoria in mezzo delle occasioni da cui siamo circondati, con una vita molle e sensuale di cui siamo schiavi? Oimè! basta un soffio per oscurare la bellezza di questo specchio; un solo pensiero che le sia contrario, porta ad essa un colpo mortale, tostoché volontariamente vi ci fermiamo; le altre virtù non sono sempre in pericolo di perdersi, ma la castità corre rischio in ogni tempo, la notte come il giorno, nei luoghi sacri come nei profani; la solitudine medesima non la mette al sicuro dagli assalti del suo nemico; dappertutto con noi la portiamo in una carne ribelle alla legge di Dio. Vi sono virtù che possono e che debbono comparire in pubblico per l’edificazione del prossimo; ma la castità non vi comparisce quasi mai che a suo danno: egli è così difficile, dice il Crisostomo, il conservarla in un mondo corrotto, come il camminare su carboni accesi senza essere bruciato, sopra punte di spade senza rimanerne ferito. – Ma da tutto questo che cosa bisogna conchiudere? Dobbiamo noi ricercarla questa virtù o perderci di coraggio per abbandonarci all’inclinazione di una natura corrotta che ci porta a quel che può appagarla? A Dio non piaccia, ripiglia il Crisostomo parlando al suo popolo, a Dio non piaccia, che voi seguitiate le massime perniciose di quegli impuri, di quegli uomini voluttuosi, che, facendosi una necessità del vizio, si sforzano di distruggere la virtù, e falsamente persuasi che né l’uno né l’altra non è libera, si abbandonano alle loro passioni. Se lo sregolamento non dipendesse dalla libertà, perché, dice il medesimo dottore, Gesù Cristo nel suo Vangelo farebbe tanti elogi alla virginità, e proporrebbe come un mezzo salutevole l’esempio di coloro che ne seguono la pratica? Se fosse impossibile custodire la castità; e che il vizio contrario non fosse in nostro arbitrio, Dio infinitamente giusto, potrebbe Egli condannare a pene eterne i fornicatori, gl’impudichi per avere commessi delitti che non potevano evitare? Ciò non si può dire senza bestemmia; Iddio nulla comanda d’impossibile, né può punir l’uomo che per l’uso malvagio che egli fa della sua libertà. Ma giacché questa virtù è così delicata, bisogna anche conchiudere che noi dobbiamo usare molte precauzioni per conservarla. Quali sono queste precauzioni? Quali sono questi mezzi? Io li riduco a tre principali, che sono la fuga delle occasioni, la mortificazione dei sensi e l’orazione. Infatti, fratelli miei, per conservare la castità, bisogna tenerla lontana dai colpi dei suoi nemici e munirla di ripari che la difendano. Or la fuga delle occasioni ci fa trionfare dei nemici esterni; la mortificazione e l’orazione ci rassicurano contro quelli che sono dentro di noi. Se vi sono virtù che attaccano il nemico di fronte, come la forza e lo zelo, ve ne sono ancora che non possono vincere che con la fuga, come la castità; non è che nella fuga che essa trova la sua sicurezza: Fuge, et vicisti. Ed invero, se i nemici di questa virtù sono già sì formidabili nel tempo ancora che non li cerchiamo, e che si presentano a noi, che sarà poi quando si avrà la temerità di eccitarli alla battaglia? Esporsi nelle occasioni pericolose alla purità gli è un essere di già mezzo vinti, un andar d’intelligenza col nemico, un capitolare con lui per consegnargli la piazza. Da che si ama l’occasione del peccato, si ha dell’affetto per l’oggetto di sua passione, e tosto che l’oggetto è presente, qual impressione non fa egli sopra di un cuore già dalla sua inclinazione strascinato? Oimè! i più grandi santi avevano molta pena a difendersi dai colpi di questo nemico nel tempo medesimo che lo fuggivano, e che per evitarlo si rintanavano nelle solitudini. Come dunque resistergli allora quando ce ne avvicineremo con passioni vive e sempre pronte ad infiammarsi? Oimè! una funesta esperienza della maggior parte degli uomini pur troppo ne chiarisce che non dobbiamo aspettarci se non una vergognosa sconfitta. Bisogna dunque, fratelli miei, se volete vincere in questo genere di combattimento, allontanarvi da tutto ciò che è capace di pervertirvi, come sono gli spettacoli, le danze, le compagnie pericolose, la lettura di cattivi libri, le amicizie, gl’intrattenimenti con persone di diverso sesso; in una parola da tutti gli oggetti capaci di dare assalto alla castità. – Io so, e debbo dirlo per consolazione delle anime che amano Dio, io so che malgrado tutte le precauzioni che prender si possono, egli è molto difficile vivere nel mondo senza trovarvi oggetti pericolosi, che non è possibile di evitare tutti gli assalti dei nemici. Come dice l’Apostolo, non tutti possono prendere il partito del ritiro per fuggire i pericoli; vi sono certe compagnie oneste cui non siamo obbligati di rinunciare, da che la virtù non vi è esposta a far naufragio. Ma quel che è a tutti necessario si è di evitare le occasioni prossime, cioè quelle che di loro natura sono capaci di far cadere nel peccato, o che non essendo tali di loro natura, lo sono per rapporto alla malvagia disposizione delle persone che vi si espongono, e che provano colla esperienza la loro debolezza a resistervi. Quel che è necessario a coloro che sono impegnati in certe amicizie sensibili, benché le credano innocenti, si è di rompere queste amicizie tostochè esse tendono alla rovina della castità; e quand’anche non andassero fin là e nulla anche avessero di colpevole, cessano di essere innocenti per questo appunto che cagionano dello scandalo. Quel che è finalmente a tutti necessario nelle occasioni anche remote ed indifferenti, ove la castità nulladimeno può soffrire alcuni assalti, si è, per preservarsi dal rischio di perderla, di mortificare i suoi sensi, che sono come le porte per dove la morte entra nella nostr’anima. Imperciocché, fratelli miei, è egli forse meraviglia vedere il nimico padrone di una piazza non solo aperta al suo passaggio, ma in cui si è procurata una segreta intelligenza? Noi abbiamo dentro di noi medesimi un nimico domestico, che è la nostra carne, una natura corrotta che ci porta verso gli oggetti sensibili; egli è dunque necessario domare questo nemico, indurre questa carne in schiavitù, mortificare i suoi sensi con l’interdire loro tutto ciò che può soddisfarli in pregiudizio della legge di Dio. Bisogna soprattutto chiuder gli occhi agli oggetti pericolosi: mentre questi è di tutti sensi il più difficile a contenere, è quello che più presto ci scappa, e che trova più facilmente il suo oggetto che tutti gli altri. Facciamo dunque, come Giobbe, un patto con i nostri occhi, per non fissarli giammai sopra oggetti capaci di far su di noi qualche malvagia impressione: Pepigi factum cum oculis meis, ne cogitarem de virgine. Chiudiamo le nostre orecchie alle canzoni profane, ai discorsi osceni, alle conversazioni troppo libere; mortifichiamo il nostro gusto, e che la temperanza ci allontani dagli eccessi e dalla delicatezza dei cibi capaci di eccitare in noi il fuoco delle passioni. La castità è un fiore attorniato da spine e che non si trova punto nelle dolcezze di una vita molle e sensuale. La modestia, che è una conseguenza della mortificazione, serve ancora di difesa alla castità. Questa virtù contiene non solamente tutti i nostri sensi nei limiti del dovere, ma regola ancora tutto il nostro esteriore, e nelle vestimenti e nei modi che dobbiamo avere col prossimo essa ignora quegli ornamenti mondani, quelle arie scherzevoli e troppo libere che sono nello stesso tempo i segni di un cuore poco casto e portano la contagione nel cuore altrui. – Ma siccome tutta la nostra forza vien da Dio, a Lui bisogna indirizzarsi per assicurarci dalla vittoria; la continenza è un dono di Dio, dice il Savio, e non l’accorda, che a coloro che gliela domandano: Scivi quoniam continens esse non possem, nisi Deus det. Infatti, se la grazia è necessaria per lavorare ad imperar la salute, essa deve esserlo principalmente nelle occasioni in cui, per acquistare e conservare la virtù, noi abbiamo grandi ostacoli a superare; or la castità è delle virtù la più preziosa e la più difficile a conservare: andiamo dunque spesso ai piedi degli altari ad indirizzare a Dio le preghiere del santo re Davide: noi abbiamo bisogno del soccorso della grazia, che conviene chiedere a Dio con ferventi preghiere, all’esempio del re Profeta: datemi, o Signore, un cuor puro e staccato da ogni oggetto sensibile per non attaccarlo che a Voi solo: Cor mundum crea etc. Ricorriamo ancora a questo fine alla Regina dei vergini, indirizzandole ogni giorno alcune preghiere per ottenere questa grazia: accostiamoci sovente ai sacramenti, che ne sono la sorgente: La penitenza ci servirà di rimedio contro il veleno della libidine, e la santa Eucaristia, unendoci alla carne verginale di Gesù Cristo, ci conserverà in una inviolabile purezza. Inebriati di quel vino che fa germogliare le vergini, noi diverremmo inaccessibili ai colpi del nostro nemico. Felici sono coloro che avranno il cuor puro, dice Gesù Cristo, perché vedranno Dio nel soggiorno della sua gloria: Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Dan IX: 17;18;19
Orávi Deum meum ego Dániel, dicens: Exáudi, Dómine, preces servi tui: illúmina fáciem tuam super sanctuárium tuum: et propítius inténde pópulum istum, super quem invocátum est nomen tuum, Deus.

[Io, Daniele, pregai Iddio, dicendo: Esaudisci, o Signore, la preghiera del tuo servo, e volgi lo sguardo sereno sul tuo santuario, e guarda benigno a questo popolo sul quale è stato invocato, o Dio, il tuo nome.]

Secreta

Majestátem tuam, Dómine, supplíciter deprecámur: ut hæc sancta, quæ gérimus, et a prætéritis nos delictis éxuant et futúris.

[Preghiamo la tua maestà, supplichevoli, o Signore, affinché questi santi misteri che compiamo ci liberino dai passati e dai futuri peccati.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps LXXV: 12-13
Vovéte et réddite Dómino, Deo vestro, omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera: terríbili, et ei qui aufert spíritum príncipum: terríbili apud omnes reges terræ.

[Fate voti e scioglieteli al Signore Dio vostro; voi tutti che siete vicini a Lui: offrite doni al Dio temibile, a Lui che toglie il respiro ai príncipi ed è temuto dai re della terra.]

 Postcommunio

Orémus.
Sanctificatiónibus tuis, omnípotens Deus, et vítia nostra curéntur, et remédia nobis ætérna provéniant.

[O Dio onnipotente, in virtù di questi santificanti misteri siano guariti i nostri vizii e ci siano concessi rimedii eterni.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (128)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO VII.

Si segue a difendere dalle imposture degli eretici i miracoli della Chiesa, con dimostrare come questi ancor le abbisognino.

I. Quei medici che non badano nelle cure se non ad un solo indizio, quanto son facili a formare i loro pronostici, tanto sono anche facili a dare in fallo. Mirate se non accade l’istesso de’ novatori! Dicono che essendo la fede propagata già quanto basta per l’universo, l’asserir più miracoli è vanità, come quei che non abbisognano: piuttosto doversi dire che dai primi secoli in qua sia nella Chiesa già seccata la vena delle meraviglie promesse, o almeno sia stentata e poco vegnente.

II. Ma primieramente, chi ha detto ai novatori, che Dio nella Chiesa, non operi, se non ciò che è di precisa necessità? Non ci ha la bontà divina provveduti con tale ridondanza di beni nell’ordine di natura, che poté dirsi aver lei pensato fino a tenerci in delizie? E perché dunque sarà poi stata sì scarsa nell’ordine della grazia? Questo è con un filo di pochi palmi, cioè colla miseria propria dell’uomo, volere scandagliare quel pelago della beneficenza divina che non ha fondo. Ma ove anche si volesse stare a un tal filo, non è nemmeno vero che i miracoli non siano necessari a’ dì nostri; anzi sono per molti capi (Dato, e non concesso, che i miracoli non tornino più necessari a’ dì nostri, ma che pure siano stati da Cristo compiuti a’ tempi suoi in argomento della divinità di sua religione, rimarrebbe purtuttavia in pie la tesi sostenuta dal nostro autore , che cioè la religione cristiana è l’unica vera e divina fra tutte le note).

III. Sono di necessità per la conversione di nuove genti alla fede, come è avvenuto-nelle Indie, dove un sol Francesco Saverio ne operò tanti, perché erano necessari a domar l’orgoglio di popoli sprezzatori di tutto ciò che non era frutto natio delle loro terre.

IV. Sono altresì di necessità fra i Cristiani, perché non cessando i lupi di vestirsi da agnelli per ingannare, debbesi anche alla religione cattolica questo nobile privilegio delle opere prodigiose, per discernere meglio la Chiesa, sposa di Cristo, da quelle sette, che Egli non ammette per sue.

V. Sono di necessità, affinché Dio mostri a tutto il genere umano la sua speciale assistenza sugli affari di noi mortali. Conciossiachè se scorressero molti secoli senza alcuna opera superiore a tutte le forze della natura, si condurrebbero gli uomini di leggieri a persuadersi che tutto avvenisse per impulso della natura medesima: sicché le cose umane andasser da sè, come un oriuolo una volta carico; né avessero altro moderatore distinto dal proprio peso.

VI. Sono di necessità a stabilire noi fedeli in più altre nostre credenze particolari, e a farci aderire immobili a quella pietra, contra cui tanti sono del continuo que’ flutti che si sollevano. Onde se sant’Agostino diceva che a detta pietra stava legato il suo naviglio coi canapi dei miracoli: Teneri se in ecclesia vinculis mìraculorum (S. Aug. 1. de util. cred. c. 17. et contra ep. fund. c. 4); chi non sa che quanto più sono i canapi, tanto tengono ancora più forte il burchio?

VII. Sono, di necessità a glorificare i santi, amici di Dio, che fu sempre vago di onorare in vita ed in morte con eccessi proporzionati alla magnificenza del suo potere (V. Alph. A Castr. V. Miracul.). Ond’è che non solo vuol fare dei miracoli in grazia d’essi, ma vuole che sian essi quei che li fanno a dispetto di chi non può sopportare un linguaggio tale, non avvertendo che tal fu il linguaggio di Cristo: Qui credit in me, opera, quæ ego facio, et ipse faciet. et maiora horum faciet (Io. XIV. 12): dove quantunque tutti al certo i miracoli da lui vengano, non dubitò dirli opere de’ suoi servi.

VIII. E finalmente sono di necessità, secondo la soavità della provvidenza, perché gli uomini, allettati da’ benefizi temporali, sperino con più fiducia gli eterni, e per gratitudine esercitino vari atti di pietà verso Dio (risvegliati dal loro sonno a forza di una luce viva e veemente, che dia loro su gli occhi fuor dell’usato), e gli esercitino verso ì santi, sì cari al cielo.

IX. Ben è vero che se alla Chiesa convenne un corso di prodigi continuo, non convenne però che questi l’allagassero sempre ad eguale altezza. Così nel principio della legge mosaica fu stabilita la sua prima credenza con moltissime meraviglie, che veramente non ristettero mai, ma seguirono in minor copia, finché si inaridirono totalmente dopo il ripudio che Dio finalmente fé della sinagoga, micidiale a Lui tanto barbara, non più de’ soli servi, ma del Figliuolo. Anche tra gli uomini noi veggiamo che non si rinnovano ad ogni tratto tutti quegli apparati i quali si adoperarono nelle nozze della reina, mentre a riconoscerla nel decorso per vera sposa del re basta la solennità che allor procedette, ed il corteggio che l’accompagna tuttora benché men grande. Parimente la vera Chiesa, sposa di Cristo, fu da principio messa in trono al cospetto dell’universo, con pompa non più veduta: ma questa pompa si è ita scemando assai ne’ seguenti secoli, mercecchè a sì degna sposa basta ora un accompagnamento più positivo a formar la corte.

X. E questa medesima è la ragione, per cui nella conversione del nuovo mondo, benché i miracoli non sieno mancati mai, non sieno però stati universalmente sì numerosi, come furono nei primi propagatori dell’Evangelio. La ragione è, perché gli antichi prodigi bastevolmente anche durano nella memoria de’ predicatori presenti, e nella conversione del mondo antico; il quale in luogo dì miracolosa patente spedisce al nuovo uomini di somma pietà, di somma dottrina, di somma delicatezza; fa che abbandonino lieti la bella Europa, e gli induce a varcar l’oceano fra mille rischi per puro zelo di giovare a que’ barbari sconosciuti e selvaggi. senza curar però dalle loro pesche sì rinomate altre perle più elette che le loro anime.

XI. Nel rimanente è manifestissimo, che secondo la ragion retta debbono tra noi ora i prodigi avvenir di rado, mentre ad una pianta già radicata, quale ora è la fede cattolica in tutto il mondo, non si confà quel medesimo inaffiamento che richiedevasi ad una pianta ancor tenerella. Oltre a che, se i miracoli fossero frutti di qualunque stagione, non sarebbero più miracoli, nè gioverebbero al fine da loro inteso, che è di eccitare la mente umana, vaga sempre più dell’insolito, che del grande.

XII. Questo medesimo diminuirebbe in gran parte il merito della fede, e soggetterebbe agevolmente molti anche dei Cristiani a quel rimprovero che il Salvatore fe’ agli ebrei quando disse: Nisi signa et prodigio, videritis, non creditis: dolendosi Egli de’ segni da loro chiesti, non perché a Lui fosse difficile il darli, ma perché i dati bastavano a dichiararlo più che uomo puro. Quindi la copia eccessiva de’ miracoli susseguenti sarebbe, per cosi dire, una ingiuria de’ precedenti, quasi che non fossero stati da sé bastanti a provare il vero; e il recarli di nuovo in tanto gran numero sarebbe non appagarsi di un giudizio autorevole già precorso, ma voler sempre richiamare a nuova lite quei punti che furono già decisi con più sentenze uscite dal cielo.

XIII. Pertanto questa maggiore parcità di miracoli che ora abbiamo, non reca alla Chiesa cattolica alcuna taccia. Ma quale taccia non reca alle nuove sette quella penuria totale che n’è tra loro? Tra loro sì che sarebbero necessari a tutto rigore. E per qual ragione? Eccola qui manifesta.

XIV. Già la Chiesa cattolica era in possesso, per più di quindici secoli, di essere la vera Chiesa di Cristo, stabilita sopra il fondamento degli Apostoli, e de’ profeti, confermata colla testimonianza d’innumerabili martiri, e specialmente dilatata per tutto colla celebrità di innumerabili meraviglie che l’erano andate innanzi facendo strada, quasi tanti araldi celesti. Quando un apostata, invidioso, impuro, ubbriaco, alza la prima bandiera di ribellione, e col seguito di alcuni popoli invaghiti di libertà, e di alcuni principi subornati dall’interesse, fa sapere a tutta la cristianità, che egli è inviato dal cielo per riformarla sì nel credere, come nell’operare. Ma piano. Ove è la patente di una spedizion tanto inaspettata? Noi siamo ammoniti in tempo dalle scritture, che avranno da venire falsi profeti i quali si vanteranno di essere mandati da Dio come pastori a bene delle anime, e di verità saran lupi scappati su dagli abissi per divorarle. Come saprà dunque il mondo, che il superbo Lutero non sia di questi? e che di questi parimente non sieno un Calvino, un Carlostadio, uno Zuinglio, ed altri lor pari, massimamente che tutti si contradicono, e per tutti si spacciano per maestri di verità spediti dall’alto? Non si possono di certo render sicuri del loro carico e delle loro commissioni, se non coll’assistenza di opere prodigiose che gli accompagnino quasi lettere pubbliche di credenza. Tale è stato sempre il tenore della provvidenza amorevole. Quando ella veramente ha volute, che ad alcuni pochi dalla moltitudine si dia fede in cose difficili, gli ha prima con doni soprannaturali accreditati di modo, che non si potessero rifiutar le loro asserzioni senza colpa dì grave temerità. Così confessa tra i novatori il medesimo Melantone. Ma senza curare la confessione di lui, così miriamo fatto già con Mosè, con Giosuè, con Gedeone e poi co’ profeti, indi con tutti gli apostoli ad uno ad uno. E se con Giovanni Battista fu necessario di alterar questa legge, con inviarlo senza raggi al volto di simili meraviglie fatte da lui (perché non fosse creduto il Messia promesso), si supplì a ciò bastevolmente con altre meraviglie fatte per lui nel suo nascimento, le quali furono tali, che, divolgatesi dentro tempo brevissimo dalla fama, renderono tutta attonita la Giudea nell’aspettazion di quel giorno che era per sorgere da crepuscoli ricchi di tanta luce: Quis putas puer iste erit? Dove io discorro di vantaggio così. La sola vita del precursore potea da sé bastare per dare alle sue parole un continuo peso di autorità incontrastabile, tanto doveva ella essere vita austera, pura, perfetta, e di costumi angelici più che umani. Eppure Iddio non fu pago, che la predicazione di lui stabilisse tutto il suo credito in un tal fondo. Volle, che oltre alla vita potesse anch’ella additare le sue meraviglie, se non compagne del nobile ministero, almeno foriere. Quanto più dunque si richiederanno queste meraviglie medesime per autenticare in persone di vita laida una predicazione sì mostruosa, che getta a terra ogni virtù immaginabile, che fa Dio autor del peccato, che altera sacramenti, che abbatte sacrifizi, che sprezza riti, che mette in deriso a’ popoli il purgatorio, che scioglie i sacerdoti dal celibato, che spoglia i santi di culto, che sconvolge tutto il sistema del Cristianesimo? Io dico, che se Lutero e i simili a lui fosser vivuti come tanti angeli in carne, il mondo non dovrebbe lor porgere alcuna fede, mentre essi portano una dottrina contraria al detto di tutti i padri, a’ decreti di tutti i pontefici, all’autorità di tutta la Chiesa cattolica, e agli avvisi lasciatici dal vangelo: Licet nos, aut angelus de cœlo evangeliget vobis præter quam quod evangelizavimus vobis, anathema sit (Galat. 1. 8). Come si dovrà dunque lor credere in una vita sì dissoluta, poiché in tal vita non pur essi non possono cavar fuori una vera sottoscrizion dell’Altissimo ai loro detti, ma né anche una contraffatta? Questo solo basta a scoprirli per quei che sono, cioè per usurpatori di autorità, non solamente insolita, ma insolente, non mai loro data dal cielo ad esercitare. Noi finalmente quando confessiamo ancora di non avere al presente tanti miracoli, diremo di non averli, perché gli abbiamo già avuti piuttosto in copia, che in carestia. Ma che potran dire quei che né gli hanno al presente, né gli ebber mai? Sicuramente non potran dire d’esser messaggi del cielo, mentre che non ne mostrano le patenti: Si quis adserat se cura secretis imperatoris mandatisvenire, illi non est credendum, nisi in his quæ scriptis probaverit (L. si quis adserat C. demand. principum). Ed eccovi come quei miracoli, i quali tra noi presentemente abbisognano, ma solo di convenienza, tra loro abbisognerebbero di rigore. Eppure ove sono?

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (40)

SUNTO STORICO DELLE ERESIE NEL LORO RAPPORTO COL PANTEISMO E COL SOCIALISMO (3).

[A. NICOLAS: “Del Protestantesimo e di tutte le eresie nel loro rapporto col socialismo”, vol. I – Napoli, tipogr. e libr. Gabr. ARGENIO – 1859]

Eresie del terzo periodo -1-

Il rapporto di tutte le eresie col panteismo è vero e costante sino ad esser nojoso. Il che però non ci terrà dal seguitarne l’esposizione poiché a nostro giudizio ne risulta una delle prove più luminose della verità di nostra fede e della necessità di far ritorno ad essa. Noi siam costretti a domandarci come mai una dottrina da cui non ci possiamo allontanare senza riuscir da tutte parti agli abissi non è la verità! come mai, se non fosse la verità medesima, potrebbe essa sola, fra tutte le concezioni e tutte le istituzioni, preservarci da questo fatal destino e preservarne il mondo facendolo del continuo progredire! Come mai ella regga sì bene e si conservi sì bene nell’operosità della sua scienza, per mezzo de’ suoi dottori e della sua universale applicazione, per mezzo de’ suoi apostoli, senza esagerazione né diminuzione né deviazione né confusione, e stia, benché sia stata sempre provocata, sempre bersagliata dalla violenza o dalle insinuazioni delle eresie, senza posa rinascenti intorno a lei, ma riconosciute appena nate, e fulminate appena riconosciute, senza che alcuna di esse abbia mai potuto, non dico atterrarla, ma neppur sorprenderla o imbarazzarla neppure una volta nel lungo correre di oltre diciotto secoli, e siano invece riuscite a favoreggiar la sua esposizione ed a provar la sua sapienza? Diversamente della statua marina di Glauco, che i flutti sempre battenti avevano sfigurata e mutata in un informe scoglio, la figura della Chiesa non è mai alterata dai flutti dell’eresia; e l’eresia venendo, continuamente a rompere contra di lei, ne ha fatto tutto al contrario uscir sempre più manifesti i tratti divini. Noi ci domandiamo sopra tutto come mai, difendendo i suoi più alti misteri, o meglio il suo unico mistero, la Chiesa si trovi difendere tutta la serie delle verità naturali e sociali; e sentinella vigile, posta alle Termopili dell’incivilimento, come veda sempre da lungi il suo nemico, come lo riconosca non ostante tutti i suoi travestimenti e tutti i suoi stratagemmi, come lo percuota sempre con sicurezza senza che l’astuzia la possa mai sorprendere, né l’audacia sgomentarla, né muoverla la violenza, né scoraggiarla l’ingratitudine di questa società medesima che elle, protegge, e farle abbandonare la sua immortale impresa? Che diremo poi quando si osservi che la meraviglia già sì grande che ci fanno questi prodigiosi caratteri della Chiesa va associata alla meraviglia della loro predizione e dell’infallibile parola che fino dal suo nascere e prima del suo nascere promise alla Chiosa tale stabilità contra la quale non potranno prevaler mai gli assalti dell’errore? – Tutto ciò si comprende facilmente da quelli che credono alla divinità dell’istituzione della Chiesa; rispetto a quelli che non vi credono ancora, essi non possono rispondere che col più muto stupore. Ma importa assai di accrescere questo stupore e così incalzarlo che non trovi più alcun termine ragionevole se non nella fede. – Dopo le eresie del periodo che abbiam chiamato dogmatico o teologico, vengono le eresie del periodo scolastico, quelle del secolo IX fino al XVI. Qui non vediamo eresie propriamente nuove, poiché le solenni decisioni della Chiesa avevano innanzi definite tutte le questioni; in quella vece vediamo da una parte una disposizione vaga all’eresia delle eresie, cioè all’indipendenza da ogni autorità, la quale prorompe la mercé di settari audaci; dall’altra vediamo il veleno delle prime eresie gnostiche e manichee diffondersi di nuovo, traviare i popoli ed esporre la civiltà ai più grandi pericoli.

I. — Noi non faremo lunghe parole dell’islamismo, il quale ha ritolto all’incivilimento i luoghi che furono la sua culla. Basti alcun cenno, l’islamismo si è stabilito la mercé dell’arianesimo, del nestorianismo e dell’eutichianismo, che infestavano allora tutto l’Oriente. Di fatto, queste tre eresie, attaccando il dogma dell’incarnazione e quello della maternità divina, aprirono la porta alla gran barbarie pel doppio battente del deismo fatalista e dell’avvilimento della donna. Perciò, cosa notevole, i due sentimenti opposti precipitarono l’Europa sull’Asia, e contrastarono questa alla barbarie, di cui liberarono almen quella: il culto di Gesù Cristo e il culto della donna; la croce e la cavalleria. Lascio che ciascuno sviluppi questi cenni e ne segua le luminose indicazioni.

II. — Lo scisma di Fozio, oltre che attaccava il principio dell’unità della Chiesa, conteneva un principio di eresia intorno alla processione del Santo Spirito, e per mezzo di questo partecipava indirettamente dell’arianesimo. Del resto, per quanto può sussistere un ramo separato dal tronco, la chiesa greca ha conservato nella loro forma le antiche tradizioni del Cristianesimo; anzi le ha conservate sino alla superstizione, e questa fedeltà minuta in alcuni riti primitivi, il cui mutamento non guasta in verun modo la sostanza della dottrina, non è in questa chiesa che una singolarità e sopra tutto un effetto della sua immobilità e del suo difetto di vita. È una testimonianza meravigliosa della vita divina in seno alla Chiesa Cattolica il confronto del suo stato e della sua azione collo stato e coll’azione della chiesa greca. La chiesa greca aveva per sé sulla Chiesa Romana questo immenso vantaggio, che pel luogo e pel centro in cui era posta era erede più immediata dell’incivilimento antico e del primo incivilimento cristiano. Costantinopoli, Antiochia, Efeso, Corinto, tutta l’Asia minore, tutto l’Arcipelago greco, ove i primi raggi della fede cristiana vennero a incrociarsi cogli ultimi raggi dell’incivilimento antico, ove l’impression viva e continua della vita del Salvatore, delle predicazioni apostoliche, dei primi combattimenti e de’ primi concili della Chiesa, delle prime testimonianze de’ Suoi confessori e de’ suoi martiri, e del miracolo luminoso della conversion del mondo pagano, della conversione di quello che esso aveva di più corrotto in ciò che v’ebbe mai di più puro e di più santo; tutte queste impressioni, tutte queste ispirazioni, tutti questi flutti di luce, di tradizione, di fede, di grazia, di vita, zampillanti dalle loro sorgenti medesime, davano alla chiesa greca un vantaggio immenso sulla Chiesa Romana. Come usò essa di questo vantaggio?Non solamente non l’ha propagato, non solo non l’ha conservato, ma lasciò che la notte della barbarie invadesse le regioni della luce; ed essa medesima vi è rimasta sepolta e stagnante senza far mai alcun sforzo per uscirne, e non presenta oggidì altro più che un cumulo di eresie e di superstizioni materiali cui la simonia compra dal dispotismo il diritto di traini dividendone con esso i profitti. La Chiesa Romana per lo contrario, inondata sin dal principio dai barbari; alle prese colle più maligne e più perseveranti eresie, dovendo combattere al tempo stesso l’ignoranza e la falsa scienza, la violenza e la sottigliezza; ricevendo in ogni istante nel suo seno elementi strani! ad ogni origine e ad ogni tradizion cristiana; distendendo essa medesima il suo apostolato nelle regioni, più lontane, più barbare, più selvagge, ove la lingua, i costumi, le superstizioni, le abitudini, il clima, le comunicazioni, tutto era ostacolo, pericolo, tutto doveva, umanamente parlando, alterarne, pervertirne, perderne la disciplina e la dottrina; la Chiesa Romana, ripeto, non solamente si è mantenuta intatta e libera in mezzo a questa confusione e a questi ostacoli, ma ha operato altresì su tutti questi clementi barbari, li ha signoreggiati, disciplinati, fusi; essa li ha ispirati del suo soffio, vivificati della sua vita; ha tratto da essi un incivilimento all’atto nuovo; essa ha raccolto ben anco gli ultimi avanzi dell’incivilimento antico che la chiesa greca non ha saputo conservare, e che da Costantinopoli sono venuti a riparare a Roma; essa ha creato il mondo moderno, il mondo attuale, in ciò che v’ha di più animato, di più puro, di più ricco e di più forte, a tal che esso non può opporre alla Chiesa medesima altro che l’abuso de’ benefizii che ne ha ricevuti. Qual prova più luminosa che la sola Chiesa Cattolica ha le promesse di Gesù Cristo, e che queste promesse sono divine così per la società del tempo come per quella dell’eternità!

III. — Ma è d’uopo che noi torniamo ad osservar questa verità ne’ particolari delle eresie del periodo scolastico, cogliendo il rapporto di ciascuna di esse col panteismo. Il primo movimento di eresia scolastica ci appare nel famoso Scoto Erigena. Per mostrare il rapporto della sua eresia col panteismo, non posso far meglio che lasciar parlare uno degli storici più esatti ed uno degli apprezzatori più riservati e più indulgenti degli avvenimenti cattolici. – « Malgrado la sua perspicacia divinatoria, dice Alzog, Erigena non seppe guarentirsi da’ più gravi errori. Dovendo lottare contra espressioni talvolta ribelli, nella sua esposizione delle verità intelligibili, egli non rimase sempre fedele al suo proprio principio di ben distinguere i termini propri e figurati, li confuse troppo spesso, ne abusò, divenne il predecessore di Berengario nella sua dottrina dell’Eucaristia e porse immediatamente occasion agli errori posteriori sui rapporti della fede e della scienza, di Dio e del mondo, sulla natura del male e sulla predestinazione. Le sue opinioni diventarono la sorgente, donde più tardi si trasse una teoria positivamente panteista. » (Elzog). Così, ecco uno spirito per niun modo mal intenzionato, ma temerario, il quale invece di svilupparsi nella profondità e sublimità della dottrina cattolica, come fece cosi potentemente il genio di san Tommaso, vuol passarne i confini; egli fa un passo fuor del dogma dell’Incarnazione eucaristica, e incontanente ove si dirige egli, ove riesce? Al panteismo! – Lo storico dal quale abbiam preso il giudizio che lo risguarda è uno  de’ più moderati verso di esso : egli fa ogni potere di scusarlo: « Gli è perché fu disconosciuta, dice egli, la distinzione chiaramente stabilita da Scoto tra il linguaggio proprio e il linguaggio improprio applicato al Creatore, che esso fu generalmente rimproverato di essere- panteista …. La proposizione, Dio è in tutto e diventa tutto, vuol dire secondo Erigene: Dio si manifesta in tutto: tutto ciò che è creato – è manifestazione di Dio ». Questa spiegazione è almeno molto benevola; ma la tendenza al panteismo non è punto meno manifesta nel dottor scozzese, e noi medesimi siamo troppo benevoli verso di lui non accagionandolo in ciò se non della colpa di tendenza.

IV. — La cosa che importa sopra tutto di notare come una verità che sembrerà forse eccessiva, e che nondimeno è molto positiva e molto logica, ben giustificata sopra tutto dalla sorte delle eresie che noi esaminiamo in questo momento, è che se il dogma dell’Incarnazione è preservativo del panteismo come dottrina, lo è a condizione che sia vivificato e realizzato in noi come sacramento. La realtà della presenza soprannaturale di Gesù Cristo nell’Eucaristia ci fa sentir vivamente la distinzione dell’infinito e del finito; (E se ne giudichi da questo passo: « Il fiume intero (dell’essenza suprema) sgorga dalla sorgente prima: l’onda che ne zampilla si spande in tutta l’estensione di questo fiume immenso, e ne forma il corso, che si prolunga indefinitamente. Così la bontà divina, l’essenza, la vita, la sapienza e tutto ciò che è nella sorgente universale, si spande prima sulle cause primordiali e dà loro l’essere; discende poscia per queste medesime cause sull’universalità de’ loro effetti di una maniera ineffabile, in una  progression successiva, passando dalle cose superiori alle inferiori: queste effusioni sono in appresso ricondotte alla sorgente originale per la trasparizion nascosa de’ pori più segreti della natura. Di in qua deriva ciò che è concepito e sentito, tutto ciò che è superiore ai sensi ed all’intelletto. » Il movimento immutabile della bontà suprema e triplice, della vera bontà sopra sè medesima, la sua semplice moltiplicazione, la sua diffusione inesauribile che parte dal suo seno e vi ritorna, è la causa universale, o meglio essa è tutto, imperocché, se l’intelligenza d’ogni cosa è la realtà d’ogni cosa, questa causa che conosce tutto è tutto; essa è la sola potenza gnostica; essa non conosce nulla fuori di sé medesima: non vi ha nulla fuori di lei; tutto è in lei; essa sola è veramente, » – De divisione naturæ – lib, III, pag. 4.); e la partecipazione a questa divina realtà ci fa provare la loro comunione senza nuocere alla loro distinzione, che anzi ce la rende tanto più profonda pel sentimento della reciprocità dell’amore che ne dimostra chiaramente i due termini: Dio e noi, Dio in noi e noi in Dio, distinti ed uniti, altrettanto distinti quanto è la miseria più profonda della creatura dalla triplice santità del suo Autore; e altrettanto uniti quanto debbono essere per un amore che supera questa distanza e questa distinzione: due sentimenti, due bisogni profondamente necessari al cuor dell’uomo; la cui soddisfazione, per mezzo del Cattolicismo, salva l’uomo da tutti i traviamenti ai quali quei sentimenti lo spingono quando manca loro il proprio oggetto. – La scolastica nel medio evo non fu volta da alcuni begli spiriti alla speculazion razionalista se non collo scuotere il contrappeso divino e mantenne nelle vie sicure e larghe della teologia positiva gli Anselmo, i Tommaso d’Aquino, i Lanfranco, i Bernardo, i Gersone, i Bonaventura, il cui genio andò debitore di tutta la vigoria ed esattezza del suo volo alle ispirazioni della fede pratica. L’allontanamento dell’esca di questa fede, la privazione del soprannaturale eucaristico, condusse gli altri all’indebolimento della fede in questo soprannaturale e in quello di tutta la religione e bontosto al panteismo. Se invece di studiar cotanto a spiegare in sé ciò che è inesplicabile, essi fossero stati fedeli alla pratica del sacramento divino, avrebbero conosciuto Gesù Cristo alla frazion del pane, si sarebbero conosciuti essi medesimi, avrebbero conosciuto tutte le cose molto meglio che non investigandole in sé medesime; o almeno sarebbero stati illuminati e preservati nei pericoli delle loro investigazioni. Se non che avendo essi spirito orgoglioso e cuor molle, soccombettero nella lotta dei sensi e si trovarono trascinati da questa schiavitù a quella falsa libertà di ragionare e di pensare, di cui i nostri moderni razionalisti hanno tanto esaltato in loro l’iniziativa, e che non è in sostanza altro che la libertà di traviare e di inabissarsi, inabissando insieme il mondo. Tali furono principalmente Berengario, Boscelino, Abelardo, Guglielmo di Champeaus, Amalrico di Chartres, David di Dinan, Gilberto della Porretta. Il dogma dell’Eucaristia era stato insino allora rispettato. Il solo Scoto Erigena aveva cominciato ad attaccarlo. Ma Berengario di Tours fu nel secolo undecimo l’autore di una vera eresia su questo punto: egli si dichiarò in maniera più forte e più formale ancora di Erigena contro il dogma della transustanziazionee della presenza reale, e fin l’autore della setta dei berengariani, i quali furono i precursori dei luterani e dei calvinisti, e sono stati condannati da molti concilii, segnatamente da quelli di Vercelli, di Tours, di Parigi e di Roma nel 1079. Si è preteso, quantunque il fatto non sia ben provato, che questi attacchi contra la fede nel dogma dell’Eucaristia, Berengario ne mescolasse altri contra i primi fondamenti della società: che condannasse i matrimoni legittimi; che professasse il principio dover le donne essere comuni; che riprovasse altresì il battesimo de’ fanciulli, e finalmente che trascorresse nell’eresia dei gnostici e de’ manichei (Bergier, Dizionario di teologia.).

V. — Roscelino fu autore di una eresia sulla Trinità, la quale consisteva in vedere nelle tre Persone divine tre esseri, e per conseguenza tre dei: fu l’eresia dei triteisti, condannati in un concilio tenuto a Compiègne nel 1092, e contra la quale sant’Anselmo scrisse il trattato dell’incarnazione del Verbo. – Con questo attacco contro il dogma della Trinità, Roscelino cominciò la famosa controversia sui reali e sugli universali, che agitò cotanto quell’età e che sotto questi nomi barbari occultava lo scoglio fatale dello spirito umano deviato dalla fede, del quale mostriamo la presenza sotto tutte lo eresie. Le idee generali degli esseri sono esse qualche cosa di reale o di puramente nominale? V’ha egli altro di reale oltre gli esseri in sé medesimi presi individualmente? Non vi ha di reale che gli esseri medesimi presi individualmente, e le idee generali non sono che una pura astrazion nominale, sostenevano Roscelino e i nominali. Le idee generali son per lo contrario le sole realtà, e gli oggetti individuali non ne sono che le forme e i fenomeni, dicevano i realisti (Le qualificazioni di nominali e di realisti s’intendevan cosi per rapporto alle idee generali: i nominali dicevano che esse non erano che un nome: i realisti dicevano che erano le sole realtà). – Chi non riconosce la nostra gran questione sotto queste formule? Le idee generali degli esseri sono per noi i tipi dietro i quali si particolarizzano gli esseri medesimi, e sui quali noi li giudichiamo; esse implicano la generalità dell’idea e dell’essere, l’essere medesimo come loro principio e l’intelligenza infinita come loro sede. Negare un valor reale alle idee generali è dunque negare la generalità dell’essere, l’essere medesimo, è cadere nel naturalismo. E da un altro lato, non ammettere di reale che lo idee generali, e non vedere negli esseri particolari che le forme delle idee generali, che fenomeni dell’essere, non è evidentemente un cadere nel panteismo. – Naturalismo o panteismo, tali sono dunque i due partiti pei quali la filosofia si traeva da questa gran quistione. Il Cattolicismo affermando egualmente la realtà distinta del mondo soprannaturale e quella del mondo naturale, e l’accordo di questi due mondi nella gran personificazione del Cristo; appresentandoci il Cristo come il Verbo, vale a dire come il pensiero, l’idea eterna dalla quale tutto è stato fatto e tutto è rifatto, sia nell’ordine terrestre, sia nell’ordine celeste, e questo Verbo medesimo fatto carne, il Cattolicismo, ripetiamo, salva mirabilmente, raccogliendole, senza confonderle, la realtà delle idee generali nella realtà dell’Idea divina, e la realtà degli oggetti particolari nell’Individualità umana del Cristo. Egli mette la filosofia sulla strada di determinare la loro distinzione e la combinazione loro nelle conoscenze umane; e lasciando che gli spiriti si esercitino nel campo della controversia, li rattiene almeno nei termini generali della verità e pone barriere ai precipizii.

VI. — Il famoso Abelardo fu il continuatore moderato di Berengario, di Roscelino, di Amalrico di Chartres e di David di Dinan. Separando come essi la scolastica dalla mistica, la teologia speculativa dalla teologia positiva, cercando temerariamente di fondare la fede sulla ragione, invece di innalzar la ragione sui fondamenti della fede, egli spiegò un gran prestigio di spirito e di cognizioni, tale però che tendeva ad uscire ed uscì spesso dai limiti della fede. Il concilio ci Soissons condannò la sua Introduzione alla teologia, a motivo di molte proposizioni eretiche sulla Trinità. E guardate la fatale concatenazione dell’errore, le medesime proposizioni si trovavano essere panteiste e corrispondevano a proposizioni licenziose. Così, secondo lui, il Padre, o meglio la paternità, era la suprema divinità che si sviluppo nel Figlio e nel Santo Spirito, a tal che il Figlio e il Santo Spirito non son nulla in sé medesimi (aliæ vero duæ personæ nullatenus esse queant). Era negare implicitamente il dogma dell’Incarnazione del Verbo, della sua mediazione tra il mondo e Dio, cui Egli unisce senza confonderli, e per conseguenza era un aprir la porta al panteismo; era già un introdurre nel seno medesimo della Trinità il principio dell’emanazione, il quale, ammesso una volta, non si arresta più, e si estende necessariamente a tutti gli esseri. Negar le Persone divine è lo stesso che essere condotto a negare le personalità umane. Dio, l’Essere per eccellenza, la vita medesima non può, come abbiam già detto, concepirsi senza rapporti, i quali sono per conseguenza necessari. Se voi, colla soppressione delle Persone divine, gli togliete i termini di questi rapporti in sé medesimo, voi siete recato a darglierli nel mondo, assorbendovelo, o assorbendo il mondo in Lui. Aberardo giungeva a questa proposizione positivamente panteistica: secondo lui « il Padre solo è ed esiste pel suo rapporto col mondo e con la sua manifestazione nel mondo. » Quindi le cose sensibili, gli atti esteriori, i fatti non avevano valore reale ed esistenza obbiettiva per Abelardo. Lo spirito solo era tutto, e il peccato consisteva solo nella volontà perversa e non nelle opere. L’amante di Eloisa apriva così la via all’illuminismo immorale delle sette del libero spirito. San Bernardo combatté sopra tutto quest’ultima proposizione dell’Etica di Abelardo. Egli fu contra questo chimerico e brillante ingegno il campione della Chiesa e della società, come sant’ Anselmo lo tra stato contro Roscelino, e il beato Lanfranco contra Berengario. È pur mirabile questa unione della santità e della verità ne’ gran dottori della Chiesa! oh come tutto l’uomo col genio e col cuore si regge fermo, e la società insiem con esso, sul fondamento della fede, fuor del quale non si può porre il piede senza vacillare e trascinar seco la società negli abissi!

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(Continua …)

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SUL PRIMO COMANDAMENTO

DOMENICA XII. DOPO PENTECOSTE

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sul primo Comandamento di Dio.

Dilìges Dominum Deum tuum.

(Luc. X, 27).

Adorare Dio, Fratelli miei, od amarlo è il più bell’ufficio dell’uomo sulla terra: poiché con questa adorazione ci rendiamo simili agli Angeli ed ai santi che sono in cielo. O mio Dio! quale onore e quale felicità per una vile creatura, poter adorare ed amare un Dio sì grande, sì potente, sì amabile e sì benefico! No, F. M., no: mi sembra che Dio non avrebbe dovuto farci questo comando: ma solo sopportarci prostrati alla sua santa presenza. Dio ci comanda di amarlo e di adorarlo! perché F. M.? Forseché Dio ha bisogno delle nostre adorazioni e delle nostre preghiere? Ditemi, F. M., siamo forse noi che circondiamo di raggi di gloria il suo capo? Siamo noi che aumentiamo la sua grandezza e potenza, poiché ci comanda di amarlo sotto pena di castighi eterni? Ah! meschino nulla noi siamo, creature immeritevoli di questa fortuna, di cui gli Angeli stessi, santi e puri quali sono, ci riconoscono infinitamente indegni, e, se Dio loro permette di prostrarsi davanti aLui, lo fanno tremando! O mio Dio! come l’uomo conosce poco la sua felicità ed il suo privilegio … Ma no, F . M., non usciamo dalla nostra semplicità ordinaria. Ah! F. M., questo pensiero che possiamo amare ed adorare un Dio sì grande, ci sembra così al disopra dei meriti nostri, che ci toglie il proposito della semplicità. Ah! poter adorare Dio, amarlo e pregarlo! Mio Dio, quale fortuna! chi potrà mai comprenderla?… No, F. M., tutte le nostre adorazioni e tutta la nostra amicizia nulla aggiungono alla felicità ed alla gloria del nostro Dio: ma siccome Dio vuole soltanto la nostra felicità quaggiù, così Egli sa che non la si trova se non nell’amore che avremo per Lui, e che tutti coloro i quali la cercheranno fuori di Lui non la troveranno mai. Di modo che, F. M., quando il buon Dio ci ordina di amarlo ed adorarlo, Egli vuole sforzarci ad essere f elici. Vediamo adunque tutti insieme:

1° in che consista questa adorazione che dobbiamo a Dio e che ci rende così felici; e

2° come dobbiamo rendergliela.

I. — Se mi domandate, F. M., che cosa è adorare Dio, eccolo: È ad un tempo credere a Dio e credere in Dio. Notate bene, F. M., la differenza che passa tra credere a Dio e credere in Dio. Credere a Dio, che è la fede anche dei demoni, è credere che vi è un Dio, che esiste, che ricompensa la virtù e punisce il peccato. Mio Dio! quanti Cristiani non hanno la fede dei demoni! Negano l’esistenza di Dio, e nella loro spaventosa cecità e frenesia osano sostenere che al di là di questo mondo non v’ha né punizione né ricompensa. Ah! disgraziati, se la corruzione del vostro cuore vi ha portati a questo eccesso di cecità, andate, interrogate un ossesso dal demonio; egli vi insegnerà ciò che dovete credere dell’altra vita: vi dirà che, necessariamente il peccato vien punito e la virtù premiata. Oh! qual disgrazia, F. M.! Quando la fede è spenta in un cuore, di quali stravaganze non si è capaci? Ma credere in Dio, significa riconoscere che Egli è il nostro Dio, il nostro Creatore, il nostro Redentore, e che lo prendiamo per nostro modello: è riconoscerlo come Colui dal quale dipendiamo in tutte le cose, per l’anima e pel corpo, per le cose spirituali e temporali: come Colui, dal quale tutto attendiamo, e senza del quale nulla possiamo. Leggiamo nella vita di san Francesco ch’ei passava le notti intiere senza far altra preghiera che questa: “Signore, voi siete tutto, ed io sono nulla; voi siete il Creatore di tutte le cose, voi siete il conservatore di tutto l’universo: ed io sono nulla.„ Adorare Dio, F. M., è offrirgli un sacrificio di tutto noi stessi, cioè, essere sottomessi alla sua santa volontà nelle croci, nelle afflizioni, nelle malattie, nelle perdite dei beni, ed essere pronti a dar la nostra vita, se occorre, per suo amore. Diciamo ancora di più : è fargli un a offerta universale di quanto siamo: cioè del nostro corpo col culto esteriore e dell’anima nostra e di tutte le sue facoltà col culto interiore. Spieghiamolo, F. M., in modo più semplice. Se domandassi ad un bambino: Quando bisogna adorare Iddio, e come si deve adorarlo? egli mi risponderebbe: “Mattina e sera, e spesso durante il giorno, cioè sempre. „ Il che vuol dire, F. M., che dobbiamo fare sulla terra ciò che gli Angeli ed i santi fanno in cielo. – Il profeta Isaia ci dice che vide nostro Signore seduto su un bel trono di gloria: i serafini l’adoravano con sì grande rispetto, che si facevano velo colle ali al volto ed ai piedi e cantavano continuamente: “Santo, santo, santo è il grande Iddio degli eserciti, gloria, onore, adorazione gli sian resi per tutti i secoli. „ (Isa. VI, 2,3). – Leggiamo nella vita della beata Vittoria, dell’ordine dell’Incarnazione, che v’era una religiosa del suo istituto assai devota e ripiena dell’amor divino. Trovandosi un giorno ella in orazione, nostro Signore la chiamò per nome: questa santa gli rispose nella sua semplicità ordinaria: “Mio divino Gesù, che volete da me? „ Il Signore le disse: “Io ho dei serafini nel cielo che mi lodano, mi benedicono, m’adorano senza tregua: voglio averne anche sulla terra, voglio che voi siate di questo numero. „ Vale a dire, F. M., che il compito dei beati nel cielo è di essere occupati soltanto a benedire il buon Dio in tutte le sue perfezioni, e che noi dobbiam fare altrettanto mentre siamo sulla terra: i santi trionfando e godendo, e noi combattendo. S. Giovanni ci dice che vide sì gran numero di santi, che sarebbe impossibile contarli: stavano davanti al trono di Dio, e dicevano con tutto il cuore e tutta la forza: “Onore, benedizione, ringraziamenti sian resi al nostro Dio. „ (Apoc. V, 11)

II. — Dico adunque, F. M., che dobbiamo spesso adorare Dio, 1° col corpo: cioè dobbiamo metterci in ginocchio quando vogliamo adorarlo, per mostrargli il rispetto che abbiamo della sua santa presenza. Il santo re Davide adorava il Signore sette volte al giorno (Ps. CXVIII, 164), e stava così a lungo in ginocchio che, lo confessa egli stesso, a forza di pregare, e, pregare stando in ginocchio, le sue ginocchia erano divenute deboli ed inferme (Ps, CVIII, 23).  Il profeta Daniele a Babilonia si voltava verso Gerusalemme, ed adorava Dio tre volte al giorno (Dan. VI, 12). Lo stesso nostro Signore, che non aveva alcun bisogno di pregare, per darcene l’esempio passava spesso le notti intere a pregare in ginocchio, il più delle volte con la faccia contro terra: come fece nel giardino degli Olivi vi fu un gran numero di santi che imitarono Gesù Cristo nella sua preghiera. S. Giacomo adorava spesso Iddio non solo in ginocchio, ma anche con la faccia contro terra: di modo che la sua fronte a forza di toccar la terra, era divenuta dura come la pelle d’un cammello. Leggiamo nella vita di S. Bartolomeo, che egli piegava il ginocchio a terra cento volte al giorno, ed altrettante la notte (Ribadeneira, 24 Agosto) . Se non potete, F . M , adorare il buon Dio così spesso ed in ginocchio, almeno fatevi un dovere di farlo sera e mattina, e di quando in quando durante il giorno allorché siete soli nelle vostre case, per mostrargli che l’amate e lo riconoscete per vostro Creatore e conservatore. Soprattutto, F . M., dopo aver dato il nostro cuore a Dio svegliandoci, ed esserci sbarazzati d’ogni pensiero che non abbia rapporto con Lui, e vestiti con modestia senza perder di vista la sua presenza, dobbiam fare la nostra preghiera con tutto il rispetto possibile, e se lo possiamo un po’ lunga. Bisogna guardarsi di evitare qualsiasi occupazione prima della preghiera: come rifare il letto, attendere a qualche faccenda domestica, metter la pentola sul fuoco, chiamare i servi od i figli, dar da mangiar alle bestie: né comandare mai niente ai figli ed ai domestici prima che abbiano detto le loro orazioni. Se lo faceste, sareste i carnefici delle povere anime loro, e se l’avete fatto, dovete confessarvene e non più ricadere. Ricordatevi bene che è al mattino che il buon Dio ci prepara tutte le grazie necessarie per passare santamente la giornata. Di modo che se facciamo male la nostra preghiera, o non la facciamo, perdiamo tutte le grazie che il buon Dio ci aveva destinate per render le nostre azioni meritorie. Il demonio sa come è vantaggioso ad un Cristiano far bene la preghiera del mattino, e non lascia alcun mezzo per farcela far male o tralasciarla. Esso diceva un giorno, per bocca di un ossesso, che se poteva avere il primo momento della giornata d’un Cristiano, era sicuro d’averne tutto il resto. Per fare la vostra preghiera come si deve, dovete prender l’acqua benedetta per scacciar il demonio, e fare il segno della croce, dicendo : “Mio Dio, per quest’acqua benedetta e per il Sangue prezioso di Gesù Cristo vostro Figlio, lavatemi, purificatemi da tutti i miei peccati. „ Dobbiamo persuaderci che se lo faremo con fede, cancelleremo tutti i nostri peccati veniali, supponendo che non ne abbiamo di mortali. O mio Dio! può un Cristiano commettere un peccato mortale, che gli rapisce il cielo, lo separa dal suo Dio per tutta l’eternità? … Dio mio! quale sventura, e, purtroppo, così poco conosciuta dal peccatore! Dobbiam fare la nostra preghiera in ginocchio, e non sdraiati sulla sedia, o contro il letto o davanti al fuoco, quantunque si possano appoggiar le mani allo schienale di una sedia. Bisogna cominciar la preghiera con un atto di fede, la più viva possibile, penetrandoci vivamente della presenza di Dio, cioè della grandezza d’un Dio così buono, che vuol tollerare alla sua santa presenza noi che da tanto tempo meriteremmo d’essere inabissati nell’inferno. Dobbiamo badar bene di non mai distrarci, né distrarre coloro che pregano, a meno che sia proprio necessario: perché si è causa che essi si occupino di noi o di ciò che loro diciamo; così fanno male la loro preghiera, e di ciò ne siamo noi la causa. Se ora m i domandate anche come si deve fare per adorare, cioè pregar Dio continuamente, perché non si può stare i n ginocchio tutto il giorno, vi dico che non v’ha niente di più facile; ascoltatemi un istante e vedrete che si può adorare Dio e pregarlo, senza tralasciare il lavoro, in quattro modi; ma ciò dopo aver fatta bene la preghiera in ginocchio. Dico in quattro modi: col pensiero, col desiderio, colle parole, colle azioni. E 1° col pensiero. Quando si ama alcuno, non si prova un certo piacere di pensare a lui? Ebbene, P. M., chi ci impedisce di pensare a Dio durante il giorno, meditando spesso le sofferenze di Gesù Cristo per noi, ricordandoci quanto Egli ci ama e desidera di renderci felici, Egli che. volle morire per noi; e fu con noi sì buono che ci fece nascere nel seno della Chiesa cattolica, dove abbiamo tanti mezzi di renderci felici, cioè di salvarci, mentre molti altri non hanno la medesima fortuna? Di tratto in tratto, durante il giorno, portiamo i nostri pensieri e desideri verso il cielo, per contemplarvi anzi tempo i beni e la felicità che Dio ci prepara dopo un momento di lotta. Questo solo pensiero, P. M., che un giorno andremo a veder il buon Dio, e che saremo liberati da ogni pena, non dovrebbe consolarci nello nostre tribolazioni? Se siamo oppressi da qualche afflizione, pensiamo subito che seguiamo Gesù Cristo, il quale ha portato la croce per amor nostro: uniamo le nostre sofferenze e pene a quelle del divin Salvatore. Siamo poveri? portiamoci col pensiero al presepio: vediamo e contempliamo il nostro amabile Gesù coricato su poca paglia, senza alcun conforto umano. E, se volete, guardatelo anche morente sulla croce, spogliato persino delle sue vesti. Siamo noi calunniati? pensiamo, F. M., alle bestemmie vomitate contro di Lui durante la passione, contro di Lui che era la stessa santità. Di tratto in tratto, durante il giorno, pronunciamo nel nostro cuore queste dolci parole: “Mio Dio, vi amo e vi adoro con tutti i vostri angeli e santi che sono in cielo. „ Nostro Signore disse un giorno a S. Caterina da Siena: “Voglio che tu faccia un tabernacolo nel tuo cuore, e vi ti rinchiuda con me per tenermi compagnia. „ Qual bontà, F. M., da parte di questo buon Salvatore nel compiacersi di conversare con una misera creat ura! Ebbene, F. M., facciamo altrettanto: intratteniamoci col buon Dio, col nostro amabile Gesù, che trovasi nel nostro cuore colla sua grazia. Adoriamolo, dandogli il nostro cuore: amiamolo, donandoci interamente a Lui. Non passiamo mai giorno, senza ringraziarlo di tanti favori accordatici durante la nostra vita: domandiamogli perdono dei nostri peccati, pregandolo di non ricordarli più, e di dimenticarli per l’eternità. Domandiamogli la grazia di non pensare che a Lui, e di non desiderare altro che di piacergli, in tutto ciò che faremo durante la nostra vita. “Mio Dio, dobbiamo dirgli, desidero amarvi quanto tutti gli angeli e santi insieme. Voglio unire il mio amore a quello che ebbe la vostra santa Madre per Voi mentre era sulla terra. Mio Dio, quando avrò la felicità di venire a vedervi in cielo per amarvi più perfettamente? „ Se siamo soli in casa nostra, chi ci impedisce di metterci in ginocchio? Basterebbe dire : “Mio Dio, voglio amarvi con tutto il mio cuore, con tutti i miei affetti, pensieri e desiderii: quanto mi tarda di venire a vedervi in cielo! „ Vedete, miei cari, come è facile trattenerci col buon Dio e pregarlo continuamente? Ecco, F. M., che cosa vuol dire pregare tutto il giorno.

2 ° Adoriamo Dio col desiderio del cielo. Come non desiderare di posseder Dio, di vederlo, mentre Egli è tutta la nostra felicità? …

3° Dico inoltre che dobbiam pregarlo con la parola. Quando amiamo qualcuno, non abbiamo gran diletto di trattenerci a parlare con lui? Ebbene, F. M., invece di parlare dei fatti dell’uno e dell’altro, il che non avviene quasi mai senza offendere il buon Dio, chi ci impedisce di far cadere la nostra conversazione sulle cose di Dio, sia commentando qualche vita di santo, sia raccontando ciò che udimmo in una istruzione, in un catechismo? Parliamo soprattutto della nostra santa religione, della felicità che godiamo nella religione cristiana, delle grazie che il buon Dio ci fa. Ahimè! F. M., se basta una conversazione cattiva per perdere una persona, spesso una buona basta per convertirla, o farle evitare il peccato. Quante volte, dopo essere stato con alcuno che ci ha parlato di Dio, ci siam sentiti portati a Lui, abbiam pensato a far meglio! Ecco quanto facevano tanti Cristiani nei primi tempi della Chiesa: tutte le conversazioni, tutti i discorsi erano intorno a Dio. Per questo, i Cristiani si animavano gli uni gli altri, e sentivano sempre nuovo gusto delle cose di Dio.

4° Da ultimo dico che dobbiamo adorare Iddio colle nostre azioni. Niente di più facile, di più meritorio. Se desiderate sapere come si fa, eccolo. Perché le nostre azioni siano meritorie e siano una preghiera continua, dobbiamo subito al mattino offrire in generale tutte le nostre azioni; cioè tutto quanto faremo durante il giorno. Diciamo al buon Dio, prima di cominciare: “Mio Dio, vi offro tutti i pensieri, desiderii, parole ed azioni che farò in questo giorno: fatemi la grazia di farle bene e pel solo fine di piacervi. „ Poi, di tratto in tratto, nel corso della giornata rinnoviamo la nostra offerta, dicendo a Dio: “Sapete, mio Dio, sapete che vi ho promesso fin dal mattino di fare tutto per vostro amore. „ Se facciamo qualche elemosina, indirizziamo bene la nostra intenzione, dicendo : “Mio Dio, ricevete questa elemosina, o questo servizio che rendo al mio prossimo: è per domandarvi la tal grazia. „ Una volta la farete in onore della passione e morte di Gesù Cristo, per ottenere la vostra conversione, o quella dei vostri figli, dei vostri domestici o di altre persone che vi interessano: un’altra volta in onore della santissima Vergine, per domandare la sua santa protezione per voi e per gli altri. Se ci vien comandata cosa che ci ripugna, diciamo al buon Dio: “Mio Dio, vi offro questo per onorare il momento in cui foste fatto morire per me. „ Facciamo qualcosa che ci costa fatica? Offriamola al buon Dio, perché ci liberi dalle pene dell’altra vita. Quando ci riposiamo un momento, guardiamo il cielo che sarà un giorno la nostra dimora. Vedete, F. M., che se avessimo la fortuna di comportarci cosi, guadagneremmo assai pel cielo, solo compiendo le nostre azioni; ma facendole unicamente per Iddio, e pel solo fine di piacere a Lui. S. Giovanni Crisostomo c i dice che tre cose si fanno amare: la bellezza, la bontà e l’amore. “Ebbene, ci dice questo gran santo, Dio ha in sé tutte queste qualità. „ Leggiamo nella vita di S. Liduina (Ribadeneira, 14 Apr.) che mentre ella soffriva dolori fortissimi le apparve un angelo per consolarla. Ce lo dice ella stessa: la sua bellezza le parve così grande, e ne fu così rapita, che dimenticò completamente le proprie sofferenze. Valeriano avendo visto l’angelo che difendeva la purità di S. Cecilia, fu così incantato dalla sua bellezza, e ne ebbe talmente toccato il cuore, sebbene fosse ancora pagano, che si convertì sull’istante (Ribadeneira 14 Apr.). S. Giovanni, il discepolo prediletto, ci dice che vide un angelo di bellezza così grande che volle adorarlo: ma l’Angelo gli disse: “Non far questo, io non sono che un servo di Dio al pari di te (Apoc. XXII, 8,9) . „ Quando Mosè domandò al Signore la grazia di fargli vedere il suo volto, il Signore gli disse: “Mosè, è impossibile ad un uomo mortale veder il mio volto senza morirne, la mia bellezza è così grande, che chi mi vedrà non potrà vivere: bisogna che l’anima esca dal suo corpo al solo vedere la mia beltà. „ (Exod. XXXIII, 20). S. Teresa ci dice che Gesù Cristo le apparve spesso: ma che giammai alcuno potrà formarsi un’idea della grandezza di sua beltà, tanto essa è al di sopra di ciò che possiamo pensare. Ditemi, F. M., se avessimo la ventura di formarci un’idea della bellezza di Dio, potremmo noi non amarlo? Oh! quanto siam ciechi! Ahimè! è perché non pensiamo che alla terra ed alle cose create, e non alle cose di Dio, che ci solleverebbero sino a Lui, e ci rivelerebbero qualche poco delle sue perfezioni, e commuoverebbero i nostri cuori. Ascoltate S. Agostino: “O bellezza sempre antica e sempre nuova! vi ho amata troppo tardi. „ (Conf. L. X, cap. XXVII) Chi ama la bellezza di Dio sempre antica, perché essa è da tutta l’eternità; e la chiama sempre nuova, perché più la si vede più la si trova grande. Perché, F. M., gli Angeli ed i santi non si stancheranno mai di amar Dio e contemplarlo? Perché ne avranno sempre novello godimento e piacere. E perché, F. M., non faremo noi la medesima cosa sulla terra, giacché lo possiamo? Ah! F. M., qual vita felice condurremo noi, preparandoci il cielo! Leggiamo nella vita di S. Domenico, che egli aveva rinunciato così pienamente a se stesso, che non poteva pensare, né considerare, né amare altra cosa che Dio solo. Dopo aver passato il giorno, occupato ad accender nei cuori il fuoco dell’amor divino colle sue predicazioni, durante la notte se ne volava al cielo colle sue contemplazioni e coi suoi colloqui con Dio. Era questa tutta la sua occupazione. Nei viaggi non pensava che a Dio: niente era capace distrarlo da questo consolante pensiero: che Dio era buono, amabile e ben meritevole d’essere amato. Non sapeva comprendere come ci fossero sulla terra uomini che potessero non amare Dio, che è così amabile. Versava torrenti di lagrime sulla disgrazia di coloro che non volevano amare un Dio così buono, e così degno d’essere amato. Un giorno, avendo alcuni eretici cercato di farlo perire, ma avendolo il buon Dio salvato con un miracolo, uno di essi gli domandò che cosa avrebbe fatto se fosse caduto nelle lor mani. Gli rispose: “Sento un sì gran desiderio d’amare Dio, vorrei tanto soffrire e morire per Lui, che vi avrei pregato d’uccidermi non d’un colpo solo, ma di ridurre le mie membra in piccoli pezzetti, di strapparmi la lingua e gli occhi, e dopo avermi fatto spargere fino all’ultima goccia il sangue, tagliarmi la testa: e vorrei che tutti gli uomini avessero la mia stessa disposizione, perché Dio è così bello e buono, che per quanto si faccia, non si riuscirà mai ad avvicinarsi aciò che merita. (Ribad. 4 Agosto). Ebbene, F. M., non è amare il buon Dio l’aver così belle disposizioni? Non è amarlo davvero, con tutto il cuore e più di se stesso? Ditemi, F. M., l’amiamo noi come l’amava questo santo, noi che, sembra, ci facciamo come un piacere di offenderlo, noi che non vogliamo fare il minimo sacrificio per evitare il peccato? Ditemi, F. M., è amare il buon Dio, omettere le nostre preghiere, o farle senza rispetto e divozione? Quante volte non ci mettiamo neppure in ginocchio? Amiamo noi il buon Dio quando non diamo ai nostri figli o ai nostri domestici nemmeno il tempo di pregare? Amiamo noi il buon Dio, F. M., quando mangiamo la carne nei giorni proibiti? Amiamo il buon Dio quando lavoriamo nei giorni di festa? Amiamo il buon Dio quando stiamo senza rispetto in chiesa, dormiamo, discorriamo, e giriamo qua e là la testa, ovvero usciamo fuori durante le funzioni? Ahimè, F. M.! diciamolo gemendo, quali larve di adoratori siamo noi! Ahimè, quanti Cristiani che son Cristiani solo di nome! Inoltre dobbiamo amare Dio perché è infinitamente buono. Quando Mosè domandò al Signore di fargli vedere il suo volto, Ei gli rispose: “Mosè, se ti faccio vedere il mio volto, ti mostro il compendio e la somma di ogni bene. „  (Ex. XXXIII, 18, 19). Leggiamo nel Vangelo che un giovine essendosi prostrato davanti a N. Signore, lo chiamò “O buon Maestro. „ N . Signore gli soggiunse: “Perché mi chiami buono? non v’ha che Dio solo che sia buono (Matt. XIX, 17): „ volendo indicarci che Dio solo è la sorgente di ogni bene. S. Maddalena de’ Pazzi c i dice che vorrebbe aver abbastanza forza per farsi intendere ai quattro lati del mondo, e dire a tutti gli uomini di amare il buon Dio con tutto il loro cuore, perché Egli è infinitamente amabile. Leggiamo nella vita di S. Giacomo, religioso domenicano  (12 Ottob.), che andava per le campagne e pei boschi, gridando con tutta la sua forza: “O cielo! e tu, o terra! Non amate voi il buon Dio quanto le altre creature, perché è infinitamente degno di essere amato? O mio Salvatore! se gli uomini sono così ingrati di non amarvi, voi creature tutte amate il vostro Creatore, perché è così buono e così amabile!„ Ah! F. M., se potessimo comprendere, una volta, come si è felici amando il buon Dio, noi piangeremmo giorno e notte d’essere stati per tanto tempo privi di tal fortuna!… Ahimè! come l’uomo è miserabile! un semplice rispetto umano, un piccolo… “che si dirà?” gli impedisce di far conoscere ai suoi fratelli ch’egli ama il buon Dio! … O mio Dio! chi può comprendere onesta mostruosità?… Leggiamo nella storia che i carnefici nel tormentare S. Policarpo gli dicevano: “Perché non adori gli idoli? „ — “Non posso, rispose, perché adoro un solo Dio creatore del cielo e della terra. „ — “Ma, soggiungevano, se non fai ciò che vogliamo, ti faremo morire. „ —“Acconsento volentieri a morire, ma giammai adorerò il demonio. „ — “Ma che male c’è a dire Divo Cesare e a fargli sacrificio per salvare la tua vita? „ — “Non lo farò, preferisco morire. „ — “Giura per la fortuna di Cesare, disse gli il giudice, e fa ingiuria al tuo Cristo. „ Il santo rispose : “Come potrei ingiuriare il mio Dio? sono ottant’anni che lo servo, e mi ha sempre fatto del bene. „ Il popolo, furibondo per questo modo di rispondere al giudice, gridò: “È il dottore dell’Asia, il padre dei Cristiani: abbandonalo a noi. „ — “Ascolta, giudice, dissegli il santo Vescovo, ecco la mia religione: io sono Cristiano, io so soffrire, morire, ma non dire ingiurie al mio Salvatore, Cristo Gesù, che m’ha tanto amato, e tanto merita d’essere amato! “Se non vuoi obbedire, soggiunse il giudice, ti farò abbruciar vivo. „ — “Il fuoco di cui mi minacci non dura che un momento: ma tu non conosci quello della giustizia di Dio che abbrucerà eternamente gli empi. Perché indugi? ecco il mio corpo, pronto a soffrire tutti i tormenti che potrai inventare. „ I pagani si misero a gridare: “Merita la morte: sia abbruciato vivo. „ Ahimè! tutti questi disgraziati come tanti impazziti preparano il rogo, ed intanto S . Policarpo si prepara alla morte e ringrazia Gesù Cristo che lo fa partecipare al suo calice. Preparato il rogo, il santo fu preso, e postovi in mezzo: ma le fiamme, meno crudeli dei carnefici, rispettavano il santo, e facevano attorno a lui come un velo, sicché il suo corpo non ebbe alcun danno: ciò che costrinse il persecutore a farlo uccidere sul rogo. Il sangue grondò con tanta abbondanza che il fuoco ne fu spento (Ribadeneira, 26 Gennaio). Ecco, P. M., che cos’è amar Dio perfettamente: è amarlo più che la stessa vita. Ahimè! dove troveremo noi, in questo secolo malaugurato, Cristiani disposti a far altrettanto per Iddio? Davvero, sono troppo rari. Ma sono anche ben rari quelli che andranno in cielo! – Dobbiamo amare Iddio anche per i benefici che riceviamo continuamente. Primo beneficio è la creazione. Abbiam la fortuna d’essere dotati di tante belle qualità: un corpo ed un’anima formati dalla mano dell’Onnipotente (Giob. X, 8): un’anima che non deve mai perire, che è destinata a passare la sua eternità con gli Angeli in cielo, un’anima, dico, che è capace di conoscere Dio, di amarlo e servirlo: un’anima che è l’opera più bella della Ss. Trinità, un’anima superata da Dio solo. Infatti, tutte le creature che sono sulla terra periranno, mentre l’anima nostra non verrà mai distrutta. Mio Dio, se noi fossimo compresi anche poco di questo beneficio, non passeremmo tutta la nostra vita rendendo a Dio grazie per un dono così grande e prezioso? Un altro beneficio non minore, F. M., è il dono che il Padre eterno ci ha fatto del suo Figlio, che ha sofferto e sopportato tanti tormenti per riscattarci, dopo che eravamo stati venduti al demonio pel peccato di Adamo. Qual altro beneficio più grande poteva farci che stabilire una religione così santa, e così consolante per tutti quelli che la conoscono ed hanno la fortuna di praticarla? S. Agostino dice: “Ahi religione bella: se sei disprezzata è perché non sei conosciuta. „ — “No, F. M., dice S. Paolo, non siete più vostri, siete stati tutti riscattati dal sangue d’un Dio fatto uomo „ — “Figli miei, ci dice san Giovanni, quale onore per vili creature l’essere stati adottati quali figli di Dio ed essere divenuti fratelli di Gesù Cristo! Quale carità, dice egli, essere chiamati figli di Dio ed esserlo veramente e, per questa qualità sì gloriosa, aver anche diritto al cielo! „ Esaminate ancora, se volete, tutti i benefici particolari: ci ha fatto nascere da parenti Cristiani; ci ha conservato l’esistenza, malgrado fossimo suoi nemici; ci ha tante volte perdonato i peccati, ci ha prodigato tante grazie in tutto il corso della nostra vita. Dopo tutto ciò, F. M., è possibile che non amiamo un Dio così buono e benefico? Mio Dio! questa è una sventura senza paragone! Leggiamo nella storia, che un uomo aveva tolto una spina dalla zampa d’un leone: questo fu preso dopo qualche tempo per essere messo con altri in gabbia. L’uomo che gli aveva estratta la spina fu condannato ad essere divorato dai leoni. Gettato nella fossa per esservi divorato, il leone lo riconobbe. Lungi dal divorarlo, si gittò a’ suoi piedi, e si lasciò sbranare dagli altri leoni per difendere il suo benefattore. Ah! ingrati che siamo, è possibile che passiamo la nostra vita senza vivere in modo da mostrare al buon Dio, che gli siamo riconoscenti di tutti i suoi benefici? Comprendete, se lo potete, F. M., quale sarà la nostra vergogna un giorno, quando Dio ci mostrerà che le bestie senza ragione sono state più riconoscenti pel minino beneficio ricevuto dall’uomo; e che noi ricolmati di tante grazie, lumi e benefici, invece di ringraziare il nostro Dio non facciamo che offenderlo! Mio Dio! Quale sventura è paragonabile a questa? Si racconta nella vita di S. Luigi re di Francia, quando andò in Terra Santa, che un suo cavaliere andando a caccia udì i gemiti d’un leone. Avvicinatosi, vide che un serpente l’aveva avvinghiato colla sua coda e stava per divorarlo. Il cavaliere riuscì ad uccidere il serpente: ed il leone ne fu così grato, che si mise a seguirlo come un agnello segue il pastore. Quando il cavaliere dovette attraversare il mare, il leone non potendo entrar nella nave, si mise a nuoto per seguire il suo benefattore, sinché perdé la vita nell’acqua. Quale esempio, F. M., una bestia perde la vita per testimoniare riconoscenza al suo benefattore! e noi, ben lungi dall’attestare gratitudine a Dio, non cessiamo di offenderlo col peccato, che tanto l’oltraggia! S. Paolo ci dice che chi non ama Dio non è degno di vivere (l Cor. XVI, 22): davvero, o l’uomo deve amar Dio o deve cessare di vivere. Dobbiamo altresì amar il buon Dio perché Egli ce lo comanda. S. Agostino esclama, parlando di questo comandamento: ” 0 amabile comandamento! Mio Dio! chi son io perché mi comandiate d’amarvi? Se non vi amo, mi minacciate gran di disgrazie: non è dunque una disgrazia piccola il non amarvi? Come, mio Dio, voi mi comandate di amarvi? Non siete voi infinitamente amabile? Non è già troppo che ce lo vogliate permettere? Qual fortuna per creature così miserabili, come siamo noi, il poter amare un Dio così amabile! Ah! grazia inestimabile, quanto poco sei conosciuta! „ Leggiamo nel Vangelo (Matt. XXII, 36), che un dottore della legge disse un giorno a Gesù Cristo: “Maestro, qual è il maggiore dei comandamenti? „ Gesù Cristo così rispose: “Amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze. „ S. Agostino ci dice: “Se avete la ventura di amare il buon Dio, diverrete in certo qual modo simili a Lui: se amate la terra diverrete terrestre: ma se amate le cose del cielo diverrete tutto celeste. „ Mio Dio! qual felicità è per noi quella di amarvi: poiché amandovi riceviamo ogni sorta di beni. No, F. M., non restiamo meravigliati se tanti grandi del mondo hanno abbandonato il tumulto del secolo per andare a seppellirsi nelle foreste o dentro quattro mura, per non attendere ad altro che ad amare Dio. Vedete un san Paolo eremita, la cui sola occupazione per ottant’anni fu quella di pregare ed amare il buon Dio giorno e notte. Vedete ancora S. Antonio, al quale sembra che le notti non siano abbastanza lunghe per lodare nel silenzio il suo Dio ed il suo Salvatore, e si lamenta che il sole venga troppo presto (Vita dei Padri del deserto). Amare il buon Dio, F. M., ah! quale felicità quando avremo la sorte di comprenderla! Sino a quando, F. M., avremo ripugnanza a far ciò che dovrebbe formare tutta la nostra felicità in questo mondo, e nell’eternità? Amar Dio, ah! qual ventura! … Mio Dio, dateci la fede e vi ameremo con tutto il cuore. Aggiungo che dobbiamo amare Dio pei grandi beni che da Lui riceviamo. “Dio, ci dice S. Giovanni, ama quelli che lo amano (Giov. XVI, 27). „ Ditemi, F. M., possiamo avere in questo mondo una più grande fortuna che l’essere amati da Dio stesso? Di più, F. M., Dio ci amerà come noi l’avremo amato, cioè se l’amiamo molto, ci amerà molto: il che ci dovrebbe spingere ad amare il buon Dio quanto possiamo e quanto ne siamo capaci. Quest’amore sarà la misura della gloria che avremo in paradiso: essa sarà in proporzione dell’amore che avremo avuto per Lui durante la nostra vita: quelli che più avranno amato il buon Dio in questo mondo, avranno maggiore gloria nel cielo, e l’ameranno di più; perché la virtù della carità ci accompagnerà durante tutta l’eternità e riceverà in cielo nuovo incremento. Oh! F. M., qual felicità aver amato molto Iddio nel corso di nostra vita! l’ameremo assai in paradiso. S. Antonio ci dice che il demonio nulla teme quanto un’anima che ama Dio; e che chi ama Dio porta con sé il segno della predestinazione, poiché solo i demoni ed i reprobi non amano Dio. Ahimè! F. M., la più grande di tutte le loro sventure è questa: essi non avranno mai la sorte di amarlo. Mio Dio, si può pensarvi e non morirne di dolore?… Leggiamo nella vita di S. Caterina da Genova che, essendo ella presente mentre si esorcizzava un ossesso, gli domandò come si chiamava. Il demonio le rispose che si chiamava: Spirito senza amor di Dio. “E che? gli disse la santa, tu non ami Dio che è così amabile? „ — “Oh! no, no, gridò esso. „ — “Ah! io non avrei mai creduto che fossevi una creatura la quale non amasse Dio. „ E cadde svenuta. Ritornata in sé, siccome le si domandò che cosa l’avesse fatta svenire, rispose che giammai avrebbe potuto credere che vi fosse una creatura che non amasse Dio: ciò l’aveva talmente sorpresa, che si era sentita venir meno. Ma dite, F. M., non aveva ella ragione, giacché non siamo creati che per questo solo? Quando cessiamo di amare Dio, non facciamo più quello che Dio vuole da noi. Infatti, F. M., qual è la prima domanda che ci è stata fatta quando siam venuti al catechismo per istruirci intorno alla religione? “Chi vi ha creato e conservato sino al presente? „ Abbiamo risposto: “Iddio. „ — “E perché? „ — “Per conoscerlo, amarlo, servirlo e per questa via raggiungere la vita eterna. „ – Sì, F. M., la nostra occupazione sulla terra è amare Dio: cioè cominciare a fare ciò che faremo per tutta l’eternità. Ancora: perché dobbiamo amare Dio? Perché, F. M., tutta la nostra felicità si trova, e non si può trovare che nell’amor di Dio. Di modo che, F. M., quando non ameremo Dio saremo sempre infelici: e se vogliamo avere qualche consolazione e sollievo nelle nostre pene non ne troveremo che nell’amore che avremo per Dio. Se volete convincervene avvicinate l’uomo più felice secondo il mondo: se non ama il buon Dio, egli non sarà che sventurato; al contrario: se avvicinate l’uomo anche più sventurato del mondo, e vi risponderà che ama Dio, egli è felice sotto tutti i rapporti. O mio Dio! aprite dunque gli occhi dell’anima nostra, e cercheremo la nostra felicità dove solo possiamo trovarla!

III. — Ma, qui sul finire, mi domanderete in qual modo dobbiamo amare Dio? — Come si deve amarlo, F. M.? Ascoltate S. Bernardo ; che ce lo insegna, dicendoci che dobbiamo amar Dio senza limiti. “Siccome Dio è infinitamente amabile, così non potremo mai amarlo come si merita.„ Del resto Gesù Cristo medesimo, ci insegna la misura secondo cui dobbiamo amarlo, dicendoci: “Amerete il vostro Dio con tutta l’anima vostra, con tutto il vostro cuore, con tutte le vostre forze. „ Imprimetevi bene questi pensieri nello spirito, ed insegnateli ai figli vostri. S. Bernardo ci dice che amare Dio con tutto il nostro cuore, vuol dire amarlo coraggiosamente e con fervore: cioè esser pronti a soffrire quanto il demonio ed il mondo ci facessero soffrire, piuttosto che cessare d’amarlo. Vuol dire preferirlo a tutto, e non amar nulla se non per amor suo. S. Agostino diceva a Dio: “Quando il mio cuore, o mio Dio, sarà troppo grande per amarvi, allora amerò qualche altra cosa insieme con Voi: ma siccome il mio cuore sarà sempre troppo piccolo per Voi, e Voi siete infinitamente amabile, non amerò mai altri che Voi solo. „ Dobbiamo amare Dio, non solo come noi stessi, ma altresì più di noi stessi, ed esser sempre risoluti di dare la nostra vita per Lui. Possiamo dire che tutti i martiri l’hanno davvero amato così, poiché preferirono soffrire la perdita dei loro beni, il disprezzo, la prigionia, i flagelli, le ruote, gli eculei, il ferro ed il fuoco, tutto insomma quanto la rabbia dei tiranni poté inventare, piuttosto che offenderlo. Si racconta nella storia dei martiri del Giappone, che quando si annunciava loro il Vangelo, e venivano istruiti intorno alle grandezze di Dio, alla sua bontà ed al suo amore per gli uomini; specialmente quando si insegnavano loro i grandi misteri della nostra santa Religione, tutto ciò che Dio aveva fatto per gli uomini; un Dio nato per loro nella povertà, un Dio sofferente e morto per la loro salute, “oh! com’è buono esclamavano, com’è buono il Dio dei Cristiani! oh! quanto è amabile! „ Ma quando sì diceva loro che il medesimo Dio ci ha fatto un comando col quale ci ordina di amarlo, e se non l’amiamo ci minaccia un castigo eterno, ne erano così meravigliati e sorpresi che non potevano persuadersene. Ecché? dicevano, fare ad uomini ragionevoli un precetto d’amar Dio, che tanto ci ha amato!… non è la più grande delle sventure il non amarlo, e non è la più gran felicità l’amarlo? Ecchè? forse i Cristiani non sono sempre ai piedi degli altari per adorare il loro Dio, penetrati di tanta bontà, ed infiammati del suo amore? „ Ma quando si insegnava loro che v’erano Cristiani che non solo non l’amavano, ma anzi passavano tutta quasi la vita nell’offenderlo: “O popolo ingrato, popolo barbaro! esclamavano con indignazione, è possibile che vi siano Cristiani capaci di tali orrori. Ah! in qual terra maledetta abitano dunque! questi uomini senza cuore e senza sentimento? „  Davvero, F. M., se questi martiri tornassero! sulla terra, e loro si raccontassero gli oltraggi che i Cristiani ad ogni momento arrecano a Dio, ad un Dio così buono che non vuole e non cerca altro che la loro felicità eterna; ahimè! oserebbero crederlo? Triste pensiero, F. M.! sino ad ora non abbiamo amato Dio! …! Non solo un buon cristiano deve amare Dio! con tutto il cuore, ma deve altresì fare ogni sforzo per farlo amare dagli altri. I padri e i le madri, i padroni e le padrone debbono usare tutto  il loro potere per farlo amare dai figli e dai domestici. Oh! qual merito avranno presso Dio, un padre ed una madre se tutti i quelli che sono con loro l’amano quanto è possibile! … Oh! quante benedizioni spanderà Iddio su quelle case!… Oh! quanti beni per il tempo e per l’eternità! … – Ma quali sono i segni dai quali conosceremo che amiamo Dio? Eccoli, F. M.: Se pensiamo spesso a Lui, se il nostro spirito ne è spesso occupato, se ci piace sentir parlare di Lui nelle istruzioni, ed in tutto ciò che può i rammentarcelo. Se amiamo Dio, F. M., temeremo grandemente di offenderlo, staremo sempre in guardia, veglieremo su tutti i movimenti del nostro cuore, per timore d’esser ingannati dal demonio. Ma l’ultimo mezzo di domandare spesso a Dio il suo amore, perché esso viene dal cielo. Bisogna sollevarvi il nostro pensiero durante il giorno, anche di notte svegliando ci col fare atti d’amor di Dio, dicendogli: “Mio Dio, fatemi la grazia di amarvi quanto è possibile ch’io vi ami. „ Bisogna avere una gran divozione alla Ss. Vergine che ha amato  Dio da sola più che tutti i santi insieme: avere una gran divozione allo Spirito Santo, e rammentarlo ogni giorno, massime nell’ora in cui discese sugli apostoli per infiammarli del suo amore, le nove del mattino (Act. II, 15). – A mezzodì dobbiamo ricordarci il mistero dell’Incarnazione, quando il Figlio di Dio si incarnò nel seno della beata Vergine Maria, domandandogli di scendere nei nostri cuori, come discese nel seno della sua benedetta Madre (La tradizione della Chiesa è che la S. Vergine era in orazione, a mezzanotte, quando l’angelo Gabriele venne ad annunciarle il mistero dell’incarnazione). Alle tre dobbiamo raffigurarci questo buono e caritatevole Salvatore, che muore per meritarci l’eterno amore. Dobbiamo in questo momento fare un atto di contrizione, per attestargli il dolore che abbiamo d’averlo offeso. – Concludiamo, F. M.: poiché la nostra felicità non può trovarsi che nell’amore di Dio, dobbiamo grandemente temere il peccato; questo solo ce lo fa perdere. Andate, F. M., ad attingere quest’amore divino nei Sacramenti che potete ricevere! accostatevi alla sacra Mensa con gran timore e gran confidenza, poiché Egli è il nostro Dio, il nostro Salvatore e Padre, che vuole soltanto la nostra felicità: ve l’auguro …

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (39)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (39)

SUNTO STORICO DELLE ERESIE NEL LORO RAPPORTO COL PANTEISMO E COL SOCIALISMO (2).

[A. NICOLAS: “Del Protestantesimo e di tutte le eresie nel loro rapporto col socialismo”, vol. I – Napoli, tipogr. e libr. Gabr. ARGENIO – 1859]

Eresie del secondo periodo

Dopo la vittoria decisiva conseguita sopra il sincretismo alessandrino, la Chiesa e la società cristiana non furono per lunga stagione attraversate nel loro corso da alcuna lega esteriore. Però lo spirito di errore non venne meno alla sua natura eternamente gelosa e sovversiva, ed al potere che ha ricevuto dalla previdenza di abbandonarvisi nella misura prescritta, per provare continuamente la verità e lo zelo de’ suoi discepoli. Egli soggiacque allora a una specie di metempsicosi. I sistemi panteisti esterni, sotto i quali si era prodotto, essendo disciolti dal dogma cristiano, egli passò a forme più teologiche, più dommatiche, ma la sostanza non era punto meno panteista, e il risultato non meno antisociale.

I.—Secondo questa nuova strategia, lo spirito di tenebre cominciò dal trasfigurarsi in angelo di luce nel montanismo (Quantunque il montanismo risalga a più alta origine, pure, siccome egli apre la serie delle eresie più particolarmente teologiche, noi abbiamo creduto di poterlo porre dopo il sincretismo). – Il montanismo, che ebbe la trista gloria di macchiar quella del valente Tertulliano e di farlo cadere per eccesso di valore, non smentisce punto il parentado logico che noi vogliam mostrare tra ogni eresia cristiana ed il panteismo. La dottrina di Montano consisteva nel pretendere che Gesù Cristo e la Chiesa non erano il termine del progresso morale e religioso; che, oltre Gesù Cristo, oltre lo Spirito Santo da cui la Chiesa era stata sino allora assistita, doveva venir il Santo Spirito in persona, il paraclito, per recare sulla terra una dottrina più perfetta, una morale più severa che doveva essere un progresso sopra quella del Vangelo, come quella del Vangelo era stata un progresso sulla legge mosaica, e questa sulla legge naturale. « La morale, diceva egli, deve perfezionarsi; essa deve crescere in vigore; Dio medesimo ha provato e mostrato anticipatamente questa gradazione passando dall’antico al nuovo Testamento per mezzo le istituzioni e i modi di salute progressivi dell’uno e dell’altro Testamento ». A questa semplice esposizione del montanismo è facile riconoscere la traccia del panteismo. Questo progresso successivo per mezzo le istituzioni e i simboli non dell’uomo nella perfezion morale, ma della morale in seno all’umanità, somiglia in fatto assai allo sviluppo, alla processione dell’infinito in mezzo alle forme e ai modi del finito, che è propriamente il panteismo. Montano si applicava il benefizio di questa dottrina, facendosi tenere e credere come particolarmente ispirato dal Santo Spirito, come l’organo più potente del paraclito che fosse mai apparso. Egli predicava in conseguenza una morale più rigorosa di quella del Vangelo insegnato dalla Chiesa, pretendendo, oppostamente a questa, che bisognava scomunicare per sempre o senza remissione i peccatori pubblici, fare astinenze e digiuni fuori di ogni misura, vietare le seconde nozze e prevenire le persecuzioni. Come il gnosticismo aveva sviluppato in maniera fantastica la parte teorica del Cristianesimo, così il montanismo ne esagerava la pratica. Il primo minacciava di trasformare il Cristianesimo in una teosofia mistica, il secondo ne faceva un monarchismo esagerato sopra ogni modo. Uscendo l’uno e l’altro, sui passi dell’orgoglio, dalla via cotanto sapiente della Chiesa, e privandosi de soccorsi soprannaturali di lei, mentre esageravano lo prescrizioni, riuscirono a tutte le follie dell’illuminismo e a tutte le infamie per le quali la natura, troppo disconosciuta, ripiglia i suoi diritti. Cosi, negando il dogma dell’Incarnazione nella sua efficacia assoluta, il montanismo degenerava in panteismo e finiva coll’immoralità. I Vescovi cattolici, raccolti in diversi sinodi, fulminarono questa stolta sapienza e questo rigorismo immorale, e separarono dalla società della Chiesa questa setta di menzogna.

II. — Intorno al tempo medesimo sorsero le eresie degli antitrinitarii, de’ sabelliani e de’ patripassionisti. Per salvare l’unità di Dio,compromessa, dicevano questi eretici, nel dogma della Trinità, essi negavano questo dogma, e per conseguenza quello dell’Incarnazione del Verbo, — gli uni, ricusando a Gesù Cristo ogni rapporto consustanziale colla divinità, — gli altri, non vedendo in lui che una potenza divina, non una Persona divina, non la divinità medesima, —gli altri finalmente vedendo in lui la divinità, ma senza pluralità di persone, ridotta all’unica persona del Padre, che si era egli stesso fatto uomo e aveva patito per noi; onde furono chiamati patripassionisti. Cosa singolare, ma profondamente giusta e logica: per voler essere più savi, più gelosi della grandezza di Dio che non la Chiesa, questi eretici cadevano nell’eccesso opposto alla loro orgogliosa pretesa; essi prostituivano la divinità; e, cosa non meno singolare e non meno logica, la prostituivano col panteismo, alternativa inevitabile del dogma cristiano.Così questi spiriti vani e superbi che pretendevano di vendicare la divinità dell’offesa che secondo loro faceva alla sua unità santa l’ammissione delle tre Persone che non inducono in essa alcuna divisione, ammettevano all’identificazione con questa medesima divinità, non già solo tre persone coinfinite e coeterne, ma il mondo altresì,ma l’umanità, ma tutte le creature; e per salvare il teismo cadevano così nel panteismo.Ecco di fatto qual era il loro sistema:« Il Padre, il Figliuolo, il Santo Spirito non sono punto Persone distinte e coeternamente esistenti in una medesima sostanza divina, senza rapporto necessario col mondo. Sono denominazioni esteriori e temporanee della manifestazione della monade divina, nella sua azione sul mondo. Queste manifestazioni diverse della monade non hanno per iscopo che il loro proprio sviluppo; esse si distendono, si dilatano, secondo le espressioni stoiche, (ekteinesthai o platynesthai), o si restringono e si concentrano (syntellesthai). La monade esce nel mondo e diventa Padre; ella si unisce al Cristo per l’opera della Redenzione, e si chiama Figliuolo; ella si identifica coll’umanità, e si fa Santo Spirito. Finalmente, dopo di avere sviluppato la vita divina nei regni del Padre, del Figliuolo e del Santo Spirito, la divinità si ritrae,si raccoglie, si racchiude in sé medesima (Alzog, Storia della Chiesa, t. I, pag. 252 – Dellinger, Origine del Cristiaesimo, t. I, p. 252 – Bergier, Dizionario di teologia). »Così il panteismo usciva apertamente dalla negazione dei dogmi della Trinità e dell’Incarnazione per mezzo di questi eretici.Son ora da studiare le conseguenze antisociali di questa dottrina ela profonda sociabilità dei dogmi cristiani. Io prego in ciò i lettori a degnarmi di tutta l’attenzione.Se noi non siamo che una manifestazione, che un’apparenza, noi siamo annichilati; e al tempo stesso questa manifestazione essendo una manifestazione, una dilatazione di Dio, noi siamo autorizzati, necessitati,divinizzati in tutte le cattive inclinazioni della nostra natura; conseguenza generale del panteismo già esposta e che noi ci limitiamo a ricordare. Scendiamo ad un’ analisi più elementare.L’elemento d’ogni società consiste in due cose: pluralità e similitudine degli esseri.Di fatto, chi dice società dice pluralità, e per conseguenza distinzione. degli esseri fra loro, la cui unione forma la società. Senza questa pluralità, mantenuta dalla distinzione nell’unione medesima, non può esservi né rapporto, né movimento, né vita. — Io aggiungo: Le nostre società, fondate sulla nozione e sul culto del bene e del giusto,vale a dire di Dio, ne suppongono una prima fra noi e Dio, trail finito e l’infinito, per mezzo della loro distinzione necessaria alla loro stessa unione, e senza la quale non essendo noi distinti e sociabili per rapporto a Dio, non lo saremmo più neppure gli uni rispetto agli altri. — Quanto alla similitudine degli esseri, è evidente che essa non è meno necessaria della loro pluralità per stabilire fra essi una società; non si può aver società che coi propri simili, ed è con questo disegno che l’uomo è stato fatto originariamente a somiglianza di Dio. e che per questa prima similitudine è stata formata la nostra serietà con Dio, la quale, rovinata dal peccato, doveva riformarsi e consumarsi più tardi da Dio, facendosi Egli pure simile all’uomo.

Da queste premesse traggo due luminose conseguenze a favore dei dogmi della Trinità e dell’Incarnazione. A favore del dogma della Trinità ne inferisco che Dio, essendo infinito, non può aver rapporto eterno e necessario, o società naturale che con sé medesimo: imperocché chi è a Lui simile (Ps XXXIV, 10)? Che ogni rapporto ed ogni società implicando, come abbiam detto, pluralità non meno che similitudine, bisogna necessariamente che vi sia in Dio una pluralità; la quale siccome non può essere nell’essenza, poiché molti infiniti sono una contradizione, deve essere in qualche cosa che sia in Lui e che non è la sua essenza, qualche cosa che noi chiamiamo persone, le quali dovendo corrispondere ai due gran bisogni di conoscere e di amare, che sono la vita dell’essere, devono essere conoscenza e amore, distinte dal subietto che le genera; finalmente, che deve esser questa la prima di tutte le società sulla quale devono essere formate tutte le altre, quella dalla quale devono discendere ed a cui devono risalire. – A favore del dogma dell’Incarnazione conchiudo, che siccome ogni società suppone pluralità e somiglianza, cosi, perché vi fosse società fra noi e Dio, bisognò che Dio si facesse simile a noi, rimanendo distinto da noi; che l’uno di Dio, se cosi posso dire, si facesse l’uno di noi; che Egli formasse cosi l’anello di congiunzione, l’Emmanuele che congiunge la società degli uomini colla società divina, e che inaugurasse il dogma sociale sul dogma della Trinità per mezzo del dogma dell’Incarnazione, come l’ha sì bene epilogato Gesù Cristo in quella divina preghiera che noi non possiam mai ripeter troppo in simile argomento: Che tutti non siano che uno, ecco la società; come Voi, Padre mio, siete in me, ed Io in voi, che essi siano medesimamente uno in noi, eccone il tipo; finalmente, io sono nel Padre mio, e voi in me ed io in voi, eccone il nodo. Per ciò rigettare il dogma della Trinità, come facevano cotesti eretici, è negare all’Essere per essenza la vita di relazione che è propria dell’Essere, e che Egli non può trovare necessariamente che in sé medesimo: è un costringerlo in certo qual modo, secondo questa concezione, a cercare fuori di sé e nel finito i termini de’ suoi rapporti necessari, vale a dire ad abdicare la sua natura e ad assorbire la nostra, e per conseguente ogni società, nel panteismo. – Similmente, rigettare il dogma dell’Incarnazione è rendere impossibile ogni società mediata fra noi e Dio, ogni rapporto accessibile; e siccome questa secondo il disegno di Dio è il fondamento di quella, così il rigettare un tal dogma è un costringerci a metterci pur noi in società immediata, in relazione diretta e necessaria con Dio, ad assimilare per conseguenza la sua natura e la nostra, vale a dire a confonderle, e ad andarci a perdere nell’infinito per mezzo del panteismo. – In questa guisa s’incatenano adorabilmente tutte le verità in seno alla dottrina cattolica; cosi l’eresia degli antitrinitarii e de’ sabelliani doveva essere necessariamente panteistica e antisociale.

III. — Questa eresia dischiuse le strade ad un’eresia a gran pezza più vasta ne’ suoi sviluppi, all’ Ariane simo. L’arianesimo, che menò i sì gran guasti nei popoli germanici e ritardò per sì lungo tempo l’azione incivilitrice del Cattolicismo su que’ barbari, fu una conseguenza dell’eresia antitrinitaria e sabelliana. Il Cristo non era consustanziale al Padre, secondo Ario; Egli era un essere creato, ma superiore a tutto le creature e produttore pur egli delle medesime. L’arianesimo era una prolungazione parziale del panteismo gnostico, che aveva messo in voga la dottrina delle emanazioni divine decrescenti. Agli occhi degli Ariani, il Verbo divino era un’emanazione inferiore al Padre; e siccome al tempo stesso ei lo concepivano sotto la nozione di creatura, così tutta quanta la creazione, la cui nozion vera era distrutta, diventava una serie di emanazioni, ciò ch’era propriamente il panteismo (Dicasi il medesimo dello dottrine eterodosse sopra lo Spirito Santo, le quali non erano che l’arianesimo applicato alla terza Persona della Trinità divina, e che furono condannate nel secondo concilio ecumenico di Costantinopoli.). – Il primo gran concilio di Nicea anatemizzò questa eresia, e formulò la verità cattolica in quel passo del suo simbolo, di cui facciam risuonare i nostri templi: Credo in… Jesum Christum… Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero, genitum, non factum, consubstantialem Patri; dichiarando così la divinità in Gesù Cristo, e all’opposto distinguendone l’umanità, la cui confusione colla divinità l’avrebbe compromessa.

IV. — Apparve allora sulla scena il pelagìanismo, il quale non fu che un’applicazione de’ principii dell’arianesimo. Secondo questo, Gesù Cristo non era che una creatura; era perciò naturalo il conchiuderne che egli non poteva acquistarci alcuna grazia divina; ed è appunto la necessità di questa grazia che rigettava Pelagio, pretendendo che l’uomo poteva aggiungere il più alto grado di perfezione morale e sottrarsi all’impero del peccato colle sue proprie forze. I pelagiani, è vero, non negavano la divinità del Cristo, come facevano direttamente o indirettamente gli ariani; ma avrebbero potuto farlo senza nuocere in alcun modo alla loro teoria. Movendo da due punti di vista diversi, i due sistemi arrivavano al medesimo termine, col dedurne le conseguenze dai loro principii. L’arianesimo separava Dio dall’uomo, il pelagianesimo separava l’uomo da Dio. L’uomo, partendo dalla negazione della divinità di Gesù Cristo, doveva arrivare alla negazione della grazia divina; l’altro, partendo dalla negazione della grazia divina, doveva arrivare alla negazione della divinità di Gesù Cristo; ambedue dovevano riuscire al naturalismo. – Il che è ciò che abbiamo veduto operarsi in grande nel protestantismo, il quale, per mezzo di Zuinglio e Socino, arriva in Rousseau alla dottrina della bontà natia dell’uomo e del pervertimento della società, donde Luigi Blanc e i socialisti hanno tratto i principii della loro riforma. La fiducia di questi nella bontà dell’uomo, sulla quale essi fondano e le loro accuse contro la società che l’ha pervertita, e le loro folli utopie di riforma, illudeva del paro i pelagiani e li recava, per un falso raffinamento di perfezione di cui essi credevano capace l’uomo, a incriminare egualmente la proprietà e tutte le relazioni che costituiscono la società degli uomini. « A veder come i discepoli di Pelagio, dice un moderno scrittore, sostennero che la rinunzia alle ricchezze era un obbligo assoluto per chiunque voleva operare la propria salute, si comprende come potessero sistematicamente riuscire mediante espropriazione alla negazione della proprietà, il comunismo (F. Lacombe: Studi sul socialismo) ». L’ortodossia religiosa e sociale trovò un fiero campione in sant’Agostino, il quale combatté tutti gli errori pelagiani, confrontandoli colla verità cattolica. Egli giustificò la proprietà mobile ed immobile dell’uomo individuale riguardo allo stato; definì in modo ammirabile ciò che era di precetto e ciò che era di consiglio nella legge della rinunzia, e restituì a questa legge il suo vero carattere evangelico, più tosto morale che materiale, che non potrebbe pregiudicato mai alla vita sociale degli individui, di cui si compone quella delle società.

V. — Non è mai che lo spirito umano prorompa in qualche eccesso senza che ne sia in breve punito, cadendo nell’eccesso contrario. Inoltre, come abbiam già detto, il naturalismo non può durar lungo tempo nell’anima umana. Questa ha orrore del vuoto, del suo isolamento da Dio, e non è mai più vicina a precipitarsi in questo abisso come quando è giunta a separarsene. Il naturalismo, una volta che si è abbandonato il Cristianesimo, non è altro che un rapido passaggio al panteismo. Non è la separazione che può salvarci dalla confusione con Dio; è l’unione, la Religione.

Il pelagianismo doveva condurre al predestinazianismo, o alla dottrina opposta dell’onnipotenza della grazia divina nell’uomo, esclusiva di ogni cooperazione umana e negativa d’ogni libertà. Dio ci predestina fatalmente alla felicità o alla dannazione; la sua azione ci rende necessariamente giusti e santi. Tale fu l’eresia del predestinazianismo, che conteneva il panteismo e il fatalismo, doppio errore cuitutte le eresie pare abbiano avuto per iscopo d’impiantar nel cuoredelle società cristiane. – Con profonda sapienza la Chiesa anatemizzò il pelagianismo e il predestinazianismo; il primo nel gran concilio di Cartagine, l’anno 418;il secondo in diversi concili d’Arles e Lione. Essa mantenne due verità certe, l’azione della grazia divina e l’azione della libertà umana, vale a dire, sempre la realtà distinta dell’infinito e del finito,del soprannaturale e del naturale, così nella loro azione come nella loro essenza. La grazia non può nulla sopra di noi senza il concorso della nostra libertà. La nostra libertà non può nulla in noi, nell’ordine della salute, senza il soccorso della grazia. Distinzion capitale, essenziale, che rizza a destra e a sinistra dell’umanità un baluardo che la preserva dal naturalismo e dal panteismo, e tiene sgombro il sentiero del buon senso, dell’esperienza, della tradizion sociale e della verità pratica delle cose sul quale deve correre.

VI. — Ma come si conciliano fra loro la grazia divina e la libertà? Qual è la parte reciproca della loro azione nell’opera dell’umana salute? Gli è in ciò che si tocca al mistero de’ misteri, alla difficoltà delle difficoltà; è questo il passo che la sola Chiesa seppe superare senza cercare né evitare, e al quale sono venuti a sdrucciolare e a cadere tutti quelli che non si sono accontentati di porre semplicemente il piede sulla traccia del suo insegnamento, insistere vestigiis.

E questo è ciò che volle fare il semi-pelagianismo. Secondo il pelagianesimo, il peccato di Adamo non ha turbate le condizioni della perfettibilità umana: l’uomo può fare il bene dopo come prima di quel peccato; egli ha in sé una forza naturale sufficiente. per compiere le buone azioni; esso è naturalmente buono, ela grazia è semplicemente un soccorso che lo aiutano a diventare più facilmente migliore.Secondo il predestinazianismo, il peccato di Adamo ha distrutta nell’uomo la libertà, la possibilità del bene. Egli ha bisogno della grazia, non già come ajuto per rialzarsi, ma come mezzo unico e assoluto di essere rialzato. Essa sola è quella che lo rialza, che lo sostiene e lo fa camminare; egli non conta, è un cadavere. Il semi-pelagianismo credette di essere la sapienza medesima venendo a porsi nel giusto mezzo fra questi due eccessi, e a dire chela grazia e la libertà concorrevano vicendevolmente a rialzar l’uomo e a recarlo al bene; che esse avevano un’egual parte alla sua salutee ch’egli ne aveva un egual bisogno; che dopo il peccato originale,l’uomo non è naturalmente buono, è vero, né portato al bene più che al male, ma che egli si determina con altrettanta facilità all’uno e all’altro; che solo la grazia viene a determinare il buon movimento e a svilupparne il principio che è in lui.Sapienza umana! la Chiesa anatemizzò questa eresia, più perniciosa. delle altre due perché era più speciosa e riconduceva a quella per una doppia china. Occupata non già di cercare il giusto mezzo fra due errori, ma unicamente di dichiarare la verità rivelata, che non. si trova necessariamente in questo giusto mezzo, essa divulgò quei grandi assiomi di fede, di tradizione e di esperienza: cioè che pel peccato di Adamo noi abbiam perduto cotesta grande e felice libertà, cotest’equilibrio della nostra volontà fra il bene ed il male; e che per ristabilire in noi un’eguaglianza perfetta è necessario l’impulso della grazia; che essa è dunque sempre preveniente, e gratuita in quanto preveniente; ma che non è efficace se non col concorso della nostra libertà.Così la Chiesa sciolse il nodo gordiano della libertà e della grazia formato dall’eresia. Certamente questo nodo ha altre difficoltà che si addentrano nelle misteriose profondità della volontà umana e della grazia; ma la Chiesa non entra mai prematuramente in questi abissi, come ella non sta mai in forse a perseguitarvi l’errore e a portarvi la luce netta e viva della precisione quando l’errore gliene porge argomento. Solamente ella mantiene il mondo nel possedimento di queste due grandi verità, di questi die gran principi; il soprannaturale e il naturale, il divino e l’umano, la grazia e la libertà; e li accorda nella loro azione nel seguente modo: la grazia sempre preveniente, la libertà cooperante; Dio che stende la mano all’uomo, e l’uomo che la prende.

VII. — L’arianismo e tutte le eresie precedenti avevano messo in questione l’esistenza della divinità e dell’umanità, dell’infinito o del finito di Gesù Cristo. Il nestorianismo venne ad inaugurare un altro ordine di eresie, quelle che si riferiscono non più all’esistenza, ma ai rapporti naturali ed alle operazioni reciproche delle due nature nel Cristo. L’unità di persona fu attaccata, come l’era stata la dualità di natura. Nestorio venne a dire che vi era dualità di persona come v’era dualità di natura. Egli trasformò la distinzione essenziale del finito e dell’infinito nella loro separazione. Secondo lui, vi eran nel Cristo due persone, poste l’una allato all’altra, unite esteriormente e moralmente. Egli si scandalizzò della denominazione di madre di Dio universalmente data a Maria; sostenne che si doveva dir solo Madre del Cristo, e che l’uomo partorito da Maria doveva essere chiamato Teoforo, o portante Dio, come tempio nel quale Dio dimora. In cotal guisa l’Incarnazione non era altro più che una semplice inabitazione del Logos nel Cristo, e il Verbo eterno non si era fatto uomo. Senza saperlo, questa eresia procedeva dai principii del manicheismo, che, come abbiam già fatto osservare, non è che un doppio panteismo. L’antitesi di due volontà, di due nature divina e umana, o la difficoltà di concepirle unite in una sola persona, fu la sua base principale, come l’antitesi dello spirito e della materia, o la difficoltà di riferirle ad una comune origine era stata una delle basi principali del dualismo. – Ma vuolsi principalmente notare che, isolando il finito dall’infinito, essa doveva riuscire a precipitarvelo.

VIII. — E ciò avverossi ben presto. Eutiche venne, sull’orme di Nestorio, a dire che « prima dell’unione del Verbo coll’umanità le due nature erano assolutamente distinte; ma che dopo l’unione la natura umana, confusa colla natura divina, ne fu talmente assorbita che rimase la divinità sola, e che fu essa sola che patì per noi e ci riscattò. Il corpo del Cristo era dunque un corpo umano quanto alla forma e quanto all’apparenza esteriore, ma non quanto alla sua sostanza ». L’entichianismo conduceva altresì al gnosticismo panteistico puro; egli originò il monofisitismo, che ammetteva una sola natura, ed il monotelismo, che ammetteva per conseguenza una sola volontà in Gesù Cristo; la natura e la volontà divine. – In questa guisa cotali eresie si generavano e si riproducevano reciprocamente; così l’errore s’implicava nel suo proprio labirinto; così, fuori del dogma della fede cattolica, e per poco che si deviasse da esso, si ritornava sempre fatalmente, dall’una parte o dall’altra, al grande abisso. – Il dogma salvatore dell’Incarnazione fu sciolto di nuovo da tutte queste eresie, le quali furono anatemizzate in diversi gran concili. Il terzo concilio ecumenico d’Efeso fulminò il nestorianismo; il quarto concilio ecumenico di Calcedonia percosse l’eutichianismo, e il sesto concilio ecumenico di Costantinopoli condannò il monotelismo. La dottrina del Verbo fatto carne, vita del mondo, fu mantenuta in tutta la sua purezza. Queste eresie non avevano fatto che provarla e porla in una luce più viva. Essa fu richiamata, affermata e definita quale era sempre stata creduta dagli apostoli dopo Gesù Cristo. « Conforme all’insegnamento de’ santi padri, — porta il decreto di uno di questi concilii, — noi dichiariamo a voce unanime che si debba confessare un solo e medesimo Gesù Cristo nostro Signore; il medesimo, perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità; vero Dio e vero uomo; essendo, come uomo, composto di un’anima ragionevole e di un corpo, consustanziale al Padre secondo la divinità, consustanziale a noi secondo 1′ umanità; in tutto simile a noi fuorché nel peccato; ingenerato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità; il medesimo, nato in questi ultimi tempi, secondo l’umanità; un solo e medesimo Cristo, figliuol unico, Signore in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione, senza che l’unione tolga la differenza delle due nature, conservando l’una e l’altra la sua proprietà, e concorrendo in una sola persona e sussistenza; in guisa che Egli non è dimezzato o diviso in duo persone, ma è un solo e medesimo Figliuol unico, Dio il Verbo, nostro Signore Gesù Cristo, come i profeti e nostro Signore medesimo ci hanno insegnato, come il simbolo de’ padri ci ha trasmesso (Decreto del quarto concilio di Calcedonia.) ». Alla lettura di questa definizione di fede, l’universo cristiano, per bocca di tutti i Vescovi, sclamò ad una sola voce : « Questa è la fede dei padri, è la fede degli Apostoli; noi la seguiam tutti secondo loro, e tutti noi la pensiamo come loro: Hæc fides patrum, hæc fides apostolorum; huic omnes consentimus, ita sapimus; » e a questo grido tutte le eresie furono confuse, e il sole della verità cattolica, libero da esse, continuò il suo corso. – Dopo questa definizione del dogma dell’Incarnazione, l’incredulità di questo secolo non ci venga a domandare di spiegarglielo e di dirle come ciò avvenga; noi gli risponderemo con un padre: Ciò si fa nel modo che Dio sa: questa è cosa che si definisce, ma non si spiega. Ma al tempo stesso noi le spiegheremo benissimo come ciò non debba spiegarsi, facendo ad essa osservare che nelle cognizioni di qualsiasi ordine, anche le più esatte, come le matematiche, che hanno per oggetto il finito, lo cose non si spiegano da ultimo se non per mezzo di cose che non si spiegano punto; che è proprio delle cose che spiegano le altre di essere inesplicabili esse medesime, e di essere per conseguenza tanto più inesplicabili quanto più sono spiegative; e che la cosa più spiegativa di tutte, quella che spiega tutto, Dio, è tal cosa cui nulla può spiegare. — E perché ciò? — Perché l’Infinito solo può spiegare il finito, ed è proprio dell’infinito l’essere inesplicabile. La spiegazione discendo dall’infinito al finito, ma non risale. — E perché anche questo? — Perché le cose non possono spiegarsi che secondo cose che sono loro anteriori e superiori, come la parola secondo usata in tutte lo spiegazioni lo indica; perché la cosa che non ha nulla che le sia anteriore e superiore non può per conseguenza essere spiegata per mezzo di ciò che non è; — e più parimente perché l’infinito è l’archetipo del finito, il quale essendo fatto secondo questo archetipo, vi si riferisce e ne rivela la spiegazione della sua esistenza, perché ne ha ricevuto questa esistenza medesima. L’immagine si spiega dall’originale; ma l’originale medesimo, l’archetipo, l’infinito, chi lo spiegherà? Quis videbit eum et enarrabit. (Eccl. XLIII, 35.) Sarebbe un medesimo il dimandare chi ha fatto Dio: Egli è colui che è; ecco la sua definizione, nelle sue operazioni come nella sua essenza. Chi spiegherà ragionevolmente il mondo senza la creazione, senza Dio? Chi spiegherà il mondo morale e sociale, chi spiegherà l’uomo e l’umanità senza Gesù Cristo, senza la soluzione che dà l’incarnazione del Verbo? Ma chi spiegherà questa Incarnazione, chi spiegherà Gesù Cristo? Questo non si può e non si deve naturalmente potere. Ma se nessuna cosa spiega l’infinito e le sue operazioni, tutto però lo prova, tutto gli rende testimonianza, quella testimonianza che il problema rende alla sua soluzione. Infatti la sola verità può spiegare la verità. In questo senso ciò che sfugge e deve sfuggire alla spiegazione nella verità infinita si trova in questo, che essa medesima dà la spiegazione delle verità finite, poiché non si può dare se non quello che si ha. E Rivarol pronunziò una parola profondamente giusta quando disse: Dio spiega il mondo, e il mondo lo prova. La spiegazione discende da Dio al mondo, e risale, come prova, dal mondo a Dio: Cœli enarrant gloriam Dei, et opera manuum, ejus annuntiat firmamentum. (Psal.XVllI). Cosi è del dogma dell’Incarnazione: inesplicabile, egli solo spiega e scioglie il problema dell’unione dell’infinito e del finito senza loro confusione. Egli li unisce distinguendoli e li distingue unendoli. Due condizioni sulle quali posa tutto l’edificio delle esistenze morali e sociali, nessuna delle quali può spiegarsi senza che tutto questo edificio non si sposti, non cada e non s’inabissi: due condizioni tuttavia cui, fuor della tradizione cattolica, così ne’ tempi antichi come nei moderni, tutti i movimenti dello spirito umano mirano a falsare ed a violare, e che il solo Cattolicismo mantiene filosoficamente e praticamente nel mondo. – Gesù Cristo solo, e dopo di Lui la Chiesa, come quella che l’ha ricevuta da Lui, ha così la chiave di questa porta misteriosa di comunicazione tra il finito e l’infinito, di cui parla san Giovanni nella sua Apocalisse: Il santo, il vero, che ha la chiave di Davide; che apre, e nessuno chiude; che chiude, e nessuno apre; Sanctus et verus, qui habet clavem David; qui aperit, et nemo claudit; claudit, et nemo aperit. (III, 7).Ma ciò che noi non possiamo omettere senza renderci colpevoli di un silenzio che ci obblighiamo di nuovo a rompere con un omaggio più speciale (Sotto il litolo: La Vergine Maria e i disegni divini), è che Gesù Cristo, il quale definisce tutto, è esso medesimo definito da Maria.L’eresia lo sa benissimo; e se noi per saperlo dovessimo guidicarne dalla sua condotta, essa ce ne ammaestrerebbe oltre il bisogno.Come essa non ha mai attaccato il dogma religioso e sociale della credenza in un Dio creatore se non coll’attaccare il dogma cristiano dell’Incarnazione, così non ha mai attaccato il dogma cristiano dell’Incarnazione se non coll’attaccare il dogma cattolico della maternità divina di Maria.Nella grande eresia di Nestorio è questa divina maternità che era capitalmente in questione; ma in questa questione e sotto questa questione si agitava quella dell’Incarnazione, come sotto questa si agitava quella d’ogni religione e d’ogni società. Ha lo spirito ben ristretto colui che non vede tutta questa concatenazione e non ne sente il profondosignificato.E Maria è o non è dessa la Madre di Dio? Debb’essere Ella o non essere onorata come tale? Question vana e puerile, dicono i saccenti; question vana e puerile come il secolo che la suscitava! Vedete nondimeno: — Maria non è la madre di Dio, diceva l’eresia; poiché nonsi può ammettere che Dio sia nato da una donna. Di fatto, ciò cheè nato da Maria, diceva Ario, è sì il Figliuol di Dio, ma non Dio medesimo: è il primogenito di Dio, è colui pel quale è nato tutto il resto, nel modo medesimo che egli stesso è nato, non essendo così ogni cosa che una emanazione della sostanza infinita…. Colui che è nato da Maria, diceva Nestorio, è il Cristo; vale a dire un uomo in cuila divinità è venuta ad abitare; ma che non è la divinità medesima,non potendosi la natura umana e la natura divina riferire ad un medesimo soggetto, più di quello che la materia e lo spirito possa riferirsi ad una medesima origine, essendo ambedue separate da tutta l’opposizione dei due principii donde esse derivano e che le animano esclusivamente.,. Ciò che è nato da Maria, diceva Eutiche, è niente, è una semplice apparenza umana, una sembianza d’ uomo; Maria nonè in ciò che un velo il quale copre solamente il fondo di Gesù Cristo,il fondo della natura umana, il fondo di tutto ciò che è Dio, Dio solo in tutto, del quale Gesù Cristo, come tutto il resto, non è chel’apparenza (Noi abbiamo abbreviata l’esposizione di queste tre eresie, ma non ne abbiamo esagerato il rigor logico). In questo modo la testa del serpente cercando sottrarsi ai piedi della divina maternità di Maria, la coda del mostro, se così oso dire, per diverse sinuosità si ripiegava e degenerava sempre in panteismo, in manicheismo, in fatalismo, per insinuarne il veleno nella società. – Ma non fu indarno lanciata contro di lui la primitiva sentenza: Porrò nimicizia tra te e la donna, e tra il seme tuo e il seme di lei. Ella schiaccerà la tua testa, e tu tenderai insidie ed calcagno di lei. (Gen. III, 15.) La Chiesa, esecutrice di questo decreto, ha conservata Maria nel possedimento della sua potestà sullo spirito delle tenebre, divulgandola Madre di Dio. Maria è Madre di Dio, perché Dio è nato da Maria. Dio è nato da Maria, perché il Cristo, suo figliuolo, è il Figliuolo di Dio, e come tale, eguale a Dio, Dio medesimo. Maria ha il medesimo figliuolo che il Padre celeste: solamente egli è Figliuolo del Padre celeste da tutta l’eternità, e di Maria nel tempo; però il medesimo figliuolo, la medesima Persona divina, il medesimo Verbo, il medesimo Dio, che ha preso la nostra natura per farne, mercé la sua unione colla propria, una sola Persona, la quale è nata integralmente da Maria. Questa grande personificazione delle due nature finita e infinita, distinte e unite nel Cristo, per la quale tutto il mondo morale e sociale è stato ritratto dal naturalismo e dal panteismo, e ne è preservato, si è formata nelle viscere di Maria, e Maria ne è il nodo vitale. – Ciò posto, si comprende che se il dogma dell’Incarnazione è, come abbiamo dimostrato, la soluzione del gran problema della religione e dell’incivilimento, è ugualmente vero che Maria, onorata nella sua maternità divina, è la formola più esatta, più decisiva e più conservatrice di questa soluzione (Questa formula è benissimo esposta da san Cirillo in questi termini nel decreto del sinodo di Efeso: Si quis non confitetur Deum esse secundumveritatem EMMANUEL, et propter hoc Dei genitricem sanctam Virginem (genuit enim carnaliter carnem factum Dei Verbum), anathema sit!).Il dogma della Vergine Madre scorge in qualche modo e protegge attraverso ai secoli il dogma dell’Uomo-Dio, come anch’essa la Vergine Madre era un tempo la guardiana e la protettrice dell’adorabile Persona dell’uomo-Dio sulla terra. Chiunque si rifiuta di onorare la maternità divina di Maria, egli, il sappia o non lo sappia, non è Cristiano (« Chiunque non ama e non onora la Vergine di un onoro tutto speciale e particolare non è vero cristiano, » – San Francesco di Sales, nel suo mirabile secondo sermone su la Visitazione, avendo a testo Unus Deus, – Ephes. IV. – . « Per conseguenza, esclama Bossuet, poiché la divozione verso la Beata Vergine è sì sodamente fondata, anatema a chi la nega e toglie ai cristiani un cosi potente soccorso: anatema a chi la diminuisce: egli indebolisce la pietà nelle anime, » – Terzo sermone sulla Concezione della Santissima Vergine). Egli non crede al Verbo fatto carne, è deista in qualche grado, o almeno sulla via di esser tale; e chi è deista è in qualche grado panteista o ateo, o in sulla via di diventarlo; il che permette in un certo senso di dire con san Gregorio di Nazianzo: Quegli, che non risguarda Maria siccome la Madre di Dio non crede alla divinità, è ateo. Perciò, integrità ammirabile della verità divina nel cattolicismo. Questa devozione così umile, così avuta a vile dai filosofi, – ai quali non manca per esserlo che di conoscere se stessi per mezzo dell’umiltà di cui questa devozione medesima è la scuola sublime, — questa divozione, ripeto , è si fattamente ben collegata con tutto il rimanente della dottrina che si può dire ch’essa è l’ultimo anello di una catena, il primo de’ quali è il dogma di un Dio creatore, e sospende e rattiene la società sull’abisso del naturalismo e del panteismo. Le più gravi questioni, le più vaste conseguenze -nell’ordine umano e sociale discendono da questi articoli di fede, da questi punti di dogma rilegati nel dominio della divozione e della teologia, la deviazione dai quali conduce, da deduzione in deduzione, dall’uno all’altro errore, alle dottrine più antisociali e più sovversive. – Il perché quando il concilio di Efeso, confermando la tradizione, mantenne la fede de’ popoli intorno alla maternità divina di Maria, Il mondo cristiano esultò di gioia e levò al cielo i suoi plausi di entusiasmo. Esso senti istintivamente che era sfuggito ad uno scoglio. E oggidì, in cui esso si è di bel nuovo salvato dalla sua rovina per un di que’ colpi la cui salutare opportunità rivela la mano della provvidenza, la società tutta quanta, per una ispirazione pur essa provvidenziale e conforme a quel rapporto istintivo che sempre esisté tra la Francia e Maria, corse a prostrarsi riconoscente ai piedi di Nostra Signora, a far echeggiar le volte del suo tempio di canti di trionfo, e rappresentar da per tutto la Madre che stringe il Verbo incarnato con un braccio e stende 1’altro sul mondo, mentre schiaccia sotto i suoi piedi l’idra del socialismo.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/09/25/gnosi-teologia-di-satana-40/

DA SAN PIETRO A PIO XII (24)

[G. Sbuttoni: da san Pietro a Pio XII, Ed. A.B.E.S. Bologna, 1953]

CAPO XII.

ANNO SANTO 1950 E PROCLAMAZIONE DEL DOGMA DELL’ASSUNZIONE DI MARIA

PREAMBOLO

Il grande invito a Roma

Il Giubileo dell’Anno Santo è la più grande e solènne liturgìa del Corpo Mistico terreno. Una vastissima liturgìa che ha per teatro il mondo intero e per scena la più gloriosa città della storia: l’unica liturgia che sia celebrata con l’orchestrazione contemporanea di tutte le lingue, e che raduni intorno allo stesso Pontefice Massimo e alle più alte gerarchie spirituali rappresentanti innumeri di tutte le razze: la più ricca e sapida liturgìa che, movendo dai riti della penitenza, assurga alle più solenni celebrazioni della fede (Proclamazione del dogma dell’Assunta). – Del resto, non v’è che un punto sulla terra in cui il divino scenda a toccare l’umano, e l’umano salga a toccare il divino senza interposte mediazioni: ROMA.

Solo a Roma la terra è in permanente contatto con il cielo, perché solo a Roma è il Cristo nella sua ininterrotta incarnazione nel Papa. Per questo come un’arcana forza ha fatto un giorno confluire verso la città dei sette colli Oriente ed Occidente, oggi, ma non più per fato di violenza, bensì per aspirazione d’amore, non solo le nazioni del bacino mediterraneo, ma anche quelle transoceaniche delle più disparate e dìssite civiltà, sono misteriosamente attratte verso l’immortale perno del mondo: la rocca di Pietro. – I popoli che muovono verso di essa vengono a purificarsi nella Espiazione, a confortarsi nella Verità, ad affratellarsi nella Carità. Ciò facendo essi non si esiliano dalla terra e dalle loro patrie individuali nel sogno d’un’invisibile patria universale delle anime (nell’abbraccio dell’infinito c’è parte anche per il finito e per il temporaneo); ma vengono anzi, per incontrarsi e comprendersi, per riconoscersi ed abbracciarsi. E cadranno così da loro tutte le incrostazioni dell’odio e del male. E la pace e la giustizia si daranno il biblico bacio della pace. Non ci s’incrocia invano sulle vie che conducono a Roma. Non ci si incontra invano per le sue vie sante. Non ci s’inginocchia invano nelle sue chiese e nella casa del Padre.

A Roma, perciò, nel bagno purificatore della penitenza, non si laveranno soltanto dei pellegrini isolati, ma dei popoli interi, l’umanità intera. E non solo l’uomo ritroverà se stesso, ma la intera umanità si ritroverà nei suoi più veri e trascendenti destini.

* * *

D. Tra le incessanti lotte, vide mai il S. Padre giorni sereni?

— Sì. Per accennarne solo qualcuno: nel settembre 1947 — per il 25° dell’Unione Uomini di A. C. — si vide attorniato da centinaia di migliaia di uomini plaudenti; nel settembre 1948 il 30° della Gioventù Femminile di A. C. e l’80° della Gioventù Maschile di A. C. fecero accorrere a Roma varie centinaia di migliaia di membri delle

due Associazioni.

D. Ma’ quali i giorni più realmente trionfali?

— Quelli del 25° Anno Santo nel 1950.

D. Con quali intenzioni Pio XII lo indisse?

— Perché servisse « a richiamare tutti i Cristiani non solo alla espiazione delle loro colpe e all’emendazione della loro vita, ma anche a tendere alla virtù e alla santità ».

NOTA. – Dopo l’esperienza dolorosa di questi ultimi anni, durante i quali si sono veduti crollare tanti princìpi fallaci, è entrato nella coscienza comune il desiderio di « riformare tutto secondo la verità e la virtù del Vangelo ». Infatti, continua il S. Padre, « se gli uomini, accogliendo l’invito della Chiesa e distaccandosi dalle passeggere cose terrene, si volgeranno alle imperiture ed eterne, si avrà l’auspicatissimo rinnovamento dei cuori da cui è lecito sperare che i costumi privati e pubblici si abbiano ad ispirare agli insegnamenti e allo spirito del Vangelo. Poiché quando la rettitudine guida la convinzione dei singoli e la dirige sul piano pratico ne consegue che una nuova forza e un nuovo impulso permeano di se l’umana società e preparano un migliore e più felice ordine di cose ».

D. Come accolse il mondo l’annuncio dell’Anno Santo?

— Con universale favore e con il proposito di attuare le intenzioni del s. Padre.

D. Come si è svolto l’Anno Santo?

— Nel modo più soddisfacente. Basti pensare che per concedere ai pellegrini, provenienti da tutte le parti del mondo, le sue udienze, il s. Padre non ha più potuto usare le pur immense sale del Vaticano, ma addirittura la Basilica, e qualche volta persino la Piazza di san Pietro. E dire che la propaganda comunista, con il suo stile di pretta menzogna, ha tentato di far penetrare nel cranio dei suoi adepti l’idea del fallimento dell’Anno Santo.

D. Qual è il punto più saliente e luminoso. dell’Anno Santo?

— La proclamazione del dogma dell’Assunzione corporea di Maria in cielo, del 1 novembre 1950, con cui il s. Padre ha esercitato il suo Magistero straordinario.

D. E’ stata opportuna nel 1950 tale proclamazione?

— A sentire i comunisti e i protestanti, no. Ma per il mondo cattolico, sì.

NOTA. – Tale proclamazione è stata l’esaltazione più solenne ed ufficiale dell’immenso amore di Maria per Gesù Cristo, suo Figliuolo e suo Dio. Ora, in un tempo, quale il presente, in cui si ode da tante parti insegnare la necessità dell’ateismo (per sganciarsi da Dio) e dell’odio (per sovvertire ogni ordinamento sociale cristiano), l’esaltazione dell’ineffabile amore di Maria a Dio (amore tanto potente che la distacca persino dalla vita terrena e la porta, anima e corpo, in cielo) è il più potente contravveleno ai mali del secolo e il più poderoso fendente contro tutto il complesso eretico contemporaneo.

D. L’attività pastorale di Pio XII ha avuto altre manifestazioni?

— Sì, continue manifestazioni di magistero ordinario. Oltre 1′ enciclica « Summi mæroris », con la quale indice nuovamente pubbliche preghiere per implorare la pace e la concordia dei popoli, vi è la « Humani generis », con cui segnala e mette in guardia da errori, spesso soltanto impliciti, latenti e inconsci,, che serpeggiano tra cattolici colti e teologi; errori già condannati dal Supremo Magistero della Chiesa, ma che riappaiono, spesso, sotto veste mutata (neo-modernismo).

NOTA. – Oltre all’accenno all’evoluzionismo, « in quanto fa ricerche sull’origine del corpo umano che proverrebbe da materia organica preesistente » e alla condanna del poligenismo, cioè la negazione dell’unità di origine del genere umano, l’enciclica riguarda in particolare i rapporti tra scienze sacre e profane, tra filosofia e teologia, il metodo stesso dello studio e della esposizione del dogma. Rivendica altresì i diritti e la dignità della ragione in se stessa contro il volontarismo e anche il fideismo di coloro « che quanto più fermamente aderiscono alla parola di Dio, tanto più diminuiscono il valore della ragione ». Così quella Chiesa che è stata spesso tacciata dì oscurantismo e di nemica della ragione, è, oggi, la sua principale assertrice — come è assertrice del resto della libertà della persona e delle libertà civili — tanto che (paradosso che dovrebbe ispirare profonde riflessioni) vi è qualche filosofo oggi che chiama « razionalismo » cattolico il « rationabile obsequium » di S. Paolo e della Chiesa. Ribadisce inoltre la fedeltà della Chiesa alla filosofia tradizionale di S. Tommaso d’Aquino. L’enciclica è insomma un documento, anche umanamente, mirabile di dottrina.

* * *

D. Vi è altro da sottolineare nella diuturna fatica di Pio XII?

— I suoi radiomessaggi e specialmente i suoi discorsi nelle udienze a specialisti e scienziati che, in occasione di loro congressi, amano di essere ricevuti nelle sue udienze e di udirne la parola sempre altamente competente e di attualità.

Da segnalare particolarmente il discorso alle Ostetriche del 29 ottobre 1951, che ebbe una abbondantissima stampa in tutto il mondo (non sempre certo favorevole), specialmente inglese e protestante. Alle critiche rispose subito qualche giorno dopo, ribadendo gli stessi argomenti con inequivocabili precisazioni.

D. Che cosa può fiduciosamente attendere la Chiesa sotto la guida del grande Pio XII?

— Sotto la guida di Pio XII, « capo forte e coraggioso (dice Myron Taylor) di tutti gli uomini che credono in Dio e nella libertà dell’uomo », la Chiesa può attendere la vittoria definitiva al termine della presente lotta, in virtù della promessa indefettibile del divino suo Fondatore e garantita dall’esperienza due volte millenaria di tutte le vittorie contro lutti i nemici. – Quindi anche gli attuali, orientali o occidentali, forniti di divisioni corazzate o dell’arma della calunnia e della viltà… tutti seguiranno un giorno, come trofei di vittoria, il suo carro eternamente trionfale.

Parola di Dio non si cancella.

Ed essa ormai è troppo « ai trionfi avvezza ».

Ma … prima dei trionfi, bisognerà attraversare l’ultima e la più feroce delle persecuzioni che separerà il grano dei buoni Cristiani, dalla zizzania degli ipocriti, degli eretici e degli scismatici ed apostati Cristiani solo di nome.

https://www.exsurgatdeus.org/2017/04/24/pio-xii-ha-detto-che-dovevo-succedergli-papa-gregorio-xvii/

http://GREGORIO https://www.exsurgatdeus.org/2016/08/15/gregorio-xvii-lincredibile-storia/

Successori di San Pietro:

San Pietro m. 67
San Lino 67-76
San Anacleto I 76-88
San Clemente I 88-97
San Evaristo 97-105
San Alessandro I 105-115
San Sisto I 115-125
San Telesforo 125-136
San Igino 136-140
San Pio I 140-155
San Aniceto 155-166
San Sotero 166-175
San Eleuterio 175-189
San Vittore I 189-199
San Zefirino 199-217
San Callisto I 217-222
San Urbano I 222-230
San Ponziano 230-235
San Antero 235-236
San Fabiano 236-250
San Cornelio 251-253
San Lucio I 253-254
San Stefano I 254-257
San Sisto II 257-258
San Dionisio 260-268
San Felice I 269-274
San Eutichiano 275-283
San Caio 283-296
San Marcellino 296-304
San Marcello I 308-309
San Eusebio 309(310)
San Milziade 311-314
San Silvestro I 314-335
San Marco 336
San Giulio I 337-352
Liberio 352-366
San Damaso I 366-383
San Siricio384-399
San Anastasio I 399-401
San Innocenzo I 401-417
San Zosimo 417-418
San Bonifacio I 418-422

San Celestino I 422-432
San Sisto III 432-440
San Leone Magno  440-461
San Ilario 461-468
San Simplicio 468-483
San Felice III 483-492
San Gelasio I 492-496
Anastasio II 496-498
San Simmaco 498-514
San Ormisda 514-523
San Giovanni I 523-526
San Felice IV 526-530
Bonifacio II 530-532
Giovanni II 533-535
San Agapito I 535-536
San Silverio 536-537
Vigilio 537-555
Pelagio I 556-561
Giovanni III 561-574
Benedetto I 575-579
Pelagio II 579-590
San Gregorio Magno 590-604
Sabiniano 604-606
Bonifacio III 607
San Bonifacio IV 608-615
San Deusdedit (Adeodato I) 615-618
Bonifacio V 619-625
Onorio I 625-638
Severino 640
Giovanni IV 640-642
Teodoro I 642-649
San Martino I 649-655
San Eugenio I 655-657
San Vitaliano 657-672
Adeodato (II) 672-676
Dono 676-678
San Agato 678-681
San Leone II 682-683
San Benedetto II 684-685
Giovanni V 685-686
Conone 686-687
San Sergio I 687-701
Giovanni VI 701-705
Giovanni VII 705-707
Sisinnio 708

Constantino 708-715
San Gregorio II 715-731
San Gregorio III 731-741
San Zaccaria 741-752
Stefano II 752
Stefano III 752-757
San Paolo I 757-767
Stefano IV 767-772
Adriano I 772-795
San Leone III 795-816
Stefano V 816-817
San Pasquale I 817-824
Eugenio II 824-827
Valentino 827
Gregorio IV 827-844
Sergio II 844-847
San Leone IV 847-855
Benedetto III 855-858
San Niccolò Magno 858-867
Adriano II 867-872
Giovanni VIII 872-882
Marino I 882-884
San Adriano III 884-885
Stefano VI 885-891
Formoso 891-896
Bonifacio VI 896
Stefano VII 896-897
Romano 897
Teodoro II 897
Giovanni IX 898-900
Benedetto IV 900-903
Leone V 903
Sergio III 904-911
Anastasio III 911-913
Lando 913-914
Giovanni X 914-928
Leone VI 928
Stefano VIII 929-931
Giovanni XI 931-935
Leone VII 936-939
Stefano IX 939-942
Marino II 942-946
Agapito II 946-955
Giovanni XII 955-963
Leone VIII 963-964
Benedetto V 964
Giovanni XIII 965-972
BenedettoVI 973-974
Benedetto VII 974-983
Giovanni XIV 983-984
Giovanni XV 985-996
Gregorio V 996-999
Silvestro II 999-1003
Giovanni XVII 1003
Giovanni XVIII 1003-1009
Sergio IV 1009-1012
Benedetto VIII 1012-1024
Giovanni XIX 1024-1032
Benedetto IX 1032-1045
Silvestro III 1045
Benedetto IX 1045
Gregorio VI 1045-1046
Clemente II 1046-1047
Benedetto IX 1047-1048
Damaso II 1048
San Leone IX 1049-1054
Vittorio II 1055-1057
Stefano X 1057-1058
Niccolò II 1058-1061
Alessandro II 1061-1073
San Gregorio VII 1073-1085
Beato Vittore III 1086-1087
Beato Urbano II 1088-1099
Pasquale II 1099-1118
Gelasio II 1118-1119
Callisto II 1119-1124
Onorio II 1124-1130
Innocenzo II 1130-1143
Celestino II 1143-1144
Lucio II 1144-1145
Beato Eugenio III 1145-1153
Anastasio IV 1153-1154
Adriano IV 1154-1159
Alessandro III 1159-1181
Lucio III 1181-1185
Urbano III 1185-1187
Gregorio VIII 1187

Clemente III 1187-1191
Celestino III 1191-1198
Innocenzo III 1198-1216
Onorio III 1216-1227
Gregorio IX 1227-1241
Celestino IV 1241
Innocenzo IV 1243-1254
Alessandro IV 1254-1261
Urbano IV 1261-1264
Clemente IV 1265-1268
Beato Gregorio X 1271-1276
Beato Innocenzo V 1276
Adriano V 1276
Giovanni XXI 1276-1277
Niccolò III 1277-1280
Martino IV 1281-1285
Onorio IV 1285-1287
Niccolò IV 1288-1292
San Celestino V 1294
Bonifacio VIII 1294-1303
Beato Benedetto XI 1303-1304
Clemente V 1305-1314
Giovanni XXII 1316-1334
Benedetto XII 1334-1342
Clemente VI 1342-1352
Innocenzo VI 1352-1362
Beato Urbano V 1362-1370
Gregorio XI 1370-1378
Urbano VI 1378-1389
Bonifacio IX 1389-1404
Innocenzo VII 1406-1406
Gregorio XII 1406-1415
Martino V 1417-1431
Eugenio IV 1431-1447
Niccolò V 1447-1455
Callisto III 1445-1458
Pio II 1458-1464
Paolo II 1464-1471
Sisto IV 1471-1484
Innocenzo VIII 1484-1492
Alessandro VI 1492-1503
Pio III 1503

Giulio II 1503-1513
Leone X 1513-1521
Adriano VI 1522-1523
Clemente VII 1523-1534
Paolo III 1534-1549
Giulio III 1550-1555
Marcello II 1555
Paolo IV 1555-1559
Pio IV 1559-1565
San Pio V 1566-1572
Gregorio XIII 1572-1585
Sisto V 1585-1590
Urbano VII 1590
Gregorio XIV 1590-1591
Innocenzo IX 1591
Clemente VIII 1592-1605
Leone XI 1605
Paolo V 1605-1621
Gregorio XV 1621-1623
Urbano VIII 1623-1644
Innocenzo X 1644-1655
Alessandro VII 1655-1667
Clemente IX 1667-1669
Clemente X 1670-1676
Beato  Innocenzo XI 1676-1689
Alessandro VIII 1689-1691
Innocenzo XII 1691-1700
Clemente XI 1700-1721
Innocenzo XIII 1721-1724
Benedetto XIII 1724-1730
Clemente XII 1730-1740
Benedetto XIV 1740-1758
Clemente XIII 1758-1769
Clemente XIV 1769-1774
Pio VI 1775-1799
Pio VII 1800-1823
Leone XII 1823-1829
Pio VIII 1829-1830
Gregorio XVI 1831-1846
Venerabile Pio IX 1846-1878
Leone XIII 1878-1903
San Pio X 1903-1914
Benedetto XV 1914-1922
Pio XI 1922-1939
Pio XII 1939-1958
Gregorio XVII 1958-1989
Gregorio XVIII 1991-Vivente

(Nota sul Papato in Esilio):

Il Cardinal Camerlengo di Gregorio XVII annunciò il Conclave il 3 giugno 1990: legalmente convocato questo si svolse a Roma il 2 Maggio del 1991 – Gregorio XVIII fu eletto il 3 Maggio del 1991.

Preghiere per il Santo Padre

-652-

Oremus prò Pontifice nostro (Gregorio).

R.. Dominus conservet eum, et vivificet eum, et beatum faciat eum in terra, et non tradat eum in animam inimicorum eius  [Ps. XL] (ex Brev. Rom.).

Pater, Ave.

Indulgentia trium annorum [tre anni]. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, precibus quotidie per integrum mensem devote recitatis  (S. C. Indulg., 26 nov. 1876; S. Pæn. Ap., 12 oct. 1931).

-653-

Oratio

O Signore, noi siamo milioni di credenti, che ci prostriamo ai tuoi piedi e ti preghiamo che Tu salvi, protegga e conservi lungamente il Sommo Pontefice, padre della grande società delle anime e pure padre nostro. In questo giorno, come in tutti gli altri, anche per noi egli prega, offrendo a te con fervore santo l’Ostia d’amore e di pace. Ebbene, volgiti, o Signore, con occhio pietoso anche a noi, che quasi dimentichi di noi stessi preghiamo ora soprattutto per lui. Unisci le nostre orazioni con le sue e ricevile nel seno della tua infinita misericordia, come profumo soavissimo della carità viva ed efficace, onde i figliuoli sono nella Chiesa uniti al padre. Tutto ciò ch’egli ti chiede oggi, anche noi te lo chiediamo con lui. – Se egli piange o si rallegra o spera o si offre vittima di carità per il suo popolo, noi vogliamo essere con lui; desideriamo anzi che la voce delle anime nostre si confonda con la sua. Deh! per pietà fa’ Tu, o Signore, che neppure uno solo di noi sia lontano dalla sua mente e dal suo cuore nell’ora in cui egli prega e offre a te il Sacrificio del tuo benedetto Figliuolo. E nel momento in cui il nostro veneratissimo Pontefice, tenendo tra le sue mani il Corpo stesso di Gesù Cristo, dirà al popolo sul Calice di benedizioni queste parole: « La pace del Signore sia sempre con voi», Tu fa’, o Signore, che la pace tua dolcissima discenda con una efficacia nuova e visibile nel cuore nostro ed in tutte le nazioni. Amen.

Indulgentia quingentorum (500 giorni) dierum semel in die (Leo XIII, Audientia 8 maii 1896; S. Pæn. Ap., 18 ian. 1934).

654

Oratio

Deus omnium fidelium pastor et rector, famulum tuum (Gregorium)., quem pastorem Ecclesiæ tuæ praeesse voluisti, propitius respice; da ei, quæsumus, verbo et exemplo, quibus præest, proficere; ut ad vitam, una cum grege sibi credito, perveniat sempiternam. Per Christum Dominum nostrum. Amen (ex Mìssali Rom.):

Indulgentia trìum annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo devota orationis recitatio, quotidie peracta, in integrum mensem producta fuerit (S. Pæn. Ap., 22 nov. 1934).

655

Oratio

Omnipotens sempiterne Deus, miserere famulo tuo Pontifici nostro (Gregorio)., et dirige eum secundum tuam clementiam in viam salutis æternæ: ut, te donante, tibi placita cupiat et tota virtute perficiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen. (ex Rit. Rom.).

Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem oratio pia mente recitata fuerit (S. Pæn. Ap., 10 mart. 1935).

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (38)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (38)

SUNTO STORICO DELLE ERESIE NEL LORO RAPPORTO COL PANTEISMO E COL SOCIALISMO (1).

 [A. NICOLAS: “Del Protestantesimo e di tutte le eresie nel loro rapporto col socialismo”, vol. I – Napoli, tipogr. e libr. Gabr. ARGENIO – 1859]

Appena il Cristianesimo fu stabilito, sorsero tosto intorno alla Chiesa che ne custodiva il deposito, e si succedettero eresie a molestarne il corso attraverso ai secoli. Ma una cosa sorprendente e decisiva, che non fu per anco ben osservata e che prova la divinità del cristianesimo e della istituzione della Chiesa col fatto stesso della nostra esistenza sociale, si è che tutte le eresie, qualunque ne fosse il principio e l’arma, tutte, nella varietà delle mille origini, dei mille nomi, delle mille forme che ebbero, hanno voluto attaccare il dogma dell’Incarnazione, e cosi sono traboccate nel panteismo, nel fatalismo, nel comunismo; in una parola sono state non meno antisociali che anticattoliche, ed hanno mirato a ricondurre al caos antico la novella civiltà, della quale la Chiesa salvò in tal modo i destini salvando quelli della fede. – Ella è una prova che ci par degna di attirare 1’attenzione di ogni mente che ami la verità quella che stringe cosi con un vincolo solidale il Cattolicismo e la società, e permette di stabilire fra loro una regola di proporzione, la quale, posta la verità della società, presenta per equazione la verità del cattolicismo, e viceversa (I socialisti hanno ammirabilmente colto e giustificato questo rapporto, confondendo il cattolicismo e la società nella loro comune rabbia ; e i razionalisti conservatori, che dopo tante lezioni vorrebbero ancora separare il Cattolicismo dalla società, sarebbero i più incorreggibili e i più ciechi degli uomini). – Sotto questo aspetto la storia delle eresie riuscirebbe del maggiore e più curioso interesse. Noi non possiamo entrarvi molto addentro, perché sarebbe opera troppo lunga. Noi ci occupiamo a produrle rapidamente innanzi al dogma cristiano e, per via di confronto, convincerle di errore e di delitto. –

La storia delle eresie può esser divisa in quattro periodi :

1. ° Il periodo delle eresie indo-elleniche; in cui il vecchio Oriente ed il vecchio Occidente fecero i loro ultimi sforzi contra il Cristianesimo.

2. ° Il periodo delle eresie dommatiche; in cui i principali articoli del dogma cattolico furono messi in questioni e ricevettero la loro precisa definizione.

3. ° Il periodo delle eresie scolastiche, in cui per l’abuso del raziocinio le eresie nacquero dalle speculazioni della mente sulla dottrina.

4.° Il periodo delle eresie protestanti e razionaliste delle quali è propria la negazione del principio medesimo dell’autorità cattolica. In questa Appendice noi presenteremo il quadro dei primi tre periodi, avendo esposto il quarto nel corpo dell’opera.

Eresie del primo periodo

I . — Le prime fra tutte le eresie, contemporanee al sorgere stesso della Chiesa e che vennero da lei soffocate in culla, sono state quelle dei giudaissanti, de’ nazareni e degli ebioniti. Cotali eresie avevano questo di singolare, che le distingue da eresie posteriori, che non erano uscite dal seno della Chiesa separandosi dalla sua dottrina, ma piuttosto si son poste fin dal principio allato ad essa, come forme particolari e difettose del Cristianesimo. – Esse costituiscono per ciò una prova storica immediatamente contemporanea e diretta dei fatti evangelici, poiché la fede di cotali eresiarchi in questi fatti non l’hanno attinta dalla Chiesa, alla quale non hanno mai appartenuto, ma fuori della Chiesa e nei fatti medesimi, come lo attesta segnatamente il loro falso Vangelo degli Ebrei. Essi non sono Cristiani tralignati, ma ebrei mal cristianizzati, sono come prove mal riuscite di stampa, le quali attestano al più alto grado la realtà de’ caratteri storici sui quali è stato tirato il foglio di torchio (bozza, o prova). Sotto questo rapporto non si è forse fatto valere abbastanza questo argomento nell’apologetica cristiana. Checché sia di ciò, questi Cristiani giudaizzanti, come si chiamavano, o meglio questi ebrei cristianizzanti, le cui diverse sette erano comprese sotto il nome di ebioniti (da questi è sorto l’Islam – ndr.-)si distinguevano dal resto degli ebrei in questo, che riconoscevano Gesù Cristo essere il Messia; e si separavano da’ Cristiani in questo, che non ammettevano che Egli fosse Dio. Essi negavano il dogma dell’Incarnazione. Tuttavia la maggior parte ammettevano che Gesù Cristo era nato da una vergine; ma non vedevano in Lui che un uomo dotato di una sapienza soprannaturale, in cui il Messia celeste era disceso durante il suo battesimo sotto la forma di una colomba. Questo Messia celeste era il più elevato degli spiriti emanati da Dio. La loro dottrina era dunque quella dell’emanazione, vale a dire del panteismo orientale. Essi avevano preso il nome di ebioniti da una parola ebraica che significa povero, a motivo che professavano lo spogliamente individuale e la comunanza dei beni, come. una prescrizione che imputavano falsamente agli apostoli (Gli apostoli non hanno mai prescritto la comunanza de’ beni. I primi Cristiani di Gerusalemme, è vero, non avendo tutti che un cuore ed un’anima, vendevano i loro beni e ne deponevano il prezzo appiè degli apostoli perché fosse distribuito a ciascuno secondo i propri bisogni. Ma la cosa si faceva liberamente, e gli Apostoli non l’imponevano come legge. Se ne ha la prova nelle parole medesime di san Pietro ad Anania e a Safira, percossi di morte, né già per non aver portato 1’intero prezzo del loro campo agli Apostoli, ma unicamente per avete mentito : Non è egli vero che conservandolo stava per te, e venduto era in tuo potere?… Non hai mentito agli uomini, ma a Dio. (Act V, 4.) Nulla di più formale. Il Cristianesimo, come si vede, non è comunista che della verità. Questo è il solo bene che esso esige che noi mettiamo in comune. Ma, diversamente da tutti gli altri beni, questo si aumenta dividendosi, e arricchisce coloro che lo comunicano quanto quelli che lo ricevono, Egli, anziché dividere sé stesso eguaglia noi e ci unisce. È la comunione delle anime, il rovescio e l’antidoto del comunismo, cui la sola Chiesa ha la potestà di operare). – Permettevano inoltre la poligamia. Così fin da’primi giorni del Cristianesimo la negazione dogma fondamentale dell’Incarnazione si mostrò per mezzo del politeismo e del comunismo. La Chiesa percosse questi primi nemici della fede e dell’incivilimento, proclamando la divinità del figliuolo di Maria.

II. — Intorno a quel tempo o poco dopo questa eresia, comparve quella de’ gnostici. Chi dice eresia dice frazione all’infinito, come chi dice Chiesa dice unità perfetta. Quando adunque noi indichiamo un’eresia con un nome, non si deve intendere un’ unità di frazione, ma frazioni di frazione senza numero. Sotto la denominazione di gnostici pullulava una moltitudine di sette; esse avevano solo qualche cosa di comune fra loro, e questo è ciò che le ha raccolte sotto il nome di gnostici; questo qualche cosa che avevano comune fra loro è il punto di sezione pel quale si sono separati dalla Chiesa. Essi si chiamavano gnostici dalla parola gnosis, che significa illuminazione, scienza superiore. I gnostici presero essi medesimi questo nome orgoglioso, perché si vantavano di aver lumi straordinari, di essere illuminati. La Chiesa dovette sostenere contra di loro lotte lunghissime e moltissime: essa v’adoperò tutto 1’ardore e tutto il genio de’ suoi primi gran dottori, segnatamente di sant’Ireneo, di sant’Epifanio, di san Clemente e di Tertulliano. I primi gnostici erano pagani mal diventati Cristiani, come abbiamo veduto che gli ebioniti erano ebrei malvenuti egualmente al Cristianesimo. I gnostici posteriori furono eretici usciti dalla Chiesa. Era proprio dei gnostici il negare il dogma dell’Incarnazione, come gli ebioniti, colla sola differenza che gli ebioniti negavano la divinità di Cristo, e i gnostici la sua umanità. Essi dicevano che Gesù Cristo non aveva avuto che una carne apparente; che egli era nato, che aveva patito ed era morto solamente in apparenza. È incontrastabile che il panteismo formava la sostanza di tutte queste sette. Esse professavano la dottrina dell’emanazione decrescente per una moltitudine di eoni o di genii, ai quali attribuivano la produzione delle cose e tutti gli avvenimenti: dottrina presa in parte dal buddismo, in parte dal platonismo. Consistendo la loro medesima eresia nel non vedere in Gesù Cristo altro che un’apparenza, essa procedeva dal panteismo e a lui conduceva; essendo Gesù Cristo il primogenito delle creature, tutta quanta la creazione non era, come Lui, altro che una semplice apparenza. I gnostici si dividevano in due grandi categorie; quelli che ammettevano non più che una sostanza unica, i panteisti semplici, e quelli che ammettevano due sostanze principii, i panteisti dualisti o manichei. Questi non erano meno panteisti dei primi; solamente il loro panteismo era doppio: il panteismo della materia, il cui principio emanatore era il male; e il panteismo dello spirito, il cui principio emanatore era il bene; ambedue necessaria Per conseguenza essi professavano orrore alle cose materiali ; fuggivano il matrimonio come una propagazion del male, e il possedimento dei beni terreni come un attaccamento al cattivo principio; ma, come tutte le sette che ardirono riprovare l’unione legittima dei sessi e la legittima proprietà dei beni, essi andavano a cadere in tutte le turpitudini che oltraggiano la natura e in tutte le follie che rovinano la società. Il socialismo, il comunismo dei nostri dì si ritrovano interamente in questi antichi eretici. Noi leggiamo in un libro intitolato Della giustizia, composto da uno dei loro capi, Epifanio, onorato da essi quale un Dio, che « la natura medesima vuole la comunanza di ogni cosa, del suolo, de’ beni della vita, delle donne: e che le leggi umane, sconvolgendo l’ordine legittimo, hanno prodotto il peccato colla loro opposizione agli istinti più potenti posti da Dio nel fondo delle anime. » Tali principi! potevano facilmente condurre ai delitti contro natura che la storia attribuisce a questi eretici (Dellinger). – Due iscrizioni scoperte da poco tempo nella Cirenaica sono un monumento notevole di questi gnostici manichei. L’una mette sulla medesima linea Thot o Ermete Trismegisto, Crono, Zoroastro, Pitagora. – Epicuro, il persiano Mazdac, Giovanni e il Cristo, come tali che hanno unanimamente insegnato la comunanza d’ogni proprietà; (medenoikeiopoieisthai), l’altra dice: « La comunanza di tutti i beni e delle donne è la sorgente della giustizia divina e la perfetta felicità per  gli uomini buoni tratti dalla cieca popolaglia. Zaradete e Pitagora, i più illustri de’ gerofanti, insegnarono loro a vivere insieme. » – Se la fede non dovesse già altari al cattolicismo, la riconoscenza dovrebbe rizzargliene per aver salvato l’incivilimento nella sua culla. abbattendo coi colpi addoppiati della clava dell’ortodossia 1’idra del gnosticismo, le cui mille teste rinascenti furono per ben dugent’anni sempre in atto di divorarlo (L’età della forza e del fiorire del primo gnosticismo, dice un dotto e onorevolissimo storico, durò circa cent’anni. Verso la metà del terzo secolo, si vedevano già i segni forieri della sua dissoluzione; e se si era potuto temere per qualche tempo che la forma gnostica avesse a prendere la superiorità nel Cristianesimo, la preponderanza della Chiesa fu da quel tempo evidente e decisa. Ma l’allettativa che questo errore aveva esercitato sulla mente di tanti uomini era molto lungi dall’essere interamente dileguata, come lo provarono i progressi rapidi e la vasta estensione del manicheismo, nuova setta, parente di quella che si spegneva. Lo spirito delle religioni naturali dell’Oriente raccolse un’altra volta tutte le sue forze e tentò d’imprimere al Cristianesimo una direzion retrograda verso il vecchio panteismo. – L’anima umana fu di bel nuovo identificata dal panteismo colla divinità, e l’una e l’altra si trovarono inghiottite ad un tempo nel circolo della natura … (Dellinger, tom. 1, pag. 266.) Noi ritroviam poscia il manicheismo negli albigesi, nei templari, e sin nei francho muratori de’ nostri giorni [oggi nel modernismo vaticano – ndr.], al meno per lo forme e le cerimonie delle loro iniziazioni e i segni segreti del loro riconoscimento, letteralmente descritti da sant’Agostino, che nella sua gioventù si era lasciato impigliare nella setta de’ manichei. Noi torneremo su questi raffronti. Tuttavia notiamo fin d’ora che i manichei, come in appresso gli albigesi e i protestanti, avevano un’avversion particolare per le imagini e per la croce; che essi rimproveravano a’ cattolici cadessero negli errori dell’idolatria e onorassero i santi come divinità; e pretendevano che era per nascondere ai laici la contraddizione tra la condotta della Chiesa e la sacra Scrittura sotto questo rispetto che i preti vietavano la lettura di quest’ultima. – Vedi Pluquet, Dizionario delle eresie.)

III. — Il gnosticismo era il vecchio errore i panteista dell’Oriente, che aveva voluto trasfigurarsi in Cristianesimo; il vecchio errore dell’Occidente fece pur esso il medesimo tentativo sotto il nome di neoplatonismo. – La pietra d’inciampo del suo tentativo fu ancora il dogma dell’Incarnazione: Gesù Cristo, pietra sempre rigettata da quelli che vogliono rizzar gli edifici cadenti della ragione umana, e sempre sussistente come pietra angolare del tempio della verità. Il dogma dell’Incarnazione non è che il dogma della Trinità in azione per la salute del mondo. Esso lo include necessariamente. Gesù Cristo è il Figliuol di Dio, seconda Persona della santa Trinità, che manifesta la prima nell’Incarnazione, e che è Essa medesima manifestata dalla terza nella Chiesa. L’Incarnazione ci mostra il Padre celeste che si riconcilia il mondo nel Figliuolo; e la Chiesa ci mostra questo Figliuolo che converte il mondo a questa riconciliazione per mezzo dello Spirito Santo. Ma queste tre Persone non hanno rapporto necessario e sostanziale se non fra loro: col mondo esse non hanno che rapporti di libera elezione e di misericordia puramente gratuita. Esse sono Dio; e Dio, l’infinito, è sovranamente indipendente dal finito, nella sua essenza come nei suoi atti; nella Chiesa, come nell’Incarnazione, come nella creazione, come nell’eternità. Estendere i rapporti necessari delle tre Persone divine al mondo è dunque un urtar contro il dogma dell’Incarnazione, il quale protesta contro questo errore per la distinzione assoluta delle due nature in Gesù Cristo, che le unisce solamente nella sua Persona, non meno che contra il dogma della Trinità, il quale non ammette nella partecipazione della divina essenza se non le tre Persone che la costituiscono. Questo fu lo scoglio del neo-platonismo. – Il neo-platonismo ha avuto tre centri principali: Alessandria, Roma e Atene; ma ha conservato il nome di alessandrino o di scuola di Alessandria. I suoi più famosi rappresentanti sono stati Plotino, Porfirio, Giamblico, Gerocle e Proclo. Il loro scopo era quello di salvare la filosofia ellenica, e insiem con essa il paganesimo, cristianizzandola, e di soppiantare il Cristianesimo togliendogli tutto ciò che gli si può togliere, allora che non si vuol dare se stesso a Gesù Cristo, vale a dire quando si vuole escluderlo; imperocché quelli che non sono per Lui sono di tutta necessità contra di Lui. Appunto per questo essi diedero ancora nel panteismo; conseguenza ordinaria del rigettare il dogma cattolico dell’Incarnazione.

E così fecero volendo più particolarmente platonizzare il dogma della Trinità o cristianizzare il platonismo. Ecco di fatti, secondo le Enneadi, libro di Plotino, il prodotto del loro sforzo: « L’unità è il principio necessario, la sorgente e il termine d’ogni realtà, o piuttosto la realtà medesima, la realtà originale e primitiva Essa racchiude in sè i germi d’ogni cosa; è quel Saturno incatenato della mitologia, padre del padre degli dei Nondimeno l’uno non è l’essere, non è l’intelligenza; esso è superiore all’uno ed all’altro, essendo al di sopra d’ogni azione, d’ogni situazione determinata, d’ogni conoscenza, È qualche cosa d’invisibile, ritratto io una notte immensa; il padre sconosciuto, l’abisso, Bythos. Èciò che è il Brama indeterminato della metafisica dell’India; il fondo dell’essere, la sostanza che non si può cogliere in sé medesima, e che si comprende come ciò che è nascosto sotto ciò che appare. – « Dal seno di questa unità assoluta procede l’Intelligenza suprema, secondo principio, perfetto anch’esso, quantunque subordinato, ed essa ne procede per emanazione, come la luce procede dal sole. — L’anima universale è il terzo principio, subordinato agli altri due; quest’anima è il pensiero, la parola, un’immagine dell’intelligenza, l’esercizio della sua attività…. Questa processione è da tutta l’eternità, e questi tre principii, quantunque formino una gerarchia nell’ordine della dignità, sono contemporanei fra loro. » Questa triade di Plotino compone il mondo intelligibile, mondo perfetto, che non è che la medesima divinità in quanto la si manifesta. Questo mondo intelligibile è non solamente il tipo del mondo visibile, ma ne è la base, l’essenza reale e vera. – « Dall’anima suprema e dall’intelligenza emanano di fatto le idee o le anime che sono le sole realtà vere, le anime degli Dei, degli nomini, degli animali e degli elementi; la materia medesima. » A dir breve, il mondo non era per Plotino che la grande anima informante la materia per mezzo delle idee o delle anime che essa produce.  – L’identità assoluta, che è il fondo del sistema di Plotino, si rivela sopra tutto nella sua teoria della conoscenza. « La vera conoscenza, dice egli, è quella in cui l’obietto conosciuto è identico col soggetto che lo conosce. » Quando adunque noi percepiamo l’unità assoluta, percepiamo noi medesimi; quando noi conosciamo le altre intelligenze, conosciamo ancora noi stessi. – Con tale sistema la libertà, la spontaneità, la personalità individuale, elementi d’ogni società, si dileguano interamente. Perciò, secondo Plotino, tutto nel mondo è necessario, tutto è l’opera di una produzione fatale. Il male medesimo non è che una negazion necessaria al bene; esso risiede nella materia, che è considerata qualche volta da Plotino come una produzione imperfetta dell’Ente supremo. In questa ipotesi il male risiede in Dio medesimo. – La medesima dottrina è nella sostanza in Proclo e negli altri neoplatonici. Le operazioni teurgiche erano per essi il gran mezzo di purificazione e d’illuminazione delle anime. Essi cercavano comunicazioni dirette coi geni, cogli dei, col Dio supremo. Così questi filosofi si studiavano di rimettere in corso tutte le superstizioni pagane, e si abbandonavano con uno zelo incredibile a tutte le pratiche del politeismo e della magia. Questa dottrina, in cui si riconoscono i principali tratti dell’egelianismo dei nostri giorni, era un’accozzaglia bizzarra delle filosofie orientali ed elleniche, colorata dalla dottrina cristiana sulla Trinità. Era una lega di tutti i sogni dello spirito umano contra la luce della verità che veniva a dissiparli. Per arrestare i progressi del Cristianesimo, i neo-platonici si diedero di fatto a scegliere nelle diverse scuole di filosofia le opinioni che a forza di palliativi potevano diventar simili in  apparenza ai dogmi del Cristianesimo, affine di persuadere agli spiriti superficiali che anche i filosofi aveano, del pari che Gesù Cristo, scoperto la verità, e che non v’aveva alcuna necessità di rinunziare alla loro dottrina per abbracciar quella del Vangelo. Sotto questo rispetto il neo-platonismo è un’alta conferma di questa verità che noi vogliamo sopra tutto mettere in luce, che cioè tutte le concezioni filosofiche dello spirito umano sulla verità soprannaturale, fuori della fede cristiana, vanno a riuscire e a perdersi inevitabilmente nel panteismo e nel fatalismo, poiché questi ci mostrano ne’ mostruosi loro errori unite e compendiate tutte quelle concezioni. – I neo-platonici stessi non negavano di aver preso qua e là tutti que’ placiti, la cui unione componeva la loro dottrina. Anzi essi avevano ridotto una tale unione in sistema, nel sistema dell’ecletticismo e del sincretismo, che a’ giorni nostri abbiam veduto ricomparire. – Essi trascorsero sino a pretendere che la differenza di carattere dei popoli voleva una diversità nella loro religione, e rendeva necessario quel sincretismo religioso che noi vediamo esposto in Proclo, Gerocle, Simplicio, Calcedio e nello storico Ammiano Marcellino. Movendo da questo punto, Proclo diceva : « Il filosofo non si costringe a tale o tal altro culto nazionale; egli non è stranio ad alcuna forma di religione, perocché è il gran sacerdote dell’universo. » Ed è questo ministero delle anime che i nostri filosofi pretendono altresì esercitare del pari o meglio al di sopra de’ pontefici della religione. Del resto, essi facevano al Cristianesimo il medesimo onore che gli si fa ai dì nostri, di ammetterlo, insieme colle altre religioni, a partecipare agli ossequi della filosofia; Cristianesimo e paganesimo erano messi al medesimo livello, non essendo l’uno e l’altro che manifestazioni dell’intelligenza, la quale mira continuo a sciogliersi per innalzarsi alla ragion pura. Ma questa tolleranza filosofica, oltre che era attentatoria al Cristianesimo dommatico, il quale non può patire queste assimilazioni sacrileghe, non era che una tattica per battere in breccia il Cristianesimo pratico e la sua azione incivilitrice sul mondo. Sotto questo riguardo il panteismo non era solo il termine inevitabile di tutte le concezioni umane fuori della fede, ma era al tempo stesso il terreno più favorevole per questa gran congiura. Facendo procedere ogni cosa da un medesimo principio ed emanare ogni cosa da una medesima intelligenza, egli consacrava tutti gli errori, e autorizzava la loro lega contro la verità che li escludeva. È questa l’identica cosa che abbiamo veduta a’ dì nostri. La sola differenza era questa, che il trattato era steso ad Alessandria invece di Parigi, e compilato da Gerocle o da Giamblico invece di esserlo nel Globe da Damiron o da Jouffroy. Ma questo tentativo fu altrettanto vano allora quanto fu vano ai dì nostri. La questione tra il panteismo e il Cristianesimo, tra il paganesimo antico c l’incivilimento moderno, sospesa per un istante sul mondo, fu tronca dalla spada della verità cattolica; il panteon, e il paganesimo furono ricacciati negli abissi, e il Cristianesimo continua il suo corso, traendo seco il mondo nella gran via luminosa del suo destino. Ambrogio! Apollinare! Lattanzio! Eusebio! Cirillo! Teodoreto! Arnobio! Clemente! Origene! Atanasio! Agostino! bei genii, illustri dottori, e molti di voi sopra tutto gran santi, che combatteste allora per la verità, siate salutati dall’età nostra come i veri padri non solamente della fede e della Chiesa, ma della ragione e della società, ma del mondo, strappato da voi alle tenebre antiche e rendute a’ suoi alti destini! Siate invocati nella gloria che vi hanno acquistato i tanti e sì gran combattimenti in cui la verità non solo fu salva dai vostri scritti, ma ancora dal sacrificio della vostra vita e del vostro sangue; e ottenete pei vostri eredi nell’incivilimento e nella fede i medesimi lumi contra i medesimi errori, il medesimo coraggio contra i medesimi pericoli, il medesimo trionfo per la medesima causa.      

https://www.exsurgatdeus.org/2020/09/23/gnosi-teologia-di-satana-39/  

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – “PASTORALIS VIGLILANTIÆ”

« …Tutte le persone assennate ed oneste sono infatti concordi nel riconoscere che non esiste un rimedio più sicuro e più valido della dottrina cattolica contro i mali che affliggono il nostro tempo e i pericoli che incombono, sempreché essa sia accettata completa ed integra, e gli uomini uniformino il loro modo di vivere alle norme che la stessa propone. » Queste parole che il Santo Padre Leone XIII rivolgeva ai Vescovi ed al popolo portoghese, sono oggi di capitale importanza ancor più che allora per indicare agli uomini smarriti dei nostri tempi, la soluzione vera dei problemi che sono sempre più insolubili affidandosi a mezzi umani, politici, filosofici, scientifici, finanziari. Solo accettare e praticare integralmente la Religione Cattolica potrà essere argine al dilagare dell’empietà, della corruzione e, negli ultimi tempi, all’imbecillità ed all’idiozia panteista spacciata come [fasulla] verità scientifica o mediatica, o addirittura filosofica e spirituale. La sinagoga di satana della città dei sette colli, è parte della bestia e del dragone che sostiene il falso profeta nell’attesa dell’anticristo manifesto, per cui chi vuole trovare riparo ai mali ed alle persecuzioni terribili in atto o in arrivo, non ha che da tornare a Dio, al suo Cristo ed al suo vero ed unico Corpo mistico, che è la Chiesa Cattolica Romana, unica arca di salvezza, la nuova arca che sfuggirà all’imminente diluvio di fuoco da tempo profetizzato ed ormai inevitabile. Si tenga pronto e fermo saldamente radicato nella fede nel Cristo Redentore il “pusillus grex”, il nucleo residuo della “vera” Chiesa di Cristo, perché le prove saranno dure, ma alla fine per chi persevererà impavido, arriverà la corona della gloria eterna, che eviterà lo stagno di fuoco, pronto invece per la bestia, il falso profeta ed i suoi adepti ed il diavolo.

Leone XIII
Pastoralis vigilantiæ

Lettera Enciclica

La Lettera, oltremodo gradita, che annunciava la felice conclusione del nobile Convegno svoltosi di recente a Braga, a Noi inviata da quanti, tra voi, vi hanno presenziato, Ci ha procurato una nuova e significativa testimonianza dello zelo pastorale con il quale vi impegnate nel difendere e nel promuovere la religione.

Durante la lettura siamo stati pervasi da sentimenti di gioia, sia per lo zelo e la dedizione del Pastore della città che ha accolto i membri del Convegno e ha assunto in prima persona il compito di organizzarlo e di gestirlo in modo da poterne trarre gli auspicati frutti, sia per l’impegno e la pietà dei Vescovi che l’affiancarono, o che inviarono al loro posto uomini degni di stima che li rappresentassero al Convegno, sia infine per l’imponente affluenza di uomini tra i più rappresentativi del clero e del popolo fedele, segnalati per la dottrina, per la virtù e per il prestigio.

Codesto Convegno Ci tornò ancor più gradito, perché vi ha preso forma un mirabile accordo su decisioni particolarmente utili alla grandezza della Chiesa e al successo del Cattolicesimo. Né vogliamo passare sotto silenzio il fatto che, tra le altre cose opportunamente approvate con voto unanime, tenendo conto della condizione del tempo e del luogo, Ci hanno procurato conforto quei capitoli che attestavano la piena deferenza dei convenuti verso questa Sede Apostolica, e il loro ardente desiderio di vederla onorata come richiede la sua dignità e per nulla sminuita nel suo onore e nei suoi diritti.

Nutriamo senz’altro la lieta speranza che quanto è stato deliberato e definito in codesta sede, se sarà attuato con impegno e costanza, produrrà una grande abbondanza di frutti salutari, senza tuttavia dimenticare che resta ancora un vasto terreno che rivendica la vostra attenzione e la vostra operosità.

Per questo motivo, anche se in una lettera a voi inviata poco tempo fa vi abbiamo parlato della situazione religiosa nel regno del Portogallo e della linea di condotta da adottare per potervi opportunamente far fronte, Ci torna tuttavia gradito aggiungere al contenuto di quella lettera alcune cose che vale la pena di farvi sapere, anche perché, essendosi presentata un’occasione per scrivervi, non corriamo il rischio di essere venuti meno, per pigrizia al Nostro dovere.

Non vi sfugge certo, diletti Figli e Venerabili Fratelli, come nel Convegno di Braga sia emerso, in tutta chiarezza, che si è giunti al punto in cui la fede stessa è messa in pericolo presso molti, e s’impone quindi l’obbligo di impedire, per quanto è possibile, che l’ignoranza e la rilassatezza la estirpino dagli animi o la lascino illanguidire, ma occorre impegnarsi perché resti ben fissa nei cuori e dia vita ad una consolante quantità di opere buone e di peretta virtù, nonché alla dolcezza dei frutti più eccelsi. Ci si deve opporre ai tentativi dei nemici della verità, perché non abbia a diffondersi il malefico contagio che si sprigiona dai loro cattivi esempi e dalle loro idee disseminate per ogni dove. Ci sono da sanare molte ferite che il loro nefasto operare e la malvagità dei tempi hanno inferto nei greggi affidati alle vostre cure; molte sono le cose che giacciono inerti da far rivivere; molti sono ancora i bisogni che assillano le anime e che, se non possono essere del tutto rimossi, occorre almeno lenire. – Tutto questo che reclama, come abbiamo ricordato, le vostre cure e la vostra sollecitudine, potrà essere attuato con maggiore efficacia e con più facilità se la concordia tra i Vescovi diventerà ogni giorno più profonda e se questi, di comune intesa, opereranno per scoprire i bisogni del clero e dei fedeli, per proporre suggerimenti e prendere, con le decisioni, che tutti insieme vedranno meglio accordarsi con le situazioni delle singole diocesi, anche quelle di più ampia portata e di maggior peso per provvedere alla prosperità e alla salvezza dell’intero popolo. L’opportunità di un più stretto raccordo tra i Vescovi non sfuggì alla saggezza di chi si riunì a Braga. Trovano quindi la Nostra piena approvazione le decisioni prese in quel nobile Convegno con il proposito di favorire quest’unità di intenti, capace di garantire al popolo cristiano i più importanti e duraturi benefìci che si ripromette dai suoi Presuli, che sono le sue guide e i suoi pastori.

Ma per rendere veramente stabile questo rapporto, non vi è mezzo più efficace del ricorso alla consolidata prassi, già recepita in altre regioni, di tenere ogni anno, in aggiunta alle riunioni che prevedono la presenza anche dei laici (di tal fatta era il Convegno di Braga), speciali adunanze di Vescovi. È un’usanza che sta prendendo piede anche presso di voi; un’usanza che vi sta a cuore e che Noi auspichiamo con tutte le forze perché, come testimoniano le numerose e documentate esperienze, è possibile trarne benefìci per la religione. – Di sicuro, con la frequente convocazione di tali assemblee prende anzitutto forma, come abbiamo ricordato, il più rilevante e unanime concorso di energie che può garantire esiti positivi alle iniziative intraprese, ma ravviva anche l’entusiasmo ad agire dei Vescovi convenuti, rafforza la fiducia e illumina le menti con il confronto delle idee e con lo scambio vicendevole del frutto della saggezza. Con queste assemblee si apre come una strada sia per tenere Sinodi diocesani e provinciali, sia per riunire un Convegno nazionale, la celebrazione del quale – notiamo con grande gioia – fa parte dei vostri desideri. La ripetuta esperienza dei vantaggi derivati da Convegni similari già svolti, li consiglia con forza, e le disposizioni dei Sacri Canoni le raccomandano con sincera convinzione. Inoltre alle menzionate assemblee annuali dei Vescovi farà seguito un evento di somma importanza. I laici infatti, spinti da nuovi stimoli, si sforzeranno di proseguire con più decisione sulla strada intrapresa; si riuniranno a loro volta in assemblee; confronteranno le loro idee e, facendo leva sulle energie collegate, si adopereranno per difendere la comune causa della religione e, seguendo le indicazioni dei loro Pastori, metteranno in pratica gl’insegnamenti e gl’incoraggiamenti ricevuti. – Per la verità, nelle riunioni annuali che farete non mancheranno i problemi ai quali dedicare il vostro zelo e le vostre energie. Infatti, oltre i problemi specifici che eventualmente riguarderanno le singole diocesi e che potranno essere più adeguatamente risolti con l’apporto chiarificatore della comune esperienza, sarà oggetto del vostro prudente esame un vasto campo di decisioni e di deliberazioni relative ai mezzi maggiormente idonei per dar vigore all’impegno dei sacerdoti che già lavorano nella vigna del Signore, per educare i giovani che un giorno dovranno risplendere nella casa di Dio per la luce di una solida dottrina, per il merito di uno schietto spirito ecclesiastico e per il corredo di tutte le virtù sacerdotali. – La vostra paterna vigilanza si farà anche carico di una meticolosa ricerca su tutto ciò che è sommamente utile per trasmettere correttamente al popolo i rudimenti della fede, per correggerne i costumi, per divulgare scritti atti a seminare la sana dottrina e a inculcare i principi della virtù, per dar vita ad istituzioni che diffondano i benefìci della carità e per rendere ancor più fiorenti quelle già istituite. – Un ultimo importantissimo punto, che dovrà essere oggetto delle vostre decisioni, vi sarà offerto dall’opportunità di fondare e di accogliere nel Regno del Portogallo delle Congregazioni religiose. Al riguardo abbiamo notato con gioia quanto fosse forte l’impegno di tutti i presenti al Convegno di Braga. – Queste Congregazioni, infatti, non solo potranno offrire al clero, che nelle vostre diocesi si è votato alla sacra milizia di Cristo, delle forze per così dire, ausiliarie, ma saranno anche in grado, ed è ciò che più conta, di preparare uomini animati da spirito apostolico che si faranno carico del ministero missionario nelle regioni d’oltremare soggette al dominio portoghese. L’assolvimento di questo compito, mentre contribuirà all’ampliamento del Regno di Cristo sulla terra, darà anche lustro e onore al Portogallo. Si sono veramente procurati una gloria imperitura i vostri Principi e i vostri antenati quando, con l’aiuto e il favore della Sede Apostolica, portarono la luce della dottrina evangelica e una forma di vita più civile in tutte le vostre terre scoperte. – Occorre dunque, per mantenere vive la natura e la forza delle iniziative intraprese e per non lasciarle decadere dal primitivo stato di persistente floridezza, far leva sulla costante vigilanza e sulle virtù di uomini pienamente affidabili che, mentre si oppongono, pieni di spirito divino, agli ostili attacchi degli acattolici, indirizzino tutta la loro attenzione e la loro energia a far sì che i beni giunti dal Portogallo in quelle contrade non vadano completamente perduti, ma riprendano vita come per nuovo vigore. – Sarà compito di questi uomini che, chi già crede in Dio, sia confermato nella fede, e chi vi è ben ancorato possa anche distinguersi per l’onestà dei costumi, per la pratica della religione, per la scrupolosa osservanza dei doveri, affinché chi è ancora nelle tenebre si disponga ad accogliere la luce del Vangelo. – Le Congregazioni religiose potranno senz’altro offrire molti di questi uomini ardenti di santo zelo, poiché i loro membri, sulla scorta del giudizio di persone assennate confermato da testimonianze di tutti i tempi, seppero sempre svolgere questo compito con impegno ed efficacia. Infatti il sistema e la disciplina delle Congregazioni in cui sono inseriti, nonché la pratica costante della virtù che ognuno si impone, li rendono più adatti di ogni altro a svolgere un così importante lavoro. – Siamo pienamente convinti che il Governo del Portogallo, accogliendo con favore le vostre proposte e attribuendo grande valore a quei beni che sopravanzano gli altri, si deciderà anche a rimuovere gli ostacoli che intralciano la libertà dei Sodalizi religiosi e, con la sua autorità, favorirà i vostri propositi che mirano a restituire il pieno vigore e a far rifiorire doviziosamente, con la gloria degli antenati, la religione cattolica in Portogallo e in tutti i paesi sottoposti al suo dominio. – Questa Nostra convinzione è resa più forte dal fatto che nessuno ormai ignora, e anche voi ne avete piena coscienza, quali siano al riguardo i Nostri sentimenti e i Nostri auspici, che sono sicuramente rivolti al bene della religione, ma si propongono anche la piena prosperità del popolo portoghese. Sono questi il compito e la funzione che il Divino Fondatore ha assegnato alla Chiesa: porsi nel cuore della società umana come vincolo di pace e garanzia di salvezza. – La Chiesa non toglie nulla all’autorità di chi è posto a capo dello Stato e ne detiene il potere, anzi lo difende e lo rafforza, affiancando alle leggi emanate l’obbligo religioso dell’osservanza, riconducendo il dovere di sottostare alle pubbliche autorità nell’ambito degli obblighi voluti da Dio, esortando i cittadini a tenersi lontano dai moti sediziosi e da ogni altra forma di sovvertimento dello Stato, insegnando a tutti di coltivare la virtù e di assolvere con cura tutto ciò che richiede il proprio stato e la propria condizione. – La Chiesa è dunque il migliore censore dei costumi; la sua salutare disciplina prepara uomini retti, onesti, devoti verso la patria, fedeli e pienamente solidali con i principi, tali cioè da costituire un solido sostegno del pubblico ordinamento degli Stati, in grado di mettere a loro disposizione indomite energie per affrontare imprese ardue e gloriose. È per questo motivo che si provvede in modo saggio e accorto al bene dello Stato quando si permette alla Chiesa di avvalersi di quella libertà d’azione che essa rivendica a buon diritto, e le si apre benevolmente la strada perché possa ampiamente far valere la sua benefica influenza e mettere a disposizione del bene comune tutti i mezzi di cui è dotata. – Anche se un simile assunto riguarda tutte le genti, esso si rivela particolarmente indicato per il popolo portoghese, presso il quale la religione cattolica svolse un ruolo di primaria importanza nel plasmare, da molto tempo, i costumi e le menti degli uomini, nel promuovere gli studi delle scienze, delle lettere e delle arti, nell’infiammare gli animi a compiere ogni sorta di imprese memorabili in pace e in guerra, quasi da sembrare la madre e la nutrice, donata dal cielo, per generare e far crescere tutto ciò che di splendido prese forma, in tale popolo, nel campo della civiltà, della dignità e della gloria. – Ci siamo intrattenuti più diffusamente con voi su questo argomento nella citata Lettera enciclica che vi abbiamo recentemente indirizzata. Ora però è bene ricordare questa sola cosa: la forza e il valore della religione non possono in alcun modo venir meno, perché i principi dottrinali che essa trasmette, in quanto voluti da Dio, non sono condizionati dalle leggi del tempo e dello spazio, ma sono rivolti alla salvezza e al conforto di tutti i popoli. Per questo motivo, allo scopo di favorire il benessere e la prosperità della vostra nobilissima gente, la religione è ancora in grado di fornire quegli straordinari benefìci e quei validi aiuti che mise a disposizione in passato. Specialmente in questo tempo malvagio, nel quale la debolezza e il turbamento degli animi si sono fatti così grandi che i fondamentali principi che garantiscono l’ordine e la pace della società umana non solo vengono messi in dubbio, ma sono apertamente avversati, non vi è nessuno che non comprenda la necessità di far ricorso all’aiuto della Religione e ai suoi sacri precetti e insegnamenti. Tutte le persone assennate ed oneste sono infatti concordi nel riconoscere che non esiste un rimedio più sicuro e più valido della dottrina cattolica contro i mali che affliggono il nostro tempo e i pericoli che incombono, sempreché essa sia accettata completa ed integra, e gli uomini uniformino il loro modo di vivere alle norme che la stessa propone. – Per tutto questo, Diletti Figli Nostri, Venerabili Fratelli, non dubitiamo che, in forza dello zelo pastorale che vi distingue, vi affretterete, con animo deciso e con impegno costante, all’opera che vi abbiamo raccomandato. Sarà per voi, dediti al lavoro, un titolo di sommo onore e di meritata riconoscenza, l’aver potuto conseguire altissime benemerenze verso la religione, che assorbe tutto il vostro interesse, verso la patria e verso il vostro popolo, per il quale auspicate, con un’intensità non inferiore alla Nostra, una stabile pace e un futuro rispondente alle attese. Mentre eleviamo la Nostra supplica a Dio perché vi colmi dei suoi doni e assecondi le vostre iniziative, impartiamo, con sincero affetto nel Signore, la Benedizione Apostolica, testimonianza del Nostro paterno amore, a voi, al clero e ai fedeli affidati alle vostre cure.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 giugno 1891, quattordicesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2020)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Come Domenica scorsa, la lettura dell’Uffizio divino coincide spesso in questo giorno con quella del libro di Giobbe che si suol fare nella 1a e nella 2a Domenica di Settembre. – Continuiamo quindi a leggere i testi del Messale in corrispondenza con quelli del Breviario. Giobbe è la figura del giusto, che il demonio superbo cerca di umiliare profondamente, affinché si rivolti contro Dio. « Lascia che io lo provi, dichiarò satana all’Altissimo, egli ti bestemmierà ». E Jahvè glielo permise, per fare di Giobbe il modello dell’anima che proclama il supremo dominio di Dio e si sottomette interamente alla sua volontà divina. La gelosia del demonio non conobbe allora più freno e fece piombare sullo sventurato Giobbe, con gradazione sapiente, tutte le calamità che ebbero potuto abbatterlo. Pure, benché privo di tutto e coricato sul letamaio, Giobbe non maledisse la mano onnipotente di Dio, che permetteva al demonio di accanirsi contro di lui, ma la baciò umilmente. Il Salmo dell’Introito rende mirabilmente la sua preghiera. « Abbi pietà di me, o Signore, Porgi, o Signore, il tuo orecchio, poiché sono misero e povero ». Il Salmo del Graduale è anch’esso « la preghiera del povero quando è nell’afflizione », e i Versetti da 3 a 6: «Sono stato colpito come l’erba, a forza di gemere le ossa mi si sono attaccate alla pelle », sembrano l’eco delle parole di Giobbe che dice: « Le mie ossa si sono attaccare alla pelle, non mi restano che le labbra intorno ai denti » (Vers. 19, 20). Il Salmo dell’Offertorio parla anch’esso «del povero e dell’indigente» che supplica Iddio: « Non allontanare da me le tue misericordie, o Signore, poiché mali senza numero mi hanno circondato. Siano svergognati coloro che insidiano la vita mia » (Versetti 12-14). Infine, l’antifona della Comunione dice: « Piega, o Signore, verso di me, il tuo orecchio! Quante numerose e crudeli tribolazioni mi facesti provare! La mia lingua proclamerà dovunque soltanto la tua giustizia, e questa giustizia mi renderai quando coloro che cercano il mio danno saranno coperti di confusione e di vergogna » (Vers. 2, 20 e 24). Iddio, dicono infatti gli amici di Giobbe, esalta coloro che si sono abbassati, rialza e guarisce gli afflitti. La gloria degli empi è breve e la gioia dell’ipocrita non dura che un momento. Quando anche il suo orgoglio si innalzasse fino al cielo e la sua testa toccasse le nuvole, alla fine egli perirà. Tale è il retaggio che Dio serba agli empi. Essi si sono innalzati per un momento e saranno umiliati. – E Giobbe aggiunge: « Iddio ritirerà il povero dall’angoscia. Dio è sublime nella sua potenza. Chi può dirgli: Hai commesso un’ingiustizia? L’uomo che discute con Dio non sarà giustificato ». Infatti, commenta S. Gregorio, chiunque discute con Dio si mette alla pari con l’Autore di ogni bene; attribuisce a se stesso il merito della virtù, che ha ricevuta, e lotta contro Dio con gli stessi beni di Lui.. È quindi giusto che « l’orgoglioso sia abbattuto e l’umile innalzato » (2° Notturno, 2a Domenica di Settembre). « Chiunque si innalza sarà abbassato e chiunque si umilia sarà rialzato », dice anche il Vangelo di questo giorno. Dio, infatti, dopo aver umiliato Giobbe, lo rialzò, rendendogli il doppio di quanto prima possedeva. Giobbe è una figura di Gesù Cristo, che, dopo essersi profondamente abbassato, è stato esaltato meravigliosamente; è anche figura di tutti i Cristiani, ai quali Iddio darà un posto di onore al banchetto celeste se di tutto cuore avranno praticato la virtù dell’umiltà sulla terra. L’orgoglio, dice S. Tommaso, è un vizio per il quale l’uomo cerca, contro la retta ragione, di innalzarsi al disopra di quello che egli è in realtà; l’orgoglio è quindi fondato sull’errore e l’illusione; l’umiltà, ha, al contrario, il suo fondamento nella verità, ed è una virtù che tempera e frena l’anima, affinché questa non si innalzi al disopra, super, di quello che è realmente (donde il nome di superbia dato all’orgoglio). L’anima umile accetta in piena sottomissione il posto che ad essa si conviene; quel qualsiasi posto che da Dio, verità suprema ed infallibile, le è assegnato. Umiltà nelle parole, umiltà nelle azioni, umiltà nel sopportare le prove e le contraddizioni, è la virtù che Giobbe ci insegna durante tutta la sua vita e che Gesù Cristo ci raccomanda nel Vangelo della Messa di oggi. « Dopo aver guarito l’idropico, dice S. Ambrogio, Gesù dà una lezione di umiltà » (3° Notturno). Vedendo come i Farisei scegliessero sempre i posti migliori, Egli volle farli accorti della loro malattia spirituale e spingerli a cercarne la guarigione; a questo scopo guarì dapprima uno sventurato, che la malattia aveva fatto gonfiare, e cercò quindi, velando la lezione sotto una parabola, di guarire la spirituale enfiagione che affliggeva i convitati presenti e che purtroppo affligge anche la maggior parte degli uomini. – Il mondo è in balìa di tutte le esaltazioni e di tutte le infatuazioni dell’orgoglio, mentre l’umiltà è la condizione assoluta per entrar nel regno dei cieli, ed è questa la virtù che la Chiesa ci inculca nell’Orazione ove dice che la grazia di Dio deve sempre prevenire ed accompagnarci, e che S. Paolo insegna con energia ai Cristiani nell’Epistola di questo giorno. Senza merito alcuno da parte nostra, spiega l’Apostolo agli Efesini, ma unicamente perché serviamo di strumento di lode alla sua gloria, Dio ci ha eletti in Cristo. Allorché eravamo figli della collera, l’Onnipotente, che è ricco di misericordia, ci ha reso la vita in Gesù Cristo, per l’amore immenso che ci porta. Noi tutti, pagani ed estranei alle alleanze conchiuse da Dio col popolo di Israele, siamo stati riavvicinati e riuniti nel Sangue del Redentore, poiché Egli è la nostra pace, Egli che di due popoli ne ha fatto uno solo e per il quale abbiamo, gli unì e gli altri accesso presso il Padre, in un medesimo Spirito. Non siamo più dunque degli estranei, ma dei membri della famiglia divina. E questo non è opera nostra, ma di Dio, affinché nessuno glorifichi se stesso. Gettiamoci dunque ai piedi del Padre nostro di nostro Signore Gesù Cristo, che è anche Padre nostro, affinché, attingendo nei tesori della sua divinità, sempre di più ci mandi lo Spirito Santo che ha effuso sulla Chiesa nella festa di Pentecoste e che nella fede e nell’amore ci unisce a Gesù, in modo che noi siamo colmati della pienezza di Dio. E chi potrà mai misurare questa carità sconfinata che iddio ci ha manifestata per mezzo del Figlio Suo? Questo amore del Padre per i suoi figli sorpassa infinitamente tutto quello che noi potremmo concepire e domandare a Dio. – A Lui dunque sia gloria in Gesù Cristo e nella Chiesa per tutti i secoli. « Cantiamo al Signore un cantico nuovo, poiché Egli ha operato prodigi » (Alleluia). « Tutte le nazioni temano il nome del Signore tutti i re della terra annunzino la gloria sua », perché  Dio ha stabilito il suo popolo nella celeste Gerusalemme (Graduale). E questo  popolo che prenderà parte al gran banchetto della visione beatifica, sarà formato di tutti quelli che, rifuggendo da un’orgogliosa ambizione, saranno sempre stati umili sulla terra: Dio li esalterà nella stessa misura in cui essi si saranno con buon volere sottomessi alla sua santa volontà.

S. Paolo ha ricevuto da Dio la missione di annunziare ai Gentili che essi, ai pari degli Ebrei, sono eletti a far parte del popolo di Dio: elezione gratuita che deve riempirli di un’umile riconoscenza verso il Signore e premunirli contro lo scoraggiamento che è una forma di orgoglio.

Per non lasciare un asino o un bue annegare in fondo ad un pozzo, gli Ebrei non esitavano a fare tutto quello che era necessario per ritirarneli, non ostante il giorno di Sabato in cui ogni opera servile era proibita. Perché dunque il Redentore non doveva poter guarire un ammalato in quel giorno? – « Va, mettiti all’ultimo posto » non vuol dire che il Superiore debba mettersi al di sotto dei suoi subordinati, né esporre la sua dignità al disprezzo; ma Egli deve ricordare queste parole dei Sacri Libri: « Quanto più sei grande, tanto più devi mostrarti umile in tutte le cose e troverai grazia davanti a Dio » (Eccl. III, 20).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXXV: 3; 5
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].
Ps LXXXV: 1
Inclína, Dómine, aurem tuam mihi, et exáudi me: quóniam inops, et pauper sum ego.

[Porgi l’orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi, perché sono misero e povero].

Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Oratio

Orémus.
Tua nos, quǽsumus, Dómine, grátia semper et prævéniat et sequátur: ac bonis opéribus júgiter præstet esse inténtos.

[O Signore, Te ne preghiamo, che la tua grazia sempre ci prevenga e segua, e faccia che siamo sempre intenti alle opere buone].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes III: 13-21

Fratres: Obsecro vos, ne deficiátis in tribulatiónibus meis pro vobis: quæ est glória vestra. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis et in terra nominátur, ut det vobis secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo et longitúdo et sublímitas et profúndum: scire etiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei. Ei autem, qui potens est ómnia fácere superabundánter, quam pétimus aut intellégimus, secúndum virtútem, quæ operátur in nobis: ipsi glória in Ecclésia et in Christo Jesu, in omnes generatiónes sæculi sæculórum. Amen.

[“Fratelli: Vi scongiuro di non perdervi di coraggio a motivo delle tabulazioni che io soffro per voi. Esse sono la vostra gloria. Perciò io piego i ginocchi davanti al Padre del Nostro Signore Gesù Cristo, dal quale prende nome ogni famiglia, in cielo e in terra, affinché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore: che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori, affinché, profondamente radicati e fondati nella carità, possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità; e d’intendere anche quell’amore di Cristo che sorpassa ogni coscienza, di modo che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. A Lui che, secondo la possanza che opera in noi, può tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo e pensiamo: a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni di tutti i secoli”.]

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

IL PROGRESSO DELLA VITA INTERIORE

L’Epistola è tolta dalla lettera agli Efesini. Quei di Efeso sono stati chiamati alla fede. Per questo, S. Paolo, che si trova in prigionia a Roma, si rivolge a Dio, Padre degli Angeli e degli uomini, pregandolo ardentemente che spanda sugli Efesini la ricchezza della sua gloria, fortificandoli, per mezzo della grazia dello Spirito Santo, nella vita spirituale incominciata con il Battesimo, unendoli, mediante la fede e la carità in Gesù Cristo, con unione così intima, che la vita in Lui sia costante e in tutta la pienezza. E così diventino capaci di comprendere l’amor di Dio, che abbraccia tutta la creazione, che non conosce limiti di tempo, di spazio, di misura; e siano ricolmi di tutti quei doni, la cui piena sorgente si trova in Dio. L’Apostolo domanda molto; ma Dio, nella sua onnipotenza sa far di più di quanto noi possiamo domandare e comprendere. A Lui, dunque, si renda gloria per tutti i secoli. Il desiderio ardente dell’Apostolo per il progresso degli Efesini nella vita spirituale incominciata, si riferisce anche a noi. La nostra vita interiore:

1 Deve progredire,

2 Sostenuta dalla fede,

3 E dalla carità.

1.

Io piego i ginocchi davanti al Padre del nostro Signore Gesù Cristo… affinché vi conceda… d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore.Con queste parole l’Apostolo assicura agli Efesini che tra le angustie della prigionia non li dimentica, ma prega il Signore che, per mezzo delle grazie dello Spirito Santo, li rassodi e li fortifichi quanto alla vita interiore, cioè quanto alla vita dell’anima rigenerata alla grazia. Il Cristiano, che con il Battesimo è nato alla vita spirituale, sarebbe irragionevole se si accontentasse di vivere una vita spirituale stentata. Nessuno rinuncerebbe a una vita piena di sanità e di vigore per vivere una vita stentata, malaticcia, zoppicante. Il Cristiano che si accontenta di tirare innanzi come si può, di non commettere disordini gravi, di non perdere la grazia di Dio; … e non si dà premura di fortificarsi, rassodarsi nella vita spirituale, più che vivere, sonnecchia, più che camminare, zoppica. E se seguiamo Gesù Cristo zoppicando, resteremo molto indietro, con pericolo di perderlo.Dirai: quando uno ha lavorato, ha diritto a un riposo. Qualche cosa di buono ho fatto nella vita spirituale. Adesso basta. Ci sono dei lavori in cui non si può dir basta. Chi costruisce un edificio sarebbe burlato da tutti e stimato per pazzo se, arrivato a metà, dicesse: — Adesso basta. Questo edificio non ha più bisogno di altri lavori. Si è fatto abbastanza. — Nella costruzione del nostro edificio spirituale, sarebbe una pazzia fermarsi a metà. «Questa — dice S. Agostino — è la tua perfezione: l’aver superate alcune cose in modo che ti appresti a superarne altre» (En. in Ps. XXXVIII, 14). Col procedere degli anni, dunque, il Cristiano deve procedere anche nel bene. La sua vita spirituale, al contrario di quanto avviene rispetto alla vita fisica, col procedere degli anni, invece di affievolirsi deve ingagliardirsi sempre più. È evidente. Se Dio prolunga la vita all’uomo, lo fa per il suo maggior bene. «Dio non prolunga a nessuno il tempo, perché con il vivere a lungo abbia a cadere, e allontanarsi dalla retta fede nella sua longevità; dovendosi tra i benefici di Dio annoverare appunto la longevità, nella quale l’uomo non deve essere peggiore, ma migliore »  (S. Prospero d’Aquit. Sent. sup. cap. Gall. 3.) – «Progredite sempre più», diceva l’Apostolo ai Tessalonicesi (I Tess. IV, 1). E quanto a sé dichiarava: «Dimentico di quel che ho dietro le spalle, e stendendomi verso le cose che mi stanno davanti, mi avanzo verso il segno» (Filipp. III, 13-14). Imitiamolo.

2.

Io prego ancora — dice S. Paolo rivolto agli Efesini che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori. Con ferma adesione a tutte le verità rivelate Cristo abiterà nei cuori degli Efesini in modo sempre più perfetto. Una ferma adesione alle verità della fede è più che mai necessaria per una vita spirituale vigorosa. Nel principio della vita spirituale sentiamo molte dolcezze. Dio provvede alla nostra infanzia spirituale con il cibo delicato delle consolazioni. Ma poi a questo cibo ne sostituisce uno più solido: quello delle amarezze. La fede ci sostiene nell’ora della prova, tenendo il luogo delle consolazioni. Quando Gesù, salendo al cielo, si sottrasse alla vista degli Apostoli; questi non sapevano decidersi a discendere dal monte: pareva loro di essere abbandonati. Ma presto si risovvennero delle parole di Gesù: «Ecco, Io sono con voi tutti i giorni fino al compimento del secolo» (Matth. XXVIII, 20). E in queste parole trovano coraggio e spinta a proseguire l’opera loro. Noi pure troviamo forza e vigore a proseguire nella vita spirituale cominciata negli insegnamenti della fede. Siano pochi o tanti gli ostacoli, siano da poco o molto grandi li vinceremo tutti con una fede viva nell’aiuto di Dio. Quando Giuda Maccabeo, con poca gente, si fece incontro al potente esercito di Siria, comandato da Seron, i suoi furono presi da grande scoraggiamento. « Come potremo  noi — gli osservarono, — sì poco numerosi, combattere contro una moltitudine tanto grande e potente, spossati come siamo oggi dal digiuno? Giuda rispose: « È cosa facile che molti restino preda di pochi. Per il Dio del cielo non c’è differenza tra il salvar per mano di molti o per mano di pochi. Poiché la vittoria in guerra non dipende dal numero delle schiere: la forza viene dal cielo » (1 Mac. III, 17-19). Animati da tale fede, Giuda e i suoi pochi si gettarono sull’esercito di Seron e lo sconfissero pienamente. Animati da una tale fede nell’aiuto e nelle promesse di Dio, non ci arresteremo e non vacilleremo mai, nella via dello spirito, davanti a ostacoli di qualsiasi genere e di qualsiasi numero: procederemo, anzi più fortificati e invigoriti. Quei che sono deboli nella fede cadono facilmente nei tranelli che tendono i seminatori di errori, o, come dice più avanti l’Apostolo agli Efesini, sono come i « fanciulli vacillanti, portati qua e là da ogni vento di dottrina per gli inganni degli uomini; per le astuzie che rendono seducente l’errore » (Efes. IV, 14). Ma se la fede è ben radicata e fondata nei cuori, non sarà scossa dagli errori che gente superba o dal cuor guasto cerca di seminare ovunque, e che ci tolgono di vivere secondo i precetti di Dio, in stretta unione con Lui. Non deve recar meraviglia se coloro che vivono nell’idolatria, essendo privi del lume della fede, nella loro condotta seguano cecamente la via tracciata dalle passioni. È  incomprensibile, invece, che vivano una tale vita i Cristiani, i quali, nelle verità della fede, alla scuola di Gesù Cristo, trovano l’insegnamento della santità e l’impulso a praticarla. « Il sentiero dei giusti è come luce splendente, è come luce che cresce fino a pieno giorno », dice Salomone (Prov. IV, 18). Luce splendente e perfetta sono gli insegnamenti della fede, gli esempi che ci ha lasciati Gesù Cristo. Seguendo questi la nostra vita spirituale si rafforzerà di giorno in giorno.

3.

« La mente del credente assume le ali della fede, affinché, sollevato dalla terra e tutto assorto nello spirito possa comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e la profondità della scienza di Dio» (S. Gaudenzio di Brescia. Sermo 14, De div. cap. 4). Il credente, sull’ali della fede animata dalla carità, s’inoltra sempre più, per quanto a mente umana è possibile, nella cognizione di Dio e di quell’amore di Cristo, senza misura, che Egli ci ha dimostrato nell’Incarnazione. La sempre maggior cognizione di Dio, del suo amore immenso servono mirabilmente a far progredire il Cristiano nella sua vita spirituale; poiché quanto più conosciamo Dio, tanto più siamo spinti ad amarlo, con un amore che dia vita a tutte le nostre azioni. Come un albero, per mezzo dalle radici assorbisce l’umore che gli dà vita e incremento; così per mezzo della carità, o amor di Dio, il Cristiano vive e consolida la sua vita interna. L’amor di Dio fa trovar più gusto nella preghiera, nei sacramenti nell’ascoltar la parola del Vangelo, che non nei perditempi e nelle dissipazioni del mondo. L’amor di Dio fa preferire la mortificazione, il distacco dai beni terreni, le opere di misericordia, ai godimenti dei sensi, alla cupidigia, ai divertimenti pericolosi. L’amor di Dio dà il coraggio di mostrarsi pubblicamente Cristiani fra i motteggi e i sarcasmi del mondo; dà la costanza fra le dure prove. L’Apostolo chiede a Dio non solo che gli Efesini abbiano la carità, ma chiede che siano profondamente radicati e fondati nella carità, « affinché — come nota il Crisostomo — non possa essere smossa dai venti, né abbattuta da qualsiasi altra forza » (In Ep. ad Efes. hom. 7, 2). La maggior conoscenza di Dio e del suo amore immenso per noi ci renderà sempre più irremovibili nella buona via intrapresa. Fede viva e carità ardente ci renderanno saldi come quegli alberi che resistono all’infuriare di tutti i venti; e, passata la tempesta, sollevano la cima in atto di tendere sempre più in alto, al cielo. Dio non ci negherà il chiesto aiuto, Egli che può fare tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo o possiamo. Noi da parte nostra ricordiamoci che chi più lavora, più raccoglie.

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.

[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore, e tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua.

[Poiché il Signore ha edificato Sion e sarà veduto nella sua maestà.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps XCVII: 1
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit Dóminus. Allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo: perché Egli fece meraviglie. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV: 1-11
In illo témpore: Cum intráret Jesus in domum cujúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Jesus dixit ad legisperítos et pharisaeos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cujus vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

[“In quel tempo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno de’ principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti. E Gesù rispondendo prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: È egli lecito di risanare in giorno di sabato? Ma quelli si tacquero. Ed egli toccandolo lo risanò, e lo rimandoò. E soggiunse, e disse loro: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato? Né a tali cose poterono replicargli. Disse ancora ai convitati una parabola, osservando com’ei si pigliavano i primi posti dicendo loro: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché a sorte non sia stato invitato da lui qualcheduno più degno di te: e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedi a questo il luogo; onde allora tu cominci a star con vergogna nell’ultimo posto. Ma quando sarai invitato va a metterti nell’ultimo luogo, affinché venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti fia d’onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato; e chi si umilia sarà innalzato”.]

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra l’avarizia.

Ecce homo hydropicus erat ante illum

Luc. XIV

Ella è una giudiziosa osservazione dei santi padri che le diverse malattie di coloro che si presentavano al Signor nostro per essere guariti, figuravano le malattie dell’anima, che Egli guariva nello stesso tempo che quelle del corpo. Così l’idropico del nostro Vangelo, che fu guarito da Gesù Cristo è la triste e sensibile figura di un’anima posseduta dall’avarizia, dall’amor dei beni della terra. Infatti siccome l’idropisia è cagionata da una massa di umori, che produce in chi ne è assalito una sete insaziabile, così l’avarizia è ordinariamente l’effetto dell’abbondanza dei beni di fortuna che, a misura che essa cresce, fa nascere e fortifica il desiderio di vederla ancora crescere. Siccome l’idropisia è una malattia difficilissima a guarire ed anche incurabile quando è giunta ad un certo punto, nello stesso modo l’avarizia, una volta radicata nell’anima, è un difetto difficilissimo a correggere. Perciò vediamo noi nel Vangelo che i farisei non volevano ascoltar Gesù Cristo, né profittare della sua dottrina, perché erano avari; Deridebant eum quia avari erant [Luc. XVI) Convien dunque disperare della salute degli avari ed abbandonarli alla loro trista sorte, come degli idropici di cui non si spera più guarigione? No, fratelli miei, lo stesso medico che ha il potere di guarire l’idropico del Vangelo, ha rimedi assai efficaci per guarire questa malattia dell’anima, di cui imprendo quest’oggi a mostrarvi tutta la malignità ed i perniciosi effetti. – Ma convien per questo che tali infermi conoscano le loro piaghe, e che vogliano applicarvi i rimedi. Procuriamo di aprir loro gli occhi sul loro delitto e sulla loro disgrazia. Lo Spirito Santo dichiara che nulla evvi di più scellerato che un avaro: Avaro nihil scelestius (Eccl.X). Ed in vero io osservo che egli è empio verso Dio, duro ed ingiusto a riguardo del prossimo, crudele a se stesso. Sviluppiamo questi tre principi, che ci dipingono al naturale il carattere dell’avaro.

I. Punto. I beni della terra sono doni di Dio: la sua divina provvidenza li accorda agli uomini per usarne nel bisogno; possederli, desiderarne anche per quanto esigono la necessità della vita, non è dunque un misfatto. Ciò che Dio riprova e condanna negli uomini è l’amore sregolato per li beni, il quale li fa ricercare appassionatamente quando non li hanno, o possedere con troppo affetto quando li hanno; ed è questo amore disordinato che chiamasi avarizia, passione cieca, detestabile, che regna in tutte quasi le condizioni. I ricchi, i poveri ne sono egualmente la vittima. Poiché se vi sono dei ricchi poveri di spirito, che possiedono i loro beni senza affetto, vi sono ancora dei poveri ricchi di affezione e di desiderio, i quali non solamente sono più attaccati al poco di bene che hanno che certi ricchi ai loro tesori, ma che desiderano ancora ardentemente le ricchezze, e prendono ogni sorta di mezzi per acquistarne. Or in qualunque stato l’avarizia signoreggi il cuore dell’uomo, ella lo rende colpevole riguardo a Dio, perché porta seco un carattere d’empietà e d’ingratitudine, di cui bisogna farvi conoscere i tratti per farvela abborrire. – Vivere nella dimenticanza di Dio, non conoscere l’Autore de’ suoi beni, preferire a Dio un bene fragile, farne il suo idolo, ad onta di quanto egli deve all’Essere solo degno delle sue adorazioni, non è forse questo un carattere di malizia e d’empietà che merita tutto l’odio vostro? Or tale è quello dell’avarizia. Di che si occupa l’avaro? Su di che s’aggirano tutti i suoi pensieri, i suoi progetti? Sulla roba, sul danaro: se non ne ha, pensa ad accumulare, se ne ha non pensa che a conservarlo, ad accrescerlo. La cupidigia che lo anima, gli fa cercare tutte le occasioni di arricchirsi, e d’ingrandirsi, sia ciò per mezzi leciti o illeciti, poco gl’importa, purché venga a capo dei suoi disegni. Gli si rappresenti che non è già egli sulla terra per fare una fortuna transitoria, che ha un Dio da glorificare, un paradiso da guadagnare, un inferno da evitare; il suono del metallo che riempie le sue orecchie, come dice il Crisostomo, lo rende sordo alla voce della grazia che gli parla; al vederlo tutto occupato nella cura di conservare e di accrescere i suoi beni, si direbbe che egli ha da vivere per sempre quaggiù; passerà dei giorni interi senza pensar a Dio; o se vi pensa qualche momento, si è in qualche breve preghiera in cui ha lo spirito occupato nella cura di far valere il suo denaro: i giorni sono troppo brevi per compiere i suoi progetti: le domeniche e le feste per la maggior parte sono impiegate a fare viaggi per perseguitare un debitore, formar dei contratti, fare dei mercati: appena si riserba egli il tempo di udire una messa in fretta, fugge la parola di Dio o s’annoia in udirla; non assiste ai divini uffizi che per quanto i suoi pretesi affari glielo permettono. Egli punto non teme di prescrivere ai suoi domestici le opere servili, che la legge condanna in quei giorni, e che la sua cupidigia, ricopre sempre col pretesto della necessità. Gli si parli di accostarsi ai Sacramenti, egli non ha tempo. Gli si proponga qualche buon acquisto, qualche profitto considerabile a fare; il tempo non gli manca giammai. In una parola, l’avaro vive in una intera dimenticanza di Dio e della sua salute; sempre rivolto verso la terra, egli non pensa che alla terra, egli non parla che della terra, perché è affatto terreno: Qui de terra est, de terra loquitur (Giov. III). – Tutti i beni che noi possediamo li abbiamo dalla mano liberale di Dio; ben lungi dal riconoscerlo e ringrarziarnelo, come deve, l’avaro li attribuisce a se stesso, alle sue fatiche, alla sua industria. Invece di rimettere la sua speranza in Dio, egli vive in una totale diffidenza della sua provvidenza: al vederlo risparmiare, accumulare, si direbbe che nulla spera da Lui, che Dio non ha più cura degli uomini; che esso li abbandona alla loro malvagia sorte. Gesù Cristo ci avvisa di non metterci in pena ove prenderemo di che cibarci, di che vestirci; ma l’avaro è sempre inquieto, su quello che egli diverrà; conta più sul suo risparmio che sulla bontà di Dio: quale ingiuria non gli fa egli? E non abbiamo noi ragione di dire che esso non riconosce l’Autore de’ suoi beni? L’empietà dell’avaro va ancora più lungi, egli preferisce a Dio un bene fragile, ne fa il suo idolo, glielo sacrifica. Investighiamo per un momento il suo cuore, esaminiamo i suoi passi. Bisogna, per assicurar le sue imprese, impiegar la menzogna, l’ingiustizia, lo spergiuro, la trufferia, le vessazioni e mille altri delitti che l’avarizia strascina seco? Nulla lo trattiene: purché egli si arricchisca, purché accumuli dei beni egli non si mette in pena di essere scellerato; e nell’impossibilità in cui è di servire a due padroni, preferisce le lusinghe ingannatrici della cupidigia ai reali vantaggi di una vita santa ed irreprensibile. Rinuncia al possesso di Dio per quello del danaro; non si può forse questo chiamare una specie d’idolatria? E perché non gli si darà questo nome, giacché l’Apostolo s. Paolo non ha difficoltà di dire che l’avaro è un idolatra? Quod est idolorum servitus (Eph V).- Quindi lo Spirito Santo fa parlare l’avaro in questi termini: Sono divenuto ricco, ho ritrovato un idolo; dives effectus sum, inverni idolum mihi (Oseæ XII). Qual rassomiglianza d’altra parte non evvi tra un avaro ed un idolatra? I Dei degli idolatri sono d’oro e d’argento, come dice il profeta; questi ciechi popoli porgevano incenso a statue composte di questi metalli, e l’avaro non dà egli, il suo cuore all’oro ed all’argento? Gl’idolatri non ardivano toccare i loro idoli, che riguardano come Sacri? Nello stesso modo, dice il Crisostomo, l’avaro non osa toccare il suo danaro, lo rinchiude in casse, lo rispetta, per cosi dire, poco manca che non l’adori. Quale accecamento? qual follia? rendersi vile schiavo di un poco di fango e dispregiare l’Essere Supremo per non amare che le ricchezze; ecco a qual punto d’empietà l’avaro non teme di giungere. – Voi non potete, fratelli miei, pensare senza orrore all’indegno tradimento di Giuda; questo perfido apostolo giunse sino a vendere ai Giudei per il prezzo, di trenta danari il padrone più degno del suo rispetto, e del suo amore.. Ma, qual fu il principio di un sì nero attentato? Aveva egli forse provato qualche disgusto dalla parte del Salvatore? No, anzi non ne ricevette mai che del bene; era egli stato messo nel numero dei suoi Apostoli testimonio dei suoi miracoli, non poteva dubitare che non fosse Dio; egli aveva in mille occasioni provata la sua tenerezza, ma Giuda amava il danaro, trovò l’occasione di accumularne vendendo il suo maestro ai suoi nemici. Quanto, disse loro, volete voi darmi, ed io vi darò nelle mani Gesù Nazareno? Quid vultìs mihi dare, et ego vobis eum tradam (Matth. XXVI). I Giudei che non domandavano che di saziare il loro furore sulla persona di Gesù Cristo, profittano dell’iniqua disposizione in cui si trova Giuda: trenta danari gli sono offerti in ricompensa. Questo perfido non esita, e per una somma così modica, Gesù Cristo il re del cielo e della terra, il migliore di tutti i padroni, è consegnato nelle mani dei suoi nemici. Oh detestabile passione! Di che non sei tu capace? E quanto è vero che chi se ne lascia accecare cade ben tosto nei lacci del demonio, che non evvi tentazione alcuna di cui non sia egli capace, come dice l’Apostolo, verun delitto che non commetta per soddisfare la sua cupidigia. – Eh! quanti non ne avete voi già commessi, voi che vi lasciate dalla cupidigia tiranneggiare? Quante infedeltà alla legge del vostro Dio per contentarla? Quante volte non avete voi tradito Gesù Cristo vostro padrone, come il perfido Giuda, forse per una minor somma di quella che egli ricevette dai Giudei? Quanto volete voi darmi, dirà quell’uomo avido di danaro, e vi vendicherò di quel nemico? Quanto volete voi darmi, dice quell’uomo di giustizia, ed io vi sacrificherò il diritto del vostro avversario? Quid vultis mihi dare? Ah! quanti peccati lo spirito di interesse non fa egli commettere in tutti gli stati della vita? Per una bagattella, per un leggerissimo profitto uno oltrepassa tutti i limiti della giustizia e dell’onestà: per una leggiera perdita, per un piccolo accidente prorompe un altro in doglianze contro la provvidenza, si abbandona ai trasporti dell’ira, vomita imprecazioni contro coloro che ne crede gli autori. Questo è quanto si vede tutti i giorni tra le persone interessate; questo è quello che si chiama sacrificar Dio al suo interesse. Poiché l’interesse la vince sopra l’ubbidienza che si deve a Dio, egli bandisce dal cuore dell’uomo l’amore e la fedeltà che deve al Creatore. L’avaro è dunque un mostro d’empietà riguardo a Dio; egli è ancora duro ed ingiusto riguardo al prossimo; Avaro nihil est scelestius.

II. Punto. La giustizia ci obbliga a rendere a ciascuno quel che gli è dovuto, ci proibisce di prenderne la roba: e la carità ci porta a fargli parte del nostro, come vorremmo che si facesse a nostro riguardo. Or l’avarizia scaccia queste due virtù dal cuore dell’uomo; l’avaro non conosce carità alcuna pel prossimo; egli viola a suo riguardo anche i diritti della giustizia prendendosi quel che non gli appartiene; è dunque un cuor duro ed ingiusto, indegno della società degli uomini. La carità ci obbliga a far parte al prossimo dei nostri beni; ma l’avaro, che è tutto rinserrato in sé stesso, nulla vuole che per sé. Egli non ha per gli altri che viscere di bronzo e di ferro. – Egli vede il suo prossimo nell’indigenza, e non ne è commosso; se gli si chiede qualche soccorso, barbaramente lo ricusa o al più non dà che alcuni segni superficiali di sterile compassione; nel timore di mancare del necessario, egli non vuole neppure spogliarsi del minimo superfluo. Il bisogno sforzi l’infelice a ricorrere alla sua abbondanza; egli non può sperarne che un rifiuto, o se lo ritrova disposto, si è a certe condizioni che finiscono di manifestare l’iniquità della sua avarizia. I poveri si presentino alla sua porta per domandargli sollievo nelle loro miserie, essi sono rimandati senza pietà, e sovente anche con incivili dispregi, con parole oltraggianti. Mirate il ritratto dell’avaro nel malvagio ricco del Vangelo. Era egli un uomo che nuotava nell’abbondanza e nelle delizie: ricchi appartamenti, vesti magnifiche, banchetti deliziosi, tutto aveva a sua voglia; mentre il povero Lazzaro era alla porta ricoperto di piaghe, mancante di tutto, e domandava soltanto le briciole che cadevano dalla sua mensa. Questo sì tenue soccorso gli era inumanamente negato; il cuore duro di quel ricco era insensibile ai gridi dell’indigente, di cui poteva qui raddolcire la sorte senza incomodarsi. – Non vi riconoscete voi a questi tratti, ricchi avari, che mirate tutti i giorni i poveri chiedervi soccorso, contro la fame che li tormenta, contro il rigore delle stagioni che li riduce all’ultima estremità? Voi udite i loro gemiti e le loro doglianze, e non ne siete punto inteneriti, voi li rimandate senza dar loro il minimo sollievo. Qual durezza! Quale insensibilità! Ove è quella carità che vorreste si avesse per voi, se foste nelle medesime circostanze? Voi non siete più i figliuoli del medesimo padre, siete fratricidi crudeli, che con la vostra durezza date la morte a quell’uomo, che soccombe sotto il peso della sua miseria: Non pavisti? occidistì. – Noi vogliamo, dite voi, godere della nostra fortuna! Ma pensate voi che Dio vi abbia dato del bene per voi soli? Che cosa avete voi fatto di più per averlo che colui il quale non ne ha? La provvidenza, che ha messo quel povero al mondo, seppe provveder ai suoi bisogni; voi siete appunto coloro, che ella ha scelti per l’esecuzione dei suoi disegni a questo riguardo. E perciò è stata essa prodiga verso di voi delle sue liberalità, a fine di darvi occasione di meritare il cielo; quel bene è dunque tanto dei poveri che vostro, ella è dunque una durezza ed una specie di ingiustizia il ricusarlo loro. Noi temiamo, dite voi, d’impoverirci? Ma non vi si dice già di dare tutto quello che avete; l’indigente non richiede che il vostro superfluo: ma la vostra cupidigia insaziabile non crede giammai avere abbastanza. Si è appunto ciò che fa che conserviate con tanta cura cose inutili, che periscono nelle vostre mani, piuttosto che darle ai poveri. Non è forse ancora per questo che ricusate a voi medesimi quel che vi è necessario? Or è forse cosa sorprendente che voi siate duri verso gli altri, quando lo siete per voi? Qui sibi nequam est, cui bonus erit? La vostra durezza è un effetto della vostra avarizia, e del vostro sordido attaccamento ai beni del mondo; essa vi fa desiderare i beni altrui, essa vi fa rallegrare delle loro disgrazie. Voi ne profittate in quel tempo di pubblica calamità in cui chiudete i vostri granai per vendere ad un prezzo eccessivo quei grani onde ridondano; massima vietata dallo Spirito Santo nelle Divine Scritture. Væ qui congregat in horrea. Sono questi forse i sentimenti della carità cristiana? Ah! voi l’avete interamente sbandita dal vostro cuore. Se la vostra passione almeno fosse di ciò paga, e non oltrepassasse i limiti della più stretta giustizia, che vi prescrive doveri indispensabili a riguardo dei vostri fratelli: ma l’avarizia porta troppo spesso a questi eccessi coloro che ne sono attaccati. Secondo tratto di crudeltà verso il prossimo. – Qual è la cagione infatti delle ingiustizie nel mondo? L’avidità che si ha per li beni. L’avaro s’impadronisce indifferentemente defila roba altrui, non può risolversi a restituirla quando giunga a goderne; nulla evvi che un avaro non metta in uso per arricchirsi, ingrandirsi a spese altrui. L’inganno, la violenza, la concussione, che sono, come dice s. Tommaso, le figliuole dell’avarizia, gli servono di mezzi alla riuscita dei suoi disegni. Or è una vendita o una compra onde profitta, sia per la qualità della cosa che deve rimettere, sia per lo prezzo che deve darne, e di cui riterrà una parte, se può farlo, senza che altri se ne accorga: ora sono contratti usurai per trarre profitto del suo danaro; ma, per evitare la vergogna annessa a questo delitto, o non fa comparire alcun contratto, o li pallia sotto il nome d’altri atti usitati tra gli uomini. Qui egli frustra un creditore del suo debito, o ne differisce più che può il pagamento con false allegazioni; e se finalmente risolve di liberarsi, ama meglio farsi debitore di qualche d’un’altro, cui farà ancora soffrire, che servirsi del suo danaro. Là esige da un debitore più che non gli è dovuto, sotto pretesto di aver aspettato qualche tempo. Voi lo vedrete disputare con un operaio, con un servo per ritenere qualche cosa del loro salario su false ragioni che la sua avarizia mai non manca di ritrovare; e chi sa se ciò non è per ricusare interamente quanto è loro dovuto? Voi lo vedrete ancora quest’avaro non curare i bisogni di una moglie, dei figliuoli, dei servi; egli disputa su tutto, trova a censurar tutto, si duole sempre della spesa, si è strappargli la pupilla dell’occhio il presentargli dei conti di cui non può evitare il pagamento: ed ecco ciò che disturba sì sovente la pace nelle famiglie, e che ne cagiona o il libertinaggio o la divisione. Se la menzogna e l’inganno non sono per l’avaro mezzi abbastanza efficaci per impadronirsi della roba altrui, egli impiegherà la violenza, la vessazione, la concussione; farà darsi per minaccia e per forza quello che non potrà guadagnare per persuasione; opprimerà la vedova ed il pupillo per avere le loro sostanze; opprimerà chi si trova fuori di stato di resistergli, lo rovinerà con una lite ingiusta; userà ogni sorta di rigore per forzarlo a cedergli un’eredità che eccita il suo desiderio. Così diportossi altre volte Acab per avere la vigna del povero Nabot, che non voleva cederla perché era l’eredità dei suoi antenati; egli fece togliergli la vita e s’impadronì del podere di lui. Profitteranno gli avari della necessità di un uomo per fargli dare la sua roba a vil prezzo; e come ancora la pagheranno? Oimè! sovente il valore n’è già tutto ricevuto con anticipazioni che si sono fatte, e che si fanno pagare a molto caro prezzo: se egli ricusa di arrendersi ai voleri di quell’uomo avido, bisogna aspettarsi, se non di perdere la vita, almeno di non riceverne più soccorso, di vedersi oppresso di spese, rovinato da dilazioni che non è in istato di sopportare. Mentre questo si è uno dei sotterfugi dell’avaro; in certi casi egli risparmia il suo danaro, in altri sa benissimo trovarlo per sostener una lite, corrompere giudici, comprare, se si può, non già il buon diritto, ma una sentenza favorevole alle sue ingiuste pretensioni: ecco di che sono capaci gli avari. Mezzo funesto che non riesce, oimè! che troppo presso di coloro cui il danaro fa piegare la bilancia dalla parte di colui che dà più abbondantemente, o da cui si spera di più. Oh passione detestabile! di che non sei tu capace? Ed oh con quanta ragione possiamo noi chiamarti coll’Apostolo la radice di tutti i mali! Radix omnium malorum cupìditas ( Tim. VI): Tu metti la dissensione dappertutto, tu separi l’amico dall’amico, il figliuolo dal padre, i congiunti gli uni dagli altri. Tutte le contese, le gare, i contrasti che regnano tra gli uomini non vengono la maggior parte, dice s. Giacomo, che da un sordido attacco che si ha per il danaro, da uno spirito d’interesse che non si vuole abbandonare. Possiate voi, fratelli miei, bandirlo dai vostri cuori, questo spirito d’interesse! Possiate voi domare questa maledetta concupiscenza per le ricchezze, che rende l’uomo duro ed ingiusto contro il prossimo; aggiungo crudele a se stesso: Avaro nihil scelestius.

III. Punto. Se Dio ci dà dei beni in questo mondo, si è per servircene ed aiutarci a guadagnare quelli dell’eternità. Ma i tesori dell’avaro non servono che a renderlo infelice in questo mondo ed infelice per l’eternità. Si può essere più crudele a se stesso che lasciarsi predominare dall’avarizia? In che consiste, fratelli miei, la felicità dell’uomo sopra la terra, per quanto se ne può trovare? Nel vivere contento della sua sorte, nel godere pacificamente di quel che si possiede. Ma l’avaro non è contento, egli non trae alcun profitto dai suoi beni, egli è in qualche modo più infelice che se punto non ne avesse. Per esser contento della sua sorte, non bisogna né desiderare né temere; perché il desiderio ed il timore tolgono la tranquillità dal cuore dell’uomo. Or l’avaro è sempre agitato da queste due passioni; egli desidera quel che non ha; egli teme di perdere quello che ha. Desidera quel che non ha, perché la sua insaziabile cupidigia non è mai soddisfatta: Insatiabilis oculus cupidi (Eccli. XIV). Benché immensi siano i suoi possessi, egli vorrebbe ancora estenderli, perché riguarda tutto quello che ha come se nulla avesse, e tutto quel che gli manca non fa che irritare i suoi desideri. Tutto quel che vede negli altri gli suscita invidia in cuore; e siccome non gli è possibile di riempiere tutte le sue mire, egli è sempre inquieto, sempre mesto, sempre malcontento. La sua passione è una malattia che lo tormenta, e che non può guarire. Laonde si paragona l’avaro ad un idropico la cui sete cresce a proporzione che vuol calmarla. Egli soffre dentro di lui un fuoco, che nulla può ammorzare; si è un abisso, che non si può riempiere: egli domanda continuamente, e non dice giammai, basta. Egli grida incessantemente che sempre gli si apporti, sempre: Nunquam dicit sufficit, affer, affer (Prov. XXX). Si è forse mai veduto un avaro contento di quel che ha? Dategli del danaro, il suo amore per quel metallo non ne diviene che più ardente; faccia egli un acquisto, non gli basta: bisogna ancora quell’eredità, quella casa, quel campo, quel prato, che appartiene ad un altro: Affer, affer. Or se la felicità consiste nell’adempimento dei desideri che noi formiamo, l’avaro può forse esser felice tra tante brame ed inquietudini? Se all’ambizione da cui l’avaro è divorato noi aggiungiamo i movimenti che si dà per soddisfarla,, qual vita più miserabile della sua? Mille progetti girano incessantemente nel suo spirito, che non gli lasciano riposo alcuno. Come farò io, esclama egli, per avere quel bene che mi lusinga, per riuscire in quell’affare, in quella lite che ho intrapresa? Quid faciam? Convien fare viaggi nelle stagioni più aspre ed incomode, conviene sollecitar protezioni, bisogna soffrire rifiuti; rovinare spesso la sanità coi pericoli cui si espone: qual trista vita si è mai quella di un avaro! Sempre desiderare quel che non si ha, e dopo molto adoperarsi veder frustrate le proprie speranze; ecco la sua ordinaria situazione. – Almeno sapesse egli godere dei beni che possiede! Ma il timore che ha di perderli lo tormenta altrettanto, che il desiderio di acquistar quella che non ha. Si è in casa, teme che ingiusti usurpatori non vengano ad attentare alla sua vita per avere il suo danaro; se lo abbandona, è in agitazioni continue che qualche mano avida non rompa tutte le misure che ha prese per involare il suo tesoro agli occhi dei più chiaroveggenti; diffida de’ suoi amici e dei suoi vicini; è sempre in guardia affinché non gli si faccia alcun torto. Se soffre la minima perdita il danno più leggiero, si abbandona alla disperazione; e non è questo fare del suo tesoro il suo supplizio? Se si ascolta l’avaro, egli è di tutti i mortali il più da compatire. Egli ha ragione; mentre non è forse essere il più miserabile degli uomini l’avere del bene e non servirsene; potersi dare i comodi della vita e ricusarsi sino il più necessario? Questo è un esser povero in mezzo delle ricchezze, aver fame nell’abbondanza: Divites egerunt et esurierunt (Psal. XXXIII). I tempi sono calamitosi? Si provano gli effetti della sterilità? Egli non osa toccare quel che ha pel timore di mancarne in avvenire. Se la terra con meravigliosa fecondità sparge con profusione sopra i suoi abitatori i frutti, che rinchiude nel suo seno, l’avaro geme di non poter profittare della miseria altrui per arricchirsi; egli conserva le sue derrate per giorni meno sereni, ove spera mettere a contribuzione le calamità dei suoi vassalli o dei suoi fratelli; vive come se fosse nell’indigenza; nulla teme cotanto come lo spendere; si veste ruvidamente, cibasi meschinamente, risparmia su tutto, e da tutto cava vantaggio. Confessiamo dunque che l’avaro nulla possiede, che di nulla gode; ma che i beni possiedono il suo cuore , e lo riducono alla più dura schiavitù. È un uomo in mezzo delle acque bruciato da una sete ardente che non vuole estinguere, è un uomo che si avvolga tra le spine da cui riceve le più mortali ferite. Si è a questo proposito, dice s. Agostino, che Gesù Cristo paragona le ricchezze alle spine; perché siccome le spine pungono e lacerano coloro che esse attaccano, così le ricchezze producono il medesimo affetto nel cuore di quelli che vi si affezionano; esse li pungono e li lacerano or col desiderio di averne, or col timore di perderle, sovente col rammarico di averle perdute, finalmente con la miseria cui riducono coloro che le posseggono con troppo affetto. – Quindi noi vediamo alcuni in uno stato di mediocrità ed anche di povertà più felici e più contenti di quelli che hanno dei gran beni; essi profittano del poco, che hanno senza darsi tanti movimenti né tante inquietudini, melius est modicum iusto super divitias multas (Psal. XXXVI). Ma la più gran miseria degli avari non è in questa vita; i beni servono loro ancora a renderli più infelici per l’eternità. Guai a voi, ricchi del secolo, diceva altre volte il Salvatore: Væ vobìs divitibus (Luc. VI). Ma perché questo terribile anatema? Uditene la ragione che deve farvi tremare, per poco che vi resti di fede: perché, dice il Salvatore, è più difficile ad un ricco di entrare nel regno de cieli che ad un cammello di passare per la cruna di un’ago: Facilius est camelum per foramen acus transire quam divitem intrare in regnum Dei (Matth. XIX). Che dunque? Forse che lo stato di opulenza è assolutamente incompatibile, con la salute? No, fratelli miei, le ricchezze non sono da se stesse un ostacolo alla salute, esse possono anche essere un mezzo col buon uso che se ne fa. Vi saranno dunque dei ricchi nel cielo, come vi saranno dei poveri nell’inferno; ma questi saranno stati ricchi staccati dalle loro ricchezze, e che ne avranno fatto un santo uso con le loro liberalità verso i poveri. Qual sono dunque i ricchi cui Gesù Cristo chiude l’entrata del suo regno? Sono i ricchi avari; questi, dice l’Apostolo, non avranno giammai parte nel regno di Dio: Avarus non habet hæreditatem in regno Dei (Eph. V). Miratelo nell’esempio del malvagio ricco che’vi ho già citato. Non è detto, osserva s. Gregorio, che quest’uomo abbia usurpato i beni altrui; ma perché il suo cuore vi era attaccato, perché non ne faceva un buon uso, perché non soccorreva i poveri, questo ricco dopo sua morte è stato sepolto nell’inferno: Sepultus est in inferno ( Luc. XVI). Tale sarà la vostra sorte, ricchi avari, che, insensibili alle miserie dei vostri simili, misurate i vostri desideri sui beni che possono contentarli. Voi li lascerete un giorno, questi beni, malgrado vostro; voi li lascerete ad eredi ingrati che non vi daranno alcun soccorso nei tormenti che soffrirete. Vi si dirà, come al malvagio ricco: Avete ricevuto dei beni in vostra vita: Recepisti bona; non ne avete fatto buon uso, voi sarete per tutta l’eternità nella più orribile miseria, in preda alle fiamme divoratrici, ai dolori più ardenti, senza speranza di vederne il fine né di ricevere giammai alcuna consolazione, neppure una gocciola d’acqua per calmare la sete divorante che vi brucerà. Ah insensati! A che dunque tanto inquietarvi per beni che non porterete con voi? Forse in questa notte vi domanderanno la vostr’anima, e per chi sarà quel che avete accumulato? Stulte, ha nocte animam tuam repetent a te, et quæ parasti cuius erunt (Luc. XII)? I vostri beni resteranno ad altri, e voi avrete l’inferno per vostro retaggio. Ma l’avaro non vuol intendere questo linguaggio, e ciò che sembra mettere il sigillo alla sua riprovazione si è che la sua passione diventa un ostacolo quasi insuperabile al suo correggimento. Si, fratelli miei, l’avarizia è uno dei vizi più incorreggibili, perché accieca ed indura colui che essa tiranneggia: l’avaro è sempre l’ultimo a scorgere un difetto che ognuno gli rimprovera. Siccome è un disonore esser tenuto avaro, niuno vuole confessare di esserlo, niuno se ne accusa nel tribunale della penitenza. All’udir costui, si è un’economia saggia, prudenza illuminata, precauzione necessaria; esso non crede giammai aver troppo. Bisogna, dice egli, prender delle misure per l’avvenire perché non si sa quello che può accadere; e sotto pretesto di un bisogno che non avverrà giammai, egli ammassa, accumula beni sopra beni, danaro sopra danaro. Egli si procura una abbondanza superflua. Quindi quella durezza di cuore in cui cade; siccome egli non ama che la terra, e poiché, secondo s. Agostino, si diventa simile a quel che si ama, l’avaro è tutto terreno, non cura i beni del cielo, è insensibile ai movimenti della grazia, non ascolta né i rimorsi della coscienza né i consigli degli amici: egli frequenta i sacramenti e rimane soggetto alle medesime debolezze, perché non scopre il suo male al medico che può guarirlo; ascolta la parola di Dio, e non ne profitta, ne fa ad altri l’applicazione; o se si riconosce colpevole, non può risolversi a lasciare il suo idolo; l’età medesima, che serve a guarire, o ad indebolire le altre passioni, non serve che ad accrescere questa: più uno invecchia, più è interessato, e si può dire che l’avarizia è la passione dei vecchi. Più s’avvicinano al sepolcro, più si affezionano alla terra. Perché questa passione, allora quando ha gettate profonde radici nel cuore, è molto difficile a sradicare; essa conduce all’impenitenza finale. Testimonio il perfido Giuda, il quale, dopo aver tradito il suo divin Maestro, non vuole riconoscere il suo mancamento, di cui non dipendeva ancora che da lui l’ottenere il perdono; si impiccò per disperazione e diede la sua anima al demonio. – Tremate, avari che mi ascoltate, se non scacciate dal vostro cuore quella cupidigia, che vi attacca ai beni della terra, che vi fa dimenticar Dio e la vostra salute, che vi rende insensibili alle miserie dei poveri, e che vi ha di già forse fatto commettere tante ingiustizie. Voi lascerete un giorno i vostri beni, il vostro danaro; voi renderete il vostro corpo alla terra, e la vostr’anima scenderà nell’inferno. Ecco l’orribile sepoltura che vi aspetta; ecco il termine fatale ove finir debbono tutti i movimenti che fate per arricchirvi. La vita infelice che voi menate sulla terra vi condurrà ad una vita ancora più infelice nell’eternità. Ah! Insensati che siete, non siete voi più sensibili ai vostri veri interessi? Ammassate dunque altri tesori che quelli che sono stati sinora l’oggetto delle vostre sollecitudini. Ma quali tesori? Tesori di virtù, di meriti pel cielo, ove i ladri, i vermi, la ruggine non possono avere accesso. Fate sovente questa riflessione quando l’avarizia vi ritiene e v’impedisce di fare limosina. A me stesso, dovete voi dire, io faccio questa limosina, poiché io son sicuro di trovarla nel cielo; di tutti i beni il meglio impiegato si è quello che io spargo nel seno dell’indigente. Allora non a goccia a goccia, ma con abbondanza voi spargerete le vostre liberalità. Date dunque ai poveri tutti gli aiuti che da voi dipendono: se hanno fame, date loro da mangiare, e da bere se hanno sete; se mancano di vestimenta, vestiteli; se sono infermi, visitateli e procurate la loro guarigione con qualche spesa che farete a questo fine. Per distaccarvi ancora più dai beni del mondo, pensate sovente che nulla porterete con voi, che la morte vi rapirà tutto. Io sono entrato ignudo in questo mondo, diceva Giobbe, ed ignudo ne uscirò: pensate alla sorte del malvagio ricco, che è ora nell’inferno, e che vorrebbe poter riscattarsi con una limosina. Quanto a voi che vivete nella povertà, benedite la provvidenza di avervi messi in uno stato che Gesù Cristo ha consacrato con la sua scelta, e che è senza dubbio il più sicuro per andare al cielo. Considerate che i beni sono sovente la causa della riprovazione di coloro che li posseggono, che forse vi dannereste nell’opulenza, mentre vi salverete nella povertà. Vivete dunque in una perfetta rassegnazione alla volontà di Dio, e troverete nelle tribolazioni del vostro stato una contentezza di spirito e di cuore, che sarà il preludio della vostra felicità avvenire. Quanto a voi, potenti del secolo, non passate alcun giorno senza esercitarvi nelle opere di misericordia; non vi contentate delle occasioni che si presentano, ricercate ancora quelle che sembrano allontanarsi; e Dio, il quale non lascia senza ricompensa un bicchiere d’acqua dato nel suo nome, vedendovi ricolmi di meriti, vi coronerà di una gloria immortale. Così sia.

Credo…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 14; 15
Dómine, in auxílium meum réspice: confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam: Dómine, in auxílium meum réspice.

[Signore, vieni in mio aiuto: siano confusi e svergognati quelli che insidiano la mia vita per rovinarla: Signore, vieni in mio aiuto.]

Secreta

Munda nos, quǽsumus, Dómine, sacrifícii præséntis efféctu: et pérfice miserátus in nobis; ut ejus mereámur esse partícipes.

[Purificaci, Te ne preghiamo, o Signore, in virtù del presente Sacrificio, e, nella tua misericordia, fa sì che meritiamo di esserne partecipi].

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps LXX: 16-17;18
Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus: Deus, docuísti me a juventúte mea: et usque in senéctam et sénium, Deus, ne derelínquas me.

[O Signore, celebrerò la giustizia che è propria solo a Te. O Dio, che mi hai istruito fin dalla giovinezza, non mi abbandonare nell’estrema vecchiaia.]

Postcommunio

Orémus.
Purífica, quǽsumus, Dómine, mentes nostras benígnus, et rénova coeléstibus sacraméntis: ut consequénter et córporum præsens páriter et futúrum capiámus auxílium.

[O Signore, Te ne preghiamo, purifica benigno le nostre anime con questi sacramenti, affinché, di conseguenza, anche i nostri corpi ne traggano aiuto per il presente e per il futuro].

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/