GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (57)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (57)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V.

Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo. (1)

I. L’uomo è un ente pensante; senza spogliarsi della sua qualità d’uomo egli non può non rendersi conto delle cose per mezzo del pensiero e della riflessione: e noi misureremo più tardi tutto ciò che questa noncuranza animale avrebbe d’inutile e di pericoloso. – Ora, dal punto che l’uomo pensa, si trova alle prese col mistero. La sua propria essenza, ed il mondo, in mezzo al quale è affondato, sollecitano e sconcertano ad un tempo il suo pensiero. Egli è obbligato, anche suo malgrado, dalla forza e dalla debolezza della sua ragione, di avere delle credenze, di ammettere delle cose che punto non comprende. I1 mistero è come un oceano, nel quale egli naufragò, e donde bisogna che si tolga cogli avanzi e coi soccorsi che qualunque siano non esimono mai da quell’abisso, sul quale conviene necessariamente navigare colla credenza; credenza naturale che si forma, o credenza sovrannaturale che si riceve; ma credenza inevitabile e soccorribile, la quale figura come un apparecchio di salvamento che ci è necessario come sostegno, e dobbiamo quindi abbracciare. – Laonde, se per scegliere fra tutte quelle credenze che non si oppongono alla nostra scelta, ci lasciamo guidare dal desiderio naturale di sottrarci il più possibilmente al mistero, non v’ha luogo ad esitare; gli è al Cristianesimo che bisogna affidarsi. Ciò essendo, si deve ammettere, che l’obiezione che si fa alla religione, in opposto alle dottrine umane, di obbligarci al mistero, è molto infelice. Ora non è cosa da rivocarsi in dubbio. I sistemi umani espongono ad un maggior mistero, obbligano a maggiori credenze della religione, anzi, a misteri più gravosi ed a credenze più occulte. – Più ci allontaniamo dalla religione, più ci affondiamo nel mistero della natura, e più ci anneghiamo dentro e vi ci perdiamo. Né havvi un solo degli argomenti, che si fanno valere a fine di rassegnazione, che non sia della stessa natura di quelli che si respingono, quando si tratta di religione; con questo divario, che i primi sono assai meno giustificati, e ben più gratuitamente la ragione li accetta. – Quindi è che la rivendicazione della ragione, la quale ci fa respingere la religione, è precisamente quella che dovrebbe ad essa guidarci; che è perciò più difficile di non credere che di credere, e che con molto senso un gran spirito, Antonio di Fussal, dopo aver bene esaminato tutte le sette filosofiche, diceva: « Nulla trovai di meglio, che credere « in Gesù Cristo: » e finalmente che la rivendicazione piuttosto della nostra debolezza, anzi che della nostra ragione, è quella che ci tiene lontani dalla fede rivelata. Riconosciamo almeno la verità del nostro affanno; e confessiamo, che la nostra posizione non ci permette d’essere superbi, e che ogni partito sul quale ci arrestiamo sarà sempre, e cento volte più pericoloso per la ragione e pel nostro destino di quel gran partito della fede cristiana, cui opponiamo tante difficoltà. – Ecco ciò che mi propongo di dimostrare in questa conferenza.

II. Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo, tali sono i quattro grandi partiti di dottrina, che si offrono allo spirito umano. Ed ecco il significato, che intendo di dare a siffatte designazioni.

Ateo è colui che non ammette Dio, e crede in un mondo senza autore, in un capo d’arte meraviglioso senza l’artefice, in un effetto immenso e continuato senza causa.

Teista è colui che ammette un Dio ordinatore della natura, macchinista dell’universo: ma che crede lo stesso Dio senza provvidenza per l’umanità da lui abbandonata a tutti i mali, a tutti i delitti, a tutti i disordini, a tutte le aspirazioni confuse, a tutti gli istinti buoni o malvagi a cui è esposta; e nulla curantesi di questo caos morale, mentre fa brillare la più alta sapienza e la più divina morale nell’ordine fisico.

Deista è colui che riconosce un Dio ordinatore della natura, provvidenza dell’umanità; ma crede che questa provvidenza si limiti alle manifestazioni della coscienza, ed alle ricompense della virtù senza castigo pel delitto, in un ordine ulteriore; che il disordine umano sia naturale senza che provochi perciò l’intervento di Dio, al quale risalirebbe per la sua origine; che Dio violerebbe anzi le proprie leggi se ne facesse cessare la violazione; che noi abbiamo maggior libertà di rovesciarle che Egli di ristabilirle; che noi possiamo perderei senza che Egli possa salvarci; che del resto Egli è troppo grande per commuoversi delle nostre miserie, e noi siamo troppo piccoli per interessarlo alle nostre religioni; che è meno sollecito di ricevere i nostri omaggi, che noi di fargliene l’offerta; insomma che è meno religioso di noi.

(Le definizioni del Deismo e del Teismo, in ciò che hanno di distinto, sono ben difficili a precisare. Però il Teismo è generalmente inteso come una semplice affermazione di Dio contro l’Ateismo, mentre il Deismo involve ama professione più ricca di Dio in apparenza, ma più direttamente negativa del Cristianesimo). –

Il Cristianesimo è la dottrina di Dio Creatore dell’universo, Provvidenza dell’umanità, e Grazia di questa medesima umanità colpevole — il quale, Onnipotente, ha tratto tutte le cose dal nulla; Giustissimo, ha creato l’uomo nella probità; Sapientissimo, lo abbandonò al proprio consiglio; Buono per eccellenza, non lo dimenticò, né lo abbandonò nei suoi traviamenti; Misericordiosissimo, ebbe pietà della sua degradazione e della sua caduta; Santissimo, ha posto il nostro riscatto al prezzo d’una grande espiazione; Amorosissimo, ebbe ad amare a tal segno il mondo da dargli l’unico suo Figlio: non disdegnò di salvare ciò che erasi degnato di creare; per rispetto ed amore verso la dignità di un’anima fatta a sua immagine e rassomiglianza, non volle forzarla col terrore, ma guadagnarla colla persuasione: ne sopportò tutti i rifiuti e tutti gli oltraggi; in questa lotta tra la sua luce e le nostre tenebre, tra il suo amore e le nostre ribellioni ci donò il più grande di tutti i testimoni, la più grande di tutte le lezioni, il suo Sacrificio nella nostra umana natura, che Egli aveva rivestito per immolarla, e per far brillare in questa immolazione tutti i caratteri della sua natura divina: e vincitore finalmente in quel gran combattimento ci riapri le porte del cielo, dove riascese per prepararci dei troni, non senza lasciare sulla terra una Chiesa depositaria della sua dottrina, dispensatrice delle sue grazie, e madre feconda delle anime generose che si sdegnano del male, ed aspirano al bene. – Ecco ciò che si dispregia e non si vuol credere, per abbracciare il Deismo, il Teismo o l’Ateismo. Poniamo in evidenza tutta la sragionevolezza di tale condotta.

III. Valendomi delle distinzioni già stabilite nel capo precedente, non considerando quelle dottrine che in sé medesime, e facendo astrazione dalle prove estrinseche che imprimono sul solo Cristianesimo un sigillo divino, dirò essere tutte incomprensibili, né esservene alcuna fra quelle, e fra quante immaginare si possano, che non porti confusione nella ragione. Mi propongo di assegnare subito a ciascuna la parte sua.

Nulla dirò dell’Ateismo, salvo che gli ritolgo interamente il carattere d’incomprensibile per sostituirvi il solo, che realmente gli spetti, d”inconcepibile. L’Ateismo è puramente inconcepibile. Non sorpassa la ragione, ma la urta. Sarebbe rendergli un onore, a cui non ha diritto, se si dicesse che è misterioso: è evidentemente falso. E nell’Ateismo mi permetto di comprendere ogni diversa specie di Panteismo, che tenta prodursi ai dì nostri, e vorrebbe, se fosse possibile, predominare sulla semplice falsità dell’Ateismo con una falsità maggiore, quella cioè che il mondo sia senza una causa intelligente, senza Dio, e sia esso stesso la causa d’un effetto, che sarebbe… Dio, il quale sarebbe a sua volta… l’uomo, l’umanità. Lo si vede chiaramente. L’Ateismo, per quanto sia falso, non è tale che per metà: è il falso negativo, il Panteismo compisce il circolo, e ci rappresenta il falso, se così mi posso esprimere, in tutta la sua rotondità, il falso positivo. E dire, che vi sono degli spiriti, che superbi anzi tutto di trovarsi Dio, non sanno guari cosa pensarne, e stanno sul punto di lasciarsi accalappiare! Spiriti di tal fatta devono respingere i misteri del Cristianesimo, perfetto contrapposto dell’Ateismo e del Panteismo.

Quanto al Teismo ed al Deismo hanno alcun che di più serio, ed hanno dritto alla discussione. Questa discussione la divido in quattro parti.

1. ° Sì fatte dottrine confondono la ragione con sì opprimente mistero, che quelli del Cristianesimo diventano un conforto ed una liberazione.

2. ° L’argomento di cui si mostra paga la ragione per credere a quelle dottrine, si applica con eguale valore al Cristianesimo, e non giova alla ragione, se non giova pure alla fede.

3. ° All’incomprensibile il Teismo ed il Deismo aggiungono l’inconcepibile, al vero il falso; e la lotta che vi si combatte tra il vero ed il falso, tra l’incomprensibile e l’inconcepibile, non permette di fcrmarvisi e di riposarvisi: conviene retrogradare all’Ateismo, od avanzare fino al Cristianesimo.

4.° Finalmente quelle dottrine non possono essere che opinioni, in quanto che non hanno altra base  che i dati della ragione umana, e mancano di conoscenza e di certezza, privilegi esclusivi e decisivi del Cristianesimo. – Nel tenore di queste proposizioni comprendo pure il Teismo ed i1 Deismo, ma avrò l’occasione di assegnar loro un posto distinto in alcune parti della discussione.

§I .

Anzitutto il Teismo ed il Deismo impongono alla ragione un mistero che la opprime: il mistero dei misteri, il mistero che in certo modo è unico: Dio. Lo spirito che tanto s’adopra per credergli (e vi è costretto dalle proprie leggi sotto pena di cader nell’assurdo) divora maggiori difficoltà di quanto ne offrano dappoi tutti i misteri della Rivelazione, rigettando i quali altro anzi non fa che accrescere il mistero di Dio, ed annientarvi sempre più la propria ragione.

Ed invero:

I. Dire che un Ente esiste per sé stesso, e che non ebbe mai un principio! … gli è avanzare una proposizione vuota di senso ed assurda. Lo spirito s’impenna, l’immaginazione divaga, la ragione s’arretra dinanzi a questo abisso . . . E ciò nulla ostante vi è ricondotta dalla forza delle cose, dal peso, per così dire, dell’Universo, che reclama e proclama un Autore, il quale non saprebbe averne un altro, oppure avendolo (cosa che si potrebbe indarno immaginare) non avrebbe che sé medesimo per averne ancora un altro, e così di seguito sino all’infinito, ciò che stordisce assai più dello arrestarsi ad un primo Ente senza autore, senza principio, senza età … Che se per evitare tale vertigine si sopprime Dio, il mistero non cessa per ciò di esistere; perocché se esiste qualche cosa, ne consegue che qualche cosa ha sempre esistito; ed allora se non si vuole che Dio, è dunque la materia che è eterna; e si cade dall’abisso dell’incomprensibile in quello dell’inconcepibile. Di fatto, non solamente abbiamo allora dinanzi a noi l’arte infinita dell’universo senza un artefice; ma attribuiamo alla materia, inferiore a quella intelligenza, che noi concepiamo come causa operatrice dell’universo, anzi inferiore alla nostra propria intelligenza; noi attribuiamo alla materia perpetuamente mutabile, la quale si direbbe che non è quella spaventevole prerogativa (che non abbiamo noi medesimi, e che torremmo ad una Suprema Intelligenza) d’essere sempre stata… — Il mistero del senza principio, dell’Infinito è dunque inevitabile, e non ci resta che a scegliere tra l’inconcepibile, se ne dotiamo la materia, e l’incomprensibile, se lo riferiamo a Dio.

II. Nè qui sta il tutto. Quell’Ente che noi imprigioniamo in quella parola: Dio, ma che è indefinibile salvo mercè la designazione, che la fede rivelata gli attribuisce, e che è degna di lui: Sum qui sum: « Colui che è », per qual motivo egli è? … Ecco la terribile questione, che altre parecchie ne contiene della stessa tempra; cioè come disponeva Egli del proprio ente nella sua eternità, prima che gli piacesse di creare 1’universo, in quella solitudine infinita, ed in quell’eterno silenzio dello spazio vuoto d’ogni altra esistenza che non era la sua? A che attendeva egli mai? Come poteva bastare a sé medesimo?… Misteri, ed abissi sempre. L’anima resta soffocata, per cosi dire, da questa idea, senza fondo, della Vita di Dio, durante quella eternità d’esistenza, priva di fondo essa pure.

III. Poscia, e per qual cagione è Egli uscito da quel riposo, ossia da quella vita sua propria? Chi lo lodasse a creare l’universo, e questo universo a preferenza d’un altro, e nel tempo in cui lo ha creato, piuttosto che in un altro? Il suo Ente solitario, l’idea del quale è così gravosa relativamente a questo universo prima che fosse creato, rende a sua volta gravosa sì fatta creazione rispetto a quella esistenza solitaria, che se ne era dispensata da tutta 1’eternità. Perocché io non concepisco alcun cambiamento, né successione in un Ente di tal fatta, né so come riferire 1’idea del tempo a quella dell’eternità; non so, né dove né come fissare la creazione nel suo atto, o nel suo decreto rispetto a lui. Che cosa ne avviene dunque, se considero quella creazione in se stessa? Tutto ciò che esiste tratto dal nulla! … Ecco un altro mistero, che non posso evitare senza cadere nella inconcepibile idea di qualche materia prima, eterna e fin d’allora indipendente, della quale Dio avrebbe disposto a suo grado.

IV. Finalmente perché Egli mi ha creato con questa mente così audace per fare tali questioni, e così miseramente impotente a risolverle; con questa curiosità tanto invincibile, che mi pare d’avere un dritto ai suoi segreti, ed una voce nei suoi consigli; con questa fiera pretesa d’interrogarlo, e chiedergli conto del suo Ente, e tutto ciò senza ottenere altra risposta che il terribile silenzio, nel quale si compiace di rimanere?  Se fossi almeno felice, mi consolerei forse d’ignorare il segreto del suo Ente, e gli perdonerei quella sua indipendenza ed onnipotenza in ragione della felicità di cui gli sarei debitore, e che reputerei ampiamente compensata dalla mia sommessione; tanto è vivo in me quel sentimento della proprietà del mio ente, per misero che sia ! tanto è potente quell’orrore dell’arbitrario, anche nel benefizio d’una esistenza che non ho invocato, e che non mi fu possibile di rifiutare! Ma come! l’umanità cui appartengo, è la preda di mille mali e di mille disordini; da ogni parte il dolore, da ogni parte il delitto concorrono ad accoppiare al mistero dell’esistenza il mistero del destino; non so donde vengo, dove sono, dove vado; si dispone di me senza di me: tutto ciò che so si è di nulla sapere, di soffrire e d’inclinare al male: e so infine, che una mano misteriosa ed inesorabile mi spinge dal nulla alla morte, nel tragitto d’una vita miserabile: e con questa strana complicazione d’un invincibile istinto di felicità, d’un indistruttibile ideale di giustizia, d’ ordine, di grandezza, di bellezza, di perfezione e di durata, che mi rendono superiore a ciò che sono, e migliore, parmi, del disegno di cui sono pure fattura. Tali sono in parte le difficoltà del Teismo. Esse sono formidabili, a tal che per accettarle si richiede una fede robusta. Chi le divorasse si troverebbe in mal punto per addentrarsi nei misteri del Cristianesimo. – Si risolvono questi ultimi in un mistero solo: Dio; di modo che si potrebbe dire che sono fatti da Lui. Tutto si può credere, quando si giunge al punto di credere a quello.

V. Se non che i misteri cristiani sono ben più credibili, e più facili a comportare per molte ragioni, fra le quali primeggia quella, che ci scaricano e ci liberano da quell’orribile incubo del mistero di Dio nella natura e nella umanità, sciogliendolo dalle sue oscurità le più affliggenti, soddisfacendo alle nostre più legittime curiosità ed ai nostri più imperiosi bisogni, e rispondendo alle nostre grida di abbandono. Che cosa si prova infatti sotto il peso di quel mistero? Che cosa si chiede? Che cosa si invoca? — Una spiegazione! uno schiarimento! Una Rivelazione! … O Dio, fatevi conoscere! O Essere incomprensibile, eppur necessario, uscite dalla vostra eternità, dalla vostra notte, e dal vostro silenzio! O Voi, che siete il mio supplizio, per questa sete di curiosità e di aspirazione che avete posto in me per trarmi a Voi, e pel fatale ostacolo d’ignoranza, e d’ impotenza, che mi respinge e mi fa ricadere in me medesimo, spiegate Voi a me! spiegate me stesso a me! Ah! se i Cieli potessero aprirsi! Se voi degnaste di discenderne!

(Utinam dirumperes cælos, et descenderes! Esclamava tutta l’antichità consecrata dalla voce d’Isaia, « Ch’ei si venga » gridava l’antichità profana per bocca di Platone.

« Spezza la vòlta, o Dio, che tue grand’opre

Arcanamente copre;

Squarcia del mondo i veli;

Mostrati, o buono, o giusto autor de’ cieli!

E questo il grido universale della natura umana. – Alfred de Musset Espoir en Dieu.).

Se fosse in voi di non schiacciarmi con quella comunicazione, che imploro e pavènto, piegandovi alla mia debolezza sotto tale aspetto, che non l’annientasse! O sogno d’un desiderio, che non ardisco d’esprimere: se voi veniste a me sotto una forma umana, semplice, adatta a me, dolce, pacifica, ma pure improntata da una divinità, che non potessi disconoscere ai segni ed alle opere, che nessun uomo saprebbe eguagliare! Se voi veniste a trattare per tal modo con me intorno al mistero del vostro Ente, della vostra eternità, della vostra vita divina, dei vostri disegni a mio riguardo, dell’enimma di miseria e di grandezza di cui sono l’abisso, del mio futuro destino, e della vita che devo seguire per raggiungerlo, e avverare tutti i bisogni della mia natura, e tutte le celesti tendenze, che sento dentro di me! Se voi mi precedeste in questa via, come mio modello e mio capo, come mia luce e mia forza! Avrò alfine il coraggio di dirlo? Se voi mi donaste tale un pegno del vostro amore, che non potessi mai più dubitarne, e che mi giovasse in qualche modo come un’arme contro di Voi, che eccitando la mia confidenza non esaltasse la mia presunzione; e dove mi si affacciassero come riassunti, conciliati in una meravigliosa economia, tutti gli attributi della vostra natura nelle loro attinenze colla mia, la vostra Giustizia, la vostra Santità, la vostra Potenza, la vostra Sapienza, la vostra Maestà, e soprattutto la vostra Misericordia ed il vostro Amore; o Dio! o Ente infinito! Se mai cosi operaste! Se vi faceste mio Liberatore, mio Salvatore, mio Redentore; come vi benedirei, come vi riconoscerei, come vi crederei sotto i veli così chiariti del vostro mistero impenetrabile, veli luminosi, misteri trasparenti, che ecciterebbero la mia fede per ciò appunto che confonderebbero la mia ragione, poscia che non la confonderebbero mai nelle tenebre, nel terrore, negli enimmi, nella fatalità muta e disperante come il Dio del Teista; ma nella luce, nella dolcezza, nella sapienza, nella grazia, nella ricchezza di condiscendenza e d’amore; né la sorpasserebbero che entusiasmandola!

VI. Ecco i misteri cristiani. Misteri che non possono non essere misteri, per ciò solo che hanno per oggetto l’Ente infinito; misteri che sono più numerosi, perché più numerose e più alte sono le verità che rivelano; misteri perciò, che acquistano la loro profondità dall’intera luce che mandano, mentre sono a loro volta rischiarati dal riflesso di quella luce che li circonda. –

« Una ignoranza assoluta vi avrebbe liberato da ogni mistero — dice un Magistrato filosofo —ma l’ignoranza assoluta, in ciò che si riferisce a Dio, non è propria dell’uomo, ma del bruto. L’uomo è una creatura ragionevole chiamata a mettersi in relazione col suo Creatore; è un essere intelligente capace di elevarsi fino alla contemplazione dell’Infinito: solo questa capacità risiedendo in un soggetto limitato non ha mai potuto diventare lei medesima infinita; ond’è che nel contemplare la Maestà divina, e nello studiarne la natura e le perfezioni, l’uomo non ha potuto elevarsi fino all’altezza del suo oggetto. Oltracciò l’uomo avendo avuto la disgrazia di decadere, la luce lo abbandonò, e sarebbe rimasto nella ignoranza e nell’errore, se Dio pure lo avesse abbandonato. Ma Dio non perdette interamente di vista la sua creatura; la seguitò di lontano in mezzo ai suoi falli, e quando venne il tempo fissato scese a trarla dall’abisso in cui era caduta. Per tal modo Dio, che era il Creatore dell’uomo, ne divenne anche il Redentore. Allora le oscurità, che nascondevano l’uomo a sé medesimo, si dissiparono; allora le grandi verità che formano il merito della Religione si disvelarono. L’uomo conobbe la sua natura, i suoi doveri, la sua fine: conobbe l’origine delle sue miserie, e la causa delle sue contrarietà; conobbe il bisogno che aveva d’ un Mediatore; la nascita, i patimenti, la morte, la risurrezione e l’ascensione del Verbo incarnato; il dono dello Spirito Santo; la Trinità delle persone in Dio; in una parola tutto quel corpo ammirabile delle verità, che costituiscono, i grandi misteri della Religione. Gli è perché vede più da vicino la verità, e perché è ammesso ad una conoscenza più intima della propria natura e di quella di Dio, che il Cristiano ha un maggior numero di misteri. Se Dio non si fosse avvicinato all’uomo colpevole, questi andrebbe ancora vagando nelle tenebre dell’idolatria; ignorerebbe  ciò che è egli stesso; non avrebbe che delle idee false sulla Divinità, e non sospetterebbe forse l’esistenza d’una sola fra quelle verità sublimi, che comprende l’Infinito. Se Dio, nello avvicinarsi all’uomo, non si fosse a lui mostrato che sotto le apparenze d’un Dio creatore e conservatore, tutti quei segreti meravigliosi, che hanno tratto alla conoscenza della natura umana e della Redenzione, sarebbero sepolti. Anche l’uomo stupefatto nella incertezza del suo essere s’adoprerebbe in ogni modo per conciliare le contraddizioni che sono in lui; cercherebbe di indovinare il posto che gli viene riservato nel mondo morale, e farebbe degli inutili sforzi per mettersi in armonia con tutto ciò che lo circonda. Ma essendosi manifestato Iddio all’uomo come Creatore e come Redentore, ne derivò che l’uomo conobbe non solo i misteri, che si riferiscono all’idea d’un Dio onnipotente, creatore ed ordinatore di tutte le cose, ma anche quelli che si riferiscono all’idea d’un Dio tutto misericordia, che prende la forma e la natura dell’uomo, e muore per riscattarlo (Le Président. de Riambourg, Oevres publiées par M. Foisset, édit. de Migne p. 150). »

VII. Si mena scandalo di questo mistero, perché Dio ai nostri occhi troppo s’abbassa. Ma non si vede dunque che appunto per tale motivo Egli acquista maggior pregio, perché controbilancia il primo mistero del Dio dell’universo, che ai nostri occhi troppo s’innalza? il perché non si contesterebbero (se non è troppo ardita 1’espressione), a quell’Ente indiscutibile, né l’onnipotenza di sua natura mercé 1’uso che ne fa, né l’infinità della sua altezza mediante l’infinità del suo abbassamento? Il quale abbassamento è poi sublime, posciaché è l’abbassamento dell’amore, che si svolge nella Redenzione, come si svolge la potenza nella Creazione, che compie l’abisso scavato tra Dio e noi per la nostra caduta, e l’abisso inoltre che esiste naturalmente tra l’Infinito ed il finito, tra Dio ed il mondo, uniti e rappattumati per sempre dalla grazia del Verbo incarnato. – Noi resistiamo alla seduzione d’un soggetto così interessante. Lo studio dei misteri cristiani, che fu il frutto de’ precedenti nostri lavori (Etudes philasophiques sur le Christianisme, 5″ volume — le Pian divin.), offre una occasione inesauribile d’ammirazione. Questi misteri,ai quali dovremmo prestar fede a fronte delle sole prove della divinità di Gesù Cristo, guarentigia infallibile della verità loro, lasciano travedere tante bellezze, che avrebbero dritto alla nostra credenza anche senza quella guarentigia, mentre nel reagire sovr’essa le restituiscono in certo modo quel divino testimonio che ne ricevono. Mercé quello studio i misteri non si ricordano più, tante sono le chiarezze, tante le relazioni con cui si manifestano,così che non restano misteri che per la sublimita’ loro. Sono abissi di sapienza e di scienza, che provocano ad ogni istante l’esclamazione di San Paolo:

O altitudo divitiarum sapientiæ, et scientiæ Dei! – Queste riflessioni fecondate da quelle del lettore basteranno intanto per giustificare la nostra prima proposizione, cioè che il Teismo in quanto ha di vero, confonde la ragione col mistero dei misteri,rispetto al quale quelli del Cristianesimo sono il conforto e l’incanto dello spirito umano.

(Non eccettuo manco il terribile domma della Eternità delle pene, che da sé solo indispone però molti spiriti a credere tutto il resto che si riferisce alla Religione: quasi che un domma così strettamente legato a tutti gli altri potesse essere falso, veri essendo gli altri! Noi gli abbiamo dedicato uno studio speciale, che riuscì ad una prova, se non affatto comprensibile (né ciò poteva essere), scevra per altro da ogni contraddizione, e piena di razionale convenienza. La pretesa di misurarlo alla debole bilancia del nostro debole ingegno dovrebbe arrestarsi dinanzi a questa semplice riflessione di Platone, che  « l’uomo non potendo mai vedere altro, che gli accidenti dell’individuo e del tempo, vale a dire ciò che è parziale e passeggero, non potrebbe essere giudice dei disegni di Dio, che deve necessariamente subordinare il particolare al generale, ed il tempo alla Eternità ». Sotto questa giudiziosa riserva, noi abbiamo svelato il vizio di tutte le obiezioni che si fanno a quel mistero Qual meraviglia! Esse sano ispirate dal senso cristiano, vale a dire da quelle nozioni della Giustizia e della Bontà di Dio, che il Cristianesimo ci ha portato, e che noi rivolgiamo a suo danno! Ciò dovrebbe bastare per mostrarne l’impotenza, dappoiché non sono basate che sopra gli elementi d’una fede che le esclude! Tuttavia opporremo loro alcuni cenni di risposta in aggiunta allo studio più ampio che abbiamo fatto altrove. La giustizia si rivolta, si dice, contro la sproporzione tra il peccato d’un momento, ed una eternità di pena; e la Bontà non è meno incompatibile con una severità tanto inesorabile.

Rispondo, che l’Inferno risulta assai meno da un decreto di Dio imputabile alla sua condotta verso l’uomo, che dalla condotta dell’uomo verso sé medesimo, e verso Dio: il che non solamente disimpegna la Giustizia e la Bontà divine, ma non potrebbe impegnarle senza contraddizione. Diffatti, ed in primo luogo, l’uomo è di sua natura inesterminabile, immortale; egli esisterà sempre; l’eternità gli appartiene. In secondo luogo è libero: non c’è potenza che valga a forzarlo al bene, se vuole il male, in terzo luogo il male porta inevitabilmente seco la sventura; è la pena di sé medesimo. Da ciò ne deriva, che l’uomo è l’artefice del proprio destino, il quale essendo eterno, fa sì che egli è eternamente cattivo, se tale vuol essere, epperò eternamente sventurato. La natura delle cose produce da sé questa conseguenza, e bisognerebbe distruggerla perché fosse diversamente. Queste conseguenze tuttavia sono diverse in questo mondo e nell’altro; la qual differenza dipende tutta dalla bontà di Dio. Naturalmente, quando l’anima commette un delitto, questo delitto, momentaneo quanto all’atto, è eterno quanto allo stato. Gli anni sì numerosi che si succedono sovra l’anima una volta delittuosa, una volta morta, a nulla valgono. La macchia dell’anima, dice Cicerone, non può scomparire col tempo, e tutti i fiumi del mondo non basterebbero a lavarla. « Animi labes nec diuturnitate evanescere, nec omnibus ullis elui potest! De Legibus II. 10): ciò che equivale a dire con San Tommaso, che il peccatore  è mortale di sua natura, e che la morte, per sé sola, non ha un potere di risorgimento. Tuttavia questa potenza di risurrezione morale venne introdotta sovranaturalmente nel mondo, ed è la Grazia. La morte spirituale fu vinta dalla virtù espiatrice del sangue di Cristo, una sola goccia del quale basterebbe a lavare tutti i delitti dell’Universo. I delitti inespiabili non si danno più, perché vi concorre una condizione, che deriva parimente dalla natura medesima delle cose, vale a dire, che l’anima colpevole si appropri la grazia mediante il pentimento. Diversamente lo spregio, il rifiuto, di questa grazia prodigiosa, ne aggrava lo stato. Ora questo mondo le è conceduto per pronunciarsi a tale riguardo. Essa può passare e ripassare dal male al bene: vi è invitata, sollecitata sino all’importunità. Due cose per altro impongono un termine a sì fatto sperimento, a quella tregua: l’ordine, il quale non permette mai che l’uomo, per quanto sia libero, sia indipendente, o piuttosto che l’Ente sovrano sia dipendente e trastullo dell’uomo; l’interesse dell’uomo, il quale non farebbe che accrescere il suo delitto, e quindi anche la sua sventura, collo spregio continuato della grazia di Dio. È Dio, che lo scarica del peso crescente di questa grazia, e le conseguenze funeste del mal volere dell’uomo, sospese dalla misericordia di Dio, riprendono per sempre il corso loro. L’anima passa nell’ordine immutabile ed assoluto della sua eternità, tal quale lo trova colla scelta sua propria. Ed allora donde pensate voi che gli provenga il suo inferno? Dai colpi, con cui Dio lo percuote? No certamente. Da lei medesima. La giustizia di Dio consiste nell’abbandonarlo al suo senso riprovato, al disordine del suo antagonismo col Bene, la serena vista del quale, libera da tutte le illusioni di questa vita di prova, forma il castigo dei cattivi, e la felicità dei buoni. — Virtutem vìdeant, intabescantque relicta! — dice un poeta pagano: » Veggano costoro la virtù, e si consumino dall’affanno per averla abbandonata! L’Inferno non è che il peccato stesso, dice Bossuet. Lo stato involontario, inveteralo ed eterno del peccato; l’odio del bene, di Dio, che l’anima ha contratto, e di cui forma il supplizio. Tanto basta. Dio c’entra per nulla; ed è appunto per ciò che quello stato è spaventevole. Lo dirò io? L’Inferno è l’impunità! Si, l’impunità, e secondo Platone l’inviolabilità nel delitto, per cui niun castigo salva il reo, ed è per se stessa il più terribile dei castighi; il castigo di Caino, sol quale Dio stampò mm segno, onde niuno lo avesse ad uccidere (Genesi c. IV, 15). Ah! se Dio potesse colpire i reprobi! Li solleverebbe cogli stessi colpi, come solleva le anime del purgatorio, e li esonererebbe di tutto ciò che soddisfarebbe la sua giustizia. Ma la paterna sua mano non trova dove colpire sovr’essi. Inguaribili per la condizione volontaria che si fecero, e nella quale si rinserrano, non offrono i mezzi per risanare, e poiché non ne ricevono alcuno dalla mano di Dio, quindi si rendono carnefici di sé medesimi, e sono così spaventosamente ed irremissibilmente infelici. Perché non sono dessi in grado di esclamare con quel fanciullo, che noi abbiamo inteso dire a sua madre: « Castigatemi, ma perdonatemi! » No. Più del supplizio nuocerebbe loro il perdono, e preferiscono l’Inferno: « Prova terribile della degradazione originale » ha detto in qualche tratto lo sfortunato sig. di Lammenais, — e queste parole parole mi fanno tremare la mano, che le scrive — quando il Cielo non domanda in certo modo, che di schiudersi per accogliere il colpevole, se costui ha la facoltà coll’obbedire di assicurarsene il possesso, v’è qualche cosa in lui che sceglie, e vuole l’Inferno. » Ora ho io bisogno di dire, che la Bontà di Dio non è meno sciolta della sua giustizia in quel terribile domma? Quella bontà consiste infatti nel renderci felici: felici della sua propria felicità, che non può essere che la felicità dell’ordine. Una bontà, che fosse in opposizione coll’ordine andrebbe contro l’oggetto suo proprio: la felicità. Essa non formerebbe la felicità dei cattivi; e distrurrebbe quella dei buoni. L’odio volontario del Bene nei reprobi, essendo dato come una condizione del mistero, non si concepisce la bontà d’un perdono, che non solamente sarebbe respinto, ma diventerebbe, qualora potesse essere imposto, un supplizio più grande della pena medesima, il Cielo sarà peggiore dell’Inferno pei dannati, e tale essi lo renderebbero per gli stessi Eletti. La Bontà di Dio, tanto riguardo agli uni, come riguardo agli altri, reclamerebbe per conseguente, al pari della Giustizia, contro un disordine tanto inconcepibile. In una parola la libertà del male nella eternità della sorte, e la sventura inerente al male che se lo infligge a sé stesso, tali sono gli elementi logici di quel formidabile mistero, che la ragione appena distingue, inchinandosi dinanzi alle solenni affermazioni della fede, e gettandosi in seno della divina misericordia.).

LA GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (58)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – “PASTORALIS VIGILANTIÆ”

In questa lettera Enciclica, il Sommo Pontefice Leone XIII, esprime il suo compiacimento per i risultati del Convegno di Braga, in Portogallo, tenuto da prelati e laici cattolici. Tra le altre, vi sono espressioni di grande forza utili anche agli scellerati governanti attuali dei Paesi un tempo Cristiani, oggi apostati manifesti dalla fede Cattolica, e particolarmente a quelli del nostro Paese che indubbiamente ha tenuto il peggior comportamento possibile nei confronti della Chiesa – defraudata dei suoi territori e dei suoi beni – e del suo vero Vicario di Cristo, estromesso, cacciato e sostituito da un « fantoccio » precursore dell’anticristo, espressione delle logge fin dal 28 ottobre del 1958 « … È per questo motivo che si provvede in modo saggio e accorto al bene dello Stato quando si permette alla Chiesa di avvalersi di quella libertà d’azione che essa rivendica a buon diritto, e le si apre benevolmente la strada perché possa ampiamente far valere la sua benefica influenza e mettere a disposizione del bene comune tutti i mezzi di cui è dotata. » La monarchia italiana è stata cancellata e travolta dall’ignominia, dallo scandalo vergognoso e dallo stesso esilio a cui aveva costretto il Santo Padre circa un secolo prima. La Repubblica costuzional-massonica, tentacolo della piovra mondialista, farà una fine ancor peggiore, proprio quando crederà di aver trionfato sulla Chiesa e sul Cristianesimo. « … Tutte le persone assennate ed oneste sono infatti concordi nel riconoscere che non esiste un rimedio più sicuro e più valido della Dottrina Cattolica contro i mali che affliggono il nostro tempo ed i pericoli che incombono, sempreché essa sia accettata completa ed integra, e gli uomini uniformino il loro modo di vivere alle norme che la stessa propone. » … ergo, le persone dissennate e disoneste (… cioè le marionette mai elette) attuano una politica sociale imposta dalle conventicole di perdizione, cioè un massonismo pratico, ateo e luciferino in combutta con la setta della « bestia che sembra uccisa ma è risorta », quella quinta colonna infiltrata e poi dominante sull’orbe ipocrito-cattolico. Ma tanto peggio per loro, a noi Cattolici del pusillus grex, tocca pure il dovere di rispettarli come per volontà divina a nostro castigo e punizione per le infinite colpe di cui ci siamo macchiati noi ed i nostri padri. Ma tutto questo un giorno finirà e si avvieranno i superstiti perseveranti con pazienza del pusillus grex verso la Gerusalemme celeste, e gli orgogliosi ipocriti servi del maledetto serpente primordiale allo… stagno di fuoco eterno, preparato per essi, il falso profeta ed il diavolo, e là sarà pianto e stridor di denti…

Leone XIII

Pastoralis vigilantiæ

Lettera Enciclica

La Lettera, oltremodo gradita, che annunciava la felice conclusione del nobile Convegno svoltosi di recente a Braga, a Noi inviata da quanti, tra voi, vi hanno presenziato, Ci ha procurato una nuova e significativa testimonianza dello zelo pastorale con il quale vi impegnate nel difendere e nel promuovere la religione. – Durante la lettura siamo stati pervasi da sentimenti di gioia, sia per lo zelo e la dedizione del Pastore della città che ha accolto i membri del Convegno e ha assunto in prima persona il compito di organizzarlo e di gestirlo in modo da poterne trarre gli auspicati frutti, sia per l’impegno e la pietà dei Vescovi che l’affiancarono, o che inviarono al loro posto uomini degni di stima che li rappresentassero al Convegno, sia infine per l’imponente affluenza di uomini tra i più rappresentativi del clero e del popolo fedele, segnalati per la dottrina, per la virtù e per il prestigio. – Codesto Convegno Ci tornò ancor più gradito, perché vi ha preso forma un mirabile accordo su decisioni particolarmente utili alla grandezza della Chiesa e al successo del Cattolicesimo. Né vogliamo passare sotto silenzio il fatto che, tra le altre cose opportunamente approvate con voto unanime, tenendo conto della condizione del tempo e del luogo, Ci hanno procurato conforto quei capitoli che attestavano la piena deferenza dei convenuti verso questa Sede Apostolica, e il loro ardente desiderio di vederla onorata come richiede la sua dignità e per nulla sminuita nel suo onore e nei suoi diritti. Nutriamo senz’altro la lieta speranza che quanto è stato deliberato e definito in codesta sede, se sarà attuato con impegno e costanza, produrrà una grande abbondanza di frutti salutari, senza tuttavia dimenticare che resta ancora un vasto terreno che rivendica la vostra attenzione e la vostra operosità. Per questo motivo, anche se in una lettera a voi inviata poco tempo fa vi abbiamo parlato della situazione religiosa nel regno del Portogallo e della linea di condotta da adottare per potervi opportunamente far fronte, Ci torna tuttavia gradito aggiungere al contenuto di quella lettera alcune cose che vale la pena di farvi sapere, anche perché, essendosi presentata un’occasione per scrivervi, non corriamo il rischio di essere venuti meno, per pigrizia al Nostro dovere. – Non vi sfugge certo, diletti Figli e Venerabili Fratelli, come nel Convegno di Braga sia emerso, in tutta chiarezza, che si è giunti al punto in cui la fede stessa è messa in pericolo presso molti, e s’impone quindi l’obbligo di impedire, per quanto è possibile, che l’ignoranza e la rilassatezza la estirpino dagli animi o la lascino illanguidire, ma occorre impegnarsi perché resti ben fissa nei cuori e dia vita ad una consolante quantità di opere buone e di perfetta virtù, nonché alla dolcezza dei frutti più eccelsi. Ci si deve opporre ai tentativi dei nemici della verità, perché non abbia a diffondersi il malefico contagio che si sprigiona dai loro cattivi esempi e dalle loro idee disseminate per ogni dove. Ci sono da sanare molte ferite che il loro nefasto operare e la malvagità dei tempi hanno inferto nei greggi affidati alle vostre cure; molte sono le cose che giacciono inerti da far rivivere; molti sono ancora i bisogni che assillano le anime e che, se non possono essere del tutto rimossi, occorre almeno lenire. Tutto questo che reclama, come abbiamo ricordato, le vostre cure e la vostra sollecitudine, potrà essere attuato con maggiore efficacia e con più facilità se la concordia tra i Vescovi diventerà ogni giorno più profonda e se questi, di comune intesa, opereranno per scoprire i bisogni del clero e dei fedeli, per proporre suggerimenti e prendere, con le decisioni, che tutti insieme vedranno meglio accordarsi con le situazioni delle singole diocesi, anche quelle di più ampia portata e di maggior peso per provvedere alla prosperità e alla salvezza dell’intero popolo. L’opportunità di un più stretto raccordo tra i Vescovi non sfuggì alla saggezza di chi si riunì a Braga. Trovano quindi la Nostra piena approvazione le decisioni prese in quel nobile Convegno con il proposito di favorire quest’unità di intenti, capace di garantire al popolo cristiano i più importanti e duraturi benefìci che si ripromette dai suoi Presuli, che sono le sue guide e i suoi pastori. – Ma per rendere veramente stabile questo rapporto, non vi è mezzo più efficace del ricorso alla consolidata prassi, già recepita in altre regioni, di tenere ogni anno, in aggiunta alle riunioni che prevedono la presenza anche dei laici (di tal fatta era il Convegno di Braga), speciali adunanze di Vescovi. È un’usanza che sta prendendo piede anche presso di voi; un’usanza che vi sta a cuore e che Noi auspichiamo con tutte le forze perché, come testimoniano le numerose e documentate esperienze, è possibile trarne benefìci per la religione. – Di sicuro, con la frequente convocazione di tali assemblee prende anzitutto forma, come abbiamo ricordato, il più rilevante e unanime concorso di energie che può garantire esiti positivi alle iniziative intraprese, ma ravviva anche l’entusiasmo ad agire dei Vescovi convenuti, rafforza la fiducia e illumina le menti con il confronto delle idee e con lo scambio vicendevole del frutto della saggezza. Con queste assemblee si apre come una strada sia per tenere Sinodi diocesani e provinciali, sia per riunire un Convegno nazionale, la celebrazione del quale – notiamo con grande gioia – fa parte dei vostri desideri. La ripetuta esperienza dei vantaggi derivati da Convegni similari già svolti, li consiglia con forza, e le disposizioni dei Sacri Canoni le raccomandano con sincera convinzione. Inoltre alle menzionate assemblee annuali dei Vescovi farà seguito un evento di somma importanza. I laici infatti, spinti da nuovi stimoli, si sforzeranno di proseguire con più decisione sulla strada intrapresa; si riuniranno a loro volta in assemblee; confronteranno le loro idee e, facendo leva sulle energie collegate, si adopereranno per difendere la comune causa della religione e, seguendo le indicazioni dei loro Pastori, metteranno in pratica gl’insegnamenti e gl’incoraggiamenti ricevuti. – Per la verità, nelle riunioni annuali che farete non mancheranno i problemi ai quali dedicare il vostro zelo e le vostre energie. Infatti, oltre i problemi specifici che eventualmente riguarderanno le singole diocesi e che potranno essere più adeguatamente risolti con l’apporto chiarificatore della comune esperienza, sarà oggetto del vostro prudente esame un vasto campo di decisioni e di deliberazioni relative ai mezzi maggiormente idonei per dar vigore all’impegno dei sacerdoti che già lavorano nella vigna del Signore, per educare i giovani che un giorno dovranno risplendere nella casa di Dio per la luce di una solida dottrina, per il merito di uno schietto spirito ecclesiastico e per il corredo di tutte le virtù sacerdotali. – La vostra paterna vigilanza si farà anche carico di una meticolosa ricerca su tutto ciò che è sommamente utile per trasmettere correttamente al popolo i rudimenti della fede, per correggerne i costumi, per divulgare scritti atti a seminare la sana dottrina e a inculcare i principi della virtù, per dar vita ad istituzioni che diffondano i benefìci della carità e per rendere ancor più fiorenti quelle già istituite. – Un ultimo importantissimo punto, che dovrà essere oggetto delle vostre decisioni, vi sarà offerto dall’opportunità di fondare e di accogliere nel Regno del Portogallo delle Congregazioni religiose. Al riguardo abbiamo notato con gioia quanto fosse forte l’impegno di tutti i presenti al Convegno di Braga. – Queste Congregazioni, infatti, non solo potranno offrire al clero, che nelle vostre diocesi si è votato alla sacra milizia di Cristo, delle forze per così dire, ausiliarie, ma saranno anche in grado, ed è ciò che più conta, di preparare uomini animati da spirito apostolico che si faranno carico del ministero missionario nelle regioni d’oltremare soggette al dominio portoghese. L’assolvimento di questo compito, mentre contribuirà all’ampliamento del Regno di Cristo sulla terra, darà anche lustro e onore al Portogallo. Si sono veramente procurati una gloria imperitura i vostri Principi e i vostri antenati quando, con l’aiuto e il favore della Sede Apostolica, portarono la luce della dottrina evangelica e una forma di vita più civile in tutte le vostre terre scoperte. – Occorre dunque, per mantenere vive la natura e la forza delle iniziative intraprese e per non lasciarle decadere dal primitivo stato di persistente floridezza, far leva sulla costante vigilanza e sulle virtù di uomini pienamente affidabili che, mentre si oppongono, pieni di spirito divino, agli ostili attacchi degli acattolici, indirizzino tutta la loro attenzione e la loro energia a far sì che i beni giunti dal Portogallo in quelle contrade non vadano completamente perduti, ma riprendano vita come per nuovo vigore. – Sarà compito di questi uomini che, chi già crede in Dio, sia confermato nella fede, e chi vi è ben ancorato possa anche distinguersi per l’onestà dei costumi, per la pratica della religione, per la scrupolosa osservanza dei doveri, affinché chi è ancora nelle tenebre si disponga ad accogliere la luce del vangelo. – Le Congregazioni religiose potranno senz’altro offrire molti di questi uomini ardenti di santo zelo, poiché i loro membri, sulla scorta del giudizio di persone assennate confermato da testimonianze di tutti i tempi, seppero sempre svolgere questo compito con impegno ed efficacia. Infatti il sistema e la disciplina delle Congregazioni in cui sono inseriti, nonché la pratica costante della virtù che ognuno si impone, li rendono più adatti di ogni altro a svolgere un così importante lavoro. – Siamo pienamente convinti che il Governo del Portogallo, accogliendo con favore le vostre proposte e attribuendo grande valore a quei beni che sopravanzano gli altri, si deciderà anche a rimuovere gli ostacoli che intralciano la libertà dei Sodalizi religiosi e, con la sua autorità, favorirà i vostri propositi che mirano a restituire il pieno vigore e a far rifiorire doviziosamente, con la gloria degli antenati, la religione cattolica in Portogallo e in tutti i paesi sottoposti al suo dominio. – Questa Nostra convinzione è resa più forte dal fatto che nessuno ormai ignora, e anche voi ne avete piena coscienza, quali siano al riguardo i Nostri sentimenti e i Nostri auspici, che sono sicuramente rivolti al bene della religione, ma si propongono anche la piena prosperità del popolo portoghese. Sono questi il compito e la funzione che il Divino Fondatore ha assegnato alla Chiesa: porsi nel cuore della società umana come vincolo di pace e garanzia di salvezza.

La Chiesa non toglie nulla all’autorità di chi è posto a capo dello Stato e ne detiene il potere, anzi lo difende e lo rafforza, affiancando alle leggi emanate l’obbligo religioso dell’osservanza, riconducendo il dovere di sottostare alle pubbliche autorità nell’ambito degli obblighi voluti da Dio, esortando i cittadini a tenersi lontano dai moti sediziosi e da ogni altra forma di sovvertimento dello Stato, insegnando a tutti di coltivare la virtù e di assolvere con cura tutto ciò che richiede il proprio stato e la propria condizione. La Chiesa è dunque il migliore censore dei costumi; la sua salutare disciplina prepara uomini retti, onesti, devoti verso la patria, fedeli e pienamente solidali con i principi, tali cioè da costituire un solido sostegno del pubblico ordinamento degli Stati, in grado di mettere a loro disposizione indomite energie per affrontare imprese ardue e gloriose. È per questo motivo che si provvede in modo saggio e accorto al bene dello Stato quando si permette alla Chiesa di avvalersi di quella libertà d’azione che essa rivendica a buon diritto, e le si apre benevolmente la strada perché possa ampiamente far valere la sua benefica influenza e mettere a disposizione del bene comune tutti i mezzi di cui è dotata. – Anche se un simile assunto riguarda tutte le genti, esso si rivela particolarmente indicato per il popolo portoghese, presso il quale la Religione cattolica svolse un ruolo di primaria importanza nel plasmare, da molto tempo, i costumi e le menti degli uomini, nel promuovere gli studi delle scienze, delle lettere e delle arti, nell’infiammare gli animi a compiere ogni sorta di imprese memorabili in pace e in guerra, quasi da sembrare la madre e la nutrice, donata dal cielo, per generare e far crescere tutto ciò che di splendido prese forma, in tale popolo, nel campo della civiltà, della dignità e della gloria. – Ci siamo intrattenuti più diffusamente con voi su questo argomento nella citata Lettera enciclica che vi abbiamo recentemente indirizzata. Ora però è bene ricordare questa sola cosa: la forza e il valore della Religione non possono in alcun modo venir meno, perché i principi dottrinali che essa trasmette, in quanto voluti da Dio, non sono condizionati dalle leggi del tempo e dello spazio, ma sono rivolti alla salvezza e al conforto di tutti i popoli. Per questo motivo, allo scopo di favorire il benessere e la prosperità della vostra nobilissima gente, la Religione è ancora in grado di fornire quegli straordinari benefìci e quei validi aiuti che mise a disposizione in passato. Specialmente in questo tempo malvagio, nel quale la debolezza e il turbamento degli animi si sono fatti così grandi che i fondamentali principi che garantiscono l’ordine e la pace della società umana non solo vengono messi in dubbio, ma sono apertamente avversati, non vi è nessuno che non comprenda la necessità di far ricorso all’aiuto della Religione e ai suoi sacri precetti e insegnamenti. Tutte le persone assennate ed oneste sono infatti concordi nel riconoscere che non esiste un rimedio più sicuro e più valido della dottrina cattolica contro i mali che affliggono il nostro tempo e i pericoli che incombono, sempreché essa sia accettata completa ed integra, e gli uomini uniformino il loro modo di vivere alle norme che la stessa propone. – Per tutto questo, Diletti Figli Nostri, Venerabili Fratelli, non dubitiamo che, in forza dello zelo pastorale che vi distingue, vi affretterete, con animo deciso e con impegno costante, all’opera che vi abbiamo raccomandato. Sarà per voi, dediti al lavoro, un titolo di sommo onore e di meritata riconoscenza, l’aver potuto conseguire altissime benemerenze verso la Religione, che assorbe tutto il vostro interesse, verso la patria e verso il vostro popolo, per il quale auspicate, con un’intensità non inferiore alla Nostra, una stabile pace e un futuro rispondente alle attese. – Mentre eleviamo la Nostra supplica a Dio perché vi colmi dei suoi doni e assecondi le vostre iniziative, impartiamo, con sincero affetto nel Signore, la Benedizione Apostolica, testimonianza del Nostro paterno amore, a voi, al clero e ai fedeli affidati alle vostre cure.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 giugno 1891, quattordicesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA I DOPO L’EPIFANIA (2021)

DOMENICA I DOPO EPIFANIA (2021)

FESTA DELLA SACRA FAMIGLIA.

Doppio maggiore. – Paramenti bianchi.

« Non conviene forse – dice Leone XIII – celebrare la nascita regale del Figlio del Padre Supremo? Non forse la casa di David, e i nomi gloriosi di questa antica stirpe? È più dolce per noi ricordare la piccola casa di Nazaret e l’umile esistenza che vi si conduce: è più dolce celebrare la vita oscura di Gesù. Lì il Fanciullo Divino imparò l’umile mestiere di Giuseppe e nell’ombra crebbe e fu felice di essere compagno nei lavori del falegname. Il sudore – Egli dice – scorra sulle mie membra, prima che il Sangue le bagni; che questa fatica del lavoro serva d’espiazione per il genere umano. Vicino al divino Fanciullo è la tenera Madre; vicino allo Sposo, la Sposa devota, felice di poter sollevare le pene agli affaticati con cura affettuosa. O voi, che non foste esenti dalle pene e dal lavoro, che avete conosciuto la sventura, assistete gl’infelici che l’indigenza affligge e che lottano contro le difficoltà della vita  » (Inno di Mattutino). – In questa umile casa di Nazaret Gesù, Maria e Giuseppe consacrarono, con l’esercizio delle virtù domestiche, la vita familiare (Or.). Possa la grande Famiglia che è la Chiesa ed ogni focolare cristiano, esercitare in terra le virtù che esercitò la Sacra Famiglia, per meritare di vivere nella sua santa compagnia in cielo (Or.). – Benedetto XV, volendo assicurare alle anime il beneficio della meditazione e dell’imitazione delle virtù della Sacra Famiglia, ne estese la solennità alla Chiesa universale e la fissò alla Domenica fra l’Ottava dell’Epifania o al sabato che la precede.

Incipit

In nómine Patris, ✝ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Prov XXIII: 24; 25
Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te.

[Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato].


Ps LXXXIII: 2-3
Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit et déficit ánima mea in átria Dómini.

 [Quanto sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore degli eserciti: anela e si strugge l’ànima mia nella casa del Signore]

Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te.

[Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato].

Oratio

Orémus.
Dómine Jesu Christe, qui, Maríæ et Joseph súbditus, domésticam vitam ineffabílibus virtútibus consecrásti: fac nos, utriúsque auxílio, Famíliæ sanctæ tuæ exémplis ínstrui; et consórtium cónsequi sempitérnum:

[O Signore Gesú Cristo, che stando sottomesso a Maria e Giuseppe, consacrasti la vita domestica con ineffabili virtú, fa che con il loro aiuto siamo ammaestrati dagli esempii della tua santa Famiglia, e possiamo conseguirne il consorzio eterno].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII: 1-5
Fratres: Obsecro vos per misericórdiam Dei, ut exhibeátis córpora vestra hóstiam vivéntem, sanctam, Deo placéntem, rationábile obséquium vestrum. Et nolíte conformári huic sǽculo, sed reformámini in novitáte sensus vestri: ut probétis, quæ sit volúntas Dei bona, et benéplacens, et perfécta. Dico enim per grátiam, quæ data est mihi, ómnibus qui sunt inter vos: Non plus sápere, quam opórtet sápere, sed sápere ad sobrietátem: et unicuique sicut Deus divísit mensúram fídei. Sicut enim in uno córpore multa membra habémus, ómnia autem membra non eúndem actum habent: ita multi unum corpus sumus in Christo, sínguli autem alter alteríus membra: in Christo Jesu, Dómino nostro.
[Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi in sacrificio vivo, santo, accettevole a Dio: ad offrire il vostro culto ragionevole. Non vi conformate a questo secolo; anzi riformatevi, rinnovando il vostro spirito, affinché conosciate quale sia la volontà di Dio buona, accettevole e perfetta. Perciocché in virtù della grazia concessami, io dico a tutti voi di non farla da savi più di quello che conviene, ma di essere savi con modestia secondoché Dio dà a ciascuno la misura della fede. Poiché come in un corpo abbiamo molte membra, ma non tutte le membra hanno la stessa operazione, così in molti siamo un corpo solo in Cristo, e ciascuno è membro l’uno dell’altro „]

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

COME SI TRATTA IL CORPO.

… Le parole con cui San Paolo esorta i Romani a trattare il loro corpo per trattarlo cristianamente sono tali da stupire più di uno fra coloro che le leggono per la prima volta o per la prima volta le ascoltano. « Vi scongiuro, o fratelli, in nome della misericordia che Dio ci ha usata, di offrire i vostri corpi come un’ostia viva, santa, che piace al Signore ». E in realtà queste parole senza essere menomamente strane, sono mirabilmente nuove nella storia del pensiero morale dell’umanità. La quale non ha mai potuto e non può eliminare il problema del corpo, della materia. Che fare di questo povero corpo? come trattarlo? C’è un trattamento igienico del corpo che non si può dire epicureo, che non si può neanche dire vizioso e non è virtuosamente eroico, eroicamente virtuoso. Consiste nel far star bene il corpo nel conservarlo sano. « Mens sana in corpore sano ». È un programma tutt’altro che ignobile. Fu il programma classico dell’antichità. Noi lo ripetiamo ancora talvolta ai nostri giovani. E Dio volesse che la preoccupazione almeno della salute, dell’igiene, fosse sempre viva e vittoriosa nell’anima della nostra gioventù! Quanti peccati e quante vergogne essa ci risparmierebbe. Ma quando la preoccupazione dello star bene, igienicamente bene, diventi suprema; diventa la grande ispiratrice, la sola e non ci solleva molto in alto, può anche essere egoisticamente bassa. Siamo in un epicureismo sottile e cauto, senza la imprudenza dell’epicureismo volgare: più intelligente dunque dell’epicureismo comune, non più nobile. Più cristiana certo l’austerità scettica di cui abbbiamo una traccia, una formula, anche in San Paolo quando ci dice: « castigo corpus meum et in servitutem redigo ». Voglio dominare, è fiero, dignitoso, alto. Programma imperiale, non dell’imperialismo di esportazione, dell’imperialismo di importazione; non esteriore, ma intimo, che è il più vero. E il mezzo è bellicoso: tratto male il mio corpo: lo picchio, lo fo digiunare, gli misuro avaramente la bevanda dolce, gli interdico il più inebriante (abstinuit vino). E’ tutto un decalogo austero che sa di stoicismo. Non è stoico nel senso che lo riassorbe anche il Cristianesimo, è stoico nel senso che anche lo stoicismo ci era giunto e vi ci si era fermato. Il Cristianesimo va più in su. Arriva al misticismo. Il corpo penetrato di spiritualità ma in nome e per amore di Dio. Lì è la discriminante, nella finalità suprema, definitiva. Perché siano salvi i diritti dell’uomo, è la finalità stoica. Perché sia salva la dignità dell’uomo la quale non si salva per certo capovolgendo i rapporti tra il corpo e lo spirito, condannando questo alla schiavitù, verso di quello. Bella figura umana la figura di chi serve collo spirito alla carne! di chi si anticipa con quella attitudine la morte! Il corpo deve servire, esso deve spiritualizzarsi, e non lo spirito materializzarsi, ma, nel Cristianesimo tale processo deve compiersi nel nome e per la gloria di Dio. Per offrire a Lui in questo corpo radiosamente spiritualizzato un’Ostia nuova, Ostia viva e non come quella dei vecchi sacrifici che erano carogna, cadavere: Ostia santa, qualche cosa di più che semplicemente buona; santa, tale da piacere a Dio. Il trattamento religioso, divino del corpo! Non si può andare né più in là, né più in su. E tutto questo non riservato a pochi eletti, ma messo alla disposizione di tutti… ecco il Cristianesimo. Ma è il nostro, fratelli?…

Graduale

Ps XXVI: 4
Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ.
 [Una sola cosa ho chiesto e richiederò al Signore: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita.]

Alleluja

Beáti, qui hábitant in domo tua, Dómine: in sǽcula sæculórum laudábunt te. Allelúja, allelúja,

[Beati quelli che àbitano nella tua casa, o Signore, essi possono lodarti nei secoli dei secoli. Allelúia, allelúia.]

Isa XLV: 15
Vere tu es Rex abscónditus, Deus Israël Salvátor. Allelúja.

[Tu sei davvero un Re nascosto, o Dio d’Israele, Salvatore. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
S. Luc II: 42-52
Cum factus esset Jesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Jerosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus. Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit Mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? Ecce, pater tuus et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est, quod me quærebátis? Nesciebátis, quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et Mater ejus conservábat ómnia verba hæc in corde suo. Et Jesus proficiébat sapiéntia et ætáte et grátia apud Deum et hómines.

[Quando Gesù raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità, e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori, e li ascoltava e li interrogava, e tutti gli astanti stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vistolo, ne fecero le meraviglie. E sua madre gli disse: Figlio perché ci ha fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo. E rispose loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio? Ed essi non compresero ciò che aveva loro detto. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava soggetto ad essi. Però sua madre serbava in cuor suo tutte queste cose. E Gesù cresceva in sapienza, in statura e in grazia innanzi a Dio e agli uomini].

OMELIA

[Mons. A. Feruglio, Vescovo di Vicenza: Omelie di Natale – Soc. An. Tipogr. fra Cattolici Vicentini, 1914 – imprim. 1913]

1. Gesù si diporta come vero figlio di Maria e di Giuseppe.

A chi chiedesse perché mai il Redentore abbia voluto comparire bambino, per passare gradatamente nei diversi stadi della vita umana, sarebbe facile il rispondere che così era decretato dall’infinita sapienza dell’Eterno. Però, se è vero che Iddio, di alcune sue disposizioni ne tiene occulti i motivi e perciò sarebbe temeraria stoltezza il volerli scandagliare, è vero eziandio che di altre si compiace renderli accessibili all’umano intelletto, affinché invitati a considerarli, ci sentiamo attirati ad ammirare la sua sapienza, potenza e bontà, ed a seguirne i pietosi disegni. E tale appunto è la grande opera dell’Incarnazione del Verbo. Nessuna necessità, osserva S. Agostino, costringeva il Verbo a nascere di donna, per farsi vero uomo (Aug. contra Faust, lib. 26, c. 7). Che, se diciamo che era conveniente s’incarnasse nel seno della Vergine, per assumere un corpo come gli altri uomini derivante dal comun padre Adamo, qual necessità v’era che venuto alla luce non comparisse tosto uomo di età matura? Perché presentarsi impotente bambino, bisognoso di tutto, incapace di muoversi e di parlare? Perché insomma assoggettarsi a tutti gli inconvenienti che circondano l’età infantile? Così ci diede esempio, è vero, di umiltà e di pazienza, ma tali esempi poteva darceli, come ce li diede, in età perfetta. Sembrerebbe dunque inesplicabile il motivo per il quale ci apparve bambino, tanto più che la sua anima sarebbe già stata adatta ad un corpo nel suo pieno sviluppo, capace di tutti gli atti d’un uomo giunto a perfetta età. Difatti mentre gli altri bambini sono in istato di perfetta ignoranza che andrà man mano dileguandosi, Egli fin dal suo concepimento fu sì ricolmo di tutti i tesori della sapienza e della scienza, che, a suo confronto, il più dotto tra gli uomini sarebbe un povero ignorante. Perché dunque volle comparire in tale condizione? – La fede c’insegna che Gesù venne al mondo per restaurare ogni cosa. Instaurare omnia quæ in terris sunt (Eph. 1, 10). Il peccato aveva guastata l’opera di Dio sotto ogni rapporto. Era quindi necessario che il Redentore, come coi suoi meriti e colla sua dottrina così col suo esempio, risanasse tutto l’uomo. Perciò non bastava si rendesse modello delle virtù riguardanti l’uomo individualmente considerato, ma poiché l’uomo è per natura socievole, conveniva che Gesù col suo esempio gli si facesse maestro di virtù anche nei suoi rapporti con la società. Conveniva insomma che coll’individuo risanasse la società stessa. Ora, o dilettissimi, perché l’uomo viva rettamente qual membro della società, è requisito essenziale l’ossequio alla autorità. — Ed oh! quali e quanti solenni esempi ci ha dato il Redentore in età adulta, di sommissione all’autorità dichiarando che essa viene da Dio. Ma poiché la società fondamentale, da cui dipende il benessere di ogni altra società, è la famiglia, il Verbo fatto uomo dispose di essere membro d’una famiglia dalla quale dispensa gli esempi delle più perfette virtù domestiche e sociali. — Volle pertanto convivere con Maria, sua vera Madre, sino al tempo della sua vita pubblica; e benché la sua generazione fosse per opera dello Spirito Santo e non di padre terreno, volle tuttavia che l’autorità paterna dirigente la sua famiglia fosse un nomo, non avventizio, ma congiunto per intimo naturale legame alla medesima, perché San Giuseppe fu vero marito dell’intemerata e purissima tra le Vergini. Fu dunque per nostro ammaestramento che il Salvatore si degnò di apparir pargoletto, di passare dall’infanzia ai successivi stadi della vita umana, come pure di richiedere le cure della sua santissima Madre e del suo putativo Padre. Infatti qual necessità vi era che essi gli procurassero l’alimento, mentre Egli è Colui che dà l’essere, la vita e l’alimento a tutte le creature? Forse non era sua quella provvidenza per cui Giuseppe e Maria trovavano di che nutrirlo e vestirlo? Qual bisogno aveva Egli della loro tutela? Non poteva Egli, come fece in altra età, sottrarsi prodigiosamente ai suoi nemici persecutori? Non poteva comandare ai venti ed alle procelle, camminar sulle onde, frenare gli spiriti d’abisso, disporre a suo piacimento di tutto il creato? — Qual bisogno che altri lo guidasse, se Egli è la Sapienza increata che infonde l’intelligenza e l’accorgimento in quelli che devono dirigerlo? — Ah! sì, è un tratto d’immensa carità, che ben meditato non può non riempirci d’indicibile stupore, l’abbassarsi di Gesù alla condizione di bambino, di figlio di famiglia, per essere nostro modello. – Né si pensi, soggiunge Sant’Agostino, che di tale abbassamento abbia solo in apparenza mostrato di provare, ma provò in realtà la debolezza, le privazioni, le ripugnanze e tutti gli inconvenienti che ne conseguono. Humanæ conditionis affectus non simulavit sed exhibuit, non necessitate conditionis, sed magisteri voluntate (Aug. contra Faust, lib. 26, c. 7). Pertanto, con vera dipendenza, quale si addice a figlio verso i genitori, s’assoggetta a Maria e a Giuseppe. — È da sottrarsi alla persecuzione di Erode, o, defunto quest’empio dopo sette anni, è da far ritorno a Nazareth? Gesù non fa cenno, non parla. Un Angelo illuminerà Giuseppe il capo della famiglia, e da questi dipenderà la fuga ed il ritorno. Né questa soggezione ha fine coll’infanzia. Ben poco ci narrano gli Evangelisti della vita di Gesù fino alla sua predicazione. Ma la risposta data a Maria e a Giuseppe quando, a dodici anni, rimase a loro insaputa nel tempio, ben ci fa comprendere ch’Egli non voleva disporre di sé, ma dipendere in tutto dai loro cenni. Non sapevate, disse, che dove mi chiama il Padre mio, io devo trovarmi? Nesciebatis quia in iis quæ Patris mei sunt oportet me esse? (Luc. II, 49). — Quasi dicesse: la straordinarietà stessa di quest’incidente dovea rendervi accorti che una volontà superiore mi obbligava a derogare alla rigorosa soggezione che costantemente vi professo. — E perché da tal fatto non si potesse pensare che la sua dipendenza da Maria e Giuseppe non fosse perfetta, l’Evangelista s’affretta a soggiungere che ritornò con loro a Nazareth e se ne stava soggetto ad essi. Et erat subditus illis (Luc. II, 51). Deh! qual lezione, o dilettissimi! Il Padrone dell’universo, per insegnarci il rispetto all’autorità, s’assoggetta per tal modo a coloro ai quali Egli stesso comunica l’autorità. Qual confusione per quei figli che non si conformano a questo divino esemplare, mentre è assoluta disposizione di Dio che devano star soggetti ai loro genitori; per figli, dico, tanto bisognosi di direzione, perché non hanno quell’esperienza che s’acquista solo coll’avanzar degli anni, e perciò sono tanto esposti alle illusioni ed alle seduzioni. — Qual rimprovero per tutti coloro che acciecati dalla superbia non venerano nei superiori l’autorità di Dio, ma se vi si adagiano, lo fanno solo per motivi umani, pronti a trasgredirne i comandi per quanto giusti, ed a ribellarsi alla legittima podestà, appena il possano senza danno. Deh! quanti guai non affliggono ai dì nostri la società e ne minacciano la rovina, appunto perché si disconosce il fonte dell’autorità che è Dio. — Contro quegl’infelici il mitissimo San Bernardo indicando l’esempio di Gesù fanciullo esclama: Confonditi, o uomo, confonditi superba polvere. Un Dio si umilia e tu ti esalti? Un Dio si assoggetta agli uomini e tu anelando a sollevarti sopra gli uomini, t’innalzi al di sopra del tuo Facitore? O uomo, se sdegni d’imitare un altro uomo, non deve sembrarti cosa indegna imitare il tuo Creatore (S. Bern. Hom. I super Missus). – Ma fissiamo ancora il pensiero sul fanciullo Gesù. Se in tutte, anche le minime cose, Egli pende dai cenni di Maria e di Giuseppe, quando tale dipendenza è in opposizione alla volontà del celeste Padre, non la osserva. — Un atto di sublime missione affidatagli dal Padre, richiede la sua presenza nel tempio. Egli allora s’apparta da Maria e da Giuseppe, permettendo l’affanno che ne deriverebbe a quei santi Personaggi, appunto per dimostrare come ogni terreno affetto deve farsi tacere, di fronte alla certa e precisa volontà dell’Eterno. Ah! non sia mai che la soggezione all’uomo ci porti a violare i voleri di Dio. Ciò non sarebbe un assoggettarsi alla autorità di Dio che risiede nell’uomo, ma un turpe assoggettarsi alla creatura in onta al Creatore. Quindi Pietro e Giovanni al Sinedrio, che ingiungeva loro di smettere l’esercizio dell’apostolato, rispondevano: Giudicate voi stessi se dinanzi al Signore sia giusto l’obbedire a voi anziché a Dio (Act. IV, 19). – Non sia mai che i figli trascurino una manifesta vocazione di dedicarsi interamente a Dio, o senza vocazione si avventurino in uno stato al quale Egli non li ha destinati, per non contristare i genitori. Dell’amore ai parenti, che fa preferire la loro volontà a quella di Dio, Gesù Cristo ha pronunciata questa terribile sentenza: Chi ama suo padre e sua madre più di me, non è degno di me: non est me dignus (Matth. X, 37). Eccovi, o figli dilettissimi, le splendide lezioni che ci porge il divin Salvatore, il quale per darcele si degnò di cominciare coll’infanzia la sua mortale carriera. Ecco perché, come predisse Isaia ci apparve pargoletto, e, come scrive S. Luca, fu trovato bambino circondato dalle cure della sua Genitrice e del suo padre putativo. Invenerunt Mariam et Joseph et ìnfantem positum in præsepio Luc. II. 16 — Non si creda tuttavia che colle considerazioni fatte finora si sieno posti in rilievo tutti gli esempi e gli ammaestramenti che risultano dalla circostanza che ha dato argomento ai nostri riflessi. Ben altri ne rimangono, e della più alta importanza: noi contentiamoci di considerarne un altro ancora.

2. Maria e Giuseppe trattano con Lui da veri genitori.

Il Redentore volle sulla terra essere membro d’una famiglia, perché da quella emanassero gli esempi di tutte le domestiche virtù. In essa Egli offrì sé stesso perfetto modello di figlio, rispettoso ed ossequente ai genitori. — Ma quali poi dovevano essere gli uffici ed i rapporti di Maria e di Giuseppe verso di Lui? — Dovevano alimentarlo, vestirlo, circondarlo di tutte quelle cure, che richiede il benessere corporale di un figlio. Così han fatto con la più affettuosa ed instancabile sollecitudine. Ma ciò che maggiormente attira la mia attenzione e che mi infonde quasi un senso di sgomento, è che sopra di Lui quei santi personaggi esercitavano veramente l’autorità paterna. E come mai, si potrà dire, essi per quanto grandi, per quanto santi, sapendo chi era Gesù, osavano sorvegliarlo quasi che ne abbisognasse, tenerlo soggetto e comandargli? – Ah! dilettissimi, se l’uomo ragiona con le sue corte vedute, si troverà dinanzi un inesplicabile mistero. Ma se per poco ci eleviamo a superiori considerazioni, troveremo che appunto perché illuminati e santi, appunto perché conoscevano bene Gesù, facevano così. — Essi, ripieni delta spirito divino, compresero che, posti a capo di una famiglia di cui Gesù volle essere figlio, era nei disegni dell’Eterno che con Lui esercitassero le parti di genitori, facendo tacere la ripugnanza derivante dalla profonda venerazione che per Lui nutrivano. Non erano guidati da umane considerazioni, per quanto nobili e plausibili, ma dalla sola volontà di Dio, manifesta e per l’ufficio cui furono assunti e per la condizione in cui il divin figlio si degnò di figurare. Per questo non esitano a sottoporlo alla dolorosa ed umiliante cerimonia della circoncisione. Nessuno meglio di loro sapeva che Egli non vi era soggetto, ma sapevano pure che il loro Gesù, si degnò d’apparir figlio di quella nazione nella quale i pargoletti per legge divina dovevano sottostare a tale cerimonia. — Per la stessa ragione, pargoletto di quaranta giorni, lo presentano al tempio per offrirlo al Signore e quindi riscattarlo, come per tutti i primogeniti prescriveva la legge mosaica, legge che certamente non poteva riguardare l’Uomo-Dio. – E che dirò poi della vigilanza e dell’impero esercitati da Maria e da Giuseppe sul fanciullo Gesù? L’Evangelio ci dice tutto con dire che se ne stava soggetto a loro. — Che a Nazareth s’occupasse di questa o di quella cosa, che si recasse in questo o quel luogo, pendeva dai loro cenni. — E poiché è compito dei genitori di educare i figli alle osservanze religiose, giunto ai dodici anni, lo conducono al tempio per la solennità della Pasqua, come era prescritto dalla legge per tutti i maschi, incominciando da quell’età. Vi era forse tenuto? Sarebbe follia ed empietà il pensarlo. Ma tant’è; la volontà di Dio, per rapporto ai genitori è tale, ed essi vi si conformano con tutta esattezza. — Quanto poi s’interessassero di averlo sempre in custodia, lo dicono le affannose ricerche, quando di ritorno a Nazareth, per un inevitabile equivoco, non lo trovarono in loro compagnia. Lo dicono le dolci ma accorate rimostranze della Vergine, allorché finalmente lo ritrovarono nel tempio. – Ma basti, o dilettissimi. Ora sia lecito domandare: Se a sì scrupolosa vigilanza si tennero obbligati Maria e Giuseppe, non perché Gesù ne abbisognasse, ma solo perché lo richiedeva il loro officio secondo i voleri del Cielo, quale sarà il dovere dei genitori verso i figliuoli? Ve ne sono molti di quelli che sanno sacrificarsi pel benessere fisico e materiale dei figli, perché civilmente educati ed istruiti riescano a ben figurare nel mondo, ad occupare posti luminosi e lucrosi, ad acquistare rinomanza e vantaggi terreni, ma quanto pochi si curano della vera educazione che consiste essenzialmente nell’indirizzarli al gran fine per cui furano creati, che è quello di servire il Signore e salvare l’anima. — Quanto raramente parlano ai figliuoli di Dio e dei loro doveri verso di Lui! — Quanto poco si curano d’infervorarli nelle pratiche di religione e di metterli in guardia contro i pericoli e le seduzioni del mondo: — Quanto spesso, per una stolta fiducia, rallentano la vigilanza massime per riguardo a certi ritrovi, a certe compagnie, a certe letture di libri e di giornali, allora più funesti, quando sotto la larva di cattolicismo e di pietà, nascondono il veleno dell’empietà! — E non si tratta già del figlio di Maria, impeccabile, ricolmo di tutti i tesori della grazia, vero Dio. Si tratta di miseri figli d’Adamo colle conseguenze della colpa d’origine, inclinati al male, accessibili a tutte le seduzioni dell’errore e del vizio. Mio Dio! quale spaventoso rendiconto al tribunale di quel Gesù, che se oggi consideriamo pargoletto, è pur giudice supremo degli uomini. Di quel Gesù che a costo di tanta pena, per la sua santissima Genitrice e per il casto Sposo di Lei, volle che per nostro ammaestramento esercitassero su di Lui scrupolosamente l’autorità e la vigilanza di genitori. Che risponderanno coloro che nell’educazione dei figli si prefiggono viste puramente mondane, e non l’adempimento della volontà di Dio, e quindi la vita religiosamente morale dei medesimi? Deh! piaccia al Signore che a quanti m’ascoltano sia dato di fissare a cuor tranquillo la capanna di Betlemme, nella coscienza di aver ricopiati gli esempi derivanti dalla condizione del Pargolo divino. — Piaccia al Signore che tali esempi vengano imitati da tutti. Per tal modo la società, funestata da tanti guai, perché il giusto concetto dell’autorità è troppo spesso disconosciuto e da chi deve esercitarla e da chi deve sottostarvi, mentre si dimentica che essa è da Dio e non da altri, la società, dico, si risanerà col vero culto della autorità nel fondamento della medesima che è la famiglia. Ed a questi miei voti infonda efficacia la benedizione coll’indulgenza plenaria che a nome e per concessione del Sommo Pontefice sto per impartirvi.

Credo.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
S. Luc II: 22
Tulérunt Jesum paréntes ejus in Jerúsalem, ut sísterent eum Dómino.

[I suoi parenti condussero Gesú a Gerusalemme per presentarlo al Signore.]

Secreta

Placatiónis hostiam offérimus tibi, Dómine, supplíciter ut, per intercessiónem Deíparæ Vírginis cum beáto Joseph, famílias nostras in pace et grátia tua fírmiter constítuas.

[Ti offriamo, o Signore, l’ostia di propiziazione, umilmente supplicandoti che, per intercessione della Vergine Madre di Dio e del beato Giuseppe, Tu mantenga nella pace e nella tua grazia le nostre famiglie.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

S. Luc. II: 51
Descéndit Jesus cum eis, et venit Názareth, et erat súbditus illis.

[E Gesú se ne andò con loro, e tornò a Nazareth, ed era loro sottomesso.]

Postcommunio

Orémus.
Quos cœléstibus réficis sacraméntis, fac, Dómine Jesu, sanctæ Famíliæ tuæ exémpla júgiter imitári: ut in hora mortis nostræ, occurrénte gloriósa Vírgine Matre tua cum beáto Joseph; per te in ætérna tabernácula récipi mereámur
.

[O Signore Gesú, concedici che, ristorati dai tuoi Sacramenti, seguiamo sempre gli esempii della tua santa Famiglia, affinché nel momento della nostra morte meritiamo, con l’aiuto della gloriosa Vergine tua Madre e del beato Giuseppe, di essere accolti nei tuoi eterni tabernacoli.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (143)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (10)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA

1861

DISCUSSIONE XI

Il Celibato ecclesiastico: i Voti monastici.

Prot. Sta bene pertanto, che la Chiesa abbia ed eserciti una piena potestà per imporre ai fedeli precetti disciplinari, purché si contenga entro i limiti di una conveniente moderazione. Ma la Cattolica Chiesa, o come voglia dirsi, il Papa, passa veramente agli estremi; imperocché ha stabilito una certa qualità di digiuni, di vigilie, che io credo contrari non meno alla parola di Dio che alle sante leggi della natura. Mi spiego: Ella ha ordinato che tutti i Sacri Ministri del culto vivano e muoiano nel celibato: che tutti i claustrali Monaci, Frati e Monache si leghino con voto perpetuo di castità! È questo un eccesso inaudito d’iniquità, essendo certo che Gesù Cristo o S. Paolo hanno di tal maniera disapprovato, e dissuaso questo infelicissimo stato, che il vivere nel celibato per piacere a Dio è una vera empietà: i voti fatti a tale oggetto sono empi, irriti e nulli. (Lutero. Lib. de Votis monastici!- Calvino: Lib. 4. Instit, cap. 3.- Confess. Augustana, Art. 27. etc.)

Bibbia. Dice Gesù Cristo : « V i sono degli eunuchi che si sono fatti eunuchi da loro stessi per amore del regno de’ cieli…, » Chi può capire capisca…. » Capisci tu o no? Se non capisci ascoltane dal medesimo una spiegazione. «Chiunque avrà lasciata la moglie per amor del mio nome, riceverà il centuplo, e possederà la vita eterna. (Matt. XIX, XII. 29)  » Ascolta adesso S. Paolo. « È cosa buona per l’uomo non toccar donna…. Bramo che voi tutti siate qual son io; ma ciascuno ha da Dio il suo dono, uno in un modo, uno in un altro. A quei che non hanno moglie, e alle vedove io dico, che è bene per loro che se ne stiano così come anch’io (sto così). Intorno poi alle vergini non ho comandamento dal Signore: ma ne do consiglio come avendo ottenuto dal Signore misericordia, perché io sia fedele…. Sei tu legato a una moglie? Non cercar di essere sciolto. Sei tu sciolto dalla moglie? Non cercar di moglie. Chi è senza moglie (N. B.) ha sollecitudine delle cose del Signore, del come piacere a Dio. Chi poi è ammogliato ha sollecitudine delle cose del mondo, del come piacere alla moglie, ed è diviso. E la donna non maritata, e la vergine ha pensiero delle cose del Signore, affine di esser santa di corpo e di spirito. La maritata poi ha pensiero delle cose del mondo, del come piacere al marito. – Chi ha risoluto fermamente nel suo cuore, non essendo astretto da necessità, ed è padrone della sua volontà, e ha determinato in cuor suo di serbare la sua vergine, ben fa. Dunque chi marita la sua vergine fa bene, e chi non la marita fa meglio. Ma sarà più beata se resterà così, secondo il mio consiglio: penso poi di avere io pure lo spirito di Dio. » (I. a’ Cor. VII, 1, 7, 8, 25 e seg.) – Finalmente sta scritto: « E udii una voce del cielo…. quasi di citaristi che suonavano le loro cetre, e cantavano come un nuovo cantico dinanzi al trono :… e niuno poteva dire quel cantico, se non quei cento quaranta quattro mila, i quali furono comperati di sopra la terra. Questi son quelli (N. B.) che non si sono macchiati con donne; imperocché sono vergini. Questi seguono l’Agnello dovunque vada. Questi sono comprati di tra gli uomini, primizie a Dio, e all’Agnello. (Apoc. XIV, 2 e seg) » – « Vi scongiuro, o fratelli, per la misericordia di Dio, che offriate i vostri corpi ostia viva, santa, gradevole a Dio, (che è) il razionale vostro culto. » (Rom. XII, 1) – Eccoti dunque dichiarato per divina sentenza che lo stato del celibato è migliore e assai più perfetto dello stato matrimoniale: che non solamente è da Gesù Cristo promessa la eterna vita in premio del celibato; ma che i vergini sono in Paradiso i suoi prediletti, che sempre, ovunque vada, lo seguono quali sue care primizie, e che la castità corporale tanto a Dio piace che l’ha per una specie di sacrifizio, di culto divino grandemente a lui accetto. Dopo ciò oserai dire ancora che – i voti sono empj, che chi li fa per piacere a Dio commette un’empietà? – È vero che Dio non avendo costretto alcuno a vivere in perpetuo celibato, la Chiesa non può costringere chicchessia ad abbracciare lo stato ecclesiastico, o monacale a cui tale obbligo è annesso; ma è pure altrettanto vero che poté annettere a tale stato quest’obbligo stesso per chiunque si sente di volontariamente abbracciarlo, per la potentissima ragione che i soli celibi sono veramente atti a servire Iddio, ed esercitare il culto divino; perché i soli celibi – hanno pensiero, sollecitudine delle cose del Signore, del come piacere a Dio, mentre i legati in matrimonio, hanno pensiero, sollecitudine delle cose del, mondo, e del come piacere alla comparte. –

58. Prot. Se la Chiesa ha questa potestà, perchè gli Apostoli non ne han fatto uso? Forse che il Papa ne sa più di essi? Qui ti voglio!

Bibbia. Chi ti ha detto che non ne han fatto uso? Ascolta. « La vedova si elegga di non meno di sessant’anni…. Ricusa le vedove più giovani; imperocché dopo che hanno lussuriato contro di Cristo, vogliono maritarsi: avendo condannazione, perché  hanno rotta la prima fede. (I. a Tim. V, 9, 11, 12) » Dimmi adesso, cos’è questa prima fede rotta rimaritandosi, se non la violazione del voto di perpetua castità? Che se altra cosa significasse, come avrebbe potuto dire S. Paolo che tali vedove maritandosi avevano la dannazione; mentre il medesimo altrove insegna che la vedova è libera di maritarsi con chi le piace? « La moglie è legata alla Legge tutto il tempo che vive il marito: che se muore il marito, ella è in libertà: sposi chi vuole: purché secondo il Signore. (I Cor. VII, 39) » Che ne dici? Su via da bravo: rispondi.

59. Prot. « Io vi confesso che non posso leggere questi passi: vi sono eunuchi che si son fatti tali pel regno de’ cieli: chi può intenderlo lo intenda. – Io vi dico in verità che chi avrà lasciato padre, o madre, o moglie, etc. pel mio nome, etc. Quegli che sta fermo in cuor suo, e non avendo alcuna necessità, ma ha potestà sul proprio volere, ed ha così stabilito nell’animo suo di serbare la sua vergine, fa bene. – Io dico: non posso legger questi ed altri passi senza riconoscere, che, sebbene il matrimonio non solo è permesso, ma onorevole, anzi Nostro Signore ha santificato colla sua presenza il rito nuziale, sollevandolo ad un mistero, e ad un’immagine della sua unione con la Chiesa, nondimeno una via più eccellente è indicata a quelli a’ quali ciò è dato. Egli è il carattere stesso della fede che mentre nobilita l’uso del benefizio promesso da Dio, addita a quelli che posson riceverla una strada più sublime, coll’andar loro innanzi. Così dichiara che ogni creatura di Dio è buona, e la consacra a nostro uso con la parola di Dio e l’orazione, eppure mostra una via più eccellente nel digiunare – Quegli che vede in segreto vi ricompenserà in palese. – Essa insegna che le nostre terre sono in poter nostro, eppure promette il centuplo a quelli che abbandonano case e terre per amor del suo nome e del Vangelo…. Ma perché gli uomini, precipitando le cose, dovranno saltare al lato opposto, ed esercitar la tirannia in senso contrario sulle coscienze degli uomini? Perché diffamare e spregiare come papistico ciò che è primitivo? Perché non dovrebbe il celibato usarsi da quelli a cui è dato per legare più fermamente gli affetti del cuore a Nostro Signore, anziché a Roma?

« La Scrittura dice: Quegli che non è maritato pensa alle Cose che sono di Dio: perché dunque recidere le aspirazioni di quelle anime più ardenti, che speran così di attendere al loro Signore senza distrazione? Perché non esser riconoscenti pei beni che godiamo, senza contendere a quelli che li hanno lasciati per amor di Dio la benedizione annessa alla propria annegazione, affinché possano darsi al meglio, totalmente a queste cose e al servizio del loro Signore?… Perché noi (protestanti) invece delle nostre società visitatrici non dovremo avere le nostre Suore della Carità, la cui immacolata religiosa purezza fosse il lor passaporto in mezzo alle scene della miseria e del vizio, recando intorno a se quel rispetto che anche il peccato sente verso l’illibatezza, e imprimendo un salutar senso di vergogna alla colpa colla loro stessa presenza? 1(L’anglicano dott. Pusey: Lettera al vescovo protestante di Oxford, 1839) ». – « I voti  (monastici) formano (nella vita monastica) una parte del culto divino.  (Melantone, Professione di fede, citata (V. n. 38) Art. X.) ». Sentite come ne scrissi una volta a certi miei seguaci: « Vi amo voi altri Wittemberghesi, allorché vi vedo assalire con tanto coraggio il Papa; ma i vostri matrimoni di Monache e di Frati sono veri incesti. (Lutero: Epist. ad Munzer: Ved. Audin, Storia della vita di Lutero, T. 1. p. 81. ediz. di Milano 1842.) »

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (28)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (28)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 543a

S. Agostino, In Epist. Joannis ad Parthos, VIII, 1:

« Le opere di misericordia, i sentimenti d’amore, la retta devozione, la purezza di castità, la moderazione della sobrietà, sempre devon essere praticate…. son tutte virtù interiori. E chi è in grado di enumerarle tutte? È come un esercito del condottiero, che risiede nell’anima tua. Ebbene, a quel modo che un condottiero fa per mezzo dell’esercito quel che gli pare, così Gesù Cristo Signore, nel metter dimora nell’uomo, vale a dire nell’anima, per la fede (Agli Efes., III, 17) si vale, come coadiutori suoi, di codeste virtù ».

(P. L., 35, 2035 ss.).

DOMANDA 547a

S. Ambrogio, De Mysteriis, 42:

« Hai ricevuto l’emblema spirituale, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di prudenza e fortezza, spirito di scienza e di pietà, spirito di timor santo: e tu conserva quel che hai ricevuto. T’ha contrassegnato il Padre, t’ha confermato Cristo Signore e ti ha dato pegno in cuore lo Spirito ».

(P. L., 16, 419).

Il medesimo, De Sacramentis, III, 8:

« Segue (il Battesimo) contrassegno spirituale…. perché dopo esso, rimane il perfezionamento, quando per invocazione del sacerdote viene infuso lo Spirito Santo, Spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di prudenza e fortezza, spirito di scienza e pietà, spirito di timor santo: quasi le sette virtù dello Spirito ».

(P. L., 16, 453).

DOMANDA 549a.

Leone XIII, Encicl. Divinum illud munus, 9 mag. 1897:

« All’uomo giusto, inoltre, se cioè vive la vita della grazia divina ed esercita colle virtù, per così dire, le sue facoltà, occorrono assolutamente que’ sette cosidetti doni dello Spirito Santo, grazie a’ quali l’anima è armata e fortificata, sicché più facilmente e più prontamente obbedisce a’ suoi cenni e impulsi. Perciò questi doni hanno tanta efficacia da sollevarlo alla vetta della santità e sono così eccellenti da sussistere tali e quali, benché in modo più perfetto, nel regno de’ cieli ».

(Acta Leonis XIII, XVII, 141).

DOMANDA 552a.

Leone XIII, Encicl. Divinum illud munus, 9 mag. 1897:

« E per opera appunto di tali carismi l’animo è destato e trasportato a desiderare e conseguire le beatitudini evangeliche, le quali, come i fiori della primavera, son segno e annunzio dell’eterna beatitudine ».

(Ibid.).

DOMANDA 566a.

S. Girolamo, Adv. Jovinianum, II, 30:

« Ci son peccati leggeri e ci sono i gravi. Altro è il debito di diecimila talenti, altro quello d’un quadrante…. Tu vedi perché otteniamo perdono, se l’imploriamo per peccati piccoli, mentre è difficile ottenerlo per peccati gravi: vedi che c’è gran distanza tra peccati e peccati ».

(P. L., 23, 327).

S. Cesario d’Arles, Serm. 104, 2:

« E, benché l’Apostolo enumeri parecchi peccati capitali, noi però diciamo in breve quali sieno, per non sembrar di ridurre a disperazione: il sacrilegio, l’omicidio, l’adulterio, la falsa testimonianza, il furto, la rapina, la superbia, l’invidia, l’avarizia; e, se a lungo covata, l’ira; e l’ubbriachezza abituale è pur computata nel numero di essi. Difatti chiunque sa d’essere schiavo di qualcuno di essi, se non si corregge degnamente e, avendo tempo, non ne fa assai lunga penitenza e non abbonda in elemosine e non si astiene da essi per l’appunto, non potrà purgarsi soltanto in quel fuoco transitorio, di cui parla l’Apostolo, ma lo tormenterà senza rimedio l’eterna fiamma. È utile anche, benché a tutti sia noto quali sieno, accennare alcuni almeno de’ peccati veniali, che dirli tutti sarebbe troppo lungo. È peccato veniale prender cibo e bere più del necessario, parlare senza misura o tacere più di quel che occorre…. Non crediamo che all’anima rechino morte simili peccati; però la contaminano con una specie di pustole e di orribile scabbia, sicché non può presentarsi che a stento, o almeno con grande confusione, all’abbraccio dello Sposo celeste… Se poi non ci ricordiamo di ringraziar Dio nella tribolazione, nè di redimere i peccati colle buone opere, staremo al purgatorio fino a quando que’ peccati veniali, come legna, stoppia o fieno, sien consumati. Ma qualcuno potrebbe dire : Non m’importa quanto vi starò, purché giunga alla vita eterna. Nessuno dica così, fratelli carissimi, perchè quel fuoco purgativo sarà più doloroso d’ogni pena che a questo mondo si può pensare, o vedere, o sentire ».

(P. L., 39, 1946).

DOMANDA 570a.

S. Pio V, Costit. Ex omnibus afflictionibus, 1 ott. 1567, prop. 20 tra quelle condannate di Baio:

Non c’è alcun peccato che di natura sua sia veniale; ma ogni peccato merita la pena eterna ».

(Du Plessis, 1. c. III, II, 110)

DOMANDA 583a.

S. Basilio M., Homilia in Psalm 33:

« Quando t’invade bramosia di peccato, vorrei che pensassi al terribile e intollerabile tribunale di Cristo, nel quale siederà il giudice sopra un altissimo trono e assisteranno tutte le creature, tremando alla gloriosa vista di lui. Vi sarem condotti anche ciascuno di noi, a rispondere delle azioni compiute in vita. Ai grandi peccatori si faranno subito intorno angeli terribili e deformi, con facce infiammate e spiranti fuoco, palesando così la crudeltà del proposito e del volere, simili in volto alla notte, per il dolore e l’odio contro il genere umano. Inoltre vorrei tu pensassi al baratro profondo, alle fitte tenebre, al fuoco senza splendore, capace di bruciare, ma privo di lume; poi una specie di vermi che inoculan veleno e divoran le carni, non mai sazii di rodere e per la furia del rodere intollerabilmente tormentosi. Finalmente, supplizio più di tutti molesto, quell’ignominia e confusione senza fine. Temi queste cose e preso da questo timore poni un freno nell’anima e reprimi il desiderio del peccato.

(P. G., 29, 370-1).

DOMANDA 585a.

Concilio di Trento : Vedi D. 74.

DOMANDA 586a.

Benedetto XII; Vedi D. 62.

S. Agostino, De anima, II, 8:

« Insomma ignoravi proprio quel che (Vincenzo Vittore) crede giustamente e salutarmente cioè che le anime son giudicate all’uscir da’ corpi, prima di presentarsi a quel giudizio, dov’esse dovranno esser giudicate, dopo rivestito il proprio corpo, e o patire o gioire in quella carne, colla quale han vissuto? Chi insordì contro il Vangelo con tanta ostinazione della mente da non intendere o non credere intese tali verità nel povero che, dopo morte, fu accolto in seno ad Abramo e nel riccone, di cui è descritto il tormento giù nell’inferno? »

(P. L., 44, 498).

DOMANDA 588a

Concilio di Firenze, Decretum prò Græcis:

« Similmente, le loro anime son purificate dalle pene del purgatorio, se muoiono davvero pentiti nell’amor di Dio, prima d’aver sodisfatto con degne opere di penitenza ai peccati in opere ed omissioni; e che, per esser alleviate da tali pene, giovano loro i suffragi de’fedeli che sono ancora in vita, cioè le S. Messe, le preghiere e le elemosine e le altre opere di pietà, che, secondo le norme della Chiesa, sogliono farsi da’ fedeli per gli altri fedeli. Inoltre son subito accolte in cielo a contemplare apertamente Dio uno e trino, com’è, l’uno più perfettamente dell’altro in proporzione de’ meriti, l’anime di quelli, che dopo ricevuto il battesimo non si macchiarono affatto di colpa, oppure si son purificate o in vita o, spoglie de’ loro corpi, come s’è detto quassù. Ma l’anime di quelli, che muoiono in peccato mortale attuale o nel peccato originale soltanto, subito scendono agl’inferi per una punizione però diversa ».

(Mansi, XXXI, 1031).

S. Giovanni Damasceno, De fide ortodoxa, IV, 27:

« Dunque risorgeremo coll’anima ricongiunta di nuovo al corpo, esente ormai da corruzione, e ci presenteremo dinanzi al tremendo tribunale di Cristo, e allora il diavolo e i suoi ministri e l’uomo suo, cioè l’Anticristo, e gli uomini empii e delittuosi saran dannati al fuoco eterno; fuoco, cioè, non a somiglianza del nostro, ma quale Dio sa. Invece quelli che hanno fatto bene rifulgeranno come il sole in compagnia degli Angeli nella vita eterna, col Signor nostro Gesù Cristo, per vedere ed esser veduti sempre e godere perciò d’una gioia che non verrà mai meno, lodandolo col Padre e collo Spirito Santo per infiniti secoli di secoli. Così sia ».

(P. G., 94, 1228).

DOMANDA 589a.

Concilio IV di Laterano: Vedi d. 179;  Concilio di Firenze, d. 585; Benedetto XII, d. 62; Pio IX, d. 162.

Papa Vigilio, Adv, Origenem, can. 9:

« Sia scomunicato chi dice o pensa ch’è temporaneo il castigo de’ demonii e degli empii e che avrà una fine, oppure che avverrà la riabilitazione e la reintegrazione de’ demonii e

degli empii ».

(Mansi, IX, 534).

DOMANDA 59la.

Concilio di Firenze : Vedi D. 588.

S. Gregorio Magno, Dialogus, IV, 43:

« Unico è il fuoco dell’inferno, ma non tormenta nelmodo medesimo tutti i peccatori, perchè laggiù ciascuno patisce tanto quanto esige la sua colpa ».

(P. L., 77, 401).

S. Agostino, De Fide, spe et caritate, 3:

« Dopo la risurrezione, compiuto i l giudizio universale, avranno fine le due città, cioè quella di Cristo e quella del diavolo, quella de’ buoni e quella de’ cattivi, l’una e l’altra però di angeli e insieme di uomini. Agli uni mancherà il volere, agli altri il poter peccare, o qualsiasi mezzo di morire; e gli uni vivranno davvero una vita perpetuamente felice, gli altri saranno per sempre infelici nell’eterna morte senza poter morire, perchè vivranno gli uni e gli altri senza fine. Ma gli uni godranno della felicità l’uno meglio dell’altro, gli altri patiranno l’uno meno dell’altro ».

(P. L., 40, 284).

DOMANDA 592a.

Concilio II di Lione (1274): Professio fidei Michaelis Paleologi:

« …. Che se davvero moriranno pentiti nell’amore, prima d’aver sodisfatto alle colpe commesse o alle omissioni con degne opere di penitenza, le anime di essi dopo morte son purificate dalle pene del purgatorio, come ci ha spiegato il fratello Giovanni: e ad esse giovano, per sollievo da siffatte pene, i suffragi de’ fedeli che sono ancora in vita, cioè le S. Messe, le preghiere e le elemosine e le altre pratiche di pietà che, secondo le norme della Chiesa, sogliono i fedeli fare per altri fedeli ».

(Mansi, XXIV, 70).

Concilio di Firenze: Vedi D. 588.

Concilio di Trento, sess. XXV, Decretum de Purgatorio:

« Siccome la Chiesa Cattolica, ammaestrata dallo Spirito Santo, ha insegnato, sulla scorta delle sacre scritture e dell’antica tradizione de’ Padri, tanto ne’ Sacri Concilii quanto recentemente in questo sacrosanto Sinodo, che il purgatorio esiste e che le anime ivi relegate aiutate co’ suffragi de’ fedeli, specie poi col sacrificio dell’altare, il Santo Sinodo prescrive ai Vescovi di curare con ogni premura che sia creduta e professata da’ fedeli cristiani e insegnata e predicata dappertutto la sana dottrina intorno al Purgatorio, com’è tramandata da’ sacri Padri e da’ sacri Concilii…. Procurino inoltre i Vescovi che si adempiano con pietà e devozione i suffragi de’ fedeli vivi, cioè le sante Messe, le preghiere e le elemosine e le altre pratiche di pietà che, secondo le norme della Chiesa, sogliono i fedeli fare per altri fedeli; e quelle che son d’obbligo per essi, secondo le disposizioni testamentarie o per altro titolo, siano compiute con cura e diligenza, non per burocrazia, da’ sacerdoti della Chiesa e dai ministri e dalle altre persone che vi son obbligate ».

Benedetto XII; Vedi D. 62.

Leone X, Costit. Exsurge Domine, 15 giug. 1520, propp. 37-40 tra le condannate, contro gli errori di Martin Lutero:

a 37. I Purgatorio non può esser dimostrato in base a sacra Scrittura, compresa nel canone.

« 38. Le anime nel Purgatorio non son sicure della loro salvezza, almeno tutte: e non è dimostrato da alcuna ragione o da passi scritturali qualsiasi ch’esse son fuori dalla condizione di meritare o di accrescer la carità.

« 39. Le anime in Purgatorio peccano ininterrottamente ogni volta che invocano riposo e inorridiscono delle pene.

« 40. Le anime liberate dal Purgatorio per i suffragi de’ viventi godono minor beatitudine che se avessero sodisfatto per conto proprio »

(Bullarium Romanum, 1. c. 751).

Pio IV, Costit. Injunctum nobis, 13 nov. 1564, Professione di Fede Tridentina:

« Fermamente credo che c’è il Purgatorio e che le anime ivi relegate sono aiutate co’ suffragi de’ fedeli; similmente che si devono venerare e invocare i Santi che regnano insieme con Cristo e ch’essi presentano a Dio preghiere per noi e che devono esser venerate le loro reliquie. Affermo con sicurezza che si devon tenere e conservare le imagini di Cristo e della Madre di Dio sempre Vergine, nonché degli altri Santi, e che ad esse deve tributarsi debito onore e riverenza; inoltre che da Cristo fu lasciata alla Chiesa la facoltà delle Indulgenze e l’uso di esse è oltremodo salutare al popolo cristiano».

(Mansi, XXXIII, 221 s.).

S. Gregorio Magno, Dialogus, IV, 39:

« Ognuno, quale si parte dal mondo, tale si presenta al giudizio. Si deve credere però che prima del giudizio vi è un fuoco purificatore di certe colpe lievi, in forza di quel che dice la Verità che non sarà perdonato nè in questo nè nel mondo futuro (Matt. XII, 32) chi bestemmierà contro lo Spirito Santo. Da questa espressione si può capire che certe colpe si possono cancellare in questo mondo, certe altre invece all’altro mondo. È logico infatti che, se qualcosa si nega di uno, s’intenda concessa per altri. Però, come ho detto, s’ha da credere che ciò può accadere per i piccoli e minimi peccati ».

(P. L . , 77, 396).

DOMANDA 595a;

S. Agostino, De Civitate Dei, XXI, 13, 16:

« Alcuni scontano le pene temporali solamente in questa vita, altri dopo morte, altri in questa vita e dopo morte, ma prima di quel severissimo ed ultimo giudizio patiscono. Non vanno però tutti alle pene eterne, che ci saranno dopo quel giudizio, coloro che dopo morte scontano quelle temporali. « Si creda pure che non ci saranno pene purificative, tranne che prima dell’ultimo e tremendo giudizio. Però non si deve negare che lo stesso fuoco eterno, a seconda delle colpe, sarà per gli uni meno, per gli altri più tormentoso, sia che ne varii la forza e l’ardore in proporzione alla pena, sia che pur ardendo egualmente per tutti, non tutti sentano eguale tormento ».

(P. L . , 41, 728, 731).

DOMANDA 596a.

Concilio IV di Laterano: V. D. 179; Concilio di Firenze, D. 585; Benedetto XII, D. 62.

Concilio di Vienna (1311-12) contro gli errori dei Beguardi e delle Beghine:

« 5. Ogni natura intellettiva è in sè stessa naturalmente beata e l’anima non ha bisogno del lume di gloria che la elevi a veder Dio e a goderne beatamente ».

(Mansi, XXV, 410).

DOMANDA 597a.

Concilio di Firenze: Vedi D. 588; Concilio di Trento, D. 282.

S. Gregorio Magno, Moralia, IV, 70:

« Poiché in questa vita c’è per noi discernimento di opere, nell’altra ci sarà senza dubbio un discernimento di dignità sicché chi nel merito supera qui un altro, lassù lo superi nel premio. Perciò dice la Verità nel Vangelo: In casa del Padre mio son molte le dimore (Gio. XIV, 2). Ma proprio nella diversità delle dimore sarà in qualche senso concorde la diversità stessa de’ premii; perchè in quella pace ci unisce tal forza che uno gioisce d’aver ricevuto in altri quel che non ha egli stesso ricevuto. Per questo ricevono egualmente un denaro tutti senz’aver lavorato egualmente nella vigna (Matt., XX, 10). In verità presso il Padre le dimore son molte e pure lavoratori differenti ricevono il medesimo denaro; perchè c’è un’unica beata letizia per tutti, benché non identica per tutti sia l’altezza di vita ».

(P. L., 75, 677).

Afraate, Demonstrationes, XXII, 19:

« Ascolta ora l’Apostolo che dice: Ognuno riceverà il premio a norma della sua fatica (I ai Cor., III, 8). Chi avrà lavorato poco, riceverà secondo la fatica sostenuta. Chi avrà corso mólto, avrà premio in misura della sua corsa…. E dice ancora l’Apostolo: Una stella supera l’altra di splendore; così sarà pure la risurrezione de’ morti (I ai Cor., XV, 41-2). Sappi perciò che, anche quando gli uomini entreranno nella vita, una mercede sarà pure più grande dell’altra e più insigne una gloria dell’altra e più cospicuo un premio dell’altro ».

(Patrologia Syriaca, I, I, 1030).

S. Efrem, Hymni et Sermones, 11:

« Chi avrà ben operato, entrerà in un luogo pieno di beni; rimarranno invece nell’inferno i cattivi per esser pasto al fuoco e in balìa delle fiamme, sicché ciascuno se n’andrà al suo posto; qui uno sarà immerso nel fango, donde più non si solleverà, là un altro sarà immerso nel fuocc per rimanervi in eterno; chi sarà avvolto nelle tenebre e non vedrà mai lume; chi scenderà nell’abisso e non lo risalirà più; chi ancora entrerà in luogo santo per rimanervi sempre. Chi siederà sul secondo gradino, chi sul terzo, altri saran levati fino al qunto, altri al decimo, altri al trentesimo, altri più su…. perché ciascuno avrà dalla divina giustizia in proporzione della sua fatica ».

(Lamy, o. c, II, 424).

S. Girolamo, Adv. Jovinianum, II, 32, 33, 34:

« Tocca a noi prepararci premii differenti secondo il differente sforzo…. Se dovessimo essere uguali nel cielo, inutilmente qui ci umilieremmo per poter essere là più grandi…. Perchè perseverano le vergini? perchè s’affaticano le vedove? Perchè sono continenti le maritate? Per quanto tutti abbiam peccato, tuttavia dopo il pentimento saremo come gli Apostoli ».

(P. L., 23, 329, 330, 333).

S. Girolamo, Adv. libros Rufini, I , 23 :

« Come non è detto arcangelo se non chi è primo tra gli angeli, così non si direbbero principati podestà e dominazioni se non vi fossero altri al disotto di loro e di grado inferiore…. Come anche tra gli uomini l’ordine delle dignità è diverso a seconda della diversa fatica, avendo il vescovo e il prete e ogni dignità della Chiesa il suo posto, pur essendo tutti uomini; così (sappia) che ci son meriti diversi fra gli angeli, e tuttavia tutti appartengono alla dignità angelica ».

(P. L., 23, 416-17).

S. Agostino, Sermo, 87, 6:

« Saremo dunque uguali in quel premio, primi gli ultimi e ultimi i primi; perchè il famoso denaro (Matt., XX, 2) è la vita eterna e tutti saranno uguali nella vita eterna. Splenderanno sì uno più, uno meno secondo i meriti diversi; ma, in ordine alla vita eterna, tutti saranno uguali ».

(P. L., 38, 533).

Il medesimo, In Joannem, LXVII, 2:

« Uguale per tutti è quel denaro, che il padre di famiglia comanda di dare a tutti gli operai della vigna, senza distinguere tra chi ha lavorato di più e chi meno (Matt., XX, 9); ora con quel denaro si allude alla vita eterna dove nessuno vive più di un altro, perchè nell’eternità non è diversa la misura del vivere. Ma le molte dimore (Gio., XIV, 2) alludono alla diversa ricompensa de’ meriti nell’unica e identica vita eterna ».

(P. L., 35, 1812).

ALCUNI PUNTI DISCUSSI CHE S’INCONTRANO NEL CATECHISMO

(PER I CATECHISTI CHE SPIEGANO IL TERZO CATECHISMO)

I.

DOMANDA 112a.

Discutono i teologi a proposito degli uomini che saran vivi nell’ultimo giorno. Alcuni ritengono che non moriranno prima del giudizio universale, ma saranno giudicati da vivi: e s’appoggiano tanto alle parole del Simbolo « di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti » quanto a quelle dell’Apostolo Ia ai Cor., XV, 51, che si leggono in molti codici greci: « Non tutti dormiremo, ma tutti saremo trasformati ». Però i più pensano che anch’essi moriranno per risorgere subito e poi subire, insieme con tutti gli altri, il giudizio universale. Difatto la Scrittura insegna: La morte passò in tutti gli uomini, perchè in lui tutti peccarono (Paolo, Ai Rom., V, 12); come in Adamo tutti muoiono, così pure tutti torneranno a vita in Cristo (I ai Cor., XV, 22). Giustamente ritengono più sicura e più probabile questa sentenza S. Tommaso, la, IIæ, q. 81, a. 3, ad I um; il Billot, De novissimis, tesi XII: P. Hugon, De novissimis, q. 1, n. 4; il Lépicier, De novissimis, p. 19 segg. Se la competente autorità dichiarerà certa la seconda opinione, nella risposta alla cit. Dom. 112 sarà facile, dopo le parole: ancor vivi aggiungere: per morir subito.

II.

DOMANDA 151a.

Se la Chiesa sia con giudizio solenne sia per ordinario e universale insegnamento propone da credere a tutti una verità come divinamente rivelata è certo per tutti (Dom. 148) a) che la Chiesa è infallibile nel proporre questa verità in questo modo; 6) che tutti devono accettare, e per fede divina e cattolica questa verità; (La parola cattolica sembra dal Concilio Vaticano aggiunta per significare che è necessaria tal fede se uno vuol esser membro della Chiesa cattolica, perchè chi nega o dubita d’una di queste verità con ostinazione è eretico e perciò più non appartiene alla Chiesa cattolica.) c) che perciò è un eretico chi la nega o ne dubita con ostinazione. Se la Chiesa, nel modo sopraddetto, propone da credere a tutti una verità per sè stessa non rivelata, ma connessa con quelle rivelate, come sono i fatti dogmatici e le censure contro le proposizioni che dalla Chiesa sono state proscritte e proibite (Dom., 150, 151) tutti del pari ammettono a) che la Chiesa è infallibile nel proporre anche questa verità in questo modo; b) che tutti debbono accettare, con interiore consenso, questa verità, sicché chi la nega o ne dubita con ostinazione commette peccato grave; c) che però costui non è in senso stretto eretico. Dunque noi accettiamo questa verità per fede, benché non cattolica, ma per qual fede? I più sostengono che l’accettiamo per fede ecclesiastica, perchè le verità di cui si parla non sono dette da Dio, ma soltanto dalla Chiesa, sotto l’assistenza di Dio (Il Card. Billot, De Ecclesia thes. 18 e De virtutibus infuses thes. 13; P. Palmieri, P. Schultes….). – Altri insegnano che accettiamo anche tal verità per fede divina, inquantochè l’accettiamo per l’infallibilità della Chiesa; ma siccome l’infallibilità della Chiesa poggia sulla parola di Dio che le promette la sua assistenza, primo e ultimo fondamento della nostra fede è la parola di Dio; e questa è fede divina. Altri, con altre parole, intendono questa fede (P. Schiffini S. J . , De virtutibus infusis, disp. III, sez. IV; P. Marin Sola O. P., La evolución homogénea, cap. V.)

Noi tralasciamo nel catechismo questa controversia de’ teologi, come si può vedere nella risposta alla cit. dom. 151.

III.

DOMANDE 158a . E SEGG.

Si domanda se la scomunica, massima tra le pene spirituali, comporti l’esclusione dal corpo della Chiesa, sicché lo scomunicato più non sia un membro della Chiesa.

Ci son tre pareri:

Il primo è affermativo per tutti gli scomunicati, non soltanto pei vitandi, ma pure pei tollerati. Sembrano appoggiar questo parere le parole della sacra Scrittura in Matt., XVIII, 17: Se non ascolterà la Chiesa, sia per te come un gentile e un pubblicano e quelle di parecchi santi Padri e Dottori e le formole della scomunica e dell’assoluzione, applicate a tutte le scomuniche.

Il secondo è negativo per i tollerati, affermativo per i vitandi: parere più in voga presso i moderni teologi, che intendono il riferito argomento d’autorità soltanto per i vitandi.

Finalmente il terzo è negativo per tutti gli scomunicati, anche pei vitandi, perchè nel Codice di D. C. can. 2257-2267, dove sono elencate tutte le pene contro gli scomunicati, non si legge nemmeno a proposito de’ vitandi questa gravissima pena, cioè l’esclusione dal corpo della Chiesa.

Noi abbiamo seguito il secondo, più in voga, come si è detto, presso i teologi moderni; ma se la competente autorità dichiarerà che il primo o il terzo hanno almeno una qualche probabilità, sarà facile correggere quel ch’è stato detto alle dom. 158 e segg.

IV.

DOMANDE 175a 296a.

Si domanda se possiamo pregare le anime del Purgatorio affinchè intercedano per noi dinanzi a Dio. L’opinione affermativa non soltanto è più accetta presso i teologi, specie moderni, ma è anche conforme, cosa più importante, alla pratica ordinaria de’ fedeli, alla quale fin qui la Chiesa in nessun modo ha contraddetto. Son contrari però teologi autorevoli, alcuni de’ quali citano in favore della loro opinione anche S. Tommaso, il quale insegna nella 2.a, 2æ, q. 83, art. 11, a l3° punto che le anime del Purgatorio non sono in condizione di pregare, ma piuttosto che si preghi per esse. Ma pure fra i tomisti non mancano quelli che intendono in altro senso le parole di S. Tommaso, cioè nel senso che il S. Dottore nega alle anime del Purgatorio una preghiera meritoria, quale risponde al nostro stato di vita, e la preghiera d’intercessione propriamente detta, che ha origine dallo stato di gloria, non però la preghiera che compete a tutti quelli che hanno carità e consegue alla comunione de’ Santi.

Noi riteniamo certa l’opinione affermativa, soprattutto perchè, come s’è detto, è conforme alla pratica dei fedeli, alla quale non mai contraddisse la Chiesa; di qui la risposta alle dom. 175 e 296. Che se la competente autorità dichiarerà erronea o in qualche modo dubbia quest’opinione, sarà facile correggere le citate risposte.

V.

DOMANDA 359a

A proposito de’ bambini, che muoiono col solo peccato originale, la dottrina insegnata nel catechismo è oggi comune, vale a dire che son privi della beatifica visione di Dio e così subiscono la pena del peccato originale, cioè quella del danno, non invece la pena del peccato personale, cioè quella del senso. Ciò posto, si domanda se abbiano cognizione della mancanza della visione beatifica e, se sì, patiscano o no dolore per questa consapevolezza. Qui son discordi i teologi.

Viene dapprima l’opinione di S. Tommaso. L’Angelico in 2. dist. 33, q. 2, a 2, aveva insegnato che le anime dei bambini conoscono d’esser prive della vita eterna e la cagione di essere così escluse e che tuttavia non se ne affliggono affatto. Ma poi nel De Malo, q. 5, a. 3 mutò parere, benché rimanga tal quale la conclusione, cioè che le anime dei fanciulli son punite unicamente colla privazion della visione beatifica e che per cagion d’essa, da loro ignorata, non hanno affatto dolore. « Le anime dei bambini non mancano, peraltro, della cognizione naturale, qual è propria dell’anima separata conforme alla sua natura, ma non hanno la soprannaturale, innestata qui in noi dalla fede, perché qui essi non ebbero in atto la fede, nè ricevettero il Sacramento della fede. Orbene appartiene alla cognizione naturale che l’anima sappia d’essere stata creata per la felicità e che la felicità consiste nel conseguire il bene perfetto. Ma è al disopra della cognizione naturale il sapere che quel bene perfetto, per cui è fatto l’uomo, consiste nella gloria, che i Santi possiedono. Perciò dice l’Apostolo che occhio non vide, nè orecchio udì, nè in cuor d’uomo fu capito mai quel che Dio ha preparato per chi lo ama e poi soggiunge: A noi fu rivelato da Dio per mezzo dello Spirito Santo; ora questa rivelazione riguarda la fede. Dunque le anime dei bambini non sanno d’esser private di tal bene e perciò non ne hanno dolore, ma possiedono senza dolore ciò che hanno per natura ». Quest’opinione non fu accettata da altri teologi. Così il Bellarmino De omissione gratiæ et statu peccati t. VI, cap. 6 pensa come probabile che « i bambini, morendo senza Battesimo, avranno dolore nell’anima perchè capiranno d’esser privi della felicità, esclusi dalla compagnia de’ fratelli e genitori giusti, relegati al Limbo, come in una prigione, e destinati a vivere nel buio sempiterno; però che questo dolore è in loro leggerissimo e mitissimo…». E i Virceburgensi Theol. Dogm., De Pecatis, n. 134 e segg., espongono queste tesi: i bambini, morendo senza Battesimo, son puniti colla privazione della felicità soprannaturale — son puniti anche colla privazione della felicità naturale — sembra più probabile che non sieno puniti colla pena del senso — son tristi per la privazione della felicità. Tralasciamo altre più severe opinioni di teologi. — In questa controversia noi, nel catechismo, insegniamo quel che è comunemente ammesso da’ teologi, appoggiati all’autorità di Innocenzo III, Pio VI, Pio IX.

VI.

DOMANDA 513a,

Per tutti è certo che le virtù teologali (fede, speranza, carità) sono infuse da Dio, com’è affermato espressamente nel catechismo, dom. 513, e che per via naturale non si possono conseguire. E delle virtù morali? C’è discussione tra i teologi; ma per ben intenderla bisogna notare alcune cose. Non si discute degli atti di virtù morale diretti a ottenere un fine d’ordine naturale; perché tutti ammettono che per compiere questi atti basta la virtù morale naturale, anzi nemmeno è necessario l’aiuto della grazia attuale. Così pure tutti ammettono che gli atti di una virtù morale diretti a ottenere un fine di ordine soprannaturale — per es. quando uno fa il digiuno per castigare e render docile il suo corpo — se si è in istato di peccato mortale, possono esser compiuti per la virtù morale naturale sotto l’influsso delle virtù teologiche (fede e speranza) e coll’aiuto della grazia attuale; e che a compierli non occorre una virtù morale infusa; però questi atti non son meritorii di vita eterna, per quanto dispongano alla giustificazione. Ma, e se si ha la grazia santificante? Allora questi atti hanno merito di vita eterna, donde il dubbio se anch’essi possono compiersi per virtù morale naturale sotto l’influsso delle tre virtù teologali, e col sussidio della grazia attuale, oppure occorra una virtù morale infusa. I Tomisti dicono che per compiere questi atti occorrono assolutamente le virtù morali infuse e che queste sono infuse insieme colla grazia santificante e insieme pure si perdono per causa del peccato. S’appoggiano all’autorità di Innocenzo III e del Catechismo per i parroci e alla ragione teologica. (Innoc. III in cap. 3 Majores, Sul Battesimo: Non tutti concedono in senso assoluto ciò che dicono gli objettanti che cioè la fede o la carità e le altre virtù non sono infuse ai bambini, in quanto non consentono: perchè a tal proposito si disputa fra i dottori di teologia. Alcuni affermano che in forza del Battesimo è rimessa la colpa ai bambini, ma non è concessa la grazia; altri dicono che son rimessi i peccati e infuse le virtù, possedendole quanto all’abito, non quanto all’uso, fino a che giungano a età competente. Il catechismo per i parroci, p. II, c. II, n. 51: « Allora sopraggiunge (nel Battesimo) il nobilissimo corteggio di tutte le virtù, che sono in fuse all’anima da Dio insieme colla grazia »). – Difatti le potenze dell’anima, benché agiscano sotto l’influsso delle virtù teologali e col sussidio della grazia attuale, non possono, abbandonate alle forze di natura, compiere atti proporzionati a quel bene soprannaturale, ch’è la vita eterna. È dunque necessario che Dio infonda nelle potenze dell’anima gli abiti operativi di quegli atti; ora tali abiti son le virtù morali infuse. Questa opinione dei tomisti è la più comune tra i teologi. Invece i scotisti pensano che non sia necessario ammettere, nel caso presentato, le virtù morali infuse da Dio. S’appoggiano all’autorità del Concilio di Trento sess. VI, cap. 7, dove il Concilio insegna che nella giustificazione s’infondono le virtù teologali, senza far cenno delle morali; e c’è anche la ragione teologica. Non si può dubitare, dopo conseguita la giustificazione, che l’uomo giusto può, sotto l’influsso delle virtù teologali e col sussidio della grazia attuale, compiere questi atti colle forze di natura; se infatti poteva ciò prima della giustificazione, cosa ammessa da tutti, lo potrà anche meglio dopo la giustificazione. Che, inoltre, dopo la giustificazione questi atti sieno meritevoli di vita eterna si deduce dal Con. di Trento, sess. VI, can. 32 (Tra le Testimonianze vedi questo canone tridentino, dom. 282 e le parole di S. Agostino, dom. 66) e dalla dottrina teologica sulla grazia santificante. – Difatti in virtù della grazia santificante l’uomo è sollevato a tal’altezza da diventar membro vivo di Gesù Cristo, tempio dello Spirito Santo, partecipe della divina natura, figlio di Dio (adottivo). « E se figlio, dice Paolo, ai Gal., IV, 1, anche erede per bontà di Dio » (La stessa cosa ripete l’Apostolo, Ai Rom., VIII, 16 ss.); ossia quegli atti, in virtù della grazia santificante, sono atti ormai di figlio; e, se son atti di figlio, sono atti di erede della gloria celeste; e, se son atti di erede della gloria celeste, sono anche atti meritevoli della vita eterna. Tutti i catechismi non fanno parola di tal questione (e di parecchie altre, circa le virtù acquisite o infuse, in discussione presso i teologi).

VII.

DOMANDA 583 E SEGG.

Non sarà fuor di proposito toccar qui brevemente de’ varii insegnamenti e opinioni sui Novissimi, segnatamente sull’Inferno e sul Purgatorio. Dell’Inferno s’ha da credere per fede divina:

1) C’è l’Inferno, costituito dai demonii e da quelli che son morti nel peccato mortale, anche se commesso una volta sola.

2) Nell’Inferno i dannati son puniti con doppia pena, cioè quella del danno e quella del senso, specialmente del fuoco.

3) Sono eterne, nè avranno mai fine o sollievo, le pene sofferte all’Inferno dai dannati.

4) Tuttavia non sono identiche per tutti, ma differenti conforme al numero e alla gravità de’ peccati, che meritarono l’eterna dannazione. È certo di certezza teologica, benché non sia di fede, che il fuoco, da cui son puniti nell’Inferno i dannati, è fuoco reale, ossia fisico, non metaforico. Il P. Hugon, De novissimis, q. 3, I, n. 7:

« Non c’è una definizione della Chiesa sulla natura del fuoco, ma l’insegnamento de’ teologi sul fuoco non metaforico, bensì reale, è talmente accettato nella Chiesa che sarebbe gravissima temerità pensare il contrario ». Così ripete il Lépicier. De novissimis, q. 4, a. 2; e il Card. Billot, De novissimis, q. 3, tesi 4. Si cita pure una risposta della S. Penitenzieria, che alla domanda « se si debbano assolvere i penitenti, che ammettono nell’Inferno soltanto un fuoco metaforico, ma non reale » rispose il 30 aprile 1890 « che siffatti penitenti bisogna con cura istruirli e gli ostinati non si devono assolvere ». Finalmente c’è libera discussione fra i teologi come possa un fuoco reale tormentar puri spiriti, quali sono i demonii e le anime de’ dannati prima della risurrezione; di qual natura è il fuoco d’Inferno, dove si trova l’Inferno, se sulla terra, o sotto, se è un luogo, oppure una condizione…

Riguardo al Purgatorio è di fede:

1) Che esiste il Purgatorio, dove son prigioniere l’anime di coloro, che morirono senza peccato mortale, ma debbono ancora espiare qualche debito di pena temporale.

2) Che nel Purgatorio le anime son punite sia colla pena del danno sia con quella del senso, cioè colla temporanea esclusione della visione di Dio beatifica e con altre gravi pene.

3) Che son differenti le pene delle anime in Purgatorio, riguardo alla durata e all’asprezza, a seconda del debito di pena temporale, che ciascuno deve scontare.

4) Che le lor pene possono esser fatte e più brevi e più miti coi suffragi che si offrono per esse. Non è di fede che le anime nel Purgatorio son punite con fuoco reale ossia fisico e non metaforico. Il Concilio di Firenze non ha voluto definir questo punto, perchè i Greci eran del parere che in Purgatorio le anime soffrano la pena del senso e non per fuoco reale e fisico, ma piuttosto per le tenebre e la tristezza del soggiorno… Anche oggi nella Chiesa Orientale tutti i catechismi non parlano di fuoco purificatore, così nella Chiesa latina il catechismo di PP. Pio X e molti altri. Ma d’altra parte il senso comune de’ fedeli nelle Chiese latine e l’insegnamento teologico (Cfr. il P. Hugon, 1. c. 9 q, a. 5, n. 3; Lépicier 1. e, q. 5, a. 2, n. 1; Billot, 1. e, tesi 7, col Bellarmino, col Suarez…. ) accettano la pena del fuoco reale, sull’autorità di S. Gregorio M. e di S. Gregorio Nisseno (S. Gregorio M., Dialogus IV, 39: « Però si deve credere che c’è prima del giudizio un fuoco purgativo per certe colpe lievi – P. L., 77, 396 -. S. Gregorio di Mssa, Orat. de mortuis: lo spirito «uscito dal corpo non potrà diventar partecipe della divinità, se non avrà tolto le macchie il fuoco purgativo inflitto all’anima » – P. G., 46, 530 -).

Così stando le cose, anche noi nel nostro catechismo (dom. 590) non parliamo del fuoco purificatore; ma se l’autorità competente giudicherà che si debba credere alla sua esistenza, sarà facile aggiungerne menzione alla citata risposta.

C’è libera discussione, finalmente, se, data l’esistenza del fuoco purificatore, esso sia della stessa natura del fuoco infernale, benché abbia minor violenza di tormento; come possano esserne toccate le anime separate dal corpo; dove si trovi il Purgatorio; se sia un luogo, oppure una condizione; se i peccati veniali sian rimessi, riguardo alla colpa, in virtù del fuoco purificatore. Il Dottore Angelico, De Malo, q. 7, a 11 insegna, a tal proposito, che i peccati son rimessi non in virtù del fuoco, ma d’un atto di carità verso Dio con detestazione de’ peccati veniali commessi in questa vita.

Il nostro catechismo, in conformità di quanto è detto nel Prœmio, tace completamente di tutte queste discussioni agitate liberamente fra i teologi. Piuttosto di consumar tempo nella disamina di tali questioni, sforziamoci con tutto l’impegno, come s’addice ai Cristiani, di evitare col viver bene, i castighi dell’inferno e, per quanto ce lo permette l’umana fragilità, colle penitenze e con le opere di misericordia sfuggire, o almeno abbreviare e mitigare, anche le pene del Purgatorio.

F I N E

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (4)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (4)

Trad. M. T. Garutti

Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa

Catania, 7 Marzo 1957

P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur Catanæ die 11 Martii 1957

Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO IV

I CONTEMPLATORI DEI «GRANDI MISTERI»

Iniziatori alla vita profonda.

Tutte le verità rivelate sono dei « misteri », in quanto la ragione da sola non può stabilirne l’esistenza; esse non sono conosciute che attraverso la rivelazione. Questo è il primo significato della parola e delle realtà dette « Misteri »: Dio solo può accordarli ed anche rivelarli con i mezzi che Egli giudica bene impiegare e che sono infinitamente vari. Da una parte, queste verità non ci sono accessibili fino in fondo; lo sono tuttavia in parte, ed è per questo motivo che siamo invitati a prenderli come temi delle nostre riflessioni e dei nostri studi in vista della preghiera. – Tutte le verità rivelate sono atte ad alimentare in qualche modo la vita cristiana. Alcune tuttavia hanno a questo riguardo uno speciale valore, ed è per ciò quindi che noi le chiamiamo grandi misteri; grandezza relativa, fondata sulle nostre lacune, e grandezza reale proporzionata alle aspirazioni del cuore verso l’infinito, aspirazioni che i grandi misteri colmano con una abbondanza superiore, divina. Dottori che troviamo nel grande secolo patristico furono appunto attirati, più che in altri tempi, per un’azione della Provvidenza, verso quelle grandi realtà divine, non per vana curiosità, ma per la profonda comprensione che ne ebbero: essa fu molto penetrante, anche se relativa. Per scoprire tutta l’importanza di questi misteri nella nostra vita, ci vuole un particolarissimo dono divino. Fra coloro che in quel tempo beneficiarono di tale dono, i migliori furono Vescovi, ed aggiunsero di fatto, senza cercarlo, al loro titolo di Pastori, quello di Maestri nelle scienze divine, poiché vissero intensamente la dottrina nella preghiera. Si può dire di tutti i più grandi Dottori che furono dei «contemplativi » dei più alti misteri, prima di esserne i propagatori. – Sant’Ireneo (+ 201) fu in questo campo un vero iniziatore. Prima di lui, senza dubbio, Sant’Ignazio di Antiochia aveva dimostrato una profonda conoscenza di Cristo, ma non gli fu dato di esporre le ricchezze di questo mistero alla maniera dei Dottori. Egli fu un mistico ed un uomo di azione più che un maestro del pensiero. Da questo punto di vista, il Vescovo di Lione, venuto anche lui dall’Oriente, aprì ben più vasti orizzonti al nascente pensiero cristiano. Asiatico, venne in Gallia come missionario, succedendo nel 178 a San Potino, anch’egli venuto dall’Oriente. Egli consacrò la maggior parte del suo tempo, fino alla sua morte, avvenuta verso il 201, a combattere gli gnostici. La gnosi eretica veniva anch’essa dall’Oriente; seguiva dappertutto il movimento cristiano e lavorava a penetrarlo delle sue teorie dualiste, colorate di religione. Ireneo scriveva soprattutto in greco, sua lingua materna, e la sua opera principale, Contro le eresie (« Adversus hæreses », o « Contra hæreses » – II sec.-) è da distinguere bene da « Hæreses » (Panarion) di Sant’Epifanio (IV sec.), uno dei monumenti della letteratura cristiana in questa lingua. L’opera comprende cinque libri. Lo stile semplice, ma l’informazione è abbondante e di prima qualità; il trattato rimane per noi la principale delle nostre informazioni sulla gnosi eretica d’Occidente, le sue origini e le sue forme. Egli svolge contro di essa una argomentazione serrata nei tre ultimi libri di quest’opera, compiendo nello stesso tempo una magnifica esposizione di tutto il mistero cristiano. San’Ireneo sarebbe stato iscritto nella prima fila della lista ufficiale dei Dottori della Chiesa, se il suo titolo di Martire, liturgicamente superiore, non vi fosse finora opposto. Questo carattere dottrinale del Vescovo di Lione è ancora rinforzato, da cinquant’anni a questa parte, dalla scoperta di una: Dimostrazione della predicazione apostolica, in cui il santo espone, senza polemica, la fede tradizionale, con il solo scopo di istruire e di edificare. Si ritrova qui la sostanza del primo, ed i teologi vi si richiamano, senza dimenticare però il grande trattato contro le eresie che, dal punto di vista dottrinale, rimane l’opera capitale di quel tempo. – Il III secolo ne vedrà apparire altre dovunque, ed alcune di vasta portata, ma quasi tutte testimoniano, con qualche palese lacuna, che la cultura religiosa dell’epoca è ancora in formazione. I pensatori cristiani cercano la loro via e bisognerà aspettare il IV secolo perché appaiano, in ogni campo, opere definitive dal loro punto di vista. Queste prime esposizioni dottrinali mostrano che le sfumature del pensiero non sono ancora esattamente servite da quelle di una lingua tecnica ben adeguata al soggetto. Talvolta, anche, bisogna dirlo, i Padri di quel tempo non hanno ancora potuto accorgersi dei possibili abusi di una formula felice dal loro punto di vista, ma equivoca per altri spiriti meno provveduti. Da ciò molte debolezze di dettaglio, corrette però da una leale visione dell’insieme. – Queste lacune sono clamorose in Tertulliano, una delle più grandi figure del III secolo cristiano. Fin dalla sua conversione, egli s’impegna a fondo nell’apologetica, e ancora di più nella controversia dottrinale nonché nell’azione morale o spirituale. Egli ha intuizioni geniali e tratti folgoranti, ma troppo spesso l’equilibrio fa difetto a quest’uomo, che è così grande e che sa di esserlo. Ricordiamo qui solo le sue posizioni dogmatiche essenziali. La base è salda: la rivelazione contenuta nei Libri santi di cui riserva, con energia, tutto il controllo alla gerarchia. La sua tesi acquista un rigore giuridico imponente nella Prescrizione (contro) gli eretici: solo la Chiesa può dire della Scrittura: « Essa mi appartiene; da lungo tempo la possiedo; ho la priorità; ho solide basi, che risalgono ai primi proprietari. Io sono l’ereditiera degli apostoli » (c. XXXVII). – Gli eretici non hanno che il diavolo ed i suoi ministri per garanti. Questi princìpi sono invocati soprattutto contro gli gnostici di ogni colore, e in modo particolare contro i partigiani di Marcione, Ermogene e Valentino. Tertulliano raggiunge e completa Sant’Ireneo, ma in modo tutto diverso, nella lotta per mantenere l’unità di Dio compromessa da questo paganesimo rinnovato dalla speculazione orientale, abbastanza forte per poter invadere l’Occidente. Il dottore africano affronta anche il problema trinitario, che era rimasto in secondo piano nelle discussioni, preoccupati come si era di assicurare innanzitutto la vittoria del monoteismo sull’idolatria, ma che non poteva sfuggire alla curiosità di taluni spiriti. I più audaci spiegavano la diversità delle persone in Dio, particolarmente quella del Padre e del Figlio, come semplici divergenze di punti di vista (modalità), il Figlio essendo soltanto un modo speciale di considerare Dio, unico nella persona come nella natura: le persone, dicevano essi con Sabellio, sono aspetti diversi della stessa natura, non vere realtà. Questo modalismo fu spesso chiamato Sabellianesimo, dal nome di Sabellio, il suo principale promotore. Tertulliano fu particolarmente duro nelle sue reazioni contro Prassea, uno dei grandi rappresentanti della setta in Occidente, e trovò, per reagire contro di essa, delle formule splendide, ingegnose e accorte. Il pensiero latino ne doveva beneficare più tardi, e, per mezzo di esse affrontare nel secolo seguente, con più decisione dell’Oriente, le sottigliezze ariane. Il maestro africano si accanì tanto più in questa discussione in quanto vi trovava impegnata una dottrina che gli era particolarmente cara, ma in cui egli stesso cominciava a divagare, per un attaccamento eccessivo alla persona dello Spirito Santo.

Grandi dottori in Oriente

Per grandi che siano, i maestri del III secolo non sono che dei precursori, paragonati a quelli dei secoli successivi, decisivi in un certo senso per il cristianesimo. I dogmi fondamentali saranno messi in causa da grandi spiriti, più ragionatori che credenti. Questa prova di forza metterà precisamente in più viva luce l’importanza capitale di quelle verità, sulle quali ripossa, in definitiva, non soltanto il credo cristiano, ma tutta la vita cristiana. – Il caso di Sant’Atanasio, da questo punto di vista è particolarmente suggestivo. Egli non ha nulla dello specialista che si ferma su un punto preciso per approfondirlo con una riflessione solitaria. Ha tuttavia, di fatto, quasi da solo, a un dato momento, tenuto in scacco tutto l’arianesimo coalizzato contro il concilio di Nicea, poiché aveva capito la funzione capitale che aveva, nella fede cristiana, la presenza di un Uomo-Dio, nel senso letterale del termine; egli seppe mantenere tale dottrina con una forza invincibile, contro tutti gli avversari che tentavano di intaccarla. Manifestamente Dio sosteneva la sua azione. Egli afferma anzitutto, o piuttosto venera, tre Persone in Dio, e proclama la sua fede con una forza fino ad allora ineguagliata: Tre Persone ben distinte, senza detrimento tuttavia per la loro fondamentale unità, in una sostanza indivisa. Basandosi sulla Scrittura, senza alcuna riserva speculativa, da lui ritenuta superflua in tale campo, e in presenza di pensatori orgogliosi e sottili che nulla riuscirà mai a metter d’accordo, egli ripete senza posa i dati della fede negli stessi termini della Scrittura o con l’aiuto di paragoni familiari nell’ambiente alessandrino. Non è l’homoousios che è il punto unificatore della sua dottrina, né il Verbo, e nemmeno il Verbo incarnato preso in se stesso; è il Verbo incarnato in quanto si prolunga in questa umanità rigenerata che San Paolo chiama « corpo del Cristo » (Corpus Christi: I Cor., XII, 27). Tale dottrina è la sostanza del De incarnatione, in cui si trova questa dichiarazione: « Il Verbo si è fatto uomo perché noi diventassimo dei », e ciò deve intendersi in senso letterale, « poiché noi siamo nel Cristo tanto realmente quanto il Verbo è nella nostra natura a partire dell’Incarnazione ». – Questa audacissima tesi intuita prima ancora di diventare Vescovo, Atanasio la approfondisce nei suoi Discorsi contro gli ariani, e si può dire che sia l’anima della sua predicazione. Egli associa strettamente, fisicamente, l’Incarnazione del Verbo e la nostra divinizzazione. Ciò che proverà la divinità del Verbo incarnato, è che noi siamo per suo mezzo divinizzati. In Gesù il Verbo penetra l’umanità della sua divinità. « Per questo, egli la assume con tutti i suoi mali, ma, per il fatto stesso che è lui che la assume, ne trionfa, poiché essi non provenivano che dalla sua separazioni da lui ». Gli uomini gli sono strettamente legati: « In essi come in Lui, grazie alla partecipazione del suo essere dovuta al fatto che sono “concorporati a Gesù”, l’incarnazione e la divinizzazione si uniscono come due aspetti complementari di una stessa realtà ». D’altronde, « per il fatto stesso che l’Incarnazione del Verbo in Gesù e la nostra divinizzazione in Lui sono, non solo tanto solidali, ma fondamentalmente unite, l’Incarnazione e la redenzione lo sono egualmente ». Il secondo e il terzo discorso confermano questa dottrina. La conclusione generale di questi dati è molto precisa: la Chiesa, corpo del Cristo, è la sola spiegazione valida:. del fatto che in Gesù il Verbo fatto uomo ci abbia tutti « verbificati »; 2. del fatto che la redenzione appaia come inclusa nell’Incarnazione, senza affatto dissolvervisi. – I Cappadoci riprenderanno alla fine del IV secolo l’opera cominciata all’inizio dal patriarca di Alessandria. Andranno diritti al grande mistero trinitario, tanto per approfondirlo in se stesso, quanto per esporlo senza equivoci, essendovi impegnata la vita cristiana. – Per rifare l’unità compromessa dalla secessione dei semi ariani, così numerosi al suo tempo in Oriente, San Basilio adottò e finì col fare adottare anche da altri la formula ipostasi nel senso di persona, a dispetto dell’etimologia, che evoca piuttosto la sostanza. Si scartava così, il modalismo sabelliano, che aveva tanto turbato l’Oriente, e l’eventuale pericolo della parola persona, che poteva anche condurre al modalismo. Ma, al di là di queste questioni speculative, è il fondo vitale della religione che il Vescovo di Cesarea intende salvaguardare, poiché la pietà riposa fondamentalmente su questo mistero. La nostra santità non è reale se non nel misura in cui la divinizzazione che essa implica è realizzata in e per mezzo di una persona che è veramente essa stessa Dio. Evita la parola « Dio » per non portare delle innovazioni; ma la rende necessaria con tutta la sua esposizione: il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo Dio con il Padre. – Il fratello di San Basilio, San Gregorio di Nissa, gli fa eco, nelle sue teorie e meglio ancora nei suoi trattati spirituali, tutti legati al grande mistero trinitario. – Il loro amico comune, San Gregorio Nazianzeno, condensa tutto il pensiero di questo gruppo scelto di pensatori, nei suoi cinque mirabili « discorsi » detti « teologici », ma « trinitari » di fatto, che mostrano come la nostra vita cristiana sia intensamente legata al mistero del Dio in tre Persone. La religione è sospesa a questa rivelazione, che si prolunga nel senso che ciascuno deve applicarsi a tradurre nella sua pietà qualche cosa delle realtà divine di cui il mistero è l’espressione. San Cirillo d’Alessandria sarà, nel V secolo, per il Verbo incarnato, ciò che fu Sant’Atanasio nel IV secolo per la Trinità. È un altro aspetto del grande mistero cristiano che si presenta qui. Già, fin dalla fine del IV secolo, un vecchio amico di Sant’Atanasio, Apollinare, l’aveva abbordato e vi aveva fallito, rifiutando al Cristo un’anima umana completa, per paura di compromettere la sua unità personale: un’umanità completa, pensava, sarebbe una persona. Era un errore: un’umanità completa è una natura. La persona, è il possessore della natura; e nel caso del Cristo, il possessore è il Verbo, il quale, con l’incarnazione, assunse l’umanità, un’umanità completa. – Appunto per meglio mantenere questo carattere completo del Cristo sul piano umano, Nestorio, rigido antiocheno, arrivò a distinguere troppo nettamente, in lui, l’uomo e Dio, al punto di affermare che Maria era « madre dell’uomo », ma non « madre di Dio » (Teotokos). Da Antiochia egli portò tale dottrina a Costantinopoli, quando ne divenne vescovo, nel 428. Fin dalla fine dell’anno vi scoppiava una crisi e, lontano successore di S. Atanasio, San Cirillo, patriarca di Alessandria, prese immediatamente posizione contro di lui con lettere in Egitto, a Bisanzio e a Roma. Il Papa gli diede mandato per agire e approvò attraverso i suoi legati, a Efeso, nel 431, le iniziative prese dal Santo fin dalle prime riunioni. San Cirillo fu il provvidenziale difensore dell’unità personale del Cristo, unità che è, di fatto, il fondamento dell’Incarnazione. Egli ebbe, più di chiunque altro, il senso del mistero e della sua importanza capitale nella vita cristiana, incarnando al tempo stesso la cattolicità in Oriente, in un’epoca decisiva della storia della Chiesa (v. cap. precedente).

Grandi Dottori in Occidente

L’Occidente ebbe anch’esso mirabili contemplatori dei grandi misteri nel IV secolo; ricordiamo specialmente Sant’Ilario. Doveva essere il Sant’Atanasio latino. Come questi, egli fu un uomo di fede viva e un lottatore più che uno speculativo. La sua grande opera sulla Trinità è più che una raccolta di testi scritturali; è la testimonianza di un Vescovo, esiliato per la fede tradizionale e preoccupato, non soltanto di difenderla, ma di ricercarne le basi, specialmente nel grande mistero del Dio in tre persone. Dopo la sua conversione, dovuta alla meditazione del Prologo di San Giovanni sul Verbo e sulla sua Incarnazione (De Trin. I, 10 sq), egli fu costantemente ossessionato dal grande mistero trinitario; egli può separare dal Padre e dal Figlio lo Spirito Santo, che « riceve » tutto da Questi e quindi anche dal Padre. Non è la stessa cosa ricevere dal Figlio e procedere dal Padre? « Ciò che riceverà lo Spirito Santo, sia il potere, o la virtù, o la dottrina, il Figlio dichiara che lo Spirito Santo lo riceverà da lui e dichiara al tempo stesso che lo riceverà anche dal Padre » (ibid, VIII, p. 20). Di conseguenza egli dichiara che lo Spirito procede e dal Figlio e dal Padre. Ora, tale dottrina non è solo per lui un dogma di fede da ammettere d’autorità, ma una regola di vita da realizzare nella propria condotta con un vero amore cristiano. Sant’Ilario aveva presentito ciò che il «più grande dottore dell’Occidente doveva sviluppare con una abbondanza che nessuno ha finora eguagliato. – Sant’Agostino superò tutti i Padri, non soltanto dell’Occidente ma dell’Oriente, per la sua profonda contemplazione dei grandi misteri, grazie alla eminente pietà che acuiva il suo sguardo. Il Cristo è indubbiamente il punto di partenza, il sostegno e il termine, ma non lo è e non può esserlo che grazie alla sua personalità divina; Egli è veramente Figlio di Dio, al tempo stesso che Uomo-Dio e Re nel significato più alto del termine. – Il presentimento della natura di Dio che Agostino ebbe a 19 anni mentre studiava a Cartagine, in seguito alla lettura dell’Ortensio, aprì la sua anima a un grande ideale: ma non fu che un lampo nella tempesta. Dieci anni più tardi, dopo l’uragano, egli ebbe altre illuminazioni dello stesso ordine a Milano, attraverso la scoperta del platonismo, ma più ancora al contatto con il vero Cristianesimo, largamente aperto e vivo, rappresentato da S. Ambrogio. Senza trascurare gli apporti della saggezza umana, optò definitivamente, a 32 anni, per il Dio che sentiva nella sua anima, insieme trascendente come verità e presente per mezzo della grazia. – L’insistenza su questa duplice « interiorità » di Dio, una naturale, l’altra soprannaturale, è forse il tratto più saliente della dottrina di S. Agostino. L’elemento naturale è d’altronde secondario: l’essenziale, ai suoi occhi, è di ordine soprannaturale; un Dio unico e trascendente, ma in Tre Persone. Queste si sono manifestate l’una dopo l’altra; si sono rivelate progressivamente, l’una e l’altra: il Padre attraverso la Creazione e l’Antico Testamento; il figlio con l’Incarnazione e la Redenzione, lo Spirito Santo attraverso la Chiesa e la santità dei fedeli in cammino verso il cielo. Solo là si compirà la città di Dio in formazione sulla terra. – Questo mistero della SS. Trinità è davvero per Sant’Agostino il culmine della realtà cristiana, il punto più alto, al di là e al di sopra della realtà naturale. Una simile trascendenza della Santissima Trinità, non la rende inaccessibile all’uomo? Sì, se si parla dell’uomo naturale; no, se si tratta della fede. Questa realtà si presenta in termini comprensibili per noi che possiamo, grazie ad essi, afferrare molti aspetti del mistero, anche se non penetriamo nel suo fondo, I Dottori della Chiesa hanno avuto precisamente, quale missione, di esprimerne qualcosa per nutrirne le anime. Sant’Agostino è colui che ha fatto di più in tal senso, nella sua grande opera sulla Trinità, che corona in modo magistrale le ricerche di parecchi secoli. Nei primi sette libri fa la sintesi di quanto è stato rivelato su questo punto, aggiungendovi una teoria suggestiva sulla relazione, fondamento della persona in Dio. Nei sette libri seguenti (VIII – XIV), egli si sforza di costituire una serie di immagini del grande mistero, immagini che vanno dall’esteriorità all’interiorità dell’uomo, risalgono dal sensibile allo spirituale secondo la natura, poi allo spirituale divino o soprannaturale, fino al punto più alto, alla perfetta sapienza teologale. Questa, frutto dei doni dello Spirito Santo, può realizzare una purissima unione a Dio nella preghiera dei santi (libro XIV, c. XIII, 15), e può anche condurre indirettamente a una scienza eminente del grande mistero; ed è coll’esposizione di questa scienza e dei suoi più alti vertici che si compie, nel libro XV, questo capolavoro di fede, di preghiera e di sapienza. – Mentre approfondiva il grande dogma cristiano, Sant’Agostino ne doveva seguire le partecipazioni create che sono la base del mistero della Grazia, nella sua lotta contro Pelagio e i suoi difensori, dal 411 fino alla sua morte. Il fondamento della sua dottrina in questo campo è un’altra trascendenza di Dio, ma tale che non possa essere raggiunta senza una vera condiscendenza da parte sua, si tratti di adozione divina o di collaborazione umana: la prima è un puro dono di Dio, e la seconda è inconcepibile senza un appoggio costante ed efficace della sua mano, che previene e sostiene l’azione della creatura in ogni campo. Questo appoggio divino è particolarmente necessario nell’ordine della grazia, che è, per essenza, un dono di Dio, in vista della santità e della vita eterna. Lungi dall’escludere lo sforzo personale della creatura, esso la richiede e la sostiene. – Gli uomini « sono spinti ad un’azione, e non per averne qualcuna personalmente », dice Sant’Agostino. L’influenza divina viene da lui chiamata « azione », piuttosto che mozione; essa è molto efficace (efficacissima), ma adeguata al soggetto (congrua) per mezzo di un adattamento che è non esterno ma interiore, profondo, come tutto ciò che è divino, più profondo anche del godimento che ordinariamente l’accompagna, ma che non si confonde con essa. Lungi dal compromettere la libertà (libertas), la grazia l’amplifica, avvicinando l’anima a Dio, ad immagine del quale essa è fatta e verso il quale essa tende. Questo cammino verso Dio è garantito e facilitato precisamente da grazie speciali, che Sant’Agostino ricollega ai sette doni dello Spinto Santo, i quali rappresentano le modalità più alte dell’azione divina nelle anime sante: timore filiale e pietà anzitutto; forza e consiglio in seguito, poi scienza e intelligenza; infine, la sapienza che completa il tutto in una sintesi vivente della fede, della speranza e della carità. Solo un’azione particolarissima dello Spirito Santo può realizzare questo nelle anime sensibili alla grazia e abbastanza generose e docili allo Spirito. Coloro che parlano del pessimismo di Santo, a proposito della sua dottrina della grazia, insistono troppo, manifestamente, sui punti secondari, a detrimento delle basi fondamentali, che sono quelle dei migliori testimoni della vita cristiana al tempo dei Padri. La Chiesa non ha mai mutato su tali punti, anche se talvolta alcuni dottori più recenti li hanno dimenticati. –  San Leone Magno, Papa dal 440 al 461, fu provvidenzialmente destinato a dirimere d’autorità le controversie sollevate, alla morte di Sant’Agostino, dal problema della grazia, e soprattutto da quello della personalità del Cristo, problema che si pose quando San Cirillo di Alessandria denunciò l’errore di Nestorio al Papa San Celestino, il quale, di fatto, aveva condannato la dualità cristologica. Ma si abusò di certe formule del patriarca di Alessandria, e sorse allora in crisstologia un monofisismo, sia reale, sia verbale, molto pericoloso, che negava o diminuiva la natura umana del Salvatore. Il Papa intervenne e al concilio di Calcedonia fece emettere dai suoi rappresentanti la formula dottrinale che si impose definitivamente nella Chiesa: « un solo e medesimo Cristo (contro il dualismo nestoriano), Figlio, Signore, Figlio unico, in due nature, senza mescolanza, senza trasformazione, senza divisione, senza separazione » (contro il monofisismo eutichiano o altro). San Leone, che si ispirava largamente a Sant’Agostino, dovette superare certe formule del santo Dottore per affrontare le nuove eresie che minacciavano il mistero cristiano per eccellenza, l’incarnazione del Verbo. La pietà cristiana trovava là il suo punto d’appoggio totale: non solo il Cristo è Uomo-Dio, ma, per il fondamento unico del suo essere, è una sola Persona. Nella sua personalità trascendente troviamo dunque miracolosamente associate e la sua immutabile natura divina, e una natura umana espressamente creata per essere un legame permanente fra Dio e gli uomini, che, quaggiù, attendono una vita eterna di cui il soggiorno terrestre è la preparazione provvidenziale. Ecco il mistero cristiano per eccellenza, quello che dona alla vita dell’uomo il suo orientamento decisivo, su tutti i piani, ma anzitutto sul piano della vita eterna. Tale è la dottrina essenziale di cui i Padri furono, fin dall’origine, i più ardenti promotori.

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (27)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (27)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 469°

Concilio di Lione (1274), Professio fidei Michaelis Paleologi:

« La medesima Santa Chiesa Romana crede inoltre ed insegna che son sette i Sacramenti della Chiesa…. un altro l’Estrema Unzione, che, secondo la dottrina del beato Giacomo, si amministra agl’infermi ».

(Mansi, XXIV, 70).

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

« Il quinto Sacramento è l’Estrema Unzione, materia del quale è l’olio d’oliva benedetto dal Vescovo. Questo Sacramento non si deve dare che all’infermo, di cui si teme la morte: e l’infermo si deve ungere sugli occhi per la vista, sulle orecchie per l’udito, sulle narici per l’odorato, sulla bocca per il gusto o la parola, sulla mani per il tatto, sui piedi per i passi, sulle reni per il diletto che lì ha sede. Ecco la forma di questo Sacramento: Per questa santa unzione e la sua pietosissima misericordia il Signore ti perdoni tutto ciò che per la vista etc. E similmente sulle altre membra. Ministro di questo Sacramento è il sacerdote; e l’effetto è la salute dell’anima e, in quanto è giovevole, anche del corpo. Dice di questo Sacramento l’Apostolo Giacomo: S’ammala alcuno di voi? Chiami i preti della Chiesa perché preghino per lui ungendolo coll’olio nel nome del Signore; e la preghiera salverà l’infermo e il Signore lo consolerà; e, se è in peccato, gli sarà rimesso.

(Giac, V, 14 ss.).

(Mansi, XXXI, 1058).

Concilio di Trento, Sess. XIV. Dottrina dell’Estrema Unzione, cap. 1:

« Ora questa sacra Unzione degli’infermi fu istituita come vero e proprio Sacramento, da Cristo nostro Signore; e ve n’è cenno già in Marco; Giacomo poi, Apostolo e fratello del Signore, lo raccomanda e promulga ai fedeli, dicendo: S’ammala alcuno tra voi? Mandi a chiamare i sacerdoti della Chiesa affinché preghino per lui nel nome del Signore; e la preghiera salverà l’infermo e il Signore lo consolerà; e. se è in peccato, gli sarà rimesso. (Giac, V, 14 ss.). la Chiesa con queste parole, come per tradizione apostolica imparò, insegna la  materia, la forma, il ministro competente e l’effetti di questo salutare Sacramento, intendendo che materia è l’olio benedetto dal Vescovo (difatti l’unzione significa benissimo la grazia dello Spirito Santo, da cui è invisibilmente imbalsamata l’anima dell’infermo); forma son poi quelle parole: per questa unzione, etc. ».

Innocenzo III, Epist. Eius exemplo 18 dic. 1208, Professione di fede ai Valdesi:

« Veneriamo l’unzione degl’infermi coll’olio consacrato ».

(P. L., 215, 1512).

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 lug. 1907. Prop. 48 tra le condannate:

« Giacomo nella sua epistola (Giac, V, 14 ss.) non intende promulgare un Sacramento di Cristo, ma raccomandare una pia pratica; e se, in questa pratica vede un veicolo della  grazia, non lo considera nel senso rigoroso dei teologi, che stabilirono la definizione e il numero dei Sacramenti ».

(Acta Apostolicæ Sedis, XL. 473).

Concilio di Trento, Sess. XIV, Dottrina sul sacramento dell’Estrema, Unzione, cap. 2:

« La sostanza e l’effetto di questo Sacramento è dunque spiegato da quelle parole: E la preghiera salverà l’infermo e il Signore lo consolerà; e, se è in peccato, gli sarà rimesso. Infatti questa essenza è la grazia dello Spirito Santo, perché l’unzione sua deterge, se ancora ce n’è, i peccati e le reliquie de’ peccati e consola e conforta l’anima del malato coll’eccitarne la fiducia nella divina misericordia; sicché l’infermo, come più agevolmente sopporta i disturbi e gli affanni della malattia, così resiste più facilmente alle tentazioni del demonio, che insidia al calcagno, e talvolta ottiene la salute del corpo, se conviene a quella dell’anima ».

S. Cesario di Arles, Sermo CCLXV, 3:

« Ogni volta che sopravviene qualche infermità, il malato riceva il corpo e il sangue di Cristo e poi riceva sul suo corpo l’unzione, di modo che s’adempia quel che sta scritto: Cade malato alcuno? etc. (Giac, V, 14, ss.). Riflettete, fratelli, che chi ricorrerà alla Chiesa nella sua infermità, merita di ricuperar la salute del corpo e di ottenere il perdono de’ peccati ».

(P. L., 39, 2238).

DOMANDA 473a.

Concilio di Trento: Vedi D. 470.

DOMANDA 479a.

Concilio II° di Lione (1274), Professio fidei Michaelis Paleologi:

« La medesima Santa Romana Chiesa crede inoltre ed insegna che son sette i Sacramenti della Chiesa…. un altro è il Sacramento dell’Ordine ».

(Mansi, XXIV, 70).

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

«Sesto è il Sacramento dell’Ordine: sua materia è ciò per la cui consegna vien conferito l’Ordine: come il Presbiterato si amministra porgendo il pane col vino e la patena col pane; e il Diaconato colla consegna de’ Vangeli; e il Suddiaconato colla consegna del calice vuoto con sopra la patena vuota; e così per gli altri, cioè colla consegna degli oggetti che spettano al loro conferimento. La forma del Sacerdozio è: Ricevi la potestà di offrire il sacrifìcio nella Chiesa per i vìvi e per i morti, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E così è delle forme degli altri ordini, com’è detto largamente nel Pontificale Romano. Ministro ordinario di questo Sacramento è il Vescovo. Effetto è l’accrescimento di grazia sicché uno sia idoneo ministro ».

(Mansi, XXXI, 1058).

Concilio di Trento, Sess. XXIII, Del Sacramento dell’Ordine, can. 3:

« Chi afferma che l’Ordine, o la sacra Ordinazione non è vero e proprio Sacramento istituito da Cristo Signore, o che è un’invenzione umana di uomini malpratici di cose di Chiesa, e solamente un rito qualsiasi di eleggere i ministri del verbo di Dio e de’ Sacramenti: sia scomunicato ».

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 lug. 1907, propp. 49-50 tra le condannate:

« Quelli, ch’eran soliti presiedere alla Cena, assumendo essa a poco a poco la natura dì azione liturgica, acquistarono carattere sacerdotale.

« Gli anziani, che nell’adunanza de’ Cristiani avevano incarico d’invigilare, furono dagli Apostoli costituiti sacerdoti e vescovi per provvedere al necessario buon ordine delle crescenti comunità, non propriamente per continuare in perpetuo la missione e l’autorità Apostolica ».

(Acta Apostolicae Sedis, XL, 473).

DOMANDA 480a

Concilio di Trento, sess. XXIII, Del Sacramento dell’Ordine:

« Can. 2. Sia scomunicato chi afferma che, oltre al Sacerdozio, non ci sono nella Chiesa Cattolica altri Ordini, tanto maggiori quanto minori, per i quali, come per gradini, si sale al Sacerdozio ».

« Con. 6. Sia scomunicato chi afferma che nella Chiesa Cattolica non v’è una gerarchia istituita per divina ordinazione, che consta di Vescovi, di Preti, di Ministri ».

« Cann. 7. Sia scomunicato chi afferma che i Vescovi non sono superiori ai Preti o che non hanno potestà di cresimare e di ordinare, o che l’hanno in comune co’ Preti; o che siano invalide le ordinazioni da loro conferite, senza consenso o appello del popolo o del poter secolare; oppure che sono legittimi ministri della parola e de’ Sacramenti quelli, che non furono validamente ordinati, nè incaricati dalla ecclesiastica e canonica autorità, ma vengono d’altronde ».

DOMANDA 482a.

Pio XI, Lett. Officiorum omnium, 1 ag. 1922:

« Di tutti i compiti santissimi compresi nell’ampia missione Apostolica, nessuno davvero è più singolare nè più vasto che pensare e procurar di garantire alla Chiesa un numero agevole di buoni ministri pel disimpegno de’ suoi divini ufficii. Esso è infatti di tal natura che non solo si connette strettamente con la dignità e la vita stessa della Chiesa, ma della massima importanza per la salvezza del genere umano; in quanto che gl’immensi beneficii, guadagnati da Cristo Gesù Redentore per il mondo, non vengono partecipati agli uomini se non per mezzo de’ ministri di Cristo e dispensatori de’ misteri divini ».

(Acta Apostolicae Sedis, XIV, 449).

DOMANDA 487a.

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

« Settimo è il sacramento del Matrimonio, simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa, secondo le parole dell’Apostolo; Questo Sacramento è grande; ma in Cristo e nella Chiesa, dico io (Agli Efes., V, 32). Causa efficiente del Matrimonio è il reciproco consenso espresso di presenza con parole. Triplice il beneficio del Matrimonio. Anzitutto la figliuolanza da allevare ed educare al culto di Dio. Secondo la dovuta fedeltà scambievole de’ coniugi. Terzo l’indivisibilità del Matrimonio, perchè appunto significa l’unione indivisibile di Cristo con la Chiesa. Per motivo di adulterio è lecita la separazione di letto, ma non è lecito contrarre un altro Matrimonio, perchè il vincolo d’un Matrimonio, contratto legittimamente, è perpetuo ».

(Mansi, XXXI, 1058 s.).

Concilio di Trento: Vedi D. 325.

Il medesimo, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 1:

« Sia scomunicato chi afferma che il Matrimonio non è veramente e propriamente uno dei sette Sacramenti della legge evangelica, istituito da Cristo Signore, ma un’invenzione degli uomini, e che non conferisce la grazia ».

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinae sapientiae, 10 feb. 1880:

« Si devono riportare all’insegnamento apostolico le verità che « i Padri nostri, i Concilii e la tradizione della Chiesa universale sempre insegnarono » (Concilio di Trento, sess. XXIV, a pr.): e cioè che Cristo Signore elevò a dignità di Sacramento il Matrimonio e insieme fece sì che i coniugi, coll’aiuto e la custodia della grazia celeste, guadagnata per suo merito, raggiungessero la santità propria nel matrimonio; che inoltre perfezionò in esso, modellato mirabilmente sul mistico suo connubbio colla Chiesa, l’amore, che è consentaneo a natura, e col vincolo della carità divina strinse più fortemente l’unione indivisibile per sua stessa natura dell’uomo e della donna ».

(Acta Leonis XIII, II, 16).

S. Cirillo d’Alessandria, In Joan. Evang., II, 1:

« Alla celebrazione delle nozze, naturalmente caste e decorose, è presente la Madre del Salvatore, ma egli pure interviene, invitato, insieme co’ suoi discepoli, non tanto per banchettare quanto per operare il miracolo e santificare inoltre il principio, per sè tutto carnale, dell’umana generazione ».

(P. G., 73, 223).

DOMANDA 488a.

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinæ sapientiæ, 10 feb. 1880:

« Nè alcuno si lasci muovere da quella distinzione tanto decantata dai Regalisti, in forza della quale separano il contratto nuziale dal Sacramento con l’intenzione invero, di lasciare il contratto in arbitrio dei capi dello Stato, riservando alla Chiesa le ragioni del Sacramento. Non si può infatti approvare una siffatta distinzione, o più veramente separazione, essendo chiaro che nel matrimonio cristiano il confratto non può scompagnarsi dal Sacramento: e però non può darsi un vero e legittimo contratto, che non sia al tempo stesso Sacramento. Il matrimonio infatti venne arricchito della dignità di Sacramento da Cristo Signore; e il matrimonio è lo stesso contratto, quando sia fatto secondo le norme volute…. Perciò è chiaro che ogni giusto matrimonio tra Cristiani è in sè e per sè sacramento: e nulla è più contrario alla verità di questo che il sacramento sia un certo ornamento aggiunto, od una proprietà estrinseca, la quale si possa ad arbitrio degli uomini disgiungere e separare dal contratto »

(Acta Leonis XIII, II, 25-26).

DOMANDA 491a.

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinæ Sapientiæ, 10 feb. 1880:

« Affinchè rispondesse meglio ai sapientissimi consigli di Dio quella prima unione dell’uomo e della donna, essa ebbe fin da quel momento sopratutto due nobilissime qualità, profondamente impresse, per così dire, e scolpite, cioè l’unità e la perpetuità…. Ciò vediamo chiaramente dichiarato e confermato dal Vangelo per la divina autorità di Gesù Cristo, il quale dinanzi a’ Giudei e agli Apostoli proclamò che, per sua stessa istituzione, il Matrimonio deve esistere soltanto tra due, cioè l’uomo e la donna; che dei due si forma, per così dire, una sola carne e che il vincolo nuziale, per volontà di Dio, è così intimamente e fortemente stabilito che da nessun uomo può essere disciolto nè spezzato. L’uomo starà unito alla sposa sua e saranno due in una carne sola. Dunque non son più due, ma una sola carne…. (Matt., XIX, 5-6).

(Acta Leonis XIII, II, 12-13).

S. Agostino, De nuptiis adulterinis, I, 9:

« Dunque, se dicessimo: Pecca di adulterio chiunque sposerà una donna respinta dal marito, senza motivo di adulterio — certamente diciamo la verità, senza però assolvere da colpa chi sposasse la donna respinta per motivo di adulterio; anzi non dubitiamo per nulla che sono ambedue adulteri. Alla stessa stregua dichiariamo adultero chi, senza motivo d’adulterio, respinge la moglie e ne sposa un’altra, senza però difendere dall’imputazione di questa colpa colui, che, sia pure per motivo di adulterio, respinta la moglie, ne sposa un’altra. Riconosciamo che ambedue sono adulteri, benché l’uno più gravemente dell’altro ».

(P. L., 40, 456).

Il medesimo, De nuptiis et concupiscentia, I , 10:

« Se ai fedeli sposati si raccomanda non soltanto la fecondità, di cui è frutto la prole, nè soltanto la pudicizia, di cui è vincolo la fedeltà, ma pure un Sacramento del matrimonio, come dice l’Apostolo: Uomini, amate le vostre mogli, come anche Cristo amò la Chiesa (Agli Efes., V, 25); senza dubbio essenza di questo Sacramento è che maschio e femmina, congiunti dal matrimonio, seguitino uniti finché vivono, nè sia lecito, tranne il caso d’adulterio, separar coniuge da coniuge (Matt., V, 32)… Se qualcuno fa ciò, secondo la legge evangelica (e non secondo la legge positiva di questo mondo, la quale, ammesso il ripudio, permette che si possano celebrare senza peccato altre nozze, come per testimonianza del Signore, Mosè lo permise agli Israeliti per la durezza del loro cuore) commette adulterio; così pure la donna quando passi ad altre nozze. Così rimane tra loro vivi un vincolo coniugale che non può essere tolto nè da separazione nè da unione con altri. Ma rimane per rimprovero della colpa, non per legame di contratto; come l’anima dell’apostata, ritraendosi, per così dire, dalle nozze di Cristo, non perde, anche se perduta è la fede, il Sacramento della fede, ricevuto nel lavacro di rigenerazione ».

(P. L., 44, 420).

DOMANDA 492a

Concilio di Trento, Sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 2:

« Sia scomunicato chi afferma che a’ Cristiani è lecito aver più mogli e che ciò non è proibito da nessuna legge divina ».

Innocenzo III, Epist. Gaudeamus in Domino, princ. Del 1201, al Vescovo di Tiberiade:

« Siccome i pagani dividono l’affetto coniugale contemporaneamente fra più mogli, non a torto si affaccia il dubbio se, convertiti, possono conservarle tutte oppure quale di tutte. Cosa assurda e contraria alla fede cattolica se pensiamo all’unica costa cangiata in unica donna e al detto della Scrittura divina: perciò l’uomo abbandonerà padre e madre e starà unito a sua moglie e saranno due in una sola carne (Gen. II, 24; Matt., XIX, 5; agli Efes., V, 31). Non ha detto tre o più, ma due; nè ha detto starà unito alle mogli, ma alla moglie. Non fu mai lecito ad alcuno d’aver più mogli, se non a chi fu permesso per divina rivelazione; ciò talvolta è ritenuto un costume, talvolta persino pratica legittima; in forza di essa com’è scusato da menzogna Giacobbe e Israele da furto e Sansone da omicidio, così pure tanto i Patriarchi quanto altri uomini giusti, di cui si legge ch’ebbero più mogli, sono scusati da adulterio. Per certo questa sentenza riceve conferma di verità dalla testimonianza della Verità, che dice nel Vangelo: Chiunque respinge la moglie sua, (se non) per causa di adulterio, e ne prenda un’altra, è adultero (Matt., XIX, 9; Marc. X, 11). Dunque, se non è lecito, respinta la moglie, prenderne un’altra, meno ancora, se si ritiene anche la prima; di qui è evidente che in materia di Matrimonio la pluralità deve essere esclusa per ambo i sessi, che non si giudicano a differente stregua. Chi d’altra parte ha ripudiato, secondo la sua religione, la moglie legittima, non potrà mai, viva questa, prenderne un’altra, nemmeno dopo convertito alla fede di Cristo, a meno che, dopo la sua conversione, quella ricusi di coabitare con lui o, se pure consente, non senza offesa del Creatore o per tirarlo a peccato mortale. In questo caso si rifiuterebbe la restituzione a chi la esige, benché risultasse ingiusta la spogliazione. È parola dell’Apostolo: A questo proposito nè fratello nè sorella è soggetto a schiavitù (I ai Cor., VII, 15). Se invece, anch’essa convertita, segue il marito convertito alla fede, prima ch’egli, per le ragioni predette, prenda una moglie legittima, bisognerà costringerlo ad accoglierla. Ancora, sebbene sia adultero chi sposa una ripudiata (Matt., XIX, 9), secondo la verità del Vangelo, non potrà però chi l’ha respinta obiettare l’adulterio della respinta, per il fatto che ha sposato un altro, dopo il ripudio; se d’altronde non abbia commesso adulterio ».

(P. L., 216, 1269 ss.).

DOMANDA 493a

Concilio di Trento, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio.

« Can. 6. Sia scomunicato chi afferma che il matrimonio rato, non consumato, non si sciolga per la solenne professione religiosa dell’uno dei coniugi ».

« Can. 7. Sia scomunicato chi afferma che la Chiesa è in errore quando insegnò ed insegna, secondo la dottrina evangelica ed Apostolica, che per l’adulterio d’uno dei coniugi non può assere sciolto il vincolo del matrimonio e che ciascun coniuge, anche innocente, non avendo dato occasione all’adulterio, non può, vivo l’altro, contrarre nuovo matrimonio, e ch’è adultero chi, ripudiata l’adultera, ne sposa un’altra, e adultera colei che, ripudiato l’adultero, ne sposa un altro ».

Pio IX, prop. 67 delle condannate nel Sillabo:

« Per diritto di natura non è indissolubile il vincolo del matrimonio e in casi svariati dall’autorità civile può essere sancito il divorzio vero e proprio ».

(Acta Pii IX, I, III, 103).

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinæ Sapientiæ, 10 feb. 1880:

« Inoltre richiamò il matrimonio alla primitiva dignità di origine, sia col rimproverare agli Ebrei i lor costumi, perché abusavano tanto della facoltà del ripudio quanto del numero delle mogli; sia sopratutto col prescrivere che nessuno s’attentasse di sciogliere il vincolo perpetuo stretto da Dio stesso. Perciò, liquidate tutte le opposizioni, frapposte dalle istituzioni mosaiche, così volle sancire, con autorità di supremo legislatore, a proposito dei coniugi: Ora io dico a voi, che chiunque ripudierà sua moglie, se non per motivo d’adulterio, e ne sposerà un’altra, è adultero; ed è adultero chi sposa la ripudiata (Matt. XIX, 9) »..

(Acta Leonis XIII, II, 15).

DOMANDA 497a.

Concilio di Trento, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 4:

« Sia scomunicato chi afferma che la Chiesa non poteva costituire gli impedimenti dirimenti del matrimonio: o errò nel costituirli ».

DOMANDA 507a.

Concilio di Trento, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 12:

« Sia scomunicato chi afferma che le cause di matrimonio non sono di competenza dei giudici ecclesiastici ».

DOMANDA 514a

Concilio di Trento, Sess. VI, Decretum de justificatione, cap. 7:

« Perciò, proprio nell’atto della giustificazione, l’uomo riceve, per l’unione con Gesù Cristo, insieme colla remission de’ peccati, queste virtù infuse tutte a un tempo, fede speranza e carità. Difatti la fede, senza speranza e carità, non ci unisce perfettamente a Cristo, nè ci fa membra vive del suo corpo. In questo senso con tutta verità si dice che la fede senza le opere è morta e inutile ».

Clemente V, Costit. De Summa Trinitate et fide catholica, nel Concilio di Vienna, 1311, contro gli errori di Pier Giovanni Oliva:

« Quanto all’effetto del Battesimo ne’ fanciulli s’incontrano alcuni maestri di teologia d’opinione contraria. Gli uni sostengono che, per virtù del Battesimo, vien sì rimessa la colpa, ma non è conferita la grazia ai bambini; gli altri invece che, come vien loro cancellata la colpa nel Battesimo, così sono infuse le virtù e la grazia santificante, almeno come abito, se non come uso, per quell’età. Ora noi, riflettendo all’efficacia generale della morte di Cristo, che grazie al Battesimo è applicata parimenti a tutti i battezzati, abbiamo deciso, coll’approvazione del sacro Concilio, di scegliere, come più probabile e più consentanea e concorde all’espressioni de’ santi e dottori moderni di teologia, la seconda opinione, cioè che nel Battesimo è conferita ai bambini non meno che agli adulti la grazia informante e le virtù.

(Clement., I , 1).

S. Policarpo, Epist. ad Philippenses, 3:

« (Paolo) da lontano vi scrisse lettere, comprendendo le quali resterete edificati nella fede che v’è stata data e che è madre di tutti noi (ai Gal., IV, 29) seguita dalla speranza, preceduta dalla carità verso Dio e Cristo e il prossimo. Difatti chi si tiene in queste virtù, ha adempiuto al suo compito di santificazione, perchè chi possiede la carità è lontano da ogni peccato ».

(P. G., 5, 1007).

S. Giovanni Crisostomo, In Actus Apostolorum, XL, 2 :

« Nel Battesimo abbiamo la sorgente de’ beni: abbiamo cioè ricevuto la remissione de’ peccati, la santità, la partecipazione dello Spirito, l’adozione, la vita eterna. Che volete di più? I segni? Ma son cessati. Hai la fede, la speranza, la carità che sopravvivono: queste chiedi: queste son superiori ai segni. Niente pareggia la carità: prima fra tutte, la carità ».

(P. G., 60, 285).

DOMANDA 516a.

Benedetto X III; Vedi D. 62.

S. Clemente Romano, Epist. ad Corinthios, I, 49:

« Chi può esprimere il vincolo della carità di Dio? chi, come conviene, sa perfettamente parlare della stupenda sua bontà? È indicibile l’altezza, cui trasporta la carità. La carità c’immedesima con Dio, la carità copre il cumulo dei peccati (I di Piet., IV, 8), la carità tutto sostiene tutto sopporta con pazienza: nella carità non c’è sordidezza nè superbia; la carità non ammette divisioni, non suscita sedizioni, ma compie tutto in concordia; nella carità raggiungono la perfezione tutti gli eletti di Dio e senza carità niente a Dio è gradito. Il Signore ci sollevò a sè nella carità; per la sua carità verso noi il Signor nostro Gesù Cristo, con atto di volontà divina, versò per noi il suo sangue e la sua carne per la nostra carne e l’anima sua per la nostra ».

(P. G., I , 310 s.).

DOMANDA 517a,

Alessandro VII, prop. la condannata il 24 sett. 1665:

« L’uomo non è obbligato in nessun momento della sua vita a esprimere un atto di fede, di speranza, di carità, in forza de’ precetti divini riguardanti tali virtù ».

(Du Plessis, III, II, 321).

Innocenzo XI, propp. 6, 7, 16, 17 tra le condannate il 2 marzo 1679:

« Prop. 6. È probabile che il precetto dell’amore verso Dio non obbliga per sè stesso rigorosamente nemmeno ogni quinquennio.

« Prop. 7. Obbliga solo quando siam tenuti a giustificarci e non abbiamo per giustificarci altro mezzo,

« Prop. 16. La fede non si considera che cada sotto precetto speciale a sè.

« Prop. 17. Basta che Fatto di fede sia espresso una volta in vita ».

DOMANDA 518a.

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, c. 3, De fide:

«Siam obbligati a prestar con fede pieno ossequio di mente e di volontà a Dio rivelante, perchè l’uomo dipende totalmente da Dio come suo creatore e Signore e la ragione creata è affatto suddita della Verità increata. La Chiesa Cattolica professa che questa fede, principio dell’umana salvezza, è virtù soprannaturale, per la quale crediamo vere colla grazia di Dio che ispira e aiuta, le cose da Lui rivelate non in virtù d’una verità intrinseca in esse conosciuta col lume naturale della ragione, ma per l’autorità di Dio stesso che rivela e che non può nè ingannarsi nè ingannare. Dice infatti l’Apostolo: Fede è sostanza delle cose sperate e argomento delle non apparenti (Agli Ebr., XI, 1) ».

S. Leone Magno, Sermo, XXVII, 1:

« Accostandoci a intendere il mistero della natività di Cristo, perchè nacque da una madre vergine, allontaniamo da noi la nebbia dei ragionamenti umani, e dallo sguardo della fede illuminata il fumo della mondana sapienza; perché è divina l’autorità, alla quale crediamo, e divino l’insegnamento che seguiamo ».

(P. L., 54, 216).

S. Giovanni Crisostomo : Vedi D. 373.

DOMANDA 519a.

Innocenzo XI, propp. tra le condannate dalla S. Congregazione del S. Ufficio, il 12 mar. 1679:

« Prop. 22. Di necessità di mezzo sembra necessaria la fede soltanto in Dio uno, non esplicitamente in Dio Rimuneratore.

« Prop. 64. È capace di assoluzione l’uomo, quantunque ignori i misteri di fede e benché per negligenza, sia pure colpevole, non sappia il mistero della SS. Trinità e dell’Incarnazione del Signor nostro Gesù Cristo ».

(Du Plessis, 1. c).

S. Congregazione del S. Ufficio, Decreto del 25 gennaio 1703:

« 2. Si domanda se, prima di dare il Battesimo a un adulto, il ministro sia in obbligo di spiegargli tutti i misteri della nostra fede, specie se moribondo, che in tal caso gli turberebbe l’anima. Non potrebbe bastare che il moribondo promettesse, superata la malattia, di procurarsi l’istruzione per tradurre in pratica i precetti impostigli?

« Al 2. Non basta la promessa, ma il missionario è in obbligo di spiegare all’adulto anche moribondo, che non sia incapace del tutto, i misteri della fede, che son necessari per necessità di mezzo, quali principalmente i misteri della Trinità e dell’Incarnazione ».

(Codicis iuris canonici Fontes IV, 41-42).

DOMANDA 520a.

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, c. 4, De fide et ratione:

« Ma, benché la fede sia sopra la ragione, non vi può mai esser vero contrasto tra fede e ragione, perché il medesimo Dio, che svela i misteri e infonde la fede, ha acceso il lume della ragione nell’animo umano. Ora Dio non potrebbe negar sè stesso nè la verità contraddire mai la verità. Ebbene, l’inconsistente apparenza di siffatta contraddizione nasce specialmente perchè o i dogmi della fede non sono stati compresi od esposti secondo il pensiero della Chiesa, oppure si stimano per buone ragioni i trovati delle varie opinioni, Dunque definiamo affatto falsa ogni asserzione contraria alla verità della fede illuminata ».

DOMANDA 521a .

Concilio Vaticano: Vedi D. 520.

Pio IX, Encicl. Qui pluribus, 9 nov. 1846:

Sapete purtroppo, Venerabili Fratelli, che questi accaniti nemici del nome cristiano, trascinati come da un cieco impeto di pazza empietà, a tal punto di avventatezza giungono nel ragionare che, aprendo la lor bocca alle bestemmie contro Dio (Apoc. XIII, 6) con affatto inaudita audacia, non arrossiscono d’insegnare in pubblico e apertamente che sono storielle, invenzioni umane i sacrosanti misteri della nostra santa religione, che la dottrina della Chiesa contrasta il bene e i vantaggi della civiltà umana; anzi non si peritano di rinnegare Cristo stesso e Dio. E per illudere più facilmente i popoli e ingannare sopratutto gl’incauti e gl’ignoranti e travolgerli seco nell’errore, danno a intendere di conoscer essi soli i mezzi della prosperità e non dubitano di attribuirsi la nomea di filosofi, come se la filosofia, che consiste tutta nell’investigare la verità di natura, dovesse respingere quel che Dio stesso, clementissimo e supremo autore proprio di tutta la natura, s’è degnato manifestare agli uomini per singolare beneficio e misericordia allo scopo ch’essi raggiungessero la vera felicità e salvezza. « Perciò non cessano mai, con ragionamento impertinente affatto e falsissimo d’invocar la forza e l’eccellenza della umana ragione, di esaltarla contro la fede santissima di Cristo; anzi blaterano con tutta impudenza che contraddice all’umana ragione. Non si può immaginare o escogitare nulla di più strambo, di più empio, di più ripugnante proprio alla ragione. Difatti, benché la fede sia superiore alla ragione, tuttavia non si può mai trovar tra loro vero contrasto, vero dissidio; perchè tutt’e due sgorgano dall’unica e medesima sorgente della verità immutabile ed eterna, cioè Dio ottimo massimo: anzi talmente s’aiutano tra loro che la retta ragione dimostra la verità della fede, la custodisce, la difende; e a sua volta la fede libera la ragione da ogni errore e l’illumina meravigliosamente nella cognizione del divino, la rafforza, la perfeziona. « E certamente non minore inganno commettono, Venerabili Fratelli, codesti nemici della rivelazione esaltando esageratamente il progresso umano, che vorrebbero con atto di audacia temeraria e davvero sacrilega introdurre nella Religione Cattolica, quasi che proprio la Religione non fosse opera di Dio, ma degli uomini oppure una qualsiasi elucubrazione filosofica suscettibile di perfezione, per vie puramente umane. Contro costoro, che così miserabilmente delirano, cade opportuno davvero il giusto rimprovero di Tertulliano a’ filosofi del suo tempo « i quali misero in voga un cristianesimo stoico e platonico e dialettico » (De Præscript. c. 8). E invero, poiché la nostra santissima Religione fu non invenzione di mente umana, bensì rivelazione di Dio clementissimo agli uomini, ognuno può facilmente comprendere che per l’appunto la Religione attinge dall’autorità del medesimo Dio, che parla, tutta la sua forza, nè può esser mai dedotta o perfezionata dalla ragione umana. « Proprio la ragione umana, per non ingannarsi e sbagliare in cosa di tanta importanza, bisogna che indaghi con ogni cura il fatto della rivelazione divina, sicché si accerti che Dio ha parlato e si presti, secondo l’insegnamento sapientissimo dell’Apostolo, un ragionevole ossequio (Ai Rom., XII, 1). Chi difatti ignora o può ignorare che a Dio, quando parla, bisogna prestar fede intera e che nulla è più consentaneo precisamente alla ragione quanto consentire e creder con fermezza alle cose rivelate da Dio, che non può nè ingannarsi nè ingannare, se tali constano?

« Ma quanti e splendidi e meravigliosi argomenti per convincere a luce meridiana la ragione ch’è divina la Religione di Cristo e che « ogni principio de’ nostri dogmi ha radice lassù nel Signore de’ cieli » (S. Giovanni Crisost., Om. I in Isa.), e che perciò non esiste nulla di più certo, di più sicuro, di più santo della fede, nè di più ben fondato. Questa fede, maestra di vita, insegna di salvezza, nemica d’ogni vizio, madre feconda e provvida di virtù, confermata dalla nascita e dalla vita, morte, risurrezione, dalla sapienza, dai prodigii, dalle profezie di Gesù Cristo suo divino fondatore e perfezionatore, tutta circonfusa dallo splendore della celeste dottrina e arricchita dai tesori delle celesti ricchezze, dalle predizioni di tanti profeti, dalla luce di tanti miracoli, dalla costanza di tanti martiri, splendentissima e famosa per la gloria di tanti Santi, che squaderna le leggi salutari di Cristo e persino dalle più crudeli persecuzioni attinge forza, coll’unico vessillo della Croce penetrò in tutto il mondo per terra e per mare, da oriente a occidente e, abbattuta l’idolatria, dissipata la nebbia dell’errore e sgominati nemici d’ogni sorta, riempì di luce divina e sottomise al giogo soavissimo di Cristo, annunciando a tutti pace e bene (Isa. LII, 7), tutti i popoli, le genti, le nazioni per quanto barbare e crudeli, per quanto diverse di carattere, di costumi, di leggi, d’istituzioni. E questo fatto splende di tanta sapienza e potenza divina da persuadere ogni mente, ogni pensiero che la fede cristiana è opera di Dio. « Pertanto la ragione umana conoscendo, da questi argomenti fulgidi e insieme solidissimi, con chiarezza e manifestamente che Dio è autore della fede medesima, non può procedere oltre, ma — messo da parte affatto ogni difficoltà e dubbio — conviene che presti intero l’omaggio alla fede, tenendo ben fermo che, quanto la fede propone da credere e da operare agli uomini, è rivelazione di Dio ».

(Acta Pii IX, I, 1 6-9).

DOMANDA 522a.

Concilio di Laterano V, Vedi D. 60.

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, c. 4, De Fide et rottone:

« E non soltanto fede e ragione non possono mai tra loro discordare, ma si recano vincendevole aiuto, perchè la retta ragione dimostra i fondamenti della fede e illuminata dalla sua luce coltiva la scienza delle divine verità, mentre la fede libera e protegge dagli errori la ragione e l’arricchisce di molteplici cognizioni. Perciò la Chiesa non è contraria alla scienza delle arti e discipline umane, tutt’altro; anzi la promuove ed aiuta in molti modi. Difatti non ignora o disprezza i vantaggi che ne provengono alla vita umana; anzi ammette che esse come sono venute da Dio, Signor delle scienze, così a Dio conducono, con l’aiuto della sua grazia, se rettamente si studiano. E in verità essa non proibisce a queste discipline di adoperare, ciascuna nel suo ambito, principii e metodi proprii; ma, riconoscendo questa giusta libertà, sta bene attenta che, riluttanti all’insegnamento divino, non incappino negli errori, oppure, violando i proprii confini, invadano e turbino il campo della fede ».

DOMANDA 527a.

Benedetto XII; Vedi D. 62a

S. Giovanni Crisostomo, In Epist. ad Romanos, XIV, 6:

« Che cosa dunque t’ha salvato? la sola speranza in Dio e l’aver fede in lui per le promesse fatte e i benefici compartiti: nè alro hai avuto da offrire. Se dunque t’ha salvato questa fede, anche adesso conservala: essa, che ti ha procurato tanti beneficii, senza dubbio non si smentirà in avvenire. Essa difatti d’un morto, d’un perduto, d’un prigioniero e d’un nemico ha fatto un amico, un figlio, un libero, un giusto e un erede e l’ha favorito tanto quanto nessuno avrebbe potuto aspettarsi: or come non ti proteggerà in futuro, dopo così liberale benevolenza?… Che cos’è dunque la speranza? È un confidare nelle cose future ».

(P. G., 60, 532).

DOMANDA 530a.

S. Gregorio Magno, In Evangelia, II, 30, 1, 2:

« Ma ecco: se ciascun di voi fosse richiesto se ama Dio, risponderebbe con tutta fiducia e sicura coscienza: Io l’amo. Ora, proprio a principio della lettura avete udito quel che dice la Verità: Se uno mi ama, osserverà la mia parola (Gio., XIV, 23). La prova dunque dell’amore è la pratica delle opere. Perciò il medesimo Giovanni dice nella sua lettera: Chi dice: Amo Dio e non ne osserva i comandi è bugiardo (I di Gio., II, 4). In verità noi amiamo Dio, se ci sappiamo trattenere dai nostri piaceri a norma de’ suoi precetti. Chi difatti è ancora naufrago de’ suoi illeciti desideri, certo non ama Dio, perchè nella sua volontà è in contrasto con Lui. « …. Chi dunque ama Dio davvero e ne osserva i precetti, il Signore entra nel cuore di lui e vi fa dimora, perchè talmente lo penetra l’amor di Dio che non se ne distacca poi al momento della tentazione. Dunque ama davvero colui, che non si lascia vincere a consentir coll’anima nel cattivo compiacimento. Infatti tanto più ci si distacca dall’amore, quanto più si accoglie il basso compiacimento. Perciò è anche detto subito dopo: Chi non mi ama non osserva i miei precetti (Gio., XIV, 24) ».

(P. L., 76, 1220 ss.).

DOMANDA 535a.

Concilio di Trento, Sess. VI, Decretum de justificatione, cap. 15:

« Bisogna affermare, contro le sottili trovate di certa gente, che con dolci parole e le lusinghe ingannano la coscienza degli innocenti, questa verità: che si perde la grazia ricevuta della giustificazione, non soltanto col peccato contro la fede, che distrugge la fede stessa, ma con qualunque peccato mortale, pur non perdendo la fede. Bisogna difender l’insegnamento della legge divina, che respinge dal regno di Dio non solamente gl’infedeli, ma pure i fedeli colpevoli di fornicazione, d’adulterio, di sensualità, di sodomia, di furto, di avarizia, di ubbriachezza, di maldicenza, di violenza e così via, perchè da siffatti peccati mortali possono astenersi coll’aiuto della grazia e a cagione di essi si separano dalla grazia di Cristo.

Can. 27. Sia scomunicato chi afferma che non v’è peccato mortale se non quello contro la fede; oppure che la grazia, una volta ricevuta, non si perde per nessun altro peccato, sia pur grave ed enorme quanto si vuole, se non per quello contro la fede ».

« Can. 28. Sia scomunicato chi afferma che, perduta col peccato la grazia, sempre si perde insieme anche la fede; oppure che la fede superstite non è vera fede, per quanto non sia più viva: oppure che non è Cristiano chi ha fede senza la carità ».

DOMANDA 537a.

Innocenzo XI, propp. 10, 11 tra le condannate dalla S. Congregazione del S. Ufficio, il 2 marzo 1679:

« Prop. 10. Non siamo in obbligo di amar il prossimo con atto interno e formale ».

« Prop. 11. Possiamo sodisfare al precetto di amar il prossimo con i soli atti esterni ».

(Du Plessis, III, II, 348).

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (28)

MESSA DELLA FESTA DELL’EPIFANIA (2021)

Doppio di I classe con Ottava privil. di II Ord.- Paramenti, bianchi.

MESSA DELLA FESTA DELL’EPIFANIA (2021)

Stazione a S. Pietro

Questa festa si celebrava in Oriente dal III secolo e si estese in Occidente verso la fine del IV secolo. La parola “Epifania” significa: manifestazione. Come il Natale anche l’Epifania è il mistero di un Dio che si fa visibile; ma non più soltanto ai Giudei, bensì anche ai Gentili, cui in questo giorno Dio rivela il suo Figlio (Or.). Isaia scorge in una grandiosa visione, la Chiesa, rappresentata da Gerusalemme, alla quale accorrono i re, le nazioni, la moltitudine dei popoli. Essi vengono di lontano con le loro numerose carovane, cantando le lodi del Signore e offrendogli oro e incenso (Ep.). – I re della terra adoreranno Dio e le nazioni gli saranno sottomesse • (Off.). Il Vangelo mostra la realizzazione di questa profezia. – Mentre il Natale celebra l’unione della divinità con l’umanità di Cristo, l’Epifania celebra l’unione mistica delle anime con Gesù. – Oggi – dice la liturgia – la Chiesa è unita al suo celeste Sposo, poiché, oggi Cristo ha voluto essere battezzato da Giovanni nel Giordano: oggi una stella conduce i Magi con i loro doni al presepio: oggi alle nozze l’acqua è stata trasformata in vino. Ad Alessandria d’Egitto pubblicavasi ogni anno, il 6 gennaio, l’Epistola Festalis, lettera pastorale in cui il Vescovo annunziava la festa di Pasqua dell’anno corrente. Di qui nacque l’uso delle lettere pastorali in principio di Quaresima. In Occidente, il IV sinodo d’Orléans (541) ed il sinodo d’Auxerre (tra il 573 ed il 603) introdussero la stessa usanza. Nel medioevo vi si aggiunse la data di tutte le feste mobili. Il Pontificale Romano prescrive di cantar oggi solennemente, dopo il Vangelo, detto annunzio (Liturgia, Paris, Bloud et Gay, 1931, pag. 628 sg.).

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Malach 3:1 – 1 Par XXIX:12
Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium

[Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]

Ps LXXI: 1
Deus, judícium tuum Regi da: et justítiam tuam Fílio Regis.

[O Dio, concedi al re il tuo giudizio, e la tua giustizia al figlio del re.]

Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium

[Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui hodiérna die Unigénitum tuum géntibus stella duce revelásti: concéde propítius; ut, qui jam te ex fide cognóvimus, usque ad contemplándam spéciem tuæ celsitúdinis perducámur.

[O Dio, che oggi rivelasti alle genti il tuo Unigenito con la guida di una stella, concedi benigno che, dopo averti conosciuto mediante la fede, possiamo giungere a contemplare lo splendore della tua maestà.]

Lectio

Léctio Isaíæ Prophétæ.
Is LX:1-6
Surge, illumináre, Jerúsalem: quia venit lumen tuum, et glória Dómini super te orta est. Quia ecce, ténebræ opérient terram et caligo pópulos: super te autem oriétur Dóminus, et glória ejus in te vidébitur.
Et ambulábunt gentes in lúmine tuo, et reges in splendóre ortus tui. Leva in circúitu óculos tuos, et vide: omnes isti congregáti sunt, venérunt tibi: fílii tui de longe vénient, et fíliæ tuæ de látere surgent. Tunc vidébis et áfflues, mirábitur et dilatábitur cor tuum, quando convérsa fúerit ad te multitúdo maris, fortitúdo géntium vénerit tibi. Inundátio camelórum opériet te dromedárii Mádian et Epha: omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes.

“Levati, o Gerusalemme, e sii illuminata, perché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore è sorta su te. Poiché, ecco le tenebre ricoprono la terra e l’oscurità avvolge le nazioni; su te, invece, spunta il Signore, e in te si vede la sua gloria. Le nazioni cammineranno; alla tua luce, e i re allo splendore della tua aurora. Alza i tuoi occhi all’intorno, e guarda: tutti costoro si son radunati per venire a te. I tuoi figli verranno da lontano, e le tue figlie ti sorgeranno a lato. Allora vedrai e sarai piena di gioia; il tuo cuore si stupirà e sarà dilatato, quando le ricchezze del mare si volgeranno verso di te, quando verranno a te popoli potenti. Sarai inondata da una moltitudine di cammelli, di dromedari di Madian e di Efa: verranno tutti insieme da Saba, portando oro e incenso, e celebrando le glorie del Signore”

OMELIA I

[Artig. Pavia, A. Castellazzi, La scuola degli Apostoli, Pavia, 1929]

GESÙ CRISTO RE

Isaia, il profeta suscitato da Dio a rimproverare e a consolare il popolo eletto in tempo di grande afflizione, ci dipinge in esilio, prostrato a terra, immerso nel dolore per voltate le spalle a Dio. È bisognoso d’una consolazione; e il profeta questa parola l a fa sentire. Gerusalemme risorgerà. Il Messia vi comparirà come un faro risplendente sulla sponda di un mare in burrasca. E nella sua luce accorreranno le nazioni uscendo dalle tenebre dell’idolatria. Gerusalemme deve alzar gli occhi econtemplar lo spettacolo consolante dei suoi figli dispersi che  ritornano, e dei popoli della terra che verranno ad essa, cominciando da quei dell’oriente, recando oro ed incenso, annunziando le lodi del Signore. Questa profezia ha compimento nel giorno dell’Epifania, poiché in questo giorno comincia il movimento delle nazioni verso la Chiesa, la nuova Gerusalemme, I Magi che venuti dall’oriente domandano ove è il nato Re dei Giudei, ci invitano a far conoscenza con questo Re. Vediamo, dunque, come Gesù Cristo è:

1. Il Re preannunciato,

2. Che esercita su noi l’autorità legittima,

3. E al quale dobbiamo dimostrare la nostra sudditanza.

1.

Isaia che invita Gerusalemme a vestirsi di luce ne dà ragione: perché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore è sorta su di te. Il Messia promesso, ristoratore non solo di Israele, ma di tutto il genere umano è venuto dall’alto ad illuminare chi giace nelle tenebre e nell’umbra della morte. La notte in cui nasce il Salvatore una luce divina rifulge attorno ai pastori che fanno la guardia, al gregge nelle vicinanze di Betlemme; e contemporaneamente in altre contrade un’altra luce, una stella, appare ai Magie li guida a Gerusalemme. «Dov’è il nato re dei Giudei? Perché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente a siam venuti per adorarlo» (Matth. II, 2). A questa domanda che essi fanno, arrivati a Gerusalemme, Erode e tutta la cittàsi conturba. Eppure, niente era più esatto di quella domanda.Il Messia era stato ripetutamente predetto dai profeti come un restauratore, che avrebbe iniziato un regno nuovo. Gli Ebrei potevano errare nella interpretazione diquesto regno; ma i n essi l’idea del Messia era inconcepibile,se disgiunta dalla dignità reale. Del resto i profeti l’avevano annunciato chiaramente come re. Davide dice:«Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech» (Ps. CIX). È lo stesso che dire che il Messia sarebbe stato sacerdote e re. «Poiché questo Melchisedech era re di Salem, Sacerdote del Dio Altissimo… Egli primieramente, secondo l’interpretazione del suo nome, re di giustizia, e poi anche re di Salem, che significare di pace» (Hebr. VII, 1-2). Anche il regno del Messia sarà regno di giustizia e di pace. Sentiamo Geremia « Così parla il Signore, Dio d’Israele,ai pastori che pascono il mio popolo. … Ecco che vengono i giorni, e io susciterò a Davide un germe giusto; e regnerà come re, e sarà sapiente e renderà ragione, e farà giustizia in terra» (Ger. XXIII, 2, 5.) . Isaia, parlando della nascita del Messia, così si esprime: «Ecco, ci è nato un pargolo, e ci è stato donato un figlio, e ha sopra i suoi omeri il principato » (Is. IX, 4). A lui segue Zaccaria: «Egli sarà ammantato di gloria, e sederà, e regnerà sul suo trono» ( Zac. VI, 13). Quando poi l’Angelo annunzia a Maria l’Incarnazione, parlando del Messia che nascerà da lei, dice: «Questi sarà grande e sarà chiamato Figliuolo dell’Altissimo: il Signore Iddio gli darà il trono di David, suo padre, ed egli regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà mai fine» (Luc. I, 32-33). Non solo è predetto come re, ma come re è salutato e venerato. Abbiamo visto che i Magi dichiarano apertamente di essere venuti ad adorare «il nato Re Giudei ». Quando Natanaele è condotto da Filippo a vedere « quello di cui scrissero Mosè nella legge e i profeti, Gesù », al primo incontro esclama: «Maestro, tu sei il Figliuolo di Dio: tu sei re d’Israele» (Giov. I, 49). Nel giorno del trionfo, quando entra in Gerusalemme per celebrare l’ultima Pasqua, la grande folla accorsa per le feste gli va incontro con rami di palma, gridando : «Osanna! Benedetto chi viene nel nome del Signore, il Re d’Israele» (Giov. XII, 13). In parecchie circostanze, perfino quando sta lasciando la terra per salire al cielo, gli si fanno domande relative al suo regno. Infine, Gesù Cristo stesso dichiara d’essere re; d’avere un regno (Giov. XVIII, 36). Un regno non umano, nè caduco, « ma di gran lunga superiore e più splendido » (S. Giov. Crisost. In Ioa. Ev. Hom. 83, 4).

2.

Le nazioni camminano alla tua luce e i re allo splendore della tua aurora: … tutti costoro si son radunati per venire a te. Re e sudditi, che vanno a mettersi aipiedi di Gesù Cristo, attratti dalla luce che si diffondedal suo Vangelo, riconoscono praticamente che Egli hail diritto di dominare su di loro. Difatti chi è Gesù Cristo? Il centurione romano, che coi soldati è posto a guardia della croce, esclama alla morte di Gesù: «Costui era veramente Figlio di Dio» (Matth. XXVII, 54). È Figlio di Dio — nota a questo punto S. Ilario — ma non come noi che siam figli di Dio adottivi. «Egli, invece, è Figlio di Dio vero e proprio, per origine, non per adozione» (S. Ilario, De Trin. 1. 3, c. 11). La sua vita dunque, lo fa superiore a tutto quanto è al disotto di Dio: superiore non solo a tutti gli uomini, ma anche a tutti gli Angeli. A nessuno di loro Dio ha detto: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato» (Ps. II, 7). Essi sono posti al comando di Dio; sono a disposizione di Gesù Cristo. « Pensi tu — egli dice a S. Pietro — che io non possa chiamare in aiuto il Padre mio, il quale mi manderebbe sull’atto più di dodici legioni di Angeli?» (Matth. XXVI, 53). Non solo gli Angeli sono a disposizione di Gesù Cristo, ma lo devono adorare, come è scritto nei libri santi: «E lo adorino tutti gli Angeli di Dio »: (Hebr. I, 6). A Gesù, dunque, tutte le creature, uomini e Angeli, devono l’adorazione, la soggezione, l’obbedienza; tutte devono riconoscere la sua sovranità. Oltre che per diritto di natura, Gesù Cristo è nostro re per diritto di investitura. Il Messia, Figlio ed erede di Dio, Creatore e Signore del cielo e della terra, ha diritto al dominio universale sul mondo. Al momento propizio il Padre gliene darà l’investitura, secondo Egli ha dichiarato: « Chiedimi, e ti darò in eredità le nazioni e in possesso i confini della terra » (Ps. II, 8). Nell’incarnazione Gesù Cristo è costituito « erede di tutte le cose » (Hebr. I, 2). e riceve, così, la promessa investitura del suo dominio universale. Ma Gesù Cristo è anche nostro Re per diritto di conquista. Noi eravamo schiavi del peccato, destinati alla morte eterna. Egli ci ha liberati dalla schiavitù del peccato, sottraendoci alla morte eterna. «Quando combatté per noi — dice S. Agostino — apparve quasi vinto; ma in realtà fu vincitore. In vero fu crocifisso, ma dalla croce, cui era affisso, uccise il diavolo, e divenne nostro Re» (En. in Ps. 149, 6). A differenza degli altri conquistatori, egli non ci ha liberati versando il sangue altrui, ma versando il proprio sangue. «Non sapete — dice S. Paolo ai Corinti — che voi non vi appartenete? Poiché siete stati comprati a caro prezzo» (I Cor. VI, 19-20). Noi non possiamo disconoscere l’autorità di chi ha sborsato per noi un prezzo che supera ogni prezzo. I popoli liberati dalla schiavitù passano sotto il dominio del loro liberatore; e noi siamo passati sotto il dominio di chi ci ha liberati dalla schiavitù di satana. Lui dobbiamo riconoscere per nostro re, proclamare apertamente nostro Re,  non solo a parole, ma all’occorrenza anche con della propria vita, come ce ne hanno dato esempio i martiri di tutti i tempi. Tra coloro che furono martirizzati al Messico nel Gennaio del 1927 si trovava un tal Nicolas Navarro. Alla giovane moglie che piangendo lo pregava ad aver pietà del figlioletto: «Anzitutto la causa di Dio! — rispose — E quando il figlio crescerà gli diranno: Tuo padre è morto per difendere la Religione». Percosso, ferito con le punte dei pugnali, strascinato così brutalmente da non esser più riconoscibile, come avvenne anche ai suoi compagni, riceve per di più tanti colpi sulla faccia da aver sradicati i denti. Caduto a terra colpito da due palle, incoraggia i compagni, e rammenta loro la promessa di seguire fino alla morte l’esempio di Gesù. Trapassato da due pugnalate, muore gridando : « Viva Cristo Re » (Civiltà Cattolica, 1927, vol. IV p. 181).

3.

Isaia predice che le nazioni faranno a gara per entrare nel regno di Gesù Cristo. Verranno i nuovi sudditi. portando oro e incenso, e celebrando le glorie del Signore.

Così fanno subito i re Magi, i quali, venuti alla culla di Gesù, « prostrati lo adorarono: e, aperti i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra » (Matth. II, 11). « Offrono l’incenso a Dio, la mirra all’uomo, l’oro al re » (S. Leone M. Serm. 31, 2). Quell’oro, forse una corona reale, essi offrono a Dio come tributo che i sudditi devono al re in segno di sudditanza.Quale tributo dobbiamo noi portare a Gesù Cristoin segno della nostra sudditanza? Il regno di Gesù Cristonon è un regno materiale. È un regno spirituale, che siesercita principalmente sulle anime. In primo luogo è ilregno della verità. Tra le fitte tenebre dell’errore che coprivanola faccia della terra, Gesù comparve come il soleche illumina ogni cosa, fugando l’ignoranza, la menzogna,l’inganno. Tra gl’intricati sentieri, che non permettono all’uomo, o gli rendono assai difficile, di prendere unagiusta direzione nel cammino di questa vita, Egli è laguida sicura.Egli poteva dire alle turbe : «la luce è in voi… Sinchéavete la luce credete nella luce, affinché siate figliuolidi luce» (Giov. XII, 35-36). Primo tributo da rendere al nostro Re saràdunque quello di accogliere con docilità e semplicità lasua parola che è contenuta nel Santo Vangelo. È un regno di giustizia. Se c’è un regno in cuicontano più i fatti che le parole, è precisamente il regnodi Gesù Cristo. Come tutti i re, Gesù Cristo è legislatore.E le sue leggi vuol osservate. Sulla terra, quantitrasgrediscono le leggi e si credono sudditi fedeli e amanti del loro re! Gesù dichiara apertamente che non puòessere o dichiararsi amico suo chi trasgredisce le sue leggi: «Se mi amate osservate i miei comandamenti (Giov. XIV, 15). – Per conseguenza egli eserciterà un altro potere reale: quello di giudicare coloro che sono osservanti delle leggi e coloro che le trasgrediscono. Nessuno potrà sfuggire al suo giudizio e alla sua sanzione. «Poiché bisogna che tutti noi compariamo davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva le cose che gli spettano, secondo quello che ha fatto, o in bene o in male» (2 Cor. V, 10.).Lo ubbidiremo, dunque, in modo da non meritarsi alcuna riprensione. – Il regno di Gesù Cristo è un regno universale. I suoi confini sono i confini del mondo, i suoi sudditi sono tutte le nazioni dell’universo. È un dominio che si estende su l’individuo e sulla società; e che quindi va riconosciuto e onorato in privato e in pubblico. Purtroppo non tutti riconoscono ancora di fatto il dominio di Gesù Cristo. Un numero sterminato d’infedeli, non sa ancora chi sia Gesù Cristo. Molti Cristiani gli si ribellano; violano i suoi diritti, e gli rifiutano il dovuto omaggio. Tributo d’omaggio del buon Cristiano sarà quello di affrettare con la preghiera il giorno in cui tutte le nazioni conosceranno questo Re, e intanto rendergli l’omaggio, che altri gli negano, riparare le offese, che altri gli recano. Fede viva, esatta osservanza dei comandamenti, zelo per concorrere a farlo regnare, nei singoli individui, nelle famiglie, nella società, ecco i tributi, che dobbiam recare a Gesù Cristo Re, in attestazione della nostra sudditanza.

Graduale

Isa LX: 6;1
Omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes.

[Verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore.]

Surge et illumináre, Jerúsalem: quia glória Dómini super te orta est. Allelúja, allelúja.

[Sorgi, o Gerusalemme, e sii raggiante: poiché la gloria del Signore è spuntata sopra di te.

Allelúja.

Allelúia, allelúia
Matt II:2.
Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum. Allelúja.

 [Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni per adorare il Signore. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum
Matt II: 1-12

Cum natus esset Jesus in Béthlehem Juda in diébus Heródis regis, ecce, Magi ab Oriénte venerunt Jerosólymam, dicéntes: Ubi est, qui natus est rex Judæórum? Vidimus enim stellam ejus in Oriénte, et vénimus adoráre eum. Audiens autem Heródes rex, turbatus est, et omnis Jerosólyma cum illo. Et cóngregans omnes principes sacerdotum et scribas pópuli, sciscitabátur ab eis, ubi Christus nasceretur. At illi dixérunt ei: In Béthlehem Judæ: sic enim scriptum est per Prophétam: Et tu, Béthlehem terra Juda, nequaquam mínima es in princípibus Juda; ex te enim éxiet dux, qui regat pópulum meum Israel. Tunc Heródes, clam vocátis Magis, diligénter dídicit ab eis tempus stellæ, quæ appáruit eis: et mittens illos in Béthlehem, dixit: Ite, et interrogáte diligénter de púero: et cum invenéritis, renuntiáte mihi, ut et ego véniens adórem eum. Qui cum audíssent regem, abiérunt. Et ecce, stella, quam víderant in Oriénte, antecedébat eos, usque dum véniens staret supra, ubi erat Puer. Vidéntes autem stellam, gavísi sunt gáudio magno valde. Et intrántes domum, invenérunt Púerum cum María Matre ejus, hic genuflectitur ei procidéntes adoravérunt eum. Et, apértis thesáuris suis, obtulérunt ei múnera, aurum, thus et myrrham. Et re sponso accépto in somnis, ne redírent ad Heródem, per aliam viam revérsi sunt in regiónem suam,”

[Nato Gesù, in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco arrivare dei Magi dall’Oriente, dicendo: Dov’è nato il Re dei Giudei? Abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo. Sentite tali cose, il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme. E, adunati tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, voleva sapere da loro dove doveva nascere Cristo. E questi gli risposero: A Betlemme di Giuda, perché così è stato scritto dal Profeta: E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra i prìncipi di Giuda: poiché da te uscirà il duce che reggerà il mio popolo Israele. Allora Erode, chiamati a sé di nascosto i Magi, si informò minutamente circa il tempo dell’apparizione della stella e, mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e cercate diligentemente il bambino, e quando l’avrete trovato fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo. Quelli, udito il re, partirono: ed ecco che la stella che avevano già vista ad Oriente li precedeva, finché, arrivata sopra il luogo dov’era il bambino, si fermò. Veduta la stella, i Magi gioirono di grandissima gioia, ed entrati nella casa trovarono il bambino con Maria sua madre qui ci si inginocchia e prostratisi, lo adorarono. E aperti i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non passare da Erode, tornarono al loro paese per un altra strada.]

Omelia II

Sopra i Re Magi.

 [Discorsi di S. G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, IV ed., Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

Vidimus stellam ejus, et venimus adorare eum.

Abbiamo visto la sua stella e siam venuti ad adorarlo.

Giorno felice per noi, giorno sempre memorabile, nel quale la misericordia del Salvatore ci ha tratto dalle tenebre dell’idolatria per chiamarci alla conoscenza della fede, nella persona dei Magi, che vengono dall’Oriente ad adorare e riconoscere il Messia per loro Dio e loro Salvatore in nostro nome. Sì, M. F., essi sono i nostri padri e i nostri modelli nella fede. Avventurati se noi siamo fedeli nell’imitarli e nel seguirli. Oh! esclamava con trasporti di amore e di riconoscenza S. Leone, Papa: “Angeli della città celeste, prestateci le vostre fiamme d’amore per ringraziare il Dio delle misericordie della nostra vocazione al Cristianesimo ed al salvamento eterno. „ Celebriamo, M. F., così ci dice il gran santo, con allegrezza, gli inizi delle nostre felici speranze. Ma, all’esempio dei Magi, siamo fedeli alla nostra vocazione, altrimenti tremiamo che Dio non ci faccia subire lo stesso castigo dei Giudei che erano il suo popolo eletto. Da  Abramo sino alla sua venuta, li aveva condotti come per mano, (Hebr. VIII, 9) e da per tutto si era mostrato il loro protettore e il loro liberatore; e poscia li rigettò e li respinse per causa del disprezzo che avevano fatto delle sue grazie. Sì, questa fede preziosa ci sarà tolta e sarà trasportata in altri paesi, se non ne pratichiamo le opere. Ora, vogliamo noi conservare fra di noi questo prezioso deposito? Seguiamo fedelmente le tracce dei nostri padri nella fede. Per formarci una debole idea della grandezza del beneficio della nostra vocazione al Cristianesimo, non abbiamo che a considerare quello che erano i nostri antenati prima della venuta del Messia, loro Dio, loro Salvatore, loro luce, loro speranza. Essi erano abbandonati in balia di ogni sorta di delitti e di disordini, nemici di Dio medesimo, schiavi del demonio, vittime destinate alle eterne vendette. Possiamo noi considerare uno stato così deplorevole, senza ringraziare Dio con tutto il nostro cuore, di aver voluto chiamarci alla conoscenza della vera religione, e di aver fatto tutto quello che ha fatto per salvarci? O favore, o grazia inestimabile, così preziosa e così poco conosciuta nel secolo sciagurato nel quale viviamo, dove la maggior parte non sono Cristiani che di nome! Ora, M. F., che cosa abbiamo fatto per averci preferiti a tanti altri che sono periti, e che periscono ancora tutti i giorni, nell’ignoranza e nel peccato? Ah! che dico? Noi siamo forse più indegni di questa sorte che non il popolo sventurato dei Giudei. Se noi siamo nati nel seno della Chiesa Cattolica, mentre tanti altri periscono fuori di essa, è per un effetto della bontà di Dio verso di noi. Parliamo dunque della vocazione alla fede. Considerando la fede nei Magi, noi vedremo che essi ne praticavano le opere e che la loro fedeltà alla grazia fu pronta, generosa e perseverante. Poscia noi confronteremo la nostra fede così debole con quella dei Magi che era così viva. Finalmente parleremo della riconoscenza che dobbiamo a Dio per il dono della fede che ci ha conceduto. Potremo mai abbastanza ringraziare il Signore di una tal sorte?

I. — 1° Noi diciamo dapprima che la fedeltà dei Magi alla grazia fu pronta. Infatti, appena hanno veduto la stella miracolosa, che, senza nulla esaminare, essi partono per recarsi a cercare il loro Salvatore, così solleciti, così divorati dal desiderio di arrivare al termine al quale la grazia, figurata dalla stella, li chiama, che nulla può trattenerli. Ah! quanto siamo lontani dall’imitarli! Da quanti anni Dio ci chiama colla sua grazia, ispirandoci il pensiero di abbandonare il peccato, di riconciliarci con lui? Ma sempre noi siamo insensibili e ribelli. Oh! quando sorgerà questo fausto giorno nel quale ci condurremo come i Magi, i quali abbandonarono ogni cosa per consacrarsi a Dio?

2° In secondo luogo noi diciamo che la loro fedeltà alla loro vocazione fu generosa, perché vinse tutte le difficoltà che vi si opponevano, per seguire la stella. Ahi quali sacrifici non hanno da fare? È necessario abbandonare il loro paese, la loro casa, la loro famiglia, il loro regno, o per meglio dire, è necessario allontanarsi da tutto ciò che hanno di più caro al mondo; è necessario che si aspettino di sopportare le fatiche di lunghi e penosi viaggi, e ciò, nella più rigorosa stagione dell’anno: tutto sembrava opporsi al loro disegno. Quanti scherni non ebbero da soffrire dalla parte dei loro eguali, come dal popolo! Ma no! nulla è capace di trattenerli in un atto così importante. Ed ecco precisamente in che consiste il merito della fede, di rinunciare ad ogni cosa, e di sacrificare quello che si ha di più caro per obbedire alla voce della grazia che ci chiama. Ah! se ne bisognasse di fare, par acquistare il cielo, dei sacrifici come quelli dei Magi, come sarebbe piccolo il numero degli eletti! Ma no, facciamo solamente quanto facciamo per gli affari temporali e noi siamo sicuri di acquistare il cielo. Vedete: un avaro lavorerà giorno e notte per adunare o per guadagnare del denaro. Vedete un ubriacone: egli si esaurirà e soffrirà tutta la settimana per avere qualche denaro per bere la domenica. Vedete quei giovani tutti dati ai piaceri! Essi faranno due o tre leghe nello scopo di trovare qualche piacere scipito, e mescolato d’amarezza. Ritorneranno la notte, sotto un tempo perverso. Arrivati in famiglia, invece d’essere compassionati, saranno ripresi, almeno se i genitori non hanno ancora perduta la memoria che Dio un giorno domanderà conto della loro anima. E voi medesimi vedete che in tutto ciò vi sono dei sacrifici da fare, tuttavia nulla scoraggia, e si viene a capo di tutto; gli uni per frode, gli altri per inganno, si riesce in tutto. Ma ah! quando si tratta di ciò che riguarda il salvamento, che cosa facciamo noi? Quasi ogni cosa ci sembra impraticabile. Confessiamo, che il nostro accecamento è molto deplorevole, di fare tutto quello che facciamo per questo miserabile mondo e di non far nulla per assicurarci la nostra felicità eterna. – Vediamo ancora sino a qual punto i Magi spingono la loro generosità. Arrivati a Gerusalemme, la stella che li aveva condotti nel loro viaggio scomparve. Essi si credevano, certamente, nel luogo dove era nato il Salvatore che venivano ad adorare, e si avvisavano che tutta Gerusalemme sarebbe al colmo della più grande gioia, per la nascita del suo liberatore. Quale meraviglia! quale sorpresa per essi! Non solamente Gerusalemme non presenta alcun segno di gioia, essa ignora persino che è nato il suo liberatore. I Giudei sono pure sorpresi di vedere i Magi recarsi ad adorare il Messia, come i Magi sono meravigliati che un tal avvenimento sia loro annunciato. Qual prova per la loro fede! Qual altra ne occorreva per farli rinunciare al loro disegno e farli ritornare il più segretamente possibile nel loro paese, per tema di servir di favola a tutta Gerusalemme? Ah! ecco quello che molti di noi avrebbero fatto, se la loro fede fosse stata sottoposta ad una simile prova. Non fu senza mistero che la stella scomparve: era per risvegliare la fede dei Giudei che chiudevano gli occhi sopra un tale avvenimento; era necessario che venissero degli stranieri per rimproverare il loro accecamento. Ma tutto ciò, lungi dallo scuotere i Magi, all’opposto non fa che raffermarli nella loro risoluzione. Abbandonati in apparenza da questo lume, si scoraggeranno i nostri santi Re? Abbandoneranno tutto? Ah! se fossimo stati noi, certamente sarebbe stato necessario molto meno. Essi si volgono da un’altra parte: si recano a consultare i dottori che sapevano avere tra le mani le profezie che loro indicavano il momento nel quale il Messia nascerebbe, e domandano loro in qual luogo il nuovo Re dei Giudei deve nascere. Mettendosi sotto dei piedi ogni rispetto umano, essi penetrano persino nel palazzo di Erode, e gli domandano dov’è questo Re nuovamente nato, dichiarandogli, senza alcun timore, che sono venuti per adorarlo. Che il re si offenda di questo linguaggio, nulla vale a trattenerli in una ricerca così importante. Essi vogliono a qualunque costo trovare il loro Dio. Quale coraggio, quale fermezza! A qual punto ci troviamo noi che temiamo un piccolo scherno? Un “che si dirà” ci impedisce di compiere i nostri doveri di religione e di frequentare i sacramenti. Quante volte non abbiamo arrossito di fare il segno della croce prima e dopo di aver preso il nostro cibo? Quante volte il rispetto umano ci ha fatto trasgredire le leggi dell’astinenza e del digiuno, nel timore d’essere segnati a dito e di essere tenuti in conto di buoni Cristiani? A qual punto siamo noi? Oh! qual onta, quando, al giorno del giudizio, il Salvatore confrontando la nostra condotta con quella dei Magi, i nostri padri nella fede, i quali hanno tutto abbandonato e tutto sacrificato piuttosto che resistere alla voce della grazia che li chiamava.

3° Vedete di giunta quanto fu grande la loro perseveranza. I dottori della legge dicono loro che il Messia doveva nascere a Betlemme e che il tempo era arrivato. Appena hanno ricevuto la risposta, che essi partono per questa città. Non dovevano aspettarsi che accadesse quello che accadde alla Ss. Vergine e a S. Giuseppe? Il concorso non sarebbe così grande, che essi non troverebbero luogo? Potevano essi dubitare che i Giudei i quali, da quattro mila anni attendevano il Messia, non corressero in folla a gettarsi ai piedi di questa culla, per riconoscerlo per loro Dio e per loro liberatore? Ma no, nessuno si muove: i Giudei sono immersi nelle tenebre, e vi restano. Bella immagine del peccatore che non cessa di udire la voce di Dio che gli grida colla voce dei suoi pastori di abbandonare il suo peccato per consacrarsi a Lui, e non ne rimane che più colpevole e più indurato. Ma torniamo ai santi re Magi. Essi partono soli da Gerusalemme; come sono esatti! Oh! qual fede! Dio li abbandonerà senza ricompensa? No, certamente. Appena sono usciti dalla città, che quella stella miracolosa ricomparve davanti ad essi, sembra prenderli per la mano per farli arrivare a questo povero tugurio di miseria e di povertà. Essa si ferma e sembra dir loro: Ecco colui che io vi ho annunciato. Ecco colui che è aspettato. Sì, entrate: voi lo vedrete. Egli è colui che è generato da tutta l’eternità, e che nasce, vo’ dire, che prende un corpo umano che deve sacrificare per salvare il suo popolo. Che questo apparato di miseria non vi ributti. Egli è in fasce, ma è quel medesimo che sprigiona la folgore dal più alto dei cieli. La sua vista fa tremare l’inferno, perché l’inferno vi vede il proprio vincitore. Questi santi Re sentono, in questo momento, i loro cuori così divampanti d’amore che si gettano ai piedi del loro Salvatore bagnando quella paglia delle loro lagrime. Quale spettacolo, che dei re riconoscano per loro Dio e Salvatore un bambino adagiato in un presepio tra due vili animali! Oh! la fede è qualche cosa di prezioso! Non solamente questo stato di povertà non li ributta; ma essi ne sono più commossi ed edificati. I loro occhi sembravano non potersi saziare dal considerare il Salvatore del mondo, il Re del cielo e della terra, il Padrone di tutto l’universo in un tale stato. Le delizie delle quali i loro cuori furono inondati furono talmente abbondanti, che essi consacrarono al loro Dio tutto quello che avevano. Da questo momento offrono a Dio le loro persone; non vogliono essere padroni neppure delle loro persone. Non contenti di questa offerta, offrono ancora tutto il loro regno. Giusta il costume degli Orientali, i quali non avvicinavano mai i grandi principi senza fare dei presenti, essi offrono a Gesù le più ricche produzioni del loro paese, cioè dell’oro, dell’incenso e della mirra, e, con questi presenti, essi esprimono perfettamente le idee che avevano concepite del Salvatore, riconoscendo la divinità sua, la sua sovranità e la sua umiltà. La sua divinità, coll’incenso, che non è dovuto che a Dio solo; la sua umanità, colla mirra, che serve ad imbalsamare i corpi; la sovranità sua, con l’oro, che è il tributo ordinario, del quale ci serviamo per pagare i sovrani. Ma questa offerta esprimeva ancor meglio i sentimenti del loro cuore: la loro ardente carità era manifestata dall’oro che è il simbolo; la loro tenera devozione era figurata dall’incenso; i sacrifici che essi facevano a Dio di un cuore mortificato, erano rappresentati dalla mirra. Quale virtù in questi tre Orientali! Dio, vedendo la disposizione dei loro cuori, non doveva dire quello che disse alcun tempo dopo, che non aveva veduto fede più viva in tutto Israele (Matt. VIII, 10)! Infatti, i Giudei avevano il Messia in mezzo a loro, e non vi ponevano mente ; i Magi, benché molto lontani, venivano a cercarlo ed a riconoscerlo per loro Dio. I Giudei, dopo alcun tempo, lo trattano come il più colpevole che la terra abbia portato, e finiscono coll’appenderlo alla croce nell’atto stesso che Egli forniva delle prove evidenti della sua divinità; mentre i Magi lo veggono adagiato sopra la paglia, ridotto alla più vile condizione, si gettano ai suoi piedi per adorarlo, e lo riconoscono per loro Dio, loro Salvatore e loro liberatore. Oh! che la loro fede è qualche cosa di prezioso! Se noi avessimo la sorte di ben comprenderlo, quale cura non avremmo di conservarla in noi!

II. — Quali sono quelli che noi imitiamo, i Giudei o i Magi? Che cosa vediamo nella maggior parte dei Cristiani? Ah! una fede debole e languida; e quanti non hanno neppure la fede dei demoni i quali credono che esiste un Dio e tremano alla presenza sua? „ (Jac. II, 19) Torna facile l’esserne convinti. Vedete se noi crediamo che Dio risiede nelle nostre chiese, quando parliamo, volgiamo il capo da una parte e dall’altra e che non ci mettiamo solamente ginocchioni nel momento che Egli ci addimostra l’eccesso del suo amore, vo’ dire nel momento della comunione e della benedizione. Crediamo noi che esiste un Dio? Oh! no, o se noi lo crediamo è per oltraggiarlo. Qual uso facciamo noi del dono prezioso della fede e dei mezzi di salvamento che troviamo nel seno della Chiesa Cattolica? Quale rassomiglianza tra la nostra vita e la santità della nostra religione? Possiamo noi asserire che la nostra professione è conforme alle massime del Vangelo, agli esempi che Gesù Cristo ci ha dati? Stimiamo noi, pratichiamo tutto quello che Gesù Cristo stima e pratica? Vo’ dire, amiamo la povertà, le umiliazioni, il disprezzo? Preferiamo la qualità di Cristiani a tutti gli onori e a tutto quello che possiamo possedere e desiderare sopra la terra? Abbiamo noi per i sacramenti quel rispetto, quel desiderio e quell’impegno per approfittare delle grazie che il Signore ci prodiga? Ecco gli oggetti sopra i quali ciascuno di noi deve esaminarsi. Ah! quanto sono grandi ed amari i rimproveri che noi dobbiamo muovere a noi stessi sopra questi diversi oggetti! Alla vista di tante infedeltà e ingratitudini, noi dobbiamo tremare che Gesù Cristo ci tolga, come ai Giudei, questo dono prezioso della fede, per trasportarlo in altri regni dove se ne farà un uso migliore. Perché i Giudei hanno cessato di essere il popolo di Dio? Non è stato per causa del disprezzo che hanno fatto delle sue grazie? State sull’avviso, ci dice S. Paolo (Rom. X, 20), se voi non restate incrollabili nella fede, sarete come i Giudei, rigettati e respinti. Ah! chi non tremerebbe che ci incolga una simile sventura, considerando che esiste così poca fede sopra la terra? Infatti qual fede si scorge tra i giovani i quali dovrebbero consacrare la primavera dei loro giorni al Signore, per ringraziarlo d’averli arricchiti di questo prezioso deposito? All’opposto non si veggono occupati, gli uni a soddisfare le loro vanità, gli altri ad accontentarsi nei piaceri?  Non sono costretti di confessare che sarebbe necessario di insegnar loro che hanno un’anima? Sembra che Dio non l’abbia loro conceduta che per perderla. — Qual fede troviamo noi fra coloro che hanno toccato l’età matura, che cominciano ad essere disingannati delle follie della giovinezza? Non sono essi tutto occupati, notte e giorno, per aumentare  i loro beni? Pensano essi a salvare la povera anima, della quale la fede loro dice che se la perdono, tutto è perduto per essi? No, no, poco loro importa che sia perduta o salvata, purché aumentino le loro ricchezze! — Finalmente, qual fede scorgesi fra i vecchi i quali, fra breve, saranno citati a comparire davanti a Dio per render conto della loro vita, la quale, forse, non è stata che una serie di peccati? Pensano essi ad approfittare del poco tempo che Dio, nella sua misericordia, vuol loro ancora concedere, e che non dovrebbe essere consacrato che a piangere le loro colpe? Non si veggono e non si udranno, quante volte l’occasione si presenti, encomiare i piaceri che hanno gustato nelle follie della loro giovinezza? Ah! M. F., non saremo dunque costretti di confessare che la fede è quasi spenta, o piuttosto, è quello che dicono tutti coloro che non hanno ancora abbandonato la loro anima alla tirannia del demonio. Infatti, qual fede si può sperare di trovare in un Cristiano il quale resterà tre, quattro o sei mesi senza frequentare i sacramenti? Ah! e quanti che restano un anno intero, e molti altri, tre o quattro anni? Temiamo, M. F., temiamo di provare gli stessi castighi coi quali Dio ha colpito tante altre nazioni, le quali, forse, li avevano meno meritati di noi che siamo stati collocati nel luogo dei Giudei, e dai quali tuttavia la fede è stata trasportata altrove. E che; cosa dobbiamo fare per avere la sorte di non esserne mai privati? Converrà fare come i Magi i quali si studiarono continuamente di rendere la loro fede più viva. Vedete come i Magi sono attaccati a Dio colla fede! Quando sono ai piedi della culla, essi più non pensano ad abbandonare il loro Dio. Essi si conducono come un fanciullo che sta per separarsi da un buon padre, che sempre indugia, e ondeggia per cercare dei pretesti, affin di prolungare la sua felicità. A grado che il tempo si avvicina, scorre il pianto, il cuore si strazia. Della guisa medesima i santi Re. Quando convenne lasciare la culla, essi piangono a calde lagrime, sembravano essere legati da catene. Da una parte erano pressati dalla carità di recarsi ad annunciare questa felicità a tutto il loro regno; dall’altra essi erano obbligati di separarsi da colui che erano venuti a cercare di lontano, e che avevano trovato dopo molte difficoltà. Essi si guardavano l’uno l’altro per vedere colui che partirebbe il primo. Ma l’angelo disse loro che bisognava partire, recarsi ad annunciare questa felice novella ai popoli dei loro regni, ma di non ritornare da Erode: che se Erode aveva loro detto di prendere tante precauzioni, di informarsi minutamente per indicargli il luogo della sua nascita, ciò non era che per farlo morire; ma che era necessario battere un’altra strada. Bella figura d’un peccatore convertito, che ha lasciato il peccato per consacrarsi a Dio; egli non deve ripresentarsi nel luogo nel quale prima si recava. Queste parole dell’angelo li costrinsero del più vivo dolore. Nel timore di avere la sventura di essere la causa della sua morte, dopo di aver preso commiato da Gesù, da Maria e da Giuseppe, essi partono il più segretamente possibile, non battono la grande strada, per tema di destare qualche sospetto. Invece di alloggiare nelle locande, passano le notti ai piedi degli alberi, nel seno delle rocce, e a questo modo percorrono quasi trenta leghe. Appena sono arrivati nel loro paese che essi annunciano a tutti i loro regnicoli il loro disegno di lasciar tutto, di abbandonar tutto ciò che possedevano, non potendo risolversi a possedere qualche cosa, dopo di aver veduto il loro Dio in una così grande povertà; e si reputavano infinitamente felici di poterlo imitare almeno in questo. Le notti sono consacrate alla preghiera, e i giorni a recarsi nelle case, per mettere ognuno a parte della felicità loro, di tutto ciò che avevano veduto in questa stalla, delle lagrime che questo Dio che nasceva aveva già sparse per piangere i loro peccati. Essi esercitavano rigorose penitenze sui loro corpi; rassomigliavano a tre angeli i quali percorrevano le province del loro paese per preparare le vie del Signore; essi non potevano parlare del dolce Salvatore senza versare continue lagrime, ed ogni volta che si intrattenevano insieme di questo felice momento nel quale si trovavano in questa stalla, sembrava loro di morire d’amore. Oh! non potevano essi dire a se medesimi come i discepoli di Emmaus (Luc. XXIV, 32.)  “I nostri cuori non erano ardenti d’amore quando eravamo prostrati ai suoi piedi in quel povero tugurio di miseria? „ Ah! se essi avevano avuto la sorte che noi ora abbiamo, di portarlo nel loro cuore, non avrebbero esclamato coi medesimi trasporti d’amore che in progresso di tempo S. Francesco: “Oh! Signore, diminuite l’amor vostro, e aumentate le mie forze, io non posso più reggere? „ Oh! con quale gran cura non l’avrebbero conservato! Se si avesse loro detto che un sol peccato glielo farebbero loro perdere, non avrebbero cento volte preferito di morire che di attirarsi una tale sventura? Oh! che le loro vite furono pure ed edificanti nel volgere degli anni che sopravvissero alla nascita del Salvatore! – Si narra che S. Tommaso dopo l’ascensione del Salvatore, si recò ad annunciare il Vangelo nel loro paese. Li trovò tutti e tre. Dopo che erano usciti dalla stalla, non avevano cessato di estendere la fede nel loro paese. S. Tommaso rapito di vederli così ripieni dello spirito di Dio e giunti ad una così prestante santità, trovò tutti i cuori già disposti a ricevere la grazia del salvamento, per le sollecitudini che avevano preso i santi Re. Raccontò loro tutto quello che il Salvatore aveva operato e sofferto dal momento che avevano avuto la sorte di vederlo nella mangiatoia, che era vissuto sino all’età di trenta anni, che aveva lavorato nell’oscurità, che era sottomesso alla Ss. Vergine ed a S. Giuseppe, che erano vissuti con lui, e che S. Giuseppe era morto molto tempo prima di lui; ma che la Ss. Vergine viveva ancora, che era uno dei discepoli di Gesù che ne aveva la cura. Raccontò loro che il Salvatore aveva sofferto nel volgere degli ultimi tre anni della sua vita tutto quello che si avrebbe potuto far soffrire al più grande ribaldo del mondo: che quando annunciava che era venuto per salvarli, che era il Messia aspettato da tanti secoli, che insegnava loro quello che era necessario di fare per approfittare delle grazie che loro recava, era cacciato dalle assemblee. Egli aveva percorsi molti paesi guarendo gli ammalati che gli si recavano innanzi, risuscitando i morti e liberando le persone possedute dal demonio. La causa della sua morte fu uno di coloro che aveva scelti per annunciare il Vangelo, il quale, dominato dall’avarizia, lo vendette per 30 denari. Lo si era legato come un ribaldo, attaccato ad una colonna, flagellato crudelmente, in modo da essere irriconoscibile. Lo si era trascinato per le vie di Gerusalemme, carico di una croce che lo faceva cadere ad ogni passo; il suo sangue bagnava le pietre per dove passava, e, come cadeva, i carnefici lo facevano alzare percuotendolo; che avevano finito coll’appenderlo alla croce e che, lontano dal vendicarsi di tanti oltraggi, non aveva cessato di pregare per essi; che era spirato sopra questa croce, sotto della quale coloro che passavano e i Giudei lo coprivano di maledizioni. Poi, tre giorni dopo, era risuscitato, come aveva predetto; e scorsi quaranta giorni era salito al cielo. Tommaso ne era stato testimonio, come gli apostoli che avevano seguito Gesù nella sua missione. Al racconto di tutto ciò che il Salvatore avea sofferto, i santi Re sembravano non poter più vivere. L’hanno fatto morire, quel tenero Salvatore! dicevano essi. Hanno potuto essere così crudeli? Ed Egli ha loro perdonato! Oh! quanto è buono! quanto è misericordioso! E non potevano frenare le loro lagrime, né i loro singhiozzi, tanto profondamente erano penetrati dal dolore. S. Tommaso li battezzò, li ordinò sacerdoti, e li consacrò Vescovi, perché avessero maggior potere di propagare la fede dopo la loro consacrazione. Essi erano così animati dell’amore di Dio, che gridavano a quanti incontravano: Venite, venite, noi vi racconteremo quello che ha sofferto questo Messia che noi abbiamo veduto in quella mangiatoia. Sembrava che ad ogni istante, essi fossero rapiti fino in cielo, tanto l’amore di Dio divampava nel loro cuore. Tutta la loro vita con fu che una serie di miracoli e di conversioni. Come erano stati uniti nel tempo della loro vita in un modo così intimo, Dio permise che fossero sepolti nella medesima tomba. Il primo che morì fu collocato dalla parte destra; ma alla morte del secondo, come lo si collocava a lato dell’altro, colui che era sepolto il primo cedette il suo posto all’altro; finalmente quando venne la volta dell’ultimo, i due morti prima si scostarono per fargli luogo nel mezzo, come fosse più glorioso per lui, di aver per un tempo più lungo lavorato per il Salvatore. Essi erano stati così ripieni dell’umiltà del loro Maestro, che lo manifestarono anche dopo la loro morte. Dopo la loro vocazione alla fede, essi avevano sempre aumentato in virtù ed in amore di Dio. Oh! quanto saremmo felici, se seguissimo le tracce dei nostri avi nella fede, i quali credevano che tutto quello che operavano era nulla.

III. — E che dobbiamo noi fare per addimostrare a Dio la nostra riconoscenza, di averci somministrati dei mezzi così facili per salvarci? Noi dobbiamo essergli riconoscenti. Se nel mondo, il più piccolo servigio non è ricambiato, noi siamo mossi a mormorare; qual giudizio deve recare il nostro Dio della nostra ingratitudine? Mosè, prima di morire, fa radunare il popolo intorno a sé, e gli racconta tutti i benefizi di cui il Signore non aveva cessato di ricolmarlo, soggiungendo che, se non fosse riconoscente, doveva aspettarsi i più grandi castighi; ed è ciò che precisamente gli accadde, poiché è stato abbandonato da Dio! Ah! M. F., i benefizi dei quali Dio ci ha ricolmi sono di gran lunga più preziosi di quelli dei Giudei. Oh! se voi poteste interrogare i vostri avi e comprendere per quale via siete venuti fino al battesimo, per quale via la Provvidenza vi ha condotti fino a questo momento fortunato nel quale voi siete rivestiti del dono prezioso della fede! Dopo di aver rimossi tutti i pericoli e tutti gli accidenti che avrebbero potuto soffocarvi, come tanti altri, nel seno delle vostre madri, il Signore, appena vedeste la luce del giorno, vi accolse tra le sue braccia, il mio figlio diletto. Da questo momento, non vi ha più perduto di vista. A grado che la vostra ragione si è svolta, i vostri padri, le madri vostre e i vostri pastori non hanno cessato di annunciarvi i benefizi che il Salvatore ci promette se lo serviamo. Egli non cessa di vegliare sopra la nostra conservazione come su la pupilla del suo occhio. Lo Spirito Santo ci dice che il Signore, facendo uscire il suo popolo dall’Egitto e conducendolo nella Terra promessa, si rassomiglia ad un’aquila la quale vola intorno a’ suoi piccini per eccitarli a volare, li prende e li porta sopra le sue ali (Deuter. XXXII, 11); „ ecco precisamente quello che opera Gesù Cristo per noi. Egli protende le sue ali, vo’ dire le sue braccia in croce, per riceverci e per eccitarci cogli insegnamenti suoi e co’ suoi esempi a staccarci da questo mondo, e ad ergerci al cielo con lui. La Scrittura santa ci narra che gli Israeliti furono stabiliti, per un favore singolare della bontà sua, nel paese di Canaan, per gustarvi il miele così eccellente che trovavano nel cavo delle pietre, per nutrirsi del fiore più puro del frumento, e per bere il vino più squisito (ibid. 13, 14). Sì, tutto ciò non è che una pallida immagine dei beni spirituali dei quali possiamo usufruire nel seno della Chiesa. Non è nelle piaghe di Gesù Cristo che noi troviamo le più grandi consolazioni? Non è nei sacramenti che noi gustiamo quel vino così delizioso la cui dolcezza e la cui forza inebriano le nostre anime? Qual cosa Dio poteva fare di più per noi? Quando il profeta Nathan fu mandato a Davide per riprenderlo del suo peccato, gli disse: “Ascolta, o principe, ecco quello che dice il Signore: Io ti ho salvato dalle mani di Saulo per farti regnare in suo luogo; io ti ho concesso tutti i beni e tutte le ricchezze della casa di Giuda e d’Israele, e, se tu tieni ciò in poco conto, soggiunse, io sono pronto a fare ancora di più „ (II Reg. XII, 7,8). Ma per noi, che può Egli concederci di più, quando ci mette a parte di tutti i suoi tesori? Qual è la nostra riconoscenza, o piuttosto qual disprezzo, qual abuso ne facciamo noi? Qual caso, qual uso facciamo noi della parola di Dio che ci si annuncia così spesso? Oh! quanti infelici che non conoscono Gesù Cristo! ai quali questa parola santa non è mai stata annunciata, e che diventerebbero gran santi se avessero solamente i rilievi di questo sacro pane, che non si cessa di prodigarvi e che voi lasciate perdere! Qual uso facciamo noi della confessione, nella quale Dio ci appalesa quanto grande è la misericordia sua, nella quale basta il far conoscere le piaghe della nostra povera anima per essere guariti? Ah! la maggior parte disprezzano questo rimedio, e gli altri vi si accostano il più raramente che possono. Qual uso facciamo noi della santa comunione e della santa Messa? Se non esistesse nel mondo cristiano che una sola chiesa nella quale si celebrasse questo augusto mistero, nella quale si consacrasse e nella quale fosse permesso di visitare e di ricevere il corpo e il sangue prezioso di Gesù Cristo, noi sentiremmo certamente una grande invidia verso coloro che fossero alle porte di questa chiesa, i quali potrebbero visitarlo e riceverlo tutte le volte che lo desiderassero. Noi siamo questo popolo scelto; noi siamo alla porta di questo luogo così santo, così puro, nel quale Dio si immola ogni giorno. Qual uso facciamo noi di questa felicità? Quando Dio verrà a giudicare il mondo, un Giudeo, un idolatra, un maomettano potrà dire: Oh! se io avessi avuto la fortuna di vivere nel seno della Chiesa Cattolica, se fossi stato Cristiano, se avessi ricevuto le grazie che aveva questo popolo eletto, io sarei vissuto in altro modo. Sì, M. F., noi abbiamo ricevuto queste grazie e questi favori di predilezione. Ma, ancora una volta, qual uso ne facciamo, dov’è la riconoscenza nostra? No, no, la ingratitudine nostra non rimarrà impunita; Dio, nella sua collera, ci toglierà quei beni che teniamo in sì poco pregio, o piuttosto che noi disprezziamo e facciamo servire a commettere il peccato. Io non dico che la siccità, le inondazioni, i geli, le gragnuole, le malattie e tutti i flagelli della sua giustizia ci incoglieranno: tutto ciò è nulla, benché tutto ciò sia una parte della punizione della nostra ingratitudine. Ma un tempo verrà, nel quale Dio vedendo il disprezzo che noi facciamo di questo dono prezioso che ci è stato trasmesso dai nostri padri nella fede, ci sarà tolto per essere concesso ad altri. Ah! non siamo noi stati vicini a perdere la nostra fede, nei giorni nefasti che abbiamo trascorsi? Non fu un avvertimento col quale Dio sembrava dirci, che se noi non ne facevamo un uso migliore, ci sarebbe tolta? Questo solo pensiero non dovrebbe farci tremare e raddoppiare le nostre preghiere e le nostre buone opere, affinché Dio non ci privi di questa felicità? Non dovremmo, come i Magi, essere pronti a ogni cosa piuttosto che perdere questo tesoro? Sì, M. F., imitiamo i Magi. E per essi che Dio ci ha trasmesso la fede; è in essi che noi troviamo il modello il più perfetto d’una fede viva, generosa e perseverante. Uniti di spirito e di cuore ai santi Re Magi, rechiamoci a Gesù Cristo, e adoriamolo come nostro Dio: amiamolo come Salvator nostro, attacchiamoci a Lui come a Re nostro. Presentiamogli l’incenso d’una preghiera fervorosa,  la mirra d’una vita penitente e mortificata,  l’oro d’una carità pura; o meglio, facciamogli, come i Magi, una offerta universale di tutto ciò che noi abbiamo e di tutto ciò che noi siamo; e non solamente Dio ci conserverà questo deposito prezioso della fede, ma la renderà ancor più viva, e, con tal mezzo, noi piaceremo a Dio e ci assicureremo una felicità che non avrà termine. È quello che io vi desidero.

Credo…

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXXI:10-11
Reges Tharsis, et ínsulæ múnera ófferent: reges Arabum et Saba dona addúcent: et adorábunt eum omnes reges terræ, omnes gentes sérvient ei.

[I re di Tharsis e le genti offriranno i doni: i re degli Arabi e di Saba gli porteranno regali: e l’adoreranno tutti i re della terra: e tutte le genti gli saranno soggette.]

Secreta

Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, dona propítius intuere: quibus non jam aurum, thus et myrrha profertur; sed quod eisdem munéribus declarátur, immolátur et súmitur, Jesus Christus, fílius tuus, Dóminus noster:

[Guarda benigno, o Signore, Te ne preghiamo, alle offerte della tua Chiesa, con le quali non si offre più oro, incenso e mirra, bensì, Colui stesso che, mediante le medesime, è rappresentato, offerto e ricevuto: Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt II:2
Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum.

[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni ad adorare il Signore.]

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quæ sollémni celebrámus officio, purificátæ mentis intellegéntia consequámur.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che i misteri oggi solennemente celebrati, li comprendiamo con l’intelligenza di uno spirito purificato.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (3)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (3)

Trad. M. T. Garutti

Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa Catania, 7 Marzo 1957

P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur

Catanæ die 11 Martii 1957

Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO III

I PADRI, ORGANI QUALIFICATI DELLO SPIRITO NEL CORPO MISTICO

Chiesa, tempio del Dio vivente

È chiaro che la denominazione « Uomini di Chiesa » è la prima da far valere parlando di coloro che vengono comunemente chiamati « Padri della Chiesa ». Deve anzitutto intendersi in senso spirituale, non perché  escluda l’aspetto dottrinale, ma perché lo oltrepassa, almeno nei primi testimoni che dobbiamo qui presentare. Sant’Ignazio di Antiochia, che morì verso il 107, dopo un lungo episcopato in quella città, dove San Pietro aveva risieduto per qualche anno, non ci è noto che per sette lettere scritte a varie chiese nel corso del suo viaggio verso Roma, dove subì il martirio ardentemente desiderato. Esse non sono capolavori classici, ma il fervore religioso che le ispirò al Santo è così nobile e ardente che esse raggiungono in molte pagine, la più alta eloquenza, sia che egli esalti il Cristo e la Chiesa, sia che attacchi gli eretici, sia che esorti i fedeli ad una vita spirituale più pura. Il cuore, l’idea centrale di tale dottrina, è chiaramente la Chiesa, ma considerata specialmente come tempio del Dio vivente. La comunità cristiana si mostra già bene organizzata, con l’essenziale della sua gerarchia (vescovi, preti, diaconi), ivi compresa l’autorità della Sede centrale, situata nella « nobile e santa Chiesa, che ha la presidenza », che viene apertamente indicata: Roma. Il Santo infatti ha già un chiaro senso dell’universalità, e usa per primom la parola « cattolica » per esprimerlo. Ma per quanto ricco sia un tale messaggio dal punto di vista istituzionale, per usare un termine tecnico, sono il fervore e la potenza dell’eloquenza del grande martire siriano che più ci colpiscono. La generazione di cui S. Ignazio è il più illustre rappresentante è meno preoccupata dell’attesa della Parusia di quanto non lo fosse quella della Didachè; essa si richiama di preferenza alla presenza spirituale e mistica del Salvatore. Da ciò una bella serie di formule suggestive. « Facciamo tutte le nostre azioni con il pensiero che Dio abita in noi: saremo così i suoi templi e lui stesso sarà il nostro Dio che risiede in noi » (Et. XV, 3). Chiama anche i cristiani teofori, naofori, cristofori, agiofori (Et. IX), ed è per questo, senza dubbio, che gli piace ricordare all’inizio di ogni lettera il suo secondo nome di Teoforo. La sua presenza in noi, Dio la manifesta a coloro che l’amano (Et. XV); essa è il frutto della fede e della carità; « la fede e la carità, dice, sono il principio e il fine della vita; la fede ne è il principio, la carità ne è la perfezione, l’unione delle due è Dio stesso » (Et. XIV). – Questa vita interiore si appoggia su una profonda conoscenza del Cristo, non soltanto come uomo, ma come Dio, conoscenza talmente viva e penetrante che assomiglia alla visione. È questa conoscenza, perfezione della fede, che i mistici chiameranno contemplazione. Sant’Ignazio non ne ha fatto la teoria, come faranno Clemente d’Alessandria o Sant’Agostino, ma l’ha vissuta, ed è questo che importa anzitutto, essendo tali conoscenze spirituali destinate a favorire lo sbocciare della perfetta vita cristiana. Questa si espande in zelo apostolico: a tutti, nelle sue lettere alle Chiese orientali, dà delle direttive di una potenza e di una fecondità sorprendenti. Nessuna sufficienza del resto in quest’uomo; egli usa, parlando di se stesso, formule umilianti, che non possono ingannare sull’intimo dell’anima: in tutta verità si giudica un aborto indegno di essere contato fra i membri di Cristo. Queste espressioni sono frequenti dovunque; il suo ardore vibra tuttavia potentemente soprattutto nell’Epistola ai Romani, ai quali Sant’Ignazio domanda con forza di non sbarrargli la via del martirio: «morire», per «andare al Cristo», ecco il suo unico desiderio. – Davanti a questa foga, l’Epistola ai Corinti di San Clemente di Roma (+verso il 100) appare scialba. Ci si ingannerebbe tuttavia se si accentuasse troppo questo contrasto. Quel documento del vescovo di Roma è stato scritto in tutt’altre condizioni e con uno scopo del tutto speciale. Si trattava di porre le basi per la riorganizzazione interna di una Chiesa turbata da fazioni; da qui il largo richiamo dei principi in una lunga esposizione quasi didattica, ma che non manca di calore; poi un netto richiamo dell’ordine stabilito da Dio sulla comunità cristiana, seguito da un fermo invito a rinunciare ai partiti che hanno smembrato Cristo. Questo aspetto dottrinale è abbondantemente esposto lungo tutta l’Epistola. La pratica delle virtù è fondata sull’esempio del Salvatore che ci ha riscattati con la sofferenza (c. 16), sulla missione del Cristo prete e redentore (c. 36), sull’istituzione stessa, per suo mezzo, di una gerarchia (c. 42), precisamente quella che è stata violata a Corinto e che bisogna ristabilire (c. 45-40). San Clemente parla qui, come vero capo, che ordina e minaccia (c. 51-53); ma più ancora come prete che fa appello ai più alti sentimenti religiosi, in una preghiera che è un’evocazione della liturgia primitiva e mostra l’alta coscienza che aveva il santo della presenza viva del Cristo nella Chiesa. Non vi è traccia, come del resto in Sant’Ignazio, della credenza in una prossima Parusia (ritorno imminente di Cristo). Cenni invece a questa credenza si possono trovare nella Didaché (c. 16) o nell’Epistola detta di S. Barnaba (c. 21), scritti da riportare a un’epoca un po’ anteriore (fine del I secolo), Si può d’altronde scorgervi un’impressione, una speranza o un desiderio o un’aspirazione, più che una salda dottrina. Questa sarà formulata nettamente verso la fine del II sec., ma avrà allora una fonte diversa dalla parola del Cristo: la dottrina montanista che si appoggerà su una pretesa rivelazione, quella dello Spirito, parlante in un nuovo profeta, Montano. Un neo-convertito come Tertulliano ne sarà anch’egli affetto, dopo qualche anno di feconda e pura attività nel senso classico tradizionale. Fin nel suo errore, egli testimonia del posto importante che aveva, nella concezione primitiva della Chiesa, la dottrina e il senso della presenza di Dio, vivente in essa attraverso il Cristo e lo Spirito. – San Cipriano (+ 258), compatriota di Tertulliano suo discepolo, non lo  segue nel suo errore su questo punto. Vescovo di Cartagine, egli insistette, al contrario, contro i lapsi, quei Cristiani che si erano piegati nella persecuzione di Decio (nel 250) e che pretendevano di farsi assolvere dai soli « spirituali ». Tuttavia lui stesso, per quanto concerneva l’unità dell’intera Chiesa, non sembra aver chiaramente capito le esigenze della dottrina tradizionale. Egli riconosce l’importanza unica della Sede di Roma ed ha persino trovato, per esprimerla, le più belle formule della tradizione. Tuttavia, in modo inconscio, senza dubbio, contava troppo esclusivamente sullo Spirito Santo, per fare questa unità, quando la tradizione, già molto precisa al suo tempo, aggiungeva, a questa azione dello Spirito, quella di una sede particolarmente designata per assicurarne la salvaguardia. –

La Sede apostolica, centro della Chiesa

 Fin dall’inizio del II sec., la Sede di Roma ha una funzione eminente nella Chiesa, testimoni Sant’Ignazio e San Clemente. Alla fine di quello stesso secolo, le attività del papa Vittore I (189-199) la mettono in grandissimo rilievo. Ma il principio stesso viene formulato in termini esatti in un testo di una chiarezza incomparabile. È di Sant’Ireneo, vescovo di Lione alla fine del II sec. (+ verso il 201). Questo testo è dato all’inizio del libro III, in un trattato Contro le eresie che comprende cinque libri. È dunque centrale, e di fatto pone una regola di portata universale. Eccone la sostanza: « Noi esponiamo la fede della grandissima e antichissima chiesa fondata a Roma dai due gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo, per confondere tutti coloro che prendono posizione contro il diritto. A questa Chiesa, in effetti, a causa del suo eminente principato, bisogna che si ricolleghi ogni Chiesa in cui è stata conservata la tradizione che viene dagli Apostoli ». Questa regola è di una luce abbagliante per gli spiriti non prevenuti. Non bisogna intenderla in modo da sopprimere la Scrittura: il legame con gli Apostoli afferma esattamente il contrario. Ma essa mira a semplificare ed a generalizzare il richiamo alla Scrittura con un mezzo tradizionale sicuro e universale: l’unione dottrinale con la Sede Apostolica. Questo aspetto teologale non è tutto, e non viene esclusa la disciplina; ma il pensiero che domina nell’opera del vescovo di Lione è palesemente dogmatico. Precisamente San Cipriano, nell’Africa latina, cinquant’anni più tardi, faceva eco a Sant’Ireneo, in termini quasi altrettanto netti per quanto riguarda i principi. Nel trattato sull’Unità della Chiesa (251) il vescovo di Cartagine pone dei principi che fanno eco a quelli di Sant’Ireneo, ma applicati qui alla disciplina oltre che al dogma: ricorda che la Chiesa universale è fondata su Pietro, secondo l’ordine stesso di Cristo, il quale « stabilisce la Chiesa su un solo » Apostolo (super unum ædificat Ecclesiam); questa formula gli ha valso il titolo di « primo teorico della cattolicità ». Più importante ancora forse è quest’altra formula dello stesso scritto: « Non si può avere Dio per Padre se non si ha la Chiesa per Madre ». In un’epistola quasi contemporanea (Ep. 59) parla della « cattedra di Pietro » come della « Chiesa principale », almeno nel senso che « l’unità sacerdotale deriva da essa ». Non sembra, è vero, che il Santo abbia compreso esattamente tutto ciò che tale principio comportava in fatto di esigenze; da cui certi conflitti penosi con i Vescovi stessi di Roma. Ma il principio non fu mai rinnegato: egli stesso del resto non era stato il primo a proclamarlo, ma faceva eco a Sant’Ireneo e alla tradizione. Nello stesso periodo, in Oriente, San Dionigi, Vescovo di Alessandria, grande avversario degli eretici del paese, usava per combattere il modalismo di Sabellio formule pericolose quanto le sue da un altro punto di vista, perché esse arrivavano, a dispetto delle intenzioni dell’autore, attraverso una vera subordinazione del Figlio, alla negazione della sua divinità. Il vescovo di Roma, San Dionigi, ne fu avvertito e impose una messa a punto al grande Vescovo alessandrino. Questi gli diede piena soddisfazione, senza mettere in campo l’apostolicità della sua Chiesa, una delle più grandi della cristianità dopo Roma. È evidente che l’apostolicità della Sede di Pietro comportava una proporzionata autorità effettiva. Nel secolo successivo un altro grande Vescovo di Alessandria, Sant’Atanasio, si trovò in difficoltà con gli ariani; esiliato, ricorse a Roma, dove il Papa lavorò efficacemente e di autorità per farlo rientrare nella sua città episcopale. Per tutta la vita rimase attaccato alla Sede Apostolica, nella quale vedeva un prolungamento del Verbo incarnato, poiché è questo l’aspetto che lo colpiva maggiormente nel Cristianesimo. Questo grande avversario degli ariani, ferrato in filosofia, non seguì quegli eretici sul loro terreno preferito: non aveva contro di loro che un’arma, l’Incarnazione del Verbo, di cui considerava gli effetti nella persona del Cristo e in ciascuno dei Cristiani. Di qui l’interesse che egli ebbe sempre per la Chiesa, opera del Cristo, e suo Corpo stesso. Quest’ultimo carattere è centrale nella dottrina di Atanasio. Ne aveva poste le basi fin dai suoi primi scritti e le lotte contro l’arianesimo lo condussero a importanti approfondimenti. Egli associò strettamente, in maniera fisica, si è detto, l’incarnazione del Verbo e la divinizzazione dell’uomo. In Gesù, il Verbo penetra la sua umanità e anche, in qualche modo, la nostra. Gli uomini gli sono dunque strettamente legati. In lui, il Verbo ci ha « verbificato », in modo che la nostra divinizzazione è associata alla sua incarnazione. Tale è la trama generale di una dottrina che associa strettamente il dogma e la vita, come associa la sapienza eterna e la sapienza creata. A tali altezze, la teologia vivente di Atanasio sfuggiva alle arguzie dei filosofi battezzati e faceva trionfare la dottrina cattolica della divinità del Verbo incarnato (Cfr. L. Bouyer, « L’Incarnation et l’Église, corps du Christ »). La sua azione provvidenziale fu decisiva. La Cattolicità della Chiesa antica Il messaggio di Cristo, che invia i suoi Apostoli a predicare al mondo intero, in universum mundum (Mc. XVI, 15), è stato condensato dai Padri nella parola « cattolico ». Sant’Ignazio la usa già all’inizio del II secolo, per designare sia la Chiesa universale, sia una Chiesa particolare in relazione di anima e di spirito con il mondo intero, per mezzo della fede comune a tutti. L’uso della parola « cattolico » si generalizza nel IV sec.; entra nei simboli, quello di Nicea, di Gerusalemme o di Costantinopoli in Oriente, o quello di Roma; San Cirillo di Gerusalemme la usa nelle sue Catechesi (XVIII, 25). In Occidente, Sant’Ireneo, nel testo citato (Cfr. L. Bouyer, 1943 ibidem, p. 29), aveva ricollegato la cattolicità all’unione con Roma, senza usare la parola. In compenso, Sant’Agostino vi ricorse con forza, dopo Sant’Ottato: egli grida trionfalmente contro i donatisti: « Noi, cattolici, siamo nel mondo intero, poiché comunichiamo con tutta la terra, ovunque la gloria del Cristo è penetrata » (In Ps. 56, n. 13). Sant’Epifanio associava le due formule, « Chiesa cattolica ed apostolica », nel simbolo che termina la sua grande opera sulla fede (Anchoratus, p. 119) e difatti esse sono su per giù sinonime, secondo la regola di fede ben conosciuta dall’antichità. Forse la vera sfumatura della parola cattolico deve esser ricercata meno nella sua reale portata che nell’attitudine ad abbracciare il mondo intero. Con ciò la parola completa la nota di apostolicità, rivolta verso il punto di partenza del movimento cristiano. La cattolicità esclude i legami locali esagerati, che si oppongono alla reale universalità del messaggio evangelico. – Gli scismatici donatisti si vantavano di essere africani, e Sant’Agostino mostra il ridicolo delle loro pretese. Altrove, egli costata con nobile fermezza quale forza sia, per il Cattolico, questa coscienza di aver con sé il mondo intero: « È per questa ragione che, con sicurezza, il mondo intero non giudica buoni quelli che si separano dal mondo intero, in qualsiasi regione del mondo ». Il tono grave di questa semplice frase fece un’impressione salutare su Newman, e finì per deciderlo agli ultimi sacrifici del ritorno alla fede integrale. Anch’egli, come molti altri, era stato bloccato dagli eccessivi legami locali, che appesantiscono l’anima rendendola incapace di innalzarsi fino a quegli orizzonti universali che il puro Cattolicismo apre. Sono questi alti orizzonti che contemplavano generalmente le anime al tempo dei Padri; fu questa convinzione che sostenne i Padri stessi nella dura lotta contro scismi ed eresie. Bisogna citare soprattutto Sant’Agostino, il cui zelo ebbe alfine ragione del donatismo che flagellò l’Africa latina per un secolo intero. – La nota cattolica in un Sant’Ambrogio presenta una sfumatura tutta particolare. Prima consigliere degli imperatori d’Occidente, poi di Teodosio il Grande, ottiene il riconoscimento della totale indipendenza della Chiesa sul piano religioso, d’altronde senza detrimento per il potere imperiale, che resta solo giudice nel suo campo. Il grande Vescovo, ex-alto funzionario dello Stato, ottiene per la Chiesa dei privilegi che sono un omaggio del temporale allo spirituale, senza usurpazione e senza abuso di potere, poiché, scomparendo il paganesimo, gli antichi privilegi della religione di Stato vanno logicamente alla Chiesa; la vera religione si trova ora ad essere, di fatto, quella dei più alti funzionari dello Stato, fino all’apice della gerarchia imperiale. Questo aspetto del cattolicesimo di Sant’Ambrogio non deve, del resto, farci dimenticare l’essenza della sua anima profondamente religiosa, preoccupata dell’apostolato morale e spirituale, pia fino al misticismo, come testimoniano i suoi scritti sulla verginità, che hanno stimolato e sostenuto durante secoli il fervore delle giovani cristiane consacrate a Dio. La nota di pietà mariale è tradizionalmente ricollegata al nome di San Cirillo di Alessandria, a causa della difesa della maternità divina di Maria contro Nestorio, che a Costantinopoli la negava. La formula Teotokos, Madre di Dio, era popolare a Bisanzio, e quando questo nuovo Vescovo, venuto da Antiochia, la lasciò pubblicamente biasimare e la biasimò lui stesso, vi fu un vero conflitto che mise di fronte i due grandi prelati e, per la seconda volta, un vescovo di Costantinopoli venuto da Antiochia, venne deposto da un Vescovo alessandrino, o almeno con il suo attivo intervento. È chiaramente imprudente voler vedere in tutto ciò solo dei conflitti di influenza e di amor proprio regionale. È sul piano cristiano che si svolge questa partita: la si vede ben presto montarsi e snodarsi rapidamente come un dramma, a Efeso nel 431. San Cirillo, vero teologo, uno degli spiriti più profondi della tradizione alessandrina, vede, fin dall’inizio, tutta l’importanza del conflitto. Rifiutare a Maria il titolo di Madre di Dio (Teotokos) significa negare l’Incarnazione, poiché, se il Verbo si è veramente incarnato, è Dio Uomo (o Uomo-Dio in una sola persona; ma non Dio e uomo, come se vi fossero due persone). Maria è madre dell’Uomo-Dio, e non solo dell’uomo. Tutta una teologia dell’Incarnazione viene così iniziata, e San Cirillo ne incatena una ad una tutte le maglie. Fa approvare le sue tesi dal Papa San Celestino I e si fa dare mandato per ottenere l’adesione dell’Africa orientale alle sue formule. Essendosi riunito ad Efeso un Concilio, sotto il suo impulso e sotto quello del Papa, egli vi si reca con un rilevante gruppo di suffraganti, che gli assicurano una solida maggioranza. Maneggiando abilmente, farà approvare il suo operato dagli inviati del Papa e condannare Nestorio. Maria è proclamata « Madre di Dio », e San Cirillo, trionfante, parla di unione « fisica » di Dio e dell’uomo nel Cristo. – Ma il monofisismo di Eutiche è la maldestra e grossolana espressione di un semplicistico realismo, che tende a trascurare nel Cristo la natura umana per meglio esaltare la natura divina, identificata con la persona. I veri teologi di questo gruppo non evitano le confusioni se non attraverso sottili sottintesi. Il papa interviene ancora una volta: San Leone contribuì direttamente lui stesso alla scelta della formula definitiva: « Un solo e medesimo Cristo… in due nature », così la Chiesa finì con l’esprimere, con il minimo di parole, la sostanza del mistero dell’Incarnazione. La espressione era felice nella sua brevità; finì con l’imporsi ma non senza difficoltà. Intere popolazioni cristiane dovevano resistere, meno preoccupate dell’ortodossia che della politica. Esse uscirono dalla cattolicità per attaccamento a formule locali o a punti di vista personali, a detrimento della fede cattolica, che San Leone rappresentava con un prestigio incomparabile e un’autorità senza uguali. Egli incarnò veramente l’intera Chiesa Cattolica in questa circostanza e nell’insieme del suo Pontificato. Per la sua azione dottrinale come per quella pastorale, meritò veramente il nome di Grande. – L’Impero d’Occidente cadde poco tempo dopo la sua morte, ma il Papato, che egli aveva tanto onorato, beneficiò ancora per lungo tempo del suo prestigio, e questa forza fu una benedizione per i popoli nuovi che dovevano a poco a poco entrare nel Cattolicesimo. – I Papi conservavano un’alta autorità spirituale nell’universale disordine causato dall’arrivo dei barbari. Un altro Papa, San Gregorio, chiamato anche lui Grande, doveva lavorare con successo a introdurli, ad uno ad uno, in seno alla cattolicità, e questa trovava nella sua fedeltà alla fede tradizionale una forza capace di trasformare i costumi di invasori senza cultura. La grandezza dei Vescovi di quel tempo e specialmente degli scrittori chiamati Padri, per quanto modesta potesse essere la loro cultura letteraria, fu proprio nel loro attaccamento a questa profonda tradizione religiosa che noi chiamiamo cattolica: essa ebbe la forza di trarre fuori un certo ordine dal caos occidentale. L’Impero di Oriente resistette provvidenzialmente nel suo centro, a forza di coraggio e di senso politico, alla pressione persiana, poi a quella degli Arabi, non senza abbandonare importanti provincie. Allo scopo di difendere il loro dominio, vero bastione della cristianità, gli imperatori attrassero a volte i Vescovi verso predominanti preoccupazioni terrene, a detrimento dell’universalità, specialmente nel VII e nell’VIII secolo, ma il senso cattolico non fu mai soffocato nei migliori, e i Padri di quel periodo ne furono ancora, a Bisanzio, eminenti difensori, particolarmente nel campo della teologia mariana, di cui restano i migliori testimoni, e nella difesa del culto delle immagini, con San Germano, San Giovanni Damasceno e San Teodoro Studita.

La Chiesa e la Città di Dio

I diversi aspetti della Chiesa che abbiamo richiamato evocando i loro migliori testimoni sono, tutti e tre, eminentemente spirituali. Ma ve n’è uno ancora più elevato e più vasto, che li sintetizza, arricchendoli, su un piano tutto particolare: è il tema della Città di Dio, cui Sant’Agostino ha consacrato la più grande e la più celebre delle sue opere, dopo le Confessioni e il De Trinitate. In queste, il Santo mostra Dio, il Dio in tre Persone, che prende possesso della sua anima, a dispetto delle sue resistenze: poiché, se il peccato ha abbondato in lui, la grazia ha sovrabbondato. Ciò che aveva costatato lui stesso e potentemente descritto in lunghe meditazioni, preghiere e ricerche, all’inizio del suo episcopato, Agostino lo ritrovò, su un piano più vasto, quindici anni più tardi, dopo il 410, quando meditò sulla sorte dell’impero e dell’umanità intera, dopo la presa di Roma da parte dei Visigoti, poiché la Città di Dio è anzitutto una prolungata riflessione sul posto dell’uomo nell’universo e il profondo orientamento verso una vita eterna che sola merita veramente il nome di « Città di Dio ». Questa città è caratterizzata da uno spirito, che trae la sua vera forza dall’amore di Dio, predominante al punto di abbracciare tutte le aspirazioni dell’uomo e di guidare tutte le sue attività. Egli vi riesce, nella misura in cui contiene l’egoismo o la ricerca dei piaceri inferiori. Per meglio fissare i caratteri di questa città « celeste », egli l’oppone ad una forza, senza dubbio meno costruttiva, ma capace anch’essa di orientare le attività umane: è la città «terrestre», considerata nei suoi principi, in particolar modo l’amore di sé. Di qui l’affermazione fondamentale, che costituisce la tesi dell’opera: «Due amori hanno dunque costruito due città: una terrestre, frutto dell’amore di sé fino al disprezzo di Dio; l’altra celeste, frutto dell’amore di Dio fino al disprezzo di sé » (Città di Dio, 1. XIV, e. 28). Già fin dalle prime parole dell’opera, la Città di Dio è chiamata da Agostino « gloriosissima ». Per lui, l’essenziale di questa città è nella vita futura, « in questa stabilità della sua condizione eterna ch’ella aspetta con pazienza (Rom., VIII, 25). Tuttavia, egli dovrà considerarla anzitutto e a lungo « nell’attuale corso del tempo in cui essa cammina vivendo della fede fra gli empi » (Città di Dio, 1. I, c. 1). E nei primi libri, in modo particolare nei cinque che formano un lungo portico del vasto monumento in costruzione, egli segnalerà le tendenze delle città terrestri, il cui spirito è così diverso dall’altro, poiché in esse trionfano l’orgoglio ed il desiderio di dominare (ibid). Il primo libro è una risposta generale destinata a far risaltare la fede dei Cristiani che sono stati turbati, da una parte, dagli orrori commessi dai Visigoti nella città da loto conquistata, e dall’altra, dai lamenti dei pagani che rimpiangono i loro dei. Agostino mostra loro che nulla di definitivo è stato compiuto, agli occhi della fede, fino a che non vi è una vera debolezza morale, e che le lagnanze degli idolatri sono ancor meno fondate di quelle dei Cristiani, poiché il paganesimo non ha prevenuto in passato alcun disordine. Questo tema è sviluppato nei tre libri seguenti, in cui i vizi degli antichi romani sono descritti con un’abbondanza eloquente e troppo giustificata. Nel libro V, Agostino passa da questa argomentazione ad hominem a questioni generali sulle cause della grandezza romana, indiscutibile, ma che bisogna giudicare alla luce di Dio. Arriva così a stimolare i Cristiani con il ricordo delle virtù sulle quali si è stabilita la forza imperiale capp. XV-XVI). Se Dio ha così ricompensato virtù umane radicalmente viziate dall’amor proprio, a ben maggior ragione terrà conto delle virtù soprannaturali nella misura in cui saranno pure. L’impero romano è stato opera della Provvidenza (e. XXI). E il libro si chiude nell’elogio dei due grandi imperatori cristiani lel IV secolo, Costantino e Teodosio (capp. XXV-XXVI). – In questa complessa apologetica, Sant’Agostino ha simultaneamente di vista i due ordini, e più ancora le due epoche, se così si può dire: quella del tempo che passa, in cui viviamo, quella dell’eternità che si prepara e verso cui noi andiamo. Questa magistrale esposizione prosegue nei libri VI – X, con un’altra sintesi che nasce da una apologetica superiore, soprattutto d’ordine dottrinale. Agostino vi fa una critica delle antiche speculazioni filosofiche e della religione greco-romana. Ma non dimentica di farvi notare molti elementi superiori di cui la rivelazione cristiana ha saputo felicemente trar partito. La filosofia platonica ha tutta la simpatia dell’autore, che vi indugia nel libro VIII. Egli attribuisce persino a Platone, il suo maestro preferito, molte precisazioni personali che il suo genio, illuminato dalla fede, reca alle vedute del pensatore ateniese, ritrovato attraverso Plotino. – I dodici seguenti libri, che, in effetti, espongono, in tre parti, l’origine (XI-XIV), lo sviluppo (XV-XVIII), e la fine (XIX-XXII) della città di Dio, sono consacrati in modo particolare a descrivere l’ordine soprannaturale voluto da Dio nel seno dell’umanità. Gli aspetti naturali o filosofici dell’argomento non vi sono trascurati, soprattutto nello studio delle origini; ma il divino vi domina in tutto ed ha la sua preponderanza, fino alla famosa nozione delle due città, che è la conclusione della prima tappa (l. XV, c. 28). La storia ha la prevalenza nella seconda fase, e di nuovo la dottrina riprende i suoi diritti nella terza. Per quanto il pensiero del Santo si libri così in alto, si ammirano in modo particolare, nel XIX libro, le sue penetranti vedute circa la collaborazione di due città, in vista di una pace ch’egli considera non solo sopra un piano metafisico universale (tranquillitas ordinis), ma sopra un piano umano e sociale (ordinata concordia). Quest’ultima formula contiene tutto un programma di azione cristiana in questo mondo. Ma tale punto di vista, per quanto importante, resta secondario, paragonato alle supreme realtà verso le quali la fede orienta invincibilmente l’umanità e di cui trattano i tre ultimi libri: fine del mondo e giudizio universale, castigo dei dannati in inferno, beatitudine degli eletti in un Cielo che è la vera città di Dio (l. XX-XXII); solo questi alti e vasti orizzonti rispondono alle preoccupazioni religiose e umane del grande dottore. – La Chiesa ha appunto la responsabilità diretta e esclusiva dell’ordine soprannaturale che abbiamo ora descritto. La sua stessa costituzione, stabilita da Cristo, l’adatta perfettamente ad esso. Non è una società angelica ma una società umana, corporea sotto certi riguardi, ma spirituale sotto altri, e questo punto di vista predomina sempre. Essa è apostolica, fidando di una tradizione che risale alle origini cristiane; è cattolica, cioè universale, per il campo nel quale agisce, che trascende gli interessi nazionali; e infine supera persino gli Stati, sul piano soprannaturale che è il suo oggetto proprio, senza d’altronde mirare a dominarli, anche se esige da essi il riconoscimento cui le dà diritto la sua missione. La Chiesa ha potuto, nel Medio Evo, accettare o esigere una autorità di ordine umano, permettendoglielo o anche imponendoglielo le condizioni sociali del tempo, per rassicurarsi l’indipendenza necessaria. A torto, senza dubbio, si appoggiarono queste esigenze sulla Città di Dio, poiché il punto di vista agostiniano si tiene ad un livello molto superiore, ma i motivi invocati e le condizioni sociali potevano, a quel tempo, giustificare questo richiamo a dottrine d’un altro ordine: « l’agostinianesimo politico » non è agostiniano se non in un senso molto largo, più spirituale che politico.

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (4)

IL SACRO CUORE DI GESÙ (38)

IL SACRO CUORE (38)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE SECONDA.

Spiegazioni dottrinali. (1)

La divozione al sacro Cuore di Gesù entra nel dominio della storia e in quello della teologia. Nel modo, con cui si è propagata fra i fedeli ed è stata ammessa ufficialmente nella Chiesa, come culto pubblico, dipende principalmente dalle rivelazioni fatte alla beata Margherita Maria. Ma il culto non si appoggia, per parlare propriamente, su queste rivelazioni; esso ha un fondamento teologico, ed è stato ammesso, dalla Chiesa, in se stesso e per se stesso. È appunto l’idea teologica della divozione che cercherò ora di svolgere. Però non perderò il contatto coi fatti, perché quello di cui si occupa la teologia non è già il culto del sacro Cuore, preso astrattamente, ma bensì quello che fu chiesto a Margherita Maria. Questo culto è vivente. Può svilupparsi e difatti si sviluppa. La Chiesa interviene, di tratto in tratto, per accettare e approvare il nuovo sviluppo, ma questo sviluppo precede l’accettazione della Chiesa, e la Chiesa lo accetta, precisamente, perché è legittimo nel senso della divozione. Si rileva da ciò quanto sia complesso questo studio teologico, e come si debba tener conto della natura delle cose come dei fatti storici, del pensiero vivente, dei documenti ufficiali, e delle pratiche comunemente accettate. – Utilizzando queste diverse sorgenti d’informazioni, verremo a conoscere la divozione e sapremo quale ne è l’oggetto, quali ne sono i fondamenti, quale lo spirito e l’atto proprio. Gli autori aggiungono generalmente nella loro trattazione dei capitoli sull’eccellenza, il fine, la, pratica di questa divozione; ma ciò che vi ha di teologico, in questi capitoli, si collega naturalmente, a uno dei punti indicati. Mi sembra, invece, più utile per chiarezza maggiore, confrontare questa divozione con altre analoghe, per vedere in che cosa somiglia loro o ne differisce. Aggiungerò poscia qualche parola in questo senso (Siccome la bibliografia del soggetto mi obbligherebbe a dare una nota smisuratamente lunga, rimando il lettore alla fine del volume alla Nota bibliografica. Là si troveranno le indicazioni complete citate in riassunto nel testo, o a pie di pagina.)

CAPITOLO I.

OGGETTO PROPRIO DELLA DIVOZIONE AL SACRO CUORE

La questione è di sua natura complessa. Ed è resa ancor più complicata, dalle difficoltà della terminologia. Lascerò da parte non per tanto i termini troppo tecnici, e mi sforzerò di studiare le nozioni in se stesse e di esprimerle nel linguaggio corrente. Bisogna dapprima, per orientarsi, ricordare il senso differente che diamo alla parola cuore, nel parlare giornaliero.

I.

SIGNIFICATO E UFFICIO DELLA PAROLA CUORE

Senso materiale. — Senso simbolico. — Senso figurato. — Metafora e simbolo. — Il cuore per la persona.

Considereremo, prima di tutto, il cuore di carne, il cuore materiale. Lo riguarderemo poi in un senso figurato, dove non è più considerato il cuore materiale, ma qualche cosa come avente rapporto con esso : « Quest’uomo ha cuore, è un gran cuore, è un cuore vile ». Che l’idea del cuore materiale non sia assente in queste formule si rileva anche da frasi come questa del poeta latino: « Nilne salit læva sub parte mamillæ? », o quella del poeta francese: « Ah! malheur a celui qui laisse la débauché. Planter le premier clou sous sa mamelle gauche! ». Si rileva pure nelle frasi che ci son famigliari: « Non avete dunque nulla che vi batta nel petto? ». « Avete dunque una pietra invece del cuore? » È evidente che in tutti questi casi non è al cuore materiale che si rivolge il pensiero; la frase ha un senso d’ordine morale. Ma qual è questo senso morale e di quale natura si è il rapporto che si concepisce fra il cuore materiale e l’idea morale che si esprime? La questione sarebbe lunga a trattare, tanto più che questo senso è complesso e differisce, spesso, da una lingua all’altra; differisce qualche volta nella stessa lingua il rapporto, confusamente intravisto e si risente delle idee che ci formiamo della psicologia del cuore e del suo ufficio nell’animale e specialmente nell’uomo. Chi non sa, per esempio, che il cordatus homo in latino è piuttosto un uomo di senso che un uomo di cuore? (La parola pectus è, in molti casi, quella che meglio corrisponde alla nostra parola cuore. I Latini la contrapponevano qualche volta a cor, come i francesi contrappongono cuore a testa. Si cita in questo senso, la parola di Plauto, quando ci parla delle donne: « Eam des…, cui sapiat pectus; nam cor non potest, quod nulla habet ». La parola viscere è ancora molto usata per designare il cuore, l’amore, la tenerezza, come quando diciamo : « aver viscere di padre ». Così S. Paolo dice ai Filippesi ; « io vi amo in visceribus Christi ». Così nel cantico Benedictus: « Per viscera misericordiæ Dei nostri ».) Invece la parola cuore, in francese, risponde ora all’idea dell’amore, ora a quella del coraggio, ora a quella dei nobili sentimenti della vita affettiva intensa e profonda. Chi non sa che una fisiologia poco esercitata ha attribuito al cuore un ufficio poco definito, ma eccessivo, come organo di tutta la nostra vita intima? La divozione al sacro Cuore, non esige la soluzione di tutte queste questioni. Qualche nozione sommaria basterà per farcene vedere l’oggetto e il fondamento. Questa stessa divozione, come è compresa e praticata nella Chiesa, ci aiuterà a scegliere fra queste nozioni un po’ confuse, quelle che possono essere utili; per farsene un’idea chiara e precisa. – Frattanto rileviamo, con una rapida occhiata ai fatti, quello che ci fa conoscere il linguaggio abituale.

1. La parola cuore risveglia subito, come prima idea, quello dell’organo materiale di cui tutti hanno una nozione confusa, che vien rappresentata nella maniera convenuta e che ci è famigliare, che sentiamo battere nel nostro petto e che travediamo vagamente come in intimo rapporto con la nostra vita intima, affettiva, di cui sentiamo come un eco nelle condizioni e nei palpiti di questo cuore.

2. Questo cuore materiale, a causa di questo rapporto vagamente travisto, è preso abitualmente come segno simbolico, come emblema di questa vita affettiva e morale. Di qui il posto del cuore nel linguaggio dei segni e degli atti. Di qui, l’uso di questa parola nelle formule famigliari: Aprire il cuore, vale a dire, svelare i più intimi sentimenti. Diciamo che il cuore ci batte forte, per significare che siamo molto commossi; dare il cuore a qualcuno, vuol dire dargli il nostro amore.

3. In questo linguaggio simbolico bisogna distinguere, come sempre, il segno, la cosa significata e lo scopo del significato. Qui il segno è il cuore di carne, la cosa significata, è la vita intima, la vita affettiva e morale, è particolarmente l’amore; lo scopo del significato è il rapporto fra il cuore materiale e questa vita intima, questa vita affettiva e morale, quest’amore sentito. Questo linguaggio simbolico è meno analitico di quello che le parole lascerebbero intendere, ma, per chi sa intendere, è espressivo, chiaro, rapido e comprensibile. Quando viene a unirvisi la parola, è il linguaggio umano per eccellenza, riunendo insieme l’immagine e l’idea, la cosa e la nozione.

4. Accade qualche volta, che il simbolo rimanga vuoto del suo contenuto materiale. Si dimentica il segno per non vedere che la cosa significata. La parola anima, per esempio, non presenta più al nostro spirito, almeno in una maniera cosciente e distinta, l’immagine del soffio con la quale ci si era rappresentata quando si designava il principio del nostro essere. Così può accadere che la parola cuore non ci ricordi più direttamente che il coraggio o amore. In questo caso, si ha ancora una traccia di simbolismo nel linguaggio, ma per quello che è del pensiero non vi ha più altro simbolo che la parola; il cuore cessa di essere una cosa reale, che ne significa un’altra; è un segno, e non è più altro che un segno. Rimane, pertanto, un ricordo delle origini della formula. E’ ciò che fa dire che l’espressione è figurata; è per figura, per metafora, che si usa la parola cuore per significare l’amore. Si vede da ciò la differenza fra l’espressione simbolica e l’espressione metaforica: il simbolo è una cosa che ne ricorda un’altra, la metafora è una figura di linguaggio per la quale una parola significa altra cosa del significato che ha nel senso proprio.

5. Quelli che hanno studiato ben da vicino la divozione al sacro Cuore sono stati condotti, dall’agitarsi delle opinioni e delle controversie, a distinguere in Gesù, come in noi, il cuore di carne, il cuore simbolico e il cuore metaforico. Il cuore di carne, è l’organo ove risuona l’amore; il cuore simbolico è ancora l’organo, ma come portante un’idea, come emblema d’amore; il cuore metaforico è l’amore significato senza porre attenzione diretta all’organo che ha fornito il nome. Questo linguaggio non è perfetto, ma spiccio e comodo; una volta spiegato, ricorda e riassume le nozioni. Ce ne serviremo all’occasione.

6. Infine noi constatiamo che, nel linguaggio abituale si passa incessantemente dalla parte al tutto, dal cuore alla persona. « È un gran cuore » si dice. Non già che l’espressione sia indifferente, come se fosse la stessa cosa dire: Gesù, o dire in questo senso: Il sacro Cuore. L’uso della parola cuore, significa sempre che si riguarda la persona come amante, coraggiosa, ecc. nella sua vita affettiva e morale. È forse il cuore di carne che si prende così per la persona? È il cuore metaforico? Non sembra che sia il cuore di carne in se stesso. È piuttosto il cuore simbolico o il cuore metaforico; ora l’uno, ora l’altro, secondo che il pensiero vede il simbolo o la cosa significata.

II.

IL CUORE DI CARNE. OGGETTO DI DIVOZIONE AL SACRO CUORE

Dóppio scoglio : non vedere che l’organo, non vedere l’organo. — L’organo materiale è oggetto del culto.

Il culto si riferisce sempre alla persona. E’ dunque la Persona di Gesù che onoriamo, onorando il suo Cuore, come è alla persona che si rende omaggio quando le si bacia la mano. Ma così cerchiamo l’oggetto proprio e particolare. Qual è dunque, così inteso, l’oggetto della divozione al sacro Cuore? È il cuore di Gesù. Ma è il cuore di carne solamente e in se stesso? È l’amore solo? È il cuore di carne come emblema dell’amore? Le tre risposte sono state date; la terza sola è la buona. I nemici del culto, giansenisti o razionalisti, hanno affettato di non vedere che il culto al cuore di carne e come tale hanno attaccato la divozione. Ma io non so, veramente, che si sia mai intesa da alcuno la divozione in questo senso esclusivo. Quelli che, come Galiffeto Perrone, hanno insistito sul culto al cuore di carne, lo hanno fatto per dire che non era unicamente il culto dell’amore, del cuore metaforico, non già per escludere il cuore simbolico, né l’amore simboleggiato. L’opinione del cuore metaforico o del solo amore, è stata messa innanzi da qualche nemico della divozione, che ha avuto cura del resto, da vero giansenista, di non romperla apertamente con la Chiesa, pur mantenendo le proprie idee. – Quando, nel 1765, Clemente XIII, approvò la divozione, che i giansenisti avevano combattuto con tutte le loro forze, essi tentarono di trionfare perfino nella loro disfatta. Il decreto diceva: « La sacra Congregazione dei riti, vedendo il culto del sacro Cuore già diffuso in quasi tutte le parti del mondo cattolico, comprendendo che la concessione di una Messa e di un Ufficio non ha altro effetto che di accrescere il culto già stabilito, e di rinnovare simbolicamente il ricordo del divino amore, col quale il Figlio unico di Dio ha preso la natura umana, e, obbedendo sino alla morte, ha dato in esempio agli uomini, secondo la sua propria parola, la dolcezza e umiltà del cuore…. », e in latino: « intelligens hujus missæ etm offìcii celebratione non aliud agi quam ampliavi cultum jam institutum, et symbolice renovari memoriam illius divini amoris, quo unigenitus Dei Filius humanam stiscepit naturam, et factus obediens usque ad mortem præbere se discit exèmplum hominibus, quod esset mitis et umilia corde…. » (Citato da NILLES, t. I, parte I, c. III, par. 4» , t. 1, pag. 152). Non si poteva più sostenere che la Chiesa rigettava il culto. Però si prese ad appoggiarsi sulla parola symbolice per insistere sul punto che non ammetteva (la Chiesa) la divozione al cuore di carnè, e che vi sostituiva la divozione al cuore simbolico. Come se il cuore simbolico si opponesse al cuore di carne e si confondesse con l’amore o cuore metaforico (Vedere le false interpretazioni del continuatore di Fleury, di Scipione Ricci, di Pannili, ecc in: NILLES, t. I , p. 161, 162, 222, 353, 354. 358 e u. e passim.). Altri, d’altronde eccellenti Cattolici, spaventati dai clamori del giansenismo o del libero pensiero, sono caduti nello stesso errore. Così Feller nel XVIII secolo; così qualche altro nel XIX. Questa opinione non regge dinanzi ai testi. Una cosa infatti risulta evidente: la divozione al sacro Cuore si riferisce al cuore di carne. Così l’intendeva la beata Margherita Maria. Fu mostrandole il suo cuore di carne che Gesù disse: « Ecco il cuore che ha tanto amato gli uomini, che non ha risparmiato nulla sino ad esaurirsi e consumarsi per dimostrare loro il suo amore ». Così lo spiegano il P. Croiset, il P. Galliffet e tutti coloro che han compreso la divozione come la comprendeva la beata. Così i postulatori della causa nel 1697, nel 1727 (questi era il P. Galliffet medesimo), nel 1765. Così l’intendevano i nemici, ed è contro la divozionine al cuore di carne che si arrabattarono in termini degni di quelli di cui si servivano i protestanti contro la presenza reale di Gesù nell’ Eucaristia. Essi dicevano che la concessione di Clemente XIII, nel 1765, aveva cambiato lo stato delle cose, sostituendo il cuore simbolico al cuore reale; ma il testo dice espressamente il contrario: « nihìl aliud agi quam ampliavi cultum jam institutum ». L’approvazione di Roma, nel 1765, ritornava su quello stesso che era stato rigettato nel 1729. I vescovi polacchi, nella loro supplica si spiegavano chiarissimamente, ed è a questa supplica che la sacra Congregazione dei Riti acconsentì, annuendum censuit,- affermando espressamente che ritrattava le decisioni del 1729 « prævio vecessu a decisis sub die 10 julii 1729 » ((In NILLES, t. I, pag. 153). – Pio VI si disponeva a rimettere le cose a posto. Rilevando nella bolla Auctorum fidei nel 1794 le insinuazioni malevoli del sinodo di Pistoia contro quelli che dimenticano, onorando il sacro Cuore, che la carne santissima di Cristo, o ciascuna sua parte, o l’umanità tutta intera, se si separa o se ne fa astrazione dalla divinità, non può essere adorata e continuava: « come se i fedeli adorassero il Cuore di Gesù separandolo o facendo astrazione dalla divinità, mentre che la adorano come il Cuore di Gesù, vale a dire il Cuore della persona del Verbo, alla quale è inseparabilmente unito, in quel modo che il corpo inanimato di Cristo, durante i tre giorni dalla sua morte, senza separazione della divinità è stato adorabile nel sepolcro » (Cf. : NILLES, t. I, p. 353-354). Alle insinuazioni dello pseudosinodo, il Papa non risponde già negando che i fedeli adorino il cuore di carne; ma conferma che hanno ragione di adorarlo come fanno. – In mancanza di altri argomenti, basterebbe ricordare che nell’Ufficio del sacro Cuore, come nei documenti che riguardano la beata Margherita Maria, si fa sempre questione del cuore trafitto dalla lancia. È dunque al cuore di carne che si riferisce il culto (Vedi: NILLES, L. I, part., II, cap. III, t. I, p. 350 s. ove sono i testi ai quali si è fatto allusione e molti altri).

III.

IL CUORE DI CARNE EMBLEMA D’AMORE

L’oggetto del culto non è il cuore di carne in se stesso e per se stesso, ma come simbolo d’amore.

Il culto va al cuore di carne, ma non vi si arresta. Tutto nella santa umanità di Gesù è adorabile. Ma la Chiesa non separa mai una parte di questo tutto divino, per quanto nobile sia, per renderle in se stessa, o in vista di se stessa, un culto particolare. Potrebbe farlo, ma non vediamo che lo abbia mai fatto. Essa teme, come per istinto, il fervore indiscreto che, dopo questa parte, vorrebbe onorare quest’altra parte, senza misura. Era una delle difficoltà che si opponevano ai promotori della divozione; e dovevano risolverla. Ed essi la risolvevano, molto bene, mostrando che, per onorare il sacro Cuore, vi sono delle ragioni speciali. Mostravano la nobiltà e la dignità di questo cuore, l’importanza di questo organo vitale del corpo di Gesù. Ma non si fermarono qui; mostrarono nel sacro Cuore l’emblema del suo amore, il segno espressivo e vivente delle sue impressioni intime, la rappresentanza efficace di ciò che era stato, di ciò che aveva fatto e sofferto per noi. – Forse non se lo erano sempre detto con chiarezza perfetta, ma avevano però coscienza che, se la Chiesa distingue nel tutto teandrico una parte per farne l’oggetto di un culto speciale, è che vi vede un segno o una memoria di realtà misteriosa, di beneficio speciale o di speciale segno d’amore. La festa del Corpus Domini non è tanto la festa del corpo di Gesù, ma la festa della presenza reale eucaristica, la festa del SS.mo Sacramento; quella delle cinque piaghe non ha tanto per oggetto d’onorare le piaghe in se stesse, o il corpo ferito, quanto di ricordarsi quanto Gesù ha sofferto per noi nelle sue sofferenze. Il culto del santo Volto è il culto di una vera immagine che ci ricorda la Passione. La Chiesa potrebbe senza dubbio rendere un culto al volto adorabile di Gesù, nella sua realtà, come pure alle sue sante mani, indipendentemente dalle piaghe, o alla sua santa spalla. Lo farebbe se un soffio dello Spirito Santo orientasse in questo senso la divozione dei fedeli. Ma quello che adorerebbe, in ogni caso, non sarebbe né il volto, né la spalla, né le mani in se stesse considerate; ma sarebbe il santo volto oltraggiato nella Passione come riflettente l’anima di Gesù e i sentimenti intimi del suo cuore; sarebbe là sua santa spalla piagata dal peso dalla croce e che ci sarebbe ricordo dal peso di cui volle caricarsi per nostro amore; sarebbero le sante mani del divino operaio che ci ridirebbero che ha lavorato per noi e ci ha dato esempio di amore nel lavoro. Così la divozione al cuore di Gesù, pur riferendosi al cuore, non vi si arresta; ci va come al simbolo del suo amore, come al segno espressivo di ciò che è stato, di ciò che ha fatto e sofferto per amor nostro. Non è forse quello che diceva Gesù a Margherita Maria: « Ecco il cuore che ha tanto amato gli uomini, che non ha risparmiato nulla, sino a esaurirsi e consumarsi per loro »? È il cuore amante che onoriamo, non è né l’amore in se stesso e neppure il cuore in se stesso, è l’amore di Gesù, « sotto la figura di un cuore di carne », come dice la beata; e il cuore di carne, ma come emblema. L’oggetto proprio della divozione è il cuore simbolico, che è sempre, non si potrebbe ripeter troppo, il cuore reale e non il cuore metaforico. Qui ancora i documenti sono molto espliciti e fa meraviglia che, sin dall’origine, si sia saputo spiegare con tal precisione un culto così complesso (NILLES, L. I, parte II, cap. III, § 4, p. 372 sq.). – Sino dal tempo d’Innocenzo XII (1693) vediamo delle confraternite erette sotto il titolo del Cuore di Gesù e del suo perpètuo amore (Nondimeno molti duran fatica a farsi delle idee precise a questo riguardo. Mons. DUPANLOCP scriveva nel 1871, nel suo Giornale intimo, il giorno della festa del sacro Cuore: « Vista chiara di ciò forma. per molti una difficoltà ed è che si materializza troppo questa ammirabile divozione. La difficoltà non è per quelli che vivono questa ammirabile divozione, ma per quelli che la vedono dal di fuori »). E il P. Galliffet non cessa di ripetere che l’oggetto della divozione è il « Cuore adorabile di Gesù Cristo, infiammato d’amore per gli uomini » (NILLES, L. II, parte II, c. II, § I, p. 338). E sino dal 1691, P. Croiset scriveva: « La devozione al sacro Cuore non consiste solo nell’amare, onorare di un culto singolare  questo cuore di carne, simile al nostro, che fa parte del corpo adorabile di Gesù Cristo. Non è già che questo cuore adorabile non meriti le nostre adorazioni. Quello che si vuole è di far vedere che si prende qui questa parola, cuore, nel senso figurato, e che questo divin cuore, considerato come una parte del corpo adorabile di Gesù Cristo, non è propriamente che l’oggetto sensibile di questa divozione, e che il motivo principale è solo l’amore immenso che Gesù ci porta. Ora quest’amore essendo tutto spirituale, non si poteva renderlo sensibile. È stato dunque necessario trovare un simbolo; e qual simbolo più proprio naturale dell’amore che il cuore ? » (La dévotion au sacre Cosar, prima parte, c. I, p. 4 – 5). Nel Memoriale, presentato nel 1728 sotto gli auspici del re di Polonia e del vescovo di Cracovia, si legge: « Non vi è nulla nel mondo sensibile e corporale, che possa esser proposto con maggior ragione al culto dei fedeli, che questo sacro Cuore così amante e così afflitto. Poiché non vi ha nulla che contenga e rappresenti meglio i più sublimi misteri; niente la cui vista sia più capace di risvegliare nel cuore dei fedeli, affetti più santi; niente che esprima meglio, agli occhi del corpo e a quelli dell’ anima, l’amore immenso di Nostro Signore Gesù Cristo; niente che ricordi meglio tutti i benefici dell’amatissimo Redentore; niente che mostri più sensibilmente le intime pene che ha sofferto per noi. Tutto questo non è solamente contenuto e rappresentato in questo sacratissimo Cuore (Tale come si vuol dipingere e presentare all’adorazione dei fedeli), ma vi si vede disegnato e scolpito. « Hæc enim omnia in eo sacratissimo Corde, non contenta solum ae repræsentata, sed descripta quodammodo et quasi insculpta cernuntur » (« Prout pingi solet et adorandum exiberi », così è spiegato nella Memoria dei vescovi Polacchi, nel 1765, che riporta questo passaggio; N . 40; cf.: NILLES, pag. 2 t.). La Memoria presentata dai vescovi polacchi alla S. C. dei Riti, sotto Clemente XIII, nel 1765, esprime lo stesso concetto in termini un po’ differenti: « Si onora il sacro Cuore non solo come simbolo di tutti i sentimenti interiori, ma tale come è in se stesso. « Non tantum ut est symbolum omnium interiorum affectuum, sed ut est in se » (Memoriale, n. 32, NILLES, t. I, parte I , c. III, § 3. t. I, p. 116). Hanno paura che si intenda il cuore nel senso puramente metaforico; ma d’altra parte, vogliono che si riguardi al cuore di carne come « vivente, sensibile, pieno d’amore per gli uomini » (Memoriale, n. 32 – 33, NILLES, p. 116-117). – Nella Replica alle «Eccezioni » del promotore della fede, vi troviamo, se è possibile, dei testi anche più espliciti. « In più d’uno esiste della confusione. Riguardano l’oggetto proprio della festa, il cuore di Gesù in modo tutto materiale come sarebbe la reliquia di un corpo santo, religiosamente conservata in un reliquiario. È un grand’errore. Non è così, per null’affatto, che si deve comprendere la festa del sacro Cuore. Come si deve dunque intendere? Lo diremo in pochi paragrafi. Bisogna considerare il cuore di Gesù:

1. Come non facente che uno (a causa della stretta unione) con l’anima sua e la sua divina persona;

2. Come il simbolo o la sede naturale di tutte le virtù e di tutti i sentimenti interiori di Cristo, e, in particolar modo, l’amore immenso che Egli ha avuto per il Padre e per gli uomini;

3. Come il centro di tutte le pene intime che l’amatissimo Redentore ha subito durante tutta la sua vita e soprattutto nella sua Passione, per amor nostro;

4. Senza dimenticare la ferita che ricevé sulla croce, ferita cagionata non tanto dalla lancia del soldato, quanto dall’amore che dirigeva il colpo.

5. Tutto questo s’identifica nel cuore di Gesù, tutto questo si riunisce, per fare Egli stesso, col suo cuore, l’oggetto di questa festa. Da ciò ne segue, ed è un punto degnissimo d’osservazione che questo oggetto, così concepito, abbraccia veramente e realmente tutto l’intimo di Nostro Signor Gesù Cristo » (Memoriale n. 17, 18; N ILLES, p. 145-146. Gf. 11. 19, ibid.). Questo testo dice ancor più che non occorra presentemente, e lo ritroveremo ben tosto. Vi si vede, per il momento, che la divozione non si arresta al cuore di carne, ma che si estende a tutto quello che ricorda, a tutto quello che rappresenta. I documenti ufficiali sono più brevi; sono, però, ancor più espliciti in favore del cuore simbolico. Qualcuno vi ha tanto insistito, che vi si è veduto, ma a torto, la negazione del cuore fisico. Abbiamo già citato il simbolice renovari del decreto del 1765. L’inno alle Laudi nell’Ufficio della festa ci ripete la stessa cosa:

Te vulneratum caritas

Ictu patento voluit,

Amoris invisibilis

Ut veneremur vulnera

Hoc sub amoris symbolo

Passus cruenta et mystica,

Utrumque sacrificium

Christus sacerdos immolat (« L’amore ha voluto che foste ferito di una aperta ferita affinché veneriamo le ferite dell’amore invisibile. Sotto questo simbolo d’amore, ferita sanguinosa e ferita mistica, il Cristo sacerdote offre il doppio sacrificio »).

La stessa dottrina è ripetuta nella sesta lezione: « Ut fideles sub sacratissimi Cordis simbolo devotius ac ferventius recolant caritatem Cristi » (« Perché i fedeli, sotto il simbolo del cuore sacro onorano con più divozione e fervore l’amore del Cristo). Pio VI nel 1781, respingendo gli attacchi ingiuriosi del Ricci, scriveva che la divozione consiste, in sostanza, nel meditare nell’immagine simbolica del cuore la carità immensa e l’amore sì liberale del nostro divin Redentore, « ut in symibolica Cordis imagine immensam caritatem effusumque amorem divini Redemptoris nostri meditemur atque veneremur (NILLES, t. I, p. 345).

IV.

IL CUORE FERITO. IMMAGINI SIMBOLICHE

Il simbolismo del cuore ferito. Carattere simbolico delle immagini del sacro Cuore.

Ecco quello che deve essere ben inteso. È il cuore di carne che onoriamo nella divozione al sacro Cuore, perché  ci ricorda e ci rappresenta, in un simbolismo eloquente, l’amore e i benefìci di Dio fatto uomo; è il cuore di carne, ma come simbolo, come rappresentazione vivente. Questo simbolismo si completa mirabilmente per la presentazione del cuore, come cuore ferito. Come non vedere nella ferita visibile del cuore la ferita invisibile dell’amore? È ciò che canta l’inno alle Laudi, nelle strofe citate qui sopra. È per ciò che diceva il pio autore della Vitis mystica, in un passo che la Chiesa ha fatto suo inserendolo nell’ufficio del sacro Cuore: « Il vostro Cuore è stato ferito, affinché, per la ferita visibile, vediamo la ferita invisibile dell’amore…. L a ferita della carne i rivela la ferita spirituale » . « Propterea vulneratum est ut vulnus visibile vulnus amoris invisibile videamus. Carnale ergo vulnus vulnus spirituale ostendit ». È questo che la Chiesa e i devoti del sacro Cuore non cesseranno mai di ridire. Vedremo in seguito la parte che ha avuto questo simbolismo del cuore ferito nella nascita della divozione al sacro Cuore. Per il momento, accontentiamoci di considerare come è espressivo, quale carattere di amorosa vivacità imprima alla divozione, e come completi il simbolismo del Cuore. Le immagini del sacro Cuore devono aiutare a conseguire lo stesso effetto (Su l’iconografia del sacro Cuore si può consultare: GRIMOUARD DE SAINT LAURENT, Les images du Sacre Caeur, au poìnt de vue de l’histoire et de l’art, (Paris 1880) ; PARANQUE, La dévotion au Sacre Coeur de Jesus, étudiée en san image, Paris 1901; HATTLER, Die bildìsche Darstellung des qoettlichen Herzens Jesus, Innsbruch 1894; Le Règne du Coeur de Jesus, t. 11, p. 335 – 400; LETIERCE, t. II, p. 505 – 516; DUJARDIN, Appendice II; MUZZARELLI, Dissertazione, p. 39- 48; passim, soprattutto pag. 49, 248, 248). E si comprende; perciò ci si preoccupi poco dell’esattezza psicologica. È il cuore emblema che ci preme rappresentare ai fedeli. Ora si riscontra nei segni anche naturali una qualche convenzione che bisogna rispettare, sotto pena di perdere, in espressione, quel che si potrebbe guadagnare in realtà materiale. In una immagine del sacro Cuore esatta, come incisione anatomica, i fedeli durerebbero fatica a vedere il simbolismo del cuore. Si arriverebbe, forse, dopo una lunga scuola, a non esserne più sconcertati; ma non vi ha dubbio essere assai più vantaggiosa una qualche distinzione fra il cuore emblema e il cuore anatomico; il sottinteso dell’immagine è favorevole all’espressione simbolica. Così non erano già delle lezioni di anatomia che la beata Margherita Maria riceveva nelle sue visioni. Era sempre sotto forme fittizie che le era mostrato il sacro Cuore; e gli accessori stessi dell’immagine non servono che ad allontanare le idee di un verismo grossolano, per favorire il significato simbolico. Le istruzioni della beata, sono molto istruttive in questo senso. «Questo sacro Cuore, dice ella nelle sue Memoires, mi era rappresentato come un sole brillante di una viva luce, i cui raggi ardentissimi cadevano a piombo sul mio cuore » (Vie et Oeuvres, t. II, p. 327 (381). Riveduto su G. n. 55, p. 71). E più oltre : « Una volta, fra le altre …. il mio dolce Maestro si mostrò a me, tutto risplendente di gloria, con le sue cinque piaghe scintillanti come cinque soli. E da questa sacra umanità uscivano fiamme da tutte le parti, ma soprattutto dal suo petto adorabile che rassomigliava a una fornace; e, aprendolo, mi scoprì il suo amantissimo e amabilissimo Cuore, che era la vera sorgente di quelle fiamme ». Ma niente vale, a questo riguardo, ciò che ella ne scrisse al P. Croiset, il 3 novembre 1689, descrivendogli una delle principali manifestazioni del sacro Cuore: « Questo divin Cuore mi fu presentato come in un trono di fiamme, più raggiante di un sole e trasparente come un cristallo, con quella piaga adorabile. Era circondato di una corona di spine, che significavano le punture fattegli dai nostri peccati; e al disopra una croce, a significare che la croce vi fu piantata fino dai primi istanti della Incarnazione » (Lettres inédites, IV, p. 141; rivedute su G. CXXXIII, 567). È ben questo il cuore di Gesù, il suo cuore di carne che è mostrato alla beata, ma sempre, come si vede bene, sempre in modo da far rilevare l’espressione simbolica.

V.

IL CUORE DI CARNE E L’AMORE

I due elementi della divozione al sacro Cuore; loro subordinazione, l’amore oggetto principale. Si riscontrano dunque due elementi nella divozione al sacro Cuore: un elemento sensibile, il cuore di carne; un elemento spirituale in ciò che ricorda e rappresenta questo cuore di carne. E i due elementi non ne fanno che uno: il segno e la cosa significata. Gli autori dicono abitualmente che vi sono due oggetti in questa divozione: l’uno principale, che riferiscono all’amore, l’altro secondario, che è il cuore. Ed è vero. Ma ciò non vuol dire (tutti lo notano) che vi siano due oggetti distinti, semplicemente coordinati fra loro; o che l’uno dei due sia un accessorio nella divozione, come ne è stata, qualche volta, suggerita l’idea (Vedi: NILLES, t. I, parte II, c. II, S. 7, t. I , p. 335, nota). I due elementi sono essenziali, in questa divozione come l’anima e il corpo nell’uomo, e non fanno che uno come l’anima e il corpo fanno l’uomo. Ma, come l’anima ha supremazia sul corpo ed è l’elemento principale nell’uomo, così nella divozione al sacro Cuore, l’elemento principale è l’amore del Verbo incarnato. Tale è, io credo, il pensiero di tutti quelli che l’hanno studiato da vicino. In ogni caso, è il pensiero della beata Margherita Maria, quello dei principali teologi della divozione e quello della Chiesa. È come « amatissimo e amabilissimo » che Margherita Maria vede il sacro Cuore; il cuore che Gesù le scopre è « quel cuore che ha tanto amato gli uomini ». – I teologi della divozione danno la stessa spiegazione. Il P. Croiset comincia così la sua opera sulla Dévotion au sacre Coeur: « L’oggetto particolare di questa divozione, è l’amore immenso del Figliuolo di Dio che lo ha spinto a incontrare la morte per noi e a darsi a noi interamente nel SS. Sacramento dell’altare » (Parte prima, c. I , p, 1). E, dopo qualche spiegazione, continua: « È facile vedere che l’oggetto e il motivo di questa divozione si è l’amore immenso che Gesù Cristo ha per gli uomini, benché, per la maggior parte, non abbiano che del disprezzo o dell’indifferenza per lui ». Il P. Galliffet, a quelli che pretendevano che la nuova festa non si differenzia dalle altre feste come quella della Passione, del santissimo Sacramento, ecc., rispondeva: « L’oggetto immediato di queste feste non è propriamente l’amore di Cristo. In quella del sacro Cuore, al contrario, l’amore di cui arde questo santissimo cuore, è l’oggetto immediato della festa, in unione col suo cuore: in maniera che si può dire, con verità, che l’amore di Cristo verso gli uomini è propriamente e immediatamente, preso di mira in questa festa » (Citato da NILLES, t. I, parte II, e. II, § I, p. 340). E un po’ più avanti diceva: « Nessuno può esaminare, con una qualche attenzione la natura di questa festa, senza vedere in pari tempo che, sotto il nome e il titolo del cuore di Gesù, si tratta, in realtà, della festa dell’amore di Gesù. È qui l’essenza del cuore di Gesù » (Citato daNILLES, loco cit., p. 336. Il testo seguente è fors’anche più chiaro: la festa « avendo per oggetto spirituale l’amore di Gesù Cristo oltraggiato dall’ingratitudine degli uomini, nulla era più conveniente che dargli per oggetto corporale il cuore di G. C. come avente un legame essenziale con l’amore. Facciamo la festa del cuore perché facciamo insieme la festa dell’amore. Ecco il perché che ci si domanda ». Dévotion au sacre Coeur, libro III, c p. 228). Il P. Ferdinando Tetamo dice nella sua opera sul sacro Cuore, pubblicata nel 1779: « La festa del sacro Cuore ha per oggetto l’amore di Nostro Signore Gesù Cristo, simbolicamente rappresentato nel cuore materiale ». E il maestro delle cerimonie del palazzo apostolico citava nel 1860 queste parole come l’espressione della dottrina ammessa da tutti (Vedi: NILLES, loc. cit., pag. 342). – I documenti ufficiali dicono la stessa cosa. Abbiamo già citata la formula di concessione d’indulgenze a « favore delle confraternite del sacro Cuore e del suo amore perpetuo ». Nell’orazione della festa del sacro Cuore, diciamo: « Glorificandoci nel cuore santissimo del vostro Figlio diletto, noi riandiamo con la mente i principali benefici della sua carità ». Non già, si noti bene, solamente i suoi benefici, ma i benefici della sua carità. Si sono vedute, più sopra, le parole di Pio VI: « Sotto l’immagine simbolica del cuore, noi meditiamo e veneriamo l’immensa carità e l’amore liberale del nostro divin Redentore ». È inutile moltiplicare i testi. Tutti si trovano d’accordo.

VI.

IL CUORE SIMBOLO E IL CUORE ORGANO

Il rapporto del cuore con l’amore nella divozione. Simbolo od organo? Accordo nel fondo, divergenze accessorie.

Ma, necessariamente, s’incontrano delle divergenze, quando si tratta di definire e i rapporti del cuore con l’amore e dell’amore col cuore nella divozione. Qualcuna non si riscontra che nel modo di parlare. Si sono applicati in sensi diversi i termini di oggetto primo e di oggetto secondo, d’oggetto materiale e d’oggetto formale, di motivo e di fine, d’oggetto diretto e immediato (1( i ) Vedi TERRIEN, L. I, c. III, p. 24, 2 5 ; VERMEERSCH, articolo negli: Etudes, 1906, t. CVI, p. 170: MUZZARELLI, Dissertation, specie p. 34 – 39; vedi anche SAUYÉ, Le culte du S.-C. Paris, 1905, t. I , p. 29.). – Altre sono piuttosto divergenze di prospettiva e di punti di vista. Così il P. Croiset insiste molto meno sul cuore di carne che sull’amore; il P. Galliffet, invece, si preoccupa soprattutto del cuore di carne, ed è ad esso che riferisce tutto, e , non pertanto, essi non hanno diversa idea della divozione. Solamente le circostanze li inducono a prender di mira e a mettere in rilievo tale o tal altro aspetto speciale di un oggetto complesso. Qualcuna però sembra toccare il fondo della questione. Per il P. Galliffet e per quelli che hanno subito la sua influenza più immediata, l’idea del cuore emblema si nasconde, per così dire, dietro l’idea del cuore organo vivente. Egli vede nel cuore non solamente il simbolo di quell’amore che spinse Gesù a « esaurirsi e consumarsi » per noi; ma vi vede l’organo che ha amato, che ha sofferto, e in cui tutta la vita di Cristo ha avuto il suo intimo contraccolpo. Ai giorni nostri, al contrario, sotto l’influenza di una psicologia più esatta, si parla soprattutto del cuore emblema, si evita d’insistere sul cuore organo, A Roma stessa si è entrati in questa via. – Nel 1873, il concilio provinciale di Quebec rappresentava il cuore di Gesù come « la sorgente e l’origine dell’amore di Cristo, « Christi caritatis fontem et originem in ejus corde exitere ». La sacra Congregazione del Concilio sostituì alle parole fontem et originem, la parola symbolum, per non aver l’aria, approvando il concilio, di pronunziarsi su di una questione di psicologia o, come si diceva altra volta, di filosofia. – Qualcuno continua a parlare del cuore organo dell’amore; così il P. Billot scrive recisamente : « Il cuore è il simbolo dell’amore perché ne è l’organo » (« Cor non solum symbolum amoris est, sed etiam organum; imo symbolum quia organum; organum, inquarn amoris sensitivi et compassivi qui subjectatur in conjuncto ». Cf.: De Verbo incarnato, Thesis 38, p. 348, editìo quarta, Roma 1904). Ma, ordinariamente, si evita di usare questa espressione che arrischia di ricordare una fisiologia antiquata, pur rendendo molto bene l’idea tradizionale. Molti hanno adottato un’altra parola; essi dicono che il cuore è la sede dell’amore. L’espressione è stata usata anche in qualche documento pontificio, specialmente nel breve di beatificazione di Margherita Maria: « Cor illud sanctissimum divinæ caritatis sedem » (NILLES, t. I , parte II, c. II, § 2, p. 347). Questa parola ha il vantaggio di mostrare il rapporto naturale ed effettivo del cuore con l’amore, senza pronunziarsi sulla natura di questo rapporto. Noi sentiamo l’amore nel cuore: questo ne è dunque la sede. Vi sono qui due scogli da evitare: quello di collegare la divozione ad una psicologia inesatta e incerta; quello di non veder più nel cuore di Gesù che un emblema, un puro simbolo, senza rapporto vitale con la vita reale di Gesù. Il primo scoglio è stato quello del passato; il secondo potrebbe divenire lo scoglio dell’avvenire, se non si prestasse attenzione. Senza cercare, per il momento, di voler determinare in una maniera precisa il fondamento della divozione al sacro Cuore e l’importanza psicologica che si ritrova alla sua base, dobbiamo constatare che la divozione suppone un rapporto naturale fra il cuore e l’amore; e che il cuore è, di più, l’oggetto del culto ben altrimenti che come puro simbolo, ciò che non renderebbe esso stesso, se così posso esprimermi, interessato nel culto. Mi spiego. Si fa distinzione, come tutti sanno, del segno naturale e di quello convenzionale; il fumo è un segno naturale, il segno naturale del fuoco; la bandiera è un segno convenzionale della patria. Accettiamo questa distinzione. – Nella nostra divozione, il cuore è riguardato come segno naturale o come segno convenzionale? Si è d’accordo nel rispondere: come segno naturale. Ma perché come segno naturale? A causa del rapporto reale del cuore con l’amore. E di qual natura è questo rapporto reale? Non ho bisogno di dirlo come fisiologo. Non è necessario, per comprendere la divozione al sacro Cuore. Ma come si concepisce in questa divozione? Come un rapporto d’unione vitale e, insieme, di rappresentazione espressiva; come un rapporto di concomitanza storica e di richiamo. Qui ancora si rende necessaria qualche spiegazione. Un racconto di battaglia, o una iscrizione, mi ricordano la battaglia; una immagine me la rappresenta. Ma né il racconto, né l’iscrizione, né l’immagine, sono parte della battaglia. Una pietra, su cui si fosse seduto il generale vittorioso, la ciotola dove avesse bevuto durante la battaglia, l’uniforme che avesse indossato, non sono dei ricordi soltanto, sono delle reliquie. E che cosa sarebbe se il generale vittorioso fosse là, raccontandoci egli stesso la gloriosa giornata, dicendoci ciò che fece e provò, i fatti esteriori e le emozioni intime? È così che la Chiesa onora, come reliquie, la santa croce, la santa lancia, ecc., mentre le altre croci o le riproduzioni della santa lancia non hanno valore proprio, almeno nel senso che ci occupa. L’immagine detta della Veronica, se fosse l’impronta reale del santo volto di Gesù, come crediamo, sarebbe infinitamente preziosa, e come documento e come rappresentante i lineamenti dì Gesù, in quel momento della sua vita, e come reliquia; se non è che una immagine bizantina, h a certo il suo valore artistico, documentario, religioso, ma questo valore non è più del medesimo ordine. Ora nella divozione al sacro Cuore non si onora già il cuore di Gesù, come una semplice riproduzione, come un puro ricordo; ma viene onorato da noi come organo vitale di Gesù, avendo vissuto, per parte sua, la vita di Gesù, e vivendola ancora, come avendo amato e amando ancora, come avendo sofferto, e, se non può più soffrire, per le condizioni della sua vita gloriosa, come continuando la sua vita terrestre e palpitante d’amore oggi, come palpitava di amore or sono diciannove secoli, a Betlemme o sul Calvario. – Guardiamoci dunque bene, quando parliamo del cuore di Gesù, di non vedervi che un pezzo anatomico, la più insigne delle reliquie; ma sempre una reliquia. Ma guardiamoci pur anco, quando ne parliamo come di un emblema e d’un simbolo, di dimenticare la realtà vivente del segno per non tener conto che della cosa significata, di distinguere l’amore e il cuore amante, come se fossero due realtà completamente distinte, senz’altro legame fra loro che quello del segno e della cosa significata. Senza andare così lungi, da fare del cuor di Gesù l’organo, nel senso tecnico della parola, della vita affettiva e dei sentimenti intimi di Gesù, non dimentichiamo che l’amore che onoriamo è l’amore del cuore amante e che, onorando il sacro Cuore, onoriamo il cuore vivente che ci ha tanto amato, Quelli che si sono immedesimati nella divozione, quelli che la comprendono come il culto reso al cuore di una persona divina, ma a un cuore pienamente e perfettamente umano, non s’ingannano punto. Ma accade con facilità che l’analisi dimentichi qualche elemento della realtà totale, e che ne metta qualcuno in rilievo a scapito degli altri. Bisogna sempre vigilare da vicino, bisogna invigilare tanto più quando l’oggetto è complesso come nella divozione al sacro Cuore.