GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (61) – LA CITTÀ ANTICRISTIANA (1)

LA CITTÀ ANTICRISTIANA (1)

DI P. BENOIT

DOTTORE IN FILOSOFIA E TEOLOGIA DIRETTORE EMERITO DEL SEMINARIO DI PARIGI

SOCIÉTÉ GÉNÉRALE DE LIBRAIRIE CATHOLIQUE VICTOR PALMÉ, DIRECTEUR GÉNÉRAL

rue des Saints-Pères, 76

BRUXELLES

SOCIÉTÉ BELGE DE LIBRAIRIE

12, rue des Paroissiens, 12

GENEVE

HENRI THEMBLEY, ÉDITEUR’

4, rue Corraterîe, 4

-1886 –

II

LA FRANCO-MASSONERIA

O LE SOCIETÀ SEGRETE

ТОМO PRIMO

PREAMBOLO

1. Su questa terra, sono presenti due Città che si combattono l’una contro l’altra: la Città di Dio o la Città dei Cristiani, presieduta dal suo Capo Gesù Cristo, e la Città del Mondo o la Città degli Antichicristi, governata dal suo capo “il serpente antico”, “il principe di questo mondo”, “il dio di questo secolo”. La Città di Dio si oppone alla Città del mondo con una dottrina ed un esercito. Questa dottrina è “il Vangelo della salvezza”. Questo esercito è la Gerarchia Cattolica, composta dal Papa, i Vescovi ed i sacerdoti, predica in tutto l’universo “la parola della verità”, e governa con autorità divina l’umanità rigenerata.

– A sua volta, la Città del Mondo si oppone alla Città di Dio con gli errori e con le milizie. Gli errori oggi sono il Razionalismo e il Semi-razionalismo. – Le milizie sono le società segrete o la massoneria. « Lo scopo supremo della Massoneria – dice Leone XIII in un’incomparabile Enciclica, che sarà la nostra luce principale in tutta quest’opera, – è di rovinare da cima a fondo l’intera disciplina religiosa e sociale che è nata dalle istituzioni cristiane, e di sostituirla con una nuova, modellata sulle loro idee, e i cui principi e leggi fondamentali sono mutuati dal naturalismo. » Abbiamo parlato degli errori moderni. [Nella prima parte di quest’opera]. Non ci resta ora che di occuparci delle società segrete o della Franco-massoneria.

2. Divideremo questo nuovo studio in tre parti. Indagheremo prima di tutto su quale sia lo scopo della Massoneria; poi passeremo in rassegna le società massoniche stesse; e infine vedremo come le sette lavorano per raggiungere l’obiettivo proposto.

In altre parole, prenderemo in considerazione:

1° Il piano del tempio massonico;

2° I lavoratori impiegati per costruirlo;

3° Il lavoro di costruzione.

3. Si potrebbe dire che la Massoneria porti la sua definizione nello stesso suo nome; è un’associazione di franchi o liberi muratori. I muratori costruiscono un edificio: qual è l’edificio costruito da questi muratori liberi? Costruiscono – dicono – « il tempio della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità », « la chiesa della ragione e della natura », « il santuario della verità e della virtù”. Costruiscono – diciamo noi – il tempio di satana ».

4. Gesù Cristo si è paragonato ad un architetto, ed ha paragonato la sua Chiesa ad un edificio: “Tu sei Pietro”, ha detto al capo dei suoi Apostoli, “e su questa roccia edificherò la mia Chiesa”. (Matt. XVI, 18) Anche satana, il rivale ed “avversario” di Gesù Cristo, pretende di essere un architetto; anche lui vuole costruire un tempio.

5. Il tempio di Gesù Cristo è il tempio della perfetta obbedienza a Dio, il tempio della fede e della carità. Il tempio di satana è il tempio della rivolta universale contro il Signore ed il suo Cristo, il tempio dell’empietà e della diffamazione. Il primo tempio è ogni uomo soggetto a Gesù Cristo, divenuto così “primogenito” dei figli di Dio, in una parola, si è fatto Cristiano: « Non sapete – disse San Paolo ai fedeli – che voi siete i templi di Dio, e che lo Spirito Santo abita in voi? » (I Cor. III, 16) « Il tempio di Dio è santo -, diceva – e questo tempio siete voi stessi » . (ibid. 17). Ed ancora: « voi siete l’edificio di Dio, il tempio del Dio vivente: Dei ædificatio, templum Dei vivi.

Il primo tempio è anche la Chiesa considerata nel suo insieme, tutta l’umanità l’intera rigenerata, che lo Spirito anima con il suo soffio e sulla quale regna Gesù Cristo: « questo è il vero tabernacolo di Dio con gli uomini »; (Apoc. XX, 2, 3) questo è il tempio le cui vaste proporzioni sono state misurate da Ezechiele e San Giovanni, (Ez. XL.— Ap. XI.) la cui magnificenza è stata celebrata da tutti i profeti ( Ps. XXVI, 4. — Is. VI, 1. — Jer. XXX, 18. — Dan. III, 53, etc.). –  Il secondo tempio è ogni uomo che si è ribellato contro Dio ed il suo Cristo, si è reso conforme al primo dei rivoltati ed è diventato con lui e sotto di lui un anticristo. È anche l’insieme di tutti coloro che anima lo spirito di rivolta, la riunione di tutti quegli orgogliosi e libertini sui quali regna l’Arcangelo decaduto.

6. Ora Gesù Cristo, per edificare la sua Chiesa, impiega degli operai: questi sono il Papa, i Vescovi, sono i sacerdoti, è la Gerarchia cattolica. Satana, da parte sua, nella costruzione del tempio della rivolta, si avvale di operai organizzati in gerarchie: oggi questi sono i franco-massoni. – Gli operai di Gesù Cristo prendono « quelle pietre – umane – che giacciono sparse (Dispersi sunt lapides sanctuarii in capite omnium viarum. Thren. IV, 1.) dalla rovina originaria: le tagliano, le puliscono (Fabri polita malleo, Hanc saxa molem construunt. Hymn. in Dedic. Eccles.), sul modello della « pietra angolare posta da Dio stesso in Sion (I Petr. II 4-7,) », e le fanno entrare nella magnifica struttura « del tempio vivente, dove abita Dio ». I settari si impadroniscono di uomini imprudenti o perversi, li formano sul modello dell’Arcangelo della rivolta e li collocano nel tempio dell’empietà e della corruzione. La Gerarchia cattolica è la voce di Gesù Cristo nel mondo, la sua mano, il suo organo, il suo strumento per operare la salvezza delle anime: essa prega, parla ed agisce nel suo Nome; nella sua potenza e virtù essa dà “verità e grazia” a tutti gli “uomini di buona volontà”; in Lui e con Lui opera per fare entrare nel « regno di Dio, tutte le nazioni della terra ». –

La gerarchia o le gerarchie massoniche sono « la cattedra di pestilenza » dove siede l’ « avversario » di Gesù Cristo, laddove « chiama bene il male e il male bene », laddove « insegna la menzogna » e combatte contro il regno di Dio; esse sono l’organo e lo strumento che egli usa per condurre gli uomini alla sua rivolta; in essi e attraverso di essi egli conduce la guerra più grande mai vista alla Città di Dio; con il loro aiuto si illude per far sparire il soprannaturale da tutta la terra per condurre il genere umano ad un’apostasia universale. In una parola, esattamente come il sacerdozio cattolico fa l’opera di Gesù Cristo nel mondo, così la Massoneria fa l’opera di satana. Come l’uno milita con Gesù Cristo contro satana, così l’altro combatte per satana contro Gesù Cristo. Mentre il primo eleva il tempio della carità, il secondo costruisce il tempio dell’apostasia.

7. Come tutta la Gerarchia cattolica dice a Gesù Cristo con uno dei suoi membri: « Mio Signore e mio Dio, ti consacro la mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza e la mia volontà. Tutto ciò che possiedo viene da Voi; lo metto nelle vostre mani e lo pongo solo al vostro servizio. »  – Da parte sua, tutta la gerarchia massonica potrebbe dire a Satana con uno dei suoi più famosi seguaci: « Vieni, satana; vieni, calunniatore di sacerdoti e di re: lascia che ti abbracci, lascia che ti stringa al mio petto! Ti conosco da molto tempo, e anche tu mi conosci. Le tue opere, o benedetto del mio cuore, non sono sempre belle né buone: ma solo esse danno senso all’universo, impedendogli di essere assurdo ». Cosa sarebbe la giustizia senza di te? un istinto. La ragione? Una routine. Un uomo? Una bestia. Tu solo animi e fecondi il lavoro; nobiliti la ricchezza; servi come scusa all’autorità; metti il sigillo alla virtù. Ancora spera, proscritto! Io non ho che una penna almio servizio; ma essa vale milioni di bollettini. E giuro di non metterla giù finché non saranno ritornati i giorni cantati dal poeta: Ah, restituitemi i giorni della mia infanzia, o Dea della libertà (Proudhon) ! »

8. Questa è l’essenza della Massoneria. Sì, per dirla in una parola, i settari del nostro tempo sono in effetti gli operai che procedono su tutti i lati della costruzione del tempio o della città di satana. Ci convinceremo di questo nel corso di questo lavoro. D’ora in poi, ascoltiamo la solenne dichiarazione che la grande voce incaricata di indicare tutti i pericoli della Città di Dio sta facendo in faccia all’universo cristiano: « Da quando, per invidia del diavolo – dice Leone XIII nella sua famosa Enciclica sulle società segrete – il genere umano si è miseramente separato da Dio, al quale era debitore per la sua chiamata dalla inesistenza e dei doni soprannaturali, si è diviso in due campi nemici, uno dei quali combatte incessantemente per la verità e la virtù, e l’altro per tutto ciò che è contrario alla verità e alla virtù ». Il primo è il regno di Dio sulla terra, cioè la vera Chiesa di Gesù Cristo, le cui membra, se vogliono farne parte dal profondo del cuore e in modo tale da ottenere la salvezza, devono necessariamente servire Dio ed il suo Figlio Unigenito con tutta l’anima e con tutta la volontà; il secondo è il regno di satana, al quale appartengono tutti quegli sventurati che, seguendo gli esempi fatali del loro capo e dei nostri progenitori, rifiutano di sottomettersi alla legge divina e, nella loro condotta, si allontanano da Dio o addirittura si lasciano trascinare da lui. Sant’Agostino vide questi due regni e li descrisse abilmente sotto forma di due Città, governate da leggi contrarie e tendenti ad un fine contrario; e, con notevole brevità, segnò con le seguenti parole il principio costitutivo di ciascuno di essi: « DUE AMORI SONO NATI IN DUE CITTA’: L’AMOR-PROPRIO SPINTO FINO AL DISPREZZO DI DIO E’ NATO NELLA CITTA’  TERRESTRE; L’AMORE DI DIO PORTATO FINO AL DISPREZZO DI SE STESSI, E’ NATO NELLA CITTA’ CELESTE » (De Civit. Dei, lib. XIV, c. XXVII). In tutta la successione dei secoli, queste due città non hanno smesso di combattere l’una contro l’altra, con ogni sorta di tattica e con le armi più diverse, anche se non sempre con lo stesso ardore e la stessa impetuosità. Ora, nel nostro tempo, i fautori del male sembrano essersi coalizzati in uno sforzo immenso, sotto l’impulso e con l’aiuto di una società diffusa in ogni parte e fortemente costituita, la società dei franco-massoni (Hoc autem tempore, qui delerioribus favenl partibus videntur simul conspiraro vehementissimeque cuncti contendere, auctore et adjutrice ea quam Massonum appellant, longe latequo diffusa et firmilor constitula hominum societate. – Encyc. Humanum genus 20 apr. 1881.). »  – Entriamo ora nei dettagli e cominciamo a cercare lo scopo delle società segrete.

LA CITTÀ ANTICRISTIANA (2)

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (7)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (7)

Trad. M. T. Garutti Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa

Catania, 7 Marzo 1957 P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur

Catanæ die 11 Martii 1957 Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO VII.

GLI ASCETI CRISTIANI

Iniziatori nel IV secolo

L’ascetismo che prenderemo qui in considerazione, è una via di perfezione organizzata su un piano dottrinale e sociale ad un tempo. Bisogna quindi aspettare il IV secolo per trovare i suoi veri promotori nell’antichità. Vi furono certamente principi di perfezione per tutti nella Chiesa, sin dall’origine, semplici echi d’altronde dei precetti evangelici. Vi furono altresì ferventi Cristiani, uomini o donne, che si votarono alla ricerca di questo ideale; vissero per lo più isolati nel loro ambiente cristiano o familiare, senza formare un gruppo particolare orientato verso questo scopo. Le vergini erano, una élite delle antiche comunità « parrocchiali » piuttosto che un gruppo separato. Bisogna aspettare il IV secolo per trovare l’ascetismo organizzato che doveva caratterizzare così fortemente la vita cristiana, prima orientale, poi occidentale. Sant’Antonio è, a buon diritto, ritenuto un iniziatore e non è il caso di contestargli questo titolo. Il San Paolo eremita, descritto da San Girolamo, è in parte una edificante creazione del narratore. Ben diversa è la narrazione di Sant’Atanasio, dalla quale soprattutto conosciamo il grande monaco egiziano, morto centenario nel 356. Fin dal 360, Sant’Antonio ebbe la propria vita descritta dallo stesso patriarca di Alessandria, suo amico, e questo libro fu ad un tempo una rivelazione e un incitamento per l’intera Chiesa. Ma già tutto l’Oriente cristiano conosceva il monachesimo egiziano al principio del secolo. Fin dal 275, verso i 25 anni, Antonio aveva preso alla lettera l’invito di Cristo alla rinunzia totale, e si esercitava alla vita di preghiera nella solitudine, prima vicino al suo villaggio natio, nel medio Egitto, non lontano dal Nilo, più tardi nel deserto, in direzione del mar Rosso. Lo raggiunsero assai presto centinaia di discepoli, dei quali egli divenne il maestro e il consigliere circa i mezzi per tendere alla perfezione evangelica. – L’idea fondamentale è il disprezzo dei beni creati, che sono nulla davanti a Dio. Il principio ispiratore del movimento è il contrasto del finito e dell’infinito. Ma si sbaglierebbe riportando tutto ad una concezione filosofica. È la parola di Cristo e il suo esempio che decidevano le anime, illuminate dallo Spirito Santo: il dono della scienza, diranno più tardi i maestri, ha precisamente il compito di far comprendere la vanità del creato, mentre l’intelligenza penetra in profondità il messaggio del Salvatore. La dottrina specifica dei solitari è un’ascetica a due facce. La lotta contro il diavolo vi è in onore fin dagli inizi e questo aspetto è particolarmente illustrato sia dalla vita stessa di Sant’Antonio, sia dal discorso in cui Sant’Atanasio ha riassunto l’insegnamento del padre del monachesimo. Un vigore morale straordinario si manifesta dovunque: sia nella fermezza della fede nel Cristo e nella sua opera redentrice, che si afferma nel trionfo sul demonio; sia in una attesa della vita futura che dà un carattere escatologico molto spiccato alla dottrina, se non al senso di imminenza della venuta del Cristo — forse si esagera questo aspetto — almeno al senso di valore predominante; sia nella fiducia nella vittoria finale sulle forze infernali; sia nelle leggi piene di saggezza del discernimento degli spiriti, Sant’Antonio ebbe, nella stessa Africa, imitatori di grande levatura: nel basso Egitto, Nitiia vide migliaia di monaci raggrupparsi intorno a Sant’Ammonio verso il 325; e a Scetea, all’imbocco del deserto di Libia, San Macario il Grande ne attirò ben presto altrettanti con la sua reputazione di austerità. Una pia emulazione, a volte ardente, regnava nei due gruppi, che restavano chiaramente fedeli alla formula eremitica di Antonio. È nell’Alto Egitto, risalendo il Nilo verso l’Etiopia, che si trovano i primi grandi centri cenobitici, creati verso il 320 da San Pacomio (+ 346) a Tabenna, su un’isola del Nilo. Un’organizzazione più rigida si riscontra poco dopo, ad Atrepa, non lontano da Tabenna, ispirata dall’austero Schenudi ( + 450), mentre a qualche distanza si costituivano centri cenobitici femminili, sotto la stessa ispirazione. L’istituzione monastica doveva uscire dall’Egitto verso la metà del IV secolo e stabilirsi soprattutto in Oriente, in luoghi dal clima meno favorevole. La si vede abbastanza rapidamente prosperare in Siria, nella regione di Antiochia, dove San Giovanni Crisostomo e San Girolamo verranno a formarsi alle ardue lotte dell’ascesi. Essa era già stabilita a quell’epoca in Cappadocia e nel Ponto, ad opera di San Basilio. L’Occidente, fu raggiunto dalle rivelazioni di Sant’Atanasio, provvidenzialmente esiliato a Treviri; ma i grandi sviluppi tarderanno un poco. Nella Gallia, alla metà del IV secolo, San Martino fonda Ligugé vicino a Poitiers, poi Marmoutier, vicino a Tours, da cui derivano numerose fondazioni. Il Sud del paese seguirà ben presto il movimento, sotto questo impulso, e quello di Sant’Onorato e di Cassiano, mentre Sant’Agostino lo lancia nell’Africa latina ove raggiunge un particolare splendore. Tali fondazioni, precedendo l’arrivo dei Barbari in Occidente, furono provvidenziali: posero le basi di una formazione cristiana in profondità, che le rovine dell’impero rendevano più che mai necessaria, e prepararono da lungi quel rinnovamento cristiano che si imparò ovunque dopo il duro urto con i barbari.

I monaci, maestri spirituali per eccellenza

Il monachesimo portava in germe troppe ricchezze spirituali perché non diventasse un fuoco capace di irradiarsi. La Chiesa intera doveva ben presto beneficiarne, poiché le meditazioni solitarie avevano permesso agli spiriti migliori di penetrare a fondo il cristianesimo. Se tutte le verità rivelate ne furono approfondite, all’occorrenza, quelle che maggiormente attrassero l’interesse degli asceti furono le leggi della vita interiore: è qui senza dubbio che bisogna ricercare il migliore apporto delle loro ricerche e delle loro esperienze religiose. San Basilio, l’iniziatore del monachesimo al centro dell’Asia Minore, Ponto e Cappadocia, ha lasciato opere spirituali di prima qualità, che oltrepassano il quadro di una regola nel senso giuridico della parola. Le « Grandi Regole » fanno eco alle Piccole Regole, sul piano delle applicazioni, ma sempre collegandosi alla dottrina più che alle pratiche particolari della vita religiosa. Non c’è nel IV secolo — né in seguito, nell’epoca antica — un Ordine basiliano, come non ci sarà un Ordine benedettino. I Moralia del santo indicano, meglio che la parola Regole, il suo vero campo di osservazione e di influenza. Tutti i Cristiani potranno trarre largo profitto da questi testi tratti dalla Scrittura e commentati su un piano di perfezione evangelica universale. È chiaro tuttavia che i monaci, che ne erano i veri destinatari, ne furono anche i principali beneficiari. – L’Asia Minore, grazie a San Basilio, divenne uno dei centri di irradiamento del monachesimo in Oriente sul piano dottrinale. Il Santo trovò seguaci nella sua famiglia stessa: oltre che dalla sorella maggiore, Santa Macrina, che aveva fondato un monastero di religiose nel Ponto, sull’Iris, fu seguito dal fratello minore San Gregorio, futuro vescovo di Nissa, che scriverà, insieme con la vita di Santa Macrina, un trattato sulla Verginità particolarmente celebre e quattro altri opuscoli sulla perfezione nel mondo o nei monasteri. In altri ambienti, sempre in Asia Minore, troviamo monaci scrittori, notevolissimi per la loro dottrina ascetica. Evagro ( + verso il 399), detto il Pontico (cioè nato nel Ponto), illustrerà il grande monastero egiziano di Nitria, dove egli incarnerà un origenismo prudente e sobrio; San Nilo, l’asceta (+ verso il 430) del Sinai, veniva pure dall’Asia Minore ed era stato discepolo di San Giovanni Crisostomo, come probabilmente Marco l’Eremita, suo contemporaneo: tutti e due furono scrittori spirituali molto fecondi, e la loro influenza durò molto a lungo. – Tuttavia, nessuno di questi autori eguagliò in prestigio San Giovanni Crisostomo che, prima di essere prete di Antiochia e grande predicatore, aveva vissuto come monaco sulle montagne circostanti e si era dato ad una vita di intensa preghiera, di cui beneficiò tutta la sua opera, poiché la profondità della sua eloquenza è proporzionata al fervore della sua vita cristiana. È alla vita monacale che consacrò le sue prime opere scritte; la difese contro i detrattori che la calunniavano; l’esaltò come una vera filosofia, sul piano della sapienza, e come una condizione superiore a quella dei re sul piano umano; vi spinse i suoi migliori amici, e vi sarebbe rimasto o ritornato se l’obbedienza non l’avesse costretto ad accettare il sacerdozio e più tardi l’episcopato. Durante il suo esilio nella Tauride, abbastanza vicino ad Antiochia, continuava ad agire e vivere come monaco e fu questa fama di austerità uno dei motivi che lo fecero allontanare da una corte sospettosa, decisa a perderlo. La voce maggiore del Cristianesimo orientale si era formata alla scuola di Libanio e Demostene, ma più ancora a quella di San Paolo, letto e meditato nelle solitudini dell’alta Siria. All’epoca dei trionfi oratori di Crisostomo ad Antiochia, ritornava a Dio colui che doveva essere la voce cristiana dell’Occidente, Sant’Agostino, più giovane di lui di qualche anno e convertito nella epoca in cui l’oratore orientale cominciava la sua predicazione. Agostino stesso salì sulla cattedra episcopale nel 391 e, durante quasi 40 anni, non cessò di parlare al suo popolo, e all’intera Chiesa di Occidente, poiché la sua parola è così ricca e così cattolica che riecheggerà di secolo in secolo nel mondo latino fino ai nostri giorni. – La profondità deriva senza dubbio dal suo genio, ma anche manifestamente dalla profonda fonte cui attingeva il meglio della sua ispirazione, la solitudine monacale. Fin dalla sua conversione egli realizzava un sogno di vita contemplativa che accarezzava da lungo tempo e di cui maturò il piano nel suo lungo ritiro di Cassiciaco. Mise in esecuzione tale piano a Tagaste, poi ad Ippona, come prete, infine come Vescovo, conducendo, con tutti i suoi preti, una vita comune che era una lontana anticipazione delle forme migliori del monachesimo sacerdotale ulteriore. Egli ha scritto poco in questo campo, rispetto alla sua immensa produzione letteraria. Ma questa stessa produzione testimonia della fecondità dell’istituzione. La sua Regola è il primo codice conservato del cenobitismo occidentale: codice più spirituale che giuridico che ebbe una immensa diffusione in ambienti diversissimi. Essa serve tutt’oggi come legame efficacissimo fra comunità, del resto molto differenziate, sia di uomini che di donne. Egli stesso sapeva aggiungervi le opportune precisazioni a seconda degli ambienti: nel suo trattato sul « lavoro dei monaci » impone ad alcuni le occupazioni manuali; nei sermoni (355-356) espone come era regolata la vita comune dei chierici di Ippona raggruppati nel monastero attorno al loro Vescovo. La preghiera è l’anima di questa vita religiosa. Egli raccomandava, ad esempio, la parola e la penna, per lodare degnamente Iddio e le sue « Confessioni » sono un modello immortale. – San Girolamo non fu così segnato dal monachesimo, ma vi partecipò un poco, in Oriente all’epoca in cui San Giovanni Crisostomo si allenava nell’ascesi. Restò sempre fervente fautore dell’ascetismo e lo propagò con fervore a Roma prima, fra le matrone e le vergini, e più tardi a Betlemme. Le sue lettere ascetiche sono celebri ed ebbero un’influenza decisiva in taluni ambienti. Egli fu, nella sua azione, il legame fra l’Oriente e l’Occidente. – Nella stessa epoca, ma in senso inverso Cassiano (+ 435), antico discepolo di San Giovanni Crisostomo, venne a stabilire il monachesimo a Marsiglia. Fece conoscere al mondo latino il segreto, delle solitudini egiziane nelle sue famose « Conferenze » (Collationes Patrum), raccolta di conversazioni con i maestri spirituali più in vista in Egitto, alla fine del IV secolo. L’insieme della sua opera è eccellente, benché occorra attenuare alcune pagine della conferenza 13, in cui la necessità della grazia non è abbastanza chiaramente riconosciuta. Un’altra opera di ascesi orientale, un poco posteriore, può venir qui segnalata, poiché condensa a meraviglia l’insieme della spiritualità monastica di quei tempi : è « La scala del Paradiso » di San Giovanni Climaco, monaco del VI e VII secolo, siriano di origine e senza dubbio abate del Sinai. Il suo scritto è un vero codice spirituale, perfettamente ordinato verso l’esercizio perfetto delle tre virtù teologali e particolarmente della carità. L’opera è una bella sintesi delle direttive spirituali date alle giovani reclute della solitudine da parte dei migliori e più sicuri maestri.

Organizzatori della vita monastica a partire dal VI secolo

Il monachesimo non attese il VI secolo per organizzarsi, come abbiamo visto. Tuttavia, in quest’epoca ha fatto un particolare sforzo sotto questo punto di vista, soprattutto in Occidente. Trascuriamo le questioni dottrinali che agitarono a volte i monasteri, come l’origenismo in Oriente, o il semi-pelagianesimo in Occidente, per limitarci alle forme stesse della vita religiosa, in cui si verificò una certa evoluzione, un reale progresso. San Cesario d’Arles, senza essere monaco, ebbe sul monachesimo un’influenza considerevole per la sua posizione di primato nella vasta regione occupata dai Visigoti prima, poi dagli Ostrogoti, nel sud della Gallia, fino alla conquista franca da parte di Childeberto, il quale, nel 536, cambiò la situazione senza compromettere i vantaggi acquisiti dalla Chiesa. Egli legiferò soprattutto per i monaci e le monache, ispirandosi alla Regola detta di Sant’Agostino; ne adattò una ai monaci, l’altra alle monache, con qualche leggero ritocco che, rispetta il fondo primitivo e l’ispirazione generale, in un quadro di austerità molto accentuata. Venivano moltiplicati i digiuni e i lunghi uffici, senza riguardo per gli usi più correnti nella liturgia monacale. Questa nota di austerità si ritrova molto più accentuata nelle fondazioni derivate dal monachesimo irlandese. Il Cristianesimo si stabilì tardi nell’isola, che doveva divenire l’isola dei Santi, dopo la sua evangelizzazione da parte di San Patrizio (+ 461). La critica ha messo in discussione molti punti della sua attività, ma la sostanza resta intatta: nessuno gli contesta il suo grande apostolato come Vescovo, dal 432; i primi tentativi di un’organizzazione gerarchica, con Armagh come sede episcopale e numerosi monasteri come centri ausiliari. I neofiti si precipitarono in massa verso i conventi, che divennero ben presto fiorenti, frementi di generosità apostolica; il paese, appena conquistato alla fede, divenne un focolaio di apostoli e inviò numerosi missionari sul continente stesso che lo aveva appena evangelizzato. – Il centro principale di questa fioritura cristiana, dopo Armagh, fu Bangor sulla costa nord-orientale, di fronte alla Scozia. I monaci vi si raggrupparono a migliaia, senza detrimento per altri centri religiosi molto fiorenti. La fede irlandese sbocciò in un fervore tutto spontaneo, con le caratteristiche proprie al paese. La fiducia nel valore umano, lo slancio eccessivo verso l’ascesi spiegano la posizione di Pelagio, campione e predicatore di una austerità che giunse fino all’eresia. Tuttavia molti si mantennero immuni da tali estremismi condannati dalla Chiesa e diedero prova di una esemplare generosità nell’assoggettarsi alle più rigide pratiche di austerità. Essi furono, in questo campo, coraggiosi fino all’imprudenza e praticarono l’eroismo quasi istintivamente, stando alle tradizioni meglio affermate. La regola d’altronde vegliava alla conservazione di tale fervore, e le violazioni venivano represse molto duramente. Come in Oriente, la preghiera c il lavoro riempivano la giornata del monaco. Ma vi si aggiungeva un elemento nuovo, molto caratteristico:  lo spirito missionario. – Questa « peregrinazione per Dio » è molto diversa dai viaggi di informazione e di edificazione che i monaci d’Oriente intraprendevano spesso, da eremo a eremo, in cerca di lezioni e di buoni esempi. Se vi furono talvolta degli abusi, vi furono anche veri successi, come testimoniano le « conferenze spirituali » di Cassiano. Era un apostolato dottrinale e spirituale che i migliori di tali « visitatori » avevano in vista. I monaci viaggiatori irlandesi furono, nel significato attuale della i parola, veri missionari, senza detrimento per la vita monastica. La loro azione si esercitava per mezzo della formazione di gruppi religiosi, capaci di condurre i pagani alla fede e i Cristiani a una vita più perfetta. Tutta l’Europa occidentale, specialmente le due sponde del Reno, e i fianchi del Giura e delle Alpi, beneficiò ampiamente di tale afflusso apostolico. San Colombano resta il tipo classico del monaco missionario irlandese. Trascinato dallo spirito di zelo, a cinquant’anni creò in Gallia, intorno a Luxeuil, una vera colonia monacale, di cui fu capo e che armò di un saldo spirito apostolico.. Cacciato di là dopo trent’anni, riprese il suo peregrinare e partì verso l’Oriente, fondando ancora monasteri in Germania, Svizzera, L’Italia. La sua ultima fondazione fu quella del celebre Momonastero di Bobbio, nella valle del Po. Era il 614, un anno.prima della sua morte. Egli resta celebre, oltre che per il suo zelo infaticabile, per la sua austerità che più tardi verrà felicemente temperata dallo spirito benedettino. È a San Benedetto infatti (+ fra il 543 e il 553) che si ricollega lo sforzo più importante nell’organizzazione del monachesimo nell’antichità. L’abate di Monte Cassino attinse alle regole precedenti più conosciute, in Oriente e in Occidente; quelle di San Pacomio, di San Basilio, di Sant’Agostino, di Cassiano, come pure alle vite dei Padri. Ciò che meglio caratterizza la sua regola, è l’istituzione di una salda gerarchia, la stabilità di vita e la moderazione delle pratiche imposte, sia nella preghiera che nel lavoro; moderazione del resto relativa, perché le sue esigenze sono ancora gravi ed impongono un autentico sforzo. Il tutto è sostenuto da una spiritualità sobria, accessibile a tutti, proporzionata sapientemente al carattere e alla cultura dei monaci aggregati. L’introduzione del sacerdozio, sotto l’impulso di San Gregorio Magno, contribuì molto allo sviluppo di una spiritualità adatta ai bisogni interiori delle anime, senza attentare ai quadri stabiliti dal fondatore. Questo insieme di elementi gerarchici e dottrinali fece della Regola di San Benedetto una delle forze maggiori della Chiesa, in un’epoca in cui le élites spirituali non potevano formarsi e resistere fuori dei monasteri. – San Gregorio diede anche un forte impulso all’organizzazione liturgica, e rafforzò notevolmente su questo punto la vita monastica, specialmente nell’ordine benedettino, che ha sempre trovato nella liturgia uno dei maggiori punti di appoggio. La salmodia e il canto sono stati regolamentati, nelle loro grandi linee, sulla base dei principi posti o precisati al tempo di San Gregorio e sotto la sua ispirazione. La Chiesa ha vissuto della liturgia benedettina per dei secoli ed è ancor oggi una riserva di impareggiabili ricchezze a cui si attinge a larghe mani. – Costantinopoli, brillante capitale dell’impero d’Oriente, divenne anch’essa un vero centro monastico: i conventi, soprattutto maschili, si moltiplicarono nella città stessa, nei suoi dintorni e sulle due sponde del Bosforo. Fra di essi vi era soltanto un legame spirituale, basato specialmente sugli scritti di San Basilio, le Grandi e le Piccole Regole. Bisogna tuttavia segnalare una creazione originale che prelude da lontano a molte istituzioni posteriori del Medioevo occidentale: quella degli Acemiti, letteralmente i « non dormienti ». Si tratta infatti di una specie di adorazione perpetua fondata su un’organizzazione degli uffici liturgici tale da assicurare un canto ininterrotto. L’iniziatore in questo campo fu Sant’Alessandro il Siriano, che aveva creato un monastero del genere nel suo paese, vicino all’Eufrate. Egli tentò invano di fondarne un altro ad Antiochia, e più tardi a Costantinopoli, verso il 430, ma vi riuscì pienamente sulla costa dell’Asia, a poca distanza dal Bosforo. Raggruppò parecchie centinaia di monaci, fino a quattrocento, di diverse lingue, che furono ripartiti in gruppi che si succedevano al coro per assicurarvi la laus perennis. Per quanto interessante, tale istituzione non costituiva che una forma ausiliaria del monachesimo bizantino. L’istituzione acemita soffrì molto dell’interminabile guerra iconoclastica che, durante più di un secolo, decimò i più ferventi monasteri bizantini. Vi fu una bella ripresa con gli Studiti, i quali, fin dalla fine del VIII secolo, poterono riorganizzarla in piena capitale, precisamente allo Studion. San Teodoro vi raggruppò i monaci a centinaia, ed essi ripresero il meglio delle antiche tradizioni, aggiungendovi ora l’iconografia, di stile ieratico, caro alla pietà bizantina. Il concilio di Nicea ne aveva riconosciuto la legittimità. Questo culto si è perpetuato fino ai nostri giorni, con grande profitto della pietà monacale e di tutta la pietà cristiana. Resta ancora una delle caratteristiche della vita religiosa in Oriente, specialmente a Bisanzio.

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (8)

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (60)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (60)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V.

Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo. (4)

§ IV.

Abbiamo detto in quarto luogo, che le dottrine del Teismo e del Deismo, opinioni unicamente fondate sui dati della ragione umana, mancano di base, e che la conoscenza e la certezza sono il privilegio esclusivo del Cristianesimo.

I. Il ben credere è il fondamento del ben vivete, ha detto Bossuet, traducendo la frase di Quintiliano: Brevis est itstitutio vitæ honestæ, beatæque si credas. Questo fondamento dovendo sostenere il peso di tutta la vita umana, e sopportare un edificio di doveri, di virtù, di sacrifici, di meriti, il cui complemento è necessariamente superiore a tutti gli interessi terreni, deve essere lutto ciò che v’ha di più incrollabile e di più tenace. « È impossibile, « dice Cicerone, senza cedere a ragioni chiare, « stabili, certe, evidenti… senza credere a cose che non possono essere false, lo stimare la rettitudine e la buona fede al punto di affrontare i più orribili supplizi… Come ardirà mai la stessa sapienza formare un’impresa, od eseguirla con confidenza, se manca d’una. Guida sicura per seguirne le orme? … E dunque necessario un Principio, che la sapienza possa seguire quando comincia ad agire, ed una conoscenza del fine, a cui devono tendere le sue azioni. Senza questa sicurezza tutta la vita umana è rovesciata …

« Però, soggiunge Cicerone con un tatto squisito, tradire il domma è delitto: Scelus est dogma prodere. » – Cicerone, con tutta 1’antichità filosofica (noi lo vedremo fra poco), non poteva evitare quel delitto. Egli professava, e subiva pur troppo l’insufficienza dello spirito umano a trovare il domma, ed arrendervisi. Non è già che fosse meno sollecito della verità: « Noi adopriamo, diceva egli nel ricercarla, tutte le nostre cure e tutto il nostro zelo … ma le cose sono talmente oscure in sé stesse, ed il nostro giudizio è tanto debole, che i filosofi più sapienti dell’antichità disperarono con ragione di riuscire nelle loro investigazioni. – O Lucullo! tutti questi segreti si celano agli occhi nostri in mezzo a fitte tenebre, nè v’ha genio umano che penetrare li possa… — Tuttavia, soggiunge ancora, se mi viene indirizzato il discreto rimprovero, che non sto contento ad alcun ragionamento, allora vincerò me medesimo, e sceglierò una Guida. Ma quale? Imperocché non se ne può avere che una sola, e trovata questa, tutte le altre, per quanto siano numerose e gloriose, andranno perdute e condannate. La nostra filosofia, mi direte voi, è la sola vera; ed io vi rispondo, che essendo vera, è sola, appunto perché la verità è unica … » (Academique, I liv. II) – In mancanza di questa guida unica, di questa verità unica fornita d’un carattere determinante per lo spirito umano, ecco la conclusione di Cicerone: « Io credo che non possiamo essere assicurati di niente; che il savio può tuttavia prestar fede a cose di cui non è punto sicuro, vale a dire opinare, ma senza perdere di vista che si tratta di semplici opinioni, e che non si danno comprensioni e percezioni esatte. Quanto all’arresto filosofico (sospensione d’ogni giudizio, espressione tolta all’arte del maneggio) vi aderisco di tutto cuore; coll’ammetterlo si rigetta la certezza. — Conosco ora la vostra opinione, o Catulo, e non può spiacermi. Ma qual è Ortensio, la vostra? — Egli rispose ridendo: Io sono per la sospensione (Académique, I . liv. II, édit, Victor le Clerc,  Pag. 271.). » – Ho anticipato su questa esposizione, che avrebbe trovato il suo posto, e troverà la sua conferma in una rapida rivista dell’antichità che noi faremo fra poco. Era opportuno o dimostrare sin d’ora il bisogno naturale dello spirito umano, e la sua insufficienza rispetto a quella certezza dommatica, che è il fondamento della vita umana. – Io sono per la sospensione: ecco a qual punto si trovava l’umana sapienza dopo quaranta secoli di ricerca. Essa  era in arresto al momento, in cui compariva quella Guida unica, Verità unica, a cui faceva appello, e che venne a dirle con una celeste autorità: Ego sum via, veritas, et vita… qui sequitur me, non ambulat in tenebris.

II. Noi sappiamo ornai, a chi noi crediamo: noi abbiamo cognizione e certezza, perché abbiamo Rivelazione. Abbiamo quel domma senza del quale tutta la vita umana è rovesciata, ondeggiante a seconda di tutte le opinioni; ed è a questo punto che è un gran delitto di tradire il domma. La dottrina cattolica non è tale soltanto per la bellezza, la sublimità, la santità, la fecondità morale dei suoi dommi e della meravigliosa loro economia. Tutto ciò, per quanto sia perfetto, non costituirebbe ancora il riposo dello spirito umano ed il fondamento della sapienza, se fosse stato il semplice trovato d’un savio. Di fatti la ragione umana acquisterebbe allora un diritto sull’opera sua propria, e potrebbe disfarla quando l’avesse fatta, mentre nessun uomo può farsi schiavo dei propri pensieri, né essere lo schiavo dei pensieri altrui. Rousseau in un trasporto segreto ha vergato queste rimarchevoli parole: « Se fossi nato cattolico resterei cattolico, sapendo benissimo che la vostra Chiesa mette un freno molto salutare agli errori della ragione umana, la quale non trova né fondo né sponda, quando vuole scandagliare l’abisso delle cose; e sono talmente convinto dell’utilità di quel freno, che me ne imposi io stesso uno simile, prescrivendomi pel resto della mia vita delle regole di fede, dalle quali non mi permetto di deviare. Però vi giuro, che da quel momento soltanto mi sento tranquillo stante la mia convinzione, che senza così fatta precauzione non lo sarei stato mai… Vi parlo, signore, con effusione di cuore, e come parlerebbe un padre al suo figliuolo ». – Vana precauzione! Rousseau non fu più tranquillo dopo, che prima; e fu sempre veduto a passare dall’ateismo al battesimo delle campane, come diceva Diderot. – Gli è con ben maggior tatto, che osservava Montaigne; « Sono gli scolari che propongono e discutono le questioni, ed è il Cattedrante che le risolve. Il mio Cattedrante è l’Autorità della volontà divina, che ci regola indubbiamente al disopra di quelle umane e vane contestazioni (Essais lib. II, c. 3). » –

Allo spirito umano è dunque necessaria la Fede; e la Fede divina.

Ammettere una cosa che non si comprende, è certamente una specie di fede; ma in tutte le dottrine, che non sono il Cristianesimo, qualunque ne sia il valore, e fossero anche (cosa impossibile) altrettanto perfette quanto quella di Gesù Cristo, è sempre una fede umana, la fede in se stesso, od in un altro se stesso, che non impone, né assicura alcuna vera autorità. Il fondamento sta nella cosa medesima, che ha bisogno d’essere fondata, in quella mobilità dello spirito umano, che non può stare senza una autorità, anche per conservare le sue conquiste, e difenderle contro la propria mutabilità. D’altronde non è soltanto a questa incostanza dello spirito umano, che è affidata la dottrina, ma a tutte le burrasche delle passioni che se ne fanno giuoco, allorquando questa dottrina ha per oggetto di padroneggiarle. – Si richiedeva dunque per la fede un fondamento esteriore, e superiore all’ente umano, che ne è il soggetto. Era necessaria la Parola di Dio raccomandata ad una Istituzione che avesse la giurisdizione e l’assistenza spirituale per interpretarla. Ci volevano Gesù Cristo e la sua Chiesa.

III. Allora, solamente allora la dottrina della verità diventa per l’uomo cognizione e certezza. È cognizione, e non più congettura, né opinione; dappoiché ci viene da Dio medesimo che si rivela a noi, e ci insegna ciò che Egli è con quella scienza certa che ha di Sé stesso. È certezza per un motivo perfettamente eguale; certezza cioè permanente ed invariabile in quanto che sta sul proprio fondamento sovrannaturale e divino, vi si mantiene coll’autorità della Istituzione della Chiesa, che ne è l’emanazione, e si spiega, s’interpreta e si applica all’umanità la quale altro non fa che riceverla e aderirvi. – Gesù Cristo, autore di questa dottrina ne è in pari tempo l’oggetto, il principio e la fine, l’alfa e l’omega, la base ed il complemento. Quale dottrina più certa di quella dove si trova la Verità in persona, che insegna; la Vita in sostanza, che nutrisce; il Principio e la Fine, che sono il mezzo; il Verbo fatto carne per ritirarci dalla carne, e Dio stesso venuto a noi per ricondurci a Lui? Come perdersi, come ingannarsi, come esporsi al minimo pericolo in sì fatta dottrina? Ciò non si può immaginare.

IV. Tutto questo è ammirabile e decisivo, mi si dirà, se tutto questo è: Certo che !a dottrina insegnata da un tal maestro è di fede, ma anche il maestro è di fede; ed allora, tutto essendo di fede, quale impressione può fare sulla ragione? La dottrina si sostiene sulla fede nel maestro, ed il maestro come si sostiene? Sempre sulla fede, sulla fede nella dottrina. No, ma sulla ragione; la quale non può disconoscerne la divina autorità a fronte delle testimonianze e delle prove che ne porge. – Allora (si oppone) è la ragione, che si fa giudice della questione, che verifica i titoli, che corregge la missione ed apprezza la persona. Non si fa più luogo alla fede, ed alla certezza che in lei si affidava, e tutta la vostra tesi è smentita. Questa si aggira necessariamente tutta intera o nella fede, o nella ragione. Nel primo caso la credenza è gratuita; nel secondo la dottrina è incerta.

Niente affatto.

Distinguiamo la Dottrina ed il Maestro; e nel Maestro, la persona e l’autorità. La Dottrina è di fede; e così deve essere, Maestro è la Verità in persona. – Il Maestro è di fede nella propria persona, in quanto forma questa una arte della sua dottrina, cioè in quanto Egli è insegnato nei misteri del suo ente, della sua generazione eterna come Verbo di Dio, e della sua Incarnazione umana. – Ma in quanto Egli è insegnante, la sua autorità, che ci fa credere alla sua persona ed alla sua dottrina, entra nella sfera della ragione, e si sostiene sovra prove e testimonianze eminentemente verificabili e discutibili; né questo ufficio della ragione altera in guisa alcuna la fede dovuta alla persona ed alla dottrina, posciaché la ragione non si esercita che sovra il fatto esteriore e storico, e non guarda che il sigillo riservando il piego. Ed è qui che torna opportuna la distinzione dianzi stabilita tra il carattere, e l’esistenza d’un fatto o d’una verità. – La Dottrina, tutta di fede, è per tal modo avviluppata in una autorità, i titoli della quale sensibili ed estrinseci, sono propri della ragione, e la obbligano alla fede. Essa è fondata sulla fede all’Autorità, mentre l’Autorità è fondata sovra testimoni razionali, e sovra prove storiche. Fra queste, le profezie, i miracoli, l’autenticità ed il carattere dei Vangeli, lo stabilimento, la propagazione, la perpetuità del Cristianesimo e della Chiesa ecc. ecc., sono come baluardi dell’edificio della fede, che ne sostengono la sommità. Si appoggiano sul suolo della ragione, mentre isolano quell’edificio e quella sommità della fede. – Quest’ ultima poi non ha per sé l’Autorità dell’evidenza, né potrebbe mai averla, suo oggetto essendo il mistero; ha però l’evidenza dell’Autorità, mediante la quale è eminentemente razionale senza cessare d’essere misteriosa. – Ecco l’economia logica del Cristianesimo.

V. Aggiungiamo cosa altrettanto importante che disconosciuta, vale a dire che se la dottrina è tutta di fede, nel senso che la ragione per se medesima non avrebbe mai potuto conoscerla, né saprebbe discuterla, diventa gradatamente una dottrina di ragione, nel senso che essendo vera, la ragione finisce per riconoscervisi, ammirarla ed arricchirsene. È questo un altro campo per la ragione, campo immenso, o piuttosto infinito, che vuol essere accuratamente distinto da quello che le appartiene in proprio, quando s’incontra nella fede. Qui la ragione va in cerca della fede, ed agisce da sola per apprezzarne i titoli; è la ragione quærens fidem. Là seguita la fede, agisce al di fuori, e sotto l’autorità della fede: è la fede medesima che cerca di appropriarsi l’intelligenza della dottrina, fìdes quærens intellectum. – È dunque un errore il credere che la ragione nulla abbia da vedere nella fede. Vi deve anzi tutto vedere i titoli, e sotto questo rapporto si trova nel proprio dominio, ed agisce da sola. Riconosciuti poi quei titoli, la fede si deve loro sottomettere, in questo senso, che qualunque cosa avvenga, comprenda o non comprenda, più o meno, deve sempre credere, certa qual è, a fronte di quei medesimi titoli che la determinarono una volta per tutte, di non correre alcun pericolo d’errore, e che laddove qualche credenza la molesti, non è quella credenza, ma essa stessa che si trova in fallo, essendo che Dio non può ingannare, né ingannarsi, e la Chiesa fa scomparire agli orchi di colui che ne vuole ascoltare l’alto ammaestramento, qualsiasi contraddizione per non lasciar sussistere che il mistero.  — Ora questa sommessione razionale della ragione, essendo ben definita e ben riconosciuta, la ragione non è punto colpita d’interdetto in quel dominio della fede. Essa può, anzi deve continuare ad esercitarsi in altre condizioni. Essa non diventa soggetta alla fede per esserne acciecata, ma illuminata. Non è già lo schiavo, ma l’allievo della fede, e questo allievo diventa un Sant’Agostino, un Sant’Anselmo, un S. Tommaso d’Aquino, un Bossuet, ed in ogni Cristiano un vero filosofo. Pensare altramente gli è avere per la fede un rispetto ingiurioso, un calunniarla, e privarla della più bella gemma della sua corona, di quel privilegio, che la costituisce, sola in mezzo a tutte le sue rivali, regina e madre dello spirito umano, che forma di noi altrettanti figli della luce. Sulla base di quel sentimento invochiamo una altissima autorità, ed uno stupendo esempio: Sant’Agostino, nella sua lettera CXX a Cosenzio; quel gran Dottore così si esprime: « La Chiesa esige la fede: ed è appunto perché noi abbiamo tante ragioni di credere, e tutte di sì grande valore ed urgenza, che richiede la fede, e l’umile sommessione a tutti i suoi divini insegnamenti. Non la si accusi pertanto di riehiedere una fede assolutamente cieca e senza ragione. Non le si imputi nemmeno di pretendere che coloro i quali credettero, ovvero che per credere hanno fatto quell’uso salutare della loro ragione, che noi abbiamo notato, non possano più continuare nell’uso della loro ragione per rendere la loro fede sempre più umile, e nello stesso tempo sempre più illuminata. Anche questa è una obiezione, o meglio una calunnia contro la Chiesa medesima, che rimane a distruggersi. Noi dunque crediamo, e siamo obbligati di credere; ma non ci è vietato di voler intendere ciò che crediamo; ed a chi ci dicesse: Credete, e non curatevi di voler intendere ciò che credete, noi risponderemo: Correggete il vostro principio, non già fino al punto di rigettare la via della fede, ma almeno fino al punto di riconoscere, che quanto la fede ci fa credere, può essere, in certa grado, compreso dal lume della ragione. Perocché Dio ci proibisce di pensare, che detesti in noi quella prerogativa, per la quale ci elevò al di sopra degli altri animali! A Dio non piaccia, che la sommersione nostra riguardo a tutto ciò che partecipa della fede, ci impedisca di cercare e domandare ragione di tutto ciò che crediamo, posciaché noi non potremmo manco credere, se non fossimo capaci di ragione! — Colui che giunse al punto di acquistare dalla vera ragione l’intelligenza di ciò che credeva dapprima senza intenderlo, è sinceramente in una miglior condizione di colui che è ancora nel desiderio di intendere ciò che crede. Che se non avesse questo desiderio, e s’immaginasse che bisogna affidarsi alla fede invece che noi dobbiamo aspirare all’intelligenza, sarebbe un ignorare qual è il fine e l’utilità della fede. Imperocché, siccome la Fede santa e salutare non sussiste senza senza la Speranza e senza la Carità, bisogna che l’uomo fedele non creda ciò che ancora non vede, ma che ami di vederlo, s’adopri, e speri di raggiungerlo. – Tutto questo è ammirabile, purché ben si comprenda. Ora, credo di doverlo ripetere, sarebbe non comprenderlo qualora se ne traesse la conclusione, che la fede, oltre alle ragioni di credere che la precedono, debba essere in ragione dell’intelligenza che la seguita; è invece l’intelligenza, che sarà in ragione della fede. Ma se la fede non deve essere in ragione dell’intelligenza, non deve quanto meno essere in ragione dell’accecamento! Essa deve, mantenendo pur sempre il suo carattere, adoprarsi nella calma e nella sicurezza del suo possesso, a fecondare il campo della dottrina, ed a convertirlo in intelligenza non meno che in sapienza, in ragione non meno che in virtù. – Tali sono i nobili e savi caratteri del Cristianesimo, del Cattolicismo. Tale è il cemento meraviglioso, ed impastato, se così posso esprimermi, di ragione e di fede in una ammirabile mistura, che lega i fondamenti, e costituisce la sede dommatica e morale della nostra credenza. Questa sola credenza può reggere alla prova della teoria e della esperienza, delle esigenze dello spirito e dei bisogni del cuore, delle agitazioni della vita e della catastrofe della morte, degli interessi del tempo e dei destini della eternità. Nessun’altra dottrina colma per tal modo tutte le condizioni di resistenza e d’impulso che reclamano in pari tempo la debolezza e ls forza, i doveri ed i diritti dello spirito umano. Nessun’altra presenta delle gaurentigie di certezza e di verità così esclusive d’ogni elemento di dubbio, d’ogni pericolo di errore; e la verità manifestandosi qui in Dio medesimo, la ragione di aderire non è che la ragione di credere, la ragione di adorare.

FINE DEL CAPITOLO

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO XI – “QUINQUAGESIMO ANTE ANNO”

Il  Santo Padre Pio XI in questa lettera scrive con un animo traboccante di gioia e di gratitudine per il buon Dio per i frutti della devozione e della pacificazione auspicati dalla Chiesa Cattolica e dal Vicario di Cristo in particolare, che nell’anno trascorso si erano realizzati con piena umana soddisfazione di popoli ed autorità, in particolare i patti Lateranensi … « Spetta a Dio Onnipotente e misericordioso far sì che suoni finalmente questa lieta ora, feconda di tanto bene, sia per la restaurazione del Regno di Cristo, sia per un più giusto riordinamento delle cose d’Italia e di tutto il mondo; ma tocca agli uomini di buona volontà far sì che essa non suoni invano … ». – Tutto sembrava procedere verso un’era tranquilla e spiritualmente protesa alla glorificazione di Dio e della sua Chiesa che riuniva tutti i popoli in unico gregge sotto un solo Pastore. Ma il nemico di Dio e del genere umano non dormiva, anzi approfittava di qualche naturale momento di rilassatezza e di abbandono della guardia alta – secondo il gergo pugilistico – per seminare zizzania nel campo del paterfamilias e spargere i veleni dell’eresia modernista e delle mortifere dottrine razionaliste degli increduli settari o il naturalismo pestifero degli aderenti alle logge di perdizione che andavano progressivamente prendendo le leve di comando in ogni settore della vita pubblica, sociale, economica, politica, culturale ed infine anche negli edifici sacri fino all’esplosione dell’apostasia conciliare e postconciliare e del colpo di stato del Conclave del 1958. A quel punto la società è stata facilmente addomesticata e condotta ad una corruzione ed un paganesimo tale da fare impallidire quello dell’antica Roma, scardinato dal sangue di martiri e dalle invasioni barbariche. Una volta soffocata la vera fede nei paesi cristiani, sostituita da un simulacro di falso Cristianesimo panteista aperto a tutti gli influssi cosiddetti ecumenici – in realtà al masso-protestantesimo ed alle demoniache superstizioni orientali … omnes dii gentium dœmonia … avvertiva già il Re- Profeta nel salmo XCV. Oggi siamo giunti all’imposizione di un nuovo modo di pensare ed agire totalmente opposto a quello della società cristiana, cosa che ci porterà a breve ad una dittatura mondiale, al cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale che imporrà la religione noachide unica obbligatoria controllata dal marchio della bestia che coprirà il chip quantico che mostrerà gli aderenti al regno dell’anticristo adoranti la statua della bestia posta nel tempio santo … parola di S. Giovanni che ha visto il tutto nelle sue profetiche visioni descritte nell’Apocalisse.

LETTERA ENCICLICA

QUINQUAGESIMO ANTE ANNO

AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI, PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI, NONCHÈ A TUTTI I DILETTI FIGLI CRISTIANI DEL MONDO CATTOLICO:

IN OCCASIONE DELLA CHIUSURA

DELL’ANNO GIUBILARE.

PIO PP. XI

VENERABILI FRATELLI

SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

Quando, or sono cinquant’anni, nel fiore dell’età fummo ordinati sacerdoti nella Basilica Lateranense, madre e centro di tutte le Chiese — ed in questi giorni specialmente il ricordo Ci commuove e soavemente Ci conforta — nessuno certamente avrebbe immaginato, e tanto meno Noi, che per arcano disegno della divina Provvidenza la Nostra umile persona sarebbe stata elevata a così alto fastigio, e che quel medesimo tempio sarebbe diventato un giorno la cattedrale del Nostro Episcopato romano. – A questo proposito, mentre ammiriamo con animo dimesso la somma degnazione del Signor Nostro Gesù Cristo, Principe dei Pastori, verso di Noi, non potremo mai abbastanza degnamente esaltare i grandi benefìci con i quali Egli ha voluto confortare il suo Vicario in terra, quantunque immeritevole, durante il corso del suo Pontificato; tanto più che, quasi a coronamento di questi benefìci, Egli ha voluto che l’anno del Nostro giubileo sacerdotale fosse rallegrato da molti avvenimenti lieti e consolanti. Pertanto affinché quest’anno non trascorresse privo di frutti salutari — cioè, allo scopo di richiamare i fedeli alla santità dei costumi e la stessa società ad un più giusto apprezzamento dei beni spirituali, e conciliare con questi mezzi la misericordia divina verso la Chiesa militante — fin dal principio dell’anno, mossi da un sentimento di amore paterno, indicemmo per tutto l’Orbe cattolico un altro Anno Santo « extra ordinem » in forma di grande Giubileo. Ed oggi possiamo dire, che, con la grazia di Dio, le speranze che Noi riponevamo in questa santa crociata di preghiere, non solo non vennero deluse, ma anzi sono state pienamente soddisfatte. Ripensando infatti ai molti attestati di pietà e di gratitudine filiale, all’incremento che ha avuto la causa cattolica, ai celebri avvenimenti che si sono potuti compiere durante il corso di un solo anno, Ci sembra di poter dire ben a ragione che il benignissimo Iddio, dal quale « deriva ogni cosa ottima e ogni dono perfetto » [1], ha voluto che questo breve periodo di tempo apparisse a tutti veramente provvidenziale. Ci piace quindi oggi, quasi facendo il bilancio di questi dodici mesi, più diffusamente ricordare i grandi benefìci da Dio derivati al popolo cristiano, e ciò allo scopo di invitarvi tutti, Venerabili Fratelli, diletti figli, a ringraziare insieme con Noi l’Onnipotente, il quale, muovendo gli animi dei mortali con fortezza e soavità, dirige ai suoi scopi i tempi e gli avvenimenti. – E per cominciare da quelle cose, che appunto perché toccano più da vicino la Santa Sede e lo stesso governo della Chiesa affidato, per divina disposizione, al Sommo Pontefice, sembrano avere maggiore importanza delle altre, crediamo anzitutto opportuno ricordare alcuni tratti della Nostra prima Enciclica « Ubi arcano ». In essa Noi uscivamo in questo lamento: « Appena occorre dire con quanta pena all’amichevole convegno di tanti Stati vediamo mancare l’Italia, la carissima patria Nostra, il paese nel quale la mano di Dio, che regge il corso della storia, poneva e fissava la sede del suo Vicario in terra, in questa Roma che, da capitale del meraviglioso ma pur ristretto romano impero, veniva fatta da Lui la capitale del mondo intero, perché sede di una sovranità divina che, sorpassando ogni confine di nazioni e di Stati, tutti gli uomini e tutti i popoli abbraccia. Richiedono però l’origine e la natura divina di tale sovranità, richiede l’inviolabile diritto delle coscienze di milioni di fedeli di tutto il mondo, che questa stessa sovranità sacra sia ed appaia manifestamente indipendente e libera da ogni umana autorità o legge, sia pure una legge che annunci guarentigie ».  – Dopo avere poi rinnovato da parte Nostra quelle proteste che i Nostri Predecessori, dopo l’occupazione dell’Urbe, onde tutelare ed affermare i diritti e la dignità della Sede Apostolica avevano successivamente fatto, e dopo aver proclamato l’impossibilità di restaurare la pace trascurando le ragioni della giustizia, aggiungevamo: « Spetta a Dio Onnipotente e misericordioso far sì che suoni finalmente questa lieta ora, feconda di tanto bene, sia per la restaurazione del Regno di Cristo, sia per un più giusto riordinamento delle cose d’Italia e di tutto il mondo; ma tocca agli uomini di buona volontà far sì che essa non suoni invano … ». – Orbene, questo lietissimo giorno è finalmente spuntato ed è giunto prima di quanto comunemente si pensava, giacché le molte e gravi difficoltà, che lo impedivano, facevano credere quasi a tutti che fosse ancora molto lontano: è giunto, diciamo, con quelle Convenzioni che il Romano Pontefice e il Re d’Italia, per mezzo dei loro ministri plenipotenziari, stipularono nel Palazzo Lateranense — donde presero il nome — e quindi ratificarono in Vaticano. – In tal modo abbiamo veduto finalmente terminare quell’intollerabile e ingiusta condizione di cose, in cui si trovava fino allora la Sede Apostolica, dato che, negata e contrastata con ogni mezzo la necessità del Principato civile, la continuità di questo era stata interrotta di fatto in maniera che il Romano Pontefice non appariva più nella sua legittima indipendenza. Non è qui il luogo di trattare in particolare le ragioni che Noi Ci siamo proposti nell’accingerCi a questa grave impresa, nello svolgere le   trattative e nel condurle in porto; più di una volta infatti e non oscuramente, anzi con parole chiarissime, abbiamo esposto a quale unico scopo tendessero i Nostri propositi e i Nostri desideri, e cioè quali beni desiderassimo e sperassimo ardentemente, mentre, innalzate le Nostre assidue e fervide preghiere all’Altissimo, portavamo tutte le forze dell’animo Nostro alla soluzione dell’arduo problema. Questo però vogliamo, sia pure brevemente, accennare, e cioè che, assicurata la piena sovranità del Romano Pontefice, riconosciuti e solennemente sanciti i suoi diritti, e resa in tal modo all’Italia la pace di Cristo, nelle altre cose Noi Ci mostrammo paternamente benevoli e condiscendenti fin dove il dovere Ce lo permetteva. Apparve così anche più chiaramente, seppure ve ne era bisogno, come Noi, nel rivendicare i sacrosanti diritti della Sede Apostolica, conforme a quanto avevamo affermato nella surricordata Enciclica, mai eravamo stati mossi da vana cupidigia di un regno terreno, ma avevamo sempre avuto « pensieri di pace e non di afflizione ». Quanto poi al Concordato, che abbiamo parimenti stipulato e ratificato, come espressamente proclamammo, così oggi di nuovo affermiamo e proclamiamo che esso non si deve considerare come una tal quale garanzia del Trattato con cui si è definita la cosiddetta Questione Romana, ma sì bene devesi ritenere che ambedue — Trattato e Concordato — per l’identico principio fondamentale da cui derivano, formano un insieme talmente inscindibile e inseparabile, che o tutti e due restano, o ambedue necessariamente vengono meno. Pertanto, tutti i Cattolici del mondo, che tanto si preoccupavano della libertà del Romano Pontefice, accolsero questo memorabile avvenimento con un concorde plebiscito che si espresse ovunque in inni di ringraziamento a Dio e in attestati di congratulazioni a Noi rivolti. Ma grandissima soprattutto fu la gioia degli Italiani, alcuni dei quali, dopo la felice composizione dell’antico dissidio, deposero i vecchi pregiudizi verso la Sede Apostolica e riconciliarono la loro anima a Dio; e molti altri si rallegrarono perché non si poteva più ormai dubitare del loro amore di patria, come si faceva in passato quando i nemici della Chiesa non volevano credere a questo loro amore, per il fatto che essi si dichiaravano figli devoti del Pontefice. Tutti poi i Cattolici, italiani e stranieri, compresero che stavano per sorgere felicemente una nuova era ed un nuovo ordine di cose, soprattutto perché pensavano che, essendo state quelle convenzioni concluse nel 75° anno della definizione del dogma dell’Immacolata Concezione e precisamente firmate nel giorno in cui, pochi anni dopo, la Vergine Immacolata apparve nella Grotta di Lourdes, sembravano essere prese sotto il particolare patrocinio della Madre di Dio; e così pure essendo state ratificate nella festa del Sacro Cuore di Gesù Cristo pareva quasi che portassero il contrassegno della sua approvazione. E ciò ben a ragione; giacché se tutte le cose di comune consenso pattuite saranno coscienziosamente e con fedeltà portate ad effetto, come del resto è giusto sperare, non v’è dubbio che gli accordi stabiliti recheranno il massimo bene alla causa cattolica, alla patria nostra e a tutta l’umana famiglia. – Pertanto, dopo avere illustrato questo fausto avvenimento più diffusamente per la sua singolare importanza, crediamo che sia opportuno aggiungere almeno brevemente che per disposizione della divina Provvidenza abbiamo pure, durante quest’anno, potuto stipulare e ratificare con altre Nazioni altre convenzioni e trattati, che, mentre provvedono alla libertà della Chiesa, allo stesso tempo conferiscono non poco al bene degli Stati medesimi. Infatti, oltre la convenzione pattuita con la Repubblica del Portogallo (la quale consiste nello stabilire i confini e le prerogative della Diocesi di Meliapor) siamo venuti alla conclusione di un Concordato prima con la Romania, poi con la Prussia, in modo da evitare per l’avvenire ogni ragione di conflitto, ed in modo altresì da far convergere ambedue le potestà, civile e religiosa, in mutuo accordo verso il maggior bene del popolo cristiano. Certamente nella trattazione di queste convenzioni concordatarie non mancarono molte e gravi difficoltà, per il fatto che si trattava di stabilire secondo legge il regime della Chiesa Cattolica presso popoli in maggioranza acattolici; tuttavia riconosciamo volentieri che per superare queste difficoltà le pubbliche autorità di quelle Nazioni prestarono volonterosamente la loro opera. Se dunque, giunti al termine dell’anno, rivolgiamo all’intorno il Nostro sguardo, Ci rallegriamo sommamente nel vedere che molte Nazioni hanno già stretto, con una pubblica convenzione, relazioni di amicizia con questa Sede Apostolica, oppure si accingono alla trattazione o al rinnovo di un Concordato. E mentre proviamo profondo dolore al pensare che nelle vaste regioni dell’Europa Orientale ancor oggi infierisce la più terribile guerra non solo contro la Religione cristiana, ma altresì contro ogni diritto divino ed umano, Ci sentiamo d’altra parte grandemente confortati per il fatto che l’orribile persecuzione inflitta al clero e al popolo cattolico del Messico sembra ormai placata, in maniera da far fin da ora in qualche modo sperare che la sospirata pace non sarà molto lontana. – Né minor diletto e consolazione Ci ha recato il vedere che, durante il corso di questo fausto anno giubilare, la Chiesa Orientale ha voluto mostrare ancora più stretti i vincoli di attaccamento con la Sede Apostolica, prendendo questa occasione per darCi aperta e pubblica testimonianza del suo ardente amore per l’unità della Chiesa; e in far ciò, i Nostri figli della Chiesa Orientale Ci hanno certamente voluto rendere un tributo di gratitudine, giacché Noi, dietro l’esempio dei Nostri Predecessori, abbiamo sempre nutrito per i popoli orientali grande benevolenza e carità. Ci hanno infatti inviato lettere piene di affetto e di venerazione, ed hanno manifestato con attestati pubblici e solenni la loro gioia e i loro rallegramenti; i Patriarchi ed i Vescovi di quelle Chiese, o personalmente o per mezzo di loro rappresentanti, si sono recati a farCi visita per testimoniare più chiaramente, anche a nome del gregge loro affidato, l’amore verso il supremo Pastore delle anime. Seguendo l’esempio dei Vescovi Armeni, che lo scorso anno tennero in Roma il loro convegno per discutere qui, presso la Cattedra di Pietro, circa gli opportuni provvedimenti con cui mitigare i mali che affliggono la loro Nazione, poco tempo fa i Vescovi Ruteni, che mai tutti insieme erano convenuti a Roma, hanno deciso di tenere le loro adunanze qui presso di Noi, quasi per dimostrare con la stessa scelta del luogo e del tempo, l’affettuoso attaccamento dell’intera Chiesa Rutena verso il Successore del Principe degli Apostoli. E il risultato delle loro adunanze fu veramente tale da soddisfare pienamente le Nostre speranze. Infatti trattarono in esse di questioni importantissime, sottoponendo a Noi, come si conviene, le loro deliberazioni; e cioè del corso degli studi per il giovane clero, dell’istituzione di Seminari Minori, dell’istruzione catechistica del popolo da svolgersi in un certo periodo di anni, del modo di concorrere alla codificazione del Diritto Canonico Orientale, e nei mezzi opportuni per promuovere fra i loro fedeli l’Azione Cattolica secondo le Nostre direttive; ed in tutte queste cose riconosciamo che essi non potevano prendere determinazioni più salutari per il loro clero e per il loro popolo. – Benché le cose di cui abbiamo fin qui parlato sembrino di maggiore importanza e attirino più facilmente l’attenzione e l’ammirazione del pubblico, tuttavia pensiamo che non conferiscano meno al bene della Chiesa quelle opere e istituzioni che il Signore, quasi per colmare la Nostra letizia, Ci ha permesso, dandocene i mezzi, o di condurre a termine o almeno di cominciare durante quest’anno. E infatti, oltre le molte case canoniche fatte costruire in varie parrocchie per provvedere ad un più decoroso disimpegno dell’ufficio parrocchiale, ed oltre i Collegi Internazionali, che per i loro giovani alunni hanno edificato le Congregazioni religiose dei Servi di Maria e di San Francesco di Paola — Collegi che già si sono inaugurati ed hanno aperto i corsi scolastici — è certo che i Collegi fondati qui in Roma per la formazione culturale e religiosa del giovane clero in questo breve spazio di tempo sono stati tanti, che appena altrettanti si sarebbero potuti veder sorgere in un lungo periodo di anni: tali sono il nuovo Collegio di Propaganda Fide, quello Lombardo, quello Russo e quello per la Nazione Cecoslovacca, già finiti e completamente arredati. E non vogliamo tralasciare di accennare né alla nuova sede del Seminario Etiopico, che abbiamo voluto appositamente fosse edificata qui presso il Vaticano — né agli altri due di cui già si è posta la prima pietra — cioè al Collegio Ruteno e al Brasiliano — né infine alla nuova sede del Seminario Romano Vaticano, di cui saranno prossimamente iniziati i lavori. E a proposito di queste numerose e crescenti istituzioni, le quali tanto da vicino interessano la salvezza delle anime, che Cristo Redentore ha procurato con la effusione del suo sangue, Noi abbiamo la più grande fiducia che, col divino aiuto, esse otterranno questo salutare risultato, e cioè che avremo schiere più addestrate e più numerose di leviti per l’evangelizzazione dei popoli. E parimenti non v’è dubbio che questi nuovi leviti, i quali qui nel centro dell’orbe cattolico vengono educati alla purezza della dottrina di Cristo e si esercitano all’acquisto delle virtù sacerdotali, un giorno, divenuti sacerdoti e tornati ai loro paesi, si adopereranno validamente a rendere ancora più stretti i vincoli d’unione dei loro concittadini con la Sede Apostolica, oppure, se questi sono separati dalla Chiesa di Roma, a richiamarli a poco a poco all’antica unione con essa o, se ancora si trovano involti nelle tenebre e nell’ombra di morte, procureranno con ogni sforzo di recare loro la luce dell’evangelica verità, allargando sempre più i confini del regno di Cristo. E veramente la speranza di questi lieti frutti è per Noi di tanto conforto, che non possiamo abbastanza esaltare Colui che Ci ha dato tanta consolazione e Ci ha concesso di portare a compimento queste grandi cose per il bene della Chiesa. – Vogliamo poi anche, Venerabili Fratelli e diletti figli, ricordare insieme a voi altri avvenimenti, che per divina disposizione hanno reso quest’anno ancor più memorabile; abbiamo detto per divina disposizione, giacché niente può avvenire a caso, essendo tutte queste cose da Dio ordinate e regolate. Poiché infatti gli uomini, per la loro stessa natura, al compiersi di certi periodi di anni più volentieri si soffermano a ricordare benefìci già da Dio destinati alla cristiana società, e ne traggono incitamento a proseguire con alacrità maggiore la via intrapresa, così è avvenuto che i fedeli durante questi dodici mesi hanno preso tutte le occasioni di quel genere che loro si presentarono per indirizzare l’espressione della loro gratitudine e del loro amore verso Iddio Ottimo Massimo e verso il Padre comune in queste particolari circostanze. E da parte Nostra, per ricambiare con paterno animo tali attestati di filiale pietà, volemmo essere presenti a queste solenni celebrazioni e renderle ancor più splendide, inviando a questo scopo le Nostre Lettere e i Nostri Legati. – Così questa Apostolica Sede non poteva non favorire la insigne famiglia del Padre e Legislatore San Benedetto, mentre essa si preparava a commemorare il secolo decimo quarto dalla fondazione dell’Archicenobio Cassinese « principale palestra della regola monastica » e tanto benemerito e da sì lungo tempo verso la stessa Santa Sede non meno che verso la umana civiltà. E ciò dicendo e ripetendo, diciamo cosa non soltanto conosciutissima dai dotti e dagli eruditi, ma divulgata oggi anche in mezzo al popolo che si è ormai formato di tali meriti un giusto concetto. Infatti, non solamente al popolo, in particolare nella nostra Italia, si suole ripetere in esempi la massima del santissimo Patriarca, « ora et labora », ma non v’è chi ignori che i monaci dell’Archicenobio, e con essi tutti gli altri della famiglia di San Benedetto, promossero le belle arti e trasmisero in perpetuo alla posterità i monumenti della umana non meno che della divina sapienza, e inviarono predicatori del Vangelo in regioni anche lontanissime con tale vantaggio della Fede cristiana e della civiltà che il Nostro Predecessore Pio X, di felice memoria, volendo brevemente sì, ma efficacemente insieme esprimere i meriti acquistatisi dal monastero Cassinese, poté dire con giusta ragione « che i suoi fasti sono in gran parte la storia stessa della Chiesa Romana ». Per la qual cosa non è da meravigliarsi se, in occasione delle feste celebrate nella vetustissima Arciabbazia, tanti visitatori da ogni parte facessero a gara per salire a quel sacro monte e venerarvi le memorie del Santo Padre Benedetto e purificare con la penitenza le anime loro. – Alquanto meno lontano nella storia della Chiesa è l’avvenimento celebrato a Stoccolma, città capitale della Svezia, con insolito splendore per quanto era concesso, dato il numero dei cattolici: la venuta di Sant’Ansgario, che mille e cento anni or sono approdò nella Svezia, dopo avere con instancabile zelo evangelizzato la Danimarca. – Fu celebrato un triduo solenne; vi assistevano, rappresentanti, se così può dirsi, di quattordici nazioni diverse, due Cardinali, alcuni Vescovi e Abbati dell’Ordine di San Benedetto e più di mille fedeli; vi furono tenuti discorsi sulle opere compiute da Ansgario e sul suo mirabile apostolato secondo le più recenti ricerche: vi furono lette, fra il comune plauso, le lettere che avevamo mandate con la Nostra benedizione; tutti i convenuti furono ricevuti con grande onore nella stessa sede municipale di Stoccolma; a Noi e al Re di Svezia furono inviati messaggi con ossequi ed auguri. E questa commemorazione centenaria non deve parere di poca importanza, se si pensa che fino a settanta anni addietro le cose procedevano nella Svezia così contrarie alla religione Cattolica che il passaggio alla Chiesa Romana era ancora punito con l’esilio e con la perdita dello stesso diritto di eredità. A tale proposito giova qui ricordare che in quei paesi, recentemente, abbracciarono la Religione Cattolica diversi fra donne e uomini dei più colti, e in Islanda, che dipende dalla Danimarca, quest’anno medesimo l’E.mo Cardinale Prefetto della Congregazione di Propaganda Fide felicemente dedicò la nuova Chiesa Cattedrale. Pertanto fra i benefìci divini di quest’anno annoveriamo pure la lieta speranza da Noi nutrita che, auspice Sant’Ansgario, da qui innanzi molto più copiosa sarà la messe che raccoglieranno i Vicari Apostolici, i sacerdoti, i religiosi dell’uno e dell’altro sesso che spargono i loro sudori in quella sì ampia parte della vigna del Signore. – Come poi avevamo inviato a Montecassino, quale nostro rappresentante, un Eminentissimo Cardinale che assistesse alle solennità ivi celebrate, così anche ordinammo che un Nostro legato « a latere », scelto pure nel Sacro Collegio, si recasse in Francia dove si commemorava l’anniversario cinque volte secolare del giorno in cui Giovanna d’Arco, vergine santissima e tanto benemerita della sua nazione, era entrata trionfalmente nella città d’Orléans. E perché la memoria e il ricordo di tale trionfo riuscissero a tutti i cittadini più graditi e ai Cattolici più fruttuosi, dovette certamente giovare la quasi presenza Nostra nella persona del legato. – Credemmo pure dovere del Nostro ufficio intervenire per mezzo del Nostro Nunzio Apostolico alle feste con cui i sudditi della repubblica Cecoslovacca celebrarono il secondo centenario della canonizzazione di San Giovanni Nepomuceno e specialmente il millenario dalla morte di San Venceslao, inclito duca di Boemia e Patrono celeste della stessa Repubblica, ucciso per mano del fratello. Come poi abbiamo detto nella recente Allocuzione Concistoriale, apprendemmo con grande letizia che alle feste celebrate in onore del Martire Venceslao presero parte non solamente cittadini e forestieri in grandissimo numero, ma gli uomini stessi del Governo e i principali della Repubblica. Ora di un così comune fervore di animi come non dovevamo Noi rallegrarCi? Infatti ai pubblici sconvolgimenti che, dopo cessata la guerra immane, avevano condotto ad estremo pericolo l’unità e l’azione cattolica, susseguivano in quei giorni una grande pace e serenità, ed una tale condizione di vita pubblica sembrava incominciata, quale, al sopraggiungere delle feste, Noi avevamo supplicato da Dio che di fatto incominciasse, e col patrocinio e intercessione di San Venceslao si mantenesse in avvenire. Oh! se gli eventi rispondessero a questi Nostri desideri! perché non v’è chi non intenda quanto gioverebbe alla vera prosperità di quella nazione l’opera concorde delle due potestà, ecclesiastica e civile. – Mirabile poi Ci è parso il modo col quale i figli a Noi carissimi d’Inghilterra, di Scozia e d’Irlanda, a nessuno secondi nell’attaccamento fervido alla propria fede e nell’ardore della pietà, hanno fatto onore al cinquantesimo anno del Nostro sacerdozio. Con un apparato quanto mai splendido e un concorso, che ha dell’incredibile, di popolo venuto da ogni parte, si è commemorato il compimento di un secolo da che i Cattolici, che in altri tempi erano perseguitati e ferocemente maltrattati e che ancor più tardi, in tempi un poco migliori, rimasero esclusi dai diritti civili, finalmente per pubblico riconoscimento, rientrarono in quei diritti e riebbero la libertà di professare la propria religione. E con molto piacere abbiamo visto che gl’Inglesi, gli Scozzesi e gl’Irlandesi hanno celebrato tali solennità, non come se, col ricordare antichi fatti, accusassero qualcuno delle passate ingiustizie, ma studiando piuttosto come dirigere la libertà ricuperata, prima in parte e poi in più ampia misura, sia nell’osservanza più fedele e nella più larga dilatazione della legge di Cristo, sia nel bene della pubblica cosa, naturalmente con la debita sottomissione al potere civile. Né fu una sola la causa che Ci indusse a voler per Noi una parte non piccola nella celebrazione centenaria dell’evento; poiché se è sempre conveniente che il Vicario di Gesù Cristo si associ alla letizia santa dei figli, molto più ciò lo era in questa congiuntura, ricorrendo la memoria del termine finalmente posto alle pene che i generosi e nobilissimi avi di quei cattolici avevano con costanza e valore sostenute per la difesa della propria fede e della loro unione alla Chiesa Romana. Anzi, per bontà di Dio Ci toccò in sorte di accrescere la letizia dei Nostri figli d’Inghilterra, di Scozia e d’Irlanda con solennità rispondenti a quelle da essi celebrate. Infatti, dopo avere con rigore esaminato ogni cosa conforme alle regole, inserimmo, non è molto, nell’albo dei Beati quella valorosa schiera di uomini che nella ricordata lunga persecuzione contro i Cattolici avevano qui combattuto, non in uno stesso tempo, ma per la stessa causa di Cristo e della Chiesa, e ciò in virtù di quella medesima autorità Pontificia, per difendere la quale essi avevano incontrato l’illustre martirio. E così avvenne che il cinquantesimo anno del Nostro sacerdozio, a cui erano già stati di tanto ornamento gli onori decretati al beato martire Cosma da Carbognano, Armeno zelantissimo dell’unità ecclesiastica sino allo spargimento del sangue, s’affrettasse al suo termine ancor più adorno per la riconosciuta palma del martirio a così numerose vittime e per il culto ad esse tributato. – Che una forza e una virtù perenne dello Spirito Santo s’insinuino e scorrano per le vene, diciamo così, della Chiesa, appare manifesto dalla stessa compiuta vittoria di questi martiri. Ma non fu ciò chiaro anche quando nel mese di giugno proponemmo al culto e all’imitazione dei fedeli altri eroi di santità? – Basta poi appena accennare a quanta moltitudine di cittadini e di forestieri hanno venerato con Noi, nella maestà della Basilica Vaticana, i recentemente beatificati: cioè Claudio de la Colombière, quell’illustre figlio della Compagnia di Gesù, che Gesù stesso non solo chiamò « servo fedele » e lo destinò consigliere di Margherita Maria Alacoque, ma anche gli affidò l’incarico di propagare il culto verso il suo Cuore in mezzo al popolo cristiano; Teresa Margherita Redi, Carmelitana, di famiglia Fiorentina e fiore di gioventù e d’innocenza; Francesco Maria da Camporosso, quel religioso Cappuccino, il quale, può dirsi del tempo nostro, avendo per quaranta anni fatto l’ufficio di questuante, con l’esempio della sua vita intemerata, con consigli pieni di una celeste prudenza e con esortazioni soavissime alla santità, parve sia al popolo sia agli ottimati così somigliante a San Francesco d’Assisi che i Genovesi, dopo averlo amato e onorato vivo, anche morto l’hanno fatto segno sin qui di grato ricordo e di venerazione. In qual modo potremmo poi descrivere la consolazione di cui fummo inondati, quando, dopo aver ascritto Giovanni Bosco tra i beati, lo venerammo pubblicamente nella medesima Basilica Vaticana? Giacché richiamando la cara memoria di quegli anni nei quali, all’alba del sacerdozio, godemmo della sapiente conversazione di tanto uomo, ammiravamo la misericordia di Dio veramente « mirabile nei Santi suoi » per aver opposto il beato così a lungo e così provvidenzialmente ad uomini settari e nefasti, tutti intesi a scalzare la Religione Cristiana e a deprimere con accuse e contumelie la suprema autorità del Romano Pontefice. Egli infatti, che da giovinetto era solito convocare altri della sua età per pregare insieme e per ammaestrarli negli elementi della dottrina cristiana, dopo che divenne sacerdote prese a rivolgere tutti i suoi pensieri e sollecitudini alla salvezza della gioventù che più era esposta agli inganni dei malvagi; ad attrarre a sé i giovani, tenendoli lontani dai pericoli, istruendoli nei precetti della legge evangelica e formandoli alla integrità dei costumi; ad associarsi compagni per ampliare tanta opera e ciò con sì lieto successo, da procacciare alla Chiesa una nuova e foltissima schiera di militi di Cristo; a fondare collegi ed officine per istruire i giovani negli studi e nelle arti fra noi e all’estero; e infine a mandare gran numero di missionari a propagare tra gl’infedeli il regno di Cristo. Ripensando Noi a queste cose durante quella visita alla basilica di San Pietro, non solo riflettevamo con quali opportuni aiuti il Signore, specialmente nelle avversità, sia solito soccorrere e rinvigorire la sua Chiesa, ma anche Ci veniva in mente come per una speciale provvidenza dell’Autore di tutti i beni fosse avvenuto che il primo a cui decretammo gli onori celesti, dopo che avevamo concluso il patto della desideratissima pace con il Regno d’Italia, fosse Giovanni Bosco, il quale, deplorando fortemente i violati diritti della Sede Apostolica, più volte si era adoperato perché, reintegrati tali diritti, si componesse amichevolmente il dolorosissimo dissidio per il quale l’Italia era stata strappata al paterno amplesso del Pontefice. – Ed ora, Venerabili Fratelli e figli carissimi, dobbiamo pure accennare qualche cosa dello stragrande numero di Cattolici che, pellegrini, vennero a Roma nel corso dell’anno, benché quasi non vi sia ragione di chiamarli pellegrini o stranieri, poiché nessuno può considerarsi estraneo nella casa del Padre comune. Avemmo davvero innanzi agli occhi uno spettacolo a Noi graditissimo per vari titoli. Infatti, proprio il consenso di tante nazioni, pur fra loro divise per indole, sentimenti, costumi, nella stessa fede e nella stessa venerazione al supremo Pastore delle anime, non proclamava pubblicamente e apertamente l’unità e l’universalità, che il divino Fondatore volle impresse nella sua Chiesa, come note a lei proprie? Ma si può dire che in alcuni tempi dell’anno non sorse giorno in cui Roma non vedesse affluire e piamente visitare i suoi più illustri templi, schiere di fedeli accorsi dalle diocesi d’Italia, dalle altre nazioni di Europa e persino dalle regioni separate dalla quasi infinita distesa dell’Oceano. Né si deve tacere che i cittadini di Roma, i quali sono più vicini al Romano Pontefice, loro Vescovo, non si lasciarono vincere dai pellegrini e dagli stranieri in questa gara, come nelle frequenti processioni per la visita delle Basiliche, al fine di acquistare il giubileo offerto al mondo cattolico. Di questi figli della Nostra diocesi convenne così grande numero, il primo dicembre, nella basilica di San Pietro, per ottenervi il perdono giubilare, che forse Noi non vedemmo mai tanto gremito il vastissimo tempio. – E ad essi tutti, che supplicavano in folla di venire a Noi, ben volentieri accondiscendendo, molto fummo allietati della loro presenza; le parecchie migliaia di uomini, e specialmente di giovani, che ammettemmo, gli uni dopo gli altri, prestarono orecchio alle Nostre parole con tale attenzione e, per così dire, impeto di affetto, manifestarono l’amore ardentissimo, che a Noi li portava, con tali grida di plauso, che Noi tenemmo per certo di avere realmente ottenuto quanto Ci eravamo proposto nell’indire un nuovo anno santo. Infatti, come in principio notammo, non ad altro miravamo Noi, che ad aprire felicemente la via ad una più profonda emendazione dei costumi privati e pubblici, risvegliando a maggior fervore la fede e la pietà nel popolo cristiano, poiché, secondo la sentenza del Nostro predecessore Leone XIII di f. m., «Quanto più gli individui cresceranno nella perfezione, tanto maggiore onestà e virtù dovrà necessariamente risplendere nei pubblici costumi e nella vita sociale ». Orbene, quanti splendidi esempi di pietà e di virtù non vedemmo dati nel corso dell’anno, con la nobile gara sorta ovunque tra i fedeli per attingere le ricchezze, che durano eterne, dal sacro deposito a Noi affidato e da Noi aperto con paterna generosità, mentre pure intorno non mancava chi faceva mostra di leggerezza e di cupidigia dei beni terreni? Tutti costoro, e primi quelli che, sebbene potessero più facilmente valersi in patria dei mezzi di salvezza loro offerti, preferirono invece sopportare gl’incomodi e le spese del viaggio, non proclamavano essi col fatto che vi sono dei beni superiori assai a questi beni vani e passeggeri del mondo e più degni di un’anima immortale, all’acquisto dei quali dobbiamo perciò tendere con più intenso desiderio? A questa consolazione se ne aggiunse un’altra: cioè, dai quasi quotidiani Nostri colloqui con tanta moltitudine di figli potemmo constatare che essi molto generosamente oggi si adoperano con ogni mezzo per consolidare il regno di Cristo nelle nazioni cattoliche o per introdurlo tra i popoli ignari della dottrina e della civiltà nostra. Ne seguirono in quest’anno nuovi incrementi dell’Azione Cattolica, diretta ad aiutare e sostenere l’apostolato del clero, e si ebbero più abbondanti offerte per l’opera dei missionari: e qui diamo ogni lode alla pia liberalità di coloro che, a ricordo di questo Nostro fausto giubileo, offrirono a Noi in gran copia suppellettile varia e vasi e ornamenti sacri ad uso delle Missioni. – Infine, il desiderio che manifestammo nell’esordire, Venerabili Fratelli e figli carissimi, ve lo ripetiamo nel terminare la Nostra lettera: cioè che insieme con Noi ringraziate assai Iddio, perché, avendoCi concesso tanto lungo decorso di vita sacerdotale, Ci sostenne con efficacissimi aiuti e Ci sollevò con ogni genere di conforti, specialmente in quest’anno. Ma, dopo avere attribuito a Dio, come è giusto, un così grande cumulo di benefìci ringraziamo vivamente anche coloro che Egli adoperò, nella sua benigna provvidenza, quali strumenti per colmarCi di tanti favori: diciamo i capi di governo, che manifestarono la loro deferente benevolenza verso di noi, regalandoCi doni preziosi e rendendo più facile la venuta a Noi dei loro concittadini; diciamo tutta la grande famiglia dei cattolici, che l’offerta indulgenza plenaria lucrarono sia in patria sia in Roma, dando splendide testimonianze della loro fede e pietà non solo al Padre comune, ma anche a tutti gli altri fedeli. E questi frutti di virtù, come potrebbero venire meno ed affievolirsi con il passare del tempo? Ché anzi, mentre supplichiamo a tale scopo il divino Fondatore e reggitore del genere umano, speriamo che, mitigati dalla cristiana carità dappertutto i dissidi dei partiti e regolati secondo i precetti evangelici i costumi privati e pubblici, i cittadini conserveranno intatta tale concordia tra di loro e con la potestà civile, e si mostreranno allo sguardo di tutti ornati di tali virtù da compiere felicemente il corso del terreno pellegrinaggio alla patria celeste. – Quanti da varie parti e più volte Ci pregarono nei mesi scorsi di prolungare alquanto la letizia di tali frutti spirituali, chiesero una cosa che non si suole normalmente concedere, ma che siamo spinti a consentire, indotti dalla Nostra sollecitudine per il bene comune e dal desiderio di manifestare più ampiamente la Nostra gratitudine. Perciò, con la Nostra autorità apostolica proroghiamo, nonostante qualunque cosa in contrario, a tutto il mese di giugno del prossimo anno 1930, quello stesso pienissimo perdono dei peccati, da lucrarsi alle stesse condizioni, che largimmo il 6 gennaio, indicendo un secondo anno santo « extra ordinem » con la Costituzione Apostolica « Auspicantibus Nobis ». – Frattanto, auspice di quella pace che Gesù Cristo nascendo portò agli uomini, ed insieme quale testimone della paterna Nostra benevolenza, a voi, Venerabili Fratelli e figli carissimi, impartiamo di cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 23 dicembre 1929, anno ottavo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

DOMENICA II DOPO L’EPIFANIA (2021)

DOMENICA II DOPO L’EPIFANIA (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani,

comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio – Paramenti verdi.

Fedele alla promessa che aveva fatta ad Abramo ed ai suoi discendenti, Dio inviò il Figlio suo per salvare il suo popolo. E nella sua misericordia, Egli volle anche riscattare tutti i pagani. Gesù è il Re che tutta la terra deve adorare e celebrare come suo Redentore (Intr., Grad.). Morendo sulla croce Gesù è diventato il nostro Re, e col S. Sacrifizio – ricordo del Calvario – applica alle nostre anime i meriti della sua redenzione ed esercita quindi la sua regalità su di noi. Cosi col miracolo delle Nozze di Cana – simbolo dell’Eucaristia – Gesù manifesta per la prima volta in modo aperto ai suoi Apostoli la sua divinità, cioè il suo carattere divino e regale, ed è allora che « i suoi discepoli credono in Lui ». – La trasformazione dell’acqua in vino è il simbolo della transustanziazione, che S. Tommaso chiama il più grande di tutti i miracoli, e in virtù del quale il vino Eucaristico diviene il Sangue dell’Alleanza di Pace (Or.) che Dio ha stabilito con la sua Chiesa. E poiché il Re divino vuole sposare le nostre anime, è con l’Eucaristia che si celebra questo sposalizio mistico, poiché essa aumenta la fede e l’amore che ci fanno membri viventi di Gesù nostro Capo. (« L’unità del corpo mistico è prodotta dal vero corpo ricevuto sacramentalmente » – S. Tommaso). Le nozze di Cana raffigurano anche l’unione del Verbo con la Chiesa sua sposa. « Invitato alle nozze – dice S. Agostino – Gesù vi andò per confermare la castità coniugale e per mostrare che Egli è l’autore del Sacramento del Matrimonio e per rivelarci il significato simbolico di queste nozze, cioè l’unione del Cristo con la sua Chiesa. In tal modo anche quelle anime che hanno votato a Dio la loro verginità, non sono senza nozze, partecipando esse con tutta la Chiesa a quelle nozze in cui lo Sposo è Cristo».

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 4

Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.

[Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Ps LXV: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: canta salmi al suo nome e gloria alla sua lode.]

Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.

[Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui coeléstia simul et terréna moderáris: supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi; et pacem tuam nostris concéde tempóribus.

[O Dio onnipotente ed eterno, che governi cielo e terra, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo e concedi ai nostri giorni la tua pace.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom XII: 6-16

“Fratres: Habéntes donatiónes secúndum grátiam, quæ data est nobis, differéntes: sive prophétiam secúndum ratiónem fídei, sive ministérium in ministrándo, sive qui docet in doctrína, qui exhortátur in exhortándo, qui tríbuit in simplicitáte, qui præest in sollicitúdine, qui miserétur in hilaritáte. Diléctio sine simulatióne. Odiéntes malum, adhæréntes bono: Caritáte fraternitátis ínvicem diligéntes: Honóre ínvicem præveniéntes: Sollicitúdine non pigri: Spíritu fervéntes: Dómino serviéntes: Spe gaudéntes: In tribulatióne patiéntes: Oratióni instántes: Necessitátibus sanctórum communicántes: Hospitalitátem sectántes. Benedícite persequéntibus vos: benedícite, et nolíte maledícere. Gaudére cum gaudéntibus, flere cum fléntibus: Idípsum ínvicem sentiéntes: Non alta sapiéntes, sed humílibus consentiéntes.

[Fratelli, avendo noi dei doni differenti secondo la grazia che ci è stata donata, chi ha la profezia (l’eserciti) secondo la regola della fede; chi il ministero, amministri, chi l’insegnamento, insegni; chi ha l’esortazione, esorti; chi distribuisce (lo faccia) con semplicità; che fa opere di misericordia, con ilarità. La vostra carità non sia finta. Odiate il male; affezionatevi al bene. Amatevi scambievolmente con amore fraterno, prevenendovi gli uni gli altri nel rendervi onore. Non pigri nello zelo, ferventi nello spirito, servite al Signore. Siate allegri per la speranza, pazienti nella tribolazione, assidui nella preghiera. Provvedete ai bisogni dei santi; praticate l’ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano: benedite e non vogliate maledire. Rallegratevi con chi gioisce; piangete con chi piange, avendo gli stessi sentimenti l’uno per l’altro. Non aspirate alle cose alte, ma adattatevi alle umili.]

 P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

LA CARITÀ PIÙ DIFFICILE.

San Paolo in materia di carità è un Maestro straordinario; grande in tutto, è grandissimo in questo. Assurge al grido più sublime, discende alle considerazioni più pratiche e in questo terreno pratico che pare umile, spiega un’abilità, una finezza che lo mette in contrasto, vittorioso da parte sua, con le. idee che hanno più facile e maggior voga nella società. Ecco qua un binomio nel quale si riassume l’esercizio pratico della carità: « gaudere curri gaudentibus, flere cura flentibus ». Dove il consiglio o precetto di piangere con chi piange appare a tutti un precetto caritatevolissimo. Non è egli giusto e bello compiangere chi soffre? aiutarlo, per stimolo di compassione sincera a non soffrire più? a superare il suo dolore? È così bella e caritatevole questa funzione del piangere coi dolenti che per molti la carità predicata da Cristo si riduce lì. La carità per lo meno più autentica, più meritevole è questa. Gli altri, quelli che non soffrono né punto né poco anzi godono, se la scialano, se la ridono, che bisogno hanno di carità? O come la possiamo esercitare verso di loro? Come possiamo essere con loro e verso di loro caritatevoli? Domanda che S. Paolo non ammette in quanto tendono a rimpicciolire l’esercizio della carità nel campo della miseria umana. La. carità spazia in termini più vasti. È possibile anche coi felici, solo che è più difficile. È molto difficile. Impietosirsi cogli infermi è più facile. Strano, ma vero. E neanche strano. Il nostro egoismo in fondo è carezzato, vellicato, soddisfatto quando vede soffrire gli altri, quando incontra il dolore. E assumiamo volentieri l’attitudine della pietà perché è un’attitudine universalmente apprezzata, facciamo il gesto del soccorso perché esso pare a tutti un bel gesto. Ci dà una doppia superiorità, la superiorità di chi non soffre e quella di chi benefica. Impalcatura psicologica che crolla quando il nostro prossimo è fortunato; quando invece di passare lagrimando dalla gioia al dolore, dalla ricchezza alla povertà, dalla salute alla malattia, passa allegramente, ridendo, cantando dal dolore alla gioia, e per esempio dalla povertà alla ricchezza. Quando una famiglia ricca per un rovescio diventa povera, quanti dicono, e abbastanza sinceramente: povera gente! e piangono e aiutano. Ma quando accade il rovescio, quando il povero diventa ricco sono molti che si rallegrano sinceramente? Attenti a questo sinceramente! Perché la commedia delle congratulazioni la recitano molti, troppi: ma è una commedia. Sotto sotto, dentro di sé, in realtà crepano d’invidia. Il buon Cristiano, il vero caritatevole si rivela in quel « gaudere cura gaudentibus » prima e più che nel « flere cura flentibus », nel partecipare alle altrui gioie prima e più che nel dividere gli altrui dolori.

Graduale

Ps CVI: 20-21

Misit Dóminus verbum suum, et sanávit eos: et erípuit eos de intéritu eórum.

[Il Signore mandò la sua parola e li risanò: li salvò dalla distruzione.]

V. Confiteántur Dómino misericórdiæ ejus: et mirabília ejus fíliis hóminum. 

[V. Diano lode al Signore le sue misericordie e le sue meraviglie in favore degli uomini. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXLVIII: 2

Laudáte Dóminum, omnes Angeli ejus: laudáte eum, omnes virtútes ejus. Allelúja.

[Lodate il Signore, voi tutti suoi Angeli: lodatelo, voi tutte milizie sue. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. [Joann II: 1-11]

In illo témpore: Núptiæ factæ sunt in Cana Galilaeæ: et erat Mater Jesu ibi. Vocátus est autem et Jesus, et discípuli ejus ad núptias. Et deficiénte vino, dicit Mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Jesus: Quid mihi et tibi est, mulier? nondum venit hora mea. Dicit Mater ejus minístris: Quodcúmque díxerit vobis, fácite. Erant autem ibi lapídeæ hýdriæ sex pósitæ secúndum purificatiónem Judæórum, capiéntes síngulæ metrétas binas vel ternas. Dicit eis Jesus: Implete hýdrias aqua. Et implevérunt eas usque ad summum. Et dicit eis Jesus: Hauríte nunc, et ferte architriclíno. Et tulérunt. Ut autem gustávit architriclínus aquam vinum fáctam, et non sciébat unde esset, minístri autem sciébant, qui háuserant aquam: vocat sponsum architriclínus, et dicit ei: Omnis homo primum bonum vinum ponit: et cum inebriáti fúerint, tunc id, quod detérius est. Tu autem servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc fecit inítium signórum Jesus in Cana Galilaeæ: et manifestávit glóriam suam, et credidérunt in eum discípuli ejus.

[In quel tempo: Vi furono delle nozze in Cana di Galilea, e li vi era la Madre di Gesù. E alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la Madre di Gesù disse a Lui: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho a che fare con te, o donna? La mia ora non è ancora venuta. Disse sua Madre ai domestici: Fate tutto quello che vi dirà. Orbene, vi erano lì sei pile di pietra, preparate per la purificazione dei Giudei, ciascuna contenente due o tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua le pile. E le empirono fino all’orlo. Gesù disse: Adesso attingete e portate al maestro di tavola. E portarono. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino, non sapeva donde l’avessero attinta, ma i domestici lo sapevano; chiamato lo sposo gli disse: Tutti servono da principio il vino migliore, e danno il meno buono quando sono brilli, ma tu hai conservato il vino migliore fino ad ora. Così Gesù, in Cana di Galilea dette inizio ai miracoli, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui.]

OMELIA II

[Discorsi di S. G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, Quarta ed. – Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

Sul Matrimonio.

Quanto i Cristiani sarebbero felici, se avessero la sorte come questi due sposi fedeli che si recarono a pregare Gesù Cristo di assistere alle loro nozze per benedirle e per conceder loro le grazie necessarie alla loro santificazione! Ma no, pochissimi fanno quello che devono fare per impegnare Gesù Cristo a recarsi alle loro nozze per benedirle; all’opposto, sembra che si impieghino tutti i mezzi per impedirlo. Ah! quante persone dannate per non aver invitato Gesù Cristo alle loro nozze, quante persone che cominciano il loro inferno in questo mondo! Ah! quanti Cristiani che abbracciano questo stato colle stesse disposizioni dei pagani e forse son più colpevoli! Diciamo, gemendo, che, di tutti i sacramenti non ve ne è alcun altro che sia tanto profanato. Sembra che non si riceva questo gran sacramento che per commettere un sacrilegio. Ah! se noi vediamo molti contrarre dei cattivi matrimoni, molti infelici, molti che colla maledizioni che si vomitano l’uno contro l’altro, veramente cominciano il loro inferno in questo mondo, non cerchiamone altra causa se non nella profanazione di questo sacramento. Ah! se di tutti i trenta matrimoni, ne occorressero tre soli che avessero ricevute tutte le grazie, sarebbe già molto. Ma che cosa ne conseguita da queste profanazioni, se non una generazione di riprovati? Mio Dio, possiamo noi pensarvi e non tremare, vedendo tante povere persone le quali non entrano in questo stato che per cadere nell’inferno? Qual è il mio disegno, M. F.? Eccolo. Dapprima di mostrare a coloro che hanno abbracciato questo stato, le colpe che vi hanno commesse, e poscia a coloro che pensano di abbracciarlo, le disposizioni che vi devono recare.

I. — Nessuno dubita che noi possiamo salvarci in tutti gli stati che Dio ha creati, ciascuno in quello che Dio ci ha destinato, se noi vi rechiamo le disposizioni che Dio domanda da noi: di guisa che, se noi ci perdiamo nel nostro stato, segno è che non l’abbiamo abbracciato con buone disposizioni. Ma è vero che ve ne sono i quali presentano maggiori difficoltà degli altri. Noi sappiamo qual è quello che ne presenta di maggiori, è quello del matrimonio; e tuttavolta noi vediamo che è quello che si riceve con più cattive disposizioni. Quando si vuol ricevere il sacramento della confermazione, si premette un ritiro, si procura di farsi bene istruire, per rendersi degni delle grazie che vi sono annesse; ma per quello del matrimonio, dal quale dipende ordinariamente la felicità o l’infelicità di colui che lo riceve, lontano dal prepararvisi con un ritiro o con qualche altra buona azione, sembra che non si saranno mai accumulati abbastanza peccati sopra peccati per riceverlo, sembra che non si avrà mai commesso tanto male per meritare la maledizione del buon Dio, affine di essere infelici per il volgere di tutta la vita preparandosi un inferno per l’eternità. Quando si vuol abbracciare lo stato ecclesiastico, od entrare in un monastero, o restare nel celibato, si consulta, si prega, si compiono delle buone opere, affine di domandare a Dio la grazia di conoscere la propria vocazione; benché nell’ordine religioso tutto converga a Dio, tutto ci allontani dal male, nonostante ciò, si prendono molte precauzioni; ma per il matrimonio, nel quale è così difficile il salvarsi, o per meglio dire, nel quale tanti si dannano, dove sono le preparazioni che si premettono per domandare a Dio la grazia di meritare il soccorso del cielo che ci è così necessario per potere santificarci? Quasi nessuno vi si prepara, o vi si prepara in un modo così debole che il cuore non vi ha alcuna parte. Quando un giovane od una giovane cominciano a voler pensare a collocarsi, prendono le messe dall’allontanarsi da Dio, abbandonando la religione, la preghiera, i sacramenti. Gli abbigliamenti ed i piaceri prendono il posto della religione, e i peccati più vergognosi prendono il posto dei sacramenti. Essi battono questa via fino al momento di contrarre il matrimonio, nel quale la maggior parte consumano tre sacrilegi in due o tre giorni; vo’ dire profanando il sacramento della penitenza, quello dell’Eucaristia e quello del matrimonio, se il prete è tanto infelice da amministrar loro i due primi; io dico almeno la maggior parte, se non di tutti. Il più gran numero di Cristiani, vi recano un cuore mille volte più corrotto dal vizio infame dell’impurità, che un gran numero di pagani non oserebbero di commettere. Una giovane che desidera impalmarsi con un giovane, non ha più alcuna riservatezza. Ah! ella abbandona il buon Dio, e il buon Dio alla sua volta la abbandona; ella si getta a corpo perduto in tutto ciò che è più infame. Ah! che possono essere e che possono diventare queste povere persone che ricevono il sacramento del matrimonio in un simile stato, e quanti di questi infelici non lo rivelano neppure in confessione? O mio Dio, con qual orrore il cielo può e deve riguardare tali matrimoni! Ma che avviene di queste persone infelici? Ah! lo scandalo d’una parrocchia ed una sorgente di sventure per i poveri figli che nasceranno da essi! Che cosa si ascolta in questa casa? Nient’altro, se non giuramenti, bestemmie, imprecazioni e maledizioni. Quella giovane credeva che se poteva avere quell’uomo, o quell’uomo quella giovane, nulla sarebbe loro mancato; ma ah! dopo aver fondata la famiglia, quale cangiamento, quante lagrime, quanti patimenti, quanti gemiti! Ma tutto ciò a nulla giova. La sventura li ha incolti, ed è necessario restarvi fino alla morte, è necessario vivere con una persona che il più spesso non si può né vedere né udire; diciamo meglio, essi cominciano il loro inferno in questo mondo per continuarlo per tutta l’eternità. Ah! che il numero di questi matrimoni infelici, è grande! Tuttavolta, tutto ciò proviene dalla profanazione di questo sacramento. Ah! se si ponesse mente a quello che si fa abbracciando il matrimonio, i doveri da adempire e le difficoltà che vi si incontreranno per salvarsi, o mio Dio, più savia sarebbe la loro condotta! Ma la sventura del gran numero, è che hanno già perduto la fede quando lo abbracciano. D’altra parte, il demonio nulla omette per renderli indegni delle grazie che Dio loro concederebbe se fossero ben preparati. Il demonio, non solamente spera di averli nel suo potere, ma che anche i figli che nasceranno da essi saranno le sue vittime. Oh! che coloro che Dio non chiama a questo stato sono felici! Oh! quali azioni di grazie devono rendere a Dio di preservarli da tanti pericoli di perdersi! senza contar che saranno più vicini a Dio in cielo, che tutte le loro azioni saranno più accettevoli a Dio, e che la loro vita sarà più dolce, e la loro eternità più felice. Mio Dio, chi potrà ben comprendere ciò? Ah! quasi nessuno, perché ciascuno segue, non la propria vocazione, ma la tendenza delle proprie passioni. – Tuttavia, per quanto sia difficile salvarsi nello stato del matrimonio, e che il più gran numero, senza porvi mente un sol momento, saranno dannati, coloro che Dio vi chiama possono salvarvisi, se hanno la ventura di recarvi le disposizioni che Dio domanda da essi; Egli loro concederà coi sacramenti suoi le grazie che loro sono promesse. Ciascuno deve entrare dove Dio lo chiama, e noi possiamo dire che il più gran numero dei Cristiani si perdono perché non seguono la loro vocazione, ossia non domandandola a Dio o rendendosi indegni di conoscerla colla loro cattiva vita. Per mostrarvi che si può salvarsi nel matrimonio, se è Dio che chiama, ascoltate quello che ci dice S. Francesco di Sales, il quale essendo in collegio, si intratteneva un giorno con uno dei suoi compagni intorno lo stato nel quale entrerebbero. S. Francesco gli disse: io credo che il buon Dio mi chiami ad essere prete, io vi trovo tanti mezzi di santificarmi e di guadagnare delle anime a Dio, che al solo pensarvi mi sento il cuore ripieno di gioia; quanto mi troverei felice, se potessi convertire dei peccatori a Dio! Per tutto il volgere dell’eternità, io li sentirei cantare le lodi di Dio, li vedrei in cielo. L’altro gli disse: Io credo che Dio mi chiami nello stato del matrimonio e che avrò dei figli e che ne formerò dei buoni Cristiani e che io medesimo mi santificherò. Tutti e due seguirono una vocazione diversa, perché l’uno fu prete e Vescovo, e l’altro abbracciò il matrimonio, tuttavolta tutti due sono santi. Colui che contrasse il matrimonio ebbe dei figli e delle figlie; uno dei figli fu arcivescovo, ed è stato santo; un secondo religioso; un altro, presidente in una camera, il quale fece della propria casa quasi un monastero. Si levava di letto ogni giorno alle quattro ore del mattino, a cinque ore recitava la preghiera con tutti i suoi domestici, li istruiva ogni giorno. Parecchie delle sue figlie furono religiose; di guisa che, dice S. Francesco di Sales, che tutti, in quella famiglia, furono modelli di virtù nel paese dove soggiornavano. Voi vedete che, benché sia molto difficile di salvarsi nello stato del matrimonio, coloro che vi sono chiamati da Dio, se vi recano delle buone disposizioni, possono sperare di santificarvisi. Ma trattiamo in modo più diretto quello che riguarda questo sacramento.

II — Se io domandassi ad un fanciullo che cos’è il sacramento del matrimonio, egli mi risponderebbe: è un sacramento istituito da nostro Signor Gesù Cristo e che conferisce le grazie necessarie per santificare coloro che abbracciano il matrimonio secondo le leggi della Chiesa e dello Stato. Ma quali sono le disposizioni per ricevere le grazie che Dio comunica con questo sacramento? Eccole:

1° Di essere sufficientemente istruito dei doveri del proprio stato e delle miserie che in esso si provano; 2° di essere in stato di grazia, vo’ dire di avere premessa una buona confessione di tutti i propri peccati, con un vivo desiderio di non più commetterli. Se mi domandate perché è necessario essere in istato di grazia per ricevere questo sacramento, io vi risponderò: 1° Perché è un sacramento dei vivi; è necessario adunque che l’anima nostra sia esente da peccati; 2° Non essendo in istato di grazia, si commette un sacrilegio, eccetto che non siasi sufficientemente istruito. Coloro che vogliono ricevere degnamente questo sacramento devono essere istruiti sufficientemente per conoscere i loro doveri, e per insegnare ai loro figli quello che devono fare per vivere cristianamente. Se una persona che contrae il matrimonio non sa che cos’è il sacramento che riceve, chi l’ha istituito, quali grazie ci conferisce, e quali sono le disposizioni che dobbiamo recarvi, egli è certo che commette un sacrilegio. Ah! quanti sacrilegi nel ricevere questo gran sacramento, e quanti che abbracciano questo stato senza neppure sapere i principali misteri; vo’ dire, quale delle tre Persone divine si è fatta uomo! Essi non saprebbero solamente rispondervi che è la seconda Persona che ha preso un corpo ed un’anima nel seno della Ss. Vergine per l’opera dello Spirito Santo, e che fu il 25 marzo; che il 25 dicembre questo Gesù è venuto al mondo. Quanti che non sanno che è nato come uomo e non come Dio, perché come Dio è da tutta l’eternità. Quanti che non sanno che è il Giovedì santo che Gesù Cristo ha istituito il sacramento adorabile dell’Eucaristia, prendendo del pane, benedicendolo e cangiandolo nel suo corpo; e che poscia prese del vino e lo cangiò nel suo sangue, e che disse a’ suoi Apostoli: “Tutte le volte che voi pronuncerete queste medesime parole, voi opererete lo stesso miracolo.„ Quanti che non sanno che fu il Giovedì santo che Gesù Cristo ha istituito i sacerdoti, dicendo loro queste parole: “Fate questo in memoria di me. Tutte le volte che voi pronuncerete le medesime parole, voi cangerete il pane nel mio corpo, il vino nel mio sangue.„ (I Cor. XI, 23-26). Forse alcuni ignorano il giorno che il buon Dio è morto, che è risuscitato e che è salito al cielo. Ciò vi meraviglia? Ah! ne occorrono più di due che non sanno quanto e come Dio ha sofferto, e come è morto; vo’ dire che non sanno che Dio ha sofferto ed è morto come uomo e non come Dio, perché come Dio non poteva né patire, né morire. Quanti che credono che le tre Persone della Ss. Trinità hanno sofferto e sono morte. Quanti non sanno che Gesù Cristo, come uomo, è più giovane della Ss. Vergine, e che, come Dio, è da tutta l’eternità! Quanti sarebbero stati bene impacciati, se, prima di maritarsi, si avesse loro domandato: Chi ha istituito i sacramenti, e quali sono gli effetti di ciascun sacramento in particolare, e quali sono le disposizioni che domanda ciascun sacramento? Quanti credono che è la Ss. Vergine e gli Apostoli che hanno istituiti i sacramenti, e che non sanno veramente che è Gesù Cristo, e che Lui solo poteva istituirli e comunicar loro le grazie che vi riceviamo: vo’ dire, che il battesimo ci purifica dal peccato che noi rechiamo, nascendo, che è il primo sacramento che un Cristiano può ricevere, e che le acque per il battesimo sono state santificate quando S. Giovanni battezzò Gesù Cristo nel Giordano, che Gesù Cristo l’ha istituito, dicendo ai suoi apostoli: “Andate, istruite tutte le nazioni battezzandole nel nome del Padre, ecc. „ (Matth. XXVIII, 19). Quanti non sanno che sia lo Spirito Santo ch’essi ricevono nel sacramento della Confermazione, e che questo sacramento non può essere pconferito che dai Vescovi, e che è necessario essere in istato di grazia per riceverlo! Quanti non sanno in qual momento essi ricevono il sacramento di Penitenza e non sanno che è quando si confessano e che loro si imparte l’assoluzione, e non tutte le volte che si confessano! Quanti non sanno che, nel sacramento dell’Eucaristia, essi ricevono il corpo, il sangue e l’anima di nostro Signore Gesù Cristo, e non ricevono né gli angeli né i santi! Quanti non sanno far la differenza tra il sacramento dell’Eucaristia e gli altri, vale a dire, che non sanno che, nel sacramento dell’Eucaristia, essi ricevono il corpo adorabile e il sangue prezioso di Gesù Cristo, invece che negli altri non riceviamo che l’applicazione dei meriti del suo sangue prezioso! Quanti non sanno conoscere, quali sono i sacramenti dei vivi e i sacramenti dei morti, e perché si danno loro questi nomi; essi non sanno che il Battesimo, la Penitenza e qualche volta l’Estrema-Unzione, sono i sacramenti dei morti, perché ci restituiscono la vita della grazia che abbiamo perduta col peccato, e gli altri sono chiamati sacramenti dei vivi, perché è necessario che non abbiamo nessun peccato sopra la coscienza quando vogliamo riceverli. Quanti altri non sanno quello che ricevono quando si fanno le unzioni sopra i loro sensi, e quale grazia questo sacramento dell’Estrema Unzione conferisce agli ammalati che lo ricevono degnamente, vo’ dire che essi non sanno che questo sacramento li purifica da tutti i peccati che hanno commesso coi loro sensi. Finalmente quanti altri hanno ignorato la grazia che conferiva il sacramento del matrimonio! Quanti altri che non sanno che i sacramenti non hanno avuto il loro effetto che dopo la Pentecoste. Ah! quanti sacrilegi! ah! quante persone maritate miseramente perdute! Tuttavia se voi ignorate queste cose, voi potete essere certi che tutti i sacramenti che avete ricevuti sono, vorrei dire, dei sacrilegi. – Una seconda ragione che deve persuaderci a ben prepararsi per ricevere tutte le grazie che conferisce questo gran sacramento, è che vi sono molte miserie da sopportare. Quante povere mogli che sono costrette di passare la loro vita con dei mariti di cui gli uni sono irascibili, i quali un nulla li fa montar in collera; somiglievoli a leoni, essi sono sempre ai loro fianchi, sono sempre a contese e spesse volte le maltrattano; essi non possono vederle a mangiare. Esse muoiono di crepacuore; è ben raro che passino un giorno senza versare delle lagrime; altre hanno dei mariti che mangiano tutto quello che hanno nelle bettole, mentre che una povera moglie perisce di miseria coi suoi figli nella casa. Quello che io dico dei mariti, lo dico parimente delle mogli. Quanti mariti che hanno delle mogli che non dicono loro mai una parola con dolcezza, che li disprezzano, che trascurano tutto ciò che vi è nella casa, che non fanno che contendere da mane a sera. Voi sarete d’accordo con me che per soffrire tutto ciò senza lagnarsi, in modo da renderlo meritorio per il cielo, occorre una grazia straordinaria. Ora, se voi aveste ricevuto tutte le grazie che vi conferisce questo sacramento, voi ne avreste un tesoro infinito per il cielo; le grazie che Dio vi ha preparato per salvarvi, che ha annesso alla vostra vocazione, vi renderebbero ciò sopportabile senza mandare alcun lamento. Ma donde proviene che l’uomo non può tollerare i difetti che egli scopre nella propria moglie, e che la moglie maledice ad ogni istante il proprio marito perché è un ubbriacone? Gli è perché queste persone non hanno ricevuto le grazie del sacramento del matrimonio; esse non possono essere che infelici nel volgere della loro vita e dannate dopo la loro morte. Ma una più grave sventura è che i loro figli loro rassomigliano. Ah! chi potrà dire a virtù di parole lo stato deplorevole dei figli che nascono da tali matrimoni? Voi li vedete quasi vivere come le bestie. Dapprima, i genitori non hanno mai saputo la loro religione, quindi non possono insegnarla ai loro figli. Ah! dei figli che hanno dieci o undici anni, e non sanno non solamente la loro preghiera, né una parola della loro religione; essi non hanno che giuramenti e cattivi discorsi in bocca. Ah! quante persone maritate e quanti figli perduti! almeno se non fossero maritate, si sarebbero perdute sole! Come la profanazione di questo sacramento popola l’inferno! Ma, mi direte voi, che cosa bisogna fare per abbracciare santamente questo stato? — Eccolo. Ascoltatelo attentamente, fortunati se ne approfittate! È necessario che il vostro matrimonio non sia contratto al modo dei pagani. Ecco i matrimoni dei pagani. Quando vogliono collocarsi, gli uni prendono una donna per averne dei figli ai quali lasciare il loro nome e i loro beni; altri perché hanno bisogno di una compagna per aiutarli nelle sollecitudini della vita; questi per la bellezza e le attrattive, ma pochissimi per la virtù. Dopo ciò, si prendono le debite cautele da una parte e dall’altra, si stipula il contratto, e si celebra il matrimonio, che è accompagnato da qualche cerimonia religiosa al loro modo; si imbandisce un gran banchetto, e si lascia un libero freno ad ogni sorta di gioie e di eccessi. Ecco il modo col quale procedono i pagani, vo’ dire coloro che non hanno come noi la ventura di conoscere il vero Dio. Se i vostri matrimoni non hanno niente di meglio, state sicuri che voi avete profanato questo sacramento; e, dopo ciò, risolvetevi a passare la vostra eternità nell’inferno. Non è dunque veramente che lo spirito di pietà che forma il matrimonio cristiano: è necessario dunque farlo in nome di Gesù Cristo, nell’intendimento di piacere a Lui e di seguire la propria vocazione, proporsi il salvamento dell’anima propria e null’altro. Non è dunque né l’interesse, né il desiderio di seguire l’inclinazione del proprio cuore che deve muovere un Cristiano a contrarre il matrimonio; ma quello di seguire la voce di Dio che vi chiama in questo stato, di educare cristianamente i figliuoli che piacerà a Dio concedervi. Ma in un affare così importante, nulla si deve fare con precipitazione, né mai omettere di consultare i propri genitori, e nulla conchiudere senza il loro consentimento. I genitori, non occorre dirlo, non devono costringere i loro figli ad unirsi con persone che non amano, perché non possono essere che infelici l’uno e l’altra. È necessario sempre scegliere persone che abbiano della pietà: voi dovete preferirle, quand’anche avessero poche ricchezze, perché voi siete sicuri che Dio benedirà il vostro matrimonio; invece che per coloro che non hanno religione, i loro beni periranno in breve tempo. Non conviene fare come molte che impalmano un uomo ubbriacone e cattivo soggetto, dicendo che, quando sarà maritato si correggerà; è vero l’opposto, e non diventerà che più cattivo, e voi passerete la vostra vita in una specie d’inferno. Ah! questi matrimoni sono numerosi È colla preghiera e colle buone opere che voi dovete domandare a Dio di farvi conoscere colui o colei che Dio vi destina. Si dice che affinché un matrimonio sia ben fatto, vo’ dire felice, è necessario sia fatto in cielo prima di esserlo sopra la terra. Dapprima i giovani che vogliono meritare le grazie del matrimonio che Dio prepara a coloro che sperano di santificarvisi, non devono parlarsi da soli né il giorno né la notte, senza la presenza dei loro genitori, e non permettersi mai la più piccola famigliarità, né la più piccola parola indecente, senza di che sono sicuri di allontanare Dio dalle loro nozze, e se Dio non vi assiste, sarà il demonio. Ah! non ne occorre uno sopra duecento che osservi ciò. Si può egualmente dire che non occorre un matrimonio sopra duecento che sia veramente tale e nel quale la pace e la religione vi regnino, in modo che si possa dire che è una casa del buon Dio. All’opposto, ne occorrono che si trascinano per tre o quattro anni nelle danze, nei balli, nelle commedie, nelle bettole, che passano i tre quarti delle loro notti soli, a permettersi tutto ciò che il demone dell’impurità può loro inspirare. Mio Dio! sono costoro Cristiani che devono portare sotto il velo del sacramento un cuore puro e libero da ogni peccato? Ah! chi potrà contare il numero dei peccati dei quali è coperto il loro cuore e la loro anima imputridita? Ah! come poter sperare che il buon Dio potrà, onnipotente quale Egli è, benedire tali matrimoni di persone che vivono nella impurità più infame chi sa da quanti anni? che non recitano forse le preghiere né il mattino né la sera? che hanno abbandonato i sacramenti da parecchi anni, o, se li hanno frequentati, non l’hanno fatto che per profanarli? Ah! come pretendere che il sangue adorabile di Gesù Cristo possa discendere sopra queste nozze per santificarle, e rendere le pene del matrimonio dolci e meritorie per il cielo? Ah! quanti sacrilegi, e quante persone maritate che andranno ad ardere negli abissi! Mio Dio, come i Cristiani conoscono poco la loro sventura e la loro perdita eterna! Ah! essi non abbandoneranno i loro delitti infami dopo le loro nozze; sempre le stesse infamie, e sempre battendo la via dell’inferno, nel quale ben presto cadranno. No, non entriamo nel particolare degli orrori che si commettono nel matrimonio, tutto ciò fa morire d’orrore. Abbassiamo il velo, che non si alzerà che nel gran giorno della vendetta, nel quale vedremo tutte queste turpitudini senza temere di contaminare la nostra immaginazione. Gente maritata, non perdete mai di vista che tutto si vedrà nel giorno del giudizio; ma ciò che ecciterà la meraviglia di una infinità di persone, è che Cristiani si sieno permessi infamie simili. Facciamo punto.

III. — Se voi ora mi domandate quali sono le condizioni richieste perché un matrimonio sia buono davanti a Dio e davanti agli uomini, ecco, due cose: che il matrimonio sia contratto secondo le leggi della Chiesa, senza di che il matrimonio sarebbe nullo, vo’ dire che le persone vivrebbero nel peccato; come due persone che convivono insieme senza maritarsi davanti alla Chiesa. La Chiesa ha promulgato le sue leggi, assistita, diretta dallo Spirito Santo. Se voi mi domandate che cosa sono gli sponsali: è la promessa che si fanno due persone d’impalmarsi. Dal momento che due persone si sono fidanzate, esse non devono restare nella stessa casa, senza commettere un grave peccato, per causa dei pericoli e delle tentazioni alle quali saranno esposte; perché il demonio tutto mette in opera per renderle indegne della benedizione del buon Dio che loro è promessa nel sacramento del matrimonio. – Per questo la Chiesa proibisce loro di abitare sotto il medesimo tetto nel tempo degli sponsali. Vi ho detto che non occorre sacramento per il quale si prendano tante precauzioni esterne, che si riceva con tanto apparato come quello del matrimonio. Dopo che il contratto è stipulato, per tre domeniche di seguito si pubblicano le persone che vogliono maritarsi, e ciò per due ragioni: la prima, per invitare i fedeli a pregare per loro, affinché Dio conceda loro le grazie che sono loro necessarie per abbracciare santamente questo stato. La seconda ragione, per scoprire gli impedimenti che potrebbero mettere ostacolo a questo matrimonio. I casi nei quali la Chiesa proibisce il matrimonio si chiamano impedimenti; di questi impedimenti ve ne sono che rendono le nozze nulle, di guisa che persone che si fossero maritate con alcuno di questi impedimenti, e vedremo quali, non sarebbero maritate, la loro vita non sarebbe che una fornicazione continua. Ah! occorrono di questi infelici matrimoni, che fanno cadere le maledizioni del cielo con delle pene dovunque si trovano! Non occorre dire che la profanazione di questo sacramento e le colpe che si commettono nel matrimonio, non sieno la causa dei grandi mali coi quali Dio ci colpisce, e noi lo riconosceremo nel giorno del giudizio! – Noi diciamo dunque che vi sono degli impedimenti che si chiamano dirimenti; ecco quelli che si incontrano il più spesso. Il primo è la parentela, detta consanguineità, fino al quarto grado inclusivamente, vo’ dire che comprende il quarto grado e non il quinto; ciò si intende agevolmente. Quando si annuncia il matrimonio, se voi pensate che colui che lo pubblica non sappia ciò che i fidanzati gli nascondono, voi siete obbligati di manifestarlo a colui che l’ha pubblicato, altrimenti commettereste un grave peccato mortale, perché  ne occorrono molti che lo nascondono per quanto lo possono, per timore di domandare la dispensa e che costi loro qualche cosa. Il secondo, è l’affinità, cioè che un vedovo non può sposare i parenti della defunta sino al quarto grado, né la vedova i parenti del defunto. Il terzo è la parentela spirituale, cioè che non si può contrarre matrimonio col figlio che si è levato al fonte battesimale, né col padre, né colla madre di questo figlio. Il quarto è l’onestà pubblica, vale a dire che, quando una persona è stata fidanzata con una persona, ella non può maritarsi né colla madre, né colla figlia, né colla sorella della persona colla quale era stata fidanzata. Ecco gli impedimenti che i fedeli possono conoscere facilmente, e quando si pubblica un matrimonio che si conoscesse essere in alcuno di questi casi, si è obbligati di manifestarlo, per non commettere un peccato mortale, e si mette nel caso di essere scomunicato, cioè rimosso dal seno della Chiesa. Ne occorrono alcuni altri che sono meno comuni, alcuni che sono segreti e infamanti, come l’adulterio e l’omicidio; coloro che ne sono colpevoli devono avvertire il loro confessore. Le leggi della Chiesa che proibiscono questi matrimoni sono sapientissime, sono tutte state dettate dallo Spirito Santo. Vi è ancora il voto semplice di castità, di sei mesi, di un anno, che sono impedimenti impedienti. Tuttavolta la Chiesa concede delle dispense imponendo qualche limosina a coloro che le domandano, ma non dimenticate mai che tutte le dispense che si domandano, e nelle quali non si espongono le cose quali sono, nulla valgono. Il Santo Padre non concede che alla condizione che ciò che si espone sia vero; di guisa che se ciò che noi esponiamo non è vero, cioè se voi recate delle ragioni che non sussistono o le amplificate, le vostre dispense nulla valgono, quindi il vostro matrimonio è nullo; vale a dire che non siete maritati e che avete commesso un sacrilegio ricevendo il sacramento del matrimonio, come tutti i sacramenti che poscia ricevete. Ah! quanto è grande il numero di questi infelici, e che dormono tranquilli, mentre il demonio loro scava un inferno eterno! Voi non dovete dunque mai recare delle ragioni che non sussistono, e se i vostri pastori non le trovano di peso guardatevi dal pressarli, dicendo che voi egualmente vivrete insieme. Ah! quante persone maritate miseramente perdute. Ma, mi direte voi, in qual modo si deve passare il tempo degli sponsali? — Ecco: Questo tempo è un tempo sacro che si deve passare nel ritiro, nella preghiera e nel praticare ogni sorta di buone opere per meritare che Gesù Cristo vi conceda, come agli sposi di Cana in Galilea, la grazia di assistere alle vostre nozze per benedirvi, concedendovi i soccorsi necessari per potervi santificare. È cosa buona e spesse volte necessaria il premettere una confessione generale, sia per riparare le cattive che fossero state fatte nel corso della vita, sia per rendersi maggiormente degni di ricevere questo sacramento, perché le grazie vi sono copiose, in proporzione delle disposizioni che vi si recano. Ditemi, M. F., è codesto il modo col quale si passa un tempo così prezioso come quello degli sponsali? Ah! non prendete per modello i pagani, i quali neppur fanno tutto ciò che il più gran numero dei Cristiani dei giorni nostri si permettono! Questi infelici Cristiani non sono contenti di aver trascinato quasi tutta la loro vita o almeno una parte notevole nel delitto e nell’infamia più nera! Sembra che non siasi fatto abbastanza il primo giorno dei loro sponsali: le danze, i balli, le bettole o la carne, se è giorno di magro. Non contenti di commettere il male soli, quasi temessero di non irritare abbastanza la giusta collera di Dio sopra di essi, affinché invece di benedirli li maledica, saranno tre o cinque persone; vale a dire secondo i loro mezzi: coloro che hanno da spendere ne invitano un numero maggiore, e coloro che ne hanno meno ne invitano un numero minore; ma sempre in proporzione di quanto hanno. Ne occorrono forse che perderanno le loro anime, contrarranno dei debiti passando i tre quarti della notte, senza contare il giorno, nelle bettole, ad abbandonarsi ad ogni sorta di eccessi; una parte trascinandosi per le vie, e fors’anco la sposa. — Ma, mi direte voi, ciò non vi riguarda, non è il vostro denaro che noi spendiamo; di nulla vi siamo tenuti. — No, certamente il vostro denaro non mi riguarda, ma mi riguardano le anime vostre delle quali Dio mi ha dato l’incarico. Or bene, ecco il principio del santo ritiro dei giovani che si sono fidanzati; ecco la loro preparazione per ricevere il sacramento del matrimonio. Non è tutto; il demonio non è ancora contento. Dopo di aver trascorsi alcuni giorni nello stravizio essi passeranno tutto il resto del tempo a correre le case per annunciare gli sponsali. In ciascuna casa, essi, commetteranno, forse, tre o quattro gravi peccati per gli abbracciamenti che fanno o che permettono. — Ma, mi direte voi, è il costume. — Ah! i vostri costumi sono quelli dei pagani; come avete seguito fino a quest’ora l’andazzo dei pagani, è necessario continuare! Non ostante quello che voi direte, ciò non impedirà che, quando comparirete al tribunale di Dio per rendervi conto della vostra sciagurata vita, tutti gli abbracciamenti che avrete dati e ricevuti in questo tempo degli sponsali, non sieno peccati e la maggior parte, peccati mortali. — Oh! io non ne credo nulla. — Voi non ne credete nulla? È perché i vostri occhi sono un po’ turbati; ma non vi inquietate, il grande giudice li illuminerà! Il tempo degli sponsali si passa in questa dissipazione o piuttosto in questa catena di peccati, senza contare di ciò che avviene tra le donne. Mio Dio, sono costoro Cristiani o pagani? Ah! io non ne so nulla; solo io so che sono delle povere anime che il demonio trascina e divora fino a che le precipiti nelle fiamme. Arriva il tempo del matrimonio, non mancano più che tre o quattro giorni; si presentano al tribunale della penitenza senza pentimento e senza neppure il desiderio di condursi meglio. La prova ne è ben chiara: essi corrono ai piaceri, alle stesse danze, agli eccessi nel mangiare e nel bere; essi fondano le famiglie abbandonandosi a tutto ciò che il demonio può loro inspirare il giorno delle loro nozze, e ancor peggio se lo possono. Essi hanno ricevuto questo gran sacramento; ah! io m’inganno, essi hanno commesso un orribile sacrilegio, e mettono il suggello alla loro riprovazione passando, forse, un giorno o due in stravizzi. – Mio Dio, qual cosa pensare di questi poveri Cristiani? Che sarà di loro? Ah! voi li avete già abbandonati, perché nulla hanno omesso per costringervi a maledirli e a riprovarli. Ma, mi direte voi, non è permesso lo stare allegri in quel giorno? — Sì, certamente, ma rallegrarsi nel Signore. Voi direte quello che vorrete, non lascerete di render conto fino dell’ultimo soldo speso inutilmente; voi potete ridervene, ma la cosa è quale ve la dico. Un giorno noi lo vedremo, badate che non sia troppo tardi per voi. — Tutto ciò è molto difficile da credere, perché se noi operassimo male, il buon Dio ci punirebbe; tuttavolta noi vediamo molti i quali si divertono e gli affari dei quali prosperano. — Tutto ciò, invece di essere un buon segno, è la più grande di tutte le sventure. Sapete voi perché il buon Dio si conduce in tal modo? È perché Egli è giusto. Egli vi ricompensa di tutto il bene che avete operato, affinché dopo la vostra morte, non abbia che a gettarvi nell’inferno. Ecco la ragione per la quale sembra che vi benedica nonostante tutti gli orrori che avete commesso nei vostri sponsali e nelle vostre nozze, senza contare che tutti i peccati che coloro che avete invitati hanno commessi saranno a voi imputati, senza che essi medesimi sieno innocenti. Ah! la morte farà scoprire dei peccati là dove molti credevano non esistessero punto. Che cosa dovrebbe fare un Cristiano per ricevere degnamente questo sacramento? Sarebbe di prepararvisi con tutto il suo cuore, d’avere premessa una buona confessione, e di aver passato santamente il giorno dei suoi sponsali; e, quello che avrebbe potuto spendere, distribuirlo ai poveri, per attrarre sopra di lui le divine benedizioni. Il giorno delle loro nozze, che si rechino di buon mattino alla chiesa per implorare il soccorso e i lumi dello Spirito Santo, ricevendo la benedizione nuziale. Che il sangue di Gesù Cristo fluisca sopra le loro anime. Il giorno nel quale si saranno impalmati lo passino nella presenza di Dio, pensando quale sciagura sarebbe se profanassero questo giorno così santo. Dopo il loro matrimonio, essi devono recarsi da un confessore per farsi istruire, per non perdersi senza saperlo, o piuttosto affinché possano condursi come veri figli di Dio. Ah! dove sono i Cristiani che si conducano in questo modo? Ah! dove sono i coniugi che saranno salvi? Quanti che andranno perduti! Di coloro che vi rechino buone disposizioni, è esiguo il numero. Che cosa inferire da ciò? Che la maggior parte dei Cristiani abbracciano il matrimonio senza domandare a Dio le grazie che sono loro necessarie, vi recano un cuore ed un’anima contaminata di mille e mille peccati, e profanano questo sacramento; ciò che è la sorgente di sventure in questo mondo e nell’altro. Avventurati i Cristiani i quali entrano in queste buone disposizioni e vi perseverano fino alla fine! È quello che io vi desidero…

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps LXV: 1-2; 16

Jubiláte Deo, univérsa terra: psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja.

[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: cantate un salmo al suo nome: venite, e ascoltate, voi tutti che temete Iddio, e vi racconterò quanto Egli ha fatto per l’anima mia. Allelúia.]

Secreta

Oblata, Dómine, múnera sanctífica: nosque a peccatórum nostrórum máculis emúnda.

[Santifica, o Signore, i doni offerti, e mondaci dalle macchie dei nostri peccati.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann II: 7; 8; 9; 10-11

Dicit Dóminus: Implete hýdrias aqua et ferte architriclíno. Cum gustásset architriclínus aquam vinum factam, dicit sponso: Servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc signum fecit Jesus primum coram discípulis suis.

[Dice il Signore: Empite d’acqua le pile e portate al maestro di tavola. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino disse allo sposo: Hai conservato il vino migliore fino ad ora. Questo fu il primo miracolo che Gesù fece davanti ai suoi discepoli.]

Postcommunio

Oremus.

Augeátur in nobis, quǽsumus, Dómine, tuæ virtútis operatio: ut divínis vegetáti sacraméntis, ad eórum promíssa capiénda, tuo múnere præparémur.

[Cresca in noi, o Signore, Te ne preghiamo, l’opera della tua potenza: affinché, nutriti dai divini sacramenti, possiamo divenire degni, per tua grazia, di raccoglierne i frutti promessi.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (143)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (11)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE XII

La Tradizione divina.

60. Prot. Per verità, Santa Bibbia, la mia causa, fin qui contro il Cattolicismo non poteva andar peggio; poiché egli in tutto ha vinto e splendidamente trionfato!… Adesso però passo, per dover di coscienza, ad accusarlo di tale un delitto, per cui sono ben certo sarà anche da voi condannato e per sempre esecrato. Voi ben sapete che Iddio ha dato alla sua Chiesa per regola della fede e dei costumi la Santa Scrittura, e non altro che la Santa Scrittura, ossia Voi stessa. Ora egli, pel suo tornaconto, insegna e sostiene che oltre la Santa Scrittura vi è e deve seguirsi come norma ugualmente sicura non so quale…. Tradizione divina! Oh iniquità! Questa sua pretesa Tradizione « è propriamente precipua origine e causa di quella mostruosità che è il Papismo nella deteriore sua forma. » (Shutteworth: Not tradition but Scripture. Lond. ediz. 2. 1839). Ma prima di passar oltre debbo spiegarmi anche meglio. « I Romanisti sostenendo la Tradizione, non rigettano perciò la Scrittura, anzi vi sono forse attaccati più di qualunque protestante, ma tengono che non è soltanto essa la parola di Dio. Quindi sostengono che il sistema della loro dottrina tradizionale deriva dagli Apostoli egualmente che la Scrittura; cosicché se questa perisse, non perirebbe perciò la rivelazione. Ora per confutare i Romanisti è necessario intenderli perfettamente. Per Tradizione intendono essi tutto il sistema della fede, e le regole che riceveranno dalla precedente generazione, e questa dall’altra precedente, e cosi di seguito…. Quindi, quando i Romanisti asseriscono di aderire alla Tradizione, altro non significano che di credere e operare nel modo che sempre crederono e operarono i Cristiani.» (Newman: (quando era protestante) Lezioni del Romanismo, e del Protestantesimo: London 1837).

Bibbia. Come mai osi asserire che Dio ha dato alla Chiesa per regola della fede e de’ costumi la sola Divina Scrittura: che deve riprovarsi la Tradizione? A buon conto, dal principio del mondo sino a Mosè, ossia per oltre duemila seicento anni, la Chiesa di Dio non ebbe altra regola, altro appoggio che la Tradizione, perché in tutto quel tempo nulla fu scritto di quanto aveva Iddio rivelato. Mosè fu il primo à scriver la Parola di Dio, e dopo di lui non pochi altri la scrissero. Ma forse scrissero tutto? No certamente ; perché se tutto avessero scritto non avrebbero raccomandato con tanta premura nei loro scritti di ricorrere anche alla Tradizione, e di custodirla e tramandarla gelosamente. Ascolta. « Narrerai al tuo figliuolo, e dirai: Questo e questo fece per me il Signore, quando io uscii dall’ Egitto, e ciò sarà quasi un sigillo nella tua mano, e come un monumento davanti a’ tuoi occhi » (Esod. XIII, 8,9).

« Informati de’ tempi antichi che furon prima di te, dal giorno in cui Dio creò l’uomo sopra la terra,… se mai cosa tale sia avvenuta, o siasi intesa, che un popolo abbia udito la voce di Dio. » (Deut. IV, 32, 33)

« Interroga il padre tuo e te ne darà novella, i tuoi avi e te lo diranno, quando l’Altissimo fece la divisione delle nazioni, etc. » (Ivi, XXXII, 7, 8).

« Dove sono le meraviglie raccontateci da’ padri nostri? (Giud. VI, 13)

« Noi, o Dio, con le nostre orecchie udimmo: i padri nostri annunziarono a noi quello che tu facesti ne’ giorni antichi. »  (Psal. XLIII, 1, 2).

« Quante cose furon da noi udite e intese, e a noi le narrarono i padri nostri, e questi non le tennero ascose ai loro figliuoli e alla seguente generazione…. Quante cose comandò egli [il Signore) ai padri nostri che le facessero sapere ai loro figliuoli; affinché la seguente generazione le sappia (e i figliuoli che nasceranno e verranno alla luce le racconteranno ai propri figliuoli » (Psal. LXXVII, 3, segg.).

Anuunzierà il padre ai figliuoli come verace sei tu (o Signore) » (Isa. XXVIII, 19) – « Udite, o vecchi, etc… discorretene co’ vostri figliuoli, e i vostri figliuoli co’ loro figliuoli, e i figliuoli di questi colla generazione che verrà dopo. » (Joel. 1, 2, 3)

« Frequenta le adunanze de’ seniori prudenti, e unisciti di cuore alla loro saviezza, affin di potere ascoltare quello che di Dio si ragiona, e non siano ignote a te le sentenze degne di lode. ». (Eccl. VI, 35)

« Non trascurare il discorrer de’ vecchi, poiché eglino hanno imparato dai padri loro. » (Ivi, VIII, 11)

61. Se poi passiamo al Nuovo Testamento, si vedrà esser tanto falso che Gesù Cristo abbia dato alla sua Chiesa la solaSanta Scrittura per regola della fede e dei costumi, che anzi Egli nulla scrisse di quanto operò ed insegnò, né fece agli Apostoli verun comando di scriverlo. Egli non fece agli Apostoli altro ornando che questo: « Andate adunque, istruite tutte le genti…. insegnando loro di osservare tutto quello che vi ho comandato. » (Matt. XXVIII, 19, 20). Onde ne avvenne che anche la Chiesa Cristiana non solamente fu stabilita, ma si governò per parecchi anni colla Tradizione, senza scrittura di sorta del Nuovo Testamento. – Scrissero dipoi gli Apostoli ed altri ispirati santi la divina parola. ma eglino pure dichiarano di non avere scritto tutto, e quindi altamente raccomandano e inculcano la Tradizione. Ascoltali.

« Or Gesù fece ancora in presenza dei suoi discepoli molti altri miracoli che non sono scritti in questo libro. » (Giov. XX, 30).

« Or vi sono ancora molte altre cose che fece Gesù, le quali se fossero scritte, credo che nemmen tutto il mondo capir potrebbe i libri che se ne scriverebbero. » (Ivi, XXI, 25).

« Io ho parlato in primo luogo, o Teofìlo, di tutto quello che sprincipiò Gesù a fare e ad insegnare sino al giorno in cui, dati per mezzo dello Spirito Santo i suoi ordini agli Apostoli che aveva eletti, fu assunto. A’ quali ancora si diede a veder vivo dopo la passione, con molte riprove, apparendo ad essi per quaranta giorni, e parlando del regno di Dio. » (Att. I, 1, e seg.). – Quanto disse loro Gesù in questi quaranta giorni, che certamente fu molto, ove mai sta scritto? Ascolta ancora.

« E poi ho apparato dal Signore quello che ho anche insegato [non l’ha scritto) A voi…. Le altre cose le disporrò quando sarò venuto. » (I Cor. XI, 23, 24). Anche queste non le scrive.

« Dì e notte lo preghiamo (il Signore) di vedere la vostra faccia, e di supplire a quello che manca alla vostra fede, » (I. Tess. IV, 1, 2) cioè, di supplire a voce alle istruzioni che non mette in iscritto, o riguardanti la fede.

« Nessuno vi seduca in tal modo; imperocché (ciò non sarà) se prima non sia seguita la ribellione, e non sia manifestato l’uomo del peccato, il figliuolo di perdizione…. Non vi ricordate voi come, quando io era tuttora presso di voi, vi diceva tali cose? » (II. Tess. II, 2 e seg.). Queste accennate istruzioni dove sono scritte?

« Quello che fu da principio, quello che udimmo, quello che vedemmo con gli occhi nostri e contemplammo, e colle nostre mani palpammo di quel Verbo di vita…. lo annunziamo a voi » (II Giov. v. 12).

« Molte cose avendo ancora da scrivervi, non ho voluto (farlo)  con carta e inchiostro, ma spero di venire a voi e parlarvi a bocca a bocca! » (III Giov. v. 13).

« Vi do lode, o fratelli, perché in ogni cosa vi rammentiate di me; e quali ve le ho date ritenete le tradizioni (I. Cor. XI, 2).

« O fratelli, vi preghiamo, vi scongiuriamo pel Signore Gesù, che conforme avete apparato da noi, in qual modo camminar dobbiate e piacere a Dio, così pure camminiate, onde siate viepiù doviziosi. Imperocché voi sapete, quali precetti io vi diedi da parte del Signore Gesù. » (I Tess. IV, 1,2).

« State dunque costanti, o fratelli, e ritenete le tradizioni che avete apparate o per le nostre parole, o per la nostra Lettera. » (II Tess. II, 14).

« Abbi dunque in memoria quel che ricevesti e udisti, e osservalo. » (Apoc. II, 14). Che te ne pare? Di più, sta scritto:

62. « Le prime e le ultime gesta di Davidde re sono scritte nel libro di Samuele profeta, e nel libro di Nathan profeta, e in’ quello di Gad profeta.» (I Paral. XXIX, 29) — « Il rimanente poi dei fatti di Salomone primi ed ultimi, sono scritti ne’ libri di Nathan profeta, nei libri di Ahìa Silonite, e anche nella visione di Addo. » (2 Paral. IX, 19).

« Salomone pronunziò tre mila parabole, e le sue canzoni sono mille e cinque. » (III dei Re, IV, 32). – Ora di queste mille e cinque canzoni non resta che la Cantica divisa in otto capitoli, onde al più, può contenere otto canzoni; tutto il resto è perduto. Delle tre mila parabole non ne resta che una piccola parte nel libro de’ Proverbi, cioè dal Capo X, alla fine: il resto è perduto. I libri dei Profeti Nathan, Gad, Ahìa e Addo sono affatto perduti. Sono egualmente perdute due Lettere di S. Paolo, una a’ Corinti, l’altra ai Laodicesi, delle quali fa menzione il medesimo Apostolo. (I Cor. V, 9) Come dunque supplire a tanta perdita senza la Tradizione? È dunque necessario ammettere la Tradizione non solo per conoscere la parola di Dio non scritta; ma anche per non subire l’intera perdita della Scrittura Santa smarrita.

63. Prot. È scritto; « Or io, fratelli, ho rivolte queste cose, per una cotal maniera di parlare, in me ed in Apollo, per amor nostro: acciocché impariate in noi a non esser savi sopra ciò che è scritto; affine di non gloriarvi l’uno per l’altro contro ad altrui.» (I Cor. IV, 6 – Traduzione del prot. Diodati).

Bibbia. L’originale dice così: Acciocché impariate in noi a non sentire (voi) di sé sopra quello che è scritto. La Versione Siriaca così si esprime: « Acciocché impariate per mezzo di noi a non sentire di voi più di quello che è scritto. » Lo stesso è il senso della Volgata, spiegato nei versetti che seguono. Che però questo testo non è a proposito; mentre dal medesimo è chiaro, ed anche più dal contesto, che ivi l’Apostolo non parla affatto di Scrittura per rapporto alla Tradizione; ma unicamente rintuzza l’orgoglio di certi sacerdoti, che si gloriavano l’uno per l’altro contro ad altrui, cioè, si credeva ciascuno ad ogni altro superiore per la diversa qualità del maestro che aveva avuto; onde dicevano: io sono di Paolo: e io di Apollo: e io di Cefa, etc. Quindi l’Apostolo li richiama al dovere, dicendo loro che imparino dall’esempio di lui e di Apollo a non sentire di sé più dì quello che è scritto, cioè a non credersi più di quello che di essi è scritto nel principio dello stesso Capitolo, ove ai medesimi dirette sono le seguenti parole. « Così noi consideri ognuno come ministri di Cristo e dispensatori de’ misteri dì Dio. »

Prot. Sta scritto: « Non aggiugnerete né toglierete alla parola che io vi annunzio. » (Deut. IV, 2) « Fa’ in onor del Signore solamente quello che io ti prescrivo, non aggiungere, e non levare. » (Ivi, XII, 32).

« Protesto a chiunque ascolta le parole dì profezia di questo libro, che se alcuno aggiungerà a queste cose, porrà Dio sopra di lui le piaghe scritte in questo libro. E se alcuno torrà qualche cosa dalle parole di profezia di questo libro, torrà Dio la porzione di lui dal libro della vita. » (Apoc. XXII, 18, 19). Questi passi furon sempre da me riguardati come decisivi in favore della mia causa: ma ora confessar debbo che a nulla mi giovano; imperocché « Questo detto (aggiugnere, ec.) non ripugna né alle tradizioni che interpretano la Scrittura, né ai precetti umani conformi alla legge. Diminuire altro non è che non fare ciò che è comandato: Aggiungere altro non che è fare altrimenti di quello che è comandato. » (Ugone Crozio: Critici sacri, T, 2, Annt. Super hæc Loc.).

Opponevo ancora i seguenti, l.° « Perché trasgredite il comando di Dio per la vostra tradizione? » (Matt. XV, 3)

« 2.° È paruto anche a me, dopo aver diligentemente rinvergato dall’origine il tutto, di scriverlo a te a parte a parte. » (Luc. I, 3).

Ma questi pure a nulla mi giovano; perché nel primo, « Si parla di usi umani, di tradizioni contrarie alla legge divina. » (Kuinoel: Comm. in Matt. In hunc Loc.). – Il secondo, « non deve prendersi in senso stretto, essendo nolo che molte cose sono negli altri Evangelisti, le quali non sono in S. Luca. » (Il medes. Comm. in libros hist.)

64. Bibbia. Cessa dunque di combattere la Tradizione, altrimenti, oltre quanto ti ho detto circa i danni che te ne avverrebbero, perderai affatto tutta la Santa Scrittura; poiché non puoi avere altro mezzo per conoscere che la Scrittura è parola di Dio, se non che la Tradizione.

Prot. Non sono in questo pericolo; perchè la Tradìzione riguardante l’autenticità dei libri Divini, l’ammetto ancor io. (Così i Protestanti detti Credenti.)

Bibbia. Ma o credi tu che la Chiesa nel proporre le divine verità è infallibile, ovvero che essa può ingannare. Nel primo caso obbligato sei ad ammettere tutte le tradizioni che ella propone e tiene per divine. Nel secondo obbligato sei a rigettarle tutte senza eccezione ed insieme con esse tutta la Santa Scrittura: perché non hai più sicurezza veruna che questa sia la parola di Dio.

Prot. Ammetto ancora altre tradizioni, ma non già delle verità primarie, ossia necessarie alla salute; perché queste sono tutte registrate nella S. Scrittura. (Così vari autori dei medesimi).

Bibbia. Di ciò ti smentiscono i testi che ti ho citati: che se non ti bastano, ascolta ancora S. Paolo. « Ed io, o fratelli, non potei parlare a voi come a spirituali, ma come carnali. Come a pargoletti in Cristo, vi nutrii con latte, non con cibo; imperocciocché non ne eravate capaci: ansi nol siete neppure adesso. » (I Cor, III, 1, 2). – Capisci il significato di queste parole? Se nol capisci, lo capirai dalle seguenti.

« Tu dunque, figliuol mio…. le cose che hai udite da me con molti testimoni, confidale ad uomini fedeli, i quali saranno idonei ad insegnarle anche ad altri. » (II Tim. I, 1, 2) Hai capito?

65. Prot. Stringenti sono le vostre ragioni: ma come ha potuto mantenersi nella Chiesa per tanti secoli, ed essere a noi trasmessa illibata, incorrotta una Tradizione tanto estesa, quale è la cristiana? Ciò è cosa impossibile. (Ultimò rifugio a cui si appigliano i protestanti).

Bibbia. Come ciò abbia potuto avvenire, te lo dice S. Paolo. Ascolta.

« Tieni (o Timoteo) la forma delle sane parole che hai udite da me con la fede e la carità in Gesù Cristo. Custodisci il buon deposito PER MEZZO DELLO SPIRITO SANTO CHE È IN TE. » (II Tim. I, 13, 14) Hai capito? Ha potuto mantenersi e si manterrà sempre illibata, incorrotta, per l’assistenza dello Spirito Santo che non abbandona mai la sua Chiesa.

66. Prot. « La Riforma (protestante), considerata nella sua pienezza, riconobbe ed ammesse l’appello alla Tradizione; quantunque non abbia riconosciuto l’infallibilità di singoli i Padri, e dei Concilj. Se si rigetta l’autorità degli antichi si apre la porta al deismo; perché la ragione, emancipata da ogni freno, passa a considerare la Bibbia come un’umana produzione, e a rigettare, o adottare ciò che le piace. Quindi, siccome la facoltà di raziocinare varia nei diversi individui, alcuni aggiungono, altri tolgono al Canone della Scrittura. Si porta fuori il testo come pieno d’interpolazioni, di errori, di assurdità. Si accusano i Sacri Scrittori d’ignoranza, di contraddizione e di fraudolenza: e ne segue la legittima inevitabile conclusione, che la Cristiana Religione non sia rivelazione: che Cristo non sia stato che un filosofo: e che l’uomo abbandonato sia alla sua ragione, ed a’ suoi meriti quanto alle sue speranze, alla salute!… Insomma, se si rigetta in questo fatto la testimonianza dei primitivi Dottori cristiani, si distruggono tutte le prove esteriori della Religione Cristiana. Cercano alcuni confondere la Tradizione col mezzo che a noi la fa pervenire; ma a tutti i loro argomenti noi rispondiamo che non ci appelliamo a’ Padri come a scrittori ispirati, ma come a idonei testimoni della fede che professavano i Cristiani di quell’età. » (Palmer. Tratt. della Chiesa, vol. 2, part. 3 Pref. p. 20). – La storia di Gesù Cristo non solo era conosciuta prima che scritta fosse nel Vangelo, ma tutta la Cristiana Religione era già creduta e praticata, quando ancora scritto non era alcun Vangelo. Si recitava il – Pater – prima che si leggesse nel Vangelo di S. Matteo; si usavano nel Battesimo le parole prescritte da Gesù Cristo, prima che gli Apostoli l’avessero scritte. » (Lessing, op. postuma teologica).

« I maestri dei primitivi Cristiani erano gli Apostoli, e uomini apostolici, e dalla loro bocca ammaestrati, si avevano essi assai presto procacciata la scienza de’ precetti della dottrina cristiana, e mentre non avevan forse neppure incominciato a leggere i libri divini. » (Griesbach, Curæ in historicam testus græci N. Test. P. 42)

« Il pensiero degli Apostoli, scrivendo e indirizzando le Epistole, non fu quello di manifestare a parte a parte tutti i dogmi necessari. Scrivendone, non facevan per altro modo che per via d’incidenza presentandosene loro il destro favorevole. E sebbene parlassero, come di passaggio, qualche poco dei dogmi fondamentali della fede; nientedimeno essi sapevano bene che il rimanente dei dogmi sarebbe stato di leggieri appreso per l’usanza delle Chiese da esso loro fondate. » (Grozio, Epist. 582, edict. 1763). Gli Apostoli, dunque, non insegnarono soltanto in iscritto, ma anche  a voce, e prima a voce che in iscritto, siccome la religione ne’ primi secoli fu propagata colla sola Tradizione: e Gesù Cristo medesimo né scrisse, né comandò di scrivere, ma di predicare. E narrano gli antichi presso gli Indiani, che le Chiese del1’Asia furono senza Scrittura per anni cento. » (Il medes.. Ad Consult. Cassandri. Opp. T 3, p. 688)

« Vivente Ignazio, il discepolo degli apostoli, con si buone salde credenze si vivevano i Cristiani, che orano già troppo per loro le semplici parole dei Vescovi;  né mi penso che fosse mai lecito di prendere in mano la Scrittura, e ricercarvi delle prove sopra quello che avevano udito. Tanto si stimavano i Vescovi, che ognuno gli avrebbe presi in iscambio degli Apostoli. » (Lessing, Opera postuma cit. p. 55).

« Falsa cosa ella è, e a torto intesa, il ricevere i libri biblici e la Sacra Scrittura, quasi contenessero e gli uni e l’altra completamente la Religione Cristiana. Frammenti venerandi essi sono e degni di ogni stima, i quali ci presentano alcune maniere d’insegnare adattate a quei tempi, non che parecchi punti della medesima Religione, ma nulla più. » (Tiestrunk, Critica del dogma cristiano protestante. 1799. T. I . Pref.). La Bibbia non è sufficiente a comporre e ordinare un sistema di religione, e chi ciò volesse tentare farebbe opera vana, o per lo meno di effetto dubbioso. E che ciò sia vero l’han ben dimostrato da ogni lato i Biblici [protestanti), i quali han cavato dalla Bibbia i loro dogmi pressoché sempre contraddittorii; perseguitandosi poi tra loro di continuo, e dandosi scambievolmente la taccia di eretici, e l’un l’altro offendendosi colle armi dell’autorità della Bibbia. (La Gazzetta Letteraria (protestante) di Iena, 1821, N. 48). Si aggiunga che i primi i quali statuirono un tal principio furono i nemici detta divinità di Cristo, ovvero, che è il medesimo, gli Ariani » (Il Foglio periodico –protestante- La Concordia, 1828, N. 48.)

« Non posso non udir di buon grado le voci concordi dell’intera antichità, le quali mi ripetono all’orecchio, come già i novatori giovandosi del nome di tradizione caduto in tanto odio tra loro, abbian voluto troppo assai cose gettare a terra. A questa tolsero eziandio quella divina autorità che pure si gode, secondo estima Ireneo, quella divinità, dico, che essi attribuiscono alla sola Scrittura. » (Lessing, Risposta agli errori del tempo).

« I principii d’Ireneo senza più stabiliscono si avesse la Tradizione vocale dogmatica per fonte autorevole ed autentica del conoscimento della verità; questo e non altro ne fosse il senso, come tale i fedeli ne usassero, e stessero pure agli scritti degli Apostoli. Conciossaché Ireneo, confutando la dottrina degli eretici, la dimostra contraria alla tradizione dogmatica vocale, che nata a’ tempi degli Apostoli, da quel tempo in poi nelle Chiese Apostoliche si era purissimamente conservata. » (Feder Muenter, Vescovo Luterano di Selanda in Danimarca: Compendio istorico de’ più antichi dogmi della Chiesa, 1802.). – « È fuor di dubbio che aver debbono eguale autorità tanto quelle cose che gli Apostoli scrissero, quanto quelle che dissero. Agostino ed altri credono istituite, o approvate dagli Apostoli quelle cose che in tutta la Chiesa furon sempre ricevute senza l’autorità de’ Concilj Generali…. Del resto anche quelle cose che credono i protestanti non sono tutte letteralmente nella Scrittura. Dicono che non debbono ammettersi le conseguenze, ma essi spesso le ammettono secondo il privato sentimento di ciascuno; onde le tante e tanto grandi discordie tra essi, e le quotidiane separazioni…. I Cattolici poi ammettono quelle conseguenze che ammesse furono dall’antica Chiesa con antico universale consenso, e cosi ogni parola è confermata da due testimoni – dalla Bibbia e dalla Tradizione – che con mutua face s’illuminano. Imperocché alle Scritture crediamo per testimonianza della Chiesa, come rettamente disse Agostino, cioè in forza delle tradizioni: e la Scrittura comanda le apostoliche tradizioni,… e la Tradizione interpreta la Scrittura. » (Ugone Grozio, Ad consultationem Cassandri, I . 3, p. 688.)

« Arbitrando e giudicando a sua posta Lutero, si affaticò dattorno al Cristianesimo, e malamente ne conobbe lo spirito. Gittò in mezzo un’altra religione, un’altra lettera, che vuol dire, la sacra autorità, o meglio, l’autorità universale della Bibbia, per le quali s’intramise nelle faccende, e negli officii di religione un’altra scienza, avvegnaché sommamente estranea e terrena, cioè la filosofia, la quale, come ben si pare, ha una potenza di distruzione maravigliosa. I Riformatori han messo del tutto in non cale le difficoltà che sono state loro fatte, e ne han dimenticato le necessarie conseguenze. » (Novalis, Opere varie, 1826).

« Ricercando ora questa ora quell’altra cosa, come insino adesso si è fatto, ne segue che i protestanti, perché contrari alla Tradizione, hanno una mentita dalla storia pura e libera da falsità. Mal non si appone la Chiesa Cattolica dicendo essere stata la Tradizione in grande onoranza presso i primitivi Cristiani » (Muescher, Compendio istorico della. Religione, T. I , p. 344)

« Ricever la testimonianza della Tradizione in un caso, secondo che piaccia, e rigettarla in un’altra congiuntura, come che ugualmente chiara e universale, egli è questo un rinnegare tutti i principii, e dare altresì un segno d’incostanza e malizia senza pari. » (Reeve, Les Apologies: T. I. Sul vero uso de’ Padri della Chiesa, p. 48.).

« Se insistiamo noi sulla incertezza della Tradizione in generale, ciò può produrre conseguenze assai serie, perché, l’autorità e genuinità dei libri della Scrittura riposano in grado non poco considerabile sulla testimonianza della Tradizione primitiva. » (Palmer Op. cit.p. 20).

« Quegli, il quale per niuna guisa vuol ricevere la conforme testimonianza delle antiche Liturgie, né de’ Padri della Chiesa, né dei Concilj, può egualmente rigettare l’autorità degli Scritti rivelati, il battesimo dei bambini, ed altrettanti cose, non che la natura divina di quel Signore e Redentore Nostro, che è Gesù Cristo, e gittare siffattamente di un colpo la fede e la Chiesa. » (Hibes il Sacerdote Cristiano, T 1)

« Negata la Tradizione, non vi ha più strada, per difficile che sì voglia, a dichiarare parola di Dio il Vecchio ed il Nuovo Testamento. » (Collier, Giustificazione de’ motivi, e difesa delta rivelazione, T. 1)

Bibbia. Perché mai, con tali persuasioni, osi combatter si alacremente la Tradizione divina?

Prot. « Perché, se si fa valere la Tradizione, non vi ha dubbio che la Chiesa Cattolica, la quale a lei si appella, abbia vinto la causa. » (Tzschirner, Lettere teologiche: 1820, p. 29).

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (59)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (59)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V. (3)

§. III.

Ho detto, in terzo luogo: all’incomprensibile il Teismo ed il Deismo aggiungono l’inconcepibile, al vero il falso; e la lotta che ferve tra il vero ed il falso, tra l’incomprensibile e l’inconcepibile non permette di arrestarvisi; bisogna retrocedere all’Ateismo, od inoltrarsi fino al Cristianesimo.

I . Il Teismo accoppia due cose, che si escludono: Dio presente nella natura, ed assente nell’ umanità: Dio Provvidenza infinita nel meccanismo dell’universo a principiare dai mondi fino all’ ultimo insetto, e formante delle creature per tormentarle nell’ordine umano, il solo che abbia la coscienza di Lui, e che lo glorifichi. Questo concetto è orribile ed assurdo, dice Voltaire, ma cosa volete? « Se vi si porge la prova d’una verità, forse che queste vien meno, perché trae dopo di sé delle conseguenze inquietanti »? La massima è buona, ma non se ne deve abusare; sarebbe un oltrepassare i limiti della fede, e mai noi Cristiani immetteremmo dei dommi, che riuscissero a ributtanti conseguenze. Ce lo vieta la nostra fede medesima. Osservate infatti, dove si giunge per quella via. La stessa ragione, che afferra la prova d’ una verità, disgustata dall’assurdità delle conseguenze, non ha maggiori cause di credere a queste, che non ne abbia per credere a quella. Voi credete in Dio, perché l’universo vi imbarazza; ma l’idea di questo stesso Dio carnefice dell’umanità vi rivolta; il che equivale a dire, che voi siete posti fra un’assurdità da evitarsi, ed un’assurdità da accogliersi. Diciamolo schiettamente, l’alternativa è difficile; qualunque partito voi prendiate non può che essere falso, e temo assai che non sia guari durevole. Il Teista si decide per assurdità dell’umanità senza Provvidenza, o piuttosto vittima della Provvidenza. che regge l’universo. – Almeno Voltaire, che qui considero siccome capo di si fatta dottrina, avesse lottato contro tale mostruosità Ma no: egli invece se ne diletta e se ne fa il campione. Sotto ogni aspetto, romanzo, teatro, storia, poesia, dizionario, corrispondenza, scritti anonimi, egli fu il detrattore ostinato della Provvidenza. Egli si compiacque di rappresentare, raccontare, cantare, fischiare, schernire l’umanità giuoco d’ogni follia e d’ogni delitto, in un orribile e satanico miscuglio di disordine e d’impunità. Certo che la sua immoralità giustifica il suo giudizio, ma non si può negare che questo era proprio il servitore di quella. Figuratevi un tale, che assista ad una rappresentazione di Rodoguna o di Andromaca, e che non vi distingua altro che portici, palagi, appartamenti, lumiere, i mobili insomma che servono alla decorazione, e riguardo all’azione altro non veda che gente intenta ad entrare, ad uscire, ad ingiuriarsi, a battersi, e ad uccidersi senza ragione e senza scopo. Così suole il Teista ravvisare le cose umane. Dio non è per lui che il meccanico decoratore del teatro di questo mondo. Quanto alla rappresentazione che vi si dà, siccome non ne afferra l’intreccio, egli ne contesta il disegno; non vedendo che l’orribile e l’assurdo se ne accontenta. Quello stesso buon senso, che lo fa concludere dall’oriuolo meccanico all’oriuolajo, dovrebbe pure farlo concludere dall’oriuolajo all’ oriuolo morale, c farlo passare dal Teismo al Deismo. Dovrebbe pure comprendere la divina ragione, e la bellezza di questa parola: Avvisate, come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; e pure io vi dico che Salomone stesso, con tutta la sua gloria, non fu vestito al pari dell’un di loro. Or se Dio riveste in questa maniera l’erba dei campi, non vestirà egli molto più voi, o uomini di poca fede? (Matt. VI, (28, 29) » — « Cinque passeri non si vendono elle due quattrini? e pur niuna di esse è dimenticata appo Iddio. Anzi eziandio i capelli del vostro capo sono tutti annoverati. Non temiate adunque: Voi siete da più di molte passere (Luc. XII, 6, 7). »

Ma no. Il Teista non si solleva fino a questa fede, fino a quest’altra ragione. Egli resta nell’assurdo del Dio-Carnefice; e così io dico che ricade nell’Ateismo, anzi al dissotto dell’Ateismo, dappoiché nega Dio nella più bella parte dell’opera sua. È l’Ateismo nel secondo grado; ancora più inconcepibile in un certo senso dell’Ateismo nel primo. Né può sfuggire a questa conseguenza salvo passando al Deismo, che è la fede in Dio-Provvidenza.

II. Assicuriamo questo secondo passo verso il Cristianesimo. Ogni uomo porta con sé un testimonio vivente della Divinità: la coscienza: anche questo è un oriuolo che rivela ma oriuolajo; tanto poi che, in uomini, ond’è che esiste una coscienza generale ed universale nell’umanità. Essa parla cosi altamente, che lo stesso Voltaire fu costretto a darle retta:

La morale uniforme en tout temps; en lout lieu,

A des sìècles sans fin parle au nom de ce Dieu.

C est la loi de Trojan, de Socrate, et la vótre,

De ce culte éternel la nature est l’apòtre.

Le bon sens la recoit: et les remords vengeurs,

Nés de la conscience, en sont les défenseurs;

Leur redoutable voix partout se fait entendre. (1)  

(1) Voltaire, Poema sulla Legge naturale;

L’uniforme moral, per tutto, sempre,

Agl’infiniti secoli favella

D’Iddio nel nome. È di Trajan la legge.

Di Socrate, di voi. Eterno culto,

A cui natura è apostolo, s’accoglie

Dal retto senso; e i vindici rimorsi

Da coscienza nati, in sua difesa

Alzan dovunque la terribil voce.

Questo oriuolo, è vero, si guasta sovente, e pochi uomini si danno, nei quali sia ben regolato. Ma donde ciò? Da due distinte cagioni: l’una delle quali basta a confondere il Teista, mentre mi riservo di adoprar l’altra contro il Deista. La prima, che trovo qui sufficiente, consiste nella apparizione nella sfera umana d’un elemento superiore, totalmente estraneo al meccanismo dell’ universo: la libertà, o piuttosto il libero arbitrio, che nel suo esempio può avere per conseguenza il disordine nel generare un ordine sovreminente. Quindi è che il disordine stesso nell’umanità si riferisce a un principio di superiorità nell’universo: alla moralità. Se d’altronde quel disordine, in ogni uomo, non impedisce di sentire il testimonio della coscienza, come non vedremo noi lo stesso testimonio nell’umanità, che altro non è se non l’uomo collettivo? Come non ci eleveremo noi da quel testimonio al suo oggetto: Dio, Provvidenza dell’umanità? – Quindi è che in ogni tempo l’umanità ne fu profondamente penetrata. Udite quei religiosi accenti, che rimbombavano nel teatro d’Atene! — « Dentro di me si trova un gran Santuario, dove la legge della giustizia pronuncia i suoi oracoli (Euripide, Elettra) ». — « Su via, coraggio, mia figlia, nel cielo vi è quel Dio supremo, che considera tutte le cose, e le governa; affidati in Lui per ciò che infiamma la tua collera (Id. Elettra) ». — « Non ne dubitate, la Divinità ha degli occhi sull’uomo pio; quindi gli empi non si sottraggono al suo sguardo, e niuno di loro potrà scampare al celeste castigo (Sofocle). » — « Le prosperità non hanno la loro sorgente in noi; Dio le ripartisce, qui elevando gli uni, là riconducendo gli altri sotto la misura delle sue mani sovrane (Pindaro, Pitiche; ode 8) ».

III. Lo stesso disordine che si produce quaggiù deve riportarci all’idea della Provvidenza. Partendo infatti dalla coscienza, che si direbbe il freno dell’anima, c’è luogo a vedere, nelle leggi della giustizia e della verità, che vi si acconciano così bene, e vi si fanno sentire certe redini, che risalgono ad una mano sovrana, che le sostiene e le modera a suo grado. A suo grado no, perché sono fluttuanti, e la nostra libertà ci permette di scuoterle, così che ne deriva poi quel disordine apparente, ed in un dato senso anche reale. Ma se in quel disordine vi sono dei delitti, vi sono pure delle virtù, le quali non sussisterebbero senza la libertà che quei delitti permette. In secondo luogo il delitto, anche quaggiù, non va interamente impunito. La pena lo seguita, in distanza è vero, e con pie’ zoppicante; ma finisce per raggiungerlo tosto o tardi, o dentro o fuori: non è che una questione di indugio; e se il delitto è disordine a suo riguardo, la pena è ordine rispetto al delitto. Oltracciò Dio si serve dei delitti sia per mettere alla prova la virtù, sia per punire i delitti medesimi. Egli fa il suo ordine col nostro disordine; e chi avesse lo sguardo vasto abbastanza e penetrante, per seguitare e comprendere tra mezzo alle innumerevoli implicazioni dell’azione umana, quell’azione divina che opera nella nostra e per mezzo della nostra, sarebbe compreso da grata meraviglia per l’ordine profondo ed immenso che ricupera e produce lo stesso disordine. Quel soldato che si perde nella mischia, e lotta nello stretto limite d’un lembo di terra, altro non vede che confusione nella battaglia, mentre il generale dall’altura dove domina e dirige tutti i movimenti, li scioglie da quella confusione apparente, li combina, e li riferisce ad un piano di campagna, che la vittoria finale non tarda a giustificare.

IV. Queste spiegazioni sono tuttavia incomplete, ed il Deista deve elevarsi più in alto. Dato infatti, che il disordine sia soltanto apparente, questa medesima apparenza diventa un disordine, il quale, almeno in parte, è realmente tale. L’ordine, considerato

come giustizia completa, in relazione al merito od al demerito, è sospeso dall’azione della libertà che li produce. L’ultima parola delle cose non può dunque proferirsi quaggiù. Lo scioglimento dell’intrigo di questo mondo deve esistere altrove. Anche tutte quante le spiegazioni da noi emesse svanirebbero in quel caos di disordine, che provoca tanto lo scandalo dell’empio, se non spuntasse anche il giorno della Giustizia sovrana ed assoluta dopo quello della nostra libertà. L’ordine temporario non esiste anzi che relativamente a quel giorno, il quale nella voce della coscienza trova soltanto dei preludj e delle dilazioni; quel gran giorno, in cui la Giustizia raccorciando le redini della nostra libertà, e restituendo definitivamente il mondo alle sue leggi, si convertirà in giudizio. La fede in questo giudizio, e nella vita futura, dove si compirà, è il corollario obbligato della fede nella Provvidenza, e nella Giustizia medesima. Cosi si chiarisce per mezzo della fede l’inevitabile mistero della natura delle cose. Questo mistero, abisso di tenebre e di contraddizioni per l’Ateo, si chiarisce di già per opera della fede in Dio, intelligenza ordinatrice dell’universo; ma si chiarisce più ancora per opera della fede in quello stesso Dio Provvidenza degli uomini, e Giudice delle opere nostre in un ordine superiore. Progredendo nella fede noi progrediamo pure nella luce.

V. Facciamo un passo ancora, un passo che è necessario, se non vogliamo ricadere nelle tenebre; ed allora invece di essere deisti diventeremo Cristiani sotto pena di tornare atei, e di esclamare col più fervente deista: « L’Ente incomprensibile non è né visibile ai nostri occhi, né palpabile a alle nostre mani; opera si manifesta, ma l’artefice si nasconde: Non è un piccolo affare di conoscere finalmente che esiste (G. G. Rousseau, Emilio, lib. III). » – Imprigionato nella natura, Dio lo è parimente nella umanità, dove maggiormente si rivela per quella Provvidenza che lo mette in relazione col nostro destino, ma in altro senso è più oscurato dal disordine risultante dalla stessa libertà, che è l’anima di quella relazione, di guisa che ne deriva un’accusa contro di lui, che non si trova al suo posto. Il Deista crede in Lui, ma credendovi agisce come se non vi credesse. Non gli rende un culto effettivo, capitale, assoluto, e quale conviensi ad un Ente cosi grande; il perché Egli è più inconseguente del Teista, che è più inconseguente dell’Ateo. Ci va dell’Ateismo al terzo grado. – Ed invero che cosa è mai un Dio, che non si riconosce che speculativamente; che si calcola per niente nella nostra vita mentre dovrebbe costituirne l’essenza? Un Dio, verso del quale noi non proviamo né riconoscenza, né rispetto, né amore, né timore? Un Dio, lungi dal quale i nostri pensieri, i nostri desideri, i nostri affetti, le nostre volontà corrono alla ventura, senza che Egli le ispiri, le diriga e le accolga; un Dio, che non occupando il primo posto non può averne alcuno nel nostri spiriti e nei nostri cuori? Questo Dio non è che un sole, cui si tolsero i raggi, lo splendore, il calore, ed ogni influenza, sicché non manda nelle alte sfere del cielo che uno spettro di luce, il quale meglio della presenza dell’astro, ne dimostra l’inanità. Nello stato normale delle cose noi dovremmo amar Dio, come amiamo le creature, i beni, i piaceri, noi stessi; e se non transigessi, direi anzi, che noi dovremmo amarlo sopra tutto, sino al dispregio di noi medesimi e di tutte le cose. L’umanità dovrebbe offrire lo stesso spettacolo dell’universo, conformandosi alla ispirazione divina altrettanto perfetta di quella che lega la natura all’azione del suo Autore, il quale non è meno Padrone di noi, che della natura. Dio dovrebbe stare nel centro del mondo morale come il Sole d’un sistema, dove le nostre volontà, ottemperando all’attrazione del suo amore, girerebbero nell’orbita della sua giustizia, siccome gli astri in quella della loro gravitazione; ma con una libertà di allontanarsene, che non hanno gli astri, e che sarebbe una armoniosa fedeltà quando vi soggiacesse. Tale era lo stato dell’uomo primitivo. A fronte di questo ideale, che la ragione concepisce logicamente, che debba essere il vero dell’ordine delle cose, bisogna convenire che il mondo umano presenta un disordine orribile, una assenza di Dio spaventevole, una diminuzione di libertà pericolosa, una impotenza di riabilitazione disperata; e ciò che è più lamentevole, una ignoranza ed una insensibilità, riguardo a questo stato, che ne svela tutta la profondità. – Ciò solo dovrebbe farci supporre una grande deviazione originale, e farci concepire il bisogno d’una grande riparazione; da una parte l’invasione del male, possibile in ragione dell’imperfezione della nostra natura creata, e permessa come conseguenza eventuale della nostra libertà; dall’altra un intervento di Dio interessato dalla sua giustizia alla ripartizione dell’ordine, e disposto per la sua bontà a soccorrere la sua creatura caduta nel disordine. Questa soluzione si presterebbe per liberare l’anima da quel tremendo enimma del male, che Voltaire qualificava come orribile ed assurdo, e del quale si faceva scudo contro il domma della Provvidenza, che lo risolve soltanto in modo imperfetto. Quel gran domma. per sostenersi, chiama a sé  qual corollario un intervento di quella stessa Provvidenza più adattato al nostro stato presente. La Provvidenza infatti ha potuto togliere il disordine, ma non potendo mai agire senza la nostra libertà, non ha impedito, che alla fin fine prevalesse a) punto di indiarsi da sé. – A fronte di tale rovescio, due partiti s’offrono dunque all’anima umana: o quello di accusare la Provvidenza, e per conseguenza Iddio, di cui è dessa l’attributo essenziale; oppure quello di credere al suo intervento sovrannaturale, ad una religione riparatrice del disordine umano. Da una parte si indietreggia nell’assurdo: dall’altra si avanza nella tace. Il primo partito ci piomba ancora nel caos d’impossibilità tenebrose e desolanti; il secondo ci disvela il piano raggiante e consolatore del nostro destino.

VI . E come si fa a non abbracciare questa credenza, allorquando, indipendentemente dalle prove innumerevoli che la giustificano, si regge da sola sulla base universale del genere umano! infatti il genere amano ha sempre portato nel suo sena i peso ereditario d’una caduta primitiva, derivante dall’uso funesto di quella grande libertà di merito e di demerito, che ogni giorno fa ancora cadere ognuno di noi. Ma in pari tempo ne ha sempre trovato il contrappeso nella espettazione d’un Redentore divino, che sarebbe venuto a sollevarlo, e sarebbe disceso nell’arena della nostra libertà per ripararne il disordine, e per dedicarsi alla nostra aalvezza con un amore infinito, al pari della sapienza che si rivela nell’ ordine generale dell’universo. – Siffatta credenza s’incontra dovunque nel mondo, e risale alla culla del genere umano. Noi ne abbiamo prodotto delle imponenti testimonianze nei nostri Studi. Eccone una affatto nuova, né mai stata dianzi enunciata. È la storia, è la profezia della credenza cristiana tracciate non da Mosè, ma da Platone. Raccomando questa pagina all’intera attenzione del lettore.

« Nella prima età tutto nasceva da sé per gli uomini. Dio medesimo posto a capo dell’umanità la guidava. Quando questa prima età ebbe a finire, colui che regge questo universo lo abbandonò alla sua libertà, e si ritrasse come in un luogo d’osservazione. Ma il mondo secondando una inclinazione innata, traviò sempre più, e fino al punto di esporsi al pericolo d’una intera distruzione. Allora colui che lo ha formato vedendolo in quella estremità, e non volendo, che assalito e disciolto dal disordine s’inabissasse nello spazio infinito della dissimiglianza (Espressione ammirabile, dappoiché l’umanità venne creata ad immagine e rassomiglianza di Dio. Dio tornando al timone, ripara ciò che si alterò e si distrusse, imprimendo di bel nuovo quel movimento, che si era dapprima compiuto sotto la sua direzione, ordina il mondo, e lo salva dalla morte. — È questa, soggiunge Platone, una delle antiche tradizioni (La Politica o Regalità,  t. XI. p. 337). » – Certo che questa tradizione è incompleta e logora, anche per causa di quel disordine al quale si riferisce; e lo stesso Platone lo confessa ingenuamente. « Quei prodigi, egli aggiunge, si riferiscono ad uno stato identico di cose, e sono con mille altri ancora più sorprendenti. Ma a cagione del lungo trascorso del tempo gli uni caddero nell’oblio, e gli altri staccati dal nesso che formavano si raccontano separatamente; » come sarebbe il ricordo della caduta originale sotto l’allegoria di Pandora e di Prometeo. Sta sempre in fatto, che noi abbiamo in quel passo di Platone un prezioso testimonio della credenza del genere umano in una prima ed in una seconda rivelazione, in un intervento sovrannaturale di Dio per riformare, ordinare il mondo, ed affrancarlo dalla morte.

VII. Tutto il genere umano visse di questa credenza senza sapere nel suo traviamento dove collocarne l’oggetto, e se ne figurò mille immagini fantastiche sino al giorno, in cui correndo verso la fine il pericolo di una intera distruzione, il mondo vide comparire al tempo prefisso il suo Salvatore. Nella sua corruzione, e nella sua follia lo disconobbe, e si sollevò anzi contro di Lui in ragione della sublimità dei caratteri, che dovevano ben tosto rivelare in Lui il Principio d’una perfezione morale paragonabile a quella che rivela Dio nella natura; perfezione questa tanto prodigiosamente mantenuta, che introdotta nel disordine di questo mondo per restarvi sempre quale fonte inesausta di risorgimenti morali, qual tipo inalterabile del Bene, qual regolatore infallibile di Giustizia, qual centro d’ispirazioni eroiche, qual punto immutabile di verità, e finalmente qual Principio d’ordine, che non solamente vieta al disordine di prevalere, ma non permette mai che si produca senza stimmatizzarlo in fronte. – Il Cristianesimo ha precisamente avverato, nella nostra condizione scaduta, quell’ideale d’ordine che noi tracciammo poc’anzi. Gesù Cristo nel mondo è il Sole di giustizia e di verità, i raggi del quale già sparsi e rotti in mille pezzi e mille riflessi, derivando oramai dal loro unico centro, illuminano e vivificano tutta la natura spirituale. Esiste un centro d’azione rigeneratrice per mezzo d’una forza sovrannaturale, la quale non agisce sulla nostra libertà che per attrattiva: la Grazia. Bilanciando esso colla sua forza centrale le forze centrifughe delle nostre volontà trascinate dalla concupiscenza, ne fa gravitare un gran numero nella sfera della sua santità, con una fedeltà ed un progresso ammirabili; le fa ravvedere dei più lontani traviamenti; ravvicina, o trattiene una moltitudine d’anime sollecitate dalle lusinghe del male; agita con un salutare turbamento quelle medesime che non gli obbediscono; obbliga il disordine a rovinarsi da sé per mezzo d’un odio disastroso del bene, che ne provoca la reazione; finalmente trionfando del male nelle sue più scatenate rivolte, ed esercitando la sua azione sulla massa intera dell’umanità sino alle sue estremità le più remote, non le permette più di ritornare indietro, e la spinge innanzi nelle vie della vera civiltà. Esso giustifica per tal modo quei titoli, pei quali si è Egli stesso posto nel mondo nello entrarvi:

« Io sono il Principio; Io sono la Luce del Mondo; Io sono la Via; Io sono la Verità; Io sono la VITA ».

VII. Ecco il Cristianesimo, effezione sovreminente della relazione dell’uomo con Dio: Religione unica nella sua verità. – Ripigliamo la via ascendente, che là ci conduce. La Natura sensibile non stabilisce tra l’uomo e Dio che una relazione muta, cieca, fatale, indistinta, dove l’uomo è parificato a tutti gli altri esseri, sui quali si stende la Provvidenza universale, la sola che agisce. Se da questa Provvidenza della natura, alla quale si limita il Teista, si ascende a quella Provvidenza morale che regge l’umanità, si entra in una relazione più distinta con Dio, relazione di coscienza e di condotta, dove comparisce un nuovo elemento: la libertà umana, che viene a combinarsi coll’azione divina; relazione che costituisce il Deismo. Ma questa seconda relazione, per quanto superi la prima, è ancora insufficiente. Essa racchiude anzi un vizio di soluzione, dove il Teismo rifiuta di impegnarsi preferendo lo stesso enimma. È questo il gran disordine, dove Dio scompare dietro l’azione umana, e sembra esserne assorbito, nella stessa guisa che nell’ordine immutabile della natura l’uomo sparisce, ed è assorbito dall’azione divina: disordine che non spiega punto la libertà umana da sola; che accusa una grande deviazione in quella libertà; e fa appello ad una Restaurazione. – Il solo Cristianesimo intervenendo con un nuovo elemento, la Grazia, realizza completamente la relazione dell’anima con Dio. Accorda a quella relazione un punto d’appoggio, che senza assorbire l’uomo per mezzo di Dio come nella natura, senza assorbire Dio per mezzo dell’uomo come nell’azione divina e l’azione umana, una giusta proporzione di grazia costituisce la vera Religione nel suo tipo assoluto: l’Uomo-Dio. – In Lui unicamente tutte le verità del Teismo e del Deismo si risolvono, vanno al loro fine, e si giustificano completandosi. Il mistero che le copriva, e che metteva l’anima alle prese coll’inconcepibile, si chiarisce, socchiude i suoi veli, si spoglia di tutte le sue contraddizioni, e non conserva altro che l’incomprensibile. Questa nube medesima dell’incomprensibile dietro la quale Dio si mostra e si nasconde, tenta la ragione senza disanimarla, cede alla fede, rapisce l’anima colle celesti prospettive che essa vi scopre, la illumina coi raggi che ne derivano, e la rigenera coi tratti di grazia e cogli effetti di virtù che ne riceve. – Coroniamo questa rapida esposizione delle armonie razionali della nostra fede con un ultimo pensiero che basterebbe da sé solo ad esimerla da qualsiasi paragone con ogni altra dottrina, e con ogni altro concetto religioso. Mediante quella fede Dio riceve il solo omaggio, che sia a rigore degno di Lui per essere a Lui adeguato; un omaggio che non gli è reso né dai mondi, né dagli stessi Spiriti celesti, e che ogni adorazione umana sarebbe perciò impotente di rendergli, dappoiché tutto ciò è finito, e tale omaggio è infinito al pari di Lui, perché gli è reso da suo Figlio, e suo Eguale, da Gesù Cristo capo di tutto il culto, Pontefice – Dio di tutta la creazione. Il quale concetto è tanto sublime, che porta in sé l’impronta della propria divinità, e realizzato nella Chiesa giustifica questo detto già citato d’ un gran empio: « La Chiesa crede in Dio meglio d’ogni altra setta: essa è la più pura, la più completa, la più splendida manifestazione dell’Essenza divina; ed è la sola che la sappia adorare. »

Per colui che non è ateo, né panteista, per colui che crede in Dio non havvi dunque altro partito da prendere, come diceva ancora Proudhon, tranne quello d’essere Cristiano, e Cristiano Cattolico.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (60)

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (6)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (6)

Trad. M. T. Garutti – Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa

Catania, 7 Marzo 1957 P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur

Catanæ die 11 Martii 1957 Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO VI.

MISTICI E MAESTRI DELLA VITA INTERIORE-L’INTIMITÀ CON DIO

I primi mistici cristiani

Chiamiamo mistici, nel senso stretto della parola, i Cristiani che trovano nel loro battesimo le basi di una vera intimità con Dio, presente in essi mediante la grazia santificante. Questa intimità è 1’elemento specifico del vero misticismo. Essa comporta, oltre la fede nelle tre Persone, una stretta unione con Loro per mezzo di atti di speranza e di carità così intensi da permettere di godere in qualche modo della loro presenza. Tali atti, frutto della grazia e del modo  personale di ognuno di corrispondere alle sue ispirazioni sono attribuiti in modo speciale allo Spirito Santo che abita nel battezzato nel nome di Cristo. Questi elementi fondamentali sono già presenti nell’Epistola di San Clemente di Roma, ma sono evidentissima le lettere di Sant’Ignazio d’Antiochia. Abbiamo gia fatto notare i testi più salienti dell’autore, al principio di questo lavoro; testi veramente eloquenti e illuminanti circa questo aspetto caratteristico dei Padri (Cap. IV). Sant’Ireneo non ha l’ardore di Sant’Ignazio, ma la sua opera, erudita e calda, testimonia del suo alto ideale di vita cristiana. Nella sua dottrina, come in quella di S. Paolo, lo Spirito Santo occupa un posto importante. Egli distingue, nel battezzato, oltre il corpo e l’anima, lo spirito indicando con quest’ultimo termine sia la parte superiore dell’anima che lo stesso Spirito Santo, inabitante nell’anima del Cristiano docile alla sua azione. La perfezione dell’uomo, che comincia con la prima effusione dello Spirito Santo e che sarà perfetta e consumata soltanto in cielo, si realizza già in questo mondo nell’unità armoniosa dei tre elementi, quando l’uomo aderisce allo Spirito Santo ed è docile alle sue ispirazioni. Ancora, già fin da questo mondo, tale vita dello Spirito deve tradursi nello sforzo di acquisire una vera sapienza. Il Cristiano, formato alla scuola dello Spirito, saprà giudicare ogni cosa; distinguerà la follia dei pagani e degli eretici; si legherà con tutta l’anima a Dio, a Gesù Cristo, alla sua Chiesa; riconoscerà nella vita del Verbo incarnato la realizzazione delle profezie suggerite dallo Spirito; ritroverà la sua azione nelle presenti generazioni, che devono essere guadagnate al Verbo. Questa profonda dottrina era, per il vescovo di Lione, il fondamento spirituale di una progressiva divinizzazione. Egli la collegava a torto ad una teoria millenarista — teoria falsa ma che la Chiesa non aveva ancora condannata a quel tempo — tuttavia questo legame non compromette l’insieme della sua opera. Molto più pericoloso era il rnontanismo, che annunciava una nuova incarnazione divina, quella dello Spirito Santo, realizzatasi in Frigia, nella persona di Montano, alla fine del II secolo: illuminismo aggravatogli dall’eresia. Intervennero i Vescovi dell’Asia, sostenuti dai Papi. A Roma d’altra parte questi illuminati ebbero partigiani che San Vittore dovette combattere. Essi fecero proseliti persino in Africa, e Tertulliano si lasciò conquistare da loro: egli poi morì nella setta, senza pentimento, tanto questa falsa mistica lo aveva abbacinato. Questa caduta era tanto più penosa in quanto il prete cartaginese, brillante apologista e formidabile controversista, sembrava dotato per un’azione potente, di portata generale. Egli si isolò nella sua rivolta e morì, ignorato, in età avanzata. La decade di puro cattolicesimo che aveva seguito la sua conversione, verso il 195, fu fecondissima in opere di grande valore. Una di queste è consacrata alla preghiera, e vi si trova uno dei primi commenti conosciuti sul Pater. San Cipriano vi si ispirò più tardi nel suo opuscolo su « La preghiera del Signore » (De oratione dominica). Questo tema della preghiera è uno di quelli che caratterizzano meglio la spiritualità antica ed i Padri più famosi per scienza e pietà sono sulla stessa linea dei semplici pastori. A dispetto delle apparenti differenze fra i semplici fedeli ed i Cristiani colti, tra gli autentici membri della Chiesa, vi fu sempre una vera comunità di anime. La Didachè, anonima e popolare, che è forse il più antico documento della patristica, e la Tradizione Apostolica di Sant’Ippolito (al principio del III secolo), danno largo posto alla preghiera comune pubblica, dimostrando bene che il Cristiano si unisce a Dio nell’ambito di una società e per mezzo di questa, ma questo non esclude la preghiera personale, che viene presa anch’essa in considerazione, per lo meno incidentalmente, alla fine del trattato. L’autore del III secolo che ha esaltato l’orazione con più penetrazione è il grande esegeta alessandrino, Origene, scrittore mistico nel senso letterale della parola. Le sue omelie dimostrano perfettamente che, per lui, la preghiera comporta una vera intimità personale con il Dio cristiano in tre Persone. Egli si compiace di trovarne gli annunci profetici nell’Antico Testamento e le manifestazioni nel Nuovo, attraverso Cristo e lo Spirito Santo. Le lacune della sua teologia trinitaria sono colmate dalle intuizioni della sua vita contemplativa. Di questa egli pone le basi in un eccellente lavoro d’insieme sulla preghiera: egli espone anzitutto la dottrina generale, e la completa con una spiegazione particolareggiata del Pater. Ma i suoi innumerevoli commenti della Sacra Scrittura e le sue omelie dimostrano il mistico orientamento del suo pensiero, che si appoggia appena sulla lettera, sorpassa rapidamente persino la morale, per arrivare alla contemplazione dei misteri divini, in cui indugia, per una specie di istinto superiore, segno e frutto delle sue contemplazioni. Egli ha forse esagerato talvolta; ma non si può negare il valore del principio e l’eccellenza delle applicazioni, prendendole nel loro insieme. È in lui che il misticismo cristiano prende pienamente coscienza e delle sue vere fonti, gli scritti sani illuminati da una profonda ispirazione divina, e della sua missione, che è di portare alla vita perfetta i Cristiani docili allo Spirito Santo.

I Mistici del grande secolo in Oriente

In tutti i periodi di questo grande secolo, che comprende in realtà 150 anni di intensa attività cristiana, troviamo veri uomini di preghiera che possiamo raggruppare intorno a due Dottori eminenti in questo campo come in altri, San Giovanni Crisostomo, che incarna l’Oriente, e Sant’Agostino, per l’Occidente. Lo splendore della loro azione spirituale, al centro dell’epoca studiata, non deve tuttavia farci dimenticare i loro precursori o i loro continuatori. Sant’Atanasio, incarnazione viva della fede di Nissa nel IV secolo, fu tanto un lottatore che un uomo di preghiera, nel senso letterale della parola, e la sua amicizia con Sant’Antonio, del quale egli poi scrisse la vita, ne è il simbolo, se non la prova. A questa sorgente si alimenta la sua lotta dottrinale per la divinità di Cristo. I negatori erano filosofi, ferventi discepoli di Platone o di Aristotele, di Zenone o di Plotino. Lungi dal seguirli nelle loro sottigliezze, Atanasio conosce un libro solo, la Scrittura, un solo maestro, lo Spirito Santo, ed una sola guida, la Chiesa (v. cap. II). Tutto questo però non è realizzato veramente su un piano vitale, che per mezzo dell’azione della grazia, nella preghiera. Per Atanasio, i nomi di Padre, Figlio e Spirito Santo, non sono soltanto parole, neppure semplici idee; sono vere e grandi realtà, concrete, vitali, nelle quali Dio vive e con le quali noi viviamo in Dio. A queste sole parole, tutto il suo essere vibra di emozione religiosa. Tale emozione dipende dalla profonda coscienza ch’egli ha della nostra unione, per mezzo dell’amore, con queste divine realtà, le quali si degnano, attraverso la grazia, di associarci alla loro vita trascendente, nel Verbo che si è fatto carne affinché noi diventassimo figli di Dio, secondo la parola di San Giovanni. Per Atanasio non si tratta di una semplice verità dottrinale da ammettere per mezzo dello spirito; si tratta di una realtà vissuta, sperimentata nella preghiera. E questa esperienza è come la sintesi vivente di due saggezze: la Saggezza eterna che si abbassa fino a noi nella grazia, e la saggezza creata che è la risposta del Cristiano al dono di Dio. È da puro mistico che Atanasio risponde agli eretici del suo tempo: « Dio non ha bisogno di noi: Egli possiede la propria vita in se stesso, nella eterna generazione del Figlio. Tuttavia, gratuitamente, Dio ci avvicina a tal punto a Lui da farci entrare nel più intimo della sua vita. Non solo Egli ci ha creati allo scopo di unirci tutti al Figlio unico, ma, contemplandolo eternamente, ci contempla in questa unione che il tempo deve perfezionare al punto che Egli stesso non lo vede più separatamente da noi. Nella visione integrale che il Padre ha delle cose. Sapienza divina e Sapienza creata non si confondono, come vorrebbero gli ariani, bensì si sposano » (L. Bouyer; « L’incarnation et l’Église », p. 145). I Cappadoci, che continuarono l’azione dottrinale di Sant’Atanasio contro gli Ariani, non ne sottolinearono con altrettanta cura l’aspetto mistico, pur senza trascurarlo. È soprattutto a proposito dello Spirito Santo ch’essi intervennero, valorizzando l’azione divinizzatrice, azione che suppone nel suo autore la divinità. San Gregorio di Nissa, fratello di San Basilio, il più mistico dei tre dottori del gruppo, ha spesso descritto le tappe interiori dell’ascesa dell’anima verso Dio, presente in lei per mezzo della grazia. Toccava a Sant’Agostino riprendere la dottrina di Sant’Atanasio sull’unione interiore alle divine Persone, che è la base della sapienza mistica della Chiesa. Il Vescovo di Nissa è attirato molto di più dall’aspetto psicologico delle ascensioni dell’anima verso Dio. Egli appoggia volentieri la sua dottrina sull’Antico Testamento: « La vita di Mosè » gli fornisce la materia per una classifica delle vie interiori in tre tappe: il Cespuglio ardente ne rappresenta la partenza; il Nembo, i progressi interiori fino alla contemplazione; la Tenebra del Sinai, i vertici della vita mistica. Le omelie sui Salmi, sull’Ecclesiaste, sul Cantico, conducono il Santo a precisazioni nuove. La stessa dottrina è ripresa nelle otto omelie sulle Beatitudini, e nelle cinque consacrate al Pater. Tali insistenze dimostrano bene l’orientamento dell’autore; egli doveva essere uno dei maestri del misticismo orientale. La sua influenza in Oriente fu considerevole, soprattutto a Bisanzio, dove egli beneficiava d’altronde del prestigio senza eguale del suo amico, San Gregorio Nazianzeno, con il quale fu scambiato spesso. – San Giovanni Crisostomo, gloria della Chiesa di Antiochia, fu meno attirato dal misticismo che non i maestri di Alessandria e persino quelli di Cappadocia, anche se in molte delle sue opere se ne possono trovare tracce evidenti. Il suo apostolato fu soprattutto pratico e moralizzatore, ma si basava su un alto concetto di Dio che costituiva il centro unificatore della sua vita e dava tanta forza alla sua parola. Ora questa idea vivente di Dio, questa « teologia », era il frutto dei suoi anni di vita solitaria, consacrati alla preghiera e alla meditazione della Sacra Scrittura, di San Paolo soprattutto che sarà sempre il suo autore preferito. In ogni suo discorso si richiama alla potenza ed alla saggezza di Dio, alla sua misericordia e al suo amore; ha proclamato la sua giustizia e le sue volontà; ha difeso magnificamente i suoi diritti. I suoi migliori impeti oratori sono stati forse ispirati da questo pensiero della grandezza di Dio e della fragilità delle creature, come testimoniano le omelie sulla caduta di Eutropio. Il senso della vanità dei beni del mondo, che vi si rivela con tanta forza, ha come punto di appoggio necessario la perfetta intelligenza del tutto di Dio: Dio è il porto che non conosce tempesta, la vera città, lontani dalla quale noi siamo solo viaggiatori che soggiornano un giorno in un albergo e poi se ne vanno. – San Cirillo di Alessandria, al principio del secolo V, rappresenta egli pure, a modo suo, una forma evidente di misticismo, ed è forse proprio in questa che bisognerebbe cercare il segreto della forza che lo ispirò nella sua lotta contro il dualismo nestoriano. Questa eresia minava l’essenza stessa del Cristianesimo. Ciò che Sant’Atanasio aveva fatto nel IV secolo per difendere la divinità del Verbo in quanto Persona, anche prescindendo dalla sua Incarnazione, il suo successore nel V secolo lo farà per difendere l’unità di questa Persona del Verbo nella sua Incarnazione. Egli vi era indotto dalla tradizione dottrinale della sua Chiesa e di quella Scuola di Alessandria che aveva sempre posto al primo piano delle sue ricerche dottrinali i principii concernenti la divinità, considerata non solo nei suoi diritti di natura, ma fin nelle sue alte relazioni personali. Un certo misticismo tradizionale ad Alessandria, fin da Origene, induceva i teologi di questa chiesa a porre in primo piano nel loro pensiero la divinità, le Persone divine, lo Spirito Santo, con i suoi doni più elevati. Si devono attribuire tali doni a San Cirillo? Non lo sappiamo. In ogni caso, per rifiutarglieli, non basta rimproverare l’energia della sua resistenza a Nestorio, poiché questa stessa energia ha potuto avere una altissima ispirazione, che fu provvidenziale e che troppo spesso è dimenticata da certi storici. –

I mistici del grande secolo in Occidente

Per citare ancora soltanto dei grandi nomi, ci limiteremo a due personalità di primo piano, Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, i quali si incontrarono nella loro vita terrestre, e si ricongiunsero nel loro misticismo, nonostante le diversità di carattere e di formazione.

Sant’Ambrogio, figlio d’un prefetto dell’impero romano, egli stesso consigliere degli imperatori verso la fine del IV secolo, spesso è conosciuto soltanto per il ruolo politico nella sua vita di uomo di Chiesa; tuttavia, per quanto grande sia stato, questo ruolo rimane subordinato a quello del Pastore o del moralista, educatore del popolo cristiano, e a quello dell’asceta che trascina le anime sulla via della perfezione. Quest’ultimo tratto è fortemente marcato fino al misticismo. Ciò traspare molto bene negli scritti che trattano della Verginità, ch’egli ha più di tutti esaltata, paragonandola ad un vero « matrimonio con Cristo », matrimonio che impone degli oneri, ma che comporta molti privilegi: privilegi del tutto spirituali, poiché è un dono divino e la sua patria è nel cielo. Essa ha un modello incomparabile in Maria, che ne è l’iniziatrice e l’esemplare perfetto fino alla fine dei tempi. Tale è il tema del più commovente dei suoi quattro trattati sull’argomento, quello che ha per titolo: La formazione di una vergine (« De institutione virginis », scritto verso il 392.). Ma il vero criterio, la base solida del misticismo del santo è la profonda unione con Dio; esso è evidente principalmente nel senso ch’egli ha della presenza di Cristo nell’anima cristiana e nel modo con il quale la descrive in uno dei suoi primi trattati sulla Verginità: « Noi abbiamo tutto in Cristo — egli dice — Volete guarire una ferita? Egli è medico. Bruciate per la febbre? Egli è fontana. Vi opprime l’iniquità? Egli è giustizia. Aspettate un aiuto? Egli è forza. Temete la morte? Egli è Vita. Desiderate il cielo? Egli è la Via. Fuggite le tenebre? Egli è Luce. Desiderate il cibo? Egli è alimento. Provate dunque e vedete quanto soave è il Signore. Beato colui che spera in lui » (XVI, 96). Cristo è il principio di ogni virtù. In una lettera al Vescovo Felice che egli ha consacrato, Ambrogio descrive con emozione le ricchezze del santuario cristiano, in cui si trova, con le Scritture che contengono la dottrina della sapienza, il tabernacolo santo dove risiede Cristo, che ci parla e nel quale noi abbiamo tutto (Dove è Cristo, vi è tutto). Ambrogio continua ancora: i doni spirituali non vengono che da lui; la pace e la giustizia sono un segno che Cristo è presente (Dove c’è la pace, lì c’è Ciisto). Cristo è nell’anima; anzi, Egli la muove con il suo Spirito, con la sua santa azione; colui che lo riceve e lo riconosce con amore depone in qualche modo sui suoi piedi un bacio devoto. Questa freschezza di sentimenti, che annuncia da lontano un San Bernardo, sorprende nel serio consigliere così ascoltato dagli imperatori del grande secolo cristiano. Essa è normale in un mistico la cui anima rimane ben fissa in Dio, qualunque siano le attività che lo occupano quaggiù. Troveremo la stessa nota, e ancora più pronunciata, nel Vescovo di Ippona. È nell’operadi Sant’Agostino che si trova, in Occidente, la dottrina mistica più completa e più profonda di tutta l’antichità, pura eco di San Paolo e di San Giovanni. La filosofia è qui ben subordinata al soprannaturale, malgrado certe apparenze che non possono ingannare. L’emozione sentita da Agostino a 19 anni, al tempo della scoperta della sapienza alla lettura di un libro di Cicerone, l’Hortensius, era filosofica più che religiosa, ma la religione vi aveva già la sua parte che diverrà predominante nel fecisti nos ad Te. del primo capitolo delle Confessioni, scritte a 42 anni: « Ci hai fatti per te, Signore! e il nostro cuore è inquieto fino a quando non riposa in te ». Agostino non godette di questo riposo che a 32 anni, al momento della sua conversione. Il primo appello alla sapienza, ricevuto aventi anni, porterà solo più tardi i suoi frutti. Il giovane fu immediatamente disorientato dalla sua adesione alla setta manichea, che contrapponeva in modo brutale il bene e il male, come princìpi eternamente in lotta in ognuno di noi; rimase avviluppato per dieci anni in questa eresia. Verso i trent’anni fu tratto dall’errore dal neoplatonismo, che gli insegnò il predominio di un principio unico, essenzialmente buono nel quale il Verbo aveva un ruolo principale. Però questa filosofia, per quanto grande e pura fosse o pretendesse essere sul piano morale e religioso, gli parve presto aridissima. Egli doveva poi utilizzarne i princìpi per tutta la sua vita; però ne sentì profondamente e amaramente le lacune, sul piano religioso, morale e spirituale. Tutto ciò è, ai suoi occhi, strettamente legato al mistero dell’Uomo-Dio. – Agostino non dimenticò mai il primo orientamento verso la devozione a Cristo, ereditato dalla madre. Tuttavia ne scoprì tutta l’importanza solo quando entrò nella prima maturità religiosa, verso i trent’anni: so: sostenne la sua reazione contro l’arida speculazione platonica che rischiava allora di perderlo. È soprattutto per mezz|o di San Paolo ch’egli arrivò alla luce completa sui misteri cristiani: il mistero del peccato, che è morte, quello della grazia, che è vita, la vita di Dio in noi ricevuta per mezzo del battesimo e sviluppata dall’azione dello Spirito Santo. Ecco la sola forza che ci strappa all’esilio del peccato e ci conduce alla patria ove Diiìr|p|ci attende. t L’apostolo San Paolo rimarrà per lui il vero maestro che lo ha introdotto nelle profondità del Cristianesimo; dopo averlo strappato al peccato, gli insegnerà a vivere in unione con Dio per mezzo di una carità ardente e luminosa, di cui lo Spirito Santo è il principio e l’animatore. E questa dottrina sboccerà nella contemplazione del Verbo di cui fu rivelatore San Giovanni, e di cui i suoi scritti sono la manifestazione progressiva. Nei commenti che ne ha fatto, Sant’Agostino dimostra bene che, con San Paolo, il suo maestro preferito, è il discepolo prediletto da Gesù. – Il tratto più saliente forse della devozione di Agostino, è l’interiorità. Egli concepisce Dio presente nell’uomo: intimus cordis est! E questo vale anche sul piano naturale, poiché gli piace innalzarsi razionalmente al Creatore attraverso la vita dello Spirito. Tuttavia quel punto di vista filosofico, così vero, così profondo, non gli basta. La fede gli rivela un’altra presenza di Dio nell’anima cristiana, presenza che ha due aspetti: da un lato, essa è temibile, tanto Iddio è santo; dall’altro lato, essa è mistero ineffabile di condiscendenza e di amicizia. Frutto interiore della grazia, essa è tutta soprannaturale. È conosciuta dalla fede, ma non diventa perfetta che con la speranza e la carità, e nella misura in cui queste hanno reale presa sull’anima. Esse devono trascinare nel loro movimento tutta l’attività interiore ed esteriore del Cristiano. Questa è la vera perfezione dell’uomo, sapienza eminente, profondamente soprannaturale, contemplativa e operante ad un tempo quando è sbocciata in pienezza. – Per poter realizzare questa perfezione, Sant’Agostino fa assegnamento soprattutto sui doni dello Spinto Santo. Questi doni rispondono ad un intervento superiore della grazia nell’anima, intervento che si amplifica a mano a mano che questa si libera dai sensi e si spiritualizza. I doni di timore e di devozione, rappresentano gli inizi interiori di questa importante azione divina, di cui gode il Cristiano generoso e docile alla grazia. Lo sostengono nei suoi rapporti con il prossimo la forza ed il consiglio, mentre la scienza e l’intelligenza gli danno, sulle creature e su Dio stesso, lumi relativi, ma penetranti, che preparano lo schiudersi della sapienza. La sapienza: ecco il dono mistico per eccellenza, vera unione a Dio, profondissima, unitiva e pacificante fino al grado possibile quaggiù. La funzione di questa sapienza, dono dello Spirito Santo, è descritta ampiamente nel lavoro sulla Trinità (nel libro XIV). Essa si confonde con quella devozione mediante la quale l’anima cristiana diventa una immagine vivente di Dio in tre Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo. Questa immagine esiste solo alla punta estrema dell’anima cristiana, quando, avendo appresi per mezzo della fede che è figlia di Dio, l’anima « realizza » in spirito questa verità con un amore disinteressato che l’afferra tutta intera e consuma l’unione con Dio. L’immagine in questione, che i teologi osservano come oggetto di studio, è utilizzata dall’anima orante, non per sapere, ma per possedere quel Dio che si degna di darsi in godimento a coloro che lo amane! Là dove il teologo analizza e distingue per osservare il reale, il santo si limita ad amare guardando quel Dio trascendente e presente, Uno e Trino: Padre, Figlio e Spirito Santo. Questa contemplazione è il frutto precipuo delle virtù teologali e dei doni dello Spirito Sante! È il punto culminante della mistica agostiniana, in cui il Cristo resta la via, per mezzo della sua umanità, ma introduce le anime oranti e umili nella verità piena e nella vita, attraverso l’unione alle Tre Persone. – La mistica di Sant’Agostino, pura eco di San Paolo e San Giovanni, non dimentica la santità di Dio tanto proclamata dall’antica Legge. Essa ne precisa perfino le esigenze, moltiplicandone però le forze interiori che permettono al Cristiano di rispondervi, nel quadro delle virtù teologali, poiché tale è l’atmosfera in cui si spiegano le grandi energie. Queste forze rendono generose le anime capaci di innalzarsi a mezzo della fede al disopra delle preoccupazioni terrestri, per permettere loro di vivere già in qualche modo nel cielo, con una salda speranza ed una generosa carità.

Altri mistici antichi

Accanto ai veri maestri della preghiera che abbiamo indicato altri nomi possono essere segnalati che, per titoli diversi, hanno una certa parentela con la loro ispirazione. Non tanto quelli dei poeti cristiani, come Efrem Siro, Paolino da Nola e Prudenzio: la loro religiosità è purissima, ma la loro ispirazione non propriamente mistica, quanto quelli di due personaggi meno noti e che non sono venerati come santi: Diadoco, il più antico, Vescovo di Fotiké, in Epiro, all’epoca di San Leone e Giuliano Pomere, monaco e prete di Arles nel V secolo. Ambedue hanno una mistica solida e persuasiva. Il primo ha lasciato una bella esposizione « sulla perfezione » cristiana in cui insiste, più degli altri antichi maestri spirituali, sopra un senso interiore o un gusto spirituale che strappa l’anima alle dolcezze terrestri e la incammina verso una esperienza vitale di Dio legata alla sapienza. Questa è d’altronde legata strettamente ad una « teologia », che è meno uno studio che una « contemplazione », vale a dire una misteriosa unione a Dio, frutto della grazia e della carità. Il secondo, spirito colto, filosofo e asceta, è conosciuto solo per l’unico suo scritto conservato, La vita contemplativa, che tratta d’altronde più di Pastorale che di Mistica. La vita spirituale viene considerata dall’autore in due tappe, una attiva, in cui domina lo sforzo per acquistare la perfezione; l’altra contemplativa, in cui l’anima assapora qualcosa delle realtà eterne e vi trova forze per l’apostolato interiore, di cui Pomere sembra avere avuto il gusto maggiore. – È alla fine dello stesso secolo che appare, in Oriente, l’opera d’un puro mistico che si spaccia per « Dionigi l’Areopagita ». Lasciamogli questo nome, anche se egli non è altro che uno pseudo-Dionigi. Egli credeva di esporre una dottrina conforme alla tradizione — e lo è sostanzialmente — anche se la forma è nuova. L’autore scriveva fra il 480 ed il 520. Questo misterioso personaggio è, senza alcun dubbio, un Vescovo palestinese di Maiouma, nella regione di Gaza, Pietro detto l’Iberiano, dal nome del suo paese di origine, l’Iberia o la Georgia. L’impiego del nome del convertito di San Paolo (Dionigi, vescovo di Atene, secondo gli antichi. La tradizione che ne fa il primo Vescovo di Parigi è più recente lo confonde con il Dionigi mandato in Gallia dal papa San Fabiano, nel III secolo) mirava probabilmente ad accreditare, se non una nuova dottrina, almeno una nuova presentazione delle verità cristiane correnti. – L’opera « aeropagitica » utilizza abbondantemente in effetti, la filosofia neo-platonica di Proclo, in onore della scuola di Gaza alla fine del V secolo. Essa comprende una breve Teologia mistica (in cinque capitoli e tre grandi opere di teologia generale: i Nomi divini la Gerarchia celeste e la Gerarchia ecclesiastica. L’aver ricorso al plotinismo nell’esposizione, non vizia queste tesi che, nell’insieme, riposano su una base rivelata abbastanza solida. – La nota mistica è dovunque molto accentuata nell’opera di « Dionigi », il quale ha goduto di una larga autorità nel Medio Evo. L’aspetto dottrinale, tuttavia sempre presente, anche nelle pagine consacrate all’esperienza religiosa più alta che è la contemplazione. Questa è considerata, ora sotto un aspetto negativo (silenzio, tenebre), ora sotto un aspetto positivo (conoscenza di Dio, di origine superiore, e quindi divina); il mistico riceve più di quanto non guadagni con lo studio (non solum discens sed et patiens divina). Le gerarchie stabilite dall’autore riposano sulla contemplazione. Questa produce « un costante amore verso Dio e le cose divine… la visione e la scienza della verità sacra; una partecipazione divina alla semplice perfezione di Colui che è sovranamente semplice, il godimento della contemplazione, che nutre lo spirito e deifica chiunque è innalzato fino a lui » (Gerarch. eccl. I, 3). La « teologia » che « Dionigi » ha soprattutto di vista, è una semplice e profonda presa di possesso di Dio, indipendente da ogni elaborazione attiva dello spirito, ricevuta da Dio come una partecipazione soprannaturale alla vita divina. È, in una parola, una profonda vita teologale, più celeste che terrestre. – La « Teologia » di « Dionigi l’Areopagita » fu introdotta negli ambienti spirituali latini e bizantini da San Gregorio Magno (+ 604) e San Massimo il Confessore (+ 662). La forte personalità di questi grandi discepoli attenuò quanto vi era di troppo filosofico nell’opera dionigiana. Essi ne moderarono l’aspetto teorico con una felice insistenza sulle condizioni pratiche della perfetta vita cristiana. – San Gregorio Magno ha lasciato nelle sue omelie, e soprattutto nei Moralia, delle ricchissime trattazioni riguardanti la contemplazione, che è soprattutto sapienza soprannaturale, capace di dare una certa percezione di Dio, sotto forme d’altronde molto diverse. Egli la paragona ora ad una visione lontana, come nella notte, ora a una parola, o meglio, a un mormorio. Essa è rapida, e talvolta non dura che un istante: semplice preludio (initia) della visione beatifica. Tuttavia i suoi effetti sono possenti: umiltà profonda, pentimento efficace, pace e gioia celesti, ardore generoso nella ricerca di Dio.

San Massimo il Confessore (580-662) mette l’accento su due punti che hanno poco rilievo nell’opera dionigiana: Cristo da una parte, la carità dall’altra. Cristo occupa, in lui, un posto centrale, principalmente sul piano della vita cristiana. Non solo è l’autore della grazia, ma è il nostro modello per eccellenza: l’imitazione di Cristo è la grande legge della vita cristiana nella lotta contro il male, nella preghiera e nella contemplazione, nell’esercizio delle virtù, principalmente la carità. Questa è la regola della vita perfetta. E include evidentemente l’amore del prossimo, ma nella sua essenza, l’amore di Dio, principio della forza come dei suoi privilegi. È la carità che deifica veramente le anime, dando loro i sentimenti che si pone la filiazione adottiva, unendole moralmente a Dio fino a quell’intimità rivelata dal titolo « di sposa». È da Cristo che vengono tutti questi doni; egli abita infatti nelle anime per mezzo della fede, e con lui vi sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza, e se tanti Cristiani non li scoprono è perché sono pigri e negligenti nella loro vita spirituale.

LA GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (58)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (58)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V.

Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo. (2)

§2

Ho detto in secondo luogo, che l’argomento, di cui la ragione s’accontenta per credere al Teismo ed al Deismo s’applica con egual forza al Cristianesimo, senza accennare ad altri argomenti che ne sono propri.

I. Conviene rendere giustizia a Voltaire; esiste una verità, sulla quale non ha mai piatito, ed è quella dell’ esistenza di Dio. Egli la stabilisce e la difende in molti passi dei suoi scritti con quel suo buon senso quanto raro, altrettanto ristretto e superficiale. Il suo argomento, se non è profondo, è per altro sufficiente:

L’Univers m’embarrasse, et je ne puis songer

Que cette horloge existe, et n’ait point d’horloger

(L’idea dell’universo m’impaccia, al pensier solo

Che senza oriolajo sussista l’oriolo).

È l’argomento delle cause finali che determinava Socrate, ed al quale non si saprebbe rispondere. Voltaire lo fa spiccare sovente con un grande sfoggio di stile, e con una specie d’entusiasmo di ragione, Egli va fino al punto di prendersela colla parola natura, e fa osservare, che invece di questa parola bisognerebbe adoprare quella di arte; dappoiché tutto, assolutamente tutto è arte in ciò che si chiama natura « l’arte di non saprei quale grand’Essere ben polente, e ben industrioso, che si nasconde, e la fa comparire. – Bisogna dunque, egli conclude, che vi sia un Artefice infinitamente abile, e che sia appunto quello, che i savi chiamano Dio (Dict. philosophique, t. XXXI. p. 166, édit. Benchot — Dialogues d’Evhémère t. L, p. 156).

II. Non è già questa verità che gli sembri scevra di difficoltà. Senza esaminarla a fondo, sente tutto ciò che racchiude d’incomprensibile. Tuttavia non si ritrae dallo acconciarvisi, e la difende anzi sovra quel terreno dell’incomprensibile contro un Ateo, che vi attinge le sue obiezioni. Brevi sono le risposte di lui, quasi che temesse di compromettersi oltre misura, e di offerire delle armi contro la sua incredulità per gli altri misteri. Però si possono proporre come un manuale dell’arte di’ credere. Il seguente dialogo è fittizio. É Voltaire, che risponde al barone d’Holbach.

L’Ateo. « Conviene avere qualche concetto della natura divina ».

Voltaire. » E della nostra? »

L’ateo. « La nozione di Dio non entrerà mai nello spirito umano ».

Voltaire. « Interamente ».

L’Ateo. « Come mai si giunse a persuadere, che la cosa più impossibile a comprendersi fosse la più essenziale? »

Voltaire. « Una cosa si può dimostrare, ed essere ad un tempo incomprensibile: 1’eternità, gli incommensurabili, le assintoti, lo spazio …»

L’Ateo. « Come è possibile la sincera convinzione d’un ente, di cui si ignora la natura? »

Voltaire. « Eppure è così. Se qualche cosa esiste, dunque qualche cosa esiste da tutta 1’eternità. Questo mondo è fatto con intelligenza, dunque per mezzo d’una intelligenza. E quindi  rigorosamente provato, che esiste un Ente necessario da tutta 1’eternità. È parimente stabilito, esservi nel mondo una intelligenza. Mi attengo a questo (Rémarques sur le bon sens, t. L , p. 568). »

D’ Holbach muoveva a Voltaire delle obiezioni di altra natura, che non trovano scioglimento salvo nel Cristianesimo. Esse erano tolte non più dall’incomprensibile, ma dall’inconcepibile e dall’assurdo. Egli gli diceva: « Vedete il male fisico, vedete il male morale, che affliggono il mondo, e dopo ciò credete ancora in Dio »! Voltaire non si disanima per quella obiezione: fa sua fede resiste ad ogni prova, ed è rimarchevole la ragione, che ne adduce: « L’idea d’un Dio carnefice, che forma delle creature per tormentarle è orribile ed assurda… Ma se viene a darsi la prova a una verità, forse che questa verità tralascia di esistere, perché trae con sé delle consequenze inquietanti? Esiste un Ente necessario, eterno, fonte di tutti gli altri. Esisterà forse meno, perché noi soffriamo? Esisterà meno, perché io sono incapace di spiegare la ragione, per cui noi soffriamo (Dialogues d’Euhemère, p. 1S9.)? »

Una simile fede è più che sufficiente pel Cristianesimo: io la chiamerei anzi scandalosa per la sua rassegnazione a difficoltà, che farebbero ribrezzo ad un umile fedele, e che lo stesso Voltaire qualifica, come orribili e scandalose, mentre le divora. A parte questo eccesso, il suo ragionare è eccellente. Per completare questo manuale ad uso dei credenti, aggiungiamo una professione di fede di Gian Giacomo Rousseau, la quale non è meno esemplare:

« . . . Ho un bel dirmi: Dio è così; io lo sento, e me lo provo. Non giungo meglio a concepire,  come Dio possa essere così. Insomma più mi sforzo a contemplare la sua essenza infinita, meno la concepisco: ma desta è, E ciò mi basta; memo la concepisco, e più l’adoro. Mi umilio, e gli dico: Ente degli enti, io sono perché tu sei, ed è un sollevarmi alla tua sorgente questo meditarti senza posa. L’uso più degno della mia ragione è quello d’annientarsi dinanzi a te; è quello che rapisce il mio spirito, ed inebria la mia debolezza; è quello di sentirmi vinto dalla tua grandezza (Emilio)…. » – Anche questa è una fede eccessiva, che noi altri Cristiani, cui si dà la colpa di far troppo buon mercato della ragione, potremmo anche giudicare riprensibile. Di fatti noi non diremo mai d’alcun nostro mistero, meno lo concepisco, più lo adoro; ma meno lo comprendo. Noi adoriamo l’incomprensibile, ma non l’inintelligibile. Tutti i dommi della nostra fede sono al contrario ciò che v’ha di più intelligibile, e di più definito. Così noi non croderemmo al mistero della Trinità, se 1’unità e la trinità si riferissero allo stesso soggetto; se Dio fosse in pari tempo uno e tre in essenza, ovvero uno e tre in persona. Noi non comprendiamo sicuramente in qual modo uno in essenza sia in tre persone, ma in grazia dell’addotta distinzione noi lo concepiamo nella stessa guisa che concepiamo un’anima sola in parecchie facoltà ed in parecchie potenze.

III. Comunque sia, e salva quella riserva in favore della ragione, l’argomentare di Rousseau e di Voltaire non è dissimile da quello della fede cristiana, e però possiamo rivolgerlo contro gli increduli. Che cosa si oppone infatti alla fede, se non è quella triviale pretesa, che si debba soltanto ammettere ciò che si comprende; e che nulla siavi di vero, tranne ciò che è evidente, ecc. ecc.? — Lo stesso Rousseau non viene forse a dirci, quando si tratta dei misteri del Cristianesimo:

« Il Dio. che io adoro, non è già un Dio di tenebre, né mi dotò d’un intelletto per interdirmene l’uso: se dicessi a me stesso di sottomettere la mia ragione (si noti che aveva detto poc’anzi che il miglior modo di usarne era quello di annientarsi), crederei di oltraggiarne l’autore, Egli non tiranneggia la mia ragione, ma la illumina, ecc. (Emilio). » Rispondiamo a tutte quelle declamazioni con queste sentenze del buon senso rivolte contro l’Incredulo: Noi non sapremmo comprendere la natura divina, noi che non comprendiamo punto la nostra — la nozione di Dio non può entrare nello spirito umano completamente, ma proporzionamente, e ciò basta per la credenza —• una cosa può dimostrarsi, ed essere ad un tempo incomprensibile: l’eternità, gli incommensurabili, le assintoti, lo spazio, ecc. — se si fornisce la prova d’una verità, come sarebbe quella dei nostri misteri per mezzo della parola rivelatrice di Gesù Cristo provata a sua volta dai suoi miracoli, ecc. questa verità esiste forse meno perché trae con sé delle conseguenze inquietanti? massima questa che noi non spingiamo tant’oltre come voi. — Finalmente lungi che l’incomprensibile debba arrestarci, ne deve determinare: perché il più degno uso della mia ragione è quello di annientarsi dinanzi a Dio; è quello che rapisce il mio spirito ed inebria la mia debolezza, per cui mi sento oppresso dalla grandezza di lui, e soprattutto dal suo amore e dalla sua misericordia. – In una parola, qualunque sia la credenza, il mistero non deve mai fermare; deve in un certo senso determinare. – Dico in un certo senso, perché lo spirito umano non può e non deve mai determinarsi, tranne per mezzo della ragione. Bisogna dunque che vi sia ragione di credere, e che la verità, oggetto della credenza, sia provata non dalla sua evidenza intrinseca, cosa che non potrebbe darsi, ma dalla forza dell’autorità, e dallo splendore del testimonio. Se non che, dove trovare maggiori prove, e ragioni di tal genere se non nel Cristianesimo? ragioni e prove che diciotto secoli di critica e di discussione non riuscirono ad iniziare, e che l’Incredulità oggi ci abbandona per ritrarsi nella negazione non solamente di Gesù Cristo, ma di Dio medesimo; in tal modo essa proclama, e professa anzi apertamente, come già l’abbiamo veduto, che si può essere teista senza essere cattolico.

IV. Facendo astrazione da tutte quelle ragioni e da tutte quelle prove cento volte potrei stabilire la divinità di Gesù Cristo sovra il solo argomento, di cui si serve Voltaire per dimostrare l’esistenza di Dio: quello delle cause finali. Nello stesse modo, che questo argomento prova Dio nell’ordine fisico, così prova Gesù Cristo nell’ordine morale e storico. « Dio – dice Bossuet – ha fatto un’opera in mezzo a noi, che, indipendente da ogni altra causa, e venuta solo da lui, riempie tutti i tempi e tutti i luoghi, e spande su tutta la terra colla impressione della sua mano il carattere della sua autorità; e sono Gesù Cristo, e la sua Chiesa (Orazione funebre à Anna di Gonzaga). » – Ora non possiamo noi dire di quell’opera ciò che Voltaire ha detto della natura?

Celle oeuvre m’embarasse, et je ne puis songer que celle horloge existe, et n’ait point d’horloger (L’idea dell’universo m’impaccia, al pensier solo Clic senza oriolajo sussìsta l’oriolo). Ed invero per chi l’osserva profondamente, la cosa non può essere diversa, in quanto che la natura non è altro che arte, e per la stessa cagione l’opera di cui parlo non è che grazia, virtù divina, azione sovranaturale « di qualche grande Artefice, che si nasconde, e la fa comparire. — Questo mondo è fatto con intelligenza, dice Voltaire, a dunque per mezzo d’ una Intelligenza. »

— L’ Opera di Gesù Cristo è fatta da mano divina, dirò io a mia posta, e spande sovra tutta la terra colla impressione di quella mano il carattere della sua autorità, come si esprime Bossuet: « Gli è, afferma l’empietà medesima, il più bel codice della vita perfetta, la Religione assoluta, non solamente per questa terra, ma per gli altri pianeti, se hanno degli abitanti dotati di ragione e di moralità (Renan precitato);» — « la più pura, la più completa, la più splendida manifestazione dell’Essenza divina (Proudhon precitato). » Dunque essa emana da Dio al pari della natura, però con questa superiorità, che i suoi elementi, cioè le nostre volontà e le nostre passioni, essendo libere e refrattarie, anzi scatenate e ribelli, quando Gesù Cristo vi mette la mano, attestano nell’azione che esercitano, maggior potere degli elementi inerti e servili nell’ordine fisico della creazione. È quindi rigorosamente dimostrato, per parlare ancora con Voltaire, esservi un’azione divina nel Cristianesimo e nella Chiesa, come è dimostrato esservi una intelligenza nel mondo. Mi attengo a questo (La presenza invisibile, e l’azione divina di Gesù Cristo nella Chiesa, in conformità della sua parola, cominciarono a svelarsi quando Egli disparve. Solo dopo la sua morte il Cristianesimo si manifestò; il perché non è più Gesù Cristo vivente, ma Gesù Cristo morto che cambiò il mondo. È questa una prova della sua divinità. Ciò che la fa risaltare, ed obbliga a credere nella Resurrezione del Crocifisso, e nella sua azione sovranaturale nella Chiesa si è, che dopo la sua morte niuno gli succede umanamente nella sua Autorità, ed influenza personale, per continuarne ostensibilmente l’impresa. Noi non veggiamo un capo, e direttore degli Apostoli, giacché Pietro non lo era che spiritualmente, e la sua inferiorità umana, considerando sempre le cose naturalmente, gli toglie ogni iniziativa atta a spiegare l’unità. Era un esercito senza generale, e quale impresa! Era, rimarcatelo bene, un esercito che non aveva obbedito al suo generale, quand’era vivo. Come si spiegherà questo, se non coll’assistenza soprannaturale di Gesù Cristo, generale invisibile dell’esercito apostolico, secondo quel detto: quando sarò sollevato dalla terra trarrò tutto a me! e secondo quest’ altro: Sarò con voi sino alla fine dei tempi. Questa meraviglia si sparsa in tutto l’universo, sussiste da diciotto scoli. Ne deriva per noi una prova forse maggiore di quella che fu per gli Apostoli la vista stessa di Gesù Cristo, perché di tutti i miracoli quello è il più grande. Essi videro l’Artefice, o credettero all’opera. Noi vediamo l’opera, e non crediamo all’Artefice) dopo la morte di Gesù Cristo, il progredire della Religione dall’origine del mondo fino a quella data; il popolo ebreo, le profezie, le rivoluzioni degli imperi tendenti all’unità dell’impero romano, che si sfascia; l’espettazione universale d’un Riparatore divino in quell’epoca; l’apparizione di Gesù Cristo in un tempo ed in un luogo determinati; la sua persona, la sua dottrina, i suoi miracoli; il trionfo della sua croce; la rapida conversione dell’universo alla voce di dodici navicellai; lo stabilimento del Cristianesimo sulle rovine del paganesimo per mezzo del sangue dei martiri; la Chiesa che mantiene e spiega l’unità della sua dottrina in mezzo a tutte le sottigliezze e le violenze delle eresie: i Santi di tutti gli ordini adattati ai bisogni dei tempi: il Papato sempre osteggiate e sempre stabile sovra le rovine di tutte le altre istituzioni; la civiltà moderna, i costumi, le leggi, le lettere, le arti spiccanti dal Cristianesimo, come i frutti dall’albero; questi frutti, che vivificano tutte le generazioni che se ne nutriscono, e la morte che diviene la sorte di quelle che li ripudiano; tutto ciò in esecuzione letterale di quanto fu predetto nel Vangelo da quella Parola, che risale al primo giorno del mondo per mezzo della promessa, e procede fino all’ultimo per mezzo del suo complemento; e per dirla in una sola frase, il mondo cristiano; ecco ciò che Gesù Cristo soltanto ci spiega; ecco quindi ciò che Gesù Cristo ci prova. – I Deisti, che non si piegano a sì fatta conclusione, sono, rispetto ai Cristiani, ciò che sono gli Atei rispetto ai Deisti. Spiegateci il mondo fisico senza Dio, dicono costoro ai primi: spiegateci, diciamo noi ai richiedenti, il mondo morale senza Gesù Cristo Dio; spiegateci ciascuna di quelle meraviglie, che vi ho testé indicato, e l’accordo di esse senza un intervento sovrannaturale di Dio. Voi vi provaste, e soccombeste all’impresa; e l’ultimo tentativo provocò sovra di voi l’universale riprovazione. Per confutarvi e confondervi, non abbiamo bisogno che di voi medesimi. Voi non fate che urtarvi contro gli altri, come gli uomini usciti dai denti del dragone di Cadmo: Paulus è confutato da Strauss, Strauss da Salvador, Salvador da Cohen, Cohen da Renan, e Renan da sé medesimo.

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (5)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (5)

Trad. M. T. Garutti

Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa – Catania, 7 Marzo 1957

P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur

Catanæ die 11 Martii 1957 Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO V

I PROMOTORI DI VITA CRISTIANA

Grandi educatori

Il nome di Clemente di Alessandria si presenta qui spontaneamente alla memoria. La sua apologia, detta Protreptico, contiene già l’abbozzo di un piano di formazione morale, indirizzato ai pagani per avviarli alla vita cristiana. Ma il Pedagogo è molto più adatto a questo scopo: il suo titolo lo indica; il vero educatore dell’umanità è Cristo, e questo titolo la vince sui molti altri evocati dall’autore, poiché Gesù, ai suoi occhi, è anche medico e generale e pilota. Per quanto alte siano queste ultime funzioni, che in parte vanno oltre il corpo, cedono alla sapienza che Cristo, vero Pedagogo, dona di persona a chi lo segue. Tale è l’essenza della seconda opera della Trilogia clementina e merita davvero di essere meditata da vicino, in quanto pone le basi di una educazione completamente cristiana. Gli Stremata ne espongono le grandi leggi, fino ai più alti Vertici, con una ampiezza sorprendente per quel tempo. Clemente aveva una vasta cultura letteraria, filosofica e religiosa. Egli mise tutto questo a frutto, abbondantemente, in quello studio monumentale il cui titolo indica da solo la portata dei soggetti trattati e la varietà dei toni: Straniata significa «tappezzeria», ed il contenuto risponde all’insegna. Una quantità importante di elementi classici, tratti dai poeti e dai filosofi antichi, viene qui messa a profitto per innalzare l’anima, a tappe, ad una eminente vita spirituale, fino ad un grado altissimo di perfezione. I sette Straniata non hanno nulla in comune con le Sette dimore del Castello dell’anima che un giorno Santa Teresa descriverà, attenta anzitutto a esperienze religiose intime. Il punto di vista di Clemente è del tutto diverso, malgrado alcuni incontri occasionali. La caratteristica dominante è la fede, una fede illuminata al punto da essere chiamata Scienza (gnosi), una scienza del divino; scienza legata d’altronde alla carità e di cui bisogna ben rilevare tutti i tratti distintivi, poiché essi si imporranno nella teologia come nella spiritualità dell’Oriente. – Questo punto verrà precisato nel seguente capitolo. Limitiamoci qui a qualche osservazione sul piano pedagogico, molto vicina al soggetto che trattiamo. La « gnosi », che è, per Clemente, l’ideale di ogni educazione cristiana impegnata, è la sintesi di una cultura religiosa animata dalla carità, secondo il consiglio di San Paolo (L’Apostolo raccomanda ai Galati « la fede che agisce per mezzo della carità » – Gal. V, 6), e di una certa cultura naturale, particolarmente filosofica, che può benissimo servirle di base, ma che non può da sola raggiungere la sua perfezione, neppure sul piano umano, senza quest’appoggio del soprannaturale più elevato. Questa visione profonda, per certi riguardi veramente geniale, dell’armonia di due ordini, era troppo nuova per non dover incontrare resistenze, e per presentarsi con tutte le sfumature desiderabili, che non verranno messe a punto se non dopo secoli di esitazione e di ricerche. Non era per questo meno preziosa e doveva incitare i migliori spiriti verso una profonda cultura, morale e religiosa quanto dottrinale e intellettuale. Tutto l’alessandrinismo cristiano vi era contenuto in germe. – Origene doveva riprendere l’opera di questo iniziatore e darle una nota religiosa più sentita. Nato poco dopo il 180, era troppo giovane quando il suo maestro lasciò Alessandria, nel 201, per poter aver ricevuto da lui poco più di un orientamento di base. Esso fu decisivo ma abbastanza largo per permettergli di avere la propria personalità, la quale doveva essere molto accentuata, più ancora forse di quella del suo brillante precursore. Egli fu pienamente uomo sia di preghiera che di studio, e particolarmente esegeta, votato interamente alla meditazione della Sacra Scrittura. Il suo pensiero fu dominato dal soprannaturale che vi si esprime, ed egli ne penetrò le ricchezze fino al misticismo. La sua esegesi fu pervasa soprattutto dalla ricerca ostinata dello spirito al di là della lettera, e ciò allo scopo di formare dei Cristiani perfetti, poiché, sull’esempio del suo maestro, egli fu un grande educatore, con un carattere ancora più marcato dalla fede di quello di Clemente. Il campo in cui si alimenta il suo pensiero e sul quale esso si espande, è la parola di Dio, contenuta nei Libri Santi; ma non si può fare di lui un puro esegeta, sia pure spiritualista. Egli vuole formare Cristiani completi, nel significato letterale della parola, non solo naturale, ma soprattutto cristiano, ed il suo ideale racchiude un vero misticismo. La gnosi è veramente l’eco di quella del suo maestro, con qualcosa forse di più divino ancora. L’origenismo è caratterizzato precisamente dall’amore della Scrittura e dalla ricerca del senso spirituale, il quale viene scoperto con il ricorso all’allegoria, con una ostinazione che diventa caratteristica: origenismo doveva essere sinonimo di allegorismo. Ma bisogna aggiungervi una sfumatura molto suggestiva: l’insistenza sulla vita spirituale realizzata nei membri della Chiesa nei quali si continua Cristo quaggiù, a partire dalla Pentecoste. Questo misticismo, che prolunga all’infinito quello dei tipi biblici presentati dalla Scrittura, è basato sopra un largo richiamo ai doni dello Spirito Santo. In questo campo Origene aveva avuto precursori: San Giustino, Sant’Ireneo, Clemente; ma egli li supera tutti per l’uso che ne fa nella spiegazione della perfetta vita cristiana. Dopo questi due eccellenti maestri di una superiore vita cristiana, la cui azione fu tanto felice quanto decisiva malgrado le inevitabili lacune, basterà accennare a qualche altra guida importante delle anime elette, in cerca di perfezione, nell’antichità cristiana. Queste guide furono anch’esse, a modo loro e nel senso più ampio della parola, educatrici per mezzo della sapienza della Scrittura più che della scienza dei pedagoghi ufficiali.

Forse San Cipriano (210-285) potrebbe venir posto vicino ai grandi, come maestro cristiano, in quell’Africa latina ch’egli illustrò nel III secolo è segnò profondamente nonostante la rapidità del suo passaggio. La maggior parte dei suoi scritti possono essere classificati in questo genere, persino i quattro opuscoli apologetici nei quali predomina sempre la preoccupazione morale. Questa preoccupazione è ancora più sentita in un’altra serie di opuscoli, soprattutto quelli che sono imitati da Tertulliano cui egli segretamente si ispirava e del quale attenuava saviamente le esagerazioni, preparando da lontano una riammissione dell’opera di questo grande uomo nell’alveo della vita cattolica. Egli non ebbe il suo genio, ma fu egualmente uomo di valore e di misura, qualità queste essenziali dei veri educatori. È senza dubbio per questo ch’egli fu più grande, di una grandezza coronata dal prestigio del suo martirio. – Si potrebbero citare in questa serie di educatori molti grandi nomi nel IV secolo, ma essi saranno meglio collocati altrove per il carattere generale della  azione nell’antichità. Alcuni tuttavia si impongono, soprattutto in Oriente, ricordiamo in particolare i tre Cappadoci: San Basilio, San Gregorio Nazianzeno, San  Gregorio di Nissa, di altissima cultura, certo molto diversi l’uno dall’altro, ma bene uniti dalla loro fratellanza spirituale più ancora che dai vincoli di famiglia (il secondo Gregorio era un fratello minore di Basilio). I due primi ebbero un senso molto acuto dei valori della cultura classica, e San Basilio, in uno scritto celebre (Omelia 22 – P. G., 31 -: forse bisogna vedervi un trattato (Logos) piuttosto che una omelia), insiste sulla sua utilità, non soltanto sul piano estetico, ma per la formazione morale e la comprensione della Scrittura stessa. San Giovanni Crisostomo gli fece eco, pochi anni dopo, nella vicina provincia Antiochia, ed il suo esempio giovò ancor più delle teorie. Nell’Occidente latino, la Provvidenza suscitata nella stessa epoca, imitatori di qualità, come Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Girolamo soprattutto, il quale conservò fino alla fine la preoccupazione della forma, senza danno però per la dottrina. Per la maggior parte furono oratori sacri ed è l’aspetto principile della loro azione che dobbiamo ricordare: la preoccupazione pastorale non è che domina soltanto nella catechesi, ma in tutta l’eloquenza dei Padri.

Catecheti e predicatori d’Oriente

Il catecheta per eccellenza dell’antichità cristiana in Oriente è San Cirillo di Gerusalemme. Indubbiamente il suo contemporaneo, San Gregorio di Nissa, ha scritto un « Discorso catechetico » che è celebre, ma che è un’esposizione sommaria della religione cristiana, piuttosto che un appello alla vita di preghiera. Ciò è realizzato solo in parte dal « Sacramentario » di Serapione, Vescovo di Thmuis, in Egitto, (IV secolo), il quale raccoglie preghiere di cui egli non è forse l’autore, o almeno il solo autore; in ogni caso, si limita a delle formule, senza dubbio preziose, concernenti i riti sacri, ma insufficienti. – Le Catechesi di San Cirillo (313-386), vescovo di Gerusalemme sono, al contrario, un’esposizione completa degli elementi dottrinali che servono di base diretta alla vita cristiana. I dati della fede contenuti nel simbolo (Cat. 4-18) non sono mai completamente staccati dalle applicazioni morali, al contrario formano la base di un sano insegnamento morale; ugualmente lo studio dei riti che inquadra queste esposizioni (1-3 e 19-23) non è soltanto speculativo ma pratico (Gli ultimi citati sarebbero, secondo l’attuale critica, di un successore di Cirillo a Gerusalemme, di nome Giovanni, che ha, in effetti, parlato e scritto verso la fine del IV secolo). Senza dubbio egli mette in guardia i neofiti contro gli errori correnti del suo tempo, quelli dei pagani, ebrei, samaritani, eretici, manichei. Ma ciò che più colpisce alla lettura di queste pagine è la vita di fede che vi si afferma con un accento molto affascinante. Egli è il testimonio per eccellenza della pietà palestinese nel IV secolo. Sant’Efrem (+ 373), il dolcissimo dottore siro, semplice diacono ma grandissimo oratore e poeta dall’ispirazione inesauribile, rifugiato dalla Persia a Edessa (Siria nord-orientale) negli ultimi dieci anni della sua vita, rappresenta il puro Cattolicismo tradizionale, prima delle deviazioni che produrranno nel secolo seguente le razioni cristologiche; per dei secoli, nestoriani e monofisiti si contenderanno i tronconi di quella sfortunata cristianità. Sant’Efrern è per tutti un legame con la Chiesa cattolica, di cui egli rimane la gloria più pura come asceta e moralista, e ancor più come mistico molto devotamente attaccato a Cristo Uomo-Dio, a sua Madre Maria e alla Chiesa, sua mistica sposa. Eccoci infatti le grandi linee della sua teologia vivissima e pratica. Malgrado la sua abbondanza, questa opera preziosa, per la penetrazione della dottrina ed il fervore della pietà. – Un altro siriano, occidentale questo, antiocheno, di nobile famiglia e di profonda cultura, San Giovanni Crisostomo, fu il maestro per eccellenza della predicazione cristiana in Oriente ed in tutto l’Impero. Alla sua completa formazione ellenica egli aggiunse, da una parte, la vita solitaria da lui condotta per parecchi anni sulle montagne vicino ad Antiochia, e dall’altra lo studio delle Scritture, Antico e Nuovo Testamento, particolarmente San Paolo, che gliene rivelò il senso profondo. Il Trattato del Sacerdozio, ove condensa, ancora giovane, le sue vedute sull’azione pastorale, soprattutto oratoria, dimostra ch’egli l’aveva lungamente meditata nei suoi principi: egli mette sempre alla base dell’apostolato cristiano la preghiera e lo studio. Trascurare ciò, sarebbe falsare la sua dottrina. Segnaliamo d’altronde il pericolo d’un doppio scoglio. Bisogna star attenti anzitutto a non fare del santo un erudito, perché è di Antiochia, oppure uno speculativo, perché è Orientale. In verità, egli ha un senso dottrinale assai acuto: saprà, all’occasione, confondere i filosofi ariani, le cui arguzie rovinano la fede. Bisognerà evitare d’altra parte di attribuirgli una esclusiva preoccupazione dell’azione che ne faccia una guida empirica, senza profondità dottrinale, ciò che sarebbe un tradimento della sua personalità. – Evidentemente San Crisostomo ha un senso morale molto acuto, ma fondato sopra una dottrina profonda e viva. Egli è un gran discepolo di San Paolo, ed i suoi commenti, sempre luminosi e affascinanti, sono richiami incomparabili alla vita di fede. Senza dubbio egli ripete in termini propri o equivalenti, che Dio è ineffabile o impenetrabile, ciò che conduce all’adorazione rispettosa, più che all’intimità affettiva. La venerazione è, in lui, associata al sentimento generale provocato dalla grandezza di Dio, oggetto tanto di ammirazione quanto di amore. Essa è accompagnata dallo stupore, dall’angoscia, dalla vertigine, dal timore, dal tremore, dal terrore; altrettante formule familiari al Santo. La natura divina ch’egli predica, non ha nulla dell’astrazione; è posta molto in alto, al di sopra del creato, in una vera trascendenza e tuttavia « sperimentata come una presenza terribilmente reale » (Otto). Queste tendenze sono d’altronde temperate da altri sentimenti familiari all’oratore d’Antiochia, in particolare la giustizia e la bontà: essi sono descritti con altrettanta poesia e calore e sono difese con energia contro i manichei. La dottrina paolina della grazia è meno precisa che presso Agostino, ma è ben chiara, fino alla distinzione di due volontà in Dio a proposito dei peccatori: una è che non periscano (volontà prima); l’altra ch’essi siano puniti (volontà seconda). Questo pastore e grande maestro di vita cristiana aveva il dovere di insistere sui riti sacramentali: i sacramenti principali difatti, sono largamente raccomandati, l’eucaristia soprattutto che occupa largo posto nella sua opera, tanto che lo si è potuto chiamare « Dottore eucaristico ». Il suo realismo in questo campo è persino ardito, quasi esagerato: « Non vedremo soltanto il nostro Salvatore, ma lo prenderemo addirittura nelle nostre mani, lo mangeremo, stritoleremo la sua carne, ci uniremo a lui nel modo più intimo… Ciò che il Salvatore in Croce non ha sofferto (sentite lo spezzarsi totale delle sue ossa), Egli lo soffre ora nel Sacrificio per amor vostro, e si lascia ridurre in briciole per saziarci tutti ». S. Giovanni Crisostomo supera di molto, su questo tema la catechesi di S. Cirillo di Gerusalemme e persino quella di S. Gregorio di Nissa. Bisogna tuttavia tener presente che in questi testi l’oratore mira meno ad esporre il mistero quanto a stimolare i fedeli già istruiti della dottrina corrente. – Dal V secolo la Chiesa Bizantina ha coltivato l’omelia più della catechesi, e si possono segnalare in modo particolare le omelie mariali, di cui, nel XX secolo, sono stati pubblicati molti testi nuovi. Esse sono i testimoni di un reale progresso della devozione verso Madre di Dio: la sua Immacolata Concezione e la sua Assunzione vi sono insegnate in modo chiaro, benché implicito il più delle volte. Fra gli oratori più in vista in questo campo, bisogna citare quelli dell’VIII secolo, particolarmente San Germano, patriarca di Costantinopoli, Sant’Andrea di Creta, metropolita di Gortyne, San Giovanni Damasceno, prete di Gerusalemme, l’ultimo dottore della Chiesa orientale, difensore delle immagini e del culto mariano. – Un grande monaco bizantino, San Teodoro Studita, alla fine dell’VIII secolo ed al principio del IX, fece eco a tutti, su un piano catechetico superiore, poiché egli nelle sue Catechesi, la Piccola come la Grande, si rivolgeva ad una élite di monaci. Meno dottrinale degli antichi, peoccupato soprattutto del progredire spirituale dei monaci, e dei fedeli, che allora si mantenevano in intima comunione con essi, egli è un’eco prolungata della vita cristiana bizantina, alla vigilia del ripiegamento che sta per prodursi laggiù, con pregiudizio della piena cattolicità, gloria dell’antica Chiesa d’Oriente.

Oratori e Pastori in Occidente

Il maestro per eccellenza della catechesi latina, teorica e pratica, è sempre Sant’Agostino, e bisogna riavvicinarlo a San Giovanni Crisostomo, del quale egli fu, in Occidente, il pio emulo, se non l’eco, poiché non lo conobbe bene che sul tardi. S. Agostino ha scritto sulla formazione dei neofiti (De Catechizandis rudibus) dopo avere, da un punto di vista più generale, trattato del modo di predicare la parola di Dio, nel primo libro della Dottrina cristiana. Secondo lui l’eloquenza è secondaria: ciò che conta anzitutto è la fede viva nel Dio in tre Persone, che esce dalla sua alta trascendenza per darsi a noi nella creazione, nell’Incarnazione redentrice, e nella Chiesa animata dallo Spirito Santo; a condizione che tutto sia vissuto da noi nella Carità, di cui egli espone i principi all’inizio dell’operetta sulla Dottrina cristiana. I tre libri che seguono la completano sotto diversi punti di vista: ma è l’attività oratoria di Sant’Agostino che ne è il miglior commento, un commento dalle ricchezze infinite. Limitiamoci a qualche sguardo d’insieme. – Le sorgenti della dottrina di Agostino devono spesso essere cercate nell’Antico Testamento, che gli ha fornito il tema per 50 prediche generali e per le 200 omelie sui salmi (Enarrationes), vere esposizioni di vita cristiana intensa, forse le più ricche della sua opera oratoria. Tuttavia le omelie su San Giovanni (Tractatus: 124 sul Vangelo, e 10 sulla prima Epistola) sono più accessibili. Bisogna aggiungervi le innumerevoli prediche ordinarie (più di 500) su un tema particolare, sia dell’Antico Testamento che del Nuovo (circa 150), sia della liturgia o dei santi, sia dei più diversi soggetti dottrinali. – La predicazione agostiniana ha come propria caratteristica l’insistenza sulla fede come principio di vita. Per questo Dottore, la sorgente per eccellenza di insegnamento è la fede, vale a dire la Santissima Trinità, Cristo, la Chiesa sotto ogni aspetto: è la teologià, in una parola, se si lascia a questo termine il significato degli antichi, meno preoccupati di ricerche speculative che di applicazioni vitali. La formazione alla devozione è in lui inseparabile dal dogma e in particolare dal Cristo vivente nella Chiesa. I suoi commenti sui Salmi, opera dell’Antico Testamento, sono illuminanti a questo riguardo; con maggior ragione si troverà questa nota nei trattati su San Giovanni, Vangelo dottrinale per eccellenza, in cui il santo unisce alla perfezione i doni speculativi e le preoccupazioni morali, spinte d’altronde fino all’ascesi, con una purissima ed altissima e soavissima nota mistica. – Un elemento domina l’insieme di quest’opera pastorale: l’amore di Dio. Di tutti i titoli che sono stati dati a Sant’Agostino, il più importante forse, e il più popolare, è quello di Dottore della carità, generalmente espresso da un cuore dal quale scaturiscono fiamme. La carità appare molte volte nelle esposizioni dottrinali precedenti. Essa si manifesta ancor più nella morale di cui è l’anima, sia che si considerino le comuni regole, oggetto della Morale propriamente detta, sia che si ricerchino i mezzi speciali per mirare alla perfezione (Ascetismo), e ancor più i doni superiori concessi per compiere l’opera di perfezione (Mistica); quest’ultimo titolo è il più importante, e l’argomento verrà ripreso nel capitolo seguente. – Per quanto grande egli sia stato, Sant’Agostino non può farci dimenticare altri pastori che furono potenti maestri di vita cristiana in Occidente. Sant’Ambrogio è il più conosciuto e senza discussione il più eminente. Egli fu il padre di Agostino nella fede: il suo insegnamento pubblico a Milano fece impressione sul retore scettico e diffidente che vi arrivò nel 384 e che, due  anni più tardi, era pienamente trasformato, grazie a quella parola forte e illuminante, che andava diritta al cuore dei grandi problemi dottrinali e morali che lo tormentavano. Ambrogio era anzitutto un uomo di azione e un moralista. Non era chiuso alla filosofia, particolarmente a quella di Plotino, che pareva dare allora le ali allo stoicismo trionfante negli ambienti romani colti dell’epoca. Era pure attratto dalla speculazione orientale di un Origene, ma metteva sempre l’accento sulla nota morale, che conveniva al suo carattere e alla sua missione; egli ebbe una funzione provvidenziale: quella di fornire all’Occidente una dottrina cristiana sicura e viva nel campo morale, tanto necessaria in quell’epoca di transizione. Egli preparava così la via a Sant’Agostino, il quale era destinato ad approfondire quest’opera e a fissarla, estendendola in ogni campo, alla vigilia dei grandi cataclismi che si annunciavano al centro dell’Impero. – Nel secolo seguente San Leone Magno rappresenterà la catechesi cristiana sotto la più alta forma, quella dell’insegnamento dato dal Pastore supremo: poiché le prediche che ci rimangono di quel grande Pontefice, un centinaio, hanno tutte come scopo diretto quello di arricchire e rafforzare la fede dei fedeli, sia che li spinga all’ascesi (digiuni), sia che esalti i misteri, sia che evochi i privilegi della Chiesa romana ch’egli ha la missione di governare nel nome di Cristo, col titolo di successore di Pietro. – La vita e la passione del Salvatore sono normalmente l’essenza delle sue esposizioni dottrinali, opere di pastore più che di teologo speculativo. I soggetti morali l’attirano d’istinto. Si citano di lui molte pagine sull’esame di coscienza, il demonio, la concupiscenza, la preghiera, la fede e la carità, queste due ali del Cristiano (predica 45, 2), l’infanzia spirituale (predica 37, 3). Egli non dimentica certo la grazia, della quale parla in molte pagine alla maniera di Sant’Agostino, ma senza trascurare il dovere di cooperare alla grazia, di amare e di cercare Colui che, per primo ci ha amati e cercati. Il suo zelo si traduce spesso in incalzanti esortazioni alla lotta contro le passioni ed all’azione per amore di Dio. Egli ha formulato la grande legge del progresso così spesso ripresa dai direttori spirituali: « Chi non avanza indietreggia e chi non acquista nulla, perde qualcosa » (qui non proficit deficit et qui non acquirit, non nihil perdit). – Almeno due oratori contemporanei di San Leone che onoravano pure la Chiesa d’Italia con la loro eloquenza apostolica, devono essere citati qui: San Pietro Crisologo, del quale rimangono 176 prediche,  San Massimo di Torino, che ne ha lasciate circa 270. – Ma i più conosciuti fra quelli che esercitarono una grande influenza pastorale, fra San Leone e San Gregorio il Grande, è San Cesario di Arles, che fu per 40 anni (503-543), vescovo di questa sede primaziale del sud della Gallia. Più che uno speculativo, egli fu un organizzatore e un uomo di azione. Si ispira dovunque a Sant’Agostino, particolarmente nelle sue prediche che spesso citano letteralmente il grande dottore africano; perciò dai primi editori sono state fatte molte confusioni. Il suo stile, senza essere scorretto, è dei più   semplici; l’oratore non indietreggia davanti alle espressioni rozze, perché, egli spiega, tutto « il gregge del Signore possa ricevere il nutrimento celeste in un linguaggio semplice, e poiché gli ignoranti non possono sollevarsi all’altezza dei sapienti, bisogna che i sapienti si degnino abbassarsi all’ignoranza dei loro fratelli. » Le prediche sui misteri, le omelie sulla Scrittura sono di un tono più elevato, ma l’insieme della sua predicazione mantiene un carattere pratico molto accentuato. – San Gregorio Magno (540-604) fu, a suo tempo un’eco lontana delle grandi voci di Sant’Agostino e di San Leone Magno, un’eco lontana sotto tutti i punti di vista, ma ben percettibile, malgrado il caos nel quale si dibatte l’Italia, tutto l’Occidente, in quel tempo. Egli si ispira ad Agostino per la dottrina, sui punti che possano illuminare opportunamente, in un’epoca di terrore come la sua, le grandissime verità dogmatiche sulle quali riposa la morale cristiana tradizionale con tutte le sue esigenze. Egli insiste non solo sulle dottrine di base, ma su quelle di un alto ideale spirituale. Durante i suoi quattordici anni di pontificato (590-604) si adoperò costantemente per presentare questo ideale cristiano in modo tangibile a tutta la Chiesa, non solo all’Occidente che lavora a convertire i barbari, ma all’Oriente imperiale ostacolato da uno statalismo sempre più invadente. Su uno o sull’altro piano, egli è stato un vero promotore di vita cristiana intensa nel suo tempo. – La sua predicazione, conosciuta attraverso una sessantina di omelie, su vari testi di Ezechiele e dei Vangeli, mostra, nel Papa, eletto da poco, la preoccupazione predominante di edificare i fedeli, illuminandoli. Questa preoccupazione spirituale si afferma ancor più nelle Moralia, vasto trattato d’ascesi e di mistica fondato sul testo di Giobbe, ma tratto, in effetti, dall’esperienza dei santi e dallo zelo apostolico del Pontefice. I fatti e i testi sono sempre orientati verso applicazioni pratiche, destinate a condurre le anime generose ad una vera contemplazione, in cui Dio si mostra all’anima per innalzarla a un amore purissimo o a un servizio divino sempre più generoso. In verità San Gregorio fu, con questi scritti, un animatore della vita perfetta, tanto nei preti, ch’egli ha specialmente in vista nel suo Pastorale, quanto nei monaci, che egli raggruppa, come meglio può, intorno a San Benedetto, al quale dedica un libro intero dei suoi Dialoghi così popolari. – Ancora in Italia, poco prima di San Gregorio si era distinto alla corte di Teodorico, vicino a Boezio e più a lungo di lui, Cassiodoro, una specie di ministro dell’interno, erudito in storia, grande educatore dei Goti, stabilitisi sul suolo dell’impero. A 60 anni, nel  540, egli si ritirò in un monastero da lui fondato, e fino alla sua morte (570) continuò la sua opera di educatore, in profondità, dei barbari insediati in Italia. Morì in odore di santità; tuttavia non è mai stato oggetto di un vero cullo, come Boezio a Pavia. È piuttosto la figura di un erudito che di un santo. Con il gusto delle lettere si avvicina a Boezio, dal quale si distingue per tutto il resto. Mentre Boezio è un filosofo e uno speculativo, Cassiodoro è, anzitutto, pratico. È meno preoccupato delle idee astratte che della formazione intellettuale c morale, utilizzando, d’altronde, per raggiungere il suo scopo, tanto gli antichi scritti degli autori pagani quanto le opere ecclesiastiche. Egli le ha spesso citate, le une e le altre, ed i servizi che ha reso cosi alla cultura medioevale sono immensi. –  Sant’Isidoro, arcivescovo di Siviglia (+ 636), è certamente il più grande scrittore spagnolo dell’antichità. – Egli ebbe un’influenza nazionale, decisiva nei concili di ordine religioso e politico. Fu un restauratore degli studi, dopo l’insediamento dei nuovi popoli nel paese. Scrittore instancabile, tratta di tutto in innumerevoli opere, alcune delle quali sono vere cnciclopedie. Molte sono consacrate alla Scrittura, alla storia, alla Chiesa. Egli è più erudito che pensatore originale, ma da questo punto di vista la sua funzione fu decisiva e lo colloca tra i grandi educatori del medioevo. Tutta  la sua scienza gli viene dal passato; da Sant’Agostino e da San Gregorio ha attinto la sua dottrina teologica ed ascetica, come ha attinto a piene mani nei tesori delle letterature antiche. Egli era, d’altronde, straordinariamente dotato per questa funzione di compilatore, e forse è stato addirittura il più grande che sia mai esistito. Ad una intelligenza molto aperta e ad una memoria sicura, egli univa una grande facilità di esposizione chiara e rapida; e benché adoperi una lingua, corrotta da un enorme apporto di parole straniere, ha spesso dato definizioni di una precisione meravigliosa, meritando di’essere dichiarato Dottore della Chiesa. In Inghilterra, Beda il Venerabile nel secolo seguente ha ottenuto lo stesso titolo, con meriti molto diversi. All’infuori di qualche scritto didattico, la sua opera è profondamente e prevalentemente religiosa; persino la sua storia della nazione inglese, risente di queste preoccupazioni. Notissimi i suoi commenti sul Nuovo e Antico Testamento che spiegò quasi per intero. Egli fu un vero promotore di vita cristiana prima nei monasteri, e poi al di fuori di essi: è spesso l’eco fedele di Sant’Agostino o di San Girolamo. Altrove, egli è più personale con quella tendenza al misticismo che lo rese famoso e popolare nel medioevo. Egli è l’ultimo degli antichi dottori dell’Occidente.