DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi

Durante la festa di Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la manifestazione dello Spirito Santo e la liturgia di questo giorno ce ne mostra le felici conseguenze. Questo Spirito ci rende figli di Dio, tanto che possiamo dire in tutta verità: Padre nostro; siamo quindi assicurati dell’eredità del cielo (Ep.): ma per questo bisogna che, vivendo per opera di Dio, noi viviamo secondo Dio (Oraz.) lasciandoci indurre in tutto dallo Spirito di Dio (Ep.), cosi Egli ci accoglierà un giorno nei tabernacoli eterni (Vang.). Sta qui la vera sapienza di cui ci parla la storia di Salomone, della quale in questa settimana si continua la lettura nel Breviario; qui sta la grande opera alla quale il re dedicò tutta la sua vita. – Salomone costruì il Tempio del Signore nella città di Gerusalemme, secondo la volontà di David suo padre, che non aveva potuto edificarlo egli stesso per le continue guerre che i nemici gli avevano mosso contro. Salomone impiegò tre anni a preparare il materiale, cioè le pietre che ottantamila uomini estraevano dalle cave di Gerusalemme e il legno di cedri e cipressi che trentamila uomini abbattevano sul Libano nel regno dell’Iram (V. Domenica prec.). – Quando tutto fu pronto si cominciò, nel 480° anno dopo l’uscita dall’Egitto, la costruzione che durò sette anni. Pietre da taglio, legno e fregi ornamentali erano stati così esattamente misurati prima, che i lavori si compivano nel più grande silenzio. Nella casa di Dio non si sentiva colpo di martello, né ascia, né altro strumento di ferro durante il tempo che si edificava. Salomone prese come piano quello del tabernacolo di Mosè; ma gli diede proporzioni più vaste e vi accumulò tutte le ricchezze che poté. I soffitti e i pavimenti di legni preziosi erano rivestiti da placche di oro, gli altari e le tavole erano ricoperti di oro, i candelabri e i vasi erano di oro massiccio. Tutte le mura del tempio erano ornate da cherubini e da palmizi coperti di oro. A lavori terminati, Salomone consacrò con grande solennità questo Tempio al Signore. In presenza di tutti gli Anziani di Israele e di un popolo immenso appartenente alle dodici tribù, i sacerdoti trasportavano l’Arca dell’alleanza nella quale si trovavano le tavole della legge di Mosè, sotto le ali spiegate di due cherubini, ricoperte di oro e alte dieci cubiti, che si innalzavano nel santuario. Si immolarono anche migliaia di pecore e di buoi e, quando i sacerdoti uscirono dal Sancta Sanctorum, una nube riempì la casa del Signore. Allora Salomone levando gli occhi verso il cielo, domandò a Dio di ascoltare le suppliche di tutti quelli, Israeliti o estranei, che sarebbero venuti in differenti circostanze, felici o infelici, nella loro vita, a pregarlo in questo luogo che era stato a Lui consacrato. Gli domandò anche di esaudire tutti quelli che, con la faccia rivolta verso Gerusalemme e verso il Tempio, gli avrebbero indirizzato le loro suppliche, per mostrare che Egli aveva scelta questa casa per sua residenza e che non vi era in nessun luogo altro Dio, che quello d’Israele. – Le feste della Consacrazione del Tempio durarono quattordici giorni in mezzo a sacrifici e banchetti sacri. E il popolo se ne tornò benedicendo il re e sentendo riconoscenza per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele dal giorno dell’alleanza sul Sinai. Il Signore apparve allora una seconda volta a Salomone e gli disse: « Ho esaudita la tua preghiera, ho scelto e benedetto il tempio che mi hai innalzato; là saranno sempre i miei occhi e il mio cuore per vegliare sul mio popolo fedele ». Nella Messa di questo giorno la Chiesa canta alcuni versetti di sei Salmi differenti che riassumono tutti espressi da Salomone nella sua preghiera: « Il Signore è grande e degno di lode nella città del nostro Dio, sulla sua montagna santa » (l’Intr., Alt.). « Chi è dunque Dio se non il Signore?» (Off.). È nel suo tempio che si riceve la manifestazione della sua misericordia » (Intr.) e che « si prova e si sente quanto il Signore sia dolce » (Com.), poiché Egli è « per tutti quelli che sperano in Lui, un Dio protettore e un luogo di rifugio » (Grad.), — Come il regno di Salomone fu una specie di abbozzo e di figura del regno di Cristo (2° Nott.), cosi il tempio che egli innalzò a Gerusalemme non fu che una figura del cielo nel quale Dio risiede ed esaudisce le preghiere degli uomini. È sulla montagna santa e nella città di Dio (All.) che noi andremo un giorno a lodarlo per sempre. L’Epistola ci dice che se noi vivremo di Spirito Santo, facendo morire in noi le opere della carne saremo figli di Dio, e che da quel momento, eredi di Dio e coeredi di Cristo, entreremo nel cielo che è il luogo della nostra eredità. Ed il Vangelo completa questo pensiero dicendoci, sotto forma di una parabola, quale sia l’uso che dobbiamo fare delle ricchezze d’iniquità per assicurarci l’entrata nei tabernacoli eterni. Un fattore infedele, accusato di aver dissipato i beni del padrone, si procura degli amici con i beni che questi gli aveva affidato, per avere, dopo essere stato cacciato, « persone pronte ad accoglierlo nelle proprie case ». I figli della luce, dice Gesù, contendano per zelo coi figli del secolo, e, imitando la previdenza di questo fattore, utilizzino i beni, che Dio ha messi, a disposizione loro per venire in. aiuto dei bisognosi e si facciano amici nel cielo, perché quelli che avranno sopportato cristianamente le privazioni sulla terra, entreranno lassù e renderanno testimonianza ai loro benefattori nel momento in cui tutti dovranno rendere conto al divino Giudice della loro amministrazione (Vang.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus.

[Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; così che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

(“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”).

Che grande parola ha detto il Cristianesimo agli uomini quando ha detto loro: voi siete figli di Dio! Fuori del Cristianesimo, osservate, l’uomo o è avvilito o è adulato. Gli spregiatori dicono all’uomo: sei una scimmia, appena un poco più perfezionato. Gli adulatori dicono: sei un Dio, sei Dio… E gli uni e gli altri dicono parole che hanno sapore di falsità e riescono moralmente funeste; perché è funesta l’abbiezione del bruto, come è funesto l’orgoglio di un falso iddio, di un idolo. Il Cristianesimo appaga e non solletica i nostri istinti, le nostre aspirazioni di grandezza, quando ci dice: voi siete figli di Dio. Purtroppo noi abbiamo fatto l’abitudine a questa parola, ed essa, che dovrebbe riempirci di gioia e di legittimo orgoglio, per poco non ci lascia indifferenti. – Ma non fu così per le prime generazioni cristiane. San Paolo si esalta, si entusiasma analizzando e quasi assaporando la frase. Per meglio gustarla e illuminarla, Paolo contrappone la sorte nostra, di noi Cristiani, a quella dei Giudei, che furono pure per tutto il mondo antico, e prima che venisse Gesù, i depositari della religione vera. Ma quella loro religione era pervasa da un suo spirito, perché dominata da una sua idea. Lo spirito onde l’anima giudaica era pervasa nel suo momento religioso, ben s’intende, era spirito di timore, anzi di timore servile, perché per il fedele giudeo cresciuto alla scuola di Mosè e della sua Legge, Dio era il Padrone, il grande, il vero padrone, il Re, il Sovrano, alla guisa orientale. L’anima, davanti a quel padrone, temeva e tremava. Era la forza specifica della sua adorazione. San Paolo ne aveva fatta l’esperienza: aveva tremato anche lui e sofferto insieme e goduto di quel timore. Più sofferto che goduto, perché la sua anima avrebbe voluto aprirsi a sensi più nobili, come sono i sensi dell’affetto. Ma la vecchia legge non glielo consentiva. Ed ecco sopraggiungere Gesù, non più semplice profeta, e servo, ma Figlio di Dio veracemente, propriamente. Ed ecco annunziare agli uomini, coll’autorità sua di Figlio, che Dio è per noi e vuole essere Padre « Pater noster; » Padre già per diritto e fatto di creazione, ma assai più e meglio per diritto e fatto di redenzione; Padre dacchè ci ha dato per fratello vero il vero e unico suo Figlio. – Chiamarsi così per noi non è più una usurpazione — come non fu usurpazione per Gesù il dirsi eguale al Padre — o una metafora: è un diritto. Guardate — dirà un altro Apostolo agli stessi primi Cristiani, — quale carità ci ha usato il Signore, dandoci nome e realtà di suoi figlioli: «ut filì Dei nominemur et simus ». Il Cristianesimo ha fatto e fa lievitare in noi, in noi esalta tutti quegli elementi che già costituiscono un fondo di sbiadita rassomiglianza con Dio. Esalta col lume della fede il lume dell’intelletto, orma di Dio nella nostra anima; ci solleva a quelle verità che sono il segreto di Dio, che nessuno dei principi di questo mondo sarebbe arrivato a scoprire. Esalta la nostra coscienza e la spinge a desiderare e volere forme nuove e più atte al bene. È qui anzi, nella fornace dell’amore al bene, della carità, che si compie questa meravigliosa trasformazione del Cristiano, in figlio di Dio, simile — non uguale, privilegio questo di Gesù Cristo — simile al Padre. Trasformazione dovuta alla grazia, ma alla cui completa realizzazione noi dobbiamo collaborare, operando da figli di Dio. I filosofi dicono che l’opera segue l’essere e lo dimostrano. « Operari seguitur esse ». Siamo figli di Dio! E operiamo allora da figli di Dio, non da estranei, non da nemici. Siano divine le nostre opere, sia divina la nostra condotta. Per fortuna, quale sia la divina condotta di un uomo noi lo sappiamo, guardando a N. S. Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. Verrebbe voglia di riepilogare con parola evangelica questa condotta divina, superiore sovrannaturale in un binomio: spirito e verità. Seguiamo le ispirazioni dello spirito e non le suggestioni della carne; queste fanno l’uomo animale, bruto, inferiore, degenere; lo spirito, al contrario, ci dà l’uomo superiore, spirituale. E della verità siamo solleciti ed entusiasti: Dio in ciascuno di noi… Se procederemo così secondo spirito e verità, avremo la soddisfazione arcana e profonda di sentirci davvero figli di Dio: quello che pareva sogno superbo, sarà diventato per noi realtà consolante.

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.]

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps LXX: 1 V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XLVII: 2

Alleluja, Alleluja

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja.

[Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula

 (“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando venghiate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni”).

Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sul giudizio particolare.

Redde rationem villicationis tuæ.

(Luc. XVI, 2).

Possiamo seriamente riflettere, Fratelli miei, sulla severità del giudizio di Dio, senza sentirci presi da vivo timore? Ecchè! F. M., i giorni delia nostra vita, sono contati; e per di più ignoriamo l’ora ed il momento in cui il nostro Giudice Supremo ci chiamerà al suo tribunale, e forse quel momento sarà quello in cui meno vi penseremo, e saremo meno disposti a rendere questo terribile conto!… Vi assicuro, F. M., che pensandovi bene, ci sarebbe da darsi alla disperazione, se la religione non ci insegnasse che possiamo render meno terribile questo momento con una vita la quale possa sempre farci sperare che il buon Dio avrà pietà di noi. Badiamo bene, F. M., di non trovarci imbarazzati in quel momento, come quel fattore di cui Gesù Cristo ci parla nell’Evangelo. Vi mostrerò dunque, F. M.:

1° che v’è un giudizio particolare in cui renderemo esattissimo conto del bene e del male che avremo fatto;

2° quali sono i mezzi che dobbiamo usare per prevenire il rigore di questo conto.

I. — Noi tutti sappiamo, F . M., che saremo giudicati due volte: una volta nel gran giorno delle vendette, cioè alla fine del mondo, quando davanti all’universo intero, le nostre azioni buone o cattive, saranno a tutti manifeste. Ma prima di quel giorno terribile e sventurato pei peccatori, avremo subito un giudizio al momento della nostra morte, dopo esalato l’ultimo respiro. Sì. F. M., la sorte dell’uomo sta tutta in queste tre parole: vivere, morire ed essere giudicato. È una legge fissa ed invariabile per tutti gli uomini. Noi nasciamo per morire, moriamo per essere giudicati, e questo giudizio deciderà della nostra felicità eterna o della nostra eterna sventura. – Il giudizio universale in cui tutti compariremo, non sarà che la pubblicazione della sentenza particolare pronunciata subito dopo la nostra morte. Voi tutti sapete che Dio ha contato i nostri anni (Breves dies hominis sunt; numerus mensium ejus apud te est – Job xiv, 5), ed in questo numero d’anni, che Egli ha fissato d’accordarci, ne ha segnato uno che sarà l’ultimo per noi; in quest’ultimo anno un ultimo mese; in quest’ultimo mese un ultimo giorno, ed in questo giorno un’ultima ora, dopo la quale non vi sarà più tempo per noi. Ahimè! che ne sarà di quel peccatore e di quell’empio che si promettono sempre una vita più lunga? Aspettino pure, poveri disgraziati, fin che vogliono; dopo quest’ultima ora non vi sarà più ritorno, non più speranza, non più rimedio! Nello stesso istante. M. F. ascoltate bene voi che non temete di passare i vostri giorni nel peccato, nello stesso istante in cui l’anima si separerà dal vostro corpo, essa sarà giudicata. — Ma, mi direte, lo sappiamo. — Sì, ma non lo credete. Ditemi, se lo credeste seriamente, come potreste restare in uno stato che vi mette nel continuo pericolo di cadere nell’inferno? No, no, amico mio, voi non lo credete; perché se lo credeste, non vi esporreste ad una sì grande disgrazia. Verrà il momento che il buon Dio applicherà sul vostro debito l’impronta della sua immortalità ed il sigillo della sua eternità, e quel sigillo e quell’impronta non saranno levati mai più. O  momento terribile! eppure così poco meditato, così breve e così lungo, che vola con tanta rapidità, e che trascina con sé un susseguirsi spaventoso di secoli! Che cosa ci avverrà dunque in questo momento che tanto fa orrore? Ahimè F. M., compariremo tutti, ciascuno in particolare, davanti al tribunale di Gesù Cristo, per esservi giudicati, e render conto del bene e del male che avremo fatto. Il giudizio particolare, F. M., è così certo, che il buon Dio per convincercene, ne ha fatto scorgere i segni a parecchi quand’erano ancor vivi, affinché noi vi ci preparassimo.Leggiamo nella storia che un giovane libertino si era dato ad ogni sorta di vizi; ma essendo stato istruito da una pia madre, una notte che teneva dietro al giorno in cui era caduto nei più gravi eccessi, fece un sogno. Si vide trasportato al tribunale di Dio. Non si può dire quale fu la sua vergogna, la sua confusione e l’amarezza della sua anima. Quando si svegliò aveva una febbre ardente, sudava ed era fuori di sé, i suoi capelli erano diventati bianchi. “Lasciatemi solo, diceva, sciogliendosi in lagrime, a quelli che pei primi lo videro in quello stato, lasciatemi solo; ho visto il mio Giudice. Ah! quanto è terribile! Perdono, Dio mio! perdono!„ I suoi compagni di stravizi, sentendo che il loro amico era ammalato e si desolava, vennero per confortarlo. “Ritiratevi da me, diceva loro, voi non siete più i miei amici, non vi voglio più. Ah! ho visto il mio Giudice. Ah! quant’è terribile! Di quanta maestà! di quanta gloria è rivestito! Ah! quante accuse e domande, alle quali non ho potuto rispondere! Tutti i miei delitti sono scritti; li ho letti tutti! Ah! quanto grande ne è il numero! Solo ora ne conosco tutta l’enormità! Ahimè! Ho visto una schiera di demoni, i quali non aspettavano che il segno per trascinarmi nell’inferno. Ritiratevi, falsi amici, non voglio più vedervi! Quanto sarei felice, se potessi, coi rigori della penitenza, placare un Giudice così terribile! Ahimè! ben presto dovrò presentarmigli davvero! forse oggi stesso!… Dio mio, perdonatemi!… Dio mio, usatemi misericordia!… Ah! di grazia, non perdetemi, abbiate pietà di me!… Farò penitenza per tutta la mia vita. Oh! quanti peccati ho commesso! Quante grazie disprezzate!… quanto bene avrei potuto fare e non ho fatto!… Dio mio, non gettatemi nell’inferno!„ E non si fermò lì, F. M. Passò il resto della sua vita a piangere e far penitenza. Quanto sarà terribile questo momento, F. M., per chi non avrà fatto alcun bene e molto male. Sì, F. M., renderemo conto di tutte le nostre azioni, buone e cattive: tutto comparirà davanti al nostro giudice nel momento in cui l’anima si separerà dal nostro corpo. Sì, F. M., il buon Dio si farà render conto dei beni che abbiamo ricevuti. Vi sono i beni di natura, di fortuna e di grazia. Tutti questi beni entreranno nel conto. I beni di natura riguardano il corpo e l’anima; bisognerà render conto dell’uso che avremo fatto del nostro corpo. Domanderà il Giudice se avremo usate le nostre forze a render servizi al nostro prossimo, a lavorare per avere di che far elemosine, a far penitenza, a visitare i luoghi privilegiati dal buon Dio (come Nostra Signora di Fourvière, S. Francesco Regis ed altri). Ma, se invece, non abbiamo usato della nostra salute e del nostro corpo, che per correre ai divertimenti, alle osterie, per derubare il prossimo, per lavorare alla domenica, per viaggiare in questi santi giorni, invece di passarli nel pregare, onorare il buon Dio, istruire gli ignoranti, dar loro buoni consigli, condurli a Dio ed allontanarli dal male… Esaminerà poi se non ci siamo serviti della nostra intelligenza pel male: cioè per istruirci di cose cattive. Se abbiamo letto libri perversi, frequentato gli empi, insegnata la malizia agli altri. Se ce ne siamo serviti per ingannare nelle vendite e nelle compere, per giurare il falso, suscitare liti, indurre altri a vendicarsi, a parlar male della religione, a insegnar loro cose empie: come, per esempio, voler far loro credere che la religione non è buona, che tutto ciò che si dice non è vero, che i preti dicono ciò che vogliono. Ed esaminerà altresì se abbiamo usato la nostra intelligenza per comporre cattive canzoni contro la purità, contro l’onor del prossimo; se abbiamo comunicato ad altri le nostre cattive cognizioni. Ci domanderà se ci siamo serviti della nostra mente per istruirci; se ci siamo invaniti della bellezza del nostro corpo, invece d’ammirare in noi la sapienza e la potenza di Dio. Se ce ne siamo serviti per indurre gli altri al male; come per esempio, chi si veste in modo d’attirare su di sé gli occhi altrui. Dio ci domanderà se abbiamo bene usato di ciò che ci ha dato, ricordandoci che noi non siamo che amministratori, e che tutto ciò di cui avremo usato male ci verrà imputato a colpa. Allora il buon Dio farà vedere a quei padri ed a quelle madri tutti gli oggetti di vanità che essi hanno comperato ai loro figli, e che servirono soltanto a perdere la loro anima; mostrerà loro tutto quel denaro consumato nei divertimenti, nelle osterie, nelle danze ed in tutte le altre spese inutili. E poi tutto ciò che abbiamo lasciato andar a male e che avremmo potuto dare ai poveri. Ahimè! quanti peccati ai quali non avremmo mai pensato, e che ora non vogliamo riconoscere; ma che in quel momento riconosceremo, troppo tardi! Veniamo ora, F. M., ad un altro conto ben più terribile, quello della grazia. Il buon Dio comincerà a mostrarci i benefizi accordatici, facendoci nascere nel seno della Chiesa cattolica; mentre tanti altri sono nati e morti fuori di essa, Ci farà vedere che anche tra i Cristiani, un numero infinito sono morti senza aver ricevuta la grazia del Battesimo. Ci farà vedere per quant’anni, mesi, settimane, giorni, ci ha conservata la vita mentre eravamo nel peccato; e che se, in quel momento, ci avesse fatto morire, saremmo stati precipitati nell’inferno. Ci metterà davanti agli occhi tutti i buoni pensieri, tutte le buone ispirazioni, i buoni desideri che ci ha dato durante la nostra vita. Ahimè! quante grazie disprezzate! Ci ricorderà tutte le istruzioni ricevute e sentite; tutte le letture messe a nostra disposizione affinché ne approfittassimo. Tutte lo nostre confessioni, le comunioni, e tante altre grazie del cielo che abbiamo ricevuto. E quanti Cristiani non ne hanno ricevuto la centesima parte, eppure si sono santificati! Ma, che cosa è stato, F. M., di tutti questi benefizi e di tutte queste grazie? qual profitto ne abbiamo  ricavato? … Triste momento per un Cristiano che ha disprezzato tutto, e di nulla seppe approfittare! … Vedete che cosa ci dice S. Gregorio: “Ah! amico, osserva quella croce, e vedrai quanto ha costato ad un Dio il ridonarci la vita.„ E per questo che S. Agostino quando meditava sul conto da rendersi delle grazie ricevute e disprezzate; esclamava: “Ahimè! disgraziato, che diventerò dopo tante grazie ricevute? Ahimè! temo ancor più per le grazie ricevute, che per i peccati commessi, per quanto siano numerosi! Dio mio, quale sarà la mia sorte? „ Leggiamo nella vita di S. Teresa che, nell’ultima sua malattia, fu trasportata davanti al tribunale di Dio; ritornata in sé, le si domandò perché temesse dopo aver fatta tanta penitenza. “Ahimè! disse, temo molto.„ — “Avete paura della morte?„ le si domandò. — “No, „ rispose. ” Dell’inferno?„ — ” No. „ Che cosa dunque la faceva tremare? “Ahimè! bisogna che la mia vita sia confrontata con quella di Gesù Cristo; ah! guai a me, se ho la minima ombra di peccato! „ E che sarà di noi, F. M., quando Gesù Cristo ci rimprovererà il disprezzo e l’abuso che abbiamo fatto del suo Sangue prezioso e di tutti i suoi meriti? “Ahi ingrato peccatore, ci dirà, vigna infruttuosa, albero sterile, che avrei dovuto fare per la tua salute e non ho fatto? Non dovevo io attendere da te buoni frutti per la vita eterna? Dove sono le buone opere da te fatte? Dove sono le tue fervorose preghiere, che mi sieno piaciute, e che mi abbiano commosso? Dove sono le tue buone confessioni? Le buone Comunioni che m’abbiano fatto rinascere nella tua anima, e ricompensato, in qualche modo dei tormenti che ho sopportati per la tua salute? Ove sono le penitenze e le lagrime da te sparse per cancellare i peccati che hai commesso? Dove sono le buone opere che hai fatte, suggerite da tanti buoni pensieri e desiderii e da tante occasioni che ti ho presentato? Dove sono quelle Messe ben ascoltate, in cui avresti potuto soddisfarmi per i tuoi peccati? Va, disgraziato, non hai fatto che opere d’iniquità, non hai lavorato che a rinnovare i dolori della mia passione e della mia morte. Va, ritirati da me, io ti maledico per tutta l’eternità! Va, nel giorno del giudizio universale, manifesterò il bene che avresti potuto fare e che non hai fatto, e tutte le grazie che ti ho accordate e che hai disprezzato.„ Ahimè! quanti rimproveri, e quanti peccati, ai quali non abbiamo mai pensato! Ahimè! quanto sarà terribile questo rendiconto! Eccone un esempio che ve lo proverà. Racconta S. Giovanni Climaco, (La scala santa, settimo gradino) che un anacoreta, chiamato Stefano, dopo aver condotto una vita delle più austere e delle più sante, essendo molto vecchio cadde ammalato e ne morì. La vigilia della sua morte, trovandosi improvvisamente fuor di sé, pure avendo gli occhi aperti, guardava a destra ed a sinistra, come se vedesse qualcheduno che gli faceva render conto delle sue azioni. Si sentiva una persona che l’interrogava, e l’ammalato rispondeva a voce così spiccata, che tutti quelli che erano nella stanza potevano sentire. Lo si sentiva dire: “Sì, è vero, ho commesso quel peccato, ma per questo ho digiunato tanti anni.„ Poi l’altra voce diceva che aveva commesso il tal altro peccato, ed il morente rispondeva: “No, non è vero, non l’ho commesso.„ Poco dopo lo si sentiva dire: “Sì, lo confesso, l’ho fatto; ma Dio è tanto misericordioso che me l’ha perdonato. „ Era, ci dice S. Giovanni Climaco, uno spettacolo spaventoso assistere al rendiconto così esatto che si chiedeva a quel solitario di tutte le sue azioni. Ma, ciò che spaventava ancor più era il sentire che lo si accusava anche di peccati, ch’egli non aveva mai commesso. Ecchè! F. M., un santo solitario, che aveva passato quarant’anni nel deserto, che aveva versate tante lagrime, confessa egli stesso che non può giustificarsi di qualche accusa che gli è fatta!!… Egli ci lasciò, ci dice S. Giovanni Climaco, in una grande incertezza per la sua salute. Ma, che sarà di un peccatore che, in quel momento non vedrà che male e niente di bene? Momento terribile! momento di disperazione! E non aver nulla su che affidarsi! Voi sapete che quel giudizio avverrà fra tre testimoni: Dio che giudicherà, il nostro Angelo custode che mostrerà le buone opere che avremo fatte, ed il demonio che manifesterà tutto ciò che di cattivo avremo commesso durante la nostra vita. Dopo le loro deposizioni, Dio ci giudicherà e fisserà la nostra sorte per tutta l’eternità. Ahimè! M. F., quale deve essere il timore d’un povero Cristiano che aspetta il suo giudizio e che, tra qualche minuto, sarà nell’inferno o nel cielo! – Leggiamo nella storia (Vita dei Padri del deserto, t. II, p.452)  che un santo abate, chiamato Agatone, al momento di spirare restò sempre cogli occhi fissi verso il cielo senza distaccarneli. I religiosi gli dissero: “Dove credete di essere ora, padre?„ — “Sono alla presenza di Dio, di cui aspetto il giudizio. — “Non lo temete ? „ — “Ahimè! non so se tutte le mie azioni saranno accette a Dio; credo di aver osservato i suoi comandamenti; ma i giudizi di Dio sono diversi da quelli degli uomini. „ In quel momento esclamò: “Ahimè! sono in giudizio.„ Ahimè! F. M., quanti rimorsi per aver perduto tanti mezzi di salvarci, e disprezzate tante grazie che il buon Dio ci ha fatte per aiutarci a guadagnare il cielo; e vedere che tutto ciò per noi è perduto, anzi, tutto torna a nostra condanna! Ma, se è già così terribile render conto delle grazie che il buon Dio ci ha fatte per preservarci dall’inferno, che cosa sarà dunque quando saremo esaminati e giudicati su tutti i peccati che avremo commesso? Forse, per consolarvi, dite che non avete commesso di quei peccati, che agli occhi del mondo sono mostruosi. Ma quei peccati interni, F. M. ?… Ahimè! quanti pensieri d’impurità, desideri! impuri, pensieri di odio, di vendetta e d’invidia sono passati per la vostra mente durante una vita di trenta o quarant’anni, o fors’anche di ottanta! Ahimè! quanti pensieri di superbia, gelosia, quanti desideri di vendetta, di far del male al proprio prossimo, di ingannare! E quando si verrà ai peccati di opere?… Ahimè! quando il buon Dio prenderà il libro dalle mani dei demoni, per esaminare tutte quelle azioni d’impurità quelle corruzioni, turpitudini, sguardi vergognosi, confessioni e comunioni sacrileghe: tutti quei raggiri e malizie usate per sedurre quella persona… Ahimè! che diverranno quelle vittime d’impurità! Oh! quanto sarebbero più felici se Dio le precipitasse nell’inferno prima della loro morte, per evitare ad esse di comparire davanti ad un Giudice così giusto! Secondo ogni apparenza questo giudizio avverrà al letto e nella camera del moribondo. Ahimè! quei poveri disgraziati che non furono più riservati degli animali, e forse meno, vedranno, al pari dell’empio Baldassarre (Dan. V), la loro condanna scritta sui muri o meglio in tutti gli angoli della loro casa. Potranno essi negare, quando Gesù Cristo, col libro in mano, mostrerà loro il luogo e l’ora in cui hanno peccato? “Va, disgraziato, dirà loro, ti condanno e ti maledico per sempre!„ Ahimè! quand’anche il buon Dio offrisse loro il perdono, è quasi certo che non lo vorrebbero, tanto il peccato avrà indurito il loro cuore. Ah! Gesù Cristo potrebbe far loro le stesse minacce che fece a quell’empio di cui si parla nella storia. Essendo ridotto a morire Gesù Cristo gli disse: “Se vuoi domandarmi perdono, io te lo darò. Ma no! quando si ha passata la vita immersi nel peccato, non se ne esce più. — “No,„ rispose il morente. — “Ebbene! gli disse Gesù Cristo, gettandogli una goccia del suo prezioso Sangue sulla fronte; va: nel gran giorno del giudizio questo Sangue adorabile, disprezzato e profanato per tutta la tua vita, sarà il marchio della tua riprovazione.„ Dopo queste parole il peccatore morì e fu precipitato nell’inferno. O terribile momento per un peccatore, il quale non vedrà più nulla che possa fargli sperare il cielo! Il povero peccatore, tutto tremante, non avendo nulla da rispondere, vorrebbe già essere nell’inferno. Egli muore e non può che dire: “Sì, ho meritato l’inferno, è giusto ch’io vi sia precipitato; poiché ho tante volte profanato quel Sangue adorabile, che voi avevate sparso sulla croce per la mia salute. „ Gesù Cristo, tenendo sempre dinanzi il libro nel quale sono scritti i suoi peccati, vedrà tutte le preghiere tralasciate o mal fatte, fors’anche fatte col sentimento dell’odio e della vendetta in cuore, e forse, che dico? col cuore arso dal fuoco dell’impurità. No, no, mio Dio, non esaminatelo più, gettatelo presto nell’inferno; è la grazia più grande che potreste fargli se, prima di gettarlo nel fuoco eterno, dovete fargliene ancora una. Sì, Gesù Cristo, volterà pagina, dove vedrà scritte tutte le bestemmie, le imprecazioni, le maledizioni che l’infelice non ha cessato di vomitare durante la sua vita, con una lingua ed una bocca, tante volte bagnate dal suo Sangue adorabile. Sì, F. M., Gesù Cristo volterà pagina, e vi troverà scritte tutte le profanazioni dei santi giorni della domenica. Ah! no, no, non vi saranno più pretesti, tutto sarà messo in evidenza. Vedrà tutte le ubriachezze perpetrate in quei santi giorni, gli stravizi, i giuochi e le danze che hanno profanato i giorni consacrati a Dio. Ahimè! quante Messe non ascoltate od ascoltate male! Quante Messe in cui non ci siamo quasi affatto occupati del buon Dio! o forse, vi avremo commesso più peccati che durante un’intera settimana! Sì, F. M., Gesù Cristo volterà pagina, e vedrà scritti tutti i delitti dei figli ingrati che hanno disprezzato il padre e la madre, che li hanno maledetti, che hanno loro augurata la morte per essere padroni delle loro sostanze, che li hanno fatto soffrire nella vecchiaia, che, coi loro cattivi trattamenti … Sì, F. M., Gesù Cristo volterà pagina e vedrà scritte tutte quelle ingiustizie ed usure nelle vendite e nei prestiti. Sì, tutte quelle rapine verranno manifestate. Ahimè! quel povero infelice sentirà leggere i particolari di tutta la sua vita, e senza poterne trovare una sola scusa. Ahimè! come sarà avvilito quel povero superbo che voleva sempre aver ragione, che disprezzava tutti, che si rideva di tutto? Dio mio. in quale stato di disperazione l’ha ridotto quell’esame! Sì, F. M., in questo mondo abbiamo sempre qualche pretesto per diminuire i nostri peccati, se non possiamo del tutto nasconderli. Ma, con Gesù Cristo, F. M., non sarà più possibile. Egli stesso ci farà riconoscere tutto ciò che avremo fatto, e saremo costretti ad ammettere che tale è stata la nostra vita, e che giustamente saremo condannati all’inferno ed esclusi per sempre dalla presenza del nostro Dio. O spaventosa disgrazia! E senza speranza di ripararla! Ah! chi vi pensasse seriamente, quanto più saggio sarebbe! Ma questo ancora non basta: il demonio, che ha lavorato per tutta la nostra vita a perderci, presenterà a Gesù Cristo un libro dove saranno scritti tutti i peccati che avremo fatto commettere agli altri. Ahimè! quanto ne sarà grande il numero; e solo in quel momento potremo conoscerlo. Ahimè! che cosa sarà allora di quei padri e di quelle madri, di quei padroni e di quelle padrone che hanno tante volte impedito la preghiera ai loro figli, ai loro servi, per non perdere un momento del loro lavoro? Quante Messe non hanno fatto perdere al loro mandriano? Quanti vespri, istruzioni, catechismi e sacramenti i loro dipendenti non hanno potuto frequentare, perché mancava ad essi il tempo! Quante volte li hanno fatti lavorare di festa, e si sono burlati di essi quand’adempivano qualche pratica religiosa! E quante volte li hanno impediti di farle! Quanti libertini colle loro sollecitazioni e promesse hanno indotto giovinette al peccato! E fra le giovani non ve ne sono che coi loro modi affettati e ricercati hanno indotto altri a cattivi pensieri, a sguardi impuri? Quanti ubriaconi sono stati causa che altri si siano dati al vino, ed abbiano passato la domenica nell’osteria mancando alle funzioni! Ahimè! quanti peccati hanno lasciato commettere gli osti dando da bere agli ubriaconi! Quante parole sconce ed azioni impure, perché tutto è permesso nelle osterie! Là si fa sgorgare dal proprio cuore il veleno dell’impurità, che inebria coi suoi infami piaceri quasi tutti quelli che si trovano nell’osteria. Ahimè! quale conto da rendere! Quanti giovani rubano ai loro genitori per aver di che andare all’osteria! e chi ne porta la colpa? Nessun altro se non l’oste. Ahimè! quanti dubbi questi empi hanno fatto nascere colle loro empietà, divulgando ogni sorta di invenzioni, per indebolire la fede nel cuore di quelli che erano in loro compagnia. Quante calunnie contro i preti! come se il difetto di uno rendesse colpevoli gli altri. Ahimè! quanti Cristiani hanno cessato di frequentare i Sacramenti, solo perché si sono trovati in compagnia di amici che hanno insegnato loro tante falsità contro la Religione, per cui l’hanno abbandonata del tutto. Chi potrebbe contare le anime ch’essi hanno perduto? Ed ora tutto questo sarà loro imputato, tutto sarà causa della loro condanna. Tutte le anime da essi rovinate verranno in quel momento a domandar vendetta… Ahimè! se il santo re Davide diceva di temer più per i peccati altrui che per i propri, che ne sarà di quei poveri disgraziati i quali non hanno passata la loro vita che a perdere delle povere anime coi loro cattivi esempi e coi loro cattivi discorsi? Ahimè! quale stupore quando vedranno tante anime da essi gettate nell’inferno! Chi di noi non tremerà, F. M., pensando che Dio non lascerà nulla senza esame, neanche le buone opere, per sapere se esse sono state ben fatte, e per Lui solo? Ahimè! quante azioni fatte unicamente per il mondo, per il desiderio d’esser notati e di passare come uomo dabbene! Quante buone azioni saranno senza valore davanti a Dio! Ahimè! quante ipocrisie, quanti rispetti umani ne hanno fatto perdere tutto il merito! Se i Santi, F. M., i quali non erano colpevoli che di qualche piccolo difetto, hanno tanto temuto questo momento, hanno fatto sì aspre e lunghe penitenze, come vogliamo sperare che Dio avrà pietà di noi? Ahimè! quanti ogni giorno cadono nell’inferno, e sono meno colpevoli di noi. Dio mio, non ci precipitate nell’inferno! Fateci piuttosto soffrire tutto ciò che vorrete durante la nostra vita. Per farvi ben sentire quanto rigorosamente Dio ci giudicherà,  il che non è difficile a credersi… Ecché! non è giusto che Dio esamini con un rigore spaventoso un Cristiano colmato di tanti benefizi, che ha ricevute tante grazie per salvarsi, ed a cui nulla è mancato fuorché la volontà? Leggiamo nella storia un esempio raccontato da S. Giovanni Climaco, che sembra mostrarci in parte il rigore della giustizia di Dio verso il peccatore. Egli ci dice che uno dei suoi amici, chiamato Giovanni Sabaita, gli aveva detto che, in un convento dell’Asia, viveva un giovane il quale, vedendo che il superiore lo trattava con troppa bontà e dolcezza, pensava che ciò avrebbe potuto nuocergli, e domandò il permesso d’andare in un altro monastero. Partito che fu, la prima notte che passò nel nuovo monastero vide in sogno un personaggio che gli domandava conto delle sue azioni. Dopo un severissimo esame, si trovò debitore verso la giustizia divina di somme considerevoli, e Dio gli fece vedere che non aveva ancor fatto nulla per espiare i suoi peccati. Spaventato da quella visione, restò ancor tre anni in quel luogo, dove Dio, volendo fargli espiare i suoi peccati, permise che fosse disprezzato e maltrattato da tutti. Sembrava che ciascuno si prendesse spasso di farlo soffrire; eppure egli non si lamentò mai. Dio gli fece vedere in una seconda visione ch’egli non aveva pagato che un terzo di quanto doveva alla sua giustizia. Spaventato si finse pazzo, e continuò simil genere di vita per tredici anni: e poi il Signore gli disse che aveva pagato solo una metà. Non sapendo più come fare, per tutto il resto di sua vita non fece che implorare misericordia dal Signore. Non aveva più limite, né misura nelle sue penitenze. “Ah! Signore, non avrete pietà di me? fatemi soffrire tutto ciò che vorrete, ma perdonatemi. „ Finalmente, prima di morire, Dio gli disse che i suoi peccati gli erano perdonati. Ebbene! F. M., chi oserà sperare che i nostri peccati siano cancellati, quando li abbiamo solo confessati, e detto al buon Dio che gliene domandiamo perdono? Ahimè! quanti Cristiani sono ciechi, credendo d’aver fatto molto, mentre invece vedranno d’aver fatto nulla. Il buon Dio farà loro vedere ciò che meritavano i loro peccati, e le penitenze ch’essi hanno fatto. Ahimè! quanti Cristiani perduti! Ma nel giudizio particolare, F. M., si farà ancora un altro esame. Sebbene quanto vi ho detto sembri già rigoroso, questo non sarà meno terribile; voglio dire che Gesù Cristo ci giudicherà sul bene che avremmo potuto fare e che non avremo fatto. Gesù Cristo metterà davanti agli occhi del peccatore tutte le preghiere che non ha fatte, e che avrebbe potuto fare, tutti i Sacramenti che avrebbe potuto ricevere durante la sua vita. Quante volte di più, avrebbe potuto ricevere il suo Corpo ed il suo Sangue, se avesse voluto condurre una vita più santa! Gesù Cristo gli domanderà conto anche di tutte le volte che ebbe il pensiero di fare qualche buona azione e non l’ha fatta. Quante preghiere, quante Messe! Quante confessioni, quante penitenze! quanti atti di carità verso il prossimo! quante privazioni nei pasti, nelle visite! Quante visite di più al Ss. Sacramento nei giorni di festa! Ahimè! quante buone opere tralasciate delle quali saremo giudicati! Gesù Cristo domanderà anche conto di tutto il bene che i nostri buoni esempi avrebbero fatto fare agli altri. Ah! gran Dio! che ne sarà di noi?

II. — Ma, mi direte, che cosa dobbiamo dunque fare, per rassicurarci in un momento così disgraziato per chi avrà vissuto nel peccato, e senza pensare a placare la giustizia di Dio, che le sue colpe hanno sì grandemente irritata? Eccolo.

1° Dobbiamo rientrare in noi stessi, pensare seriamente che non abbiamo ancor fatto cosa che possa darci speranza per quel momento; e che tutti i nostri peccati sono scritti in un libro che il demonio presenterà a Dio affinché Egli ci giudichi, e conosca i nostri peccati anche i più nascosti.

2° Restituire, come Zaccheo, tutto ciò che non è nostro; altrimenti non potremo mai evitare l’inferno. Avere un gran dolore dei nostri peccati, piangerli come fece il santo re Davide, che pianse il suo peccato fino alla morte e non ne commise più. Umiliarsi profondamente davanti al buon Dio, ricevendo tutto ciò che Egli vorrà mandarci, non solo con sottomissione, ma con grande gioia : poiché non c’è via di mezzo: o piangere in questo mondo o piangere nell’altro, là dove le lagrime non servono a nulla, e la penitenza è senza merito. Non dimenticarsi mai che non sappiamo il giorno in cui saremo giudicati, e che se disgraziatamente siamo trovati in peccato, saremo perduti per tutta l’eternità. Che dobbiamo dunque concludere, F. M.? – Che siamo assolutamente ciechi; poiché esaminato bene tutto, nessuno potrebbe dire di esser pronto a comparire davanti a Gesù Cristo, e, malgrado questa certezza di non esser pronti, nessuno di noi farà un passo di più verso il buon Dio per assicurarsi una sentenza favorevole. Dio mio! quanto è cieco il peccatore! Ahimè! quanto è deplorevole la sua sorte! No, no, F. M., non viviamo più come insensati, poiché quando meno v i penseremo, Gesù Cristo batterà alla nostra porta. Beato chi non avrà atteso quel momento per prepararsi! Ciò che vi auguro…

Credo … IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVII: 28; XVII: 32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine?

[Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant.

[Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo.

[Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus.

Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum.

[O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SUL GIUDIZIO PARTICOLARE”

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sul giudizio particolare.

Redde rationem villicationis tuæ.

(Luc. XVI, 2).

Possiamo seriamente riflettere, Fratelli miei, sulla severità del giudizio di Dio, senza sentirci presi da vivo timore? Ecchè! F. M., i giorni delia nostra vita, sono contati; e per di più ignoriamo l’ora ed il momento in cui il nostro Giudice Supremo ci chiamerà al suo tribunale, e forse quel momento sarà quello in cui meno vi penseremo, e saremo meno disposti a rendere questo terribile conto!… Vi assicuro, F. M., che pensandovi bene, ci sarebbe da darsi alla disperazione, se la religione non ci insegnasse che possiamo render meno terribile questo momento con una vita la quale possa sempre farci sperare che il buon Dio avrà pietà di noi. Badiamo bene, F. M., di non trovarci imbarazzati in quel momento, come quel fattore di cui Gesù Cristo ci parla nell’Evangelo. Vi mostrerò dunque, F. M.:

1° che v’è un giudizio particolare in cui renderemo esattissimo conto del bene e del male che avremo fatto;

2° quali sono i mezzi che dobbiamo usare per prevenire il rigore di questo conto.

I. — Noi tutti sappiamo, F . M., che saremo giudicati due volte: una volta nel gran giorno delle vendette, cioè alla fine del mondo, quando davanti all’universo intero, le nostre azioni buone o cattive, saranno a tutti manifeste. Ma prima di quel giorno terribile e sventurato pei peccatori, avremo subito un giudizio al momento della nostra morte, dopo esalato l’ultimo respiro. Sì. F. M., la sorte dell’uomo sta tutta in queste tre parole: vivere, morire ed essere giudicato. È una legge fissa ed invariabile per tutti gli uomini. Noi nasciamo per morire, moriamo per essere giudicati, e questo giudizio deciderà della nostra felicità eterna o della nostra eterna sventura. – Il giudizio universale in cui tutti compariremo, non sarà che la pubblicazione della sentenza particolare pronunciata subito dopo la nostra morte. Voi tutti sapete che Dio ha contato i nostri anni (Breves dies hominis sunt; numerus mensium ejus apud te est – Job xiv, 5),ed in questo numero d’anni, che Egli ha fissato d’accordarci, ne ha segnato uno che sarà l’ultimo per noi; in quest’ultimo anno un ultimo mese; in quest’ultimo mese un ultimo giorno, ed in questo giorno un’ultima ora, dopo la quale non vi sarà più tempo per noi. Ahimè! che ne sarà di quel peccatore e di quell’empio che si promettono sempre una vita più lunga? Aspettino pure, poveri disgraziati, fin che vogliono; dopo quest’ultima ora non vi sarà più ritorno, non più speranza, non più rimedio! Nello stesso istante. M. F.; ascoltate bene voi che non temete di passare i vostri giorni nel peccato, nello stesso istante in cui l’anima si separerà dal vostro corpo, essa sarà giudicata. — Ma, mi direte, lo sappiamo. — Sì, ma non lo credete. Ditemi, se lo credeste seriamente, come potreste restare in uno stato che vi mette nel continuo pericolo di cadere nell’inferno? No, no, amico mio, voi non lo credete; perché se lo credeste, non v i esporreste ad una sì grande disgrazia. Verrà il momento che il buon Dio applicherà sul vostro debito l’impronta della sua immortalità ed il sigillo della sua eternità, e quel sigillo e quell’impronta non saranno levati mai più. O  momento terribile! eppure così poco meditato, così breve e così lungo, che vola con tanta rapidità, e che trascina con sé un susseguirsi spaventoso di secoli! Che cosa ci avverrà dunque in questo momento che tanto fa orrore? Ahimè. F. M., compariremo tutti, ciascuno in particolare, davanti al tribunale di Gesù Cristo, per esservi giudicati, e render conto del bene e del male che avremo fatto. Il giudizio particolare, F. M., è così certo, che il buon Dio per convincercene, ne ha fatto scorgere i segni a parecchi quand’erano ancor vivi, affinché noi vi ci preparassimo.Leggiamo nella storia che un giovane libertino si era dato ad ogni sorta di vizi; ma essendo stato istruito da una pia madre, una notte che teneva dietro al giorno in cui era caduto nei più gravi eccessi, fece un sogno. Si vide trasportato al tribunale di Dio. Non si può dire quale fu la sua vergogna, la sua confusione e l’amarezza della sua anima. Quando si svegliò aveva una febbre ardente, sudava ed era fuori di sé, i suoi capelli erano diventati bianchi. “Lasciatemi solo, diceva, sciogliendosi in lagrime, a quelli che pei primi lo videro in quello stato, lasciatemi solo; ho visto il mio Giudice. Ah! quanto è terribile! Perdono, Dio mio! perdono!„ I suoi compagni di stravizi, sentendo che il loro amico era ammalato e si desolava, vennero per confortarlo. “Ritiratevi da me, diceva loro, voi non siete più i miei amici, non vi voglio più. Ah! ho visto il mio Giudice. Ah! quant’è terribile! Di quanta maestà! di quanta gloria è rivestito! Ah! quante accuse e domande, alle quali non ho potuto rispondere! Tutti i miei delitti sono scritti; li ho letti tutti! Ah! quanto grande ne è il numero! Solo ora ne conosco tutta l’enormità! Ahimè! Ho visto una schiera di demoni, i quali non aspettavano che il segno per trascinarmi nell’inferno. Ritiratevi, falsi amici, non voglio più vedervi! Quanto sarei felice, se potessi, coi rigori della penitenza, placare un giudice così terribile! Ahimè! ben presto dovrò presentarmigli davvero! forse oggi stesso!… Dio mio, perdonatemi!… Dio mio, usatemi misericordia!… Ah! di grazia, non perdetemi, abbiate pietà di me!… Farò penitenza per tutta la mia vita. Oh! quanti peccati ho commesso! Quante grazie disprezzate!… quanto bene avrei potuto fare e non ho fatto!… Dio mio, non gettatemi nell’inferno!„ E non si fermò lì, F. M. Passò il resto della sua vita a piangere e far penitenza. Quanto sarà terribile questo momento, F. M., per chi non avrà fatto alcun bene e molto male. Sì, F. M., renderemo conto di tutte le nostre azioni, buone e cattive: tutto comparirà davanti al nostro giudice nel momento in cui l’anima si separerà dal nostro corpo. Sì, F. M., il buon Dio si farà render conto dei beni che abbiamo ricevuti. Vi sono i beni di natura, di fortuna e di grazia. Tutti questi beni entreranno nel conto. I beni di natura riguardano il corpo e l’anima; bisognerà render conto dell’uso che avremo fatto del nostro corpo. Domanderà il Giudice se avremo usate le nostre forze a render servizi al nostro prossimo, a lavorare per avere di che far elemosine, a far penitenza, a visitare i luoghi privilegiati dal buon Dio (come Nostra Signora di Fourvière, S. Francesco Regis ed altri). Ma, se invece, non abbiamo usato della nostra salute e del nostro corpo, che per correre ai divertimenti, alle osterie, per derubare il prossimo, per lavorare alla domenica , per viaggiare in questi santi giorni, invece di passarli nel pregare, onorare il buon Dio, istruire gli ignoranti, dar loro buoni consigli, condurli a Dio ed allontanarli dal male… Esaminerà poi se non ci siamo serviti della nostra intelligenza pel male: cioè per istruirci di cose cattive. Se abbiamo letto libri perversi, frequentato gli empi, insegnata la malizia agli altri. Se ce ne siamo serviti per ingannare nelle vendite e nelle compere, per giurare il falso, suscitare liti, indurre altri a vendicarsi, a parlar male della religione, a insegnar loro cose empie: come, per esempio, voler far loro credere che la religione non è buona, che tutto ciò che si dice non è vero, che i preti dicono ciò che vogliono. Ed esaminerà altresì se abbiamo usato la nostra intelligenza per comporre cattive canzoni contro la purità, contro l’onor del prossimo; se abbiamo comunicato ad altri le nostre cattive cognizioni. Ci domanderà se ci siamo serviti della nostra mente per istruirci; se ci siamo invaniti della bellezza del nostro corpo, invece d’ammirare in noi la sapienza e la potenza di Dio. Se ce ne siamo serviti per indurre gli altri al male; come per esempio, chi si veste in modo d’attirare su di sé gli occhi altrui. Dio ci domanderà se abbiamo bene usato di ciò che ci ha dato, ricordandoci che noi non siamo che amministratori, e che tutto ciò di cui avremo usato male ci verrà imputato a colpa. Allora il buon Dio farà vedere a quei padri ed a quelle madri tutti gli oggetti di vanità che essi hanno comperato ai loro figli, e che servirono soltanto a perdere la loro anima; mostrerà loro tutto quel denaro consumato nei divertimenti, nelle osterie, nelle danze ed in tutte le altre spese inutili. E poi tutto ciò che abbiamo lasciato andar a male e che avremmo potuto dare ai poveri. Ahimè! quanti peccati ai quali non avremmo mai pensato, e che ora non vogliamo riconoscere; ma che in quel momento riconosceremo, troppo tardi! Veniamo ora, F. M., ad un altro conto ben più terribile, quello della grazia. Il buon Dio comincerà a mostrarci i benefizi accordatici, facendoci nascere nel seno della Chiesa cattolica; mentre tanti altri sono nati e morti fuori di essa, Ci farà vedere che anche tra i Cristiani, un numero infinito sono morti senza aver ricevuta la grazia del Battesimo. Ci farà vedere per quant’anni, mesi, settimane, giorni, ci ha conservata la vita mentre eravamo nel peccato; e che se, in quel momento, ci avesse fatto morire, saremmo stati precipitati nell’inferno. Ci metterà davanti agli occhi tutti i buoni pensieri, tutte le buone ispirazioni, i buoni desideri che ci ha dato durante la nostra vita. Ahimè! quante grazie disprezzate! Ci ricorderà tutte le istruzioni ricevute e sentite; tutte le letture messe a nostra disposizione affinché ne approfittassimo. Tutte lo nostre confessioni, le comunioni, e tante altre grazie del cielo che abbiamo ricevuto. E quanti Cristiani non ne hanno ricevuto la centesima parte, eppure si sono santificati! Ma, che cosa è stato, F. M., di tutti questi benefizi e di tutte queste grazie? qual profitto ne abbiamo  ricavato? … Triste momento per un Cristiano che ha disprezzato tutto, e di nulla seppe approfittare! … Vedete che cosa ci dice S. Gregorio: “Ah! amico, osserva quella croce, e vedrai quanto ha costato ad un Dio il ridonarci la vita.„ E per questo che S. Agostino quando meditava sul conto da rendersi delle grazie ricevute e disprezzate; esclamava: “Ahimè! disgraziato, che diventerò dopo tante grazie ricevute? Ahimè! temo ancor più per le grazie ricevute, che per i peccati commessi, per quanto siano numerosi! Dio mio, quale sarà la mia sorte? „ Leggiamo nella vita di S. Teresa che, nell’ultima sua malattia, fu trasportata davanti al tribunale di Dio; ritornata in sé, le si domandò perché temesse dopo aver fatta tanta penitenza. “Ahimè! disse, temo molto.„ — “Avete paura della morte?„ le si domandò. — “No, „ rispose. ” Dell’inferno?„ — ” No. „ Che cosa dunque la faceva tremare? “Ahimè! bisogna che la mia vita sia confrontata con quella di Gesù Cristo; ah! guai a me, se ho la minima ombra di peccato! „ E che sarà di noi, F. M., quando Gesù Cristo ci rimprovererà il disprezzo e l’abuso che abbiamo fatto del suo Sangue prezioso e di tutti i suoi meriti? “Ahi ingrato peccatore, ci dirà, vigna infruttuosa, albero sterile, che avrei dovuto fare per la tua salute e non ho fatto? Non dovevo io attendere da te buoni frutti per la vita eterna? Dove sono le buone opere da te fatte? Dove sono le tue fervorose preghiere, che mi sieno piaciute, e che mi abbiano commosso? Dove sono le tue buone confessioni? Le buone Comunioni che m’abbiano fatto rinascere nella tua anima, e ricompensato, in qualche modo dei tormenti che ho sopportati per la tua salute? Ove sono le penitenze e le lagrime da te sparse per cancellare i peccati che hai commesso? Dove sono le buone opere che hai fatte, suggerite da tanti buoni pensieri e desiderii e da tante occasioni che ti ho presentato? Dove sono quelle Messe ben ascoltate, in cui avresti potuto soddisfarmi per i tuoi peccati? Va, disgraziato, non hai fatto che opere d’iniquità, non hai lavorato che a rinnovare i dolori della mia passione e della mia morte. Va, ritirati da me, io ti maledico per tutta 1’eternità! Va, nel giorno del giudizio universale, manifesterò il bene che avresti potuto fare e che non hai fatto, e tutte le grazie che ti ho accordate e che hai disprezzato.„ Ahimè! quanti rimproveri, e quanti peccati, ai quali non abbiamo mai pensato! Ahimè! quanto sarà terribile questo rendiconto! Eccone un esempio che ve lo proverà. Racconta S. Giovanni Climaco, (La scala santa, settimo gradino) che un anacoreta, chiamato Stefano, dopo aver condotto una vita delle più austere e delle più sante, essendo molto vecchio cadde ammalato e ne morì. La vigilia della sua morte, trovandosi improvvisamente fuor di sé, pure avendo gli occhi aperti, guardava a destra ed a sinistra, come se vedesse qualcheduno che gli faceva render conto delle sue azioni. Si sentiva una persona che l’interrogava, e l’ammalato rispondeva a voce così spiccata, che tutti quelli che erano nella stanza potevano sentire. Lo si sentiva dire: “Sì, è vero, ho commesso quel peccato, ma per questo ho digiunato tanti anni.„ Poi l’altra voce diceva che aveva commesso il tal altro peccato, ed il morente rispondeva: “No, non è vero, non l’ho commesso.„ Poco dopo lo si sentiva dire: “Sì, lo confesso, l’ho fatto; ma Dio è tanto misericordioso che me l’ha perdonato. „ Era, ci dice S. Giovanni Climaco, uno spettacolo spaventoso assistere al rendiconto così esatto che si chiedeva a quel solitario di tutte le sue azioni. Ma, ciò che spaventava ancor più era il sentire che lo si accusava anche di peccati, ch’egli non aveva mai commesso. Ecchè! F. M., un santo solitario, che aveva passato quarantanni nel deserto, che aveva versate tante lagrime, confessa egli stesso che non può giustificarsi di qualche accusa che gli è fatta!!… Egli ci lasciò, ci dice S. Giovanni Climaco, in una grande incertezza per la sua salute. Ma, che sarà di un peccatore che, in quel momento non vedrà che male e niente di bene? Momento terribile! momento di disperazione! E non aver nulla su che affidarsi! Voi sapete che quel giudizio avverrà fra tre testimoni: Dio che giudicherà, il nostro Angelo custode che mostrerà le buone opere che avremo fatte, ed il demonio che manifesterà tutto ciò che di cattivo avremo commesso durante la nostra vita. Dopo le loro deposizioni, Dio ci giudicherà e fisserà la nostra sorte per tutta l’eternità. Ahimè! M. F., quale deve essere il timore d’un povero Cristiano che aspetta il suo giudizio e che, tra qualche minuto, sarà nell’inferno o nel cielo! – Leggiamo nella storia (Vita dei Padri del deserto, t. II, p. 452)  che un santo abate, chiamato Agatone, al momento di spirare restò sempre cogli occhi fissi verso il cielo senza distaccarneli. I religiosi gli dissero: “Dove credete di essere ora, padre?„ — “Sono alla presenza di Dio, di cui aspetto il giudizio,, . — “Non lo temete ? „ — “Ahimè! non so se tutte le mie azioni saranno accette a Dio; credo di aver osservato i suoi comandamenti; ma i giudizi di Dio sono diversi da quelli degli uomini. „ In quel momento esclamò: “Ahimè! sono in giudizio.„ Ahimè! F. M., quanti rimorsi per aver perduto tanti mezzi di salvarci, e disprezzate tante grazie che il buon Dio ci ha fatte per aiutarci a guadagnare il cielo; e vedere che tutto ciò per noi è perduto, anzi, tutto torna a nostra condanna! Ma, se è già così terribile render conto delle grazie che il buon Dio ci ha fatte per preservarci dall’inferno, che cosa sarà dunque quando saremo esaminati e giudicati su tutti i peccati che avremo commesso? Forse, per consolarvi, dite che non avete commesso di quei peccati, che agli occhi del mondo sono mostruosi. Ma quei peccati interni, F. M. ?… Ahimè! quanti pensieri d’impurità, desideri! impuri, pensieri di odio, di vendetta e d’invidia sono passati per la vostra mente durante una vita di trenta o quarant’anni, o fors’anche di ottanta! Ahimè! quanti pensieri di superbia, gelosia, quanti desideri di vendetta, di far del male al proprio prossimo, di ingannare! E quando si verrà ai peccati di opere?… Ahimè! quando il buon Dio prenderà il libro dalle mani dei demoni, per esaminare tutte quelle azioni d’impurità quelle corruzioni, turpitudini, sguardi vergognosi, confessioni e comunioni sacrileghe: tutti quei raggiri e malizie usate per sedurre quella persona… Ahimè! che diverranno quelle vittime d’impurità! Oh! quanto sarebbero più felici se Dio le precipitasse nell’inferno prima della loro morte, per evitare ad esse di comparire davanti ad un Giudice così giusto! Secondo ogni apparenza questo giudizio avverrà al letto e nella camera del moribondo. Ahimè! quei poveri disgraziati che non furono più riservati degli animali, e forse meno, vedranno, al pari dell’empio Baldassarre (Dan. V), la loro condanna scritta sui muri o meglio in tutti gli angoli della loro casa. Potranno essi negare, quando Gesù Cristo, col libro in mano, mostrerà loro il luogo e l’ora in cui hanno peccato? “Va, disgraziato, dirà loro, ti condanno e ti maledico per sempre!„ Ahimè! quand’anche il buon Dio offrisse loro il perdono, è quasi certo che non lo vorrebbero, tanto il peccato avrà indurito il loro cuore. Ah! Gesù Cristo potrebbe far loro le stesse minacce che fece a quell’empio di cui si parla nella storia. Essendo ridotto a morire Gesù Cristo gli disse: “Se vuoi domandarmi perdono, io te lo darò. Ma no! quando si ha passata la vita immersi nel peccato, non se ne esce più. — “No,„ rispose il morente. — “Ebbene! gli disse Gesù Cristo, gettandogli una goccia del suo prezioso Sangue sulla fronte; va: nel gran giorno del giudizio questo Sangue adorabile, disprezzato e profanato per tutta la tua vita, sarà il marchio della tua riprovazione.„ Dopo queste parole il peccatore morì e fu precipitato nell’inferno. O terribile momento per un peccatore, il quale non vedrà più nulla che possa fargli sperare il cielo! Il povero peccatore, tutto tremante, non avendo nulla da rispondere, vorrebbe già essere nell’inferno. Egli muore e non può che dire: “Sì, ho meritato l’inferno, è giusto ch’io vi sia precipitato; poiché ho tante volte profanato quel Sangue adorabile, che voi avevate sparso sulla croce per la mia salute. „ Gesù Cristo, tenendo sempre dinanzi il libro nel quale sono scritti i suoi peccati, vedrà tutte le preghiere tralasciate o mal fatte, fors’anche fatte col sentimento dell’odio e della vendetta in cuore, e forse, che dico? col cuore arso dal fuoco dell’impurità. No, no, mio Dio, non esaminatelo più, gettatelo presto nell’inferno; è la grazia più grande che potreste fargli se, prima di gettarlo nel fuoco eterno, dovete fargliene ancora una. Sì, Gesù Cristo, volterà pagina, dove vedrà scritte tutte le bestemmie, le imprecazioni, le maledizioni che l’infelice non ha cessato di vomitare durante la sua vita, con una lingua ed una bocca, tante volte bagnate dal suo Sangue adorabile. Sì, F. M., Gesù Cristo volterà pagina, e vi troverà scritte tutte le profanazioni dei santi giorni della domenica. Ah! no, no, non vi saranno più pretesti, tutto sarà messo in evidenza. Vedrà tutte le ubriachezze perpetrate in quei santi giorni, gli stravizi, i giuochi e le danze che hanno profanato i giorni consacrati a Dio. Ahimè! quante Messe non ascoltate od ascoltate male! Quante Messe in cui non ci siamo quasi affatto occupati del buon Dio! o forse, vi avremo commesso più peccati che durante un’intera settimana! Sì, F. M., Gesù Cristo volterà pagina, e vedrà scritti tutti i delitti dei figli ingrati che hanno disprezzato il padre e la madre, che li hanno maledetti, che hanno loro augurata la morte per essere padroni delle loro sostanze, che li hanno fatto soffrire nella vecchiaia, che, coi loro cattivi trattamenti … Sì, F. M., Gesù Cristo volterà pagina e vedrà scritte tutte quelle ingiustizie ed usure nelle vendite e nei prestiti. Sì, tutte quelle rapine verranno manifestate. Ahimè! quel povero infelice sentirà leggere i particolari di tutta la sua vita, e senza poterne trovare una sola scusa. Ahimè! come sarà avvilito quel povero superbo che voleva sempre aver ragione, che disprezzava tutti, che si rideva di tutto? Dio mio. in quale stato di disperazione l’ha ridotto quell’esame! Sì, F. M., in questo mondo abbiamo sempre qualche pretesto per diminuire i nostri peccati, se non possiamo del tutto nasconderli. Ma, con Gesù Cristo, F. M., non sarà più possibile. Egli stesso ci farà riconoscere tutto ciò che avremo fatto, e saremo costretti ad ammettere che tale è stata la nostra vita, e che giustamente saremo condannati all’inferno ed esclusi per sempre dalla presenza del nostro Dio. O spaventosa disgrazia! E senza speranza di ripararla! Ah! chi vi pensasse seriamente, quanto più saggio sarebbe! Ma questo ancora non basta: il demonio, che ha lavorato per tutta la nostra vita a perderci, presenterà a Gesù Cristo un libro dove saranno scritti tutti i peccati che avremo fatto commettere agli altri. Ahimè! quanto ne sarà grande il numero; e solo in quel momento potremo conoscerlo.Ahimè! che cosa sarà allora di quei padri e di quelle madri, di quei padroni e di quelle padrone che hanno tante volte impedito la preghiera ai loro figli, ai loro servi, per non perdere un momento del loro lavoro? Quante Messe non hanno fatto perdere al loro mandriano? Quanti vespri, istruzioni, catechismi e sacramenti i loro dipendenti non hanno potuto frequentare, perché mancava ad essi il tempo! Quante volte li hanno fatti lavorare di festa, e si sono burlati di essi quand’adempivano qualche pratica religiosa! E quante volte li hanno impediti di farle! Quanti libertini colle loro sollecitazioni e promesse hanno indotto giovinette al peccato! E fra le giovani non ve ne sono che coi loro modi affettati e ricercati hanno indotto altri a cattivi pensieri, a sguardi impuri? Quanti ubriaconi sono stati causa che altri si siano dati al vino, ed abbiano passato la domenica nell’osteria mancando alle funzioni! Ahimè! quanti peccati hanno lasciato commettere gli osti dando da bere agli ubriaconi! Quante parole sconce ed azioni impure, perché tutto è permesso nelle osterie! Là si fa sgorgare dal proprio cuore il veleno dell’impurità, che inebria coi suoi infami piaceri quasi tutti quelli che si trovano nell’osteria. Ahimè! quale conto da rendere! Quanti giovani rubano ai loro genitori per aver di che andare all’osteria! e chi ne porta la colpa? Nessun altro se non l’oste. Ahimè! quanti dubbi questi empi hanno fatto nascere colle loro empietà, divulgando ogni sorta di invenzioni, per indebolire la fede nel cuore di quelli che erano in loro compagnia. Quante calunnie contro i preti! come se il difetto di uno rendesse colpevoli gli altri. Ahimè! quanti Cristiani hanno cessato di frequentare i Sacramenti, solo perché si sono trovati in compagnia di amici che hanno insegnato loro tante falsità contro la Religione, per cui l’hanno abbandonata del tutto. Chi potrebbe contare le anime ch’essi hanno perduto? Ed ora tutto questo sarà loro imputato, tutto sarà causa della loro condanna. Tutte le anime da essi rovinate verranno in quel momento a domandar vendetta… Ahimè! se il santo re Davide diceva di temer più per i peccati altrui che per i propri, che ne sarà di quei poveri disgraziati i quali non hanno passata la loro vita che a perdere delle povere anime coi loro cattivi esempi e coi loro cattivi discorsi? Ahimè! quale stupore quando vedranno tante anime da essi gettate nell’inferno! Chi di noi non tremerà, F. M., pensando che Dio non lascerà nulla senza esame, neanche le buone opere, per sapere se esse sono state ben fatte, e per Lui solo? Ahimè! quante azioni fatte unicamente per il mondo, per il desiderio d’esser notati e di passare come uomo dabbene! Quante buone azioni saranno senza valore davanti a Dio! Ahimè! quante ipocrisie, quanti rispetti umani ne hanno fatto perdere tutto il merito! Se i Santi, F. M., i quali non erano colpevoli che di qualche piccolo difetto, hanno tanto temuto questo momento, hanno fatto sì aspre e lunghe penitenze, come vogliamo sperare che Dio avrà pietà di noi? Ahimè! quanti ogni giorno cadono nell’inferno, e sono meno colpevoli di noi. Dio mio, non ci precipitate nell’inferno! Fateci piuttosto soffrire tutto ciò che vorrete durante la nostra vita. Per farvi ben sentire quanto rigorosamente Dio ci giudicherà,  il che non è difficile a credersi… Ecché! non è giusto che Dio esamini con un rigore spaventoso un cristiano colmato di tanti benefizi, che ha ricevute tante grazie per salvarsi, ed a cui nulla è mancato fuorché la volontà? Leggiamo nella storia un esempio raccontato da S. Giovanni Climaco, che sembra mostrarci in parte il rigore della giustizia di Dio verso il peccatore. Egli ci dice che uno dei suoi amici, chiamato Giovanni Sabaita, gli aveva detto che, in un convento dell’Asia, viveva un giovane il quale, vedendo che il superiore lo trattava con troppa bontà e dolcezza, pensava che ciò avrebbe potuto nuocergli, e domandò il permesso d’andare in un altro monastero. Partito che fu, la prima notte che passò nel nuovo monastero vide in sogno un personaggio che gli domandava conto delle sue azioni. Dopo un severissimo esame, si trovò debitore verso la giustizia divina di somme considerevoli, e Dio gli fece vedere che non aveva ancor fatto nulla per espiare i suoi peccati. Spaventato da quella visione, restò ancor tre anni in quel luogo, dove Dio, volendo fargli espiare i suoi peccati, permise che fosse disprezzato e maltrattato da tutti. Sembrava che ciascuno si prendesse spasso di farlo soffrire; eppure egli non si lamentò mai. Dio gli fece vedere in una seconda visione ch’egli non aveva pagato che un terzo di quanto doveva alla sua giustizia. Spaventato si finse pazzo, e continuò simil genere di vita per tredici anni: e poi il Signore gli disse che aveva pagato solo una metà. Non sapendo più come fare, per tutto il resto di sua vita non fece che implorare misericordia dal Signore. Non aveva più limite, né misura nelle sue penitenze. “Ah! Signore, non avrete pietà di me? fatemi soffrire tutto ciò che vorrete, ma perdonatemi. „ Finalmente, prima di morire, Dio gli disse che i suoi peccati gli erano perdonati. Ebbene! F. M., chi oserà sperare che i nostri peccati siano cancellati, quando li abbiamo solo confessati, e detto al buon Dio che gliene domandiamo perdono? Ahimè! quanti Cristiani sono ciechi, credendo d’aver fatto molto, mentre invece vedranno d’aver fatto nulla. Il buon Dio farà loro vedere ciò che meritavano i loro peccati, e le penitenze ch’essi hanno fatto. Ahimè! quanti Cristiani perduti! Ma nel giudizio particolare, F. M., si farà ancora un altro esame. Sebbene quanto vi ho detto sembri già rigoroso, questo non sarà meno terribile; voglio dire che Gesù Cristo ci giudicherà sul bene che avremmo potuto fare e che non avremo fatto. Gesù Cristo metterà davanti agli occhi del peccatore tutte le preghiere che non ha fatte, e che avrebbe potuto fare, tutti i Sacramenti che avrebbe potuto ricevere durante la sua vita. Quante volte di più, avrebbe potuto ricevere il suo Corpo ed il suo Sangue, se avesse voluto condurre una vita più santa! Gesù Cristo gli domanderà conto anche di tutte le volte che ebbe il pensiero di fare qualche buona azione e non l’ha fatta. Quante preghiere, quante Messe! Quante confessioni, quante penitenze! quanti atti di carità verso il prossimo! quante privazioni nei pasti, nelle visite! Quante visite di più al Ss. Sacramento nei giorni di festa! Ahimè! quante buone opere tralasciate delle quali saremo giudicati! Gesù Cristo domanderà anche conto di tutto il bene che i nostri buoni esempi avrebbero fatto fare agli altri. Ah! gran Dio! che ne sarà di noi?

II. — Ma, mi direte, che cosa dobbiamo dunque fare, per rassicurarci in un momento così disgraziato per chi avrà vissuto nel peccato, e senza pensare a placare la giustizia di Dio, che le sue colpe hanno sì grandemente irritata? Eccolo.

1° Dobbiamo rientrare in noi stessi, pensare seriamente che non abbiamo ancor fatto cosa che possa darci speranza per quel momento; e che tutti i nostri peccati sono scritti in un libro che il demonio presenterà a Dio affinché Egli ci giudichi, e conosca i nostri peccati anche i più nascosti.

2° Restituire, come Zaccheo, tutto ciò che non è nostro; altrimenti non potremo mai evitare l’inferno. Avere un gran dolore dei nostri peccati, piangerli come fece il santo re Davide, che pianse il suo peccato fino alla morte e non ne commise più. Umiliarsi profondamente davanti al buon Dio, ricevendo tutto ciò che Egli vorrà mandarci, non solo con sottomissione, ma con grande gioia: poiché non c’è via di mezzo: o piangere in questo mondo o piangere nell’altro, là dove le lagrime non servono a nulla, e la penitenza èsenza merito. Non dimenticarsi mai che nonsappiamo il giorno in cui saremo giudicati, e che se disgraziatamente siamo trovati in peccato, saremo perduti per tutta l’eternità. Che dobbiamo dunque concludere, F. M.? – Che siamo assolutamente ciechi; poiché esaminato bene tutto, nessuno potrebbe dire di esser pronto a comparire davanti a Gesù Cristo, e, malgrado questa certezza di non esser pronti, nessuno di noi farà un passo di più verso il buon Dio per assicurarsi una sentenza favorevole. Dio mio! quanto è cieco il peccatore! Ahimè! quanto è deplorevole la sua sorte! No, no, F. M., non viviamo più come insensati, poiché quando meno v i penseremo, Gesù Cristo batterà alla nostra porta. Beato chi non avrà atteso quel momento per prepararsi! Ciò che vi auguro…

LO SCUDO DELLA FEDE (165)

A. D. SERTILLANGES O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (I)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. –

Torino 1944]

INTRODUZIONE

Nel nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo..,

D. Che fai?

R. Segno l’opera mia. Un catechismo è un libro religioso.

— Un segno di croce di solito inaugura una preghiera, e tu parli a increduli.

— La preghiera che io intendo di suggerire è una preghiera universale; chiunque appartenga all’umanità la può intendere.

Il Pater di Cristo.

Padre nostro che sei ne’ cieli, sia santificato il tuo nome: venga il tuo regno: sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dà a noi oggi il nostro pane quotidiano; e rimetti a noi è nostri debiti, comye noi li rimettiamo ai nostri debitori; e non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Così sia.

— Io non potrei ancora pregare così.

— Allora di’ quest’altra preghiera:

Il Pater dell’Incredulo.

Padre nostro, se tu esisti, io oso rivolgermi a te. Se tu esisti, il tuo Nome è santo: sia santificato. Se tu esisti, il tuo regno è l’ordine, e anche il suo splendore: venga il tuo regno. Se tu esisti, la tua volontà è la legge dei mondi e la legge delle anime: la tua volontà sia fatta in noi tutti e in tutte le cose, in terra come in cielo. Dà a noi, se esisti, il nostro pane d’ogni giorno, il pane di verità, il pane della sapienza, il pane della gioia, il pane soprassostanziale che si promette a chi lo può riconoscere. Se tu esisti, io ho dei grandi debiti verso di te: degnati di rimettere i miei debiti, come io stesso li rimetto volentieri a’ miei debitori. Per l’avvenire, non mi abbandonare alla tentazione, ma liberami da ogni male.

D. Bene; ma ho io veramente il diritto di esprimermi in tal modo?

R. Anzi ne hai il dovere. È possibile dubitare; ma quale anima sincera, che vada a fondo di se stessa, può negare Dio con la certezza della propria negazione? La preghiera condizionale è dunque un obbligo, nello stesso tempo che una utile domanda.

LIBRO PRIMO

I PRELIMINARI DELLA FEDE

I. — Dio.

D. Sono io obbligato a far ricerche intorno all’esistenza di Dio?

R. Rifletti a questo: Se Dio esiste, Egli è tutto; se Dio esiste, tu gli devi tutto; se Dio esiste, tu da Lui devi attendere tutto. Concludi.

D. Ma come sì propone il problema di Dio?

R. Noi siamo posti, con una intelligenza, di fronte all’universo, di fronte alla vita, di fronte a noi stessi: noi non possiamo trattenerci dal cercare di intendere, per vivere, e domandiamo al reale le sue carte.

D. Il reale presenta ben altri enigmi.

R. Enigmi parziali, sì; ma, nel suo tutto, anche la realtà universale è un enigma, e appunto a questo risponde l’affermazione di Dio.

D. Neghi tu che la scienza spiega il mondo?

E. La scienza spiega il mondo a modo suo; ma questa spiegazione non è completa, non è totale.

D. Perché non sarebbe completa?

E. Perché le spiegazioni scientifiche, per necessità di metodo, sono tolte dall’esperienza, e allora il voler considerare la spiegazione come completa per mezzo della scienza, sarebbe un volere spiegare il mondo non servendosi che di esso. Ora non si spiega lo stesso per lo stesso.

D. I fenomeni della natura hanno cause che la scienza riesce a spiegare.

R. Sì; ma queste cause hanno le stesse deficienze che i loro effetti; sono esse stesse effetti e domandano altre cause. Rispetto a una spiegazione vera, non si è dunque fatto un passo avanti; la causa e l’effetto si confondono in una comune indigenza. Di tutte le spiegazioni che la scienza elabora si può dire che sono altrettante questioni. Solo al di là si può trovare la spiegazione sufficiente, il cui nome proprio è Dio.

D. Ma la risposta Dio non offre essa stessa le sue oscurità?

R. Sì, offre quella specie di oscurità che si chiama mistero.  Ma questa oscurità è normale, nei riguardi d’una mente limitata. Quello che non è normale è un preteso sistema di spiegazioni che, invece di fermare la mente e di chiudere il suo lavoro, fosse pure nel mistero, la trascina sempre più lontano e, tutto considerato, la inganna, poiché, relativamente al vero problema, il problema universale, essa non si trova in una migliore condizione, e così non si avanza affatto.

D. Resta però qualche paradosso a volere spiegare il chiaro per l’oscuro.

R. Non che essere un paradosso, è una necessità del problema. Se la causa universale fosse per noi chiara come sono i fatti della nostra esperienza, essa stessa formerebbe parte della nostra esperienza, e non potrebbe servire a spiegarcelo. Il mistero di Dio si fa accettare dalla mente appunto perché  oltrepassa la mente e tutto ciò che si misura alla stregua della mente. Senza ciò la mente si sentirebbe obbligata a procedere più avanti nelle sue indagini, e il supremo anello delle cause non sarebbe raggiunto.

D. Insomma, a te preme di spiegare il giorno per la notte.

R. Non diciamo la notte, perché Dio è luce di un’altra specie; ma questa luce unica è inaccessibile ai nostri sguardi mortali, e appunto per questo la si può chiamare una notte. Comprendi che se vuoi spiegare la luce, la nostra, quella di cui si nutrono i nostri occhi o la nostra mente, bisogna che tu arrivi a qualche cosa che non sia luce; finché tu resti nella luce, la luce non ha spiegazione.

D. Ciononostante mi ripugna aumentare la dose del mistero.

R. Non è un aumentare la dose del mistero il concentrarlo in un punto dov’esso è al suo posto, per cacciarlo dagli altri luoghi dove urta la mente.

D. Io ne aumento la dose supponendo Dio; perché Dio è un mistero più grande della composizione dei corpi e delle origini della vita.

R. Qui il mistero si rende accettevole appunto portandolo al suo massimo; se non fosse assoluto, esso sarebbe vano; perché  un misto di luce percettibile ai nostri sguardi, in Dio, rigetterebbe Dio per una parte nel mondo della nostra esperienza, e questo preteso Dio avrebbe dunque lui stesso bisogno d’una spiegazione. La verità intorno a Dio è una verità che cessa di essere verità quando le si toglie il suo velo. Concepire Dio sarebbe in qualche modo fabbricarlo con la mente, e se Dio è, è lui il Fabbricatore della mente. Concepire Dio sarebbe non averlo trovato.

D. Così tu ammetti quello che dicono molti pensatori e che i Cristiani sembrano respingere, cioè che Dio è inconoscibile.

R. Bisogna qui distinguere diligentemente. Dio è pienamente inconoscibile per la scienza, nel senso attuale di questo termine; Egli è a un tempo conoscibile e inconoscibile per la filosofia; è eminentemente conoscibile per l’intuizione, supponendo che le condizioni di questa intuizione trascendente un giorno si verifichino.

D. Vuoi tu spiegarti distintamente?

R. Dio è inconoscibile scientificamente, perché le leggi tratte dai fenomeni non possono oltrepassare il mondo dei fenomeni. Una dimostrazione scientifica dell’esistenza di Dio, nel senso moderno della parola, è una impossibilità, e a più forte ragione uno studio de’ suoi attributi. La scienza non ha per questo né principii né metodo; essa non conosce che fatti e collegamenti di fatti; può classificare, spiegare e prevedere questo dominio; ma le cause prime non la riguardano affatto, appunto perché sono prime, cioè anteriori a tutto il suo lavoro.

D. Ma la filosofia?

R. Per essa, Dio è a un tempo conoscibile e inconoscibile. Ed è quanto dire che si può dimostrare razionalmente che Dio è; perché la ragione oltrepassa i fenomeni e domanda loro delle ragioni; essa procede dagli effetti alle cause, e di causa in causa, là dov’esse si dispongono a scala, la ragione può giungere a una causa prima, o se si vuole a una supercausa. Ma il carattere stesso di questa causa, perché possa fare la parte che le si attribuisce, è di essere infinita e per conseguenza inaccessibile in se stessa. La nomineremo, ma dal creato; la caratterizzeremo, ma con caratteri che non serviranno se non per il nostro modo di concepire, i quali in Dio stesso andranno a risolversi nell’Uno ineffabile, nella suprema indistinzione del Perfetto.

D. Tu parlavi d’intuizione.

R. Sì; l’intuizione ha già i suoi accessi presso Dio in rari individui e in rare occasioni di questo mondo, e più tardi la ritroveremo in tutti gli eletti, perché essa sfugge al funzionamento zoppicante della ragione ragionante, alla sua necessità di ridurre tutto in concetti e in proposizioni, non conoscendo così se non come «in uno specchio », «in enigmi », al contatto delle immagini interiori, invece di afferrare l’oggetto con una presa immediata e con una sintesi di vita. Dio è in se stesso eminentemente conoscibile, essendo tutto idea e spirito. La questione è di essere al suo livello. Vi ci mette Egli stesso se così vuole. Noi crediamo che Egli vi ci mette mediante il soprannaturale, mediante la grazia e la gloria; vi ci solleviamo remotamente con lo sforzo titubante del pensiero filosofico; non vi ci troviamo più affatto al piano della scienza. Di qui contesa fra coloro che rifiutano di distinguere i piani; accordo nella diversità per gli altri.

D. Il fatto è che Egli per noi, quaggiù, è inconoscibile in se stesso; e allora perché studiarlo?

R. Difatti, Dio è per noi, quaggiù, inconoscibile in se stesso. ,Nessun concetto è abbastanza largo per questa sostanza illimitata. Lui solo può definire se stesso; Lui solo può dire se stesso con una parola viva, che è il suo Verbo; Lui solo, come espressione, è uguale a se stesso come fatto. Tuttavia l’indagine intorno a Lui è sempre aperta; le sue opere ce lo rivelano con le loro analogie e coi loro simboli, e quanto più la mente vi si avanza, tanto più si arricchisce. Lo studio di Dio è una navigazione in un mare fastoso, e splendido, e salutare.

D. Ammetto un arricchimento occasionale; la storia dello spirito umano ne fa testimonianza; ma è tuoi modi di pensare Dio e di parlare di Dio non sono in opposizione con quello che tu stesso hai detto del mistero di Dio?

R. Bisogna ben che gli uomini « esprimano come possono quello che non possono esprimere abbastanza come Egli è ». (BOSSUET).

D. A che servono queste espressioni?

R. A vivere di Dio per lo spirito, dovendo viverne moralmente, a fine di raggiungerlo un giorno.

D. Non temi la puerilità?

R. Puerilità, forse, ma allora in un senso nobilissimo e dolcissimo. L’idea di Dio incoraggia la mente con la sua stessa grandezza, che è al di sopra della grandezza. Se Dio fosse solamente grande, sarebbe grande a tal segno che noi non ne potremmo più dire niente; ma, poiché Egli oltrepassa infinitamente ogni grandezza e l’uguaglia alla piccolezza, Egli ridiventa familiare, e noi ne parliamo con la libertà dei bambini a riguardo di tutti.

D. Non ti pare che l’idea di Dio, concepita come la spiegazione delle cose, non sia che un’anticipazione, preludio della scienza?

R. In ciò che dici vi è del vero; ma vi è soprattutto del falso, ed ecco, io credo, come si fa la spartizione. Al principio, non avendo nessuna spiegazione immediata dei fenomeni e ubbidendo a quel senso dell’assoluto che è un fatto umano, per rendersi conto di ciò che si vede, si ricorre all’unica causa prima. Dio sostituisce l’esperienza, la scienza, la metafisica delle cause, la morale. A tutto, si risponde: Dio! e si trascurano le altre risposte. Poi, credendo di trovare e trovando di fatto delle spiegazioni, si rinnegano le credenze primitive; la scienza si laicizza, e i sapienti orgogliosi scivolano nell’ateismo, nell’agnosticismo, o sembrano ad ogni modo prestare argomenti alle negazioni di una folla ignorante o semidotta. Finalmente, rendendosi conto del carattere relativo delle spiegazioni della scienza, degli acquisti dell’esperienza e dei dati della metafisica, generale se la si vuota del primo Principio, si ritrova al di là il mistero, e, con esso, il « Dio nascosto ».

D. Ma, d’altra parte, e generalizzando, Dio non sarebbe semplicemente l’accumulamento semplificato dei nostri sogni, la «categoria dell’ideale », come dice Renan?

R. Dio è questo; difatti noi lo concepiamo, rispetto alla natura, come la Causa; rispetto alla ragione, come la Verità; rispetto alla volontà, come il Bene; rispetto al cuore, come il Padre; rispetto alla ricerca universale, come la Felicità; il tutto con delle lettere maiuscole, cioè come categoria dell’ideale, poiché in ogni cosa Egli è il Perfetto. Ma Dio non può essere il Perfetto e l’Ideale se non a patto di essere reale; infatti che cosa è una perfezione senza esistenza? Io oserò dire: è a forza di idealità che Dio è reale, ed è a forza di realtà che egli è ideale.

D. Non vi è qui del paradosso?

R. Niente affatto. L’ideale è la più reale delle cose, o non è l’ideale; parimenti il reale è la più ideale delle cose, sotto pena di essere imperfetto, cioè semireale. Il proporci, noi stessi, un ideale, non è forse un dare a noi stessi qualche cosa da realizzare? Il proporci un ideale perfetto e ottenerlo sarebbe un porre Dio. Ma Dio è, senza del quale nessun ideale parziale sarebbe concepibile, non essendo mai altro che un imprestito, un frammento di blocco del quale cerchiamo le origini e le fasi. La natura ci conduce più lontano di se stessa; la natura non è se non l’immagine movente di un eterno Pensiero; vi è una chiamata essenziale dell’imperfetto al Perfetto, degli esseri all’Essere.

D. Se Dio è reale, e se è Realtà perfetta, l’Essere, come dici tu, Dio non si confonde forse con l’universo, col Tutto?

R. Tu ci dai così la formula del panteismo, e bisogna confessare che il panteismo è seducente.

D. Donde viene secondo te questa seduzione?

R. Dall’abbagliamento dell’infinito. Da ciò proviene questa poesia da cui molti si lasciano prendere, e questa metafisica profonda benché fallace. Il filosofo cristiano, moralmente annientato davanti all’infinito, non si lascia abbagliare, Egli serba, del panteismo, tutta la poesia e tutto ciò che vi è di positivo nella sua filosofia; e ne è assicurato in grazia del suo concetto dell’intima presenza di Dio in tutte le cose, della vita in Dio di tutte le cose, ma senza pregiudizio dell’essere proprio e dell’attività di ciascuna cosa, che, sprofondandosi in Dio, suo Principio, trova se stessa e si conforta, invece di abolirsi.

D. Non hai risposto alla mia obiezione: se Dio è la Realtà perfetta, egli è il Tutto, e coincide così con l’universo.

R. Dio è il tutto, in questo senso che tutto l’essere gli appartiene, tutto l’essere è in lui, tutto l’essere è di lui, « Egli è ogni essere eminentemente e virtualmente » (S. Tommaso

D’AQUINO); è «il Tesoro dell’essere » (idem). Ma appunto per questa ragione Egli non è l’universo, cosa imperfetta e mutevole, dove la sua unica pienezza si avvilirebbe.

D. Se Dio non è l’insieme degli esseri, dunque è un essere determinato, cioè finito.

R. Dio non è un essere determinato nel senso della tua frase; ma se Egli è indeterminato, è per la sua perfezione stessa, che nessuna determinazione esaurisce, e perciò non è finito.

D. Allora Dio infinito e l’universo distinto da Lui si addizionano; Dio e l’universo sono più che Dio, cioè più che l’infinito il che è assurdo.

R. Il mio corpo e la sua ombra sul muro, il mio corpo e il suo riflesso nell’acqua, sono forse più che il mio corpo affatto solo?

D. Lo so: l’ombra e il riflesso non sono reali; ma il mondo è reale.

R. Il mondo è reale per noi e reale in se stesso; ma esso non è tale affatto per rapporto a Dio, essendo impotente a posare in faccia a Dio, come una cosa che sussisterebbe fuori di Dio. A questo riguardo, non è che un’ombra, una manifestazione della divina Presenza, un’effusione dell’Amore. La creatura non ha di proprio altro che il niente; per Dio essa esiste; ma non avendo niente di proprio, il fatto che essa esiste per mezzo di Dio non aggiunge niente a Dio, non si compone con Dio, non cambia niente alla totalità dell’Essere, del quale il nome proprio è Dio.

D. Dio è personale, è un’immensità resa impersonale dalla sua ampiezza?

R. Dio è un’immensità senza sponde, e perciò non è personale alla maniera di un uomo. Noi non crediamo al Dio-finito di Renouvier, o al Dio-uomo di Swedenborg. Ma Dio è sommamente personale per la sua stessa immensità, cioè per la sua perfezione; perché, quanto più la perfezione sale, quanto più l’intellettualità e la coscienza si concentrano, tanto più la personalità si compie. Del resto non andare a dire a un Cristiano che Dio non è personale, quando quello che egli trova in Gesù Cristo è Dio in persona. Dio ha dimostrato la sua personalità apparendoci, come si dimostra il movimento camminando, checché ne sia delle difficoltà di Zenone d’Elea e de’ suoi seguaci.

D. E che dici della filosofia che sfugge a tutte queste questioni sotto il nome di materialismo?

R. Il materialismo ha due vantaggi: fà dell’universo un trastullo magnifico per il nostro orgoglio e un covo libero per le nostre passioni. Fuori di questo, è una « filosofia » che non merita neppure un posto nel catalogo degli errori.

D. Potresti giustificare una tale severità?

E. Il materialismo è una dottrina che alle meraviglie visibili assegna imbecilli spiegazioni, e alle meraviglie invisibili, quelle dell’anima, spiegazioni inesistenti, non accostando in nessun modo l’ordine dei fatti che essa vuole spiegare,

D. Almeno le sue spiegazioni sono semplici, e non contradittorie.

R. Le sue spiegazioni sono semplici fino all’ingenuità; esse consistono nel costruire i corpi con dei corpi più piccoli, « come se si costruissero le case con delle case» (ARISTOTILE), e in quanto allo spirito e alle cose dello spirito, il materialismo non le spiega, ma se le attribuisce, trovandosi esausto quando ha dichiarato in quali condizioni si constatano. Tu dici che esso non è contradittorio: ma non c’è una contradizione evidente tra il materialismo e questo semplice enunziato: le leggi della materia, che i materialisti hanno continuamente in bocca? Dire che la materia è retta da leggi, non è forse uno schierarla sotto il regno dello spirito? « La legge è un dettame della ragione », dice S. Tommaso d’Aquino, e nessuno può accusare di falso una definizione così lucida. Quei che non credono se non agli atomi combinati sotto certe « leggi » dovrebbero ben dire chi ha insegnato agli atomi l’autorità di queste leggi e li inclina all’ubbidienza. E se dalle leggi elementari ti elevi alle leggi più complesse della chimica e della mineralogia, della vita e della comunicazione della vita, della sensazione e del pensiero, della psicologia superiore e della moralità, chi non vede crescere indefinitamente l’assurdità di attribuire tutto ciò a materia senza finalità immanente, senza idea direttrice, direbbe Claudio Bernard, per conseguenza senza un Pensiero anteriore e superiore ad essa, e, poiché l’idea immanente alle cose è evidentemente costitutiva, e non semplicemente motrice, senza un Creatore? Ancora ho trascurato di osservare che la « materia » dei materialisti fugge sempre più davanti alla scienza contemporanea, come se alla fine dovesse svanire a profitto della legge stessa, e proclamare così il regno universale dello spirito. Tutto quaggiù è forma, numero, armonia, ripetizione e ritmo, danza e musica; niente è materia inerte e cieca. Ogni essere tende, cerca, gravita, raggiunge altre gravitazioni, altre ricerche, altre tendenze, e un universo si forma in cui lo spirito splende maggiormente, svelando una Sorgente di idealità che si espande, un’armonia fondamentale, un Pensiero primordiale, un supremo Spirito.

D. Tu tendi così a dimostrare Dio per mezzo dell’ordine del mondo; è la tua unica prova, o ne hai delle altre?

R. Vi sono tante prove dell’esistenza di Dio quante se ne vogliono, e non ce n’è che una sola. Tutte si riducono a questo: Vi è qualche cosa, dunque Dio c’è. Dopo ciò puoi sminuzzare il qualche cosa e fare de’ suoi frammenti altrettante prove. Del resto, siccome uno sminuzzamento intelligente dovrà procedere per gradi, per generi di cose, troverai prove privilegiate, specifiche. In tal modo S. Tommaso riconobbe cinque vie per far capo al sommo Essere.

D. Qual è secondo te la prova più certa?

R. Sono tutte certe.

D. Qual è quella che colpisce di più?

R. Appunto quella per l’ordine della natura, i pensatori più refrattari, come Emmanuele Kant, hanno dovuto concederne il valore.

D. Qual è la sua sostanza?

R. « L’ordine è l’opera del sapiente », disse Aristotile. Noi crediamo alla sapienza umana perché vediamo le sue opere, cioè l’ordine che introduce attorno a se stessa, ne’ suoi dominii, nelle creazioni della sua industria, nelle istituzioni che fonda, nelle regole d’azione che dà a se stessa e che intima a ciò che essa deve reggere. Ma la sapienza umana non trova da applicarsi se non perché un’altra sapienza la precede, e questa sapienza anteriore, quella della natura, sulla quale s’innesta la nostra, è ben più profonda. Chi può sfaccettare una pietra con tant’arte com’essa è sfaccettata dentro, per il fatto della sua costituzione stessa, così sconcertante per la scienza che vi penetra a tentoni? Chi può fare, con della canapa, un tessuto così maraviglioso come lo stelo della canapa, e come la sua foglia, e come il suo seme? E così avviene di tutto. Se dunque io credo alla sapienza umana, come non crederei alla sapienza che essa utilizza, alla sapienza che essa dischiude, e se questa sapienza della natura è tanto incosciente quanto meravigliosa, come non cercarne la sorgente in qualche Intelligenza suprema di cui tutta l’arte della natura non è che una manifestazione? « Il visibile, dice Leone Bloy, è la traccia dell’invisibile ».

D. Quali sono, secondo te, i segni essenziali dell’ordine, in seno alle cose?

R. Ordine di ciascuna cosa in se stessa; — ordine di produzione di ciascuna cosa per una convergenza di elementi, per un concorso di serie causali; — ordine delle cose tra loro per fare degli insieme e degli insieme per fare un cosmo; — ordine del cosmo e dell’anima che s’incontrano nella sensazione, nel pensiero, le due più sublimi realtà che esistano.

D. Vi è un rapporto tra quest’ordine di manifestazione del reale e l’ordine intimo del pensiero stesso?

R. « Un albero germoglia per sillogismo », disse Hegel.

D. E con l’arte?

R. Quando dall’arte, dal ritmo, dalla poesia e dalla musica, tu stesso ti senti trascinato nell’ordine del mondo e comunichi a’ suoi movimenti, di’ se l’emozione provata nelle parti alte dell’anima tua non ha un carattere religioso. L’arte è una « religione », perché la bellezza è ordine, e l’ordine è divino.

D. Puoi completarne la prova?

R. I rapporti delle cose tra loro, degli elementi tra loro, delle serie causali che s’incrociano e organizzano concorsi, degli insieme parziali che ne incontrano altri in sempre più vaste combinazioni, tutto ciò dà prova di un pensiero che mette insieme e adatta come progetto, di una preconcezione che il fatto realizza. L’occhio è organizzato per vedere, il frutto per germogliare; le potenze della vita come le potenze astrali sono fidanzate prima del connubio dell’azione e delle evoluzioni comuni. «Il mondo è il risultato di accordo infinito », scrive Novalis. Gli scambi universali ci appariscono a un tempo come fenomeni e come tendenze, come effetti e come disegni, e l’idea di una sapienza organizzatrice brilla al contatto. Quest’idea è in noi, e l’ordine è nelle cose; ma al di sopra, per giustificare l’idea e per fondare le cose tali quali sono, armoniche e sagge, ci vuole qualche idealità. superiore, una sapienza, un’arte, e non è forse questo uno degli aspetti di Dio? La natura è come un volto la cui fisonomia esprime l’anima segreta e quest’anima è Dio) La natura è un macchinario meraviglioso, il meccanico del quale è Dio. Dietro il fatto vi è l’energia, dietro l’energia la legge, oltre la legge il piano, sopra il piano l’architetto e l’architetto è Dio. E devi notare che nella natura, l’ordine è tanto più ammirabile quanto più gli esseri sembrano formati di un piccolissimo numero di elementi, sotto leggi alla loro volta pochissimo numerose. L’autore dell’ordine sembra che possa fare tutto con tutto, anzi con un solo cenno. Per negare quest’autore divino, bisogna ammettere una inintelligenza o una non-intelligenza più intelligente dell’intelligenza stessa. L’universo come lo conosciamo e specialmente come lo congetturiamo, l’universo con la sua organizzazione di un’estensione e di una profondità così sbalorditive, è un peso che Dio solo può portare; nessun Atlante, figlio di un Giove sottomesso al Destino, potrebbe essere a ciò sufficiente. Se Dio non esiste, non ci vuole molta immaginazione né molto sentimento per essere invasi da un senso di assurdità spaventosa, da un’immensa oscurità. Dio è veramente la Luce del mondo, creatrice della verità delle cose e del suo riflesso in noi. È lui lo Spirito nascosto di tutte le creature, l’Essere del loro essere, la Verità di cui esse non sono, per così dire, che i fantasmi, poiché senza di Lui, senza l’influsso permanente della sua presenza, esse non sarebbero affatto.

D. A queste condizioni, non si dovrebbe pensare che a Dio, o per lo meno a niente senza Dio.

R. «Dimenticato Dio, più nulla è degno di memoria» (CARLYLE).

D. Tu parli dell’influsso divino come d’un fattore permanente delle cose: è veramente opportuno cercare qualcosa di « permanente » in questo mondo dove tutto muore?

E. Non si può dire: tutto muore. È vero che le cose di questo mondo non ci son note e non sono da noi adoperate se non secondo che passano; noi registriamo la loro fuga; appunto in grazia della loro morte noi le assimiliamo; ma bisogna che qualcosa resti; se tutto passasse, non ci sarebbe territorio del passaggio, non legge reggente il passaggio, non potenze stupefacenti per i fatti particolari, non trama per la decorazione. E bisogna che ciò che resta abbia di che restare, di che mantenersi così saldo, così immortale. Bisogna che il necessario ci sia, e al di sopra del necessario che è tale solo di fatto e non per se stesso, ci vuole il Necessario primo, necessario per definizione, nel quale scorre tutto quel che scorre. Quel che muore, muore in Dio.

D. Ciò suppone l’ubiquità; ora come può Dio essere presente dovunque nello stesso tempo, e tuttavia essere invisibile?

R. Pascal matematico ne fornisce questa immagine: «un punto che si muove dappertutto con una velocità infinita; infatti esso è uno in tutti i luoghi ed è tutto intero in ciascun luogo ». Abbiamo qui solamente un’immagine spaziale, che non ha valore se non nell’ordine astratto. Ma se tu la trasporti nell’ordine dell’esistenza, ti fai un’idea di quella realtà indivisa e infinita, che avviluppa tutto immediatamente col suo potere creatore e organizzatore.

D. Io ho udito ragionare così: Non sì ha bisogno di Ordinatore; perché il caso, disponendo dell’infinità del tempo, ha davanti a sé un’infinità di combinazioni possibili, dunque anche quella che è sotto è nostri sguardi.

R. Quando un uomo ragiona in tal modo, io non faccio appello ai matematici per rispondergli; ma gli domando: Sei  matto? Queste idee reggono davanti alle idee, ma crollano davanti ai fatti. Pensa alla struttura di un occhio di moscerino, al moscerino, alla sua vita, alla sua riproduzione ammirabile, alla sua eredità secolare, alla stabilità dinamica dell’universo in cui si evolve questa piccola specie in compagnia di milioni d’altre, e tu riderai di codeste stoltezze.

D. Ma altri dicono, con più verosimiglianza: Il cammino del mondo è impeccabile e d’un rigore infrangibile, dunque non ha bisogno di Dio.

R. Che lode di Dio!

D. Che cosa intendi di dire?

R. Che questa apparente inutilità di Dio è anzi quello che lo esige con maggiore forza, come l’orologio dà prova dell’orologiaio camminando da sé solo meglio che se egli dovesse spingerne le ruote. Il cammino del mondo è d’un rigore infrangibile una volta posto il mondo, una volta caricato questo meraviglioso automa che nessuna sorpresa dei fatti sconcerta; ma io domando ancora una volta: Chi ha fatto il mondo?

D. Si dice che è il frutto dell’evoluzione.

R. Se l’ipotesi dell’evoluzione è vera, Dio è dimostrato due volte, una volta dal mondo stesso e una volta dall’evoluzione.

D. Come ciò?

R. Perché creare una macchina utensile di una tale perfezione e d’una tale potenza è più difficile che creare un oggetto. Il mondo è un oggetto sorprendente; ma che dire di quella miracolosa forza di evoluzione che lo fabbrica ciecamente! Di quale perspicace pensiero è l’organo una tale cecità! L’evoluzione che si pretende creatrice al posto di Dio, è un sistema di conseguenze sempre più ricco senza che vi sia alla base alcun principio; è una geometria eterna senza « Assioma eterno ». In vero io capisco Descartes che dice: « L’esistenza di Dio è più certa che il più certo dei teoremi di geometria ». Per me, se l’evoluzione esiste — ed esiste necessariamente in qualche misura — essa dimostra, oltre la potenza sovreminente di Dio, la discrezione generosa che lo fa agire per mezzo della stessa opera sua, dopo aver reso quest’opera attiva e potente. In tal modo Cristo seminò alcuni germi immortali e affidò a’ suoi Apostoli, alla sua Chiesa, le sue speranze dell’avvenire.

D. Mi pare che tu attribuisca così alla natura un immenso sforzo, dei piani meravigliosi. Ora Enrico Bergson dice all’opposto: La natura non ha nessun piano preconcetto; essa inventa a proposito, e « per lei è così facile fare un occhio come per me alzare la mano ».

R.Tutto ciò non si contradice affatto. La natura non ha piano preconcetto; neppure l’ape, e in nessuna parte del mondo vi è un modello dell’alveare. L’alveare è una «invenzione» del genio della specie, sia pure, un’invenzione spontanea, senza partito preso antecedentemente, in tal modo che il piano non esiste che in noi, dopo un atto di riflessione, per il fatto delle analisi che facciamo del meraviglioso lavoro. Ciò non m’incomoda affatto. Ma io domando sempre che mi si trovi un’origine prima a questo sforzo d’invenzione, all’invenzione quando esiste, alla nostra mente che l’analizza, al piano che è il prodotto della nostra mente, al tutto di quest’ordine di fatti, che non basta descrivere per renderne ragione. Bergson non si oppone a questa richiesta, tutt’altro. In quanto allo sforzo della natura, è un modo di parlare. La natura è un’arte, e l’arte non fa sforzo salvo che quando è imperfetta. Un occhio non è che un arpeggio complicato; la natura lo produce con la squisita facilità di un perfetto virtuoso; ma quanto più la sua arte è impeccabile e semplice ne’ suoi mezzi, tanto più la natura ha bisogno di una sorgente sublime.

D. E se il mondo, tal quale, è sempre esistito?

R. La durata non è una spiegazione. Per quanto sia lunga, le si deve chieder ragione di ciò che essa contiene. Spiegheresti una locomotiva e forniresti la ragione del suo cammino dicendo che essa ha sempre camminato? La ragione del cammino non è qui in addietro; i motivi delle cose non si raggiungono nella corsa. Il cammino si spiega per la complicazione intelligente del congegno, cioè per l’arte del meccanico; si spiega per le proprietà del vapore, dell’aria, del suolo, dei materiali adoperati, dell’ambiente universale in cui tutto s’immerge, cioè per l’arte della natura che il meccanico ha saputo utilizzare. L’armonia di tutto l’universo si trova impegnata in questo semplice fatto; essa non sarebbe meno impegnata in qualsiasi altro, e tutti i fatti provano così un Ordinatore.

D. Che cosa dici tu a quelli che non arrivano a dimostrarsi Dio per via di ragione?

R. Di cercarlo nel loro cuore, e di cercarlo all’uopo per il tramite della fede.

D. È questa una cosa possibile?

E. Non solo è cosa possibile, ma anche frequente, Poiché Dio si è rivelato nel mondo, se ne può trovare la traccia nei fatti di rivelazione come nei fatti di natura. Era il procedimento raccomandato da Pascal come il più efficace. La credenza in Dio, che è l’ultima parola della filosofia, è la prima della fede: «Io credo in Dio, Padre onnipotente, ecc…. ». In filosofia, tutta la cognizione umana mira appunto a rischiarare debolmente la nozione di Dio. Nella fede, l’ordine è inverso; è Dio, sorgente di ogni luce, che sfavilla anzitutto e rischiara potentemente tutto il resto. Se la natura ci parla di Dio, la fede ce ne dice a suo riguardo, in poche parole, più che tutto l’universo insieme, e allontana i pensieri ingannevoli che sottili apparenze provocano in tante menti.

D. La dimostrazione razionale di Dio ti pare însomma poco utile?

R: È utile come preambolo della fede; ma in se stessa è insufficiente alla salute degli uomini, La ragione affatto sola di fronte a Dio non può comunicare con Dio; le manca la scala viva, le manca il ponte. Il Dio che bisogna conoscere non è il « Dio dei filosofi e dei sapienti », ma il « Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe », il « Dio di Gesù Cristo ». «È un Dio di amore e di consolazione; è un Dio che riempie l’anima e il cuore di quelli che Egli possiede; è un Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria e la sua misericordia infinita; che si unisce al fondo dell’anima loro, che la riempie di umiltà, di gioia, di confidenza e di amore; che la rende incapace d’altro fine che non sia Lui stesso » (PASCAL).

D. Il sentimento prende così una grande importanza nella credenza în Dio.

R. «Si crede in Dio in virtù di ciò che si ama, assai più che in virtù di ciò che si sa » (PIETRO LASSERRE).

D. Che cosa pensi tu dell’ateo?

R. In un certo senso non vi sono atei: vi è solo gente inconseguente, che affermando Dio tutte le volte che proferiscono una parola o fanno un passo, si servono nondimeno della parola per negare Dio. Sotto tutte le idee che si oppongono a Dio, vi è l’idea di Dio. Sotto i sentimenti che allontanano da Dio, vi è una sete che è la sete di Dio. Ogni uomo crede alla verità, apprezza il bene e tende alla felicità; tutta quanta la nostra vita gravita attorno a queste nozioni, e sempre più a misura che il mondo s’incivilisce. Ora ciascuna di queste nozioni conclude per Dio nel modo più manifesto, e nel loro senso assoluto sono attributi divini. Nietzsche lo riconobbe, dicendo: « È con la fede in Dio che, nel mondo moderno, si è significato il congedo a questa stessa fede » « L’ateo parla della natura come di una madre che è nei cieli» (Enrico Bidou). Nondimeno l’ateismo esiste in quanto affermazione volontaria, ed ecco quel che ne penso. Io faccio una gran differenza tra l’ateo gaudente, « simile alla bestia, che grufola nella pozzanghera senza vedere in fondo il riflesso del ciélo » (GIUSEPPE SERRE), e l’ateo per errore, per deviazione intellettuale, anzi per reazione contro falsi deismi che egli sa rigettare e non sa sostituire.

D. Vi sono dunque falsi deismi?

R. Sì, coloro che pongono un Dio da invetriata o un « Dio della buona gente » senza nessun valore filosofico.

D. Ci possono dunque essere degli atei di buona fede?

R. Ognuno di noi ne può incontrare ogni giorno.

D. Non si dice il contrario, nelle vostre scuole di teologia?

R. Si dice con ragione che una cosa così certa, per una coscienza retta, come l’esistenza di Dio, non può essere disconosciuta senza peccato. Ma anzitutto vi sono sincerità peccaminose, quelle che risultano da gravi negligenze o da infedeltà anteriori. Poi, non è necessario che il peccato così affermato sia un peccato individuale; ciò può essere un delitto collettivo, i cui effetti si comunicano a innocenti ingannati. I responsabili sono appunto coloro che creano tali correnti; quei che le seguono per un attraimento involontario devono essere assolti e soccorsi.

D. E come sì spiega che Dio, così evidente secondo te, possa essere così abbandonato?

R. Dio è abbandonato — e offeso — come il vecchio da una generazione troppo ardente. L’eccesso anarchico della vita materiale, della vita sensibile, della vita intellettuale stessa, cagiona questo spaventevole abbandono.

D. Non c’è nulla di elevato, nell’ostracismo inflitto all’idea di Dio?

R. La disgrazia degli uomini è di volgere contro la propria salute gli stessi loro pensieri salutari. Si è fatto credere all’umanità che l’idea di Dio era un ostacolo alle sue aspirazioni, una preoccupazione estranea o ostile a’ suoi compiti; ed essa ritornerà a Dio quando avrà capito che l’idea di Dio non allontana precisamente se non ostacoli; che solamente questo preteso nemico delle sue soddisfazioni rende la vita degna di essere vissuta, e che tutti i compiti umani, in ciò che hanno di sacro e di durevole, sono resi più facili e più dolci col suo concorso. « L’uomo potrà dominare e la sua propria natura e il mondo che egli abita, prendendo il suo punto di appoggio al di sopra di sé, nell’idea stessa del Fine per il quale egli è nato » (EMILIO BOUTROUX).

D. Intanto vi sono degli atei che sono forti.

R. «Ateismo, segno di forza di spirito, scrive Pascal, ma solamente fino a un certo punto ».

D. E che sono tranquilli.

R. Io credo alla calma della loro angoscia.

D. In ultima analisi, qual è, secondo te, l’atteggiamento degli uomini riguardo a Dio?

R. «Gli uni temono di perderlo, gli altri temono di trovarlo » (PASCAL).

LO SCUDO DELLA FEDE (166)

FESTA DELLA B. V. MARIA DEL CARMELO (2021)

MADONNA DEL CARMELO (2021)

Quando il santo giorno di Pentecoste gli Apostoli, divinamente ispirati, parlavano diverse lingue, e facevano molti miracoli invocando l’augustissimo nome di Gesù, numerosi uomini (a quanto si racconta), che si erano messi a seguire le orme dei santi profeti Elia ed Eliseo, e che Giovanni Battista colla sua predicazione aveva preparati alla venuta di Cristo, avendo riconosciuta e constatata la verità delle cose, abbracciarono subito la fede del Vangelo, e cominciarono a venerare e ad amare con tale singolare affetto la beatissima Vergine (dei cui colloqui e familiarità poterono felicemente godere) che primi fra tutti costruirono un santuario alla stessa purissima Vergine su quel medesimo punto del monte Carmelo, dove Elia aveva già visto innalzarsi una nuvoletta, espressiva figura della Vergine.

Radunandosi dunque più volte al giorno nel nuovo oratorio, vi onoravano con pie pratiche, con preghiere e lodi la beatissima Vergine come singolare protettrice del loro ordine. Così cominciarono ad essere chiamati dappertutto fratelli della beata Maria del Monte Carmelo; e i sommi Pontefici non solo confermarono questo titolo, ma concessero indulgenze speciali a quelli che designassero sotto questo titolo o l’ordine in generale o i fratelli in particolare. Ma col nome e la protezione la generosissima Vergine concesse loro anche l’insegna del santo scapolare, ch’ella diede al beato Simone, Inglese, affinché con questa veste il santo ordine si distinguesse da ogni altro, e fosse preservato dai mali avvenire. Ma quest’ordine essendo sconosciuto in Europa, e perciò molti avendo fatto istanza ad Onorio III perché lo sopprimesse, la Vergine Maria apparve di notte ad Onorio ingiungendogli di concedere la sua benevolenza all’istituto e ai suoi membri.

Né in questo mondo soltanto, la beatissima Vergine ha voluto colmare di prerogative un ordine che le è sì caro, dacché è pia credenza che anche nell’altro mondo (il suo potere e la sua misericordia valgono dappertutto moltissimo) ella soccorra con affetto veramente materno e introduca quanto prima, col suo intervento, nella patria celeste quei suoi figli che stanno espiando nel fuoco del purgatorio, e che ascritti alla confraternita dello scapolare, praticarono le leggere astinenze e le piccole preghiere, e osservarono la castità a seconda del proprio stato. Così arricchito di tanti e sì grandi favori, quest’ ordine istituì una solenne Commemorazione della beatissima Vergine da celebrarsi perpetuamente ogni anno a gloria della Vergine medesima.


Omelia di s. Beda, il Venerabile, presbitero.
Lib 4 Cap 49 su Luca 11

Luca XI: 27-28

… In quel tempo, mentre Gesù parlava alle turbe, una donna, alzando la voce in mezzo alla folla, gli disse: “Beata colei che ti fu madre“. (continua nella Messa del giorno).
Questa donna si mostra in possesso di devozione di fede profonda, poiché, mentre gli scribi ed i farisei tentano il Signore e lo bestemmiano, ella riconosce davanti a tutti la sua incarnazione con tanta sincerità, e la confessa con fede così grande, da confondere e la calunnia dei grandi presenti e la perfidia dei futuri eretici. Infatti, come allora i Giudei, bestemmiando contro le opere dello Spirito Santo, negavano che Cristo fosse vero Figlio di Dio consustanziale al Padre; così in seguito gli eretici, negando che Maria sempre Vergine avesse somministrato, per opera e merito dello Spirito Santo, la materia della propria carne al Figlio unigenito di Dio che doveva nascere con un corpo umano, sostennero che non si doveva riconoscere come vero Figlio dell’uomo e della medesima sostanza della madre. Ma se si ritiene che il corpo preso dal Verbo di Dio incarnandosi è estraneo alla carne della vergine Madre, senza motivo vengono detti beati il seno che lo portò e il petto che lo allattò. Ora l’Apostolo dice: Poiché Dio mandò il suo Figlio, fatto da una donna, sottomesso alla legge. E non bisogna dar retta a coloro che pensano si debba leggere: Nato da una donna, sottomesso alla legge, ma bisogna invece leggere: “Fatto da una donna”; perché, concepito nel seno di una vergine, ha tratto la carne non dal nulla, non da altra cosa, ma dalla carne materna. Altrimenti non si potrebbe dire con verità Figlio dell’uomo colui che non ha avuto origine dall’uomo. Anche noi dunque alziamo la nostra voce contro Eutiche insieme con la Chiesa cattolica, di cui questa donna fu figura; solleviamo anche la mente dal mezzo della folla e diciamo al Salvatore: “Beato il seno che ti ha portato e il petto che hai succhiato”. Poiché è veramente madre beata ella che, come disse un autore, ha dato alla luce il Re, che regge il cielo e la terra per i secoli. Non solo, ma beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica. Il Salvatore approva eminentemente l’attestazione di questa donna, affermando che è beata non sol- tanto colei che aveva meritato di essere madre corporale del Verbo di Dio, ma che sono beati anche tutti coloro che si sforzeranno di concepire spiritualmente lo stesso Verbo istruendosi nella fede e che, praticando le buone opere, lo faranno nascere e quasi lo alimenteranno sia nel proprio cuore, sia in quello del prossimo Infatti la stessa Madre di Dio è sì beata per aver contribuito nel tempo all’incarnazione del Verbo, ma è molto più beata perché meritò, amandolo sempre, di custodirlo in sé eternamente.

ORATIO

406

O Vergine benedetta, o piena di grazie, o Regina dei Santi, quanto m’è dolce di venerarti sotto questo titolo di Madonna del Monte Carmelo! Esso mi richiama ai tempi profetici di Elia, quando Tu fosti, sul Carmelo, raffigurata in quella nuvoletta, che poi, dilargandosi, si aprì in una pioggia benefica, simbolo delle grazie santificatrici, che ci provengono da te. Sin dai tempi apostolici Tu fosti onorata con questo misterioso titolo: ed ora mi rallegra il pensiero che noi ci uniamo a quei primi tuoi devoti e con essi ti salutiamo, dicendoti: O decoro del Carmelo, o gloria del Libano, Tu giglio purissimo, Tu rosa mistica del fiorente giardino della Chiesa. Intanto, o Vergine delle vergini, ricordati di me miserabile, e mostra di essermi madre. Diffondi in me sempre più viva la luce di quella fede che ti fece beata; infiammami di quel. l’amore celestiale, onde Tu amasti il Figliuol tuo Gesù Cristo. Son pieno di miserie spirituali e temporali. Molti dolori dell’anima e del corpo mi stringono da ogni parte ed io mi rifugio, come figliuolo, all’ombra della tua protezione materna. Tu, Madre di Dio, che tanto puoi e tanto vali, impetrami da Gesù benedetto i doni celesti dell’umiltà, della castità, della mansuetudine, che furono le più belle gemme dell’anima tua immacolata. Tu concedimi di esser forte nelle tentazioni e nelle amarezze, che spesso mi travagliano. Allorchè poi si compirà, secondo il volere di Dio, la giornata del mio terreno pellegrinaggio, fa’ che all’anima mia sia donata, per i meriti di Cristo e per la tua intercessione, la gloria del paradiso. Amen.

Indulgentia quingentorum dierum (Breve Ap., 12 apr. 1927: S. Pæn. Ap., 29 apr. 1935).

VI

ACTUS REPARATIONIS CONTRA BLASPHEMIAS IN B. M. VIRGINEM

328

Gloriosissima Vergine, Madre di Dio e Madre nostra Maria, volgete pietoso lo sguardo verso di noi poveri peccatori, che afflitti da tanti mali, che ci circondano in questa vita, sentiamo lacerarci il cuore nell’udire le atroci ingiurie e bestemmie, lanciate contro di voi, o Vergine immacolata. Oh quanto queste empie voci offendono la maestà infinita di Dio e dell’unigenito suo Figlio, Gesù Cristo! Come ne provocano lo sdegno e quanto ci fanno temere gli effetti terribili della sua vendetta! Che se valesse, ad impedire tanti oltraggi e bestemmie, il sacrifizio della nostra vita, ben volentieri lo faremmo, perché, Madre nostra santissima, desideriamo amarvi ed onorarvi con tutto il cuore, tale essendo la volontà di Dio. E appunto perché vi amiamo, faremo quanto è in nostro potere, affinché siate da tutti onorata ed amata. Voi intanto, Madre nostra pietosa, Sovrana consolatrice degli afflitti, accettate questo atto di riparazione, che vi offriamo in nome nostro e di tutte le nostre famiglie, anche per quelli, che non sapendo ciò che si dicono, empiamente vi bestemmiano; affinchè impetrandone da Dio la conversione, rendiate più manifesta e gloriosa la Vostra pietà, la vostra potenza, la vostra grande misericordia; ed anch’essi a noi si uniscano a proclamarvi la benedetta fra tutte le donne, la Vergine immacolata, la pietosissima Madre di Dio.

Tre Ave Maria,

Indulgentia quinque annorum (S. C. Indulg., 21 mart. 1885; S. Pæn, Ap., 6 apr. 1935 et 10 iun. 1949).

329

In reparationém iniyriarum in B. M. V. illatarum

Vergine benedetta, Madre di Dio, volgete benigna lo sguardo dal cielo, ove sedete Regina, su questo misero peccatore, vostro servo. Esso, benchè consapevole della sua indegnità, a risarcimento delle offese che a voi si fanno da lingue empie e blasfeme, dall’intimo del suo cuore vi benedice ed esalta come la più pura, la più bella e la più santa di tutte le creature, Benedice il vostro santo Nome, benedice le vostre sublimi prerogative di vera Madre di Dio, sempre Vergine, concepita senza macchia di peccato, di corredentrice del genere umano. Benedice l’eterno Padre, che vi scelse in modo particolare per Figlia; benedice il Verbo incarnato, che vestendosi dell’umana natura nel vostro purissimo seno vi fece sua Madre; benedice il divino Spirito, che vi volle sua Sposa. Benedice, esalta e ringrazia la Trinità augusta, che vi prescelse e predilesse tanto da innalzarvi su tutte le creature alla più sublime altezza. O Vergine santa e misericordiosa, impetrate il ravvedimento ai vostri offensori e gradite questo piccolo ossequio dal vostro servo, ottenendo anche a lui, dal vostro divin Figlio, il perdono dei propri peccati. Amen.

Indulgentia quingentorum dierum (S. C. S. Officii, 22 ian. 1914: S Pæn. Ap., 4 dec. 1934).

VII

CORONA DUODECIM STELLARUM

330

Lodiamo e ringraziamo la santissima Trinità, che ci esibì Maria Vergine di sole vestita, con la luna sotto ai suoi piedi e con in capo una misteriosa corona di dodici stelle.

R. In sæcula sæculorum. Amen.

Lodiamo e ringraziamo il divin Padre, che per sua Figlia la elesse.

R. Amen. Pater noster.

Sia lodato il divin Padre, che la predestinò Madre del suo divin Figliuolo.

R. Amen. Ave Maria.

Sia lodato il divin Padre, che la preservò da ogni colpa nella sua Concezione,

R. Amen. Ave Maria.

Sia lodato il divin Padre, che l’adornò dei maggiori pregi nella sua Natività.

R. Amen. Ave Maria.

Sia lodato il divin Padre, che le diè in compagno e sposo purissimo san Giuseppe.

E. Amen. Ave Maria. Gloria Patri,

Lodiamo e ringraziamo il divin Figliuolo, che per sua Madre la scelse,

R. Amen. Pater noster. –

Sia lodato il divin Figlio, che si incarnò nel suo seno e vi stette nove mesi,

R. Amen. Ave Maria.

Sia lodato il divin Figlio, che da lei nacque e fu nutrito del suo latte.

R. Amen. Ave Maria.

Sia lodato il divin Figlio, che nella sua puerizia volle essere da lei educato.

R. Amen. Ave Maria.

Sia lodato il divin Figlio, che le rivelò i misteri della redenzione del mondo,

E. Amen. Ave Maria. Gloria Patri.

Lodiamo e ringraziamo lo Spirito Santo, che in sua Sposa la ricevette,

R.. Amen. Pater noster.

Sia lodato lo Spirito Santo, che a lei rivelò il suo nome di Spirito Santo.

R. Amen. Ave Maria.

Sia lodato lo Spirito Santo, per opera del quale fu insieme Vergine e Madre.

R. Amen. Ave Maria.

Sia lodato lo Spirito Santo, per virtù del quale fu tempio vivo della santissima Trinità.

R. Amen. Ave Maria.

Sia lodato lo Spirito Santo, dal quale fu in cielo esaltata sopra tutte le creature.

R. Amen. Ave Maria. Gloria Patri.

(S. Giuseppe Calasanzio).

Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem corona repetità fuerit.

(S. C. Indulg., 8 jan. 1838 et 17 aug. 1898; Pius IX, Audientia 17 mart. 1856; S, Pænit. Ap., 28 mart, 1834 et 12 iun. 1949)

CORONA … DI CHI?

Si parla tanto di Corona, oggi, più o meno a proposito. Ma vediamo nel gergo cabbalistico cosa voglia significare Corona, in modo da renderci conto del perchè sia stato scelto questo tipo di fantomatico virus tra le migliaia che la virologia conosce (o meglio suppone esistere.). Capiremo così pure come sia stata scelta non una immaginaria variante nazionale, pure di moda nei mesi scorsi, bensì la cosiddetta delta … Δ lettera greca che rappresenta … guarda caso, un triangolo a punta in sù … un simbolo strano … o no? Manca l’occhio di Horus, ma è sottinteso … Grembiulini, smettetela, il vostro gioco è chiaro ormai: Dio vi sta usando come bastoni a nostro meritato castigo di apostati, ma dopo il castigo, il bastone viene buttato nel fuoco e distrutto … ciechi guidati da ciechi … la storia non vi insegna proprio nulla? ET IPSA CONTERET CAPUT TUUM!!

CORONA

[L. MEURIN:  LA FRAMMASSONERIA; trad. A. Acquarone, Siena Uff. Bibliot. del Clero, 1895]

LIBRO I

CAPITOLOIII

IL KETHER-MALKHUTH, LA CORONA DEL REGNO.

1. Origine dei Séfìroth Corona e Regno.

Ma donde viene la Corona che noi vediamo interpolata tra l’Ensoph e la Sapienza, tra la sostanza eterna e le tre persone divine?

Per approfondire tale questione importante, abbiamo consultato la Bibbia ebraica. Ora, nel libro d’Ester abbiamo trovato il Kéther-Malkhuth. Il re Assuero domandò che fosse condotta dinanzi a lui e ai principi del regno, la regina Vasthi col suo diadema reale. La regina vi si rifiutò. Allora la bella Ebrea Ester fu eletta invece di Vasthi disobbediente e detronizzata. Essa fu coronata da Assuero stesso del diadema reale tolto a Vasthi, e Mardocheo, suo zio, fu onorato e decorato del diadema reale che perdeva Amanno per aver voluto distruggere tutta la razza ebrea. – In questi passi il diadema reale è chiamato Kéther-Malkhuth. Dopo la caduta della regina Vasthi, dopo quella del primo ministro Amanno, e dopo l’innalzamento dell’Ebrea Ester al trono, e di Mardocheo al primo posto nel regno del re Assuero, gli Ebrei sterminarono i loro nemici, il tredicesimo e il quattordicesimo del mese d’Adar; essi istituirono una festa perpetua che dovea essere celebrata il quattordicesimo e il quindicesimo del mese di Adar. Eccoci sulle tracce dell’origine del primo e decimo Séfìroth Kéiher e Malkhuth: l’Uomo archetipo è l’Ebreo, con la Corona in testa e il regno ai suoi piedi. Non è questo uno dei più grandi misteri della Cabala? Non troverem noi il penultimo secreto della frammassoneria?

2. Applicazione politica del Kéther-Malkhuth.

Dopo aver scritto queste linee, abbiamo trovato nel libro di Drumont, Testamento di un Antisemita, p. 142, la conferma seguente del nostro esposto. Negli Archivi Israeliti del 16 ottobre 1890, l’Ebreo Singer interpella direttamente il signor di Bismarck e gli dice senza altro preambolo: « Io vi prego a rileggere il magnifico libro di Ester, dove troverete la storia tipica di Amanno e di Mardocheo. Amanno, l’onnipotente ministro, siete voi, mio signore; Assuero, è Guglielmo, e Mardocheo, è il socialismo alemanno, inaugurato dagli Ebrei Lassalle e Marx, e continuato dal mio omonimo e correligionario Singer. Voi avete voluto abbassare e annientare Mardocheo, e siete voi, il grande cancelliere, che siete divenuto sua vittima! »

Quale imprudenza da parte di questo Ebreo Singer! Egli chiama l’attenzione del mondo su questo libro di Ester dove appare il suo correligionario Mardocheo coronato dal Kéther-Malkhuth, di cui i Rosa-Croce del 18° grado, quegli obbedienti cavalieri degli Ebrei, portano l’immagine attaccata al gioiello sui loro petti leali! « Il timore della potenza degli Ebrei, dice la santa Scrittura (Esth. C. IX), avea invaso generalmente tutti i popoli. Gli Ebrei fecero adunque una grande carneficina dei loro nemici; e massacrandoli, resero loro il male che questi usi erano preparati a fare ad essi. » In Susa stessa, uccisero cinquecento uomini, senza contare i dieci figliuoli di Amanno. Si riferì tosto al re Assuero il numero di quelli che erano stati uccisi in Susa. « Il re disse alla regina Ester: Quanto grande, pensate voi, debba essere la carneficina che fanno i Giudei in tutte le province? Che domandate voi di più? e che cosa volete ch’io ordini ancora? — La regina gli rispose: Io supplico il re di ordinare che i Giudei abbiano il potere di fare ancora domani in Susa ciò che fecero oggi, e che siano appesi i dieci figliuoli di Amanno. Il re comandò che ciò si facesse, e tosto l’editto fu affisso in Susa, e i figliuoli di Amanno furono appesi; e al domani, i Giudei uccisero ancora in Susa trecento uomini. E intutte le province uccisero i loro nemici in sì gran numero che settantacinque mila uomini furono compresi in quella strage. » Quella supplica della bella Ebrea ci svela tutto il carattere crudele della sua razza quando essa ha la vittoria in mano,

Guai ai popoli padroneggiati dagli Ebrei!

Ecco come gli Ebrei intendono le parole di Davide: « Le lodi di Dio saranno sempre nella loro bocca, essi avranno nelle loro mani delle spade a due tagli per vendicarsi delle nazioni e punire i popoli, per legare i loro re e incatenarne i piedi, e i grandi di essi, mettendo loro i ferri alle mani (Ps. CXLIX). » – La festa che essi chiamano Purim, il 14 febbraio, gli Ebrei la celebrano in memoria della loro liberazione dalla tirannia di Amanno, per coraggio di Esther e di Mardocheo. « Gli Ebrei s’impegnano allora di rubare tutti i Cristiani che possono, principalmente i fanciulli. In quella notte, non ne immolano cheuno solo fìngendo di uccidere Amanno. E mentre il corpo delfanciullo sacrificato è sospeso, essi scherzano intorno, fingendodi farlo ad Amanno. Col sangue raccolto, il rabbino fa certi paniimpastati col miele, di forma triangolare, destinati non agli Ebrei,ma ai Cristiani loro amici (E. Desportes, le Mystere du sang, p. 311). » Gli Ebrei danno ai loro propri figliuoli giunti all’età di tredici anni una corona in segno di forza (ibid. p. 258). » La Corona in testa e il Regno ai suoi piedi, ecco l’ideale dell’Ebreo praticamente e perseverantemente perseguitato dacché Iehovah ha eletto la posterità di Abramo come suo popolo di predilezione. – Adam Kadmon, l’Uomo primordiale, è l’archetipo dell’Ebreo. L’Ebreo è l’Uomo per eccellenza. Tutta la fraseologia si bene conosciuta sull’Uomo e l’Umanità, la loro liberazione, la loro libertà, i loro diritti, ecc…, devono intendersi in primo luogo degli Ebrei; poi, per comunicazione, degli affiliati degli Ebrei, cioè dei frammassoni; perché soltanto nella frammassoneria si forma l’Uomo, e solo all’undicesimo grado l’uomo diviene perfetto, in guisa da poter rispondere alla domanda:

« Siete voi Sublime Cavaliere Eletto?

Risposta: — Il mio nome è Emmarek, uomo vero in ogni occasione (P. Rosen, p. 251). » Emmarek, in ebraico, vuol dire: Io sono purificato. « Fuor del popolo ebreo e degli individui giudaizzati per mezzo dei misteri massonici, non havvi Uomini veri, le altre nazioni non sono che una varietà d’animali (Talmud, v. Pontigny, le Juif selon le Talmud). » Questa è la dottrina del Talmud che per l’Ebreo è la teologia morale, come sua sorella, la Cabala, è la teologia dommatica. Ma come noi già lo dicemmo, se i frammassoni sono ingannati dagli Ebrei, gli Ebrei lo sono dal nemico dell’uman genere. Non vediam noi il tentatore nascosto sotto questo « diadema reale » Kéther-Malkhuth, come un tempo sotto la forma del serpente?

Il pomo del paradiso è cambiato in corona.

Non sentiam noi le parole del tentatore, ripetute più tardi a Gesù, mostrandogli tutti i regni del mondo e la loro gloria: « Tutte queste cose, io ti darò, se tu prostrato mi adorerai » (S. Matteo, cap. IV, 8-9)?

L’Ebreo non ha risposto, come Gesù: « Ritirati, satana, perché è scritto: « Tu adorerai il Signore Dio tuo, e servirai a lui solo  » (ibid. v. 10).

Noi lo vedremo: si adora veramente Lucifero nelle logge massoniche. Libero agli Ebrei di adorare il diadema reale come il loro vitello d’oro:

satana, sotto il nome di Kéther, ha preso posto al di sopra della santissima Trinità.

Vediamo a questo punto, quali i siano i gradi della massoneria “dominati” dalla Corona, cioè – per ogni undicina – il decimo, il ventunesimo e l’apice: il trendaduesimo grado.

X Grado

La 1a Sephirah. La Corona. —

L’Illustre Eletto dei Quindici.

Il senso cabalistico del numero Quindici ci è già noto. La « Corona », Lucifero, vuol vedere la sua generazione (cinque) stabilita nei tre mondi, nell’universo. Al 10° grado, la frammassoneria deve rappresentare il primo dei dieci Séphirot, la Corona, nell’uno o nell’altro dei sensi che abbiamo indicati. La Corona è il simbolo della dominazione suprema, della vittoria completa su tutti i loro nemici. – A ben comprendere questo 10° grado, bisogna ricordare l’istruzione del Presidente del 33° grado: « Questi tre assassini infami sono: la Legge, la Proprietà, la Religione… Di questi tre nemici infami, è la Religione che deve essere il pensiero costante dei nostri assalti nichilisti, perché un popolo non ha mai sopravvissuto alla sua Religione, e perché con l’uccidere la Religione avremo nelle nostre mani e la Legge e la Proprietà; perché solo col stabilire sui cadaveri di questi assassini, la religione massonica la legge massonica, la Proprietà massonica, noi potremo rigenerare la Società (Paolo Rosen, p. 297.). » – Il rappresentante perfetto del potere supremo di Lucifero sì farà iniziare all’11° grado. Prima di divenire un tale rappresentante, egli deve meritare la sua corona, uccidendo, dopo Abibala che simboleggia la Religione, Sterkin e Oterfut, gli altri due assassini d’Hiram, che simboleggiano la Legge (i Re) e la Proprietà. – Il 9° grado è destinato a simboleggiare la distruzione della Religione; il 10°, quella della Legge e della Proprietà. Il recipiendario vi riceverà la civica corona degli Eletti della razza d’Eblis, quando avrà apportato le due altre teste: egli sarà acclamato e glorificato: « Gloria a lui! Riconoscenza eterna al vendicatore d’Hiram! » (P. 223). –  La tappezzeria della sala del 9° grado era screziata di fiamme rosse: la rabbia vendicatrice che immerge la mano nel sangue. Nel 10° grado queste fiamme saranno sostituite da lacrime rosse e bianche, lacrime di rabbia sanguinaria e lacrime di gioia e di vittoria. Nell’11° grado queste lacrime faranno posto a cuori infiammati, simboli dell’unione cordiale dei Sublimi Cavalieri Eletti, rappresentanti della Potenza Suprema. Si accende da prima una fiaccola di cinque bracci verso 1’Oriente, da dove parte la luce: la generazione « nel cielo »; poi un’altra al sud: la generazione « nell’aria di mezzo »; e infine una terza all’occidente: la generazione « sulla terra ». Il Tempio, l’Universo, è illuminato da quindici lumi. – Il recipiendario, dopo aver prestato il suo giuramento, porta le teste degli altri due assassini; con la mano destra, quella di Sterkin, con la sinistra, quella di Oterful. La testa di Sterkin, traversata da un pugnale sotto la mascella, simboleggia la decapitazione dei monarchi, quella di Oterfut, la rovina della Proprietà. Il re Maaca di Geth, nel cui territorio i due assassini si erano nascosti, è un personaggio biblico, e del fatto che gli schiavi di Semel eransi rifugiati nel suo territorio se ne fa parola nella Bibbia (III Re., 11, 39.); ma non v’è alcuna relazione tra questi fatti e la leggenda massonica. Quell’uso di nomi e di passi dell’Antico Testamento è una prova che il sistema massonico è un’ invenzione ebrea, e naturalmente a profitto degli Ebrei. Questa osservazione si trova confermata dal significato dei nomi seguenti: Ben-Dicar, figlio del pugnalamento, nome della caverna di rifugio dei due scellerati, Zerbaei, fuoco divorante di Dio, ed Eligam fremito di Dio, nomi dei due primi dei quindici Maestri che li scoprirono, e Herar, detenzione, nome della prigione dove essi furono chiusi. Finalmente le tre teste degli assassini d’Hiram sono un segno della vittoria finale dell’iniziato; egli ha meritato la sua corona, si è mostrato degno di essere posto tra i valenti avversari della Religione, della Legge e della Proprietà; tra i degni emuli di satana, che egli stesso si è imposto una Corona, per compensarsi della corona perduta il giorno nefasto in cui tre auguste persone « infami assassini », lo hanno condannato alla perdita della gloria celeste.

XXI Grado

21. La 1. Séphirah. La Corona. —

Il Cavaliere Prussiano Noachita

Questo grado rappresenta la Corona, il Kéther ebreo, e deve farci scorgere la speranza del « Popolo eletto » di essere un giorno coronato del diadema reale sul quadrato intero dell’universo, come un tempo Ester e Mardocheo su tutto il regno persiano, o come il Re frammassone Federico sulla Prussia. Questa è ancora una volta la riunione del potere spirituale e del potere temporale nella stessa mano, con l’estensione dell’augusto regno d’Israele sul mondo abitato da tutti i discendenti di Noè. – Il Noachita è un termine del Talmud e significa il Non-Ebreo (A. Pontigny, Le Juif selon le Talmud, p. 167). Il Motto de Passe, Phaleg, è pronunciato tre volte con tono lugubre, sia perché quell’uomo non è riuscito a compiere la Torre di Babele, sia perché gli Ebrei sono tristi di essere ancora tanto lontani dall’effettuazione della lor grand’Opera, la dominazionesull’universo.Sem, il fratello primogenito di Jafet, generò Arphazad, il nonno di Heber. « Heber ebbe due figli: uno si chiama Phaleg perché la terra fu divisa ai suoi tempi in nazioni e in lingue diverse; e il suo fratello chiamasi Jectan (Genesi. X. 25.). » Questo è tutto ciò che la cronaca santa riferisce su Phaleg. Essa non dice in nessun luogo ch’egli sia stato 1’architetto della Torre di Babele, e contraddice l’affermazione ch’ei fosse della stirpe di Cham. – Il « Grande Capitolo » dei Cavalieri Prussiani si tiene in una vasta sala illuminata solamente da una grande finestra per cui penetra la luna piena. Ogni altra luce è proibita. La sala deve essere decorata nello stile medioevale, e tutti gli assistenti hanno una maschera. – L’opinione volgare sulla Santa Vehme è che questo tribunale misterioso tenesse le sue sedute nelle tenebre della notte, sotto volte tetre, sedendo i membri coperti di maschere (Wetzer, Dictionnaire, Vehme. Conf. Clavet. Hist. de la Framm. p. 356.1).Il Fratello Cavaliere Prussiano porta all’occhiello una piccola luna d’argento. La Batteria è di tre colpi lenti; essa significa il Motto sacro: Sem, Cham, e Jafet. La marcia è: tre passi di Maestro. La leggenda racconta bene l’inganno di un membro della aristocrazia e di un vescovo, ma è difficile conchiuderne che lo scopo di questo grado sia di attaccare il clero e l’aristocrazia. Questo scopo è troppo subordinato per indicare il vero senso di questo grado eminente, che è, per così dire, la corona dei nove gradi precedenti. La Santa Vehme, rappresentando la giudicatura secreta massonica, non forma che una parte della leggenda di questo grado, e certamente la parte accessoria.La parte principale e la più secreta pare essere contenuta nel Gioiello: un triangolo d’oro, traversato da una freccia di argento avente la punta voltata in basso (p. 402). Che cosa può significare questo gioiello? Il triangolo dei tre Séphiroth superiori, di cui la Corona è la punta in alto, è facile a spiegarsi; ma la freccia (« La freccia è, come la spada, la lancia, l’arco, il giavellotto ecc., un simbolo del Fuoco filosofico). Le frecce di Apollo (Sterminatore) uccidono Tifo. » Ragon, Orthodoxie maçonnique p. 550, 556.) non si trova, per quanto sappiamo, tra i simboli numerosi di cui la Cabala fa uso. Nella Santa Scrittura, essa significa sempre la distruzione. Qui noi crediamo dover riferire questo simbolo alla soggezione dei re e dei popoli, perché è là il mezzo di conquistare la corona delle corone. Parlando di Ciro, Isaia, dice in nome del Signore le parole seguenti, che in questo grado Lucifero e gli Ebrei cabalisti applicano ai loro Ciri moderni, i Federico di Prussia, i Cavalieri Prussiani, i loro Fratelli, gli Ebrei Re: « Chi ha fatto uscire il giusto dall’Oriente e chi l’ha chiamato ordinandogli di seguirlo? Egli ha atterrato i popoli dinanzi a lui e lo ha reso il maestro dei re; egli ha fatto cadere sotto la sua spada i suoi nemici come la polvere, e li ha fatti fuggire davanti al suo arco come paglia portata dal vento… Ma tu, Israele, mio servo; tu, Giacobbe, che io ho eletto; tu, stirpe di Abramo che fosti mio amico, nella quale io ti ho preso per trarti dall’estremità del mondo… non temere perché io sono con te… Io lo chiamerò dal settentrione, ed egli verrà dall’ Oriente; egli riconoscerà la grandezza del mio nome; egli tratterà i grandi del mondo come il fango, e li calpesterà come lo stovigliaio calpesta l’argilla (Isaia, XLI, 2, 9, 55.)». La freccia che scende dalla punta del triangolo, dalla Corona, significa la stessa cosa che il segno del grado; prender le tre prime dita (Sem, Cham e Jafet) che il Fratello vi mostra. – Il Cesaro-papismo esercitato dagli Ebrei su tutte le nazioni è l’idea del 21° grado, idea degna di un Cavaliere Prussiano! Questo Principe regnerà in nome di Lucifero, e con lui, su tutti i popoli della terra nati da Sem, Cam e Jafet.

32. La 1a Sèphiraph. La Corona. —

Il Principe del Reale Secreto, Cavaliere di S. Andrea e Fedelissimo Custode del Sacro Tesoro.

La Sèphiraph Corona che deve presiedere al 32° grado, vi si è « impenetrabilmente nascosta ». Tuttavia noi l’abbiamo trovata sopra le due teste dell’Aquila onnipotente. Leo Taxil non dà la spiegazione del Campo dei Principi, di cui ha parlato alla pagina 443. Essa trovasi nel Rituale di questo grado pubblicato dal Fratello Ragon. Là, alla pagina 32, ei dice: « Il vessillo G, che è quello dei Grandi Maestri della Chiave, è verde chiaro. Esso porta un’Aquila a due teste, coronata, avente una collana d’oro, una spada nell’artiglio destro e un cuore sanguinante nella sinistra. » Così si vede giustificata sino alla fine la nostra ipotesi che la Cabala ebrea è la midolla della frammassoneria. Il 32° è il grado ebreo per eccellenza. Invece di Principe del Real Secreto, si dovrebbe dire: Principe dell’Esiglio; perché questo grado è l’apparato del salmo 136: « Sulle rive dei fiumi di Babilonia, ivi sedemmo, e piangemmo ricordandoci di Sionne. Ai salici appendemmo i nostri strumenti di musica. Come canteremo noi il Cantico del Signore in una terra straniera? Se io mi dimenticherò di te, o Gerusalemme, sia messa in oblio la mia destra. Si attacchi la mia lingua alle mie fauci, se non avrò più memoria di te!…. Figliuola infelice di Babilonia! beato colui che farà a te quello che tu hai fatto a noi! Beato colui che prenderà e infrangerà sulle pietre i tuoi figliuoli! » Dolore, odio e rabbia! – I frammassoni non ebrei sono ben obbligati di mettersi in duolo per Israele esiliato, e di versar lagrime per le disgrazie degli Ebrei loro maestri! – La prima grande disgrazia nazionale fu l’esilio di Babilonia. La tappezzeria della Loggia è nera, colore di duolo, seminata di lagrime, di scheletri, di teste di morte e di tibie incrociate. Il Motto sacro è la parola latina Salix, salice: « Ai salici noi appendemmo le nostre lire! » La seconda grave sventura fu l’incendio pel Tempio, sotto Tito, il nove del mese Ab; ancora oggidì, questo giorno è per gli Ebrei un giorno di digiuno; da ciò il secondo Motto sacro la parola latina Noni, il nove. I due fratelli pronunciano allora insieme il terzo Motto sacro, la parola greca Tengu, affliggiamoci! — L’idea generale del campamento è la marcia verso la Terra Santa per riconquistarla e per ricostruire il Tempio di Gerusalemme. L’abate Chabauty (Les Juifs nos maitres. Parigi, Palme 1882.) ha dimostrato la perennità di un governo unico presso gli Ebrei dispersi: « È storicamente incontestabile, ei dice, che dalla loro dispersione sino all’undecimo secolo, gli Ebrei hanno avuto un centro visibile e conosciuto di unità e di direzione. » Teodoro Reinach lo afferma nella sua Storia degli Israeliti. Dopo la rovina di Gerusalemme, questo centro si trovò lungo tempo ora a Japhné, ora a Tiberiade; esso era rappresentato dai Patriarchi della Giudea (20° grado) che godevano di una grande autorità. « Essi decidevano i casi di coscienza e gli affari importanti della nazione; dirigevano la Sinagoga come capi superiori; stabilivano le imposte, avevano degli ufficiali detti apostoli che portavano i loro ordini agli Ebrei delle provincie più remote e ne riscotevano il tributo. Le loro ricchezze divennero immense. Questi Patriarchi agivano in una maniera palese o nascosta, secondo le disposizioni degli imperatori romani a riguardo degli Ebrei. Essi scomparvero sotto Teodoro. Superiori a questi Patriarchi erano i Principi della Schiavitù, che risiedettero lungo tempo a Babilonia. Gli scrittori ebrei mettono una grande differenza tra i Patriarchi della Giudea e i Principi dell’Esilio. I primi, dicono essi, non erano che luogotenenti dei secondi. I Principi della Schiavitù avevano la qualità e l’autorità assoluta dei capi supremi di tutta la dispersione d’Israele. Secondo la tradizione dei dottori, essi sarebbero stati istituiti per tenere il posto degli antichi re, ed essi hanno il diritto di esercitare il loro impero sugli Ebrei di tutti i paesi del mondo. – « I Califfi d’Oriente, spaventati della loro potenza, suscitarono loro delle terribili persecuzioni, e a partire dall’undecimo secolo, la storia cessa dal fare memoria di questi capi d’Israele. » – Scomparvero essi completamente, o trasportarono altrove la sede della loro potenza? Questa seconda ipotesi è molto più verosimile, vista la lettera degli Ebrei d’Arles a quelli di Costantinopoli, e la risposta degli Ebrei di Costantinopoli a quelli di Arles e della Provenza, con la data del 1489, di cui facemmo più sopra memoria. L’abate Chabauty ne deduce l’evidenza che a Costantinopoli risiedeva il loro Capo Supremo, non solamente religioso, ma eziandio politico: « Là era la testa della nazione. » – Questo Principe di Costantinopoli era il successore dei Principi Dell’Esilio di Babilonia. Egli trovavasi là nel centro della dispersione, e godeva di una piena autorità; « egli comandava da padrone ed era puntualmente obbedito (C. Desportes, Le Mistere du sang. p. 335). » Non ci meravigliamo adunque che alla testa di quella Istituzione affatto ebrea che chiamasi la frammassoneria, noi troviamo il Principe dell’Esilio vero, nascosto sotto il nome di Principe del Reale Secreto, coll’epiteto: Fedelissimo Custode del Tesoro Sacro (Ragon. Rituel du 31° e 32° degrè, p.. 9). – Tutti si persuadano bene che la Società secreta della frammassoneria è il piano di guerra il più nascosto e il più destro della Sinagoga decaduta, avente per iscopo la soggiogazione di tutte le nazioni della terra a profitto della stirpe eletta degli Ebrei. Chiunque dà il nome a quella società coopera alla Grande Opera degli Israeliti di porre il Kether-Malkhuth del mondo sulla fronte dell’Ebreo. Perché il maestro del 32° grado prende egli il titolo di Sovrano dei Sovrani, se con questo titolo i Capi supremi non vogliono designare il Diadema Reale sulla testa di Ester e di Mardocheo di tutti i regni della terra? – Perché questo « Sovrano dei Sovrani » chiamasi Grande Principe, se non perché il vero Principe dell’Esilio deve celarsi sotto il costume regale e lo scettro dei Fratelli del 32° grado? Perché porta egli ancora il titolo di Illustre Commendatore in capo, se non perché il Principe dell’Esilio deve essere alla testa della Supremazia esecutiva dell’Ordine? Il toccamento non è altro che l’Unione dei « Templari « di tutti i paesi per conquistare il mondo intero sotto la direzione suprema degli Ebrei. Ecco i Motti de Passe: A dice: Phagal-Khol, egli ha annientato tutto, B risponde: Pharas-Khol, egli ha spezzato tutto! A ripiglia: Nekam-Makkah, Vendetta! Carneficina! A e B: Schaddaì, l’Onnipotente. Queste parole esprimono bene quell’idea «Beato colui che prenderà e infrangerà i tuoi figli sulla pietra! ». – Noi ci siamo domandati perché le due teste dell’aquila non sono più apertamente coronate in questo grado che corrisponde alla Sephirah Corona. Sul cordone si vede bene l’Aquila a due teste, ma non si dice e non si vede ch’esse portino la corona. La ragione sembra essere che la corona non è chiamata a unire insieme i due poteri, il temporale e lo spirituale, che al 33° grado; il 32° rappresenta solo il potere temporale. Il vessillo G tuttavia reclama già, al 32° grado, ciò che il 33° è chiamato ad effettuare. – La Croce teutonica dei Templari, che ha già trovato la sua interpretazione cabalistica, fa qui una gran parte come decorazione sul bavero, sul cordone, sulla cintola, e come gioiello. Se si vuole penetrare più profondamente negli emblemi della frammassoneria, si troverà che la Croce teutonica è la Pietra cubica a punta (14° grado) spiegata. Tirate dalla punta della piramide quadrata quattro linee perpendicolari sulle quattro linee della sua base, e delineate queste otto linee, le basi e le perpendicolari, in un piano attorno a un punto, e troverete la forma della Croce teutonica. Il punto rappresenta la Corona cabalistica, o l’Intelligenza ermetica; le quattro perpendicolari, la generazione quadrupla, e le quattro basi, i quattro mondi. Sopra uno dei quattro lati della piramide trovasi lo Schemhamphorasch, il Nome spiegato. La piramide e la Croce teutonica hanno la stessa significazione. Ora, il 32° grado è il grado della Corona rappresentata dal punto centrale della Croce teutonica e dalla punta in alto della Pietra cubica a punta. I cinque ultimi gradi sono i gradi templari; perché gli Ebrei furono abbastanza sagaci per vedere in questi religiosi decaduti i migliori strumenti dei quali potessero servirsi per la loro Grand’Opera, in pari tempo che la loro Croce è un simbolo ammirabile della loro dottrina cabalistica nascosta negli emblemi del 32° grado. Ma perché, a fianco delle lagrime in argento sulla tappezzeria della loggia, vi sono lagrime ardenti sul fondo del trono ove siede Lucifero? L’esilio d’Israele è esso una figura dell’esilio di Lucifero nel fuoco eterno? e le lagrime di Lucifero sono esse lagrime di fuoco? Dante, parlando delle tre facce di satana incatenato nell’abisso dell’inferno, dice: « Egli piangeva con sei occhi, e le lagrime miste a sanguinosa bava gocciavano su tre meati ». La fiamma di luce sulla testa d’Eblis, crediam noi, è abbastanza viva per impedire che le sue lagrime si gelino prima di cadere sul ghiaccio, sul ghiaccio da dove « l’Imperatore del Regno dei dolori usciva sino a metà del petto ». – Per far risaltare l’idea cabalistica di questo grado importante, distinguiamo la dottrina dello Zohar dalla sua applicazione alla magia diabolica, fondata, si sa, sulla Cabala. Parliamo dapprima dell’ultima, a cui non vogliamo consacrare che poche linee, per timore di essere trascinati in una esposizione della magia cabalistica che esigerebbe un libro. Dopo la spiegazione del Campo fatto al Kadosch recipiendario, il Sovrano dei Sovrani gli fa le domande seguenti:

-1. « Che cosa vi resta a sapere? (Noi citiamo dal Rituale di Ragon, avendo Leo Taxil omesso le prime quattro di queste domande) — Risp. Un punto essenziale che subito mi sarà rivelato.

2. « Perché vi è nascosto? — Risp. Perché tredici di voi possono solo conoscerlo e che, troppo recentemente iniziato, io non posso essere di questo numero.

3. « Voi non conoscete dunque tutto ciò che vi importa sapere? — Risp. Vi sono certamente delle cose che io ignoro; pur tuttavia ne conosco tante altre per camminare verso la perfezione: verrà un giorno che mi sarà permesso di saper di più.

4. « Su che fondate voi quella speranza? — R. Sopra un’apparizione.

5. « Quali oggetti vi ha essa presentati? — R. Tre uccelli: un corvo, una colomba e una fenice.

6. « Che cosa annuncia il corvo? — R. La nerezza delle sue piume simboleggia la pena, il disordine e la morte.

7. « Che cosa vi ritraccia la colomba? — R. La sua bianchezza mi annuncia la generazione degli esseri.

8. « Che cosa vi ricorda la fenice? — Quell’uccello che esce dalle fiamme per ricominciare una novella vita, è l’emblema della natura perfezionata d’una teoria universale e di un potere senza limiti.

9. « Spiegatemi questo. — R. Io non lo posso, sono ancora troppo giovane.

10. « Che età avete voi. — R: 5, 7, 9, 27 e 33 anni — 81 anno. »

Ragon comunica ancora le Note del manoscritto su questo grado (32°). Alla prima domanda trovasi annotata quella rivelazione importante: « (27) pagina 40. Quella domanda come le otto seguenti non devono esser fatte che a coloro che sono destinati a cognizioni di un’altra specie, alle quali non si può anticipatamente iniziare un Principe del Real Secreto. » A quella nota del manoscritto Ragon aggiunge la sua : « All’Arte sacerdotale, l’arte di trasmutare i metalli imperfetti in argento e in oro puro. » (Vedi la Maçonnerie occulte, in cui trovasi l’Arte sacerdotale, p. 128 e seg.) J. M. R.). –  Queste due note bastano per far vedere a coloro che non sono bendati, né abbagliati dal licopodo, che tali questioni alzano poco il velo che copre ancora la massoneria occulta. La sfera ancora nascosta in cui essa si muove non è altro che il declivio soprannaturale per il quale essa fa discendere l’uomo verso l’abisso e lo conduce direttamente ai piedi dell’Imperatore infernale. – Noi abbiamo dinanzi l’Ortodossia massonica del Fr. Ragon, e vi troviamo, a pagina 542, la descrizione dell’Arte sacerdotale. È l’Alchimia; là si parla del mercurio (33° grado), del nero, del bianco e del rosso, del corvo, del serpente, della corona reale, ecc. Il Punto essenziale, non ancora rivelato al Principe del Reale Secreto, è la Corona della Cabala; è, in una parola, Lucifero in persona. – La risposta alla seconda domanda ci rammenta « il Tredicesimo » che l’ abate Girod vide nella Loggia misteriosa dove il principe russo Pomerantzeff l’aveva introdotto. Sull’invocazione dei dodici membri: « O Padre del male, vieni a noi! » egli venne; e l’abate vide « il nuovo venuto, il Tredicesimo, che sembrava venuto per il cammino dell’aria da cui pareva nascere ». – Il corvo nero e la colomba bianca, è l’aquila mezzo bianca e mezzo nera, l’Ermafrodita significando le antitesi del Buono e del Cattivo Principio, della materia e dello spirito, del potere temporale e del potere spirituale, del genere mascolino e del genere femminile, le colonne J e B, le due corna a fianco della fiamma sulla testa del Baphomet, le sue dita alzate, ecc. La fenice che esce dalle fiamme è la grande menzogna panteistica della trasformazione eterna di tutto ciò che è, è la risurrezione d’Hiram, lo Zizon del 4° grado. I tre uccelli significano adunque: la Fenice, l’universo che si rinnovella eternamente, formato dalla colomba e dal corvo, i due Principii del Bene e del Male. – In un altro senso, la Fenice è ancora, e principalmente, l’Angelo del fuoco che esce dalle sue fiamme infernali per rinnovellarsi, incarnarsi e vivere di nuovo nei suoi adepti. Essa si rivela come Tredicesima ai suoi fedeli adoratori, dopo che furono trovati degni di essere ammessi nel piccolo numero dei dodici scelti e privilegiati. E in ultimo l’emblema della natura, quando alla fine del mondo essa sarà perfezionata, « conformemente alla teoria cabalistica, e sottomessa al potere senza limiti del Principe di questo mondo, avente in fronte la Corona che gli avranno offerta i suoi adepti, i suoi schiavi disgraziati. Solamente, i Cristiani lo sanno, allora il Signore medesimo distrarrà col fuoco il mondo divenuto indegno di esistere: Dio stesso verrà per la seconda volta a giudicare i vivi e i morti; e gli dirà: Ecce nova facio omnia; « Ecco che io rinnovello tutte le cose! (Apocal. XXI, 5) » – Non entriamo adunque nel labirinto della magia nera di cui il 32° grado ci ha aperto la porta. Ma, per confermare ciò che abbiam detto, citiamo un altro passo del Rituale: Dopo aver presentato al neofito una spada, « l’arma di cui servivasi un tempo Goffredo di Buglione contro i nemici della fede, » il Grande Commendatore gli dà un anello, dicendo: « Ricevete questo pegno della nostra unione…. » Qui il manoscritto aggiunge la nota (8): « Se conferendo questo grado, non si consideri che come un gradino per arrivare alla massoneria ermetica, non si dà anello al recipiendario che nol riceve che ottenendo un nuovo grado (Ragon, Rituels du 31° et 32° degrè, p. 46). » – Con quella nota si apprende l’esistenza di un’altra massoneria divisa in gradi e rilegata ai 33 gradi per l’intermediario del 32°. – Noi impegniamo Leo Taxil a procurarsi e a pubblicare ciò che è ancora un segreto al mondo. Restiamo in compagnia col volgare dei Principi del Reale Secreto e tentiamo ora di comprendere questo Campamento di cui gli Ebrei danno la « spiegazione, » che non è una spiegazione. Ecco in primo luogo il « Quadro del Campo dei Principi: » « il mezzo è una croce di cinque bracci; essa è avvolta da un circolo, il quale è in un triangolo equilaterale; questo triangolo è, alla sua volta, in un pentagono che rinchiude un ottagono, rinchiuso esso pure in un ennagono; tutto questo è in rilievo come un abbozzo di architettura, con figure emblematiche, stendardi, orifiamme, tende, ciò significa il campamento della frammassoneria intera, ripartita e aggruppata in gradi. » (P. 443). Se ciò fosse, « i secreti massonici non sarebbero impenetrabilmente nascosti sotto dei simboli.» Penetriamo adunque sino al fondo di questo Campo, per ben conoscere i veri secreti che vi si nascondono. Sentiamo in primo luogo la Spiegazione ufficiale riprodotta dal Fr. Ragon (p. 32). – « Il Triangolo che voi vedete in mezzo del Quadro rappresenta il centro dell’armata e designa il posto che devono occupare i Cavalieri di Malta ammessi ai nostri misteri e uniti ai Cavalieri Kadosch, per dividere con essi la sorveglianza del tesoro sotto gli ordini dei Prodi Principi del Reale Secreto. Il corpo formato da quella riunione è comandato da cinque Prodi Principi che ricevono direttamente dal Sovrano dei Sovrani l’ordine che essi fanno eseguire, ed essi hanno i loro vessilli fissati agli angoli del pentagono e designati dalle lettere  T E N G U.

« 1° Il vessillo del padiglione T, che è quello dei Grandi Pontefici, è porpora; esso porta l’Arca d’Alleanza avvicinata da due fiaccole ardenti e sormontato da due palme in circolo. Al di sopra dell’Arca è scritto: Laus Deo.

« 2° Il vessillo E, che è quello dei Cavalieri del Sole, è azzurro. Esso porta un Leon d’oro che tiene in bocca una chiave d’oro, ed ha un collare d’oro su cui è scolpito il numero 515. In alto è scritto: Ad majorem Dei gloriam!

« 3° Il vessillo N, che è quello dell’Arco Reale, è d’argento. Esso porta un Cuore infiammato sostenuto da due ali di sabbia di color nero e coronato di lauro semplice (fresco).

« 4.° Il vessillo G, che è quello dei Grandi Maestri della Chiave, è verde chiaro. Esso porta un’Aquila a due teste, coronata, avente una collana d’oro, e una spada nell’artiglio destro, e un cuore sanguinante nel sinistro.

« 5.° Il vessillo U, che è quello dei grandi Patriarchi, è oro e porta, un Bue di sabbia (color nero). Vedi questi cinque vessilli in un quadro:

QUADRO DEI CINQUE VESSILLI ….

.(1) Ragon dice Reale Arco, il 13° grado, che non è rappresentato nelle Tende dell’enneagono. Noi crediamo dover mettere Ascia Reale, per completare gli alti gradi degli antichi 25 gradi. Quell’armata è sotto la direzione dell’antico 24° grado. Cavaliere Commendatore dell’Aquila bianca e nera; il 25° ed ultimo grado era intitolato: « Illustrissimo Sovrano, Principe della Massoneria, Grande Cavaliere Sublime Commendatore del Reale Secreto.

L’ennagono che forma la pianta esteriore del Quadro, designa il luogo che occupavano nell’armata i Principi di Gerusalemme, i Cavalieri d’ Oriente e d’Occidente, i Cavalieri Rosa-Croce e tutti gli altri massoni di grado inferiore a questo, da cui i capi ricevevano gli ordini dei cinque Principi del pentagono. Le fiamme sono notate con cifre; e le tende sono designate con lettere disposte da destra a sinistra, nell’ ordine seguente: I. N. O. N. X. I. L. A. S., e che, lette nell’ordine inverso, formano le due prime parole sacre (Salix Noni). Queste nove tende sono quelle della milizia della massoneria, ripartita come qui sopra: « Noi mettiamo la descrizione in un quadro, per essere compresi più facilmente. »

– – – –

QUADRO DELLE NOVE TENDE E PADIGLIONI (….)

È inutile cercare una spiegazione delle tre parole sacre, altra che quella già data. Ragon ne dà sei o sette, più o meno cercate e forzate (p. 45). Non è luogo di occuparsi di queste invenzioni destinate a distrarre i curiosi Salix(latino) ricorda i salici di Babilonia e la prima schiavitù degli Israeliti, Noni(latino), la data della distruzione del Tempio, la seconda schiavitù e la dispersione degli Ebrei, Tenga(imperativo passivo dal greco tengo) esorta il Fratello a intenerirsi e a piangere. – Vediamo piuttosto la vera interpretazione cabalistica del Campo dei Prìncipi. L’abbiamo cercata lungamente; il cuore alato ci disviava sempre. Ma i tre animali l’Aquila, il Leone e il Bue, ci misero sulla traccia della grande visione del profeta Ezechiele, di cui la Cabala ebrea fa tanto caso. Mettiamo per il Cuore un Uomo, e tronchiamo all’Aquila una delle sue teste; allora la dottrina massonico-giudea, impenetrabilmente nascosta sotto i suoi simboli », ci sarà svelata. – Sentiamo, alla loro volta, Ezechiele e la Cabala. Ezechiele dice nel primo capitolo della sua profezia: « Ecco la visione che mi fu rappresentata: Un turbine di vento veniva da settentrione e una nube grande, e un fuoco che in lei s’immergeva e una luce intorno ad essa; e nel centro, cioè in mezzo al fuoco, eravi una specie di metallo brillantissimo. E nel mezzo di questo medesimo fuoco si vedeva l’apparenza di quattro animali che era tale: vi si vedeva la rassomiglianza di un Uomo. Ciascuno aveva quattro facce e quattro ali; i loro piedi erano diritti, la pianta dei loro piedi era come la pianta del piede d’un vitello (Osservate i piedi del Baphomet!), e uscivano da essi delle scintille come fa al vedersi un fulgido acciaio. Vi erano delle mani d’uomini sotto le loro ali ai quattro lati e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali.  Le ali dell’uno erano unite alle ali dell’altro. Non andavano indietro quando camminavano, ma ciascuno andava innanzi. Quanto alla figura dei loro volti, avevano tutti e quattro una faccia d’uomo, tutti e quattro a destra una faccia di leone, tutti e quattro a sinistra una faccia di bue, e tutti e quattro al di sopra una faccia d’ aquila…. Sopra le teste degli animali, si vedeva un firmamento che appariva come un cristallo scintillante e terribile a vedersi, che era steso sopra le loro teste…. E in questo firmamento che era sopra le loro teste, si vedeva come un trono di zaffiro, e appariva come un Uomo seduto su quel trono. Io vidi come un metallo brillantissimo e simile al fuoco, tanto dentro che all’intorno. Dai suoi lombi all’insù, e dai lombi di lui sino all’infime parti, io vidi come un fuoco che risplendeva all’intorno. E come 1’arco che apparisce in cielo in una nube in un giorno di pioggia tal’era 1’aspetto del fuoco che risplendeva all’intorno (Ezechiele, cap. I ). »

« I dieci Séphiroth, per cui, secondo la Cabala, l’Essere infinito Ensoph, si fa conoscere dapprima, non sono altro che attributi i quali, per sé, non hanno alcuna realtà sostanziale; in ciascuno di questi attributi, la sostanza divina è presente tutta intera, e nel loro insieme consiste la prima, la più completa e la più elevata di tutte le manifestazioni divine. Essa chiamasi l’Uomo primitivo o celeste; è questa la figura che domina il carro misterioso di Ezechiele e di cui l’uomo terreno non è che una pallida immagine (Franck, p. 133.). » – « La forma dell’uomo, dice Simone ben Jochai ai suoi discepoli, rinchiude tutto ciò che è nel cielo e sulla terra, gli esseri superiori come gli esseri inferiori; per questo l’Antico degli Antichi l’ha scelta per sua…. È di essa che si vuol parlare quando si dice che vedevasi al di sopra del carro come la figura di un Uomo (Franck. p. 133). » – Il ravvicinamento di queste tre Tende del Rituale del 32.° grado, della profezia di Ezechiele e della dottrina della Cabala, bastano per dare al Campo dei Principi, l’interpretazione cabalistica seguente.- L’Ensoph è rappresentato dal circolo; i tre Séphiroh superiori, dal Triangolo; gli altri Séphirot, cioè il Santo Re e la Matrona dalla Croce in cinque bracci; tutto l’Uomo celeste, dal Triangolo e il suo contenuto; la rivelazione dell’Uomo Celeste sul Carro misterioso, dai quattro emblemi; la sua scelta del popolo d’Israele, dal quinto emblema, l’Arca d’alleanza; la fertilità del Santo Re e della Matrona fuori del cielo, dal pentagono dei cinque emblemi, i sette re d’Edom, dall’ ottagono che non porta emblemi, perché questi re scomparvero; e finalmente il mondo attuale, dal triplice triangolo o le nove tende; queste servono in pari tempo a rappresentare il popolo d’Israele e la sua storia. I bisogni della frammassoneria manichea le hanno fatto aggiungere all’aquila d’Ezechiele una seconda testa; il profeta era tuttavia ben lungi dal credere al dualismo di un Buono e di un Cattivo Principio. Finalmente il progresso delle rivelazioni cabalistiche esigeva che al penultimo grado della terza serie di undici, corrispondente alla Sephirah Corona, un simbolo qualsiasi indicasse quella prima figura celeste: si è adunque incoronato il mostro filosofico, l’aquila a due teste! Ecco ora l’interpretazione del numero mistico 515 sul collare del Leon d’oro: « I dieci Séphiroth, dice lo Sepher Jetzirah, sono come le dita della mano, in numero di dieci e cinque contro cinque ma in mezzo ad esse è l’alleanza dell’unità (Franck. p. 109) ». – Il piano generale della frammassoneria comprende: l° la distruzione dell’ordine attuale del mondo, 2° lo stabilimento di un’Impero universale giudaico e massonico, e 3° la conquista dell’Universo per Lucifero trionfante su Dio. Bisogna saper legger tra le linee e interpretare le interpretazioni dei veri iniziati per rendersi conto del vero carattere della frammassoneria, Sentiamo il Maestro Ragon sui tre uccelli.

1° « Il Corvo (dice egli, p. 41 del suo Rituale), emblema alchimico, indica col suo colore nero la prima parte della grande Opera: la decomposizione dei misti, il caos ». Da ciò il motto dei 33: Ordo ab chao.

2° La bianchezza della Colomba è il secondo colore dell’Opera, indicando che si è arrivati dall’elisir al bianco, dall’argento vivo, simboleggiato dalla luna, emblema d’Isis, la cui iniziale I adorna la nostra prima colonna simbolica, posta di fronte a queir astro delle Notti, » al nord della Loggia. Da ciò la purificazione dei 33° nell’argento vivo sul fuoco.

3° « Il colore della Fenice che esce dalle fiamme è il terzo colore dell’ Opera compiuta, il rosso, simboleggiato dalle fiamme, emblema del sole, o d’Osiris, la cui iniziale del suo soprannome, Bacchus, figura sulla nostra seconda colonna, posta di fronte a questo re degli astri, » al sud della Loggia. Chi non vede in queste fiamme e nell’ultimo fine della frammassoneria la coda del vecchio Serpente? Oh! si, egli vuole avere dei compagni nel suo paradiso di fuoco! Sentite i Principi del Campo pregare Lucifero: « Solo e vero principio di tutti i lumi, Fuoco Sacro, che fecondi e conservi 1’universo, Essere potente che non si concepisce e non si può definire, infiamma i nostri cuori dell’amore delle virtù,…. benedici l’intrapresa che non abbiamo formata che per la tua gloria e pel bene dell’ umanità. Amen (5 volte) ». I cinque viaggi dell’armata massonica mettono capo alle porte di Napoli, di Malta, di Rodi, di Cipro e di Giaffa. Giunti là, i Principi contemplano un quadro rappresentante la città di Gerusalemme, la « terra per sempre consacrata da tante preziose memorie ». « Possiam noi, dice il Grande Commendatore, renderti il tuo antico splendore e riedificare il tempio che il più sapiente dei re aveva innalzato alla gloria del monarca dei cieli! Amen (5 volte). » – Per terminare la cerimonia della recezione di un nuovo Principe, si bruciano ancora alcuni grani d’incenso sull’altare dei profumi, e si conchiude con una preghiera commovente al Dio massonico, Lucifero.

INTELLIGENTI, PAUCA.

Chi può capire capisca, chi non può preghi lo Spirito Santo, terza Persona della Santissima Trinità, il vero unico Dio!

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (IX)

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (IX)

INTERPRETAZIONE DELL’APOCALISSE

Che comprende LA STORIA DELLE SETTE ETÁ DELLA CHIESA CATTOLICA.

DEL VENERABILE SERVO DI DIO

BARTHÉLEMY HOLZHAUSER

RESTAURATORE DELLA DISCIPLINA ECCLESIASTICA IN GERMANIA,

OPERA TRADOTTA DAL LATINO E CONTINUATA DAL CANONICO DE WUILLERET,

PARIS, LIBRAIRIE DE LOUIS VIVÈS, ÉDITEUR RUE CASSETTE, 23 – 1856

LIBRO II.

SEZIONE II.

SUL CAPITOLO V.

DEL LIBRO SIGILLATO CON SETTE SIGILLI, L’ACCLAMAZIONE E GLI APPLAUSI FATTI A GESÙ CRISTO ALL’APERTURA DI QUESTO LIBRO.

Vers. 1. E vidi nella mano destra di colui che sedeva sul trono un libro scritto dentro e fuori, sigillato con sette sigilli.

§ 1.

Che cos’è questo libro scritto dentro e fuori, sigillato con sette sigilli.

CAPITOLO V.

VERSETTI 1-4.

Et vidi in dextera sedentis supra thronum, librum scriptum intus et foris, signatum sigillis septem. Et vidi angelum fortem, prædicantem voce magna: Quis est dignus aperire librum, et solvere signacula ejus? Et nemo poterat neque in cælo, neque in terra, neque subtus terram aperire librum, neque respicere illum. Et ego flebam multum, quoniam nemo dignus inventus est aperire librum, nec videre eum.

[E vidi nella mano destra di colui, che sedeva sul trono, un libro scritto dentro e di fuori, sigillato con sette sigilli. E vidi un Angelo forte, che con gran voce gridava: Chi è degno di aprire il libro, e di sciogliere i suoi sigilli? E nessuno né in cielo, né in terra né sotto terra, poteva aprire il libro, né guardarlo. E io piangevo molto, perché non si trovò chi fosse degno di aprire il libro, né di guardarlo.]

I. Dopo che San Giovanni ha descritto la maestà, la natura e la costituzione intrinseca della Chiesa Cattolica, gli si apre in qualità di segretario intimo del regno di Gesù Cristo sulla terra, il libro dei segreti e delle disposizioni di Dio a riguardo della sua Chiesa.

Questo libro contiene tutto ciò che deve accadere fino alla consumazione dei tempi. Queste rivelazioni sono state fatte nel particolare e nell’ordine; e contengono un’istruzione profonda, salutare e molto necessaria. La sapienza del Padre celeste ha lasciato questo libro ai suoi amati figli, come un monarca prudente è solito fare prima della sua morte, lasciando al figlio suo, oltre ai segreti del suo regno, dei consigli particolari sul modo di governare. Lo avverte, per esempio, delle guerre che possono insorgere, dei nemici che maggiormente sono da temere, e infine di ciò che si debba fare o evitare nei casi difficili che possono presentarsi. Ora, è in questo modo, e con molta più saggezza, che Dio, nel suo paterno amore e sollecitudine per i suoi eletti, ci ha permesso di penetrare, per così dire, nell’abisso della sua ineffabile prescienza, mostrando a San Giovanni le desolazioni, le consolazioni e gli avvenimenti più notevoli ed essenziali che accadranno nella Chiesa fino alla consumazione dei secoli.

Vers. 1.E vidi nella mano destra di colui che sedeva sul trono un libro scritto dentro e fuori, sigillato con sette sigilli, ecc. Queste parole annunciano la profondità dei divini segreti contenuti in questo libro. In effetti, vi troviamo una conoscenza, una disposizione divina ed un’intenzione particolare riguardo alla sua Chiesa. Si dice che tutto è descritto in forma metaforica. E come gli scritti importanti di un regno sono conservati con cura negli archivi, così le cose che Dio ha decretato di fare e di permettere, nella sua assoluta volontà, rimangono fissate ed immutabili. Dobbiamo ammettere innanzitutto che si fondano sulla teologia: 1°che Dio conosce tutte le cose possibili nel modo più certo e perfetto, anche se non sono mai esistite o mai esisteranno. 2° Che vede tutte le cose esistenti o contingenti, senza essere limitato da alcuna differenza dei tempi, passato, presente o futuro. 3°. Oltre ai due tipi di conoscenza appena menzionati, ce n’è un terzo che sta nel mezzo: si riferisce a cose che possono accadere condizionatamente. Ora, nella descrizione delle sette età della Chiesa, data nei capitoli II e III, molte cose sono rivelate secondo quest’ultima scienza o conoscenza di Dio; il che non impedisce, tuttavia, che le cose che questo libro contiene siano state scritte secondo la scienza della visione; infatti, tutte queste cose sono rivelate secondo la scienza della visione; in quanto tutte queste cose esistono nel potere operativo di Dio, e sono decretate dalla sua volontà divina, come debbano essere fatte o permesse nel tempo. Si dice che San Giovanni vide questo libro nella mano destra di Colui che sedeva sul trono. Ora la mano destra di Dio significa metaforicamente il suo potere operativo. E così come noi agiamo con la nostra mano destra, così Dio agisce con la sua volontà. Perché Egli ha parlato e tutte le cose sono state fatte; Egli ha comandato e tutte le cose sono state create. (Sal. XXXII, 9): « Il Signore dissipa i consigli delle genti, rende vani i pensieri dei popoli e rovescia i consigli dei principi. Ma il consiglio del Signore rimane in eterno e i pensieri del suo cuore durano per tutte le generazioni. » E (Ps. CXIII, 11): « Il nostro Dio è nei cieli; qualunque cosa voglia, l’ha fatta. » E ancora (Ps. CXLVIII, 5): « Poiché Egli ha parlato, e tutte le cose sono state create. Li ha stabiliti per durare nei secoli dei secoli. Egli ha dato loro i suoi ordini, che non mancheranno di essere eseguiti. » Colui che sedeva sul trono. Questi è di nuovo il Signore Dio, cioè Gesù Cristo invisibilmente seduto sulla Sede apostolica, che governa la sua Chiesa e viene adorato da tutti i Cristiani nella sua umanità. E vidi nella mano destra di Colui che sedeva sul trono un libro scritto dentro e fuori. Con le cose scritte nel libro si intendono quelle che sono più oscure e astratte per la mente umana, e che devono essere completate nel corso delle epoche della Chiesa, e specialmente negli ultimi tempi, secondo la rivelazione che fu fatta a San Giovanni. Con le cose scritte fuori dal libro si designano quelle che sono le più chiare e visibili, e che San Giovanni stesso ha spiegato; ed anche quelle che erano già compiute quando l’Apocalisse fu scritta, e ancora quelle che dovevano compiersi poco dopo. Quest’ultima categoria è abbastanza numerosa, come vedremo nelle pagine seguenti. E vidi nella mano destra di Colui che sedeva sul trono un libro sigillato con sette sigilli. Il sigillo viene messo sulle lettere, per evitare che vengano lette. Si mette anche sugli atti, sui testamenti e sui libri, per dare loro più autorità. È così che i re mettono il loro sigillo sui loro editti, e vogliono anche che i loro ambasciatori lo usino per accreditare i loro atti. – Il sigillo di Dio è la sua volontà divina, che ha nascosto fin dall’inizio del mondo, e che conserva come un segreto nel suo tesoro, le sue opere divine, mirabili o terribili, e tutto ciò che, per suo permesso, deve accadere alla sua Chiesa, fino alla fine dei tempi. Ora, questi segreti dell’Apocalisse, non li ha rivelati a nessun profeta, a nessun patriarca, né a nessun uomo, nemmeno agli Angeli, fino all’arrivo di suo Figlio Gesù Cristo, alla cui umanità li ha rivelati mostrandogli questi sette sigilli e dandogli il potere di romperli. Per questo è detto di seguito: Nessuno poteva in cielo, per quanto riguarda gli Angeli, né sulla terra, per quanto riguarda gli uomini, né sotto terra, per quanto riguarda i patriarchi che erano nel limbo, aprire il libro, né rimuovere i suoi sette sigilli, né guardarvi dentro. Sebbene il sigillo o il segreto divino sia considerato in se stesso, tuttavia si dice, in relazione all’esterno, che questo libro dei segreti di Dio fosse sigillato con sette sigilli, per significare la diversità dei tempi e delle epoche della Chiesa, durante i quali Gesù Cristo doveva manifestare le meraviglie ed i prodigi conosciuti da Dio. Questo è quello che doveva operare effondendo i sette doni del suo Spirito, secondo la diversità dei tempi, degli uomini e delle età della sua Chiesa fino alla consumazione dei secoli, per la salvezza dei suoi eletti. E questo libro è detto essere sigillato con sette sigilli, che Gesù Cristo doveva rompere, per darci una testimonianza di fede ed una garanzia del compimento dei segreti divini.

Vers. 2 . E vidi un Angelo forte che gridava ad alta voce: Chi è degno di aprire il libro e di scioglierne i sigilli? Queste parole esprimono la difficoltà di comprendere ed eseguire i decreti di Dio riguardanti la Sua Chiesa. Questo Angelo forte è l’arcangelo Gabriele, il cui nome significa potenza e forza di Dio. Questo Angelo è l’inviato speciale della divinità ed il legato di Cristo; ed è in questa veste che annunciò l’incarnazione del Verbo. (Luca, I).

Vers. 3. – E nessuno poteva aprire il libro o guardarci dentro, né in cielo per quanto riguarda gli Angeli, né sulla terra per quanto riguarda gli uomini, né sottoterra per quanto riguarda i Patriarchi, i Profeti e gli antichi che erano nel limbo. Perché nessun potere finito potrebbe penetrare, o rivelare, o realizzare i segreti di Dio riguardanti la Chiesa ed il regno di Cristo. Niente di meno che la sapienza e il potere della Divinità erano necessari per questo. Per questo l’arcangelo Gabriele dice (Luca, I, 31-32): « Concepirai nel tuo grembo e partorirai un figlio e lo chiamerai col nome di Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre, ed Egli regnerà sulla casa di Giacobbe per sempre. » Anche per questo i teologi insegnano nel Trattato sull’Incarnazione che l’opera di redenzione del genere umano non poteva essere affidata a nessun uomo comune, né a nessun Angelo. La ragione di ciò è: 1°. Che nessun uomo o Angelo ordinario potrebbe soddisfare degnamente la giustizia divina. 2°. Nessun uomo, per quanto santo, né alcun Angelo, poteva conformarsi alla volontà divina, né riconoscerla nelle orribili tribolazioni e mali con cui la Chiesa fu afflitta, quando, per esempio, dovette nuotare nel sangue dei suoi innumerevoli martiri per trecento anni. Nessun uomo o Angelo avrebbe mai potuto concepire le molte eresie con le quali la Chiesa ha dovuto gemere così tanto, e le prove ancora più sorprendenti che dovrà subire alla fine dei tempi, se Gesù Cristo non ci avesse dato un esempio nella Sua passione, e se non ci avesse avvertito e istruito su di esse nel Vangelo e in questo libro dell’Apocalisse. Perché gli uomini più santi non sono capaci di risolvere questo enigma da soli. 3°. Il potere e l’astuzia di questo mondo erano così pieni di malizia, che il regno della Chiesa militante, ridotto alle sue forze umane, non avrebbe mai potuto giungere alla fine e svilupparsi pienamente senza la virtù onnipotente del Figlio di Dio.

Vers. 4. – E io piansi amaramente, perché nessuno fu trovato degno di aprire il libro, né di guardarvi dentro. Queste lacrime esprimono il desiderio e la sollecitudine di San Giovanni di penetrare nel meraviglioso segreto delle epoche della Chiesa, un segreto la cui conoscenza e sviluppo era al di là di ogni potere umano, e dal quale tuttavia dipendeva la salvezza dei giusti. Perciò dice: E io piansi amaramente, perché nessuno fu trovato degno di aprire il libro, cioè di adempiere i suoi segreti, o di guardarvi dentro, per conoscere la volontà di Dio.

§ II.

Sull’acclamazione fatta a Cristo a motivo dell’apertura del libro sigillato.

CAPITOLO V. – VERSETTI 5-14.

Et unus de senioribus dixit mihi: Ne fleveris: ecce vicit leo de tribu Juda, radix David, aperire librum, et solvere septem signacula ejus. Et vidi: et ecce in medio throni et quatuor animalium, et in medio seniorum, Agnum stantem tamquam occisum, habentem cornua septem, et oculos septem: qui sunt septem spiritus Dei, missi in omnem terram. Et venit: et accepit de dextera sedentis in throno librum. Et cum aperuisset librum, quatuor animalia, et viginti quatuor seniores ceciderunt coram Agno, habentes singuli citharas, et phialas aureas plenas odoramentorum, quae sunt orationes sanctorum: et cantabant canticum novum, dicentes: Dignus es, Domine, accipere librum, et aperire signacula ejus: quoniam occisus es, et redemisti nos Deo in sanguine tuo ex omni tribu, et lingua, et populo, et natione: et fecisti nos Deo nostro regnum, et sacerdotes: et regnabimus super terram. Et vidi, et audivi vocem angelorum multorum in circuitu throni, et animalium, et seniorum: et erat numerus eorum millia millium, dicentium voce magna: Dignus est Agnus, qui occisus est, accipere virtutem, et divinitatem, et sapientiam, et fortitudinem, et honorem, et gloriam, et benedictionem. Et omnem creaturam, quae in cælo est, et super terram, et sub terra, et quae sunt in mari, et quae in eo : omnes audivi dicentes: Sedenti in throno, et Agno, benedictio et honor, et gloria, et potestas in sæcula sæculorum. Et quatuor animalia dicebant: Amen. Et viginti quatuor seniores ceciderunt in facies suas: et adoraverunt viventem in sæcula sæculorum.

[E uno dei seniori mi disse: Non piangere: ecco il leone della tribù di Giuda, la radice di David, ha vinto di aprire il libro, e sciogliere i suoi sette sigilli. E mirai: ed ecco in mezzo al trono, e ai quattro animali, e ai seniori, un Agnello sui suoi piedi, come scannato, che ha sette corna e sette occhi: che sono sette spiriti di Dio spediti per tutta la terra. E venne: e ricevette il libro dalla mano destra di colui che sedeva sul trono. – E aperto che ebbe il libro, i quattro animali, e i ventiquattro seniori si prostrarono dinanzi all’Agnello, avendo ciascuno cetre e coppe d’oro piene di profumi, che sono le orazioni dei santi: E cantavano un nuovo cantico, dicendo: Degno sei tu, o Signore, di ricevere il libro, e di aprire i suoi sigilli: dappoiché sei stato scannato, e ci hai ricomperati a Dio col sangue tuo di tutte le tribù, e linguaggi, e popoli, e nazioni: E ci hai fatti pel nostro Dio re e sacerdoti: e regneremo sopra la terra. E mirai, e udii la voce di molti Angeli intorno al trono, e agli animali, e ai seniori: ed era il numero di essi migliaia di migliaia, i quali ad alta voce dicevano: È degno l’Agnello, che è stato scannato, di ricevere la virtù, e la divinità, e la sapienza, e la fortezza, e l’onore, e la gloria, e la benedizione. E tutte le creature che sono nel cielo, e sulla terra, e sotto la terra, e nel mare, e quante in questi (luoghi) si trovano: tutte le udii che dicevano: A colui che siede sul trono e all’Agnello la benedizione, e l’onore, e la gloria, e la potestà pei secoli dei secoli. E i quattro animali dicevano: Amen. E i ventiquattro seniori si prostrarono bocconi, e adorarono colui, che vive pei secoli dei secoli.]

Vers. 5 – Ma uno degli anziani mi disse: Non piangere, perché questo è il leone della tribù di Giuda, il germoglio di Davide, che con la sua vittoria ha ottenuto il potere di aprire il libro e di sciogliere i sette sigilli. Queste parole devono consolarci in tutte le tribolazioni. Uno di questi vegliardi è San Pietro, il primo tra gli Apostoli, come è detto, (Genesi, I, 5): « E fu sera e fu  mattino, e fu fatto un giorno », cioè il primo giorno. Ecco il leone della tribù di Giuda…; che ha ottenuto con la sua vittoria, ecc. Questo leone della tribù di Giuda è il Cristo della razza di Davide secondo la carne, in cui si compie la profezia di Giacobbe (Gen. XLIX, 8): « Un giovane leone è Giuda: dalla preda, figlio mio, sei tornato; si è sdraiato, si è accovacciato come un leone e come una leonessa; chi oserà farlo alzare? Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli. Egli lega alla vite il suo asinello e a scelta vite il figlio della sua asina, lava nel vino la veste e nel sangue dell’uva il manto; lucidi ha gli occhi per il vino e bianchi i denti per il latte. » Ecco… la progenie di Davide, cioè il Cristo, Del seme di Davide secondo la carne, di cui Isaia profetizzò, (Is. XI, 1): « Un germoglio uscirà dal tronco di Iesse, un fiore spunterà dalle sue radici. Lo spirito del Signore si poserà su di lui, ecc. »  È con questo seme divino che San Pietro consola tutta la Chiesa nella persona di San Giovanni, quando dice: « Ecco il leone della tribù di Giuda, la discendenza di Davide, che ha ottenuto con la sua vittoria, ecc. ». Vale a dire che Gesù Cristo, il Figlio del Dio vivente ha vinto il mondo, la carne, il diavolo, la morte, tutto il potere e la sapienza del mondo e tutta la tirannia, ecc. il germoglio di Davide, che con la sua vittoria ha ottenuto il potere di aprire il libro, cioè di rivelare alla sua santa Chiesa il pensiero e la volontà del Padre suo, circa i mali e le persecuzioni che avrebbe dovuto subire. E di aprirne i sette sigilli; per compiere ogni cosa a suo tempo per mezzo dei sette doni dello Spirito Santo che escono dalla sua bocca, per la salvezza dei suoi eletti e per la conservazione della sua Chiesa, finché il secolo fosse consumato ed il numero dei suoi eletti completo.

II. Vers. 6. E vidi; ed ecco in mezzo al trono e ai quattro animali ed in mezzo ai vegliardi, un Agnello in piedi come se fosse stato ucciso, con sette corna e sette occhi, che sono i sette Spiriti di Dio mandati in tutta la terra. Questo Agnello è Cristo nostro Signore. Si dice che è in mezzo al trono, ai quattro animali e ai vegliardi, perché la Chiesa universale gli appartiene come se fosse il suo trono. Egli l’ha fatta pascere come si pascono gli animali, in quanto Egli è il suo pastore. La Chiesa è onorata come lo sono i vegliardi incaricati di giudicare dalla sede della pietà. Questa Chiesa, essendo costruita su Cristo, è esaltata dai sette corni della sua potenza ed illuminata da sette occhi, cioè dai suoi miracoli e dalle sue virtù. Poiché Cristo è costantemente in mezzo alla sua Chiesa, come è detto in San Matteo, (XXVIII, 20): « Ecco, Io sono sempre con voi, fino alla consumazione dei secoli. » Come Cristo fu chiamato “leone” a causa della sua risurrezione, così qui è chiamato “agnello”, perché è stato ucciso. Egli è rappresentato in piedi essendo resuscitato alla vita eterna. (Rom. VI, 9): « Gesù Cristo risorto dai morti non muore più. » Questo Agnello è ancora rappresentato in piedi, perché combatte con i suoi santi sulla terra e veglia sulla sua Chiesa. È così che, nel suo martirio, Santo Stefano vide Gesù Cristo in piedi alla destra della potenza di Dio. Seguono queste parole: avendo sette corna e sette occhi, che sono gli Spiriti di Dio inviati per tutta la terra. Questi Spiriti sono quelli descritti in Isaia, XI. Questi spiriti poggiano su Cristo, e sono metaforicamente designati da corna e da occhi: da corna per la potenza divina; e da occhi per il bagliore della verità con cui quegli occhi brillano. Cristo combatte con queste corna contro i suoi nemici, ed è anche con questi occhi che illumina i suoi servi. Queste corna e questi occhi sono in numero di sette, per designare tutta la virtù e tutta la potenza che Cristo mostra nelle varie epoche, fino alla consumazione dei secoli, a favore della sua Chiesa. L’Agnello è rappresentato come immolato:

-1°. Perché è sacrificato ogni giorno quando l’ostia del corpo e del sangue di Gesù Cristo è offerta a Dio Padre nel santo Sacrificio della Messa, in memoria della sua immolazione secondo la carne. Ecco perché non si dice semplicemente immolato, ma “come” immolato. – 2°. Egli è rappresentato “come” immolato, a causa della pazienza e della longanimità con cui permette ai suoi nemici e a tutti gli empi di dominare e affliggere la Sua Chiesa sulla terra. Questa pazienza e questa longanimità del Cristo è portata al punto che i malvagi e persino i deboli, che non comprendono appieno questo modo di procedere della divina provvidenza, lo considerano scandalo per la fede. Sono tentati di credere che Gesù Cristo non esista, o che non si preoccupi affatto della sua Chiesa, quando non manifesta la sua potenza con atti esterni della sua protezione.

Vers. 7Ed Egli venne e ricevette il libro dalla mano destra di Colui che sedeva sul trono. Non si deve intendere con queste parole che Gesù Cristo ricevette la conoscenza dei destini della Chiesa. Perché Cristo, dal momento del suo concepimento, in cui la divinità fu unita in modo meraviglioso all’umanità nell’unità della sua Persona, aveva una perfetta conoscenza di tutte le cose che Dio stesso conosce con la scienza della visione. Ora, tra queste cose conosciute in questo modo sono contenuti anche i destini della Chiesa, come vediamo da ciò che è stato detto sopra. Dal fatto poi che San Giovanni ha visto Gesù Cristo aprire il libro, dobbiamo comprendere:

1° Che la conoscenza già infusa nell’anima di Gesù Cristo dal principio della sua creazione, doveva essere comunicata a San Giovanni e, nella sua persona, a tutta la Chiesa. 2° Con l’accettazione del libro dalla mano destra di Colui che sedeva sul trono, si intende l’effettiva esecuzione e realizzazione dei segreti divini riguardo alla Chiesa, manifestati all’esterno. Ed è perché la conoscenza e l’esecuzione di queste cose superano tutte le forze naturali che San Giovanni pianse fino a quando gli fu mostrato che Cristo, come un leone terribile e come un agnello dolcissimo, avrebbe risolto ed eseguito tutte le cose con la sua dolcezza e con la sua potenza.

Vers. 8E quando l’ebbe aperto, i quattro animali ed i ventiquattro vegliardi si prostrarono davanti all’Agnello, ciascuno con delle arpe e delle coppe d’oro piene d’incenso, che sono le preghiere dei Santi, etc. – Queste parole contengono l’applauso, la gloria, il giubilo, l’onore e l’adorazione della Chiesa militante e trionfante nei riguardi del suo Capo Gesù Cristo. Queste parole ci fanno vedere inoltre quale omaggio d’amore e di riconoscenza la Chiesa Cattolica debba rendere al Cristo. E quando l’ebbe aperta, per rivelare e realizzare nel loro tempo i destini della Chiesa, i quattro animali, cioè tutti i predicatori nelle quattro parti del mondo, ed i ventiquattro vegliardi, che sono i Patriarchi, i Primati, gli Arcivescovi, i Vescovi, i prelati, i sacerdoti, e così via, si prostrarono davanti all’Agnello, cioè adoravano l’Agnello, il loro vero Dio e il Signore di tutte le cose. Ognuno con delle arpe, cioè con la mortificazione dei vizi e della concupiscenza. Infatti, nell’arpa ci sono il legno e le corde. Il legno designa la croce di Cristo e le corde significano la carne crocifissa e mortificata dei Santi. Ora queste corde, tese su un legno così nobile, e messe in vibrazione dai vari tormenti che la Chiesa militante deve sopportare, producono un dolce accordo ed una dolce armonia per le orecchie di Gesù Cristo. E con delle coppe d’oro piene di profumi, che sono le preghiere dei Santi. Essi cantavano un Cantico nuovo. Nell’Antico Testamento, molti inni furono composti in onore ed a gloria di coloro che operarono la salvezza di Israele, oppure in lode del Dio Onnipotente che così spesso fece cose meravigliose per il Suo popolo. Ma qui si tratta di un cantico nuovo, inno con il quale l’uomo adora e glorifica Dio, che non solo ci ha fornito la salvezza e la redenzione nel tempo, ma anche nell’eternità redimendoci dalla prigionia, dalla servitù e dalla tirannia del diavolo. Di modo che il Signore Dio non ha mai fatto, dall’origine del mondo, cose così ammirevoli e così grandi nel suo amore come quelle di inviare il suo unico Figlio fatto uomo sulla terra, che doveva redimerci con la sua passione e morte ed inviarci, dopo la sua risurrezione, lo Spirito Santo. Ecco perché:

Vers. 9. – Cantavano un nuovo canto, dicendo: Tu sei degno, o Signore, di ricevere il libro e di scioglierne i sigilli; cioè, è giusto e opportuno, o Signore, che tu riceva da Dio Padre il potere universale ed eterno sulla tua Chiesa, perché Tu ne sei il fondatore e il protettore. È così che dissero i figli d’Israele a Gedeone, (Judic., VIII, 22): « Comandaci, tu e tuo figlio ed il figlio di tuo figlio, perché ci hai liberati dalla mano di Madian. » Ora la Chiesa applaude Gesù Cristo con molta più ragione e gli dice: Tu sei degno, Signore, di ricevere il libro e di scioglierne i sigilli, perché siete stato messo a morte e ci avete riscattati, riconciliandoci con Dio infinitamente offeso, e ci avete riscattato con il vostro sangue (di un prezzo infinito) da ogni tribù, lingua, popolo e nazione; perché la Chiesa è l’assemblea di tutte le nazioni e di tutte le tribù. La tribù è composta da tre ordini, in ognuno dei quali ci sono 72 lingue. In queste lingue ci sono molti popoli, e in questi popoli molte nazioni.

Vers. 10. – E Voi ci hai fatti re e sacerdoti per il nostro Dio, radunandoci da tutte le nazioni, e sottomettendoci al servizio e alla volontà del Padre per mezzo della legge evangelica, noi che eravamo sotto il dominio dei demoni per l’infedeltà e l’idolatria, e sotto il giogo della legge di Mosè. – E Voi ci avete fatti sacerdoti, non come quelli del Vecchio Testamento, che offrivano la carne e il sangue degli animali, o come quelli del mondo pagano, che sacrificavano ai demoni attraverso i loro idoli; ma Voi ci avete fatto sacerdoti secondo l’ordine di Melchisedeck, per offrire quotidianamente il vostro prezioso corpo e sangue nel Sacrificio della Messa, Sacrificio che Voi, Signore e Sommo Sacerdote, avete offerto per primo sull’albero della croce. E noi regneremo sulla terra … nel vostro regno militante, su ogni tribù e lingua e popolo e su ogni nazione. E ci siederemo su ventiquattro seggi, cioè sui seggi patriarcali, arcivescovili, episcopali, ecc.

Vers. 11. – E vidi, ed udii intorno al trono, agli animali e ai vegliardi, la voce di molti Angeli, il cui numero era di migliaia di migliaia, che dicevano ad alta voce, ecc. Questo si riferisce a tutti gli Angeli ministri delle chiese, delle province e di tutto il mondo cristiano, il cui numero si estende senza dubbio a migliaia di migliaia; e tutti loro hanno ricevuto una missione ed un comando da Dio, per vegliare sulla nostra salvezza e quella di tutta la Chiesa. È per questo che si dice di quelli che sono intorno al trono, degli animali e dei vegliardi, a causa dell’assistenza speciale che essi offrono alle chiese, ai predicatori e ai Vescovi, dicendo a voce alta:

Vers. 12. – L’Agnello che è stato ucciso è degno di ricevere virtù, divinità, sapienza, forza, onore, gloria e benedizione. Questa acclamazione è rivolta all’umanità di Cristo, a causa della sua ipostasi divina, dagli Angeli, che proclamano degno proprio Colui che Lucifero, con i suoi apostati, giudicò indegno fin dall’inizio della creazione. Da questo possiamo vedere che ciò che conviene solo alle tre Persone divine è attribuito all’umanità di Gesù Cristo.

Vers. 13. E ho sentito tutte le creature che sono nel cielo. Queste parole annunciano il potere di Cristo sulla Chiesa trionfante; sulla terra, cioè ancora il suo potere sulla Chiesa militante; sotto la terra, sui corpi dei martiri e dei morti, nell’ambito della morte; e quelli che sono sul mare, sui navigatori; e nel mare, cioè il suo potere sui corpi dei santi martiri che vi ci furono gettati. Questa acclamazione può anche essere compresa da tutte le creature, anche da quelle prive di ragione e di comprensione. Li ho sentiti tutti dire: A Colui che siede sul trono, a Dio, uno in tre Persone, e all’Agnello, cioè all’umanità di Gesù Cristo, che è la luce in cui brilla ora come in uno specchio, e in cui Dio, uno in tre Persone, brillerà nell’eternità, quando i Santi lo vedranno e lo contempleranno faccia a faccia.

Vers. 14. – Benedizione, onore, gloria e potenza siano nei secoli dei secoli. E i quattro bestie dissero: Così sia. Questa è un’acclamazione della verità che è appropriata ed appartiene ai quattro Evangelisti e ai predicatori. E i ventiquattro vegliardi si prostrarono sulle loro facce, umiliandosi per il potere e l’autorità che era stata loro concessa sulla terra, e adorarono colui che vive nei secoli dei secoli.

FINE DEL SECONDO LIBRO .

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (X)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (XIII)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (XIII)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica; 1922.

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

TERZO PRINCIPIO FONDAMENTALE: L’amore a Nostro Signor Gesù Cristo

CAPITOLO XI

Vita gloriosa

L’aurora che sorse il giorno seguente al sabato di Pasqua non trovò più il Salvatore sepolto tra i morti alle radici del monte Calvario. Era risorto per incominciare la vita gloriosa, terzo ed ultimo stadio della sua vita d’Uomo-Dio, ricolmo al sommo di graziosa condiscendenza ed amabilità.

1. La risurrezione è il riunirsi di nuovo del corpo coll’anima, però non per la vita temporale di prima, ma per un’altra totalmente nuova e gloriosa. Il corpo, rivestendosi di proprietà somiglianti a quelle dello spirito senza lasciare di essere corpo, mutasi in altro essere affatto distinto e meraviglioso, capolavoro della sapienza e dell’onnipotenza di Dio tra le creature visibili, e questo per l’anima glorificata non è un semplice ornamento ed una decorazione, ma una sorgente di conoscimenti, di gaudio e di potere mai prima immaginata. Così risorse Cristo a questa nuova vita, ricolmo e pieno di gloria e chiarezza, manifestandosi anche nel corpo come vero Figlio di Dio, risplendendo sul suo volto la maestà divina, adornato delle doti di chiarezza. di beltà e d’immortalità. Chi potrà formarsi un’idea della bellezza e maestà di Cristo risorto? Tutte le ombre della sua vita mortale sparirono: la sua faccia brilla più risplendente che il sole; tutta la sua persona respira nobiltà, grandezza e perfetta pace; e siccome dall’intero creato ad ogni istante elevasi un mare di gaudio che va a rifrangersi nel suo Cuore, così Egli a sua volta diffonde un paradiso di felicità e di delizie nei cuori di quanti a Lui s’avvicinano. Tanto constatiamo nel Vangelo; la sua presenza rallegra tutti gli animi, la parola sua porta la calma in tutti i cuori, e dovunque Ei trovasi vi è un perpetuo festeggiamento. Un’occhiata di Cristo e il godere per brevi istanti della vita dell’umanità sua santissima bastano a renderci felici. La bellezza col seducente suo aspetto ha il potere di piegare il cuore umano. Ma, ahi! quante volte ripaga con disinganni, infedeltà e morte! Tutto il creato è soggetto a continui mutamenti ed a perpetua instabilità. Se vogliamo godere d’una bellezza vera, immortale, capace di renderci felici, leviamo la vista più in alto, contempliamo Cristo risorto. La risurrezione è con tutta proprietà la festa del suo corpo. L’anima fu glorificata nell’istante medesimo della morte; nella risurrezione lo fu soltanto il corpo, ed in una maniera completa e perfettissima. L’ascensione non Gli aggiunse nessuna interna gloria, ma solo l’esterna che risultava dal sito ove ascese: e così fu nella risurrezione dove cominciò l’immortale bellezza del Salvatore, la medesima che di presente forma la meraviglia del cielo e della terra. Per questo la Pasqua è realmente la festa della bellezza, quella che svela ai nostri desideri il campo d’una bellezza più nobile e imperitura, prototipo d’ogni bellezza, la cui speranza è già una ricompensa per chi rinunzia a tutte le bellezze terrene. L’ora del nostro sposalizio, dice uno scrittore cattolico, non è ancora arrivata; ma arriverà, e la felicità nostra sarà ricolma e sovrabbondante.

2. Dopo la risurrezione il Salvatore non salì immediatamente al cielo, ma rimase ancora quaranta giorni sopra la terra tra i suoi per tutto regolare e disporre, prendendosi cura di essi con una sollecitudine ed amabilità divina. Spesso ebbe a consolare separatamente i suoi discepoli e le pie donne, premiando i loro servigi o dando loro incarichi particolari; altre volte si occupò in ciò che riguardava la fondazione della Chiesa. Fu in questo frattempo che istituì i due Sacramenti del Battesimo e della Penitenza; rivelò e confermò le verità della fede circa i misteri della Santissima Trinità e della risurrezione, e diede compimento all’edifizio della Chiesa coll’istituzione del Primato. – E tutto questo il Signore operava con inesauribile bontà e dolcezza. Può affermarsi che i patimenti, la Passione e la morte, lungi dall’aver diminuito l’amore suo per noi, l’aveano accresciuto; tanto si mostrò Egli clemente nel consolare e perdonare le passate colpe. La Penitenza, il Battesimo, il Primato, l’Immortalità, che doni di Pasqua, regali divini per l’umanità. Quanto la risurrezione civile ci rivela la bellezza e la immortalità del Salvatore, altrettanto la sua permanenza di quaranta giorni sulla terra ci manifesta la sua bontà.

3. Sale infine il Signore trionfante al cielo. L’ascensione è il compimento della sua vita terrena, il principio e l’inaugurazione della sua gloria, poiché per essa entra in possesso del regno de cieli. Mèta più eccelsa e sublime non poteva avere la vita dell’Uomo- Dio. Il Salvatore conduce i suoi discepoli sul monte degli olivi e di lassù, alla loro presenza ascende maestosamente al cielo, lasciandoci intravedere qualche cosa di quel regno glorioso del quale prende possesso per noi. Il cielo è il felice termine di tutto ciò che esiste e l’ultimo messaggio che il Signore c’invia. Come grande e magnifico è questo suo regno! Regno nobilissimo, regno di soavissima e imperturbabile pace e di vera quiete; regno di gloriosa ed ininterrotta attività, per l’onore e la gloria del nostro Dio immenso ed infinito; regno finalmente d’inconcepibili e d’interminabili delizie. Quale onore e quale conforto di poter aspirare ad un tal regno coi suoi beni imperituri! Con quale ansia ed amore dobbiamo elevare verso il medesimo i nostri pensieri ed il nostro cuore, e indirizzare le nostre occupazioni e quanto siamo ed abbiamo onde conseguirlo! Il cielo è l’opera più eccellente del potere, della ricchezza, della bontà e dell’amore di Gesù Cristo; l’ascensione è la base fermissima della nostra fede, della nostra speranza e della carità nostra; Cristo è la stella del mattino che non conosce sera né tramonto; si elevò nella risurrezione e brilla nel cielo dal giorno dell’Ascensione, affinché allontaniamo i nostri pensieri, i nostri desideri ed il cuor nostro dalle cose mutevoli e fragili della terra e l’indirizziamo a Lui, in cui trovasi l’eterna e vera felicità nostra. – Di modo che il cielo, gaudio eterno ed infinito, è il compimento della vita temporale ed il compendio della vita gloriosa di nostro Signore Gesù Cristo. E così doveva essere; come Dio Egli è per essenza santo, esemplare e fonte d’ogni felicità e non può esserne privo senza cessare di essere chi Egli è. Come uomo è la copia più perfetta della divinità, causa, fondamento e signore della beatitudine del cielo, al di sopra d’ogni creatura. Ciò che patì sulla terra non fu che transitorio; l’assunse di sua volontà e lo sopportò per amore di Dio e nostro, ma non era questa, né poteva esserlo, la parte che di diritto Gli spettasse. Lo stesso avviene fra noi, creature, servi e fratelli suoi: i patimenti e dolori non sono il fine a cui sia indirizzata la vita nostra, bensì la felicità e la beatitudine. Non lo dimentichiamo: la felicità è la colonna miliare del Cristianesimo e l’ordine del giorno del nostro Duce, e nessun’altra disposizione conviene né a Lui né a noi. Ed è meraviglioso il potere e l’efficacia che ha comunicato a questa parola (felicità): essa ci rende coraggiosi ed invincibili, ci aiuta a superare tutte le difficoltà ed a risolvere tutti i dubbi e c’infiamma d’amore verso Colui che ripone l’onore suo e la sua gloria unicamente nella felicità nostra e nel nostro gaudio. « La vostra vita è la nostra via »; dice bene l’Imitazione di Cristo (L. 3, cap. 18), « e per la santa pazienza camminiamo verso di Voi, che siete la nostra corona ».

CAPITOLO XII.

II Santissimo Sacramento

Il Salvatore salì al cielo, e nondimeno, sappiamo per la fede che rimase altresì corporalmente sulla terra. Questa meraviglia si operò mediante il Santissimo Sacramento, la cui essenza consiste in ciò, che il Salvatore è realmente e veramente presente col suo corpo ed anima, coll’umanità sua e divinità, nascosto sotto il velo delle specie sacramentali, finché durano queste. Il Santissimo Sacramento è la catena d’oro che unisce in istretto vincolo la terra al cielo.

1. Questo ci porta, naturalmente, a considerare uno dei fini della sua istituzione, la permanenza, cioè, di Gesù Cristo qui sulla terra. L’amor suo fu più forte che la morte. Prima che i suoi nemici riuscissero a levarlo dal mondo, togliendogli la vita, Egli aveva già istituito quest’altra maniera di presenza sacramentale; la quale, pel modo che si verifica è veramente ammirabile. Per essa può trovarsi contemporaneamente in cielo ed in migliaia di tabernacoli; per essa apparisce ai sensi come morto e come pane senza nulla perdere perciò della sua vita, della sua perfezione, della sua bellezza; per essa apparisce così piccolo, che può stare nella mano d’un fanciullo; mentre i cieli non lo possono contenere: cose tutte meravigliose che solo l’amore ed il potere uniti realizzarono. Come perle di rugiada sopra un ramo di fiori, così i miracoli brillano nel Santissimo Sacramento, che è tutto un prodigio. Inoltre, colla sua presenza reale nell’Eucaristia Gesù Cristo ci si manifesta amabilissimo, pieno di bontà e capace di cattivarsi tutta la nostra confidenza. Di qual piccolo sito si contenta! Quanto poco ci domanda! Unicamente che Lo riceviamo e ci alimentiamo di Lui; in tutto il resto si rimette all’amor nostro ed alla nostra generosità. L’onore suo esterno è quello che siamo disposti a tributargli. Quando viveva fra gli uomini facevasi cercare da essi; ora è Lui che viene ad essi, fissa la sua dimora fra essi e li rende felici, non solo colla sua presenza ma anche co’ benefizi che la stessa trae seco, e colle tenerissime divozioni a cui dà origine. Come triste e solitario resterebbe il mondo, senza questo Sacramento!

2 Il Salvatore non solo rimane continuamente fra noi per farci compagnia nell’Eucaristia, ma si sacrifica per noi, che è il secondo fine della sua istituzione. – La continua presenza del Signore nel Tabernacolo suppone necessariamente la celebrazione della S. Messa, e questa è per sua essenza il Sacrificio della Croce e quello della Cena. La Messa è Sacrificio completamente identico a quello della Cena, ed in sostanza è il medesimo altresì della Croce; poiché non è un semplice ricordo o una rappresentazione di esso, ma la sua ripetizione, continuazione e consumazione, col medesimo Sommo Sacerdote, la medesima vittima ed il valore medesimo. Sono gli uomini che si cambiarono, e non sono oggi gli stessi che assistettero al Sacrificio della Croce e della Cena. E qui rifulge la degnazione di nostro Signore Gesù Cristo, il quale vuole rinnovare perpetuamente il suo Sacrificio, mettere, per così dire, in mano di ciascuno degli uomini i meriti suoi e rendere per ognuno a Dio il dovute tributo d’adorazione, di riverenza, di ringraziamento e di soddisfazione. Più ancora: adesso non offre Egli solo il Sacrificio come la prima volta, ma tra gli uomini sceglie dei sacerdoti, per offrirlo con essi e per mezzo di essi. Così fa realmente nostro il suo Sacrificio, comunicandogli valore infinito, col quale possiamo presentare a Dio un’offerta degna dell’infinita sua maestà. E non si stanca mai il Salvatore di rinnovare questo Sacrificio di lode, che a guisa del sole gira tutto il mondo, e da innumerevoli altari elevasi a Dio il suo odore soavissimo, da convertire tutta la terra in un vivo ed immenso tempio dell’Altissimo. Come ci ha arricchiti, altresì dinanzi a Dio, l’amore e la benignità di Nostro Signore Gesù Cristo! Con nessun altro mezzo consegue Dio così appieno e splendidamente il fine della creazione come colla santa Messa.

3. Però l’Eucaristia non è unicamente Sacrificio, ma anche Sacramento, e questo è il terzo fine dell’istituzione sua. Come Sacrificio appartiene in primo luogo a Dio, come Sacramento, a noi; per esso Dio ci comunica la grazia onde poter meritare la vita soprannaturale e salvarci. Questa vita soprannaturale la riceviamo nel Battesimo, e si conserva e vigoreggia con la divina Eucaristia. Negli altri Sacramenti Cristo ci comunica la grazia mediante segni sensibili; in questo si serve del proprio suo Corpo come istrumento di essa. Il Sacramento dell’Altare, quindi, è il Corpo di Gesù Cristo sotto le specie di pane ed in forma d’alimento. Che stupendo pegno d’amore! Il Santissimo Sacramento è nientemeno che il Corpo di Gesù Cristo, il quale ce lo dà ora e lo fa istrumento de’ suoi favori come in altro tempo valevasi delle mani sue divine per sanare infermi e risuscitare morti. Ma con maggiore degnazione, perché adesso ci dà il suo corpo, santuario della divinità e meraviglia del cielo e della terra, ed insieme col corpo, l’anima sua, la sua divinità, i suoi meriti, la sua grazia: tutto quello ch’Egli è e possiede fa nostra proprietà. Dove si troverà nel mondo uno così ricco ed onorato come chi porta in petto il suo Dio e Salvatore? Che di più avremmo potuto noi chiedergli, e che di più poteva Egli dare a noi? E se questo Sacramento è Gesù Cristo in persona, ne segue che è il più eccellente di tutti, e non solo in quanto alla sua dignità, ma altresì in quanto all’efficacia. La Comunione è l’intima unione corporale ed insieme morale con Cristo, e perciò supera tutti gli altri Sacramenti in efficacia per conservare ed accrescere in noi la vita soprannaturale. Come Cristo è la vita, così questo è il Sacramento della vita (Giov. VI, 56-57). Inoltre. sono suo effetto, in modo particolare, le virtù e i doni più eccellenti, quali la carità, la pace, il gaudio, la fortezza, la castità, la generosità. Mediante la Comunione noi partecipiamo della medesima vita divina di Gesù Cristo (Giov. VI, 58), ed insieme il nostro corpo riceve il pegno della sua gloriosa risurrezione. E tutti questi meravigliosi effetti sono magnificamente rappresentati nelle specie sacramentali del pane e del vino. Il pane ed il vino sono simbolo della vita; il nutrimento significa l’intima unione e fortezza; il banchetto è l’espressione della gioia e della cordiale amicizia. Infine, sotto qual altra forma avrebbe potuto il Salvatore mostrarci con maggior vivezza quanto sia tenero e disinteressato l’amore ch’Ei ci porta? Sapendo che non v’ha nulla che così intimamente si unisca a noi come l’alimento corporale, il quale entra e si trasforma nell’essere nostro e diventa una cosa sola con noi: e non potendo soffrire che vi fosse qualche cosa che a noi si unisse più strettamente che Lui, si converte in alimento dell’anima nostra e del nostro corpo. Ma possiamo dir meglio, che siamo noi che ci trasformiamo in Lui, anziché Lui in noi. Egli, l’Onnipotente, ci attrae a Sé per trasformarci spiritualmente in Sé e farci, per quanto è possibile, partecipi della sua divinità. Vedete questo frammento di pane, in apparenza senza vita? È egli possibile che tutta l’immensità di Dio voglia nascondersi, umiliarsi ed abbassarsi in questo modo? Ma Egli è così che consegue ciò che l’amor suo pretende: attrarre il cuor nostro per renderlo felice, per onorarci, per arricchirci. Che tenero e commovente pensiero questo, che non vi sia Ostia consacrata la quale non vada a finire nel petto umano!

4. Come si presenta grande, magnifico e divino, nei diversi effetti del Santissimo Sacramento dell’Altare, l’amore che Gesù Cristo ci porta! Come mantiene realmente la sua parola, di non lasciarci orfani, ma di rimanere sempre con noi, di essere Egli la vite e noi i tralci e che noi dovevamo formare con Lui un tutto organico! Mediante l’Eucaristia estende in certo modo l’Incarnazione sua a tutti i singoli gli uomini. Nell’Incarnazione prese solamente una natura umana; nella Comunione si dona a ciascuno in particolare e si unisce con Lui con istrettissimo vincolo. Per la creazione Gesù Cristo è nostro Padre; per la conservazione è nostro Nutritore e Maestro; e per la giustificazione è nostro Salvatore; ma pel Santissimo Sacramento è per noi qualche cosa di così indicibilmente intimo, che è difficile esprimere, se pur non vogliamo dire, che è tutto questo insieme. Ciò che in questa circostanza Lo mosse e determinò a così operare, fu non solo la sua compassione, la sua misericordia e bontà per noi, ma l’amor suo, amore disinteressato è senza limiti, amore che oggi altresì non s’arretra dinanzi a qualunque sacrificio. – Gli sarebbe bastato meno per mostrarcelo; bastava che fosse rimasto presente in un solo luogo del mondo, che ci avesse rallegrati con una sua visita sola una volta in vita nostra, e questa unicamente a favore di coloro che se ne fossero regni degni; sarebbe stato bastante che si trovasse presente puramente al momento di riceverlo; ma Egli rigetta tutte queste riserve, a costo di esporsi a mille irriverenze e sacrilegi. Non dimentichiamo il numero senza numero d’ingratitudini e mancanze di rispetto per cui deve passare onde venire sacramentalmente ai nostri cuori, e come Va chiamando alla nostra porta colle parole dello sposo del Cantico dei Cantici: Apri, sorella mia, amica mia, mia colomba, mia immacolata; perocché il mio capo è pieno di rugiada, ed i miei capelli dell’umido della notte (Cant. V, 2). Dove potremmo noi ripagare il Signore con maggiore facilità, per l’amore che ci porta, se non nel Santissimo Sacramento, nel quale divampa un tale incendio di carità che giustamente chiamasi Sacramento di amore? Per la presenza reale è sempre e dovunque con noi, per noi si sacrifica nella santa Messa, a noi si unisce intimamente nella santa Comunione. Qual motivo e quale eccellente mezzo per crescere nell’amor suo!

CAPITOLO XIII.

L’ ultimo mandato.

Le ultime parole d’un affettuoso amico che s’allontana da noi, d’un padre o d’una madre moribondi, s’imprimono nell’anima nostra e sono come un preziosissimo e sacro legato ed un pegno di benedizioni celesti. Per questo volle parimente il Salvatore prima della sua Passione lasciare ai suoi Apostoli e per essi a noi, il suo testamento in quel sublime discorso d’addio nel quale manifestò i più profondi segreti del suo cuore, e diede loro l’ultimo suo mandato, il quale sarà anche l’ultima parola di quest’operetta.

1. Quale fu questo mandato? Che quanti si amano davvero, desiderano ed esigono vicendevolmente, allorché devono separarsi colla persona, di rimanere sempre uniti nello spirito. Questo è altresì ciò che più volte e con grande affetto raccomanda il Salvatore ai suoi Apostoli al momento di lasciarli, ed insieme a noi: Rimanete in me (Giov. XV, 4, 6, 9).

2. Ma; come dobbiamo intendere quest’unione? Evidentemente il legame che deve tenerci uniti a Lui non può essere che spirituale; però, com’Egli stesso dichiara, è qualche cosa di reale, vero, vivo, non transitorio ma duraturo, qualche cosa che esca dal fondo del nostro cuore. Perciò si vale nel dichiararlo della bella e significativa parabola della vite e dei tralci (Giov. XV, 1 sgg.). I tralci sono uniti organicamente colla vite e formano con essa un tutto vitale. Così deve essere, in certo modo, l’unione nostra con Cristo, e tale è in effetto quella che si verifica per la grazia santificante. La grazia santificante è una qualità reale spirituale e permanente dell’anima nostra, partecipazione creata della natura divina ed immagine della filiazione divina. Essa ci fa spiritualmente figli di Dio, assomigliandoci così al Salvatore, il quale lo è per natura. Conservando noi la grazia santificante, si adempie perfettamente ciò che il Salvatore dice di questa unione, cioè, che Egli sta e rimane in noi, che siamo una cosa sola con Lui e con suo Padre, com’essi (Persone) sono tra loro una cosa sola (Giov. XVII, 24 sgg.). Il Padre ed il Figlio sono una cosa sola per avere la stessa natura divina, ma noi per la grazia santificante abbiamo una copia e somiglianza della natura divina, ed il suo possesso è l’elemento primo, essenziale e permanente dell’unione con Cristo, così com’è il fondamento di tutti i doni e le virtù che costituiscono la vita spirituale.

3. Questa grazia santificante, che ha sua radice nell’essenza dell’anima nostra, è accompagnata da forze ed aiuti soprannaturali, mediante i quali possiamo esercitare atti virtuosi. Sono tre le virtù che enumera il Salvatore e che manifestano l’unione nostra con Lui. – La prima è la fede, primo passo per avvicinarci a Dio, unendoci, cioè, a Lui mediante l’intelligenza, riconoscendolo e stimandolo, quale Egli ci si manifesta, come Dio e come nostro supremo ed ultimo fine. E per muoverci a quest’unione per mezzo della fede, il Salvatore adduce bellissimi motivi, quali sono il testimonio formale della sua divinità, il rimetterci ai suoi miracoli e, finalmente, l’imprescindibile necessità in cui ci troviamo di dipendere da Lui mediante la fede se non vogliamo essere tagliati fuori ma produrre frutti di vita eterna. Credete in Dio, credete anche in me… Chi vede me, vede anche il Padre mio. Non credete che Io sono nel Padre e il Padre è in me? Se non altro credetelo per le stesse opere (ai miracoli). In verità, in verità vi dico: Chi crede in me, farà anche egli le opere che fo Io, e ne farà delle maggiori di queste (Giov. XIV, 4, 9, 11, 12). Io sono la vite, voi i tralci: se uno si tiene in me, e io mi tengo in lui, questi porta gran frutto, perché senza di me non potete far nulla. Quelli che non si terranno in me, gettati via a guisa di tralci seccheranno (Ib. XV; 5. 6.). Quanto è necessario, quindi, che apprezziamo la fede, e quale non dev’essere la vostra premura di esercitarla, poiché è l’unico mezzo di tenersi stretti a Cristo, che è il centro da cui partono i raggi vivificanti della carità. Questa carità ed amore è il secondo e più adeguato mezzo d’unirci a Cristo, in quanto che è una inclinazione costante della volontà verso l’oggetto amato. Tenetevi nella mia carità (Giov. XV, 9). Molto consolante è l’avviso che ci dà qui il Salvatore, che l’amore consiste, non in una certa mozione sensibile e soave, ma nell’osservanza perfetta dei comandamenti di Dio (26. 44; 15, 24, 23, 24; 15, 40, 44) alla quale va unita la carità chiamata abituale. inseparabile compagna della grazia santificante, e che perdura in noi, unendo per tal modo la nostra volontà a Dio, purché non commettiamo un peccato mortale. Questa è la carità e l’amore che inculca il Salvatore; e adduce come motivi ad esso in primo luogo l’amore che il Padre ci porterà, se noi amiamo Lui. suo Figliuolo (Giov. XIV; 24, 23; XVI, 27) che c’inviò; in secondo luogo, l’amore ch’Egli stesso ci portò scegliendoci ad amici e comunicandoci la sua dottrina ed i misteri del cielo (Ib. XV. 45.), e dando la vita per noi Ib. XV, 13.); in terzo luogo, la promessa di singolarissime comunicazioni fatte alle anime amanti dalle tre divine Persone della Santissima Trinità (Ib. XIV, 23.), indicando con queste parole il profondo e soave mistero della grazia che, in diversi gradi, hanno da ricevere nel mondo le anime nella loro mistica unione con Dio, preludio ed aurora dell’amore e beatitudine del cielo. – Ma la fede e l’amore hanno necessità d’un mezzo efficace per comunicare con Dio e questo è la preghiera, terzo esercizio dell’unione nostra con Lui. La preghiera che il Salvatore raccomanda nel sermone della Cena è in strettissimo rapporto colla sua persona, poiché deve farsi in suo nome (XIV; 13, 14; XV; 16, 23, 26.). Prega in nome di Cristo chi sta intimamente unito a Lui mediante la grazia, chi unisce le proprie intenzioni a quelle del Salvatore per la gloria di Dio e la dilatazione del suo regno e, finalmente, chi offre le preghiere proprie per i meriti di Gesù Cristo. Questo è pregare in nome di Cristo. E quest’idea della preghiera, nelle intenzioni di Cristo, doveva essere per gli Apostoli una specie di compensazione per la di Lui assenza visibile. Ciò che per gli Apostoli era il trattamento con Gesù Cristo, questo vuole Egli che sia per noi la preghiera. Per mezzo di essa vuole istruirci, fortificarci e porgere rimedio a tutte le nostre necessità. Per questo disse agli Apostoli che fino allora non avevano chiesto nulla in suo Nome, perché stava con essi (Giov. XVI, 24), ma che in avvenire Egli concederebbe ad essi ed a noi tutti quanto Gli domanderemo in suo Nome. E l’efficacia della preghiera fatta in Nome di Gesù Cristo non ha limiti, poiché è la sua onnipotente preghiera (Giov. XIV, 14; XV, 16.): tanto è vero, che la preghiera fatta in suo Nome non ha nemmeno bisogno ch’Ei la raccomandi a suo Padre (Ib. XVI, 26). Questa preghiera è l’unione più intima con Lui, ed il più potente mezzo per l’esaltazione e dilatazione del suo regno. Può darsi motivo più forte, più bello e più nobile per animarci a pregare? – Questo è, dunque, l’ultimo mandato del Signore: che ci uniamo a Lui mediante la grazia, la fede, l’amore e la preghiera. È l’ultima e consolante manifestazione che ci fa, di amarci e di volere che l’amiamo; è l’ultimo suo sacro mandato, assicurato sulla sua parola; è l’estremo e più ardente suo desiderio. Come non lo riceveremo con quell’affetto e venerazione che si merita? Basta esso solo per unirci perfettamente a Cristo: la fede unisce l’intelligenza nostra alla sua: l’amore, la nostra volontà; la preghiera, la memoria nostra ed i nostri affetti. Così tutto l’uomo è unito a Gesù Cristo e diventa una cosa sola con Lui, di maniera che non sia l’uomo, che viva in sè ma Cristo in lui (Gal. II, 20). – Incominciammo quest’opera colla preghiera; e per l’amore che cerca Gesù Cristo nella preghiera ritorniamo al punto donde siamo partiti… La preghiera, l’abnegazione e l’amore di Dio, strettamente uniti tra loro, sono il triplice vincolo della vita spirituale e della perfezione cristiana per quanti desiderano conseguirla, sia che vivano liberi nel secolo, o ritirati nella pace della vita religiosa. Ma nessuno di questi mezzi deve mancare: dove non c’è preghiera, non vi può essere nemmeno la forza necessaria per vincere sé stessi e per conoscere ed amare Dio; e mancando l’abnegazione, verrà meno anche l’amore alla preghiera, è l’egoismo impedirà che metta radici e cresca l’amore di Dio: finalmente, chi non ama Dio, non può avere nemmeno lo spirito di preghiera e di sacrificio. Uniti i tre mezzi, aiutandosi reciprocamente, fanno conseguire la corona della giustizia. Di questi tre mezzi così intimamente intrecciati, il più eccellente è l’amore o carità (I Cor. XIII, 13), vincolo della perfezione e primo ed ultimo mandato del Signore, il quale ciò che propriamente da noi esige è amore, lasciando a noi la cura sul resto. Per l’amore Egli è il padrone assoluto del nostro cuore. Per l’amore non vi sono difficoltà, che anzi le converte in mezzi ed occasioni propizie onde manifestarsi. « Ama e fa quello che vuoi», dice S. Agostino (In epist. Joannis ad Parthos tr. 7, n. 8) e S. Giovanni: E noi abbiamo conosciuto e creduto alla carità che Dio ha per noi (I Giov. IV, 16). Tutto deve cedere dinanzi a questo amore di Gesù Crocifisso; Egli ha vinto il mondo. Come è infinitamente amabile Dio nostro Signore e Salvatore, e quanto degno d’essere corrisposto! Ci amò sino a dare la vita per noi e ci ama ancora in una maniera ineffabile; non è questo per noi, poveri e miserabili, bisognosi d’amore e di felicità, più che bastante? È così grande e desiderabile questo bene dell’amore, che non potremo mai fare abbastanza per conseguirlo: preghiamo sempre, perché non ci avvenga di essere sorpresi dalla morte senza averlo perfettamente conseguito. La cognizione e l’amore di Cristo è la più alta ricompensa che possiamo desiderare nel tempo e nell’eternità; infelice per sempre colui che in vita sua non godette mai un raggio di questa conoscenza ed amore. Conoscere ed amare Gesù Cristo è tutta la nostra sapienza, la santità nostra e la nostra felicità temporale ed eterna. E fosse pure tutta la nostra vita una croce continua ed in martirio, non ci scoraggiamo; ché degno di grandi patimenti è il premio cui aspiriamo. Certamente che colle consolazioni sensibili tutto ci viene reso più facile, però non più meritorio. L’amore di Dio, che in Cielo non incontra nessuna difficoltà, nel mondo, mentre viviamo solo di fede, lottando con frequenza contro gli ostacoli od i piaceri che c’impediscono di elevare il cuore a Lui mediante l’amore, è spesso una vera arte ed un modo eccellentissimo di onorarlo. – Confidiamo tuttavia; ché pur quaggiù deve venire il giorno in cui brillerà per noi, soave e dolcissima, la cognizione di Gesù Cristo, aurora dell’eterna beatitudine.

A. M. D. G.

NEC NON

B. M. V. I. ac S. I. EJUSDEM SPONSO

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (VIII)

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (VIII)

INTERPRETAZIONE DELL’APOCALISSE

Che comprende LA STORIA DELLE SETTE ETÁ DELLA CHIESA CATTOLICA.

DEL VENERABILE SERVO DI DIO

BARTHÉLEMY HOLZHAUSER RESTAURATORE DELLA DISCIPLINA ECCLESIASTICA IN GERMANIA,

OPERA TRADOTTA DAL LATINO E CONTINUATA DAL CANONICO DE WUILLERET,

PARIS, LIBRAIRIE DE LOUIS VIVÈS, ÉDITEUR RUE CASSETTE, 23 – 1856

LIBRO II

SUI CAPITOLI QUATTRO E CINQUE

Della natura della Chiesa che è il Regno di Gesù-Cristo; del libro dei segreti di Dio, sulle rivelazioni che vengono fatte a San Giovanni.

SEZIONE I

SUL CAPITOLO IV

LA NATURA GERARCHICA DELLA CHIESA MILITANTE.

VERS. 1. – Dopo questo vidi, ed ecco, una porta si aprì nel cielo; e la voce che avevo udito la prima volta, mi parlò con un suono forte come una tromba, dicendo: “Vieni qui e ti mostrerò le cose che oramai devono accadere”.

§ 1

Osservazioni preliminari, necessarie alla comprensione dei due capitoli seguenti, e di altri ancora.

I. Prima di continuare con questa interpretazione dell’Apocalisse, bisogna sapere: 1. Che il cielo a volte esprime la Chiesa militante, e altre volte la Chiesa trionfante; in alcuni casi significa anche l’una e l’altra in modo indistinto. Questo può essere distinto dal soggetto dell’oggetto trattato.

II. La Chiesa militante sulla terra è un’immagine o figura della Chiesa trionfante in cielo. Perciò succede che San Giovanni descrive l’uno con l’altro; e così egli descrive anche il regno militante di Cristo sulla terra con il suo regno trionfante in cielo. Dice, per esempio, che questo regno militante gli fu mostrato in cielo da un trono; e colui che sedeva su quel trono gli fu mostrato da quattro bestie e ventiquattro anziani, che sedevano e adoravano davanti al trono, adorando colui che vive nei secoli dei secoli. Ora tutte queste cose sono, e si fanno a modo loro, nel regno di Cristo sulla terra.

III. Come l’universalità delle chiese, i sigilli, gli angeli, le trombe, le piaghe, gli spiriti, ecc., rappresentano il bene e il male che vengono in tempi diversi, nel regno militante di Gesù Cristo, in adempimento della volontà divina, e come sono numerate sette, così le quattro bestie rappresentano l’universalità dei dottori, dei predicatori, primati; così come i ventiquattro anziani designano l’universalità dei Vescovi, arcivescovi e altri prelati. Infine, le ventiquattro sedi rappresentano l’universalità delle sedi dei Vescovi, delle sedi episcopali e arcivescovili, sulle quali tutti i Pontefici sono stati e saranno seduti e stabiliti in tutto il pianeta, fino alla consumazione dei secoli, sotto l’autorità di un solo capo visibile, che siede egli stesso su un trono, che è la cattedra di San Pietro.

IV. Anche se ci sono stati diversi Vangeli, solo quattro sono stati e sono accettati dalla Chiesa, e questi quattro Vangeli sono rappresentati dai quattro animali, Ezech, I. e Apocal. IV. Inoltre, gli evangelisti sono paragonati a quattro fabbri, Zech. I; allo stesso modo a quattro carri, Zech. VI; poi a quattro tavole, Ezech. XL. Infine, questi quattro Evangelisti erano rappresentati da Mosè, Aronne, Nadab e Abiu, Esodo, XXIV, ai quali Dio ordinò, così come i 70 anziani, di venire sul monte. La ragione della scelta di questo numero quattro, nei Vangeli è tratta dalle quattro parti del mondo, dove dovevano essere predicati. I quattro Evangelisti ci hanno trasmesso, in senso unanime, la vera dottrina di Gesù Cristo, alla quale tutta la Chiesa deve conformarsi e si è sempre conformata nella fede e nella predicazione. Da ciò si può concludere che questi quattro Evangelisti, sebbene già nella Chiesa trionfante in cielo, tuttavia continuano ad esistere moralmente e con la loro autorità, come maestri del primo ordine, arcicancellieri, e come principi degli anziani nella Chiesa militante.

V. Come il regno celeste, Nostro Signore Gesù Cristo ha costituito il suo regno terreno come una monarchia perfetta, con la più ammirevole e saggia gerarchia possibile. Ha stabilito prima un capo unico, poi i quattro Evangelisti, poi gli Apostoli, poi i maestri insegnanti, ecc. Fu sulla base di questo primo modello che Egli costituì anche il Sommo Pontefice come capo universale della Chiesa militante, e che poi istituì i patriarchi e primati, poi Arcivescovi, Vescovi, prelati, decani, pastori, ecc. in ordine di subordinazione.

VI. Il significato letterale della Scrittura non è sempre quello che è immediatamente espresso dalle parole, ma è spesso quello che è designato dalle immagini, e che può essere distinto dalla proprietà degli oggetti o delle parole da cui deve essere estratto. Così, per esempio, è detto in Giudici, IX, 8: “Gli alberi andarono un giorno ad eleggere un re, e dissero all’ulivo: “Mandaci a chiamare”. Il significato letterale non è da intendersi per gli alberi, ma per gli uomini di Sichem, rappresentati dagli alberi, che elessero Abimelech come loro re.

VII. Sebbene le visioni e le rivelazioni di San Giovanni dei segreti di Dio gli siano state fatte con la differenza di tempi passati, presenti e futuri, tuttavia sono rappresentate come presenti alla mente, e come se dovessero durare solo un giorno, cioè il giorno in cui sono state rivelate da Dio; e quindi il profeta usa espressioni che li rappresentano come ancora esistenti o duraturi. La stessa osservazione deve essere fatta per le persone e le cose che possono essere menzionate nel testo.

VIII. Gli uomini e gli spiriti, buoni o cattivi, secondo che siano mandati o permessi da Dio, sono tutti indifferentemente chiamati angeli nell’Apocalisse.

IX. Non si deve sempre osservare l’ordine in cui si fa una cosa, ma l’ordine di visione e perché accade spesso che le cose che devono essere verificate in anticipo siano rivelate o rappresentate dopo i profeti; e così sono scritte nello stesso ordine in cui sono state rivelate, come vediamo anche esempi di questo nell’Antico e nel Nuovo Testamento.

X. In questo libro dell’Apocalisse, la parola trono è presa per indicare qualsiasi tipo di sede, come, per esempio il potere secolare, spirituale, temporale, eterno. Così, nel corso delle descrizioni, il trono è preso a volte per una sede temporale, altre volte per la sede pontificia della Chiesa militante sulla terra; altre volte, infine, per la sede della Maestà divina nella Chiesa trionfante in cielo.

XI. In una descrizione di un mistero ci sono a volte diversi altri misteri che verranno in tempi diversi. Ne consegue che una stessa cosa o le stesse parole possono avere diversi significati letterali, alcuni di uguale importanza e altri di minore importanza. Questo viene dalla conoscenza essenzialmente unica e indivisibile di Dio, che comprende tutte le cose nel modo più perfetto. E così Dio rivelò e mostrò a San Giovanni, in questo libro dell’Apocalisse, come egli dovesse comprendere, sotto un’unica figura, varie persone o cose che, sebbene dovessero esistere in tempi diversi, dovevano tuttavia operare le stesse cose, o cose simili tra loro per o contro la Chiesa; e così anche una persona o una cosa che ha un proprio significato in o da sé, poteva allo stesso tempo essere figura di un’altra persona o cosa. Ne abbiamo un esempio in Daniele e in altri profeti che predissero molte delle circostanze della sinagoga, circostanze che dovevano essere comprese alla lettera della Chiesa di Gesù Cristo.

§ II

Sulla natura della Chiesa di Gesù Cristo, quale fu rivelata e manifestata a San Giovanni.

CAPITOLO IV. VERSETTI 1-11.

Post hæc vidi: et ecce ostium apertum in cælo, et vox prima, quam audivi tamquam tubae loquentis mecum, dicens: Ascende huc, et ostendam tibi quae oportet fieri post haec. Et statim fui in spiritu: et ecce sedes posita erat in caelo, et supra sedem sedens. Et qui sedebat similis erat aspectui lapidis jaspidis, et sardinis: et iris erat in circuitu sedis similis visioni smaragdinæ. Et in circuitu sedis sedilia viginti quatuor: et super thronos viginti quatuor seniores sedentes, circumamicti vestimentis albis, et in capitibus eorum coronæ aureæ. Et de throno procedebant fulgura, et voces, et tonitrua: et septem lampades ardentes ante thronum, qui sunt septem spiritus Dei. Et in conspectu sedis tamquam mare vitreum simile crystallo: et in medio sedis, et in circuitu sedis quatuor animalia plena oculis ante et retro. Et animal primum simile leoni, et secundum animal simile vitulo, et tertium animal habens faciem quasi hominis, et quartum animal simile aquilae volanti. Et quatuor animalia, singula eorum habebant alas senas: et in circuitu, et intus plena sunt oculis: et requiem non habebant die ac nocte, dicentia: Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus omnipotens, qui erat, et qui est, et qui venturus est. Et cum darent illa animalia gloriam, et honorem, et benedictionem sedenti super thronum, viventi in sæcula sæculorum, procidebant viginti quatuor seniores ante sedentem in throno, et adorabant viventem in sæcula sæculorum, et mittebant coronas suas ante thronum, dicentes: Dignus es Domine Deus noster accipere gloriam, et honorem, et virtutem: quia tu creasti omnia, et propter voluntatem tuam erant, et creata sunt.

[Dopo di ciò vidi, ed ecco una porta aperta nel cielo, e quella prima voce che udii come di tromba che parlava con me, dice: Sali qua, e ti farò vedere le cose che debbono accadere in appresso. E subito fui rapito in ispirito: ed ecco che un trono era alzato nel cielo, e sopra del trono uno stava a sedere. E colui che stava a sedere era nell’aspetto simile a una pietra di diaspro e di sardio e intorno al trono era un’iride, simile d’aspetto a uno smeraldo. E intomo al trono ventiquattro sedie: e sopra le sedie sedevano ventiquattro seniori, vestiti di bianche vesti, e sulle loro teste corone di oro: e dal trono partivano folgori, e voci, e tuoni: e dinanzi al trono sette lampade ardenti, le quali sono i sette spiriti di Dio. E in faccia al trono come un mare di vetro somigliante al cristallo: e in mezzo al trono, e d’intorno al trono, quattro animali pieni di occhi davanti e di dietro. E il primo animale (era) simile a un leone, e il secondo animale simile a un vitello, e il terzo animale aveva la faccia come di uomo, ed il quarto animale simile a un’aquila volante. E i quattro animali avevano ciascuno sei ali: e all’intorno e di dentro sono pieni d’occhi: e giorno e notte senza posa, dicono: Santo, santo, santo il Signore Dio onnipotente, che era, che è, e che sta per venire. E mentre quegli animali rendevano gloria, e onore, e grazia a colui che sedeva sul trono, e che vive nei secoli dei secoli, i ventiquattro seniori si prostravano dinanzi a colui che sedeva sul trono, e adoravano colui, che vive nei secoli dei secoli, e gettavano le loro corone dinanzi al trono, dicendo: Degno sei, o Signore Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore, e la virtù: poiché tu creasti tutte le cose, e per tuo volere esse sussistono, e furono create.]

I. Dopo che San Giovanni, illuminato dalla rivelazione divina, ebbe descritto in generale le sette età della Chiesa dalla sua origine alla consumazione dei tempi, e dopo aver dato un’istruzione sufficiente ed anche necessaria per ciascuna di queste età, Dio lo introdusse, per così dire, nel santuario della casa e del regno di Gesù Cristo, che è la Chiesa, e in questo quarto capitolo gli mostrò la natura, il governo e la costituzione interna di questa Chiesa. Poi gli rivelò in particolare i suoi mirabili segreti ed i suoi eterni consigli, proprio come un re che introducendo un favorito nel suo palazzo, gli aprirebbe la porta segreta del gabinetto dove sono conservati preziosamente i tesori ed i segreti particolari del suo regno. Ne consegue che:

Vers. 1. Dopo questo vidi: ed ecco una porta aperta nel cielo. Qui per cielo si intende il regno e la Chiesa militante di Gesù Cristo, la cui porta è aperta a San Giovanni. Vale a dire, il segreto della volontà divina che si riferisce a questa Chiesa gli viene mostrato e manifestato. E la voce che avevo sentito prima, che mi aveva parlato con un suono squillante come una tromba, e che diceva: Queste parole mostrano la gravità di colui che invita San Giovanni a penetrare e ricevere i segreti di Dio: è l’arcangelo San Michele che parla dal cielo e che sta per rivelare importanti misteri sulla Chiesa militante, la cui cura è affidata a lui. Dice: Vieni qui nello spirito e ti mostrerò le cose che devono accadere d’ora in poi. L’Arcangelo dice a San Giovanni di salire, cioè di elevarsi all’altezza delle cose meravigliose che gli promette di manifestargli e che devono verificarsi sulla terra prima della fine dei tempi.

Vers. 2Subito fui assunto in spirito e vidi un trono posto nel cielo. Questo trono è la sede apostolica e monarchica; ed è anche il potere e la giurisdizione ecclesiastica. Gesù Cristo ha posto questo trono, in cielo, cioè nella sua Chiesa, quando istituì il suo regno sulla terra. (Matth. XVI, 18): « E io ti dico che tu sei una roccia e su questa roccia edificherò la mia chiesa, ecc. E io ti darò le chiavi del regno dei cieli, ecc. Ciò che si scioglie sulla terra sarà sciolto in cielo. » Poi il testo continua: E uno seduto sul trono. 1º Colui che San Giovanni dice che è seduto sul trono è il capo visibile che governa la Chiesa di Dio sulla terra. Il primo a sedere su questo trono fu San Pietro, che ebbe dei successori senza interruzione fino ad oggi, e avrà successori fino alla fine del mondo, perché … le porte dell’inferno non prevarranno contro la Chiesa.

2°. Colui che siede sul trono è ancora il capo invisibile della Chiesa militante, Nostro Signore Gesù Cristo, che esercita il suo impero sul suo Corpo mistico con la sua continua assistenza e grazia, secondo San Matteo, (XXVIII, 20): « Io sono con voi fino alla consumazione dei secoli. » E secondo San Giovanni (XIV, 18): « Non vi lascerò orfani. » Infatti Gesù Cristo è seduto sul trono del suo regno, come Dio e come uomo, per governare la Chiesa con la sua potenza ed autorità divina: « Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. » (Matteo, XXVIII).

3°. Infine, Colui che siede sul trono è ancora Dio, uno in tre Persone, che è adorato e glorificato nella Chiesa Cattolica, come Signore sovrano di tutte le cose, attraverso suo Figlio Gesù Cristo, che ha costituito suo erede universale.

Vers. 3. colui che sedeva era come una pietra di diaspro e di sardonio; intorno al trono c’era un arcobaleno, simile ad una visione di smeraldo. Il diaspro è una pietra molto dura e di colore verdastro: ha la virtù di rafforzare la vista. Il sardonio è di un colore rosso tenue, e metaforicamente significa il fuoco della carità. È a queste due pietre che somiglia Colui che San Giovanni vide seduto sul trono. Queste due pietre lo rappresentano con i loro colori, a causa della verità e della carità di Dio che è in lui; verità e carità con cui rafforzerà ed infiammerà la Chiesa fino alla fine dei tempi. Inoltre, la conserverà con i principi immutabili ed infallibili della fede, con i suoi santi precetti e con la sua perfetta carità verso Dio ed il prossimo. Infatti questo è ciò che accade quando il capo visibile della Chiesa definisce e dichiara le verità della fede dalla cattedra di San Pietro; quando promulga leggi e decreta ciò che è fondato sulla carità di Dio e del prossimo. Gesù Cristo, da parte sua, e Dio uno in tre Persone, che è il capo invisibile di questa Chiesa, illumina le menti dei fedeli e li infiamma con la grazia della pietà, in virtù del patto esistente tra Dio e la sua Chiesa, (Matth. XXVIII): « Io sono con voi », etc. Da lì, seguono immediatamente queste parole: C’era un arcobaleno intorno al trono, simile ad una visione di smeraldo. L’arcobaleno significa il patto di Gesù Cristo con la sua Chiesa, come vediamo in Genesi IX, con l’arcobaleno posto tra il cielo e la terra, fu anche preso come segno dell’alleanza che Dio fece con gli uomini. Ora questo era il tipo e la figura del nuovo patto spirituale. Si dice che questo arco nel cielo era intorno al trono, perché questo patto tra Cristo e la sua Chiesa si manifesterà a chiunque voglia riconoscerla. Basterà vedere e sentire che questa Chiesa è sempre esistita pura e senza macchia in mezzo a tante eresie e avversità, e che è stata immutabile nella sua verità e carità. Questo è un chiaro segno che solo la Chiesa romana è la vera sposa di Gesù Cristo, con la quale Egli ha stretto un’alleanza eterna, dandole in pegno il santo anello della verità e della carità. Si dice che questo arcobaleno sia simile una visione di smeraldo; infatti, come il colore verdastro dello smeraldo è superiore a tutti gli altri colori dello stesso genere, così la verità della fede e del patto di Gesù Cristo con la sua Chiesa è superiore a tutte le verità e a tutti i trattati naturali. E come il colore dello smeraldo è molto piacevole agli occhi, sebbene sia di una tonalità scura, così anche la verità di questo patto è molto piacevole agli occhi degli uomini saggi ed intelligenti, e allo stesso tempo sembra molto oscuro ai cuori carnali, a causa delle avversità e delle calamità che Dio permette contro la sua Chiesa.

Vers. 4.Intorno al trono ci sono ventiquattro troni, e sui troni siedono ventiquattro anziani, vestiti di abiti bianchi, con corone d’oro sul capo. Dopo la descrizione della testa o del Capo, segue la descrizione del corpo della Chiesa significata dai ventiquattro anziani. I ventiquattro troni sono tutte le sedi arcivescovili ed episcopali; ed i ventiquattro vegliardi sono gli Arcivescovi, i Vescovi e i dottori. Sono rappresentati seduti su troni, il che si verifica quando sono legittimamente riuniti in un Concilio generale, uniti al loro capo e portando delle corone d’oro, cioè rivestiti di una speciale dignità, che è l’autorità, la maestà ed il potere apostolico. Allo stesso modo, i ventiquattro anziani sono intesi qui come i dodici Profeti dell’Antico Testamento e i dodici Apostoli del Nuovo. Si dice che siedano su troni a causa dell’autorità sovrana della loro dottrina e della santità della loro vita. In effetti la Chiesa Cattolica ha un riguardo speciale per queste due qualità degli Apostoli quando Essa definisce articoli di fede o di morale nei Concili generali. E sebbene questi santi siano stati levati da questo mondo, continuano tuttavia a risplendere in esso per la loro autorità apostolica e divina. Ci sono, in verità anche un gran numero di dottori nella Chiesa, ma questo non impedisce che la loro universalità sia perfettamente rappresentata dai ventiquattro vegliardi; infatti, la santa Scrittura si serve di un numero determinato per esprimere un numero indeterminato. – Questi ventiquattro anziani erano vestiti con abiti bianchi, ecc. L’abito bianco designa il celibato e la castità sacerdotale, poiché questa virtù è l’ornamento speciale che fa brillare i sacerdoti ed i principi della Chiesa e che li distingue dalle potenze del secolo. I vegliardi apparvero a San Giovanni con corone d’oro sulla testa. Queste parole designano la dignità ed il potere ecclesiastico, apostolico e sacerdotale, perché gli Apostoli ed il sacerdozio in generale sono i principi delle Chiese e regnano sulla terra. Ecco perché San Giovanni ci dice che avevano corone d’oro sul capo, come è detto di Aronne (Ecclesiastico, XLV, 14): « Una corona d’oro sormontava la sua mitra, contrassegnata dal nome della santità e della gloria sovrana ». Ora è così che i rappresentanti del sacerdozio di Gesù Cristo portano sul loro capo corone d’oro, che sono le corone della scienza, dell’età e della maturità; perché questi sono gli attributi con cui Nostro Signore Gesù Cristo adornò i principi ed i maestri della Sua Chiesa.

II. Vers. 5. – Dal trono uscirono lampi, tuoni e voci. Per lampi intendiamo qui la luce della saggezza, la luce dei miracoli, che terrorizzano ed illuminano: la proclamazione di ricompense per le opere di giustizia, la comminazione di pene e tormenti, gli anatemi, le scomuniche e le sentenze ecclesiastiche pronunciate contro i malvagi. Le voci sono le definizioni degli articoli di fede ed i precetti ecclesiastici, per introdurre e mantenere la santità della morale. I tuoni, infine, sono le scomuniche e le punizioni ecclesiastiche che colpiscono ipso facto gli eretici ed i ribelli che non ascoltano le minacce e le definizioni della Chiesa e le disprezzano. Ora, tutte queste cose procedono dal trono, cioè dalla Sede Apostolica; poiché il Sommo Pontefice è il giudice delle controversie in materia di fede ed il legislatore della regola dei buoni costumi. – E c’erano sette lampade che ardevano davanti al trono; questi sono i sette Spiriti di Dio. In queste parole vediamo l’assistenza dello Spirito Santo che governa ed ispira la Chiesa Cattolica in ogni momento, per evitare che essa fallisca nell’interpretazione della Sacra Scrittura. Questa assistenza dello Spirito Santo deve servire anche alla Chiesa nei consigli che ne riceve e che deve mettere in pratica per vincere il male e anche per non sbagliare in materia di fede.

Vers. 6 E davanti al trono un mare trasparente come vetro e simile al cristallo. Questo mare di vetro è il Battesimo, in cui tutte le anime che ricevono la vita spirituale, esistono, vegetano, vivono e si muovono. Si dice che questo mare fosse simile al cristallo, sia per il candore, la purezza e la santità che si riceve da esso, sia per l’immobilità di questo mare di cristallo a cui si paragona il Battesimo, perché imprime un carattere indelebile, che non permette di essere reiterato. E al centro del trono ed intorno al trono, quattro animali, pieni di occhi davanti e dietro. Con i quattro animali sono designati i quattro tipi di arcicancellieri del regno di Gesù Cristo che ottennero i primi posti dopo il Capo della Chiesa. Questi sono i quattro Evangelisti con i loro quattro Vangeli, che sono in mezzo al trono ed intorno al trono, cioè si diffondono ovunque e percorrono il mondo intero per mezzo dei predicatori. Il Salmista, parlando della predicazione del Vangelo, dice, (Sal. XVIII, 4): « Il suo splendore si è diffuso in tutto l’universo; ed ha risuonato fino alle estremità della terra. » I quattro Evangelisti sono al centro del trono, perché la Chiesa diffusa in tutto il mondo si basa sulla dottrina contenuta nei quattro Vangeli. Questi quattro animali sono pieni di occhi davanti e dietro, a causa della chiarezza della dottrina e della verità di Cristo, che l’Antico ed il Nuovo Testamento contengono. Gli occhi davanti sono la conoscenza e la comprensione soprannaturale per mezzo della quale essi penetrarono e correggono gli errori della sinagoga, conservando le cose necessarie alla salvezza. Gli occhi dietro sono la stessa conoscenza soprannaturale ed un’intelligenza soprannaturale, i cui raggi raggiungeranno la fine dei tempi attraverso la loro dottrina. Fu con l’assistenza dello Spirito Santo che gli Apostoli scrissero la legge evangelica che ricevettero dalla bocca di Gesù per la salvezza delle nazioni.

Vers. 7. – Il primo animale era come un leone, il secondo come un vitello; il terzo aveva una faccia come di un uomo ed il quarto come un’aquila in volo. In primo luogo, i quattro Evangelisti sono paragonati a quattro animali, perché descrivono la natività di nostro Signore, la sua predicazione, la sua passione e la sua ascensione. Infatti, Cristo è rappresentato nella sua natività come uomo, nella sua predicazione come leone, nella sua passione come vitello e nella sua ascensione come aquila. Il primo animale con cui viene descritto San Marco è detto essere come un leone, perché il suo Vangelo inizia raccontando la predicazione di San Giovanni, una predicazione che fu come un ruggito di leone, per la sua meravigliosa efficacia. (Marco, 1: 45): « E vennero a lui da tutte le parti, ecc. » Il secondo animale rappresenta San Luca, che viene paragonato ad un vitello, perché il suo Vangelo inizia con il sacerdozio, in cui il vitello, ed ogni primogenito, veniva sacrificato al Signore. Il terzo animale è il tipo di San Matteo, che è rappresentato con una figura quasi come quella di un uomo, perché il suo Vangelo inizia con la generazione di Gesù Cristo, della razza di Davide. Il quarto animale, infine, che rappresenta San Giovanni come sotto un velo, è paragonato ad un’aquila, a causa della sublimità del suo Vangelo, che sale al cielo, penetra la terra ed ogni generazione umana e naturale, ed arriva con il suo volo fino alla generazione del Padre, dicendo: « In principio era il Verbo, ecc. »

Vers. 8. I quattro animali avevano sei ali ciascuno. La prima ala è la legge naturale, la seconda la legge di Mosè, la terza gli oracoli dei profeti, la quarta le istituzioni e gli atti degli Apostoli, la quinta le loro Tradizioni e la sesta, infine, i decreti generali dei Concili. – Si dice che questi quattro animali abbiano sei ali ciascuno, perché queste ali sono il fondamento ed il complemento di tutta la dottrina evangelica. Allo stesso modo, è con queste sei ali che la Chiesa vola nelle quattro parti del mondo e raggiunge le regioni più alte; ed è da esse che i predicatori ricevono il fondamento di tutta la pura e vera dottrina. Perciò aggiunge immediatamente: E intorno e dentro erano pieni di occhi; vale a dire, che gli occhi di questi animali penetrano nella legge perfetta che le sei ali di cui stiamo parlando costituiscono; ed è per questo che aggiunge, di proposito, che questi animali erano pieni di occhi e intorno e dentro. Perché le parole di dentro si riferiscono alla carità e alla contemplazione di Dio, e le parole di fuori indicano la carità verso il prossimo, e la vita attiva in cui gli evangelizzatori ed i predicatori dovrebbero eccellere. E non cessavano mai di dire giorno e notte: Santo, santo, santo, il Signore Dio onnipotente, che era, che è e che viene. In queste parole seguono l’incarico e l’ufficio di questi animali, che è quello di dare gloria, onore e benedizione al Signore Dio, con la preghiera e la predicazione. E non cessavano di parlare giorno e notte. Poiché la parola di Dio è libera, e la predicazione del Vangelo così come la glorificazione del Nome di Gesù continueranno fino alla consumazione dei secoli. Questo è il motivo per cui non si finirà mai di ascoltare il ruggito del leone, il muggito del vitello, la voce dell’uomo ed il grido dell’aquila. Giorno e notte, cioè nei tempi malvagi, e nell’ora delle tenebre sollevate dagli eretici e dai persecutori della verità evangelica. Saranno ascoltati di giorno, cioè nel tempo della vera luce, quando la Chiesa godrà della pace. Si sentirà dire e gridare dalla bocca dei predicatori, e nel santo Sacrificio della Messa, e anche nei servizi divini, giorno e notte; dicendo per tutto il mondo: Santo, Santo, Santo, il Signore Dio Onnipotente, che era, che è, e che viene. – La parola santo è ripetuta tre volte per significare la trinità delle Persone. E queste parole, il Signore Dio Onnipotente, designano l’unità dell’essenza. Perché le tre Persone non sono che un solo Dio, il Signore Onnipotente, che è, che era e che viene. Queste ultime parole esprimono l’eternità di Dio, che era prima del tempo, che è nel tempo e che sarà dopo il tempo, cioè da tutta l’eternità e nei secoli dei secoli.

III. Vers. 9. E così questi animali diedero gloria e onore e benedizione a Colui che siede sul trono, che vive nei secoli dei secoli.

Vers. 10I ventiquattro anziani si inchinarono a Colui che siede sul trono. Con Colui che siede sul trono si intende Dio, uno in tre Persone, e Gesù Cristo nella sua qualità di Monarca di tutto l’universo, e come Capo invisibile della Chiesa, che Egli governa e regola, e al quale, in unione con il Capo visibile della Chiesa, si sottomettono tutti i dottori, i predicatori, gli Apostoli, i profeti ed i principi delle Chiese per tutto il mondo. Gettarono le loro corone davanti al trono in segno di rispetto, umiltà e profonda sottomissione, e anche perché il potere, l’onore, la gloria, la dignità e l’autorità ecclesiastica e apostolica dei Vescovi, dei dottori e dei prelati, significati dalle corone d’oro, come abbiamo detto sopra, derivano dal trono, che è la Cattedra di Pietro. Infatti, ricordiamo che le corone d’oro rappresentano il potere e la dignità sacerdotale. Questi ventiquattro vegliardi gettano dunque le loro corone davanti al trono, come segno dell’intima unione e sottomissione che esiste necessariamente nella Chiesa, perché il regno di Gesù Cristo sulla terra costituisce una monarchia della natura più perfetta. Essi gettano anche le loro corone davanti al trono, per mostrare che la Chiesa ha tutta la luce, la potenza, la sapienza e tutta la gloria sulla terra. Perché Gesù Cristo, vero Dio con il Padre e lo Spirito Santo, è, come Capo invisibile della Chiesa, la fonte di ogni sapienza, verità e potenza, riversata dallo Spirito Santo sulla sua Chiesa. Per questo gli rendiamo il culto dovuto alla sua essenza divina. Perciò l’Apostolo continua … dicendo:

Vers. 11. – Tu sei degno, o Signore nostro Dio, di ricevere gloria, l’onore e la potenza. Non è che Dio acquisisca qualcosa di più dalle opere e dalle lodi umane; ma gli uomini, in gratitudine per i benefici che hanno ricevuto da Lui, sono tenuti a lodare e a glorificare l’eccellenza, la bontà, la saggezza e la potenza dell’eterna Maestà, che, per mezzo del sangue del Suo Figlio Gesù, ha fondato quella monarchia così perfetta, così gloriosa, così ammirevole e così potente della Chiesa, contro la quale le porte dell’inferno non prevarranno mai. E i ventiquattro vegliardi si prostrarono davanti a colui che siede sul trono e adorarono colui che vive nei secoli dei secoli. – È allora che gli animali, di cui si parla, hanno dato gloria, onore, potere e benedizione a Colui che siede sul trono; perché hanno conoscenza di questa verità dai Vangeli, che solo un vero Dio è da adorare, con il suo unigenito Figlio Gesù Cristo. Voi siete degno, o Signore nostro Dio, di ricevere gloria, onore e potenza, perché avete creato dal nulla tutte le cose, l’universo e tutto ciò che esso contiene; e perché poi avete stabilito e coordinato questo regno della Chiesa sulla terra con la vostra infinita sapienza e nella bontà della vostra eterna volontà. E che per vostra volontà erano e sono state create. Queste parole indicano che è nel beneplacito della volontà divina che tutte le creature, tutti i regni, in una parola tutto l’universo, tendono a questo primo ed ultimo fine, e che Egli dirige verso di esse, tutto l’onore, la gloria, il potere e l’impero, etc., come una freccia è diretta al suo bersaglio. E che per la vostra volontà erano, cioè prima di essere create, esse erano da tutta l’eternità nella libera disposizione della vostra bontà, o Signore, e nella volontà della vostra sapienza, come una casa esiste già nell’immaginazione dell’architetto prima della sua costruzione. Ed esse sono state create, cioè prodotte ed eseguite nel tempo, dalla volontà divina della vostra saggezza, dalla vostra bontà libera e pura, e non da una necessità della natura.

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (IX)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (XII)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (XII)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A  TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica – 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

TERZO PRINCIPIO FONDAMENTALE: L’amore a Nostro Signor Gesù Cristo

CAPITOLO VIII.

Il libro della vita.

Nella vita del Salvatore si rileva un fatto, efficace come pochi per muoverci ad amarlo e consacrarci a Lui (Luc. X, 17 sgg. Matt. XI, 25 Seg.).

I. Era il terzo anno della sua predicazione, quando erasi già scelto, oltre gli Apostoli, i settantadue Discepoli perché l’aiutassero nel ministero apostolico. A capo di poco tempo fecero ritorno i Discepoli pieni di gaudio: tutto, secondo che riferivano, era riuscito loro bene, grazie al potere da Lui ricevuto, tanto che perfino i demoni eransi sottomessi. Si rallegrò il Salvatore all’udire le umili parole di suoi Discepoli, ma rispose che dovevano godere non tanto per questo felice successo, quanto per altra cosa più elevata e di maggiore importanza, qual era quella che i loro nomi fossero scritti nel libro della vita. Imperocché ben più importante che aiutare gli altri a salvarsi era d’aver assicurata la propria salvezza, come l’aveano essi, in virtù d’essere stati predestinati da tutta l’eternità, e che i loro nomi fossero scritti nel libro della vita.

2. In questa circostanza il Salvatore getta uno sguardo sopra il grande mistero della predestinazione. Da una parte Ei vede i sapienti e i prudenti del mondo, che, incominciando dagli angeli ribelli e sino alla fine dei tempi, nella loro superbia e presunzione si allontanano da Dio e periscono; dall’altra, gli umili e piccoli che, sottomettendosi a Dio perfettamente, si salvano. Fa conoscere inoltre la causa da cui procedono queste due sorti così distinte, che è Egli medesimo e l’eterno suo Padre. Di Sè stesso dice: Tutto mi è stato dato dal Padre, e nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui a cui il Figlio vorrà rivelarlo. Ed in altro luogo: Non può alcuno venire a me se non lo attiri il Padre (Giov. VI, 44). È con queste parole il Salvatore si manifesta come causa che coopera e perfeziona, come mediatore e punto centrale del grandioso mistero della predestinazione. Come Verbo e Sapienza increata del Padre e come Uomo-Dio Egli è realmente la sorgente di tutte le divine cognizioni e di tutta la salvezza, ed il punto principale da cui diramansi le diverse vie delle creature. – Chi vuole salvarsi deve andare dal Padre in Lui e per Lui. Egli è veramente il libro della vita, in cui stanno scritti i nomi dei predestinati. E perciò questo mistero è una splendida dimostrazione della gloria, della divinità e maestà del Salvatore a cui ed in cui tutto affluisce e si concentra. Perciò Egli esulta nello Spirito Santo e rende grazie all’eterno suo Padre, ma non unicamente in riguardo proprio, poiché la carità sua Lo muove altresì a ringraziare a nome degli Apostoli e di quanti saranno i predestinati per la fede e l’amore alla sua Persona.

3. Dalle parole sopraccitate il Salvatore trae la conseguenza. Se solamente per Lui noi possiamo salvarci ed arrivare sino al Padre, ne segue necessariamente che dobbiamo sottometterci e unirci a Lui totalmente. Per questo Ei dice: « Venite a me »; vale a dire, unitevi a me mediante la fede e l’amore; « prendete su di voi il mio peso ed il mio giogo», cioè, il giogo della mia dottrina, de’ miei precetti e della sudditanza al mio dominio. » – « Imparate da me », fatevi miei discepoli nell’umiltà e nella mansuetudine. In altri termini dobbiamo essere come i fanciulli ed i piccoli che Egli loda ed ai quali promette la vita eterna. Dobbiamo, quindi, togliere da noi ogni propria soddisfazione e presunzione, cercare solo in Gesù la felicità temporale ed eterna e sottometterci a Lui con tutta umiltà e prontezza. Solo così possiamo sperare che il Padre ci mostri Cristo e che Cristo ci conduca dal Padre; allora solamente potremo essere annoverati tra gli eletti ed inscritti nel libro della vita, che è quanto il Salvatore da noi desidera. E per indurci ad accettare l’invito suo, aggiunge alcune ragioni bellissime e di somma efficacia. E prima, a ciò deve muoverci la nostra grande ed universale indigenza. Siamo inclinati naturalmente ed irresistibilmente alla cognizione della verità, all’amore ed alla felicità perfetta. Ma dove trovarle? In noi no certamente, e non nel mondo e nemmeno nelle creature; in Dio unicamente, in Gesù Cristo, verità, bontà e bellezza infinita, il solo che possa renderci completamente felici. Tutti d’altronde siamo pieni di miserie, di travagli e di patimenti nel corpo e nell’anima, nell’ordine naturale e nel soprannaturale. Gemiamo sotto l’impero delle passioni disordinate, del peccato e dei mali e penalità della vita. Dove trovare aiuto, conforto e pace piena allo spirito se non nel Salvatore? Le sue parole, i suoi esempî ci confortano, e la sua grazia ci rende tutto possibile e soave. Per questo Ei ci dice: « Venite a me, o voi tutti, che siete, addolorati ed oppressi, ed io vi ristorerò ». – La seconda ragione per unirci a Cristo è la sua medesima Persona ed amabilità. Troppo conosciamo la insufficienza nostra e sentiamo la necessità che qualcuno ci regga. Orbene; possiamo scegliere soltanto tra Cristo e il mondo; ma, come risalta la benignità, la mansuetudine, la fedeltà e il disinteresse di Cristo in comparazione dell’egoismo, della superbia e della tirannia del mondo! La dottrina di Gesù così conforme alla retta ragione nobilita e consola; pochi sono i suoi precetti, copiose le grazie e magnifica la ricompensa che ci promette. Egli è saggio, ricco e potente, e vuole essere personalmente la nostra mercede; solo in Lui troveremo la vera pace dell’anima. Stando così le cose, non esclameremo con S. Pietro: Signore, da chi andremo? Voi avete parole di vita eterna. Chi vuole salvare l’anima propria deve unirsi a Cristo mediante la fede e l’amore. Egli è la via che ci rende felici. Che ci rimane, dunque, da desiderare in Cielo e sulla terra, se non Dio, il Dio del nostro cuore, l’eredità nostra per tutti i secoli? Quid enim mihi est in cœlo? et a te quid volui super terram? (Salm. LXXII, 25). – « Mihi autem adhærere Deo bonum est; ponere in Domino Deo spem meam ». (Id. 28). Che dolce cosa è lo stare uniti a Dio e in Lui collocare tutta la nostra speranza!

CAPITOLO IX.

Era buono.

Quando il Salvatore entrò in Gerusalemme l’ultima volta per la festa dei Tabernacoli, tutti parlavano di Lui. Alcuni dicevano: È un sedizioso; altri: È buono (Giov. VII, 12). Questi ultimi avevano ragione. L’uomo è ciò che sono le sue opere, E queste si manifestano nel tratto col prossimo. Il Salvatore Era buono; e come no? se era Dio, e Dio è la bontà medesima?

I. Era buono verso i ricchi. Due sorta d’ingiustizia si commettono di frequente in riguardo ai ricchi, odiandoli o idolatrandoli: il primo modo è invidia, il secondo stoltezza. Ben diversamente comportavasi il Salvatore, il quale amò i ricchi, desiderando loro ogni bene; poiché anch’essi hanno un’anima e sono figli di Dio. Li compativa per le loro ricchezze e li avvisava di regolarsi bene con esse, ché sono un grande pericolo per l’anima; ma riscontrava altresì nei ricchi e nelle ricchezze un mezzo potente nel regno di Dio e la salvezza degli nomini. Per questo non trascurò i ricchi e procurò di attrarli al bene, sebbene in un modo conveniente e degno di Dio. Non andava in cerca di loro, ma voleva che essi si muovessero a cercar Lui. Erode l’avrebbe visto volentieri alla sua corte, ma Egli non volle mai andarci. Guarì il figlio del regolo da lontano, senza pensare di andar alla sua casa. Pregato dal centurione gentile, si mise tosto in cammino Verso la sua abitazione, ma non vi entrò, da che il centurione medesimo per umiltà vi si oppose. Invece, si oppone con amabile insistenza all’archisinagogo, e lo segue in casa, perché la figlia di lui era già morta e poteva operare al di lui favore qualche cosa. Dava sempre ascolto alle suppliche dei ricchi, senza badare a contrarietà né attendere riconoscenza.

2. Fu parimente buono coi poveri, cogli afflitti e cogl’infermi, tanto che questi erano sempre l’oggetto della sua predilezione, imperocché non sono i sani, diceva, coloro che abbisognano del medico, ma gl’infermi (Matt. IX, 12). Come la calamita attrae a sé il ferro, così Gesù era sempre circondato da miserabili e da languenti. Aveva un’intima e ardente compassione per i poveri e i disgraziati, perché sono figli di Dio, suoi fratelli e così ricolmi di tante sciagure. E questa compassione non la teneva nascosta nel suo interno, ma la manifestava colle sue parole, colle sue lagrime, coi conforti che prodigava e con infiniti altri benefizi. Non aspettava che i disgraziati venissero a Lui, ma Egli stesso usciva a cercarli, pronto a offrir loro il suo aiuto, senza badare alle loro importunità od alle ingratitudini. Nulla risparmiò per soccorrerli, ponendo a servizio della sua bontà la sua sapienza e la sua onnipotenza.

3. Tra tutti i disgraziati preferiva i peccatori, come i più infelici e degni di compassione. Il mondo non ha alcun rimedio per questi sofferenti, non sa calcolare la loro sfortuna, e lascia che disperati si perdano per sempre. Così facevano i farisei; ma ben altrimenti il Salvatore, il quale come buon pastore e padre misericordioso usciva incontro al figliuol prodigo per ratificare con un bacio d’amore le sue parole di pentimento e rimetterlo nello stato suo primitivo. Sì nota era la usa bontà verso i peccatori, che i nemici varie volte se ne servirono per gli storti loro fini, e tentarono di perderlo valendosi della sua misericordia (Giov. VIII, 3; Luc, VI, 7).

4. Anche con questi nemici il Signore era buono sopra ogni misura. Un incredibile impegno mettevano essi nell’esacerbare il Cuore di Gesù, resistendo a tutti gli sforzi, ch’Ei faceva per salvarli. In una delle feste più solenni del Tempio i giudei Lo circondarono per lapidarlo con i sassi che portavano in pugno. Allora il Signore indirizzò loro queste parole: Molte buone opere vi ho fatto, per quale di queste mi lapidate? — Non ti lapidiamo per un’opera buona, risposero ì Giudei, ma perché tu essendo uomo, ti fai Dio » (Giov. X, 32). Ed era vero: preziosi benefici sopra benefici avea loro fatto; ma la dottrina non incontrò che opposizioni; i suoi miracoli malevolenza; la più nera ingratitudine i suoi benefici; ed odio mortale e la morte più crudele ed ignominiosa l’amor suo. E malgrado tutto questo il Salvatore continua ad esercitare il suo ministero con ammirabile carità e mansuetudine; non li abbandona, risponde alle scortesi ed importune loro domande, e dalle medesime prende occasione per vieppiù istruirli e farli avvisati del castigo che li attende. È non cessa di mostrar loro la sua bontà con nuovi benefici, finchè inchiodato sopra una croce, apre il Cuor suo e pronunzia già moribondo parole di perdono per suoi nemici. – Oh! sì, il Salvatore. era realmente buono. Come immagine vera e personale della bontà di Dio (Sap. VII, 26), passò pel mondo facendo del bene, perché Dio era con Lui (Att. X, 38). Siccome nessuno può sottrarsi ai raggi benefici e vivificanti del sole (Salm. XVIII, 7), così non vi è alcun essere che questa bontà e quest’amore non rallegri e renda felice. E che consegue da ciò? Che dobbiamo essere buoni anche noi, com’era il Salvatore? Sì, senza dubbio; ma la prima conseguenza è che dobbiamo amare Colui che fu buono sopra ogni cosa. Noi amiamo tutto ciò che è buono e tutti coloro che sono buoni con noi; perché non ameremo Gesù? Non ci dimostra Egli la sua bontà? Tutto abbiamo ricevuto da Lui: l’inestimabile grazia del Battesimo e della fede, e quella di vivere nel seno della Chiesa Cattolica, per la quale godiamo beni superiori ad ogni comparazione, e, chi sa ancora, il beneficio di essere stati perdonati innumerevoli volte dell’abuso fatto delle sue grazie e della sua misericordia! Ricordiamoci di tutto questo ch’Ei ci diede, e dell’altro bene più ineffabile che vuol continuare a darci, Sé medesimo nell’Eucaristia, e vedremo che non dobbiamo amare nessuno tanto quanto il Salvatore.

CAPITOLO X.

Passione e morte.

Il crogiuolo dove si mette a prova l’amore sono i patimenti. Tanto grande è l’amore quanta è la disposizione a soffrire per la persona amata, ed il Salvatore medesimo non seppe arci altra misura dell’amor suo per noi, che facendolo passare pel battesimo di fuoco della sua Passione (Luc. XII, 49). E questo battesimo di sangue è così sublime che non v’ha cosa che possa muovere tanto i cuori generosi ed eccitarli a ricambiare amore con amore, patimenti con patimenti. Si danno tre motivi principali per ciò. – Il primo è la causa della Passione. Sentiamo compassione e persino una specie di rispetto verso un uomo che sconta con gravi tormenti e pene ciò che deve per le sue colpe, se li sopporta con spirito di penitenza e per soddisfare alla giustizia. Il Salvatore scontava ciò che non doveva: la sua vita era stata innocentissima e santissima, ed appunto perciò fu eletto da Dio quale vittima propiziatoria per i peccati nostri e per quelli di tutto il mondo. Le nostre colpe e quelle di tutti gli uomini gridavano vendetta al cielo se non davasi una giusta riparazione; e la Passione di Cristo coi suoi inauditi tormenti altro non era se non la ripercussione terribile dei peccati, che cadde sopra il Salvatore, nostro pietosissimo mallevadore. invece di cadere sopra di noi. I quale da Dio fu preordinato propiziatore in virtù del suo Sangue per mezzo della fede, affine di far conoscere la sua giustizia nella remissione dei peccati (Rom. III, 25). L’amore ineffabile del Figlio di Dio fece che si offrisse per noi. E che morisse sulla croce per i nostri peccati. Scontò ciò che non doveva (Sal. LXVIII, 5). Lo stesso ripete con tenerissime parole in altro luogo l’Apostolo: Egli mi amò, e diede Sé stesso per me (Gal. II, 20). In questo modo dobbiamo considerare la Passione del Signore: sul Calvario, dietro i Giudei, immediati strumenti della morte di Gesù. stiamo noi, carichi di colpe, come principalissimi moventi di sì orribili tormenti. In tutte le particolarità della Passione può ciascuno dire a sé medesimo: Ciò che qui patisce Cristo, lo dovevi patire tu! Il Salvatore ci portò inoltre una nuova religione con la sua fede e la sua morale, con una nuovo ordine di grazia ed un nuovo sacrifizio, e conveniva che colla sua morte ratificasse la fede. aprisse le ricchissime sorgenti della grazia, consacrasse col suo Sangue l’altare del sacrifizio, ed era necessario soprattutto che ci precedesse Egli colla croce della mortificazione e del dolore, e ce la rendesse meritoria di vita eterna; tutto questo eseguì mediante la sua Passione. Finalmente, volle il Salvatore riunirci tutti qui sulla terra, in un immenso e magnifico regno, e così uniti, condurci al Cielo. Ma il mondo giaceva sotto il potere di satana, e soltanto un duello a morte poteva guadagnarci questo regno delle anime. Come principe generoso, Gesù Cristo volle riscattare noi, suo popolo, colla sua morte. Il suo sangue fu il brezzo ch’Ei versò per comprarci un posto nel regno della sua Chiesa: sarà mai possibile dimenticarci della sua generosità? Per tutto questo, le cause della Passione di Cristo sono intimamente legate a suoi medesimi: per noi, pel bene supremo ed inapprezzabile della salvezza delle anime nostre patì e morì nostro Signore Gesù Cristo.

2. Un altro motivo che deve servire ad eccitare la nostra compassione e gratitudine è la molteplicità e grandezza dei dolori della Passione. Sono sì grandi, sì svariati, sì nuovi, che invano ne cercheremmo di somiglianti altrove. Dolori interni, nel corpo e nell’anima; dolori provenienti da Sé medesimo e da altri e molte volte da tutte le parti. Non vi fu alcuno tra coloro che Lo circondavano, che non contribuisse alla sua Passione; ebbe moltissimo da soffrire per parte di amici e di nemici, dicasi lo stesso del genere dei tormenti: oltraggi, diffamazioni, disprezzi, burle, ingratitudini, tradimenti ed ingiurie, così sensibili ad ogni cuor nobile. In nessun luogo trovò giustizia; tutti gl’incaricati ad esercitarla Lo lasciarono senza appoggio, Lo abbandonarono e Lo condannarono alla morte più crudele ed ignominiosa. Troviamo nella sua Passione supplizi crudeli ed umilianti, come la flagellazione e la crocifissione; pene contro ogni consuetudine e diritto, quali la coronazione di spine e le atroci ingiurie nella casa di Caifasso; patimenti misteriosi e degni d’ammirazione, che solo Lui poteva soffrire, come l’agonia nell’orto e la morte sulla croce. Furono tali queste interiori angustie dell’anima, che sorpassarono in intensità ed amarezza. Tutti i patimenti umani. Tutti i generi di tormenti immaginabili oppressero il Salvatore da tutte le parti, di maniera che possono applicarsi a Lui le parole che pronunziava il profeta Geremia, riferendosi alle calamità di Gerusalemme: O voi tutti che passate per questa via, considerate e vedete se vi è dolore uguale al mio (Thr. I, 12). Immensa come il mare è l’afflizione mia (Ib. II, 13). – Per comprendere in qualche maniera la profondità e l’amarezza di questi tormenti, sarebbe necessario che ci formassimo un’idea della natura e complessione dell’umanità di Cristo, della delicatezza e sensibilità del suo Corpo, e dell’impressione che facevano sulla di Lui anima i dolori e gli oltraggi. Era vivissimo in Lui il conoscimento della propria dignità divina e dell’onore che Gli si doveva. Pochi giorni innanzi incedeva trionfalmente per queste medesime vie, acclamato come profeta e taumaturgo rispettato e venerato da molti dei principali e più saggi figli del suo popolo, e l’intera città Gli si era prostrata ai piedi rendendogli omaggio. Ed, ora tutto termina col fine più ignominioso! Sacrificare la propria vita per condurre a capo un’azione eroica, lasciando dietro di sé la gloria e l’universale riconoscenza, è un’impresa di cui molti sono capaci; ma morire come un colpevole e volgare malfattore, abbandonato e negletto da Dio e dagli uomini, senza onore, senza conforto, con una morte che manifesta tutto l’abbandono e l’impotenza umana, in mezzo alla gioia feroce di perfidi nemici (Matt. XXVII, 49), questa è la cosa più dura, più triste e straziante che immaginare si possa. Tanto sentì il Salvatore e lo manifestò in quel grido d’angoscia che diede dall’alto della croce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Ib. XXVII, 46) e già prima l’avea predetto per bocca dei profeti: Ma io sono un verme, e non un uomo; l’obbrobrio degli uomini, e il rifiuto della plebe (Sal. XXIV, 7). Egli non ha vaghezza né splendore, e noi l’abbiamo veduto, e non era bello a vedersi: e noi non avemmo inclinazione per lui. Dispregiato e l’infimo degli uomini. Ed era quasi ascoso il suo volto, ed egli era vilipeso, onde noi non ne facemmo alcun conto… Lo reputammo come un lebbroso, e come flagellato da Dio (Is. LIII, 2 sgg.). Mi collocò in luoghi tenebrosi, come quei, che son morti per sempre… Ed oltre a ciò, quand’io alzi le grida, e lo pregai, ha chiuso il varco alla mia orazione… È bandita dall’anima la pace: non so più che sia bene. Ogni termine per me è sparito, e la aspettazione mia nel Signore. Ricordati della miseria, miseria mia eccedente, e dell’assenzio, e del fiele. Queste cose ho di continuo alla memoria, e si strugge l’anima mia dentro di me (Thr. 3). Oh terribile Calvario, testimonio dell’abbandono di un Dio e di quell’ora tristissima in cui, vittima volontaria dell’amor suo smisurato per noi, il Salvatore, Signore di quanto esiste, santissimo, gloriosissimo, il più bello ed amabile tra i figli degli uomini, patisce quella morte ch’Ei medesimo erasi eletta! Sarà possibile che ce ne dimentichiamo?

3. Finalmente la Passione di Gesù Cristo è gloriosa pel modo che la soffrì e le diede fine. Imperocchè non Lo colse d’improvviso ed impensatamente. Tutto era stato previsto e da Lui scelto e determinato, sino dall’eternità. Quante volte l’annunziò a’ suoi discepoli! Nell’ora segnata della cattura ricusò ogni difesa; miriadi d’Angeli, com’Ei disse, sarebbero stati pronti a difenderlo; con una semplice parola Egli atterrò la banda de’ suoi nemici. E colla stessa libertà e padronanza con cui comincia la Passione la porta a compimento, chinando il capo prima di spirare, per far comprendere che nessuno avrebbe potuto privarlo della vita contro sua volontà e che disponeva di essa con perfetta padronanza. Veramente, si sacrificò per noi perché volle (Is. LIII, 7). La seconda dote che risplende nella Passione è l’ammirabile fortezza e magnanimità. Non patisce nostro Signore con indifferenza stoica né con orgoglioso disprezzo della morte, ma nemmeno con debolezze ed abbattimenti. Sente vivamente i dolori e non arrossisce di manifestarli, non per lamentarsi, ma perché ci serva di conforto nel vedere che in realtà patisce indicibili tormenti e che per essi sconta ciò che dovevamo noi a Dio pei nostri peccati, come Sommo Sacerdote, il quale, secondo afferma San Paolo, nei giorni della sua carne avendo offerto preghiere e suppliche con forte grido e con lacrime a colui che lo poteva salvare dalla morte, fu esaudito per la sua riverenza (Ebr. V, 7). – L’ultimo distintivo della sua Passione e morte fu la santità; imperocchè patì e morì esercitando le più alte e sublimi virtù. Perdona ai suoi carnefici; implora la misericordia del Padre per quanti cooperano alla sua morte; pensa e provvede colla più delicata sollecitudine a sua Madre che costantemente persevera ai pie’ della croce; ascolta ed esaudisce la pia invocazione del ladrone convertito; dà compimento alle ultime profezie e, con un sospiro d’immenso amore agli uomini e di sommessione e filiale abbandono all’eterno suo Padre, al medesimo consegna l’anima propria. Per questo la di Lui morte non solo è santa, ma è l’esempio altresì, la causa e perfezione della morte di tutti i santi. – Così spirò il Salvatore, lottando colla morte, e morendo come uno di noi, non obbligato, ma volontariamente per darci a conoscere l’amore che ci portava. – Lì, a’ pie’ della croce, nel contemplare le ‘ultime gocce di sangue che escono dall’aperta ferita del Costato e dal cuore trafitto del Signore, ricordiamoci di quelle parole: Nessuno ha carità più grande che quella di colui che dà la sua vita pe’ suoi amici (Giov. XV, 13). Io ho abbandonato la mia casa, ho rigettato la mia eredità ed ho lasciato la dolce vita mia nelle mani dei miei nemici (Ger. XII, 7). Io sono il buon pastore che dà la vita per le sue pecorelle (Giov. X, 14); e di quelle altre bellissime di S. Paolo: Ma Dio dà a conoscere la sua carità verso di noi, mentre essendo noi tuttora peccatori… Cristo per noi morì (Rom. V, 8-9). La croce ci dice tutto questo. Non poteva nostro Signore Gesù Cristo fare e patire più di quanto fece e patì per provarci l’amor suo. Ma se l’amore esige corrispondenza, sarà forse troppo che Gli offriamo tutte le cose del mondo e la nostra propria vita? La risposta fu data da un’anima generosa che desiderava consacrarsi totalmente a Dio in un severo Ordine di penitenza. Vollero precedentemente provarla, e la condussero nel coro della chiesa, dove dovea trascorrere lunghe ore durante le notti d’inverno; le indicarono in seguito il refettorio, luogo di digiuno più che di refezione; indi il duro letto, più adatto per passare le notti insonni che per un riposo tranquillo, e la richiesero infine che cosa pensasse della sua vocazione. « Avrò nella mia cella un crocifisso? » domandò a sua volta. E ricevuta una risposta affermativa aggiunse risolutamente: « Allora spero di adempiere tutti i doveri della mia vocazione. » È il pensiero medesimo che esprimeva l’Apostolo san Paolo: Ma di tutte queste cose (nelle tribolazioni, nelle angustie, nella fame, nelle persecuzioni) siam più che vincitori per Colui che ci ha amati (Rom. VIII, 37).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “BENEFICIA DEI”

Breve ma succosa enciclica la Beneficia Dei, scritta all’indomani della usurpazione di Roma e dei territori dello Stato della Chiesa, della precipitosa chiusura del Concilio ecumenico Vaticano e di altri avvenimenti funesti non solo per la Chiesa di Cristo, ma soprattutto per l’Italia, l’Europa ed il mondo cristiano intero. Ed il Pontefice non si limita ai danni materiali che sono ben poca cosa rispetto agli spirituali « … abbiamo anche un’altra amarezza, perfino superiore alle altre, nel vedere tanti figli ribelli, sottoposti a tante e tanto gravi censure, che, non preoccupandosi affatto della Nostra voce paterna, né della loro salvezza, continuano tuttora a disprezzare il tempo della penitenza offerto da Dio, e preferiscono superbamente sperimentare l’ira della divina vendetta piuttosto che il frutto della misericordia, fin che sono in tempo. » Sperimentare l’ira della divina vendetta …: facile profeta fu il Santo Padre. Perché l’ira si abbattè inesorabilmente sull’infame famiglia sabauda, fino alla cacciata dal regno usurpato, all’esilio inglorioso, irrevocabile e obbrobrioso di tutti i membri fino alle generazioni attuali ma certo, non è ancora terminata la rovina di questa famiglia che nel passato aveva goduto di infinite grazie spirituali e materiali, ricambiando il bene col male con l’aderire alle sette di perdizione alle quali si era prostituita per gettarsi rapace sui territori ed i beni della Chiesa. I codardi e sanguinari politici e militari “eroici” non ebbero una fine meno gloriosa ed una morte infelice portando alla rovina l’intera la Nazione ed alla morte precoce generazioni intere di giovani, precipitandole in guerre disastrose perse pure davanti a popoli armati di lance e coltelli, scudi di pelle, di mani nude o di niente. Giustizia divina che colpisce ancora oggi che le sette di perdizione hanno invaso e dirigono tutto, governo, amministrazioni, finanche una falsa chiesa-sinagoga che uccide irrimediabilmente milioni di anime gettandole nel fuoco eterno. Cosa può esserci di più grave per un popolo che l’accecamento spirituale che lo porta, attraverso lo scisma, l’eresia, l’apostasia, l’adesione ad una setta apparentemente cattolica, ad un culto demoniaco spacciato come divino, nello stagno di fuoco eterno? Cosa resterà a questi poveri sciacalli una volta finiti nella fornace ardente? … l’orgoglio che li ha uccisi in vita ed in morte. Dopo le guerre, le bombe, gli attentati, la schiavitù a potenze straniere, oggi paghiamo il prezzo più alto per questi delitti infami e l’apostasia dalla fede, lo paghiamo e pagheremo ancor più, anche per aver cacciato prima, ed occultato poi il Vicario di Cristo in terra. Basta una sola eresia per finire all’inferno, Dio ci ha punito con il modernismo … la somma di tutte le eresie, e senza che nessuno se ne accorga.. Terribile è finire tra le mani del Dio vivente … e noi italiano lo stiamo sperimentando alla grande…

S. S. Pio IX
Beneficia Dei

I benefici di Dio Ci chiamano a celebrare la sua benignità, mentre manifestano una nuova grazia della sua protezione verso di Noi e la gloria della sua maestà. Infatti già volge al termine il venticinquesimo anno da quando, per disposizione divina, assumemmo l’incarico di questo Nostro Apostolato, le cui travagliate circostanze sono talmente conosciute da Voi da non aver bisogno di un più lungo ricordo da parte Nostra. È evidentissimo, Venerabili Fratelli, per una serie di tanti avvenimenti, che la Chiesa militante seguita il suo cammino fra frequenti lotte e vittorie; davvero Dio guida lo svolgimento delle cose e domina sul mondo, che è lo sgabello dei suoi piedi; davvero si serve spesso di strumenti deboli e spregevoli per compiere con essi i disegni della sua sapienza.

Nostro Signore Gesù Cristo, fondatore e supremo reggitore della Chiesa, che acquistò col suo sangue, con l’ausilio dei meriti del Beatissimo Pietro, Principe degli Apostoli, che sempre vive e presiede in questa Sede Romana, si è degnato di sorreggere e di sostenere, in questo lungo periodo del Nostro Apostolico servizio, la Nostra debolezza e pochezza, con la sua grazia e la sua forza, a maggior gloria del suo Nome e per l’utilità del suo popolo. Così Noi, sostenuti dal suo divino aiuto e servendoci costantemente dei consigli dei Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa, e più volte anche dei vostri, Venerabili Fratelli, che insieme foste presenti con Noi qui a Roma in gran numero, adornando questa Cattedra della verità con lo splendore della vostra virtù e dell’unanime pietà, abbiamo potuto nel corso di questo Pontificato, seguendo i desideri Nostri e di tutto il mondo cattolico, proclamare con definizione dogmatica l’Immacolata Concezione della Vergine Genitrice di Dio e decretare gli onori celesti a molti eroi della nostra Religione, l’aiuto dei quali, e soprattutto della divina Madre, non dubitiamo che sarà pronto per la Chiesa cattolica in tempi tanto avversi. Fu anche in virtù della forza e della gloria divina che potemmo portare la luce della vera fede in regioni lontane e inospitali, mandandovi gli operai evangelici; potemmo costituire l’ordine della Gerarchia ecclesiastica in molti luoghi e bollare con solenne condanna gli errori (forti specialmente in questo tempo), contrari all’umana ragione, ai buoni costumi e alla società tanto cristiana che civile. Sempre con l’aiuto di Dio, procurammo, per quanto potevamo, che la potestà ecclesiastica e la civile, sia in Europa, sia in America, fossero congiunte con un fermo e solido vincolo di concordia; cercammo di provvedere alle molteplici necessità della Chiesa Orientale, che sempre guardammo con paterno affetto fin dall’inizio del Nostro Apostolico ministero; recentemente Ci fu concesso di promuovere ed iniziare il Concilio Ecumenico Vaticano, di cui tuttavia, per le notissime vicende, dovemmo decretare la sospensione, quando i frutti maggiori in parte erano stati raccolti e in parte erano attesi dalla Chiesa. – E neppure, Venerabili Fratelli, mai tralasciammo di eseguire, con l’aiuto di Dio, ciò che richiedevano il diritto e il dovere della Nostra potestà civile. Le congratulazioni e gli applausi, come ricordate, che accolsero gli inizi del Nostro Pontificato, si trasformarono in breve tempo in ingiurie e assalti, così da costringerci a fuggire da questa Nostra dilettissima Città. Ma quando, ad opera degli sforzi comuni dei popoli cattolici e dei Principi, fummo restituiti a questa Sede Pontificia, mettemmo continuamente tutte le Nostre forze e il Nostro impegno per promuovere e assicurare ai Nostri fedeli sudditi quella prosperità solida e non fallace che sempre riconoscemmo come fondamentale compito del Nostro Principato civile. Ma poi, l’avidità di un Potente vicino desiderò ardentemente le regioni del Nostro potere temporale, antepose ostinatamente i consigli delle sette della perdizione alle Nostre paterne e ripetute ammonizioni e ai Nostri richiami; ultimamente, come vi è noto, superata di gran lunga l’impudenza di quel Figliol Prodigo di cui leggiamo nel Vangelo, espugnò con la forza delle armi anche questa Nostra città, che voleva per sé, e la tiene adesso in suo potere, contro ogni diritto, come cosa che gli appartenga. Non può accadere, Venerabili Fratelli, che non siamo molto scossi per questa usurpazione tanto empia che subiamo. Siamo completamente angosciati per l’enorme iniquità di un disegno che mira, distrutto il Nostro potere temporale, a che siano distrutti, con la medesima operazione, la Nostra potestà spirituale e il Regno di Cristo in terra, se ciò potesse avvenire. Siamo angosciati dalla visione di tanti gravi mali, specialmente di quelli che mettono in pericolo la salvezza eterna del Nostro popolo: in questa amarezza la cosa per Noi più dolorosa è il non potere, a causa della Nostra libertà conculcata, adoperare i rimedi necessari contro tanti mali. A queste cause della Nostra afflizione, Venerabili Fratelli, si aggiunge anche quella lunga e miserevole serie di calamità e di mali che per tanto tempo percossero e afflissero la nobilissima Nazione Francese; serie di mali aumentata smisuratamente in questi giorni per i tanti inauditi eccessi commessi da una efferata e sfrenata moltitudine, come l’atroce delitto dell’empio parricidio consumato con l’esecuzione del Venerabile Fratello Vescovo di Parigi; ben capite quali sentimenti devono suscitare in Noi tali delitti, che hanno riempito il mondo intero di paura e di orrore. Infine, Venerabili Fratelli, abbiamo anche un’altra amarezza, perfino superiore alle altre, nel vedere tanti figli ribelli, sottoposti a tante e tanto gravi censure, che, non preoccupandosi affatto della Nostra voce paterna, né della loro salvezza, continuano tuttora a disprezzare il tempo della penitenza offerto da Dio, e preferiscono superbamente sperimentare l’ira della divina vendetta piuttosto che il frutto della misericordia, fin che sono in tempo. – Ma ormai, attraverso tante vicissitudini, con la protezione di Dio clementissimo, vediamo giunto il giorno anniversario della Nostra esaltazione al Soglio pontificio nel quale – come succedemmo nella Sede di San Pietro, benché infinitamente inferiori ai suoi meriti – risultiamo essergli uguali nella durata del servizio Apostolico. Questo è davvero un nuovo, singolare e grande dono della divina bontà, concesso dalla volontà di Dio solo a Noi, in un così lungo elenco di santissimi Nostri Predecessori per il lungo periodo di diciannove secoli. Anche in questo riconosciamo una più ammirabile benevolenza divina verso di Noi, quando vediamo che in questo tempo Noi siamo stati considerati degni di patire persecuzione per la giustizia, e quando osserviamo quel meraviglioso affetto di devozione e di amore che anima potentemente il popolo cristiano su tutta la terra, e lo spinge con unanime sentimento a questa Santa Sede. Poiché questi doni furono conferiti a Noi così immeritevoli, impegniamo tutte le Nostre deboli forze per esprimere il Nostro ringraziamento nel debito modo. Perciò, mentre chiediamo all’Immacolata Vergine Madre di Dio che ci insegni, con il suo medesimo spirito, a rendere gloria all’Altissimo con quelle sublimi parole “Grandi cose fece in me l’Onnipotente“, preghiamo istantemente anche Voi, Venerabili Fratelli, ad elevare con Noi a Dio, insieme alle greggi a Voi affidate, cantici ed inni di lode e di ringraziamento. “Magnificate il Signore con me“, diciamo con le parole di Leone Magno, ed esaltiamo il suo nome a vicenda, affinché tutte le grazie e le misericordie che ricevemmo, tornino a lode del loro autore. Comunicate poi ai vostri popoli il Nostro ardente amore e i gratissimi sentimenti del Nostro animo per le loro bellissime testimonianze di pietà filiale verso di Noi e per i doveri compiuti così a lungo e con tanta perseveranza. Noi infatti, per quanto Ci riguarda, potendo usurpare a buon diritto le parole del Vate del Re “Il mio abitare è stato prolungato“, con l’aiuto delle vostre preghiere ormai desideriamo questo, cioè conseguire la forza e la fiducia di rendere la Nostra anima al Principe dei Pastori, nel cui seno sono il refrigerio ai mali di questa vita turbolenta e travagliata e il beato porto dell’eterna tranquillità e della pace. – Perché poi torni a maggior gloria di Dio quanto per sua benevolenza si aggiunse ai benefici del Nostro Pontificato, aprendo in questa occasione il tesoro delle grazie spirituali, diamo a Voi, Venerabili Fratelli, la potestà, ciascuno nella propria Diocesi, d’impartire la Benedizione Papale con annessa indulgenza plenaria, come usa fare la Chiesa, con la consueta Nostra autorità Apostolica, il sedici o il ventuno di questo mese o in altro giorno a vostra scelta. Desiderando poi provvedere al bene spirituale dei fedeli, con la presente lettera concediamo nel Signore che tutti i Cristiani, tanto secolari che regolari di entrambi i sessi, in qualunque luogo della vostra Diocesi si trovino, i quali, purificati dalla Confessione sacramentale e nutriti della santa Comunione, eleveranno a Dio devote preghiere per la concordia dei Principi cristiani, l’estirpazione delle eresie e l’esaltazione della Santa Madre Chiesa nel giorno che voi avrete designato o scelto per impartire la predetta Benedizione per Nostra autorità (oppure, nelle Diocesi in cui sia vacante la Sede Episcopale, i Vicari Capitolari del tempo avranno scelto o designato) possano ottenere l’indulgenza plenaria di tutti i loro peccati. Non dubitiamo affatto che in questa occasione il popolo cristiano sia stimolato con maggiore efficacia a pregare, e così per le preghiere moltiplicate meritiamo di ottenere quella misericordia che la visione di tanti mali presenti non Ci permette d’invocare celermente. – Per Voi nel frattempo, Venerabili Fratelli, chiediamo a Dio Onnipotente costanza, speranza celeste e ogni consolazione, e di queste cose vogliamo che sia auspicio e testimonianza della Nostra particolare benevolenza la Benedizione Apostolica, che impartiamo con tutto il Nostro cuore a Voi, al Clero e al popolo affidato a ciascuno di Voi.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 giugno, giorno sacro alla Santissima Trinità, dell’anno 1871, venticinquesimo del Nostro Pontificato.