I PAPI DELLE CATACOMBE (6)

I Papi delle Catacombe [6]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

Sesta persecuzione (anno 235).

Caracalla, che regnò dal 211 al 217, fu un mostro degno di sedere sui troni dei vari  Caligola, Nerone, Domiziano, Commodo. Egli uccise suo padre; si sbarazzò di suo fratello Géta, sotto gli occhi della loro comune madre; fece mettere a morte tutti coloro che a Roma rappresentavano i cittadini più raccomandabili. Gli alessandrini si erano permessi qualche battuta scherzosa sulla sua persona, ed egli fece mettere il villaggio al saccheggio. Imitatore di Alessandro il Grande, fece avvelenare uno delle sue favorite per piangere come Alessandro aveva pianto Efestione. Macrino, prefetto del pretorio, sbarazzò l’impero romano di questo flagello che non aveva risparmiato i Cristiani più degli altri, ma che tuttavia li fece respirare un poco. Macrino non gioì che di qualche mese del frutto del suo crimine: i soldati infatti proclamarono imperatore un pronipote di Settimo Severo, chiamato Eliogabalo, nuovo mostro che sembrò essersi proposto di sorpassare tutti i suoi predecessori in fatto di stravaganze, scelleratezze e crudeltà. Il palazzo imperiale non fu che un luogo di nefandezze; il prefetto del pretorio era un buffone; commedianti, cocchieri divenivano consoli e senatori. Eliogabalo creò anche un senato di donne per decidere delle mode. Ecco a quali padroni si affidavano questi fieri romani che non volevano riconoscere il solo vero Dio. Il Papa San Callisto I, che aveva ingrandito considerevolmente il cimitero conosciuto con il suo nome, fu una delle vittime di Eliogabalo. Messo in prigione, ebbe a soffrire tutti gli orrori della fame; i suoi carcerieri non gli accordavano un po’ di nutrimento se non per lasciargli la forza di sopportare il supplizio delle verghe, al quale essi lo sottoponevano ogni giorno; infine lo precipitarono dalla finestra della sua prigione in fondo ad un pozzo ove egli trovò la morte. Lo stesso anno (222) finì il regno di Eliogabalo. Questo insensato, che non credeva potesse morire di morte naturale, aveva preparato, per uccidersi, dei cordoni di seta, un pugnale d’oro, dei veleni chiusi in vasi di cristallo e di porfido, ed aveva fatto pavimentare una corte interna di pietre preziose sulla quali contava di precipitarsi dall’alto di una torre. Tante precauzioni furono inutili; egli venne ucciso in una fogna, e la popolazione gettò il suo cadavere nel Tevere. Dopo di lui apparve un imperatore stimabile che regnò dal 222 al 235, era Alessandro Severo, cugino di Eliogabalo, figlio di Mammeo, che si pensa essere stato Cristiano ed allievo di Origene, uno dei più celebri dottori della Chiesa. Questo principe aveva eccellenti disposizioni alla virtù. Aveva un grande amore per la giustizia, ed amava ripetere questa massima cristiana: “Non fate agli altri quello che non volete sia fatto a voi”. Egli lasciò libertà ai Cristiani; li elevò anche agli onori; ne aveva un gran numero nella sua casa, e permise loro di edificare templi al vero Dio, li sostenendoli anche in una circostanza contro le ingiurie di certi teatranti di Roma che reclamavano uno spazio dove i Cristiani avevano costruito una chiesa: « è meglio, disse, che vi sia adorato Dio, in qualunque modo sia, che vedere questo luogo occupato da teatranti. » Ma questo principe non ebbe il coraggio di riconoscere pubblicamente il vero Dio, e mescolò al suo rispetto per Gesù-Cristo, che egli aveva posto tra i suoi dei nel suo larario (cappella domestica), le peggiori superstizioni. Egli avrebbe voluto costruire un tempio a Gesù-Cristo; gli fu impedito, dice il suo storico Lampride, dicendogli che tutti si sarebbero fatti Cristiani, e che gli altri templi sarebbero stati abbandonati se si rendeva un tale onore al Cristo. Non ci sarebbero state persecuzioni a ritardare il trionfo definitivo del Cristianesimo. Alessandro Severo non perseguitò i Cristiani, tuttavia si ebbero dei martiri sotto il suo regno. Le leggi dell’impero erano più forti della sua volontà, anche a Roma e nelle provincie lontane che dipendevano da governatori locali. Alcuni autori collocano il martirio del Papa san Callisto durante i primi giorni del regno di Alessandro. Sette anni dopo ebbe luogo a Roma, il martirio di san Tiburzio, Valeriano e Massimo, e l’anno seguente quello di Santa Cecilia, sposa di Valeriano. I pagani avevano approfittato di un’assenza di Alessandro Severo per eccitare il prefetto della città, Almachio, che era pure lui molto mal disposto verso di loro. Cecilia era di famiglia illustre; benché i suoi genitori fossero idolatri, essa conosceva bene il Cristianesimo; ella ascoltava con la più grande docilità le lezioni del Santo Papa Urbano, ed aveva fatto voto di verginità. Quando i suoi genitori vollero maritarla a Valeriano, giovane pagano di alto lignaggio e di grandi meriti, si trovò in una grande imbarazzo. Infine ella acconsentì; ma quando si trovò sola con il suo sposo, gli dichiarò il voto che aveva fatto e gli parlò con tanta dissuasione che Valeriano andò, in quello stesso giorno, a richiedere il Battesimo a Papa Urbano. I due sposi vissero come fratello e sorella, Valeriano convertì suo fratello Tiburzio, che ebbe la sorte di essere martire insieme a lui. Cecilia seppellì ella stessa i santi corpi dei coraggioso atleti, come quello di Massimo, impiegato di Almachio, che il coraggio dei martiri aveva convertito. Almachio, un po’ spaventato per le conseguenze della sua crudeltà, tentò di indurre Cecilia alla persuasione: gli fece ricordare, dai suoi inviati, che ella doveva avere qualche considerazione per la sua giovinezza, la sua beltà e la sua fortuna: « Morire per il Cristo, rispose la vergine cristiana, non è sacrificare la propria giovinezza, è rinnovarla; è dare come un po’ di fango in cambio di oro; è come cambiare una dimora angusta e vile con un magnifico palazzo; è offrire una cosa deperibile in cambio di un bene immortale. » Ella poi parlò con tanta eloquenza e ardore, che gli ufficiali del prefetto e più di quattrocento persone accorse per ascoltarla, si convertirono e ricevettero il Battesimo. – Almachio non prese più altre iniziative. Ordinò che Cecilia fosse rinchiusa nella sala da bagno della sua casa e che venisse asfissiata da vapori brucianti. La giovane vergine si lasciò condurre con gioia in questa sala, e vi passò il resto del giorno e della notte seguente, senza che i vapori soffocanti che respirava le facessero alcun danno. Almachio, informato del prodigio, inviò un littore con l’ordine di tagliare la testa alla santa. Il littore, dopo tre colpi male assestati, lasciò Cecilia bagnata dal suo sangue e ancora respirante. Una legge proibiva ai carnefici che dopo tre colpi non aveva finito la vittima, di colpirla ancora. Cecilia sopravvisse tre giorni, durante i quali i Cristiani vennero a visitarla e raccolsero in dei panni il sangue che colava dalle sue ferite. Furono tre giorni di predicazione. Anche il Papa Urbano venne a sua volta; la santa gli disse:« Padre, io ho chiesto al Signore questo ritardo di tre giorni per rimettere nelle mani della vostra beatitudine il mio ultimo tesoro: sono i poveri che io nutrivo ed ai quali sto per mancare. Io vi affido anche questa casa che abito, affinché sia da voi consacrata come chiesa e diventi un tempio del Signore per sempre. » Dopo queste parole, Cecilia si raccolse in sé ascoltando solo le armonie del cielo, sorda a tutti i brusii della terra. I cieli si aprivano già al suo occhio moribondo, ed un ultimo svenimento annunciò l’avvicinarsi della morte. Essa era distesa sul lato destro, con le ginocchia riunite con modestia. Giunto il momento supremo, le sue braccia si abbandonarono l’una sull’altra, e come se avesse voluto conservare il segreto di questo ultimo sospiro che ella inviava al divino Oggetto del suo unico amore, girò verso terra la sua testa solcata dalla spada, e la sua anima si staccò dolcemente dal suo corpo. La memoria di santa Cecilia è stata grandemente venerata dalla Chiesa, le arti si sono ingegnate con l’intento di celebrarla, e si sa che i musicisti l’hanno adottata come loro patrona perché ella era stata sempre più attenta, durante la sua vita, agli accenti degli Angeli che ai rumori di questo mondo. Il Papa Sant’Urbano la seguì ben presto; il prefetto Almachio lo fece morire un mese dopo. Alessandro Severo morì assassinato in una sedizione eccitata da Massimino, che gli successe. Il regno di Massimino non durò che tre anni (dal 235 al 238), e si segnalò per una violenta persecuzione contro la Chiesa. I due Papi, san Ponziano e San Antero furono martirizzati. Massimino era un uomo di grande taglia e di una straordinaria voracità, ma ci si stancò ben presto di lui, il senato pronunciò la sentenza di decadenza mentre era lontano da Roma. A questa notizia, Massimino entrò in un pauroso eccesso di furore: correva di qua e di la, lacerando i suoi abiti e rotolandosi per terra. Marciò di gran lena sull’Italia e mise la sua sede nei pressi di Aquileia. Ma scoppiò una sedizione generale nel suo campo; fu così ucciso. Quando a Roma si apprese della morte del tiranno, il popolo che era a teatro, si alzò con movimento unanime e corse ai templi a rendere grazie agli dei.

Settima persecuzione (250).

 

Al regno di Massimino, successe l’anarchia. Cinque imperatori sparirono in dieci anni. Un sesto, di nome Filippo, regnò cinque anni (244-249). Filippo era Cristiano, ma disonorava la Religione con la sua condotta, e non era degno di far sedere con lui il Cristianesimo su di un trono ove era salito come assassinio. Tuttavia i Cristiani godettero di una certa tranquillità sotto il suo regno, e viene citato un episodio che mostra che la fede nel suo cuore non era del tutto spenta. Si trovava ad Antiochia, nel 244, il 14 aprile, giorno in cui si celebrava la festa della Pasqua, e si presentò all’assemblea dei fedeli. Ma il vescovo San Babila lo fermò alle porte della chiesa rimproverandogli l’omocidio dell’imperatore Gordiano, suo predecessore, e finì dichiarando che fosse indegno di partecipare ai santi misteri, finché non avesse espiato il suo peccato con la penitenza. Filippo si sottomise, e più tardi si riconciliò con la Chiesa. L’avvento di Decio, che detronizzò Filippo e lo fece sgozzare dai suoi soldati a Verona, fu il segnale di una delle più sanguinose persecuzioni che i Cristiani ebbero a soffrire. – Fortunatamente il suo regno fu breve 249-251). Nel suo editto di proscrizione, Decio dichiarava che, « Benché deciso a trattare tutti i suoi soggetti con clemenza, ne era impedito dalla setta dei Cristiani, che per la loro empietà attiravano la collera degli dei e tutte le calamità sull’impero. Egli ordinò dunque che tutti i Cristiani, senza distinzione di qualità, o rango, di sesso o di età, fossero obbligati a sacrificare nei templi; che tutti coloro che rifiutavano fossero rinchiusi nelle prigioni di stato e sottomessi prima ai supplizi minori, per vincere poco a poco la loro costanza, ed infine, se restassero ostinati, precipitati in fondo al mare, gettati vivi in mezzo alle fiamme, gettati alle fiere, sospesi ad alberi per essere pasto degli uccelli da preda, o mutilati in mille modi con i più crudeli tormenti. » C’era tutta un’arte per condurre all’apostasia mediante la tortura: le spade, la pira, le bestie feroci, le sedie roventi, le tenaglie di ferro, i cavalletti, gli strumenti per ridurre le carni a brandelli o dislocare le ossa, etc. La persecuzione si diffuse in tutto l’impero: il Papa san Fabiano cadde per primo, e ben presto dopo di lui, san Babila di Antiochia, san Saturnino di Tolosa, san Marziale di Limoges, san Trofimo di Arles, san Alessandro di Gerusalemme, san Ippolito vescovo e dottore, una moltitudine di sacerdoti, Cristiani e Cristiane di ogni condizione, dei quali non sapremo mai tutti i nomi. Si cita tra di essi san Cirillo, fanciullo di Cesarea, che suo padre aveva cacciato dalla casa paterna, perché si rifiutava di adorare gli idoli. Il governatore della città volle prima convincerlo con le carezze, e non vi riuscì; impiegò poi minacce e fece accendere un gran fuoco per spaventare il fanciullo; ma non riuscì nel suo intento. La spada troncò i giorni del coraggioso bambino. Ad Alessandria c’era una donna che dava l’esempio di un coraggio simile: si chiamava Apollonia. I carnefici gli fecero dapprima saltare tutti i denti a colpi di pugni; poi alzarono ed accesero un falò e minacciarono di bruciarla viva se rifiutava di blasfemizzare con essi. La coraggiosa vergine deliberò in se stessa in un istante e tutta infervorata, dice il martirologio, di un sacro fuoco che lo Spirito-Santo aveva acceso nel suo cuore, si gettò in mezzo alle fiamme, di modo che gli autori di questa crudeltà restarono stupefatti ed interdetti per come una donna avesse potuto soffrire con prontezza una morte sì crudele e tale che i suoi nemici non erano riusciti a preparare. Due città della Sicilia, Palermo e Catania si disputano l’onore di aver dato alla luce un’altra celebre vergine ancora più forte. Agata aveva consacrato a Dio la sua verginità fin dagli anni più teneri. Un personaggio di nobile nascita, chiamato Quintiano, affascinato dalla sua bellezza, e sapendo che oltretutto era molto ricca, ne aveva chiesto la mano. Irritato dal rifiuto di Agata, si risolse di profittare dell’editto di Decio per giungere al suo scopo. Egli fece prendere la giovane vergine e la mandò davanti ad un tribunale. « Signore Gesù, disse Agata vedendosi consegnata ai persecutori, Voi siete il mio Pastore, io la vostra pecorella; rendetemi degna di vincere il demonio. » Quintiano la pose tra le mani di una donna di mala vita che la fece entrare in un luogo infame. La casta vergine vi restò per un mese, esposta a tutti i pericoli ma senza che la sua virtù ne ricevesse oltraggio. Quintiano allora la fece comparire una seconda volta davanti a lui: furioso per le sue risposte, la fece oltraggiare e condurre in prigione. All’indomani distese Agata sul cavalletto e le si fecero soffrire le più orribili torture. Ma nulla distruggeva la sua costanza. Quintiano non si poté più contenere; preso dalla rabbia, diede ordine di tagliarle le mammelle: « Crudele tiranno, esclamò la giovane, subendo questo martirio, non arrossisci nel farmi questa ingiuria, tu che hai succhiato le mammelle di tua madre? » Quintiano la rimandò in prigione, con la proibizione di curare le sue piaghe e di nutrirla. Ma Dio vegliava sulla sua intrepida serva: San Pietro apparve ad Agata in visione, la consolò, la guarì e riempì la sua cella di una luce sfolgorante. Una tale meraviglia avrebbe dovuto aprire gli occhi di Quintiano, ma la gelosia e la rabbia l’accecarono. Egli la mandò a cercare quattro giorni dopo e la fece rotolare su pezzi di cocci rotti, misti a carboni ardenti. Poi la fece ricondurre in prigione: « Signore mio Dio, dice la vergine arrivando, Voi mi avete sempre protetto fin dalla culla; avete sradicato dal mio cuore l’amore del mondo, e mi avete dato la pazienza necessaria per soffrire; ricevete ora il mio spirito. » E così spirò. Il suo nome è inserito nel canone della Messa. Affianco a tanti nobili esempi, si ebbero deplorabili defezioni. La pace di cui i Cristiani avevano goduto per qualche tempo, aveva prodotto un rilassamento tra loro; si ebbero degli apostati, dei deboli nella fede; ma diversi di questi apostati espiarono più tardi il loro crimine con la penitenza ed il martirio, e la Chiesa riprese un nuovo vigore durante questo terribile tormento che Dio aveva permesso per rianimare il fervore dei fedeli. I flagelli desolarono nello stesso tempo i persecutori: una peste violenta colpì le principali città dell’impero, e le invasioni dei barbari, Geti o Goti, portarono la desolazione nelle provincie più belle. Decio volle marciare contro di essi, annegò nelle paludi adiacenti al Danubio e perì sotto i colpi dei barbari con i suoi tre o quattro figli e gran parte della sua armata. La persecuzione continuò sotto il suo successore Gallo, ma con minor violenza. Il Papa San Cornelio fu martirizzato; il Papa San Lucio fu esiliato e morì poco dopo il suo ritorno a Roma. I Papi erano sempre alla testa di queste gloriose falangi che conquistarono il cielo con il loro martirio, e che preparavano con l’effusione del loro sangue l’avvento del regno di Gesù-Cristo sulla terra.

I PAPI DELLE CATACOMBE (5)

I Papi delle Catacombe [5]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

Quinta persecuzione (anno 199).

Il regno di Commodo (dal 180 al 192) fu un periodo di tranquillità relativa per il Cristianesimo. C’è da stupirsene, quando si pensa che questo figlio di Marco Aurelio era un mostro di dissolutezza e di crudeltà. Questo imperatore romano aveva dei divertimenti singolari. Egli faceva abbigliare da giganti e da mostri mendicanti e storpi; poi li abbatteva egli stesso a colpi di bastone, e si faceva nominare l’Ercole romano. Un giorno incontrò un uomo di taglia straordinaria: lo tagliò in due per provare la sua forza e per gioire del piacere di vedere spargere le viscere della vittima. L’incesto ed i crimini più abominevoli infestavano allora il suo palazzo; ma una donna, di nome Marcia, che stimava i Cristiani, alla quale Commodo accordò onori da imperatrice, addolcì il “mostro” riguardo ai fedeli, procurando così qualche anno di tregua alla Chiesa. Numerose conversioni segnalarono questo breve periodo di pace; la più celebre è quella di un senatore di nome Apollonio, che fu denunciato da uno dei suoi schiavi. Una legge aveva proibito di accusare i Cristiani come tali e il delatore fu condannato a morte. Ma la decisione data da Traiano a Plinio era sempre in vigore; una volta denunciato, il Cristiano non poteva evitare una condanna se non apostatando. -Apollonio, per decisione dei senatori, ebbe la testa tagliata, dopo aver confessato la sua fede in pieno senato. Commodo angustiava l’impero con le sue stravaganze e le sue crudeltà. Egli aveva deciso ad esempio di far uccidere i due consoli da una schiera di gladiatori. La viglia del giorno fissato per questa cruenta follia, fu strangolato però dalla sua concubina principale e dai due prefetti del pretorio. I soldati affidarono poi l’impero ad un vecchio generale, di nome Pertinace, dal quale si staccarono in capo a tre mesi, perché era troppo severo. Allora essi offrirono la corona a chi potesse dar loro più denaro: costui fu un certo Didio Giuliano, che era così ricco da comprare l’impero; ma i soldati non lo trovarono così generoso; ben presto lo si depose e lo si portò al supplizio. Tre generali si disputarono in seguito il potere. Settimio Severo ebbe la meglio sui competitori e regnò dal 193 al 211. Egli si mostrò all’inizio molto favorevole ai Cristiani ed affidando addirittura l’educazione dei suoi figli ad uno di essi chiamato Proculo. Ma queste buone disposizioni non durarono a lungo; egli lanciò un nuovo editto di persecuzione, ed i supplizi ricominciarono particolarmente presso i Galli, in Italia, in Egitto e nell’Africa settentrionale, che i Romani chiamavano la provincia d’Africa. A Cartagine, il proconsole Saturnino aveva già fatto morire san Sperato e i suoi compagni, chiamati: “dodici martiri scillitani”, perché erano di Scillite, piccola città di provincia. Uno dei suoi successori fece dei martiri ancora più illustri, come nella persona di Santa Perpetua e santa Felicita, il cui glorioso combattimento meritò loro di avere i nomi inseriti nel Canone della Messa. Perpetua non aveva che 22 anni; aveva un bambino al seno; suo padre e sua madre vivevano ancora; suo padre era pagano, si pensa che la madre fosse cristiana. Felicita era una schiava cristiana; ella era allora incinta. Con esse venne arrestato Revocato, che era schiavo con Felicita, Saturnino, Saturo e Secondulo. Santa Perpetua scrisse ella stessa gli atti del suo martirio fino alla vigilia della sua morte. Bisogna leggere questi atti, scritti da una giovane donna, madre di famiglia, di nobile nascita, cara ai suoi, alla quale nulla mancava per essere felice nel mondo, e che si vide separata da suo padre, da sua madre, dal suo sposo, dal figlioletto, per essere divorata dalle bestie sotto gli sguardi di tutto il popolo. Ella vede il suo vecchio padre che l’ama e che l’ama con tenerezza, baciarle le mani, gettarsi ai suoi piedi per convincerla a farle dire una parola che la salvasse; ella compatisce il dolo di questo padre e lo consola, ma non dirà la parola, perché questa parola sarebbe stata una menzogna, ed ella scrive tutto ciò alla vigilia del suo supplizio, con un candore, una calma sovrumana. « No, esclama a questo proposito uno storico, questa pace che l’uomo non saprebbe dire, e neanche concepire, Dio solo la può dare. » [Rohrbacher]. La sola vera Religione, aggiungeremmo noi, può presentare tali meraviglie. Ma ascoltiamo santa Perpetua: « Noi eravamo nelle mani dei nostri persecutori, quando mio padre, spinto dalla tenerezza che aveva per me, venne a tentare nuovi sforzi per vincere la mia costanza. Poiché egli continuava, io gli dissi: “Questo vaso che vedete a terra, può cambiare nome? – No assolutamente, mi rispose. – Così, gli replicai, io non posso dirmi altra cosa che io non sia, cioè Cristiana.” A queste parole mio padre si gettò su di me come se volesse strapparmi gli occhi; ma si contentò di maltrattarmi, e si ritirò poi tutto confuso per non aver potuto vincere la mia risoluzione con tutti gli artifici che il demonio gli aveva suggerito. Essendo stata qualche giorno senza rivederlo, resi grazie a Dio e mi trovai risollevata. E fu in questo intervallo di tempo che fummo battezzati [Perpetua e Revocato non erano ancora che dei catecumeni]. Io non domandai nient’altro all’uscita dall’acqua, se non la pazienza nelle pene corporali. – « Pochi giorni dopo, mi si gettò in una prigione; ne fui affranta, perché non avevo mai visto tali tenebre. Giornata dura! Un calore soffocante a causa della folla; i soldati ci spingevano ed io morivo di inquietudine per mio figlio che non avevo con me. Allora i beati diaconi Terzio e Pomponio che ci assistevano ottennero, dietro ricompensa in denaro, che ci fosse permesso di uscire e passare qualche ora in un luogo più comodo della prigione. Profittammo di questa situazione vantaggiosa per allattare il mio bambino, lo raccomandai a mia madre; rinvigorii mio fratello; fui affranta dal dolore nel vedere le sofferenze che provocavo loro. Passai dei giorni nella più crudele delle pene; ma avendo ottenuto che mi si lasciasse mio figlio nella prigione, mi tranquillizzai completamente, e la prigione mi sembrò un gradevole soggiorno, tanto che amavo meglio essere lì che altrove … Si era così sparsa la voce che noi dovevamo essere interrogati, e mio padre venne a trovarmi, tutto affranto dalla tristezza; e mi diceva: « Figlia mia, abbi pietà dei miei capelli bianchi, abbi pietà di me! Se io sono degno di essere chiamato tuo padre, se ti ho allevata fino a questa età, se ti ho preferita ai tuoi fratelli, non mi rendere l’obbrobrio degli uomini. Guarda tua madre, considera che tuo figlio che non potrà vivere dopo di te … abbandona questa ostinazione per non perderci tutti, perché nessuno di noi oserà più apparire in pubblico, se vieni condannata al supplizio. » E parlando così, mio padre mi baciava le mani e poi, gettandosi ai miei piedi, piangeva, non mi chiamava più sua figlia, ma sua “dama”. Ed io lo compiangevo, vedendo che della mia famiglia era il solo a non gioire del mio martirio. Per consolarlo gli dicevo: « Sarà quel che a Dio piacerà, perché sapete che noi non siamo in nostro potere, ma nel suo. » Egli se ne andò tutto rattristato. L’indomani, come già sapevamo, ci vennero a cercare per l’interrogatorio. La voce si sparse in tutti i quartieri vicini, ed una folla di popolo prese posto in tribunale. Gli altri subirono l’interrogatorio e confessarono generosamente Gesù-Cristo. Quando arrivò il mio turno, mio padre si avvicinò a me tenendo in braccio mio figlio dicendo: « Abbiate pietà di vostro figlio. » Il procuratore Ilariano mi disse dal suo canto: « Risparmiate la vecchiaia di vostro padre; risparmiate l’infanzia di vostro figlio. Sacrificate agli dei, per la prosperità dell’imperatore. – Io non sacrificherò risposi. – Siete dunque Cristiana? Mi disse. – Si, io sono cristiana. » E mio padre si sforzava di portarmi via dal tribunale. Ilariano diede ordine di allontanarlo, ed il littore gli diede un colpo di frusta. Io avvertii questo colpo come se fossi stata colpita io stessa, tanto soffrivo nel vedere insultare a causa mia, i capelli bianchi di mio padre. Allora Ilariano pronunciò la sentenza del nostro arresto, e ci condannò tutti ad essere dati alle belve. Noi tornammo pieni di gioia in prigione. Appena rientrata, inviai il diacono Pomponio a richiedere mio figlio a mio padre che non volle mandarmelo. Ma Dio permise che il bambino non chiedesse più di succhiare e che il mio latte non gli servisse più … – « Avvicinandosi il giorno destinato agli spettacoli (ed al martirio), mio padre ritornò a trovarmi. Era in uno stato di depressione inesprimibile: si strappava la barba, si prostrava con la faccia a terra, malediceva la sua vecchiaia, diceva cose capaci di smuovere tutte le creature. Io morivo di dolore nel vederlo in questo stato … la vigilia dello spettacolo, ebbi una visione che mi fece comprendere che io non combattevo contro le bestie, ma contro il demonio, e così mi assicuravo la vittoria. Questo è quanto ho fatto fino alla vigilia degli spettacoli; qualcun altro scriverà ciò che sta per succedere. » Così finisce la relazione di Santa Perpetua. Secondulo morì nella prigione. Felicita era incinta di otto mesi; ella si affliggeva nel timore che il suo martirio fosse differito, perché la legge proibiva di mettere a morte le donne incinte. I santi confessori si misero in preghiera, ed ottennero che fosse proposta la liberazione di Felicita. Ella mise al mondo una figlia che una donna cristiana allevò come figli propria. La vigilia del combattimento si diede ai confessori, secondo il costume, l’ultimo cibo che si chiamava appunto l’ultimo pasto e che si faceva in pubblico. I cristiani ebbero in questa occasione il permesso di entrare nella prigione il cui guardiano, chiamato Pudente, si era convertito. Quest’ultimo festino fu un’agape; i martiri profittarono del concorso che si faceva intorno ad essi per pregare ancora una volta Gesù-Cristo: “ … e che! Disse Saturo alla folla, il giorno di domani non sarà sufficiente a soddisfare la vostra curiosità? Oggi voi sembrate aver pietà di noi, e domani applaudirete alla nostra morte. Tuttavia, guardate bene i nostri volti, per riconoscerci nel terribile giorno del giudizio. » Il giorno dopo essi si recarono all’anfiteatro come se andassero al cielo. Il loro viso irradiava ina gioia ineffabile. Arrivata alla porta, si voleva far prendere agli uomini la veste dei sacerdoti di Saturno, ed alle donne la striscia che portavano le sacerdotesse di Ceres. I martiri rifiutarono questi indumenti di idolatria: « Noi non siamo qui, dissero, per conservare la nostra libertà; noi abbiamo sacrificato la nostra vita per non fare nulla di simile; e siamo convenuti quì. » A questo punto li si lasciò tranquilli. Iniziò il combattimento: si diedero Saturnino e Revocato in pasto ad un leopardo e ad un orso che li colpì ma senza ucciderli; il convittore li colpì più tardi. Saturo fu esposto ad un cinghiale che uccise il cacciatore e rispettò il martire; lo si espose poi ad un leopardo, che con un sol colpo di denti lo abbatté bagnandolo nel suo sangue. Perpetua e Felicita furono spogliate e messe in delle reti, per essere esposte ad una vacca furiosa. Il popolo stesso si rivoltò a questa raffinata crudeltà, e si rivestirono le generose donne di abiti fluttuanti. La vacca si gettò dapprima su Perpetua, la lanciò in aria e la lasciò ricadere sul dorso. Perpetua si sedette; rimise in ordine i suoi vestiti e raccolse i suoi capelli disordinati per non sembrare in lutto, e vedendo Felicita tutta accasciata per una caduta simile alla sua, le tese la mano e l’aiutò a sollevarsi. Entrambe stavano in piedi approssimandosi un nuovo combattimento; ma il popolo vinto da tanto coraggio e dolcezza non volle che le si esponessero una seconda volta. Richiamate qualche momento dopo per ricevere l’ultimo colpo, esse ritornarono con gioia. Felicita cadde per l’azione di un convittore maldestro che le fece gettare un grido di dolore; Perpetua condusse ella stessa alla sua gola la mano tramante del carnefice. L’Egitto aveva i suoi martiri come la provincia d’Africa: i Cristiani vi furono perseguitati con estremo rigore; fu allora che S. Leonida, padre di Origene, morì per Gesù-Cristo. – In Gallia, sant’Ireneo seguiva il suo maestro San Potino. Si contarono a Lione quasi ventimila martiri. Quanto a Settimo Severo, la mano di Dio si appesantì su di lui come sugli altri persecutori della Chiesa: suo figlio Caracalla aveva tentato di ucciderlo; impegnato in una guerra ai Calcedoniensi (in Scozia), egli si sottopose a tante fatiche che lo resero malato; la gotta lo tormentava, ed una sedizione venne ad aumentarne le sofferenze tanto che volle abbreviarle avvelenandosi; ma poiché gli si rifiutava del veleno, mangiò avidamente cibi indigesti tanto da morirne, nella città di York. Una delle sue ultime parole fu: « Io sono stato tutto e ora niente mi serve! » Esclamazione di disperazione che dipinge in modo vivo la vanità della potenza di questo imperatore, nemico degli uomini e di Dio.

I PAPI DELLE CATACOMBE (4)

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

Quarta persecuzione (166).

Si è detto di Marco Aurelio che fu la “filosofia assisa sul trono”, giustificando le parole di Platone: “… che il popolo sarebbe stato felice quando i filosofi fossero diventati re”. Marco Aurelio fu in effetti riformatore dei costumi con lo stoicismo, sottomesso al senato per orgoglio, clemente per vanità; ma questo filosofo spinse l’empietà fino a fare di suo fratello Vero, l’uomo più crudele e dissoluto del tempo, e di Faustina, sua sposa pubblicamente adultera, una doppia e scandalosa apoteosi; egli manifestò un tale disprezzo per il pudore che accordò delle dignità ad uomini di notoria impudicizia; egli stesso viveva in pubblico concubinaggio e questo modello di filosofi, per i quali i moderni scrittori non trovano che elogi, fu uno dei più violenti persecutori dei Cristiani, cioè degli uomini più virtuosi del suo impero. Dopo un regno contrassegnato da inondazioni, carestie, pestilenze, rivolte e guerre quasi continue, egli morì, probabilmente avvelenato, lasciando il trono a suo figlio Commodo, un pazzo furioso incoronato, che fece crudelmente espiare ai Romani quel poco di tranquillità e di gloria di cui avevano goduto sotto Marco Aurelio: … è così che i popoli sono felici quando loro re sono i filosofi pagani! L’editto che rinnovò la persecuzione era così concepito: « L’imperatore Aurelio a tutti i suoi amministratori ed ufficiali. Ci hanno riferito che coloro che nei nostri giorni si chiamano Cristiani, violano le ordinanze della legge. Arrestateli; e se essi non sacrificano ai nostri dei, puniteli con supplizi diversi a tal sorta che la giustizia sia congiunta alla severità e che la punizione cessi quando cessa il crimine. » Marco Aurelio era dunque filosofo nello stesso senso dell’epicureo Gelso, che allora scriveva contro i Cristiani; allo stesso modo di Crescente il cinico che, vinto da San Giustino nella disputa, lo denunciò e lo fece mettere a morte [Rohrbacher Histoire de l’Église, liv. XXVII.,]. La persecuzione di Marco Aurelio fece illustri martiri, oltre ai santi Papi Aniceto e Sotero. Il più illustre è San Policarpo che san Giovani Evangelista aveva ordinato vescovo della Chiesa di Smirne intorno all’anno 96, governandola per settanta anni, in maniera tale da meritare questo elogio indirizzato nell’Apocalisse all’Angelo di Smirne: « Così parla il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita: Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – tuttavia sei ricco – e la calunnia da parte di quelli che si proclamano Giudei e non lo sono, ma appartengono alla sinagoga di satana. Non temere ciò che stai per soffrire: ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per mettervi alla prova e avrete una tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita. » [Ap. II, 8-10]. Policarpo in effetti fu fedele fino alla morte. Di concerto con sant’Ignazio combatté l’eresia con un vigore degno di un immediato successore degli Apostoli. – Egli si recò a Roma per conferire con il Papa Aniceto sulla celebrazione della Pasqua. Qui incontrò l’eretico Marcione che gli domandò se lo conoscesse: « … senza dubbio, disse il santo Vescovo, io ti conosco come il figlio primogenito di satana. » Policarpo meritò bene di essere uno delle prime vittime della persecuzione di Marco Aurelio. Il proconsole d’Asia, Stazio Quadrato, si distingueva per la sua crudeltà. Una lettera scritta dalla Chiesa di Smirne a quella di Filadelfia e a tutte le Chiese del mondo, ci ha trasmesso dei dettagli che mostrano a qual punto fosse giunto il furore dei pagani, e qual era il coraggio dei cristiani: « I martiri, si dice in questa lettera, erano frustati a tal punto che erano scoperte le loro ossa e si potevano contare le loro vene e i loro tendini. Mossi da compassione, gli assistenti non potevano frenarsi dal gemere per come essi sembrassero estranei al loro corpo, o che Gesù Cristo stesso fosse venuto a consolarli con la sua presenza. Coloro che erano stati condannati alle fiere, furono sottomessi, nella prigione, a diverse torture. I tiranni si illudevano così di costringerli a rinnegare la loro fede. Ma i loro sforzi infernali restavano inutili. Il giovane e coraggioso Germanico, segnalò la sua costanza sopra tutti gli atri. Al momento di combattere, il proconsole lo esortava ancora ad aver pietà della sua giovane età. Senza rispondere nulla, l’intrepido atleta di Gesù-Cristo si lanciò con un salto davanti alle bestie che sbranarono voracemente le sue membra sanguinanti: egli aveva voluto uscire più prontamente da questo empio mondo. Sorpreso ed irritato da questo coraggio eroico, il popolo gridò a gran voce: A morte gli atei! Che si cerchi Policarpo! » Il vegliardo, dopo aver resistito lungo tempo alle insistenze dei fedeli, si era ritirato in una casa di campagna alle porte della città. Tre giorni prima del suo martirio, Dio gli rivelò il genere di morte che egli avrebbe subito: « Io sarò bruciato vivo, » disse ai suoi discepoli. Un servo lo tradì rivelando il suo rifugio e guidò i soldati che lo cercavano. La casa fu circondata. Il santo poteva ancora scappare ma non volle, ed andando innanzi a coloro che lo cercavano, fece loro gli onori di casa e parlò loro con tanta dolcezza che più di uno si rifiutò di catturare un vegliardo così venerabile. Lo si condusse in città caricato su di un asino, come un tempo lo fu il Salvatore quando entrò in Gerusalemme. Due magistrati lo incontrarono, lo presero con loro e cercarono di convincerlo: « Che male c’è, gli dicevano a riconoscere la divinità di Cesare o a sacrificare agli dei per salvare la propria vita? » Policarpo li ascoltò dapprima senza rispondere, infine disse loro: « io non farò mai quanto mi chiedete. » A queste parole essi lo caricarono di insulti, e lo spinsero così rudemente fuori dal carroccio che lo portava, che il santo cadde e si ruppe una gamba. Il vegliardo accettò gaiamente questi cattivi trattamenti e si lasciò condurre nell’anfiteatro. Appena vi entrò, intese una voce dal cielo che diceva: « Coraggio Policarpo, tieniti saldo! » Il proconsole tentò allora di far capitolare il santo Vescovo: « Abbi pietà della tua età, gli disse, giura per la fortune di Cesare, rinnega il Cristo, ed io ti rilascerò. » Policarpo rispose: « Sono ottantasei anni che io servo il Cristo ed Egli non mi ha mai fatto del male. Come potrei rinnegare il mio Salvatore e Re? Ascoltate qual è la mia religione: io sono Cristiano; se volete conoscere la dottrina dei Cristiani, datemi un giorno ed io vi istruirò in essa. – Persuadi il popolo! … disse il proconsole. – No, rispose Policarpo. La nostra religione ci insegna a rendere ai potenti l’onore loro dovuto e che non è incompatibile con la legge di Dio; io devo dunque parlare quando voi mi interrogate; ma il popolo non è il mio giudice, ed io non devo giustificarmi ai suoi occhi. – Lo sai, gridò il console infuriato, che io posso ordinare che tu venga esposto alle bestie? – Voi potete farle venire, disse tranquillamente il vegliardo. – Io ti farò consumare dal fuoco, se disprezzi le bestie, rispose il proconsole. – Voi mi minacciate, disse il Santo, con un fuoco che brucia in un’ora e che dopo si spegne, perché voi non conoscete il fuoco del giudizio imminente e del supplizio eterno riservato agli empi. » Allora il popolo gridò: « È il dottore dell’Asia, il padre dei Cristiani, il distruttore dei nostri dei: che si lanci un leone contro Policarpo! » Gli si fece sapere che questo non era possibile, perché i combattimenti delle bestie erano finiti: « Che Policarpo sia bruciato vivo!, gridò allora il popolo ad una voce. E quando il proconsole ne ebbe ordinato l’arresto, il popolo corse in massa a prendere legna nelle case e nei pubblici bagni; si notò tra l’altro che i Giudei erano i più lesti ed accaniti a preparare il supplizio. Quando la catasta di legno fu pronta, Policarpo allentò la sua cintura e si spogliò dei suoi abiti. E quando gli aguzzini si accinsero a legarlo ad un palo in mezzo al falò, disse loro: « Lasciatemi, questa precauzione è inutile; Colui che mi da la forza di soffrire, me ne darà pure per restare fermo in mezzo alle fiamme. » Ci si contentò di legargli le mani dietro il dorso. Allora il santo vegliardo levò gli occhi al cielo e fece questa preghiera: « Signore Dio Onipotente, Dio di tutte le creature, io vi rendo grazia di ciò che mi avete procurato in questo giorno in cui devo essere ammesso nel numero dei martiri. Io prendo parte al calice del vostro Cristo, per resuscitare alla vita eterna dell’anima e del corpo nella incorruttibilità dello Spirito Santo. Che in questo giorno possa io essere ammesso alla vostra presenza come vittima di gradevole odore. Io vi benedico, vi glorifico per il Pontefice eterno Gesù-Cristo, vostro Figlio diletto, al quale sia resa gloria insieme a Voi ed allo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen. » Appena completata la preghiera si dette fuoco alla catasta e si levò una gran fiamma. Allora si compì un miracolo che riempì di consolazione i fedeli: le fiamme si dislocarono intorno alla testa del martire come una vela di nave gonfiata dal vento; il santo, dicono i suoi Actes, somigliava all’oro o all’argento provato nel crogiuolo, ed esalava un odore di incenso o di qualche prezioso profumo. I pagani, vedono che le fiamme rispettavano il corpo del santo vegliardo, comandarono ad uno di quelli che negli anfiteatri davano il colpo di grazia agli animali selvaggi, di finirlo con un colpo di spada. Il “confector”, era questo il nome di questa specie di aguzzino, eseguì l’ordine e trafisse Policarpo. Il sangue che ne uscì in abbondanza spense il fuoco. I Cristiani speravano che potessero ottenere le reliquie del loro Vescovo; ma la malizia dei giudei, levò loro questa consolazione. Costoro fecero una tal guardia intorno al falò, che i Cristiani non poterono prendere nulla, il corpo fu gettato nelle fiamme ed i fedeli non poterono conservare che le ossa del martire. Queste ossa, più preziose di gemme, come dicono gli Atti di San Policarpo, furono deposte con onore in un luogo confacente ove ci si riuniva ogni anno per celebrare il glorioso trionfo del santo. Così morivano i capi della Religione Cristiana. Si comparino questi trapassi alla morte degli imperatori! Ma il demonio, che cerca sempre di sedurre le anime, operava delle parodie. Nel primo secolo egli aveva ispirato quell’Apollonio di Tyana, del quale si è voluto fare un personaggio degno di essere paragonato a Gesù-Cristo; questa indegna parodia non aveva però arrestato il progresso del Cristianesimo. Nel secolo secondo il demonio volle avere anche un suo martire illustre, ed ispirò così il cinico Peregrinus, che era morto su un rogo l’anno precedente. Questo Peregrinus, nato vicino a Lampsaco, in Asia minore, aveva trascorso la sua gioventù nella totale dissipazione. Si rifugiò in giudea, ove si fece Cristiano; poi abbandonò la sua nuova religione per farsi filosofo e venne a Roma da dove si fece cacciare per aver declamato contro l’imperatore Marco Aurelio. Si comparava volentieri ad Epitteto, e si spacciava per martire della filosofia. Infine, vedendo che nessuno più gli prestava attenzione, rese pubblica dichiarazione che ai giochi olimpici si sarebbe gettato nel fuoco, sull’esempio di Ercole, per insegnare ai mortali a non temere la morte. In effetti si fece preparare un’immensa catasta e la notte, all’ora in cui cominciava a spuntare la luna, uscì con una truppa di filosofi cinici, che portavano tutti in mano delle torce illuminate. Là, alla presenza di una folla numerosa di popolo attirata dalla singolarità dello spettacolo, fu dato fuoco alla pila di legna di sarmenti. Peregrinus vi gettò qualche grano di incenso, poi invocò i geni di suo padre e di sua madre, e si lanciò in mezzo alla fiamme ove restò consumato, martire dell’inferno e della vanità. [Rohrbacher, Histoire de l’Église, liv. XXVII]. Lo stesso paganesimo si prese burla di questa stravaganza; i Martiri Cristiani non avevano timore del confronto. La Chiesa possedeva all’epoca un santo, decorato pure con il nome di filosofo, ma che amava veramente la saggezza, e che le rendeva testimonianza con la sua morte, come lo aveva fatto con la sua vita ed i suoi scritti: era San Giustino. Nato a Neapolis, o Napluse, l’antica Sichem della Palestina, aveva fatto solidi studi letterari e filosofici; ma né la dottrina di Pitagora, né quella di Platone soddisfavano la sua intelligenza avida di verità. La lettura della Sante Scritture e l’esame della condotta dei Cristiani lo convertirono. Egli visitò l’Egitto e venne a Roma. Da allora non pensò più che a far brillare a tutti gli occhi, la verità che aveva avuto la felicità di scoprire. Le opere che ha lasciato sono annoverate tra le migliori opere di polemisti Cristiani, soprattutto le due Apologie che egli indirizzò l’una ad Antonino Pio, e l’altra a Marco Aurelio. La prima aveva contribuito a far rallentare la persecuzione; la seconda, irritando i suoi nemici, lo condusse al martirio: « Voi ci accusate, diceva in essa, di commettere in segreto dei crimini orribili. Ma questi abomini che noi detestiamo e che voi ci rimproverate, con la calunnia più ingiusta, non temete di commetterli voi stessi in pubblico. Non potremmo noi forse, forti dei vostri esempi, sostenervi arditamente che queste sono delle azioni virtuose? Non potremmo noi rispondervi che macellando bambini, come voi ci accusate falsamente, noi celebriamo i misteri di Saturno, o che le mani dei più illustri personaggi dell’impero si arrossiscano di sangue umano? Quanto ai nostri pretesi incesti, non potremmo noi dire che seguiamo l’esempio del vostro Giove o degli dei, o che noi mettiamo in pratica la morale di Epicuro, dei vostri filosofi e dei vostri poeti? Adunque, è perché noi insegniamo che bisogna fuggire da tali massime, è perché noi cerchiamo di praticare le virtù opposte a questi vizi mostruosi, che voi ci perseguitate senza sosta e ci mandate a morte ? … Ma qualunque giudizio voi portiate su di noi, la nostra dottrina vale molto meglio di tutti gli scritti degli epicurei, di tante infami poesie, di tante opere impudiche che si rappresentano o si leggono con intera libertà. » San Giustino diceva ancora: « I Cristiani non soffrivano la morte con tanta gioia, se fossero stati capaci dei crimini di cui li si accusa. La loro vita e la loro dottrina offre loro molti vantaggi sui filosofi. Socrate ha certamente avuto discepoli, ma non ne ha trovato nessuno che sia stato martire per la sua dottrina. Io so bene, continuava, che questo scritto mi costerà la vita, e che diventerò la vittima del furore di coloro che portano un odio implacabile alla Religione che difendo. » – San Giustino, non si sbagliava: il vigore di questa apologia finì per irritare i suoi nemici contro di lui: un filosofo cinico, Crescente, con il quale aveva disputato e che aveva vinto, non si diede pace finché Giustino non fu arrestato per “crimine” di Cristianesimo, con alcuni dei suoi discepoli: Caritone, Ierace, Peone, Evelpisto e Liberiano. Rustico, prefetto di Roma, cominciò l’interrogatorio: « Obbedite agli dei e conformatevi agli ordine dell’imperatore. – Non si può, senza ingiustizia, diceva Giustino, accusare o punire coloro che obbediscono ai comandamenti d Gesù-Cristo nostro Salvatore. – Di qual genere di filosofia ti occupi? domandò a Giustino il prefetto. Io ho esaminato ogni tipo di dottrina; infine mi sono fermato a quella dei Cristiani, benché sia calunniata da coloro che non la conoscono. – Cosa! Miserabile, tu parteggi per questa dottrina? – Io me ne faccio una gloria, perché essa mi mette nel cammino della verità. – Quali sono i dogmi della religione cristiana? – Noi altri Cristiani, crediamo in un solo Dio, Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili, e confessiamo Nostro Signore Gesù-Cristo, Figlio di Dio, predetto dai profeti, Fautore e predicatore di salvezza, giudice di tutti gli uomini. » Il prefetto comandò allora dove si tenessero le assemblee dei Cristiani: « I Cristiani, disse Giustino, si adunano dove vogliono e dove possono. Il nostro Dio non è chiuso in un luogo particolare; poiché Egli è invisibile e riempie il cielo e la terra, lo si adora e si glorifica dappertutto. – Io voglio sapere dove riunisci i tuoi discepoli, riprese il giudice! – Io ho abitato fin qui ai bagni di Timoteo, vicino alla casa di un certo Martin; quando sono venuto a Roma per la seconda volta, non ho frequentato altri luoghi, ed ho insegnato la dottrina della verità a coloro che venivano a trovarmi. – Tu dunque sei un Cristiano? – Si, lo sono. » I discepoli di San Giustino fecero la medesima confessione. Il prefetto disse allora a Giustino: « Ascolta, tu che passi per eloquente e che credi di aver trovato la vera dottrina, quando sarai smembrato dai colpi di frusta dal capo fino ai piedi, immagini dunque che potrai salire al cielo? – Io non lo immagino, rispose Giustino, ne sono certo, e non ho alcun dubbio su lassù. Gesù-Cristo ha promesso questa ricompensa a coloro che avranno osservato la sua legge. » Quando il prefetto vide che non ricavava nulla dal disputare con il santo confessore, ordinò a lui ed ai suoi discepoli di andare a sacrificare agli dei. Giustino rispose a nome di tutti: « Noi non desideriamo altro che soffrire per Gesù-Cristo. I tormenti affretteranno la nostra felicità, e ci ispireranno fiducia in questo tribunale davanti al quale dovranno comparire tutti gli uomini per essere giudicati. » I discepoli aggiunsero: « È inutile farci languire per più tempo; noi siamo Cristiani, non sacrificheremo agli idoli. » Allora il giudice pronunciò la sentenza in questi termini: « … Che coloro che hanno rifiutato di sacrificare agli dei e di conformarsi all’editto dell’imperatore, siano frustrati pubblicamente, poi condotti a morte, così come le leggi prescrivono. » Essi furono dunque condotti sul luogo del supplizio, e dopo aver patito la flagellazione, ebbero la testa tagliata. La morte di San Giustino, si converrà, ha tutto un altro carattere che quella di Peregrinus. Un evento miracoloso venne a dare un cero conforto ai Cristiani. Marco Aurelio faceva guerra ai Quadi, popolo insediato nell’attuale Boemia. Egli si vide chiuso tra le montagne, nel 174, ed i Romani, si trovarono nell’impossibilità di sfuggire a nemici ad essi superiori per numero, e inoltre ridotti agli stremi dalla mancanza d’acqua e dal calore soffocante. Nell’armata imperiale c’erano diversi Cristiani, soprattutto nella legione chiamata “Fulminante” che ordinariamente aveva i suoi quartieri a Melitene, in Armenia. I Cristiani si misero in ginocchio ed implorarono Dio per la salvezza dell’armata. Tutto ad un tratto apparvero grosse nubi in cielo, e cadde una pioggia abbondante. I Romani erano così assetati, che essi ricevettero dapprima l’acqua in bocca, la raccolsero dopo nei loro scudi e nei loro elmi, potendo abbeverare i cavalli, dopo avere abbondantemente soddisfatto la loro sete. I nemici vollero approfittare di questo disordine e piombarono su di essi, ma alla pioggia videro mescolarsi fulmini e grandine che si abbatterono sui barbari e risparmiarono i Romani. I Quadi furono completamente disfatti. – La riconoscenza dell’imperatore per un tale beneficio, non durò però a lungo. I sacerdoti dei falsi dei finirono per persuaderlo che egli doveva la vittoria a Giove e a Marte, e la persecuzione ricominciò in capo a tre anni. I martiri si moltiplicarono. I Cristiani di Lione e di Vienne ebbero particolarmente a soffrire. San Ireneo ha raccontato le loro lotte in un’ammirevole lettera indirizzata da lui e dai fedeli di Lione ai loro fratelli d’Asia, da dove veniva il loro Vescovo san Potino, discepolo di san Policarpo, come san Ireneo. Non sapremmo far di meglio che riprodurre i principali passaggi di questa lettera: « L’animosità dei pagani contro di noi era tale, dicevano i Cristiani di Lione e di Vienne, che venivamo cacciati dalle nostre case, dai bagni e dalle piazze pubbliche. La nostra presenza, in qualunque luogo fosse, era sufficiente ad attirare su di noi gli oltraggi della moltitudine. I santi confessori supportarono con la più generosa costanza tutto ciò che si può sopportare da una popolazione insolente: vociferazioni ingiuriose, saccheggi, insulti, sassaiole ed altri eccessi ai quali si abbandona un popolo furioso contro colo che considera suo nemico. Trascinati sulla pubblica piazza ed interrogati dai magistrati, essi confessarono altamente la loro fede e furono gettati in prigione fino all’arrivo del governatore. Dato che colui che fu incaricato di questo affare, fece arrestare i Cristiani più distinti e fermi sostenitori delle due chiese di Vienne e di Lione, il furore della moltitudine, del governatore e dei soldati si accanì particolarmente contro Santo, diacono di Vienne, contro Maturo, neofito pieno di coraggio e di zelo, contro Attalo, originario di Pergamo, uno dei principali difensori della fede, e contro Blandina, giovane schiava, delicata e debole, che trovò nella sua costanza tanta forza per lasciare che i carcerieri incaricati la torturassero a turno dalla mattina fino alla sera. Quando essi le fecero soffrire tutti i generi di supplizi, si dichiararono vinti, non comprendendo come fosse possibile che ella respirasse ancora dopo mille specie di torture, delle quali una sola sarebbe stata capace di toglierle la vita. « Il diacono Santo non si dimostrò meno irremovibile nella fede. A tutte le interrogazioni del governatore circa il suo nome, la sua origine, la sua patria, non volle rispondere che con le parole. “Io sono Cristiano”. Lame di rame si resero incandescenti sul fuoco, e si applicarono sui distretti più sensibili del suo corpo. Il santo martire vide così arrostire la sua carne, ma senza cambiare posizione, perché la fonte della vita, Gesù-Cristo, spandeva su di lui una rugiada celeste che lo rinfrescava e lo fortificava. Qualche giorno dopo, gli aguzzini lo sottomisero ad un nuovo tormento, quando l’infiammazione delle sue prime piaghe le rendeva così dolorose che egli non poteva soffrire il tocco più leggero. Il suo corpo, lacerato dal dolore, lungi dal soccombere a questa nuova prova, riprese la sua solida flessibilità, di modo tale che, per grazie di Gesù-Cristo, le ultime piaghe divennero un rimedio alle prime. Infine si condannarono alle bestie gli eroici confessori: Maturo e Santo, esposti per primi nell’anfiteatro, furono dapprima battuti con verghe; li si fecero poi sedere su uno scanno di ferro incandescente; la loro carne bruciata spandeva un odore insopportabile; ma gli spettatori non erano ancora sazi di chiedere nuovi supplizi, onde infrangere questa pazienza irriducibile. Li si abbandonò ai morsi delle bestie, e fornirono così, per un giorno intero, il crudele divertimento che diverse coppie di gladiatori davano ordinariamente al popolo. Poiché dopo tanti tormenti, essi ancora respiravano, gli aguzzini furono obbligati a sgozzarli nell’anfiteatro. « Attalo era conosciuto dal popolo come un atleta intrepido della fede. Gli spettatori chiedevano a gran voce che lo si introducesse nell’arena. Per soddisfare la loro rabbia cieca, il santo martire vi fu condotto. Gli si fece fare il giro dell’anfiteatro, con una scritta che portava in latino queste parole: “Attalo il Cristiano”. Prima di essere esposto alle bestie fu posto su di una sedia incandescente. Mentre lo si arrostiva, e l’odore de questo olocausto umano si spandesse lontano, egli diceva al popolo, rispondendo alle accuse di omicidio portate contro i Cristiani: « Siete voi che fate arrostire carne umana per mangiarne. Ma noi non mangiamo uomini, e la nostra religione ci vieta ogni crimine. » – « Blandina, ultima di questa eroica società di martiri, entrò in scena con tanta gioia, come ad un festino nunziale. Dopo ver sofferto le fruste, i morsi delle bestie, la sedia infuocata, la si chiuse in una rete, e la si presentò ad un toro, che più volte la lanciò in aria. Ma la Santa presa dalla speranza che le dava la sua fede, si intratteneva con Gesù-Cristo, e non era più sensibile ai tormenti. Infine si sgozzò questa vittima innocente, ed i pagani stessi confessarono che non avevano mai visto una donna soffrire tante orribili torture con un coraggio simile. « Anche il discepolo di san Policarpo, il vecchio san Potino, rese, con la sua morte, testimonianza alla fede. Vecchio di novant’anni, era attualmente malato e lo si dovette trasportare al tribunale. Sembrava che la sua anima non fosse che legata al suo corpo se non per servire al trionfo di Gesù-Cristo. Mentre i soldati lo trasportavano, egli era seguito da una folla di popolo vociante mille ingiurie contro di lui. Ma questi oltraggi non potettero smuovere il santo vegliardo, né impedirgli di confessare vigorosamente la sua fede. « Qual è il Dio dei Cristiani? Gli domandò il governatore. – Voi lo sapreste se ne foste degno, rispose il Vescovo. Subito, senza rispetto per la sua età, fu indegnamente maltrattato dalla popolazione infuriata. Coloro che potevano avvicinarsi a lui lo colpivano con pugni e calci; i più distanti gli lanciavano tutti i proiettili che trovavano sottomano. Essi non ritenevano essere un crimine insultare il santo vecchio, per vendicare sulla sua persona l’onore dei loro dei. Dopo aver sopportato, senza farsi sfuggire un lamento, questo orribile trattamento, Potino fu gettato in prigione e morì in capo a due giorni per le sue ferite. » La persecuzione continuò, nulla di più toccante che il martirio di San Alessandro e san Epipodio, due giovani delle più illustri famiglie di Lione, legati da una stretta amicizia, si esortavano reciprocamente a soffrire coraggiosamente per amore di Gesù-Cristo. Li si separarono, ma non si mostrarono men coraggiosi; non ci fu che la morte che impedì loro di confessare altamente Gesù-Cristo. Ad Autun, un altro giovane manifestò un coraggio simile. Si faceva una processione solenne in onore della dea Cibele: questo giovane, chiamato Sinforiano, non potette impedirsi di testimoniare il più alto disprezzo che gli ispirava questa cerimonia. I pagani lo condussero davanti l tribunale del proconsole Eraclio. « Perché non vuoi onorare Cibele, la madre degli dei? … domandò costui. – Io adoro il vero Dio, rispose Sinforiano. Per quanto riguarda l’idolo dei vostri demoni, se lo permettete, io lo frantumerò a colpi di martello sotto i vostri occhi. – Non ti basta essere sacrilego; tu vuoi pure farti punire come ribelle? » Si batté con le verghe Sinforiano. Qualche giorno dopo, Eraclio tentò di persuaderlo, promettendogli onori e piaceri. Sinforiano rigettò questi propositi con orrore e, prendendo la parola, si mise a descriverne, facendone risaltare la stravaganza e il ridicolo, le corse insensate dei coribanti in onore di Cibele, la soverchieria dei sacerdoti che rendevano oracoli in nome di Apollo, e le caccie superstiziose in onore di Diana. Egli fu condannato ad avere la testa troncata; mentre si conduceva al luogo del supplizio, fuori dalle mura della città, ecco uno spettacolo sublime e toccante: egli ritardò un momento la marcia … si vide sui bastioni una dama venerabile per l’età e le virtù; era la madre di Sinforiano, che era accorsa a vedere un’ultima volta ed incoraggiare il martire: « Sinforiano, figlio mio, gli gridò, coraggio caro figlio mio, ricordati del Dio vivente, mostra la costanza della tua fede. Non si deve temere una morte che conduce sicuramente alla vita. Tu non devi rimpiangere la terra: riguarda in alto, caro figlio mio, e disprezza i tormenti che durano tanto poco; là in alto c’è la ricompensa! Coraggio! Questi tormenti si cambieranno in una eterna felicità. » Degno figlio di tal madre, Sinforiano soffrì generosamente il martirio e fu decapitato. Si raccolsero le sue reliquie, che formarono più tardi uno dei più preziosi tesori di una basilica elevata sul luogo dove lo si era deposto.

I PAPI DELLE CATACOMBE (3) J. Chantrel

I Papi delle Catacombe [III]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

III

I Martiri.

Quando morì l’Apostolo San Giovanni, nello stesso anno del Papa San Clemente, il Vangelo era già stato predicato su tutta la terra, e floride comunità cristiane esistevano nelle principali città dell’Impero. Questa rapida propagazione di una Religione nemica della voluttà e della tirannia, spaventò gli imperatori: Nerone e Domiziano avrebbero voluto distruggerla, ma essi erano dei mostri di crudeltà, e si poteva credere che non fossero stati perseguitati se non perché questi fossero dei tiranni; la persecuzione di Traiano, uno de più grandi imperatori che abbia mai avuto Roma pagana, celebre per la sua giustizia e la sua dolcezza, mostrò ciò che il Cristianesimo poteva attendersi anche da principi migliori. Uno dei primi atti di Traiano infatti, fu quello di bandire il Papa San Clemente; subito dopo rimise in vigore un’antica legge romana che proibiva di riconoscere alcun dio senza l’approvazione del senato. Tutto si fece con la massima regolarità; non si ebbero editti cruenti, ci si contentò di proibire nelle provincie le associazioni e le assemblee notturne. Era una persecuzione di carattere politico, a giudizio dell’imperatore. In effetti, non si accusavano i Cristiani di alcun crimine, non si contestava la loro innocenza, ma essi adoravano un Dio non riconosciuto dalla legge, essi erano in contravvenzione con i regolamenti relativi al culto ufficiale dell’impero, dunque essi meritavano la morte. È curioso vedere come le più belle intelligenze del paganesimo e lo stesso imperatore trattano questa questione. Plinio il Giovane, uno dei migliori scrittori latini e uno dei più bei caratteri dell’antica Roma, era governatore di Bitinia, e un particolare amico di Traiano. Dopo aver interrogato i Cristiani per far loro rispettare la legge, si credette obbligato a scrivere all’imperatore per sapere come comportarsi di fronte a questa gente alla quale non aveva nulla da rimproverare: « Io ho voluto esaminare personalmente, egli dice, la condotta dei Cristiani. Essi hanno l’abitudine di riunirsi in un dato giorno, prima del levarsi del sole, e di cantare insieme degli inni in onore del Cristo, che venerano come un Dio. Essi si obbligano con giuramento ad evitare tutti i crimini, a non commettere frode alcuna, furto, né adulterio e a non mancare mai alla propria parola, a non negare un prestito. Essi poi si ritirano e si riuniscono nuovamente per consumare in comune un pasto ordinario ed innocente. Per la proscrizione che si dirige contro i Cristiani si mettono in pericolo una moltitudine di persone di ogni età, sesso e di ogni condizione, perché questa superstizione contagiosa ha raggiunto non solo le città, ma pure le borgate e le campagne. Si abbandonano i templi degli dei, i sacrifici solenni sono interrotti da molto tempo e nessuno compra più le vittime, io ho esitato non poco per sapere se occorre nei processi di questo genere, ammettere qualche differenza di età o di rango; se i più teneri fanciulli non debbano essere distinti dalle persone adulte; se occorre perdonare ai pentiti, o se è sufficiente non essere più Cristiani a chi lo è stato una volta; infine se ciò che si punisce sia il nome soltanto, senza aggiungere altri reati, o siano altri crimini legati al nome. » Non si potrebbe trovare una testimonianza così magnifica resa alla purezza dei costumi dei primi Cristiani ed alla loro innocenza. La lettera di Plinio prova nel tempo stesso quanto il Cristianesimo sia progredito. Si doveva attendere una risposta imperiale che mettesse i Cristiani fuori causa, perché la loro Religione non aveva ricevuto ancora l’approvazione del senato, Traiano avrebbe proposto senza dubbio a questa assemblea di riconoscere Gesù-Cristo come uno degli dei tollerati nell’impero. Ma si dimentica che i sacerdoti degli dei vedevano deserti i loro templi, che la Religione del Crocifisso è la nemica delle passioni, e che l’errore, tollerante verso tutti gli errori, è sempre intollerante verso la verità. Così Traiano rispose a Plinio: « Non bisogna ricercare i Cristiani, ma se essi sono denunciati e persistono nella loro fede, bisogna punirli. » Su questo Tertulliano scrive: « strano decreto questo che, proibendo di ricercare i Cristiani, riconosce implicitamente la loro innocenza ed ordina comunque di punirli come colpevoli in seguito ad una semplice denunzia! » Tertulliano aveva ragione, ma la passione non ragiona, ed il paganesimo ed il dispotismo imperiale sentivano comunque troppo bene a qual punto la nuova Religione li minacciasse per consentire di tollerarla: essa rendeva gli uomini migliori e faceva diminuire il numero di crimini e, cosa più importante, proscriveva le voluttà e gli eccessi della tirannia!

Terza persecuzione (106)

La persecuzione seguì dunque sotto Traiano con lo stesso furore che sotto Nerone e Domiziano, con degli intervalli di tregua seguiti da nuovi rigori nelle varie provincie, secondo le disposizioni particolari dei governatori romani. È allora che morirono per il nome di Gesù-Cristo, il venerabile vecchio Simeone, parente di Nostro Signore e vescovo di Gerusalemme ed i discepoli degli Apostoli, Onesimo e Timoteo, il Papa Sant’Evaristo, e altri migliaia. Ma tra tutti si distinse l’illustre vescovo di Antiochia, Sant’Ignazio, discepolo di Giovanni Evangelista, che era succeduto a Sant’Avodio, a sua volta successore di San Pietro. Traiano marciava allora contro i Parti. Arrivato ad Antiochia, pensò di riconciliarsi con i propri dei facendo ricercare i Cristiani. Ignazio comparve davanti al potente imperatore che gli dice subito. « Sei tu dunque, cattivo demonio, che osi sfidare i miei ordini e persuadere gli altri a perire miseramente? – “Nessuno, risponde San Ignazio, chiama Teoforo un cattivo demonio” (Ignazio era soprannominato teoforo che in greco significa portatore di Dio) – E chi è Teoforo? – riprese Traiano – Colui che porta Gesù-Cristo nel suo cuore. – Tu credi dunque che non abbiamo anche noi, nei nostri cuori, gli dei che ci danno la vittoria? – È un errore chiamare dei i demoni che voi adorate, riprende Ignazio; non c’è che un solo Dio che ha fatto i cieli e la terra con tutto quanto contengono, ed un solo Gesù-Cristo suo unico Figlio, nel regno del quale io desidero ardentemente essere ammesso. – Tu voi parlare senza dubbio di colui che è stato crocifisso sotto Ponzio Pilato? Dice l’imperatore. – È quello stesso che con la sua morte ha crocifisso il peccato con l’autore del peccato, replicò il santo Vescovo. – Tu porti dunque Gesù Cristo in te? Disse ancora Traiano. – Si, rispose Ignazio, perché è scritto: Io abiterò e riposerò in voi. » Traiano disperando di vincere la costanza del Vescovo troncò la questione dicendo: « Noi ordiniamo che Ignazio, che dice di portare in sé il Crocifisso, venga legato e condotto a Roma per esservi divorato dalle bestie e servire da spettacolo al popolo. » Ascoltando questo ordine, Ignazio esclamò con trasporto di gioia: « Io vi rendo grazie, o Signore, di questo onore che mi fate di portare le stesse catene con cui avete onorato il grande Paolo, nostro Apostolo. » E raccomandando a Dio la sua Chiesa, si incatenò egli stesso consegnandosi ai soldati. Gli imperatori romani non erano abituati a vedere tali “crimini”. Il viaggio di Sant’Ignazio a Roma fu un lungo trionfo ed una missione fruttuosa. – I diversi Cristiani della Siria gli inviavano delegazioni; ma egli li supplicava di non ritardare la consumazione del proprio martirio. Egli temeva che i Cristiani di Roma facessero delle rimostranze in suo favore; scrisse loro questa lettera, monumento magnifico dell’amore con il quale i Cristiani di allora abbracciavano la croce e le torture, e nuova prova del primato riconosciuto alla sede di San Pietro: « Ignazio alla Chiesa favorita di Dio, illuminata dalla luce di Colui che dispone tutto secondo l’amore di Gesù-Cristo, a questa Chiesa, elevata su una sede d’onore al di sopra delle altre Chiese, ove tutto è regolato dalla prudenza, ove tutto è condotto con saggezza, ove regna la carità, ove trionfa la castità … io temo che non abbiate per me una compassione tanto tenera e, opponendovi alla mia morte, non vi opponiate alla mia felicità. Soffrite perché io sia immolato, mentre è drizzato l’altare! Unite soltanto le vostre voci e cantate, durante il sacrificio, degli inni di lode … non lasciatevi andare ad una falsa compassione per me. Lasciate che diventi pasto delle bestie. Che io sia il frumento di Dio; bisogna che io sia macinato dai denti delle bestie affinché diventi un pane degno di essere offerto a Gesù-Cristo. Oh! Accarezzate queste bestie feroci affinché divorandomi interamente divengano la mia tomba. Io sospiro le bestie che mi sono preparate: possano esse distruggermi sul campo! Io le irriterò affinché mi divorino prontamente e che non sia di me come un qualcuno che esse non hanno osato toccare. Se esse non vogliono, io le forzerò … Io vi ho scritto vivente, ma desidero morire. Il mio amore è crocifisso. Io sono insensibile sia al cibo corruttibile, sia ai piaceri di questa vita. Io desidero il pane di Dio, che è la carne di Gesù-Cristo. Io desidero per bevanda il sangue dello stesso Gesù-Cristo, che è la carità incorruttibile. » – Si trova forse nel paganesimo un tale amore di Dio, un tale disprezzo della vita, una tale aspirazione verso l’infinita Bontà e l’infinita Santità? Come aveva, il Cristianesimo, trasformato la natura umana! Qual superiorità non dava allo spirito sulla carne! È questa quella rivoluzione che il paganesimo avvertiva fremendo e di cui tentava di respingere il definitivo avvento, elargendo e moltiplicando i supplizi e le seduzioni! Il santo vescovo di Antiochia non scrisse solo ai fedeli di Roma: egli indirizzò ancora lettere alle Chiese di Efeso, da Magnesia, Tralleis, Smirne e Filadelfia, e a San Policarpo, discepolo come lui di San Giovanni Evangelista e Vescovo di Smirne; tutte queste lettere sono dei monumenti di saggezza, di fede e di carità. Egli si era dapprima fermato per un certo tempo a Smirne; le sue guardie lo condussero poi a Troade, a Neapoli, in Macedonia ed a Filippi. Egli dovette attraversare a piedi tutta la Macedonia e l’Epiro. Si imbarcò ad Epidauro in Dalmazia, passò nei pressi di Regesta, Pozzuoli, e sbarcò nei pressi di Ostia da dove si recò a Roma; i Cristiani accorsero numerosi al suo arrivo. Egli arrivò a Roma il 20 dicembre dell’anno 107: era questo l’ultimo giorno dei giuochi pubblici che allora si celebravano. Il prefetto della città lo fece subito condurre all’anfiteatro. Ignazio ascoltando i ruggiti dei leoni, riprese queste parole dalla sua lettera ai Romani: « Io sono il frumento di Dio, bisogna che sia macinato dai denti delle bestie perché divenga un pane degno di Gesù-Cristo. » Appena le ebbe pronunciate, due leoni furono lanciati su di lui e lo divorarono in un istante, non lasciando del suo corpo se non le ossa più grandi e più dure. Dio lo aveva esaudito. « A questo triste spettacolo, dicono i Cristiani che avevano accompagnato e che hanno raccontato il suo martirio, scoppiammo tutti in lacrime. Passammo la notte seguente in preghiera e nella veglia, scongiurando il Signore che ci consolasse di questa morte, dandoci qualche segno della gloria che la seguiva. Il Signore ci esaudì; essendosi alcuni tra noi addormentati, videro Ignazio in una gloria ineffabile. » Traiano fu meno malvagio di altri persecutori, si impegnò in diverse spedizioni militari che lo coprirono di gloria; ma la mano di Dio alla fine si appesantì su di lui. Egli era in Oriente, e gli si preparava a Roma e in tutta l’Italia un ritorno trionfale. Assediò una città quasi sconosciuta degli arabi agareni o saraceni, ma fu battuto e costretto a ritirarsi. Allora si ammalò; si sospettò che si fosse avvelenato. Appena tornato in Italia, morì a Selinunte, in Sicilia, nell’anno 112, dopo diciannove anni di regno, lasciando suo successore: Adriano, marito di sua nipote. Traiano non ebbe posterità; nel momento della morte poté apprendere che tutte le provincie da lui conquistate si erano rivoltate. Nella sua condotta privata si era distinto per infami dissolutezze che condivise con il suo successore, del quale era tutore. Questo uomo, che i suoi abominevoli costumi avrebbero reso ai nostri tempi oggetto di disprezzo e di disgusto universale, fu tuttavia uno dei “migliori” imperatori romani, vantato come il modello dei principi: ecco ciò che il paganesimo produceva di più perfetto! – Adriano, che regnò dal 117 al 138, si disonorò ancor più del suo predecessore per l’infamia dei costumi; tutte le abominazioni di Sodoma erano familiari a questo imperatore del secondo secolo dell’era cristiana, che gli storici considerano tuttavia il secolo d’oro dell’impero. La persecuzione continuò sotto Adriano come era stato sotto Traiano. Due Papi, sant’Alessandro e san Sisto I ne furono le vittime. Si annovera tra esse pure Dionigi l’Aeropagita, che si era convertito alla predicazione di San Paolo; egli divenne il primo Vescovo di Atene, e fu molto probabilmente il primo Vescovo di Parigi: così almeno ce lo riportano le più antiche tradizioni ed i martirologi di Roma e dei Greci, autorità che valgono bene quella dei critici che hanno voluto fare due Dionigi del discepolo di San Paolo. Non c’era forse un disegno provvidenziale nella missione data all’Aeropagita, di venire il Gallia per morirvi su questa collina di Montmartre (mons martyris = mote dei martiri) che domina la “moderna Atene” e la nuova capitale intellettuale del mondo moderno, come Atene lo era del mondo romano? Ma il martirio più celebri di questi tempi fu quello di santa Simforosa e dei suoi figli: Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Stratteo ed Eugenio. Adriano aveva fatto costruire una magnifica casa di campagna a Tibur (Oggi Tivoli). Venne a sapere che colà viveva una vedova di un cristiano martire, chiamata Simforosa, che non si occupava che di pregare ed allevare piamente i suoi figli. Egli volle vederla, tanto più che i suoi sacerdoti pretendevano che gli dei si sarebbero irritati contro di lui se Simforosa ed i suoi figli continuassero ad invocare il nome di Gesù-Cristo. Adriano impiegò dapprima la dolcezza e la persuasione. Simforosa rispose a nome di tutti: « Getullio, mio marito, e mio fratello Amanzio, entrambi tribuni nelle vostre armate, hanno sofferto tormenti diversi per il nome di Gesù-Cristo, piuttosto che sacrificare agli idoli. Noi vogliamo imitarli! » – Adriano, irritato da questa risposta, prese allora un tono severo: « Se tu non sacrifichi con i tuoi figli, egli disse a Simforosa, voi sarete tutti offerti in sacrificio ai nostri dei potenti. – I vostri dei non possono ricevermi in sacrificio, replicò la santa vedova; ma se io sono bruciata per il nome di Gesù-Cristo, la mia morte aumenterà i tormenti che i vostri demoni soffrono nelle loro fiamme. – Sacrificate ai miei dei, o perirete tutti miseramente, esclamò l’imperatore. – Non crediate che la paura possa farmi cambiare idea, rispose dolcemente Sinforosa, io desidero essere riunita nel luogo di riposo con mio marito morto per il nome di Gesù-Cristo. » Non si poté cavare null’altro da questa coraggiosa cristiana. La si condusse al tempio di Ercole ove ebbe il viso tempestato da pugni. Venne sospesa poi sui cavalletti e, poiché si mostrava irriducibile, la si gettò nel fiume con una grossa pietra al collo. L’indomani Adriano fece venire i sette figli della santa. Dopo aver inutilmente utilizzato carezze e minacce per farli apostatare, fece piantare intorno al tempio di Ercole sette pali sui quali li stese con delle pulegge serrate con tale violenza che le loro ossa furono slogate. Ma lungi dal cedere alla crudeltà degli aguzzini, essi si animarono gli uni con gli altri. L’imperatore, furioso per una tale resistenza, comandò che venissero messi a morte nel posto stesso ov’erano: Crescente fu trafitto con un colpo di spada alla gola; Giuliano ebbe il petto trafitto da diverse punte di ferro ivi spinte; Nemesio ebbe il cuore trafitto da una lancia, Primitivo fu colpito allo stomaco; si ruppero le reni a Giustino e si aprì il costato a Stratteo, ed Eugenio, che era il più giovane, fu squarciato dall’alto in basso. Adriano fece scavare una fossa profonda ove vennero gettati i corpi dei martiri. I sacerdoti pagani chiamarono questo luogo i sette Biothanates, cioè i sette suppliziati. Tali erano i divertimenti del clementissimo e dolcissimo Adriano che, salendo al trono, aveva proclamato che avrebbe dimenticato tutte le sue antiche ingiurie e che si era fermato un giorno alle grida di una donna che domandava giustizia all’imperatore e dicendogli di cessare di regnare se non voleva rendere giustizia a questi soggetti. Ma a parte qualche tratto di virtù puramene umana, a parte alcuni reali miglioramenti portati all’amministrazione dell’impero, quanta crudeltà! Quante bassezze ed infamie che disonorerebbero per sempre un principe cristiano! Adriano amava l’arte e per gelosia faceva perire gli artisti la cui gloria lo offuscava; egli amava la giustizia e faceva morire i Cristiani innocenti. Quando si avvicinò alla morte, accelerò le sue vergognose scelleratezze, si mostrò più crudele e più fanatico che mai: fece perire suo cognato Serviano e il pronipote Fusco; fece morire di dolore o di veleno sua moglie Sabina, della quale fece poi una dea; fece morire suo figlio adottivo Vero, perché questi persecutori non avevano figli, e ne fece parimenti un dio. Nulla di tutto questo calmava le sue sofferenza, egli desiderava morire e non poteva; chiedeva del veleno o una spada, e nessuno gliene dava; si lamentava di non poter morire, egli che poteva ancora far morire gli altri. Infine mangiò e bevve delle cose che non convenivano al suo stato, e morì così come un animale al quale non interessa né il passato né l’avvenire; il senato fece un “dio” di questo dissoluto che aveva temuto e disprezzato quando era in vita. Tuttavia la persecuzione si era rallentata verso la fine del suo regno: le delegazioni di governatori delle provincie e gli eloquenti apologisti dei Cristiani, avevano finito per ispirare ad Adriano migliori sentimenti riguardo alla religione di Gesù-Cristo; si dice anche che pensò di inserire Gesù nel numero dei suoi dei, e che permise ai Cristiani di erigere dei templi. Ma la persecuzione, benché meno viva, faceva sempre delle vittime, sia in una provincia che in un’altra, ed il regno di Antonino Pio, successore di Adriano, non fu che un periodo di tranquillità relativa: ma non era la pace! Antonino, il più dolce degli imperatori romani, regnò dal 138 al 161; si ebbero a lodare in lui molte eccellenti qualità; ma in fondo era di carattere debole e senza energia, voleva il bene solo per essere tranquillo, e sognava soprattutto di vivere la vita gioiosamente, senza ricusare i piaceri più divertenti. In questa epoca viveva anche qualche pagano di vita più stimabile, come lo storico Plutarco ed il filosofo Epitteto. Leggendo il primo, si ama il suo carattere, ma la sua morale è ancora molto lontana da quella evangelica! Il secondo, nato schiavo, fu veramente un modello di fermezza e di pazienza: avendogli un giorno il suo maestro fratturato una gamba battendolo, egli si contentò di dirgli: « Ve lo avevo detto che me la fratturavate. » La raccolta di sentenze di Epitteto forma un bel codice morale; ma in questo codice, se si avverte la fermezza dello stoico, non si sente la tenera carità del Vangelo che egli forse già conosceva all’epoca, e le virtù che ispira non hanno quel profumo di dolcezza e di umiltà che esala da tutte le virtù cristiane. Sembra che il demonio abbia tentato di sedurre le anime più generose con l’attrazione di queste virtù naturali che egli era ben sicuro di abbattere facilmente, qualora fossero riuscite a dissuadere gli uomini dall’abbracciare il Cristianesimo. Vedendo che non poteva sedurre tutti con le attrattive grossolane della voluttà, egli tentava almeno di arrestare i pagani più virtuosi a metà del cammino lungo la strada che conduceva al Cristianesimo. Alcuni autori, ammirando la purezza e l’elevazione della morale di Epitteto, hanno pensato che fosse cristiano, e che avesse conversato in gioventù con san Paolo, poiché faceva parte della casa di Nerone quando san Paolo venne a Roma. È possibile che in effetti Epitteto abbia visto san Paolo; non si può dubitare che egli abbia conosciuto la morale del Vangelo, e che non abbia studiato una religione che faceva tanto scalpore in quei tempi; ma degli indici troppo evidenti di paganesimo, che affastellano il suo libro, non permettono di credere che egli abbia realmente aderito al Cristianesimo. Ad ogni modo e malgrado le belle massime dei filosofi, malgrado la dolcezza di Antonino Pio, la Chiesa ebbe a soffrire durante questo regno e l’imperatore stesso ebbe a prendere parte alla persecuzione. – C’era a Roma una vedova, degna emula di Simforosa, assai distinta per la sua virtù e per la nascita. Ella allevava sette figli nel timore del Signore e nella pratica di ogni virtù. I sacerdoti pagani, furiosi per i progressi di una religione che rendeva deserti i propri templi, e per l’influenza che questa vedova, di nome Felicita, esercitava intorno ad essa, chiesero all’imperatore di farla morire o di costringerla a sacrificare agli dei con i suoi figli. Antonino, che era superstizioso, non avrebbe del resto osato resistere ai sacerdoti dei suoi dei, ma non voleva turbare per questo il suo riposo; incaricò allora di quest’affare Publio, prefetto della città. – Publio fece dunque venire davanti al suo tribunale Felicita con i suoi figli. Egli la prese da parte e cercò di invogliarla all’apostasia, mettendola al corrente degli ordini dell’imperatore, raccomandandole l’esempio che ella doveva dare alla città, e la salvezza dei suoi figli che dipendeva dalla risoluzione che avrebbe preso. « Voi non mi conoscete, rispose tranquillamente Felicita, se credete di spaventarmi con le vostre minacce o sedurmi con le belle parole. Io spero che Dio mi sosterrà nel combattimento che si avvicina. – Maledizione! Esclamò Publio, se la morte ha per te tanto fascino, non impedire almeno ai tuoi figli di vivere! – I miei figli vivranno, riprese la santa vedova, se rifiutano di sacrificare agli idoli; ma se soccombono, essi dovranno attendersi dei supplizi eterni. » Il giorno seguente Publio tenne una seduta solenne davanti al tempio di Marte, e fece nuovamente condurre al suo tribunale la nobile donna ed i suoi figli; poi rivolgendosi alla madre: « Abbi pietà di questi figli nel fiore dell’età, e che possono aspirare alle più alte dignità dell’impero. – Questa pietà, rispose la santa, sarebbe un’empietà, e la compassione che voi mi prospettate è una vera crudeltà. » Allora, volgendosi verso i suoi figli: « ragazzi miei, ella disse, guardate in alto, guardate il cielo: è la che Gesù-Cristo vi attende con i suoi santi; persistete nel suo amore e combattete generosamente per le vostre anime. » Preso da furore per l’affronto, Publio disse: « Tu osi in mia presenza disprezzare gli ordini dell’imperatore? » Egli si decise allora a fare un nuovo tentativo per impaurire i giovani, affrontandoli l’uno dopo l’altro; ma si vide rinnovare la sublime scena dell’interrogatorio di Antioco ai Maccabei. Il primogenito dei sette, chiamato Gennaro, rispose: « Ciò che voi mi consigliate di fare è contrario alla ragione; io aspetto dalla bontà del Signore Gesù che Egli mi preservi da una tale empietà. » Gennaro fu battuto con la verga e messo in carcere. Il secondo fratello, Felice, fu poi portato davanti al prefetto. « Non c’è che un solo Dio, esclamò, è a Lui solo che dobbiamo sacrifici: tutti gli artifici e le finezze della crudeltà saranno vani, noi non abbandoneremo la nostra fede. » Felice venne trattato come il fratello. Venne poi il terzo, di nome Filippo: « Il nostro signore, l’imperatore Antonino, gli disse Publio, ti ordina di sacrificare agli dei onnipotenti. – Coloro ai quali tu vuoi che io sacrifichi, rispose Filippo, non sono né dei, né onnipotenti; essi sono dei vani simulacri privi di sentimenti, chiunque sacrifico fatto a loro, precipita in una infelicità eterna. » A Filippo successe Silvano, il quarto dei fratelli: « A quanto vedo, gli disse Publio, voi avete cospirato con la più malvagia delle madri per sfidare l’ordine del principe ed andare incontro alla vostra perdita? – Se noi temeremo, rispose Silvano, questa perdita passeggera, noi cadremo in una disgrazia eterna. Ma voi non conoscete quale ricompensa è riservata ai giusti e qual supplizio attende i peccatori; ecco perché noi disprezziamo senza paura la legge dell’uomo per obbedire a quella di Dio. Coloro che disprezzano gli idoli e servono Dio onnipotente, troveranno la vita eterna; coloro che adorano i demoni cadranno con essi in un eterno incendio. » Alessandro rimpiazzò Silvano: « Abbi pietà della tua giovane età, gli disse il prefetto, salva una vita che è ancora nel corso dell’infanzia, sacrifica agli dei e diverrai amico dell’imperatore. – Ma io, esclamò Alessandro, sono servo di Gesù-Cristo; i vostri dei saranno precipitati in un supplizio eterno con i loro adoratori. » Vitale, il sesto dei fratelli, si mostrò altrettanto intrepido. Infine venne Marziale, il più giovane, dolce piccolo agnello che il prefetto sperava di far piegare:« Sii più saggio dei tuoi fratelli, gli disse; essi si attirano la sventura disprezzando le leggi dell’imperatore. – Ah! gridò il bambino, se voi sapeste quali tormenti sono riservati a coloro che servono i demoni! Dio tarda ancora a far vendetta su di voi e sui vostri idoli; ma infine tutti coloro che non confessano che Gesù-Cristo è il vero Dio, saranno gettati nel fuoco eterno. » Tutti questi gloriosi martiri furono tormentati cl fuoco dopo essere stati crudelmente frustati. Publio ne fece un rapporto ad Antonino che rinviò i sette fratelli a diversi giudici, per farli morire con diversi generi di supplizi. Gennaro fu battuto fino a morirne con fruste guarnite con sfere di piombo. Felice e Filippo caddero sotto i violenti colpi di bastoni scaricati su i essi. Silvano fu gettato a testa in giù da un precipizio; Alessandro, Vitale e Marziale, furono decapitati. Felicita aveva assistito a questi supplizi: aveva nuovamente generato i suoi figli alla vita eterna sostenendoli con le sue esortazioni e le sue preghiere. Il suo martirio si prolungò ancora quattro mesi; ella fu allora decapitata ed andò così a raggiungere in cielo i suoi generosi figli. Questo accadeva nell’anno 150 dell’era cristiana. – Il pio Antonino morì per un eccesso alimentare senza lasciare posterità; ma egli aveva adottato Marco Aurelio, che gli successe e che regnò dal 161 al 180. Durante il regno di Antonino erano morti martiri tre Papi: San, Igino, San Telesforo e san Pio I.

I PAPI DELLE CATACOMBE (2) J. Chantrel

I Papi delle Catacombe [2]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

II.

Le Catacombe.

Prima di assistere a queste lotte e a questi trionfi, bisogna penetrare un momento in queste dimore sotterranee ove i primi Cristiani di Roma pregavano Dio e traevano la forza per combattere fino alla morte; ove i loro fratelli raccoglievano piamente i loro resti mutilati, divenuti il Tesoro più prezioso della città dei Cesari, miniere inesauribili da cui la Cristianità intera trae ogni giorno i ricchi gioielli dei suoi templi, vaste cave le cui pietre sono le ossa dei martiri, di cui gli echi rievocano i combattimenti più gloriosi che si siano mai svolti sulla terra. Tali sono le catacombe di Roma, dei veri palazzi di martiri, ove questi eroi della fede pregarono durante la loro vita e riposarono dopo la loro morte. Ci si figuri allora un labirinto di gallerie sotterranee, di piccoli corridoi oscuri, alcuni dritti, altri tortuosi che si tagliano e si intrecciano, per così dire, gli uni con gli altri, vari aperti e praticabili, ma un gran numero così stretti da non poter passare, o perché ricolmati da frane; altri lasciano scorgere a destra e a sinistra degli anfratti inaccessibili, ove il visitatore non ha coraggio di avventurarsi; ci si figuri questo labirinto, queste gallerie, questi corridoi, con migliaia e migliaia di sepolture, come un grande ossario, vero palazzo della morte, e si avrà una idea generale delle catacombe. – Nelle pareti dei corridoi sono state praticate, per deporvi i cadaveri, delle specie di nicchie oblunghe, poste orizzontalmente le une sulle altre, come i raggi di una biblioteca ove la morte avrà deposto le sue opere. [Mgr Gerbet, Esquisse de Rome chrétienne. — Tullio Dandolo, Roma ed i Papi] Quando un corpo era stato deposto nella nicchia, se ne chiudeva l’apertura con delle pietre e della calce; i becchini poi chiudevano abitualmente l’accesso di un corridoio quando ne aprivano un altro; è così che intere gallerie furono intasate, altre non lo furono che più tardi, quando se ne asportarono le sacre reliquie. Il visitatore che accompagna nel loro lavoro gli esploratori delle catacombe, non può non provare un sentimento di venerazione passando su quel suolo che i martiri hanno calpestato, penetrando in queste grotte nuovamente aperte, ove nessun piede umano era penetrato dal tempo in cui i Cristiani erano stati li per seppellire qualcuno dei loro fratelli caduti sotto i colpi di Diocleziano. Là si contemplano tutte le devastazioni che la morte abbia potuto operare in diciassette secoli, ma queste devastazioni non inspirano spavento, perché si è certi che un giorno questi resti di ossa, questa polvere umana brillerà in tutto lo splendore di una gloriosa resurrezione. I Cristiani dei tempi apostolici erano già ricorsi alle vaste cripte del Vaticano e dei giardini di Lucino, sulla strada di Ostia, per nascondervi i preziosi resti di San Pietro e di San Paolo. Ma ben presto fu necessario ricorrere a spazi più vasti per i morti e, soprattutto, per i vivi; li si trovarono nelle Arenaria o cave di sabbia di Roma. Queste cave erano le antiche carriere dalle quali veniva estratta la pozzolana, roccia sabbiosa che Roma aveva adoperato come cemento dei suoi edifici. Lo spazio non mancava ma, essendo queste arene ancora impiegate, esse non davano molta sicurezza ai Cristiani. È allora che questi scavarono dei pozzi e si misero ad aprire segretamente, anche sotto le stesse arene, nuovi più sicuri rifugi. La natura del terreno si prestava perfettamente a questo lavoro. Gallerie che permettevano a mala pena il passaggio di una persona, furono aperte in tutte le direzioni, e questo lavoro, continuato per quasi due secoli, rese le catacombe un labirinto che ai nostri giorni si esplora con più cura che mai. I lavoratori osservavano comunque una strabiliante regolarità nei loro lavori: quattro o cinque vie principali incrociate a forma di croce greca formano il piano generale di questa città sotterranea; e su queste quattro o cinque grandi linee, si incrociano e si collegano, l’una all’altra, dalle cinquanta alle sessanta vie secondarie che comunicano tutte insieme, e che occupano la superficie di diverse miglia. La parte più considerevole delle catacombe si trova fuori dalle mura, sulla riva sinistra del Tevere, e si estende fino ai piedi delle colline di Albano e di Tivoli; era come una grande linea di circonvallazione sotterranea, in mezzo alla quale il Cristianesimo teneva in assedio la capitale dell’idolatria [Dandolo]; era nel contempo il cimitero ed il campo zeppo di guerrieri pronti a rovesciare la fortezza del paganesimo. Così, la tomba di San Pietro fronteggiava il circo di Nerone; il cimitero di San Pancrazio minacciava il campo dei Marzi; la cripta di San Paolo corrispondeva alla colonna di Cestius; la tomba di Santa Priscilla al tempio dell’Onore; le grandi catacombe si dirigevano verso il palazzo degli imperatori e verso il Campidoglio: gli assedianti e gli assediati erano in lotta continua: quanto più gli assediati facevano irruzione nelle catacombe per devastarle, tanto più gli assedianti si lanciavano sulle piazze pubbliche di Roma per morirvi, cioè per guadagnare le vittorie, perché più il numero dei martiri aumentava, più il paganesimo si sentiva distruggere. Ed è infatti dopo la più violenta delle persecuzioni, che esso cadde spirando, nel momento in cui si credeva aver distrutto la Religione di Gesù-Cristo. Due grandi linee di catacombe partono dal Vaticano e girano intorno alla città per riunirsi sotto la via Appia. Su questa via, la più magnifica dell’impero, si ergeva il mausoleo di Metello, di Marcello, degli Scipioni, gli uomini più grandi della repubblica romana; è li infatti che il Cristianesimo stabilisce come il quartiere generale delle sue tombe con il cimitero di San Callisto. Questo cimitero ha ricevuto il nome dal Papa che lo ha sensibilmente ingrandito all’inizio del III secolo. Si pensa che questo cimitero sotterraneo non abbia ricevuto meno di settantaquattromila corpi di martiri. Vi si contano trecento corridoi esplorati, ai quali corrispondono e si collegano altri innumerevoli corridoi non ancora scavati e che saranno per lungo tempo inaccessibili. Si trattava veramente di un Vaticano sotterraneo; là regnavano i Papi, là si preparava, a forza di santità, di virtù e di coraggio, il trionfo pubblico della loro sovranità spirituale. – La situazione del cimitero di San Callisto [questo cimitero si chiama anche: catacomba di San Sebastiano], presso la via Appia, permetteva ai fedeli che lo frequentavano di sfuggire più facilmente alle ricerche delle spie. Essi facevano ogni loro sforzo per impedire la scoperta del luogo in cui si rifugiavano i Sovrani Pontefici: delle sentinelle vegliavano all’intorno, vestiti con abiti da mendicanti, muniti di una parola d’ordine per riconoscersi tra di loro e per riconoscere i fratelli; era ad essi che bisognava rivolgersi per essere condotti davanti al Papa. Così quando santa Cecilia inviò il neofita Valeriano, suo sposo, al Papa Urbano che era nascosto nelle catacombe, gli disse: « quando sarete giunto all’ottava pietra miliare, vi troverete qualche mendicante; essi mi conoscono; avvicinateli con affabilità e dite loro che è Cecilia che vi manda per essere condotto dal santo vegliardo Urbano, per il quale vi è stato affidato un messaggio. » Santa Cecilia fu più tardi seppellita in questa stessa catacomba. Si vede tuttora la camera che si considera essere stata abitata dai Papi. Nella chiesa situata all’entrata della catacomba, si legge questa iscrizione: « È qui il cimitero del celebre Papa Callisto, martire. Chiunque lo visiterà con contrizione e dopo essersi confessato, otterrà la remissione totale dei suoi peccati, per i gloriosi meriti di centosettantaquattromila Santi Martiri che sono stati sepolti là: quarantasei Vescovi illustri, passati tutti attraverso grandi tribolazioni, e che per diventare eredi del regno del Signore, hanno sofferto il supplizio e la morte per il Nome di Gesù-Cristo. » Qualche autore presume che quarantasei Papi siano stati sotterrati in questa catacomba; si può essere certi per San Antero, San Fabiano, San Lucio, Santo Stefano, San Sisto II, San Dionisio, San Eutichiano, San Caio, San Marcello, San Eusebio e San Melchiade, tutti morti martiri, e di San Silvestro, che morì sotto il regno di Costantino. Gli altri Papi dei tre primi secoli, furono sotterrati nelle catacombe del Vaticano, della via Appia e della via Aurelia. Sono tutti i Papi delle catacombe, perché è là che essi vivevano, là che le loro ossa sacre furono deposte. Tutti i corpi deposti nelle catacombe non erano tutti corpi di martiri: i Cristiani desideravano infatti essere sotterrati vicino alle tombe di coloro che avevano dato la loro vita per Gesù-Cristo, ed è così che le catacombe si riempivano. Ma è facile distinguere le loro, dalle altre le tombe che racchiudono le reliquie dei martiri. Spesso lo indica un’iscrizione, che dà nel tempo stesso il nome del glorioso confessore della fede; sempre una fiala contenente sangue coagulato o disseccato testimonia che il defunto ha conquistato la corona celeste con l’effusione del suo sangue. I Cristiani raccoglievano con la maggior cura possibile il sangue dei martiri, malgrado i pericoli ai quali si esponevano facendolo; a volte lo raccoglievano con una spugna o un pezzo di tessuto, ed è per questo che delle fiale contengono delle spugne o dei pezzi di tessuti imbevuti di sangue. Anche la congregazione delle indulgenze e delle reliquie ha dichiarato nel 1668, che le fiale piene di sangue, accompagnate da un ramo di palma, simbolo del trionfo, devono essere considerate come un segno certo della presenza delle reliquie di un martire. – Gli scavi praticati nelle catacombe hanno portato alla luce preziose testimonianze dell’arte cristiana, del simbolismo, della dottrina e della disciplina di questa prima era della Chiesa; esse sono le prove che ogni giorno confermano la tradizione che dimostra come la Chiesa Romana abbia conservato la fede nella sua integrità ed in tutta la sua purezza. Il monogramma del Nome di Gesù-Cristo con una croce che Costantino incise sul labarum, nuovo stendardo dell’impero romano, e che aveva preceduto questo principe; lo si ritrova sulle tombe di San Mario e San Alessandro, di San Lorenzo, di San Caio Papa, e di molti altri. Gesù-Cristo stesso veniva rappresentato sotto la figura di un agnello con una croce o senza croce sulla testa, o più spesso ancora sotto quella di un pastore che porta l’agnello smarrito sulle spalle. La colomba, semplice e dolce, il cervo, che sospira presso le fontane d’acqua viva, i pesci, l’ancora, i candelabri, l’ulivo, la palma, la vite, il pavone il cui ricco piumaggio rimanda alla gloriosa trasfigurazione degli eletti, una moltitudine di altre immagini prese dall’Antico e dal Nuovo Testamento, erano tanti simboli compresi da tutti e che ricordavano ai Cristiani tutta la sequenza della religione. – Quanto alle iscrizioni poste sulle tombe, esso sono molto semplici. Il nome, l’età, il giorno ed il genere di morte, era il più spesso tutto, a cui si aggiungeva qualche parola di elogio o di speranza, più toccanti nella loro semplicità che tutti gli epitaffi più ambiziosi: « Perpetuus, che ha ben meritato Cristo, il suo Dio, vissuto 25 anni; Leonzia sua madre, l’ha posto in questo luogo, nella pace. – Giulia in pace, in mezzo ai Santi. – Qui dorme Proto nello Spirito-Santo. – Pietro, che visse XC anni in Gesù-Cristo, deposto qui in pace sotto il consolato di Filippo. – Laurinio, più dolce del miele, riposa in pace. » Gli epitaffi dei Martiri non erano più lunghi: « Primitius, che visse XXXIII anni, dopo aver, martire irriducibile, sofferto diverse prove, riposa in pace. – Tu sei caduta troppo presto, Constantia, mirabile per bellezza e grazia, sii in pace! – I Martiri Simplicio e Faustino, la cui passione si è conclusa nelle acque del Tevere, sono stati deposti in questo cimitero. – Io, Seconda, ho eretto questa cappella in memoria di mia figlia Secondina, che lasciò questo mondo per la fede con suo fratello Laurentinus; essi partirono in pace. » La Chiesa intera era nelle catacombe. Si ritrovano in queste dimore sotterranee tutto quanto ne costituiva la disciplina ed il culto: i cubicula contenevano circa una dozzina di cori; essi erano arcuati nella parte superiore, a volte quadrate, a volte ovali, sia ottagonali che esagonali, presentanti internamente tre arcate: una di faccia all’entrata, le altre due a destra e a sinistra. Il nome di cripta si applicava più particolarmente a delle piccole cappelle, più grandi dei cubicula, e costruite sullo stesso piano; la nicchia circolare del fondo, che serviva da altare, si elevava un poco sopra il suolo, e a destra e a sinistra vi si trovavano spesso due sedie per i diaconi. I battisteri erano dei grandi bacini, o fontane naturali nelle quali si immergevano i neofiti per battezzarli. Quante allora, chiese o luoghi di riunione generale, avevano una forme allungata e non potevano contenere che un centinaio di Cristiani per volta: le si riconoscevano per le loro sedie, dall’altezza della volta, dai tavoli tagliati nelle pareti e che portavano delle lampade, infine da un debole lucernario aperto a piombo sopra la porta, per dare passaggio all’aria esterna. – Ma bisogna ora staccarsi da questi sotterranei così pieni di tanti gloriosi ricordi, e raccontare i combattimenti degli eroi che dormono in pace in questa immensa città della morte. Coloro che volessero conoscere nei dettali la Roma dei martiri e dei Santi, non avrano che da leggere l’ “Esquisse de Rome Chrétienne” del monsignor Gerbert; vi troveranno ampia materia per nutrire la loro pietà e la loro curiosità in questo bel libro; noi ci compiacciamo maggiormente di segnalarlo qui avendoci consolato dalla lettura di tristi opere pubblicate in questi ultimi tempi per sminuire la Chiesa ed il Papato, lettura che bisogna ben intraprendere per rispondere agli attacchi di cui è  oggetto la Madre nostra, ed agli oltraggi da cui è attaccato il Vicario di Cristo. [Consultare anche Raoul-Rochette, Tableau des Catacombes; Mgr Gaume, les Trois Rome: Bosio, Roma sotterranea, etc.].

I PAPI DELLE CATACOMBE (1) J. Chantrel

I PAPI

DELLE CATACOMBE

(II E III  SECOLO) di

J. CHANTREL. 2a edizione.

PARIGI

DILLET, LIBRAIO, Éditore del Messager de la Semaine,

15 RUE DE SÈVRES, 15 – 1862

PREFAZIONE.

La storia della Chiesa presenta un fenomeno unico negli annali dell’umanità: il trionfo di una dottrina che presenta dei misteri incomprensibili alla ragione, che impone dei doveri in contrasto con la natura nonché delle pratiche fastidiose e penose. Questo trionfo è stato ottenuto per vie del tutto contrarie a ciò che consiglierebbe la prudenza umana; nessuna adulazione, nessuna concessione, nessun compromesso; esso è stato ottenuto malgradi gli ostacoli più formidabili: una persecuzione sanguinosa per più di tre secoli, un lavoro incessante di dissoluzione operato da false dottrine e dalle più stravaganti immaginazioni. Tuttavia, nonostante questi ostacoli, nonostante questi errori, nonostante questi roghi e tutti gli strumenti di tortura, la dottrina di cui parliamo non ha cessato di accrescersi e diffondersi; il sangue dei suoi martiri si è trasformato in una semenza feconda, e la vittoria alfine è stata completa: la croce sulla quale era stato sospeso un Giudeo sconosciuto e disprezzato, è divenuta il simbolo d’onore più invidiato, gli imperatori romani hanno adorato questo Giudeo che un governatore inviato da essi, aveva giudicato e lasciato crocifiggere a Gerusalemme. Ecco un fatto che non si presenta due volte nella storia: inspiegabile alla ragione, contrario a tutte le leggi naturali, è prova nel modo più perentorio della divinità del Cristianesimo. È questa meravigliosa lotta di quasi tre secoli contro la ricchezza, la potenza, l’errore e la tirannia congiurata che noi vogliamo qui descrivere; perché è sugli intrepidi capi che condussero i Cristiani alla vittoria immolando se stessi, che noi vogliamo attirare specialmente l’attenzione dei nostri lettori. Ma come raccontare tanti fatti in sì poche pagine? Come rendere a questi eroi del Cristianesimo gli onori che sono loro dovuti, quando si dispone di uno spazio ristretto? Noi saremo obbligati a lasciare da parte tanti dettagli, e non potremo dare tutti i nomi dei gloriosi atleti che hanno combattuto per Gesù-Cristo. È con vero dolore che ci rassegnamo a riassumere una storia così interessante e magnifica. Il primo secolo è l’età divina del Cristianesimo; il secondo secolo ed il terzo ne sono l’età eroica: qui c’è una miniera inesauribile di fatti attraenti, di sublimi epopee, di riflessioni veramente filosofiche. Ancora una volta bisognerà limitarsi. Del resto, i nostri rimpianti saranno un po’ diminuiti dalle considerazioni che, avendo intrapreso noi principalmente lo scopo di vendicare il Papato dalle calunnie e dalle ingiurie con cui lo si attacca, non avremo ancora qui occasione di occuparci di tali calunnie e di queste ingiurie; anche se ci sono già delle difficoltà sulle quali dobbiamo arrestarci, né l’empietà, né l’eresia hanno osato per  il momento attaccare direttamente questi venerabili vegliardi, che non usciranno affatto dalle catacombe di Roma se non per andare al supplizio; l’empietà non ha osato oltraggiare la memoria di questi Pontefici la cui dignità non era che un titolo al martirio, e che non successero a Gesù-Cristo, se non per salire con Lui sul Calvario. – Ma la vita e la morte di questi Pontefici spiegherà l’incredibile fenomeno della potenza morale dei loro successori, come la vita e la morte dei Santi dei primi secoli fanno comprendere la vitalità di cui è dotata la Chiesa di Gesù-Cristo. Ecco dunque in pratica un edificio che non è costruito sulla sabbia: esso è posto sulla roccia dalla stessa mano di Dio, e su tali solidi fondamenti si appoggia! Per tre secoli le ossa dei martiri si accumulano; ed è appunto su tre secoli di santità, di eroismo e di trionfi che si elevano le muraglie della nuova Gerusalemme, e ciascuno dei secoli seguenti vi aggiunge delle nuove pietre non meno belle, non meno ben tagliate e lucidate di quelle poste a fondamenta: e chi potrebbe rovesciarle? Ecco la Chiesa Cattolica con i suoi Pastori supremi, i suoi Vescovi, i suoi Preti, le sue Vergini, i suoi Martiri, i suoi Santi; eccoli tali come li ha fatti Dio, tali come i secoli li hanno visti e li vedranno fino alla fine del mondo, degni sempre di sentir cantare in suo onore questo inno che ripetono i fedeli il giorno della Dedicazione: « O felice Gerusalemme, dolce visione di pace, costruita fino al cielo con pietre viventi, e circondata da cori di Angeli, come una sposa accompagnati dagli amici dello Sposo! « Ecco la città nuova che esce dal cielo come dalla sua casa nunziale, ornata come una sposa per le sue nozze con il Signore, l’oro più puro brilla sulle sue piazze e nelle sue mura. « Le ricche pietre abbelliscono le sue porte; il suo santuario è aperto; là possono entrare tutti coloro che soffrono in questo mondo per il nome di Gesù-Cristo, « è con i colpi, con le prove che le sue pietre sono state ripulite, ed è con la mano del supremo Costruttore che sono fissate al loro posto: Dio le ha fissate per sempre per formare l’edificio sacro. « Onore dunque, lode, gloria e potenza al Padre che ci ha creati, al Figlio che ci ha riscattati! Lode allo Spirito Santo di cui i fedeli sono il tempio!» [In questa seconda edizione abbiamo rivisto con cura, corretto qualche passaggio, aggiunto al pontificato di San Callisto I dei dettagli resi necessari dalle recenti scoperte].

I

Costituzione della Chiesa.

Quando i tempi apostolici arrivarono al compimento con San Giovanni Evangelista, la Chiesa era perfettamente costituita in ogni sua parte, ed i secoli successivi non avevano quasi nulla da sviluppare, non avevano niente di nuovo da apportare, il tempo non doveva perfezionare ciò che era già perfetto fin dall’inizio, non doveva che mostrare lo sviluppo dell’azione della Chiesa sul mondo. Il dogma, il culto, la disciplina erano stabiliti: l’eresia servirà più tardi a definire sempre più chiaramente l’immutabile credo della Chiesa; il culto, costituito nelle sue parti fondamentali, non riceveva più se non delle aggiunte secondarie, richieste dai bisogni del cuore umano e resi possibili dalla libertà data alla Chiesa; la disciplina non avrebbe potuto modificarsi esteriormente che nelle parti accessorie, secondo le circostanze dei tempi, dei luoghi, delle persone, senza cambiare nelle sue caratteristiche essenziali. La sacra Scrittura e la tradizione formano fin da allora i due depositi della dottrina, ma era la Chiesa che interpretava la Scrittura, era Essa che controllava la tradizione. In una parola, l’Autorità era da allora, come è sempre stato, il carattere proprio del suo insegnamento. Gli apostoli non ragionavano, essi esponevano: non si ragiona in effetti sulla parola di Dio, la si deve accettare, dal momento che essa è riconosciuta come essere parola di Dio. Di modo che tutto si reduce alla testimonianza: gli Apostoli erano i testimoni di Gesù-Cristo, ne attestavano con i miracoli, con la loro morte, la verità di ciò che essi dicevano; dopo di essi la testimonianza continuò egualmente con dei miracoli, alla quale si aggiunse la testimonianza suprema della morte volontaria, di ciò che si chiama “martirio”; “si crede volentieri, si è detto, a dei testimoni che si fanno sgozzare per attestare la verità delle loro parole”. È su queste testimonianze che è stata fondata la Chiesa. Ogni religione che pretende di appoggiarsi esclusivamente sulla ragione umana, che fa della ragione il giudice ultimo della fede, è ugualmente convinta di falsità. Non c’è che una cosa da ricercare: “Dio ha parlato? Che ha detto?”. Una volta constatato questo punto, non c’è più nulla che da ascoltare e sottomettersi. Ed è per questo che la vera Chiesa procede con autorità: essa insegna, definisce, non discute, non dialoga: tutto ciò che resta da fare alla ragione, è assicurarsi della veracità del testimone, cosa sempre facile quando si tratta della Chiesa Cattolica, le cui caratteristiche di veracità sono brillanti come luminoso è il sole. Per mantenere l’integrità della dottrina e del deposito della tradizione, c’è bisogno di una forma di governo regolare: questa forma esisteva fin dai primi secoli. Pietro è il capo del collegio apostolico; lui ed i suoi successori legittimi sono I veri Capi della Chiesa, la Chiesa non può essere ove non essi non sono. Ecco il punto culminante della Gerarchia. Al secondo posto si pongono i vescovi, il cui nome significa in Greco “sorvegliante”. Essi erano eletti dall’assemblea del clero e dei fedeli, e consacrati da altri Vescovi. Il Vescovo si prendeva cura dei poveri, delle vedove, degli orfani; egli presiedeva all’amministrazione delle elemosine e alle collette ed aveva il privilegio quasi esclusivo della predicazione. La consacrazione si faceva con l’imposizione delle mani, come dei nostri giorni. Appena eletto, egli faceva parte della sua elezione al Vescovo di Roma, Vescovo dei Vescovi, al quale Gesù-Cristo ha affidato la missione di confermare i suoi fratelli; in tal modo, fin da questi primi tempi, l’unità era perfettamente stabilita; la comunione con la sede di San Pietro è un carattere essenziale della cattolicità. Dopo i vescovi vengono i preti, seniori o presbiteri, parole che significano gli “anziani”, perché venivano presi tra le persone di età matura e di santità di vita provata. Era il Vescovo che li sceglieva, spesso con la designazione dello stesso popolo. Dopo la loro ordinazione, essi erano obbligati alla residenza, a meno che il Vescovo non permetteva loro di passare in un’altra provincia. I preti ricevevano una retribuzione speciale in ragione del loro ministero, e vivevano dell’altare, secondo l’espressione stessa impiegata da san Paolo nelle sue epistole. Al di sotto dei preti c’erano i diaconi, la cui istituzione risale, come le precedenti, agli Apostoli. I diaconi furono dapprima incaricati della ripartizione delle elemosine; essi aggiungevano a questa funzione, quelle di distribuire, accanto ai preti, l’Eucarestia ai fedeli ed anche di predicare il Vangelo, come si vede ad esempio di Santo Stefano, il primo dei diaconi ed il primo dei martiri. I Vescovi, i Preti ed i diaconi erano tenuti ad osservare la continenza: nel caso in cui essi fossero maritati prima della loro ordinazione, cessavano di vivere in comune con le loro mogli. Il celibato ecclesiastico risale dunque al primo secolo della Chiesa. – Il diaconato ed il sacerdozio formano quelli che si chiamano gli “ordini maggiori”; ma è fuor di dubbio che gli altri ordini, detti minori, esistessero già dai tempi degli Apostoli, come gradi diversi di preparazione agli ordini maggiori. Così esisteva il sottodiaconato, elevato alla dignità di ordine sacro maggiore già intorno al tempo del Papa Innocenzo III; a partire da questo tempo, i sottodiaconi fecero il voto che li incatenava per il resto della loro vita, e tra essi si sceglievano i diaconi; c’erano poi gli accoliti, incaricati della cura dei ceri, gli esorcisti, incaricati di pregare per l’espulsione dei demoni, i lettori, che leggevano le Scritture tra i fedeli, gli ostiari, ai quali veniva affidato la cura dei luoghi dell’assemblea e la convocazione dei fedeli. Si trovano anche, fin dal primo secolo i germi degli ordini religiosi. Vi erano dei Cristiani chiamati ad una vita più perfetta, e che si dedicavano a mettere in pratica tutti i consigli del Vangelo. Li si chiamava ascetici, da una parola greca che indicava che essi si esercitavano più particolarmente alla santità; alcuni credono che i “terapeuti” d’Egitto fossero in realtà degli asceti cristiani. Essi vivevano nel ritiro, osservavano la continenza e praticavano dei digiuni straordinari; non mangiavano che cibi secchi, dormivano sulla nuda terra, e dividevano il loro tempo tra la preghiera, lo studio della Scrittura ed il lavoro manuale. Le Vergini cristiane, questi fiori della Chiesa, pressoché sconosciute nelle altre religioni, si erano già moltiplicate, e opponevano la loro vita ai disordini ed alle infamie del mondo pagano. Era proprio del Cristianesimo mettere in onore la verginità, che i giudei consideravano un obbrobrio, e che il paganesimo non riusciva nemmeno a comprendere. Roma aveva sei vestali, obbligate a mantenere la verginità fino ad una certa età, e queste vestali erano ricolme di onori, avendo persino il privilegio di salvare la vita al condannato che si trovava sul loro passaggio: l’orgoglio però era la salvaguardia della loro verginità limitata a qualche anno; un castigo terribile, la morte per inedia in un sepolcro ove venivano rinchiuse vive se avessero violato il loro voto, veniva a sostenere la loro virtù, eppure più di una vestale cedette. Le Vergini cristiane, al contrario, rinunciavano a tutte le dolcezze della vita, vivevano nel ritiro e nell’umiltà, si contavano, ed ancora si contano, a migliaia. È così che il Cristianesimo mostra la virtù che possiede di elevare l’umanità al di sopra di se stessa, di dare allo spirito un trionfo completo sulla carne: questo non è più un trionfo naturale. Esisteva un’altra istituzione che non durò che durante i primi secoli della Chiesa, quella delle “diaconesse”, che erano delle vedove di provata virtù, incaricate di visitare persone del proprio sesso, che la povertà, la malattia o qualche altra miseria, rendevano degne della sollecitudine della Chiesa. Esse istruivano i catecumeni, sotto la direzione dei sacerdoti, li presentavano al Battesimo, e dirigevano i nuovi battezzati nella pratica della virtù cristiane. Esse davano rendiconto della loro funzione al Vescovo oppure ai diaconi e Preti che il Vescovo aveva designato. Niente di più toccante che il quadro presentato dai primi Cristiani: « Tra di noi, diceva Atenagora ai pagani (Atenagora visse sotto l’imperatore Marco-Aurelio, che regnò dal 161 al 180), voi trovate degli ignoranti, dei poveri, degli operai, delle donne anziane che non potranno forse mostrare con dei ragionamenti la divinità della nostra dottrina; essi non fanno discorsi, ma fanno delle buone opere. Amano il prossimo come se stessi, abbiamo imparato a non colpire coloro che ci colpiscono, a non fare processi a coloro che ci spogliano. A chi ci da uno schiaffo, noi volgiamo l’altra guancia; se ci viene richiesta la tunica, noi offriamo anche il mantello. Secondo la differenza degli anni, noi consideriamo gli uni come nostri figli, gli altri come nostri fratelli e sorelle. Noi onoriamo le persone più anziane come nostri padri e come nostre madri; la speranza di un’altra vita, ci fa disprezzare la presente, finanche nei piaceri spirituali. Il matrimonio per noi è una vocazione santa, che dà la grazia necessaria per allevare i figli nel timore del Signore. Noi abbiamo rinunciato ai vostri spettacoli cruenti, persuasi che c’è molta poca differenza tra il guardare l’omicidio ed il commetterlo. I pagani espongono i loro figli per sbarazzarsene, noi consideriamo questa azione come un omicidio ». – Qualche anno più tardi, Tertulliano completava così questo quadro: « ci si accusa di essere faziosi. Lo spirito fazioso dei Cristiani consiste nell’essere riuniti nella stessa religione, nella stessa morale, nella stessa speranza. Noi formiamo una cospirazione, è vero, ma solo per pregare Dio in comune e leggere le Scritture divine. Se qualcuno di noi ha peccato, è privato della comunione, delle preghiere e delle nostre assemblee, finché non faccia penitenza. Queste assemblee sono presiedute da anziani, la cui saggezza ha meritato loro questo onore. Qualcuno porta denaro ogni mese, se vuole e se può. Questo tesoro serve a nutrire e seppellire i poveri, a sostenere gli orfani, i naufragati, gli esiliati, i condannati alle miniere o alla prigione per la causa di Dio. Tutto è in comune tra noi, tranne le donne. Il nostro pasto in comune si spiega con il suo nome di “agape”, che significa carità. » Ecco cosa erano i Cristiani dei primi secoli, essi davano l’esempio di tutte le virtù, confondevano la corruzione pagana con la purezza della loro vita, e ponevano la loro forza nella preghiera, nei sacramenti, nelle opera di carità, nelle mortificazioni, nel digiuno e nell’astinenza. La preghiera pubblica era l’azione principale delle loro giornate, soprattutto del giorno del Signore, della Domenica, con la quale gli Apostoli avevano rimpiazzato il sabbat dei giudei, in commemorazione del giorno della Resurrezione del Salvatore e della discesa dello Spirito Santo. I luoghi della riunione furono dapprima delle sale da pranzo che i latini chiamavano cenacoli, e che erano situati nella parte superiore delle case. Più tardi, quando seguirono le persecuzioni, ci si riunì dove si poteva, ed i Cristiani delle città scelsero, per essere in sicurezza, le cripte o le cave sotterranee che si trovavano nei paraggi; a Roma ci si riuniva nelle catacombe, vaste cavità sulle quali daremo più avanti alcuni dettagli. La preghiera per eccellenza era il sacrificio, al quale si davano nomi diversi, come cena, frazione del pane, oblazione od offerta, colletta o assemblea (Chiesa), eucarestia o azione di grazia, di liturgia o ufficio pubblico, tutti nomi che designano il sacrificio della Messa, costituito nei tempi degli Apostoli, nelle sue parti essenziali. Era il Vescovo che la celebrava, i Preti non lo facevano che in assenza dei Vescovi. Si cominciava con delle preghiere; poi si leggeva qualche passaggio scritturale, prima dell’antico Testamento, poi del nuovo, etc., quelle che oggi si chiamano l’Epistola e il Vangelo. La lettura del Vangelo era seguita da una spiegazione fatta dal Vescovo. Dopo di che i catecumeni, cioè coloro che si istruivano ancora nella fede e che non erano battezzati, dovevano ritirarsi. Allora cominciava l’offerta (offertorio) dei doni che dovevano costituire materia del sacrificio: erano il pane ed il vino mescolato ad acqua. Il popolo si dava il bacio di pace, gli uomini con gli uomini, le donne con le donne, in segno di perfetta unione. Venivano in seguito pronunciate le parole della consacrazione, si recitava in comune l’orazione domenicale, il celebrante si comunicava ed i suoi assistenti con lui, sotto le due specie del pane e del vino. Un’agape, o pasto comune di carità, seguiva la celebrazione dei santi misteri; il pane benedetto dei nostri giorni richiama questo antico e toccante uso. I Cristiani si riuniscono ancora per altre preghiere pubbliche in ore diverse del mattino e della sera; il canto dei salmi costituiva il fondamento di queste preghiere. Il sacrificio del mattino dell’antica legge era rimpiazzato dal mattutino, quello della sera dai vespri; la terza, la sesta e la nona ora del giorno, erano santificate con la recita dei salmi. Fin da allora furono in uso le cerimonie che si sono perpetuate fino ai nostri giorni, le genuflessioni, le prostrazioni, gli incensamenti, la distribuzione dell’acqua benedetta e le fiaccolate luminose. Ma tutte queste cerimonie erano circondate da un profondo mistero, a causa delle persecuzioni e nel timore delle profanazioni, ed è per questo che i pagani, incapaci di credere a delle riunioni innocenti, imputavano ai cristiani tutte le abominazioni dei loro misteri. Si è visto quale fosse la vita pura e santa dei primi Cristiani, sia quali fossero i loro misteri, quale ordine e quale decenza regnasse nelle loro assemblee, quanto sublime fosse la loro dottrina, celeste la loro morale. Ecco come i pagani distorcevano la verità: « … c’è una nuova seta, essi dicevano, che predica apertamente il disprezzo degli dei e che cerca di abbatterne gli altari. Questi sono degli atei che parlano di un re chiamato Cristo, che darà loro un giorno l’impero, e che rifiutano di pregare per Cesare. È una razza di impostori, di sofisti, e di uomini dediti ai malefici, capaci di ogni crimine, nemici della intera natura, che si dedicano ad orribili dissolutezze, e vivono di carne umana. Malgrado le accuse portate contro di loro, essi si riuniscono nel giorno del sole (la Domenica) per iniziare i loro proseliti. Un bambino coperto di pasta fatta per ingannare gli occhi di coloro che non conoscono questi misteri, è posto davanti all’iniziatore: il proselito batte ed uccide il bambino senza saperlo, e queste tigri bevono il suo sangue, si dividono le sue membra, e si garantiscono il silenzio con la complicità del crimine. » È così che veniva sfigurato il divino banchetto dell’Eucaristia; si sfiguravano le agapi e le trasformavano in scene mostruose che la penna si rifiuta di descrivere. « Questo non è soltanto un idolo assurdo che essi onorano, dicono ancora, è un morto, Cristo che si è fatto Dio dopo una fine ignominiosa, e la croce è per essi un oggetto sacro. Essi aggiungono a queste loro chimere le visioni più insensate; essi dicono che resusciteranno dopo la morte; essi non vogliono mettere corone sulle tombe; rifuggono gli spettacoli ed i pubblici festini; hanno orrore dei cibi consacrati agli dei e delle libazioni. Sprezzanti di Giove, maledicono il suo culto e pregano sulle tombe di coloro che sono stati suppliziate. Essi accolgono tra loro gli omini più perversi; è sufficiente che questi vengano da loro e si confessino; questi maghi aspergono su di loro un poco d’acqua ed i criminali sono assolti. Vile ammasso di finitori di lana, di tessitori, di calzolai, di miserabili usciti dalla plebe, i Cristiani si dichiarano audacemente nemici degli dei, di Cesare, del senato, delle leggi, del genere umano. » Queste favole eccitavano il popolo contro i discepoli di Gesù-Cristo; i filosofi li detestavano perché essi distruggevano i loro antichi sistemi; gli imperatori ed i potenti, perché essi condannavano la loro tirannia, i loro crimini, le loro dissolutezze; i Cristiani erano in effetti esposti all’odio del genere umano; ma è perché tutte le passioni vedevano in loro dei nemici, e soprattutto perché il mondo non li conosceva. Ci volevano ancora due secoli di combattimenti per vincere l’inferno congiurato, per aprire gli occhi accecati, e per far trionfare il Crocifisso divino.