DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (8)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [8]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XIX.

Della conformità che dobbiamo avere alla volontà di Dio sì nella morte come nella vita.

Abbiamo ancora da esser conformi alla volontà di Dio per quel che riguarda o il vivere, o il morire. E sebben questa cosa del morire di natura sua è molto difficile, perché, come dice il Filosofo, Omnium rerum nihil morte terribilius, nihil acerbius (Arist. 3 Æth. c. 6): la morte è la cosa più terribile di tutte le cose umane: nondimeno ne’ Religiosi è tolta via e spianata in gran parte questa difficoltà; perché già abbiamo fatta la metà di questo viaggio, ed anche quasi tutto. Primieramente una delle cagioni per le quali agli uomini del mondo suol riuscir duro il morire e dà loro gran dolore l’arrivo di quell’ora, è perché lasciano le ricchezze, gli onori, i diletti, i trattenimenti, le comodità che avevano in questa vita, gli amici e i parenti; quell’altro la moglie; quell’altro i figliuoli, i quali in quell’ora sogliono dare non poco fastidio, specialmente quando non restano accomodati e collocati. Tutte queste cose già le  ha lasciate a buon’ora il Religioso; e cosi non gli danno fastidio né dolore. Quando il dente è bene scarnato e staccato dalle gengive, allora si cava facilmente; ma se lo vuoi cavare senza scarnarlo, ti cagionerà gran dolore; così al Religioso che già è scarnato e staccato da tutte queste cose del mondo, non cagiona dolore nell’ora della morte l’averle a lasciare; perché le lasciò volontariamente, e con gran merito, fin da quando entrò nella Religione, e non aspettò a lasciarle nel punto della morte; come quei del mondo, che allora bisogna che le lascino per necessità, ancorché non vogliano, e con gran dolore e molte volte eziandio senza alcun merito; poiché più tosto sono le stesse cose che allora lasciano i lor possessori, che questi lascino esse. E questo, tra gli altri molti, è uno de’ frutti che si traggono dal lasciare il mondo e dall’entrare in Religione. S. Gio. Crisostomo nota molto bene (D. Crys. hom. 14 in I . ad Tim.), come a quei che stanno nel mondo molto attaccati alla roba, ai trattenimenti e alle comodità e delizie di questa vita, suol riuscire assai dolorosa la morte, secondo quello che disse il Savio: O mors, quam amara est memoria tua homini pacem habenti in substantiis suis (1(1) Eecli. XLI, 1)! Per fino la memoria della morte è loro amara; or che sarà la presenza di essa? Se questa solo immaginata è amara; che cosa sarà provata? Ma al Religioso il quale ha lasciate già tutte queste cose non è amara la morte, anzi gli è molto dolce e gustosa, come fine e termine di tutti i suoi travagli; e si considera in quel punto come uno che va a ricevere il premio e il guiderdone di tutto quello che ha lasciato per Dio. Un’altra cosa principale che suole cagionar grande angoscia e dolore in quell’ora agli uomini del mondo e render loro la morte terribile e tormentosa, dice S. Ambrogio (D Ambr., de bono mortis, c. 8) che è la mala coscienza e il mancamento di buona disposizione: il che né anche ha né deve aver luogo nel Religioso: poiché tutta la sua vita è una continua preparazione e disposizione al ben morire. Si narra di un santo Religioso, che dicendogli il medico che si preparasse per morire, egli rispose, che da che prese l’abito nella Religione non aveva fatto altro che prepararsi per la morte. Questo è l’esercizio del Religioso. Lo stato istesso della Religione c’instruisce nella disposizione che Cristo nostro Redentore vuole che abbiamo per la sua venuta: Sint lumbi vestri prœcincti, et lucernœ ardentes in manibus vestris (Luc. XII, 35): Tenete cinti i vostri lombi e candele accese nelle vostre mani. S. Gregorio (D. Greg. hom. 13 in Evang.) dice, che il cingere i lombi significa la castità, e il tener le candele accese nelle mani significa l’esercizio delle opere buone; le quali due cose risplendono principalmente nello stato della Religione; e così il buon Religioso non ha occasione di temere la morte. E notisi qui una cosa, già da noi altrove toccata (Vide supra tract.2, c. 5), la quale fa assai al nostro proposito; ed è, che uno de’ buoni contrassegni che vi siano d’aver una buona coscienza e di star bene con Dio, è 1’esser molto conforme alla sua divina volontà in ordine all’ora della sua morte, e lo starla aspettando con grande allegrezza, come chi aspetta il suo sposo, per celebrar con esso le nozze e gli sposalizi celesti : Et vos similes hominibus expectantibus dominum suum, quando revertatur a nuptiis (Luc. XII, 36). E  per lo contrario il dispiacere assai ad uno la morte e il non avere questa conformità, non è buon segno. Si sogliono apportare  alcune buone similitudini per dichiarar questa cosa. Non vedi con che pace e quiete va la pecora al macello, senza aprir bocca né far resistenza alcuna? Ch’è l’esempio che porta la sacra Scrittura per esprimere la mansuetudine con cui andò Cristo nostro Redentore alla morte: Tamquam ovis ad occisionem ductus est (Act. VIII, 32; Isa. LIII, 7). Ma l’animale immondo quanto grugnisce e quanta resistenza fa quando lo vogliono ammazzare? Or questa differenza vi è fra i buoni che sono figurati nelle pecore, e i cattivi e carnali che sono figurati in questi altri animali. Colui che è condannato a morte, ogni volta che sente aprir la prigione, s’attrista, pensando che vengano per cavarlo fuori e appiccarlo; ma l’innocente e quegli che è assoluto, si rallegra ogni volta che la sente aprire, pensando che vengano a liberarlo. Così l’uomo cattivo, quando sente scuotere le sue chiavi, la morte e l’infermità lo stringono, teme, e prova gran pena e affanno, perché come ha macchiata la coscienza, così pensa che presto avrà ad essere condannato alle fiamme dell’inferno per sempre. Ma quegli che ha buona coscienza più tosto si rallegra, perché conosce, che quindi sarà per passare alla libertà e al riposo eterno. Facciamo dunque noi altri quel che dobbiamo come buoni Religiosi: e non solamente non sentiremo difficoltà nel conformarci alla volontà di Dio nell’ora della morte; ma più tosto ci rallegreremo e pregheremo Dio col Profeta, che ci cavi da questo carcere: Educ de custodia (idest de carcere) animam meam (Ps. CXLI, 8). S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Et bestias terræ non formidabis, dice: Justis namque initium retributionis est ipsa plerumque in obitu securitas mentis (D. Greg. lib. 6 mor. o. 16 ; Job v, 22). L’aver nell’ora della morte quest’allegrezza e questa pace e sicurezza di coscienza, dice che è principio del guiderdone de’ giusti: già cominciano a godere una gocciola di quella pace che come fiume abbondante e fecondante ha da entrar subito nelle anime loro: già cominciano a sentire la loro beatitudine. E per lo contrario i cattivi cominciano a sentire il loro tormentO ed il loro inferno, con quel timore e rimorso che sentono in quell’ora. Di maniera che il desiderar la morte ed il rallegrarsi per essa è molto buon segno. – S. Giovanni Climaco dice così: È molto lodevole colui il quale aspetta ogni giorno la morte; ma colui il quale a tutte le ore la desidera, è santo (D. Clim. c. 6). E S. Ambrogio loda quelli che hanno desiderio di morire (D. Ambr. in Orat, funebri de obitu Valentin. Imp. tom. 5, et de fide resurr.). E cosi veggiamo, che quei santi Patriarchi antichi avevano questo desiderio, tenendosi per pellegrini e forestieri sopra la terra, e non per fermi abitatori: Confitentes, quia peregrini et hospites sunt super terram. E come nota molto bene l’apostolo S. Paolo, Qui hæc dicunt, significant se patriam inquirere (Ad Hebr. XI, 14.): Ben dimostravano in questo, che stavano desiderando di uscire da quest’esilio: e questa era la cosa per la quale sospirava il reale Profeta: Heu mihi, quia incolatus meus prolongatus est (Ps. CXIX, 5)! Oimè, che si è prolungato il mio esilio! E se ciò dicevano e desideravano quegli antichi Patriarchi, stando allora chiusa la porta del cielo, e non avendovi d’andar essi subito; che sarà adesso che sta aperta e che subito che l’anima è purgata va a goder Dio?

CAPO XX.

D’alcune ragioni e motivi, per i quali possiamo desiderare la morte lecitamente e santamente.

Acciocché possiamo meglio e con maggior perfezione conformarci alla volontà di Dio, sì nella morte come nella vita, porteremo qui alcuni motivi e ragioni per lequali si può desiderar di morire, affinché eleggiamo la migliore. La prima ragione per la quale si può desiderare la morte, è per fuggire i travagli che reca seco questa vita: perché, come dice il Savio: Melior est mors, quam vita amara (Eccli. XXX, 17); è migliore la morte che una vita amara e travagliosa. In questa maniera veggiamo che gli uomini del mondo desiderano molte volte la morte, e la chieggono a Dio, e lo possono fare senza peccato; poiché alla fine sono tanti e tali i travagli di questa vita, che è lecito desiderare la morte per fuggirli (D. Aug. lib. 2 contra 2 epis. Gaud. cap. 22, tom. 7). Una delle ragioni che allegano i Santi dell’aver dati Dio tanti travagli agli uomini è, perché non s’avessero ad attaccar tanto a questo mondo né ad amar tanto questa vita; ma mettessero il loro cuore e il loro amore nell’altra, e sospirassero per essa, ubi non erit luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra (Apoc. XXI, 4), nella quale non vi sarà pianto né dolore. S. Agostino dice, che Dio Signor nostro per sua infinita bontà e misericordia volle che questa vita fosse breve e finisse presto, perché è travagliosa; e che l’altra che aspettiamo fosse eterna, acciocché il travaglio durasse poco, e il godimento e il riposo fosse eterno (D. Aug. sem. 37 de Sanctis, qui est sermo primus in testo omnium Sanctorum). Sant’Ambrogio dice: Tantis malis hæc vita repleta est, ut comparatione ejus mors remedium putetur esse, non pœna (D. Ambr. serm. sup. cit, c. 7 Jo. tom. 2.). È tanto piena di mali e di travagli questa vita, che se Dio non ci avesse data la morte per castigo, gliela avremmo domandata per misericordia e per rimedio, acciocché finissero tanti mali e travagli. Vero è, che molte volte gli uomini del mondo peccano in questo per l’impazienza colla quale pigliano i travagli e pel modo nel quale domandano a Dio la morte, usando termini di lamenti e d’impazienza; ma se gliela domandassero con pace e con sommessione, dicendo: Signore, se vi piace, cavatemi da questi travagli, mi basta quello che ho vissuto; ciò non sarebbe peccato. Secondariamente si può desiderar la morte con maggior perfezione, per non vedere i travagli della Chiesa e le continue offese che si fanno a Dio: come veggiamo che la desiderava il profeta Elia, il quale, veggendo la persecuzione d’Acab e di Jezabele che avevano distrutti gli Altari e uccisi tutti i Profeti di Dio, e che andavano in cerca di lui per lo medesimo effetto, ardendo di zelo dell’onore di Dio, e conoscendo che non vi poteva rimediare, se ne andò ramingo per i deserti della Giudea, e postosi quivi a seder sotto un albero, petivit animæ suæ, ut moreretur; et ait: Sufficit mihi, Domine: tolle animam meam; neque enim melior sum, quam patres mei (III. Reg. XIX, 4.): desiderò di morire; e disse: Mi basta, Signore, quello che sono vissuto: levatemi oramai da questa vita, acciocch’io non vegga tanti mali né tante vostre offese. E quel valoroso capitano del popolo di Dio, Giuda Maccabeo, diceva: Melius est mori in bello, quam videre mala gentis nostra;, et Sanctorum (I Mac. III, 59). Ci mette più conto il morire in guerra, che il veder tanti mali e tante offese di Dio: e con questo esortava ed animava i suoi a combattere. E del beato S. Agostino leggiamo nella sua Vita, che passando i Vandali dalla Spagna nell’Africa, distruggendola tutta, senza perdonare né ad uomo né a donna, né ad Ecclesiastici né a laici, né a fanciulli né a vecchi; arrivarono alla città d’Ippona della quale egli era Vescovo, e l’assediarono da ogni banda con molta gente: e vedendo S. Agostino tanto grande tribolazione, e le chiese senza Preti, e le città co’ suoi abitatori distrutte, piangeva amaramente nella sua vecchiaia, e radunato il suo Clero gli disse: Ho pregato il Signore, che, o ci liberasse da questi pericoli, o ci desse pazienza, o cavasse me da questa vita, per non farmi veder tanti mali; e il Signore m’ha conceduta questa terza cosa, e così subito al terzo mese dell’assedio si ammalò dell’infermità della quale morì. E del nostro S. P. Ignazio leggiamo nella Vita sua un altro esempio simile (Lib. 4, c. 16 Vita; F. N. S. Ign.). Questa è perfezione dei Santi, sentir tanto i travagli della Chiesa e le offese che si fanno alla, maestà di Dio, che non lo possono soffrire, e così desiderino la morte per non veder tanto gran male. – V’è ancora un altro motivo e un’altra ragione molto buona e di molta perfezione per desiderare e domandar a Dio la morte, ed è per vederci ormai liberi e sicuri dall’offenderlo. Perché è cosa certa, che mentre stiamo in questa vita non vi è sicurezza per questo; ma possiamo cadere in peccato mortale; e sappiamo, ch’altri da più di noi i quali avevano gran doni da Dio e che veramente erano Santi, e gran Santi, caddero. Questa è una delle cose che fa più temere i Servi di Dio e per la quale desiderano uscire da questa vita. Per non peccare può uno desiderare di non esser nato né di avere mai avuto essere; quanto più può desiderar di morire? Perciocché è maggior male il peccato, che il non essere: e meglio sarebbe stato il non essere, che l’aver peccato : Bonum erat et, si natus non fuisset homo Me (Matth. XXVI, 24), disse Cristo nostro Redentore di quel disgraziato di Giuda che l’aveva da vendere: Sarebbe stato meglio per lui non esser nato. E S. Ambrogio dichiara a questo proposito quelle parole dell’Ecclesiast (D. Ambr. 13 sup. Psal. CXVIII; Eccli. IV, 2, 3.): Et laudavi magis mortuos, quam viventes; et feliciorem utroque judicavi, qui necdum natus est! Ho lodato più i morti che i vivi, e per più felice di tutti questi ho riputato colui che non è mai nato. S. Ambrogio dice così: Mortuus præfertur viventi, quia peccare destitit: mortuo præfertur qui natus non est, quia peccare nescivit: Il morto è preferito al vivo, perché ha già lasciato di peccare: e al morto è preferito colui che non è nato, perché non ha mai potuto peccare. Onde sarà molto buono esercizio l’attuarci molte volte nell’orazione in questi atti, Domine, ne permittas me separarì a te: Signore, non permettete che io mi separi giammai da Voi. Signore, se vi ho da offendere, levatemi dal mondo prima ch’io vi offenda; che io non desidero la vita, se non per servirvi; e se non vi ho da servire con essa non la desidero (Supra tract. 5, c. 5). Questo è un esercizio molto grato a Dio e molto utile a noi altri, perché in sé contiene un esercizio di dolore e di odio e abborrimento del peccato, un esercizio di umiltà, un esercizio d’amor di Dio, e una domanda delle più grate a Dio che possiamo fargli. Si narra di S. Luigi re di Francia, che alle volte la sua santa madre, Donna Bianca Reina, gli diceva: Vorrei, figliuol mio, vederti piuttosto cader morto sotto a’ miei occhi, che vederti con un peccato mortale su l’anima. E piacque tanto a Dio questo desiderio e questa benedizione che ella gli dava, che si dice di lui che in tutta la sua vita non commise mai peccato mortale (In Vita S. Lud. Reg. Galliæ). Quest’ istesso effetto potrà essere che operi in te questo desiderio e questa domanda. Di più non solo per evitare i peccati mortali, ma ancora per evitare i veniali, de’ quali siamo pieni in questa vita, è cosa buona desiderare la morte. Perché il Servo di Dio ha da star molto risoluto e determinato non solo di morire più tosto che commettere un peccato mortale; ma eziandio di più tosto morire che dire una bugia, che è un peccato veniale: echi veramente morisse per questo, sarebbe martire: dappoiché è cosa certa, che se viviamo, commettiamo molti peccati veniali: Septies enim cadet justus (Prov. XXIV, 16): Sette volte cadrà l’uom giusto, che vuol dire molte volte: e quanto più vivrà, tante più volte cadrà (D. Thom. 2 2, q. 124, art. 5, ad 2). Né solamente per evitare i peccati veniali desiderano i servi di Dio di uscire da questa vita; ma lo desiderano ancora per vedersi liberi da tanti mancamenti e imperfezioni, e da tante tentazioni e miserie, quante ne proviamo ogni giorno: Dice molto bene quel Santo: O Signore, e quanto mai interiormente patisco, mentre pensando nell’orazione alle cose celesti, subito mi si rappresenta alla mente una gran turba di pensieri carnali! Oimè, che vita è questa, ove non mancano travagli e miserie; ove ogni cosa è piena di lacci e di nemici! Imperocché partendosi una tribolazione e tentazione, ne viene un’altra: e durando ancor la prima battaglia, ne sopravvengono molle altre non aspettate. Come può esser amata una vita piena di tanti guai e soggetta a tante calamità e miserie? come si può chiamar vita quella che genera tante morti e tante pesti (Thomas a Kempis, lib. 3, c. 48, n. 5)?Si legge d’una gran Santa che soleva dire,che se avesse potuto eleggere qualche cosa,non n’avrebbe eletta altra che la morte:perché l’anima per mezzo di essa si trovalibera d’ogni timore di far mai più cosache sia d’impedimento al puro amore. Èanche pur cosa di maggior perfezione ildesiderare d’uscire da questa vita, per evitari peccati veniali e i mancamenti e leimperfezioni, di quello che sia il ciò desiderareper evitare i peccati mortali; perchérispetto a questi può darsi che uno si muovaa concepire tal desiderio più per timor dell’inferno e per l’interesse e amor suo proprio,che per amor di Dio: ma l’aver eglitanto amore di Dio, che desideri la morteper non commettere peccati veniali, né mancamenti e imperfezioni, è gran purità d’intenzione e. cosa di gran perfezione. Ma potrebbe dire alcuno: io desidero di vivere per soddisfare per le mie colpe edifetti.A questo rispondo, che se vivendo più, scontassimo sempre le cose passate, e non aggiungessimo nuove colpe, questo sarebbe bene. Ma se non solamente non. I sconti, ma accresci i debiti, e quanto più vivi, tanto più hai di che render conto a Dio,non dirai bene. Dice benissimo S. Bernardo: Cur ergo tantopere vitam istam desideramus in qua quanto amplius vivimus, tanto plus peccamus; quanto est vita longior, tanto culpa numerosior (D. Bern. c. 2 medit.)? Perché desideriamo noi tanto questa vita nella quale quanto più viviamo, tanto più pecchiamo? E S. Girolamo dice: Che differenza pensi tu vi sia fra quello che muore giovine, e quello che muore vecchio, se non che il vecchio va all’altro mondo più carico di peccati che il giovane, e ha più di che rendere conto a Dio (D. Hieron. ep. ad Hel.)? E così S. Bernardo piglia in questo un’altra risoluzione migliore, e dice colla sua grande umiltà certe parole che noi altri possiamo dire con più verità: Vivere erubesco, quia parum pròficio: mori timeo, quia non sum paratus. Malo tamen mori, et misericordia; Dei me committere et commendare, quia benignus et misericors est; quam de mea mala conversatione alicui scandalum facere (D. Bern. de inter. domo, c. 35).Mi vergogno di vivere per lo poco profitto che io fo; e temo di morire perché non istò preparato: con tutto ciò voglio più tosto morire e pienamente abbandonarmi alla misericordia di Dio, poiché Egli è benigno e misericordioso, che proseguire a scandalizzare i miei fratelli colla mia vita tiepida e rimessa. Questo è un molto buon sentimento.Il P. Maestro Avila diceva, che chiunquesi sia il quale tanto solo che si trovi con mediocre disposizione, questo tale dovrebbe più tosto desiderar la morte che la vita, per ragione del pericolo in cui vive di offender Dio, e il quale cessa affatto colla morte. Quid est mors, nisi sepultura vitiorum, virtutum suscitatio? dice sant’Ambrogio.Che cosa è la morte, se non la sepoltura dei vizi e la resurrezione delle virtù (D. Ambros. de bono mortis, c. 4)? Tutte queste ragioni e motivi sono molto buoni per desiderar la morte; ma il motivo di maggior perfezione è quello che stimolava il cuore dell’apostolo Paolo, il quale desiderava di morire per brama di trovarsi col suo Cristo Gesù che tanto egli amava: Desiderium habens dissolvi, et esse cum Christo (Ad Philip, l, 23). Che dici S. Paolo? Perchè desideri di essere sciolto dal corpo? forse per fuggire i travagli? no per certo, che più tosto gloriamur in tribulationibus (Ad Rom. V, 3): questa è la gloria mia. Perché  dunque? per fuggir i peccati? Né anche: Certus sum enim, quia neque mors, neque vita… poterit nos separare a charitate Dei (Ibid. VIII, 38): era egli confermato in grazia, e sapeva, che non la poteva perdere; e così non aveva occasione di temer questo. Perché dunque desideri tanto la morte? Per vedermi una volta con Cristo. La desiderava per puro amore: Quia amore langueo (Cane, II, 5). Era infermo d’amore, e così sospirava pel suo diletto, e qualsivoglia piccola tardanza gli pareva lunga, per arrivar a godere della sua presenza. S. Bonaventura di tre gradi che distingue 1’amor di Dio, mette questo per ultimo (D. Bonav. process. 6 Relig. c. 11, 12 et 13). Il primo è, amar Dio sopra tutte le cose, amando talmente le cose del mondo, che per nessuna di esse facciamo un peccato mortale né trasgrediamo alcun comandamento di Dio: che è quello che disse Cristo nostro Redentore a quel giovinetto dell’Evangelio: Si vis ad vitam ingredi. serva mandata (Matth. XIX, 17.). Se vuoi conseguire la vita eterna, osserva i comandamenti: e a questo è tenuto ogni Cristiano. Il secondo grado di carità è, non contentarci della osservanza dei comandamenti di Dio, ma aggiungerci i consigli: il che è proprio dei Religiosi, i quali non solo cercano il bene, ma anche il meglio e il più perfetto, conformemente a quello che diceva S. Paolo: Ut probetis, quæ sit voluntas Dei bona, et beneplacens, et perfecta (Ad Rom. XII, 2). Il terzo grado di carità dice S. Bonaventura che è, tanto affectu ad Deum estuare, quod sine ipso quasi vivere non possis. Quando uno è tanto acceso e infiammato d’amor di Dio, che gli pare di non poter vivere senza di Lui: onde desidera vedersi libero e sciolto dal carcere di questo corpo per istarsene con Cristo, e sta desiderando d’essere richiamato da quest’esilio, e che si consumi e cada finalmente questo muro del corpo che sta di mezzo, e c’impedisce il vedere Dio. Questi tali, dice il Santo, hanno la vita in impazienza, o per dir meglio, in fastidio, e la morte in ardente desiderio. Del nostro S. Padre Ignazio leggiamo nella sua Vita (Lib. 5, c. 1 Vita P. N. S. Ignatii), che era ardentissimo il desiderio che aveva d’uscire da questo carcere del corpo, e che sospirava tanto l’anima sua per andar a trovarsi col suo Dio, che pensando alla sua morte non poteva ritener le lagrime che per pura allegrezza gli piovevan dagli occhi. Ma si dice ivi, che ardeva egli di questi accesissimi desideri non tanto per conseguir quel sommo bene per sé e per riposarsi egli in quella felice vista, quanto, e molto più, per veder la felicissima gloria dell’umanità sacrosantissima di Cristo che tanto egli amava. In quella maniera che suole di qua un amico rallegrarsi di veder ricolmo di onore e gloria quell’altro che egli ama cordialmente: nella stessa desiderava il nostro santo Padre di vedersi con Cristo, dimentico affatto del proprio interesse e riposo, e spinto da puro amore. Questo era l’unico suo desiderio, il protestarsi rallegrando e godendo della gloria di Cristo, e congratulandosi seco di essa, che è il più alto e perfetto atto d’amore a cui possiamo giungere (Infra c. 32). In questo modo non solo non ci sarà amara la memoria della morte, ma più tosto ci darà gran gusto ed allegrezza. Passa un poco più avanti, e considera, che da qui a pochi giorni starai in cielo godendo di quello che né occhio ha veduto, né orecchio ha udito, né può cader in umano intelletto, e che ogni cosa si convertirà in allegrezza e giocondità. Chi non si rallegra, che termini l’esilio e abbia fine il travaglio? chi non si rallegra di giungere a conseguire il suo ultimo fine per lo quale è stato creato? chi non si rallegra d’entrare in possesso della sua eredità, ed eredità tale? Ora per mezzo della morte entriamo a possedere l’eredità del cielo. Cum dederit dilectis suis somnum: ecce hæreditas Domini (Psal. CXXVI, 3). Non possiamo entrare in possesso di quei Beni eterni, se non per mezzo della morte. E così il Savio dice che l’uomo giusto spera nella sua morte: Sperat justus in morte sua (1 Prov. XIX, 32); perché questo è il mezzo e la scala per salire in cielo, e così questa è la consolazione del presente esilio. Psallam, et intelligam in vita immaculata, quando venies ad me (Psal. C, 2). S. Agostino dichiara così questo luogo (D. Aug. tract. 9 sup. Ep. Jo): Signore, la mia attenzione e il mio desiderio, è conservarmi senza macchia tutta la mia vita, e con questa cura e sollecitudine andrò sempre cantando, e l’argomento del mio canto sarà: Quando, Signore, si rivocherà quest’esilio? quando verrete per me? quando, Signore, verrò io a trovar voi? Quando veniam, et apparebo ante faciem Dei (Psal. XLI, 3)? Quando, Signore, mi vedrò avanti del vostro volto? Oh quanto mi viene ritardata quest’ora! Oh quanto sarà grande per me il gusto e l’allegrezza quando mi sarà detto, che ella è già vicina: Laitatus sum in his, qua; dicta sunt mihi: In domum Domini ibimus. Slantes erant pedes nostri in atriis tuis, Jerusalem (Ps. CXXI, 1-2): M’immagino d’aver già posti colà i piedi e di trovarmi in compagnia degli Angeli e di quei Beati, e di star godendo di voi, o Signore, per tutta l’eternità.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (7)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [7]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XVII.

Che non abbiamo da mettere la nostra confidenza ne’ medici né nelle medicine, ma in Dio, e che dobbiamo conformarci alla volontà sua non solo in ordine all’infermità, ma anche in ordine a tutte le altre cose che sogliono accadere in essa.

Quel che s’è detto dell’infermità si ha da intendere ancora delle altre cose che sogliono occorrere nel tempo di essa. S. Basilio dà una dottrina molto buona per quando siamo infermi (D. Basil, in reg. fusius disp. 55). Dice, che talmente abbiamo da valerci dei medici e delle medicine, che non mettiamo in ciò tutta la nostra fiducia; il che non avendo fatto il re Assa, per ciò la sacra Scrittura ne lo riprende: Nec in infirmitate sua quæsivit Dominum, sed magis in medicorum arte confìsus est (II. Paralip. XVI, 12). Non abbiamo d’attribuire a questo tutta la cagione del guarire, o non guarire dall’infermità; ma abbiamo da mettere tutta la nostra fiducia in Dio, il quale alcune volte vorrà darci la sanità col mezzo di queste medicine, ed altre volte no. E così quando ci mancherà il medico e la medicina, dice S. Basilio, che né anche abbiamo perciò da sconfidarci della sanità; perché, siccome leggiamo nel sacro Evangelio, che Cristo nostro Redentore alcune volte risanava colla sola volontà (nel qual modo risanò quel lebbroso che gli disse: Domine, si vis, potes me mundare (Matth. VIII, 8.): Signore, se tu vuoi, mi puoi mondare; ed Egli rispose: Volo: mundare (ibid. 3): Voglio: sii mondo, altre volte risanava applicando qualche cosa come quando fece il loto collo sputo, ed unse gli occhi del cieco, e gli comandò che andasse a lavarsi nella natatoria, o fontana di Siloe (Joan IX, 2), ed altre volte lasciava gli infermi nelle loro infermità, e non voleva che guarissero, ancorché spendessero tutte le facoltà loro in medici e medicine (Marc, V, 26); così anche adesso, alcune volte Dio dà la sanità senza medici e senza medicine, per mezzo della sola volontà sua; alcune altre le dà col mezzo delle medicine; e alcune altre, benché uno chiami e consulti con molti medici, e gli siano applicati grandi rimedi, Dio non gli vuol dare la sanità; acciocché con questo impariamo a non metter la nostra fiducia ne’ mezzi umani, ma solamente in Dio. Siccome il re Ezechia non attribuì la sua guarigione a quella massa di fichi che Isaia pose sopra la sua piaga (IV. Reg. XX, 7), ma a Dio, così tu quando guarirai dall’infermità, non hai da attribuirlo ai medici né alle medicine, ma a Dio, che è quegli che risana tutte le nostre infermità. Etenim neque herba, neque malagma sanavit eos: sed tuus. Domine, sermo, qui sanat omnia (Sap. XVI, 12): Che non sono le erbe né gl’impiastri quei che guariscono, ma Dio. E quando non guarirai, né anche ti hai da lamentare de’ medici né delle medicine; ma hai da attribuire ogni cosa a Dio, il quale non vuol darti la sanità, ma vuole che stia infermo. Similmente quando il medico non ha conosciuta l’infermità, ovvero ha fatto errore nel medicare (cosa che accade assai spesso anche a gran medici e in gran personaggi), hai da pigliar quell’errore per un effetto e adempimento della volontà di Dio, e così ancora la trascuraggine e negligenza e il mancamento dell’infermiere: onde non hai da dire, che per lo tal mancamento fatto teco ti sia tornata la febbre; ma ogni cosa hai da pigliare come venuta dalla mano di Dio, e dire: È piaciuto al Signore che mi sia cresciuta la febbre e che mi sia venuto il tale accidente. Perciocché è cosa certa, che quantunque relativamente a quei che ti governano questo sia stato errore; nondimeno relativamente a Dio è stato effetto e adempimento della sua volontà, atteso che rispetto a Dio non succede cosa alcuna a caso. Pensi tu, che il passare delle rondinelle e l’acciecare col loro sterco il santo Tobia fosse a caso? non fu a caso, ma una molto particolare disposizione e volontà di Dio per darci in questo santo uomo un raro esempio di pazienza, come nel santo Giob: e così lo dice la divina Scrittura: hanc autem tentationem permisit Dominus evenire illi, ut posteris daretur exemplum patientiæ ejus, sicul et sancti Job (Tob. I, 12.). E l’Angelo gli disse poi: Quia acceptus eras Deo, necesse fuit, ut tentatio probaret te (Ibid. XII, 13): Per provarti, Dio ti ha permesso questa tribolazione. – Nelle Vite dei Padri si racconta dell’abbate Stefano (De abb. Steph. refert etiam D. Dor. doctr. 7), che essendo infermo volle il compagno fargli una frittatella, e pensandosi di farla con olio buono, la fece con olio di seme di lino, che è molto amaro, egliela diede. Stefano, tosto che l’ebbe sentita, ne mangiò un poco, e tacque. Un’altra volta gliene fece un’altra nel medesimo modo, e gustandola e non volendola mangiare, il compagno gli disse: Mangia, Padre, che è molto buona: e fattosi ad assaggiarla egli stesso per indurlo a mangiare, sentita l’amarezza, cominciò ad affannarsi e a dire: Io sono omicida. Allora gli disse Stefano: Non ti turbare, figliuolo, che se Dio avesse voluto, che tu non errassi in pigliar un olio per un altro, non l’avresti fatto. E di molti altri Santi leggiamo, che pigliavano con grande conformità e pazienza i rimedi che si facevano loro, ancorché fossero contrari a quello che ricercava la loro infermità. Ora in questa maniera abbiamo noi altri da pigliar gli errori, le trascuraggini e le negligenze sì del medico, come dell’infermiere, senza lamentarci dell’uno né incolpar l’altro. Questa è una cosa nella quale si scopre e si dimostra grandemente la virtù di un uomo: onde edifica grandemente un Religioso infermo il quale piglia con tranquillità d’animo e con allegrezza ogni cosa come venuta dalla mano di Dio, e si lascia guidare e governare dai Superiori e dagli infermieri, dimenticandosi, e deponendo totalmente ogni cura e sollecitudine di se stesso. Dice S. Basilio: Se hai confidata l’anima tua al Superiore, perché, non gli confidi ancora il tuo corpo? Se hai posta nelle mani di lui la salute eterna, perché non v’hai da mettere ancora la temporale (D. Basil, in reg. fusius disp. reg. 48)? E poiché la Regola ci dà licenza di deporre allora ogni pensiero del nostro corpo, e ce lo comanda (3 p. Const. c. 2, litt. G); dovremmo stimar grandemente questa cosa e valerci di così giovevole licenza. Al contrario dà molto mala edificazione il Religioso infermo, quando ha gran cura di sé, e di quel che gli hanno da dare, e come glielo hanno da dare, e se lo servono a puntino; e quando no, sa molto ben lamentarsi, e ancora mormorare. Dice molto bene Cassiano: L’infermità del corpo non è impedimento alla purità del cuore, anzi le serve d’aiuto, se si sa pigliare come dee essere pigliata. Ma guardati, dice (Cass. lib. 5, de inst. renun. c.7), che l’infermità del corpo non passi all’anima: che se uno s’inferma in questa maniera, e piglia occasione dall’infermità di far la volontà sua, e di non essere ubbidiente e rassegnato; allora l’infermità passerà all’anima, e farà che l’infermità spirituale dia più da pensare al Superiore, che la corporale. Non per esser uno infermo che lasciar di mostrarsi Religioso, né  pensare, che non vi sia più Regola per esso, e che può mettere ogni sollecitudine per pensare alla sua sanità e al buon governo del suo corpo, e dimenticarsi di quel che concerne il suo profitto. – L’infermo, dice il nostro S. Padre, dimostrando la sua umiltà e pazienza, non meno procuri di dare edificazione nel tempo dell’infermità a coloro che lo visiteranno, e seco converseranno e tratteranno, che quando era sano, per maggior gloria di Dio (Reg. 50 Summa). S. Gio. Crisostomo sopra quelle parole del Profeta, Domine, ut scuto bonæ voluntatis tuæ coronasti nos, trattando, come finché dura questa nostra vita, sempre v’è battaglia: Sempre, dice, abbiamo d’andar armati per essa; et ægroti, et sani: morbi enim tempore hujus maximæ pugnæ tempus est; quando dolores undique conturbant animam; quando tristitiæ obsident; quando adest diabolus incitans, ut acerbum aliquod verbum dicamus (D. Chrys. in Psal. V, 13): Il tempo dell’infermità è tempo molto proprio da star bene armati e ben preparati per combattere, quando da una banda i dolori ci turbano, la tristezza ci assedia, e il demonio, presa da ciò l’occasione, c’incita e stimola a parlare con impazienza e a lamentarci soverchiamente: e così allora è tempo di esercitare e mostrar la virtù. Per fin Seneca disse colà (Sen. ep. 78), che l’uomo forte ha occasione di esercitare la sua fortezza non meno nel letto mentre patisce infermità, che nella guerra combattendo contro i nemici; perché la principal parte della fortezza consiste più nel soffrire che nell’assalire: e così il Savio disse, che è migliore l’uomo paziente che il forte: Melior est patiens viro forti, et qui dominatur animo suo, expugnatore urbium (Prov. XVI, 32).

CAPO XVIII.

Si conferma quel che s’è detto con alcuni esempì.

Si legge della santa vergine Gertrude, che una volta le apparve Cristo nostro Redentore, il quale nella mano destra portava la sanità e nella sinistra l’infermità, e le disse, che s’eleggesse quel che voleva: al che ella rispose: Signore, quel che io desidero di tutto cuore, è, che voi non guardiate alla volontà mia, ma che facciate in me quello che sia per risultare a maggior gloria e gusto vostro ((3) Blos. c. 11 monil. spir.). Si racconta di un uomo devoto di san Tommaso Cantuariense (Marulus lib. 5, c. 4, et Jacob de Varagine), che essendo infermo andò al sepolcro del Santo a chiedergli, che pregasse Dio per la sua sanità; e la conseguì. Ritornando poi sano alla sua patria, si pose a pensar fra se stesso, che se l’infermità gli era conveniente per salvarsi, a che effetto desiderava la sanità? E gli fece tanta forza questa ragione, che ritornato al sepolcro, pregò il Santo, che chiedesse per lui a Dio quello che gli era più spediente per salvarsi; e così Dio gli rimandò l’infermità; ed esso se ne stette molto consolato con essa, conoscendo che quello era ciò che più gli conveniva. Il Surio nella vita di S. Bedasto Vescovo mette un altro esempio simile d’un uomo cieco, il quale nel giorno della transazione del Corpo di questo santo Vescovo desiderò grandemente vedere le sue sante Reliquie, e conseguentemente d’avere la vista per tal effetto. La conseguì dal Signore, e vide quello che egli desiderava; e ritrovandosi colla vista, tornò a far orazione, che se quella vista non gli era conveniente pel bene dell’anima sua, gli fosse restituita la cecità: e fatta questa orazione, ritornò cieco come prima. Narra S. Girolamo (D. Hieron. ep. ad Castr. cæcum), che essendo santo Antonio abbate chiamato da S. Atanasio vescovo alla città d’Alessandria, per aiutarlo a confutare e ad estirpar le eresie che ivi regnavano, Didimo, il quale era un uomo eruditissimo, ma cieco degli occhi corporali, trattò con sant’Antonio molte cose delle sacre Scritture, di maniera tale che il Santo restava ammirato dell’ingegno e della sapienza sua. E dopo aver trattato seco di queste cose, gli domandò, se si attristava per esser cieco; ma egli taceva, non bastandogli l’animo di rispondere per vergogna: finalmente domandato la seconda e la terza volta, confessò ingenuamente, che ne sentiva tristezza: allora il Santo gli disse: Mi meraviglio, che un uomo tanto prudente e saggio quanto tu sei, s’attristi e si dolga di non aver quello che hanno le mosche, le formiche e i vermicciuoli della terra; e non si rallegri d’avere quello che solo i Santi e gli Apostoli meritarono d’avere. Dal che si vede, dice S. Girolamo, che è molto meglio aver gli occhi spirituali che corporali. – Nell’Istoria dell’Ordine di S. Domenico racconta il P. F. Ferdinando del Castiglio (Chron. Ord. Praìd. 1 p. 1. 1, c. 49), che stando S. Domenico in Roma, visitava una donna inferma, afflitta, e gran serva di Dio, la quale s’era ritirata in una torre alla porta di S. Giovanni Laterano, e soleva il benedetto Padre confessarla molte volte e amministrarle il santissimo Sacramento. Questa donna si chiamava Bona, ed era la vita sua tanto conforme al nome, che come buona Dio l’ammaestrava in aver allegrezza ne’ travagli e quiete nella morte. Pativa un’infermità gravissima nelle mammelle che erano già incancherite e piene di vermi; di maniera tale che per qualsivoglia altra persona sarebbe stato tormento intollerabile, eccetto per essa che lo sopportava con pazienza mirabile e con rendimento di grazie. Per vederla S. Domenico tanto inferma e tanto approfittata nella virtù, l’amava grandemente: e un giorno dopo averla confessata e comunicata, così inspirato dal Signore, volle vedere quella sì stomacosa e terribil piaga; il che ottenne da lei, sebbene con qualche difficoltà. Quando Bona si scoprì e il Santo vide la marcia, il canchero e i vermi che bollivano, e la sua pazienza ed allegrezza, ebbe compassione di lei; ma più desiderio delle sue piaghe che de’ tesori della terra; e la pregò istantemente, che gli desse uno di quei vermi come per reliquia: non volle però la Serva di Dio darglielo, se prima non le prometteva di restituirglielo; perché  già era arrivata a gustar tanto di vedersi mangiar viva, che se alcuno di quei vermi le cadeva in terra, lo rimetteva nel suo luogo; e così su la sua parola glie ne diede uno che era ben grandicello e con un capo nero. Appena il Santo l’ebbe nelle mani, che si convertì in una bellissima perla, e. i Frati ammirati dicevano al lor Padre, che non gliela restituisse; l’inferma all’incontro domandando il suo verme diceva, che le restituissero la sua perla: e subito che le fu data, tornò alla prima forma di verme, e la donna lo ripose nelle mammelle ove s’era generato e si nutriva: e S. Domenico fatta orazione per essa, e datale la sua benedizione col segno della Croce, la lasciò, e si partì: ma calando giù per la scala della torre, caddero alla donna le mammelle incancherite coi vermi, e a poco a poco andò crescendo la carne, e fra pochi giorni fu sana affatto; raccontando a tutti le cose meravigliose che Dio operava per mezzo del suo Servo. – Nella medesima Istoria si narra (Chron. Ora. Præd. 1 p. lib. 1, c. 83), che trattando fra Reginaldo con S. Domenico di pigliare l’abito della sua Religione, ed essendo già deliberato di farlo, cadde infermo d’una febbre continua a giudicio dei medici mortale. Il Padre S. Domenico prese molto a cuore la sua sanità, e faceva per esso continua orazione a Dio Signor nostro, e così l’infermo, come lui, chiamavano la Madonna santissima in suo aiuto con molta divozione e sentimento. Stando ambedue occupati in questa domanda, entrò nella stanza di Reginaldo la sacratissima Regina del cielo con una chiarezza e splendore in estremo grado meraviglioso e celeste, accompagnata da due altre beate Vergini, che parevano santa Cecilia e santa Caterina martire, le quali s’accostarono insieme colla sovrana Signora al letto dell’infermo; il quale ella come Regina e Madre di pietà consolò, dicendogli: Che cosa vuoi che io faccia per te? ecco che io vengo a veder quel che domandi: dimmelo, e ti sarà dato. Restò sorpreso e confuso Reginaldo per così rara e celeste visione, e dubbioso di quello che gli convenisse fare, o dire; ma una di quelle Sante ch’erano in compagnia della Madonna, lo cavò presto presto da quella perplessità, dicendogli: Fratello, non chiedere cosa alcuna: mettiti totalmente nelle sue mani, che molto meglio saprà Ella dare che tu domandare. L’infermo s’appigliò a questo consiglio, come tanto prudente e accorto ch’egli era, e così rispose alla Vergine: Signora, io non domando cosa alcuna: non ho altra volontà che la tua; in essa e nelle tue mani mi metto. Le stese allora la sacra Vergine, e prendendo dell’olio che a questo effetto portavano quelle due Sante che le servivano di corteggio, unse Reginaldo nel modo che si suol dare l’Estrema Unzione, e fu di tanto grande efficacia il tatto di quelle sacre mani, che subito restò libero dalla febbre e sano, e così ristorato di forze corporali come se non fosse mai stato infermo. E quel che è più, insieme con quella sublime grazia gliene fu fatta un’altra maggiore nella virtù dell’anima, che da quell’ora innanzi non sentì mai più movimento sensuale né disonesto nella sua persona per tutta la vita sua in nessun tempo, luogo, né occasione. – Nell’Istoria Ecclesiastica si narra (Hist Eccl. p. 2, lib. 6, cap. 2), che fra le persone che fiorivano in quel tempo era molto illustre un tal Beniamino, il quale aveva dono da Dio di risanare gl’infermi senz’altra medicina che col solo tatto delle sue mani, ovvero ungendoli con un poco d’olio e facendo orazione sopra di essi. E con questa grazia di risanare altri, ebbe egli stesso una grave infermità d’idropisia per la quale si gonfiò tanto, che non poteva uscire dalla sua cella se non isgangheravan la porta; e così se ne stette dentro di essa per lo spazio di otto mesi, finché morì, sedendo in una sedia molto larga, ed ivi guarì molte infermità, senza lamentarsi né attristarsi di non poter rimediare alla sua propria; e a quei che gli avevano compassione recava conforto e diceva: Pregate Dio per l’anima mia, e non vi curate del corpo; che anche quando era sano non mi serviva per cosa alcuna. Nel Prato Spirituale (Prato spir. c. 10) si racconta d’un Monaco chiamato Bernabeo, al quale essendo accaduto, che per istrada se gli ficcò in un piede uno stecco, o scheggia di legno, non volle per alcuni giorni cavarsela, né esser medicato della ferita, per aver occasione di patire qualche dolore per amor di Dio. E si dice, che soleva dire a quei che lo visitavano, che quanto più patisce e si mortifica l’uomo esteriore, tanto più l’interiore si vivifica e fortifica. – Nella Vita di S. Pacomio il Surio racconta d’un Monaco chiamato Zaccheo, che con tutto che stesse infermo d’epilepsia, o malcaduco, non rimetteva punto del rigore della sua solita astinenza, ch’era in pane solo con sale; né meno cessava di far le orazioni che costumavano di fare gli altri Monaci sani, andando a Mattutino e alle altre Ore; il resto del tempo nel quale cessava dall’ orazione, si occupava in fare stuoie, sporte e corde; e per la ruvidezza di quell’erba, della quale le tesseva, aveva le mani tanto guaste e crepate, che sempre gli scorreva il sangue dalle crepature di esse; il che faceva per non istare ozioso; e la notte prima di dormire era solito di meditare qualche cosa della sacra Scrittura, e poi farsi il segno della Croce sopra tutto il corpo: fatto questo si riposava fin all’ora del Mattutino, al quale, come si è detto, si levava, durando in esso e in orazione fino a giorno. Cosi teneva distribuito il tempo questo santo infermo, e questi erano i suoi ordinari esercizi. Accadde una volta, che andò da lui un Monaco, il quale veggendogli le mani tanto guaste, gli disse, che se le ungesse con olio, che non avrebbe sentito tanto dolore delle crepature di esse. Lo fece Zaccheo, e non solo non se gli mitigò il dolore, ma se gli accrebbe molto più. Essendo poi andato a vederlo S. Pacomio, e raccontandogli egli quello che aveva fatto, il Santo gli disse: Pensi tu forse, o figliuolo, che Dio non veda tutte le nostre infermità, e che se gli piace, non le possa risanare? e quando non fa questo, ma permette che patiamo dolori sino a che piace a Lui, per qual fine credi tu che lo faccia? se non acciocché lasciamo a Lui tutta la cura di noi altri e in esso solo mettiamo ogni nostra fiducia? lo fa anche per bene e utilità delle anime nostre, acciocché possa dipoi accrescerci la mercede e il premio eterno per questi brevi travagli ch’Egli ci manda. Con questo si compunse grandemente Zaccheo, e gli disse: Perdonami, Padre, e prega Dio che mi perdoni anch’esso questo peccato di poca confidenza e conformità alla volontà sua e questo desiderio di guarire. E partitosi Pacomio, digiunò per penitenza di colpa così leggiera tutt’un anno, con tanto rigido digiuno, che non mangiava se non di due in due giorni, ed anche allora molto poco e piangendo. Soleva poi il gran Pacomio raccontare questo cosi notabile esempio a’ suoi Monaci, per esortarli alla perseveranza nel travaglio, alla fiducia in Dio, e a far conto de’ piccoli mancamenti.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (8)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (6)

     DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ  DI DIO (6)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VI.

CAPO XV.

Della conformità che abbiamo d’avere alla volontà di Dio circa la distribuzione de’ talenti e doni naturali.

Ciascuno ha da stare molto contento di quello che Dio gli ha comunicato in questa parte: ha da stare molto contento del talento, della intelligenza, dell’ingegno, dell’abilità e delle altre qualità che Dio gli ha date, e non ha da pigliarsi fastidio né da attristarsi per non avere tanta abilità, o talento, quanto il suo Fratello, o per non esser da tanto, quanto esso. Questa è una cosa della quale tutti abbiamo necessità; perché sebbene alcuni giudicano, o par loro d’essere eminenti in alcune cose, hanno però sempre altri contrappesi che gli umiliano, ne’ quali hanno necessità di questa conformità. Onde bisogna che stiamo avvertiti e preparati, perché il demonio suole assalir molti per questa via. Starai negli studi, e vedendo che il tuo condiscepolo spicca assai nell’abilita e nell’ingegno, e che argomenta e risponde molto bene, ti verrà forse qualche sorta d’invidia, che quantunque non arrivi ad aver dispiacere del bene del tuo fratello, che è propriamente il peccato dell’invidia; in fine però vedendo, che i tuoi compagni volano assai alto co’ loro ingegni, e fanno gran progresso co’ loro talenti, e che tu te ne resti indietro, e non puoi arrivarli, né alzar il capo, senti tristezza e malinconia, e te ne stai come scoraggiato e svergognato fra gli altri; onde ti viene un avvilimento, una mancanza d’animo e una tentazione di lasciar lo studio, e anche alle volte la Religione. Questa tentazione ha mandati alcuni fuori della Religione, perché non erano ben fondati in umiltà. Pensò colui a salire molto alto e a rendersi segnalato fra tutti gli altri, e che sarebbe corsa voce per tutta la provincia d’esser egli il migliore studente di quanti sono in quel corso; ma essendogli riuscita la cosa tutto al rovescio delle sue idee, resta tanto avvilito e mortificato, che non perdendo il demonio cosi buona occasione, gli rappresenta, che non si potrà liberare da quella vergogna né da quella tristezza, se non col lasciare la Religione. E non è nuova questa tentazione, ma molto antica. Nelle Cronache dell’Ordine di S. Domenico (Hist. Ordin. Præd. 1 p., lib. 3, c. 45) si narra un esempio a questo proposito d’Alberto Magno che fu maestro di S. Tommaso d’Aquino. Alberto Magno, essendo fanciullo, fu molto devoto della gloriosissima Vergine nostra Signora, e recitava ogni giorno ad onor di essa certe divozioni, e per mezzo e intercessione di Lei entrò nella Religione di S. Domenico in età di sedici anni: e si dice ivi, che essendo giovine non era di molto intendimento, anzi che era rozzo e di poca attitudine allo studio, e come si vedeva tra molti e molto rari ingegni de’ suoi condiscepoli, si piccava di tal maniera, che la tentazione lo strinse gagliardamente, e lo pose in gran pericolo, anzi sul punto di lasciar l’abito. Trovandosi in queste angustie e agitazioni di pensieri, ricevé meraviglioso soccorso da una visione. Dormendo egli una notte, gli pareva di mettere una scala e d’appoggiarla al muro del monastero per uscire da esso e andarsene via: e montando su per essa, vide nella cima quattro venerabili matrone, sebben l’una pareva signora e padrona delle altre. Arrivato che fu vicino ad esse, una lo prese, e lo buttò giù dalla scala, vietandogli l’uscita dal monastero. Ostinatosi volle salire un’altra volta, e la seconda matrona fece con lui il medesimo che aveva fatto la prima. Volle salir di nuovo la terza volta; e la terza matrona gli domandò la cagione per la quale si voleva partire dal monastero, ed egli rispose con faccia vergognosa: Signora, io me ne voglio andar via, perché veggo che gli altri miei compagni fanno profitto nello studio della Filosofia, e io m’affatico indarno: la vergogna che per questa cosa io patisco mi fa lasciare la Religione. Allora la matrona gli disse : Quella Signora che tu vedi lì (mostrandogli col dito la quarta), è la Madre di Dio e Regina de’ cieli, di cui noi tre siamo serve: raccomandati ad essa, che noi altre ti aiuteremo e la supplicheremo che interceda per te presso il suo benedetto Figliuolo, acciocché ti dia ingegno docile per poter far profitto nello studio. Fra Alberto intesa questa cosa si rallegrò grandemente; e, conducendolo quella matrona avanti alla gloriosissima Vergine, fu da essa ben ricevuto; e domandato dalla medesima, che cosa era quella che egli tanto desiderava e chiedeva, rispose, che d’apprendere la Filosofia, la quale egli studiava e non l’intendeva: e la Regina del cielo gli rispose, che stesse di buon animo e studiasse, che in quella facoltà, sarebbe riuscito un grand’uomo: ma acciocché tu sappia, soggiunse ella, che questo ti viene da me, e non dal tuo ingegno né abilità, alcuni giorni prima della tua morte, leggendo tu pubblicamente, ti scorderai quanto avrai saputo. Con questa visione egli rimase consolato, e da quel giorno in poi fece quel sì gran profitto nello studio non solo della Filosofia, ma anche della Teologia e della S. Scrittura, come il testificano le Opere che lasciò scritte: e tre anni prima della sua morte, mentre stava leggendo in Colonia, perde totalmente la memoria in quanto concerneva le scienze, rimanendo come se in vita sua non avesse mai saputa cosa alcuna di lettere. E forse questo fu anche in penitenza della poca conformità che aveva avuta alla volontà di Dio intorno al talento e l’abilità che il medesimo Dio gli aveva dato. E ricordandosi della visione ch’ebbe quando volle uscirsene della Religione, raccontò pubblicamente agli ascoltanti tutto quello che era passato; e così si licenziò da essi; e ritiratosi al suo convento, s’impiegò tutto in orazione e contemplazione. Acciocché dunque non abbiamo da vederci in simili pericoli, bisogna che stiamo ben avvertiti e preparati: e la preparazione necessaria per questo ha da essere molta umiltà. Perciocché dal mancamento di questa proviene tutta la presente difficoltà, non potendo tu tollerare d’esser tenuto per l’infimo studente del tuo corso. Se dunque le persone si avanzano a dirti, che non sei per passar avanti negli studi, e vedi i tuoi compagni Teologi, e dipoi Dottori e Predicatori; hai necessità per questo di molta umiltà e di molta conformità alla volontà di Dio. E l’istessa necessità avrai dopo gli studi, quando ti assalirà la tentazione per non vederti da tanto quanto gli altri; perché non hai talento per predicare, né per produrti e trattare come quell’altro, né perché a te si possano commettere negozi di qualche rilievo, né si possa fare gran conto sopra di te. E l’istesse dico di quelli che non sono nell’ordine degli studenti, a’ quali verranno certi pensieri e tentazioni, Oh s’io fossi studente! oh se fossi Sacerdote! oh se fossi dotto, per poter far frutto nelle anime! E tal volta potrà essere, che ti stringa tanto la tentazione, che ti metta in pericolo la vocazione, e ancor la salute, come è avvenuto ad alcuni. Questa è dottrina generale, e ciascuno la può applicar a se stesso secondo lo stato suo. E cosi è necessario, che tutti siano molto conformi alla volontà di Dio, contentandosi ciascuno del talento che Dio gli ha dato, e dello stato nel quale si trova posto, né voglia alcuno essere da più di quello che Dio vuole ch’egli sia. Il beato S. Agostino sopra quelle parole del Salmista, Inclinavi cor meum in testimonia tua, et non in avaritiam (Ps. CXVIII, 361), dice, che questo fu il principio e la radice d’ogni nostro male; perché i nostri primi progenitori vollero essere qualche cosa di più di quello che Dio gli aveva fatti, e desiderarono d’aver più di quello che Dio aveva loro dato; perciò caddero dallo stato nel quale erano, e perdettero quel che avevano avuto. Il demonio pose loro innanzi quell’esca, Eritis sicut Dii, scientes bonum et malum (Gen. III, 5): Sarete simili a Dio. Con questo gl’ingannò e gli abbattè. E questa eredità abbiamo avuta noi altri da essi, che abbiamo un certo appetito di divinità ed una certa pazzia e frenesia di voler essere più di quello che siamo. E come per quella via la cosa riuscì bene al demonio co’ nostri primi progenitori; perciò va procurando egli di far guerra anche a noi altri per lo medesimo mezzo, incitandoci a desiderare di essere da più di quello che Dio vuole che siamo, e a non contentarci del talento ch’Egli ci ha dato, né dello stato nel quale ci ha posti. E perciò dice S. Agostino, che il Profeta domanda a Dio: Signore, datemi un cuore disinteressato e fedelmente inclinato al vostro gusto e alla vostra volontà, e non a’ miei interessi e comodità. Per avarizia, dice, che s’intende ivi ogni sorta d’interesse, e non la sola cupidità del denaro. E questa, dice S. Paolo che è la radice di tutti i mali: Radix omnium malorum est cupiditas (I . ad Tim. VI, 10). – Or acciocché tutti abbiamo questa indifferenza e disposizione, conformandoci alla divina volontà e contentandoci del talento che il Signore ci ha dato, e dello stato e grado nel quale ci ha posti, basta sapere, che questa è la volontà di Dio. Hæc autem omnia operatur unus atque idem spiritus, dividens singulis prout vult, dice S. Paolo a que’ di Corinto (1. ad Cor. XII, 11). Si serve ivi l’Apostolo di quell’allegoria del corpo umano che apportammo anche di sopra ad un altro proposito (tract. 4, c.4); e dice, che siccome Dio pose i membri nel corpo, ciascuno nel modo ch’Egli volle, e non si lamentarono i piedi di non esser fatti capo, né le mani di non esser fatte occhi; così ha fatto anche nel corpo della Chiesa, e il medesimo è nel corpo della Religione. Dio ha posto ciascuno nel luogo e ufficio che gli è piaciuto: non è seguita questa cosa a caso, ma con particolar consiglio e provvidenza sua. Se dunque Dio vuole che siate piedi; non è ragione che voi vogliate esser capo: e se Dio vuole che siate mani; non è ragione che vogliate esser occhi. Oh quanto alti e profondi sono i giudicii di Dio! Chi li potrà mai comprendere? Quis enim hominum poterit scire consilium Dei (Sap. IX, 13)? Tutte le cose, Signore, procedono da Voi, e per questo dovete in ogni cosa esser lodato. Voi sapete quel che conviene che si dia a ciascuno, e per qual cagione uno abbia più e un altro meno: non conviene a noi altri il discuterlo. Che sai tu, che cosa sarebbe stata di te, se avessi avuto grande ingegno ed abilità? Che sai tu, se avessi avuto un gran talento pel pergamo, gran concorrenza d’ascoltanti, e gran fama e stima, che non fossi per quella via andato in perdizione, come vi sono andati altri, insuperbendosi e pavoneggiandosi? Quelli che sono letterali, dice quel Santo (Thomas a Kemp. lib. 1, c. 2, n, 2. Scientes libenter volunt videri, et sapientes dici.), hanno caro di esser tenuti e chiamati tali. Se con due quattrini d’ingegno che hai e con tre soldi di lettere che sai, se con una mediocrità e forse meno che mediocrità, sei tanto vano e gonfio, che ti stimi e paragoni, e forse ti preferisci ad altri, e t’aggravi di non esser eletto per questa e per quell’altra cosa; che faresti, se in cose tali avessi dell’eccellenza? che sarebbe, se tu avessi certe parti rare e straordinarie? Nascono le ali alla formica per suo male; e così forse sarebbero nate a te. Veramente se avessimo occhi, e non occhiali né capricci, renderemmo infinite grazie a Dio dell’averci costituiti in istato basso ed umile, e dell’averci dato poco talento e poca abilità: diremmo con quel Santo: Reputo, Signore, gran beneficio il non aver molte cose, onde esteriormente e secondo l’opinione degli uomini me ne risulti lode e gloria (1Thom. a Kemp. lib. 3, c. 22, n. 4.). I Santi conoscevano molto bene il gran pericolo che suol essere in queste eminenze ed eccellenze; e così non solo non le desideravano, ma le temevano, per lo pericolo grande di diventare con esse vani e di perdersi. Ab altitudine diei timebo (PS. LV, 4): E con ciò piacevano più a Dio il quale vuole i suoi servi più umili che grandi. Oh se finissimo di farci capaci, che ogni cosa è vanità, eccetto che il fare la volontà di Dio! Oh se finissimo di metter ogni nostro gusto nel gusto di Dio! Se tu senza lettere, e tu pure con manco lettere e abilità, puoi dare più gusto a Dio, a che proposito, e tu desiderare le lettere? e tu parimente desiderare più lettere, più abilità e più talento? Se per qualche fine avessimo da desiderare queste cose, dovrebbe essere per dar gusto e per servir meglio a Dio con esse. Or se Dio è più servito, o  dall’esser tu senza lettere, o dal non averne tu più, né più talento, né più abilità, come è ciò certo, poiché egli è quegli che ha fatta questa distribuzione, di che cosa t’hai da pigliare fastidio? Perché vuoi esser da più di quel che Dio vuole? Perché vuoi esser quello che a te stesso non conviene che tu sii? Non piacquero a Dio que’ gran sacrifici che Saulle gli volle offerire (I. Reg. XIII, 10, et c. XV, 21), perché la cosa non camminava conforme alla volontà sua: e così né anche piaceranno a Dio cotesti desideri tuoi alti ed elevati. Che non istà il nostro bene né il nostro profitto e perfezione nell’esser dotti, né gran Predicatori, né in aver grandi abilità e talenti, né in attendere e occuparsi in cose alte ed eminenti; ma in fare la volontà di Dio, in render buon conto di quel che ha posto e fidato nelle nostre mani, e nell’impiegar bene il talento che ci ha dato: onde in questo abbiamo da metter gli occhi, e non in quelle altre cose, perché questo è quello che Dio vuole da noi altri. È molto buona similitudine per dichiarar questo quella de’ comici, la cui lode e premio non si regola dal personaggio che rappresentano, ma dal buon modo e garbo col quale ciascuno, attesa la voce, il portamento ed il gesto, lo rappresenta: onde se fa meglio la parte sua colui che rappresenta la persona del villano che colui che rappresenta la persona dell’Imperadore, quel primo viene ad essere più stimato e lodato da’ circostanti, e meglio premiato da’ giudici. Nell’istessa maniera quel che Dio riguarda e stima in noi altri in questa vita (la quale tutta è come una rappresentazione e commedia che finisce presto, e piaccia a Dio che per alcuni non sia tragedia) non è il personaggio che rappresentiamo, chi di Superiore, chi di Predicatore, chi di Sagrestano, chi di Portinaio; ma bensì con quanto buon garbo si porta ciascuno nel personaggio che rappresenta: onde se il Coadiutore fa meglio il suo ufficio e rappresenta meglio il suo personaggio che non fanno il Predicatore, o il Superiore il loro, sarà più stimato nel cospetto di Dio, più premiato e più onorato. Talvolta forse non avrebbe saputo uno rappresentar bene la persona del Re, e rappresentando quella d’un servidore, o d’un pastore, si guadagnò onore e riportò premio. Così ancora tu non avresti forse saputo rappresentare bene il personaggio di Predicatore, o di Superiore, e rappresenti bene quello di Confessore; e tu altresì quello di Coadiutore. Dio sa molto bene distribuire le parti, e dar a ciascuno quella che più gli conviene: Unicuique secundum propriam virtutem (Matt. XXV, 15): Proporzionatamente al capitale e alle forze di ciascuno dice il sacro Evangelio che distribuì quel padrone i talenti. Perciò nessuno abbia desiderio né di fare altro personaggio, né di avere altri talenti; ma procuri ciascuno di rappresentar bene quel personaggio che gli è stato assegnato, e d’impiegar bene quel talento che ha ricevuto, e di poter rendere buon conto di esso; perché in questo modo piacerà più a Dio ed avrà maggior premio.

CAPO XVI.

Della conformità alla volontà di Dio che dobbiamo avere nelle infermità.

Siccome la sanità è dono di Dio, così ancora è dono di Dio l’infermità la quale il Signore ci manda per provarci, per correggerci e per farci emendare, e per molti altri beni ed utilità che da essa si sogliono cavare; come sono, conoscere la nostra debolezza; chiarirci della nostra vanità; staccarci dall’amore delle cose terrene e dagli appetiti della sensualità; e stenuare le forze e i capricci del nostro maggior nemico, che è la carne, e ricordarci, che questa terra non è la patria nostra, ma come un’osteria e un luogo di nostro esilio, ed altre cose simili. Per lo che disse il Savio: Infirmitas gravis sobriam facit animam (Eccli. XXI, 8): L’infermità grave fa l’anima sobria, temperata e forte. E così abbiamo da esser tanto conformi alla volontà di Dio nell’infermità, quanto nella sanità, accettandola come venuta dalla mano del Signore quando piacerà a Lui di mandarcela. Diceva uno di que’ Padri antichi ad un suo discepolo il quale era infermo: Figliuolo, non ti attristare per l’infermità, anzi ringrazia Dio per essa, perché se sei ferro, col fuoco perderai la ruggine, e se tu sei oro, col fuoco sarai provato; e vi aggiungeva, che è gran virtù ed è cosa da vero Religioso ringraziare Dio nell’infermità. Narra il Surio di S. Chiara nella Vita di lei, che per lo spazio di ventotto anni ebbe gravi infermità, e che fu tanto grande la sua pazienza, che in tutto quel tempo non fu mai udita lamentarsi né mormorare del suo gran patimento, anzi che sempre ringraziava il Signore: e nella sua ultima infermità, stando ella tanto oppressa dal male, che in diciassette giorni non poté mangiar boccone, consolandola il suo Confessore fra Rinaldo, ed esortandola ad aver pazienza in così lungo martirio di tante infermità, ella rispose cosi: Da che conobbi la grazia del mio Signore Gesù Cristo per mezzo del suo santo servo Francesco, nessuna infermità m’è stata dura, nessuna pena molesta e nessuna penitenza grave. È anche meravigliosa a questo proposito, di rarissimo esempio, e che darà grand’animo e consolazione agl’infermi, la vita della santa vergine Liduvina, la quale ebbe per trent’otto anni continue gravissime e straordinarie infermità e dolori; e trenta di essi se ne stette senza potersi levare da un povero letticciuolo né toccar terra co’ piedi; e in quello stato il Signore le faceva grandissime grazie (Refert Surius tom. 7, fol. 277, et Villega 3 p. Vit. 189). Ma perché ci si sogliono rappresentare alcune ragioni particolari con colore e apparenza di maggior bene, per impedirci questa indifferenza e conformità, andremo rispondendo e soddisfacendo ad esse. E primieramente potrebbe dire alcuno: Per quel che tocca a me, non mi curerei più d’esser infermo, che d’esser sano; ma quel che mi duole è, che mi pare di essere di peso alla Religione e di apportare disturbo in Casa. A questo rispondo, che è un giudicare i Superiori e quei della Casa di poca carità e di poca conformità alla volontà di Dio. I Superiori ancora attendono alla perfezione e a pigliare tutte le cose come venute dalla mano del Signore, e a conformarsi in esse alla sua divina volontà; onde se Dio vuole che tu stia infermo e che essi si occupino in compatirti e in consolarti, e in farti curare e servire, vorranno anch’essi il medesimo: e come tu porti la croce che Dio ti dà, così porteranno essi quella che toccherà loro, con gran conformità alla volontà del Signore. Ma mi dirai: Ben veggo la carità grande che in questo s’usa nella Compagnia. Quel che mi dà fastidio non è altro che il frutto che potrei fare studiando, predicando, o confessando, e il mancamento che in ciò ne proviene dallo stare io infermo. A questo risponde molto bene S. Agostino (D. Aug. lib. de catechizandis rudibus, c. 14), dicendo, che noi altri non sappiamo, se sarà meglio fare quello che vorremmo, o il lasciare di farlo: e così abbiamo sempre da architettare e ordinare le cose secondo la nostra capacità: e se dipoi le potremo fare nel modo che noi altri ce le siamo già architettate, non abbiamo da rallegrarci dell’essersi fatto quel che noi abbiamo pensato e voluto, ma dell’esser piaciuto al Signore che così si facesse: e succedendo che non venga ad effetto quello che noi altri abbiamo pensato e disegnato, non dobbiamo perciò turbarci né perder la pace dell’animo: perché æquius est, ut nos ejus, quam ut ille nostram sequatur voluntatem: è tanto più ragionevole, che noi seguiamo la volontà e disposizione di Dio, ch’egli la nostra. E conchiude S. Agostino con una meravigliosa sentenza: Nemo melius ordinat quid agat, nisi qui paratior est non agere, quod divina potestate prohibetur, quam cupidior agere, quod fiumana cogitatione meditatur: Colui ordina e disegna meglio le cose sue il quale sta più disposto e preparato per non far quello che Dio non vuole ch’egli faccia, di quello che stiasi desideroso e ansioso di fare quello che esso ha disegnato e pensato. Or in questa maniera e con questa indifferenza dobbiam noi altri pensare e ordinare quello che abbiamo da fare; cioè con istar sempre molto disposti a conformarci alla volontà di Dio, caso che la cosa non succeda come l’abbiamo pensata. E così non ci turberemo né ci attristeremo quando per infermità, o per altra simil cagione, non potremo far quello che avevamo pensato e disegnato, ancorché le cose in sé siano di molta utilità per le altrui anime. Dice molto bene il padre maestro Avila scrivendo ad un Sacerdote infermo (M. Avil. tom. 2epist.): Non istare a far conto di quel che faresti essendo sano; ma di quanto piacerai al Signore contentandoti di stare infermo. E se cerchi, come credo che tu cerchi, la volontà di Dio puramente, che cosa t’importa più lo stare sano che infermo, poiché la volontà sua è tutto il nostro bene? S. Gio. Crisostomo dice, che meritò più e piacque più a Dio il santo Giob con quel suo, Sìcut Domino placuit, ita factum est: sit nomen Domini benedictum (Chrys. in Job I.21), con ciò pienamente conformandosi alla divina  volontà sua in que’ travagli e in quella lebbra che gli mandò, che con quante limosine e beni fece essendo sano e ricco. Ora nell’istesso modo tu piacerai più a Dio conformandoti alla volontà sua quando stai infermo, che con quanto avresti potuto fare stando sano. Il medesimo dice il glorioso S. Bonaventura: Perfectius est adversa tolerare patienter, quam bonis operibus insudare (D. Bonav. de gradibus virtutum.c. 24, et lib. 2 de prof. Belig. o. 37, affert hoc ex D. Greg.): È maggior perfezione il sopportarecon pazienza e conformità i travaglie le avversità, che l’attendere ad opere molto buone: che Dio non ha necessità dime, né di te, per far il frutto che vuole nella sua Chiesa: Ego dixi, Deus meus es tu, qùoniam bonorum meorum non eges (Psal. XV, 2). Adesso egli vuol predicar a te coll’infermità, e vuole che impari ad avere pazienza ed umiltà. Lascia fare a Dio, che Egli sa quello che più conviene, e tu non lo sai. Se per qualche cosa avessimo da desiderare la sanità e le forze, dovrebbe essere per impiegarle in servire e in piacer più a Dio. Se dunque il Signore si tiene per più servito, e gli piace più che io m’impieghi nello star infermo e nel sopportare con pazienza i travagli dell’infermità, faccia si la volontà sua; che questo è il meglio e quello che più mi conviene. Permise il Signore che l’apostolo S. Paolo (Act. XXVIII, 30), Predicatore delle Genti, stesse prigione per lo spazio di due anni, e in quel tempo di tanta necessità per la primitiva Chiesa. Non paia a te gran cosa che Dio ti tenga prigione coll’infermità per due mesi, o per due anni,o per tutta la vita, se a Lui piacerà, che non sei tu tanto necessario nella Chiesa di Dio. quanto l’era l’apostolo S. Paolo. Ad alcuni quando vien loro un qualche male, o sono soggetti a certe indisposizione. di mala sanità lunghe e continue, si suole rappresentare come una cosa molto penosa per loro il non poter proseguire a fare la vita comune, e lo aver da essere singolari in molte cose; del che sentono gran dispiacere, parendo loro, o di non esser tanto Religiosi quanto gli altri, o almeno che gli altri potranno rimanere scandalizzati, veggendo le loro particolarità e i migliori trattamenti che lor si fanno; specialmente non apparendo alle volte tanto nell’esteriore l’infermità e la necessità di qualcuno, ma sapendo solamente Dio e. l’infermo quanto egli patisce: e intantoqueste singolarità ed esenzioni danno moltonegli altrui occhi. Al che rispondo, chequesto è un molto buon riguardo e un moltogiusto sentimento, ed è cosa lodevole l’averlo:ma questo non ti ha da tórre laconformità alla volontà di Dio nell’infermità;ma bensì da raddoppiarti il merito, conformandoti tu da un canto interamente alla volontà di Dio in tutte le tue in disposizioni e infermità, poiché Egli vuole che tule patisca; e dall’altro avendo gran desiderio,quanto è dalla parte tua, di uniformarsi alla Religione in tutti gli esercizi di. essa molto puntualmente ed esattamente, e sentendo con dispiacere nel cuor tuo il non far tutto quello che fanno gli altri;perché in questo, oltre quel che meriti sopportando l’infermità colla pazienza e conformità, puoi anche meritar tanto in questa seconda cosa, quanto gli altri che sono sani, e stanno bene, e fanno tutti gli esercizi della Religione. S. Agostino nel Sermone sessagesimosecondo de Tempore, trattando dell’obbligo che tutti avevano di digiunare in quel santo tempo di Quaresima sotto pena di peccato mortale, e venendo a trattar di colui che è infermo e non può digiunare, dice: A colui basta il non potere digiunare e il mangiar con dolore nel cuor suo, gemendo e sospirando perché digiunando gli altri egli non può digiunare. Siccome il valente soldato che portato al padiglione ferito sente più il non poter combattere né segnalarsi nel servigio del suo Re, che il dolore delle ferite e del rigore che s’usa seco in medicargliele; così è cosa da buoni Religiosi, quando sono infermi, sentir più il non poter proseguire la vita comune né far gli esercizi della Religione, che l’istessa infermità. Ma al fine né questa né altra cosa alcuna ci ha da distorre dal conformarci alla volontà di Dio nell’infermità, accettandola come mandata dalla sua mano, per maggior gloria della Divina Maestà Sua,e per maggior bene e utilità nostra. Il beato S. Girolamo racconta, che facendo istanza un Monaco al santo abbate Giovanni l’Egizio, che lo risanasse d’una infermità e febbre grave che aveva, gli rispose il Santo: Rem Ubi necessariam cupis abjicere: ut enim corpora nitro, vel aliis hujusmodi linimentis abluuntur a sordibus; ita animæ languoribus, aliisque hujusmodi castigationibus purificantur (D. Hier, in Vit. Petr.): Vuoi torti di dosso una cosa che ti è molto necessaria, perché siccome l’immondezza e sporchezza delle cose corporali si leva con sapone, o con lisciva forte, o con altre cose simili; cosi le anime si purificano coll’infermità e co’ travagli.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (5)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [5]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO. XIII

Della indifferenza e conformità alla volontà di Dio che ha da avere il Religioso per andare a stare in qualsivoglia parte del mondo ove lo mandi l’ubbidienza.

Acciocché possiamo cavar maggior frutto da quest’esercizio della conformità alla volontà di Dio e mettere in pratica quello che abbiamo detto, andremo specificando alcune cose principali nelle quali abbiamo da esercitarci, e di poi discenderemo ad altre cose generali appartenenti a tutti. Cominceremo dunque adesso da alcune particolari che abbiamo nelle nostre Costituzioni, poiché in esse principalmente vuol la ragione che il Religioso mostri la sua virtù e religiosità: e ciascuno potrà applicare la dottrina ad altre cose simili che siano nella sua Religione, o nel suo stato. Nella parte settima delle Costituzioni, trattando il nostro S. Padre delle Missioni, che sono uno dei principali impieghi del nostro Istituto, dice, che quelli della Compagnia hanno da essere indifferenti per andare e per risedere in qualsivoglia parte del mondo ove l’ubbidienza li manderà, fra i Fedeli, o Infedeli, alle Indie, o fra gli Eretici (7 p. Const. c. 1, § 1).E di questo fanno i Professi il quarto voto solenne di una speciale obbedienza al sommo Pontefice, obbligandosi ad andar prontamente e speditamente, senza alcuna sorta di scusa in qualsivoglia parte del mondo, ove alla Santità Sua piacerà di mandarli, senza domandar cosa alcuna temporale, né per sé, né per altra persona, né pel viaggio, né per istare colà; ma andarsene a piedi, o a cavallo, co’ denari, o senza, e chiedendo limosina, come al sommo Pontefice parerà meglio. E dice ivi il nostro santo Padre,che il fine e l’intenzione di far questo voto fu per meglio così assicurarsi di fare la volontà di Dio. Perché essendo que’ primi Padri della Compagnia di diverse Provincie, e Regni, e non sapendo in quali parti del mondo si sarebbe Dio compiaciuto più di essi, se tra’ Fedeli, o tra gl’Infedeli per incontrare la divina sua volontà, fecero quel voto nelle mani del Vicario di Cristo, acciocché egli li distribuisse pel mondo, ove, e come giudicasse, che fosse per esser maggior gloria di Dio. Ma il Soggetto della Compagnia, dice il Santo, non s’ha da intromettere in questo, né ha da procurare in modo alcuno d’andare, o stare, in un luogo più tosto che in un altro; ma ha da esser molto indifferente, lasciando la libera ed intera disposizione di sé nelle mani del Superiore, che in luogo di Dio lo governa a maggior servizio e gloria sua. – Acciocché si vegga quanto indifferenti e quanto disposti vuole il nostro S. Padre che stiamo per andare in qualsivoglia parte del mondo ove l’ubbidienza ci mandi, leggiamo nella sua Vita (Lib. 5, c. 4 Vitæ S. P. N. Ignatii),che una volta il padre Diego Laynez gli disse, che gli veniva desiderio d’andare alle Indie a procurar la salute di quella cieca Gentilità, la quale periva per mancamento d’operai evangelici; e il nostro Padre gli rispose: Io non desidero niente di questo: e domandato della cagione di ciò, disse: Perché avendo noi altri fatto voto d’ubbidienza al sommo Pontefice, acciocché a piacer suo ci mandi in qualsivoglia parte del mondo in servizio del Signore, abbiamo a mantenerci in ciò indifferenti per modo, che non incliniamo più ad una che ad un’altra banda: anzi aggiunse, se io mi sentissi inclinato, come voi, ad andar alle Indie procurerei di inclinarmi alla parte contraria, per venir a possedere quell’equanimità e indifferenza che è necessaria per acquistare la perfezione dell’ubbidienza. Non vogliamo dire per questo, che siano cattivi, o imperfetti, i desideri delle Indie, perché non sono tali, ma molto buoni e santi: ed è anche cosa buona il proporli e rappresentarli al Superiore, quando il Signore li dà. E cosi lo dice ivi il santo nostro Fondatore (7 p. Const. C. 2, litt. L).Si rallegrano i Superiori, che i sudditi rappresentino loro questi desideri; perché sogliono esser segno, che Dio li chiama per quello, e così le cose si fanno con soavità. Ma diciamo questo, acciocché si vegga l’indifferenza e la prontezza che il nostro santo Padre vuole che abbiamo per andare e stare in qualsivoglia parte del mondo; poiché né anche ad una cosa tanto faticosa, e di tanto servizio del Signore, quali sono le Missioni delle Indie, vuole che stiamo soverchiamente affezionati; acciocché questa affezione e desiderio particolare non ci tolga, o c’impedisca l’indifferenza e la prontezza che abbiamo d’avere sempre per qualsivoglia altra cosa e per qualsisia altra parte ove l’ubbidienza, ci voglia mandare. – Quindi vengono in conseguenza alcune cose colle quali questo s’intenderà meglio. La prima è, che se i desideri delle Indie fossero cagione a chi gli ha di perder punto  di questa indifferenza e prontezza per altre cose che l’ubbidienza gli ordinasse, non sarebbero buoni, ma imperfetti. Se io avessi tanta voglia e desiderio di andare alle Indie, o ad altra parte del mondo, che questo m’inquietasse e mi fosse cagione di non istar tanto contento qui, o in altro luogo, ove l’ubbidienza vuole che io stia, ovvero che non abbracciassi tanto volentieri né facessi con tanta applicazione i ministeri presenti nei quali ora mi occupa l’ubbidienza, per tener posto il pensiero e il cuore in quell’altro impiego che io desidero, è cosa chiara, che questi desideri non sarebbero buoni né verrebbero da Dio, poiché impediscono la sua divina volontà, e Dio non può esser contrario a se stesso; specialmente non essendo soliti i desideri ispirati dallo Spirito santo di recar seco inquietudine; ma molta pace e tranquillità. E questo è uno dei segni che mettono i Maestri della vita spirituale, per conoscere, se le ispirazioni e i desideri sono da Dio, o no. – La seconda cosa che viene in conseguenza di questa prima, è, che quello il quale ha una disposizione universale pronta ed indifferente per andare in qualsivoglia parte del mondo, e per far qualsisia cosa che l’ubbidienza gli ordini, ancorché non abbia quei particolari desideri e quell’inclinazione d’andar alle Indie, o ad altre parti remote, che hanno altri, non occorre che di ciò n’abbia dispiacere né se ne prenda fastidio: perché non per questo è di peggior condizione, anzi di migliore; imperocché questa è la disposizione che il nostro santo Padre vuole che abbiamo tutti nella Compagnia; cioè, che quanto è dal canto nostro, non abbiamo desiderio né affezione particolare più a questa che a quell’altra cosa; ma che stiamo come la linguetta della bilancia, senza inchinare più ad una che ad un’altra banda: e di questi ve ne sono molti, e credo la maggior parte. Trattava una volta il nostro santo Padre di mandar il padre maestro Natale ad una certa Missione, e volle prima saper da lui a che cosa inclinava, per farlo con maggior soavità: e il padre Natale gli riscrisse: Che a nessun’altra cosa inclinava, che a non inclinare (Lib. 5 Vitæ S, Ign.).Questa cosa tiene il nostro santo Padre per migliore e più perfetta: e con ragione; perché l’altro pare che si leghi ad una cosa sola; ma questi colla sua indifferenza abbraccia tutte le cose che gli possono essere comandate, e sta ugualmente disposto ed esposto a tutte esse: e come Dio guarda il cuore ela volontà di ciascuno, ela valuta quanto l’opera nel suo divino cospetto; per ciò questo èper lui come se già avesse posta in esecuzione ogni cosa. – E per finire di dichiarar questo punto, dico, che se uno non ha questi desideri delle Indie per codardia, pusillanimità e immortificazione, e per non bastargli l’animo di lasciare le comodità che gli par d’avere, o di poter avere in questi paesi di qua, né di patire i grandi travagli che colà si passano; questa sarà imperfezione e amor proprio: ma chi non lascia di desiderar questo per codardia, né perché gli manchino desideri ed animo per patire questi ed altri maggiori travagli per amor di Dio e per la salute delle anime; ma unicamente perché non sa, se sia quella la volontà di Dio, o se la Divina Maestà Sua vuol da lui altra cosa; stando però egli sempre dal canto suo tanto pronto e disposto per questo, e per tutto quello che conoscerà esser volontà di Dio (talché se lo manderanno alle Indie, o in Inghilterra, o in qualsisia altra parte del mondo, v’andrà cosi volentieri, come se ciò avesse desiderato e domandato, e forse ancora più volentieri, per esser più sicuro, che non fa in questo la volontà sua, ma puramente quella di Dio) dico, che fuori di ogni dubbio questa è cosa molto migliore e più perfetta. E così quelli che hanno questa disposizione e indifferenza sono anche mandati volentieri dai Superiori alle Indie. Ma ritornando al nostro punto principale, vuole il santo nostro Fondatore, che abbiamo tutti tanta indifferenza e rassegnazione per istare così volentieri in uno come in un altro luogo, e così in una come in un’altra provincia, che né anche il riguardo alla salute corporale basti per tòrci questa indifferenza. Dice egli nella terza parte delle Costituzioni (3 p. Const. C. 2, litt. F et 2 Summ.), che è proprio della nostra vocazione e del nostro Istituto,andare in vari luoghi e vivere in qualsivoglia parte del mondo dove si speri maggior servizio di Dio ed aiuto delle anime: ma se per esperienza si vedesse che ad alcuno fosse nociva l’aria di qualche paese e che continuamente vi stesse con mala sanità; che il Superiore consideri, se conviene, che quel tale si mandi ad un altro luogo, ove, trovandosi con maggior sanità, possa impiegarsi meglio nel servizio di Dio e delle anime. Dice però, che non ha da domandare l’infermo questa mutazione, nemmeno ha da mostrare inclinazione ad essa; ma che ha da lasciarne tutta la cura al Superiore: Non tàmen erit ipsius infirmi hujusmodi mutationem postulare, nec animi propensionem ad eam ostendere; sed Superioris curce id relinquetur (ut sup. in declarat. Litt. F). In questo non ricerca da noi poco, ma molto il nostro santo Padre: perciocché bisogna bene che uno sia molto indifferente e mortificato per non domandare mutazione, anzi nemmeno mostrare inclinazione per essa, tutto che, dove trovasi, vi stia continuamente con mala sanità (7 p. Const. C. 3 litt. I).Di maniera che in quello che dicevamo, di andar alle Indie, o in paese di Eretici, dice, che può ben uno proporre la sua inclinazione e il suo desiderio, con indifferenza però e con rassegnazione; ma in questo non dà licenza per domandar mutazione e né anche per mostrar inclinazione e desiderio di essa, che è molto più: solamente dà licenza, che chi si sente infermo possa proporre al Superiore la sua infermità e indisposizione, e quindi l’inabilita’ in cui trovasi per eseguire i ministeri ingiuntigli: e di ciò ne abbiam Regola la qual ordina, che tutto ciò proponiamo; ma fatta questa proposta, non ha il suddito da far altro. Il Superiore è quegli a cui tocca il vedere se, supposto questo, sarà conveniente mandarlo ad altro luogo, ove stando meglio di sanità, possa fare di più, o se sarà maggior gloria di Dio, che se ne resti colà, benché faccia meno, o non faccia niente. Questa non è cura del suddito. Si lasci ciascuno guidare dal suo Superiore il quale lo governa in luogo di Dio, e tenga per meglio e per maggior servizio del Signore quello che il Superiore ordinerà. Quanti sono che se ne stanno in questi paesi e in altri più contrari alla sanità loro, perché in essi hanno di che vivere mediante il lor ufficio, arte, o professione, o qualche beneficio? quanti passano il mare, e vanno alle Indie, a Roma, e a Costantinopoli, per un poco di roba, e mettono a pericolo non solo la sanità, ma anche la vita? Non sarà dunque gran cosa che noi altri, essendo Religiosi, facciamo per Dio e per l’ubbidienza quel che fanno gli uomini del mondo per amor del denaro. E se ti passerà pel pensiero, che in altra parte potresti far qualche cosa, anzi molte assai, e che ove stai, sei tanto mal andato di sanità, che non puoi far nulla; ricordati, che con tutto ciò è meglio star qui per volontà di Dio, senza far cosa alcuna, che in altro luogo per volontà tua, ancorché facessi assai; e conformati alla volontà di Dio il quale vuole adesso questo da te per la ragione e pel fine che Egli sa, e che non è necessario che tu sappia. Nelle Croniche dell’Ordine di S. Francesco (1 p. lib 7, c. 5 Hist. Min.)si racconta del santo fra Egidio, che avendogli il beato S. Francesco data licenza d’andar ove volesse e di stare nella provincia e monastero che più gli gustasse, lasciando il tutto a sua elezione, per esser molto grande la virtù e santità sua; appena stette quattro giorni con quella licenza, che gli mancò la tranquillità e quiete di prima, e sentì l’inquietudine che perciò aveva l’anima sua; onde andatosene da S. Francesco, gli chiese con grande istanza, che gli assegnasse luogo e monastero ove avesse da stare, e non lasciasse questa cosa alla sua elezione; certificandolo, che in quella libera e larga ubbidienza egli non poteva quietar sé né l’anima sua. I buoni Religiosi non trovano pace né contentezza nell’adempimento della volontà loro; e così non desiderano questa né quell’altra cosa, o luogo, ma che l’ubbidienza di man sua li metta ove vuole, perché stanno persuasi, quella essere la volontà di Dio nella quale sola trovano riposo e contentezza.

CAPO XIV.

Dell’indifferenza e conformità alla volontà di Dìo che dee avere il Religioso per qualsivoglia ufficio e occupazione in che l’ubbidienza lo voglia mettere.

Questa medesima indifferenza e rassegnazione abbiamo d’avere ancora per qualsivoglia ufficio e occupazione in che ci voglia Mettere l’ubbidienza. Veggiamo bene quanti sono e quanto differenti gli uffici e le occupazioni della Religione. Or vada ognuno discorrendo per quelli sin a tanto che arrivi a sentirsi ugualmente disposto per ciascuno d’essi. Dice il nostro S. Padre nelle Costituzioni, e l’abbiamo nelle Regole: Nell’esercizio degli uffici umili e bassi più prontamente si debbono accettar quelli ne’ quali il senso trova più ripugnanza; se però gli sarà imposto ch’egli si eserciti in quelli (C. 4 exam. § 28, et Eeg. 13 Summ.).Per gli uffici umili e bassi è più necessaria l’indifferenza e la rassegnazione, attesa la ripugnanza che ha in essi la nostra natura. Onde fa più uno, e mostra maggior virtù e perfezione nell’offerirsi a Dio per questi uffici, che nell’offerirsi per altri più eminenti e onorevoli. Come se uno avesse tanto desiderio di servir un padrone che s’offrisse di servirlo per tutta la sua vita in qualità di staffiero, o di scopatore, se bisognasse; è cosa chiara, che farebbe più costui e mostrerebbe meglio la volontà sua di servirlo, che se dicesse: Signore, io vi servirò di scalco, o di maggiordomo; perché questo è più tosto domandar favori che offerir servizi: e tanto più sarebbe da stimarsi quell’umile offerta, quanto maggior talento avesse per uffici eminenti quegli che si offre per vili. Ora nell’istesso modo se tu ti offri a Dio, dicendo, Signore, io ti servirò in ufficio di Predicatore, o di Lettore di Teologia, non fai in ciò gran cosa; perché questi uffici alti e onorevoli sono di sua natura appetibili: poco mostri in ciò il desiderio che hai di servir Dio. Ma quando ti offerisci a servire nella Casa di Dio tutta la vita tua in uffici umili e bassi, e ripugnanti alla tua carne e sensualità, allora mostri molto più il desiderio di servire Sua Divina Maestà. Questa è cosa più degna d’esser gradita e stimata: e tanto più quanto maggior talento avrai per uffici più alti. Questo ci dovrebbe bastare per desiderare gli uffici umili e bassi, e per farci sempre inclinare più ad essi, specialmente non vi essendo nella Casa di Dio ufficio alcuno che si possa dir basso. Anche nella Corte di un Re si dice, che non v’è ufficio basso; perché il servir al Re, in qualsivoglia ufficio che sia, si stima per cosa molto onorevole: quanto più si dee stimare il servir a Dio, il servire a cui è regnare? S. Basilio (D. Basil., in reg. fusius disputatis interrog. 7) per affezionarci agli uffici umili e bassi apporta l’esempio di Cristo di cui leggiamo nel sacro Evangelio che s’occupò in simili uffici, abbassandosi a lavare i piedi a’ suoi discepoli, e non solo facendo questo, ma anche servendo lungo tempo la sua santissima Madre e S. Giuseppe, e stando soggetto e ubbidiente ad essi in ciò che gli comandavano: Et erat subditus illis (2Luc. II, 51). Dai dodici anni fino ai trenta non ci racconta il sacro Evangelio altra cosa di Lui, che questa. Nel che considerano i Santi molto bene, che doveva Egli servirgli ed aiutargli in molti uffici umili e bassi, specialmente essendo essi tanto poveri, quanto erano. Dunque Non dedignetur facere Christianus, quod fecit Christus (D. Augnst. tract. 58, sup. Jo. circa Illa verba: Si ergo ego lavi etc.): Non isdegni il Cristiano, e molto meno il Religioso, di far’ quello che fece Cristo, Poiché non ebbe a schifo il Figliuolo di Dio d’occuparsi in questi uffici bassi per amor nostro; non abbiamo a schifo né anche noi altri di occuparci in essi per amor suo, ancorché sia questo per tutto il tempo della nostra vita. Ma venendo più al nostro proposito, una delle ragioni e motivi principali che ci ha da far accettare tanto volentieri qualsivoglia ufficio e occupazione che ci dia l’ubbidienza, ha da essere il persuaderci, che questa è la volontà di Dio: perché, come di sopra abbiam detto, questo ha da esser sempre la nostra consolazione e la nostra contentezza in tutte le nostre occupazioni, lo star facendo in esse la volontà di Dio. Questo è quello che consola ed appaga l’anima: Dio vuole che io faccia questo adesso, questa è la volontà di Dio, non occorre desiderare altro; perché non vi è cosa migliore né più alta che la volontà di Dio. Quei che procedono in questo modo, nulla si curano che sia comandata loro più tosto questa che quell’altra cosa, né che li mettano in ufficio alto, o basso, perché per loro è tutt’uno. – Il beato S. Girolamo racconta un esempio molto buono a questo proposito (D. Hier. In reg. Mon. c. 12.).Dice, che visitando egli que’ santi Monaci dell’Eremo, ne vide uno al quale il Superiore, desiderando il suo profitto, ed anche di far vedere per di lui mezzo un esempio d’ubbidienza agli altri giovani, gli aveva comandato, che per due volte in ciascun giorno portasse su le sue spalle un sasso molto grande per lo spazio di tre miglia, senza che di ciò vi fosse necessità né utilità alcuna, eccetto l’ubbidire ed il mortificare il proprio giudicio: ed erano già otto anni che faceva questa cosa. E come un fatto tale, dice S. Girolamo, a quei che non conoscono il valore di questa virtù dell’ubbidienza, né sono arrivati alla purità e semplicità di essa, poteva forse, secondo lo spirito loro tuttavia altero e superbo, parer giuoco da fanciulli, ovvero azione oziosa; perciò gli domandavano, come sopportava quell’ubbidienza; ed io stesso ancora, dice il Santo, glielo dimandai, desideroso di sapere qual movimenti sentisse nell’anima sua facendo quel che faceva: e il Monaco mi rispose: Così contento e allegro io mi rimango quand’ho fatta questa cosa, come se avessi fatta la più alta e più importante che mi si fosse potuta comandare. Dice S. Girolamo, che lo commosse tanto questa risposta, che da quell’ora cominciò egli a vivere come Monaco. Questo è esser Monaco e vivere come vero Religioso, non guardar altro nell’esteriore, se non che stiamo facendo la volontà e il gusto di Dio. Questi sono quelli che fanno profitto e crescono grandemente in virtù e perfezione; perché si nutriscono sempre di fare la volontà di Dio; si nutriscono di fior di farina : Et adipe frumenti satiat te (Ps. CXLVII, 14). – Ma mi dirà qualcuno: Io veggo bene, che è gran perfezione fare la volontà di Dio in tutte le cose, e che in qualsivoglia esercizio che mi sia comandato posso star facendo questa divina volontà; ma io vorrei esser occupato in altra cosa di maggiore rilievo ed in essa fare la volontà di Dio. Questo è errore ne’ primi principii, perché in buon volgare questo è volere che Dio faccia la volontà tua, e non voler tu fare quella di Dio. Non ho io da dar legge a Dio, né ho da volere eh’ egli sì conformi a quello che par a me e a quello che io vorrei; ma tocca a me seguitar i disegni di Dio, e conformarmi a quel che Egli vuole da me. Dice molto bene S. Agostino: Optimum minister tuus est, qui non magis intuetur hoc a te audire, quod ipse voluerit, sed potius hoc velle, quod a te audierit (1D. Aug. lib. 10 Conf. c. 26): Quegli è buon vostro servo, o Signore, il quale non istà a guardare, se quello che gli comandate è conforme, o no, alla sua volontà; ma unicamente vuole quello che gli comandate. E il santo abbate Nilo dice: Non ores, ut fiant, quæ fieri velis; sed potius ora, sìcut orare didicisti, ut fiat voluntas Dei in me (D. Nil. c. 29 de orat.). Non chiedere a Dio, che faccia quel che tu vuoi; ma chiedi quello che c’insegnò Cristo di chiedere; cioè, che si faccia in te la volontà sua. Notisi questo punto il quale è molto utile e universale per tutti i travagli e accidenti che ci possono occorrere. Non dobbiamo noi altri eleggerci in che cosa e come abbiamo da patire. Ma l’ha da far Dio. Non hai da eleggerti tu le tentazioni che hai da avere, né hai da dire, se fosse qualunque altra tentazione non me ne curerei niente, ma questa non la posso tollerare. Se lepene e i travagli che ci vengono fossero quelli che noi altri vogliamo, non sarebbero travagli né pene. Se da vero desideri di piacer a Dio, gli hai da chiedere, che ti guidi per dove Egli sa e vuole, e non per dove vuoi tu. E quando il Signore ti manderà quello che ti è più disgustevole, e quello che abborrisci più di patire, e tu a questo ti conformerai; allora imiterai più Cristo nostro Redentore il quale disse: Non si faccia, Signore, la volontà mia, ma la tua (Luc. XXII, 42). Questo è avere intera conformità alla volontà di Dio; offrirsi totalmente a Lui acciocché faccia di noi quanto, quando, e come vorrà, senza eccezione né ripugnanza dal canto nostro, e senza riservare per noi cosa alcuna. Narra il Blosio (Blos. o. 10 mon. spir.; et Tilm. Bredembr. 1. 8, coll. c. 29), che la santa vergine Gertrude, mossa da pietà e misericordia, pregava Dio per una certa persona la quale aveva ella inteso che con impazienza andavasi lamentando perché Dio le mandava alcuni travagli, infermità e tentazioni, che le pareva che non convenissero a lei. Ma il Signore rispose alla santa vergine: Dirai a cotesta persona, per la quale tu preghi, che atteso che il regno de’ cieli non si può acquistare senza qualche travaglio, o molestia, s’elegga ella quel travaglio e quella molestia che le pare per sé più utile; e quando poi le verrà, abbia pazienza. Dalle quali parole e dal modo nel quale il Signore gliele disse, conobbe la santa vergine, esser una specie d’impazienza molto pericolosa, quando l’uomo si vorrebbe eleggere da se stesso le cose nelle quali ha da patire, dicendo, che quelle che Dio gli manda non sono convenienti alla sua salute, né le può sopportare. Perciocché ciascuno s’ha da persuadere e confidare, che quello che Dio Signor nostro gli manda, è quello che è per lui più espediente: e così l’ha da ricevere con pazienza, conformandosi in esso alla volontà di Dio. Ora siccome non hai da far elezione de’ travagli né delle tentazioni che hai da patire, ma hai da accettare come dalla mano di Dio quelle che egli ti manda, e star persuaso che quelle sono per te più espedienti; così né anche hai da eleggerti l’ufficio, o ministero, che hai da fare, ma accettare come dalla mano di Dio quello nel quale l’ubbidienza ti metterà, con persuaderti, che sia desso quello che più ti conviene. Aggiungono qui un altro punto molto spirituale; e dicono, che la persona ha da star tanto rassegnata nella volontà di Dio, e si ha da confidare e pienamente abbandonarsi in Lui, che né pur desideri di sapere quello che Dio vorrà fare e disporre di lei (Blos. c. 15, mon. spir.).Siccome quando un signore si fida tanto d’un maggiordomo, che non ha notizia della sua roba né sa quello che ha in casa, questo è segno di gran confidenza; quale appunto disse il patriarca Giuseppe avere di lui avuta il suo padrone: Ecce dominus meus, omnibus miài traditis, ignorat quid hàbeat in domo sua (Gen. XXXIX, 8); così mostra uno d’aver gran confidenza in Dio quando non vuol sapere quello che Dio sia per disporre di lui. Sto in buone mani: questo mi basta: In manibus tuis sortes meæ (Ps. XXX, 16): Con questo io sto contento e sicuro; non ho bisogno di saper più oltre. Per quelli che desiderano luoghi, uffici, o ministeri più alti, parendo loro che in quelli farebbero maggior frutto nelle anime e renderebbero maggior servigio a Dio, dico, che s’ingannano grandemente in pensare che questo sia zelo del maggior servigio di Dio e del maggior bene delle anime; perché non è così, ma zelo e desiderio di onore, di riputazione e delle proprie comodità: e per esser quell’ufficio, o quel ministero più onorevole, o più conforme al gusto e inclinazion loro, perciò lo desiderano; il che si vedrà chiaramente da questo, che se tu stessi colà nel secolo, o pur fossi solo nella Religione, pare che potresti dire, questo è meglio che quello e di maggior frutto per le anime : voglio lasciar quello per far questo, perché non si può far ogni cosa; ma qui nella Religione non s’ha da lasciar questo per quello, l’un e l’altro s’ha da fare: è ben vero, che se tu fai il contralto, l’altro ha da fare il contrabasso: e s’io fossi umile, più tosto avrei da volere che l’altro facesse l’ufficio alto, dovendo io credere che lo farebbe meglio di me, e con maggior frutto, e con minor pericolo di vanità. Per questo e altre cose simili, è molto buona una dottrina del nostro S. P. Ignazio (P. N. Ign. lib. Exero. spir. sub die 5, hebd. 2),la quale viene posta da lui come fondamento per le elezioni; e vi mette tre gradi, o modi d’umiltà, il terzo de’ quali, e il più perfetto, è, che offrendosi due cose d’ugual gloria e servigio di Dio, io elegga quella nella quale vi sarà maggior dispregio e vilipendio per me, per assomigliarmi e imitare con ciò maggiormente Cristo nostro Redentore e Signore il quale volle essere dispregiato e vilipeso per noi altri. Nel che si trova un altro gran bene, che in queste cose in cui vi è meno d’interesse proprio, non ha l’uomo occasione di cercar se medesimo, né corre quel pericolo d’invanirsi in esse che corre nelle alte e onorevoli. Negli uffici bassi si esercitano unitamente l’umiltà e la carità, e con essi si conserva grandemente questa virtù dell’umiltà, come con atti propri di essa; ma negli alti ed eminenti s’esercita la carità con pericolo dell’umiltà; il che ci dovrebbe bastare non pure per non desiderarli, ma per temerli.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (4)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [4]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO X.

Della paterna e particolar provvidenza che Dio ha di noi altri, e della figlial confidenza che abbiamo da avere noi altri in Lui.

Una delle maggiori ricchezze e tesori che godiamo noi altri che abbiamo fede, è il sapere la provvidenza tanto particolare e tanto paterna che Dio ha di noi, mentre siam certi, che non ci può venire né succedere cosa alcuna che non sia ordinata da Lui e che non passi per le sue mani. E così disse il Profeta: Domine, ut scuto bonæ voluntatis tuæ, coronasti nos (Psal. V, 13.): Signore, ci hai circondati e custoditi colla tua buona volontà, come con uno scudo fortissimo. Siamo circondati per ogni parte dalla buona volontà di Dio, sicché non può entrare in noi cosa alcuna, se non passi prima per essa: e così non abbiamo di che temere; perché eEgli non lascerà entrare né arrivare a noi cosa alcuna, se non sia per maggior bene e utilità nostra. Quoniam abscondit me in tabarnaculo suo: in die malorum protexit me in abscondito tabernaculi sui (Ps. XXVI, 5), dice il reale Profeta. Nella parte più intima del suo tabernacolo e del suo gabinetto segreto ci tiene Dio nascosti; ci tien custoditi sotto le sue ali: e in un altro luogo dice ancora più di questo: Abscondes eos in abscondito faciei tuæ (XXX, 212). Ci nasconde il Signore nella parte più nascosta e più difesa della sua faccia, che sono gli occhi; nelle pupille di essi ci nasconde ; e così un’altra lettera dice : In oculis faciei tuæ. Dio ci considera come pupille degli occhi suoi, acciocché così si verifichi bene quello che dice in altro luogo lo stesso santo Profeta: Custodi me, ut pupillam oculi (Ibìd. XVI , 8): e quello che disse Egli stesso per Zaccaria: Qui teligerit vos, tanget pupillam oculi mei (Zach. II, 8): come pupille degli occhi suoi siamo custoditi sotto la sua protezione. Chi toccherà voi altri, dice Dio, toccherà me nella luce degli occhi. Non si può immaginare cosa più rara né più preziosa, né da stimarsi e desiderarsi più di questa. Oh se finissimo di conoscere e d’intender bene questa cosa, quanto protetti ed aiutati ci sentiremmo, e quanto animati e consolati staremmo in tutte le nostre necessiti travagli! Se di qua un figliuolo avesse padre molto ricco e potente, e molto intimo e favorito del Re; quanta confidenza e sicurezza non avrebb’egli, che in tutti i negozi che gli occorressero non gli fosse mai per  mancare il favore e la protezione di suo padre? Ora con quanta maggior ragione abbiamo d’avere questa confidenza e sicurezza noi altri, considerando, che abbiamo per Padre quegli nelle cui mani sta tutta la podestà del cielo e della terra, e che non ci può avvenir cosa alcuna senza che passi prima per le sue medesime mani? Se una sì fatta confidenza ha un figliuolo in suo padre, e con essa se ne dorme quieto; quanto maggiormente dobbiamo averla noi altri in quello che è più Padre che tutti i padri, e in comparazione del quale non meritano gli altri nome di padre? Perciocché non vi sono viscere d’amore che si possano paragonare a quelle di Dio verso di noi, le quali superano infinitamente tutti gli amori che possono essere in tutti i padri terreni. Possiamo ben confidare e assicurarci di tal Padre e Signore, che ciò che ci manderà sarà per nostro maggior bene ed utilità: perché l’amore che ci porta nel suo unigenito Figliuolo non gli lascerà far altro che cercare il bene di coloro per amor de’ quali diede il proprio Figliuolo in potere de’ dolori della croce: Qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed prò nobis omnibus tradidit illum; quomodo non etiam cum illo omnia nobis donam? dice l’apostolo S. Paolo (Ad Rom. VIII, 32): Quegli che ci diede il suo unigenito Figliuolo e l’espose alla morte per noi altri, che cosa non farà per noi? Quegli che ci diede il più, come non ci darà il meno? E se tutti debbono avere questa confidenza in Dio; quanto maggiormente i Religiosi i quali Egli ha ricevuti particolarmente per suoi, e ha dato loro spirito e cuore di figliuoli, ed ha fatto che non curino e lascino i loro padri carnali, e piglino esso per Padre? Che cuore e amor di padre, e che cura e provvidenza terrà Dio di questi tali! Quoniam pater meus et mater mea dereliquerunt me  Dominus autem assumpsit me (PS. XXVI, 10). Oh quanto buon Padre t’hai preso in cambio di quello che hai lasciato! Con maggior ragione e con maggior confidenza puoi dir tu: Dominus regit me, et nihil mihi deerit (Ps. XXII, 2): Dio s’ha preso l’assunto e la cura di me e di tutte le cose mie; non mi mancherà niente: Ego autem mendicus sum, et pauper: Dominus sollicitus est mei (Psal. XXXIX, 18): Dio ha una molto amorosa e sollecita cura di me. Chi non si consolerà con questo, e non si liquefarà in amore di Dio? Che voi, Signore, vi abbiate preso l’assunto di me, e abbiate di me tanta cura, come se in cielo e in terra non aveste altra creatura da governare, che me solo? Oh se scavassimo e ci profondassimo bene in quest’amore e in questa provvidenza e protezione tanto paterna e tanto particolare che Dio ha di noi altri! – Quindi ne nasce ne’ veri Servi di Dio una molto cordiale e figlial confidenza in Lui; la quale in alcuni è tanto grande, che non vi è figliuolo nel mondo che in tutte le sue cose confidi tanto nella protezione di suo padre, quanto confidano essi in quella di Dio; perché sanno, che ha verso di loro viscere più che paterne, e ancora più che materne, le quali sogliono esser più tenere, siccome lo dice Egli stesso per mezzo d’Isaia: Numquid oblivisci potest mulier infantem suum, ut non misereatur filio uteri sui? et si illa oblita fuerit, ego tamen non obliviscar tui. Ecce in manibus meis descripsi te: muri tui coram oculis meis semper (Isa. XLIX, 15,16): Qual madre vi è che si dimentichi del suo figliuoletto che è ancora in fasce? e che non abbia cuore per muoversi a pietà di chi di fresco è uscito dalle sue viscere? E se pure sarà possibile, che si dia una madre nella quale cada una tale dimenticanza; in me però, dice il Signore, parlando colla sua diletta Gerusalemme, non cadrà questa giammai; perché ti tengo scritta nelle mie mani e le tue mura stanno sempre dinanzi agli occhi miei; come s’avesse detto: Io ti porto in palma di mano e ti tengo sempre dinanzi a’ miei occhi per proteggerti e difenderti. E per mezzo del medesimo Profeta ci dichiara questo con un’altra similitudine molto tenera ed espressiva: Qui portamini a meo utero (Isa. XLVI. 3). Siccome la donna, quando ha concepito, porta il bambino dentro delle sue viscere, ed essa gli serve di casa, di lettica, di muro, di sostegno e di ogni cosa; così dice Dio che Egli ci porta nelle sue viscere. Con questo i Servi di Dio vivono in tanta confidenza e si tengono per tanto assistiti e protetti in tutte le cose loro, che non si turbano né s’inquietano per qualunque accidente che avvenga loro in questa vita: Et in tempore siccitatis non erit sollicitum (Jer. XVII, 8). Il cuore de’ giusti, dice il profeta Geremia, non patisce sconvolgimenti, né perde la sua quiete né il suo riposo per i vari successi e avvenimenti che accadono, perché sanno essi, che nessuna cosa può avvenire senza volontà del loro Padre, e vivono molto tranquilli e affidati nel suo grande amore e bontà, che disporrà ogni cosa per maggior bene loro; e che tutto quello che torrà loro da una parte, lo restituirà loro da un’altra, con concedere loro qualche altra cosa che sia per essi molto più utile e vantaggiosa. Da questa confidenza tanto ferma e tanto figliale che hanno i giusti in Dio nasce nell’anima loro quella pace, tranquillità e sicurezza grande di cui godono, secondo quello che si legge in Isaia: Et sedebit populus meus in pulchritudine pacis, et in labernaculis fiduciæ, et in requie opulenta (Isa. XXXII,18). Dice, che si riposeranno i suoi figliuoli in una bellissima pace, e ne’ tabernacoli della confidenza, e in un riposo molto compiuto e abbondante di tutti i beni. Ove il Profeta congiunse molto bene la pace colla confidenza; perché dall’una viene conseguentemente l’altra: dalla confidenza Segue la pace; perché chi confida assai in Dio non ha di che temere, né di che turbarsi, poiché ha Dio in suo aiuto, ed esso gli fa spalla in tutto: onde diceva il Profeta: In pace in idipsum dormiam, et requiescam. Quoniam tu, Domine, singulariter in spe constituisti me (Psal. IV, 9, 10): In pace insieme dormirò e riposerò; perché tu, Signore, hai assicurata la mia vita colla speranza della tua misericordia. Di più non solo cagiona gran pace questa confidenza figliale, ma cagiona anche gran gaudio ed allegrezza: Deus autem spei, dice l’apostolo S. Paolo, repleat vos omni gaudio, et pace, in credendo; ut abundetis in spe, et viriute Spiritus sancti (Ad Rom. XV, 13). Quella ferma credenza, che Dio sa quello che fa e che quello che fa lo fa per nostro bene, opera in noi, che non sentiamo que’ tumulti, quelle angosce e quelle inquietudini che sentono quei che guardano le cose con occhi di carne; anzi fa, che stiamo con grande allegrezza in tutti gli avvenimenti: e quanto più uno abbonderà in questa confidenza, tanto più abbonderà in gaudio e allegrezza spirituale: perciocché quanto più si fida ed ama, tanto più resta quieto e sicuro, ch’ogni cosa se gli ha da convertire in bene, né meno di questo può credere né sperare da quella bontà e amore infinito di Dio. Questo faceva star i Santi tanto quieti e sicuri in mezzo a’ travagli e a’ pericoli, che non temevano né gli uomini, né i demoni, né le bestie, né altre creature irragionevoli, perché sapevano, che senza licenza e volontà di Dio non li potevano toccare. E così S. Atanasio racconta del . beato S. Antonio (D. Athanas. de S. Antonio), che gli apparvero una volta i demoni in diverse forme spaventevoli, e in figure d’animali fieri, di leoni, di tigri, di tori, di serpenti e di scorpioni, attorniandolo, e minacciandolo colle loro unghie, denti, ruggiti e fischi formidabili, che pareva, che se lo volessero allora allora inghiottire. E il Santo si burlava di essi, e diceva loro: Se voi aveste qualche forza, basterebbe uno solo di voi altri per combattere contra un uomo; ma perché siete deboli, avendovi Dio tolte le forze, procurate di fare una grande adunanza di canaglia, per farmi con ciò paura. Se il Signore vi ha data podestà sopra di me, eccomi qui, inghiottitemi: ma se non n’avete podestà né licenza da Dio, a che proposito vi affaticate in vano? Nel che si vede bene la pace e la fortezza grande che cagionava in questo Santo il sapere, che non gli potevano far cosa alcuna senza la volontà di Dio, e l’essere Egli tanto conforme ad essa. E di questi esempi ne abbiamo molti nelle Istorie Ecclesiastiche (D. Greg. lib. 3 Dialog. c. 16, ref., aliud simile exemplum). – Del nostro S. P. Ignazio leggiamo un esempio simile nel quinto Libro della sua Vita; e nel secondo Libro (Lib. 5 in Vita N. P. S. Ign. c. 9, et Lib. 2, c. 5) si narra di lui, che navigando egli una volta verso Roma, si levò una tempesta tanto gagliarda, che spezzato l’albero per la forza del vento, e perdute molte sarte, tutti temevano e si preparavano per la morte, parendo, che fosse già arrivata per loro l’ultima ora. E in questo frangente tanto pericoloso, mentre tutti gli altri stavano tremando collo spavento della morte, egli non sentiva timor alcuno: solo gli dava fastidio il parergli di non aver servito Dio tanto quanto era suo debito; ma nel resto non trovava occasione di temere: Quia venti et mare obediunt ei (Matth. VIII, 27): Perché il mare e i venti anch’essi ubbidiscono a Dio, e senza licenza e volontà sua non si levane le onde né le tempeste, né possono affogar alcuno. Or a questa viva e figlial confidenza in Dio, e a questa tranquillità e sicurezza abbiamo da procurare noi altri di arrivare colla grazia del Signore, mediante questo esercizio della conformità alla volontà di Dio, scavando e profondandoci coll’orazione e colla considerazione in questa ricchissima miniera della provvidenza tanto paterna e particolare che Dio ha di noi altri. Io son certo, che nessuna cosa mi può avvenire, e che nessuna me ne possono far gli uomini, né i demonii, né creatura alcuna, più di quello che Dio vorrà e né darà loro licenza. Or facciasi questo in me alla buon’ora, che io non lo ricuso, né voglio altra cosa che la volontà di Dio. Di S. Gertrude leggiamo (Blos. c. 11, monil. spir.), che mai non poterono farla vacillar d’un tantino nella costanza e sicura confidenza che aveva nella benignissima misericordia di Dio, pericolo alcuno, né tribolazione, né la perdita delle cose sue, né altri impedimenti, né meno i peccati e difetti propri; perché certissimamente confidava, che tutte le cose, sì prospere come avverse, erano dalla Divina Provvidenza convertite in suo bene. E una volta il Signore disse a questa santa vergine: Quella sicura confidenza che l’uomo ha in me, credendo, che realmente posso, so e voglio fedelmente aiutarlo in tutte le cose, mi ferisce il cuore, e fa tanta violenza al mio amore, che in un certo modo né posso dall’una parte risolvermi di favorire un uomo tale, per il gusto che sento al vederlo così dipendente da me e per lasciargli questa bella occasione di accrescergli il merito; ma dall’altra parte né meno posso tralasciare di favorirlo, per farla da quel Dio che Io sono, e per soddisfare a quel grande amore che gli porto. Così parlava al modo nostro d’intendere, come chi sia dal suo amore tenuto sospeso tra due partiti, senza sapere a qual si debba risolvere. Di S. Metilde si racconta (Blos, ubi supra), che il Signore le disse: Mi dà gran gusto il vedere, che gli uomini confidino nella mia bontà e molto si promettano di me: perché qualunque avrà in me molto umile confidenza e si fiderà bene di me, sarà da me favorito in questa vita, e nell’altra gli farò più bene di quello ch’Egli merita. Quanto più uno si fiderà e più si prometterà della bontà mia, tanto più otterrà e conseguirà da me: perché è impossibile che l’uomo non ottenga da me quello che santamente ha creduto e sperato d’ottenere, avendolo Io promesso. E per questa ragione giova all’uomo, che, sperando easpettando da me cose grandi, si fidi bene di me. E alla medesima S. Metilde la quale domandò al Signore, che cosa principalmente era ragione che si credesse della sua ineffabile bontà, rispose Egli: Credi con fede certa, ch’Io ti riceverò dopo la tua morte in quella guisa ch’un padre riceve un suo dilettissimo figliuolo; e che non si trovò giammai padre che con tanta fedeltà spartisse la roba sua coll’unico figliuolo, come Io comunicherò teco tutti i miei beni e me stesso. – Chiunque fermamente e con umil carità crederà questo della bontà mia, sarà beato.

CAPO XI.

 D’alcuni luoghi ed esempi della sacra Scrittura, i quali ci aiuteranno ad acquistare questa fiducia e figliale confidenza in Dio.

Per la prima cosa sarà bene, che veggiamo l’universale costume che avevano quegli antichi Patriarchi d’attribuir a Dio tutti gli avvenimenti, per qualsivoglia via o mezzo loro venissero. Nel capo quarantesimo secondo del Genesi narra la sacra Scrittura, che ritornandosene via dall’Egitto i fratelli di Giuseppe col grano ivi comprato, e avendo egli ordinato al suo maggiordomo, ch’alla bocca del sacco di ciascuno avesse legato il danaro del prezzo del grano, tale e quale essi l’avevano portato; nel mentre ch’essi se n’andavano proseguendo il lor viaggio, si fermarono in una osteria, e volendo dar da mangiare alle loro bestie del grano che portavano, il primo di essi, aperto il sacco, vide subito la sua borsetta col denaro, e lo disse agli altri; ciascuno de’ quali, aperto il sacco, vi trovò similmente il suo denaro. Dice qui la Scrittura, che turbati fra di loro dissero: Quidnam est hoc, quod fecit nobis Deus (Gen, XLII, 23)? Che cosa è questa che ha fatta Dio con noi? È cosa molto degna d’esser notata, che non dissero: Questo è un inganno che ci è stato ordito; qualche calunnia è qui nascosta: né dissero: Il maggiordomo per trascuraggine ha lasciato il denaro di ciascuno nel suo sacco: né dissero: Forse ha voluto farci limosina del denaro: ma attribuendo ciò a Dio, dissero: E che vuol dir questa cosa che Dio ha fatta con noi? con ciò confessando, che poiché non si muove una foglia d’albero senza volontà di Dio, né anche quella cosa era accaduta se non per divina volontà. E quando essendo andato Giacobbe in Egitto, Giuseppe insieme co’ suoi figliuoli lo andò a visitare; e il vecchio padre gli domandò, che fanciulli erano quegli, egli rispose: Filii mei sunt, quos donavit mihi Deus in hoc loco (Gen. LVIII, 9): Sono figliuoli miei che Dio m’ha dati in questa terra dell’Egitto. L’istesso rispose Giacobbe, quando incontratosi col suo fratello Esaù, questi gli domandò, che fanciulli erano quelli che conduceva seco? Parvuli sunt, quos donavit mihi Deus (Gen. XXXIII, 5): Sono, disse, figliuoli che il Signore m’ha dati. E porgendogli certo presente, gli disse: Suscipe benedictionem, quam attuli tibi, et quam donavit mihi Deus tribuens omnia (ibi, XXXIII, 11): Ricevi questo presente, e lo chiama benedizione di Dio, il cui benedire è far bene; la qual benedizione, dice egli, a me ha compartita quel Signore che è datore di tutte le cose e a tutti. Ancora quando David andava molto adirato a distruggere la casa di Nabal, e Abigaile sua moglie gli uscì incontro con un presente per placarlo, disse David: Benedictus Dominus Deus Israel, qui misit hodie te in occursum meum ne ìrem ad sanguinem (I Reg. XXXV, 32,33): Benedetto sia il Signore Iddio d’Israele il quale t’ha mandata oggi, acciocché incontrandomi tu, io non passassi a spargere il sangue della casa di Nabal; come se detto avesse: Tu non sei già venuta da te stessa; ma Dio ti ha mandata, acciocché io non peccassi: a Lui sono io debitore di questa grazia, Egli ne sia Iodato. Questo era il linguaggio comune di que’ Santi; e così dovrebbe anch’essere il nostro. Ma venendo più al punto, è meravigliosa per questo proposito quell’Istoria del santo Giuseppe (Gen. XXXVII), mentovato di sopra, il quale fu venduto per ischiavo a certi mercatanti dell’Egitto da’ suoi fratelli mossi da invidia, acciocché non venisse a comandar loro e ad esser loro sovrano, secondo quello che s’era sognato; e quel medesimo mezzo ch’essi presero per annientarlo, e per assicurarsi, che non arrivasse a comandar loro, lo prese Iddio per suo mezzo, affine di mettere in esecuzione i disegni della sua divina Provvidenza, e per far che Giuseppe venisse ad esser padrone de’ suoi fratelli e di tutta la terra d’Egitto: e così il medesimo Giuseppe lo disse loro quando si die’ loro a conoscere, ed essi rimasero spaventati ed atterriti del caso: Nolite pavere, neque vobis durum esse videatur, quod vendidistis me in his regionibus: prò salute enim vestra misit me Deus ante vos in Ægyptum… Præmisit queme Deus, ut reservemini super terram, et escas ad vivendum habere possitis (Gen. XLV, 5 et 7.): Non vogliate temere né vi spaventate per avermi voi venduto a chi già mi condusse in questi paesi; perciocché Dio m’ha mandato qua per ben vostre, acciocché abbiate da mangiare e non perisca né abbia fine il popolo d’Israello. Dio, disse, m’ha mandato: Non vestro Consilio, sed Dei voluntate huc rnissus sum: Non è seguito questo per vostro consiglio: sono stati disegni di Dio questi. Num Dei possumus resistere voluntati? Vos cogitastis de me malum: sed Deus vertit illud in bonum, ut escaltaret me, sicut in præsentiarum cernitis, et salvos faceret multos populos (Ibid. L, 19 et 20): Possiamo noi forse resistere alla volontà di Dio? Voi altri pensaste per questi mezzi di farmi male, ma Dio me lo convertì tutto in bene, come al presente vedete. Ora chi con questo esempio non si fiderà di Dio? chi temerà i disegni degli uomini e le traversie del mondo, poiché veggiamo, che sono tutti tiri accertati che vengono dalla mano di Dio? e che i mezzi ch’essi pigliano per perseguitarci e farci male, Dio li piglia per nostro bene e per nostro accrescimento? Consilium meum stabit, et omnis voluntas mea fiet (Isa. XLVI, 10), dice Egli per mezzo d’Isaia. Girala pure come tu vuoi, che alla fine si ha da adempir la volontà di Dio: ed Egli indirizzerà cotesti mezzi a questo fine. S. Giovanni Crisostomo pondera un’altra particolarità in quest’Istoria al proposito nostro (D Chrys. hom. 63 sup. Gen. XL, 23), trattando come il coppiero di Faraone, dopo essere stato rimesso nel suo ufficio, si dimenticò del suo interprete Giuseppe per due anni intieri, avendolo egli ricercato tanto caldamente, che si ricordasse di lui e che intercedesse per lui presso Faraone. Pensi tu, dice il Santo, che fosse a caso questa dimenticanza? Non fu a caso, ma fu consiglio e disegno di Dio, il quale voleva aspettare il tempo opportuno e la congiuntura più propria per cavare dal carcere Giuseppe con maggior onore e gloria: perché se il coppiero si fosse ricordato subito di lui, forse coll’autorità sua l’avrebbe liberato subito alla muta, come suol dirsi, senza, che fosse stato né veduto né udito da Faraone; ma perché Iddio Signor nostro pretendeva che non uscisse dalla prigione in questo modo, ma con grande onore e autorità, per ciò permise che l’altro si dimenticasse per due anni di lui, acciocché così arrivasse il tempo de’ sogni di Faraone; e allora ad istanza del Re, costretto dalla necessità a ciò ordinare, uscisse egli con quell’onore e gloria con cui uscì ad esser padrone di tutta la terra d’Egitto. Sa Dio molto bene, dice S. Gio, Crisostomo, da quel sapientissimo artefice ch’Egli è, quanto tempo ha da star l’oro nel fuoco e quando s’ha da cavar fuori. – Nel primo Libro de’ Re abbiamo un’altra Istoria nella quale risplende grandemente la provvidenza di Dio in cose molto particolari e minute. Dio aveva detto al profeta Samuele, che gli avrebbe mostrato chi aveva da essere Re d’Israele, acciocché l’ungesse; e gli aggiunse: Hac ipsa hora, quæ nunc est, cras mittam virum ad te de terra Benjamin, et unges eum ducem super populum meum Israel (I. Reg. IX, 16): Domani a quest’ora medesima ti manderò quello che hai da ungere per Re, che era Saulle: e il modo nel quale glielo mandò fu questo. Si smarriscono le asinelle di suo padre, il quale dice al figliuolo, che vada a cercarle. Prende seco Saulle un garzone, e se ne vanno per quelle campagne e colline, e non possono trovar indizio né vestigio alcuno di esse; onde Saulle voleva ritornarsene, per parergli che tardassero troppo e che il padre sarebbe stato in pena per essi; ma il garzone gli disse: Non ce n’abbiamo da tornar a casa senza delle nostre asine. In questa terra vi sta un uomo di Dio (che era il profeta Samuele); andiamo da lui, ch’egli ci darà contezza di esse. Con quest’occasione vanno a trovar Samuele, al quale, quando essi furono arrivati, disse Dio: Ecce vir, quem dixeram tibi, iste dominabitur populo meo (ibi, IX, 17); questi è colui ch’io t’aveva detto di mandarti; questo hai da ungere per Re. O giudizi secreti di Dio! Lo mandava il padre a cercar le asinelle; ma Dio lo mandava a Samuele, acciocché fosse unto per Re. Quanto differenti sono i disegni degli uomini dai disegni di Dio! Quanto lontano stava Saulle, e suo padre ancora, da pensare, ch’andava ad esser unto per Re! Oh quanto lontano stai tu molte volte, e il tuo Padre, e il tuo Superiore, da quello che Dio pretende! Da quello che tu pensi meno cava Dio quel ch’Egli vuole. Non si smarrirono quelle asinelle senza volontà di Dio; né fu a caso, che il padre mandasse Saulle a cercarle; né anche fu a caso il non poterle Saulle ritrovare; né il consiglio che diede il giovinetto garzone d’andar a consigliarsi circa di esse col Profeta; ma ogni cosa fu ordinazione e disegno di Dio, il qual prese questi mezzi per mandar Saulle a Samuele, acciocché l’ungesse per Re com’Egli glielo aveva detto. Si pensò tuo padre di mandarti a studiar in Siviglia, o in Salamanca, o in altra Università, acciocché tu riuscissi un gran Dottore e arrivassi di poi ad aver qualche ufficio da poter vivere onoratamente; e non fu così, ma Dio ti mandò colà per riceverti in casa sua e farti Religioso. Si pensava S. Agostino, quando andò da Roma a Milano, d’andare a legger Rettorica; e tal era ancora il pensiero di Simaco, Prefetto della città, che lo mandava; ma non era così; poiché colà Iddio lo mandava da S. Ambrogio, acciocché lo convertisse. Mettiamoci a considerare le varie vocazioni e i mezzi tanto particolari e minuti, e al parer nostro tanto remoti, co’ quali Dio ha tirato alla Religione questo e quello; che certamente questa è cosa di grande ammirazione; perché se non fosse stato per non so che cosetta, o per non so che bagattella che accadde, non ti saresti fatto Religioso: e nondimeno tutte queste cose furono disegni e invenzioni di Dio per trarti alla Religione. E notisi questa cosa così di passaggio per alcuni a’ quali suole alle volte venir tentazione, che la lor vocazione non debba essere da Dio, per esser seguita per mezzo di cosette simili. Questo è inganno del demonio tuo nemico, invidioso dello stato nel quale ti trovi: perciocché è usanza di Dio servirsi di questi mezzi pel fine ch’Egli pretende della sua maggior gloria e del tuo maggior bene ed utilità. Non si muove Iddio in grazia delle asinelle, Numquid de bobus cura est Deo (I. ad Cor. IX, 9)? ma vuole, che per questi mezzi tu venga a regnare come Saulle. Servire Deo regnare est. Quando dipoi il profeta Samuele andò da parte di Dio a riprendere Saulle per quella disubbidienza che aveva commessa in non distruggere Amalec, come Dio gli aveva comandato, dopo averlo ripreso e voltandogli le spalle per andarsene, Saulle lo prese pel manto, acciocché non si partisse, ma lo aiutasse presso Dio: e dice il sacro Testo (I. Reg. XV, 27), che restò in mano di Saulle un pezzo del manto di Samuele, essendosi questo stracciato. Chi non si sarebbe pensato, che lo stracciarsi e staccarsi quel pezzo del manto del Profeta fosse avvenuto a caso, perché Saulle l’aveva afferrato e tirato, e forse perché ancora doveva essere vecchio? è nondimeno avvenne questo per particolar provvidenza e disposizione di Dio; per dimostrare, che quella cosa significava, che Saulle era segregato e privato del Regno in pena del suo peccato: onde vedendo Samuele questo fatto disse a Saulle: Scidit Dominus Regnum Israel a te hodie, et tradidit illud proximo tuo meliori te: Conosci pure da questa divisione del mio manto, che il Signore ha oggi segregato e diviso date il Regno d’Israele, e l’ha dato al tuo prossimo il qual è migliore di te. Nel medesimo primo Libro de’ Re si narra, che una volta Saulle teneva assediato David e i suoi, in modum coronæ (I. Reg. XXIII, 26), intorno intorno e per ogni parte, di maniera tale che già David era fuor di speranza di poterne scappare; e trovandosi egli in quella stretta, arrivò a Saulle un corriere molto in fretta con avviso che i Filistei erano entrati nel paese suo, e saccheggiavano e distruggevano ogni cosa; onde convenne a Saulle levar l’assedio e accorrere alla necessità maggiore, e così David scampò. Non fu già a caso l’entrata né l’invasione de’ Filistei, ma disegno di Dio per liberar in quel modo David. Un’altra volta i Satrapi de’ Filistei scacciarono David dal loro esercito, facendo che il re Achis gli comandasse, che se ne tornasse a casa sua; sebben egli lo menava seco molto volentieri e confidava molto in lui: Sed Satrapis non places, come egli gli disse (I. Reg, XXIX, 6, et c. XXX). Par che fosse a caso quel consiglio de’ Satrapi, e non fu a caso né pel fine ch’essi si pensarono; ma fu particolar provvidenza di Dio; perché  ritornato David, trovò, che gli Amaleciti avevano posta a fuoco Siceleg sua terra, e che se n’avevano portate via prigioni tutte le donne e i fanciulli, a minimo usque ad magnum, e le istesse mogli di David, il quale li seguitò e li distrusse, ricuperando tutta la preda e i prigioni, senza mancarne pur uno: il che egli non avrebbe fatto, se i Satrapi non l’avessero scacciato dal loro esercito: e a questo fine ordinò Dio quel consiglio, sebben essi l’ordinavano ad altro effetto. – Nell’Istoria d’Ester risplende anche grandemente questa particolar provvidenza di Dio in cose molto minute e particolari. Quanto strani furono i mezzi che prese Dio per liberar il popolo giudaico dalla crudel sentenza del re Assuero? Per quali mezzi elesse Ester per Regina, scacciando Vasti; e volle, che fosse questa del popolo giudaico, acciocché intercedesse poi per i Giudei? Par che fosse a caso l’intendere Mardocheo il tradimento che gli altri ordinavano al re Assuero, e l’andarglielo a palesare; e che il Re stesse svegliato quella notte e non potesse dormire; e che si facesse portar le Cronache de’ suoi tempi per trattenersi; e che s’incontrasse a leggere quel fatto di Mardocheo: e nessuna di queste cose succedeva a caso, ma per alto consiglio di Dio e per sua special provvidenza, la qual voleva per que’ mezzi liberar il suo popolo. E così lo mandò a dire Mardocheo ad Ester, la quale non ardiva d’entrar a parlare al Re, e si scusava per non esser chiamata: Quis novit, utrum idcìrco ad regnimi veneris, ut in tali tempore parareris (Ether, IV). Chi sa che non fosse questo il fine d’esser tu divenuta Regina, acciocché ci potessi dar aiuto in quest’occasione? – La sacra Scrittura e le Istorie Ecclesiastiche sono piene di simili esempi, acciocché impariamo ad attribuir tutti i successi a Dio e a riceverli come venuti dalla sua mano per maggior bene ed utilità nostra. – Nel Libro delle Ricognizioni di S. Clemente si narra una cosa notabile a questo proposito. Faceva aspra guerra S. Pietro a Simon Mago, e S. Barnaba aveva convertito in Roma S. Clemente, il quale andò a trovar S. Pietro, e datogli ragguaglio della sua conversione, lo ricercò, che l’istruisse nelle cose della Fede; e S. Pietro gli disse: Sei arrivato in buona congiuntura, perché  è intimata per domani una pubblica disputa fra me e Simon Mago: ivi ci vedrai ambedue e udrai quel che desideri. Mentre stavano così discorrendo, entrano due discepoli, e dicono a S. Pietro, che Simon Mago mandava per lor mezzo a dirgli, che gli era occorso un impedimento, onde faceva istanza che si differisse la disputa per tre altri giorni; di che S. Pietro si contentò. Partiti coloro, S. Clemente s’attristò molto; e vedendolo S. Pietro tanto attristato, gli disse: Che cosa hai, figliuolo, che ti veggo malinconico? E S. Clemente gli rispose: Padre, ti fo sapere, che mi sono grandemente attristato per vedere, che si è differita la disputa la quale avrei desiderato che si fosse fatta domani. Ora è qui da notare, come in una cosa di sì poco rilievo si mise S. Pietro a far un ben lungo sermone, dicendo: Vedi, figliuolo, fra’ Gentili, quando non si fanno le cose come essi vogliono, si eccita gran tumulto; ma noi altri che sappiamo, che Dio guida e governa ogni cosa , abbiamo d’aver gran consolazione e pace. Sappi, figliuolo, che questo è seguito per tuo maggior bene; perché se la disputa si fosse fatta adesso, tu non l’avresti intesa così bene, e allora l’intenderai meglio; perché in questo mentre t’istruirò io, e così tu poscia ne gusterai assai più e caverai da essa maggior frutto. Voglio conchiudere con un esempio nostro che abbiamo nella Vita del nostro S. P. Ignazio nel quale risplende ancora grandemente questa medesima cosa, ed è intorno all’andata del P. Francesco Saverio alle Indie Orientali (Lib. 2, c. 16 Vite P. N. S. Ign. et in Vita P.  S. Francisci Xaverii). Certamente è cosa degna di considerazione il riflettere al modo con cui avvenne che questo sant’uomo andasse alle Indie. Nominò il nostro S. P. Ignazio per questa Missione i Padri Simone Rodriguez e Niccolò Bobadiglia. Il P. Simone stava allora colla quartana; ma con tutto ciò s’imbarcò subito alla volta di Portogallo; e al P. Bobadiglia, che stava faticando nella Calabria, fu scritto, che se ne venisse tosto a Roma, e venne; ma tanto debilitato dalla povertà e da’ travagli e stenti del viaggio, e tanto infermo e malconcio d’una gamba quando arrivò a Roma, che stando in quel medesimo tempo l’Ambasciadore, D. Pietro Mascaregnas, all’ordine per ritornarsene in Portogallo, nè potendo egli aspettare, che il Bobadiglia guarisse, né volendo partirsi senza l’altro Padre che aveva d’andar alle Indie, fu necessario, che in luogo del Bobadiglia con nuova e molto felice elezione fosse sostituito il P. Francesco Saverio, il quale partì subito coll’Ambasciadore alla volta di Portogallo. Dal non essere stato nominato la prima volta il P. Francesco Saverio: ma il P. Bobadiglia, e dall’essere in tanta fretta seguita la partenza di questo dalla Calabria, pare che fosse un caso la sostituzione fatta a lui del Saverio: e pur non fu a caso, ma per alto consiglio di Dio, il quale aveva destinato di fare il Saverio apostolo di que’ paesi. Di più è da notarsi, come dopo che furono arrivati questi due uomini in Lisbona, e veggendosi il gran bene che ivi facevano, pensarono di colà fermarli; ma dopo vario dibattimento, finalmente fu risoluto, ch’uno di essi se ne restasse e l’altro oltre passasse alle Indie. Ecco qui di bel nuovo posto in forse l’affare; ma presso Dio non vi è forse. Toccò finalmente al Saverio di passar alle Indie; perché questa era la volontà di Dio, e così l’aveva la Maestà sua decretato, essendo così espediente pel bene di quelle anime eper maggior gloria sua. Disegnino pur gli uomini quel che vogliono, e conducano i lor disegni per quella strada che più lor piace; che questo stesso piglierà Dio per mezzo da metter in esecuzione i disegni suoi, e per far quello che più convenga a te, al terzo e al quarto, e alla sua maggior gloria. Con questi e altri simili esempi sì della sacra Scrittura, come di quel che ogni giorno veggiamo ed esperimentiamo, tanto in altri, quanto in noi medesimi, abbiamo d’andar stabilendo e stampando nel nostro cuore questa viva confidenza, mediante l’orazione e la considerazione: e in questo esercizio non abbiamo da fermarci sin a tanto che non sentiamo nel nostro cuore una molto amichevole e figlial confidenza in Dio. E sii pur certo, che con quanto maggior confidenza ti getterai nelle braccia di Dio, tanto più sicuro starai: e per lo contrario sin a tanto che non arrivi ad avere questa confidenza figliale, non avrai mai vera pace e riposo di cuore; perché senza essa tutte le cose ti turberanno e ti terranno sempre in rivolta. Non differiamo dunque più il gettarci e l’abbandonarci totalmente nelle mani di Dio, e il fidarci di lui, siccome ce lo consiglia l’apostolo san Pietro: Omnem sollicitudinem vestram projicientes in eum, quoniam ipsi cura est de vobis (I . Petr. V, 7): e il Profeta: Jacta super Dominum curam tuam, et ipse te enutriet (Psal. LIV, 23). Voi, Signore, amaste tanto me, che vi deste totalmente per me in potere de’ crudeli carnefici, acciocché facessero di voi quello ch’avessero voluto: Jesum vero tradidit volunti eorum (Luc. XXIII, 25): che gran cosa sarà ch’io mi dia e mi metta tutto in mani, non già crudeli, ma così pietose come sono le vostre, acciocché facciate di me quello che vi piacerà; essendo io certo, che non farete se non il meglio e quel che a me più conviene? Accettiamo quel progetto e quel patto che fece Cristo Signor nostro con S. Caterina da Siena. Faceva il Signore molte carezze e favori a cotesta Santa, e fra gli altri gliene fece uno molto particolare, che apparendole un giorno le disse: Fitta, cogita tu de me, et ego cogitabo continenter de te: Figliuola, dimenticati tu di te, per pensar sempre a me; e Io penserò sempre a te, e terrò cura di te. Oh che buon patto è questo! Oh che buon cambio! Oh quanto gran guadagno sarebbe questo per le anime nostre! Or questo patto viene a far il Signore con ciascheduno di noi altri. Scordatevi di voi e lasciate da banda i vostri disegni: e quanto più vi scorderete di voi per ricordarvi e fidarvi di Dio, tanto maggior cura terrà Dio di voi. Chi sarà dunque che non accetti un sì amorevole e vantaggioso partito? che è quello appunto che la Sposa dice aver fatto col suo Sposo: Ego Dilecto meo; et ad me conversio ejus (Cant. VII, 10).

CAPO XII.

Di’ quanta utilità e perfezione sia, applicar l’orazione a questo esercizio della conformità alla volontà di Dio; e come abbiamo d’andar discendendo a cose particolari, sino ad arrivare al terzo grado di conformità.

Giovanni Rusbrochio (Rusbr. in fine operum euurum), uomo dottissimo e molto spirituale, riferisce d’una santa vergine, che dando ella conto della sua orazione al suo Confessore e Padre spirituale, il quale doveva essere gran servo di Dio e di molta orazione, e volendo essere ammaestrata da lui, gli disse, che il suo esercizio nell’orazione era circa la Vita e Passione di Cristo nostro Redentore, e il frutto che ne cavava era conoscimento di se stessa e de’ suoi vizi e passioni, e dolore e compassione de’ dolori e de’ travagli di Cristo. E il Confessore le disse, che quella era buona cosa; ma che senza molta virtù poteva uno muoversi a compassione e tenerezza, considerando la Passione di Cristo, in quella guisa che per lo solo amore e affetto naturale che uno porta al suo amico suol muoversi a compassione de’ suoi travagli. Gli domandò la vergine, se il pianger una persona ogni giorno i suoi peccati sarebbe stata vera divozione; ed egli le rispose, che era similmente buona cosa, ma non la più eccellente; perché la cosa cattiva naturalmente cagiona fastidio e dispiacere. Tornò ella a domandargli, se sarebbe stata vera divozione il pensare alle pene dell’inferno ed alla gloria de’ Beati; ed egli le rispose, che né anche quella era la cosa più alta ed eminente; perché la natura istessa da sé abborrisce e ricusa quel che reca pena e dolore; ed ama e cerca quello che le può esser di gusto e di gloria; sicché se le dipingessero una città piena di piaceri e di gusti, la desidererebbe. La santa vergine se n’andò con questo molto sconsolata ed afflitta, per non sapere ache cosa mai avesse potuto applicare il suo esercizio dell’orazione, che fosse stata più grata a Dio; e di lì a poco le apparve un fanciullo molto bello, al quale raccontando ella la sua afflizione, e come le pareva che nessuno la potesse consolare, rispose il fanciullo, che non dicesse tal cosa, che egli poteva e voleva consolarla. Vattene, disse, dal tuo Padre spirituale, e digli, che la vera divozione consiste nell’annegazione e dispregio di se stesso, e nell’intera rassegnazione alla volontà di Dio, sì nelle cose avverse, come nelle prospere, con unirsi fermamente a Dio per amore e conformando interamente la volontà sua alla volontà di Dio in tutte le cose. Andò ella molto allegra, e disse questo al suo Padre spirituale, il quale le rispose: Qui sta il punto e a questo s’ha da applicare l’orazione; perché in ciò consiste la vera carità e l’amor di Dio, e per conseguenza il nostro profitto e la nostra perfezione. – Di un’altra Santa si dice, che le fu insegnato da Dio ad insistere assai nell’orazione del Pater noster in quella domanda : Facciasi, Signore, la volontà tua così in terra come si fa in cielo. E della santa vergine Gertrude si racconta (Ref. Blos. c. 11 Mon. spir.), che inspirata da Dio, disse una volta trecento sessantacinque volte quelle parole di Cristo: Non si faccia, Signore, la volontà mia, ma la tua (Luc. XXII, 42). E conobbe, che quella cosa era grandemente piaciuta a Dio. Imitiamo dunque noi altri questi esempi, applichiamo a questo la nostra orazione, e insistiamo assai in questo. esercizio.Per poterlo noi far meglio e con maggior frutto, bisogna che avvertiamo e presupponiamo. due cose. La prima che la necessità di quest’esercizio è principalmente nel tempo delle avversità e per quando ci. occorrono cose difficili e contrarie alla nostra carne; essendo che in queste occasioni è più necessaria la virtù e allora si dimostra meglio l’amore che ciascuno porta a Dio. Siccome nel tempo di pace il Re mostra quanto bene vuole a’ suoi soldati nelle rimunerazioni e grazie che fa loro, ed essi,nel tempo di guerra mostrano quanto l’amano e stimano nel combattere e in esporsi alla morte per lui; così nel tempo di consolazionee di favore il Re del cielo ci dàa conoscere quanto ci ama; e noi altri nel tempo della tribolazione, molto più che in quello della prosperità e della consolazione, quanto amiamo noi. Dice molto bene il padre maestro Avila (M. Avil. tom. 2, ep. fol. 20), che render grazie a Dio nel tempo delle consolazioni è cosa da tutti; ma il rendergliele nel tempo delle tribolazioni e delle avversità, è propria dei buoni e perfetti. E così questa è una melodia molto dolce e soave alle orecchie di Dio. Vale più, dice egli, nelle avversità un Grazie a Dio, un Sia benedetto Dio, che sei mila ringraziamenti e benedizioni nelle prosperità. E così la divina Scrittura paragona i giusti al carbonchio: Gemmula carbunculi in ornamento auri (Eccli. XXXII,7); perché questa pietra preziosa rende maggior chiarezza e splendore di notte che di giorno. Così il giusto e vero servo di Dio riluce e risplende più e fa migliori mostre di sé nelle tribolazioni e ne’ travagli, che nelle prosperità. Di questo loda tanto la Scrittura sacra il santo Tobia (Tob. II, 44.), perché avendo permesso il Signore, che dopo molti altri travagli perdesse ancora la vista degli occhi, non s’attristò per questo, né si dolse, né perde punto della sua fedeltà e ubbidienza, ma si conservò immobile e tranquillo, ringraziando Dio tutti i giorni della sua vita ugualmente per la cecità che per la vista: come fece ancora il santo Giob ne’ suoi travagli (Giob. I,21). Questo dice S. Agostino che dobbiamo procurare d’imitare noi altri: Ut in cunctis idem sis, tam in prosperis, quam in adversis . Che sii il medesimo e continui ad esser così allegro, sereno nel tempo dell’avversità, come in quello della prosperità: Sicut manus, quæ eadem est, et cum in palmum extenditur, et cum in pugnum constringitur (D. Aug.ad fratr. in Erem. Serm. 4): Siccome la mano è la medesima, e quando sta stretta e tiene il pugno serrato, e quando l’apri e la stendi; così il servo di Dio nell’intimo dell’anima sua ha da esser sempre il medesimo, ancorché nell’esteriore e al di fuori paia che stia angustiato e addolorato. Anche colà si dice di Socrate, che in tutti i casi che gli avvenivano, per avversi e vari che fossero, stava sempre in un medesimo essere: Nec hilariorem quisquam, nec tristiorem Socratem vidit; æqualis fuit in tanta inæqualitate fortunæ usque ad extremum vitæ (De Socrate refert Cic, lib. 13 Tusculan. Quæst.). Non sarà dunque gran cosa, che noi altri Cristiani e Religiosi procuriamo d’arrivar in questo ove arrivò un Gentile. La seconda cosa che bisogna avvertire, è che non basta che abbiamo in generale questa conformità alla volontà di Dio; perché questa così in generale è facile. Chi vi sarà che non dica, che vuole che si adempia la volontà di Dio in tutte le cose? Buoni e cattivi, tutti dicono ogni giorno nell’orazione del Pater nosler. Facciasi, Signore, la volontà tua così in terra come in cielo. Vi bisogna qualche cosa più di questo: è necessario lo sminuzzar bene un tal punto, discendendo in particolare a quelle cose che pare ci potrebbero dare qualche pena se accadessero: e non abbiamo da fermarci sino ad aver vinte e spianate tutte queste difficoltà, e rotte, come suol dirsi, tutte le lance nemiche, e finalmente sin che non vi sia più cosa che vi si frapponga all’unirci e conformarci in ogni cosa alla volontà di Dio; ma abbiamo da far fronte a qualsivoglia cosa che ci possa occorrere (Vide supra tract. 5, c. 18), li né  anche abbiam da contentarci di questo; ma dobbiamo procurare di passar più oltre e non fermarci sin a tanto che non proviamo un molto interno gusto e una piena allegrezza al vedere eseguirsi e adempirsi in noi la volontà di Dio, benché sia per noi con travagli, dolori e dispregi, che è il terzo grado di conformità. Imperocché anche in ciò si trovan diversi gradi, uno più alto e più perfetto che l’altro, i quali si possono ridurre a tre principali nel modo che dicono i Santi della virtù della pazienza. Il primo è, quando le cose penose che accadono l’uomo non le desidera né le ama, anzi le fugge; ma le vuole però sopportare, più tosto che far cosa alcuna che sia peccato per fuggirle. Questo è il grado più infimo, e in questa materia è grado che per tutti è di precetto. Quindi quantunque un uomo senta dolore e tristezza per i mali che gli avvengono, e quantunque stando infermo gema e gridi per la veemenza dei dolori, e ancorché pianga per la morte de’ parenti; ben può con tutto questo aver questa conformità alla volontà di Dio. Il secondo grado è, quando l’uomo ancorché non desideri i mali che gli avvengono nè gli elegga, quando però sono venuti gli accetta e li sopporta volentieri, per esser quella la volontà e il beneplacito di Dio. Di maniera che questo secondo grado aggiunge al primo una qualche buona volontà e qualche amore verso la cosa penosa per amor di Dio, e il volerla sopportare, non solo quando vi è obbligo di precetto a sopportarla, ma anche quando il sopportarla sarà più grato a Dio. Il primo grado sopporta le cose con pazienza; questo secondo vi aggiunge il sopportarle di più con prontezza e facilità. Il terzo grado è quando il servo di Dio, per lo grande amore che porta al Signore, non solo sopporta ed accetta di buona voglia i travagli e le cose penose che gli manda, ma le desidera e si rallegra assai in esse, per esser quella la volontà di Dio, come dice S. Luca degli Apostoli, che ibant gaudentes a conspectu concila, quoniam digni habiti sunt prò nomine Jesu contumeliam pati (Act. v, 41). Dopo essere stati frustati con pubblica infamia, se n’andavano molto allegri e festosi, perché erano stati degni di patir ignominie per Cristo. E l’apostolo S. Paolo diceva: Repletus sum consolatione, superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (II. ad Cor. VII, 4).Era pieno di consolazione, e dice, che sopprabbondava di gaudio e d’allegrezza fra le catene, le tribolazioni e le avversità. E di questo stesso in cui essi pure si erano mostrati segnalati, scrivendo egli agli Ebrei, ne li loda, dicendo: Et rapinam bonorurn vestrorum cum gaudio suscepistis, cognoscentes vos habere meliorem et manentem substantiam (Ad Hebr. X, 34). Ora a questo grado abbiamo da procurare noi altri di arrivare colla grazia del Signore, che sopportiamo con gaudio ed allegrezza tutte le tribolazioni e avversità che ci verranno, siccome ce lo dice l’apostolo S. Giacomo nella sua Epistòla Canonica: Omne gaudium existimate, fratres mei, cum in tentationes varias incideritis (Jac. I, 2). Ha da essere presso di noi cosa tanto apprezzata e tanto dolce la volontà e il gusto di Dio, che con questo saporetto indolciamo quello che ci verrà d’amaro. Tutti i travagli e disgusti del mondo ci hanno da diventar dolci e saporiti, per esser questa la volontà e il gusto di Dio. E questo è quello che dice S. Gregorio: Si mens in Deum forti intentione dirigatur, quidquid sibi in hac vita amarum sit, dulce æstimat; omne quod affligit, requiem putat; transire et per mortem appetit, ut obtinere plenius vitam possit (D. Greg. Lib. 7, cap. 7). S. Caterina da Siena in un Dialogo che scrisse della perfezione consumata del Cristiano, dice, che fra l’altre cose che il suo dolcissimo Sposo Gesù Cristo Signor nostro le aveva insegnate, questa era una, che la persona si fabbricasse una forte stanza a volta, che era la divina volontà, e si rinchiudesse e dimorasse perpetuamente in essa, né ritraesse giammai da quella né occhio, né piede, né mano, ma sempre vi stesse ritirata dentro come l’ape quando sta nel suo alveare, e come la perla nella sua conchiglia: perché sebbene da principio le sarebbe paruta forse stretta quella stanza, avrebbe nondimeno trovate di poi in essa grandi ampiezze; e senza uscirne se ne sarebbe passata alle eterne mansioni; e in poco tempo avrebbe conseguito quello che fuori di essa non si può conseguir in molto (De S. Cath. Sen. in Vita). Ora facciamo così noi altri, e sia questo il nostro continuo esercizio: Dilectus meus mihi, et ego illi (Cant. II, 16): Il mio diletto per me, ed io per esso. In queste due sole parole vi è un abbondante esercizio per tutta la vita, E così dobbiamo averle sempre in bocca e nel cuore.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (5)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (3)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [3]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO VII.

Di altri beni ed utilità grandi che sono in questa conformità alla volontà di Dio.

Un altro gran bene e grande utilità reca seco questo esercizio; ed è, che questa conformità e intera rassegnazione nella volontà di Dio è delle migliori e più principali disposizioni che dal canto nostro possiamo mettere, acciocché il Signore ci faccia delle grazie e ci riempia di beni. E così quando Dio Signor nostro volle far S. Paolo di persecutore Predicatore e Apostolo suo, lo prevenne con questa disposizione. Gli mandò un gran lume dal cielo che lo buttò giù da cavallo, e gli aprì gli occhi dell’anima, e gli fece dire: Domine, quid me vis facere (Act. IX)?Signore, che cosa vuoi tu che io faccia? Eccomi qui, Signore,come un poco di creta nelle tue mani, acciocché faccia di me quello che ti piacerà.E così Dio ne fece un vaso eletto, acciocché portasse e spargesse il suo nome per tutto il mondo: Vas electionis est mihi iste, ut portet nomen meum coram gentibus, et regibus, et filiis Israel (Ibid. IX, 15). Si legge della santa vergine Geltrude (3), che Dio le disse: Chiunque desidera che io venga liberamente ad abitare in lui, m’ha da rassegnar la chiave della propria volontà, senza tornar più a domandarmela. Perciò il nostro S. Padre ci mette questa rassegnazione e indifferenza per la principale disposizione a ricever grazie grandi da Dio: e con questa vuole che s’entri negli Esercizi, e questo è il fondamento che ci propone nel principio di essi; che siamo indifferenti e staccati da tutte le cose del mondo, non desiderando più questa che quell’altra, ma desiderando, che in ogni cosa si faccia e s’adempisca in noi la volontà di Dio. E nelle Regole, o Annotazioni che mette per indirizzo ed aiuto si di quello che dà, come di quello che fa gli Esercizi, nella quinta di esse si dice: Sarà di grandissimo aiuto a quello che fa gli Esercizi, l’offerirsi liberamente, e il mettersi totalmente nelle mani di Dio, acciocché faccia di lui e delle cose sue quello che più gli piacerà (D. Ign. Lib. Exerc.).E la ragione, d’esser questa una così buona disposizione e mezzo per ricevere delle grazie dal Signore, è, perché da una banda si levano via con questa gl’impedimenti dei nostri mali affetti e desideri che vi potrebbero essere; e dall’altra, quanto più uno si fida di Dio, mettendosi affatto nelle sue mani e non volendo se non quello che Egli vuole, tanto più obbliga l’istesso Dio ad aver cura di lui e a provvederlo di tutto quello che gli conviene. È anche per un altro verso questa conformità alla volontà di Dio mezzo molto efficace per acquistare tutte le virtù, perché queste s’acquistano coll’esercizio degli atti loro. Questo è il modo naturale per acquistar gli abiti; e in questo modo vuol anche Dio darci la virtù ; perché Egli vuole operar le opere di grazia a proporzione come opera quelle della natura. Ora esercitati tu in questa rassegnazione e conformità alla volontà di Dio; e in questo modo ti eserciterai in tutte le virtù, e così verrai ad acquistarle tutte: perché alcune volte ti si porgeranno occasioni d’umiltà, alcune altre d’ubbidienza, altre di povertà, altre di pazienza, e così delle altre virtù. E quanto più ti eserciterai in questa rassegnazione e conformità alla volontà di Dio, e più andrai crescendo e perfezionandoti in essa; tanto più andrai crescendo e perfezionandoti in tutte le virtù. Conjungere Deo, et sustine, ut crescat in novissimo vita tua, dice il Savio (Eccli. III, 2). Congiungiti a Dio, e conformati in ogni cosa alla volontà sua. Conglutinare Deo, dice un’altra versione (Supra tract. 5, c. 14 et 15.): Accostati e unisciti con esso, e in quella maniera crescerai e farai molto profitto. Per questo i Maestri della vita spirituale consigliano (ed è meraviglioso consiglio) che mettiamo gli occhi in una virtù superiore, la quale rinchiuda in sé le altre, e che questa procuriamo principalmente nell’orazione; e a questa drizziamo l’esame e tutti i nostri esercizi, perché, mettendo gli occhi in una cosa, è più facile l’andar dietro ad essa, e acquistando quella si acquista ogni cosa. Ora una delle cose principali, nelle quali possiamo mettere gli occhi per questo effetto, è questa rassegnazione e intera conformità alla volontà di Dio: e così in questa saranno molto bene impiegati l’orazione e l’esame, ancorché vi spendiamo molti anni e tutta la vita ancora; perché, se acquistiamo questa, acquisteremo tutte le virtù. – S. Bernardo sopra quelle parole dell’apostolo S. Paolo, Domine, quid me vis facere (Act. IX, 6.)? Signore, che cosa vuoi che io faccia? dice: O verbum breve, sed plenum, sed vivum, sed efficace, sed dignum omni acceptione (D. Bernard, serm. 1 de conv. S. Pauli). Oh parola breve, ma piena, che ogni cosa abbraccia e nessuna cosa lascia: Signore, che cosa volete che io faccia? parola breve, ma compendiosa, ma vivace, ma efficace, e degna di essere grandemente stimata. Se dunque vuoi un documento breve e compendioso per acquistare la perfezione, eccoti questo: Di’ sempre coll’apostolo S. Paolo: Signore, che cosa volete che io faccia? e col profeta David: Signore, il mio cuore è disposto e preparato; è preparato e disposto per tutto quello che voi volete da me (Psal. LVI, 8 et CVII, 1). Porta sempre questo in bocca e nel cuore; e all’istesso passo che andrai crescendo in questo, andrai crescendo in perfezione. Un altro bene e un’altra utilità abbiamo anche in questo esercizio, ed è, che ne possiamo cavar un rimedio molto buono per certa sorta di tentazioni che sogliono venire. Il demonio procura alle volte d’inquietarci con alcune tentazioni di pensieri condizionali e di certe immaginarie domande: Se uno ti dicesse la tal cosa, che risponderesti? Se accadesse la tal altra cosa, che faresti? in tal caso come ti porteresti? e siccome egli è sottilissimo, ci rappresenta le cose in modo, che per qualsivoglia banda pare che ci troviamo perplessi, e non sappiaci come uscirne; perchè sta ivi il laccio teso, non curandosi il demonio, che sia vera, o apparente, o finta, quella cosa colla quale c’inganna. Pur che egli faccia il fatto suo, di tirar l’uomo a qualche cattivo consentimento, non gl’importa più questa che quell’altra cosa. In queste tentazioni dicono comunemente che la persona non è obbligata a rispondere né col sì né col no: anzi che farà meglio a non risponder cosa alcuna, e questo specialmente conviene più a persone scrupolose; perché se cominciano a tener ragionamenti col demonio, e ad entrar in proposte e risposte con lui, questo è quello che egli cerca, perché non mancano mai a lui repliche, né mai usciranno elleno cosi franche dalla scaramuccia, che non n’escano col capo rotto. Ma una risposta trovo io molto buona e giovevole in queste tentazioni, e l’usar questa tengo che sia meglio che il non risponder niente: ed è appunto quello che andiamo dicendo; cioè, che a qualsivoglia di queste cose può uno rispondere ad occhi chiusi: Se questa è la volontà di Dio, io la voglio. Se Dio vuol questo, lo voglio anch’io. Io vorrei in questo quello che volesse Dio. In ogni cosa mi rimetto alla volontà di Dio. Io farei in questo quello che fossi obbligato e il Signore mi concederebbe grazia che in ciò non l’offendessi, ma facessi quel che fosse volontà sua. Questa è una risposta generale che soddisfa pienamente in qualunque caso; e il darla così in generale non porta seco veruna difficoltà, ma più tosto una somma facilità, poiché siamo certi, che se la cosa propostaci in qualunque supposizione è volontà di Dio, è anche buona: se è volontà di Dio, è anche il meglio: se è volontà di Dio, è quello che a me più conviene. Possiamo dunque con tutta sicurezza abbandonarci alla volontà di Dio e dir tutte queste cose; e con ciò il demonio resterà molto burlato e confuso, e noi altri molto contenti e inanimati colla vittoria. Siccome nelle tentazioni di Fede si dà per consiglio, specialmente agli scrupolosi, che non rispondano ad esse in particolare, ma che dicano in generale: Io tengo e credo tutto quello che tiene e crede la santa Madre Chiesa; così in queste tentazioni è molto buon rimedio il non rispondere in particolare cosa alcuna, ma rimetterci in tutto e per tutto alla volontà di Dio, la quale è sommamente buona e perfetta.

CAPO VIII.

Si conferma con alcuni esempi quanto piace a Dio quest’esercizio della conformità alla volontà sua, e la perfezione grande che è in esso.

Racconta Cesario (Cæs. lib. L. 10 dial. a. 6),che in un monastero si trovava un Monaco al quale aveva Dio conceduta tanta grazia di far miracoli, che gl’infermi guarivano solamente con toccar le sue vesti e la sua cintura. Considerando da un canto il suo Abbate attentamente questa cosa, e dall’altro non vedendo in quel Monaco cosa speciale la quale desse indizio di gran santità, lo chiamò da banda e gli domandò onde mai fosse che Iddio per suo mezzo operava tanti miracoli? Ed egli rispose, che non lo sapeva: perché, diceva, io non digiuno più di quello che digiunano gli altri; non mi disciplino più; non fo più penitenze; né fo più lunga orazione; né fatico né veglio più di essi. Quel, che io posso dire di me, si è, che né le cose prospere m’innalzano, né le avverse m’abbattono: nessuna cosa che avvenga mi turba né m’inquieta: l’anima mia se ne sta con un’istessa pace e quiete in tutti gli avvenimenti, per molto diversi che siano, sì propri, come d’altri. Allora l’Abbate gli disse: Non ti turbasti, o inquietasti alquanto l’altro giorno, quando quel gentiluomo nostro contrario attaccò fuoco alla nostra casa di villa e l’abbruciò? No, disse, io non sentii turbazione alcuna nell’anima mia; perché ho rimessa ogni cosa nelle mani di Dio: e così la cosa prospera, come l’avversa, così il poco, come il molto, lo piglio sempre con egual rendimento di grazie, come venuti dalla sua mano. E conobbe allora l’Abbate, che questa era la cagione di quella virtù che aveva di far miracoli. Blosio narra (Blos, in appendice ad institutionem spirit. c. 1 in fine.), che essendo interrogato da un Teologo un certo povero mendico di vita perfetta, come aveva fatto ad acquistare la perfezione; rispose in questa maniera: Io feci deliberazione di mettermi in tutto e per tutto alla sola divina volontà, alla quale conformai talmente la mia, che quanto Dio vuole tanto voglio io. Quando la fame mi dà fastidio, quando il freddo mi molesta, io lodo Dio: sia l’aria serena, o sia rigida, o tempestosa, similmente lodo Dio: qualsivoglia cosa, che Egli mi dà, o permette che mi venga, sia prospera, o avversa, sia dolce, o amara, la ricevo dalla sua mano con grande allegrezza, come cosa molto buona, rassegnandomi tutto in esso con umiltà. Non ho mai potuto trovar riposo in cosa alcuna, che non fosse Dio: e già ho trovato il mio Dio, nel quale godo un riposo e una pace eterna. Il medesimo Biosio racconta di una santa vergine, che essendo interrogata, come avesse acquistata la perfezione, rispose: Ho presi tutti i travagli e le avversità con gran conformità alla volontà di Dio, come venuti dalla sua mano: e a qualunque persona, che mi facea qualche ingiuria, o mi dava qualche molestia, ho sempre procurato di ricompensargliela con qualche particolar beneficio: con nessuno mi son lamentata de’ miei travagli, ma solamente sono ricorsa a Dio, dal quale ho ricevuto subito fortezza e consolazione (Blos, ubi sup,, et cap, 10 monilis spirit.). Riferisce pure di un’altra vergine di gran santità, che domandata con quali esercizi avesse acquistata tanta perfezione, rispose con molta umiltà, che non le erano mai avvenuti dolori, o travagli sì grandi, che ella non desiderasse di soffrirne de’ maggiori per amore di Dio, tenendoli per suoi singolari favori, e di questi pure giudicandosi indegna (Blos., ut supra). – Narra Taulero (Taul. serm. 1 de circumc.), che varie persone si raccomandavano ad una Serva di Dio totalmente rassegnata nelle divine sue mani, acciocché facesse orazione per alcuni interessi d’importanza; ed ella rispondeva, che l’avrebbe fatta. Alle volte però se ne dimenticava; ma tanto e tanto tutto ciò che le raccomandavano succedeva tanto felicemente, quanto quelle persone sapevano desiderare; onde poi tornavano a ringraziarla come se per l’orazion sua avessero conseguito l’intento: sebbene ella se ne confondeva e diceva, che ringraziasser Dio; poiché essa non vi aveva posto niente del suo. E, perché concorrevano a lei molti in questo modo, ella se ne andò a Dio a formare di lui un’amorevole querela, perché facesse sì prosperamente succedere tutti i negozi che a lei erano raccomandati; che di poi da lei ritornasser le genti a renderne grazie, non avendo ella tante volte per ciò fatto nulla, né porta una supplica: al che rispose il Signore: Vedi, figliuola, quell’istesso giorno nel quale tu mi desti la tua volontà, diedi Io a te la mia: e ancorché tu non mi chiegga cosa alcuna in particolare, quando Io so, che gusti di essa, la fo come tu l’avresti saputa chiedere. – Nelle vite de’ Padri si racconta d’un contadino i cui terreni e vigne rendevano frutti in maggior abbondanza di quelli degli altri suoi vicini, che domandato da alcuni di coloro, come andasse la cosa, rispose, che non si meravigliassero dell’avere lui migliori frutti che essi, perché egli aveva sempre i tempi come li voleva: e molto più meravigliandosi coloro di questa risposta, gli domandarono, come potesse ciò essere; al che replicò: Io non voglio mai altro tempo che quello che Dio vuole: e come io voglio quello che vuol Dio, così Egli mi dà i frutti come io li voglio. – Racconta Severo Sulpizio nella vita del beato S. Martino vescovo, che in tutto il tempo che conversò seco mai noi vide adirato né mesto, ma sempre con gran pace e allegrezza: e la cagione di ciò dice che era, perché quello che gli avveniva egli lo pigliava e riceveva come cosa venuta dalla mano di Dio; e così si conformava in ogni cosa alla volontà sua, con grande tranquillità, composizione d’animo ed allegrezza.

CAPO IX.

D’alcune cose che ci faranno facile e soave questo esercizio della conformità alla volontà di Dio.

Acciocché questo esercizio della conformità alla volontà di Dio ci si faccia facile e soave, bisogna primieramente, che abbiamo sempre avanti gli occhi quel fondamento che mettemmo al principio (Vide supra cap. 1 et 2), cioè, che niuna avversità né travaglio ci può venire, o accadere, che non passi per le mani di Dio e non venga ordinato e misurato dalla sua volontà. C’insegnò Cristo nostro Redentore questa verità non solo in voce, ma anche col suo esempio. Quando comandò a S. Pietro la notte della sua passione, che rimettesse il coltello nella guaina, soggiunse: Calicem, quem dedit mihi Pater, non vis, ut bibam illum (Jo. XVIII, 11)? Non vuoi ch’io beva il calice che m’ha dato il mio Padre? Non disse il calice che m’han procurato Giuda, gli Scribi, i Farisei; perché  sapeva molto bene, che tutti questi non erano altro che come coppieri che lo servivano in porgergli quella tazza preparatagli dal suo divin Padre; e che quello che essi facevano con malizia e con invidia il Padre eterno colla sua infinita bontà e sapienza l’ordinava per rimedio del genere umano. E così disse anche di poi a Pilato il quale vantavasi, che aveva podestà di crocifiggerlo e di liberarlo. Non haberes potesltatem adversum me ullam, nisi tibi datum esset desuper (Jo. XIX, 11): Tu non avresti podestà alcuna contro di me, se non l’avessi avuta dall’alto. Spiegano i Santi: Nisi ex divina dispositione et ordinatione id factum esset ,Di maniera che ogni cosa viene da alto, per disposizione e ordine di Dio. (D. Chrys. hom. 83 in Jo.; D. Cyrill. lib. 12, o. 22 in Jo.; D. Irenœus lib. 4 contra hæreses, c. 34; D. Aug. tract. IV, 26 in Jo.). Disse maravigliosamente questa cosa l’apostolo S. Pietro colà nel capo quarto degli Atti degli Apostoli (IV, (Act. IV, 26 et seq.), spiegando quel testo del Profeta, Quare fremuerunt gentes, et populi meditati sunt inania? Astiterunt Reges terræ, et Principes convenerunt in unum adversus Dominum, et adversus Chrislum ejus (Ps. II, 1), dice così: Convenerunt enim vere in civitate ista adversus sanctum puerum tuum Jesum, quem unxisti, Berodes, et Pontius Pilatus, cum Gentibus, et populis Israel, facere, qum manus tua et consilium tuum decreverunt fieri: Veramente si unirono in Gerusalemme i Principi e le podestà della terra contra Cristo nostro Redentore per metter in esecuzione quello che nel Concistoro della santissima Trinità era stato determinato e decretato; perché essi non potevano far altro che questo. E così veggiamo, che quando Dio non volle, non fu bastante tutta la potenza del re Erode a privarlo di vita, essendo egli bambino: e sebben fece uccidere tutti i bambini di quel paese circonvicino, nati da due anni in giù; nondimeno non poté incontrarsi in quello che cercava; perché Egli non voleva morire allora. I Giudei altresì e i Farisei vollero più volte metter le mani addosso a Cristo, e dargli morte: una volta tra le altre, nel mentre che trovavasi in Nazaret, lo condussero sulla cima del monte, sul dorso del quale stava edificata quella città, per indi precipitamelo; e dice il sacro Evangelio: Ipse autem transiens per medium illorum, ibat (Luc. IV, 30): Egli se ne andava con molta pace per mezzo di loro; perché non si era eletto quella qualità di morte, e così essi non gliela potevano dare. Un’altra volta lo vollero lapidare; e già avevano alzate le mani per tirargli i sassi; e Cristo nostro Redentore si mette con gran pace a ragionar con essi e a domandar loro: Multa bona opera ostendi vobis ex Patre meo; propter quod eorum opus me lapidatis (Jo. X, 32)? Io ho fatte molte opere buone a benefìcio vostro; per quale di esse mi volete lapidare? Non permise né diede loro licenza di menar le mani: Quia nondum venerat hora ejus (ibid. VII, 30.): Perché non era ancorarrivata la sua ora. Ma arrivata chefu l’ora nella quale Egli aveva determinato di morire, allora poterono eseguire quel tanto che il Signore determinato aveva di patire, perché allora Egli lo volle, ed allora ne diede loro licenza: Hæc est hora vestra et potestas tenebrarum (Luc. XXII, 53): così lor disse quando andarono per prenderlo. Ogni giorno ero con voi nel Tempio, e non mi prendeste mai, perché non era ancor giunta l’ora; adesso è giunta; e perciò eccomi qui, Io son desso quel che cercate. Quanto fece colà Saulle, quanto s’adoperò, quanti mezzi prese, per avere nelle mani David, il che appunto fu figura di quello che poi doveva avvenire nel divin Redentore? Un Re d’Israello contra un uomo particolare: Ut quærat pulicem unum; come disse l’istesso David (I Reg. XXVI, 20, et c. XXIV, 15); e con tutto ciò non gli poté mai riuscire. La divina Scrittura lo nota tanto bene, e ne rende questa ragione: Non tradidit eum Deus in manus ejus (1 Reg. XXIII, 14):Perché non volle Iddio darglielo nelle mani. Qui sta tutto il punto. E così nota molto bene S. Cipriano sopra quelle parole, Et ne nos inducas in tentationem (D. Cypr. serm. de orat. Dom. Matth. VI, 13), che tutto il nostro timore e tutta la nostra divozione e sollecitudine rispetto alle tentazioni e’ travagli hanno da essere in ordine a Dio; perciocché né il demonio, né alcun altro ci può far male alcuno, se Dio prima non ne dà loro licenza. Secondariamente, benché questa verità ben appresa sia da sé sola bastevole e di grande efficacia per indurci a conformarci in tutte le cose alla volontà di Dio; nondimeno non abbiamo da fermarci qui, ma dobbiamo passar avanti ad un’altra cosa che viene in conseguenza di questa, e la notano i Santi (D. Doroth. doct. 13; Nil. c. 29 de orat, in Psal. Dixit Dominus); la qual è, che insieme col venirci tutte le cose dalla mano di Dio, abbiamo da persuaderci, e credere, che vengano per maggior nostro bene e vantaggio (De S. Gertr., ref. Blos. c. 11, mon. spir.). Anche le pene dei dannati vengono loro dalla mano di Dio; non però per utilità e rimedio loro, ma per puro loro castigo: ma le pene e i travagli che Dio manda agli uomini in questa vita, siano giusti, o siano peccatori, abbiamo sempre da credere, e da aver sempre questa ferma fiducia di quella infinita Bontà e Misericordia, che mandandocegli, ce gli mandi per nostro maggior bene e perché questo più ci conviene per l’eterna nostra salute. Così lo disse la santa Giuditta al suo popolo, quando stavano in quell’afflizione e angustia sì grande, assediati da’ loro nemici: Ad emendationem, et non ad perditionem nostram evenisse credamus (Judith VIII, 27). Crediano pure, che Dio ci ha mandati questi travagli, non per nostra rovina, ma per emendazione e utilità nostra. D’una volontà tanto buona, quanto è quella di Dio il quale ci ama tanto, possiamo bene star certi e sicuri, che non vuole se non il bene e il meglio, e quello che più conviene a noi altri: il che appresso si dichiarerà più pienamente (Infra cap. 10 e 22). – In terzo luogo per cavar maggior frutto da questa verità, e acciocché questo mezzo sia più efficace per acquistare una perfetta conformità alla volontà di Dio, non abbiamo da contentarci di conoscere e credere speculativamente, che tutte le cose vengono dalla mano di Dio, né di crederlo in generale e come alla rinfusa, perché così ce lo dice la Fede, ovvero perché così l’abbiamo letta, o udito; ma bisogna, che andiamo attuando e avvivando questa Fede, con procurar di conoscere e di così giudicar della cosa praticamente, di maniera che veniamo a pigliar tutte le cose che ci succedono, come se sensibilmente e visibilmente vedessimo Cristo Signor nostro che ci stesse dicendo: Piglia, figliuolo, che questo tel mando io; è volontà mia, che tu faccia, o patisca adesso questa e questa cosa; perché in questa maniera ci si renderà molto facile e soave il conformarci in tutte le cose alla volontà di Dio. Che se ti apparisse l’istesso Gesù Cristo in persona, e ti dicesse: Vedi, figliuolo, che questo è quello che Io voglio da te; questo travaglio, o questa infermità, voglio che tu patisca adesso per me; in quest’ufficio, o ministero, voglio che tu mi serva; chiara cosa è, che ancorché fosse la più difficil cosa del mondo, la faresti di molto buona voglia tutto il tempo della tua vita, e ti terresti per molto felice, che Dio si volesse servir di te in quella cosa; e per comandartela esso, crederesti, che questa fosse il meglio, e che più ti convenisse per la tua eterna salute, e non ne dubiteresti punto, né ti verrebbe pure un primo moto in contrario. – In quarto luogo bisogna che nell’orazione ci esercitiamo e ci andiamo attuando assai in quest’esercizio, scavando e profondendoci bene in quella ricchissima miniera della provvidenza tanto paterna e tanto particolare che Dio ha di noi altri; perché così facendo c’incontreremo in questo tesoro: il che andremo dichiarando ne’ capì seguenti.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (4)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (2)

DELLA PRESENZA DI DIO [2]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO IV.

Che questa perfetta conformità alla volontà di Dio è una felicità e beatitudine qui in terra.

Chi arriverà ad avere questa intera conformità alla volontà di Dio, pigliando tutte de cose che succederanno come venute dalla sua mano, e conformandosi in esse alla sua santissima e divina volontà, avrà acquistata una felicità e beatitudine qui in terra; perché godrà una pace e tranquillità molto grande, e avrà sempre un gaudio ed un’allegrezza perpetua nell’anima sua, che è la felicità e beatitudine che godono di qua i gran servi di Dio: essendo che, come dice l’Apostolo, Non est regnum Dei esca et potus, sed justìtia, et pax, et gaudium in Spiritu sancto (Ad Rom. XIV. 17): Non istà la beatitudine di questa vita nel mangiare e nel bere, né in darsi ai passatempi e ai diletti sensuali; ma nella giustizia e pace e nel gaudio dello Spirito Santo. Questo è il regno del cielo qui in terra e il paradiso de’ diletti che possiamo di qua godere. E con ragione questa si chiama beatitudine, poiché ci fa in un certo modo simili a’ Beati. Perciocché siccome in cielo non vi sono mutazioni, né certi va e vieni; ma sempre stanno fermi e permanenti i Beati in un essere, godendo Dio; così qui quei che sono arrivati a questa intera e perfetta conformità, che tutto il loro gusto e contento sia il gusto e la volontà di Dio, non s’inquietano, né si turbano colle mutazioni di questa vita, né coi vari accidenti che avvengono, perché la lor volontà e il cuor loro è tanto unito e conforme alla volontà divina, che il vedere, che tutte quelle cose vengono dalla sua mano e che si eseguisce in esse la volontà e il gusto di Dio, fa che i travagli si convertano loro in allegrezza; perché vogliono più tosto ed amano più la volontà del loro Signore, che la propria: e così non vi è cosa che possa turbar questi tali; perché se quelle cose che li potrebbero turbare e attristare, che sono i travagli, le avversità, i disonori, sono ricevute da essi e stimate come grazie e favori particolari, per venir loro dalla mano di Dio e per esser quella la divina volontà; non vi rimane cosa che li possa inquietare, né toglier loro la pace e la tranquillità dell’anima. Questa era la sorgente di quella pace ed allegrezza perpetua nella quale leggiamo che vivevano continuamente quei Santi antichi; un S. Antonio, un S. Domenico, un S. Francesco, ed altri simili: e l’istesso leggiamo del nostro S. P. Ignazio (Lib. 5, c. 5 V i tæ P. N. S. Ign.), e lo veggiamo ordinariamente ne’ gran Servi di Dio. Mancavano forse travagli a quei Santi? non avevano forse tentazioni e infermità come noi altri? non avvenivano forse loro vari e diversi casi? sì certamente, e più scabrosi che a noi altri, perché  quei che sono più santi sogliono essere da Dio più provati ed esercitati con cose simili. Come dunque stavano sempre in un medesimo essere? con un medesimo sembiante? con una certa serenità ed allegrezza interiore ed esteriore che sempre pareva che fosse Pasqua per essi? La cagione di ciò era quella che andiamo dicendo; perché erano arrivati ad avere una intera conformità alla volontà di Dio ed avevano posto ogni lor gusto nell’adempimento di essa; e così ogni cosa si convertiva loro in contentezza. Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum (Ad Rom. VIII, 28): — Non contristàbit justum quidquid ei acciderit (Prov., XII, 21). Il travaglio, la tentazione e la mortificazione, ogni cosa si convertiva loro in allegrezza, perché conoscevano, che quella era la volontà di Dio, e questa era tutta la contentezza loro. Già avevano conseguita la felicità e la beatitudine che in questa vita si può godere, onde stavano come in gloria. Dice molto bene a questo proposito S. Caterina da Siena (D. Cath. Sen. In Dial.), che i giusti sono come Cristo nostro Redentore, il quale non perde mai la beatitudine dell’anima, sebben pativa molti dolori e pene: così i giusti non perdono mai questa beatitudine che consiste nella conformità alla volontà di Dio, ancorché abbiano molte avversità; perché sempre dura ed è permanente in essi l’allegrezza e il gusto della volontà e del voler di Dio che s’adempisce in quelle cose. –  E questa è una perfezione tanto alta e sublime, che l’apostolo S. Paolo dice che supera ogni senso: Et pax Dei, quæ exuperat omnem sensum, custodiat corda vestra, et ìntelligentias vestras in Christo Jesu (Ad Phil. IV): dice, che questa pace supera ogni senso; perché è un dono di Dio tanto alto e soprannaturale, che non può l’intelletto umano da sé solo comprendere, come sia possibile, che un cuore di carne stia quieto, e pacifico, e consolato nel mezzo de’ turbini e delle tempeste, delle tentazioni e de’ travagli di questa vita. S’assomiglia questa cosa a quella meraviglia del roveto che Mosè vide che ardea e non si abbruciava (Es. III, 2); e al miracolo di quei tre giovanetti che stavano nella fornace di Babilonia, i quali in mezzo del fuoco si conservarono sani ed illesi, lodando Dio. Questo è quello che diceva il santo Giob parlando con Dio: Mirabiliter me crucias (Job. X, 16): Mi tormenti, Signore, mirabilmente; dimostrando da una banda il travaglio e dolor grande che pativa, e dall’altra il gusto e la contentezza grande ch’aveva in patirlo, per esser quella la volontà e il gusto di Dio. Cassiano racconta (Cass. coll. 12, c. 13), che stando un santo vecchio in Alessandria circondato da gran moltitudine d’infedeli che gli dicevano molte maldicenze, egli se ne stava in mezzo di essi come un agnellino, sopportando e tacendo con gran quiete di cuore. Lo schernivano, lo percuotevano, gli davano urtoni, e gli facevano altre gravissime ingiurie, e fra le altre cose gli dissero con ischerno: Che miracoli ha fatti Gesù Cristo? Al che egli rispose: I miracoli che ha fatti sono, che mentre io sto patendo le ingiurie che mi fate, non mi sdegni né m’adiri contra voi altri, né mi turbi con alcuna passione; anzi stia apparecchiato a soffrirne ancora delle altre molto maggiori. Questo è un gran miracolo e una molto alta e sublime perfezione. Dicono gli antichi di quel monte della Macedonia chiamato Olimpo, e l’apporta S. Agostino in molti luoghi, che è di tanto grande altezza, che nella sommità di esso non si sentono venti, né vi cadono piogge né nevi: Nubes excedit Olympus (D . Aug. lìb. de Gen. ad litt. in imperfecto, c. 13, et lib. 3, o. 2, et lib, 1 de Gen. contra Manich, c . 15; Lucan. lib . 2 Pharsalic.). Nemmeno gli uccelli vi possono far nido, perché  è tanto alto, che supera questa prima regione dell’aria e arriva alla seconda: e così l’aria è ivi tanto pura e sottile, che non vi si possono né formare né sostentare le nuvole, le quali per ciò hanno bisogno d’aria più densa: e per l’istessa ragione non si possono ivi sostenere su le lor ali gli uccelli, nemmeno vi posson vivere gli uomini, perché essendo l’aria tanto sottile e depurata, non è sufficiente per poter respirare. E di questo diedero notizia alcuni che salivano colà d’anno in anno a far certi sacrifici, ed i quali portavano seco certe spugne bagnate, acciocché mettendosele alle narici potessero condensar l’aria ed essi così respirare. Costoro scrivevano colà su nella polvere certe lettere le quali trovavano l’anno seguente così ben formate e intere come le avevano lasciate; il che non sarebbe potuto accadere, se fossero arrivati colà i venti e le piogge. Or questo è lo stato di perfezione al quale sono ascesi e arrivati quelli che. hanno questa piena conformità alla volontà di Dio. Nubes excèdit Olympus; et pacem summa tenerti. Sono ascesi ed arrivati tanto alto, ed hanno già acquistata una pace così grande, che non vi sono nuvole né venti né piogge che colà giungano, né vi sono uccelli di rapina che insidiino né predino la pace e allegrezza del loro cuore. S. Agostino sopra quelle parole, Beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur (D. Aug. lib. 1 de serm. Dom. in monte c. 8, in Matth. v. 9), dice, che perciò Cristo nostro Redentore chiama i pacifici, beati e figliuoli di Dio, perché non è in essi cosa che resista né contraddica alla volontà di Dio; ma in ogni cosa si conformano ad essa come buoni figliuoli, i quali in tutte le cose procurano d’assomigliarsi al padre, non avendo altro volere, né altro non volere, che quello che il Padre vuole, o non vuole. Questo è uno de’ più elevati e principali punti che siano nella vita spirituale. Chi arriverà a pigliare tutte le cose che gli avverranno, tanto grandi quanto piccole, come venute dalla mano di Dio, e a conformarsi in esse alla divina volontà sua, di maniera che tutto il suo gusto sia il gusto di Dio e l’adempimento della sua santissima volontà, questo tale ha trovato il paradiso qui in terra: Factus est in pace locus ejus, et habitatio ejus in Sion (Ps. LXXV, 3). Questo tale, dice S. Bernardo (D. Bernard. In sentent.), potrà con ogni sicurezza e fiducia cantar quel Cantico del Savio: In his omnibus requiem qucesivi, et in hæreditate Domini morabor (Eccli. XXIV, 11); perché ha trovato il vero riposo e il pieno e compiuto gaudio che da niuno gli potrà esser tolto. Ut gaudium vestrum sit plenum — Et gaudium vestrum nemo tollet a vobis (Jo. XVI, 24 et 22). Oh se finissimo una volta di metter ogni nostra contentezza nell’adempimento della volontà di Dio, che la volontà nostra fosse sempre la sua e il nostro gusto il suo! Che non avessi io, Signore, altro volere, ed altro non volere, che quello che volete, o non volete voi, e che questa fosse la mia consolazione in tutte le cose: Mihi autem adhærere Deo bonum est, ponere in Domino Deo spem meam (Ps. LXXII, 27). Oh quanto buona cosa sarebbe per l’anima mia unirmi a Dio in questo modo! Oh quanto felici saremmo, se stessimo sempre tanto uniti a lui, che in ciò che facciamo, o patiamo, non riguardassimo altra cosa, se non che stiamo adempiendo la volontà di Dio, e questa fosse ogni nostra contentezza e ricreazione! Questo è quello che dice quel santo uomo: Quegli al quale Dio è ogni cosa, e tutte le cose riferisce a Dio, e vede ogni cosa in Dio, può essere stabile di cuore, e starsene con somma pace in Dio (Thom. A Kemp. Lib. 1, c. 3, n. 2).

CAPO V.

Che in Dio solo si trova contentezza, e chi la metterà in altra cosa non potrà avere contentezza vera.

Quelli che mettono la contentezza loro in Dio e nella sua divina volontà, godono una contentezza ed allegrezza perpetua; perché come stanno appoggiati a quella ferma colonna della volontà di Dio, partecipano di quella immutabilità della volontà divina; e così stanno sempre fermi ed immobili in un medesimo essere. Ma quelli che stanno attaccati alle cose del mondo e in esse tengono posto il cuore e la contentezza loro, non possono avere contentezza vera né durabile; perché camminano insieme con queste cose, e dipendono da esse; e cosi stanno soggetti alle mutazioni delle medesime. Il glorioso S. Agostino dichiara questo molto bene sopra quelle parole del profeta David, Concepii dolorem, et peperit iniquitatem, dicendo: Non enim poterit làbor finiri, nisi hoc quisque diligat, quod invito non possit auferri (D. Aug. in Ps. VII, 15). Tieni per certo, che fino a che non metterai la tua contentezza in quella cosa che da niuno ti può esser tolta contra tua voglia, sempre starai con ansia e con affanno. Leggiamo del nostro P. Francesco Borgia, che arrivato che fu a Granata col corpo dell’Imperatrice, quando si ebbe da far la consegnazione di esso, aprirono la cassa di piombo nella quale stava riposto; e scoprirono la sua faccia, la quale era tanto mutata, tanto brutta e contraffatta, che metteva orrore a quei che la guardavano. Questa cosa cagionò in lui tanto sentimento, che toccandogli Dio il cuore con quel sì gran disinganno del mondo, fece questo fermo proponimento: Io mi risolvo, o mio Dio, di non più servire padrone che mi possa mancare (Lib. 1, c. 7 Vita; P. Franc., de Borgia ). Ora pigliamo noi altri questa risoluzione la quale è molto buona. Io fo proponimento, Signore, di non mettere per l’avvenire il mio cuore in cosa che mi possa mancare, in cosa che possa aver fine, né in cosa che da altri mi possa esser tolta contra mia voglia: perché  altrimenti non potremo avere vera contentezza: Nam cum ea diliguntur, dice S. Agostino, quos possumus contra voluntatem amittere, necesse est, ut prò iis miserrime laboremus (D. Aug. ubi supra): perché se tieni posto il tuo amore e la tua affezione in quella cosa che ti può esser tolta contra tua voglia, senza dubbio quando ti sarà tolta ne sentirai dolore. Questa è cosa naturale, non lasciarsi senza dolore quello che si possiede con amore: e quanto maggiore sarà l’amore, tanto maggiore sarà il dolore: onde confermando questa medesima cosa in un altro luogo il medesimo Santo dice: Qui vult gaudere de se, tristis erit. Se tu metti la tua contentezza nel tal ufficio, o nella tale occupazione, o nello stare nel tal luogo, o in altra cosa simile, cotesta contentezza ti potrà esser tolta facilmente dal Superiore, e così non vivrai mai contento. Se metti la tua contentezza nelle cose che sono secondo la volontà tua, o nell’adempimento di essa, elle si mutano facilmente; e quando bene non si mutassero esse, ti muti tu stesso; perché quello che oggi ti piace e ti gusta, domani ti dispiace e ti disgusta. Se non lo credi, vedilo in quello stolto popolo degl’Israeliti, che favoriti da Dio col miracoloso isquisitissimo cibo della manna, se ne infastidirono e domandarono altro cibo; e vedendosi in libertà, tornarono subito a desiderare la servitù, e sospiravano per l’Egitto e per gli agli e le cipolle che mangiavano colà, e molte volte desiderarono di tornarvi. Non avrai mai contentezza, se la metterai in queste cose: Qui autem de Deo vult gaudere, semper gaudebit; quia Deus sempi ternus est: Ma chi metterà tutta la sua contentezza in Dio e nell’adempimento della sua divina volontà, vivrà sempre contento; perché Dio è sempiterno, mai non si muta, sempre resta e dura in un essere. Dunque, vis habere gaudium sempiternum? dice il Santo, admire Hit, qui sempiternus est: Vuoi tu avere un gaudio e una contentezza perpetua e sempiterna? metti il tuo cuore in Dio che è sempiterno (S. Aug. tract. 24 in Jo.). Lo Spirito santo assegna questa differenza tra l’uomo sciocco e l’uomo savio e santo: Stultus sicut luna mutatur; homo sanctus in sapientia manel sicut sol (Eccli. XXVII, 12). Lo sciocco si muta come la luna, oggi crescente, domani calante: oggi lo vedrai allegro, domani malinconico; ora d’un umore, e tra poco di un altro; perché tien posta la sua contentezza nelle cose del mondo mutabili e transitorie; e così si muove al muoversi di esse, e va variando al variare de’ loro successi. Nel flusso e riflusso de’ suoi affetti, appunto come il mare, va colla luna, ed è lunatico. Ma l’uomo giusto e santo è permanente come il sole, sempre di un istesso tenore e in un medesimo essere: non sono in esso né crescenze né scemamenti. Il vero servo di Dio sempre sta allegro e contento; perché ha riposta la sua contentezza in Dio e nell’adempimento della sua santissima volontà che non può mancare né gli può da alcuno esser tolta. Si dice di quel santo abbate chiamato Deicola, che sempre andava ridendo; e domandato per qual cagione, diceva, Christum a me tollere nemo potest (Abb. Deicol. In Vit. Patr.): Sia quel che si voglia essere e venga quello che vuol venire, che nessuno può togliermi Dio. Quest’uomo aveva trovata la vera contentezza; perché l’aveva posta in cosa che non gli poteva mancare e che da nessuno gli poteva esser tolta. Facciamo dunque così noi altri: Exultate, justi, in Domino (Psal. XXXII, 1). S. Basilio sopra queste parole dice: Avvertite, che il Profeta non dice, che vi rallegriate nell’abbondanza delle cose temporali, nemmeno nella vostra molta abilità ed ingegno, non nelle molte lettere e nei grandi talenti che avete, né che vi rallegriate nella buona sanità e nelle grandi forze corporali, nemmeno nell’esser in molta riputazione e in molta stima presso gli uomini; ma che vi rallegriate nel Signore, e che mettiate tutta la vostra contentezza in Dio e nell’adempimento della sua santissima volontà; perché questa sola cosa è quella che sazia; e tutto il rimanente non può dare soddisfazione né vera contentezza (D. Basil. 8 in eumdem Ps.). S. Bernardo in un Sermone che fa sopra quelle parole di S. Pietro, Ecce nos reliquimus omnia etc., va dichiarando e provando molto bene questa cosa, e dice: Anima rationalis ceteris omnibus occupavi potest, repleri omnino non potest (2 (2) D. Bern. in Matth. XIX, 27): Tutte le altre cose fuori di Dio possono bensì occupar l’anima e il cuore dell’uomo, ma non lo possono saziare; possono provocare e stuzzicare la fame, ma non levarla: Avarus non implebitur pecunia (Eccle. v, 9): come appunto accade all’avaro il quale, per detto del Savio, ha gran fame di denari; ma abbiane quanti ne può avere, non si sazierà mai: e il medesimo è di tutte le altre cose del mondo, che non potranno giammai saziare l’anima nostra. E ne rende la ragione S. Bernardo con dire: Sai perché le ricchezze e tutte le cose del mondo non ci possono saziare? Quia non sunt naturales cibi animæ (D. Bernard., tract. de dil. Deo c. 3 in fine); perché non sono cibo naturale né proporzionato dell’anima. Siccome l’aria e il vento non sono cibo naturale né proporzionato del nostro corpo, e ti rideresti, se vedessi che un uomo, morto di fame si mettesse colla bocca aperta all’aria, come un camaleonte, pensando di potersi con quello saziare e sostentare, e lo terresti per pazzo; così non è minor pazzia, dice il Santo, il pensare, che l’anima razionale dell’uomo, la qual è spirito, si abbia da saziare colle cose temporali e sensuali: Inflari potest, satiari non potest: Si può gonfiare come un otre coll’aria, ma saziarsi è impossibile; perché non è questo il suo cibo. Dà a ciascuno il suo nutrimento proporzionato, al corpo cibo corporale, e allo spirito spirituale; Panis namque animai justitia est, et soli beati, qui esuriunt illam; quoniam ipsi saturabuntur (Idem sup. Illa verba, Ecce nos reliquimus omnia). Il pane dell’anima, il suo cibo naturale e proporzionato, è la giustizia la virtù; e così solamente quei che hanno fame e sete di questa giustizia saranno beati, perché essi saranno saziati. Il beato S. Agostino dichiarando tuttavia più questa ragione ne’ suoi soliloqui, e parlando dell’anima ragionevole, dice: Facto est capax majestatìs tua!, ut a te solo, et a nullo alio, possit impleri (D. Aug. c. 30 Solil.): Facesti, Signore, l’anima ragionevole capace della tua maestà, di maniera tale che nessun’altra cosa la possa appagare né saziare, se non tu. Quando l’incavo e l’incastro di un anello è fatto alla misura di qualche pietra preziosa, nessun’altra cosa che ivi si metta vi sta bene, né finisce di riempier quel vacuo, se non quella pietra preziosa alla cui misura fu fatto: e se l’incavo è triangolare, nessun’altra cosa rotonda lo potrà empire. Ora l’anima nostra fu creata ad immagine e similitudine della santissima Trinità, con un vacuo e un incavo nel nostro cuore capace di Dio e proporzionato per ricever in sé l’istesso Dio. E così è impossibile ch’altra cosa possa riempiere questo vacuo, che il medesimo Dio. – Tutta la rotondità del mondo non basterà ad empierlo. Fecisti nos, Domine, ad te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te (Idem, lib. 1 Confess. c. 1): Ci facesti, Signore, per te; e così non si può quietare il nostro cuore né aver riposo, se non in te. – È molto buona questa cosa, e si dichiara molto bene con quella similitudine che comunemente si suol portare dell’ago, o frezzetta dell’oriuoletto portatile da sole. La natura di quest’ago, dopo essere stato toccata colla pietra calamita, è di volgersi e guardare verso la tramontana; perché Dio gli diede questa naturale inclinazione: e vedrai quanto sta inquieto quell’ago, e quante volte si gira e si rigira, sin a tanto che si drizzi colla punta a tramontana, e come fatto questo subito si ferma. Or così Dio creò l’uomo con questa naturale inclinazione e risguardo a Lui come a sua tramontana ed ultimo fine: onde finché non metteremo il nostro cuore in Dio, sempre staremo, come l’ago suddetto, mobili e inquieti. A qualsivoglia di quelle parti mobili del cielo che guardi quell’ago, non si quieta; e subito che guarda ad un punto del cielo che non si muove, rimane fisso ed immobile: così mentre metterai gli occhi e il cuore nelle cose del mondo mutabili e transitorie, non potrai aver quiete né contentezza: mettilo in Dio, e l’avrai. – Questo ci dovrebbe muovere grandemente a cercar Dio, ancorché non fosse per altro che per nostro proprio interesse; perché  tutti desideriamo d’aver contentezza. Dice S. Agostino : Scimus, fratres, quoti omnis homo gaudere desiderat; sed non omnes ibi quærunt gaudium, ubi oportet inquivi (D. Aug. serm. 20 de Sanct.): Sappiamo bene, Fratelli miei, che ogni uomo naturalmente desidera contentezza e quiete, e la procura quanto può, perché non ne può viver senza; ma tutto il discernimento, o inganno degli uomini sta nell’affrontare a mettere gli occhi e il cuore nella contentezza vera, o nel mettergli in quella che è apparente e falsa. L’avaro, il lussurioso, il superbo, l’ambizioso e il goloso, tutti desiderano aver contentezza; ma uno mette la sua contentezza nel posseder molte ricchezze; l’altro negli onori e nelle dignità; l’altro nel mangiare e banchettare; l’altro ne’ piaceri disonesti: non hanno affrontato a mettere la contentezza loro ove l’avevano da mettere, e così non la troveranno mai; perché tutte queste cose e quanto è nel mondo, non basta a saziare l’anima né a darle contentezza. E così S. Agostino dice: Quid ergo per multa vagaris, homuncio, quærendo bona animæ tuæ et corporis tui? Ama unum bonum, in quo sunt omnia bona, et sufficit: desidera simplex bonum, quod est omne bonum, et satis est. Idem de Spir, et Anima , c»p, 64.): A che fare ti stracchi, uomicciuolo, cercando queste cose di qua? se vuoi avere sazietà e contentezza, ama Dio, e questo basta; perché  in esso stanno tutti i beni, ed Egli solo è quegli che può saziare ed empiere il desiderio del tuo cuore. Benedic, anima mea, Domino, qui replet in bonis desiderium tuum (Psal. CII, 1, 5). Benedetto, lodato e glorificato ne sia Egli in eterno. Amen.

CAPO VI.

Si dichiara per un altro verso come il conformarci alla volontà di Dio è mezzo per aver contentezza.

Il glorioso S. Agostino, sopra quelle parole del Salvatore, Quodcumque petieritis Patrem in nomine meo , hoc faciam (D. Aug. tract. 73 in Jo.; Jo. xiv. 13). Qualsivoglia cosa che domanderete al mio Padre in mio nome, vi sarà da me conceduta, dice che non deve uno cercar pace e quiete per la via di far la volontà propria e di conseguire quel che appetisce; perché non è questo il suo bene né quello che gli conviene; anzi questo sarebbe forse male per esso; ma ha da procurare di accomodarsi semplicemente in quel bene, o in quel meglio che Dio gli manda, e questo è quello che ha da chiedere a Dio: Quando enim nos delectant mala, et non delectant bona; rogare debemus pótius Deum, ut delectent bona, quam ut concedantur mala: Se non trovi gusto nell’adempimento della volontà di Dio, che è il vero bene, ma il tuo gusto e appetito ti porta a cercare l’adempimento della tua volontà, hai da chiedere e porger suppliche a Dio, che non ti conceda quello che tu vuoi, ma che ti dia gusto nell’adempimento della sua divina volontà, che è il tuo vero bene e quello che ti conviene. E porta a questo proposito quel fatto che si legge ne’ Numeri (Num. XI, 4), quando i figliuoli d’Israello s’infastidirono della manna del cielo che Dio mandava loro, e desiderarono e domandarono carne, che Dio soddisfece al desiderio loro; ma costò loro molto caro, perché, Adhuc esca? eorum erant in ore ipsorum, et ira Dei ascendit super eos. Et occidit pingues eorum, et electos Israel impediva (Ps. LXXVII): Dio li castigò, facendo una grande uccisione d’essi. È cosa chiara, ch’era migliore la manna del cielo che Dio mandava loro, che la carne da essi desiderata e che le cipolle e gli agli dell’ Egitto per i quali sospiravano; onde non dovevano dimandar queste cose a Dio, dice il Santo, ma sì bene, che risanasse loro il palato, acciocché avessero avuto buon gusto del cibo celeste, e così non avrebbero avuto a desiderare altro cibo; poiché nella manna avevano tutte le cose e tutti i sapori che potevano desiderare (Sap. XVI, 20). Nell’istesso modo quando tu stai colla tentazione, o colla passione, ed hai il gusto corrotto e guasto, sì che non gusti della virtù né del bene, ma come infermo appetisci cose cattive e nocive; non t’hai da regolare col tuo appetito, né hai da volere che s’adempisca quel che desideri; perché questo non sarà mezzo per aver contentezza, ma per aver di poi maggior disgusto e maggiore inquietudine e scontentezza. Quello che hai da desiderare e da domandar a Dio, è che ti risani il palato e ti dia gusto nell’adempimento della santissima volontà sua, ch’è il bene e quello che ti conviene; e in questo modo verrai a conseguire la vera pace e la vera contentezza. S. Doroteo (D. Doroth. Doctr. 9) va in questo per un’altra strada, o per dir meglio, dichiara questa cosa in un altro modo, e dice, che colui il quale conforma in ogni cosa la volontà sua a quella di Dio, di maniera che non ha altro volere, né altro non volere che quello che Dio vuole, o non vuole, viene in questo modo a far sempre la sua propria volontà e ad aver sempre molta pace e quiete. Poniamo esempio nell’ubbidienza, e con ciò resterà dichiarato quel che vogliamo dire, e faremo, come suol dirsi, d’un viaggio due servigi. Diciamo comunemente a quei che vogliono essere Religiosi e camminare per la strada dell’ubbidienza: Avvertite, che qui nella Religione non avete da fare la volontà vostra in cosa alcuna; e S. Doroteo dice: Andate pure alla Religione, che in essa potete ben fare la volontà vostra: io vi darò un mezzo da poter fare tutto il giorno la vostra volontà non pur lecitamente, ma santamente e con gran perfezione. Sapete come? Qui propriam non habet voluntatem, suam ipsius semper agit voluntatem: Il Religioso che è vero ubbidiente, e non ha propria volontà, sempre fa la volontà sua, perché fa sua la volontà altrui: Et sic, nolentes propriam explere voluntatem, invenimur illam semper explevisse: Procurate voi che la volontà vostra non sia altra che la volontà del Superiore; e così tutto il giorno andrete eseguendo la vostra volontà, e con gran perfezione e merito: perché in questa maniera io dormo quanto voglio; perché non voglio dormire più di quello che è ordinato dall’ubbidienza: e mangio quel che voglio; perché non voglio mangiar più di quello che mi è dato: e fo l’orazione, la lezione e la penitenza che voglio; perché in tutto questo non voglio se non quello che dall’ubbidienza è tassato e ordinato: e così in tutto il resto. Di maniera che il buon Religioso, non volendo fare la volontà sua, viene a far sempre la sua volontà: e perciò stanno tanto allegri e contenti i buoni Religiosi. Quel far sua la volontà dell’ubbidienza li fa star sempre contenti ed allegri. In questo sta tutto il punto della facilità o difficoltà della Religione, e da questo dipende l’allegrezza e la contentezza del Religioso. Se ti risolvi di lasciare la tua propria volontà e di pigliare per tua la volontà del Superiore, ti si farà molto facile e soave la Religione, e vivrai con gran contento e allegrezza. Ma se hai altra volontà differente da quella del Superiore, non potrai vivere nella Religione. Due volontà differenti non sono compatibili in un solo. Ancora con non avere noi altri se non una volontà sola, pure perché abbiamo un appetito sensitivo che contraddice alla volontà e alla ragione, abbiamo da fare a difenderci da esso, non ostante che questo appetito sia inferiore e subordinato alla nostra volontà; or che sarebbe, essendoci due volontà, ciascuna delle quali pretendesse essere la padrona? Nemo potest duobus dominis servire (Matth. VI, 24): Nessuno può servire a due padroni. La difficoltà della Religione non istà tanto nelle cose e nei travagli che sono in essa, quanto nella ripugnanza della nostra volontà e nella apprensione della nostra immaginazione: questa è quella che ci rende le cose pesanti e difficili. Questo si conoscerà molto bene dalla differenza che esperimentiamo in noi altri quando abbiamo tentazioni e quando non ne abbiamo; perché quando stiamo senza tentazioni, veggiamo che le cose ci si fanno facili e leggiere; ma ti verrà una tentazione e ti si caricherà addosso una tristezza e malinconia grande; e allora quel che ti soleva esser facile ti diventa molto difficile, e ti pare di non poter portare sì gran peso, e che per farlo bisogna che si congiunga il cielo colla terra. Non istà la difficoltà nella cosa, poiché è la medesima ch’era prima; ma nella tua mala disposizione: come quando l’infermo abborrisce il cibo, non istà il male nel cibo, che questo è buono e ben condito, ma nel cattivo umore dell’infermo, il quale fa che il cibo gli paia cattivo e di mal sapore: così è qui nel caso nostro. Questa è la grazia che Dio fa a quei che chiama alla Religione, il dar loro gusto e sapore nel seguire la volontà altrui. Questa è la grazia della vocazione, colla quale il Signore ci ha fatti di miglior condizione che i nostri fratelli rimasi colà nel mondo. Chi ti diede cotesta facilità in lasciare la volontà tua e in seguir quella di un altro? chi ti diede un cuor nuovo per abborrire con esso le cose del mondo e per gustare del ritiramento dell’orazione e della mortificazione? non sei già nato con questo; no certamente, ma più tosto col contrario: Sensus enim, et cogìtatio humani cordis in malum prona sunt ab adolescentia sua (Gen. VIII, 21). Questa è stata grazia e dono dello Spirito santo: Egli fu quegli che come buona madre ti pose nelle poppe del mondo l’aloe, acciocché ti diventasse amaro quello che prima ti era dolce; e pose mele soavissimo nelle cose della virtù e della Religione, acciocché ti diventasse saporito e soave quello che prima ti pareva amaro e di mal sapore: Domine, qui me custodisti ab infantia, qui abstulistì a me amorem sæculi, diceva già quella gran Santa (In Vita B. Agat. et Eccl. in Off. ejus sol.): Ti rendo, Signore, infinite grazie, perché mi hai custodita ed eletta fino dalla mia fanciullezza e perché hai levato via dal mio cuore l’amor del secolo. Ah! che non è gran cosa quella che noi altri facciamo nel renderci Religiosi; ma è bensì molta e grandissima la grazia che Dio ci ha fatta nel tirarci alla Religione e nel far che gustiamo della manna del cielo, mentre gli altri gustano e si trattengono cogli agli e colle cipolle dell’Egitto. Alle volte mi metto a considerare, come quei del mondo si svestono della volontà loro e fanno propria la volontà altrui per i loro guadagni e interessi, cominciando dal primo personaggio che sta al lato del Re, sino all’ultimo staffiere e all’ultimo mozzo di stalla. Mangiano, come essi stessi dicono, secondo la fame altrui, dormono secondo l’altrui sonno, e sono tanto assuefatti a questo, ed hanno fatta talmente lor propria la volontà altrui, che gustano di quella maniera di vivere e la tengono per trattenimento: Et Mi quidem, ut corruptibilem coronam accipiant; nos autem incorruptam (1 Cor. IX, 25). Or che gran cosa è. Che noi altri gustiamo di un modo di vivere tanto ben ordinato, quanto è quello della Religione, e facciamo propria la volontà del Superiore, la quale è migliore che la nostra? Se quelli per un poco di onore e di interesse temporale si fanno tanto propria la volontà altrui, che arrivano ad avere per gusto e per trattenimento il seguirla e il fare della notte giorno e del giorno notte; che gran cosa è, che noi facciamo questo per amor di Dio e per acquistare la vita eterna? Risolviamoci dunque di far nostra la volontà del Superiore, e in questo modo faremo sempre la volontà nostra, e vivremo molto contenti ed allegri nella Religione, e sarà la nostra allegrezza e il nostro gusto molto spirituale. Ritorniamo ora al nostro intento e applichiamo questo al nostro proposito. Facciamo nostra la volontà di Dio, conformandoci ad essa in tutte le cose, e non avendo altro volere, o non volere, che quello che Dio vuole, o non vuole ; e in questa maniera verremo a far sempre la propria volontà nostra e a vivere con gran contento e allegrezza. Chiara cosa è, che se tu non vuoi se non quel che Dio vuole, si farà la volontà tua; perché si farà quella di Dio, che è quello che tu vuoi e desideri. Insino Seneca seppe dir questo (1 Seneca in præfat. lib. 3 nat. quæst.). La più alta e più perfetta cosa che sia nell’uomo, dic’egli, è saper sopportare con allegrezza i travagli e le avversità, e tollerar tutto quello che succede, come se di sua propria volontà il tutto gli succedesse; perché l’uomo è obbligato a volere così, sapendo che questa è la volontà divina. Oh! quanto contenti vivremmo, se accertassimo bene a far nostra la volontà di Dio e a non voler mai se non quello che Egli vuole; non solo perché sempre si farà la volontà nostra, ma ancora e principalmente per vedere, che sempre si fa e si adempie la volontà di Dio che tanto amiamo. Che sebbene abbiamo ancora a valerci di quel tanto che ora si è detto; nondimeno in questo poi dobbiamo finalmente venire a fermarci, e in questo abbiamo da mettere ogni nostra contentezza, nel gusto e soddisfazione di Dio, e nell’adempimento della santissima e divina volontà sua: Omnia quæcumque voluit Dorninus, fecit, in cœlo, et in terra, in mari, et in omnibus abyssis ( Ps. CXXXIV, 9): Tutte le cose che il Signore ha voluto, ha fatte, e farà tutte quelle che vorrà; e può fare quanto può volere, come dice il Savio: Subest enim tibi, cum volueris, posse (Sap. XII, 18): Né vi è chi glielo possa impedire, né chi gli possa resistere: In ditione enim tua cuncta sunt posita, et non est qui possit tuœ resistere voluntati (Esther XIII, 9); Voluntati ejus quis resistit (Ad Rom. IX, 19)?

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (3)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (1)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (1)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO I.

Si pongono due fondamenti principali in questa materia.

Non sicut ego volo, sed sicut tu (Matth, XXVI,39):

Non si faccia, Signore, come voglio io, ma come volete voi. Per due fini dicono i Santi che discese il Figliuolo di Dio dal cielo e si vestì della nostra carne, facendosi vero uomo: l’uno per redimerci col suo Sangue prezioso, l’altro per insegnarci colla sua dottrina la via del cielo e istruirci col suo esempio: imperciocché siccome non ci avrebbe giovato il saper la via per cui poter camminare, se fossimo rimasi legati nel carcere; così, dice S. Bernardo (D. Bern., serm., 3, in circum., Dom.), non avrebbe giovato il cavarci dal carcere, se non avessimo saputa tal via: e poiché Dio era invisibile, era necessario, che per poterlo noi vedere, seguitare e imitare, Egli si facesse visibile e si vestisse della nostra umanità: in quella guisa che il pastore si veste di un pelliccione formato della stessa delle delle pecore, acciocché queste più facilmente lo seguitino, vedendo la loro similitudine. – E S. Leone papa dice: Nisi enim esset verus Deus, non afferret remedium: nisi esset homo verus, non præberet exemplum (D. Leo P. serm. 1, (le Nat. Dom.): Se Cristo non fosse stato vero Dio, non ci avrebbe apportato il rimedio; e se non fosse stato vero uomo, non ci avrebbe dato l’esempio. L’una e l’altra di queste due cose fece Egli molto compiutamente mercé l’eccesso di quell’amore che portava agli uomini. Siccome dal canto suo fu molto copiosa la redenzione: Et copiosa apud eum redemptio (Psal. CXXIX, 7): così dal canto suo fu anche molto copioso il suo ammaestramento; perché non fu fatto solamente con parole, ma molto più abbondantemente con esempio di opere: Cœpit Jesus facere et docere, dice l’evangelista S. Luca (Act, I, l). Prima cominciò ad operare, il che fece in tutta la sua vita; e dipoi a predicare i tre ultimi anni, ovvero i due e mezzo. – Ora fra tutte le cose che c’insegnò Cristo nostro Redentore, una delle più principali si è che avessimo una piena conformità alla volontà di Dio in tutte le cose: e non solo ce lo insegnò con parole, quando insegnandoci ad orare disse: Una delle cose che avete da chiedere al vostro Padre celeste, è, Fiat voluntas tua sicut in cœlo et in terra (Matth. VI, 10): Facciasi, Signore, la volontà tua in terra siccome si fa in cielo; ma c’insegnò anche e ci confermò molto bene questa dottrina col suo esempio: perché a quest’effetto dic’Egli che scese dal cielo in terra; Descendi de cælo, non ut faciam voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui misit me (Jo. VI, 38): Discesi dal cielo, non per fare la volontà mia, ma quella del mio Padre che mi mandò. E al tempo di compiere la grand’opera della nostra Redenzione, il giovedì dopo l’ultima Cena ritiratosi all’orto di Getsemani, ed ivi postosi in orazione, sebbene il corpo e l’appetito suo sensitivo naturalmente ricusavano la morte (onde per mostrare, ch’era vero uomo, disse: Pater mi, sì possibile est, transeat a me calix iste – Matth. XXVI, 39): Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice); nondimeno la volontà sua fu sempre molto pronta e molto desiderosa di bere il calice che il divin suo Padre gli offriva: onde soggiunse subito: No, Signore, non si faccia quello che voglio Io; ma quello che volete Voi. Per pigliar questa cosa dalla sua radice e per fondarci bene in questa conformità alla volontà di Dio, si hanno da supporre due brevi fondamenti, ma molto sostanziali, sopra de’ quali, come sopra due cardini, si ha da appoggiare e raggirare tutto questo affare. Il primo è, che il nostro profitto e perfezione consiste in questa conformità alla volontà di Dio: e quanto questa sarà maggiore e più perfetta, tanto sarà maggiore il profitto. Questo fondamento si lascia intendere facilmente; perché è cosa certa, che la perfezione essenzialmente consiste nella carità e nell’amor di Dio: e tanto sarà uno più perfetto, quanto più amerà Dio. È pieno di questa dottrina il sacro Evangelio; ne sono piene le Epistole di S. Paolo; ne sono pieni i libri de’ Santi: Hoc est maximum et prìmum mandatumCharitas est vinculum perfectionis (Ad Col, III, 14): — Major autem horum est charitas (I ad Cor. XIII, 13). La cosa più alta e più perfetta è la carità e l’amor di Dio. Ora la parte più alta e più pura di questo amore di Dio, e come la sua quint’essenza, è il conformarsi in ogni cosa alla volontà di lui e l’aver un istesso volere e non volere colla Divina Maestà Sua in tutte le cose: Eadem velle et eadem nolle, ea demum firma amicitia est, dice S. Girolamo (Hieron. ep. ad Demetr. ex Cicer. de amicitia), riportando queste parole da lui cavate da quell’antico Filosofo: L’aver un istesso volere e non volere colla cosa amata, è la vera e ferma amicizia. Dunque quanto uno sarà più conforme e più unito alla volontà di Dio, tanto sarà migliore e più perfetto. Inoltre è chiaro che non vi è cosa migliore né più perfetta che la volontà di Dio; dunque quanto più uno si conformerà e si unirà alla volontà di Dio, tanto migliore e più perfetto sarà: come saviamente arguiva lo stesso sovrallegato Filosofo: Se Dio è la cosa più perfetta che si trovi; dunque quanto più una cosa si assomiglierà a Dio, tanto sarà più perfetta. – Il secondo fondamento è, che nessuna cosa può avvenire né succedere nel mondo, se non per volontà e ordinazione di Dio: il che si ha da intendere sempre, eccettuatane la colpa e il peccato; perché di questo non è cagione né autore Dio, né può esserlo. E siccome ripugna alla natura del fuoco il raffreddare, e a quella dell’acqua il riscaldare, e a quella del sole l’oscurare; così ripugna infinitamente più all’immensa bontà dì Dio l’amare l’iniquità. Onde il profeta Abacuc disse: Mundi sunt oculi tui, ne videas malum; et respicere ad iniquitatem non poteris (Habac. 1,13.): Signore, gli occhi tuoi sono mondi, per non vedere il male; e non puoi vedere le iniquità degli uomini. Siccome tra noi, quando vogliamo significar l’odio che uno porta ad un altro, diciamo, che non lo può vedere; così dice che Dio non può vedere le iniquità degli uomini per l’abborrimento e odio grande che porta a quelle: Quoniam non Deus volens iniquitatem tu es, dice David (Ps, V, 5); e altrove: Dilexisti justitiam et odisti iniquitatem (Ps. XLIV, 8). Tutta la sacra Scrittura è piena di espressioni e di formole le quali ci mostrano quanto Dio odia il peccato; onde non può esser cagione né autor di esso. Ma, eccettuatone il peccato, tutte le altre cose e tutti i travagli e i mali di pena che avvengono in questo mondo, tutti avvengono per volontà e ordinazione di Dio. Questo fondamento è anch’esso molto certo. Non vi è fortuna nel mondo: che questo fu errore de’ Gentili. I beni che il mondo chiama di fortuna, non li dà la fortuna, che questa non vi è, ma li dà solamente Dio. Così lo dice lo Spirito santo per mezzo del Savio: Bona et mala, vita et mors, paupertas et honestas, a Deo sunt (Eccli, XI, 11): I beni e i mali, la vita e la morte, la povertà e le ricchezze, Dio è che le dà. E ancorché queste cose avvengano per mezzo d’altre cagioni seconde, è nondimeno certo, che nessuna cosa si fa in questa gran repubblica del mondo; se non per volontà e ordine di quel supremo Imperatore che la governa. Nessuna cosa avviene a caso rispetto a Dio; ogni cosa vien decretata e ordinata da lui, e ogni cosa passa per le sue mani. Tiene Egli contate tutte le ossa del tuo corpo e tutti i capelli del tuo capo; e né pur uno di essi ti sarà tolto senza ordinazione e volontà sua. Ma che dico io di quello che tocca agli uomini? Non cade un uccellino nel laccio, dice Cristo nostro Redentore nel suo Evangelio, senza disposizione e volontà di Dio: Nonne duo passeres asse væneunt: et unus ex illis non cadet super terram sine Patre vestro (Matth. X, 29)? Nemmeno una fronda di un albero si muove senza la sua volontà. Ancora delle sorti, dice il Savio: Sortes mittuntur in sinum, sed a Domino temperantur (Prov. XVI, 33): Sebbene le sorti si cavano da un bussoletto, o da un vaso, non ti pensare che escano a caso; perché escono per decreto della Divina Provvidenza, la quale così vuole e così dispone: Cecidit sors super Mahiam (Act. I, 26): Non cadde a caso la sorte sopra di Mattia; ma fu per decreto e particolare provvidenza di Dio, il quale lo volle eleggere in suo Apostolo per quella via. Arrivarono a conoscere questa verità, anche col solo lume naturale, i buoni Filosofi, e dissero, che sebbene rispetto alle cagioni seconde molte cose sono a caso, nondimeno non sono a caso rispetto alla prima cagione; ma molto di proposito e a bello studio da lei sono prevedute e ordinate: e apportano per esempio: Se un padrone mandasse un servidore in qualche luogo per qualche affare; e per un’altra strada ne mandasse un altro al medesimo luogo, o per lo stesso, o per un altro affare, senza saper l’uno dell’altro, intendendo però egli, che colà si unissero; l’incontrarsi questi due servidori rispetto ad essi sarebbe a caso, ma rispetto al padrone, che lo pretese, non sarebbe a caso, ma cosa pensata e voluta molto di proposito: così qui nel caso nostro, benché rispetto agli uomini avvengano alcune cose a caso, perché essi prima non le intendevano né vi pensavano; nondimeno rispetto a Dio non avvengono a caso, ma con consiglio e volontà sua, che così ha ordinato per i fini segreti e occulti ch’Egli sa. Quel che abbiamo da cavare da questi due fondamenti, è la conclusione , e l’assunto che abbiamo proposto, cioè, che, giacché tutte le cose che ci accadono vengono dalla mano di Dio, e tutta la nostra perfezione consiste nel conformarci alla volontà sua, le riceviamo dunque tutte come venute dalla sua mano e ci conformiamo in esse alla sua divina e santissima volontà. Non hai da ricevere cosa alcuna come venuta a caso, o per industria e per i mezzi degli uomini; perciocché questo è quello che suol cagionare grande angoscia e dolore: non ti pensare che questa o quell’altra cosa ti sia avvenuta, perché quell’altro l’abbia maneggiata; e che, se non fosse stato per la tale o tal altra circostanza, sarebbe succeduta altrimenti: non hai da far conto di questo; ma pigliare tutte le cose come venute dalla mano di Dio, per qualsivoglia via, o giro, che vengano; perché Egli è quegli che le manda per quei mezzi. – Soleva dire uno di que’ famosi Padri dell’eremo (In Vita Patr.), che non potrà l’uomo aver vero riposo né vera contentezza in questa vita, se non farà conto che in questo mondo non vi sia altri che Dio. ed Egli solo. E S. Doroteo dice, che que’ Padri antichi molto attendevano a questo esercizio, dell’assuefarsi a pigliare tutte le cose come venute dalla mano di Dio, per piccole che fossero ed in qualsivoglia maniera elleno venissero; e che con questo si conservavano in gran pace e quiete, e vivevano vita celaste (In Dototh. Doctr. 7).

CAPO II.

Si dichiara meglio il secondo fondamento.

È una verità tanto chiaramente espressa nella divina Scrittura, che tutti i travagli e mali di pena vengono dalla mano di Dio, che non vi sarebbe veru n bisogno di trattenerci in provarla, se il demonio colla sua astuzia non procurasse d’oscurarla; perché dall’altra verità pur certa che abbiamo detta, cioè non esser Dio cagione né autor del peccato, inferisce una conclusione falsa e bugiarda, facendo credere ad alcuni, che, sebbene i mali che ci vengono per mezzo di cagioni naturali e di creature irragionevoli, come l’infermità, la carestia, la sterilità, vengono dalla mano di Dio; perché in queste cose non v’è peccato né vi può essere in creature tali, non essendo capaci di esso; nondimeno il male e il travaglio che accade per colpa dell’uomo, il quale ha dato ferite, o ha rubato ad un altro, o lo ha ingiuriato, non viene dalla mano di Dio, né è guidato dalla sua ordinazione o provvidenza, ma viene dalla malizia e perversa volontà di colui; il che è un error molto grande. Dice molto bene S. Doroteo riprendendo questa cosa, e quegli insieme che non pigliano tutte le cose come venute dalla mano di Dio: Nos vero cum verbum ullum in nos dictum audimus, canes imitamur: hi enim, si quis in eos lapidem jecerit, jaciente dimisso, lapidem remordent; ita nos, Deo relicto, qui nobis tribulationes hujuscemodi ad peccatorum nostrorum purgationem procurata ad lapidem, hoc est ad proximum, currimus (D. Doroth. Doctr. 7): Vi sono alcuni, i quali, quando un altro dice qualche parola contro di essi, o fa loro qualche altro male, dimenticati di Dio, rivolgono tutta la loro ira contro il prossimo; imitando i cani, i quali mordono il sasso, e non guardano alla mano che l’ha tirato, né fanno d’essa alcun conto. Per dar il bando a quest’errore, e acciocché stiamo ben fondati nella verità cattolica, notano i Teologi, che nel peccato che l’uomo commette concorrono due cose; l’una è il moto e l’atto esteriore ch’egli fa, l’altra il disordine della volontà col quale si scosta da quello che Dio comanda. Della prima cosa è autor Dio, della seconda l’uomo. Mettiamo per esempio che un uomo venga a rissa con un altro e che lo ammazzi. Per ammazzarlo gli bisognò metter mano alla spada, alzare e maneggiare il braccio, tirar il colpo, e far altri moti naturali i quali si possono considerare da sé, senza il disordine della volontà dell’uomo che li fece per ammazzar quell’altro. Di tutti questi moti considerati in se stessi ne è cagione Iddio, ed egli li fa, come fa anche tutti gli altri effetti delle creature irragionevoli: perché siccome elleno non si possono muovere né operare senza l’attual concorso di Dio, così neanche potrebbe senza esso maneggiar l’uomo il braccio né metter mano alla spada. Oltre di questo, quegli atti naturali da se stessi non sono cattivi, perché se l’uomo li usasse per sua necessaria difesa, o in guerra giusta, o come ministro della giustizia, e in questo modo ammazzasse un altro, non peccherebbe. Ma della colpa, che è il difetto e disordine della volontà con cui l’uomo cattivo fa l’ingiuria, e di quel traviamento dalla ragione e storcimento da essa, non ne è cagione Iddio; sebbene ciò Egli permette, perché potendolo impedire, non l’impedisce pe’ suoi giusti giudizi. E dichiarano questo con ima similitudine. Si trova uno ferito nel piede, e con esso va zoppicando. La cagione del camminare col piede è la virtù e la forza motiva dell’anima; ma del zoppicare ne è cagione la ferita, e non la virtù dell’anima; così nel- l’opera che uno fa peccando, la cagione dell’opera è Dio; ma l’errare e il peccare operando è del libero arbitrio dell’uomo. Di maniera che sebbene Iddio non è né può essere cagione né autor del peccato, abbiamo nondimeno da tener per certo, che tutti i mali di pena, o vengano per mezzo di cagioni naturali e di creature irragionevoli, o vengano per mezzo di creature ragionevoli, per qualsivoglia via e in qualsivoglia modo che vengano, tutti vengono dalla mano di Dio, e per sua disposizione e provvidenza. Dio è quegli che ha maneggiata la mano di colui che t’ha percosso, e la lingua di colui che t’ha detta la parola ingiuriosa: Si erit malum in civitate, quod Dominus non fecerit (Amos III, 6)? Dice il profeta Amos: ed è piena la sacra Scrittura di questa verità, attribuendo a Dio il male che un uomo ha fatto ad un altro, e dicendo, che Dio è quegli che l’ha fatto. Nel secondo Libro dei Re, parlandosi di quel castigo che Dio diede a David per mezzo del suo figlio Assalonne, per lo peccato d’adulterio e d’omicidio che commise, dice Dio, che un tale castigo glielo avrebbe dato Egli di propria mano: Ecce ego suscitabo super te malum de domo tua, et tollam uxores tuas in oculis tuis, et dabo proximo tuo…. tu enim fecisti abscondite; ego autem factam verbum istud in conspectu omnis Israel, et in conspectus solis (II. Reg. XII. 11, 12.). Quindi è ancora, che i re empii quali per la loro superbia e crudeltà usavanotrattamenti asprissimi col popolo diDio, vengono chiamati dalla Scrittura istrumento della Divina Giustizia: Væ Assur, virga furoris mei (Isa. X, 5): Guai ad Assur, verga del mio furore. E di Ciro re de’ Persi, per mezzo del quale il Signore aveva da castigare i Caldei, dice: Cujus apprehendi dexteram (3 (lbid. XLV, 1), la cui destra mano io ho da maneggiare. Dice molto bene S. Agostino a questo proposito: Impietas eorum tamquam securis Dei facta est. Facti sunt instrumentum irati, non regnum placati. Facti enim hoc Deus, quod plerumque facit et homo. Aliquando iratus homo apprehendit virgam jacentem in medio, fortasse qualecumque sarmentum, cædìt inde fìlium suum, ac deinde projicit sarmentum. in ignem, et filio servat hæreditatem; sic aliquando Deus per malos erudii bonos (D. Àug. in Psal. LXXIII): Procede Dio con noi altri come suol procedere di qua un padre, il quale adirato col figliuolo dà di mano ad un bastone che trova alla ventura, e con esso castiga il figliuolo, gettando poi il bastone nel fuoco e facendo il figliuolo erede di tutti i suoi beni. In questa maniera, dice il Santo, è solito anche il Signore dar di mano a’ tristi e servirsene d’istrumento e di sferza per castigare i buoni. – Nelle Istorie Ecclesiastiche leggiamo, che nella distruzione di Gerusalemme veggendo Tito capitano de’ Romani, mentre passeggiava intorno alla città, i fossi pieni di teste di morti e di cadaveri, e che tutto quel paese circonvicino s’infettava per la puzza, alzò gli occhi al cielo, e a gran voce chiamò Dio per testimonio, com’egli non era cagione che si facesse tanto grande strage (Hist. Eccles. p. 1, lib. 3, c. 1). E quando quel barbaro Alarico andava a saccheggiare e distrugger Roma, gli uscì incontro un venerabile Monaco, e gli disse, che non volesse esser cagione di tanti mali, quanti si sarebbero commessi in quella giornata; ed egli rispose: Io non vo a Roma per volontà mia, ma una certa persona, la quale non so chi si sia, tutto dì mi va stimolando e mi tormenta, dicendomi: Va a Roma, e distruggi la città (Ibid. part. 2, lib. 6, cap. 2). Di maniera che abbiamo a conchiudere, che tutte queste cose vengono dalla mano di Dio, per ordine e volontà sua. E così il real profeta David, quando Semei gli diceva tanti improperii e gli tirava sassi e polvere, disse a quei che volevano di lui farne vendetta: Dominus præcepit ei, ut malediceret David: et quis est, qui audeat dicere, quare sic fecerit (II. Reg. XVI, 10)? Lasciatelo stare, ché il Signore gli ha comandato, che dica tanto male contro di me: e vuol dire, che il Signore l’ha preso per suo istrumento per affliggermi e castigarmi. Ma che gran cosa è riconoscere gli uomini per istrumenti della Giustizia e Provvidenza Divina; poiché ne sono anche istrumenti gli stessi demoni ostinati e indurati nella loro malvagità e ansiosi della nostra rovina? S. Gregorio (D. Greg. lib. 18, mor. c. 3) nota mirabilmente questa cosa sopra quello che dice la Scrittura nel primo Libro dei Re: Spiritus Domini malus arripiebat Saul (I. Reg. XVI, 23). Uno spirito maligno del Signore esagitava Saulle. Lo stesso spirito si chiama spirito del Signore e spirito maligno; maligno, per lo desiderio della sua maligna volontà; e del Signore, per dimostrarci, che era mandato da Dio per dar quel tormento a Saulle, e che Dio glielo dava per mezzo di esso: e lo dichiara ivi espressamente il Testo medesimo, dicendo: Exagitabat eum spiritus nequam, a Domino (I. Reg. XVI, 14). E per l’istessa ragione dice il Santo (D. Greg. lib. 14 mor, c. 18), che i demonii, i quali tribolano e perseguitano i giusti, sono chiamati dalla Scrittura, ladroni di Dio, come leggesi in Giob: Simul venerunt latrones ejus (Job XIX, 12): ladroni per la maligna volontà che hanno di farci male; e di Dio, per dimostrarci, che la potestà che hanno di farci male l’hanno da Dio. E così pondera molto bene S. Agostino (D. Aug. in Psal. XXXI, Job I, 21): Non dixit Job, Dominus dedit, diabolus abstulit: Non disse il santo Giob: Il Signore me lo diede, e il demonio me l’ha tolto: ma ogni cosa riferì egli subito a Dio, e disse: Il Signore me lo diede; il Signore me l’ha tolto; perché sapeva molto bene, che il demonio non può far più male di quello che gli è permesso da Dio. E proseguisce il Santo; Prorsus ad Deum tuum refer flagellum tuum; quia nec diabolus tibi aliquid facit, nisi ille permittat, qui esuper habet potestatem: Nessuno dica, il demonio m’ha fatto questo male: attribuisci pure a Dio il tuo travaglio e il tuo flagello; perciocché il demonio non può far niente, nemmeno toccarti un pelo della veste, se Dio non gliene dà licenza. Né anche ne’ porci dei Geraseni poterono entrare i demonii senza domandarne prima licenza a Cristo nostro Redentore, come narra il sacro Evangelio (Matth. VIII, 31). Come dunque toccheranno te, o ti potranno tentare, senza licenza di Dio? Quegli che senza questa non poté toccare i porci, come potrà toccare i figliuoli?

CAPO III.

De’ beni e delle utilità grandi che rinchiude in sé questa conformità alla volontà di Dio.

Il beato S. Basilio dice, che la somma della santità e perfezione della vita cristiana consiste in riconoscere, che tutte le cose, tanto grandi quanto piccole, vengono da Dio, come da primaria loro cagione, e in conformarci in esse alla sua santissima volontà. Ma acciocché possiamo meglio conoscere la perfezione e l’importanza di questa cosa, e quindi affezionarci più ad essa, e perché procuriamo di farlo con maggior diligenza, andremo dichiarando in particolare i beni e le utilità grandi che rinchiude in sé questa conformità alla volontà di Dio. Primieramente questa è quella vera e perfetta rassegnazione che magnificano tanto i Santi e tutti i Maestri della vita spirituale; e dicono, che è principio e radice d’ogni nostra pace e quiete; perché  rende l’uomo soggetto e lo mette nelle mani di Dio, come un pezzo di creta nelle mani del vasaio acciocché ne faccia quel che vuole; non volendo esser più suo, né vivere per sé, né mangiare, né dormire, né faticar per sé, ma fare ogni cosa per Dio e per piacere a Dio. Or questo opera questa conformità, che con essa si abbandona uno in tutto e per tutto alla volontà di Dio, di maniera tale che altra cosa non desidera né procura, se non che in esso s’eseguisca perfettamente la volontà divina, sì circa quello che l’istesso uomo dee fare, come circa tutto quello che gli può avvenire; e sì circa le cose prospere e di consolazione, come circa le avverse e di tribolazione. Il che piace tanto a Dio, che per questo il re David fu chiamato da esso Dio, uomo secondo il cuor suo: Inveni virum secundum cor meum, qui faciet omnes voluntates meas (Act. XIII, 22, et I. Reg. XIII, 14): perché aveva il suo cuore tanto attaccato e soggetto al cuor del Signore, e tanto pronto e disposto per qualsivoglia cosa ch’Egli avesse voluto imprimere in esso, di travaglio, o d’alleggerimento, quanto è una cera molle per ricevere qualsiasi figura o forma che se le voglia dare: che per questo egli disse una e due volte: Paratum cor meum, Deus, paratum cor meum (Psal. LVI,  et CVII, 1). Sta disposto il mio. cuore, o mio Dio, sta disposto e preparato. Secondariamente, chi avrà questa interae perfetta conformità alla volontà di Dio, avrà acquistato intera e perfetta mortificazione di tutte le sue passioni e male inclinazioni. Sappiamo bene quanto necessaria è questa mortificazione, e quanto lodata e commendata dai Santi e dalla Scrittura sacra. Ora questa mortificazione è un mezzo che necessariamente si ha da presupporre per venire ad acquistare questa conformità colla volontà di Dio. Di maniera che questo è il fine, e la mortificazione è il mezzo per conseguirlo; e il fine principale sempre suole essere più alto e più perfetto che il mezzo. Che la mortificazione sia mezzo necessario per venire ad acquistare quest’unione e intera e perfetta conformità alla volontà di Dio, si vede molto bene; poiché quello che c’impedisce questa unione e conformità è la nostra propria volontà e il nostro appetito disordinato:e così quanto più uno negherà e mortificherà la sua volontà e il suo appetito, tanto più facilmente si unirà e si conformerà alla volontà di Dio. Per unire e aggiustare un legno rozzo con un altro molto lavorato e pulito, bisogna prima lavorarlo e sgrossarlo; perché altrimenti non si potrà unire né congiungere bene coll’altro. Ora quest’effetto fa la mortificazione; ci va sgrossando,spianando e lavorando, acciocché così ci possiamo unire e congiungere conDio, conformandoci in ogni cosa alla sua divina volontà: e così quanto più uno s’andrà mortificando, tanto più s’andrà unendo e aggiustando colla volontà di Dio: e quando sarà perfettamente mortificato, arriverà a questa perfetta unione e conformità. Quindi ne viene per conseguenza un’altra cosa che può esser la terza; che questa rassegnazione e intera conformità alla volontà di Dio è il maggiore, il più accetto e aggradevole sacrificio che l’uomo possa fare di sé a Dio. Perciocché negli altri sacrifizio fferisce le cose sue, ma in questo offerisce sé medesimo; negli altri sacrifici e mortificazioni la persona si mortifica in parte; come per esempio nella temperanza, o nella modestia, o nel silenzio, o nella pazienza, offerisce a Dio una parte di sè; ma questo è un olocausto nel quale uno s’offerisce interamente e totalmente a Dio,acciocché faccia di lui tutto quello che vuole, come vuole e quando vuole, senza cavarne, eccettuarne, o riservarne per sé cosa alcuna. E così quanto è più pregevole l’uomo delle cose dell’uomo, e quanto è più pregevole il tutto della parte; tanto è più pregevole questo sacrificio che gli altri sacrifizi e le altre mortificazioni. E stima tanto Dio questa cosa, che questa è quella che Egli vuole e domanda, danoi altri. Præbe, fili mi, cor tuum mihi (Prov. XXIII, 36): Figliuolo, dammi il tuo cuore. Siccome l’astore, uccello reale, non si ciba se non di cuori; così Dio nessuna cosa prezza e stima più che il cuore: e se non gli dai questo, con nessun’altra cosa lo potrai contentare né dargli soddisfazione. Né ci domanda Egli molto, domandandoci questo; perciocché se tutto quello che Dio ha creato non basta per contentar e saziare noi altri che siamo un poco di polvere e di cenere, né resterà soddisfatto questo piccolo nostro cuore con niente meno che con Dio; come pensi tu di contentare e soddisfare Dio, non dandogli né anche tutto il tuo cuore, ma solamente una parte di esso, e riservando l’altra per te? Tu stai in un grande inganno, che il nostro cuore non si può spartire né dividere in questa maniera. Coangustatum est enim stratum, ita ut alter decidat: et pallium breve utrumque operire non potest (Isa. XXVIII, 20): Il cuore è un letto piccolo e stretto, dice il profeta Isaia; non cape in esso altro che Dio solo: e perciò la Sposa lo chiama lettuccio piccolo: In lectulo meo per noctes quæsìvi quem diligit anima mea (Gilib. abb. serm. 2 in Cant, apud Bern; Cant. III, 1): perché aveva il suo cuore talmente ristretto, che non vi capiva altro che i l suo Sposo. E chi vorrà stendere e dilatare il suo cuore per ammettervi un altro, ne scaccerà Dio. E di questo si lamenta la Maestà Sua per mezzo d’Isaia: Quia juxta me discooperuisti, et suscepisti adulterum: dilatasti cubile tuum, et pepìgisti cum eis fœdus (1(1) Isa. LVII, 8 ). Hai adulterato, ricevendo nel letto del tuo cuore qualche altro fuori del tuo Sposo; e per coprir l’adultero scopri e scacci fuori Dio. Se avessimo mille cuori, li dovremmo offrire tutti a Dio, e ci dovrebbe ancora parer poco rispetto a quello che siamo tenuti di fare verso così gran Signore, – Per la quarta cosa, come dicevamo al principio (Sup. cap. I), chi avrà questa conformità, avrà altresì perfetta carità e amor di Dio; e quanto più crescerà in essa, tanto più andrà crescendo in amor di Dio e conseguentemente nella perfezione che consiste in questa carità ed amore. Il che, oltre quel che s’è detto, si raccoglie bene da quello che ora abbiamo finito di dire; perché l’amor di Dio non consiste in parole, ma in opere: Probatio dilectionis exhibitio est operis, dice S. Gregorio (D. Greg. hom. 30, in Evang.): La prova del vero amore sono le opere: e quanto più le opere sono difficili e ci costano più, tanto maggiormente manifestano l’amore: onde l’apostolo ed evangelista S. Giovanni, volendo esprimere sì l’amor grande che Dio portò al mondo, come il grande amore che Cristo nostro Redentore portava al suo eterno Padre, dice del primo: Sic Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Jo, III, 16) ibid. xiv. 31): Fu tanto grande l’amore che Dio portò all’uomo, che ci diede il suo unigenito Figliuolo, acciocché patisse e morisse per noi altri; e del secondo ci riferisce come detto del medesimo Cristo: Ut cognoscat mundui, quia diligo Patrem; et sicut mandatum deditmihi Pater, sic facto; surgite; eamus hinc (idib. XIV, 31): Acciocché il mondo conosca, che io amo il mio Padre, levatevi su, e andiamcene via di qua: e l’affare per cui di là partiva era per andare a patire morte di croce. In questo mostrò egli e die testimonianza al mondo d’amare il Padre nel mettere in esecuzione il suo tanto rigoroso comandamento. Di maniera che nelle opere si dimostra l’amore, e tanto più, quanto elleno sono maggiori e più faticose. Ora questa intera conformità alla volontà di Dio, come abbiamo detto, è il maggior sacrifizio che gli possiamo fare di noi altri; perché presuppone una perfettissima mortificazione e rassegnazione colla quale uno si offerisce a Dio, e si mette totalmente nelle sue mani, acciocché faccia di lui quello che vuole. E cosi non vi è cosa nella quale uno mostri più l’amore che porta a Dio, che in questa; poiché gli dà e gli offre tutto quello che ha e tutto quello che possa mai avere e desiderare, e se più avesse e potesse, tutto pure glielo darebbe.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (2)

L’IDEA RIPARATRICE (9)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (9)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

CAPO SECONDO (2)

LA VITA PERFETTA E LA RIPARAZIONE.

Che nel mondo si diano delle anime che hanno l’ambizione di « star male » collo stesso ardore con cui la massa degli uomini si mostra avida di « star bene », ecco il più bel trionfo della Provvidenza divina. Non è a stupire quindi se, quando gli vien fatto di scoprire qualcuna di queste anime, il Signore, per così dire, esulti in cuor suo e non possa resistere alla voglia di rendersi complice dei loro desideri di immolazione. Tuttavia quella sete è già il Signore che l’ha messa in cuor loro. Quando il Maestro divino vuole ricolmare le anime, prima incomincia a vuotarle Egli stesso direttamente. E così mentre tutto all’intorno la maggior parte degli uomini restano senza aspirazioni e desiderio alcuno, esse sono come torturate da esigenze infinite. E primieramente un bisogno di non lasciar che il Signor nostro soffra così come fa in Croce, di alleggerirne i dolori, di alleggerirli prendendone per sé una parte, di asciugare il sangue che sgorga dalla corona che gli trafigge le tempia, di espiare i colpi di martello delle mani e dei piedi, i solchi lividi della flagellazione, con altrettanti sacrifizi ricercati con ardente amore. Dall’altra parte della Croce c’è ancor un posto vuoto, esse vi si inchioderanno, avide di una cosa sola, di diventare così come una seconda copia, una ripetizione di Gesù Crocifisso. Esse prenderanno alla lettera il consiglio di S. Caterina da Siena: « Che l’albero della Croce sia piantato nel nostro cuore e nell’anima nostra! Fatevi simili a Gesù Cristo Crocifisso; nascondetevi nelle piaghe di Gesù Cristo Crocifisso; bagnatevi nel sangue di Gesù Cristo Crocifisso; inebriatevi e rivestitevi di Gesù Cristo Crocifisso: saziatevi di obbrobrii soffrendo per amore di Gesù Cristo Crocifisso ». In una lettera al suo direttore spirituale « Consummata » si lascia sfuggire questo lamento: « Talora si vorrebbe cantare qualche poco le misericordie del Signore; ma questa povera cetra è troppo vibrante per la durezza della materia di cui è formata; è quasi impossibile servirsi di essa. Giorni sono aveva incominciato a scriverle ma non ho potuto continuare; la prima nota che ne venne fuori fu cosi forte che una seconda avrebbe spezzate le corde. Il mio corpo è troppo piccolo per l’anima mia, e il mio cuore non può contenere l’amore con cui io Lo amo, il mio Gesù… È ben raro che io possa scriverle così come ho fatto sta sera, ma se ho voluto farlo, ho dovuto trattenere il mio sguardo perché non si fissasse in Lui … ». Si narra di una Suora che per grazia speciale del Signore, nella considerazione dei dolori di Gesù Cristo in Croce, provava una tale fitta al cuore, sentiva una tale scossa in tutta la persona, che aveva dovuto fare il proposito di non guardare più il Crocifisso. Siccome per discendere al refettorio comune era necessario passare dinanzi ad un grande Crocifisso appeso al muro, avvenne che un giorno ebbe l’imprudenza di alzare gli occhi; il suo sguardo incontrò la immagine sanguinolente del suo Salvatore ed essa cadde al suolo svenuta. Si dirà: testa esaltata, sensibilità esagerata. Sia pure. Ma tutto ben considerato, ove troviamo maggior ragione di meraviglia? Che si dia una persona che non può mirare il Crocifisso senza soffrirne, ovvero che se ne diano tante che possono benissimo guardarlo anche a lungo senza provarne alcun dolore? Se v’ha dello strano, dite pur voi da quale parte si trovi. – I santi non posseggono come noi la facoltà dì restare indifferenti alla presenza della immolazione di un Dio umanato: i santi, cosa singolare! non possono non soffrire quando vedono il loro Dio a soffrire. « Mi pare che, se questo sentimento di compassione dovesse prolungarsi, non saprei a quale tortura anche crudelissima paragonare quest’intima pena dell’anima, perché essa è ben simile a quella che Nostro Signore sostenne in cuore nel Getsemani quando uscì nel lamento: « L’anima mia è contristata fino a doverne morire » e dopo lunga preghiera prostrato a terra agonizzò e sudò sangue ». Così lasciò scritto il buon S. Alfonso Rodriguez, umile fratello coadiutore della Compagnia di Gesù, portinaio al Collegio di Maiorca, il quale soleva poi offrirsi al Signore per ogni sorta di patimenti (anche quelli dell’inferno, pena del senso) per ottenere che il Signore non fosse più offeso e più nessun uomo andasse dannato. Negli Acta Sanctorum (Vita Sanctæ Birgittæ) al giorno 8 ottobre si narra di S. Brigida di Svezia il fatto seguente: « Giovanetta ancora, nell’ascoltare un sermone sulla Passione di Gesù Cristo, fu tanto commossa che le dolorose scene di essa le rimasero profondamente impresse nel cuore. E subito la notte seguente essa vide Nostro Signore Crocifisso che si lamentava: Ecco in quale stato mi hanno ridotto! — Essa, semplicetta, domanda al Signore: E chi vi ha trattato così? — Quelli che mi offendono e che sono insensibili al mio amore —, rispose Gesù. Da quel momento Brigida fu tanto sensibile al pensiero della Passione del Salvatore che non poteva trattenersi in essa senza piangere teneramente ». Un’afflizione che si manifesta così in maniera sensibile suppone una grazia speciale e un amore particolare da parte di Dio. Questo però non contraddice punto quanto abbiamo sopra riferito, che cioè il restar del tutto insensibili alle pene del Signore, come fa un troppo grande numero di Cristiani, manifesta un’incoscienza ovvero una ingratitudine che non si può concepire. Oh! a che giova la crocifissione di questo nostro povero Salvatore? Egli è là sospeso tra cielo e terra, mediatore tra Dio e gli uomini, così afflitto, così addolorato!… e intanto così prodigiosamente « inutile »! Che si può fare per compensare tutta questa gloria che dovrebbe risultare al Signore e che gli uomini così ostinati gli rifiutano? — Amare? Ahimè! la meschina parola e soprattutto la povera cosa! Amare! E con che cosa, o grande Iddio? Amare con un sì miserabile cuore quale noi abbiamo in petto. Un cuore umano! Amare Iddio con un cuore sì meschino! Quale derisione, quale ironia! Con quanto vi ha di più debole amare Colui che è infinito; con quanto vi ha di meno generoso amare Colui che si è sacrificato per noi com’Egli solo ha saputo fare: il presepio, la Croce, la Santa Messa, i Sacramenti, la Chiesa; con una facoltà che è gretta quanto mai, amare Colui che si è dato senza misura; con delle piccolezze d’amore, amare Colui che è lo stesso Amore… No, Signore, non è possibile!… – Quale lotta! Dover competere con chi può brandire come arma di combattimento l’infinito è cosa che getta l’anima nello strazio e nella tortura. Voler dare e non poterlo fare; voler dare molto e non possedere nulla; a Colui che è tutto non offrire di continuo che così poco! È vero che non è necessario aver molto per dare molto, perché dà sempre molto chi dà tutto quello che ha, pur avendo poco. Ma… ahimè! anche qui, quale affanno per l’anima, quale angoscia di tutti i giorni. Quel poco che essa possiede, così fosse vero che lo offrisse senza riserva alcuna! Essa invece si conosce intimamente e sa benissimo quante mancanze vadano segnando il cammino di ciascun giorno: difetti leggeri, sì, ma per un cuore che ama queste indelicatezze hanno sempre alcun che di odioso. E quello che dovrebbe servire a calmare la pena non fa che aumentarla. Si consolerebbe il Maestro divino nel suo abbandono col donarsi interamente a Lui; ma si ha coscienza di procedere con raggiri, con grettezza e che l’amor proprio non disarma. « Egli non cesserà di molestarci che un quarto d’ora dopo la nostra morte », ci dice S. Francesco di Sales argutamente. E questo ci accora: vedersi forzati a servire Colui che merita tutto per mezzo di un «nonnulla » che pur non riesce a darsi interamente (Si confronti quanto abbiamo detto più sopra di Suor Geltrude-Maria la quale si rimproverava delle sue indelicatezze nell’amare il Signore. Cosa naturalissima quando si pensi a chi è Dio). – Il Signore tortura i santi con siffatte angosce continue. Non v’ha cosa che tanto sollevi l’animo al di sopra di se stesso quanto il desiderio di cose grandi, e il divin Maestro mette in cuore ai suoi cari questi ardenti ideali appunto per il piacere che prova nel contemplare queste anime grandi, anime veramente magnifiche in mezzo a tante piccolezze che loro sono ripugnanti. « Per vivere in atto di perfetto amore — dirà S. Teresa del Bambino Gesù — io mi offro come vittima di olocausto al vostro Amore misericordioso, supplicandovi di consumarmi incessantemente e di lasciar riversare nell’anima mia i torrenti della vostra tenerezza infinita così che io diventi martire del vostro amore, o mio Dio!… « … Io intendo rinnovarvi, o Gesù caro, ad ogni battito del mio cuore, infinite volte questa offerta finche, svanite le ombre, io possa di presenza colassù dirvi il mio amore in eterno ». – S. Maria Maddalena de’ Pazzi al termine di una sua orazione in cui ricevette grazie speciali da Dio, così si esprime di San Luigi Gonzaga: « Chi potrà mai apprezzare il valore degli atti interiori e la ricompensa che essi meritano! Non v’ha paragone tra quanto appare al di fuori e quanto avviene nell’intimo dell’anima. E Luigi, durante tutta la sua vita fu costantemente affamato delle ispirazioni interne che il Verbo eterno gli insinuava in cuore. Luigi fu un martire sconosciuto; perché chi vi ama, o Signore, vi vede sì grande e sì infinitamente amabile che per lui è un grande martirio il vedersi incapace di amarvi quanto egli vorrebbe e lo scorgere le creature che invece di amarvi teneramente vi offendono sempre più » (LYONARD: L’apostolat de la souffrance, p. 200). Così almeno l’anima assetata e in cerca di Dio potesse finalmente raggiungerlo, impadronirsene e tenerlo stretto fra le sue braccia… Ma, ahimè! sovente quanto più lo si cerca, tanto più Dio si allontana e si nasconde. Noi abbiamo l’Eucaristia, ma la presenza reale non dura che brevissimo tempo e poi anch’essa è tutta avviluppata di mistero: visus, tactus, gustus in te fallitur. Abbiamo la grazia santificante: ma quella presenza continua di Dio in noi che essa produce, non è la stessa cosa che la presenza continua di noi in noi medesimi. Avviene troppo spesso che noi siamo assenti da noi stessi. Le nulle e mille occupazioni quotidiane ci portano lontano da questo centro prezioso ove. per lo stato di grazia « i Tre », il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo, fanno continuamente la loro dimora. Iddio è dunque in noi: e noi non vi ci troviamo — o molto di rado’ — Abbiamo inoltre la preghiera: ma: lì nella preghiera non troviamo che la fede ove vorremmo il possesso reale: l’ombra, ove vorremmo il dono; la immagine, ove vorremmo la realtà presente. Si vorrebbe un Gesù così com’è naturalmente, e non si può avere che un Gesù « mascherato ». che sfugge continuamente e non si lascia raggiungere. E non dico nulla delle prove terribili dell’aridità in cui il Signore non si scorge più se non a grande distanza, sfumatura appena percettibile e così confusa che ci si domanda se veramente è Lui e si è quasi tentati a dire come gli Apostoli sul lago di Genezareth: « Phantasma est… un fantasma! ». – Eppure Gesù non ignora che noi abbiamo abbandonato tutto per poterlo seguire! Maria de la Bouillerie, poi religiosa del S. Cuore, parlando di sua madre diceva: « Io non l’abbandonerò mai per seguire un uomo! » . Ma abbiamo accettato di abbandonare anche la nostra madre perché sapevamo che seguire Gesù non è seguire un uomo, e con forza di volontà abbiamo detto a Nostro Signore: « Io verrò, dove abitate voi? ». — « Sei deciso?… Vieni! … ». — E ci siamo messi in cammino verso la terra promessa anche sapendo che prima di arrivare fino ad essa avremmo dovuto attraversare il deserto. Che importa? Si cammina per un buon tratto… e un bel giorno si crede di esser finalmente al termine del viaggio, alla casa del Maestro — l’abitazione del Re —. Invece, come quel fanciullo che montato sopra una sedia dinanzi all’altare batteva alla porta del Tabernacolo chiamando Colui che vi si è rinchiuso per amor nostro, anche noi battiamo: « Signore, ci siete voi? ». E come per quel fanciullo la porta del Tabernacolo non si apre e il Signore non dà segno alcuno della sua presenza. Deus absconditus! O Dio che martirizzi le tue anime care restando nascosto, misterioso sempre e inaccessibile. E noi ci fermiamo in faccia a Lui certi ch’Egli è presente, che potrebbe mostrarsi se il volesse, ma preferisce aspettare… e farsi aspettare. Una pena simile a quella della Maddalena al Sepolcro, la mattina della risurrezione. Fin dall’alba si era partita di casa portando con sé come unico tesoro dei poveri aromi — tutto quello che possedeva di utile in quella circostanza — e camminava in tutta fretta. Arriva finalmente… entra… e vede il Sepolcro vuoto… un Angelo, il sudario ripiegato da un lato, qualche cosa che appartenne a Lui, ma Egli non è là. Ed essa cercava Gesù, non soltanto la parola dell’Angelo, ma quella di Gesù. Non soltanto una reliquia di Lui, un documento della dimora sua in quel luogo fino a qualche momento prima, ma Lui, presente nel Sepolcro, che si lasciasse vedere… « Signore, ci siete voi? ». Il divin Maestro però non era lontano: anzi Egli è sempre vicinissimo ad un cuore che lo cerca. « Tu non mi cercheresti se tu non mi avessi già trovato »; parole poste sul labbro di Gesù Cristo da Pascal; e nulla di più vero. Chi cerca sinceramente Gesù e gli dice: « Signore, ove siete voi? » , non è più in cammino ma è giunto al termine della sua via. Nel momento stesso che ha formulata la sua domanda il Maestro gli si fa innanzi presente. Sì, il divin Maestro, ma sempre, secondo la sua abitudine, in modo più o meno velato. – Per la Maddalena Gesù Cristo è in sembianze d’un giardiniere e la poveretta non lo riconosce: ce Ditemi, dov’Egli si trova? Oh! ve ne scongiuro, non mi lasciate più a lungo in pena; io andrò a cercarlo fin là dov’Egli si trova… ». Se Egli si manifestasse interamente colmerebbe il desiderio dell’anima ma non già il proprio. Egli gode nel vedersi così desiderato dalle anime ardenti: imita in ciò la madre che si nasconde per provare il gusto di vedersi ricercata dal proprio bambino. Iddio, dice S. Agostino, non desidera di meglio che vedersi desiderato. Questa è la ragione di questi suoi abili raggiri che danno a noi tanta pena e a Lui procurano tanta gioia. Deus absconditus. Il Signore si nasconde: quindi le anime veramente accese d’amore per Lui soffrono a dismisura. Tutto hanno abbandonato solo per poterlo avere, possederlo e unirsi a Lui: e non giungono mai ad averlo, possederlo e unirsi a Lui come esse vorrebbero. Quindi il lamento della sposa dei Cantici: « Fasciculus myrrhæ dilectus meus. Il mio diletto è come un fascio di amarezza. In queste amarezze Iddio trova una soave dolcezza perché sono una prova certa di un amor grande per parte nostra. – Ma Egli non resiste a lungo e chiama la Maddalena col suo nome: « Maria! ». Così come in un baleno talora Egli si lascia quasi intravedere, e allora ci pare poter gettare ai suoi piedi e tendere le mani a Lui: finalmente lo si possederà e per sempre!. Ahimè! « No, non mi toccare», e questa noli me tangere pone il colmo al nostro martirio. Oh! che vale dunque l’amore se non si può procedere più innanzi? « Signore, sradicate del tutto quanto voi stesso mi avete posto in cuore, altrimenti abbiate pietà di me! ». Anche allora — anzi specialmente allora — il Maestro divino non cambia per nulla la sua tattica. Egli vuole scavare nell’anima degli abissi ancor più profondi, ed esce in quella risposta che sì direbbe crudele, ma in realtà è piena di misericordia: « Non è ancora venuta l’ora. Abbi pazienza ancora un po’ di tempo e poi mi vedrai » . « Che dite voi, o Signore — esclamava a questo proposito Paolina Reynolds — e parlate cosi ad un cuore che vi ama? ». « Sì — potrebbe rispondere Nostro Signore — così parlo ad un cuore che mi ama appunto perché anch’io lo amo. E voi fidatevi di me ». È in mezzo a questi patimenti interiori — che noi ci accorgiamo di non esser riusciti a descrivere, come avremmo voluto (Si legga a proposito il 2° Sermone di Bossuet per la festa dell’Assunzione…: « Egli vuole che si distrugga, si devasti, si annienti tutto quello che non è Lui: e per parte sua Egli si nasconde, e si rende quasi inaccessibile,sì che l’anima per l’una parte distaccata da ogni cosa, per l’altra non trovando modo di arrivare a Dio fuorché colla fede… cade in languori inconcepibili.«O sposo di sangue, date alle vostre spose queste armi che devastano e distruggono affinché esse si uniscano a Voi nel mistero della Croce, e vi portino come dote a voi cara il loro totale spogliamento. – « Questo è il mistero di unità che ogni giorno si opera con un martirio inesplicabile e che si terminerà con una pace che è Dio stesso. – « Oh! qual rovesciamento di cose, quale violenza e qual terribile lavoro, poiché Dio non scioglie dolcemente ma strappa; non piega ma rompe; non separa ma spezza e devasta tutto. Gesù, quando sarà che voi distruggerete interamente quanto ci distrugge?… Ah!come voi siete crudele! ») —patimenti nutriti soprattutto di desideri, che mai si giunge ad appagare, di sacrificarsi in qualche cosa, di sacrificarsi in tutte le cose: che il Signore darà alle anime occasione di mostrarsi un po’ meno inferiori al compito intravisto e alle ambizioni sognate.Offrirsi al Signore, già da lungo tempo si è capito che equivale a soffrire. E per questo appunto si è addolorati perché nell’offerta di se stessi pare che non ci sia abbastanza di penoso.È allora che Iddio invia a quell’animadelle pesanti croci: le aridità, le malattie,il lutto, il tradimento nell’amicizia, la persecuzione, l’insuccesso, le tribolazioni più varie e più dolorose. Nostro Signore in ciò non si trova mai imbarazzato, la sua provvista è abbondante, ha di che scegliere:si direbbe che a Nazareth abbia impiegato il suo tempo a preparare in gran copia delle croci, non abbia fatto altro; e se ne vedono di ogni sorta di legno e di tutte le dimensioni. Ed ecco come procede il Signore: per calmare l’angoscia di chi si lamenta di non soffrire abbastanza, Egli si decide di inviare una buona dose di patimento. Così Egli colma un martirio saziando di dolore, e il risultato di questa singolare interferenza di pene è un’immensa gioia. Si soffre; il Signore moltiplica la sofferenza: come risultato finale, ecco la felicità.Se non fossimo già avvezzi a trovare nelle cose divine di che strabiliare, quale non sarebbe il nostro stupore alla vista di questo strano e divino « circolo vizioso »nel quale l’Altissimo rinchiude le anime che sono tanto generose da consacrarsi senza riserva all’opera riparatrice dell’olocausto? (l’anima mia si nutre di tutti gli « Alleluja ». « Laudate ». • Cantate… », il che non toglie, è vero, la sofferenza, ma mi fa trovare in essa la mia pace, o se preferite: la pena è in me, ma io non sono in pena » – Consummata, 1. c .1).Noi abbiamo già udita l’esclamazione di S. Liduina e delle altre anime consimili ad essa. Al più profondo dei suoi più crudeli martirii un forte grido : « Io non sono da compatire, io sono felice! », il che suggerisce all’autore della sua Vita un commento veramente degno di nota, forse quanto di meglio sia stato scritto sul patimento. Le vittime — dice egli in sostanza — le più offerenti fra le creature, sono nello stesso tempo di tutte le creature le più felici. Offrirsi per l’olocausto è offrirsi per la felicità; perché Gesù si fa onore nel restituire con altrettanta pace e altrettanto gaudio, quanto a Lui si sacrifica con generosità. Per tutti i grandi « immolati » è avvenuto così. Iddio ha compensato la loro donazione con una tale pienezza da farli esclamare: « Ma Signore! questo non è il mio conto: io mi sono offerto per il sacrifizio e non ne ho che felicità!». Sì, quando un’anima s’è offerta a Gesù: « Voglio per me stessa mettermi,o Signore, sulla vostra Croce voglio che Voi siate colui che mi crocifigge ». Gesù accetta questa parte di carnefice e incomincia battere; ma alla vista del sangue che cola, dell’anima che si strugge, il suo cuore si spezza: non ha più il coraggio di continuare e si arresta. Allora si accosta e in un attimo colma l’abisso scavato dal patimento e l’anima allora rimane talmente trasportata che sente il bisogno di pregare il Signore a risparmiarle la gioia, come altri supplica il Signore a risparmiargli il dolore. Essa continua ad offrirsi ma la sua immolazione diventa la sua felicità, o meglio la sua immolazione, che continua ad esser in qualche modo dolorosa, è accompagnata da un tale gaudio divino che l’anima per nessuna cosa al mondo vorrebbe vedersene priva. Questo gaudio le è necessario per mantenere vive le fiamme dell’amore e attizzare il rogo permanente del Sacrifizio; e così con sapiente arte il Signore, per tener l’anima in continuo esercizio, alternale allegrezze e i dolori; le dolcezze sono il battistrada delle tribolazioni e le prove non precedono che di poco le gioie spirituali; ma, a conto fatto, il patimento è come affogato nel gaudio; non si può reprimere il singhiozzo, ma, come felicemente si esprime il Buathier, questi singhiozzi si risolvono in altrettanti cantici di allegrezza.L’abate Perreyve, uno di quelli che hanno meglio compreso e meglio spiegato il sacrifizio incontrato per amore, nell’analizzare questa contraddizione o, se vogliamo, questo equilibrio, lasciò scritto: « Donde viene, o Signore, che appena incamminato sulla via della Croce, io sento dalle vostre labbra parole d’ineffabile dolcezza? ». Infatti non appena Nostro Signore ha pronunziata la prima frase: « Se altri vuol venire dietro di me prenda la sua croce », Egli continua dicendo: «Il mio giogo è soave, il mio peso è leggero ». — « Appena ho incominciato a soffrire — soggiunge l’abate Perreyve— e già voi mi portate la consolazione;appena ho posto sulle mie spalle la croce e già la vostra mano divina me la rende leggera…« O Gesù! che imponete dei sacrifizi necessari ma che ne diminuite subito la pena col vostro tenero amore: o Gesù! che comandate la rinunzia a tutte le cose ma che fate poi trovare all’anima distaccata da se stessa un cumulo di tesori più grandi di quelli che potrebbe possedere: o Gesù! che ci obbligate a portare ogni giorno la nostra croce se vogliamo veramente seguirvi, ma che mutate poi questa croce in un giogo soave e in un peso leggero; o Gesù! Che spesso vi contentate della più piccola buona volontà dei nostri cuori e che ricambiate con sovrabbondanti consolazioni i nostri più deboli sforzi, no, non ho più paura di voi! Non mi spavento più del vostro Vangelo, io non tremo più al solo nome della Croce! Ormai ho capito che in essa sta il segreto delle grandi consolazioni e del vero appoggio nel cammino della vita, ove, anche contro il volere nostro, conviene soffrire. Io mi accosto quindi alla Croce con tutta confidenza e vengo a cercare ai suoi piedi, nel ricordo della vostra Passione, nuove grazie di forza e di pazienza. Non me le rifiutate, o generoso mio Maestro; e ricevetemi nel vostro corteo, fra quelle anime che trovano, venendo dietro di voi al Calvario, la forza di trar profitto dalle loro pene e di mutare in ricchezze senza fine tutte le amarezze della vita ». E con questa preghiera così bella, così ardente, così confidente, così umile poniamo termine al nostro lavoro. Quest’ultimo carattere di umiltà manifesta e consacra il vero spirito della Riparazione. – Quanti si vogliono dedicare, in unione di Gesù, alla Redenzione del mondo per mezzo del patimento, non possono farlo senza tremare conoscendo in modo evidente la loro assoluta incapacità. Essi comprendono che. lasciati a sé, al primo contatto del dolore essi fuggirebbero ben lontani. – Nessuno sa meglio di loro che essi non sono che la goccia d’acqua che si lascia versare nel vino del calice pel Sacrificio cruento: cosicché quelli che dànno di più sono quelli che sono convinti del « nessun valore » di quanto danno.

CONCLUSIONE

Non era nostra intenzione di scrivere un trattato completo sulla Riparazione: tanto meno un trattato scientifico di molta dottrina. Noi abbiamo semplicemente tentato di mostrare, ricordando brevemente su quali basi teologiche e dogmatiche si appoggi la Riparazione, quale posto dovrebbe avere l’idea riparatrice nel pensiero e nelle opere del buon Cristiano. Ai nostri giorni molti si sentono attirati da questa parte, ma restano esitanti, vanno a tentoni, poi indietreggiano o cambiano rotta perché mancano loro spesso i concetti chiari intorno alla riparazione. Queste nostre pagine vorrebbero risvegliare molti per metterli sull’avviso e ad altri già in guardia e desiderosi di luce, fornire le prime indicazioni. – In siffatta materia certamente una monografia o il contatto vivente d’un’anima riparatrice sono più efficaci che tutto un manuale; perciò abbiamo spesso rinviato il lettore a consultare diverse « Vite » . Tuttavia un breve schizzo della teoria non è inutile; è un allettamento e una prima indicazione. La lettura di opere più complete, il consiglio d’un savio direttore, e la grazia dello Spirito Santo finiranno d’illuminare, di convincere e di stimolare all’impresa. Durante la guerra sulle vie che andavano alla fronte si scorgevano di tratto in tratto degli avvisi a caratteri grossolani con qualche nome e una freccia: « Per il tal posto, seguite questa direzione ». Queste pagine non hanno altra ambizione; esse dicono: « Per andare al sacrifizio mettetevi sulla via della riparazione: non c’è passo più sicuro ». Cioè abbiamo voluto indicare da lungi la strada e non guidare fino alla linea di combattimento e ancora meno descrivere minutamente quanto si trova al termine della via… E come quelli soltanto che vissero nelle trincee della grande guerra hanno « sentito la realtà » della vita che vi si passava e possono parlarne — anche con pericolo di non esser compresi o neppur ascoltati — così solo quelli hanno i dati necessari a descrivere la vita di riparazione, cui il signore ha concesso di conoscere per esperienza propria e per il contatto delle anime altrui le regioni del completo devastamento dell’amor proprio, dello schiacciamento totale, della festa sanguinosa nel dono assoluto di tutto se stesso. Quindi si spiegano qua e colà i diversi punti in cui ci contentiamo di dare idee schematiche, incomplete e anche solo accennate. Non è da noi il penetrare nei domini riservati all’azione del Signore, lo scoprire « i segreti del Re », il far comprendere il modo che tiene nel comunicarsi alle anime privilegiate. Per questo è necessaria un’autorità, una pratica di ascetica e di mistica… e qualche altra cosa ancora, che noi non abbiamo. Un cieco non parlerà mai di luce o di colori. Dunque meglio d’ogni altro noi sappiamo quanto sia lontano questo nostro opuscolo da quello che si potrebbe desiderare. Anche così imperfetto, questo nostro lavoro potrà il Signore adoperarlo come strumento di sua gloria se il vorrà fare. Talora i mezzi in apparenza meno idonei sono quelli di cui Egli si serve per ottenere il risultato che ha di mira. Ci sia lecito aggiungere ancora una parola prima di terminare: un ricordo dell’ultima campagna. – Nel settembre 1917 due soldati di Liévin, in licenza a Hersin-Coupigny presso Pas de-Calais, pensarono di recarsi al villaggio natio per ricercare il loro piccolo peculio che avevano nascosto sotterra al momento dell’invasione. Essi vanno, ma l’uno di essi purtroppo non trova più nulla del suo. Prima di ritornarsene si portano all’antica chiesa del villaggio e la trovano tutta abbattuta al suolo. Solo una pesante croce in ferro fuso non è caduta, ma sta in piedi contro un resto di muro. E il soldato si avanza, la prende e, al cospetto d’un gruppo di Canadesi che applaudiscono, egli la stringe fra le sue braccia dicendo al suo compagno: « T u hai trovato il tuo tesoro, ecco il mio, io lo porto con me ». E in mezzo ai rottami e alle fosse scavate dalle bombe, a stento e gocciolanti sudore e coperti di fango i due amici portano fino ad Hersin la Croce della loro chiesa, Ritrovare la Croce, non già quella d’una chiesa distrutta, in mezzo ai rottami, ma quella del Salvatore del mondo rizzata sulla cima del Calvario si direbbe cosa facile. Ebbene, no! Meditando sulla festa dell’Invenzione di S. Croce, Mgr. d’Hulst ha potuto scrivere: « È una bella invenzione. Già da molto tempo abbiamo la croce dei due ladroni, la croce che disonora, ma la gran novità, essa è la Croce di Gesù… la quale per tante anime non è ancor stata trovata ». Oh! sì, essa è ancora da ritrovare per molte anime. E poi quando sia stata scoperta non convien fermarsi a contemplarla soltanto, ma bisogna prenderla e abbracciarla. I Canadesi applaudirono… il mondo, lui, non comprenderà nulla… e che importa? La croce afferrata a due mani poniamocela risolutamente sulle spalle. I rottami, le buche, le occasioni di cadute non mancheranno; la strada sarà difficile a percorrersi, il cammino un po’ lungo. Verrà spesso la tentazione di liberarsi da un tal peso, di gettare a terra queste due traverse che opprimono le spalle. « Come? — mormora allora Gesù — vorrai tu abbandonarmi?… Non vi sarà qualche Cireneo e qualche Veronica che vogliano aiutarmi a custodire intatta la mia Croce preziosa? ». Non vi sarà nessuno? È forse vero? Un giorno, durante la S. Messa, il Signore comunicò a S. Angela da Foligno una molto viva cognizione delle pene sofferte in Croce; ed essa così narra il fatto: — Sentii la sua voce a benedire i devoti che imitano la sua Passione e che hanno pietà di Lui: « Siate benedetti dalla mano del Padre, voi che avete partecipato e pianto la mia Passione; voi che ricomprati dall’Inferno cogli immensi dolori della mia Croce, avete sentito compassione di me. Siate benedette, fedeli memorie! voi che conservate nel vostro cuore il ricordo della mia Passione. Poiché voi avete offerta ad un Dio desolato la sacra ospitalità del vostro amore. Io era nudo sulla Croce, ero affamato, assetato, e voi aveste pietà di me. Siate benedetti, voi che avete usato misericordia. Al momento terribile di vostra morte io vi dirò: Venite benedetti dal Padre mio, io avevo fame e voi m’avete offerto il pane della vostra compassione… sospeso in Croce, ho pregato per i miei carnefici; che dovrò dire per voi che mi siete cosìdevoti quando verrò nella gloria per giudicare il mondo?». E mi è assolutamente impossibile esprimere l’amore che brillava sopra coloro che hanno pietà. — Al presente, più che in ogni altro tempo, Nostro Signore cerca dei « devoti che imitano la sua Passione ed abbiano compassione di Lui » . – Conceda il Signore a molti dei lettori e delle lettrici di queste pagine il desiderio di arruolarsi nella squadra dei « devoti » e la volontà generosa di fare parte di «quelli che hanno compassione ».

Chi vuole?

— « Oh! Signore, io lo voglio ».

FINE

L’IDEA RIPARATRICE (8)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (8)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale; Torino-Roma – Casa Editrice MARIETTI 1926]

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

CAPO SECONDO (1)

LA VITA PERFETTA E LA RIPARAZIONE.

Simona Denniel, la suora di Maria Riparatrice, che noi abbiamo testè citata, morta ancor giovane dopo un lunga e dolorosa infermità ottenuta da Dio come ricompensa dei suoi ardenti desideri, il 4 novembre 1910 scriveva: « Questa mattina, protraendo il ringraziamento alla S. Comunione per ripetere a Gesù che io desideravo ardentemente essere la sua piccola ostia, mi venne in mente ch’Egli forse andava cercando molte ostie… e che sarebbe certo una grande cosa il gettare nelle anime il germe del desiderio di diventare ostie. Pregherò dunque e soffrirò a questo fine che Dio moltiplichi le sue ostie, quelle vere, pure, generose e sante ». – Vi sono infatti delle anime che non si contentano del sacrifizio « a piccole dosi ». Sì sono trattenute troppo a mirare il loro Gesù sulla Croce, hanno misurato con troppa esattezza la profonda miseria del prossimo per non sentire ambizione di diventare anch’esse con Gesù per il bene delle anime come un « riscatto » e ciò nel massimo grado posatale, cioè vittime ». – Questa parola nel linguaggio ordinario ha un certo qual significato che umilia, che spiace. Si dirà più volentieri «sacrificarsi » che « esser vittima »; quest’ultima espressione non si circonda come la prima di una aureola di gloria. Se si dice: « Il sacrifizio dei nostri soldati in guerra », noi intendiamo qualche cosa di eroico: se parliamo delle vittime della guerra non si vede la gloria dell’impresa ma soltanto il dolore provato nel compierla. Tuttavia in sostanza le due espressioni si riferiscono alla medesima realtà di cose; non vi ha sacrifizio senza vittima. Ma sacrificarsi dice anzitutto slancio di affetto, dono di sé, immolazione volontaria, o almeno volontariamente accettata; mentre « esser vittima » lascia supporre facilmente che la pena si subisce un po’ per forza, si sopporta con malanimo, vedendo in essa più che un castigo meritato, una ingiustizia e una persecuzione. È da deplorare che questa parola si prenda spesso in così cattivo senso, e noi non la useremo che escludendo del tutto questo significato indegno del Cristiano. Nella nostra trattazione non significherà «ricevere a malincuore » ma piuttosto « darsi a cuor contento ». Per certe anime, l’abbiamo già detto, non basta rassegnarsi, sottomettersi, esse cercano, vogliono trovare la Croce, e quando finalmente l’hanno trovata, fuor di sé per la gioia esclamano con Andrea l’Apostolo: « O bona Crux! » e la abbracciano e se la stringono al seno e con risoluzione, nonostante lo scricchiolare delle ossa e il ripugnare di tutta la natura, come Gesù, per amore e per la Redenzione del mondo, si stendono sulle due traverse nodose e si offrono al martello che le configgerà, liete nel soffrire, sul legno infame insieme e glorioso. – Noi troviamo fra gli scritti intimi di una giovine (Morta nel 1918 a 29 anni. Essa verso la fine di sua vita dava a sé il nome di « consummata ») ricolma da Dio di grazie, elette, la seguente confidenza: « Una volta Nostro Signore mostrandomi i suoi dolori mi fece comprendere che me lì avrebbe dati tutti a soffrire. Io sapevo bene che non avrei potuto contenerli tutti come aveva fatto Egli stesso, ma compresi che ne sarei rimasta sempre ricolma. Se il mio patimento non avrebbe potuto essere grande come Lui. certo sarebbe stato almeno grande come me ». E aggiungeva: « il mio calice è pieno ma vorrei averne uno più grande ». Esser « ostia », che bel sogno! Sogno strano che non riescono a spiegare quelli che non comprendono le grandi cose, che cioè hanno il cuore piccino. Esser « ostia ». Sogno folle? No, ma sapienza sublime! Sogno forse alla portata di poche anime se per viverlo questo sogno fa d’uopo di grandi virtù e di copiose grazie? No. questo sogno può esser raggiunto da molti più che non si pensi; non tutti sanno parlare, scrivere, insegnare, ma chi non potrà imparare l’arte di soffrire e di sacrificarsi? Già altrove (Ames réparatrices, p, 10), abbiamo fatto notare questo doppio carattere apparentemente contraddittorio della riparazione: Vocazione per l’una parte « difficilissima fra tutte », perché esige assolutamente una rinunzia totale; vocazione per l’altra parte « accessibile a molti » meglio che non si possa immaginare, perché assicurata quest’intima e completa rinunzia, tutto il resto non conta per nulla. In altre parole: È vero che per sacrificarsi come « ostie » nel senso che abbiamo spiegato è necessaria una grazia speciale che il Signore non fa a tutti, ma è certo pure che il Signore tale grazia speciale la concede alle anime sue care ben più spesso che noi non supponiamo. – E qui specialmente va ricordato quanto già abbiamo detto dell’obbligo di consultare non soltanto le ispirazioni della grazia, ma ancora i doveri del proprio stato e il consiglio di un buon direttore spirituale. Offrirsi come vittime è cosa che deve durare a lungo, e per impegnarsi così per l’avvenire in cosa di tanta importanza non basta un fervore sensibile passeggero, uno slancio di divozione, una parola data in istato di consolazione spirituale. Il patimento, quando non è che immaginato, non fa ancora soffrire; quando invece è vissuto allora sì che grava sulle nostre spalle. Ai piedi del Crocifisso e da lontano la parola: « Vittima » sembra scritta a lettere d’oro; da vicino, nella realtà, è scritta a lettere di sangue. Non che domandi sempre il martirio della carne, ma comprende sempre, in tutte le ipotesi, una buona dose di tribolazioni, che quando ci vengano a colpire sconcertano una troppo semplice presunzione. – Fatta questa osservazione, diceva il vero Mgr. D’Hulst scrivendo ad una persona un po’ mondana : « La dottrina delia riparazione noi la troviamo sempre al fondo di ogni vera vita interiore. Ogni vita interiore quando sia vera conterrà implicitamente in ogni caso normale il desideri più o meno sentito di esser ostia ». Ogni vita interiore vera dunque, non solamente nei chiostri, ma anche nel mondo. Certamente la vita religiosa — e noi l’abbiamo già notato — specialmente negli Istituti che della Riparazione fanno un oggetto primario della loro attività, è come il campo più appropriato, ma non unico, allo sviluppo della vocazione speciale di « ostia » . Ma. la Dio mercé, può darsi benissimo, e si dà veramente, come già abbiamo constatato, che nel mondo e sotto le apparenze d’una vita di mondo vivano molte anime profondamente riparatrici. La persona a cui scriveva Mgr. D’Hulst era allora una di queste anime. Nelle tre lettere del 19 novembre 1880, 18 gennaio e 4 ottobre 1895, egli le spiegava meglio il suo pensiero: « Molto vi ha da riparare nel mondo e, diciamolo pur anche e soprattutto nel Santuario e nei chiostri. Nostro Signore aspetta un compenso dalla parte di quelle anime che non hanno abusato di certe sue grazie più scelte… Quale afflizione alla vista di tanti scandali! Solo il pensiero che possiamo riparare ce ne può diminuire l’amarezza. Prendere sopra di sé l’espiazione è rassomigliare a Colui di cui fu detto: Vere languores nostros ipse tulit. Se noi fossimo ben penetrati di questo pensiero, senza cercar grandi penitenze, non faremmo noi ben altra accoglienza alle contrarietà e alle amarezze della vita? ». Poi indica più chiaramente il modo di riparare: « Bisogna riparare per mezzo delle lagrime del nostro cuore, della fedeltà, della pazienza, per mezzo d’una profonda religione, e dell’amore. Bisogna riparare ricorrendo a Maria Santissima ed ai Santi, coll’offerta dei loro meriti, della loro virtù e del loro amore. Bisogna riparare colle nostre pene, colle nostre impotenze rassegnate, colle nostre oscurità, colle nostre angosce, colle nostre debolezze, coi nostri abbattimenti e dire: tutto questo va bene, io lo voglio, non c’è nulla di troppo fin qui: è meglio che sia così, e che io serva come le legna da bruciare per l’olocausto: se io non sono capace a fare da sacrificatore, se non so esser vittima, che io sia almeno quel pezzo inerte che altri abbrucia e consuma alla gloria di Dio » (Vie, t. II, p. 523). Olocausto, ecco il motto finale. Olocausto cioè sacrifizio, non sacrifizio qualunque, ma sacrifizio completo, ove tutta la vittima è sacrificata, nulla è risparmiato; sacrifizio totale. Fra gli atti di culto, di religione, il sacrifizio costituisce il più perfetto, il più glorioso a Dio, il più meritorio per l’uomo perché è la testimonianza più significativa che l’uomo possa rendere alla Sovrana Maestà di Dio, la protesta più solenne che egli possa fare della sua completa dipendenza al cospetto della potenza assoluta dell’Altissimo. – « Le parole — osserva il P. Ramière — non sono che un rumore che passa, che spesso rimane a fior di labbra. I sentimenti del cuore non sono intesi che da Dio e benché il loro linguaggio sia più sincero che quello delle labbra, non è tuttavia a riparo dall’illusione. Ma quando la creatura dà mano alla propria distruzione per onorare il Creatore, allora riconosce in modo efficace che Egli è il principio della sua vita e l’arbitro supremo dei suoi destini. E in questa distruzione di sé consiste propriamente il Sacrifizio. « Il Sacrifizio non è soltanto la testimonianza delle parole, o dei sentimenti, o delle azioni; è la testimonianza di tutta la vita, cioè della morte » (La Divinisation du Chrétien, p. 369). Quando il sacrifizio diventa olocausto raggiunge i limiti estremi di quanto l’uomo può dare: al di là di una simile immolazione radicale non c’è più nulla. Però la difficoltà non è propriamente nel darsi così senza riserve una volta e come in blocco, ma piuttosto, quando già ci si è dati cosi tutto in una volta e in blocco, nel non riprendere in diverse volte e a poco a poco quello che in un fascio era stato gettato sul rogo. La storia delle continuate « rapine nell’olocausto » è talmente umana anche in mezzo a quelli che hanno una virtù solida e una volontà risoluta! E il Signore permette che l’amor proprio tenti sempre qualche offensiva perché non manchino mai le occasioni di acquistarsi qualche merito. Se bastasse l’aver fatta l’offerta una volta sola la cosa sarebbe veramente troppo comoda. Ripetere l’offerta ogni giorno e molte volte al giorno — e sempre l’offerta totale — questo è propriamente offrirsi in olocausto. In pratica, cercando in tutto e sempre il beneplacito del Signore, come faceva Gesù Cristo, il cui cibo era appunto il compiere incessantemente la volontà del Padre (« … Fatemi trovare, o mio Dio, quell’atto si comprensivo e sì semplice che dia totalmente a Voi quello che io sono, che mi unisca a tutto quello che voi siete… « Tu lo senti già, anima cristiana, Gesù te lo dice in cuore che quest’atto non è altro che l’atto di abbandono con cui l’uomo lascia nelle mani di Dio tutto quello che ha e che è: anima e corpo, in generale ed in particolare Tutto abbandono in Voi, o Signore, fatene quello che volete. Mio Dio, io vi abbandono la mia vita e non soltanto questa che conduco nell’esilio a nella cattività sulla terra ma anche quella dell’eternità. Io rimetto nelle vostre mani la mia volontà, vi rimetto pure il dominio che voi mi avete concesso sulle mie azioni… Tutto vi ho dato; non mi resta più nulla, tutto l’uomo è nelle mani vostre. « Quest’atto si riferisce a tutto quanto è nell’uomo e nello stesso tempo anche a tutto quanto è in Dio. Io m’abbandono in voi, mio Dio! Alla vostra unità per esser una cosa sola con voi, alla vostra infinità, ecc. – « Con quest’abbandono non si cade punto nell’inazione; al contrario noi tanto più diventeremo attivi quanto più saremo guidati dallo Spirito Santo; quest’atto con cui noi ci diamo a Lui e alla sua azione in noi ci mette per così dire i n piena attività per Dio » (BOSSUET: Discorso dell’abbandono in Dio). – Così si vede che « l’abbandono in Dio » ben compreso, sfugge a qualsiasi taccia di quietismo. Sovente siamo ricorsi alle parole di Bossuet nel nostro presente scritto appositamente per evitare ogni ragione a dubitare della sicurezza di dottrina nel soggetto trattato); quello che ci piace non farlo mai « per questo solo » che ci piace; fra due azioni indifferenti eleggere quella che più è contraria al nostro gusto (Quest’impegno, sotto forma di voto, vien detto « Voto del più perfetto ». Come facilmente si può capire, chi voglia pronunziare un tal voto conviene che ne richieda l’approvazione dal Padre suo spirituale, che non la concederà se non a persona di virtù soda, di buon senso ed equilibrata; diversamente è una porta aperta a lutti gli scrupoli e a mille stranezze. In sostanza anche qui, come sempre altrove, « una mente che calcola e un cuore che rifugge da ogni calcolo »; ci vogliono le due cose. Con un cuore generoso, uno spirito saggio e ponderato, questo soprattutto.); nulla tenere per sé delle opere buone che possiamo fare, ma metter tutto a disposizione del Signore, sia per lo scopo particolare di suffragare le anime del Purgatorio (pratica dell’ « Atto eroico ») sia in generale per quelle intenzioni che gli sono più care; dare come in prestito a Gesù che non può più soffrire le nostre immolazioni come l’ostia gli dà in prestito la sua forma e le altre sue esteriorità; lasciare che Egli prenda in noi i patimenti che tanto desidera offrire al Padre per la gloria dell’Adorabile Trinità e per la salute delle anime, tendere a diventare Lui sotto le « apparenze » nostre (Nessuno meglio che Huysmans ha esposto questo pensiero con cui si arriva alle più intime profondità dell’Idea riparatrice: « Il Salvatore non può più soffrire in sé stesso; se vuole patire quaggiù noi può fare che nella Chiesa i cui figli formano il suo Corpo mistico. Queste anime riparatrici che ricominciano gli spasimi del Calvario, che si pongono in Croce nel posto lasciato vuoto da Gesù sono quindi in certo modo le sosie del Figlio di Dio; esse riflettono in uno specchio sanguinante il suo povero Volto; esse fanno di più: esse sole danno al Dio Onnipotente qualche cosa che ora a Lui manca, cioè la possibilità di soffrire ancora per noi: che appagano questo desiderio che è sopravvissuto alla sua morte, desiderio infinito come è infinito l’amore che l’ispira ». Esse possono « fare l’elemosina a questo misterioso Mendicante delle loro lacrime e rimetterlo nella gioia dell’olocausto, gioia che non può più provare altrimenti » – S. Liduina, p. 101): domandare umilmente a Dio. desiderare e cercare, sempre nei limiti della discrezione prima e poi dell’ubbidienza, le più minute occasioni che si presentano per sacrificarsi, aspettando di meglio se così piaccia al divin Maestro: — questo è l’incredibile programma che noi vediamo adottato da certe anime le quali seguono con gioia ardente i diversi impulsi della grazia e le varie sfumature della divozione propria di ciascuna di esse. V’ha chi giunge fino ad impegnarsi con voto di vivere come Vittima. Nelle Costituzioni delle Suore Benedettine dell’Adorazione perpetua — costituzioni approvate in forma speciale dalla S. Sede — al c. 58, § 23, si legge: « Voveo et promitto omni studio servare perpetuam SS. Sacramenti altaris adorationem et cultum, uti victima gloriæ ipsius immolata ». Così abbiamo una conferma autentica da Roma di questa qualità di vittima immolata alla gloria di Nostro Signore (Cf. Vita della fondatrice Mechtilde du Saint-Sacrement di M. HERVIN – Bray. Retaux, 1883). – Sua Santità il Papa Pio X, con rescritto del 16 dicembre 1908 e con breve del 9 luglio 1909, ha concessa l’indulgenza plenaria una volta al mese ai Sacerdoti che in date condizioni facessero un tale voto per la riparazione sacerdotale. Ma voti di questo genere — non meno ardui che quello del « più perfetto » che la Chiesa dichiara esser « arduum » (Oremus di S. Andrea Avellino e lezioni del Breviario nella festa di S. Teresa), ed anche « arduissimum » (lezioni del Breviario nella festa di S. Giovanna di Chantal) — tali voti non si possono, come ben si comprende, né fare né consigliare fuorché alle condizioni già indicate di sapienza, di discrezione, di prudenza e di soggezione al Padre Spirituale. Non è quindi nostro intento discorrerne più a lungo, poiché non abbiamo né competenza né mandato per trattare una questione che riguarda esclusivamente i maestri di vita spirituale di lunga esperienza. Ci contenteremo di aggiungere ancora qualche osservazione generale. A nostro parere la prima condizione in questa materia è di determinare in modo ben chiaro quello che noi intendiamo obbligarci a fare. Le promesse possono passare attraverso ad una gamma variabilissima, ma tutte si possono tuttavia ridurre in pratica a due tipi: Accettare giorno per giorno — con atto previo di rassegnazione — insieme col divin Riparatore, quei patimenti che il Signore nell’ordinaria sua Provvidenza ha previsti per noi nella sua eternità. Questa è una prima maniera di costituirsi « vittima » nelle mani di Dio, e di grande perfezione. Domandare a Dio, per soddisfare ad un desiderio di immolazione più completa, che Egli mandi all’infuori delle disposizioni ordinarie di sua Provvidenza una dose supplementare di patimenti (di corpo, di spirito, di cuore, e anche la morte anticipata). – In quale misura questa seconda maniera di costituirsi « vittima » possa dirsi: 1° possibile; 2° lodevole, sono punti da esaminarsi nei casi singoli con un’attenzione tanto più minuziosa e accurata quanto più la materia è fuori dell’ordinario, quindi più soggetta all’illusione; e con una prudenza tanto più ritenuta, con un « discernimento degli spiriti » tanto più illuminato e più severo, quanto più è prossimo il pericolo che la generosità del cuore confini colla temerità (Il ben noto autore di Jesus intime nell’Introduzione alla Vita della M. Maria Veronica del Cuor di Gesù, fondatrice dell’Istituto delle Suore Vittime del Cuor di Gesù (P. PRÉVOST, S. C. J.), lasciò scritto: « Circa il voto di desiderare i patimenti… converrà mostrarsi severi all’estremo. Difficilmente troverete un tale voto nella vita dei Santi. Alle anime generose che si perdono dietro a tali finezze, alle anime meno generose che le cercano per entusiasmo momentaneo, per Trasporto passeggero noi diremo: Voi farete cosa più utile nel nutrirvi prima di tutto di soda dottrina… studiata non soltanto in simili sottigliezze che turbano e snervano, ma nella distesa della sua ampiezza e nelle ricchezze delle sue cognizioni » – Introduction doctrinale sur l’idée, l’état et le voeu de victime, p. XXVII e XXX, par M. Charles SAUVÉ). – Non si creda però che la Vita di riparazione includa necessariamente o l’uno o l’altro di questi voti: essi tutt’al più in determinati casi possono costituirne come il perfezionamento, la corona: ma non ne sono mai il carattere fondamentale. Essi sono come un maximum, un grado estremo, e nella seconda ipotesi lo diremo un « maximum inedito, fuori quadro ». In che consista propriamente l’essenza della vita di riparazione noi l’abbiamo già detto abbastanza fin qui ((« Talora avviene che Nostro Signore si unisce più intimamente a qualche anima privilegiata e la chiama ad una vita più misticamente intensa, confidandole una missione riparatrice ancor più commovente… Queste sono belle ma rare eccezioni. Possiamo esser felici anche se l’invito del Signore ci chiama soltanto per una strada più umile e più accessibile». DE BRETAGNE: La vie réparatrice, p. 7). – 

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