LA PARUSIA (2)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (2)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE. Rue de Rennes, 117; 1920

ARTICOLO SECONDO

LA PRESENTE GENERAZIONE NON PASSERÀ, PRIMA CHE TUTTE QUESTE COSE NON SI SIANO COMPIUTE »,

in San Matteo (xxiv XXIV, 34) e San Marco (XIII, 30), da un lato; S. Luca dall’altro (XXI, 32).

Cominciamo col concedere audacemente che la parola generatio hæc, (ἠ γενεά αὓτη – [e ghenea aute]) significa, in senso naturale e ovvio, il tempo dei contemporanei di Gesù, la generazione di quel tempo in opposizione a quelle che la seguiranno, e di conseguenza, il periodo di tempo che, valutato all’estrema durata della vita umana, si concluderà con il primo secolo della nostra era. – Non sembra esserci alcun dubbio a questo proposito. È vero che diversi interpreti hanno creduto di poter uscire d’imbarazzo dando alla parola γενεά [ghenea] il senso di posterità, discendenza, razza, o addirittura “tutta la durata del genere umano” in generale, o del popolo giudaico in particolare, così da tradurre: « Questa generazione (cioè il genere umano, o se si vuole, la razza giudaica) non finirà finché tutte queste cose non saranno compiute. » In questo modo, la difficoltà che sta per occuparci scomparirebbe subito, e radicalmente, e ciò non potrebbe essere più chiaro; ma aggiungiamo rapidamente che scomparirebbe solo per farne posto ad un’altra incomparabilmente più grave, o per meglio dire, inestricabile in ogni modo. – Infatti, una tale interpretazione del testo evangelico, gli toglierebbe ogni credibilità ed è del tutto inammissibile. Innanzitutto perché farebbe parlare Gesù per niente dire. Perché se intendiamo questa generazione, con “tutto il genere umano”, il significato sarebbe: “In verità, vi dico, la fine del mondo non verrà finché non avverranno tutte le cose che ho predetto sulla fine del mondo stesso”, il che si ridurrebbe ad una solenne affermazione che la fine non verrà prima che venga la fine: una tautologia assurda e ridicola. E se si intende la razza peculiare del popolo giudaico, il significato, identico nella sostanza, aggiungerebbe solo l’assicurazione della durata futura di questo popolo fino all’ultimo giorno, una cosa senza dubbio estremamente notevole e degna di nota, soprattutto in considerazione delle condizioni molto particolari in cui esso si trovava, ma che non ha alcun tipo di connessione o legame con l’oggetto della presente questione. – In secondo luogo, l’espressione ἠ γενεά αὓτη (e ghenèa aute) ricorre fino a sedici altre volte nei Vangeli, sia di San Matteo, sia di San Marco, sia di San Luca, e sempre, costantemente, invariabilmente, significa la generazione favorita dalla presenza, dagli insegnamenti e dai miracoli di Gesù. È la generazione che è come i bambini seduti al mercato, che gridano ai loro compagni: « Abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; abbiamo cantato un lamento per voi e non vi siete battuti il petto. Giovanni non è venuto né a mangiare né a bere, e dicono: “È posseduto dal demonio”. Il Figlio dell’uomo è venuto mangiando e bevendo, e dicono che è un uomo allegro e un bevitore di vino » (Matth., XI, 16; Luca, VII, 31), Questa è ancora la generazione che chiede un segno, e alla quale sarà dato solo il segno del profeta Giona (Matth, XII, 39; Marco, VIII, 12; Luca, XI, 29); la generazione che sarà condannata nel giorno del giudizio dagli uomini di Ninive che fecero penitenza alla voce di Giona, così come la regina del Sud che venne dai confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone, mentre a questa generazione, fu mandato più di Giona e più di Salomone (Matth, XII, 41; Luca, XI, 31); la generazione, infine, dalla quale il sangue di tutti i profeti e di tutti i giusti fu versato fin dall’inizio, perché doveva rendere completa la misura crocifiggendo il Figlio di Dio stesso, e mettendo a morte i suoi Apostoli e i suoi ministri (Matth., XXIII, 36; Luca, XI, 50): tanti i caratteri che sono appropriati alla generazione contemporanea a Gesù, ed appropriati solo ad essa. Infine, non è evidente che dicendo: “Questa generazione non passerà finché tutte queste cose non saranno compiute“, Gesù intendeva rispondere alla domanda posta in precedenza dai discepoli, e posta in questi termini precisi: « Dicci quando avverranno queste cose, dic nobis quando hæc erunt? ». E non è ancora più evidente ancora che, intendendo ἠ γενεά αὓτη – ghenea aute – come “razza umana” o razza giudaica fino alla fine dei secoli, la risposta non sarebbe più una risposta, poiché lascerebbe il tempo degli eventi, in tutti i punti e lungo tutta la linea, completamente indeterminato? Non rifacciamo dunque i testi a nostro piacimento per amore di una causa, ma prendiamoli così come sono, con il significato dato loro dal valore naturale delle parole, dalle esigenze del contesto, dall’analogia dei passi paralleli e dal modo comunemente usato nel linguaggio umano. Gesù, interrogato sul tempo degli eventi, ha detto: “Questa generazione non passerà finché essi non saranno compiuti“. Questo era per dire ai suoi contemporanei che li avrebbero visti, che ne sarebbero stati testimoni, che addirittura, come appare dai termini di questa profezia e da diversi altri luoghi del Vangelo, avrebbero avuto una parte molto terribile in essi. E infatti, se veniamo ora all’evento, troveremo piena e completa conferma del senso naturale e ovvio delle parole ascoltate dagli Apostoli sul Monte degli Ulivi, alla vigilia della Passione. Una cosa è ovvia dall’inizio, e deve essere concessa prima di ogni ulteriore esame dell’oracolo evangelico. Non era ancora passato mezzo secolo, anzi meno, cioè quarant’anni, e tutto ciò che nella predizione è descritto in primo piano, aveva ricevuto da punto a punto, fino all’ultimo dettaglio, con una sorprendente precisione, il più brillante adempimento. Ho detto, tutto ciò che è descritto in primo piano, perché qui, come è evidente dal più semplice sguardo al testo dei tre evangelisti, siamo davvero in una di quelle profezie con doppio oggetto, e di conseguenza, con doppio piano, di cui abbiamo parlato nell’articolo precedente. È impossibile sbagliarsi. Due grandi catastrofi, distinte l’una dall’altra per come è possibile, sono chiaramente annunciate. La prima riguarda Gerusalemme, che sarà investita dalle armate, assediata, saccheggiata e calpestata dai Gentili; l’altra, incomparabilmente più grande, riguarda l’universo, che, scosso fino al suo fondo, sarà nelle convulsioni dell’agonia, mentre gli uomini si prosciugheranno dal terrore nell’attesa di ciò che accadrà al mondo (Luca, XXI, 20, segg.; 25, segg.). L’una più vicina, quando i Giudei saranno messi a ferro e fuoco e condotti in cattività tra tutte le nazioni, l’altra più lontana, che verrà solo dopo che il Vangelo sarà stato predicato su tutta la terra ed i tempi dei Gentili saranno stati compiuti (Luc. XXI, 24; Matt. XXIV, 14). – L’una che può essere evitata con la fuga, grazie ai segni dati in anticipo, l’altra che verrà all’improvviso, che sorprenderà come una rete tutti gli abitanti della terra, senza che sia possibile sfuggirvi, se non preparandosi ad essa con una vigilanza continua ed una preghiera perseverante (Matth., XXIV, 15; Luc, XXI, 35). L’una, infine, il cui tempo non cade sotto l’impenetrabile segretezza in cui è nascosto invece il tempo della seconda (Matth., XXIV, 36), e che, a differenza della seconda, occupa veramente quello che abbiamo chiamato il primo piano e per così dire il proscenio del quadro profetico dipinto da Nostro Signore. – Vediamo dunque, prima di ogni altra cosa, come questa profezia del primo piano, nella quale, notiamo già (perché questo è ciò che è importante osservare qui, e sul quale torneremo più avanti), l’oggetto del fondo stesso sia in qualche modo compreso, secondo che la cosa rappresentata si possa dire compresa nella figura, e la realtà rappresentata dall’immagine, nell’immagine che la rappresenta: Vediamo, dico, come si fosse realizzata da punto a punto, ed in ogni suo dettaglio, prima che fosse passata la generazione di cui Gesù aveva detto, non præteribit generatio hæc, donec omnia hæc fiant. Colpisce la presentazione fatta da Bossuet nel Discorso sulla storia universale. Ci basta trascrivere qui (salvo alcune lievi aggiunte, abbreviazioni e trasposizioni) i passaggi principali, a cominciare dall’enumerazione delle sventure segnalate negli anni precedenti l’assedio della sfortunata Gerusalemme (Bossuet, Hist. univ. II° parte, c. XXI – XXII). In primo luogo, Gesù aveva annunciato epidemie, carestie e terremoti, e infatti le storie testimoniano che mai queste cose erano state più frequenti e più notevoli di quanto lo fossero in questi tempi. Negli ultimi sette anni di Nerone, la terra, si può dire letteralmente, tremò da tutte le parti. Nel 61 e 62 d.C. i terremoti scossero l’Asia, l’Acaia e la Macedonia; le città di Hierapolis, Laodicea e Colossi furono particolarmente colpite (Tacito, Ann., XIV, 27.). Nel 63 passarono in Italia; la campagna di Napoli già ardeva di quei terribili incendi che, sedici anni dopo, portarono alla prima storica eruzione del Vesuvio. Si sono manifestati in scosse sotterranee. Napoli e Nocera furono colpite, Pompei fu quasi rasa ak suolo, Ercolano parzialmente distrutta: e questo era ancora solo il preludio alla loro rovina. Il terrore in Campania fu universale, gli uomini divennero folle per lo stacento (Tacit. Ann. XIV, 22). Il terreno sembrava scosso ovunque, e i Cristiani ricordarono le parole del Salvatore: Et terræ motus magni erunt per loca. L’anno 66 vide un altro tipo di disgrazia. La sfortunata Campania fu afflitta questa volta da venti torrenziali che devastarono case, arbusti e coltivazioni. Queste tempeste raggiunsero Roma, e nella città stessa, senza alcun disturbo visibile dell’atmosfera, una malattia pestilenziale spopolò tutti i ceti della società. Secondo Tacito (Ann., XVI, 13) e Svetonio (in Ner. 39), le case erano piene di corpi morti, le strade di convogli funebri. Uomini e donne, bambini e vecchi, schiavi e liberi, perirono allo stesso modo. In un solo autunno il tesoro di Venere Libitina registrò trentamila morti (De Clinmpagny, Rome et la  Judée, t. 1, c,11). Con il pronostico delle catastrofi naturali, si adempì anche il pronostico annunciato, di apparizioni spaventose nel cielo, e di segni straordinari: terroresque de cœlo, et signa magna erunt. Giuseppe: de Bello jud., l. VII, c. 12) e Tacito (Hist, v, 13), ci dicono che per un anno intero si vide planare una sinistra meteora a forma di spada, e (cosa che secondo Giuseppe sembrerebbe una favola inverosimile, se non fosse garantita da una moltitudine di testimoni oculari), che in quel momento si vedevano in tutto il paese, un po’ prima dell’alba, squadroni di cavalieri armati, che sfondavano le nuvole, correvano nell’aria e venivano ad accamparsi intorno alla capitale. « È anche una tradizione costante attestata nel Talmud, e confermata da tutti i rabbini, che circa quarant’anni prima della catastrofe, costantemente nel tempio sono state viste cose strane. Ogni giorno apparivano nuove prodigi, così che un famoso rabbino un giorno gridò: “Tempio, tempio, cosa ti muove e perché ti spaventi? Cosa c’è di più marcato di quel terribile rumore che fu udito dai sacerdoti nel santuario il giorno di Pentecoste, e questa voce che usciva dalle profondità di quel luogo Sacro: “Andiamo via da qui, andiamo via da qui! E se questo prodigio fu visto solo dai sacerdoti, qui ce n’era un altro manifesto agli occhi di tutto il popolo. Quattro anni prima della dichiarazione di guerra, un contadino di nome Gesù, detto Giuseppe, si mise a gridare: “Una voce uscì dall’oriente, “Una voce uscì dall’ovest, “Una voce uscì dai quattro venti: Una voce contro Gerusalemme e contro il tempio, una voce contro gli sposi e le spose, una voce contro tutto il popolo. Da allora non cessò mai di gridare: « Guai a Gerusalemme! » E nei giorni di festa gridava ancora più forte. E nessun’altra parola usciva dalla sua bocca; perché quelli che lo compiangevano, quelli che lo maledicevano e quelli che provvedevano a lui, non udirono da lui che questa terribile parola: « Guai a Gerusalemme! » Fu preso, interrogato e condannato alla fustigazione dai magistrati: ad ogni colpo e ad ogni richiesta, rispondeva senza mai lamentarsi: « Guai a Gerusalemme! » Fu rinviato come un pazzo, e corse per tutto il paese ripetendo continuamente la sua triste previsione. Per sette anni continuò a gridare in questo modo, senza rallentare e senza che la sua voce si indebolisse mai. Al momento dell’ultimo assedio, si rinchiuse nella città, girando instancabilmente intorno alle mura e gridando con tutta la sua forza: « Guai al tempio, guai alla città, guai a tutto il popolo! » Alla fine aggiunse: “Guai a me!” e allo stesso tempo fu colpito da una pietra lanciata da una macchina. » Questo per quanto riguarda i presagi di cui è stato detto: “Ci saranno apparizioni spaventose nel cielo e grandi segni”. Per quanto riguarda i disordini, le voci di guerra e l’insorgere di nazione contro nazione e regno contro regno: « Questo fu verificato alla lettera negli ultimi anni di Nerone, quando l’impero romano, così pacifico dopo la vittoria di Augusto e sotto il potere degli imperatori, cominciò a scuotersi, e le città della Gallia, della Spagna e tutti i regni di cui l’impero era composto, furono improvvisamente agitati: quattro imperatori (Galba, Ottone, Vitellio, Vespasiano) si sollevarono quasi contemporaneamente contro Nerone e tra loro; le coorti del pretorio, gli eserciti della Siria, della Germania e tutti quelli che erano sparsi in Oriente e in Occidente, che si scontrarono e attraversano il mondo da un’estremità all’altra, per decidere la loro dispute con battaglie sanguinose. In ventidue mesi, l’Italia fu invasa due volte, Roma presa due volte, la seconda con un assalto; guerra sul Reno, guerra sul Danubio, guerra sul Mar Nero, guerra ai piedi dell’Atlante, contemporaneamente sul Tevere; mai forse, per tante cause diverse, tante nazioni erano state agitate, tante terre avevano sofferto, tanti uomini erano morti. E questo doveva essere solo l’inizio dei dolori ». Badate a voi stessi, aveva aggiunto Gesù, intendendo che anche la Chiesa, sempre afflitta fin dalla sua prima costituzione, avrebbe visto accendersi contro di essa la furia dell’inferno, più violenta che mai. Vi consegneranno alle torture, vi faranno morire, sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Questo si compì punto per punto, e in particolare a Roma, dove Nerone scatenò la prima delle dieci grandi persecuzioni di cui Tacito ha descritto gli orrori, e mise a morte i principi degli Apostoli, San Pietro e San Paolo. Ma era sui Giudei che dovevano cadere le più grandi calamità: sui Giudei che, con la loro turbolenza e il loro furore, stavano preparando la loro stessa rovina, alla quale sarebbero stati irrimediabilmente precipitati dai falsi Cristi e dai falsi profeti che Gesù aveva annunciato: “Sorgeranno molti falsi Cristi e falsi profeti – aveva detto – e inganneranno molte persone. Infatti, non ne sono mai apparsi così tanti come nel periodo successivo alla sua morte. “Soprattutto al tempo della guerra di Giudea, e durante il regno di Nerone che la iniziò, Giuseppe ci mostra un numero infinito di questi impostori che attiravano il popolo nel deserto con vani prestigi e segreti di magia, promettendo loro una pronta e miracolosa liberazione. Infatti, uno dei segni più terribili dell’ira divina è quando, come punizione per i nostri peccati precedenti, essa ci consegna al nostro senso reprobo, così che siamo sordi a tutti i saggi avvertimenti, ciechi alle vie di salvezza che ci vengono mostrate, veloci a credere a tutto ciò che ci perde, purché ci lusinghi, e audaci a intraprendere tutto senza mai misurare la nostra forza con quella dei nostri nemici che irritiamo. E questo è ciò che doveva accadere ai Giudei, perché sebbene la loro ribellione avesse attirato su di loro le armi romane, Tito non li avrebbe persi, anzi, spesso offrì loro il perdono, non solo all’inizio della guerra, ma anche quando non potevano più sfuggire alle sue mani. Aveva già costruito un lungo ed esteso muro intorno a Gerusalemme, con torri e ridotte forti come la città stessa, quando mandò loro Giuseppe, un loro concittadino, uno dei loro capitani, uno dei loro sacerdoti, che era stato catturato in questa guerra mentre lasciava il suo paese. E cosa non aveva detto loro per smuoverli? Quante forti ragioni aveva dato loro per tornare all’obbedienza! Ma, sedotti dai loro falsi profeti, non ascoltarono nulla, e furono ridotti allo stremo; la fame ne uccise più che la guerra, e le madri mangiarono i loro figli. E Tito, da parte sua, era toccato dai loro mali, e prese i suoi dei come testimoni che non era lui la causa di tanti orrori, ed essi diedero ancora credito alle false predizioni che promettevano loro l’impero dell’universo. Ancor più, la città era presa, il fuoco era già appiccato da ogni parte, e questi insensati credevano ancora sempre ai falsi profeti che dicevano loro che il giorno della salvezza era arrivato, per cui avrebbero dovuto resistere fino alla fine e non ci sarebbe stata pietà per loro. » – Ma veniamo ora ai segni che Gesù diede al suo popolo per tirarlo fuori dalle disgrazie che dovevano colpire Gerusalemme. « Dio, naturalmente, non dà sempre al suo popolo fedele tali segni, e in questi terribili castighi che fanno sentire la sua potenza a intere nazioni, spesso colpisce i giusti con i colpevoli, perché ha mezzi migliori per separarli, di quelli che appaiono ai nostri sensi. Ma nella desolazione di Gerusalemme, affinché l’immagine dell’ultimo giudizio fosse più esplicita e la vendetta divina più pronunciata sui miscredenti, Egli non volle che i Giudei che avevano ricevuto il Vangelo si confondessero con gli altri, e Gesù diede ai suoi discepoli certi segni con cui avrebbero potuto sapere quando era il momento di lasciare quella città reproba. Si basò, come era sua abitudine, sulle profezie antiche, e guardando indietro al luogo dove l’ultima rovina di Gerusalemme fu mostrata così chiaramente a Daniele così chiaramente a Daniele: “Quando vedrete l’abominio della desolazione che Daniele ha profetizzato, colui che legge ascolti; quando l’avete visto posto nel luogo santo, oppure, come dice San Marco, nel luogo dove non dovrebbe essere, allora coloro che sono in Giudea, fuggano verso le montagne. San Luca racconta la stessa cosa con altre parole: Quando avrete visto gli eserciti circondare Gerusalemme, sappiate che la sua desolazione è vicina; allora quelli che sono in Giudea si ritirino sui monti. Uno degli evangelisti spiega l’altro, e mettendo insieme questi passaggi è facile per noi sentire che questo abominio predetto da Daniele è (in parte almeno) la stessa cosa degli eserciti intorno a Gerusalemme, κυκλουμένη ὑπό στρατοπέδων Ίερουσαλήμ [kokloumene upo stratopedon Ierousalem]. I santi Padri l’hanno intesa così, e la ragione ci convince, perché la parola abominio nell’uso della Scrittura, significa idolo, e tutti sanno che gli eserciti romani portavano sulle loro insegne le immagini dei loro dei e dei loro Cesari che erano i più rispettati tra tutti i loro dei. Queste insegne erano un oggetto di culto per i soldati, e poiché gli idoli, secondo gli ordini di Dio, non dovevano mai apparire in terra santa, le insegne romane ne erano bandite. Così vediamo nelle storie che, finché i romani ebbero qualche riguardo per i Giudei, non lasciarono mai apparire le insegne romane in Giudea. Permettevano che gli stendardi delle legioni entrassero a Gerusalemme solo velati; a volte, addirittura, facevano marciare le loro truppe senza insegna, come quando Vitellio attraversò la Giudea per portare la guerra in Arabia. Inoltre, secondo Giuseppe (Antiq. XVI, 2), essi arrivarono al punto di esentare i giovani dal servizio militare, affinché non fossero costretti a seguire stendarti contrassegnati da immagini idolatriche e a subire cose così contrarie alla loro legge. Ma all’epoca dell’ultima guerra giudaica, i romani non risparmiarono un popolo che volevano punire. Così, quando Gerusalemme fu assediata, era circondata da tanti idoli, quante erano le insegne romane, e [l’abominio] non apparve mai dove non doveva essere, cioè in terra santa e intorno al tempio (Questo è detto senza pregiudizio di un’interpretazione più completa di cui parleremo più tardi, secondo la quale l’abominazione della desolazione predetta dal profeta Daniele, segnò la profanazione del luogo santo da entrambe le parti in una volta sola. Da parte degli assedianti, con l’esposizione di insegne idolatriche e il culto che veniva reso loro sotto le mura stesse del tempio. Ma soprattutto e prima di tutto, dalla parte degli assediati, dagli eccessi degli Zeloti che, stabiliti nel tempio come in una fortezza, lo insozzarono durante quattro anni consecutivi, con crimini inauditi e forzature esecrabili che la penna si rifiuta di descrivere, come si dirà a suo luogo). – « Ma, si dirà, è questo il grande segno che Gesù doveva dare? Era il momento per fuggire quando Tito pose l’assedio a Gerusalemme e chiuse i viali così strettamente che non c’era modo non c’era modo di scappare? È qui la meraviglia della profezia. Gerusalemme fu assediata due volte in questi tempi: la prima da Gestio Gallo, governatore della Siria, nell’anno 66 d.C.; la seconda da Tito, quattro anni dopo. Nell’ultimo assedio, non c’era modo di scappare. Tito condusse questa guerra con troppo zelo, e l’accerchiamento impenetrabile che fece intorno alla città non diede speranza ai suoi abitanti. Ma non ci fu nulla del genere nell’assedio di Gestio; egli era accampato a cinquanta stadi da Gerusalemme; il suo esercito era sparso tutt’intorno, ma senza fare alcuna trincea, e fece la guerra con tanta negligenza da perdere l’occasione di prendere la città, le cui porte gli furono aperte dal terrore, dalle sedizioni e persino dalla sua stessa intelligenza. Inoltre, Gestio levò prontamente l’assedio e ordinò una ritirata che si trasformò in un disastro per i romani. Ecco perché, durante la tregua di quattro o cinque mesi che trascorse fino all’invasione dell’esercito di Vespasiano (cioè dall’autunno del 66 alla primavera del 67), lungi dall’essere impossibile la fuga, la storia registra espressamente che molti si ritirarono. « Dopo la sconfitta di Cestio – dice Giuseppe – (Joseph., 1. II de Bello jud., c. XXV), molti fuggirono da Gerusalemme come si fugge da una nave che affonda. » Quindi Gesù aveva distinto molto chiaramente i due assedi: uno in cui la città sarebbe stata circondata da trincee, “circumdabunt, te inimici tui vallo, et coangustabunt te undique” (Luca, XIX, 43); l’altro dove sarebbe stato investita dalle armate, cum videritis circumdari ab exercitu Jerusalem (Luca XXI, 20). Era allora che occorreva fuggire e ritirarsi sulle montagne; questo fu il segnale che Nostro Signore aveva dato ai suoi. E infatti i Cristiani obbedirono alla parola del loro Maestro. – Sebbene ce ne fossero migliaia a Gerusalemme e in Giudea, non leggiamo in Giuseppe o in altre storie che ce ne fossero nella città quando essa fu presa. Al contrario, i monumenti antichi mostrano che si ritirarono nella piccola città di Pella in un paese montuoso vicino al deserto, ai confini tra la Giudea e dell’Arabia. Il resto è noto; sono noti gli orrori dell’assedio, di cui Gesù disse: “Ci sarà allora una così grande angoscia come non c’è stata dall’inizio del mondo, né ci sarà mai. (1(I) Niente può dare un’idea dell’angoscia di quei giorni terribili come il resoconto dato da Giuseppe nel terzo libro della sua Storia Ecclesiastica, che è tradotto come segue: “Una donna di nome Maria, della regione al di là del Giordano, distinta sia per la sua nascita che per la sua ricchezza, si era rifugiata a Gerusalemme, dove fu tenuta rinchiusa con il resto della moltitudine. Già i terroristi che facevano tremare la città, come Gerusalemme, pressata da tutti i lati dai romani, era lacerata all’interno da tre fazioni ostili. “E anche se l’odio che queste fazioni avevano verso i romani arrivava fino al furore, non erano meno feroci l’una contro l’altra. Le battaglie all’esterno costarono ai Giudei meno sangue di quelle all’interno. Un momento dopo gli assalti sostenuti contro lo straniero, i cittadini ripresero la loro guerra interna; la violenza e il brigantaggio regnavano ovunque nella città. Nel frattempo, la città stava languendo, e tutto il bagaglio che aveva potuto portare con sé nella sua precipitosa ritirata era stato saccheggiato, e i loro sbirri la stavano gradualmente derubando degli ultimi resti della sua fortuna, e in particolare, di tutto il cibo che era possibile procurarsi. Questo portò al culmine l’indignazione di questa donna, che, stanca di preparare per gli altri un cibo che non le era permesso di toccare, e non avendo alcun mezzo per trovarlo, fu torturata dalla fame fino al fondo delle sue viscere, e ascoltando solo i sinistri consigli del furore e del bisogno estremo, finì per ribellarsi alla natura. Prendendo in mano suo figlio, che stava ancora allattando, gli disse: “Misero bambino, per chi o per cosa ti riserverei in mezzo ai terribili mali che ci sovrastano? I mali dell’assedio, i mali della carestia, i mali dell’atroce guerra civile! Cadendo nelle mani dei romani, se abbiamo la nostra vita, cosa possiamo aspettarci se non la servitù? Ma prima della schiavitù, ecco, è venuta la fame, e peggio di entrambe sono gli uomini faziosi che ci opprimono. Diventa dunque per me un cibo, per i nostri tiranni una furia, per il resto degli uomini la loro favola, poiché tu sei l’ultima cosa che ancora manca alle calamità degli ebrei!” Detto questo, taglia la gola a suo figlio, lo cucina, poi ne mangia la metà, e mette da parte l’altra metà che coprendola accuratamente. Nello stesso tempo, arrivarono gli sbirri che, attratti dall’odore dell’esecrabile arrosto, minacciarono la donna di morte se non avesse mostrato immediatamente il piatto che aveva preparato. E lei rispose che aveva riservato una buona metà per loro e che gliela avrebbe mostrata. Ma a una tale vista i briganti indietreggiano con orrore. E la donna riprese: “Questo è mio figlio, e questo è anche il mio crimine. Quindi mangiate, gente, visto che io stesso ne ho mangiato, e non date l’impressione di essere più sensibili di una donna, più teneri di una madre. Se, per scrupoli religiosi, siete riluttanti a mangiare la mia vittima, allora bene, lasciate che io, che ho già consumato la prima metà, ne abbia pure la seconda!” A queste parole gli sbirri si ritirarono tremando di orrore, non osando disputare tal piatto con una madre. E la notizia di un così grande delitto si diffuse subito in tutta la città, dove tutti si sentirono agghiacciati dall’orrore, e chiamarono beati coloro che la morte aveva preso prima che fossero stati testimoni oculari o auricolari di tali estremi mali » (Josephus, apud Euseb., Hist.,1, III, c. VI – Migne, P. G., t. XX, col. 231). – Si sa come Gerusalemme, pressata da ogni parte dai romani, fosse ormai solo un grande campo coperto di cadaveri, eppure i capi delle fazioni vi combattevano per l’impero. Non era questa un’immagine dell’inferno, dove i dannati si odiano l’un l’altro non meno di quanto odiano i demoni che odiano i demoni che sono i loro comuni nemici, e dove tutto è   di orgoglio, confusione e rabbia? » Ma alla fine il giorno fatale era arrivato, il giorno in cui Gerusalemme, una volta presa d’assalto, avrebbe visto il compimento della profezia di Gesù: Non relinquetur hic lapis super lapidem qui non destruatur. « Era il decimo giorno di agosto, che, secondo Giuseppe, si vedeva bruciare il tempio di Salomone. Nonostante la proibizione di Tito, e nonostante l’inclinazione naturale dei soldati, che doveva portarli piuttosto a saccheggiare che a dilapidare tanta ricchezza, un soldato, ispirato da un’ispirazione divina, si fece issare dai suoi compagni ad una finestra e diede fuoco al tempio. A questa notizia, Tito accorse, Tito ordinò che fosse subito spenta la fiamma incipiente. Ma l’ordine contrario era venuto dall’alto; la fiamma prese piede ovunque in un baleno, e in meno di qualche ora questo superbo edificio veniva ridotto in cenere. Così si consumò la più spaventosa catastrofe che la storia ricordi. Quale città ha mai visto perire un milione e centomila uomini in quattro mesi e in un solo assedio? Questo è ciò che i Giudei hanno visto nell’ultimo assedio di Gerusalemme. Non c’è da stupirsi, quindi, che il vittorioso Tito non ricevesse le congratulazioni dei popoli vicini, né le corone che gli mandavano per onorare la sua vittoria. Tante circostanze memorabili, l’ira di Dio così marcata e la sua mano così presente, lo tenevano in un profondo stupore, ed è questo che gli fece dire che egli non era il vincitore, e che era solo un debole strumento della vendetta divina » (Bossuet, passim, ubi supra).  – Questi sono gli eventi memorabili con cui tutte le predizioni di Gesù sulla città e sul tempio si sono adempiute con sorprendente precisione. Cominciati verso la fine del regno di Nerone, finirono sotto Tito nell’anno 70, quando, senza dubbio, non era ancora passata la generazione che nell’anno della predizione, cioè della passione (33 d.C.), fu chiamata “questa generazione”, ἠ γενεά αὓτη – ghênea aute. Infatti, molti dei contemporanei di Gesù ne erano stati testimoni e molti di loro vi erano morti. Molti, dico, e non solo tra i convertiti al Cristianesimo, che una speciale disposizione della Provvidenza aveva portato in salvo, ma anche, a quanto pare, di quelli che, dopo il sacco della città, furono ridotti in servitù e portati in cattività per tutta la terra. Ancora tutte queste cose non possono essere messe in dubbio perché hanno la notorietà che le dà la grande luce della storia. Inoltre, esse non sono l’oggetto principale della dimostrazione da dare al momento, dato che riguardano ancora solo quella parte della profezia che abbiamo chiamato sopra dell’avanti scena o primo piano, dove il culmine della difficoltà e del dibattito. – Così ora dobbiamo venire a quello che guarda lo sfondo, il fondo della prospettiva: il sole oscurato, la luna senza luce, le stelle che cadono dal cielo, l’intero universo in sussulto, il Figlio dell’Uomo che viene nella sua maestà, i suoi Angeli che raccolgono i suoi eletti dai quattro venti, da un capo all’altro del cielo, e il resto che si riferisce indiscutibilmente all’ultimo giorno del mondo. Vogliamo dire, forse, che anche di tutto questo sia testimone oculare la stessa generazione? Pretendiamo che non sia passata senza che anche tutto questo abbia ricevuto il suo compimento? O, una volta ammesso, come deve essere, che sarebbe inutile cercare un altro significato ragionevole per “generatio hæc” rispetto a quello che è stato stabilito, dovremo forse concedere di buon grado o forzati alla scuola modernista la validità della parola “generatio hæc” che essa attribuisce come un errore a Gesù Cristo? La risposta a tutte queste domande è più semplice e più ovvia di quanto sembri; ma prima di entrare nella spiegazione che lo metterà nella giusta luce, notiamo attentamente i due modi in cui si dice che un evento profetizzato si sia realizzato, nello stile delle Scritture. In primo luogo, in se stesso, cioè nella propria realtà. In secondo luogo, prima di realizzarsi in sé, in un evento precursore, la sua immagine e la sua figura. È vero che questo secondo modo, poiché non è letterale e materiale come il primo, non cade così direttamente sotto i sensi, ma è forse, per tutto questo, meno fondato nella verità? Niente affatto. E questo per la ragione già indicata, che la figura come tale contiene già in qualche modo la cosa che rappresenta, e le dà una specie di esistenza anticipata: soprattutto se la figura e la cosa rappresentata sono state prima unite nell’unità della stessa profezia, e che, di conseguenza, la realizzazione esatta dell’una può essere concepita solo come infallibilmente legata alla realizzazione integrale e completa dell’altra. Non dobbiamo stupirci di vedere questo stesso modo comunemente ricevuto, ammesso e assunto dagli stessi scrittori sacri, non meno che dai loro interpreti più autorizzati. Isaia, per esempio, profetizza il parto della Vergine e lo dà ad Achaz e a tutta la casa di Davide come segno della protezione di Dio contro la cospirazione di Phaceo, re di Samaria, e Rasin, re di Siria. « Ascolta ora, o casa di Davide, egli dice – Dio stesso ti darà un segno: ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio e si chiamerà Emmanuele; ed egli mangerà panna e miele finché saprà gettare via il male e scegliere il bene; e prima che il bambino sappia gettare via il male e scegliere il bene, il paese di cui i due re ti spaventano, sarà devastato (Isaia, VII, 13-16). » Indubbiamente, qui si parla del Messia, colui che unirà a questo bel nome di Emmanuele gli altri non meno magnifici, elencati nel capitolo seguente, di mirabile consigliere, Dio forte, padre dell’eternità, principe della pace (Isaia, IX, 6). Ma cosa? Isaia credeva allora nell’adempimento immediato del suo oracolo, e quindi nella venuta immediata del Messia, per calcolare così l’età del meraviglioso bambino, nel tempo in cui la Giudea sarebbe stata liberata dall’attacco dei due re congiurati, e il paese nemico (Siria e Samaria, Damasco ed Efraim) devastato e distrutto? O forse dovremmo deviare dal loro significato naturale queste significative parole: Quia antequam sciat puer reprobare malum et eligere bonum, derelinquetur terra quant tu detestaris, a facie duorum regum suorum? Ma distinguiamo l’adempimento dell’oracolo nella persona del vero Emmanuele dal suo precedente adempimento nella persona dell’Emmanuele figurato. Perché qui c’è un altro bambino misterioso che sarà concepito, che nascerà, al quale sarà dato un nome simbolico, garantendo alla casa di Davide la liberazione dal pericolo di cui è minacciata, prima che sia giunto il tempo del primo balbettio del neonato. Questo è il bambino di cui il profeta dice qualche riga più sotto: “E mi avvicinai alla profetessa ed ella concepì e partorì un figlio. E il Signore mi disse: “Chiamalo Mecher-Shalal-Chasch-Baz, perché prima che il bambino possa gridare: “Padre mio, madre mia! … le ricchezze di Damasco e il bottino di Samaria saranno portati davanti al re. degli Assiri. Et dixit Dominas ad me: voca nomen ejus, accelera spolia detraheri. Quia antequam sciât puer vocare patrem suum et matrem suam, auferetur fortitudo Damasci, et spolia Samariœ coram rege Assyriorum (Isai. VIII, 3-4). “Ed in lui, in questo bambino, l’oracolo dell’Emmanuel il primo adempimento, un sicuro segno del secondo, che lo avrebbe avuto solo diversi secoli dopo, non più all’ombra di una figura questa volta, ma nella pienezza della realtà, « il Messia che egli (Isaia) annuncia in termini così magnifici, non deve apparire di persona se non più tardi, ma nascerà ora in figura; il mistero della sua nascita si svolgerà davanti ad un intero popolo per risvegliare la sua fede nella promessa. Nascerà così un figlio di Isaia, e il nome simbolico datogli prima del suo concepimento, segnerà la prossima devastazione di Damasco ed Efraïm, o, in un senso più alto l’inferno sconfitto e spogliato dal Messia. La madre di questo bambino si chiama profetessa, non perché è la moglie di un profeta, e si cercherebbe invano nella Bibbia un’analogia che giustifichi questo significato, ma perché essa profetizza effettivamente, con un parto che è l’immagine, molto cruda senza dubbio, del parto verginale di Maria » (Le Hir, Profeti d’Israele, sez. 1, art. 2). E sarebbe facile moltiplicare gli esempi di queste profezie con un doppio adempimento di cui la Scrittura abbonda (come la profezia di Malachia (IV, 5) sul ritorno di Elia, e quella del Salmo LXXI, sulle glorie del regno di Gesù Cristo, entrambe le quali dovevano realizzarsi una prima volta, l’una nella persona di Giovanni Battista (Matth., IX, 14, e XVII, 12), l’altra nella persona di Salomone, “tamquam in umbra et imagine veritatis“, secondo l’espressione di San Girolamo in Dan, c. XI), e strettamente legati come sono all’economia già esposta degli eventi figurativi, che la Sapienza divina ha destinato ad essere di epoca in epoca come tante prime rappresentazioni e attuazioni anticipate dei misteri della nostra Religione. Detto questo, dico ora che nella profezia di cui ci stiamo occupando, tutto ciò che si riferisce all’ultimo giorno del mondo ebbe senza difficoltà, nella rovina di Gerusalemme, e di conseguenza, prima che fosse passata la generazione contemporanea di Gesù, un primo adempimento del tipo di cui abbiamo appena parlato: un adempimento in forma di figura, senza dubbio, o, se volete, solo in effigie, ma sufficiente, secondo l’uso della Scrittura, ad autorizzare l’espressione, donec omnia fiant. Dico e ripeto che in questa stessa catastrofe si realizzarono come in un quadro vivente, ed una grandiosa rappresentazione delle cose, tutti i tratti dell’oracolo relativi alla consumazione dei secoli – cioè i segni nel sole, nella luna e nelle stelle furono rappresentati allora dagli straordinari prodigi che abbiamo riportato da Giuseppe e Tacito; che il raduno degli eletti da un capo all’altro della terra fu marcata dalla conservazione dei fedeli in rifugi sicuri, e separati dalla massa dei reprobi, che, rinchiusi all’interno delle mura della città, stavano per diventare la preda di tutte i flagelli uniti; che lo scuotimento, lo sconvolgimento di tutta la natura era la figura di questo disastro inaudito che, secondo testimonianze storiche, gettò Tito in uno stupore così profondo e lo fece inchinare davanti ad un agente misterioso, una forza superiore, una potenza irresistibile, per cui si diceva essere strumento irresponsabile ed involontario. E così, se Cristo, in questo spaventoso “finimondo” – per prendere in prestito dalla lingua italiana un’espressione che si adatta molto bene al nostro soggetto – non si è mostrato agli occhi del corpo con i suoi Angeli sulle nuvole del cielo nella gloria e nella maestà, la sua presenza, tuttavia, il suo intervento, la sua azione era così evidente che era sentito e riconosciuto dai pagani stessi, al punto da costringere l’imperatore romano, nel bel mezzo di una vittoria, a confessare che non era lui il vincitore, ma che ad un altro andavano le acclamazioni e le corone. Ora, queste semplici citazioni sarebbero già sufficienti a risolvere ogni difficoltà. Sì, è vero: tutto doveva essere realizzato, e tutto è stato compiuto in effetti, prima che fosse passata la generazione di allora, generatio hæc, fosse passata: tutto, compresa la parte della fine del mondo, nel modo che è stato spiegato, e che è in tutti i punti in accordo con quella che fa legge qui, cioè il linguaggio ricevuto e consacrato nella Scrittura. Non avremmo quindi che solo la lezione di San Luca, che dice tutto, senza aggiungere nulla, senza determinare nulla, senza specificare nulla: Amen dico vobis, non præteribit generatio hæc donec omnia fiant (XXI, 32), e saremmo autorizzati a concludere che Gesù aveva annunciato che dovevano accadere durante la vita della sua generazione, eventi che sarebbero stati almeno un’immagine ed una bozza profetica della catastrofe suprema; non saremmo in alcun modo giustificati nel dire che aveva predetto questa catastrofe, considerata in sé, come prossima. – Ma questa non è ancora che solo una prima risposta. Se non avessimo altro da opporre all’affermazione modernista, dovremmo rinunciare al vantaggio di ridurre l’avversario convincendolo della falsità, poiché è probabile che le considerazioni precedenti, per quanto vere e fondate possano essere, lo sfiorerebbero appena; inoltre, rimarrebbero completamente al di fuori della sua comprensione, essendo i dati su cui poggiano, di natura tale che non potrebbe ammetterli senza smentire o negare se stessi. Questo, dunque, è il difetto essenziale ed insanabile dell’esegesi razionalista che, non riconoscendo il carattere trascendente e senza pari della Scrittura, manca di tutti i criteri necessari per penetrarne i misteri. Ma in questo caso, non c’è bisogno di penetrare nei segreti chiusi al profano; basta seguire la critica sul suo stesso terreno, per mostrare che sta operando su testi troncati, e quindi distorti, cosa imperdonabile sempre e ovunque, ma in particolare a coloro che si vantano di una scienza così positiva, e fanno tanta mostra della loro documentazione rigorosa. Ecco la lezione di San Matteo e di San Marco, che, letta fino in fondo, chiarisce e spiega quella di San Luca, ed esclude apertamente, chiaramente, categoricamente la fine del mondo, considerata in sé, dal numero degli eventi annunciati come da compiersi nel corso della presente generazione. Ma, ripeto, deve essere letto nella sua interezza, senza separare il primo membro dal secondo, al quale si oppone, e dal quale dipende necessariamente, in virtù dell’opposizione che limita e circoscrive la comprensione del soggetto. Così leggiamo in San Matteo: Amen dico vobis, quia non præteribit gêneraito hæc donec omnia hæc fiant. Ma non è qua la pausa, non è questo il punto in cui dobbiamo fermarci, perché le parole, cœlum et terra transibunt, verba autem mea non præteribunt, che seguono immediatamente, sono solo una parentesi, dopo la quale viene subito la proposizione opposta, determinativa della prima: de die autem illo et hora nemo scit, neque angeli cœlorum, nisi solus Pater. La stessa cosa in San Marco, lo stesso contrasto, la stessa opposizione tra questa generazione, queste cose, e questo giorno, quest’ora. Questo dà, parola per parola, come traduzione dell’uno e dell’altro evangelista: « In verità vi dico che questa generazione non finirà finché tutte queste cose non saranno compiute; ma per quel giorno e quell’ora nessuno lo conosce, nemmeno gli Angeli del cielo, né alcuno, né altri che il Padre mio. » Se dunque la profezia contrappone, da un lato, questa generazione, queste cose, e dall’altro, quel giorno e quell’ora; se, inoltre, segna chiaramente il tempo in cui queste cose si compiranno, e si ricusa riguardo a quel giorno, dicendo che nessuno sa quando verrà, né gli Angeli del cielo, né il Figlio (come uomo, e di conoscenza comunicabile), ma il Padre solo; Se, infine, quel giorno e quell’ora sono visibilmente il giorno e l’ora della parusia, come tutto il seguito del discorso dimostra troppo bene, perché sia necessario, non dico dimostrarlo, ma addirittura affermarlo: Ma quale fronte ci porterà questo testo, che sostenga che le dichiarazioni di Gesù sulla prossimità della catastrofe, non lasciano spazio ad equivoci? « Qui – dice Bossuet in modo eccellente – ci sono due tempi ben marcati, hæc e illa, in greco come in latino, segnare due tempi opposti, uno più vicino, l’altro più lontano. Questa generazione vedrà tutte queste cose compiute: generatio hæc, omnia hæc, omnia ista. Ma per quel giorno, per quell’ora, de die autem ille et hora, nessuno lo sa. È come se avesse detto: “Vi ho parlato di due cose: della rovina di Gerusalemme e della rovina di tutto l’universo al giudizio, di cosa debba succedere nella generazione in cui viviamo, e di cui gli uomini viventi devono essere testimoni, ne segno il tempo e questa generazione non passerà finché non si sarà adempiuto. Questo è per l’evento che stiamo toccando. Ma per quanto riguarda il giorno, questo giorno in cui verrò a giudicare il mondo, nessuno ne sa niente, ed Io non devo rendervelo noto. È chiaramente indicato che la caduta di Gerusalemme era vicina, e la Chiesa doveva saperlo. Ma per quel giorno, quell’ultimo giorno in cui l’intero universo sarà in subbuglio, e il Figlio dell’Uomo verrà in persona, nessuno ne sa niente, non sappiamo se sia lontano o vicino, e il segreto è impenetrabile, e agli Angeli del cielo, e alla Chiesa stessa, benché venga insegnato dal Figlio di Dio (Bossuet, Meditazioni sul Vangelo, l’ultima settimana del Salvatore, 76° giorno). » E con questa sola osservazione, senza nemmeno contare nessuna delle ragioni precedenti, va in fumo l’intera costruzione modernista sul testo: Amen dico vobis, non præteribit generatio hæc, donec omnia haec fiant.

LA PARUSIA (3)

LA PARUSIA (1)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE Rue de Rennes, 117 ; 1920

PREMESSA

Le pagine che presentiamo al pubblico sono solo la riproduzione degli articoli sulla Parousia, apparsi ne “gli Studi”, negli anni 1911, 1918 e 1919. Molti di voi hanno espresso il desiderio di averli tutti in un unico volume, così abbiamo pensato di dover aderire alla richiesta. Inoltre, per abbreviare e semplificare il lavoro di ripubblicazione, abbiamo mantenuto la forma originale, senza altre preoccupazioni che adattarle meglio alla cornice e alla struttura di un libro. Sono quindi ancora presentati sotto forma di articoli e non troveranno modifiche o aggiunte degne di nota. Tuttavia, speriamo che questo modesto lavoro contribuisca a illuminare alcune anime di buona volontà, a dissipare i dubbi che le recenti controversie hanno sollevato, a risolvere una delle principali obiezioni della critica modernista al Vangelo, e infine a far luce su tutta la verità assoluta delle nostre Sacre Scritture, così temerariamente negata dalla nuova scuola.

Roma, 2 ottobre 1919, nella festa dei Santi Angeli Custodi, L. BILLOT S . J .

INTRODUZIONE

C’è un punto del Vangelo su cui i critici modernisti si sono particolarmente concentrati, ritenendolo un argomento decisivo per la loro opera di demolizione della Religione cristiana come Religione trascendente e rivelata di Dio. Questo è il punto relativo alla Seconda venuta di Gesù Cristo, comunemente chiamata dagli scrittori neotestamentari parusia [παρουσία] (letteralmente: presenza, arrivo, venuta), da cui è stato tratto il nome parousîa, ora accettato in senso escatologico, se non nel dizionario dell’Accademia, almeno nel linguaggio abituale e comune dell’esegesi biblica.  È abbastanza noto quale posto centrale nell’economia della rivelazione cristiana sia occupato dalla prospettiva di questa seconda venuta del Signore, da Lui così spesso e così solennemente annunciata, come quella che, con la fine e la palingenesi del mondo, con la trasformazione dei cieli e della terra di oggi, con la risurrezione dei morti e il giudizio generale, dovrà portare alla definitiva affermazione del regno di Dio nella sua consumazione finale e nella sua definitiva perfezione. – È sufficiente in effetti aprire un po’ il Vangelo, per riconoscere subito che la parusia è veramente l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, la prima e l’ultima parola della predicazione di Gesù; che è la chiave, la fine, la spiegazione, la ragione d’essere, la sanzione; che è l’evento supremo a cui tutto il resto è legato, e senza il quale tutto il resto crolla e scompare. Ne consegue che convincere Gesù della falsità di un punto così essenziale è stato allo stesso tempo porre fine alla leggenda della sua divinità, è stato togliergli la trascendenza, è stato rimetterlo nei ranghi e ridurlo alle proporzioni degli altri fondatori di religioni emerse nel corso dei secoli dal seno dell’umanità. Il modernismo lo ha capito subito. Così, basandosi su vari testi del Vangelo, interpretati in modo superficiale, si è applicato a mettere in circolazione questa affermazione audace: che la coscienza della vocazione messianica era germogliata in Gesù insieme alla convinzione che la fine del mondo stava arrivando; che il regno per la cui organizzazione Egli stesso diceva di venire nella gloria e nella maestà, portato sulle nuvole del cielo, aveva creduto proprio alla vigilia della sua istituzione; molto di più, che era esclusivamente in vista di questa prossima e immediata consumazione di tutte le cose, che aveva predicato il completo distacco dalle ricchezze, preteso dal suo popolo un assoluto disprezzo per i beni terreni, raccomandato la povertà volontaria, proclamato l’eccellenza dello stato di verginità, ecc. Insomma, che l’idea fissa della catastrofe suprema aveva talmente ossessionato la sua mente e influenzato tutto il suo insegnamento e la sua condotta che, dopo la sua morte, era necessario rielaborare profondamente l’intero Vangelo per accogliere al meglio un mondo che fosse duraturo, ciò che in origine era stato detto di un mondo che doveva essere vicino alla fine. In tutto questo, inoltre, i modernisti si limitavano a divulgare idee precedentemente portate alla luce dalla critica razionalista. Già nella sua Vita di Gesù, Renan aveva scritto: “Le sue dichiarazioni (di Gesù) sulla vicinanza della catastrofe (finale) non lasciano spazio all’ambiguità. La generazione attuale, ha detto, non passerà senza che tutto questo sia stato realizzato (Mt., XXIV, 34). Molti dei presenti non proveranno la morte senza aver visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno (Mt., XVI, 28). Egli rimprovera chi non crede in lui perché non sa leggere la prognosi del futuro regno. Quando vedi il rosso della sera”, diceva, “prevedi che andrà tutto bene; quando vedi il rosso del mattino, preannunci la tempesta. Come potete voi, che giudicate l’aspetto del cielo, non saper riconoscere i segni dei tempi? (Matth., XVI, 2-4.). Tali dichiarazioni formali hanno preoccupato la famiglia cristiana per quasi settant’anni. “E più in basso: “Se la prima generazione cristiana ha avuto un credo profondo e costante, questo era che il mondo stava per finire (Atti II, 17; I Cor. XV: 23-24; I Tess. III: 13, IV, 14; II Tess. II: 18; I Tim. VI: 14; II Tim. IV: 1; Jacob. V, 3-8; II Petr. passim; Apoc.., I, 1, II, 5, ecc.), e che la grande rivelazione di Cristo avrà presto luogo. Questo vivace annuncio: È il tempo che apre e chiude l’Apocalisse, quel richiamo che si ripete incessantemente: Chi ha orecchie, che ascolti! sono le grida di speranza e il richiamo di ogni pagina apostolica. Un’espressione siriaca, Maranatha (I Cor., XVI, 22), “Nostro Signore sta arrivando!”, è diventata una specie di parola d’ordine che i credenti usavano dirsi per rafforzare la loro fede e le loro speranze. L’Apocalisse, scritta nell’anno 68 della nostra era, fissa il termine a tre anni e mezzo, XV, 2; XII, 14. (Questo è l’insieme dei testi sui quali i nemici della nostra fede basano la loro tesi che il Vangelo sia nato da un errore, da un’allucinazione, da una vana credenza, da tempo ridotta a nulla e solennemente messa in mora dai fatti più visibili e suggestivi del mondo. – Renan, Vita di Gesù, cap. XVII). – D’altra parte, non si può negare che questi stessi testi, presentati artificiosamente e da essi abilmente sfruttati, non siano di natura tale da impressionare, o addirittura da disturbare profondamente, le menti non bene informate secondo le modalità proprie della Scrittura nel campo della profezia in generale, e in quello escatologico in particolare. Lo scopo di questi articoli è quindi quello di far luce, all’interno delle modeste risorse dell’autore, sulle difficoltà che l’affermazione modernista avrebbe lasciato nella mente di molti, richiamando alcuni principi e spiegando alcune regole che è necessario avere sotto gli occhi per una esatta comprensione dei passaggi in questione. Questi passaggi devono essere sottoposti ad un esame approfondito e, più in particolare, quello in cui le difficoltà di tutti gli altri sono riunite e condensate, e che, una volta adeguatamente chiarito in ciascuna delle sue parti, fornirà, anche per tutti gli altri, gli elementi di soluzione necessari. Questo è il discorso che riempie il capitolo XXIV di San Matteo, unito ai luoghi paralleli di San Marco e San Luca, e che, considerato prima di tutto nel suo insieme, si presenta avente come oggetto indiviso la caduta di Gerusalemme e l’ultimo giorno del mondo.

ARTICOLO PRIMO

LA ROVINA DI GERUSALEMME E LA FINE DEL MONDO PREDETTE INSIEME, E DA UN’ALTRA PROSPETTIVA NEL DISCORSO ESCATOLOGICO. (MATTH. XXIV, MARC. XIII, LUC. XXI).

– LA DIFFERENZA TRA LA PROFEZIA E LA STORIA. – Era la sera del martedì prima dell’ultima Pasqua. Gesù aveva appena finito la sua predicazione pubblica con un avvertimento supremo dato a Gerusalemme, omicida dei profeti e assassina di coloro che le sono inviati,e mentre lasciava il tempio, per non farvi più ritorno, l’attenzione dei discepoli si concentrava sulle grandiose costruzioni di questo superbo edificio. Questo non era il primo tempio costruito da Salomone e distrutto dagli Assiri sotto Nabucodonosor. Era il secondo, ricostruito dopo la cattività sotto Zorobabele, ma rifatto successivamente dal primo Erode, il quale, per conquistare le grazie della nazione, come si legge in Giuseppe (Flavio), aveva intrapreso questa grande opera, e l’aveva intrapresa con l’intenzione di superare in magnificenza tutto ciò che si era visto fino ad allora. Infatti, non furono risparmiati né uomini, né risorse economiche, né spese di alcun genere, così che dopo quarantasei anni di lavoro ininterrotto (Joann. II, 20), questo tempio era diventato una delle meraviglie, per non dire la meraviglia, dell’universo. Guardate, Maestro – disse uno dei discepoli – guardate che pietre e che struttura! Ma Gesù disse: « Tu vedi tutte queste grandi costruzioni? Non resterà pietra su pietra che non sarà buttata giù ». Fu dunque con i gravi pensieri che questa risposta doveva aver suscitato nelle loro menti che il piccolo gruppo, dopo aver superato prima il tempio e poi le mura della città, attraversò la valle del Cedron, salì il versante occidentale del Monte degli Ulivi e si diresse verso Betania per passarvi la notte. Ma fecero una sosta a metà strada sulla collina. San Marco racconta che quando Gesù arrivò a un certo punto della montagna, si fermò e si sedette proprio davanti al tempio, la cui mole imponente si stagliava contro il cielo, che era infuocato dagli ultimi raggi del sole al tramonto. Era dunque il momento, o mai più, di ottenere un chiarimento della risposta precedente, ed ecco i quattro discepoli più familiari, Pietro, Giacomo, Giovanni ed Andrea, desiderosi di porre la domanda: Diteci, quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo? – Certamente queste richieste andavano ben oltre i limiti della predizione che le aveva originate, se questa fosse stata ridotta ai semplici termini in cui ci è stata trasmessa dagli evangelisti. In ogni caso, un tale ampliamento della questione non ci sorprenderebbe se considerassimo che le idee che gli Apostoli, ancora impregnati di pregiudizi giudaici, avevano di Gerusalemme e del suo tempio, erano da sole più che sufficienti a spiegare come e perché la rovina della città santa fosse legata nel loro pensiero alla fine stessa del mondo.La domanda dei discepoli, quindi, riguardava sia il tempo della distruzione del tempio che i segni precursori della parusia e della catastrofe suprema. Anche la risposta del Maestro tratterà gli stessi argomenti, salvo che questa congiunzione di eventi, così indipendenti l’uno dall’altro, facilmente spiegabile nella domanda dei discepoli, diventerà ora un argomento di obiezione nella risposta del Maestro. Infatti, se Gesù unisce nella stessa descrizione, se raffigura nella stessa immagine, se presenta nella stessa prospettiva la fine di Gerusalemme, la fine del mondo e la sua venuta, e se Gesù unisce nella stessa descrizione, se raffigura nella stessa immagine, se presenta nella stessa prospettiva la fine di Gerusalemme, la fine del mondo, e la sua venuta di gloria, non è forse perché anche Egli condivida l’opinione, o piuttosto il terrore di coloro che lo interrogano? … la stessa opinione che abbiamo appena notato tra gli Apostoli? E già solo per questo, il modernismo non è forse sufficientemente fondato nell’attribuirglielo? Questa è almeno l’obiezione che si pone fin dall’inizio, che sorge spontaneamente nella mente prima di qualsiasi esame dettagliato del testo evangelico, e la cui soluzione deve servire come base per tutte le spiegazioni successive. Ma ora, questa prima soluzione che, per la portata che deve avere, è di particolare importanza, da dove la dedurremo? Da nient’altro che dalla natura stessa del genere a cui appartiene la risposta di Gesù. È perché questa risposta appartiene al dominio riservato della profezia, ed allora il discorso profetico non deve essere confrontato con gli altri. Esso ha un modo proprio, una maniera propria, un fascino particolare che prende in prestito dal modo in cui il futuro è visto dall’alto dell’eternità divina: un insieme di condizioni che lo collocano in una categoria assolutamente trascendente, non avendo nulla che gli si avvicini nella letteratura profana, o anche in qualsiasi altra branca della letteratura sacra. Questo è ciò che viene comunemente dimenticato, e questa è anche la ragione della presente difficoltà. Vogliono applicare alla previsione di eventi futuri le regole che governano il racconto di eventi passati. In altre parole, il modo e lo stile della profezia si confondono con il modo e lo stile della storia, due generi così assolutamente diversi l’uno dall’altro che nulla di più radicale o chiaro potrebbe essere immaginato in termini di differenze. Questa è la confusione in cui erano caduti negli ultimi anni quelli della scuola larga, i quali, con il pretesto che la Bibbia non è un manuale di storia, ma un codice di religione, volevano che gli scrittori sacri fossero molto a loro agio con i fatti che riportavano, al punto di non farsi scrupolo di modificarli, amplificarli e sistemarli artificialmente, al meglio del loro scopo dogmatico o morale che si proponevano.   Questa era una strana teoria, contro la quale cozzava tutto ciò che c’è di più profondo nella mente di chiunque creda ancora nell’ispirazione della Scrittura, ma che essi pretendevano di autorizzare dal modo in cui questi stessi scrittori sacri si erano comportati riguardo all’avvenire. Non hanno forse riunito nella stessa vista profetica, come se fossero stati consecutivi, eventi che dovevano tuttavia essere separati da lunghi intervalli di tempo? Non parlavano di cose future come di cose presenti o già passate, e, al contrario le cose presenti o passate come cose da continuare in un futuro senza fine? E poi, è stato chiesto, dov’è la ragione per cui tali libertà sarebbero state appropriate nella descrizione profetica, per poi cessare di esserlo nella narrazione storica? In che modo la verità della Scrittura sarebbe impegnata se, per esempio, si ammette che il Levitico ci dà, come istituzione mosaica, ciò che in realtà avrebbe avuto un’origine molto più tardiva, mentre non lo era più quando Isaia chiamava Ciro come già presente, quando Geremia profetizzava che Gerusalemme sarebbe stata per sempre il centro della religione, quando l’Angelo predisse che il figlio nato da Maria avrebbe regnato sulla casa di Giacobbe e avrebbe occupato per sempre il trono di Davide suo padre, quando Gesù stesso mescolò in uno stesso disegno le due catastrofi, quella di Gerusalemme, che sarebbe avvenuta in capo ad appena quarant’anni, e quella dell’universo, che sarebbe avvenuta solo alla consumazione dei tempi. Questo è certamente un modo insolito di ragionare, e sembra che non sia mai venuto alla mente di esegeti seri. Ma di tanti sofismi accumulati come a piacere, questo solo deve occuparci qui, e che consiste nel confondere insieme i due generi, il genere profetico ed il genere storico, nonostante le evidenti differenze che li distinguono, e che ridurremo a tre punti principali.

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E prima di tutto, se paragoniamo la profezia alla storia, vedremo che si differenzia da essa da quello che potremmo chiamare il punto di prospettiva. Il punto di vista della storia è diverso da quello della profezia. Il primo è preso dal piano stesso dove si svolgono gli eventi di questo mondo, l’altro è al di fuori di tutto ciò che si misura con il tempo. Ora, chi non sa che il raggruppamento e l’assemblaggio degli oggetti nella stessa porzione del campo visivo dipende essenzialmente dal punto di osservazione, e varia anche secondo la variazione di quel punto stesso? Quando, per esempio, gli astronomi riuniscono le stelle dell’Orsa Maggiore, o del Capricorno, o del Toro, nella stessa costellazione, e le raggruppano rispettivamente sotto una denominazione comune, non intendono, immagino, attribuire loro negli spazi celesti le stesse relazioni di vicinanza e di apparente coordinazione che hanno nel campo visivo dell’osservatore terrestre. E senza bisogno di andare così lontano, non è evidente che gli stessi oggetti si presentino in modo diverso, a seconda che siano visti dal piano, uno dopo l’altro, a tutte le distanze, o, al contrario, in linea d’aria da un’alta cima, e ad una angolazione tale che, nonostante le distanze che li separano, sono uniti dall’occhio nei limiti di una stessa inquadratura, e si fondono nell’unità di uno stesso quadro? Così è, in proporzione, con l’ottica della profezia rispetto a quella della storia. La storia ha il suo punto di osservazione sulla pianura; segue gli eventi passo dopo passo nel loro svolgimento. È un cinematografo che, avendo prima registrato la marcia e la successione degli eventi, li presenta poi in ordine, uno dopo l’altro, senza mai passare per le fasi intermedie, in tante immagini corrispondenti e distinte. Ma la profezia, al contrario, si trova su quelle alte vette che dominano l’intero corso del tempo, illuminate come sono dall’unico sole della prescienza di Dio. Questo fa dire ai teologi che, a differenza della storia, la profezia vede gli avvenimenti nello specchio dell’eternità, cioè in idee che rappresentano quella durata eterna di Dio, alla cui luce gli intervalli più lunghi sono un istante, mille anni come un solo giorno, e soprattutto, non dimentichiamolo, tutto ciò che per noi è ancora nel futuro o già nel passato, non è né passato né futuro, ma indifferentemente e indistintamente in un rapporto immutabile di presente a presente. Cosa c’è da stupirsi, allora, se la descrizione profetica non sia soggetta alle stesse regole della narrazione storica? Che salti talvolta le tappe che in rapporto a noi segnano la strada dell’avvenire? E che spesso, attraversando come in un salto tutti gli avvenimenti intermedi, unisca in uno stesso quadro eventi che dovrebbero tuttavia essere separati tra loro da lunghe serie di giorni, anni, persino secoli? Tutto questo è dovuto alle condizioni particolari del punto di vista, come è stato detto, e le ragioni intrinseche da un lato, e le analogie del mondo fisico dall’altro, sembrerebbero concordare nel fornire una prova sufficiente. Ma questo non è tutto, non è ancora abbastanza. Qui c’è una seconda differenza tra la profezia e la storia, che è senza dubbio strettamente connessa alla prima, ma che tuttavia è distinta da essa, e che è molto importante avere innanzi agli occhi come complemento necessario alla considerazione precedente. Non si prende più dal punto da cui parte la prospettiva, ma dall’oggetto al quale termina: dall’oggetto, dico, che nella profezia si presenta con un orizzonte diversamente esteso che nella storia. Infatti, se la storia conosce gli eventi solo attraverso gli eventi e negli eventi stessi, li conosce solo nella loro particolare individualità, direi, nella loro nuda materialità, senza mai andare oltre, se non forse con congetture, induzioni, opinioni o precisazioni, appartenenti, se si vuole, alla filosofia della storia, ma non entrando nella prospettiva della storia stessa. Ne consegue che l’oggetto prossimo della storia è anche il suo proprio e unico oggetto; che questo oggetto è necessariamente limitato ai nudi fatti, così come sono accaduti, nell’ordine stesso in cui sono accaduti; e che, infine, per quanto riguarda la connessione degli eventi tra loro, la storia come tale non conosce altro che la pura e semplice connessione dell’ordine cronologico. Ma la condizione dell’oggetto della profezia è molto diversa ora. L’oggetto della profezia, come tale, è nel futuro, e il futuro è assolutamente inconoscibile in se stesso. L’avvenire, come abbiamo già detto, non può essere letto che nell’infinita prescienza di Dio, nei piani della sua sovrana provvidenza, nelle disposizioni della sua sapienza ordinatrice, in quelle ragioni eterne che misurano tutta l’evoluzione dei secoli e che, dalle profondità divine in cui sono nascoste, si proiettano, per così dire, e si riflettono nello spirito del profeta. E se questo è l’ambiente in cui la profezia trova e raggiunge il suo oggetto, che meraviglia che essa lo presenti anche nelle condizioni adatte a questo stesso ambiente, cioè non più nella sua nuda e semplice individualità, ma con i pro e i contro che le sono dati dall’ordine del piano provvidenziale? Ora, in questo ordine del piano provvidenziale, in questa disposizione della Sapienza infinita in cui tutta l’economia delle cose è disposta con una maestria e un’arte incomprensibili, gli eventi sono tenuti insieme e collegati in un modo diverso dalla semplice continuità o simultaneità cronologica. In particolare, essi hanno una modalità di collegamento che sarebbe vanamente cercata altrove, perché scaturita della sola potenza divina; una modalità che viene anche in primo piano nel soggetto che abbiamo davanti, perché appartiene essenzialmente al genere profetico di cui costituisce una categoria speciale. È il modo che tutta la Tradizione, fondata peraltro sulla Scrittura, riconosce tra i fatti appartenenti alle diverse fasi della religione, dal suo primo inizio nell’Antico Testamento alla sua ultima consumazione nella gloria: un modo di connessione che consiste in una relazione tra la figura e la cosa rappresentata, che rende gli eventi precedenti a quelli successivi ciò che l’ombra è per il corpo, ciò che la silhouette è per il profilo, ciò che l’immagine è per la realtà, ciò che lo schizzo e il contorno mostrato in anticipo, è per la grande opera, completa e definita, che deve venire dopo. San Paolo non dice forse che ciò che accadde al popolo giudeo accadde loro sotto forma di immagine? E ancora, che nell’antica legge c’era un’ombra delle cose a venire, ma che la realtà si trova in Cristo? E ancora, che Gesù Cristo era ieri, è oggi e sarà per sempre? nei secoli dei secoli? Sì, certo, oggi e domani e nei secoli dei secoli, ma anche ieri, e come? Da coloro che lo rappresentavano nell’antico popolo di Dio; dalle misteriose rappresentazioni della sua venuta e della sua salvezza, di cui sono pieni gli annali di quello stesso popolo: rappresentazioni che sono state molto giustamente paragonate a quei misteri della passione e della vita di Cristo che i nostri antenati recitavano nel Medioevo sulla scena, sebbene, naturalmente, differissero essenzialmente da essi, in quanto non erano né artificiali né fittizi, ma facevano parte del tessuto della storia, o piuttosto costituivano la storia stessa di Israele nei suoi personaggi più illustri e nei suoi eventi più importanti. (Le Hir, Études bibliques, les Prophètes d’Israël, Sez. 1. art. 2.) Dobbiamo leggere il libro XII di Sant’Agostino contra Faustum, per vedervi in che misura questi eventi sono stati, dall’inizio fino alla fine, una predizione in atto della vita, della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, e per avere un’idea di ciò che abbiamo appena chiamato il loro dentro e fuori nell’ordine e nell’armonia del piano provvidenziale. E se ora, dalla persona stessa di Gesù Cristo, passiamo alle opere della sua misericordia o giustizia, non è sempre la stessa economia che ci si rivela? Questo è il regno di Dio, che avrà la sua consumazione finale solo alla risurrezione dei morti, nella vita dell’epoca futura; ma ha già avuto il suo primo stabilimento sulla terra, principalmente attraverso la predicazione del Vangelo e dalla fondazione della Chiesa; e questo primo stabilimento è stato a sua volta preceduto da una preparazione e un abbozzo di lunghi secoli di durata. Ora, tra questo lontano abbozzo e la realizzazione compiuta nella pienezza del tempo, non è facile vedere e notare la stessa connessione di cui sopra? Quando, per esempio, l’arca dell’alleanza andò nel deserto in testa alle dodici tribù, coperta dalla nuvola in cui Dio nascondeva la sua presenza, quando si fermò per dare l’alt, e il popolo si accampò intorno ad essa in quell’ordine perfetto, così ben descritto da Bossuet nel suo immortale exordium del sermone sull’unità della Chiesa, quando Balaam, contemplando questo spettacolo dalle alture di Moab, esclamò con estasi: Come sono belle le vostre tende, o figli di Giacobbe, come sono belli i vostri padiglioni, o Israeliti! Non è vero che Israele era già il il regno di Dio in figura? – E quando, più tardi questa stessa arca, riconquistata dai Filistei, fu portata con grande pompa di sacrifici e cerimonie al Monte di Sion, , non era l’immagine del Signore che prendeva possesso del suo trono in mezzo ai suoi? (Le Hir, loc. cit.). E da una parte come dall’altra, la magnificenza delle descrizioni, l’esuberanza dell’entusiasmo, l’esagerazione anche del lirismo profetico ci avvertono che la prospettiva del profeta si estendeva ben oltre l’evento materiale del momento, fino a quelle realtà ancora lontane di cui era l’immagine e l’annuncio? Infine, la stessa osservazione può essere fatta sulle grandi manifestazioni della giustizia, che sono le alte opere di Dio. Il giudizio definitivo e solenne contro il mondo e l’inferno è differito fino all’ultimo giorno, questo è chiaro. « Ma il mondo ne sta già sentendo l’avvicinarsi nel rovesciamento della sua grandezza, e soprattutto nella distruzione dei superbi imperi e delle città che sono nemiche di Dio. Di là, quindi, queste immagini apparentemente esagerate, che sono spesso nella descrizione di queste catastrofi: il sole e le stelle si oscurarono, la terra scossa nelle sue fondamenta, le stelle che cadono dal cielo e i cieli che rotolano via come un libro. Queste metafore audaci sono piene di appropriatezza e precisione, non appena lo sguardo si estende alla futura rovina dell’universo, disegnato sotto proporzioni minori in quello di un regno limitato » (Le Hir, ibid.).  Questo, dunque, come l’oggetto della profezia, proprio perché è visto dal profeta nello specchio dell’eternità, e contemplato da lui nelle armonie del piano provvidenziale, si presenta spesso con un’estensione di prospettiva che non è affatto presente al centro della storia. Questo spiega la singolarità, a prima vista così strana, eppure così frequente nella Scrittura, della fusione in una stessa predizione di eventi, fatti e personaggi che non dovrebbero avere alcuna connessione tra loro, né sulla base della cronologia, né nell’ordine della catena naturale di cause ed effetti. Che se nella narrazione storica l’oggetto conserva sempre e necessariamente la sua stretta unità, e si dispiega su un unico piano che racchiude un solo orizzonte, succede, al contrario, che nell’oracolo profetico l’oggetto si scinde e si divide in due distinti, uno più distante, dove avviene l’evento principale e di primaria importanza, occupando come tale lo sfondo della prospettiva, l’altro più vicino, di cui l’evento, che potrei chiamare di avanti scena, è anteriore a quello principale secondo l’ordine del tempo, ma disposto da Dio nelle prospettive della Sua provvidenza, per essere la figura, il tipo, lo schizzo, e quindi anche il preludio vivente. Questo è ciò che osserva San Girolamo a proposito di una profezia di Daniele (XI-XII), relativa, per vicinanza di tempo, ad Antioco Epifane, ma in prospettiva lontana rivolta all’anticristo. « La consuetudine della Scrittura è quella di precedere, con delle figure di cose, la verità degli  eventi futuri. Così il Salmo LXXI è intitolato in Solomonem, eppure tutto ciò che vi si dice non può convenire a Salomone, ma la profezia si realizzerà in Salomone come nell’ombra e nell’immagine della verità, da realizzare poi più perfettamente nel Salvatore » (Hieron., in Dan, C. XI, Migne, P. L., XXV, col. 503.). E questo sarà meglio compreso da un elegante confronto fornito da uno dei principi dell’esegesi moderna, da cui abbiamo già preso in prestito molte delle considerazioni precedenti. « Immaginate – egli dice – due palazzi di dimensioni disuguali, ma che offrono la stessa distribuzione di stanze, cortili, corridoi, ecc . Il più piccolo, più vicino a voi, è situato in modo tale che, se fosse trasparente come il cristallo, il vostro occhio coglierà i contorni e le linee corrispondenti al più vasto posto dietro. Se, al contrario, questa trasparenza è velata, irregolare e intermittente, avrete bisogno di qualche combinazione per completare nella vostra mente l’immagine del grande edificio, del quale non potreste dubitare dell’esistenza, né della sua disposizione principali. Così è per un oracolo con un oggetto doppio. L’oggetto prossimo a volte sembra svanire per lasciare che il fatto più importante e più grande, che occupa lo sfondo della prospettiva, risplenda con tutta la sua brillantezza; pertanto, le prime linee sono più opache e velano parzialmente quelle di dietro. Ma la ragione, guidata dall’analogia, restituisce facilmente a ciascuno degli oggetti ciò che l’occhio scopre solo confusamente. » Ecco, appunto, presentato in un’immagine molto accurata, l’ordine del discorso escatologico, l’oggetto di questo studio, dove due cose sono previste simultaneamente e sotto la stessa prospettiva, due rovine di grandezza ineguale: la prossima rovina di Gerusalemme, come punizione per il crimine dei deicidi che non volevano ricevere né riconoscere Cristo, e la suprema rovina, ancora nascosta in un futuro impenetrabile, come punizione per il crimine del mondo apostata, che, dopo averlo conosciuto, lo ha infine respinto. A tutto questo si obietterà, forse, che un tale modo di mescolare insieme eventi così diversi e distanti tra loro non può che portare a confusione e oscurità nelle profezie, il cui vero significato diventerà da questo punto di vista, se non impossibile almeno molto difficile da capire. Si obietterà, ma invano, e penso che la difficoltà, ridotta alle sue vere proporzioni, si risolverebbe agli occhi di chiunque abbi poco riflettuto sulla condizione e la ragion d’essere delle profezie, sullo scopo assegnato loro, sui fini che Dio si propone nel dettarle. Ed infatti, qui di nuovo, guardiamoci dal confondere la profezia con la storia; non dimentichiamo le profonde differenze tra di loro, e consideriamo che, oltre a quelli che sono già state esposte, che una terza differenza ora se ne aggiunge, non più del punto da cui parte la prospettiva, né dell’oggetto a cui finisce, ma dalla quantità relativamente piccola di chiarezza la quantità relativamente piccola di chiarezza che la rivelazione del il futuro comporta. Perché l’avvenire, per molte altre ragioni che è facile capire, deve sempre in una certa misura, esserci chiuso: così che, se alla storia appartiene il grande giorno e la piena luce, al profezia, che l’evento non è ancora venuto a chiarire e spiegare, sarà sempre appropriato, converrà sempre, su qualche lato almeno, il chiaro scuro e la penombra. Infatti, le profezie non sono date agli uomini per soddisfare in loro una vana curiosità, ma  per scopi degni di Dio, che ne è il solo e unico autore. Sarà a volte per avvertirci di un evento futuro di cui dobbiamo essere informati: sia che Dio voglia che vi ci prepariamo, o perché possiamo salvarcene, ed in entrambi i casi, è sufficiente che l’evento sia conosciuto in anticipo nelle sue generalità, al massimo nei suoi segni precursori: non è affatto necessario che sia conosciuto nelle sue modalità circostanze, nelle sue particolarità. Sarà soprattutto, sarà sempre, per fornirci una prova eclatante della credibilità della rivelazione cristiana, così come un argomento perentorio dell’impero che Dio esercita sul mondo morale, non meno universale e non meno efficace di quello che esercita sul mondo fisico: un impero in virtù del quale non succede nulla né piccolo né grande, che non sia previsto, organizzato, voluto da Lui: voluto, dico? in vari modi della volontà, secondo la qualità degli oggetti, ma parlando in assoluto, sempre voluto. – Ora, per ottenere questo risultato, è sufficiente che, una volta che gli eventi si siano verificati, se ne possa riconoscere l’annuncio certo nella profezia che li ha preceduti, senza che sia stato necessario averli visti distintamente all’inizio. Inoltre, una visione anticipatrice potrebbe avere in vari casi un inconveniente considerevole che indebolirebbe singolarmente la forza della prova: quella di lasciare la porta aperta al sospetto che l’adempimento della predizione fosse l’effetto di volontà determinate a conformarsi ad essa, e quindi il puro e semplice risultato dell’industria umana. Invece, il più delle volte, le stesse persone in cui le profezie si realizzano, e anche coloro che le realizzano, non capiscono il loro mistero, né l’opera di Dio in loro. E così si prepara una prova della divinità della profezia, tanto più convincente quanto più sarà inartificiale e naturale, garantita contro ogni sospetto, per quanto remoto, che l’inganno dell’uomo possa avervi avuto una certa parte (Bossnet, Prefazione sull’Apocalypse, XVII-XX). – Da tutte queste considerazioni, ne consegue che una certa ombra di mistero deve avvolgere la maggior parte delle profezie. Ne consegue anche, e a titolo di conseguenza, che se la scissione dell’oggetto nel modo spiegato sopra è la causa di qualche oscurità, l’obiezione che si pretenderebbe di trarne, lungi dall’essere valida, sarebbe del tutto falsa. Ma ciò che noi dobbiamo osservare soprattutto qui, è che ciò che è già vero in una tesi generale, e fatta astrazione di ogni caso a cui si fa riferimento più in particolare, lo è ancora di più, non appena la domanda si pone la questione del giorno del giudizio e della consumazione dei secoli; perché allora, alle ragioni comuni che si applicano indifferentemente ad ogni velatura dell’avvenire, si aggiungono ragioni speciali, molto espressamente marcate nel Vangelo. Infatti, vediamo nel Vangelo, figurato come elemento morale di primaria importanza, così come l’assoluta certezza di questo ritorno futuro, quando Gesù Cristo tornerà nella gloria e nella maestà per giudicare il mondo, la completa incertezza del tempo, del giorno e dell’ora in cui esso avrà luogo. Questo è qualcosa che, per espresso disegno di Dio, deve rimanere nascosto e racchiuso in un impenetrabile segreto a tutte le creature, anche agli Angeli del cielo: Nemo scit, neque angeli cœlorum, nisi solus Pater. Ecco perché, quando i discepoli interrogarono il loro Maestro dicendo: Raccontaci quando queste cose accadranno, e qual è il segno della tua venuta e della fine dei tempi, confondendo la rovina di Gerusalemme con quella del mondo, provocarono una risposta che, senza confermarli positivamente nel loro errore, non li distolse da esso, né diede una chiara determinazione della distanza tra i due eventi l’uno dall’altro; una risposta che, basandosi su ciò che questi stessi eventi dovevano avere in comune, piuttosto che sulle loro peculiarità dislocanti, lascerebbe volutamente il campo aperto a tutte le congetture. – E tale fu infatti la risposta che ricevettero di tal mirabile maestria e arte, in cui, come è già stato detto, Gesù fondeva le due rovine in una sola cornice, un po’ come quei pittori che, dopo aver dipinto, con colori vivaci, quello che è il soggetto principale del loro quadro, vi tracciano ancora, in una distanza oscura e confusa, altre cose più lontane da questo oggetto. Oppure meglio ancora, e per parlare con rigore di precisione, alla maniera dei profeti dell’Antico Testamento, che ha tracciavano in una predizione un’altra predizione più profonda, proponendo l’evento figurativo prossimo, in unione con l’evento figurativo, non importa quanto fosse lontano nel futuro, e sempre per ragioni diverse da qualsiasi connessione tra il tempo o l’epoca dell’uno e il tempo o l’epoca dell’altro. È quindi del tutto sbagliato basarsi su questa unione delle due catastrofi nel discorso che, nei sinottici, chiude la predicazione di Gesù, ed è quindi sbagliato concludere, con i modernisti, che Egli le riteneva entrambe simultanee, e che, di conseguenza, persuaso che stava arrivando il momento in cui il tempio sarebbe stato distrutto, sarebbe stato ugualmente convinto che il mondo stesse per finire. Le spiegazioni precedenti sembrano averlo dimostrato a sufficienza, anzi in modo sovrabbondante, e non c’è bisogno di tornarci sopra. Tuttavia, siamo, per tutto questo, solo all’inizio del nostro compito. Infatti, se non si può stabilire l’accusa di errore e di falsità sulla semplice congiunzione dei due oggetti nella stessa previsione, qui cercheremo di farlo su un’altra base, almeno in apparenza, più solida. Niente è brutale come un fatto, come siamo soliti dire, ma niente è brutale come un’affermazione categorica. Ma non è questo il caso? A che cosa, si chiederanno, servono tante considerazioni su ciò che il genere profetico comporti o non comporti, se, dopo così lungo girovagare, ci vediamo, volenti o nolenti davanti ad un’affermazione come quella con cui Gesù termina: « In verità vi dico che questa generazione non passerà non passerà senza che tutte queste cose si compiano. » ? “Tutte queste cose”, omnia hæc cioè, apparentemente, tutte le cose appena descritte, e non solo l’ultima desolazione di Gerusalemme, ma anche l’oscuramento del sole, il turbamento delle stelle, la commozione dell’intero universo e delle potenze celesti preposte alla sua condotta, l’apparizione in cielo del segno del Figlio dell’uomo, la discesa del Figlio dell’uomo stesso in gloria e maestà per convocare tutta l’umanità al suo giudizio: di nuovo, tutto questo per essere realizzato prima della fine della contemporanea generazione! Ora tutto questo è chiaro, ed è sufficiente a ribaltare tutto i ragionamenti del mondo fatti a priori. Ecco, dice Renan, ciò che non lascia spazio ad equivoci. Questo è ciò che sarà necessario esaminare nell’articolo seguente.

LA PARUSIA (2)

VENERDÌ SANTO (2021)

VENERDÌ SANTO

[P. GUÉRANGER, ABATE DI SOLESMES: L’Anno liturgico, (trad. P. Graziani – vol. I, Ed. Paoline, Alba Cuneo –  1956]

LA MATTINA

Gesù condannato da Caifa.

Il sole è sorto su Gerusalemme; ma i pontefici e i dottori della legge non hanno aspettato la luce per sfogare il loro odio contro Gesù. L’augusto prigioniero prima è ricevuto da Anna, il quale a sua volta lo fa condurre da Caifa suo genero. L’indegno pontefice ha voluto assoggettare ad un interrogatorio il Figlio di Dio; e solo perché non risponde è oltraggiato con uno schiaffo da uno dei servi. Falsi testimoni, da loro istruiti, sono venuti ad attestare menzogne in faccia a colui ch’è la Verità; ma le loro deposizioni discordano. Allora il gran sacerdote, accorgendosi che il sistema adottato per convincere Gesù di bestemmia non è servito ad altro che a smascherare i complici della sua frode, tenta di strappare dalla stessa bocca del Salvatore la confessione d’un delitto che lo potrà rendere passibile di pena davanti alla Sinagoga: « Ti scongiuro per il Dio vivo di rispondere: Sei tu il Cristo, Figlio di Dio benedetto? » (Mt. XXVI, 63; Mc. XIV, 61). – Tale è l’interpellanza che il pontefice rivolge al Messia. Finalmente Gesù, volendo insegnarci il rispetto dovuto all’autorità, cui da tanto tempo ne aveva conservato i titoli, esce dal suo silenzio e con fermezza risponde: « Sì, lo sono; e vedrete il Figlio dell’uomo assiso alla destra della potenza di Dio venire sulle nubi del cielo » (Mc. XIV, 62). Allora il sommo sacerdote, stracciatesi le vesti, esclama: « Ha bestemmiato! che bisogno abbiamo più di testimoni? Avete sentita la bestemmia? che ve ne pare?». E da ogni angolo della sala si grida: «È reo di morte! ». Il Figlio di Dio è venuto sulla terra per ridare la vita all’uomo, caduto nell’abisso della morte; ed ora, per un orribile capovolgimento, è l’uomo che, in ricambio d’un tal beneficio, osa tradurre in tribunale il Verbo eterno, giudicandolo degno di morte. E Gesù tace, non incenerisce col fuoco della sua collera questi uomini tanto audaci ed ingrati! Ripetiamo in questo momento le parole, con le quali la Chiesa Greca interrompe spesso la lettura odierna della Passione: « Gloria alla tua pazienza, o Signore! ».

Scena d’insulti.

All’esplodere del grido: « è reo di morte », le guardie del sommo sacerdote s’avventano contro Gesù e gli sputano in faccia e, bendatolo, lo percuotono di schiaffi e gli domandano: «Profeta, indovina chi t’ha percosso » (Lc. XXII, 64). Ecco gli onori della Sinagoga al Messia, da lei atteso con tanta fierezza! La penna trema ed esita nel ripetere la descrizione degli oltraggi fatti al Figlio di Dio; e siamo appena all’inizio degli affronti subiti dal Redentore.

Il rinnegamento di Pietro.

Frattanto, una scena più dolorosa al cuore di Gesù avviene fuori del Sinedrio, nel cortile del sommo sacerdote: Pietro, introdottosi là dentro, litiga coi servi e le guardie, che l’hanno riconosciuto per un galileo seguace di Gesù. L’Apostolo, sconcertato e temendo della sua vita, rinnega codardamente il suo Maestro ed osa protestare con giuramento che neppure conosce quell’uomo. Triste esempio del castigo che merita la presunzione! Ma, oh misericordia di Gesù! quando le guardie del sommo sacerdote lo fanno passare là ove stava l’Apostolo infedele, gli rivolge uno sguardo di rimprovero e di perdono. Pietro si confonde, piange ed esce subito da quella casa maledetta. Immerso in un profondo dolore, non si consolerà fino a che non rivedrà il Maestro risuscitato e trionfante. Sia perciò, questo discepolo peccatore e convertito, il nostro modello in queste ore dolorose in cui la santa Chiesa ci offre lo spettacolo delle sofferenze sempre più gravi del nostro Salvatore! Pietro, temendo la propria debolezza, fugge; ma noi dobbiamo restare fino alla fine, senza timori, affinché Gesù, che intenerisce i cuori più duri, si degni rivolgere anche a noi un suo sguardo! – I prìncipi dei sacerdoti vedendo che comincia a farsi giorno, si preparano a tradurre Gesù davanti al governatore romano. Hanno istruito il suo processo come quello d’un bestemmiatore; ma non è in loro potere applicargli la legge di Mosè, secondo la quale dovrebbe essere lapidato. Gerusalemme non è più libera: non è più governata dalle sue leggi; il diritto di vita o di morte dovrà essere esercitato dai suoi dominatori, e sempre nel nome di Cesare. Come non ricordarsi in questo momento, i pontefici e i dottori dell’oracolo di Giacobbe morente, che preannunciò l’avvento del Messia, quando sarebbe stato tolto lo scettro a Giuda? Ma una nera invidia li ha traviati, e non s’accorgono che il trattamento cui vogliono assoggettare il Messia è già descritto nelle antiche profezie, ch’essi hanno studiato e di cui si dicono i custodi.

La disperazione di Giuda.

La voce sparsa nella città, che Gesù è stato catturato questa notte e che sta per essere tradotto davanti al governatore, giunge alle orecchie di Giuda traditore. Il miserabile amava il denaro, ma non aveva motivo di desiderare la morte del Maestro. Egli conosceva il potere soprannaturale di Gesù, e forse si lusingava che il risultato del suo tradimento sarebbe stato prontamente impedito da chi aveva sulla natura e sugli elementi un potere irresistibile. Ma ora che vede Gesù nelle mani dei crudeli nemici, e che tutto annuncia una tragica fine, un violento rimorso s’impadronisce di lui; corre al Tempio e getta ai piedi dei prìncipi dei sacerdoti il denaro ch’era stato il prezzo del suo sangue. Si direbbe che quest’uomo sia convertito e vada ad implorare perdono: ma, ahimè! niente di tutto questo. L’unico sentimento che gli rimane è la disperazione, e s’affretta a porre fine ai suoi giorni. Il ricordo di tutti i richiami che Gesù fece sentire al suo cuore, ieri, durante la Cena, e questa notte al Getsemani, lungi dall’infondergli fiducia, non fa altro che accasciarlo di più; e appunto perché ha dubitato di quella misericordia, che tuttavia doveva conoscere, si precipita verso l’eterna dannazione proprio quando comincia a scorrere il sangue che lava ogni delitto.

Gesù davanti a Pilato.

Ora i prìncipi dei sacerdoti, trascinandosi dietro Gesù in catene, si presentano al governatore Pilato, chiedendo d’essere ascoltati sopra una causa criminale. Pilato compare e domanda loro con aria seccata: «Che accusa portate contro quest’uomo? – Se non fosse un malfattore non te l’avremmo consegnato », risposero. Nelle parole del governatore già si nota disprezzo e disgusto, ed impazienza nella risposta dei prìncipi dei sacerdoti. Forse Pilato s’infastidisce al pensiero di dover fare il ministro delle loro vendette, quindi dice loro: « Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. – Ma noi, replicarono quegli uomini sanguinari, non abbiamo diritto di dar morte ad alcuno» (Gv. XVIII, 29-31). Allora Pilato, ch’era uscito fuori dal Pretorio per rispondere ai nemici di Gesù, rientra ed ordina che lo si conduca davanti a lui. Si trovano di fronte il Figlio di Dio e il rappresentante del mondo pagano. « Sei tu il re dei Giudei ? domanda Pilato. – Il mio regno non è di questo mondo, risponde Gesù: se fosse di questo mondo il mio regno, i miei ministri, certo, lotterebbero perché non fossi dato in mano dei Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù. – Dunque sei re? insiste Pilato. – Tu lo dici, io sono re », conferma il Salvatore. Confessata la sua augusta dignità, l’Uomo-Dio cerca di elevare questo Romano al di sopra degli interessi volgari della sua posizione, additando che esiste per l’uomo uno scopo più degno della ricerca degli onori della terra: «Per questo son venuto al mondo, a rendere testimonianza alla Verità. Chi è per la verità ascolta la mia voce. – Che cos’è la verità? » gli domanda Pilato; e senz’aspettare la risposta, desideroso di farla finita, lascia Gesù e compare di nuovo davanti agli accusatori e dice loro: « Io non trovo in lui colpa alcuna » (ivi, 33-38). – Questo pagano credeva di ravvisare in Gesù il dottore d’una setta giudaica, i cui insegnamenti non valeva la pena d’ascoltare; d’altra parte, pensava, è un uomo innocuo, è quindi ingiusto cercare in lui un uomo pericoloso.

Davanti ad Erode.

Ma non appena Pilato espresse un simile giudizio a favore di Gesù, un cumulo di accuse fu lanciato contro il Re dei Giudei dai prìncipi dei sacerdoti. All’udire tante atroci menzogne. Gesù tace; e il governatore, sorpreso, l’interroga: « Non senti di quante cose ti accusano?» (Mt. XXVII, 13). Una simile disinteressata domanda non distoglie Gesù dal suo nobile silenzio; ma da parte dei suoi nemici provoca uno scoppio di rabbia: « Solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dalla Galilea, dove ha cominciato, fino a qui » (Lc. XXIII, 5). Al sentire la Galilea, Pilato crede d’aver trovato uno spiraglio di luce. Erode, tetrarca di Galilea, attualmente si trova a Gerusalemme; e Gesù è suo suddito: è meglio consegnarlo a lui; la cessione d’una tal causa criminale non solo toglierà d’imbarazzo il governatore romano, ma ristabilirà la buona armonia tra lui ed Erode. Perciò il Salvatore viene condotto per le vie di Gerusalemme, dal Pretorio al palazzo di Erode. I nemici lo accompagnano ardendo di rabbia, mentre Gesù continua a tacere. Là altro non trovava che il disprezzo del misero Erode, l’uccisore di Giovanni Battista; e poco dopo gli abitanti di Gerusalemme lo rivedono per le strade vestito da pazzo e di nuovo trascinato al Pretorio.

Barabba.

Al ritorno inatteso dell’accusato, Pilato rimane turbato; tuttavia crede di aver escogitato un nuovo mezzo per sbarazzarsi dell’odiosa causa. La festa di Pasqua gli dà occasione di graziare un condannato; proverà a fare accordare questo favore a Gesù. La folla s’è ammutinata fuori del Pretorio; basterà mettere a confronto Gesù, lo stesso Gesù che la città aveva salutato con trionfo alcuni giorni fa, con Barabba, il malvivente che Gerusalemme ha in orrore: e la scelta non potrà non favorire Gesù. « Chi volete che vi liberi, chiede Pilato, Gesù o Barabba ? » La risposta non si fa attendere, e voci tumultuose gridano: « Non Gesù, ma Barabba! – Che devo dunque fare di Gesù, replica impressionato il governatore. – Crocifiggilo! – Ma che male ha fatto? lo castigherò e lo rimanderò. – No! sia crocifisso! »

La flagellazione.

Il tentativo del debole governatore è fallito, e la situazione s’è fatta ancora più critica. Invano ha cercato d’abbassare l’innocente al livello d’un malfattore; la passione d’un popolo ingrato e ribelle non ne ha fatto nessuna considerazione. Pilato arriva a promettere che infliggerà a Gesù un castigo atroce, nell’estremo tentativo di spegnere un po’ la sete di sangue che divora quella plebaglia; ma non ottiene altro che un nuovo grido di morte. Non andiamo più oltre senza offrire al Figlio di Dio una degna ammenda per l’oltraggio di cui è stato fatto segno. Paragonato ad un uomo infame, si preferisce, questi non lui; e se Pilato tenta per compassione di salvargli la vita, lo fa a condizione di fargli subire cotesto ignobile confronto, e ne risulta una perdita. Le voci che cantavano Osanna al Figlio di Dio, pochi giorni fa, si sono tramutate in urli feroci; per cui il governatore, temendo una sedizione, assicura di punire colui ch’egli stesso ha riconosciuto innocente. Gesù dunque viene consegnato alla soldatesca per essere flagellato. Viene spogliato con violenza delle sue vesti, e lo si lega alla colonna che serviva per tali torture. Le sferzate più crudeli straziano tutto il suo corpo, ed il sangue cola sulle sue divine membra. Raccogliamo questa seconda effusione di sangue del nostro Redentore, con la quale Gesù espia per l’umanità intera i piaceri peccaminosi della carne. Per mano dei Gentili subisce tale martirio; i Giudei glielo consegnano, i Romani eseguiscono: tutti noi siamo complici del deicidio.

La coronazione di spine.

Finalmente la soldataglia è stanca di percuoterlo; i carnefici sciolgono la vittima: ne sentiranno forse compassione ? Tutt’altro! a tanta crudeltà aggiungono una derisione sacrilega. Gesù s’è detto Re dei Giudei: ebbene, i soldati prendono lo spunto da questo titolo per inventare una nuova forma di oltraggio. Ad un re spetta la corona; e i soldati ne imporranno una al Figlio di David: intrecciano in fretta una corona con rami d’arbusti spinosi, gliela calcano sul capo, e per la terza volta scorre il sangue di Gesù. Poi, per completare l’ignominia, i soldati gli buttano sulla spalle un mantello di porpora e gli mettono in mano una canna, a guisa d’uno scettro. Indi s’inginocchiano davanti a lui e lo salutano dicendo: «Ave, Re dei Giudei! ». Ed accompagnano l’ingiurioso omaggio con sputi e schiaffi sul volto dell’Uomo-Dio; ogni tanto gli strappano la canna dalle mani e gliela sbattono in testa, per premere sempre di più le spine di cui è formata la corona.

Omaggio riparatore.

A tale spettacolo il cristiano si prostra con doloroso rispetto e, a sua volta, dice: «Ave, Re dei Giudei! Veramente sei Figlio di David, e perciò, nostro Messia e Redentore. Israele ti nega la regalità che prima aveva proclamato; la gentilità ha una ragione di più per oltraggiarli; però non con la giustizia tu regnerai su Gerusalemme, che non tarderà a sentirsi schiacciata sotto il tuo scettro vendicatore; ma regnerai con la misericordia sui Gentili, i quali fra poco saranno dagli Apostoli portati ai tuoi piedi. Frattanto, degnati di ricevere il nostro omaggio e la nostra sudditanza: oggi stesso regna sui nostri cuori e sull’intera nostra vita ».

Ecce Homo.

Gesù viene condotto a Pilato così come l’ha ridotto la crudeltà dei soldati; il governatore si tien certo che la vittima, ridotta agli  estremi, otterrà grazia davanti al popolo, e, accompagnando il Salvatore sopra una loggia del palazzo, lo mostra alla moltitudine dicendo: «Ecco l’uomo! » (Gv. 1XIX, 5). Parola più profonda di quello che credesse Pilato! Difatti non disse: Ecco Gesù, nè: ecco il Re dei Giudei; ma usò un’espressione generica senza conoscerne il mistero, e della quale solo il Cristiano può comprendere la portata. Il primo uomo, ribellandosi a Dio col peccato, aveva sovvertito tutta l’opera del Creatore: in castigo della superbia e della concupiscenza, la carne aveva asservito lo spirito; anche la terra, in segno di maledizione, non produceva che triboli e spine. Ma ecco apparire il nuovo uomo, che porta con sé non la realtà, ma la rassomiglianza col peccato; ed in lui l’opera del Creatore riacquista la prima armonia, ma la riacquista con la forza. Per mostrarci che la carne deve essere asservita allo spirito, la sua è” lacerata da flagelli; per provare che la superbia deve far posto all’umiltà, cinge la sua testa d’una corona formata dalle spine di questa terra maledetta. L’uomo nuovo trionfa con lo spirito sui sensi e con l’avvilimento della superba volontà sotto il giogo della sentenza: ecco l’uomo.

Gesù e Pilato.

Israele è come una tigre: la vista del sangue irrita la sua sete, e non sarà contento finché non vi si immerga. Appena vede la sua vittima insanguinata, con nuovo furore grida: «Sia crocifisso! Sia crocifisso! – Ebbene, dice Pilato, pigliatelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui colpa alcuna ». Ma intanto, per suo ordine, l’ha ridotto in uno stato che, per sé, gli può causare la morte. La sua debolezza non approderà ancora a nulla. I Giudei insistono appellandosi al diritto che i Romani lasciano ai popoli conquistati: «Noi abbiamo una legge, e secondo questa legge deve morire, perché s’è fatto Figlio di Dio ». A questo reclamo Pilato si turba; rientra nella sala con Gesù e gli domanda: « Donde sei tu ? » Gesù non gli risponde, perché non era degno che gli rendesse conto della sua divina origine. Pilato si stizzisce e lo rimprovera: « Non mi parli? Non sai che ho potere di liberarti o di crocifiggerti? » Solo allora Gesù risponde, e lo fa per insegnarci che ogni potere d’autorità, anche quello degl’infedeli, viene da Dio, e non da ciò che si chiama patto sociale: « Tu non avresti alcun potere sopra di me, se non ti fosse dato dall’alto. Per questo, chi mi ha consegnato nelle tue mani è più colpevole di te» (Gv. XIX, 11). – La nobiltà e la dignità di tali parole soggiogano il governatore, il quale tenta ancora una volta di salvare Gesù. Ma gli schiamazzi del popolo penetrano di nuovo nella sua casa: « Se rimetti costui, gli dicono, non sei amico di Cesare. Chiunque si fa re si mette contro Cesare ». A queste parole Pilato, cercando un’ultima volta di muovere a compassione il popolo furibondo, esce fuori di nuovo e, sedendosi all’aperto tribunale, si fa condurre Gesù: « Ecco, dice loro, il vostro re; come può Cesare temere qualche cosa da lui? ». Ma quelli raddoppiano gli schiamazzi: « Via! toglilo dinanzi! mettilo in croce! – Ma, dice il governatore, simulando di non temere la gravità del pericolo, dovrò dunque crocifiggere il vostro re ?» Ed i Pontefici rispondono: « Non abbiamo altro re che Cesare ». – Parola indegna, che, uscendo dal tempio, avverte i popoli che la fede è in pericolo; parola anche di condanna a Gerusalemme, perché, se non ha altro re che Cesare, vuol dire che lo scettro non è più in mano a Giuda, ed è arrivato il tempo messianico.

Gesù condannato da Pilato.

Pilato, vedendo che la sedizione è giunta al colmo, e che la sua responsabilità di governatore è minacciata, si decide d’abbandonare Gesù nelle mani dei suoi nemici; e proclama a malincuore la sentenza, che gli procurerà un tale rimorso da cercare subito di liberarsene col suicidio. Traccia di suo pugno sopra una tavoletta, con un pennello, l’iscrizione che sarà collocata in cima alla croce, sopra la testa di Gesù; e, per colmo d’ignominia, concede pure all’astio dei nemici del Salvatore, che due ladroni vengano crocifissi a suo fianco, poiché occorreva che s’adempisse anche la profezia: « Sarà annoverato tra i malfattori » (Is. LIII, 12). Infine, lavandosi pubblicamente le mani, nello stesso momento che contamina l’anima col più nefando delitto grida verso il popolo: « Io sono innocente del sangue di questo giusto: pensateci voi »; e tutto il popolo assetato di questa brama, risponde: « Il sangue di lui cada su di noi e sui nostri figli » (Mt. XXVII, 24-25). In quel momento il marchio del parricida s’impresse sulla fronte del popolo ingrato e sacrilego, come una volta su quella di Caino, che diciannove secoli di schiavitù, di miseria e d’infamia non hanno ancora cancellato. – Su noi, figli della gentilità, s’è posato, quale misericordiosa rugiada il sangue divino; ebbene, rendiamo grazie alla bontà del Padre celeste, che « ha tanto amato il mondo da darci il suo unico Figliolo » (Gv. III, 16); e ringraziamo anche l’amore dell’unico Figliolo di Dio, il quale, sapendo che tutte le nostre sozzure potevano essere lavate solo nel suo sangue, oggi ce lo elargisce fino all’ultima goccia.

La Via dolorosa.

Qui comincia la Via dolorosa, ed il Pretorio di Pilato, dove risuonò la sentenza contro Gesù, ne è la prima stazione. I Giudei s’impossessano del Redentore per autorizzazione del governatore; i soldati gli gettano le mani addosso e lo conducono fuori del cortile pretoriale; gli strappano il mantello di porpora e lo coprono delle vesti che gli avevano tolte per flagellarlo; quindi lo caricano della croce sulle spalle lacerate. Il luogo dove il novello Isacco ricevette l’albero del suo sacrificio è designato come la seconda Stazione. La truppa dei soldati, rinforzata dai carnefici, dai principi dei sacerdoti, dai dottori della legge e da una moltitudine immensa, si mette in cammino. Gesù avanza sotto il peso della croce; ma presto, spossato dalle perdite di sangue e da ogni sorta di patimenti, non regge più, e, cadendo sotto quel peso, segna la terza Stazione.

L’incontro di Gesù con Maria.

I soldati rialzano brutalmente il divino prigioniero, che soccombeva più sotto il peso dei nostri peccati che sotto lo strumento del suo supplizio. Ha appena ripreso il suo vacillante cammino, quando si presenta improvvisamente ai suoi sguardi la desolata Madre. La Donna forte è venuta ad incontrare il Figlio: vuole vederlo, seguirlo, unirsi a lui finché non esalerà l’ultimo respiro; il suo amore materno è invincibile. Il suo dolore oltrepassa ogni espressione umana; le agitazioni di questi ultimi giorni l’hanno spossata; non c’è sofferenza del Figlio che non le sia stata divinamente manifestata, ed alla quale lei non si sia associata, sopportandole tutte, ad una ad una. Come può più rimanere nascosta? Il sacrificio è in atto, s’avvicina la consumazione: deve unirsi assolutamente al Figlio e nessuna forza la potrà trattenere. È con lei la Maddalena in lacrime, e vi sono pure: Giovanni, Maria madre di Giacomo e Salomè; essi piangono il Maestro ma lei piange il Figlio. Gesù vede la Madre sua, ma non può consolarla; e tutto questo non è che l’inizio dei dolori! Il sentimento d’angoscia che prova in questo momento il cuore della più tenera delle madri opprime ancora di più il cuore del più amante dei figli. Ma non per questo i carnefici che gli sono ai fianchi accorderanno un sol momento di ritardo nel loro cammino, in favore della madre d’un condannato; se vuole, si trascini pure dietro al fatale corteo: è già molto se non la cacciano via; e l’incontro di Gesù con Maria sulla via del Calvario indicherà per sempre la quarta Stazione.

Il Cireneo.

C’è ancora molta strada da fare, perché, secondo la legge, i criminali dovevano essere suppliziati fuori le porte della città. I Giudei temono che la vittima venga a mancare prima d’arrivare al luogo del sacrificio; perciò, vedendo tornare dalla campagna un uomo chiamato Simone di Cirene, lo fermano e, per un crudele sentimento di umanità verso Gesù, lo costringono a condividere con questi la fatica di portare lo strumento della salvezza del mondo. L’incontro di Gesù con Simone Cireneo consacra la quinta Stazione.

Il Volto Santo.

Di lì a pochi passi, un fatto inatteso viene a colpire di meraviglia e di stupore fin’anche i carnefici: una donna attraversa la folla, sguscia tra i soldati e si precipita ai piedi del Salvatore. Ella stringe fra le mani un velo spiegato, e, tutta tremante, asciuga il volto di Gesù reso irriconoscibile dal sangue, dal sudore e dagli sputi. Essa però l’ha riconosciuto, perché lo ama, e non ha temuto d’esporre la propria vita per procurargli un leggero sollievo. Il suo amore sarà ricompensato: il volto del Redentore, impresso per miracolo su quel velo, sarà d’ora in poi il suo più ricco tesoro; e, col suo atto coraggioso avrà la gloria di costituire la sesta Stazione della Via Crucis.

Compassione di Gesù per Gerusalemme.

Ma quanto più Gesù s’avvicina alla mèta fatale, tanto più le sue forze lo abbandonano. Un improvviso abbattimento segna, con la seconda caduta della vittima, la settima Stazione. I soldati lo rialzano con violenza, e riecco Gesù sul sentiero che bagna col suo sangue. Tanti indegni maltrattamenti strappano grida di dolore ad un gruppo di donne, che, mosse da compassione verso Gesù, lo seguivano fra i soldati, sfidando i loro insulti. Gesù, intenerito dalla condotta di queste donne che, nella debolezza del loro sesso, mostravano più grandezza d’animo che non tutto insieme il popolo di Gerusalemme, si degna di rivolgere loro uno sguardo di bontà, e riprendendo tutta la dignità del suo linguaggio profetico, in presenza dei prìncipi dei sacerdoti e dei dottori della legge, preannuncia il terribile castigo che seguirà al misfatto di cui esse sono testimoni e che deplorano con tante lacrime: « Figlie di Gerusalemme! dice loro in quello stesso luogo che viene rialzato nell’ottava Stazione; Figlie di Gerusalemme! non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e e sui vostri figlioli, perché, ecco, verranno giorni in cui si dirà: Beate le sterili e i seni che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato! Allora si metteranno a dire alle montagne: Cadeteci addosso; e alle colline: Ricopriteci. Chè se si tratta così il legno verde, che sarà del secco?» (Lc. XXIII, 28-31).

L’arrivo al Calvario.

Finalmente si giunge ai piedi della collina del Calvario, che Gesù dovrà salire, prima di raggiungere il luogo del sacrificio. Ma una terza volta l’estrema fatica lo rovescia al suolo, e santifica il posto in cui i fedeli venereranno la nona Stazione. La barbara soldataglia interviene ancora una volta a far riprendere a Gesù la penosa salita, e finalmente, fra molti urti, arriva in cima al cocuzzolo che diventerà l’altare del più sacro e più potente degli olocausti. I carnefici gli tolgono la croce e la stendono a terra, in attesa di conficcarvi la vittima. Ma prima, secondo l’uso dei Romani, praticato anche dai Giudei, offrono a Gesù una tazza di vino misto a mirra. Una tale bevanda, amara come il fiele, serviva da narcotico per addormentare entro un certo limite i sensi del paziente e diminuire i supplizi. Gesù bagna appena le labbra di questa pozione, che la consuetudine e più che il senso d’umanità gli offriva; non vuole berne, per poter assaporare coscientemente le sofferenze che si è degnato accettare per la salvezza degli uomini. Poi i carnefici gli strappano le vesti che s’erano attaccate alle piaghe e lo portano subito sul posto dove l’attende la croce. Il luogo dove Gesù fu spogliato sul Calvario ed assaggiò l’amara bevanda è indicato come la decima Stazione della Via Crucis. Le nove precedenti sono tuttora visibili nelle vie di Gerusalemme, dal Pretorio fino ai piedi del Calvario; ma quest’ultima e le quattro successive si venerano nell’interno della Chiesa del Santo Sepolcro, che nella sua vastità racchiude il teatro delle ultime scene della Passione del Salvatore. Ma a questo punto dobbiamo sospendere la narrazione dei fatti, perché ci siamo già inoltrati abbastanza nei fatti della grande giornata; del resto dobbiamo ancora tornare sul Calvario. È ormai tempo che ci uniamo alla santa Chiesa nella funzione con la quale sta per celebrare la morte del Signore.

LA SOLENNE FUNZIONE LITURGICA DEL POMERIGGIO CON LA QUALE SI CELEBRA LA PASSIONE E LA MORTE DI CRISTO

Il servizio divino di questo pomeriggio si divide in quattro parti, di cui spiegheremo successivamente i misteri. Prima vi sono le Letture; seguono le Preghiere; poi viene l’adorazione della Croce, ed infine la Comunione. Questi riti insoliti fanno capire ai fedeli la grandezza di questo giorno, e al tempo stesso fanno avvertire la sospensione del Sacrificio quotidiano di cui prendono il posto. L’altare è spoglio, senza croce senza candelieri; il leggìo del Vangelo è senza drappo. – Recitata l’Ora di Nona, il Celebrante avanza coi ministri; i loro paramenti neri significano il lutto della santa Chiesa. Giunti ai piedi dell’altare, si prostrano sui gradini e pregano alcuni istanti in silenzio; quindi, si dà inizio alle Letture.

LE LETTURE

La prima parte di questo Ufficio è dedicata alla lettura di due brani di Profezie ed al Passio. Si leggono prima alcuni versetti del profeta Osea (VI, 1-6), nei quali il Signore predice i suoi disegni misericordiosi verso il novello popolo, il popolo pagano, ch’era morto e che fra tre giorni risusciterà col Cristo che ancora non conosce. – Efraim e Giuda non saranno accolti allo stesso modo, non avendo i loro sacrifici materiali placato un Dio, che ama la misericordia e disprezza coloro che sono duri di cuore. La seconda lettura è tratta dall’Esodo (XII, 1-11), ci mette innanzi la figura dell’Agnello pasquale, per mostrarci che in questo momento il simbolo scompare davanti alla realtà. È un Agnello immacolato come l’Emmanuele, il cui sangue preserva dalla morte tutti coloro che hanno avuta la dimora segnata da lui. Esso non solo sarà immolato, ma diventerà alimento di coloro che non sono salvi per lui. È il viatico di chi si trova in cammino, e lo mangia in piedi, non avendo tempo di fermarsi nel corso rapido della vita. L’immolazione dell’antico Agnello e del nuovo è il segnale della Pasqua.

LE PREGHIERE

La santa Chiesa ha appena commemorato insieme ai suoi figli la storia degli ultimi momenti del Signore; che le resta dunque, se non imitare il divino Mediatore, che, come dice S. Paolo, sulla Croce ha offerto per tutti gli uomini al Padre « preghiere e suppliche con forti grida e lacrime»? (Ebr. V, 7). Perciò, fin dai primi secoli, in questo giorno, essa indirizzò alla divina Maestà una serie di preghiere, che, riferendosi a tutti i bisogni del genere umano, mostrano ch’essa è veramente la madre di tutti e la sposa amorevole del Figlio di Dio. Tutti, anche i Giudei, partecipano a questa solenne intercessione che la Chiesa presenta al Padre dei secoli, ai piedi della Croce di Gesù Cristo. – Ognuna di queste preghiere è preceduta da una spiegazione che ne annuncia l’oggetto. Quindi il Diacono invita i fedeli a mettersi in ginocchio; poi, ad un cenno del Suddiacono, subito si levano in piedi per unirsi all’invocazione del Celebrante (Nell’VIII secolo queste preghiere venivano pure recitate il Mercoledì Santo.).

ADORAZIONE DELLA SANTA CROCE

Fatte queste preghiere generali ed implorata da Dio la conversione dei pagani, la Chiesa, nella sua carità, ha fatto un giro di orizzonte su tutti gli abitanti della terra e sollecitato su tutti loro l’effusione del sangue divino, che in questo momento scorre dalle vene dell’Uomo-Dio. Ora di nuovo si volge ai figli cristiani, e, addolorata per le umiliazioni del Signore, li esorta ad alleggerire il peso con l’indirizzare i loro omaggi alla Croce, fino allora ritenuta infame, ma ora resa sacra; quella Croce sotto la quale egli s’incammina al Calvario e le cui braccia oggi lo sosterranno. Per Israele essa è scandalo; per i Gentili, stoltezza (I Cor. I, 23); ma noi Cristiani veneriamo in lei il trofeo della vittoria di Cristo e lo strumento augusto della salvezza degli uomini. Dunque, è giunto il momento in cui riceverà le nostre adorazioni, per l’onore che si degnò di farle il Figlio di Dio irrorandola col suo sangue ed associandola all’opera della nostra riparazione. Non v’è giorno, né ora di tutto l’anno in cui meglio convenga tributarle i nostri doveri. – L’adorazione della Croce cominciò a Gerusalemme fin dal IV secolo. Rinvenuta la vera Croce mediante diligenti ricerche di Santa Elena imperatrice, il popolo fedele aspirava a contemplare di tanto in tanto l’albero di vita, la cui miracolosa Invenzione aveva colmato di gioia tutta la Chiesa. Perciò fu stabilito che la si sarebbe esposta all’adorazione dei Cristiani una volta Tanno, il Venerdì Santo. Il desiderio di vederla faceva accorrere ogni anno a Gerusalemme, per la Settimana Santa, un’immensa folla di pellegrini. Ovunque si sparse la fama di questa cerimonia; ma non tutti potevano sperare di contemplarla, fosse pure una volta sola in vita. Allora la pietà cattolica volle almeno consacrare, con un’imitazione, la vera cerimonia a cui la maggior parte non poteva assistere; e verso il VII secolo si pensò di ripetere in tutte le chiese, il Venerdì Santo, l’ostensione e l’adorazione della Croce come avveniva a Gerusalemme. Non si aveva, è vero, che la figura della vera Croce; ma, siccome gli omaggi resi al sacro legno si riferivano a Cristo stesso, i fedeli potevano in questa maniera offrirle identici onori, nell’impossibilità d’avere il vero legno che il Redentore bagnò col suo sangue. Tale è lo scopo dell’istituzione del rito che la Chiesa compie alla nostra presenza, ed alla quale invita tutti noi a prendere parte. Il Celebrante all’altare depone il piviale e rimane seduto al suo posto. Il diacono con gli accoliti si porta in sacrestia di dove ne esce in processione con la croce. Quando giungono in chiesa, il celebrante riceve la croce dalle mani del diacono, si porta dalla parte dell’Epistola e là, in piedi al fondo degli scalini, rivolto verso il popolo, scopre la parte superiore della croce cantando con tono di voce normale:

Ecco il legno della Croce…

E prosegue, aiutato dai ministri, che cantano con lui:

…al quale fu sospesa la salvezza del mondo.

Allora l’assistente, in piedi, canta:

Venite, adoriamo.

Poi tutti si inginocchiano e adorano per un istante, in silenzio. Questa prima ostensione rappresenta la prima predicazione della Croce, quella che gli Apostoli fecero tra loro, quando, non avendo ancora ricevuto lo Spirito Santo, non potevano discorrere del divino mistero della Redenzione che coi discepoli di Gesù, temendo di suscitare l’attenzione dei Giudei. A significare ciò, il Sacerdote solleva solo un tantino la Croce. L’offerta di questo primo omaggio è una riparazione degli oltraggi che il Salvatore ricevette in casa di Caifa, in cui fu schiaffeggiato dal soldato. – Quindi il Celebrante sale sulla predella dell’altare, sempre al lato destro dell’Epistola in modo che il popolo lo veda meglio. I ministri l’aiutano a scoprire il braccio destro della Croce, e, scoperta questa parte, mostra di nuovo lo strumento della salvezza, sollevandolo di più e canta con voce più alta:

Ecco il legno della Croce…

Il Diacono e il Suddiacono continuano a cantare con lui:

…al quale fu sospesa la salvezza del mondo.

E tutti i presenti cantano:

Venite, adoriamo. Poi si inginocchiano e adorano in silenzio. Questa seconda ostensione, fatta in modo più manifesto della prima, rappresenta la predicazione del mistero della Croce ai Giudei, quando gli Apostoli, dopo la discesa dello Spirito Santo, gettarono le fondamenta della Chiesa in seno alla Sinagoga, portando ai piedi del Redentore le primizie d’Israele. La santa Chiesa l’offre in riparazione degli oltraggi che il Salvatore ricevette nel Pretorio di Pilato, dove fu flagellato e coronato di spine.

Poi il Celebrante va nel mezzo dell’altare, sempre di faccia al popolo; liberando il braccio sinistro della croce con l’aiuto del Diacono e del Suddiacono, la scopre completamente, e sollevandola più in alto con voce ancora più forte, quasi di trionfo, canta:

Ecco il legno della Croce…

Ed insieme coi ministri continua:

…al quale fu sospesa la salvezza del mondo.

Sempre i fedeli cantano:

Venite, adoriamo. – Poi si inginocchiano e adorano in silenzio.

Quest’ultima ostensione rappresenta la predicazione del mistero della Croce in tutto il mondo, quando gli Apostoli, cacciati dalla totalità della nazione giudaica, si voltarono ai Gentili e predicarono il Dio crocifisso oltre i confini dell’Impero romano. Il terzo ossequio reso alla Croce è offerto in riparazione degli oltraggi che il Salvatore ricevette sul Calvario, quando fu deriso dai suoi nemici. La santa Chiesa, mostrandoci prima la Croce coperta d’un velo che poi scompare, mentre ci dà a contemplare il divino trofeo della nostra Redenzione, vuole anche significarci l’avvicendarsi dell’accecamento del popolo giudaico, che non vede in questo legno adorabile che uno strumento d’ignominia, e la folgorante luce di cui gode il popolo cristiano, al quale la fede rivela che il Figlio di Dio, lungi dall’essere oggetto di scandalo, è, al contrario, come dice l’Apostolo, il monumento eterno della « potenza e della sapienza di Dio » (I Cor. I, 24). Ormai la Croce, così solennemente issata, non rimarrà più coperta; così senza velo, attenderà sull’altare l’ora della gloriosa risurrezione del Messia. Saranno anche scoperte tutte le altre immagini della Croce che stanno sui diversi altari, ad imitazione di quella che prenderà il suo posto di onore sull’altare maggiore. Ma la santa Chiesa, in questo momento, non si limita ad esporre alla contemplazione dei fedeli la Croce che li ha salvati; essa anche li invita ad accostare rispettosamente le loro labbra al sacro legno. Li precede il Celebrante, e tutti verranno dopo di lui. Non contento d’aver deposto la pianeta, egli si toglie anche le scarpe, e solo dopo aver fatto tre genuflessioni s’accosta alla Croce adagiata sui gradini dell’altare. Dietro di lui s’avanzano il Diacono ed il Suddiacono, poi il Clero, infine i laici. – Straordinariamente belli sono i canti che accompagnano l’adorazione della Croce. Prima s’intonano gl’Improperi, o rimproveri che il Messia rivolge ai Giudei. Le prime tre strofe di quest’Inno sono alternate dal canto del Trisagio, la preghiera al Dio tre volte santo, del quale è giusto glorificare l’immortalità nel momento in cui si degna, come uomo, subire la morte per noi. Questa triplice glorificazione, in uso a Costantinopoli fin dal V secolo, passò nella Chiesa Romana, che la mantenne nella lingua primitiva, accontentandosi d’alternare la traduzione latina delle parole. Il seguito di questo magnifico canto è del più alto interesse drammatico: il Cristo ricorda tutte le indegnità di cui fu fatto segno da parte del popolo giudaico, e mette in risalto i benefici ch’Egli elargì all’ingrata nazione. Se l’adorazione della Croce non è ancora terminata, si passa ad intonare il celebre Inno Crux fidelis, composto da Venanzio Fortunato. Vescovo di Poitiers, nel V secolo, in onore del sacro albero della nostra Redenzione. Alcuni versi d’una strofa servono da ritornello a tutte le strofe dell’Inno.

Terminata l’adorazione della Croce, dopo che i fedeli le hanno reso omaggio, il Celebrante la pone sull’altare: a questo punto ha inizio la quarta parte della funzione.

LA COMUNIONE

Il ricordo del sacrificio compiuto oggi sul Calvario occupa talmente il pensiero della Chiesa in questo anniversario, ch’essa rinuncia a rinnovare sull’altare l’immolazione della vittima divina, accontentandosi di partecipare al sacro mistero con la comunione. Una volta, il clero e tutti i fedeli, erano ammessi a tale favore, ma in seguito soltanto più il celebrante poteva comunicarsi. Nel 1956 è tornata alla vecchia tradizione e tutti i fedeli ora possono ricevere il Corpo del Signore che si immola, proprio oggi, per la salvezza di tutti e riceve così, in modo più abbondante, i frutti della redenzione. – Accompagnato dai due accoliti, il Diacono si porta al Sepolcro, prende il santo ciborio dal tabernacolo e lo porta sull’Altare Maggiore mentre si canta:

Noi ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perché hai redento il mondo con la tua croce.

L’albero ci ha ridotti in schiavitù e la Croce ci libera; il frutto dell’albero ci ha sedotti, il Figlio di Dio ci ha salvati.

Salvatore del mondo, salvaci; o tu che ci hai redenti mediante il tuo sangue e la Croce, salvaci, te ne preghiamo!

Giunto all’Altare, il Diacono depone santo ciborio sul corporale; il celebrante sale l’altare e recita l’inizio del Pater a voce alta e siccome il Pater è una preparazione alla comunione, clero e fedeli lo recitano a voce alta col celebrante, « solennemente, gravemente, distintamente ed in latino ». – Uniamoci sentitamente e fiduciosi alle sette petizioni che esso contiene, nell’ora in cui il divino intercessore, con le braccia allargate

sulla Croce, le presenta per noi al Padre. È questo il momento in cui ottiene, per mezzo della sua mediazione, che ogni nostra preghiera sia esaudita. – Dopo il Pater, il sacerdote recita a voce alta una preghiera che nelle Messe viene recitata piano; con questa preghiera chiede che noi siamo liberati dal male e dal peccato e fatti vivere nella pace.

Il celebrante recita ancora a voce bassa la terza delle orazioni che precedono la comunione nelle Messe ordinarie; quindi apre la pisside che contiene le Ostie, ne prende una e, profondamente inclinato, si percuote il petto dicendo forte: “Signore, io non sono degno che tu venga in me, ma di’ una sola parola e l’anima mia sarà salva”.

A questo punto il Celebrante si comunica e dopo essersi raccolto per qualche istante, distribuisce la comunione, al solito modo, al clero e ai fedeli. Terminata la comunione, il celebrante si purifica le dita nell’apposito vasetto, le deterge col manutergio, ripone la pisside nel tabernacolo e restando in piedi in mezzo all’altare recita, in tono feriale, come ringraziamento, le tre seguenti preghiere:

“O Signore, questo popolo ha ricordato con cuore pio gli avvenimenti della Passione e della morte del Figlio tuo; noi ti preghiamo affinché egli ne riceva benedizioni abbondanti, il perdono, la consolazione, l’accrescimento della fede e la certezza della sua eterna redenzione. Te lo chiediamo in nome di Cristo nostro Signore”.

“O Dio possente e misericordioso che ci hai redenti per mezzo della Passione e della morte del tuo Figlio Gesù, conserva in noi l’opera della tua misericordia, di modo che avendo partecipato a questi misteri, noi possiamo vivere d’un amore indistruttibile. Te lo chiediamo in nome di Cristo”.

“Ricordati, o Signore, della tua misericordia e santifica, con la tua protezione, questi tuoi figli per i quali Gesù Cristo ha istituito, versando il suo sangue, questo mistero della Pasqua. Te lo chiediamo in nome di Cristo”.

Terminate queste preghiere il celebrante e i ministri discendono, dall’altare e tornano in Sacrestia. Compieta viene recitata in Coro a luci spente. La Santa Eucarestia viene riportata senza solennità nell’apposito luogo; vi sarà accesa, come di consueto, una lampada.

IL POMERIGGIO

Frattanto è bene che, durante le ore che furono quelle della nostra salvezza, noi seguiamo col cuore e col pensiero il misericordioso Redentore, che avevamo lasciato sul Calvario al momento in cui lo spogliarono delle sue vesti, dopo avere assaggiata l’amara bevanda. Assistiamo con raccoglimento e compunzione alla consumazione del Sacrificio, ch’egli sta per offrire per noi alla giustizia divina.

La Crocifissione.

Gesù è condotto dai carnefici pochi passi più in là, dove la Croce stesa per terra segna l’undecima Stazione della Via Crucis. Come un agnello condotto al sacrificio, Egli si corica sul legno che diventerà il suo altare; le sue membra vengono stirate con violenza, e i chiodi, penetrando fra i nervi e le ossa, configgono sul patibolo le mani e i piedi. Scorre il sangue dalle quattro vivificanti sorgenti, dove verranno a purificarsi le nostre anime; ed è la quarta volta che sgorga dalle vene del Redentore. Maria sente i colpi sinistri del martello, mentre il suo cuore di Madre ne rimane lacerato. Maddalena è in preda a una desolazione tanto più amara, quanto più si vede nell’impotenza di recar sollievo all’amato Maestro, che gli uomini le hanno rapito. Ma ecco che Gesù alza la voce e proferisce, dall’alto del Calvario, la sua prima parola: « Padre, esclama, perdona loro, perché non sanno quello che fanno ». Oh, bontà infinita del Creatore! È venuto sulla terra, opera delle sue mani, e gli uomini l’hanno crocifisso! ma fin sulla Croce egli ha pregato per loro, e, nella sua preghiera, li vuole anche scusare!

Gesù in Croce.

La Vittima è inchiodata sul legno, dove dovrà morire; ma non resterà così adagiata per terra. Isaia predisse che « il regale germoglio della radice di Iesse sarà inalberato come uno stendardo a vista di tutte le nazioni» (Is. XI, 10). Quindi bisogna che il crocifisso Salvatore santifichi l’aria infestata dalla presenza degli spiriti maligni; bisogna che il mediatore fra Dio e gli uomini, il Sommo Sacerdote ed intercessore, sia innalzato fra il cielo e la terra a trattare la riconciliazione fra l’uno e l’altra. A poca distanza dal luogo ove è distesa la Croce hanno praticata nella roccia una buca: dentro di questa, la Croce viene calata e così domina tutto il monte Calvario. È il luogo della dodicesima Stazione. I soldati s’adoperano con grandi sforzi a piantarvi l’albero della salvezza; l’urto violento acuisce i dolori di Gesù, che con tutto il corpo lacerato pende dalle sue stesse piaghe dei piedi e delle mani. Eccolo esposto nudo agli occhi di tutti, Lui ch’è venuto al mondo a coprire la nostra nudità causata dal peccato! Sotto la Croce i soldati stracciano le sue vesti e se le dividono, rispettando però la tunica, che secondo una pia tradizione Maria stessa aveva intessuta con le sue mani verginali. La tirano a sorte senza lacerarla; e così diventa il simbolo dell’unità della Chiesa che non deve mai essere rotta per nessun pretesto.

« Re dei Giudei ».

Sopra la testa del Redentore sta scritto in ebraico, greco e latino:

GESÙ NAZARENO RE DEI GIUDEI.

La moltitudine legge e ripete tale iscrizione, proclamando ancora una volta senza volerlo, la regalità del figlio di David. I nemici di Gesù se ne accorgono e cercano d’ottenere da Pilato la correzione della scritta, non ricevendo altra risposta che questa: « Quel che ho scritto ho scritto » (Gv. XIX, 22). Un’altra circostanza trasmessaci dai santi Padri annuncia che il Re dei Giudei, rigettato dal suo popolo, regnerà sulle nazioni della terra con la stessa gloria che ricevette in eredità dal Padre. Piantando la Croce nel suolo, i soldati la disposero in modo che il divino crocifisso voltasse le spalle a Gerusalemme ed allargasse le braccia verso le regioni dell’occidente. Pertanto, mentre il Sole della verità tramontava sulla città deicida, sorgeva sulla novella Gerusalemme, Roma, la superba città cosciente della sua eternità, ma ancora ignara che sarebbe divenuta eterna per la Croce.

Gl’insulti.

Alziamo lo sguardo verso l’Uomo-Dio, la cui vita va spegnendosi così rapidamente sullo strumento del suo supplizio. Eccolo sospeso in aria, alla vista di tutto Israele, « come il serpente di bronzo che Mosè aveva mostrato al popolo nel deserto » (Gv. III, 14); ma questo popolo non ha per lui che oltraggi. Voci insolenti e senza pietà salgono fino a lui: «Tu che distruggi il tempio di Dio e lo riedifichi in tre giorni, liberati ora; se sei il Figlio di Dio, scendi dalla Croce, se puoi ». Dal loro canto gl’indegni pontefici sorpassano la misura d’ogni bestemmia: « Ha salvato gli altri: perché non salva se stesso? Via! Re d’Israele, scendi dalla Croce e ti crederemo! Hai confidato in Dio: è lui che ti deve liberare. Non hai detto che sei il Figlio di Dio? ». E i due ladroni ch’erano crocifissi con lui prendevano parte all’oltraggioso concerto.

Preghiere.

Ma la terra aveva ricevuto un beneficio tale da paragonarsi a quello che Dio si degnava accordarle in quell’ora: e mai maggiori insulti erano saliti alla maestà divina con tanta audacia. Noi Cristiani, che adoriamo colui che i Giudei bestemmiano, offriamogli in questo momento la dovuta riparazione cui ha tanto diritto. Gli empi gli rinfacciano le proprie divine parole, torcendole contro di Lui; noi invece ricordiamogli un’altra parola da Lui stesso pronunciata e che riempie i nostri cuori di speranza: « Quando sarò innalzato da terra trarrò tutto a me » (Gv. XII, 32). Ora è giunto il momento, Signore Gesù, d’adempiere la tua promessa: traici tutti a te. Noi siamo ancora rivolti alla terra, legati da mille interessi e da mille attrattive, schiavi dell’amore di noi stessi, sempre impediti nel volo verso di te: sii l’amante che ci attira e rompe ogni laccio, affinché possiamo salire fino a te, e la conquista delle nostre anime sia finalmente la consolazione del tuo cuore oppresso.

Le tenebre.

Frattanto il giorno è giunto a metà del suo corso: è l’ora sesta, quella che noi chiamiamo mezzogiorno. Il sole, che splendeva in cielo come un insensibile testimone, improvvisamente nega la sua luce; ed un’oscura notte stende le sue tenebre su tutta la terra. Compaiono le stelle in cielo; le mille voci della natura languiscono: pare che il mondo stia per cadere nel caos. Si dice che il celebre Dionigi dell’Areopago d’Atene, che poi divenne discepolo del Dottor delle Genti, nel momento in cui avvenne quell’eclissi, esclamasse: «il Dio della natura sta soffrendo o la macchina di questo mondo sta per dissolversi ». – Flegone, autore pagano, scrivendo un secolo dopo, ricordava ancora lo sgomento che suscitarono nell’impero romano, quelle inattese tenebre che scompigliarono tutti i calcoli degli astronomi.

Il buon ladrone.

Un così formidabile fenomeno, spettacolo troppo visibile del corruccio celeste, agghiacciò di panico i più audaci bestemmiatori. Il silenzio successe a tanti schiamazzi. Allora uno dei ladroni, la cui croce stava a destra di quella di Gesù, sentì, insieme al rimorso, nascergli in cuore una speranza; tanto che rimprovera il compagno col quale fino a poco fa aveva insultato l’innocente: «Neppure tu temi Iddio, trovandoti con Lui nel medesimo supplizio? Quanto a noi, è giusto, perché riceviamo degna pena per le nostre azioni, ma costui non ha fatto nulla di male » (Lc, XXIII, 40-41). Gesù difeso da un malfattore, proprio nel momento in cui i dottori della legge giudaica, assisi sulla cattedra di Mosè, non fanno che oltraggiarlo! Ciò dimostra in modo evidente il grado d’accecamento al quale è arrivata la Sinagoga. Disma, un ladrone, un diseredato, rappresenta in quest’istante la gentilità che soccombe sotto il peso dei suoi delitti, ma da cui presto si risolleverà purificata, confessando la divinità del crocifisso. Egli si volge penosamente verso la Croce del Salvatore, dicendo a Gesù: « Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo regno »; perché egli crede alla regalità di Gesù, a quella regalità di cui i sacerdoti ed i magistrati della sua nazione avevano fatto oggetto di derisione. La calma e la dignità dell’augusta vittima sul patibolo gli hanno rivelato tutta la sua grandezza, e lui, prestandogli fede, ne invoca fiducioso un semplice ricordo, quando alla sua umiliazione seguirà la gloria. La grazia ha fatto di questo ladrone un vero Cristiano! E chi oserebbe dubitare che tale grazia gli sia stata implorata e ottenuta dalla Madre della misericordia, che in quel solenne momento offrì se stessa in un medesimo sacrificio col Figlio? Gesù, commosso d’aver riscontrato in un malvivente, giustiziato a causa delle sue criminalità, quella fede che invano aveva cercato in Israele, così risponde alla sua umile preghiera: « In verità ti dico, oggi stesso sarai meco in Paradiso ». È la seconda parola di Gesù sulla Croce. Il fortunato penitente la raccoglie con gioia nel suo cuore e la custodisce gelosamente, aspettando nell’espiazione l’ora della liberazione.

Il gruppo dei fedeli.

Maria s’è avvicinata alla Croce dalla quale pende Gesù! Per il cuore d’una madre, non vi sono tenebre che possano impedire di riconoscere il proprio figlio. Il tumulto s’è placato dopo che il sole non manda più la sua luce, e i soldati non frappongono più ostacoli a questo pietoso ravvicinamento. Gesù guarda teneramente Maria, la vede desolata, e la sofferenza del suo cuore, che sembrava giunta al massimo, aumenta ancora di più. Egli sta per morire, e la Madre non può slanciarsi verso di Lui, ad abbracciarlo e a prodigargli le sue ultime carezze! Anche Maddalena è là, sciolta in lacrime e languente di dolore, nel vedere i piedi del Salvatore che tanto amava, e che pochi giorni fa aveva cosparso dei suoi profumi, bagnati dal sangue sgorgato dalle ferite e già coagulato. Essa li può ancora irrorare delle sue lacrime, ma le lacrime non li possono risanare; è soltanto venuta per vedere morire Colui dal quale ricevette il perdono in ricompensa del suo amore. Giovanni, il prediletto è il solo Apostolo che ha seguito Gesù fin sul Calvario; immerso nel dolore, ricorda la predilezione che anche il giorno precedente Gesù volle testimoniargli nel misterioso banchetto; soffre per il figlio e soffre per la madre, perché il suo cuore non s’accontenta dell’inestimabile premio col quale Gesù volle ripagare il suo amore. Maria di Cleofa è insieme con Maria accanto alla Croce; più in là le altre donne formano un altro gruppo.

Maria Madre nostra.

Tutto a un tratto, nel cuore del silenzio interrotto solo dai singhiozzi, risuonò per la terza volta la voce di Gesù morente, che, rivolto a sua madre, la chiama « Donna », non volendo con un’altra spada rinnovarle il dolore nel suo cuore già ferito: « Donna, ecco tuo figlio », indicando con questa parola Giovanni; e rivolto a Giovanni, aggiunge: « Figlio, ecco tua madre ». Era doloroso quella scambio al cuore di Maria, ma la sostituzione assicurava per sempre a Giovanni, e in lui all’umanità, il beneficio d’una madre. Esponemmo tale scena più dettagliatamente il Venerdì della settimana di Passione; oggi, suo anniversario, accogliamo il generoso testamento di Gesù, che con l’incarnazione ci aveva meritata l’adorazione del Padre celeste, ed in questo momento ci dà in dono la propria madre.

Gli ultimi istanti.

S’avvicina l’ora nona (tre ore dopo mezzogiorno), quella decretata fin dall’eternità per la morte dell’Uomo-Dio. Gesù si sente di nuovo assalire dal crudele abbandono che provò nell’Orto degli Ulivi; si sente schiacciato da tutto il peso della disgrazia di Dio in cui è incorso per essersi fatto cauzione dei nostri peccati; l’amarezza del calice d’un Dio irato, bevuto fino alla feccia, gli causa un deliquio ch’egli esprime col gemito: « Dio mio! Dio mio! perché m’hai abbandonato? ». È la quarta parola; ma è una parola che non riconducela serenità al cielo. Gesù non lo chiama neppure « Padre mio! »come se fosse un peccatore, un condannato davanti all’inflessibiletribunale di Dio. Intanto, una gran febbre ne divora le viscere, edall’arsa bocca gli sfugge a gran pena la quinta parola: « Ho sete ».Un soldato gli accosta alle labbra morenti una spugna inzuppatadi aceto: sarà l’unico sollievo, che nella bruciante sete gli offrirà laterra, quella terra rinfrescata ogni giorno dalla sua rugiada e dallaquale ha fatto zampillare sorgenti e fiumi.

La morte.

Il momento in cui Gesù esalerà lo spirito al Padre è giunto. Egli abbraccia in uno sguardo i divini oracoli che preannunciarono le minime circostanze della sua missione; vede che non ce n’è uno solo che non sia stato adempiuto, fino al tormento della sete e all’aceto che gli venne offerto per dissetarlo. Proferisce allora la sesta parola dicendo: « Tutto è compiuto ». Non resta che morire, per apporre l’ultimo suggello alle profezie preannuncianti la sua morte quale mezzo estremo della nostra redenzione. Sfinito, agonizzante, quest’uomo che fino a pochi momenti fa era riuscito solo a mormorare qualche parola, lancia un grido potente che risuona lontano ed impaurisce e fa meravigliare il centurione romano, ch’era al comando delle guardie sotto la Croce. « Padre! esclama, nelle tue mani raccomando il mio spirito ». Pronunciata questa settimana ed ultima parola,abbandona il capo sul petto ed esala l’ultimo respiro.

La sconfitta di satana.

In quell’istante le tenebre si diradano, in cielo torna a splendere il sole; ma la terra trema, le pietre si spaccano e la roccia del Calvario si fende tra la Croce di Gesù e quella del cattivo ladrone; il crepaccio è visibile anche oggi. Un altro fenomeno spaventa i sacerdoti del giudaismo: il velo del Tempio che conservava il Santo dei Santi si spacca in due dall’alto in basso annunciando la fine del regno delle figure. Le tombe ove riposavano molti santi personaggi si aprono e i morti tornano alla vita. Ma lo scotimento della morte che salva l’umanità si fa sentire sopra tutto nell’abisso infernale. Finalmente satana ha compreso la potenza e la divinità del Giusto, contro il quale aveva imprudentemente aizzato le passioni della Sinagoga: per il suo accecamento, infatti, è stato sparso il sangue la cui virtù salva il genere umano e gli riapre le porte del cielo. Ma ora sa cosa pensarne di Gesù di Nazaret, al quale osò avvicinarsi nel deserto per tentarlo; e, nella sua disperazione, riconosce che Gesù è il vero Figlio dell’Eterno, e che la redenzione negata agli angeli ribelli viene elargita abbondantemente agli uomini, per i meriti del sangue che satana stesso ha fatto versare sul Calvario.

Preghiera.

Figlio adorabile del Padre, noi vi adoriamo, morto sull’albero del vostro sacrificio. La vostra amarissima morte ci ha ridata la vita. Imitando i Giudei che attesero l’ultimo anelito e rientrarono compunti nella città, noi ci percuotiamo il petto, confessando che furono i nostri peccati ad uccidervi; degnatevi, perciò, accogliere le nostre azioni di grazia per l’amore che ci avete testimoniato sino alla fine. Riscattati dal vostro sangue, d’ora in poi non ci resta che servire Voi, che ci avete amati in Dio. Siamo nelle vostre mani; Voi siete il nostro Signore. Ecco, già la Chiesa ci chiama al vostro divino servizio; dobbiamo scendere dal Calvario per unirci a lei a celebrare le vostre lodi. Fra poco saremo di nuovo accanto al vostro corpo inanimato ed assisteremo al funebre convoglio, che accompagneremo col nostro dolore e con le nostre lacrime. Maria nostra madre sta sotto la Croce e nessuna cosa la potrà separare dalla vostra spoglia mortale. Maddalena è inchiodata ai vostri piedi, e Giovanni e le pie donne formano intorno a voi un mesto accompagnamento. Noi cadiamo ancora una volta in ginocchio davanti al vostro santissimo corpo, al vostro prezioso sangue, alla Croce che ci ha redenti.

LA SERA

Il colpo di lancia.

Torniamo sul Calvario a terminare la giornata del lutto universale. Là abbiamo lasciato Maria insieme a Maddalena, a Giovanni ed alle altre pie donne. È trascorsa appena un’ora dal supremo istante che Gesù esalò lo spirito, ed ecco che alcuni soldati, comandati da un centurione, vengono a turbare, col rumore dei loro passi e delle loro voci, la quiete che regnava sulla collina. Hanno ricevuto un ordine da Pilato: su richiesta dei prìncipi dei sacerdoti, il governatore vuole che i tre crocifissi siano finiti rompendo loro le gambe, quindi deposti dalla croce e sepolti prima di notte. I Giudei contavano i giorni partendo dall’ora del tramonto; quindi è imminente l’inizio del grande Sabato. I soldati s’avvicinano prima alle croci dei due ladroni, ai quali rompono le gambe; poi s’avanzano verso la croce del Redentore; il cuore di Maria ha un sussulto: qual nuovo oltraggio faranno questi barbari al corpo insanguinato del caro Figlio? Essi guardano il divino condannato, costatano che non ha più un filo di vita; ma, per meglio assicurarsene, uno di loro impugna la lancia e la conficca nel costato destro della vittima. La punta gli trapassa il cuore, e quando il soldato la estrae, da quest’ultima sua piaga sgorgano alcune gocce di sangue misto ad acqua. È la quinta effusione del sangue redentore, ed è la quinta piaga che riceve Gesù sulla Croce.

Gesù deposto dalla Croce.

Maria ha sentito penetrare nell’intimo della sua anima la punta della lancia crudele; nuovi pianti e singhiozzi s’elevano intorno a Lei. Come finirà questo triste giorno? Quali mani deporranno l’Agnello che pende dalla Croce? Chi lo restituirà alla Madre? I soldati s’allontanano, e con essi Longino, il crudele autore della lanciata, che ha cominciato a sentire in sé un misterioso turbamento, presagio della fede di cui un giorno sarà martire. Ma ecco avanzarsi altri uomini: due Giudei, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, che salgono la collina e si fermano commossi ai piedi della Croce di Gesù. Maria li guarda con riconoscenza: essi sono venuti a deporle fra le braccia il corpo del Figliolo ed a rendere al loro Maestro gli onori della sepoltura. I fedeli discepoli ne hanno avuta l’autorizzazione dal governatore Pilato, che ha accordato a Giuseppe il corpo di Gesù. Il tempo stringe, il sole sta per declinare, sta per scoccare, l’ora del grande Sabato; quindi i due s’aff rettano a schiodare dalla Croce le membra del Giusto. Sulle falde del piccolo colle, vicino al luogo ov’è piantata la Croce, c’è un orto: in quest’orto è praticata nella roccia una camera sepolcrale. Nessuna salma ha occupato questa tomba fino adesso: là sarà posto Gesù a riposare. Portando il prezioso carico, Giuseppe e Nicodemo scendono dal monte e depongono il sacro corpo sopra uno spazio di roccia poco distante dal sepolcro. La Madre di Gesù riceve dalle loro mani il tenero Figlio, che bagna con le sue lacrime e copre di baci le molte piaghe crudeli che ne hanno lacerato il corpo. Giovanni, Maddalena e le altre pie donne compiangono la Madre dei dolori. Ma bisogna far presto ad imbalsamare la spoglia esanime. Sulla pietra che ancor oggi è chiamata la Pietra dell’unzione, e che segna la tredicesima Stazione della Via Crucis, Giuseppe spiega il lenzuolo che ha portato; Nicodemo, aiutato dai servi che per loro ordine avevano portato cento libbre di mirra e di aloè, prepara i profumi. Lavano le ferite dal sangue; tolgono delicatamente la corona di spine dalla testa del re divino; finalmente giunge il momento d’avvolgere il corpo nel lenzuolo. Maria stringe per un’ultima Volta tra le braccia l’insensibile spoglia del suo diletto, che subito dopo viene nascosta ai suoi sguardi fra le fasciature delle bende e le pieghe della coltre.

Gesù nel sepolcro.

Poi Giuseppe e Nicodemo sollevano il nobile peso e lo portano nella tomba. È la quattordicesima Stazione della Via Crucis. V’erano due stanze incavate nella roccia e comunicanti fra loro: nella seconda, a destra, in un loculo praticato con lo scalpello, adagiano il corpo del Salvatore. Quindi s’affrettano ad uscire, e, raccogliendo tutte le loro forze, fanno scivolare sull’ingresso del monumento una grossa pietra che servirà da porta, e che presto, a richiesta dei nemici di Gesù, verrà suggellata dall’autorità pubblica e custodita da una scorta di soldati romani.

La Madre dei dolori.

Intanto il sole tramonta e sta per cominciare il grande Sabato con le sue severe prescrizioni. Maddalena e le altre pie donne, tenuto d’occhio i luoghi e la disposizione del corpo nel sepolcro, interrompono i loro lamenti e ridiscendono in fretta a Gerusalemme, col proposito di comprare dei profumi e tenerli pronti, fino a quando, passato il Sabato, possano tornare sulla tomba la domenica, di buon mattino, a completare l’imbalsamazione troppo affrettata del loro Maestro. Maria, salutata un’ultima volta la tomba che racchiude il tesoro della sua tenerezza, s’accompagna al gruppo che è diretto alla città. Giovanni, suo figlio adottivo, è al suo fianco; da quel momento egli è divenuto il custode di Colei che, senza cessare d’essere la Madre di Dio, è divenuta in Lui la Madre degli uomini. Ma a costo di quali angosce essa ha guadagnato questo nuovo titolo! quale ferita ha ricevuto il suo cuore nell’istante che le siamo stati affidati! Teniamole anche noi fedele compagnia durante le ore crudeli che trascorreranno fino al momento in cui la risurrezione di Gesù verrà ad alleviare il suo immenso dolore.

Preghiera sulla tomba di Gesù.

Ma noi non possiamo abbandonare il vostro sepolcro, o Redentore, senza lasciarvi il tributo delle nostre adorazioni e l’ammenda onorevole del nostro pentimento. Eccovi, o Gesù, prigioniero della morte! questa figlia del peccato ha dunque steso su di voi il suo impero. Vi siete addossata la sentenza ch’era lanciata contro di noi, e vi siete fatto simile a noi fino alla tomba. Quale riparazione potrebbe mai eguagliare l’umiliazione che avete subita in questo stato, a noi dovuto, ma divenuto vostro per l’amore che ci avete portato? I santi Angeli vegliano sulla pietra che nasconde il vostro corpo e rimangono stupiti di questo vostro amore per l’uomo, spregevole ed ingrata creatura. Non per i loro fratelli decaduti avete subita la morte, ma per noi, ultimi della creazione. Quale indissolubile legame viene dunque a formare tra noi e Voi il sacrificio che avete offerto! Ma se morirete per noi, per Voi dunque d’ora in poi dobbiamo vivere. Ve lo promettiamo. Gesù, sulla tomba che vi hanno scavato i nostri peccati. – Anche noi vogliamo morire, morire al peccato e vivere alla vostra grazia. D’ora in poi seguiremo i vostri precetti ed i vostri esempi, e ci allontaneremo dal peccato, che ci ha fatti responsabili della vostra morte così amara e dolorosa; abbracciamo con la vostra Croce tutte le croci di cui è disseminata la vita umana e che sono così leggere in paragone della vostra; finalmente anche noi saremo contenti di morire, quando sarà giunta l’ora di subire la meritata sentenza che la giustizia del Padre pronunciò contro di noi. Per voi la morte non è che un passaggio alla vera vita; e, come in questo momento ci separiamo dal sepolcro con la speranza di presto salutare l’alba della vostra gloriosa risurrezione, così, lasciando alla terra la sua spoglia mortale, l’anima nostra, piena di confidenza, salirà a voi sperando un giorno di ricongiungersi a quella colpevole polvere che la terra restituirà purificata.

I SETTE DOLORI DI MARIA SANTISSIMA

La compassione della Madonna.

La pietà degli ultimi tempi ha consacrato in una maniera speciale questo giorno alla memoria dei dolori che Maria provò ai piedi della Croce del suo divin Figliolo. La seguente settimana è interamente dedicata alla celebrazione dei Misteri della Passione del Salvatore, e sebbene il ricordo di Maria che soffre insieme a Gesù sia sovente presente al cuore del fedele, il quale segue piamente tutti gli atti di questo dramma, tuttavia i dolori del Redentore e lo spettacolo della giustizia divina che s’unisce a quello della misericordia per operare la nostra salvezza, assillano troppo la mente, perché sia possibile onorare come merita il mistero della compassione di Maria.

Maria Corredentrice.

Per ben comprendere l’oggetto, e meglio compiere in questo giorno, verso la Madre di Dio e degli uomini i doveri che le sono dovuti, dobbiamo ricordare che Dio, nei disegni della sua sovrana Sapienza, ha voluto in tutto e per tutto associare Maria alla restaurazione del genere umano. – (Labbe, Conciles, t. XII p. 365. – Il decreto esponeva la ragione dell’istituzione di tale festa [i sette dolori nel venerdì di Passione] : « Onorare l’angoscia che provò Maria quando il Redentore s’immolò per noi e raccomandò questa Madre benedetta a Giovanni, ma soprattutto affinché sia repressa la perfidia degli empi eretici Ussiti ».). – Tale mistero ci mostra un’applicazione della legge che rivela tutta la grandezza del piano divino; ed ancora una volta ci fa vedere il Signore sconfiggere la superbia di satana col debole braccio di una donna. Nell’opera della salvezza, noi costatiamo tre interventi di Maria, tre circostanze, nelle quali è chiamata ad unire la sua azione a quella stessa di Dio. – La prima, nell’Incarnazione del Verbo, il quale non assume carne in lei se non dopo averne ottenuto il consenso con quel solenne FIAT che salvò il mondo; la seconda, nel Sacrificio di Gesù Cristo sul Calvario, ove Ella assiste per partecipare all’offerta espiatrice; la terza, nel giorno della Pentecoste, quando riceve lo Spirito Santo come lo ricevettero gli Apostoli, per potere adoperarsi efficacemente alla fondazione della Chiesa. Nella festa dell’Annunciazione esponemmo la parte ch’ebbe la Vergine di Nazaret al più grande atto che piacque a Dio intraprendere per la sua gloria, e per il riscatto e la santificazione del genere umano. In seguito avremo occasione di mostrare la Chiesa nascente che si sviluppa e s’ingigantisce sotto l’influsso della Madre di Dio. Oggi dobbiamo descrivere la parte che toccò a Maria nel mistero della Passione di Gesù, spiegare i dolori che sopportò presso la Croce, ed i nuovi titoli che ivi acquistò alla nostra filiale riconoscenza.

La predizione di Simeone.

Il quarantesimo giorno dopo la nascita di Gesù, la Beata Vergine venne a presentare il Figlio al Tempio. Questo fanciullo era atteso da un vegliardo, che lo proclamò « luce delle nazioni e gloria d’Israele». Ma, volgendosi poi alla madre, le disse: « (Questo fanciullo) è posto a rovina e risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione; anche a te una spada trapasserà l’anima » (Lc. II, 34-35). L’annuncio dei dolori alla madre di Gesù ci fa comprendere che le gioie natalizie erano cessate, ed era venuto il tempo delle amarezze per il figlio e per la madre. Infatti, dalla fuga in Egitto fino a questi giorni in cui la malvagità dei Giudei va macchinando il più grave dei delitti, quale fu lo stato del figlio, umiliato, misconosciuto, perseguitato e saziato d’ingratitudini? Quale fu, per ripercussione, il continuo affanno e la costante angoscia del cuore della più tenera delle madri? Noi oggi, prevenendo il corso degli eventi, facciamo un passo avanti ed arriviamo subito al mattino del Venerdì Santo.

Maria, il Venerdì Santo.

Maria sa che questa stessa notte suo figlio è stato tradito da un suo discepolo, da uno che Gesù aveva scelto a suo confidente, ed al quale ella stessa, più d’una volta, aveva dato segni della sua materna bontà. Dopo una crudele agonia, s’è visto legare come un malfattore, e la soldatesca l’ha condotto da Caifa, suo principale nemico. Di là l’hanno portato al governatore romano, la cui complicità era necessaria ai prìncipi dei sacerdoti e ai dottori della legge, perché potessero versare, secondo il loro desiderio, il sangue innocente. Maria si trova allora a Gerusalemme, attorniata dalla Maddalena e da altre seguaci del Figlio; ma esse non possono impedire che le grida di quel popolo giungano fino a lei. Del resto, chi potrebbe far scomparire i presentimenti nel cuore d’una tal madre? In città non tarda a spargersi la voce che Gesù Nazareno è stato consegnato al governatore per essere crocifisso. Si terrà forse in disparte Maria, in questo momento in cui tutto un popolo s’è mosso per accompagnare coi suoi insulti fino al Calvario, questo Figlio di Dio che ha portato nel suo seno ed ha nutrito del suo latte? Ben lungi da tale viltà, si leva e si mette in cammino, fino a portarsi al passaggio di Gesù. – L’aria risuonava di schiamazzi e di bestemmie. La moltitudine che precedeva e seguiva la vittima era composta da gente feroce od insensibile; solo un gruppetto di donne faceva sentire i suoi dolorosi lamenti, e per questa compassione meritò d’attirare su di sé gli sguardi di Gesù. Poteva Maria, dinanzi alla sorte del suo figlio dimostrarsi meno sensibile di queste donne, che avevano con lui solo legami di ammirazione o di riconoscenza? Insistiamo su questo punto, per dimostrare quanto abbiamo in orrore il razionalismo ipocrita che, calpestando tutti i sentimenti del cuore e le tradizioni della pietà cattolica ha tentato, sia in Oriente che in Occidente, di mettere in dubbio la verità della Stazione della Via dolorosa, che segna il punto d’incontro del Figlio e della Madre. Questa setta [setta alla quale oggi fa capo l’usurpante successore di Simon Mago, il marrano apostata servo dell’anticristo, l’antipapa della pampas, il sedicente “Ciccio t’imbroglio” – ndr. -], che non osa negare la presenza di Maria ai piedi della Croce, perché il Vangelo è troppo esplicito al riguardo, piuttosto di rendere omaggio all’amore materno più devoto che mai sia esistito, preferisce dare ad intendere che, mentre le figlie di Gerusalemme si mostrarono intrepide al passaggio di Gesù, Maria si recò al Calvario per altra via.

Lo sguardo di Gesù e di Maria.

Il nostro cuore di figli tratterà con più giustizia la donna forte per eccellenza. Chi potrebbe dire il dolore e l’amore che espressero i suoi sguardi, quando s’imbatterono in quelli del figlio carico della Croce? e dire con quale tenerezza e con quale rassegnazione rispose Gesù al saluto della madre? e con quale affetto Maddalena e le altre sante donne sostennero fra le loro braccia colei che doveva ancora salire il Calvario, per ricevere l’ultimo respiro del suo dilettissimo figlio? Il cammino è ancora lungo sulla Via dolorosa, dalla quarta alla decima Stazione, e se fu irrigato dal sangue del Redentore, fu anche bagnato dalle lacrime della madre sua.

La Crocifissione.

Gesù e Maria sono giunti sulla sommità della collina che servirà da altare al più augusto dei sacrifici; ma il divino decreto ancora non permette alla madre d’accostarsi al figlio; solo quando sarà pronta la vittima, s’avanzerà colei che deve offrirla. Mentre aspetta questo solenne momento, quali scosse per la Vergine ad ogni colpo di martello che inchioda sul patibolo le delicate membra del suo Gesù! E quando finalmente le sarà permesso d’avvicinarsi a lui col prediletto Giovanni, la Maddalena e le compagne, quali indicibili tormenti proverà il cuore di questa madre nell’alzare gli occhi e nello scorgere, attraverso il pianto, il corpo lacerato del figlio, stirato violentemente sul patibolo, col viso coperto di sangue e imbrattato di sputi, e col capo coronato da un diadema di spine! Ecco dunque il Re d’Israele, del quale l’Angelo le aveva preannunziato le grandezze; ecco il Figlio della sua verginità, Colui che Ella ha amato come suo Dio e insieme come frutto benedetto del suo seno. Per gli uomini, più che per sé, Ella lo concepì, lo generò, lo nutrì; e gli uomini l’hanno ridotta in questo stato! Oh, se, con uno di quei prodigi che sono in potere del Padre celeste, potesse essere reso all’amore di sua Madre, e se la giustizia alla quale s’è degnato di pagare tutti i nostri debiti volesse accontentarsi di ciò che egli ha sofferto! Ma no, deve morire, ed esalare lo spirito in mezzo alla più crudele agonia.

Il martirio di Maria.

Dunque, Maria è ai piedi della Croce per ricevere l’addio del Figlio, che sta per separarsi da Lei; fra qualche istante, di questo suo amatissimo Figlio non le resterà che un corpo inanimato e coperto di piaghe. Ma cediamo qui la parola a S. Bernardo, del cui linguaggio si serve oggi la Chiesa nell’Ufficio del Mattutino: « Oh, Madre, egli esclama, considerando la violenza del dolore che ha trapassata l’anima tua, noi ti proclamiamo più che martire, perché la compassione che hai provato per tuo Figlio, sorpassa tutti i patimenti che il corpo può sopportare. Non è forse stata più penetrante d’una spada per la tua anima quella parola: Donna ecco il figlio tuo? Scambio crudele! in luogo di Gesù, ricevi Giovanni; in luogo del Signore, il servo; in luogo del Maestro, il discepolo; in luogo del Figlio di Dio, il figlio di Zebedeo: un uomo, insomma, in luogo d’un Dio! Come poté la tua anima sì tenera non essere ferita, quando i cuori nostri, i nostri cuori di ferro e di bronzo, si sentono lacerati al solo ricordo di quello che dovette allora soffrire il tuo? Perciò non vi meravigliate, fratelli miei, di sentir dire che Maria fu martire nella sua anima. Di nulla dobbiamo stupirci, se non di colui che avrà dimenticato ciò che S. Paolo annovera tra i più gravi delitti dei Gentili, l’essere stati disamorati. – Ma un tale difetto è lungi dal cuore di Maria; che sia lungi anche dal cuore di coloro che l’onorano! » (Discorso delle dodici stelle). – Nella mischia dei clamori e degl’insulti che salgono fino al Figlio elevato sulla Croce, nell’aria. Maria ascolta quella parola che scende dall’alto fino a Lei e l’ammonisce che d’ora in poi non avrà altro figlio sulla terra che quello di adozione. Le gioie materne di Betleem e di Nazaret, gioie così pure e sì spesso turbate dalla trepidazione, sono compresse nel suo cuore e si cambiano in amarezza. Era la madre d’un Dio, e suo figlio le è stato tolto dagli uomini! Alza per un’ultima volta i suoi sguardi al caro Figlio, e lo vede in preda ad un’ardentissima sete, e non può ristorarlo; contempla i suoi occhi che si spengono, il capo che si reclina sul petto: tutto è consumato!

La ferita della lancia.

Maria non s’allontana dall’albero del dolore, all’ombra del quale è stata trattenuta fino adesso dal suo amore materno; ma quali crudeli emozioni l’attendono ancora! Sotto i suoi occhi, s’avvicina un soldato a trapassare con una lanciata il costato del figlio suo appena spirato. « Ah, dice ancora S. Bernardo, il tuo cuore, o Madre, è trapassato dal ferro di quella lancia ben più che il cuore del Figlio tuo, che ha già reso l’ultimo suo anelito. Non c’è più la sua anima; ma c’è la tua, che non può distaccarsene » (Ivi).

L’invitta Madre rimane immobile a custodire i sacri resti del Figlio; coi suoi occhi lo vede distaccare dalla Croce; e quando alla fine gli amici di Gesù, con tutte le attenzioni dovute al Figlio ed alla Madre, glielo rendono così come la morte l’ha ridotto, Ella lo riceve sulle sue ginocchia, che una volta furono il trono sul quale ricevette gli omaggi dei prìncipi dell’Oriente. Chi potrà contare i sospiri ed i singhiozzi di questa Madre, che stringe al cuore la spoglia esamine del più caro dei figli? Chi conterà le ferite, di cui è coperto il corpo della vittima universale?

La sepoltura di Gesù.

Ma l’ora passa; il sole declina sempre più verso il tramonto: bisogna affrettarsi a rinchiudere nel sepolcro il corpo di colui ch’è l’Autore della vita. La madre di Gesù raccoglie in un ultimo bacio tutta la forza del suo amore, ed oppressa da un dolore immenso come il mare, affida l’adorabile corpo a chi, dopo averlo imbalsamato, lo distenderà sulla pietra della tomba. Chiuso il sepolcro, accompagnata da Giovanni suo figlio adottivo, dalla Maddalena, dai due discepoli che hanno assistito ai funerali e dalle altre pie donne, Maria rientra nella città maledetta.

La novella Eva.

Vedremo noi, in tutti questi fatti, solo lo spettacolo delle sofferenze sopportate dalla Madre di Gesù, vicino alla Croce del figlio? Non aveva forse Dio una intenzione, nel farla assistere di persona alla morte del Figlio? E perché non la tolse da questo mondo, come Giuseppe, prima del giorno della morte di Gesù, senza causare al suo cuore materno un’afflizione superiore a quella di tutte la madri prese insieme, che si sarebbero succedute da Eva in poi, lungo il corso dei secoli? Dio non l’ha fatto, perché la novella Eva aveva una parte da compiere ai piedi dell’albero della Croce. Come il Padre celeste attese il suo consenso prima d’inviare sulla terra il Verbo eterno, così pure richiese l’obbedienza ed il sacrificio di Maria per l’immolazione del Redentore. Non era il bene più caro di questa incomparabile Madre, quel Figlio che aveva concepito solo dopo aver accondisceso alla divina proposta? Ma il cielo non poteva riprenderselo, senza che lei stessa lo donasse. – Quale terribile conflitto scoppiò allora in quel cuore sì amante! L’ingiustizia e la crudeltà degli uomini stanno per rapirle il figlio: come può Lei, la Madre, ratificare, col suo assenso la morte di chi ama d’un duplice amore, come suo Figlio e come suo Dio? D’altra parte, se Gesù non viene immolato, il genere umano continua a rimanere preda di satana, il peccato non è riparato, ed invano Lei è divenuta la Madre d’un Dio. Per Lei sola sarebbero gli onori e le gioie; e noi saremmo abbandonati alla nostra triste sorte. Che farà, allora, la Vergine di Nazaret, dal cuore così grande, la creatura sempre immacolata, i cui affetti non furono mai intaccati dall’egoismo che s’infiltra così facilmente nelle anime nelle quali è regnato il peccato originale? Maria, per la sua dedizione unendosi per gli uomini al desiderio di suo Figlio, che non brama che la loro salvezza, trionfa di se stessa: una seconda volta pronuncia il suo FIAT, ed acconsente all’immolazione del Figlio. Non è più la giustizia di Dio che glielo rapisce, ma è Lei che lo cede: e, quasi a ricompensa, viene innalzata a un piano di grandezza che mai la sua umiltà avrebbe potuto concepire. Un’ineffabile unione si crea fra l’offerta del Verbo incarnato e quella di Maria; scorrono insieme il sangue divino e le lacrime della madre, e si mescolano per la redenzione del genere umano.

La fortezza di Maria.

Comprendete ora la condotta di questa Madre ed il coraggio che la sostiene. Ben differente da quell’altra madre di cui parla la Scrittura, la sventurata Agar, la quale dopo aver cercato invano di spegnere la sete d’Ismaele, ansimante sotto la canicola solare del deserto, fugge per non vedere morire il figlio. Maria inteso che il suo è condannato a morte, si alza, corre sulle sue tracce fin che non lo ritrova e l’accompagna al luogo ove dovrà spirare. Ed in quale atteggiamento rimane ai piedi della Croce di questo figlio? La vediamo forse venir meno e svenire? L’inaudito dolore che l’opprime l’ha forse fatta cascare al suolo, o fra le braccia di quelli che l’attorniano? No; il santo Vangelo risponde con una sola parola a tutte queste domande: « Maria stava (in piedi) accanto alla Croce ». Come il sacrificatore sta eretto dinanzi all’altare, così Maria, per offrire un sacrificio come il suo, conserva il medesimo atteggiamento. S. Ambrogio, che col suo tenero spirito e la profonda intelligenza dei misteri, ci ha tramandato preziosissimi trattati del carattere di Maria, esprime tutto in queste poche parole: « Ella rimase ritta in faccia alla Croce, contemplando coi suoi occhi il Figlio, ed aspettando, non la morte del caro figlio, ma la salvezza del mondo » (Comment. su S. Luca. c. XXIII).

Maria, madre nostra.

Così la Madre dei dolori lungi dal maledirci, in un simile momento, ci amava e sacrificava a nostra salvezza perfino i ricordi di quelle ore di felicità che aveva gustate nel figliol suo. Facendo tacere lo strazio del suo cuore materno, Ella lo rendeva al Padre come un sacro deposito che le aveva affidato. La spada penetrava sempre più nell’intimo dell’anima sua; ma noi eravamo salvi: da semplice creatura, essa cooperò insieme col Figlio alla nostra salute. Dopo di ciò, ci meraviglieremo se Gesù scelse proprio questo momento per eleggerla Madre degli uomini, nella persona di Giovanni che rappresentava tutti noi? Mai, come allora, il Cuore di Maria era aperto in nostro favore. Sia dunque, ormai, l’Eva novella, la vera « Madre dei viventi ». La spada, trapassando il suo Cuore immacolato, ce ne ha spalancata la porta. Nel tempo e nell’eternità, Maria estenderà anche a noi l’amore che porta a suo figlio, perché da questo momento ha inteso da Lui che anche noi le apparteniamo. A riscattarci è stato il Signore: a cooperare generosamente al nostro riscatto è stata la Madonna.

Preghiera.

Con tale confidenza, o Madre afflitta, oggi noi veniamo con la santa Chiesa, a renderti il nostro filiale ossequio. Tu partoristi senza dolore Gesù, frutto dal tuo ventre; ma noi, tuoi figli adottivi, siamo penetrati nel tuo Cuore per mezzo della lancia. Con tutto ciò amaci, o Maria, corredentrice degli uomini! E come potremmo noi non cantare all’amore del tuo Cuore sì generoso, quando sappiamo che per la nostra salvezza ti sei unita al sacrificio del tuo Gesù? Quali prove non ci hai costantemente date della tua materna tenerezza, tu che sei la Regina di misericordia, il rifugio dei peccatori, l’avvocata instancabile di tutti noi miseri? Deh! o Madre, veglia su noi; fa’ che sentiamo e gustiamo la dolorosa Passione di tuo Figlio. Non si svolse, essa, sotto i tuoi occhi? non vi prendesti parte? Facci dunque penetrare tutti i misteri, affinché le nostre anime, riscattate dal sangue di Gesù, e lavate dalle tue lacrime, si convertano finalmente al Signore e perseverino d’ora innanzi nel suo santo servizio.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (15)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (15)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXXIII.

Quanto quest’esercizio venga raccomandato e replicato nella divina Scrittura.

Dall’esser questo esercizio tanto raccomandato e tante volte replicato nella divina Scrittura, si può molto bene comprenderne il valore e la eccellenza, e quanto sia grato a Dio; e insieme potremo da questo stesso prender materia per esercitarlo e per trattenerci più in esso. Il reale profeta David ne’ suoi Salmi ad ogni passo c’invita a questo esercizio, dicendo: Lætamini in Domino, et esultate, justi, et gloriamini, omnes recti corde (PS. XXXI, 11): — Exultate, justi, in Domino (Ib. XXXII, 1): —Delectare in Domino, et dabit Ubi petitiones cordis tui (Ib. XXXVI, 4): Rallegratevi, giusti, nel Signore, e dilettatevi in esso. Gioite e compiacetevi de’ suoi infiniti beni, e vi darà quel che gli domanderete; o per dir meglio, quel che desidererete e di cui avrete di bisogno: perché quest’è un’orazione nella quale senza domandare domandate, e Dio esaudisce il desiderio del vostro cuore, perché gli piace grandemente quest’orazione. E l’apostolo S. Paolo scrivendo a’ Filippensi dice: Rallegratevi sempre nel Signore: Gaudete in Domino semper (ad. Phil. IV, 4). E parendogli, che questo non fosse consiglio da darlo una volta sola, torna a replicarlo: Iterum dico, gaudete: Un’altra volta vi dico, che vi rallegriate. Questo è il giubilo che ebbe la Vergine santissima quando disse nel suo cantico: Et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo (Luc. 1, 47. 1):Giubilò lo spirito mio in Dio, mia salute. Quest’allegrezza e giubilo, ebbe anche Cristo nostro Redentore là dove di lui dice il sacro Evangelio, che Exultavit Spiritu sancto (Ib. X, 21): Si rallegrò nello Spirito santo.E il profeta David dice, che era tanto grande l’allegrezza e il giubilo che sentiva l’anima sua al considerare quanto grande fosse il bene e la gloria di Dio, e quanto egli fosse degno che tutti si rallegrassero del bene infinito che ha, che per la grande abbondanza ne ridondava l’allegrezza anche nelcorpo, e la carne istessa si accendeva in amor di Dio. Cor meum et caro mea exultaverunt in Deum vivum (Ps. LXXXIII, 9, 10): Il mio cuore e la mia carne si sono rallegrati inDio vivo. E in un altro luogo dice: Anima mea exullabit in Domino: et delectabitur super salutari suo. Omnia ossa mea dicent: Domine, quis similis libi (Ib., XXXIV, 9,10)? L’anima mia si rallegrerà nel Signore, esi diletterà in Dio, autore della sua salute;e tutte le ossa mie diranno : Signore, chi è come voi? E per esser cosa tanto divinae celeste quest’amore, la Chiesa diretta dallo Spirito santo, nel principio delle Ore Canoniche,cominciando il Mattutino ci eccita coll’Invitatorio ad amare in questo modo il Signore, rallegrandoci e godendo de’ suoi beni infiniti; ed è preso dal Salmo nonagesimoquarto: Venite, exultemus Domino: jubilemus Deo salutari nostro. Prceoccupemus faciem ejus in confessione, et in psalmis jubilemus ei: Venite, rallegriamoci col Signore, e cantiamo cantici di lodea Dio salute nostra; perciocché egli è grande sopra tutti, ed è suo il mare e la terra,e ogni cosa è opera delle sue mani: Quoniam Deus magnus Dominus, et Rex magnus super omnes Deos, etc. Quoniam ipsius est mare, et ipse fecit illud, et aridam fundaverunt manus ejus etc. (Ps. XLIV, 1 et 2). E per l’istessa ragione e all’istesso effetto ci mette la Chiesa nel fine di tutti i Salmi quel verso: Gloria Patri, et Filio, et Spiritui sancto; Sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculorum. Amen. Questo è quell’entrar nel gaudio di Dio che dice Cristo nostro Redentore, come si legge nell’Evangelio: Intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV, 21). Partecipare di quell’allegrezza indefinita di Dio, e starci rallegrando e godendo insieme coll’istesso Dio della sua gloria, bellezza e ricchezza infinita.Per poterci affezionar più a quest’esercizio,e procurare di star sempre in questa allegrezza e festa, ci aiuterà assai il considerare quanto buono, quanto bello e quanto glorioso è Dio. Egli ha tutte queste cose in così sommo grado, che solo a vederlo, fa beati quelli che lo veggono: e se quei che stanno nell’inferno vedessero Dio, cesserebbero in essi tutte le pene e l’inferno si convertirebbe loro in paradiso: Hæc est autem vita æterna; ut cognoscant te solum Deum verum, dice l’istesso Cristo,come abbiamo nel Vangelo di S. Giovanni (Giov. XVII, 3). In questo consiste la gloria de’ Santi,in veder Dio; questo è quello che li fa beati; e non per un giorno né per un anno,ma eternamente, che mai non si sazieranno di star riguardando Dio, ma sempre sarà loro nuovo quel gaudio, secondo quello che dice S. Giovanni nell’Apocalisse: Et cantabunt quasi Canticum novum (Apoc. XIV, 3). Pare che con questo si dichiari assai bene la bontà, la bellezza e la perfezione infinita di Dio: e pure vi è molto più che aggiungere, e. molto assai: poiché è Dio tanto bello e tanto glorioso, che Egli medesimo, col solo vedere se stesso, è beato. La gloria e la beatitudine di Dio è il vedere e l’amare se stesso (D. Thom. 1 p.. q. 26, art. 8). Guarda, se abbiamo ragione di rallegrarci e di gioire in una bontà e bellezza, e in una gloria tanto grande, che rallegra tutta quella Città di Dio e fa beati tutti quei cittadini; e anche l’istesso Dio conoscendo e amando se stesso, è beato.

CAPO XXXIV.

Come ci potremo stendere in questo esercizio.

Possiamo anche umanarci più in questo esercizio, esercitando questo stesso amore colla sacratissima Umanità di Cristo Signor nostro, considerando la sua dignità e perfezione grande, e compiacendoci e gustando di questa, rallegrandoci e tripudiando, perché  questa benedettissima Umanità stia tanto sublimata e unita colla Persona divina; che stia tanto piena e colma di grazia e di gloria, che sia istrumento della Divinità per operar cose sì alte, come sono la santificazione e glorificazione di tutti gli eletti, e tutti i doni e le grazie soprannaturali che si comunicano agli uomini; e finalmente rallegrandoci e godendo di tutto quello che appartiene alla perfezione e gloria della gloriosissima anima e del santissimo corpo di Cristo nostro Redentore; e trattenendoci in questo con isviscerato amore e allegrezza, nel modo che i Santi considerano che si dovette rallegrare e gioire la santissima Regina degli Angeli il giorno della Risurrezione, quando vide il suo benedetto Figliuolo sì trionfante e glorioso: e come dice la divina Scrittura del patriarca Giacobbe, che quando udì dire, che il suo figliuolo viveva ed era padrone di tutta la terra d’Egitto, si rallegrò tanto, che se gli ravvivò lo spirito, e disse: A me basta che mio figliuolo Giuseppe sia vivo; non desidero altra cosa che vederlo, e con questo morirò contento (Gen, XLV, 28). –  Questo medesimo esercizio possiamo praticare in riguardo della beatissima Vergine nostra Signora e degli altri Santi: e sarà molto buona divozione nelle loro festività impiegar qualche parte dell’orazione in questo esercizio; perché sarà uno de’ maggiori ossequi e tributi che possiamo render loro; essendo che il maggior amore che loro possiamo portare, è volere e desiderar loro il maggior bene che possono avere, e rallegrarci e compiacerci della gloria loro tanto grande, e star ivi congratulandocene con esso loro: e così la Chiesa ci propone questo esercizio nella festa dell’Assunzione della santissima Vergine: Hodie Maria Virgo cælos ascendit: gaudete, quia cum Christo regnat in æternum. E comincia l’Introito della Messa in questa Festività, e in molte altre, invitandoci a quest’esercizio e animandoci ad esso coll’esempio degli Angeli che fanno il medesimo: Gaudeamus omnes in Domino, diem festum celebrantes sub honore B. V., de cujus Assumptione gaudent Angeli, et collaudant Filium Dei. – V’è anche un altro bene e utilità grande nella pratica di questo esercizio rispetto ai Santi, specialmente rispetto alla santissima Umanità di Cristo Signor nostro, ed è, che con questo vien poi la persona ad ascendere a poco a poco e ad avere introduzione negli altri esercizi che riguardano la Divinità; perché, come dice l’istesso Cristo, egli è la strada e la porta per entrare dal Padre (Jo. XIV 6, et X, 7). – Ancora in quest’esercizio che si pratica in riguardo a Dio in quanto Dio vi sono i suoi gradi e ci possiamo umanar più in esso, discendendo a cose di qua; perché sebben è vero, che Dio non può crescere in sé, per essere infinito, onde non possiamo desiderargli in se stesso alcun bene che Egli non l’abbia; nondimeno può Dio crescere esteriormente nelle creature, cioè esser più conosciuto, più amato e più glorificato da esse: e così possiamo ancora esercitar quest’amore, desiderando a Dio questo bene esteriore. Considerando dunque l’anima nell’orazione, quanto Dio è degno d’esser amato e servito dalle creature, abbiamo da starcene desiderando, che tutte le anime create e da crearsi lo conoscano, l’amino, lo lodino e lo glorifichino in tutte le cose. O Signore, chi potesse convertire quanti infedeli e peccatori sono nel mondo, e far che nessuno vi offendesse, e che tutti vi ubbidissero, e s’impiegassero in vostro servigio adesso e in perpetuo! Sanctificetur nomen tuum (Matt. XI, 9): — Et omnis terra adoret te, et psallat TIbi: Psalmum dicant nomini tuo (Ps. LXV, 4). E qui possiamo starcene pensando a mille maniere di servigi e di ossequi che le creature potrebbero rendere a Dio, e starli desiderando. Di qui ha da discendere ognuno a desiderare e procurare di fare la volontà di Dio E quello che è sua maggior gloria in quel che appartiene a se stesso; procurando di far sempre tutto quello che conoscerà esser la volontà di Dio e maggior gloria sua, ad imitazione di quello che Cristo nostro Redentore disse di sé: Quia ego, quæ placita sunt ei, facio semper (Giov. VIII, 29): Io fo sempre quel che piace al mio Padre. Perché, come dice l’Evangelista S. Giovanni, Qui dicit se nosse Deum, et mandata ejus non custodit, mendax est, ei in hoc veritas non est (1 Giov. II, 4): Chi dice, che conosce e ama Dio, e non fa la volontà sua né osserva i suoi comandamenti, non dice la verità, mente: (ib. 5): Ma chi gli osserva e fa la volontà di Dio, ha perfetta carità e amore del medesimo Dio. Di maniera che per amar Dio e per aver intera conformità alla divina volontà sua, non basta che l’uomo si compiaccia dei beni di Dio, e desideri che tutte le altre creature l’amino e lo glorifichino; ma bisogna ancora, che l’istesso uomo si offerisca e si dedichi tutto all’adempimento della volontà di Dio: perché, come può uno dire con verità che desidera la maggior gloria di Dio, se in quello che egli può e che sta in sua mano non la procura? E questo è quell’amore che l’anima esercita quando nell’orazione sta formando proponimenti e desideri veri d’adempire la volontà di Dio in questa e in quell’altra cosa, e in quante altre ne occorreranno; che questo è l’esercizio nel quale ordinariamente siam soliti d’esercitarci nell’orazione. – Con questo abbiamo aperto un gran campo per poterci, mentre facciamo orazione, trattenere molto tempo in quest’esercizio; e abbiamo dichiarata l’utilità e la perfezione grande che vi è in esso. Altro non resta, se non che mettiamo le mani all’opra e che cominciamo a provarci qui in terra in quelle cose nelle quali ci avremo da esercitar poi eternamente e con tanto vantaggio ed eccellenza nel cielo: Cujus ignis est in Sion, et caminus ejus in Jerusalem (Isa. XXXI, 9): Di qua si ha da cominciar ad accendere in noi questo fuoco dell’amor di Dio; ma le vampe più accese, l’altezza e la perfezione di esso, saranno in quella celeste Gerusalemme, che è la gloria eterna.

FINE DEL TRATTATO VIII

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (14)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (14)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù c ristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXXI.

Della conformità alla volontà di Dio che abbiamo d’avere circa i beni della gloria.

Non solamente dobbiamo conformarci alla volontà di Dio circa i beni di grazia, ma anche circa i beni di gloria. Il vero Servo di Dio ha da essere tanto alieno dal suo interesse, ancora in queste cose, che si deve rallegrar più, che si faccia e adempisca la volontà di Dio, di quello che si potesse mai rallegrare per qualunque suo altro maggiore vantaggio. Questa è una molto gran perfezione, al dir di quel Santo (Thomas a Kemp. lib. 3, c. 25, a. 4), il rassegnarsi alla divina volontà, senza cercare il proprio interesse né nel poco, né nel molto, né nella vita temporale, né nell’eterna: e la ragione si è, perché, come egli aggiunge in un altro luogo, La tua volontà, o Signore, e l’amor del tuo onore dev’essere anteposto ad ogni cosa; e questo a chi ti ama dev’esser di maggior consolazione e piacere, che quanti benefizi egli abbia ricevuti, o possa ricevere. Questa è la contentezza e l’allegrezza de’ Beati. Più si rallegrano i Santi in cielo dell’adempimento della volontà di Dio, che della grandezza della gloria loro (Tract. 3. C. 14). Stanno tanto trasformati in Dio e tanto uniti alla sua volontà, che la gloria che hanno e la buona sorte che è toccata loro non la vogliono tanto per l’utilità che ad essi ne proviene e per la contentezza che ne ricevono, quanto perché Dio così gusta e perché quella è la sua divina volontà. E quindi è, che ciascuno sta tanto contento ed allegro con quel grado di gloria che ha, che non desidera di vantaggio, né gli rincresce che l’altro abbia di più; poiché dal vedere uno Dio, resta talmente in Lui trasformato, che lascia di più nulla volere colla privata sua volontà, e comincia a volere colla volontà sola di Dio: e siccome vede, che quello è il gusto e il beneplacito di Dio, così quello stesso è anche il gusto e beneplacito suo. Questa perfezione veggiamo che risplendeva in que’ gran santi, un Mosè ed un S. Paolo, che per la salute delle anime e per la maggior gloria di Dio pare che si dimenticassero e non facessero conto alcuno della propria lor gloria: Aut dimitte eis hanc noxam; aut si non facis, dele me de libro tuo, quem scripsisti (Exod. XXXII, 31, 32), diceva Mosè a Dio: Signore, o perdona al popolo, o scancellami dal tuo libro: e S. Paolo (Ad. Rom. IX,3): Optabam ego ipse anathema esse a Christo prò fratribus meis. Dal quale impararono poi un S. Martino (S. Mart. in ejus Vita et Eccl. In Off.) e altri Santi che protestavansi con Dio: Si adhuc sum necessarius populo tuo, non recuso laborem. Posponevano il loro riposo, e contentavansi di buona voglia, che venisse loro differita quella gloria ch’era già vicina, e s’offerivano di nuovo alla fatica pel maggior servigio e gloria di Dio. Questo è fare la volontà di Dio qui in terra come si fa in cielo; che dimenticati d’ogni nostro interesse, mettiamo ogni nostro gusto nello adempimento della volontà di Dio; e che stimiamo e facciamo più conto del gusto di Dio, che di ogni nostra utilità e del posseder i cieli e la terra. – Da questo potrà ben vedersi la perfezione che ricerca quest’esercizio della conformità alla volontà di Dio. Se dall’interesse de’ beni spirituali, e ancora de’ beni eterni, e dell’istessa gloria, abbiamo da distorgli occhi per metterli nel gusto e nella volontà di Dio; che cosa s’avrà poi da fare circa gl’interessi e i beni temporali ed umani? Dal che s’intenderà ancora quanto è lontano da questa perfezione colui che ha difficoltà nel conformarsi alla volontà di Dio in quelle cose che dicevamo .da principio; nell’esser io posto in questo, o in quell’altro luogo, in questo, o in quell’altro ufficio; nell’esser sano, o infermo; nell’esser da altri dispregiato, o stimato. Stiamo ora dicendo, che abbiamo da stimar più la volontà e il gusto di Dio, che quante eccellenze possono essere ne’ beni spirituali, e ancora negli eterni; e tu, più che alla volontà di Dio vuoi mirare a queste cose basse e transitorie, le quali rispetto alle altre sopraccennate sono come immondezze. A colui che desidera tanto il gusto di Dio e l’adempimento della volontà di lui, che di buona voglia rinunzia alla propria gloria e si contenta di un luogo più basso in essa, non perché gli manchi desiderio d’affaticarsi e di far opere di gran merito, ma solamente per voler più tosto il gusto e beneplacito di Dio, riusciranno molto facili tutte quest’altre cose: poiché rinunzia quella cosa somma che può rinunziare per amor di Dio. Questo è il più che uno possa cedere per conformarsi alla volontà di Dio: se Dio vuole ch’io muoia subito e abbia manco gloria, più tosto voglio questo, che morir di qua a venti o trent’anni, ancorché allora io avessi da avere molto maggior gloria: e per lo contrario ancorch’io avessi certezza della gloria morendo adesso, se Dio vuole ch’io stia in questo carcere e in questo esilio molti anni, patendo e travagliando, più tosto voglio questo, che andar subito alla gloria: perché il gusto di Dio e l’adempimento della volontà sua è il gusto mio e la mia gloria. Tu es Gloria mea, et exaltans caput meum (Psal. III, 4). Si racconta del nostro S. P. Ignazio un esempio ben raro a questo proposito (Lib. 5, cap. 2 Vitæ S. Ignat.). Stando egli un giorno col padre maestro Lainez e con altri, domandò in certo proposito: Ditemi un poco, maestro Lainez, che cosa vi pare che fareste se Dio Signor nostro vi proponesse questo partito, e dicesse: Se tu vuoi morir subito, io ti caverò dalla prigione di questo corpo e ti darò la gloria eterna; ma se vuoi ancora vivere, non ti assicuro di quello che sarà di te: resterai alla tua ventura: se vivrai e persevererai nelle virtù, io ti darò il premio; se mancherai e lascerai di far bene, come io ti troverò, così ti giudicherò. Se il Signore dicesse questo, e voi credeste, che restando per qualche tempo in questa vita, poteste far qualche cosa che ridondasse in grande e singolar gloria della Divina Maestà Sua; che cosa eleggereste? che cosa rispondereste? Il padre Lainez rispose: Io, Padre, confesso a Vostra Reverenza, che eleggerei l’andarmene subito a goder Dio e l’assicurar la mia salute con liberarmi da tutti i pericoli in cosa che importa tanto. Allora il nostro S. Padre disse : Io certamente non farei così: ma se giudicassi, che restando in questa vita potessi far qualche cosa di gran servigio e gloria del Signore, lo supplicherei che mi lasciasse in vita sin a tanto che l’avessi fatta; e metterei gli occhi in essa, e non in me, senza aver riguardo al mio pericolo, o alla mia sicurezza. Né pareva a lui che con tal elezione se ne potesse restar in forse la sua salute, anzi che sarebbe quindi stata questa per lui e più certa e più vantaggiosa, per essersi egli fidato di Dio per quel tempo di più che eletto si fosse di stare in questo mondo per interesse della sua gloria. Perciocché qual è quel Re, o Principe nel mondo, il quale offrendo qualche gran grazia ad alcuno de’ suoi servitori, e non volendo quegli accettar di goderla subito, per potergli far prima qualche notabil servigio, non si tenesse obbligato a mantenere, anzi di più ad aumentare quella grazia ad un tal servitore; poiché egli se ne privò per amor suo e per poterlo meglio servire? Ora se questo fanno gli uomini, i quali sogliono essere sconoscenti e ingrati; che cosa abbiamo da sperar noi dal Signore che talmente ci previene colla sua grazia e ci fa tanti favori? come potremmo mai temere che ci abbandonasse e ci lasciasse cadere, per aver noi differita la nostra beatitudine ed aver rinunziato di godere più presto lui per amore di lui? Non si può credere né temere tal cosa da un tal Signore.

CAPO XXXII.

Della conformità, unione ed amor perfetto con Dio: e come in questo abbiamo da esercitarci.

Per poter meglio vedere la perfezione ed eccellenza grande che rinchiude in sè questo esercizio della conformità alla volontà di Dio, e per poter sapere sin dove possiamo arrivare con esso, per conclusione di questo Trattato diremo qualche cosa dell’esercizio più alto che mettono i Santi e i Maestri della vita spirituale, dell’amor di Dio, il quale par che venga qui a proposito: perché uno de’ principali effetti dell’amore, come dice S. Dionigio Areopagita (D. Dionys. c. 4 de Div. Nom.), è fare, che le volontà degli amanti siano una soia,  cioè a dire, che abbiano un istesso volere

e un istesso non volere: e così quanto uno sarà più unito e più conforme alla volontà di Dio, avrà tanto maggiore amor di Dio; e quanto maggiore amor di Dio avrà, e quanto maggiore sarà quest’amore, tanto più sarà egli unito e conforme alla volontà di Dio. Per dichiarar meglio questa cosa bisogna che ascendiamo in cielo colla considerazione, e veggiamo come stanno colà i Beati amando e conformandosi alla volontà di Dio, con avere un’istessa volontà ed un istesso volere con lui; perché quanto più ci avvicineremo a questo, tanto più sarà perfetto il nostro esercizio. Il glorioso apostolo ed evangelista S. Giovanni nella sua prima Epistola Canonica dice , che la vista di Dio fa i Beati simili a lui: Quoniam cum apparuerit, similes ei erimus, quoniam videbimus eum sicuti est (I. Jo. III, 2.): perocché subito che veggono Dio, restano di tal maniera uniti e trasformati in Dio, che hanno una medesima volontà e un medesimo volere con Lui. Or veggiamo un poco qual è il volere e la volontà e l’amor di Dio, acciocché così possiamo vedere qual è il volere e la volontà de’ Beati; e da questo poi possiamo ricorrere qual ha da essere il volere, l’amore e la volontà nostra perfetta. Il volere e la volontà di Dio, e l’amor suo sommo e perfettissimo, è il compiacimento e l’amore della sua medesima gloria e del suo essere sommamente perfetto e glorioso. Ora questo medesimo è il volere, la volontà e l’amor de’ Beati; di maniera che l’amor de’ Santi e Beati e un amore e un volere con cui amano e vogliono con tutte le loro forze che Dio sia quegli che è, e sia in sé tanto buono, tanto glorioso e tanto degno d’onore, quanto è: e come veggono in Dio tutto quello ch’essi desiderano, ne siegue in essi quel frutto dello Spirito santo che dice l’Apostolo, Fructus autem Spiritus est gaudium (Gal, V, 22), che è un gaudio ineffabile di veder quello che tanto amano, così pieno di beni e di tesori in se stesso. Con quel che veggiamo di qua possiamo congetturar qualche cosa di questo divino gaudio che in ciò provano i Beati. Guarda quant’è grande l’allegrezza che prova di qua un buon figliuolo per vedere il suo padre, ch’egli grandemente ama, onorato e ben voluto da tutti, savio, ricco, potente e molto stimato e amato dal Re. Veramente vi sono figliuoli tanto buoni che diranno, che non v’è cosa alla quale si possa paragonare 1’allegrezza che sentono al vedere il proprio padre in tanta stima. Ora se quest’allegrezza è tanto grande di qua ove l’amore è tanto debole e i beni tanto bassi e limitati; qual sarà l’allegrezza de’ Santi, veggendo il lor vero Signore, Creatore e Padre celeste, in cui sono tanto trasformati per amore, veggendolo, dico, tanto buono, tanto santo, tanto pieno di bellezza, e in tal modo infinitamente potente, che dal suo solo volere ogni cosa creata ha essere e bellezza, e senza di esso non si può muover una fronda nell’albero? E così S. Paolo dice, che questo è un gaudio tanto grande, che né occhio l’ha mai veduto né orecchio udito, né può cadere in cuore umano (I. ad Cor. II, 9). Questo è quel fiume fecondante che vide S. Giovanni nell’Apocalisse (c. XXII, 1 – Ps. XLV, 5) uscir dalla Sedia di Dio e dall’Agnello, che rallegra la Città di Dio, del quale bevono i Beati in cielo, e inebbriati di quest’amore cantano quel perpetuo Alleluja che dice ivi S. Giovanni, glorificando e benedicendo Dio: Alleluja, quoniam regnavit Dominus Deus noster omnipotens. Gaudeamus, et exultemus, et demus glorìam ei (Apoc. XIX, 6 et 7). Stanno rallegrandosi e facendo festa della grandezza della gloria di Dio, e congratulandosene seco con gran giubilo e gaudio.- Benedictio, et claritas, et sapientia, et gratiarum actio, honor, et virtus, et fortitudo Deo nostro, in sæcula sæculorum, Amen (Ibid. VII, 12).Questo è l’amor de1 Santi verso Dio nel cielo e l’unione e conformità che hanno alla sua divina volontà, parlando secondo la piccolezza del nostro intelletto. Questo dunque è quello che noi altri dobbiamo procurare d’imitare di qua in quel modo che ci può esser possibile, acciocché si faccia la volontà di Dio in terra come si fa in cielo. Inspice, et fac secundum exemplarquod tibi in monte monstratum est, disseDio a Mosè quando gli comandò che facesse il Tabernacolo (Exod. XXV, 40): Avverti di far tutte le cose secondo il disegno che t’ho mostrato nel monte. Così noi altri abbiamo da far qui ogni cosa ad imitazione di quel tanto che si fa colà in quel sovrano monte della gloria; e così abbiamo da star amando e volendo quel che stanno amando e volendo i Beati nel cielo, e quel che sta amando e volendo l’istesso Dio, che è l’istessa sua gloria e il suo essere sommamente perfetto e glorioso. Acciocché meglio possa ognuno far questo, metteremo qui brevemente la pratica di quest’esercizio (M. Avil. Tom. 1, epist.; P. Franciscus Anas p. 2 profectus spirit. Tract. 5, c. 3, 4; P. Luduv. de Puente tom. 2 suarum medìt. p. e.). Quando stai nell’orazione considera coll’intelletto l’essere infinito di Dio, la sua eternità, la sua onnipotenza, l’infinita sua sapienza, bellezza, gloria e beatitudine; e colla volontà statti rallegrando, godendo, compiacendo e gustando che Dio sia quel che Egli è; che sia Dio; che da se stesso abbia l’essere e il bene infinito che ha; che non abbia bisogno di nessuno e tutti abbiano necessità di Lui; che sia onnipotente, e tanto buono, tanto santo, e tanto pieno di gloria, quanto Egli è in se stesso: e così dicasi di tutte le altre perfezioni e de’ beni infiniti che sono in Dio. Questo dicono S. Tommaso (D. Thom. 2 2, q. 28, art. 5 ad a et art. 2) e i Teologi che è il maggiore e più perfetto atto d’amor di Dio ; e così ancora è il più alto e più eccellente esercizio di conformità alla volontà di Dio. Perciocché non vi è maggiore né più perfetto amor di Dio che quello che l’istesso Dio porta a se stesso, che è della medesima sua gloria e del suo essere sommamente perfetto e glorioso: né vi può esser volontà migliore di questa. Dunque tanto migliore e più perfetto sarà l’amor nostro, quanto più s’assomiglierà a questo amore col quale Dio ama se stesso; e tanto maggiore e più perfetta sarà la nostra unione e conformità alla divina volontà sua. Di più dicono colà i Filosofi, che amar uno è volergli e desiderargli bene: Amare est velle alicui bonum (Arist. Reth. lib. 2, c. 4). Dal che viene in conseguenza, che quanto maggior bene desideriamo ad uno, tanto maggiormente lo amiamo. Ora il maggior bene che possiamo volere e desiderare a Dio, è quello ch’Egli ha, cioè il suo infinito Essere, la sua Bontà, Sapienza, Onnipotenza e Gloria infinita. Quando amiamo qualche creatura, non solo ci compiacciamo del bene che già ella ha, ma possiamo inoltre desiderarle qualche bene che ancora non ha; perché ogni creatura è sempre capace di maggior bene e di crescere in esso; ma a Dio non possiamo desiderargli in se medesimo bene alcuno ch’Egli non abbia, perché è totalmente infinito; onde non può aver in sé maggior potenza, né maggior gloria, né maggior sapienza, né maggior bontà di quella che ha. E così il rallegrarci, il gioire, il compiacerci, il gustare, che Dio abbia questi beni che ha, e che sia tanto buono quanto Egli è, tanto ricco, tanto potente, tanto infinito e tanto glorioso, è il maggior bene che gli possiamo volere, e conseguentemente il maggior amore che gli possiamo portare. Di maniera che siccome i Santi che stanno in cielo, e l’Umanità santissima di Cristo nostro Redentore, e la gloriosissima Vergine Signora nostra, e tutti i Cori degli Angeli si stanno rallegrando di vedere Dio tanto bello e tanto ricolmo di beni, ed è tanto grande l’allegrezza e il giubilo che in ciò provano, che non si soddisfano se non con prorompere nelle lodi di questo Signore, e non si saziano di starlo lodando e benedicendo eternamente, come dice il Profeta: Beati, qui habitant in domo tua, Domine: in sæcula sæculorum laudabunt te (Ps. LXXXIII, 5): così noi abbiamo da unir i nostri cuori e da elevare le nostre voci colle loro, come ce l’insegna la Chiesa nostra Madre: Cum quibus, et nostras voces, ut admitti jubeas, deprecamur, supplici confessione dicentes: Sanctus, Sanctus, Sanctus, Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt cœli et terra gloria tua (Eccl. in Præfat. Miss.). Sempre, o quanto più spesso potremo, abbiamo da stare lodando e glorificando Dio, rallegrandoci e gioendo del bene, della gloria e del dominio che Egli ha, dandogliene il buon prò, e congratulandocene seco; e in questa maniera ci rassomiglieremo di qua, nel modo a noi possibile, ai Beati e all’istesso Dio; e avremo il più alto amore e la più perfetta conformità alla volontà di Dio che possiamo avere.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (15)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (13)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (13)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXIX.

Si conferma quel che si è detto con alcuni esempi.

Nelle Cronache dell’Ordine di S. Domenico si racconta (Fr. Hernandus de Castil. 1 p., lib. 1, c. 60 Histor, Ordio. Praedicat.), che un Padre de’ primi dell’Ordine dopo essere stato nella Religione alcuni anni con grand’esempio di vita e con gran purità d’anima, non sentiva alcuna sorta di consolazione né di gusto negli esercizi della Religione, né meditando, né orando, né contemplando, né leggendo: e come sempre sentiva dire del favore che Dio faceva agli altri, e de’ sentimenti spirituali che quegli avevano, stava mezzo disperato; e come tale una notte, nell’orazione dinanzi ad un Crocefisso si pose a dire piangendo amaramente questi spropositi: Signore, io ho sempre creduto, che in bontà e in mansuetudine superi tutte le tue creature. Eccomi qui, che ti ho servito molti anni, e ho sopportate in grazia tua molte tribolazioni, e di buona voglia mi son sacrificato a te solo; e se la quarta parte del tempo che ho impiegato in servizio tuo l’avessi impiegata in servire un qualche tiranno, m’avrebbe egli mostrato oramai qualche segno di benevolenza, almeno con una buona parola, o con una buona ciera, o con un riso, e tu, Signore, non mi hai fatto carezza alcuna, né da te ho ricevuto pur il minor favore di quanti sii solito di fare agli altri; ed essendo tu l’istessa dolcezza, sei verso di me più duro che cento tiranni. Che cosa è questa, Signore? Perché vuoi che la cosa passi così? Stando egli in questo sentì subitamente un fracasso così grande, come se tutta la chiesa se ne fosse venuta in terra; e sopra di essa sentiva un sì formidabil rumore, come se migliaia di cani fossero stati facendo in pezzi il solaro e scompaginando i travi; del che spaventato, e tremando di paura, voltato il capo per veder quel che potesse essere, si vide alle spalle la più brutta e orribil visione del mondo, di un demonio che con una verga di ferro che tenea in mano gli diede si gran percossa nel corpo, che cadutone per terra non potè più alzarsi; gli bastò però l’animo d’andarsi strascinando sino ad un altare che era ivi vicino; senza potersi maneggiare per lo dolore, come se a furia di percosse gli avessero scongiunte le ossa. Quando i Frati si levarono per dir Prima, e lo trovarono come morto, senza saper la cagione di cosi subitaneo e mortai accidente, lo portarono all’infermeria, nella quale per tre settimane intere che vi stette con dolori grandissimi mandava fuori tanto grande e tanto fetente e stomachevole puzza, che in nessun modo potevano i Religiosi entrare a governarlo e servirlo, se non turandosi prima il naso e premunendosi con molti altri rimedi. Passato questo tempo riprese qualche poco di forze, e giunto a potersi tenere in piedi, volle risanarsi della sua pazza presunzione e superbia: e ritornato al luogo ove aveva commessa la colpa, cercò in quello il rimedio di essa, facendo con molte lagrime ed umiltà la sua orazione ben differente dalla passata. Confessava la sua colpa, si riconosceva indegno di bene alcuno, e molto meritevole di pena e di castigo. E il Signore lo consolò con una voce del cielo che gli disse: Se vuoi consolazioni e gusti, ti conviene esser umile, riconoscer la tua viltà, e persuaderti d’esser più vile che il fango, e meno stimabile che i vermi che calpesti co’ piedi. – E con questo rimase tanto avvertito ed instrutto, che per l’avvenire fu un perfettissimo Religioso. – Del nostro S. P. Ignazio leggiamo un altro esempio assai differente. Si narra nella Vita di lui (Lib. 5, c. 1 Vita F. N. S. Ignat.), che considerando i suoi mancamenti, e piangendoli, diceva di desiderare, che per castigo di essi il Signore gli togliesse a volta a volta il favore della sua consolazione, acciocché egli come riscosso da questa tirata di briglia imparasse a procedere con maggior sollecitudine e cautela nel suo servigio: ma che era tanto grande la misericordia di Dio e la moltitudine della soavità e dolcezza della sua grazia verso di lui, che quanto più egli mancava e più desiderava d’essere in tal maniera castigato, tanto era il Signore più benigno e con tanto maggior abbondanza spargeva sopra di lui i tesori della sua infinita liberalità. Onde diceva, che credeva non vi fosse uomo nel mondo in cui in ugual grado concorressero queste due cose come in lui, cioè mancar tanto con Dio, e ricever tante e così continue grazie da Dio. – Il Blosio racconta (Blos. c. 10 mon spir.) di un Servo di Dio, che il Signore gli faceva singolari favori, dandogli grandi illustrazioni e comunicandogli cose meravigliose nell’orazione: ed egli colla sua grande umiltà e desiderio di piacer più a Dio gli domandò, che quando così gli fosse più piaciuto gli avesse tolta quella grazia. Esaudì Dio la sua orazione, e gliela tolse per lo spazio di cinque anni, lasciandogli patir in essi molte tentazioni, aridità ed angustie: e mentre egli una volta stava piangendo amaramente, gli apparvero due Angeli per volerlo consolare, a’ quali rispose: Io non domando consolazione, perché mi basta per consolarmi, che s’adempisca in me la volontà di Dio. – Il medesimo Blosio narra (Idem ibid. c. 4), che Cristo nostro Redentore disse un dì a santa Brigida: Figliuola, che cosa è quella che ti turba e ti mette in fastidio? e ch’essa gli rispose: L’esser afflitta da pensieri vani, inutili e cattivi, e il non poterli scacciar via; e m’angustia grandemente il tuo spaventevole giudicio: e che allora il Signore le disse: Questa è convenevol giustizia; che siccome tempo fa ti dilettavi delle vanità del mondo contra la volontà mia; così ora ti siano molesti e penosi vari e perversi pensieri che ti vengono contra la tua. Hai però da temere il mio giudicio moderatamente e con discrezione, confidando sempre fermamente in me, che sono il tuo Dio: perché devi tenere per cosa certissima, che i cattivi pensieri a’ quali l’uomo resiste, e li ributta, sono purgatorio e corona dell’anima. Se non puoi impedirli, sopportali con pazienza e fa resistenza ad essi colla volontà: e quantunque non dii loro il consentimento, ad ogni modo abbi timore, che non ne nasca in te qualche superbia, e così tu venga a cadere: perché chiunque sta in piedi, è sostenuto solamente dalla mia grazia. – Il Taulero dice così (e l’apporta il Blosio (Taulerus apud Blos, oonsol. pusill.) nella consolazione de’ pusillanimi: Molti quando sono angustiati da qualche tribolazione mi soglion dire: Padre, son maltrattato; le cose non vanno bene per me, perché sono angustiato da diverse tribolazioni e da malinconia; e io rispondo a chi mi dice questo, che anzi le cose vanno bene per lui, e che gli è fatta gran grazia. Allora dicono essi: Signor no; anzi credo, che questo m’avviene per le mie colpe. Al che io replico: Avvenga questo per i tuoi peccati, o no; credi, che questa croce te l’ha data Dio; e ringraziandonelo, sopportala con pazienza e rassegnati tutto in lui. Dicono ancora: Io mi consumo interiormente per la grande aridità e tenebre; e io gli dico: Figliuol caro, sopporta con pazienza, e ti sarà fatta maggior grazia che se avessi molta e gran divozione sensibile. – Si racconta di un gran Servo di Dio che diceva così: Sono quarant’anni ch’io servo il Signore ed attendo all’orazione, e non ho mai avuti in essa gusti né consolazioni; ma in quel giorno che la fo, sento di poi in me gran lena per gli esercizi di virtù; e quando manco in questo, mi sento tanto infiacchito, che non posso alzar le ali per cosa alcuna di buono.

CAPO XXX.

Della conformità alla volontà di Dio che abbiamo d’avere circa la distribuzione delle altre virtù e doni soprannaturali.

Siccome abbiamo da essere conformi alla volontà di Dio, comunque Egli ci tratti nell’orazione; così ancora abbiamo da esser conformi alla medesima, comunque Egli ci tratti in tutte le altre virtù e doni suoi, e in tutte le altre prerogative spirituali. Buonissimo è il desiderio di tutte le virtù, il sospirar per esse, e il procurarle; ma talmente abbiamo da desiderar sempre d’esser migliori e di crescere e camminar avanti nella virtù, che ci diamo pace se non arriveremo a quello che desideriamo, e che ci conformiamo alla volontà di Dio, contentandoci di essa. Se Dio non vuole dare a te una castità angelica, ma vuole che in ciò tu patisca tentazioni gravi, è meglio che tu abbi pazienza e che ti conformi alla volontà di Dio in tale tentazione e travaglio, che non t’inquieti e ti lamenti di non avere quella purità angelica. Se Dio non ti vuol dare così profonda umiltà come ad un S. Francesco, né tanta mansuetudine quanta a Mosè e a Davide, né tanta pazienza quanta a Giob, ma vuole che tu senta movimenti e appetiti contrari; è bene che ti confonda e ti umilii, e che da ciò impari ad aver bassa stima di te; ma non è bene che t’inquieti e che ti vada lamentando e angosciando, per non farti Dio tanto paziente quanto Giob, né tanto umile quanto S. Francesco. Bisogna che ci conformiamo alla volontà di Dio anche in queste cose, perché altrimenti non avremo mai pace. Dice molto bene il padre maestro Avila (M. Avil. c. 23, Audi filia): Io non credo che vi sia stato alcuno tra’ Santi in questo mondo, che non abbia desiderato d’esser migliore di quello ch’era; ma questo non toglieva loro la pace, perché non lo desideravano per propria cupidigia la quale non dice mai basta; ma lo desideravano per amor di Dio, della cui distribuzione si tenevan contenti, ancorché avesse dato lor meno, riputando per contrassegno di vero amore il contentarsi più tosto di quello che Dio dava loro, che il desiderare d’aver molto, con tutto che l’amor proprio faccia dire, che ciò si desidera per servir maggiormente a Dio. Ma mi dirà alcuno, che par che questa sia un volerci dire, che non dobbiamo dunque riscaldarci tanto nel desiderare d’essere più virtuosi e migliori; ma che abbiamo da lasciar fare ogni cosa a Dio, sì quanto all’anima, come quanto al corpo: e così pare che questo sia un darci ansa di diventar tiepidi e lenti, e di non curarci niente di crescere e di camminar avanti. Notisi molto bene questo punto, perché è di grande importanza. È tanto buona questa replica e obbiezione, che questo solo è da temersi in questa materia. Non vi è dottrina quanto si voglia buona della quale non possa uno servirsi male, se non sa applicarla e usarla come si conviene: e così sarà di questa, tanto in quel che riguarda alle orazioni, quanto in quel che riguarda alle altre virtù e doni spirituali; per lo che sarà necessario, che la dichiariamo e l’intendiamo bene. Io non dico, che non abbiamo da desiderare d’esser ogni giorno più santi, e da procurar d’imitare sempre i migliori, e da esser in ciò diligenti e ferventi; che per questo siamo venuti alla Religione; e se non faremo questo, non saremo buoni Religiosi: ma dico, che in ciò abbiamo a procedere a proporzione, come nelle cose esteriori e che appartengono al corpo. In queste, come dicono i Santi, gli uomini hanno bensì ad essere diligenti, ma non ansiosi né soverchiamente solleciti; che questo, dicono essi, viene proibito da Cristo nostro Redentore con quelle parole registrate nell’Evangelio: Dico vobis: Ne solliciti sitis animæ vestræ, quid manducetis, neque corpori vestro, quid induamini (Matth. VI, 25); colle quali parole riprende la soverchia sollecitudine, l’ansia e l’affetto smoderato per queste cose; ma la cura competente e le diligenze necessarie nel procacciarle, non le proibisce né le condanna; anzi ce le comanda e ce le diede per penitenza, laddove disse al nostro primo Padre: In sudore vultus tui vesceris pane (2; Gen. III, 19): Bisogna che gli uominimettano la loro fatica e diligenza nel procurarsida mangiare; il far altrimenti sarebbe un tentar Dio. Ora allo stesso modo si ha da procedere nelle cose spirituali enel procurar le virtù ed i doni di Dio. Bisogna che siamo molto diligenti e solleciti in questo; ma non in maniera tale, che ci tolga la pace e la conformità alla volontà di Dio. Fa tu quello che puoi dal canto tuo: ma se con tutto ciò vedi che non giungi a conseguire tutto quello che vorresti, non hai per questo da lasciarti precipitare in una impazienza la quale sia maggior male che non è il mancamento di quella cosa di cui ti lagni: ed hai a far questo con tutto che ti paia che il mancamento di una tal cosa in te provenga dalla tua tiepidezza; che è quello che suol attristar molti. Procura tu di far moralmente le tue diligenze: e se non le farai tutte, e cadrai in qualche mancamento, non ti spaventare per questo, né ti perdere d’animo, che poco più, poco meno, così accade a tutti. Sei uomo, e non angelo; debole, e non santificato né confermato in grazia. Iddio conosce assai bene la nostra debolezza e miseria: Quoniam ipse cognovit figmentum nostrum (Psal. CII, 13); e non vuole che ci disperiamo per questo, perché ci veggiamo cadere in qualche difetto, ma che ci pentiamo subito ed umiliamo, e che subito ci leviamo su e domandiamo a Lui forza maggiore, procurando di mantenerci in quiete interiormente ed esteriormente (2 p., tract. 6, c. 3 per tot 2); che meglio è, che ti alzi su presto e con allegrezza la quale raddoppia le forze per servir Dio, che sul pretesto di andare piangendo i tuoi mancamenti nel servigio di Dio, venga così a dispiacere più a Lui, col servirlo male col cuore, con replicare altre cadute, e con altri tristi effetti che da ciò sogliono nascere. – Solamente è da temersi qui il pericolo che abbiamo di sopra accennato (Vide supra cap. 24 et seq.), che subentri in noi la tiepidezza, e che lasciamo di far quello che è dal canto nostro, sotto colore di dire: Dio me l’ha da dare; ogni cosa ha da venire dalla mano di Dio; io non posso più che tanto. E dall’istesso pericolo abbiamo da guardarci in quel che dicevamo dell’orazione, che né anche qui subentri la pigrizia sotto lo stesso colore: ma serrata questa porticella, e facendo tu moralmente quanto è dal canto tuo, piace più a Dio la pazienza e l’umiltà nelle debolezze, che coteste angustie e tristezze soverchie che hanno alcuni, per parer loro che non crescano tanto in virtù e perfezione, o che non si possano introdurre tanto nell’orazione, quanto essi vorrebbero. Perché questo dono dell’orazione e della perfezione non s’acquista per mezzo di tristezze, né col fare, come suol dirsi, a’ pugni; ma Dio lo dà a chi Egli vuole, come vuole e quando vuole; ed è cosa certa, che non hanno da essere tutti uguali quelli che hanno d’andare in cielo. Né abbiamo da disperarci noi altri, perché non siamo de’ migliori, né forse de’ mediocri; ma ci dobbiamo conformare alla volontà di Dio in ogni cosa, e ringraziare il Signore della speranza dataci d’averci a salvare per misericordia sua: e se non arriveremo ad essere senza mancamenti, ringraziamo Dio dell’averci Egli data la cognizione de’ mancamenti nostri; e giacché non andiamo in cielo per mezzo dell’altezza delle virtù, come ci vanno alcuni, contentiamoci d’andarvi per mezzo della cognizione e della penitenza de’ nostri peccati, come ci vanno molti altri. Dice S. Girolamo (D. Hier. in prologo Calcato): Offeriscano altri nel tempio del Signore, ciascuno secondo la possibilità sua, chi oro, chi argento e pietre preziose, chi sete, chi porpore e chi broccati; a me basta l’offerire nel tempio peli di capre e peli d’animali. Offeriscano dunque gli altri a Dio le loro virtù e opere eroiche ed eccellenti, e le loro alte ed elevate contemplazioni; che a me basta offerirgli la mia viltà, conoscendomi e confessandomi peccatore, imperfetto e cattivo, e presentandomi nel cospetto della Maestà sua come povero e bisognoso: e ci torna conto rallegrare in questo il nostro cuore, e renderlo gradito a Dio; acciocché non ci levi inoltre, come ad ingrati, quello che ci ha dato. S. Bonaventura, Gersone e altri (D. Bonav. op. de prof. Relig. lib l, c. 33; Gers. tract. De monte contempl.; Fr..barth.de Mart. Archiep. Brachar. in suo comp. p. 2, c. 15), aggiungono qui un punto col quale si conferma bene quel che s’è detto, e dicono, che molte persone servono più a Dio col non avere la virtù e il raccoglimento, e col desiderarli, che se gli avessero: perché con questo vivono in umiltà, e vanno con sollecitudine e diligenza procurando di camminar avanti e di giungere al termine sospirato, e perciò ricorrono spesso a Dio; e con quell’altro forse s’insuperbirebbero, e si trascurerebbero, e sarebbero tiepidi nel servizio di Dio, per parer loro d’aver già quello che faceva loro di bisogno, e non si animerebbero ad affaticarsi per conseguire qualche cosa di più. Questo ho detto acciocché facciamo noi altri moralmente quanto è dal canto nostro, e andiamo con diligenza e sollecitudine procurando la perfezione; e allora ci contentiamo di quello che dal Signore ci sarà dato, e non istiamo attristati e angosciati per quel che non possiamo conseguire, né sta in man nostra: perché questo, come dice molto bene il P. M. Avila (M. Avila, tom. 2 ep. f. 32), non sarebbe altro che star penando, perché non ci sono date ale da poter volare per l’aria.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (14)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (12)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [12]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXVII.

D’altre ragioni che vi sono per consolarci e per conformarci alla volontà di Dio nelle aridità, tristezze e abbandonamenti nell’orazione.

Ancorché sia bene il pensare noi altri, che un tal travaglio ci viene per le nostre colpe, acciocché, così facendo, andiamo sempre più confondendoci e umiliandoci; nondimeno è ancor necessario, che sappiamo, che non tutte le volte è castigo delle nostre colpe, ma disposizione e provvidenza altissima del Signore, il quale distribuisce i suoi doni come gli piace, e non conviene, che tutto il corpo sia occhi, né piedi, né mani, né capo, ma che nella sua Chiesa vi siano membri differenti: e così non conviene che sia conceduta a tutti quell’orazione specialissima e sublime della quale dicemmo trattando dell’orazione (Sapra tract. 5, c, 4 et 5):  e questo non è sempre necessario che avvenga per cagione de’ nostri demeriti; perché  ancorché ci siano alcuni che meritino grazie e favori nell’orazione, ciò non ostante potranno presso Dio acquistare merito maggiore con qualche altra cosa; e così sarà maggior grazia di Dio il dar loro quella anzi che questa. Vi sono stati molti Santi grandi i quali non sappiamo che avessero questi segnalati favori di orazione; e se gli ebbero, dissero con S. Paolo, che non si pregiavano né si gloriavano di questo, ma del portar la croce di Cristo: Mihi autem absit gloriavi, nisi in cruce Domini nostri Jesu Christi (Ad Gal. VI, 14). – Il P. M. Avila dice intorno a questo una cosa di molta consolazione, ed è, che Dio lascia alcuni sconsolati per molti anni e alle volte per tutta la vita: e la parte e sorte di questi credo, dice egli, che sia la migliore, se essi hanno fede, per non prendere ciò in mala parte, e pazienza e fortezza per tollerare un sì grande desolamento (M. Avil. tom 2, ep. fol. 22; supra tract 5, c. 20). Se uno si persuadesse affatto, che questa sorte è la migliore per lui, facilmente si conformerebbe alla volontà di Dio. I Santi e maestri della vita spirituale adducono molte ragioni per dichiarare e provare, che per questi tali è migliore e più conveniente questa sorte: ma per ora ne diremo solamente una delle principali, che apportano S. Agostino, S. Girolamo, S. Gregorio, e comunemente tutti quei che trattano di questa materia (D. Aug. lib. de orando Deum, quæ est ep. 121 ; D. Hier. Supra illud Thrén. in: Sed et cum clamavero, et rogavero, exclusit orationem meam; D. Greg. lib. 20 mor. c. 21, 24): ed è che non ècosa da tutti il conservar l’umiltà fra l’altezza della contemplazione: perciocché appena abbiamo buttata una lagrimuccia, che ci pare d’esser già spirituali e uomini d’orazione, e ci vogliamo uguagliare, e forse anche preferire ad altri. Insino l’apostolo S. Paolo pare che avesse bisogno di qualche contrappeso, acciocché queste cose non lo facessero invanire: Et ne magnitudo revelationum exlollat, me; datus est mihi stimulus carnis mece, angelus satanæ, qui me colaphizet (II. ad Cor. XII, 7). Acciocché l’essere stato egli rapito sino al terzo cielo e le grandi rivelazioni che aveva avute non lo facessero insuperbire, permise Iddio, che gli venisse una tentazione la quale l’umiliasse e gli facesse conoscere la sua debolezza: or perciò, benché quella strada paia più alta, quest’altra è più sicura. E così il sapientissimo Dio, il quale ci guida tutti ad un medesimo fine, ch’è Egli stesso, conduce ciascuno per la strada che sa essergli più espediente. Forse che se tu avessi avuta grande introduzione nell’orazione, in cambio di riuscir umile e con gran profitto, saresti riuscito superbo e gonfio; e in quest’altro modo stai sempre umiliato e confuso, riputandoti inferiore a tutti: onde questa è migliore e più sicura strada per te, sebbene non la conosci: Nescitis quid petatis (Matto XX, 22): Non sapete quello che domandate, né quello che desiderate. – S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Si venerit ad me, non videbo eum; si abierit, non intelligam (Greg. lib. 9 Mor. c. 7 in Job ix, 11): Se il Signore verrà a trovarmi, non lo vedrò; e se andrà via e s’allontanerà da me, non l’intenderò, insegna una dottrina molto buona a questo proposito. Restò l’uomo, dic’egli, tanto cieco per lo peccato, che non conosce quando si vada avvicinando a Dio, né quando si vada allontanando da Lui: anzi molte volte quel ch’egli si pensa che sia grazia di Dio e che per quel mezzo si vada avvicinando più a lui, se gli converte in castigo e gli è occasione di più allontanarsene: e molte volte quello che egli si pensa che sia castigo e che Dio si vada allontanando e dimenticandosi di lui, è grazia e motivo, perché non se ne scosti. Perciocché chi sarà quegli che veggendosi in un’orazione e contemplazione molto alta e molto accarezzato e favorito da Dio, non si dia a credere di andarsi avvicinando e accostando più al medesimo Dio? e pur molte volte con questi favori viene uno ad insuperbirsi ed assicurarsi e fidarsi di se stesso’, e il demonio lo fa cadere per quell’istessa via per la quale egli pensava di salire e di avvicinarsi più a Dio. Per lo contrario molte volte vedendosi uno sconsolato, afflitto, e con gravi tentazioni, e molto combattuto da pensieri disonesti, e di bestemmie, e contra la fede, si pensa, che Dio stia adirato seco, e che lo vada abbandonando e ritirandosi da lui, e allora gli è più vicino: perché con questo si umilia più, conosce la debolezza e fragilità sua, sconfida di sé, ricorre a Dio con maggior calore e fortezza, mette in esso ogni sua fiducia, e procura di non separarsi mai da Lui. Di maniera che il meglio non è quello che tu pensi; ma il meglio è la strada per la quale il Signore ti vuol condurre; questa t’hai da persuadere che sia la migliore e quella che a te più conviene. Di più cotesta medesima afflizione e fastidio e dolore che tu senti per parerti che non fai l’orazione così bene come dovresti, può esser un altro motivo di consolazione; perché tutto questo è una particolar grazia e favore del Signore, ed è segno che l’ami: poiché non vi è dolore senza qualche amore: nè può essere in me dispiacere di non servir bene, senza proponimento e volontà di servir bene: e così cotesto dispiacere e dolore nasce da amor di Dio, e da desiderio di servirlo meglio. Se non ti curassi niente di servirlo male, né di far male l’orazione, né di far altre cose mal fatte, sarebbe cattivo segno: ma il sentir dispiacere e dolore del parerti di far questa cosa male, è buon segno. Perciò acquieta il tuo dispiacere e dolore col ben intendere, che in quanto l’aridità precisamente è pena, è anche volontà positiva di Dio; e quindi conformati ad essa con rendergli grazie, che ti lasci concepire questo buon desiderio di dargli maggior gusto nelle tue operazioni, ancorché ti paia, che queste siano molto deboli ed imperfette. Di più quantunque nell’orazione tu non faccia altro che assistere e star ivi presente ai piedi di quella reale e Divina Maestà, servi in ciò assai Dio. Come veggiamo di qua nel secolo, che è maestà grande dei Re e Principi della terra che i Grandi della lor Corte vadano ogni giorno a palazzo, e ivi assistano e colla loro presenza formino ad essi corteggio; Beatus homo, qui audit me, et vigilat ad fores meas quotidie, et observut ad postes ostii mei (Prov. VIII, 34). Alla gloria della maestà di Dio, alla bassezza della nostra condizione, e alla grandezza del negozio che trattiamo, appartiene lo star noi molte volte aspettando e come facendo ala alle porte del suo palazzo celeste: e quando Egli te le aprirà, rendigliene grazie; quando no, umiliati, conoscendo, che non lo meriti: e in questa maniera sempre sarà molto buona e molto utile la tua orazione. Di tutte queste cose e d’altre simili ci dobbiamo valere per conformarci alla volontà di Dio in questa amarezza e in questo abbandonamento spirituale, accettando il tutto con rendimento di grazie, è dicendo: Salve, amaritudo amatissima, omnis gratiæ piena: Io ti saluto, o amarezza amara e amarissima, ma piena di grazie e di beni (Barth, de Mart. Archiep. Brachar. in suo compendio c. 26).

CAPO XXVIII.

Che è grande inganno e grane tentazione il lasciar l’orazione per ritrovarsi l’uomo in essa nel modo che s’è detto.

Da quel che si è detto ne viene in conseguenza che è grand’inganno e grave tentazione quando uno per vedersi in questo stato si risolve di lasciar l’orazione, o non persevera tanto in essa, parendogli di non farci niente, anzi di perderci più tosto il  tempo. Questa è una tentazione colla quale il demonio ha fatto lasciar l’esercizio dell’orazione non solamente a molti secolari, ma ancora a molti Religiosi, e quando non può toglier loro affatto l’orazione, fa che non si diano tanto ad essa, nè vi spendano tanto tempo quanto potrebbero. Cominciano molti a darsi all’orazione, e fin tanto che vi è bonaccia e devozione, la proseguiscono e continuano molto bene; ma giunto il tempo dell’aridità e della distrazione, par loro che quella non sia orazione, ma più tosto nuova colpa; poiché stanno ivi dinanzi a Dio con tanta distrazione e con sì poca riverenza: e così vanno a poco a poco lasciando l’orazione, per parer loro, che faranno maggior servizio a Dio con attendere ad altri esercizi e occupazioni, che collo star ivi in quella maniera. E come il demonio ben s’avvede di questa loro fragilità, così si vale dell’occasione e si sollecita tanto a molestarli con vari pensieri e tentazioni nell’orazione; acciocché tengano per male speso quel tempo; e quindi pian piano fa, che lascino totalmente l’orazione e con essa la virtù, e che anche alle volte passino più oltre a qualche altra cosa di peggio: e così sappiamo, che di qui ha avuto principio la rovina di molti. Est amicus socius mensa?, et non permanebit in die necessitatis, dice il Savio (Eccli. VI, 10). Ilgoder Dio è cosa che non v’è chi non lavoglia; ma il travagliare, l’affaticarsi e ilpatir per Lui, quest’è il segno del vero amore. Quando nell’orazione v’è consolazione e devozione, non è gran cosa che tu perseveri e ti trattenga in essa molte ore; perché può essere, che tu lo faccia per tuo gusto: ed è segno, che lo fai per questo, quando mancandoti la consolazione e la devozione, non perseveri più. Quando Dio manda inquietudini, tristezze, aridità e distrazioni, allora si provano i veri amici e si conoscono i servi fedeli che non cercano l’interesse loro, ma puramente la volontà e il gusto di Dio: e così allora abbiamo da perseverare con umiltà e pazienza, stando ivi tutto il tempo assegnato, ed anche un poco di più, siccome ce lo consiglia il nostro S. Padre (D. Ign. lib. Exerc. spir. annot. 13), per vincer con questo la tentazione, e mostrarci forti e gagliardi contro il demonio. Narra Palladio (2•8) Pallad, in Hist. Lausiac.,), che esercitandosi egli nella considerazione delle cose divine, rinchiuso in una cella, aveva gran tentazione d’aridità e gran molestia di vari pensieri che gli andavano suggerendo, che lasciasse quell’esercizio, perchè gli era inutile. Andò egli a trovare il santissimo Macario Alessandrino, e gli raccontò questa tentazione, dimandandogli consiglio e rimedio. E il Santo gli rispose: Quando cotesti pensieri ti diranno, che te ne vada via, e che non fai niente: Dic ipsis cogitationibus tuis: Propter Christum parietes cellæ istius custodio: Di’ a’ tuoi pensieri, voglio star qui a custodire per amore di Cristo le mura di questa cella: che fu quanto dirgli, che perseverasse nell’orazione, contentandosi di far quella santa azione per amor di Cristo, ancorché non ne cavasse altro frutto che questo. Questa è molto buona risposta, per quando ci venga questa tentazione: perché il fine principale che abbiamo da avere in questo santo esercizio, e l’intenzione colla quale dobbiamo andarvi e occuparci in esso, non ha da essere il nostro gusto, ma il far un’azione buona e santa colla quale piacciamo a Dio, e diamo gusto a Lui, e soddisfacciamo e paghiamo qualche particella del molto di cui gli siamo debitori, per essere quegli ch’Egli è, per gl’innumerabili beneficii che dalle sue mani abbiamo ricevuti; e poiché Egli vuole e si compiace, ch’io stia adesso qui, con tutto che mi paia di non far cosa alcuna, mi contento di questo. – Si narra di S. Caterina da Siena, che per molti giorni fu priva delle consolazioni spirituali, e che non sentiva il solito fervore di divozione, e che di più era molto molestata da pensieri cattivi, brutti e disonesti, i quali non poteva scacciar da sè; ma che non lasciava per questo la sua orazione; anzi al meglio che poteva perseverava in essa con gran diligenza, e parlava seco stessa in questa maniera: Tu vilissima peccatrice non meriti consolazione alcuna. Come? Non ti contenteresti tu, per non essere condannata in eterno, di avere per tutta la tua vita a patire queste tenebre e tormenti? È cosa certa, che tu non ti eleggesti di servir Dio per ricever da Lui consolazioni in questa vita, ma per goderlo in cielo per tutta l’eternità. Alzati dunque su, e proseguisi i tuoi esercizi, perseverando nell’esser fedele al tuo Signore (Blos. c. 4, mon. spir.). Imitiamo dunque questi esempi e restiamocene colle parole di quel Santo: Questa sia, o Signore, la tua consolazione, il voler di buon grado rimaner privo d’ogni umana consolazione; e se mi mancherà la tua consolazione, servami di somma consolazione e conforto la tua volontà, e quella prova che ben giustamente vuoi Tu fare di me (Thom a Kempis lib. 3, c. 16, n.  2). Se arriveremo a questo, che la volontà e il gusto di Dio sia ogni nostro gusto, di tal maniera che l’istessa privazione d’ogni nostra consolazione sia gusto nostro, per essere volontà e gusto di Dio; allora sarà vero il nostro gusto, e tale, che nessuna cosa ce lo potrà torre.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (11)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [11]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXV.

Si soddisfa al lamento di coloro che sentono aridità e tristezza nell’orazione.

Primieramente io non dico, che quando Dio visita alcuno, egli non se ne abbia a rallegrare; perché è cosa chiara, che non si può a meno di non sentir allegrezza alla presenza della cosa amata: nè dico, che non abbia a sentir dispiacere della sua assenza quando Egli il castiga con aridità e con tentazioni; che ben veggo io, che non è possibile non sentir di ciò dispiacere: e Cristo medesimo Egli pure sentì l’abbandonamento del suo Padre eterno, quando stando pendente dalla croce disse: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me (Ps. XXI – Matt, XVII, 43. )? Dio mio, Dio mio, perché m’hai abbandonato? Ma quel che si desidera è che sappiamo cavar frutto da questo travaglio e da questa prova colla quale suole il Signore molte volte provare i suoi eletti, e che ci rivolgiamo con fortezza di spirito a conformarci alla volontà di Dio, dicendo: Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu (Ibid. XXVI, 39): Non si faccia, Signore, quello che io voglio, ma quello che volete voi; specialmente non consistendo la santità e la perfezione nelle consolazioni e nel far alta ed elevata orazione, né misurandosi con questo il nostro profitto e la nostra perfezione; ma col vero amor di Dio, il quale non consiste in queste cose, ma in una vera unione e intera conformità alla volontà di Dio sì nelle cose amare come nelle dolci; sì nelle avverse come nelle prospere. Sicché abbiamo da pigliar ugualmente dalla mano di Dio la croce e l’abbandonamento spirituale, il favore e la consolazione, ringraziandolo tanto dell’uno, quanto dell’altro. Se volete, o Signore, diceva quel santo Uomo, che io stia in tenebre; siate benedetto: e se volete, che io stia in luce; siate parimente benedetto. Se mi volete consolare, siate benedetto: e se mi volete tribolare, siate ugualmente sempre benedetto (Thomas a Kempis lib. 3, c. 17, n. 2): e così ci consiglia l’apostolo san Paolo che diciamo noi ancora e facciamo :In omnibus  gratias agite; hæc est enim voluntas Dei in Christo Jesu, in omnibus vobis (I. ad Thess. V, 18): In tutte le cose che vi avverranno, rendete grazie a Dio, perché questa è la volontà sua. Se dunque questa è la volontà di Dio, che altro abbiamo noi da desiderare? Se egli vuole indirizzar la mia vita per questo sentiero tenebroso ed oscuro, io non ho da sospirare per alcun altro che sia più luminoso ed agiato. Dio vuole, che colui vada per una strada per cui non gli manchi né luce né gusti; e che io vada per questo deserto arido e secco, senza provarvi una minima consolazione; non cambierei la sterilità mia colla fecondità di quell’altro. Questo è quello che dicono quelli che hanno aperti gli occhi alla verità, e con questo si consolano. Dice molto bene il padre maestro Avila (M. Avil. Audi filia, cap. 26): Oh se il Signore ci aprisse gli occhi, come ci si renderebbe più chiaro che la luce del sole, che tutte le cose della terra e del cielo sono molto basse per desiderarsi e godersi, se si toglie da esse la volontà del Signore, e che non v’è cosa, per piccola e amara che ella sia, che se si congiunge con essa la sua divina volontà, non sia di gran valore. È meglio senza comparazione lo stare in travagli e afflizioni, in aridità e tentazioni, se così Dio vuole, che quanti gusti, consolazioni e contemplazioni si trovano, se vada da essi disgiunta la divina sua volontà. Ma dirà qualcuno: Se io sapessi, che questa è la volontà del Signore, e che Egli si compiacesse e si contentasse più di questo, facilmente mi ci conformerei e starei molto contento, ancorché io passassi tutta la mia vita in questa maniera; perché ben veggo, che non v’è altra cosa da desiderare, che piacere e dar gusto a Dio, né la vita è fatta per altro: ma mi pare, che Dio vorrebbe pure, che io facessi miglior orazione e con maggiore raccoglimento e attenzione, se io mi ci disponessi: e quel che mi dà fastidio è il credere, che per colpa e tiepidità mia, e per non far io quanto è dal mio canto, me ne sto distratto e arido, senza potermi introdurre nell’orazione: che se credessi e restassi persuaso di fare quanto posso per la mia parte, e che non vi fosse colpa per me, non ne sentirei rammarico alcuno. È molto ben appoggiata questa querela: e su questo punto non vi resta a dir altro che possa avere più forza; poiché a questo si vengono a restringere tutte le ragioni di quelli che hanno simili doglianze: onde se soddisfaremo bene a questo, faremo un gran fare, per essere tanto comune e ordinario questo lamento; non essendovi alcuno, per santo e perfetto che siasi, che in alcuni tempi non senta queste aridità e abbandonamento spirituali. Lo leggiamo del beato S. Francesco e di S. Caterina da Siena, con tutto che siano stati tanto accarezzati e favoriti da Dio  e S. Antonio abbate, con tutto che fosse uomo di così alte orazione, che le notti gli parevano un soffio, e si lamentava del sole che si levasse troppo presto, pure alle volte era tanto travagliato e agitato da pensieri cattivi e importuni che gridava e alzava le voci a Dio, dicendo: Signore, io vorrei pur esser buono, e i miei pensieri non mi lasciano esserlo: e S. Bernardo si lamentava di questo stesso, e diceva: Exaruit cor meum, coagulatum est sicut lac, factum est sicut terra sine aqua; nec compungi ad lacrymas queo, tanta est duritia cordis: non sapit Psalmus; non legere libet; non orare deleclat; meditationes solitas non invento. Ubi illa inebriatio spiritus? Ubi mentis serenitas. et pax, gaudium in Spiritu sancto (D. Bern. Serm. 54 sup. Caut.)? 0 Signore, che mi s’è inaridito il cuore, mi s’è ristretto e rappreso come latte; sta come terra senz’acqua, né mi posso compungere né muover a lagrime, tanta è la durezza del mio cuore: non istò bene nel Coro; non gusto della lezione spirituale; non mi piace la meditazione. O Signore, che io non trovo nell’orazione quel che soleva; ove è quei l’inebriarsi l’anima del vostro amore? ove è quella serenità, quella pace e quel gaudio nello Spirito santo? Di maniera che per tutti è necessaria questa dottrina, e confido nel Signore che soddisfaremo a tutti. Cominciamo dunque di qui. Io vi concedo, che la vostra colpa è la cagione della vostra distrazione e aridità, e del non potervi internare nell’orazione: e così è bene che crediate e ne stiate persuasi, e che diciate, che per i vostri peccati passati e per le vostre colpe e negligenze presenti il Signore vi vuol castigare col non ammettervi ad intrinsichezza con lui nell’orazione, col non potere provare raccoglimento, né  quiete, né attenzione in essa, perché non lo meritate, anzi più tosto lo demeritate. Ma non cammina perciò la conseguenza, che ve n’abbiate da lamentare; anzi ne ha da seguire una conformità molto grande alla volontà di Dio in questo. Volete vederlo chiaramente? De ore tuo te judico (Luc. XIX, 25). Dalla vostra medesima bocca e dall’istesso vostro detto vi voglio giudicare. Non conoscete voi e non dite, che per i vostri peccati passati e per le vostre colpe e negligenze presenti meritate gran castigo da Dio? sì al certo: l’inferno ho io meritato molte volte, e così nessun castigo sarà grande per me; ma ogni cosa sarà misericordia e singolare favore al confronto di quello ch’io merito; e il volermi Dio mandare qualche castigo in questa vita sarà preso da me per particolar beneficio; perché lo terrò come per pegno dell’avermi Egli perdonato i miei peccati e di non volermi castigare nell’altra vita, poiché mi castiga in questa. Basta, non fa bisogno d’altro: io mi contento di questo; ma non se ne vada ogni cosa in parole; veniamo ai fatti. Questo è il castigo che Dio vuole che patiate adesso per i vostri peccati: queste tristezze, questi desolamenti, queste distrazioni, queste aridità, quest’abbandonamento spirituale, questo diventarvi il cielo di ferro e la terra di bronzo, questo rinchiudervisi e nascondervisi Dio, e che non troviate introduzione nell’orazione; con questo vuol Dio castigarvi adesso e purgare le vostre colpe. Non vi pare, che i vostri peccati passati e le vostre colpe e negligenze presenti meritino bene questo castigo? Sì certamente: e ora dico, che è molto piccolo rispetto a quello che io merito, e che è molto pieno di giustizia e di misericordia: di giustizia, perché avendo io tante volte serrata a Dio la porta del mio cuore e fattomi sordo quando Egli mi batteva ad esso colle sante sue inspirazioni, ed io tante volte andava loro resistendo; giusta cosa è, che adesso, ancorché io lo chiami, si faccia sordo e non mi risponda, né voglia aprirmi la porta, ma me la serri in faccia. Giustissimo è questo castigo, ma molto piccolo per me, e così è molto pieno di misericordia, perché lo meritava molto maggiore. Conformatevi dunque alla volontà di Dio in questo castigo, e ricevetelo con rendimento di grazie, poiché vi castiga con tanta misericordia, e non proporzionatamente a quello che meritate. Non dite voi, che meritavate l’inferno? come dunque avete ardire di chieder a Dio consolazioni e gusti nell’orazione? ed avere intrinsichezza e famigliarità con Lui in essa, e una pace, quiete e riposo di figliuoli molto amati e accarezzati? Come avete ardire di formar doglianza del contrario? non vedete, che questa è gran presunzione e gran superbia? Contentatevi che Dio vi tenga in casa sua, e vi consenta lo stare alla sua presenza, e stimate, e riconoscete questo per grazia e beneficio molto grande. Se avessimo umiltà nel cuore, non avremmo lingua né bocca per lamentarci, comunque ci trattasse il Signore; e così cesserebbe facilmente questa tentazione.

CAPO XXVI.

Come convertiremo l’aridità e le tristezze e desolazioni interne in molto buona ed utile orazione.

Non solo deve cessar in noi altri questo lamento, ma abbiamo anche da procurare di cavar frutto dalle aridità, dalle tristezze e desolazioni interne, e di convertirle in molto buona orazione. E a quest’effetto aiuterà per la prima cosa quel che dicevamo trattando dell’orazione (Tract. V, c. 19); cioè quando ci vedremo a questo termine, dire: Signore, in quanto questa cosa procede da mia colpa, certo mi dispiace grandemente e mi dolgo della colpa che io ne ho; ma in quanto è volontà vostra, e pena e castigo da me giustamente meritato per i miei peccati, io l’accetto, Signore, di molto buona voglia: e non solamente adesso, o per poco tempo, ma per tutta la vita, ancorché avesse da essere molto lunga, mi offro a questa croce, e sto molto disposto a portarla, anche con rendimento di grazie. Questa pazienza e umiltà, e questa rassegnazione e conformità alla volontà di Dio in questo travaglio, piacciono più alla Divina Maestà Sua, che i lamenti e le soverchie angosce, per non trovare introduzione nell’orazione, o perché si sta ivi con tanti pensieri e con tanta distrazione. Ditemi un poco: chi vi pare, che piacerà più al padre e alla madre, quel figliuolo che si contenta di qualsivoglia cosa che gli diano, o pure quell altro che non si contenta mai di cosa alcuna, ma sempre va borbottando e lamentandosi, per parergli esser poco tutto quello che gli danno, e che gli dovrebbero dare di più, o qualche cosa di meglio? È chiaro, che sarà il primo. Or cosi passa la cosa con Dio. Il figliuolo paziente e muto il quale si contenta e si conforma alla volontà del suo Padre celeste in qualsivoglia cosa che gli mandi, benché aspra ed avversa, e benché sia un osso duro e spolpato, questi è quel desso che piace e dà più gusto a Dio che l’altro il quale è di fastidiosa contentatura, e sempre si va lamentando e borbottando, perché non ha e perché non gli danno. Ma dimmi, chi fa meglio, e chi muoverà più a compassione e misericordia di sé, e a fargli limosina, il povero che si lamenta, perché non gli rispondono presto e perché non gli è dato niente, o pur il povero che continua a stare alla porta del ricco con pazienza e silenzio, e senza alcun lamento; ma dopo aver battuto alla porta, sapendo, che lo hanno inteso, se ne sta aspettando al freddo e all’acqua, senza tornar a battere, e senza sapersi lamentare, e sa il padrone di casa, che sta aspettando con quell’umiltà e pazienza? Chiara cosa è, che questi muove assai; e che quell’altro povero superbo più tosto dà noia e muove a sdegno. Or così passa anche la cosa con Dio. E acciocché si vegga meglio il valore e frutto di questa orazione, e quanto è grata a Dio, domando io: che miglior orazione può far uno, e che maggior frutto può cavar da essa, che molta pazienza ne’ travagli, molta conformità alla volontà di Dio e molto amore verso di Lui? Che altra cosa andiamo a fare nell’orazione, che questa? Or quando il Signore ti manda aridità e tentazioni nell’orazione, conformati alla volontà sua in quel travaglio e abbandonamento spirituale, e farai uno de’ maggiori atti di pazienza e d’amor di Dio che tu possa fare (Supra cap. 3). Dicono, e molto bene, che l’amore si mostra nel soffrire e nel patire travagli per la cosa amata; e che quanto maggiori sono i travagli, tanto maggiormente si mostra l’amore. Or questi sono de’ maggiori travagli e delle maggiori croci e mortificazioni de’ Servi di Dio, e quelle che maggiormente sentono gli uomini spirituali; poiché presso loro i travagli corporali toccanti roba, sanità e beni temporali, non sono di considerazione in paragone di questi. L’arrivar dunque uno ad esser molto conforme alla volontà di Dio in simili travagli, imitando Cristo nostro Redentore in quell’abbandonamento spirituale che patì sulla croce, e l’accettar questa croce spirituale per tutta la vita, quando mai piacesse al Signore di dargliela, solo per dar gusto a Dio, è molto alta e molto utile orazione, e cosa di gran perfezione, dico tanta, che alcuni chiamano questi tali eccellenti Martiri (Lud. Blos, specul. spir. cap. 6). – Domando io inoltre: che cosa vai a fare nell’orazione, se non a cavarne umiltà e cognizione di te stesso? quante volte hai chiesto a Dio, che ti dia a conoscere chi tu sei? Ecco che Dio ha esaudita la tua orazione, e te lo vuol far conoscere in questo modo. Alcuni fondano il conoscimento di sé medesimi nell’avere un gran sentimento de’ propri peccati e in ispargere molte lagrime per essi: e s’ingannano, perché questo è Dio, e non tu. L’esser come un sasso, questo sei tu: e se Dio non percuote il sasso, non uscirà da esso acqua né miele. In questo sta il conoscer se medesimo, che è principio di mille beni: e di questo ne hai un’assai abbondante materia per le mani quando stai nel termine che s’è detto: e se caverai questo dall’orazione, avrai cavato da essa molto gran frutto.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (10)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [10]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXIII.

D’un mezzo che ci aiuterà grandemente a sopportar bene e con molta conformità alla volontà di Dio i travagli che il Signore ci manda sì particolari, come universali, che è l’avere una vera cognizione e dolore de’ nostri peccati.

È comune dottrina de’ Santi, che Dio S. N. suol mandare questi travagli e gastighi generali ordinariamente per i peccati commessi, come consta dalla sacra Scrittura che di ciò è piena: Induxisti omnia hæc propter peccata nostra; peccavimus enim, et inique egìmus… Et præcepta tua non audivimus… Omnia ergo, quos induxisti super nos, et universa, quee fecisti nobis, in vero judicio fecisti (Dan. III, 28 et seq.). E così veggiamo che Dio castigava il popol suo e lo dava in potere de’ suoi nemici quando l’offendeva; e lo liberava quando pentito de’ suoi peccati faceva penitenza e si convertiva a lui. E per questo Alchiore, capitano e principe de’ figliuoli di Amon, avendo dichiarato ad Oloferne, come Dio teneva sotto della sua protezione il popolo d’Israele, e che lo castigava quando si scostava dalla sua ubbidienza; dopo di ciò gli soggiunse, che prima però di assalirlo procurasse di sapere, se per allora si trovava in istato di aver offeso il suo Dio; perché essendo così, poteva esser certo della vittoria: quando no, che lasciasse quell’impresa, perché non gli sarebbe riuscita, né da essa avrebbe riportato altro che vituperio e confusione: perché Iddio avrebbe combattuto pel suo popolo, contra il quale nessuno avrebbe potuto prevalere (Judith v, 5). E notano particolarmente questa cosa i Santi sopra quelle parole che Cristo nostro Redentore disse a quell’infermo di trentotto anni che stava a canto alla probatìca Piscina, dopo d’averlo risanato: Ecce sanus factus es: jam noli peccare, ne deterius tibi aliquid contingat (Jo. v, 14): Guardati dal più peccare per l’avvenire; acciocché non t’avvenga qualche cosa di peggio. Secondo questo dunque uno de’ mezzi che ne’ travagli e nelle calamità sì generali come particolari ci aiuterà grandemente a conformarci alla volontà di Dio e a sopportarli con molta pazienza, sarà l’entrar subito dentro di noi stessi, e il considerare i nostri peccati, e quanto abbiamo meritato quel castigo: perché in questo modo qualsivoglia cosa avversa che accada sarà da noi sopportata bene, e la giudicheremo per minore di quello che dovrebbe essere in riguardo alle nostre colpe. S. Bernardo e S. Gregorio trattano molto bene questo punto. S. Bernardo dice: Culpa vero ipsa, si intus sentitur perfecte, utique exterior pæna parum, aut nihil sentitur: Se la colpa interiormente si sente come dev’esser sentita, poco o niente sentirassi la pena esteriore: Sicut sanctus David non sentit injuriam servi conviciantis, memor fìlii persequentis (D. Bern. serm, de altit. et bassit. cordis): Siccome il santo re David non sentiva le maledicenze di Semei, veggendo la guerra che gli faceva il proprio figliuolo: Ecce fllius meus, qui egressus est de utero meo, quærit animam meam; quanto magis nunc filius Jemini (1(1) II. Reg. XVI, 11)? Mi sta perseguitando, diceva, il mio proprio figliuolo; che gran cosa è, che faccia questo uno straniero? S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Et intelligens, quod multo minora exigaris ab eo, quam meretur iniquitas tua (Greg. lib. 10 mor. o. 8 in Job XI, 6), dichiara questo con una buona similitudine: Siccome quando l’infermo sente la postema malignatasi e la carne infracidita, si mette di buona voglia nelle mani del chirurgo, acciocché apra e tagli ove e come gli pare; e quanto più malignata e infracidita è la piaga, di tanto miglior voglia comporta il ferro e il bottone di fuoco; così quando uno sente da vero la piaga e l’infermità che il peccato ha cagionata nella sua anima, riceve di buona voglia il cauterio del travaglio e della mortificazione e umiliazione con che Dio vuol medicar quella piaga e cavarne la marcia. Dolor quippe flagelli temperatur, cum culpa cognoscitur: Si mitiga, dice S. Gregorio, il dolor del flagello quando si conosce la colpa. E se tu non pigli di buona voglia la mortificazione e il travaglio che ti si porge, è perché non conosci l’infermità delle tue colpe; non senti il marciume che è dentro, e così non puoi tollerar il fuoco e il rasoio. Gli uomini santi e i veri servi di Dio non solamente accettavano queste cose di buona voglia, ma le desideravano e le domandavano ben da vero a Dio. E così il santo Giob diceva: Quis det, ut veniat petilio mea… Et qui cæpit, ipse me conterat: solvat manum suam, et succidat me? Et hæc mihi sit consolatio, ut affligens me dolore, non parcat (Job VI, 8,9, 10). E il profeta David: Proba me, Domine, et tenta me: — Quoniam ego in flagella paratus sum: — Bonum mihi, quia umiliasti me (Psal. XXV, 2; Ibid. XXXVII, 18; Ibid. CXVIII, 71). Talmente desiderano i servi di Dio, che la Maestà Sua li castighi e umilii in questa vita, dice il citato Santo (D. Greg. lib. 7 mor. c. 7, 8.), che più tosto s’attristano, quando da un canto considerano le loro colpe e dall’altro veggono che Dio non gli ha castigati per esse: perché sospettano e temono, che ciò sia per voler differir loro il castigo nell’altra vita ove sarà tanto più rigoroso. E questo è quello che soggiunge Giob: Et hæc mihi sit consolatio, ut affligens me dolore, non parcat (Job VI, 10.): come se avesse detto: Dappoiché ad alcuni Dio perdona in questa vita, per gastigarli poi eternamente nell’altra; non perdoni Dio a me in questa maniera nella presente vita, acciocché mi perdoni dipoi in eterno: castighimi qui Dio, come pietoso padre, acciocché non mi castighi poi eternamente come giudice rigoroso; che non mi lamenterò né mormorerò de’ suoi flagelli: Nec contradicum sermonibus Sancti (Jo. VI, 19): che anzi questa sarà la mia consolazione. Questo ancora è quello che diceva S. Agostino: Hic ure, hic seca, Me nihil mihi parcas; ut in æternum parcas: Signore, abbruciate e tagliate di qua, e non mi perdonate cosa alcuna in questa vita; acciocché poi mi abbiate a perdonare per sempre nell’altra. E grande ignoranza e cecità nostra il sentir tanto amaramente i travagli corporali e tanto poco gli spirituali. Non debbono essere sentiti tanto i travagli quanto i peccati. Se conoscessimo e ponderassimo bene la gravezza delle nostre colpe, ogni castigo ci parrebbe piccolo: e diremmo quello che diceva Giob : Peccavi, et vere deliqui, et, ut eram dignus, non recepì (Job XXXIII, 27); parole che avremmo da portar sempre scritte nel cuore e da spesso averle su la lingua. Ho peccato, Signore, e veramente ho delinquito ed ho offesa la Divina Maestà Vostra, e non m’avete castigato come io meritava. Tutto ciò che possiamo patire in questa vita è un niente in comparazione di quello che merita un solo peccato: Intelligeres, quod multo minora exigaris ab eo, quam meretur iniquitas tua (Job XI, 6). Chi considererà, che ha offesa la Maestà di Dio, e che perciò ha meritato di star nell’inferno eternamente, che affronti, che ingiurie, che dispregi non riceverà di buona voglia, in ricompensa e soddisfazione di tante e tali offese? Si forte respiciat Dominus afflictionem meam, et reddat mihi Dominus bonum prò malediction hac hodierna, diceva David quando Semei lo ingiuriava con tante maldicenze (II. Reg. XVI, 12). Lasciatelo stare, dicami pur quanto male mi può dire, mi vituperi, e mi carichi d’ingiurie e d’improperi quanto sa e può; che forse con questo il Signore si terrà per contento, pagato e soddisfatto per i miei peccati, ed avrà misericordia di me; il che sarà grande felicità mia. In questa maniera abbiamo noi altri da abbracciare i disonori e i travagli che ci verranno. Vengano pur alla buon’ ora, che forse il Signore si degnerà di ricever questo per compenso e soddisfazione de’ nostri peccati: e questa sarebbe gran felicità nostra. Se quel che spendiamo in lamentarci e in sentir con dispiacere i travagli, lo spendessimo in rivoltarci a questo modo contro di noi stessi, faremmo cosa più grata a Dio e rimedieremmo meglio a’ casi nostri. Si valevano tanto i Santi di questo mezzo in simili occasioni, e vi si esercitavano talmente, che leggiamo di alcuni di essi, come di S. Caterina da Siena e di altri, che i travagli e flagelli che Dio mandava alla Chiesa gli attribuivano essi ai peccati e difetti lor propri; e dicevano: Io son la cagione di queste guerre; i miei peccati sono la cagione di questa peste e di questi travagli che Dio manda; parendo loro, che i lor peccati meritassero quello, e più. In confermazione di ciò s’aggiunge, che molte volte per lo peccato d’un solo castiga Dio tutto il popolo: siccome per lo peccato di David mandò Dio la peste in tutto il popolo d’Israele; e dice la Scrittura, che ne morirono settanta mila uomini in tre giorni (II. Reg. XXIV, 15). Ma mi dirai: David era Re, e per i peccati del capo Dio castiga il popolo. Per lo peccato d’Acan, ch’era uomo privato, il quale aveva rubate in Jerico certe coserelle, Dio castigò tutto il popolo in questo modo, che tre mila soldati de’ più valorosi dell’esercito voltaron le spalle al nemico, essendo per quel peccato costretti a fuggire (Jos. VII, 6.). Non solamente per lo peccato del capo, ma anche per lo peccato d’un particolare suole Iddio gastigar altri. E in questa maniera dichiarano i Santi quello che tante volte replica la sacra Scrittura, che Dio Castiga i peccati de’ padri ne’ figliuoli sino alla terza e quarta generazione (2 (Exod. XX, 5, et c. XXXIV, 7; Num. XIV, 18). La colpa del padre sì, che dice, che non sarà trasferita nel figliuolo, né quella del figliuolo nel padre: Anima, quæ peccaverit, ipsa morietur: Filius non portabìt iniquitatem patris, et pater non portabit iniquitatem filli (Ezech, XVIII, 20): ma quanto alla pena, è solito Dio castigar alle volte uno per i peccati d’un altro: e così forse per i miei peccati a per i tuoi Castigherà Dio tutta la Casa e tutta la Religione. Abbiamo dunque sempre avanti gli occhi da una banda questa considerazione, e dall’altra il beneplacito di Dio; e così ci conformeremo facilmente alla volontà sua ne’ travagli che ci manderà, e diremo col sacerdote Eli: Dominus est; quod bonum est in oculis suis, faciat (I . Reg. III, 18); e con quei santi Maccabei: Sicut fuerit voluntas in cœlo, sic fiat (I . Mach, III, 60). Egli è il Signore, il padrone e il governatore di ogni cosa: come piacerà a lui, e come egli l’ordinerà, così si faccia: e col profeta David: Obmutui, et non aperui os meum, quoniam tu fecisti (Psal. XXXVIII, 10.): Non mi son lamentato, Signore, de’ travagli che m’hai mandato; anzi, come s’io fossi stato muto, ho taciuto, e gli ho sopportati con molta pazienza e con molta conformità alla volontà tua, perché so che tu li mandi. Questa ha da essere sempre la nostra consolazione in tutte le cose, Dio lo vuole, Dio lo comanda, Dio è quegli che lo manda; venga in buon’ora. Non vi bisogna altra ragione per sopportare di buona voglia tutte le cose. Sopra quelle parole del Salmo 28: Et ditecius, quemadmodum fllius unicornium (Psal. XXVIII), notano i Santi, che Dio si va paragonando all’alicorno, perché quest’animale ha il corno più giù degli occhi, di maniera che vede molto bene ove percuote, a differenza del toro che gli ha sopra gli occhi e non vede ove dà. E di più l’alicorno col medesimo corno col quale percuote guarisce; così fa Dio, con quella istessa cosa colla quale percuote risana. E piace tanto a Dio questa conformità ed umile sommessione al Castigo, che alle volte ella è mezzo per lo quale il Signore si plachi e lasci di castigarci. Nelle Istorie Ecclesiastiche si racconta di Attila, re degli Unni, il quale rovinò tante provincie e si chiamò Metus orbis, et flagellum Dei, spavento del mondo, e flagello di Dio; si racconta, dico, di lui, che avvicinandosi alla città di Troia di Sciampagna in Francia, S. Lupo vescovo di essa gli uscì incontro vestito pontificalmente, con tutto il suo Clero, e gli disse: Chi sei tu, che turbi la terra, e la distruggi? rispose egli: Io sono il flagello di Dio. Allora il santo Vescovo gli fece aprir le porte, e disse: Sia molto bene venuto il flagello di Dio. Entrati poi i soldati nella città, il Signore li accecò talmente, che passarono per essa senza far danno alcuno: perché sebbene Attila era flagello di Dio, non volle però Dio che fosse flagello per quelli che lo ricevevano come flagello suo con tanta sommessione (Naucl. 2 vol.).

CAPO XXIV.

Della conformità alla volontà di Dio che dobbiamo avere nelle aridità e nelle tristezze dell’orazione; e che cosa intendiamo qui sotto nome di aridità e di tristezza.

Non solo abbiamo da conformarci alla volontà di Dio nelle cose esteriori, naturali ed umane; ma ancora in quel che a molti pare che sia santità il sommamente desiderarle, cioè nei beni spirituali e soprannaturali, come nelle consolazioni divine, nelle virtù istesse, nell’istesso dono d’orazione, nella pace, nella quiete e tranquillità interiore dell’anima nostra, e nelle altre prerogative spirituali. Ma mi domanderà alcuno: Può forse cadere in queste cose propria volontà e amore disordinato di se stesso, sicché sia necessario il moderarlo ancora in queste cose? Dico di sì. E qui si vedrà quanta sia la malizia dell’amor proprio; poiché in cose tanto buone non teme d’introdurvi la sua malvagità. Sono buone le consolazioni e i gusti spirituali, perché con essi facilmente l’anima ributta e ha in odio tutti i piaceri e gusti  delle cose terrene, che sono l’esca e il nutrimento de’ vizi, e con essi pure si anima e si rinvigorisce per camminare a gran passi nella via del divino servigio, secondo quello che dice il Profeta: Viam mandatorum tuorum cucurri, cum dilatasti cor meum (Psal. CXVIII, 32): Io correva e camminava molto speditamente per la via de’ vostri comandamenti, o Signore, quando voi slargavate il mio cuore. Coll’allegrezza e consolazione spirituale si distende e si slarga il cuore siccome colla tristezza si rinserra e si strigne. Ora il profeta David dice, che quando Dio gli mandava delle consolazioni spirituali queste gli servivano come d’ale che lo facevano correre e volare per la via della virtù e dei comandamenti suoi. Aiutano anche assai l’uomo queste spirituali consolazioni a sprezzare la propria volontà, a vincere i propri appetiti, a mortificare la propria carne e a portare con forze maggiori la croce e i travagli che gli avvengano. E così suol Iddio comunicare consolazioni e gusti a quegli a’ quali ha da mandare travagli e tribolazioni, acciocché con essi si preparino e dispongano a sopportarli bene e con frutto. Siccome veggiamo, cheCristo nostro Redentore volle prima consolare i suoi discepoli nel monte Tabor con la sua gloriosa Trasfigurazione, acciocché di poi non si turbassero veggendolo patire e morire su una croce: e così ancora veggiamo, che ai principianti suol Iddio molto ordinariamente comunicare queste consolazioni spirituali per indurli con efficacia a lasciare i gusti della terra per quei del cielo, e dopo averli legati col suo amore, veduto, che hanno gittate salde radici nella virtù, li suole provare con certe aridità, acciocché quindi facciano maggior acquisto delle più sode virtù dell’umiltà e della pazienza, e meritino maggior aumento di grazia e di gloria, servendo Dio puramente senza consolazioni. Questa è la cagione per la quale alcuni nel principio, quando entrarono nella Religione, e anche forse fuori, quando stavano co’ desideri d’entrarvi, sentivano più consolazioni e gusti spirituali che dipoi. Ciò era, perché Dio li trattava allora proporzionatamente all’età loro, nutrendoli da bambini con latte, per staccarli e slattarli dal mondo, e far che l’odiassero e abbonassero le cose di esso: ma perché posson di poi mangiar pane con crosta, Dio dà loro cibo da grandi. Per questi e altri simili fini suole il Signore dar loro consolazioni e gusti spirituali: e cosi i Santi comunemente ci consigliano di prepararci nel tempo della consolazione per quello della tribolazione: siccome nel tempo della pace si sogliono fare le preparazioni e provvisioni per la guerra; perché le consolazioni sogliono essere le vigilie delle tentazioni e delle tribolazioni. Di maniera che i gusti spirituali sono molto buoni e di gran giovamento; se ce ne sappiamo servir bene; e perciò quando il Signore ce li dà, si hanno da ricevere con rendimento di grazie. Ma se la persona si fermasse in queste consolazioni, e le desiderasse solamente per contentezza sua, e per lo gusto e diletto che l’anima sente in esse, questo sarebbe vizio e amor proprio disordinato. Siccome quando nelle cose necessarie per la vita, come sono il mangiare, il bere, il dormire ele altre, se l’uomo avesse per fine di queste azioni il diletto, sarebbe colpa; così quando nell’orazione uno avesse per fine questi gusti e consolazioni sarebbe vizio di gola spirituale. Non si hanno da desiderare né da ricevere queste cose per contentezza e gusto nostro; ma come mezzo che ci aiuta per i fini che abbiamo detti. Siccome l’infermo che abborrisce il cibo del quale ha necessità, si rallegra di trovar in esso qualche sapore, non per lo sapore, che niente lo cura, ma perché gli eccita l’appetito per poter mangiare e quindi conservare la vita; così il servo di Dio non ha da volere la consolazione spirituale per fermarsi in essa, ma perché con questo celeste conforto l’anima sua viene rinvigorita è animata a faticare nella via della virtù e ad avere stabilità in essa. In questo modo non si desiderano i diletti per i diletti, ma per la maggior gloria di Dio, e in quanto ridondano a maggior onore e gloria sua. Ma dico di più, che quantunque uno desideri queste consolazioni spirituali in questo modo e per i fini che si sono detti, i quali sono santi e buoni; può nondimeno accadere, che con tutto questo in tali desiderii vi sia qualche eccesso e mescolanza d’amor proprio disordinato, come se le desidera smoderatamente e con soverchia brama ed affanno; di maniera tale che se gli mancano, non rimane tanto contento, né tanto conforme alla volontà di Dio, ma più tosto inquieto, querulo e con dispiacere. Questa è affezione e cupidigia spirituale disordinata; perché non dee la persona stare attaccata con tanta ansia e disordine ai gusti ealle consolazioni spirituali, che questo le impedisca la pace e quiete dell’anima, ela conformità alla volontà di Dio, quando a lui non piaccia di dargliele: perché è molto migliore la volontà di Dio che tutto questo; e importa molto più che si contenti e si conformi a quel che vuole il Signore. Quel che dico dei gusti e delle consolazioni spirituali, intendo anche del dono d’orazione e dell’introduzione che desideriamo d’aver in essa, edella pace e quiete interiore dell’anima nostra, e delle altre prerogative spirituali. Perché nel desiderio di tutte queste cose può esser che vi sia ancora affezione e cupidità disordinata, quando si desiderano con tanta ansia ed angoscia, che se uno non conseguisce quel che desidera, si lamenta, sta disgustato, e non conforme alla volontà di Dio. Onde per gusti e consolazioni spirituali intenderemo ora non solo la divozione e i gusti e le consolazioni sensibili, ma anche l’istessa sostanza eil dono dell’orazione, e l’introdursi elo stare in essa con quella quiete e riposo che vorremmo. Anzi di questo tratteremo adesso principalmente, dimostrando some dobbiamo conformarci in questo alla volontà di Dio, e non lasciarci spingere né muovere in ciò da soverchia brama ed angoscia. Che quel che tocca i gusti, le consolazioni e le divozioni sensibili, lo rinunzierebbe chi che siasi, se gli dessero quello che è sostanziale dell’orazione, e mentisse in sé il frutto di essa: perché tutti sanno, che l’orazione non consiste in questi gusti, né in queste divozioni e tenerezze; onde per questo poca virtù fa di bisogno. Ma quando uno va all’orazione, e sta in essa come un sasso, con una aridità tanto grande, che gli pare di non trovare introduzione ad essa, ma che se gli sia chiuso affatto il cielo, e nascosto Iddio, e che sia venuta sopra di lui quella maledizione medesima con cui lo stesso Dio minacciava già il suo popolo, ove diceva: Daboque vobis cœlum desuper sicut ferrum, et terram œneam (Lev. XXVI, 19; Deut. XVIII, 23): per questo sì, che fa di bisogno maggior virtù e maggiore fortezza. Pare a costoro, che il cielo sia divenuto loro di ferro e la terra di bronzo; perché non piove sopra di essi gocciola d’acqua che mollifichi loro il cuore e dia loro frutto con che si mantengano; ma hanno una sterilità e aridità continua: e anche non solo hanno aridità, ma alle volte ancora una tanto gran distrazione e varietà di pensieri, e questi pure talvolta tanto cattivi e brutti, che pare, che non vadano là, se non ad essere tentati e molestati da ogni sorta di tentazioni. Or va tu a dire a costoro, che allora pensino alla morte, o a Cristo crocifisso, il che suole esser molto buon rimedio; ti diranno: Questo lo so ancor io: se potessi far questo, che cosa mi mancherebbe? Alcune volte è uno ridotto a tal termine nell’orazione, che né  anche può pensare a questo; ovvero, quantunque vi pensi e procuri di ridurselo alla memoria, questo non lo muove, né lo raccoglie punto, né fa in esso impressione veruna. Questo è quello che qui chiamiamo tristezze, aridità e abbandonamento spirituale. E in questo è necessario che ci conformiamo similmente alla volontà di Dio. Questo è un punto di grande importanza; perché è uno dei maggiori lamenti ed uno dei maggiori contrasti che abbiano quelli che attendono all’orazione; essendo che tutti gemono e piangono quando si trovano in questo termine. Come sentono dire da una banda tanto bene dell’orazione, e lodarla tanto, eche all’istesso passo che cammina essa cammina anche l’uomo tutto il giorno e tutta la vita, e che questo è uno dei principali mezzi che abbiamo, sì pel profittoproprio come per quello dei prossimi; e dall’altra banda si veggono, al parer loro, tanto lontani dal far vera orazione; sentono di ciò gran fastidio, e par loro, che Dio gli abbia abbandonati e che si sia dimenticato affatto di loro, e concepiscono timore l’aver perduta l’amicizia sua e di stare in sua disgrazia, parendo loro di non trovare in lui accoglienza. E accresce a questi tali la tentazione il vedere, che altre persone in pochi giorni fanno tanto progresso nell’orazione, quasi senza fatica; e che essi, affaticandosi e struggendosi, non fanno acquisto alcuno. Dal che nascono in essDELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (11)i altre tentazioni peggiori, com’è il lamentarsi alle volte del Signore che li tratti in quel modo; il voler lasciare l’esercizio dell’orazione, parendo loro, che non sia cosa per essi, poiché non ci fanno bene. E a tutto ciò dà aumento grande, e ad essi gran rammarico, quando il demonio riduce loro a memoria, che di tutto ciò sono cagione essi stessi, e che per colpa loro Dio li tratta così: e con questo vivono alcuni molto sconsolati, ed escono dall’orazione come da un tormento, afflitti, malinconici e insopportabili a se medesimi e a quei che trattano con essi. Andremo dunque rispondendo e soddisfacendo a questa tentazione e a questo lamento colla grazia del Signore.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (11)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (9)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [9]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXI.

Si conferma quel che s’è detto con alcuni esempi.

Racconta Simone Metafraste nella Vita di S. Giovanni Limosiniero, Arcivescovo d’Alessandria, che un uomo ricco aveva un figliuolo da lui grandemente amato: e per impetrare da Dio, che gli conservasse la vita e la sanità pregò il Santo, che facesse orazione per lui, dandogli gran quantità d’oro da distribuire per limosina ai poveri secondo questa intenzione. Il Santo lo fece, e a capo di trenta giorni quel figliuolo morì. Il padre ne restò afflittissimo, parendogli, che l’orazione e la limosina fatta per esso fossero state fatte in vano. E avendo notizia il Patriarca della sua afflizione, fece orazione per lui, chiedendo a Dio che lo consolasse. Esaudì il Signore la sua orazione, e una notte mandò un Angelo santo dal cielo, il quale apparve a quell’uomo, gli disse, che dovesse sapere, che l’orazione che s’era fatta pel suo figliuolo era stata esaudita, e che per essa il fanciullo era in cielo vivo e salvo, e che era stato per lui espediente il morire in quel tempo in cui era morto, per salvarsi; perché se fosse vissuto, sarebbe stato cattivo, e si sarebbe renduto indegno della gloria di Dio: e gli disse di più, che sapesse, che nessuna cosa, di quante ne accadono in questa vita, accade senza giusto giudizio di Dio, sebbene le ragioni de’ suoi giudizi sono occulte agli uomini; e che perciò non dee l’uomo lasciarsi prendere da tristezza disordinata, ma ricevere con animo paziente e grato le cose che Dio ordina. Con questo celeste avviso il padre del morto fanciullo rimase consolato e ben inanimato a servir Dio. – Nell’Istoria Tebea (Hist. Theo. lib. 2, c. 10) si narra una grazia singolare che S. Maurizio, capitano che fu della Legione Tebea, fece ad una gentildonna molto sua devota. Aveva costei un solo figliuolino, e acciocché s’allevasse a buon’ora in religiosi costumi, nel fine della sua tenera età la madre lo consacrò nel monastero di S. Maurizio, sotto la cura e il governo de’ Monaci, come in quei tempi si costumava di fare; e come lo fecero il padre e la madre con Mauro e Placido, e alcuni altri nobilissimi Romani in tempo di S. Benedetto, e molti anni dopo lo fecero con S. Tommaso d’Aquino nel monastero di Monte Cassino la sua madre Teodora e i Conti d’Aquino suoi fratelli. S’allevò in quel monastero l’unico figliuolo di detta gentildonna in lettere, e costumi, e nella disciplina monastica, molto bene; e già aveva cominciato a cantare soavissimamente in Coro in compagnia de’ Monaci, quando sopraggiuntagli una febbretta se ne morì. Andò la sconsolata madre alla chiesa, e con infinite lagrime accompagnò il morto sino alla sepoltura: ma non bastarono le tante lagrime per temperare il dolore della madre, né per ritenerla dall’andar ogni giorno a quella sepoltura a piangerlo senza misura; il che molto più faceva, quando mentre si dicevano gli Uffici divini si ricordava di esser priva d’udir la voce del figliuolo. Perseverando la gentildonna in questo sì mesto esercizio, non solo di giorno in chiesa, ma anche di notte in casa, senza potere pigliar riposo, vinta una volta dalla stanchezza se ne restò addormentata, e in quel sonno le apparve il santo capitano Maurizio, che disse: Perché, o donna, stai continuamente piangendo la morte del tuo figliuolo, senza poter dar fine a tante lagrime? Rispose ella: Non potranno mai tutti i giorni della mia vita por fine a questo mio pianto: e perciò fin che vivrò piangerò sempre il mio unico figliuolo, né cesseranno questi miei occhi di spargere continue lagrime, fin a tanto che la morte non li chiuda, e separi da questo corpo questa sconsolata anima. E il Santo replicò: Ti dico, donna, che non t’affligga, né stii più a piangere il tuo figliuolo per morto, perché in realtà non è egli morto, ma vivo, e se ne sta in gaudio con noi altri nell’eterna vita: e per contrassegno di questa verità che io ti dico, levati su di mattina al Mattutino, e udrai la voce del tuo figliuolo fra quelle dei Monaci che canteranno l’Ufficio divino; e non solamente lo godrai domattina, ma anche tutte le altre volte che ti troverai presente alle divine Lodi in cotesta chiesa: cessa dunque e metti fine alle tue lagrime, poiché hai più tosto occasione di grande allegrezza che di tristezza. Svegliata la donna, aspettava con desiderio l’ora del Mattutino, per chiarirsi affatto della verità, restando tuttavia con .qualche dubbio, che questo fosse stato un mero sogno. Giunta l’ora, ed entrata ella in chiesa, riconobbe nel canto dell’Antifona la soavissima voce del beato suo figliuolo; e assicurata già della sua gloria in cielo, scacciato da sé tutto il dolore, rendette infinite grazie a Dio, godendo ella ogni giorno quella gratissima voce negli Uffici divini di quella chiesa, consolandola Dio in questa occasione e facendola ricca con questo dono. – Racconta un Autore (Flor, de Enriq. Gran. lib. 4, c. 63. ), che andando un giorno un cavaliere a caccia gli sbucò davanti una fiera, e la seguitò egli solo, senza alcun servidore, perché gli altri erano occupati intorno ad altre fiere: e seguitandola con grande ansietà si allontanò assai, e arrivò ad una selva ove udì una voce umana assai soave. Maravigliossi egli di udir in un deserto una voce tale, parendogli, che non potesse essere de’ suoi servidori, né meno d’altra persona di quel paese; e desiderando pur di sapere che cosa fosse quella voce, entrò più dentro nella selva, e vi trovò un lebbroso spaventevole in vista e molto stomachevole, il quale aveva talmente maltrattata la sua carne, che s’andava consumando in ciascuna parte e in ciascun membro del suo corpo. Il cavaliere a quella vista restò perplesso e come spaventato; nondimeno, sforzandosi e facendosi animo, se gli accostò, lo salutò con parole molto dolci, e gli domandò, se era quegli che cantava e donde gli era venuta voce sì dolce. Rispose il lebbroso: Io, signore, sono quel desso che cantava e questa è voce mia propria. Come ti puoi rallegrare, disse il cavaliere, avendo tanti dolori? Rispose il povero: Fra Dio Signor mio, e me, non v’è altra cosa di mezzo che questo muro di fango che è questo mio corpo: fracassato questo, e tolto via questo impedimento, andrò a godere la visione della sua eterna maestà: e vedendo io, che ogni giorno mi si va disfacendo a pezzi a pezzi, mi rallegro e canto con una incredibile allegrezza del mio cuore, aspettando, come aspetto la separazione da questo corpo, dappoiché per fin a tanto che io non lo lascio, non posso andare a goder Dio, fonte viva ove si trovano quelle inesauste vene di vero gaudio che dureranno per sempre. – S. Cipriano racconta d’un Vescovo (D. Cypr. lib. de mort.) il quale trovandosi per una grave infermità molto vicino a morte, affannato e sollecito per la presenza di essa, supplicò il Signore che gli allungasse la vita. Gli apparve un Angelo in forma di un giovine molto bello e risplendente, il quale con voce grave e severa gli disse: Pati timetis, exire non vultis, quid faciam vobis? Da un canto temete il patire in questa vita, e dall’altro non volete uscir da essa; che cosa volete che io vi faccia? dimostrandogli, che non piaceva a Dio questa ripugnanza nell’uscire da questa vita. E dice S. Cipriano, che l’Angelo gli disse queste parole, acciocché nella sua agonia le dicesse e le insegnasse agli altri. – Narra Simeone Metafraste, e l’apporta il Surio (Sarius tom. 1, fol. 237), del santo abbate Teodosio, che sapendo il Santo quanto utile sia la memoria della morte, e volendo con questo dar occasione a’ suoi discepoli di far profitto, fece aprir una sepoltura, e aperta che fu, si pose co’ suoi discepoli intorno a quella, e disse loro: Già è aperta la sepoltura; ma chi di voi sarà il primo a cui abbiamo da celebrar qui i funerali? Allora uno di que’ discepoli, chiamato Basilio, il quale era Sacerdote euomo di gran virtù, e così era molto disposto e preparato ad eleggersi la morte con molta allegrezza, lo prese per la mano, e inginocchiatosi gli disse: Benedicimi, o Padre, che io sarò il primo a cui s’hanno qui afare gli Uffici de’ defunti. Egli lo chiede, eil Santo glielo concedette. Comanda il santo abbate Teodosio, che se gli facciano subito in vita tutti gli Uffici soliti a farsi per i morti, il primo giorno, il terzo, il nono, e indi gli altri, che si fanno a capo di quaranta giorni. Cosa meravigliosa! finite le esequie e l’ufficio a capo de’ quaranta giorni, stando il monaco Basilio sano e salvo senza febbre, senza doglia di capo, e senza alcun altro male, come chi è preso da un dolce e soave sonno, se ne passa al Signore a ricever il premio della sua virtù e della prontezza e allegrezza colla quale aveva desiderato di vedersi con Cristo. E acciocché si vedesse quanto era piaciuta a Dio questa Prontezza e allegrezza colla quale il santo Monaco desidero uscire di questa vita, dietro aquesto miracolo ne succede un altro. Dice Simeone Metafraste, che per quaranta altri giorni dopo la sua morte lo vide l’abbate Teodosio venir ogni giorno al Vespro e cantar in Coro cogli altri discepoli: sebbene gli altri non lo vedevano né lo sentivano cantare, se non un solo che fra gli altri era insigne in virtù, chiamato Aecio, il quale lo sentiva cantare, ma non lo vedeva. Questi andò a trovare l’abbate Teodosio, e gli disse: Padre, non senti cantar con noi altri il nostro fratello Basilio? E l’Abbate rispose: Lo sento e lo veggo; e se vuoi, farò, che tu ancora lo vegga. E radunandosi il giorno seguente in Coro pel consueto Ufficio, vide l’abbate Teodosio, come soleva, il santo monaco Basilio che cantava cogli altri al solito, e lo mostrò col dito ad Aecio, facendo insieme orazione, e pregando Dio, che aprisse gli occhi di quell’altro Monaco, acciocché ancor esso lo potesse vedere. E avendolo veduto e riconosciuto, andò subito correndo da lui con grand’allegrezza per abbracciarlo; ma non lo potè prendere, che sparì subito, dicendo con voce che da tutti fu udito: Restatevene con Dio, Padri e Fratelli miei, restatevene con Dio, che da qui avanti non mi vedrete più. – Nella Cronaca dell’ Ordine di S. Agostino (Chron. Ord. S. Aug. cent. 3) si narra di Colombano il giovine, nipote e discepolo del santo abbate Colombano, che avendo grandissime febbri e trovandosi vicino a morte, è come pieno di grande speranza desiderando di morire, gli apparve un giovine risplendente il quale gli disse: Sappi, che le orazioni del tuo Abbate e le lagrime ch’egli sparge per la  tua salute impediscono la tua uscita da questa vita. Allora il Santo si lamentò amorevolmente col suo Abbate, e piangendo gli disse: Perché mi violenti tu a vivere una vita tanto piena di tristezza, quanto è questa, e m’impedisci l’andare all’eterna? Con questo l’Abbate cessò dal piangere e dal fare orazione per lui; e così radunatisi i Religiosi, e presi egli i santi Sacramenti, abbracciandolo tutti, morì nel Signore. – S. Ambrogio riferisce de’ popoli della Tracia (D. Ambr. de fide resurr.), che quando nascevano gli uomini, piangevano; e quando morivano, facevano gran festa. Piangevano il nascimento, e celebravano e festeggiavano il giorno della morte, parendo loro, e con molta ragione, dice S. Ambrogio, che quei che venivano in questo mondo miserabile, pieno di tanti travagli, erano degni d’esser compianti, eche quando uscivano da quest’esilio, era ragionevole far festa e allegrezza, perché si liberavano da tante miserie. Or se coloro essendo Gentili e Pagani, e non avendo cognizione della gloria che noi speriamo e aspettiamo, facevan questo; che cosa vorrà la ragione che sentiamo e facciamo noi altri i quali illuminati col lume della Fede abbiamo notizia de’ beni che vanno a godere quei che muoiono nel Signore? E così con molto maggior ragione disse il Savio, che è migliore il giorno della morte che quello della nascita: Melior est dies mortis die nativitatis (Eccle. VII, 2). S. Girolamo dice (D. Hieron. ep. ad Tir.), che per questo Cristo nostro Redentore, volendo partirsi da questo mondo per andare al Padre, disse a’ suoi discepoli i quali se n’attristavano: Si diligeretis me, gauderetis utique, quia vado ad Patrem (Jo. XIV, 23): Non sapete quel che fate: se m’amaste, più tosto vi dovreste rallegrare, perché vo al mio Padre: e per lo contrario, quando si risolvette di risuscitar Lazzaro, pianse. Non pianse, dice S. Girolamo, perché Lazzaro fosse morto (Ibid. XI, 35), poiché subito l’aveva da risuscitare; ma pianse, perché aveva da ritornare a questa vita miserabile: piangeva, perché quegli che Egli aveva amato e amava tanto, doveva ritornare a’ travagli di quest’esilio.

CAPO XXII.

Della conformità alla volontà di Dio che dobbiamo avere ne’ travagli e nelle calamità universali ch’Egli manda.

Non solo abbiamo d’avere conformità alla volontà di Dio ne’ travagli e avvenimenti nostri propri e particolari; ma anche dobbiamo averla ne’ travagli e nelle calamità pubbliche e universali, di carestie, di guerre, d’infermità, di morti, di peste e altre simili, che il Signore manda alla sua Chiesa. Per quest’effetto bisogna supporre, che quantunque da un canto sentiamo queste calamità e Castighi, e ci dispiaccia il male e il travaglio de’ nostri prossimi, come la ragion vuole; nondimeno dall’altro canto, considerandoli in quanto sono volontà di Dio, e ordinati dai suoi giusti giudizi, per cavare da quegli i beni e frutti di sua maggior gloria ch’Egli sa, ci possiamo conformare in essi alla sua santissima e divina volontà; in quella maniera che lo veggiamo in un Giudice che sentenzia uno a morte, al quale sebbene da una parte dispiace che quell’uomo muoia, e di ciò ne provi gran pena per la compassion naturale, o per essere colui suo amico; nondimeno dall’altra parte dà la sentenza, e vuole che muoia, perché così conviene al ben comune della Repubblica. E ancorché sia vero, che Dio non volle obbligarci a conformarci alla volontà sua in tutte queste cose in tal modo, onde giungessimo a volerle ed amarle positivamente, ma si contentò, che le sopportassimo con pazienza, non contraddicendo né ripugnando alla sua divina giustizia, né mormorando di essa; dicono nondimeno i Teologi e i Santi (D. Bonav. 1 sent. d. 48, r. 2, et alii.), che sarà opera di maggior perfezione e merito, e più perfetta ed intera rassegnazione, se l’uomo non solo sopporterà con pazienza queste cose, ma anche le amerà e le vorrà in quanto sono volontà e beneplacito di Dio, e ordinazioni della sua divina giustizia, e servono per maggior sua gloria. Così fanno i Beati in cielo, i quali in tutte le cose si conformano alla volontà di Dio, siccome lo dice S. Tommaso (D. Thom. 2. 2, q. 9, art. 10 ad 1) e lo dichiara S. Anselmo (D. Ans. lib. similitudinum, c. 63) con questa similitudine, che nella gloria la nostra volontà e quella di Dio saranno così concordi, come sono di qua i due occhi di un medesimo corpo, che non può l’uno di essi guardare una cosa senza che la guardi l’altro ancora: e perciò benché la cosa si vegga con due occhi, sempre pare una medesima. Siccome dunque tutti i Santi colà in cielo si formano alla volontà di Dio in tutte le cose, perché in tutte esse veggono l’ordinazione della sua giustizia e il fine della sua maggior gloria a cui vanno indirizzate; così sarà gran perfezione, che noi altri imitiamo in questo i Beati, volendo che si faccia la volontà di Dio qui in terra come si fa in cielo. Il voler quello che Dio vuole, per la medesima ragione e fine per cui Dio lo vuole, non può non essere cosa molto buona. Possidonio riferisce di S. Agostino nella sua Vita, che essendo la città d’Ippona, ov’egli risedeva, assediata da’ Vandali, e veggendo esso tanta rovina e mortalità, si consolava con quella sentenza d’un Savio: Non erit magnus magnum putans, quod cadunt ligna et lapides, et moriuntur mortales: Non sarà grand’uomo quegli che penserà, che sia una gran cosa che le pietre e gli edifici cadano, e che muoiano i mortali. Con maggior ragione dobbiamo noi altri consolarci, considerando, che tutte queste cose vengono dalla mano di Dio, e che questa è la volontà sua, e che quantunque la cagione per la quale Egli manda questi travagli e calamità sia occulta, non può essere che sia ingiusta. I giudicii di Dio sono molto profondi ed occulti; sono un abisso senza fondo, come dice il Profeta: Judicia tua abyssus multa (Psal. XXXV, 7): e non dobbiamo noi altri andargli investigando col nostro basso, corto e difettoso intelletto; che questa sarebbe gran temerità. Quis enim cognovit sensum Domini? aut quis consiliarius ejus fuit ((2) Ad Rom. XI, 34, et Isa. XI. Ì3)? Chi t’ha fatto del consiglio di Dio, per volerti intromettere in questo? Abbiamo però da venerare con umiltà i suoi profondi giudizi, e credere, che da Sapienza infinita non viene né può venire se non cosa molto buona, e tanto buona, che il fine di essa sia il nostro maggior bene e utilità (Supra c. 9). Abbiamo da camminare sempre con questo fondamento, credendo di quella infinita bontà e misericordia di Dio, che non manderebbe né proietterebbe simili mali e travagli, se non fosse per cavarne da essi beni maggiori. Vuole Iddio per questa strada guidare molti al cielo, i quali d’altra maniera andrebbero in perdizione. Quanti sono quelli che con questi travagli ritornano di cuore a Dio e morendo con vero pentimento de’ loro peccati si salvano, e altrimenti si sarebbero dannati? E cosi quel che pare castigo e flagello, è misericordia e beneficio grande. Nel secondo Libro de’ Maccabei dopo di aver l’Autore raccontata quell’orribile e crudelissima persecuzione dell’empio re Antioco, e il sangue che sparse senza perdonare a fanciullo né a vecchio, né a donna maritata né a vergine, e come spogliò e profanò il Tempio, e le abominazioni che in esso si commettevano per comandamento suo; aggiunge e dice: Obsecro autem eos, qui hunc librum lecturi sunt, ne abhorrescant propter adversos casus, sed reputent ea, quæ acciderunt, non ad interitum, sed ad correptionem esse generis nostri (II. Mach, VI, 12): Io prego tutti quelli che leggeranno questo libro, che non si perdano d’animo per questi sinistri avvenimenti; ma si persuadano, che Dio ha permessi e mandati tutti questi travagli non per distruzione, ma per emendazione e correzione della nostra gente. S. Gregorio (D. Greg. lib. 2 mor. c. 32) a questo proposito dice molto bene: La sanguisuga succhia il sangue dell’infermo, e quel che pretende, è saziarsi di esso e beverselo tutto se potesse; ma il medico pretende cavar con essa il sangue cattivo edar sanità all’infermo. Or questo è quello che pretende Dio per mezzo del travaglio e della tribolazione che ci manda: e siccome l’infermo sarebbe imprudente, se non si lasciasse cavare il sangue cattivo, avendo più riguardo a quel che pretende la sanguisuga, che a quello che pretende il medico; così noi altri in qualsivoglia travaglio che ci venga, sia per mezzo degli uomini, o sia per mezzo di qualsivoglia altra creatura, non abbiamo da riguardare ad esse, ma al sapientissimo medico Iddio, perciocché tutte esse servono a Lui di sanguisughe e di mezzi per evacuar il sangue cattivo e per darci intera sanità. E così abbiamo da persuaderci e credere, che ogni cosa Egli ci manda per maggior bene e utilità nostra. E ancorché non vi fosse altro che volerci il Signore gastigare in questa vita come figliuoli, e non differirci il castigo nell’altra; sarà questa una grazia e un beneficio molto grande. Si narra di S. Caterina da Siena (lu Vita S. Cath. de Sen. p. 2, e. 4), che trovandosi molto afflitta per una falsa accusa data contro di lei, toccante la sua onestà, le apparve Cristo nostro Redentore il quale teneva nella sua man dritta una corona d’oro, ornata di molte gioie e pietre preziose, e nella mano manca teneva un’altra corona, ma di spine, e le disse: Figliuola mia diletta, sappi, che è necessario che sii coronata con queste due corone in diverse volte e tempi; però eleggi tu quel che vuoi più tosto: o esser coronata in questa vita presente con questa corona di spine, e che quest’altra preziosa ti sia riservata per la vita che ti ha da durar in eterno, ovvero che ti sia data in questa vita questa corona preziosa, e per l’altra ti sia riservata questa di spine: e la santa vergine rispose: Signore, è già molto tempo ch’io rinunziai la mia volontà per seguir la vostra; perciò non tocca a me l’eleggere: tuttavia se voi, Signore, volete ch’io risponda, dico, che io sempre in questa vita eleggo l’esser conforme alla vostra santissima passione, e per amor vostro voglio abbracciar sempre pene per mio refrigerio: e detto questo prese la corona di spine colle proprie mani dalla sinistra del Salvatore, e se la pose sul capo con quanto poté di forza e con tanta violenza, che le spine glielo forarono tutto all’intorno talmente, che da quell’ora innanzi sentì per molti giorni un grave dolore nel capo per esservi entrate le spine.