IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (9)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (9)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Dell’Orazione.

CAP. XLIV

Se la diffidenza di noi stessi, la confidenza in Dio, e l’esercizio sono in questo combattimento tanto necessari, quanto si è dimostrato sin qui, sopra tutto è necessaria l’orazione (ch’è la quarta cosa, ed arma proposta di sopra) con la quale non pure le dette cose, ma ogni altro bene possiamo da Dio Signor nostro conseguire. – Perché l’orazione è strumento per ottenere tutte le grazie, che da quel divino fonte di bontà e d’amore piovono sopra di noi. Con l’orazione (se te ne servirai bene) porrai la spada in mano a Dio perché combatta e vinca per te. E per servirtene bene, fa bisogno che tu sia abituata, o che ti affatichi per esservi nelle seguenti cose. Prima, che in te viva sempre un deriderlo vero di servire in tutto a Sua Divina Maestà, e nel modo che a Lui più aggradisce. Per accenderti di quello desiderio, considera bene: Che Iddio per le sue soprammirabili eccellenze, bontà, maestà, sapienza, bellezza, ed altre sue infinite perfezioni, è sopradegnissimo d’essere servito, ed onorato. Ch’egli per Servire a te, ha penato e faticato trentatré anni, e le tue fetide piaghe, avvelenate dalla malignità del peccato, ha medicate e sanate, non con olio, vino, e stracci di panno, ma con il prezioso liquore, che uscì dalle sue sacratissime vene, e con le sue carni purissime lacerato da flagelli, spine e chiodi. E pensa, oltre ciò,  quanto importa questo servigio, poiché ne veniamo a farci padroni di noi stessi, superiori al demonio, e figliuoli dell’istesso Dio. – Secondo ha da esser in te una viva fede e confidenza, che il Signore ti voglia dare tutto ciò che ti bisogna per suo servigio e tuo bene. Questa Santa confidenza è il vaso che la misericordia divina riempie dei tesori delle sue grazie, il quale sarà più grande e più capace, tanto più ricca tornerà l’orazione del nostro seno. E come potrà mancare l’immutabile onnipotente Signore di farci partecipi dei doni suoi, avendoci Egli stesso comandato, che li domandiamo, e promettendoci anche lo Spirito suo, se con fede e perseveranza lo richiederemo? – Terzo, che tu ti accosti ad orare con l’intenzione di volere la volontà divina sola e non la tua, così nel domandare, come nell’ottenere quello che domandi, cioè, che tu ti muova ad orare, perché Iddio lo vuole, e che desideri essere esaudita, in quanto Egli pure così voglia. Insomma l’intenzione tua dev’essere di congiungere la volontà tua con la divina, e non di tirare alla tua quella di Dio. E questo, perché essendo la tua volontà infetta e guasta dall’amor proprio, bene spesso erra, né fa quello quello che domanda, ma la divina è sempre congiunta con la bontà ineffabile, nè può errare giammai. Ond’ella è regola e regina di tutte le altre volontà, e merita e vuole da tutte essere seguita ed ubbidita. – E perciò si hanno da domandare sempre cose conformi al divino piacimento, e dubitando che alcuna tale non sia, la domanderai con condizione di volerla, se vuole il Signore che tu l’abbia. E quelle che sai certo che gli piacciono, come sono le virtù, le richiederai più per soddisfare e servire a Lui, che per altro qualunque fine o rispetto, ancorché spirituale. – Quarto, che tu all’orazione vada ornata d’opere corrispondenti alle domande, e che dopo l’orazione vieppiù ti affatichi per farti capace della grazia e virtù, che desideri. Perché l’esercizio dell’orare ha da essere talmente accompagnato con l’esercizio di superare noi stessi, che tutto in giro vada seguitando l’altro, perché altrimenti il domandare alcuna virtù, e non adoprarsi per averla, sarebbe piuttosto un tentare Dio, che altro. – Quinto, che alle domande precedano lo più i ringraziamenti per i benefici ricevuti a questo o somigliante modo: Signor mio, che per la tua Bontà mi hai creata, e redenta, e tante innumerabili volte che io stessa non sono, liberata dalle mani dei miei nemici, soccorrimi al presente, né  mi negare quello che io ti chiedo, benché io a te sia stata sempre ribelle, ed ingrata. E se sei per domandare alcuna particolare virtù, ed hai alle mani qualche cosa contraria per esercitarmi in quella, non ti scordare di rendergli grazie dell’occasione che n’ha dato, che questo è pure non piccolo suo benefizio. Sesto, perché l’orazione prenda la sua forza e possanza di piegare Dio ai nostri desideri dalla naturale bontà, e misericordia di Lui, dalli meriti della vita, e passione del suo unigenito Figliuolo, e dalla promessa, ch’Egli ci ha fatto di esaudirci, conchiuderai le tue domande con una, o più delle seguenti particelle: Concedimi Signore, questa grazia, per la tua somma pietà; possano presso di te i  meriti del tuo Figliuolo impetrarmi quello ch’io ti chiedo, ricordati Iddio mio delle tue promesse, ed inchinati ai prieghi miei. – Ed altre volte domanderai ancora grazie per i meriti di Maria Vergine e di altri Santi, i quali possono molto appresso Dio e molto sono da Lui onorati, perché in questa vita onorano la sua Divina Maestà. – Settimo, fa bisogno, che tu  continui perseverantemente nell’orazione, perchè l’umile perseveranza vince l’invincibile, che se assiduità, ed importunità della vedova evangelica inchinò alle sue richieste il giudice colmo d’ogni malvagita [Luc. XVIII], come non avrà forza di trarre ai pieghi nostri, la stessa pienezza di tutt’i beni? Onde ancorché dopo l’orazione il Signore tardasse a venire ed esaudirti, anzi ne mostrasse contrari segni, seguita pure orando e tenendo ferma e viva la confidenza del suo aiuto, poiché in Lui non mancano mai, anzi sovrabbondano con infinita misura tutte quelle cose che, per fare altrui grazie sono necessarie. – Onde, se il difetto non è dal tuo canto, sta pur sicura di dover ottenere sempre tutto ciò che domanderai  o altro che ti sia più utile, oppure quello e questo insieme. E quanto più ti paresse d’esser ributtata, tanto più avvilisciti negli occhi tuoi, e considerando i tuoi demeriti, col pensiero fermo nella divina pietà, aumenta sempre in lei la tua confidenza, la quale mantenendosi viva e salda, quanto sarà più combattuta, tanto più piacerà al Signor nostro. – Rendigli poi sempre grazie, riconoscendolo per buono, sapiente ed amoroso, niente meno, quando alcune cose ti sono negate, che se concesse ti fossero, restando in qualunque avvenimento stabile, ed allegra nell’umile sottomissione alla divina provvidenza.

Che cosa sia l’orazione mentale.

CAP. XLV

L’orazione mentale è una elevazione di mente a Dio, con attuale o virtuale domanda di quello che desidera. L’attuale si fa, quando con parole mentali si domanda la grazia con questo, o somigliante modo: Signore Dio mio, concedimi questa grazia ad onore tuo; ovvero così: Signor mio, io credo che ti piaccia, e che sia tua gloria, che ti domandi, ed abbi questa grazia: compisci dunque ormai in me il divino compiacimento. E quando sei in fatti dai nemici combattuta, orerai in questo modo: Sii presto, Dio mio, ad aiutarmi, perché non ceda ai nemici. Oppure, Dio mio, rifugio mio, fortezza dell’anima mia, soccorrimi presto, perché non cada. E continuando la battaglia, continua tu ancora questo modo di orare, sempre virilmente resistendo, a chi contro di te combatte. – Finita, che sarà poi l’asprezza della guerra, rivolta al tuo Signore, presentagli innanzi il nemico che ti ha combattuta, e la tua fiacchezza a resistergli, dicendo: Ecco, o Signore la creatura delle mani dalla tua bontà, col tuo Sangue ricomperata. Ecco l’inimico, che tenta di levarla da te e divorarla. A te, Signor mio, ricorro, in te solo confido che sei onnipotente e buono,  e vedi la mia impotenza e la prontezza a farmeli senza il tuo aiuto volontariamente soggetta, Aiutami dunque, speranza mia, e fortezza dell’anima mia. Virtuale domanda s’intende quando si alza la mente a Dio per ottenere alcuna grazia, mostrandogli il bisogno senz’altro dire o discorrere. – Come, quando io levo la mente a Dio, e quivi alla presenza sua mi conosco impotente a difendermi dal male, e fare il bene, ed acceso di desiderio di servirlo umilmente, e con fede aspettando il soccorso suo, miro, e rimiro esso Signore. Questo così fatto conoscimento, acceso di desiderio, o fede innanzi a Dio è una orazione, che in virtù domanda quello che mi bisogna, e quanto più il detto conoscimento sarà chiaro, e sincero, il detto desiderio acceso, e viva la fede, tanto più efficacemente domanderà. – Vi è anco un’altra sorte di orazione virtuale più ristretta, che si fa con un semplice sguardo della mente a Dio, affine che ci soccorra, il quale sguardo non è altro che un tacito ricordo, e domanda di quella grazia che per l’innanzi avevamo domandata. E fa, che apprendi bene questa sorte di orazione, e te la faccia famigliare, perché (come l’esperienza ti mostrerà) è un’arma che facilmente in ogni occasione e luogo puoi avere alle mani, ed è di più valore, e giovamento ch’io ne sappia dire.

Dell’Orazione per via di Meditazione.

CAP. XLVI

Volendo orare per qualche spazio di tempo, come di mezz’ora, oppure di un’ora intera, e più, all’orazione aggiungerai la meditazione della vita e passione di Gesù Cristo, applicando sempre le azioni sue a quella virtù che desideri. Come se desideri d’ottenere grazia della virtù della pazienza, prenderai per avventura a meditare alcuni punti di mistero della flagellazione. – Primo. Come dopo l’ordine dato da Pilato, il Signore fu con gridi e scherni trascinato dai ministri della malvagità al luogo deputato per flagellarlo. – Secondo. Come fu da essi con frettolosa rabbia svestito, e ne restarono tutte scoperte, e nude le sue carni purissime. – Terzo. Come le sue innocenti mani con dura fune furono legate alla colonna. – Quarto. Come fu il suo corpo tutto lacerato e stracciato dai flagelli, onde corsero fino a terra i rivi del suo sangue divino. Quinto. Come aggiungendosi percosse a percosse in uno stesso luogo, si esacerbarono sempre più le piaghe già fatte. Così avendoti proposti, per acquistare la pazienza, questi o simili punti da meditare, applicherai prima i sensi a sentire più vivamente che potrai le amarissime angosce e pene acerbe, che in ciascuna parte del suo Sacratissimo Corpo, ed in tutte insieme, il tuo caro Signore sosteneva. Quindi passerai all’Anima sua santissima, penetrando, quanto si può, la pazienza e mansuetudine, con la quale tollerava tante afflizioni, non saziando però mai la fame di patire per onore del Padre e nostro beneficio, maggiori e più atroci tormenti. Miralo poi acceso d’un vivo desiderio, che tu voglia comportare il tuo travaglio, e vedi come ancora rivolto al Padre prega per te, che si degni farti la grazia di portar pazientemente la Croce, che allora ti crucia, e qualunque altra. Onde tu piegando più volte la volontà a voler tollerate il tutto con animo paziente, voglia poi la mente al Padre, e ringraziandolo prima, che per sua pura carità ha mandato al mondo il suo Unigenito Figliuolo a sopportare tanti aspri tormenti ed a pregare per te, domandagli poi la virtù della pazienza in virtù delle opere, e preghi del suo Figliuolo.

Di un altro modo d’orare per via di meditazione.

CAP. XLVII

Potrai anco in un altro modo orare e meditare, poiché avrai attentamente considerate le afflizioni del Signore, e col pensiero veduta la prontezza dell’animo con che le sosteneva; dalla grandezza dei suoi travagli, e dalla sua pazienza passerai a due altre considerazioni. L’una del merito suo. L’altra del contento e della gloria del Padre etemo, per la perfetta ubbidienza del suo appassionato Figliuolo. Le quali due cose rapprefentando a sua Divina Maestà, domanderai, in virtù loro, la grazia che desideri. E ciò potrai fare non pure in ciascun mistero della passione del Signore, ma in ogni atto particolare, interiore, ed esteriore, che Egli faceva in ciascun Mistero.

Di un modo d’orare col mezzo di Maria Vergine.

CAP. XLVIII

Oltre i sopraddetti vi è un altro modo di meditare, ed è col mezzo di Maria Vergine, rivoltando la mente prima all’eterno Iddio, poi al dolce Gesù, ed ultimamente ad Ella gloriosissima Madre. A Dio rivolta, considera due cose: l’una sono i diletti, ch’Egli ab æterno di te stesso considerato in Maria prendeva, avanti ch’Ella avesse l’esser fuori del niente. L’altra le virtù ed azioni di Lei, poiché fu prodotta al mondo. – I diletti cosi li mediterai. Sollevati in alto col pensiero sopra ogni tempo, e sopra ogni creatura, ed entrata nell’istessa eternità e mente di Dio, confiderà le delizie, che di se stesso prendeva in Maria Vergine, e tra questi diletti trovato esso Dio, in virtù loro domanda sicuramente grazia e forza per la distruzione dei tuoi nemici, e particolarmente di quello che ti combatte allora. – Passando poi alla considerazione delle tante e così singolari virtù ed azioni in Ella Madre santissima, ed appresentandole quando tutte insieme, quando alcuna d’esse a Dio, in virtù di quelle chiedi alla sua infinita bontà ogni tuo bisogno. – Al Figliuolo poi rivolgendo la mente, gli ridurrai a memoria il vergineo Ventre che nove mesi lo portò; la riverenza con cui, dopo che fu nato, la Verginella l’adorò, e riconobbe per vero uomo e vero Dio, Figliuolo, e Creatore suo. Gli occhi pietosi che lo mirarono tanto povero, le braccia che lo raccolsero, le care labbra che lo baciarono; il latte che lo nutrì e le fatiche ed angosce, che in vita ed in morte sostenne per Lui. Per virtù delle quali cose, farai al Divino Figliuolo dolce violenza, perché ci esaudisca. – Rivolta unitamente alla Ss. Vergine, ricordale, che dall’eterna provvidenza e bontà è stata eletta per Madre di grazia e di pietà, ed Avvocata nostra. Onde non abbiamo, dopo il suo benedetto Figliuolo, più sicuro e potente ricorso, che a Lei. Di più ricordale quella verità, che di Lei si scrive, e si ha per tanti e tanti effetti miracolosi, che mai nessuno con fede la invocò, che non gli abbia pietosamente risposto. – Finalmente le porrai davanti i travagli del suo unico Figliuolo, che per la nostra salute tollerò, pregandola, che t’impetri grazia da Lui, perché a gloria e contento suo, in te abbiano quell’effetto per lo quale Egli li sostenne.

Di alcune considerazioni, perché con fede e confidenzasi ricorra a Maria Vergine.

CAP. XLIX

Volendo tu ricorrere a Maria Vergine con fede e confidenza in ogni tuo bisogno, potrai conseguirla dalle seguenti considerazioni. – Primo. Già si sa per esperienza, che tutti quelli vasi, ove è stato del muschio, o qualche liquore prezioso, ritengono seco, benché più non vi sia, del suo odore, e tanto più, quanto più spazio di tempo vi farà stato e molto più, se ancora in qualche modo ve ne fosse rimasto; eppure il muschio è di virtù limitata e finita, e così ogni prezioso liquore. Come anco quel che sta vicino ad un gran fuoco, ritiene per molto tempo il calore, ancorché dal fuoco si allontani. Essendo questo vero di che fuoco di carità, di che sensi di misericordia, e di pietà, diremo noi, che le Viscere di Maria Vergine siano abbruciate e piene? che nove mesi ha Ella tenuto nel suo vergineo ventre, e sempre tiene nel petto e nell’amore il Figliuolo di Dio, che la stessa carità, misericordia e pietà, non già di virtù finita e limitata, ma d’infinita, e senza termine alcuno. Talché, siccome si accosta ad un gran fuoco, non può non ricevere del focolare, così molto più, ogni bisognoso che con umiltà e fede si avvicinerà al fuoco di carità, di misericordia e di pietà, che sempre arde nel petto di Maria Vergine, ne riceverà aiuti, favori, e grazie, e tanto più, quanto più spesso e con maggior fede e confidenza vi si accetterà. – Secondo. Niuna creatura amò giammai tanto Gesù Cristo, né tanto fu conforme alla volontà di Esso, quanto la Madre sua santissima. Se dunque l’istesso Figliuolo di Dio, che tutta la vita sua, e tutto se stesso ha speso per li bisogni di noi peccatori, ci ha dato la Madre sua per nostra Madre ed Avvocata, affine che ci aiuti e sia, dopo di Lui, mezzo della salute nostra; in qual modo potrà mai essa Madre, ed Avvocata nostra mancarci, e diventare ribelle alla volontà del Figlio? Ricorri pure figliuola con confidenza in ogni tuo bisogno alla Ss. Madre Maria Vergine, perché ricca e beata è questa confidenza, e sicuro è rifugio a Lei, poiché partorisce tuttavia grazie, e misericordie.

Di un modo di meditare, ed orare per mezzo degli Angioli, e di tutti i Beati.

CAP. L

Per servirti in ciò dell’ aiuto, e favore degli Angioli, e dei Santi del Cielo, potrai tenere due modi. – L’uno è, che ti rivolti al Padre eterno, e gli presenti l’amore e le lodi, con cui è esaltato da tutta la Corte celestiale, e le fatiche e pene, che i Santi hanno sofferto in terra per suo amore, ed in virtù di quelle cose, tu domandi alla Sua Divina Maestà tutto ciò, che ti fa bisogno. – L’altro è, che tu ricorra ad essi gloriosi Spiriti, come a quelli, che non pure bramano la nostra perfezione, ma che in più alto luogo di essi siamo collocati, chiedendo il soccorso loro contro tutti i vizi e nemici tuoi, ed anco per la tua difesa nel punto della morte. Ed alcuna volta ti metterai a considerare le molte grazie e singolari che hanno ricevute dal sommo Creatore, eccitando in te verso loro un vivo affetto d’amore, ed allegrezze perché sono ricchi di tanti doni come se tuoi propri fossero. Anzi ti rallegrerai, se possibile sia, più ch’essi, che loro e non tu, li abbiano, poiché tale fu la volontà di Dio, il quale perciò ne sia lodato, e ringraziato. – E per fare questo esercizio con ordine e facilità, potrai dividere le schiere dei Beati per li giorni della settimana in questa maniera. – La Domenica prenderai li nove Cori Angelici.

Il Lunedi S. Giambattista.

Il Martedì i Patriarchi e i Profeti.

Il Mercoledì gli Apostoli.

Il Giovedì i Martiri.

Il Venerdì i Pontefici cogli altri Santi.

Il Sabato le Vergini con le altre Sante.

Ma non lasciar mai per ciascun giorno di ricorrere spesso a Maria Vergine, Regina di tutti i Santi, all’Angiolo tuo Custode, a S. Michele Arcangelo, ed a tutti i tuoi Santi  Avvocati. Ed ogni giorno prega Maria Vergine, il Figliuolo suo ed il celeste Padre, che ti concedano tanta grazia di darti per principale Avvocato e Protettore, S. Giuseppe, sposo di Ella Vergine, ricorrendo poi ad esso Santo con prieghi e confidenza, che ti riceva sotto la sua protezione. Si narrano molte cose di questo glorioso Santo, e molti favori che da esso hanno ricevuti tutti quelli che l’hanno avuto in riverenza, e sono ricorri a lui, non solamente ne’ bisogni spirituali, ma temporali ancora, e particolarmente nell’indirizzare i devoti nel modo di ben meditare ed orare. Che se degli altri Santi tiene tanto conto Iddio, perché fra noi vivendo gli resero ubbidienza ed onore, quanto dobbiamo credere che da Lui sia stimato, ed appresso di Lui vagliano i preghi di questo umilissimo e felicissimo Santo, il quale dall’istesso Dio in terra fu onorato talmente, che volle a lui soggettarsi e come Padre ubbidirlo, e servirlo?

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (8)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (8)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Che dovendosi sempre continuare nell’esercizio della virtù, non si debbono fuggire le occasioni che per acquistarle ci si presentano.

CAP. XXXVII

Abbiamo veduto assai chiaramente, che nel viaggio che tende alla perfezione, ci conviene camminare sempre avanti, senza fermarci. Per far questo, stiamo bene avvertiti e vigilanti a non lasciarci uscire dalle mani qualunque occasione, che per acquistar le virtù, ci si presenta. Onde male l’intendono  quelli, che si allontanano quanto possono dalle cose contrarie, che a questo effetto potrebbero servire. Che se desideri (per non partirmi dal solito esempio) acquistare l’abito della pazienza, è bene che ti ritiri da quelle persone, azioni, e pensieri che ti muovono all’impazienza. E perciò non hai da toglierti da alcune pratiche, perché ti siano moleste, ma conversando, e trattando con qual si sia, che ti apporti noia, tieni sempre disposta, e pronta la volontà per tollerare qualunque cosa rincrescevole e di disgusto, che te ne possa venire, perché altrimenti facendo, non ti avvezzerai mai alla pazienza. – Così parimente se una operazione ti reca fastidio, o per se stessa o per chi te l’ha imporra, o perché ti svia dal far altro che più ti aggradirebbe, non restare perciò d’imprenderla e continuarla, ancorché te ne sentissi inquieta, e lasciandola te ne potessi trovare quiete, perciocché così non impareresti mai a patire, e la tua sarebbe vera quiete non producendo da animo purgato da passione ed ornato di virtù. Il medesimo ti dico dei pensieri, che alcuna volta travagliano e disturbano la tua mente, perché non hai da scacciarli in tutto da te, poiché con la pena che ti danno, ti vengono insieme a servire per assuefarti alla tolleranza delle cose contrarie.- E chi altrimenti ti dice, piuttosto ti insegna a fuggire il travaglio che ne senti, che a conseguire la virtù che desideri. È ben vero che conviene, massimamente al novello soldato, traccheggiare e schermirti nelle dette occasioni con avvertenza e destrezza, ora affrontandole, ora scansandole, secondo che più o meno va acquistando virtù e forza di spirito. Ma non si deve però mai in tutto voltare le spalle e ritirarsi di maniera, che affatto che ne lasci addietro ogni occasione dì contrarietà, perché se per allora ci salvassimo dal pericolo di cadere, staremmo per l’avvenire con maggior rischio esposti ai colpi dell’impazienza non essendosi prima armati e fatti forti con l’uso della virtù contraria. Questi ricordi però non hanno luogo nel vizio della carne, di che abbiamo già trattato particolarmente.

Che si debbono avere care tutte leoccasioni di combattere per l’acquisto delle virtù, e più quelle che portano più difficoltà.

CAP. XXXVIII

Non mi contento figliuola, che tu non schivi l’occasioni che ti si fanno incontro per l’acquisto delle virtù, ma voglio che, come cosa di gran valore e stima, siano alcuna volta da te cercate ed abbracciate sempre lietamente subito che compariscono, e quelle che tu reputi più preziose e care, e che al tuo senso sono più dispiacevoli. Questo ti verrà fatto col divino aiuto, se ti imprimerai bene nella mente le seguenti considerazioni. L’una è che l’occasioni sono proporzionati, anzi necessari per acquistar le virtù. Onde quando tu domandi quelle al Signore, conseguentemente domandi quelli ancora: altrimenti la tua orazione sarebbe vana, e verresti a contraddire a te stessa, ed a tentare Dio, poiché Egli ordinariamente non dà la pazienza senza le tribolazioni, né senza dispregi di umiltà. E così di tutte le altre virtù dire si puote, le quali non vi è dubbio che si conseguano col mezzo degli avvenimenti contrari che ci portano tanto maggior aiuto per questo effetto, che ci hanno da essere perciò tanto più cari e graditi, quanto sono più travagliosi; perché gli atti che noi facciamo in casi tali, sono più generosi e forti, e più agevolmente e più presto ci aprono la strada alla virtù. Sono però da stimare e da non lasciare senza il suo esercizio, anco le minime occasioni, come di uno sguardo, o parola contro la nostra volontà, poiché gli atti che vi si fanno, sono più frequenti, benché manco intesi, che quelli che sono da noi prodotti nelle difficoltà importanti. – L’altra considerazione (che ho anco toccato di sopra) si è che tutte le cose, che ci occorrono, venga da Dio per nostro benefizio e perché noi ne caviamo frutto. E quantunque di queste, alcune, che sono nostri mancamenti, o d’altri (come pure dicemmo in altro luogo) non si può dire che siano da Dio, che non vuole il peccato, sono però da Dio in quanto Egli le permette, e potendo impedirle, non le impedisce; ma tutte le afflizioni e pene che ci avvengono, o per nostri difetti, o per malignità d’altri, sono e da Dio, e di Dio, poiché Egli in queste  concorre, e ciò che non vorrebbe, che si facesse, perché contiene deformità odiosa sopra modo ai suoi  purissimi occhi, vuole che si patisca per quel bene di virtù, che noi trarre ne possiamo, e per altre giuste cagioni a noi occulte. Laonde essendo noi più che certi che vuole il Signore, che sosteniamo volentieri qualunque molestia ci venga dalle altrui, o anco dalle ingiuste operazioni, il dire (per una cosi fatta scusa della loro impazienza dicono molti) che non vuole, anzi abborrisce le cose mal fatte, non è altro che con un vano preteso coprire la propria colpa, e rifiutare la Croce che non possiamo negare, che gli piace che noi portiamo. Anzi dico di più, che pareggiato il resto, il Signore ama più in noi la tolleranza di quelle pene, che derivano  dall’iniquità degli uomini (massimamente se sono stati prima serviti e beneficati) che le molestie che procedono da altri travagliosi accidenti, sì perché ordinariamente più in quelle che in questi la superba natura si reprime, sì ancora perché soffrendole noi volentieri, veniamo a contentare ed esaltare sopra modo il nostro Dio cooperando con Lui in cosa dove riluce sommamente la sua ineffabile bontà ed onnipotenza, che è dal veleno pestifero della malizia, e del peccato cavare prezioso, e saporito frutto di virtù e di bene. – Perciò sappi, figliuola, che non sì tosto scopre il Signore in noi vivo desiderio di farla da vero e di attendere, come si deve a sì glorioso acquisto, che Egli ci apparecchia il calice delle più forti tentazioni, ed occasioni più dure che siano, perché lo prendiamo a suo tempo, e noi come riconoscitori dell’amor suo, e del proprio nostro bene, dobbiamo a chiusi occhi riceverlo volentieri, e fino al fondo scoperto beverlo tutto sicuramente e prontamente, poiché è medicina composta da mano che non può errare, d’ingredienti, tanto più giovevoli all’anima, quanto in se stessi sono più amari.

Come di diverse occasioni dobbiamo valerci per esercizio di una stessa virtù.

CAP. XXXIX

Si è veduto di sopra, come per qualche tempo sia più fruttuoso l’esercizio d’una sola virtù, che di molte insieme, e che secondo quella, si hanno da regolare le occasioni che s’incontrano, benché fra loro diverse. Ora attendi, come ciò si possa eseguire assai facilmente. – Occorrerà in un istesso giorno ed anco in un’istessa ora, che siamo ripresi di un’azione, che però sia buona, o che per altro si mormori di noi; che ci sia duramente negata alcuna grazia da noi richiesta, o qualsivoglia ben piccola coserella che sia sospettato male di noi senza cagione che ci sopravvenga alcun corporale dolore, che ci sia imposto alcun affaretto noioso, che ci sia portata una vivanda mal condita , o altre cose più importanti e dure a tollerare ci avvengano, delle quali è piena la miserabile umana vita. Nella varietà di quelli, o simili accidenti, ancora che si possano produrre diversi atti di virtù, nondimeno volendo tenere la mostrata regola, ci andremo esercitando con atti conformi tutti alla virtù che allora avremo alle mani, come per esempio. Se nel tempo, che verranno le dette occasioni ci eserciteremo nella pazienza, produrremo atti di sopportarle tutte volentieri e con allegrezza di animo. Se il nostro esercizio sarà d’umiltà, ci conosceremo in tutte quelle contrarietà di ogni male degni. – Se d’ubbidienza, ci sottoporremo prontamente alla mano potentissima di Dio, e per suo contento (poiché Egli così vuole) alle creature ragionevoli, ed anche inanimate, dalle quali ci vengono questi disgusti. Se di povertà, ci contenteremo d’essere spogliati e privi d’ogni consolazione, grande o piccola di questo mondo. Se di carità, produrremo atti di amore, e verso il prossimo nostro, come strumento del bene che possiamo acquistare, e verso il Signore Dio, come principale ed amorosa cagione da cui procedono, o sono permessi quegli incomodi per nostro esercizio e spirituale profitto. E da questo, che diciamo intorno ai diversi accidenti, che possono avvenire per ciascun giorno, si comprende insieme, come in una sola occasione d’infermità o d’altro travaglio, che continuasse lungamente, possiamo andar facendo atti di quella virtù, in cui allora ci esercitiamo.

Del tempo, che si ha da porre nell’esercizio di ciascuna virtù, e dei segni del nostro profitto.

CAP. XL

Quanto al tempo, nel quale si abbia da continuare nell’esercizio di ciascuna virtù, a me non sta a determinarlo: poiché ciò si ha da regolare dallo stato e bisogno dei particolari, dal progresso che si va facendo nella via dello spirito, e dal giudizio di chi per quella ci guida. Ma se con quei modi e sollecitudini, che detto abbiamo, vi si attendesse davvero, non è dubbio che in non molte settimane si profitterebbe più che molto. Segno d’aver fatto profitto nella virtù è, quando nell’aridità, e fra le tenebre ed angustie dell’anima, e la sottrazione dei gusti spirituali, saldamente si va continuando nei virtuosi esercizi. Di ciò ne darà anco assai chiaro indizio il contrasto, che nel produrre gli atti della virtù, farà la sensualità; ché quanto questa andrà perdendo di forze, tanto in quella sarà da stimare l’avere avanzato. Onde non sentendosi contraddizione e ribellione nella parte sensuale ed inferiore, massimamente fra gli assalti subiti ed improvvisi, sarà quello segno d’avere già conseguita la virtù. – E quanto più gli atti nostri saranno accompagnati da maggiore prontezza ed allegrezza di spirito, tanto più potremo pensare d’avere profittato in questo esercizio. Si avverta però, che non dobbiamo mai darci ad intendere come per cosa certa di essere possessori delle virtù, e vittoriosi affatto di alcuna nostra passione, ancora che dopo molto tempo, e molte battaglie non avessimo sentito i moti suoi, che qui può ancora avere luogo l’astuzia ed operazione del demonio, ed ingannevole nostra natura, onde alle volte quello è vizio, che per occulta superbia pare virtù. Oltre che, se miriamo alla perfezione alla quale ci chiama Iddio, per molto cammino che avessimo fatto nella via delle virtù, non avremmo da persuaderci d’essere pure entrati nei suoi primi confini. – Perciò tu, come novella guerriera, e quasi bambina pure allora nata per combattere, ripiglia sempre, come da principio, i tuoi esercizi quasi che nulla addietro avessi operato. – E ti ricordo figliuola, che tu attenda piuttosto a camminare avanti nelle virtù, che a fare scrutinio del proprio profitto, perché il Signore Iddio, vero e solo scrutatore dei nostri cuori, ad alcuni ciò fa conoscere, ad alcuni no, secondo che vede che a tale cognizione sia per seguirne o umiliazione, o superbia, e come Padre amorevole agli uni leva il pericolo, e agli altri porge occasione d’accrescimento di virtù. E perciò, ancorché l’anima non si avveda del suo progresso, seguiti pure negli esercizi suoi, che lo vedrà, quando piacerà al Signore, che per maggior suo bene lo veda.

Che non dobbiamo lasciarci prendere la voglia d’esser liberi dai travagli, che sostentiamo pazientemente, e del modo dì regolare  tutti i nostri desideri,acciò siano virtuosi.

CAP. XLI

Quando tu ti ritrovi in qualunque cosa penosa, che sia, e la sostieni con animo paziente, sta avvertita di non lasciarti mai persuadere dal demonio, e dal tuo proprio amore di desiderarne la liberazione, perché da ciò ti verrebbero due principali danni. L’uno è, che se questo desiderio non ti togliesse per allora la virtù della pazienza, almeno a poco a poco ci anderebbe disponendo all’impazienza. – L’altro è che la tua pazienza si renderebbe difettosa, e sarebbe ricompensata da Dio solamente per quello spazio di tempo che tu patissi, laddove se non averli desiderato la liberazione, ma del tutto ti fossi rimessa alla sua divina bontà, benché in effetto il tuo patire fosse stato di un’ora sola, ed anche meno, il Signore l’avrebbe riconosciuto per servigio di lunghissimo tempo. Perlochè in quella e in tutte le cose, abbi per regola universale, di tenere i tuoi desideri così lontani da ogni altro oggetto, che mirino puramente e semplicemente nel suo vero ed unico scopo, ch’è il volere di Dio, che di questo modo saranno giusti e retti, e tu in qualunque contrario avvenimento, starai non pure quieta, ma contenta, poiché non potendo occorrere alcuna cosa senza la superna volontà, volendo tu quella, verrai a volere  insieme e avere tutto ciò che desideri e succede in ogni tempo. – Questo, che non s’intende nei peccati d’altri, o tuoi, poiché Dio non li vuole, ha luogo in ogni male di pena, che da quelli, o d’altronde ne venisse, quantanque ella fosse tanto violenta e penetrasse così dentro che, toccando il fondo del cuore, andasse seccando le radici della vita naturale, che questa è pure croce con cui piace a Dio di favorire talora i suoi amici più intimi e cari. – E ciò ch’io dico della sofferenza che hai d’avere in ogni caso, intendilo, quanto a quella parte di ciascun travaglio, che ne rimane, ed è di contento al Signore, che sosteniamo, dopo che faranno stati da noi usati i leciti mezzi per liberarcene. E questi pur anche si debbono regolare dalla disposizione e volontà di Dio che li ha ordinati, alfine che ce ne serviamo, perché Egli così vuole e non con l’attacco di noi stessi, né perchè amiamo e desideriamo la liberazione delle cose moleste, più di quello appunto, che è di suo servizio e piacimento.

Del modo di opporsi al demonio mentre cerca d’ingannarci conla indiscrezione.

CAP. XLII

Quando il sagace demonio si avvede che, con vivi e ben ordinati desideri, camminiamo dirittamente per la via delle virtù, onde con aperti inganni non può tirarci dalla sua si trasfigura in Angelo di luce, e con amichevoli pensieri e sentenze della Scrittura, ed esempi dei Santi, importunamente ci sollecita a camminare indiscretamente nel colmo della perfezione, per farne poi cadere in precipizio. Onde ci conforta a castigare aspramente il corpo con discipline, astinenze, cilici, ed altre somiglianti afflizioni, acciocché, o insuperbiamo, parendoci (come alle donne particolarmente occorre) di fare cose grandi, o perché sopravvenendoci qualche infermità, diventiamo inabili all’opere buone, oppure alfine, che per troppa fatica e pena ci vengano a noia ed abborrimento gli esercizi spirituali, e così a poco a poco, intiepiditi nel bene, con maggior avidità che prima, ci diamo poi in preda ai terreni diletti e passatempi, il che è avvenuto a molti che, seguendo con presunzione di spirito l’impeto di un indiscreto zelo, trapassata con immoderati patimenti esteriori la misura della propria virtù, sono periti nelle loro invenzioni, e fatti in derisione ai maligni demoni. Il che non sarebbe loro succeduto se avessero bene considerate le cose dette, e che a quella forte di atti penosi, ancorché siano lodevoli ed apportino frutto, dove siano forze corporali ed umiltà di spirito corrispondenti, sia però bisogno di temperamento conforme alla qualità e natura di ciascuno. Ed a chi non può in quest’asprezza di vita travagliare con i Santi, non mancano altre occasioni, per imitare la vita loro con grandi ed efficaci desideri ed orazioni ferventi, aspirando alle più gloriose corone dei veri combattenti per Gesù Cristo, col dispregiare il mondo tutto, e se stesso ancora: col darsi al silenzio ed alla solitudine, coll’essere umile, e mansueti con tutti, col patire male, e far bene a chiunque gli è più contrario, e col guardarsi da ogni colpa, anche leggiera, che è cosa più grata a Dio, che non sono gli esercizi afflittivi del corpo, nei quali io do a te per consiglio d’esser piuttosto discretamente parca, per poterli accrescere bisognando, che con  certi eccessi porti a rischio di ridurti a termine di lasciarli: perché già io mi persuado, che tu non sia per inciampare nell’errore di alcuni, per altro tenuti Spirituali, che allettati ed ingannati dalla lusinghevole natura, sono troppo diligenti nel conservarle la loro salute corporale. E se ne mostrano tanto gelosi e ansiosi, che per un minimo che, stanno tempre in dubbio, ed in timore di perderla. E non è cosa, di che pensino più, e trattino più volentieri, che del governo in questa parte della vita loro: onde attendono di continuo a procurare cibi conformi più al gusto, che allo stomaco loro, il quale molte volte per soverchia delicatezza si viene ad infiacchire, il che mentre si fa sotto pretesto di poter meglio servire a Dio, non è altro che volere accordare insieme, senza prò niuno, anzi con danno dell’uno e dell’altro, due capitali nemici  che sono spirito e corpo, poiché con sì fatta sollecitudine a questo della sanità, e da quello si toglie della devozione. E perciò è più sicuro e giovevole per ogni rispetto, un certo modo di viver libero, non scompagnato però da quella discrezione che ho detto, avendo riguardo a diverse condizioni e complessioni, che tutte non soggiacciono ad una stessa regola. – Ed aggiunge che non pure nelle cose esteriori, ma anco nell’acquistare le virtù interiori, dobbiamo proceder con gualche moderazione, come si è dimostrato di sopra nell’acquisto delle virtù a grado a grado.

Quanto possa in noi la mala nostra inclinazione, e l’istigazione del demonio per indurci a giudicare temerariamente il prossimo, e del modo di far loro resistenza.

CAP. XLIII

Dal sopraddetto vizio della propria stima e riputazione, un altro ne nasce, che ci porta gravissimo danno, ed è il temerario giudizio, che facciamo deu prossimi nostri, onde veniamo a tenerli a vile, dispregiarli, ed abbassarli. Il qual difetto, siccome ha il suo nascimento dalla mala inclinazione e superbia: cosi è da lei fomentato, e nutrito volentieri, perché con essi insieme essa ancora si va aumentando, compiacendo, ed ingannando insensibilmente, poiché senza avvedercene, tanto più ci presumiamo d’innalzare noi stessi quanto più nell’opinione nostra, deprimiamo gli altri, parendoci di essere lontani da quelle imperfezioni che in essi ci diamo a credere, che siano. – Ed il sagace demonio, che scorge in noi cosi fatta pessima disposizione d’animo, di continuo stavigilante per aprirci gli occhi e tenerci svegliati, per vedere, esaminare ed ingrandire gli altrui mancamenti. Non si crede, non si conosce dalli trascurati, quanto egli si adopera, e studia per imprimere nelle nostre menti i piccioli difetti, non potendo i grandi, di questo e di quello. Però s’egli vigila ai tuoi danni, sia desta tu ancora, per non cadere nei lacci suoi, e subito, ch’egli ti appresenta davanti alcun fallo del prossimo tuo, prestamente ritira da quello il pensiero, e se pure ti senti muovere a farne giudizio, non ti lasciar condurre, e considera che a te non è stata data questa facoltà, il che, quando anco fosse, non ne potresti pur fare giudizio retto, trovandoti attorniata da mille passioni e purtroppo inchinata a pensar male, senza giusta cagione. – Ma per efficace rimedio di ciò, ti ricordo, che stia occupata con il pensiero nei bisogni del tuo cuore, che ogni ora più ti andrai avvedendo d’avere tanto da fare, e travagliare in te e per te, che non ti avanzerà tempo, né voglia di badare ai fatti altrui. Oltre, che attendendo a tal esercizio nel modo, che si conviene, verrai sempre più a purgare il tuo occhio interiore da quei mali amori onde procede questo pestifero vizio. – E sappi, che quando sinistramente pensi alcun male del fratello, qualche radice dell’istesso male è nel tuo cuore, il quale, secondo che si trova mal disposto, così riceva in sé ogni simile affetto che gli si fa incontro. Però quando ti cade in animo di giudicare altri di qualche difetto, sdegnata contro di te, come di quell’istesso colpevole, dirai nell’animo tuo, come stando in misera sepolta in questi e più gravi difetti, prenderò ardire di levare il capo per vedere e giudicare, quelli degli altri. E così l’armi che indirizzate contro d’altri, venivano a ferir te, adoprate contro di te, porteranno salute alle piaghe tue. Che se l’errore commesso è chiaro e manifesto, scusalo con affetto di pietà, e credi che in quel fratello vi siano delle virtù occulte, per guardia delle quali il Signore permette ch’egli cada, o abbia per qualche tempo quel difetto, perché si tenga più vile negli occhi suoi, e con l’esserne dispregiato dagli altri, ne cavi frutto d’umiliazione, e si faccia più grato a Dio e cosi il guadagno suo ne venga ad essere maggiore della perdita. – E se il peccato è non pure manifesto, ma grave, d’ostinato cuore, ricorri col pensiero ai tremendi giudizi di Dio, dove vedrai uomini ch’erano prima scelleratissimi, esser poi arrivati a segno di santità grande, ed altri dal più sublime stato di perfezione, al quale pareva che fossero pervenuti, esser caduti in miserabile precipizio. E perciò sta sempre in timore e tremore più che d’alcun altro di te medesima. E renditi certa, che tutto quel bene e contento che senti del prossimo tuo, è effetto dello Spirito Santo, ed ogni dispregio, temerario giudizio, ed amarezza contro di lui, viene dalla propria nostra malizia e da diabolica suggestione. Però se alcuna imperfezione d’altri avesse in te fatta impressione non ti acquietare mai, né dar sonno agli occhi tuoi, finché a tuo potere non te la levi dal cuore.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (7)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (7)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Dell’ultimo assalto, ed inganno proposto di sopra con cui tenta il demonio perché le virtù acquistate ci siano occasione di rovina.

CAP. XXXII

L’Astuto e maligno serpente, non manca di tentarci con i suoi inganni, anco nelle virtù che abbiamo acquistate, perché ci siano occasione di rovina, mentre compiacendosi di quelle e di noi medesimi, veniamo a levarci in alto per cadere poi nel vizio della superbia e vanagloria. Per guardarti tu dunque da questo pericolo, combatti sempre, sedendo nel campo piano e sicuro, di un vero e profondo conoscimento che niente sei, niente sai, niente puoi, e niente altro hai che miserie e difetti, né altro meriti che l’eterna dannazione. E fermata e stabilita dentro i termini di questa verità, non ti lasciar mai trar fuori pure un puntino di qualsivoglia pensiero o cosa che ti avvenga, tenendo per certo che tutti siano tanti remici tuoi dai quali (se tu dessi nelle mani loro) ne rimarresti o morta o ferita. Per  esercitarti bene a correre nel suddetto campo della conoscenza vera della tua nullità, serviti di questa regola: “quante fiate volte ti rivolti alla considerazione di te stessa e dell’opere tue, considerati sempre con il tuo e non con quello che è di Dio e della sua grazia. E poi tale si stima quale col tuo ti ritrovi ad essere. Se consideri il tempo avanti che tu fossi, vedrai che in tutto questo abisso d’eternità, sei stata un puro niente, e che niente hai operato, né potuto operare, perché  avessi l’essere. In questo tempo poi, che tu hai l’essere per sola bontà di Dio, lasciando a Lui il suo (ch’è il continuo reggimento col quale ogni momento ti conserva) che altro sei col tuo, che parimente un niente? Peiché non v’è dubbio alcuno, che al tuo primo niente, da cui ti cavò la sua onnipotente mano, ne ritorneresti in un istante, s’Egli per un  solo minimo momento ti lasciasse. È cosa chiara dunque, che in questo essere naturale, stando col tuo, non hai ragione di stimarti, o  di volere da altri essere stimata. Quanto poi tocca al ben essere della grazia, ed all’operare il bene, la tua natura spogliata del divino aiuto, qual cosa buona e meritoria potrebbe ella mai fare da sé medesima? Che considerando dall’altra parte i tuoi molti falli passati, ed oltre a ciò il molto d’altro male, che da te sarebbe proceduto se Iddio con la sua pietosa mano non ti avesse tenuta, troverai che le tue iniquità per la moltiplicazione non pure dei giorni, e degli anni, ma anche negli atti ed abiti mali (poiché un vizio chiama, e tira seco l’altro), sarebbero giunte a numero infinito e tu ne saresti diventata un altro Lucifero infernale. – Onde non volendo tu essere ladra della bontà di Dio, ma starti sempre col tuo Signore, di giorno in giorno peggiore ti devi riputare. Ed avverti bene che questo giudizio che fai di te stessa, sia accompagnato dalla giustizia, perché  altrimenti ti sarebbe di non piccolo danno. Che se quanto alla cognizione della tua malvagità avanzi alcuno che per sua cecità si tenga da qualche cosa, perdi però tu d’assai, e ti rendi peggiore di lui nelle opere della volontà, se vuoi essere dagli uomini riputata e trattata da tale quale sai di non essere. – Se vuoi dunque, che il conoscimento della tua malizia e viltà tenga lontani i tuoi nemici, e ti faccia cara a Dio, fa’ di mestiere, che non pure spregi te stessa, come indegna di ogni bene, e meritevole di tutti i mali, ma, che dagli altri abbia caro d’essere spregiata, abborrendo gli onori, godendo dei vituperi, ed inchinandoti con le occasioni a fare tutto quella che altri spregiano. Il giudizio dei quali, per non lasciare quella santa pratica non hai da stimare punto, purché ciò sia fatto da te per quello fine solo del tuo abbassamento ed esercizio, e non per una certa presunzione di animo, e non bene conosciuta superbia, per la quale talora, sotto altri buoni pretesti si tiene poco o niun conto dell’altrui opinione. E se alle volte ti occorre per alcun bene, che Iddio ti ha dato d’essere come buona, amata e lodata da altri, sta bene raccolta dentro di te , né ti muovere punto dalla suddetta verità e giustizia, ma rivoltati prima a Dio, dicendo con il cuore: Non sia mai Signore, che io sia ladra dell’onore e delle grazie tue …Tibi laus, honor et gloria, mihi confusio!  E poi verso il tuo lodatore, così favellando interiormente: Ond’è, che questi mi tengano per buona, se veramente è buono il mio solo Dio, e le sue opere? Che facendo in questo modo e rendendo al Signore tuo, terrai da lungi i nemici, e ti disporrai a ricevere maggiori doni e favori da Dio. E quando la memoria delle opere buone ti mette in pericolo di vanità,  mirandole, non cosa tua, ma di Dio, quali loro parlando, potrai dire nell’animo tuo Io non so, in qual modo voi ed incominciaste ad aver nella mente mia, perché io non sono l’origine vostra, ma il buon Iddio e la sua grazia vi ha creato, nutrito, Lui solo dunque vo riconoscere per vero, e principale Padre, Lui ringraziare, ed a Lui vo darne ogni lode. – Considera poi, che tutte le opere che hai fatte, giammai sono state non solamente poco corrispondenti al lume ed alla grazia, che per conoscerle ed eseguirle ti è stata concessa, ma per altro ancora molto imperfette, e pur troppo lontane da quella pura intenzione e debito fervore e diligenza, con che dovevano essere accompagnate ed operate. – Onde sebbene vi pensi, piuttosto tu ne hai da vergognare, che da piacerne vanamente, perché è pur troppo vero, che le grazie che da Dio riceviamo pure, e perfette sono, nell’eseguirle dalle nostre imperfezioni macchiate. Di più paragona le opere tue con quelle dei Santi, ed altri servi di Dio, che a comparazione di esse con chiarezza conoscerai, che le migliori, e maggiori delle tue sono di molto bassa lega e valore! Paragonandole poi con quelle dì Cristo, che nei misteri della vita sua e continua Croce per te operò, e considerandole senza la persona Divina in se stesse solamente, e per l’affetto, e per la purità dell’amore con cui furono fatte, vedrai che tutte le opere tue sono, come appunto un niente. Che se per ultimo leverai la mente alla Divinità, ed all’immensa Maestà del tuo Dio, ed al servigio che merita, vedrai chiaro, che non vanità, ma tremore grande ti resta da qualunque tua opera. Onde per tutte le vie in ogni opera tua, per santa ch’ella sia, devi con tutto il cuore dire al tuo Signore: Deus, propitius esto mihi peccatori. – Ti avviso di più, che non vogliesser facile a scoprire i doni, che Iddio ti abbia fatto, che quello quasi sempre spiace al tuo Signore, come ci dichiara Egli medesimo con la seguente dottrina.Apparse Egli una fiata informa di fanciullo ad una sua devota, quasi pura creatura; fu da lei così semplicemente ricercato, che recitando la Salutazione Angelica, cominciò Egli prontamente: Ave, gratia plena, Dominus tecum, Benedicta tu in mulieribus, e poi si fermò, perché non volle con le altre parole lodare se stesso. E mentre ella pure lo pregava, che più oltre dicesse, Egli nascondendosi, lasciò consolata la sua serva, palesandole col suo esempio quella celeste dottrina. – Impara ancora tu figliuola ad abbassarti, conoscendoti con tutte le opere tue per quel niente che sei. Questo è il fondamento di tutte le altre virtù. Iddio, prima che fossimo, ti creò di niente, ed ora, che siamo per Lui, vuole sopra questa nostra cognizione, che da noi niente siamo, fondare tutta la fabbrica spirituale. E quanto più in quello ci profondiamo, tanto più in alto crescerà questa. Ed a proporzione della terra delle miserie nostre, che andremo cavando, vi porrà il divino Architetto tante fermissime pietre, per mandare avanti l’edificio. Né ti persuadere figliuola di poter mai profondarti tanto, che basti: anzi fa’ di te questa stima, che se cosa infinita si potesse dare in creatura, tale sarebbe la tua viltà.Con questa cognizione bene praticata, possediamo ogni bene, senza quella siamo poco più, che niente, ancorché facessimo le opere di tutti i Santi, e stessimo sempre occupati in Dio. O beata cognizione, che ci fa in terra felici e gloriosi in Cielo! O lume, che uscendo dalle tenebre, rende l’arme lucide e chiare! O gioia non conosciuta che risplende fra le immondizie nostre! O niente, che conosciuto, ci fa padroni del tutto! Non mi sazierei mai di ragionarti di ciò; se vuoi lodare Iddio, accusa te stessa, e brama di essere accusata dagli altri. Umiliati con tutti, e sotto a tutti, se vuoi in te esaltare Lui, e te in Lui. Se desideri ritrovarlo, non t’innalzare, ch’Egli fuggirà. Abbassati, ed abbassati quanto puoi, ch’Egli verrà a trovarti ed abbracciarti. E tanto ti accoglierà, e stringerà seco in amore più caramente, quanto più ti avvilirai negli occhi tuoi; e compiacerai d’essere avvilita da tutti, e come cosa abbominevole ributtata. E di tanto dono, che ti fa il tuo, per te vituperato Dio per unirti seco, fa’ che ti stimi indegna, e non mancare di renderli spesso grazie, e tenerti obbligata, a chi te ne data occasione, e più a quelli che ti hanno conculcato, o più credono che tu mal volentieri e di non buona voglia lo sopporti. Il che, quando anche fosse, non devi mostrar segni di fuori. Se non ostante tante considerazioni che sono pur troppo vere, di astuzia del demonio, e l’ignoranza, e la mala inclinazione nostra prevalessero in noi di modo che i pensieri della propria esaltazione non cessassero d’inquietarci, e fare nel cuor nostro impressione, pure allora è tempo d’umiliarci, tanto più negli occhi nostri, quanto che dalla prova vediamo avere poco profittato nella via dello spirito, e conoscimento leale di noi stessi, poiché non possiamo liberarci da sì fatte molestie che hanno radice dalla nostra vana superbia. Così dal veleno caveremo miele e sanità dalle ferite.

Di alcuni avvertimenti per vincere le passioni viziose, ed acquistare le nuove virtù.

CAP. XXXIII

Per molto, ch’io ti abbia detto del modo che hai da tenere per superare te stessa, ed  ornarti delle virtù, pure mi rimane d’avvertirti di altre cose. Primo. Non ti lasciar mai persuadere, volendo far acquisto delle virtù, da quegli esercizi spirituali, che a stampa (come si dice) hanno determinati i giorni della settimana, uno per una virtù, e gli altri per le altre. Ma l’ordine del combattere ed esercizio, sia di far guerra a quelle passioni che ti hanno sempre danneggiato, e tuttavia spesso ti assaltano, e danneggiano, e di ornarti delle virtù loro contrarie, e quanto più perfettamente sia possibile. Perché acquistando tu quelle virtù, tutte le altre con facilità e con pochi atti le acquisterai prestamente nelle occasioni loro, che mai non mancano, essendo che le virtù vanno sempre incatenate insieme e chi ne possiede una perfettamente, tutte le altre le ha pronte nelle porte del cuore. – Secondo: Non determinare mai tempo all’acquisto delle virtù, né settimane, né anni, ma sempre, quali allora nata, e come novello soldato combatti, e cammina all’altezza della perfezione loro. Ne ti fermare pure per un puntino perché il fermarti nel cammino delle virtù, e della perfezione, e non è pigliar fiato e forza, ma ritornare addietro, o diventare più fiacca di prima. – Fermarsi intendo io, il darsi a credere d’aver acquistato la virtù compiutamente, ed il fare alle volte poco conto e delle occasioni, che a nuovi atti di virtù ci chiamano, e de’ piccoli mancamenti. Onde sii sollecita e fervente, e destra, perché non perda pure una minima occasione di virtù. Ama dunque tutte le occasioni che inducono alle virtù, e quelle più che sono difficili a superarsi, essendo che gli atti, i quali si fanno per superare le difficoltà più presto, e con più alta radice fanno gli abiti, ed abbi cari quelli che te le porgono. Quelle solamente a larghi passi con ogni industria e prestezza hai da fuggire, che alla tentazione della carne ti potrebbero introdurre. – Terzo. Sii prudente, e discreta in quelle virtù, che possono cagionare danno al corpo, come sono affliggerlo con discipline, cilici, digiuni, vigilie, meditazioni, ed altre cose somiglianti, perché quelle virtù si devono acquistare a poco a poco, e per li gradi loro come appresso diremo. Dell’altre virtù poi totalmente interne, come amar Dio, spregiare il Mondo, avvilirsi negli occhi propri, odiare le viziose passioni ed il peccato, essere paziente, e mansueta, amare tutti, e chi ti offende, ed altre simili, non vi è bisogno per acquetarle del poco a poco, né di salire alla loro perfezione per gradi, ma sforzati pure di fare ogni atto, quanto più perfetto sia possibile. – Quarto. Tutto il pensiero tuo, il desiderio, ed il cuore altro non pensi, e desideri, o brami, che vincere quella passione che combatti, ed acquistare la virtù sua contraria. Questo sia tutto il Mondo e il Cielo e la terra, questo ogni tesoro tuo e tutto affine di piacere a Dio. – Se mangi, se digiuni, se ti affatichi, se riposi, se vegli, se dormi, se sei in casa, se fuori di casa, se attendi alle devozioni, se alle opere manuali, tutto sia indirizzato a superare e vincere la detta passione ed acquistare la sua contraria virtù. – Quinto. Sii nemica universalmente dei diletti terreni e comodità, che a questo modo con poca forza sarai assalita dai vizi che tutti hanno per radice il diletto. Onde tagliata questa con l’odio di noi stessi, vengono quelli a perdere le forze ed il valore. Che se vorrai far guerra da una parte ad alcun vizio e diletto particolare, e dall’altra attendere ad altri diletti terreni, benché non siano mortali, ma di leggera colpa, dura sarà la guerra, sanguinosa e molto incerta, e rara la vittoria. Perciò terrai sempre a mente queste sentenze divine. Qui amat animam suam, perdet eam, et qui odit animam suam in hoc mondo, in vitam æternam custodit eam. [Jo. XII. 25.] – Fratres, debitores sumus non carni, ut secundum carnem vivamus. Si enim secundum carnem vixeritis, moriemini. Si autem spiritu facta carnìs mortìficaverìtis, vivetis. [Rom. VIII, 12]. – Sesto. E per ultimo ti avviso che sarebbe bene, e forse necessario, che tu facessi prima una confessione generale, con tutti quei debiti modi che si deve, perché  più ti assicuri di stare in grazia del tuo Signore, da cui si anno da aspettare tutte le grazie, e le vittorie.

Che le virtù si hanno da acquistare a poco a poco, esercitandosi per li gradi loro, ed attendendo prima all’una, e poi all’altra.

CAP. XXXIV

Avvegnaché il vero soldato di Cristo, che aspira al colmo della perfezione, non abbia da porre mai al suo profitto termine veruno, tuttavia sono da essere raffrenati con certa discrezione alcuni fervori di spirito che, abbracciati massimamente sul principio con troppo ardenza, mancano poi e si lasciano a mezzo il corso. Onde oltre quello che si è detto intorno al moderarsi negli esterni esercizi, si sappia di più che le virtù interne ancora si hanno da acquistare a poco a poco, e per li gradi loro, che così il poco diventa presto molto e di durata. Onde (per esempio) nelle cose avverse, non dobbiamo ordinariamente esercitarci a rallegrarsene e desiderarle, se prima non siamo passati per li gradi più bassi della virtù della pazienza. E non a tutte, né a molte virtù insieme, consiglio che tu attenda principalmente, ma ad una sola e poi alle altre, perché così si pianta più facilmente e fermamente nell’anima l’abito virtuoso, essendo che, con l’esercizio continuato di una sola virtù, la memoria in ogni occasione a quella corre più prontamente; l’intelletto si va sempre più assottigliando nel trovare nuovi modi e ragioni per acquistarla, e la volontà vi si inchina più facilmente e con maggiore affetto che non sarebbero se molte virtù si occupassero. – E gli atti intorno ad una sola virtù per la conformità che hanno fra loro, si vengono a fare con questo uniforme esercizio meno faticosi, poiché l’uno chiama ad aiuto l’altro suo simile, e per questa somiglianza ancora fanno in noi maggior impressione, trovando la fede del cuore già apparecchiata e disposta per ricevere quelli che di nuovo si producono, come agli altri ad essi conformi diede prima luogo. Le quali ragioni hanno tanto più di forza, quanto che si fa certo che chiunque si esercita bene in una virtù, apprende anco il modo di esercitarsi nell’altra, e così con l’aumento di una crescono tutte insieme per la inseparabile congiunzione che hanno fra loro, essendo raggi procedenti da una stessa divina luce.

De’ mezzi co’ quali si acquistare le virtù, e come ce ne dobbiamo servire per attendere ad una sola per qualche spazio di tempo.

CAP. XXXV

Per acquistare le virtù, oltre quello che ne dicemmo di sopra, si ricerca un animo generoso e grande, ed una non fiacca, né rimessa ma risoluta e forte volontà, e certo presupposto di dover passare per molte cose contrarie ed aspre. Oltre ciò vi si tenga particolare inclinazione ed affezione, la quale si potrà conseguire considerando spesso quanto piacciano a Dio e siano nobili ed eccellenti in se stesse ed a noi utili e necessarie, poiché da esse ha principio e fine ogni perfezione. – Si facciano ogni mattina efficaci proponimenti di esercitarvisi, secondo le cose che occorreranno umilmente in quel giorno, nel quale più volte ci abbiamo da esaminare, e se li abbiamo eseguiti o no, rinnovandoli poi più vivamente. E tutto ciò particolarmente intorno alla virtù che allora avremo alle mani. Parimente gli esempi de’ Santi, le operazioni nostre, e meditazioni della vita e passione di Cristo, tanto necessarie in ogni spiritual esercizio, tutte si applichino principalmente per quell’istessa virtù nella quale allora ci eserciteremo. Il medesimo si faccia di tutte le occasioni (come particolarmente mostreremo più avanti) ancora che siano fra loro diverse. Procuriamo d’avvezzarci talmente gli atti virtuosi interni ed esterni, che veniamo a farli con quella prontezza e facilità con che prima facevamo gli altri conformi alle voglie naturali. E quanto saranno a queste più contrari (come dicemmo in altro luogo), tanto più presto introdurranno l’abito buono nell’anima nostra. I sacri detti della Divina Scrittura espressi con la voce, o almeno con la mente, nel modo che li conviene, hanno meravigliosa forza per aiutarci in quello esercizio. Però, se ne abbiano in pronto molti intorno alla virtù che praticheremo, si vadano dicendo fra il giorno, e  massimamente, quando insorge la contraria passione: come per esempio, se attenderemo all’acquisto della pazienza, potremo dire i seguenti, o altri somiglianti detti: Filii, patientur sustinete iram qua supervenit vobis. [Bar. IV, 25] – Patientia pauperum non peribit in finem. [Ps. IX, 19] – Melior est patiens viro forti, et qui dominatur animo suo, expugnatore urbium. [Prov. XVI, 32] –  In patientia vestra possidebitis animas vestras. [Luc. XXI.19]. – Per patientiam curramus ad propositum nobis certamen. [Heb. XII. 1]. Parimenti per lo stesso effetto potremo dire le seguenti, o simili orazioncelle: Quando, Iddio mio, farà questo mio cuore armato nello scudo della pazienza?Quando per dar contento al mio Signore, passerò con animo tranquillo ogni travaglio? Oh troppo care pene, che mi fanno simile al mio Signor e Gesù appassionato per me! – Sarà mai, unica vita dell’anima mia, che per sua gloria io viva fra mille angosce contenta? Felice me, se in mezzo al fuoco delle tribolazioni arderò di voglia di sostenere cose maggiori! – Di quelle orazioncelle ci serviremo e d’altre, che siano conformi al progresso nostro nelle virtù, e che insegnerà lo spirito della devozione. – Queste orazioncelle si chiamano jaculatorie, perché sono come jacoli e dardi, che si lanciano verso il Cielo, ed hanno forza grande, per eccitarci alla virtù e penetrare fino al cuore di Dio, se da due cose, quasi da due ali, siano accompagnate. L’una è la vera cognizione del contento del nostro Dio per lo nostro esercizio delle virtù. L’altra è un vero ed infocato desiderio d’acquistarle, per questo fine solamente di compiacerne Sua Divina Maestà.

Che nell’esercizio della virtù, si ha da camminare con sollecitudine continua.

CAP. XXXVI

Fra tutte le cose più importanti e necessarie per l’acquisto delle virtù, oltre l’insegnate di sopra, l’una è, che per arrivare al fine, che noi qui ci proponiamo, fa di mestieri continuare, andare sempre avanti, altrimenti col fermarsi solo, si torna addietro, Perché quando noi cessiamo gli atti virtuosi, ne segue di necessità, che per violenta inclinazione dell’appetito sensitivo e dell’altre cose che esteriormente ci muovono, si generino in noi molte passioni disordinate, le quali distruggono, o almeno diminuiscono le virtù, oltre che restiamo privi di molte grazie e doni che, col fare progresso, avremmo dal Signore potuto conseguire. Perciò il cammino spirituale è differente dal cammino che fa il viandante per terra, imperocché in quello col fermarsi non si perde niente del già fatto viaggio, come si perde in quello. Ed oltre a ciò la stanchezza del pellegrino del mondo si aumenta con la continuazione del moto corporale, dove che nella via dello spirito, quanto più si cammina tanto più si acquista maggior forza, e vigore. Perché con l’esercizio virtuoso, la parte inferiore che con la sua resistenza rendeva aspro e faticoso il sentiero, sempre si debilita più, e la parte superiore, dove sta la virtù, più si stabilisce, e fortifica. Onde col progresso nel bene, si va scemando di qualche pena, che vi si sente, e certa segreta giocondità, che per operazione divina si mescola con la stessa pena, ogni ora si va facendo maggiore. A questo modo continuando d’andar sempre con più agevolezza, e diletto di virtù in virtù, si arriva finalmente alla sommità del monte, dove l’anima fatta perfetta, opera poi senza fastidio, anzi con gusto e giubilo, perché avendo già vinte ed amate le sregolate passioni, e soprastando a tutto il creato, ed a se stessa, vive felicemente nel cuore dell’Altissimo, e quivi soavemente travagliando,prende riposo.

QUARESIMALE XXXIII

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco,
Ivrea 1844 –

Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843,
Ferraris prof. Rev. Pe]

XXXIII.

NEL VENERDÌ DOPO LA DOMENICA DI PASSIONE

Expedit, ut unus
moriatur homo pro populo.
[Jo. XI, 50]

1. E sia dunque
spediente a Gerusalemme che Cristo muoia? Oh folli consigli! Oh frenetici consiglieri! Allora io voglio che torniate a parlarmi, quando, coperte tutte le vostre campagne d’arme e d’armati, vedrete l’Aquile romane far nido intorno
alle vostre mura; ed appena quivi posate, aguzzar gli artigli, ed avventarsi alla preda; quando udirete alto rimbombo di tamburi e di trombe, orrendi fischi di frombole e di saette, confuse grida di feriti e di moribondi, allora io voglio che sappiate rispondermi s’è spediente. Expedit!E oserete dir expeditallora quando voi mirerete correre il sangue a rivi, ed alzarsi la strage a monti? Quando rovinosi vi mancheranno sotto i piedi gli edifizi? Quando svenate vi languiranno innanzi agli occhi le spose? Quando, ovunque volgiate stupido il guardo, voi scorgerete imperversare la crudeltà,
signoreggiare il furore, regnar la morte? Ah! non diranno già expedit! quei bambini che saran
pascolo alle madri affamate; non diranno quei giovani che andranno a trenta per soldo venduti schiavi; non lo diranno quei vecchi che penderanno a cinquecento per giorno confitti in croce. Eh che non expedit, infelici, no che non expedit. – Non expedit né al santuario, che
rimarrà profanato da abominevoli laidezze; né al tempio, che cadrà divampato da formidabile incendio; né all’altare, dove uomini e donne si scanneranno, in cambio di agnellini e di tori. Non expedit alla Probatica, che si vuoterà di acqua per correr sangue. Non expedit all’Oliveto, che diserterassi di tronchi per apprestare patiboli. Non expedit al sacerdozio, che perderà l’autorità; non al regno, che perderà la giurisdizione; non agli oracoli, che perderanno la favella, non ai profeti , che perderanno le rivelazioni; non alla legge, che qual esangue cadavere rimarrà senza spirito, senza forza, senzaseguito, senza onore, senza comando, né
potràvantar più suoi riti, né potrà salvare i suoi professori: mercecchè Dio vive in cielo, a fine di scornare e confondere tutti quegli, i quali più credono aduna maliziosa ragion di Stato, che a tuttele ragioni sincere della giustizia; ed indi vuole con memorabile esempio far manifesto che non est sapientia, non est prudentia, non est consilium contra Dominum (Prov. XXI. 30). Ecco: fu risoluto di uccidere Cristo, perché i Romani non diventassero padroni di Gerosolima; e diventarono i Romani padroni di Gerosolima, perché fu risoluto di uccider Cristo. Tanto è
facile al Cielo di frastornare questi malvagi consigli, e di mostrare come quella politica, che si fonda non nei dettami dell’onestà, ma nelle suggestioni dell’interesse, è un’arte quanto
perversa, altrettanto inutile; e la quale anzi, in cambio di stabilire i principati, gli stermina; in cambio di arricchirle famiglie, le impoverisce; in cambio di felicitare l’uomo, il distrugge.
Questa rilevantissima verità voglio io pertanto questa mattina studiarmi di far palese perpubblico beneficio, provando che non è mai utile quello che non è onesto, onde nessuno si dia follemente a credere che per esser felice giovi esser empio.

II. Ma prima vi confesso, uditori, che mi dà quasi rossore il dovere agitare un tale argomento in questo teatro; quasi che presso ai Cristiani ancor sia dubbioso quello che fu sì chiaro presso ai Gentili. Con che furore non si scagliò Cicerone contro coloro i quali ardirono di seminare i primi nel mondo questa dottrina, che ciò che non è onesto possa esser utile? Non li chiamò perturbatori della quiete, discioglitori delle amicizie, distruggitori delle repubbliche, sterminatori delle virtù, sollevatori del mondo? Quindi a lor confusione narra un successo che molto può valere a confusion nostra, e fu questo ch’or io dirò. Parlando un giorno Temistocle nel senato di Atene, disse di avere un consiglio utilissimo alla repubblica; ma che siccome non voleva proporlo in pubblico, così gli fosse assegnato qualcuno, cui lo confidasse in privato. Fu destinato Aristide per ascoltarlo; e a lui Temistocle distintamente scoperse una certa frode, con cui si poteva maliziosamente dar fuoco ai legni spartani loro nemici, benché allora lor collegati. Udito questo, Aristide tornò
in senato con grandissima espettazione d’ognuno, e senza spiegare il caso in particolare, sol disse in genere, che il consiglio di Temistocle era utile sì, ma non era onesto: perutile est consilium Themistoclis reipublicæ, sed minime honestum. Come? ripigliarono allora
tutti, gridando senza distinzione e senz’ordine, ad una voce: questo è impossibile. Se il consiglio non è onesto, non può nemmeno esser utile: quod onestum non est, non potest esse utile. E cosi, senza neppur degnarsi di udirlo, lo ributtarono: tanto era radicata in quei consiglieri quest’opinione, come conchiuse Cicerone, e con lui Plutarco, ut quod justum
non erat, minime putaretur esse utile
. – Or se alle menti di persone Gentili pareva questa verità così manifesta, com’è possibile che non
vogliam persuadercela noi che pur ne abbiamo tante ampie testimonianze dall’istessa infallibile Verità? Finalmente quei miseri non sapevano, dipendere le sorti di tutti gli uomini dalle mani di un solo Dio. Ammettevano molti Dei, diversissimi e discordissimi, tra i quali però non era gran fatto, che se uno favoriva la virtù,
un altro prosperasse per onta la scelleraggine. Anzi quale scelleraggine si trovava, che non avesse in ciclo il suo protettore? Proteggeva Giove gli adulteri, Mercurio i ladri, Marte i sanguinolenti, Bacco gli ubbriachi, Venere i lussuriosi, Plutone gli avari. Sicché i loro adoratori sarebbero finalmente stati in parte scusabili, se avessero giudicato, poter esser talora il vizio felice, mentre ogni vizio aveva per protettore anche pubblico qualche dio. Ma noi Cristiani, i quali crediamo esserci un Dio unico al mondo, e questo, quanto parziale della virtù, tanto nemico dichiarato del vizio, com’è possibile che con arti malvage dobbiamo mai sperare di farcelo favorevole? – Non dipende forse dalla sua mano qualunque nostra prosperità, così piccola, come grande sicché senza suo volere né spira un fiato per l’aria, né biondeggia una spiga per le campagne? Questo è certissime» In manu Dei prosperitas hominis, così chiaramente protestane l’Ecclesiastico (X, 5). Bona et mala, vita et mors, paupertas et honestas a Deo sunt(Ib. XI, 14). Adunque che politica è questa: per acquistar felicità, maltrattare chi la dispensa, offendere chi la dona? Pare a voi dunque bell’arte, per ricevere grazie, arrecare affronti; per riportare favori, usar villanie?

III. Risponderete, che in Dio forse non vale quest’argomento; perocché disprezzando Egli i beni terreni, non è però gran fatto che li comparta ancora a chi non li merita. Lasciar Lui piuttosto la cura di tali beni alle cagioni da noi chiamate seconde, da cui senza tanti riguardi son dispensati più largamente a coloro, i quali per altro pongono mezzi di lor natura più validi a conseguirli. Ma piano di grazia, perché codesto è un discorso, quanto lusinghevole agli empi, tanto fallace; onde io mi stimo obbligato a scoprirne la falsità, per togliere l’inganno. Ditemi un poco però: Dio non ha sempre sprezzati questi beni terreni all’istesso modo? Dio non si è sempre valso delle cagioni seconde all’istessa forma? Di questo non si può dubitare. E nondimeno io ritrovo, che per conseguire felicità ancor temporale, a nessuno ha giovato l’esser empio, laddove a molti spesso ha giovato esser pio. Parvi forse strana, uditori, questa proposizione? Io mi conforterei di provarvela con l’induzione di tutti quegli uomini memorabili ch’han fiorito fin dai principi del mondo, se il tempo me lo permettesse; ma perché questa mi sarebbe un’impresa, se non troppo difficile, almeno troppo ampia,
ristringiamoci dentro alcuni confini. Ditemi adunque: se nel naufragio del mondo s’ebbe a salvare una famiglia fra tutte, quale fu scelta? quella dell’empio, o quella di un giusto? Se dall’incendio di Sodoma s’ebbe a sottrarre una famiglia fra tante, quale fu favorita, quella di un impudico, o quella di un casto? Chi  possedette ai giorni suoi maggiori ricchezze di un Abramo, di un Isacco, di un Giacobbe, di un Giuseppe,
patriarchi tutti santissimi? Ed a Giuseppe singolarmente qual arte giovò sì per salire al trono, la malvagità o l’innocenza? Quando egli con cuore intrepido resisteva alle violenze ed ai vezzi della padrona, credo io che alcuno di questi odierni politici non avrìa mancato di sussurrargli all’orecchio: Giuseppe, mirate bene a ciò che voi fate. Non so se vi torni conto di disgustar la padrona, e padrona sì ricca, e padrona sì amica, e padrona sì potente. Il
marito è lontano; la camera è segreta: chi lo saprà? Importa troppo la grazia di una donna la quale, impetuosa in qualunque affetto, non sa né amare, né odiare, se non in sommo. Eppure si sarìa trovato consiglio più pernicioso per la
prosperità di Giuseppe? È vero ch’egli, per non avere aderito a questo consiglio, si trovò in prigione ed in ceppi; ma la prigione non lo introdusse alla reggia? I ceppi non gli fabbricarono la corona? Passiamo avanti. Se Mosè, ancor fanciulletto, prezzava il diadema postogli da Faraone sul capo (come Filone racconta), se si rimaneva nella sua Corte, se seguitava i suoi riti, sarebbe mai divenuto quel condottiero di un tanto popolo, quel terrore di un tanto Re? Ricusò egli d’esser suo nipote, e fu constituito suo Dio: ecce constitue te Deum Pharaonis (Exod. VII. 1). Le felicità poi della terra lungamente promessa da chi furono conseguite? Dai sollevatori del popolo? Dagli adoratori del vitello? dai dispregiatori di Dio? Neppur uno di questi, che pur erano più di seicentomila, vi pose il piede. E chi espugnò tante piazze, chi fugò tanti eserciti, chi
riportò tante spoglie ai tempi dei Giudici, se non un Giosuè, un Calebbo, un Otoniello, un Gedeone, ed altri tali a lor somiglianti nella virtù, i quali tutti, come osservò l’Ecclesiastico (XLVI, 12), furono grandemente felici, ut viderent omnes, quìa bonum est, obsequi sancto Deo? E venendo a tempi dei Re, qual di loro
ritroverassi, a cui l’impietà fosse d’utile, e non di danno? Me ne rammenterete pur uno? Se un Saule conseguì lo scettro per la bontà, non lo perdette per la colpa? Se un Davide provò mai fortuna contraria, non fu sol quando trasgredì la
legge divina? E a Salomone quanto giovò l’aver preposta in quella sua famosa elezione alle ricchezze la sapienza! Buon per lui, che non chiamò prima a trattato su questo affare veruno di quegl’iniqui statisti, di cui parliamo; perché io credo fermamente che tutti gli avrebbero detto: sacra maestà, pensateci un poco bene,
non precipitate il giudizio, non avventurate l’elezione. Che rilieva a voi tanta scienza? Mancheranno nello stato vostro dottori, mancheranno legisti, quando si avranno a decidere le controversie, o a ventilare le liti? Non sono le lettere quelle che costituiscono un principe formidabile. A voi si conviene dilatare le possessioni, accrescere le entrate, riempir l’erario; altrimenti si rideranno i nemici vostri di voi, quando vi vedranno ricco di libri, ma povero di danari, liberale d’inchiostro, ma scarso d’oro. Questo senza dubbio sarebbe
stato il consiglio di tali politicastri. Ma quanto fu meglio per Salomone conformarsi ai dettami dell’onestà, che non alle suggestioni dell’interesse! Che se dopo un tempo cominciò a declinare la gran felicità del suo stato, qual
ne fu la cagione? Non fu perch’egli deviò dal sentiero de’ divini comandamenti? Scorrete poi pur con agio tutto il catalogo de’ re di Giuda, suoi successori; voi troverete che i più fortunati furono un Ezechia, un Gioatamo, un Giosafatte, e un Giosia, che furono parimenti i più giusti. Questi goderono lunga vita, questi fabbricarono nuove piazze, questi accumularono ricche entrate, questi acquistarono meravigliose vittorie. In alcuni poi variò il tenore della loro felicità, conforme il vario tener de’ loro costumi, come può vedersi in Asa, in Gioas, in Ozia ed in Manasse. Ma tutti gli altri, sì re di Giuda, come re di Samaria, i quali furono
costantemente malvagi, furono ancora costantemente infelici: che però loro furono le ribellioni, loro le sconfitte, loro i disertamenti, loro le prigionie, loro le stragi. Ma che più? Non è chiarissimo il testimonio registrato sopra di ciò dall’istesso Spirito Santo? Leggasi al capo quinto presso Giuditta (ver. 21). Usque dum non
peccarent in conspectu Dei
sui, erant cum illis bona. Ubicumque ingressi sunt sine arcu et sagitta, et absque scuto et gladio; Deus eorumpugnavit
prò eis vicit.
(ver. 16). Et non fuit (
ponete mente alle parole che seguono), et non fuit qui ìnsultaret populo isto, nisi quando recessit a cultu Domini sui (ver. 17). Ora io vorrei sapere un poco da voi, signori miei cari: Iddio governa oggi più il mondo in quella maniera medesima, con cui governa ai tempi di questi principi, o veramente ha Egli mutato stile? Dite: d’allora in qua ha Egli nella sua mente variate massime? ha Egli nel suo cuor cambiato volere? Forse finalmente s’è indotto ad amare il vizio, se allora lo abbominava? Ovvero non è ora più Egli quel che governa, ma ha cedute per avventura le briglie dell’universo a un Caso cieco, o a una Intelligenza maligna? O, se non altro, è sottentrato in suo luogo qualcuno di quegli dei menzogneri, i quali a gara prendevano il patrocinio delle persone malvagie? Che v’è di nuovo nella natura, che v’è? Ohimè, che solo il cadere in tali sospetti, non che l’esprimerli, è bestemmia troppo inaudita: Ego Dominus, et non mutor; cosi ci fa Dio sapere per Malachia (III, 6). Son quel di prima, son quel di prima. Ma s’è così, come dunque possiamo noi confidare, che per conseguir felicità ci debba mai giovar l’esser empio? Non è questa una presuntuosa baldanza,
quasi che Davide non intendesse di favellare per noi pure, quando egli disse che vultus Domini super facientes mala, non per arricchirli, non per esaltarli, non per accreditarli, ma ut perdat de terra memoriam eorum(Ps. XXXIII. 17), per mandarli tutti in malora?

IV. Ma perché non crediate che a favore mio vada io mendicando forse argomenti da un solo popolo, governato già dal Signore con un’assistenza più particolare, e più propria,
facciamo così: mettete un poco voi da una parte il malvagio Erode, quello il quale per l’antichità si chiama il Maggiore, ed io per confronto metterò frattanto dall’altra il piissimo Costantino, quello il quale per i meriti è
detto il Grande. Ad ambedue questi principi vien proposto un sanguinoso macello d’innocenti bambini: a quello per assicurarsi lo scettro, a questo per salvarsi la vita. Risponde Erode: si faccia questo macello, purché io non perda lo scettro. Risponde Costantino, perda io la vita, purché per me non si faccia questo macello. Ora date voi la sentenza. Che giovò più, ad Erode la sua empietà, o a Costantino la sua giustizia? Volete saperlo? Attendete. Costantino, il quale ricusò quella strage, guarì della sua insanabile
infermità, e godette inoltre tranquillamente lo scettro. Erode, il quale la eseguì, perdé tra poco lo scettro, cadendo in una più orribile infermità. E pur famosa la lagrimevole fine che fece Erode, quando vedendosi cascare a brano a brano le carni, verminose prima che morte, addolorato dalle frequenti punture de’ nervi attratti, annoiato dall’intollerabile fetore delle membra incadaverite, tentò di accelerarsi la morte con un coltello. Ma senza ciò. Se prima Costantino aveva travagliato fra spesse ribellioni, di poi provò una giocondissima pace. Se Erode aveva prima provato gioconda pace, di poi travagliò fra spessissime ribellioni: perciocché congiurandogli contro il medesimo Antipatro suo figliuolo, aveva già concertato di avvelenarlo. Onde laddove potette Costantino, ancora vivente, crear Cesari i suoi figliuoli, Erode fu costretto a farli prigioni. Ma che dico a farli prigioni? Non prevalse ai suoi giorni quel  motto celebre: Melius est Herodis porcum esse, quam filium? E con qual fondamento  prevalse, se non perché chi perdonava la vita a quegli animali, come Giudeo, a due figliuoli la tolse, quantunque padre. Che se gran parte dell’umana felicità si stima l’essere amato, siccome l’essere odiato si tiene gran parte dell’umana miseria, quanto pur furono differenti tra loro Costantino ed Erode per un tal capo! Chi può contare le statue, gli archi, i
trofei che furono a Costantino innalzati dall’amor pubblico? Non così invero
di Erode: perocché avendo egli eretta per sua memoria non so qual aquila d’oro, gli fu tratta a terra, e gli fu fatta in pezzi con pubblica sedizione. Che più? Racconta Gioseffo ebreo, scrittore diligente delle sue antichità, che niuna
cosa recava al malvagio principe tanta angoscia, quanto l’accorgersi dell’indicibile contento che dalle sue disavventure traevano i suoi vassalli, onde, prima di morire, avendo con certa fraude imprigionata nel circo tutta la nobiltà, die ordine che sul punto ch’egli spirava fosse mandata subito a fil di spada, perché così nella sua morte dovessero a forza piangere quei che non s’inducevano a piangere per amore. Ora ditemi dunque, signori miei: per titolo di acquistare felicità qual arte voi giudicate più, vantaggiosa: quella che tenne Erode
uccidendo tanti innocenti bambini, o quella che usò Costantino ricusando di ucciderli?
Conviene che o sia cieco chi non conosce, o protervo chi non si arrende a tal verità, tanto ella è palpabile.

V. Ma questo è poco. Tutte le istorie ecclesiastiche non ci dimostrano anch’esse concordemente quanto più vagliano a conseguire prosperità, ancora supreme, le arti sincere della innocenza, che le stravolte della malvagità? Mirate un poco tre celebratissimi
imperatori, Gioviano, Valentiniano, e Valente. Tutti e tre questi, per quali vie s’incamminarono al soglio, se non per quelle onde l’umana politica avrìa creduto che se ne dovessero dilungare? Ritiraronsi tutti e tre, mentre ancor erano capitani privati dal servigio dell’insolente Giuliano apostata, per non aderire ai suoi
folli comandamenti; e non passò molto che in quella Corte, donde uscirono esuli, rientrarono Imperatori. E qual prudenza mondana doveva all’imperator Onorio approvare quelle belle arti, con le quali egli governava il suo Stato?
Considerate di grazia. Qualora, cinto da mille spade nemiche, vedeva che i Barbari gli movevano guerra, che faceva egli? Prendeva subito a muover guerra agli Eretici; e con questa diversione di armi, con cui pareva che dovesse
indebolire lo Stato, il fortificava. Ma non avrìa creduto altrimenti? Come? (si doveva allora strepitare ne’ suoi Conigli) che prudenza è mai questa? Quasi i Goti e gli Unni inondando sopra di noi dalle Spagne, non siano bastanti a
desolarci lo Stato, irritarci ancora contro l’Africa i Donatisti? Anzi ci dovremmo studiare con tutti i mezzi di renderli a noi concordi e confederati, quando essi ci volessero inimicare in simili congiunture. Qual ragione vuol dunque che da noi medesimi li irritiamo, mentr’essi non ci dan noja? prendasi pur a cuore le ingiurie della Religione; ma quando sieno prima fermati gli interessi della repubblica: altrimenti
cadrà la repubblica e non sosterassi la Religione. Così dovevasi probabilmente discorrere in quei Consigli. Ma quanto fallacemente! perocché Dio con riuscite affatto contrarie dava a conoscere che allora più sicura trovavasi la repubblica, quando per la Religione esponevasi a più cimenti. E non combatté egli però con armi invisibili a favore di Onorio, uccidendo ben
duecento mila soldati fra Goti ed Unni, condotti da Radagaso? Anzi, come se ciò fosse poco, gli estinse ancora nel breve giro di un anno sette usurpatori tirannici dell’impero, un Alarico, un Costantino, un Costante, un Massimo, un Giovino, un Sebastiano, un Saro, e altri simili, i quali a guisa di tanti cani nibbio, se gli erano
avventati alla vita. Tanto che correva
allora nel mondo questo bel detto:
far quasi a gara tra loro Dio ed Onorio: Onorio per sterminare i nemici di Dio; Dio per sterminare i nemici d’Onorio. Che se finalmente una volta pur sotto lui prevalsero i Barbari, e saccheggiarono Roma, rispondetemi, quando fu? Non fu quando il misero si lasciò vincere dalle importune istanze dei suoi, e concedé per alcun tempo sì agli Etnici, sì agli Eretici il
libero uso delle loro religioni? Allora Roma diventò subito preda del furore goto, allora divamparono le sue case, allora rovinarono le sue torri, allor seguì quell’eccidio così famoso, su cui versò tante lagrime san Girolamo quando scrisse: peccatis nostris barbari fortes sunt (Ep. 2 ad Heliod.). E che ciò sia pur vero, si manifesta; perché tosto che Onorio, ravvedutosi dell’errore, annullò le leggi malvagie, ed si affaticò per la distruzione delle fedi false e per la dilatazione della vera; tosto, dico, le cose cambiarono faccia: morirono i suoi principali nemici, e diventarono difensori di Roma quei Goti stessi, i quali n’erano stati gli oppugnatori. Piacesse al Cielo che le strettezze del tempo mi permettessero di trascorrere ad uno ad uno gli annali degli altri principi, a me ben noti: io son certissimo che l’esempio di ognuno porgerebbe baldanza all’iniquità, mentre le vicende stesse
vedreste ne’ due Teodosj, in un Arcadio, in un Giustino e in un Giustiniano, in un Maurizio, in un Eraclio, e in tanti altri, allora miseri, quando fecero ubbidire la Religione all’interesse; allor felici, quando fecero servire l’interesse alla Religione. Se non che, a che vale stancarsi più lungamente in accattare testimonianze dagli uomini, dove abbiamo sì in pronto quelle di Dio?
Ditemi un poco: l’infelicità non fu introdotta nel mondo a cagion del peccato? Certo che sì, risponderà l’Ecclesiastico (XL, 9 et 10): mors, sanguis, contentio, oppressiones, fames, et contritio, et flagella super iniquos creata sunt, et propter illos factus est cataclysmus. Pel peccato hanno inondato nel mondo tante sciagure;
pel peccato le guerre, per il peccato la povertà, pel peccato le pestilenze, pel peccato le carestie, pel peccato l’infamie, pel peccato la morte. Adunque come possiamo mai credere che il peccato sia mezzo acconcio a sfuggir l’infelicità, e non piuttosto ad incorrerla, se egli ne fu la cagione? Falso, falso! Se un iniquo dalla sua iniquità ritrarrà qualche ventura, qualche gloria, qualche grandezza, tutto sarà per mero accidente: di primaria istituzione sarà che avvenga il contrario. E però chi non vede che molto più frequentemente avverrà quello ch’è
d’istituzione primaria, che non quello ch’è per mero accidente?

VI. Ripiglierete: somiglianti ragioni per avventura tutt’essere e belle e buone; nulladimeno non poter voi ribellarvi a ciò che il senso vi attesta, ed a ciò che dimostravi
l’esperienza: che il mondo ha sempre abbondato di empi felici; che questo ha fatto sempre aguzzar mille penne contro la Provvidenza, questo fremere mille lingue; e che a volerla ora negare, bisognerebbe bruciar gli annali dei popoli, le declamazioni degli oratori, le
satire dei poeti, e fino i lamenti de’ profeti medesimi, i quali esclamano: quare via impiorum prosperatur? (Jer. XII, 1). Piano, piano; che voi credete con cotesta replica vostra di avermi a un tratto conquiso, non che convinto: eppur voi nulla provate contra di me. Il mondo ha «sempre abbondato di felici? Questo è falsissimo, perché senza paragone sono stati più gli empi miseri, benché la felicità sia più osservata negli empi, che la miseria, come cosa più sconveniente. Con tutto ciò volete ch’io vel
conceda per cortesia? Su, sia così: che no inferite però contro il mio discorso? Dunque è giovevole il vizio, dunque è utile l’empietà, dunque ad esser felice giova esser empio, ch’è la proposizione ch’io vi contrasto? Nego la conseguenza. Sapete dove consiste l’inganno vostro? Consisto in questo: che voi credete tali uomini esser divenuti felici per la malvagità; ed io vi dico di no. Vi dico ch’essi divennero tali mercé qualche opera buona, o cristiana o naturale, o morale, da loro fatta. Seminanti justitiam merces fidelis; tal è l’assioma infallibile dei Proverbi (XI. 18). Però, non lasciando mai Dio di premiar fedelmente verun’azione virtuosa, qualunque siasi, come non lascia mai
di punirne alcuna malvagia, ha voluto con quella breve prosperità temporale rimunerare coloro ai quali per altro erano destinali tormenti eterni. – Furono crudeli i Goti, ma nemicissimi d’ogni carnalità; bestiali gli Unni, ma alieni
da ogni delizia; rapaci i Vandali ma zelantissimi ancora in sterminare il culto d’idolatria. I Romani per contrario quantunque superstiziosi, non è credibile quanto fossero retti, liberali, fedeli, sobri, magnanimi, ed amanti dei popoli lor aggetti. Ne’ Turchi è insigne l’ubbidienza ai loro Principi; negli Svechi è singolare la fede alle lor consorti; e quel ch’io dico di questi popoli in
genere, dite voi di più personaggi in particolare, come di un Jerone, d’un Pisistrato, d’un Dionisio, d’un Falaride, d’un Periandro, d’un Mario, d’un Gracco, d’un Silla, e di altri tali per alcun tempo felici nell’impietà. Furono tutti costoro malvagi sì; ma si scorse anche chiaro in ciascuno d’essi quanto sia quel dettato comune, che coi gran vizi, sogliono andare bene spesso
congiunte di gran virtù: epperò Iddio, che doveva poi dare a’ lor vizi una lunga pena, volle dar prima alle lor virtù un breve premio, guiderdonandole, siccome erano tutte virtù manchevoli con bastoni di comando, con diademi di principato, con vittorie, con trofei, con tesori, e con altre simili felicità temporali; ch’è quanto dire, coi bricioli della sua mensa, con la polvere dei suoi piedi, con la spazzatura che si getta dai balconi del suo palazzo. Chi non
vede però come questo medesimo non abbatte, ma conferma piuttosto l’intento mio, mentre ancor fra’ Gentili, se ben rimirasi, là si è trovata maggiore prosperità, come lungamente dimostra santo Agostino (De Civ. Dei), dove si sono trovate virtù maggiori, se non vere e
reali, almeno verisimili ed apparenti?

VII. E non è per tutto ciò ch’io non sappia, Cristiani miei, che Dio più d’una volta permette
che l’uomo arrivi con l’istesse malvagità ad acquistare or qualche carico illustre, ed ora qualche rendita copiosa: questo è verissimo. Ma io dico, che neppur in questo caso medesimo si deve chiamare utile quella malvagità; perché, regolarmente parlando, sempre sarà più il male, che il bene, il qual ne derivi. Prosperitas stultorum (come Salomone testifica) perdet illos(Prov. I. 32). Non dice perdit, ma perdet. E perché ciò? Perché non sempre una tale
prosperità produce immediatamente i suoi tristi effetti, ma a passo a passo. Eh aspettate un poco di grazia, aspettale un poco, e vedrete dove andrà a terminare quel carico conseguito con le oppressioni degl’innocenti, dove quell’oro
accumulato con l’estorsioni dei poveri. Non avete mai letto là presso Giobbe, che Dio talvolta con gli uomini si trastulla, e che però adducit consiliarios in stultum fìnem? (Job. XII. 17). Non in stultum principium, no; in stultum finem. La
scia che alzino la gran torre di Babele; ma di poi fa che per la confusione vadano dispersi. Lascia che alzino la bella torre di Siloe; ma di poi fa che
sotto le rovine vi restino seppelliti. Questo è l’inganno, per lo quale molti uomini giudicano talora fortunata l’iniquità, e che ha condotti anche i Profeti medesimi a querelarsi amorosamente di Dio, e quasi ad accusar la sua provvidenza. Hanno i meschini considerato il principio, ma non hanno con Davide atteso il fine: donec intelligam in novissimis eorum (Ps. LXXII, 17); ch’è quanto dire, si sono fissi a mirare il bel capo d’oro dell’eccelso colosso
babilonese, e quivi tutti attoniti, tutti assorti, non hanno subito calati gli occhi a osservare i piedi di fango. Udite, e si stabilisca la verità.

VIII. Se dopo il nascimento di Cristo fu serie d’uomini, i quali con arti inique si avanzassero
a grandi acquisti, furono senza dubbio gl’imperatori, o, se così vogliamo piuttosto chiamarli, tiranni greci. Ora ditemi: vi sono però stati altri ìmperi ch’abbiano dati, o più fortunosi, o più ferali argomenti alle scene tragiche? Niceforo il primo giunse alla fine co’ suoi tradimenti e con i suoi spergiuri ad usurparsi l’impero, scacciandone Irene, giusta posseditrice. Ma che? per le continue calamità divenne a sé medesimo sì obbrobrioso, che si chiamava nuovo Faraone indurato nelle disgrazie; ed alla fine sconfitto e ucciso da’ Bulgari, diede occasione a’ suoi nemici di fare del suo cranio una tazza, dove, non so
se per allegrezza o per onta, tutti beverono i principali del campo. Giunsero pur
Staurazio con illegittime nozze, e Leone Armeno con pubbliche ribellioni a
stabilirsi nel principato: ma quanto andò che per tal cagione morirono trucidati, l’uno in guerra, l’altro all’altare? Michele Balbo arrivò nella sua famosa congiura a passare dalla carcere al soglio, ed a farsi quivi adorare, mentre ancor era con le catene al collo e con i ceppi ai piedi; ma avendo ardire per tale prosperità di sposare una vergine sacra, subito gli si ribellò tutta la Schiavonia, subito gli fu sbaragliato tutto l’esercito; né per ciò ravvedendosi, fu consumato da una infermità stomachevole. Teofilo per le sue ragioni di Stato
arrivò quasi a spegnere affatto il culto delle immagini sacre; ma presto ancora
morì di affanno e di rabbia per una lagrimevole rotta ricevuta da’ Saracini. Michele III, riputato per le sue libidini e per le sue crudeltà novello Nerone, giunse a sterminar i tutori e sbandir la madre, per poter senza direttore regnare più
francamente; ma quanto fu però contro di esso l’odio del popolo, quante le ribellioni, dalle quali alla fine rimase estinto, mentre giaceva sopraffatto dal sonno ed ebbro dal vino! Riuscì ad Alessandro di spogliare gli altari sacri,
per trasportare, nel fisco l’oro de’ tempj; ma incontenente impazzì: né compì prima l’anno del principato, che vomitò col sangue insieme la vita. Che dirò di Romano I? Conseguì egli con astutissima frode di collocare nella sedia
patriarcale di Costantinopoli un suo figliuolo fanciullo con discacciarne il legittimo possessore; ma l’anno stesso da un altro dei suoi figliuoli fu discacciato egli ancor dal trono imperiale, e rilegato in un’isola solitaria. Così il
secondo Romano giunse ancor ei, per vaghezza di dominare, a togliere con veleno il padre dal mondo; ma fra brevissimo tempo fu tolto anch’egli dal mondo pur con veleno. Michele Paflagonio ottenne con arti inique d’intrudersi
nell’imperio; ma fu invasato subito dal diavolo, da cui né per esorcismi, né per limosine, si poté più liberare fino alla morte. Michele Calefate conseguì d’esiliare l’imperatrice per regnar solo; ma fu pigliato incontinente dal popolo, da cui lapidato e accecato, fu strascinato ancor vivo per la città. E l’istessa lagrimosa fine ancor fecero Diogene ed Andronico, saliti ambedue sul
soglio imperiale, l’uno col favore di amore impudico, l’altro col braccio di barbara fellonia. – Rispondetemi ora: pare a voi che si potessero chiamar punto felici le malvagità con cui questi si vantaggiarono? – Dite su: vi contentereste voi di godere dei loro acquisti, mentre dovreste parimente addossarvi le loro perdite? Chi v ‘è, chi v’è così sciocco, il quale stimi invidiabile la lor sorte? Or figuratevi che tal è stata universalmente la sorte di tutti quei che con arti inique anelarono ai lor vantaggi. Prosperitas  stultorum perdet illos; sì, miei signori, prosperitas stultorum perdet illos (Prov. I. 32). Eh che non accade affannarsi in tal verità!
Gridano tutti i libri, esclamano tutti i secoli, e tutti i regni unitamente sentenziano a favore della virtù: Justitia elevat gentes(Prov. XIV. 34); udite se può trovarsi un detto più favorevole al nostro intento, uscito dalla penna pur esso di Salomone: Justitia elevat gentes: la giustizia si è quella la quale sublima i popoli, li risuscita, li ravviva. Che quella che li fa miserabili? Il sol peccatro: miseros autem fàcit populos peccatum (Ibid.). Così pur altrove egli dice: non roborabitur
homo ex impietate
(Ib. XII. 3); ed altrove: in insidiis suis capientur iniqui(Ib. XI, 6); ed altrove: in impietate sua corruet impius(Ib. XI. 5); ed altrove: qui seminat iniquitatem, metet mala(Ib. XXII. 8). La Sapienza concorda in parlar così: malignitas evertet sedes potentium (Sap. V. 24), punto differente è il linguaggio dell’Ecclesiastico, il qual ci ha lasciato questo notabilissimo avvertimento, che i principati si veggono bene spesso andar vagabondi regnum a
gente in gentem transfertur
(Eccl. X, 8). Per qual cagione? per le ingiustizie, per le iniquità, per le fraudi, cui vennero amministrati: propter injustitias et injurias et contumelias et diversos dolos (Ibid.). Che dite dunque? Volete voi lasciarvi sì lusingare dalle fallaci promesse dell’impietà, che, ammirando le sue esaltazioni, non consideriate anche appressi i suoi precipizi? Eh rinunziatele pure, rinunziatele le sue arti,
ed assicuratevi (checché v’insegnino altri nei loro volumi pestilenziali e perversi),
assicuratevi, dico, che non vi sarà utile quello che non è onesto. Telas araneæ texuerunt, dice
Isaia di questi artefici scaltri d’iniquità: opera eorum opera inutilia; cogitationes eorum cogitationes inutiles (Is. LIX, 5, 6 et 7). Tengansi pur per sé il loro expedit maledetto questi
odierni sconsigliatissimi consiglieri; che noi piuttosto con le generose parole di Matatia, nobilissimo maccabeo, vogliamo conchiudere: propitius sit nobis Deus; non est nobis utile relinquere legem et justitias Dei (1 Mach. II. 21). Premettaci pure la malvagità ciò che vuole, non le crediamo. Mai non ci sarà utile lasciare la Religione per l’appetito, la Religione per l’interesse, la legge per l’affetto, Dio per
nessuno. Non est, non est nobis utile
relinquere leges et justitias Dei
.  Che cosa ci sarà utile? La pietà. Pietas omnia utilis,
dice l’Apostolo (1 ad Tim., IV, 8); mercecchè questa ha le promesse di essere favorita non solo nella vita futura, dove sta il vero premio dei Cristiani, ma ancora nella presente, Promissionem habens vitae, quæ nunc est, et futuræ.

SECONDA PARTE

IX. Io vi ho ragionato sinora come se non ci fosse altra vita, che questa sola, la qual da
noi si mena sopra la terra. Ma che? Ci è pur paradiso (o signori miei cari), ci e pur inferno. Se non siamo atei, lo dobbiamo confessare. Adunque, quando anche il vizio (ch’io non concedo) fosse nel mondo generalmente felice, basterebbe questo a poterlo chiamar giovevole? Eh miseri noi, che pensiamo al temporale, e
non consideriamo l’eterno! Quid prodest nomini, si mundum universum lucretur, animæ vero suoi detrimentum patiatur? (Matth. X. 26). Oh
sentimento degno di essere ripetuto a gran voce su tutti i pergami, anzi di essere inciso a caratteri grandi in tutte le sale, in tutte le stanze, a fine di non lo perdere mai di vista! E dove ancora, uditori cari, arrivassimo a
conseguire con i tentativi malvagi l’intento nostro, che avrem noi fatto? Quid prodest? Avremo acquistati alcuni anni di contentezza, ma ce ne saremo giuocata un’eternità. Oh potess’io questa mattina avanti ai vostri occhi spalancare tutto l’inferno, e farvi vedere quelle caverne di terrore, quelle carceri di tormenti! Che vorrei fare? Vorrei chiamare ad uno ad un tutti quegli, i quali vivendo non riconobbero su la terra altro Dio, che il loro interesse; e vorrei
con alti scongiuri violentarli a rispondere, come sian ora contenti delle loro passate felicità. Dove siete, olà, dove siete, voi Geroboami, voi Tiberj, voi Giuliani, voi Arrighi, voi tutti di questa scuola? Venite pure, benché vestiti di fiamme, benché cinti di serpi, benché carichi di catene, che per nostro profitto giova il vedervi. Che dite? Voi vivendo adempiste già tutto ciò che vi
suggerì il vostro perverso volere, con dir tra voi: sit fortitudo nostra lex justitiæ(Sap. II. 11). Non
è così? Non temeste mai uomini, non rispettaste mai Dio; e sol tutti intesi ai vostri interessi domestici, non dubitaste di procurarli con l’oppressione dei poveri, con le calunnie degl’innocenti, col tradimenti degli amici, con le rovine degli emoli, col sangue dei popoli, con lo sconvolgimento dell’universo. Ebbene, che
cavate ora voi dalla rimembranza dei vostri passati delitti? Sono per questo a voi men rigidi i ghiacci, o men voraci le fiamme? Vi ricordate, quanti già vi adoravano nelle reggi e quanti vi corteggiavano per le strade! quanti vi
applaudivano ne trionfi! Vi ritraevano altri su dotte tele, altri vi figuravano in duri marmi; e per la vostra felicità giornalmente sagrificavansi non so se più vite nelle battaglie, o più vittime in su gli altari. Or che vi giova una
tale felicità? rispondetemi, che vi giova? Quid
prodest
? Se voi poteste ritornare ora nel mondo a ripigliare i vostri cadaveri, a ritessere il vostro corso, qual tenore di fortuna vi eleggereste?
Rientrereste voi più nell’istesse regge? rimontereste voi più su gli stessi
troni? Oh Dio, che parmi di sentire che i miseri, bestemmiando, mandino urli per voci, e fremiti per parole. Che regge, gridano gl’infelici, che troni? Maledetta sia l’ora che vi salimmo; maledetti quei servi, che ci ubbidirono; maledetto quel cielo che ci esaltò. Selve, grotte, dirupi, orrori, sepolcri, là dentro correremmo
tutti a nasconderci, se noi potessimo più tornare or al mondo. Così mi pare che i miseri mi rispondano. Ed oh con quanta ragione! Vere mendacium possiderunt; vanitatem, quæ eis non profuit (mi giova qui di ripetere ad alta voce con Geremia – XVI. 19): vere mendacium possiderunt; vanitatem, quæ eis non profuit. Poverini che sono! quanto meglio sarebbe stato per tutti questi nascer servi, nascere schiavi, che nascer grandi! Ubi sunt principes gentium? Dove
sono più questi principi delle genti, dei quali abbiam ragionato? Qui dominantur super bestias, quæ sunt super terram; e per andare in cocchio nutriscono tanti cavalli: qui in avibus cæli ludunt;
e per andare a caccia nutriscono tanti cani: qui argentum thesaurizant et aurum, in quo confidunt homines,et non est finis acquisitionis eorum; e per arricchire le loro case privale non temono difar
gemere le città. Ubi sunt? ubi sunt? Dove sono? dove sono? Exterminati sunt, ripiglia il Profeta. Sono spariti, sono spariti. Spariti? Non sarìa nulla. Exterminati sunt, et ad inferos descenderunt, et alii loco eorum surrexerunt (Baruch. III, 16 et seq.). Lasciarono ai loro posteri gli ostri e gli ori, ed essi andarono a starsene tra le fiamme. Così è di tutti coloro, che non son vissuti secondo le buone leggi. Felici però noi se sapessimo approfittarci alle spese loro! Ma noi troppo insensati invidiamo la loro antica felicità, e non badiamo alla presente loro miseria. Quid prodest, quid prodest homini si mundum universum lucretur, animæ vero suæ
detrimentum patiatur
? Non è di fede, che tra quanti acquisti si facciano, di sogli, di clamidi, di corone, di scettri, di manti, di mitre o di pastorali,uniti ancora fuor d’ogni legge in un fascio,e la perdita che però s’incorra dell’anima, neppur v’è quella proporzione, la qual vi sarebbetra l’acquisto di un praticello selvatico,
e la perdita di una monarchia paria quella che godé Augusto? Adunque come stimeremo
mai felice quell’impietà che porta poi
seco annesso sì grave danno? Non
potest ulla compendii causa consistere
, io dirò, francamente con santo Eucherio (Epist. 1 ad Paræn.), si constet animæ intervenire dispendium.

X. Ma voi direte ch’io stamane non ho fatto altro che parlar sempre di principi e di principesse;
che i più di voi, che soli avete bisogno della mia predica, non siete in sì grande stato; e che però nemmeno siete soggetti a sì gran pericoli. Che le vostre politiche non si stendono se non il più a scavalcare un vostro emolo nella Corte, o a soppiantare un vostro corrispondente in qualche contratto; e che però non dovete forse temere tante infelicità né temporali, né eterne per tali colpe. Sì eh? Oh piacesse al cielo, che pur fosse vera una simile conseguenza! Ma questo
è il peggio, uditori miei, questo è il peggio, che per una cosa di niente offendiamo Dio, strapazziamo i suoi ordini, conculchiamo il suo sangue. Finalmente se per qualche acquisto assai grande lo conculcassimo, faremmo male,
chi ne può dubitare? Faremmo malissimo, ma quanto più conculcandolo per sì poco! E non è questo il lamento che Dio già fece per bocca di Ezechiele quando egli disse: violabant mepropter pugillum hordei, et fragmen panis? (Ezech. XIII, 19). Quasi che volesse egli dire in poche parole: ascoltate voi, cieli; ascoltala,  terra; e voi, cupi abissi, ascoltate. Quel  mio popolo, a me sì caro e diletto, che ha ricevuto da me sì eccelsi favori, che è stato liberato da me di sì misera schiavitudine, che da me è stato esaltato a sì gran potenza; questo mio popolo stesso mi ha strapazzato, sapete, mi ha strapazzato con ingratissime offese. E indovinate perché? Forse per appropriarsi le spoglie di un esercito debellato, come fece un Saule? Non me lo recherei a tanta ignominia. Forse per arrogarsi l’amministrazione di un principato vacante, come fece un’Atalia? Non me lo riputerei a tanto scorno. Forse per usurparsi la possessione d’alcun cittadino innocente, come fece un Acabbo? Mi daria  minor confusione. Forse per sfamare l’ingordigia dell’oro altrui, come
fece un Giezi? Ancor in ciò sentirei minor il rossore. E perché dunque egli mi ha offeso? Perché? Ve lo dirò io. Per un pugno d’orzo, per un frusto di pane; sì, torno a dire, per un pugno di orzo, per un frusto di pane: propter pugillum hordei, et fragmen panis. Per sì leggiero interesse
mi hanno gl’ingrati rivoltate le spalle, hanno dette enormi bugie, hanno inventate vituperose calunnie, hanno orditi bruttissimi tradimenti: ed io lo potrò tollerare? Così dolevasi Dio, signori miei cari, ne’ tempi andati. Sapete
voi come dolgasi nel presenti? Basterebbe, per saper ciò, girare un poco le piazze più popolose della città, entrare ne’ fondachi, visitar le botteghe, vedere i banchi, ed ivi considerare per qual piccioli emolumenti si commettano colpe
ancora mortali. Che menzogne, che contese non si odono colà dentro? che ingiustizie,
che frodi non vi si ascondono? E Dio, ch’ivi è presente, comporterà divedersi per così poco oltraggiato tanto? Come? s’Egli castigherà sì severamente chi, a ragion di esempio, spergiura per un tesoro, non punirà più aspramente chi spergiuri per un quattrino? Fino i Gentili medesimi conoscevano che un istesso peccato,
commesso per emolumento più rilevatile, pareva men grave; onde uno di loro ebbe
a dire: si violandum jus est, regnandi
causa violandum est
. Mai non è lecito di peccare; ma quando inoltre è minore l’allettamento, allora in parità d’altre circostanze sempre è
maggiore la colpa che si commette, perché Dio vien posposto ad un ben più minuto, ad un ben più vile, ad un bene più dispregevole. Conchiudiamo dunque così: se tanto fremeranno nell’inferno quei che vedranno di aver perduto Dio per una provincia o per un principato issai grande di questa terra, che sarà di quei miserabili che vedranno di aver fatta ancor essi una stessa perdita; ma perché? per una usura fecciosa di pochi soldi, per un cambio non sincero, per un censo non sussistente, o per alcun altro contratto di quei sì fini, che sono a voi meglio noti, che non a me? Non urleranno quei miseri di furore, molto più di un Esaù o di un Linneo, venditori sì sfortunati, quegli di una primogenitura, e questi d’un regno? E tali sono le perdite a cui conduco uno scellerato interesse, e conduce tutti, o grandi o piccoli, o governanti o plebei, ch’egli signoreggi. Considerate ora voi se vi è bene, il quale equivalga a perdite così
gravi, e poi sentenziate se mai per esser felice giovi esser empio.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (6)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (6)

(P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Che per combattere bene contro i nemici,  deve il soldato di Cristo fuggire ad ogni suo potere le perturbazioni ed inquietudini del cuore.

CAP. XXV

Siccome avendo noi perduta la pace del cuore, dobbiamo far tutto quello che per noi si possa per recuperarla, così tu hai da sapere che non può occorrere accidente al mondo che ce la debba ragionevolmente togliere oppure turbare. Dei propri peccati abbiamo da rammaricarcene sì, ma con un dolore pacifico, nel modo in cui di sopra in più di un luogo ho dimostrato, così senza inquietudine di animo, si compassioni con pio affetto di carità ogni altro peccatore, e si piangano almeno interiormente le colpe sue. – Quanto agli altri avvenimenti gravi e travagliosi, come infermità, ferite, morti, e dei nostri più congiunti, pesti, guerre, incendi e simili mali, benché come molesti alla natura, siano per lo più rifiutati dagli uomini del mondo, pure tuttavia possiamo, con la divina grazia, non solo volerli, ma inoltre averli cari, come giuste pene degli scellerati e buone occasioni di virtù; che per questi rispetti se ne compiace anche il Nostro Signore Dio, la cui volontà assecondando noi, fra tutte le amarezze e contrarietà di questa vita, ne passeremo con l’animo quieto e tranquillo. E renditi per certa che ogni nostra inquietudine, dispiace ai suoi occhi divini, perché, sia di che forte si voglia, non è mai scompagnata da imperfezione, e procede sempre da qualche mala radice di proprio amore. – Però tieni sempre desta una guardia, che subito che scopre qualsivoglia cosa, che possa turbarti, e inquietarti, te ne dia segno, acciocché tu prenda le armi per la difesa, considerando che tutti quei mali, e molti altri simili, benché di fuori così appaiono, non sono però veri mali, né i veri beni togliere ci possono, e che tutti gli ordina, o permette Iddio per li detti retri fini, o per altri a noi non manifesti, ma senza dubbio giustissimi, e santissimi. – Così tenendoti in qualunque, benché sinistro accidente, l’animo tranquillo ed in pace, li può far molto bene, altrimenti ogni nostro esercizio riesce poco, o nullo fruttuoso. Oltreché, mentre il cuore sta inquieto, è sempre ai diversi colpi dei nemici esposto, e di più non possiamo noi in tale stato bene scorgere il diritto sentiero, e la via sicura della virtù. – Il nostro nemico che abborrisce sovrammodo questa pace, come luogo ove abita lo Spirito di Dio, per operarvi cose grandi, spesse fiate sotto amiche insegne tenta di levarcela con il mezzo di diversi desideri, che hanno apparenza di bene, l’inganno dei quali si può fra gli altri segni conoscere da questo: che ci tolgono la quiete del cuore. – Onde per riparare a tanto danno, quando la sentinella ti da segno di alcun nuovo desiderio, non gli aprire l’entrata del cuore, se prima libera di qualunque proprietà, e volere non lo presenti a Dio, e confessando la tua cecità ed ignoranza, non lo preghi istantemente, che con il lume suo ti faccia vedere se viene da Lui, oppure dall’ avversario, e ricorri ancora, quando puoi, al giudizio del tuo Padre spirituale. Ed ancora, che il desiderio fosse di Dio, fa che tu, avanti che lo eseguisca, mortifichi la tua troppa vivacità, perché l’opera a cui precede tale mortificazione, gli sarà molto più grata, che se fosse fatta con l’avidità della natura, anzi alcuna volta gli piacerà più la mortificazione, che l’operazione stessa. Così scacciando da te i desideri non buoni, ed effettuando i buoni, se prima non hai repressi i movimenti naturali, verrai a tenere in pace, ed in sicuro la rocca del tuo cuore. E per conservarlo in tutto pacifico, fa di bisogno ancora che tu difenda, e custodisca da certe riprensioni e rimorsi interiori contro te stessa, che sono alcuna volta dal demonio, sebbene (perché ti accusano talvolta di qualche mancamento) pare, che siano da Dio; dai frutti loro conoscerai d’onde procedono. Se ti abbassano, ti fanno diligente nel bene operare, né ti tolgono la confidenza in Dio, come da Dio li devi ricevere con rendimento di grazie. Ma se ti confondono, e fanno pusillanime, diffidente, pigra, e lenta nel bene, tieni pure per cosa certa, che vengono dall’avversario,- però non dando loro orecchie, seguita il tuo esercizio. E perché oltre il suddetto, più comunemente nasce nel cuore nostro l’inquietudine dell’avvenimento delle cose contrarie, per difenderti da questi colpi, due cose hai da fare.L’una è, che tu consideri e veda, a chi sono contrari quegli avvenimenti, se allo spirito oppure all’amore proprio, e proprie voglie. Che se sono contrari alle proprie voglie ed amore di te stessa, capitale e principale nemico tuo, non devi  chiamarli contrari, ma tenerli per favori e soccorsi dell’altissimo Dio, onde con allegro cuore e rendimento di grazie devono essere ricevuti. Ed essendo contrari allo spirito, non perciò si deve perdere la pace del cuore, come nel seguente titolo ti sarà insegnato. L’altra cosa è che tu levi la mente a Dio pigliando il tutto ad occhi chiusi, senz’altro voler sapere, dalla pietosa mano della provvidenza divina, come cosa piena di diversi beni, i quali tu per allora non conosci.

Di quello che abbiamo a fare quando siamo feriti.

CAP. XXVI.

Quando tu ti trovi ferita per essere caduta in qualche difetto per debolezza tua, ovvero anco talora per volontà e malizia, non t’impusillanimire, ne t’inquietare per questo, ma rivolgiti subito a Dio, digli così: “Ecco, Signor mio, che io ho fatto, da quella che sono, né da me altro si poteva aspettare che cadute”. E qui con un poco di dimora avvilisciti negli occhi tuoi; dolgati dell’offesa del Signore, e senza confonderti, sdegnati contro le tue viziose passioni, e principalmente contro quella che ti ha cagionato la caduta. Seguita poi, “Né qui Signore mi sarei fermata, se Tu per tua bontà non mi avessi tenuta”. E qui rendile grazie ed amalo più che mai, stupendo di tanta clemenza, poiché offeso da te, ti porge la mano destra, perché tu non cada di nuovo. – Ultimamente dirai con gran confidenza della sua infinita misericordia: “Fa’ tu, Signore, da quello che sei, perdonami, né permettere che io viva da te separata, né lontana giammai, né che più ti offenda. E fatto questo, non ti dare a pensare se Iddio ti abbia perdonato o no, perché ciò non è altro che superbia, inquietudine di mente, perdimento di tempo, ed inganno del demonio, sotto colore di diversi buoni pretesti. Però lasciandoti liberamente nelle mani pietose di Dio, seguita il tuo esercizio, come se non fossi caduta. E se molte volte il giorno tornassi a cadere e restassi ferita, fa quello che io ti ho detto, con niente minore fiducia, la seconda, la terza, ed anco l’ultima volta, che la prima, e dispregiando sempre più te stessa, e più odiando il peccato, sforzati di vivere cauta. Questo esercizio spiace molto al demonio, sì perché vede ch’è gradito a Dio, sì perché ne viene a rimanere confuso, trovandosi superato da chi prima egli vinto aveva. E perciò con diversi fraudolenti modi si adopera, perché lasciamo di farlo, e l’ottiene molte volte per nostra trascuraggine, e poca vigilanza sopra di noi stessi. – Laonde se tu in ciò troverai difficoltà, tanto più ti hai da fare violenza, ripigliando questo esercizio più d’una volta, anche in un solo cadimento. E se dopo il difetto, ti sentissi inquieta, confusa, e sconfidata, la prima cosa che tu hai da fare è di recuperare la pace, e tranquillità del cuore e la confidenza insieme; e fornita di queste armi, ti rivolti poi al Signore, perché l’inquietudine, che si ha per lo peccato, non ha per oggetto l’offesa di Dio, ma il proprio danno. Il modo di ricuperare questa pace, si è che tu per allora ti scordi affatto la caduta, e ti ponga a considerare l’ineffabile bontà di Dio, e come sopra modo sta pronto, e desidera di perdonare qualunque peccato, per grave che sia, chiamando il peccatore in vari modi e per molte vie, perché ne venga a Lui, e si unisca a Lui in questa vita con la sua grazia per santificarlo, e nell’altra con la gloria per farlo eternamente beato. E poiché con queste, o somiglianti considerazioni avrai pacificata la mente, ti volterai al tuo cadimento, facendo come di sopra ho detto. Poi al tempo della Confessione sacramentale (la quale ti esorto a frequentar spesso), ripiglia tutte le tue cadute, e con nuovo dolore e dispiacere dell’offesa di Dio, e proponimento di non offenderlo più, scoprile sinceramente al tuo Padre Spirituale.

Dell’ordine, che tiene il demonio di combattere, e d’ingannare, e quelli che vogliono darsi alla virtù, e quelli che già si ritrovano nella servitù del peccato.

CAP. XXVII

Hai da sapere, figliuola, che il demonio non attende ad altro che alla rovina nostra, e che con tutti combatte ad un istesso modo. E per cominciare a descriverti alcuno dei suoi combattimenti, ordini ed inganni, ti metto innanzi più stati dell’uomo. Alcuni si ritrovano nella servitù del peccato, senza pensiero alcuno di liberarsi. Altri vogliono liberarsi, ma non cominciano l’impresa. Altri si credono camminare per la via della virtù, e se ne allontanano. – Altri finalmente dopo l’acquisto delle virtù, cadono con maggior rovina. E di tutti discorreremo distintamente.

Del combattimento, ed inganni che usa il demonio con quelli, che tiene nella servitù del peccato.

CAP. XXVIII

Non attende ad altro il demonio, tenendo alcuno nella servitù del peccato, che ad acciecarlo vieppiù, e rimuoverlo da qualunque pensiero, che lo potesse indurre alla cognizione della sua infelicissima vita. – Né lo rimuove solamente dai pensieri ed ispirazioni, che lo chiamano alla conversione con altri pensieri alieni ma, con apparecchiate e preste occasioni, lo fa cadere nell’istesso peccato, oppure in altri maggiori. Dal che diventando più folta e cieca la sua cecità, più viene a precipitarsi, e ad abituarsi nel peccato, così da questa maggiore cecità, e da questa a maggior colpa, quasi per giro ne corre la sua misera vita insino alla morte, se Iddio con la sua grazia non vi provvede. – Il rimedio di quello è, per quello che tocca a noi, che chi si ritrova in questo infelicissimo stato, sia presto a dare luogo al pensiero ed ispirazioni, che dalle tenebre lo chiamino alla luce gridando con tutto il cuore al suo Creatore: Deh, Signor mio, aiutami, aiutami presto, né mi lasciate più in questo stato di peccato. Né  lasci di replicare più fiate, e di gridare a quello e somigliante modo. E potendo, subito, subito, corra ad un Padre spirituale, domandando aiuto e consiglio, perché possa liberarsi dal nemico. E non potendovi andare subito, ricorra con ogni prestezza al Crocifisso, buttandosi innanzi ai suoi sacri piedi: con la faccia in terra; e quando a MARIA Vergine, domandando misericordia, ed aiuto. E sappi, che in questa prestezza sta la vittoria, come nel seguente Capitolo intenderai.

Dell’arte, ed inganni con che tiene legati quelli che, conoscendo il loro male, vorrebbero liberarsi, e perché i nostri proponimenti spesso non abbiano il loro effetto.

CAP. XXIX

Quelli che già conoscono la mala vita nella quale si ritrovano e vorrebbero mutarla, sogliono essere ingannati e vinti dal demonio  con le seguenti armi: Poi, Poi, “cras, cras” come dice il corvo! – Voglio prima risolvere e spedirmi di questo negozio, e poi darmi con maggior quiete allo spirito. – Laccio che ha preso molti, e prende tuttavia. Del che n’è cagione la nostra negligenza, e dappocaggine, che in negozio ove va la salute dell’anima e l’onore di Dio, non si prende con prestezza quell’arma tanto ponente: Ora, Ora, e perché poi? Oggi, Oggi, e perché Cras? dicendo a sé  stesso. Ma quando mi si concedesse il Poi, ed il Cras, dunque sarà via questa di salute e di vincere, il voler prima ricever delle ferite, ed il far nuovi disordini? – Sicché tu vedi, figliuola, che per fuggire, e da questo inganno e da quello del precedente Capitolo, e per superare il nemico, il rimedio è la presta ubbidienza ai pensieri, ed alle ispirazioni divine. La prestezza (dico) e non li proponimenti, perché questi spesso fallano, e molti in essi sono rimasti ingannati per diverse cagioni. – La prima toccata anco di sopra, si è che i nostri proponimenti non hanno per  fondamento la diffidenza di noi stessi e confidenza in Dio: nel ciò ci lascia vedere la gran superbia, donde progetto questo inganno e cecità, la luce da conoscerlo e l’aiuto per rimediarci viene dalla bontà di: Dio, il quale permette che cadiamo, chiamandoci coi cadimenti dalla nostra confidenza alla sua sola, e dalla nostra superbia ai conoscimento di noi stessi. – Onde, volendo tu che i tuoi proponimenti siano efficaci e di bisogno, che siano gagliardi, ed allora saranno gagliardi, quando niente avranno di confidenza in noi stessi, e tutti con umiltà saranno fondati nella confidenza in Dio. L’altra cagione è, che quando noi ci muoviamo a proporre, miriamo alla bellezza e valore della virtù la quale tira a sé la volontà nostra per fiacca e debole che sia; onde parandosele poi innanzi la difficoltà che vi bisogna per acquistarla, essendo fiacca e novella, manca e si ritira addietro. Però, tu avvezzati ad innamorarti delle difficoltà, che l’acquisto delle virtù porta innanzi, che delle virtù stesse e di questa difficoltà va sempre nutrendo, tua volontà, quando col poco a poco, e quando col molto, se vuoi davvero farti posseditrice delle virtù. E sappi, che tanto più presto ed altamente vincerai te stessa, ed i nemici tuoi, e quanto più generosamente abbraccerai la difficoltà e più ti saranno care. – La terza cagione è, perché i nostri proponimenti alle volte non mirano la virtù, e la volontà Divina, ma l’interesse proprio; il che suole succedere nei proponimenti che si sogliono fare nel tempo delle delizie dello spirito, e delle tribolazioni, che molto ci stringono, né troviamo in queste altro sollevamento, che proporre di volerci date tutti a Dio, ed agli esercizi delle virtù. Per non cadere tu in questo, sii nel tempo delle delizie molto cauta, ed umile nei proponimenti e particolarmente nelle promesse e voti, e quando trovi tribolata, i tuoi proponimenti siano occupati a tollerare pazientemente la Croce, secondo vuole Iddio, e ad esaltarla ricusando qualunque sollevamento terreno e talora anco quello del Cielo. Una sia la domanda, ed uno il desiderio tuo, che sii da Dio aiutata perché possa tollerare ogni cosa avversa, senza macchia della virtù della pazienza, e senza disgusto del tuo Signore.

Dell’inganno di quelli che si credono di camminare alla perfezione.

CAP. XXX

Vinto già il nemico nel primo e nel secondo assalto ed inganno di sopra, ricorre il maligno al terzo, il quale consiste in far che noi, scordati dei nemici che in atto ci combattono e danneggiano, ci occupiamo in desideri, e proponimenti d’alti gradi di perfezione. – Dal che nasce, che noi siamo del continuo piagati, né curiamo le piaghe, e stimando tali proponimenti come se fossero effetti, vanamente c”insuperbiamo. Onde non volendo comportare una cosarella, o parolina in contrario, consumiamo poi il tempo in lunghe meditazioni di proponimento di soffrire pene grandi, e talora del Purgatorio per amor di Dio. E perché in questo la parte inferiore non sente ripugnanza, come di cosa lontana, perciò noi miseri ci diamo ad intendere d’essere nel grado di quelli che pazientemente in fatti sostengono cose grandi. – Tu dunque per fuggire questo inganno, proponi, e combatti con nemici, che da vicino e realmente ti fanno guerra, che cosi ti chiarirai se i tuoi proponimenti sono veri o falsi, forti o deboli, e camminerai alla virtù, e perfezione della via battuta e regia. – Ma contro i nemici dai quali non sei solita d’essere travagliata, non consiglio che tu prenda la pugna se non quando prevedi verosimilmente, che da indi a qualche tempo siano per assalirti: che per trovarti allora preparata e forte, ti è lecito di fare avanti dei proponimenti. Non giudicare però mai i tuoi proponimenti per effetti, sebbene per qualche tempo con li tuoi debiti modi ti fossi nelle virtù esercitata; ma in essi sii umile, temi te stessa e la tua debolezza e, confidando in Dio, con spessi preghi, ricorri a Lui, ché ti fortifichi e guardi dai pericoli e particolarmente di ogni minima presunzione e confidenza in te stessa. – Che in questo caso, sebbene non si possono superare alcuni piccoli difetti, che talvolta il Signore per nostro umile conoscimento e guardia di alcun bene ci lascia, ci è lecito nondimeno fare proponimenti di più alto grado di perfezione.

Dell’inganno, e battaglia, che usa il demonio, perché si lasci  la  via che conduce alla virtù.

CAP. XXXI

Il quarto inganno proposto di sopra, con che ci assale il maligno demonio, quando vede che camminiamo direttamente alla virtù, sono diversi buoni desideri che ci va eccitando, perché dall’esercizio delle virtù cadiamo nel vizio. Una persona trovandosi inferma, con paziente volontà va tuttavia sopportando l’infermità, l’avversario sagace che conosce che questa possa acquistare l’abito della pazienza, le pone davanti molte buone opere, che potrebbe fare in altro stato, e si sforza di persuadere che se fosse sana, maglio servirebbe a Dio, giovando a sé, ed agli altri ancora. – E poiché a lei ha mosso quelle voglie, le va a poco a poco aumentando talmente, che la rende inquieta, per non poterle mandare ad effetto come vorrebbe. E quanto a lei si vanno facendo maggiori, e più gagliarde, tanto cresce l’inquietudine. E da quello poi pian piano destramente l’inimico la va conducendo ad impazientarci dell’infermità, non come infermità, ma come impedimento di quell’opere che ansiosamente bramava d’eseguire per maggior bene. Quando poi l’ha tirata a quello segno, con la stessa destrezza le toglie dalla mente il fine del divino servigio e delle buone opere, lanciandole il nudo desiderio di liberarsi dall’infermità. Il che non succedendo secondo il suo volere, si turba in modo che ne diventa impaziente affatto. E così viene dalla virtù che esercitava, a cadere nel vizio suo contrario, senza avvedersene. Il modo di guardarsi ed opporsi a quello inganno si è che, quando ti trovi in qualche stato travaglioso, tu sii bene avvertita a non dare luogo a desideri di qualunque bene  che allora non potendo effettuare, verosimilmente ti inquieterebbero. – E devi in ciò con ogni umiltà, pazienza e rassegnazione darti a credere, che i desideri tuoi non avrebbero quell’effetto che ti persuadevi, essendo tu più da poco ed instabile di quello, che ti stimi. – Oppure pensa, che Iddio nei suoi occulti giudizi, o per tuoi demeriti non vuole quel bene da te, ma che piuttosto ti abbassi, ed umili pazientemente sotto la dolce e potente mano della sua volontà. Così parimenti essendo impedita dal Padre spirituale, o da altra cagione, in modo, che tu non possa a tua voglia frequentare le tue devozioni, e particolarmente la Santa Comunione, non ti lasciar turbare ed inquietare dal desiderio di esse, ma spogliati d’ogni tua proprietà,  vestiti del piacimento del tuo Signore, teco stessa dicendo: Se l’occhio della divina provvidenza non vedesse in me ingratitudini, e difetti, io non verrei ora ad essere priva di ricevere il SS. Sacramento, però vedendo io, che il mio Signore con questa mi scopre la mia indegnità, né gli sia Egli sempre lodato, e benedetto. Confido bene, nella tua somma bontà, che tu voglia che col sostenerti e compiacerti in tutto, ti apra il cuore disposto ad ogni tuo volere, acciocché tu in esso entrato spiritualmente, lo consoli e fortifichi contro i nemici, che cercano levarlo da te. Così sia fatto tutto quello, che negli occhi tuoi è bene, Creatore e Redentore mio, la tua Volontà sia ora, e sempre il mio cibo e sostegno. Quella sola grazia, amor caro, ti domando, che l’anima mia purgata, e libera da qualunque cosa, che a te spiaccia, stia sempre con l’ornamento delle virtù sante apparecchiata alla tua venuta, ed a quanto ti piacerà disporre di me.– Se osserverai questi ricordi, sappi certo che in qualsivoglia desiderio di bene, che tu non possa eseguire, o sia egli cagionato dalla natura, o dal demonio per inquietarti e toglierti dal cammino della virtù, oppure anco allora da Dio, per far prova della tua rassegnazione alla sua volontà, avrai sempre occasione di soddisfare al tuo Signore, nel modo che più piace a Lui. Ed in questo consiste la vera divozione e servigio, che da noi ricerca Iddio. Ti avverto ancora, perché tu non t’impazienti nei travagli, siano pur cagionati, da che parte si voglia, che tu usando i mezzi leciti che si sogliono usare dai servi di Dio, non li usi con desiderio ed attacco di esserne liberata, ma perché vuole Iddio che si usino: né sappiamo noi se piace a S. D. M. di liberarci per questo mezzo. Che se altrimenti facessi, verresti a cadere in più mali, perché facilmente cadresti nell’impazienza non succedendo la cosa secondo il tuo desiderio ed attacco, o la tua pazienza sarebbe difettosa, né tutta cara a Dio, e di poco merito.Finalmente ti avviso qui d’un occulto inganno del nostro proprio amore, che suole in certe occorrenze coprire e difendere i nostri difetti. Onde per esempio, essendo alcun infermo poco paziente per l’infermità, nasconde la sua impazienza sotto il velo di qualche zelo di bene apparente, dicendo che il suo affanno non sia veramente impazienza per lo travaglio che sostiene dalla malattia, ma ragionevole dispiacere, perché egli ne ha dato l’occasione: oppure, perché altri per la servitù che gli fanno per altre cagioni, ne sentono fastidio e danno. – Parimente l’ambizioso, che si turba per la dignità non ottenuta, non attribuire ciò alla sua propria superbia e vanità, ma ad altri rispetti, dei quali si sa molto bene che in altre occasioni, che a lui non portano gravezza, non tiene conto veruno,- come ne anco l’infermo si cura, se quegl’istessi, per i quali diceva dolersi molto, che travagliassero per lui, sostengono lo stesso travaglio, e danno per l’infermità di alcun altro.Segno assai chiaro, che la radice della doglianza di questi tali non è per altri o altro rispetto, che l’abborrimento, che hanno delle cose contrarie alle voglie loro.Tu però per non cadere in questo  errore, ed altri, comporta sempre pazientemente qualunque travaglio e pena, venga pure (come ti ho detto) da che cagione si voglia.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (5)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (5)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Del modo di combattere contro la negligenza.

CAP. XX.

Perché tu non cada nella misera servitù della negligenza: cosa che non solo impedirebbe il cammino della perfezione, ma ti darebbe in mano dei nemici. Hai da fuggire ogni curiosità ed attacco terreno, e qualunque occupazione che allo stato tuo  non conviene. Poi t’hai da fare sforzo, perché presto corrisponda ad ogni buona ispirazione, ed a qualunque ordine dei tuoi Superiori, facendo ogni cosa a quel tempo ed in quel modo, ch’è il loro piacimento. Né ritardare pure per una brevissima dimora, perché quel solo prima indugiare, porta appresso il secondo, e quello il terzo, e gli altri ai quali il senso si piega e cede più facilmente che ai primi, essendo già allettato e preso dal piacere che n’ha gustato. Onde si incomincia l’azione troppo tardi, o come noiosa si lascia alle volte del tutto. E così a poco a poco si va facendo l’abito della negligenza, che ci riduce poi a segno tale, che nel punto stesso che da quella siamo tenuti legati, ci proponiamo ancora una volta essere molto solleciti e diligenti, accorgendoci di essere stati per allora negligentissimi, con rossore di noi medesimi. – Quella negligenza scorre dappertutto, e col suo veleno non pure infetta la volontà, facendole abborrire l’opera, ma men acceca l’intelletto perché non veda quanto vani e mal fondati siano i proponimenti di eseguire per l’avvenire, questo e diligentemente quello che dovendosi effettuare allora, volontariamente affatto ti lascia, oppure si prolunga in altro tempo. Né basta il fare presto l’opera che hai da fare, ma s’ha da fare nel tempo proprio che ricerca nel tempo proprio, che ricerca la qualità e l’essere di quell’opera e con tutta quella diligenza che se le conviene, perché abbia ogni possibile perfezione. Che non è diligenza, ma finissima negligenza, fare innanzi tempo l’opera e spedirsene prestamente, e senza che si faccia bene, perché poi quietamente ci diamo all’accidioso riposo; al quale fisso stava il nostro pensiero, mentre che, con prestezza, si faceva l’opera. Tutto questo gran male avviene, perché non si confiderà il valore della buona opera fatta nel suo tempo, e con animo risoluto all’incontrar la fatica, e difficoltà che porta il vizio della negligenza, ai novelli soldati. Hai tu dunque spesso da considerare, che una sola elevazione di mente a Dio, ed un inchino con le ginocchia a terra a suo onore, vale più che tutti i tesori del mondo, e che, qualunque volta facciamo violenza a noi stessi ed alle viziose passioni, gli Angioli portano all’anima nostra dal Regno del Cielo una Corona di gloriosa vittoria. Ed all’incontro che ai negligenti Iddio poco a poco va togliendo le grazie, che loro dato aveva, ed ai diligenti le aumenta, facendoli poi entrare nel suo primo gaudio. Alla fatica e difficoltà, se tu non sei da tanto nei primi principi che le vadi da generoso incontro, hai da occultarla in modo che paia minore di quella che dai negligenti era giudicata. Il tuo esercizio per avventura ricerca molti, e molti atti per acquistare una virtù, ed una fatica per molti giorni, ed i nemici da espugnare ti paiono molti, e forti. Comincia tu a produrre atti, quasi che pochi n’abbi a fare, che per pochi dì ti bisogna faticare, e combatti contro di un inimico, come che altri non vi fossero da combattervi, e con una confidenza grande, che tu con l’aiuto di Dio, sii più forte di loro: che a questo modo facendo, comincerà a debilitarsi la negligenza, ed a disporsi poi, perché vi entri di mano in mano la virtù contraria. L’istesso dico dell’orazione. Ricerca l’esercizio tuo talvolta un’ora di orazione. E questo par duro alla negligenza tua, mettiti in essa, quasi volendo orare per lo spazio  di un ottavo d’ora, che facilmente passerai all’altro, e da questo  a quel che rimane. Che se talora allora nel secondo, o negli altri ottavi sentissi troppo violente ripugnanza, e difficoltà tralascia l’esercizio per non fastidirti ripigliando però d’indi a poco di nuovo il tralasciato esercizio. Questo stesso modo anco hai da tenere nell’opere manuali, quando accade, che ti bisogna fare più cose, le quali alla tua negligenza parendo molte, e difficoltose, tu vieni a disturbarti tutta. Comincia tu con tutto ciò animosamente, e quieta da una, come se altro non avessi a fare, che così diligentemente facendo,verrai a farle tutte con assai minor fatica di quello, che nella negligenza tua ti pareva. Che se tu non farai nel suddetto modo, e non andrai incontro alla fatica e difficoltà, che ti si mostra, di tal modo ti prevalerà il vizio della negligenza, che non solo la fatica e difficoltà, che seco porta nel principio l’esercizio delle virtù, quando sarà presente, ma da lontano ti terrà ansiosa, e noiosa, temendo sempre d’essere esercitata ed assalita dai nemici, e di vederti persona alle spalle che alcuna cosa t’imponga: onde nella quiete stessa vivresti inquieta. E sappi, figliuola, che questo vizio di negligenza col suo nascosto veleno, poco a poco, non solo marcisce le prime e piccole radici, che avevano a produrre gli abiti delle virtù, ma quelle degli abiti già acquistati; come fa il tarlo al legno, così egli va rodendo insensibilmente, e consumando la midolla della vita spirituale, ed ad ognuno, ma agli spirituali particolarmente, il demonio con questo mezzo tende insidie e lacci. Vigila tu dunque orando ed operando bene, e non aspettare di tessere il panno per la veste nunziale, quando devi trovartene ornata per incontrare lo sposo. E ricordati ogni giorno che ti dà la mattina, non ti promette la sera, e dandoti la sera, non ti viene promessa la mattina. E però spendi tutti i momenti delle ore, secondo il piacimento di Dio e come se altro tempo non ti viene concesso, tanto più che d’ogni momento n’hai da rendere minutissimo conto. Conchiudo con l’avvertirti che tu reputi come perduta quella giornata (ancorché avessi spedite molte faccende) nella quale non avrai ottenuto più vittorie contro le tue male inclinazioni e volontà propria, né ringraziato il tuo Signore dei suoi benefizi, e particolarmente della sua penosa passione, che per te soffrì, e dal paterno e dolce castigo, quando ti avrà fatta degna del tesoro inestimabile di alcune tribolazioni.

Del regger i sensi esteriori, e come da quelli si passi a contemplare la Divinità.

CAP. XXI

Grande avvertenza, e continuo esercizio si richiede nel reggere, e regolare bene i nostri sensi esteriori, perché l’appetito, che è come capitano della nostra natura corrotta, inclina strabocchevolmente a cercare i piaceri, e contenti, né potendo per sé solo farne acquisto, si serve dei sensi quasi soldati suoi e strumenti naturali per prendere i loro oggetti, le immaginazioni dei quali cavando e tirando a sé, stampa nell’anima: da che poi ne segue il piacere, il quale per la cognizione ch’è fra essa e la carne, si sparge per tutta quella parte dei sentimenti che sono capaci di tal diletto, onde ne succede tanto all’anima quanto al corpo, una contagione comune che corrompe il tutto. Tu vedi il danno, attendi al rimedio. – Sta ben avvertita a non lasciar andare i tuoi sensi liberamente dove vogliono, né ti servire dell’uso loro, dove la sola dilettazione e non alcun buon fine o utilità o necessità ti muove a farlo; e se non te ne avvenendo sono scorsi troppo avanti, fa’ che tu li ritiri addietro, o li regoli di maniera che, dove prima si facevano miserabilmente prigioni di vari contenti, ottengano da ciascun oggetto notabile preda e le portino dentro all’anima; onde ella raccolta in se stessa spieghi le penne delle potenze verso il cielo delle contemplazioni di Dio. Il che potrai fare in questo modo. – Quando si rappresenta a qualsivoglia dei tuoi sensi esteriori alcun oggetto, separa col pensiero dalla cosa creata lo spirito che è in quella, e pensa ch’ella da sé non ha niente di tutto ciò che a tuoi sensi foggiare, ma che tutto è opera di Dio, che con lo spirito suo invisibilmente le dà quell’essere, bontà o bellezza, ed ogni bene ch’è in lei, e quivi rallegrati, che il tuo Signore solo sia cagione e principio di tante e così varie perfezioni di cose, che in se stesso eminentemente tutte le contenga; non essendo esse che un minimissimo grado delle sue divine ed infinite eccellenze. – Quando ti avvedrai di essere occupata nel mirare cose che hanno un nobile essere, ridurrai col pensiero al suo niente la creatura, fissando l’occhio della mente al sommo Creatore ivi presente, che quell’essere le ha dato, ed in Lui solamente prendendo diletto, dirai: O essenza divina sommamente desiderabile, quanto godo, che tu solo sei principio infinito d’ogni essere creato! Parimente scorgendo arbori, erbe, e cose simili, con l’intelletto vedrai che, quella vita che hanno, non l’hanno da loro, ma dallo Spirito che non vedi, e che solo le vivifica, e potrai cosi dire: Ecco qui la vera vita, da cui, in cui, e per cui, vivono, e crescono tutte le cose. O vivo contento di questo cuore! Così dalla vista degli animali bruti, ti leverai con la mente a Dio, che dà loro il senso, ed il moto, dicendo: “Oh primo motore, che tutto il mondo movendo, sei immobile in te stesso, quanto mi rallegro della tua stabilità e fermezza!” E sentendoti allettare dalla bellezza delle creature, separa quello che vedi, dallo spirito che non ved e considera che tutto quel di bello che fuori appare, e dello spirito solo invisibile, da cui è cagionata quella esterna bellezza, e di’ tutta lieta: Ecco i rivoli del fonte increato, ecco le gocciole del pelago infinite di ogni bene; Oh come nell’intimo del cuore gioiscono, pensando all’eterna immensa bellezza che è cagione d’ogni bellezza creata! –  E scorgendo in altri bontà, sapienza, giustizia ed altre virtù, dirai al tuo buon Dio: Oh ricchissimo tesoro di virtù, qual è il mio compiacimento che da te e per te unicamente derivi ogni bene, e che tutto a paragone delle tue divine perfezioni, sia come niente! Ti ringrazio, Signore, di questo e di ogni altro bene che al prossimo mio hai fatto: ricordati Signore della mia povertà e del bisogno grande che tengo della virtù della N. Stendendo poi le mani a fare alcuna cosa, pensa, che Iddio è prima cagione di quella operazione, e tu non altro, che vivo strumento di Lui, al quale innalzando il pensiero, di’ a questo modo: Quanto è il contento che provo dentro me stessa, supremo Signore del tutto, di non poter operare senza te alcuna cosa, anzi che Tu sei il primo e principale operatore di tutte! Gustando cibo, o bevanda, confiderà che Iddio è quello che le dà quel sapore, ed in Lui solo dilettandoti potrai dire: Rallegrati anima mia, che come fuora del tuo Dio non hai alcun vero contento, così in Lui solo ti puoi in ogni cosa unicamente dilettare. – Se ti compiacerai nell’odorare alcuna cosa al senso grata, non fermandoti in quel compiacimento, passa col pensiero al Signore, da cui ha la sua origine quell’odore, e di ciò sentendo interna consolazione, dirai: Deh fa’ Signore, che come io gioisco che da te proceda ogni soavità, così l’anima mia spogliata e nuda d’ogni terreno piacere, ascenda in alto, e renda gratissimo odore alle tue nari divine. – Quando odi alcuna armonia di suoni e canti, rivolta con la mente al tuo Dio, dirai: Quanto godo, Signore e Dio mio delle infinite tue perfezioni, che tutte insieme, non pure in te stesso rendono sopra celeste armonia, ma ancora unitamente agli Angioli nei cieli ed in tutte le creature fanno meraviglioso concerto.

Come le stesse cose ci sono mezzo per regolare i nostri sensi, passando alla meditazione del Verbo incarnato nei misteri della sua vita e Passione.

CAP. XXII.

Di sopra ti ho mostrato, come noi possiamo dalle cose sensibili levare la mente alla contemplazione della divinità. Ora apprendi un modo di pigliar motivo dalle stesse per la meditazione del Verbo incarnato, considerando i sacratissimi misteri della sua vita, e passione. – Tutte le cose dell’universo possono servire per questo effetto, considerando in esse, come di sopra, il sommo Dio, come cosa prima cagione che loro ha dato tutto quell’essere, bellezza, ed eccellenza che hanno; e da questo passando poi a considerare quanto grande ed immensa sia la sua bontà, ch’essendo unico principio, e Signore di tutto il creato, ha voluto discendere a tanta bassezza di farsi uomo e patire, e morire per l’uomo, permettendo che le stesse fatture della sua mano, si armassero contro di Lui per crocifiggerlo. Molte cose poi particolarmente ci portano avanti gli occhi della mente questi santi misteri, come armi, funi, flagelli, colonne, spine, canne, chiodi, martelli, ed altre, che furono strumenti della sua passione. I poveri alberghi ci ridurranno alla memoria la stalla ed il presepio del Signore. Piovendo ci sovverrà di quella sanguinosa divina pioggia, che nell’orto stillando dal suo sacratissimo corpo, irrigò la terra; le pietre che mireremo, ci rappresenteranno quelle che si spezzarono nella sua morte, la terra, quel moto, che fece allora, il Sole, le tenebre che l’oscurarono, e vedendo le acque verremo a ricordarci di quella, che uscì dal suo sacratissimo costato. Il che parimente dico d’altre cose simili. Gustando il vino, o altra bevanda, rammentati dell’aceto e fiele del tuo Signore. Se la soavità degli odori ti alletta, ricorri con la mente al fetore dei corpi morti, ch’Egli sentiva nel monte Calvario. Vestendovi, ricordati che il Verbo eterno si vestì di carne umana per vestite te della sua divinità. Spogliandoti abbi memoria del tuo Cristo, che fu spogliato nudo  per essere flagellato e confitto in Croce per te. Udendo rumori e gridi di gente, ricordati di quelle abbominevoli voci: Crocifige, crocifige, tolle, tolle, che intuonarono nelle sue divinissime orecchie. – Ogni volta che batte l’orologio, ti sovvenga di quell’affannoso battimento di cuore che al tuo Gesù piacque sentire, quando nell’orto cominciò a temere della sua vicina passione e morte, ovvero ti paia di sentire quelle dure percosse con le quali fu inchiodato in Croce. In qualunque occasione che ti si appresti di mestizia e di dolori tuoi o d’altri, pensa che sono come niente rispetto alle incomprensibili angosce che trafissero ed afflissero il corpo e l’anima del tuo Signore. 

D’altri modi di regolare i nostri sensi, secondo diverse occasioni che ci si rappresentano.

CAP. XXIII.

Avendo veduto, come si abbia da innalzare l’intelletto dalle cose sensibili alla Divinità, ed ai misteri del Verbo incarnato; qui aggiungerò altri modi per cavarne diverse meditazioni, acciocché, come differenti tra loro sono i gusti dell’anime, così abbiano molti e diversi cibi; oltreché ciò potrà servire non pure alle persone semplici, ma a quelle ancora, che sono d’ingegno elevato, e più avanti nella via dello spirito, il quale in chi si sia, non è sempre ugualmente disposto e pronto alle più alte speculazioni. Né tu hai da dubitare di confonderti fra quella varietà di cose, se ti atterrai alla regola della discrezione, ed all’altrui consiglio, il quale intendo, che tu debba seguire con umiltà e confidenza non solamente in quello, ma in ogni altro avvertimento che ti venga da me. Nel mirare tante cose vaghe alla vista, e pregiate in terra, considera che tutte sono vilissime e come sterco, rispetto alle celesti ricchezze, alle quali (dispregiando tutto il mondo) aspira con ogni affetto. Rivolgendo lo sguardo verso il sole, pensa che più di quello è lucida e bella l’anima tua, se sta in grazia del tuo Creatore, altrimenti che ella è più oscura ed abbominevole delle tenebre infernali. Alzando gli occhi del corpo al Cielo che ti copre, penetra con quelli dell’anima più sopra al Cielo empireo, ed ivi affissati col pensiero come in luogo che ti è apparecchiato per eterno felicissimo albergo, se in terra vivrai innocentemente. – Sentendo cantare uccelli, o altri canti, leva la mente a quelli del Paradiso, dove risuona continuo alleluja, e prega il Signore che ti faccia degna di lodarlo perpetuamente, insieme con quelli spiriti celesti. Quando ti avvedi, che prendi diletto delle bellezze della creatura, mira con l’intelletto che ivi nascosto giace il serpente infernale tutto intento e pronto ad ucciderti, o almeno a ferirti, contro il quale così potrai dire: Ah, maledetto serpente, come stai insidiosamente apparecchiato per divorarmi ! Poi rivolto a Dio dirai: Benedetto sii tu, Iddio mio che mi hai scoperto il nemico, e liberato dalle sue rabbiose fauci. E dall’allettamento fuggi subito alle piaghe del Crocifisso, occupando la mente in esse, e considerando quanto soffrì il Signore nella sua sacratissima carne per liberarti dal peccato, e renderti odiosi i diletti della carne. Un altro modo ti ricordo per fuggire questo pericoloso allettamento, ed è che tu t’interni bene a pensare, quale sarà dopo la morte quell’oggetto, che allora piace tanto. Mentre cammini, ricordati che per ogni passo che muovi, ti vai avvicinando alla morte. Così vedendo uccelli per l’aria, e scorrere acque, pensa, che con maggior velocità la tua vita se ne va volando al suo fine. Levandosi venti impetuosi, o folgorando e tuonando, ti sovvenga del tremendo giorno del Giudizio e, posta in ginocchione, adora Dio, pregandolo che ti conceda grazia e tempo di apparecchiarti bene per comparire allora davanti alla sua Altissima Maestà. – Nella varietà degli accidenti, che possono occorrere alla persona, così ti eserciterai quando, per esempio, sei oppressa d’alcun dolore, o melanconia, o caldo, freddo, o altro: solleva la mente a quell’eterna volontà alla quale per tuo bene è piaciuto che in tal misura e tempo, tu senta quell’incomodo, onde tu lieta per lamore, che ti mostra il tuo Dio, e per l’occasione di servirlo in tutto quello che più gli piace, dirai con il tuo cuore: Ecco in me il compiacimento del divino volere, che ad eterno amorosamente ha disposto che io al presente sostenga questo travaglio. Ne sia lodato per sempre il mio benignissimo Signore. E quando si crea nella tua mente pensiero di cosa buona, subito rivoltati a Dio, e riconoscilo da Lui e rendigliene grazie. Quando leggi, ti paia di vedere il Signore fatto quelle parole e ricevile come se venissero dalla sua divina bocca. – Mirando la S. Croce considera che ella è lo stendardo della tua milizia, dal quale scostandoti, cadrai nelle mani dei crudeli nemici, e seguendolo giungerai in Cielo carica di gloriose spoglie. Nel vedere la cara immagine di Maria Vergine, rivolta il cuore a Lei che regna in Paradiso, ringraziandola che sempre fu apparecchiata alla volontà del tuo Dio che ha partorito, allattato, e nutrito il Redentore del mondo, e che nel nostro conflitto spirituale non ci manca mai del suo favore ed aiuto. – Le immagini dei Santi ti rappresentino tanti Campioni, che avendo corsa la loro lancia valorosamente, ti hanno aperta la strada per la quale camminando tu ancora, sarai insieme con essi coronata di perpetua gloria. – Quando vedrai le Chiese, fra le altre devote considerazioni, potrai pensare, che l’anima tua è tempio di Dio, e però come stanza sua la devi conservare pura, e monda. – Sentendo in qualunque tempo i tre segni della Salutazione Angelica, potrai fare le seguenti brevi meditazioni, che sono conformi alle sacre parole che si sogliono dire avanti ciascuna di quelle orazioncelle celesti. Al primo segno, ringrazia Dio di quell’ambasciata, che dal Cielo mandò in terra, e fu il principio della nostra salute. Al secondo, rallegrati con M. V. delle sue grandezze, alle quali fu sublimata per la sua singolare profondissima umiltà. Al terzo segno, insieme con la felicissima Madre e l’Angelo Gabriele, adora il divino Fanciullo nuovamente concepito. Né ti scordare di inchinare per riverenza così un poco il capo per ciascun segno, ed alquanto più che nell’ultimo. – Queste meditazioni divise per i tre segni, servono per tutti i tempi. Le seguenti si dividono per la sera, la mattina ed il mezzo giorno, e sono appartenenti alla passione del Signore, essendo noi purtroppo debitori, ricordarci spesso dei dolori che per quella sostenne la nostra Signora, mostrandoci ingrati, se non lo facciamo. La mattina, compassionandola nelle se azioni per la presentazione a Pilato e ad Erode, per la sentenza della sua morte e per lo portare la Croce. Al mezzo giorno, penetra col pensiero al coltello di doglia che trafisse il cuore della sconsolata Madre, per la crocifissione e morte del Signore, e per la crudelissima lanciata nel suo sacratissimo Costato. Quelle meditazioni de’ dolori della Vergine potrai fare dalla sera del  Giovedì fino al mezzo giorno del Sabato, le altre negli altri giorni. Mi rimetto però alla tua particolare devozione: ed all’occasione, che ne porgeranno le cose esteriori. E per conchiuderti in breve modo, con che hai da regolare i sensi, sii desta sì, che in ogni cosa, ed accidente, non dall’amore loro, o abborrimento, ma dalla sola volontà di Dio tu sia mossa e tirata, e quel tanto abbracciando od abborrendo, che vuole Iddio che tu abbracci, od abborrisca. – Ed avverti, che non ti ho dato io i suddetti modi di reggere i sensi, perché tu ti occupi in questi, dovendo stare quasi sempre raccolta nella mente tua col tuo Signore, il quale vuole, che con frequenti atti attenda a vincere i tuoi nemici e le passioni viziose, e col resistere loro, e con gli atti delle virtù contrarie, ma te l’ho insegnati acciò sappi regolarti quando accade il bisogno. – Perché hai da sapere, che si fa poco frutto quando si prendono molti esercizi, benché in se stessi siano buonissimi, e sono ben spesso intrigamento di mente, amor proprio, instabilità e lacci del demonio. 

Del modo di regolare la lingua

CAP. XXIV

La lingua dell’uomo ha gran bisogno di essere ben regolata e tenuta a freno, perché ognuno è grandemente inclinato a lasciarla correre e discorrere di quelle cose che più ai sensi nostri dilettano. – Il molto parlare ha radice per lo più da una certa superbia, con la quale persuadendoci noi di saper molto e compiacendoci nei propri concetti, ci sforziamo con soverchie repliche, di imprimerli negli animi altrui per fare del maestro sopra di loro, quasi che abbiano bisogno di imparare da noi. Non si possono esprimere con poche parole i mali che nascono dalle molte parole. La loquacità è madre dell’accidia, argomento di ignoranza e pazzia, porta alla detrazione, ministra di bugie e raffreddamento del devoto fervore.  Le molte parole danno forza alle viziose passioni, e da queste è mossa poi la lingua a continuare tanto facilmente nell’indiscreto parlare. –  Non ti allargare in lunghi ragionamenti con chi ti ode mal volentieri, per non infastidirli, e fa lo stresso con chi ti dà orecchia per non eccedere i termini della modestia. – Fuggi il parlare con efficacia, e con alta voce, che l’una e altra cosa è odiosa assai, e da indizio di presunzione, e vanità. – Di te e dei fatti tuoi, e dei tuoi congiunti non parlar mai, se non per pura necessità, e quanto più brevemente, e ristrettamente potrai: se ti paresse che altri parlassero di sé  soverchiamente, sforzati di trarne buon concetto, ma non imitarli, ancorché le lor parole rendessero alla propria umiliazione, ed accusa di se stessi. Del prossimo tuo, e delle cose appartenenti a lui ragiona men che sia possibile,  fuorché per dirne bene dove lo porti l’occasione. Parla volentieri di Dio e particolarmente dell’amore, e bontà sua, ma con timore di poter errare anche in questo, e ti piaccia stare piuttosto attenta quando altri ne ragiona, conservando le sue parole nell’intimo del cuor tuo. Dell’altre il suono solamente della voce percuota le tue orecchie e la mente stia sollevata al Signore, che se pure bisogna udire il ragionante, per intendere e rispondere non lasciar per questo di dare qualche occhiata col pensiero al Cielo, dive abita il tuo Dio, e mira l’altezza sua, com’Egli sempre riguarda la tua viltà. Le cose che ti cadono in cuore per dirle, siano da te considerate prima che passino alla lingua, che di molte ti avvedrai che bene farebbe che da te non fossero mandate fuori. Ma di più ti avverto, che non poche ancora di quelle che allora penserai essere bene che tu le dica, meglio assai farebbe se le seppellissi con il silenzio, e lo conoscerai pensandovi dopo che sarà passata l’occasione del ragionamento. Il silenzio, figliuola mia, è una gran fortezza nella battaglia spirituale, ed una certa speranza della vittoria. – Il silenzio è amico di chi si fida di se stesso, e confida in Dio ed è conservatore della santa orazione, ed aiuto meraviglioso all’esercizio delle virtù. – Per avvezzarsi a tacere, considera spesso i danni e pericoli della loquacità, ed i beni grandi del silenzio, e prendi amore a questa virtù, e per qualche tempo (per farvi l’abito), taci anche dove non sarebbe male a parlare, purché questo non sia a te, o ad altri di pregiudizio. Ti gioverà anco perciò lo stare lontana dalle conversazioni che invece degli uomini avrai per compagnia gli Angioli, i Santi e lo stesso Dio. – Finalmente ricordati del combattimento che hai alle mani, che vedendo, quanto in questo hai da fare, ti verrà voglia di lasciare le soverchie parole.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (4)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (4)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Quello che si debba fare, quando la volontà superiore pare vinta e soffocata in tutto dall’inferiore e dai nemici.

CAP. XIV

E se talora ti paresse, che la volontà superiore nulla potesse contro l’inferiore, e nemici suoi, perché non sentissi in te un potere efficace contro di loro, sta pur salda e non lasciare la pugna, perché hai da tenerti sempre per vittoriosa, mentre apertamente non ti avvedi di aver ceduto. – Che siccome non ha bisogno la nostra volontà superiore per produrre gli atti suoi delle voglie inferiori, così se ella stessa non vuole non può essere costretta giammai a rendersi loro per vinta, per molto aspramente che l’impugnino.  – Perciocchè Iddio ha dotata la volontà di libertà e forza tale che, se tutti i sensi, con tutti i demoni, ed il mondo insieme si armassero e congiurassero contro di lei combattendola, e premendola con tutto lo sforzo loro, può ella nondimeno a dispetto loro liberissimamente volere o non volere tutto ciò, che vuole o non vuole, e quante fiate e per quanto tempo, ed in quel modo ed a quel fine, che più le piace. E se questi nemici alcuna fìate con tanta violenza ti assalissero, e stringessero, che la volontà tua quasi soffocata, non avesse (per cosi dire) fiato per produrre alcun atto di voglie contrarie, non ti perdere d’animo, né gettar le armi per terra, ma serviti in questo caso della lingua, e difenditi, dicendo: “Non ti cedo, non ti voglio”; a guisa di colui, che avendo l’inimico addosso, che lo tiene oppresso, non potendo con la punta, lo percuote col pomo della spada. E siccome quelli tenta di far un salto addietro per poterlo ferire di punta, così tu ritirati nel conoscimento di te stessa, che niente sei, e niente puoi, e con la fiducia in Dio, che tutto può, dà un colpo alla nemica passione dicendo: “Aiutatemi Signore, aiutatemi Dio mio, aiutatemi Gesù e Maria, perch’io non le ceda”. Potrai ancora, quando il nemico ti dà tempo, aiutare la debolezza della volontà, col ricorrere all’intelletto, considerando diversi punti per la considerazione dei quali viene poi la volontà a pigliar fiato e forza contra i nemici. Per esempio: Tu in qualche persecuzione, o altro travaglio, talmente assalita dall’impazienza che la tua volontà quasi non può, oppure non vuole comportarlo; la conforterai dunque con il discorrere con l’intelligenza, intorno ai seguenti, o pure altri punti. – Primo, considera se tu meriti quel male che patisci, perché gli hai dato l’occasione che meritandolo, ogni dover di giustizia vuole che tu sopporti pazientemente quella ferita, che con le proprie mani ti hai data. – Secondo, e non avendone tu colpa alcuna, rivolta il pensiero agli altri tuoi falli dei quali non hai ancora dato il castigo, come si deve, gli hai puniti. E vedendo che la misericordia di Dio ti cangia la pena d’essi, che sarebbe eterna, oppure temporale, ma del Purgatorio, con una piccola presente, devi riceverla non solamente volentieri, ma con rendimento di grazie. – Terzo, e quando a te paresse d’aver fatto molta penitenza, e poco offesa la Divina Maestà (cosa però, che non devi mai persuaderti) hai da pensare, che nel Regno celeste non si entra che per la stretta porta delle tribolazioni. – Quarto, che quantunque tu vi potessi entrare per altra via, per legge d’amore non dovresti neanche pensarlo, essendovi il Figliuolo di Dio con tutti gli amici e membri suoi entrato per mezzo delle spine e croci. – Quinto, ma quello che tu hai in questa, ed ogni altra occasione da mirare principalmente, è la volontà del tuo Dio, che per l’amore che ti porta, e per compiacerti indicibilmente d’ogni atto di virtù e mortificazione, che per corrispondere in amore a Lui ti vedrà fare da sua fedele e generosa guerriera. E tieni per certo, che quanto in sé farà più irragionevole il travaglio, e più indegno dalla parte d’onde viene, e perciò a te più molesto e grave a tollerarlo, tanto al Signore darai più gusto, approvando, ed amando anco nelle cose disordinate in se stesse, e per te più amare, la sua divina volontà e disposizione, nella quale ogni avvenimento, per sregolato che sia, ha regola ed ordine perfettissimo.

Da alcuni avvisi intorno al modo di combattere, e specialmente contro chi e con qual virtù debba farsi.

CAP. XV

Hai già veduto figliuola, il modo con cui si ha da combattere per vincere te stessa, ed ornarti delle virtù. Sappi ora di più, che per riportare la vittoria dei tuoi nemici con facilità, ti conviene combattere, anzi è di bisogno che tu combatta ogni giorno, particolarmente contro l’amore proprio, avvezzandoti ad avere per cari amici i dispregi, e disgusti, che ti potesse mai dare il mondo. E dal non avvertire questa pugna, e dal farne poco conto, è avvenuto ed avviene (come ho tocco di sopra) che le vittorie sono difficoltose, rare, imperfette ed instabili. – Di più ti avviso che il combattimento ha da essere con fortezza d’animo, la quale facilmente acquisterai se la domanderai a Dio; se considerando la rabbia ed odio immortale, ed il gran numero delle loro squadre ed eserciti, considererai all’incontro cui in infinito maggiore è la bontà di Dio, e l’amore, con cui ti ama, e che assai più sono gli Angioli del Cielo e le orazioni de Santi, che dalla parte nostra combattono. – E da questa considerazione è proceduto, che tante e tante femminucce, hanno superato e vinto tutta la potenza e sapienza del mondo, tutti gli assalti della carne, e tutta la rabbia dell’inferno. Onde non ha mai da spaventarti, benché alle volte a te paresse, che la pugna dei nemici più ingagliardisca, e sia per durar per tutta la vita tua, e che ti minaccia quali certe cadute da diverse parti, perché hai da sapere oltre il suddetto, che ogni forza e sapere dei nostri nemici, sta nelle mani del nostro divino Capitano, per onore del quale si combatte, il quale stimandoci indicibilmente, e chiamandoci Egli stesso e rettamente alla pugna, non pure non permetterà mai che ti sia fatta soverchieria, ma combattendo Egli per te, te li darà vinti, quando a Lui piacerà, e con maggior tuo guadagno, quando Egli tardasse in sino all’ultimo giorno di tua vita. Questo solamente tocca a te, che tu combatta generosamente e, se avvenga più fiate, che sia ferita, mai lasci le armi, e ti dia in fuga. – Finalmente, perché tu valorosamente combatta, hai da sapere che questa battaglia non si può fuggire, e chi non vi combatte, di necessità vi resta preso  e morto. Oltre ciò si ha da fare con nemici di tal qualità ed odio ripieni, che non se ne può in modo alcuno, né pace né tregua sperare.

In qual modo la mattina di buon ora si debba mettere in campo il Saldato di Cristo.

CAP. XVI

Svegliata che sarai, la prima che hanno da osservare gli occhi tuoi interni, è il vederti dentro uno steccato chiuso; con questa legge che chi non vi combatte, vi resta morto per sempre. Dentro del quale, t’immaginerai di vedere innanzi a te da una parte quel nemico e mala inclinazione tua che hai già pigliata per espugnare, armata per ferirti, e darti morte, e dal destro piano il tuo vittorioso Capitano Cristo Gesù, con la sua SS. Madre Maria Vergine, insieme col suo carissimo Sposo Giuseppe, con molte squadre d’Angioli, e Santi, e particolarmente S. Michele Arcangelo; e dal sinistro piano il demonio infernale con i suoi, per eccitare la suddetta tua passione istigandoti a cedergli. Nel che ti parerà di sentire una voce,- quasi dell’Angiolo tuo Custode, che cosi ti dica: “Tu oggi hai da combattere contro questo, ed altri tuoi nemici. Non s’impaurisca il cuor tuo, né si perda d’animo, non gli ceda per timore, o altro rispetto in conto alcuno, perché il Signore nostro e Capitano tuo, sta qui teco con tutte quelle gloriose squadre che contro i tuoi nemici tutti combatterà, non permettendo che in forze ti prevalgano, ed in soverchieria”. Sta pur salda, fa a te violenza, e comporta la pena che in violentarti sentirai talora. Grida spesso dall’intimo del cuore, e chiama il tuo Signore e Maria Vergine e tutt’i Santi, che senza dubbio ne riporterai  la vittoria. Se tu sei fiacca, e male abituata, se i nemici tuoi sono forti, e molti, molti anche sono gli ajuti di chi ti ha creato e redenta, e sopra modo e senza comparazione alcuna, più forte è il tuo Dio, più voglia ha Egli di salvarti, che non ne ha il nemico di perderti. Combatti pure, né talora ti rincresca il penare, perché dalla fatica, dalla violenza contro le tua male inclinazioni e dalla pena che si sente per mali abiti, nasce la vittoria ed il tesoro grande, con che si compra il Regno dei cieli, e si unisce l’anima per sempre con Dio. – Comincerai in nome del Signore a combattere con le armi della diffidenza di te stessa e confidenza in Dio, con la orazione e con l’esercizio, chiamando a battaglia quel nemico ed inclinazione tua, che secondo l’ordine di sopra ti sei risoluta di vincere, ora con la resistenza, ora con l’odio ed ora con gli atti della virtù contraria, ferendola più e più volte a morte, per far piacere al tuo Signore che, con tutta la Chiesa trionfante, sta a vedere il tuo combattimento. –  Di nuovo ti dico, che non ti deve rincrescere i1 combattere, considerando l’obbligo che tutti abbiamo di servire e piacere a Dio, e la necessità di combattere, non potendo fuggire senza ferite e morte nostra, da questa battaglia; e ti dico di più, che quando, come ribelle volessi fuggire da Dio e darti al mondo, ed alle delizie della carne, al tuo dispetto ti bisogna combattere con tante e tante contrarietà, che spesse volte ti suderà il volto, e penetrerà il cuore con angosce di morte. – Considera qui, che forte di pazzia sarebbe di pigliare quella fatica e quella pena che induce maggior fatica e pena, con la morte insieme senza finirsi mai, fuggendo da quella, che col finirla presto, si unisce alla vita eterna ed infinitamente beata, o godendo per sempre del nostro Dio.

Dell’ordine di combattere contro le nostre viziose passioni. 

CAP. XVII

Importa assai sapere l’ordine, che si ha da tenere per combattere come si deve, e non a caso ed a stampa, come fanno molti, non senza loro danno. L’ordine di combattere contro i nemici e mali inclinazioni tue è, che tu, entrando dentro al tuo cuore, guardi con diligente esame da qual sorta di pensieri ed affetti è circondato, e da qual passione è più posseduto e tiranneggiato; e contro quella principalmente tu prenda le armi, e la pugna. E se avviene, che tu sii assalita da altri nemici, sempre devi combattere contro quello che allora in atto e più da vicino ti fa guerra, ritornando però poi alla principal impresa.

Del modo di resistere ai subiti moti delle passioni.

CAP. XVIII

Non essendo ancora assuefatta a riparare i subiti colpi delle ingiurie, o d’altra cosa contraria, per fare quell’uso, avvezzati a prevederli e volerli poi più e più volte, aspettandoli con animo preparato. – Il modo di prevederli è che, considerata la condizione delle tue passioni, consideri anco le persone e i luoghi dove, e con le quali tratti, dal che facilmente potrai congetturare quel, che ti potrebbe avvenire. – E sopravvenendoti qualsivoglia altra cosa avversa non pensata, oltre l’aiuto, che ti avrà recato il tenere l’animo preparato alle altre che prevedevi, potrai di più servirti di questo altro modo. In quello che tu incominci a sentire i primi colpi dell’ingiuria, o altra cosa penosa, sta desta a farti forza per levare la mente a Dio, considerando la sua ineffabile bontà, e l’amore verso di te col quale ti manda quell’avversità, acciocché sopportandola per suo amore, più ti purghi ed accosti, ed unisci a Lui. E veduto, quanto Egli si compiace, che tu la sopporti, voltati a te stessa, riprendendoti, e dicendo teco: “Ah, perché non vuoi sostenere questa Croce, che non questi o quegli, ma il tuo Padre celeste ti manda”. Poi rivolta alla Croce abbracciata con la maggior pazienza ed allegrezza, che puoi, dicendo: O Croce fabbricata dalla previdenza divina, innanzi ch’io fossi! O  Croce indolcita dal dolce amore del mio Crocifisso! Inchiodami ormai in te, perché possa darmi, a chi morendo in te, mi ha redenta. – E se nel principio, prevalendo in te la passione, non potessi levarti in Dio, ma restassi ferita, cerca non tutto ciò di farlo quanto prima, come se ferita non fossi. Ma per efficace rimedio contro questi sopiti moti, toglierai a buon ora la cagione, d’onde procedono. – Come se per l’affètto che hai ad alcuna cosa, vedi che, quando in essa vieni molestata, sei solita cadere in subita alterazione d’animo, il modo di provvedere a ciò per tempo è che tu ti avvezzi a toglierne l’affetto. Ma se l’alterazione procede non dalla cosa, ma dalla persona della quale, perché non vi hai sangue, ogni piccola azione ti infastidisce e ti commuove, il rimedio è che ti sforzi d’inchinare la volontà ed amarla, ed averla cara, perché oltre ch’è creatura come tu, dalla sovrana mano formata, e con lo stesso divino Sangue come tu, riformata, ti porge anche occasione (se la comporterai) di assomigliarti al tuo Signore, amoroso e benigno con tutti.

Del modo di combatterecontro il vizio della carne

CAP. XIX

Contro questo vizio hai da combattere con particolare e diverso modo dagli altri. Onde, perché tu sappia combattere ordinatamente, tre tempi hai da osservare:

Avanti che siamo tentati.

Quando siamo tentati.

Dopo che la tentazione è passata.

Avanti la tentazione, la pugna sarà contro le cagioni che sogliono produr quella tentazione. Prima tu hai a combattere, non affrontando il vizio, ma fuggendo ad ogni tuo potere qualsivoglia occasione e persona, da cui te ne possa venire un minimo pericolo. E bisognando talora trattarci, prestissimamente, con volto modesto e grave, e piuttosto le parole hanno d’avere dell’asprezze che dell’amorevolezza ed affabilità soverchia. Né ti fidare, perché non senta, né abbi tanti e tanti anni praticato, sentito stimoli della carne, perché questo maledetto vizio, quello che non ha fatto in molti anni, lo fa in un’ora, e spesso ordina i suoi apparecchi occultamente, e tanto più nuoce, ed incurabilmente ferisce, quanto più sa dell’amico meno dà sospetto di sé. – E molte volte v’è più da temere (come non poche fiate l’esperienza ha mostrato e mostra tuttavia), dove la pratica si continua sotto pretesto di cose lecite, come di parentela, o debito uffizio, oppure di virtù, che sia nella persona amata, perché col troppo ed imprudente praticare, si va mescolando il velenoso diletto del senso, che insensibilmente stillando a poco a poco, e penetrando fino al midollo dell’ anima, va offuscando sempre più la ragione, in modo che si cominciano a stimare come niente le cose pericolose, gli sguardi amorevoli, le parole dolci dell’una e l’altra parte, ed i gusti della conversazione, e così, passandosi dall’una all’altra parte, si viene poi a cadere in rovina, o in alcuna travagliata tentazione malagevole a superarsi. – Di nuovo ti dico che tu fugga, perché sei stoppa, né ti fidare, che sei bagnata, e ben piena d’acqua di buona e forte volontà; e risoluta piuttosto, e pronta alla morte, che all’offesa divina, perché con lo spesso praticare, il fuoco col suo calore a poco a poco, dissecandone l’acqua della buona volontà, quando manco vi si pensa, se le attaccherà in modo che non porterà rispetto a parentela, né ad amici; non temerà Dio, non stimerà l’onore, non la vita, né le pene dell’inferno tutte. Però fuggi, fuggi, se daddovero non vuoi essere sopraggiunta, presa, ed uccisa. Secondo, fuggi l’ozio, e sta vigilante e desta con i pensieri, e con le opere al tuo stato convenienti. Terzo, non fare mai resistenza, ma ubbidisci facilmente ai tuoi Superiori, eseguendo con prontezza le cose imposte, e quelle più volentieri che ti umiliano, e sono più contro la tua volontà e naturale inclinazione. Quarto  non far mai giudizio del prossimo, e principalmente di questo vizio, e se manifestamente fosse caduto, abbigli compassione, né ti sdegnare contro di lui, non lo avere a scherno, ma cavane frutto di umiltà, e di conoscimento di te stessa, conoscendoti polvere e niente; con le orazioni accostati a Dio, e più che mai fuggi le pratiche, dove sia pure ombra di pericolo. Che se tu sarai facile a giudicare gli altri e dispregiarli, iddio a tuo costo ti correggerà, permettendo che tu cada nello stesso difetto, acciocché tu ti avveda della tua superbia, ed umiliata, ad ambedue questi vizi, procuri rimedio. E non cadendo, né mutando pensiero, sappi pure, che vi è da dubitare grandemente dello stato tuo. Quinto ed ultimo avverti bene, che ritrovandoti tu con qualche dono e gusto di delizie spirituali, tu non prenda di te stessa un certo vano compiacimento, persuadendoti di essere da qualche cosa, e che i tuoi nemici non siano più per farti guerra, giacche ti pare di guardarli con nausea, orrore, ed odio, che se in ciò sarai in cauta, cadrai facilmente. Nel tempo della tentazione considera, se procede da cagione intrinseca, o estrinseca. Estrinseca intendo io, che sia la curiosità degli occhi, delle orecchie, la soverchia politezza delle vesti, le pratiche ed i ragionamenti che incitano a quello vizio. Il rimedio di quelli casi è l’onestà, la modestia, non volendo né vedere, né sentire, cose che incitino a questo vizio, e la fuga, come di sopra ho detto. –  L’intrinseca procede, o dalla vivacità del corpo, o dai pensieri della mente; che ci vengano da nostri mali abiti, o pure per suggestione del demonio. La vivacità del corpo si ha da mortificare con digiuni, discipline, cilici, vigilie, ed altre simili asprezze, secondoché insegna la discrezione, e l’ubbidienza. Quanto ai pensieri, vengano pure da qual parte si voglia, che i rimedi son quelli: L’occupazione in diversi esercizi al proprio stato convenienti. L’orazione e la meditazione. L’orazione sia di questa maniera. Quando tu cominci pur un poco ad accorgerti, non pure di tali pensieri, ma dell’antiguardia loro, subito ritirati con la mente al Crocifisso, dicendo: “Gesù mio, Gesù mio dolce, aiutatemi presto, perché io non sia presa da questo nemico”. Ed alle volte abbracciando la Croce, d’onde pende il tuo Signore, bacia più volte le piaghe dei suoi sacrati piedi, dicendo affettuosamente: “piaghe belle, piaghe caste, piaghe sante, piagate ormai questo misero ed impuro cuore, liberandomi dall’offesa vostra.” – La meditazione non vorrei, che nel tempo che abbondano le tentazioni carnali, fosse intorno a certi punti, che propongono molti libri per rimedio di questa tentazione, come il considerare la viltà di questo vizio, l’insaziabilità, i disgusti, le amarezze, che ne seguono, i pericoli e rovine della roba, della vita, dell’onore, e cose simili. Perché quello non è sempre sicuro mezzo per vincere la tentazione, anzi può apportare danno: che se l’intelletto per una via scaccia questi pensieri, per l’altra ci  porge occasione e pericolo di dilettarcene, e consentire al diletto; onde il rimedio vero è il fuggire in tutto, non pure da essi, ma anco da ogni cosa, benché loro contraria, che ce li rappresenti. Però la tua meditazione, per questo effetto, sia intorno alla vita e alla passione del nostro Crocifisso. E se meditando, ti si facessero innanzi contro tua voglia gli stessi pensieri, e più del solito ti molestassero (come facilmente ti avverrà), non perciò ti sgomenterai, né lascerai la tua meditazione, nè a far loro resistenza ti rivolterai, ma seguirai, quanto più intensamente ti sia possibile, la tua meditazione, non curandoti di tali pensieri, come se tuoi non fossero, che non vi è di questo modo migliore per opporsi loro, ancorché ti facessero continua guerra. – Conchiuderai poi la meditazione  con questa o somigliante domanda: “Liberatemi, Creatore e Redentor mio dai miei nemici ad onore della vostra passione e bontà ineffabile”; non rivoltando la mente al vizio, perché la sola memoria di esso non è senza pericolo. Né sta a disputare mai con simile tentazione, se tu abbi consentito o no; perché questo sotto specie di bene, è inganno del demonio per inquietarti  e renderti sconfidata o pusillanime; perché rendendoti occupata in tali discorsi spera di farti cadere in qualche delitto. Però in questa tentazione (quando il consenso non è chiaro), ti basti confessare il tutto con brevità al tuo padre spirituale, rimanendoti di poi col suo parere quieta, senza pensarci più. E fa che gli scopri sempre fedelmente ogni tuo pensiero, né mai te ne ritenga rispetto alcuna o vergogna. Che se con tutti i nostri nemici abbiamo bisogno della virtù dell’umiltà per vincerli, in questo più che in altro dobbiamo umiliarci, essendo questo vizio quasi sempre castigo di superbia. Passato il tempo della tentazione, quello che abbi da fare è, che per libera, che ti pare di essere, e del tutto sicura, tu stia però con la mente lontana affatto da quegli oggetti che ti cagionavano la tentazione, ancorché per fine di virtù, o di altro bene ti sentissi muovere a fare altrimenti, perché questa è frode della viziosa natura, e laccio del sagace nostro avversario, che si trasforma in Angiolo di luce per indurci alle tenebre.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (3)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (3)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Delle cagioni, per cui non si discernono le cose rettamente da noi, e del modo che si ha da tenere per conoscerle bene.

CAP. VIII

La cagione, per cui da noi tutte le cose suddette, con altre non si discernono rettamente, perché alla prima loro apparenza vi attacchiamo o l’amore, o l’odio, dal che ottenebrato, l’intelletto non le giudica direttamente per quelle che sono. – Tu, perché in te non trovi luogo questo inganno, sta sull’avviso di tenere sempre, quanto più puoi, la tua volontà purgata e libera dall’affetto disordinato di qualche cosa. – E quando ti viene proposto avanti qualunque oggetto: riguardalo coll’intelletto, e consideralo maturamente, prima che da odio, s’è di cosa contraria alle nostre naturali inclinazioni: o da amore, se ti apporti diletto, tu sii mossa a volerlo, o pure a rifiutarlo. – Perché allora l’intelletto, non ingombrato da passione, è libero e può conoscere il vero, e penetrare dentro al male che sta nascosto sotto il falso piacere, ed al bene coperto dall’apparenza del male. – Ma se la volontà si è prima inclinata ad amare la cosa, o l’ha presa in aborrimento, l’intelletto non la può ben conoscere, perché quell’affetto, che si è porto fra mezzo, l’offusca di modo che la stima per altra da quella che è, e per tale rappresentandola alla volontà, si muove ella più ardentemente, che prima ad amarla, oppure odiarla, contro ogni ordine e legge di ragione. Dal qual affetto si viene ad oscurare maggiormente l’intelletto, e così oscurato fa di nuovo parere alla volontà, la cosa più che mai amabile, o odiosa. Onde se non si tiene la regola che ho detto (il che in tutto questo esercizio è di somma importanza) quelle due potenze, intelletto e volontà, tanto nobili ed eccellenti, vengono miseramente a camminare sempre come in giro di tenebre in più folte tenebre, e di errore in maggior errore. – Guardati, dunque, figliuola, con ogni vigilanza da ogni non bene ordinato affetto di qualsivoglia cosa, che prima non sia da ben eliminata e riconosciuta per quella che ch’è veramente col lume dell’intelletto, e principalmente con quello della grazia e dell’orazione, e col giudizio del tuo Padre spirituale. – Il che intendo, che tu debba osservare talora, più che nelle altre cose, che in alcune opere esteriori, che buone e tante e sante sono, perché in queste per essere tali, vi è più che in quelle pericolo d’inganno, e di indiscrezione. – Onde per qualche circostanza di tempo, di luogo, e di misura, e per rispetto dell’ubbidienza, a te alcuna volta potrebbero recare non picciolo nocumento, come di molti si sa, che ne’ lodevoli e santissimi esercizi hanno pericolato.

D’un’altra cosa, da cui si deve guardare l’intelletto, perché bene possa discernere.

CAP. IX

L’Altra cosa, da cui abbiamo a tenere difeso l’intelletto, è la curiosità; perché riempiendolo di pensieri nocivi, vani, ed impertinenti, lo rendiamo inabile ed incapace, per apprendere ciò che più appartiene alla nostra vera mortificazione e perfezione. – Per lo che tu hai da essere come morta in tutto, ad ogni investigazione delle cose terrene non necessarie, ancorché lecite. Ristringi sempre il tuo Intelletto guanto puoi, ed ama di farlo stolto. Le novelle e mutazioni del mondo,  e picciole, e grandi, a te siano appunto come se non fossero, e se ti sono offerte, opponiti loro, e scacciale lungi da te.  – Nel desiderio d’intendere le sole celestiali, fa che tu sii sobria ed umile, non volendo altro sapere, che Cristo Crocifisso, e la vita e morte sua, e quanto da te domanda. Tutto il resto tieni da te lontano, che ne farai gran piacere a Dio, il quale ha per suoi cari e diletti coloro che desiderano da Lui e cercano quelle cose che bastano per amare la sua divina bontà e fare la sua volontà. Ogni altra domanda ed inquisizione è proprio amore, superbia, e laccio del demonio. – Se tu seguirai questi ricordi, potrai scampare da molte insidie, perché vedendo l’astuto serpente, che in quelli che attendono alla vita spirituale, la volontà è gagliarda e forte, tenta di abbattere l’intelletto loro, acciò così si faccia padrone e di questo e di quella. – Onde suole molte fiate dar loro sentimenti alti, vivi, e curiosi, e massimamente agli acuti e di grand’ingegno, e che sono facili a levarsi in superbia, perché occupati nel diletto, e discorso di quei punti nei quali falsamente si persuadono di goder Dio, si scordino di purificare il cuore, ed attendere al conoscimento di loro medesimi, ed alla vera mortificazione. Così entrati nel laccio della superbia, si fanno un idolo del proprio intelletto. – Da quello ne segue, che a poco a poco non se ne avvedendo, vengono a darsi ad intendere di non avere bisogno dell’altrui consiglio ed ammaestramento, essendo già assuefatti a ricorrere in ogni occorrenza all’idolo del loro proprio giudizio. – Cosa di grave pericolo, e molto difficile a curarsi, perciocché è più pericolosa la superbia dell’intelletto che della volontà, perché  essendo la superbia della volontà manifesta al proprio intelletto, facilmente potrà un giorno, coll’ubbidire a chi deve, curarla. Ma chi ha ferma opinione che il parer suo sia migliore di quello d’altri, da chi e come, potrà essere sanato? come si sottoporrà al giudizio d’altri, che non ha per tanto buono, quanto il suo proprio. – Se l’occhio dell’anima, ch’è l’intelletto, con cui si aveva da conoscere, e purgare la piaga della superba volontà, è infermo e cieco, e pieno della stessa superbia, chi lo potrà curare? E se la luce diventa tenebre, e la regola falla , come ne andrà il resto. Per la qual cosa tua buon’ora, opponiti a così pericolosa superbia; prima che ti penetri dentro alle midolla dell’ossa. – Rintuzza l’acutezza del tuo intelletto; sottoponi facilmente il tuo proprio all’altrui parere, diventa pazza per amor di Dio, è sarai più savia di Salomone.

Dell’esercizio della  volontà, e del fine al quale si hanno da indirizzare tutte le azioni interiori.

CAP. X

Oltre l’esercizio che tu hai da fare intorno all’intelletto, ti è di bisogno di regolare talmente la tua volontà, che non lasciandola nei suoi desideri, si rende in tutto conforme al piacimento divino. – Ed avverti bene, che non ti ha da bastare quello solo di volere, e procurare le cose che a Dio sono più grate; ma di più ancora hai da volerle ed operarle, e come mosse da Lui, e per fine di piacere a Lui puramente. – In questo abbiamo pure, più che nel suddetto, contrasto grande con la natura; la quale è talmente inclinata a te stessa, che in tutte le cose, e più talora che nelle altre, nelle buone  e spirituali, cerca il proprio comodo e diletto che con che si va trattenendo e di quelle come di cibo niente sospetto, avidamente pascendo. – E però quando ci fono offerte, subito le adocchiamo e vogliamo, non come mossi dalla volontà di Dio, né affine di piacere a Lui solamente, ma per quel bene e contento, che dal volere le cose volute da Dio ne deriva. – Il qual inganno è tanto più occulto, quanto la cosa voluta è per se stessa migliore. Onde fino nel desiderare lo stesso Dio, vi sogliono essere degl’inganni dell’amor proprio, mirando spesso più al nostro interesse e bene che ne aspettiamo, che alla volontà di Dio, che per sua gloria si compiace, e vuole da noi essere amato, desiderato, ed ubbidito. – Per guardarti da questo laccio, che t’impedirebbe il cammino della perfezione, e per avvezzarti a volere ed operare tutto come mossa da Dio, e con pura intenzione d’onorare e contentare Lui solo, (il quale d’ogni nostra azione, e vuol essere unico principio e fine) terrai questo modo; questo modo, quando ti si offre alcuna cosa voluta da Dio, non inchinare la volontà a volerla, se prima non innalzi la mente a Dio, a vedere, se volontà sua, che tu la voglia, e perché Egli così vuole, e per piacere a Lui solamente. – Così da questa volontà mossa e tirata la tua, si pieghi poi a volerla, come voluta da Dio, e per suo solo compiacimento ed onore. –  Parimente volendo tu rifiutare le cose non volute da Dio, non le rifiutare, se prima non affissi lo sguardo dell’intelletto nella sua Divina volontà, la quale vuole che tu per piacergli le rifiuti. – Ma hai da sapere, che le frodi della sottile natura sono poco conosciute, la quale cercando sempre occultamente sé medesima, molte volte fa parere che in noi sia il detto motivo e fine di piacere a Dio, e non e così. – Onde spesso avviene, che quello che si vuole, o non vuole per proprio nostro interesse pare a noi di volerlo, o non volerlo, per piacere, ovvero non piacere a Dio. Per fuggire da questo inganno, il rimedio più proprio, ed intrinseco sarebbe la purità del cuore, la quale consiste (al che si indirizza tutto questo Combattimento?) nello spogliarsi dell’uomo vecchio, e vestirsi del nuovo. – Pure per provvederti d’arte, giacché sei piena di te stessa nel principio delle tue azioni, sta avvertita a spogliarti, quanto puoi d’ogni mistura, dove tu possa stimare che vi sia alcuna cosa del tuo, e non volere né operare, né rifiutare cosa alcuna, se prima non ti senti muovere, e tirare dal puro e semplice volere di Dio. – Se in tutte le operazioni, e particolarmente nelle interiori dell’anima, e nell’esteriori, che presto, come un soffio di vento svaniscono, non potrai così sempre in atto sentire questo motivo, contentati di averlo in ciascuna virtualmente, tenendo sempre intenzione vera di piacere in tutto al tuo solo Dio. –  Ma nelle azioni che continuano per qualche spazio di tempo, non solamente nel principio e bene, che cu ecciti in te quello motivo, ma devi stare sull’avviso di rinnovarlo spesso, e tenerlo svegliato fino all’ultimo; perché altrimenti vi sarebbe pericolo d’incappare in un altro laccio, pure dell’amor nostro naturale, che per esser più inclinato e pieghevole a se stesso, che a Dio, suole molte volte con intervallo di tempo farci inavvedutamente cangiare gli oggetti, e mutare i fini. – Il  servo di Dio, che in ciò non esta ben avvertito, spesse fiate, comincia ad operare alcuna cosa, col pensiero di piacere solamente al suo Signore, ma poi così a poco a poco, quasi non se n’accorgendo, talmente si va compiacendo in quella col proprio senso, che scordatosi della Divina volontà, si rivolta ed attacca di maniera al gusto che ne sente, ed all’utile ed onore, che glie ne può avvenire, che se l’istesso Iddio mette impedimento all’opera con una qualche infermità, o accidente, o mezzo d’alcuna creatura, egli ne rimane tatto turbato, ed inquietato, ed alle volte cade nella mormorazione di questo, e di quello; per non dire talora dell’istesso Iddio. Segno assai chiaro, che se l’intenzione sua non era in tutto di Dio, ma nasceva da radice e fondo guasto, e corrotto. Perché chiunque si muove, come mosso da Dio, e per piacere a Lui solo, non vuole più l’una, che l’altra cosa, ma solamente averla, se a Dio piacerà, che l’abbia, e nel modo, e tempo, che gli farà grato; ed avendola o no, ne resta ugualmente pacifico, e contento poiché ad ogni modo ottiene l’intento suo, e consegue il fine, che altro non era che il piacimento di Dio. Onde sta ben raccolta in te stessa, ed avvertita d’indirizzare sempre le tue azioni a quello perfetto fine. – E se talora (così ricercando la disposizione dell’anima tua) tu ti movessi ad operare il bene, affine di fuggire le pene dell’inferno, o per la speranza del Paradiso; puoi ancora in quello proporti per ultimo fine il piacimento, e volontà di Dio, che si compiace, che tu non vada all’inferno, ma ch’entri nel Regno suo. – Questo motivo, quanto abbia di forza e di virtù, non è chi possa pienamente conoscerlo, poiché una cosa, sia pur bassa, o minima quanto si voglia, fatta con fine di piacere a Dio solo, o per sua gloria, val più (per così dire) infinitamente, che molte altre di grandissimo pregio e valore, che siano fatte senza questo motivo. – Onde gli è più grato un solo danaro dato ad un poverello, per questo solamente di farne piacere a sua divina Maestà, che se con altra intenzione anche di godere i beni del Cielo (ch’è fine ma sommamente desiderabile) alcuno si privasse di tutte le sue facoltà per ampie che fossero. – Questo esercizio di operare il tutto con fine di piacere a Dio puramente, parrà da principio malagevole, ma si renderà piano, e facile dall’uso, e dal desiderar molte volte lo stesso Dio, ed a Lui aspirare con vivi affetti di cuore, come a perfettissimo, ed unico nostro bene, che per se stesso merita, che tutte le creature lo cerchino, e servano, ed amino sopra qualunque altra cosa. – La qual considerazione del suo infinito merito, quanto sarà fatta più profondamente, e più spesso, tanto saranno più ferventi e frequenti gli atti suddetti della volontà, e così con maggior facilità, e più presto verremo ad acquistar l’abito di fare ogni operazione per rispetto ed amor di quel Signore, che solo n’è meritevole. – Ultimamente ti avviso, perché tu consegua questo divino motivo, che tu, oltre il suddetto, lo domandi a Dio con importuna orazione, e che consideri spesso gl’innumerevoli benefizi che Iddio ci ha fatti, e fa tuttavia per puro amore, e senza suo interesse.

Di alcune considerazioni, che inducono la volontà a volere in ogni cosa il piacimento di Dio.

CAP. XI

Di più per indurre con maggior facilità la tua volontà a voler in tutte le cose il piacimento di Dio, e l’onor suo, ricordati spesso, ch’Egli ti ha prima in vari modi onorata, ed amata. Nella creazione, creandoti da nulla a sua sembianza, e le altre creature tutte a tuo servigio. Nella Redenzione, mandando non un’Angiolo, ma l’unigenito Figliuolo suo a ricomprarti, non con prezzo corruttibile d’oro, ed argento, ma col sangue suo prezioso e con la sua penosa, e vituperosa morte. – Che ogn’ora poi, anzi ogni momento, ti tenga guardata dai nemici, combatta per te con la sua grazia, tenga continuamente apparecchiato per tua difesa, e cibo, il suo diletto Figliuolo nel Sacramento dell’Altare, non è segno di inestimabile stima, ed amore che l’immenso Iddio ti porta? Tanto che non è chi possa capire quanto conto faccia sì gran Signore di noi poverelli, della bassezza e miseria nostra, e quello all’incontro, che noi siamo tenuti a fare per così alta maestà, che tali, e tante cose ha operato per noi. – Che se i Signori terreni, quando son onorati da persone anche povere e basse, pur tuttavia si sentono obbligate a rendere loro onori, che dovrà fare la nostra viltà con il supremo Re dell’universo, da cui si vede così altamente pregiata, e tenuta cara? Oltre il suddetto, tieni sempre sopra ogni cosa viva memoria, che la Divina Maestà da se stessa merita infinitamente di essere onorata, e servita puramente per suo piacimento.

Di molte volontàche sono nell’uomo,e della guerra, chehanno tra loro.

CAP. XII

Avvegnaché si possa dire in questo Combattimento, che in noi siano due volontà, l’una della ragione, detta perciò ragionevole, e superiore: l’altra del senso, che inferiore e sensuale è chiamata, la quale con quelli nomi d’appetito, carne, senso, e passione, si suole significare; nondimeno perché noi siamo uomini per la ragione, quando col senso solo vogliamo alcuna cosa, non s’intende che mai da noi veramente si voglia, fino a tanto, che con la superiore volontà non c’inchiniamo a volerla. Onde tutta la nostra battaglia spirituale sta in questo  principalmente, che la ragionevole volontà, essendo posta come in mezzo tra la volontà Divina, che le sta sopra, e l’inferiore, ch’è quella nel senso, continuamente dall’una, e dall’altra è combattuta, mentre ciascuna di queste tenta di tirarla a sé, e farla sì soggetta, ed obbediente. – Ma gran pena, e fatica, massimamente nel principio, provano i mal abituati, quando risolvono di mutare in migliore la loro malvagia vita, e togliendosi al mondo ed alla carne, darsi all’amore e servitù di Gesù Cristo. – Perché  i colpi, che la loro superiore volontà sostiene dalla volontà divina e dalla sensuale, che le stanno sempre intorno, battagliandola, sono possenti e forti, e si fanno bene sentire, non senza grave pena. – Il che non avviene a quelli che di già, sono abituati nelle virtù e non nei vizi; e così intendono tuttavia d’andare continuando, perché i virtuosi facilmente alla volontà divina consentono, ed i viziosi a quella del senso si piegano, senza contrasto. – Ma non presuma alcuno di poter conseguire le vere virtù Cristiane, né servire a Dio, come si conviene, se non vuole farsi violenza daddovero, e sopportar la pena, che si sente nel lasciare non pure i maggiori diletti, ma i piccoli ancora, ai quali prima stava attaccato con affetto terreno. – E da questo avviene, che molto pochi arrivano al segno della perfezione, perché dopo d’aver con fatica superati i vizi maggiori, non vogliono poi farsi violenza, continuando a soffrire le punture ed il travaglio, che si prova nella resistenza di quasi infinite vogliette proprie, e passioncelle di minor conto, le quali ogni ora prevalendo in essi, vengono ad acquistare sopra i cuori, il loro dominio e signoria. – Fra quelli se ne trovano, alcuni che se non tolgono i beni altrui, si affezionano soverchiamente a quelli, che giustamente possiedono: se non procurano onori con mezzi illeciti, non gli abborriscono però, come dovrebbero, né restano di desiderarli, ed alcune volte cercarli per altre diverse vie: se osservano i digiuni d’obbligo, non mortificano per questo la gola nel mangiare superfluamente, ed appetire delicati cibi, e vivendo continenti, non si staccano da certe pratiche di lor gusto, che portano grand’impedimento all’unione con Dio, ed alla vita spirituale; oltre che essendo in qualsivoglia persona, per santa che sia, e più, in chi meno le teme, molto pericolose, sono da fuggirsi da ciascuno, quanto più si possa. –  Dalle quali cose ancora ne avviene, che le altre lor opere buone, sono fatte con tiepidezza di spirito, ed accompagnate da molti interessi, ed imperfezioni occulte, e da non certa stima di loro stessi, e dal desiderio d’essere lodati, e pregiati dal Mondo. – Quelli che sono tali, non pure non fanno progresso nella via della salute, ma tornando addietro, stanno a rischio di ricadere nei primi mali, poiché non amano la vera virtù, e si mostrano poco grati al Signore, che gli tolse dalla tirannia del demonio, ed inoltre sono ignorati e ciechi per vedere il pericolo, in cui si trovano, mentre falsamente si persuadono d’essere in stato come sicuro. – E qui si scopre un inganno tanto più dannoso, quanto meno avvertito, che molti che attendono alla vita spirituale, essendo più di quello che bisognerebbe, di essere amatori (sebbene in verità non fanno amarsi), per lo più prendono quegli esercizi, che più si confanno col gusto loro, e lasciano gli altri, che toccano sul vivo della propria naturale inclinazione, e dei sensuali loro appetiti, contro i quali vorrebbe ogni ragione, che si voltasse tutto lo sforzo della battaglia. Onde, figlia mia diletta, ti avviso, ed esorto ad innamorarti della difficoltà, e pena che seco porta il vincerli; che qui sta il tutto, e tanto farà più certa la vittoria e presta, quanto più fortemente t’innamorerai della difficoltà, che ai principianti mostra la virtù, e la guerra; e se tu più sarai amatrice della difficoltà, e del penoso combattere, che delle vittorie e delle virtù, che presto acquisterai ogni cosa.

Del modo di combattere contro i moti del senso e degli atti, che  ha da fare l’acquistare gli abiti della virtù.

CAP. XIII

Qualunque volta la tua ragionevole volontà è combattuta del senso da una parte, e dalla divina dall’altra, mentre ciascuna cerca di riportarne la palma, fa di mestiere che tu,  acciocché in te prevalga in tutto la volontà divina, ti eserciti in più modi. – Prima, quando sei assalita e battagliata dai moti del senso, hai da fare gagliarda resistenza, perché a quelli che la volontà superiore non acconsenta. – Secondariamente, poiché sono cessati, eccitali di nuovo in te, per reprimerli con maggiore impegno e forza. – Di poi, richiamali alla terza battaglia, nella quale ti avvezzerai di scacciarli da te con sdegno, ed aborrimento. I quali due eccitamenti a  battaglia si hanno da fare in ogni nostro disordinato appetito, fuori che negli stimoli carnali, dei quali ragioneremo a suo luogo. Ultimamente hai da fare atti contrari ad ogni tua viziosa passione. Col seguente esempio ti si farà il tutto più chiaro. Tu sei per avventura combattuta dai moti dell’impazienza; se dentro te stessa dimorando, starai ben attenta, sentirai, ch’essi di continuo battono alla volontà superiore, perché loro s’inchini, ed acconsenta. E tu per lo primo esercizio con replicate voglie, opponendoti a ciascun moto, fa quanto puoi, perché la volontà tua non vi dia consentimento. Non celiare mai di questa pugna, finché tu non ti avveda, che l’inimico quasi stanco, e come morto, si renda per vinto. Ma vedi, figliuola, la malizia del demonio. Quando egli si accorge, che noi gagliardamente ci opponiamo ai moti d’alcuna passione; non pure si rimane da eccitarli in noi, ma essendo eccitati, tenta per allora d’acquetarli, perché coll’esercizio non acquistiamo l’abito della virtù contraria ad essa passione e per farti oltre ciò cadere nei lacci della vanagloria e superbia, col darci poi destramente ad intendere, che noi da generosi soldati abbiamo presto conculcato i nostri nemici. – Perciò tu passerai alla seconda battaglia, riducendoti alla memoria ed eccitando in te quei pensieri che ti cagionavano l’impazienza, in modo che tu ti senta da essi commossa nella parte sensitiva, ed allora con spesse voglie e sforzo maggiore che prima, reprimi i moti suoi. – E quantunque noi ributtiamo i nostri nemici, perché conosciamo di far bene e di piacere a Dio, tuttavia per non averli del tutto in odio, corriamo pericolo di rimanere da essi altra volta superati: per questo tu hai da farti loro incontro col terzo assalto e scacciarli lungi da te con voglie non pure ripugnanti, ma sdegnose, sin tanto che ti si rendano. Finalmente per ornare e perfezionare l’anima tua con gli abiti delle virtù, hai da produrre interiori atti che siano direttamente contrari alle tue disordinate passioni. Come volendo tu acquistare perfettamente l’abito della pazienza, se uno col dispregiarti ti porge occasione d’impazienza, non basta, che ti eserciti nelle tre maniere di pugna, che ho detto, ma devi di più volere, ed amare il dispregio ricevuto desiderando d’essere di nuovo nell’istesso modo, e dalla stessa persona oltraggiata, aspettando e proponendoti di sostenere anche cose più gravi. – La cagione, perché tali atti contrari sono necessari per perfezionarci pelle virtù, si è, perché altrimenti gli altri atti, per molti, che siano e forti, non sono bastevoli ad estirpare le radici che producono il vizio. Onde (per continuare nello stesso esempio) ancorché noi essendo dispregiati, non consentiamo ai moti dell’impazienza, anzi contra essi combattiamo coi tre modi mostrati di sopra; nondimeno se non ci avvezzeremo con molti e frequentati atti ad avere caro il dispregio, e rallegrarcene, non ci potremo mai liberare dal vizio dell’inclinazione nostra, alla propria riputazione, che si fonda nell’abborrimento del dispregio. – E restando viva la radice, viva la radice viziosa, va sempre germogliando, di maniera che, rende languida la virtù, anzi talora la soffoca in tutto, ed inoltre ci tiene in continuo pericolo di ricadere in ogni occasione che ci rappresenti. – Dalle quali cose ne segue, che senza i detti atti contrari non possiamo acquistare giammai il vero abito della virtù. – E di più si avverta, che questi soli atti hanno da essere tanto frequenti ed in tanto numero, che possano affatto distruggere l’abito vizioso, il quale siccome da molti atti viziosi ha preso nel cuore nostro possesso, così con molti atti contrari li ha da svellere da quello, per introdurvi l’abito virtuoso. Anzi dico di più, che più atti buoni si ricercano per far l’abito virtuoso, essendo che quelli non sono come questi aiutati dalla natura corrotta dal peccato. – Oltre a quello che fin qui si è detto, aggiungo che se la virtù che allora eserciti, così richiede, hai anche da fare atti esteriori, conformi agli interiori, come per stare nel detto esempio, usando parole di mansuetudine e d’amore, e servendo, se puoi, chi ti è stato noioso e contrario in qualunque nodo. E quantunque questi atti tanto interiori, quanto esteriori fossero, e ti paressero accompagnati da tanta debolezza di spirito, che ti paresse di farli contro ogni tua voglia, non però devi per modo alcuno tralasciarli, perché per deboli che siano, ti tengono ferma e salda nella battaglia, e ti agevolano la strada alla vittoria. E sta bene avvertita e raccolta in te stessa, per combattere non pure contro le voglie grandi ed efficaci, ma ancora contro le piccole e lente di ciascuna passione, perché queste aprono la strada alle grandi, onde poi si generano in noi gli abiti viziosi. E dalla poca cura che hanno tenuto alcuni, di sradicare dai cuori loro queste vogliette, dopo d’aver superate le maggiori della medesima passione, è avvenuto loro, che quando meno vi pensavano, sono stati assaliti, e vinti dagli stessi nemici più gagliardamente e che prima. – In più ti ricordo, che tu attenda a mortificare e rompere alle volte le tue voglie, anche di cose lecite non necessarie, perché da questo ne seguiranno molti beni, e ti renderai sempre più disposta, e pronta a vincerti nelle altre. Ti farai forte ed esperta nella battaglia delle tentazioni,  fuggirai varie insidie del demonio, e farai cosa gratissima al Signore. – Figliuola chiaramente ti parlo: se nel modo che ti ho detto andrai continuando in questi leali e santi esercizi, per la riforma e vittoria di te stessa, ti assicuro che fra poco tempo ti avanzerai molto, e diventerai spirituale davvero, e non di nome solamente; ma in altra maniera e con alcuni esercizi, ancorché a tua stima fossero eccellenti, e tanto al tuo gusto dilettevoli, che ti paresse di stare in essi tutta unita, ed in dolci colloqui col Signore, non ti dare ad intendere d’acquistare giammai virtù, e spirito vero. Il quale (come ti ho detto nel primo capitolo) non consiste né nasce da esercizi dilettevoli e conformi alla nostra natura, ma da quelli che la mettono in Croce con tutti gli atti suoi, onde rinnovato l’uomo per mezzo degli abiti delle virtù evangeliche, lo congiungono al suo Crocifisso e Creatore. – Né vi è, chi dubiti, che siccome gli abiti viziosi vengono a  farsi con molti, e frequentati atti della volontà superiore, mentre cede agli appetiti del senso, così all’incontro, gli abiti delle virtù evangeliche s’acquistano con fare atti, spesse e spessissime volte, conformi alla volontà divina, da cui or a questa, or a quell’altra virtù siamo chiamati. – Che siccome la volontà nostra non puote giammai essere viziosa e terrena, per molto che sia battagliata dalla parte inferiore e dal vizio, per fino a tanto che a quella non cede, e s’inchini: così non sarà mai virtuosa, e congiunta a Dio, benché molto vivamente sia chiamata, e combattuta dalle ispirazioni, e grazia divina, mentre cogli atti interni non si conforma ad essi, e con gli esterni, quando bisogna.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (2)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (2)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

CAPO PRIMO

Volendo tu, figliuola in Cristo amatissima, conseguire l’altezza della perfezione, ed accostandoti al tuo Dio, diventare uno stesso spirito con Lui, ch’è la maggiore e la più nobile impresa, che dire e immaginar si possa, hai prima da conoscere, in che cosa consista la vera e perfetta vita spirituale. – Perché molti, senz’altro pensare, l’hanno posta nel rigore della vita, nella macerazione della carne, nei cilici, nei flagelli, nelle lunghe vigilie, nei digiuni, ed in altre simili asprezze e corporali fatiche. – Altri, e particolarmente le donne, si danno a credere di esser giunte a gran segno, quando dicono di molte orazioni vocali, odono molte Messe, e lunghi Uffizi, frequentano le Chiese, e le Comunioni. Molti altri (tra i quali se ne ritrova talvolta qualch’uno che, vestito d’abito religioso, vive nei Chiostri) si sono persuasi che la perfezione in tutto dipenda dal frequentare il Coro, dal silenzio, dalla solitudine, e dalla regolata disciplina. E così, chi in queste, e chi in altre somiglianti azioni, tiene che sia fondata la perfezione. – Il che però non è così, che siccome dette operazioni sono ora mezzo d’acquistare spirito, ed ora frutto di spirito, così dire non si può che in esse sole consista la perfezione cristiana, ed il vero spirito. – Sono, senza dubbio, mezzo potentissimo d’acquistare spirito a quelli che bene, e discretamente l’usano per prendere vigore e forza contro la propria malizia, e fragilità,- per armarsi contro gli assalti, ed inganni dei nostri comuni nemici, per provvederli di quelli aiuti spirituali, che a tutti i servi di Dio, ed ai novelli massimamente sono necessari. –  Sono poi frutto di spirito nelle persone veramente spirituali, le quali castigano il corpo, perché ha offeso il suo Creatore e per tenerlo soggetto ed umiliato nel suo servigio: tacciono, e vivono solitarie per fuggire qualunque minima offesa del Signore, e per conversare nei cieli: attendono al culto divino ed all’opere di pietà, orano e meditano la Vita e Passione di Nostro Signore non per curiosità e gusti sensibili, ma per conoscere vieppiù la malizia propria, e la bontà, e misericordia di Dio: per Infiammarsi sempre più nell’amor divino, e nell’odio di loro stessi, seguendo con l’abnegazione loro e, Croce in spalla, il Figliuolo di Dio, frequentano i Ss. Sacramenti per gloria dì S. D. M. per più congiungersi strettamente con Dio, e per pigliar nuova forza contro i nemici. – Ma ad altri poi, che pongono nelle suddette operazioni esteriori tutto il fondamento loro, possono non per difetto delle cose in sé (che tutte sono santissime) ma per difetto di chi le usa, porgere talvolta più che i peccati aperti, occasione di rovina; mentre in esse solo intenti, lasciano il cuore in abbandono in mano delle inclinazioni, e del demonio occulto, il qual vedendo, che quelli già sono fuori del diritto sentiero, gli lascia non solamente continuare nei suddetti esercizj con diletto; ma anco spaziare, secondo il loro vano pensiero, per le delizie del Paradiso, dove si persuadono d’essere sollevati tra i Cori Angelici, e di sentire Dio dentro di loro, i quali talora si trovano tutti assorti in certe meditazioni piene d’alti, curiosi, e dilettevoli punti, e quali scordati del mondo e delle creature, par loro d’essere rapiti al terzo Cielo.  – Ma in quanti errori si trovino quelli avviluppati, e quanto siano lontani da quella perfezione che noi andiamo cercando, facilmente si può comprendere dalla vita e costumi loro. Perché vogliono questi in ogni cosa grande e piccola essere preferiti, ed avvantaggiati agli altri sono di proprio capo, ed ostinati ad ogni loro voglia, e ciechi ne’ propri, sono solleciti e diligenti osservatori, e mormoratori dei detti e fatti altrui. Che se tu li tocchi per un poco in una loro vana riputazione, in che essi si tengono, e si compiacciono esser tenuti dagli altri, e li levi da quelle divozioni, che usano a stampa, si alterano tutti e s’inquietano soprammodo. – E se Iddio per ridurli al vero conoscimento di loro stessi ed alla strada della perfezione, gli manda travagli ed infermità, o permette persecuzioni (che non vengono mai senza sua volontà, così volendo o permettendo, e sono la pietra del tocco della lealtà dei servi suoi), allora scoprono il loro falso fondo, e l’interiore corrotto e guasto della superbia, perché in ogni avvenimento o tristo o lieto che sia, non vogliono rassegnarsi, ed umiliarsi sotto la divina mano, acquietandoli nei giusti sempre, benché segreti giudizi di Dio, né ad esempio del suo umiliato ed appassionato Figliuolo, abbassarsi sotto tutte le creature, tenendo per cari amici i persecutori, come strumenti della divina bontà, e cooperatori alla  mortificazione, perfezione e salute di loro stessi. –  La onde certa cosa è, che questi tali sono posti in grave pericolo, perché avendo l’occhio interno ottenebrato, e mirando con quello loro medesimi e l’operazioni esterne che sono buone, s’attribuirono molti gradi di perfezione, e così insuperbiti giudicano gli altri, e per loro non è chi li converta, fuorché uno straordinario aiuto di Dio. –  Perciocché aliai più agevolmente si converte, e riduce al bene il peccatore manifesto, che l’occulto e coperto col manto delle virtù apparenti. – Tu vedi dunque figliuola chiaramente che, nelle suddette cose, nel modo, che ti ho dichiarato, non consiste la vita spirituale. – La quale hai da sapere, che in altro non consiste, che nel conoscimento della bontà e grandezza di Dio, e del nostro niente, ed inclinazione ad ogni male; nell’amor suo, ed odio di noi stessi; nella soggezione non solo a Lui, ma per amor suo ad ogni creatura; nella espropriazione d’ogni nostro volere, e rassegnazione totale nel suo divino piacimento, ed oltre ciò, che tutto quello si voglia, e faccia da noi puramente per gloria di Dio, e per suo solo compiacimento, e così Egli vuole e merita di essere amate, e servito. – Questa è la legge di amore impressa dalla mano dell’istesso Signore nei cuori dei suoi fedeli servi. Questa è la negazione di noi medesimi, che ricerca da noi. Questo è il soave giogo, ed il peso suo leggero. Questa è l’ubbidienza, alla quale con l’esempio e con la voce, il nostro Redentore e Maestro ci chiama. – E poiché aspirando nell’altezza di tanta perfezione, hai da fare continua violenza a te stessa, ad espugnare generosamente, ed annichilare tutte le voglie, o grandi o piccole che siano, di necessità conviene che con ogni prontezza d’animo ti apparecchi a questa battaglia, poiché la corona non si dà se non ai valorosi combattitori. – La quale, siccome è più d’ogni altra difficile (poiché combattendo contro di noi, siamo da noi stessi combattuti), così la vittoria ottenuta, sarà di ogni altra più gloriosa, e a Dio più cara. – Perché se tu attenderai a calcare e a dar morte a tutti i tuoi disordinati appetiti, desideri e voglie, ancorché minime, farai maggior piacere e servigio a Dio, che se tenendo alcune di quelle volontariamente vive, ti flagellassi infino a sangue, e digiunassi più che gli antichi Eremiti ed Anacoreti, o convertissi al bene le migliaia di anime. Che quantunque il Signore abbia cara più in sé la conversione dell’anime che la mortificazione d’una voglietta, nondimeno tu non hai da volere, né da operar altro più principalmente, che quello, che quello Signore da te ristrettamente ricerca e vuole. –  Ed Egli senza fallo più si compiace, che tu ti affatichi, ed attenda a mortificare le tue passioni, che se tu lasciandone pur una avvedutamente, e volontariamente viva in te, lo servissi in qualunque cosa, sia pur grande, e di maggior momento. – Ora, che tu vedi figliuola in che consiste la perfezione Cristiana, e che per acquistarla hai da imprendere una continua, ed asprissima guerra contro te stessa, e fa bisogno, che di quattro cose, come d’armi sicurissime e necessarie ti provveda per riportare la palma e restar vincitrice in questa spirituale battaglia. Queste sono:

la diffidenza di noi stessi.

la confidenza in Dio,

L’esercizio, e

L’orazione.

Delle quali tutte con l’aiuto divino e con facile brevità tratteremo.

Della diffidenza di noi stessi

CAP. II

La diffidenza di te stessa, figliuola, talmente ti è necessaria in questo combattimento, che senza quella tu hai da tenere per certo che non solamente non potresti conseguire la desiderata vittoria, ma neppure superare una ben piccola tua passioncella. – E ciò ti si imprima bene nella mente, imperocché noi siamo pur troppo facili, ed inclinati dalla natura corrotta ad una falsa stima di noi stessi, che essendo veramente non altro che un bel nulla, ci diamo pure ad intendere d’essere qualche cosa, e senza fondamento veruno vanamente delle proprie forze presumiamo. – Questo è difetto assai difficile a conoscersi, e dispiace molto agli occhi di Dio, che ama e vuole in noi una leale cognizione di quella certissima verità, che ogni grazia e virtù derivi in noi da Lui solo, che è fonte d’ogni bene, e che da noi nessuna cosa, neppure un buon pensiero, può venire che a grado gli sia. – Ed avvenga che questa tanto importante diffidenza sia per anche opera della sua divina mano, che suole darla ai suoi cari amici, ora con sante ispirazioni, ora con aspri flagelli, e con violente e quasi insuperabili tentazioni, o con altri mezzi non intesi da noi medesimi, pure volendo Egli, che insieme dalla nostra parte si faccia quello che tocca a noi, ti propongono quattro modi, con i quali aiutata principalmente dal superno favore, tu possa conseguire tal diffidenza.

– Il primo è che tu consideri, e conosca la tua viltà, e nullità e che da te non puoi fare alcun bene, per cui meriti di entrare nel Regno dei Cieli.

– Il secondo è, che con ferventi preghiere la domandi spesso ad esso Signore, polche è dono suo. E per ottenerla, prima ti hai da mirare non pure ognuna d’essa, ma al tutto impotente ad acquistarla da te. Così preferendoti più volte davanti alla Divina Maestà, con una certa fede, che per sua bontà sia per concedertela, e con perseveranza aspettandola per tutto quel tempo che disporrà la provvidenza sua, non v’è dubbio, l’otterrai. –

– Il terzo modo che ti avvezzi a temere te stessa, il proprio Giudizio, l’inclinazione forte al peccato, gli innumerevoli nemici, ai quali non sei bastante a fare una minima resistenza, il lungo lor uso di combattere o le stratagemma, le loro trasfigurazioni in angelo di luce, e le innumerevoli arti e lacci che nella via stessa della virtù nascostamente ci tendono.

– Il quarto modo è, che quando ti avviene di cadere in qualche difetto, tu allora penetri più dentro e più vivamente nella considerazione della tua somma debolezza, che a questo fine Dio ha permesso la tua caduta, acciocché avvisata dall’ispirazione con più chiaro lume, che prima, conoscendoti bene, impari a dispregiare te stessa, come cosa pur troppo vile, e per tale tu voglia anche dagli altri essere tenuta, e parimente dispregiata, che senza questa volontà, non vi può essere virtuosa diffidenza, la quale ha il suo fondamento nell’umiltà vera, e nella detta cognizione sperimentale. – Imperocché chiara cosa è, che ad ognuno, che vuol congiungersi colla superna luce e verità increata, è necessario il conoscimento di se stesso: che ai superbi e presuntuosi dà ordinariamente la divina Clemenza per via de’ cadimenti, lasciando giustamente incorrere in qualche mancamento, dal quale si persuadono di poterli difendere, acciocché così venendoli a conoscere, apprendano a diffidare in tutto di se medesimi. – Ma di quello mezzo così miserabile non si suole servire il Signore, se non quando gli altri più benigni, che abbiamo detto di sopra, non hanno portato quel giovamento che intendeva la sua Divina Bontà. La quale tanto permette, che cada più o meno l’uomo, quanto maggiore , o minore è la sua e propria reputazione, di maniera che, dove niente di presunzione si ritrovasse, come fu in Maria Vergine, niente parimenti vi farebbe di caduta. – Talché, quando tu cadi, corri subito col pensiero all’umile conoscimento di te stessa, e con importuna operazione, domanda al Signore, che ti doni il vero lume di conoscerti, e la totale diffidenza di te stessa, se non vorrai ricadere di nuovo, e talvolta in più grave rovina.

Della confidenza di Dio.

CAP. III

La diffidenza propria, avvenga che in quella pugna, come abbiamo detto, sia tanto necessaria, nientedimeno, se l’avremo sola, o ci daremo in fuga, o resteremo vinti, e superati dai nemici, e però oltre a questa ti bisogni ancora la totale confidenza in Dio, da lui solo sperando, e aspettando qualunque bene, aiuto, e vittoria. Che siccome da noi, che niente siamo, non ci è lecito prometterci altro che cadimenti, onde dobbiamo di noi medesimi diffidare affatto, così dal Signor nostro ogni gran vittoria conseguiremo sicuramente purché, per ottener il suo aiuto, armiamo il cuor nostro d’una viva confidenza in Lui. – E questa parimente in quattro modi si può conseguire. Primo, col domandarla a Dio. – Secondo, col considerare, e vedere coll’occhio della Fede l’onnipotenza, e sapienza infinita di Dio, al quale niente è impossibile né difficile; e ch’essendo la sua bontà senza misura con indicibile voglia sta pronto ed apparecchiato a dare d’ora in ora, e di momento in momento, tutto quello che ci è di bisogno per la vita spirituale, e totale vittoria di noi stessi, ricorrendo alle sue braccia con confidenza. E come farà possibile, che il  nostro Pastore divino, il quale trentatré anni ha corso dietro alla pecorella smarrita, con gridi tanto forti, che ne divenne rauco, e per via tanto faticosa e spinosa, che vi sparse tutto il sangue, e vi lasciò la vita, ora ch’essa pecorella va dietro a Lui con l’ubbidienza dei comandamenti suoi, o pur col desiderio (benché alle volte fiacco) di ubbidirlo, chiamandolo e pregandolo, ch’Esso non le volga quei suoi occhi di vita, non l’oda, e non se la metta sulle divine spalle, facendone festa con tutti i suoi vicini ed Angioli del Cielo? – Che se non lascia il Signor nostro di cercare con diligenza grande ed amore, e di trovare nella dracma Evangelica il cieco e muto peccatore, come sarà possibile che abbandoni quello che, come smarrita pecorella grida e chiama il suo Pastore? – E chi crederà mai che Iddio, il quale batte di continuo al cuore dell’uomo per desiderio d’entrarvi e cenarvi, comunicandogli i doni suoi, e che aprendosigli poi il cuore ed invitandolo, faccia Egli daddovero il sordo, e non vi voglia entrare? – Il terzo modo per acquistare quella santa confidenza, è il ricorrere con la memoria alla verità della Scrittura Sacra, che in tanti luoghi ci mostra chiaramente, che non restò mai confuso chi confida in Dio. – Il quarto modo, il quale servirà per conseguir insieme la diffidenza di te stessa, e la confidenza in Dio, è questo: Quando ti occorre alcuna cosa da fare, e di prendere alcuna pugna, e vincere te stessa, prima che ti proponga, o risolva di volerla fare, rivoltati col pensiero alla tua debolezza, e diffida affatto, voltati poi alla potenza, sapienza e bontà divina, ed in questa confidando delibera d’operare, e di combattere generosamente, e con quelle armi in mano, e con l’orazione, come nel suo luogo dirò, combatti, ed opera poi. – E se non osserverai quell’ordine, avvegnaché ti paresse di fare ogni cosa in confidenza di Dio, ti troverai in gran parte ingannata, essendo tanto propria all’uomo la presunzione di sé medesimo, e tanto sottile, che di nascosto quasi sempre vive nella diffidenza, che ci pare d’avere di noi stessi: e confidenza, che stimiamo aver in Dio. – Perché tu fugga quanto più sia possibile la presunzione, ed operi con la diffidenza di te stessa e confidenza in Dio, fa di bisogno che la considerazione della tua debolezza vada innanzi alla considerazione dell’onnipotenza di Dio, e tutte queste due alle nostre operazioni.

Come possa conoscersi se l’uomo operi con la diffidenza di sé, e confidenza in Dio.

CAP. IV

Pare alle volte assai. al servo presuntuoso, avere ottenuto la diffidenza di sé e la confidenza in Dio, e non sarà così. E di ciò ti chiarirà l’effetto, che produrrà in te il cadimento. – Se tu, dunque, quando cadi, t’inquieti, ti rattristi, e ti senti chiamare ad un certo che di disperazione, di poter andar più innanzi e di far bene, segno certo è che tu confidavi in te, e non in Dio. – E se molta sarà la tristezza, e la disperazione, molto tu confidavi in te, e poco in Dio: essendo che quello che è in gran parte sconfidato  di se stesso, e confidato in Dio, quando cade, non si meraviglia, né si attrista, né si rammarica, conoscendo che ciò gli occorre per sua debolezza, e poca confidenza in Dio, anzi più sconfidato di sé, più assai umilmente confida in Dio, ed avendo in odio il difetto sopra ogni cosa, e le disordinate passioni, cagione del cadimento, con un dolor grande, quieto, e pacifico dell’offesa di Dio, segue poi l’impresa, e perseguita i suoi nemici infino alla morte, con maggior animo e risoluzione. – Quelle cose vorrei, che fossero ben considerate da certe persone, che sanno dello spirituale, le quali, quando sono incorse in alcun difetto, non si possono, né si vogliono dar pace, ed alle volte più per liberarli dall’ansietà ed inquietudine, che nasce dal proprio amore, che per altro, non vedono l’ora d’andar a trovare il Padre spirituale; al quale dovrebbero andare principalmente per lavarsi dalla macchia del peccato, e prender forza contro esso col Santissimo Sacramento.

D’un errore di molti, dai quali la pusillanimità è tenuta per virtù.

CAP. V

Molti in questo ancora s’ingannano, i quali la pusillanimità, ed inquietudine, che segue dopo il peccato (perché è accompagnata da qualche dispiacere) attribuiscono a virtù , non sapendo che nasce da occulta superbia, e presunzione fondata nella confidenza di loro stessi e delle proprie forze, nelle quali perché (stimandosi da qualche cosa) avevano soverchiamente confidato, scorgendo dalla prova della caduta che loro mancano, si turbano e meravigliano, come di cosa nuova e si s’impusillanimiscono, vedendo andato a terra quel sostegno in cui vanamente avevano riposta la confidenza loro. – Non accade quello all’umile, il quale nel suo solo Dio confidando, e di sé niente presumendo, quando incorre in qualsivoglia colpa, ancorché ne senta dolore, non però se ne inquieta, o ne prende meraviglia, sapendo che tutto ciò gli avviene per sua miseria, e propria debolezza da lui, con lume di verità, molto ben conosciuta.

D’altri avvisi, perché acquistiamo la diffidenza di noi, e la confidenza in Dio.

CAP. VI

E perché tutta la forza di vincere i nostri nemici, nasce principalmente dalla diffidenza di noi stessi e dalla confidenza in Dio, di nuovo ti provvedo di avvisi perché la consegua con il Divino aiuto. – Hai da sapere dunque, e da tenere per cosa ferma, che né tutti i doni, o naturali, o acquistati, che siano, né tutte le grazie gratis date, né la cognizione di tutta la Scrittura, né l’aver lungamente servito Dio, e fatto in questo la consuetudine, ci farà fare la sua volontà, se in qualunque opera buona, ed accetta negli occhi suoi, che abbiamo da fare, ed in qualunque tentazione, che abbiamo da vincere, ed in qualunque pericolo che abbiamo da fuggire, ed in qualunque Croce che abbiamo da portare, conforme alla sua volontà, non si trova aiutato ed elevato il cuor nostro dal particolare aiuto di Dio, e ne porga anco la mano per farlo. – Dobbiamo dunque noi in tutta la vita nostra, in tutti i giorni, in tutte l’ore, ed in tutti i momenti avere la detta risoluzione: che a questo modo per niuna via, e pensiero potremo mai confidare in noi. – Quanto tocca poi alla confidenza in Dio, sappi che niente è più facile a Dio vincere i pochi, che i  molti nemici, i vecchi ed esperti, che i fiacchi e novelli. – Onde sia pur un’anima carica di peccati, abbia pur tutti i difetti del mondo, e sia difettosa quanto mai immaginarla si possa, abbia pur tentato quanto si voglia, e pigliato qualunque mezzo, ed esercizio per lasciare il peccato, ed operare il bene, né mai abbia potuto acquetare un puntino di bene,  anzi sia andata più ponderosa al male, con tutto ciò non deve mancare di confidar in Dio, né deve mai lasciare le armi e gli esercizi spirituali, ma combattere sempre generosamente perché ha da sapere che, in quella pugna spirituale non perde chi non lascia di combattere e di confidare in Dio, l’aiuto del quale mai non manca ai combattenti suoi, benché alcune fiate permetta che siano feriti: combattasi pure, che qui sta il tutto, che la medicina per le ferite è pronta ed efficace ai combattenti che cercano Dio, e l’aiuto suo con confidenza, e quando meno vi pensano, li troveranno morti, i nemici.

Dell’esercizio, e prima dell’intelletto, che dobbiamo tenere guardato dall’ignoranza, e dalla curiosità.

CAP. VII

Se la diffidenza di noi, e la confidenza in Dio tanto necessarie in quella battaglia, saranno sole, non pure non avremo vittoria di noi stessi, ma precipiteremo in molti mali, onde oltre a quello ci è necessario l’esercizio, che è la terza cosa proposta di sopra. – Questo esercizio si ha da fare principalmente con l’intelletto, e con la volontà. Quanto all’intelletto dalle due cose che sogliono impugnarlo, dev’essere da noi guardato. – L’una l’ignoranza; che l’oscura e gli impedisce la conoscenza del vero, ch’è il suo proprio oggetto. Onde con l’esercizio si ha sa rendere lucido e chiaro, perché possa vedere, e discernere bene, quanto ci fa di mestieri, per purificare l’anima dalle passioni disordinate ed ornarla delle virtù sante. Questo lume in due modi si può ottenere. Il primo e più importante è l’orazione, pregando lo Spirito Santo, che si degni infonderlo nei cuori nostri. Questo lo farà sempre se in verità cercheremo Dio solo, e di fare la sua santa volontà, e se ogni cosa sottoporremo col proprio giudizio a quello dei nostri Padri spirituali. – L’altro modo è un continuo esercizio di profonda e leale considerazioni delle cose per vedere come siano, buone, o ree , secondo se insegna lo Spirito Santo, e non come di fuori paiono, e si rappresentano ai sensi, e giudica il mondo. – Questa considerazione, fatta come ci conviene, ci fa chiaramente conoscere, che si debbano avere per nulla, per vanità e bugia, tutte quelle cose, che il cieco e corrotto mondo ama, e deriderà, e che con vari modi e mezzi va procurando; che gli onori, e piaceri della terra non sono altro che vanità, ed afflizione di spirito; che le ingiurie e le infamie, che ci dà il mondo, portano vera gloria, e le tribolazioni contento; che il perdonare ai nemici e far loro bene, sia magnanimità, ed una delle maggiori somiglianze con Dio; che più vale il dispregiare il mondo, che l’esserne Padrone; che l’ubbidire volentieri per amore di Dio alle più vili creature, è cosa più magnanima e generosa, che il comandare ai Principi grandi. Che l’umile conoscimento di noi stessi si deve pregiar più che l’altezza di tutte le scienze, e che il vincere e mortificare i propri appetiti, per piccioli che siano, merita maggior lode, che l’espugnare molte Città, superare potenti eserciti con le armi in mano; far miracoli, e risuscitare i morti.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (1)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (1)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

COMBATTIMENTO

SPIRITUALE

DEL PADRE D.

LORENZO SCUPOLI

Chierico Regolare

TEATINO.

PARTE PRIMA.

VENEZIA,

Presso Gio. Antonio Pezzana.

MDCCLXXVI.

Con Licenza dei superiori

AL DEVOTO LETTORE,

Questa Operetta intitolata Combattimento Spirituale, fu composta dal nostro P. D. Lorenzo Scapoli, Religioso di singolar virtù, e mandata alle stampe più volte mentre egli viveva, però senza il suo nome; non comportando la grande umiltà sua ch’egli si chiamasse Autore di quell’Opera, ch’era tutta di Dio. E perché successivamente andava aggiungendo, secondo riceveva da Dio nuova cognizione, e nuovi lumi, quindi è, che in quella si veda varietà, secondo le diverse impressioni, e particolarmente nelle prime, che furono assai diminuite, e mancanti, ed anco nella disposizione, e Capitoli in qualche parte diverge. Che però stimando alcuni, che l’ultima impressione fatta vivente lui in Napoli nell’anno 1610, fosse la più compita, in conformità di quella l’hanno ristampata, e ristampano tuttavia, non solo nel proprio idioma, ma trasferita ancora nel Latino, Spagnuolo, Inglese, Tedesco, e più volte nel Francese per la stima grande in cui fu posta in tutta la Francia da S. Francesco di Sales Vescovo di Ginevra, il quale la proponeva per unica istruzione a quelli che aspiravano alla vita spirituale e devota, come si vedrà dall’onorevoli attestazioni ch’egli ne fa in molte sue lettere, e si metteranno qui aggiunte.  – Ma non si è avvertito finora, che l’ultima impressione fatta in vita dell’Autore non contiene, quanto egli ne aveva composto, essendone stati tralasciati da lui a bella posta molti Capitoli per farne una feconda Parte, con alcuni Trattati particolari, come chiaramente si raccoglie dall’impressione dell’anno 1609 in Venezia, che fu la penultima, vivente l’Autore, la quale è più copiosa dell’ultima suddetta, ed anco dalla Lettera al Lettore nell’Aggiunta al « Combattimento Spirituale » che va stampata colla suddetta ultima impressione, del 1610. Per la qual causa ne è seguito, che non avendo potuto egli perfezionare il suo disegno, sia rimasta l’ultima impressione senza molti Capitoli, e priva di tutto quello, che lasciò da parte. – Avendone avuta dunque io la commissione dal nostro M. R. P. Generale, ho riscontrate tutte le copie, e raccolto in uno tutto ciò, ch’egli compose in ordine al detto Combattimento Spirituale, e con ogni fatica, studio e diligenza possibile, perché nulla mancasse, ed in modo, che non venisse alterata, neppure in minima parte la dettatura candidissima dell’Autore, non avendoci posto del mio altro, che la sola diligenza nel raccogliere quel ch’era sparso in diversi Esemplari, con metterlo insieme secondo l’ordine datole dall’istesso Autore.Ho riconosciuti anco per suoi, alcuni altri Trattateli Spirituali, stampati, quando tutti, e quando in parte per aggiunta all’istesso Combattimento, e per non far troppo volume, non gli ho incorporati in quello. Ma ne ho formato un secondo tometto da stamparsi a parte acciò l’uno, e l’altro riescano più comodi, e più maneggiabili. Della qual fatica, che non è stata poca, non prendo altra mercede, che il profitto spirituale di chi leggerà, e quando Iddio nostro Signore comunicherà per mezzo di questa lettera le celesti grazie all’anima sua, si ricordi della mia per impetrarle il perdono, e preghi per questo miserabile peccatore.

D. Carlo di Palma

Chierico Regolare.

ELOGJ

Del Libro intitolato:

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE

Cavati dalle Lettere di S. Francesco di Sales Vescovo di Ginevra.

Lib. I . lett. 34. Esortando una Dama alla lettura de’ Libri spirituali, dopo aver parlato di alcuni altri, come di composizioni oscure, e difficili ad essere intese e praticate, egli aggiunge: Leggete, e rileggete il Combattimento Spirituale, quello deve essere il vostro Libro caro, egli è chiaro, e tutto praticabile.

Lettera 39. Raccomandando ad Una Dama l’aver cura particolare di acquistare le virtù, delle quali si trovava avere a questo proposito senza parlare altro di maggior bisogno, conclude: Rileggete il Combattimento Spirituale (perché senza dubbio l’aveva già letto per suo consiglio) e fate riflessione particolare ai documenti che vi sono, ve lo troverete molto a proposito.

Lib. 3, lett.13. Prescrivendo qualche esercizio di divozione ad una Signora maritata, dice verso il fine: Leggete assai il Combattimento Spirituale, io ve lo raccomando.

Lib. 4. lett. 8. Scrivendo ad una Vedova, ed esortandola alla Semplicità di cuore, ed a non desiderare tanto d’essere liberata dalle tentazioni: Figlia mia cara, dice egli, leggete il Capitolo 37 Del Combattimento Spirituale, ch’è il mio libro caro, e che io porto in saccoccia, sono bene diciottoanni, né lo rileggo mai senza profitto. La lett. è del 24. Luglio 1607.

Lib. 5. lett. 70. Scrivendo ad una Dama Vedova, e consolandola nella morte di suo figlio, dice queste parole: Bisogna, che noi facciamo una volta la Settimana un esercizio particolare di volere, ed amare la volontà di Dio più vigorosamente (dico più); più teneramente, e più amorosamente, che nessuna cosa del Mondo, e ciò non solo nelle occorrenze sopportabili, ma anco nelle più insopportabili. Voi ne troverete un non so che nel Libretto del Combattimento Spirituale, che vi ho raccomandato tante volte. Eh figlia mia, a dire il vero, quella è una lezione alta, ma dall’altro canto Iddio, per lo quale noi l’impariamo, è l’Altissimo.

Quello, che tradusse in Francese il Combattimento Spirituale, e dedicò la sua Traduzione a S. Francesco dì Sales nell’anno 1608, le dice nella dedicatoria. La considerazione e la stima, che le ho sempre visto fare dell’ utilità di quello Libro, etc.

Il Libro dello Spirito di S. Francesco di Sales: 3 p. sess. 12. che ha per titolo. Del libro del CombattimentoSpirituale, dice: Questo libro tutto d’oro (parla di quello dell’imitazione di Cristo) supera ogni lode. Non era con tutto ciò quello, che il nostro Prelato consigliava maggiormente, ma il Combattimento Spirituale. Questo era il  suo Libro diletto, ed il suo favorito. Egli più volte mi ha detto, che l’aveva portato in saccoccia diciotto anni, leggendone ogni giorno qualche capitolo, o almeno qualche pagina. E chi vi farà riflesso con attenzione, facilmente conoscerà, che tutto lo spirito della divozione del nostro Padre è cavato da questo Libretto: Chi vorrà vederne una mostra, conferisca il primo Capitolo della Filotea con il primo Capitolo del Combattimento Spirituale, e conoscerà, quanto è vero ciò, che io dico.

Seguita appresso. Il nostro Prelato consigliava la lettura del Combattimento Spirituale a tutti i suoi devoti, chiamandolo un libretto tutto amabile, e tutto praticabile. Quanto più io lo leggo, tanto più vi osservo lo spirito del nostro Prelato, come nella sua sentenza.

Dopo conchiude: Quelli che s’immaginano che quello libro sia oscuro (come ne ho conosciuto alcuni) si figurano dell’ombre a mezzogiorno, e si assomigliano a quelli Israeliti, che si infastidirono della manna, perché ella cadeva loro dal Cielo con soverchia facilità, ed abbondanza.

L’istesso par. 7. Sess. 7. che ha per titolo: Di tre Libri di divozione: Dice: Tre piccioli libri di devozione erano in alta stima appresso di lui: Il primo era quello del Combattimento Spirituale, del quale Sorelle mie io vi ho parlato tanto, quello, ch’egli vi ha tanto raccomandato, e che raccomandava con molto studio ai suoi Discepoli, confessando loro a bella posta, ma con verità, ch’egli l’aveva portato diciassette anni continui in saccoccia, leggendone quasi ogni giorno qualche Capitolo, e sempre con nuovi lumi del Cielo. Tralascio molte altre cose, ch’egli dice nell’istessa sessione della stima grande, che S. Francesco fece sempre di quest’opera. – L’istesso Libro dello Spirito di S. Francesco di Sales Vescovo di Ginevra, p. 14. sez. 1^ che ha per titolo: “Consiglio circa un Direttore Spirituale”, dice: Io li domandavo un giorno, chi era il suo Direttore, o il Maestro di spirito? Egli tirò dalla saccoccia il Combattimento Spirituale, e mi disse: Eccolo, quello è quello che col divino aiuto m’insegnò dalla mia gioventù: quello è il mio Maestro nelle cose dello spirito, e della vita interiore. Dopo che, essendo io scolaro in Padova, un Teatino me l’insegnò  e me lo consigliò, io ho seguitato il suo parere  e me ne sono trovato bene; egli fu composto da un santo Personaggio di quell’illustre Congregazione, che nascose il suo nome particolare, e lo lasciò correre sotto il nome della sua Religione, la quale sene ferve quasi nell’istessa maniera, che si fervono i Gesuiti del libro degli esercizi del loro S. Ignazio Lojola. E dopo qualche pagina, dice: Quelli » che hanno scritta la vita del nostro Prelato, osservano, ch’egli ha portato durante diciassette anni interi sopra di sé questo Libro del Combattimento Spirituale, ma è probabile, che quello tempo sia stato più lungo, già ch’egli cominciò così a buon’ora a metterli alla scuola di questo libro: allo spirito del quale si è talmente conformato, ed ha così tenacemente non solo subordinato, ma trasformato il suo, ch’io posso assicurare per l’attenzione, con la quale ho letto molti anni tanto questo Libro, quanto gli scritti del nostro Padre, che tutto è una medesima pennellata e che il nostro Prelato ha scritto poche cose delle quali io non trovi subito la semenza ed il nocciolo in qualche luogo del Combattimento. Egli lo consigliava a tutti quelli, che ricercavano il suo parere in materia di divozione, e principalmente a coloro, che si mettevano sotto la sua guida, nel che mostrava bene di amare il suo prossimo, comese stesso, giacché gli scopriva la stessa fonte, dalla quale aveva bevuto l’abbondanza della divozione che possedeva, comunicando senza invidia ciò che aveva appreso senza finzione, come dice il Savio c. 7. Ed appreso. – Lodandole io il libretto d’oro dell’Imitazione di Cristo, e preferendo di gran lunga il Combattimento Spirituale, egli mi rispose con galanteria, ch’erano le opere di due personaggi animati veramente dallo Spirito di Dio, che le loro facce erano differenti, e che si poteva dire di ciascheduno di loro ciò, che si canta dei Santi, Non est inventus similis illi. – Che le comparazioni in quelle materie avevano sempre qualche cosa di odioso: Che il Libro dell’Imitazione aveva in qualche senso gran vantaggio al Combattimento, ma che il Combattimento riportava ancora qualche vantaggio dell’Imitazione, fra i quali stimava molto l’ordine, l’andare più avanti e toccare il fondo delle materie: Conchiudendo poi con queste sante parole, che a far bene bisognava leggere l’uno, e non lasciare l’altro, sono tutti due così brevi, che la loro lettura non ci può mettere in grandi spese.Stimava molto il Libro dell’Imitazione,per l’orazione, e contemplazione, come pieno di sentenze, ma più il Combattimento Spirituale a riguardo della vita attiva, e della pratica.

* * * * *

* * * *

* * *

A questi elogi fatti da S. Francesco di Sales, potremmo aggiungere l’Encomio, che del medesimo Combattimento Spirituale lasciò registrato Jodocho Lorichio, celebre Scrittore, e professore primario di Sacra Teologia nell’Università Friburgense di Brosgia. Nella versione Latina, ch’egli fece del detto Libro, con una Lettera dedicatoria diretta all’Abate di Selvanegra, ove così dice:

In tractatu hoc per brevi ordinatissime, ac perspicacissime complexus Auctor est omnia ad spiritualis vita; optimam perfectionem parandam necessaria, quæ alìi multis, ac magnis libris vix assequuti sunt. Ed insegnando il modo di valersene, lo chiama: Prætiosum optimarum gemmarum thesaurum, & dignissimum spiritualium pharmacorum myropolium.

A D. FRANCESCO

CARAFFA.

Preposito Gen. de’ Chierici Regolari.

Essendo stata rivista d’ordine nostro l’Opera intitolata: Combattimento Spirituale, di cui sin ora sono state fatte molte Impressioni, però tutte varie, e manchevoli, acciò si ristampasse compiuta e con tutto quel che ne scrisse l’Autore, che fu il nostro P. D. Lorenzo Scupoli, si concede licenza, per quanto spetta a noi, che si possa mandare in luce, perché questo benefizio sia comune a tutti: Ordinando, che ciascheduno de’ nostri Religiosi l’abbia sempre pronta per valersene di guida spirituale per loro stessi, e per indirizzo di quell’anime che dovranno istruire per la perfezione, come con gran profitto si è praticato fino ad oggi nella nostra Religione.

Dato in Roma li 25 Dec. 1656,

D. Francesco Caraffa Prep.

Gen. de’ Chierici Reg.

D. Giacomo Sottani Chier.

Reg. Segr.

* * *

Al Supremo Capitano, e Gloriosissimo Trionfatore:

GESÙ’ CRISTO

FIGLIUOLO DI

MARIA,

Perché sempre piacquero e piacciono tuttavia a V. Maestà i sacrifici, ed offerte di noi mortali, quando da puro cuore a gloria vostra le vengono offerte; perciò io le presento questo Trattatello del Combattimento Spirituale, dedicandolo alla Divina Vostra Maestà. Né mi tiro addietro, perché picciolo sia questo Trattato, che ben si sa, che Voi solo siete quell’alto Signore, che si diletta delle cose umili, e spregia i fumi, e pretendenze del Mondo. E come potevo io senza biasimo, e senza danno ad altra persona dedicarlo, che alla V. Maestà, Re del Cielo, e della Terra? Quanto insegna questo trattatello tutto è dottrina vostra, avendoci Voi insegnato, che:

“Sconfidati di noi stessi

Confidiamo in Voi,

Combattiamo, ed

Oriamo.”

Inoltre se ogni Combattimento ha bisogno di esperto Capo, che guidi la battaglia, ed inanimi i Soldati, quali tanto più generosamente combattono, quanto, che militano sotto un invincibile Capitano, non ne avrà forse bisogno questo Combattimento Spirituale? Voi dunque eleggemmo Cristo Gesù (noi tutti, che già risoluti siamo di combattere, e vincere qualunque nemico) per nostro Capitano, il quale avete vinto il  Mondo, il Principe delle tenebre, e con le piaghe, e morte della vostra sacratissima carne avete vinto la carne di tutti quelli che hanno combattuto generosamente, e combatteranno. – Quando io Signore, ordinava questo Combattimento, avevo sempre nella mente quel detto: Non quod sufjicientes simus cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis: Se senza voi, e senza il vostro aiuto noi non possiamo avere pensieri, che buoni siano, come potremo da noi soli combattere contro tanti potentissimi nemici, ed evitare tanti innumerabili, e nascosti lacci? – Vostro è, Signore, da tutte le parti questo Combattimento, perché  (come ho detto) vostra è la dottrina, e vostri fono tutti i Soldati spirituali tra i quali siamo noi Chierici Regolari Teatini, onde tutti chini a’ piedi della vostra A. M. vi preghiamo, che accettiate questo Combattimento, movendoci sempre, ed inanimandoci colla grazia vostra attuale a vieppiù generosamente combattere, perché noi non dubitiamo punto, che combattendo Voi in noi, noi siamo per vincere a gloria vostra, e della vostra Santissima Madre Maria Vergine.

Un S. comprato col vostro Sangue

D. Lorenzo Scupoli Chier. Reg.