DIO IN NOI (6)

DIO IN NOI (6)

[Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

CAPO III.

Con lo Spirito Santo.

S. Paolo domandava agli Efesini: « Avete ricevuto lo Spirito? ». A una simile domanda, noi sappiamo quale risposta dobbiamo dare. Ricordiamoci del Battesimo: « Vattene, spirito immondo, e lascia il posto allo Spirito Santo». Lo Spirito Santo abita in noi, se non abbiamo commesso peccati mortali, o se, avendone commessi per nostra sciagura, l’assoluzione del sacerdote ci ha ridonato la grazia.

Nulla è più validamente ammesso di questo: « Non sapete dunque che lo Spirito Santo abita in voi? » — « Le vostre membra sono tempio dello Spirito Santo ». — « Noi siamo contrassegnati e portiamo in noi il pegno della salvezza, lo Spirito ». — « Noi siamo partecipi dello Spirito ». Così parla l’Apostolo e lo ripete a non più finire. S. Giovanni a sua volta: « In hoc cognovimus quoniam in eo manemus, et ipse in nobis, quoniam de Spiritu suo dedit nobis. Riconosciamo di dimorare in Lui, ed Egli in noi a questo segno: che ci ha dato lo Spirito Santo » (I Giov., IV, 13).I Padri della Chiesa trattano spesso questa dottrina. Tutti i grandi teologi vi insistono. San Bonaventura dichiara fuori della fede cattolica,chi non l’ammette. « L’uomo non sarà accetto a Dio che nella misura in cui riceve lo Spirito Santo, dono increato. Chiunque ha un’idea esatta della grazia santificante, riconosce che lo Spirito Santo, dono increato, abita realmente nelle anime giuste. E se qualcuno pensa il contrario, deve considerarsi eretico ».S. Tommaso l’afferma con uguale certezza (S. Theol, P. I, q. XLIII, a, 3).Del resto questo punto fu messo fuori discussione dal Concilio di Trento. È fuori dubbio che nella grazia v’è un elemento creato, cioè le facoltà soprannaturali che ci permetteranno di fare atti soprannaturali; ma nulla è affermato con tanta energia dalla Chiesa come quest’altra verità, cioè che lo Spirito Santo, ipsissima persona Spiritus Sancti, come dice Cornelio a Lapide, accompagna questo dono creato. Il divino Spirito non si dà nella stessa misura a tutte le anime in grazia, ma tutte lo ricevono con la medesima realtà. È inutile far notare, dice il P. Ramière (Divinisation, p. 246), che la presenza dello Spirito Santo nelle anime è al tutto diversa dall’altra, che risulta dall’immensità di Dio, in virtù della quale le Persone della Santa Trinità sono dappertutto, non escluso l’inferno. « Lo stesso Figlio di Dio è immenso e presente dovunque: ciò non impedisce che noi l’adoriamo nell’Eucaristia, giacché sappiamo che Egli è là presente in modo speciale per darsi a noi. Così, mediante la grazia lo Spirito Santo è in noi, per unirsi a noi e santificarci.

« È questa una presenza particolare in qualche modo indipendente dalla prima. Il Suarez spiega il fatto, dicendo che se per impossibile l’immensità divina non rendesse il divino Spirito presente in noi, vi sarebbe, nondimeno condotto dalla grazia. Possiamo supporre l’uomo più povero accanto a un immenso tesoro, senza che questa prossimità lo renda più ricco. Non è la vicinanza che fa la ricchezza, ma il dominio. La stessa differenza si nota tra l’anima di un giusto e quella di un peccatore. – Il peccatore, lo stesso dannato, hanno accanto ad essi ed in essi un bene infinito e intanto vivono nell’indigenza, perché quel bene non appartiene loro; mentre il Cristiano in grazia possiede in se stesso lo Spirito Santo, e con Lui la pienezza delle grazie celesti, come un tesoro del quale è proprietario e in cui può attingere senza misura. – Di qui l’espressione della Chiesa nel giorno di Pentecoste: « dulcis hospes animæ, dolce ospite dell’anima», perché lo Spirito Santo si reputa fortunato d’abitare nei nostri cuori. Ma noi Cristiani, ci reputiamo fortunati di questa abitazione dello Spirito Santo nell’anima nostra? Povero « dolce ospite » ! La liturgia Vi applica forse ironicamente questo nome? Voi abitate nell’anima nostra, ma chi di noi vi fa attenzione e se ne preoccupa? – La vostra presenza in noi costituirebbe dunque un dono ordinario, senza virtù e senza valore? No, certo, poiché Voi siete lo Spirito Santo, lo Spirito che vive nel Padre e nel Figlio, o meglio lo Spirito del Padre e del Figliuolo. Non vi sarebbe posto per alloggiare il grande condottiero nel vasto accampamento, per così dire, dell’anima, accampamento dove entrano, e donde, a ogni istante, escono in folla soldati con carriaggi, fardelli e strepito incessante? No. Supponiamo che l’anima sia in grazia; dunque lo Spirito Santo vi risiede come nella sua dimora. Ma perché non vi è una guardia d’onore, o almeno un semplice piantone? Lo Spirito vorrebbe forse abitare da incognito? È proprio il contrario; Egli desidera moltissimo di essere riconosciuto, salutato dai passanti, circondato di simpatia, festeggiato; desiderio che pochissimi Cristiani, anche fra i migliori, cercano di soddisfare. Scriveva il Manning che « se vi è cosa che torni a nostro disdoro, che dovrebbe farci piegare le ginocchia a terra e abbassare la fronte nella polvere, si è che viviamo l’intera giornata come se lo Spirito Santo non esistesse. Siamo come gli Efesini che risposero a S. Paolo, quando loro chiese se avessero ricevuto lo Spirito Santo: « Non abbiamo mai inteso dire che vi sia uno Spirito Santo » (MANNING: La Mission du Saint Esprit dans les àme p. 18). Dirà qualcuno che non vale la pena di pensarci, ovvero che altri oggetti più importanti, a ogni minuto, debbono assorbire la nostra attenzione? Lo Spirito Santo non è dunque l’amore increato, il termine della Santa Trinità « il limite di ciò che non ha limiti, il confine di quello che non ha confini » ? Secondo il linguaggio della liturgia, non è Egli l’autore della prima creazione? Spiritus creator, e, l’autore della seconda, giacché gli dobbiamo la vita soprannaturale, resa all’umanità in genere per il fatto della sua «sopravvenuta» in Maria, e la vita soprannaturale, resa a ciascuna di noi con la sua venuta nel Battesimo? Non vi si pensa! Bella scusa, invero, è la seguente: Io non penso mai all’essenziale! Quando un personaggio d’importanza, un re, va in una città, anche per una visita passeggera, la città vi pensa. Trattasi di un re della terra. Ma noi, Cristiani, non facciamo nulla per il re del Cielo! Ospite del suo cielo immenso, sceglie come cielo l’anima nostra. E noi non vi badiamo! S. Paolo, di cui possiamo fidarci, non stimava come avventizia o facoltativa la devozione allo Spirito Santo; egli ci ha tracciato, nei riguardi dei nostri doveri verso il dulcis hospes, un programma che dovremmo meditare. Prima di tutto dobbiamo evitare il peccato mortale. « Spiritum nolite extinguere, non spegnete lo Spirito! » (1 Tess., V, 10). Non spegnete la luce divina; non la spegnete né i n voi, né in altri con lo scandalo. Cacciare lo Spirito, metterlo alla porta, mandarlo via da sé e dagli altri, ecco l’ingiuria più grande (Spiritui gratiæ contumeliam facitis, Heb., X, 21) che si possa commettere contro di Lui. Esiste il modo di fare ingiuria allo Spirito:esiste anche quello di contristarlo: « Ipsi vero afflixerunt Spiritum Sanctum eius(Is. LXIII). Afflissero lo Spirito Santo », diceva già Isaia, e San Paolo, ai primi Cristiani, dava un esempio della maniera con cui lo si può amareggiare. « Omnis sermo malus ex ore vestro non procedat, et nolite contristare Spiritum Sanctum. Evitate ogni parola offensiva, cattiva, non affliggere lo Spirito» (Ephes. IV, 10). Ogni nostra colpa veniale rattrista certamente lo Spirito che è presente a tutti i nostri passi, testimonio di ogni nostra parola, delle nostre azioni, dei nostri pensieri e desideri. Ma solleviamoci ancora più in alto: vi è una consegna da mantenere. Come allo Spirito si può arrecare ingiuria — col peccato mortale,— e si può affliggerlo mediante il peccato veniale, così si può resistere alle sue ispirazioni.« Vos semper Spiritui Sancto resistitisi (Act. VII, 51), dicono gli Atti degli Apostoli. Quante volte l’« ospite delle anime nostre» ci incita dolcemente a fare il bene, e i suoi sforzi restano vani,perché omettiamo o rifiutiamo di corrispondere!Internamente lo Spirito non cessa di farci sentire la sua voce, di stimolarci. Dove siamo quando Egli ci parla? E se non siamo usciti di noi stessi e Lo sentiamo, in qual modo rispondiamo ai suoi inviti?Questo programma, puramente negativo, è lontano dal racchiudere tutti i nostri dove riverso lo Spirito, come sono intesi da San Paolo, come la conoscenza dello stato di grazia li prescrive e la devozione ben compresa li esige. Qui, come in tutto, il punto di vista ricco è quello positivo. La presenza dello Spirito Santo in noi, non solo ci invita a « non fare »; ma ci spinge a «fare»… A fare che cosa? A dare un posto sempre più largo all’Ospite divino, a ricercare, con tutti i mezzi, il profitto che questa presenza meravigliosa apporta, a penetrare, ogni giorno più profondamente, nella sua amicizia e intimità. Lo Spirito è in noi, vivo e operoso; ma vi è qualcuno che può limitare la sua azione, e siamo noi. Da parte sua vuole darsi, unirsi a noi quanto più è possibile. Ma noi limitiamo lo spazio allo Spirito di Amore. Egli è l’« ospite», noi siamo i « padroni », dipende quindi da noi che Egli possa poco o molto. A « Se voi conosceste il dono di Dio, diceva Monsignor Gay, il valore e la importanza della minima luce interiore, del minimo tocco del divino Spirito, della più piccola occasione favorevole! Se voi sapeste come Dio è là, come si offre, si dona, e quindi quello che ciò importa per voi e per gli altri, e quali conseguenze conduce con sé nel tempo e nella eternità! Oh! chi ci farà finalmente capire le cose soprannaturali, stimare, al loro giusto valore quei beni, il minimo dei quali, a giudizio di S. Tommaso, è superiore a tutti i beni naturali riuniti! ». Senza la bontà preveniente di Dio che ci ha condotti al fonte battesimale, prima ancora chela nostra ragione fosse sviluppata, e al sacro fonte ci ha dato « la carità, sparsa in noi dallo Spirito Santo», come dice l’Apostolo ai Romani (Rom., V, 5); — senza la sua bontà che continuamente ci aiuta, e dispone in noi quelle ascensioni perpetue che ogni anima, avvezza all’esame di coscienza, richiama alla mente con tanta gioia: ispirazioni nella preghiera, forza nelle tentazioni, incoraggiamento in certe circostanze;— senza la sua bontà meravigliosamente paziente, che ci ha rialzato ogni qualvolta siamo caduti, che ci ha tratti dall’abisso, allorquando abbiamo ceduto al peccato; e ogni qualvolta abbiamo ripetuto le nostre indelicatezze, ha aggiunto, a tutte le altre, una nuova delicatezza, che cosa sarebbe di noi? Si può supporre un fatto più strano di questo: l’applicazione singolare dello Spirito Santo a divinizzarci, e da parte nostra l’applicazione ardente a rifiutare il suo concorso, ovvero a passare accanto a Lui senza neppure sospettare la sua presenza o capire il suo valore? Ah! se avessimo lo stesso ideale che Dio ha verso di noi! Ma il punto importante non consiste tanto nel fatto che lo Spirito Santo ci comunica la forza, ci manda buone ispirazioni, ci concéde il suo amore; quanto nel fatto che Egli dà se stesso, e vedremo subito con quale intimità. Non si capisce perché un timore segreto impedisca di considerare l’unione dello Spirito Santo con l’anima nostra, per quello che essa è— o almeno come potrebbe e dovrebbe essere— unione tanto intima, dice Cornelio a Lapide, nel Commentario degli Atti, che non se ne dà un’altra più grande: Est enim summa unio inter Deum et animam sanctam qua nullius creaturæ puræ potest esse major. S. Paolo dichiarava: « Colui che vive in grazia, forma un solo spirito con Dio. Qui adhæret Deo, unus Spiritus est» (I Cor. VI).Cornelio a Lapide dice ancora: « In quella maniera con cui l’anima, quando assume il corpo per vivificarlo, gli comunica con la vita un soffio che non aveva; così lo Spirito Santo quando prende un’anima per unirsi a lei, le comunica una nuova vita, anzi la sua stessa vita; in una parola, la deifica. Sicut anima, dum assumit et quasi osculatur corpus, ipsum exanime animat et vivificat; sic Spiritus Sanctus gratia osculatur animam, eam vivificat, imo deificat» (In Cant., I). È fuori dubbio che l’unione dello Spirito Santo con l’anima nostra, mediante la grazia,non va fino a formare di Lui e di noi una sola persona. Fatta questa riserva, si può dire che sotto un certo aspetto sia più intima di quella dell’anima nel nostro corpo, « giacché, nota il P. Ramière (Divinisation), questo Spirito divino penetrale facoltà dell’anima nostra meglio di quello che l’anima nostra non penetri le membra del nostro corpo. « E questa unione è soprattutto assai più indissolubile. L’unione dell’anima col corpo è così fragile che si dissolve continuamente. Ad ogni momento perdiamo una qualche parte della nostra sostanza, finché l’intero corpo non ci sia strappato dall’urto irresistibile della morte. Quando lo Spirito Santo si è unito ad un’anima, non vi è sulla terra, né nell’inferno, una forza capace di strappargliela; l’anima solamente ha il potere di distruggere in sé la vita divina col più tremendo dei suicidi ». I Santi Padri, più audaci di noi, o a dir meglio, più veri, affermano che l’unione dello Spirito Santo con l’anima in grazia è così intima, da costituire un vero matrimonio. Non « ospite » solamente, ma « sposo ». E alcuni di essi vanno fino al punto, da chiamare l’anima in grazia: Spirita Sancta, dal femminile di Spirito Santo (1) Vedi lo sviluppo che il P. MESCHLER fa di questa parola: Le Don de la Pentecòte, t. II, p. 139), per dimostrare meglio che l’unione del divino Paraclito e dell’anima senza peccato, è un’unione simile, ma ancora più bella, all’unione dell’uomo e della donna nel Sacramento che dei loro due corpi ne fa uno solo, e delle due anime un’anima sola; un’unione simile, benché non ipostatica, a quella del Verbo con l’Umanità Santa; simile a quella di Gesù Cristo con la Chiesa, unione che il matrimonio cristiano simbolizza. – Si legge nella vita di S. Angela da Foligno che la santa andò un giorno in pellegrinaggio alla tomba di San Francesco d’Assisi. Ed ecco che una voce le risuona all’orecchio: «Tu hai fatto ricorso al mio servo Francesco, ma ti farò ora conoscere un altro appoggio. Io sono lo Spirito Santo che sono venuto a te e voglio darti una gioia che ancora non hai gustata. E io ti accompagnerò, sarò presente in te… ti parlerò sempre… e se tu mi ami, non ti abbandonerò mai. O sposa mia, io ti amo; ho stabilito in te la mia dimora; mi riposo in te; alla tua volta, stabilisciti in me e cerca in me il tuo riposo ». – S. Angela, paragonando i suoi peccati con questi favori straordinari, esitava, credendosi trastullo di un’illusione: « Se foste veramente lo Spirito Santo, ella dice, non potreste dirmi simili cose: esse non sono fatte per me. Ma se foste proprio Voi, la gioia che ne avrei sarebbe così grande che non potrei provarla senza morirne ». E le fu risposto: « Non sono forse padrone dei miei doni? Io ti dò la gioia che voglio, né più né meno ». E la santa termina dicendo: « Io non posso esprimere la gioia che provai, specialmente quando mi disse: io sono lo Spirito Santo che vive interiormente in te ». – Ciò che lo Spirito Santo per un favore speciale rivelava a S. Angela, la Chiesa, col suo dogma, l’insegna a tutti i Cristiani. Lo Spirito Santo vive in noi e ha un solo desiderio, quello di trovare nell’anima nostra la corrispondenza di sentimenti che Egli vuole avere per noi. Da parte sua, l’unione con noi quanto non è intima! – Ma da parte nostra, questa unione con Lui di qual natura è? Siamo dunque senza intelligenza o senza cuore? Quanto si è prodigiosamente incoscienti, o miserabilmente chiusi nell’amore dell’Amore Infinito: come uscire da questo dilemma? Alcune anime, pertanto, più raccolte o più avide d’intimità, intravedono ciò che bisogna ricercare in questa familiarità. Ma ben presto perché conoscono meglio di altre la loro debolezza, esitano, non osano, indietreggiano. Quando lo Spirito Santo si offre per un’unione incomparabile, per un vero matrimonio, esse hanno vergogna di stendere la mano e di dare il loro cuore. Questo non sembra che sia per loro; pare cosa troppo bella. Il loro corpo, polvere di peccato; l’anima loro, ulcus et apostema, secondo la forte espressione di S. Ignazio nella meditazione sul peccato, « un cancro e una ulcera », a ogni modo, una tomba dei benefizi di Dio; e benché animate da un desiderio ardente di unirsi all’Ospite divino, provano un tale sentimento di repulsione, nel riguardo di se stesse, che praticamente rifiutano di credere alla realtà delle offerte divine. – Il noli me tangere di Gesù a Maddalena, risuona al loro orecchio e ricordano il grido di Pietro, vedendo Gesù avanzarsi per lavargli i piedi, o di Elisabetta scorgendo Maria che viene a Lei: « Tu mihi?Voi da me!… Unde hoc… ut veniat? Donde questa maraviglia? ». Non trattasi di sapere se sia cosa troppo bella, ma piuttosto se sia vera o no. Lo Spirito Santo abita realmente, con tutta verità, nell’anima? Desidera unirsi con essa? Sì; questo è oggettivamente vero. Non potrei opporre nulla contro questo fatto. Sono libero di credere che questo fatto è straordinario, incomprensibile, e inaudito; ma ancora una volta, se è vero, bisogna ch’io mi inchini. Ora il fatto è vero e s’impone. Lo straordinario, l’incomprensibile, l’inaudito sarebbe che io non provassi di compenetrarmi di questa presenza di persuadermene e di viverne. « Per quanto grandi siano le grazie che portiamo in noi, scrive l’Olier (Vie de M. Olier, 1818, Lebel, Versailles p. 498-499), restiamo sempre gli stessi vasi di argilla, il misero nulla e nient’altro: habemus thesaurum istum in vasi fictilibus. Le specie del pane e del vino, nel SS. Sacramento, non hanno ragione di gloriarsi delle grazie che racchiudono, e dei beni che la S.Eucaristia opera nelle anime, giacché esse non ne sono la causa, ma solamente leggere e fragili scorze, benché siano così vicine alla divinità. Lo stesso avviene alle anime più sante e più ripiene di Spirito Santo: sono come bucce che in pochissimo tempo si guastano e si corrompono. E come il corpo e il sangue di Nostro Signore finisce di essere presente, sotto le specie, quando queste sono corrotte; così alla prima corruzione e impurità, lo Spirito Santo si allontana, lasciando questi poveri vasi nella loro corruzione. – Da ciò può dedursi se un’anima abbia ragione d’inorgoglirsi e di credersi più di quello che era prima, per il solo fatto di ricevere grazie così preziose, come i Sacramenti, di portare in se stessa Nostro Signore, come le specie del pane e del vino, ovvero lo Spirito Santo, come l’olio consacrato e il balsamo nella Cresima. – Non deve invece temere che Nostro Signore, non trovandola abbastanza pura per dimorare in essa, si ritiri? ». – E giacché abbiamo accennato alla Comunione, la presenza del divino Spirito — e di tutta la Trinità — nelle nostre anime, è forse più incomprensibile, più straordinaria e inaudita della presenza eucaristica? Che matrimonio meraviglioso — gli autori usano spesso questa parola, per parlare dell’unione dell’anima con Gesù Cristo, nella divina Comunione, — non è quello del Cristiano alla Sacra Mensa, con Gesù che scende nel cuore! – E se la presenza eucaristica non urta, non ci fa indietreggiare, perché dovremmo fermarci alla presenza che risulta dall’essere in grazia? In un dato senso, questa non è meno prodigiosa dell’altra, o meglio, presenta questa superiorità, di non essere ostacolata, dopo gli altri misteri, dal mistero di un Dio che si è fatto uomo e pane. – Procedendo oltre, San Bernardo all’obiezione netta: « Io non oserò mai entrare in una simile familiarità… Dio in me… Non è possibile!…» — risponde: « Quello che vi trattiene è il rispetto, reverentia; e nella parola rispetto (vereor), è compresa l’idea di timore. Voi dimenticate che amare, significa amare e non venerare. Temere, meravigliarsi, ammirare, ecco in che consiste venerare; ma ciò non ha nulla da fare con l’amare. Dove c’è l’amore, ogni altro sentimento sparisce. Colui che ama, ama. Ama e nient’altro. Sposo con sposa. Or qui, lo Spirito Santo non è lo sposo dell’anima, qualcuno che ama, senz’altro; molto meglio, lo stesso Amore? « Dio, come Dio, esige il timore; come Padre vuole essere onorato; come Sposo vuole essere amato… Quando Dio ama, non vuole altro che essere amato… È fuori dubbio che nell’amore vi sono diversi gradi: Sposa è il grado più elevato. Non vi è nulla al disopra.« Ora, l’unione dello Spirito Santo con l’anima è un’unione di quest’ordine, spinta al più alto grado: unione non di due carni in una,ma di due spiriti in uno solo, secondo l’espressione energica di S.Paolo: Qui adhæret Deo unus spiritus est » (S. BERNARDO: In cantic, S. LXXXIII.).E siccome l’anima si nasconde nella sua umiltà e si rifiuta dicendo: « Io non potrò mai amare abbastanza. Come lottare col gigante? Come amare nella misura in cui sono amata?Dovrò rinunziare all’impresa? » — « No, risponde; senza dubbio la creatura ama meno. Purché ami senza riserve. Manca forse qualcosa là dove si dà tutto? » (Ib. Ibid.).S.Giovanni della Croce compie la spiegazione, dandone la ragione ultima e la più profonda: l’anima può giungere ad amare molto, perché in essa è l’amore che ama (Si è già vista sopra la spiegazione del testo di S. Paolo: « In noi il solo che può gridare: Padre, è lo Spirito del Padre ». Qui vale lo stesso ragionamento.). Ecco quindi la proporzione, l’equivalenza voluta e supposta impossibile. Se l’anima non fosse fortificata, raddoppiata, centuplicata nella sua facoltà di amare, l’equazione necessaria non si stabilirebbe; ma tutto si spiega se l’amore col quale noi amiamo è lo stesso amore di Dio. Ora accade proprio così, e S. Fulgenzio lo dice assai bene: « Per amare Dio, il cuore dell’uomo non basta; bisogna avere il cuore di un Dio. Che cosa significa questo? Possiamo dunque amare Dio col cuore di Dio? Sì, perché la carità di Dio è sparsa nei nostri cuori dallo Spirito Santo che « ci fu donato » e noi possiamo amare Dio solamente per mezzo dello Spirito Santo; non ho ragione di dirvi quindi: Amiamo Dio col cuore di Dio? » (S. GIOVANNI DELLA CROCE: La notte oscura dell’Anima, L. II, C. XIII).

CAPO IV.

Con tutta la Santa Trinità.

La devozione al Padre, la devozione al Figlio, la devozione allo Spirito Santo, presenti in noi per la grazia, possono considerarsi sotto aspetti molteplici, secondo le ispirazioni soprannaturali e le inclinazioni diverse delle anime. Da ciò deriva l’originalità molto varia, nei giusti, che taceva esclamare Davide: « Mirabilis Deus in sanctis suis, Dio è mirabile in coloro, in mezzo ai quali abita». (Ps. LXVII, 36). Invece di fermarsi alla considerazione della presenza in noi dell’una o dell’altra delle divine Persone, ovvero dell’aspetto particolare dell’una delle tre presenze, alcuni preferiscono considerare la Santa Trinità nel suo complesso.« Il Cristo, vero Dio e vero uomo, vero uomo quanto è vero Dio, generato dal Padre negli splendori dell’Eternità, ci ha generato, in qualche modo, sul Calvario. Divenuto in virtù del suo sacrificio capo di tutta l’umanità, ci rende partecipi della vita divina che Egli ha ricevuto dal Padre. « Egli innesta sopra la nostra vita naturale la sua stessa vita e ci comunica il suo essere divino.Mentre abita realmente in noi, è necessariamente inseparabile dal Padre e dallo Spirito Santo.« Il Padre, in noi, genera il Figliuolo, e lo Spirito divino procede dal Padre e dal Figliuolo. L’intero mistero, tutte le operazioni, lutto l’amore e la beatitudine della Santissima Trinità si compiono e dimorano in noi.

« Sono queste le realtà sublimi dello stato di grazia… » (Paolina Reynolds, t. II, cap. III, § 4). – Il P. Lessio, autore del bellissimo libro: I nomi divini, è fra coloro che più studiarono la Trinità adorabile, e sappiamo che la sua devozione personale amava di considerare Dio vivente e presente nell’anima sua: « Signore, ve ne prego, diceva, attirate il mio cuore a voi nell’interno dell’anima mia. Qui, lontano dagli strepiti del mondo e dalle preoccupazioni che accasciano, dimorerò vicino a voi, per godere di voi, per amarvi, venerarvi e intendere la vostra voce. Qui vi racconterò le tristezze della mia vita d’esilio; qui, vicino a voi, troverò le consolazioni necessarie! Fate che io non dimentichi mai la vostra presenza in me, Voi che siete luce e dolcezza dell’anima mia! Che io non vi dimentichi mai, ma che sempre e dappertutto lo sguardo dell’anima mia vi incontri ». – Le Memorie della Carmelitana di Digione, suor Elisabetta della Trinità, sono un’esposizione continua di quello che può — o che dovrebbe essere — in noi la devozione ai « Tre ». Le abbiamo già citate abbastanza, perché ognuno possa convincersene, qui ci contenteremo di dare due tratti della sua preghiera favorita. Nulla di più dogmatico e più lirico, e ad un tempo, di più esalto e più elevato: « O mio Dio, Trinità che io adoro, aiutatemi a dimenticare interamente me stessa, per stabilirmi in Voi, immobile e pacifica, come se già l’anima mia fosse nell’eternità! Nulla turbi la mia pace, né mi faccia uscire di Voi, o mio Immutabile, ma ogni minuto mi trasporti più lontano, nell’abisso del vostro Mistero. « Rappacificate l’anima mia, fatene il vostro cielo, la vostra dimora amata e il luogo del vostro riposo; che io non vi lasci mai solo, ma sia là tutta quanta, svegliatissima nella mia fede, in profonda adorazione, interamente abbandonata alla vostra azione creatrice ». – Questo è il principio, ma ecco la fine: « O mie Tre Persone, mio Tutto, mia Beatitudine, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo, io mi abbandono a Voi come una preda; seppellitevi in me, affinché io mi seppellisca in Voi, aspettando il giorno di contemplare, nella vostra luce, l’abisso delle vostre grandezze » (21 novembre 1904). Sarebbe un errore credere che occorra essere una religiosa, insignita di favori straordinari, o un dotto provvisto d’una scienza teologica prodigiosa per pregare a questo modo. Chiunque abbia compreso la vera natura dello stato di grazia, può avere la devozione ai «Tre», viventi in noi. Non è punto una devozione fuori posto, riservata a pochi. Il dogma e l’uso del dogma è per tutti. –  Pietro Poyet lavora alla rue des Postes. È uno studente come tanti altri, ma molto legato alla sua fede. Prende occasione della preghiera ordinaria che si recita al mattino per rientrare in se stesso, e trovarvi gli Ospiti divini dell’anima: « Mettiamoci alla presenza di Dio e adoriamolo ». Dove mai Dio è più presente che nel suo cuore, nel cuore del giovine che vive in grazia? Tutta la spiritualità dei suoi vent’anni riluce intorno a questa grande idea: l’Abitazione della Trinità nelle anime nostre. A un compagno di scuola scrive un giorno: « Dio è in te al posto che deve occupare? ». Nel suo programma di vita intima, inserisce questo proponimento: «Avere l’anima tormentata dalla magia dell’assenza divina. Temere il peccato più di ogni cosa, perché caccia Dio dal nostro cuore. Ricercare soprattutto lo stato di grazia perché mette e mantiene Dio in noi ad ogni minuto » (Cfr. Notice, dell’abate Rouzic). – Chi non può imitare — o almeno studiarsi d’imitare — questo studente, e vivere d’un simile desiderio e d’una simile fede? – È certo che, inclinati come siamo alla materia, occorrerà più d’uno sforzo — e lo diremo fra non molto —. « Il poco essere che abbiamo — secondo una frase profonda di Pascal — ci nasconde la vista dell’infinito ». Ma dal momento in cui abbiamo visto e compreso chiaramente tutto quello che portiamo «dentro di noi», non dovrebbe nascere nell’anima l’ambizione di acquistare a qualsiasi prezzo l’evidenza di quelle cose che non si vedono, di non passare accanto alla più grande meraviglia senza scorgerla, o di non possederla senza viverne? – In questa nostra opera abbiamo omesso, a bello studio, le questioni controverse o troppo sottili, utili a discutersi nelle scuole, ma che servono poco a chi se ne sta a pregare e a chi cerca la vita interiore. Vogliamo solamente accennare a due punti per prevenire una difficoltà e rispondere a un quesito. Nel mistero della nostra santificazione, lo Spirito Santo esercita forse un ufficio particolare che non esercitano con Lui, allo stesso grado, il Padre ed il Figliuolo? Secondo alcuni autori che si fondano sopra una tradizione molto rispettabile, dovuta specialmente ai Padri Greci, fra i quali primeggia S. Cirillo Alessandrino, il Padre ed il Verbo sarebbero in noi mediante lo Spirito Santo. Vi sarebbero due stadi, non nell’ordine cronologico, ma solo nell’ordine logico, e come suol dirsi, della causalità formale. Il divino Spirito, col Battesimo, prenderebbe possesso dell’anima nostra; primo stadio. In virtù del privilegio della circuminsessione, per la quale il Padre ed il Verbo sono là dove è lo Spirito, subito dopo la venuta dello Spirito Santo, il Padre ed il Verbo diventerebbero ugualmente presenti. – Questo è il primo quesito, d’ordine piuttosto storico; ma ecco il secondo di ordine piuttosto filosofico: In qual modo esattamente si effettua l’unione di Dio con noi, e la nostra con Dio? Noi diciamo: Dio è presente, abita, vive in noi. Il fatto è assolutamente certo; è un dogma. Ma il modo? Quale spiegazione si dà del « modo »?Colui che ha spinto più lontano lo studio del « modo. », a nostra conoscenza, è il P. Jovene, nel suo trattato De vita deiformi. Lo si legge nella speranza di trovare un punto che soddisfi, si percorrono le pagine con avidità; ma giunti al termine si rimane delusi. Abitazione, presenza, possesso, vita intima, familiarità tutto questo ridotto ad alcune spiegazioni troppo smilze, ad alcune formole che sembrano troppo brevi. Ma si avrebbe torto a meravigliarsene. Il « come » della mia « deiformazione », della mia « deificazione », mi sfugge. Non capisco nulla, ovvero non capisco tutto… Se si riflette bene, che cosa vi è in ciò di strano? Non è invece naturale? Se io arrivassi a capire, sarebbe questo un fatto meraviglioso? Non siamo forse avvezzi a ignorare molti « come » dell’opera di Dio? Quello che conosco, non è già sufficiente per riempirmi d’ammirazione e, se lo voglio, per santificarmi più di quello, a cui i miei buoni desideri non giungono? E poi, forse che le difficoltà non sono identiche, in simili materie? Consideriamo l’Eucaristia. Si ha forse una luce maggiore sul modo in cui si opera la transubstanziazione? E sarò più avanti — sotto l’aspetto della mia devozione, s’intende — dopo lo studio dei differenti sistemi: adduzione, riproduzione, semplice conversione, ecc.? E tuttavia, nulla è più certo del fatto. – Dirà qualcuno che nell’idea della nostra « deificazione » si può eccedere, oltrepassare la misura, cadere nell’errore. No, perché abbiamo dei capisaldi. Io so che debbo escludere qualsiasi concetto panteistico: Dio rimane Dio, e io rimango io. So che la mia unione con Dio non è ipostatica, cioè della stessa natura dell’unione del Verbo con l’Umanità del Salvatore. Pure ammessi questi limiti, il dogma della vita di Dio in noi, mediante la grazia, resta sempre bello e consolante.

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DIO IN NOI (5)

DIO IN NOI (5)

[Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

CAPO I.

Col Padre.

« Ritenete per certo che voi non siete l’uomo che Dio vi vuole e che voi stesso pensate, quando in certi momenti di luce il vostro ideale viene a rispecchiarsi sull’anima vostra. Come avete impiegato la vostra vita, fino ad ora? Che cosa avete fatto dei vostri titoli di adozione divina? Siete veramente figlio di Dio nelle opere e nel modo di pensare? No. Ebbene, piangete sulla vostra vita, profanata, sterile e vana e alla prima lacrima ritroverete Dio ». Così parla il P. Gratry all’uomo che vive in peccato. Ma le anime che sono abitualmente in grazia, pensano talvolta a quali risorse procura loro l’adozione divina per mezzo del Padre che sta nei cieli, adozione che li rende partecipi della stessa vita del Padre, presente in esse, ben inteso, in quella copia che è permessa a una creatura, lasciando libera entrata a Dio? L’adozione umana è d’ordine giuridico e legale. Essa permette di aver comune il nome, il blasone e l’eredità di chi adotta, ma non può infondere il vincolo naturale del sangue. L’adozione divina ci fa vivere la stessa vita di Dio… Le parole di San Pietro sono esplicite: « Ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ, partecipidella natura divina » (II Petr. I, 4la liturgia all’Offertorio rammenta la stessa verità; « divinitatis consortes, partecipi della divinità »).« Che la vita superiore, promessa e data alleanime nostre da Gesù Cristo, scrive un autore(Exortation à un jeune homme chrétien dell’Abate CHABOT, Beauchesne. 1909. p. 212), sia la partecipazione alla stessa vita di Dio, non possiamo metterlo in dubbio: l’origine ci viene indicata assai chiaramente. Proviene dal seno del Padre, come il Verbo medesimo; ci fu preparata ed elaborala dal Figliuolo che dovette inoltre meritarcela col prezzo del suo Sacrificio; lo Spirito Santo distribuisce la vita, da questa sorgente, come vuole; e la mette in attività nelle anime con impulsi misteriosi. In questo modo tutti coloro che la ricevono, diventano figli di Dio, nati, non dal sangue e dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio. Noi siamo veramente partecipi della vita di Dio, un seme divino è in noi, portiamo Dio nel nostro corpo, lo spirito di Dio ci anima e ci conduce, il divino ci trasforma come il fuoco fa del ferro, e ripieni di divinità noi siamo templi del Dio vivente ». – Non si potrebbe riassumere meglio la storia della nostra esistenza soprannaturale, né la natura dei rapporti che possiamo avere — e che

dovremmo avere — con la divina Trinità, con Dio Padre in modo particolare. Una parola spiega ogni cosa. Non in un senso metaforico, ma reale, noi siamo divenuti filii Dei, figli di Dio. Se quindi abbiamo capito in qualche modo ciò che riguarda il dogma della grazia santificante, ne risulta una conseguenza importante: l’amore filiale verso il Padre. – Quanto è grande la differenza fra un padrone sovrano che si contenta dei rapporti di Creatore con la sua «creatura», ed il Padre amantissimo che noi abbiamo; fra un Dio lontano che profitta della sua lontananza per farci comprendere la distanza infinita che ci separa da Lui, e il Dio vicinissimo, quale è il nostro, che si è talmente avvicinato a noi, da stabilire la sua dimora dentro di noi! L’uomo era schiavo. Adesso fa parte della famiglia. Dio, in realtà, potrà essere chiamato da lui, non Padre, ma mioPadre. È divenuto fratello di Gesù Cristo, e può dire insieme con Lui: Padre nostro. È dello stesso lignaggio di Gesù, e Gesù tiene il suo da quello del Padre. Gesù è il Figlio, ma anch’egli può, con tutta verità, dirsi figlio: figlio d’adozione, è vero, giacché a Gesù Cristo l’essenza divina è propria per natura, mentre a lui solo per grazia; ma figlio, nondimeno, a un titolo autentico e scelto fra i mille, « avendoci Dio generati liberamente per mezzo del suo Verbo di verità » (Giov. I, 18 ). Ugualmente, perché siamo i figli di Dio, « ci manda lo Spirito del suo Figliuolo che provochi, nei nostri cuori, il grido: “Padre, Padre!,, » (Rom. VIII, 15); e perché siamo figli, per legittima conseguenza, abbiamo diritto all’eredità. Il primogenito non vuole per sé tutta l’eredità. Anzi Egli è venuto sulla terra solo per mettercene in possesso, rendendoci partecipi del suo gaudio. Non disse forse, prima di lasciare gli uomini, che ritornava al Padre, per prepararci un posto? Un giorno tornerà per condurci con sé, poiché vuole che noi siamo là dove Egli si trova. Non sarà allora più l’abbraccio oscuro nel cielo ristretto dell’anima nostra in questo interno divino in cui si degna abitare; sarà la intimità a viso aperto, nella luce piena, e la gioia illimitata d’un cielo senza confini: « Intra in gaudium Domini tui» (Matth. XXV, 21). Che cosa è mai la morte — domandava a se stessa una Santa — se non un salto sulle ginocchia del Padre? Il nostro stato è ora provvisorio e tutti coloro che sono assai vigili, ne soffrono: « Expectatio creaturæ revelationem filiorum Dei expectat… quia et ipsa creatura liberatur a servitute corruptionis in libertatem gloriæ filiorum Dei. Scimus enim quod omnis creatura ingemiscit et parturit usque adhuc» (ROM., VIII, 19-22: « Le creature attendono la manifestazione dei figli di Dio… nella speranza che saranno liberate dalla servitù della corruzione, per partecipare alla libertà e alla gloria dei figli di Dio. Esse gemono fino a quest’ora nella fatica del parto ») . « Ancora non si vede ciò che noi siamo» (Giov. III, 2). Un giorno il provvisorio finirà, e noi vedremo spiegarsi, nel possesso dell’eredità, « la libertà gloriosa dei figli di Dio ». Verrà l’ora in cui ciò che in noi è soggetto a perire, sarà assorto dalla vita: « Ut absorbeatur quod mortale est a vita». Dio ha preparato ogni cosa a questo modo, per la nostra glorificazione. Ce ne ha dato una caparra nello Spirito, principio della nostra vita superiore: « Qui autem efficit nos in hoc ipsum, Deus qui dedit nobis pignus Spiritus» (II Cor., V, 4, 5). Sarà allora « la fusione completa nell’unità ». Il Cristo è venuto sulla terra a questo solo scopo: infondere in noi, a partire dalla vita presente, la vita del Padre, affinché insieme, eternamente, in un’unità radiosa, la vita del Padre dimori e si dilati in noi. Questo era l’oggetto delle preghiere che il Salvatore rivolgeva al Divin Padre: « Padre mio, fate che come Voi siete in me e Io sono in Voi, così essi sieno una cosa sola in noi. Io in Voi, Voi in me, affinché essi sieno perfetti nell’unità » (Giov. XVII, 21-23).Può esistere un altro fatto più meraviglioso, più degno di tutta la nostra stima e il nostro affetto, un’altra storia più bella della vita di Dio nelle anime, vita nascosta sulla terra, ma luminosa nei cieli? Può darsi una geografia — diciamo cosi —più importante di quella dei mille fiumi di grazia che, circolando senza strepito nel mondo, scaturiscono da sorgenti abbondanti, spesso invisibili, e malgrado ostacoli di ogni natura, sabbie e detriti che si ammucchiano, lordure che contaminano, seguono il loro corso verso uno ceano senza limiti?Può mai concepirsi un dramma più strano di questo: un’anima che mette alla porta Dio che vuole entrare per vivere in lei e con lei: ovvero un’anima che avendolo perduto, cerca con sollecitudine, e lungo la strada incontra quel Dio che anch’Egli si era messo a cercarla da un pezzo, aspettando un minuto di pentimento, ovvero un palpito di amore, per rientrare nella città morta?Purtroppo, quanto pochi sono i Cristiani che pensano a queste verità! Quanto limitato è il numero di coloro i quali hanno questa devozione filiale al Padre di famiglia, devozione che la nostra qualità di figli adottivi o ci permette o c’impone e che sarebbe facile ottenere, se avessimo una idea profonda della preghiera insegnataci da Nostro Signore, il PaterHo accennato al Pater, e con ragione. Nostro Signore, insegnando agli Apostoli la formola del Pater, non disse: Ecco una fra le molte preghiere che potrete fare, un esempio, un modello di preghiera; ma disse: «Quando pregherete,voi pregherete così » (Matth. VI, 9). Così, e non altrimenti. Non vi sono diverse mostre, diversi saggi di preghiera cristiana. La preghiera cristianaè la preghiera del Cristo, il Pater, composto da Lui, a nostro uso. « Voi pregheretecosì ». Il modo di esprimersi è esplicito e imperativo. In conseguenza, il Pater noster è non solo la prima, ma l’unica preghiera. Non intendiamo dire con ciò che il Pater sia preghiera invariabile nella forma, che debba interdire ogni slancio spontaneo, qualsiasi elevazione personale e vivente di ogni anima inparticolare. Ma importa la preghiera, di cui tutte le altre, perché possano dirsi cristiane, non devono essere che la riproduzione e lo sviluppo: preghiera che non ammetterà mai alcun mutamento nella sostanza, né alcuna aggiunta capitale; preghiera tipo di tutte le preghiere, preghiera fondamentale le cui orme tutte le altre devono ricalcare e sulla quale devono modellarsi. Preghiera che deve racchiudere le altre, e riflettersi in tutte senza alterarsi. Quando pregherete, direte così: « Padre nostro… ». Il Pater è l’arma protettrice delle nostre orazioni particolari, l’anima di ogni devozione personale, della nostra vita interiore, come anche della pietà liturgica e della vita della Chiesa, il tema ispiratore e vivificante di ogni nostro passo nella vita cristiana.« Padre nostro… ». In queste parole commoventi, molti non scorgono che un’introduzione insinuante, per attirarci la benevolenza di Colui che regna nei cieli. Queste parole significano qualcosa di più. Esprimono una verità fondamentale, il centro intorno al quale gravita ogni vita religiosa e dal quale si irradia tutta la vita cristiana. Una volta eravamo figli d’ira, filii iræ; il Pater ci ricorda che l’opera di Gesù Cristo ci ha resi « figli di Dio ». Per l’abitudine contratta, questa espressione non ci colpisce. Essere « figli di Dio »; non sembra a noi un fatto straordinario, crediamo invece di averne quasi il diritto. Poter chiamare Dio, Padre, quando si è un nulla; Padre, quando si personifica il peccato: non lo si dovrebbe poter fare tanto facilmente. Sempre la stessa ignoranza: noi non ce ne meravigliamo affatto, mentre S. Paolo ne era ripieno di stupore: Io posso dire a Dio: Abba, Pater. Io, a Dio, « Padre » ; dirgli « Padre »! Oh! giammai, per me stesso, ciò sarebbe possibile! Ma io possiedo lo Spirito Santo, lo Spirito del Padre, ed è Egli il primo a riconoscere in Dio la Paternità che io acclamo. Persuadersi che il Padre è un essere paterno, più ancora, un essere veramente materno, darebbe grande coraggio nella vita! Nostro Signore si studiava di farcelo capire. « Una madre ama molto; ma il Padre che è nei cieli, ama cento volte di più. Osservate come sono vestiti i gigli del campo. Lo splendore di Salomone non uguaglia lo splendore dei gigli. Riconoscete, nella loro bellezza, il dono del Padre. Guardate gli uccelli dell’aria. Colui che li ha creati lilascia forse senza nutrimento e senza ricovero? Riconoscete, in tali soccorsi, il dono del Padre. E se Dio spiega tanta generosità per i gigli e per gli uccelli, quanta non ne spiegherà per noi! ». – « Padre nostro », due parole che proclamano! il titolo più bello di Dio, quello che conviene! collocare prima di ogni altro, come un prefisso esplicativo, un richiamo evocatore, un correttivo prezioso. Giusto, sì, ma Padre. Terribile, sì, quando non può farne a meno, ma anche allora, e sempre, Padre. – E qual tristezza non dovrebbe produrre il vedere che molti Cristiani, molti buoni Cristiani, hanno pochissimo spirito filiale e mancano di confidenza verso Dio, quasi in tutte le occasioni! Un dolore sopraggiunge. Se ne getta la colpa contro Dio e manca poco se non lo si tratta da barbaro. Barbaro, Dio? Abbiamo mai posto mente alle due prime parole del Pater? Si commette una colpa, quindi tante altre. Segue lo scoraggiamento. Si era fatto un proposito fermo; e si cade di nuovo! Dio non perdonerà più. Dio capace di conservare rancore? Ciò può mai concepirsi in un padre terreno? No. Ebbene, come poterlo concepire in Colui che ha plasmato il cuore dei padri della terra, nel Padre del cielo? Oh! la grande insipienza! Se abbiamo avuto la disgrazia di peccare, non aggiungiamo alle nostre colpe una nuova colpa, mille volte più grave, quella che ci farebbe dubitare del perdono del Padre. Ciò indicherebbe che noi abbiamo perduto ogni sentimento di figli. Il prodigo ammise forse un sol momento l’idea che suo padre potesse rigettarlo? No, No! In piedi, e subito alla volta del Padre, Surgam… ad Patrem! – Il vero spirito filiale, in primo luogo, importa il desiderio della grandezza e della gloria del Padre, della grandezza di Colui al quale apparteniamo in qualità di figliuoli, e questo sotto la triplice forma che ci viene indicata dai seguenti ottativi che seguono le parole: Padre Nostro. Sia santificato il vostro nome! Quale grave peccato commettono i bestemmiatori! — vi sono le bestemmie degli individui e quelle dei governi — e chi non bramerebbe compensare queste gravi ingiurie, con altrettanti alti di riparazione e di amore! Venga il vostro regno! Quando Dio sarà visto altrimenti che con un atto puramente astratto, oh! allora come si vorrà che la Paternità divina si estenda a tutti gli uomini, a ogni famiglia, su tutte le nazioni! Sia fatta la vostra volontà! Quanto dilata il cuore e lo consola questo pensiero: Dio è « NostroPadre ». Gli avvenimenti ci sconcertano.

— Che cosa fa dunque Dio? — La sua volontà.

— Ma è una volontà di tiranno! — No, è una volontà di Padre.

— Ma dai fatti non risulta. — Se io guardassi attentamente, vedrei meglio, capirei che fra lo svolgersi degli avvenimenti, che sono opera di giustizia ovvero di misericordia, una cosa è certa: ed è che il Padre vuole che io mi faccia santo: « Hæc est voluntas Dei, sanctificatio vestra », che Egli vede cose che io non vedo; e che della vera devozione al Padre, nostro Signore stesso mi diede un giorno un esempio ideale nel giardino degli olivi, durante la sua agonia, quando mormorò il suo fiat voluntas tua. Oh, Padre, io voglio ciò che voi volete, perché lo volete, come lo volete e nella misura in cui lo volete! – « Carta » dei diritti di Dio, il Pater lo è anche dei diritti del Cristiano. Noi siamo figli: da questa premessa dipendono le conseguenze. Siamo figli, dunque possiamo parlare al Padre come figli, ed esigere — Egli ce ne dà il potere — tutto quello al quale i figli hanno diritto. – Fin qui, nel Pater, l’uomo esprimeva desideri; ripeteva gl’imperativi divini. Il Padre diceva: «Che il mio nome sia santificato», e il figlio ripeteva: « Sì, o Padre, sia santificato il vostro nome », e così di seguito. Ora l’uomo enumera alcuni imperativi che sono a suo vantaggio. Fa prevalere i suoi diritti, in qualità di figlio. Essendo figlio, ha diritto di essere nutrito dal Padre: « Padre, dateci oggi il nostro pane quotidiano! ». Ha diritto all’indulgenza del Padre: « Padre, perdonate le nostre colpe! ». Ha diritto alla protezione del Padre: « Padre, liberateci dal male! ».Questo importa pregare: « Vivere in casa sua », non solo, cioè, nell’intimità dell’anima propria, ma nel seno della famiglia divina che abita in noi; vivere nella gioia, nell’abbandono, nella certezza di essere compresi, esauditi, prevenuti anzi, nei nostri desideri, e circondati di tenerezza.Non ci si taccia di « sentimento ». È pura fede, semplice conseguenza del dogma. Fra piccoli ammalati, a Villepinte, si era stabilita un’associazione, consacrata alla Madonna della «riconoscenza». Una fanciulla aveva adottato la formola seguente: « Madre mia, io so che voi siete molto buona, che mi amate e che siete potente. Ciò mi basta ». Nessuno c’impedisce di parlare con Dio allo stesso modo: «Padre, so che Voi siete molto buono, che mi amate e che siete onnipotente. Questo mi basta ». Ecco in che cosa deve consistere il vero spirito filiale. Possiamo dire di essere sempre animati da questo spirito? Se no, che cosa attendiamo per animarcene?

CAPO II.

Col Figlio.

Il Verbo discese sulla terra, per apportarci la Vita, la Vita soprabbondante, la sua Vita propria, la Vita di Dio che Adamo aveva perduto. – La sua venuta non ebbe altro fine. Unicamente questo. Oh magnificenza della Vita divina in noi! Grandezza dell’anima nostra « naturalizzata divina! ».

« Al principio era il Verbo, seconda Persona della Trinità adorabile, e il Verbo era in Dio, e il Verbo era Dio» (Giov. I, 4). Nel Verbo era 1° Vita, quella Vita di cui Dio aveva voluto rendere partecipe l’uomo, in origine, e che ora vuole, con un prodigio di amore, restituirgli, malgrado il peccato. – Il Verbo s’incarna. La Vita lontana diventa prossima. Troppo elevata per poterla ricevere, racchiude la sua pienezza in una umanità simile alla nostra, e forma con essa la Persona del Cristo. La Vita del Verbo diviene la Vita dell’Uomo Dio, la Vita si trasmetterà negli altri uomini, chiamati tutti a divenire « simili a Lui » (Rom. VIII, 29), vero Figlio del Padre. Ed eccoci per la grazia, divenuti fratelli di Gesù Cristo, « primogenito di molli fratelli » (Ibid.). L’idea — che noi siamo fratelli di Gesù, che Egli è il Primogenito, il grande fratello — colpisce molto alcune anime. Coloro che hanno seguito o letto semplicemente un certo triduo del P. Longhaye, sul tema che ci occupa, hanno potuto constatare quale ricchezza trovasi racchiusa in questa considerazione, per chi voglia alquanto approfondirla. – Alcuni sentono quasi ripugnanza a considerare Nostro Signore sotto quest’aspetto. Sembra loro che così non vi sarebbe più bastante differenza tra essi e Lui. Si rappresentano abitualmente Dio, il terribile Jave, circondato di fulmini e tuoni, il quale non lascia avvicinare alcuno che non siasi tolto i calzari e non abbia sprofondato la testa nella polvere. La giustizia di Dio, la grandezza di Dio è l’unico puntello su cui poggia il loro ascetismo. L’abitudine di meditare la loro debolezza e le loro cadute, la tendenza naturale della loro anima, un ricorso più costante all’Antico Testamento, un modo di pensare e di agire giansenistico, ovvero il ricordo di fatti terribili intesi, una volta, nelle prediche degli esercizi o letti in certi libri; tutto ciò li inclina e li conferma in questa idea. Altre anime, non meno rispettose, ma colpite dai tentativi che fa Dio per nascondere la sua onnipotenza e avvicinarsi a noi, preferiscono considerare in Lui l’amico, pur non avendo difficoltà di riguardarlo come giudice. – Costoro, poiché non si dà intimità senza presenza e senza una certa uguaglianza, e d’altra parte questa uguaglianza si trova in loro, fanno dell’amicizia l’idea principale della loro vita, l’idea dominatrice. Ciò si scorge nel libretto dell’Imitazione di Cristo — almeno nei due ultimi libri. — Ce ne dà un saggio il bel capitolo XIII del libro IV: « Quis mihi det, Domine, ut inveniam te solum et aperiam tibi totum cor meum… Tu in me et ego in te, et sic nos in unum pariter manere concede. Chi mi concederà, Signore, di trovare Voi solo, e di aprirvi completamente il mio cuore… Voi in me e io in Voi, e così potere rimanere uniti per sempre».Quasi lo stesso aspetto, benché sotto un riguardo un po’ speciale, presenta il dogma della Comunione dei SantiLo studio di Gesù, Fratello maggiore, c’insegna a considerare, intorno a noi, i nostri fratelli, che sono suoi veri fratelli.

— Questi non sono innestati sul Cristo e non ne conoscono la vita? In tal caso, aumenta il desiderio di dir loro ciò che bisogna fare perché abbiano la Vita. « Non de vestra tantum sante, sed de universo mundo ». Alla vista di tanti cadaveri, la fiamma dello zelo si accende, perché in loro vece dovrebbero aversi altrettanti viventi: « Nonne vivent ossa ista? ». Il mondo ha l’aspetto della pianura che vide Ezechiele in visione… Quante ossa disseccate, quante anime in cui la vita del Cristo non circola affatto! – A che valse dunque la venuta in terra del Fratello maggiore e la sua morte sulla Croce, se l’universo, dopo molti secoli, resta ancora popolato di tanti infedeli, e, letteralmente, si è sotto l’impressione della responsabilità della salvezza del mondo? Sembra che si cammini in un deserto, in un immenso deserto e che dalle sabbie aride venga fuori un lamento fioco. « Di chi è questa voce? », domanda il viaggiatore alla sua guida araba che lo conduce attraverso il Sahara. « È il deserto che piange, si lamenta perché vorrebbe divenire una prateria ». Non so quale spinta irresistibile vi inciti a partire più lontano che si potrà, per narrare a tutti la storia della Samaritana, dell’acqua misteriosa che zampilla fino alla vita eterna, dell’acqua viva e vivificante destinata a estinguere ogni sete; a partire con quest’acqua divina, portandone quanto più se ne potrà, per abbeverarne il maggior numero d’anime che vi riesca possibile, tutte le anime. – Un giovine ufficiale aviatore, resistendo a due nemici, fa una caduta terribile col suo apparecchio: resta ventisei ore fra le linee. Ma il desiderio di darsi a Dio si fa strada nell’animo suo. Viene raccolto con una frattura alla colonna vertebrale: è il primo venerdì del mese. Il suo proposito è ormai irrevocabile. Egli così scrive: « Resto sempre immobile sulla mia povera schiena: la paralisi tenace diminuisce poco a poco. Guarirò completamente, bisogna che sia così, Dio lo vuole, giacché mi ha messo nell’anima un’ambizione immensa e delle aspirazioni gigantesche » (Abbiamo raccontato la caduta e la protezione meravigliosa dell’aviatore, nel Messager du Coeur de Jesus, novembre 1917, e in Immolations Fécondes, Blond et Gay, p. 3-11). Può darsi che la vista delle anime lontane alle quali il Vangelo non è stato ancora predicato, sia meno impressionante di quella delle anime a noi vicine, le quali un tempo possedevano la vita del grande Fratello, ma ora l’hanno perduta, dopo d’averla sciupata in compromessi rincrescevoli e sono così divenute anche esse dei cadaveri, in mezzo ad un mondo creduto vivente. – Un uomo che vediamo passare… è vivo?… o morto?… Che cosa potrei fare a suo bene? Farò come Caino con Abele? Non ho contribuito per nulla alla sua rovina? E se posso rispondere di no, il mio compito è finito? Non avrebbe forse bisogno di me per rivivere, e avrei il coraggio di far mia questa parola glaciale: «Non mi curo della sorte di mio fratello?». – Sono pochissimi coloro che a un titolo qualunque non abbiano cura d’anime. Ma quanti se ne preoccupano? Tante persone di cui mi valgo, che mi circondano, che dipendono da me, che abitano con me, aiutandomi o servendomi, hanno la vita? Quale esame di coscienza più grave di questo: « Voi affidate, Signore Gesù, una missione tremenda e divina a chiunque si occupi dell’anima di un fanciullo: con l’esempio e con la parola, con discrezione e rispetto profondo, dovuti a un’intelligenza e a una volontà libera, egli deve produrre Voi in quest’anima. Ogni educatore è un profeta che annunzia e prepara il Natale nell’anima del fanciullo. Per quei giovani dei quali oggi mi ricordo dinanzi a Voi, seppi trovare le parole, i gesti, i silenzi che annunziano, preparano e compiono la vostra nascita? Signore Gesù, vi prego per loro, perché Voi fissiate pienamente il vostro sguardo su di essi. Fatene dei veri Cristiani » (Bullelin des Professeurs catholiques de l’Université, Pierre Pacary; Natale 1921).A questo modo, la solidarietà misteriosa, mareale, che unisce l’anima nostra a Gesù Cristo,alla Vita, conduce spontaneamente a considerarela solidarietà misteriosa, ma ugualmentereale, che unisce, fra loro, tutte le anime cristiane. « Ut sint… unum » (Ego in eis, et tu in me, ut sint consummati in unum. L’Unità è perfetta tra Dio. Gesù Cristo e noi; noi siamo« perfetti nell’unità della vita». Giov. XVII, 23). Bisogna che di tutte queste vite se ne formi una sola. Essendo tutte « innestate » sul Cristo, sono sottoposte alla legge dei vasi comunicanti, a cui abbiamo accennato. Se in un’anima la vita diminuisce o termina, l’insieme resta privato di una porzione più o meno grande di Vita. Se invece in un’anima la vita aumenta, e ciò avviene nella misura in cui le si lascia libero il posto, l’insieme ne risente un beneficio. Ut sint unum. Si legge in un sermone di Sant’Agostino, che la Chiesa inserisce nel breviario il giorno della Dedicazione: Tutti i Cristiani compongono il corpo mistico del Cristo; Gesù, la pietra angolare, noi le altre pietre viventi dell’edificio. Gesù, e noi, anime in grazia, formiamo un solo blocco, un solo Uno, una medesima cattedrale, un unico cuore, un solo amore, un tutto, il solo tutto, l’unica cosa che conti. Alle anime è dato di vivere insieme econ Dio. I palpiti di un cuore si dirigono a un altro; la forza ela virtù di un cuore passano in un altro cuore; un’anima è santificata perché un’altra si santifica. Ogni membro agisce per la forza di tutto il corpo. – « Quel movimento della grazia che mi salva, poté essere determinato da quell’alto di amore compiuto stamattina, ovvero cento anni fa da un uomo oscuro che così riceve il suo guiderdone. Eccovi una povera fanciulla che prega in una chiesa diroccata. Non sa nulla, eccetto che Dio esaudisce immancabilmente, avendo promesso di concedere quello che gli si domanda con confidenza… Vi accade di sentire, in una notte, un immenso strepito di fanteria di cavalleria, di carri in moto. Quello strepito rappresenta il movimento delle labbra di quell’innocente fanciulla, alla quale Dio è certamente sul punto di obbedire ». – Quale grande stimolo, per santificarci, è il pensiero che il minimo atto di virtù, non solo nell’anima mia, ma anche in tutte le anime che sono in grazia, e alle quali io sono unito nel Cristo, fa scorrere un po’ più di vita divina. Altri sfruttano diversamente il gran concetto del Corpo mistico. Il Verbo venne sulla terra e prese un corpo, per farsi Mediatore. Come compagni dell’opera redentrice vuole tutti coloro che accettano di partecipare al suo compito. Vuole avere bisogno di noi, non perché da solo non possa compiere tutto, ma perché l’amore lo spinge a chiedere con sollecitudine il nostro concorso. Egli è il Primo e vuole che noi gli siamo i « secondi ». Da solo poteva salvare tutte le anime. In realtà vi saranno delle anime che non si salveranno che per mezzo nostro. – Dignità singolare — e responsabilità tremenda — del Cristiano. Da questo proviene, in molti, il desiderio di vedere riprodotto, in qualche modo, in se stessi, ciò che effettuò il Verbo nell’Umanità del Salvatore; e di offrirsi, secondo l’espressione singolare di Suor Elisabetta della Trinità, a divenire come « un’umanità aggiunta ». Soltanto alcune anime privilegiate possono comprendere ciò che importa una simile offerta in certi momenti di dolore. Esse sanno bene che supplire, ultimare la sua missione, significa: « Completare la Passione del Cristo». Ed ecco in qual modo la conoscenza dello stato di grazia, dal primo stadio, che è lo spirito fraterno nelle nostre relazioni col Signore, conduce al secondo, che è lo spirito di vittima. – Donde questa strana ambizione, nelle anime, di divenire vittime? — « Vittima con la Vittima, Vittima per la Vittima, mi pare debba il riassunto della mia vita » (Une Ame Réparatrice: Simone Denniel, Vitte, 1916) — noi ci siamo studiati di mostrarlo altrove (L’idea riparatrice, ed. Marietti). – La visione del Cristo in Croce, il bisogno di mettere qualche cosa dentro le piaghe aperte sul corpo del Salvatore, il pensare che esse possono offrire nel loro cuore un ricovero al Divino Maestro, per fargli dimenticare a furia di amore, generosità e sacrifizio, le abbominazioni dei peccatori; il pensiero che il loro sacrifizio può, in qualche modo, riparare per tutti coloro che dimenticano ed oltraggiano Dio, che il loro corpo può diventare uno strumento destinato a soffrire con Gesù, in vece di Gesù, per conto di Gesù; tutti questi sono forti motivi capaci di stimolare nelle anime l’ardore, più di quanto non si immagini. Inoltre tutto ciò che di terribile affermano gli autori spirituali sullo spirito di morte, esse l’accolgono come il fatto più naturale, ovvio, obbligatorio. Il « Quotidie morior» dell’Apostolo per queste anime non è che una fòrmula, una frase che si legge con aria disinvolta, e si ripete ad altri perché abbiano la cura di rendersela propria. S. Paolo non sente il bisogno di supplicarle con molte istanze. « Spogliatevi – dice egli – dell’uomo vecchio, conforme al quale avete vissuto nella vostra prima età, e rivestitevi dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità » (Eph. IV, 22-24). Ed esse sono pronte a dire con S. Paolo: « Con Gesù Cristo io mi sono inchiodato alla Croce » (Gal. II, 19), e ancora: « Io mi glorio della Croce di Gesù Cristo » (Gal VI, 14). – In un’opera celebre, per scoraggiare l’Aquilotto, il ministro austriaco Metternich gli mostra che non ha nulla delle doti di suo padre, nulla che lo renda capace di governare. « Voi avete il cappello, ma non la testa! ». Anche la coscienza ripete continuamente una espressione simile, non per scoraggiare, ma per stimolare: Guarda, dice, l’immagine del divino Maestro che soffre. Rassomigli a Lui? Paragona il tuo viso al suo. Il tuo volto è proprio quello di un crocifisso?… La vista del Salvatore dilaniato, toglie il coraggio di vivere senza la Croce, e ad ogni costo si vuole appartenere al numero di coloro che « Dio ha conosciuto in precedenza, e ha predestinato ad essere conformi all’immagine del suo Figliuolo » (Rom. VIII, 29). – Del resto ogni anima che vive « interiormente » è sempre un’anima più o meno destinata al martirio. Con ciò non intendiamo dire che le siano riservate, come a S. Lidwina, le sofferenze fisiche; ma che a ogni minuto vi sarà nel suo interno un pensiero che la tortura, il pensiero della crocifissione. Ella constata la grande sproporzione fra quello che vorrebbe essere e quello che è in realtà. Sente che l’Ospite divino vorrebbe tutto, e sa quante cose si sottraggono all’olocausto. Vorrebbe che tutto fosse di Gesù, e intanto non gli cede la parte migliore. E se in certi momenti di maggiore generosità ha coscienza di dare tutto, sente nondimeno quanto sia poco ciò che dà: sa troppo bene che il tutto è quasi niente. L’anima non è capace di rivaleggiare: Gesù è troppo ricco, essa è troppo povera. Capisce che si tratta di giocare una partita, dove perde sempre: Giacobbe lotta contro l’Angelo. L’Angelo riesce sempre vittorioso. Intorno a lei e in lei, il Cristo è così poco conosciuto e sì mal servito! La piena del peccato si solleva e minaccia di sommergere tutto; e quello spazio di terreno risparmiato dall’inondazione, non è che una pianura, ovvero uno scoglio d’indifferenza. Che fare? Il cuore è pieno di desideri, ma i mezzi, per realizzarli, sono inefficaci ed ecco il supplizio di Francesco Saverio che muore di fronte alla immensa Cina, dove non gli è dato di entrare. Ecco ancora la stretta del cuore di un missionario, che dopo cinquanta anni di lavoro, muore sfinito nella sua dimora, guardando in alto, sulla montagna, una pagoda gigantesca, dove il rivale di Gesù Cristo, un budda grasso e spregevole, regnerà con orgoglio! Il tormento del Serafino d’Assisi, quando percorre le solitudini di Alvernia, donde fissa gli sguardi sulla campagna umbra — sull’universo intero! — e mormora: « Gesù non è amato! Gesù non è amato! ». « Perché non posso incoraggiare tutti ad amare Gesù Cristo, mio divino Maestro, e spingere tutti gli uomini al suo servizio? » scriveva M. Olier. « Sia benedetto Dio che supplisce, con tanta dolcezza e carità, allo zelo dei suoi poveri servi i quali languiscono di non poter servire che per poco tempo, e in modo imperfetto, il loro grande Padrone. Mille milioni di uomini, ripieni del vostro amore e dello zelo di servirvi, darebbero alla mia gioia, o mio Dio! ciò che le manca. Cento mila anni, e più ancora, da me impiegati a propagare la passione santa di cercare la gloria vostra, la gloria del vostro Figliuolo e della sua Madre divina sarebbero almeno un principio di appagamento dei desideri che mi tormentano. Oh, se avessi tanti cuori quanti sono gli spiriti sciagurati e maledetti che vi bestemmiano, come li impiegherei volentieri a vostra lode e a rendervi gli onori che essi vi negano! Moltiplicherei la mia lingua in altrettante creature, quante voi ne avete create sulla terra per glorificarvi! Ma per supplire, o mio Dio! Fate che io mi perda in Gesù, vostra eterna lode, il quale vi rende onori infinitamente infiniti; che io m’immerga e mi inabissi nei cuori dei vostri santi; che, come David, io inviti tutte le creature a benedirvi; che faccia concorrere il mondo intero, per quanto dipende da me, a glorificarvi! Nell’universo ogni cosa fu creata per il mio Gesù e per le sue membra, per Lui e per me; e in Gesù Cristo, Figliuol vostro e nelle sue membra fu tutto disposto a essere una vittima di lode, per tutta la gloria del nome vostro durante tutta l’eternità. O Dio, amor mio! fate che io cominci fin da ora per non finire mai più » (OLIER, Vie, Lebel, Versailles, pp. 608-82).La devozione è svariata nelle sue forme. Alcuni preferiranno considerare, in Nostro Signore, il Verbo, altri l’Umanità sacrosanta. La preghiera di S. Ignazio torna opportuna: « O amantissimo Verbo di Dio, insegnatemi ad essere generoso, a servirvi come lo meritate, a donare senza contare, a combattere senza preoccuparmi delle ferite, a lavorare senza ricercare il riposo, a spogliarmi di me stesso senza attendere altra ricompensa che di sapere che sto facendo la Vostra santa Volontà ».Suor Elisabetta aveva anche la devozione « all’amantissimo Verbo di Dio », ma sotto l’aspetto di cui specialmente ci occupiamo, cioè del Verbo presente nell’anima in grazia. La sua bella preghiera non sfigura accanto a quella di S. Ignazio:

« O eterno Verbo, Parola del mio Dio, voglio trascorrere la mia vita ad ascoltarvi, voglio divenire perfettamente capace d’imparare, per potere da Voi apprendere ogni cosa. Attraverso tutte le notti della mia vita, tutte le privazioni e impotenze, voglio fissarvi sempre e vivere sotto la vostra luce. – « O Fuoco consumatore, Spirito di amore, venite in me, perché si faccia, nell’anima mia, come un’incarnazione del Verbo; ch’io sia per Lui come un’umanità aggiunta, nella quale Egli rinnovi tutto il suo Mistero. E Voi, o Padre, inchinatevi sulla vostra piccola creatura, considerate in lei il solo amantissimo Gesù, nel quale avete posto ogni vostra compiacenza… ». Alcune anime preferiranno, nella Umanità del Signore, meditarne l’Infanzia. Molti avranno letto l’autobiografia di un’altra carmelitana, Santa Teresa del Bambino Gesù. Sarebbe grave torto stimare mancanza di virilità la freschezza che emana da queste pagine. Offrirsi a Gesù per divenire, nelle sue mani, come una palla elastica nelle mani di un bambino, una palla che si possa buttare a terra, forare con spille e chiodi, farla saltare, abbandonarla in un angolo, sono concetti molto più profondi di quello che non sembrino a prima vista. – La fondatrice del Carmelo non ebbe forse un amore particolare per il Bambino Gesù, a partire dalla celebre visione, in cui la Santa chiese:

« Chi sei tu? ». « Io sono Gesù di Teresa ». « E io, Signore, sono Teresa di Gesù ». S. Antonio di Padova, giovine ancora, ebbe una simile visione, come si legge nelle sue biografie. Vide un giorno, davanti a sé, un bambino con un grembiale rilevato, in atto di volere raccogliere qualcosa di prezioso: « Che cosa vuoi? » gli dice il Santo. «Voglio il tuo cuore ». « Che cosa fai? ». « Tu lo vedi, vado in cerca di cuori che vogliano consentire ad amarmi ». – Il P. de Condren, sul punto di morire, nell’ultima visita fattagli dall’Olier, diede quest’ultimo consiglio: « Prendete come vostro direttore il Bambino Gesù » – « parole, aggiunge l’Olier, che sono state per me molto utili e assai care ». Spirito d’infanzia, spirito abituale alle anime interiori, per le quali la contemplazione dei primi anni della vita di Gesù non è sterile, ma perviene a un abito di fede rapida e spontanea, alla sottomissione completa, all’intero abbandono, necessario perché a Dio sia permesso di vivere in noi, come vuole e quanto vuole. « Nostro Signore, l’intera mattina mi ha occupato in questo pensiero, che il mio bisogno più importante era quello di ottenere lo spirito del santo Bambino…, d’essere un fanciullo che non può né parlare, né camminare, né aiutarsi, che si lascia volgere e rivolgere a piacere senza che sia consultato, né gliene siano detti i motivi. E io mi sono lasciata compenetrare questa verità, ascoltando Gesù Dottore: « In verità nessuno, se non rinasce, non può veder il regno di Dio… Bisogna che voi nasciate di nuovo… Lasciate che i piccoli vengano a me giacché di questi è il regno dei cieli e di chi loro rassomiglia ». Io ho guardato Gesù modello; Gesù dell’Incarnazione, del presepio, della fuga in Egitto, di Nazareth. Che silenzi quanta sottomissione, quale abbandono! » (Paolina Reynolds, inglese convertita e fattasi carmelitana, della quale parleremo più oltre). – I Cristiani che acquistano la semplicità dei piccolini, nella contemplazione del Bambino Gesù, sanno meglio degli altri, dove tenda e ciò che esiga, questa « seconda nascita », la nascita di Dio nei nostri cuori per la grazia, che fa di noi « i figli del Regno ». Meglio che lo spirito d’infanzia, la conoscenza dell’ « Inabitazione » sviluppa lo Spirito eucaristico. A prima vista potrebbe sembrare che la devozione a Dio, presente nell’anima, debba nuocere alla devozione a Dio, presente nei tabernacoli delle nostre Chiese. Poiché già godo della vera presenza spirituale, l’Eucaristica è meno utile, meno desiderabile, e più facilmente mi dispenserò di ricevere in me Dio, poiché già lo possiedo in me. Modo di vedere falso e superficiale. Quanto più un’anima vivrà di Dio che abita in lei, altrettanto ambirà di diventare un’anima eucaristica. Anima eucaristica, non solo perché apprezzando di più il divino tesoro che porta con sé, vivrà in « atti di ringraziamento », parola che traduce alla lettera il nome « Eucaristia » (Il postcommunio della Messa di S. Luigi Gonzaga ci fa domandare, ad imitazione del modello offerto alla nostra pietà, di vivere come « eucaristia », cioè di restare « in azione di grazia », « in gratiarum actione manere »); ma anche perché logicamente si sentirà avida della Comunione. – Chi ama, brama amare di più; chi possiede, vuole possedere ancora e in tutti i modi possibili. Possedere Dio, l’Uomo Dio, è certamente la cosa più importante; ma la Comunione questo lo suppone, giacché esige l’assenza del peccato grave, lo stato di grazia. Ora, aggiungendo il possesso dell’Umanità del Salvatore, qual privilegio insigne si acquista, in quanto, con l’Umanità Santa riceviamo per così dire una maggiore dose di Divinità! – Le anime interiori lo sanno, ed ecco perché, lungi dall’essere portate a comunicarsi rare volte, anelano a ricevere l’Ostia divina il più spesso possibile. Esse sanno che una sola parola basta a trasformare il pane sull’altare, ma per trasformare noi, occorre più di un’ostia, occorreranno ripetutissime visite del Figliuolo, per renderci come ci è richiesto, perfetti — nientemeno — sicut Pater cælestis, come il Padre celeste. – Ma vi è di più; le anime che hanno maggiore conoscenza dell’Abitazione divina capiranno a perfezione l’Eucaristia, cioè non solo come una vittima che si riceve, ma anche come vittima che si offre. Meditando il templum Dei quod vos estis (I Cor., III, 17), si avrà presto l’intuizione che il nostro cuore dev’essere il luogo di un’offerta liturgica, un santuario intimo, dove, secondo l’invito di S. Paolo, che dice d’immolarci col Cristo e di essere una vittima santa e grata a Dio (Rom., XII, 1. – Vedi Videa Riparatrice), si apporteranno, in olocausto, tutti gli atti dell’anima, e che perciò ogni Cristiano è rivestito, come affermano S. Pietro e l’Apocalisse, di un vero sacerdozio (Fecisti nos sacerdotes, ci avete fatto veri sacerdoti. – Apoc. V. 10;  1 Petr. II, 5 e 9). Se il pensiero di Dio in noi dà al culto eucaristico il suo vero senso, può dirsi anche che lo stesso concetto, ed esso solo, dia una spiegazione profonda della vera devozione al Cuore di Gesù. Il P. Ramière nel suo libro: Il Cuore di Gesù e la Divinizzazione del cristiano ne apportauna prova perentoria. La nostra deificazione è l’opera di tutta la SS. Trinità. La prima e la terza delle Divine Persone non certo vi partecipano meno della seconda, perché questa deificazione consiste nell’adozione che Dio Padre fa di noi, e nella unione delle nostre anime con lo Spirito Santo. Ma questo divino Spirito ci è dato per mezzo di Gesù Cristo e, unicamente a causa della nostra incorporazione a Gesù Cristo, Dio Padre ci riconosce e ci ama come suoi figli. La nostra giustificazione è l’opera di Gesù. Potremmo dire, domanda il P. Ramière, opera del Cuore di Gesù? E risponde: Lo possiamo e lo dobbiamo.Infatti, Nostro Signore ci ha procurato la giustificazione per un atto libero o per un atto necessario? Per un atto libero. Il Verbo è venuto liberamente: « Quia voluit ». E l’Umanità santa del Salvatore ratificò liberamente questa volontà libera. « Dio ci ha generato volontariamente », dice S. Giacomo; e S. Paolo Dilexit me, tradidit se. Mi ha salvato per puro amore, per un puro slancio del suo Cuore.« Gesù Cristo, continua il P. Ramière, ci dà il suo spirito e ci fa membri del suo corpo mistico, con un atto di amore perfettamente libero e continuamente rinnovato. Noi siamo quindi debitori della nostra vita divina e di tutte le nostre ricchezze soprannaturali al suo Cuore che è l’organo (o meglio il simbolo) del suo amore » (Dinisation p. 565).Nostro Signore ci ha salvati, dando tutto il suo sangue per un primo ed eccessivo trasporto del suo divino amore. Per un altro trasporto di amore incessante, facendo valere i suoi meriti, ci ottiene, ad ogni momento, la grazia santificante di cui abbiamo un bisogno continuo; da ciò trae la sua ragione la parola di S. Paolo, quando dice che « Egli è la nostra giustizia (colui che ci rende giusti) la nostra santificazione e la nostra redenzione » (I Cor., I, 30). In cielo Nostro Signore trascorre il tempo, o a dir meglio, passa l’eternità mandandoci lo Spirito Santo. Una volta, un’iniziativa dell’amor suo — del suo Cuore — valse la prima, la grande Pentecoste. Ogni Pentecoste particolare, ciascuna discesa dello Spirito Santo nelle anime nostre, è anche l’affetto degli slanci amorosi del suo Cuore. « Allorquando dico: Gesù — aggiunge l’autore della Divinizzazione — io vedo Dio fattosi accessibile. Quando dico Cuore di Gesù, vedo il Salvatore ancora più vicino, guardo in Lui il punto dal quale vuole unirsi con me, e m’invita ad unirmi a Lui». Di questa fontana che zampilla fino alla vita eterna — fons aquæ salientis in vitam æternam — il Cuore di Gesù è l’organo propulsore. Per mezzo suo il divino influsso, lo Spirito Santo, perviene in ogni membro del corpo mistico. Ciascuna delle nostre azioni soprannaturali è un’azione del Cristo, giacché il Cristo mistico è il Cristo personale (il Capo), più il Cristo mistico (noi Cristiani, sue membra); e grazie al suo Cuore, la vita circola dalla testa alle membra; da Lui a noi. – Presso tutti i popoli, il cuore simbolizza l’amore. Gesù poteva quindi dire a Santa Margherita Maria, poiché noi dobbiamo la nostra salvezza al suo amore: « Ecco il mio cuore, che ha fatto tanto per gli uomini ». – Separando la devozione al Sacro Cuore dal dogma dell’Inabitazione divina, si corre il rischio di farne una devozione di mero sentimento, una devozione della quale non si capisce, né l’origine., né lo scopo. Un’anima, invece, che ha compreso in che consista lo stato di grazia e la vita con Dio dentro di sé, sarà immancabilmente un’anima che ha una devozione fervente al Cuore di Nostro Signore, a quel Cuore al quale deve i preziosissimi tesori che porta in se stessa.

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LA PERFEZIONE NELLE OPERAZIONI ORDINARIE (3)

[P. Alfonso RODRIGUEZ S. J.: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane – S. E. I. Torino; rist. 1948]

TRATTATO II.

DELLA PERFEZIONE DELLE OPERAZIONI ORDINARIE (3)

CAPO VII.

D’un altro mezzo, che è assuefarsi uno a far bene le opere proprie.

1. Come praticare questo mezzo. — 2. Ci viene insegnato dalla

S. Scrittura, — 3. Efficacia del buon abito.

1. Quel grande ed antichissimo filosofo, Pitagora, dava un consiglio molto buono ai suoi discepoli e ai suoi amici per diventar virtuosi e per rendersi loro facile e soave la virtù. Diceva loro così: Eleggasi ciascuno un modo di vivere molto buono, e non si sgomenti, per parergli da principio faticoso e difficile; perché di poi, con la consuetudine, gli riuscirà molto facile e molto gustoso. Questo è un mezzo molto principale, e del quale ci abbiamo da valere, non tanto per essere di quel filosofo, quanto perché è dello Spirito Santo, siccome or ora vedremo; e perché è mezzo molto valevole pel fine che pretendiamo. Già noi abbiamo eletto il buon modo di vivere, o per dir meglio, già il Signore ci ha eletti per questo: « Non siete voi che avete eletto me, ma io ho eletto voi » (Joan. XV, 16). Siane egli eternamente benedetto e glorificato. Ma in questa vita e in questo stato, nel quale il Signore ci ha posti, vi può essere il più e il meno: perché puoi esser perfetto, e puoi essere imperfetto e tiepido, secondo che andrai operando. Ora se vuoi far profitto e acquistare la perfezione in questo stato e nelle tue operazioni, procura di avvezzarti a far le opere e gli esercizi della religione ben fatti e con perfezione. Avvezzati a far bene l’orazione e gli altri esercizi spirituali; avvezzati ad esseremolto puntuale nell’ubbidienza e nell’osservanza delle regole e a far conto delle cose piccole; avvezzati al ritiramento, alla mortificazione e penitenza, alla modestia e al silenzio. Non dubitare; se nel principio sentirai in ciò qualche difficolta, dopo, con la consuetudine, ti si renderà non pur facile, ma soave e gustoso, e non ti sazierai di render grazie a Dio dell’esserti a ciò assuefatto.

2. Questa dottrina ci viene insegnata dallo Spirito Santo in molti luoghi della sacra Scrittura. Dicesi nei Proverbi: « Ti indirizzerò per la via della Sapienza » (Prov. IV, 11). Io t’insegnerò a prender sapore nella cognizione di Dio; che tanto appunto, per detto di S. Bernardo e di S. Bonaventura, vuol dire nella sacra Scrittura la parola sapienza, una « saporita cognizione di Dio ». – Or io t’insegnerò, dice lo Spirito Santo, la strada, per la quale tu venga ad aver sapore e gusto in conoscere, amare e servir Dio. « Ti condurrò nei sentieri della giustizia; e quando in essi sarai entrato, non troverai angustia ai tuoi passi, né inciampo al tuo corso » (Prov. IV, 11-12). Ti condurrò prima per i sentieri stretti della virtù, i quali chiama così, perché la virtù nei principi ci si rende difficile, per la nostra mala inclinazione, e ci pare uno stretto sentiero; ma passate che avrai quelle prime strettezze camminerai alla larga molto gustosamente e a piacer tuo; ed anche correrai senza inciampare, né troverai difficoltà in cosa alcuna. Lo Spirito Santo c’insegna elegantemente con questa metafora che, quantunque nei principi sentiamo difficoltà in questa strada della virtù e della perfezione, non abbiamo per questo da perderci d’animo; perché di poi, camminando avanti in questa strada, non solo non avremo difficoltà, ma vi troveremo molto gusto e grande contentezza ed allegrezza, e verremo a dire: « Io faticai per un poco ed ho trovato molto riposo » (Eccli. LI, 35). Lo stesso si replica nel capo sesto dell’Ecclesiastico: « Con un po’ di lavoro nella sua cultura ben presto ne godrai i frutti » (Eccli. VI, 20). E il glorioso Apostolo S. Paolo c’insegna anch’egli questo medesimo: « Ora qualunque disciplina sembra pel presente apportatrice non di gaudio, ma di tristezza: dopo però rende un tranquillo frutto di giustizia a coloro che in essa si sono esercitati » (Hebr. XII, 11). E così vediamo in tutte le arti e scienze. Quanto difficile non si rende ad un giovinetto lo studio nel principio! Molte volte bisogna condurvelo per forza, e si suol dire che l’apprender le lettere costa sangue; ma dopo con l’esercizio, quando va facendo profitto e imparando qualche cosa, gusta tanto dello studio, che alle volte tutto il suo trattenimento e la sua ricreazione è lo starsene studiando. Or così avviene ancora nella via della virtù e della perfezione.

3. S. Bernardo va dichiarando molto bene questa cosa sopra quelle parole di Giobbe: « Quelle cose che io per l’avanti non avrei voluto toccare, sono adesso nelle mie strettezze mio cibo » (Iob. VI, 7) . Vuoi tu sapere, dice egli, quanto fa l’esercizio e la consuetudine, e quanta forza ha! Al principio ti parrà una cosa molto difficile e insopportabile; ma se ti assuefai ad essa, coll’andar del tempo non ti parrà tanto difficile né tanto pesante: da lì a poco ti parrà cosa leggiera e facile; indi ad un altro poco non la sentirai più affatto: e in breve non solo non la sentirai più, ma ti darà ella tanto gusto e tanta contentezza, che potrai dire con Giobbe: Quello che prima l’anima mia aborriva, e non lo poteva vedere, ma mi cagionava orrore, adesso è mio cibo e nutrimento molto dolce e saporito (S. Bern. De cons. ad Eug. L. 1, c. 2)- Di maniera che ogni cosa riesce secondo che la persona si assuefà ad essa. Perciò a te riesce difficile l’osservar le addizioni e gl’indirizzi dell’orazione e dell’esame, perché vi sei poco assuefatto: perciò hai tanta difficoltà nel fissare e tener raccolta la tua immaginativa, acciocché non se ne scorra ove vuole subito che ti svegli e nel tempo dell’orazione, perché non hai fatto mai sforzo, né ti sei avvezzo a fissarla e a tenerla a freno, affinché non trascorra a pensar in altro che in quello che hai da meditare. Per questo ti cagiona tristezza e malinconia il silenzio e il ritiramento, perché poco l’usi. « La cella, dice il devoto Tomaso da Kempis, se ci si abita di continuo, riesce dolce; se male la si custodisce, ingenera noia » (De Imit. Chr. l. I, c. 20, 5) . Avvezzati tu adunque a startene in essa continuamente, che ti diventerà soave e gioconda. Per questo riescono difficili al secolare l’orazione e il digiuno, perché non vi si è assuefatto. E re Saul vestì Davide delle sue proprie armi, perché con quelle andasse a combattere col Filisteo; ma perché quegli non era avvezzo, non si poteva muovere con esse, e le lasciò: si assuefece poi alle armi, e con esse combatteva molto bene. – E quel che dico della virtù e del bene, dico anche del vizio e del male. Che se ti lasci trasportare dalla cattiva consuetudine, crescerà il male e piglierà forze maggiori; onde sarà poi più difficile il rimedio, e così te ne resterai tutta la tua vita. Oh se da principio tu ti fossi assuefatto a fare le cose bene, quanto ricco ti troveresti adesso e quanto contento, vedendo la virtù e il bene esserti ornai divenuti cotanto facili e soavi! Comincia ora ad assuefarti bene; che è sempre meglio tardi, che mai. Piglia a petto il far bene coteste cose ordinarie che fai, poiché tanto importa il farle bene, ed applica a questo, se sarà di bisogno, l’esame particolare, che sarà dei buoni esami che tu possa fare; e in questa maniera ti si andrà rendendo facile e soave il farle e il farle bene.

CAPO VIII.

Quanto importi al religioso il non allentare nella virtù.

1. Difficile dalla tiepidezza tornare al fervore. 2. Stato infelicedel tiepido. — 3. Diventa infermo con quello onde dovrebbeconservarsi sano. — 4. Rimedio.

1. Da quello che si è detto si verrà a conoscere assai bene, quanto importi al religioso il conservarsi nella devozione, l’aver sempre fervore negli esercizi della religione e il non lasciarsi cadere in tiepidezza, in lentezza e in rilassatezza; perché gli sarà di poi molto difficile l’uscire da essa. Potrà ben fare Iddio che ritorni dopo a vita infervorata e perfetta; ma questo sarà quasi come un miracolo. Dice questa cosa molto bene S. Bernardo, scrivendo ad un certo Riccardo, abate Fontanense, e ai suoi religiosi, coi quali aveva Dio fatto questo miracolo, che, avendo quelli menata sino a quell’ora una qualità di vita tiepida, lenta e rilassata, li aveva cangiati e trasferiti ad una molto infervorata e perfetta. Maravigliandosene e rallegrandosene assai, e congratulandosene con essi il Santo, dice cosi: « Qui vi è il dito di Dio: chi mi concederà che io colà mi trasferisca e veda, come un altro Mosè, questa prodigiosa visione? » Perché non è cosa meno meravigliosa questa che quella che vide Mosè nel roveto che bruciava e non si consumava. « È cosararissima e molto straordinaria il veder passar uno avanti e trascendere quel grado nel quale una volta si è fissato nella religione. Più facil cosa sarà ritrovare molti secolari, i quali dalla mala vita si convertano alla buona, che incontrarsi in un religioso, il quale da vita tiepida, lenta e rimessa passi a vita migliore » (S. Bern. Ep. 96; M. PL. V. 182, col. 22). E la ragione di ciò è perché i secolari non hanno i rimedi tanto continui quanto i religiosi; e così quando odono una buona predica, o vedono la repentina e disgraziata morte di un qualche vicino od amico, quella novità cagiona in essi spavento ed ammirazione, e li muove a mutare e ad emendare la loro vita. Ma il religioso, che ha questi rimedi tanto famigliari, tanta frequenza di Sacramenti, tante esortazioni spirituali, tanto esercizio di meditar le cose di Dio e di trattar della morte, del giudizio, dell’inferno, della gloria; se con tutto ciò se ne sta tiepido, lento e rimesso, che speranza si può avere che sia per mutar vita, essendo che già ha fatto l’orecchio a queste cose? E così quello che avrebbe da aiutarlo e muoverlo, e quello che suol muovere altri, non muove lui, né gli fa impressione alcuna.

2. Questa è anche la ragione di quella sentenza tanto celebre del glorioso S. Agostino: « Da che cominciai a servir Dio, siccome non ho conosciuti altri migliori di quelli che hanno fatto profitto nella religione; così non ho conosciuti altri peggiori di quelli che in essa sono caduti ». – S. Bernardo dice che di costoro, che sono caduti e che hanno mancato nella religione, molto pochi ritornano allo stato e grado di prima; ma più tosto vanno peggiorando (S. Aug. Ep. ad Cler. Et pleb. Hipon n. 9). Sopra dei quali, dice egli, piange il profeta Geremia: « Come mai si è oscurato l’oro! il suo bel colore si è cangiato? Quelli che erano stati allevati nella porpora, hanno brancicato lo sterco » (S. Bern. Serm. 3 in fest. App. Petri et Pauli, n. 2). Quelli cioè che erano tanto favoriti e accarezzati da Dio nell’orazione, e dei quali tutto il trattare e conversare era in cielo, si sono ridotti ad abbracciare lo sterco e a sguazzare nel fango e nelle pozzanghere.

3. Sicché, parlando secondo quello che ordinariamente accade, poco buona speranza si può avere di quelli che cominciano a dar indietro e a diventar cattivi nella religione. Cosa che ci dovrebbe cagionare grandissimo terrore. E la ragione di ciò è quella che abbiamo toccata; perché questi tali cadono infermi con le stesse medicine e rimedi, coi quali dovrebbero migliorare e guarire. Or se con quello con cui altri migliorano e guariscono, essi ammalano e peggiorano, che speranza si può avere della loro salute? L’infermo, nel quale non fanno operazione alcuna le medicine, ma più tosto si sente star peggio con esse, si può ben dare per disperato e spedito. Perciò facciamo tanto caso del peccato e della caduta di un religioso, e ne abbiamo tanta paura; mentre nei secolari non ne concepiamo tanto orrore. Quando il medico vede in una persona infermicela e debole uno svenimento, ovvero una gran debolezza di polso, non se ne piglia molto fastidio; perché quella cosa non è stravagante rispetto all’ordinaria disposizione di colui: ma quando vede una cosa simile in una persona molto sana e robusta, lo tiene per molto mal segno; perché tale accidente non può procedere se non da qualche umor maligno predominante, pronostico di morte o d’infermità molto grave. Così avviene nel caso nostro. Se un secolare cade in peccati, questi non sono casi molto disusati ed insoliti in quella vita tanto trascurata di chi si confessa una volta l’anno e di chi sta in mezzo a tante occasioni, che a tal vita lo portano; ma nel religioso, sostenuto da tanta frequenza di Sacramenti, da tanta orazione e da tanti santi esercizi, quando viene a cadere, è segno di virtù molto scaduta e d’infermità grave; onde v’è ragione di temere assai.

4. Non dico però questo, dice S. Bernardo (S. Bern. loc. cit. n. 3), perché nella disgrazia di qualche caduta ti abbia da disperare, specialmente se pensi a subito rialzarti; poiché quanto più lo differirai, tanto più si renderà difficile; ma lo dico acciocché non pecchi, acciocché non cada e acciocché non ti rallenti. Ma se alcuno cadesse, abbiamo un buono avvocato in Gesù Cristo, il quale può quello che non possiamo noi. «Figliuolini miei, scrivo a voi queste cose affinchè non picchiate. Che se alcuno avrà peccato, abbiamo nostro avvocato presso del Padre Gesù Cristo giusto » (1Joan., II, 1). Perciò nessuno si disperi, perché se si converte a Dio di cuore, senza dubbio conseguirà misericordia. Se l’Apostolo S. Pietro, dopo aver seguitato tanto tempo la scuola di Cristo ed essere stato tanto suo favorito, cadde sì gravemente, e dopo così grave caduta, come fu negare il suo Signore e Maestro, ritornò a tanto alto ed eminente stato; chi si dispererà? Peccasti tu colà nel secolo, dice S. Bernardo, più forse che 8. Paolo? Hai tu peccato qui nella religione più forse che S. Pietro? Or questi, perché si pentirono e fecero penitenza, non solo ottennero perdono, ma anche una santità e perfezione molto alta. Fa tu ancora cosi, e potrai ritornare non solo allo stato di prima, ma anche a perfezione molto maggiore.

CAPO IX.

Quanto importi ai novizi il valersi del tempo del noviziato e l’assuefarsi in esso a far bene; e come debbono esser fatti gli esercizi della religione.

1. Due ragioni di questa importanza. — 2. Quale in noviziato tale di poi. — 3. Difficile a vincere una passione invecchiata. — 4. Inganno di chi differisce l’emenda. — 5. Dalla buona educazione dei novizi dipende tutto  il bene della religione. — 6. Vantaggio di chi si dà alla virtù da giovane. — 7. Esempio.

1. Da quello che si è detto possiamo raccogliere per i novizi quanto importi a loro di valersi bene del tempo del noviziato e l’assuefarsi in esso a far gli esercizi della religione ben fatti: e questo potrà ancora servire per tutti quelli che cominciano a camminare per la via della virtù. La prima regola del Maestro dei novizi, che abbiamo nella Compagnia, ce lo dichiara molto bene e con poche parole, le quali non solo parlano a noi altri, ma anche a tutti i religiosi. « Persuadasi il Maestro dei novizi essergli stata commessa una cosa di molto grande importanza », dice detta regola, e ne rende due ragioni molto sostanziali, acciocché un tal Maestro apra gli occhi e conosca di quanto peso e momento è quel carico che ha sulle spalle. La prima è « perché da questa istituzione e prima educazione dei novizi dipende in maggior parte tutto il loro profitto per l’avvenire » : la seconda, perché in questa sta riposto il maggior capitale, essendo in essa « fondata tutta la speranza della Compagnia », e quindi dipende il benessere della religione (Reg. I Mag. Nov.). E per discendere a dichiarare più in particolare queste due ragioni, dico primieramente, che da questa prima instituzione e dalla positura nella quale uno si metterà nel noviziato, dipende, comunemente parlando, ogni suo o guadagno o scapito per l’avvenire. Se nel tempo del noviziato, come dicevamo nel capo antecedente, cammina uno tiepidamente e negligentemente nel suo profitto spirituale, tiepido se ne resterà sempre, senza far maggior frutto. Non occorre pensare che dopo, generalmente parlando, sia per camminare con maggior diligenza e fervore; perché v’è poca ragione per credere che dopo vi sia per essere questa mutazione e questo miglioramento; mentre ve ne sono molte per temere che non vi sarà.

2. Acciocché si possa veder meglio quello che dico, andiamo un poco parlando particolarmente col novizio, ponderando le ragioni e convincendolo con esse. Ora che è il tempo del noviziato, hai molto tempo per attendere al solo tuo profitto spirituale, e hai molti mezzi che in esso ti aiutano, perché a questo solamente attendono i Superiori, e questo è il principale ufficio loro. Ora hai molti esempi di tanti i quali non si occupano in altro che in questo; ed è cosa che dà grande animo e grande lena lo stare fra persone che non trattano d’altro, e il vedere che gli altri camminano avanti; sicché per pigro che uno sia, è come necessitato ad uscir di pigrizia. Ora hai il cuore sgombrato e libero da ogni altra cosa, e che pare desideroso della virtù; non hai occasione alcuna che ti dia disturbo né impedimento, ma molte che ti aiutano. Ora, se adesso che stai qui solamente per questo e non hai altro che fare, non attendi a far profitto e a stabilire per tuo capitale la virtù; che sarà, quando il tuo cuore si trovi imbarazzato e diviso in mille parti? Se adesso che stai tanto disoccupato e hai tante comodità e aiuti, non fai bene la tua orazione e i tuoi esami, né usi diligenza in osservare le tue addizioni e in far bene gli altri esercizi spirituali; che sarà quando ti trovi, con mille pensieri e sollecitudini di studi, e poi di negozi, di confessioni e di prediche? Se adesso con tanti ragionamenti ed esortazioni spirituali e con tanti esempi e stimoli non fai profitto; che sarà quando abbia occasioni e impedimenti che ti disturbino? Se adesso, nel principio della tua conversione, quando la novità delle cose dovrebbe cagionare in te maggiore divozione e fervore, te ne stai tiepido; che sarà poi quando ti trovi aver già fatto l’orecchio a tutto quello che ti potesse muovere ed aiutare? Di più, se adesso che la passione comincia appena a germogliare e la mala inclinazione non ha ancor forza, per essere nei suoi principi, non ti basta l’animo di farle resistenza, per la difficoltà che vi senti; come resisterai ad essa e la vincerai dopo, quando essa si sia fortemente radicata e abbia prese forze colla consuetudine?

3. Dichiarava S. Doroteo questa cosa con un esempio, che era solito raccontare di uno di quei Padri antichi. Stava questi coi suoi discepoli in una campagna piena di cipressi d’ogni sorta, alcuni grandi, altri piccoli, altri mezzani; e comandò ad uno dei suoi discepoli che sradicasse uno di quei cipressi; il quale, avendolo tirato, si svelse subito, perché era piccolo. Indi gli disse: Sradica ancora quell’altro, il quale era un po’ più grandicello; e lo sradicò, ma con maggior sforzo e fatica e con ambedue le mani. Per il terzo ebbe necessità di compagno: ma il quarto non lo poterono svellere tutti insieme. Allora il vecchio disse loro: Così sono le nostre passioni: nel principio, quando non sono ancora radicate, è facile estirparle; basta per farlo ogni poca forza che vi si metta: ma se mai avvenga che gettino profonde radici col lasciarle invecchiare, allora l’estirparle sarà molto difficile: gran forza sarete in necessità di mettervi, e ancora non so se vi riuscirete. (S. Doroth. Doct. 11, n.3)

4. Si vedrà quindi quanto grande inganno e quanto grave tentazione è il differire uno il suo profitto, e pensare che dopo si mortificherà e si vincerà in quelle cose, nelle quali adesso non gli basta l’animo di mortificarsi e di vincersi per la difficoltà che vi sente. Se quando la difficoltà è minore non ti basta l’animo di combattere contro di essa, come ti basterà quando sia maggiore? Se adesso, mentre la tua passione è un piccolo leoncino, contro esso sei sì codardo; che sarà quando sia cresciuta e fatta una grande e fiera bestia? Resta dunque persuaso che se adesso sarai tiepido e lento, tale sarai ancor dopo. Se adesso non sarai buon novizio e buono scolaro devoto e spirituale, non sarai dopo né buon veterano né buon operaio nella vigna del Signore. Se adesso sarai negligente nell’ubbidienza, o nell’osservanza delle regole, molto più negligente sarai per l’avvenire. Se adesso sarai trascurato negli esercizi spirituali e li farai malamente e a rappezzi, rappezzatore te ne resterai tutta la tua vita. Tutto il punto sta nella forma la quale adesso tu prendi. – Dicesi che nel mischiar l’acqua colla farina sta la facilità o la difficoltà del maneggiare e far bene la pasta. – Per questo S. Bonaventura dice: « Quella formazione, che uno prende da principio, a stento la smette. Chi sul bel principio della nuova maniera di vivere trascura la disciplina, difficilmente in seguito vi si adatta » (S. Bonav. In spec. disc. prol. N. 1). È proverbio questo, ed è proverbio dello Spirito Santo. « Il giovinetto, dice egli per bocca di Salomone, presa che ha la sua strada, non se ne allontanerà nemmeno quando sarà invecchiato » (Prov. XXII, 5). E perciò venne a dire S. Giovanni Climaco, che è cosa molto pericolosa e molto da temere che uno cominci tiepidamente e lentamente; perché, dice, è indizio manifesto della futura caduta (S. Io. Clim.: Scal. Parad. Grad. 1) . Per questo dunque è di somma importanza l’assuefarsi uno da principio alla virtù e a far bene gli esercizi spirituali. E così ce ne avverte lo Spirito Santo per mezzo del profeta Geremia: « Buona cosa è per l’uomo l’aver portato il giogo fin dalla sua adolescenza » (Ger., Thr. III, 27) perché sotto questo durerà poi sempre e gli sarà facile la virtù ed il bene: e quando no, la cosa gli riuscirà molto difficile, «Quello che tu non radunasti nella tua gioventù, come lo troverai nella tua vecchiezza? » ci domanda ancora lo stesso Spirito Santo nell’Ecclesiastico (Eccli. XXV, 5).

5. Da questa prima ragione viene in conseguenza la seconda: perché se tutto il profitto del religioso pel tempo avvenire dipende dalla prima sua istituzione, tutto il benessere della religione dipende altresì da essa. Poiché la religione non consiste nelle mura delle case o delle chiese, ma nell’adunanza dei religiosi: e quelli che stanno nel noviziato sono quelli che hanno successivamente a formare tutta la religione. Per questo la Compagnia non si contentò d’istituire i Seminari dei Collegi, nei quali si allevano i nostri in lettere e in virtù insieme; ma istituì a parte i Seminari di sola virtù, nei quali si attende solamente all’annegazione e mortificazione di se stessi, e all’esercizio delle virtù vere e sode, come a fondamento di più importanza che non sono le lettere. A questo servono le Case di Probazione, le quali, come dice il nostro Padre S. Francesco Borgia, sono per i novizi come una Betlemme, che s’interpreta « casa di pane »; perché quivi si fanno i biscotti e le provvigioni per la navigazione e per i pericoli grandi, incontro ai quali dobbiamo andare (S. Fr. Borgia. Epist. ad Soc.). Questo è il nostro agosto, questo è il tempo dell’abbondanza, questi sono gli anni della fertilità, nei quali avete da fare la provvigione delle vettovaglie e metter da parte per gli anni della carestia e della sterilità, come fece Giuseppe. Oh se quelli d’Egitto l’avessero preveduto e, con accorgersi della cosa, vi avessero fatta riflessione; di sicuro non avrebbero così facilmente lasciato uscire dalle case loro quello che Giuseppe radunava e riponeva nei granai Oh se ti accorgessi quanto t’importa l’uscire ben provveduto di vettovaglia dal noviziato, al certo non avresti desiderio d’uscire sì presto da esso, ma bensì dolore quando n’esci, considerando quanto poco provveduto vai di virtù e di mortificazione! E così il nostro Padre s. Francesco dice, che quelli i quali desiderano, o gustano d’uscire presto dal noviziato, mostrano difetto di cognizione e di non esser bene capacitati della necessità che hanno d’andare ben provveduti; e stimano poco la battaglia, poiché tanto poco temono l’uscire ad essa mal premuniti ed armati. – Oh quanto ricchi ed abbondanti di virtù si persuase il nostro Santo Padre che saremmo noi usciti dal noviziato. Così certamente lo presuppone egli nelle Costituzioni (Const. P. 4, c. 4, 1).Assegna due anni di prova e di esperimenti per questo, acciocché un novizio per tutto un tal tempo attenda al suo profitto, senza veder altri libri e senza far altro studio, che in quello che l’aiuta ad annegarsi maggiormente e a vieppiù crescere in virtù e perfezione. E poi, supponendo che il novizio esca dal noviziato tanto spirituale e infervorato, tanto amico della mortificazione e del ritiramento e tanto affezionato all’orazione e alle cose spirituali, che sia di bisogno ritenerlo; dà per avvertimento ai novizi, quando passano nei Collegi, che temprino i loro fervori durante il tempo degli studi, e che non facciano tante orazioni né tante mortificazioni; perché presuppone che la persona esca dal noviziato con tanto lume, con tanta cognizione di Dio e con tanto disprezzo del mondo, con tanta tenerezza di cuore e devozione, e tanto dal suo interno portata alle cose spirituali, che sia necessario andarla temperando con sì fatti avvertimenti. Procura tu dunque d’uscirne tale. Cava frutto da questo tempo tanto prezioso, che forse non ne avrai un altro tale in tutta la tua vita pel tuo profitto e per acquistare e radunare ricchezze spirituali. Non lo lasciar passare in vano e non ne perdere un punto. « Non ti privare di un buon giorno, e del buon dono non perdere nessuna parte » (Eccli. XIV, 14).

6. Una delle singolari grazie che il Signore fa a quelli che tira alla religione nella loro tenera età, e per la quale sono obbligati a ringraziarlo infinitamente, è perché allora è molto facile l’assuefarsi alla virtù e alla disciplina religiosa. L’albero, quando al principio è tenero, facilmente può essere raddrizzato, per farsi molto alto e bello; ma se si lascia crescere storto, più tosto che raddrizzarsi si romperà, e così se ne resterà per sempre. Nello stesso modo, quando uno tuttavia trovasi in età tenera, è facilmente raddrizzato e facilmente egli si applica al bene: e assuefacendosi a ciò da piccolo, vi va del continuo acquistando maggiore facilità, e così vi dura e persevera sempre. È gran vantaggio per una tintura l’essere fatta in lana, perché mai non smonta in colore. S. Girolamo dice: chi potrà mai rimettere nella sua bianchezza un panno tinto in porpora? Ed è del poeta Orazio quel detto che vaso uscito di fresco dalle mani del vasaio conserverà a lungo l’odore di quel liquore che per primo vi si pose dentro La divina Scrittura loda il re Giosia perché cominciò a servir Dio da fanciullo. « Essendo tuttora giovinetto cominciò a cercare il Dio di Davide suo padre » (II Paral.XXXIV, 2).

7. Racconta Umberto, uomo insigne e Maestro Generale dell’Ordine dei Predicatori, che un religioso dopo la sua morte apparve per alcune volte di notte molto bello e risplendente ad un altro religioso suo compagno, e che in una di queste, menandolo fuori della sua cella, gli mostrò un gran numero d’uomini vestiti di vesti bianche e molto risplendenti, i quali portando su le spalle alcune croci molto belle, con esse andavano processionalmente verso il cielo. Poco dopo gli fece vedere un’altra processione più vistosa e più risplendente della prima, nella quale ciascuno portava in mano, e non su le spalle come i precedenti, una croce molto ricca e molto bella. Poco appresso gli fece vedere un’altra terza processione, senza comparazione più vistosa delle precedenti, e le croci di quelli che andavano in questa processione superavano di gran lunga in bellezza quelle degli altri; e non le portavano essi su le spalle, né in mano, ma a ciascuno portava la sua croce un Angelo, che andava loro innanzi, acciocché essi allegri e gioiosi lo seguissero. Meravigliato il religioso di questa visione, ricercò il compagno, da cui gli era stata mostrata, che gliela dichiarasse; ed esso gliela dichiarò dicendo, che quelli che aveva veduti portare le croci su le spalle, erano quelli che già d’età matura erano entrati in religione; i secondi che le portavano in mano, erano quelli che vi erano entrati nell’adolescenza; e gli ultimi che andavano tanto allegri e leggiadri, erano quelli che da piccoli avevano abbracciata la vita religiosa.

(Fine.)

LA PERFEZIONE NELLE OPERAZIONI ORDINARIE (2)

LA PERFEZIONE NELLE OPERAZIONI ORDINARIE (2)

[P. Alfonso RODRIGUEZ S. J.: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane – S. E. I. Torino; rist. 1948]

TRATTATO II.

DELLA PERFEZIONE DELLE OPERAZIONI ORDINARIE (2)

CAPO IV.

D’un altro mezzo par far le opere bene che è farle come se non avessimo altro da fare.

1. Fa quel che fai. — 2. Arte del demonio per impedircelo.

1. Il terzo mezzo per far le cose bene è far ciascuna cosa come se non avessimo altro che fare. Far l’orazione, celebrare la santa Messa, dire il nostro Rosario, recitar le nostre ore come se non avessimo da far altra cosa; e così di tutto il resto. Nel mentre che stiamo occupati o in questa o in quella cosa, chi ci è alle spalle? chi ci rincorre? Non ci confondiamo dunque, né ci affrettiamo nelle nostre operazioni, né l’una c’impedisca l’altra; ma teniamoci sempre attenti a quella cosa che stiamo facendo di presente. Mentre facciamo orazione non pensiamo allo studio, né all’impiego, né al negozio; che questo non serve ad altro che ad impedir l’orazione e a non far bene né l’una né l’altra cosa, Tutto il rimanente del giorno serve per l’impiego, per lo studio, pel ministero. « Ogni cosa ha il suo tempo » e « basta a ciascun giorno il suo affanno » [Matth. VI, 34]. Questo è un mezzo tanto proprio e tanto ragionevole, che ancora i pagani, privi di fede, l’insegnavano, per trattar con maggior riverenza quelli che essi pensavano fossero dei, donde ebbe origine quell’antico proverbio: « Quelli che avranno da trattare con Dio, lo facciano sedendo » [Paul. Minut. In adag Plutarc.] e con attenzione e quiete, e non di passaggio e con trascuraggine. Plutarco, parlando della stima e riverenza con cui i sacerdoti del suo tempo stavano avanti ai creduti lor dei, dice che, mentre il sacerdote faceva il sacrificio, non cessava mai un trombettiere di gridare e dire ad alta voce queste parole: « Fa quello che fai »; sta con la mente fissa in cotesto affare, non ti divertire in altra cosa. Guarda bene al negozio che in quest’ora hai per le mani. Or questo è il mezzo che inculchiamo adesso, il procurar noi di stare tutti attenti nella cosa che facciamo, pigliandola a far di proposito e con sodezza, facendo ogni opera come se non avessimo altro che fare: « fa quello che fai ». Fissati in questo; metti tutta la tua cura e diligenza in cotesta cosa che ti è presente: licenzia per allora ogni altro pensiero di qualsiasi cosa; e a questo modo farai ogni cosa bene. Dicendo un filosofo: «Facciamo quello che ora preme » [Aristippus ex Æliano, 1, 14 hist.], intendeva dire che solamente abbiamo da stare attenti a quel che facciamo di presente, e non alle cose passate, né a quelle che han da venire. E apportava questa ragione: perché la cosa presente è quella che sola sta in mano nostra, e non la passata, né la futura; perché quella già passò, e così non sta più in nostra mano; e l’altra non sappiamo se verrà, Oh chi potesse ridursi a tal termine, e fosse tanto padrone di se stesso, dei suoi pensieri e delle sue immaginazioni, che non istesse mai fisso in altra cosa che in quella che sta facendo! Ma da un canto è tanta ristabilita del nostro cuore, e dall’altro è tanta la malizia e l’astuzia del demonio che, prevalendosi egli della nostra debolezza, ci reca pensieri e sollecitudini di quello che abbiam da far poi, per impedirci quello che di presente stiamo facendo.

2. Questa è una tentazione del nemico molto comune e molto pregiudiziale e nociva; perché con questo egli pretende ridurci a non far mai cosa ben fatta. A questo fine nell’orazione il demonio ti mette in capo pensieri del negozio, dello studio, dell’ufficio, e ti propone il modo da far bene quell’altra cosa, acciocché non faccia bene l’orazione nella quale stai di presente. E pur che questo gli riesca, non si cura punto di rappresentarti mille modi e maniere da poter di poi far bene l’altra cosa, perché non la fai adesso: ma quando poi sarai per farla, non gli mancherà qualche altra cosa da proporti, acciocché né anche quella tu abbia da far bene. E in questa maniera ci va ingannando, acciocché non facciamo bene cosa alcuna. « Non ci sono ignoti i disegni di lui » [2 Cor. II, 11] : gliele conosciamo ben tutte le sue astuzie. – Lascia stare le cose avvenire e non aver ora pensiero di esse; perché quantunque queste siano buone per altro tempo, non è bene pensarci adesso. E quando ti venga questa tentazione sotto colore che di poi non ti ricorderai di quell’altra cosa che allora ti si rappresenta; in questo medesimo vedrai che non è cosa che venga da Dio, ma tentazione del demonio; perché Dio non è amico di confusione, ma di pace, di quiete e d’ordine: e così quegli che ti toglie la quiete, la pace e l’ordine e concerto delle cose non è Dio, ma il demonio, il quale è amico di confusione e d’inquietudine. Scaccialo via e confida in Dio, che facendo tu quel che devi, Egli ti porgerà a suo tempo ciò che ti sarà spediente, e te lo porgerà con molto larga mano. E ancor che ti sovvenga una qualche buona ragione, o un buon punto, un bell’argomento, o il modo di scioglierlo, nel tempo degli esercizi spirituali, ributtalo, e credi pure che per far così non perderai niente, ma più tosto guadagnerai molto. S. Bonaventura dice: «La scienza che si lascia per la virtù, si ritrova di poi più compiutamente per mezzo della stessa virtù » [In pec. discipl.]. E il B. Giovanni D’Avila dice: Quando ti verrà nella mente qualche premuroso pensiero fuor di tempo, di’ pure: il mio Signore non mi comanda adesso niente di questo; e perciò non occorre che io vi pensi: quando il mio Signore me lo comanderà, allora v i penserò.

CAPO V.

D’un altro mezzo, che è far ogni operazione come se avesse ad esser l’ultima di nostra vita.

1. È mezzo suggerito dai Santi. — 2. Vantaggi per l’ora della morte. — 3. Disposti in ogni ora a morire, gran contrassegno d’essere in grazia. — 4. Pronto sempre a morire. — 5. Incerta è l’ora della morte. — 6. Astuzia del demonio.

1. Il quarto mezzo che danno i Santi per far le opere ben fatte, è il far ciascuna di esse come se quella avesse ad essere l’ultima di nostra vita. S. Bernardo, istruendo il religioso circa la maniera di portarsi bene nel far le opere sue, dice: « Ognuno s’interroghi in ciascuna sua operazione, e dica a se stesso: se or ora avessi da morire, faresti tu questo? lo faresti tu in questo modo? » E S. Basilio dice: « Abbi sempre dinanzi agii occhi tuoi l’ultimo tuo giorno. Quando ti alzerai al mattino, non riprometterti di arrivare alla sera; e quando alla sera poserai le stanche tue membra a riposare nel letto, non voler confidare di veder la luce del giorno dopo, affinché tu possa più facilmente astenerti da tutti i difetti » [S. Bas. Admon. Ad fil. Spir. C. 20] Il che del pari si legge nel libro dell’Imitazione di Cristo. « È mattina? Fa conto di non arrivare alla sera. È sera? Non osare di riprometterti la mattina. Sii sempre preparato. Vivi in modo che la morte non ti trovi impreparato mai. Molti muoiono di morte subitanea e improvvisa » [De imit. Chr. L. 1, c. 23-24]. Seneca pure, dopo aver invitato Lucilio a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, aggiunge: « Se Iddio ci darà il domani, riceviamolo contenti Chiunque ha detto (la sera innanzi): ho vissuto, sorge ogni mattino ad un nuovo guadagno ». Anche Orazio disse: « Pensa che ogni giorno sia per te l’ultimo » [Sen. Ep. 12, n.2 – Horat. L. 1, ep. 4]. Questo è un mezzo molto efficace per far le cose bene. E così leggiamo di S. Antonio, che dava spesso questo ricordo ai suoi discepoli per inanimarli alla virtù e a fare le cose perfettamente. Se noi facessimo ciascuna cosa come se subito avessimo da morire e quella avesse da esser l’ultima, tutte certamente le faremmo d’altra maniera e con altra perfezione. O quanto devota Messa io direi o ascolterei se mi persuadessi che quella fosse l’ultima operazione della mia vita, e che non mi restasse più tempo da operare né da meritare! Oh quanto attenta e fervente orazione io farei se sapessi che quella fosse l’ultima e che non vi avesse da esser più tempo per chiedere a Dio misericordia e perdono dei miei peccati! Perciò dice bene quel proverbio: « Se vuoi imparar ad orare, mettiti in mare ». Allora quando sta la morte alla gola si fa orazione d’altra maniera.

2. Raccontasi d’un religioso sacerdote servo di Dio, che soleva confessarsi ogni giorno per dir Messa e che finalmente cadde infermo; e vedendo il suo Superiore che l’infermità era mortale, gli disse: Padre, voi state molto male, confessatevi per morire. Al che rispose l’infermo, alzando le mani al cielo: Benedetto e lodato sia il Signore, che già sono trenta e più anni che mi son confessato ogni giorno come se subito avessi avuto a morire: onde non avrò ora bisogno d’altro che di riconciliarmi come per dir Messa. Questi camminava bene; e così abbiamo da camminare noi altri ancora. Ogni volta abbiamo da confessarci, come se allora fossimo per morire; al modo stesso abbiamo da comunicarci, e così abbiamo da fare in tutte le altre nostre operazioni: che con questo nell’ora della morte non vi sarà di bisogno che ci sia detto, confessatevi per morire, ma riconciliatevi come per comunicarvi. – Se camminassimo in questa maniera, la morte ci troverebbe sempre ben preparati, né mai ci coglierebbe all’improvviso. E così questa è la miglior orazione e la miglior devozione per non morire di morte subitanea. « Beato quel servo, cui il padrone, venendo, troverà diportarsi così » [Mattg. XXIV, 46], dice Cristo nostro Redentore. Tal vita menava il santo Giobbe. « In tutti i giorni di mia vita sto aspettando che venga il mio cangiamento » [Job. XIV, 14], diceva egli; ogni giorno fo conto che sia l’ultimo per me. «Mi chiamerai, ed io ti risponderò » [Ib. V, 15] . Chiamatemi, o Signore, in quel giorno che più vi piace, che io sto disposto e preparato per rispondervi e per venir pronto alla vostra chiamata in qualsiasi tempo ed ora che vi piacerà di chiamarmi.

3. Uno dei buoni contrassegni che vi sono per conoscere se una persona cammini bene e drittamente con Dio è appunto questo, se sta ella sempre preparata e all’ordine per rispondere a Dio quando a sé la chiamasse in qualsivoglia tempo e in qualsivoglia azione che stia facendo. Non parlo di certezza infallibile, che questa non si può avere nella vita presente senza particolare rivelazione; ma di congetture probabili e morali, che è quanto si può avere, Una di queste congetture molto grande e molto principale si è il considerare, se ti contenteresti che la morte ti cogliesse in questo tempo, in questa congiuntura, in quest’azione che stai facendo. – Considera se stai disposto come il santo Giobbe per rispondere a Dio, se in questo punto egli a sé ti chiamasse. Prendi spesso di te questa prova e fa a te stesso questa interrogazione: Se adesso venisse la morte, l’avresti tu acaro? – Quando io mi metto a pensare e a far a me medesimo questa domanda, se trovo che avrei caro che adesso, in questo punto e in quest’azione che io fo venisse la morte, posso giudicare di camminar bene, e restarmene con qualche soddisfazione; ma quando trovassi che non vorrei che venisse la morte adesso, né che mi cogliesse in quest’ufficio, in questa occupazione, né in questa congiuntura; ma che tardasse un poco, sin che avessero fine questi disegni che ora ho per capo, i quali mi tengono distratto; questo non è buon segno, anzi ho a tenerlo per chiaro indizio che son trascurato e negligente in quel che tocca il mio profitto e che non cammino come si conviene a un buon religioso. Perché, come dice il libro dell’Imitazione, « se tu avessi buona coscienza, non temeresti molto la morte » [De imit. Chr. l. 1, c.23, n.1]; poiché la temi tanto, è segno che ti rimorde in qualche cosa la tua coscienza, e che non puoi render buon conto di te. Meglio è temere il peccato che la morte. Il maggiordomo che tiene ben registrati i suoi conti, sta desiderando che gli siano riveduti; ma chi li tiene imbrogliati, sta con timore che gli siano domandati, e va ciò schivando e dilungando quanto mai può.

4. Il nostro Padre S. Francesco Borgia diceva che il buon esercizio del religioso ha da essere il prepararsi alla morte ventiquattro volte il giorno, e che allora stava egli bene quando poteva ogni giorno dire: « I o muoio ogni giorno » [Ribadeneira, Vita di s. Fr. Borgia l. 4]. Entri dunque ciascuno a far i conti con se medesimo, e con questo si esamini spesso. E se vi pare di non trovarvi ancora in buona congiuntura per morire, procurate di mettervi ben all’ordine per questo passo, e fate conto di chiedere al Signore come alcuni giorni di vita di più per tal effetto, e che Egli ve li conceda; e valetevi bene di questo tempo, procurando di vivere in esso come se immediatamente dopo aveste da morire. Beato chi vive qual desidera esser trovato nell’ora della morte!

5. Questa è una delle più utili cose che siamo soliti di predicare ai prossimi; cioè che vivano quali desiderano esser trovati nel punto della morte, e che non differiscano la conversione e la penitenza loro ad altro tempo; poiché, al dire di quel sant’uomo sopracitato, « il domani è incerto: e che sai tu, se avrai il giorno di domani? » [De Imit Chr. l. 1, c. 23,1]. San Gregorio dice: « Il Signore, il quale ha promesso il perdono al peccatore se farà penitenza, non gli ha mai promesso il giorno di domani » [S. Greg. Hom. 12 in Evang.]. Si suol dire che non v’è cosa più certa della morte, né più incerta dell’ora di essa, Ma Cristo nostra Redentore dice più ancora di questo, come leggiamo nel Vangelo: « E voi state preparati, perché nell’ora che meno pensate, verrà il Figliuolo dell’uomo » [Luc. XII, 40]. Che, sebbene va parlando del giorno del giudizio, possiamo con ragione intenderlo anche dell’ora della morte; perché in essa si farà il giudizio particolare di ciascuno; e quel che quivi si sentenzierà, non sarà alterato, ma confermato nel giudizio universale. – Dice dunque Cristo nostro Redentore, che non solo quest’ora è incerta, e che non sai quando essa abbia da venire, ma che verrà quando tu meno ci pensi, e forse quando più starai spensierato: che è quello che dice San Paolo: « Verrà come un ladro di notte » [1 Tess. V, 2]; e S. Giovanni nell’Apocalisse: « Verrò a te come un ladro, né saprai in quale ora verrò a te » [Apoc. III, 3] . Il ladro non avvisa, anzi aspetta che tutti stiano più spensierati ed anche addormentati. E così con questa medesima similitudine Cristo nostro Redentore c’insegna come ci abbiamo da portare acciocché la morte con subitaneo assalto non ci colga sprovveduti. « Or sappiate che se al padre di famiglia fosse noto a che ora fosse per venire il ladro, veglierebbe senza dubbio e non permetterebbe che gli fosse sforzata la casa » [Luc. XII, 39]. Se il padrone di casa sapesse l’ora nella quale ha da venire il ladro, basterebbe che stesse avvertito per tal ora: ma perché non sa l’ora, né se sarà o nell’entrar della notte, o a mezza notte, o la mattina; sta sempre vigilante, acciocché non gli sia scalata e rubata la casa. Or in questo modo, dice il Signore, avete da star preparati e vigilanti voi altri sempre e in ogni tempo per l’ora della morte, poiché ha da venire quando meno ve la pensate. – Notano su questo i Santi, che è stata grande misericordia del Signore l’averci lasciata incerta l’ora della morte, acciocché stiamo sempre preparati ed all’ordine per essa. Se infatti gli uomini ne sapessero il quando, una tal sicurezza sarebbe loro occasione di grande trascuraggine e negligenza e di molti peccati. Se con tutto che ne siano incerti e non sappiano la loro ora, vivono tanto trascuratamente, che farebbero se sapessero di certo, non aver a morir così presto? S. Bonaventura dice che il Signore volle che fossimo sempre incerti dell’ora della morte, acciocché facessimo poco conto delle cose temporali, né sì alla balorda c’immergessimo in esse; che ad ogni ora e ad ogni momento le possiamo perdere. Come appunto disse Dio a quel ricco avaro, riferito in S. Luca: « Stolto, in questa notte sarà ridomandata a te l’anima tua: e quel che hai messo da parte, di chi sarà? » [Luc. XII, 20]. E di più perché, avvertiti di questo, mettessimo il nostro cuore in quelle ricchezze che non avranno mai fine.

6. Sarà dunque ragionevole che quello che predichiamo ad altri lo pigliamo anche per noi medesimi, come ce ne fa avvertiti l’Apostolo: « Tu adunque, che insegni ad altri, non insegni a te stesso » [Rom. II, 21]. Una delle più comuni tentazioni, con cui il demonio inganna gli uomini, è il tener loro nascosta questa verità tanto chiara e manifesta, levandola loro dagli occhi e facendo che se ne scordino e non vi pensino, e dando loro a credere che vi è assai tempo per l’uno e per l’altro, e che di poi si emenderanno e vivranno d’altra maniera. E con questa medesima tentazione inganna anche molti religiosi, facendo che differiscano il profitto loro ad altro tempo. Quando saran finiti questi studi, quando io esca da quest’ufficio, concluso che sia questo negozio, ordinerò i miei esercizi spirituali, le mie penitenze, le mie mortificazioni. Misero te! e se tu muori negli studi, che ti serviranno le lettere, per cagion delle quali ti sarai allentato nella virtù, se non di paglia e di fieno, come dice S. Paolo [1 Cor. III, 12], per ardere maggiormente nell’altra vita? Vagliamoci dunque di quel che diciamo ad altri: « Medico, cura te stesso » [Luc. IV, 23]. Medica te stesso ancora con cotesto rimedio, poiché ne hai bisogno.

CAPO VI.

D’un altro mezzo per fare bene le opere nostre che è non far conto se non del giorno d’oggi.

1. Vivere giorno per giorno. — 2. Esempio d’un monaco tentatodi gola. — 3. Non avrebbe bisogno di questo mezzo chiamasse Dio davvero.

1. Il quinto mezzo che ci aiuterà e animerà grandemente a far le cose ordinarie ben fatte e con perfezione è, che non facciamo conto se non del giorno d’oggi. E sebbene pare che questo mezzo non sia differente dal passato, differisce nondimeno da quello, come si vedrà nell’esporlo che faremo. Una delle cose che suole far perdere d’animo ed allentare e rilassar molti nella strada della virtù, e una delle tentazioni con le quali il demonio lo va procurando, è il rappresentar loro: E come sarà possibile che per tanti anni tu possa camminare con tanta circospezione, con tanta puntualità, con tanta esattezza nelle cose, mortificandoti sempre, raffrenandoti, negando il tuo gusto e soffocando la tua volontà in tutte le cose! – Eciò rappresenta il demonio come cosa al sommo difficile; e che questa non è vita in cui poterla durar tanto a lungo. Così leggiamo del nostro S. Padre Ignazio l [Ribad. Vita S. P. Ign., l. 1 c. 6], che quando si ritirò in Manresa a far penitenza, tra le altre tentazioni, con le quali il demonio ivi l’assali, questa fu una: Come è possibile che tu possa tollerare una vita così aspra come è questa lo spazio di settantanni, che ancora ti restano avivere? – Or questo mezzo è per diritto volto a combattere questa tentazione. Tu non hai da far conto di molti anni, né di molti giorni, ma solamente del giorno d’oggi. Questo è un mezzo molto proporzionato alla debolezza e fragilità nostra; perché chi sarà quegli che per un giorno non si faccia animo e forza per viver bene e per far quanto può dal canto suo, acciocché le cose riescan ben fatte? Un modo è questo simile appunto aquello con cui il nostro Santo Padre ci propone di fare l’esame particolare, nel quale anche di mezzo in mezzo giorno ci comanda che facciamo i nostri proponimenti: da questo punto sino all’ora di pranzo almeno voglio usare modestia, ovvero osservare il silenzio, o esercitare la pazienza. In questa maniera si rende facile e tollerabile quel che forse ti si renderebbe molto difficile se lo pigliassi assolutamente, come sarebbe considerando che mai non avessi da parlare, ovvero che sempre avessi da star raffrenato e molto composto e ritirato.

2. Di questo mezzo si valeva quel monaco, di cui nelle Vite dei Padri si legge ch’era molto combattuto dalla gola, sorprendendolo la mattina a buon’ora tanta fame e tanta languidezza, che gli era intollerabile. Egli per non trasgredire la santa usanza dei monaci, di non mangiare se non tre ore dopo il mezzo giorno, usava questa industria: la mattina a buon’ora diceva fra se stesso: per molta fame che tu abbia, che gran cosa è aspettare sino all’ora di terza? allora potrai mangiare. Giunta l’ora di terza, diceva: in verità che mi ho da sforzare e non ho da mangiare sin all’ora di sesta; che, come ho potuto aspettare sin all’ora di terza, così potrò anche farlo sino a quest’altra. All’ora di sesta buttava il pane nell’acqua e diceva: Mentre s’inzuppa il pane, bisogna aspettare sino all’ora di nona; che, già che ho aspettato sin adesso, non voglio per due o tre ore di più trasgredir l’usanza dei monaci. Arrivata l’ora di nona, mangiava, dopo aver dette le sue orazioni. Fece così per lo spazio di molti giorni, ingannando se stesso con questi certi termini, sin a tanto che un giorno, sedendosi a mangiare a ora di nona, vide alzarsi un fumo dalla sportello, nella quale teneva il pane, e uscirsene per la finestra della cella, che dovette esser lo spirito maligno che lo tentava. E per l’avvenire non sentì mai più quella fame né quella falsa mancanza, come prima soleva; tanto che alle volte se ne stava due giorni interi senza mangiare e senza sentirne fastidio. Così gli fu pagata dal Signore la vittoria, che egli aveva riportata del suo nemico, e la guerra che aveva sofferta.

3. Perciò abbiamo detto, e non senza ragione, che questo mezzo è molto proporzionato alla debolezza e fragilità nostra; perché finalmente, come infermi e deboli, ci va questo confortando a poco a poco, acciocché in questo modo non ci spaventi il travaglio e la fatica. Ma se noi altri fossimo forti e infervorati e portassimo grande amore a Dio, non avremmo bisogno d’essere confortati in questa maniera, tanto poco a poco, con andarcisi nascondendo il travaglio e la difficoltà; perché al vero servo di Dio niuna impressione fa il molto tempo, né i molti anni; anzi ogni tempo gli par breve per servir Dio, ed ogni travaglio e fatica assai piccola. E così non v’è bisogno che venga in questa maniera animato e fortificato a poco a poco. S. Bernardo lo dice molto bene: Il vero giusto non è come il mercenario, o lavorante a giornate, che s’obbliga a servire per un giorno, o per un mese, o per un anno, e non più; ma per sempre, senza limite e senza termine, si offerisce a servir Dio con gran volontà! [S. Bern.: Epist. 253 ad Abb. Guar. N. 2]. Ascolta, dice, la voce del giusto, che esclama: « Non mi scorderò in eterno delle tue giustificazioni, perché per esse mi desti la vita … Inclinai il mio cuore ad eseguire eternamente le tue giustificazioni » [Ps. CXVIII, 93 e 118] . « Quindi la sua giustizia non è cosa del momento, non dura per qualche tempo, ma rimane per tutti i secoli » [S. Bern. l. c.] . E perché si offerì e deliberò di servir Dio assolutamente e senza termine, e non pose limite di un anno, o di tre anni, a fare tal cosa; perciò il suo premio e il suo guiderdone sarà anche senza termine ed eterno. « La fame sempiterna del giusto, conclude egli, merita una refezione sempiterna » [S. Bern. l. c.]. E in questa maniera dichiara il medesimo S. Bernardo quel passo del Savio: « Perfezionatosi in breve, compì una lunga carriera » [Sap. IV, 13]. Il vero giusto in poco tempo e in pochi giorni di vita vive molti anni; perché ama tanto Dio e ha tanto desiderio di servirlo, che se vivesse cent’anni, e anche cento mila, sempre s’impiegherebbe in servir maggiormente Dio. E per rispetto di questo tal suo desiderio e deliberazione anche un breve spazio di vita se gli computa come se per tutto questo tempo fosse vissuto in tal maniera; perché Dio lo premierà proporzionatamente al desiderio e alla deliberazione sua. Questi sono veramente uomini da qualche cosa, questi sono uomini forti, come Giacobbe, a cui per il grande amore che portava a Rachele parve poco il servir per essa sette anni, e dopo servirne altri sette: « Pochi gli parvero quei giorni per il grande amore » [Gen. XXIX, 20].

(2 – continua …)

LA PERFEZIONE DELLE OPERAZIONI ORDINARIE (1)

[P. Alfonso RODRIGUEZ S. J.: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane – S. E. I. Torino; rist. 1948]

TRATTATO II.

DELLA PERFEZIONE DELLE OPERAZIONI ORDINARIE (1)

CAPO I.

Come il nostro profitto e la nostra perfezione, consiste in far le nostre operazioni ordinarie ben fatte.

1. L’abito non fa il monaco – 2. Ma le opere. – 3. Quali opere ci facciano santi.- 4. In una stessa opera quanta diversità di meriti. – 5. Perfezione è fare quel che Dio vuole e come vuole. – 6. Visione di S. Bernardo.

1. Juste, quod justum est, persequeris disse il Signore al suo popolo (Deut. XVI, 20): Quel che è giusto e buono, fa che sia fatto bene, giustamente e compiutamente. Il negozio del nostro profitto e della nostra perfezione non consiste in far le cose, ma in farle bene: siccome né anche consiste nell’esser uno Religioso, ma nell’essere buon religioso. S. Girolamo, scrivendo a Paolino, dice: Non Jerosolymis fuisse, sed Jerosolymis bene vixisse laudandum est(D. Hieron. ep. ad Paul. de instit. mon.] Grande stima aveva questo Paolino di San  Girolamo: e assai lo lodava per questo stesso, perché abitava in quei santi luoghi  nei quali Cristo nostro Redentore operò i misteri della nostra Redenzione: e S. Girolamo su questo gli risponde: Non è da lodarsi il vivere in Gerusalemme, ma il vivere in essa bene; e va comunemente attorno questo detto, per avvertire i Religiosi, che non si diano per contenti per questo solo, perché stanno nella Religione: perché siccome l’abito non fa il Monaco, così né anche lo fa il luogo, ma sì bene la buona e santa vita; di maniera che tutto il punto sta non in essere Religioso, ma in essere buon Religioso; e non in far esercizi della Religione, ma in farli bene. In quel Bene omnia fecitche, come tra l’evangelista S. Marco, si diceva di Cristo (Marc. VII, 37); cioè aver Egli fatte tutte le cose bene; sì in quel Bene omnia fecitche dir si possa anche di noi consiste ogni nostro bene.

2. Certa cosa è, che ogni nostro bene ed ogni nostro male sta nell’esser buone o cattive le opere nostre: imperocché tali saremo noi, quali saranno le nostre operazioni. Queste parlano e manifestano chi è ciascuno. Dal frutto si conosce l’albero: e S. Agostino dice, che l’uomo è l’albero, e le opere sono il frutto che l’albero produce; e così dal frutto delle opere si conosce ciascuno chi è (D. Aug. de serm. Dom. in monte, secundam Matth. 1. 2). E perciò Cristo nostro Redentore disse di quegl’ipocriti e falsi predicatori: A fructibus eorum cognoscetis eos(Matth. VII, 16): Dal frutto delle opere loro conoscerete quel ch’essi siano. E per lo contrario dice di sé medesimo: Opera, quæ ego facto in nomine Patris mei, hæc testimonium perhibent de me(Jo. X, 25): Le opere ch’io fo rendono testimonianza di me: Et si mihi non vultis credere, operibus credite(Ibid. 38). E se non volete credere a me, credete alle opere mie, ch’elle dicono chi sia io. E non solo dicono e mostrano le opere quel che ciascuno è in questa vita; ma anche quei che di lui ha da essere nell’altra: imperciocché tali saremo eternamente nell’altra vita, quali saranno in questa le nostre operazioni; avendo Dio N. S. da premiare e rimunerare ciascuno secondo le opere sue. siccome la divina Scrittura lo replica tante volte sì nel vecchio come nel nuovo Testamento: Reddes unicuique juxta opera sua(Psal. LXI, 13; Matth. xvi, 27): e l’apostolo S. Paolo: Quæ seminaverit homo, hæc et metet(Ad Rom., II 6; I. ad Cor. III, 8; ad Gal. vi, 8): Quel che l’uomo avrà seminato, quello raccoglierà.

3. Ma veniamo più al particolare, e vergiamo un poco che opere sono queste, nelle quali sta ogni nostro bene e ogni nostro profitto e perfezione. Dico, che sono quelle operazioni ordinarie che facciamo ogni giorno: in fare, che la nostra orazione ordinaria sia ben fatta; che gli esami che facciamo siano ben fatti: in udir Messa, o in dirla come dobbiamo: nel dir le nostre Ore e le nostre divozioni con riverenza ed attenzione; in esercitarci continuamente nella penitenza e nella mortificazione: nel soddisfar bene al nostro ufficio e a quello che l’ubbidienza c’impone. Sefaremo queste opere con perfezione, saremo perfetti; e se le faremo imperfettamente, saremo imperfetti. E così questa è la differenza che passa fra il buono e perfetto Religioso, e l’imperfetto e tiepido: non istà la differenza nel far uno altra sorta di cose o più cose che l’altro; ma nel far quel che fa con perfezione o con imperfezione. Perciò quegli è buono e perfetto Religioso, perché fa queste cose bene; quell’altro perciò è imperfetto, perché le fa molto tiepidamente e negligentemente: e quanto più la persona si estenderà e andrà in avanti in questo, tanto sarà più perfetta o più imperfetta. –

4. In quella Parabola del Seminatore, che uscì a seminare la sua semenza, dice il sacro Evangelio (Matth. XIII, 8, 23), che anche la semenza buona è buttata in buon terreno, in qualche luogo fe’ frutto a ragione di trenta, in qualche altro di sessanta, e in qualche altro di cento. Nel che dicono i Santi, che si denotano i tre gradi di coloro che servono Dio; cioè di Principianti, di Proficienti e di Perfetti. Tutti noi altri seminiamo una medesima semenza; perché tutti facciamo le medesime opere ed osserviamo una medesima regola; tutti abbiamo un istesso tempo di orazione e di esami; e dalla mattina sino alla sera stiamo occupati per ubbidienza; ma con tutto ciò. nomini homo quid præstat? quanta differenza vi è, come suol dirsi, da Pietro a Pietro? e quanta da un Religioso ad un altro? Perciocché in uno queste opere che semina rendono il centesimo, atteso che le fa con ispirito e con perfezione; e questi tali sono i Perfetti: in un altro non rendono tanto, ma il sessagesimo; e questa sono i Proficienti, che vanno profittando: in un altro rendono solamente il trigesimo: e questi sono i Principianti, che cominciano a servir Dio. Guardi ora ciascuno da quali egli sia. Guarda, se tu sei di quelli del trigesimo; ed anche, piaccia a Dio, che nessuno sia di quelli che dice l’Apostolo (1 ad Cor. III, 12,13) che sopra il fondamento della Fede alzano legne, fieno e paglia, da esser tutto gettato sul fuoco nel giorno del Signore. Guarda, che tu non faccia le cose per vanità e per rispetti umani, per dar gusto agli uomini, e per esser tenuto da qualche cosa; perché questo è fabbricare con legne, fieno e paglia, acciocché arda almeno nel purgatorio; ma procura di far bene e perfettamente quel che fai; e sarà questo un alzar la fabbrica con argento, oro e pietre preziose.

5. Si conoscerà bene, che in questo sta il profitto e la perfezione nostra dalla seguente ragione. Ogni nostro profitto e perfezione consiste in due cose, in fare quel che Dio vuole che facciamo, e in farlo nel modo ch’Egli vuol che sia fatto; parendo, che più di questo non vi sia che potersi pretendere né desiderare. Or la prima cosa, cioè il far quel che Dio vuole che facciamo, già per sua divina misericordia l’abbiamo nella Religione: e questo è uno de’ maggiori beni e una delle maggiori consolazioni che godiamo noi altri che viviamo sotto ubbidienza; perché siamo certi, che quello che facciamo e quelle cose nelle quali ci occupiamo per l’ubbidienza, sono quelle che Iddio vuole da noi: e questo è come Primo principio nella Religione, cavato dall’Evangelio e dalla dottrina de’ Santi, come diremo quando tratteremo dell’ ubbidienza.Qui vos audii, me audit(Luc. X, 16): Ubbidendo al Superiore, ubbidiamo a Dio, e facciamo la sua divina volontà; perché quello è quel che Dio vuole che facciamo allora. Non vi resta se non la seconda condizione, di far le cose nel modo con cui Iddio vuole che le facciamo; cioè di farle bene e perfettamente; perché in questa maniera vuole Egli che si facciano: e questo è quello che andiam dicendo.

6. Nelle Croniche dell’Ordine Cisterciense si narra, che stando a Mattutino il glorioso S. Bernardo co’ suoi Monaci, vide molti Angeli, i quali stavano notando e scrivendo quel che ivi i Monaci facevano e in che modo lo facevano; e che di alcuni quei che scrivevano lo scrivevano con oro, di altri con argento, di altri con inchiostro, di altri con acqua, secondo l’intenzione e lo spirito con che ciascuno orava e cantava; e d’altri non iscrivevano niente, perché sebbene stavano ivi col corpo, nondimeno col cuore e col pensiero stavano molto lungi e divertiti in cose impertinenti. E dice ancora, che vide, come principalmente al Te Deum laudamuserano gli Angeli molto solleciti, acciocché si cantasse molto devotamente; e che dalle bocche d’alcuno che lo cominciavano, usciva come una fiamma di fuoco. Veda ora ciascuno qual sia la sua orazione; e se merita d’essere scritta con oro, o con inchiostro, o con acqua, o di non essere scritta in nessuna maniera. – Vedi se quando stai in orazione, escono dal tuo cuore e dalla tua bocca fiamme di fuoco; o pure non fai altro che sbadigliare e stiracchiar i nervi. Vedi, se stai ivi solamente col corpo, ma con la mente stai nello studio, o nell’ufficio, o nel negozio, o in altre cose niente allora appartenentisi.

CAPO II.

Che ci deve animar grandemente alla perfezione l’avercela Iddio posta in una cosa molto facile.

1. La perfezione è facile. — 2. Prove della Scrittura e dei Santi. — 3. Rinnovarci nelle azioni ordinarie ottima fra le preparazioni alle solennità.

1. Il P. Natale, uomo insigne della nostra Compagnia per la sua grande dottrina e virtù, quando venne a visitare le provincie di Spagna, tra le altre cose che più raccomandate lasciò, questa fu una, che s’insegnasse spesso questa verità: che ogni nostro profitto e perfezione consisteva nel far bene le cose particolari ordinarie e quotidiane che abbiamo per le mani. Di maniera che il profittare e il migliorare la vita non sta nel moltiplicare altre opere straordinarie, né in fare altri uffici alti ed eminenti; ma nel fare perfettamente le opere ordinarie della religione e gli uffici nei quali ci metterà l’ubbidienza, ancorché siano i più vili del mondo; perché questo è quello che Dio vuole da noi. Onde in questo abbiamo da metter gli occhi, se vogliamo fargli cosa grata e acquistare la perfezione. Or qua consideriamo e ponderiamo quanto poco ci abbia a costare l’esser perfetti; poiché colla stessa cosa che facciamo, senza aggiunta d’altre opere, possiamo esser tali. Questa è una cosa di grande consolazione per tutti e che ci deve animare grandemente alla perfezione. Se si ricercassero da te, per esser perfetto, certe cose squisite e straordinarie, certe elevazioni e contemplazioni molto alte; potresti aver qualche scusa e dire che non puoi, o che non ti basta l’animo di salir tant’alto. Se si ricercasse che ti disciplinassi ogni giorno a sangue, o che digiunassi a pane ed acqua, o che andassi scalzo, o che portassi perpetuamente un cilicio, potresti dire che non ti senti forze da far cose simili. Ma non ti si ricercano queste cose né sta in esse la tua perfezione; sta solo in far bene quello che fai. Colle medesime opere che fai, se tu vuoi, puoi esser perfetto: già è fatta la spesa, non hai bisogno d’aggiungere altre opere. Chi sarà che con questo non si faccia animo per procurare di essere perfetto, consistendo la perfezione in cosa tanto alla mano e domestica, facilmente eseguibile?

2. Diceva Dio al suo popolo, per animarlo al suo servizio e all’osservanza della sua legge: « Questo comandamento, che oggi io ti intimo, non è sopra di te, né  lungi da te, né è posto nel cielo, onde tu possa dire: Chi di noi può salire al cielo per recarcelo, affinché lo ascoltiamo e lo mettiamo in opera? Né è posto di là dal mare, onde tu trovi pretesto e dica: Chi di noi potrà traversare il mare e portarcelo, onde possiamo udirlo e fare quello che è comandato? Ma questo comandamento è molto vicino a te, è nella tua bocca e nel cuore tuo, affinché tu lo eseguisca » (Deut. XXX, 11 e segg.). Lo stesso possiamo dire della perfezione, della quale ora trattiamo. E così Sant’Antonio, con questo esortava e animava i suoi discepoli alla perfezione. I Greci, diceva, per far acquisto della filosofia e delle altre scienze, fanno grandi viaggi e lunghe navigazioni, esponendosi a fatiche e pericoli grandi; ma noi altri, per acquistar la virtù e la perfezione, che è la vera sapienza, non abbiamo bisogno di esporci a queste fatiche e pericoli, né meno d’uscire fuori di casa nostra, perché dentro di essa la troveremo, ed anche dentro di noi medesimi. Il regno di Dio è dentro di voi. In coteste cose ordinarie e quotidiane che fate sta la vostra perfezione.

3. Si suol domandare molto ordinariamente nelle conferenze spirituali, quando s’avvicina qualche tempo di devozione, come di Quaresima, d’Avvento, di Pentecoste o di rinnovazione dei voti, di che mezzi ci varremo per disporci e prepararci a questa rinnovazione, o per questa Quaresima, e per ricevere lo Spirito Santo, o il Bambino Gesù, nato di fresco. Ti sentirai propor molti mezzi e molte considerazioni, e tutte buone: ma il mezzo principale, nel quale dobbiamo insistere, è questo del quale andiamo trattando: perfezionarci in quello che ordinariamente facciamo. Va tu levando via i tuoi difetti e le tue imperfezioni circa le cose ordinarie e quotidiane, e procura d’andarle facendo ogni dì meglio e con meno difetti; e questa sarà una buonissima preparazione, o la migliore, per qualsivoglia solennità. Metti in questo principalmente gli occhi, e tutti gli altri mezzi e considerazioni siano indirizzate per aiutarti a far questo.

CAPO  III.

In che consiste la bontà e la perfezione delle nostre opere e d’alcuni mezzi per farle bene.

1. Farle con buona intenzione. — 2. Il meglio che possiamo. —3. Alla presenza di Dio. — 4. Gran mezzo questo. — 5. Epraticato dai Santi. — 6. Così sta del continuo in orazione.

1. Ma vediamo un poco in che cosa consista il far bene le nostre opere, acciocché possiamo ricorrere a i mezzi che ci aiuteranno a farle bene. Dico brevemente che consiste in due cose. La prima e principale è, che le facciamo puramente per Dio. S. Ambrogio dOmanda qual è la ragione, per cui nella creazione del mondo, creando Dio le cose corporali e gli animali, subito le lodò tutte. Crea le piante, e subito dicesi: « E Dio vide che ciò era buono ». Crea gli animali, gli uccelli, i pesci, e subito dicesi: « E Dio vide che ciò era buono ». Crea i cieli e le stelle, il sole e la luna, e dicesi subito: « E Dio vide che ciò era buono » [Gen. I, 10 e segg.]1 Tutte queste cose loda il Signore subito che ha finito di crearle: ma arrivato che è alla creazione dell’uomo, pare che esso solo se ne resti senza lode; perché qui il sacro testo non soggiunge: « E Dio vide che ciò era buono », come lo soggiungeva dopo la creazione di tutte le altre cose. Che mistero è questo, e quale sarà di ciò la cagione? Sai quali? dice il Santo: la cagione si è, che la bellezza e la bontà delle altre cose corporali e degli animali sta in quell’esteriore che apparisce al di fuori, e non vi è maggior perfezione di quella che si vede cogli occhi, e perciò viene subito la lode; ma la bontà e la perfezione dell’uomo non sta in quell’esteriore che apparisce al di fuori, ma nell’interiore, che sta nascosto colà dentro. « Tutta la gloria della figlia del re è interiore » [Ps. XLIV, 14 filiæ regis ab intus ];cioè tutta la bellezza dell’uomo, il quale è figliuolo di Dio, sta dentro; e questo è quello che piace agli occhi di Dio. « L’uomo infatti vede le cose che danno negli occhi, ma il Signore mira il cuore » 3, come disse Dio a Samuele [I Reg. XVI, 7]. Gli uomini vedono solamente le cose esteriori che appariscono al di fuori, e queste piacciono o dispiacciono loro; ma Dio vede l’intimo del cuore, guarda il fine e l’intenzione con cui ciascuno opera; e per questo non loda l’uomo subito che l’ha creato, come fa delle altre creature. L’intenzione è la radice e il fondamento della bontà e della perfezione di tutte le opere nostre. Le fondamenta non si vedono, ma esse sono quelle che sostengono tutta la fabbrica; e così è dell’intenzione.

2. La seconda cosa che si ricerca per la perfezione delle opere è, che facciamo in esse quanto possiamo e quanto è dal canto nostro per farle bene. Non basta che la tua intenzione sia buona, non basta che ti dica, che le fai per amor di Dio; ma bisogna che procuri di farle quanto meglio potrai, per piacere più a Dio con esse. Sia dunque questo il primo mezzo per far le opere bene, cioè il farle puramente per Dio; perché  questo ce le farà far bene e nel miglior modo a noi possibile, per poter con esse piacere maggiormente a Dio, ancor che non ci vedano i Superiori, e ancor che non siamo veduti dagli uomini: in una parola, farle come chi le fa per amore di Dio. Domandò una volta il nostro S. Padre Ignazio ad un fratello, il quale era alquanto negligente nel suo Officio: Fratello, per chi fai tu questo? E rispondendo egli, che lo faceva per amor di Dio, gli replicò il santo Padre: Or io t’assicuro, che se per l’avvenire lo farai in questa maniera, ti darò una molto buona penitenza. Perché se tu lo facessi per gli uomini, non sarebbe gran mancamento il farlo con cotesta negligenza; ma facendolo per un Signore tanto grande, è troppo gran mancamento farlo nella maniera che fai

3. Il secondo mezzo che i Santi propongono come molto efficace per questo, è il camminare alla presenza di Dio. Perfin Seneca diceva che l’uomo desideroso della virtù e di far le cose ben fatte si ha da immaginare d’avere avanti di sé qualche persona di grande venerazione, alla quale portasse gran rispetto; ed ha da fare e dire tutte le cose come le farebbe e direbbe se realmente stesse alla presenza di quella tal persona [Sen. Ep. 25] . Or se questo sarebbe un mezzo bastante per far le cose bene; quanto più efficace mezzo sarà il camminare alla presenza di Dio, e l’averlo sempre dinanzi agli occhi, considerando che Egli ci sta mirando. Specialmente non essendo questa una immaginazione, come quella di Seneca, ma cosa la quale veramente e realmente passa così; come tante volte ce lo replica la Scrittura. « Gli occhi del Signore sono più luminosi assai del sole, e mirano attorno tutte le vie degli uomini e l’abisso profondo, e vedono i cuori umani fino nei luoghi più riposti » Eccli. XXIII, 28].

4. Tratteremo appresso distintamente e più a lungo di questo esercizio di camminare alla presenza di Dio, e diremo quanto eccellente ed utile sia e quanto stimato e raccomandato dai Santi: adesso solamente ne caveremo al nostro proposito, di quanta importanza esso sia per far le opere ordinarie ben fatte. È di tanta importanza che, come ivi diremo, il camminare alla presenza di Dio non serve per fermarci in essa, ma perché ci sia mezzo per far bene le opere che facciamo. E se per istar noi attenti all’essere Dio presente ci trascurassimo e fossimo negligenti nelle opere che facciamo e commettessimo in esse mancamenti, questa non sarebbe buona divozione, ma illusione. E anche aggiungono alcuni qualche cosa di più, e dicono che quella presenza di Dio con la quale abbiamo da camminare, e quella che dalla sacra Scrittura e dai Santi ci viene tanto raccomandata; è il procurare di far le opere in tal maniera e tanto ben fatte, che possano comparire dinanzi a Dio, e che non sia in esse cosa indegna dei suoi occhi e della sua presenza. In una parola, che siano fatte come da chi le fa dinanzi a Dio, che lo sta rimirando. – E questo pare che ci volesse significare l’Evangelista S. Giovanni nella sua Apocalisse [Apoc. IV, 8], ove, riferendo le proprietà di quei santi animali, che vide stare dinanzi al trono di Dio, pronti ai suoi comandamenti, dice che dentro e fuori e all’intorno erano pieni d’occhi: occhi nei piedi, occhi nelle mani, occhi nelle orecchie, occhi nelle labbra e occhi negli stessi occhi; per significarci che quelli i quali vogliono servire Iddio perfettamente ed esser degni della sua presenza, hanno in ogni cosa a tener gli occhi aperti a mirar bene, per non far cosa indegna della presenza di Dio. Hai da esser pieno d’occhi dentro e fuori, e vedere come operi, come cammini, come parli, come odi, come vedi, come pensi, come vuoi, come desideri; acciocché in tutte le cose tue non ve ne sia alcuna che possa offendere gli occhi di Dio, nel cui cospetto stai.

5. Questo è un modo molto buono di camminare alla presenza di Dio. E così l’Ecclesiastico e l’Apostolo San Paolo, a proposito di quello che si dice nel Genesi di Enoch, che « camminò con Dio e disparve, perché il Signore lo rapì » [Gen. V, 14], dicono:, « Enoch fu caro a Dio, e fu trasportato nel paradiso » [Eccli. XIV, 16]; dimostrandoci chiaramente che è una cosa stessa il camminar sempre con Dio, o alla presenza di Dio, ed il piacere a Dio, poiché dichiarano una cosa con l’altra. E S. Agostino e Origene [Quæst. In Pentat.] dichiarano in questa stessa maniera quel che dice la sacra Scrittura nell’issopo, che quando Jetro andò a vedere il suo genero Mosè, si unirono Aronne e tutte le persone più gravi d’Israele « per mangiare con lui dinanzi a Dio » Lo dichiarano, dico, in questa maniera, dicendo: Non vuol dire che si unirono per mangiare dinanzi al Tabernacolo, o dinanzi all’Arca, perché non v’era ancora; ma che si unirono per far festa e mangiare e bere e passarsela lietamente con Lui; ma però con tanta pietà e santità, e con sì religiosa compostezza, come chi mangiava dinanzi a Dio; procurando che non vi fosse cosa che potesse offendere i suoi occhi divini. In questo modo camminano i giusti e i perfetti alla presenza di Dio in tutte le cose loro, anche nelle indifferenti e nelle necessarie alla vita umana. « I giusti banchettino e giubilino alla presenza di Dio, e godano nell’allegrezza », dice il Profeta [Ps. Lvii, 4]. Sia ciò di maniera tale, che ogni cosa possa comparire dinanzi agli occhi di Dio, né vi sia cosa indegna della sua presenza.

6. In questo modo anche dicono molti Santi che si adempie quello che nel Vangelo si legge che disse Cristo nostro Redentore: « Si deve sempre pregare, né mai lasciar di pregare » [Luc. XVIII, 1]; e S. Paolo ai Tessalonicesi: « Pregate senza intermissione » [1 Tess. V, 17]. Dicono cioè che sempre prega colui il quale sempre opera bene. Così pure S. Agostino sopra quelle parole del Salmista: « E la mia lingua andrà celebrando la tua giustizia, le tue lodi tutto il giorno » [Ps. XXXIV, 28]; vuoi, dice egli, un mezzo molto buono per stare tutto il giorno lodando Dio? « Tutto ciò che farai, fallo bene; e così starai tutto il giorno lodando Dio » [S. Aug. En. in Ps. XXXIV]. Lo stesso dice S. Ilario: « In questo modo avviene che da noi si preghi senza interruzione, quando, per mezzo delle opere che a Dio siano gradite e compiute sempre per la sua gloria, la vita tutta d’un qualsiasi sant’uomo diventa orazione; e per tal modo vivendo di giorno e di notte secondo il prescritto della legge, la stessa vita notturna e diurna si converto in meditazione della legge » E S. Girolamo, sopra quel verso: « Lodatelo voi, sole e luna; lodatelo tutte, o fulgide stelle » ]Ps. CXLVIII, 3], domanda in che modo lodano Dio il sole e la luna, la luce e le stelle? e risponde: Sai come lo lodano? Perché mai non cessano di far molto bene l’ufficio loro: sempre stanno servendo Dio e facendo quelle cose per le quali furono creati; e questo è star sempre [Hieron. Brev. In Ps CXLVIII, 3] lodando Dio 19. D i maniera che colui che fa molto bene le cose quotidiane e ordinarie della religione, sempre sta lodando Dio e sta sempre in orazione. E possiamo confermar questo con quel che dice lo Spirito Santo per mezzo del Savio: « Fa molte oblazioni chi osserva la legge: sacrifizio di salute è il custodire i comandamenti e allontanarsi da ogni iniquità » [Eccli. XXV, 1]. Con questo dunque si vedrà bene di quanta importanza e perfezione sia il far le cose ordinarie che facciamo ben fatte; poiché questo è moltiplicare l’orazione, e questo è uno star sempre in orazione e alla presenza di Dio, e questo è un sacrificio molto salutifero e che piace grandemente a Dio.

(1- continua …)

DELLA PRESENZA DI DIO

[S. A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e virtù cristiane; vol. II, Marietti ed. – Torino, 1917

– Trattato IV

DELLA PRESENZA DI DIO

CAPO I.

Dell’eccellenza di questo esercizio e dei gran beni che sono in esso.

“Quærite Dominum, et confìrmamini: quærite faciem ejus semper”

(Ps. CIV, 6).

Cercate Dio con fortezza e con perseveranza, dice il profeta David: cercate sempre la sua faccia… La faccia del Signore dice S. Agostino che è la presenza del Signore (D. Aug. super Psal. CIV): e così cercare la faccia del Signore sempre, è camminar sempre alla sua presenza, volgendo il cuore a Lui con desiderio e con amore. Isichio nell’ultima Centuria (e lo apporta anche il glorioso S. Bonaventura: D. Bonav. tom. 2 opusc, lib. 2 de prof. Relig. c. 20) dice, che lo star sempre in questo esercizio della presenza di Dio, è cominciare ad esser di qua beati; perché la beatitudine dei Santi consiste in veder Dio perpetuamente, senza giammai perderlo di veduta. Or giacché in questa vita non possiamo veder Dio chiaramente, né come Egli è, perché questo è proprio dei Beati; almeno imitiamoli nel modo nostro e secondo quello che comporta la nostra fragilità, procurando di star sempre riguardando, riverendo e amando Dio. Di maniera che siccome Dio Signor nostro ci creò per avere a stare eternamente alla sua presenza nel cielo, ed ivi goderlo; così volle, che avessimo qui in terra un ritratto e un saggio di quella beatitudine, camminando sempre alla sua presenza, contemplandolo e riverendolo, sebbene all’oscuro: Videmus nunc per speculum in ænigmate: tunc autem facie ad faciem (1 Cor. XIII, 12): Adesso il veggiamo e contempliamo noi per mezzo della Fede come per mezzo di uno specchio; di poi lo vedremo alla scoperta e a faccia a faccia: Ista est meritum, illa præmium: Quella vista chiara, dice Isichio, è il premio e la gloria e beatitudine che aspettiamo; quest’altra oscura è merito per mezzo del quale abbiamo da arrivare a conseguir quella. Ma infine al modo nostro imitiamo i Beati, procurando di non perdere mai Dio di veduta nelle nostre operazioni, siccome gli Angeli santi i quali sono mandati per nostro aiuto, per nostra custodia e nostra difesa, s’occupano in tal maniera in questi ministeri in prò nostro che mai non perdono Dio di vista; come lo disse l’Angelo Raffaello a Tobia: Videbar quidem vobiscum manducare et bibere: sed ego cibo invisibili, et potu, qui ab hominibus videri non potest, utor (Tob. XII, 19. 1) : Pareva bene che io stessi mangiando e bevendo con voi altri; ma io uso un altro cibo invisibile ed un’altra bevanda che non può esser veduta dagli uomini. Stanno gli Angeli santi del continuo come nutrendosi e sostentandosi di Dio: Semper vident faciem Patris mei, qui in cœlis est (Matth. XVIII, 10.): così noi altri sebbene mangiamo, beviamo, trattiamo e negoziamo cogli uomini, e pare che ci occupiamo e tratteniamo in questo; abbiamo non dimeno da procurare, che non sia questo il nostro cibo né il nostro trattenimento, ma un altro invisibile che gli uomini non veggono; cioè lo star sempre riguardando ed amando Dio e facendo la sua santissima volontà.Grand’esercizio fu quello che praticarono quei Santi e Patriarchi dell’antica legge in ordine a questo punto del camminare sempre alla presenza di Dio: Providebam Dominum in conspeciu meo semper; quoniam a dextris est mihi ne commovear (Ps. XV, 8). Non si contentava il reale Profeta di lodar Dio sette volte il giorno; ma sempre procurava di tenerlo presente. Era tanto continuo questo esercizio in quei Santi, che era anche comune linguaggio loro il pregiarsi di questo, soliti di spesso dire: Vivit Dominus, in cujus conspectu sto (III Reg. XVII, 1; – IV. Reg. III, 11): Vive il Signore, alla cui presenza io sto. Sono grandi i beni e le utilità che risultano dal camminar sempre alla presenza di Dio, considerando che Egli ci sta guardando; e perciò lo procuravano tanto quei Santi, perché questo basta a fare, che uno sia molto ben regolato e molto composto in tutte le sue azioni. Dimmi un poco, qual è quel servo che dinanzi agli occhi del suo padrone non proceda con molta puntualità? Ovvero qual servo si trova tanto sfacciato, che alla presenza del padrone non faccia quello che esso gli comanda, o ardisca di offenderlo sotto ai suoi occhi? ovvero qual sarà quel ladro a cui basti l’animo di rubare, mentre vede, che il Giudice gli sta guardando alle mani? Ci sta guardando Dio, il quale è nostro giudice ed è onnipotente, che può far che la terra s’apra e che l’inferno inghiottisca chiunque lo fa sdegnare contro di sé, e alcune volte l’ha fatto. Or chi ardirà di muoverlo a sdegno? E così S. Agostino diceva: Quando io, Signore, considero attentamente, che mi state sempre guardando e vegliando sopra di me notte e giorno, con tanta cura, come se in cielo e in terra voi non aveste altra creatura da governare che me solo: quando considero bene, che tutte le mie operazioni, pensieri e desideri, sono patenti e chiari dinanzi a voi, mi riempio tutto di timore e mi copro di vergogna (D. Aug. c. 14 soliloq.). Certo ci mette in grand’obbligo di viver giustamente e rettamente il considerare, che facciamo tutte le cose dinanzi agli occhi del Giudice che vede il tutto e a cui nessuna cosa si può celare. Se la presenza d’un uomo grave ci fa star composti, che farà la presenza di Dio?S. Girolamo sopra quello che Dio dice di Gerusalemme per mezzo del profeta Ezechiello, Meique oblita es (Ezech. XXII. 12), Ti sei dimenticata di me, dice: Memoria enim Dei excludit cuncta flagitia: La memoria di Dio esclude tutti i peccati. L’istesso dice sant’Ambrogio (D. Ambr. lib. de fide resurr. tom. 4). E in un altro luogo dice S. Girolamo: Certe quando peccamus, si cogitaremus Deum videre, et essa præsentem, numquam, quod ei displiceret, faceremus (D. Hieron. in Ezecb. 8 circa illum, Dicunt enim, non videbit Dominus nos). E’ tanto efficace mezzo la memoria di Dio e il camminar alla presenza sua, che se considerassimo che Dio è presente e che ci sta guardando, non ardiremmo mai di far cosa che gli dispiacesse. Alla peccatrice Taide bastò questo solo per lasciare la sua mala vita e andarsene all’eremo a far penitenza, come abbiamo detto di sopra (tract. V, c. 19). Diceva il santo Giob: Nonne ipse considerat vias meas, et cunctos gressus meos dinumerat (Job XXXI, 4)? Dio mi sta guardando come testimonio di veduta e mi va contando i passi; e chi ardirà mai di peccare né di far cosa mal fatta? – Per lo contrario tutto il disordine e tutta la ruina dei tristi nasce dal non ricordarsi che Dio è presente e che gli sta guardando, secondo quello che tante volte replica la Scrittura divina in persona degli uomini cattivi: Et dixisti: Non est, qui videat me ((3) Isa. XLVII, 10) — Non videbit novissima nostra (Jerem. XII, 4).E così lo notò san Girolamo sopra quel capo 22 di Ezechiello, ove il Profeta, riprendendo Gerusalemme di molti suoi vizi e peccati, viene a conchiudere, che la cagione di tutti essi era l’essersi dimenticata di Dio: e questa stessa cagione nota la Scrittura in molti altri luoghi. Siccome un cavallo senza freno si va a precipitare e una nave senza chi la governi si va a perdere; così levato via questo freno, l’uomo se ne va dietro ai suoi appetiti e alle sue passioni disordinate: Non est Deus in conspectu ejus: inquinata! sunt viæ illius in omni tempore (Psal IX, 26), dice il profeta David: Non tiene Dio dinanzi a’ suoi occhi, non lo considera presente dinanzi a sé; e perciò le vie sue, cioè le sue operazioni, sono macchiate di colpa in ogni tempo.Il rimedio che il beato S. Basilio in molti luoghi dà contra tutte le tentazioni e’ travagli, e contra tutte le cose e occasioni che ci si possono presentare, è la presenza di Dio (D. Basil, II. reg. brev. et in reg. fus. disput.). Onde se vuoi un mezzo breve e compendioso per acquistare la perfezione, il quale contenga e rinchiuda in sé la forza e l’efficacia di tutti gli altri mezzi, questo è desso, e per tale lo diede Dio ad Abramo: Ambula coram me, et esto perfectus (Gen. XVII, 1): Cammina alla mia presenza, e sarai perfetto. In questo, come in altri luoghi della sacra Scrittura, l’imperativo si piglia pel futuro, per significare l’infallibilità del successo. E cosa tanto certa, che sarai perfetto se andrai sempre riguardando Dio e se starai avvertito ch’Egli ti sta guardando; che da quest’ora ti puoi tenere pertale. Perché, siccome le stelle dall’aspetto del sole che hanno presente, e in cui stanno rivolte, traggono lume per risplendere dentro e fuori di sé, e virtù per influire nella terra; così gli uomini giusti i quali sono come stelle nella Chiesa di Dio, dall’aspetto del medesimo Iddio, dal mirarlo presente, e dal volgere il loro pensiero e desiderio a Lui, traggono lume col quale nell’interiore che Dio vede risplendono con vere e sode virtù, e nell’esteriore che veggon gli uomini risplendono con ogni decenza e onestà; e ritraggono virtù e forza per edificare e santificar altri. Non è cosa nel mondo che esprima tanto propriamente la necessità che abbiamo di star sempre alla presenza di Dio, quanto questa. Guarda la dipendenza che ha la luna dal sole, e la necessità che ha di star sempre rimpetto ad esso. La luna da sé non ha lume; ha solo quello che riceve dal sole, secondo l’aspetto col quale lo guarda; e opera nei corpi inferiori secondo il lume che riceve dal sole: e così i suoi effetti crescono e scemano secondo che ella stessa va crescendo e scemando: e quando si pone dinanzi alla luna qualche cosa che le impedisca l’aspetto e la vista del sole; subito nell’istesso punto si ecclissa e perde la sua luce, e con essa ancora gran parte dell’efficacia d’operare che aveva mediante il lume che riceveva dal sole. L’istesso accade nell’anima rispetto a Dio che è il suo sole. Perciò i Santi ci esortano a questo esercizio. S. Ambrogio e S. Bernardo trattando della continuazione e perseveranza che deve essere in noi intorno ad esso, dicono: Sicut nullum est momentum, quo homo non utatur vel fruatur Dei bonitate et misericordia; sic nullum debet esse momentum, quo eum præsentem non habeat in memoria (Ambr. lib. de dign. cond. bum. c. 2; D. Bernard, c. 6, medit.): Siccome non v’è punto né momento nel quale l’uomo non goda della bontà e misericordia di Dio; così non vi ha da esser punto né momento nel quale non abbia Dio presente nella sua memoria. E in un altro luogo dice S. Bernardo: In omni actu vel cogitatu suo sibi Deum adesse memoretur; et omne tempus, quo de ipso non cogilat, perdidisse se computet (S. Bern. in spec. mon.): In tutte le sue operazioni e in tutti i suoi pensieri ha da procurare il Religioso di ricordarsi, che ha Dio presente: e tutto il tempo che non pensa a Dio ha egli da tenerlo per perduto. Mai non si dimentica Dio di noi altri: sarà ben di ragione che noi altresì procuriamo di non mai dimenticarci di lui. S Agostino sopra quelle parole del Salmo 31, Firmabo super te oculos meos, dice: Non a te auferam oculos meos; quìa et tu non aufers a me oculos tuos (D. Aug. In Ps. XXXI, 8): Non leverò, o Signore, gli occhi miei da te; perché tu non levi mai i tuoi da me: sempre li terrò fermi e fissi in te, come faceva il Profeta: Oculi mei semper ad Dominum (Ps. XXIV, 15). S. Gregorio Nazianzeno diceva: Non tam sæpe respirare, quam Dei meminisse debemus (D. Greg. Naz. in I orat. Theol.): Tanto spesso e tanto frequente ha da esser il ricordarci di Dio, quanto il respirare, e anche più. Perché siccome ad ogni momento abbiamo necessità di respirare, per rinfrescare il cuore e per temperare il calor naturale, cosi abbiamo necessità di ricorrere in ogni momento a Dio coll’orazione, per raffrenare il disordinato ardore della concupiscenza che ci sta stimolando e incitando al peccare.

CAPO II.

In che cosa consiste quest’eserciziodi camminar sempre alla presenza di Dio.

Per poter noi cavar maggior frutto da quest’esercizio, bisogna che dichiariamo in che cosa consiste. In due punti consiste, cioè in due atti, l’uno dell’intelletto e l’altro della volontà. Il primo atto è dell’intelletto, poiché questo sempre si ricerca e si presuppone per qualsivoglia atto della volontà, siccome insegna la filosofia. La prima cosa dunque ha da essere il considerare con l’intelletto, che Dio è qui e in ogni luogo; che riempie tutto il mondo; e che sta tutto in tutto, e tutto in qualsivoglia parte di esso, e tutto in qualsivoglia creatura, per piccola che sia. Su questo si ha a fare un atto di fede, perché questa è una verità che la Fede ci propone per crederla: Non enim longe est ab unoquoque nostrum. In ipso enim vivimus, et movemur, et sumus (Ex Act. XVII, 27, 28), diceva l’Apostolo san Paolo: Non avete da immaginarvi Dio come lontano da voi, o come fuori di voi; perché è dentro di voi. S. Agostino dice di sé medesimo (lib. X Conf.): « Signore, io cercava fuori di me quello ch’aveva dentro di me. » Dentro di voi sta Egli. Più presente, più intimo e più intrinseco è Dio in me, che non sono io stesso. In esso viviamo, ci moviamo, e abbiamo l’essere: Egli è quegli che dà vita a tutto quello che vive; e quegli che dà forza a tutto quello che opera; e quegli che dà l’essere a tutto quello che è. E s’Egli non istesse presente, mantenendo tutte le cose, tutte lascerebbono d’ essere e si ridurrebbono al niente. Considera dunque, che sei tutto pieno di Dio, e circondato da Dio, e che stai come nuotando in Dio. Quelle parole, Pieni sunt cæli et terra gloria tua (Is. VI, 3), sono molto a proposito per questa considerazione: i cieli e la terra, o Signore, sono pieni della vostra gloria. – Alcuni per attuarsi meglio in questo esercizio considerano tutto il mondo pieno di Dio, come infatti Egli è: indi immaginano se stessi in mezzo di questo mare immenso di Dio, circondati da esso per ogni parte, in quel modo che starebbe una spugna in mezzo al mare, tutta inzuppata e piena d’acqua, e oltre di questo circondata d’acqua da tutte le bande. E non è questa cattiva similitudine rispetto al corto nostro intelletto; ma con tutto ciò ella stessa è assai debole e scarsa, e non arriva ad esprimere a sufficienza quel che diciamo; perché questa spugna in mezzo del mare se sale in alto trova fine; se cala al basso trova terra; se va da un canto all’altro trova lido; ma in Dio non troverà niuna di queste cose : Si ascenderò in cælum, tu illic es: si descendero in infernum, ades. Si sumpsero pennas meas diluculo, et habitavero in extremis maris, etenim illuc manus tua deducet me, et tenebit me dextera tua (Psal. CXXXVIII, 8, 9, 10). : S’io salirò in cielo, ivi sei Tu, Signore; e se me ne calerò sino all’inferno, pur vi sei; e se prenderò ali e me ne passerò di là dal mare, colà mi condurrà e mi terrà la tua potente mano. Non vi è fine o termine in Dio, perché è immenso e infinito. Inoltre la spugna, per esser corpo, non può esser totalmente penetrata dall’acqua la quale è un altro corpo; ma noi altri siamo in tutto e per tutto penetrati da Dio il quale è puro spirito. Pur finalmente queste ed altre simili comparazioni, ancorché scarse e manchevoli, aiutano e sono a proposito per farci comprendere in qualche modo l’immensità infinita di Dio, e come Egli è presente e sta intimamente dentro di noi e in tutte le cose. – E per questo le apporta S. Agostino (D. Ang. ep 57 ad Dard. et lib. 7 Confess. c. 5). Ma è d’avvertire in questo esercizio, che per questa presenza di Dio non fa di bisogno il formarci entro di noi alcuna sensibile immagine o rappresentazione di Dio, a forza di fantasia, figurandoci, che Egli ci stia a lato, o da un’altra banda determinata, né immaginarselo nella tale o tal altra forma o figura. Vi sono alcuni che s’immaginano di avere avanti di sé, ovvero al lato loro, Gesù Cristo nostro Redentore, che vada, o stia con essi, e gli stia sempre mirando in ciò che fanno: e in questa maniera stanno sempre alla presenza di Dio. Altri di questi s’immaginano Cristo crocifisso, che stia sempre loro dinanzi; altri se l’immaginano legato alla colonna; altri nell’orto in atto di far orazione e di sudar sangue; altri se l’immaginano in qualche altro passo della Passione, o in qualche mistero gaudioso della sua santissima Vita, secondo quello che suole più muovere ciascuno: ovvero per qualche tempo se l’immaginano in una azione e per qualche altro in un’altra. E ancora che questa sia cosa molto buona, se si sa fare; nondimeno, ordinariamente parlando, non è questo quello che più ci conviene e ci è più utile: perché tutte queste figure e immaginazioni di cose corporali straccano, e aggravano, e rompono assai la testa. Un S. Bernardo e un S. Bonaventura dovevano saper far questo d’altra maniera che noi, e vi trovavano gran facilità e quiete; e così se n’entravano in quei buchi delle Piaghe di Cristo e dentro al suo Costato, e quello era il loro ricovero, il loro rifugio e riposo, parendo loro d’udir quelle parole dello Sposo ne’ Cantici (Cant., II, 13, 14): Surge, amica mea, speciosa mea, et veni, columba mea, in foraminibus petræ, in caverna maceriæ. Altre volte s’immaginavano il piè della croce piantato e conficcato nel loro cuore, e stavano ricevendo nella loro bocca con grandissima dolcezza quelle gocciole di sangue che stillavano e scorrevano come da aperti fonti dalle Piaghe del Salvatore. Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris (Isa. XII, 3). Facevano que’ Santi queste cose molto bene, e se ne stavano benissimo; ma se tu te ne vorrai stare tutto il giorno in queste considerazioni e con questa presenza di Dio, potrà essere, che, per un giorno e per un mese che tu lo faccia, perda tutto l’anno d’orazione; perché ti ci romperai il capo. Ben si vedrà quanta ragione abbiamo d’avvertire questa cosa; poiché anche per formarci la composizione del luogo, che è uno de’ preludi dell’orazione col quale ci facciamo presenti a quello che abbiamo da meditare, immaginandoci, che realmente quella cosa si faccia ed accada allora sotto i nostri occhi, avvertono quei che trattano dell’orazione, che non ha la persona da fissare né attuar molto l’immaginazione nella figura e rappresentazione di queste cose corporali che pensa; acciocché non si rompa la testa, e per guardarsi da altri inconvenienti d’illusioni che potrebbero occorrere. Ora se per un preambolo dell’orazione che si fa in così breve spazio di tempo, e stando uno quieto e posato, senza avere altra cosa che fare, vi bisogna tanta avvertenza e circospezione; che sarà volendosi tutto il giorno, e fra le altre occupazioni, ritenere questa composizione di luogo e queste materiali rappresentazioni? Quella presenza adunque di Dio della quale trattiamo adesso, esclude tutte queste immaginazioni e considerazioni, ed è molto lontana da esse; perché ora trattiamo della presenza di Dio in quanto Dio, il quale dico primieramente che non vi è bisogno di fingerselo presente, ma solamente di crederlo, perché questo è verissimo. Cristo nostro Redentore in quanto uomo sta in cielo e nel santissimo Sacramento dell’Altare; ma non istà in ogni luogo: onde quando c’immaginiamo presente Cristo in quanto uomo, questa è un’immaginazione che noi altri fingiamo; ma in quanto Dio è qui presente, e dentro di me, e in ogni luogo, e riempie ogni cosa: Spiritus Domini replevit orbem terrarum (Sap. I, 7). Non abbiamo dunque bisogno di fingere quello che non è; ma di attuarci in credere quello che è. Dico in secondo luogo, che l’umanità di Cristo si può bensì immaginare e figurare con l’immaginazione, perché ha corpo e figura; ma Dio, in quanto Dio, non si può immaginare né figurare com’Egli è; perché non ha corpo né figura, essendo puro spirito. Né anche un Angelo né la nostra propria anima possiamo immaginarci come sien fatti, perché sono spiriti; quanto meno potremo immaginarci né formarci concetto alcuno del come sia fatto Dio! – In che modo dunque abbiamo noi da considerare Iddio presente? Dico, che solamente col fare un atto di fede, presupponendo, che Dio è qui presente, poiché la Fede ce lo dice, senza voler sapere come né in che modo ciò sia: siccome dice san Paolo che faceva Mosè, il quale invisibilem tamquam videns sustinuit (Ebr. XI, 27) : Essendo Dio invisibile, egli lo considerava e lo teneva presente come se lo vedesse, senza voler sapere né immaginarsi come Egli fosse fatto: come quando uno sta parlando col suo amico di notte, senza voler cercare com’egli sia fatto né ricordarsi di questo, gode unicamente e dilettasi della conversazione e presenza dell’amico che sa esser ivi presente. In questa maniera abbiamo noi da considerare Dio presente: ci basti sapere, che il nostro amico è qui presente per godere della sua presenza. Non ti fermare a voler guardare come Egli sia fatto, che non ci affronterai, essendo di notte adesso per noi altri: aspetta, che si faccia giorno, e quando apparirà la mattina dell’altra vita, allora Egli si manifesterà, e potremo vederlo chiaramente com’Egli è fatto: Cum apparuerit, similes ex erimus; quoniam videbimus eum sicuti est (1 Giov. V, 2). Per questo Dio apparve a Mosè nella nuvola e nell’oscurità: non vuole che tu lo vegga; ma solamente che creda ch’Egli è presente. – Tutto questo che abbiamo detto appartiene al primo atto dell’intelletto che si ha da presupporre. Ma bisogna avvertire, che la principal parte di questo esercizio non consiste in questo; perché non si ha da occupare solamente l’intelletto, considerando Dio presente; ma s’ha da occupare anche la volontà, desiderando e amando Dio, e unendosi con esso: e in questi atti della volontà consiste principalmente quest’esercizio. Del che tratteremo nel capo seguente.

CAPO III.

Degli atti della volontà ne’ quali principalmenteconsiste quest’esercizio: e come abbiamoda esercitarci in essi.

S. Bonaventura nella sua mistica Teologia (D. Bonav. via 3 et in ep. 15 memorial, c. 22) dice, che gli atti della volontà con i quali in questo santo esercizio abbiamo da alzare il cuore a Dio, sono certi accesi desideri del cuore co’ quali l’anima desidera unirsi con Dio con perfetto amore; certi affetti infiammati, certi sospiri vivi delle viscere co’ quali ella chiama Dio; certi moti pii e amorosi della volontà co’ quali, come con ali spirituali, si stende ed alza in alto, e si va accostando e unendo più a Dio. Questi desideri e affetti del cuore veementi ed accesi, sono dai Santi chiamati aspirazioni; perché con essi l’anima s’alza a Dio, che è l’istesso che aspirare a Dio: ed anche, come dice S. Bonaventura (D. Bonav. ubi supra), perché  siccome respirando ricaviamo e tramandiamo senz’alcun altro atto deliberato il fiato dalla parte più intima del nostro corpo; così con gran prestezza e alle volte senza deliberazione, o quasi senza essa, caviamo questi accesi desiderii dall’intimo del nostro cuore. Queste aspirazioni e questi desiderii vengono dall’uomo espressi concerte brevi e frequenti orazioni che chiamano giaculatorie; Raptim jaculatas, dice S. Agostino (D. Aug. ep. ad Probam, quæ est 121); perché sono come certi dardi e saette infocate ch’escono dal cuore e in un punto si lanciano e drizzano a Dio. Usavano assai queste orazioni quei Monaci dell’Egitto, come dice Cassiano: Breves quidem, sed creberrimæ (Cass. Lib. 2 de ist. renunt.); e le stimavano e ne facevano gran conto; sì perché, come sono brevi, non istraccano il capo; sì anche perché si fanno con fervore e con spirito elevato, e in un punto si trovano nel cospetto di Dio; e così non danno tempo al demonio di frastornare colui che le fa, né di mettergli nel cuore impedimento alcuno. Dice S. Agostino certe parole degne di considerazione per tutti quelli che fanno profession d’orazione: Ne illa vigilans et erecta intentio, quæ tam necessaria est oranti, per productiores moras hebetetur (S. Aug. ep. ad Probam.); e le quali mostrano l’utilità di queste giaculatorie le quali servono acciocché quella vigilante e viva attenzione che è necessaria per orare colla dovuta riverenza e rispetto, non si vada rimettendo e perdendo, come suol avvenire nell’orazion lunga (S. Chrys. hom. 79). Ora con queste orazioni giaculatorie procuravano que’ santi Monaci di star sempre in questo esercizio, alzando molto spesso il cuore a Dio e trattando e conversando con esso Lui (Abbas Isaac collat. 10, c. 10). Questo modo di stare alla presenza di Dio è comunemente più a proposito per noi altri, più facile e più utile. Ma bisognerà dichiarar meglio la pratica di questo esercizio. Cassiano la mette in quel versetto, Deus, in adjutorium meum intende: Domine, ad adjuvandum me festina (Ps. LXIX), che la Chiesa replica nel principio di ciascuna Ora Canonica. Se cominci qualche affare pericoloso, chiedi a Dio che t’aiuti per uscirne bene. Signore, rivolgiti in aiuto mio: Signore, non tardare ad aiutarmi. Per ogni cosa abbiamo necessità del favor del Signore, e così sempre glielo abbiamo d’andare chiedendo. E dice Cassiano, che questo versetto è meraviglioso e molto a proposito per esprimere tutti i nostri affetti inqualsisia stato e in qualsivoglia occasione, o accidente nel quale ci veggiamo; perché con esso invochiamo l’aiuto di Dio; con esso ci umiliamo e riconosciamo la nostra necessità e miseria: con esso ci alziamo su e confidiamo di esser uditi e favoriti daDio; con esso ci accendiamo nell’amor del Signore che è il nostro rifugio e il Protettor nostro. Per quante battaglie e tentazioni ti si possono presentare, dice Cassiano, hai qui in pronto un fortissimo scudo, una corazza impenetrabile, e un muro inespugnabile: e così l’hai da portar sempre nella bocca e nel cuore; e questa ha da essere la tua continua e perpetua orazione, e il tuo camminare e star sempre alla presenza di Dio. S. Basilio mette la pratica di questo esercizio nel prendere occasione da tutte le cose di ricordarci di Dio. Se mangi, ringrazia Dio: se ti vesti, ringrazia Dio: se esci in campagna, o vai all’orto, o al giardino, benedici Dio che l’ha creato: se guardi il cielo, se guardi il sole, e tutto il resto, loda il Creatore di ogni cosa: quando dormi, ogni volta che ti svegli, alza il cuore a Dio (D. Basil. hom. in mart. Julitam). Altri, perché nella vita spirituale vi sono tre vie; una purgativa, che appartiene ai Principianti; un’altra illuminativa, che appartiene a’ Proficienti; e un’altra unitiva, che appartiene a’ Perfetti; mettono tre sorte d’aspirazioni e d’orazioni giaculatorie. Alcune sono indirizzate a conseguire il perdono de’ peccati e a purgare l’anima da’ vizi e dagli affetti terreni; e questea ppartengono alla via purgativa. Alcune altre sono indirizzate all’acquisto della virtù, al vincer le tentazioni, e ad incontrare di buon grado difficoltà e travagli per la virtù; e queste appartengono alla via illuminativa. Alcune altre poi sono indirizzate ad acquistar l’unione dell’anima con Dio mediante un legame di perfetto amore; e queste appartengono alla via unitiva; acciocché ciascuno s’applichi a questo esercizio proporzionatamente al suo stato e alla disposizione in cui troverassi. Ma quanto a questo, sia pur uno quanto si voglia perfetto, si può esercitare nel dolore de’ peccati, e in chieder a Dio il perdono di essi e grazia per non offenderlo mai, e sarà esercizio molto buono e molto grato a Dio. E questo tale, e quegli altresì che attende a purgar l’anima sua da’ vizi e dalle passioni disordinate, e ad acquistare le virtù, si potrà anche esercitare in atti di amor di Dio, per far questo stesso con maggiore facilità e soavità. E così tutti, in qualunque stato si trovino, possono indifferentemente per questo esercizio frequentare questi atti, dicendo: O Signore, non vi avessi mai offeso! Non permettete, Signore, che io vi offenda giammai. Morir sì, ma non peccare. Piaccia alla Divina Maestà Vostra, che più tosto io muoia ben mille volte, che mai cada in peccato mortale. Alcune altre volte può uno alzare il suo cuore a Dio, ringraziandolo dei benefici ricevuti, così generali come particolari, o chiedendo qualche virtù; quando profonda umiltà; quando perfetta ubbidienza; quando carità; quando pazienza. Alcune altre volte può uno alzare il suo cuore a Dio con atti d’amore e di conformità alla volontà sua santissima, come dicendo: Dilectus meus mihi, et ego illi (Cant. II, 16): — Non mea voluntas, sed tua fiat (Luc. XXII, 42) :Quid enim mihi est in cœlo et a te quid volui super terram (Ps. LXXII, 24)? Queste ed altre simili sono tutte buone aspirazioni ed orazioni giaculatorie, per istare sempre in questo esercizio della presenza di Dio: e le migliori e più efficaci sogliono essere quelle che il cuore mosso da Dio concepisce da se stesso, benché non sia con parole tanto eleganti e tanto ben composte come quelle che abbiamo dette. Né meno è necessario, che siano molte e diverse queste orazioni: perché una sola reiterata spesso e con grande affetto può bastare ad uno per far quest’esercizio molti giorni e anche tutta la vita. Se ti trovi bene coll’andar dicendo sempre quelle parole dell’apostolo S. Paolo: Signore, che cosa volete ch’io faccia? (Act. IX, 6) o quelle della Sposa: Il mio Diletto per me, ed io per esso: o quelle del profeta David: Che cosa ho io da volere, Signore, né in cielo, né in terra se non voi (PS. LXXII)? non hai bisogno d’altro: trattienti in questo, e sia questo il tuo continuo esercizio e il tuo camminare e stare alla presenza di Dio.

CAPO IV.

Si dichiara anche meglio la pratica di questoesercizio, e si propone un modo di camminare e stare alla presenza di Dio molto facile ed utile, e di gran perfezione.

Fra le altre aspirazioni ed orazioni giaculatorie che possiamo usare è molto principale e molto a proposito per la pratica di questo esercizio quella che c’insegna l’apostolo S. Paolo nella prima Epistola a que’ di Corinto: Sive manducatis, sive bibitis, sive aliud quid facitis; omnia in gloriam Dei facite (1 ad Cor. X, 31): O mangiate, o beviate, o facciate qualsivoglia altra cosa; ogni cosa fatela a gloria di Dio. Procurate in tutte le cose che farete, o quanto più frequentemente potrete, d’alzare il cuore a Dio, dicendo: Per Voi, Signore, fo questa cosa: per darvi gusto e per piacere a Voi, perché così Voi volete. La vostra volontà, Signore, è la mia, e il vostro gusto è il mio; né ho io altro volere, né altro non volere, che quello che voi volete, o non volete: questa è tutta la mia allegrezza, tutto il mio gusto, tutta la mia ricreazione, l’esecuzione e l’adempimento della vostra volontà, il piacere e dar gusto a voi: né v’è altra cosa che volere, né che desiderare, né in che metter l’occhio né in cielo né in terra. Questo è un modo molto buono di camminare e star sempre alla presenza di Dio molto facile ed utile, e di gran perfezione: perché è star in un continuo esercizio d’amor di Dio. E perché  in altri luoghi abbiamo toccato e per l’avvenire toccheremo di nuovo questa cosa, qui solamente voglio dire, che questo è uno de’ migliori e più utili modi di star sempre in orazione che vi siano e che possiamo usare. Né pare che vi manchi altra cosa per finire di canonizzare e di esaltare questo esercizio, che dire, che con esso staremo in quella continua orazione che Cristo nostro Redentore ricerca da noi, come abbiamo dal sacro Evangelio: Oportet semper orare, et non deficere (Luc. XVIII, 1): perciocché qual orazione può esser migliore che lo star sempre desiderando la maggior gloria ed onore di Dio, e lo starci sempre conformando alla volontà sua, non avendo altro volere, né altro non volere, che quello che vuole, o non vuole Dio, e che tutto il nostro gusto e la nostra allegrezza sia il gusto e la soddisfazione di Dio? Perciò dice un Dottore mistico (D. Dionys. Rich. Lib. 1 de contempi, c. 25), e con gran ragione, che colui che persevererà diligentemente in quest’esercizio con questi affetti e desideri interni, caverà da esso tanto frutto, che in breve tempo sentirassi mutato e cambiato il cuore, e proverà in esso particolare avversione al mondo e singolare affezione a Dio Questo è cominciare di qua ad essere cittadini del cielo e famigliari della casa di Dio. Jam non estis hospites et advenos; sed estis cives Sanctorum, et domestici Dei (Ad Ephes. II, 19). Questi sono quei celesti cortigiani che vide S. Giovanni che avevano il nome di Dio scritto nelle loro fronti, che è la continua memoria e presenza di Dio. Et videbunt faciem ejus, et nomen ejus in frontibus eorum (2 Apoc. XXII, 4) perché la loro conversazione non è più in terra, ma in cielo: Nostra autem conversatio in cœlis est (Ad Philipp, III, 20). — Non contemplantibus nobis quæ videntur, sed quæ non videntur: Quæ enim videntur, temporalia sunt; quæ autem non videntur, æterna sunt (II. ad Cor. IV, 18).Bisogna però avvertire in quest’esercizio,che quando facciamo questi atti, dicendo: Per voi, Signore, fo questa cosa, per amor vostro, e perché così voi volete, ed altri simili; abbiamo da farli e da dirli come chi parla con Dio presente, e non come chi volge il cuore, o il pensiero, a cosa lontana da sé, o fuori di sé. Questa avvertenza è di grande importanza in questo esercizio; perché questo è propriamente camminare e stare alla presenza di Dio, e questo è quello che rende quest’esercizio facile e soave, e fa che muova e giovi più. Ancora nelle altre orazioni, quando meditiamo Cristo in croce, o alla colonna, avvertono quei che trattano d’orazione, che non abbiamo da immaginarci, che quel Mistero operossico là in Gerusalemme e mille e tante centinaia d’anni sono; perché questo stracca più e non muove tanto; ma che dobbiamo immaginarci ogni cosa come presente, e che tutto segua qui dinanzi a noi, figurandoci di sentire i colpi de’ flagelli e le martellate onde furono confitti i chiodi. E se facciamo la meditazione della morte, dicono, che abbiamo da immaginarci di star già per morire disperati dai medici e con la candela in mano. Quanto dunque sarà più ragionevole, che in quest’esercizio della presenza di Dio facciamo questi atti che abbiamo detti, non come chi parla con chi è assente e lontano da noi; ma come chi parla con Dio presente; poiché lo stesso esercizio lo ricerca e realmente la cosa sta così.

CAPO V.

Di alcune differenze e vantaggi che sono nelfin qui proposto esercizio della presenza di Dio relativamente ad altri che si soglion proporre.

Acciocché si possa veder meglio la perfezione e l’utilità grande di questo esercizio e modo di camminare e di stare alla presenza di Dio, del quale abbiamo ragionato, e resti con ciò la cosa meglio dichiarata, noteremo ora alcune differenze o vantaggi che trovansi in questo esercizio, rispettivamente ad alcuni altri. – Primieramente, in altri esercizi che alcuni sogliono preporre di camminare e stare alla presenza di Dio, ogni cosa pare che sia atto d’intelletto e ogni cosa pare che finisca in immaginarsi Dio presente; ma questo presuppone quest’atto d’intelletto e di fede, che Dio sia presente, e passa avanti a fare atti d’amore di Dio, e in questo consiste principalmente: e questa seconda cosa senza dubbio è migliore e più utile che la prima. Siccome nell’orazione diciamo (tract. 5, c. 11), che non ci dobbiam fermare nell’atto dell’intelletto, che è la meditazione e considerazione delle cose, ma negli atti della volontà, cioè negli affetti e desideri della virtù e dell’imitazione di Cristo, o che questo ha da essere il frutto dell’orazione; così qui la parte principale, migliore, e più utile di quest’esercizio, sta negli atti della volontà: onde questa è la cosa nella quale abbiamo da insistere. – Secondariamente, il che viene in conseguenza di quello che abbiamo detto, quest’esercizio è più facile e più soave degli altri; perché negli altri vi bisogna discorso e fatica dell’intelletto e dell’immaginativa per rappresentarci dinanzi le cose, che è quello che suole straccare e rompere il capo alle persone, e così non può durar tanto; ma in quest’altro esercizio non vi bisogna discorso, ma affetti e atti della volontà, i quali si fanno senza stanchezza; perché sebbene è vero, che vi è pur qualche atto dell’intelletto, questo però si presuppone per mezzo della Fede, senza che ci stracchiamo per farlo sì espressamente, come quando adoriamo il santissimo Sacramento, che presupponiamo per mezzo della Fede, che sta ivi Cristo Salvator nostro, tutta la nostra attenzione e occupazione si volge ad adorare, riverire, amare e chiedere grazie a quel Signore che sappiamo che sta ivi; così passa la cosa in quest’esercizio. E quindi è, che per essere più facile, potrà uno durare e perseverare in esso più lungamente; perciocché anche agli infermi, i quali non possono fare molta orazione, siamo soliti dar per consiglio, che usino d’alzare spesso il cuore a Dio con alcuni affetti e atti della volontà, essendo che questi si possono far facilmente. Onde, quando bene non avesse in sé altro vantaggio quest’esercizio, che il potersi durare e perseverare in esso più che negli altri, lo dovremmo stimare grandemente; quanto più poscia essendovi tanti vantaggi? – In terzo luogo, e questo è un punto principale e molto qui da avvertirsi, l’esercizio della presenza di Dio non è solamente per fermarci in esso, ma ci deve servire di mezzo per far bene le nostre operazioni. Perché, se ci contentassimo d’aver solamente attenzione all’essere Dio presente, e con ciò nelle nostre operazioni ci trascurassimo, e facessimo mancamenti ed errori in esse, questa non sarebbe buona divozione, ma illusione. Sempre abbiamo da premere in questo, che quantunque teniamo fisso un occhio alla sovrana Maestà di Dio, l’altro nondimeno stia volto a far bene le opere per amor suo. E il considerare che stiamo alla presenza di Dio ci ha da servire di mezzo per far meglio e con maggior perfezione ciò che facciamo. Or questo si fa molto meglio con questo esercizio che con gli altri; perché con gli altri s’occupa assai l’intelletto in quelle figure corporali che uno si vuol rappresentare innanzi, o nei concetti che vuol ricavare dall’avere presente quel Signore che ha, e per ricavarne il buon pensiero molte volte la persona non guarda a quello che fa, e lo fa malamente; ma quest’esercizio, come in esso non vi è occupazione dell’intelletto, non impedisce punto l’esercizio delle opere, anzi aiuta assai a farle riuscire ben fatte, perché la persona le sta facendo per amor di Dio che la sta mirando; e così procura di farle in tal maniera e tanto bene, che possano comparire innanzi agli occhi di Dio, e non sia in esse cosa indegna della sua presenza. Intorno al qual punto abbiamo già di sopra spiegato (tract. 2, c. 3) come questo stesso è un altro modo molto buono, e molto utile, e proposto ancora dai Santi, di camminare e stare alla presenza di Dio: e così non istaremo qui a replicare.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (Agg. 2)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

AGGIUNTA AL COMBATTIMENTO SPIRITUALE. (2)

Che abbia Iddio fatto per l’uomo, e con che animo, e che sarebbe per fargli, se fosse bisogno.

CAP. XXI.

Quello che Iddio abbia fatto all’uomo, e per l’uomo, si può vedere medicando la Creazione, e la Redenzione. L’animo poi, con cui l’abbia fatto, ed operato la sua salute, supera l’infinito. – Infinito è stato il prezzo del riscatto, ma l’animo è stato più perché avrebbe voluto patire più e più volte morire, se fosse strato bisogno. Se dunque al riscatto tu devi tutta te stessa infinite volte, in qual modo resti debitrice all’anima di Dio verso di te, che avanza e supera esso riscatto.

Che faccia Iddio ogni giorno per l’uomo.

CAP. XXII.

Non giorno, non è momento che  l’uomo non riceva da Dio nuovi benefizi, perché ogni giorno e momento Iddio lo crea, conservandolo nell’essere. Ogni momento Iddio lo serve con le sue creature col Cielo, con l’aria, con la terra, con il mare, e con quanto è in loro. Ogni giorno gli dà la sua grazia, chiamandolo dal male al bene, guardandolo che non pecchi, e peccando lo aiuta perché più non pecchi. L’aspetta, lo chiama a penitenza, e venendo a Lui più presto gli perdona, che non è Egli presto a volere il perdono. Ogni giorno gli manda il suo Figliuolo, con tutte le ricchezze de’ misteri della Croce, e glielo tiene presente nel Sacramento dell’Altare.

Questa bontà mostri Iddio aspettando e tollerando il peccatore.

CAP. XXIII.

Perché tu conosca quanto di bontà mostri Iddio, sostenendo il peccatore, considera prima che amando Iddio la virtù indicibilmente, cosi all’incontro odia infinitamente. Che bontà dunque mostra Iddio sostenendo il peccatore, che innanzi agli occhi della sua purità e Maestà commette molte scelleratezze, non una, due, o tre volte , ma più, e più? – Ben mi avvedo (può dire il peccatore) Signor mio, che quando io peccavo, tu mi dicevi al cuore: Staremo a vedere, chi di noi due la vincerà, Tu ad offendermi, ed Io a perdonarti. Questo punto ben meditato, credo accenderà, con la grazia di Dio, il cuore del peccatore, perché presto si converta a Dio. Che se non lo farà, ha da temere molto gli alti ed inscrutabili giudizi di Dio, dai quali sogliono uscire colpi di vendetta molto presti, tremendi, e senz’alcun rimedio.

Che sia per fare Iddio nell’altra vita, non solo a chi l’ha sempre servito, ma al peccatore convertito.

CAP. XXIV

Sono tali, e tanti i favori, e le felicità, che si ricevono da Dio nella celeste Patria, che qui non si possono immaginare, né si sanno desiderare chiaramente, e compiutamente. Chi arriverà mai ad intender bene che cosa sia sedere l’uomo alla mensa di Dio, ministrandoli Egli, e cibandolo della sua beatitudine? Chi  s’immaginerà che cosa sia l’entrata dell’anime beate nel gaudio del Signor suo? E chi comprenderà mai l’amore e la stima, che mostra Iddio ai suoi Cittadini di cui parla S. Tommaso nell’Op. 63. Deus omnìpotens singulis Angelis sanctisque animabus in tantum se subiicit, quasi sit servus emptisius singulorum, quilibet vero ipsorum sit Deus suus. – O Signore, o Signore, chi va spesso profondamente considerando le tue opere verso le creature, ti ritrova così inebriato d’amore, che pare che la tua beatitudine consista in amarle, in far loro bene, ed in cibarle di te stesso. O Signore, dacci questa suddetta considerazione, in tal modo che poi ti amiamo, ed amandoti, diventiamo te stesso per unione amorosa. O cuore umano, dove corri? Appresso l’ombra? Appresso il vento? Appresso il niente? Lasciando quello che è ogni cosa? L’Onnipotenza? La somma Sapienza? L’ineffabile Bontà? L’increata Bellezza? Il sommo Bene, ed il Pelago infinito di ogni perfezione? Egli ti corre appresso, chiamandoti con tanti cari gridi e nuovi benefizi, non che con gli antichi solamente. Sai, donde nasce un tanto tuo male? Perché non ori! Perché non mediti! Onde stando senza luce, e senza calore, non è meraviglia che non ti muovi dalle opere delle tenebre. – Entra, entra ormai, o anima, o Religioso tiepido, nella scuola della suddetta meditazione ed orazione, che in essa tu imparerai per prova, che il vero studio del Cristiano e del Religioso, è studiare di negare la propria volontà, perché faccia quella di Dio, odiare se stesso, perché ami Dio. E che tutti gli altri studi, senza questo (siano pur di tutte le scienze) non sono altro, che legna di presunzione e di superbia, e che quanto più illuminano l’intelletto, più accecano la volontà a rovina delle proprie anime, di chi l’acquista.

Del quinto soccorso della volontà umana.

CAP. XXV

L’Oblio di noi stessi è un soccorso necessario alla volontà nostra, perché senza quello non verrà mai il soccorso dell’Amore divino, Autore d’ogni bene. Il modo di conseguirlo è che prima si domandi a Dio, poi, che si vadano meditando i danni, che ha fatto, e fa tuttavia l’amor proprio all’uomo. Non è  stato danno, né in cielo né in terra, che non sia nato dall’amor proprio. Questo amor proprio, e di noi stessi, è di tanta malignità, che se l’entrata sua in cielo fosse possibile, di subito da celeste Gerusalemme, diventerebbe una Babilonia. Or si consideri, che fa questa dentro un petto umano, ed in questa vita presente. Togli l’amor proprio dal mondo, che di subito l’Inferno si serra. E chi sarà quegli tanto empio contro se stesso, che meditando l’essere, la qualità, e gli effetti dell’amor proprio, non se gli sdegni contro, e non l’odi?

In qual modo si possa conoscere l’amor proprio.

CAP. XXVI

Perché tu conosca, quanto sia  in te largo e s’estenda il regno dell’amor proprio, ricorri spesso a vedere con quale passioni dell’anima sia più spesso occupata la volontà tua, perché non la ritroverai sola. E ritrovandola che ama o desidera, o che sia allegra, o mesta; considera allora bene, se la cosa amata, o desiderata, sia delle virtù e secondo i precetti di Dio, e l’allegrezza parimente, o la tristezza, se sia di quelle cose, di cui Dio vuole che ci rallegriamo, o attristiamo; ovvero il tutto nasca dal Mondo e dagli attacchi delle creature, perché sta negoziando con le creature, non per necessità, e quanto ricerca il bisogno, e come vuole Iddio; e s’è cosi, è chiaro che l’amor proprio regna nella tua volontà, e muove il tutto. Ma se i negozi ed occupazioni della volontà sono intorno alle virtù e nelle cose che vuole Iddio, è più da considerarsi, s’ella a quei negozi è mossa dalla volontà di Dio, oppure da qualche sua compiacenza e capriccio, perché spesso accade, che alcuno mosso da un so che di capriccio e compiacenza, si dia a diverse opere buone, come alle orazioni e digiuni, alle comunioni e ad altre opere sante. La prova di questo è in due modi. L’uno è se la volontà tua non si da nelle occasioni a tutte le opere che sono buone indifferentemente. E l’altro è, se sopravvenendo gli impedimenti, si lamenta, inquieta e turba; ovvero, succedendo a voglia sua, si compiace di se stessa, e si diletta. Che se è mossa da Dio, oltre il suddetto, s’ha da considerare, dove ed a che fine indirizza essa più le opere sue. Perché se il fine è il puro compiacimento di Dio, va bene il negozio, ma non però in tal modo che l’uomo vi si possa assicurare, tanto è sottile, ed acceso nelle opere buone e negli atti di virtù, l’amore di noi stessi. Quando appare manifesta questa crudelissima bestia dell’amor proprio, devesi con ogni odio perseguitare a morte, e nelle cose piccole, non che nelle grandi solamente. Dell’occulto si deve sempre star sospetto. Onde umiliata, datti la mano nel petto, dopo qualunque opera buona, pregando Iddio che ti perdoni e guardi, dall’amore di te stessa. Sarà dunque bene, che a buon ora la mattina, rivolta tu al Signore, ti protesti, che il tuo pensiero è di non offenderlo mai, e particolarmente in quel giorno, ma di far sempre in ogni cosa la sua divina volontà, e questo per piacergli. Del che ne pregherai spesso Iddio, che ti soccorra sempre e tenga la mano sul capo, acciocché tu conosca, e faccia quanto a Lui piace, e come a Lui piace.

Del sesto soccorso.

CAP. XXVII

L’ascoltare la Messa, è il sesto soccorso della volontà dell’uomo, la Comunione ancora e la Confessione. Perché essendo la grazia di Dio necessario soccorso, e principale della nostra volontà, acciò si guardi dal  male, e faccia il bene, ne segue che tutto quello in cui si acquista aumento di grazia, sia soccorso dalla volontà. Perché tu adunque ascoltando le Messe acquisti aumento di grazia, l’ascolterai nel seguente modo. Nella prima parte (che in tre si divide la Messa) che si estende dall’introito infino all’Offertorio, studierai di accenderti di un desiderio grande, che siccome il Figliuolo di Dio dal Cielo venne e nacque al Mondo, perché in questa nostra terra si accendesse il fuoco del suo amore, così si degni di venire e nascere con la sua virtù nell’intimo del tuo cuore, ut ardeat, non pensando ad altro, che a piacergli in ogni occasione, mentre vivi e sempre. Quando poi dal Sacerdote si dicono le orazioni, col desiderio acceso, domanda anco tu, anima bisognoso, le stesse grazie. E cominciandosi a dire l’Epistola e l’Evangelo, domanda con la mente a Dio intelletto e virtù, perché intenda il senso loro, e l’osservi in tutto. – Nella seconda parte, la quale incomincia dall’Offertorio fino alla Comunione, toltati tutta da ogni attacco e pensiero delle creature, e di te stessa, offriti tutta a Dio, e ad ogni suo volere. – Ed alzandosi l’Ostia, e il calice consacrato, adoraci il vero Corpo, e Sangue di Cristo, con tutta la Divinità. Contemplando sotto quegli accidenti di pane, e di vino ascoso, rendigli amorose grazie, che ogni giorno si degni venire a noi con i frutti preziosi dell’albero della Croce sua, e con la stessa offerta, per gli stessi fini, ch’Egli fece di sé al celeste Padre, offrilo tu ancora all’istesso Padre. Poi comunicandosi sacramentalmente il Sacerdote, comunicati spiritualmente, aprendogli il cuore, con chiuderlo a tutte le creature, affine che esso Signore vi accenda il fuoco del suo amore. Nella terza ed ultima parte, insieme col Sacerdote, egli con la lingua, e tu con la mente, domanderai quanto nelle orazioni dopo la Comunione si domanda.

Della Comunione Sacramentale.

CAP. XXVIII

Poiché tu comunicandoti, riceva aumento grande di grazia, ci bisognano ottime disposizioni, le quali non potendole noi avere da noi, tali quali si convengono, si dirà con grande affetto la seguente Orazione. Conscientia nostras, quæsumus Domine, visitando purifica, ut veniens JESUS Christus Filius tuus, Dominus noster, cum omnibus Sanctis, paratam sibi in nobis inveniat mansionem. Qui tecum, etc. Ma per non mancare noi dalla nostra parte di far qualche cosa insieme con l’aiuto divino, la preparazione tua farà il considerare prima: a che fine Cristo istituì il Ss. Sacramento dell’Altare. E ritrovando, che fu, perché ci ricordassimo dell’amore che ci mostrò nei misteri della Croce, considera di più: A che fine vuole questa memoria. Ed essendo, a fine, perchè noi l’amassimo, ed ubbidissimo, ottima preparazione sarà la nostra, un desiderio e voglia accesa di amarlo, ed ubbidirlo, dolendoci che per lo passato non l’abbiamo amato, ma offeso. E con questo desiderio, e voglia accesa di amarlo, ci prepariamo infino al tempo della Comunione. In quello poi che sei per comunicarti, avvivando la fede, che sotto quegli accidenti di pane consacrato, sia il vero Agnello di Dio, che toglie i peccati, adoralo profondamente, e pregalo, che tolga dal tuo cuore ogni peccato occulto, con tutti gli altri, ricevilo con la speranza, che ti abbia a dare il suo amore. Ricevuto che l’avrai, ed introdotto nel tuo cuore, domandagli più e più volte il suo amore, ed ogni altro bisogno per piacergli. Dopo l’offrirai al Celeste Padre, per sacrificio di lode della sua immensa carità, che ci ha mostrata in questo beneficio, ed in tutti gli altri della Redenzione, e perchè ti dia il suo amore e per li bisogni dei  vivi, e dei morti.

Della Confessione Sacramentale.

CAP. XXIX

La Confessione, per esser fatta come si deve, ha bisogno di più cose. prima d’una buona ricercata di coscienza intorno ai precetti di Dio, ed allo stato tuo. E ritrovati i tuoi peccati, benché piccoli, piangili amaramente, considerando l’offesa della Maestà di Dio  e l’ingratitudine contro la sua bontà e carità, usata dall’uomo: onde vituperandoti, dirai contro te queste belle parole: Haccine reddis Domino, stulte, et insipiens? Nunquid non ipse est Pater tuus, qui possedit te, et fecit, et creavìt te? – E ripigliando più volte una voglia accesa, che non fosse stato offeso Dio, di’: Oh, che non fosse stato offeso il mio Creatore, il mio Padre Celeste, il mio Redentore, ed avessi io patito ogni altro male. – Poi rivolta à Dio, con erubescenza e fede, che ti abbia a perdonare, digli di tutto cuore: Pater, peccavi in cœlum, et coram te; jam non sum dìgnus vocari filius tuus; fac me sicut unum ex mercenariìs tuis. – E ripigliando di nuovo il dolore dell’offesa divina, con proponimento di voler piuttosto sopportare qualunque pena, che volontariamente offender Dio; confessa i tuoi peccati al Confessore con erubescenza e dolore, appunto come li hai fatti, senza scusarti, o accusar altri. Dopo la Confessione, rendi grazie a Dio, che contuttoché tanto e tante volte è offeso, non resta però, che Egli non sia più presto al perdonare, che il peccatore a ricevere il perdono. Dal che pigliando occasione di più dolerti d’aver offeso un sì benigno Padre, con più piena volontà proponi di non volere più offenderlo con l’aiuto suo, e di MARIA Vergine, e dell’Angelo Custode, e d’altro particolare tuo devoto Santo e Protettore.

Come s’abbia a vincere la passione disonesta.

CAP. XXX.

Tutte le altre passioni si vincono affrontandole, e combattendole, benché si ricevano delle ferite, e col richiamarle ancor a battaglia, insino a tanto, che si superino in ogni voglia loro, e grande e piccola. Ma questa passione disonesta non solo non bisogna eccitarla, ma allontanarla da tutte quelle cose che la potessero eccitare. Vincesi dunque la tentazione della carne, e si mortifica la passione disonesta, fuggendo, e non combattendo da fronte a fronte. Chi dunque più presto fugge, e più lontano, più sicuramente vince.  – I buoni abiti, la volontà sincera, le prove passate e le vittorie, le parentele, e gli oggetti di poca e brutta apparenza, che non minacciano pericolo, e qualsivoglia altra cosa, che paia promessa di sicurtà, non sono buoni argomenti, perchè tu non debba fuggire.  Fuggite, fuggi, se non vuoi esser presa, anima diletta. Che se vi sono delle persone, che praticando con persone pericolosissime tutta la vita loro, non siano cadute, questo non tocca a te, ma ai giudizi di Dio: oltre che, ove alle volte non si vedono le cadute, ivi si sta più per terra. Fuggi tu, ed ubbidisci agli  avvisi, ed esempi, che Iddio ti dà nella Scrittura, e nella vita di tanti gran Santi, ed ogni giorno in questo, ed in quello. Fuggi, fuggi, lenza volgerti indietro a vedere, o pensare da che oggetto tu sii fuggita, che anche in questo è il pericolo, che non ritorni addietro. E bisognando praticare, sia corta e presta la tua pratica, ed abbia piuttosto del rustico il trattare, che del gentile, che anche qui sta il rischio, la fiamma ed il fuoco. – Qui va bene quell’avviso: Ante languorem adhibe medicinam. Non aspettare, che t’infermi, ma fuggi a buon’ora, che quella è la medicina di salute. E venendoti per disgrazia l’infermità, tutta la salute sta che nell’istesso momento, che si sente: Tu teneas, et allidas parvulos tuos ad petram; correndo al Confessore, senza nascondergli un peccatuccio veniale di questa passione, perché questo nascosto, germoglia più, e si fa grande.

Da tante cose s’ha da fuggire, perché non si cada nel vizio disonesto.

CAP. XXXI

La fuga, perché non si diano le ali al ischio della passione dell’amore disonesto, ha da essere da molte cose. La prima, e principale è delle persone, che minacciano evidente pericolo. La seconda, anco dalle altre, quando si può. La terza, dalle visite, dalle ambasciate, dai presenti, ed amicizie, benché larghe, perché le cose larghe, si possono fare strette più facilmente che non le strette larghe. La quarta dai ragionamenti dì tal passione, dalle musiche e canzoni, e libri di poco buoni costumi. La quinta fuga, da pochi conosciuta ed avvertita, e meno praticata, la fuga dal diletto universale delle creature, come di vestimenti, di varie cose, che si tengono nelle camere solo per diletto, di cibi ed altre cose, i quali diletti, sebbene il più delle volte sono leciti, tuttavia avvezzano il cuore dell’uomo a dilettarsi, e lo tengono avido di diletto. Onde offrendoglisi poi il disonesto (che di natura sua è presto a ferire, ed a penetrare le midolla delle ossa), difficilmente esso cuore trova la via di mortificarsi nei diletti, non avendola mai altre volte praticata. Onde all’incontro i cuori avvezzi a fuggire dai diletti leciti, accadendo che se gli offrano degli illeciti e disonesti, ne fuggono dal nome solo, non che da essi, con facilità grande.

Che cosa s’abbia a fare, quando in questo vizio disonesto s’è caduto.

CAP. XXXII

Accadendo, che per disgrazia o talora per malizia tu sia caduta in questo vizio di carne, il rimedio è, perché tu non aggiunga peccato a peccato, che corra presto con ogni velocità, senz’altro esame di coscienza alla Confessione, ove lasciare tutte le prudenze umane, tu dica a bocca piena, e manifesti tutta la tua infermità, pigliando qualunque medicina e consiglio ti vien dato, sia pur amaro e duro, quanto si voglia. Non indugiare, siano pur cento e mille ragioni dell’indugio, perché se tu indugi, tu ricadi, dal cui ricadimento nascono poi altri indugi, di maniera, che da indugi, ricadimenti, e dai ricadimenti, nuovi indugi procedendo, verrai a passare gli anni, innanzi, che ti confessi, e che ti levi dal peccato. Per conclusione dunque di questo vizio disonesto, ti avviso di nuovo, che se non vuoi cadere, fuggi. E dei pensieri, che ti vengono per piccoli, che siano, stimali, e fuggili, niente manco dei grandi e per molta chiarezza, che avessi, quando li hai fuggiti presto, sono peccati leggeri, confessali pure, e scopri il tuo nemico al confessore. Ed essendo caduta, corri alla Confessione, non ti lasciando mai vincere dalla vergogna.

Di alcuni motivi, perché il peccatore debba convertirsi presto a Dio.

CAP. XXXIII.

Il primo motivo, perché il peccatore debba ritornare a Dio, è la considerazione dello stesso Iddio,  il quale essendo il sommo Bene, la somma Potenza, Sapienza, e Bontà, non deve l’uomo avere ardimento di offenderlo. – Non per via di prudenza, perché  è mala elezione, pigliarsela con l’onnipotenza, e col supremo Giudice, che l’ha da giudicare. Non per via di convenienza e di Giustizia, non essendo cosa da tollerarsi, che il niente, il fango, e la creatura offenda il Creatore: il servo il Signore, il beneficato il suo Benefattore: il figlio il Padre. – Il secondo motivo è l’obbligo grande del peccatore, perché presto ritorni in casa di suo Padre, essendo la conversione del figlio ed il ritorno in casa, onore al Padre, e festa a tutta la casa sua, alla vicinanza, ed agli Angioli del Cielo. Ché siccome prima, peccando, il figlio offese il Padre, e lo irritò, così ritornando con i pianti amari dell’offesa, e con piena volontà di volergli per l’avvenire in tutti i suoi precetti ubbidire, ed in ogni cosa, l’onora, lo rallegra, e gli ferisce in tal modo il cuore, e muove a misericordia, che non gli basta l’aspettarlo con desiderio, ma correndogli all’incontro, gli cade sul collo, lo bacia, e lo veste della sua grazia, e degli altri doni suoi. Il terzo è l’interesse proprio, perché ha da considerare ogni peccato, che se non si converte a tempo, di certo venendo l’inverno, ed il giorno del sabato, per sempre cadrà nelle pene dell’Inferno, dove quando mai non fosse altra pena, che l’accrescerglisi in infinito le passioni, che lo tenevano in peccato, senza speranza che pur una volta abbia di quelle acque che gli piacevano tanto, quanto ne può portare la sommità di un dito, questo lo dovrebbe atterrire. Né è buona fidanza il suo proponimento di convertirsi nell’ultimo di sua vita, o di là ad alcuni anni, o mesi, perché questo proponimento è pazzo, e pieno di empia malizia. Effetto di poco cervello è proporre di superare una difficoltà grande nel tempo, che l’uomo si trova più fiacco. Il peccatore continuando nel peccato, ogni giorno diventa più fiacco alla conversione, e per l’abito, che va più crescendo e convertendosi in natura, e per l’indisposizione maggiore a ricevere la grazia della conversione: ed anche perché sdegnando Dio con l’empia malizia di pigliarsi quanto può alle creature, e poi all’ultimo fiato, o tardi darsi a Dio interessatamente, viene a togliergli la voglia di aiutarlo efficacemente. È anche da pazzo il suddetto consiglio e proponimento perché,  concessagli la possanza della conversione, e la grazia efficacia, la sicurtà poi, che trattando non muoia di spirito, e senza parola come a tanti e tanti è avvenuto ed avviene, chi gliela data o darà. – Grida, grida, peccatore adesso che leggi, al tuo Signor dicendo: Converte me, et convertar, quia tu Dominus Deus meus! Né cessar mai, infino a tanto che non sii convertito al tuo Signore e Padre, piangendo dirottamente la sua offesa, con una rassegnazione a quanto gli piacerà per per sua soddisfazione.

Del modo di  procurarsi il pianto dell’offesa a Dio, e la conversione.

CAP. XXXIV

Miglior modo di procurarsi il pianto dell’offesa di Dio, non è che la meditazione della grandezza della Bontà di Dio, e non della sua carità che ha mostrato all’uomo. Perché chi considera, che peccando ha offeso il sommo Bene, e l’ineffabile Bontà, che non sa se non far bene, né altro ha fatto e fa tuttavia, piovendo delle sue grazie, e dando del suo lume ad amici e nemici, perchè poi l’abbia offeso per un niente, per un capriccio, e per un poco di falso diletto, non può che piangere dirottamente. Ti metterai dunque innanzi ad un Crocifisso, ove immaginandoti che dica: Aspice in me, e poi considera ad una ad una le mie piaghe, perchè dai tuoi peccati io sono stato piagato e così maltrattato, come tu vedi. – E sono pur Io il tuo Iddio, il tuo Creatore, il tuo benigno Signore, e pietoso Padre.  Onde, Revertere ad me, con pianto puro, con voglia accesa che Io non fossi stato offeso, e con piena volontà di voler tollerare qualunque pena, perchè più non mi offenda: Revertere ad me, quoniam redemi te. – Poi pigliato Cristo nella tua immaginazione con la Corona in capo di spine, e con la canna in mano, tutto piagato, t’immaginerai, che ti dica Ecce Homo! Ecco l’uomo, che amandoti con amore ineffabile ti ha redenta con questi scherni, con queste piaghe e con questo Sangue, Ecce Homo, quest’Uomo è l’offeso da te, dopo tanto amore mostrato, dopo tanti benefici. – Ecce Homo. Quest’Uomo è la misericordia di Dio, e la redenzione copiosa. Quest’Uomo, per te, con tutti i suoi meriti si offre al Padre ogni ora e momento. Quest’Uomo sedendo alla destra del Padre, per te interpella, e per te fa l’Avvocato, perchè dunque mi offendi? Perché non ritorni? Revertere ad me quia delevi ut nubem iniquitates tuas, et quasi nebulam peccata tua.

Di alcune ragioni perché si vive Senza pianto dell’offesa di Dio, senza virtù, e senza la Cristiana perfezione.

CAP. XXXV

La ragione perché l’uomo dorma nella tiepidità, né levandosi dal peccato si dia alla virtù, come si deve, sono molte, e fra le altre sono le seguenti: Perché l’uomo non abita dentro di sé a vedere, che si fa nella sua casa, e chi la possiede, ma vago e curioso, ne mena i giorni in passatempi di vanità. E se pure vi sta occupato in cose lecite e buone in se stesse, di quelle poi che importano alla virtù, ed alla perfezione Cristiana, non ne ha pensiero alcuno, e se talora l’ha, e conosce il suo bisogno, ed è da Dio chiamato ed ispirato a mutar vita, risponde: Cras, cras,… poi, poi. Né  mai viene l’Oggi, ed Adesso, perché avendo il vizio del Cras e del poi,  in ogni Oggi, ed in ogni Adesso, gli si partorisce il Cras, ed il Poi. Non mancano degli altri che credendosi che la mutazione vera della vita e gli esercizi delle virtù consistano in certe divozioni loro, spendono quali tutto il giorno a dire Pater noster, ed Ave,  senza però, che si metta la mano alla mortificazione delle passioni loro disordinate, le quali li tengono attaccati alle creature. – Altri si danno agli esercizi di virtù, ma fabbricano senza i fondamenti loro, avendo ciascheduna virtù il suo proprio fondamento, come l’umiltà ha per fondamento  il desiderio d’esser tenuta da poco, da nulla, ed esser confusa da altri, e d’esser vile negli occhi suoi, perché chi fonda prima, e fabbrica questo fondamento, con allegrezza poi riceve le pietre della fabbrica dell’umiltà che sono le poche stime, che questi e quelli fanno di noi, e le occasioni di fare atti d’umiltà. Onde accrescendosi il desiderio di essere bassamente stimati, e ricevendo volentieri la poca stima, che ne vien fatta da altri, si va acquistando l’umiltà, domandandola soprattutto spesso a Dio, in virtù del suo umiliato Figliuolo. E sebbene si fa tutto questo da alcuni, non si fa però per amore della virtù, e per piacere a Dio. Dal che ne nasce che gli atti della virtù, non corrispondono con tutti ed in ogni luogo: essendo con questi umile, e con quegli superbo. Umile in presenza d’altri, superbo con quelli, la stima dei quali non confà ai suoi disegni. Vi sono degli altri, che desiderando la perfezione cristiana, la vanno procurando dalle forze loro che son debolissime, dalle industrie ed esercizi propri, e non da Dio, col diffidarsi di loro stessi; epperò vanno in dietro piuttosto che innanzi. – Né manca chi appena entrato nella via della virtù, subito si dia a credere d’esser arrivato alla perfezione, e così fatto vano in se stesso, svanisca anco nelle virtù. Perché tu dunque acquisti la virtù e la perfezione Cristiana, prima  diffidati di te stessa, poi confidata in Dio, studia d’accenderti di desiderio, quanto più sia possibile, avanzandolo ogni giorno. Sta in oltre avvertita che non ti fugga dalle mani qualche occasione di virtù, sia pur essa grande, o piccola. E fuggendoti castigati in qualche cosa, né lasciar mai questo castigo. – E per molto, che cammini alla perfezione, ogni giorno fa conto, che allora incominci; e studiati di fare qualunque atto con tanta diligenza, come se in quello solamente consistesse la perfezione; e così fa poi nel secondo, nel terzo, e negli altri. Con quella diligenza guardati dai difetti piccioli, con cui i diligenti si guardano dai grandi. – Abbraccia la virtù per la virtù e per piacere a Dio, che a questo modo con tutti farai la stessa, sola ed accompagnata. E saprai a questo modo talora lasciare la virtù per la virtù, e Dio per Dio. Non declinare, né a destra, né alla sinistra, né ti voltare addietro. Sii discreta amica della solitudine, della meditazione, e dell’orazione, pregando spesso Iddio, che ti dia le virtù e la perfezione, che vai cercando, perché Iddio è il fonte d’ogni virtù e la perfezione, a cui ci chiamano ogni ora.

Dell’amore verso i nemici.

CAP. XXXVI

Avvenga, che la perfezione Cristiana sia la compita obbedienza dei precetti di Dio, nientedimeno dal precetto d’amare i nemici procede principalmente: tutto è somigliante al costume di Dio questo precetto. Onde volendo tu acquistare compendiosamente ed in breve la suddetta perfezione, studia d’osservare compitamente quanto comanda Cristo nel precetto d’amare i nemici. Amandoli, facendo loro bene e pregando per loro. Non a stampa e lentamente, ma con tanto affetto, che quasi scordata di te stessa, tutto il cuor tuo si dia all’amor loro, ed a pregare per loro. Del far loro bene poi, in quanto tocca al bene dell’anima, hai da stare avvertita, che da te piglino mai occasione d’offender le anime loro, mostrando sempre con i gesti del corpo, con le parole e con le opere, che li ami e stimi, e che in te è sempre prontezza di Servirli. Degli altri beni temporali, quelle, che s’ha da fare, la prudenza, ed il giudizio l’andrà raccogliendo dalla qualità dei nemici, dallo stato tuo e dalle occasioni. Se tu attenderai a questo, vedrai che la virtù, e la pace entrerà nel tuo cuore a gran piena. Né questo precetto ha quella difficoltà, che altri credono. Duro è alla natura, non è dubbio, ma a chi vuole, e sta sull’avviso d’esser presto a mortificar i moti della natura, e dell’odio, diventerà facile, portando egli nascostamente dentro una dolce pace, e facilità. Pure, perché li soccorra la nostra debolezza, ti servirai di quattro potentissimi aiuti. – Uno è l’orazione, spesso domandando a Cristo questo amore in virtù del suo, il quale stando in Croce, prima si ricordò dei nemici, poi della Madre, e nell’ultimo di se stesso. – Il secondo aiuto sarà il dire teco: Precetto del Signore è ch’io ami i nemici, dunque devo farlo. – Il terzo, che tu mirando in loro la viva immagine di Dio, che loro diede creandoli, ti svegli a stimarla, ed amarla. – Il quarto, che mirandovi di più il riscatto ineffabile, con che sono stati da Cristo riscattati, che non è stato oro, ed argento, ma il suo sangue, t’adopri in modo che non sia indarno speso, perso conculcato.

Dell’esame di coscienza.

CAP. XXXVII.

L’esame di coscienza da’ diligenti si suol fare tre volte il giorno: Innanzi pranzo, innanzi vespro; e innanzi, che si vada a letto. Che se questo non si può da alcuno, quello della sera non si deve tralasciare mai: che se Iddio due volte mirò l’opere che fece all’uomo, l’uomo non mirerà a quel tanto che fa a Dio, a cui egli ha di più a rendere stretto conto più d’una volta. L’esame si farà in questo modo: – prima domanderai a Dio lume perché tu conosca tutto l’interiore ed opere tue. – Poi comincerai a considerare come sei stata chiusa e raccolta nel tuo cuore, e come l’hai guardato. – Terzo, come hai in quel giorno obbedito a Dio in tutte le occasioni che ti ha date, perché lo servissi. Qui non dico altro, che quella terza considerazione chiude in sé lo stato, ed obbligo di ciascuno. Della corrispondenza alla grazia e delle opere buone, ringraziato che ne avrai Dio, scordatene affatto rimanendo desiderosa di cominciare di nuovo il tuo cammino, come se niente ancora avessi fatto. Dei mancamenti, difetti, e peccati, rivolta a Dio, digli dolendoti dell’offesa sua: Signore, io ho fatto da quello che sono. Nè qui mi sarei fermata, se la tua destra non mi avesse tenuta: del che ti rendo grazie: Fa’ tu ora, ti prego Signore mio, in nome del tuo diletto Figlio, da quel che sei. Perdonami e dammi grazia, perché più non ti offenda. Per penitenza poi dei tuoi mancamento, e per stimolo di emendazione, mortifica la tua volontà in qualche cosuccia lecita, che ciò a Lui molto piace. Lo stesso dico del corpo, e fa che non lasci queste, o somiglianti penitenze, se non vuoi, che le ricerche della tua coscienza siano piuttosto a stampa e per un non so che uso di tiepidi, senza frutto.

Di due Regole per vivere in pace.

CAP. XXXVIII.

Sebbene, chi vive secondo quel tanto che s’è detto fin qui, sempre sta in pace, tuttavia voglio in quest’ultimo Capitolo darti due regole racchiuse anco nel suddetto, le quali osservando, tu vivrai quieta in questo Mondo iniquo, quanto sia possibile. L’una è, che tu attenda con ogni diligenza a vieppiù chiudere la porta del tuo cuore ai desideri; essendo il desiderio il legno lungo della Croce e dell’inquietudine, il quale sarà grave secondo la grandezza del desiderio. E se. di più cose saranno i desideri, più saranno i legni a più croci preparati. Onde venendo poi le difficoltà, e gli impedimenti, che non si eseguisca il desiderio, ecco l’altro legno, ch’è il traverso della Croce, sopra della quale rimane inchiodato il desideroso. – Chi dunque non vuol Croce, non desideri, e ritrovandosi in Croce, lasci il desiderio che in quello che lo lascerà, egli sarà sceso dalla Croce. Né vi è altro rimedio. – L’altra regola è che quando sei molestata, ed offesa da altri, non ti dia alla considerazione di quelli, considerandovi diverse cose, e che non dovevano far questo con te, e chi sono, o si pensano d’essere e somiglianti cose, le quali tutte sono legna, ed accendimento d’ira, di sdegno, e d’odio. – Ma ricorri subito in tali casi alla virtù, ed ai precetti di Dio: perché tu sappi quel che devi fare e non falli peggio di loro. Che a questo modo ritroverai la via della virtù, e della pace. – Che se tu poi con te, non farai quello che devi, che meraviglia è, che altri teco nol facciano? E se ti piace di vendicarvi di chi ti offende, devi prima fare vendetta di te stessa, di cui non hai maggiore inimico, ed offensore.

IL FINE.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (Agg. 1)

AGGIUNTA AL COMBATTIMENTO SPIRITUALE.

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Che cosa sia la perfezione Cristiana

CAPO PRIMO.

Perché, anima devota, non ti affatichi negli esercizi spirituali in vano, com’è accaduto a molti, e non corri senza saper dove; hai prima da intendere, che cosa sia la perfezione Cristiana. – La perfezione Cristiana altro non è che una compiuta osservanza dei precetti di Dio, e della sua legge affine di piacergli, senza che si declini alla destra, o alla sinistra o si rivolga addietro: Et hoc est omnis homo. – Di modo che lo scopo di tutta la vita del Cristiano, che vuole diventare perfetto, ha da esser uno studio di far abito, che dimenticandosi vieppiù ogni giorno e disavvezzandosi di fare la propria volontà, ogni cosa faccia, come mosso da sola volontà di Dio, a fine di piacergli, ed onorarlo.

Come bisogna combattere per conseguire la perfezione Cristiana.

CAP. II.

Con poche parole si è detto il molto, che si pretende: ma chiuderlo ora nelle mani, e metterlo in esecuzione. Hoc opus, hic labor est. Perché essendo in noi per il peccato dei primi Padri, e nostri mali abiti, una legge contraria a quella di Dio, bisogna combattere contra di noi stessi, ed anco contro il Mondo, ed il demonio, eccitatori, e motori delle nostre guerre.

Di tre cose, che ha bisogno il novello Soldato di Cristo.

CAP. III.

Protestandoci dunque la guerra, Soldato novello di Cristo, di tre cose hai di bisogno. D’animo grande, e risoluto di combattere, d’armi e di saperle maneggiare. La risoluzione di combattere la piglierai dalla considerazione frequente che: Militia est vita hominis super terram. E che quella guerra ha per legge che chi non combatte come si deve, del certo vi muore per sempre. La grandezza dell’animo l’acquisterai, prima con diffidarti di te stessa e poi confidare grandemente in Dio, e tener per cosa certa che Egli sta dentro di te, perché ti cavi dal pericolo. Hai dunque da stimare per sicuro che, assaltata dai nemici, ogni volta che sconfidata delle proprie forze e sapere, con confidenza ricorrerai alla potenza, sapienza, e bontà di Dio, ne riporterai combattendo la vittoria. L’armi sono: Resistenza, e Violenza.

Della resistenza e violenza, e nell’arte di maneggiarla.

CAP. IV.

La resistenza, e violenza, benché siano armi gravi e penose, tuttavia sono necessarie e riportatrici delle vittorie. Si maneggiano quelle armi nel seguente modo. Quando dalla tua corrotta volontà e mali abiti, perché tu non voglia e faccia le cose volute da Dio, sei combattuta; hai da resistere dicendo: Sì, sì, che le voglio fare. Con la stessa resistenza ti opporrai quando sei chiamata e tirata alle voglie dei mali abiti e della corrotta volontà, dicendo: No, no. La volontà di Dio voglio io fare con l’aiuto suo sempre. Deh Iddio mio, soccorrimi presto, perché questa voglia, che per tua grazia ho adesso di fare sempre la tua volontà, non sia soffocata poi nelle occasioni della mia antica e corrotta volontà. E sentendo gran pena nel resistere, e debolezza di volontà, hai da farti ogni sorte di violenza, ricordandoti qui, che il Regno dei Cieli patisce violenza, e che violenti a se stessi ed alle proprie passioni lo rapiscono. – Che se la pena , e la violenza sarà così grave, che ti senti angustiare il cuore, va col pensiero nell’orto a Cristo, ed accompagnando le angosce tue con le sue, pregalo che in virtù delle sue ti dia la vittoria di te stesso, acciò di cuore possa dire al Celeste Padre: Non sicut ego volo, sed sicut tu, fiat voluntas tua. Onde poi piegherai più, e più volte la tua volontà a quella di Dio, volendo come egli voleva che volessi. Studiandoti di fare qualunque atto con tanta pienezza di volontà e purità, come se in quell’uno solamente consistesse tutta la perfezione, ogni piacimento, ed onore di Dio. Ed a questo modo poi farai il secondo ed il terzo, ed il quarto e gli altri. – Di più ricordandoti alle volte di aver trasgredito alcun precetto, dogliti della trasgressione, e piglia maggior vigore d’animo di ubbidire a Dio in quel precetto che ti trovi nelle mani, ed in qualunque altro nelle occasioni. Ed avverti qui, perché non tralasci mai occasione alcuna, per piccola che sia, di ubbidire a Dio, che se gli sarai ubbidiente nelle piccole cose, Iddio ti darà nuova grazia di ubbidire poi con facilità nelle maggiori. Avvezzati ancora, che venendoti a mente alcuno dei precetti divini, tu prima adori Dio, e poi lo preghi che nelle occasioni ti soccorra, perché gli ubbidisci.

Che bisogna vegliare di continuo sopra la nostra volontà, per vedere con quale delle passioni se la fa.

CAP. V.

Sta in te raccolta, quanto più si può, perché conosca, quale delle tue passioni se la faccia più spesso la tua volontà, che da quella suole più che da altre esser ingannata, e fatta serva. Onde non essendo solita la volontà dell’Uomo stare senza la compagnia di alcuna delle nostre passioni, è di bisogno, che ella o ami, o odi, o desideri, o fugga, o stia allegra, o si rattristi, o speri, o si disperi, o sia audace, o iraconda. E ritrovandola appassionata non  secondo vuole Dio, ma secondo il suo proprio amore, affaticati, perché dall’amor di se stessa la pieghi all’amor di Dio, ed all’osservanza dei precetti di Dio, e della sua legge. Il che tu devi fare non solamente nelle passioni di momento, che ai peccati muovono, ma in quelle che nei veniali fanno cadere: perché quelle, benché si muovano leggermente, e vadano pian piano, tuttavia ci tengono infermi e senza virtù, quando sono volontarie, ed in pericolo grande di cadere nei peccati mortali.

Come levando la prima passione, Che è  l’amore delle creature e di noi stessi, e dandola a Dio,tutto il resto rimane ben regolato ed ordinato.

CAP. VI.

Perché tu compendiosamente, e con ordine liberi la tua volontà dalle passioni disordinate, è di bisogno, che tutta ti dii a vincere ed ordinare la prima passione che è l’amore, perché questa tutte le altre la seguitano con le stesse pedate, nascendo da essa, ed in essa avendo la loro radice e vita. come chiaramente discorrendo si vede; perchè quel tanto si desidera, che s’ama, ed in questo si diletta, l’uomo. Quel tanto s’odia, o fugge, e ci attrista, che impedisce, ed offende la cosa amata, né altro si spera che la cosa amata. E di questa stessa disperiamo quando le difficoltà di conseguirla ci paiono insuperabili ed invincibili. Né alcuno teme, o è audace o si sdegna; se non con quello, che impedisce o per offendere la cosa amata. – Il modo di vincere, ed ordinarela prima passione, si è il considerare nella cosa, che ella ama e sta attaccata, le qualità sue, e che si pretende in quell’attacco ed amore. E ritrovando qualità di bellezza e di bontà, e pretendenza di diletto, e di utile, potrai dire a te stessa più e più volte: E che maggior bellezza e bontà di quella di Dio, che è l’unico fonte di bene, e perfezione? E quale pretendenza d’utile e di diletto si può immaginare maggiore, che amare Dio, poiché amandolo, si trasforma l’uomo in Lui, in lui solo dilettandosi, e lui godendo? Di più il cuore dell’uomo è di Dio, perché lo stesso Iddio l’ha creato, e poi redento, ed ogni giorno con nuovi benefizi lo domanda dicendo: Fili, probe mihi cor tuum. Sicché toccando a Dio il cuor umano tutto, per tante ragioni che più a basso si diranno, ed essendo piccolo molto a soddisfare agli obblighi, che s’hanno con Dio, deve ognuno esserne gelosissimo, perché non ami altro che il solo Dio e con quella moderanza e modo che piace a Dio. La stessa gelosia si deve avere anche (essendo queste due il fondamento della fabbrica della perfezione), della passione dell’odio, perché non odi altro che il peccato, e quanto induce al peccato.

Che bisogna soccorrere la volontàUmana.

CAP. VII.

E perché la volontà nostra appassionata è molto fiacca a resistere e superare le sue passioni per ordinarle a Dio, ed alla sua ubbidienza (come ben mostra l’esperienza che, benché ella voglia, e proponga di mortificarsi, tuttavia nelle occasioni poi soffocata dalle sue passioni e svanito ogni suo proponimento e voglia, se le da in preda) perciò bisogna non solo nelle occasioni soccorrerla, ed ajutarla, a buon’ora ancora, acciocché pigliando forza contro se stesa, si stessa, si vinca, e liberi dalla servitù delle sue passioni, dandosi tutta a Dio ed al suo piacimento.

Come vincendo il Mondo, vienela volontà dell’uomo ad esser soccorsa grandemente.

CAP. VIII.

Movendoci, e pigliando forza le nostre passioni dal mondo, e dalle cose sue, mentre egli ci mostra le sue grandezze, ricchezze, e diletti; benne segue che, dato a terra il Mondo con le sue cose, viene la volontà dell’uomo a respirare, ed a volgersi  altrove, non potendo ella stare senza amare, e senza dilettarsi. – Il modo di dare a terra il mondo, è considerare profondamente  che cosa sono nel vero le sue cose e le sue promesse. Nel che, per non errare, accecati noi forse da qualche nostra passione, e conchiusone quel, che ne dice il sapientissimo Salomone, che di tutto aveva fatta esperienza: Vanitas, dice egli, Vanitarum, et omnia vanitas et afflictio spiritus. Questa verità si prova ogni giorno che, desiderando il cuor dell’uomo di saziarsi, con tutto che alle volte abbia quanto desidera, pur non resta mai sazio, ma con maggior fame, e quello non per altro se non perché pascendosi egli delle cose del Mondo, viene a pascersi d’ombra, di vanità, e di bugia, cose che non danno nutrimento alcuno. Le promesse del Mondo sono tutte false e piene d’ inganni. Promette una cosa per un’altra. Promette felicità e dà inquietudine. Promette e non dà il più delle volte. Dà, e presto toglie. E non togliendo presto più poi affligge gli appassionati che hanno i loro desideri posti nel fango. Ai quali si può dire: Filli hominum, usquequo gravi corde, ne quid deligitis vanitatem et quaeritis mendacium? – Ma concedasi ad un certo modo a costoro che gli apparenti beni di questo mondo siano veri beni, che diranno della prestezza, con che ne passa la vita dell’uomo? Ove sono la felicità e grandezze e la superbia dei principi, dei regi e degli imperatori? Sono pure passate. Il modo dunque,perché ti vincail Mondo, di tal maniera che egli puzzi a te, e tu a lui, o vogliamo dire, che a te sia crocifisso, e tu a lui, si è, che prima, che gli si attacchi la volontà, te gli faccia innanzi con una profonda considerazione delle sue vanità, e bugie, e poi con la volontà, che così non essendo né la volontà, né l’intelletto appassionati, con facilità lo disprezzerai, e ad ogni creatura, che ti farà innanzi, potrai dire: Sei tu creatura? leva, leva l’attacco tuo, perché io vo cercando nelle creature il Creatore, e lo spirituale, non il corporale. Quello, che vi dà l’operare e le virtù, e non voi voglio, e desidero amare.

Del secondo soccorso della volontà.

CAP. IX.

Il secondo soccorso della volontà umana, consiste in cacciar fuori il principe delle tenebre, come autore d’ogni disordinato accadimento delle nostre passioni. Si caccia fuori questo nemico e si vince ogni volta, che noi nelle concupiscenze nostre e desideri disordinati vinciamo e superiamo. Sicché volendo che il demonio fugga da te, resiste alle tue passioni, che questa è la resistenza che S. Giacomo vuole che se gli faccia. E qui è da avvertire che il demonio così alle volte ci assalta, accendendo le  concupiscenze della carne e le passioni, che pare, che l’uomo sia costretto a cedergli. Ma non è da sbigottirti. Resisti pure e tieni per certo che Dio è teco perché non ti sia fatta soverchieria. Resisti, dice, che al certo, preservando vincerai. Ho detto: perseverando, perché non basta resistere una, due o tre volte, ma ogni volta che egli tenterà. Perché è costume del demonio, di tentare domani quel che oggi non ha potuto, e in altra settimana, quel che in questa non ha ottenuto, e così va continuando con gran pazienza di tempo in tempo, or con furia, or con destrezza, in fino a tanto che gli vien fatto di vincerci. Onde bisogna essere costante sempre con l’armi in mano, né fidarsi mai per molto che si abbiano avuto delle vittorie, giacché la vita dell’uomo è una continua guerra, la vittoria della quale non consiste in oggi, e domani, ma nel fine.  Che se tu in questo senti pena, sappi, che più pena sente assai il| demonio, quando se gli resiste. Onde se gli può dire a tua consolazione: A penare, va demonio infernale; ma perché tu peni iniquamente, ed io per non offendevi il mio Signore, la pena tua sarà eterna, e la mia, per grazia di Dio, si muterà in pace eterna.

Delle tentazioni della superbiaSpirituale.

CAP. X

Nel precedente Capitolo ti ho parlato delle tentazioni che il demonio ci suole dare con le grandezze del Mondo, ricchezze e diletti, ma ora ti parlo delle tentazioni della superbia spirituale, compiacenza, e vanagloria, tanto più pericolosa e da temersi, quanto che è meno conosciuta e più nemica di Dio. O quanti generosi soldati gran servi di Dio, dopo le vittorie di molti e molti anni, ha dato questa superbia, e fatti servi di Lucifero. Lo scampodi questo tremendo colpo ed occulto laccio, è il tremare sempre, ed operare opere buone con timore, e tremore, che queste non siano, per qualche occulto verme d’amor proprio e di superbia guaste ed odiose a Dio. E perciò umiliandosi in quelle, devesi cercare sempre di farle migliori, come se niente per addietro si avesse operato di bene. E quando ci paresse (il che non deve mai stimarti) di aver fatta ogni cosa, dottiamo di tutto cuore dire: Servi inutiles sumus. E sopra tutto ricorrere spesso a Cristo che, liberandoci d’ogni superbia, ci insegni ed aiuti ad essere umili di cuore. Ed anche ricorrere spesso all’umilissima Madre di Dio, pregandola ci impetri la vera umiltà, la quale è il fondamento delle virtù, e le accresce e le accompagna acciò non si perdano, ma s’aumentino e s’assicurano. Di questa materia d’umiltà avendone parlato a lungo nel Combattimento Spirituale, non dico altro qui.

Del terzo soccorso della volontà umana.

CAP. XI

Il terzo soccorso, con che spessissime volte s’ha da soccorrere la volontà nostra, è l’orazione: avvezzandoti, che in quello che tu sei assalita, ricorra subito a Dio, dicendo: Deus, in adiutorium meum intende: Domine ad adiuvandum me festina. – Il tuo combattimento dunque farà con l’orazione, con la resistenza nella presenza di Dio, sempre vestita di diffidenza di te stessa e confidenza in Lui. Che se combatterai con questo modo ed apparato, tieni per sicura la vittoria. Che cosa non supera, e non vince l’orazione? Che cosa è che non ributti la resistenza accompagnata con la diffidenza di se stessa e confidenza in Dio? – E da qual pugna può essere vinto, chi sta in presenza di Dio con animo di piacergli?

In qual modo abbia da abituarsi l’uomo per tenere ogni volta che vorrà, presente Dio.

CAP. XII

Perché tu abbi l’uso di tenere presente Dio ogni volta che vorrai, studiati di ripigliar spesso un pensiero che innanzi a te sta nascostamente Iddio, che ti mira e considera qualunque tuo pensiero ed opera. Oppure che tutte le creature le quali vedi, siano quasi tanti cancelli per i quali il nascosto Iddio ti guarda ed alle volte dica: Petite et accipietis: omnis enim qui petit, accipit, et pulsanti aperietur. Potrai anche farti presente Dio, mirando le creature nelle quali, lasciando il corporale, va col pensiero a Dio che loro ministra l’essere, il moto e la virtù di operare. – Quando dunque vorrai orare combattendo o facendo alcuna cosa, rappresentati a Dio in uno dei suddetti modi,prega poi, e domandagli aiuto, e soccorso. E sappi qui, anima devota, che se tu ti farai familiare alla presenza di Dio, ne riporterai vittorie, e tesori infiniti . E tra gli altri tu ti guarderai da moti, da pensieri, da parole, e da opere, che non convengono alla preferenza di Dio, ed alla vita del Figliuolo suo. E la stessa presenza di Dio ti infonderà virtù, perché tu possa stare in sua presenza. Che se dalla presenza, e vicinanza degli agenti naturali, che sono di virtù limitata e finita, se ne riporta delle loro qualità, e virtù, che s’ha da dire della presenza di Dio, che è d’infinita virtù, e comunicabile indicibilmente? – Oltre il Suddetto modo d’orare, Deus, in adjutorium meum intende : Domine ad ajuvandum me festina,  che è per ogni bisogno, potrai ancora orare in altri modi più particolari. Come desiderando tu di conoscere e fare la volontà di Dio, l’orazione tua farà una delle seguenti: Benedictus es Domine, doce me facere justificationes tuas. Deduc me Domine, in semìtam mandatorum tuorum. Utinam dirigantur via mea ad custodìendas justificationes tuas. –  E per dimandare a Dio quanto se gli può domandare, e gli piace che se gli domandi, userai l’Orazione Dominicale, la quale si deve dire con tutto l’affetto del cuore e con ogni attenzione.

Di alcuni avvisi intorno all’orazione.

CAP. XIII

Prima hai d’avvertire, che l’orazione (non parlo delle meditazioni, delle quali si dirà appresso) devono esser brevi nel modo suddetto, ma spesse, piene di desiderio, e d’attuale fede, che Iddio ti abbia a soccorrere, se non a modo tuo, e quando tu vorresti, con assai miglior soccorso, e più opportuno tempo. – Secondo, che vadano sempre accompagnate, quando attualmente, quando in virtù, con una delle seguenti clausolette. – Per tua bontà. Secondo le tue promesse. Ad onore tuo. In nome del tuo diletto Figlio. In virtù della tua Passione. In nome di Maria Vergine, Figlia, e Sposa, e Madre tua. – Terzo, che alle volte segli aggiungano dell’Orazioni giaculatorie, come: Concedimi Signore l’amor tuo in nome del tuo diletto Figlio. E quando sarà Signor mio che io l’abbia? quando? Il che anco si può fare dopo ciascuna domanda dell’Orazione Dominicale: oppure dopo tutte, come, Pater noster, qui es in cœlis, Sanctificetur nomen tuum. Ma quando sarà, nostro Celeste Padre che il nome tuo sia conosciuto per tutto ilMondo, onorato, e glorificato? quando Iddio mio? Quando? E così dopo le altre domande. – Quarto, che domandandosi delle virtù, e grazie, sarà bene considerare ilpiù delle volte il valore della virtù, ed il bisogno che se ne ha: La grandezza di Dio e della sua bontà: I meriti di chi domanda, che a questo modo si domanderà con più affetto, e desiderio, con più riverenza, e confidenza, e con più umiltà; e similmente s’ha da considerare il fine della domanda, acciò sia per piacere a Dio, e ad onore suo.

Di un altro modo di orare

CAP. XIV

Si suole anco orare perfettamente, stando in presenza di Dio col pensiero senza altro dire, giuculandogli di tempo in tempo sospiri, volgendogli un occhio, ed un cuore desideroso piacergli, ed un breve ed infuocato desiderio che ti conceda la grazia domandata nelle orazioni precedenti.

Del quarto soccorso della volontà Umana

CAP. XV

Il quarto soccorso della volontà nostra è l’amore divino, il quale soccorre e fortifica in tal modo la volontà che non è cosa che non possa, né passione e tentazione che non vinca. Il modo di conseguirlo è l’orazione, domandandolo spesso a Dio, e la meditazione, meditando quei punti che sono atti, con la grazia di Dio, ad accenderlo nella terra dei cuori umani.Questi sono: Chi è Iddio. Quanta, e quale la potenza, Sapienza, Bontà, e Bellezza di Dio. Che ha fatto Iddio per l’uomo, e che sarebbe di più per fargli, se fosse di bisogno. Con che animo l’abbia fatto. Che cosa faccia ogni giorno all’uomo, e che cosa è per fargli nell’altra vita, se qui vivendo, ubbidisce ai suoi precetti, per fargli piacere e con purità di mente.

Della meditazione dell’Esseredi Dio.

CAP. XVI

Che cosa sia Iddio, Egli stesso, che compitamente si conosce, l’ha detto rispondendo e così dicendo: Ego sum, qui sum! E tale, e tanto questo predicato di Dio, che non si può dare a creatura alcuna; non a Principi, non a’ Regi, o Imperatori, non ad Angioli, non a tutto il Mondo insieme, perché ogni cosa ha l’essere dipendente da Dio, e come da sé è un bel niente. E da qui appare, quanto vano è l’uomo, che ama le creature e gli sta attaccato, non amando in esse il Creatore e le creature secondo vuole esso Signore. È vano, dico perché ama le vanità. È vano, perché pensa saziarsidi quelle cose, che da sé non sono. È vano, perché s’affatica di avere di quelle cose, che col dare tolgono ed uccidono. Se dunque hai ad amare, come che bisogna amare, amisi Iddio, che empie e sazia il cuore.

Della meditazione della Potenzadi Dio.

CAP. XVII

Già si sa, che non questa o quella sola potenza del Mondo, ma tutte unite insieme volendo edificare non Regni, non Città, ma un solo Palagio, pure hanno bisogno di varie materie e maestranze, e di molto spazio di tempo, se poi con tutto ciò l’edificio riesce appunto a voglia loro. Ma Iddio con la sua potenza, di niente  in un subito creò tutto l’universo, e poteva crearne per la stessa facilità infiniti altri, e distruggerli, e ridurli a niente. Questo solo punto, quanto più profondamente si medita, e mediterà, tanto più se ne caveranno nuovi stuporied incentivi di amare un Signore sì possente.

Della Meditazione della Sapienzadi Dio.

CAP. XVIII

Quanto poi sia alta, ed  inscrutabile la Sapienza di Dio, non è chi lo possa comprendere. Pure perché ne abbi qualche cognizione, vogli l’occhio dell’ornamento del Cielo, alla vaghezza della terra e ditutto l’universo, che non ritroverai altro che Sapienza incomprensibile dell’Architetto divino. Volgi la mente al vivere degli uomini, ed agli accidenti vari, che occorrono, che non è cosa tanto disordinata, che nel cospetto di Dio non sia Sapienza inscrutabile. Medita i misteri della redenzione, che li troverai tutti pieni d’altissima Sapienza: O altitudo, divitiarum Sapientia, et scientia Dei! Quam incomprehensibilia sunt judicia ejus!

Della Meditazione della Bontàdi Dio.

CAP. XIX

La bontà di Dio è, siccome tutte le altre sue infinite perfezioni, in se stessa incomprensibile, ma per che di fuori e tanta, che non è cosa al mondo in che non si ritrovi. La creazione è dalla Bontà di Dio, la Conservazione e Governo è della Bontà di Dio, la Redenzione ci mostra, che ineffabile ed infinita è la Bontà di Dio, dandoci qui per nostro riscatto il proprio Figlio, e parimente per cibo quotidiano nel Sacramento dell’Altare.

Meditazione della Bellezzadi Dio.

CAP. XX

Della Bellezza diDio questo deve bastare a tutti, ch’ella è tale e tanta, che contemplando se stesso Iddio ab Aeterno, senza che altrove mai si rivalga, resta nella capacità sua infinita, incomprensibilmente sazio e beato. O uomo, conosci ormai la dignità alla qual sei chiamato dalla Bontà di Dio, e non esser più di sì guasto cuore, che spregiata questa, dia il tuo amore alla vanità, alle bugie, ed all’ombre. – Ti chiama Iddio all’amore della sua Potenza, Sapienza, Bontà, al diletto della sua bellezza ed all’entrar nel suo gaudio; e tu ti fai sorda? Pensa, pensa ai fatti tuoi, che non ti sopraggiunga tempo, ove il pentimento non giova.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (11)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (11)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Della Comunione Spirituale

CAP. LVI

Benché non si possa ricevere sacramentalmente il Signore più d’una volta il giorno, nientedimeno spiritualmente si può ricevere (come ho detto) ogni ora ed ogni momento, e questo da nessuna creatura, fuori che la negligenza, o altra nostra colpa ci può essere tolto. E sarà alle volte questa Comunione tanto fruttuosa e cara a DIO, quanto per avventura non saranno molte altre sacramentali, per difetto di coloro che le ricevono. Quante volte dunque ti disporrai e preparerai a tal Comunione, riceverai pronto il Figliuolo di Dio, che di se stesso con le proprie mani spiritualmente ti ciberà. – Per apparecchiarti a ciò, rivolgiti con la mente a Lui con questo fine, e con un breve sguardo nei tuoi mancamentì, dogliti seco dell’offesa sua, e con ogni umiltà, e fede pregalo, che si degni venire nella tua povera anima con nuova grazia per sanarla, e fortificarla contro i nemici. Oppure quando sei per violentarti e mortificarti in qualunque tuo appetito, o per fare qualche atto di virtù, fa tutto affine di preparare il cuor tuo al Signore, che di continuo te lo domanda. E rivoltandoti a Lui, chiamalo con desiderio, che venga con la grazia sua a sanarti e liberarti dai nemici, perché Egli solo possegga il cuor tuo. Ovvero, rammentandoti della passata sacramentale Comunione, dì con acceso cuore: Quando Signor mio ti riceverò un’altra volta, quando, quando?Che se vorrai prepararti e comunicarti spiritualmente con più debito modo, indirizza dalla sera innanzi tutte le mortificazioni, gli atti delle virtù ed ogni altra opera buona, affine di ricevere spiritualmente il tuo Signore. E la mattina a buon’ora considerando che bene, che felicità è di quell’anima che degnamente riceve il SS. Sacramento dell’Altare; poiché in esso le virtù perdute si riacquistano, l’anima ritorna nella prima bellezza, e se le comunicano i frutti ed i meriti della passione di esso Figliuolo di Dio, e quando piace a Dio, che noi lo riceviamo, ed abbiamo i detti beni, studiati di accendere nel cuor tuo un desiderio grande di riceverlo per piacergli. Ed accesa che sarai di questo desiderio, rivolgiti a Lui, dicendogli: “Poiché a me, Signore, non è concesso, che in questo giorno sacramentalmente io ti riceva, fa Tu, bontà, e potenza increata, che io degnamente, perdonandomi ogni fallo e sanandomi, ti riceva spiritualmente adesso, ogni ora, ed ogni giorno, con darmi nuova grazia, e fortezza contro tutti i nemici, e particolarmente questo, a cui per piacere a te io faccio guerra.”

Del rendimento di grazie.

CAP. LVII

Perché tutto il bene che abbiamo e facciamo, è di Dio, e da Dio siamo debitori di rendergli grazie di ogni nostro buon esercizio e vittoria di tutti i benefici che dalla sua pietosa mano abbiamo ricevuti, particolari  e comuni. – E per far questo con debito modo, si ha da considerare il fine, da che si muove il Signore a comunicarci le grazie sue; che da questa considerazione e conoscimento, si viene ad imparare, come vuole Iddio essere ringraziato. E perché in ogni beneficio, il Signore principalmente intende l’onore suo e di tirarci all’amore e servizio suo, prima considera teco a questo modo. Con che potenza, sapienza e bontà il mio Iddio mi ha concesso e fatto questo beneficio e grazia? – Poi vedendo che in te (come da te) non è cosa degna di beneficio alcuno, anzi non altro che demerito ed ingratitudine, con umiltà profonda al Signore dirai: E com’è Signore, che ti degni riguardare un cane morto, facendomi tanti benefizi? Sia il tuo nome benedetto nei secoli dei secoli. – E finalmente vedendo che Egli da te col benefizio ricerca che tu l’ami e lo serva, infiammati d’amore verso un tanto amoroso Signore e di sincero desiderio di servirlo a modo suo. E perciò, a questo aggiungerai una piena offerta, la quale farai nel seguente modo.

Dell’Offerta.

CAP. LVIII

Perché l’offerta di te stessa sia da tutte le parti cara a Dio, di due cose ha ella bisogno: Una è l’unione con le offerte che fece Cristo al Padre, l’altra, che la volontà tua sia distaccata da qualunque attacco di creatura. – Per la prima cosa, hai da sapere che il Figliuolo di Dio, vivendo in questa valle di lacrime, non pure se stesso e le opere sue con se stesso, e le opere nostre offriva al celeste Padre. Talché le offerte nostre si hanno da fare in unione e confidenza alle sue. – Nella seconda cosa, considera bene, innanzi che ti offra, se la tua volontà ha qualche attacco, perché avendolo, ti devi prima staccare da ogni affetto e ricorri perciò a Dio, affine, che staccandoti Egli con la sua destra, possa tu offrirti alla sua Divina Maestra sciolta, o libera da ogni altra cosa. – E sta molto avvertita in questo perché se tu ti offri a Dio, stando attaccata alle creature, non offri il tuo, ma quello degli altri, sento che tu non sei tua, ma di quelle creature a cui la volontà tua sta attaccata, cosa che spiace al Signore, quasi che se li voglia dare la burla.- E di qui avviene, che le tante offerte che a Dio facciamo di noi stessi, non pure vacue ne ritornano e senza frutto, ma cadiamo di poi in vari difetti e peccati. – Possiamo noi offrire noi stessi a Dio, benché attaccati con le creature, ma affine però che la sua bontà ci sciolga, perché possiamo poi darci totalmente alla sua divina Maestà ed al servigio suo, e quello dobbiamo farlo spesso e con grande affetto.  Sia dunque la tua offerta senz’attacco e senza proprietà d’alcun tuo volere, non mirando né a beni terreni, né a celesti, ma alla pura volontà e provvidenza divina, alla quale ti devi tutta uniformare e sacrificare in olocausto perpetuo e, scordata d’ogni cosa creata, dire: Ecco o Signore e Creatore mio, il tutto ed ogni mia voglia in mano della tua volontà ed eterna provvidenza, fa’ di me ciò che ti pare e piace in vita ed in morte e dopo morte, così nel tempo, come nell’eternità. –  Se farai a questo modo sinceramente (del che te ne avvedrai quando accadono cose contrarie) tu diventerai di terrena, evangelica negoziatrice e felicissima, perché tu sarai di Dio, ed Iddio sarà tuo, essendo sempre Egli di coloro che togliendosi dalle creature e da loro stessi, tutti si danno e sacrificano a Sua Divina Maestà. – Or tu vedi qui, figliuola, un modo potentissimo di vincere tutti i tuoi nemici, perché se così ti unisce con Dio la detta offerta, che tu diventi tutta sua ed Egli tutto tuo, qual nemico e qual potenza ti potrà giammai offendere? – E quando vorrai offrirgli alcuna opera tua, come digiuni, orazioni, atti di penitenza ed altre cose buone, volta prima la mente all’offerta che Cristo faceva al Padre dei suoi digiuni, orazioni ed altre opere, ed in confidenza del valore e virtù di queste, offri poi le tue. Che se vorrai al Padre celeste fare offerte delle opere di Cristo per i debiti tuoi, tu la farai a questo modo. – Darai uno sguardo generale e talvolta distinto ai tuoi peccati, e vedendo chiaramente che non è possibile che tu da te possa placare l’ira di Dio, né soddisfare la divina giustizia, ricorrerai  alla vita e passione del Figliuol suo, pensando ad alcuna sua operazione, come per esempio, quando digiunava, orava, sopportava e spargeva il Sangue, dove vedrai che, per renderti placato il Padre e per lo debito delle tue iniquità, gli offriva quelle sue opere, passioni e Sangue, quasi dicendo: Ecco, Padre eterno, che secondo la tua volontà io soddisfo alla tua giustizia, sovrabbondantemente, per li peccati e debiti di N. piaccia alla tua Divina Maestà di perdonargli, e riceverla nel numero dei tuoi eletti. – Onde tu allora quella stessa offerta e queste preghiere offri per te ad esso Padre, supplicandolo che in virtù loro ti rimetta ogni debito. E questo potrai fare, non solamente passando da uno ad un altro mistero, ma anche dall’uno all’altro Atto di ciascun di essi, e non pure per te, ma per altri ancora ti potrà servire questo modo  di offerta.

Della Devozione sensibile edelle aridità.

CAP. LIX

La devozione sensibile è cagionata ora dalla natura, ora dal demonio, ed ora dalla grazia: dai frutti suoi potrai discernere d’onde proceda; perché se non ne segue in te miglioramento di vita, hai da dubitare che sia dal demonio o dalla natura, e tanto più quanto sarà accompagnata da maggior gusto, dolcezza ed attacco e da qualche stima di te stessa. – Onde, quando ti sentirai addolcire la mente dai gusti spirituali, non stare a disputare da che parte ti vengano, né ti appoggiare ad essi, né ti lasciar cavare dalla cognizione del tuo niente, e con maggior diligenza ed odio di te stessa, studiati di tener libero cuor tuo da qualunque attacco, benché spirituale, e desidera  dolo Dio ed il suo compiacimento che a questo modo, o sia il gusto dalla natura o dal demonio, ti diventerà dalla grazia. L’aridità può procedere parimenti dalle tre dette cagioni. Dal demonio per intiepidire la mente e rivoltarla dall’impresa spirituale a’ trattenimenti e diletti del mondo. Da noi stessi per le nostre colpe, attacchi della terra, e negligenze; dalla grazia, o per darci avviso che siamo più diligenti a lasciare ogni attacco, ed occupazione che sia Iddio, ed in Lui non si termini; o perché conosciamo per esperienza che ogni nostro bene ci viene da Lui, o perché più stimiamo per l’avvenire i doni suoi, e siamo più umili e cauti a conservarli, o per unirci più strettamente con Sua divina Maestà con la totale rinunzia di noi stessi, anco nelle delizie spirituali, acciocché a queste attaccato il nostro affetto, non dividiamo il cuore che il Signore vuole tutto per sé, oppure perché Egli si compiace per nostro bene di vederci combattere con tutte le nostre forze ed uso della grazia sua. – Dunque, se ti sentirai arida entra in te stessa a vedere per qual tuo difetto ti sia stata sottratta la devozione sensibile, e contro quello prendi la pugna, non per recuperare la sensibilità  della grazia, ma per togliere da te quello, che spiace a Dio. – E non trovando il difetto, sia la tua devozione sensibile, la vera devozione ch’è la rassegnazione pronta alla volontà di Dio. E però fa che a nessun conto tu tralasci i tuoi esercizi spirituali, ma seguili con ogni sforzo per infruttuosi ed insipidi che ti paressero, bevendo volentieri il calice di amaritudini, che nell’aridità ti porge l’amorosa volontà di Dio. E se l’aridità talora fosse accompagnata da tante e così folte tenebre di mente, che tu non sappi né dove voltarti, né che partito prendere; non però ti sbigottire, ma sta solitaria e salda in Croce, lontana da ogni diletto terreno, ancora che dal mondo o dalle creature ti fosse offerto. Occulta la tua passione a qualunque persona, eccetto che al tuo padre spirituale al quale la scoprirai non per alleggerimento di pena, ma per tuo ammaestramento nel modo di sopportarla, secondo il piacimento di Dio. Le comunioni, orazioni, e gli altri esercizi, non li usare perché tu scenda di Croce, ma per ricevere forza di esaltare detta Croce a maggior gloria del Crocifisso. E non potendo per la confusione di mente, meditare ed orare a modo tuo, medita nel miglior modo che puoi. E quello che non puoi eseguire con l’intelletto, fatti violenza, perché l’eseguisca con la volontà e con le parole, favellando teco e col Signore, che ne vedrai effetti mirabili, e così il cuor tuo piglierà fiato, e forza. Potrai dunque in tal caso dire: Quare tristis es, anima mea etquare conturbas me? Spera in Deo, quoniam adhuc confitebor illi, salutare vultus mei, et Deus meus. Ut quid, Domine, recessisti longe, despicis in opportunitate in tribulatione? Non me derelinquas usquequaque. – E ricordandoti di quella sacra dottrina, che Iddio infuse nel tempo delle tribolazioni alla sua diletta Sara, moglie di Tobia, servitene anche tu dicendo con viva voce: Hoc autem prò certo habet omnis, qui te colit, quod vita ejus si in probatione fuerit, coronabitur; si autem in tribulatione fuerit, liberabitur: et si in correptione fuerit, ad misericordiam tuam venire licebit. Non enim delectaris in perditionibus nostris, quia post tempestatem tranquillum facis, et post lacrimationem et fletum, exultatione infundis. Sit nomen tuum, Deus Israel benedictum in sæcula. (Tob. III, 22-23). [Ma questo è tenuto Per certo da chiunque ti onora, che se la sua vita sarà messa alla prova, ei sarà coronato;  e s’ei, sarà in tribolazione, sarà liberato; e se  sarà sotto la verga potrà pervenire alla tua misericordia. Perocchè tu della perdizione nostra non hai diletto, e dopo la tempesta fai la bonaccia, e dopo le lacrime, e i sospiri infondi il giubilo. Sia il nome tuo, o Dio d’Israele, benedetto pe’ secoli.] – Ti ricorderai ancora del tuo Cristo che nell’orto e nella Croce, a sua gran pena, dal Padre suo abbandonato, e con esso sopportando la Croce di tutto cuore dirai: Fiat voluntas tua. – Che, così facendo, la tua pazienza ed orazione leveranno le fiamme del sacrificio del tuo cuore insino al trono di Dio, rimanendo tu vera devota. Essendo (come ti ho detto) la vera devozione, una viva prontezza di verità e ferma, di seguire Cristo con la Croce in spalla per qualunque via a sé ne invita e chiama, e volere Dio per Dio, e lasciare talvolta Dio per Dio. E se da questa e non dalla sensibile devozione, molte persone che attendono allo spirito, e massimamente le donne, misurassero il profitto loro, non sarebbero ingannate da loro stesse né dal demonio, né si dorrebbero inutilmente da loro stesse, anzi ingratamente, d’un tanto bene che loro fa il Signore, ed attenderebbero con fervore maggiore a servire S. D. M. che tutto dispone a gloria sua e nostro bene. Ed in questo ancora s’ingannano le donne, che con timore e prudenza si guardano dalle occasioni di peccati, le quali essendo talora molestate da orribili, brutti e spaventevoli pensieri, e quando da visioni ancora bruttissime, si confondono, si perdono d’animo, e si danno a credere d’esser abbandonate e lontane in tutto da Dio, non potendosi persuadere, che in mente piena di sì fatti pensieri vi possa abitare il suo divino spirito. – Così restando molto abbattute, quasi sono per disperarsi, e lasciano ogni loro buon esercizio, ritornarsene all’Egitto. Né comprendono bene queste, la grazia che loro fa il Signore, il quale le lascia assalire da questi spiriti di tentazione, per ridurle al conoscimento di loro stesse, e perché come bisognose di aiuto, si accostino a Lui. Onde ingratamente si dolgono di quello, di che dovrebbero restarne obbligate alla sua infinita bontà. – Quello, che tu devi fare in tali avvenimenti, si è, che ti profondi nella considerazione della tua inclinazione perversa, la quale vuole Iddio per tuo bene, che tu conosca pronta ad ogni gravissimo male, e che senza il suo soccorso precipiteresti in estrema rovina. E da questo entra in speranza e confidenza ch’Egli sia per aiuto, poiché ti fa vedere il pericolo, e ti vuol tirare più presto a sé con l’orazione, e col ricorso a Lui, al quale perciò ne devi rendere umilissime grazie. E tieni per certo, che simili spiriti di tentazione, e pensieri brutti meglio si cacciano con una paziente tolleranza della pena, e con una destra rivolta di spalle, che con troppo ansiosa resistenza.

 Dell’Esame della Coscienza.

CAP. LX

Per l’esame della coscienza, considera tre cose:

Le cadute di quel giorno.

La cagione loro, e

L’animo, e la prontezza, che tieni per far loro guerra, ed acquistare le virtù loro contrarie.

Intorno alle cadute farai, quanto ti ho detto nel Capitolo di quando siamo feriti.  La cagione di esse ti sforzerai di abbattere, e mandare a terra. – La volontà per far questo e per l’acquisto delle virtù, fortificherai con la diffidenza di te stessa, con la confidenza in Dio, con l’orazione, e con la moltitudine degli atti odiosi del vizio, e desiderosi della virtù contraria. – Le vittorie ed opere buone, che avrai fatte, ti siano sospette. Oltre che non consiglio che molto le consideri, per lo pericolo quali inevitabile, almeno di qualche motivo occulto di vanagloria, e superbia. Onde lasciatele addietro tutte alla misericordia di Dio, quali essi siano, indrizza il tuo pensiero al molto più, che ti rimane da fare. Per quanto tocca poi al rendimento di grazie dei doni e favori, che il Signore ti ha fatti in quel giorno, riconoscilo per fattore d’ogni bene e ringrazialo, perché ti ha liberata da tanti nemici manifesti, e molto più dagli occulti; che ti ha dati pensieri buoni occasioni delle virtù e di ogni altro benefizio che tu non conosci.

Come in questa battaglia fa bisogna continuare, combattendo sempre fino alla morte.

CAP. LXI

Fra le altre cose, che si ricercano in questo combattimento, l’una è la perseveranza, con la quale dobbiamo attendere a mortificare sempre le nostre passioni, che in questa vita non muoiono mai, anzi come mal’erba ogn’or germogliano. E questa è battaglia, che siccome non finisce se non con la vita, così non si può da noi fuggire, e chi non vi combatte di necessità vi resta preso e morto. Oltre ciò si ha da far con nemici che ci portano odio continuo, onde non se ne può sperar pace né tregua giammai, poiché più crudelmente uccidono, chi più cerca di farsi lor amico. Non ti hai però da spaventare per la potenza, e numero loro, perché in questa battaglia non può restare perditore se non chi vuole. E tutta la forza dei nostri nemici sta in mano del Capitano, per l’onore del quale abbiamo a combattere. Egli non pure non permetterà che ti sia fatta soverchieria, ma per te ancora prenderà le armi, e come più potente di tutt’i tuoi avversari ti darà la vittoria in mano, se tu però con lui insieme, virilmente combattendo, non in te, ma nella sua potenza, e bontà confiderai. – E se il Signore non cosi presto  ti concedesse la palma, non ti perdere d’animo, perché tu hai da essere certa (e questo ti gioverà anco a combattere confidentemente) ch’Egli tutte le cose, che ti si faranno incontro, e quelle che più ti pareranno lontane, anzi contrarie alla tua vittoria (siano di che forte si vogliano) convertirà in benefizio, e vantaggio tuo, se tu ti porterai da fedele e generosa combattitrice. Tu dunque figliuola seguendo il tuo celeste Capitano, che per te ha vinto il Mondo, e dato morte a sè stesso, attendi con magnanimo cuore a quella battaglia, ed alla totale distruzione i tutti i tuoi nemici: che se pure uno ne lasciassi vivo, ti farebbe come stecco negli occhi, e lancia nei fianchi, che t’impedirebbe il corso di così gloriosa vittoria.

Del modo di apparecchiarsi controi nemici che ci assaltano nel tempo della morte.

CAP. LXII

Avvegnaché tutta la nostra vita sia una guerra continua spra la terra, la principale però, e più segnalata giornata è nell’ultima ora del gran pellegrinaggio, poiché chiunque in quei punto cade, non si leva più. Quello che tu hai da fare per trovarti bene apparecchiata allora, è che in questo tempo, che ti è concesso, tu combatta virilmente, essendo, che chi combatte bene in vita, facilmente per l’abito buono già fatto,  ottiene vittoria nel punto della morte. – Oltre a ciò pensa spesse fiate con attenta considerazione alla morte, perché quando ti verrà sopra, la temerai meno, e la mente farà libera e pronta alla battaglia. Gli uomini mondani fuggono da questo pensiero, per non interrompere il compiacimento loro nelle cose terrene alle quali stando volentieri attaccati con amore, sentirebbe pena, se pensassero al doverle lasciare. Così non si diminuisce l’affetto loro disordinato, anzi sempre va più prendendo forza, onde poi il separarli da quella vita, e da cose tanto caro è loro di affanno inestimabile e maggiore alle volte in quelli che più lungamente le hanno goduto.Potrai anche per far meglio questo importante apparecchio immaginarti qualche fiata dì trovarti sola, senz’aiuto alcuno possa fra le ristrettezze della morte, e ridurti alla mente le cose frequenti che ti potrebbero a quel tempo travagliare, e qui poi discorrerai intorno ai rimedi, che ti porterò per potertene meglio servire in quest’ultima angustia, perché il colpo, che si ha da fare una volta sola, fa bisogno, che bene prima s’impari, per non commettere errore, dove non ha luogo l’emenda.

Di quattro assalti dei nostri  nemici nel tempo della morte; e primadell’assalto contro la fede, e del modo di difendersi.

CAP. LXIII

Quattro sono gli assalti principali, e più pericolosi, coi quali i nostri nemici sogliono farsi incontro a noi nel tempo della morte. Questi sono: La tentazione della fede. La disperazione. La vanagloria e varie illusioni, e trasfigurazione di demoni in Angioli di luce. Quanto al primo affare, se l’inimico ti comincerà a tentare con suoi falsi argomenti, ritirati presto dall’intelletto alla volontà dicendo: va addietro satanasso, padre di menzogna, ch’io non ti voglio pur udire, bastandomi di credere, quanto crede la Santa Chiesa Romana.E non dar luogo, per quanto puoi, a pensieri della fede, per amici che ti paressero, tenendoli per motivi del demonio per attaccare briga. Che se pure non fossi a tempo per ritirare la mente a segno, sta forte e falda bene, per non cedere a qualunque ragione, o autorità di scritture che l’avversario allegasse, perché tutte saranno tronche, o mal allegate, o mal interpretate, ancorché a te paressero buone, chiare, ed evidenti. E se l’astuto serpente ti domandasse quello, che crede la Chiesa Romana, non gli rispondere, ma vedendo la sua fallacia, e che pur ti vorrebbe prendere in parole, fa un atto interiore di più viva fede, oppure per farlo scoppiare di sdegno, rispondigli, che la S. Chiesa Romana crede la verità: e se replicasse ilmaligno: Qual è questa verità? tu ripiglia: Quello appunto, ch’ella crede. – Sopra tutto tieni sempre il cuore intento al Crocifisso, dicendo: Iddio mio Creatore, e Salvator mio, soccorrimi presto, e non ti partire da me, perché io non mi parta dalla verità  della tua Santa Fede Cattolica; e piacciati, che in quella, come per tua grazi a nata sono, così a gloria tua finisca questa vita mortale.

Dell’assalto della disperazione, e del suo riparo.

CAP. LXIV

L’altro assalto, col quale si sforza il perverso demonio di abbatterci affatto, è lo spavento, che ci mette con la memoria delle nostre colpe, per farci precipitare dentro la fossa della disperazione. In questo pericolo, attendi a questa regola certa, che i pensieri dei tuoi peccati sono dalla grazia, ed a tua salute, quando in te fanno effetto di umiltà, di dolore dell’offesa di Dio, e di confidenza nella bontà sua. Ma quando t’inquietano e pongono in diffidenza, e pusillanimità, ancorché a te paressero di cose vere, e sufficienti a darti adintendere che tu sei dannata, e che per te. non vi è più tempo di salute, riconoscili pure per effetto dell’ingannatore; umiliati più, e più confida in Dio, che a questo modo con le stesse sue armi, vincerai il nemico, ed al Signore darai la gloria. Dogliati sì dell’offesa divina, ogni volta che ti viene a memoria, ma però con confidenza nella tua passione domandane perdono. Di più ti dico che, se ti paresse che lo stesso Dio ti dicesse, che tu non sei delle sue pecorelle, tu però non dovresti lasciare in conto veruno la confidenza in Lui, ma umilmente dirgli: Hai ben ragione per i miei peccati, Signore mio, di riprovarmi , ma io nella tua pietà ne ho una maggiore, perché tu mi perdoni. Onde ti domando la salute di questa meschina creatura tua, dannata sì dalla sua malizia, ma redenta col prezzo del tuo Sangue. Mi voglio, Redentor mio, a gloria tua salvare, e con fiducia della tua immensa misericordia, mi lascio tutta nelle tue mani. Fa’ di me quanto ti piace, perché tu sei il mio unico Signore, che se anco mi uccidessi, pure in te voglio tener vive le speranze mie.

Dell’ assalto della vanagloria.

CAP. LXV

Il terzo assalto è della vanagloria, e presunzione. In questo non ti lasciar mai in niuna via immaginabile indurre ad una minima compiacenza di te, né  delle opere tue. Ma il tuo compiacimento sia nel Signore puramente, nella sua pietà, e nelle opere della sua vita, e passione. Avvilisciti sempre più negli occhi tuoi, infino all’ultimo spirito d’ogni bene fatto da te, che ti si rappresentasse davanti, riconosci Dio solo per Autore. Ricorri all’aiuto suo, ma non l’aspettare per i meriti tuoi, per molte, e grandi battaglie che avessi superate. E sta sempre in un santo timore, confessando sinceramente, che tutte le tue provvisioni farebbero vane, se sotto l’ombra delle sue ali non ti raccogliesse il tuo Dio, nella cui protezione unicamente confiderai. seguendo questi avvisi non potranno contro te prevalere i tuoi nemici. E cosi ti aprirai la strada per passare lietamente alla Gerusalemme celeste.

Dell’assalto delle illusioni, e false apparenze nel punto della morte.

CAP. LXVI

Se l’ostinato nostro nemico, che non si stanca mai di travagliare ti assalisce con apparenze false, e trasfigurazioni in Angiolo di luce, sta pur ferma e salda nella cognizione del tuo niente e digli arditamente: Ritorna infelice nelle tue tenebre ch’io non merito visioni, né ho bisogno di altro, che  della misericordia dei mio Gesù, e dei preghi di Maria Vergine, di S. Giuseppe e degli altri Santi. – E se pure ti paresse per molti quasi evidenti segni che fossero cose venute dal Cielo, ricusale pure e scacciale lungi da te, quanto puoi, né temer, che questa resistenza fondata nella tua indegnità dispiaccia al Signore, perché se il negozio farà suo, saprà Egli bene chiarirlo, e tu niente perderai, poiché chi dà la grazia agli umili non la leva per atti, che si facciano d’umiltà. – Queste sono l’armi più comuni che il nemico suole ad operare contro noi in quell’estremo passo. Ciascuno poi va tentando, secondo le particolari inclinazioni, alle quali il conosce più soggetto. Però prima, che si avvicini l’ora del gran conflitto, dobbiamo contro le nostre passioni più violente e che più ci signoreggiano, armarci bene, e combattere valentemente, per facilitare la vittoria, nel tempo che ci toglie ogni altro tempo di poterlo fare.

Pugnabis contra eos usque ad internecionem (1. Reg. XV, l8).

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (10)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (10)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Della meditazione della passione di Cristo per cavarne diversi affetti.

CAP. LI

Quello che sopra ho detto intorno alla Passione del Signore serve per orare e meditare e per via di domande, ed ora soggiungo: come possiamo dalla stessa trarne diversi affetti. Ti proponi (per esempio) di meditare la Crocifissione, nel qual mistero, fra gli altri punti, puoi considerare i seguenti. – Primo. Come essendo il Signore sopra il monte Calvario, furiosamente spogliato da quelle arrabbiate genti, se gli tracciarono a pezzi le carni, attaccate, per le passate battiture ai vestimenti. – Secondo. Come gli fu levata di capo la Corona di spine, la quale essendogli poi rimessa, gli fu cagione di nuove ferite. – Terzo. Come fu a colpi di martello e chiodi crudelmente confitto in Croce. – Quarto. Come le sue sacre membra, non arrivando all’aperture fatto per lo detto effetto, furono con tanta violenza tirate da quei cani che gli ossi tutti slogati si potevano numerare ad uno ad uno. – Quinto. Come pendendo il Signore sul duro legno, né avendo altro sostegno, che dei chiodi, per lo peso del corpo, che calava abbasso, si allargarono ed inasprirono con indicibile dolore le sue sacratissime piaghe. Da questi o altri punti, volendo eccitar in te affetto d’amore, studiati con la meditazione di essi, di passare da cognizione in maggior cognizione dell’infinita bontà del tuo Signore e amore verso di te, che per te volle tanto patire che, quanto si aumenta in te questa cognizione, tanto crescerà parimenti l’amore. Dalla stessa cognizione della bontà ed amore infinito che lo stesso Signore ti ha mostrato, facilmente ne caverai contrizione e dolore di avere offeso tante volte e con tanta ingratitudine il tuo Dio, che per le tue iniquità è stato maltrattato; e stracciato in tante maniere. Per indotti a speranza, considera che in quello stato di tanta calamità, è caduto un Signore sì grande per estinguere il peccato e liberarti dai lacci del demonio e delle colpe tue particolari, per renderti propizio il suo Padre eterno, e per darti confidenza di ricorrere a Lui in ogni tuo bisogno. – Allegrezza ne sentirai passando dalle sue pene agli effetti loro, cioè che per quelle purga i peccati di tutto il mondo, placa l’ira del Padre, confonde il principe delle tenebre, uccide la morte e riempie le sedie Angeliche. Di più muoviti ad allegrezza per lo contento che ne riceve la Santissima Trinità, con Maria Vergine, la Chiesa trionfante e militante. Per incitarti all’odio dei tuoi peccati, tutti i punti che mediterai, applica a questo solo fine, come se per altro effetto il Signore non avesse patito, che per indurti all’odio delle tue male inclinazioni, e di quella appunto che ti domina, e più dispiace alla sua divina bontà. Per muoverti a meraviglia considera qual cosa può essere maggiore di questa, vedere il Creatore dell’universo, che a tutte le cose dà vita, esser perseguitato a morte dalle creature, vedere conculcata, avvilita la Maestà suprema! La giustizia condannata, sputacchiata la bellezza di Dio, odiato l’amore  del celeste Padre. Quella luce increata ed inaccessibile, ridotta in potestà delle tenebre; la stessa gloria e felicità, reputata disonore e vituperio del genere umano ed abissata in estrema miseria. Per compassionare il tuo addolorato Signore, oltre il meditar le sue pene esteriori, penetra col pensiero ad altre, senza paragone maggiori, che internamente lo tormentavano. Che se per quelle ti affliggerai, per quelle sia meraviglia, come non si spezzi il tuo cuore di doglia. Vedeva l’anima di Cristo l’offesa divina, come ora la vede in Cielo, la conosceva degnissima sopra modo d’ogni onore e servigio, ed a quello per ineffabile suo amore verso di lei, desiderava che tutte le creature s’impiegassero con tutte le forze loro. Onde vedendola per lo contrario, per le infinite colpe ed abbominevoli scelleratezze del mondo, così umanamente offesa e vituperata, era in un istesso tempo trafitta da infinite punture di doglie, le quali tanto più la cruciavano, quanto maggiore era il suo amore e desiderio, che sì alta Maestà fosse da tutti onorata e servita. – E come la grandezza di questo amore e desiderio non si può capire, cosi non è, chi possa arrivare a conoscere, quanto acerba e grave fosse perciò l’afflizione del Crocifisso Signore. Di più amando Egli tutte le creature indicibilmente, a proporzione di questo amore, si dolse sopra modo per tutti i loro peccati per li quali erano per separarsi da Lui, perché per ogni peccato mortale che avevano fatto, ed avevano da fare tutti gli uomini che furono, e faranno mai tante volte, quante ciascuno peccava, altrettante si separava dall’anima del Signore, con la quale era per carità consunto. Separazione tanto più dolorosa, che quella dei corporali membri, quando si disgiungono dal luogo loro naturale: quanto l’anima, per essere puro spirito, e del corpo più nobile e più perfetta, era perciò più capace di dolore. Fra queste passioni per le creature, fu acerbissima quella che provò il Signore per tatti i peccati dei dannati, i quali non potendo mai più riunirsi a Lui, erano per patire eterni incomparabili tormenti. E se l’anima intenerita del caro Gesù, passerà più avanti col pensiero, troverà in Lui per compatirle, pene pur troppo gravi non pure per li peccati commessi, ma per quelli ancora che non furono commessi mai: perché non è dubbio che il perdono di quelli e la preservazione da questi, ei guadagnò il Signor Nostro a costo dei suoi preziosi travagli. Non ti mancheranno, figliuola altre considerazioni per condolerti col tuo appassionato Crocifisso. Perché non è stato, né sarà mai dolore alcuno in qualsivoglia ragionevole creatura, ch’Egli in se stesso non abbia sentito. Le ingiurie e le tentazioni, le infamie e le penitenze, ed ogni angustia e travaglio di tutti gli uomini del mondo cruciarono l’anima di Cristo più vivamente che non fecero di quegli stessi che le patirono. Perché tutte le loro afflizioni, grandi e piccole dell’anima e del corpo, fino ad una minima doglia di capo e puntura d’ago, vide perfettamente, e per la sua immensa carità volle compatire ed imprimere nel cuor suo il pietosissimo Signor nostro. Ma quanto l’accorarono le pene della sua SS. Madre, non è chi lo possa spiegare. Perché Ella in tutti i modi, e per tutti i rispetti che il Signor si dolse e patì tanto, in tutti ancora, benché non così intensamente, ma però acerbissimamente si dolse e patì la Verginella Santa. E questi suoi dolori stessi rinnovarono al suo benedetto Figliuolo le interne plaghe, e ne restò, come tante saette infocate d’amore, ferito il suo dolcissimo Cuore, il quale per tanti tormenti, che ho detto, e per altri quali infiniti occulti a noi, ben si potrebbe dire, che fosse un “amoroso inferno di volontarie pene”, come si scrive di un’anima devota, che così con santa semplicità soleva chiamarlo. Se tu, Figliuola, consideri bene la cagione di tutti i suddetti dolori che tollerò il nostro Crocifisso Redentore e Signore, altri non troverai, che il peccato. Onde ne segue chiaramente, che il vero e principale compatire, ed il rendimento di grazie, ch’Egli da noi ricerca e gli dobbiamo indicibilmente, è il dolerci noi puramente per amor suo, della sua offesa, odiare sopra ogni odio il peccato e combattere generosamente contro tutti i nemici suoi e le male nostre inclinazioni, perché spogliatici dell’uomo vecchio e degli atti suoi ci vestiamo del nuovo, ornando l’animo nostro delle virtù evangeliche.

Dei profitti, che si possono trarre dalla  meditazione del Crocifisso,e della imitazione delle sue virtù.

CAP. LII

Tra gli altri profitti, che sono molti, che tu devi cavare da questa santa meditazione, l’uno sia che tu non pure ti dolga dei peccati tuoi passati, ma anche ti affligga perché vivano in te le disordinate tue passioni, che hanno posto in croce il tuo Signore. – L’altro, che tu le chieda perdono delle tue colpe e la grazia del perfetto odio di te stessa per non offenderlo più, anzi, in ricompensa di tanti suoi affanni per te, amarlo e servirlo per l’avvenire perfettamente; il che senza quest’odio non si può fare. – Il terzo, che con effetto tu perseguiti a morte ogni tua mala inclinazione per piccola che sia. – Il quarto è, che a tutto poteri ti sforzi d’imitare le virtù del Salvatore, il quale ha patito non pure per redimerci, soddisfacendo per le nostre iniquità, ma anco per darci esempio di seguitare i suoi santi vestigi. Qui ti propongo un modo di meditazione che ti servirà per questo effetto. Desiderando tu adunque di far acquisto (per esempio) della pazienza, per imitare il tuo Cristo, considera i seguenti punti: primo; quello che faccia l’anima di Cristo appassionato verso Dio. – Secondo che faccia Iddio verso l’anima di Cristo. – Terzo, che faccia l’anima di Cristo verso la stessa ed il suo sacratissimo Corpo. – Quarto, quello che faccia Cristo verso di noi. – Quinto, quello che noi dobbiamo fare verso Cristo. Primieramente dunque considera, come l’anima di Cristo, stando tutta intenta in Dio, stupisce vedendo quella infinita e incomprensibile grandezza, a pari di cui tutte le cose create sono come un puro niente, sottoposta (stando più immobile nella sua gloria) a sopportare in terra trattamenti degnissimi per l’uomo, da cui non ha ricevuto altro che infedeltà ed ingiurie, e come l’adora, la ringrazia, e tutta se le offre. – Secondo. Mira appresso che fa Iddio verso l’anima di Cristo, come vuole e la spinge a sostenere per noi le guanciate, gli sputi, le bestemmie, i flagelli, le spine e la Croce, scoprendole il suo compiacimento di vederla tutta ricolmata d’ogni sorta di obbrobri ed afflizioni. – Terzo. Da quello passa all’anima di Cristo, e pensa come col suo intelletto tutto lume scorgendo, quanto sia grande in Dio questo compiacimento, e con l’affetto tutto fuoco amando sua Divina Maestà, sopra ogni misura, e per l’infinito suo merito, e per gli obblighi immensi che gli aveva; essendo da lei invitata a patire per nostro amore ed esempio, contenta e lieta si dispone ad ubbidire prontamente alla sua santissima volontà. E chi può penetrare dentro quei profondi desideri, che di ciò aveva quell’anima purissima, ed amorosissima? Quivi ella si trova quasi in un labirinto di travagli, cercando sempre e non trovando (come vorrebbe) nuovi modi e vie di patimenti. E però liberamente dà tutta se stessa e le sue innocentissime carni, perché ne facessero ciò che volessero, in discrezione e preda degl’iniqui uomini, e demoni dell’inferno. – Quarto. Dopo questo riguarda il tuo Gesù, che con occhi di pietà verso di te rivolto ti dice: Ecco, figliuola, dove, per non volerti tu fare un poco di violenza, mi hanno condotto le tue smoderate voglie. Ecco quanto patisco e quanto allegramente per tuo amore, e per darti esempio di vera pazienza. Per tutti i dolori miei, ti prego, figliuola, che tu porti volentieri questa Croce, ed ogni altra che a me più piaccia, lasciandoti affatto nelle mani di tutti i persecutori che ti darò, siano pure vili e crudeli quanto più si possa, contro l’onore ed il corpo tuo. Oh, se tu sapessi la consolazione che ne sentirò! Ma puoi bene vederla in quelle ferite che ho volute come care gioie ricevere, per ornare di preziose virtù la povera anima tua, da me, sopra ogni tua stima diletta. E se io per questo sono ridotto a così estremo passo, perché, sposa mia cara, non vorrai tu patire un poco per soddisfare al cuor mio, ed addolcire quelle piaghe che mi ha cagionate la tua impazienza, la quale più che le piaghe tue stesse, così amaramente mi afflisse? – Quinto. Pensa poi bene. Chi sia quello che cosi teco ragiona e vedrai, che è lo stesso Re di gloria Cristo vero Dio, ed uomo vero. Confiderà la grandezza dei suoi tormenti, e vituperi che sarebbero indegni del più infame ladro del mondo. Vedi il tuo Signore fra tanti strazi stare non pure immobile e paziente a meraviglia, ma che ne gode, come di sue nozze. E che siccome per poco acqua più si accende il fuoco, così con l’aumento dei cruciati, che alla sua sovrabbondante carità erano piccioli, cresceva più sempre il godimento e la brama di soffrirne di maggiori. Considera che tutto ciò ha patito ed operato, il clementissimo Signore, non per forza né per suo interesse, ma (come Egli ti ha detto) per la carità sua verso di te, e perché tu a sua imitazione ti eserciti nella virtù della pazienza: e penetrando bene à dentro quello che Egli da te vuole, ed al contento che gli darai con l’esercitarti in quella virtù, produci atti d’infuocate voglie di portare non solo pazientemente, ma con allegrezza, la tua Croce d’allora ed ogni altra, quando fosse più grave, per meglio imitare il tuo Dio, e dargli maggior conforto. – E ponendoti innanzi gli occhi della mente le sue ignominie ed amarezze gustate per te, e la costanza sua, vergognati di stimare che la tua sia pura ombra di pazienza, né i tuoi siano veri dolori e vituperi. E temi e trema, che anco un minimo pensiero di non voler patire per amore del tuo Signore, trovi luogo da fermarsi pure un poco dentro al tuo cuore. Questo stesso Signore crocifisso, figliuola mia, è il libro ch’io ti dò a leggere, dal quale tu potrai cavarne il vero ritratto d’ogni virtù. Perché essendo libro di vita, non pure ammaestra l’intelletto con parole, ma anche con il vivo esempio infiamma la volontà. Dei libri è pieno tutto il mondo, e nondimeno non possono tutti insieme così perfettamente insegnare il modo d’acquistare tutte le virtù, come si fa mirando in Dio Crocifisso. – E sappi figliuola, che coloro che spendono molte ore in piangere la passione di Nostro Signore e considerare la pazienza sua, e poi nelle avvesità, che sopravvengono, si mostrano cosi impazienti, come se nell’orazione avessero ogni altra cosa appreso, sono simili a dei soldati del mondo che, sotto i padiglioni avanti il tempo della battaglia si promettono cose grandi, e poi al comparir dei nemici, lasciate le armi, si danno a fuggire. E qual cosa può essere più stolta, e miserabile di questa, che mirare come in un lucido specchio le virtù del Signore ed amarle, ed ammirarle, e poi scordarsene affatto, o non stimarle, quando si presenta l’occasione di esercitarle?

Del Santissimo Sacramento dell’Eucaristia.

CAP. LIII

Sin qui figliuola, ti ho (come hai veduto) provveduta di quattro armi, che ti bisognavano per vincere i tuoi nemici, e di molti avvertimenti, per maneggiarle bene, ma ora resta che io te ne proponga un’altra, che è il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia. Che siccome questo Sacramento è sopra tutti gli altri Sacramenti, così questa quint’arma è superiore a tutte le altre. Le quattro suddette pigliano il valore, e dai meriti e grazia che ci hanno meritato il Sangue di Cristo, ma quest’arma è il Sangue e la carne con l’anima e la divinità di Cristo. Con quelle si combatte contro i nemici, con la virtù di Cristo, e Cristo li combatte insieme con noi, poiché, chi mangia la carne di Cristo, e beve il suo Sangue, sta con Cristo e Cristo sta con Lui. E perché questo SS. Sacramento, e quest’arma in due modi si può esercitare, e pigliare Sacramentalmente una volta il giorno, e spiritualmente ogni ora, ed ogni momento, non devi lasciare di prenderla spessissime volte nel secondo modo, e sempre, quando ti è concesso, nel primo.

Del modo di ricevere il SS. Sacramento dell’Eucaristia.

CAP. LIV

Per diversi fini possiamo noi accostarci a questo Divinissimo Sacramento, per conseguire li quali abbiamo a fare diverse cose divise in tre tempi. Avanti la comunione, quando stiamo per comunicarci: e dopo la comunione. – Avanti la comunione (e ricevasi pure per qual fine si voglia) è di bisogno, che ci laviamo e mondiamo col Sacramento della penitenza dalla macchia di peccato mortale, se vi fosse, e che con l’affetto di tutto cuore ci diamo tutti con tutta l’anima, con tutte le forze, e con tutte le potenze a Gesù Cristo, ed a quanto piace a Lui giacché Egli in questo Sacratissimo Sacramento a noi dà il sangue suo, e la carne, con l’anima, con la divinità, o con i meriti suoi: e considerando che poco e quasi niente è il dono nostro a rispetto del suo, dobbiamo considerare d’avere, quanto mai gli hanno offerto e dato tutte le creature umane e celesti, per darlo a sua Divina Maestà. Onde volendo tu riceverlo a fine, che si vincano in te e distruggano i tuoi e suoi nemici, avanti che ti comunichi, comincia dalla sera, o quanto prima, a considerare il desiderio che ha il Figliuolo di Dio, che tu gli dia luogo nel cuor tuo, con questo Sacramento, per unirsi teco, ed aiutarti ad espugnare ogni tua viziosa passione. Questo desiderio è nel Signor nostro così grande ed immenso, che da creato intelletto non può esser compreso. Tu per fartene in qualche parte capace, t’imprimerai bene nella mente due cose. Una è il compiacimento ineffabile del sopra buono Iddio di starsi con noi, poiché questo chiama delizie sue. – L’altra è il considerare, ch’Egli odia sopra modo il peccato, e come impedimento ed ostacolo alla sua unione con noi tanto da Lui bramata, e come in tutto contrario alle Divine perfezioni sue, perché essendo Egli sommo bene, pura luce e bellezza infinita, non può se non odiare, ed abbominare infinitamente il peccato, che altro non è che tenebre, difetto e macchia intollerabile delle anime nostre. Ed è così ardente quest’odio del Signore contro il peccato, che alla sua distruzione sono state ordinate tutte le opere del vecchio e nuovo Testamento, e particolarmente quelle della sacratissima passione del suo Figliuolo, il quale dicono gl’illuminati Servi di Dio, che per annullare in noi ogni nostra ben piccola colpa, di nuovo (se fosse bisogno) si esporrebbe a ben mille morti. Dalle quali considerazioni, venendo tu a comprendere, benché molto imperfettamente, la grandezza del desiderio che tiene il Signore di entrare nel cuor tuo, per scacciare fuori ed abbattere in tutto i tuoi e suoi nemici, ecciterai in te una viva voglia di riceverlo per l’istesso effetto. – Cosi fatta tutta generosa, e preso d’animo dalla speranza della venuta in te del tuo celeste Capitano, chiama più volte a battaglia la passione che hai presa per vincere e reprimerla con replicate ed odiose voglie, producendo atti di virtù a quella contrari, e così andrai continuando la sera e la mattina avanti la SS. Comunione. – Quando poi sarai per prendere il Santo Sacramento, un poco avanti darai un breve sguardo ai tuoi mancamenti dalla precedente Comunione fino allora, i quali così sono stati da te commessi, come se Iddio non fosse, né avesse per te tanto tollerato ne’ misteri della Croce, facendo tu più conto di un vile contento e delle tue voglie, che della volontà di Dio e del suo onore, e con vergogna di te medesima, e con un santo timore ti confonderai nella tua ingratitudine ed indegnità. Ma pensando poi, che l’abisso smisurato della bontà del tuo Signore, chiama l’abisso della tua ingratitudine e poca fede, accostati a Lui confidentemente, dandogli largo luogo nel cuore, perché se ne faccia total Padrone. Ed allora gli darai largo luogo, quando da esso cuore ne scaccerai fuori qualunque affetto delle creature, chiudendolo poi perché altro non vi entri, che il tuo Signore. – Comunicata che sarai, ritirati subito nel segreto del cuor tuo, ed adoratelo prima, così con ogni umiltà e riverenza, ragiona mentalmente col tuo Signore: Tu vedi unico mio bene, quanto facilmente io ti offenda, e quanto possa contro di me questa passione e che da me non valgo a liberarmi. Però tua è principalmente questa pugna, e da te solo spero la vittoria, benché a me ancora bisogni combattere. Poi rivolta al Padre Eterno, offrigli per rendimento di grazie, e per la vittoria di te stessa il suo benedetto Figliuolo, ch’Egli ti ha dato e che già tieni dentro di te, e generosamente combattendo contro la suddetta passione, con fede  aspetta la vittoria da Dio, che non è per mancarti, se dal tuo canto tu farai quanto potrai, ancorché la ritardasse.

Come dobbiamo prepararci alle Comunione, affine di eccitare in noi l’amore.

CAP. LV

Per eccitarti con questo sopra-celeste Sacramento ad amar il tuo Dio, ti volterai col pensiero all’amore suo verso di te, meditando dalla sera innanzi. – Come quel grande ed onnipotente Signore, non contento d’averti creata ad immagine e somiglianza sua, e d’avere mandato in terra il suo Unigenito Figlio a patire trentatré anni per le tue iniquità e sopportar asprissimi travagli, e la penosa morte della Croce per ricomperarti, volle di più lasciartelo per tuo cibo e bisogno nel SS. Sacramento dell’Altare. Considera bene, figliuola l’eccellenza incomprensibile di questo amore, che lo rendono in tutte le sue parti perfettissimo e singolare. Perché se miriamo al tempo, il nostro Iddio ci ha amato perpetuamente e senza alcun principio, e quanto Egli è eterno nella sua divinità, tanto ancora eterno è l’amore col quale avanti tutti i secoli fu stabilito nella sua mente di darci il suo Figlio in questo modo meraviglioso. Di che giubbilando dentro di te per interna letizia, potrai così dire: Dunque in quell’abisso di eternità, la mia piccolezza era tanto stimata ed amata dal sommo Dio, ch’Egli pensava di me e bramava, con voglie di carità ineffabile, di darmi il suo stesso Figliuolo in cibo? – Secondo. Di più, tutti gli altri amori, per grandi, che siano, hanno qualche termine, né possono più oltre estendersi, ma questo solo del Signor nostro è senza misura. E però volendo soddisfarsi a pieno, ha dato il proprio Figliuolo, di Maestà ed infinità uguale a Lui,  e di una stessa sostanza e natura. Onde tanto è l’amore, quanto il dono, e tanto il dono, quanto l’amore, e l’uno e l’altro così grande, che maggior grandezza da nessuno intelletto immaginar si puote. – Terzo. Né ad amarci è stato tirato Iddio da alcuna necessità o forza, ma in sua intrinseca naturale bontà unicamente l’ha mosso a tale e tanto incomprensibile affetto verso di noi. – Quarto. Né opera alcuna o merito nostro ha potuto precedere, perché quell’immenso Signore facesse con la meschinità nostra  tanto eccesso di amore, ma per sua sola liberalità, tutto si è Egli donato a noi indegnissime creature sue. – Quinto. E se ti rivolti col pensiero alla purità di questo amore vedrai che non è, come gli amori mondani, mischiato con alcuno interesse, poiché il Signore nostro non ha bisogno dei nostri beni, essendo Egli senza noi in sé stesso solo, felicissimo, e gloriosissimo, come è stata la sua ineffabile bontà e carità puramente impiegata in noi, non per suo, ma per beneficio nostro. – Il che pensando tu bene, dirai fra te medesima: Com’è , che Signore tanto sublime, ponga il suo cuore in creatura così bassa? Che vuoi tu, Re di gloria? che aspetti da me, che altro non sono che poca polvere? Scorgo io bene, Dio mio, nel lume della tua sola carità, che un solo disegno ne hai, che più chiaramente mi scopri la purità del tuo amore verso di me, poiché non per altro mi ti doni tutto in cibo, che per convertirmi tutta in te, non  per bisogno che di me tu abbia, ma perché vivendola in me, io in te, io diventi per union amorosa tu stesso, e della viltà del cuore terreno si faccia teco un solo divino cuore. –  Onde tu piena di stupore, e giocondità, vedendoti così altamente pregiata, ed amata da Dio, e conoscendo ch’Egli col suo onnipotente amore altro non intende, né vuole da te, che ritirare in sé tutto l’amor tuo, togliendoti prima da tutte le creature, e poi anco da te stessa, che creatura sei; offriti tutta al tuo Signore in olocausto, perché da qui in poi il suo solo amore e piacimento divino muova l’intelletto, la volontà, la memoria tua, e regga i sensi tuoi. – E vedendo poi, che nessuna cosa possa in te produrre sì divini effetti, come il ricercarlo degnamente nel SS. Sacramento dell’Altare, aprigli il cuore per quell’effetto, con le seguenti orazioni giaculatorie ed aspirazioni amorose: « Oh cibo sopraceleste, quando sia quell’ora che non con altro fuoco che del tuo amore io mi santifichi tutta a te, quando, quando, o amore increato? Oh pane vivo, quando io vivrò solamente in te, per te, ed a te? Deh quando, vita mia, vita bella, gioconda, ed eterna? O manna celeste, quando fastidita io di qualunque altro cibo terreno te sola bramerò? di te sola mi pascerò? quando sarà, dolcezza mia, quando unico mio bene? Deh Signor mio amoroso ed onnipotente, libera ormai questo misero cuore da ogni attacco e da ogni viziosa passione, ornalo delle tue sante virtù, e di quel fine puro di fare ogni cosa puramente per piacere a te, che a questo modo verrò io ad aprirti il cuore, ti invierò e ti farò dolce violenza, perché vi entri: onde tu, Signore, senza resistenza opererai poi in me quegli effetti, che hai sempre desiderati. » – Ed in questi amorosi affetti ti potrai esercitare la sera, e la mattina, per l’apparecchio della Comunione. Avvicinandosi poi il tempo della comunione, pensa, che cosa sei per pigliare: il Figliuolo di Dio, di Maestà incomprensibile avanti della quale tremano i Cieli, e le potestà tutte; il Santo dei Santi, lo Specchio senza macchia e la Purità incomprensibile, alla comparazione della quale non è creatura che monda sia; quello che, come verme e feccia della plebe, volle per amor tuo essere rifiutato, calpestato, illuso, sputacchiato, e crocifisso dalla malizia ed iniquità del mondo. Sei (dico) per ricevere Dio, in mano del quale sta la vita e la morte di tutto l’universo. – Che tu all’incontro, come da te sei un niente, e che per lo peccato e malizia tua, ti sei fatta inferiore a qualunque vilissima ed immonda creatura irrazionale, degna d’esser confusa ed illusa da tutti i demoni infernali. E che in cambio di gratitudine e tanti immensi ed innumerabili benefìci, hai nei tuoi capricci e voglie spregiato un tanto e tale, alto ed amorevole Signore, e conculcato il suo prezioso sangue. – Che con tutto ciò, nella sua carità perpetua ed immutabile bontà, Egli ti chiama alla sua divina mensa, e talora ti costringe, perché vi vada con minacce di morte e chiude la porta della sua pietà, né anco ti volta le sue divine spalle, benché tu per natura sei lebbrosa, zoppa, idropica, cieca, indemoniata, e ti sei data a molti fornicatori. Questo solo domanda da te; Primo, che ti dolga dell’offesa sua. Secondo. Che abbi sopra ogni altra cosa in odio il peccato e grande e picciolo. Terzo. Che tutto ti offra e dia con l’affetto di sempre, e con gli effetti sei nelle occasioni alla volontà obbedienza sua. Quarto. Che speri poi, ed abbi ferma fede, che Egli ti perdonerà, ti farà monda, e guarderà da tutti i nemici tuoi. Confortata da questo amore ineffabile del Signore, ti accosterai poi per comunicarti con un timore santo ed amoroso, dicendo: Io, Signore, non son degna di riceverti per tante e tante volte, che gravemente ti ho offeso, né ancora ho pianto come devo, l’offesa tua. Io, Signore non sono degna di riceverti, perché non sono affatto monda dagli affetti de’ peccai veniali. Io, Signore, non sono degna di riceverti, perché ancora non sinceramente mi sono data al tuo amore, alla tua volontà, ed all’ubbidienza tua. Deh! Signor mio onnipotente ed infinitamente buono, nella virtù della tua bontà e parola, fammi degna, che con quella fede (amor mio) io ti riceva. – Comunicata che sarai, rinchiuditi subito nel segreto del cuor tuo, e scordata di qualunque cosa creata, a questo o somigliante modo ragiona col tuo Signore: O Altissimo Re del Cielo, chi ti ha condotto dentro di me, che sono miserabile, povera, cieca ed ignuda, ed Egli ti risponderà, Amore. E tu replicando dirai: O Amore increato, o Amore dolce, che cosa vuoi tu da me? Non altro ti dirà Egli, che Amore, né altro fuoco voglio, che arda nell’Altare del tuo cuore e nei sacrifici tuoi, ed in tutte le opere tue, che il fuoco dell’amor mio, che consumando ogni altro amore ed ogni tua propria volontà, mi dia odore soavissimo. Questo ho domandato e domando sempre, perché bramo d’essere tutto tuo, e che tu sii tutta mia. Il che non sarà giammai, mentre non facendo di te quella rassegnazione che tanto mi diletta, starai attaccata all’amore di te medesima al tuo proprio parere, e ad ogni tua voglia, e reputazione. – Ti domando l’odio di te stessa per darti il mio amore; e il tuo cuore perché si unisca col mio, che per questo mi fu aperto in Croce, e chieggo tutta te, perché io sia tutto tuo. Tu vedi, che io sono d’incomparabile prezzo, e niente di meno  per mia bontà valgo, quanto vali tu. Comprami dunque ormai anima mia diletta, con dare te a me. Io voglio, figliuola mia dolce, da te, che tu niente voglia, niente pensi, niente intenda, niente veda fuori di me e della mia volontà; acciocché io in te tutto voglia, pensi, intenda e veda, in modo che il tuo niente assorto nell’abisso della mia infinità in questa si converta: così tu sarai in me pienamente felice, e beata ed Io in te tutto contento. Finalmente offrirai al Padre suo Figliuolo, prima per rendimento di grazie, poi per li bisogni suoi, di tutta la Chiesa Santa, di tutt’i tuoi, di quelli a’ quale sei obbligata, e per le anime del Purgatorio; e questa offerta la farai con la memoria ed unione di quella che Egli fece di se stesso quando tutto cruento e pendendo in Croce, si offrì al Padre. – Ed in questo modo gli potrai offrir tutti i sacrifici, che in  quel giorno si fanno nella Chiesa Romana.