TEMPO DELL’AVVENTO (2018)

TEMPO DELL’AVVENTO.

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la prima venuta del Figliuolo di Dio, ossia sopra il mistero dell’Incarnazione.

Venit fortior me post me, cuius non sum dignus solvere corrigiam calceamentorum eius

S. Luc. III.

Non possiamo meglio, fratelli miei, impiegare il santo tempo dell’Avvento, che incominciamo nel giorno d’oggi, che occupandoci con la Chiesa intorno alla venuta del Figliuolo di Dio sopra la terra : tale è l’oggetto che questa santa Madre propone alle nostre riflessioni durante questo santo tempo, sia negli uffizi che celebra, sia nelle istruzioni che ci dà. Ora convien distinguere due sorta di venuta del Figliuol di Dio: l’una, che ha fatto comparire la sua misericordia e deve darci confidenza: l’altra, che manifesterà la sua giustizia e deve ispirarci timore. La prima apparve nel mistero dell’incarnazione, quando il Figliuolo di Dio si fece uomo per salvarci. La seconda si farà nel fine del mondo, allorché questo stesso Figliuolo di Dio fatto uomo verrà per giudicarci. Di quella prima venuta del Figliuolo di Dio nel mistero dell’incarnazione rende testimonianza S. Giovanni Battista, allorché, parlando di Gesù Cristo, dice che viene uno dopo di lui, il quale è stato prima di lui ed è di lui più potente, a cui non è egli degno di slacciare i legami delle scarpe: Venit fortior me, etc. mentre dicendo che Gesù Cristo è stato prima di lui, che è più potente di lui, confessa con questo la sua divinità; ed aggiungendo che viene dopo di lui, esprime la generazione temporale della sua umanità, e dichiara con ciò che Gesù Cristo è Dio e uomo tutto insieme, per l’unione che si è fatta in Lui della natura divina con la natura umana, e che per conseguenza è il Messia da tanti secoli aspettato, il desiderato dalle nazioni, il Salvatore del mondo. Testimonianza di S. Giovanni, che era tanto più capace di persuadere ai Giudei la venuta del Messia nella persona di Gesù Cristo, quanto che veniva da un uomo, che era creduto egli stesso il Messia; e che ricusando quest’augusta qualità per attribuirla a Gesù Cristo, doveva senza dubbio essere sulla sua parola creduto. Questa venuta del Figliuolo di Dio nel mistero dell’incarnazione, dovrebbe, fratelli miei, essere il soggetto continuo delle nostre riflessioni, poiché il fondamento della nostra più ferma speranza. – Che però, per richiamarlo alla memoria dei fedeli, la Chiesa ha specialmente destinato il santo tempo dell’Avvento; e a questo fine mette nella bocca dei suoi ministri i discorsi che S. Giovanni faceva al popolo per disporlo alla venuta del Redentore. Entriamo, fratelli miei, nei disegni di questa santa Madre; procuriamo di penetrare, per quanto la fede ce lo permette, la profondità di questo mistero per scoprirvi l’eccesso di amore che un Dio vi ci dimostra: ma non arrestiamoci ad una sterile speculazione; sforziamoci di mostrare al nostro Dio che abbiamo tutta la riconoscenza che merita dal canto nostro un sì grande amore. Quale è stato dunque l’amor di Dio per gli uomini nel mistero dell’incarnazione? Primo punto. Qual esser deve il nostro amore per un Dio incarnato? Secondo punto. Si compì questo mistero quando l’Angelo del Signore indirizzò alla santissima Vergine il saluto che i predicatori costumano indirizzarle: Ave Maria, etc.

I. Punto. Il Figliuolo di Dio, uguale in tutto a suo Padre, Dio da tutta l’eternità com’Egli, che, senza lasciar di essere ciò ch’era, è divenuto ciò che non era prima, vale a dire un uomo simile a noi, composto della medesima natura che noi e che si chiama Gesù Cristo. – Ecco, fratelli miei, lo ripeto, ecco ciò che noi chiamiamo l’incarnazione del Verbo, il mistero nascosto in Dio avanti ai secoli, dice l’apostolo S. Paolo, che si è manifestato nella nostra carne, che è stato veduto dagli Angeli, predicato alle nazioni, che è stato predetto da un gran numero di profezie contenute nei libri, che ci sono stati trasmessi dagli Ebrei nemici della nostra santa Religione: le quali profezie, per confessione anche dei pagani, si sono verificate appuntino nella persona di Gesù Cristo, ed il cui adempimento è stato confermato da un’infinità di miracoli di quest’uomo-Dio e dei suoi discepoli: miracoli che hanno persuaso ai più grandi ingegni del mondo, e a tutte le nazioni della terra la verità della sua dottrina, la divinità della sua missione. Voi siete, fratelli miei, pienamente convinti di questo gran mistero, voi fate professione di crederlo; senza arrestarci dunque a più lunghi ragionamenti entriamo in questo abisso di carità che Dio ha manifestato agli uomini; mentre quivi è, dice lo stesso Apostolo, dove la bontà e l’amore del nostro Salvatore veramente comparve: Apparuit humanitas et benignitas Salvatoris nostri (Tit. 3). Ma qual bontà, quale amore! Si è l’amore più pietoso che l’ha indotto a liberarci dalle miserie, in cui ridotti ci aveva il peccato; l’amore più generoso che l’ha portato a tutto sacrificare per la nostra liberazione. Si, fratelli miei, i mali da cui Gesù Cristo ci ha liberati, ci comprovano la tenerezza del suo amore; siccome il prezzo da lui dato pel nostro riscatto ci fa abbastanza conoscere la generosità del suo amore. Per meglio convincerci dell’immensa carità del nostro Dio per gli uomini nel mistero dell’incarnazione, rammentiamo per un momento lo iato lagrimevole a cui ci aveva il peccato ridotti. C’insegna la fede che il primo uomo peccando perdette non solo per lui ma ancora per tutti i suoi discendenti la giustizia originale e gli altri vantaggi di cui godeva, nello stato d’innocenza: siccome Dio aveva messo la nostra sorte nelle sue mani, e la nostra felicità dipendeva dalla sua fedeltà nell’osservare il comando che il Signore gli aveva fatto, la sua caduta fu la cagione della nostra disgrazia; la sua prevaricazione ci diede il colpo della morte, privandoci della vita della grazia che Dio ci aveva data nella sua persona, per sua pura misericordia (per un effetto della sua, sapienza: divenuti sin d’allora figliuoli d’ira, ci ha chiuso il cielo, e fummo condannati alla morte e alle altre miserie che accompagnano la trista condizione degli uomini. Questo è quel funesto peccato di origine ch’è entrato nel mondo per un solo uomo, che ci fa morire prima di nascere, che ha cancellato in noi i bei tratti di divinità che erano impressi nella nostra anima per porvi l’immagine del demonio; questa si è quella piaga profonda che ha avuto bisogno di un medico tanto caritatevole, come Colui che l’ha lavata nel suo sangue: Lavit nos a peccatis in sanguine suo (Apoc. 1). imperciocché finalmente, fratelli miei, che saremmo noi divenuti, se Dio, mosso dalle nostre miserie, non ci avesse steso la mano per cavarci dall’abisso in cui eravamo precipitati? Privi del diritto che avevamo alla celeste eredità, non potevamo da noi medesimi ricuperarlo, perché era un dono di Dio, che dipendeva dalla sua misericordia e che poteva non restituirci. Ma ciò che rendeva somma la nostra miseria si è, che al peccato originale, il quale ci aveva chiuso il cielo, avevamo noi aggiunto per lo cattivo uso della nostra libertà, un gran numero di peccati attuali, che ci avrebbero fatto condannare all’inferno per ivi soffrire con i demoni i più orrendi supplizi. O misera e disgraziata condizione degli uomini! Indotti ella li avrebbe alla disperazione, se alcun rimedio non si fosse trovato alla loro sventura. Ma grazie infinite siano per sempre rese alla misericordia del nostro Dio che ci ha visitati nelle nostre miserie, e ci ha redenti dalla schiavitù: Visitavit et fecit redentionem plebis suæ (Luc. 1). Senza aver bisogno di noi, Egli ci ha il primo ricercati: toccava a noi fare i primi passi; ma non potevamo farne neppur uno per andare a Lui. Ha avuto dunque riguardo alla nostra impotenza; ci ha stesa la mano per rialzarci, ha distrutto il muro di divisione che posto aveva tra noi e Lui il peccato. Questo medico caritatevole è venuto Egli stesso vicino al suo infermo, dice S. Bernardo, questo buon Pastore è corso presso la sua pecorella smarrita per liberarla dal furore del lupo infernale; questo tenero padre è andato incontro al suo figliuol prodigo, l’ha ricevuto nella sua amicizia, l’ha ristabilito nei diritti che aveva perduti. Di già la grazia della riconciliazione ci è offerta: sottratti dalla schiavitù del demonio, ricuperiamo la libertà dei figlioli di Dio: liberati dagli orrori della morte, ripigliamo una nuova vita; in una parola, il cielo, nostra cara patria, ci è aperto; i nostri seggi vi sono assicurati; tali sono, fratelli miei, i frutti ammirabili dell’incarnazione di un Dio, tali sono gli effetti di suo amore pietoso; poiché egli è per liberarci dalle nostre miserie che ha operato questo grande mistero. Egli, per riscattarci e renderci la vita, dice s. Paolo, che il Padre celeste ha mandato il suo Figliolo nella pienezza dei tempi a nascere da una donna; egli è per salvarci che questo Figliolo adorabile è disceso dal trono della sua gloria e si è per noi annientato: Qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de cœlìs; e qui si è dove dobbiamo noi riconoscere la generosità dell’amore di Dio in questo mistero, dal prezzo ch’Egli dà pel nostro riscatto. Ed invero, questo Signore le cui misericordie sono infinite non poteva Egli perdonare all’uomo il suo peccato con una grazia del tutto pura e ristabilirlo nei suoi diritti senza alcuna soddisfazione; o almeno contentarsi di una soddisfazione men nobile e meno perfetta di quella che ha ricevuto in questo mistero? Sii, senza dubbio, il poteva; padrone dei suoi diritti, non dipendeva che da Lui il cederli, avrebbe spiccato in ciò la sua misericordia, ma non sarebbe stata soddisfatta la sua giustizia. – Chiedeva pertanto la giustizia di Dio questa soddisfazione uguale all’offesa che aveva ricevuto; e siccome l’offesa era infinita, bisognava una vittima di un prezzo infinito per riparare all’ingiuria fatta alla divina Maestà. Or chi poteva, fratelli miei, dare alla giustizia di Dio questa soddisfazione che in rigore esigeva? Non vi erano che i meriti di Gesù Cristo, perché era Dio; e se la misericordia di Dio non fosse venuta in soccorso dell’uomo, per fornirgli onde soddisfare, invano l’uomo avrebbe cercato in se stesso e nelle sue virtù onde pagare i suoi debiti: non vi trovava che fiacchezza ed impotenza; vi trovava bensì l’origine del suo male, ma non già il rimedio per guarirlo; la sua infinita bassezza, che infinita rendeva la sua offesa, avviliva per questa cagione appunto i suoi meriti: Non dabit Deo placationem suam (Psal. XLVIII). Invano sarebbe ricorso alle altre creature per ritrovare nei loro meriti onde soddisfare alla divina giustizia: tutte le virtù degli Angeli e degli uomini non avrebbero mai avuta proporzione alcuna con l’offesa fatta a Dio dall’uomo peccatore: Frater non redimit (ibid.), che però sarebbe sempre rimasto senza poter pagare. Bisognava dunque per una giusta compensazione dell’ingiuria fatta alla divina Maestà, che Dio stesso si addossasse la causa dell’uomo per farsi a sue proprie spese la soddisfazione che domandava e per risparmiare all’uomo colpevole i castighi di cui era minacciato. Nulladimeno, siccome era l’uomo che aveva peccato, e Dio per sua natura è incapace di soffrire e di morire, bisognava, dice S. Agostino, che la vittima che espiare doveva il peccato fosse tratta dalla natura umana: Peccatum adeo tantum erat ut illud solvere non haberet, nisi homo. Ma siccome Iddio solo poteva dare ai patimenti dell’uomo i meriti e la dignità che necessari gli erano, bisognava, conchiude questo S. Padre, che questa vittima fosse Dio ed uomo insieme: Ita opus erat ut idem esset homo qui erat Deus. – Ora questo si è, fratelli miei, l’incomparabile mezzo che la misericordia di Dio ha fornito all’uomo peccatore nel mistero dell’incarnazione per pagare il debito di cui era caricato; si è per l’unione ammirabile della natura divina con la natura umana nella persona di Gesù Cristo, che la misericordia e la giustizia si sono riscontrate, come dice il profeta: Misericordia et veritas obviaverunt sibi (Psal. LXXXIV). L’una e l’altra hanno avuto i loro diritti, la misericordia ha perdonato all’uomo colpevole, e la giustizia è stata vendicata, così la terra è stata riconciliata col cielo, l’uomo con Dio. E non è questa, fratelli miei, dalla parte di Dio la prova dell’amore più liberale e più generosa verso gli uomini? E non sembra che in questo mistero le tre Persone adorabili della santissima Trinità abbiano voluto per così dire, prodigalizzarsi ed esaurirsi in favore dell’uomo peccatore? Quando risolvettero nel loro adorabile consiglio di cavarlo dal nulla: “Facciamo, dissero, l’uomo a nostra immagine e somiglianza”: Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram (Gen. I). Ma questo che costò loro? una parola, un soffio di vita, con cui Iddio animò un poco di terra. Ecco l’uomo formato: e per riscattarlo costa al Padre Eterno un Figlio unico, l’oggetto delle sue compiacenze; non aveva Egli che questo Figlio, dice l’Apostolo, ed ha talmente amato il mondo che l’ha dato per redimerlo; Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum dare (Jo. III). Pesiamo la forza e l’energia di queste parole: Dio, che non bisogno aveva dell’uomo, Dio oltraggiato dall’uomo, ha avuto tanto amore per questa vile creatura che gli ha dato, abbandonato, non uno dei suoi Angeli, ma il suo unico Figliuolo, uguale in tutto a Lui stesso, vero Dio, generato da un vero Dio, l’oggetto delle sue eterne delizie. E perché l’ha Egli dato? Per essere sacrificato, immolato per la salvezza di questo mondo medesimo. Qual eccesso di amore! Lo comprendete voi, fratelli miei? Sic Deus dilexit mundum. Questo Figliolo adorabile, per obbedire alla volontà di suo Padre, si è offerto di buon grado ad essere mallevadore dell’uomo incapace di soddisfare alla divina giustizia; si è caricato delle nostre iniquità, si è abbassato, annientato sino a prendere la forma di uno schiavo, Exinanivit semetipsum formam servi accipiens (Philip. II). In questo stato si è Egli offerto alla giustizia di suo Padre per essere l’anatema e la vittima di espiazione per i peccati dell’uomo. Voi non avete voluto, disse al Padre suo, i sacrifici che gli uomini vi presentavano, avete rigettate le loro vittime, come incapaci di soddisfarvi: ma Voi mi avete formato un corpo; eccomi, io vengo, io son pronto: dìxi: Ecce venio (Heb. X). Io già mi destino ad essere l’oggetto dell’ira vostra e del furore dei miei nemici; sopra di me voi scaricherete i flagelli che hanno meritato gli uomini, io mi pongo in vece loro; vendicatevi a spese della mia vita, non mi risparmiate, ma perdonate loro: Ecce venio. Oh eccesso dell’amor di Dio per gl’uomini! Appena, dice l’Apostolo, troverebbesi qualcheduno che morir volesse per un giusto: Vix prò insto quis moritur (Rom. V). Quanto grande dunque non è stata la carità del nostro Dio, che si è offerto alla morte per uomini peccatori? Qual ammirabile genere di rimedio, dice s. Agostino, che il medico stesso siasi fatto infermo per guarire i suoi infermi! Che Iddio si abbassi per innalzar l’uomo, che facciasi povero per arricchirlo, che si renda simile all’uomo per render l’uomo simile a Lui, non è questo io ripeto, la prova dell’amore più generoso? Non è egli a dirsi che lo Spirito Santo, il quale è tutto amore, presiedesse ad una sì grand’opera? Gli Angioli e gli nomini avrebbero mai immaginato un simil disegno? E se Dio ci avesse permesso di domandargli il nostro riscatto ad un sì gran prezzo, avremmo giammai osato portar sin là le nostre speranze? E pur questo è quel ch’Egli ha fatto nel mistero dell’incarnazione. Quale amore? Fuvvene mai alcuno più pietoso e più generoso? Ma qual deve essere il nostro per un Dio incarnato? Ecco il soggetto della seconda parte.

II. Punto. É proprio dell’amore di non pagarsi che con l’amore: più grandi cose ispira in favore di coloro che si amano, più ha diritto di aspettarne. Amiamo dunque il nostro Dio, dice s. Giovanni, poiché Egli ci ha amati il primo con una maniera sì tenera e sì generosa nel mistero della sua incarnazione. – Il suo amor tenero e pietoso ci ha liberati dalle miserie in cui precipitati ci aveva il peccato; il suo amor generoso l’ha sacrificato per essere il prezzo delia nostra redenzione: questa immensa carità di un Dio richiede dal canto nostro un amor tenero e riconoscente che ci renda sensibili ai suoi benefici, un amor generoso che ci sottometta ai suoi voleri. Qual sarebbe, fratelli miei, la nostra riconoscenza per un ricco della terra, per un grande del secolo, che ci avesse liberati dalle catene, che col suo credito ci avesse risparmiata una morte vergognosa e crudele? Che sarebbe poi, se questo ricco, questo grande del secolo si fosse egli stesso caricato delle nostre catene per metterci in libertà, si fosse offerto alla morte per conservarci la vita? Che sarebbe mai se il figliuolo di un re della terra avesse calmata con la sua morte l’ira di un padre? Ci scorderemmo giammai di un liberatore così benefico? Ma che dico io? Quando ciò non fosse, che ad un uomo simile a noi, all’infimo anche degli uomini, che noi fossimo debitori della libertà o della vita, quest’uomo non ci diverrebbe tante caro, quanto la nostra propria persona? E non sarebbe un rendersi colpevole della più nera ingratitudine il non riconoscerlo o il dimenticarlo? Ora voi lo sapete, fratelli miei, non e già un uomo come noi, non è né un grande né un re della terra; Egli è l’unico Figliuolo dell’Altissimo, il Re dei re, che ci ha liberati non dalla prigione dove l’umana giustizia rinchiude i colpevoli, ma dalla schiavitù del demonio e dalla prigione dell’inferno; non da una morte temporale, ma da una morte eterna; che ci ha liberati non a prezzo d’oro e d’argento: non in corruptibilibus auro et argento (1 Piet. I), ma a prezzo del suo sangue e della sua vita. Un cuore insensibile a tali benefici non è egli un mostro che fa arrossir la natura? Quando leggiamo nelle Scritture che il profeta Eliseo risuscitò il figliuolo della vedova sunamite, noi facilmente entriamo nei sentimenti di riconoscenza di cui questa vedova fu penetrata. Quel profeta, dice il sacro testo, s’aggiustò per tal modo sopra il corpo del fanciullo che le membra dell’uno corrispondevano a quelle dell’altro; con quest’atto rianimò miracolosamente il natural calore di lui, lo risuscitò e riempì sua madre di allegrezza. Allo stesso modo, fratelli miei, pel più stupendo di tutti i miracoli, il Verbo di Dio si è, a così dire, raccorciato per renderci la vita, come dice S. Bernardo: Verbum abreviatum est. Egli, quantunque immenso, si è rinchiuso nella piccolezza di un bambino; l’immortale si è reso soggetto alla morte: col suo abbassamento ci ha innalzati, con la sua morte ci ha risuscitati, di modo che noi siamo più debitori alla debolezza di cui si è rivestito per riscattarci, che alla sua onnipotenza che ci ha creati: con la sua onnipotenza ci ha dato l’essere; ma che cosa giovato ci avrebbe il nascere, dice S. Ambrogio, se non fossimo stati redenti? Non prodesset nasci, nisi redimi profuisset. A che servito ci avrebbe la vita naturale, se non avessimo ricevuta quella della grazia, che ci rende figliuoli di Dio ed eredi del suo regno? Benedetto sia dunque per sempre il Dio delle misericordie, che ha gettato gli occhi di compassione sopra le nostre miserie! Benedetto sia il pietoso Samaritano, che è venuto in soccorso dell’uomo piagato dal peccato! Questo Dio Salvatore, dopo aver lavate le nostre piaghe nel suo sangue, ci ha rese le ricchezze che tolte ci aveva il nemico: alla sola sua carità compassionevole noi dobbiamo la vita; di questo beneficio non perdiamo giammai la rimembranza; dimentichiamo la nostra destra e quando abbiamo di più caro, piuttosto che dimenticare questo favore. Eccovi ciò, fratelli miei, che la riconoscenza richiede da noi; rammentare incessantemente il beneficio inestimabile della nostra redenzione, farne in tutti i giorni di nostra vita il soggetto delle nostre più serie riflessioni per cantare eternamente le misericordie di Dio che ci ha liberati dalla potestà delle tenebre per metterci in possesso del regno del suo figliuolo: Transtulit nos de potestate tenebrarum in regnum lucis suæ (Coloss. 1). Ma ohimè! quanto sono lontani gli uomini dal considerare come dovrebbero questo mistero ineffabile, che è il fondamento della loro felicità? A quanti far non si potrebbe il medesimo rimprovero che faceva il Battista altre volte ai Giudei? Il Messia è in mezzo di voi, loro diceva, e voi non lo conoscete! Medius vestrum stetit quem vos nescitis (Jo. I). Il Figliuolo di Dio, la luce del mondo, è venuto per illuminarlo e dissipare le sue tenebre; e gli uomini acciecati dalle loro passioni, hanno chiusi gli occhi a questa luce: i Giudei si sono scandalizzati della sua dottrina, i gentili l’hanno trattata di follia e i Cristiani non la conoscono. Non parlo io solamente di quegli ignoranti che non sanno che cosa sia Gesù Cristo, ma di quei falsi sapienti del secolo che si fan gloria di esser dotti in tutt’altra scienza che in quella del Cristiano e che intorno a tutt’altro oggetto si aggirano: sensibili ai più leggieri benefizi che ricevono dagli uomini, non riconoscono il dono di Dio e, per un’ ingratitudine senza esempio, non vi corrispondono che con offese ed oltraggi. – Ah! Se noi penetrato avessimo con gli occhi di una viva fede questo abisso profondo della carità di Dio verso gli uomini, vi rifletteremmo ogni giorno; non contenti di abbandonarci ai sentimenti della più viva riconoscenza, l’ispireremmo agli altri, pubblicando dappertutto le misericordie del Signore; renderemmo amore per amore ad un Dio che ci ha amati sino a sacrificare se stesso per la nostra salute; gli sacrificheremmo i nostri cuori con una perfetta ubbidienza alle sue leggi. Ecco, fratelli miei, quanto chiede in ricompensa del suo amore liberale e generoso; non chiede i nostri beni, Egli non ne ha bisogno, dice il profeta, ma chiede i nostri cuori; non è forse giusto ch’Egli ne sia il padrone, poiché li ha meritati a sì gran costo? Siccome la somiglianza produce l’amore, il figliuolo di Dio, per guadagnar il nostro cuore, si è reso simile a noi: In similitudinem hominum factus (Philip. II). Ma oh quanto gli ha costato questa rassomiglianza! Egli si è spogliato della sua grandezza per rivestirsi della nostra viltà; ha nascosta la gloria della sua divinità sotto l’ombra della debolezza; si è sottomesso ai comandi più rigorosi del Padre suo, non solo sino a comparire, ma sino ad essere trattato come un peccatore carico di tutte le iniquità del mondo. E non è questo, fratelli miei, comprare ad assai caro prezzo il nostro amore? E non ha Egli diritto di esigere tutto quel che siamo, poiché, per averlo, ha dato tutto quel che è, dice S. Bernardo: Totum me exigit qui toto se totum me redemit. Ma in che consiste questa integrità dell’amore che Gesù Cristo, ci chiede? In consacrargli tutti i movimenti del nostro cuore, di modo che non ve ne abbia alcuno che non sia per Lui; in distaccare questo cuore da ogni oggetto che possa contrastargliene il possesso, bandirne il peccato e tutto ciò che può esserci occasione di peccato; in combattere quelle inclinazioni perverse che ci portano verso le creature; in sacrificare quella passione che ci predomina, quel risentimento che c’inasprisce, in rinunciare a quel bene che ci alletta, a quel piacere che c’incanta, a quegli impegni peccaminosi che ci traggono a perdizione. Come? Sarà egli possibile che un Dio abbia fatti tanti passi per distruggere in noi il regno del peccato, e che noi ve lo lasciassimo signoreggiare? Sarà possibile ch’Egli abbia spezzate le nostre catene per rimetterci di bel nuovo da noi medesimi in ischiavitù? Sarà possibile ch’Egli siasi reso ubbidiente ai voleri del Padre suo sino alla morte della croce, e che noi non ci facciamo violenza alcuna, né in nulla annegare la nostra volontà, che niente sacrificare vogliamo per ubbidire alle sue divine leggi, e dargli con questo la prova ch’Egli chiede del nostro amore? Sarà possibile finalmente che, dopo di essersi un Dio abbassato insino a noi per innalzar noi insino a Lui, vogliamo sempre avere bassi pensieri ed affezioni terrene, indegne di un’anima che ha meritato l’amore d’un Dio? Ah! no, Signore, non sia mai vero che Voi abbiate fatto tanto per guadagnar il mio cuore, e ch’io ricusi di darvelo. Conosco troppo, o mio Dio, quel che vi debbo per non rimettere in Voi tutto quello che io sono: Voi siete venuto sulla terra per accendervi il fuoco del vostro amore; fate che il mio cuore ne sia tutto infiammato, che riconoscente ai tratti d’amore con cui l’avete penetrato, egli non ami che Voi nel tempo per amarvi nell’eternità.

PRATICHE PEL SANTO TEMPO DELL’AVVENTO.

I. Fate sovente atti di fede sopra il mistero dell’incarnazione.

II. Unite i vostri desideri a quelli dei Patriarchi, che domandavano la venuta del Messia coi voti più ardenti.

III. Adorate il Verbo incarnato coi medesimi sentimenti con cui l’adorava la ss. Vergine allorché il portava nelle sue caste viscere; fate principalmente questo atto di adorazione quando il sacerdote s’inginocchia alla Messa a quelle parole del Credo: ET HOMO FACTUS EST.

IV. Ringraziate Iddio di avervi inviato il suo Figliuolo per riscattarvi, ed il Figliuolo di essersi incarnato per salvarvi.

V. Recitate l’Angelus in ginocchio ogni qual volta la campana ve ne avverte. È un tempo acconcio a fare gli atti suddetti; i sommi Pontefici hanno concesso delle indulgenze a chi recita questa preghiera.

VI. Fate qualche atto d’umiltà per adorare le umiliazioni del Verbo incarnato; occultate tutto ciò che può attirarvi gloria agli occhi degli uomini.

VII. Fate qualche mortificazione, almeno i venerdì dell’Avvento ciascuno secondo il suo stato, per imitare in qualche cosa quelle di tanti santi religiosi che digiunano in questo santo tempo: offritevi a Dio ogni mattina in unione del sacrificio ch’Egli ha fatto di sé stesso per salvarvi.

DOMENICA I DI AVVENTO (2018)

DOMENICA I DI AVVENTO (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps XXIV: 1-3.
Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confíde, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.
[A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]
Ps XXIV:4
Vias tuas, Dómine, demónstra mihi: et sémitas tuas édoce me.
Mostrami le tue vie, o Signore, e insegnami i tuoi sentieri.

Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confíde, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur. [A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]

Oratio
Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, poténtiam tuam, et veni: ut ab imminéntibus peccatórum nostrórum perículis, te mereámur protegénte éripi, te liberánte salvári:
[Súscita, o Signore, Te ne preghiamo, la tua potenza, e vieni: affinché dai pericoli che ci incombono per i nostri peccati, possiamo essere sottratti dalla tua protezione e salvati dalla tua mano liberatrice.]

Lectio
Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Romános Rom XIII: 11-14.


“Fratres: Scientes, quia hora est jam nos de somno súrgere. Nunc enim própior est nostra salus, quam cum credídimus. Nox præcéssit, dies autem appropinquávit. Abjiciámus ergo ópera tenebrárum, et induámur arma lucis. Sicut in die honéste ambulémus: non in comessatiónibus et ebrietátibus, non in cubílibus et impudicítiis, non in contentióne et æmulatióne: sed induímini Dóminum Jesum Christum” .

Omelia I
[Mons. Bonomelli: Omelie, vol. I – Omelia I; Torino 1899]

“È già ora che ci svegliamo dal sonno, perché al presente la salute è più vicina che quando credemmo. La notte è avanzata e il giorno è vicino: gettiam via le opere delle tenebre e vestiamo le armi della luce. Camminiamo con decoro, come chi cammina alla luce del giorno; non in crapule e in ubriachezze, non sotto coltri ed in lascivie, non nelle contese e nell’invidia; ma rivestite il Signore Gesù Cristo e non accarezzate la carne per concupiscenza „ ( Ai Rom. XIII, 11-14).

Eccovi, o dilettissimi, voltati fedelmente nella nostra lingua i cinque ultimi versetti del capo decimoterzo della Epistola ai Romani, or ora letta nella santa Messa. È questa la prima delle quattro Domeniche d’Avvento, vale a dire di quel tempo sacro  nel quale la Chiesa, qual pia madre, è tutta intesa a disporre i suoi figliuoli alla venuta di nostro Signore, al santo Natale. La Chiesa col suo spirito ci trasporta in quel periodo sì lungo di tempo che corse da Adamo a Gesù Cristo, e facendo proprio il linguaggio dei profeti e dei patriarchi, quasi sposa che attende lo sposo, atteggiata di mestizia e di dolore pel suo ritardo, con le preghiere, col digiuno, con le astinenze, con i gemiti, con i sospiri e coi desideri più affocati, ne invoca e ne affretta la venuta [Nel linguaggio comune si dice che la Chiesa comincia con Gesù Cristo e con gli Apostoli e in un senso è vero. Ma sarebbe più esatto il dire che la Chiesa comincia con Adamo e si compie con Gesù Cristo e con gli Apostoli. Che cosa è tutta la rivelazione patriarcale e mosaica? È la preparazione o l’introduzione della Chiesa. Questa comincia con Adamo e finisce con l’ultimo cristiano che vivrà sulla terra: essa abbraccia tutti i tempi ed è sempre lo stesso spirito di Cristo che avviva la Sinagoga antica e la Chiesa, e solo per Lui si salvarono quelli che vissero prima di Lui, come si salvano quelli che vivono dopo di Lui, perché Egli solo è la vita e dalla sua pienezza tutti ricevono]. La Chiesa conosce troppo bene la natura umana e sa che ai sensi interni dell’anima devono sempre rispondere le cose esterne. Ora la Chiesa, in questo tempo del santo Avvento, collocandosi nei secoli che corsero prima della venuta del Salvatore, deve necessariamente avere a cuore quei sensi ond’erano informati i patriarchi, i profeti e i giusti tutti dell’antica legge. Quali dovevano essere questi sensi? Sensi di profonda mestizia, di dolore misto a rassegnazione tranquilla e perciò la Chiesa fa tacere l’organo, gli inni, i cantici tutti di letizia: vuole rimossi i fiori dall’altare e veste a lutto il tempio e i sacerdoti, prescrive l’astinenza e il digiuno. Quali dovevano essere i sensi dei patriarchi, dei profeti, dei giusti aspettanti ansiosamente la venuta del promesso Messia? Dovevano essere sensi di fede viva, di speranza ardente, di umiltà, di preghiera. E perciò la Chiesa mette sulle labbra dei suoi sacerdoti le parole de profeti e grida con essi: “Vieni, vieni, Signore: non tardare più oltre: sciogli i nostri ceppi, ci libera dai nostri peccati: manda l’Agnello, che deve dominare la terra. „ – Non sarebbe agevole in tutte le lettere S. Paolo trovare un tratto, che meglio di quello che ho riportato, risponda allo spirito, onde la Chiesa vuole informati i suoi figli e che più efficacemente li prepari a celebrare con frutto il mistero del santo Natale. – Io tolgo a spiegare brevemente queste ammirabili sentenze dell’Apostolo e voi vogliate aprire docilmente le orecchie del vostro cuore per udirle e riporvele bene addentro. È già ora che ci risvegliamo dal sonno grida l’Apostolo. E che sonno è questo, o carissimi? Vi è il sonno del corpo e vi è il sonno dell’anima. Nel sonno del corpo l’uomo rimane inerte: ha occhi e non vede, orecchi e non ode, lingua e non parla, piedi e non cammina, mani e non lavora: questo sonno del corpo nella giusta misura è un bisogno non altrimenti del cibo, perché ne ristora le forze. Anche l’anima ha il suo sonno e sonno troppo spesso colpevole. E quando, o carissimi, questo sonno dell’anima è colpevole? Quando l’anima non pensa mai o troppo raramente a Dio, al proprio fine, alla propria salvezza eterna: allorché, tutta immersa nelle cose del mondo, dimentica la preghiera e gli altri doveri religiosi. Allora essa si abbandona ad un sonno colpevole, che può essere foriero della sua morte eterna. S’io giro gli occhi intorno, in alto, in basso, che vedo? Ohimè! quante anime addormentate; mentre i corpi lavorano febbrilmente! Non ascoltano mai, o quasi mai la parola di Dio: non si curano di sacramenti, di leggi della Chiesa e della stessa legge divina. Invano la grazia, quasi alito divino, passa sull’anima loro, quasi raggio di luce batte sugli occhi suoi per destarla e avviarla sui sentieri della vita: essa è sepolta nel sonno. A quest’anima io grido con il grande Apostolo:  “Su; è ora di svegliarti, di provvedere a te stessa, di aprire gli occhi alla luce della verità, di scuoterti da dosso la polvere del secolo e di camminare nella via diritta del cielo.” — E tanto più è necessario svegliarci dal sonno spirituale, prosegue l’Apostolo, perché ora la nostra salute è più vicina che non quando credemmo. — Che vuol dir ciò, o dilettissimi? Fu già tempo, nel quale noi, figli di Mose, discepoli dei profeti, aspettavamo il Salvatore promesso: ora è venuto: l’abbiamo visto con i nostri occhi: io ve l’ho annunciato! e voi avete creduto in Lui: la salute adunque ora è più vicina, e se era colpevole la nostra trascuratezza prima della venuta di Gesù Cristo, sarebbe doppiamente colpevole ora, che viviamo della sua fede e che siamo più presso alla corona promessa. E le parole dell’Apostolo non sono rigorosamente vere per noi pure, dilettissimi? Grazie a Dio, da molti e molti anni noi abbiamo ricevuto il dono inestimabile della fede in Gesù Cristo e camminiamo secondo essa. Dal dì che potemmo conoscere ed apprezzare sì gran dono fino ad oggi quanti anni trascorsero! Da quel dì pertanto noi ci siamo sempre più avvicinati al termine di nostra vita e perciò ci siamo sempre avvicinati a quel momento, in cui si compirà la nostra salute e vedremo e possederemo Gesù Cristo. Quel momento è vicino, può giungere domani, oggi; non c’è tempo da perdere! Se siamo oppressi da quel sonno funesto dell’anima, di cui parla S. Paolo, svegliamoci tosto. “Levati tu, che dormi, grida l’Apostolo, e Cristo ti illuminerà. „ “La notte è avanzata e il giorno è vicino. „ Che notte è questa e che giorno è questo, di cui parla l’Apostolo? — È la notte sì buia del paganesimo, nella quale i Romani convertiti erano stati sì lungamente sepolti: è la notte rischiarata dagli albori profetici, nella quale gli Ebrei, allora divenuti Cristiani, erano vissuti, salutando da lungi il sospirato Salvatore: il giorno vicino, anzi presente, è il regno di Gesù Cristo, luce del mondo. La notte avanzata può significare altresì il secolo o la vita presente, piena di errori, travagliata da lotte e da passioni, e il giorno vicino può intendersi del giorno eterno, della vita beata, alla quale tutti affannosamente sospiriamo. Qui l’Apostolo, con la bella immagine del giorno e della notte, sollevando il pensiero alle alte verità della fede, con un linguaggio pieno di forza e di maschia eloquenza esclama: “Gettiamo dunque via le opere delle tenebre e vestiamo le armi della luce. „ Siamo usciti dalla notte del paganesimo: siamo usciti dalle ombre della legge mosaica: camminiamo alla luce della dottrina portata da Cristo: attraversiamo animosamente questo secolo perverso: siamo già presso a quel giorno nel quale vedremo Dio faccia a faccia: via adunque le opere delle tenebre, le opere cioè del paganesimo, le opere della legge mosaica, le opere del mondo, in cui viviamo, e vestiamo le armi della luce (giacché qui la parola armi significa chiaramente opere per ragione del nesso naturale, onde si lega alla sentenza precedente), le opere della fede, le opere di Gesù Cristo stesso. – E perché mai S. Paolo chiama le opere buone armi della luce? Perché le opere buone sono armi, che ci difendono dal nemico, che ci combatte, e perché come le armi sono ornamento di chi le porta, così le opere buone sono l’ornamento e la gloria di chi le compie. S. Paolo in questo luogo, col nome di opere della notte o delle tenebre designa certamente opere malvagie, i peccati, e col nome di opere del giorno o della luce indica le opere buone e sante. E perché ciò? I libri inspirati, acconciandosi alla nostra natura, ci fanno conoscere le cose invisibili e spirituali per mezzo delle visibili e materiali; nell’ordine visibile e materiale la luce non solo è la bellissima di tutte le cose, ma quella che fa bello e grazioso tutto ciò che è bello e grazioso, e là dove non risplende la luce, non vi è bellezza e regna la bruttezza. Egli è per questo che nel linguaggio della Scrittura le opere belle e sante si dicono opere della luce e le opere malvagie si chiamano opere delle tenebre. Fra la luce e la virtù, a nostro modo d’intendere, corre quel rapporto che corre fra le tenebre ed il vizio, ond’è che la virtù ama la luce e fugge le tenebre e il vizio odia la luce e cerca le tenebre e in esse si nasconde. “L’omicida si leva prima dell’alba, scrive Giobbe, uccide il povero, e la notte compie i suoi latrocini. L’occhio dell’adultero aspetta che calino le tenebre, e dice: Nessuno mi vedrà, e si copre il volto. Di notte i tristi sfondano le case segnate di giorno e per essi il giorno è ombra di morte „ (XXIV, 14 e seg.). Le tenebre ed il delitto si danno la mano, la notte e la colpa sono amiche, perché quella toglie la vergogna e franca dal timore. Meritamente pertanto S. Paolo sfolgora le opere malvagie chiamandole opere delle tenebre: Abjiciamus opera tenebrarum e vuole che vestiamo le opere della luce: Et induamur arma lucis. – Prosegue il grande Apostolo, non dimenticando mai la sua immagine della luce e delle tenebre, e scrive: ” Camminiamo con decoro come chi cammina alla luce del giorno. „ Se voi di bel mezzogiorno aveste a passare per le vie più frequentate d’una città, certi che tutti gli occhi sarebbero fissi sulla vostra persona, che fareste? Senza dubbio porreste ogni studio in camminare con gravità e decoro, e vorreste puliti gli abiti e debitamente acconciati e vi guardereste bene da tutto ciò che potesse esporre comechessia la vostra persona allo sprezzo od al biasimo del pubblico. Ebbene, dice S. Paolo: Voi, Cristiani, camminate sotto gli occhi degli uomini, e quel che più importa, di Dio, alla piena luce del giorno: dunque non dite mai parola, né fate atto alcuno, che non sia degno di voi: tutto il vostro esterno sia composto a gravità e decoro talmente che nessuno trovi in voi di che appuntarvi. Rischiarati dalla luce della fede, abbiate anche le opere della fede: Figli della luce, scrive in altro luogo l’Apostolo, camminate, cioè operate come si conviene ai figli della luce: Ut filii lucis ambulate. E un linguaggio pieno di nobiltà e d’energia e d’una forma brillante e poetica: ” Camminate come figli della luce! „ Voi non avete nulla da nascondere, perché non avete nulla di che arrossire: che tutti vedano le opere vostre e ne diano gloria a Dio, per il quale son fatte: a Dio che è la stessa luce e nel quale non vi è neo di tenebre. – Io vi prego, o carissimi, di por mente all’arte sapientissima con cui l’Apostolo ha dettato ed ha ordinato tra loro queste poche sentenze: egli parla del sonno, della notte, delle opere delle tenebre, della necessità di svegliarsi, del giorno, della luce e delle opere della luce: voi facilmente comprendete come tutte queste .espressioni, sonno, notte, opere delle tenebre da una parte, e dall’altra la necessità di destarsi,  l’idea del giorno e della luce e delle opere della luce, si legano strettamente tra loro per guisa che si confondono in una sola cosa, e allorché l’Apostolo condanna il sonno dell’anima e la notte, condanna in sostanza le opere delle tenebre, ossia le opere malvagie; quando per converso vuole che ci destiamo e vegliamo e viene parlando del giorno e della luce e inculca che camminiamo come di giorno, chiaramente egli ci esorta alla pratica delle opere buone e sante, proprie del cristiano, ondeché tutta la dottrina di questi versetti si può compendiare in queste due semplicissime sentenze: Fuggite le opere cattive e fate le opere buone. E quali sono in particolare le opere cattive, che si vogliono fuggire e le opere buone, che si hanno da fare? Risponde subito l’Apostolo “Non in crapule, non in ubriachezze, non sotto coltri ed in lascivie, non nelle contese e nell’invidia, ma rivestite il Signore Gesù Cristo e non accarezzate la carne per concupiscenza. ,, Non dovete credere che in questa breve enumerazione di disordini l’Apostolo abbia voluto comprendere tutte le opere delle tenebre, ossia tutte le opere malvagie, dalle quali il cristiano deve con somma cura guardarsi, no: volle solamente ricordare quelle che gli parvero più gravi e più comuni, e quelle, credo io, nelle quali sapeva maggiormente invischiati i fedeli, ai quali scriveva. L’intemperanza nel mangiare e nel bere, l’incontinenza e tutti in genere i peccati della carne, le risse, le discordie, gli odii e le invidie, che feriscono od uccidono la carità fraterna, sono opere delle tenebre, che non si dovrebbero tampoco nominare tra cristiani. Veramente ammirabile l’Apostolo nelle sue lettere! Egli talora spazia sulle vette dei più sublimi dogmi e, sollevando il lembo della fede, con rapidi tocchi ci lascia intravedere la luce sfolgorante, onde sono avvolti. Ma poi quasi subito discende nel campo, sì vasto della pratica e in brevissime sentenze condensa le verità morali più importanti e comuni e le presenta nelle forme più vive ed efficaci. Così in questo luogo leva la voce contro le crapule, le ubriachezze, le lascivie, le contese, le invidie, che sono i vizi più comuni e ne mette in guardia i fedeli. O fratelli e figliuoli miei! Uno sguardo alla nostra parrocchia, alle nostre famiglie, ciascuno di noi. Siamo noi tutti mondi da queste brutture? Non abbiamo noi seguito il vizio della gola? Non abbiamo noi alcuna volta secondato le sozze voglie del senso e gli stimoli della carne? Non abbiamo noi con le parole, col desiderio e con le opere rotta la carità coi fratelli nostri e fors’anche seminata tra loro la discordia? Se per mala ventura fosse, noi certo non saremmo nel numero di coloro che camminano alla luce e di giorno con decoro, ma piuttosto saremmo di quelli, che si avvolgono fra le tenebre, per nascondere le loro turpitudini. Che dovremmo fare? Finirla tosto e per sempre con queste opere tenebre: dovremmo “rivestire il Signore Cristo e non accarezzare la carne per concupiscenza. „ E sapete voi. che cosa importi vestire Gesù Cristo? E questa una espressione energica e sublime che più volte s’incontra nelle lettere di S. Paolo e che giova comprendere bene, Gesù Cristo, nostro capo e maestro supremo, è i1 modello sovranamente perfetto di tutte le virtù: tutto lo studio del cristiano, se bene si guarda, si riduce a copiare in se stesso Gesù Cristo, tanto che di Lui si possa dire: Ecco un altro Cristo. – Il cristiano nelle sue parole, nei suoi pensieri, nei suoi affetti, nelle sue opere, in tutto il suo interno ed esterno deve ritrarre Gesù Cristo per modo da esserne l’immagine fedele e vivente: onde come il nostro corpo si copre delle vesti e di esse si adorna, così l’anima nostra e in qualche senso anche il nostro corpo devono coprirsi e adornarsi delle opere di Gesù Cristo: ecco che cosa vuol dire: vestirsi di Cristo. – L’Apostolo chiude il suo dire con questa sentenza: “Non accarezzate la carne per concupiscenza: „ cioè non accarezzate la carne, appagando le sue voglie malnate. Con queste parole ribadisce la verità fondamentale della Religione cristiana sopra già toccata ed è che noi dobbiamo sempre e con tutte le forze resistere alle passioni, che si annidano nella nostra carne e ci trascinano giù per la china del piacere e della eterna perdizione. Ogni qualvolta, o cari, che mi cadono sotto gli occhi le ultime sentenze dell’Apostolo, che ho spiegato, il pensiero mio corre naturalmente ad un fatto dei più meravigliosi e commoventi che si leggano nella storia ecclesiastica e dipinto coi colori più vivi, descritto con gli accenti più caldi e più appassionati da quel medesimo, che ne fu l’attore. Udite: Nella seconda metà del secolo quarto viveva un giovane d’alti sensi, di cuore magnanimo: il mondo forse non aveva mai visto ingegno più acuto e più vasto del suo. Profugo dalla casa materna, corse da Cartagine a Roma, dì Roma a Milano, in cerca della scienza: si tuffò nel brago di ignobili passioni, volse le spalle alla fede succhiata col latte fra le braccia di una madre santa, che lo adorava e seguiva dovunque: divenne eretico, poi scettico. A quell’anima ardente, sitibonda della verità, caduta in fondo di un abisso di errori e di disordini, brillò un primo raggio di luce, leggendole opere di Cicerone e di Platone e udendo la parola piena di amore di un santo Vescovo. A poco a poco conobbe la verità, tutta la verità, come la poteva conoscere quell’aquila delle intelligenze: ma il misero non sapeva rompere la catena delle sue passioni: voleva ritornare a Dio, ma sentivasi impotente: piangeva, gemeva, ma indarno. Credo che sia difficile trovare pagine più vere e più eloquenti di quelle, nelle quali quel giovane, nel bollore dei suoi trent’anni, descrive le pene, le carezze, le lotte, gli sforzi, i dolori, le agonie ineffabili dell’anima sua: nessuno meglio di lui seppe fare la storia del cuore umano e penetrare nelle fibre più riposte dello spie e narrarne le vicende. Leggendo quelle pagine, bisogna fremere e lagrimare con lui che le dettò. Un giorno, non potendo più oltre soffocare il grido della coscienza, che lo lacerava, né finirla con le passioni che lo tenevano avvinto, ad un tratto si tolse di mezzo agli amici, che gli facevano corona, uscì precipitoso dalla stanza, si ritirò nel giardino che sorgeva a fianco, si buttò ai piedi di un albero e con le palme coprendosi il volto sciolse il freno alle lagrime. “Piangeva amaramente, dice egli, sulle mie turpitudini, ma non ancora poteva risolvermi ad abbandonarle. „ Ed ecco una voce come di fanciullo dalla vicina casa, che ripeteva: “Piglia e leggi, piglia e leggi”— Ascolta, si leva, asciuga le lacrime, rientra nella stanza, piglia il primo libro che gli viene innanzi (era il libro delle Epistole di S. Paolo), l’apre a caso e legge le prime parole che gli cadono sott’occhio: “Non in crapule ed ubriachezze, non sotto coltri e lascivie, non nelle contese e nella invidia, ma rivestite il Signore Gesù Cristo e non accarezzate la carne per concupiscenza. „ Lesse, chiuse il libro e un raggio di luce serena e tranquilla inondò la sua mente, cessò la tempesta del cuore, sparirono i dubbi, una forza novella penetrò il suo spirito, una dolcezza inesprimibile si diffuse in tutta l’anima sua, di repente si sentì mutato in altr’uomo: il giovane miscredente e dissoluto era trasformato e convertito: la semplice lettura delle parole di S. Paolo, che abbiamo insieme spiegate e meditate, aveva operato il grande miracolo. Volete sapere chi era quel giovane incredulo e immerso nella libidine e che in un istante si trasformava in un credente e in un santo? Egli era il figlio di Monica, il grande Agostino. Potenza meravigliosa della parola e della grazia divina da una parte, e della volontà umana dall’altra!

Graduale
Ps XXIV: 3; 4
Univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur, Dómine.
[Tutti quelli che Ti aspettano, o Signore, non saranno confusi.]
V. Vias tuas, Dómine, notas fac mihi: et sémitas tuas édoce me.
[Mostrami le tue vie, o Signore, e insegnami i tuoi sentieri.]
Alleluja

Allelúja, allelúja.

Ps LXXXIV: 8. V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam: et salutáre tuum da nobis. Allelúja. [Mostraci, o Signore, la tua misericordia: e dacci la tua salvezza. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secundum S. Lucam.

Luc XXI:25-33.

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Erunt signa in sole et luna et stellis, et in terris pressúra géntium præ confusióne sónitus maris et flúctuum: arescéntibus homínibus præ timóre et exspectatióne, quæ supervénient univérso orbi: nam virtútes coelórum movebúntur. Et tunc vidébunt Fílium hóminis veniéntem in nube cum potestáte magna et majestáte. His autem fíeri incipiéntibus, respícite et leváte cápita vestra: quóniam appropínquat redémptio vestra. Et dixit illis similitúdinem: Vidéte ficúlneam et omnes árbores: cum prodúcunt jam ex se fructum, scitis, quóniam prope est æstas. Ita et vos, cum vidéritis hæc fíeri, scitóte, quóniam prope est regnum Dei. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia fiant. Coelum et terra transíbunt: verba autem mea non transíbunt.

Omelia II

[Mons. Bonomelli: ut supra, Omelia II; Torino 1899]

“Gesù  disse ai suoi discepoli: vi saranno segni nel sole e nella luna e nelle stelle, e in terra vi sarà, angoscia dei popoli e si udrà il rimbombo del mare e del fiotto. Gli uomini smarriti spasimeranno pel terrore e per l’aspettazione delle cose che sopravverranno al mondo, perciocché saranno scrollate le potenze del mondo. E allora vedranno il Figliuolo dell’uomo venire sopra una nuvola con potenza e gloria grande. E allorché queste cose cominceranno ad avvenire, levate in alto i vostri sguardi e alzate la testa, perché la vostra redenzione è vicina. E disse loro una similitudine: vedete il fico e tutti gli alberi. Quando han cominciato a germogliare, vedendoli, voi riconoscerete che l’estate è vicina. Così ancor voi, quando vedrete avvenire queste cose, sappiate, che il regno dei cieli è vicino. In verità Io vi dico che non passerà questa generazione finché tutte queste cose non siano avvenute. Passeranno il cielo e la terra, ma le mie parole non passeranno,,  (S. Luca, XXVI, 25-33).

– Fin qui l’Evangelo di questa prima Domenica d’Avvento. Udendo queste parole uscite dalla bocca di Gesù Cristo, voi tutti senza dubbio avrete compreso che si discorre della fine dei tempi, del gran giudizio, col quale si chiuderà la scena del mondo e sarà reso a ciascuno secondo le opere sue. Voi farete le meraviglie, che la Chiesa ci inviti a meditare la seconda venuta di Gesù Cristo in questi giorni, nei quali essa vuole che ci prepariamo alla sua prima venuta. Parlarci della magnificenza della venuta del Giudice supremo quando dobbiamo pensare alla povertà estrema e alle inenarrabili umiliazioni del divino Infante! Eppure nulla di più conveniente, o carissimi. Il terrore del finale giudizio ci deve scuotere salutarmente, ci obbliga ad entrare nelle nostre coscienze, ad esaminarle diligentemente e cacciarne il peccato se per sventura vi si appiattasse. E non è questo il miglior modo di prepararci a celebrare santamente la prima venuta di Gesù Cristo? Non basta: la prima venuta di Gesù Cristo sì umile, in apparenza sì spregevole, per molti potrebbe essere uno scandalo: la grandezza e la maestà della sua seconda venuta, come giudice dei vivi e dei morti, toglie questo scandalo e nel Bambino, che tra pochi giorni adoreremo sulla paglia, ci fa conoscere l’Uomo-Dio, il Figlio dell’Eterno. Ma è da venire al momento delle parole evangeliche sopra riportate. – Gesù disse ai suoi discepoli: “Vi saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle, e in terra vi sarà angoscia dei popoli e si udrà il rimbombo del mare e del fiotto. Gli uomini smarriti vivranno per il terrore e per l’aspettazione delle cose che sopravverranno al mondo, perché saranno scrollate le potenze dei cieli”. – Per intendere a dovere le parole di Gesù Cristo, è mestieri rifarci alquanto indietro e conoscere l’occasione e le circostanze, nelle quali le ebbe pronunziate.- Si avvicinavano i giorni, nei quali Gesù Cristo doveva compiere il suo sacrificio, dirò meglio, era alla vigilia della sua passione, giacché queste parole furono dette il lunedì od il martedì precedente la sua morte: e a Lui, che aveva accennato alla distruzione del tempio e al futuro giudizio. gli Apostoli mossero questa domanda: “Dicci, quando avverranno queste cose, cioè la distrazione del tempio e della città? E quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?” (Matteo XXIV, 3). Due cose pertanto gli Apostoli domandarono a Gesù, ed Egli rispose partitamente all’una e all’altra. Parla prima della distruzione del tempio e dello sterminio della città; poi passa alla sua seconda venuta ed ai segni che la precederanno. Tre evangelisti, Matteo, Marco e Luca, più o meno diffusamente, riferiscono le parole di nostro Signore, come ciascuno può vedere nei loro Evangeli. La Chiesa in questa Domenica ci mette innanzi la risposta che Gesù Cristo diede agli Apostoli intorno al dì del giudizio ed ai segni che ne saranno forieri. E prima di cominciare la spiegazione lasciatemi mandare innanzi un’altra osservazione, che non mi sembra inutile: vi furono e vi sono ancora persone che indagano curiosamente quando verrà la fine del mondo. Sono ricerche inutili e pericolose: la Chiesa vieta di far calcoli su questo tempo: Gesù Cristo medesimo disse che nessuno conosce quel giorno, nemmeno gli Angeli, e aggiunse, nemmeno il Figliuol dell’uomo che vi parla. Certamente Gesù Cristo conosceva quel giorno, tantoché indicò i segni del suo appressarsi, ma volle far comprendere che non lo conosceva come uomo, e che se lo conosceva non poteva, né voleva dirlo. Del resto, o cari, se è lecito dire qualche cosa, mi pare evidente che la fine dei tempi è assai lontana. Se Dio fece precedere una preparazione di oltre quaranta secoli allo stabilimento del regno di Gesù Cristo, che è la Chiesa, mi pare ragionevole che questo regno debba essere assai più lungo. Dei mille cinquecento milioni di uomini che vivono sulla terrà, fin ora poco più di duecento milioni sono entrati nella Chiesa: è egli credibile che sì scarso numero di uomini debba essere il frutto di quella redenzione, che fu sì copiosa? Gesù Cristo è e dev’essere il Re dell’universo, e il suo regno dev’essere universale non solo, ma in qualche senso anche pacifico: al presente siam molto lontani da questo regno universale e pacifico di Gesù Cristo, e i figli di Israele, che prima della fine dei secoli debbono pure ritornare a Gesù Cristo, fino ad oggi si mostrano ostinati nella loro incredulità. Nessuno adunque di noi, dirò con san Paolo, si turbi quasi ché il giudizio estremo sia imminente (Tess. II, 1-2). Secondo ogni probabilità passeranno ancora alcune diecine di secoli prima che spunti quel gran giorno. Premesse queste osservazioni, veniamo alla spiegazione del testo evangelico. – Gesù Cristo parla di segni paurosi, che precederanno il dì del giudizio: di segni che appariranno nel sole, nella luna, nelle stelle e nel mare. Quali saranno questi segni? Gesù Cristo non dice nulla in particolare, ma fa capire chiaramente che saranno oltre ogni dire tremendi. Non vuolsi dimenticare che i profeti allorché annunziano grandi sventure o fatti meravigliosi, usano alcune volte queste stesse espressioni enfatiche molto famigliari agli orientali. — Onde è che, volendo il profeta Gioele annunziare il miracolo della Pentecoste e lo stabilimento della Chiesa, scrive: “In quei giorni farò prodigi in cielo e in terra; sangue e fuoco e colonne di fumo; il sole sarà mutato in tenebra e la luna diventerà sanguigna „ (II, 29, 30; Atti Apostoli, c. II 19, 20). Ora noi sappiamo che nel giorno della Pentecoste non si videro colonne di fumo, né il sole si mutò in tenebra, né la luna diventò sanguigna. Quel linguaggio pertanto significò soltanto il fatto straordinario della Pentecoste: fu un modo di dire simile a quello che talvolta usiamo noi per esprimere qualche fatto strepitoso: tremava la terra: pareva cadesse il cielo e andate dicendo. Qui il Salvatore adopera espressioni quasi uguali, parlando della catastrofe finale, e può essere, che, acconciandosi alle forme di dire comuni agli Ebrei, non intendesse propriamente di indicare ecclissi di sole o di luna, o sconvolgimenti di astri e di tempeste di mare, ma volesse soltanto accennare in generale a fenomeni straordinari e terribilissimi, che avverranno in quel tempo, senza determinarli in particolare. Ciò che vuolsi tenere indubitato si è, che la terra e il cielo annunzieranno l’avvicinarsi di quel giorno, che si dice per eccellenza giorno del Signore, con fenomeni e avvenimenti formidabilissimi. E perché sì tremendo apparato di cose? Per mostrare la grandezza di Colui che viene, la maestà del gran giudizio, ed anche, credo io, per atterrire i peccatori, che vivranno ancora sulla terra ed ottenerne la conversione. Sì: quegli scuotimenti paurosi della terra: quei turbamenti dell’atmosfera e dei cieli: quel rovesciarsi del mare sui continenti: quegli strani fenomeni, che riempiranno di sgomento tutti i popoli, saranno la voce di Dio, che li chiamerà a penitenza, e, non ne dubito, moltissimi in quei supremi momenti si convertiranno. I castighi divini sulla terra sono sempre prove della divina misericordia fino all’ultimo giorno dei secoli. Che faranno allora gli uomini superstiti? “Saranno tutti ricolmi di terrore in preda ad un’angoscia mortale. „ E qui la Scrittura adopra una frase che non posso tradurre. Essa dice: Arescentibus hominibus, cioè gli uomini si disseccheranno per lo spavento, che è quanto dire trambasceranno, agonizzeranno, rimarranno come morti alla vista del dissolvimento generale delle cose e dell’appressarsi del Giudice divino. Noi, o cari, non vedremo quel giorno tremendo, non vedremo quelle immani catastrofi, perché riposeremo nella tomba, anzi! … saremo polvere: ma l’anima nostra, dovechessia per essere, ne avrà conoscimento, sicura di sé, se salva; esterrefatta, se per somma sventura perduta. Noi abbiamo il beneficio grande di leggere ora sui Libri santi ed udire anticipatamente ciò che avverrà qui sulla terra prima dell’universale giudizio: facciamone adunque nostro pro, scuotiamoci dal sonno del peccato, giudichiamo ora noi stessi, come dice l’Apostolo, e non saremo giudicati, né paventeremo gli orrori di quel giorno. È questo senza dubbio il fine per il quale Gesù volle annunziarci e in poche linee descriverci il funereo apparato del giudizio supremo: vuole che lo temiamo al presente per sfuggirlo allora che sopravverrà. – Accennati rapidamente gli sconvolgimenti celesti e terrestri, che precederanno il termine dei tempi e lo spavento, onde saranno assaliti gli uomini, i quali tutti in vari modi cesseranno di vivere, Gesù Cristo ci mette innanzi ciò che porrà il colmo allo sgomento universale, la comparsa del Giudice divino. Il Figlio di Dio, nella sua prima venuta, sì umile e sì spregevole, mandò innanzi i patriarchi ed i profeti e particolarmente il Precursore, affine di preparargli la via, pregando ed esortando: comparve sulla terra nel cuore della notte, ignoto a tutti, nel silenzio più perfetto, dice S. Ignazio martire; in questa seconda venuta Egli comparisce in tutta la maestà che si addice a Lui, Figlio dell’Eterno. Il cielo e la terra si agitano e traballano sotto i suoi passi: non prega, ma comanda: ai suoi fianchi cammina, non la misericordia, ma la giustizia; viene come Giudice, non come Salvatore, e lo splendore immenso di questa seconda venuta è la giusta ricompensa dovuta alla umiltà della prima. – Eccolo, grida l’evangelista, eccolo “il Figliuolo dell’uomo venire in una nuvola con potenza e gloria grande. „ Come nelle mostre più solenni i re della terra vengono ultimi e tutti gli occhi son fissi sopra di loro, così in questo sublime spettacolo Gesù Cristo, il Re del cielo e della terra, dopo le schiere degli Angeli e dei Santi, comparisce per ultimo. — Il Figliuol dell’uomo, cioè l’uomo per eccellenza, l’Uomo-Dio, viene sopra una nuvola. È linguaggio figurato, che significa la sua potenza e grandezza e come egli qual Giudice sovrasti a tutte le creature, Angeli e uomini. Non dovete credere che Egli segga veramente sopra una nuvola, quasiché abbia bisogno di sedere e che le cose materiali possano aggiungere alcunché alla maestà della sua adorabile Persona. Questo si dice unicamente per acconciarsi a noi povere creature sensibili, che abbiamo bisogno di tutto questo apparato materiale per elevarci e per concepire alcun poco le grandezze divine. È cosa degna di considerazione che le grandi manifestazioni di Dio sogliano avvenire nelle nubi: una nube avvolge Dio che parla a Mosè: una nube riempie il tempio di Salomone: una nube apparisce sopra di Gesù sul Tabor ed una nube il toglie agli occhi dei discepoli allorché sale al cielo, ed è chiaro che si parla di nubi visibili. Per quel solennissimo giudizio Gesù Cristo non avrà bisogno né di trono, né di domande né di risposte, né di libri e nemmeno di tempo: si farà tutto in un lampo, in un batter d’occhio, in ictu oculi, come dice S. Paolo svelando le coscienze di tutti con la sua luce infinita e rendendo a ciascuno ciò che gli si deve secondo le opere sue, come avrò occasione di spiegare altrove più ampiamente. – Qui nostro Signore si rivolge ai suoi cari Apostoli e discepoli e parla loro come se fossero presenti al giudizio, e lo saranno certamente, e dice loro: “Quando queste cose avverranno, levate in alto gli sguardi, alzate le vostre teste, „ cioè rallegratevi. Gli altri saranno atterriti, saranno trepidanti, aspettando la sentenza irrevocabile: voi allora non vi sgomentate: fidenti levate gli occhi e contemplate il giudice sovrano. E perché? Perché “allora sarà prossima la vostra redenzione.„ Ma come, o Signore? La loro redenzione non è forse già compita qui sulla terra, nel tempo? Sì; qui si semina, là si miete: nei giorni della vita mortale si riceve la grazia; nel giudizio finale la grazia fiorisce e fruttifica e ci dà la gloria eterna. Fino a quel giorno l’anima, se giusta, si beava in Dio, ma il corpo giaceva nel sepolcro, o, fatto polvere, era disperso negli elementi: in quell’istante, in cui apparirà il Giudice celeste, i corpi risorgeranno e saranno ricongiunti alle loro anime, e perciò sarà compiuta l’opera della loro santificazione, o della loro redenzione, giacché l’anima sola non è tutto l’uomo, e solo allora egli sarà perfetto, quando riavrà il corpo rifatto e glorioso. Gesù Cristo aveva detto in termini quali saranno i segni forieri dell’ultimo giorno: ma non gli basta: vuol ribadire la verità con una similitudine, ch’Egli secondo il suo costume, piglia sempre dalle cose più volgari e che stanno sotto gli occhi di tutti. Come dicemmo, Gesù Cristo pronunciò queste parole poco prima della Pasqua, nel mese di marzo e in Palestina; in quel mese la terra si copre di fronde e fiori, ed io penso che allorché Gesù parlava ai suoi Apostoli avesse sotto gli occhi alberi verdeggianti e tra questi il fico, onde disse: “Guardate il fico e tutti gli alberi, così egli; quando mettono il germoglio, voi  in vederlo, riconoscete da voi stessi, che l’estate è vicina. „ Era un dire: Allorché vedete che gli alberi ingrossano le gemme e mettono le prime foglie, voi non errate dicendo: Eccoci all’estate; così, vedendo i segni, che ho accennato, dite pure con sicurtà: Ecco vicino il giudizio. Direte: Ma nessuno degli uditori di Gesù Cristo doveva vedere quei segni: perché adunque rivolge a loro la parola? Perché in loro e per loro parlava a tutti i futuri credenti, come suol fare in moltissimi altri luoghi del Vangelo. – Il Vangelo si chiude con queste due sentenze: “Io vi dico in verità, che non passerà questa generazione o quest’epoca finché tutte queste cose non siano avvenute. Il cielo e la terra passeranno, ma non passeranno le mie parole. „ Non credo che da labbra umane siano mai uscite e possano mai uscire affermazioni più franche e più audaci di queste. – Ponete mente a quella forma di dire — In verità vi dico, — che esprime la forza massima della affermazione: ponete anche mente a quella forma enfatica che non ha l’eguale: “Passeranno il cielo e la terra, ma non passeranno le mie parole. „ Una affermazione sì solenne non è possibile che sulla lingua di un pazzo, o di chi ha piena coscienza della propria infallibilità e che con uno sguardo signoreggia il futuro. Niuno mai osò, né oserà chiamar pazzo Cristo: Lui che ha trasformato il mondo, che stringe in sé il passato ed il futuro, che è il centro, onde si irradia ogni civiltà ed ogni progresso. Egli adunque aveva piena coscienza di ciò che diceva, aveva piena coscienza della sua divinità: sì, solamente un Dio poteva pronunziare quelle parole inaudite: “Passeranno il cielo e la terra, ma non passeranno le mie parole. „ E l’avvenire si affrettò a confermarle in parte tale che è guarentigia sicura dell’altra. Lo dissi a principio: due cose predisse Gesù Cristo in questo capo, la distruzione di Gerusalemme e la fine del mondo: la prima si adempì letteralmente trentacinque anni dopo che Gesù l’aveva predetta, e il mondo intero ne è testimonio: chi può dubitare che eziandio la seconda non si adempirà nel modo che Gesù predisse? Forse taluno troverà difficile il senso di quella sentenza del Salvatore: “Vi dico in verità che questa generazione non passerà finché tutte queste cose non siano avvenute; dalla quale sentenza sembra che la generazione vivente al tempo di Cristo dovesse essere spettatrice della fine del mondo, il che sarebbe manifestamente falso. La difficoltà si scioglie facilmente. Forse quella espressione: “Non passerà questa generazione„ si ha da intendere della sola distruzione di Gerusalemme, e veramente molti di quelli che vivevano al tempo di Cristo videro quella spaventosa catastrofe. Che se questa interpretazione non sembra in tutto conforme al senso proprio delle parole di Cristo, possiamo darne un’altra che toglie ogni dubbio e che è più comune. “Non passerà questa generazione, „ cioè non cesserà di esistere questa progenie di Abramo, questa nazione giudaica, finché e la distruzione di Gerusalemme, e la fine dei secoli non siano avvenute; fatto unico in tutta la storia dei popoli, la nazione giudaica, dispersa su tutta la faccia della terra, resta fino ad oggi e resterà distinta in mezzo a tutte le genti, qual prova permanente, che delle parole di Cristo non cade sillaba.Raccogliamo le cose dette sin qui e vediamo di cavarne qualche frutto a nostra edificazione spirituale. Gesù Cristo annunzia la fine dei tempi e il giudizio estremo e accenna ai segni paurosissimi che lo precederanno: il giudizio universale sarà la conferma del particolare, che per ciascuno di noi verrà tra breve, alla nostra morte. Quel gran giudizio non avrà nulla di terribile per noi se saremo nel numero dei giusti: anzi la sua venuta ci ricolmerà di gioia e compirà la nostra redenzione, ridonandoci il corpo ripieno di vita immortale e fiorente di eterna giovinezza. Facciamo adunque ogni sforzo per essere trovati in quel dì nel numero degli eletti, e lo saremo se cacceremo il peccato dal nostro cuore e vivremo nella grazia di Dio. Gesù Cristo lo disse: “Passeranno cielo e terra, ma non passeranno le mie parole. „

Credo

Offertorium
Orémus
Ps XXIV: 1-3.
Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur. [A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]

Secreta
Hæc sacra nos, Dómine, poténti virtúte mundátos ad suum fáciant purióres veníre princípium.[Questi misteri, o Signore, purificandoci con la loro potente virtú, ci facciano pervenire piú mondi a Te che ne sei l’autore.]

Communio
Ps LXXXIV:13.
Dóminus dabit benignitátem: et terra nostra dabit fructum suum. [Il Signore ci sarà benigno e la nostra terra darà il suo frutto.]

Postcommunio
Orémus.
Suscipiámus, Dómine, misericórdiam tuam in médio templi tui: ut reparatiónis nostræ ventúra sollémnia cóngruis honóribus præcedámus.
[Fa, o Signore, che (per mezzo di questo divino mistero) in mezzo al tuo tempio sperimentiamo la tua misericordia, al fine di prepararci convenientemente alle prossime solennità della nostra redenzione.]

GIUSTIZIA FINALE DEL CRISTO

GIUSTIZIA FINALE DEL CRISTO

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli – Vol. III; Soc. ed. “Vita e pensiero”, Milano, 1939 – imprim.]

1.

Tre momenti possiamo considerare nella giustizia finale del Cristo, come la predice il Vangelo. Dapprima, la crisi suprema del mondo. Le forze che reggono la compagine dell’universo si sbanderanno: i cieli si arrotoleranno come tende, il sole e la luna si oscureranno, le stelle cadranno come foglie di autunno. – Poi l’improvvisa apparizione del Giudice. Nel cielo vuoto Gesù e la sua croce sfolgorante. Ai riverberi di quella luce oltremondana, ogni anima diverrà trasparente più che cristallo percosso dal sole, sicché tutte le macchie della coscienza, anche le più piccole, saranno visibilissime. Il terzo momento è la confusione dell’anima colpevole. Muta perché senza scuse, sola perché senza nessun protettore, ella piangerà: ed al suo pianto farà bordone il vasto singhiozzare delle tribù dei peccatori. La delusione d’un mondo che scompare. Il giudizio esattissimo del Giudice divino. La confusione dell’anima senza scuse e senza protezione. Son tre pensieri che gioverà meditare molto seriamente.

1. LA DELUSIONE D’UN MONDO CHE SCOMPARE

«Il cielo e la terra passeranno… » ; disgraziati tutti quelli che vi han collocato il loro cuore e il loro tesoro. Mi servirò di alcune similitudini di S. Agostino, adattandole un poco.

a) Un architetto bravissimo passò un giorno davanti a una sontuosa villa costruita sul margine d’un ruscello e disse al proprietario: « Guarda che sta per crollare: rosi dall’acqua, i fondamenti ormai cedono ». L’inquilino gli scrollò le spalle in faccia, alla sera radunò ancora gli amici al consueto festino, e dopo si pose a letto per dormire tranquillamente. Era nel primo e profondo sonno, e la casa crollò, schiacciandolo sotto. Peggio per lui, direte, perché era stato avvisato. Orbene, anche noi siamo stati avvisati. Il costruttore del mondo ci dice che questo mondo ha da rovinare e che il fiume del tempo, trascorrendo con lena insonne, gli rode i fondamenti. Non siamo immensamente stolti se invece di sgombrare, di cominciare a porre altrove le nostre speranze, i nostri desideri, i nostri beni, li collochiamo e fissiamo in questo mondo come se avesse a durar sempre, come ci dovessimo fare una dimora perpetua? Poi vien la morte e tutto crolla. Poi vien la fine del mondo e tutto frana. Che delusione amarissima!

b) Un contadino poneva il frumento sulla nuda terra, in un luogo umido e senz’aria. Viene un amico, il quale conosce bene la natura del frumento e della terra, e gli fa vedere la sua ignoranza, dicendogli: « Che hai fatto? porre il frumento sulla nuda terra, in un posto umido? D’inverno, quando le lunghe piogge ammollano tutto, questo grano marcirà e la tua fatica andrà in fumo ». Il contadino chiese: « Che debbo fare? ». L’amico gli rispose: « Prima che le piogge incomincino, trasportalo di sopra ». L’altro ci pensò un poco, e poi parendogli troppo grossa fatica, non lo fece. Vennero le piogge: andò per vedere il frumento, e vide invece un mucchio di materia in fermentazione. Ah, noi — direte — non avremmo agito così. Dite bene, perché siete persone di senno: ma siatelo in tutto, anche nelle cose più importanti. Siete pronti ad ascoltare il consiglio d’un amico nell’affare del frumento, perché trascurerete il consiglio di Gesù, l’amico divino, intorno all’affare dell’anima vostra? Egli conosce la natura del vostro cuore, che è fatto per il cielo; conosce la natura della terra che è fatta per essere corrotta e distrutta, e vi avvisa: « Trasporta in alto il cuore, perché tutto ciò che è sulla terra marcirà e scomparirà ». Avete timore di porre sulla nuda terra un poco di frumento, e poi sulla nuda terra lascerete marcire e distruggere il vostro cuore? Collocate in alto, nei beni invisibili ed eterni, il cuore per non essere delusi da questo mondo che scompare.

c) In una barca che faceva acqua da tutte le parti, un uomo gridava aiuto. Passò un vascello e dall’alto gli lasciarono calare una corda di salvataggio. Il naufrago che stringeva cupidamente la cassetta dei suoi tesori, faceva per afferrare la corda ma non vi riusciva perché aveva le mani impedite. Dal vascello qualcuno gli gridava: «Lascia andare ciò che tieni, prendi ciò che ti dò. Se non abbandoni, non puoi ricevere ». Stringere insieme cassetta e corda non poteva; abbandonare la cassetta non voleva; ad un tratto, la barca fu colma d’acqua, e l’uomo con la cassetta sprofondò. – Noi che viviamo in questo mondo, siamo sopra una barca che fa acqua da tutte le parti, e cola fatalmente a picco. Nostro Signore è accorso a salvarci e lascia cadere fino a noi la corda della sua redenzione: ma per afferrarla, bisogna distaccare le nostre mani e il nostro cuore dalle cose e dai piaceri sensuali e mondani. La mano se stringe un oggetto, non ne può stringere un altro. Chi ama il mondo, non può amar Dio: ha la mano impegnata. E quanti stringendosi cupidamente sul cuore la loro avarizia, o il loro orgoglio, o la loro passione impura, sprofonderanno con questo mondo a picco!

2. IL GIUDIZIO ESATTISSIMO DEL GIUDICE

Scomparso il mondo e le sue iridate illusioni, non resterà più che il bene e il male sparso in tutti i giorni della nostra vita, dal primo albeggiare della ragione e della responsabilità fino al momento estremo della morte. Di questo saremo giudicati.

a) Saremo giudicati del male:

— il male che abbiamo fatto noi, con le opere, con le parole, con le azioni;

— il male che abbiamo fatto fare agli altri, e qui, ci pensino quelli che senza necessità fanno lavorare in festa, fanno mangiare di grasso nei giorni proibiti, impediscono in qualunque modo ai loro dipendenti di adempiere i doveri religiosi; ci pensino anche quelli che fanno bestemmiare, che fanno per la loro condotta sparlare della religione, che con la loro moda di vestire e di comportarsi inducono a chi li vede pensieri e desideri immondi; ci pensino tutti quelli che hanno dato scandalo;

— il male che abbiamo lasciato fare agli altri, mentre lo potevamo impedire: il male quindi che molti genitori con maggior vigilanza avrebbero potuto impedire nei loro figli; che i fratelli con maggior carità avrebbero potuto impedire nei loro fratelli; che tanti Cristiani con un po’ d’azione cattolica avrebbero potuto impedire nel loro prossimo; che io povero prete e pastore d’anime avrei potuto impedire nella mia parrocchia se avessi avuto più zelo. Signor Nostro e Giudice Nostro Gesù, abbi misericordia.

b) Saremo giudicati anche del bene:

— il bene che non abbiamo fatto, e che potevamo fare: ad esempio, del rosario che tutti possono dire ogni sera nella loro famiglia e non si dice; delle Messe che si potevano ascoltare, delle elemosine che si potevano fare, degli aiuti alle opere buone e al prossimo bisognoso che si potevano dare;

— il bene che abbiamo fatto male: tutte le volte che fummo in Chiesa durante i sacri riti con gli sguardi svagati sulle persone, con la mente annuvolata di pensieri inutili e forse peccaminosi; tutte le volte che facemmo l’elemosina o lavorammo per essere veduti, stimati, ricompensati dagli uomini;

— il bene finalmente che abbiamo fatto bene: questo è l’oro puro con il quale soltanto si può comprare la vita eterna.

3. LA CONFUSIONE DELL’ANIMA COLPEVOLE

a) « Quid sum miser tunc dicturus? ». Che potrà dire, quali scuse potrà avanzare l’anima colpevole? Forse dirà: « La tua legge, o Signore, era troppo difficile, non la si poteva osservare ». No, non lo potrà dire, altrimenti intorno a Cristo sorgerebbe a protestare una turba infinita di uomini, di donne, di giovani e di fanciulle. Essi hanno saputo praticarla, e praticandola sentirono che il giogo del Signore è dolce e soave. Forse dirà: « La tua legge, o Signore, richiedeva troppo tempo, ed io aveva affari, commerci, negozi dall’alba a notte tarda ». No, non lo potrà dire, altrimenti intorno a Cristo sorgerebbe un’altra turba di anime che lavorarono ancor di più di lei, senza trascurare la salute eterna; e poi ragione voleva che si abbandonasse anche qualche affare materiale, per non perdere l’unico affare necessario, che è quello dell’anima. – Forse dirà: « Avevo poca salute, preoccupazioni finanziarie molte, la casa piccola non aveva posto per un altro lettino…. No, non lo dirà. Sentirà dentro di sé che tutte erano scuse per nascondere la paura dei sacrifici, l’amore dei propri comodi, il desiderio d’avere libertà per godere la vita; sentirà dentro di sé che se avesse amato il Signore avrebbe trovato il coraggio e la forza necessaria per superare ogni difficoltà.

b) « Quem patronum rogaturus? ». Chi chiamerà in soccorso? Forse l’Angelo custode? No; l’anima non ha voluto mai ascoltare nei giorni della vita terrena il suo pianto silenzioso; ed egli ora non può, né vuole esaudire la sua angoscia disperata. Forse qualche Santo protettore? I Santi, chi non li invoca da vivo, ne ignora il nome da morto. Chi non li imita nella mortificazione, non sarà mai loro compagno nella gioia. – Forse accorrerà la Madonna? No, essa è Madre dei peccatori, ma non la madre dei condannati. Dopo la condanna pronunciata dal suo divin Figlio, essa si uniforma alla giusta sentenza. E se la Madonna non viene, ella che è madre di misericordia e di speranza, segno è che ogni misericordia e ogni speranza è morta.

CONCLUSIONE

Nell’orto degli ulivi, quando Gesù andò incontro alla masnada che veniva per legarlo, disse semplicemente: « Ecco, sono io! ». Quelli arretrarono e caddero come tramortiti dallo spavento. Eppure erano i giorni della sua mansuetudine, i giorni dell’agnello che tace mentre lo tosano, che non bela mentre lo conducono al macello. Che sarà allora nel giorno della sua giustizia, nel giorno del leone che rugge e azzanna? – « Ecco, sono io! » Quel Gesù che hai bestemmiato, che hai baciato da traditore, che hai oltraggiato con gli sputi e le percosse, che hai messo in croce con i chiodi dei tuoi peccati.

2. IL GIUDIZIO

A Felice, preside di Cesarea, doveva sembrare strano quell’uomo che un suo collega di Gerusalemme, Claudio Lisia, gli mandava da giudicare con un biglietto di raccomandazione. Era ebreo e gli ebrei lo volevano massacrare; frequentava le sinagoghe ed insegnava una religione nuova: non aveva ancor visto Roma ed era cittadino romano fin dalla nascita; aveva gli occhi malati e lo sguardo fulmineo: Paolo di Tarso. Il prigioniero era così interessante che il preside Felice e sua moglie Drusilla lo chiamavano spesso nelle loro sale per udirlo parlare della fede in Gesù Cristo. E Paolo parlava, senza paure: parlava di giustizia a quell’uomo che ogni giorno la calpestava; parlava di castità a quell’uomo che viveva in adulterio; e infine parlò del giudizio futuro… di quel giudizio in cui ogni peccato piccolo e grande, pubblico e occulto, contro Dio o contro i l prossimo, sarà manifestato a tutto i l mondo radunato e tremante ai piedi di Cristo giudice. Drusilla e Felice l’ascoltavano immobili, con la mente fissa in quel giorno finale. E Paolo con foga irreprimibile lo descriveva come « il giorno di ira, giorno di tribolazione, giorno di oppressione, giorno di sciagura, giorno di miseria, giorno di tenebre, giorno di caligine, giorno di nebbia, giorno d’uragano, giorno di squilli e di urli » (Sof., I, 15). Felice cominciò a impallidire, poi. a restringersi, poi a tremare, poi scattò in piedi gridando : « Basta! per ora vattene ». Tremefactus Felix respondit: quod nunc attinet, vade (Atti, XXIV, 25). Davvero che ci vorrebbe qui S. Paolo a parlarvi del giudizio e sentiremmo tutti ghiacciare il sangue di spavento! Io invece non so che ripetervi le oscure parole del Vangelo. In quei giorni si oscurerà il sole come sotto una densissima caligine e la luna rossastra non darà più luce e tutte le stelle si precipiteranno dal cielo, e tutto il cielo sarà sconvolto come da un vento furiosissimo. Simile ad un uomo che muore e scoppia in gemiti e rompe in singhiozzi tormentosi, così questo vecchio mondo balzerà dai suoi cardini e si commuoverà fin dal profondo delle sue viscere. Allora, tra le nubi, immensa, solenne, luminosa, brillerà la croce: e sotto piangeranno tutte le tribù della terra… et plangent omnes tribus terræ. Piangerà la tribù dei ricchi, perché tutto il loro danaro in quel momento non varrà a nulla; piangerà la tribù dei prepotenti perché in quel momento saranno schiacciati; piangerà la tribù dei disonesti perché tutti sapranno le loro vergognose azioni; piangerà la tribù dei bestemmiatori perché starà per giungere Colui che han bestemmiato.E verrà. Verrà, grande nella potestà e nella gloria, camminando come un gigante sulle nubi. Intanto gli Angeli squilleranno, sul vento, ai quattro angoli della terra l’ultima adunata. E comincerà il giudizio. In alto starà lui, Cristo, e ai suoi piedi le genti: e sorgeranno gli accusatori. Sorgeranno gli Angeli, alla cui presenza peccammo. Sorgeranno, ghignando, i demoni a cui abbiam dato ascolto. Sorgeranno tutte le creature: il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra. Il fuoco dirà: Io lo rischiarava con luce e lo riscaldava con calore: egli invece ti offendeva nella mia luce e nel mio calore. Signore! Dammelo che lo bruci ». L’aria dirà: « Io, ad ogni attimo, nutrivo i suoi polmoni: egli, ad ogni attimo, peccava. Signore! dammelo ch’io lo sbatta con vento furioso ». L’acqua dirà: « Io dissetavo la sua bocca e purificavo le sue cose: egli, con i peccati, insozzava l’anima. Signore! dammelo ch’io, dentro di me, lo anneghi ». La terra dirà: « Io lo sostenevo e lo nutrivo ogni giorno con erbe e Con animali: egli viveva per offenderti. Signore! dammelo ch’io vivo, lo seppellisca ».E noi saremo là, colpevoli e tremanti, in faccia all’universo… Questo è orribile, ma è il meno. Noi allora, soprattutto, avremo paura di due persone: di Cristo e di noi. Se vi sembra strano, ascoltate.

1. I PECCATORI AVRANNO PAURA DI CRISTO

La vigilia della sua morte, Gesù passò il Cedron, risalì la riva opposta tra i filari delle viti, entrò con i suoi nel giardino di Gethsemani pieno d’ombre misteriose. Era triste e solo; e Giuda veniva, veniva la coorte con fiaccole con funi con armi; già si sentiva l’urlìo dei soldati e il frascheggiare del loro passo per i boschetti. Gesù, che sapeva tutto, mosse incontro a loro.

« Chi cercate? ».

— Gesù Nazareno.

« Son Io ».

Tutti stramazzarono al suolo: Abierunt retrorsum et ceciderunt in terra (Giov., XVIII, 6). Pensate: bastava una semplice parola per farli morire di spavento. Che sarà allora nel giorno finale all’udire da quelle medesime labbra l’estrema condanna di maledizione? Nel Gethsemani c’era oscuro, e i soldati non avevano potuto vedere la maestà terribile che raggiava dal volto divino, ma nel giudizio finale gli occhi sfolgoranti di Cristo Giudice s’infiggeranno, come dardi, in noi. Nel Gethsemani Gesù era triste e solo: ma nel giudizio sarà in trono, in mezzo alle legioni degli angeli, in faccia a tutta la generazione. Nel Gethsemani Gesù era ancora l’Agnello d’amore e di perdono, ma nel giudizio sarà solo l’Agnello di giustizia e di vendetta. Se tanto, adunque è stato terribile il Signore nel giorno dei suoi nemici, nell’ora delle tenebre, che cosa sarà nel suo giorno, « nel giorno di Cristo che è giorno di fuoco?» (TERTULLIANO). Sarà l’Agnello furibondo descritto da S. Giovanni nell’Apocalisse così: « Quando il sole sarà diventato nero come un sacco oscuro, quando la luna, spenta ogni stella, girerà nelle volte deserte come una macchia di sangue, quando il cielo si sarà ritirato come un manto che si straccia in due, allora passerà l’Agnello furibondo. I ricchi della terra, i prìncipi, i tribuni, i potenti, tutti quanti, ricchi e poveri, si nasconderanno nelle spelonche, sotto le pietre, e diranno ai monti: nascondeteci dalla faccia e dall’ira dell’Agnello perché è venuto il giorno grande della sua vendetta, e chi vi potrà resistere? Quis poterit stare? » (Apoc., VI, 17). Forse io, forse voi, Cristiani, potrete resistere? Vi dico che tutti noi che siam peccatori dovremmo morir dallo spavento, se Dio lo permettesse.

« Quem quæritis? ».

« Iesum Nazarenum ».

« Ego sum ».

Son io, risponderà Gesù, son io, guardami! son io che tu hai bestemmiato, che tu hai dimenticato, che tu hai deriso. Son io, guardami! vedi la corona di spine che punge le mie tempia: e tu, te ne ridevi di essa quando nella tua mente assecondavi ai turpi pensieri. Vedi le mie mani e le piante dei miei piedi piagate: e tu, te ne ridevi di queste stigmate dolorose quando le tue mani s’attaccavano alla roba d’altri, quando i tuoi piedi ti portavano là, dove non avresti dovuto andare mai. Vedi il mio cuore, squarciato per te: e tu, te ne ridevi del mio amore quando correvi dietro le creature, e ti pascevi d’affetti impuri, e ti divertivi nei piaceri… Ora basta: son Io, guarda, che me ne rido di te ! Ego quoque ridebo et subsannabo (Prov., I , 26).

2. I PECCATORI AVRANNO PAURA DI LORO MEDESIMI

Ho ancora davanti agli occhi la visione dolorosa d’una persona cara morente; e forse mi starà, così viva, fin ch’io campi. Era tanto giovane e mite e moriva d’un male misterioso e straziante di cui, neppure i medici, sapevano dir qualcosa. Soffriva senza intermittenze da un anno e mezzo ed era alla fine. La febbre quotidiana e alta gli aveva consumato ogni fibra e seccato ogni umore, rendendolo così scarno da sembrare uno scheletro ricoperto di pelle: solo che sotto la pelle traspariva la trama violenta delle vene. Respirava penosamente: sporgendo le labbra come se volesse raggiungere un fiato che gli sfuggiva. Le orecchie bianche, la bocca rossa e sanguinante, gli occhi dilatati paurosamente quasi a raccogliere l’ultima impressione delle cose che, per lui, svanivano. – Negli ultimi mesi l’avevano assalito delle convulsioni nervose che gli schiantavano il petto, che gli rompevano le ossa: una volta furono così violente che il braccio gli rimase immobile e la mano stravolta. Pure, alla fine era rassegnato. La mattina del giorno in cui doveva morire, chiese uno specchio. Si voleva negarglielo: ma come non esaudire fin l’ultimo capriccio di una persona che sta per andar via, per sempre? Gli si porge lo specchio, trovò la forza per sollevarlo e vi pose sopra i suoi occhi ingordi… ma subito mandò un grido lacerante, e lasciò cadere lo specchio, singultendo. Aveva avuto paura di sé. La bruttezza che un male fisico può produrre nel corpo, è nulla in confronto di quella che il peccato, in un’istante, produce nell’anima. Quanto dev’essere orribile un’anima dopo due, tre, dieci, cento… peccati, noi non lo sappiamo neppure immaginare, ma nel giudizio lo vedremo. Vedremo, sotto la luce di Cristo, venire a galla ogni colpa più occulta e coprire di schifosissime croste l’anima nostra. E quante miserie di cui quasi non sospettavamo, verranno scoperte. Tu dicevi, sì, d’avere un po’ d’amore per la tua persona: ma non dicevi che questo amore della tua persona ha suscitato in te la voglia di piacere agli altri; non dicevi che per piacere agli altri hai seguito il lusso e la moda scandalosa, suscitando in altri le passioni. Tu dicevi, sì, d’attaccare discorsi cattivi; ma non dicevi che questi discorsi hanno poi raffreddato il tuo amore per la famiglia, hanno sconvolto la tua vita coniugale. Tu dicevi, sì, di mormorare del prossimo; ma non dicevi che le tue parole toglievano l’onore, lo rovinavano negli affari. Tutto questo, allora, lo vedrai in te stesso, orribilmente; Dio porrà te contro te: Arguam te et statuam contra faciem tuam (Salmi, XLIX, 21.) Ti vedrai come in uno specchio e tu stesso avrai paura di te. Ecco perché i reprobi grideranno ai monti: « Cadeteci addosso e sotterrateci » Cadite super nos, operite nos (S. Luc, XXIII, 30). Non diranno: monti, nascondeteci la faccia del giudice adirato, non fateci vedere, o colli, i demoni che ci tormenteranno; ma diranno: colpite noi, perché di noi abbiam paura. – Il padre Bourdaloue diceva : « Signore! nel giorno del giudizio non vi pregherò di difendermi dalla vostra ira, ma tutta la grazia che vi domanderò è che mi difendiate da me medesimo ».

CONCLUSIONE

Nel secolo V, due fratelli ateniesi, rimasti orfani e padroni della sostanza paterna, ebbero la crudeltà di mettere alla porta e gettare sulla strada un’unica loro sorella. Si chiamava Atenaide. Non valsero pianti e suppliche della derelitta, che dovette ramingare per la terra. Passati alcuni anni i due spietati fratelli si sentono chiamare dall’imperatore di Costantinopoli. Ci vanno e sono introdotti nella sala del trono e vedono colà seduta nello sfoggio della sua bellezza e della sua potenza… Atenaide, la reietta, la raminga, che per una sequela di casi provvidenziali era divenuta imperatrice e consorte dell’imperatore Teodosio. – Ella si levò in piedi e rivolse a loro queste tremende parole: « Mi conoscete? son io la sorella vostra: Atenaide! ». A tale vista, a tale parola, quegli sciagurati caddero come morti sul pavimento. Anche noi, con i peccati, non facciamo altro che cacciar via da casa nostra il fratello maggiore Gesù Cristo. Ma tra pochi anni, quando ci sentiremo chiamare dalla morte, noi lo vedremo, sfolgorante in solio, e lo sentiremo dire: « Mi conoscete? sono Io il fratello vostro, che avete maltrattato; Gesù Cristo! ».

3. IL GRAN GIORNO DEL SIGNORE

Il sole si oscurerà e la luna senza splendore somiglierà a una faccia crucciosa. Le stelle precipiteranno attraverso lo spazio, e il cielo, come uno scenario vecchio, crollerà. Allora la croce sfolgorerà in altissimo: sotto, tutte le razze umane, radunate, singhiozzeranno. In ogni parte della terra rimbomberanno le trombe degli Angeli; e in ogni tomba penetrerà un grido: — sorgete! venite al giudizio… Sulle nubi, con maestà e potestà, a giudicare i vivi e i morti, è tornato il Figlio dell’Uomo ». Queste parole paurose Gesù le diceva qualche giorno prima di morire sulla sommità del monte Oliveto. Gli Apostoli, ascoltando, si stringevano a Lui come se il pericolo fosse imminente. Ma perché in avvenire nessuno dubitasse di quella profezia sulla fine del mondo, Gesù allungò la mano a segnare Gerusalemme scintillante nel sole che volgeva al tramonto, e disse: «La città, guardate com’è bella! eppure la sua desolazione è vicina, gli eserciti la circonderanno. Per lei verrà una sventura quale non si vide dal principio del mondo. In quei giorni chi può si nasconda in montagna; e chi sta sul solaio non discenda nella via ma scappi di tetto in tetto; e chi si trova al campo non torni in casa per vesti o per robe, ma fugga così com’è. Infelici le madri, in quei giorni! ». – Quarant’anni dopo s’avverava alla lettera una delle due profezie tremende: quella della distruzione di Gerusalemme. E l’altra, quella della distruzione, del mondo, quando s’avvererà? Gesù non l’ha voluto dire a nessuno; ma è certo che s’avvererà, perché cielo e terra passano, ma la parola di Dio resta: la fine di Gerusalemme ce ne fa garanzia. – Allora non soltanto una città andrà in fiamme, ma tutto il mondo; non soltanto una nazione sarà tribolata, ma tutte le genti. Iddio che ha concesso agli uomini gli anni e i secoli, ha voluto un giorno per sé: l’ultimo. Il giorno della sua giustizia, della sua scienza, della sua gloria.

1. IL GIORNO DELLA SUA GIUSTIZIA

Era stata ordita una congiura contro il Profeta Geremia: i suoi nemici avevano stabilito di levarlo dalla faccia della terra e di far dimenticare al popolo perfino il suo nome. Quando Geremia s’accorse dell’orribile trama, palpitando dallo spavento si rivolse al Signore e gli disse: «Tutti dicono che sei giusto, né sarò io a contenderlo: tuttavia non ti rincresca d’ascoltare i miei dubbi. Com’è che agli empi tutto cammina prosperamente? com’è che tutti quelli che si danno a mal fare sono felici? Hanno lavoro e guadagno, casa e comodità, salute e cibo… » (GER., XII, 1). – Ma non è appena il profeta Geremia che si è sentito vacillare nella fede davanti alle vicende umane: anche noi quante volte, piangendo, abbiamo esclamato: « Signore, non ti ricordi più di me? Guarda i tuoi nemici che non ti riconoscono, che non ti adorano, che non ti temono, come sono fortunati!… ». Gli è, Cristiani, che la giustizia di Dio è così misteriosa e grande che noi creature piccole e cieche non riusciamo a intravvederne i disegni mirabili. Un giorno però essa si manifesterà ai nostri occhi, noi vedremo e diremo: « Sei, giusto, o Signore, e retto è il tuo governo ». Quello sarà il giorno del giudizio finale, cioè il giorno della sua giustizia. Allora i buoni comprenderanno il perché delle loro tribolazioni:

a) Chi vive nelle prosperità, pone in esse i suoi affetti e dimentica il cielo e l’anima. La sofferenza è la mano di Dio che ci stacca lentamente dalla terra e purifica col pianto i nostri occhi preparandoli alle visioni paradisiache.

b) La sofferenza abbatte le gonfiature della superbia, smorza le brame della gola, soffoca la passione impura. È l’aiuto migliore per le vittorie spirituali.

c) La sofferenza ci fa scontare quaggiù i nostri debiti con Dio, e ci prepara preziosi meriti lassù, nell’eterna dimora. « Noi beati ! — esclameremo allora, — per i giorni in cui fummo umiliati, per gli anni in cui fummo dolenti… ». Allora anche i cattivi comprenderanno il perché delle loro fortune terrene. Quando bestemmiavano, se Dio taceva, non era perché non li udisse: quando peccavano, se Dio sopportava, non era perché non li vedesse; ma era perché intendeva premiarli in quel modo del poco bene che potessero aver fatto. Dopo la morte, per loro, non resterà che male. Iustus es Domine et rectum iudicium tuum!

2. IL GIORNO DELLA SUA SCIENZA

Dalla vita di San Giovanni Bosco riferisco un episodio che fa tremare e pensare (G. B. LEMOYNE, Vita del B. D. Bosco, Vol. II, parte V, 4). La sera del 16 settembre 1867, dopo le preghiere, radunò tutta la sua famiglia di preti, chierici, coadiutori, studenti, artigiani, servi: poi cominciò a parlare mestamente di Gesù ch’era morto per le anime, e di taluni che rovinavano le sue anime. « A costoro, — continuò singhiozzando. — che cosa ho fatto d’offesa che mi trattano così? non li ho amati come figliuoli? Costoro credono di non essere conosciuti, ma io so chi sono, so che cosa hanno pensato e fatto… ». Poi con voce straziante, nominandoli ad uno ad uno col loro nome, gridò: «Sei tu… un lupo che ti aggiri in mezzo ai compagni e li allontani dai superiori, mettendo in ridicolo i loro avvisi. Sei tu… un ladro che coi tuoi discorsi rubi l’innocenza altrui. Sei tu… un assassino che con lettere secrete e con gli scherzi strappi le anime dal mio fianco e le uccidi ». Il silenzio era solenne. Ne furono nominati sei. Ad ogni nome s’udiva un grido soffocato, un singhiozzo, un ahi! che risonava paurosamente in mezzo agli astanti esterrefatti. – Invece di Don Bosco mettete Gesù maestoso sulle nubi, invece della famiglia salesiana l’immensa famiglia umana radunata alla grande manifestazione: avete il giudizio finale: il giorno della scienza di Cristo. «Che cosa ti ho fatto di offesa o di danno che mi trattasti così? non ti ho sempre amato come figliuolo? Speravi forse ch’io non sapessi… ma ora t’accorgerai come tutto sapevo, come tutto io so ». In quel momento non sarà possibile né nascondersi, né nascondere. Quidquid latet apparebit.

a) Apparirà la nostra persona. Quaggiù i cattivi si in truffolano coi buoni e vivono nell’ombra. Ma nel giudizio saranno separati e ciascuno apparirà così come visse. Che dirà il principe, il signore, il padrone a vedersi svergognato davanti al suddito, al povero, al servo suo? Che dirà il padre condannato davanti al figlio?

b) Apparirà ogni nostra azione. Anche quella che ci sembra cosa da poco… Anche quella che nessuno mai seppe, neppure il confessore perché la tacemmo sacrilegamente… Anche quella consumata nelle tenebre della notte, nel secreto d’una casa… « Le pietre ch’erano nel mezzo del muro grideranno allora contro di noi, e i legni di casa nostra parleranno» (Habac., II, 2).

c) Apparirà qualsiasi pensiero della mente, qualsiasi desiderio del cuore. Ah quelle immaginazioni impure, quegli affetti illeciti, quegli odi fomentati dentro di noi, allora appariranno al cospetto universale!…

« Quello che hai fatto e tenuto nascosto in te, io lo metterò in faccia al popolo, in faccia al sole » (II Re, XII, 12).

d) Appariranno perfino i peccati che altri commisero per scandalo nostro. Quella figlia che si credeva intatta nell’onore, si troverà colpita da tutti gli sguardi impuri che ha destato col suo vestire, con la sua smania di lusingare. Quel padre sarà accusato di tutte le bestemmie e le dissolutezze dei suoi figliuoli. A quel ricco saranno addossati i peccati commessi da chi adocchiò le pitture e le figure scandalose con le quali ama adornare il suo palazzo o il suo giardino.

3. IL GIORNO DELLA SUA GLORIA

Da Dio si è fatto uomo per salvarci, e gli uomini non solo l’hanno misconosciuto come Dio, ma l’hanno angariato anche come uomo. Lo hanno chiamato invaso dal demonio, rivoluzionario, bestemmiatore; l’hanno trattato peggio degli assassini. Per ciò è giusto che Egli si manifesti nella sua divina maestà e podestà, tra il fuoco e le nubi, in mezzo al cielo… – Un venerdì è stato condotto in tribunale, accusato, giudicato: è giusto che Egli, unico Legislatore e Giudice (GIAC., I V , 12), chiami davanti al suo tribunale coloro che osarono condannarlo. Quante volte gli uomini l’hanno insultato, hanno deriso la sua dottrina, le sue virtù, i suoi ministri, il suo vicario il Papa, la sua Chiesa… ed Egli ha taciuto sempre. È ben giusto che si prenda un giorno di gloria in cui parlare finalmente. Parlerà: « Venite, benedetti, al regno di mio Padre! Andate, maledetti, nel fuoco eterno! ». Quante ingiurie non sopporta Egli, ogni giorno, nel sacramento dell’altare, dove il suo amore lo tiene prigioniero! Sono dimenticanze, irriverenze, sacrilegi… passano gli uomini davanti alla sua casa e non lo salutano; passa Egli come viatico o in solenne processione davanti alle case degli uomini, ed essi hanno vergogna ad adorarlo pubblicamente e inginocchiarsi al suo passaggio… Nel giorno finale si prenderà la rivincita: nella sua gloria sarà glorificato. – Quaggiù gli uomini non lo riconoscono come Dio: al suo posto adorano una passione, il danaro, una persona, il demonio. Ma in quel giorno tutti vedranno che egli solo è Dio, e non c’è Dio prima di lui. I buoni con gioia, i cattivi con spavento, ma tutti quando comparirà in giudizio gli diranno : — Tu sei Re di gloria, o Cristo — Tu Rex gloriæ, Christe!

CONCLUSIONE

Sono passati migliaia d’anni, da che un sovrano potente, seduto ad una lauta mensa, circondato da illustri convitati, si abbandonava alle delizie del cibo, del vino, dei sensi. I commensali non facevano che lodare dare i loro idoli d’oro e d’argento, di legno e di pietra, e disprezzare il vero Dio. – A un tratto, sulla parete rischiarata dal candelabro, apparve una mano che scrisse: — Mane, Thechel, Phares — I tuoi giorni sono compiuti, sulla stadera sei stato pesato, per te è finita. Un fremito d’orrore passò sulle mense, l’allegria tacque, la sala parve una tomba. In quella notte stessa il Re Baldassare e i suoi amici furono uccisi dai Persiani e comparvero al tribunale di Dio. – Nel mondo ce ne sono molti che vivono come quel re e quei suoi cortigiani. Di questo numero siamo forse anche noi. E se improvvisa apparisse anche per noi quella mano scrivente? « I tuoi giorni sono compiuti, sulla stadera sei stato pesato, per te è finita ».

Memorare novissima tua et in æternum non peccabis.

LO SCANDALO

Sopra lo scandalo

[Mons. J. Billot: Discorsi parrocchiali, Cioffi ed. Napoli, 1840 – XXIV. DOM. DOPO PENT.]

“Quum videritis abominationem desolationis  in loco sancto … qui in Judæa sunt fugiant  ad montes.”

Matth. XXIV.

Quando mai, fratelli miei, si è veduta e si vedrà quella abbominazione della desolazione nel luogo santo che Gesù predice nell’odierno Vangelo? Si è veduta nella rovina di Gerusalemme, che i soldati romani, alcuni anni dopo la morte di Gesù Cristo, abbatterono sin dalle fondamenta, allorché il tempio del Signore fu profanato da tutti i disordini immaginabili che gli stranieri e i Giudei medesimi vi commisero. Si vedrà quest’abbominazione nel luogo santo al fine del mondo, quando il Vangelo di Gesù Cristo sarà combattuto, i suoi tempi saranno atterrati, il suo culto abolito. Allora, dice il Salvatore , compariranno dei falsi profeti, che sedurranno molti, e che faranno cose sì straordinarie che gli eletti medesimi avranno molta pena a preservarsi dai loro prestigi. Allora comparirà l’anticristo, che impiegherà tutti i mezzi possibili per distruggere l’impero di Gesù Cristo, ingannando gli uomini con gli errori che spargerà, e pervertendoli o con lo splendore dei beni, o con le lusinghe dei piaceri che loro presenterà. – Ma senza risalire ai secoli passati e senza penetrare nel tempo avvenire, per vedere l’abbominazione della desolazione nel luogo santo, noi non abbiamo, fratelli miei, che a considerare ciò che accade ai giorni nostri sotto i nostri occhi, nel seno stesso del Cristianesimo. Non si vedono forse già seduttori che ingannano gli uni con massime che loro insegnano, pervertiscono gli altri coi cattivi esempi che loro danno; massime sì perniciose, esempi sì contagiosi nella virtù. È dunque lo scandalo che mette l’abbominazione della desolazione nel luogo santo, nella Chiesa di Gesù Cristo, e che dovrebbe pure indurre le anime sante a fuggire sulle montagne e nei deserti per evitarne la contagione: Qui in Judæa sunt fugiant ad montes. Non è per altro possibile a tutti i giusti di lasciare il mondo, deve esservene per servire d’esempio agli altri e molti sono dal loro stato obbligati a dimorarvi. Che far dunque per rimediare allo scandalo sì frequente nel mondo? Bisogna, se si può, correggere gli scandalosi, facendo loro comprendere tutta l’enormità del loro delitto. Il che imprendo a fare in quest’ oggi, col mostrar loro, quanto lo scandalo sia ingiurioso a Dio, primo punto; quanto sia pernicioso all’uomo, secondo punto.

I. Punto. Lo scandalo, dicono i teologi, è una parola o un’azione che porta gli altri al peccato: Dìctum vel factum occasionem præbens ruinæ. Su di che, dopo essi, io osservo due cose:

1. che non è necessario, affinché una parola o un’azione sia scandalosa, che sia di sua natura malvagia o peccaminosa; ma basta che abbia qualche apparenza: Quia habet speciem mali.

2. Che, per essere colpevole di peccato, non è già necessario avere l’intenzione diretta d’indurre qualcheduno al male, ma basta prevedere che quel che si dice o che si fa sarà per lui un motivo di peccato. Vi sono ancora scandali di omissione, di cui si rendono colpevoli coloro, che, mancando di adempiere certi doveri, sono un’occasione di caduta pei loro fratelli che dovrebbero animare con la loro esattezza. Or volete voi sapere l’ingiuria che il peccato di scandalo fa a Dio? Giudicatene da questi tratti. Lo scandalo rapisce al Creatore la gloria che gli è dovuta dalle sue creature, distrugge i disegni di Gesù Cristo sopra la salute degli uomini, rende l’uomo simile al demonio. – Non è esso dunque un peccato mostruoso o piuttosto un peccato diabolico? Iddio ha fatte le creature ragionevoli per esserne glorificato con l’omaggio e l’ubbidienza che esse debbono alla sua grandezza, alle sue leggi. Ma che fa il peccato scandaloso? Egli allontana gli uomini dalla strada che conduce a Dio, li porta all’indipendenza o con le istruzioni d’iniquità o coi malvagi esempi che loro dà. Egli è un suddito ribelle che non si contenta di lasciare il servigio del suo principe, di prendere l’armi contro di lui, ma induce altri ancora nella sua ribellione e si fa un partito, come il perfido Assalonne, per privare del trono il suo padre ed il suo re. Ah! se è viltà il non dichiararsi per Dio quando gl’interessi della sua gloria lo richiedono, il non opporsi agli oltraggi che gli si fanno, il mostrarsi indifferente alla vista dei disordini che regnano nel mondo e non impedire il male quando si può, che sarà poi l’autorizzarla con la sua condotta, stabilire il regno dell’empietà sulle rovine della Religione, strascinare gli altri nel vizio e nel libertinaggio, e suscitare a Dio altrettanti nemici che l’oltraggino, quanti sono i sedotti con massime perniciose e perverse, con malvagi esempi? Or ecco ciò che voi fate, peccatori scandalosi, voi che allontanate gli altri dal servigio di Dio, o con gli empi discorsi che tenete sulla Religione, o coi motteggi con che la deridete per disgustare coloro che ne seguono il partito; voi che togliete a Dio la gloria che gli avrebbero procurato i digiuni e le limosine dei vostri fratelli; voi che li allontanate dai divini uffici, dai Sacramenti, dalle istruzioni per indurli alle partite di piacere e di dissolutezza; voi tutti, in una parola, che vi opponete al bene che gli altri possono fare; voi rapite a Dio la gloria che gliene ridonderebbe; perché voi siete iniqui e vorreste calmare i rimorsi di vostra coscienza, cercate di rendere gli altri così iniqui come voi. Ed è per questo che, non contenti di allontanarli dal bene, voi li spingete ancora al male con malvagi esempi. Voi insegnate a questo il modo che tener deve per vendicarsi di un nemico, rimproverandogli la sua indifferenza nell’ingiuria; vi apprendete a quello il segreto di riuscire nei perniciosi disegni di fare un’ingiustizia: voi profferite avanti a persone innocenti parole contro la modestia, canzoni lascive, che fanno sul loro spirito le più mortali impressioni e loro apprendono il male che ignoravano. Uomini dissoluti, voi sollecitate quella persona ad appagare la vostra passione, o con promesse, o con false persuasioni: voi, donne mondane, con i vostri abiti, con la vostra immodestia portate nel cuore degli altri la contagione, di cui siete infette; voi che comparite nel luogo santo con un’affettazione, con modi che la decenza dappertutto proscrive, che disturbate la divozione altrui con ragionamenti fuori di luogo: voi, padri e madri, padroni e padrone, che dovete il buon esempio alle vostre famiglie, voi date pubblicamente lezioni d’iniquità con le bestemmie, con le imprecazioni , che profferite alla presenza dei vostri figliuoli, dei vostri servi, col racconto che loro fate dei disordini di vostra gioventù, con le dissolutezze cui vi abbandonate ancora e con la vita licenziosa che menate; voi che fate dei servi o le vittime delle vostre passioni o i ministri dei vostri intrighi peccaminosi; voi tutti finalmente che con le vostre parole o con le vostre azioni inducete gli altri al peccato, date loro occasione di offendere Dio, o favoreggiando la loro passione, trovando loro oggetti che li contentano o dando ricovero in casa vostra al libertinaggio; voi alzate così pubblicamente lo stendardo della ribellione contro il vostro Dio, somministrando agli altri l’arme per largii guerra. Uomini perversi che intorbidate il bell’ordine dell’universo e rapite a Dio la gloria che ha diritto di aspettare dalle sue creature ragionevoli, mentre gli esseri inanimati lo glorificano nel loro modo, voi lo fate disonorare, oltraggiare da coloro che sono capaci di conoscerlo e di amarlo. La vostra condotta è non solamente opposta ai disegni del Creatore, ma ancora a quelli del Redentore poiché voi rendete inutile ciò che Gesù Cristo ha fatto per la salute degli uomini. Voi lo sapete, fratelli miei, quale è stato il motivo della venuta del Figliuolo di Dio in questo mondo. Egli è disceso in terra per salvare gli uomini : Propter nostram salutem descendit de cœlis. Questo gran disegno l’ha occupato sin dall’ eternità; per effettuarlo nel tempo, si è rivestito d’una carne mortale, si è addossate le nostre debolezze, è nato in una stalla, ha sofferto la fame, la sete, il rigore delle stagioni, gli affronti, i dispregi, una passione dolorosa, una morte crudele. Egli è risuscitato, per nostra giustificazione, dice l’Apostolo; prima di abbandonare la terra per andare al cielo a prendere possesso della sua gloria, egli sostituì in sua vece gli Apostoli, che incaricò della cura d’istruire le nazioni, e di applicare loro il frutto dei suoi patimenti e della sua morte; a questo fine mandò loro il suo Santo Spirito, che diede ai medesimi tutti i lumi e tutta la forza di cui avevan bisogno per riuscire in quella grande opera: in una parola, la salute degli uomini è stato il fine di tutti i misteri di un Dio fatto uomo, l’oggetto del suo Vangelo, il prezzo del suo sangue. Ma che fa il peccatore scandaloso? Egli rende inutile alle anime che pervertisce il sangue che Gesù Cristo ha sparso per esse, egli annienta i meriti dei suoi patimenti e della sua morte, rapisce al Salvatore le conquiste che gli hanno costato ciò che aveva di più caro: qual attentato! Invano dunque, o pietoso pastore, voi vi siete presa tanta pena per cercare la pecorella smarrita, invano vi affaticaste per correrle dietro, invano avete sudato sangue ed acqua per ricondurla all’ovile, sofferto la morte della croce per darle la vita; i vostri travagli, le vostre lagrime, i vostri patimenti, la vostra morte, tutto diventa inutile; voi l’avete liberata dal furore del lupo, e lo scandaloso viene a togliervela per precipitarla nell’abisso. Qual barbarie! Qual crudeltà! Tale è la vostra, peccatori scandalosi, che fate perire le anime per cui Gesù Cristo è morto: Peribit frater infirmus propter quem Christus mortuus est (1 Cor. VIII). Qual oltraggio non fate voi a questo divin Salvatore, che ha amato le anime sino al punto di sacrificarsi per esse? Oltraggio più atroce, dice s. Bernardo, che il delitto medesimo di cui i Giudei si rendettero colpevoli spargendo il sangue di Gesù Cristo; poiché questo sangue sparso ha servito alla redenzione degli uomini, laddove, oltre il deicidio che voi commettete nella persona di Gesù Cristo, rinnovando la sua morte, voi rendete inutile questa morte, mettete un ostacolo all’adempimento dei suoi disegni, rovesciate l’edificio che Egli ha costrutto con grandi spese, distruggete una Religione che i suoi Apostoli hanno predicata con tanto zelo, che i martiri hanno confermata col loro sangue, che tanti santi dottori hanno illustrata coi loro lumi, e che tanti ministri del Vangelo s’adoprano a sostenere con le loro cure e coi loro buoni esempi; cioè a dire voi rinnovate la guerra, e le persecuzioni che i nemici di questa santa Religione le hanno altre volte suscitate nella persona dei tiranni e degli eretici! Di più questa è una guerra, una persecuzione, che cagiona effetti più funesti che quelle dei suoi primi nemici. Infatti, fratelli miei, la persecuzione che i tiranni mossero altre volte alla Religione, serviva ad accrescer il numero dei fedeli: il sangue dei Cristiani era, come dice Tertulliano, una semente che ne produceva un centuplo. Ma lo scandaloso fa alla Religione una guerra di tanto maggior pericolo, quanto che è meno sanguinosa. Non è già la crudeltà dei carnefici, il rigore dei supplizi, l’orribile apparecchio della morte che egli impiega per far soccombere i fedeli; egli si serve dell’allettamento del piacere, dello splendore delle ricchezze, delle ingannatrici lusinghe degli oggetti che loro presenta per strascinarli ai disordini e far loro abbandonare la santa legge del Signore. Ecco, fratelli miei, ciò che cagiona alla Chiesa in un tempo di pace più grandi amarezze di quelle che essa ha provate nel tempo di guerra; Ecce in pace amaritudo mea amarissima. Ah! piacesse a Dio, diceva s. Ilario, parlando degli eretici, e noi potremmo dirlo parlando degli scandalosi, piacesse a Dio che noi avessimo a fare coi tiranni che mettessero la nostra fede alla prova dei tormenti; il Signore ci farebbe la grazia di sostenere questa fede contro gli sforzi di quei nemici stranieri: ma qui noi abbiamo a fare con nemici domestici che vivono con noi, che sono della medesima Religione e talvolta della stessa casa che noi: il che ci porta colpi tanto più funesti, quanto che sono nascosti sotto le apparenze dell’amicizia che ci dimostrano, delle promesse e delle carezze che ci fanno per indurci nella loro compagnia, per farci cadere nel peccato. Come tratteremo noi dunque, fratelli miei, questi nemici della gloria di Dio e della salute degli uomini? Noi li chiameremo col nome che dà loro il diletto discepolo S. Giovanni. Vi sono al presente, dice egli, molti anticristi: Et nunc antichristi multi facti sunt (1 Jo. 2). Cioè vi sono dei Cristiani indegni di un sì bel nome, i quali fanno di già anticipatamente l’ufficio dell’anticristo, che è di distruggere il regno di Gesù Cristo, di pervertire le anime, d’indurre gli spiriti in errore coi malvagi discorsi che spiacciano, coi pestiferi libri che spargono; di corrompere i cuori colle attrattive del cattivo esempio che danno: Et nunc antichristi multi facti sunt. Gli scandalosi sono i precursori dell’anticristo: essi preparano sin d’adesso le sue vie, fanno sin dal presente quel che farà colui quando comparirà sulla terra, che sarà di muover guerra a Gesù Cristo, di opporsi ai suoi disegni, di rapirgli le anime da lui redente col prezzo del suo sangue. Comprendete voi, peccatori scandalosi, l’enormità del vostro delitto? Non basta ancora il sin qui detto: voi fate l’opera del demonio, quel nemico comune della gloria di Dio e della salute degli uomini. – Ed in vero qual è l’occupazione del demonio sulla terra? Oimè! noi lo sappiamo per una trista esperienza. Sino da principio del mondo, dice il Vangelo, egli non si è applicato che a far perire le anime create ed immagine di Dio: Homicidia erat ab initio (Jo. VIII), La gelosia che egli ha concepita contro gli uomini, da Dio ha destinati ad occupare i posti degli angeli prevaricatori; gli fa impiegare tutte le astuzie di cui è capace per far cader l’uomo nel peccato, e rapirgli con questo mezzo la suprema felicità per cui Iddio l’ha creato, e per disgrazia dell’uomo egli riesce pur troppo spesso nei suoi funesti progetti. Sovente ancora non può venir a capo dei suoi disegni, trova nell’uomo della resistenza ai suoi assalti. Che fa dunque questo spirito di tenebre per perdere le anime, per avere la preda di cui vuole impadronirsi? Ah! fratelli miei, egli si serve d’un peccatore scandaloso, di quegli uomini viziosi che non si contentano di perdere se stessi: ma vogliono ancora farsi dei compagni nelle loro disgrazie; ecco i fautori di satanasso, questi sono i ministri e gli strumenti di cui si serve per vincere gli uomini di già scossi dalle sue tentazioni. – Che fa il demonio che vuol perdere quel giovane regolato nella sua condotta, quella figliuola modesta e riserbata che conserva la sua innocenza? Egli suscita all’uno qualche compagno dissoluto che l’allontanerà dalle vie del Signore, che l’indurrà in partite di piacere, gli terrà discorsi licenziosi, e gl’insegnerà a far il male che non sospettava neppure possibile. Il demonio invierà all’altra un libertino, che non la porterà tosto a gravi misfatti, ma che comincerà a sedurla con lusinghevoli parole, prenderà con essa certe famigliarità contrarie alla modestia, ed in appresso la farà cadere in un abisso di disordini; oppure essa frequenterà qualche cattiva compagnia che la strascinerà in quelle adunanze di divertimenti funesti all’innocenza di tutte quelle che vi s’impegnano; e benché per lo innanzi sì riserbata, ella diverrà come le altre, perderà il gusto della divozione, correrà dietro alla vanità ed alla menzogna, cadrà nel peccato. Ecco, fratelli miei, come il demonio si serve degli scandalosi per pervertire le anime innocenti, per farle cadere nelle sue reti. – Che farà ancora questo spirito di malizia per disunire amici, per mettere la dissensione in una famiglia, per irritare dei congiunti gli uni contro gli altri? Egli si servirà di quegli uomini turbolenti e terribili nella società, come li chiama lo Spirito Santo, i quali con malvagi rapporti, con imposture e calunnie, semineranno la zizzania nel campo del padre di famiglia, divideranno gli animi uniti coi legami di una stretta amicizia. Mentre non è questa forse la sorgente ordinaria delle inimicizie, dei contrasti che regnare si vedono nelle famiglie, tra i vicini, i congiunti? Le lingue indiscrete che non possono contenersi, che servono d’organo all’infernale serpente, per far regnare la discordia tra gli uomini, ed attirarli nel soggiorno del disordine e dell’orrore eterno che vi abita. Così, fratelli miei, ciò che il demonio non può fare da sé stesso, lo fa pel mezzo e ministero degli uomini per perderli. Nel che gli scandalosi sono più a temere che il demonio medesimo, perché questo tentatore invisibile non può indurre gli uomini al peccato in una maniera sensibile; laddove l’uomo portato naturalmente ad imitare il suo simile, di cui diffida meno che del demonio, è più presto vinto che dal demonio medesimo; dunque è vero che lo scandalo è un gran peccato, poiché rapisce la gloria a Dio. – Vediamo ora quanto egli è pernicioso all’uomo.

II. Punto. Non è già del peccato di scandalo come degli altri peccati, i quali non nuocciono che a coloro che li commettono. Quelli rinchiudono in sé la loro malizia e la loro corruzione, ma lo scandalo la sparge al di fuori: egli è una peste che infetta non solamente chi ne è tocco, ma ancora coloro che se ne avvicinano; di modo che lo scandalo porta ad uno stesso tempo i suoi colpi mortali e a chi lo dà e a coloro che lo ricevono: due circostanze che ne fanno conoscere i perniciosi effetti. Non si può dubitare che lo scandalo essendo un peccato cosi grave, non dia il colpo di morte a chi lo commette quando trattisi di materia importante. Ma ciò che rende questa morte più tragica si è, che questo peccato, essendo più grave che gli altri, sarà più rigorosamente punito, e che le conseguenze di lui essendo irreparabili, il ritorno alla vita della grazia è più difficile. Siccome vi sono virtù del primo ordine, alle quali Iddio riserba più magnifiche ricompense, si può dire altresì che vi sono peccati d’una malizia superiore, che Dio punisce con più severi castighi. Nelle virtù del primo ordine bisogna comprendere lo zelo della gloria di Dio, della salute delle anime. Non si può dubitare che questa virtù non sia coronata nel cielo d’una gloria immensa, poiché Gesù Cristo ci assicura che colui il quale avrà praticato ed insegnato, sarà grande nel regno dei cieli; Qui fecerit et docuerit, hic magnus vocabitur in regno cœlorum (Matth.V). Quindi gli Apostoli hanno nel cielo un grado distinto, perché hanno stabilito il regno di Gesù Cristo sulla terra; quindi i ministri del Vangelo, i quali, seguendo le tracce degli Apostoli, insegnano agl’ignoranti riconducono i peccatori al dovere, risplenderanno, dice la Scrittura, come le stelle nell’eternità: Qui ad iustitiam erudiunt multos, fulgebunt quasi stellæ inperpetuas æternitates (Dan. XII). Giudichiamo da questo, fratelli miei, quali castighi debbono aspettarsi quegli uomini di perdizione che distruggono il regno di Dio coi loro scandali; che, invece d’istruire gl’ignoranti, spargono le tenebre dell’ errore e della menzogna, fanno abbandonare il partito della verità, invece di ricondurre i peccatori sul buon sentiero, lasciare lo fanno ai giusti medesimi, che essi pervertono con le loro detestabili massime, con i loro perniciosi esempi. Ah! qual conto non renderanno essi a Dio delle anime che avranno perdute? Con qual severi castighi Dio non farà loro pagare la perdita di quelle anime che erano il prezzo del suo caro Figliuolo? Sanguinem eius de manu tua requiram (Ezech. III). Sì, peccatori scandalosi, Dio si vendicherà su di voi nel modo più terribile, non solo per la perdita di quelle anime che esso sarà obbligato di riprovare, perché voi le avete rese complici dei vostri disordini; ma più ancora a cagione dell’oltraggio che avete fatto al sangue adorabile del suo Figliuolo, che avete indegnamente profanato: Sanguinem eius de manu tua requiram. Questo sangue prezioso, la cui voce sarà più forte che quella del sangue di Abele, che domandava a Dio vendetta contro suo fratello, solleciterà, animerà la giustizia di Dio a punirvi coll’ultimo rigore e dei vostri propri peccati e di quelli che avrete fatto commettere. Io, vi dirà Gesù Cristo, Io m’era fatto vittima della giustizia di mio Padre per salvare le anime; io non aveva risparmiati né sudori. né fatiche né patimenti né la mia vita medesima per liberarle dalla schiavitù del demonio e collocarle nel soggiorno della gloria; e tu, o scellerato, tu hai fatto di queste anime la vittima della tua crudeltà; tu nulla hai risparmiato per perderle e dannarle; ah! tu pagherai durante tutta l’eternità l’ingiuria che hai fatta al mio sangue, ai miei patimenti, alla mia morte: Sanguinem eius de manu tua requiram. Di questo terribile giudizio minaccia di già Gesù Cristo nel Vangelo il peccatore scandaloso per via delle maledizioni che contro di lui pronuncia. Guai, dice Egli, all’uomo per cui avviene lo scandalo: Væ nomini illi per quam scandalum venit (Matth. XVIII). Sarebbe un minor male per lui il non avere giammai veduto il giorno che rendersi doppiamente colpevole e del peccato che commette, e di quello che fa commettere, perché sarà più rigorosamente punito; egli lo sarà pel suo peccato e per li peccati altrui: più anime avrà perdute, più saranno accresciuti i suoi castighi; ma ciò che comincia di già la sua disgrazia sino da questo mondo si è la somma difficoltà di riparare lo scandalo: Vae nomini illi, etc. Ed in vero, fratelli miei, uno scandaloso che ha ispirato agli altri dei cattivi sentimenti, che loro ha appresa l’arte fatale di commettere il delitto, come cancellerà egli le malvage impressioni che loro ha comunicato? Oimè! questo perverso lievito ha forse di già corrotta tutta la massa, sia nella sola persona che ha infetta, sia nella moltitudine ove si è sparso. Sovente accade che colui che lo scandaloso ha pervertito, cui ha insegnato il male, ne ha di già contratto l’abito, e non può più disfarsene; autorizzato dal cattivo esempio che gli è stato dato, egli si crede tutto permesso, e porta l’impudenza sino a gloriarsi delle azioni che lo facevano per l’addietro arrossire. Ma supponiamo che lo scandaloso per via dei buoni consigli e di un cangiamento di vita riesca a far rientrare nel dovere qualcheduno di coloro che esso ha pervertiti, come distruggerà egli tutti i malvagi effetti che la contagione del suo misfatto ha prodotti in coloro cui essa si è comunicata? Colui che è stato corrotto ne ha corrotti altri: ed il male è divenuto cosi generale che non solo una moltitudine, un villaggio, una città, ma ancora una provincia, un regno ne sarà infetto. Sarà dunque impossibile conoscere tutti coloro che sono tocchi dalla malattia; e come guarir un male che non si conosce? Come arrestar un incendio che ha di già arsa tutta la casa? Chi potrebbe, per esempio, arrestare le strane conseguenze della lettura di tutti i cattivi libri contro la fede e contro i costumi? Chi può cancellare le malvage idee che una parola di doppio senso, una canzone disonesta avrà prodotte in una compagnia ove sarà stata recitata e che indi si spargerà in molte altre? E pure, per ottenere il perdono del suo peccato, bisogna ripararne le conseguenze; ma come riuscirvi? Nel momento in cui egli chiede misericordia per se stesso, i discepoli che ha formati oltraggiano il Dio che esso invoca. Rapire al prossimo i suoi beni con ingiustizie, il suo onore con calunnie è un gran male; togliergli la vita con l’omicidio è crudeltà; ma fargli perdere la vita dell’anima con lo scandalo, ah! fratelli miei, si è nello stesso tempo ingiustizia e crudeltà, ma crudeltà tanto più enorme quanto la vita della grazia sorpassa tutti i beni della natura. Mentre sapete voi, peccatori scandalosi, il torto che fate al vostro fratello quando gli rapite il tesoro della grazia con il peccato che gli fate commettere? Voi lo private dell’amicizia del suo Dio; voi gli fate perdere il diritto che aveva alla celeste eredità, voi ne fate una vittima dell’ira di Dio; di modo che se quella persona muore nel peccato cui voi l’avete indotta, eccola perduta per un’eternità; l’inferno diventa per sempre la sua porzione. Ella è una perdita irreparabile di cui non la risarcirete giammai, qualunque cosa possiate voi fare. Se avete preso altrui la roba, se gli avete rapito l’onore, potete ristabilirlo nei suoi primi diritti con restituzioni che uguaglino l’ingiuria che gli avete fatta; ma se avete precipitata un’anima nell’inferno coi vostri scandali, voi non ne la farete uscire mai più. Ohimè! Forse ve ne ha di già, o peccatori che mi ascoltate, alcuni che vi sono caduti per colpa vostra; forse udirete voi i lamentevoli gemiti di quegli sgraziati, che gridano dal mezzo delle fiamme: io brucio in questo fuoco, perché ho ascoltati i malvagi discorsi, ho seguito i cattivi esempi di quel peccatore che mi ha strascinato nella colpa: maledetto sia il momento in cui l’ho conosciuto e frequentato! Ah! peccatori, non siete voi penetrati d’orrore a queste voci? Non sarebbe meglio per gl’infelici che voi avete così perduti che aveste loro tolti i beni, la riputazione, la vita medesima, che averle precipitati negli orrori della morte eterna? Se voi volete ancora nuocere al vostro prossimo, se qualcheduno dei vostri fratelli è divenuto l’oggetto del vostro odio, vendicatevi sopra i suoi beni, sopra il suo onore, sopra la sua vita medesima, armatevi d’un pugnale ed immergeteglielo nel seno; ma almeno risparmiate la sua anima: Verumtamen animam iliius serva (Job. II). Se voi medesimi volete dannarvi, non comprendete gli altri nella vostra disgrazia, perché i complici del delitto, divenendo i compagni dei vostri castighi, non ne sminuiranno punto il rigore, non faranno al contrario che accrescerlo; più il numero ne sarà grande, più la giustizia di Dio eserciterà su di voi i suoi rigori. – Ora voi dubitar non dovete che i vostri scandali non perdano un gran numero d’anime; mentre è questo uno dei perniciosi effetti di questo peccato di unire alla sua crudeltà la contagione; e perciò si paragona ad una peste che si comunica con una rapidità che è molto difficile di arrestare. Si può dire infatti che lo scandalo è stato la cagione di tutti i mali che hanno desolata la Chiesa di Gesù Cristo, e che è ancora la sorgente avvelenata donde nascono le scelleratezze che inondano l’universo. Quale strage non ha fatta nella Chiesa un solo Ario, un Calvino, un Lutero, che hanno di già perdute tante anime e che ne perderanno ancora nel corso dei secoli? Ma, senza uscire dal seno della Chiesa Cattolica, quanti delitti lo scandalo non produce tutt’i giorni? L’uomo, è vero, è portato di sua natura al peccato; egli è tentato dal demonio; ma è ritenuto dal timore e dalla vergogna annessa al peccato. Or che fa lo scandalo? Toglie all’uomo questo timore e questa vergogna che lo riteneva. L’uomo, naturalmente portato ad imitare i suoi simili, si crede autorizzato a fare quel che far vede dagli altri, principalmente quando si tratta del male, per cui egli ha più propensione che pel bene. Il costume, la licenza che si vede negli altri non è ella forse il pretesto ordinario di cui si servono i libertini per scusare i loro disordini? Taluno crede tutto permesso quando è sostenuto dall’esempio; da che il peccato è divenuto il peccato della moltitudine, esso perde in qualche modo il carattere d’infamia che ne è inseparabile; si leva arditamente la maschera, non sa più arrossire della colpa e si fa gloria di essere così vizioso come gli altri. Tali sono i funesti progressi di questo contagioso peccato che ha di già precipitato più anime nell’inferno che gli esempi dei santi non ne hanno potuto salvare. Né fa d’uopo esserne sorpresi. Per imitare i malvagi, basta seguire la sua naturale propensione; ma per imitare i santi bisogni farsi violenza. Or il numero di coloro che cedono alle inclinazioni d’una natura corrotta è molto più grande che il numero di coloro che vi resistono: e dacché le malvage inclinazioni sono strascinate dal peso del cattivo esempio, a quali eccessi non si abbandonano esse? Quanti giovani i quali, docili alle istruzioni che loro erano state date nella loro infanzia, servivano di già ai grandi medesimi d’esempio, di virtù! Si vedevano fedeli alle risoluzioni formate in una prima Comunione, si accostavano regolarmente ai Sacramenti, assidui ai divini uffici, ubbidienti ai loro genitori, sobri, casti, regolati nella loro condotta; ma da poi che crescendo in età hanno frequentati i malvagi, sono divenuti simili ad essi, sono liberi nelle parole, dissoluti, indocili e pieni di dispregio per le pratiche della Religione e i precetti della Chiesa. Se io domando a colui come ha egli perduto il tesoro della sua innocenza, chi gli ha insegnate quelle opere d’iniquità che imbrattano la purezza della sua anima? Egli mi risponderà che fu un dissoluto da lui frequentato. Così lo scandalo si comunica all’infinito, ed uno scandaloso che e di già da lungo tempo nell’inferno pecca ancora sulla terra nella persona di coloro che ha pervertiti. Da chi imparano i figliuoli a bestemmiare, a dire cattive parole? Da’ padri e dalle madri o da altre persone che non sanno contenersi alla loro presenza. Questi figliuoli, quando saranno essi medesimi padri e madri, insegneranno le stesse cose ai loro figliuoli, questi ai loro discendenti. Così lo scandalo è come un peccato originale che si perpetua di secolo in secolo, di generazione in generazione, che perde la più gran parte del genere umano. E non crediate che lo scandalo consista sempre in certi peccati che portano seco un carattere d’infamia, e che per questo medesimo ispirino orrore a coloro che li vedono. Può esservi dello scandalo in mancamenti anche leggieri, principalmente se si scorgono in persone che debbono per professione edificare gli altri. I deboli che vedono oltrepassare i limiti di qualche convenienza, credono poter andare più lungi Qualche famigliarità, qualche abboccamento, qualche unione di amicizia che si veda tra persone che non penseranno neppure a far male, non si richiede di più per scandalizzare anime deboli ed innocenti, che temono sino l’apparenza del male. Una donna la quale non avrà tutta la modestia che le conviene nel suo vestire, nelle sue parole, nei suoi modi; che cerca di piacere con certi scherzi, in cui non pensa, dice ella, di fare alcun male, sarà una pietra d’inciampo per coloro che la vedranno, che la frequenteranno. Di più, fratelli miei, sovente anime deboli prenderanno motivo di scandalo da cose che sono in se stesse indifferenti, il mangiar carne sacrificata agli idoli, di cui l’uso non era da se stesso proibito ai primi Cristiani, era una cosa indifferente: grande Apostolo loro la proibiva nulladimeno, perché prevedeva che ne accadrebbe scandalo, e protestava egli medesimo che non ne avrebbe mangiato giammai sul timore di scandalizzare i suoi fratelli : Si esca scandalizat fratrem meum, non manducabo carnem in æternum (II Cor. VIII). Il che deve indurvi ad astenervi da certe cose che voi credete permesse, e che sono nulladimeno vietate dalla legge della carità, tosto che esse sono per il prossimo un motivo di scandalo. Non bisogna tuttavia tralasciar il bene che uno è obbligato di fare a cagione dello scandalo che altri ne prenderebbero mal a proposito. Si è questo uno scandalo farisaico, che essi debbono imputare a sé medesimi; tale era quello dei Giudei sulla condotta e dottrina di Gesù Cristo.

Pratiche. Ma ciò che v’importa di ben sapere e di praticare si è di regolarvi così bene in tutte le vostre azioni che vi diportiate sempre in una maniera edificante e degna di Dio: Ut ambuletis digne Deo (Coloss. II). Si è di concorrere, quanto potete, alla salute del prossimo con le vostre parole e con i vostri esempi, di modo che voi siate da per tutto il buon odore di Gesù Cristo. Quel che v’importa ancora di sapere e di praticare si è di evitare la compagnia degli scandalosi; benché assodati voi siate nella virtù, pur cadrete e diverrete malvagi coi malvagi. Quanto a voi che siete stati pei vostri fratelli un odore di morte coi cattivi esempi che avete loro dati, bisogna, per quanto dipende da voi, riparare il male che avete fatto, domandare perdono a Dio: Ab alienis parce servo tuo (Psal. XVIII); ritrattare i malvagi consigli che avete loro dati, le massime perniciose che loro avete insegnate, riparare con la vostra condotta le cattive impressioni che avete cagionate; voi avete scandalizzato con il vostro allontanamento dei Sacramenti e dai divini uffizi, bisogna accostarvi ai primi e che vi vediamo assidui ai secondi. Voi davate scandalo col frequentare certe case o persone che non dovevate neppur vedere; conviene evitare quelle case, quelle persone, per quanto care vi siano, e qualunque vantaggio possiate ricavarne. Voi non farete forse tanto di bene con i vostri buoni esempi , quanto avete fatto di male con i vostri scandali; ma Dio avrà riguardo alla vostra buona volontà, alle preghiere che voi gli indirizzerete per la conversione di coloro che avete pervertiti. Non lasciate la buona strada che avete presa; essa vi condurrà al soggiorno della gloria: Così sia.

L’ISTRUZIONE RELIGIOSA

L’ISTRUZIONE RELIGIOSA

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli. Domenica XXIV dopo PENTECOSTE – Scuola tipog. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929; imprim.]

“Fratelli: Non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate la piena cognizione della volontà di Dio, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, affinché  camminiate in maniera degna di Dio, sì da piacergli in tutto; producendo frutti in ogni sorta di opere buone, e progredendo nella cognizione di Dio; corroborati dalla gloriosa potenza di lui in ogni specie di fortezza ad essere in tutto pazienti e longanimi con letizia, ringraziando! Dio Padre che ci ha fatti degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce, sottraendoci al potere delle tenebre, e trasportandoci nel regno del suo diletto Figliuolo, nel quale, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati (Col. 1, 9-14).”

L’Epistola è tratta dal principio della lettera ai Colossesi. Dopo il saluto, le congratulazioni, il ringraziamento a Dio per la fede e la pietà che regna tra i Colossesi, assicura — come vediamo dal brano riporta; — prega il Signore che dia loro una conoscenza perfetta della volontà di Dio, così che possano piacergli, mediante i frutti delle buone opere; e che queste opere progrediscano sempre più, per mezzo di una cognizione sempre maggiore delle cose celesti. Prega pure che dia loro la forza di sopportare con letizia le prove immancabili a chi vive cristianamente; e che siano fedeli nel ringraziare Dio Padre, il quale li ha resi degni di partecipare al consorzio dei santi, cioè dei fedeli, li ha strappati alla schiavitù del demonio e delle sue opere tenebrose per metterli sotto il regno del suo Figlio, nostro Redentore. – Quest’epistola ci apre la via a parlare dell’istruzione religiosa.

1. Al Cristiano è indispensabile l’istruzione religiosa,

2. Che gli servirà di guida nella vita,

3. E lo renderà costante contro i falsi insegnamenti e le storte teorie.

1.

Fratelli: Non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate la piena cognizione della volontà di Dio, con ogni sapienza e intelligenza spirituale. L’Apostolo, dicendo ai Colossesi che egli domanda che, per mezzo di quella scienza e sapienza che non viene dagli uomini, ma dallo Spirito Santo, imparino sempre più ciò che Dio vuole da loro; viene bellamente a inculcare il dovere che essi hanno di avanzare sempre più nella cognizione delle verità essenziali del Cristianesimo. E’ una raccomandazione che S. Paolo fa parecchie volte, e che è di grande importanza per i Cristiani di tutti i tempi, perché pare che in tutti i tempi si dia molto più importanza all’istruzione profana che all’istruzione religiosa. Non parliamo, poi, dei tempi nostri.Noi sentiamo dei fanciulli, con il sussiego di chi la sa lunga in materia, narrare le avventure delle pagine illustrate delle riviste settimanali. Se li interrogate, non sanno ripetere un sol fatto della Storia Sacra. I giovinetti danno l’assalto alle edicole, ai giornalai che escono dalle stazioni per aver notizia, delle vicende dei giocatori. Vi sanno dire chi è riuscito primo nel pugilato, nella gara podistica; chi primo nella corsa delle biciclette, delle automobili. ecc. Vi dicono il nome, la paternità, la patria del campione nazionale, del campione europeo, del campione del mondo: ma non vi sanno fare il nome di un campione del Cristianesimo. – Gli adulti la sanno forse più lunga in fatto di religione? Se  provaste a interrogarli resterete meravigliati della loro ignoranza. Non dissimili dagli uomini sono spesso le donne; e non dissimile dall’operaio e dal contadino è il ricco, la persona colta. Sarebbe già molto, per una buona parte, se arrivassero a far bene il segno della croce. E questa ignoranza è assolutamente inammissibile in un Cristiano. « E’ un errore non conoscere Dio come si conviene ». L’uomo è figlio di Dio: deve, per conseguenza conoscere questo Dio, che lo ha creato, che lo governa, che è il suo ultimo fine; conoscere la sua natura, conoscere i suoi attributi per quanto è possibile a persona pellegrina su questa terra: sapere qual è il premio per quelli che lo servono; qual è il castigo per coloro che si ribellano al suo volere. – Dio nella sua bontà infinita ha voluto risollevare l’uomo dalla sua miseria per mezzo della redenzione. È  interesse dell’uomo redento, del Cristiano, è suo obbligo istruirsi in questo mistero: conoscere la persona di Gesù Cristo, quanto ha fatto per noi, il merito della sua opera, la dottrina che Egli ha insegnato, e che le turbe del suo tempo ascoltavano con tanta brama da dimenticare casa, occupazioni e perfino il nutrimento. È interesse e obbligo del Cristiano conoscere chi è la depositaria della sua dottrina, la Chiesa; conoscere gli aiuti che ci ha dato, i sacramenti. Si tratta d’una istruzione che interessa il Cristiano direttamente, in modo particolare. Si tratta poi d’un interesse che non si limita ai quattro giorni che passiamo sulla terra, ma che varca i confini della vita e dura per tutta l’eternità.

2.

Paolo desidera che i Colossesi abbiano una piena conoscenza della volontà del Signore affinché si diportino in maniera degna di Dio, sì da piacergli in tutto. Cioè, conducano una vita in tutto degna di un vero Cristiano. Una vita simile non può prender norma che dalla dottrina della Chiesa. Nella dottrina della Chiesa si trovano i rimedi adatti a tutte le infermità dell’umana natura, e la difesa contro i pericoli e le illusioni che l’accompagnano. In questa dottrina si trovano gli insegnamenti opportuni per qualunque circostanza della vita. Essa contiene insegnamenti per la vita individuale e per la vita sociale: indica i diritti nella loro giusta misura, e inculca i corrispondenti doveri. – Tolti gli insegnamenti della Religione, ben poca efficacia hanno gli altri mezzi sulla condotta dell’uomo e sull’andamento morale della società. Il ven. Antonio Chevrier era stato arrestato da due guardie urbane di Lione, che l’avevano trovato a questuare alla porta di una chiesa. Condotto dal Commissario, risponde ai rimproveri facendo osservare che egli fa la questua pel mantenimento e l’educazione di una sessantina di ragazzi vagabondi, parecchi dei quali erano certamente passati nell’ufficio del commissario, prima di andare da lui. Quando il commissario sa con chi tratta non può trattenere la commozione, e due lacrime spuntano sopra i suoi occhi. Poi riprende : «Ah! Padre, continui la sua opera di rigenerazione ben più utile dì tutte le nostre case di reclusione; continui a chieder l’elemosina per i suoi ragazzi, non avrà più noie; io stesso voglio partecipare alla sua opera» (Villefranche. Vita del Ven. Servo di Dio Padre Antonio Chevrier. Versione di Alfonso Codaghengo. Roma – Torino. 1924. Pag. 97-98). – Possiam poi, ad osservare che la sanzione delle leggi umane, già poco efficace per sé, è relativamente rara. Le leggi umane sono di quelle reti da cui si può sfuggire con tutta facilità. Si possono trasgredire in modo da far quanto la legge proibisce, senza incorrere nella sanzione. Fatta la legge, trovato l’inganno. Se la legge non è scritta nel cuore, fa ben poco. Le cattive inclinazioni hanno origine dal cuore: nel cuore deve stare il loro correttivo. « Serbo nel cuore i tuoi detti per non peccare contro di te », dice il Salmista; ma è impossibile che la legge sia scolpita nel cuore, se non la si considera come ricevuta da Dio. – Ci sono inoltre tante azioni, che la legge umana non considera perché interne, come l’odio, i desideri malvagi ecc.; ma che non cessano per questo di essere condannabili, e che sono, difatti, severamente condannate dalla dottrina della Chiesa. – Non si può negar l’efficacia dell’insegnamento della Chiesa dal fatto che alcuni anche fortemente istruiti nella Religione, conducono una vita riprovevole. La dottrina religiosa da essi imparata è la loro più severa condanna: Essa li richiama continuamente alla riforma della propria condotta, che, con l’aiuto della grazia di Dio, può sempre compiersi. A ogni modo è sempre un freno potentissimo con la minaccia dei castighi eterni, riservati a coloro che si ostinano nel male… E coloro che se ne scandalizzano, al punto di voler negare l’efficacia dell’istruzione religiosa, sono forse migliori? Del resto, si dia uno sguardo alla storia. Si vedrà che la dottrina della Chiesa, alla corrotta vita pagana ha sostituito una vita di grande dignità e di santità. Si vedrà che quando le popolazioni si avvicinano ai principii del Vangelo sono civili; quando se ne allontanano diventano barbare.

3.

L’Apostolo augura ai Colossesi che vadano progredendo nella cognizione di Dio, cioè nello studio delle verità cristiane. Come grande è, dunque, l’errore di coloro che, studiati i primi elementi della dottrina cristiana da fanciulli al catechismo parrocchiale o alla scuola, non se ne curano più nel restante della vita. Il condurre una vita veramente cristiana non è cosa da animi deboli. Si richiede grande costanza contro ogni genere di contrarietà. Cresciuto il fanciullo negli anni, da chi imparerà il modo di resistere alle passioni? Che cosa lo terrà saldo contro la corrente dei cattivi costumi e delle massime perverse? L’ideale! si dirà. Ma quale? Noi vediamo che sono tanti ideali quante sono le scuole, quanti sono i partiti, quanti sono i gusti. E ciascuno si sceglie l’ideale che accontenta maggiormente le passioni, che cominciano a dominarlo. Sta bene che al Catechismo dei fanciulli abbiamo imparato i primi elementi della dottrina; abbiamo imparato per qual fine Dio ci ha creati ecc.; ma, cresciuti in età, dobbiamo approfondire le nostre cognizioni mano a mano che ci troviamo davanti circostanze che richiedono da noi la manifestazione di principi solidi. Col crescere degli anni si allarga anche il campo dei nostri doveri; dobbiamo quindi cercare di averne una più larga e profonda cognizione. « Che giova — dice S. Bernardo — saper dove sia da andare, se non sai la via per la quale hai da andare » (S. Bernardo. In festa Ass. Serm. 4, 9). Quando si è uomini maturi, si dice, non c’è più bisogno di guida. Il buon senso e la ragione insegnano quel che c’è da fare. Peccato, che la storia ci dimostri il rovescio. Essa ci dimostra che, quanto alla verità, non c’è assurdo che non sia stato insegnato da qualche filosofo; e che intorno ai doveri degli uomini i sapienti del mondo non hanno mai potuto stabilire un sicuro codice di morale. In pratica, poi, la norma più comune è la pubblica opinione. Questa è né più né meno che una moda qualunque. La moda va e viene: peggio ancora, va da un estremo all’altro. Così, la pubblica opinione oggi condanna ciò che ieri era lecito; con la più grande facilità oggi pone uno sull’altare, domani lo getta nel fango. La sua regola è il tornaconto del momento. Precisamente opposto è l’insegnamento della Chiesa, il cui linguaggio è « sì, sì; no, no », (Matth. V, 37) e non si adatta mai alle circostanze. La, dottrina che essa insegna è la stessa che fu insegnata da Gesù Cristo, che fu bandita dagli Apostoli e dai loro successori e, attraverso a persecuzioni e lotte, arrivò fino a noi senza mutamenti (ci si riferisce ovviamente alla vera Chiesa Cattolica, non alle sette, come quella a-cattolica attualmente dominante del novus ordo Vaticano II –ndr.-). A questa dottrina deve attenersi chi, nel mar tempestoso della vita, vuol rimaner fermo come uno scoglio che non è smosso dalle opposte correnti. «Alcune cose si apprendono per averne la cognizione solamente, altre, invece, per metterle anche in pratica », osserva S. Agostino (In Ps. CXVIII, En. 17, 3). Perciò il Salmista si rivolge a Dio con quella preghiera: « Insegnami a fare la tua volontà » (Ps. CXLII, 10). Sull’esempio del Salmista rivolgiamoci noi pure a Dio pregando, che ci aiuti a conoscere ciò che dobbiam credere, e ci aiuti a conoscere ciò dobbiam fare, rendendocene soave l’adempimento.

DOMENICA XXIV DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XXIV DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ier XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.
[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Oratio

Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, tuórum fidélium voluntátes: ut, divíni óperis fructum propénsius exsequéntes; pietátis tuæ remédia maióra percípiant.
[Eccita, o Signore, Te ne preghiamo, la volontà dei tuoi fedeli: affinché dedicandosi con maggiore ardore a far fruttare l’opera divina, partécipino maggiormente dei rimedi della tua misericordia.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 9-14
“Fratres: Non cessámus pro vobis orántes et postulántes, ut impleámini agnitióne voluntátis Dei, in omni sapiéntia et intelléctu spiritáli: ut ambulétis digne Deo per ómnia placéntes: in omni ópere bono fructificántes, et crescéntes in scientia Dei: in omni virtúte confortáti secúndum poténtiam claritátis eius in omni patiéntia, et longanimitáte cum gáudio, grátias agentes Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem eius, remissiónem peccatórum”.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol. IV, Omelia XXV – Torino, 1899]

“Non cessiamo dal pregare per voi, e chiedere che siate ripieni del conoscimento della volontà di Dio, in ogni sapienza e intelligenza spirituale, affine di camminare in modo degno di Dio, in ogni beneplacito, fruttificando in ogni opera buona crescendo nel conoscimento di Lui, fortificati di grande vigoria, secondo la sua gloriosa potenza, ad ogni patimento e longanimità, rendendo grazie a Dio Padre, che ci mise a parte della sorte dei santi nella luce; il quale ci strappò dalla potestà delle tenebre e ci ha tramutati nel regno del Figliuolo suo dilettissimo, in cui abbiamo la redenzione per il sangue di Lui, la remissione dei peccati„ (Ai Colossesi, I, 9-13).

La lettera ai fedeli di Colossi, città dell’Asia minore, nella Frigia, dalla quale sono tolti questi cinque versetti, fu scritta da S. Paolo in Roma, nel 63 o 64 dell’era nostra, durante il tempo della sua prima prigionia. Quella Chiesa non era stata fondata da lui, ma dal suo discepolo Epafra, che fu anche il portatore della lettera stessa. Questa ha due parti distintissime, la prima è dogmatica, morale la seconda. S. Paolo in carcere, forse da Epafra stesso aveva inteso come i fedeli di quella Chiesa correvano grave pericolo d’essere ingannati da certi maestri d’errore, che dovevano essere gnostici o, al solito, ebraizzanti. Quelli, mescolando insieme gli insegnamenti della fede con le teorie filosofiche, ond’erano imbevuti, erravano intorno alla persona di Cristo e introducevano non so qual nuovo e strano culto degli angeli: questi poi si attenevano ancora ad alcune pratiche legali, che non potevano comporsi colla fede cristiana. La lettera è una delle più brevi, ma ripiena di altissimi sensi. – I pochi versetti che avete uditi, e che formano la prefazione della lettera, ve ne sarete accorti voi stessi, udendoli, si presentano involuti, oscuri e assai difficili a spiegarsi, perché le verità vi sono condensate a forza, le une serrate alle altre, in una forma di dire al tutto ebraica e che alle nostre orecchie torna assai dura. Ad ogni modo, invocando l’aiuto di Dio e chiedendo tutta la vostra attenzione, mi accingo a darvene il commentario. – S. Paolo comincia la lettera, scritta anche a nome di Timoteo, con i saluti, che sono presso a poco quelli delle altre lettere: poi ringrazia Dio per la fede e per la carità dei Colossesi, secondo il Vangelo ricevuto da Epafra, che gli portò novelle di loro; e, continuando, scrive: “Noi non cessiamo di pregare per voi — “Non cessamus prò vobis orantes. „ È cosa degna di considerazione questa, che parecchie volte S. Paolo, nelle sue lettere, assicura i fedeli che prega per loro. Non vi è cosa maggiormente inculcata nei Libri santi, quanto la preghiera: essa è voluta dalla fede, è richiesta dalla natura stessa, è un bisogno del nostro cuore, è il respiro, come fu ben detto, dell’anima nostra. Se siamo lieti, se siamo afflitti, se speriamo, se temiamo, la preghiera, per chi ammette Dio, è una necessità. Noi possiamo pregare per noi stessi e possiamo pregare anche per gli altri: la preghiera per noi stessi è sì naturale, che non può creare difficoltà di sorta; ma la preghiera per gli altri può sembrare strana e quasi temeraria. Come! dirà taluno, siamo sì poveri, sì miserabili, pieni di tante colpe, che a stento possiamo presentarci a Dio e pregarlo per noi stessi, e oseremo poi pregare per altri e farci intercessori dei nostri fratelli? Questa non è cosa che ripugna e che sa di superbia? Ci basti pregare per noi. No, o carissimi; preghiamo, sì, per noi; ma preghiamo anche per gli altri, che non vi è ombra di superbia, ed è cosa gratissima a Dio. La preghiera, se bene sì guarda, è un atto di umiltà per eccellenza, perché chi prega si riconosce bisognoso e si mette ai piedi di Dio; onde la preghiera, se è vera preghiera, sia fatta per sé, sia fatta per altri, è sempre un esercizio di umiltà. Sarebbe superbia se, chi prega per altri, si considerasse degno di pregare e mettesse innanzi a Dio i meriti propri, quasi titoli, per essere esaudito. La preghiera poi, fatta pei fratelli nostri, quali ch’essi siano, è gratissima a Dio, essa è figlia di quella carità che tanto ci è raccomandata nel Vangelo e che fa nostri i bisogni altrui, e ci muove a soccorrerli, ricorrendo a Lui, che tutto può. La preghiera è figlia dell’umiltà, e la preghiera per gli altri è figlia della carità. Ecco un padre, che ha parecchi figli, i quali tutti hanno bisogno di lui. Uno di questi figli, dopo aver implorato l’aiuto del padre per sé, l’implora anche per il fratello suo, che non fa, o fors’anche rifiuta di farlo. Non è egli vero che quel buon padre deve sentirsi commosso udendo un figlio che intercede per un altro figlio? Non è egli vero che quest’atto di amore fraterno deve tornare accettevole al padre e renderlo più inchinevole al perdono verso il figlio ingrato e dimentico dei suoi doveri? Ah! credetelo, o dilettissimi, la preghiera che noi innalziamo a Dio per i fratelli nostri, ha un’efficacia specialissima, perché si innalza a Lui quasi avvolta nel profumo della carità scambievole e ispirata a quella forma di preghiera ch’Egli stesso ci ha insegnata, dicendo: “Padre nostro, che siete nei cieli … Preghiamo adunque e sempre, e per noi e per tutti. S. Paolo pregava per i Colossesi, e a quale intento? Forse perché diventassero ricchi? Fossero potenti e salissero in grande onore e fama? Perché fossero ricolmi di prosperità materiali? Queste cose le domandano e le desiderano gli uomini del mondo, ma non potevano nemmeno passare per la mente dell’Apostolo delle genti. Uditelo: “Preghiamo per voi affinché siate ripieni del conoscimento della volontà di Dio. „ Ecco la prima cosa che S. Paolo prega da Dio per i suoi Colossesi. In che sta riposta, o cari, la virtù ed il sommo della virtù, che è la santità? Evidentemente nel fare ciò che vuole Iddio: chi in ogni cosa è conforme alla volontà di Dio, questi ha toccato la cima d’ogni santità. Ma per essere in ogni cosa conformi alla volontà di Dio, bisogna conoscerla questa volontà di Dio. E in qual modo, per qual via Dio ce la fa conoscere? Per doppia via: l’una è la via della ragione, via assai imperfetta, lunga, incerta, e per la quale a pochissimi è dato camminare; l’altra è la via della fede, perfetta, breve, sicura, a tutti facilissima ed eguale. Ed è senza dubbio di questo conoscimento della volontà di Dio che parla S. Paolo e prega che siano non solo forniti, ma ripieni i fedeli di Colossi, e ripieni per guisa che sappiano non solo le verità da Dio manifestate, ma anche il modo di adempirle: “In ogni sapienza e intelligenza spirituale (La sapienza riguarda la sola cognizione teorica, i principi, l’intelligenza, la pratica applicazione dei medesimi. La parola Spirituale indica la natura delle verità conosciute, o fors’anche l’origine, che viene dallo Spirito Santo.). „ – Carissimi! Dio non manca di farci conoscere queste verità: Dio è pronto a versarle con ogni pienezza nelle anime nostre; ma Egli vuole che pur noi facciamo dal canto nostro il necessario per riceverle; Egli le offre, ma bisogna pigliarle, e così vuole perché rispetta la nostra libertà e intende che rimanga a noi il merito di acquistarle. E come possiamo giungere al conoscimento della volontà di Dio? Ascoltando la sua parola, il suo insegnamento là dove si porge, nel tempio, leggendo i libri divini e udendo quelli che li spiegano. Scorre un ampio fiume e lambisce con le sue acque fertili campi, coperti di ricche messi: il sole con i suoi cocenti raggi dissecca quelle messi e minaccia di rendere vani i sudori del contadino. Di chi la colpa? L’acqua abbonda, le messi la domandano; perché, o contadino, sulla riva del fiume non apri un canale e non fai scorrere sul tuo campo l’acqua fecondatrice? Se le messi falliscono, ne sarà in colpa la tua inerzia. Le acque della verità scorrono copiose nella casa di Dio: qui si fa conoscere la volontà di Lui: perché qui non accorrete a bere di queste acque, e farle scorrere sui campi delle vostre anime? Perché qui non accorrete per conoscere la volontà di Dio e ad essa conformare la vostra vita? Oh! venite, venite, e qui sarete ripieni del conoscimento della volontà di Dio, in ogni sapienza e intelligenza spirituale. Ma che gioverebbe aver la mente inondata di luce e conoscere la volontà di Dio e poi non adempirla? Nulla: anzi, questo conoscimento, se non è accompagnato dalle opere, ci renderebbe inescusabili e più colpevoli. Perciò S. Paolo, dopo aver pregato ai Colossesi il conoscimento pieno della verità, prosegue e dice: “Affinché camminiate in modo degno di Dio, „ cioè pensiate, parliate e operiate come si conviene a chi serve a Dio. – Chi serve ad un gran personaggio, ad un monarca, se ha mente e cuore, è compreso degli obblighi  che gli impone il suo ufficio; sente la necessità di far onore alla grandezza del suo signore, e con ogni studio si guarda dal far cosa che lo mostri  immeritevole della fiducia onde l’onora. E noi serviamo non un grande, un personaggio insigne, un monarca, ma il Monarca dei monarchi; con quanta cura adunque dobbiamo onorare la dignità del nostro servizio, tener alto il glorioso ufficio che abbiamo! Servi di Dio, dirò di più, figli adottivi di Dio, camminiamo, ossia viviamo in modo che sia degno di Lui e di noi: Ut ambuletis digne Deo. Allorché un figlio di re si disonora con una condotta indegna, i popoli, segnandolo a dito, esclamano: Vergogna! Egli dimentica la sua dignità, getta nel fango l’onore del padre! — Che debbono dire di noi, Cristiani, allorché trasciniamo nella polvere la dignità di figli di Dio? Se camminerete come si conviene a chi serve a Dio, “camminerete in ogni beneplacito — per omnia bene placentes, „ farete cioè tutto ciò che piacerà a Dio, battendo la via della sua legge. E quale sarà il vostro guadagno? Eccolo: “fruttificherete in ogni cosa buona — In omni opere bono fructificantes. „ Non vi sfugga una osservazione, che è utile ricordare. L’Apostolo, nelle sue lettere, tratto tratto si eleva alla contemplazione di altissime verità teoriche, e assorto in quella luce sfolgorante, che lo rapisce e lo inebria, parrebbe quasi dover dimenticare le cose pratiche e comuni: non è vero. In un istante, da quelle altezze divine scende sempre alle cose pratiche della vita, e le inculca come conseguenze di quelle. E qui ne avete una prova: egli, dopo aver parlato di conoscimento della volontà di Dio, di sapienza, di intelligenza spirituale, ricorda che dobbiamo fruttificare in ogni buona opera, „ cioè mostrare nelle opere tutte quelle sì eccelse cose, che domanda a Dio per i fedeli di Colossi. Intendete, o cari? Tutta la scienza e sapienza delle cose celesti sarebbe un nulla, quando non ci conduce a fare le opere buone. Se queste ci fan difetto, tutto il resto non val nulla, è un po’ di frasche, un’apparenza di virtù, è una luce fosforica, che brilla un istante e poi tosto si dilegua, è un bronzo che tintinnisce. Badiamo adunque che la nostra fede, la nostra cognizione delle cose di Dio si traduca nelle opere, in tutte le opere buone: In omni opere bono fructificantes. Una vita cristiana, ricca di opere sante, accrescerà la vostra scienza delle cose divine, continua l’Apostolo: Crescentes in scientia Dei. – Sembra una ripetizione di ciò che ha detto poc’anzi, ma non lo è: questa sentenza racchiude una verità profonda, che è prezzo dell’opera toccare. Datemi un uomo, un Cristiano, che conosca i suoi doveri e li adempia: nell’adempimento costante e fedele de’ suoi doveri acquisterà non solo l’abito delle virtù cristiane, ma sentirà crescere in sé l’amore, la stima e il conoscimento pratico delle stesse: a mano a mano che in esse perdurerà, andrà pure crescendo nell’intima persuasione della loro bontà ed eccellenza. Accade al Cristiano virtuoso quel che avviene all’artista valente. Come questo col lungo esercizio dell’arte sua si va perfezionando in essa e sempre più amandola, per forma che non gli è possibile abbandonarla; così quello nella via della virtù: più la pratica e più la conosce bella e degna d’essere amata, e più amandola, più la conosce, e giunge a tal punto, che gli torna quasi impossibile cessare di praticarla. Questo ci spiega il fatto frequente, che ci incontra di vedere in alcuni buoni e semplici Cristiani, che senza studio alcuno della Religione, che nel loro stato e al loro ingegno non è possibile, hanno una certezza somma, incrollabile della sua bontà, e sarebbero pronti a dare per essa la vita. Dove attinsero tanta certezza della Religione? Non vi è che questa risposta: Nella pratica della stessa, nell’esercizio della virtù, ch’essa impone. — Se il difetto delle opere cristiane a poco a poco vela l’occhio della fede, e la spegne, la pratica delle medesime la rischiara e la rinsalda mirabilmente. E perché abbiamo visto uomini dottissimi nelle scienze sacre finire con l’apostasia, e poveri figli del popolo, povere fanciulle uscite dal volgo, entrare in Religione, valicare i mari, evangelizzare i pagani e morire per la fede. Le opere sante avvalorano la loro scienza delle cose celesti: Crescentes in scientia Dei. Segue il terzo oggetto della preghiera del nostro Apostolo, che è la perseveranza nel bene, la quale, più che dalle nostre sì deboli forze, dobbiamo aspettare dalla potenza divina. “Fortificati di grande vigoria, così san Paolo, secondo la gloriosa sua potenza, ad ogni patimento e longanimità con allegrezza. „ È sempre la preghiera che S. Paolo continua a fare per i Colossesi. Noi, io e Timoteo, così S. Paolo, non cessiamo dal pregare Dio, affinché, dopo aver dato il conoscimento pieno della verità, la pratica delle virtù ed opere degne di Cristiani, dia la forza di soffrire tutto ciò che è inevitabile nel camminare per la dritta via: In omni patientia, notate bene questa parola: “Ad ogni patimento”; dobbiamo essere disposti a vivere cristianamente, ad esercitare la virtù a costo, non di questo o di quel dolore o patimento, che a noi piace, ma ad “ogni patimento — in omni patientia, „ senza eccezione di luogo, di tempo e di circostanze. E come dobbiamo essere disposti a patire, o benedetto Apostolo? Longanimitate, cioè con una pazienza instancabile, dolce, mite, che ricusa di vendicarsi, anche quando facilmente lo potrebbe fare. E basta? Non ancora: “Con allegrezza — Cum gaudio. „ S. Paolo ci vuole pronti a patire con pazienza, con longanimità non solo, ma con allegrezza. Patire con gioia! Quale altezza di perfezione! Il mondo non aveva mai udito fino allora sì strano e divino insegnamento. Esso aveva udito alcuni filosofi insegnare che l’uomo virtuoso deve saper patire per la virtù con animo forte: che deve disprezzare il dolore e quelli che lo cagionano: aveva udito quella superba dottrina degli stoici, che la virtù è premio a se stessa, e aveva potuto comprendere che la forza di soffrire si deve attingere nell’orgoglio, nelle proprie forze; il mondo aveva visto Regolo, Socrate ed altri affrontare con animo generoso i dolori e la morte per non venir meno al dovere: ma a nessuno di quei grandi passò per la mente che si potesse patire e morire per la verità e per la virtù con allegrezza, con gaudio, come qui proclama il nostro Paolo. E pure a questo giunse l’insegnamento evangelico, e si videro a mille a mille, uomini e donne d’ogni classe e d’ogni età, patire acerbissimi dolori e morte crudelissima con la fronte serena, con l’inno del ringraziamento e della gioia sulla lingua e nel cuore. – Il periodo cominciato dall’Apostolo continua sempre, accumulando incisi sopra incisi, e in ciascuno racchiudendo sempre qualche nuovo e alto concetto: “Rendendo grazie a Dio Padre, che ci ha messi a parte della sorte dei santi nella luce. „ Oltre di pregare per voi, o Colossesi, ringraziamo anche Dio Padre, e in Lui e con Lui, Principio senza principio del Figlio e dello Spirito Santo, l’augusta Trinità, perché e voi e noi si è degnato chiamare a parte dell’eredità dei santi, cioè dei chiamati alla fede, e perciò anche alla santità, nella luce, che è il Vangelo; questo il senso delle parole dell’Apostolo. Qual è, o cari, il massimo dei benefizi fattoci da Dio? Senza dubbio quello di chiamarci al conoscimento della fede e alla dignità di figli ed eredi della vita eterna. Vedete quanti milioni di fratelli nostri giacciono ancora in mezzo alle tenebre degli errori! Che merito avevamo noi d’essere preferiti a loro? Nessuno. Eppure noi siamo chiamati nel regno della luce, che è la Chiesa: noi abbiamo la fede, e con la fede tutti i mezzi per camminare sulla dritta via del cielo. E di questo incomparabile beneficio della fede quante volte porgiamo a Dio i nostri ringraziamenti? Ditelo voi, o cari: forse appena  alcuna volta fra l’anno! Quale ingratitudine! “Il Quale (Dio Padre) ci ha strappati dalla podestà delle tenebre, e ci ha tramutati nel regno del Figliuolo suo dilettissimo. „ – S. Paolo attribuisce la nostra liberazione a Dio Padre, inquantoché egli ha dato il Figliuolo suo per noi; del resto voi non potete ignorare che se l’opera della nostra salvezza è attribuita egualmente alle tre divine Persone, che con un atto di eterno amore e di misericordia lo vollero, essa fu compiuta unicamente dalla seconda Persona nell’umanità assunta, nella quale pagò ogni nostro debito. Ci strappò dalla podestà delle tenebre: in quella parola “strappò„ “eripuit”, voi vedete lo sforzo fatto da Gesù per noi, sforzo che gli costò la vita sulla croce. Indubbiamente poteva toglierci di mano al nemico con un atto semplicissimo della sua volontà; ma allora ne sarebbe apparsa la potenza di Dio, non si sarebbero egualmente manifestate la bontà e la giustizia di Lui; doveché con la sua morte la sapienza, la bontà, la potenza e la giustizia di Dio confondono in un solo tutti i loro raggi. Nei Libri santi come la luce significa la verità, la fede, Dio stesso, così le tenebre indicano l’errore, l’infedeltà, il principio del male, il demonio. Dio Padre adunque ci strappò dalle mani del nemico suo e nostro, il demonio, e mercé della fede ci trasportò dalle tenebre nel regno della luce del dilettissimo suo Figliuolo, cioè nel regno della sua Chiesa. “Nel quale (Figliuolo suo) abbiamo la redenzione pel sangue suo, in remissione dai peccati. „ Si può dire che in questi due versetti S. Paolo ha compendiato tutto il mistero della nostra salvezza; parla del Padre divino e del Figliuolo, della liberazione dal potere tirannico del demonio, della Chiesa e della redenzione nostra ottenuta con la morte di Gesù Cristo. Noi, pel peccato, eravamo condannati alla morte eterna: Gesù, volendo salvare i diritti eterni della giustizia, si offre a ricevere sopra della sua stessa Persona la pena che doveva cadere sopra di noi: noi dovevamo essere soggetti alla morte eterna: Gesù mette se stesso al luogo nostro, muore per noi, e noi siamo sciolti da ogni debito, appropriandoci per la fede e per i sacramenti i meriti suoi: così si opera la redenzione nostra, così si compie la remissione dei nostri peccati. Carissimi! Seguendo l’Apostolo e facendo nostri i suoi sensi e le sue parole, leviamo gli occhi, la mente e il cuore al cielo, e ringraziamo Dio Padre d’averci dato il Figliuolo suo, d’averci strappati dalle mani del principe delle tenebre, d’averci collocati nel grembo della sua Chiesa, d’aver lavato i nostri peccati nel sangue suo, e preghiamolo che di tanto beneficio elargito misericordiosamente a noi, faccia partecipe tanti fratelli nostri sepolti ancora nelle tenebre dell’errore e nelle ombre della morte. A Lui sia onore e gloria ora e sempre e in tutti i secoli! Così sia.

 Graduale

Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti. [
Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula.
[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja
Allelúia, allelúia.
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúia.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia  sancti Evangélii secúndum S.  Matthǽum.

Matt XXIV: 15-35

“In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Cum vidéritis abominatiónem desolatiónis, quæ dicta est a Daniéle Prophéta, stantem in loco sancto: qui legit, intélligat: tunc qui in Iudǽa sunt, fúgiant ad montes: et qui in tecto, non descéndat tóllere áliquid de domo sua: et qui in agro, non revertátur tóllere túnicam suam. Væ autem prægnántibus et nutriéntibus in illis diébus. Oráte autem, ut non fiat fuga vestra in híeme vel sábbato. Erit enim tunc tribulátio magna, qualis non fuit ab inítio mundi usque modo, neque fiet. Et nisi breviáti fuíssent dies illi, non fíeret salva omnis caro: sed propter eléctos breviabúntur dies illi. Tunc si quis vobis díxerit: Ecce, hic est Christus, aut illic: nolíte crédere. Surgent enim pseudochrísti et pseudoprophétæ, et dabunt signa magna et prodígia, ita ut in errórem inducántur – si fíeri potest – étiam elécti. Ecce, prædíxi vobis. Si ergo díxerint vobis: Ecce, in desérto est, nolíte exíre: ecce, in penetrálibus, nolíte crédere. Sicut enim fulgur exit ab Oriénte et paret usque in Occidéntem: ita erit et advéntus Fílii hóminis. Ubicúmque fúerit corpus, illic congregabúntur et áquilæ. Statim autem post tribulatiónem diérum illórum sol obscurábitur, et luna non dabit lumen suum, et stellæ cadent de cælo, et virtútes cœlórum commovebúntur: et tunc parébit signum Fílii hóminis in cœlo: et tunc plangent omnes tribus terræ: et vidébunt Fílium hóminis veniéntem in núbibus cæli cum virtúte multa et maiestáte. Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna: et congregábunt eléctos eius a quátuor ventis, a summis cœlórum usque ad términos eórum. Ab árbore autem fici díscite parábolam: Cum iam ramus eius tener fúerit et fólia nata, scitis, quia prope est æstas: ita et vos cum vidéritis hæc ómnia, scitóte, quia prope est in iánuis. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia hæc fiant. Cœlum et terra transíbunt, verba autem mea non præteríbunt.”

Omelia II

[Mons. Bonomelli: ut supra, Omelia XXVI – Torino, 1899]

“Quando vedrete l’abominazione della desolazione, annunziata da Daniele profeta, a posta nel luogo santo, chi legge, ponga mente. Allora chi trovasi nella Giudea fugga a ai monti. E chi è sul tetto, non scenda a togliere checchessia in casa sua: e chi è in  campagna, non ritorni a prendere la sua veste. Guai poi alle incinte e lattanti in quei giorni! Pregate perché la vostra fuga non accada in inverno o in sabato. Perché allora  sarà calamità grande, quale non fu mai da principio del mondo fino ad ora, e non sarà. Che se non fossero accorciati quei giorni, anima viva non scamperebbe, ma per gli  eletti quei giorni saranno abbreviati. Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui, o là, è il Cristo, non lo credete. Perché si leveranno falsi Cristi e falsi profeti, e faranno prodigi grandi e meraviglie fino a pervertire, se fosse possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto. Se pertanto vi diranno: Ecco, egli è nel deserto, non andate: Ecco, egli è nei nascondigli, non vi credete. Perché come la folgore guizza in oriente e si mostra fino in ponente, così sarà pure la venuta del Figliuol dell’uomo. Ove che sia il cadavere, là converranno le aquile. Ora, subito dopo le angosce di quei giorni, il sole si abbuierà e la luna non darà più il suo chiarore e le potenze del cielo saranno scrollate. E allora comparirà in cielo il segno del Figliuol dell’uomo e tutte le tribù della terra si batteranno il petto e vedranno il Figliuol dell’uomo venire dal cielo con grande potere e gloria: e manderà i suoi Angeli con trombe e grida alte e raccoglieranno gli eletti suoi dai quattro venti, dall’uno all’altro estremo del cielo. Dalla ficaia imparate questa similitudine. Quando il suo ramo si rammorbidisce e spuntano le foglie, voi conoscete che l’estate è vicina. E così voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che è vicino sulle porte. In verità vi dico, che non passerà la presente generazione, che tutte queste cose non siano avvenute „ (San Matteo, XXIV, 15-34).

Si era il martedì dopo il trionfale ingresso di Gesù Cristo in Gerusalemme, e precedente la sua passione e morte. Egli aveva predicato tutto il giorno nel tempio e lottato con gli scribi e farisei, che lo premevano con difficoltà d’ogni guisa per coglierlo in fallo. In sul declinare del giorno lasciò la città per ridursi alla vicina Betania, in casa di Lazzaro e delle sorelle, pigliare il cibo e riposare. Nell’uscire dal tempio i discepoli gli mostravano la costruzione sì massiccia, e la ricchezza meravigliosa del tempio: noi ignoriamo perché di questa osservazione degli Apostoli, che sembra affatto superflua, massime pel divino Maestro. Gesù rispose nettamente: Guardate tutte queste cose; in verità vi dico: qui non rimarrà pietra sopra pietra che non sia diroccata. „ All’udire siffatta risposta, i discepoli, stupefatti e atterriti, tacquero, e seguirono il Maestro; con Lui scesero nella valle del Cedron, ad oriente, e poi salirono il colle degli Olivi, e qui si posero a sedere. Allora i discepoli, con la mente turbata dalla profezia terribile poc’anzi fatta da Gesù intorno alla rovina del tempio, lo presero in disparte e gli dissero: Dicci, quando avverranno queste cose? E quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo? — Tre cose adunque domandano a Gesù, ed Egli risponde partitamente. Ma prima manda innanzi (vers. 4-14) un cenno sulle calamità e seduzioni precedenti, e annunzia che il Vangelo sarà predicato da per tutto. Poi entra a parlare dei segni che precederanno lo sterminio di Gerusalemme, e suggerisce alcune precauzioni (vers. 15-26); poi passa a rispondere alla terza domanda riguardante la fine del mondo (vers. 26-34). Ed ora veniamo alla esposizione che dovrà essere succinta e storica più che altro, se non vogliamo valicare i confini della moderazione, che ci siamo fin qui imposta. – Quando avverrà la distruzione del tempio in guisa che non rimarrà pietra sopra pietra? Ecco la domanda, ed ecco la risposta: “Allorché vedrete l’abominazione della desolazione, predetta da Daniele profeta, posta nel luogo santo, chi legge, ponga mente . „ Daniele profeta, cinque secoli prima, aveva predetto, che dopo la morte di Cristo, nel tempio (che allora era distrutto) sarebbe stata la abominazione della desolazione. Dal tempo di Cristo, anzi qualche anno prima di Cristo fino ad oltre trent’anni dopo la sua morte, erano frequenti le contese tra Giudei e Gentili in Giudea e fuori, e spesso ruppero in feroci combattimenti e stragi spaventose. Sotto Nerone scoppiò con incredibile furore la rivolta giudaica: i Giudei, offesi nella religione e anelanti alla indipendenza, eccitati da falsi profeti, promettenti la vittoria e la venuta del Cristo, che li doveva liberare dal giogo straniero, insorsero in ogni dove e avvennero stragi inaudite, con la peggio ora dei Giudei ed ora dei Romani. Questi, condotti prima da Cestio Gallo, poi da Vespasiano, poi dal figlio Tito, con poderoso esercito strinsero Gerusalemme, e dopo lunghi e sanguinosissimi combattimenti la presero, la saccheggiarono, l’arsero e l’agguagliarono al suolo, meno le tre torri e un muro del tempio. Allorché i Romani si accamparono intorno alla città, spiegarono le loro bandiere con figure di idoli, oggetti di abominazione per i Giudei. Ecco l’abominazione nel luogo santo predetta da Daniele e da Cristo, abominazione foriera della imminente desolazione. E questo il segno dato agli Apostoli ed ai credenti: “Chi legge ponga mente. „ Queste parole sono dell’Evangelista, non di Cristo, che non scrisse nulla, ma messe in bocca a Cristo. E come un grido di S. Matteo, che scrisse circa trent’anni prima della catastrofe: Quando leggerete queste parole, state all’erta e provvedete a voi stessi. — Allorché adunque vedrete l’esercito cingere intorno intorno Gerusalemme, fuggite ai monti, che non c’è tempo da perdere. “Chi è sul tetto non scenda in casa per togliere alcuna cosa. „ Gli Ebrei, come dissi altrove, avevano le case costruite in modo che generalmente si saliva sul tetto o sulla terrazza per una scala esterna, e questa forma delle loro case ci fa capire questa espressione: “Chi trovasi nei campi, non ritorni a casa per pigliarvi la veste. „ Queste due espressioni vogliono significare la rapidità delle mosse operate dai duci romani, la prontezza straordinaria con cui la città fu investita e resa impossibile la fuga. Basti il sapere, che i Romani, in tre giorni soli, scavarono un fosso di otto chilometri, che chiudeva intorno la misera città, tantoché nessuno degli sciagurati chiusivi dentro poteva fuggire senza cadere nelle mani dei nemici, che senza pietà li uccidevano, ponendoli o in croce o scannandoli. La mente di Gesù, pensando a quell’eccidio senza confronto, corre ai deboli, a quelli che maggiormente avrebbero sofferto, e con accento di inesprimibile pietà esclama: “Guai poi alle incinte ad alle lattanti in quei giorni! „ La condizione di queste infelici madri, impotenti a fuggire e trepidanti per sé e per i loro nati, stringe il cuore di Gesù e lo fa gemere dolorosamente. – “Pregate, continua Gesù, che la vostra fuga non accada in inverno od in sabato. „ La stagione invernale, con i suoi rigori, accrescerebbe i disagi e i patimenti dei fuggiaschi; se avvenisse in sabato, in cui l’Ebreo non credeva lecito fare un cammino più lungo di un chilometro, alla difficoltà della fuga si aggiungerebbe l’angustia della coscienza. Notate una cosa, o dilettissimi. Gesù dice di pregare affinché la fuga non avvenisse in inverno o in sabato; è dunque cosa chiara che la preghiera avrebbe potuto scemare quegli orrori e far sì che si mutassero in parte le sorti della guerra. Come ciò se l’esito della guerra dipendeva dai condottieri romani? Vuol dire Gesù che Dio, per le preghiere degli uomini, avrebbe disposto gli avvenimenti politici e militari per modo, che quella fuga sì precipitosa non avvenisse nella stagione invernale o in giorno di sabato, scemando così i dolori di quella immane sventura. Ammirate pertanto potenza della preghiera sulle stesse vicende umane naturali, e nelle sventure sì private come pubbliche, ad essa fiduciosi e rassegnati ricorrete. I cuori degli uomini, anche dei cattivi e degli stessi miscredenti, sono nelle mani di Dio, ed Egli per vie e modi a noi interamente ignoti, li muove e li piega come gli piace. – Rammento d’aver udito un uomo dotto e rettissimo, che diceva: Per me la preghiera in quanto si domanda qualche cosa, come sarebbe la liberazione d’un contagio, una pioggia e via dicendo, non so concepirla: essa in sostanza domanda a Dio che operi un miracolo, mutando le leggi di natura. Ciò offende la ragione. Davvero se si domandasse a Dio il mutamento delle leggi naturali, la difficoltà avrebbe una certa forza. Ma Dio per esaudire le nostre preghiere non è obbligato a mutare le leggi naturali, che sarebbe uno sconvolgere tutto il mondo fisico ad ogni istante, cioè ad ogni preghiera che gli facessimo. Le leggi naturali restano quali sono e a Dio non mancano modi di derogare ad esse senza mutarle. Noi uomini non mutiamo noi con le forze della natura le leggi della natura? Noi, usando delle forze della natura, spingiamo le acque in alto, facciamo correre sui dorso dei mari cittadelle di acciaio, guidiamo dove ci piace il fulmine, imprigioniamo in una locomotiva forze terribili. Perché non potrebbe fare altrettanto Iddio, padrone assoluto di ogni cosa? Ah! no, allorché noi preghiamo Dio, non domandiamo un miracolo; domandiamo solo ch’Egli, onnipotente com’è, disponga le cose in guisa che ci accordi ciò che chiediamo in quei modi che alla sua sapienza non possono essere ignoti. – “Perché sarà allora calamità grande, soggiunge nostro Signore, quale non fu dal principio del mondo sino ad ora, né sarà. „ Taluno potrebbe essere tentato di credere che questa sentenza di nostro Signore sulla catastrofe di Gerusalemme e di tutta la Giudea sia alquanto esagerata. No, no, carissimi: è la espressione della più pura verità storica. Percorrete i fasti della storia, e non troverete in disastro, che, ragguagliata ogni cosa, possa sostenere il confronto della rovina di Gerusalemme e della nazione giudaica. I particolari di quella spaventosa lotta noi li abbiamo da un testimonio oculare, che ne fu parte, e nella sua qualità di ebreo merita piena fede; è Giuseppe Flavio. Da alcuni anni proseguiva feroce e disperata la lotta tra i Giudei e le legioni romane. Prese ad una ad una le città di Galilea, dove si contendeva a palmo a palmo il terreno, pressoché tutti i superstiti Ebrei furono ridotti in Gerusalemme. I Cristiani soli, memori del vaticinio di Cristo, si ritrassero sui monti della Giudea, che stanno sulla sinistra del Giordano, presso Pella, dove poterono sfuggire all’eccidio supremo. Sembra che in Gerusalemme e nei luoghi vicini si fossero radunati circa due milioni di Ebrei, decisi di vincere o perire sotto le rovine della patria. La peste e la fame infierivano in mezzo a quelle turbe per guisa che una madre uccise il proprio figlio per mangiarsene le carni. Alla guerra senza quartiere, che si combatteva ogni giorno coll’esercito romano, si aggiungeva la guerra civile fra le mura della città. Tre fazioni, capitanate da tre scelleratissimi uomini, Eleazaro, Giovanni e Simone, i quali si spacciavano ciascuno per Messia, e promettevano infallibile vittoria, ogni giorno venivano alle mani tra loro e riempievano le vie e il tempio stesso di sangue e di cadaveri; dentro la città il furore dei partiti, fuori, i Romani, che non davano quartiere e la serravano da ogni parte. Segni paurosi in cielo e grida misteriose nel Santo dei santi avevano riempito di terrore il popolo; un uomo di notte correva per le vie, gridando senza posa: Guai a Gerusalemme! guai al tempio! … finché cadde ucciso dai Romani. Invitati alla resa da Tito, fu un grido solo di quei miserabili: Giammai —Chi parlava di resa era da quei furibondi fatto in pezzi. La città, dopo lunghi e ripetuti assalti, fu presa: uccisi per le vie e per le case quanti si trovarono uomini, donne, fanciulli. Si ridusse la difesa al tempio, che sembrava una rocca inespugnabile: fu preso, e un soldato romano vi appiccò il fuoco: in un istante divampò l’incendio: a quella vista i pochi rimasti vivi cessarono il combattimento, lasciarono cadere le armi, gettarono un grido e si lanciarono tra le fiamme. In quella guerra di sterminio, senza tener conto dei trucidati nelle varie città e castelli della Palestina, nella sola Gerusalemme perirono un milione e cento mila Ebrei, novantasette mila menati schiavi e venduti a pochi soldi, il resto dispersi sulla terra e persino vietato loro per molti anni di recarsi a piangere sulle rovine del tempio. E noi li vediamo ancora questi sventurati figli di Abramo, raminghi su tutte le regioni del pianeta, senza tempio, senza altari, senza legge propria, senza patria, dispersi in mezzo ai popoli senza mai confondersi con loro, padroni di ricchezze colossali, pieni d’ingegno, e pur sempre guardati di mal occhio, con sospetto e quasi con ribrezzo, e vergognantisi del loro nome. Non avevo io ragione di dire che la sentenza di Cristo ” sarà allora calamità grande, quale non fu da principio del mondo, né sarà „ era la espressione più perfetta della verità storica? – “Che se non fossero abbreviati quei giorni, anima viva non scamperebbe: ma in grazia degli eletti saranno abbreviati. „ È una verità che merita d’essere seriamente ponderata. Apprendiamo dalla bocca stessa di Gesù Cristo, che quella immensa catastrofe di Gerusalemme e della intera nazione giudaica, fu più breve, e perciò meno ruinosa di quello che poteva essere. Lo storico Giuseppe Flavio fa le più alte meraviglie della rapidità con cui quell’assedio fu condotto a termine, e che il numero, il valore disperato degli assediati, la fortezza del luogo e i preparativi della difesa dovevano rendere lunghissimo. Quella rapidità abbreviò i patimenti e le agonie degli assediati e salvò la vita a circa quaranta mila Giudei, che si sottrassero  all’eccidio. Questo fatto particolare, predetto da Cristo, che scemò in qualche modo l’orrore di quel disastro senza nome, a chi si dovette? “Agli eletti, „ propter electos. Le loro preghiere, i loro meriti, i loro patimenti resero meno orrenda la sorte della sventurata città. – Ah, dilettissimi figliuoli! Quante volte, anche in mezzo a noi, le preghiere, le penitenze, le espiazioni, le virtù di tante anime pie, ignote al mondo, che vivono nella quiete dei campi, nella solitudine dei chiostri, placano la giusta ira del cielo e ci salvano dai flagelli che meritiamo! Se dieci soli giusti avrebbero salvato Sodoma e Gomorra dallo sterminio, le tante anime giuste, che vivono nella nostra società, la devono sottrarre ai castighi della divina giustizia. I giusti che vivono in mezzo a noi, mi danno l’immagine di quegli alberi altissimi, sparsi nelle campagne, che con le loro cime tacitamente traggono sopra di sé l’elettricità delle nubi e scaricano le folgori, allorché la procella imperversa. Benedette pertanto quelle nazioni, benedette quelle parrocchie, nelle quali abbondano le anime giuste, che senza rumore disarmano il cielo! E che farete voi, o discepoli, in quei giorni di ineffabili agonie e di pericoli supremi per la vostra fede? “Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui e colà è il Cristo, non lo credete. Perché sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti. „ Come sapete, era universale l’aspettazione del Messia allorché Cristo nacque, e naturalmente quel fermento dell’aspettazione durò circa un secolo. Di quella aspettazione parecchi scaltri e scellerati agitatori si prevalsero, spacciandosi per Messia, o per il Cristo promesso; alcuni affermarono che Erode stesso era il Messia, altri che era Giovanni Battista; più tardi Teuda, Giuda gaulonita, poi Simone, poi Barcocheba, o figliuolo della stella, ed altri si dissero il Cristo predetto, o profeti, eccitarono il popolo, lo spinsero alla rivolta, e furono causa precipua dell’eccidio giudaico; essi talvolta condussero il popolo nel deserto, talvolta si nascondevano e poi comparivano e operavano cose straordinarie a conferma della loro missione. Gesù Cristo dice che avrebbero fatto prodigi grandi e meraviglie, e tali da trarre in inganno, se fosse stato possibile, anche gli eletti. Erano veri miracoli? No, sicuramente. Dovevano essere inganni, ciarlatanerie, forse applicazioni di forze naturali da loro conosciute, fors’anche fenomeni meravigliosi per virtù diaboliche, come sembra facesse Simon Mago. E Dio lo poteva permettere, avendone messo in sull’avviso quelli che potevano essere sedotti, e non essendo difficile discernere quelle imposture dai veri miracoli, per poco che avessero esaminate le persone, la loro condotta, la loro dottrina ed il modo di operarli. Così avvenne per giusto giudizio di Dio, che quel popolo, il quale non aveva creduto ai miracoli sì numerosi e sì splendidi di Cristo, prestasse poi fede a quei tristissimi ciurmatori, che lo trassero all’estrema rovina. –  Carissimi! L’ammonimento solenne di Gesù Cristo è utile e necessario anche al giorno d’oggi in mezzo a tanti seminatori di novelle dottrine. Noi abbiamo l’insegnamento della fede e il Pastore supremo della Chiesa che ci guida; lui ascoltiamo, lui solo seguiamo e chiudiamo le orecchie a questi maestri, che ci assordano: “Non li ascoltate, non li seguite, che vi insegneremo la verità. „ La verità è con Gesù Cristo soltanto e col suo Vicario, che continua l’opera sua. – Fin qui Gesù Cristo ha parlato della distruzione del tempio e di Gerusalemme: ora passa a rispondere all’altra domanda fattagli dagli Apostoli: “Qual è il segno della tua venuta? „ — “Come la folgore guizza in oriente e si mostra fino in occidente, così sarà ancora la venuta del Figlio dell’uomo. „ Non vogliate credere che in quei giorni di dolore e di terrore, il Salvatore, o Messia, si nasconda qua e là, o nel deserto: quand’egli verrà la seconda volta, qual giudice dei vivi e dei morti, non verrà quasi occultamente: Egli apparirà a guisa di fulmine, gettando luce da ogni parte, quando meno gli uomini lo aspetteranno: sarà circondato di maestà e gloria, e alla sua infinita potenza si piegherà ogni creatura in cielo ed in terra. Non vogliate dunque, così Cristo, confondere la mia prima venuta con la seconda, perché differentissime. – E allorché il Figliuol dell’uomo apparirà nella sua luce sfolgorante, che avverrà? Gesù usa una metafora comune presso gli orientali, e che a noi torna alquanto strana; ma è da ricordar sempre ch’Egli parlava ad orientali, e si acconciava al loro modo di esprimersi. Dov’è un cadavere, eccovi tosto accorrere da ogni parte gli avvoltoi e le aquile per divorare le sue carni; così, dice Cristo, appena apparirà in cielo il Figliuolo dell’uomo, intorno a Lui accorreranno gli Angeli ed i giusti per fargli corona e saziarsi della sua vista: Rapìemur sìmul in nubibus obviam Christo in aera. – E in vero, “subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più il suo chiarore, e le stelle cadranno dal cielo, e le potenze del cielo saranno scrollate. „ Dunque subito dopo la catastrofe della nazione ebraica doveva succedere la fine del mondo? Voi comprendete che se così fosse, non solo il fatto sarebbe contrario all’annuncio, ma nelle parole stesse di Cristo vi sarebbe una contraddizione, perché predisse la predicazione del Vangelo in tutto il mondo prima della sua venuta (cosa impossibile in quel breve periodo di tempo) e perché dichiarò che di quel giorno ultimo nessuno ne sapeva nulla. Quelle parole adunque di Cristo, “subito dopo la tribolazione di quei giorni „ pare si possano intendere semplicemente come un passaggio, cioè dopo quella orrenda calamità, quasi da quella adombrata, verrà l’ultima e massima delle calamità, la fine del mondo. – Badate, o cari, che allorché i profeti annunziano qualche straordinario avvenimento, come la caduta di Babilonia, sogliono usare queste forme di dire grandiose ed enfatiche, di sole che si oscura, di luna che si abbuia, di cielo che si scuote, di terra che traballa, e via dicendo. Gesù, facendo suo il linguaggio dei profeti, poté benissimo annunziare la fine del mondo con le stesse espressioni poetiche e sublimi. Possiamo adunque credere che Gesù Cristo, con quelle locuzioni ed immagini sì terribili, intendesse di significare in genere i fenomeni meravigliosi e paurosissimi che precederanno l’ultimo giorno, senza determinarli in particolare. Certamente quel gran giorno deve essere preceduto e accompagnato da sconvolgimenti fisici inauditi, e dei quali noi non possiamo formarci nemmeno un’idea, e su questo punto i Libri sacri sono chiarissimi. Quel cadere poi delle stelle non si vuol pigliare alla lettera, perché essendo esse smisuratamente maggiori della terra, non si sa capire come possano cadere sopra di essa, ondechè tutto induce a credere che queste espressioni del sacro testo importino un generale disordine, che si manifesterà nel mondo terrestre e sidereo, preludio dello sfasciamento e del rinnovamento universale, che dovrà seguire. “E allora comparirà nel cielo il segno del Figliuolo dell’uomo. „ Qual segno? Si disse e si dice che questo segno del Figliuolo dell’uomo sarà la croce, il segno della sua suprema umiliazione, e, per conseguenza, della sua gloria, ed è conveniente il credere che sarà essa il vessillo del suo finale trionfo; ma nulla si oppone che quella parola segno indichi altra cosa a noi ignota, qualche stupenda manifestazione della gloria di Cristo. “E allora le tribù della terra si batteranno il petto, „ cioè tutti i malvagi ancora viventi conosceranno le loro colpe e dolorosamente esclameranno: Ergo erravìmus — Dunque abbiamo errato ed abbiamo corse le vie dell’errore e della perdizione!… E potranno ancora riparare i falli loro, ravvedersi e salvarsi? Il sacro testo non l’afferma e non lo nega. “E vedranno il Figliuol dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con podestà grande e gloria. „ Non crediate, o dilettissimi, che il Salvatore del mondo, venendo per rendere a tutti solenne ed irrevocabile giustizia, abbia bisogno di nubi, di luce o d’altra cosa qualsiasi per dare maestà alla propria Persona: tutto ciò è detto unicamente perché per noi uomini, che non possiamo pensare che cose sensibili, è sempre giocoforza usare un linguaggio sensibile persino allorché parliamo di Dio e delle sue azioni stesse interne, che sono eminentemente spirituali. “E manderà i suoi Angeli con trombe ed alto grido, e raccoglieranno i suoi eletti dai quattro venti, dall’uno estremo del cielo all’altro.„ Manifestamente qui Gesù Cristo parla della risurrezione, che avrà luogo alla fine dei secoli, e noi apprendiamo ch’essa sarà operata, sì, da Dio, che solo può dare e ridare la vita, ma non senza il ministero degli Angeli. Si può dire che tutto ciò che Iddio opera sulla terra, l’opera per mezzo degli Angeli, ministri ed esecutori dei suoi voleri: il perché, come Iddio si serve del loro ministero, comunicando con noi, uomini, così noi dovremmo ricorrere a Dio per mezzo loro, come per i nostri naturali mediatori. Nostro Signore parla di trombe e d’alto grido, con cui gli Angeli raccoglieranno innanzi a Lui gli eletti. E sono trombe materiali? E un grido che risuona come il grido dell’uomo? Non credo. Sono spiriti purissimi, e come possono usar trombe materiali o grido e voce come d’uomo? I Giudei solevano chiamare al tribunale quelli che dovevano essere giudicati a suono di tromba o con la voce gagliarda dei banditori. Parlando pertanto del giudizio estremo, Gesù accenna alle trombe, al grido dei celesti banditori, che lo intimano; ma queste cose vanno intese non materialmente, ma come vuole la natura dell’Angelo. Saranno dunque gli Angeli che in quei modi che sono voluti dalla loro natura e dalle loro forze, a nome e in virtù di Dio, richiameranno in vita gli uomini, e da qualunque punto della terra, da un estremo all’altro del cielo o dell’orizzonte li condurranno innanzi a Cristo giudice. Così si chiuderà per sempre la scena di questo mondo e sarà reso a ciascuno secondo le opere sue. Giorno formidabile, nel quale ciascuno di noi udirà quella sentenza, che per volgere di secoli mai non sia che si muti! Deh! Che possiamo tutti, tutti, senza eccezione, essere nel numero di quegli eletti, che gli Angeli raccoglieranno dai quattro venti, cioè dall’uno all’altro estremo del cielo! Così sia.

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.
,[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta
Propítius esto, Dómine, supplicatiónibus nostris: et, pópuli tui oblatiónibus precibúsque suscéptis, ómnium nostrum ad te corda convérte; ut, a terrenis cupiditátibus liberáti, ad cœléstia desidéria transeámus. [Sii propizio, o Signore, alle nostre súppliche e, ricevute le offerte e le preghiere del tuo popolo, converti a Te i cuori di noi tutti, affinché, liberati dalle brame terrene, ci rivolgiamo ai desiderii celesti.]

Communio
Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.
[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato]

Postcommunio
Orémus.
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine: ut per hæc sacraménta quæ súmpsimus, quidquid in nostra mente vitiósum est, ipsorum medicatiónis dono curétur.
[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore: che quanto di vizioso è nell’ànima nostra sia curato dalla virtú medicinale di questi sacramenti che abbiamo assunto.]

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE, VI quæ superfuit Post Epiphaniam

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE quæ superfuit Post Epiphaniam VI.

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Jer XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio
Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, semper rationabília meditántes, quæ tibi sunt plácita, et dictis exsequámur et factis.
[Concedici, o Dio onnipotente, Te ne preghiamo: che meditando sempre cose ragionevoli, compiamo ciò che a Te piace e con le parole e con i fatti.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses
1 Thess 1: 2-10
Fratres: Grátias ágimus Deo semper pro ómnibus vobis, memóriam vestri faciéntes in oratiónibus nostris sine intermissióne, mémores óperis fídei vestræ, et labóris, et caritátis, et sustinéntiæ spei Dómini nostri Jesu Christi, ante Deum et Patrem nostrum: sciéntes, fratres, dilécti a Deo. electiónem vestram: quia Evangélium nostrum non fuit ad vos in sermóne tantum, sed et in virtúte, et in Spíritu Sancto, et in plenitúdine multa, sicut scitis quales fuérimus in vobis propter vos. Et vos imitatóres nostri facti estis, et Dómini, excipiéntes verbum in tribulatióne multa, cum gáudio Spíritus Sancti: ita ut facti sitis forma ómnibus credéntibus in Macedónia et in Achája. A vobis enim diffamátus est sermo Dómini, non solum in Macedónia et in Achája, sed et in omni loco fides vestra, quæ est ad Deum, profécta est, ita ut non sit nobis necésse quidquam loqui. Ipsi enim de nobis annúntiant, qualem intróitum habuérimus ad vos: et quómodo convérsi estis ad Deum a simulácris, servíre Deo vivo et vero, et exspectáre Fílium ejus de coelis quem suscitávit ex mórtuis Jesum, qui erípuit nos ab ira ventúra.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol IV, Omelia XXIII – Torino, 1899]

“Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, facendo incessantemente memoria di voi nelle nostre preghiere. Ricordando la vostra fede operosa e la vostra fede travagliata e la costante speranza nel Signor nostro Gesù Cristo, al cospetto di Dio, Padre nostro, sapendo, o fratelli a Dio cari, la vostra elezione. Poiché il nostro Evangelo presso di voi non consistette soltanto in parole, ma anche in potenza ed in Spirito Santo, ed ogni pienezza, come avete veduto quali fummo tra voi per voi. E voi diventaste imitatori nostri e del Signore, ricevendo la predicazione fra grandi tribolazioni, con gaudio dello Spirito Santo. Tantoché siete stati di esempio a tutti i credenti nella Macedonia e nell’Acaia. Perché non solo la parola del Signore è passata a voi nella Macedonia e nell’Acaia, ma anche la fede che avete in Dio si è divulgata in ogni luogo, sicché non è bisogno di parlarne. Perché essi stessi raccontano di noi quale fosse la nostra entrata tra voi, e come dagli idoli vi convertiste a Dio, per servire al Dio vivo e vero, e per aspettare dal cielo il Figlio di lui (cui suscitò dai morti) Gesù, il quale ci salverà dall’ira ventura „ (I ai Tessalonicesi, I, 2-10).

In ordine di tempo questa lettera di san Paolo ai fedeli di Tessalonica, oggi dì Salonikì, una delle capitali della Macedonia, è la prima delle quattordici lettere che di lui abbiamo. L’Apostolo, vi aveva in breve tempo fondata ma Chiesa numerosa e fiorente (Atti Ap. XVII), composta specialmente di Gentili; poi costretto a partire di là per le persecuzioni degli Ebrei, era andato a Berea, poi ad Atene e finalmente a Corinto. Da Corinto aveva mandato Timoteo a Tessalonica, ed avute da lui ottime novelle di quella Chiesa, scrisse questa prima lettera, l’anno 53 o forse 54 dell’èra nostra. Essa è quasi tutta morale, e le sentenze riportate, che formano il primo capo, sono uno sfogo affettuoso del suo cuore paterno, e contengono una lode grandissima della fede di quei suoi figliuoli. – Ed ora alla spiegazione. Questa prima lettera ai Tessalonicesi, come parecchie altre di S. Paolo, è scritta a nome suo e di alcuni altri, suoi compagni e cooperatori nelle fatiche dell’apostolato. I suoi compagni e cooperatori qui nominati sono Silvano o Sila, e Timoteo, e perciò non vi deve far meraviglia se l’Apostolo parla in comune e, secondo il suo costume, comincia dagli auguri e dai rallegramenti, dicendo: “Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi …” Tutto ciò che gli uomini fanno di bene, in qualunque ordine di cose, è sempre fatto con l’aiuto di Dio, senza del quale essi non possono far nulla: è dunque giusto che del bene che l’Apostolo vedeva nei suoi Tessalonicesi, ne rendesse grazie a Dio, il quale ne era la causa prima e principale. Ben è vero che questo bene era proprio dei Tessalonicesi, ma la vera carità ci fa considerare il bene altrui come nostro; il perché come del bene nostro, così del bene che vediamo in altrui, dobbiamo ringraziare Iddio, la carità rendendo comune ogni cosa. La ragione, e più assai lo spirito di fede, ci portano in tutte le cose e in tutti gli avvenimenti ad elevarci al di sopra della terra, a fissare gli occhi della mente in Lui, che è il supremo Reggitore e fonte d’ogni bene e ringraziarlo dei doni, dei quali ci è largo ad ogni istante: ecco perché S. Paolo apre la sua lettera con quelle parole: “Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi,, . Non fa eccezione per alcuno, non mette restrizioni di tempo: “Per tutti e sempre. „ – E non solo S. Paolo con i suoi colleghi porge vivi rendimenti di grazie a Dio per i suoi figli spirituali, ma protesta di fare “incessantemente memoria di essi nelle sue preghiere.„ La carità vuole che procuriamo il bene per noi possibile ai nostri fratelli, giacché una carità inoperosa non si può nemmeno concepire. Ma tu dici: Io non posso far nulla di bene ai miei fratelli; sono povero, sono ignorante, i miei fratelli sono lontani, sono moltissimi, non li conosco nemmeno di nome: qual bene volete ch’io possa fare ad essi?  Grandissimo ed ogni giorno. — In qual maniera? — Facilissima. Non puoi tu pregare il buon Dio, il Padre celeste per essi? — Sì. — Ebbene, pregalo adunque per te, per i fratelli tuoi, per tutti, siano credenti o non credenti, siano buoni o malvagi, e tu hai procurato loro quel maggior bene, che per te sia possibile: tu hai imitato l’Apostolo, che nelle sue preghiere si rammentava sempre dei suoi cari neofiti di Tessalonica. La preghiera fatta a vicenda ci stringe tutti nei dolci vincoli della carità, ci affratella e sale a Dio più accettevole, è l’aiuto scambievole più facile e più efficace che possiamo prestarci quaggiù sulla terra. S. Paolo, mentre ringrazia Dio e lo prega per i Tessalonicesi, rammenta eziandio le ragioni, che a lui li facevano cari. Quali ragioni? Anzitutto la loro fede operosa: Operis fidei vestræ. Fondamento della vita cristiana, lo dissi più volte, è la fede, il conoscimento cioè di Dio e delle verità rivelate per Lui, che teniamo con la più irremovibile certezza. Ma che vale il conoscimento della verità senza le opere della verità? Ciò che vale il fondamento senza la fabbrica, il seme senza il frutto, il disegno senza l’edificio. La fede si compie nelle opere, e per questo S. Paolo, facendo l’elogio dei Tessalonicesi, scrive che ricordava bene la loro fede operosa, cioè la loro condotta conforme alla fede. Dilettissimi! Noi, per divina bontà, abbiamo la fede dei Tessalonicesi: ma con essa abbiamo anche le loro opere? Se Paolo comparisse in mezzo a noi e fosse testimonio della nostra condotta quotidiana, potrebbe dire di noi: « Vedo la vostra fede operosa? „ Io non lo so! E la risposta la lascio alle vostre coscienze. Ciò che so e vedo è che molti Cristiani vivono come se non fossero Cristiani, a talché se si trovassero in mezzo a pagani difficilmente si potrebbero da loro distinguere quanto alla condotta morale. Sono Cristiani perché battezzati e perché essi stessi si professano Cristiani; ma le loro opere ohimè! non sono da Cristiani. Quale contraddizione! quale vergogna per il nome Cristiano! quale argomento di bestemmia contro la nostra santa Religione! Dirsi Cristiani e vivere quasi da pagani! “La fede, scrive altrove l’Apostolo, è la prima, poi la speranza, e poi la carità, e maggiore di tutte, quasi corona delle altre, è la carità : „ sono quelle tre virtù, che avendo per oggetto Dio, si dicono anche teologali, e senza di esse è impossibile salvarci. Qui pure san Paolo le ricorda, invertendo lievemente l’ordine; infatti dice: “Rammentando l’operosa vostra fede e la carità travagliata e la costante speranza: Laboris charitatis et sustìnentìæ spei. Penso che S. Paolo chiami travagliata la carità e costante la speranza dei Tessalonicesi, perché dovevano aver sofferte molte molestie e gravi tribolazioni per la fede, ancorché noi non ne conosciamo i particolari; ma in quei principi della Chiesa ed in quei tempi le prove più dure e le persecuzioni più crudeli erano pressoché quotidiane; da una parte gli Ebrei, sempre nemicissimi dei Cristiani, dall’altra i Gentili, armati della legge e forti delle tradizioni pagane, non davano tregua ai seguaci del Vangelo, vessandoli ed opprimendoli in mille guise. Essi non potevano attingere la forza necessaria per resistere a sì fieri cimenti che nella fede, nella speranza e nella carità, i tre vincoli che ci legano a Dio e che ci fanno forti della sua fortezza. Noi pure, o cari, siamo ogni giorno sottoposti alle prove della vita cristiana: non saranno sì dure come quelle dei primi Cristiani, no: ma sono prove spesso penose, lunghe, e sotto le quali non pochi dei fratelli nostri soccombono. Vogliamo agevolare e assicurare la vittoria? Con la fede leviamo a Dio la nostra mente, con la speranza e con la carità leviamo a Lui le nostre aspirazioni e il nostro cuore, a Lui teniamoci saldamente uniti, e la vittoria non potrà fallire. Ho visto assai volte una navicella con salda fune raccomandata ad una massiccia colonna di pietra ergentesi sulla riva: i venti qua e là furiosamente la trabalzavano, e ad ogni istante pareva la dovessero sommergere o sfasciare; ma a poco a poco la procella cessava, le onde si calmavano e la navicella appariva intatta, ferma ai piedi della colonna, e quasi riposante sulle acque. Ecco un’immagine dell’anima nostra, allorché con la triplice fune della fede, della speranza e della carità sta fortemente unita a Dio. Finché con questa triplice fune stiamo uniti a Dio, non temete, il naufragio è impossibile. Rammentando io, anzi, vedendo io, così l’Apostolo, queste prove, queste opere della vostra fede, della vostra carità, della vostra speranza, ne traggo argomento sicuro, che siete stati veramente eletti da Dio, che avete la sua grazia e siete cari a Lui: Scientes, fratres dilecti a Deo, electionem vestram. Allorché noi vediamo un albero sostenere il furore del vento, diciamo: le sue radici sono ben salde e profonde, e gagliardo il suo tronco: similmente l’Apostolo, vedendo la fermezza nella fede dei suoi Tessalonicesi, e rimirando le opere della loro carità, ne arguisce la certezza della loro elezione e l’abbondanza della grazia divina nei loro cuori, perché dall’abbondanza e dalla bontà dei frutti si conosce l’albero. L’Apostolo prosegue, svolgendo più ampiamente questo pensiero, e dice: “Poiché il nostro Evangelo presso di voi non consistette soltanto in parole, ma sì ancora in potenza e in Spirito Santo, ed in ogni pienezza, come vedeste quali fummo in mezzo a voi per voi. „ Bene a ragione, così suona il linguaggio dell’Apostolo, bene a ragione voi rimanete saldi all’insegnamento ch’io vi ho dato, perché le prove ch’io vi diedi della sua verità e divina origine non si riducevano a parole: voi le vedeste nei miracoli, che Iddio a sua confermazione operò e nella diffusione mirabile dei doni dello Spirito Santo, che fu sì piena e sovrabbondante: prove queste che Iddio si compiacque operare per mio mezzo fra voi e a vostro beneficio. L’uomo, dice sapientemente S. Tommaso, non crederebbe le verità della fede se non vedesse che è dover suo il crederle. Se così non fosse, parliamo degli adulti, che si convertono alla fede, la loro fede non sarebbe ragionevole. Chi è fuori della Chiesa non può entrare nella Chiesa che seguendo la ragione, la quale gliene mostra la divina origine, onde i Padri dissero che la ragione è il pedagogo, che guida alla fede. Non occorre qui avvertire che la grazia divina opera internamente prevenendo ed accompagnando i nostri passi. Ora come l’uomo può conoscere essere dover suo il credere le verità insegnate dalla fede? Forse perché con la sua ragione le conosce vere in se stesse, come le altre verità d’ordine naturale? No; perché queste verità, fossero anche tutte di ordine naturale, non tutti gli uomini son capaci di intenderle; una gran parte poi di esse sono sopranaturali, e superano al tutto le forze della nostra ragione. In qual modo adunque possiamo noi conoscere il dovere che ci stringe di ammetterle? Un uomo si presenta a voi: egli vi insegna una dottrina che non comprendete, vi assicura che è vera: voi lo conoscete quell’uomo: è egli onesto, pieno di sapienza, né vi è possibile nemmeno sospettare che possa o voglia ingannarvi. Sul campo di battaglia ad un generale si presenta un ordine, si comanda un movimento, del quale non vede la ragione, che anzi gli pare contrario alla ragione. Il generale guarda l’ordine scritto, riconosce la firma del suo duce superiore; non esita un istante: ubbidisce. Voi, accogliendo quella dottrina, che non comprendete: il generale ubbidendo a quel comando inesplicabile, operate forse contro ragione? No; anzi, operate secondo la ragione, perché è la ragione, la qual vuole che l’uomo si rimetta al giudizio di chi conosce essere meritevole di piena fiducia. Voi non comprendete la cosa in sé, ma la comprendete con la mente di chi sapete che la comprende. È il caso nostro, era il caso dei Tessalonicesi. Essi per fermo non potevano comprendere tutte le verità che S. Paolo insegnava loro; ma vedevano quest’uomo tutto amore della verità, disinteressato: lo vedevano predicare una dottrina che non gli fruttava nessun vantaggio materiale, che gli imponeva sacrifici d’ogni maniera e lo metteva a pericolo della vita stessa; l’udivano affermare aver egli stesso veduto Cristo risorto; lo vedevano operare miracoli splendidi, indubitati, sotto i loro occhi, in conferma di ciò che insegnava; lo vedevano adorno d’ogni virtù: come dubitare della dottrina che annunziava? Era dunque ragionevole credere a tutto ciò che insegnava, com’è ragionevole che noi pure crediamo, appoggiati alle stesse prove che n’ebbero i primi cristiani, e che non variano per mutar di tempi, anzi acquistano col tempo maggior forza ed evidenza. – S. Paolo continua l’elogio dei Tessalonicesi e le sue congratulazioni, dicendo: “Voi foste imitatori nostri e del Signore, accogliendo la predicazione, fra grandi travagli, con gaudio nello Spirito Santo. „ Voi, o Tessalonicesi, imitaste me ed i miei compagni e cooperatori nel ministero apostolico; che dico: Imitaste noi! Dirò meglio, imitaste il Signor nostro Gesù Cristo. In che cosa? “Accogliendo la verità per noi predicata ed accogliendola in mezzo a molti e grandi travagli. „ Qui si fa manifesto che i buoni Tessalonicesi avevano dovuto soffrire assai: In multa tribulatione, per la fede che avevano accolto. Ma da veri discepoli di S. Paolo e di Gesù Cristo, in mezzo ai contrasti ed ai travagli sofferti per la fede, “Erano anche ripieni di gioia — Cum gaudio Spiritus Sancti. „ Quale esempio di fede e di fortezza d’animo ci danno questi primi Cristiani! vessati, tribolati, perseguitati dalle male lingue e peggio, non venivano meno, e lungi dal lagnarsi e darsi per vinti, si rallegravano. Questo è proprio, grida il Crisostomo, di coloro che son fatti superiori alla natura, e per poco non sentono i dolori, fatti simili a Gesù Cristo che, percosso, coperto di sputi, confitto alla croce, godeva; soffriva nel corpo, ma godeva nello spirito. Non è proprio dei dolori apportare gioia, ma la gioia deriva dal patire per Cristo e dal pensiero che attraverso al fuoco delle tribolazioni si passa, mercé la grazia divina, al riposo eterno. Questa vostra condotta, prosegue S. Paolo, tessendo sempre le lodi dei Tessalonicesi, è tale, “che siete stati d’esempio a tutti i credenti nella Macedonia e nell’Acaia. „ Voi, o Tessalonicesi, imitando noi, come noi imitiamo Cristo, sulla gran via della croce, avete l’onore e la gloria d’essere modelli a tutti i credenti della Macedonia non solo, ma di tutta la Grecia. Lode più magnifica di questa non poteva farsi a quella cristianità. Come ciascun cristiano deve vivere in guisa da presentare nella propria condotta un modello da potersi imitare dai suoi fratelli, così ogni famiglia, ogni parrocchia. Carissimi! Ciascuno di noi è tale? Son tali le nostre famiglie e la nostra parrocchia? O non abbiamo per avventura da arrossire? A ciascuno di noi la risposta. Era sì luminoso l’esempio dei Tessalonicesi in Macedonia e in tutta la Grecia, che S. Paolo francamente soggiunge: “Non solo la parola del Signore è proceduta da voi nella Macedonia e nell’Acaia, ma anche la fede, che avete in Dio, si è divulgata in ogni luogo, sicché non ci è mestieri parlarne. „ Le quali parole significano che la fama della predicazione evangelica fatta da Paolo ai Tessalonicesi, per opera di questi, ebbe un’eco profonda in tutte le regioni vicine di Macedonia e d’Acaia o Grecia, e si sparse largamente per ogni dove; e non solo la fama della loro conversione risuonò in tutti i paesi finitimi, ma la loro fede, provata dalla santità della vita, si propagò per guisa, che l’Apostolo non aveva bisogno di farla conoscere. I Tessalonicesi, con la franca professione della fede e con la vita virtuosa, con la quale manifestavano ed onoravano la fede stessa, in certo modo avevano esercitato nei paesi vicini il ministero apostolico, in guisa che Paolo non aveva quasi più necessità di predicare. Essi, i Tessalonicesi, avevano narrato a tutti la venuta dell’Apostolo fra loro, e come avevano lasciato il culto degli idoli e si erano dati al servizio del Dio vivo e vero; il Dio vivo e vero qui è detto per opposizione agli dei od idoli, che non erano né vivi, né veri, ma creazioni dell’ignoranza e della impostura. Ancora una volta ci si fa conoscere la grande efficacia dell’esempio: esso è una predicazione eloquentissima per guisa, che in qualche modo sembrava pareggiare la predicazione stessa dell’Apostolo e gli faceva dire: “A me ornai non occorre parlare. „ Dove si conosce la vostra conversione e la vostra fede è quasi inutile la mia parola. Per opera vostra, o Tessalonicesi, i paesi vicini hanno potuto apprendere, che è dovere volgere le spalle agli idoli e servire al vero Dio; non solo questo hanno potuto apprendere, continua l’Apostolo, ma che per noi “si aspetta dal cielo il Figlio di Dio, Gesù, che fu risuscitato. „ È stile di S. Paolo condensare in un periodo le verità più importanti, perfino negli auguri e nei ringraziamenti, e qui ne dà un saggio. Con la conversione dal gentil esimo a Dio egli unisce il termine ultimo di tutte le cose, che è la venuta di Cristo giudice e il giudizio finale, che tutti ci aspetta. È questa una delle verità capitali della nostra fede, che se fosse più spesso richiamata alla nostra mente, scuoterebbe la nostra pigrizia, ci riempirebbe d’un santo timore e ci renderebbe più solleciti nell’adempimento dei nostri doveri. L’uomo che sovente pensa al conto strettissimo che dovrà rendere a Dio di tutta la sua vita, ed alla sentenza irrevocabile che le terrà dietro, non può non sentirsi fortemente eccitato a vivere cristianamente. In alto le menti ed i cuori, sembra gridarci l’Apostolo … in alto! Ricordate che delle opere vostre, delle vostre parole, dei vostri pensieri ed affetti risponderete in un giorno solenne a quel Gesù, che vi ho predicato, che è venuto per salvarci dal peccato, e per conseguenza per salvarci dalla pena che accompagna il peccato, che è l’ira sua e l’eterna condanna.

Graduale
Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sæcula. 
[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano. V. In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.
S. Matt XIII: 31-35
In illo témpore: Dixit Jesus turbis parábolam hanc: Símile est regnum cœlórum grano sinápis, quod accípiens homo seminávit in agro suo: quod mínimum quidem est ómnibus semínibus: cum autem créverit, majus est ómnibus oléribus, et fit arbor, ita ut vólucres cœli véniant et hábitent in ramis ejus. Aliam parábolam locútus est eis: Símile est regnum cœlórum ferménto, quod accéptum múlier abscóndit in farínæ satis tribus, donec fermentátum est totum. Hæc ómnia locútus est Jesus in parábolis ad turbas: et sine parábolis non loquebátur eis: ut implerétur quod dictum erat per Prophétam dicéntem: Apériam in parábolis os meum, eructábo abscóndita a constitutióne mundi.

OMELIA II

[Mons. Bonomelli: ut supra, Omelia XXIV- Torino, 1899; imprim.]

“Gesù agli Apostoli ed alle turbe propose un’altra parabola, dicendo: Il regno dei cieli è somigliante ad un granello di senapa, che un uomo prende e semina nel proprio campo. Esso è bene il più piccolo di tutti i semi, ma quando sia cresciuto, è maggiore di tutti gli erbaggi e diventa albero, tantoché gli uccelli dell’aria vengono e si riposano tra i suoi rami. Un’altra parabola disse loro: Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna piglia e mescola in tre misure di farina, finché tutta sia lievitata. Tutte queste cose disse Gesù alle turbe sotto la forma di parabole, e non parlava loro senza parabole, affinché si adempisse la parabola del Profeta, che dice: Aprirò in parabole la mia bocca e manifesterò cose state occulte fino dall’origine del mondo „ (S. Matteo, capo XIII, 31-35).

Allorché si seppe che Erode aveva gettato in carcere Giovanni il Precursore, Gesù lasciò la Giudea, e propriamente Gerusalemme, dove erasi recato per la festa dei Tabernacoli, e dove aveva levato di sé e della sua predicazione gran nome, e ritornò nella sua Galilea, passando di villaggio in villaggio, di città in città, annunziando quello ch’egli chiamava il regno dei cieli, ossia il Vangelo e il compimento delle promesse divine fatte per i profeti. In questo periodo della sua predicazione egli recitò molte parabole, che riflettono la natura del luogo e degli uomini ai quali predicava. Egli era in Galilea, chiamata da Plinio il giardino del frumento, e posta in parte alle rive del lago sì pescoso di Genesaret o Tiberiade. Ecco il perché delle sue parabole del seme e della zizzania, della rete gittata nel lago e del discernimento della retata. A questo tempo appartengono le due parabole che avete udite e che vi debbo spiegare. Esse sono distinte, è vero, ma il significato è identico e tende a mostrare la diffusione e la efficacia della dottrina evangelica, o della Chiesa, che è il regno di Cristo. Ed ora veniamo alla spiegazione delle due parabole. Gesù aveva recitata la parabola del buon seme, in mezzo al quale il nemico aveva poi sparso la zizzania, e per mostrare che il buon seme, cioè i fedeli, sarebbero cresciuti in gran numero, aggiunse quest’altra parabola, dicendo: “Il regno dei cieli è somigliante ad un grano di senapa, che l’uomo piglia e semina nel suo campo. „ Parve ad alcuno che la parola regno de’ cieli qui potesse indicare Gesù Cristo stesso; ma non si può ammettere, perché egli è il padrone, il re di questo regno e non il regno stesso. Senza di che Gesù Cristo è rappresentato chiaramente nell’uomo che semina il granello di senapa nel suo campo: Accipiens homo seminavit in agro suo. Nessuno di voi ignora che cosa sia la senapa, il cui sapore acre in sommo grado, fino a spremere le lacrime a chi se ne ciba, per molti rispetti è utile come condimento e come medicina. Da noi è pianta umile, ma in Oriente, e massime in Palestina, ha uno sviluppo considerevole e cresce albero alto.” Il granello di senapa, prosegue Gesù nella parabola, è il più piccolo di tutti i semi, ma quando sia cresciuto, è maggiore di tutti gli erbaggi, tantoché gli uccelli dell’aria vengono a riposarsi tra i suoi rami. „ Veramente il seme di senapa non è il più piccolo di tutti i semi: ve n’hanno altri più piccoli ancora, e non pochi, ma Cristo lo disse il più piccolo di tutti per modo di dire, per indicare il suo scopo, ed anche perché in generale questa doveva essere la credenza dei suoi uditori. Un granello sì piccolo, dice Cristo, a poco a poco cresce e diventa albero: similmente avverrà, così Egli, del regno dei cieli, della mia Chiesa. Essa è piccola, pusillus grex; è un gruppo di poveri pescatori e pubblicani, che mi seguono, ignoti al mondo e disprezzati; ma ben presto il piccolo gregge crescerà, il piccolo seme germoglierà in albero grandioso e stenderà per ogni dove i suoi rami. Era questa una figura, con la quale Gesù adombrava la sua Chiesa e l’incremento miracoloso che avrebbe ben presto avuto. – È pur sempre vera e ripiena di profonda sapienza quella osservazione volgare di S. Agostino, che le cose più grandi, avendole sempre sott’occhio, ci sembrano comuni: Assiduidate vilescunt. Quale spettacolo più grande e sublime del sole, che illumina e riscalda la terra! Dei milioni di stelle, che dipingono il cielo per tutti i tempi! Della terra, che in primavera risorge quasi da morte a vita, e qual giovane sposa si ammanta dei più vaghi colori e spande intorno i suoi profumi! E noi per poco non vi poniamo mente, perché l’abitudine ne scema e quasi ne toglie la grandezza: Assiduitate vilescunt. E ciò che avviene a noi considerando la Chiesa: il vederla al presente stabilita su tutti i punti della terra, in tutta la maestà della sua gloria e delle stupende sue creazioni ci fa quasi dimenticare l’umilissima sua origine e quasi non ci lascia vedere il miracolo della sua propagazione e conservazione. Ma piacciavi, o cari risalire i tempi: portiamoci là in Galilea, in mezzo a quei campi, dove Gesù parlava agli Apostoli ed alle turbe. Rimiratelo, questo divino Maestro: Egli fino a ieri è vissuto in una officina, lavorando come un operaio qualunque: è povero, non ha dove posare il suo capo stanco: per giunta è fieramente combattute dagli uomini del potere e della scienza: con Lui stanno alcuni pescatori ed alcuni pubblicani. poverissimi anch’essi: non scienza, non potenza, non ricchezza: non appella alle passioni ma le combatte: non blandisce il popolo, ma lo ammaestra Egli annunzia le più amare verità; è un drappello di dodici uomini illetterati, ignari del mondo, ingenui come fanciulli, vissuti sempre in quelle regioni incantevoli, sì, ma affatto isolate dal rimanente del mondo, del mondo della scienza, della forza, della grandezza. Il Capo di questo drappello non si illude sulle immense difficoltà della sua missione: sa con tutta certezza, che nella lotta con i suoi nemici soccomberà, morrà in croce, e lo sa per modo che ripetutamente l’annunzia ai suoi cari, i quali non lo possono credere. Questo piccolo drappello di uomini, che vanno errando per le colline di Galilea, senza tetto, senza danari, senza scienza umana, mendicando dì per dì il pane, ditemi, non è forse la cosa più debole, più spregevole del mondo? Non è forse vero ch’esso è simile al granellino di senapa, che l’uomo semina nel suo campo? Nulla di più evidente. Ebbene: vedete ora com’esso è cresciuto ed ha allargato i suoi rami. Quei dodici compagni di Gesù Cristo sono divenuti mille: quei settantadue discepoli sono diventati centinaia di migliaia di sacerdoti: il Vicario di Gesù Cristo siede dove a quei giorni  sedeva l’imperatore, padrone del mondo allora conosciuto: sono scomparsi gli Erodi, i farisei, gli scribi, i grandi d’allora; si ripete appena il nome dei consoli, del senato, degli imperatori, che stringevano a quei tempi in pugno le sorti dei popoli: caddero e risorsero troni, dinastie, repubbliche: si mutarono codici, istituzioni, scienze: un popolo sorse sulle rovine dell’altro per cadere anch’esso e divenire sgabello d’un altro; ma l’opera di Gesù Cristo rimase e rimane, e l’albero ogni secolo, ogni anno, ogni giorno più grandeggia. Intorno a quest’albero gigantesco, i cui rami stendono l’ombra su tutta la terra, i più gran geni — questi uccelli del cielo, dalle ali possenti — stanchi del loro volo e annoiati della loro sapienza, di secolo in secolo vengono a riposarsi all’ombra della sua dottrina, che sola dà pace, conforto e luce. “Ciò che Gesù allora vedeva e vaticinava, i suoi Apostoli non potevano che crederlo e sperarlo; noi, più felici di loro, lo vediamo. L’opera di Gesù è il prolungamento della sua Persona; il tempo ci separa da quella, ma ci fa toccar questa. „ Per vedere ed annunziare con tanta sicurezza e chiarezza l’incremento meraviglioso di quel picciolo grano, bisognava leggere nel futuro, signoreggiare gli eventi, in una parola essere arbitro assoluto d’ogni cosa; tale adunque era Gesù Cristo allorché mille e novecento anni or sono, in un angolo della Galilea, ai suoi poveri discepoli prediceva tanta grandezza. – Cercano i Padri perché mai Gesù Cristo fra i tanti semi scelse quello della senapa, e ad esso volle paragonare la miracolosa espansione del suo regno sulla terra? Perché non scelse il cedro, il terebinto, il pino, od altro albero più nobile e più eccelso, e perciò più atto ad adombrare le future grandezze della sua Chiesa? Perché, risponde S. Agostino, come il grano di senapa condisce e rende saporosi i cibi, così la dottrina del Vangelo, coll’esempio di Cristo, rende dolce e soave ciò che è duro ed aspro; come il grano di senapa caccia dal corpo gli umori viziosi, così l’insegnamento di Gesù Cristo disperde il mal germe delle nostre passioni; come il fuoco purifica ogni cosa, così la dottrina di Cristo purifica le menti ed i cuori. A questa breve parabola Gesù Cristo ne fa seguire un’altra, più breve ancora, e pur essa intesa, sotto altra forma, a riconfermare la stessa verità. – “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prende e mescola in tre misure di farina, finché tutta sia lievitata. „ Vi piaccia, o dilettissimi, richiamare alla vostra mente una verità che ho tante volte toccata, ma che è sì cara e sì bella, che non posso non ripeterla ancora. Le verità che Gesù insegna, sono altissime e veramente divine: eppure vedete con quanta semplicità le annunzia! Parla al povero popolo: si acconcia alla sua corta intelligenza, discende sino a lui, Egli che è l’eterna sapienza: piglia le immagini più comuni, che erano sotto gli occhi di tutti mentre parlava, che tutti vedevano: il grano di senapa, l’albero, gli uccelli che vi si riparano; non basta: il lievito, che la donna mescola con la farina. Quali immagini di queste più volgari, più facili a comprendersi! E di queste Gesù si vale per sollevare le menti dei suoi cari alle più sublimi verità! Il suo linguaggio è semplice senza volgarità, è chiaro senza sforzo e senza studio, è eloquente senza arte, pieno di affetto senza perdere punto di autorità: udendolo si pensa alla verità senza badare alla forma: somiglia ad un cristallo terso e polito, attraverso al quale passa un raggio di luce: non si vede che la luce. Si direbbe che la verità è nata con quella veste; tanto le sta bene! Quale insegnamento per noi, maestri del popolo, dispensatori della divina parola! Come dobbiamo aver sempre dinanzi  alla mente questo divino Modello, massime quando parliamo a voi, o figli del popolo! – Come dobbiamo imitare la sua chiarezza e semplicità, il suo fare pieno di dignità e di affabilità, la sua bontà paterna con tutti, e particolarmente coi poveri, con gli ignoranti, non cercando di piacere, ma di giovare! O divino Maestro, fate che camminiamo sempre sull’esempio che ci avete dato, che non predichiamo noi stessi, ma la verità, che cerchiamo solamente la vostra gloria e la salvezza delle anime, per le quali avete versato il vostro sangue! – Ed ora applichiamo la parabola. Il lievito si forma della farina stessa opportunamente inacidita: mescolato poi con la farina, o meglio, con la pasta, in breve la lievita  tutta, la dilata e fa sì che il pane sia gustoso, facile a digerirsi e salubre. Chi potrebbe nutrirsi di pane non lievitato? Ora che rappresenta esso questo lievito? Gesù Cristo, o la sua dottrina, o la sua grazia, che poi è lo stesso. Che rappresenta essa quella farina, o quella pasta, che ha bisogno di ricevere il lievito? L’uman genere intero! Il Verbo divino, l’infinita sapienza e virtù del Padre si unisce all’anima e al corpo assunto in unità di persona nel seno illibato di Maria, e a quell’anima e a quel corpo benedetto comunica tutta la pienezza dei suoi doni, tantoché nella stessa umanità assunta egli diventa centro di luce, di verità e di grazia, diventa, usiamo la metafora del Vangelo, il lievito divino di tutto l’uman genere, perché tutti da Lui, e da Lui solo riceviamo ogni bene: Et de plenitudine ejus nos omnes accepimus. E vedete come opera questo lievito mescolato con la farina: opera a poco a poco, senza rumore: opera, ma a patto che venga a contatto con la farina: opera, comunicando a questa la sua virtù e diffondendola in ogni parte secondoché essa è preparata a riceverla: e la comunica in guisa che essa stessa, la farina lievitata, diventa atta a comunicare ad altra indefinitamente il lievito. Questa virtù od efficacia del lievito per se stessa non cessa mai per comunicarsi che faccia. Così avviene del lievito divino di Gesù Cristo e del suo Vangelo: esso si comunica alle anime a poco a poco, le penetra, le investe, le trasforma senza rumore, direi quasi, senza sforzo; ma per operare è necessario che vi sia qualche contatto tra Gesù Cristo e l’anima nostra. Questo contatto si ottiene mediante la parola di Dio, che per l’orecchio o per l’occhio scende al cuore; si ottiene mediante l’unione con la Chiesa, nella quale Gesù Cristo vive ed opera; si ottiene coi Sacramenti, mezzi o canali infallibili della grazia; si ottiene soprattutto ricevendo in noi debitamente la stessa adorabile persona di Gesù Cristo nella S. Eucaristia. E si riceve questo lievito divino della verità e della grazia da ciascuno che il voglia, in guisa che poi lo può comunicare ad altri, né, per parteciparsi che taccia, scema mai punto. Il lievito divino, portato da Cristo e deposto nella sua Chiesa, ogni giorno si dilata, e verrà giorno nel quale tutta l’umana natura ne sarà penetrata e felicemente trasformata. Portatori e spanditori di questo lievito santo, furono primieramente gli Apostoli e i loro successori e noi, secondo la misura delle nostre forze, proseguiamo l’opera loro. E guai a noi se non ci adopereremo secondo le nostre forze affinché il vivifico lievito si spanda nelle anime alle nostre cure commesse. – Riportata la brevissima parabola del lievito, l’Evangelista soggiunge: “Tutte queste cose disse Gesù con parabole alle turbe, e senza parabole non parlava loro. „ Da questa affermazione di S. Matteo parrebbe che Gesù presentasse sempre la sua dottrina in forma di parabole, e non mai altrimenti; la qual cosa è contraddetta dal fatto che Gesù molte volte annunziò le verità più alte senza velo di parabole, e ne siano prova irrefragabile i capi V, VI e VII dello stesso S. Matteo, dove si riporta, possiam dire, tutta la dottrina morale evangelica, nel discorso detto del monte, né vi è traccia di parabola. Come dunque si hanno da intendere queste parole dell’Evangelista? Nelle parabole riferite da S. Matteo in questo luogo, e nelle due per noi interpretate, si ribadisce costantemente l’idea della Chiesa e del regno dei cieli, che deve stabilirsi e propagarsi per ogni dove; è questa la verità che Gesù Cristo presenta sempre sotto il velame della parabola, sia perché ne rendeva più facile la intelligenza alle anime rette, sia perché non era prudenza svelare quel gran fatto futuro in tutta la sua grandezza: avrebbe urtato molti pregiudizi e avrebbe trovato increduli non pochi, né per allora v’era necessità urgente di annunziarlo apertamente. Alle parole che avete udite, l’Evangelista, a modo di conferma e spiegazione, aggiunge queste altre, con le quali si chiude la nostra omelia: “Acciocché si adempisse la parola del profeta, che dice: Aprirò in parabole la mia bocca: manifesterò cose state occulte fino dall’origine del mondo. „ Gesù parlava in parabole, così S. Matteo, adempiendo il vaticinio di Davide (Ps. LXXVII), che l’aveva tanti secoli prima annunziato, e facendo conoscere chiaramente agli uomini ciò che fino a principio i profeti ed i patriarchi avevano oscuramente promesso e indicato. Poiché è cosa manifesta che tutto ciò che Gesù Cristo fece e insegnò, in qualche modo, in Mosè e nei profeti era contenuto come in germe: tutta la economia patriarcale, profetica e mosaica era l’introduzione al regno di Cristo, era l’adombramento della sua dottrina, onde Cristo stesso appella ai profeti e a Mosè e protesta che era venuto, non a distruggere, ma sì a compiere la legge.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta
Hæc nos oblátio, Deus, mundet, quǽsumus, et rénovet, gubérnet et prótegat. [Questa nostra oblazione, chiediamo, o Dio, ci purifichi e rinnovi, ci governi e protegga.]

Communio
Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis. [In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio
Orémus.
Cœléstibus, Dómine, pasti delíciis: quǽsumus; ut semper éadem, per quæ veráciter vívimus, appétimus.
[O Signore, nutriti del cibo celeste, concedici che aneliamo sempre a ciò con cui veramente viviamo.]

 

 

DISCORSO SULL’INFERNO

TERZO PUNTO PER UN TERZO

DISCORSO Sopra l’Inferno.

[Signor J. Billot: Discorsi Parrocchiali –

V Dom. dopo l’Epifania
S. Cioffi Ed. Napoli, 1840, – impr.]

Discedite a me, maledicti, in ignem æternum.

Matth. XXV.

Sarà, questa, Fratelli miei, la sentenza, che Gesù Cristo pronunzierà al fine dei secoli contro i malvagi, che saran morti nei loro peccati: queste terribili, e spaventevoli parole fisseranno per sempre la sorte dei peccatori impenitenti, destinati ad essere le vittime delle vendette del Signore; verranno essi condannati a soffrire eternanente; questa eternità di pene renderà il loro supplizio più rigoroso, e metterà il colmo alla loro infelicità. La speranza fu sempre la consolazione dei miseri nei loro più grandi mali; ma le pene le più leggiere divengono insopportabili, da che si perde la speranza di vederne il fine. Che sarà dunque soffrire pene estreme nel loro rigore, ed infinite nella loro durata? Tali sono le pene dell’inferno; esse sono universali, continue, eterne; la loro eternità niente diminuisce del loro rigore, ed il loro rigore non abbrevia la loro durata; ecco ciò che è, propriamente parlando, l’inferno; imperciocchè se i reprobi, dopo aver sofferto per lo spazio di milioni di secoli i tormenti ancora più violenti di quelli che soffrono, sperar potessero di vederne il fine, l’inferno cesserebbe di esser inferno; la speranza di uscirne un giorno calmerebbe i loro più vivi dolori. Ma ciò che rende somma la loro sciagura, si è che saranno sempre in preda ai mali i più sensibili, con una certezza perfetta, che quei mali non finiranno giammai; ecco ciò che li getta nella più orrenda dispera zione: cominciamo primieramente a dare alcune prove della verità dell’eternità, per farne dipoi conoscere il rigore. Niente di più certo, niente di più rigoroso che l’eternità infelice. Due riflessioni capacissime di fare impressioni salutevoli sopra il cuore, e lo spirito d’ ogni fedele. –

I. Qualunque siate voi, Fratelli miei, ben persuasi della verità che vi predico, perché siete sommessi ai lumi della fede, non è con tutto ciò fuori di proposito di richiamarvi quivi i principi, su cui è appoggiata la vostra fede, per credere questa verità di nostra Religione, o sia per risvegliare la vostra fede, o sia per dissipare le tenebre che certi pretesi spiriti forti cercano di spargere sulle verità le più chiare, che li molestano nel godimento dei loro piaceri. Or la verità, che vi predico in quest’oggi, è sì sodamente stabilita, e sì chiaramente rivelata nelle sante Scritture, che sarebbe un rinunciar alla sua fede il rivocarla in dubbio. Fra i tanti testi, che io potrei riferirvi, mi attengo alle parole della sentenza, che Gesù Cristo pronunzia contro i reprobi nel suo Vangelo. Andate, maledetti, al fuoco eterno: Discedite maledicti in ignem æternum. Niente di più chiaro, niente di più preciso. I castighi dei malvagi dureranno tanto, quanto la ricompensa dei giusti: or la ricompensa dei giusti sarà la vita eterna; la punizione dei malvagi sarà la morte eterna: ibunt hi in supplicium æternum : justi autem in vitam æternam. (Matth. XXV). Siccome Dio ricompensa in Dio i predestinati, così punisce in Dio i reprobi. Tanto che sarà Dio farà Egli la felicità dei Santi nel cielo; tanto che sarà Dio, sarà anche Egli il vendicatore del peccato nell’ inferno. Tale è sempre stata la credenza della Chiesa, che se n’è chiaramente spiegata nelle decisioni de’ suoi concili, e nella condanna dei sentimenti contrari a questa verità. A questi principi di fede aggiungiamo le ragioni, che i Santi Padri, tra gli altri S. Agostino, e S. Tommaso, apportano per provare l’eternità delle pene dell’inferno; queste ragioni fondate sono da un canto sulla giustizia di Dio, e dall’altro sulla natura del peccato. Dio, che è la stessa bontà di sua natura, ha una sì grande avversione del peccato, che non può soffrirlo. Siccome è un male essenzialmente opposto alle sue perfezioni, l’odia necessariamente, e sommamente; e perché il suo odio non è senza effetto, tanto che sussiste il peccato, e che non è cancellato, la sua giustizia richiede che sia sempre punito. Ora nell’inferno il peccato sussisterà sempre, e non verrà mai cancellato. Che cosa si ricerca, infatti, per cancellar il peccato? È necessario, dalla parte di Dio, ch’Egli apra il seno della sua misericordia al peccatore, che gli dia le grazie per convertirsi, ed uscir dallo stato del peccato; onde è necessario dalla parte del peccatore una penitenza sincera, che lo riconcili con Dio. Or nell’inferno non v’è più di misericordia ad aspettare da Dio per peccatore: il tempo delle misericordie è passato; non è che in questa vita, che Dio esercita la sua misericordia: il peccatore non ne ha voluto profittare; egli opposto ne ha abusato mentre viveva sulla terra; non sentirà dunque più nell’inferno, che i flagelli terribili della sua giustizia: in inferno nulla est redemptio. No, nell’inferno non v’è più speranza di perdono; il sangue di Gesù Cristo non colerà più sul peccatore per purificarlo. Non vi saranno più grazie, più Sacramenti a santificarlo. più tempo, più mezzi di salute, di cui possa profittare. Per verità si pentiranno i peccatori dei loro disordini, ne faranno penitenza, ma sarà questa una penitenza inutile, ed infruttuosa; perciocché la penitenza per essere salutevole, deve essere l’effetto della grazia; deve essa venirne come da suo principio; deve ella altresì esser l’effetto di una buona volontà, che si porta a Dio. Ora la penitenza dei peccatori riprovati non sarà l’effetto della grazia, poiché non ne avranno alcuna; ma sarà una penitenza sforzata, che non sarà di alcun merito innanzi a Dio. Quando quegli sgraziati avranno versate tante lagrime, quante vi sono gocce d’acqua nei fiumi, ed in tutti i mari del mondo, mai non cancelleranno un sol peccato; dunque il peccato sussisterà sempre, sarà dunque dalla giustizia di Dio sempre punito … L’altra ragione viene dalla natura medesima del peccato. La malizia del peccato è sì grande, che è infinita; perché, dicono i Teologi, assalta un oggetto infinito che è Dio. Per riparare l’ingiuria che fa a Dio, non è stato necessario meno del sangue, e della vita di un Dio, il quale ha pagato a sue spese la soddisfazione, che esigeva la giustizia dell’eterno suo Padre. Se la malizia del peccato è infinita, merita una pena infinita. Ma non potendo la creatura sopportare una pena infinita nella sua natura, bisogna dunque che questa pena sia infinita nella sua durata; senza di che non vi sarebbe quella proporzione, che la giustizia richiede tra il peccato, e la pena del peccato. Non stiate dunque a dirmi, o peccatori, per rassicurarvi contro gli spaventi di un infelice avvenire, che esser non può che Dio, il quale è sì buono, punisca con una eternità di supplizi il piacere d’un momento, e che non evvi proporzione alcuna tra la colpa, e la pena. Dio è buono, verissimo, Egli è la stessa bontà; ma è giusto, e la sua giustizia domanda che il peccato sia punito con un castigo proporzionato alla sua malizia: ora quantunque il peccato non duri che un momento, la sua malizia è infinita, perché assale un Dio di una maestà infinita. Voi comprender non potete, come il piacere d’un momento può esser punito con una pena eterna; ma comprendete voi forse, come per espiare il peccato, è stato necessario, che un Dio stesso si annientasse, e soffrisse la morte della croce? Io ritrovo l’uno più incomprensibile che l’altro. Che una vil creatura in punizione del peccato soffra un’eternità di pene, è qualche cosa infinitamente meno dei patimenti, e della morte di un Dio divenuto la vittima del peccato? – Ma questo basti per provare la verità, e l’equità dell’eternità disgraziata. Che si creda, che non si creda, essa non è meno certa; questa verità non dipende dalle vostre idee, ella è appoggiata sulla divina rivelazione : guai a coloro che aspettano per crederla di farne l’esperienza. Fissiamoci piuttosto alle salutevoli riflessioni, che il rigore di questa eternità deve in noi produrre per la riforma dei nostri costumi.

II. Sebbene grandi siano i mali di questa vita, non sono per l’ordinario di lunga durata, o se durano lungo tempo, vi è sempre qualche buon intervallo, che ne tempera l’amarezza: ricevesi qualche sollievo, o dal canto di quelli che prendono parte ai nostri mali, o dai soccorsi che uno si procura, o finalmente dalla speranza di vederne il fine. Ma nell’eternità non v’è alcun fine, alcuna consolazione, alcun riposo, alcun alleggerimento a sperare; e quel che è più, questa eternità fa sentirsi ai reprobi tutta intera ad ogni istante. Che cosa più rigorosa, e che cagioni maggior disperazione? Entriamo di primo slancio in quest’abisso immenso dell’eternità: ma come misurare ne possiamo l’estensione, penetrare la profondità? Più io vi penso, più io ne parlo, più trovo a pensare, più trovo cose a dirne. Contate, calcolate tanto che vi tornerà a grado, tanto che l’immaginazione potrà bastare: nulla voi sminuirete giammai dall’eternità. – Sono sei mila e più anni, che il perfido Caino, il primo dei reprobi, è nell’inferno; egli non è più avanzato che al principio e dopo aver ancora sofferto sei mila anni, sei cento mila di millioni d’anni, sarà egli più avanzato nella sua eternità? Nulla di più, che al primo giorno: avrà sempre a soffrire; l’eternità comincerà sempre, e non finirà mai. Quando il reprobo avrà sofferto tanti milioni di secoli, quante vi sono gocce d’acqua nel mare, grani di sabbia sulla terra, non avrà fatto neppure un solo passo nell’eternità; non la sminuirà mai d’un sol momento, rimarrà essa sempre tutta intera. Io vi confesso, Fratelli miei, che il mio spirito si perde e si confonde in questo pensiero dell’eternità. Per darvene ancora qualche idea, supponiamo che di tutte le lagrime, che il reprobo verserà nell’inferno, non se ne prenda che una in ogni secolo per formare fiumi e mari così grandi, come quelli, che noi vediamo sulla terra, e mille mondi più vasti di questo; quanto bisognerebbe di tempo per venir a capo d’una tal impresa? E bene, o peccatori, verrà il tempo (pensatevi bene, e fremete d’orrore) verrà il tempo, che, se voi siete nell’inferno, come vi sarete, se morirete nel vostro peccato, sì, verrà quel tempo, in cui dire potrete: se di tutte lagrime che ho sparse da poi che sono nell’inferno, se ne fosse presa soltanto una in ogni secolo per formare i fiumi e i mari di mille mondi, quegli spazi immensi sarebbero al presente ripieni; e con tutto ciò nulla ho ancora diminuito della mia eternità, io l’ho ancora tutta intera a soffrire, ed io l’avrò sempre nella stessa maniera. Ah! Io vi confesso, peccatori, che se questa riflessione non vi tocca in questo momento, io non so più che dirvi, io dispero della vostra salute. Se almeno questa spaventevole durata dei tormenti interrotta fosse da qualche momento di consolazione, di riposo, di alleviamento, sarebbe essa meno insopportabile. Ma no, quelle pene, che saranno senza fine, saranno continue, immutabili; niuna consolazione, niun riposo, niun alleggerimento vi è a sperare per quelli, che le soffrono. Da chi mai potrebbero quegli infelici ricevere qualche consolazione o qualche aiuto? Sarebbe forse dal canto di Dio? Ma Egli è divenuto loro nemico implacabile, ha perduto per essi il nome di Padre per non conservare, che il titolo di un giudice severo ed inesorabile. Se il reprobo getta dunque gli occhi al cielo per domandare, come il ricco Epulone, una gocciola d’acqua soltanto per rinfrescare la sua lingua abbruciata dagli ardori della sete, questo benché piccolo soccorso gli è severamente ricusato: evvi, gli rispondono, tra voi e noi un muro impenetrabile, che non si potrà giammai passare. Sarebbe forse dal canto delle creature, che il dannato, ricever potrebbe qualche consolazione? Ma esse tutte armate sono contro di lui per tormentarlo. Se getta gli occhi avanti di lui, vede demoni, che come carnefici furiosi non s’applicano, che a farlo soffrire secondo il potere che Dio loro ha dato. Non vi sono più né parenti, né amici, cui possa egli indirizzarsi; sono tutti divenuti irreconciliabili gli uni con gli altri. Il padre ed il figlio, la figlia e la madre, il fratello e la sorella, il marito e la moglie si fanno i rimproveri i più amari, la guerra la più crudele, ed il numero degli sgraziati, che fa una specie di consolazione in questa vita per quelli che lo sono, non farà che accrescere la pena del reprobo nell’inferno. Finalmente non troverà in se stesso consolazione alcuna; troverà all’opposto tutti i motivi del più amaro dolore; nulla vede nel passato, che non l’affligga, nulla nel presente che non l’opprima, nulla nell’avvenire che nol disperi; i suoi dolori sono senza interruzione, senza refrigerio, non avrà neppur un momento di riposo; ben lungi di avvezzarsi ai tormenti con la lunghezza del tempo, saravvi sempre così sensibile durante tutta l’eternità, come al principio, non cesserà mai il fuoco, che brucerà, nulla perderà della sua attività, né la vittima della sua sensibilità. Non cambierà mai di sito, ma sarà sempre attaccato con legami, che non potrà spezzare. Ah! non mi meraviglio dunque d’intendere quegl’infelici chiamare la morte in loro soccorso. O morte, che eri altre volte un oggetto d’orrore, tu faresti adesso le nostre più care delizie! Morte, vieni terminar una vita, che ci è più dura che tutti i tuoi orrori! Morte, vieni a distruggerci, annientarci: ma la morte sarà insensibile ai loro gridi; essa fuggirà sempre da loro: mors fugiet ab eis. O piuttosto verrà ella, ma ciò sarà per farli sempre soffrire, per servir loro di nutrimento: mors depascet eos. Viveranno essi sempre, dice S. Bernardo, per continuamente morire, e continuamente morranno per sempre vivere; e ciò che renderà somma la loro disperazione, si è che ad ogni istante soffriranno tutta intera l’eternità, perché in ogni momento vedranno, che hanno un’eternità intera a soffrire. L’eternità si presenterà incessantemente al loro spirito in tutta la sua estensione, incessantemente quest’oggetto gli occuperà, senza che venir possano un sol momento da qualche altro oggetto distratti. Dirà continuamente il reprobo a se stesso: qualunque progresso abbia io fatto nella spaventevole carriera dell’eternità, non sono più avanzato che al primo giorno. Io non vedrò mai il fine dei miei mali; sempre io piangerò, sempre io gemerò senza mai udir parlar di liberazione. Oh mai spaventevole! Oh funesto sempre! Oh eternità disgraziata! Se gli uomini a te pensassero, mai non si esporrebbero ai tuoi rigori. Imperciocchè donde viene, Fratelli miei, che malgrado ciò, che la fede c’insegna sul rigore, e sulla durata delle pene dell’inferno, d’onde viene, che vi sarà un sì gran numero di reprobi condannati a quelle pene? proviene questa disgrazia dal non pensarvi. Non riguardano gli uomini l’eternità, che in un punto di vista molto lontano; quindi la dimenticanza di questa verità sì propria ad un santo terrore; o se vi pensano alcuni momenti, come avete voi fatto, ben presto dopo si dissipano o negli affari che occupano, e dividono i pensieri della vita, o nelle compagnie in cui si trovano, o nei piaceri che ricercano. Siccome gli oggetti esteriori non basterebbero per distrarci da questo pensiero, l’allontanano quanto possono dal loro spirito, lo discacciano come un pensiero importuno, il quale non è capace, dicono essi, che d’inquietarci, e sconcertarci. Se pensassimo continuamente all’eternità, vi sarebbe, soggiungono, non solo di che spaventarci, ma ancora di che intorbidarci; non passeremmo la nostra vita che nella tristezza e nell’affanno, gustar non vi potremmo alcun piacere. Ed è così, o peccatori, che per godere di una falsa calma nei vostri disordini, allontanate da voi il pensiero dell’eternità per lo falso timore di una molestia, che non sarebbe tale, qual ve l’immaginate, ma che vi diverrebbe salutevole con le amarezze che spargerebbe su i vostri piaceri? Di più, non è forse meglio, che voi siate spaventati e turbati in questa vita dal pensiero dell’eternità, che di soffrirne un giorno tutti gli orrori? Se questo pensiero vi cagiona qualche tristezza, sarà questa una tristezza secondo Dio, tale che l’Apostolo si rallegrava di averla ispirata ai suoi fratelli, perché questa tristezza operata aveva la loro salute: similmente questa tristezza, che vi cagionerà il pensiero dell’eternità, staccandovi dai beni della terra, dai piaceri del mondo, vi salverà, e si cangierà in un’allegrezza, che non potrà alcuno rapirvi.

PRATICHE. Sebbene tristo sia dunque ed amaro il pensiero dell’eternità, nol perdiate giammai di vista: se siete peccatori, niente di più capace ad indurvi a uscire dallo stato del peccato; se siete giusti, niente di più efficace per farvi perseverare nella virtù. Infatti, o peccatori, come potreste voi rimanere un sol momento nel peccato, se voi faceste questa riflessione: se io muoio in questo stato, io sono perduto per tutta l’eternità; l’inferno eterno sarà la mia porzione. Bisogna dunque uscirne prontamente, poiché ad ogni momento posso io venir dalla morte sorpreso, la quale sarà per me un passaggio a quell’infelice eternità. Voi avete pietà di un delinquente, contro cui è sta pronunziata una sentenza di morte; e voi pietà non avrete della vostra anima, che porta seco la sentenza di una morte eterna? Voi temete la giustizia degli uomini, e questo timore vi trattiene dal commettere i delitti, che essi severamente puniscono; e voi non temerete la giustizia di Dio, che perder può il vostro corpo, e la vostr’anima per un’eternità? Dove è la vostra fede, dove è la vostra ragione? Ah! peccatori, abbiate pietà della vostr’anima, e temete almeno altrettanto per essa, quanto temete pel vostro corpo. Voi fremereste d’orrore, se vi annunziassero, che siete condannati ad una prigione perpetua; voi comprar non vorreste al prezzo vostra libertà tutti i tesori della terra; e che cosa è una prigione di pochi anni, che durar deve la nostra vita, in paragone di una prigione eterna? Se questa eterna prigione non dovesse per voi essere più rincrescevole di quella, in cui vi rinchiudesse la giustizia degli uomini: se bisognasse soltanto stare in una positura incomoda durante tutta la vostra vita senza poter mai cangiare di sito, vi sarebbe dunque di che disperarvi; che sarebbe poi se fosse d’uopo dimorarvi per sempre? Che sarà dunque di essere per sempre coricati su gli ardenti carboni dell’inferno? Ecco il vostro posto con tutto ciò, se voi morite nello stato di peccato. Ah! potete voi, torno a dirvi, resistervi un solo istante, addormentarvi tranquillamente sull’orlo del precipizio? Non dovete voi all’opposto cercare la vostra sicurezza in una sincera e pronta conversione? – Per riuscirvi pensate sovente a questa eternità; quo pensiero non vi abbandoni giammai né giorno, né notte. Pensate durante il giorno, che verrà una notte fatale, in cui non si potrà più fare cosa alcuna per la salute; pensatevi la notte, in cui il non poter dormire attender vi fa con impazienza la venuta del giorno; fate ogni mattina, ed ogni sera questo atto di fede: io credo che v’è un’eternità di supplizi, in cui io cadrò infallibilmente, se muoio nel mio peccato. Chiedete a voi medesimi: se mi bisognasse restar quivi durante l’eternità nella medesima positura, come potrei io sostenermi? Che sarà dunque star eternamente sopra letti di fuoco? Ah! crudel peccato, direte voi allora, io ti detesto, io ti rinuncio per sempre, poiché tu solo puoi perdermi eternamente. Se io fossi al presente nella disgraziata eternità, io non ne ritornerei giammai; bisogna dunque, che io profitti del tempo per far penitenza dei miei peccati. – Pensate, o giusti, pensate all’eternità infelice; tal pensiero è efficacissimo per indurvi a fuggir il male, e a perseverare nella pratica del bene. Egli è vero, che le amabilità del Dio che voi servite, le magnifiche ricompense che vi promette, sono motivi più nobili, e soli capaci di unirvi a Lui. Ma non siamo sempre cotanto sensibili a questi motivi, come al timore di una miseria eterna. Non v’ha alcuno, su cui la vista dell’infelice eternità fare non debba salutevoli impressioni. I più gran Santi stessi si sono serviti di questo pensiero per elevarsi alla perfezione. Davide ne faceva il soggetto delle sue più serie riflessioni; egli rivolgeva nella sua mente, egli meditava gli anni eterni: cogitavi dies antiquos, et annos æternos in mente habui. (Psal. LXXVIII) E parimente questo pensiero, che ha renduti invincibili i Martiri nei loro supplizi, che ha condotti gli Anacoreti nei deserti, dove hanno preferito i rigori della povertà, e della penitenza ai beni, ed ai piaceri del mondo, eran essi persuasi che non si potrebbero prendere troppe cautele, dove si tratta dell’eternità. Per la qual cosa nulla hanno risparmiato: hanno sacrificato beni, fortuna, sanità, e la vita medesima per fuggire gli eterni supplizi. Questo pensiero, Fratelli miei, produrrà su di voi i medesimi effetti; esso vi distaccherà dal mondo, e dai suoi piaceri; esso trionfar farà delle tentazioni, domare le passioni le più ribelli. Si presenti pur dunque a voi il mondo con tutte le sue attrattive per indurvi al peccato: io non voglio per resistergli, che questa sola parola, eternità. A quell’istante voi non riguarderete il mondo, che come una figura, che passa, che non merita la vostra attenzione. La carne si sollevi pure contro lo spirito per trascinarvi verso i piaceri vietati; opponetele per vostra difesa questa sola parola, eternità; io sfido l’allettamento del piacere. di tenere contro il pensiero di un fuoco eterno, da cui deve esser seguito, se vi consente. Che? vi direte a voi medesimi nelle tentazioni, per un momento di piacere, un’eternità di supplizi! per un ben fragile, per appagar una passione, arderò io eternamente nell’inferno! No, non v’è né bene, né piacere, che comprare io voglia a questo prezzo. Tutto ceder deve al timore dell’eternità infelice. Quel che accrescer deve ancora questo timore, si è non solamente il rigore e la durata delle pene dell’inferno, ma eziandio il rischio, in cui voi siete di cadervi; mentre questo rischio, Fratelli miei, è più comune, che non si pensa. Che cosa si ricerca, infatti, per meritar l’inferno? Un solo peccato mortale basta per esservi condannato; è questa una verità di fede. Così, benché rassodati voi siate nella virtù, benché favoriti delle grazie del Signore, voi perder potete la sua grazia con un’offesa mortale; e forse quel peccato che voi commetterete, consumerà vostra riprovazione. Forse sarete voi da Dio abbandonati a quel primo peccato, come lo sono stati molti reprobi, come lo sono stati gli Angeli ribelli, cui non ha Iddio dato il tempo di far penitenza. Un solo peccato gli ha precipitati nell’inferno: chi assicurare vi può, che Dio non vi tratterà nella stessa guisa, se voi l’offendete? Chi è in piedi, avverta dunque bene di non cadere, dice l’Apostolo: qui stat, videat ne cadat. Che si ricerca ancora per esporsi ai pericolo dell’ inferno? Ohimè! lo scostarsi per poco dalla strada della salute impegna qualche volta in quella della perdizione. La tiepidezza nel servigio di Dio, la facilità di commettere mancamenti leggieri; ben più, una sola colpa leggiera può condurvi al peccato grave, e quel peccato grave alla dannazione eterna. Quanti reprobi, che da ciò hanno cominciata la loro riprovazione? Il timor dell’inferno scacciar dunque deve la tiepidezza; egli non solo dunque deve farvi evitare le colpe gravi, ma eziandio allontanarvi da tutto ciò, che ha l’apparenza di peccato. Che cosa si ricerca finalmente per meritar l’inferno? La sola omissione dei suoi doveri, il difetto delle buone opere sarà una materia di riprovazione; mentre non crediate già, che non vi saranno altri reprobi, che quelli i quali immersi si saranno nei delitti; forse questo è ciò che rassicura al giorno d’oggi un gran numero di Cristiani, che si credono in sicurezza contro i giudizi di Dio, perché la loro vita non è piena di scelleratezze, perché non si abbandonano ai gran disordini. Ma non vi lasciate sedurre; non solo si va all’inferno per aver fatto il male, ma ancora per non aver fatto il bene. Non dice già il Vangelo, che il ricco Epulone, che è nell’inferno, sia stato un impudico, un ingiusto usurpatore del bene altrui; egli viveva del suo, egli non faceva torto ad alcuno; ma non faceva dei suoi beni l’uso che farne doveva, non soccorreva il povero Lazaro, che languir lasciava alla sua porta: ecco ciò che gli rimprovera il Vangelo. Ci fa sapere lo stesso Vangelo, che il servo inutile fu gettato nelle tenebre per non aver fatto valere il suo talento; prova certissima che una vita priva di buone opere conduce all’inferno. Così il timore di cadervi indurre vi deve a render certa la vostra vocazione con le buone opere ad adempiere fedelmente i doveri del vostro stato, a servir Dio con tutto il fervore, di cui siete capaci, a pregar molto, a visitar le chiese, a frequentar i Sacramenti, a digiunare, a mortificarvi, a far limosine ai poveri, ed altre buone opere, che da voi dipenderanno. Con questo mezzo voi schiverete l’inferno, ed avrete parte nella felicità eterna. Così sia.

XXIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE, V quæ superfuit Post Epiphaniam

XXIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE – V quæ superfuit Post Epiphaniam 

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Jer XXIX :11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.

Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]Jer XXIX: 11; 12; 14

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.
[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio
Orémus.
Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut, quæ in sola spe grátiæ cœléstis innítitur, tua semper protectióne muniátur.  
[Custodisci, o Signore, Te ne preghiamo, la tua famiglia con una costante bontà, affinché essa, che si appoggia sull’unica speranza della grazia celeste, sia sempre munita della tua protezione.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses
Col III: 12-17
Fratres: Indúite vos sicut electi Dei, sancti et dilecti, víscera misericórdiæ, benignitátem, humilitátem, modéstiam, patiéntiam: supportántes ínvicem, et donántes vobismetípsis, si quis advérsus áliquem habet querélam: sicut et Dóminus donávit vobis, ita et vos. Super ómnia autem hæc caritátem habéte, quod est vínculum perfectionis: et pax Christi exsúltet in córdibus vestris, in qua et vocáti estis in uno córpore: et grati estóte. Verbum Christi hábitet in vobis abundánter, in omni sapiéntia, docéntes et commonéntes vosmetípsos psalmis, hymnis et cánticis spirituálibus, in grátia cantántes in córdibus vestris Deo. Omne, quodcúmque fácitis in verbo aut in ópere, ómnia in nómine Dómini Jesu Christi, grátias agéntes Deo et Patri per Jesum Christum, Dóminum nostrum.

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli, Omelie, vol. I, Marietti ed., Omelia XIX., 1899]

” Come eletti di Dio, santi e bene amati, vestite viscere di misericordia, benignità, umiltà, mitezza, pazienza, sopportandovi gli uni gli altri e perdonando, se alcuno ha querela contro di un altro; come il Signore ha perdonato a voi, voi pure così. Ma più di tutto vestite la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo, alla quale foste chiamati in un sol corpo, regni nei vostri cuori e siate riconoscenti. La  parola di Cristo abiti riccamente in voi con ogni sapienza, istruendovi ed ammonendovi tra voi con salmi ed inni e cantici spirituali, cantando con la grazia nei cuori vostri a Dio. Quanto fate in parole ed opere, tutto fate nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per lui„ (Coloss. capo III, vers. 12-17).

Paolo due volte fu sostenuto in carcere: la prima in Cesarea di Palestina e la seconda in Roma. La prigionia, che sostenne in Cesarea di Palestina avvenne dal 63 al 66 dell’era volgare, e secondo ogni verosimiglianza di là scrisse la lettera ai fedeli di Colossi, città dell’Asia Minore. Dal capo terzo di questa lettera sono presi i sei versetti che vi ho recitati e che versano interamente sulla materia morale. Nulla di più semplice e più pratico e insieme più degno delle nostre considerazioni. – “Come eletti di Dio, santi e bene amati, vestite viscere di misericordia, benignità, umiltà, mitezza e pazienza. „ S. Paolo, rivolgendosi ai suoi cari figliuoli, li chiama eletti di Dio, cioè da Dio in special maniera eletti e preferiti a tanti altri nel ricevere la grazia della fede. Quanti allora erano ancora sepolti nelle tenebre della superstizione pagana ed essi, i fedeli di Colossi, erano illuminati dalla luce della verità evangelica! Donde questa differenza ? Era la bontà di Dio, che li aveva eletti prima e chiamati, e a cui essi con la grazia avevano corrisposto. Erano eletti e chiamati ad essere santi. Non vi sia grave ponderare per un istante la natura ed il pregio altissimo di questa elezione, di cui parla S. Paolo. Chi fa un atto qualunque deve anzi tutto pensare la cosa che vuol fare: poi delibera con la volontà di farla e poi allora la fa. Dio vuole salvi gli uomini e necessariamente prima pensa a loro, poi vuole fornire loro il mezzo perché si possano salvare e finalmente lo dà ed è la grazia, o meglio quella serie di grazie, che sono necessarie. Nell’opera adunque della nostra salvezza dal lato di Dio il primo atto è di fissare sopra di noi il suo pensiero e il secondo atto la sua volontà, che decreta la grazia. Ora vi domando qual cosa da parte nostra poteva muovere la mente e la volontà di Dio a chiamarci a sé e largirci la sua grazia? Noi non eravamo ancora e Dio da tutta l’eternità fissava sopra di noi il suo sguardo pietoso e ci amava: noi non avevamo fatto né potevamo fare un atto solo che precedesse la sua grazia, perché per farlo si richiedeva che Dio ci desse prima la grazia. Può forse il campo produrre la messe se prima non è seminato, o l’occhio vedere se la luce non lo rischiara? La nostra elezione e vocazione adunque, di cui parla S. Paolo, è dono, puro dono di Dio, senza merito dal canto nostro. – Più volte S. Paolo chiama santi i fedeli, ancorché sia bene da supporre che non tutti fossero veramente santi: li chiama santi, perché rigenerati col Battesimo, perché discepoli di Lui, che è il Santo per eccellenza, perché il fine della loro vocazione, a cui devono essere rivolti tutti i loro sforzi, è la santità. Vedete, o carissimi, altezza e sublimità della nostra professione di Cristiani: dobbiamo essere santi, cioè sciolti da ogni disordinato affetto alle cose di quaggiù e interamente dedicati al servizio di Dio. Voi siete eletti, santi, dice S. Paolo, e aggiunge, bene amati, ossia cari a Dio, come figli. Qual gioia per noi poter dire: Io sono amato da Dio! Io sono caro a Lui, come un figlio ad un padre! Agli eletti di Dio, ai santi, ai bene amati si conviene, prosegue l’Apostolo, “vestire viscere di misericordia, di benignità, di umiltà, di mitezza, di pazienza: „ cioè, come Cristiani, dobbiamo, a somiglianza di Dio e di Gesù Cristo, nostro capo, essere pieni di compassione e carità verso ogni maniera di sofferenti: dobbiamo mostrarci non duri, austeri, rozzi, ma facili e piacevoli con tutti, e saremo tali se umili di cuore, perchè l’umiltà è la madre della benignità, della mitezza e della pazienza, che qui propriamente significa longanimità, quella pazienza cioè che non si stanca mai ed è sempre benevola e soave. E come mostreremo noi queste virtù, che tra loro si legano sì strettamente? “Con il sopportarci, dice l’Apostolo, gli uni gli altri e perdonarci, se alcuno ha querela verso di un altro. „ Non vi è uomo, per quanto sia virtuoso, che non abbia difetti. Noi, per necessità di natura, dobbiamo vivere insieme, in famiglia, in società, in contatto più o meno continuo. Ora come vivere insieme se a vicenda non tolleriamo i nostri difetti e non ci condoniamo le offese, che talvolta, anche senza volerlo, ci facciamo gli uni gli altri? Se non ci sopportiamo scambievolmente e non ci condoniamo i nostri torti, la vita sarebbe insopportabile e saremmo in continua guerra tra di noi stessi. E come sopportarci e perdonarci gli uni gli altri? Ecco il modello sovrano, grida S. Paolo, Gesù Cristo: “Come il Signore vi ha perdonato, voi pure così.  – Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, fu e sarà sempre l’eterno esemplare, su cui gli uomini dovranno tener sempre fermi gli occhi della fede, per ritrarne in sé le ineffabili perfezioni. Qualunque virtù si deve misurare dalla sua somiglianza con Gesù Cristo, e tanto essa è più alta, quanto maggiormente s’avvicina a questo impareggiabile modello. E perciò l’Apostolo in tutte le sue lettere ha cura di mettercelo innanzi sotto tutte le forme, e qui ci inculca: “Come il Signore ha perdonato a voi, così pur voi. „ Egli perdonò ai suoi nemici, ai suoi stessi crocifissori fino a pregare per loro in croce ed a morire per essi: e noi, suoi figli, noi miserabili creature e poveri peccatori, saremo restii a perdonare ai nostri offensori? È impossibile. Sempre fermo in inculcare la virtù, regina di tutte le altre, l’Apostolo continua e dice: “Ma soprattutto vestite la carità, siate ripieni di carità, che è il vincolo della perfezione. „ Come l’anima avviva il nostro corpo tutto, ne lega insieme le varie membra, dà loro moto e forza, così la carità dà vita, moto e forza a tutte le altre virtù e unisce insieme e mirabilmente armonizza le famiglie e la società civile. Frutto prezioso della carità sarà “la pace di Cristo, alla quale foste chiamati in un sol corpo, e che regnerà nei vostri cuori.„ La pace, non la pace ingannevole del mondo, la pace vera, quella pace che Cristo ha portato sulla terra, quella pace a cui tutti ci chiama, facendoci membri della sua Chiesa, regni tranquilla nei nostri cuori e di là si spanda al di fuori e informi tutte le nostre parole e tutti gli atti nostri. Qual tesoro è questa pace, questa tranquillità dello spirito e del cuore che si possiede anche in mezzo alle tempeste della vita! Di tanto beneficio siamone grati a Lui, che ce lo dà, Gesù Cristo! “La parola di Cristo abiti riccamente in voi, con ogni sapienza. „ La parola di Cristo, che è quanto dire, la dottrina, il Vangelo di Gesù Cristo, che avete ricevuto mercé della parola o della predicazione, rimanga nelle anime vostre, vi ricolmi della vera sapienza in tutta la sua pienezza. Comprendete, o cari, l’insegnamento di S. Paolo? Egli vuole che non solo ascoltiamo la parola del Vangelo, ma che abiti, rimanga in noi, e rimanga in gran copia e sia così la luce che scorge i nostri passi sulla via della virtù e regoli i nostri pensieri ed affetti. E gioverà a conservare in voi ed accrescere il conoscimento del Vangelo “se vi istruirete ed ammonirete a vicenda, con salmi ed inni e cantici spirituali, „ soggiunge l’Apostolo. Da queste parole di S. Paolo chiaramente rileviamo che anche nella primitiva Chiesa, era comune l’uso di cantar salmi ed inni sacri nelle radunanze dei fedeli. In tal modo rinfrescavano nella memoria le verità della fede e viemaggiormente le apprendevano e ne penetravano il senso. Il canto, come il riso, è naturale all’uomo. Allorché egli conosce chiaramente la verità e il cuor s’infiamma al pensiero della grandezza, della bontà di Dio e de’ suoi benefici, quasi inconsciamente scioglie la lingua al canto, loda, benedice, ringrazia ed esalta il suo Dio. L’anima allora è come un incensiere, da cui s’innalza verso il cielo un soave profumo; è come un fiore, che dischiude il suo calice, spande le sue foglie, e sotto i raggi del sole diffonde d’ogni intorno la sua fragranza. Il canto sacro nella Chiesa non solo è un bisogno che l’anima sente di aprirsi e sfogare l’affetto interno, ma giova assai ad avvivarlo in sé ed in altri e ad accrescerne la fiamma. – Allorché un popolo insieme raccolto fa risuonare dei suoi cantici le vòlte del tempio, confondendosi con le armonie dell’organo, il mio cuore si commuove, il mio spirito si esalta, l’anima mia s’innalza fino a Dio, una santa e dolce ebbrezza mi invade, e gusto una gioia che non è terrena, ma celeste. S. Agostino, udendo a Milano i salmi cantati dal popolo, si struggeva in lagrime soavissime ed esclamava: Come è dolce il Signore con quelli che lo amano! – Siamo all’ultimo versetto della nostra epistola: “Quanto fate, in parole ed in opere, tutto fate nel nome del Signore Gesù Cristo rendendo grazie a Dio Padre per Lui. „ Chi può mai conoscere e ricordare tutte le opere e tutte le parole, tutti i pensieri e tutti gli affetti d’una persona qualunque in un solo giorno! Sono senza numero. Poniamo che nulla vi sia di riprensibile e che tutto sia buono od almeno indifferente. Il pregio di tutte queste opere e parole, di tutti questi pensieri ed affetti dipende per la massima parte dall’intenzione nostra: se questa è volta sempre a Dio, con essa e per essa, tutto è fatto ad onore di Dio ed acquista un valore speciale, e l’intera nostra vita è un’offerta, un inno incessante, che innalziamo a Dio. Perché dunque non seguiremo il precetto o consiglio dell’Apostolo e non offriremo a Dio tutte le parole ed opere nostre? Direte: Ci torna quasi impossibile far questo in mezzo alle mille nostre occupazioni e distrazioni. E vi torna forse impossibile, al mattino, allorché recitate le vostre orazioni, con la intenzione abbracciare tutte le parole ed opere del giorno e farne a Dio l’anticipata offerta? No, certo. Ebbene questa offerta del mattino è bastevole e conferisce a tutte le opere e parole vostre anche indifferenti e senzaché poi vi poniate mente, il merito dell’intenzione, come se questa la faceste ad ogni istante. Sia che lavoriate nei campi o nelle botteghe, sia che discorriate o passeggiate, sia che mangiate o beviate, sia che riposiate e vi sollazziate, tutto è fatto a gloria di Dio e tutto è meritevole dinanzi a Lui. Su dunque, o carissimi: all’aprirsi del giorno, allorché fate la vostra preghiera del mattino, dite con la lingua e più con il cuore: Signor mio, ecco ch’io sto per incominciare questo nuovo giorno che mi accordate. Ebbene: tutto ciò che farò o dirò: tutto ciò che penserò o soffrirò, fin da questo momento lo offro a voi unitamente alle parole ed alle opere che Gesù Cristo compì nei giorni di sua vita mortale. — Come il sole, nel suo primo spuntare sull’orizzonte inonda di luce e vagamente colora tutti gli oggetti, così la vostra intenzione del mattino abbellisce e santifica tutte le parole ed opere dell’intera giornata. E poi perché anche lungo la giornata, in mezzo ai vostri lavori dell’officina o del campo, non potete a quando a quando sollevare la mente e il cuore a Dio e rinnovare la vostra offerta? Vi troverete un conforto, un ravvivamento di fede, una novella energia. Il pensiero di Dio è come una scintilla elettrica, che spande la luce e il calore nell’anima, è un tepido soffio che accarezza un fiore e ne dilata il calice e ne diffonde la fragranza. Sì, spesso la mente e il cuore a Dio, dilettissimi, e la via della virtù sarà facile e bella!

Graduale
Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]

V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja. [In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno. Allelúia, allelúia.]

Ps: CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt XIII: 24-30
In illo témpore: Dixit Jesus turbis parábolam hanc: Símile factum est regnum cœlórum hómini, qui seminávit bonum semen in agro suo. Cum autem dormírent hómines, venit inimícus ejus, et superseminávit zizánia in médio trítici, et ábiit. Cum autem crevísset herba et fructum fecísset, tunc apparuérunt et zizánia. Accedéntes autem servi patrisfamílias, dixérunt ei: Dómine, nonne bonum semen seminásti in agro tuo? Unde ergo habet zizánia? Et ait illis: Inimícus homo hoc fecit. Servi autem dixérunt ei: Vis, imus, et collígimus ea? Et ait: Non: ne forte colligéntes zizánia eradicétis simul cum eis et tríticum. Sínite utráque créscere usque ad messem, et in témpore messis dicam messóribus: Collígite primum zizania, et alligáte ea in fascículos ad comburéndum, tríticum autem congregáta in hórreum meum.

OMELIA II

[Mons. G. Bonomelli, ut supra, Omelia XX]

“Gesù disse questa parabola: Il regno dei cieli è simile ad un uomo che seminò seme buono nel suo campo. Ma mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico e soprasseminò zizzania nel mezzo del grano e se ne andò. E quando l’erba fu nata ed ebbe fatto frutto, apparvero anche le zizzanie. E i servi del padre di famiglia vennero a lui e gli dissero: Padrone, non seminasti tu buona semenza nel campo? Donde adunque le zizzanie? Ed egli disse loro: Un qualche nemico ha fatto ciò. Ed essi a lui: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? Ma egli disse: No! perché talora, raccogliendo le zizzanie, insieme con esse non abbiate a svellere anche il grano. Lasciate crescere insieme le une e l’altro fino alla mietitura, e allora dirò ai mietitori: Raccogliete prima le zizzanie e legatele in fasci per bruciarle: il grano poi riponete nel mio granaio „ (Matt. XIII, 24-30).

E questa una delle più belle e più semplici parabole, che si incontrino nel Vangelo e che Gesù Cristo si degnò di spiegare partitamente. La voce parabola, per sé, significa quella curva, che un corpo grave, gettato in alto, descrive nel cadere: e poiché nel gettare un corpo vi è l’idea d’una cosa che si avvicina ad un’altra, ne venne l’uso di significare con la voce parabola la similitudine, che la nostra mente scopre tra un fatto e una dottrina, onde la parabola non è altro che un fatto verosimile, che serve a farci conoscere la verità con la quale ha una somiglianza o affinità facile a rilevarsi. È una maniera di istruire, massime il popolo, piana ed efficacissima, vestendo la verità di forme sensibili e così imprimendola profondamente nell’anima. L’uso di queste parabole è frequentissimo, particolarmente nel Vangelo di S. Matteo, e dànno all’insegnamento di Gesù Cristo un’aria di semplicità e di candore singolare, un’attrattiva amabile e meravigliosa, che non si trova in nessun altro libro né antico, né moderno. — Ma è da venire alla spiegazione della parabola, quale abbiamo dalla bocca stessa del Salvatore. “Il regno dei cieli è simile ad un uomo che seminò seme buono nel suo campo. „ Quelle parole: Il regno dei cieli possono significare ora il cielo, ora la vita futura, ora la Chiesa, ora il regno della grazia in ciascuno di noi; qui vogliono semplicemente dire: Avviene nel regno dei cieli come in un campo che si semina. In questa parabola abbiamo colui che semina il campo seminato, il seme buono, le zizzanie, l’uomo nemico che soprassemina, i mietitori, la mietitura, il granaio. Colui che semina è Gesù Cristo, il campo seminato è il mondo; il seme buono sono i buoni, le zizzanie sono i cattivi; l’uomo nemico è il diavolo, i mietitori sono gli Angeli, la mietitura è la fine del mondo e il granaio evidentemente è il cielo, ancorché questo Gesù Cristo non lo dica in termini. È questa l’applicazione fattane dal Salvatore istesso, richiestone dagli Apostoli. La parabola è in compendio la storia dell’umanità dalla sua origine, possiam dire, fino alla fine dei secoli. Ora spieghiamola nelle singole sue parti. – “Un uomo seminò seme buono nel suo campo. „ Iddio creò il mondo, e poiché l’ebbe convenientemente preparato, creò l’uomo e formò la donna e ve li introdusse, come si introducono i sovrani nella loro reggia. È questo il buon seme che il padrone ha seminato nel suo campo e che doveva coprirlo di copiosa messe. La prima coppia umana era adorna della grazia e d’ogni dono più eccellente, grazia e doni che dovevano trasmettersi ai loro figli. Che avvenne? “Mentrechè gli uomini dormivano, venne il nemico di lui e soprasseminò zizzania nel mezzo del grano e se ne andò. „ Come si intende questo dormire degli uomini? Si sa che talvolta certe parti d’una parabola possono anche considerarsi aggiunte come ornamento e non è necessario applicarle nella spiegazione: tale potrebb’essere quella particolarità del “mentrechè dormivano gli uomini.„ Dei resto nulla vieta il dire che la caduta dei primi nostri padri fu cagionata dalla loro trascuratezza colpevole, con cui si lasciarono ingannare dall’uomo nemico, dal demonio, che sparse in loro e nei loro figli il mal seme del peccato. Da quel dì fino alla consumazione dei tempi, il buon grano è mescolato alle zizzanie, i buoni sono frammisti ai cattivi. – Ciò che qui la parabola vuol far notare in particolar maniera si è che la comparsa del male sulla terra, l’origine del peccato, non vuolsi attribuire a Dio, ma al demonio, al nemico suo e nostro, primo artefice d’ogni nostro male, che è punto capitale di nostra fede. Dio creò l’uomo buono, il demonio lo fece diventare cattivo: ecco la spiegazione del nemico che soprassemina le zizzanie nel buon grano. Proseguiamo. “Quando fu nata l’erba ed ebbe fatto il frutto, allora apparvero anche le zizzanie, „ cioè allorché il grano cominciò a mettere la spiga, allora si videro anche le zizzanie (La parola zizzania è ignota ai latini e sembra d’origine araba. I latini dicevano lolium e noi italiani loglio), che vengono dopo, ma spesso soverchiano il grano. Una osservazione semplicissima, o cari. Il buon grano non nasce mai nel campo se non vi è sparso dalla mano dell’uomo, né cresce e vigoreggia se da lui non è coltivato; doveché le male erbe attecchiscono e largamente si abbarbicano senza l’opera dell’uomo, anzi malgrado l’opera sua. Così la grazia, la fede, la virtù non germoglia nel cuore dell’uomo se non ve le semina Iddio; mentreché le passioni ed il peccato vi germinano da se stesse. “I servi del padre di famiglia vennero a lui, dicendo: Non seminasti tu buona semenza nel campo? Donde dunque le zizzanie? „ Manifestamente questi servi, che vanno dal padrone e gli narrano delle zizzanie cresciute in mezzo al grano, sono messi nella parabola per dare maggior colorito ed accrescere la forza drammatica, giacché il padrone del campo, che è Dio stesso, non aveva bisogno che altri gli narrasse la cosa. “Ed egli disse loro: Ciò ha fatto un uomo nemico; ed essi a lui: Vuoi dunque, che andiamo a raccoglierla? Ma egli disse: No, perché potrebbe essere che, sterpando le zizzanie, aveste a svellere il grano. „ In queste ultime parole si contiene il succo sostanziale, l’insegnamento principale della parabola, e perciò è prezzo dell’opera fermarvicisi sopra alquanto. – Il frumento e le zizzanie crescono nello stesso terreno e le radici loro si intrecciano, per guisa che è quasi impossibile diradicare quelle delle zizzanie senza toccare e rompere quelle del buon grano, e perciò il padrone vuole che ogni cosa si lasci al suo luogo. Ponete mente per altro, che non risparmia le zizzanie per se stesse, ma unicamente per riguardo al grano, tantoché quelle sono salve fino alla mietitura in grazia del grano istesso. Le zizzanie, come dicemmo, adombrano i cattivi, il grano raffigura i buoni: qui è manifesto essere volere di Dio, che nella vita presente i buoni vivano misti ai cattivi (1). È questo un fatto che abbiamo continuamente sotto gli occhi, di cui i buoni si lagnano spesso e talora quasi si scandalizzano. Una delle maggiori pene dei buoni quaggiù, è la compagnia dei tristi; è il vedere e l’udire le opere loro malvagie e subirne troppo spesso la tirannia in famiglia o nella società. Perché dunque Iddio, che è buono e onnipotente, ha disposto e vuole questo stato dì cose sì doloroso per i buoni? Perché vuole che le zizzanie crescano insieme col grano e vieta di sbarbicar quelle? È vero, la compagnia dei tristi può recare gravi danni ai buoni, pervertendoli nella fede e nei costumi, ma, considerata ogni cosa, i beni che ne vengono superano i mali, e perciò sapientemente Iddio volle che le cose fossero come sono. Anzitutto Iddio vuol salvi tutti gli uomini, anche i più perduti peccatori; e come ne va preparando la conversione e la salvezza? Uno dei mezzi più efficaci è la compagnia dei buoni, i quali con la parola e con l’esempio e con tanti altri modi li ammaestrano, li correggono e li convertono. I cattivi talvolta depravano alcuni buoni, ma sono sempre i buoni che riducono a penitenza i cattivi. È S. Ambrogio che guadagna Agostino, è santa Monica che converte Patrizio, suo marito, è quella povera sposa che, a forza di pazienza, riconduce a Dio lo sposo infedele, è quella madre desolata che con le attrattive della tenerezza richiama sulla buona via quel figliuolo scostumato. Ecco perché Dio vuole che accanto al malvagio viva il giusto: per conquistare quello mercé l’opera di questo. Il frumento non ha virtù di mutare la zizzania in grano, ma il virtuoso può, mercé la grazia divina, trasformare il perverso in un santo. – Non è tutto: la virtù trova il suo alimento nel patire; la cote affila il ferro e il patimento nutre e affina la virtù. La compagnia de’ malvagi è per i buoni una occasione continua di patire e per conseguenza un continuo esercizio di pazienza e di carità e, aggiungo, di meriti. Se non vi fossero stati i tiranni, dove sarebbero i martiri? Se non vi fossero le guerre, dove sarebbe il valore dei soldati? Se sulla terra gli uomini fossero tutti credenti e virtuosi, la terra sarebbe un paradiso: nessuna o poca fatica costerebbe la virtù e ben piccolo sarebbe il merito di praticarla. Infine la vista e la compagnia dei malvagi ci fa conoscere la nostra miseria e ci tiene umili, ci obbliga a stare in guardia ed usare prudenza, ci fa sentire il bisogno di ricorrere a Dio, ci rende inchinevoli al perdono e ci fa esercitare la regina di tutte le virtù, la carità. Ah! se sulla terra non vi fossero i cattivi, i buoni correrebbero altri pericoli, e non senza una profonda ragione Gesù Cristo disse: “No, non vogliate raccogliere le zizzanie: lasciate che crescano insieme le zizzanie e il grano fino alla mietitura. „ Tolleriamo adunque, o cari, la compagnia dei malvagi, vediamo di ricondurli a Dio, soffriamo con pazienza le molestie che ci recano e preghiamo per essi. Ma dunque i malvagi rimarranno impuniti? Sarà eguale la sorte dei buoni e dei cattivi? Udite la sentenza di nostro Signore: “Al tempo della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima le zizzanie e legatele in fasci per bruciarle: il grano poi riponete nel mio granaio. „ Così avrà luogo, alla fine dei tempi, la separazione assoluta ed irrevocabile dei buoni e dei cattivi: questi, a guisa di erbe, di sarmenti, di zizzanie buone a nulla, saranno gettati ad ardere nel fuoco eterno, e quelli, a guisa di buon grano, raccolti nel granaio, collocati per sempre in cielo. Figliuoli carissimi! per necessità delle cose e per volere divino ora siamo obbligati a vivere quaggiù in terra mescolati insieme buoni e cattivi; se siamo buoni, studiamoci di conservarci tali e adoperiamoci, come meglio possiamo, di tirare a noi i cattivi e guadagnarli a Dio; se siamo cattivi, non c’è tempo da perdere, mutiamoci di zizzanie in buon grano, affine di sfuggire il fuoco eterno e di essere un giorno raccolti in cielo.

(1) Certamente nostro Signore con questa parabola non volle insegnare che i cattivi si debbano trattare come ì buoni ed abbiano eguali diritti. In tal caso avrebbe insegnato che i ladri, gli assassini, gli omicidi e via dicendo non si debbano levare di mezzo alla società e punire, che è cosa assurda. Gesù Cristo, se male non veggo, volle dire, che nello stato presente vi saranno sempre nel mondo ed anche nella Chiesa uomini cattivi, che non si possono eliminare dal corpo sociale, coi quali bisogna avere e verso de’ quali bisogna usare tolleranza, dirò meglio, carità fraterna.

Offertorium
Orémus
Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine. [Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta
Hóstias tibi, Dómine, placatiónis offérimus: ut et delícta nostra miserátus absólvas, et nutántia corda tu dírigas. [Ti offriamo, o Signore, ostie di propiziazione, affinché, mosso a pietà, perdoni i nostri peccati e diriga i nostri incerti cuori.]

Communio
Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.[ In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio
Orémus.
Quǽsumus, omnípotens Deus: ut illíus salutáris capiámus efféctum, cujus per hæc mystéria pignus accépimus. [Ti preghiamo, onnipotente Iddio: affinché otteniamo l’effetto di quella salvezza, della quale, per mezzo di questi misteri, abbiamo ricevuto il pegno.]

 

 

 ææ

DOMENICA XXIII, IV quæ superfuit Post EPIPHANIA (2018)

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE, 

IV quæ superfuit Post EPIPHANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XCVI: 7-8

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judæ.

[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda.]

Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.

[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Orémus.

Deus, qui nos, in tantis perículis constitútos, pro humána scis fragilitáte non posse subsístere: da nobis salútem mentis et córporis; ut ea, quæ pro peccátis nostris pátimur, te adjuvánte vincámus.

[O Dio, che sai come noi, per l’umana fragilità, non possiamo sussistere fra tanti pericoli, concédici la salute dell’ànima e del corpo, affinché, col tuo aiuto, superiamo quanto ci tocca patire per i nostri peccati.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom XIII: 8-10

Fratres: Némini quidquam debeátis, nisi ut ínvicem diligátis: qui enim díligit próximum, legem implévit. Nam: Non adulterábis, Non occídes, Non furáberis, Non falsum testimónium dices, Non concupísces: et si quod est áliud mandátum, in hoc verbo instaurátur: Díliges próximum tuum sicut teípsum. Diléctio próximi malum non operátur. Plenitúdo ergo legis est diléctio.

OMELIA I

 [Mons. BONOMELLI, Omelie, vol. I, Marietti Ed. Torino, 1899. Om. XVII]

“Non vogliate avere altro debito, che quello d’amarvi l’un l’altro; perché chi ama il prossimo, ha adempiuta la legge. Di fatto, il non fare adulterio, non uccidere, non rubare, non dir falsa testimonianza, non desiderare il male e se vi è alcuna altro precetto, tutto è compreso in questa parola: Amerai il prossimo come te stesso. L’amore del prossimo non opera alcun male: il compimento dunque della legge è l’amore „ (Rom. XIII, 8-10).

Il tratto della epistola, letta or ora, è tolto dal capo decimoterzo della lettera di S. Paolo ai fedeli di Roma. È brevissimo, perché si contiene tutto in soli tre versetti: ma se poche sono le parole e le sentenze, vasto quanto mai si può dire è il loro significato. Bastici il dire che l’Apostolo i n queste poche righe ha compendiata tutta la legge, come in termini dichiara egli stesso in quelle parole, che avete udito: Il compimento della legge è l’amore. Il soggetto, che siamo chiamati a considerare è caro e giocondo ad ogni anima bennata e per se stesso si raccomanda alla vostra attenzione. “Non vogliate avere altro debito, che quello di amarvi l’un l’altro. „ Queste parole si possono mutare in queste altre: Ogni vostro dovere si riduce all’amore scambievole. Se noi percorriamo tutti gli scritti del nuovo Testamento non troviamo un precetto più spesso e più vivamente raccomandato e inculcato quanto il precetto della carità fraterna. Gesù Cristo lo chiama precetto nuovo, perché prima di lui non fu mai sì chiaramente imposto, né mai a tanta altezza di perfezione portato: lo chiama precetto suo, perché è quello che più gli sta a cuore e meglio d’ogni altro esprime la natura e l’indole della legge evangelica, tantoché afferma, che all’osservanza di questo precetto si conosceranno i suoi discepoli. Nessuna meraviglia pertanto che S. Paolo qui riduca tutti i doveri del cristiano all’amore reciproco. Ma qui si affaccia naturalmente una difficoltà: come è mai possibile che tutti i doveri del cristiano si riducano all’amore fraterno, che dobbiamo avere gli uni con gli altri? – Narra S. Girolamo, che l’apostolo Giovanni, più che nonagenario, dimorava in Efeso: ogni volta che i fedeli si raccoglievano nella chiesuola, vi veniva portato a braccia dai discepoli, che lo pregavano di far loro udire la sua parola. Il santo vegliardo non faceva che ripetere: ” Figliuolini miei, amatevi a vicenda. „ Annoiati i discepoli di udir sempre quelle parole, gli dissero : “Maestro, perché  ci dici sempre questo? „ Egli rispose, scrive S. Girolamo, in modo degno di lui: “Perché è il precetto del Signore, e se anche solo si adempie, basta ,, (Degli Scrittori eccles.). La risposta d’un tanto apostolo, commentata da tanto dottore, mi dispenserebbe da qualunque spiegazione; ma è prezzo dell’opera svolgerla più largamente. E per pigliare le cose un po’ dall’alto, vediamo anzi tutto che cosa sia questo amore del prossimo. E forse quel sentimento comune, che più o meno ci porta tutti ad amare il nostro prossimo, quella cotal tenerezza, che sentiamo verso i nostri simili, che fa spuntare negli animi nostri la compassione verso i sofferenti? Certamente questo sentimento è buono, fa onore alla nostra natura; questa tenerezza, questa compassione verso i sofferenti è il carattere delle anime nobili ed è dono del cielo. Ma non è questo l’amore del prossimo, che il Vangelo comanda. Questo sentimento, questa tenerezza, questa compassione può aversi anche senza le opere. Quanti mostrano di sentire al vivo i mali altrui e son larghi di parole e scarsissimi ai fatti! Silla fu uno de’ più mostruosi tiranni, dei quali parli la storia. Eppure, assistendo in teatro, piangeva come un fanciullo udendo rappresentare alcune scene commoventi. S’inteneriva alle scene d’un immaginario dolore e faca versare torrenti di sangue e di lagrime. – Ho visto avari commuoversi dinanzi alle miserie dei tapini e rifiutare un soldo di limosina! – L’amore del prossimo comandato da Gesù Cristo è forse quel sentimento che ci muove ad amarlo per le sue buone e belle doti, per i benefici ricevuti, per i vantaggi che ne speriamo, per il piacere che proviamo in beneficarlo? Non io condannerò siffatto amore, che può essere naturalmente buono; ma in tal caso l’amor nostro non abbraccerà tutti, perché non tutti sono forniti di belle e buone qualità, ne da tutti abbiamo ricevuti benefici, o possiamo sperarne, e il piacere che si prova in amarli e beneficarli non è continuo e bastevole, e lo fosse anche, sarebbe un motivo affatto umano, e perciò troppo debole e incerto. Qual è dunque l’amor del prossimo che compendia in sé l’adempimento di tutti i nostri doveri? È quello che si accende nel nostro cuore, che esce dalle fibre più riposte dell’anima nostra, che ci fa sentire il bene e il male altrui come se fosse bene e male nostro: è quello che si manifesta nelle opere, che ci muove efficacemente al soccorso di quanti ne abbisognano, secondo le nostre forze: è quello infine che ha la sua radice e il suo alimento nella ragione non solo, ma nella fede e in Dio stesso. È questo l’amore del prossimo, che regge ad ogni prova e che compendia l’adempimento di tutti i nostri doveri. – Io devo amare il mio prossimo; e perché? Perché Dio lo ha creato, quel Dio che ha creato me pure; perché Dio lo conserva; perché Dio ha scolpita in lui la sua immagine e lo ama come un padre ama il figliuol suo. Io devo amare il mio prossimo, perché il Figliuol di Dio si è fatto uomo per lui, come per me; perché ha patito ed è morto per lui, come per me; perché Gesù Cristo gli offre le sue grazie, ha stampato od è pronto a stampare nell’anima sua il carattere d i figlio di Dio, e lo chiama al possesso eterno di se stesso. Io devo amare il mio prossimo, in una parola, perché lo vuole Iddio, perché Gesù Cristo me lo comanda, perché è mio fratello per natura. e per grazia, e come è operoso l’amore di Dio  verso il prossimo, così a somiglianza del suo dev’essere operoso il mio. Ecco l’amore del prossimo secondo il Vangelo. – L’amore del prossimo, che scaturisce da sì alta e pura fonte, racchiude in sé tutte le qualità e doti, che lo rendono perfetto. Esso è universale, perché si estende a tutti ed a ciascun uomo, perché non vi è pure un uomo solo, pel quale non valgano i motivi sopra accennati. Siano cattolici, siano eretici, siano scismatici, siano ebrei, siano pagani, tutti sono opera delle mani di Dio, per tutti è morto Gesù Cristo. — Questo carattere di universale nel senso più ampio della parola è proprio soltanto dell’insegnamento evangelico. Fuori del Cristianesimo l’amore del prossimo è l’amore di famiglia, della tribù, della nazione, ma non dell’uman genere: si estende ad alcuni, ma non a tutti e per lo più. è figlio delle simpatie, della gratitudine, o della speranza. È un amore continuo, perpetuo, perché i motivi, che lo accendono e lo alimentano, come ciascun vede, sono continui e non cessano, né possono cessare un solo istante. I motivi non sono propriamente negli uomini, nei loro meriti, ma in Dio Creatore e Redentore, nel suo volere, e perciò non soggetti a mutamento di sorta e quindi anche l’amore, che ne è l’effetto, non solo è universale e continuo, ma eguale nel senso or ora spiegato. – È un amore eguale, perché quantunque possa e debba variare d’intensità in ragione dei vincoli diversi che ci legano al prossimo, nondimeno a tutti si estende senza eccezione, come a tutti si estendono la creazione e la redenzione. – Che importa che questi sia povero, rozzo, ignorante? Che importa che quello sia ingrato, vizioso, scellerato? Che importa che mi odi, mi insulti, mi perseguiti ferocemente? Io deplorerò, condannerò le opere sue, ma amerò lui, perché non cessa d’essere l’opera di Dio, la conquista di Gesù Cristo. Il mio amore si appunta in Dio e in Gesù Cristo, e Dio e Gesù Cristo non si muta mai. Ecco il segreto che spiega la carità cristiana; ecco il perché questi missionari e queste suore abbandonano la famiglia e la patria, si seppelliscono in un ospitale, in un ricovero, valicano i mari, si gettano in mezzo ai barbari, ai selvaggi, ai c annibali per istruirli, incivilirli, per morire per loro e con loro. Ora, l’amore del prossimo, quale l’abbiamo tratteggiato, deve necessariamente manifestarsi in due modi: col non dire, né far cosa che spiaccia o rechi danno al prossimo e col dire e fare tutto ciò che gli piace o gli rechi vantaggio, come meglio è dato a noi. E per questo che l’Apostolo, volendo mostrare che tutti i doveri verso il prossimo si recapitolano nella carità, scrive: “Di fatto il non fare adulterio, non uccidere, non rubare, non dir falsa testimonianza, non desiderare il male, e se vi è altro precetto, tutto è compreso in questa parola: Amerai il prossimo come te stesso. „ Chi ama di vero amore il prossimo, come ama se stesso, adempie la legge perfettamente, non fa male a chicchessia e fa bene a tutti quelli, ai quali può farlo. E dunque vero ciò che l’Apostolo soggiunge in forma di sentenza assoluta: “Compimento della legge è l’amore — Plenitudo legis est dilectio. Forse mi direte: Ma non abbiamo noi doveri verso noi stessi e verso Dio? Ora questi non sono compresi nell’amore verso del prossimo. Come dunque poté dire l’Apostolo: “L’amor e del prossimo è il compimento della legge? „ Veramente può intendersi i n questo senso: A quel modo che l’amore di Dio ci porta all’adempimento dei doveri, che riguardano Dio, così l’amore del prossimo ci porta ad adempire tutti i doveri, che abbiamo col prossimo; ma parmi che possa intendersi assai bene in quest’altro modo: Certamente chi ama Dio, dee volere ciò che vuole Iddio e, per conseguenza, deve amare il prossimo, come lo ama Dio e come Dio comanda. Nell’amore di Dio è chiaramente compreso l’amore del prossimo, come nella causa si contiene l’effetto. Ma nell’amore del prossimo si contiene anche l’amore di Dio? In qualche senso, sì, o carissimi. Perché è impossibile amare il prossimo stabilmente, senza eccezione, attuosamente, con sacrificio di se stessi, anche quando esso è ingrato e ci odia, senza l’aiuto di Dio, senza l’amore di lui e se nel prossimo non vediamo e non amiamo Dio stesso. “Niuno, dice S. Giovanni, vide giammai Iddio: se noi ci amiamo gli uni gli altri, Dio dimora in noi e la sua carità in noi è compiuta „ (Epist. I. IV, 12). Che è come dire: Iddio si ama nell’uomo: chi ama l’immagine di Dio, ama Dio, e l’uomo è veramente l’immagine viva di Dio sulla terra. Amiamo adunque Dio e ameremo il prossimo: amiamo il prossimo, come si dee, ed ameremo Dio, perché questi due amori non si possono separare.

Graduale Ps CI: 16-17

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua. Allelúja, allelúja. [Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia] Alleluja

Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja. [Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt VIII: 23-27

“In illo témpore: Ascendénte Jesu in navículam, secúti sunt eum discípuli ejus: et ecce, motus magnus factus est in mari, ita ut navícula operirétur flúctibus, ipse vero dormiébat. Et accessérunt ad eum discípuli ejus, et suscitavérunt eum, dicéntes: Dómine, salva nos, perímus. Et dicit eis Jesus: Quid tímidi estis, módicæ fídei? Tunc surgens, imperávit ventis et mari, et facta est tranquíllitas magna. Porro hómines miráti sunt, dicéntes: Qualis est hic, quia venti et mare obœdiunt ei?”

OMELIA II

 [Mons. G. Bonomelli, ut supra, omelia XVIII]

” Gesù essendo entrato in una navicella, i suoi discepoli lo seguitarono: ed ecco si levò un grande movimento del mare, talché la navicella era coperta dalle ondate. E Gesù dormiva. I suoi discepoli, accostatisi a lui, lo svegliarono, dicendo : Signore  salvaci, noi ci perdiamo. E Gesù disse loro: A che tanta paura, o uomini di poca fede? E alzatosi, comandò al vento ed al mare e si fece grande bonaccia. E gli uomini ne stupivano, dicendo: E chi è costui, che i venti ed il mare gli ubbidiscono? „ (Matt. VIII, 23-28).

Gesù Cristo dopo aver guarito il lebbroso presso Cafarnao e in Cafarnao il famiglio del centurione e liberata dalla febbre la suocera di Pietro, lungo la riva del lago di Tiberiade o di Genesaret, che gli Ebrei chiamavano mare, montò sopra una barchetta e di là, come narra S. Marco (IV, 1, 2), ammaestrava le turbe schierate sulla riva. E poiché ebbe finito, licenziata la moltitudine, volle tragittarsi sulla riva opposta del lago. Nella traversata avvenne il fatto che vi ho narrato, che sarà il soggetto delle nostre considerazioni comuni, sì, ma pur sempre belle ed utili. “Gesù, essendo entrato in una navicella, i suoi discepoli lo seguitarono: ed ecco si levò un gran movimento nel mare, talché la navicella era coperta dalle ondate. „ Questo il fatto, che non ha bisogno di spiegazione di sorta; piuttosto qui è da ricordare una dottrina comune dei Padri, che ha il suo fondamento nei Libri santi, ed è questa: vi sono nei Libri divini fatti che dobbiamo tenere con tutta certezza, essere avvenuti, come si narrano e che sono ordinati a significare altri fatti e ad insegnarci altre verità. Così noi dobbiamo tenere che Isacco saliva veramente il monte, carico delle legna, come narra la Scrittura; ma dobbiamo anche tenere che Isacco, in quell’atto, raffigurava Gesù Cristo che saliva il Calvario, portando il legno della croce. Possiamo applicare questo principio al fatto evangelico, che veniamo considerando. Eccovi la barchetta, sulla quale montò Gesù Cristo coi discepoli: eccovi il mare e la tempesta, che sorge. Che simboleggia essa quella barchetta? Simboleggia la Chiesa, nella quale sta sempre Gesù Cristo co’ suoi discepoli. Che cosa adombra il mare? La vita presente, che si alterna tra le burrasche e la calma. E la burrasca che sorse, che significa? Le lotte, i travagli, le prove, le persecuzioni che la Chiesa deve sostenere attraverso ai secoli. Ora quello che si può dire della Chiesa, in qualche senso e ragguagliata ogni cosa, si può dire d’ogni anima, nella quale Gesù Cristo abita per la fede e per la grazia, che  viaggia su questo mare del mondo, ora tranquillo ed ora tempestoso. La storia della Chiesa e d’ogni anima cristiana è dipinta al vivo nella navicella, che solca il lago di Tiberiade. La Chiesa sferra dalle spiagge della terra, e spiega le vele verso le sponde del cielo: sopra di essa sta sempre Gesù Cristo con gli Apostoli, nella persona del suo Vicario e de’ suoi Vescovi e lo seguono i suoi fedeli. Essa, è vero, non può naufragare, ma non va immune da tempeste: tempeste suscitate dalle passioni, da nemici interni ed esterni, più o meno violente secondo i tempi ed i luoghi. Ricordatevelo bene, o figliuoli dilettissimi: Gesù Cristo non promise mai alla sua Chiesa la pace stabile; anzi le predisse persecuzioni d’ogni fatta: annunziò che le porte, cioè le potenze d’inferno, l’avrebbero sempre combattuta e ch’essa ne sarebbe uscita vincitrice. Dunque non facciamo le meraviglie se la vediamo sì spesso or qua, or là, ora nel capo, ora nelle membra fieramente assalita. È la sua condizione. Può avere periodi di pace; ma pace continua, stabile, non mai; essa naviga sul mare, troppo spesso campo e giuoco dei venti e delle procelle; la pace vera e perfetta l’avrà solo in quel dì, che si chiuderanno i tempi e getterà l’àncora sul porto tranquillo e sicuro della eternità. Ciò che dico della Chiesa, l’applichi ciascuno a se stesso, e si ricordi che la vita è una milizia, cioè un periodo, in cui la pace e le battaglie necessariamente si avvicendano. E perché Dio vuole che la sua Chiesa, come una nave, che veleggia sul mare, sia a sì frequenti intervalli flagellata dalle procelle? Perché il somigliante vuole o permette per ogni anima, che naviga in questo pelago fortunoso della vita? Perché, se la guerra mostra il valore del soldato, la lotta mette in luce la forza divina della Chiesa: perché le prove impongono la vigilanza continua, affinano la virtù, obbligano a ricorrere a Dio, esercitano la pazienza, avvivano la fede, accrescono la, speranza e danno occasione al merito. L’acqua che ristagna, impaluda e si corrompe; un’aria immobile si altera e soffoca; la pace troppo lunga snerva il soldato: il movimento preserva l’acqua dalla corruzione, la bufera muta e rinfresca l’aria, la guerra addestra il soldato, e le lotte ringagliardiscono e purificano la Chiesa non meno che i singoli fedeli (S. Cipr.: De Mortalitate). – Ritorniamo alla navicella, che sul lago di Tiberiade era fieramente sbattuta dai venti per guisa, dice il Vangelo, che a quando a quando era coperta dalle ondate e minacciata d’essere sommersa. Che faceva Gesù? “Egli  ntanto dormiva, „ col capo adagiato, come dice S. Marco, sopra un guanciale. Egli dormiva e, credo, veramente, non in apparenza. Egli era perfetto uomo, e come uomo aveva bisogno di cibo, di bevanda, di riposo e di sonno come noi, e perciò nulla di più naturale, che dopo le fatiche della predicazione e dell’intera giornata secondasse il bisogno della natura e si addormentasse. Egli certo vedeva il pericolo ed il terrore degli Apostoli, eppure dormiva e mostrava di non veder nulla e di nulla curarsi. Similmente talvolta accade che la Chiesa soffra grandi pressure e corra gravi pericoli, e che Gesù Cristo lasci fare e quasi dorma: accade talvolta che la navicella dell’anima nostra sia qua e là trabalzata dalle onde frequenti delle tribolazioni e delle tentazioni, e che l’aiuto dall’alto venga meno: Gesù dorme. Egli vuole che ricorriamo a lui, e così con la preghiera in parte meritiamo l’onore della vittoria. — E ciò che fecero gli Apostoli là sul lago di Tiberiade. Essi, vedendo Gesù che riposava tranquillamente, in sulle prime non volevano turbare il suo sonno; ma, crescendo l’impeto della procella, e levandosi più minacciose le onde, e non potendo più oltre reggere al timone ed ai remi, vistasi la morte alla gola, corsero a Gesù, e destatolo, sclamarono: ” Signore, salvaci, noi ci perdiamo. ,, E questo, o cari, uno dei frutti più preziosi delle tribolazioni e dei grandi pericoli: veggendoci impotenti a superare la prova, conosciamo meglio noi stessi, sentiamo la necessità del soccorso divino e mossi dalla fede e dalla speranza, ci prostriamo innanzi a Dio e preghiamo. — Ah! sono le tribolazioni, sono i dolori, sono le tentazioni quelle che ci sollevano da questa terra e ci conducono a Dio. – Gli Apostoli ricorsero a Gesù e lo pregarono perché li stringeva davvicino il pericolo della morte. Imitiamoli ogni qualvolta i venti delle tentazioni e delle tribolazioni agitano e minacciano la navicella dell’anima nostra: il nostro grido, la nostra preghiera sia quella stessa degli apostoli: “Signore, salvaci, . noi ci perdiamo — Domine, salva nos, perimus. E Gesù disse loro: A che tanta paura, o uomini di poca fede? „ E come ciò? Gli Apostoli si gettano ai piedi di Gesù e lo pregano con tutto l’ardore dell’anima di salvarli dalla morte, ed Egli li rimprovera, come soverchiamente timidi e uomini di poca fede? Dovevano dunque astenersi dal pregarlo ed aspettare quando tutti fossero stati gettati in mare? Perché dunque il rimprovero? Senza dubbio Gesù li rimprovera pel soverchio timore, onde erano sopraffatti, timore, che non dovevano avere, trovandosi con Lui, che non poteva perire: è il manco di conoscimento della sua divina persona, l’angoscia smodata, la poca fede che Gesù riprende negli Apostoli. Allorché preghiamo d’essere liberati dai mali del corpo, non ci facciano mai difetto la calma, la rassegnazione ai divini voleri e la figliale fiducia in Dio. “E alzatosi, Gesù comandò ai venti ed al mare e si fece grande bonaccia. „ Sembra evidente che Gesù volgesse la parola al vento ed al mare, anzi S. Luca dice che li rimproverò, e ciò in forma di comando assoluto, come Signore d’ogni cosa, e incontanente si quietò il vento, e il lago tornò tranquillo in guisa che apparve chiaramente tutto ciò essere stato effetto del volere di Gesù Cristo. Come allora pregato fece cessare la tempesta del lago, così anche al presente, pregato da noi, sperderà i venti e le burrasche, che travagliano la sua Chiesa e turbano le anime nostre, se ciò tornerà a bene di quella e di queste. Purtroppo, o fratelli, per molti si pecca in varie maniere per ciò che spetta il ricorrere a Dio nei bisogni. – Vi sono molti, che non si curano di ricorrere a Dio allorché i nemici spirituali li stringono e le passioni rompono a rivolta, o ricorrono fiaccamente. Questi cadranno, perché senza l’aiuto di Dio non possono far nulla, e l’aiuto Iddio ordinariamente non l’accorda a chi non lo prega. Allorché adunque la tentazione ci preme e ci incalza, leviamo la mente a Dio, imploriamo con fede viva il soccorso, ed il soccorso, non ne dubitate, verrà. Vi sono altri, che nelle pene della vita, nei travagli temporali, nelle infermità, nelle calamità pubbliche o private, corrono ai piedi degli altari, pregano, fanno pellegrinaggi, digiuni e pretendono in modo assoluto che Dio li esaudisca. Costoro confondono malamente le cose: allorché si tratta della salvezza dell’anima nostra, dei beni spirituali assolutamente necessari, anche la preghiera può e deve essere assoluta, perché Dio si è obbligato ad esaudirci. Non sia mai per altro che vogliamo imporre a Dio il tempo e il modo. Che se si tratta di beni temporali, la nostra preghiera vuol essere condizionata, perché potrebb’essere che ciò che per noi si domanda non piacesse a Dio e tornasse anche di danno al conseguimento della salvezza nostra. Stiamo in guardia contro tutti questi difetti, nei quali frequentemente si cade anche dai buoni. “Gli uomini poi ne stupivano, dicendo: Chi è costui, che il vento e il mare gli ubbidiscono? „ Questi uomini, che rimasero colmi di stupore alla vista di tanto miracolo, erano gli Apostoli e forse anche alcuni altri, che sopra altre piccole barche l’avevano seguito. Ed è bene a credere, che non solo stupissero del miracolo, ma vivamente ringraziassero Gesù d’averli scampati dalla morte e lo riconoscessero per l’aspettato Messia, per Salvatore del mondo e l’adorassero. Figliuoli carissimi! la gratitudine è un sacro dovere con gli uomini, allorché ci beneficano: quanto è più sacro con Dio ogni qualvolta ci benefica, e ci benefica sempre, ad ogni istante! La gratitudine dei benefici ricevuti è il miglior mezzo per ottenerne altri anche maggiori.

 Credo

Offertorium

Ps CXVII: 16; 17

Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini. [La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut hujus sacrifícii munus oblátum fragilitátem nostram ab omni malo purget semper et múniat. [O Dio onnipotente, concedici, Te ne preghiamo, che questa offerta a Te presentata, difenda e purifichi sempre da ogni male la nostra fragilità.]

Communio

Luc IV:22 Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei. [Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

Postcommunio

Orémus.

Múnera tua nos, Deus, a delectatiónibus terrenis expédiant: et coeléstibus semper instáurent aliméntis. [I tuoi doni, o Dio, ci distolgano dai diletti terreni e ci ristorino sempre coi celesti alimenti.]