DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semìdoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica, inserita nel Messale dopo il Sabato delle Quattro-Tempora, era anticamente libera. La liturgia della vigilia si prolungava, infatti, fino alla Domenica mattina, e quindi queste giorno non aveva Messa propria. La lezione del Breviario nella Domenica che segue le Quattro Tempora (4a Domenica di settembre) è quella del libro di Giuditta, che S. Ambrogio, nel 2° Notturno riporta a questo tempo di penitenza, attribuendo al digiuni e all’astinenza di quest’eroina la sua miracolosa vittoria. Per continuare il riavvicinamento che abbiamo stabilito fra il Messale e il Breviario, possiamo anche studiare la Messa del Sabato delle Quattro Tempora, che era anticamente quella di questa Domenica in rapporto con la storia di Giuditta. – Nabuchodonosor, re degli Assiri, mandò Oloferne, generale del suo esercito, a conquistare la terra di Canaan. Quest’ufficiale assediò la fortezza di Betulia. Ridotti agli estremi, gli assediati decisero di arrendersi nello spazio di cinque giorni. Viveva allora in questa città una vedova chiamata Giuditta, che godeva grande riputazione. « Facciamo penitenza per i nostri peccati disse ella, e imploriamo il perdono da Dio con molte lacrime! Umiliamo le anime nostre davanti a Lui e preghiamolo di farci sperimentare la sua misericordia. Crediamo che questi flagelli, con i quali Dio ci castiga, ci sono mandati per correggerci e non per rovinarci ». E questa santa donna entrò allora nel suo oratorio rivestita di cilicio e con la testa cosparsa di cenere si prostrò a terra davanti al Signore. Compiuta la sua preghiera, mise le sue vesti più belle ed uscì dalla città con la sua ancella. Sul far del giorno giunse agli avamposti dei Caldei e dichiarò che era venuta per dare i suoi nelle mani di Oloferne. I soldati la condussero dal generale che fu colpito dalla sua grande bellezza « che Dio si compiacque di rendere ancor più abbagliante, poiché aveva per scopo non la passione, ma la virtù ». Oloferne credette alle parole di Giuditta e offrì in suo onore un gran banchetto. Nel trasporto della gioia bevve con intemperanza maggiore del solito e oppresso del vino si distese sul letto e si addormentò. Tutti si ritirarono allora e Giuditta restò sola presso di lui. Ella pregò il Signore di dar forza al suo braccio per  per la salvezza di Israele; poi, staccata la spada appesa al capo del letto, tagliò coraggiosamente la testa di Oloferne, la consegnò all’ancella ordinandole di nasconderla nella borsa da viaggio e ambedue rientrarono a Betulia quella notte medesima. Quando gli Anziani della città appresero quello che Giuditta aveva fatto, esclamarono: « Benedetto sia il Signore, che ha creato il cielo e la terra! ». L’indomani la testa sanguinante di Oloferne venne esposta sulle mura della fortezza. I Caldei gridarono al tradimento ma, inseguiti dagli Israeliti, furono massacrati o messi in fuga. Quando il Sommo Sacerdote venne da Gerusalemme con gli Anziani per festeggiare la vittoria, tutti acclamarono Giuditta, dicendo: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la letizia di Israele, tu l’onore del nostro popolo ». S. Ambrogio, nel 2° Notturno della IV Domenica di Settembre commenta questa pagina della Bibbia dicendo: « Giuditta tagliò la testa ad Oloferne in forza della sua sobrietà ». Armata del digiuno, essa penetrò arditamente nel campo nemico. Il digiuno di una sola donna ha vinto le innumerevoli schiere degli Assiri ». La Messa del Sabato delle Quattro Tempora è piena di sentimenti analoghi. Le Orazioni implorano il soccorso della misericordia divina, appoggiandosi sul digiuno e sull’astinenza che ci rendono più forti dei nostri nemici. Perdonaci le nostre colpe, Signore, dice il l° Graduale. Vieni in nostro aiuto, o Dio nostro Salvatore; liberaci, per l’onore dei nome tuo ». « O Signore, Dio degli eserciti, continua il 2° Graduale, presta l’orecchio alle preghiere dei tuoi servi ». « Volgi il tuo sguardo, o Signore; sino a quando volti da noi la tua faccia? aggiunge il 3° Graduale, abbi pietà dei tuoi servi ». — Le Lezioni fanno tutte allusioni alla misericordia di Dio verso il popolo, che ha fatto penitenza. Così parla il Signore degli eserciti: «Come ebbi l’intenzione di far del male ai vostri padri quando essi provocarono la mia collera, cosi in questi giorni ho avuto l’intenzione di fare del bene alla casa di Gerusalemme ». – Il racconto della liberazione del popolo ebreo dalla servitù assira per mezzo di Giuditta (nome che è il femminile di Giuda) dopo che essa ebbe digiunato è un’immagine della liberazione del popolo di Dio alla Pasqua, per mezzo di Gesù (della stirpe di Giuda) dopo la Quaresima. – Più tardi, allorché non si attese più la sera per celebrare il santo Sacrificio il Sabato delle Quattro Tempora, si prese per la 18° Domenica dopo Pentecoste, la Messa che era stata composta al VI secolo per la Dedicazione della Chiesa di San Michele a Roma e che fu celebrata il 29 settembre; infatti tutto il canto si riferisce alla consacrazione di una Chiesa. « Mi rallegrai quando mi dissero Andremo nella casa del Signore (Versetto All’Introito e Graduale). Mosè consacrò un altare al Signore, dice l’Offertorio. « Entrate nell’atrio del Signore e adoratelo nel Tempio Suo santo », aggiunge al Communio, e questa è una immagine del cielo ove affluiranno tutte le nazioni quando verrà la fine dei tempi indicata da questa Domenica e dalle seguenti che vengono alla fine del Ciclo. L’Alleluia è infatti quello delle Domeniche dopo l’Epifania, che annunziava l’ingresso dei Gentili nel regno dei cieli. L’Epistola parla di coloro che attendono la rivelazione di Nostro Signore al suo ultimo avvento; allora essi godranno eternamente, nella casa del Signore, la pace che, come dissero i Profeti, Egli accorderà a quelli che lo attendono (Intr., Graduale). Questa pace Gesù ce l’ha assicurata morendo sulla croce, che è il sacrificio vespertino. Questa pace e questo perdono noi lo godiamo già nella Chiesa, in grazia del potere accordato da Gesù ai suoi sacerdoti. Questa Messa, che segue il sabato delle Ordinazioni fa infatti allusione anche al sacerdozio. Come il Salvatore, che esercitò il suo ministero e guarì l’anima del paralitico guarendone il corpo, quelli che sono ora stati ordinati sacerdoti predicano la parola di Cristo (Epistola), celebrano il santo Sacrifizio (Offert.) e rimettono i peccati (Vangelo). E cosi preparano gli uomini a ricevere irreprensibili il loro divin Giudice (Epistola).

La predicazione evangelica è una testimonianza resa a Gesù Cristo. Quelli che l’accettano ricevono doni celesti in sovrabbondanza e possono attendere con fiducia l’avvento glorioso di Gesù alla fine dei tempi.

Giovanni Crisost. così commenta la risposta data da Gesù agli Scribi che non gli riconoscevano la facoltà di perdonare i peccati: « Se non credete la potestà di rimettere le colpe, credete la facoltà di conoscere i pensieri, credete la virtù del sanare da malattie incurabili i corpi. Più facile sanare il corpo; ma giacché non credete alla maggiore meraviglia, ve ne mostrerò una minore ma aperta ai sensi.  »                                                                           

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Eccli XXXVI: 18
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël.

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Ps CXXI: 1
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai per ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore].

Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Oratio

Orémus.
Dírigat corda nostra, quǽsumus, Dómine, tuæ miseratiónis operátio: quia tibi sine te placére non póssumus.

[Te ne preghiamo, o Signore, l’azione della tua misericordia diriga i nostri cuori: poiché senza di Te non possiamo piacerti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor 1: 4-8
Fratres: Grátias ago Deo meo semper pro vobis in grátia Dei, quæ data est vobis in Christo Jesu: quod in ómnibus dívites facti estis in illo, in omni verbo et in omni sciéntia: sicut testimónium Christi confirmátum est in vobis: ita ut nihil vobis desit in ulla grátia, exspectántibus revelatiónem Dómini nostri Jesu Christi, qui et confirmábit vos usque in finem sine crímine, in die advéntus Dómini nostri Jesu Christi.

[“Fratelli: Io rendo continuamente grazie al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù; perché in lui siete stati arricchiti di ogni cosa, di ogni dono di parola e di scienza, essendosi stabilita solidamente in mezzo a voi la testimonianza di Cristo, in modo che nulla vi manca rispetto a qualsiasi grazia; mentre aspettate la manifestazione di nostro Signor Gesù Cristo, il quale vi manterrà pure saldi sino alla fine, così da essere irreprensibili nel giorno della venuta del nostro Signor Gesù Cristo”.]

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920

LA GRATITUDINE VERSO DIO

Questo brano è tolto dall’introduzione alla prima lettera di San Paolo a quei di Corinto. Nei primi versetti, saluta i Corinti nella sua qualità di Apostolo, e augura loro da Dio la grazia e la pace. Poi — come vediamo dalle parole riportate — assicura che ringrazia continuamente Dio per la grazia concessa a quei di Corinto per mezzo di Gesù Cristo. Grazia che non fu senza frutto; perché, mediante la loro unione con Gesù Cristo, i Corinti ebbero grande abbondanza di doni spirituali; in modo particolare ebbero la rivelazione delle verità del Vangelo, e la loro profonda intelligenza. Spera, poi, che Dio li assista per tutta la vita, così che si trovino con la coscienza monda nel giorno del giudizio. Il ringraziamento che l’Apostolo fa a Dio per l’abbondanza dei doni fatti ai Corinti ci ricorda il dovere della gratitudine verso Dio.

1. Dobbiamo esser grati a Dio per i benefici ricevuti;

2. Non a fior di labbra solamente;

3. Ci disporremo così a ricevere maggiori favori.

1.

Fratelli : lo rendo continuamente grazie al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù. L’apostolo fa tanto conto della gratitudine che si deve a Dio per i doni di cui ricolma gli uomini che ringrazia senza interruzione Dio, per l’abbondanza di grazie di cui ha favorito i Corinti. L’obbligo di ringraziare debitamente chi è largo dei suoi doni spetta in modo particolare a coloro stessi che hanno ricevuto il dono. E nessuno mette in dubbio che, venendo meno a questo obbligo, si fa cosa biasimevole. Sarà meno biasimevole l’ingratitudine se riguarda i benefici ricevuti da Dio? Eppure, nessuno è più pagato d’ingratitudine che nostro Signore. Chi può enumerare i benefìci da Lui ricevuti e apprezzarli in tutta la loro grandezza! La nostra esistenza, la conservazione, l’intelligenza, la santità, il cibo che mangiamo, l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, la terra che ci porta, tutto quanto ricrea e ci solleva sono dono di Dio. Se parliamo delle grazie e dei doni spirituali, con i quali ci ricolma per i meriti di Gesù Cristo, non troviamo parole sufficienti a celebrare la sua larghezza verso di noi. Cerchi l’uomo, se può, qualche cosa che non abbia ricevuto da Dio: cercherà invano. Una cosa sola troverà che non abbia ricevuto da Dio: il peccato. E troverà che, nonostante i suoi peccati, Dio lo ha sopportato. Egli ha abbandonato il Signore, ma il Signore, non ha abbandonato lui. “Se pensassi a ciò, ti sentiresti certamente obbligato al tuo Dio, dal quale tieni tutto quello che possiedi di buono; e dalla cui misericordia ti vien rimesso tutto quello che hai di cattivo” (S. Agostino, in En. in Ps. XLIX, 21). Non solo è un beneficio di Dio la remissione dei peccati, che abbiamo commessi, ma anche la preservazione da più numerose cadute. « Se ci sentiamo in dovere di mostrare il nostro grato animo agli amici, quando ci aiutano a liberarci da qualche noia, da qualche condizione scabrosa o da qualche pericolo che si sovrasta, molto più dobbiamo esser pronti all’ossequio quando vediamo i molti pericoli cui siamo sfuggiti, perché Dio ce ne ha liberati » (S. Giov. Crisostomo. In Epist. ad Tit. I, 1). È più ancora dobbiamo esser spinti all’ossequio e a dimostrare il nostro grato animo a Dio, se pensiamo che i suoi benefici non sono una retribuzione o una ricompensa, ma effetto di pura generosità. «Che cosa fece l’uomo in precedenza, se non peccare?» (S. Agostino. En. In Ps. CXV, 4). Egli si era meritati castighi e non doni. E neppure Dio ci ha largito i suoi doni, perché avesse bisogno di qualche cosa| da parte nostra. « Come potrebbe aver bisogno delle cose nostre quegli, per il quale esiste tutto ciò che è nostro »(S. Ilario, De Trin. L. 3, 7). E d’altronde noi non potremmo mai rendere a Dio la ricompensa dovuta per i suoi doni. Questo però non ci dispensa dall’obbligo della gratitudine: anzi, deve risvegliarne maggiormente i sentimenti nei nostri cuori. Davide si domanda: « Che renderò al Signore per tutti i benefici da lui ricevuti? Prenderò il calice di salute invocando il nome del Signore » (Salm. CXV, 12-13). Questo dobbiamo fare anche noi: rendere a Dio il sacrificio del ringraziamento e della lode. –

2.

Se l’Apostolo ringrazia Dio per i doni elargiti ai Corinti, questi non rimangono inerti. Ringraziano Dio coi fatti, non lasciando infruttuose le grazie ricevute. Mediante la fede e la carità essi si mantengono in intima unione con Gesù Cristo, e in questa unione sono arricchiti d’ogni cosa. Nulla vi manca — dice l’Apostolo — rispetto a qualsiasi grazia; rispetto alle grazie necessarie alla salute propria, e rispetto alle grazie che rendono utile agli altri chi le possiede. I Corinti sapevano usar bene delle grazie ricevute, e il buon uso delle grazie è già un ringraziamento; è un ringraziamento che si dimostra con le opere. Noi ringraziamo il Signore con le opere, mostrandogli la nostra gratitudine, quando diamo a Lui quanto gli aspetta. A lui dobbiamo dare il nostro tempo, impiegandolo nel suo servizio almeno i giorni stabiliti; a Lui dobbiamo dare la nostra intelligenza, sottomettendola docilmente alle verità della nostra santa fede; dobbiamo dare la nostra volontà conformandola alla sua legge; a Lui dobbiamo dare il nostro corpo, con una vita lontana dalle impudicizie, dalle crapule, dalle ubriachezze; a Lui dobbiamo dare la nostra lingua, non imbrattandola con discorsi meno belli, con mormorazioni, con bestemmie. – Si mostra a Dio la nostra gratitudine, servendolo senza tristezza. Siamo tristi perché giudichiamo che altri siano più favoriti che noi. Con questa nostra tristezza veniamo a giudicare l’operato del Signore. Crediamo di non esser trattati bene come gli altri, e non ci sentiamo di accettare la misura da Lui stabilita nella distribuzione dei suoi favori. Gli operai chiamati per primi a lavorare nella vigna, come è detto nella parabola del Vangelo, invece di ringraziare il padrone, quando alla fine della giornata fa distribuire la paga convenuta, brontolano come fossero trattati ingiustamente, perché il padrone ha creduto bene di abbondare con quelli venuti a lavorare per ultimi. Così facciamo anche noi, quando giudichiamo di essere trattati meno generosamente degli altri. Siamo tristi perché ci consideriamo retribuiti al di sotto dei nostri meriti. Quanto abbiamo da Dio, sia tanto, sia poco, è tutto dono di Lui: e dobbiamo in ogni tempo e in ogni luogo mostrarci lieti e contenti della sua generosità. Si mostra pure gratitudine a Dio accettando con animo tranquillo, sottomesso alla sua volontà, i dolori con cui ci purifica. L’uomo che nutre sentimenti di gratitudine verso Dio, datore di ogni bene, in queste circostanze pensa: I miei peccati meritano forse una ricompensa? È vero, Dio mi prova; ma le mie mancanze meritano ancor di più: Dio è pur buono con me. Con questi dolori mi dà modo di espiare i miei peccati: io gli devo esser grato.

3.

I Corinti, finché saranno su questa terra avranno, come tutti i Cristiani, da combattere contro nemici d’ogni genere, ma l’Apostolo spera che Dio li fortificherà con la sua assistenza, mantenendoli saldi sino alla fine, così da essere irreprensibili nel giorno della venuta del nostro Signor Gesù Cristo. Senza l’assistenza di Dio nessuno potrà perseverare sino all’ultimo. Il mostrarsi grati dei benefici ricevuti è un mezzo efficace per assicurasi questa assistenza. Dopo un luogo periodo di pioggia si invoca un vento di tramontana, che spazzi via le nubi e riconduca il sereno. Ma se il vento è troppo forte e duri a lungo, distrugge presto i benefici della pioggia disseccando il terreno. L’ingratitudine è precisamente come un vento impetuoso che asciuga la sorgente dei benefici. « Perciò è un grave pericolo per gli uomini mostrarsi ingrati a Dio, obliarne i benefici, non far penitenza dopo il castigo, e non rallegrarsi del perdono» (S. Leone Magno: Serm. 84, 1). – Al contrario, la gratitudine predispone il benefattore a concedere nuovi benefici. La gratitudine è lo sprone dei benefìzi, dice un proverbio tedesco. Fermiamoci nel campo della gratitudine verso Dio. Apriamo il Vangelo. Un giorno Gesù, nel recarsi a Gerusalemme attraverso la Samaria e la Galilea, è incontrato da dieci lebbrosi, che da lontano alzano la voce dicendo: «Gesù Maestro, abbi pietà di noi». E Gesù, mosso a pietà, li guarisce. Di questi dieci, uno solo, un Samaritano, si mostra grato del beneficio ricevuto, prostrandosi ai piedi di Gesù, e ringraziandolo. Gesù, che biasima il contegno dei nove lebbrosi i quali non hanno sentito il dovere della gratitudine, apprezza la dimostrazione di riconoscenza di questo estraneo. Il guarito è un Samaritano, cioè appartiene a gente odiatissima dai Giudei, e Gesù ne fa l’elogio: «Non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio, salvo questo straniero». Gli richiama alla mente quale fu la causa della sua guarigione: «La tua fede ti ha salvato»; e gli apre la via anche alla salvezza dell’anima, mediante la fede in Gesù Cristo (Luc. XVII,11-19). – Come l’ingratitudine ha per base la superbia, perché l’ingrato stima che tutto quello che ha gli sia dovuto, così la gratitudine ha per base l’umiltà, poiché tutto quanto si possiede è riconosciuto come dono della bontà di Dio, a cui da parte nostra non si ha alcun diritto. E Dio predilige in modo particolare gli umili, come attesta la S. Scrittura: «Dio resiste ai superbi, ma agli umili dà grazia» (Giac. IV, 6). Il ringraziamento, fatto non a fior di labbra soltanto, ma accompagnato da umili sentimenti interni, è come un soave fumo d’incenso che, salendo a Dio, si trasforma in pioggia di nuovi benefici. Assuefiamoci a ringraziar Dio tutti i giorni, assuefiamoci a ringraziarlo fin dai primi anni della vita. Quando il Card. Mercier, sottraendosi per qualche giorno ai profondi studi e alle gravi cure amministrative, si ritirava in campagna a Braine-D’Alleud, incontrava tal volta, nella passeggiata serale attraverso i campi, qualche gruppo di bambini di ritorno dalla scuola. Egli li fermava additando loro le colline rivestite d’oro e di porpora sotto i raggi del sole morente, e diceva: «Guardate, piccini, che bellezza! Chi ha fatto tutto questo? — Il buon Dio. — Si, bambini; ma bisogna ringraziarlo d’avervi fatto così bei doni, e soprattutto bisogna amarlo » (Mgr. Laveille, Le Cardinal Mercier, Paris 1927, p. 116-117). – L a Chiesa, in certe circostanze dell’anno, specialmente nell’ultimo giorno, ci chiama a ringraziar Dio per i benefici ricevuti. Chi sente l’obbligo della gratitudine, non aspetta queste circostanze: lo ringrazia ogni giorno e in ogni luogo, perché in ogni giorno e in ogni luogo trova da ammirare i benefici di Dio. È un dovere di giustizia ed è nostro interesse. Perciò la Chiesa va ripetendo ogni giorno: «E’ veramente cosa degna e giusta, conveniente e salutare, che sempre e in ogni luogo noi ti rendiamo grazie, Padre Onnipotente, Eterno Iddio, per Cristo Signor nostro» (Prefazio com. della Messa).

Graduale

Ps CXXI: 1; 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore.]

Alleluja

V. Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. Allelúja, allelúja

[V. Regni la pace nelle tue mura e la sicurezza nelle tue torri. Allelúja, allelúja]

Ps CI: 16

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. Allelúja.

 [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: e tutti i re della terra la tua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. IX: 1-8


“In illo témpore: Ascéndens Jesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce, offerébant ei paralýticum jacéntem in lecto. Et videns Jesus fidem illórum, dixit paralýtico: Confíde, fili, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce, quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Jesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccáta tua; an dícere: Surge et ámbula? Ut autem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralýtico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit et ábiit in domum suam. Vidéntes autem turbæ timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus”.

[“In quel tempo Gesù montato in una piccola barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Quand’ecco gli presentarono un paralitico giacente nel letto. E veduta Gesù la loro fede, disse al paralitico; Figliuolo, confida: ti son perdonati i tuoi peccati. E subito alcuni Scribi dissero dentro di sé: Costui bestemmia. E avendo Gesù veduti i loro pensieri, disse: Perché pensate male in cuor vostro? Che è più facile, di dire: Ti sono perdonati i tuoi peccati; o di dire: Sorgi e cammina? Or affinché voi sappiate che il Figliuol dell’uomo ha la podestà sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse Egli allora al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. Ed egli si rizzò, e andossene a casa sua. Ciò udendo le turbe s’intimorirono e glorificarono Dio che tanta potestà diede ad uomini].

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la bestemmia ed il giuramento.

“Quidam de scribis dixerunt intra se: Hic Blasphemat”.

Matth. VI.

Siccome presentavasi a Gesù Cristo un paralitico per esserne guarito, il Salvatore disse a quell’uomo: Confida, o figliuolo, i tuoi peccati ti sono rimessi. Dal che gli scribi prendettero occasione di accusar Gesù Cristo di bestemmia, perché, dissero essi, si attribuiva il potere di rimettere i peccati, il quale non appartiene che a Dio. Hic blasphemat. Ma non eran forse piuttosto i dottori della legge che bestemmiavano essi medesimi trattando Gesù Cristo da bestemmiatore, poiché aveva dato loro con i suoi miracoli prove convincenti della sua divinità, e per conseguenza del potere che aveva di rimettere i peccati? Fu altresì per vieppiù convincerli e confonderli che fece in quella occasione un nuovo miracolo, risanando il paralitico. Che cosa è più facile, disse loro, dire a quell’uomo: i tuoi peccati ti sono perdonati, ovvero, sorgi, porta via il tuo letto o cammina? Or, affinché sappiate che il Figliuolo dell’uomo ha la potestà di rimettere i peccati: “sorgi disse al paralitico, porta via il tuo letto e cammina”.

Il paralitico ubbidì all’istante e i testimoni della sua guarigione glorificarono Dio di aver dato un tal potere agli uomini. Così i dottori della legge rimasero confusi, ma non furono convertiti né desistettero di continuar la guerra contro il Salvatore, d’intentare contro di Lui false accuse e di bestemmiare contro la sua divinità. – Peccato orribile la bestemmia, che regna ancora tra i Cristiani e che merita tutta la nostra avversione! Si è per inspirarcene orrore che imprendo quest’oggi a combatterlo, e con lui le imprecazioni e le maledizioni, perché questi peccati, sebbene diversi tra essi, hanno nulladimeno qualche cosa di somigliante nel carattere di malizia che debbo dipingervi nella bestemmia. Ah! perché non posso io, fratelli miei, distruggere questi mostri fra voi! Sono essi così comuni in tutti gli stati che mi stimerei felice di sminuirne il numero. Si bestemmia, si giura, si lanciano maledizioni: le città, le campagne ne rimbombano; i poveri ed i ricchi, i grandi ed i piccoli, i vecchi ed i giovani ne sono colpevoli; appena i fanciulli sanno parlare, che è questo, per così dire il primo linguaggio che esce dalla loro bocca. Qual bene non farei io dunque se potesse mettere un argine a questo torrente che fa tanti danni nel mondo? Per riuscirvi, procurerò di farvene conoscere l’enormità ed i castighi. Quanto le bestemmie e le imprecazioni oltraggiano Dio, voi lo vedrete nel primo punto. Come punisce questi peccati, voi lo vedrete nel secondo punto.

I. Punto. Prima di presentarvi, fratelli miei, la grandezza dell’oltraggio che il bestemmiar fa a Dio, bisogna spiegarvi la natura di questo peccato coi diversi gradi di malizia che lo rendono più grave a cagione delle diverse guise con cui si commette. Giurare, si è prender il santo Nome di Dio in testimonio, che quanto si dice è vero; il che non è giammai permesso di fare che con queste tre modificazioni, che il Signore medesimo ci apprende per uno de suoi profeti; voi non giurerete, dice Egli, che per la verità, la giustizia e la necessità: Jurabis in veritate, iustitia et iudicio (Jerem. IV). Non è giammai permesso di giurare, che per una cosa vera, giusta e necessaria. Chi sono dunque coloro che pigliano invano il santo Nome di Dio? Sono 1. Coloro che giurano per una cosa falsa o che dubitano esser vera; che giurano di fare una cosa che non hanno intenzione di adempiere; e questi sono spergiuri. 2. Si piglia invano il santo Nome di Dio allorché taluno si obbliga con giuramento di fare qualche cosa peccaminosa, la quale non è giammai permesso di eseguire quand’anche siasi giurato di farla. 3. Finalmente peccano contro questo comandamento coloro che giurano per una cosa vera e buona in se stessa, ma senza necessità, senza discrezione, senza esservi obbligati da legittima autorità. Ecco, fratelli miei, ciò che Dio ci proibisce quando ci dice di non prender invano il suo santo Nome; ci vieta ancora di giurare per le creature, perché le creature avendo rapporto a Dio, di cui sono opera, assicurare una cosa sulla verità delle creature si è assicurarla sulla testimonianza della Verità increata. Per la qual cosa ci dice Gesù Cristo nel Vangelo di non giurare né per il cielo né per la terra; ma dire semplicemente: questo è, questo non è: Est, est, non, non (Matth.V). Ma se uno è colpevole nel servirsi del santo Nome di Dio per accertare qualche cosa falsa o anche vera, che sarà poi, fratelli miei, attribuire una falsità a questo santo Nome stesso, come fassi con la bestemmia? Mentre la bestemmia, secondo s. Agostino e s. Tommaso, è una parola ingiuriosa a Dio con cui gli si attribuisce ciò che non gli conviene, o con cui gli si toglie quello che ha; peccato ordinario a coloro che mormorano contro la divina Provvidenza. Io rinchiudo ancora nella specie del peccato di bestemmia le maledizioni, le imprecazioni che si proferiscono contro alle creature o a se stesso, perché in queste maledizioni gli uomini invocano il Nome e la possanza di Dio per farla servire alla loro collera; al loro furore, e perché queste imprecazioni contro le creature ricadono in qualche modo sul Creatore, di cui esse sono opera. Or la bestemmia, di qualunque natura ella sia, come ho spiegato, è uno dei peccati che offendono Dio più gravemente. E perché? Perché egli combatte una delle più nobili virtù, che ci porta a Dio; cioè, la virtù della religione, con cui noi gli rendiamo la gloria e l’omaggio che sono dovuti alla sua infinita maestà. Quindi la bestemmia è differente dagli altri peccati, in quanto che questi non attaccano Dio che indirettamente e solo nelle sue creature: laddove quella se la prende contro Dio medesimo, e l’attacca nel suo essere e nelle sue perfezioni. Sì, il bestemmiatore è un reo di lesa maestà divina per l’oltraggio che fa alla grandezza, alla bontà, alla provvidenza di Dio. Egli oltraggia la sua grandezza disonorando il suo santo Nome, avvilendolo coll’uso profano che ne fa, attribuendogli quel che non gli conviene. Egli oltraggia la bontà e la provvidenza di Dio pel dispregio che fa de’ suoi doni e delle sue opere nelle maledizioni che dà a se stesso o agli altri. Giudichiamo da tutti questi tratti dell’enormità di questo peccato, e non temiamo di dire che un bestemmiatore è un uomo senza religione, senza rispetto per Dio, senza carità pel prossimo e per se stesso. Il mio Nome è grande, dice il Signore, tra le nazioni della terra; dal nascer del sole, sino all’occaso si deve rispettare: Magnum est nomen meum in gentibus, a solis ortu usque ad occasum (Malach. 1). Nome di grandezza e di possanza che non si ardiva neppure pronunciare presso il popolo di Dio; Nome di maestà, cui il Re Profeta non credeva poter dare lodi bastanti; Nome rispettabile, innanzi a cui tutto quello che è nel cielo, nella terra e nell’inferno deve piegare le ginocchia; Nome santo per eccellenza, come dice lo Spirito Santo per bocca della più pura delle Vergini: Et sanctum nomen eius (Luc. I), Nome che gli Angeli non cessano di lodare e di benedire nel cielo. Si è ancora per glorificare questo santo Nome che Dio ci ha dato l’uso della parola: si è la prima cosa che Gesù Cristo c’insegna a domandare nell’orazione domenicale: che il vostro Nome, o Signore, sia conosciuto, rispettato, adorato da tutta la terra, come merita, almeno quanto può esserlo da deboli lodare e benedire questo venerabile Nome che la Chiesa mette nella bocca dei  suoi ministri dei cantici di lode negli offici che li obbliga a recitare a gloria dell’Altissimo. – Qual oltraggio non fate dunque a questo Nome sì santo e sì rispettabile, o voi bestemmiatori, che l’impiegate indifferentemente in usi profani; che vi servite della sua autorità per far credere quel che vi piace; che osate misurare la certezza delle vostre cognizioni limitate con la sovrana infallibilità delle cognizioni di Dio; voi che pronunciate ad ogni poco questo santo Nome nelle vostre conversazioni, sovente in facezie, talvolta anche in discorsi osceni. Voi non osereste abusare del nome del vostro re o di una persona per cui aveste qualche considerazione; perché dunque rispettate voi sì poco il Nome del Signore vostro Dio sì degno dei vostri omaggi? Ma qual ingiuria non gli fate allorché ve ne servite per attestare la menzogna e l’impostura! Dio è la verità medesima: Deus verax est (Rom.3). Egli è nemico d’ogni bugia, d’ogni simulazione; e voi pretendete giurando per una cosa falsa che Dio ne sia il testimonio; cioè volete, per quanto è in voi, rendere Dio mallevadore ed autore di una falsità; volete per conseguenza togliergli un attributo essenziale, poiché Egli non può attestare né rendersi mallevadore di una falsità, senza cessar d’essere infallibile verità. Qual oltraggio, ripeto, non gli fate voi dunque, spergiuri? E di qual delitto non vi rendete colpevoli? Mentre questo soggetto non ammette parvità di materia, tosto che l’azione è volontaria; e fosse anche solo per affermare una leggiera menzogna, il vostro peccato è sempre mortale. Quanto a voi, bestemmiatori, portate ancora l’oltraggio molto più lungi; poiché osate attaccare Dio medesimo nella sua natura, attribuendogli quello che non gli conviene o pretendendo togliergli quel che gli appartiene. Se nella società si riguarda come indegno di vivere un uomo che si fa lecito caricare di delitti supposti la riputazione del prossimo, che penseremo, fratelli miei, di colui che attribuisce a Dio difetti incompatibili con le sue adorabili perfezioni ? Ecco nulladimeno l’opera vostra, empi bestemmiatori, che nei trasporti di un cieco furore date alla divinità certi nomi odiosi che non possono convenire che ad un uomo appassionato; che parlate di Dio come di un essere finito e limitato, composto di membri come gli uomini, soggetto a debolezze, alla morte come gli uomini? Non è questo un voler avvilire, annientare, per dir così, la divinità medesima? Il che ha fatto dire a S. Agostino che la bestemmia è una calunnia contro Dio, una specie di maledizione contro di Lui proferita. Qual orrore! una creatura maledire l’Autore del suo essere! Vi si può pensare senza fremere? Ed in vero, qual nome può darsi a questi peccati e come chiamarli? Sacrilegio, empietà? Non basta, egli è una specie di deicidio, egli è il più alto grado di malizia cui possan giungere gli uomini; mentre il bestemmiatore non si contenta di attribuire a Dio ciò che non gli conviene, ma gli toglie ancora, per quanto può, quello che gli appartiene. Sapienza, possanza, bontà, giustizia, provvidenza, questi sono gli attributi inseparabili dal suo Essere. Or la malizia sola dei demoni può misurare la grandezza di questo delitto, mentre il bestemmiatore non la riconosce: ingrato verso il suo Dio, egli annienta la sua bontà; pieno di dispregio per i suoi giudizi, non può paventare la sua giustizia; mormorando continuamente contro i disegni della sua provvidenza, vuole sbandirne la sapienza, finalmente egli fa tutti gli sforzi per indebolire la sua possanza, ricusando di sottomettersi a Lui, come a suo Signore, suo Padre, l’Autore di tutti i suoi beni: diciamo tutto in una parola, egli rinnega il suo Dio. L’unico pensiero dei demoni e dei reprobi nell’inferno è di vomitare contro Dio le più orribili bestemmie, di maledirlo, di detestarlo. Che pensate ancora di quelle maledizioni sì sovente reiterate tra noi? Sono esse forse una piccola ingiuria fatta alla bontà di Dio? Rinunciare al posto che Egli vi ha preparato nel cielo: non volere giammai veder Dio, cioè non godere giammai del suo possesso nel regno eterno; sono questi desideri degni di un Cristiano? Voi appartenete a Dio per un’infinità di titoli, e con le vostre imprecazioni vi abbandonate alla possanza del demonio, cui avete rinunciato nel santo Battesimo; non è questo forse un dispregio formale delle auguste prerogative di cui foste rivestiti in quel giorno fortunato, in cui la Chiesa vi adottò per suo figliuolo? Si può dire, all’udirvi, che voi siete un membro di Gesù Cristo, divino Spirito abita in voi? O piuttosto non è forse il demonio che fa la sua dimora nel vostro cuore, perché voi avete sempre il suo Nome in bocca, e la parola non è che l’interprete dei sentimenti del cuore? Cosa strana che i Cristiani, la cui lingua tante volte bagnata del sangue di Gesù Cristo nella santa Comunione, non dovrebbe essere impiegata che a benedire il suo santo Nome, sia sì sovente profanata con l’abbominevole nome del principe delle tenebre; che Cristiani incorporati a Gesù Cristo si mettano in società col demonio, invochino la sua possanza contro chiunque diventa l’oggetto del loro odio, del loro furore! Non è forse una indegnità di udire questi Cristiani lasciarsi uscir di bocca ad ogni poco contro tutto ciò che loro dispiace, queste parole esecrande, che il demonio porti via, che stermini tutto quello che non possono essi vedere o soffrire? Non si direbbe egli che il demonio ha acquistato su i Cristiani lo stesso impero che altre volte aveva sopra gli idolatri? Poiché questo spirito di menzogna, non potendo più spiegarsi per mezzo delle statue di quei popoli infedeli, ha ritrovato il segreto di parlare per la bocca dei Cristiani, di mettere il suo nome in tutti i loro discorsi, di servirsi della loro lingua per bestemmiare Dio nelle sue creature. Ecco, o Cristiani, le funeste conseguenze che la vostra facilità a bestemmiare, a maledire, a pronunciar ad ogni momento il nome del demonio, ci induce a tirare contro di voi. – Sì, fratelli miei, le imprecazioni che voi pronunciate contro le creature ricadono sul Creatore. La santa Scrittura ci dice che Dio, dopo aver creato il cielo e la terra, le piante, gli animali, trovava buone le sue opere, che le benediva, perché vi vedeva una effusione, una rassomiglianza delle sue divine perfezioni. Le creature infatti ci rappresentano nel loro modo la bellezza, la bontà, la possanza del Creatore, ne sono le immagini e l’espressione. Or si è contro queste immagini che voi vomitate delle imprecazioni; voi maledite a quelle creature che Dio ha benedette: dunque voi ve la pigliate contro Dio medesimo; e non deve Egli forse tenersene altrettanto offeso, come lo sarebbe un re di cui voi trattaste l’immagine col medesimo disprezzo? All’udirvi maledire gli animali, le stagioni, la pioggia, le creature anche ragionevoli, non fate voi conoscere che disapprovate quel che Dio ha fatto e che la sua provvidenza è ingiusta? Le vostre maledizioni sono dunque bestemmie contro Dio; e non dite, per scusarvi, che siete ben lontani dal desiderare che le vostre maledizioni si adempiano sulle persone, o sulle cose che ne sono gli oggetti, o pure che esse sono l’effetto dell’ira che vi trasporta, dell’impazienza che vi assale, dell’abito che vi toglie la libertà. Io voglio benissimo accordare primieramente che tra coloro, i quali lanciano delle maledizioni molti ve ne sono che non vorrebbero vederle effettuare; ma ve ne sono altresì un gran numero che lo vorrebbero; tali sono coloro che le pronunciano per odio, per vendetta contro un loro nemico, contro quelli che han fatto loro qualche dispiacere. Quegli ancora che non ne desiderano l’esecuzione debbono queste disposizioni a certe riflessioni che correggono le prime, mentre molto spesso essi lo vorrebbero nel tempo che le profferiscono, il che basta per renderli colpevoli di peccato, poiché non si richiede che un momento per consentirvi. Ma io suppongo ancora che non abbiano alcun desiderio che il male accada; egli è sempre un male lasciarsi uscire di bocca maledizioni contro qualunque siasi creatura o a motivo dell’ira che ne è il principio, o a cagione dello scandalo che si dà,  o finalmente per lo pericolo cui uno si espone di lanciare queste maledizioni determinatamente contro le creature ragionevoli. – Invano ancora pretendete scusare le vostre imprecazioni sull’ira, l’impazienza, l’abito che ne sono la cagione; si è voler giustificarvi di un peccato con un altro. Ma quand’anche l’ira non fosse da se stessa una colpa, i funesti effetti che essa in voi produce, v’imporrebbero la necessità di non seguire giammai i suoi movimenti. Non crediate neppure che l’abito sminuisca la malizia del vostro peccato, poiché esso ne è ad uno stesso tempo e la cagione e l’effetto. Donde viene questo abito, che voi avete di bestemmiare, di maledire ? Non è forse da un difetto di precauzione che accompagna tutti i vostri discorsi, dalla poco buona volontà che precede i vostri proponimenti? Perciò l’abito essendo volontario, voi avete un bel dire che non fate attenzione alcuna alle imprecazioni, alle maledizioni che profferite; esse sono abbastanza libere nella causa che voi non volete distruggere. Il che indurre vi deve a prender le dovute misure per correggervi, perché non v’è abito alcuno che si contragga così facilmente, e di cui uno sì difficilmente si corregga. – Ma ciò che accresce la malizia di questo peccato si è il motivo per cui vi si cade; negli altri peccati che si commettono, il bene, i piaceri servono di allettamento alla passione: così un avaro è allettato dallo splendore delle ricchezze e dai vantaggi che ne riceve: l’impudico dalle lusinghe d’un piacere sensuale: ma il bestemmiatore è molto più colpevole, poiché, non trovando nel suo peccato né bene né piacere capaci di allettarlo, egli oltraggia Dio per pura malizia, non ha altra soddisfazione che di fargli ingiuria: e perché mai oltraggia egli in tal modo il suo Dio? Sovente per un nulla, per accertare una bagattella, per un vile interesse, per servire una creatura a spese della fedeltà che si deve al Creatore. Si bestemmia, si esce in maledizioni per una leggiera perdita di beni, per un giuoco che non riesce per una parola che offende, per un tratto che dispiace; voi udirete dei padri, delle madri profferire maledizioni esecrabili contro figliuoli colpevoli di qualche leggerezza, padroni e padrone contro dei servi per qualche negligenza nel servigio. Voi udirete operai, artigiani, agricoltori prorompere ad ogni poco in maledizioni contro lo strumento di un lavoro o contro di un nulla che li contraria, che loro dispiace. Essi se la prendono contro Dio, vomitano contro di Lui atroci ingiurie, come se Egli fosse l’autore della loro disgrazia, come se le bestemmie, le maledizioni potessero apportar rimedio ai loro disgusti. Qual ingiustizia! Qual ingratitudine verso un Dio che non ci fa che del bene! Come, o peccatori, Dio vi ricolma ad ogni momento de’ suoi benefizi, Egli vi ha dato una bocca per benedirlo, fate voi attenzione, oltraggiandolo in tal modo, ai terribili castighi che Egli riserba a coloro che non se ne servono che per maledirlo ? Si è il soggetto del secondo punto.

II. Punto. Non si fa impunemente la guerra a Dio; tosto o tardi Egli sa vendicarsi del delitto: Egli è un giudice troppo potente per lasciarlo impunito; e più l’oltraggio che gli si fa è grande, più la vendetta che ne trae è severa. Infatti se la giustizia degli uomini punisce con maggior severità i delitti di lesa maestà che gli altri, perché  attaccano direttamente la persona del principe, si può forse credere che la giustizia di Dio non eserciti i suoi diritti con ugual rigore contro un peccato che se la prende contro Dio medesimo, che gli rapisce la sua gloria ed il suo onore? Egli lo castiga con perdite temporali in questa vita e con perdite eterne nell’altra. – Pene temporali del peccato di bestemmia. – Noi ne abbiamo parecchi esempi nella scrittura. Iddio aveva proibito al suo popolo questo peccato sotto pena di morte. Questa legge era sì rigorosamente osservata che ai tempi di Mosè, un uomo che altercando con un altro aveva bestemmiato il santo Nome di Dio fu condannato per comando di Dio medesimo ad essere cacciato fuori del campo e lapidato. La bestemmia attirò sulla casa di Davide le più terribili vendette del Signore. Perché tu sei stato cagione, gli disse il profeta Natan, che si è bestemmiato il nome di Dio, il tuo figliuolo morrà, e i castighi del cielo non cesseranno di affliggere la tua casa durante il corso di tua vita. Sennacherib re degli Assiri bestemmiò contro la possanza del Dio d’Israele, dicendo che non era potente abbastanza per liberare il suo popolo dalle sue mani; il Signore, per punire questa bestemmia, mandò il suo Angelo sterminatore, che mise a morte in una sola notte centottantacinquemila soldati dell’armata Assira. Donde pensate voi, diceva altre volte s. Giovanni Crisostomo al popolo di Antiochia, che vengano i terremoti e le calamità che vi affliggono, se non dalle bestemmie che hanno regnato nella vostra città? – Non ne dubitate, fratelli miei; i flagelli terribili con cui la giustizia di Dio affligge gli uomini, vengono altresì in parte dalle imprecazioni, dalle bestemmie che si vomitano contro il suo santo Nome. Se le vostre campagne sono devastate da tempeste, desolate da siccità; se voi soffrite perdite di beni ed altri sinistri accidenti, sono le vostre imprecazioni, le vostre maledizioni che vi attirano tutte queste sciagure. Non si odono nel vostro ordinario linguaggio che imprecazioni or contro le stagioni, i venti, le piogge, la terra, or contro gli animali che vi servono; le case rimbombano delle vostre parole esecrande, che s’innalzano come neri vapori sino al trono di Dio; convien forse stupirsi se esse ne fanno discendere i fulmini che abbruciano le vostre case, tempeste che portano via le vostre raccolte, se i vostri animali periscono, se i vostri lavori, i vostri affari hanno cattivi successi? Si vede in voi verificarsi quella terribile predizione del profeta: voi avete amata la maledizione, essa cadrà su di voi: Dilexit maledictionem , et veniet ei. Voi avete rinunciato alle benedizioni del cielo, voi ne sarete privi: Noluit benedictionem, elongabitur ab eo (Psal. CVIII). Voi vi siete rivestiti della maledizione, come di un vestimento, continua il profeta, voi ne avete fatto il soggetto dei vostri discorsi; essa penetrerà dentro di voi nello stesso modo che l’acqua s’insinua nella terra; essa entrerà come l’olio nelle vostre ossa: Fiat eì sicut vestimentum quo operitur, et sicut zona qua semper præcingitur. Espressioni, fratelli miei, che dovrebbe farvi tremare ogniqualvolta voi date maledizioni e a voi medesimi o ad altri; poiché queste maledizioni si verificano sovente in una maniera terribile, permettendolo Iddio per vostro danno in giusto castigo del vostro peccato. E noi dite voi spesse volte che sembra che la maledizione di Dio sia nella vostra casa, che lavorate molto, che tollerate molte fatiche, e che nulladimeno tutte le vostre intraprese non riescono, le calamità si accumulano su di voi e su tutto ciò che vi appartiene? Voi dite il vero, fratelli miei, e parlate ancora più giusto, se dite che la maledizione è veramente nella vostra casa; essa effettivamente vi è: ma che cosa l’attira? Sono le maledizioni che profferite voi medesimi contro tutto ciò che si presenta: voi, o mariti, contro le mogli; voi, o mogli contro i mariti; voi, padri e madri, contro dei figliuoli: prendetevela contro di voi medesimi delle inquietudini che risentite dalla parte degli uni e degli altri; prendetevela contro di voi medesimi, padri e madri, degli affanni che vi cagionano i vostri figliuoli coi loro cattivi costumi, coi disordini in cui s’immergono, col disonore che attirano sulle vostre famiglie; voi non avete che parole di maledizione a dare a questi figliuoli: or li consegnate al demonio, or desiderate loro la morte e quanto poco vi manca che facciate tutto il male che loro desiderate? Invece di attrarre su di essi la benedizione del Signore con le vostre orazioni e con i vostri buoni esempi, voi li abbandonate alla possanza di satanasso, che esercita su di essi il suo impero, che li porta al male, che gli intrattiene in una vita licenziosa, che gl’induce a bestemmiare, a maledire; come voi pervertiti dai vostri cattivi esempi ripetono le imprecazioni, le maledizioni che odono, e Dio voglia che vicendevolmente non ve ne diano ancora! Così questi figliuoli maledetti da voi medesimi, assuefatti e maledire, attirano sopra di essi e su di voi le maledizioni dei Signore, e vi danno tutti gli affanni e le inquietudini che meritate. – Facevasi altre volte tanta stima delle benedizione dei padri e delle madri che si riguardava come la sorgente della felicità della vita; ecco perché il patriarca Giacobbe usò tanta industria per avere la benedizione di suo padre Isacco, e perché Esaù fu si celebre per esserne stato privo. Qual disgrazia non attirò su di Cam figliuolo di Noè la maledizione che suo padre gli diede! S. Agostino riferisce un esempio memorabile di una donna carica di figliuoli, contro cui essa lanciò la sua maledizione per qualche disgusto che ne aveva ricevuto. Questi figliuoli furono tutti colpiti da un orribile tremore in tutte le parti del corpo che li fece andar vagando per tutta la terra e ne fece perire miserabilmente la più gran parte. Temete dunque di proferire alcuna maledizione contro chicchessia, perché tosto o tardi essa cadrà su di voi; e se Dio non vi punisce in questo mondo, Egli vi punirà nell’altro in una maniera più terribile. Sì, fratelli miei, si è nell’inferno che Dio eserciterà le sue vendette su i bestemmiatori. – Hanno essi fatto durante la vita quel che fanno i demoni e i reprobi in quel luogo di orrore; egli è dunque giusto che siano durante l’eternità i compagni del loro supplicio: essi continueranno la maledetta occupazione che hanno imparata; non hanno lodato e glorificato sulla terra il Signore, che li aveva per un tale nobil fine creati, non è giusto dunque che siano in compagnia coi beati, che lo loderanno nel cielo durante l’eternità. La loro lingua e la loro bocca, dice la Scrittura, sono state come sepolcri, da cui sono uscite che esalazioni infette; egli è giusto che questa lingua sia bruciata da un fuoco eterno! Che questa bocca sia abbeverata del fiele dei dragoni, del veleno degli aspidi! Fel draconum , vinum eorum (Deut. 32). Con la loro condotta hanno essi abbandonato Dio, Iddio pure li abbandonerà, e li maledirà durante tutta l’eternità: Ite maledicti in ignem æternum (Matth. XXV). Ahi fratelli miei, per poco che vi resti fede, potete voi non temere di essere del numero di quegli sgraziati che sono eternamente maledetti da Dio? E se voi lo temete, perché vivere schiavi del peccato. che vi attirerà sì grandi disgrazie? Ecco alcuni mezzi che vi suggerisco per correggervi.

Pratiche. Non pronunciate giammai il santo Nome di Dio che con grande rispetto: non ve ne servite mai che per attestare la verità e solamente quando vi siete obbligati per autorità legittima e per qualche motivo d’importanza. Mentre se vi assuefate a giurare senza necessità, anche per cose vere, voi cadrete facilmente nello spergiuro, e dallo spergiuro nella bestemmia. – Per correggervi da ogni bestemmia, di qualunque specie ella sia, andate alla sorgente del male. Questi peccati sono per l’ordinario gli effetti dell’ira, dell’iniquità. Moderate i vostri trasporti, non desiderate al prossimo il male che non desiderereste a voi medesimi; tosto che sentirete qualche moto d’impazienza sollevarsi dentro di voi, mettete un freno alla vostra lingua per condannarla al silenzio. E se vi esce di bocca qualche parola di bestemmia o d’imprecazione, imponetevi una penitenza la quale voi continuerete sintantoché non vi cadiate più, come di fare in quel momento un atto di contrizione, di pronunciare qualche buona parola: il Nome del Signore sia benedetto; ovvero i santi nomi di Gesù, Maria e Giuseppe; oppure di fare qualche limosina ai poveri. Se ogni qualvolta voi bestemmiate, foste obbligati di pagare una somma, benché modica ella fosse, voi sareste ben presto corretti del vostro cattivo abito. Quando vi accade qualche sinistro accidente, in vece di prorompere in imprecazioni, entrate nei sentimenti di Giobbe, quell’uomo sì paziente nelle tribolazioni: il Signore mi aveva dati questi beni, egli me li ha tolti; sia benedetto il suo santo Nome. Sit nomen Domini benedictum. Esaminate ogni sera quante volte sarete caduti in questo peccato, per domandarne altrettante volte perdono a Dio con un atto di contrizione e baciando altrettante volte la terra; non lasciate punto la vostra penitenza se non siate corretti. Non basta distruggere in voi questo peccato, voi dovete ancora distruggerlo negli altri, per quanto dipende da voi, principalmente in quelli che sono soggetti, come i genitori nei figli, i padroni nei servi. Convien servirvi della vostra autorità per imporre loro silenzio e castigarli quando profferiscono simili parole; ma guardatevi sopra tutto di darne loro l’esempio; altrimenti le vostre correzioni sarebbero inutili. Se voi non avete verun’autorità su coloro che udite profferir bestemmie, domandate a Dio perdono per quelli che l’offendono, ripetendo sovente quelle parole dell’orazione domenicale: Sanctificetur nomen tuum (Matth. VI). Perché non posso io, o mio Dio, dovete voi dire nel vostro cuore, risarcirvi con le mie lodi degli oltraggi che gli uomini fanno al vostro santo nome! Evitate la compagnia dei bestemmiatori, perché frequentandoli imparerete ben tosto a parlare il loro linguaggio. Domandate ogni giorno a Dio la grazia di far un santo uso della vostra lingua. Formate ogni mattina la risoluzione di non pronunciare alcuna cattiva parola; io farò in modo quest’oggi di non bestemmiare; l’indomani fate lo stesso, e a poco a poco vi correggerete. Ah! piuttosto, o mio Dio, la mia lingua si attacchi al mio palato che servirmene per oltraggiare il vostro santo nome! Voi me l’avete data per glorificarvi, ed io non me ne servirò che per questo fine, affinché, dopo avere benedetto il vostro santo Nome e cantate le vostre lodi sopra la terra, io abbia la bella sorte di lodarvi per sempre nel cielo. Così sia.

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Exod. XXIV: 4; 5
Sanctificávit Móyses altáre Dómino, ófferens super illud holocáusta et ímmolans víctimas: fecit sacrifícium vespertínum in odórem suavitátis Dómino Deo, in conspéctu filiórum Israël.

[Mosè edificò un altare al Signore, offrendo su di esso olocausti e immolando vittime: fece un sacrificio della sera, gradevole al Signore Iddio, alla presenza dei figli di Israele.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes éfficis: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo dei venerandi scambii di questo sacrificio, ci rendi partecipi della tua sovrana e unica divinità, concedi, Te ne preghiamo, che, come conosciamo la verità, cosí la conseguiamo con degna condotta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

LA COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 8-9
Tóllite hóstias, et introíte in átria ejus: adoráte Dóminum in aula sancta ejus.

 [Prendete le vittime ed entrate nel suo atrio: adorate il Signore nel suo santo tempio.]

Postcommunio

Orémus.
Grátias tibi reférimus, Dómine, sacro múnere vegetáti: tuam misericórdiam deprecántes; ut dignos nos ejus participatióne perfícias.

[Nutriti del tuo sacro dono, o Signore, Te ne rendiamo grazie, supplicando la Tua misericordia di renderci degni di raccoglierne il frutto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE – 2020 –

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La storia di Tobia che si legge nell’Officio divino a questa epoca, coincide spesso con questa Domenica. Sarà dunque cosa utile, continuare a studiare la Messa in relazione col biblico racconto. Tobia sarebbe vissuto, sembra, sotto il regno di Salmanasar, verso la fine del secolo VIII prima di Cristo, al tempo della deportazione degli Israeliti in Assiria. Come Giobbe, questo santo personaggio, diede prova di costanza e di fedeltà a Dio in mezzo a tutte le sue afflizioni. « Non abbandonò mai la via della verità, distribuendo ogni giorno quanto poteva avere ai fratelli e a quelli della sua nazione, che con lui erano in prigionia e, quantunque egli fosse il più giovane nella tribù di Nephtali, nulla di puerile riscontravasi nei suoi atti ». Il Salmo dell’Introito può essergli applicato, poiché parla di un adolescente che fin dai suoi più teneri anni ha camminato nella legge del Signore. Fino dagli anni della sua fanciullezza, dice la Sacra Scrittura, «Tobia osservava ogni cosa conformemente alla legge di Dio. Sposata una donna della sua tribù, per nome Anna, ne ebbe un figlio cui diede il proprio nome e al quale insegnò fin dall’infanzia a temere Iddio e ad astenersi da ogni peccato. Condotto prigioniero a Ninive, Tobia di tutto cuore si ricordò di Dio, visitando gli altri prigionieri e dando loro buoni consigli, consolandoli e distribuendo a tutti del proprio avere, secondo quello che poteva. Nutriva chi aveva fame, vestiva quelli che erano nudi, e seppelliva con cura quelli che erano morti o che erano stati uccisi». Dio permise che venisse cieco, affinché la sua pazienza servisse di esempio alla posterità come quella del sant’uomo Giobbe. « Avendo sempre temuto il Signore fin dalla sua infanzia ed avendo osservato i suoi comandamenti, non si rattristò contro Dio per essere stato colpito da questa cecità, ma rimase fermo nel timore di Dio, rendendogli grazie tutti i giorni della sua vita ». « Noi siamo figli dei santi, soleva dire, e attendiamo quella vita che Dio deve dare a coloro che non hanno mai cambiato la loro fede verso di Lui ». E poiché sua moglie insultava alla sua disgrazia, Tobia proruppe in gemiti e cominciò a pregare con lagrime (Allel.), dicendo parole che sono identiche a quelle dell’Introito: «Tu sei giusto, Signore, tutti i giudizi tuoi sono equi e tutti i tuoi disegni sono misericordiosi. Ed ora, o Signore, trattami secondo la tua volontà ». E, parlando a suo figlio Tobia, disse: « Figlio mio, abbi sempre in mente Dio tutti i giorni della tua vita, e guardati bene dall’acconsentire ad alcun peccato. Fa elemosina dei tuoi beni e non distogliere il tuo volto dal povero. Sii caritatevole in quel grado che puoi e quello che ti dispiacerebbe fosse fatto a te, guardati bene dal farlo ad altri ». Questo precetto dell’amore di Dio e del prossimo e la sua attuazione sono inculcati dall’Epistola e dal Vangelo: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, tutta l’anima tua e tutto il tuo spirito, e il prossimo tuo come te stesso» (Vang.). «Camminate in umiltà, dolcezza e pazienza, sopportandovi a vicenda con carità, sforzandovi di mantenere l’unità di spirito nei vincoli della pace » (Ep.). Tobia mandò suo figlio presso Gabelo a Rages, sotto la guida dell’Arcangelo Raffaele. Per via, l’angelo disse a Tobiolo di prendere un pesce che lo aveva voluto divorare e di serbarne il fegato per scacciare ogni specie di demoni e gli indicò inoltre il mezzo per prendere in moglie Sara, senza che il demonio, che aveva già uccisi i suoi primi sette mariti, potesse fargli del male. « Il demonio, spiegò l’Arcangelo, ha potere su coloro che nel contrar matrimonio bandiscono Dio dal loro cuore e ad altro non pensano se non a soddisfare la loro passione». L’Orazione prega Iddio di dare al suo popolo la grazia di evitare i contatti diabolici, « affinché possa con puro cuore essere unito a te solo che sei il suo Dio ». « Come figli di Dio, noi non possiamo, dissero Tobia e Sara, sposarci come pagani, che non conoscono Dio», e «pregarono insieme istantemente il Signore che ha fatto il cielo e la terra, il mare, le sorgenti ed i fiumi con tutte le creature che contengono ». E Dio « benedisse il loro matrimonio, come aveva benedetto quello dei patriarchi, affinché essi avessero dei figli della stirpe di Abramo » (Graduale). Tobia ritornò con Sara e guarì suo padre dalla cecità e questi allora intonò un cantico di ringraziamento, una specie di Benedictus o di Magnificat, nel quale scoprì le grandiose aspettative messianiche: « Gerusalemme tu castigata per le sue opere malvagie, ma essa brillerà di fulgida luce e si rallegrerà nei secoli dei secoli. Dai lontani paesi verranno verso lei le nazioni, portandole delle offerte e adoreranno in essa il Signore. Maledetti saranno coloro che la disprezzeranno e quelli che la bestemmieranno saranno condannati. Beati, continua egli, coloro che ti amano! lo sarò felice se qualcuno della mia stirpe sopravvivrà per vedere lo splendore di Gerusalemme. Le sue porte saranno di zaffiri e di smeraldi e tutta la cinta delle sue mura sarà di pietre preziose. Tutte le pubbliche piazze saranno lastricate di pietre bianche e pure e nelle strade si canterà: Alleluia. La rovina di Ninive è vicina, poiché la parola di Dio non resta senza effetto ». È questo il « cantico nuovo che troviamo nel Salmo del Graduale « Dio è fedele alla sua parola; Egli dissipa i progetti delle nazioni e rovescia i consigli dei principi. Beato il popolo che Egli ha scelto per suo retaggio. Palesa, o Signore, la tua misericordia su di noi, secondo la speranza che abbiamo posta in te». E il Salmo del Communio aggiunge: « Dio ha infranto tutte le forze nemiche, i re superbi sono stati abbattuti e i loro eserciti distrutti. Offrite dunque sacrifizi di ringraziamento a questo Dio terribile », poiché, continua l’Offertorio, « Egli ha gettato uno sguardo favorevole sul popolo in favore del quale il suo nome è stato invocato ». – Gerusalemme, ove il popolo di Dio regna e ove affluiscono tutte le nazioni per lodare il Signore, è il regno di Dio, è la Gerusalemme celeste. Tutti vi sono chiamati con una comune vocazione a formarvi « un solo corpo », la Santa Chiesa, che è una nuova creazione, dice S. Gregorio Magno, e che è animata da « un solo Spirito, una sola speranza, un solo battesimo e una sola fede in un solo Signore » (Epistola). È Gesù Cristo, Figlio di Dio e Figlio di David, che il « Dio unico e Padre di tutti gli uomini, ha fatto sedere alla sua destra fino al giorno in cui tutti i suoi nemici, vinti, saranno sgabello ai suoi piedi». Questo Dio sia benedetto nei secoli dei secoli» (Epistola). L’unità della nostra fede, del nostro battesimo e delle nostre speranze, come pure dello Spirito Santo, di Cristo e di Dio Padre, dice S. Paolo, fa a tutti noi un dovere di essere uniti dai vincoli della carità, sopportandoci a vicenda. Il comandamento di Dio di amare il prossimo è simile a quello che ci fa amare Dio, poiché è per amor suo che amiamo il prossimo. « Doppio è il comandamento, dichiara S. Agostino, ma una è la carità ». E per consolidare il suo insegnamento agli occhi dei farisei, Gesù Cristo dà loro, in un testo di David, una prova della sua divinità. Dobbiamo dunque, nella fede e nell’amore, essere uniti a Cristo Gesù. « Interrogato circa il primo comandamento, Gesù rivela il secondo, che non è inferiore al primo, facendo loro comprendere che lo interrogavano soltanto per odio, poiché la carità non è invidiosa » (I Cor. XIII, 4). Egli dimostra inoltre il suo rispetto per la legge ed i profeti. Dopo aver risposto, Cristo interrogò a sua volta, e dimostra che pur essendo figlio di David, ne è il Signore, essendo Egli il Figlio unico del Padre, e li spaventa dicendo che un giorno avrebbe trionfato su tutti coloro che si oppongono al suo regno, poiché Iddio farà dei suoi nemici sgabello ai suoi piedi. Con ciò dimostra la concordia e l’unione che esiste fra Lui e il Padre » (S. Giov. Crisostomo – Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps CXVIII: 137;124
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini retti: che procedono secondo la legge del Signore.]

Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secundum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Oratio

Oremus.
Da, quǽsumus, Dómine, populo tuo diabólica vitáre contágia: et te solum Deum pura mente sectári.

[O Signore, Te ne preghiamo, concedi al tuo popolo di evitare ogni diabolico contagio: e di seguire Te, unico Dio, con cuore puro.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 1-6
“Fatres: Obsecro vos ego vinctus in Dómino, ut digne ambulétis vocatióne, qua vocáti estis, cum omni humilitáte et mansuetúdine, cum patiéntia, supportántes ínvicem in caritáte, sollíciti serváre unitátem spíritus in vínculo pacis. Unum corpus et unus spíritus, sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestræ. Unus Dóminus, una fides, unum baptísma. Unus Deus et Pater ómnium, qui est super omnes et per ómnia et in ómnibus nobis. Qui est benedíctus in saecula sæculórum. Amen.”

[“Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati, con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi con carità scambievole, solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un sol corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati a una sola speranza per la vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, che opera in tutti, che dimora in tutti. Egli sia benedetto nei secoli dei secoli. Così sia.”]

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,]

LA FAMIGLIA CRISTIANA

L’epistola di quest’oggi è una continuazione di quella della domenica scorsa. L’Apostolo, ricordato agli Efesini che devono vivere in modo consono alla grande dignità di Cristiani, alla quale furono chiamati, scende al particolare, e viene a parlare dell’unione degli animi che deve regnare tra di loro. Essi devono conservare l’unione, perché uno solo è il corpo mistico a cui appartengono, la Chiesa; uno solo è lo spirito che anima questo corpo, lo Spirito Santo; uno solo è il fine per il quale sono stati chiamati, la speranza di trovarsi uniti con Dio in cielo; uno solo è il Signore al quale credono con una stessa fede; uno solo è il Battesimo che li ha fatti entrare nella Chiesa. Vi è un solo Dio. che è il Padre comune. Se, per tutti i motivi addotti, deve regnare una perfetta armonia nella famiglia cristiana, quest’armonia non dev’essere minore nelle singole famiglie, che formano la società. E questa armonia non manca:

1. Se ciascuno adempie i suoi obblighi con spirito di fede,

2. Se c’è pazienza e mansuetudine,

3. Se c’è carità.

1.

Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati. Gli Efesini, come tutti i Cristiani, sono stati chiamati a far parte della grande famiglia di Dio. La grande dignità di questa condizione esige che essi vivano, non più secondo le norme del mondo pagano, ma che vivano santamente, corrispondendo alle grazie ricevute.La grande famiglia cristiana è formata da tante piccole famiglie che richiedono, da coloro che la compongono, l’adempimento di particolari doveri, che dovrebbero essere come il santuario dell’armonia e della pace, e sarebbero tali, se si imitassero le mirabili virtù con le quali Gesù ha consacrato la vita domestica. La condizione di chi è senza famiglia non è rosea. Fa compassione l’orfanello senza la guida e il sostegno dei genitori; muove a pietà il vecchio abbandonato; ci fa pena l’infermo che non ha un congiunto che vegli al suo letto, e lenisca i suoi dolori. Ma non è neppur rosea la condizione di tante famiglie nelle quali invece dell’armonia e della pace, si trova l’inferno. Chi è a capo della famiglia non pensa: sono in questa condizione per volontà di Dio; devo, dunque, diportarmi in maniera degna della mia vocazione, e vedere, quindi, ciò che Dio stabilisce in proposito. — Dio stabilisce, per bocca dell’Apostolo – «Le donne siano soggette ai mariti come al Signore, poiché l’uomo è il capo della donna, come Cristo è il capo della Chiesa, essendo il Salvatore del suo corpo» (Ef. V, 22-23.). Qui è stabilita l’autorità del marito nella famiglia, e gli è posto davanti il modello da imitare nell’esercizio di questa autorità: Gesù Cristo. Egli ha salvato la Chiesa, sacrificandosi per essa, la conserva, l’assiste, la governa. Così il marito è capo della moglie, non per tiranneggiarla o maltrattarla, ma per guidarla, proteggerla, e prestarle quegli aiuti e quell’assistenza di cui potrebbe abbisognare. Il marito non deve considerare la casa come un luogo di gioie, di vantaggi, senza voler portarne i pesi, le amarezze, le disillusioni. – Da Dio son stabiliti anche i privilegi e i doveri della moglie. «Come la Chiesa è soggetta a Cristo, così ancora le donne ai loro mariti in ogni cosa» (Ef. V, 24.). Essa non deve pretendere di dominare, usurpando l’autorità del marito, e molto meno deve pretendere di comandare a lui. La sua libertà è limitata. «Egli ti comanderà», aveva già detto Dio a Eva (Gen. III, 16). Questo però non vuol dire che la moglie debba vivere da serva o da schiava. La sua soggezione al marito è basata sull’amore, sull’esempio della soggezione della Chiesa a Gesù Cristo. Perciò l’Apostolo soggiunge: «I mariti devono amar le mogli come i propri corpi» (Ef. V, 28). – Anche le relazioni tra i figli e i genitori sono stabilite da Dio: «Figliuoli, siate ubbidienti ai vostri genitori nel Signore; perché ciò è giusto. Onora il padre tuo e la madre tua: ecco il primo comandamento della promessa, affinché tu sii felice, e abbia lunga vita sulla terra» (Ef. VI, 1-3). Purtroppo l’ubbidienza ai genitori è generalmente trascurata, e l’onore si confonde, il più delle volte, con una confidenza illimitata, poco dignitosa, che presto diventa padronanza, e cambia le parti nella famiglia. Si preferiscono gli insegnamenti della moda a quelli dello Spirito Santo. – I genitori hanno anch’essi tracciata la norma rispetto ai figli. «E voi, padri, non irritate i vostri figliuoli, ma allevateli nella disciplina e negli ammonimenti del Signore » (Efes. VI, 4). I genitori amino sinceramente i loro figli, non passino la misura nel correggerli, lasciandosi guidare dalla passione, invece che dalla ragione; l’affetto paterno, però, non impedisca di osservare i loro difetti e di correggerli, di avvezzarli all’obbedienza e alla mortificazione, e di allevarli nel timor di Dio. – Prima condizione, dunque, per vivere in pace e armonia nella vita domestica è il regolarsi secondo le norme che Dio ha stabilito per i vari membri della famiglia.

2.

Nella grande famiglia cristiana non ci può essere unione, se domina lo spirito della superbia e dell’ira; perciò l’Apostolo vuole che i Cristiani si diportino con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza. Questo contegno è necessario soprattutto nella vita domestica. I motivi di contrasto si hanno maggiormente con chi ci sta vicino. C’è la diversità di carattere. Per quanto due caratteri si assomiglino, non si accordano mai in tutto; e poi c’è sempre qualche circostanza che può metterli in urto tra di loro. Purtroppo la diversità di carattere è il pretesto più frequente della disunione e della rovina delle famiglie. – Dopo un po’ di tempo cominciano gli screzi, poi vengono i contrasti aperti, poi uno diventa uggioso all’altro. La famiglia non è più un dolce nido, è diventata una casa di punizione. Le conseguenze ciascuno può immaginarle. Quasi sempre però si potrebbero evitare se almeno uno dei coniugi fosse stato educato di buon’ora a vincer se stesso con l’esercizio della pazienza. La Beata Anna Maria Taigi visse col suo sposo, sotto i medesimo tetto, per quarant’anni continui, senza che da una parte o dall’altra ci fossero risentimenti o rimpianti, tanta era l’unione degli spiriti. Eppure si trattava di due caratteri disparatissimi. Lei dolce, soave, composta; lui aspro, rozzo, inquieto, e talvolta anche violento. Ma la Beata non si offese mai di questi modi, né mai la si vide contendere con lui. Egli, come dicevano i vicini, aveva un carattere da cagionare continui incendi, ma la dolcezza e il tatto della santa consorte sapeva evitare l’incendio e mantenere l’armonia nella casa (Mons. Carlo Salotti. La Beata Anna Maria Taigi madre di famiglia. Roma 1924, p. 89-90). Sopportiamo il carattere dei compagni di lavoro, sopportiamo il carattere delle persone con cui si tratta per affari o per ufficio, perché non dobbiamo sopportare il carattere di quei che compongono la nostra famiglia? « Quel dovere che ti obbliga verso gli estranei — dice S. Ambrogio al marito — t’incombe maggiormente verso la moglie, col tollerarne e correggerne la condotta » (Exp. S. Evang. sec. Lucam, L. 8, n. 4). Lo stesso si dica della moglie rispetto al marito. Pazienza vince in tutte le guerre. – Nella vita domestica o un momento o l’altro vengono le ore grigie. Con le lamentele, con le imprecazioni, con lo scoraggiamento non si rimedia. Il rimedio più efficace, l’unico rimedio che il capo famiglia deve adottare è quello di una grande pazienza. Deve in quei momenti ricordarsi in modo speciale delle parole del Salvatore: «imparate da me », e sull’esempio di Lui, che governa la gran famiglia cristiana dalla croce, guidare, rassegnato e da forte, la propria famiglia con grande spirito di sacrificio. – Nel cielo della famiglia può sorgere qualche leggera nuvola. Ma questa nuvola bisogna procurare di fugarla subito. « Il sole — dice S. Paolo — non tramonti sul vostro sdegno» (Ef. IV, 26). E ‘ una scena abbastanza brutta, vedere in una casa, al medesimo desco, gente che non parla, facce che si voltano per non incontrarsi negli sguardi, visi corrucciati e fronti tristi. Non è abbastanza pesante la vita che si conduce fuori di casa, per volerla triste anche tra le pareti domestiche? Non dovrebbe mai tramontare il sole prima che la pace familiare sia riacquistata, primi che i malintesi siano dissipati, prima che le piccole tempeste siano sedate.

3.

Tutti i membri della società cristiana, e, più ancora tutti i membri di una famiglia devono sforzarsi di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Questo si ottiene con la carità. «La pace e la carità sono sorelle senza bisogni e senza cure». Quando nella famiglia domina la carità, tutto si appiana. Il marito cerca di provvedere a tutto. Non solo trova ragionevoli i sacrifici che gli si domandano, ma sa indovinare e comprendere anche quelli che non gli si domandano; e, per quanto sta in lui, accontenta e previene. Egli sa apprezzare la parte importante e delicata che in seno alla famiglia compie la moglie, e cerca di alleggerirne i pesi con le sue premure. Quando nella famiglia domina la carità, la moglie non si acciglia se il marito è di malumore, soprappensiero. Il lavoro giornaliero, l’andamento degli affari, le preoccupazioni per la famiglia possono spiegare benissimo questi momenti tristi. Essa conosce la propria missione: addolcire, mitigare, rasserenare. Quando nella famiglia domina la carità, i figli non vengono considerati come un peso; non ci si disinteressa di loro. Si ringrazia Dio che li dona e si trattano come li trattava Gesù quando le madri glieli conducevano perché li benedicesse. Egli li trattava come tesori preziosi. Minacciava chi avesse tentato di scandalizzar questi innocenti i cui Angeli vedono continuamente la faccia del Padre celeste, e che hanno diritto al regno del cielo. E quando i genitori considerano i loro figli come tesori preziosi, loro affidati da Dio,usano tutte le precauzioni per tenerli lontani da tutto quello che potrebbe renderne l’anima meno bella agli occhi dei loro Angeli custodi; li correggono quando prendono cattiva piega. Sarebbe un grave errore credere che il castigo escluda l’amore. È questione di lasciarsi guidare dall’amore e non dall’ira. «Non credere di amar tuo figlio, quando non lo castighi… ; — dice San Agostino — questa non è carità, ma languore» (In Epist. Ioannis Tract. 7, 11). – E quando i figli sono trattati con amore illuminato, non rimangono insensibili. Il ripicco, il puntiglio, la cocciutaggine sono rari: è più facile che traggano profitto dalla correzione, rientrando in se stessi. Se vogliamo che nella famiglia regni veramente, come dovrebbe regnare, l’armonia e la pace, non prendiamo per guida gli insegnamenti della moda, ma il santo timor di Dio: nei contrasti, nelle difficoltà non perdiamo mai la calma, in tutto e sempre siamo animati dalla carità. La nave, quando il mare è in tempesta, procede male anche lontana dagli scogli: nella calma, fila sicura anche tra gli scogli, se chi la guida ha occhio attento e cuor generoso.

Graduale

Ps XXXII: 12;6
Beáta gens, cujus est Dóminus Deus eórum: pópulus, quem elégit Dóminus in hereditátem sibi.

[Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore: quel popolo che il Signore scelse per suo popolo.]

Alleluja

Verbo Dómini cœli firmáti sunt: et spíritu oris ejus omnis virtus eórum. Allelúja, allelúja

[Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Allelúia, allelúia]
Ps CI: 2
Dómine, exáudi oratiónem meam, et clamor meus ad te pervéniat. Allelúja.

[O Signore, esaudisci la mia preghiera, e il mio grido giunga fino a Te. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. XXII: 34-46

“In illo témpore: Accessérunt ad Jesum pharisæi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Jesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisæis, interrogávit eos Jesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cujus fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius ejus est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogáre”.

[“In quel tempo, accostandosi i Farisei a Gesù, avendo saputo com’Egli aveva chiusa la bocca ai Sadducei, si unirono insieme: e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: Maestro, qual è il gran comandamento della legge? Gesù dissegli: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta l’anima tua, e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta quanta la legge, e i profeti. Ed essendo radunati insieme i Farisei, Gesù domandò loro, dicendo: Che vi pare del Cristo, di chi è egli figliuolo? Gli risposero: di Davide. Egli disse loro: Come adunque Davide in ispirito lo chiama Signore dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, sino a tanto che io me etta i tuoi nemici per sgabello ai tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, come è Egli suo figliuolo? E nessuno poteva replicargli parola; né vi fu chi ardisse da quel dì in poi d’interrogarlo”.]

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la castità

Glorificate, et portate Deum in corpore vestro.

I Cor. VI

Tale è, Fratelli miei, l’istruzione salutevole, che S. Paolo dava ai primi Cristiani loro inspirare l’amor della purità, che loro aveva sì fortemente raccomandata; fuggite, loro diceva quel grande Apostolo, la fornicazione, perché chi la commette pecca contro il suo corpo. Or voi dovete sapere, che i vostri corpi sono i tempi dello Spirito Santo, che dimora in voi; che voi non siete più padroni di voi medesimi, poiché siete stati riscattati ad un gran prezzo: glorificate dunque Dio, e portatelo nel vostro corpo: Glorificate, et portate Deum in corpore vestro. Questa dottrina c’insegna, che il peccato opposto alla santa virtù della purità, è più degno di biasimo in un cristiano, che in tutti gli altri; poiché il Cristiano appartiene a Dio in una maniera particolare; il suo corpo è stato consacrato per mezzo del Battesimo, divenendo il tempio dello Spirito Santo, e deve per conseguenza conservarlo in una purezza irrevocabile, che bandisca da questo tempio mistico tutto ciò, che può oscurarne la bellezza. La purità deve dunque essere la virtù prediletta di un Cristiano; ella è uno dei più belli ornamenti del corpo mistico di Gesù Cristo, che è la Chiesa, ed ogni membro di questo corpo, che è imbrattato del vizio contrario, deve essere riguardato come un membro putrido, ed infetto, che merita di esserne reciso. Con tutto ciò, Fratelli miei, quanto questa virtù è necessaria ad un Cristiano, altrettanto ella è rara a trovare. Questo bel fiore ha perduto il suo splendore in mezzo di un mondo perverso, che sparge la corruzione onde egli è infetto, in tutte quasi le condizioni, che in sé contiene. Donde viene questo male? Perché non si conosce il prezzo della virtù – della castità, né si adoperano i mezzi propri per conservarla. Su di questo mi propongo d’istruirvi in quest’oggi. La castità è una virtù molto preziosa; dobbiamo dunque averne una grande stima; primo punto. La castità è una virtù molto delicata; bisogna dunque usare molta precauzione per conservarla; secondo punto. Perché non posso io in quest’oggi parlare col linguaggio degli Angeli per inspirare l’amore di una virtù, che rende gli uomini simili a quei puri spiriti? Chiediamola per mezzo dell’intercessione della Regina dei Vergini.

I. Punto. Una virtù che viene dal Cielo in terra, che innalza l’uomo al Cielo per la somiglianza, che essa gli dà cogli Angeli, e con Dio medesimo, e per la certezza, in cui lo mette della sua eterna felicità, non merita forse, Fratelli miei, il titolo di virtù preziosa, e degna di tutta la mostra stima? Or tale è la virtù della castità: sì, la castità è la figliuola del Cielo, essa vi ha preso la sua sorgente, e la sua origine. Non eravi altri fuori che Dio medesimo, che potesse insegnare, ed inspirare agli uomini la pratica di una virtù così sublime, e così perfetta. Gli uomini carnali ne erano troppo lontani per potere insegnarla: e per verità, in che guisa l’uomo che il peccato aveva reso affatto sensuale, avrebbe egli potuto pervenire alla perfezione di una virtù, che combatte le inclinazioni della natura? Necessario gli era un soccorso dall’alto, che lo rendesse superiore a se medesimo, che superiore lo rendesse a’ suoi sensi, ed alle sue inclinazioni. Ciò ben conosceva il più saggio tra gli uomini, quando diceva, che la continenza è un dono di Dio, che gli bisognava domandare: Sivi quoniam continens esse non possem, nisi Deus det. Il che ha voluto Gesù Cristo ancora farci intendere, quando ci dice nel suo Vangelo, che non tutti comprendono il merito, ed il pregio della castità, ma solamente quelli cui Dio ha fatto parte di questo dono prezioso: Non omnes capiunt verbum istud, sed quibus datum est. Se l’antichità pagana ha somministrati alcuni esempi di castità, ciò non era nella maggior parte, che una virtù di ostentazione o apparente, che serviva di velo a vizi enormi, o per lo meno che non sarà giammai simile a quella che la perfezione della Religion Cristiana inspira ai suoi discepoli. Si videro mai nella gentilità anime cotanto generose, che facessero a Dio il sacrificio della loro vita in favore di questa virtù? Se ne videro giammai di assai costanti per obbligarsi a conservarla per un sacro vincolo, che dura quanto la vita? No, non è che nel seno della santa Religione che professiamo, che vedere si possono dei cristiani separarsi da ogni commercio col mondo, per questa virtù in tutta la sua perfezione. Si richiede per questo una grazia affatto particolare, e non si può negare, che la castità è veramente un dono del Cielo, ma un dono sì prezioso, che nulla si ritrova nel mondo, che agguagli il suo prezzo. L’oro, e le ricchezze perdono tutto il loro splendore, se si paragonano alla bellezza di questa virtù. Ma la castità viene dal Cielo; il Figliuolo di Dio, che il suo amore ha spinto a scender dal Cielo, ci ha lasciato un mirabile esempio della stima, che ha per questa virtù. Dio, infatti, avendo risoluto, per riscattare l’uomo, di prendere una natura simile alla sua, scelse una Vergine per sua madre. Quindi aveva Egli predetto per uno de’ suoi Profeti, che una Vergine concepirebbe, e partorirebbe un figliuolo, che si chiamerebbe Emanuello, cioè, Dio con noi: Ecce Virgo concipiet, et pariet Filium, et vocabityr nomen ejus Emmanuel. Tutt’altro concepimento, che quello di una Vergine, non avrebbe punto convenuto al Dio d’ ogni purità, egli avrebbe in qualche modo oscurato lo splendore della sua santità, dice S. Bernardo. Siccome il Figliuolo di Dio era generato fin dall’eternità da un Padre vergine; così doveva in qualità di uomo essere generato da una madre vergine, e siccome una vergine, aggiunge S. Bernardo, non poteva avere altro figliuolo, che un Dio, così Dio non poteva avere altra madre, che una vergine. Ma quale fu questa creatura privilegiata, su cui il Signore gettò gli occhi per innalzarla ad una sì alta qualità? Fu l’incomparabile Maria, che prevenuta sin dall’istante del suo concepimento, dalle grazie le più abbondanti del suo Dio, vi corrispose con tanta fedeltà, che dai suoi più teneri anni ella si consacrò interamente allo Sposo delle vergini col sacrifizio che gli fece del suo corpo, e della sua anima: sacrifizio che essa rinnovò nel tempio del Signore, allorché vi fu presentata da suoi genitori. Sacrifizio il più santo, ed il più perfetto, che Dio avesse sino allora ricevuto sopra i suoi altari, ma sacrifizio che Maria sostenne con una fedeltà inviolabile nel conservare la sua purità, ed evitare tutto ciò, che avrebbe potuto oscurarne lo splendore. Ella stimava cotanto questa virtù, che sebbene grande fosse per essa la gloria della divina maternità, avrebbe piuttosto rinunciato a questa eminente dignità, se non avesse potuto esservi innalzata, che cessando di esser vergine: Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco? Rassicuratevi, Vergine santa; lo Spirito Santo, che vi ha scelta per sua sposa, opererà in voi questo grande mistero: si è per la virtù dell’Altissimo, che voi concepirete questo Figliuolo adorabile, il quale deve essere il Salvatore del mondo Spiritus Sanctus superveniet in te, et virtus Altissimi obumbrabit tibi. A queste condizioni Maria si sottomette ai voleri del suo Dio, e conserva lo splendore della sua verginità con la gloria della fecondità: si è dunque per la sua inviolabile purezza, che Maria ha meritato di divenire il Santuario della Divinità, e che si è veduta onorata della più alta dignità, ove una pura creatura possa essere innalzata: qual forte motivo di stimare una virtù, che innalza an cora l’uomo al Cielo per la rassomiglianza, che gli dà cogli Angeli, e con Dio medesimo? No, Fratelli miei, le anime caste non appartengono più alla terra; questa virtù le innalza sino nei Cieli, dice S. Ambrogio: fæc nubes, aéraque trascendit. E come questo? Perché facendole trionfare delle debolezze umane, ed allontanandole dai piaceri sensuali, ella le rende superiori alla nostra corrotta natura, e coi suoi sentimenti, e desiderj un’anima casta vive della vita mede sima degli Angeli: il che Gesù Cristo c’insegna nel suo Vangelo, allorché parlando dello stato d’incorruttibilità, in cui saremo nel giorno della risurrezione, egli aggiunge che noi saremo simili a quei felici spiriti: Sicut Angeli, cui nubent, neque nubentur. Poiché, notate la ragione, che ne dà il Salvatore, poiché non evvi più allora società coniugale; donde ne segue, che la castità, la quale ci libera dai legami del matrimonio, rappresenta in questo luogo di miseria, e di esilio, il felice stato, in cui saremo nella gloriosa immortalità, con questa differenza ancora, che gli Angeli della terra hanno per virtù ciò che gli Angeli del Cielo hanno per natura; nel che, dice il Crisostomo, purità degli uomini, benché inferiore a quella degli Angeli, la sorpassa tuttavia in merito. Gli Angeli, non essendo composti di carne, e di sangue, non hanno passioni a combattere per conservare il tesoro della castità; gli Angeli non conversando con gli uomini non sono esposti agli scogli, che convien evitare; ma noi siamo attorniati da pericoli, ove la castità è incessantemente esposta; noi abbiamo nemici a combattere, passioni a superare, una violenza continua a farci per non perdere questa preziosa virtù; e se noi la conserviamo, siccome essa ci rende simili agli Angeli, così ci dà ancora un carattere di rassomiglianza con Dio. – Sì, Fratelli miei, le anime caste, dice S. Cipriano, sono le vive immagini di Dio sopra la terra, perché più un’anima è staccata dal suo corpo, più si unisce a Dio; e siccome Dio è tutto spirito, chi si unisce a Lui, diventa un medesimo spirito con Lui, dice l’Apostolo: Qui adhæret Deo, unus spiritus est. E per un felice contraccambio, Dio si unisce altresì all’anima casta, la riguarda come sua sposa diletta, ne fa l’oggetto delle sue compiacenze, si compiace di abitare in essa come in un luogo di delizie: Qui pascitur inter illa. Quindi quella ferma certezza, che la castità dà ad un’anima della sua eterna felicità. Io non ho bisogno d’altra prova della verità che avanzo, che le promesse, le quali Gesù Cristo ha fatte nel suo Vangelo alla purezza del cuore, Beati, dice egli, coloro che hanno il cuor puro, perché essi vedranno Dio: Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt. Or la castità, è inseparabile dalla purezza del cuore. Si è ai Vergini, dice S. Giovanni, che è riserbato il vantaggio di seguire dappertutto l’Agnello nel soggiorno della gloria: Virgines sequuntur Agnum quocumque ierit. Da queste testimonianze sì consolanti, che possiamo noi, e che dobbiamo conchiudere? Che la castità è un segno di predestinazione, poiché i vergini avranno nel Cielo dei posti, e delle corone distinte, anche al disopra degli altri predestinati. – Se noi vogliamo esaminare più da vicino, perché la castità è uno dei più sodi fondamenti di nostra speranza alla felicità eterna, si è, che essa ci attira dalla parte di Dio grazie particolari e di elezione, che decidono di nostra predestinazione, e che le anime caste sono ordinariamente più fedeli a corrispondere a queste grazie. Infatti, se la castità dà ad un’anima un carattere di rassomiglianza con Dio, che la riguarda come sua sposa diletta, e se l’amicizia regna ordinariamente tra i simili, si può forse dubitare, che l’anima casta non possegga l’amicizia del suo Dio? Qui diligit cordis munditiam, habebit amicum regem. E se l’amor divino non è mai sterile, possiamo noi dubitare che Dio non si comunichi ad un’anima casta con una infusione di grazie, e di favori, come supporre si devono tra uno sposo benefico, ed una sposa diletta? Quindi quei vivi lumi, che egli sparge nel suo spirito per rischiararla, quell’intelligenza che le dà dei misteri della religione i più occulti, come la ricevette il diletto discepolo S. Giovanni, il quale meritò per la sua purità di riposare sul cuore del suo divin Maestro, e di trarne cognizioni che l’innalzarono come un’aquila nel seno della Divinità; siccome essa è più suscettibile, che le altre di questi divini influssi, Egli rianima la sua fede, le fa conoscere la bellezza della virtù, la magnificenza delle ricompense che le promette: quindi ancora quei buoni movimenti, che la portano al bere quella devozione tenera, quella facilità, che essa ritrova nel servigio del Signore; e siccome le anime pure apportano dal canto loro una grande fedeltà alla grazia, si è ciò che perfeziona e consuma l’opera della loro santificazione. Ed in vero, datemi un’anima casta; io vi dirò, dopo S. Basilio, che essa è nella disposizione la più felice per la santità, e la perfezione. Ella è un’anima dotata di tutte le virtù cristiane, o per lo meno cui la pratica ne è facile: e come ciò? si è, che per essere casta, bisogna farsi grandi violenze; e tosto che si è riportata questa vittoria, il restante nulla quasi costa. Un’anima che signoreggia con tanto d’impero sopra un corpo sensuale, supera facilmente tutti gli ostacoli, che essa incontra nella via della santità. Qual sacrificio le resta più difficile a fare di quello che essa ha fatto per arrivarvi? Qual nimico più formidabile di quello che essa ha incatenato consacrandosi al suo Dio, come una vittima pura, e senza macchia? Forse il demonio con le sue tentazioni? Ma esse non sono ordinariamente a temere, se non perché l’angelo delle tenebre è d’intelligenza col nimico domestico farci cadere nelle insidie: ora da che la carne, che è questo nemico domestico, è ridotta in ischiavitù, il demonio vede mancare i suoi disegni. Sarebbe forse il mondo coi suoi beni, e i suoi piaceri? Ma questa lusinga perde tutta la sua forza contro un’anima casta, e pura, che la castità ha sciolta dai piaceri sensuali, perché essa non vi rimira che un rischio necessario di farvi un tristo naufragio; e siccome l’amore delle ricchezze e degli onori è una conseguenza ordinaria dell’amor del piacere, perché si trova in questa mescolanza di che contentare le sue passioni; tosto che si dispregiano i piaceri del mondo, si fa altresì poco caso dei suoi falsi beni, si riguardano con l’Apostolo come fango, indegni di legare un cuore che si è dato a Dio: la castità riporta dunque la vittoria su tutte le tentazioni, e sopra tutte le passioni. – Ella è la compagna di tutte le virtù, poiché bisogna possederle tutte per arrivare a queste; bisogna esser umile, mortificato, dispregiare tutti gli oggetti sensibili, innalzarsi sopra di se medesimo, spogliarsi dell’amor proprio, crocifiggersi incessantemente; non è forse la perfezione del Vangelo, e la via della santità, che Gesù Cristo ci ha rappresentata in essa? Quindi vediamo, che coloro, i quali sono veramente casti, sono i Cristiani i più perfetti; essi sono riserbati nelle loro parole, modesti nel loro procedere, sobri nelle loro mense, rispettosi nei luoghi santi, esemplari in tutta la loro condotta: essi somigliano, dice S. Agostino, ai gigli, che s’innalzano verso il Cielo, e che spargono all’intorno di essi un soave odore; la sola presenza ispira, dell’amore per la virtù. Né è cosa difficile a comprendere, come la castità è una via sicura per giungere alla santità la più consumata, principalmente per le anime, che fanno una professione particolare della verginità. Tosto che un’anima ha scelto Gesù Cristo per suo sposo, ella è libera da un’infinità di oggetti che allontanano dalla via della perfezione: unicamente attenta a piacere a questo divino sposo, essa è esente, come dice l’Apostolo, da tutte le cure, da tutti gli imbarazzi, in cui si trovano le persone; che hanno il loro cuore diviso con alcuni altri oggetti: Virgo cogitat quae Domini sunt, ut sit sancta corpore, et spiritu. Essa non pensa, che ad unirsi a Dio con una vita più perfetta; l’amor divino trova più di sito in un cuore che non è diviso: questo cuore ne è tutto penetrato, tutto in fiammato, e possiede in questo amore il pegno sicuro di sua predestinazione. – Egli è vero che la castità, di cui parla qui l’Apostolo sotto il nome di verginità non è virtù di tutti gli stati; non è dato a tutti di menare un genere di vita così perfetto come quello delle persone che si consacrano a Dio col celibato o nella religione o nel mondo. Ma v’è una castità comune che conviene, e che è necessaria in tutti gli stati: vale a dire che, in qualunque genere di vita sia uno impegnato, si deve evitare tutto ciò che è capace di appannare questo bel fiore; la castità impone ancora alcuni obblighi a coloro che sono impegnati nel vincolo matrimoniale, come a quelli che non vi sono. Io non prendo qui a spiegare questi obblighi; mi contento di dire in generale che ogni Cristiano, in qualunque stato egli sta, deve stimare la castità come una virtù che fa uno dei più begli ornamenti della Religione cristiana; che ogni Cristiano essendo divenuto, per via del Battesimo, membro di Gesù Cristo, tempio dello Spirito Santo, deve avere un grande rispetto per sé medesimo, e non profanare questo tempio con macchie che ne oscurerebbero la bellezza; che per sbandire dal suo spirito e dal suo cuore ogni oggetto straniero, ogni inclinazione sregolata ed ogni pensiero contrario alla santa virtù della purità. Se qualcheduno, dice l’Apostolo, ha la temerità di profanare il tempio del Signore, sappia che Dio lo sterminerà e lo manderà in perdizione: Si quis violaverit templum Dei, disperdet illum Deus. Per preservarsi da questa disgrazia,qual precauzione convien prendere? Voi lo vedrete nella seconda parte di questo discorso.

II. Punto. Bisogna confessarlo, fratelli m 06iei, se la castità è preziosa e stimabile, ella è molto difficile a conservare e molto facile a perdere; non v’è virtù alcuna che sia così esposta ai pericoli. Tutto ciò che è al di’ fuori e al di dentro di noi ci mette in un rischio quasi continuo di perderla. Al di fuori, quanti oggetti non trova essa che con le loro lusinghe ed attrattive le portano colpi tanto più funesti, quanto che essa se ne accorge meno. Ella è circondata ed assalita da ogni parte da nemici, cui i sensi danno l’entrata nel nostro cuore. Qui è una Gezabele che si presenta per attirarsi gli sguardi di Jeu, la quale adopera nelle sue vestimenta, nel suo sembiante tutti gli artifici capaci di portare la contagione nel suo cuore. Basta uno sguardo per dare a questa virtù un colpo mortale; la vista di certi oggetti fa talvolta sul cuore sì vive impressioni che è difficilissimo di cancellarle. Sono parole oscene, canzoni lascive, che si odono nelle compagnie ove taluno si trova, e dove, oimè! La castità troppo sovente riceve assalti mortali. – A qual rischio questa virtù non è ella ancora esposta in quelle amicizie che si formano tra persone di diverso sesso? In quelle visite premeditate, con cui, sotto pretesto di un’amicizia sensibile, innocente, si mantiene un fuoco nascosto che non è men vivo, e che si manifesta spesso per via di certe libertà che si prendono, di cui non si suole aver troppo scrupolo, perché si riguardano come segni di amicizia, ma che avanti a Dio sono libertà colpevoli che conducono finalmente ai più gravi disordini. Queste mutue inclinazioni cominceranno da sentimenti di stima che ha l’uno per l’altro, fondati sul merito, sulle buone qualità personali; ma insensibilmente vi entrano ora la passione, i sensi vi prendono la loro parte, il cuore ne rimane soggiogato; e dopo aver cominciato per lo spirito, come dice l’Apostolo, si finisce vergognosamente per la carne. Egli è vero che l’onestà e la convenienza, di cui le persone ben educate seguono le regole, le ritengono ancora nei limiti di un certo dovere. Ma non è men vero che nelle conversazioni frequenti, nelle assiduità continuate, la purità resta ordinariamente infetta dal soffio del serpente infernale; che non se ne esce giammai così puri, come quando vi si è entrato. Questi trattenimenti passansi forse senza sguardi di compiacenza, senza qualche protesta di amicizia? Or qual impressione non fanno su di un cuore già portato al male quegli sguardi, quelle parole, quelle proteste, quei modi piacevoli, quell’umor dilettevole di una persona che ha avuta l’arte di piacere? Non ne è forse egli continuamente occupato quando la lascia, e non sospira dopo forse il momento di rivederla? Or da che il cuore è così schiavo di un amor profano, la castità vi può ella sussistere? Ah! che si estingue del tutto! Invano dirassi che si resiste agli assalti del nemico, rinunciando alle idee e alle impressioni che ricevute si sono da tal sorta di compagnie; ma non è forse sempre mettere la castità a critiche prove l’esporla ad un’aria infetta? Si può forse ignorare infatti che è molto difficile resistere a tutte le lusinghe che presenta l’occasione, e non lasciarsi andare ad una certa sensibilità che strascina il cuore? E non si sa forse che i pensieri contrari alla purità, benché disapprovati e rigettati, sono volontari nella causa che li fa nascere? il che basta per offendere la delicatezza di questa virtù. – Egli è dunque vero che la castità è una virtù molto delicata e molto difficile a conservare per il gran numero di nemici che l’attaccano al di fuori. Ma quand’anche nessun oggetto esteriore le portasse dei colpi, noi abbiamo dentro di noi medesimi il principio e la cagione della sua rovina; noi portiamo questo tesoro in vasi fragili, pronti ad ogni momento a rompersi. Noi sentiamo nei nostri membri una legge funesta che combatte contro quella dello spirito, e di cui può la virtù più soda e più severa con grande stento trionfare. Testimonio l’apostolo s. Paolo, che se ne lamentava egli medesimo, e che, malgrado le austerità con cui affliggeva il suo corpo; aveva ancora bisogno della grazia per rispingere gli assalti dello spirito impuro; testimoni i Girolami, i Bernardi, i Benedetti, i quali si percuotevano aspramente, si ravvolgevano nelle spine, si gettavano in stagni gelati per smorzare il fuoco nascente della concupiscenza. Or se i santi hanno sostenuto questi umilianti assalti, sì lontani com’erano dalle occasioni, estenuati dai rigori della penitenza; se han gemuto sì lungo tempo sopra la dolorosa necessità in cui erano di risentire gli stimoli della carne, come assicurarci della vittoria in mezzo delle occasioni da cui siamo circondati, con una vita molle e sensuale di cui siamo schiavi? Oimè! basta un soffio per oscurare la bellezza di questo specchio; un solo pensiero che le sia contrario, porta ad essa un colpo mortale, tostoché volontariamente vi ci fermiamo; le altre virtù non sono sempre in pericolo di perdersi, ma la castità corre rischio in ogni tempo, la notte come il giorno, nei luoghi sacri come nei profani; la solitudine medesima non la mette al sicuro dagli assalti del suo nemico; dappertutto con noi la portiamo in una carne ribelle alla legge di Dio. Vi sono virtù che possono e che debbono comparire in pubblico per l’edificazione del prossimo; ma la castità non vi comparisce quasi mai che a suo danno: egli è così difficile, dice il Crisostomo, il conservarla in un mondo corrotto, come il camminare su carboni accesi senza essere bruciato, sopra punte di spade senza rimanerne ferito. – Ma da tutto questo che cosa bisogna conchiudere? Dobbiamo noi ricercarla questa virtù o perderci di coraggio per abbandonarci all’inclinazione di una natura corrotta che ci porta a quel che può appagarla? A Dio non piaccia, ripiglia il Crisostomo parlando al suo popolo, a Dio non piaccia, che voi seguitiate le massime perniciose di quegli impuri, di quegli uomini voluttuosi, che, facendosi una necessità del vizio, si sforzano di distruggere la virtù, e falsamente persuasi che né l’uno né l’altra non è libera, si abbandonano alle loro passioni. Se lo sregolamento non dipendesse dalla libertà, perché, dice il medesimo dottore, Gesù Cristo nel suo Vangelo farebbe tanti elogi alla virginità, e proporrebbe come un mezzo salutevole l’esempio di coloro che ne seguono la pratica? Se fosse impossibile custodire la castità; e che il vizio contrario non fosse in nostro arbitrio, Dio infinitamente giusto, potrebbe Egli condannare a pene eterne i fornicatori, gl’impudichi per avere commessi delitti che non potevano evitare? Ciò non si può dire senza bestemmia; Iddio nulla comanda d’impossibile, né può punir l’uomo che per l’uso malvagio che egli fa della sua libertà. Ma giacché questa virtù è così delicata, bisogna anche conchiudere che noi dobbiamo usare molte precauzioni per conservarla. Quali sono queste precauzioni? Quali sono questi mezzi? Io li riduco a tre principali, che sono la fuga delle occasioni, la mortificazione dei sensi e l’orazione. Infatti, fratelli miei, per conservare la castità, bisogna tenerla lontana dai colpi dei suoi nemici e munirla di ripari che la difendano. Or la fuga delle occasioni ci fa trionfare dei nemici esterni; la mortificazione e l’orazione ci rassicurano contro quelli che sono dentro di noi. Se vi sono virtù che attaccano il nemico di fronte, come la forza e lo zelo, ve ne sono ancora che non possono vincere che con la fuga, come la castità; non è che nella fuga che essa trova la sua sicurezza: Fuge, et vicisti. Ed invero, se i nemici di questa virtù sono già sì formidabili nel tempo ancora che non li cerchiamo, e che si presentano a noi, che sarà poi quando si avrà la temerità di eccitarli alla battaglia? Esporsi nelle occasioni pericolose alla purità gli è un essere di già mezzo vinti, un andar d’intelligenza col nemico, un capitolare con lui per consegnargli la piazza. Da che si ama l’occasione del peccato, si ha dell’affetto per l’oggetto di sua passione, e tosto che l’oggetto è presente, qual impressione non fa egli sopra di un cuore già dalla sua inclinazione strascinato? Oimè! i più grandi santi avevano molta pena a difendersi dai colpi di questo nemico nel tempo medesimo che lo fuggivano, e che per evitarlo si rintanavano nelle solitudini. Come dunque resistergli allora quando ce ne avvicineremo con passioni vive e sempre pronte ad infiammarsi? Oimè! una funesta esperienza della maggior parte degli uomini pur troppo ne chiarisce che non dobbiamo aspettarci se non una vergognosa sconfitta. Bisogna dunque, fratelli miei, se volete vincere in questo genere di combattimento, allontanarvi da tutto ciò che è capace di pervertirvi, come sono gli spettacoli, le danze, le compagnie pericolose, la lettura di cattivi libri, le amicizie, gl’intrattenimenti con persone di diverso sesso; in una parola da tutti gli oggetti capaci di dare assalto alla castità. – Io so, e debbo dirlo per consolazione delle anime che amano Dio, io so che malgrado tutte le precauzioni che prender si possono, egli è molto difficile vivere nel mondo senza trovarvi oggetti pericolosi, che non è possibile di evitare tutti gli assalti dei nemici. Come dice l’Apostolo, non tutti possono prendere il partito del ritiro per fuggire i pericoli; vi sono certe compagnie oneste cui non siamo obbligati di rinunciare, da che la virtù non vi è esposta a far naufragio. Ma quel che è a tutti necessario si è di evitare le occasioni prossime, cioè quelle che di loro natura sono capaci di far cadere nel peccato, o che non essendo tali di loro natura, lo sono per rapporto alla malvagia disposizione delle persone che vi si espongono, e che provano colla esperienza la loro debolezza a resistervi. Quel che è necessario a coloro che sono impegnati in certe amicizie sensibili, benché le credano innocenti, si è di rompere queste amicizie tostochè esse tendono alla rovina della castità; e quand’anche non andassero fin là e nulla anche avessero di colpevole, cessano di essere innocenti per questo appunto che cagionano dello scandalo. Quel che è finalmente a tutti necessario nelle occasioni anche remote ed indifferenti, ove la castità nulladimeno può soffrire alcuni assalti, si è, per preservarsi dal rischio di perderla, di mortificare i suoi sensi, che sono come le porte per dove la morte entra nella nostr’anima. Imperciocché, fratelli miei, è egli forse meraviglia vedere il nimico padrone di una piazza non solo aperta al suo passaggio, ma in cui si è procurata una segreta intelligenza? Noi abbiamo dentro di noi medesimi un nimico domestico, che è la nostra carne, una natura corrotta che ci porta verso gli oggetti sensibili; egli è dunque necessario domare questo nemico, indurre questa carne in schiavitù, mortificare i suoi sensi con l’interdire loro tutto ciò che può soddisfarli in pregiudizio della legge di Dio. Bisogna soprattutto chiuder gli occhi agli oggetti pericolosi: mentre questi è di tutti sensi il più difficile a contenere, è quello che più presto ci scappa, e che trova più facilmente il suo oggetto che tutti gli altri. Facciamo dunque, come Giobbe, un patto con i nostri occhi, per non fissarli giammai sopra oggetti capaci di far su di noi qualche malvagia impressione: Pepigi factum cum oculis meis, ne cogitarem de virgine. Chiudiamo le nostre orecchie alle canzoni profane, ai discorsi osceni, alle conversazioni troppo libere; mortifichiamo il nostro gusto, e che la temperanza ci allontani dagli eccessi e dalla delicatezza dei cibi capaci di eccitare in noi il fuoco delle passioni. La castità è un fiore attorniato da spine e che non si trova punto nelle dolcezze di una vita molle e sensuale. La modestia, che è una conseguenza della mortificazione, serve ancora di difesa alla castità. Questa virtù contiene non solamente tutti i nostri sensi nei limiti del dovere, ma regola ancora tutto il nostro esteriore, e nelle vestimenti e nei modi che dobbiamo avere col prossimo essa ignora quegli ornamenti mondani, quelle arie scherzevoli e troppo libere che sono nello stesso tempo i segni di un cuore poco casto e portano la contagione nel cuore altrui. – Ma siccome tutta la nostra forza vien da Dio, a Lui bisogna indirizzarsi per assicurarci dalla vittoria; la continenza è un dono di Dio, dice il Savio, e non l’accorda, che a coloro che gliela domandano: Scivi quoniam continens esse non possem, nisi Deus det. Infatti, se la grazia è necessaria per lavorare ad imperar la salute, essa deve esserlo principalmente nelle occasioni in cui, per acquistare e conservare la virtù, noi abbiamo grandi ostacoli a superare; or la castità è delle virtù la più preziosa e la più difficile a conservare: andiamo dunque spesso ai piedi degli altari ad indirizzare a Dio le preghiere del santo re Davide: noi abbiamo bisogno del soccorso della grazia, che conviene chiedere a Dio con ferventi preghiere, all’esempio del re Profeta: datemi, o Signore, un cuor puro e staccato da ogni oggetto sensibile per non attaccarlo che a Voi solo: Cor mundum crea etc. Ricorriamo ancora a questo fine alla Regina dei vergini, indirizzandole ogni giorno alcune preghiere per ottenere questa grazia: accostiamoci sovente ai sacramenti, che ne sono la sorgente: La penitenza ci servirà di rimedio contro il veleno della libidine, e la santa Eucaristia, unendoci alla carne verginale di Gesù Cristo, ci conserverà in una inviolabile purezza. Inebriati di quel vino che fa germogliare le vergini, noi diverremmo inaccessibili ai colpi del nostro nemico. Felici sono coloro che avranno il cuor puro, dice Gesù Cristo, perché vedranno Dio nel soggiorno della sua gloria: Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Dan IX: 17;18;19
Orávi Deum meum ego Dániel, dicens: Exáudi, Dómine, preces servi tui: illúmina fáciem tuam super sanctuárium tuum: et propítius inténde pópulum istum, super quem invocátum est nomen tuum, Deus.

[Io, Daniele, pregai Iddio, dicendo: Esaudisci, o Signore, la preghiera del tuo servo, e volgi lo sguardo sereno sul tuo santuario, e guarda benigno a questo popolo sul quale è stato invocato, o Dio, il tuo nome.]

Secreta

Majestátem tuam, Dómine, supplíciter deprecámur: ut hæc sancta, quæ gérimus, et a prætéritis nos delictis éxuant et futúris.

[Preghiamo la tua maestà, supplichevoli, o Signore, affinché questi santi misteri che compiamo ci liberino dai passati e dai futuri peccati.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps LXXV: 12-13
Vovéte et réddite Dómino, Deo vestro, omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera: terríbili, et ei qui aufert spíritum príncipum: terríbili apud omnes reges terræ.

[Fate voti e scioglieteli al Signore Dio vostro; voi tutti che siete vicini a Lui: offrite doni al Dio temibile, a Lui che toglie il respiro ai príncipi ed è temuto dai re della terra.]

 Postcommunio

Orémus.
Sanctificatiónibus tuis, omnípotens Deus, et vítia nostra curéntur, et remédia nobis ætérna provéniant.

[O Dio onnipotente, in virtù di questi santificanti misteri siano guariti i nostri vizii e ci siano concessi rimedii eterni.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SUL PRIMO COMANDAMENTO

DOMENICA XII. DOPO PENTECOSTE

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sul primo Comandamento di Dio.

Dilìges Dominum Deum tuum.

(Luc. X, 27).

Adorare Dio, Fratelli miei, od amarlo è il più bell’ufficio dell’uomo sulla terra: poiché con questa adorazione ci rendiamo simili agli Angeli ed ai santi che sono in cielo. O mio Dio! quale onore e quale felicità per una vile creatura, poter adorare ed amare un Dio sì grande, sì potente, sì amabile e sì benefico! No, F. M., no: mi sembra che Dio non avrebbe dovuto farci questo comando: ma solo sopportarci prostrati alla sua santa presenza. Dio ci comanda di amarlo e di adorarlo! perché F. M.? Forseché Dio ha bisogno delle nostre adorazioni e delle nostre preghiere? Ditemi, F. M., siamo forse noi che circondiamo di raggi di gloria il suo capo? Siamo noi che aumentiamo la sua grandezza e potenza, poiché ci comanda di amarlo sotto pena di castighi eterni? Ah! meschino nulla noi siamo, creature immeritevoli di questa fortuna, di cui gli Angeli stessi, santi e puri quali sono, ci riconoscono infinitamente indegni, e, se Dio loro permette di prostrarsi davanti aLui, lo fanno tremando! O mio Dio! come l’uomo conosce poco la sua felicità ed il suo privilegio … Ma no, F . M., non usciamo dalla nostra semplicità ordinaria. Ah! F. M., questo pensiero che possiamo amare ed adorare un Dio sì grande, ci sembra così al disopra dei meriti nostri, che ci toglie il proposito della semplicità. Ah! poter adorare Dio, amarlo e pregarlo! Mio Dio, quale fortuna! chi potrà mai comprenderla?… No, F. M., tutte le nostre adorazioni e tutta la nostra amicizia nulla aggiungono alla felicità ed alla gloria del nostro Dio: ma siccome Dio vuole soltanto la nostra felicità quaggiù, così Egli sa che non la si trova se non nell’amore che avremo per Lui, e che tutti coloro i quali la cercheranno fuori di Lui non la troveranno mai. Di modo che, F. M., quando il buon Dio ci ordina di amarlo ed adorarlo, Egli vuole sforzarci ad essere f elici. Vediamo adunque tutti insieme:

1° in che consista questa adorazione che dobbiamo a Dio e che ci rende così felici; e

2° come dobbiamo rendergliela.

I. — Se mi domandate, F. M., che cosa è adorare Dio, eccolo: È ad un tempo credere a Dio e credere in Dio. Notate bene, F. M., la differenza che passa tra credere a Dio e credere in Dio. Credere a Dio, che è la fede anche dei demoni, è credere che vi è un Dio, che esiste, che ricompensa la virtù e punisce il peccato. Mio Dio! quanti Cristiani non hanno la fede dei demoni! Negano l’esistenza di Dio, e nella loro spaventosa cecità e frenesia osano sostenere che al di là di questo mondo non v’ha né punizione né ricompensa. Ah! disgraziati, se la corruzione del vostro cuore vi ha portati a questo eccesso di cecità, andate, interrogate un ossesso dal demonio; egli vi insegnerà ciò che dovete credere dell’altra vita: vi dirà che, necessariamente il peccato vien punito e la virtù premiata. Oh! qual disgrazia, F. M.! Quando la fede è spenta in un cuore, di quali stravaganze non si è capaci? Ma credere in Dio, significa riconoscere che Egli è il nostro Dio, il nostro Creatore, il nostro Redentore, e che lo prendiamo per nostro modello: è riconoscerlo come Colui dal quale dipendiamo in tutte le cose, per l’anima e pel corpo, per le cose spirituali e temporali: come Colui, dal quale tutto attendiamo, e senza del quale nulla possiamo. Leggiamo nella vita di san Francesco ch’ei passava le notti intiere senza far altra preghiera che questa: “Signore, voi siete tutto, ed io sono nulla; voi siete il Creatore di tutte le cose, voi siete il conservatore di tutto l’universo: ed io sono nulla.„ Adorare Dio, F. M., è offrirgli un sacrificio di tutto noi stessi, cioè, essere sottomessi alla sua santa volontà nelle croci, nelle afflizioni, nelle malattie, nelle perdite dei beni, ed essere pronti a dar la nostra vita, se occorre, per suo amore. Diciamo ancora di più : è fargli un a offerta universale di quanto siamo: cioè del nostro corpo col culto esteriore e dell’anima nostra e di tutte le sue facoltà col culto interiore. Spieghiamolo, F. M., in modo più semplice. Se domandassi ad un bambino: Quando bisogna adorare Iddio, e come si deve adorarlo? egli mi risponderebbe: “Mattina e sera, e spesso durante il giorno, cioè sempre. „ Il che vuol dire, F. M., che dobbiamo fare sulla terra ciò che gli Angeli ed i santi fanno in cielo. – Il profeta Isaia ci dice che vide nostro Signore seduto su un bel trono di gloria: i serafini l’adoravano con sì grande rispetto, che si facevano velo colle ali al volto ed ai piedi e cantavano continuamente: “Santo, santo, santo è il grande Iddio degli eserciti, gloria, onore, adorazione gli sian resi per tutti i secoli. „ (Isa. VI, 2,3). – Leggiamo nella vita della beata Vittoria, dell’ordine dell’Incarnazione, che v’era una religiosa del suo istituto assai devota e ripiena dell’amor divino. Trovandosi un giorno ella in orazione, nostro Signore la chiamò per nome: questa santa gli rispose nella sua semplicità ordinaria: “Mio divino Gesù, che volete da me? „ Il Signore le disse: “Io ho dei serafini nel cielo che mi lodano, mi benedicono, m’adorano senza tregua: voglio averne anche sulla terra, voglio che voi siate di questo numero. „ Vale a dire, F. M., che il compito dei beati nel cielo è di essere occupati soltanto a benedire il buon Dio in tutte le sue perfezioni, e che noi dobbiam fare altrettanto mentre siamo sulla terra: i santi trionfando e godendo, e noi combattendo. S. Giovanni ci dice che vide sì gran numero di santi, che sarebbe impossibile contarli: stavano davanti al trono di Dio, e dicevano con tutto il cuore e tutta la forza: “Onore, benedizione, ringraziamenti sian resi al nostro Dio. „ (Apoc. V, 11)

II. — Dico adunque, F. M., che dobbiamo spesso adorare Dio, 1° col corpo: cioè dobbiamo metterci in ginocchio quando vogliamo adorarlo, per mostrargli il rispetto che abbiamo della sua santa presenza. Il santo re Davide adorava il Signore sette volte al giorno (Ps. CXVIII, 164), e stava così a lungo in ginocchio che, lo confessa egli stesso, a forza di pregare, e, pregare stando in ginocchio, le sue ginocchia erano divenute deboli ed inferme (Ps, CVIII, 23).  Il profeta Daniele a Babilonia si voltava verso Gerusalemme, ed adorava Dio tre volte al giorno (Dan. VI, 12). Lo stesso nostro Signore, che non aveva alcun bisogno di pregare, per darcene l’esempio passava spesso le notti intere a pregare in ginocchio, il più delle volte con la faccia contro terra: come fece nel giardino degli Olivi vi fu un gran numero di santi che imitarono Gesù Cristo nella sua preghiera. S. Giacomo adorava spesso Iddio non solo in ginocchio, ma anche con la faccia contro terra: di modo che la sua fronte a forza di toccar la terra, era divenuta dura come la pelle d’un cammello. Leggiamo nella vita di S. Bartolomeo, che egli piegava il ginocchio a terra cento volte al giorno, ed altrettante la notte (Ribadeneira, 24 Agosto) . Se non potete, F . M , adorare il buon Dio così spesso ed in ginocchio, almeno fatevi un dovere di farlo sera e mattina, e di quando in quando durante il giorno allorché siete soli nelle vostre case, per mostrargli che l’amate e lo riconoscete per vostro Creatore e conservatore. Soprattutto, F . M., dopo aver dato il nostro cuore a Dio svegliandoci, ed esserci sbarazzati d’ogni pensiero che non abbia rapporto con Lui, e vestiti con modestia senza perder di vista la sua presenza, dobbiam fare la nostra preghiera con tutto il rispetto possibile, e se lo possiamo un po’ lunga. Bisogna guardarsi di evitare qualsiasi occupazione prima della preghiera: come rifare il letto, attendere a qualche faccenda domestica, metter la pentola sul fuoco, chiamare i servi od i figli, dar da mangiar alle bestie: né comandare mai niente ai figli ed ai domestici prima che abbiano detto le loro orazioni. Se lo faceste, sareste i carnefici delle povere anime loro, e se l’avete fatto, dovete confessarvene e non più ricadere. Ricordatevi bene che è al mattino che il buon Dio ci prepara tutte le grazie necessarie per passare santamente la giornata. Di modo che se facciamo male la nostra preghiera, o non la facciamo, perdiamo tutte le grazie che il buon Dio ci aveva destinate per render le nostre azioni meritorie. Il demonio sa come è vantaggioso ad un Cristiano far bene la preghiera del mattino, e non lascia alcun mezzo per farcela far male o tralasciarla. Esso diceva un giorno, per bocca di un ossesso, che se poteva avere il primo momento della giornata d’un Cristiano, era sicuro d’averne tutto il resto. Per fare la vostra preghiera come si deve, dovete prender l’acqua benedetta per scacciar il demonio, e fare il segno della croce, dicendo : “Mio Dio, per quest’acqua benedetta e per il Sangue prezioso di Gesù Cristo vostro Figlio, lavatemi, purificatemi da tutti i miei peccati. „ Dobbiamo persuaderci che se lo faremo con fede, cancelleremo tutti i nostri peccati veniali, supponendo che non ne abbiamo di mortali. O mio Dio! può un Cristiano commettere un peccato mortale, che gli rapisce il cielo, lo separa dal suo Dio per tutta l’eternità? … Dio mio! quale sventura, e, purtroppo, così poco conosciuta dal peccatore! Dobbiam fare la nostra preghiera in ginocchio, e non sdraiati sulla sedia, o contro il letto o davanti al fuoco, quantunque si possano appoggiar le mani allo schienale di una sedia. Bisogna cominciar la preghiera con un atto di fede, la più viva possibile, penetrandoci vivamente della presenza di Dio, cioè della grandezza d’un Dio così buono, che vuol tollerare alla sua santa presenza noi che da tanto tempo meriteremmo d’essere inabissati nell’inferno. Dobbiamo badar bene di non mai distrarci, né distrarre coloro che pregano, a meno che sia proprio necessario: perché si è causa che essi si occupino di noi o di ciò che loro diciamo; così fanno male la loro preghiera, e di ciò ne siamo noi la causa. Se ora m i domandate anche come si deve fare per adorare, cioè pregar Dio continuamente, perché non si può stare i n ginocchio tutto il giorno, vi dico che non v’ha niente di più facile; ascoltatemi un istante e vedrete che si può adorare Dio e pregarlo, senza tralasciare il lavoro, in quattro modi; ma ciò dopo aver fatta bene la preghiera in ginocchio. Dico in quattro modi: col pensiero, col desiderio, colle parole, colle azioni. E 1° col pensiero. Quando si ama alcuno, non si prova un certo piacere di pensare a lui? Ebbene, P. M., chi ci impedisce di pensare a Dio durante il giorno, meditando spesso le sofferenze di Gesù Cristo per noi, ricordandoci quanto Egli ci ama e desidera di renderci felici, Egli che. volle morire per noi; e fu con noi sì buono che ci fece nascere nel seno della Chiesa cattolica, dove abbiamo tanti mezzi di renderci felici, cioè di salvarci, mentre molti altri non hanno la medesima fortuna? Di tratto in tratto, durante il giorno, portiamo i nostri pensieri e desideri verso il cielo, per contemplarvi anzi tempo i beni e la felicità che Dio ci prepara dopo un momento di lotta. Questo solo pensiero, P. M., che un giorno andremo a veder il buon Dio, e che saremo liberati da ogni pena, non dovrebbe consolarci nello nostre tribolazioni? Se siamo oppressi da qualche afflizione, pensiamo subito che seguiamo Gesù Cristo, il quale ha portato la croce per amor nostro: uniamo le nostre sofferenze e pene a quelle del divin Salvatore. Siamo poveri? portiamoci col pensiero al presepio: vediamo e contempliamo il nostro amabile Gesù coricato su poca paglia, senza alcun conforto umano. E, se volete, guardatelo anche morente sulla croce, spogliato persino delle sue vesti. Siamo noi calunniati? pensiamo, F. M., alle bestemmie vomitate contro di Lui durante la passione, contro di Lui che era la stessa santità. Di tratto in tratto, durante il giorno, pronunciamo nel nostro cuore queste dolci parole: “Mio Dio, vi amo e vi adoro con tutti i vostri angeli e santi che sono in cielo. „ Nostro Signore disse un giorno a S. Caterina da Siena: “Voglio che tu faccia un tabernacolo nel tuo cuore, e vi ti rinchiuda con me per tenermi compagnia. „ Qual bontà, F. M., da parte di questo buon Salvatore nel compiacersi di conversare con una misera creat ura! Ebbene, F. M., facciamo altrettanto: intratteniamoci col buon Dio, col nostro amabile Gesù, che trovasi nel nostro cuore colla sua grazia. Adoriamolo, dandogli il nostro cuore: amiamolo, donandoci interamente a Lui. Non passiamo mai giorno, senza ringraziarlo di tanti favori accordatici durante la nostra vita: domandiamogli perdono dei nostri peccati, pregandolo di non ricordarli più, e di dimenticarli per l’eternità. Domandiamogli la grazia di non pensare che a Lui, e di non desiderare altro che di piacergli, in tutto ciò che faremo durante la nostra vita. “Mio Dio, dobbiamo dirgli, desidero amarvi quanto tutti gli angeli e santi insieme. Voglio unire il mio amore a quello che ebbe la vostra santa Madre per Voi mentre era sulla terra. Mio Dio, quando avrò la felicità di venire a vedervi in cielo per amarvi più perfettamente? „ Se siamo soli in casa nostra, chi ci impedisce di metterci in ginocchio? Basterebbe dire : “Mio Dio, voglio amarvi con tutto il mio cuore, con tutti i miei affetti, pensieri e desiderii: quanto mi tarda di venire a vedervi in cielo! „ Vedete, miei cari, come è facile trattenerci col buon Dio e pregarlo continuamente? Ecco, F. M., che cosa vuol dire pregare tutto il giorno.

2 ° Adoriamo Dio col desiderio del cielo. Come non desiderare di posseder Dio, di vederlo, mentre Egli è tutta la nostra felicità? …

3° Dico inoltre che dobbiam pregarlo con la parola. Quando amiamo qualcuno, non abbiamo gran diletto di trattenerci a parlare con lui? Ebbene, F. M., invece di parlare dei fatti dell’uno e dell’altro, il che non avviene quasi mai senza offendere il buon Dio, chi ci impedisce di far cadere la nostra conversazione sulle cose di Dio, sia commentando qualche vita di santo, sia raccontando ciò che udimmo in una istruzione, in un catechismo? Parliamo soprattutto della nostra santa religione, della felicità che godiamo nella religione cristiana, delle grazie che il buon Dio ci fa. Ahimè! F. M., se basta una conversazione cattiva per perdere una persona, spesso una buona basta per convertirla, o farle evitare il peccato. Quante volte, dopo essere stato con alcuno che ci ha parlato di Dio, ci siam sentiti portati a Lui, abbiam pensato a far meglio! Ecco quanto facevano tanti Cristiani nei primi tempi della Chiesa: tutte le conversazioni, tutti i discorsi erano intorno a Dio. Per questo, i Cristiani si animavano gli uni gli altri, e sentivano sempre nuovo gusto delle cose di Dio.

4° Da ultimo dico che dobbiamo adorare Iddio colle nostre azioni. Niente di più facile, di più meritorio. Se desiderate sapere come si fa, eccolo. Perché le nostre azioni siano meritorie e siano una preghiera continua, dobbiamo subito al mattino offrire in generale tutte le nostre azioni; cioè tutto quanto faremo durante il giorno. Diciamo al buon Dio, prima di cominciare: “Mio Dio, vi offro tutti i pensieri, desiderii, parole ed azioni che farò in questo giorno: fatemi la grazia di farle bene e pel solo fine di piacervi. „ Poi, di tratto in tratto, nel corso della giornata rinnoviamo la nostra offerta, dicendo a Dio: “Sapete, mio Dio, sapete che vi ho promesso fin dal mattino di fare tutto per vostro amore. „ Se facciamo qualche elemosina, indirizziamo bene la nostra intenzione, dicendo : “Mio Dio, ricevete questa elemosina, o questo servizio che rendo al mio prossimo: è per domandarvi la tal grazia. „ Una volta la farete in onore della passione e morte di Gesù Cristo, per ottenere la vostra conversione, o quella dei vostri figli, dei vostri domestici o di altre persone che vi interessano: un’altra volta in onore della santissima Vergine, per domandare la sua santa protezione per voi e per gli altri. Se ci vien comandata cosa che ci ripugna, diciamo al buon Dio: “Mio Dio, vi offro questo per onorare il momento in cui foste fatto morire per me. „ Facciamo qualcosa che ci costa fatica? Offriamola al buon Dio, perché ci liberi dalle pene dell’altra vita. Quando ci riposiamo un momento, guardiamo il cielo che sarà un giorno la nostra dimora. Vedete, F. M., che se avessimo la fortuna di comportarci cosi, guadagneremmo assai pel cielo, solo compiendo le nostre azioni; ma facendole unicamente per Iddio, e pel solo fine di piacere a Lui. S. Giovanni Crisostomo c i dice che tre cose si fanno amare: la bellezza, la bontà e l’amore. “Ebbene, ci dice questo gran santo, Dio ha in sé tutte queste qualità. „ Leggiamo nella vita di S. Liduina (Ribadeneira, 14 Apr.) che mentre ella soffriva dolori fortissimi le apparve un angelo per consolarla. Ce lo dice ella stessa: la sua bellezza le parve così grande, e ne fu così rapita, che dimenticò completamente le proprie sofferenze. Valeriano avendo visto l’angelo che difendeva la purità di S. Cecilia, fu così incantato dalla sua bellezza, e ne ebbe talmente toccato il cuore, sebbene fosse ancora pagano, che si convertì sull’istante (Ribadeneira 14 Apr.). S. Giovanni, il discepolo prediletto, ci dice che vide un angelo di bellezza così grande che volle adorarlo: ma l’Angelo gli disse: “Non far questo, io non sono che un servo di Dio al pari di te (Apoc. XXII, 8,9) . „ Quando Mosè domandò al Signore la grazia di fargli vedere il suo volto, il Signore gli disse: “Mosè, è impossibile ad un uomo mortale veder il mio volto senza morirne, la mia bellezza è così grande, che chi mi vedrà non potrà vivere: bisogna che l’anima esca dal suo corpo al solo vedere la mia beltà. „ (Exod. XXXIII, 20). S. Teresa ci dice che Gesù Cristo le apparve spesso: ma che giammai alcuno potrà formarsi un’idea della grandezza di sua beltà, tanto essa è al di sopra di ciò che possiamo pensare. Ditemi, F. M., se avessimo la ventura di formarci un’idea della bellezza di Dio, potremmo noi non amarlo? Oh! quanto siam ciechi! Ahimè! è perché non pensiamo che alla terra ed alle cose create, e non alle cose di Dio, che ci solleverebbero sino a Lui, e ci rivelerebbero qualche poco delle sue perfezioni, e commuoverebbero i nostri cuori. Ascoltate S. Agostino: “O bellezza sempre antica e sempre nuova! vi ho amata troppo tardi. „ (Conf. L. X, cap. XXVII) Chi ama la bellezza di Dio sempre antica, perché essa è da tutta l’eternità; e la chiama sempre nuova, perché più la si vede più la si trova grande. Perché, F. M., gli Angeli ed i santi non si stancheranno mai di amar Dio e contemplarlo? Perché ne avranno sempre novello godimento e piacere. E perché, F. M., non faremo noi la medesima cosa sulla terra, giacché lo possiamo? Ah! F. M., qual vita felice condurremo noi, preparandoci il cielo! Leggiamo nella vita di S. Domenico, che egli aveva rinunciato così pienamente a se stesso, che non poteva pensare, né considerare, né amare altra cosa che Dio solo. Dopo aver passato il giorno, occupato ad accender nei cuori il fuoco dell’amor divino colle sue predicazioni, durante la notte se ne volava al cielo colle sue contemplazioni e coi suoi colloqui con Dio. Era questa tutta la sua occupazione. Nei viaggi non pensava che a Dio: niente era capace distrarlo da questo consolante pensiero: che Dio era buono, amabile e ben meritevole d’essere amato. Non sapeva comprendere come ci fossero sulla terra uomini che potessero non amare Dio, che è così amabile. Versava torrenti di lagrime sulla disgrazia di coloro che non volevano amare un Dio così buono, e così degno d’essere amato. Un giorno, avendo alcuni eretici cercato di farlo perire, ma avendolo il buon Dio salvato con un miracolo, uno di essi gli domandò che cosa avrebbe fatto se fosse caduto nelle lor mani. Gli rispose: “Sento un sì gran desiderio d’amare Dio, vorrei tanto soffrire e morire per Lui, che vi avrei pregato d’uccidermi non d’un colpo solo, ma di ridurre le mie membra in piccoli pezzetti, di strapparmi la lingua e gli occhi, e dopo avermi fatto spargere fino all’ultima goccia il sangue, tagliarmi la testa: e vorrei che tutti gli uomini avessero la mia stessa disposizione, perché Dio è così bello e buono, che per quanto si faccia, non si riuscirà mai ad avvicinarsi aciò che merita. (Ribad. 4 Agosto). Ebbene, F. M., non è amare il buon Dio l’aver così belle disposizioni? Non è amarlo davvero, con tutto il cuore e più di se stesso? Ditemi, F. M., l’amiamo noi come l’amava questo santo, noi che, sembra, ci facciamo come un piacere di offenderlo, noi che non vogliamo fare il minimo sacrificio per evitare il peccato? Ditemi, F. M., è amare il buon Dio, omettere le nostre preghiere, o farle senza rispetto e divozione? Quante volte non ci mettiamo neppure in ginocchio? Amiamo noi il buon Dio quando non diamo ai nostri figli o ai nostri domestici nemmeno il tempo di pregare? Amiamo noi il buon Dio, F. M., quando mangiamo la carne nei giorni proibiti? Amiamo il buon Dio quando lavoriamo nei giorni di festa? Amiamo il buon Dio quando stiamo senza rispetto in chiesa, dormiamo, discorriamo, e giriamo qua e là la testa, ovvero usciamo fuori durante le funzioni? Ahimè, F. M.! diciamolo gemendo, quali larve di adoratori siamo noi! Ahimè, quanti Cristiani che son Cristiani solo di nome! Inoltre dobbiamo amare Dio perché è infinitamente buono. Quando Mosè domandò al Signore di fargli vedere il suo volto, Ei gli rispose: “Mosè, se ti faccio vedere il mio volto, ti mostro il compendio e la somma di ogni bene. „  (Ex. XXXIII, 18, 19). Leggiamo nel Vangelo che un giovine essendosi prostrato davanti a N. Signore, lo chiamò “O buon Maestro. „ N . Signore gli soggiunse: “Perché mi chiami buono? non v’ha che Dio solo che sia buono (Matt. XIX, 17): „ volendo indicarci che Dio solo è la sorgente di ogni bene. S. Maddalena de’ Pazzi c i dice che vorrebbe aver abbastanza forza per farsi intendere ai quattro lati del mondo, e dire a tutti gli uomini di amare il buon Dio con tutto il loro cuore, perché Egli è infinitamente amabile. Leggiamo nella vita di S. Giacomo, religioso domenicano  (12 Ottob.), che andava per le campagne e pei boschi, gridando con tutta la sua forza: “O cielo! e tu, o terra! Non amate voi il buon Dio quanto le altre creature, perché è infinitamente degno di essere amato? O mio Salvatore! se gli uomini sono così ingrati di non amarvi, voi creature tutte amate il vostro Creatore, perché è così buono e così amabile!„ Ah! F. M., se potessimo comprendere, una volta, come si è felici amando il buon Dio, noi piangeremmo giorno e notte d’essere stati per tanto tempo privi di tal fortuna!… Ahimè! come l’uomo è miserabile! un semplice rispetto umano, un piccolo… “che si dirà?” gli impedisce di far conoscere ai suoi fratelli ch’egli ama il buon Dio! … O mio Dio! chi può comprendere onesta mostruosità?… Leggiamo nella storia che i carnefici nel tormentare S. Policarpo gli dicevano: “Perché non adori gli idoli? „ — “Non posso, rispose, perché adoro un solo Dio creatore del cielo e della terra. „ — “Ma, soggiungevano, se non fai ciò che vogliamo, ti faremo morire. „ —“Acconsento volentieri a morire, ma giammai adorerò il demonio. „ — “Ma che male c’è a dire Divo Cesare e a fargli sacrificio per salvare la tua vita? „ — “Non lo farò, preferisco morire. „ — “Giura per la fortuna di Cesare, disse gli il giudice, e fa ingiuria al tuo Cristo. „ Il santo rispose : “Come potrei ingiuriare il mio Dio? sono ottant’anni che lo servo, e mi ha sempre fatto del bene. „ Il popolo, furibondo per questo modo di rispondere al giudice, gridò: “È il dottore dell’Asia, il padre dei Cristiani: abbandonalo a noi. „ — “Ascolta, giudice, dissegli il santo Vescovo, ecco la mia religione: io sono Cristiano, io so soffrire, morire, ma non dire ingiurie al mio Salvatore, Cristo Gesù, che m’ha tanto amato, e tanto merita d’essere amato! “Se non vuoi obbedire, soggiunse il giudice, ti farò abbruciar vivo. „ — “Il fuoco di cui mi minacci non dura che un momento: ma tu non conosci quello della giustizia di Dio che abbrucerà eternamente gli empi. Perché indugi? ecco il mio corpo, pronto a soffrire tutti i tormenti che potrai inventare. „ I pagani si misero a gridare: “Merita la morte: sia abbruciato vivo. „ Ahimè! tutti questi disgraziati come tanti impazziti preparano il rogo, ed intanto S . Policarpo si prepara alla morte e ringrazia Gesù Cristo che lo fa partecipare al suo calice. Preparato il rogo, il santo fu preso, e postovi in mezzo: ma le fiamme, meno crudeli dei carnefici, rispettavano il santo, e facevano attorno a lui come un velo, sicché il suo corpo non ebbe alcun danno: ciò che costrinse il persecutore a farlo uccidere sul rogo. Il sangue grondò con tanta abbondanza che il fuoco ne fu spento (Ribadeneira, 26 Gennaio). Ecco, P. M., che cos’è amar Dio perfettamente: è amarlo più che la stessa vita. Ahimè! dove troveremo noi, in questo secolo malaugurato, Cristiani disposti a far altrettanto per Iddio? Davvero, sono troppo rari. Ma sono anche ben rari quelli che andranno in cielo! – Dobbiamo amare Iddio anche per i benefici che riceviamo continuamente. Primo beneficio è la creazione. Abbiam la fortuna d’essere dotati di tante belle qualità: un corpo ed un’anima formati dalla mano dell’Onnipotente (Giob. X, 8): un’anima che non deve mai perire, che è destinata a passare la sua eternità con gli Angeli in cielo, un’anima, dico, che è capace di conoscere Dio, di amarlo e servirlo: un’anima che è l’opera più bella della Ss. Trinità, un’anima superata da Dio solo. Infatti, tutte le creature che sono sulla terra periranno, mentre l’anima nostra non verrà mai distrutta. Mio Dio, se noi fossimo compresi anche poco di questo beneficio, non passeremmo tutta la nostra vita rendendo a Dio grazie per un dono così grande e prezioso? Un altro beneficio non minore, F. M., è il dono che il Padre eterno ci ha fatto del suo Figlio, che ha sofferto e sopportato tanti tormenti per riscattarci, dopo che eravamo stati venduti al demonio pel peccato di Adamo. Qual altro beneficio più grande poteva farci che stabilire una religione così santa, e così consolante per tutti quelli che la conoscono ed hanno la fortuna di praticarla? S. Agostino dice: “Ahi religione bella: se sei disprezzata è perché non sei conosciuta. „ — “No, F. M., dice S. Paolo, non siete più vostri, siete stati tutti riscattati dal sangue d’un Dio fatto uomo „ — “Figli miei, ci dice san Giovanni, quale onore per vili creature l’essere stati adottati quali figli di Dio ed essere divenuti fratelli di Gesù Cristo! Quale carità, dice egli, essere chiamati figli di Dio ed esserlo veramente e, per questa qualità sì gloriosa, aver anche diritto al cielo! „ Esaminate ancora, se volete, tutti i benefici particolari: ci ha fatto nascere da parenti Cristiani; ci ha conservato l’esistenza, malgrado fossimo suoi nemici; ci ha tante volte perdonato i peccati, ci ha prodigato tante grazie in tutto il corso della nostra vita. Dopo tutto ciò, F. M., è possibile che non amiamo un Dio così buono e benefico? Mio Dio! questa è una sventura senza paragone! Leggiamo nella storia, che un uomo aveva tolto una spina dalla zampa d’un leone: questo fu preso dopo qualche tempo per essere messo con altri in gabbia. L’uomo che gli aveva estratta la spina fu condannato ad essere divorato dai leoni. Gettato nella fossa per esservi divorato, il leone lo riconobbe. Lungi dal divorarlo, si gittò a’ suoi piedi, e si lasciò sbranare dagli altri leoni per difendere il suo benefattore. Ah! ingrati che siamo, è possibile che passiamo la nostra vita senza vivere in modo da mostrare al buon Dio, che gli siamo riconoscenti di tutti i suoi benefici? Comprendete, se lo potete, F. M., quale sarà la nostra vergogna un giorno, quando Dio ci mostrerà che le bestie senza ragione sono state più riconoscenti pel minino beneficio ricevuto dall’uomo; e che noi ricolmati di tante grazie, lumi e benefici, invece di ringraziare il nostro Dio non facciamo che offenderlo! Mio Dio! Quale sventura è paragonabile a questa? Si racconta nella vita di S. Luigi re di Francia, quando andò in Terra Santa, che un suo cavaliere andando a caccia udì i gemiti d’un leone. Avvicinatosi, vide che un serpente l’aveva avvinghiato colla sua coda e stava per divorarlo. Il cavaliere riuscì ad uccidere il serpente: ed il leone ne fu così grato, che si mise a seguirlo come un agnello segue il pastore. Quando il cavaliere dovette attraversare il mare, il leone non potendo entrar nella nave, si mise a nuoto per seguire il suo benefattore, sinché perdé la vita nell’acqua. Quale esempio, F. M., una bestia perde la vita per testimoniare riconoscenza al suo benefattore! e noi, ben lungi dall’attestare gratitudine a Dio, non cessiamo di offenderlo col peccato, che tanto l’oltraggia! S. Paolo ci dice che chi non ama Dio non è degno di vivere (l Cor. XVI, 22): davvero, o l’uomo deve amar Dio o deve cessare di vivere. Dobbiamo altresì amar il buon Dio perché Egli ce lo comanda. S. Agostino esclama, parlando di questo comandamento: ” 0 amabile comandamento! Mio Dio! chi son io perché mi comandiate d’amarvi? Se non vi amo, mi minacciate gran di disgrazie: non è dunque una disgrazia piccola il non amarvi? Come, mio Dio, voi mi comandate di amarvi? Non siete voi infinitamente amabile? Non è già troppo che ce lo vogliate permettere? Qual fortuna per creature così miserabili, come siamo noi, il poter amare un Dio così amabile! Ah! grazia inestimabile, quanto poco sei conosciuta! „ Leggiamo nel Vangelo (Matt. XXII, 36), che un dottore della legge disse un giorno a Gesù Cristo: “Maestro, qual è il maggiore dei comandamenti? „ Gesù Cristo così rispose: “Amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze. „ S. Agostino ci dice: “Se avete la ventura di amare il buon Dio, diverrete in certo qual modo simili a Lui: se amate la terra diverrete terrestre: ma se amate le cose del cielo diverrete tutto celeste. „ Mio Dio! qual felicità è per noi quella di amarvi: poiché amandovi riceviamo ogni sorta di beni. No, F. M., non restiamo meravigliati se tanti grandi del mondo hanno abbandonato il tumulto del secolo per andare a seppellirsi nelle foreste o dentro quattro mura, per non attendere ad altro che ad amare Dio. Vedete un san Paolo eremita, la cui sola occupazione per ottant’anni fu quella di pregare ed amare il buon Dio giorno e notte. Vedete ancora S. Antonio, al quale sembra che le notti non siano abbastanza lunghe per lodare nel silenzio il suo Dio ed il suo Salvatore, e si lamenta che il sole venga troppo presto (Vita dei Padri del deserto). Amare il buon Dio, F. M., ah! quale felicità quando avremo la sorte di comprenderla! Sino a quando, F. M., avremo ripugnanza a far ciò che dovrebbe formare tutta la nostra felicità in questo mondo, e nell’eternità? Amar Dio, ah! qual ventura! … Mio Dio, dateci la fede e vi ameremo con tutto il cuore. Aggiungo che dobbiamo amare Dio pei grandi beni che da Lui riceviamo. “Dio, ci dice S. Giovanni, ama quelli che lo amano (Giov. XVI, 27). „ Ditemi, F. M., possiamo avere in questo mondo una più grande fortuna che l’essere amati da Dio stesso? Di più, F. M., Dio ci amerà come noi l’avremo amato, cioè se l’amiamo molto, ci amerà molto: il che ci dovrebbe spingere ad amare il buon Dio quanto possiamo e quanto ne siamo capaci. Quest’amore sarà la misura della gloria che avremo in paradiso: essa sarà in proporzione dell’amore che avremo avuto per Lui durante la nostra vita: quelli che più avranno amato il buon Dio in questo mondo, avranno maggiore gloria nel cielo, e l’ameranno di più; perché la virtù della carità ci accompagnerà durante tutta l’eternità e riceverà in cielo nuovo incremento. Oh! F. M., qual felicità aver amato molto Iddio nel corso di nostra vita! l’ameremo assai in paradiso. S. Antonio ci dice che il demonio nulla teme quanto un’anima che ama Dio; e che chi ama Dio porta con sé il segno della predestinazione, poiché solo i demoni ed i reprobi non amano Dio. Ahimè! F. M., la più grande di tutte le loro sventure è questa: essi non avranno mai la sorte di amarlo. Mio Dio, si può pensarvi e non morirne di dolore?… Leggiamo nella vita di S. Caterina da Genova che, essendo ella presente mentre si esorcizzava un ossesso, gli domandò come si chiamava. Il demonio le rispose che si chiamava: Spirito senza amor di Dio. “E che? gli disse la santa, tu non ami Dio che è così amabile? „ — “Oh! no, no, gridò esso. „ — “Ah! io non avrei mai creduto che fossevi una creatura la quale non amasse Dio. „ E cadde svenuta. Ritornata in sé, siccome le si domandò che cosa l’avesse fatta svenire, rispose che giammai avrebbe potuto credere che vi fosse una creatura che non amasse Dio: ciò l’aveva talmente sorpresa, che si era sentita venir meno. Ma dite, F. M., non aveva ella ragione, giacché non siamo creati che per questo solo? Quando cessiamo di amare Dio, non facciamo più quello che Dio vuole da noi. Infatti, F. M., qual è la prima domanda che ci è stata fatta quando siam venuti al catechismo per istruirci intorno alla religione? “Chi vi ha creato e conservato sino al presente? „ Abbiamo risposto: “Iddio. „ — “E perché? „ — “Per conoscerlo, amarlo, servirlo e per questa via raggiungere la vita eterna. „ – Sì, F. M., la nostra occupazione sulla terra è amare Dio: cioè cominciare a fare ciò che faremo per tutta l’eternità. Ancora: perché dobbiamo amare Dio? Perché, F. M., tutta la nostra felicità si trova, e non si può trovare che nell’amor di Dio. Di modo che, F. M., quando non ameremo Dio saremo sempre infelici: e se vogliamo avere qualche consolazione e sollievo nelle nostre pene non ne troveremo che nell’amore che avremo per Dio. Se volete convincervene avvicinate l’uomo più felice secondo il mondo: se non ama il buon Dio, egli non sarà che sventurato; al contrario: se avvicinate l’uomo anche più sventurato del mondo, e vi risponderà che ama Dio, egli è felice sotto tutti i rapporti. O mio Dio! aprite dunque gli occhi dell’anima nostra, e cercheremo la nostra felicità dove solo possiamo trovarla!

III. — Ma, qui sul finire, mi domanderete in qual modo dobbiamo amare Dio? — Come si deve amarlo, F. M.? Ascoltate S. Bernardo ; che ce lo insegna, dicendoci che dobbiamo amar Dio senza limiti. “Siccome Dio è infinitamente amabile, così non potremo mai amarlo come si merita.„ Del resto Gesù Cristo medesimo, ci insegna la misura secondo cui dobbiamo amarlo, dicendoci: “Amerete il vostro Dio con tutta l’anima vostra, con tutto il vostro cuore, con tutte le vostre forze. „ Imprimetevi bene questi pensieri nello spirito, ed insegnateli ai figli vostri. S. Bernardo ci dice che amare Dio con tutto il nostro cuore, vuol dire amarlo coraggiosamente e con fervore: cioè esser pronti a soffrire quanto il demonio ed il mondo ci facessero soffrire, piuttosto che cessare d’amarlo. Vuol dire preferirlo a tutto, e non amar nulla se non per amor suo. S. Agostino diceva a Dio: “Quando il mio cuore, o mio Dio, sarà troppo grande per amarvi, allora amerò qualche altra cosa insieme con Voi: ma siccome il mio cuore sarà sempre troppo piccolo per Voi, e Voi siete infinitamente amabile, non amerò mai altri che Voi solo. „ Dobbiamo amare Dio, non solo come noi stessi, ma altresì più di noi stessi, ed esser sempre risoluti di dare la nostra vita per Lui. Possiamo dire che tutti i martiri l’hanno davvero amato così, poiché preferirono soffrire la perdita dei loro beni, il disprezzo, la prigionia, i flagelli, le ruote, gli eculei, il ferro ed il fuoco, tutto insomma quanto la rabbia dei tiranni poté inventare, piuttosto che offenderlo. Si racconta nella storia dei martiri del Giappone, che quando si annunciava loro il Vangelo, e venivano istruiti intorno alle grandezze di Dio, alla sua bontà ed al suo amore per gli uomini; specialmente quando si insegnavano loro i grandi misteri della nostra santa Religione, tutto ciò che Dio aveva fatto per gli uomini; un Dio nato per loro nella povertà, un Dio sofferente e morto per la loro salute, “oh! com’è buono esclamavano, com’è buono il Dio dei Cristiani! oh! quanto è amabile! „ Ma quando sì diceva loro che il medesimo Dio ci ha fatto un comando col quale ci ordina di amarlo, e se non l’amiamo ci minaccia un castigo eterno, ne erano così meravigliati e sorpresi che non potevano persuadersene. Ecché? dicevano, fare ad uomini ragionevoli un precetto d’amar Dio, che tanto ci ha amato!… non è la più grande delle sventure il non amarlo, e non è la più gran felicità l’amarlo? Ecchè? forse i Cristiani non sono sempre ai piedi degli altari per adorare il loro Dio, penetrati di tanta bontà, ed infiammati del suo amore? „ Ma quando si insegnava loro che v’erano Cristiani che non solo non l’amavano, ma anzi passavano tutta quasi la vita nell’offenderlo: “O popolo ingrato, popolo barbaro! esclamavano con indignazione, è possibile che vi siano Cristiani capaci di tali orrori. Ah! in qual terra maledetta abitano dunque! questi uomini senza cuore e senza sentimento? „  Davvero, F. M., se questi martiri tornassero! sulla terra, e loro si raccontassero gli oltraggi che i Cristiani ad ogni momento arrecano a Dio, ad un Dio così buono che non vuole e non cerca altro che la loro felicità eterna; ahimè! oserebbero crederlo? Triste pensiero, F. M.! sino ad ora non abbiamo amato Dio! …! Non solo un buon cristiano deve amare Dio! con tutto il cuore, ma deve altresì fare ogni sforzo per farlo amare dagli altri. I padri e i le madri, i padroni e le padrone debbono usare tutto  il loro potere per farlo amare dai figli e dai domestici. Oh! qual merito avranno presso Dio, un padre ed una madre se tutti i quelli che sono con loro l’amano quanto è possibile! … Oh! quante benedizioni spanderà Iddio su quelle case!… Oh! quanti beni per il tempo e per l’eternità! … – Ma quali sono i segni dai quali conosceremo che amiamo Dio? Eccoli, F. M.: Se pensiamo spesso a Lui, se il nostro spirito ne è spesso occupato, se ci piace sentir parlare di Lui nelle istruzioni, ed in tutto ciò che può i rammentarcelo. Se amiamo Dio, F. M., temeremo grandemente di offenderlo, staremo sempre in guardia, veglieremo su tutti i movimenti del nostro cuore, per timore d’esser ingannati dal demonio. Ma l’ultimo mezzo di domandare spesso a Dio il suo amore, perché esso viene dal cielo. Bisogna sollevarvi il nostro pensiero durante il giorno, anche di notte svegliando ci col fare atti d’amor di Dio, dicendogli: “Mio Dio, fatemi la grazia di amarvi quanto è possibile ch’io vi ami. „ Bisogna avere una gran divozione alla Ss. Vergine che ha amato  Dio da sola più che tutti i santi insieme: avere una gran divozione allo Spirito Santo, e rammentarlo ogni giorno, massime nell’ora in cui discese sugli apostoli per infiammarli del suo amore, le nove del mattino (Act. II, 15). – A mezzodì dobbiamo ricordarci il mistero dell’Incarnazione, quando il Figlio di Dio si incarnò nel seno della beata Vergine Maria, domandandogli di scendere nei nostri cuori, come discese nel seno della sua benedetta Madre (La tradizione della Chiesa è che la S. Vergine era in orazione, a mezzanotte, quando l’angelo Gabriele venne ad annunciarle il mistero dell’incarnazione). Alle tre dobbiamo raffigurarci questo buono e caritatevole Salvatore, che muore per meritarci l’eterno amore. Dobbiamo in questo momento fare un atto di contrizione, per attestargli il dolore che abbiamo d’averlo offeso. – Concludiamo, F. M.: poiché la nostra felicità non può trovarsi che nell’amore di Dio, dobbiamo grandemente temere il peccato; questo solo ce lo fa perdere. Andate, F. M., ad attingere quest’amore divino nei Sacramenti che potete ricevere! accostatevi alla sacra Mensa con gran timore e gran confidenza, poiché Egli è il nostro Dio, il nostro Salvatore e Padre, che vuole soltanto la nostra felicità: ve l’auguro …

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2020)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Come Domenica scorsa, la lettura dell’Uffizio divino coincide spesso in questo giorno con quella del libro di Giobbe che si suol fare nella 1a e nella 2a Domenica di Settembre. – Continuiamo quindi a leggere i testi del Messale in corrispondenza con quelli del Breviario. Giobbe è la figura del giusto, che il demonio superbo cerca di umiliare profondamente, affinché si rivolti contro Dio. « Lascia che io lo provi, dichiarò satana all’Altissimo, egli ti bestemmierà ». E Jahvè glielo permise, per fare di Giobbe il modello dell’anima che proclama il supremo dominio di Dio e si sottomette interamente alla sua volontà divina. La gelosia del demonio non conobbe allora più freno e fece piombare sullo sventurato Giobbe, con gradazione sapiente, tutte le calamità che ebbero potuto abbatterlo. Pure, benché privo di tutto e coricato sul letamaio, Giobbe non maledisse la mano onnipotente di Dio, che permetteva al demonio di accanirsi contro di lui, ma la baciò umilmente. Il Salmo dell’Introito rende mirabilmente la sua preghiera. « Abbi pietà di me, o Signore, Porgi, o Signore, il tuo orecchio, poiché sono misero e povero ». Il Salmo del Graduale è anch’esso « la preghiera del povero quando è nell’afflizione », e i Versetti da 3 a 6: «Sono stato colpito come l’erba, a forza di gemere le ossa mi si sono attaccate alla pelle », sembrano l’eco delle parole di Giobbe che dice: « Le mie ossa si sono attaccare alla pelle, non mi restano che le labbra intorno ai denti » (Vers. 19, 20). Il Salmo dell’Offertorio parla anch’esso «del povero e dell’indigente» che supplica Iddio: « Non allontanare da me le tue misericordie, o Signore, poiché mali senza numero mi hanno circondato. Siano svergognati coloro che insidiano la vita mia » (Versetti 12-14). Infine, l’antifona della Comunione dice: « Piega, o Signore, verso di me, il tuo orecchio! Quante numerose e crudeli tribolazioni mi facesti provare! La mia lingua proclamerà dovunque soltanto la tua giustizia, e questa giustizia mi renderai quando coloro che cercano il mio danno saranno coperti di confusione e di vergogna » (Vers. 2, 20 e 24). Iddio, dicono infatti gli amici di Giobbe, esalta coloro che si sono abbassati, rialza e guarisce gli afflitti. La gloria degli empi è breve e la gioia dell’ipocrita non dura che un momento. Quando anche il suo orgoglio si innalzasse fino al cielo e la sua testa toccasse le nuvole, alla fine egli perirà. Tale è il retaggio che Dio serba agli empi. Essi si sono innalzati per un momento e saranno umiliati. – E Giobbe aggiunge: « Iddio ritirerà il povero dall’angoscia. Dio è sublime nella sua potenza. Chi può dirgli: Hai commesso un’ingiustizia? L’uomo che discute con Dio non sarà giustificato ». Infatti, commenta S. Gregorio, chiunque discute con Dio si mette alla pari con l’Autore di ogni bene; attribuisce a se stesso il merito della virtù, che ha ricevuta, e lotta contro Dio con gli stessi beni di Lui.. È quindi giusto che « l’orgoglioso sia abbattuto e l’umile innalzato » (2° Notturno, 2a Domenica di Settembre). « Chiunque si innalza sarà abbassato e chiunque si umilia sarà rialzato », dice anche il Vangelo di questo giorno. Dio, infatti, dopo aver umiliato Giobbe, lo rialzò, rendendogli il doppio di quanto prima possedeva. Giobbe è una figura di Gesù Cristo, che, dopo essersi profondamente abbassato, è stato esaltato meravigliosamente; è anche figura di tutti i Cristiani, ai quali Iddio darà un posto di onore al banchetto celeste se di tutto cuore avranno praticato la virtù dell’umiltà sulla terra. L’orgoglio, dice S. Tommaso, è un vizio per il quale l’uomo cerca, contro la retta ragione, di innalzarsi al disopra di quello che egli è in realtà; l’orgoglio è quindi fondato sull’errore e l’illusione; l’umiltà, ha, al contrario, il suo fondamento nella verità, ed è una virtù che tempera e frena l’anima, affinché questa non si innalzi al disopra, super, di quello che è realmente (donde il nome di superbia dato all’orgoglio). L’anima umile accetta in piena sottomissione il posto che ad essa si conviene; quel qualsiasi posto che da Dio, verità suprema ed infallibile, le è assegnato. Umiltà nelle parole, umiltà nelle azioni, umiltà nel sopportare le prove e le contraddizioni, è la virtù che Giobbe ci insegna durante tutta la sua vita e che Gesù Cristo ci raccomanda nel Vangelo della Messa di oggi. « Dopo aver guarito l’idropico, dice S. Ambrogio, Gesù dà una lezione di umiltà » (3° Notturno). Vedendo come i Farisei scegliessero sempre i posti migliori, Egli volle farli accorti della loro malattia spirituale e spingerli a cercarne la guarigione; a questo scopo guarì dapprima uno sventurato, che la malattia aveva fatto gonfiare, e cercò quindi, velando la lezione sotto una parabola, di guarire la spirituale enfiagione che affliggeva i convitati presenti e che purtroppo affligge anche la maggior parte degli uomini. – Il mondo è in balìa di tutte le esaltazioni e di tutte le infatuazioni dell’orgoglio, mentre l’umiltà è la condizione assoluta per entrar nel regno dei cieli, ed è questa la virtù che la Chiesa ci inculca nell’Orazione ove dice che la grazia di Dio deve sempre prevenire ed accompagnarci, e che S. Paolo insegna con energia ai Cristiani nell’Epistola di questo giorno. Senza merito alcuno da parte nostra, spiega l’Apostolo agli Efesini, ma unicamente perché serviamo di strumento di lode alla sua gloria, Dio ci ha eletti in Cristo. Allorché eravamo figli della collera, l’Onnipotente, che è ricco di misericordia, ci ha reso la vita in Gesù Cristo, per l’amore immenso che ci porta. Noi tutti, pagani ed estranei alle alleanze conchiuse da Dio col popolo di Israele, siamo stati riavvicinati e riuniti nel Sangue del Redentore, poiché Egli è la nostra pace, Egli che di due popoli ne ha fatto uno solo e per il quale abbiamo, gli unì e gli altri accesso presso il Padre, in un medesimo Spirito. Non siamo più dunque degli estranei, ma dei membri della famiglia divina. E questo non è opera nostra, ma di Dio, affinché nessuno glorifichi se stesso. Gettiamoci dunque ai piedi del Padre nostro di nostro Signore Gesù Cristo, che è anche Padre nostro, affinché, attingendo nei tesori della sua divinità, sempre di più ci mandi lo Spirito Santo che ha effuso sulla Chiesa nella festa di Pentecoste e che nella fede e nell’amore ci unisce a Gesù, in modo che noi siamo colmati della pienezza di Dio. E chi potrà mai misurare questa carità sconfinata che iddio ci ha manifestata per mezzo del Figlio Suo? Questo amore del Padre per i suoi figli sorpassa infinitamente tutto quello che noi potremmo concepire e domandare a Dio. – A Lui dunque sia gloria in Gesù Cristo e nella Chiesa per tutti i secoli. « Cantiamo al Signore un cantico nuovo, poiché Egli ha operato prodigi » (Alleluia). « Tutte le nazioni temano il nome del Signore tutti i re della terra annunzino la gloria sua », perché  Dio ha stabilito il suo popolo nella celeste Gerusalemme (Graduale). E questo  popolo che prenderà parte al gran banchetto della visione beatifica, sarà formato di tutti quelli che, rifuggendo da un’orgogliosa ambizione, saranno sempre stati umili sulla terra: Dio li esalterà nella stessa misura in cui essi si saranno con buon volere sottomessi alla sua santa volontà.

S. Paolo ha ricevuto da Dio la missione di annunziare ai Gentili che essi, ai pari degli Ebrei, sono eletti a far parte del popolo di Dio: elezione gratuita che deve riempirli di un’umile riconoscenza verso il Signore e premunirli contro lo scoraggiamento che è una forma di orgoglio.

Per non lasciare un asino o un bue annegare in fondo ad un pozzo, gli Ebrei non esitavano a fare tutto quello che era necessario per ritirarneli, non ostante il giorno di Sabato in cui ogni opera servile era proibita. Perché dunque il Redentore non doveva poter guarire un ammalato in quel giorno? – « Va, mettiti all’ultimo posto » non vuol dire che il Superiore debba mettersi al di sotto dei suoi subordinati, né esporre la sua dignità al disprezzo; ma Egli deve ricordare queste parole dei Sacri Libri: « Quanto più sei grande, tanto più devi mostrarti umile in tutte le cose e troverai grazia davanti a Dio » (Eccl. III, 20).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXXV: 3; 5
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].
Ps LXXXV: 1
Inclína, Dómine, aurem tuam mihi, et exáudi me: quóniam inops, et pauper sum ego.

[Porgi l’orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi, perché sono misero e povero].

Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Oratio

Orémus.
Tua nos, quǽsumus, Dómine, grátia semper et prævéniat et sequátur: ac bonis opéribus júgiter præstet esse inténtos.

[O Signore, Te ne preghiamo, che la tua grazia sempre ci prevenga e segua, e faccia che siamo sempre intenti alle opere buone].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes III: 13-21

Fratres: Obsecro vos, ne deficiátis in tribulatiónibus meis pro vobis: quæ est glória vestra. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis et in terra nominátur, ut det vobis secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo et longitúdo et sublímitas et profúndum: scire etiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei. Ei autem, qui potens est ómnia fácere superabundánter, quam pétimus aut intellégimus, secúndum virtútem, quæ operátur in nobis: ipsi glória in Ecclésia et in Christo Jesu, in omnes generatiónes sæculi sæculórum. Amen.

[“Fratelli: Vi scongiuro di non perdervi di coraggio a motivo delle tabulazioni che io soffro per voi. Esse sono la vostra gloria. Perciò io piego i ginocchi davanti al Padre del Nostro Signore Gesù Cristo, dal quale prende nome ogni famiglia, in cielo e in terra, affinché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore: che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori, affinché, profondamente radicati e fondati nella carità, possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità; e d’intendere anche quell’amore di Cristo che sorpassa ogni coscienza, di modo che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. A Lui che, secondo la possanza che opera in noi, può tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo e pensiamo: a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni di tutti i secoli”.]

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

IL PROGRESSO DELLA VITA INTERIORE

L’Epistola è tolta dalla lettera agli Efesini. Quei di Efeso sono stati chiamati alla fede. Per questo, S. Paolo, che si trova in prigionia a Roma, si rivolge a Dio, Padre degli Angeli e degli uomini, pregandolo ardentemente che spanda sugli Efesini la ricchezza della sua gloria, fortificandoli, per mezzo della grazia dello Spirito Santo, nella vita spirituale incominciata con il Battesimo, unendoli, mediante la fede e la carità in Gesù Cristo, con unione così intima, che la vita in Lui sia costante e in tutta la pienezza. E così diventino capaci di comprendere l’amor di Dio, che abbraccia tutta la creazione, che non conosce limiti di tempo, di spazio, di misura; e siano ricolmi di tutti quei doni, la cui piena sorgente si trova in Dio. L’Apostolo domanda molto; ma Dio, nella sua onnipotenza sa far di più di quanto noi possiamo domandare e comprendere. A Lui, dunque, si renda gloria per tutti i secoli. Il desiderio ardente dell’Apostolo per il progresso degli Efesini nella vita spirituale incominciata, si riferisce anche a noi. La nostra vita interiore:

1 Deve progredire,

2 Sostenuta dalla fede,

3 E dalla carità.

1.

Io piego i ginocchi davanti al Padre del nostro Signore Gesù Cristo… affinché vi conceda… d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore.Con queste parole l’Apostolo assicura agli Efesini che tra le angustie della prigionia non li dimentica, ma prega il Signore che, per mezzo delle grazie dello Spirito Santo, li rassodi e li fortifichi quanto alla vita interiore, cioè quanto alla vita dell’anima rigenerata alla grazia. Il Cristiano, che con il Battesimo è nato alla vita spirituale, sarebbe irragionevole se si accontentasse di vivere una vita spirituale stentata. Nessuno rinuncerebbe a una vita piena di sanità e di vigore per vivere una vita stentata, malaticcia, zoppicante. Il Cristiano che si accontenta di tirare innanzi come si può, di non commettere disordini gravi, di non perdere la grazia di Dio; … e non si dà premura di fortificarsi, rassodarsi nella vita spirituale, più che vivere, sonnecchia, più che camminare, zoppica. E se seguiamo Gesù Cristo zoppicando, resteremo molto indietro, con pericolo di perderlo.Dirai: quando uno ha lavorato, ha diritto a un riposo. Qualche cosa di buono ho fatto nella vita spirituale. Adesso basta. Ci sono dei lavori in cui non si può dir basta. Chi costruisce un edificio sarebbe burlato da tutti e stimato per pazzo se, arrivato a metà, dicesse: — Adesso basta. Questo edificio non ha più bisogno di altri lavori. Si è fatto abbastanza. — Nella costruzione del nostro edificio spirituale, sarebbe una pazzia fermarsi a metà. «Questa — dice S. Agostino — è la tua perfezione: l’aver superate alcune cose in modo che ti appresti a superarne altre» (En. in Ps. XXXVIII, 14). Col procedere degli anni, dunque, il Cristiano deve procedere anche nel bene. La sua vita spirituale, al contrario di quanto avviene rispetto alla vita fisica, col procedere degli anni, invece di affievolirsi deve ingagliardirsi sempre più. È evidente. Se Dio prolunga la vita all’uomo, lo fa per il suo maggior bene. «Dio non prolunga a nessuno il tempo, perché con il vivere a lungo abbia a cadere, e allontanarsi dalla retta fede nella sua longevità; dovendosi tra i benefici di Dio annoverare appunto la longevità, nella quale l’uomo non deve essere peggiore, ma migliore »  (S. Prospero d’Aquit. Sent. sup. cap. Gall. 3.) – «Progredite sempre più», diceva l’Apostolo ai Tessalonicesi (I Tess. IV, 1). E quanto a sé dichiarava: «Dimentico di quel che ho dietro le spalle, e stendendomi verso le cose che mi stanno davanti, mi avanzo verso il segno» (Filipp. III, 13-14). Imitiamolo.

2.

Io prego ancora — dice S. Paolo rivolto agli Efesini che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori. Con ferma adesione a tutte le verità rivelate Cristo abiterà nei cuori degli Efesini in modo sempre più perfetto. Una ferma adesione alle verità della fede è più che mai necessaria per una vita spirituale vigorosa. Nel principio della vita spirituale sentiamo molte dolcezze. Dio provvede alla nostra infanzia spirituale con il cibo delicato delle consolazioni. Ma poi a questo cibo ne sostituisce uno più solido: quello delle amarezze. La fede ci sostiene nell’ora della prova, tenendo il luogo delle consolazioni. Quando Gesù, salendo al cielo, si sottrasse alla vista degli Apostoli; questi non sapevano decidersi a discendere dal monte: pareva loro di essere abbandonati. Ma presto si risovvennero delle parole di Gesù: «Ecco, Io sono con voi tutti i giorni fino al compimento del secolo» (Matth. XXVIII, 20). E in queste parole trovano coraggio e spinta a proseguire l’opera loro. Noi pure troviamo forza e vigore a proseguire nella vita spirituale cominciata negli insegnamenti della fede. Siano pochi o tanti gli ostacoli, siano da poco o molto grandi li vinceremo tutti con una fede viva nell’aiuto di Dio. Quando Giuda Maccabeo, con poca gente, si fece incontro al potente esercito di Siria, comandato da Seron, i suoi furono presi da grande scoraggiamento. « Come potremo  noi — gli osservarono, — sì poco numerosi, combattere contro una moltitudine tanto grande e potente, spossati come siamo oggi dal digiuno? Giuda rispose: « È cosa facile che molti restino preda di pochi. Per il Dio del cielo non c’è differenza tra il salvar per mano di molti o per mano di pochi. Poiché la vittoria in guerra non dipende dal numero delle schiere: la forza viene dal cielo » (1 Mac. III, 17-19). Animati da tale fede, Giuda e i suoi pochi si gettarono sull’esercito di Seron e lo sconfissero pienamente. Animati da una tale fede nell’aiuto e nelle promesse di Dio, non ci arresteremo e non vacilleremo mai, nella via dello spirito, davanti a ostacoli di qualsiasi genere e di qualsiasi numero: procederemo, anzi più fortificati e invigoriti. Quei che sono deboli nella fede cadono facilmente nei tranelli che tendono i seminatori di errori, o, come dice più avanti l’Apostolo agli Efesini, sono come i « fanciulli vacillanti, portati qua e là da ogni vento di dottrina per gli inganni degli uomini; per le astuzie che rendono seducente l’errore » (Efes. IV, 14). Ma se la fede è ben radicata e fondata nei cuori, non sarà scossa dagli errori che gente superba o dal cuor guasto cerca di seminare ovunque, e che ci tolgono di vivere secondo i precetti di Dio, in stretta unione con Lui. Non deve recar meraviglia se coloro che vivono nell’idolatria, essendo privi del lume della fede, nella loro condotta seguano cecamente la via tracciata dalle passioni. È  incomprensibile, invece, che vivano una tale vita i Cristiani, i quali, nelle verità della fede, alla scuola di Gesù Cristo, trovano l’insegnamento della santità e l’impulso a praticarla. « Il sentiero dei giusti è come luce splendente, è come luce che cresce fino a pieno giorno », dice Salomone (Prov. IV, 18). Luce splendente e perfetta sono gli insegnamenti della fede, gli esempi che ci ha lasciati Gesù Cristo. Seguendo questi la nostra vita spirituale si rafforzerà di giorno in giorno.

3.

« La mente del credente assume le ali della fede, affinché, sollevato dalla terra e tutto assorto nello spirito possa comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e la profondità della scienza di Dio» (S. Gaudenzio di Brescia. Sermo 14, De div. cap. 4). Il credente, sull’ali della fede animata dalla carità, s’inoltra sempre più, per quanto a mente umana è possibile, nella cognizione di Dio e di quell’amore di Cristo, senza misura, che Egli ci ha dimostrato nell’Incarnazione. La sempre maggior cognizione di Dio, del suo amore immenso servono mirabilmente a far progredire il Cristiano nella sua vita spirituale; poiché quanto più conosciamo Dio, tanto più siamo spinti ad amarlo, con un amore che dia vita a tutte le nostre azioni. Come un albero, per mezzo dalle radici assorbisce l’umore che gli dà vita e incremento; così per mezzo della carità, o amor di Dio, il Cristiano vive e consolida la sua vita interna. L’amor di Dio fa trovar più gusto nella preghiera, nei sacramenti nell’ascoltar la parola del Vangelo, che non nei perditempi e nelle dissipazioni del mondo. L’amor di Dio fa preferire la mortificazione, il distacco dai beni terreni, le opere di misericordia, ai godimenti dei sensi, alla cupidigia, ai divertimenti pericolosi. L’amor di Dio dà il coraggio di mostrarsi pubblicamente Cristiani fra i motteggi e i sarcasmi del mondo; dà la costanza fra le dure prove. L’Apostolo chiede a Dio non solo che gli Efesini abbiano la carità, ma chiede che siano profondamente radicati e fondati nella carità, « affinché — come nota il Crisostomo — non possa essere smossa dai venti, né abbattuta da qualsiasi altra forza » (In Ep. ad Efes. hom. 7, 2). La maggior conoscenza di Dio e del suo amore immenso per noi ci renderà sempre più irremovibili nella buona via intrapresa. Fede viva e carità ardente ci renderanno saldi come quegli alberi che resistono all’infuriare di tutti i venti; e, passata la tempesta, sollevano la cima in atto di tendere sempre più in alto, al cielo. Dio non ci negherà il chiesto aiuto, Egli che può fare tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo o possiamo. Noi da parte nostra ricordiamoci che chi più lavora, più raccoglie.

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.

[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore, e tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua.

[Poiché il Signore ha edificato Sion e sarà veduto nella sua maestà.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps XCVII: 1
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit Dóminus. Allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo: perché Egli fece meraviglie. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV: 1-11
In illo témpore: Cum intráret Jesus in domum cujúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Jesus dixit ad legisperítos et pharisaeos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cujus vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

[“In quel tempo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno de’ principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti. E Gesù rispondendo prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: È egli lecito di risanare in giorno di sabato? Ma quelli si tacquero. Ed egli toccandolo lo risanò, e lo rimandoò. E soggiunse, e disse loro: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato? Né a tali cose poterono replicargli. Disse ancora ai convitati una parabola, osservando com’ei si pigliavano i primi posti dicendo loro: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché a sorte non sia stato invitato da lui qualcheduno più degno di te: e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedi a questo il luogo; onde allora tu cominci a star con vergogna nell’ultimo posto. Ma quando sarai invitato va a metterti nell’ultimo luogo, affinché venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti fia d’onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato; e chi si umilia sarà innalzato”.]

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra l’avarizia.

Ecce homo hydropicus erat ante illum

Luc. XIV

Ella è una giudiziosa osservazione dei santi padri che le diverse malattie di coloro che si presentavano al Signor nostro per essere guariti, figuravano le malattie dell’anima, che Egli guariva nello stesso tempo che quelle del corpo. Così l’idropico del nostro Vangelo, che fu guarito da Gesù Cristo è la triste e sensibile figura di un’anima posseduta dall’avarizia, dall’amor dei beni della terra. Infatti siccome l’idropisia è cagionata da una massa di umori, che produce in chi ne è assalito una sete insaziabile, così l’avarizia è ordinariamente l’effetto dell’abbondanza dei beni di fortuna che, a misura che essa cresce, fa nascere e fortifica il desiderio di vederla ancora crescere. Siccome l’idropisia è una malattia difficilissima a guarire ed anche incurabile quando è giunta ad un certo punto, nello stesso modo l’avarizia, una volta radicata nell’anima, è un difetto difficilissimo a correggere. Perciò vediamo noi nel Vangelo che i farisei non volevano ascoltar Gesù Cristo, né profittare della sua dottrina, perché erano avari; Deridebant eum quia avari erant [Luc. XVI) Convien dunque disperare della salute degli avari ed abbandonarli alla loro trista sorte, come degli idropici di cui non si spera più guarigione? No, fratelli miei, lo stesso medico che ha il potere di guarire l’idropico del Vangelo, ha rimedi assai efficaci per guarire questa malattia dell’anima, di cui imprendo quest’oggi a mostrarvi tutta la malignità ed i perniciosi effetti. – Ma convien per questo che tali infermi conoscano le loro piaghe, e che vogliano applicarvi i rimedi. Procuriamo di aprir loro gli occhi sul loro delitto e sulla loro disgrazia. Lo Spirito Santo dichiara che nulla evvi di più scellerato che un avaro: Avaro nihil scelestius (Eccl.X). Ed in vero io osservo che egli è empio verso Dio, duro ed ingiusto a riguardo del prossimo, crudele a se stesso. Sviluppiamo questi tre principi, che ci dipingono al naturale il carattere dell’avaro.

I. Punto. I beni della terra sono doni di Dio: la sua divina provvidenza li accorda agli uomini per usarne nel bisogno; possederli, desiderarne anche per quanto esigono la necessità della vita, non è dunque un misfatto. Ciò che Dio riprova e condanna negli uomini è l’amore sregolato per li beni, il quale li fa ricercare appassionatamente quando non li hanno, o possedere con troppo affetto quando li hanno; ed è questo amore disordinato che chiamasi avarizia, passione cieca, detestabile, che regna in tutte quasi le condizioni. I ricchi, i poveri ne sono egualmente la vittima. Poiché se vi sono dei ricchi poveri di spirito, che possiedono i loro beni senza affetto, vi sono ancora dei poveri ricchi di affezione e di desiderio, i quali non solamente sono più attaccati al poco di bene che hanno che certi ricchi ai loro tesori, ma che desiderano ancora ardentemente le ricchezze, e prendono ogni sorta di mezzi per acquistarne. Or in qualunque stato l’avarizia signoreggi il cuore dell’uomo, ella lo rende colpevole riguardo a Dio, perché porta seco un carattere d’empietà e d’ingratitudine, di cui bisogna farvi conoscere i tratti per farvela abborrire. – Vivere nella dimenticanza di Dio, non conoscere l’Autore de’ suoi beni, preferire a Dio un bene fragile, farne il suo idolo, ad onta di quanto egli deve all’Essere solo degno delle sue adorazioni, non è forse questo un carattere di malizia e d’empietà che merita tutto l’odio vostro? Or tale è quello dell’avarizia. Di che si occupa l’avaro? Su di che s’aggirano tutti i suoi pensieri, i suoi progetti? Sulla roba, sul danaro: se non ne ha, pensa ad accumulare, se ne ha non pensa che a conservarlo, ad accrescerlo. La cupidigia che lo anima, gli fa cercare tutte le occasioni di arricchirsi, e d’ingrandirsi, sia ciò per mezzi leciti o illeciti, poco gl’importa, purché venga a capo dei suoi disegni. Gli si rappresenti che non è già egli sulla terra per fare una fortuna transitoria, che ha un Dio da glorificare, un paradiso da guadagnare, un inferno da evitare; il suono del metallo che riempie le sue orecchie, come dice il Crisostomo, lo rende sordo alla voce della grazia che gli parla; al vederlo tutto occupato nella cura di conservare e di accrescere i suoi beni, si direbbe che egli ha da vivere per sempre quaggiù; passerà dei giorni interi senza pensar a Dio; o se vi pensa qualche momento, si è in qualche breve preghiera in cui ha lo spirito occupato nella cura di far valere il suo denaro: i giorni sono troppo brevi per compiere i suoi progetti: le domeniche e le feste per la maggior parte sono impiegate a fare viaggi per perseguitare un debitore, formar dei contratti, fare dei mercati: appena si riserba egli il tempo di udire una messa in fretta, fugge la parola di Dio o s’annoia in udirla; non assiste ai divini uffizi che per quanto i suoi pretesi affari glielo permettono. Egli punto non teme di prescrivere ai suoi domestici le opere servili, che la legge condanna in quei giorni, e che la sua cupidigia, ricopre sempre col pretesto della necessità. Gli si parli di accostarsi ai Sacramenti, egli non ha tempo. Gli si proponga qualche buon acquisto, qualche profitto considerabile a fare; il tempo non gli manca giammai. In una parola, l’avaro vive in una intera dimenticanza di Dio e della sua salute; sempre rivolto verso la terra, egli non pensa che alla terra, egli non parla che della terra, perché è affatto terreno: Qui de terra est, de terra loquitur (Giov. III). – Tutti i beni che noi possediamo li abbiamo dalla mano liberale di Dio; ben lungi dal riconoscerlo e ringrarziarnelo, come deve, l’avaro li attribuisce a se stesso, alle sue fatiche, alla sua industria. Invece di rimettere la sua speranza in Dio, egli vive in una totale diffidenza della sua provvidenza: al vederlo risparmiare, accumulare, si direbbe che nulla spera da Lui, che Dio non ha più cura degli uomini; che esso li abbandona alla loro malvagia sorte. Gesù Cristo ci avvisa di non metterci in pena ove prenderemo di che cibarci, di che vestirci; ma l’avaro è sempre inquieto, su quello che egli diverrà; conta più sul suo risparmio che sulla bontà di Dio: quale ingiuria non gli fa egli? E non abbiamo noi ragione di dire che esso non riconosce l’Autore de’ suoi beni? L’empietà dell’avaro va ancora più lungi, egli preferisce a Dio un bene fragile, ne fa il suo idolo, glielo sacrifica. Investighiamo per un momento il suo cuore, esaminiamo i suoi passi. Bisogna, per assicurar le sue imprese, impiegar la menzogna, l’ingiustizia, lo spergiuro, la trufferia, le vessazioni e mille altri delitti che l’avarizia strascina seco? Nulla lo trattiene: purché egli si arricchisca, purché accumuli dei beni egli non si mette in pena di essere scellerato; e nell’impossibilità in cui è di servire a due padroni, preferisce le lusinghe ingannatrici della cupidigia ai reali vantaggi di una vita santa ed irreprensibile. Rinuncia al possesso di Dio per quello del danaro; non si può forse questo chiamare una specie d’idolatria? E perché non gli si darà questo nome, giacché l’Apostolo s. Paolo non ha difficoltà di dire che l’avaro è un idolatra? Quod est idolorum servitus (Eph V).- Quindi lo Spirito Santo fa parlare l’avaro in questi termini: Sono divenuto ricco, ho ritrovato un idolo; dives effectus sum, inverni idolum mihi (Oseæ XII). Qual rassomiglianza d’altra parte non evvi tra un avaro ed un idolatra? I Dei degli idolatri sono d’oro e d’argento, come dice il profeta; questi ciechi popoli porgevano incenso a statue composte di questi metalli, e l’avaro non dà egli, il suo cuore all’oro ed all’argento? Gl’idolatri non ardivano toccare i loro idoli, che riguardano come Sacri? Nello stesso modo, dice il Crisostomo, l’avaro non osa toccare il suo danaro, lo rinchiude in casse, lo rispetta, per cosi dire, poco manca che non l’adori. Quale accecamento? qual follia? rendersi vile schiavo di un poco di fango e dispregiare l’Essere Supremo per non amare che le ricchezze; ecco a qual punto d’empietà l’avaro non teme di giungere. – Voi non potete, fratelli miei, pensare senza orrore all’indegno tradimento di Giuda; questo perfido apostolo giunse sino a vendere ai Giudei per il prezzo, di trenta danari il padrone più degno del suo rispetto, e del suo amore.. Ma, qual fu il principio di un sì nero attentato? Aveva egli forse provato qualche disgusto dalla parte del Salvatore? No, anzi non ne ricevette mai che del bene; era egli stato messo nel numero dei suoi Apostoli testimonio dei suoi miracoli, non poteva dubitare che non fosse Dio; egli aveva in mille occasioni provata la sua tenerezza, ma Giuda amava il danaro, trovò l’occasione di accumularne vendendo il suo maestro ai suoi nemici. Quanto, disse loro, volete voi darmi, ed io vi darò nelle mani Gesù Nazareno? Quid vultìs mihi dare, et ego vobis eum tradam (Matth. XXVI). I Giudei che non domandavano che di saziare il loro furore sulla persona di Gesù Cristo, profittano dell’iniqua disposizione in cui si trova Giuda: trenta danari gli sono offerti in ricompensa. Questo perfido non esita, e per una somma così modica, Gesù Cristo il re del cielo e della terra, il migliore di tutti i padroni, è consegnato nelle mani dei suoi nemici. Oh detestabile passione! Di che non sei tu capace? E quanto è vero che chi se ne lascia accecare cade ben tosto nei lacci del demonio, che non evvi tentazione alcuna di cui non sia egli capace, come dice l’Apostolo, verun delitto che non commetta per soddisfare la sua cupidigia. – Eh! quanti non ne avete voi già commessi, voi che vi lasciate dalla cupidigia tiranneggiare? Quante infedeltà alla legge del vostro Dio per contentarla? Quante volte non avete voi tradito Gesù Cristo vostro padrone, come il perfido Giuda, forse per una minor somma di quella che egli ricevette dai Giudei? Quanto volete voi darmi, dirà quell’uomo avido di danaro, e vi vendicherò di quel nemico? Quanto volete voi darmi, dice quell’uomo di giustizia, ed io vi sacrificherò il diritto del vostro avversario? Quid vultis mihi dare? Ah! quanti peccati lo spirito di interesse non fa egli commettere in tutti gli stati della vita? Per una bagattella, per un leggerissimo profitto uno oltrepassa tutti i limiti della giustizia e dell’onestà: per una leggiera perdita, per un piccolo accidente prorompe un altro in doglianze contro la provvidenza, si abbandona ai trasporti dell’ira, vomita imprecazioni contro coloro che ne crede gli autori. Questo è quanto si vede tutti i giorni tra le persone interessate; questo è quello che si chiama sacrificar Dio al suo interesse. Poiché l’interesse la vince sopra l’ubbidienza che si deve a Dio, egli bandisce dal cuore dell’uomo l’amore e la fedeltà che deve al Creatore. L’avaro è dunque un mostro d’empietà riguardo a Dio; egli è ancora duro ed ingiusto riguardo al prossimo; Avaro nihil est scelestius.

II. Punto. La giustizia ci obbliga a rendere a ciascuno quel che gli è dovuto, ci proibisce di prenderne la roba: e la carità ci porta a fargli parte del nostro, come vorremmo che si facesse a nostro riguardo. Or l’avarizia scaccia queste due virtù dal cuore dell’uomo; l’avaro non conosce carità alcuna pel prossimo; egli viola a suo riguardo anche i diritti della giustizia prendendosi quel che non gli appartiene; è dunque un cuor duro ed ingiusto, indegno della società degli uomini. La carità ci obbliga a far parte al prossimo dei nostri beni; ma l’avaro, che è tutto rinserrato in sé stesso, nulla vuole che per sé. Egli non ha per gli altri che viscere di bronzo e di ferro. – Egli vede il suo prossimo nell’indigenza, e non ne è commosso; se gli si chiede qualche soccorso, barbaramente lo ricusa o al più non dà che alcuni segni superficiali di sterile compassione; nel timore di mancare del necessario, egli non vuole neppure spogliarsi del minimo superfluo. Il bisogno sforzi l’infelice a ricorrere alla sua abbondanza; egli non può sperarne che un rifiuto, o se lo ritrova disposto, si è a certe condizioni che finiscono di manifestare l’iniquità della sua avarizia. I poveri si presentino alla sua porta per domandargli sollievo nelle loro miserie, essi sono rimandati senza pietà, e sovente anche con incivili dispregi, con parole oltraggianti. Mirate il ritratto dell’avaro nel malvagio ricco del Vangelo. Era egli un uomo che nuotava nell’abbondanza e nelle delizie: ricchi appartamenti, vesti magnifiche, banchetti deliziosi, tutto aveva a sua voglia; mentre il povero Lazzaro era alla porta ricoperto di piaghe, mancante di tutto, e domandava soltanto le briciole che cadevano dalla sua mensa. Questo sì tenue soccorso gli era inumanamente negato; il cuore duro di quel ricco era insensibile ai gridi dell’indigente, di cui poteva qui raddolcire la sorte senza incomodarsi. – Non vi riconoscete voi a questi tratti, ricchi avari, che mirate tutti i giorni i poveri chiedervi soccorso, contro la fame che li tormenta, contro il rigore delle stagioni che li riduce all’ultima estremità? Voi udite i loro gemiti e le loro doglianze, e non ne siete punto inteneriti, voi li rimandate senza dar loro il minimo sollievo. Qual durezza! Quale insensibilità! Ove è quella carità che vorreste si avesse per voi, se foste nelle medesime circostanze? Voi non siete più i figliuoli del medesimo padre, siete fratricidi crudeli, che con la vostra durezza date la morte a quell’uomo, che soccombe sotto il peso della sua miseria: Non pavisti? occidistì. – Noi vogliamo, dite voi, godere della nostra fortuna! Ma pensate voi che Dio vi abbia dato del bene per voi soli? Che cosa avete voi fatto di più per averlo che colui il quale non ne ha? La provvidenza, che ha messo quel povero al mondo, seppe provveder ai suoi bisogni; voi siete appunto coloro, che ella ha scelti per l’esecuzione dei suoi disegni a questo riguardo. E perciò è stata essa prodiga verso di voi delle sue liberalità, a fine di darvi occasione di meritare il cielo; quel bene è dunque tanto dei poveri che vostro, ella è dunque una durezza ed una specie di ingiustizia il ricusarlo loro. Noi temiamo, dite voi, d’impoverirci? Ma non vi si dice già di dare tutto quello che avete; l’indigente non richiede che il vostro superfluo: ma la vostra cupidigia insaziabile non crede giammai avere abbastanza. Si è appunto ciò che fa che conserviate con tanta cura cose inutili, che periscono nelle vostre mani, piuttosto che darle ai poveri. Non è forse ancora per questo che ricusate a voi medesimi quel che vi è necessario? Or è forse cosa sorprendente che voi siate duri verso gli altri, quando lo siete per voi? Qui sibi nequam est, cui bonus erit? La vostra durezza è un effetto della vostra avarizia, e del vostro sordido attaccamento ai beni del mondo; essa vi fa desiderare i beni altrui, essa vi fa rallegrare delle loro disgrazie. Voi ne profittate in quel tempo di pubblica calamità in cui chiudete i vostri granai per vendere ad un prezzo eccessivo quei grani onde ridondano; massima vietata dallo Spirito Santo nelle Divine Scritture. Væ qui congregat in horrea. Sono questi forse i sentimenti della carità cristiana? Ah! voi l’avete interamente sbandita dal vostro cuore. Se la vostra passione almeno fosse di ciò paga, e non oltrepassasse i limiti della più stretta giustizia, che vi prescrive doveri indispensabili a riguardo dei vostri fratelli: ma l’avarizia porta troppo spesso a questi eccessi coloro che ne sono attaccati. Secondo tratto di crudeltà verso il prossimo. – Qual è la cagione infatti delle ingiustizie nel mondo? L’avidità che si ha per li beni. L’avaro s’impadronisce indifferentemente defila roba altrui, non può risolversi a restituirla quando giunga a goderne; nulla evvi che un avaro non metta in uso per arricchirsi, ingrandirsi a spese altrui. L’inganno, la violenza, la concussione, che sono, come dice s. Tommaso, le figliuole dell’avarizia, gli servono di mezzi alla riuscita dei suoi disegni. Or è una vendita o una compra onde profitta, sia per la qualità della cosa che deve rimettere, sia per lo prezzo che deve darne, e di cui riterrà una parte, se può farlo, senza che altri se ne accorga: ora sono contratti usurai per trarre profitto del suo danaro; ma, per evitare la vergogna annessa a questo delitto, o non fa comparire alcun contratto, o li pallia sotto il nome d’altri atti usitati tra gli uomini. Qui egli frustra un creditore del suo debito, o ne differisce più che può il pagamento con false allegazioni; e se finalmente risolve di liberarsi, ama meglio farsi debitore di qualche d’un’altro, cui farà ancora soffrire, che servirsi del suo danaro. Là esige da un debitore più che non gli è dovuto, sotto pretesto di aver aspettato qualche tempo. Voi lo vedrete disputare con un operaio, con un servo per ritenere qualche cosa del loro salario su false ragioni che la sua avarizia mai non manca di ritrovare; e chi sa se ciò non è per ricusare interamente quanto è loro dovuto? Voi lo vedrete ancora quest’avaro non curare i bisogni di una moglie, dei figliuoli, dei servi; egli disputa su tutto, trova a censurar tutto, si duole sempre della spesa, si è strappargli la pupilla dell’occhio il presentargli dei conti di cui non può evitare il pagamento: ed ecco ciò che disturba sì sovente la pace nelle famiglie, e che ne cagiona o il libertinaggio o la divisione. Se la menzogna e l’inganno non sono per l’avaro mezzi abbastanza efficaci per impadronirsi della roba altrui, egli impiegherà la violenza, la vessazione, la concussione; farà darsi per minaccia e per forza quello che non potrà guadagnare per persuasione; opprimerà la vedova ed il pupillo per avere le loro sostanze; opprimerà chi si trova fuori di stato di resistergli, lo rovinerà con una lite ingiusta; userà ogni sorta di rigore per forzarlo a cedergli un’eredità che eccita il suo desiderio. Così diportossi altre volte Acab per avere la vigna del povero Nabot, che non voleva cederla perché era l’eredità dei suoi antenati; egli fece togliergli la vita e s’impadronì del podere di lui. Profitteranno gli avari della necessità di un uomo per fargli dare la sua roba a vil prezzo; e come ancora la pagheranno? Oimè! sovente il valore n’è già tutto ricevuto con anticipazioni che si sono fatte, e che si fanno pagare a molto caro prezzo: se egli ricusa di arrendersi ai voleri di quell’uomo avido, bisogna aspettarsi, se non di perdere la vita, almeno di non riceverne più soccorso, di vedersi oppresso di spese, rovinato da dilazioni che non è in istato di sopportare. Mentre questo si è uno dei sotterfugi dell’avaro; in certi casi egli risparmia il suo danaro, in altri sa benissimo trovarlo per sostener una lite, corrompere giudici, comprare, se si può, non già il buon diritto, ma una sentenza favorevole alle sue ingiuste pretensioni: ecco di che sono capaci gli avari. Mezzo funesto che non riesce, oimè! che troppo presso di coloro cui il danaro fa piegare la bilancia dalla parte di colui che dà più abbondantemente, o da cui si spera di più. Oh passione detestabile! di che non sei tu capace? Ed oh con quanta ragione possiamo noi chiamarti coll’Apostolo la radice di tutti i mali! Radix omnium malorum cupìditas ( Tim. VI): Tu metti la dissensione dappertutto, tu separi l’amico dall’amico, il figliuolo dal padre, i congiunti gli uni dagli altri. Tutte le contese, le gare, i contrasti che regnano tra gli uomini non vengono la maggior parte, dice s. Giacomo, che da un sordido attacco che si ha per il danaro, da uno spirito d’interesse che non si vuole abbandonare. Possiate voi, fratelli miei, bandirlo dai vostri cuori, questo spirito d’interesse! Possiate voi domare questa maledetta concupiscenza per le ricchezze, che rende l’uomo duro ed ingiusto contro il prossimo; aggiungo crudele a se stesso: Avaro nihil scelestius.

III. Punto. Se Dio ci dà dei beni in questo mondo, si è per servircene ed aiutarci a guadagnare quelli dell’eternità. Ma i tesori dell’avaro non servono che a renderlo infelice in questo mondo ed infelice per l’eternità. Si può essere più crudele a se stesso che lasciarsi predominare dall’avarizia? In che consiste, fratelli miei, la felicità dell’uomo sopra la terra, per quanto se ne può trovare? Nel vivere contento della sua sorte, nel godere pacificamente di quel che si possiede. Ma l’avaro non è contento, egli non trae alcun profitto dai suoi beni, egli è in qualche modo più infelice che se punto non ne avesse. Per esser contento della sua sorte, non bisogna né desiderare né temere; perché il desiderio ed il timore tolgono la tranquillità dal cuore dell’uomo. Or l’avaro è sempre agitato da queste due passioni; egli desidera quel che non ha; egli teme di perdere quello che ha. Desidera quel che non ha, perché la sua insaziabile cupidigia non è mai soddisfatta: Insatiabilis oculus cupidi (Eccli. XIV). Benché immensi siano i suoi possessi, egli vorrebbe ancora estenderli, perché riguarda tutto quello che ha come se nulla avesse, e tutto quel che gli manca non fa che irritare i suoi desideri. Tutto quel che vede negli altri gli suscita invidia in cuore; e siccome non gli è possibile di riempiere tutte le sue mire, egli è sempre inquieto, sempre mesto, sempre malcontento. La sua passione è una malattia che lo tormenta, e che non può guarire. Laonde si paragona l’avaro ad un idropico la cui sete cresce a proporzione che vuol calmarla. Egli soffre dentro di lui un fuoco, che nulla può ammorzare; si è un abisso, che non si può riempiere: egli domanda continuamente, e non dice giammai, basta. Egli grida incessantemente che sempre gli si apporti, sempre: Nunquam dicit sufficit, affer, affer (Prov. XXX). Si è forse mai veduto un avaro contento di quel che ha? Dategli del danaro, il suo amore per quel metallo non ne diviene che più ardente; faccia egli un acquisto, non gli basta: bisogna ancora quell’eredità, quella casa, quel campo, quel prato, che appartiene ad un altro: Affer, affer. Or se la felicità consiste nell’adempimento dei desideri che noi formiamo, l’avaro può forse esser felice tra tante brame ed inquietudini? Se all’ambizione da cui l’avaro è divorato noi aggiungiamo i movimenti che si dà per soddisfarla,, qual vita più miserabile della sua? Mille progetti girano incessantemente nel suo spirito, che non gli lasciano riposo alcuno. Come farò io, esclama egli, per avere quel bene che mi lusinga, per riuscire in quell’affare, in quella lite che ho intrapresa? Quid faciam? Convien fare viaggi nelle stagioni più aspre ed incomode, conviene sollecitar protezioni, bisogna soffrire rifiuti; rovinare spesso la sanità coi pericoli cui si espone: qual trista vita si è mai quella di un avaro! Sempre desiderare quel che non si ha, e dopo molto adoperarsi veder frustrate le proprie speranze; ecco la sua ordinaria situazione. – Almeno sapesse egli godere dei beni che possiede! Ma il timore che ha di perderli lo tormenta altrettanto, che il desiderio di acquistar quella che non ha. Si è in casa, teme che ingiusti usurpatori non vengano ad attentare alla sua vita per avere il suo danaro; se lo abbandona, è in agitazioni continue che qualche mano avida non rompa tutte le misure che ha prese per involare il suo tesoro agli occhi dei più chiaroveggenti; diffida de’ suoi amici e dei suoi vicini; è sempre in guardia affinché non gli si faccia alcun torto. Se soffre la minima perdita il danno più leggiero, si abbandona alla disperazione; e non è questo fare del suo tesoro il suo supplizio? Se si ascolta l’avaro, egli è di tutti i mortali il più da compatire. Egli ha ragione; mentre non è forse essere il più miserabile degli uomini l’avere del bene e non servirsene; potersi dare i comodi della vita e ricusarsi sino il più necessario? Questo è un esser povero in mezzo delle ricchezze, aver fame nell’abbondanza: Divites egerunt et esurierunt (Psal. XXXIII). I tempi sono calamitosi? Si provano gli effetti della sterilità? Egli non osa toccare quel che ha pel timore di mancarne in avvenire. Se la terra con meravigliosa fecondità sparge con profusione sopra i suoi abitatori i frutti, che rinchiude nel suo seno, l’avaro geme di non poter profittare della miseria altrui per arricchirsi; egli conserva le sue derrate per giorni meno sereni, ove spera mettere a contribuzione le calamità dei suoi vassalli o dei suoi fratelli; vive come se fosse nell’indigenza; nulla teme cotanto come lo spendere; si veste ruvidamente, cibasi meschinamente, risparmia su tutto, e da tutto cava vantaggio. Confessiamo dunque che l’avaro nulla possiede, che di nulla gode; ma che i beni possiedono il suo cuore , e lo riducono alla più dura schiavitù. È un uomo in mezzo delle acque bruciato da una sete ardente che non vuole estinguere, è un uomo che si avvolga tra le spine da cui riceve le più mortali ferite. Si è a questo proposito, dice s. Agostino, che Gesù Cristo paragona le ricchezze alle spine; perché siccome le spine pungono e lacerano coloro che esse attaccano, così le ricchezze producono il medesimo affetto nel cuore di quelli che vi si affezionano; esse li pungono e li lacerano or col desiderio di averne, or col timore di perderle, sovente col rammarico di averle perdute, finalmente con la miseria cui riducono coloro che le posseggono con troppo affetto. – Quindi noi vediamo alcuni in uno stato di mediocrità ed anche di povertà più felici e più contenti di quelli che hanno dei gran beni; essi profittano del poco, che hanno senza darsi tanti movimenti né tante inquietudini, melius est modicum iusto super divitias multas (Psal. XXXVI). Ma la più gran miseria degli avari non è in questa vita; i beni servono loro ancora a renderli più infelici per l’eternità. Guai a voi, ricchi del secolo, diceva altre volte il Salvatore: Væ vobìs divitibus (Luc. VI). Ma perché questo terribile anatema? Uditene la ragione che deve farvi tremare, per poco che vi resti di fede: perché, dice il Salvatore, è più difficile ad un ricco di entrare nel regno de cieli che ad un cammello di passare per la cruna di un’ago: Facilius est camelum per foramen acus transire quam divitem intrare in regnum Dei (Matth. XIX). Che dunque? Forse che lo stato di opulenza è assolutamente incompatibile, con la salute? No, fratelli miei, le ricchezze non sono da se stesse un ostacolo alla salute, esse possono anche essere un mezzo col buon uso che se ne fa. Vi saranno dunque dei ricchi nel cielo, come vi saranno dei poveri nell’inferno; ma questi saranno stati ricchi staccati dalle loro ricchezze, e che ne avranno fatto un santo uso con le loro liberalità verso i poveri. Qual sono dunque i ricchi cui Gesù Cristo chiude l’entrata del suo regno? Sono i ricchi avari; questi, dice l’Apostolo, non avranno giammai parte nel regno di Dio: Avarus non habet hæreditatem in regno Dei (Eph. V). Miratelo nell’esempio del malvagio ricco che’vi ho già citato. Non è detto, osserva s. Gregorio, che quest’uomo abbia usurpato i beni altrui; ma perché il suo cuore vi era attaccato, perché non ne faceva un buon uso, perché non soccorreva i poveri, questo ricco dopo sua morte è stato sepolto nell’inferno: Sepultus est in inferno ( Luc. XVI). Tale sarà la vostra sorte, ricchi avari, che, insensibili alle miserie dei vostri simili, misurate i vostri desideri sui beni che possono contentarli. Voi li lascerete un giorno, questi beni, malgrado vostro; voi li lascerete ad eredi ingrati che non vi daranno alcun soccorso nei tormenti che soffrirete. Vi si dirà, come al malvagio ricco: Avete ricevuto dei beni in vostra vita: Recepisti bona; non ne avete fatto buon uso, voi sarete per tutta l’eternità nella più orribile miseria, in preda alle fiamme divoratrici, ai dolori più ardenti, senza speranza di vederne il fine né di ricevere giammai alcuna consolazione, neppure una gocciola d’acqua per calmare la sete divorante che vi brucerà. Ah insensati! A che dunque tanto inquietarvi per beni che non porterete con voi? Forse in questa notte vi domanderanno la vostr’anima, e per chi sarà quel che avete accumulato? Stulte, ha nocte animam tuam repetent a te, et quæ parasti cuius erunt (Luc. XII)? I vostri beni resteranno ad altri, e voi avrete l’inferno per vostro retaggio. Ma l’avaro non vuol intendere questo linguaggio, e ciò che sembra mettere il sigillo alla sua riprovazione si è che la sua passione diventa un ostacolo quasi insuperabile al suo correggimento. Si, fratelli miei, l’avarizia è uno dei vizi più incorreggibili, perché accieca ed indura colui che essa tiranneggia: l’avaro è sempre l’ultimo a scorgere un difetto che ognuno gli rimprovera. Siccome è un disonore esser tenuto avaro, niuno vuole confessare di esserlo, niuno se ne accusa nel tribunale della penitenza. All’udir costui, si è un’economia saggia, prudenza illuminata, precauzione necessaria; esso non crede giammai aver troppo. Bisogna, dice egli, prender delle misure per l’avvenire perché non si sa quello che può accadere; e sotto pretesto di un bisogno che non avverrà giammai, egli ammassa, accumula beni sopra beni, danaro sopra danaro. Egli si procura una abbondanza superflua. Quindi quella durezza di cuore in cui cade; siccome egli non ama che la terra, e poiché, secondo s. Agostino, si diventa simile a quel che si ama, l’avaro è tutto terreno, non cura i beni del cielo, è insensibile ai movimenti della grazia, non ascolta né i rimorsi della coscienza né i consigli degli amici: egli frequenta i sacramenti e rimane soggetto alle medesime debolezze, perché non scopre il suo male al medico che può guarirlo; ascolta la parola di Dio, e non ne profitta, ne fa ad altri l’applicazione; o se si riconosce colpevole, non può risolversi a lasciare il suo idolo; l’età medesima, che serve a guarire, o ad indebolire le altre passioni, non serve che ad accrescere questa: più uno invecchia, più è interessato, e si può dire che l’avarizia è la passione dei vecchi. Più s’avvicinano al sepolcro, più si affezionano alla terra. Perché questa passione, allora quando ha gettate profonde radici nel cuore, è molto difficile a sradicare; essa conduce all’impenitenza finale. Testimonio il perfido Giuda, il quale, dopo aver tradito il suo divin Maestro, non vuole riconoscere il suo mancamento, di cui non dipendeva ancora che da lui l’ottenere il perdono; si impiccò per disperazione e diede la sua anima al demonio. – Tremate, avari che mi ascoltate, se non scacciate dal vostro cuore quella cupidigia, che vi attacca ai beni della terra, che vi fa dimenticar Dio e la vostra salute, che vi rende insensibili alle miserie dei poveri, e che vi ha di già forse fatto commettere tante ingiustizie. Voi lascerete un giorno i vostri beni, il vostro danaro; voi renderete il vostro corpo alla terra, e la vostr’anima scenderà nell’inferno. Ecco l’orribile sepoltura che vi aspetta; ecco il termine fatale ove finir debbono tutti i movimenti che fate per arricchirvi. La vita infelice che voi menate sulla terra vi condurrà ad una vita ancora più infelice nell’eternità. Ah! Insensati che siete, non siete voi più sensibili ai vostri veri interessi? Ammassate dunque altri tesori che quelli che sono stati sinora l’oggetto delle vostre sollecitudini. Ma quali tesori? Tesori di virtù, di meriti pel cielo, ove i ladri, i vermi, la ruggine non possono avere accesso. Fate sovente questa riflessione quando l’avarizia vi ritiene e v’impedisce di fare limosina. A me stesso, dovete voi dire, io faccio questa limosina, poiché io son sicuro di trovarla nel cielo; di tutti i beni il meglio impiegato si è quello che io spargo nel seno dell’indigente. Allora non a goccia a goccia, ma con abbondanza voi spargerete le vostre liberalità. Date dunque ai poveri tutti gli aiuti che da voi dipendono: se hanno fame, date loro da mangiare, e da bere se hanno sete; se mancano di vestimenta, vestiteli; se sono infermi, visitateli e procurate la loro guarigione con qualche spesa che farete a questo fine. Per distaccarvi ancora più dai beni del mondo, pensate sovente che nulla porterete con voi, che la morte vi rapirà tutto. Io sono entrato ignudo in questo mondo, diceva Giobbe, ed ignudo ne uscirò: pensate alla sorte del malvagio ricco, che è ora nell’inferno, e che vorrebbe poter riscattarsi con una limosina. Quanto a voi che vivete nella povertà, benedite la provvidenza di avervi messi in uno stato che Gesù Cristo ha consacrato con la sua scelta, e che è senza dubbio il più sicuro per andare al cielo. Considerate che i beni sono sovente la causa della riprovazione di coloro che li posseggono, che forse vi dannereste nell’opulenza, mentre vi salverete nella povertà. Vivete dunque in una perfetta rassegnazione alla volontà di Dio, e troverete nelle tribolazioni del vostro stato una contentezza di spirito e di cuore, che sarà il preludio della vostra felicità avvenire. Quanto a voi, potenti del secolo, non passate alcun giorno senza esercitarvi nelle opere di misericordia; non vi contentate delle occasioni che si presentano, ricercate ancora quelle che sembrano allontanarsi; e Dio, il quale non lascia senza ricompensa un bicchiere d’acqua dato nel suo nome, vedendovi ricolmi di meriti, vi coronerà di una gloria immortale. Così sia.

Credo…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 14; 15
Dómine, in auxílium meum réspice: confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam: Dómine, in auxílium meum réspice.

[Signore, vieni in mio aiuto: siano confusi e svergognati quelli che insidiano la mia vita per rovinarla: Signore, vieni in mio aiuto.]

Secreta

Munda nos, quǽsumus, Dómine, sacrifícii præséntis efféctu: et pérfice miserátus in nobis; ut ejus mereámur esse partícipes.

[Purificaci, Te ne preghiamo, o Signore, in virtù del presente Sacrificio, e, nella tua misericordia, fa sì che meritiamo di esserne partecipi].

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps LXX: 16-17;18
Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus: Deus, docuísti me a juventúte mea: et usque in senéctam et sénium, Deus, ne derelínquas me.

[O Signore, celebrerò la giustizia che è propria solo a Te. O Dio, che mi hai istruito fin dalla giovinezza, non mi abbandonare nell’estrema vecchiaia.]

Postcommunio

Orémus.
Purífica, quǽsumus, Dómine, mentes nostras benígnus, et rénova coeléstibus sacraméntis: ut consequénter et córporum præsens páriter et futúrum capiámus auxílium.

[O Signore, Te ne preghiamo, purifica benigno le nostre anime con questi sacramenti, affinché, di conseguenza, anche i nostri corpi ne traggano aiuto per il presente e per il futuro].

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SUI PECCATI TACIUTI IN CONFESSIONE”

Sui peccati taciuti in confessione.

Adducunt ei surdum et mutum.

(MARC. VII, 32).

Questo sordomuto presentato a Gesù Cristo per esser guarito, F. M., è la triste immagine d’un gran numero di Cristiani, quando si presentano al tribunale di penitenza. Gli uni sono sordi alla voce della coscienza, che li sollecita a manifestare i propri peccati; gli altri sono muti; quando devono manifestarli tacciono, e quindi, profanano il Sacramento. Dio mio! qual disgrazia! Si, F. M., tacere un peccato mortale per vergogna o per timore, oppure accusarlo in modo da non farlo conoscere come la coscienza ce lo rimprovera, è un mentire a Gesù Cristo stesso, è un cambiare in veleno mortale il sacro rimedio che la misericordia di Dio ci offre per guarire le piaghe fatte dal peccato alla nostra povera anima. Che dico? è un renderci colpevoli del più grande di tutti i delitti, il sacrilegio. Ah! volesse Iddio che questo peccato fosse raro tra i Cristiani, come lo sono i mostri. Ah! volesse Iddio che quello ch’io dirò non si riferisse a nessuno di quanti sono qui presenti! Ma, ahimè! F. M., io lo dico piangendo amaramente, esso è più comune di quanto non si pensa! Dio mio! quante confessioni sacrileghe farà conoscere il gran giorno del giudizio! Dio mio! quanti peccati non mai conosciuti si manifesteranno in quel momento! Dio mio, può un Cristiano rendersi colpevole d’un tal oltraggio verso il suo Dio e il suo Salvatore? Per potervene ispirare il maggior orrore che mi sarà possibile, vi metterò innanzi, F. M.,

1° quanto un Cristiano, commettendolo, è barbaro e crudele verso Gesù Cristo suo Redentore;

2° quanto deve esser grande la misericordia di Dio per tollerare sulla terra un tal mostro, dopo così orribile attentato.

I. — Sì, F . M., parlarvi d ella confessione, è parlarvi di tutto ciò che vi ha di più prezioso nella nostra santa Religione, eccettuata la morte di Gesù Cristo ed il sacramento del Battesimo e dell’Eucaristia. Interrogate, F. M., tutti i dannati che bruciano nell’inferno; vi risponderanno che si sono dannati perché non usarono questo Sacramento o perché l’hanno profanato. Salite in cielo, domandate a tutti i beati assisi su quei troni di gloria, che cosa li ha condotti in quel luogo così felice? quasi tutti vi diranno che la confessione è stato il solo rimedio da essi usato per uscire dal peccato e riconciliarsi col buon Dio. O religione bella! Sei disprezzata perché non sei conosciuta! O religione consolante! quali mezzi facili ed efficaci ci fornisci per ritornare a Dio, quando abbiamo avuto la disgrazia di allontanarcene col peccato! — Ma, mi direte, che cosa dunque può rendere cattive le nostre confessioni? — Amico mio, molte sono le cause di questa disgrazia:

1° quando non impieghiamo un tempo sufficiente per l’esame;

2° quando non accusiamo i nostri peccati come li conosciamo;

3° quando non abbiamo la contrizione sufficiente per ricevere l’assoluzione;

4° quando ricevendo l’assoluzione non abbiamo la risoluzione di adempire alla penitenza dataci dal sacerdote; e

5° quando non vogliamo fare le restituzioni che possiamo e dobbiamo fare, e che il sacerdote ci comanda. – Vi assicuro, F. M., che il solo pensiero d’entrare in questi particolari mi fa tremare; e sono quasi certo che, se la fede non è spenta in voi, e se veramente desiderate la vostra salute, ben pochi tra voi non avranno da temere per le loro confessioni passate. – Su, F. M., interroghiamo quelle povere coscienze che, da tanti anni, sono lacerate dai rimorsi; prendiamo in una mano la fiaccola del gran giorno delle vendette, e nell’altra la bilancia che peserà tutte le azioni degli uomini, e vedremo ciò che non abbiamo mai veduto, o meglio, ciò che non abbiamo mai voluto vedere; e sentiremo il grido di quella coscienza che abbiamo cercato fino ad ora di soffocare.

— Date libero corso ai vostri rimorsi, F. M.; ben fortunati, se non avete perduto il dono prezioso della fede, se la disperazione non s’impadronisce di voi considerando l’abisso in cui siete precipitati. Ascoltate la vostra povera anima che vi grida d’aver pietà di lei, poiché, se la morte vi colpisse in questo stato, si dannerebbe. “Ah! di grazia, abbi pietà di me; strappami da quest’abisso in cui mi hai gettata! dovrò dunque esser separata per sempre dal mio Dio, che doveva formare tutta la mia felicità? Dio mio! non vedervi mai! quale spaventevole disgrazia!„ Ma no, F. M., veniamone alla prova, e conosceremo ancor meglio se siamo nel numero di questi disgraziati dei quali oggi vi parlo. 1° Dico dunque anzitutto, F. M., che, se non impieghiamo un tempo conveniente nell’esame, le nostre confessioni non valgono nulla, per non dire che sono sacrileghe. È vero che non è possibile determinare il tempo che dobbiamo impiegare nell’esame. Chi è stato tanto tempo senza confessarsi deve impiegarvi maggior tempo di chi si confessa spesso. Dobbiamo quindi impiegarvi un tempo proporzionato allo stato in cui ci troviamo, ed al tempo dacché non ci siamo confessati. E diamovi quel tempo e quelle cure che metteremmo in un affare, che ci stesse molto a cuore. L’esame è dunque la prima cosa che dobbiamo fare, per sperare una buona confessione. Si deve cominciarlo colla preghiera, implorando con tutto il cuore i lumi dello Spirito Santo e la protezione della Ss. Vergine. Bisogna far qualche buona opera, come ascoltare la S. Messa; e, se possiamo, fare qualche piccola mortificazione nei pasti e nel sonno; offrire le nostre pene della giornata a Dio, per cominciare ad intenerire la sua giustizia. Bisogna poi ritirarsi in un luogo appartato, se si può; od almeno, svegliandosi, o per via, man mano che il buon Dio vi fa conoscere i vostri peccati, attestargliene il vostro dolore. Non dovete accontentarvi di scorrere i vostri peccati una volta sola, ma più volte, fino ad impararli a memoria, per quando avrete la grazia di confessarvene; perché sapete quanto me, che se tralasciate qualche peccato mortale, per mancanza di esame, quando pure foste stati disposti, se li aveste conosciuti, a confessarli, la vostra confessione non cesserebbe per questo d’essere un sacrilegio. Se, prima di comunicarvi, vi ricordate di qualche peccato mortale, state bene attenti: se li avete taciuti per vostra colpa, o perché non avete impiegato un tempo conveniente per l’esame, dovete, selo potete, riconciliarvi, e, se non lo potete dovete ancora esaminarvi davanti al buon Dio se, qualora non vi foste confessati di quel peccato, il sacerdote vi avrebbe dato il permesso di comunicarvi … se siete in dubbio è meglio tralasciare la vostra comunione rimandandola ad un’altra volta. Ahimè! se prendessimo tante precauzioni per la salute della nostra anima come ne abbiamo per i nostri affari temporali, tutte le nostre confessioni sarebbero buonissime e ci assicurerebbero il perdono! Ahimè! quante confessioni fatte quasi senza esame, senza preparazione! Si può quindi viver tranquilli in uno stato cosi disgraziato?

2° Ho detto in secondo luogo, che dopo aver bene esaminata la nostra coscienza, dobbiamo accusare i nostri peccati meglio che possiamo, se vogliamo ottenerne il perdono. Se parlassi per esempio ad increduli, comincerei col dimostrar loro l’assoluta certezza di questa necessità d’accusare i propri peccati; ma con voi, P. M., sarebbe inutile. Nessuno dubita d’una grazia sì preziosa, che forma, quaggiù, tutta la felicità d’un Cristiano; poiché dopo il peccato essa è la sola ed unica speranza per ottenere il cielo. Dico dunque, F. M., che questa seconda condizione è assolutamente necessaria, perché la nostra confessione sia buona. L’accusarsi è quanto costa di più ai peccatori orgogliosi; ed è anche quello che fa commettere il maggior numero di confessioni sacrileghe. Vedete quanti giri adoperano questi cattivi Cristiani per sembrare meno colpevoli: siamo più preoccupati del modo con cui accuseremo i nostri peccati per provare meno confusione, che del modo con cui dirli come Dio li conosce. Quante volte abbiamo sentito la nostra coscienza che ci faceva conoscere che non li dicevamo come si doveva, e noi ci siamo acquietati pensando che era la stessa cosa. Quante volte ci siamo accorati di conoscere troppo bene i nostri peccati, ed anche di conoscerne tanti, perché ci trovavamo assai colpevoli, invece di ringraziare con tutto il cuore Iddio di questa grande grazia? Quante volte non abbiamo scelto il momento in cui il sacerdote aveva meno tempo, perché non potesse farci qualche domanda? Quante volte abbiamo detto i nostri peccati in fretta, senza lasciare al sacerdote tempo di farci confessare qualche notevole circostanza, che si doveva assolutamente far conoscere, perché la confessione fosse buona? – Non parlerò di coloro, F. M., che pregano Dio per trovar confessori che non li costringano a lasciare le loro cattive abitudini. Non vogliono certo morire in esse; ma non sono risoluti di abbandonarle subito. Ahimè! sono poveri ciechi che corrono nell’inferno a passi da gigante, e forse senza pensarvi. Ma quanti ve ne sono che, per ignoranza o per timore, non vogliono nemmeno prendersi la briga di esaminarsi, né distinguere le circostanze che aggravano il peccato o ne mutano la specie. – Non entrerò in grandi particolari, perché l’anno scorso, vi ho spiegato tutto questo abbastanza. Vi accusate d’aver lavorato alla festa; ma non dite per quante ore, né quante persone avete fatto lavorare, né se era durante le sacre funzioni; né quante persone vi hanno visto e son rimaste scandalizzate. Vi accusate, è vero, d’aver mangiato di grasso nei giorni proibiti; ma non dite quante persone abbiano mangiato per causa vostra, e quante, avendovi visto, si sono scandalizzate, e forse, imitarono il vostro esempio; non dite se avete indotto anche i vostri figli ed i vostri domestici. Vi accusate d’aver mangiato di grasso, ma non dite se l’avete fatto per empietà, ridendovi dei precetti della Chiesa; dite che non ci avete pensato; ma non dite che ne fu causa la vostra golosità. Vi accusate d’aver lasciate alcune pratiche di pietà: il Benedicite, l’Agimus, l’Angelus, il segno di croce passando davanti ad una croce o ad una chiesa; ma non dite se fu per rispetto umano, ciò che aumenta considerevolmente il vostro peccato. Vi accusate d’aver avuto distrazioni nelle vostre orazioni; ma non dite se fu durante la S. Messa, e nel fare la vostra penitenza, il che spesso è peccato mortale, mentre non lo è nelle altre preghiere della giornata. Dite che avete cantato cattive canzoni; ma non dite quanto in esse v’era di cattivo, né se alcuno vi ascoltava; non dite se le avete insegnate ad altri, né se avete pregato altri di insegnarvele. Vi accusate di aver parlato male del prossimo; ma non dite se fu di vostro padre, di vostra madre, o di persone consacrate a Dio, il che aggrava il vostro peccato; non dite nemmeno che l’avete fatto per odio, per vendetta o per gelosia, o se avete cercato chi gli voleva male, per meglio parlare a vostro agio. Dio mio! quante cose a cui non si pensa! Dio mio! quante confessioni sacrileghe! Ma ecco, F. M., un’astuzia di cui il demonio si serve per ingannare e perdere un gran numero d’anime. Una persona avrà taciuto un peccato, due, tre, o se volete, dieci anni fa: troppo tormentata, se ne accusa come se l’avesse commesso dopo la sua ultima confessione, e poi si crede tranquilla, sebbene non abbia detto quante confessioni e comunioni abbia fatte in quello stato, né accusato di nuovo tutti i peccati commessi e confessati dopo quel momento. Dio mio, quale accecamento! Costui lungi dal cancellare il suo peccato, non fa che aggiungere un nuovo sacrilegio agli antichi. Ah! F. M., chi potrebbe dirvi il numero delle anime che il demonio trascina nell’inferno a questo modo? Altri, che avranno commesso qualche grave peccato, non osando accusarlo, domanderanno di fare la confessione generale, per unire questo peccato agli altri, come se l’avessero commesso da lungo tempo. V’ingannate, la vostra confessione non vale nulla. .Dovete accusare particolarmente tutti i peccati che avete commessi da quando avete ricevuta l’ultima assoluzione, se volete che la vostra confessione sia buona. Ecco qui un altro laccio che il demonio ci tende. Quando vede che i peccati taciuti non tormentano troppo, cerca di tranquillizzarci, dicendoci che li confesseremo la prima volta che torneremo a confessarci, e lo fa sempre nella speranza che, prima d’allora ci colga la morte, oppure Dio ci abbandoni. Sì, F. M., il sacrilegio è un delitto che ci allontana talmente da Dio, e spegne sì presto in noi la fede, che spesso, malgrado tutti i mezzi che abbiamo per uscire da questo stato, non lo facciamo; e questo è per un giusto castigo di Dio, attiratoci dai nostri sacrilegi; eccone uno spaventoso esempio. Il padre Lejeune racconta un fatto, che ci dice d’aver raccolto dalla bocca di chi ne era stato testimonio. Narra che presso Bruxelles viveva una povera, cheagli occhi del mondo, adempiva esattissimamente i suoi doveri di religione. La gente l’aveva in concetto di santa; ma la povera disgraziata taceva sempre un peccato vergognoso che aveva commesso nella sua giovinezza. Essendosi ammalata, della qual malattia poi morì, restò come tramortita per alcuni momenti, poscia ripresa la cognizione, chiamò sua sorella che la serviva, dicendole: “Sorella mia, sono dannata. „ Quella poveretta s’appressò al letto dell’inferma e le disse: “Sorella, tu sogni, svegliati, e raccomandati al buon Dio. „ — “Non sogno, no, rispose ella, so bene ciò che dico; ho visto il posto che mi è preparato nell’inferno.„ La sorella corse subito a cercare il parroco. Non essendo questi i n casa, suo fratello, che ne era il vicario, venne subito a vedere la povera ammalata: è da lui, ci dice il padre Lejeune, che ho saputo il fatto, predicando una missione in quei dintorni. Accompagnandoci, ci fece vedere la casa abitata da quella povera donna; e ci fece piangere tutti raccontandoci il fatto. Ci disse che entrato nella casa, s’avvicinò all’ammalata: “Ebbene! buona donna, che avete dunque visto, che vi è parso così spaventoso? „ — “Reverendo, gli rispose ella, sono dannata; ho veduto il posto che mi è preparato nell’inferno, perché, una volta, ho commesso il tal peccato. “E lo confessò davanti a tutti quelli che erano nella camera. “Eh! mia buona donna, ditemelo in confessione, e ve ne assolverò.„ —- “Signore, gli rispose, sono dannata. „ — “Ma, le disse il sacerdote, siete ancora in vita e potete ancora salvarvi; se volete, vi darò un biglietto scritto col mio proprio sangue, col quale m’obbligherò, anima per anima, a dannarmi per voi, se voi per caso lo foste, purché vogliate domandar perdono a Dio e confessarvi. „ — “So benissimo, le rispose essa, che se voglio domandar perdono con tutto il mio cuore a Dio, Egli mi perdonerà; so che posso riparare a tutti i miei sacrilegi; ma non voglio domandargli perdono, perché da troppo tempo abuso delle sue grazie e lo crocifiggo coi miei sacrilegi.„ Il sacerdote rimase per tre giorni e tre notti a piangere presso l’ammalata, senza poter farle fare un solo atto di contrizione, né indurla a confessarsi; anzi, un momento prima di morire, ella rinnegò il buon Dio, rinunciò al suo Battesimo e si diede al demonio. Mio Dio, che disgrazia! Capite, F . M., che cos’è il profanare i Sacramenti? Non vedete che, malgrado tutti i mezzi che abbiamo per riparare il male fatto, non ce ne serviamo? Ahimè! se il buon Dio ci abbandona per punirci delle nostre colpe, che ne sarà di noi? Quanti peccati sono di questo numero, senza sembrare tali agli occhi del mondo, ma che agli occhi di Dio non sono meno colpevoli! Quanti si trovano in questo stato, non perché tacciono i loro peccati, ma perché non hanno contrizione, perché non si correggono affatto delle lor cattive abitudini; sono sempre gli stessi, in loro non si vede mai alcun cambiamento in meglio. Dio mio, quanti Cristiani dannati, e che, agli occhi del mondo, sembrano essere buoni! Vedete dunque, F. M., che se noi comprendessimo bene che cos’è ricevere i Sacramenti, vi recheremmo disposizioni ben diverse da quelle che vi portiamo. È vero che la maggior parte, tacendo i loro peccati, conservano sempre il pensiero di accusarli; ma, senza un miracolo, si perderanno egualmente. Se ne volete sapere il perché, è facilissimo dirvelo: perché più restiamo in questo stato spaventoso che fa fremere il cielo e la terra, e più il demonio prende potere su di noi, più la grazia di Dio diminuisce, e più s’accresce il nostro timore, più i nostri sacrilegi si moltiplicano e più andiamo indietro; e quindi ci mettiamo nella quasi impossibilità di rimetterci in grazia di Dio. Potrei citarvene cento esempi. Ma, ditemi, F. M, forseché, dopo aver trascorso nel sacrilegio cinque o sei anni, durante i quali avete oltraggiato il buon Dio più di tutti i Giudei insieme, osate ancora credere che Dio vi darà tutte le grazie necessarie per uscire da questo stato spaventoso? Credete forse, che di fronte a tante atrocità di cui vi siete resi colpevoli verso Gesù Cristo, non avete che a dire: “Abbandonerò il peccato;„ e che tutto sia finito? Ahimè! amico mio, e chi vi garantisce che Gesù Cristo non vi abbia fatto la stessa minaccia che fece ai Giudei, e non abbia pronunciato contro di voi la stessa sentenza che pronunciò contro di essi: “Voi non volete approfittare delle grazie di cui volevo colmarvi; ma io vi abbandonerò, e voi mi cercherete, e non mi troverete e morrete nel vostro peccato. „ (Giov. VIII, 21). Ahimè! F. M., quando la nostra povera anima è nelle mani del demonio, non ne esce così facilmente come noi crediamo. – Ecco, F. M., ciò che fa il demonio per ingannarci: quando commettiamo il peccato ce lo dipinge come cosa da poco. Ci fa pensare che molti altri ne commettono ben più di noi; oppure, che ce ne confesseremo, accusandone quattro invece di due. Ma quando il peccato è commesso, fa tutto il contrario: ce lo rappresenta come una montagna, e ce ne ispira tanto orrore che non abbiamo più la forza di confessarcene. Se siamo troppo tormentati per aver taciuto un peccato, per rassicurarci, ci dice che lo accuseremo nella prima confessione; poi, ci dice che non ne avremo il coraggio, che bisogna aspettare un’altra volta per dirlo. Guardatevi bene, F. M., solo il primo passo costa; una volta entrati \ nella prigione del peccato, è ben difficile uscirne! Ma, fra tutti i peccati, quello che ci fa commettere maggior numero di sacrilegi, è quello contrario alla santa virtù della purità (… e quello che si commette allungando le mani alla roba altrui – nota del Beato); questo maledetto peccato reca con sé tale infamia, che ci trascina ad ogni sorta di sciagure; e, vedremo, nel giorno del giudizio, che la maggior parte delle confessioni cattive furono rese tali da questo peccato. Si racconta nella storia, che un giovane fin dai suoi primi anni s’era consacrato a Dio. S’era di più ritirato in un bosco per vivere da solitario. Per le sue grandi virtù era diventato oggetto d’ammirazione in tutti i dintorni; si parlava di lui come d’un santo. Ma il demonio che non poteva tollerare tanta virtù in un uomo sì giovane, mise in opera tutte le sue arti per rovinarlo. Continuamente lo perseguitava con cattivi pensieri. Il giovane ricorreva subito alla preghiera domandando al buon Dio la forza per non cadere. Il demonio non gli lasciava pace né giorno né notte, sempre nella speranza di guadagnarlo. Ahimè! il povero giovane, stanco di combattere, a poco a poco si arrese; e finalmente, nel suo cuore acconsentì ad un desiderio d’impurità. Ebbe appena acconsentito a quel desiderio, che tosto si sentì turbato. Quanto è vero che allorché il peccato entra nel nostro cuore, la pace se ne va! – Vedendosi vinto s’abbandonò ad una così profonda tristezza che nulla poteva consolarlo; piangeva continuamente: “Ah! Pelagio, diceva, parlando tra sé, come ti sei lasciato troppo presto ingannare! tu, che poco fa, eri un figlio diletto di Dio, ed ora, sei schiavo del demonio: bisognerà pur che te ne confessi e faccia penitenza del tuo peccato. Ma, se lo confesso, che si penserà di me? Perderò la mia stima presso il sacerdote. „ In mezzo a tanti pensieri, andò verso la porta del suo eremitaggio, e vide passare una persona vestita da pellegrino, che gli disse: “Pelagio, perché vi abbandonate ad una sì profonda tristezza? chi serve un Dio tanto buono, non deve esser così triste; se l’avete offeso, fate penitenza, confessatevi, e senza dubbio Dio, che è sì buono, vi perdonerà.

„ — “E dove m’avete conosciuto? domandò Pelagio.„ — “Vi conosco benissimo, rispose il pellegrino, voi siete Pelagio, tenuto da tutti per un santo. Se volete uscire da questa tristezza, confessatevi, e riavrete l’antica pace dell’anima e la vostra primiera tranquillità. „ Il povero Pelagio restò tutto stupito di quanto gli diceva il pellegrino, e lo invitò a sé; ma guardando da ogni parte, non lo vide più, perchè era scomparso: ciò che gli fece capire che era un avvertimento del cielo. Allora risolse di fare una austera penitenza, capace di placare la giustizia di Dio; e per meglio eseguire il suo disegno, risolse di andare in un monastero vicino dove si esercitavano grandi austerità. Si presentò al superiore dicendogli che aveva un grande desiderio di vestire il sacro abito. L’abate e tutti i religiosi ne provarono grande gioia, molto più perché era considerato come un gran santo. Infatti quando fu nel monastero, era sempre il primo nelle pratiche di pietà; faceva rigorose penitenze, portava sempre il cilicio e digiunava esattissimamente. Dopo qualche tempo, cadde ammalato e parve certo che dovesse morire. Il buon Dio nella sua misericordia, in compenso di tante virtù che aveva praticate nel monastero, gli mandò forti ispirazioni di confessarsi del peccato taciuto; ma egli non ebbe mai il coraggio di accusarlo, trattenuto sempre dal timore della vergogna, mentre confessava tutti gli altri peccati con vivo dolore. Un momento dopo ricevuto il santo Viatico, morì. I religiosi fecero i funerali, non come quelli d’un morto ordinario, ma di un santo di cui si cominciava già ad implorare la protezione presso Dio. Tutti gli abitanti dei paesi vicini venivano in folla per raccomandarsi allesue preghiere. Ahimè! come Dio giudica diversamente dagli uomini. La notte seguente, essendosi il sagrestano alzato per suonare il mattutino, e passando per la chiesa, gettò gli occhi sul luogo dove era stato sepolto Pelagio; s’accorse che il cadavere era fuori di terra, e pensando che non l’avessero ben interrato, lo seppellì senza dir nulla. Ma all’indomani lo trovò ancora fuori della sua tomba; e notò che la terra l’aveva rigettato al di fuori. Andò dall’abate e gli raccontò quanto aveva visto. L’abate fece radunare tutti i religiosi e comandò che andassero in chiesa. Presso al sepolcro di Pelagio, pregarono nostro Signor Gesù Cristo di far conoscere la sua volontà, se forse il defunto dovesse essere sepolto in un luogo più onorevole; si rivolsero anche al morto, dicendogli ad alta voce : “Voi, Pelagio, che siete stato sì obbediente nella vostra vita, diteci se Iddio vuole che il vostro corpo sia messo in un luogo più degno. „ Allora il defunto gettò un grido spaventoso, esclamando: “Ah! me disgraziato, per aver taciuto un peccato in confessione, sono condannato al fuoco dell’inferno finché Dio sarà Dio; se volete assicurarvene, avvicinatevi e guardate il mio corpo.„ L’abate s’avvicinò e vide il suo corpo tutto infuocato, come i pezzi di ferro posti in una fornace. Allora il defunto disse che la volontà di Dio era ch’egli fosse gettato sul letamaio come una carogna. Ahimè! che disgrazia, F. M.! quanto gli sarebbe stato facile salvarsi, poiché era un santo riguardo alle altre virtù! Dio mio, che disgrazia! per non aver avuto la forza di confessare un solo desiderio cattivo, che, appena nato nel suo cuore, aveva subito detestato! Ahimè! quanti rimorsi e quante lagrime per tutta l’eternità! Ahimè ! F. M., quante cattive confessioni fa commettere questo peccato, o meglio, quante anime conduce nell’inferno! Ahimè! quanti, fra quelli che; ascoltano, sono di questo numero, ed ai quali occorrono tutte le loro forze per non farsi conoscere! Ah! amico, lasciate libero il corso ai vostri rimorsi, lasciate scorrere le vostre lagrime, venite a gettarvi ai piedi del Signore, e troverete la pace e l’amicizia del vostro Dio, che avevate perdute. – Ma, voi pensate, non credo che vi siano cristiani capaci di tacere i propri peccati, perché ne sarebbero troppo tormentati. — Ah! F. M., se dovessi giurare, per affermare che ve ne sono, non esiterei a dirvi che fra quelli che m’ascoltano ve ne sono almeno cinque o sei lacerati dai rimorsi, e ben persuasi che quello che dico è vero; del resto abbiate pazienza, lo vedrete nel giorno del giudizio, ed allora vi ricorderete di ciò che oggi vi dico. Dio mio! la vergogna od il timore possono farrimanere un Cristiano in uno stato sì spaventoso! Ah! amico mio, che cosa vi preparate? Non osate aprirvene al vostro pastore? ma c’è forse lui solo nel mondo? Non troverete sacerdoti che vi faranno la carità di accogliervi? Pensate che vi si imporrà una penitenza troppo lunga? Ah! amico, non sgomentatevi! sarete aiutato, se ne farà per voi la maggior parte; si pregherà per voi, si piangeranno i vostri peccati, per attirare su di voi in maggior copia le misericordie di Dio! Amico mio, abbiate pietà di questa vostra povera anima, che ha tanto costato a Gesù Cristo!… Dio mio! chi potrà mai comprendere l’accecamento di questi poveri peccatori? Avete taciuto un peccato, amico, ma bisognerà pur che un giorno sia conosciuto, e agli occhi di tutto l’universo; mentre, con una parola l’avreste nascosto per sempre e cambiato il vostro inferno in una eternità di gloria! Ahimè! dove un sacrilegio conduce questi peccatori! non vogliono morire in questo stato, ma non hanno la forza di uscirne. Dio mio, tormentateli in modo che non possano più resistervi!…

3° Ho detto, in terzo luogo, che la mancanza di contrizione rende cattive le nostre confessioni. Sebbene, da ciò che ho detto, abbiate visto quante persone fanno cattive confessioni, vi dirò ora che, esaminato tutto, la mancanza di contrizione sarà la causa del maggior numero di confessioni sacrileghe. Non voglio estendermi su questo perché ve ne parlerò forse domenica; vi dirò solo per ora che non dobbiamo confessarci senza domandare di tutto cuore al buon Dio la contrizione con ferventi preghiere. È vero, F. M., facciamo assai bene preoccupandoci di ottenere la grazia di ben accusare i nostri peccati; ma dobbiamo ancor più preoccuparci di sapere se abbiamo la contrizione dei nostri peccati. Quando abbiamo la disgrazia di tacere un peccato, ci pare di aver nell’anima una tigre che ci divora; e della mancanza di contrizione non ci interessiamo. Ma, mi direte, che cosa bisogna fare per averla? — Dovete anzitutto domandarla al buon Dio qualche tempo prima di confessarvi, e se volete sapere se l’avete, il che è facilissimo, vedete se avete mutato vita. Perché la nostra confessione non ci lasci alcuna inquietudine, bisogna, che dopo aver confessato i nostri peccati, possediamo le virtù contrarie. Bisogna che l’umiltà, il disprezzo di noi stessi, prenda posto dell’orgoglio e di quella buona opinione che abbiamo di noi; bisogna che lo spirito di carità, di bontà e di misericordia, prenda il posto dello spirito di odio, di vendetta, gelosia e d’invidia; bisogna che lo spirito di distacco dai beni di questo mondo succeda allo spirito d’avarizia, di cupidigia, ed al desiderio d’ingannare il prossimo; bisogna che lo spirito di mortificazione e di espiazione dei propri peccati, prenda il posto della golosità e dell’amore dei piaceri del mondo: bisogna che la bella virtù della purità salga su quel trono dove dominava il vizio infame. Ah! che dico, F. M.? bisogna che il fervore e l’amore alia preghiera e la vigilanza nel respingere le tentazioni del demonio, succedano alla tiepidezza, alla negligenza ed indifferenza per tutto ciò che riguarda Dio, e la salute dell’anima; e che la dolcezza, la pazienza occupino il posto della collera, degli scatti d’ira e d’ogni sfogo di sdegno; in una parola: noi eravamo peccatori; ora che ci siamo confessati, dobbiamo cessare di esserlo. Ahimè! F. M., se non vediamo in noi questi cambiamenti, dopo tante confessioni e comunioni, tremiamo, o piuttosto, ritorniamo indietro, perché non ci sia dato di sentirne, m a troppo tardi, la necessità.

4° Ho detto in quarto luogo, F. M., che le nostre confessioni non valgono nulla, quando non diciamo, almeno più esattamente che ci è possibile, il numero dei nostri peccati mortali. Vi son di quelli che si accontentano di dire: “Mi accuso d’aver bestemmiato, d’aver cantato cattive canzoni, e nulla più. „ Le vostre confessioni non saranno mai buone, se non determinate il numero dei vostri peccati mortali. E vero che non si può sempre dirlo esattamente, ma bisogna accostarvisi per quanto è possibile.

5° In quinto luogo una confessione è cattiva, quando ricevendo 1’assoluzione, non si ha l’intenzione di compiere la penitenza che il sacerdote ci impone. Non dovete accontentarvi di confessare d’aver tralasciato la penitenza; ma bisogna dire che confessandovi non avevate l’intenzione di farla; poi, se l’avete tralasciata per negligenza. Se l’avete omessa volontariamente ed avevate confessato peccati mortali, commettete un nuovo peccato mortale. Dobbiamo sempre compiere la penitenza in ginocchio, eccetto che il sacerdote ci dica che possiamo farla stando seduti. Alcuni la fanno camminando, lavorando; questo non è soddisfare alla penitenza. Non dovete mai cambiarla da voi stessi, né farla cambiare da un altro sacerdote, eccettuato che non possiate andare da quello che ve l’ha imposta; e questo cambiamento non deve farsi che quando vi è impossibile Compierla. Alcuni sanno poco leggere: se si impone loro qualche preghiera che sia nei libri, per orgoglio, non vogliono dire che non sanno abbastanza leggere e poi la dicono tutta sbagliata. Dovete dire semplicemente che non sapete abbastanza leggere, affinché il confessore ve la cambi, e, se questo vi è capitato parecchie volte, dovete dirlo in confessione, affinché ve ne sia data un’altra.

6° Ho detto in sesto luogo che la mancanza di restituzione rende sacrileghe le nostre confessioni. Non parlo di quelli che hanno derubato od ingannato il prossimo, e non se ne confessano: costoro sono già perduti; ma dico che coloro ai quali il confessore ha imposto qualche restituzione, se nel momento in cui ricevono l’assoluzione, non hanno l’intenzione di farla, la loro confessione non vale nulla; e se, potendolo, non avete restituito come avevate promesso, confessandovi dovete dirlo. Convenite dunque con me quanto sia necessario dare di quando in quando un piccolo sguardo alla propria vita passata, per riparare le cattive confessioni che, anche senza saperlo, avremmo potuto fare.

II. — Ma, ahimè! . M., che vita disgraziata conducono quelli che tacciono i loro peccati in confessione, e restano con tali carnefici nel cuore! Pensate sempre che li accuserete in qualche confessione, o prima di morire. Amico mio, voi siete cieco, non lo farete mai: il demonio o nelle vostre confessioni, od in punto di morte ve lo impedirà come ve lo ha impedito sino ad ora. Se ne dubitate, ascoltatemi, e vedrete che è vero; chi vive nel sacrilegio è quasi sicuro di morirvi. Racconta il padre Giovanni Romano, della Compagnia di Gesù, che il famoso Giovanni d’Avila, predicando in una città della Spagna, fu chiamato ad ascoltare la confessione d’una giovinetta che per le cure della madre era stata allevata in ogni più bella virtù. La madre non mancava di comunicarsi ogni sabato in onore della santa Vergine. Morta la madre, la figlia continuò nella stessa divozione, aggiungendovi parecchie elemosine, digiuni ed altre buone opere. Udendo spesso predicare il Padre Giovanni d’Avila ne era sinceramente commossa, e si sentiva vivamente portata alla virtù. Caduta inferma, lo fece pregare di venire a visitarla, perché desiderava confessarsi da lui. Sebbene la sua malattia non fosse molto pericolosa, voleva provvedere presto alla salute della propria anima. Il Padre le concedette con gioia ciò che domandava. Essa cominciò a confessarsi con segni d’un dolore sì vivo e con una sì grande abbondanza di lagrime, che il Padre era stupito di trovare, almeno in apparenza, una sì bell’anima. Finita la confessione, il Padre se n’andò tutto consolato: avendole data l’assoluzione, la lasciava, sempre, almeno in apparenza, in una grande sicurezza della sua salute. Accadde intanto un fatto straordinario. Il fratello, che padre d’Avila aveva condotto con sé, stando in un’altra stanza, vedeva uscire di quando in quando dalla parte del muro, una mano nera tutta pelosa, la quale stringeva la gola dell’ammalata, in modo che sembrava volesse soffocarla. Il fratello, vedendo questo, restò fortemente stupito. Tornato al convento si presentò al superiore, egli raccontò quanto aveva visto. Il superiore gli domandò se ne era ben sicuro. Ed il fratello: ” Ne sono sicuro come sono sicuro d’esser qui davanti a voi. Per un momento ne ho dubitato, ma raddoppiata 1’attenzione, ho visto tutto ciò che vi dico. „ Allora il superiore chiamò padre Giovanni e, sebbene fosse di notte, gli comanda di ritornare dall’ammalata, dicendogli di fare ogni possibile per indurla a riconciliarsi, se si sentiva qualche cosa che non la lasciasse quieta. Il Padre partì collo stesso compagno. Quando furono alla porta sentirono pianti e gemiti; appena ebbero battuto, un valletto venne a dir loro che la padrona era morta, che quasi subito dopo essersi confessata aveva perduto la parola e l’uso dei sensi, sicché non aveva potuto comunicarsi. Dopo aver vista la defunta, ritornarono al convento dove informarono il superiore di quanto era accaduto: cosa che l’afflisse molto. Il Padre che aveva confessato l’ammalata fu preso da un sì grande dolore che si mise a piangere amaramente, e se n’andò davanti al Ss. Sacramento, ove prostrato, cominciò a pregare il Signore per il riposo di quella disgraziata giovane, domandando che volesse liberarla dall’eterna dannazione. Dopo aver pregato per qualche momento, sentì un gran rumore, come di grosse catene trascinate per terra. Voltatosi là donde sentiva venire il  rumore, vide davanti a sé una persona circondata da capo a piedi di catene e di fiamme tenebrose. Il Padre, senza spaventarsi, le domandò chi fosse. Ella rispose: “Sono l’anima di quella disgraziata giovane che siete venuto a confessare stamattina, sono quella per la quale ora pregate, ma invano. Ho ingannato tutti colle mie ipocrisie, e colle mie false virtù. Bisogna che voi conosciate quelle ipocrisie. Dopo la morte di mia madre, un giovane s’innamorò di me; dapprima opposi qualche resistenza; ma poi egli vinse la mia debolezza. Se il mio fallo fu grande, fu ben più grande la ripugnanza a confessarlo, che il demonio suscitò in me; io sentiva vivi rimorsi di coscienza; il pensiero dei tormenti in cui ora mi trovo mi era un supplizio. Inconsolabile, e non cercando che di uscire da questa pena, avevo deciso parecchie volte di confessarmene; ma la vergogna ed il timore che il confessore perdesse la buona opinione che aveva di me, me lo impedivano sempre. Così continuai le mie confessioni e comunioni. Quando sentivo le vostre prediche, esse erano tanti dardi che mi ferivano il cuore, e finalmente risolvetti di confessarmi da voi: per questo vi feci chiamare. Ah! avrei dovuto cominciare da’ miei sacrilegi, e non dalle piccole mancanze! Poiché dopo, non ebbi più la forza di accusarvi il mio peccato taciuto. Ed eccomi ora dannata per sempre! Non perdete il vostro tempo a pregare per me. „ — “Ma, qual è la più grande delle Vostre pene? „ le domandò il Padre. “È il vedere, risposegli, che avrei potuto salvarmi confessando il mio peccato, colla stessa facilità con cui lo faccio ora, senza però che adesso ne abbia alcun merito. „ E dopo scomparve, mandando grida spaventose e facendo un orribile fracasso colle sue catene. Ah! F. M., quale stato orrendo è mai quello di un’anima che compare davanti al tribunale di Gesù Cristo rea di sacrilegi. Frughiamo nei più segreti ripostigli delle nostre coscienze e se sentiamo qualche rimorso, cerchiamo di farlo dileguare con una buona confessione, che è il solo rimedio, poiché né le penitenze, né le elemosine potranno ripararvi. Ahimè! F. M., un povero Cristiano in questo stato non ricava alcun merito da tutte le sue buone opere, per lui tutto è perduto pel cielo. Dio mio, si può vivere con sacrilegi sulla coscienza, soprattutto quando ci sono noti? Non si è già all’inferno per i rimorsi che continuamente si provano? È possibile gustare qualche piacere nella vita? . S. Antonio ci racconta ciò che il buon Dio rivelò ad un santo prelato, mentre ascoltava la confessione d’una persona che, per vergogna, taceva un peccato d’ impurità. Il santo vedendo accanto ad essa un demonio, gli domandò che cosa facesse in quel luogo. Il demonio rispose che adempiva ad un ordine di Gesù Cristo. “Che! gli disse il santo, da quanto tempo osservi gli ordini di Gesù Cristo ?,,“Sì, disse il demonio, io che avevo tolta la vergogna a costei, perché più arditamente peccasse, ora gliela restituisco, affinché vinta dalla vergogna, non confessi il suo peccato.„ Dio mio! quant’è da compiangere un orgoglioso e com’è in pericolo di dannarsi; poiché, infatti, se noi tacciamo i nostri peccati, se non li diciamo quali sono, questo non è che effetto d’orgoglio. Dio mio! acconsentire a dannarsi, o meglio, cambiare l’umiliazione di cinque minuti con quella d’una eternità!… Ahimè! quei poveri dannati accuseranno i loro peccati taciuti ed i loro sacrilegi per tutta l’eternità senza poterne ottenere il perdono; mentre, in questo mondo, una semplice accusa ad un sacerdote pieno di carità, che ci aiuta a domandare perdono al buon Dio e che desidera al pari di noi la nostra salute, ci avrebbe salvati. Ah! no, no, F. M., questo non si può capire! portare il proprio accecamento fino a tal punto!… Siete caduto, amico mio, senza dubbio avete fatto molto male; ma rialzatevi presto, poiché ancora lo potete; forse un altro giorno non lo potrete più: eccone la prova. Si narra nella storia che un missionario era andato notte tempo, da un’ammalata. Vedendo che la malattia era mortale, avvicinatosi al letto, le disse: “Signora, eccovi vicina a render conto a Dio della vostra condotta, temo assai che abbiate taciuto qualche peccato in confessione; se non ve ne accusate, vi dannerete: riflettete. „ — “Possibile, esclamò l’ammalata, debbo morire? Riconosco, disse al missionario, che da molto tempo mi confesso malissimo, tacendo per vergogna alcuni peccati.„ Ma dicendo questo, perdette la parola, e senza poter dire una sola sillaba, morì in questo stato miserando e, certamente si dannò. Ahimè! in quale orribile stato compariranno costoro nel giorno del giudizio, trovandosi coperti di sacrilegi! Ah! diranno “montagne copriteci, crollate su di noi, nascondeteci a Dio„ (Apoc. VI, 16) come noi abbiamo nascosto i nostri sacrilegi agli occhi del mondo! Ma no, tutto si vedrà e tutto comparirà davanti all’universo. Ah! quale rammarico d’aver vissuto tre o quattro anni, forse, in questo stato, divorati dai rimorsi di coscienza senza aver voluto rimediarvi! – Ma, ditemi, che deve pensare una persona che si rende colpevole di questo peccato, quando riceve l’assoluzione? Che deve pensare quando il sacerdote le dice: “Andate in pace, e procurate di perseverare?„ Ah! se essa sentisse Gesù Cristo che, dall’alto dei cieli, grida al suo ministro: “Fermati, fermati, disgraziato: quel sangue prezioso che fai scendere su quell’anima grida vendetta, e scriverà la sua condanna: fermati ministro, io condanno e maledico quest’anima. „ Ah! disgraziato, tu hai tradito il tuo Dio! Va, va, perfido Giuda, accostati alla sacra Mensa per compire l’opera del tuo furore! Va a dargli la morte! Ah! F. M., se sentiste Gesù Cristo che dal fondo del suo tabernacolo vi grida: Fermati, fermati, figlio mio! Ah! di grazia, risparmia il Padre tuo! Perché vuoi farmi morire? Fermati, fermati, figlio mio, risparmia il tuo Dio; perché vuoi dargli il colpo mortale? „ Ah! se un Cristiano fosse capace di comprendere l’enormità del suo delitto, potrebbe spingere ad un simile eccesso il suo furore contro un Dio sì buono, un Dio che ci ama più di se stesso, che non vuole e non desidera che la nostra felicità? Dio mio! un Cristiano che avesse commesso un delitto così orrendo, quale è il sacrilegio, potrebbe ancora vivere? Non gli parrebbe di udire incessantemente dentro di sé una voce, quale l’udiva quel giovane che aveva ucciso suo padre : “Figlio mio, perché mi hai ucciso, perché mi hai tolta la vita?„ Un Cristiano che avesse avuta questa disgrazia, potrebbe ancora fermare i suoi occhi su quella croce, volgere il suo sguardo verso quel tabernacolo: oh! che dico? verso quella sacra Mensa dove ha fatto morire Gesù Cristo suo Dio e suo Salvatore in un modo così orribile e spaventoso? Sì, F. M., questo peccato è orrendo, ed è purtroppo assai comune; vi sarebbe da morire al solo pensarvi!… Che dobbiamo dunque concludere da quanto abbiamo detto? Ecco: dobbiamo usare tutti i mezzi possibili per ben fare le nostre confessioni; non dobbiamo mai ricevere l’assoluzione quando abbiamo qualche cattiva abitudine, se non abbiamo l’intenzione di correggercene; non dobbiamo confessarci mai in fretta; non cercare mai i termini che possano mitigare l’accusa dei nostri peccati, od attenuarli ai nostri occhi o a quelli del nostro confessore, e non confessarci mai senza domandare a Dio la contrizione dei nostri peccati. Finalmente, se anche da venti, trent’anni, avessimo taciuto alcuni peccati, non dobbiamo dar retta a nessun pretesto; ma bisogna confessarli subito: e se siamo sinceri, stiamo certi che il buon Dio ci perdonerà; mentre invece, se aspettiamo in punto di morte, o non potremo fors’anche, per un castigo terribile della giustizia di Dio, come abbiamo visto, non lo vorremo. Quando siamo tentati di tacere qualche peccato, pensiamo subito ai rimproveri che il nostro confessore stesso ci farà nel giorno del giudizio, quando vedrà che l’abbiamo ingannato. Sì, operiamo come vorremmo aver fatto all’ora di nostra morte, a tutto andrà bene. È ciò che..

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “LA MALDICENZA”

La maldicenza.

Solutum est vinculum linguæ ejus, et loquebatur recte.

(MARC. VII, 35).

         (Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Quanto sarebbe desiderabile, F. M., che si potesse dire di ciascuno di noi, quello che l’Evangelo dice di quel muto, che, guarito da Gesù Cristo, parlava speditamente. Ahimè! F. M., non ci si potrebbe invece rimproverare che parliamo quasi sempre male, quando parliamo specialmente del nostro prossimo? Infatti, qual è la condotta della maggior parte dei Cristiani odierni? Eccola: Criticare, censurare, denigrare, e condannare quanto fa e dice il prossimo: ecco il più comune di tutti i vizi, il più universalmente diffuso, e forse il peggiore di tutti. Vizio che non si potrà mai detestare abbastanza; vizio che produce le più funeste conseguenze, che porta dappertutto il disordine e la desolazione. Ah! mi concedesse Iddio uno dei carboni, che servirono all’angelo per purificare le labbra del profeta Isaia (Is. VI, 6-7), vorrei purificare con esso la lingua degli uomini tutti! Oh! quanti mali  verrebbero banditi dalla terra, se si potesse scacciarne la maldicenza! Potessi, F. M., infondervene un tale orrore, che vi procurasse la fortuna di correggervene per sempre! Qual è dunque il mio assunto, F. M.? eccolo: — Vi farò conoscere: 1° Che cos’è la maldicenza; 2° quali ne sono le cause e gli effetti; 3° la necessità e difficoltà di ripararvi.

I . — Non vi mostrerò la enormità e l’odiosità di questo vizio che fa tanto male: che è causa di tante dispute, odii, omicidi, ed inimicizie le quali spesso durano tutta la vita, e che non risparmia né i buoni né i cattivi! mi basta dirvi che è uno dei vizi che trascinano più anime all’inferno. Credo sia più necessario farvi conoscere in quanti modi possiamo rendercene colpevoli; perché conoscendo il male che fate, possiate correggervene, ed evitare i tormenti preparati nell’altra vita. Se mi domandate: che cos’è una maldicenza? vi rispondo: è far conoscere un difetto od una colpa del prossimo in modo da nuocere più o meno alla sua riputazione; e questo avviene in parecchi modi.

1° Si mormora quando si attribuisce al prossimo un male che non ha fatto, od un difetto che non ha; e questa è calunnia, peccato gravissimo, eppure molto comune. Non illudetevi, F. M., dalla maldicenza alla calunnia non v’è che un passo. Se esaminiamo bene le cose, vediamo che quasi sempre si aggiunge o si esagera nel male che si dice del prossimo. Una cosa passata per parecchie bocche non è più la stessa, chi l’ha detta per primo non la riconosce più, tanto è cambiata od ampliata. Ne concludo quindi che un maldicente è quasi sempre un calunniatore, ed ogni calunniatore è un infame. Un santo Padre ci dice che si dovrebbero scacciare dalla società degli uomini i calunniatori, come tante bestie feroci.

2° Si mormora quando si esagera il male fatto dal prossimo. Avete visto qualcuno commettere uno sbaglio: che fate voi? invece di coprirlo col manto della carità, od almeno diminuirlo, voi lo esagerate. Vedrete un domestico che si riposa un istante, ovvero un operaio: se qualcuno ve ne parla, voi dite senza altro che è un ozioso, che ruba il denaro del padrone. Vedrete alcuno passare per una vigna od un orto, prendere qualche grappolo o frutto, cosa che certamente non dovrebbe fare: ebbene voi andate a raccontare a quanti incontrate che egli è un ladro, che bisogna guardarsene, sebbene non abbia mai rubato nulla: e cosi di seguito… E questa è maldicenza per esagerazione. Ascoltate S. Francesco di Sales: “Non dite, così questo santo ammirabile, che il tale è un ladro ed un ubbriacone, avendolo visto rubare od ubbriacarsi una volta. Noè e Lot si ubbriacarono una volta, eppure né l’uno né l’altro erano ubbriaconi. S. Pietro non fu bestemmiatore, perché in una occasione ha bestemmiato

2 . Una persona non è viziosa perché è caduta una volta nel vizio; e vi cadesse pure parecchie volte, v’è sempre pericolo di mormorare accusandola. Questo precisamente accadde a Simone il lebbroso, quando vide Maddalena ai piedi del Signore, che bagnava colle sue lagrime: “Se costui, disse tra sé, fosse un profeta, com’egli afferma, conoscerebbe certamente che costei è una peccatrice.„ (Luc. VII, 39). Si sbagliava grossolanamente: Maddalena non era più una peccatrice, ma una santa penitente, perché i suoi peccati le erano stati perdonati. Vedete ancora quel fariseo orgoglioso, che in mezzo al tempio sfoggiava tutte le sue pretese opere buone, ringraziando Iddio di non essere del numero degli adulteri, ingiusti, ladri, come il pubblicano. Diceva  che costui era un ladro: mentre nel medesimo tempo era stato giustificato. (Matt. XVIII, 11-14) Ah! figli miei, aggiunge l’amabile S. Francesco di Sales, se la misericordia di Dio è così grande, che le basta un sol momento per perdonarci i maggiori delitti del mondo, come oseremo noi dire che chi era un gran peccatore ieri, lo sia ancor oggi? „ Concludo dicendo che quasi sempre ci inganniamo nel giudicar male del prossimo, qualsiasi apparenza di verità abbia il fatto sul quale basiamo il nostro giudizio.

3° Si mormora quando senza legittima ragione si fa conoscere un difetto nascosto del prossimo, od uno sbaglio non conosciuto. Alcuni s’immaginano che quando sanno qualche male del prossimo, possono dirlo ad altri ed occuparsene. Vi ingannate, amico mio. Quale cosa v’è nella nostra santa religione più raccomandata della carità? La ragione stessa ci ispira di non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. Esaminiamo la cosa un po’ più davvicino: saremmo proprio contenti se alcuno avendoci visto commettere uno sbaglio andasse a raccontarlo a tutti? no, senza dubbio: anzi se avesse la carità di tenerlo celato, gliene saremmo ben riconoscenti. Vedete quanto vi spiace che si dica qualche cosa sul conto vostro o della vostra famiglia: dov’è adunque la carità e la giustizia? Sinché lo sbaglio del vostro prossimo sarà nascosto, egli conserverà la sua riputazione: ma facendolo conoscere, voi gli togliete la riputazione, e quindi gli fate maggior torto che non togliendogli parte dei suoi beni: perchè lo Spirito Santo ci dice che una buona riputazione vale più delle ricchezze (Prov. XXII, 1).

4° Si mormora quando s’interpreta in mala parte le buone azioni del prossimo. Alcuni assomigliano al ragno, che cambia in veleno anche le cose migliori. Un povero disgraziato, se cade una volta sotto la lingua dei maldicenti, è simile ad un grano di frumento sotto la macina del mulino. Vien stritolato, schiacciato, interamente distrutto. Coloro vi attribuiranno intenzioni da voi mai avute, avveleneranno ogni vostra azione, ogni vostra parola. Se vi date alla pietà, ed adempite fedelmente le vostre pratiche di religione, non siete che un ipocrita, santo in chiesa e demonio in casa. Se fate opere buone, penseranno che è solo per orgoglio, per farvi vedere. Se fuggite il mondo, diranno che volete essere singolare, mentre siete di spirito debole: se avete cura delle cose vostre, non siete che un avaro: insomma, F . M., la lingua del maldicente è come un verme che rode i frutti buoni, cioè le azioni migliori degli altri, e cerca di interpretrarle malamente. La lingua del maledico è un bruco che insozza i fiori più belli, lasciandovi la traccia disgustosa della sua bava.

5° Si mormora anche non dicendo nulla; ed ecco come. Si loda alla presenza vostra uno, e tutti sanno che voi lo conoscete: ma voi non dite nulla, o lo lodate solo debolmente: il vostro silenzio e la vostra riserbatezza fanno pensare che sappiate sul suo conto qualche cosa di male, che vi induce a tacere. Altri mormorano quasi compassionando. Conoscete, nevvero, la tale? sapete, avete udito che cosa le è accaduto? che peccato siasi lasciata ingannare! … certo, al par di me, non l’avreste creduto!… S. Francesco ci dice che questa maldicenza è simile ad un dardo velenoso che si intinge nell’olio perché penetri più addentro. Infine, un gesto, un sorriso, un ma, un muover del capo, una piccola aria di disprezzo: tutto fa molto dubitare di colui del quale si parla. – Ma la maldicenza più brutta, e più funesta nelle sue conseguenze, è il riferire ad alcuno quanto si è detto o fatto contro di lui. Queste informazioni producono i mali più terribili, fanno nascere sentimenti di odio, di vendetta, che durano spesso fino alla morte. Per mostrarvi quanta colpevolezza vi sia in questo, ascoltate che cosa ci dice lo Spirito Santo: “Sei cose odia Iddio, ma la settima la detesta, cioè le informazioni„ Ecco press’a poco, F. M., in quanti modi si può peccare di maldicenza. Scandagliate il vostro cuore, e vedrete se siete per nulla colpevoli in questa materia. Vi dirò altresì, che non devesi facilmente credere il male che si dice degli altri, e se una quand’è accusata non si difende, non devesi  credere per questo, che quanto si dice di lei sia ben certo: eccone un esempio che vi mostrerà come possiamo tutti ingannarci, e che non dobbiamo credere se non difficilmente al male che ci vien detto degli altri. Narrasi nella storia che un vedovo avendo una figlia unica assai giovane, la raccomandò ad un suo parente, e si fece religioso in un monastero di solitari. La sua virtù lo fece amare da tutti i religiosi. Da parte sua era assai contento della sua vocazione: ma, dopo un po’ di tempo, la tenerezza che sentiva pensando alla sua figliuola, lo riempì di dolore e di tristezza per averla così abbandonata. Il padre abate se ne accorse, ed un giorno gli disse: “Che avete, fratel mio, da essere così afflitto? „ — ” Ahimè! padre mio, rispose il solitario, ho lasciato i n città una mia creatura giovanissima: ecco la causa della mia pena.„ L’abate non sapendo che era una figliuola, credendo fosse un figlio, dissegli: “Andate a cercarlo, conducetelo qui ed allevatelo con voi.„ Tosto egli parte, considerando ciò come un’ispirazione del cielo, e va a trovare la sua figliuola, chiamata Marina. Le disse di prendere il nome Marino, proibendole di non far mai conoscere di essere una fanciulla, e la condusse nel suo monastero. Il padre si diede tanta cura di mostrarle la necessità della perfezione in chi lasciava il mondo per darsi a Dio, che in poco tempo ella divenne un modello di virtù, benché cosi giovane, anche pei religiosi più vecchi. Prima di morire, il padre le raccomandò di nuovo caldamente di non mai dire chi ella fosse. Marina non aveva ancora diciassette anni quando le morì il padre: tutti i religiosi non la chiamavano che col nome di fratel Marino. L’umiltà sua così profonda, e la perfezione così poco comune la fecero amare e rispettare da tutti i religiosi. Ma il demonio geloso di vederla avanzar tanto rapidamente nella virtù, o piuttosto Iddio, volendo provarla, permise che fosse calunniata nel modo più infame. Le sarebbe stato facile mostrare la propria innocenza, ma non lo fece. Vedete come un’anima che ama davvero Iddio, riguarda tutto quello che accade per divina permissione, anche la maldicenza e la calunnia, come ordinato soltanto a nostro bene. I frati usavano andare al mercato in certi giorni della settimana per fare le loro provvigioni: ed il fratello ve li accompagnava. Il padrone dell’albergo aveva una figliuola, che s’era lasciata sedurre da un soldato. Scoperto il disonore, il padre ne volle sapere l’autore: e la giovane, piena di malizia, inventò la più infame maldicenza, e la più infame calunnia, dicendogli che era stato proprio fratel Marino a sedurla, e che con questi era caduta in peccato. Il padre, furibondo, venne a lamentarsi coll’abate, che restò ben sorpreso d’una tal cosa da parte di fratel Marino, che era stimato un gran santo. L’abate fece venire alla sua presenza fratel Marino, domandandogli che cosa avesse fatto, quale enorme errore commesso, disonorando in tal guisa la religione! Il povero fratel Marino, levando il suo cuore a Dio, pensò che cosa dovesse rispondergli, ed anziché diffamare l a giovane impudica, si accontentò di dire: “Sono un peccatore, che merita di far penitenza. „ L’abate non esaminò oltre, e credendo Marino colpevole del delitto di cui era accusato, lo fece castigare severamente, e lo scacciò dal monastero. Ma la povera giovane, a somiglianza di Gesù Cristo, ricevette i colpi e gli affronti senza aprir bocca per lamentarsi, né fece riconoscere la sua innocenza, mentre le sarebbe stato così facile. Restò per tre anni alla porta del monastero, riguardata da tutti i religiosi come un’infame: quando passavano, essa si prostrava davanti a loro a domandar il soccorso delle loro preghiere ed un pezzo di pane per non morir di fame. La figlia dell’albergatore, partorì e tenne per un po’ di tempo il bambino: ma appena slattato lo mandò a fratel Marino come a chi ne era padre. Senza neppur fare apparire la sua innocenza, essa lo ricevette come fosse suo figlio, e lo nutrì per due anni, dividendo seco lui le poche elemosine che riceveva. I religiosi, commossi da tanta umiltà pregarono l’abate d’aver pietà di fratel Marino, mostrandogli che da cinque anni faceva penitenza alla porta del convento, e che bisognava riceverlo e perdonargli per amor di Gesù Cristo. L’abate, fattolo chiamare lo rimproverò aspramente: “Il padre vostro era un santo, diss’egli, e voi aveste la sfacciataggine di disonorar questa casa col delitto più detestabile: tuttavia, vi permetto di rientrare col bambino, del quale siete l’indegno padre, e per espiazione del vostro peccato vi condanno alle opere più vili e più basse, ed a servire tutti gli altri fratelli.„ Il povero fratel Marino, senza un lamento si sottomise a tutto, sempre contento e risoluto di non dir mai nulla che potesse rivelare che egli non era affatto colpevole. Il nuovo lavoro affidatogli che solo un uomo robusto avrebbe potuto sostenere, non lo scoraggiò. Dopo qualche tempo però, oppresso dalla fatica e dalle austerità dei digiuni, dovette soccombere, e poco appresso morì. L’abate caritatevolmente ordinò che gli si rendessero gli estremi onori come ad ogni altro religioso: ma che per ispirar maggior orrore per quel vizio, fosse sepolto lontano dal monastero, sicché se ne perdesse anche la memoria. Dio però volle far conoscere l’innocenza, tenuta nascosta per tanto tempo. Nel disporre la salma avendo scoperto che era una giovane: “O mio Dio, esclamarono i religiosi percuotendosi il petto, come poté questa santa figliuola soffrir con sì grande pazienza tanti obbrobri ed afflizioni, senza lamentarsi, mentre le era così facile giustificarsi?„ Corsero dall’abate, e con alte grida e lagrime in abbondanza: “Venite, padre, gli dissero, venite a vedere il fratel Marino. „ L’abate, meravigliato di quelle grida e di quelle lagrime, accorse e vide la povera giovane innocente. Fu colpito da sì vivo dolore che si gettò in ginocchio, prostrando la fronte a terra e versando torrenti di lagrime. Tutti insieme, egli ed i religiosi, esclamarono piangendo: “O santa ed innocente giovane, vi scongiuriamo per la misericordia di Gesù Cristo, di perdonarci tutte le pene e gli ingiusti rimproveri che vi abbiamo inflitti! — Ahimè, esclamava l’abate, io fui nell’ignoranza; voi aveste abbastanza pazienza per tutto soffrire, ed io troppo pochi lumi per riconoscere la santità della vostra vita.„ Fatto deporre il corpo della santa giovane nella cappella del monastero, ne recarono notizia al padre della giovane che aveva accusato fratel Marino. La povera disgraziata che aveva accusato falsamente santa Marina, era dal tempo del suo peccato ossessa dal demonio: venne tutta desolata a confessare il suo delitto ai piedi della santa, domandandole perdono. E all’istante fu liberata per sua intercessione. Vedete, F . M., come la calunnia e la maldicenza fanno soffrire poveri innocenti! quanti poveretti sono, anche nel mondo, accusati falsamente, e che nel dì del giudizio riconosceremo innocenti. Tuttavia coloro che sono accusati in questo modo debbono riconoscere che è Dio che lo permette, e che il miglior rimedio per loro è di lasciare la propria innocenza nelle mani del Signore, e non tormentarsi di quanto può soffrirne la loro reputazione: quasi tutti i santi fecero così. Vedete anche S. Francesco di Sales, accusato davanti a molti di aver fatto uccidere un uomo per vivere con la moglie di lui. Il santo rimise tutto nelle mani di Dio, non preoccupandosi della sua reputazione. A chi gli consigliava di difenderla, rispondeva che a colui che aveva permesso che la sua reputazione fosse diffamata lasciava l’incarico di ristabilirla quando gli piacesse. Siccome la calunnia è qualche cosa di ben doloroso, Dio permette che quasi tutti i santi vengano calunniati. Credo che la miglior cosa per noi in tali circostanze sia di non dir nulla, e domandare al buon Dio di tutto soffrire per amor suo, e pregare pei calunniatori. D’altra parte, Dio noi permette che per coloro sui quali ha grandi viste di misericordia. Se una persona è calunniata, è perché Dio ha stabilito di farla pervenire ad un’alta perfezione. Dobbiamo compiangere coloro che denigrano la nostra reputazione, e rallegrarci per nostro conto: perché sono ricchezze che aduniamo pel cielo. – Ritorniamo all’argomento, perché mio scopo principale è di far conoscere il male che il maldicente fa a se stesso. Vi dirò che la maldicenza è un peccato mortale, quando trattasi di cosa grave; perché S. Paolo lo mette nel numero di quelli che ci escludono dal regno dei cieli (I Cor. VI, 10). Lo Spirito Santo ci dice che il maledico è maledetto da Dio, che è abbominato da Dio e dagli umini (Abominatio hominum detractor. – Prov. XXIV, 9). – La maldicenza è altresì più o meno grave, secondo la qualità e la dignità delle persone che colpisce, o le loro relazioni con noi. Quindi è maggior peccato far conoscere le colpe ed i vizi dei superiori, come del padre e della madre, della moglie, del marito, dei fratelli, delle sorelle, dei parenti, che non quelli degli estranei, perché si deve avere più carità per loro che per gli altri. Il parlar male delle persone consacrate e dei ministri della Chiesa, è ancora maggior peccato per le conseguenze così funeste per la religione che ne derivano e per l’oltraggio che si fa al loro carattere. Ascoltate quanto ci dice lo Spirito Santo per bocca del suo profeta: “Chi parla male dei miei ministri tocca la pupilla dei miei occhi;„ (Zacc. II, 8) cioè niente può oltraggiarlo in modo così sensibile; delitto quindi sì grande è questo, che non lo potrete mai comprendere. Anche Gesù Cristo ci dice: “Chi disprezza voi, disprezza me.„ (Luc. X, 16). Perciò, F. M., quando siete con persone di altra parrocchia, che parlano sempre male del loro pastore, non dovete partecipare ai loro discorsi, ritiratevi, se potete, altrimenti tacete. Dopo ciò, F. M., converrete con me che per fare una buona confessione non basta dire che abbiamo parlato male del prossimo; bisogna anche dire se per leggerezza, per odio, per vendetta tentammo nuocere alla sua reputazione: dire di quali persone abbiamo parlato: se d’un superiore, d’un eguale, del padre, della madre, dei parenti, di persone consacrate a Dio: davanti a quante persone: tutto ciò è necessario per fare una buona confessione. Molti si ingannano su di questo: si accuseranno, è vero, d’aver parlato male del prossimo, ma senza dire di chi, né con quale intenzione; ciò che è causa di molte confessioni sacrileghe. Altri ancora, interrogati, vi risponderanno che queste maldicenze non recarono danno al prossimo. — Amico mio, vi ingannate: ogni volta che avete detto una cosa ignota a chi vi ascoltava, avete portato danno al prossimo, perché avete diminuito la buona riputazione che quegli ne poteva avere. — Ma, mi direte, quando una colpa è pubblica, non v’è nulla di male. — Amico mio, quando la cosa è pubblica, è come se alcuno avesse il corpo tutto coperto di lebbra, tranne una piccola parte, e voi diceste che poiché quel corpo è quasi tutto coperto di lebbra, bisogna ricoprirnelo interamente. È la stessa cosa. Se è un fatto pubblico, dovete anzi aver compassione del povero disgraziato, nascondere e diminuire la sua colpa quanto potete. Ditemi, sarebbe giusto se, vedendo una persona ammalata sull’orlo d’un precipizio, si approfittasse della sua debolezza e dell’esser presso a cadere per spingervela? Ebbene: ecco quanto avviene quando si rammenta ciò che è già pubblico. — Ma, mi direte, e se lo si dice ad un amico, con la promessa di non palesarlo?

— Vi ingannate ancora: come volete che gli altri tacciano, se non ne siete stati capaci voi? E come se diceste a qualcheduno: “Ecco, amico mio, voglio dirvi una cosa; vi prego di essere più saggio e discreto di me, di aver più carità di me; non ripetete a nessuno quanto vi dico.„ Credo che il mezzo migliore sia di non dir nulla: qualsiasi cosa si dica o si affermi degli altri non occupatevene, e pensate solo di guadagnarvi il cielo. Niuno si pente mai di aver detto nulla; invece ci pentiamo quasi sempre d’aver parlato troppo. Lo Spirito Santo ci dice: “Chi parla tanto, spesso falla.„ (In multiloquio non deerit peccatum. Prov. X, 19).

II— Vediamo ora le cause e gli effetti della maldicenza. Parecchi sono i motivi che ci portano a mormorare del prossimo. Alcuni lo fanno per invidia, quando specialmente persone di ugual professione vanno a gara per attirarsi la clientela: diranno male degli altri: che le loro merci non valgono nulla; ovvero che imbrogliano, che non hanno nulla in casa, che è impossibile vendere le merci ad un tal prezzo: che molti se ne lamentano che si vedrà bene che non faranno buona riuscita … ovvero che vi manca il peso o la misura. Un giornaliero dirà che un altro non è un buon operaio: che va in tante case, ma non restano contenti: egli non lavora, si diverte: ovvero, non sa il suo mestiere. “Non bisogna riferire quanto vi dirò, soggiunge, altrimenti ne avrebbe danno. „ Dovete rispondere: “Era ben meglio che non aveste parlato voi: sarebbe stato più presto fatto.„ Un contadino vede che i terreni del vicino prosperano meglio dei suoi; ciò lo affligge, ne parlerà male. Altri sparlano dei loro vicini per vendetta; se avete detto o fatto qualche cosa ad alcuno, sia pur per dovere o per carità, cercheranno di screditarvi, di inventare molte cose contro di voi per vendicarsi. Se si parla bene di colui pel quale hanno avversione, se ne affliggono, e vi diranno: “È come gli altri, egli pure ha i suoi difetti: ha fatto questo, ha detto quest’altro: non lo conoscete? è perché non avete mai avuto relazione con lui. Parecchi mormorano di orgoglio, credono di innalzarsi abbassando gli altri, dicendone male: faranno valere le loro pretese qualità buone: quanto dicono e fanno è tutto bene, e quanto dicono o fanno gli altri è male. Ma la maggior parte mormora per leggerezza, per una certa smania di parlare, senza esaminare se ciò che dicono sia vero o no: bisogna che parlino. Quantunque costoro siano meno colpevoli degli altri, di coloro cioè che parlano male per odio, per invidia o vendetta, non sono però senza peccato: qualsiasi motivo li faccia agire, feriscono sempre la riputazione del prossimo.

Credo che il peccato della maldicenza racchiuda quanto v’ha di più malvagio. Sì, F. M., questo peccato contiene il veleno di tutti i vizi, la piccineria della vanità, il tossico della gelosia, il rancore della collera, il fiele dell’odio, e la leggerezza così indegna di u n Cristiano: ciò fa dire a S. Giacomo apostolo: “La lingua del maldicente è piena di veleno mortale, è una sentina di iniquità.„ (Giac. III, 8).  E se vogliam darci la pena di esaminarlo, nulla è più facile a comprendersi. Non è infatti la maldicenza che quasi dappertutto semina la discordia, la disunione tra gli amici, impedisce la riconciliazione tra i nemici, turba la pace delle famiglie, inasprisce il fratello contro il fratello, il marito contro la moglie, la nuora contro la suocera, il genero contro il suocero? Quante famiglie in buona armonia, messe sossopra da una lingua cattiva, e i loro membri non possono più né vedersi né parlarsi. Quale la causa? Solo la lingua cattiva del vicino o della vicina … Sì, F. M., la lingua del maldicente avvelena tutte le buone azioni, e svela tutte le cattive. Essa tante volte, getta sopra una famiglia intera macchie che passano di padre in figlio, da una ad altra generazione, e forse non si cancelleranno mai più! La lingua maledica va a frugare anche nelle tombe dei morti, smuove le ceneri di questi poveri infelici, facendone rivivere, cioè rammentando i loro difetti, sepolti con essi nella tomba. Quale enormità, F. M.! Di quale indignazione non sareste accesi, se vedeste un miserabile accanirsi contro un cadavere, straziarlo, dilaniarlo? Ciò vi farebbe inorridire. Ebbene, è assai più grande il delitto di chi rammenta le colpe d’un povero morto. Quante persone hanno l’abitudine parlando di un morto: “Ah! ne ha fatte ai suoi tempi! era un ubbriacone perfetto, un furbo matricolato, insomma un essere cattivo.„ Ahimè, amico mio, probabilmente vi ingannate; e fosse anche come dite, egli ora è forse in cielo, il buon Dio gli ha perdonato. Ma dove è la vostra carità? Non vedete che dilacerate la reputazione dei suoi figli, se ne ha, o dei parenti? Sareste contento che si parlasse così dei vostri cari, che son morti? Se portassimo in cuore la carità, non avremmo nulla da dire di nessuno; cioè ci affanneremmo ad esaminare soltanto la nostra condotta, e non quella del prossimo. Ma se lasciate da parte la carità, non troverete un uomo sulla terra, nel quale non sia facile scoprire qualche difetto: e la lingua del maldicente trova sempre da criticare. No, F. M., conosceremo solamente nel gran giorno delle vendette il male fatto da una lingua maledica. Vedete: la sola calunnia da Aman fatta contro i Giudei, perché Mardocheo non volle piegare il ginocchio davanti a lui, aveva determinato il re a far morire tutti i Giudei (Esther III, 6). Se la calunnia non fosse stata scoperta, la nazione giudaica sarebbe stata distrutta: era il progetto di Aman. O mio Dio! quanto sangue sparso per una calunnia! Ma Dio, che non abbandona mai l’innocente, permise che quel perfido perisse dello stesso supplizio da lui destinato ai Giudei (Ibid, VII, 10). – Ma senza andare tant’oltre, quanto male non fa chi ad un figlio dirà male di suo padre, della madre sua o dei padroni! Gliene avete dato un cattivo concetto, egli li guarderà con disprezzo: se non temesse di venir punito, li oltraggerebbe. I padri, le madri, i padroni, le padrone li malediranno, li maltratteranno: chi fu la causa di tutto ciò? La vostra cattiva lingua. Avete parlato male dei sacerdoti, e forse del vostro parroco: avete affievolito la fede in chi vi ascoltava, ed essi hanno abbandonato i Sacramenti, vivono senza religione: di chi la colpa? della vostra cattiva  lingua. E per vostra causa che questo negoziante e quell’operaio non hanno più i loro clienti; voi li avete diffamati. Quella donna, cosi in buona armonia col suo marito, l’avete calunniata presso di lui: ora egli non la può più soffrire; sicché dopo le vostre delazioni, v’è solo odio e maledizioni in quella casa.

III. Se gli effetti della maldicenza, F. M., sono così terribili, la difficoltà di ripararvi non è meno grande. Quando la maldicenza è considerevole, F. M., non basta confessarsene: non voglio dire di non confessarsene: no, – F. M., se non confessate le vostre maldicenze sarete dannati nonostante tutte le penitenze, che possiate fare: ma voglio dire che confessandole, bisogna assolutamente, se si può, riparare il danno che la calunnia ha causato al prossimo: e come il ladro che non restituisce la cosa rubata non vedrà mai il cielo, così chi avrà tolto la riputazione al prossimo, non entrerà mai in cielo, se non fa quanto dipende da lui per riparare la riputazione del prossimo offesa. Ma, mi direte, come si deve fare per riparare la riputazione del prossimo offesa ? — Ecco. Se quanto è stato detto contro di lui è falso, bisogna assolutamente andare da tutti quelli coi quali abbiamo parlato male, dicendo che quanto abbiamo detto era falso, era per odio, per vendetta o per leggerezza; anche se dovessimo passare per bugiardi, ingannatori, impostori, dobbiamo farlo. Se quanto abbiamo detto è vero, non possiamo disdirci, perché non è permesso di mentire: ma si deve dire tutto il bene che si conosce di quella persona, affine di riparare al male raccontato. Se questa maldicenza, questa calunnia hanno prodotto qualche danno, si è obbligati di ripararlo più che si può. Giudicate da questo, F . M., quanto è difficile riparare gli effetti della maldicenza. Vedete, F. M., quanto è faticoso il pubblicare che siamo bugiardi, eppure, se quanto dicemmo è falso, bisogna farlo, altrimenti noi non si va in cielo! Ahimè, F. M., questa mancanza di riparazione dannerà il mondo! Il mondo è ripieno di maldicenti e di calunniatori, e quasi nessuno ne fa riparazione: e quindi quasi nessuno si salverà. È come riguardo alle cose rubate; andremo dannati, se, potendolo, non vogliamo restituire. Ebbene, F. M., comprendete voi ora il male che fate colla lingua, e la difficoltà di ripararvi? Bisogna però capire che non tutto è maldicenza, quando si fanno conoscere le colpe d’un figlio ai genitori, d’un domestico al padrone, purché si faccia perché si correggano, e se ne parli a chi può rimediarvi; e sempre guidata da motivi di carità. Finisco dicendo che non solo è male il mormorare e il calunniare, ma anche l’ascoltar con piacere la maldicenza e la calunnia: perché se nessuno ascoltasse, non vi sarebbero i maldicenti. Così facendo ci rendiamo complici di tutto il male che fa il maldicente. S. Bernardo ci dice che è ben difficile sapere chi è più colpevole chi sparla o chi ascolta: l’uno ha il demonio sulla lingua, l’altro nelle orecchie. — Ma, mi direte, che si deve fare quando ci troviamo in una compagnia di maldicenti? — Ecco. Se è un inferiore, cioè una persona al di sotto di voi, dovete imporgli silenzio subito; mostrandogli il male che fa. Se è una persona di ugual condizione, dovete destramente cambiare il discorso parlando di altra cosa, o facendo mostra di non sentire quanto dice. Se è un superiore, cioè una persona al disopra di voi, non bisogna riprenderla: ma tenere un contegno serio e triste, che gli riveli il vostro dispiacere, e, se potete andarvene, dovete farlo. – Che dobbiam concludere da tutto ciò, F . M.? Ecco: non prendiamo l’abitudine di parlare della condotta altrui; pensiamo che molto si potrebbe dire sul nostro conto, se ci conoscessero quali siamo; e fuggiamo le compagnie del mondo quanto possiamo, dicendo spesso come S. Agostino: “Mio Dio, fatemi la grazia di conoscermi quale sono.„ Fortunato! Mille volte fortunato chi adoprerà la lingua solo per domandare  a Dio perdono de’ suoi peccati e cantare le lodi del Signore! È quanto io …

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2020)

XV DOMENICA DOPO PENTECOSTE.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani – comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La Lezione dell’Ufficio in questo giorno coincide spesso con quella del libro di Giobbe. Questo pio e ricco signore del paese di Hus, dapprima ripieno d’ogni bene, fu colpito dai mali più spaventosi che si possono quaggiù immaginare. « satana, dicono le Sacre Scritture, si presentò un giorno avanti a Dio e gli disse: Circuivi terram, ho percorsa tutta la terra e ho visto come hai protetto Giobbe la sua casa, le sue ricchezze. Ma stendi la tua mano su di lui e tocca quello che possiede e vedrai come ti maledirà. Il Signore gli rispose: Va: tutto quello che lui possiede è in tuo potere, ma non togliergli la vita. E satana uscì dal cospetto del Signore. E ben presto Giobbe perdette il bestiame, i beni, la famiglia e fu colpito da Satana con un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi fino alla testa ». E Giobbe, disteso su un letamaio, fu costretto a togliere il putridume delle sue ulceri con un coccio » La Chiesa, pensando alla malizia di Satana, ci fa domandare di essere sempre difesi contro gli assalti del demonio, contra diabolicos incursus (Segr.). satana ha l’impero della morte e, se Dio lo lasciasse fare, dicono i Padri, egli toglierebbe a tutti gli esseri la vita che posseggono. S. Paolo definisce una sua malattia: «L’angelo di satana che lo colpisce «. Ed il demonio, dice la S. Scrittura, riduce Giobbe a un punto tale, che il santo uomo può gridare: « Il soggiorno dei morti è diventato la mia dimora, io ho preparato il mio giaciglio nelle tenebre, e ho detto al marciume: tu sei mio padre; alla putredine: madre mia, sorella mia. (XVII, 14). Le mie carni si sono consumate come un vestito roso dai tarli, e le mie ossa si sono appiccicate alla mia pelle ». Così la Chiesa applica ai Defunti il disperato appello che Giobbe fece allora ai suoi amici: «Abbiate pietà di me almeno voi, o amici, poiché la mano del Signore m’ha colpito «. Ma il suo appello rimase senza risposta; Giobbe allora si rivolse verso Dio e gridò con una salda speranza: « Io so che il mio Redentore vive e ch’io risusciterò dalla terra l’ultimo giorno; che sarò di nuovo rivestito della mia pelle e nella mia carne rivedrò il mio Dio. Lo vedrò io stesso e i miei occhi lo contempleranno: questa speranza riposa nel mio cuore ». E Giobbe descrive la gioia con la quale ascolterà un giorno la voce di Dio che lo chiamerà a una vita nuova: «Tu mi chiamerai e io ti risponderò, tu stenderai la tua destra verso l’opera delle tue mani ». – « Il Signore, mettendo fine ai mali che lo travagliavano, gli rese il doppio di quello che possedeva prima e lo colmò di benedizioni più negli ultimi anni di vita che non nei primi ». — La Chiesa, raffigurata in Giobbe, domanda a Dio « di essere purificata, protetta, salvata e governata da Lui » (Oraz.). Col Salmo dell’Introito essa dice: « Rivolgi, o Signore il tuo occhio verso di me ed esaudiscimi, che io sono povera e mancante di tutto (Versetto 1°). Signore, abbi pietà di me, che ho gridato verso di te tutto il giorno. Vieni alla mia anima che io ho elevata fino a te (Versetto 4°). Io ti loderò, o Signore, poiché mi hai liberato dall’inferno più profondo (Versetto 13°)». Co! Salmo dell’Offertorio essa aggiunge: « Io ho atteso il Signore con perseveranza, ed Egli infine si è volto verso di me, ha esaudita la mia preghiera e ha messo sulle mie labbra un cantico nuovo». Questo cantico è quello delle anime cristiane risuscitate alla vita di grazia. « È bello, esse dicono, lodare il Signore e annunciare la sua grande misericordia » (Grad.). « Sì, davvero il Signore è il Dio onnipotente, il Gran Re che regna su tutta la terra » (All.).L’Epistola di S. Paolo è intieramente consacrata alla vita soprannaturale che lo Spirito Santo dà o rende alle anime. « Se noi viviamo per lo Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito», cioè siamo umili, dolci, caritatevoli, verso quelli che cadono, ricordandoci che noi siamo deboli e che di fronte al supremo Giudice porteremo il fardello delle nostre colpe personali. Contraccambiamo generosamente con beni temporali (denaro, cibi vesti) le persone che ci predicano la parola di Dio (divina parola che dà la vita) e non indugiamo, perché Dio non tollera che ci burliamo di Lui. Il raccolto sarà conforme alla natura della semenza gettata. Seminiamo opere piene di spirito soprannaturale e mieteremo la vita eterna. Non tralasciamo un istante di fare il bene. Evitiamo le opere della carne che sono la mancanza di carità, l’orgoglio, l’avarizia e la lussùria, poiché quelli che commettono peccati sono morti alla vita di grazia e non mieteranno che corruzione. Usciamo, dunque, dalla morte e viviamo come veri risuscitati.

— Il Vangelo ci dà questo stesso insegnamento raccontandoci la risurrezione del figlio della vedova di Naim. Gesù, vedendo il dolore di questa madre, fu mosso a compassione: si accostò al feretro e toccando il morto disse: «Giovinetto, te lo comando, alzati! ». E subito il morto si levò e cominciò a parlare. E tutti glorificavano Iddio dicendo; « un grande profeta è apparso in mezzo a noi e Dio ha visitato il suo popolo ». Il Verbo facendosi carne si è accostato alle anime che giacevano nella morte del peccato, e, commosso dalle lacrime della Chiesa, nostra madre, le ha resuscitate alla vita della grazia. Poi, mediante l’Eucaristia ha posto nei corpi un germe di vita, affinché essi risuscitino nell’ultimo giorno (Com.). — Fa, o Signore, che il nostro corpo e la nostra anima siano interamente sottomessi alla influenza dell’Ostia divina, affinché l’effetto di questo sacramento domini sempre in noi (Postcom.). – Vivificati dallo Spirito Santo, solleviamo con sollecitudine quelli che sono morti alla vita della grazia, aiutiamo con le nostre sostanze quelli che con la parola della verità diffondono la vita dello Spirito, e promuovono sempre più in noi la vita soprannaturale che abbiamo ricevuta nel Battesimo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXXV: 1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]


Ps LXXXV: 4
Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.

[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’anima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.

[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; 6: 1-10

Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

[Fratelli: Se viviamo di spirito, camminiamo secondo lo spirito. Non siamo avidi di vanagloria, provocandoci a vicenda, a vicenda inviandoci. Fratelli, quand’anche uno venisse sorpreso in qualche fallo, voi che siete spirituali ammaestratelo con lo spirito di dolcezza, e bada a te stesso che tu pure non cada nella tentazione. Gli uni portate i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. Poiché, se alcuno crede di essere qualche cosa, e invece non è nulla, costui inganna sé stesso. Piuttosto ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi soltanto in se stesso, e non nel confronto con gli altri. Perché ciascuno porterà il proprio fardello. Chi poi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i beni a chi lo istruisce. Non vogliate ingannarvi: Dio non si lascia schernire. Ciascuno mieterà quello che avrà seminato. Così, chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà corruzione: chi, semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non stanchiamoci dunque dal fare il bene; poiché se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo. Perciò mentre abbiamo tempo facciamo del bene a tutti, e in modo speciale a quelli che, per la fede, sono della nostra famiglia.]  

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

CONOSCI TE STESSO

L’Epistola di quest’oggi è la continuazione di quella della domenica scorsa, nella quale si inculcava di vivere secondo lo spirito. Per vivere secondo lo spirito, prosegue l’Apostolo, bisogna fuggire la vanagloria e l’invidia. Si deve correggere chi sbaglia con spirito di dolcezza; tutti hanno a sopportarsi vicendevolmente. Persuasi del proprio nulla, devono esaminar spassionatamente le proprie azioni. Siamo, inoltre, generosi con chi ci istruisce nella fede. E conclude esortando di non stancarci di fare il bene, essendo la nostra vita il tempo della semina. Se in questa vita non ci stancheremo a seminare nello spirito, a suo tempo, mieteremo la vita eterna. – Accogliamo l’invito di S. Paolo, a esaminare le nostre opere. Questo esame:

1 È necessario, data la nostre debolezza.

2 Dev’essere spassionato.

3 Deve prendere a guida il Vangelo.

1.

Non siamo avidi di vana gloria. Se l’uomo conoscesse bene se stesso, si convincerebbe che non ha troppi motivi di vanagloriarsi. La dignità dell’uomo è certamente grande. Dio lo ha costituito re del creato. Noi ammiriamo certi appartamenti dei palazzi reali. Tappeti, arazzi, quadri, affreschi, intarsi, fermano l’attenzione del visitatore, che non sa staccarsi da quelle sale. Queste sono le abitazioni che gli uomini hanno preparato per i re di questo mondo. Senza confronto più splendida è l’abitazione che Dio ha preparato per l’uomo. Salomone, nello splendore e nel lusso superò tutti i re d’Israele. Pure Gesù dichiara che un giglio del campo, cresciuto senza alcuna cura di giardiniere, veste più splendidamente di Salomone. E quel che si dice del giglio, si dica di tutta la creazione, che Dio ha apparecchiata per dimora dell’uomo. Nessun tappeto può gareggiare con la magnifica armonia di verde e di fiori, che ornano le nostre pianure, con lo strato di candida neve che copre le vette dei monti. Nessun pennello potrà uguagliare, riproducendole, certe scene della natura. Dev’esser pur grande l’uomo, se Dio ha preparato per lui una tale abitazione. Molto più grande ancora ci appare, se consideriamo la sua creazione. Dio, creandolo, disse: «Facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra, e abbia potere sui pesci del mare e su gli uccelli del cielo, e su tutti gli animali e su tutta la terra» (Gen. I, 26). L’uomo, creato a somiglianza di Dio, è da Lui costituito re della creazione. Quale grandezza e quale dignità! Si comprende come Davide, rivolto a Dio, esclamasse: «Chi è mai l’uomo? Tu l’hai fatto di poco inferiore agli Angeli, l’hai coronato di gloria e di onore; gli hai dato il dominio su le opere delle tue mani, e ogni cosa hai posto sotto i suoi piedi» (Ps. VIII, 5-7). – Ma lo stesso Davide domanda ancora: « O Signore, che cosa è l’uomo, a cui hai voluto farti conoscere, o il Figlio dell’uomo che tu ne fai conto? L’uomo è simile al nulla, i giorni di lui passano come ombra» (Ps. CXLIII, 3-4). È questo dal lato fisico. Dal lato morale egli è costretto ogni giorno a confessare: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole » (Matth. XXVI, 41). Se l’uomo dovesse pensare alla instabilità della sua vita e alle miserie che l’accompagnano, invece di coltivare la vanagloria per la sua dignità, dovrebbe esaminare, se a questa dignità non venga meno con la sua condotta. Nessuno vorrà certamente confondere la dignità con la virtù. La dignità dell’uomo, creato a somiglianza di Dio, non gli impedisce di scendere al livello degli animali irragionevoli. E siccome le azioni che non corrispondono alla sua dignità saranno un giorno giudicate da Dio, la più elementare prudenza suggerisce di prevenir questo giudizio, col metterci noi a giudicar noi stessi; e così vedere, dove c’è da continuare, dove c’è da riformare. È un giudizio che non bisogna, naturalmente, ripetere sempre, perché la chiamata al giudizio di Dio può venire da un momento all’altro.

2.

Se alcuno crede di essere qualche cosa, mentre non è nulla, costui illude se stesso. E noi siamo veramente nulla. Anche se presentemente uno non è peccatore, non deve credersi qualche cosa. « Avessi anche esercitato la virtù dai primi anni, avrai anche commessi molti peccati. Che se credi di non averne, pensa che questo non avvenne per tua virtù, ma per la grazia di Dio » (S. Giov. Cris. In Ep. Ad Tit. Hom. V, 3). Ma è poi proprio vero che sei senza peccati? È tanto facile illudersi! « Se vi fu peccato in cielo, quanto più in terra? Se vi fu delitto in quelli che sono liberi dalla tentazione corporale, quanto più in noi che siamo circondati da una carne fragile e diciamo con l’Apostolo: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte?» (S. Girol. Epist. 122, 3 ad Rust.). La nostra illusione deriva dal fatto che non conosciamo noi stessi. Ci sono di quelli che conoscono a meraviglia città e paesi molto lontani, e non conoscono i luoghi che confinano col loro paese o con la loro città. Ci sono quelli che parlano speditamente lingue straniere, e non sanno parlare la lingua propria. Ci sono Cristiani che conoscono le mancanze e i difetti degli altri e non conoscono le mancanze e i difetti propri. Il Battista, ai sacerdoti e ai leviti mandati dai Giudei a interrogarlo, risponde, parlando del Messia: « In mezzo a voi sta uno che non conoscete » (Joan. I, 26). Questa risposta è a proposito di un gran numero di Cristiani.

— In mezzo a voi sta uno che non conoscete: non conoscete il vostro cuore; non conoscete il vostro interno. Non vi date cura di osservare se l’anima vostra conserva ancora la grazia di Dio, o se l’ha perduta, se i vostri affetti sono per Dio o per il mondo. — E non conoscendo il nostro interno, non possiamo essere che degli illusi. –  Generalmente non si vuole interrogare il proprio interno, perché si ha paura delle risposte che ci potrebbe dare. Se la nostra coscienza ci rivelasse sempre cose a noi grate, non avremmo difficoltà a interrogarla. S. Paolo, in mezzo dell’Areopago di Atene, tiene un mirabile discorso, che attira l’attenzione di tutti. Ma quando viene a parlare del giudizio e della risurrezione dei morti la scena cambia. « Sentita nominare la risurrezione dei morti; gli uni se ne burlarono, gli altri poi dissero: Ti ascolteremo sopra di ciò un’altra volta » (Act. XVII, 32). Quella verità non piaceva ai superbi o gaudenti filosofi della Grecia: bisognava far tacere, bellamente, chi ne parlava, e licenziarlo. Quando i responsi della coscienza non ci piacciono, quando da essa si leva qualche voce ammonitrice, cerchiamo di tutto per farla tacere. — T’ascolteremo un’altra volta — diciamo dentro di noi. E intanto il danno è tutto nostro. Un uomo d’affari, non si contenta di esaminare l’attivo, ma esamina con attenzione il passivo, altrimenti non saprà mai come guidarsi nei suoi affari. Noi dobbiamo interrogare la nostra coscienza non con il proposito di trovarvi tutto bene; ma con il proposito di trovarla qual è realmente. Non solamente dobbiamo interrogare la coscienza su quel che abbiamo, ma anche, e specialmente, su quel che ci manca. «Perciò — dice S. Bernardo — non sii pigro nell’indagare che cosa ti manca, né di arrossire di confessare che qualche cosa ti manca» (De cons. l. 2. c. 7). – Coloro che negli affari riscontrano delle perdite, indagano le cause per poter porvi rimedio; così devesi fare anche quando si esamina la propria coscienza. A un esame superficiale non si scorgeranno sempre queste cause, ma a un esame diligente esse non possono sfuggire. – Un foro praticato da una talpa, da una biscia, la penetrazione d’una radice di albero nell’argine d’un fiume, in tempo di piena, sotto la pressione della corrente, possono facilmente aprir la via all’acqua, che, aumentando sempre più, aprirebbe una breccia nell’argine, e andrebbe a riversarsi sulle campagne. I profani passano sull’argine del fiume, senza badare a queste piccolezze: ma gli incaricati, esaminano l’argine attentamente e frequentemente; e quando scorgono uno di questi piccoli guasti, con la costruzione della coronella, un piccolo argine esterno di forma arcuata, provvedono a eliminare il pericolo. — Certe tendenze, trascurate perché sono ancora deboli, certe mancanze di cui non facciamo conto, perché non ci tolgono la grazia di Dio, ci possono predisporre sotto la violenza delle passioni, in circostanze impreviste, a dei gravi crolli spirituali. Un’occhiata attenta anche ad esse nel nostro esame.

3.

Si dice che la più difficile cosa che vi sia, è conoscer se stesso. I motivi di questa difficoltà sono molti. Non ultimo, però, è la falsa norma che si adotta per conoscer se stessi. Generalmente si giudica se stessi nel confronto con gli altri; e così avviene che crede di aver motivo di gloriarsi chi, giudicato davanti a Dio, non avrebbe che motivo di arrossire. È un sistema molto comodo di accontentar il nostro amor proprio, e di esimerci dall’obbligo di migliorar noi stessi. Se nessuno va esente da mancanze, o per lo meno, da difetti, è facile trovarli in coloro che ci circondano. Ma il nostro egoismo non ci lascia vedere che i difetti degli altri: non ce ne lascia scorgere la virtù. Inoltre, ci dà occhi di lince per vedere quello che fa il prossimo, e ci lascia ciechi per vedere quel che facciamo noi. Siamo come quelle macchine, che coi loro fanali gettano fasci di luce che rischiarano la strada, ma esso rimangono nell’oscurità. È facile, con questo sistema, il ragionamento: “in fondo, sono migliore di tanti altri; non faccio quel che fanno essi, quindi posso esser tranquillo. Se si salveranno essi, a maggior ragione mi salverò io”. Contro questa illusione ci premunisce l’Apostolo: Ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi in se stesso. Non ci dice: Confrontate le vostre azioni con quelle del vostro prossimo. Se in qualche cosa vi trovate migliori del prossimo vostro, state tranquilli: non avete più nulla da fare. Ci dice: Ciascuno esamini le proprie opere. Il che vuol dire : «Esaminiamo noi stessi e le nostre opere per vedere se vengono da Dio» (S. Efrem. in h. 1). Le azioni del prossimo non centrano, dunque, pur nulla in questo affare del nostro esame. Per vedere se le nostre azioni vengono da Dio, non abbiamo che da confrontarle con la dottrina del Vangelo. – Il Vangelo è una norma infallibile, e prendendolo per norma nel nostro esame non cadremo nel pericolo di essere ingannati. Mettendo la nostra coscienza di fronte al Vangelo, vedremo ciò che c’è da levare, ciò che c’è da aggiungere. Uno troverà che è dominato dalla superbia, l’altro dall’avarizia. Questi vedrà che è schiavo dell’ira, quell’altro dell’invidia, della lussuria, della gola. Chi, alla fine della giornata, trova che non ha messo via nulla di buono per l’eternità, si persuaderà che è un servo inutile. – Confrontando le nostre azioni con la legge di Dio, conosceremo veramente noi stessi. Siccome però, « ogni uomo, quantunque santo, quantunque giusto, quantunque progredito, in molte cose è un abisso » (S. Agostino. Enarr. in Ps. XLI, 13), domandiamo a Dio che ci aiuti ad acquistar questa conoscenza, dicendogli con Davide: «Scrutami, o Dio, ed esamina il mio Cuore: interrogami e ti siano manifesti i miei pensieri, E vedi se è in me la via dell’iniquità, e guidami per la vita eterna» (Ps. CXXXVIII, 23-24).

Graduale

Ps XCI: 2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime.

[È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]
V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemm.

[È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV: 3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja.

[Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.

[“In quel tempo avvenne che Gesù andava a una città chiamata Naim: e andavan seco i suoi discepoli, e una gran turba di popolo. E quand’ei fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato fuori alla sepoltura un figliuolo unico di sua madre, e questa era vedova: e gran numero di persone della città l’accompagnavano. E vedutala il Signore, mosso di lei a compassione, le disse: Non piangere. E avvicinossi alla bara, e la toccò (e quelli che la portavano si fermarono). Ed egli disse: Giovinetto, dico a te, levati su; e il morto si alzò a sedere, e principiò a parlare. Ed egli lo rendette a sua madre. Ed entrò in tutti un gran timore; e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi; e ha Dio visitato il suo popolo” (Luc. VII, 11-16).]

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la morte.

Ecce defunctus efferebatur filius unicus matris suæ-

Luc. VII.

Fermiamoci, fratelli miei, a considerare qualche tempo lo spettacolo compassionevole che l’odierno Vangelo ci mette avanti gli occhi: gli è un figliuolo teneramente amato, unica consolazione di una madre che fondava su di lui grandi speranze, e la morte lo ha mietuto nella primavera de’ suoi giorni. Convien forse stupirsi di veder questa madre immersa nel più amaro dolore, spargere torrenti di lagrime accompagnando una pompa altrettanto luttuosa, quanto inaspettata? Egli è dunque vero, miei cari uditori, che la morte non rispetta alcuno, che così i giovani come i vecchi sono soggetti ai suoi colpi, e che né il vigore dell’età, né la forza del temperamento non possono preservarcene. – Accostatevi al feretro di questo giovane, voi tutti che mi ascoltate, e vedrete il termine fatale a cui vanno le grandezze, le ricchezze, i piaceri e le lusinghe del mondo. Ah! che la vista del sepolcro è ben possente a staccarci dalla vita, a farci abbandonar il peccato, a portarci alla penitenza e alla pratica di tutte le virtù cristiane! Il pensiero della morte è amaro, è vero, a chiunque non ama la vita se non per godere dei beni e dei piaceri che ella presenta, perché quest’idea gli rammenta con dolore che deve un giorno lasciarli: ma benché molesta sia e dolorosa la sua rimembranza, nulla vi è di più salutevole; poiché vi si trova il rimedio a tutti i vizi, e i motivi più forti per praticare la virtù. Pensiamo dunque alla morte, fratelli miei, e pensiamoci sovente; si è il mezzo di prepararci ad essa come conviensi. E per trattare questo soggetto con ordine, due cose noi considereremo nella morte: la sua certezza e la sua incertezza. – Nulla di più certo che la morte; noi dobbiamo dunque prepararci alla morte primo punto; nulla di più incerto che il tempo della morte; dobbiamo dunque tenerci pronti in ogni tempo, secondo punto.

I . Punto. Noi morremo tutti, miei cari fratelli: Statutum est hominibus semel mori (Hebr. IX). Ma quand’anche Dio medesimo non si spiegasse così chiaramente sul nostro destino, noi non avremmo per chiarircene che a gettare gli occhi su ciò che accade al di fuori e al di dentro di noi. La terra che noi calchiamo coi piedi ci dice nel suo linguaggio che saremo un giorno rinchiusi nel suo seno. Quei morti che noi diamo seppellire ci avvertono che noi dobbiamo seguirli ben tosto: Hodie mihi, cras tibi. Noi prendiamo una strada ove voi camminerete necessariamente come noi. Portiamo ancora al di dentro di noi il principio e la risposta della morte, dice l’Apostolo. L’età, le malattie, i travagli indeboliscono la nostra sanità e precipitano ogni giorno verso la sua rovina la casa terrestre del nostro corpo. Ogni passo che facciamo ci conduce alla tomba, e fra poco andremo noi ad abitare con gli altri in quel tetro e nero soggiorno dei mortali: nulla di più certo, nulla di più inevitabile. – Senza fermarmi di più a provarvi una verità di cui la giornaliera esperienza deve convincerci, procuriamo in quest’oggi, fratelli miei, di penetrare il senso della sentenza di morte portata contro tutti gli uomini, e di farvene vedere l’esecuzione, a fine di trarre da questo principio le conseguenze salutevoli che contiene. Questa sentenza dee eseguirsi sopra tutti gli uomini: Statutum est hominibus. Non deve eseguirsi che una volta sola: Semel mori; due circostanze che ci devono indurre a prepararci alla morte. Appena il primo uomo ebbe trasgredito il comando del Signore, che in punizione della sua disubbidienza fu condannato alla pena di cui era stato minacciato; ma non fu già contro lui solo pronunciata la sentenza; siccome tutti i suoi figliuoli hanno parte al suo delitto, così furono compresi nel suo castigo. La morte è divenuta lo stipendio di quel peccato: Stipendia peccati mors (Rom. VI). Infatti, sin da quel momento si vide effettuarsi nella posterità di Adamo quella terribil minaccia che Dio gli fece: Morte morieris (Gen. II) voi morrete; ella è cosa stabilita: Statutum est; voi morrete, cioè un giorno voi uscirete da questo mondo come vi siete entrati. Dopo aver dimorato un certo numero di giorni, che Dio vi ha fissati, il tempo finirà per voi, e non sarete più del numero dei viventi: Morte morieris. Voi morrete, cioè un giorno voi lascerete beni, case, parenti, piaceri, società; voi non avrete più commercio con gli uomini. La terra, la putredine, i vermi diverranno il vostro retaggio; essi vi terranno il luogo di padre, di madre, di fratelli, di sorelle: Putredini dixi pater meus es, mater mea, et soror mea vermìbus (Job. XVII), Voi morrete, cioè verrà un giorno in cui gli occhi vostri non vedranno più, le vostre orecchie più non udiranno, la vostra bocca non parlerà più, le vostre mani non agiranno più, i vostri piedi più non cammineranno: dopo il momento in cui la vostr’anima sarà separata dal vostro corpo, questo corpo di cui vi prendete tanta cura non sarà più riguardato che come un oggetto di orrore. Egli sarà posto in un feretro e si porterà nella terra per involarlo alla vista degli uomini. Ah! che diverrà allora quella carne nutrita con tante delicatezze, quella bellezza conservata con tanti artifizi? Ella diverrà, fratelli miei, quel che sono già divenuti tanti altri, che voi avete veduto spirare sotto ai vostri occhi per diventare il pascolo dei vermi. Se ne dubitate, andate in quelle tombe a vedere il destino di coloro che vi sono rinchiusi: tale sarà il vostro: Veni et vide (Jo. XI). Venite e mirate in quel sepolcro lo stato, ove la morte ha ridotto quella persona che avete conosciuta, con cui avete vissuto alcuni mesi, alcuni giorni sono: Veni et vide. Mirate quella carne putrefatta, corrosa dai vermi, che esala un odore insopportabile; mirate quelle ossa spolpate sparse qua e là; quel capo sfigurato. Riconoscete voi quella persona? Distinguete voi quel ricco dal povero, quel grande dal piccolo, quella bellezza che incantava gli occhi del mondo, su cui voi ancora gettati avete illeciti sguardi? Ah! qual cangiamento la morte ha fatto in sì pochi giorni? – Tale è, fratelli miei, la sorte che dovete voi medesimi aspettarvi; quei morti sono stati quel che voi siete, sì ricchi che voi, altrettanto ed anche più distinti che voi: voi sarete un giorno quel che sono essi, cioè terra, cenere e polvere: Qaod vos estis, nos fuimus, et quod nos sumus, vos eritis. Ah! Che questa vista del sepolcro è capace di staccarci dalla vita, dal mondo e da noi medesimi! Ella è che ha fatti i santi con le impressioni salutevoli che ne hanno ricevute. Testimonio un Francesco Borgia, il quale vedendo nel feretro il corpo della più bella principessa del suo secolo, la trovò sì sfigurata che formò sin da quel momento il disegno di abbandonar il mondo per non attaccarsi che a Dio. Questa vista del sepolcro produrrebbe in noi i medesimi effetti, se ci riguardassimo sovente in quello specchio, che ci rappresenta ai naturale ciò che noi tutti saremo un giorno. – Imperciocché finalmente, fratelli miei, non v’è alcuno di noi che sfuggir possa ai formidabili colpi della morte: statutum est hominibus. Ella non risparmia alcuno, colpisce i ricchi come i poveri, i sapienti come gl’ignoranti, i re sul trono, come i sudditi nelle loro capanne; nulla può placarla o resisterle. Invano per difendersene i potentati dell’universo farebbero radunare tutte le loro forze; invano porrebbero in uso tutte le scienze e tutte le arti: può bensì taluno prolungar la sua vita di qualche giorno, ma tosto o tardi convien morire. Da che il mondo sussiste, si è forse veduto qualcheduno esente da questa legge? Quanti re conquistatori di nazioni che non sono più? Quanti grandi del mondo, ricchi, sapienti, la cui gloria si è terminata al sepolcro? Quante persone abbiamo noi medesimi vedute con cui siamo vissuti? Quanti dei nostri parenti, dei nostri amici sono di già ridotti in polvere! Essi sono passati: noi passeremo come essi, e verrà il giorno in cui si dirà di noi quel che si dice di essi: non è più, non vive più, è morto. – Ah! quanto questo pensiero: un giorno io non sarò più sulla terra, è capace di staccarci dalla vita d’inspirarci un generoso dispregio per tutto quello, che chiamasi grandezze, ricchezze, fortuna, stabilimenti vantaggiosi, allegrezza, piaceri, divertimenti del secolo! Tutto deve terminar nel sepolcro, e nulla ne porteremo con noi: pensiamo a questa verità, che è il mezzo di prepararci a ben morire. Mentre in che consiste questo apparecchio alla morte? A vivere in un intero distacco dalle cose del mondo e rinunciare al peccato, alle occasioni del peccato. Or nulla di più capace che il pensiero della morte a produrre in noi questi effetti. Come potrebbe alcuno staccarsi dal mondo, se lo riguardasse con l’Apostolo come una figura che passa? Come ricercherebbe egli i beni, gli onori, i piaceri del mondo, che sono i funesti prìncipi del peccato, se li rimirasse nel medesimo punto di vista, che li vedrà all’ora della morteæ? Praeterit figura huius mundi (1 Cor. VII.) Grandi del mondo che vi riputaste superiori agli altri a cagione del grado che occupate, e degli onori che vi si rendono, sareste voi dunque sì fortemente invaghiti di questi onori che fomentano il vostro orgoglio, se pensaste che passeranno come fumo, se rimiraste il sepolcro come lo scoglio inevitabile della grandezza, della nobiltà e della gloria? Avreste voi in dispregio gli altri, se rifletteste che la morte vi uguaglierà con il più vile degli uomini? Vos autem sicut homines moriemini (psal. LXXXI). Ricchi della terra che tanto vi affannate per accrescere i vostri tesori o formarne, e per acquistare eredità, come potreste voi attaccarvi ai beni frivoli e caduchi, se foste convinti che quei beni passeranno in altre mani, che nulla porterete con voi; che quelle case fabbricate con tante spese, quelle camere così artificiosamente addobbate saranno abitate da altri e che voi non avrete per dimora che un sepolcro? Solum mihi superest sepulchrum (Giob. II). E voi che, senza far conto del solo affare degno delle vostre attenzioni, cioè della vostra salute, non pensate che ad appagare passioni brutali, accordereste voi a quelle passioni ciò che domandano, se pensaste che quei corpi che nutrite con delicatezza, che abbandonate all’intemperanza, saranno un giorno il pascolo dei vermi? Convien forse far tante spese per una carne, che deve perire? E voi finalmente, disonesti, il cui cuore è attaccato all’oggetto di una passione impura; restereste voi sì lungo tempo prigioni nelle sue catene, se rimiraste quell’oggetto, quella bellezza nello stato in cui la morte deve ridurla, cioè in uno stato di fetore e di putrefazione che vi farebbe orrore? Ah! che questa vista sarebbe capace di disgustartene! Ma voi opponeste queste riflessioni ai colpi micidiali di cui la passione vi minaccia. – Ma se malgrado le forti sollecitazioni della grazia, malgrado gli avvertimenti dei confessori, dei predicatori, il vostro cuore non vuol fare questo sacrificio in un tempo in cui lo fareste con merito, il tempo verrà in cui lo farete malgrado vostro ed inutilmente pervoi: la morte romperà quei legami fatali che vi attaccano alla creatura: ellavi rapirà quell’idolo che adorate, vi separerà da quelle persone, da quelle occasioni che vi rovinano. Ah! Fratelli miei, non aspettate che la morte vi sforzi ad una separazione violenta ed infruttuosa, da quegli oggetti cari alla vostra felicità; rinunciate prima da voi medesimi a tutti i piaceri che vi potete trovare; e questa separazione, questa rinuncia volontaria sarà il principio della vostra felicità. Non aspettate di pensare e di prepararvi a morte quando il momento fatale ne sia giunto. Non si muore che una sol volta, e dal momento della morte dipende la nostra felicità o la nostra miseria eterna: Statutum est semel mori. – Seconda ragione che deve indurvi ad apparecchiarvi alla morte. Se la morte fosse una pena che si potesse subire più di una volta, arrivarvi senza avervi pensato, sarebbe un grande mancamento, pure non sarebbe irreparabile. Ma perché la sentenza è senza appello, tutto ciò che èal di là della morte è eterno ed immutabile, perciò morire senza avervi pensato si è morire per essere sempre infelice: l’albero resterà eternamente, dice Gesù Cristo dalla parte che sarà caduto; se è dalla parte di mezzogiorno o di settentrione, non cangerà più sito. Quanto è dunque terribile questo momento della morte, fratelli miei! Perché  è difficile far bene ciò che non si fa che una sola volta, e, che se non si fa bene, ha conseguenze sì funeste. Ma come lusingarci di riuscir in un affare di sì grande importanza, se non abbiamo ogni cura di ben prepararvici? Tutta la vita dovrebbe essere un continuo apparecchio alla morte; tutti i nostri pensieri, tutti i nostri passi debbono colà terminarsi. Invano riusciremmo in tutti gli altri affari; se manchiamo in questo, nulla abbiam fatto. Contuttociò, benché assaissimo importi agli uomini il prepararsi a ben morire, chi sono coloro che vi si apparecchiano? Chi sono coloro ancora che vi pensano? Nulla è sì frequente come la morte, nulla che ci tocchi sì da vicino, e nulla che sia più dimenticato. Il suono delle campane ci avverte della caduta degli uni; vediamo portar alla terra gli altri, che godevano di egual sanità che noi alcuni giorni sono, e non pensiamo che dobbiam ben tosto seguirli. È ben poca cosa l’uomo, diciamo alla vista di una pompa funebre, e pure non diventiamo migliori, dice s. Agostino, perché ci dimentichiamo subito lo spettacolo che dovrebbe farci rientrar in noi medesimi, e che ben presto presenteremo agli altri. Al vedere la condotta della maggior parte degli uomini, si direbbe che si credono immortali; essi operano come se non dovessero mai morire. Chi direbbe che quell’uomo avido dei beni e delle ricchezze pensa che deve morire, poiché non pensa che ad accumulare, a fare acquisti, a far valere un negozio, intraprende mille affari, si carica di mille imbarazzi cui la vita la più lunga non potrebbe bastare? Non si direbbe forse che ella è in sua disposizione? Ah insensato! forse in questa notte ti domanderanno la tua anima; e per chi sarà quello che hai accumulato? Per eredi ingrati che vorrebbero forse già vederti nel sepolcro. A che ti servirà l’esserti travagliato per gli altri, mentre nulla fai per te stesso? Siate dunque, fratelli miei, più attenti ai vostri veri interessi e pensate coll’apparecchiarvi alla morte ad assicurarvi una sorte per l’eternità. Chi sono coloro, torno a dire, che pensano e si preparano alla morte? Sono forse quegli uomini voluttuosi che hanno messo tutta la loro contentezza in questo mondo? che affidansi alla robustezza del loro temperamento? Sono forse quei peccatori abituati, che marciscono per mesi ed anni nel peccato, e differiscono la loro conversione alla morte? Essi la riguardano siccome molto lontana mentre ella tiene lor dietro da vicino. Ma questi insensati si ritrovano ad un tratto sorpresi; la morte viene, ed essi non son pronti; dopo aver passati i loro giorni nei beni e nelle delizie, cadono nell’inferno. Ecco il termine fatale a cui conduce la dimenticanza della morte. Pensatevi dunque fratelli miei, ma preparatevi ad essa in ogni tempo. Mentre non solamente è certo che noi morremo, ma non ne sapremo giammai il momento.

II. Punto. Sì, fratelli miei, la morte è incerta, per riguardo allo stato in cui ci troverà. Io dico primieramente che essa è incerta, perché deve sorprenderci. Si è Gesù Cristo medesimo che ce ne assicura, allorché dice che verrà nell’ora in cui non vi penseremo: Qua hora non putatis (Luc. XII). Ed è per questa ragione che egli paragona la morte ad un ladro, che per venir a capo dei suoi disegni sceglie il momento in cui di nulla sospettiamo; così la morte verrà in un tempo in cui nulla vi penseremo. Ella rapirà in mezzo dei suoi piaceri quel libertino, che si prometteva ancora lunghi anni di vita; ella sorprenderà quell’uomo che aveva formato intraprese per molti anni, dopo cui sperava vederle eseguite. Non lo vediamo forse, fratelli miei, accadere tutti i giorni? Quanti hanno cominciato affari, a cui la morte non ha lasciato il tempo di finirli? Ecco quel che accadrà a voi medesimi che mi ascoltate; voi non avrete terminati alla morte tutti i vostri affari: ma ciò che sarà più funesto per voi si è che non avrete forse ancora lavorato come conviensi. Voi vi affidate ad un tempo che forse non avrete. Vi sarà per voi un anno, in quest’anno un mese, in questo mese un giorno, in questo giorno un’ora, in cui morrete: ma quando sarà quest’anno, questo mese, quest’ora? Ecco quello che non sapete: Nescitis diem, neque horam (Matth. XXIII). Sarà forse il trentesimo, il quarantesimo anno della vostra età? Sarà forse l’anno venturo? Ecco ciò che vi è ignoto. Quanti avevano cominciato quest’anno che credevano finirlo, ed hanno vedute deluse le loro speranze? Quanti ve ne ha che non lo vedranno! Chi può lusingarsi che dopo aver veduto il mattino del giorno, ne vedrà la sera, o che il lenzuolo ove riposa non servirà a seppellirlo? Niuno può prometterlo, niuno può contare sopra un sol giorno di vita. Dio così ha voluto, così ha ordinato, nei disegni della sua sapienza; Egli ci tiene occulto il nostro ultimo giorno, dice s. Agostino, per impiegarci a ben regolare tutti gli altri giorni: Latet ultimus dies, ut obsenentur omnes dies. Imperciocché, fratelli miei, che accadrebbe mai, se ciascuno conoscesse la misura dei suoi anni? Oimè! Noi vedremmo gli uomini passare tutta la loro vita nell’iniquità, aspettare per darsi a Dio non l’ultimo anno, neppure l’ultimo giorno, ma, l’ultimo momento? Se i più degli uomini, non ostante l’incertezza della morte, differiscono sino a quel momento la loro conversione, che sarebbe se quell’ultimo momento lor fosse noto? Con molta saviezza adunque e per nostro vantaggio ci ha lasciati Iddio nell’incertezza dell’ora di nostra morte. Or se ella è incerta, qual precauzione non conviene usare per preservarsi dalle sue sorprese? Perché non correggere sin dal presente quel cattivo abito, non lasciare quell’occasione di peccato, non restituire quei beni mal acquistati, non riconciliarsi con quel nemico? Aspettate voi che la morte vi sorprenda in quel cattivo abito? Che vi trovi impegnati in quell’occasione, carichi di quella roba altrui? E se essa vi sorprende in quel pessimo stato, sarete voi ben ricevuti al giudizio di Dio quando direte che la morte non vi ha lasciato il tempo di eseguire un progetto di conversione, che avevate formato? Il Signore vi risponderà che voi eravate assai avvertiti delle sorprese della morte, che bisognava tenervi in guardia, che bisognava esser pronto quando ella verrebbe. Estote parati (Luc. XII). Voi non avete voluto profittare del tempo, delle grazie che vi erano date, dunque è colpa vostra, se siete condannati alla morte eterna: Perditio tua ex te Israel (Oseæ III). – Chi è avvertito che i ladri debbono assalire la casa, saccheggiarla e dargli la morte, lascia egli forse le porte aperte? Non porta forse via il suo danaro, o si munisce di un soccorso? Ecco il vostro ritratto, voi siete sicuri che la morte deve venire come un ladro, che vi sorprenderà all’ora che voi mai vi pensate; e pur vivete così tranquillamente come se nulla aveste a temere, come se Dio vi avesse promesso un certo numero di anni da vivere, come se pendesse da voi di allontanare l’ora della vostra morte; mentre non sapete se avreste solamente quest’anno, e siete altronde sicuri della testimonianza di vostra coscienza, che non siete in stato di comparire avanti Dio, e che sarete condannati al fuoco eterno. La spada della giustizia di Dio è pronta a colpirvi; non dipende che da un filo il quale può rompersi in un istante e voi non prendete misura alcuna per allontanare la disgrazia onde siete minacciati; voi dormite tranquillamente sull’orlo del precipizio, ove siete presti a cadere. Qual follia! Qual accecamento! Oh! fratelli miei, siate più. saggi e più sensibili ai vostri veri interessi.Incerti come siete del giorno in cui dovete morire, vivete tutti i giorni come se doveste ogni giorno morire; poiché la morte è incerta non solo quanto al tempo, ma ancora quanto allo stato in cui deve sorprenderci. Si è quest’ultima incertezza che deve, fratelli miei, penetrarci di un salutevole timore, e farci prendere tutte le precauzioni possibili per apparecchiare ad una santa morte; mentre finalmente che c’importa d’ignorare il tempo di nostra morte, se noi siamo sicuri di morire in buono stato? Morire in istato di grazia è il dono della perseveranza finale; grazia speciale, che noi possiamo. domandar a Dio, dice s. Agostino , ma che niuno di noi può meritar in rigor di giustizia né sicuramente prometter la grazia di cui un s. Ilarione, dopo settant’anni di penitenza, temeva ancor di essere privo, perché ella dipende dalla pura misericordia di Dio. Or chi di noi, fratelli miei, può essere certo di aver questa grazia? Chi di noi può promettersi di morire nell’amicizia di Dio? Chi vi ha detto, peccatori, che Dio aspetterà, per togliervi da questo mondo, che voi abbiate fatta penitenza dei vostri peccati? Chi vi ha promesso che voi non sarete sorpresi dalla morte in quel funesto stato? Che voi sarete assistiti dai sacramenti e dagli altri aiuti necessari? Oimè! Forse voi non avrete il tempo di ricevere questi aiuti, perché credete poterlo sempre avere! Forse all’uscir da quella partita di piacere, da quel luogo di dissolutezza, da quel convito d’intemperanza, da quella occasione di peccato, la morte, che non aspetta se non quel momento per colpirvi, non vi lascerà che il tempo di riconoscere che morrete in istato di peccato: In peccato moriemini. Volete voi, fratelli miei, evitare questa disgrazia, anzi volete voi assicurarvi il felice stato in cui dovete morire? Vivete meglio che non avete fatto sino al presente; e benché incerta sia la morte per riguardo alle sue circostanze, voi potete, per quanto è in voi, rendere certa una morte preziosa. Per questo che convien fare? Fate per tempo e durante la vita, come le vergini sagge, provvisione d’olio, cioè di virtù e di buone opere; le vostre lampade siano sempre accese , affinché all’arrivo dello sposo siate ammessi nella sala del convito. Temete la sorte delle vergini stolte, che ne furono escluse per avervi pensato troppo tardi: indarno vanno esse a provvedersi dell’olio quando sono avvertite dell’arrivo dello sposo; egli viene in quel frattempo, e al loro ritorno trovano la porta chiusa : Clama ed ianua. Invano dimandano esse con raddoppiati gridi che loro sia aperta: Domine, aperi nobis; non hanno altra risposta che quelle spiacevoli parole: Nescio vos, ritiratevi, voi venite troppo tardi, io non vi conosco. Oh! chi potrebbe comprendere, dice il pontefice s. Gregorio, qual sensibile affanno, qual orribile disperazione cagionò loro un sì amaro rifiuto! Tale sarà il dolore di un’anima che all’uscir da questa vita si troverà sprovveduta di buone opere. Vanne, le dirà il Signore, io non ti conosco; tu non entrerai giammai nel mio regno: Nescio vos. Vegliate dunque, conchiude Gesù Cristo, perché non sapete né il giorno, né l’ora in cui verrà: Vigilate quia nescitis diem necque horam. – Or in che consiste questa vigilanza che deve servirvi di apparecchio alla morte? Io la riduco a cinque punti principali, che vi propongo per pratica, terminando questa istruzione.

Pratiche. 1. Per ben prepararsi alla morte, bisogna pensare spesso, non in una maniera vaga e generale, ma in una maniera propria, e particolare che faccia su di noi una salutevole impressione. Io debbo morire un giorno e morrò più tosto che non credo, dobbiamo noi dire; bisogna principalmente fare questa riflessione allorché assistiamo alle esequie di un morto: forse per me farassi ben presto questa cerimonia, forse sarò io il primo per cui deve aprirsi la terra. Conservate diligentemente questo pensiero; andate di tempo in tempo, almeno una volta alla settimana, a meditare sulla morte nel luogo che avete eletto per vostra sepoltura. Occupatevi, sull’esempio di s. Antonio, in questo salutevole pensiero la mattina alzandovi dal letto: Forse io non vedrò la sera: coricandovi: Forse io non vedrò la mattina. Eccomi questa sera più vicino alla tomba che non era questa mattina.

2. Per ben prepararsi alla morte, bisogna sempre essere nello stato in cui si deve morire, cioè nello stato in cui si deve stare, vale a dire in istato di grazia; e non rimaner giammai in quello in cui non si vorrebbe morire, cioè in istalo di peccato. Perciò, fratelli miei, interrogate adesso la vostra coscienza. In quale stato siete voi? In quello del peccato? Uscitene al più presto per non essere sorpresi dalla morte.

3. Non aspettate all’ora della morte a fare le restituzioni di cui siete incaricati, a fine di essere padroni di voi medesimi in quegli ultimi momenti, e non pensare che all’affare della vostra salute.

4. Fate adesso tutto quel che vorreste aver fatto all’ora della morte, e nulla fate di quel che vorreste allora non aver fatto. Accostatevi al lato di un moribondo, e domandategli quali sono i suoi sentimenti, ciò che egli pensa dei beni, degli onori, dei piaceri. In qual dispregio non li ha egli? Dispregiateli nello stesso modo. Quale stima al contrario non la egli delle croci, dei patimenti, delle umiliazioni e di tutti i santi esercizi della vita cristiana? Vorrebbe che tutta la sua Vita fosse passata, come quella dei più gran santi. Pensate adesso come lui, entrate ne’ suoi sentimenti, e farete tutto il bene che Dio domanda da voi per prepararvi a ben morire. Ricordatevi che il tempo della morte è il tempo della messe, e che la vita è il tempo proprio a seminare. Voi non raccoglierete del grano in un campo ove nulla avete seminato! Bisogna dunque, dice l’Apostolo, far il bene senza interruzione, a fine di mietere alla morte: Homni facientes non deficiamus, tempore enim suo metemus (Gal. VI) . Profittate del tempo per guadagnar il cielo, perché non ve ne sarà più dopo la morte: sia questo il vostro motto ordinario: Deum tempus habemus, ojieremur bonum.

5. Nulla amate, nulla stimate, se non quello che vorreste aver amato e stimato alla morte: in tutti gli affari della vita considerate sempre la morte; in una parola, la morte sia la regola di tutte le vostre azioni. Vivete ogni giorno come se doveste ogni giorno morire, fate ogni mattina questo proponimento: io voglio vivere quest’oggi come se dovessi quest’oggi morire. Beato il servo vigilante che il Signore troverà fedele in queste pratiche! Egli lo farà entrare nel soggiorno della sua gloria. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro.

[Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta

Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus.

[I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Joann VI: 52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.

[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio

Orémus.

Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus.

[L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

DOMENICA XIV DOPO PENTECOSTE (2020)

XIV DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Le Lezioni dell’Officio di questa Domenica sono spesso prese dal Libro dell’Ecclesiastico (Agosto) o da quello di Giobbe (Settembre). Commentando il primo, S. Gregorio dice: «Vi sono uomini così appassionati per i beni caduchi, da ignorare i beni eterni, o esserne insensibili. Senza rimpiangere i beni celesti perduti, i disgraziati si credono felici di possedere i beni terreni: per la luce della verità, non innalzano mai i loro sguardi e mai provano uno slancio, un desiderio verso l’eterna patria. Abbandonandosi ai godimenti nei quali si sono gettati si attaccano e si affezionano, come se fosse la loro patria, a un triste luogo d’esilio; e in mezzo alle tenebre sono felici come se una luce sfolgorante li illuminasse. Gli eletti, invece, per cui i beni passeggeri non hanno valore, vanno in cerca di quei beni per i quali la loro anima è stata creata. Trattenuti in questo mondo dai legami della carne, si trasportano con lo spirito al di là di questo mondo e prendono la salutare decisione di disprezzare quello che passa col tempo e di desiderare le cose eterne ». — Quanto a Giobbe viene rappresentato nelle Sacre Scritture come l’uomo staccato dai beni di questa terra: «Giobbe soffriva con pazienza e diceva: Se abbiamo ricevuti i beni da Dio, perché non ne riceveremo anche i mali? Dio mi ha donato i beni, Dio me li ha tolti, che il nome del Signore sia benedetto ». — La Messa di questo giorno si ispira a questo concetto: Lo Spirito Santo che la Chiesa ha ricevuto nel giorno di Pentecoste, ha formato in noi un uomo nuovo, che si oppone alle manifestazioni del vecchio uomo, cioè alla cupidigia della carne e alla ricerca delle ricchezze, mediante le quali può soddisfare la prima. Lo Spirito di Dio è uno spirito di libertà che rendendoci figli di Dio, nostro Padre, e fratelli di Gesù, nostro Signore, ci affranca dalla servitù del peccato e dalla tirannia dell’avarizia. « Quelli che vivono in Cristo, scrive S. Paolo, hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e bramosie. Camminate, dunque, secondo lo Spirito e voi non compirete mai i desideri della carne, poiché la carne ha brame contro lo Spirito e lo Spirito contro la carne: essi sono opposti l’uno all’altra » (Ep.).  Nessuno può servire a due padroni, dice pure Gesù, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, ovvero aderirà all’uno e disprezzerà l’altro. Voi non potete servire a Dio e alle ricchezze ». « Chiunque è schiavo delle ricchezze, spiega S. Agostino – e si sa che sono spesso fonte di orgoglio, avarizia, ingiustizia e lussuria –  è sottomesso ad un padrone duro e cattivo. (« Forse che questi festini giornalieri, questi banchetti, questi piaceri, questi teatri, queste ricchezze, si domanda S. Giovanni Crisostomo, non attestano l’insaziabile esigenza delle tue cattive passioni? » – 2° Nott., V Domenica di Agosto che coincide qualche volta con questa Domenica). Dio non condanna la ricchezza ma l’attaccamento ai beni di questa terra e il loro cattivo impiego). Tutto dedito alle sue bramosie, subisce però la tirannia del demonio: certamente non l’ama perché chi può amare il demonio? ma lo sopporta. D’altra parte non odia Dio, poiché nessuna coscienza può odiare Dio, ma lo disprezza, cioè non lo teme, come se fosse sicuro della sua bontà. Lo Spirito Santo mette in guardia contro questa negligenza e questa sicurezza dannosa, quando dice, mediante il Profeta: Figlio mio, la misericordia di Dio è grande » (Eccl., V, 5 ),— (Queste parole sono prese dal 1° Notturno della V Domenica di Agosto, che coincide qualche volta con questa Domenica: « Non dire: la misericordia di Dio è grande, egli avrà pietà della moltitudine dei miei peccati. Poiché la misericordia e la collera che vengono da Lui si avvicinano rapidamente, e la sua collera guarda attentamente i peccatori. Non tardare a convertirti al Signore e non differirlo di giorno in giorno: poiché la sua collera verrà improvvisamente e ti perderà interamente. Non essere inquieto per l’acquisto delle ricchezze, poiché non ti sopravviveranno nel giorno della vendetta ») – … ma sappi che « la pazienza di Dio t’invita alla penitenza » (Rom., II, 4). Perché chi è più misericordioso di Colui che perdona tutti i peccati a quelli che si convertono e dona la fertilità dell’ulivo al pollone selvatico? E chi è più severo di colui che non ha risparmiati i rami naturali, ma li ha tagliati per la loro infedeltà? Chi dunque vuole amare Dio e non offenderlo, pensi che non può servire due padroni; abbia egli un’intenzione retta senza alcuna doppiezza. Ed e così che tu devi pensare alla bontà del Signore e cercarlo nella semplicità del cuore. Per questo, continua Egli, io vi dico di non avere sollecitudini superflue di ciò che mangerete e del come vi vestirete; per paura che forse, senza cercare il superfluo, il cuore non si preoccupi, e che cercando il necessario, la vostra intenzione non si volga alla ricerca dei vostri interessi piuttosto che al bene degli altri » (3° Nott.). Cerchiamo dunque, prima di tutto il regno di Dio, la sua giustizia, la sua gloria (Vang., Com.); mettiamo nel Signore ogni nostra speranza (Grad.), poiché è il nostro protettore (Intr.); è Lui che manda il suo Angelo per liberare quelli che lo servono (Off.) e che preserva la nostra debole natura umana, poiché senza questo aiuto divino essa non potrebbe che soccombere (Oraz.). L’Eucarestia ci rende Dio amico (Secr.) e, fortificandoci, ci dà la salvezza (Postcom.). Cerchiamo, dunque, prima di tutto di pregare nel luogo del Signore (Vers. dell’Intr.) e di cantarvi le lodi di Dio, nostro Salvatore (All.); poi occupiamoci dei nostri interessi temporali, ma senza preoccupazione.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXXIII: 10-11.

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília.

[Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].

Ps LXXXIII: 2-3

V. Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit, et déficit ánima mea in átria Dómini.

[O Dio degli eserciti, quanto amabili sono le tue dimore! L’ànima mia anela e spàsima verso gli atrii del Signore].

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília.

[Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].

Oratio

Orémus.
Custódi, Dómine, quǽsumus, Ecclésiam tuam propitiatióne perpétua: et quia sine te lábitur humána mortálitas; tuis semper auxíliis et abstrahátur a nóxiis et ad salutária dirigátur.

[O Signore, Te ne preghiamo, custodisci propizio costantemente la tua Chiesa, e poiché senza di Te viene meno l’umana debolezza, dal tuo continuo aiuto sia liberata da quanto le nuoce, e guidata verso quanto le giova a salvezza.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal V: 16-24

“Fratres: Spíritu ambuláte, et desidéria carnis non perficiétis. Caro enim concupíscit advérsus spíritum, spíritus autem advérsus carnem: hæc enim sibi ínvicem adversántur, ut non quæcúmque vultis, illa faciátis. Quod si spíritu ducímini, non estis sub lege. Manifésta sunt autem ópera carnis, quæ sunt fornicátio, immundítia, impudicítia, luxúria, idolórum sérvitus, venefícia, inimicítiæ, contentiónes, æmulatiónes, iræ, rixæ, dissensiónes, sectæ, invídiæ, homicídia, ebrietátes, comessatiónes, et his simília: quæ prædíco vobis, sicut prædíxi: quóniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequántur. Fructus autem Spíritus est: cáritas, gáudium, pax, patiéntia, benígnitas, bónitas, longanímitas, mansuetúdo, fides, modéstia, continéntia, cástitas. Advérsus hujúsmodi non est lex. Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixérunt cum vítiis et concupiscéntiis.”

[“Fratelli: Camminate secondo lo spirito e non soddisferete ai desideri della carne. Perché la carne ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito contrari alla carne: essi, infatti, contrastano tra loro, così che non potete fare ciò che vorreste. Che se voi vi lasciate guidare dallo spirito non siete sotto la legge. Sono poi manifeste le opere della carne: esse sono: la fornicazione, l’impurità, la dissolutezza, la lussuria, l’idolatria, i malefici, le inimicizie, le gelosie, le ire, le risse, le discordie, le sette, le invidie, gli omicidi ecc. le ubriachezze, le gozzoviglie e altre cose simili; di cui vi prevengo, come v’ho già detto, che coloro che le fanno, non conseguiranno il seguiranno il regno di Dio. Frutto invece dello Spirito è: la carità, il gaudio, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la mansuetudine, la fedeltà, la modestia, la continenza, la castità. Contro tali cose non c’è logge. Or quei che son di Cristo, han crocifisso la loro carne con le sue passioni e le sue brame”].

Omelia I

[[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

I DUE PADRONI

L’Epistola, come quella della domenica scorsa, è tratta dalla lettera ai Galati. Anche dopo il Battesimo che libera dalla servitù della legge, c’è nell’uomo un complesso di desideri e di tendenze, che cercano di sottrarlo allo Spirito di Dio. La carne e lo spirito sono tra loro opposti. Dalle opposte opere che ne seguono, parecchie delle quali sono qui enumerate da S. Paolo, l’uomo può giudicare se è diretto dalla carne o dallo Spirito. Se è diretto dallo Spirito, la legge, che è fatta per gli uomini carnali, non ha nulla che fare con lui, che, da vero Cristiano, affligge la propria carne con tutte le sue passioni. Gli uomini, come tutti vedono, si lasciano guidare da due padroni, dei quali:

1. Uno, spodestato, maligno, menzognero.

2. L’altro, grande e potente, pieno di bontà, veritiero.

3. Uno ci procura la dannazione, l’altro la vita beata.

I.

La carne ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito contrari alla carne. È una verità che si è manifestata subito dopo la caduta del primo uomo. Da allora, la concupiscenza che cerca di trascinare al male, e la ragione, che guidata dalla grazia dello Spirito Santo cerca il bene, non fu più possibile l’accordo. E l’uomo si trovò a dover scegliere tra due regni; il regno della carne e il regno dello spirito; e si ebbero da una parte i seguaci di Dio e dall’altra i seguaci di satana.Chi è Satana, che comanda ai seguaci della carne? È un superbo umiliato sotto la potente mano di Dio. Voleva essere simile all’Altissimo, e fu da Lui precipitato dalla gloria del cielo nei tormenti dell’inferno, e vi fu precipitato senza speranza di riacquistare il posto perduto. Invidioso della felicità degli uomini, non cerca che la loro rovina: tutta la sua opera è devastatrice. Nel paradiso terrestre distrugge la felicità dei nostri progenitori. Accende nel cuore di Caino l’invidia, e lo spinge al fratricidio. Entra nel cuor di Giuda, e gli fa compiere l’orribile tradimento. Se gli fosse concesso il potere procurerebbe agli uomini tutte le calamità.Bugiardo e ingannatore per eccellenza promette quel che non darà mai. Promette a Eva un innalzamento tale da renderla simile a Dio. Ed Eva, dando retta alla parole di satana, precipita nel fondo di ogni miseria. Il paradiso terrestre è cangiato in valle di lagrime. Si accosta a Gesù Cristo che digiuna nel deserto. Condottolo su un alto monte gli mostra tutti i regni della terra, e gli dice:« Io ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché a me sono stati dati e li dò a chi voglio. Se tu, dunque, prostrandoti mi adorerai tutto sarà tuo »(Luc. IV, 6-7). Con tanta franchezza assicura di poter disporre di regni chi, spodestato di tutto, è stato relegato nel baratro infernale.E con menzogne continue si presenta agli uomini. Ti darò la pace nelle ricchezze, dice all’avaro. Ti darò la felicita nei piaceri, dice al voluttuoso. Non romperti la testa nel pensare a Dio e al suo servizio, e io ti darò una vita senza turbamento, dice all’indifferente. Non voler star dietro agli altri, — dice al vanitoso e al superbo —, e io ti darò gli onori; non perdonare al tuo nemico e ti darò la dolcezza della vendetta. Percorri la via larga: — dice alla gioventù — divertimenti e baldorie siano i compagni dei tuoi giorni, e io riempirò il tuo cuore di ebbrezza. E l’esperienza insegna che la pace, la felicità, l’ebbrezza, i beni che egli offre ai suoi seguaci non possono essere diversi da quelli che ha procurati ai nostri progenitori. Quanti credono alle sue promesse, debbono poi fare la costatazione di Eva: «Il serpente mi ha ingannata» (Gen. III, 13).

2.

Se vi lasciate guidare dallo Spirito non siete sotto la legge. – Quando ci lasciam guidare non dalla carne, ma dalla ragione, illuminata e corroborata dallo Spirito Santo, siamo superiori alla legge, le cui minacce non sono più per noi, e abbiamo quel che la legge non può dare: la facilità di compiere ciò che ci vien comandato. Il vivere secondo lo spirito è il dovere di ogni Cristiano, il quale deve lasciarsi guidare non dalle promesse di satana, ma dallo Spirito di Dio, che è un padrone che ci ama, e che non vuole ingannarci. Egli è un padrone grande e potente. Egli, sì, può dire: «Mio è il mondo e tutto quanto lo riempie» (Ps. XLIX, 12). « Poiché egli disse una parola e le cose furono fatte; diede un comando, e tutto fu creato» (Ps. XXXII, 9) «Questi è il nostro Dio, e nessun altro starà al paragone con lui» (Baruch, III, 36). Nessuno può stargli al paragone non solamente in fatto di grandezza e di potenza, ma anche in fatto di bontà. Invero, «della bontà del Signore è piena la terra » (Ps. XXXII, 5). E la sua bontà si manifesta in modo particolare verso quelli che lo seguono. Non li chiama neppure col nome di servi, ma col nome di amici, perché essi sono i suoi intimi, messi a parte delle sue intenzioni e dei suoi disegni (Joan. XV, 15). La sua parola, come dice la S. Scrittura, «è purgata col fuoco» (II Re, XXII, 31). Come è puro e schietto un metallo messo al fuoco, così è pura e schietta la sua parola, che non inganna nessuno. Ai suoi seguaci non si rivolge con false promesse, non colorisce l’impresa nascondendo le difficoltà. Dichiara apertamente che per seguir Lui bisogna condurre una vita di sacrifici e di rinunce. «Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (Matth. X, 38). « Sarete in odio a tutti per causa del nome mio » (Matth. X, 23). « In Verità, in verità vi dico, che piangerete e gemerete voi: ma il mondo godrà: voi invece sarete in tristezza » (Joan. XVI, 20). Son parole rivolte agli Apostoli e ai discepoli, e in loro a tutti quelli che intendono seguirlo da vicino. Egli inculca la penitenza, esalta la povertà, elogia il pianto, chiama beati quei che soffrono persecuzioni per la giustizia. Previene tutti che «angusta è la porta e stretta la via che conduce alla vita» (Matth. VII, 14). Quando scoppia una guerra, buona parte della gioventù, che non conosce la guerra che dalle descrizioni entusiastiche dei libri o dai discorsi fioriti dei propagandisti, s’infiamma d’entusiasmo, e parte cantando le fiere canzoni. Ma quando esperimenta che la guerra non è una passeggiata né una partita al gioco, confessa che s’immaginava tutt’altro. Chi si mette a seguir Dio, non può dire d’essersi ingannato. Gesù Cristo ha parlato molto chiaro. La sua parola ciascuno la trova nel Vangelo. «Il Vangelo è specchio di verità; non lusinga nessuno, non seduce alcuno ».

3.

Sono poi manifeste le opere della carne : esse sono: la fornicazione, l’impurità, la dissolutezza, la lussuria, l’idolatria, i malefici, le inimicizie, le contese, le gelosie, le ire, le risse, le discordie, le sette, le invidie, gli omicidi, le ubriachezze, le gozzoviglie e altre cose simili. Sono queste le opere che quel pessimo padrone che è il demonio domanda ai suoi seguaci. E la conseguenza? La fa notare subito S.Paolo: Vi prevengo, come v’ho già detto, che coloro che le fanno, non conseguiranno il regno di Dio. Ecco la paga che satana ha serbato a coloro che si mettono al suo servizio. Ha fatto sperar loro beni e delizie, e alla fine si sono trovati privi de beni celesti e immersi nell’amarezza eterna. Sulla terra poche gioie e non intere, perché finite sempre col disgusto e nel turbamento della coscienza. Nell’altra vita nessun bene e mali interminabili. Ben altrimenti avviene a coloro, che seguono Dio.Le opere di costoro sono: la carità, il gaudio, la pace, la benignità, la bontà, la longanimità, la mansuetudine, la fedeltà, la modestia, la continenza, la castità. Sono opere che costano un po’ di sacrificio al nostro amor proprio e alle nostre tendenze sregolate; ma che non sono senza premio neppur su questa terra. Il gaudio, la pace non si hanno che da chi segue lo spirito. E dopo il gaudio e la pace verrà la ricompensa eterna. Gesù che aveva detto agli Apostoli e ai discepoli : «Voi sarete nella tristezza», ha anche aggiunto : «Ma la vostra tristezza sarà cambiata in gioia» (Joan. XVI, 29). Di coloro che seguono Lui invece di satana, ha detto chiaramente: «Le mie pecorelle ascoltano la mia voce; io le conosco ed esse mi seguono, e io darò loro la vita eterna» (Joan. X, 27-28). Giosuè, avvicinandosi la fine della sua vita, fa giurare dal popolo ebreo fedeltà a Dio. Prima di compiere la cerimonia, tiene un discorso in cui, fatti passare i favori usati dal Signore a Israele, domanda: «Se vi sembra un male servire il Signore vi si dà la scelta: eleggete oggi quel che vi piace; e a chi dobbiate di preferenza servire: se agli dei, ai quali servirono i vostri padri nella Mesopotamia, oppure agli dei degli Amorrei nella terra dei quali abitate: ma io e la mia casa serviremo il Signore. E il popolo rispose… Noi serviremo al Signore, perché Egli è il nostro Dio» (Gios. XXIV, 15-18).Il Cristiano ha davanti agli occhi due padroni, che non può servire simultaneamente. A lui è data la scelta. Questi padroni li conosce bene tutti e due. Uno è un angelo debellato, omicida fin dal principio, principe della tenebre, padre della bugia, giudicato per mezzo della morte di Gesù Cristo, che strappò a Lui le anime. L’altro è il Re dei Re, Signore dei dominanti, via, verità, vita, giudice dei vivi e dei morti. Uno ci impone un giogo insopportabile e vergognoso: l’altro ci sottopone a un giogo leggero e soave; poiché « il giogo di Gesù Cristo non grava sul collo, ma lo orna, non piega a terra i nostri capi ma gli innalza» (S. Massimo, Serm. 75). Uno fa promesse che non può mantenere, perché nessuno può dare quel che non ha, e ci conduce alla dannazione eterna: l’altro mantiene la promessa e ci dà la corona eterna. Purtroppo, «Dio promette il regno ed è disprezzato, il diavolo ci procura l’inferno ed è onorato » (s. Giov. Cris. In Act. Ap. Hom., 6, 3). Non cadiamo noi in tanta stoltezza da preferire il diavolo a Dio. Parrà dolce sul principio servir satana, ma presto verrà il disinganno. Dove non c’è pietà, non c’è felicità. Sembrerà duro sul principio servire il Signore, ma presto esclamerai: « Come sono amabili le tue tende, o Dio degli eserciti » (Ps. LXXXIII, 2) in attesa di passare dalle tende alla patria.

 Graduale

Ps CXVII:8-9
Bonum est confidére in Dómino, quam confidére in hómine.

[È meglio confidare nel Signore che confidare nell’uomo].

V. Bonum est speráre in Dómino, quam speráre in princípibus. Allelúja, allelúja
 

[È meglio sperare nel Signore che sperare nei príncipi. Allelúia, allelúia].

Alleluja

XCIV: 1.
Veníte, exsultémus Dómino, jubilémus Deo, salutári nostro. Allelúja.

[Venite, esultiamo nel Signore, rallegriamoci in Dio nostra salvezza. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.
Matt VI: 24-33

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nemo potest duóbus dóminis servíre: aut enim unum ódio habébit, et álterum díliget: aut unum sustinébit, et álterum contémnet. Non potéstis Deo servíre et mammónæ. Ideo dico vobis, ne sollíciti sitis ánimæ vestræ, quid manducétis, neque córpori vestro, quid induámini. Nonne ánima plus est quam esca: et corpus plus quam vestiméntum? Respícite volatília coeli, quóniam non serunt neque metunt neque cóngregant in hórrea: et Pater vester coeléstis pascit illa. Nonne vos magis pluris estis illis? Quis autem vestrum cógitans potest adjícere ad statúram suam cúbitum unum? Et de vestiménto quid sollíciti estis? Consideráte lília agri, quómodo crescunt: non labórant neque nent. Dico autem vobis, quóniam nec Sálomon in omni glória sua coopértus est sicut unum ex istis. Si autem fænum agri, quod hódie est et cras in clíbanum míttitur, Deus sic vestit: quanto magis vos módicæ fídei? Nolíte ergo sollíciti esse, dicéntes: Quid manducábimus aut quid bibémus aut quo operiémur? Hæc enim ómnia gentes inquírunt. Scit enim Pater vester, quia his ómnibus indigétis. Quaerite ergo primum regnum Dei et justítiam ejus: et hæc ómnia adjiciéntur vobis”.

[“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Nessuno può servire due padroni: imperocché od odierà l’uno, e amerà l’altro; o sarà affezionato al primo, e disprezzerà il secondo. Non potete servire a Dio e allo ricchezze. Per questo vi dico: non vi prendete affanno né di quello onde alimentare la vostra vita, né di quello onde vestire il vostro corpo. La vita non vale ella più dell’alimento, e il corpo più del vestito! Gettate lo sguardo sopra gli uccelli dell’aria, i quali non seminano, né mietono, né empiono granai; e il vostro Padre celeste li pasce. Non siete voi assai da più di essi? Ma chi è di voi che con tutto il suo pensare possa aggiuntare alla sua statura un cubito? E perché vi prendete cura pel vestito? Pensate come crescono i gigli del campo; essi non lavorano e non filano. Or io vi dico, che nemmeno Salomone con tutta la sua splendidezza fu mai vestito come uno di questi. Se adunque in tal modo riveste Dio un’erba del campo, che oggi è e domani vien gittata nel forno; quanto più voi gente di poca fede? Non vogliate adunque angustiarvi, dicendo: Cosa mangeremo, o cosa berremo, o di che ci vestiremo? Imperocché tali sono le cure dei Gentili. Ora il vostro Padre sa che di tutte queste cose avete bisogno. Cercate adunque in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia; e avrete di soprappiù tutte queste cose”].

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra il servigio di Dio.

“Nemo potest duobus Domini, servire”

Matth. VI –

Gli uomini gelosi della loro autorità non soffrono che altri ne siano a parte. Un padrone può avere più servi al suo seguito, ma un servo non può avere più padroni. Da che si dichiara per l’uno, egli abbandona l’altro: se rispetta l’uno, dispregia l’altro, dice Gesù Cristo: quindi conchiude questo divin Salvatore, che noi non possiamo servire Dio ed il danaro; tosto che noi ci attacchiamo ad uno di questi padroni, bisogna necessariamente rinunciar all’altro: Non potestis servire Deo, et Mammonæ. No, fratelli miei, noi non possiamo unire il servigio di Dio con quello delle nostre passioni; noi non possiamo seguire nello stesso tempo le massime del mondo, e le massime del Vangelo; se ricerchiamo la sua amicizia, noi incorriamo allora la disgrazia di Dio; siccome al contrario, noi dispiaciamo al mondo, tosto che noi vogliamo piacere a Dio. Se con certi riguardi noi cerchiamo aggiustarci con l’uno e con l’altro, allora noi dispiaceremo a tutti due, perché i precetti e le massime di questi due padroni non possono conciliarsi insieme. Nemo potest etc. Or nell’impossibilità in cui siamo di contentare due padroni nello stesso tempo, qual partito dobbiamo noi prendere? Ma che dico io? V’è forse a deliberare? Qual è il più grande ed il migliore di questi padroni? Non è forse il Signore? A Lui dunque conviene dare la preferenza. Al che vengo io ad esortarvi, fratelli miei, in questa istruzione, ove vi farò vedere i forti motivi che vi obbligano di servir a Dio, ed in qual modo, voi dovete servirlo: due punti importanti che combattono due errori. Gli uni non pensano affatto a Dio, come se non esistesse; gli altri si persuadono falsamente fare tutto ciò che Dio dimanda da essi, mentre non adempiono che ad una parte della legge. Io farò vedere ai primi, che servir a Dio è un obbligo dei più indispensabili: primo punto. Ai secondi, che servir a Dio è un obbligo dei più estesi: secondo punto.

I. Punto Amar Dio, temerlo e servirlo, è il dovere essenziale dell’uomo sopra la terra; è in questo che consiste tutto l’uomo, come dice lo Spirito Santo: Hoc est omnis homo. Tutto ci obbliga ad adempiere a questo dovere, i diritti che Dio ha su di noi, ed il nostro proprio interesse. Iddio è nostro Creatore, il quale non ci ha dato l’essere che per servirlo; Egli è nostro supremo Signore, da cui noi dipendiamo in tutte le cose: qual cosa più giusta che di pagargli il tributo dei nostri omaggi, servendolo fedelmente. Ma oltre il diritto che Dio ha di esigere da noi questi servigi, Egli è un sì buon padrone, che vuol ancora attaccarci a Lui per via delle ricompense che ci promette; siccome ci conosce interessati, così ha fissata la nostra felicità nell’adempimento dei nostri doveri. La giustizia, l’interesse, debbono dunque indurci egualmente a servire al nostro Dio, come al più grande, e al migliore di tutti i padroni, la giustizia per rapporto a Dio e l’interesse per noi medesimi. Siate, fratelli miei, sensibili a questi motivi che meritano tutta la vostra attenzione. – Non era necessario che Dio ci cavasse dal nulla, poteva Egli fare senza di noi, come pure senza tutte le altre creature; quand’anche non ne avesse prodotta alcuna, non sarebbe stato meno felice, meno perfetto, ma avendo stabilito di darci l’essere, Egli non poteva farlo per alcun altro fine che per la sua gloria. Egli ha fatta ogni cosa per se stesso, dunque per se stesso Egli ha fatto l’uomo; perciò tutte le creature pubblicane nel loro linguaggio la gloria del loro autore: i Cieli l’annunziano, dice il Profeta: Cæli enarrant gloriam Dei (Psal. XVIII). E la terra si unisce ai Cieli, dice il Crisostomo, per pubblicare le meraviglie del Creatore. Ciascun giorno, continua il Profeta, insegna a lodar il Signore al giorno seguente, ed ogni notte istruisce la notte seguente nell’arte di cantar le grandezze di Dio. Queste lodi che non sono giammai interrotte, sono un linguaggio intelligibile che si fa intendere sino alle estremità della terra. In una parola, tutte le creature servono a Dio nella loro maniera, manifestando le sue adorabili perfezioni. Le une fanno conoscere la sua bontà, le altre la sua possanza, la sua sapienza, la sua provvidenza. Ma di tutte le creature che sono sopra la terra, non havvene alcuna che possa, e debba glorificare e servir Dio in una maniera così perfetta, come l’uomo, perchè l’uomo solo può conoscere la grandezza di questo Essere supremo che merita tutti i nostri omaggi: l’uomo solo è capace di amare questa bontà infinita che non è conosciuta dalle altre creature. – Che dobbiamo dunque pensare dell’uomo che manca a questo dovere? Ohimè! egli è un mostro nella natura, che si allontana dal fine per cui è creato; si è un più gran disordine che se il sole ricusasse al mondo la sua luce, se la terra diventasse sterile; perciocché siccome Iddio ha fatto il sole per illuminare, la terra per portar frutto, così ha fatto l’uomo per venirne servito e glorificato. È egualmente impossibile all’uomo di essere dispensato da questo dovere che di sussistere senza Dio; or esso dipende necessariamente da Dio, come dal suo primo principio: dunque deve necessariamente tendere a Dio, come a suo ultimo fine, il che non può fare che servendolo, e riferendo a Lui tutte le sue azioni. Egli diverrebbe tanto più colpevole di sottrarsi a quest’obbligo, quanto che Dio per indurvelo ha sottomesse tutte le altre creature al servigio dell’uomo: Omnia subjecisti sub pedibus eius (Psal. VIII). Infatti non è forse per l’uomo, che il sole sparge sulla terra la sua luce ed il suo calore; che la terra produce un’abbondanza di frutti in ogni stagione dell’anno? Non è forse all’uso dell’uomo che sono destinati gli uccelli del cielo, gli animali della terra, i pesci del mare; gli uni per nutrirlo, gli altri per servirlo? Omnia subjecisti. Ah! che l’uomo riempierebbe degnamente questo dovere a riguardo di Dio, se fosse egli così esatto a servirlo, come le creature lo sono a compiere i disegni di Dio ! Ma quanto mai diversamente egli opera? L’uomo solo sembra non aver ricevuto il privilegio della cognizione e della libertà, che per ribellarsi contro l’Autore del suo essere. Eppure qual padrone più grande e più potente! Si fanno gloria nel mondo gli uomini di essere al servizio di coloro che sono attorniati dalla grandezza, sostenuti dalla possanza, accompagnati dalla gloria, favoriti dalla fortuna; gli uni attirati dall’onore di accostarsi loro da vicino, gli altri dai vantaggi che sperano, premurosi sono a gara di dare segni della loro sommissione; con tutto ciò, che sono tutti i grandi della terra, i re, i potentati dell’universo, in confronto del Signore nostro Dio, la cui grandezza è infinitamente superiore a tutte le grandezze umane, solo grande, solo potente, avanti a cui tutte le potenze non sono che debolezza, e un nulla ? Tu solus altissimus in omni terra (Psal. LXXXII). Egli è che mette la corona sul capo dei re e lo scettro nelle loro mani; che può, quando gli piace, rompere quegli scettri e quelle corone. Egli è il Re dei re, da cui i sovrani medesimi si fanno gloria di dipendere; qual onore non è dunque di servire ad un sì gran padrone? Servirlo si è regnare, si è più che comandare a tutto l’universo si: servire Deo regnare est. E quindi, fratelli miei, che ne segue? Che tutto quello che si fa per un sì gran padrone, benché piccolo comparisca, è infinitamente al di sopra di tutto ciò che si può fare di più grande secondo il mondo; che la minima azione di virtù, una breve preghiera ben fatta, la più leggera mortificazione, la più modica limosina supera tutte le azioni di valore, le vittorie le più segnalate, le conquiste dei Regni e degli Imperi; perché tutto ciò che riguarda un Dio infinitamente grande, partecipa in qualche modo dell’eccellenza del suo essere. Che ne segue ancora? Che un vero servo di Dio, fosse pure l’ultimo del mondo, è infinitamente superiore a tutti i potentati. Giudichiamone, fratelli miei, dalla differenza che fassi al giorno d’oggi tra i Cesari e gli Alessandri, quei famosi conquistatori, avanti a cui tutta tremò la terra; ed un Pietro, il quale non era che un povero pescatore: la memoria degli uni si è dissipata colle loro conquiste, e l’altro è divenuto l’oggetto del nostro culto; perciò, il santo re Davide, gloriavasi più della qualità di servo di Dio, che dei titoli del suo regno: servus tuus ego sum (Psal. CXVIII). – O voi che aspirate alla gloria, e che cercate sovente quella che vi fugge, servite al Signore, e voi sarete veramente grandi, poiché Egli è il più grande di tutti i Sovrani. Voi troverete ancora la vostra felicità nel servirlo, perché Egli è il migliore di tutti i padroni. Un padrone che ci lascia tutto il profitto dei nostri servigi, che ci domanda poco per darci molto, che ci promette una felicità infinita per ricompensa, deve senza dubbio essere riguardato come il migliore di tutti i padroni. Ora, così è, fratelli miei, che Dio si diporta a nostre riguardo; qual motivo fortissimo di attaccarci a Lui! No, Iddio non ci domanda verun servigio per suo proprio interesse; ben diverso dai padroni del mondo, i quali non hanno i servi che per bisogno, né li ricompensano che in vista dei vantaggi che essi ne ricavano: Dio non ha bisogno dei nostri servigi, Egli basta a se stesso; egli trova in se stesso la sua gloria e la sua felicità. Se Egli trae la sua gloria dalla sommissione, e dai servigi che esige dalle sue creature, la trarrà eziandio dalle vendette che eserciterà sui trasgressori della sua legge. Per noi soli dunque travagliamo servendolo: ma qual vantaggio, qual felicità troviamo noi nel servigio di Dio? I più veri vantaggi per questa vita, ed una felicità eterna per l’altra. Quali beni in questa vita non ci procura la nostra fedeltà nel servir a Dio? Domandatelo al re Profeta: beati, dice egli, sono coloro che temono il Signore e che camminano nelle vie dei suoi comandamenti: beati omnes qui timent Dominum, qui ambulant in viis ejus ( Ps. CXXVII). Dio benedice i loro lavori; essi ne gusteranno i frutti, e saranno ricolmi di beni: beatus es, et bene tibi erit. Proveranno tutta la tenerezza di un’amabile provvidenza, sempre attenta a provvedere ai loro bisogni. Ce lo assicura Gesù Cristo medesimo nell’odierno Vangelo. Osservate, dice Egli, gli uccelli del Cielo, i quali sebbene non seminino, né mietano, pure non mancano di alimento; mirate i gigli dei campi, che sono meglio adornati che Salomone nella sua gloria; con quanto più forte ragione il Padre celeste avrà egli cura di voi che siete suoi figliuoli, e che gli siete molto più cari che i fiori e gli animali delle campagne? Egli è vero che una prosperità temporale non è sempre la ricompensa della virtù: Dio ne priva qualche volta i suoi servi per far loro conoscere che riserva loro una felicità più soda e più durevole: ma invece di questa prosperità che Dio non accorda ai suoi eletti, Egli sparge su di esse grazie abbondanti che raddolciscono le amarezze onde sono afflitti, che rendono loro facile la strada alla felicità che lo apparecchia nel Cielo; si è un’azione, una pace, una tranquillità d’anima che sorpassa colla sua dolcezza tutte le allegrezze e i piaceri della terra, che fa loro dire che un giorno solo passato nel servizio del “Signore vale più che mille nel servizio del mondo: melior est dies una in atriis tuis super millia (Psal. LXXXIII). Rendete qui testimonianza alla verità, anime sante che ne fate la felice esperienza: qual allegrezza, qual contento non provate dentro di voi medesime, camminando per le vie dei comandamenti del Signore cangereste voi la vostra sorte con quella di tutti i felici del secolo? Rendete voi medesimi, peccatori, testimonianza a quel che dico: in qual giorno di vostra vita avete voi provato maggior contento? Non è forse in quei giorni di salute, in cui avete voi fatta la vostra pace con Dio e che avete impiegati nel servirlo? Al contrario dappoichè siete assoggettati di nuovo a Dei stranieri, ed avete ripigliata la strada delle vostre passioni, da quali pungenti affanni la vostra incostanza non è stata accompagnata? Gustate dunque, e vedete ancora quanto il Signore è soave a coloro che lo servono, voi troverete in Lui un padrone che vi ricompenserà infinitamente al di sopra dei vostri servigi. Ed in vero, non è già del Dio che noi adoriamo, come degli uomini che promettono ai loro servi ciò che essi non possono loro osservare, e che per una bizzarra incostanza sovente mancano alla loro promessa: si affatica taluno, si consuma per rendere loro servigio e si vede frustrato di una speranza, di cui erasi lusingato. E perché mai? Perché gli uomini non conoscono sempre coloro che li servono, e se li conoscono, non sono sempre ben disposti a loro riguardo, o non hanno di che soddisfarli. Finalmente se il mondo ricompensa i suoi servi, egli domanda loro molto per dare poco; non è che dopo molte pene, dopo molti travagli che meritare si possono i suoi favori. Quanto non ci costa per giungere ad una fortuna che ci proponiamo, per soddisfare una passione che abbiamo per il piacere? A che finiscono per l’ordinario tutti i passi che abbiamo fatti, tutta la servitù cui ci siamo assoggettati? Ad un fumo d’onore, ad un bene fragile e caduco, ad un piacere d’un momento che non uguagliano giammai ciò che abbiamo fatto per arrivarvi, o che per lo meno non soddisfano giammai appieno i nostri desideri. Ma quanto i servigi che noi rendiamo a Dio sono diversamente pagati! Così magnifico nei suoi doni, come fedele nelle sue promesse, Egli non lascia alcuno dei nostri servigi senza ricompensa; si è la ricompensa la più certa, la più abbondante, la più durevole; ricompensa la più certa per la cognizione ch’Egli ha dei nostri servigi e per la fedeltà a mantenere le sue promesse. Sommo scrutatore dei cuori, Egli ci tien conto, non solo delle azioni che sono conosciute dagli uomini, ma ancora di quelle che Egli solo conosce. Nulla sfugge ai suoi occhi e alla sua liberalità; gli è egualmente impossibile di mancar alla sua parola, che cessar di essere Dio. Ecco ciò che consolava il grande Apostolo nelle fatiche e nei travagli che soffriva per la gloria di Gesù Cristo: io so, dice egli, con chi ho a fare e a chi ho confidato il mio deposito: scio cui credidi (II Tim. 1). Io aspetto con certezza la corona di giustizia che il giusto Giudice mi ha promessa: reposita est mihi corona justitiæ (2 Tim. 8). Ho detto ricompensa la più abbondante; sia che si consideri in se stessa, sia che facciasi attenzione a quel che Dio ci domanda per meritarla. Qual è questa ricompensa? Si dice tutto, dicendovi che Dio medesimo sarà vostra ricompensa: ero merces tua magna nimis (Gen. XV). Sì, io sono che voglio essere vostra ricompensa, io che sono il sommo bene, capace di contentare tutti i vostri desiderii; si è il mio regno che io vi destino per prezzo dei vostri servigi: ego dispono vobis regnum (Luc. XXII). I re della terra hanno forse giammai portata ad un sì alto grado la loro liberalità? Eh! che sono tutti i regni del mondo in paragone del regno di Dio? Ma che cosa Dio ci domanda, fratelli miei, per darci questa ricompensa così abbondante? Ben diverso dal mondo che domanda poco per dare molto, che ci chiede Egli? Niente che sia superiore alle nostre forze, che non sia anche facile con la grazia che Egli ci dà per adempierlo. Il suo giogo è soave, ed il suo peso leggero: un poco di violenza, un poco di attenzione su di noi medesimi per osservare i suoi comandamenti. Egli è un sì buon padrone che il solo desiderio di piacergli e di soffrire per Lui, ci tiene luogo di merito, allorché non abbiamo altra cosa a presentargli. Un solo bicchiere d’acqua dato per amor suo, una leggera afflizione sopportata con pazienza, avrà la sua ricompensa nel Cielo. Ora, se tutte le tribolazioni della vita non sono degne di essere messe in confronto col peso immenso di gloria che Dio riserba ai suoi eletti, come dice l’Apostolo, non è forse dare per nulla questa gloria il darcela per alcuni momenti di dolori e di patimenti? pro nihilo salvos facies illos (Ps. LV). Possiamo ricusare di comprarla a questo prezzo? Principalmente se facciamo attenzione alla sua durata che è quella di Dio medesimo, vale a dire che non avrà mai fine. Cercate ora un padrone così liberale, così generoso, così magnifico verso i suoi servi, come il Signore lo è a nostro riguardo. Con tutto ciò, fratelli miei, chi sono coloro che si attaccano sinceramente al suo servigio? Ohimè! che il numero dei suoi servi è ben piccolo! Il mondo, benché ingiusto e perfido, trova dei partigiani quanti ne vuole; sebbene rigetti coloro che gli hanno dispiaciuto, e che gli sono divenuti inutili, non si cessa di camminare sotto i suoi stendardi; ed il Dio delle misericordie sempre pronto a ricevere eziandio coloro che l’hanno offeso, che non ha in verun modo bisogno di noi, non vede che dell’indifferenza nella maggior parte degli uomini per ciò che riguarda il suo servigio. O figliuoli degli uomini! e fino a quando insensibili ai vostri veri interessi, trascurerete voi di seguire il partito di un sì buon padrone che ricompensa così bene i suoi servi, per attaccarvi a padroni stranieri che pagano così male i vostri servigi? Voi correte, o ambiziosi, dietro un fumo che vi fugge; avari, voi vi attaccate al vostro denaro che vi cagiona mille inquietudini; voluttuosi, voi abbandonate il vostro cuore ad una creatura che si ride delle vostre compiacenze. Ah! che voi meritate benissimo la trista sorte, di cui vi lamentate! Ma voi ne proverete una molto più trista, allorché separati da quei padroni cui vi servite, voi non troverete più in Dio che un Giudice severo che trarrà la sua gloria dai castighi che vi farà soffrire. Non è forse meglio glorificarlo con l’amore, che con i tormenti, divenendo la vittima delle sue vendette? Ma come bisogna servir Dio?

Il. Punto. Servir Dio, come lo merita; non è solamente rendergli un culto di religione, con cui si riconosce il suo supremo dominio sopra tutte le creature; non v’è alcuno, per poco che sia illuminato dalla fede, o dalla ragione, il quale non faccia a Dio un omaggio delle sua dipendenza. Ma Dio non ha solamente comandato all’uomo di rendergli il culto supremo adorandolo, ha ancora comandato di servirlo: Dominum Deum tuum adorabis, et illi soli servies (Matth. VIII). Servir Dio si è dunque qualche cosa di più che adorarlo, indirizzargli preghiere, rendergli certi omaggi che la Religione ci prescrive; si è ancora dedicarsi intieramente a Lui, dargli la preferenza sopra tutte le cose, consacrargli tutte le sue azioni, adempier in tutto la sua volontà, camminar con allegrezza nella via dei suoi comandamenti. Tale è l’idea generale che voi dovete formarvi alla bella prima del servigio di Dio e che io vi riduco a due punti principali. Convien servire a Dio solo; perché Egli è il più grande di tutti i padroni: illi soli servies. Convien servirlo con allegrezza e fervore, perché Egli è il migliore di tutti i padroni: servite Domino in lætitia (Ps. XCIX). Dio vuol essere servito Egli solo, e con ragione. Egli è il solo Sovrano che abbia diritto di esigere tutti i nostri servigi; Egli non può soffrire rivale alcuno che entri a parte con Lui della gloria che gli è dovuta; sarebbe dunque fargli ingiuria il rapirgliene una parte per darla ad un altro padrone, che a Lui. E come si può unire col servigio di Dio il servigio di un altro padrone, le cui leggi sono interamente opposte a quelle ch’Egli ci ha fatte? Si è unire la luce con le tenebre. Gesù Cristo non può accordarsi con Belial, dice l’Apostolo: quae conventio Christi ad Belial (II Cor. VI)? Se voi prendete dunque il partito di servire al Dio del Cielo, non bisogna servire al servizio del mondo, del demonio, delle vostre passioni: perciocché se voi vi attaccate al servizio di questi padroni; se voi vi lasciate signoreggiare dall’amor delle ricchezze, degli onori e dei piaceri, se voi seguite le massime del mondo corrotto, voi mancherete sicuramente di fedeltà al vostro Dio. Questi ministri stranieri che voi servirete, v’indurranno per piacer loro a molte azioni contrarie alla volontà di Dio. Se attaccate il vostro cuore al danaro, voi commetterete ingiustizie per averne, o non avrete per lo meno quello spirito di povertà che Gesù Cristo ci raccomanda nel suo Vangelo. Se voi date luogo nel vostro cuore all’idolo di una rea passione, voi lo rapite a Dio che deve esserne il padrone assoluto. Finalmente se voi cercate di piacere agli uomini, voi non siete più servi di Gesù Cristo, perché per piacere agli uomini (dico agli uomini profani e perversi), bisogna adottare sentimenti contrari al Vangelo, bisogna essere a parte dei loro piaceri, vendicarsi dei nemici come essi, sostenere le loro pretensioni ingiuste, assoggettarsi ad una infinità di altre leggi contrarie alle leggi del Signore. Invano presenterete voi a Dio dei sacrifici con una mano, mentre coll’altra offrirete dell’incenso a Baal: invano gli indirizzerete preghiere, farete limosine, adempirete certe obbligazioni che la Religione vi prescrive; se voi non rinunciate a quegli impegni che sono per voi un’occasion di peccato; se voi non sacrificate quella passione che vi predomina, Dio riproverà i vostri sacrifici, come riprovò quello di Saul, il quale nello sterminio degli Amaleciti risparmiò il loro Re contro il divieto che Dio gliene aveva fatto: Egli non vi terrà alcun conto della vostra fedeltà a certi punti della legge, se questa fedeltà non è intera. Egli vuol tutto interamente, vale a dire, che ricusargli un sacrificio si è ricusargli tutto: è l’integrità dei nostri servigi che dimanda; e vuole che noi dimentichiamo in qualche modo sino le cose anche necessarie alla vita. Per la qual cosa ci raccomanda nel Vangelo di non metterci in pena ove prenderemo di che cibarci, e di che vestirci, perché la sua divina Providenza si è impegnata a provvederci; Egli vuole le obbligazioni che la Religione vi prescrive ; Egli vuole che il nostro primo pensiero sia di cercare il suo regno e la sua giustizia, e ci promette di darci tutto il restante: quærite primum regnum Dei, et justitiam eius, et hæc omnia adjicentur vobis (Matth. VI). Non già, fratelli miei, che Dio ci comandi per il suo servigio di trascurar le nostre occupazioni, i nostri impieghi, Egli ci permette di dare attenzione agli affari temporali; vuole ancora che noi adempiamo i doveri di un impiego in cui siamo impegnati, ma vuole che lo facciamo con mira di piacergli, vuole che il suo servigio tenga il primo posto tra le nostre occupazioni; Egli ci proibisce tutte quelle che ce ne allontanerebbero, e che sarebbero incompatibili col servigio che gli dobbiamo. Perché dunque, fratelli miei, tanto deliberare sul partito che dovete prendere? Se Baal è vostro Dio, diceva altre volte un Profeta ad un popolo infedele, se esso può rendervi felici, seguitelo pure, ve lo permetto; ma se è il Signore, che merita tutti i vostri servigi, fin a quando esiterete voi di darvi a Lui? usquequo claudicatis in utramque partem (3 Reg. XVIII)? Evvi forse un padrone, da cui abbiate più a sperare, o più a temere che dal Signore vostro Dio? Ohimè! i servigi che gli rendete, sono già sì poca cosa in paragone delle ricompense che vi promette; bisogna ancora rapirgliene una parte per darla a padroni ingrati e perfidi, che non vogliono, né possono rendervi felici? Ah! se voi conosceste la grandezza e la bontà del padrone che servite, ben lungi di dividere con altri l’amore e i servigi che gli dovete, voi fareste al contrario tutti gli sforzi per fare di più di quel che vi domanda, sul timore di non fare tutto ciò che vi prescrive, o per lo meno riparereste col vostro fervore nel servirlo quel che la vostra debolezza non vi permette sovente di fare. No, fratelli miei, non sono le azioni eroiche che Dio domanda da voi, ma è il gran cuore, con cui farete quel che potrete nel vostro stato; Egli ama quei servi che gli danno con allegrezza, come dice l’Apostolo: hilarem datorem diligit (2 Cor. IX); che camminano con piacere nella via dei suoi comandamenti, che facendo minor attenzione a quel che han fatto, che a quel che hanno a fare, si esercitano con applicazione, dice S. Bernardo, nella pratica delle buone opere del loro stato; che lungi dal disanimarsi per le difficoltà che trovansi nella strada della virtù; le superano con coraggio, sono assidui all’orazione, a frequentare i Sacramenti, puntuali a seguire una regola prescritta, tutte queste azioni sono animate da uno spirito interiore; che non si lamentano giammai del rigore della perfezione, né del tempo che bisogna impiegare negli esercizi della vita cristiana; che sono sempre contenti in qualunque stato piaccia alla divina Providenza di collocarli, che non si contentano di evitare le colpe considerabili, ma che si astengono dalle minime apparenze di male; che non cercano, in una parola, in tutte le loro azioni che di fare la volontà di Dio e di piacergli. Tale è, fratelli miei, il carattere dei veri e ferventi servi di Dio; questi sono i fedeli adoratori in ispirito ed in verità, che il Padre celeste domanda, ben diversi da quei servi vili, tiepidi e poltroni, i quali nol servono che con nausea, trovano il giogo del Signore troppo grave, non lo portano, o piuttosto lo strascinano con tristezza, e si lamentano sempre delle difficoltà che trovano nel servigio di Dio, temendo di far troppo, e perdendosi di coraggio al minimo ostacolo che si presenta; essi non s’avanzano, per così dire, che contando i passi nelle vie della salute: voi li vedete or avanzare, or ritornar indietro, facendo più attenzione a quel che hanno fatto, che a quel che hanno a fare; essi credono di essere al termine della loro carriera, mentre appena l’hanno incominciata. Siccome sono più mossi dal loro interesse che da quelli di Dio, non si fanno alcuno scrupolo di cadere in molte colpe veniali che essi si perdonano facilmente e di cui non hanno attenzione di correggersi; fanno l’opera di Dio, ma la fanno trascuratamente, in fretta, e quasi per forza, riguardandola come un peso, di cui sono impazienti di sgravarsi: se pregano, è senz’attenzione e raccoglimento; se frequentano i Sacramenti, non ne ricavano alcun profitto; il solo nome di penitenza gli spaventa; tremano all’avvicinarsi di un digiuno, di una quaresima che trovano troppo lunga, e di cui sono impazienti di veder il fine. Convengono essi nulla di meno che bisogna farsi violenza, mortificarsi per guadagnare il Cielo; ma non vogliono che troppo loro costi; l’amor proprio non vuol perdere i suoi diritti: sono umili, quando non sono dispregiati, sono pazienti quando non sono offesi; casti quando non sono tentati, caritatevoli quando non bisogna incomodarsi per sollevare l’indigenza. Sono essi assaliti da qualche tentazione? non vi resistono che debolmente. Convien fare alcune buone opere? sono le più facili che scelgono, e dove hanno maggior inclinazione. Come fanno essi queste buone opere? sovente per convenienza, per usanza, per una divozione superficiale che un poco di religione loro ispira. Attaccati scrupolosamente a certe pratiche di pietà che si sono prescritte, nutriscono al di dentro passioni segrete che non hanno attenzione di domare; quindi viene che abbandonano facilmente le loro preghiere, la loro lettura, e gli altri esercizi della vita cristiana, tosto che si tratta di farsi violenza per es servi assidui. Gli affari, le compagnie che si presentano, li dissipano subito, e fanno loro abbandonare il servigio di Dio; e dopo essersi fatta violenza qualche tempo, seguono ben presto tutta l’impetuosità delle loro passioni. Non vi riconoscete voi forse, fratelli miei, al ritratto che fatto vi ho dei servi tiepidi e codardi? Se questo è, tremate per voi medesimi, perché siete in uno stato molto pericoloso per la salute; e piacesse a Dio, disse il Signore a quell’uomo che vi rassomiglia, piacesse a Dio che tu fossi freddo e caldo; ma perché tu sei tiepido, io comincio a vomitarti dalla mia bocca: utinam frigidus es ses, vel calidus; sed quia tepidus es, incipiam te vomere ex ore meo (Apoc. III). Qual espressione, fratelli miei! e la comprendete voi bene! Vale a dire che un servo tiepido è a riguardo di Dio come un cibo che lo stomaco più non sopporta. Il cuore di Dio non sopporta più questa creatura, se ne disgusta, non può soffrirla, Egli ama meglio che sia fredda, cioè che sia immersa nell’iniquità e nello sregolamento, perché l’orrore che ella avrebbe della sua condotta, il timore dei castighi la farebbe rientrare nel suo dovere; laddove un’anima tiepida che si acceca sopra il suo stato, che non si crede colpevole, è molto più difficile a convertire; avvezza a commettere colpe leggiere, confonde le mortali con le veniali, cade a sangue freddo nelle une, come nelle altre, allontana da sé le grazie particolari che Dio unisce alla fedeltà nel riempiere i suoi doveri; così abbandonata da Dio, accecata dalle sue illusioni, ella cade di abisso in abisso nell’ostinazione, nell’impenitenza finale, e nella morte eterna. Quanto è a temere questo stato, fratelli miei, e quali sforzi non dovete voi fare per uscirne, se infelicemente siete in esso impegnati, e per preservarvene, se non vi siete ancora? Niun mezzo più sicuro che servir a Dio con fervore: servite Domino in lætitia: Egli è più gran de di tutti i padroni, da cui voi avete il più a temere; Egli è il migliore di tutti i padroni, da cui voi avete più a sperare. Qual cosa più capace di rianimare in voi quello spirito di fervore, con cui Egli esige di essere servito? spiritu ferventes, Domino servientes (Rom. XII). Osservate come i re della terra, i grandi del mondo sono serviti, con qual puntualità si ubbidisce al minimo segno del loro volere. Mirate voi medesimi, come volete essere serviti da coloro che vi sono soggetti. Che direste voi di un servo, il quale non vi ubbidisce che brontolando e fa cesse di mal grado e con negligenza quello che gli co mandate. Come volete voi dunque che Dio vi tratti, se nol servite che in questa maniera? Ah! piuttosto considerate la grandezza del padrone che voi servite, le magnifiche ricompense che vi promette; questa vista v’indurrà a servirlo in tutto, a servirlo con fervore. Questo fervore vi renderà facile Ogni cosa e darà alle vostre azioni anche le più indifferenti un grado di merito per il Cielo. Considerate ancora ciò che Gesù Cristo ha fatto per voi, con qual fervore si è dato egli medesimo per la vostra salute. Quello che voi farete, uguaglierà forse giammai ciò che egli ha fatto per voi? Fate dunque tutte le vostre azioni con uno spirito interiore: spiritu ambulate (Gal. V). Questo fervore si manifesti colla pratica delle virtù, che l’Apostolo chiama i frutti dello Spirito Santo come sono la pazienza, le mansuetudine, la longanimità, la continenza, la castità: a questi segni voi conoscerete che siete i veri servi di Dio. Non riguardate giammai ciò che avete fatto, mentre qualunque cosa abbiamo fatta per Dio, bisogna sempre riguardarci come servi inutili: servi inutiles sumus (Luc. XVII). Non pensate che a quel che vi resta per avanzar sempre di più in più nella via della santità. Siate fedeli a riempiere i vostri più piccoli doveri: distribuite così bene il vostro tempo, che l’orazione, il santo sacrificio, la lettura, la visita al Santissimo Sacramento vi abbiano luogo. Non regolate giammai il servizio di Dio sui vostri affari; ma piuttosto tutti i vostri affari siano regolati, subordinati al servigio del Signore; diportatevi in tutte le vostre azioni in una maniera degna di Dio; siate premurosi per quel che riguarda il suo servigio; dategli con un gran cuore ciò che egli vi domanda: corde magno et animo volenti; egli vi ricompenserà altresì con un amore degno di lui. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:8-9

Immíttet Angelus Dómini in circúitu timéntium eum, et erípiet eos: gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus.

[L’Angelo del Signore scenderà su quelli che Lo temono e li libererà: gustate e vedete quanto soave è il Signore].

Secreta

Concéde nobis, Dómine, quǽsumus, ut hæc hóstia salutáris et nostrórum fiat purgátio delictórum, et tuæ propitiátio potestátis.

[Concédici, o Signore, Te ne preghiamo, che quest’ostia salutare ci purifichi dai nostri peccati e ci renda propizia la tua maestà].

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Matt VI:33
Primum quærite regnum Dei, et ómnia adjiciéntur vobis, dicit Dóminus.

[Cercate prima il regno di Dio, e ogni cosa vi sarà data in più, dice il Signore.]

 Postcommunio

Orémus.
Puríficent semper et múniant tua sacraménta nos, Deus: et ad perpétuæ ducant salvatiónis efféctum.

[Ci purífichino sempre e ci difendano i tuoi sacramenti, o Dio, e ci conducano al porto dell’eterna salvezza].

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

DOMENICA XIII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XIII dopo PENTECOSTE (2020)

La Chiesa ci fa leggere in questo tempo nel Breviario il principio del libro dell’Ecclesiaste: « Vanità delle vanità, dice l’autore sacro, tutto è vanità. Si dimentica ciò che è passato, e le cose. che debbono ancora venire non lasceranno ricordi presso quelli che verranno più tardi. Io ho vedute tutte le cose che avvengono sotto il sole, ed ecco che sono tutte vanità e afflizione dell’anima. I perversi difficilmente si correggono e infinito è il numero degli insensati » (7° Nott.). « Dopo che Salomone poté contemplare la luce della vera sapienza, dice S. Giovanni Crisostomo, uscì in questa esclamazione sublime e degna del cielo: « Vanità delle vanità, tutto è vanità! ». A vostra volta, se volete, potete rendere simile testimonianza. È vero che nei secoli passati, Salomone non era tenuto ad una diligente ricerca della sapienza, poiché l’antica legge non considerava vanità il godimento dei beni superflui; tuttavia, malgrado questo stato di cose, si può vedere quanto siano vili e dispregevoli. Ma noi, chiamati a virtù più perfette, saliamo a cime più alte, ci esercitiamo in opere più difficili. Che dire di più se non che ci è stato comandato di regolare la nostra vita su virtù celesti, che non hanno nulla di materiale e che sono tutta intelligenza? » (2° Nott.). Queste virtù celesti sono per eccellenza, le tre virtù teologali: « fede, speranza, carità » che l’Orazione ci fa chiedere a Dio affinché noi « non amiamo se non quello che Egli ci comanda ». Ed è per questo motivo che la Chiesa fa leggere in questo giorno [‘Epistola di S. Paolo ai Corinti, che ha per oggetto la fede in Gesù Cristo, fede che agisce mediante la carità e che ci fa mettere, come già Abramo, la nostra speranza nel divino Salvatore. Infatti solo per questa fede operante e confidente, le anime coperte dalla lebbra del peccato vengono guarite come ci mostra il Vangelo. I dieci lebbrosi che rappresentano in qualche modo le trasgressioni fatte dagli uomini ai dieci comandamenti, scorgono il loro divino Medico e, ponendo subito in Lui ogni speranza: « Maestro, abbi pietà di noi! » gridano. La fede loro è operante, perché quando Cristo li mette alla prova dicendo: « Andate, mostratevi ai sacerdoti », essi vanno senza esitare e, andando, sono guariti. Ma questa guarigione è confermata da uno solo di quelli che tornò indietro per mostrare la sua riconoscenza a Gesù. « Quando uno di essi si vide guarito, tornò sui suoi passi, glorificando Dio ad alta voce e cadendo con la faccia a terra ai piedi di Gesù, lo ringraziò ». Gesù allora gli disse: « Va, la tua fede ti ha salvato ». Questo mostra che è la fede in Gesù che salva le anime. Ora se è la fede in Gesù che salva le anime, la Chiesa ha precisamente da Gesù la missione di far penetrare nelle anime questa fede mediante la predicazione e la lettura. Questo passo del Vangelo ci indica anche l’espulsione dei Giudei che sono stati ingrati verso Colui che era venuto per guarirli, mentre i Gentili gli sono stati fedeli. Dei dieci lebbrosi infatti  nove erano Giudei e uno solo non lo era, ed è a questo solo — che era Samaritano, e tornò indietro a ringraziare il Salvatore — che Gesù dice: La tua fede t’ha salvato. Da ciò si vede non essere soltanto ai figli d’Abramo secondo il sangue che è stata fatta questa promessa, ma ancora a tutti coloro i quali sono suoi figli perché partecipi della sua fede in Gesù Cristo. Infatti è per questa fede che la promessa di vita eterna fatta ad Abramo si estende a tutti i popoli. Così l’Orazione della III Profezia del Sabato Santo dice che « col Battesimo, Dio, moltiplicando i figli della promessa stabilisce Abramo, suo servo, padre di tutte le genti secondo la profezia ». « Fate, soggiunge la quarta Orazione, che tutti i popoli della terra diventino figli d’Abramo e partecipino della grandezza toccata in sorte al popolo d’Israele». I Gentili occupano dunque il posto dei Giudei. « I nove, commenta S. Agostino, gonfi d’orgoglio, credevano di umiliarsi col ringraziare; e non ringraziando sono stati riprovati e rigettati dall’unità che si trova nel numero dieci (vi erano dieci lebbrosi), mentre l’unico che ringrazia è approvato dall’unica Chiesa. — Così per il loro orgoglio, i Giudei perdettero il regno dei cieli dove regna la più grande unità; mentre il Samaritano, sottomettendosi al re col suo ringraziamento, ha conservata l’unità del regno per la sua devozione piena di umiltà» (Mattutino). I Giudei entreranno in massa nel regno dei cieli alla fine del mondo, allorché crederanno in Gesù, ed è a ciò cui fa allusione l’Introito quando essi chiedono che la loro esclusione dalla Chiesa non sia irrevocabile: « Ricordati, o Signore, della tua alleanza, non abbandonare le anime dei poveri alla fine.  Perché, o Dio, ci hai rigettati? Perché la tua collera si è accesa contro le pecore del tuo ovile? ». E la Chiesa chiede a Dio « d’essere propizio al suo popolo, e, placato dal sacrificio che gli viene offerto, di perdonare la sua ingratitudine » (Secr.). Quanto ai Gentili, essi dicono a Gesù che ripongono in Lui tutta la loro speranza (Off.) perché si è fatto loro rifugio di generazione in generazione (All.) e li nutre del suo pane celeste, come fece per gli Ebrei nel deserto, allorché dette la manna che conteneva ogni sapore ed ogni dolcezze (Com.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXIII: 20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.

[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le anime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Ps LXXIII: 1

Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?

[Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.

[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod præcipis.

[Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti S. Pauli Apóstoli ad Gálatas.

[Gal. III: 16-22]

“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.

[“Fratelli: Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua discendenza. Non dice la scrittura: E ai suoi discendenti, come si trattasse di molti; ma come parlando di uno solo: E alla tua discendenza; e questa è Cristo. Ora, io ragiono così; un’alleanza convalidata da Dio non può, da una legge venuta quattrocento anni dopo, essere annullata, così da rendere vana la promessa. Poiché, se l’eredità viene dalla legge, non vien più dalla promessa. Ma Dio l’ha donata ad Abramo in virtù d’una promessa. Perché dunque la legge? È stata aggiunta in vista delle trasgressioni, finché non venisse la discendenza a cui era stata fatta la promessa, e fu promulgata per mezzo degli Angeli per mano di un mediatore. Ora non si dà mediatore di uno solo, e Dio è uno solo. Dunque la legge è contraria alle promesse di Dio? Niente affatto. Se fosse stata data una legge capace di procurarci la vita, allora, sì, la giustizia verrebbe dalla legge. Ma la Scrittura ha racchiuso tutto sotto il peccato, affinché la promessa, mediante la fede in Gesù Cristo, fosse data ai credenti»”.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

UNO SGUARDO AL CROCIFISSO

S. Paolo aveva insegnato ai Galati che la giustificazione non dipende dalla legge di Mosè, ma dalla fede in Gesù Cristo, morto per noi in croce. Ma Gesù Crocifisso. dipinto tanto vivamente dall’Apostolo ai Galati, era stato ben presto dimenticato da essi, lasciatisi affascinare da coloro che insegnavano dover noi attendere la nostra salvezza dalla legge. S. Paolo, rimproverata la loro stoltezza, nota come Gesù, morendo sulla croce, maledetta dalla legge, libera i Giudei dalla maledizione, e conferisce a tutti, Giudei e Gentili, che si uniscono nella fede in Gesù Cristo, lo Spirito promesso. Passa poi a far osservare come vediamo nell’epistola di quest’oggi, che la promessa dei beni celesti, fatta ad Abramo e alla sua discendenza. cioè al Cristo, nel quale si sarebbero unite tutte le nazioni a formare un solo popolo, essendo incondizionata, fatta ad Abramo direttamente da Dio, e da Dio confermata, aveva tutto il carattere d’un patto irremissibile. Non poteva, quindi, venir indebolita o modificata dalla legge di Mosè venuta 430 anni dopo, con un contratto temporaneo. La legge, del resto, non escludeva la promessa, dal momento che essa non poteva giustificare e dare la vita, come fa la promessa. E neppure fu inutile; perché, facendo conoscere i numerosi doveri da compiere, senza porgere l’aiuto necessario, metteva l’uomo nella condizione di dover sperimentare tutta la propria debolezza e di sentir la necessità d’un Redentore; e di riconoscere, per conseguenza, che le celesti benedizioni non possono essere effetto della legge, ma della promessa, e che non si ottengono che con la fede in Gesù Cristo. Gesù Cristo, che morendo in croce, adempie le promesse fatte da Dio, sarà l’argomento di questa mattina. – Gesù Cristo Crocifisso, così presto dimenticato dai Galati, fermi la nostra attenzione. Consideriamo come il Crocifisso:

1. È il centro dei cuori

2. È la nostra guida,

3. È la causa della nostra salvezza.

1.

La legge mosaica non ci dà l’eredità né le benedizioni promesse, Essa è stata aggiunta in vista delle trasgressioni, finché non venisse la discendenza a cui era stata fatta la promessa. La legge aveva lo scopo di indicare le trasgressioni e di far sentire il peso dei peccati, risvegliando così e tenendo desta l’aspirazione al Salvatore, senza la grazia del quale era impossibile l’osservanza dei precetti. L’eredità e le benedizioni noi le abbiamo in Gesù Cristo, che muore per noi sulla croce. Dopo la risurrezione di Lazzaro, i pontefici e i farisei, che volevano sbarazzarsi di Gesù, radunato il consiglio, si pongono la domanda: «Che facciamo? Poiché quest’uomo opera grandi meraviglie. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui». E Caifa, il pontefice di quell’anno, consiglia di disfarsene: «Conviene che un uomo muoia per il popolo» (Joan. I, 47). Che cosa si aspettavano costoro dalla morte di Gesù? Forse di seppellirne col corpo anche la memoria? Accecati dall’odio, questi orgogliosi che si vantavano di aver per padre Abramo, non avevano voluto riconoscere l’unica sua discendenza, cioè il Cristo, al quale erano state fatte tutte le promesse. Ragionando da veri insensati, confessano che Gesù compie dei miracoli, e invece di trarne la conseguenza: — Con questi miracoli egli prova che è veramente il Messia promesso, l’inviato di Dio, — concludono: — Sopprimiamolo: con la sua soppressione scompariranno anche i seguaci. — E lo sopprimono con la morte di croce. – Ma l’uomo propone e Dio dispone. Gesù Cristo aveva detto: «E io, quando sarò innalzato da terra, tutto trarrò a me (Joan. XII, 32). – Quando egli è innalzato sulla croce gli animi di buona volontà si rivolgono a Lui. Non è solamente il discepolo prediletto con la Madre e un gruppo di pie donne, che sono attratti a colui che muore sul patibolo. Uno dei due ladroni, che gli stanno di fianco, crocifisso come Lui, riconosce il Messia, che non vollero riconoscere i Giudei, e, rivolgendosi a Lui, lo pregò: «Signore, ricordati di me quando giungerai nel tuo regno. E Gesù gli rispose: Ti dico in verità; oggi sarai con me in Paradiso ». (Luc. XXIII, 42-43). Gesù è spirato sulla croce, e continua a conquistare  anime e a piegare i cuori. Il centurione, che stava di rimpetto a Gesù crocifisso, proclama la sua divinità e dà gloria a Dio. Coloro che erano andati al Calvario per vedere il supplizio di Gesù, riconoscono l’ingiustizia commessa contro di Lui, ed esprimono il loro dolore percuotendosi il petto. Sulla croce Gesù inaugura il regno dell’amore che conquisterà tutti i popoli della terra. E la Chiesa può cantare solennemente: «Dio regnò dal legno» (Vexilla Regis). – Gli Apostoli, mandati alla conquista di coloro che erano sotto il giogo di Satana, presentano Gesù Crocifisso. armati di nient’altro che del crocifisso partirono alla conquista dei popoli i loro successori. Armati di quest’unica arma compiono ancora oggi le loro conquiste i missionari tra gente barbara e selvaggia. – Il Crocifisso cerca con lo sguardo e con l’anima colui che sta per partire da questo mondo: davanti al Crocifisso si reca a cercar il balsamo lenitore chi è provato dal dolore: nelle piaghe del Crocifisso cerca il suo porto di salvezza chi è agitato dalle tentazioni: baciando il Crocifisso, trova la rassegnazione e la pace chi muore per la mano della giustizia terrena. Il Crocifisso è veramente la pace, il gaudio la vita dei Cristiani; è il centro dei loro cuori.

2.

Se fosse stata data una legge capace di procurarci la vita, allora, si, la giustizia verrebbe dalla legge. Ma Dio non volle dare alla legge antica il potere di comunicare all’uomo la vita della giustizia. E così, l’uomo non deve cercare la sua salute nelle opere della legge. Deve cercarla, mediante la fede e la carità, in Gesù Cristo, salito sulla croce a immolarsi per tutti, a esser «guida e luce nella via dell’esilio». – Le inclinazioni degli uomini non sono, senza dubbio, un incitamento alla virtù. Gli uomini desiderano le ricchezze, e Gesù Cristo, che fu poverissimo durante la sua vita, sulla croce è spogliato dell’unica veste. Gli uomini bramano gli onori, la gloria. Gesù, che aveva rifiutato di esser fatto re durante gli anni della sua vita pubblica, sulla croce sopporta con animo mansuetissimo i disprezzi che gli si fanno da parte di tutti, dopo esser stato percosso, sputacchiato, da vili sgherri e dalla plebaglia. È là come l’aveva dipinto Isaia: «Come tu fosti lo stupore di molti, così il tuo aspetto sarà senza gloria tra gli uomini e la tua faccia tra i figli degli uomini» (Is. LII, 14). La disubbidienza spopolò il cielo d’una gran quantità di Angeli, e portò la rovina del genere umano. Gesù Cristo, che nella bottega di Nazaret passò la vita nell’ubbidienza a Maria e a Giuseppe, sulla croce ubbidisce ai carnefici, ai giudici iniqui, che un giorno saranno da Lui giudicati. Raramente noi ci manteniamo calmi nei contrasti, nelle pene. Ci ribelliamo, e dichiariamo ingiuste le afflizioni che ci provano. Gesù sulla croce, dissanguato dai flagelli, con le mani e i piedi trapassati da chiodi, con spine confitte nel capo, agnello senza macchia, sopportò il peso della pena dovuta ad altri, e tace. – Duro è per noi dimenticare le offese ricevute, amare coloro che ci fanno del male. Ma diventerebbe leggero, se dessimo uno sguardo a Gesù, che dalla croce, perdona a suoi offensori, li scusa, prega per loro. – Il Beato Vincenzo Maria Strambi, era stato incaricato dal Papa Pio VI di predicare una missione al popolo di Roma nella vastissima Piazza Colonna. Una sera, nella foga dell’orazione, gli venne a mancare la voce. Riusciti inutili gli sforzi per farsi sentire, prese nelle mani Crocifisso, e lo mostrò al popolo, additandone le piaghe grondanti sangue, e, come poté, disse: «Popolo mio, io non posso più parlare; questo crocifisso parlerà per me». E il crocifisso parlò veramente al cuore dei Cristiani, poiché nessuno partì da quella piazza senza di aver concepito il proposito d’una vita migliore. – Se noi amiamo Gesù Crocifisso, ogni volta che gli diamo uno sguardo parlerà al nostro cuore con parola ora ammonitrice, ora esortatrice, che ci farà progredire sempre più nella via del bene.

3.

 Quando Gesù pende in croce, popolo, sacerdoti, senior e perfino il brigante che gli è crocifisso a fianco concordi nello scherno atroce : «Scenda dalla croce » (Matth. XXVII, 40-44). Se Gesù avesse voluto, sarebbe certamente sceso dalla croce. Poche ore prima solamente, aveva dato prova del suo potere, quando con due parole: «Sono io», dimostrò tanta potenza, che i soldati mandatigli incontro « diedero indietro e stramazzarono per terra» (Joan. XVIII, 6). Egli pende in croce, ma è sempre quel Gesù «potente in opere e in parole» (Luc. XXIV, 19) che guariva le malattie corporali e spirituali, che ridava la vita ai corpi e alle anime. Egli pende in croce come un malfattore, ma dalla croce dà la vita eterna al ladrone che gli sta vicino; e, spirando in croce, apre i sepolcri, da cui risorgono i morti addormentati nel Signore. Egli muore in croce, e la sua morte segna l’adempimento della promessa… data ai credenti. – Col peccato il giogo di satana era stato posto sul collo degli uomini, e nessuna forza umana avrebbe potuto scuoterlo. Gesù Cristo sulla Croce compì quello che nessun uomo avrebbe potuto compiere. Egli carica sopra di sé le colpe di tutti gli uomini; si presenta a Dio in abito di peccatore, e chiede che su Lui si compia la giustizia che doveva compiersi sui mortali. L’offerta è gradita al Padre, la sostituzione è accettata. Pene esterne e interne lo avvolgeranno come in un mare, e tutto sarà suggellato con la morte. Ma con questa morte il decreto di condanna è stracciato, il potere di satana è infranto. «Nel paradiso (terrestre) germogliò la morte; sulla croce la morte fu tolta » (S. Giov. Cris. In Epist. ad Eph. Hom. 20, 3). satana si era servito del frutto proibito per introdurre nel mondo il suo regno; per mezzo dell’albero della Croce Gesù Cristo prende la rivincita su satana. Sulla croce Gesù sta non come un giustiziato, ma come un conquistatore, che, conquiso e debellato il suo nemico, dall’alto del trono proclama la vittoria; e annuncia ai popoli tutti della terra la liberazione dalla schiavitù, la fine del regno della maledizione e il principio del regno della grazia. – Dall’alto della croce Gesù ci dice con le sue piaghe che il prezzo del riscatto è di valore così grande che nessuno, per quanto gravi siano i Suoi peccati, ne va escluso; dall’alto della croce, con le braccia aperte, Gesù ci dice tutta la sua brama di vederci vicini a Lui, di poterci abbracciare. – Non dimentichiamo, come i Galati, l’immagine del Crocifisso; ma frequentemente «si dia uno sguardo alla croce, su cui, per mezzo del gran delitto dei Giudei, ebbe compimento la volontà di Dio misericordioso, il quale volle che fosse ucciso il suo unico Figlio per la nostra salvezza ».

Graduale

Ps LXXIII:20; 19; 22.

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.
[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.]

Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja
[V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].

Alleluja

Ps LXXXIX: 1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja.

[O Signore, Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII: 11-19

In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri. Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt? Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.”  

[“In quel tempo andando Gesù in Gerusalemme, passava per mezzo alla Samaria e alla Galilea. E stando por entrare in un certo villaggio, gli andarono incontro dieci uomini lebbrosi, i quali si fermarono in lontananza, e alzarono la voce dicendo: Maestro Gesù, abbi pietà di noi. E miratili, disse: Andate, fatevi vedere da’ sacerdoti. E nel mentre che andavano, restarono sani. E uno di essi accortosi di essere restato mondo, tornò indietro, glorificando Dio, ad alta voce: e si prostrò per terra ai suoi piedi, rendendogli grazie: ed era costui un Samaritano. E Gesù disse: Non sono eglino dieci que’ che son mondati? E i nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse, e gloria rendesse a Dio, salvo questo straniero. E a lui disse: Alzati, vattene, la tua fede ti ha salvato”]

OMELIA II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sul frequente uso della confessione.

“Ite, ostendite vos sacerdotibus. Luc. XVII.

Quel che Gesù Cristo disse a quei lebbrosi di cui si parla nell’odierno vangelo, è ciò, fratelli miei, che Egli c’incarica di dire ai peccatori coperti della lebbra del peccato, di cui quelli erano figura. Peccatori, che gemete sotto il peso di una malattia molto più funesta che la lebbra del corpo, poiché questa non gli toglie la vita, laddove il peccato dà la morte all’anima, volete voi essere guariti da questa malattia mortale, che vi ha fatto perdere la vita della grazia? Andate a scoprirla ai medici, che Gesù Cristo ha stabiliti per guarirvi, dichiarate i vostri peccati ai sacerdoti ch’Egli ha rivestiti della sua autorità per rimetterveli: Ite, ostendite vos sacerdotibus. Egli è vero che Gesù Cristo, supremo medico delle nostre anime, potrebbe benissimo guarirvi da se stesso senza inviarvi ai suoi ministri, come guarì un lebbroso del Vangelo nel momento che questi gliene ebbe fatta domanda, e come guarì anche quelli di cui abbiam parlato. Ma notate, fratelli miei, che sebbene il Salvatore accordasse la guarigione a quei lebbrosi, pure esigette da essi che, per ubbidire alla legge, andassero a mostrarsi a chi doveva dichiararli esenti dalla macchia legale, che avevano contratta. Egli voleva con questo, come osservano i santi Padri, farci conoscere qual sarebbe in appresso il potere dei sacerdoti della nuova legge, i quali non dovevano solamente, come quelli dell’antica, discernere i lebbrosi da coloro che tali non erano, e dichiararli esenti da una macchia legale; ma dovevano purificare i peccatori dalla lebbra e dalla macchia del peccato. Si è questo potere ammirabile, che Gesù Cristo ha lasciato ai sacerdoti nella persona degli Apostoli, allorché disse loro: A quelli cui rimetterete i peccati saranno rimessi, a quelli cui li riterrete saranno ritenuti. Con questo Egli ha stabiliti i sacerdoti giudici della causa dei peccatori, di modo che le sentenze, che essi pronunciano sulla terra siano ratificate nel cielo. Bisogna dunque, peccatori, che volete esser assolti dai vostri peccati, vi presentiate al tribunale di questi giudici; bisogna vi indirizziate a questi medici, se volete esser guariti dalle vostre malattie. Voi non potete sottrarvi alla loro giurisdizione, senza far contro la volontà di Gesù Cristo, che avrebbe loro dato un potere inutile di legarvi o sciogliervi, se non foste obbligati a sottomettervi al loro giudizio. Ma, oltre la legge, che vi obbliga a mostrarvi ai sacerdoti per dichiarare i vostri peccati, quanti vantaggi ve ne derivano! – Ed è appunto per questo motivo d’utilità, che io prendo quest’oggi ad esortarvi che vi accostiate spesso al sacro tribunale della penitenza. Vediamo quali sono i vantaggi di una buona e frequente confessione: primo punto; qual è il danno di coloro che si allontanano dalla confessione: secondo punto.

I. Punto. Non conviene dissimularlo! fratelli miei, la confessione è un giogo che ha il suo peso; ella è un rimedio, la cui amarezza ripugna alla natura; reca pena il confessarsi reo, dichiarare ad un mortale ciò che si ha di più segreto, palesar cose di cui si arrossisce e che si vorrebbe poter nascondere a se stesso. Ma senza esaminare ciò che v’è di duro e di penoso in questo giogo, queste pene e queste amarezze non sono forse molto raddolcite dai vantaggi che vi si trovano? Infatti, quanti beni non procura la confessione ai peccatori, ed ai giusti? Ai peccatori, ella è un mezzo tanto efficace quanto facile per rientrare in grazia con Dio; ai giusti, ella è un aiuto per crescere in virtù e perseverar nella grazia. Niuno v’ha tra voi, fratelli miei, che questo soggetto non interessi, e che non debba essere animato da questi motivi a fare un frequente uso della confessione. Ripigliamo. – Quanto è mai deplorabile lo stato di un peccatore! nemico di Dio, egli ha perduto il diritto, che aveva al cielo; schiavo del demonio, egli è una vittima destinata alle vendette eterne. Ah! come potete voi, o peccatori, rimaner un sol momento in quello stato, sul punto in cui siete di cader ad ogni istante nell’inferno se foste sorpresi dalla morte? Come non ricorrete voi al rimedio, che può preservarvi dalla morte eterna? Questo rimedio è la confessione; rimedio efficace, che per la virtù datagli da Gesù Cristo può cancellare il vostro peccato, riconciliarvi con Dio, ristabilirvi nei diritti che avete perduti, e procurarvi la pace di una buona coscienza. Tali sono per i peccatori i vantaggi di una confessione ben fatta. – Sì, fratelli miei, quantunque i vostri peccati fossero moltiplicati sopra le gocce d’acqua che sono nel mare, sopra i grani di sabbia che sono nella terra, essi sono tutti cancellati con una buona confessione; il Signore non se ne ricorderà più, dice il profeta: sebbene foste più neri del carbone, aggiunge egli, voi diverrete più bianchi della neve. Anatema, dice il santo concilio di Trento, a chiunque dicesse che v’è qualche peccato irremissibile, poiché Gesù Cristo ha dato ai suoi Apostoli ed ai Sacerdoti loro successori un potere, che non è limitato ad alcun genere di peccato. Tutto ciò che voi sciorrete sopra la terra, disse loro, sarà sciolto nel cielo: Quodcumque solventi» super terram, erit solutum et in cœlis. Benché foste voi fratricidi come Caino, adulteri come Davide, ingiusti come Acab, empi come Manasse, in una parola, benché avreste commessi tanti peccati come tutti gli uomini insieme, essi saranno tutti cancellati col sangue di Gesù Cristo, che vi sarà applicato con questo Sacramento; tutti i vostri nemici saranno sommersi, annegati in questo mar rosso uscito dalle fontane del Salvatore; le chiavi che Gesù Cristo ha confidate alla sua Chiesa chiuderanno l’inferno, che era aperto per inghiottirvi, vi apriranno il cielo, che vi era chiuso; di schiavi del demonio che eravate, voi diverrete figliuoli di Dio, suoi amici. Questo tenero Padre, come quello del fìgliuol prodigo, vi riceverà nella sua casa, vi darà il bacio di pace, vi renderà la vostra prima veste, vi metterà l’anello in dito; cioè vi arricchirà di tutti i tesori delle grazie e delle virtù che avevate perdute per lo peccato. – Ecco un vantaggio della confessione che vi prego di ben osservare. Il peccato mortale, dando la morte all’anima, le fa perdere non solamente la grazia santificante, che è la sua vita soprannaturale, ma ancora tutto il merito delle buone opere, che essa può aver acquistato: quand’anche avesse ella accumulati tanti tesori di merito come tutti i santi insieme, il peccato le toglie tutte le ricchezze: oh perdita degna di essere pianta con lagrime di sangue! Ma consolati, anima sfortunata, ecco un mezzo efficace di riparare le tue disgrazie. Il Sacramento della penitenza ti fa ricuperare quella grazia santificante che tu avevi perduta e riconduce seco tutti i meriti che l’accompagnavano. Questo è ciò che ci promette il Signore per uno dei suoi profeti quando dice che ci renderà quei belli anni, che la ruggine ed i vili insetti avevano rosicchiati e distrutti: Reddam vobis annos quos comedit locusta, bruchus et rubigo. (Joel. II). Cioè, secondo la spiegazione di s. Girolamo, un’anima la quale rientra in grazia con Dio ricupera tutti i meriti delle buone opere, che aveva fatti altre volte in istato di grazia. Queste buone opere, che erano mortificate per il peccato, come dicono i teologi, riprendono una nuova vita per la penitenza; di modo che le azioni virtuose, che non sarebbero state contate per nulla se il peccatore fosse morto in istato di peccato, saranno eternamente ricompensate in cielo, se muore nello stato della grazia, che ha ricuperata: reddam vobis. Felice riparazione, fratelli miei, che, facendoci conoscere la bontà di Dio per lo peccatore, ci fa vedere nello stesso tempo qual è la virtù e l’efficacia del Sacramento della penitenza; l’anima vi è liberata dalla schiavitù del peccato e del demonio, e vi ricupera la sua primiera bellezza. – Quindi, quella pace, quell’allegrezza di una buona coscienza, che si prova dopo una confessione ben fatta; siccome un infermo tormentato dai dolori di un tumore trovasi molto alleggerito quando questo sia stato aperto, e se ne sia fatto uscire tutto il veleno; così il peccatore gode di un dolce riposo interiore, quando non sente più dentro di sé quel veleno mortale, che infettava l’anima sua. Sgravato dal peso dei suoi delitti, egli gusta una pace che sorpassa tutte le allegrezze del mondo. Quale allegrezza per un prigioniero già condannato alla morte, quando gli si annuncia che gli è fatta grazia! Quale allegrezza per un infermo, che si è veduto alle porte della morte, e che ricupera la sanità più perfetta; per un figliuolo, che aveva incorsa la disgrazia del migliore dei padri, da cui aveva tutto a temere, e che ne possiede tutta la tenerezza! Quale soddisfazione per un mercante, che aveva perdute in un naufragio tutte le merci di cui era carica la sua nave, e che ritrova in un momento tutte le sue ricchezze! Tale è mille volte più grande e ancora deve essere l’allegrezza d’un peccatore riconciliato col suo Dio. Non è più tormentato questo peccatore dai rimorsi della coscienza, che gli rimproverava il suo delitto, e gli faceva sentire il rischio in cui era di cadere in una infelicità eterna; ma egli è sicuro, quanto si può essere in questa vita, che gode della libertà dei figliuoli di Dio, che possiede l’amicizia del suo Dio, e che se egli muore in quel felice stato, prenderà possesso nel cielo del posto che gli è stato destinato e che aveva perduto. Ah quanto è consolante questo pensiero! Io ne chiamo in testimonio la vostra esperienza, fratelli miei. Quando è che voi avete gustato più soave riposo, pace e piacere? Non è forse in quei giorni felici, in cui con il cuore penetrato dal dolore avete confessate le vostre colpe ai piedi del ministro di Gesù Cristo, il quale vi ha detto da parte sua quelle consolanti parole: Andate in pace: Vade in pace. Non vi sembrava forse all’uscir dal tribunale della riconciliazione d’esservi alleggeriti di un peso molto grave? Siete voi stati giammai più tranquilli e più contenti che nei primi momenti dopo la vostra riconciliazione? Perché dunque non vi servite di un mezzo cosi efficace per procurarvi tutti i vantaggi di cui abbiamo parlato, giacché questo mezzo è si facile? Mentre finalmente, di che si tratta per ottenere il perdono delle vostre colpe? Si tratta di confessarle con cuor contrito ed umiliato, e la vostra grazia è sicura. Qual differenza tra il tribunale della misericordia di Dio e quello della giustizia degli uomini! In questo la confessione del reo lo fa condannare, in quello lo fa assolvere: in questo si producono testimoni, si tormenta il reo per trarre la prova di un delitto; e quando il delitto è provato, si condanna alla morte o al supplizio che ha meritato; ma nel tribunale della penitenza non v’è altro testimonio che il reo, egli è il suo proprio accusatore, e tosto che si accusa, ode pronunciare un giudizio favorevole, un giudizio che lo libera dalla morte per dargli la vita. Possiamo noi forse lamentarci che il perdono è accordato a dure condizioni, o piuttosto una grazia di un si gran prezzo, non sorpassa tutta la pena, che provare possiamo nel dichiararci colpevoli? Ah! se i rei detenuti nelle prigioni potessero così facilmente rompere la loro catena; se con la sola confessione dei loro delitti potessero mettersi in libertà e preservarsi dai supplizi, cui devono essere condannati, ben tosto quei luoghi d’orrore e di miseria sarebbero aperti per farne uscire tutti i colpevoli; niuno sarebbevi, che non confessasse il suo mancamento, che non si riputasse felice di potere ad una condizione così facile ricuperare la sua libertà. E pure, fratelli miei, qual differenza tra il loro stato e quello del peccatore, che è sotto l’impero del demonio. Qual differenza tra i supplizi, a cui la giustizia degli uomini condanna i colpevoli, e i tormenti che la giustizia di Dio riserba ai peccatori! Gli uomini possono tutti al più condannar i colpevoli a perdere una vita temporale per via di dolori, che non sono di gran durata; ma il peccatore merita di essere condannato ad una morte eterna, a supplizi che sorpassano infinitamente pel loro rigore e per la durata tutto ciò che si possa soffrire quaggiù di più doloroso. Si può, torno a dirvi, trovar più duro ed amaro un mezzo così facile di preservarsi da quei supplizi come è quello di fare la confessione dei suoi delitti? – Se per essere liberato dalla morte eterna che merita il peccatore, Dio gli domandasse d’intraprendere cose difficili, di fare penosi viaggi, di soffrire lunghi e crudeli supplizi, di dare tutti i suoi beni ed anche la vita; oimè! egli nulla domanderebbe che non fosse molto da meno della grazia, che gli accorderebbe; ed il peccatore non dovrebbe esitare neppure un momento a sottomettersi a tutto per evitare un’infelicità eterna. Ma noi fratelli miei, Dio non esige tanto da voi: un vivo pentimento, una confessione sincera delle vostre colpe, fatta ai piedi dei suoi ministri disarma la sua collera, vi apre il seno delle sue misericordie. Da qual riconoscenza non dovete voi essere penetrati verso questa divina misericordia sì facile a perdonare? E con qual premura non dovete voi, servirvi del mezzo che essa vi offre per avere il perdono? –Noi leggiamo nella Scrittura che Naaman, generale delle armate del re di Siria, essendo venuto in Israele per essere guarito dalla lebbra, il Profeta Eliseo gli fece dire di lavarsi sette volte nel Giordano. Quel signore riguardò questa risposta come un segno di disprezzo, e se ne ritornò acceso di collera: era forse d’uopo, esclamava egli, di lasciar la mia patria? I fiumi che la innaffiano non sono forse migliori dell’acqua del Giordano? E che! (gli dissero i suoi servi) se il Profeta vi avesse domandato qualche cosa di più difficile per essere guarito, voi l’avreste dovuto fare: si rem grandem dicisset tibi Propheta, certe facere debueras (IV Reg. V). Con quanto più forte ragione dovete voi adempire un precetto così facile, come quello di lavarvi nel Giordano per essere guarito dalla vostra lebbra: quanto magisquia nunc dixit tibi, lavare et mundaberis (Ibid.) Di voi parla, o peccatori, lo Spirito Santo in questo esempio: se per essere purificati dalla lebbra del peccato, di cui voi siete infetti, Dio esigesse da voi cose difficili, dovreste voi esitare ad ubbidirgli? Ma no, quel che domanda è facile; egli ci comanda di lavarvi in questa piscina misteriosa, di cui l’Angelo del Signore non fa solamente scorrere le acque a certi tempi, come in quella di Gerusalemme, ma che vi è aperta in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Perché ricusate voi di tuffarvi in essa? Avete voi a dolervi come quel paralitico della piscina di Gerusalemme? Da trent’otto anni io non ho alcuno, diceva egli, per fare scorrere su di me le acque medicinali. Vi mancano forse, fratelli miei, ministri del Signore pronti a ricevervi ogni qual volta vorrete accostarvi ai sacri tribunali della Penitenza? – Andate dunque ad immergervi in questa piscina per essere purificati da tutte le vostre macchie; mostratevi al sacerdote tali quali voi siete: ite ostendite vos sacerdotibus (Luc. XVII). Rivelate tutte le vostre vie, come lo fa reste a Dio medesimo: Revela Domino viam tuam (Psal. XXXVI). Questi Angeli del Signore, questi ministri della sua autorità faranno scorrere su di voi le acque salutevoli della grazia che vi laveranno da tutte le vostre iniquità; essi vi diranno da parte del loro maestro, ciò che disse egli a quel lebbroso del Vangelo: volo mundare (Matth. VIII). Siete guariti. La sentenza che pronunceranno in vostro favore, opererà nel momento quel che essa significa, voi uscirete da questo secondo battesimo bianchi come la neve: conſestim mundata est lepra eius. Ammirabile genere di guarigione, fratelli miei, ove basta scoprire il suo male al medico per esserne liberato! Oh! se si potesse così facilmente guarire dalle malattie del corpo, chi non godrebbe ben tosto di una sanità perfetta? La guarigione delle malattie della vostr’anima, dipende dalla confessione che voi ne farete al ministro di Gesù Cristo vostro medico. Esiterete a profittare di un mezzo così pronto e così efficace per ottenerla? Voi troverete in questa piscina non solamente un rimedio che vi guarirà dal vostro peccato, ma ancora un preservativo contro il peccato, sia nelle grazie abbondanti che vi si ricevono per la virtù del Sacramento, sia nei buoni avvisi che vi darà un caritatevole confessore, il quale vi servirà di guida nelle vie della salute. Muniti di questi potenti aiuti, voi cadrete più di rado e vi rialzerete più prontamente, accostandovi spesso al sacro tribunale, voi vi ricorderete più facilmente dei vostri peccati, sarete più sicuri di fare una buona confessione, la quale sovente è difettosa per difetto di esame, allorché ci confessiamo di rado. Ma il gran vantaggio che voi troverete nella frequente confessione, si è la sicurezza di una buona morte; poiché, o voi sarete sorpresi dalla morte, o voi avrete il tempo di pensarvi. Se voi siete sorpresi dalla morte, confessandovi spesso, avete maggior speranza di trovarvi in istato di grazia in quell’ultimo momento, che coloro i quali nol fanno che di rado. La morte, benché subitanea per voi, non sarà improvvisa per la precauzione che prenderete di conservare la grazia di Dio. Se voi avete il tempo di pensarvi, riceverete i Sacramenti in buona disposizione per l’ottimo abito che avete avuto durante la vita di ben riceverli. E qual motivo di sperare che Dio in conseguenza della vostra assiduità ad accostarvi ai Sacramenti durante la vita, non permetterà che voi ne siate privi alla morte! Quanti vantaggi, fratelli miei, e quanti motivi fortissimi per indurre i peccatori alla frequente confessione. – Voi poi, o giusti, benché non siate esposti alla medesima disgrazia che i peccatori, la confessione vi è ugualmente utile per fortificarvi nella pratica delle buone opere, avanzar in virtù, accrescere il vostro merito, e perseverare nella grazia del Signore. Chi è giusto, lo divenga ancora di più, dice lo Spirito Santo, e chi è santo, si santifichi di più. Ora, si è colla confessione frequente che voi diverrete sempre più giusti, sempre più santi. E come ciò? Perché la confessione vi purificherà dalle macchie le più leggiere, che i più giusti ancora contraggono in questa vita. Perciocchè il Sacramento della Penitenza, dice il Concilio di Trento, ha la virtù di cancellare le colpe veniali; ricevendo la remissione di queste colpe veniali, voi sarete liberati in tutto, o in parte dalla pena temporale che dovreste soffrire nel Purgatorio, voi aggiungerete nuovi gradi alla grazia santificante, di cui la vostr’anima è adorna; questa nuova grazia vi dà diritto a certi aiuti particolari che vi faranno superare tentazioni difficili, che vi renderanno facile la pratica delle più eroiche virtù. Accostandovi al tribunale della Penitenza voi esaminerete i vostri difetti per correggervene, vi umilierete alla vista delle vostre debolezze, diverrete più vigilanti sopra di voi medesimi, crescerete nell’amore di Dio, in fervore nel suo servigio per i buoni proponimenti che formerete di evitare sino la minima apparenza di male. Più spesso vi confesserete, più rinnoverete questi buoni proponimenti di evitare sino le colpe le più leggiere, evitando le colpe leggiere per mezzo degli aiuti che il Sacramento vi procura, vi eviterete il pericolo di perdere la grazia di Dio col peccato mortale, quindi renderete certa la vostra perseveranza nel bene, la vostra perseveranza finale che deve decidere della vostra felicità eterna. Di qual utilità non è dunque la confessione per i giusti medesimi, come per i peccatori? Ve diamo ora quali sono gli svantaggi di coloro che se ne allontanano.

II. PUNTO. Un gran numero di peccatori si accosta di rado al Sacramento della Penitenza, perché, dicono essi, la Chiesa non obbliga a confessarsi più spesso che una volta all’anno. Altri se ne allontanano, perché non vogliono correggersi dei loro malvagi abiti, lasciar le occasioni del peccato; il che per altro convien fare per una buona confessione. Ma gli uni e gli altri, sono in un accecamento deplorabile, e non vedono i mali che cagiona questo allontanamento. Ora, fratelli miei, per distruggere questi pregiudizi io dico, che, sebbene la Chiesa abbia determinato il precetto della confessione ad ogni anno per tutti i fedeli dell’uno e dell’altro sesso, non convien dire che non si possa, né si debba fare più frequente nel corso di un anno. La Chiesa, interprete delle volontà del suo divino Sposo che le ha lasciata l’autorità di giudicare i peccatori, e che ha voluto sottomettere i peccatori tutti a quest’autorità, obbliga tutti i suoi figliuoli per soddisfare al precetto del divin Maestro di accostarsi una volta all’anno al suo tribunale; perché egli è certo che il precetto obbliga per lo meno qualche volta durante la vita; e se essa non avesse imposto ai peccatori quest’obbligo per ogni anno, molti avrebbero passata tutta la loro vita senza avervi soddisfatto. Ma benchè l’adempimento di questo precetto non possa differirsi più di un anno, molte altre ragioni obbligano i peccatori a confessarsi più frequentemente. Il peccatore non deve differire la sua conversione, perché differendola, i suoi peccati si moltiplicano, i suoi malvagi abiti si fortificano; e si espone al pericolo dell’impenitenza finale, che è la morte nel peccato. Ora, tali sono i danni che provengono dall’infrequenza delle confessioni. Ed in vero, che cosa può ritener il peccatore, ed impedirlo dal cadere nell’abisso del peccato? È la grazia di Dio, è la considerazione dei mali, ove il suo peccato lo conduce; sono i rimproveri che si fa egli medesimo al tribunale della coscienza sopra i disordini della sua vita; sono gli avvisi di un confessore zelante per la sua salute. Ora il peccatore che si accosta di rado al sacro tribunale, si priva delle grazie del Sacramento, degli avvisi di un confessore, non rientra quasi giammai in se stesso per rimproverarsi i suoi disordini, e correggersene. Fa d’uopo stupirsi, se egli accumula peccati sopra peccati, e se diventa lo schiavo dei suoi abiti malvagi? Quantunque Dio non ricusi la sua grazia ad alcun peccatore, sia per convertirsi, sia per evitar il peccato, Egli vuole che questo peccatore faccia dal canto suo degli sforzi per avere certe grazie che producono la sua conversione, e che l’impediscono di pervertirsi di più; egli vuole che ricorra ad un mezzo di salute che esso gli ha somministrato per santificarsi, che sono i Sacramenti da Lui lasciati alla sua Chiesa. Questi Sacramenti sono come i canali, per dove egli fa scorrere sulle anime il sangue adorabile che è uscito dalle sue piaghe per lavare i peccatori. Questi sono gli strumenti che egli ha messi, per così dire, tra le mani di questi peccatori, per operare la loro santificazione; sono i rimedi che loro ha dati per guarirsi dalle loro malattie, e preservarsi da nuove cadute. E perciò Egli ha attaccate a questi segni di salute certe grazie particolari che corrispondono al fine per cui gli ha istituiti; grazie che non dà comunemente a coloro che si allontanano da queste sorgenti di salute. E quindi che accade ai peccatori che trascurano il rimedio della Penitenza? ciò che accade ad un infermo, il quale non vuol prendere un rimedio che un valente medico gli ha apparecchiato, sia per guarirsi, sia per impedire che la sua malattia non faccia più grandi progressi, e non lo conduca al sepolcro. Questo peccatore privo delle grazie particolari annesse al Sacramento della penitenza, esposto alle tentazioni del nemico, abbandonato alla sua propria inclinazione che lo strascina verso il male, soccomberà alle tentazioni; seguirà l’allettamento della sua passione; un peccato che ne attira un altro col suo peso, lo fa cadere di abisso in abisso; egli ammassa, accumula l’iniquità; i suoi malvagi abiti prendono tutti i giorni nuove forze; finalmente diventa incorreggibile. Se il peccatore rientrasse in se stesso, per vedere il triste stato della sua anima, i rimorsi della sua coscienza lo ricondurrebbero al dovere, ed è il vantaggio che gli procurerebbe l’uso del Sacramento della Penitenza. Mentre prima di presentarvisi, bisogna che il peccatore ricerchi ben bene le sue piaghe, investighi i nascondigli della sua anima, esamini i suoi mancamenti, e conosca le sue malattie per mostrarsi al sacerdote tal quale egli è; questa vista non può che cagionargli confusione, e fargli sentire rimproveri amarissimi; bisogna di più che esso detesti i suoi mancamenti, e che con la spada del dolore che deve concepire, apra l’ulcera che infetta la sua anima: questa detestazione, questo orrore che concepisce del peccato, gli cangia il cuore, facendogli cangiar d’oggetto, facendogli odiare ciò che amava, amare ciò che odiava. Finalmente bisogna mostrar la sua lebbra al ministro di Gesù Cristo, dichiarargli sinceramente, ed interamente tutte le sue colpe; e la confusione che accompagna questa dichiarazione, umilia il peccatore, gli fa prendere la risoluzione di non più cadere in quelle colpe; risoluzione che è fortificata dai buoni avvisi che riceve da un zelante confessore che gli impone penitenze salutevoli per espiare i suoi peccati, che gli propone mezzi per non più ricadervi, che gli offre gli aiuti delle sue preghiere per ottenergli la perseveranza. Ora, il peccatore che si allontana dal sacro tribunale, si priva di tutti questi aiuti, che sono come altrettanti ripari che l’impediscono di abbandonarsi al disordine. Egli non fa alcun esame di coscienza, non concepisce alcun dolore de’ suoi peccati, non è commosso dai mali che il suo delitto gli attira. Non è forse ancora per evitar la discussione che gli converrebbe fare delle sue colpe, l’umiliazione che avrebbe di accusarle, per sottrarsi ai terrori della sua coscienza che non vuole accostarsi al tribunale della confessione? Non è forse ancora per il timore delle ammonizioni che gli farebbe un caritatevole confessore, che ricusa di presentarsi a lui? Fa d’uopo stupirsi che egli seguiti ciecamente il torrente delle sue passioni, che viva a seconda de’ suoi desideri, non avendo più freno che lo ritenga, guida che lo rimetta sulla strada? E ciò che accresce il suo male si è, che il poco uso che egli ha fatto del rimedio salutevole, lo mette in un tale stato che lo converte in veleno anche allora quando vuol soddisfare all’obbligo di confessarsi nel tempo che gli è dalla Chiesa prescritto. Perciocchè è egli facile di adempiere come conviensi ad un obbligo che non si adempie che per necessità? In che guisa questi peccatori, i quali non si confessano che una volta all’anno nel tempo di Pasqua, esaminano i loro peccati? Il numero n’è sì grande che ne perdono la memoria e non se ne ricordano che in generale. Essi si contentano di una rivista superficiale. Quindi viene che le loro confessioni sono più presto fatte che quelle di coloro che si confessano sovente e che tralasciano, per colpa loro e per loro negligenza di frequentar i Sacramenti, un gran numero di peccati: il che rende le loro confessioni nulle e sacrileghe. Qual dolore hanno questi peccatori dei loro peccati? Qual proponimento di correggersi? Se ne può giudicare dal piccolo cangiamento che si vede nella loro condotta. Siccome non vanno al tribunale della penitenza che per una specie di necessità o di convenienza; siccome non cercano che salvare le apparenze e conservarsi la riputazione di aver fatto il loro dovere di Cristiano, così non mettonsi troppo in pena del restante. Se un confessore vuole loro imporre una penitenza salutevole, o provarli con qualche dilazione, essi disputano sul genere di penitenza che loro si prescrive: se vengono rimandati per qualche tempo, minacciano di non più ritornare: come se il ministro di Gesù Cristo dovesse rendersi colpevole di sacrilegio per dar loro un’assoluzione, che a nulla loro servirebbe…- Fa d’uopo dunque stupirsi, se questi, peccatori che si confessano di rado, che differiscono di Pasqua in Pasqua, sono sì malvagi Cristiani? L’esperienza lo fa purtroppo vedere, sono questi i meno assidui agli altri doveri della religione; gli uni si abbandonano all’intemperanza; gli altri all’impurità; questi sono ingiusti usurpatori del bene altrui; quelli vendicativi. Qual è la cagione di tanti disordini? La negligenza a frequentar i Sacramenti. Ma, diranno essi, coloro che vi si accostano spesso, non vivono meglio di noi, cadono nei medesimi disordini che noi; non è dunque la frequente confessione che ritiene i peccatori, e che rende gli uomini più santi. A questo io rispondo, 1.º esser falso che coloro i quali si confessano. sovente, siano d’ordinario così sregolati come quelli che non lo fanno che di rado; le loro ricadute, come l’ho detto, sono più rare, e si rialzano più prontamente con l’aiuto che trovano nel rimedio della penitenza. 2.º Se vi sono peccatori che uniscono una vita sregolata al frequente uso della confessione, sono coloro che abusano del rimedio, e che lo convertono in veleno per le malvage disposizioni che vi apportano, o per difetto di dolore, o per difetto di esame, e di sincerità nell’accusarsi. Quantunque efficace sia il rimedio della penitenza, egli non profitta che per quanto vien bene applicato. Ora, non vi sarà un mezzo tra servirsi male del rimedio, e non usarne affatto? Si è di riceverlo con le disposizioni che lo rendano efficace: basta, o peccatori, che voi ve ne accostiate con queste disposizioni, cioè con quella sincerità che deve accompagnare la dichiarazione delle vostre colpe, e ne proverete l’utilità. Ma se voi trascurate di farlo, sapete voi a qual male vi espone la vostra negligenza? A morir nello stato del peccato, a cader negli orrori della morte eterna. Mentre, poiché voi restate mesi ed anni interi nei legami del peccato, non potete voi forse esser sorpresi dalla morte, non potete voi essere colpiti da una morte subitanea, o da qualche malattia, che togliendovi l’uso dei sensi, vi rendano, impossibile il ricevere i Sacramenti? Quanti ne avete veduti che sono stati sorpresi in tal modo, per i quali si è chiamato un confessore che, o non si è trovato, o è giunto troppo tardi, permettendolo così Iddio per punire la loro negligenza a confessarsi più spesso? Ecco forse ciò che vi accadrà, peccatori che mi ascoltate: credete voi, che, se Dio vuol togliervi da questo mondo con una morte improvvisa, Egli sceglierà il tempo che voi sarete in istato di grazia, che questa morte accadrà precisamente nel tempo di Pasqua, quando vi sarete confessati? Qual temerità sarebbe la vostra di fidarvi ad un tratto sì straordinario della grazia di cui vi rendete sì indegni. Non dovete voi forse piuttosto temere, che, se siete sorpresi dalla morte, lo sarete in istato di peccato, poiché la più gran parte della vostra vita si passa in questo infelice stato? Forse vi assicurate sopra qualche atto di contrizione che produrrete allora, o che avrete prodotto prima in mancanza del confessore? È vero, che un atto di contrizione perfetta, cioè prodotto da un puro amor di Dio può cancellare tutti i peccati, benché enormi siano, ed in gran numero. Ma sapete voi che l’atto di una perfetta contrizione essendo il più eroico di tutti, è l’effetto di una grazia particolare, che i più gran Santi medesimi, non credevano meritare? E voi vi fiderete a questa grazia, voi che resistete a tante altre che vi stimolano di andar alla sorgente, che sono i Sacramenti? Ma supponiamo che voi alla morte abbiate tutta la libertà di confessarvi: io dico che il Sacramento, di cui non avete profittato durante la vita, a nulla vi servirà allora; che avendolo profanato durante la vita, voi lo profanerete in morte a cagion delle malvage disposizioni che saranno le medesime in voi. Ora, se voi morite nell’impenitenza finale, qual sarà il vostro rammarico nell’Inferno di aver trascurato un mezzo di salute così efficace, e così facile come la confessione? Ma non sarà più tempo; voi non avrete più ministri di Gesù Cristo che possano liberarvi dai mali che vi opprimeranno in quelle prigioni di fuoco, ove sarete rinchiusi; non vi sarà più confessione, più misericordia, più perdono a sperare da voi. Procurate, o peccatori, di evitare una disgrazia egualmente grande, quanto che irreparabile: profittate dell’occasione favorevole che avrete di riconciliarvi con Dio ogni qual volta l’avete offeso. Ma guardate di non abusarvi della bontà che Dio ha nel ricevervi a penitenza per oltraggiarlo; sarebbe in voi l’effetto della più nera ingratitudine se la facilità del rimedio fosse per voi una occasione di caduta. Cominciate dunque dal giorno d’oggi a mettervi nelle disposizioni, in cui dovete essere per profittarne; cioè, lasciate al presente il peccato, le occasioni del peccato; rinunciate ai cattivi abiti; il ministro di Gesù Cristo non discioglie che chi vuol lasciare le sue catene. Provatevi dunque prima di presentarvi, preparatevi anticipatamente ad accettare le prove, alle quali il confessore vorrà mettervi; non cercate di quegli uomini che lusingano; non fuggite coloro che vogliono con una giusta dilazione accertarsi del vostro ritorno a Dio: non lasciate quelli che per vostro bene si spaventano delle vostre cadute, e ve ne domandano una penitenza proporzionata: e quindi prendete per pratica, 1º di confessarvi una volta ogni mese; 2.º se voi avete avuta la sventura di perdere la grazia con un peccato, guardatevi ben bene di non passare i giorni interi nell’inimicizia di Dio; 3.º se voi siete infermi, ricorrete al medico della vostr’anima prontamente e senza dilazione; non siate del numero di quelli, cui si teme in un’ultima malattia di parlare di Sacramenti e di confessore; siate i primi a richiedere con calore questi preziosi soccorsi: la vostr’anima, dice Gesù Cristo, vale più che il vostro corpo; aiutate dunque l’una piuttosto che l’altro; e se il Cielo ricusa al vostro corpo la sua guarigione, almeno accorderà Egli alla vostr’anima un riposo eterno all’uscire dalla sua prigione, Io ve lo desidero. Così sia.

Credo…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea.
[O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]

Secreta

Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas.

[Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Sap XVI: 20
Panem de coelo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis.

[Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]

Postcommunio

Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum.

[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2020).

Semidoppio.- Paramenti verdi.

Nell’ufficio divino si effettua in questo tempo la lettura delle Parabole o Proverbi di Salomone. « Queste parabole sono utili per conoscere la sapienza e la disciplina, per comprendere le parole della prudenza, per ricevere l’istruzione della dottrina, la giustizia e l’equità affinché sia donato a tutti i piccoli il discernimento e ai giovani la scienza e l’intelligenza. Il savio ascoltando diventerà più savio e l’intelligente possederà i mezzi per governare! (7° Nott.). Salomone non era che la figura di Cristo, che è la Sapienza incarnata come leggiamo nel Vangelo di questo giorno: « Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete, poiché io ve lo dico, molti profeti e re hanno voluto vedere quello che voi vedete e non hanno potuto; e ascoltare quello che voi ascoltate e non hanno inteso ». « Beati, dice S. Beda, gli occhi che possono conoscere i misteri del Signore, dei quali è detto: « Voi li avete rivelati ai piccoli ». Beati gli occhi di questi piccoli, ai quali il Figlio degnò rivelarsi e rivelare il Padre. Ed ecco un dottore della legge che ha pensato di tentare il Signore e l’interroga sulla vita eterna (Vang.). Ma il tranello che tende a Gesù Cristo mostra come era vero quello che il Signore aveva detto rivolgendosi al Padre: « Tu hai nascoste queste cose ai saggi e ai prudenti e le hai rivelate ai piccoli» (2° Nott.). — « Figlio mio, dice Salomone, il timor di Dio è il principio della sapienza. Se i peccatori vogliono attirarti non acconsentir loro. Se essi dicono: Vieni con noi, tendiamo agguati all’innocente, inghiottiamolo vivo e intero com’è inghiottito il morto che scende nella tomba; noi troveremo ogni sorta di beni preziosi, riempiremo le nostre case di bottini; figlio mio, non andare con loro, allontana i tuoi passi dal loro sentiero. Poiché i loro passi sono rivolti al male ed essi si affrettano per versar sangue. E s’impadroniscono dell’anima di coloro che soggiogano » (7» Nott.). — Cosi i demoni agirono col primo uomo, poiché quando Adamo cadde nel peccato, lo spogliarono di tutti i suoi beni e lo coprirono di ferite. Il peccato originale, infatti, priva l’uomo di tutti i doni della grazia e lo colpisce nella sua stessa natura. La tua intelligenza è meno viva e la sua volontà meno ferma, poiché la concupiscenza che regna nelle sue membra lo porta al male. Per fargli comprendere la sua impotenza — poiché, dice S. Paolo, la nostra attitudine a intendere viene da Dio (Ep.) — Jahvé stabilì la legge mosaica che gli dava precetti senza dargli la forza di compierli, ossia senza la grazia divina. Allora, l’uomo comprendendo che gli bisognava l’aiuto di Dio per essere guarito, per volere il bene, per realizzarlo e per perseverare in esso fino alla fine, rivolse il suo sguardo al cielo: « O Dio, gridò, e non deve giammai cessare di gridare: O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi! Siano confusi coloro che cercano l’anima mia » (Intr.). — « Signore, Dio della mia salute, io ho gridato verso di te tutto il giorno e la notte » (All.). E Dio allora risolse di venire in aiuto dell’uomo e poiché i sacerdoti ed i leviti dell’antica legge non avevano potuto cooperare con lui, mandò Gesù Cristo, che si fece, secondo il pensiero di S. Gregorio, il prossimo dell’uomo, rivestendosi della nostra umanità per guarirla (3° Nott.). Queste è quanto ci dicono l’Epistola e il Vangelo. La legge del Sinai, scolpita in lettere su pietre, spiega S. Paolo, fu un ministero di morte perché, l’abbiamo già visto, non dava la forza di compiere ciò che comandava. Cosi l’Offertorio ci mostra come Mose dovette Intervenire presso Dio per calmare la sua ira provocata dai peccati del suo popolo. La Legge della grazia è Invece un ministero di giustificazione, perché lo Spirito Santo che fu mandato alla Chiesa nel giorno della Pentecoste, giorno in cui la vecchia legge fu abrogata, dava la forza di osservare i precetti del decalogo e quelli della Chiesa. Cosi S. Paolo dice: « La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica » (Ep.). E il Vangelo ne fa la dimostrazione nella parabola del buon Samaritano. All’impotente legge mosaica, rappresentata in qualche modo dal sacerdote e dal levita della parabola evangelica, il buon Samaritano che è Gesù, sostituisce una nuova legge estranea all’antica e viene Egli stesso in aiuto dell’uomo. Medico delle nostre anime, versò nelle nostre ferite l’unzione della sua grazia, l’olio dei suoi sacramenti e il vino della sua Eucaristia. Per questo la liturgia canta, in uno stile ricco di immagini, la bontà del Signore, che ha fatto produrre sulla terra il pane che fortifica l’uomo, il vino che rallegra il suo cuore, e l’olio che dona al suo viso un aspetto di gioia (Com.). « Io benedirò, dice il Graduale, il Signore in tutti i tempi: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra ». Noi dobbiamo imitare verso il nostro prossimo quello che Dio ha fatto per noi e quello di cui il Samaritano è l’esempio. « Nessuna cosa è maggiormente prossimo delle membra che il capo, dice S. Beda: amiamo dunque colui che è fratello del Cristo, cioè siamo pronti a rendergli tutti i servizi sia temporali che spirituali dicui potrà aver bisogno » (3° Nott.). Né la legge mosaica, né il Vangelo separano l’amore verso Dio dall’amore di chi dobbiamo ritenere come prossimo: amore soprannaturale nella sua origine, poiché procede dallo Spirito Santo; amore soprannaturale nel soggetto perché è Dio nella persona dei nostri fratelli. Il prossimo di questo uomo ferito non è, come pensavano i Giudei, colui che è legato per vincoli di sangue, ma colui che si china caritatevolmente su di esso per soccorrerlo. L’unione in Cristo, che giunge fino a farci amare quelli che ci odiano e perdonare a quelli che ci hanno fatto del male, perché Dio è in essi, o è chiamato ad essere in essi, è il vero amore del prossimo. Perfezionati dalla grazia, noi dobbiamo imitare il Padre nostro del cielo, che, calmato dalla preghiera di Mosè, figura di Cristo, colmò di beni il popolo che l’aveva offeso (Off., Com.). — Uniti dunque con Cristo, [Questa unità dei Cristiani e del Cristo fa sì che si chiami Gesù il Samaritano, cioè lo straniero, per indicare che i Gentili imiteranno Cristo mentre i Giudei increduli lo disprezzeranno], curviamoci con Lui verso il prossimo che soffre. Questo sarà il miglior modo di diventare, per la misericordia divina, atti a servire Dio onnipotente, degnamente e lodevolmente, e di ottenere che, rialzati dalla grazia, noi corriamo, senza più cadere, verso il cielo promesso (Oraz.) .  «Gesù, dice S. Beda, il Venerabile, mostra in maniera chiarissima che non vi è che un solo amore, il quale deve essere manifestato non solo a parole ma con le buone opere, ed è questo che conduce alla vita eterna ». (3° Nott.).

La gloria dei ministero di Mosè fu assai grande: raggi miracolosi brillavano sul volto del legislatore dell’antica legge, allorché discese dal Sinai. Ma questo ministero era inferiore al ministero evangelico. Il primo era passeggero: il secondo doveva surrogarlo e durare per sempre. Il primo era scritto su tavole di pietra, era il ministero della lettera; il secondo è tutto spirituale, è il ministero dello spirito. Il primo produceva spesso la morte spirituale spingendo alla ribellione con la molteplicità dei suoi precetti difficili ad adempirsi; il secondo è accompagnato dalle grazie dello Spirito d’amore, che gli Apostoli distribuiscono alle anime. L’uno è dunque un ministero che provoca i terribili giudizi di Dio, e l’altro è un ministero che giustifica gli uomini davanti a Dio, perché dona ad essi lo Spirito che vivifica.

« Quest’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico, dice S. Beda, è Adamo che rappresenta il genere umano. Gerusalemme è la città della pace celeste, della beatitudine dalla quale è stato allontanato per il peccato. I ladri sono il demonio e i suoi angeli nelle mani dei quali Adamo è caduto nella sua discesa. Questi lo spogliarono di tutto: gli tolsero la gloria dell’immortalità e la veste dell’innocenza.. Le piaghe che gli fecero, sono i peccati che, intaccando l’integrità dell’umana natura, fecero entrare la morte dalle ferite aperte. Lo lasciarono mezzo morto, perché se lo spogliarono della beatitudine della vita immortale, non riuscirono a togliergli l’uso della ragione colla quale conosceva Dio. Il sacerdote e il levita che, avendo veduto il ferito, passarono oltre, indicano i sacerdoti e i ministri dell’Antico Testamento che potevano solamente, con i decreti della legge, mostrare le ferite del mondo languente, ma non potevano guarirle, perché era loro impossibile – al dire dell’Apostolo – cancellare i peccati col sangue dei buoi e degli agnelli. Il buon Samaritano, parola che significa guardiano, e lo stesso Signore. Fatto uomo, s’è avvicinato a noi con la grande compassione che ci ha mostrata. L’albergo è la Chiesa ove Gesù stesso conduce l’uomo, ponendolo sulla cavalcatura perché nessuno, se non è battezzato, unito al corpo di Cristo, e portato come la pecora sperduta sulle spalle del buon Pastore, può far parte della Chiesa. I due danari sono i due Testamenti sui quali sono impressi il nome e l’effigie del Re eterno. La fine della legge è Cristo. Questi due denari furono dati all’albergatore il giorno dopo, perché Gesù il giorno seguente la sua risurrezione aprì gli occhi dell’intelligenza ai discepoli di Emmaus e ai suoi Apostoli perché comprendessero le sante Scritture. Il giorno seguente, infatti, l’albergatore, ricevette i due danari, come compenso delle sue cure verso il ferito perché lo Spirito Santo, venendo su la Chiesa, insegnò agli Apostoli tutte le verità perché potessero istruire le nazioni e predicare il Vangelo » (Omelia del giorno).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

LXIX: 2-3
Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.

[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Ps LXIX: 4

Avertántur retrórsum et erubéscant: qui cógitant mihi mala.

[Vadano delusi e scornati coloro che tramano contro di me.]

Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.

[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, de cujus múnere venit, ut tibi a fidélibus tuis digne et laudabíliter serviátur: tríbue, quǽsumus, nobis; ut ad promissiónes tuas sine offensióne currámus.

[Onnipotente e misericordioso Iddio, poiché dalla tua grazia proviene che i tuoi fedeli Ti servano degnamente e lodevolmente, concedici, Te ne preghiamo, di correre, senza ostacoli, verso i beni da Te promessi.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III: 4-9.

“Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

[“Fratelli: Tanta fiducia in Dio noi l’abbiamo per Cristo. Non che siamo capaci da noi a pensar qualche cosa, come se venisse da noi; ma la nostra capacità viene da Dio, il quale ci ha anche resi idonei a essere ministri della nuova alleanza, non della lettera, ma dello spirito; perché la lettera uccide ma lo spirito dà vita. Ora, se il ministero della morte, scolpito in lettere su pietre, è stato circonfuso di gloria in modo che i figli d’Israele non potevano fissare lo sguardo in faccia a Mosè, tanto era lo splendore passeggero del suo volto; quanto più non sarà circonfuso di gloria il ministero dello Spirito? Invero, se è glorioso il ministero di condanna, molto più è superiore in gloria il ministero di giustizia”].

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia 1921)

Il SACERDOZIO

La severa lettera di San Paolo a quei di Corinto aveva prodotto un salutare effetto. Quella comunità aveva preso ora un andamento più consolante; e, sebbene gli sconvenienti non fossero tutti scomparsi, c’era fondata speranza che l’ulteriore azione di S. Paolo riuscisse al compimento dell’opera incominciata. Non dormivano, è naturale i suoi nemici; anzi lo combattevano più aspramente di prima. Cercavano soprattutto di metterlo in discredito negandogli la dignità e l’autorità di Apostolo e criticando il suo modo di operare. Era in gioco la missione di Apostolo, affidata da Dio a Paolo, e questi crede suo dovere di difendersi dai falsi apostoli, perché non riuscissero a trar dalla loro parte i fedeli, specialmente i neofiti. Ed ecco che dalla Macedonia, pochi mesi dopo la prima, invia a Corinto una seconda lettera, in cui rivendica la sua autorità di Apostolo, e ribatte le calunnie dei suoi avversari. L’epistola di quest’oggi è un passo della lettera dove San Paolo difende il suo ministero. Se egli si presenta come predicatore della fede non lo fa per vana gloria, ben riconoscendo la sua insufficienza. Tutto il suo vanto lo ripone in Dio, per la cui grazia, datagli per mezzo di Gesù Cristo, egli compie il suo ministero tra loro. Dio ha scelto lui e i suoi compagni a essere ministri idonei del nuovo Testamento, in cui non regna più la lettera che uccide come nell’antico, ma lo spirito che dà la vita della grazia. È un ministero superiore all’antico per la gloria di cui è circonfuso. Il ministero della legge che uccide — non dando la forza di praticare ciò che prescrive — fu circondato di gloria, come si vide sul volto di Mosè, che portava questa legge scolpita in tavole di pietra. Questa gloria dev’esser sorpassata da quella che circonda il ministero dello spirito che vivifica. La gloria del ministero che vivifica è, senza confronto, superiore alla gloria del ministero di condanna. Il contenuto dell’Epistola di quest’oggi ci porta a parlare del Sacerdote Cattolico, il quale:

1. È banditore d’una dottrina sublime,

2. È dispensatore dei divini misteri,

3. Merita il nostro rispetto e le nostre premure.

1.

La nostra capacità viene da Dio, il quale ci ha anche resi idonei a esser ministri della nuova alleanza, non della lettera, ma dello spirito. L’Apostolo compie il suo ministero per la grazia di Dio. Egli, che lo ha scelto a suo ministro, lo ha reso idoneo a predicare la dottrina del Vangelo, nel quale regna lo spirito, e non più la lettera come nell’antico testamento. Come San Paolo, ogni Sacerdote è scelto da Dio, che lo rende idoneo a predicare la dottrina del Vangelo. Con la dottrina del Vangelo il sacerdote si fa guida agli uomini in questo terreno pellegrinaggio. Satana, il padre della menzogna, fa deviare dal retto sentiero i nostri progenitori nel paradiso terrestre. Fa deviare, dopo di essi, continuamente, i loro discendenti. Ha, in questo, ai suoi ordini una schiera di alleati. Insegnanti, conferenziere, settari, gaudenti, beffardi, libri, riviste, giornali, direttamente o indirettamente, tolgono di vista all’uomo la meta, cui deve arrivare. E l’uomo comincia ad essere indeciso; smarrisce il sentiero e, smarritolo, non ha più la volontà di rifare la via da capo. Il Sacerdote è posto da Dio a illuminare la via che l’uomo deve percorrere. Egli addita i pericoli da schivare, indica la via sicura, e la rischiara con gli insegnamenti di Colui che proclamò:« Io sono la via » (Giov. XIV, 6.). Ismaele va errando nel deserto di Betsabea, tormentato dalla sete. Questa è ormai divenuta insostenibile, e la madre per non vedere il figlio morire, lo abbandona sotto un arbusto. Dio ascolta il grido di Agar e di Ismaele, e manda il suo Angelo a mostrare il pozzo d’acqua ristoratrice (Gen. XXI, 14 segg.). Il Sacerdote è l’Angelo che al viandante diretto alla patria celeste, ormai privo del primo fervore, annoiato dalla lunghezza del cammino, stanco per la sua asprezza, indeciso a continuarlo, solleva lo spirito e infonde nuova forza e coraggio, facendogli porre la fiducia in Colui che dice: «Non si turbi il vostro cuore. Abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me» (Giov. XIV, 1). – La parola del Sacerdote è l’unica che sappia veramente appagare il cuore e l’intelligenza dell’uomo. La sua dottrina «non è cosa umana» (Gal. I, 4) Perciò avvince tutte le intelligenze, fa superar tutte le difficoltà. Le scoperte, il progresso, le migliorate condizioni sociali non possono togliere nulla alla efficacia e alla bellezza della dottrina del Vangelo. La parola di Dio non può scolorire davanti alla parola degli uomini. È una dottrina che non invecchierà Mai, che non avrà mai bisogno d’essere sfrondata o corretta.

2.

L’Apostolo, facendo il confronto tra l’antica alleanza, che si fondava sulla lettera, cioè sulla legge scritta, e la nuova alleanza, che è opera dello Spirito Santo, osserva: la lettera uccide, ma lo spinto dà vita. La lettera, ossia la legge scritta uccide, perché non dando la grazia necessaria a compiere ciò che è comandato e ad evitare ciò che è proibito, era, indirettamente, occasione di peccato, e quindi di morte eterna. Lo spirito dà vita, perché nella nuova legge, lo Spirito Santo dà la grazia, con cui l’uomo può osservare ciò che esternamente viene comandato o proibito. E il Sacerdote, in questa nuova legge, è fatto da Dio l’idoneo dispensatore della grazia. –

3.

L’uomo nasce figlio di questa valle di lagrime, spoglio d’ogni bene soprannaturale. Il Sacerdote versa sul suo capo l’acqua battesimale, ed egli rinasce figlio del cielo, adorno dei beni della grazia. Per il ministero del Sacerdote gli è aperta la porta al regno di Gesù Cristo, la Chiesa, e acquista il diritto a ricevere gli altri Sacramenti con l’abbondanza delle grazie, che li accompagnano. – Ogni uomo è destinato preda alla morte. Chi nasce muore. Quando arriva questo giorno, l’uomo si trova ancora di fianco il Sacerdote. «E’ infermo alcuno tra voi? — è scritto nel Nuovo Testamento — chiami i Sacerdoti della Chiesa e facciano orazione su lui, ungendolo con l’olio nel nome del Signore» (Giac. V, 19). Così si pratica nella Chiesa Cattolica. Presso il morente accorre il Sacerdote, che gli amministra il Sacramento dell’olio Santo, il quale con la sua grazia porta sollievo spirituale e corporale ai Cristiani gravemente infermi. L’uomo ha pur sempre bisogno dei soccorsi della grazia durante la sua vita. La grazia santificante, che ci viene infusa nel Battesimo, generalmente non rimane a lungo. Al primo svegliarsi delle passioni si perde facilmente. E con la perdita della grazia santificante è perduto anche il diritto alla eredità celeste. L’uomo che ha perduto la grazia santificante è un povero figlio diseredato, che ha bisogno di essere riconciliato con il Padre. Anche questa volta è il Sacerdote che avvicina il figlio al Padre. Egli, pronunciando nel tribunale di penitenza le parole dell’assoluzione, apre al figlio pentito la casa del Padre, lo rimette nelle sue grazie, e gli riacquista i diritti perduti. Ma chi aveva strappato il figlio dalla casa del padre, non si dà pace ora che ve lo vede riammesso. È questa per lui una sconfitta insopportabile, che lo spinge alla rivincita. Occorrono forze raddoppiate per resistere ai suoi assalti. Il Sacerdote procurerà queste forze, somministrandogli un pane che è la fonte delle grazie. Nelle vicinanze di Betsaida Gesù Cristo, mosso a compassione delle turbe che da tre giorni l’avevano seguito, pensa a ristorarle, perché nel ritorno alle loro case, sfinite di forze, non abbiano a venir meno per via. Moltiplicati dei pani che gli furono presentati, « li diede ai suoi discepoli, perché li ponessero davanti alle turbe ». (Marc. VIII, 6). Nell’ultima cena dà incarico ai discepoli di distribuire con le loro mani ai fedeli il Pane eucaristico, perché possano fortificarsi nel combattimento spirituale, e non venir meno sotto gli assalti del demonio, del mondo, della carne. Difatti, « mentre mangiavano Gesù prese del pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: — Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, (Matt. XXVI, 26) il quale è dato per voi: fate questo in memoria di me » – E i Sacerdoti, seguendo il comando di Gesù Cristo, continuano a rinnovare nella santa Messa la consacrazione eucaristica e a distribuire ai fedeli questo Pane di vita. – Il Beato Giovanni de Brébeuf, martire canadese, si trovava in un villaggio di Uroni, quando all’improvviso giungono gli Irochesi, loro terribili nemici. I capitani presenti fanno uscire dal villaggio le donne e i fanciulli, e pregano il Beato e il suo compagno, padre Gabriele Lalemant a seguire i fuggiaschi. «La vostra presenza — dicono essi — non ci può esser di servizio alcuno. Voi non sapete maneggiare né l’accetta né il fucile». — «C’è qualcosa ch’è più necessaria delle armi, — risponde il de Brébeuf — e sono i Sacramenti che noi soli possiamo amministrare. Il nostro posto è in mezzo a voi». E rimasero infatti ad amministrare i Sacramenti, ricevendo in premio la corona del martirio (Nicola Risi, Gli otto Martiri Canadesi della Compagnia di Gesù. Torino, 1926. p. 63-64). Nessuno può dispensare ai fedeli i tesori spirituali che dispensa il sacerdote. S. Paolo esalta tutta l’importanza del ministero sacerdotale con una semplice frase, chiamandolo ministero circonfuso di gloria. È, dunque, un ministero che merita tutto il nostro rispetto e il nostro interessamento. Ma questo contegno non è, pur troppo, il contegno della maggior parte. Per alcuni il Sacerdote non esiste che per esser bersaglio alle critiche, alle calunnie, alle persecuzioni. I preti, secondo essi, sono la cagione di tutti i malanni che succedono, o che potrebbero succedere. Ci sono i settari, i nemici della Religione, che combattono il Sacerdote per i loro fini. In battaglia si cerca di colpire specialmente gli ufficiali. Tolti di mezzo questi, i battaglioni si disgregano. I nemici della Religione Cattolica cercano di colpire specialmente i Sacerdoti per scristianizzare il popolo. – Altri si interessano del Sacerdote e lo stimano finché fa comodo. Diventa loro insopportabile quando, costretto dal proprio dovere, dà qualche ammonimento o fa qualche osservazione. «Chi vien biasimato o ripreso — nota in proposito il Grisostomo — chiunque egli sia, tralasciando affatto di essere riconoscente, diventa nemico » (In 1 Epist. ad Thess. Hom. 10, 1). E il Cristiano che viene avvisato, ammonito, ripreso dal Sacerdote gli diventa nemico. – Per altri il Sacerdote non esiste. Non gli si fanno critiche, ma neppure si pensa a lui. Lo si lascia stare. È considerato come uno che compie una funzione sociale qualsiasi, e niente di più. Questo non è un tributare l’onore, il rispetto, che s’addicono alla dignità dei ministri del nuovo Testamento. I Sacerdoti siano uomini; avranno anch’essi i loro difetti. Noi dobbiamo, però, considerare la loro dignità e non voler scrutare le loro azioni. «Non mi accada mai — scrive S. Gerolamo — che io dica qualcosa di sfavorevole rispetto a coloro, che, succeduti alla dignità apostolica, con la bocca consacrata ci danno il Corpo di Cristo, e per mezzo dei quali noi siamo Cristiani; e i quali, avendo le chiavi del regno celeste, in certo qual modo giudicano prima del giudizio» (Epist. 14, 8 ad Heliod.). – La nostra deferenza verso i Sacerdoti dobbiamo dimostrala, pure, nell’ascoltar volentieri la parola del Vangelo, da essi predicata, nel mostrarci docili alle loro cure. « Poiché — nota S. Cipriano — le eresie e gli scismi non trassero origine da altro, che dalla disubbidienza al Sacerdote di Dio» (Epist. 13, 5). – Se per mezzo del Sacerdote riceviamo i Sacramenti, partecipiamo ai divini misteri, usufruiamo delle celesti benedizioni, non possiamo disinteressarci di lui. Non basta il rispetto, la docilità alla sua parola. La riconoscenza deve spingerci a pregare per lui. La Chiesa ha stabilito giorni particolari di preghiere e di penitenza pei sacerdoti: le quattro tempora. Il Cristiano, però, non deve limitarsi a pregare pei Sacerdoti che salgono l’altare la prima volta. Deve pregare per i novelli Sacerdoti, deve pregare per quelli che sono incanutiti nel ministero, e deve pregare pei Sacerdoti futuri. Lo comanda Gesù: « La messe è veramente copiosa, ma gli operai sono pochi. Pregate il padrone della messe che mandi gli operai a lavorare nel suo campo (Matt. IX, 37-38). E che gli operai oggi siano pochi lo constatiamo tutti. Concorriamo adunque con la preghiera, e anche con quel contributo materiale che ci è possibile, a mandar nuovi operai nella vigna del Signore. Favorendo le vocazioni al Sacerdozio, faremo opera graditissima a Gesù perché concorreremo a procurargli dei collaboratori; faremo opera di carità squisita al prossimo, concorrendo a procurargli una guida spirituale; faremo il nostro migliore vantaggio perché ci faremo partecipi, in qualche modo, dei meriti che si acquista il Sacerdote nel salvar le anime.

Graduale

Ps XXXIII: 2-3.

Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.

[Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]

V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur.

[La mia anima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps LXXXVII: 2

Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja.

[O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.

Luc. X: 23-37

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo? At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

[“In quel tempo Gesù disse a’ suoi discepoli: Beati gli occhi che veggono quello che voi vedete. Imperocché vi dico, che molti profeti e regi bramarono di vedere quello che voi vedete, e no videro; e udire quello che voi udite, e non l’udirono. Allora alzatosi un certo dottor di legge per tentarlo, gli disse: Maestro, che debbo io fare per possedere la vita eterna? Ma Egli disse a lui: Che è quello che sta scritto nella legge? come leggi tu? Quegli rispose, e disse: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuor tuo, e con tutta l’anima tua, e con tutte le tue forze, o con tutto il tuo spirito; e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: Bene hai risposto: fa questo e vivrai. Ma quegli volendo giustificare se stesso, disse a Gesù: E chi è mio prossimo? E Gesù prese la parola, e disse: Un uomo andava da Gerusalemme a Gerico, e diede negli assassini, i quali ancor lo spogliarono; e avendogli date delle ferite, se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. Or avvenne che passò per la stessa strada un sacerdote, il quale vedutolo passò oltre. Similmente anche un levita, arrivato vicino a quel luogo, e veduto colui, tirò innanzi: ma un Samaritano, che faceva suo viaggio, giunse presso lui; e vedutolo, si mosse a compassione. E se gli accostò, e fasciò le ferite di lui, spargendovi sopra olio e vino; e messolo sul suo giumento, lo condusse all’albergo, ed ebbe cura di esso. E il dì seguente tirò fuori due danari, e li diede all’ostiere, e dissegli: Abbi cura di lui: e tutto quello che spenderai di più te lo restituirò al mio ritorno. Chi di questi tre ti pare egli essere stato prossimo per colui che diede negli assassini? E quegli rispose: Colui che usò ad esso misericordia. E Gesù gli disse: Va’, fa’ anche tu allo stesso modo.”]

OMELIA II

Sopra l’amor del prossimo.

“Diliges proximum tuum sicut te ipsum”. Luc. X

Che convien fare per possedere la vita eterna, chiedeva un giorno un dottor della legge al Salvatore del mondo? Cui Gesù Cristo rispose: ch’è scritto e che leggete nella legge? Voi amerete il Signore vostro Dio, ripigliò il dottore, con tutto il vostro cuore, con tutta la vostr’anima, con tutte le vostre forze, con tutto i1 vostro spirito, ed il vostro prossimo come voi medesimo: Diliges, etc. Voi avete risposto benissimo, soggiunse Gesù Cristo; fate questo e vivrete. Ma il dottore, volendo farsi stimare per uomo dabbene, domandò a Gesù Cristo chi fosse il suo prossimo. Il Salvatore, per istruirlo, gliene fece il ritratto in questa parabola. Un uomo disse, che scendeva da Gerusalemme a Gerico, cadde nelle mani degli assassini, che lo spogliarono, e, caricatolo di colpi, lo lasciarono mezzo morto. Alcuni passeggeri videro l’infelice in quel pessimo stato senza dare il minimo segno di compassione; ma un Samaritano, che faceva viaggio, avendolo veduto, venne a lui: mosso da compassione per quell’uomo, gli benda le piaghe, dopo avervi versato dell’olio e del vino, lo conduce ad un’osteria e prende cura di lui; il giorno dopo dà due monete all’oste e gli raccomanda quello sgraziato sino alla sua intera guarigione, promettendo di rendergli al suo ritorno tutto ciò che avrebbe speso di più. Quale, disse Gesù Cristo, è stato il prossimo di quell’uomo? Egli è, rispose il dottore, colui che l’ha con carità assistito. E Gesù Cristo: Andate, gli disse, e fate lo stesso: Vade, et tu fac similiter. Ecco, fratelli miei, il modello che Gesù Cristo ha voluto proporci, come a quel dottore, per apprendere la carità, che dobbiamo avere per il prossimo. Tale è il modo con cui dobbiamo adempiere questo gran precetto, che ci comanda di amare il nostro prossimo come noi medesimi, cioè di fargli tutto il bene che vorremmo fosse fatto a noi medesimi. Diliges proximum tuum sicut te ipsum. Ma ohimè! quanto questo precetto è al giorno d’oggi mal osservato tra noi! Questo bel fuoco, che Gesù Cristo è venuto ad accendere sulla terra, è quasi interamente estinto dagli odi, dalle vendette, dai disordini che regnare si vedono nelle famiglie, nelle città, nelle Provincie e nei regni. Perché non poss’io, fratelli miei, riaccendere in questo giorno nei vostri cuori questo bel fuoco, che fa il carattere dei discepoli di Gesù Cristo? Si è per questo fine, che io voglio farvi vedere l’obbligazione ed il modo di adempierlo. Voi l’amerete come voi medesimi: sicut te ipsum; eccone la regola, ed il mio secondo punto.

I . Punto. Non solamente nella legge di grazia è stato detto: voi amerete il vostro. prossimo: Diliges proxcimum: questa legge è sì antica, quanto il mondo; essa ha cominciato prima di lui; Dio ne impresse il carattere nel cuore dei nostri primi genitori per trasmetterla alla loro posterità. A misura che gli uomini si moltiplicarono, essa ricevette maggior estensione; e fu per perpetuarla che il Signore volle ancora scolpirla sopra tavole di pietra che diede a Mosè per pubblicarla al suo popolo.  Ma siccome questa legge non aveva ancora la sua perfezione, ed era anche di già cancellata nel cuore della maggior parte degli uomini, Gesù Cristo, che era venuto per compire ciò che le marcava, la rinnovò per via del suo divino Spirito, e le diede l’ultima perfezione. Ed è per questo, che la mette nel numero delle prime massime del suo Vangelo, che la chiama suo comandamento speciale: Hoc est præceptum meum,ut diligatis invicem (Jo. XV). Si è un comandamento nuovo, che io vi do: Mandatum novum; Egli vuole che si osservi in una maniera affatto nuova e con maggior perfezione che nell’antica legge, cioè che gli uomini si amino gli uni cogli altri , come Gesù Cristo li ha amati, che amino anche i loro più crudeli nemici: Mandatum novum do vobis, ut diligatis invicem, sicut dilexi vos (Jo. XIII).Tali sono, fratelli miei, le parole della legge che comanda l’amor del prossimo; legge formale e precisa che non soffre verun equivoco; legge indispensabile, contro cui non si può recare alcuna scusa per esentarsene; legge la più giusta e la più ragionevole, che appoggiata sopra i più sodi fondamenti, voglio dire sopra i rapporti, che  uomini hanno con Dio, e sopra quelli, che hanno tra essi. Noi dobbiamo amare il nostro prossimo; e perché? Perché egli è l’opera e l’immagine di Dio, perché egli è stato riscattato col sangue di un Dio: ecco i rapporti ch’egli ha con Dio. Noi dobbiamo amare  nostro prossimo: e perché? In qualità di uomini noi siamo tutti fratelli, e più ancora in qualità di Cristiani: ecco i rapporti, ch’egli ha con noi medesimi. – L’uomo è l’opera e l’immagine di Dio, del che non possiamo noi dubitare. Allorché Dio stabilì di trarlo dal nulla, facciamo – disse – l’uomo a nostra immagine e somiglianza: Faciamus hominem ad imaginem, et similitudinem nostram (Gen. 1). Egli ne formò il corpo d’un po’ di terra, che animò con un soffio di vita d’una sostanza spirituale, che rappresenta nella sua essenza la Divinità medesima, che l’imita nelle sue operazioni, e che essendo immortale partecipa della sua eternità. Questo uomo formato ad immagine di Dio, è ancora il prezzo del sangue d’un Dio, egli è stato redento e salvato con la morte d’un Dio-uomo, ed in questa qualità egli è figliuolo adottivo di Dio, erede del suo regno, l’oggetto del suo amore e della sua vigilanza veramente paterna. Qual forti motivi di amar questo prossimo! Negargli amore non sarebbe egli negarlo a Dio medesimo, che l’ha creato e redento? Mentre se voi non amate il vostro prossimo che vedete, come amerete Dio che non vedete? dice S. Giovanni. Se voi non amate il vostro prossimo, come potete voi dire che amate Dio? Poiché voi trasgredite uno dei primi comandamenti, e si è dall’osservanza de’ suoi comandamenti che Egli conosce coloro che l’amano e se siamo colpevoli di prevaricazione contro tutti i punti della legge, trasgredendone un solo, come dice s. Giacomo, che sarà trasgredirli, per cosi dire, tutti, non osservando il precetto della carità, che è la pienezza della legge? Non evvi dunque salute alcuna a sperare per coloro che non amano il loro prossimo. Invano, fratelli miei, parlereste il linguaggio degli Angeli; invano avreste una fede sì viva da trasferire i monti, come dice S. Paolo; invano passereste tutti i vostri giorni in orazione; invano abbandonereste il vostro corpo a tutti i rigori del digiuno e della mortificazione: se voi non avete la carità, soggiunge lo stesso Apostolo, tutto questo a nulla vi serve: Si charitatem non habuero , nihil mini prodest (1. Cor. XIII). Bisogna praticarla prima d’ogni altra virtù, dice il principe degli Apostoli: Ante omnia in vobis metipsis mutuam charitatem habentes (2 Pet. IV). Ne conta già, che quell’uomo, quella donna che non amate non meriti il vostro amore, che sia un genio bizzarro con cui non si può vivere, che quell’uomo che la legge vi prescrive di amare come voi medesimo sia soggetto a difetti che lo rendono indegno di vostr’amicizia; ch’egli sia indegno di entrare in alcuna società; che vi abbia anche insultato, oltraggiato, e che abbia sempre mal animo contro di voi. Io voglio credere che quella persona con la sua condotta meriti piuttosto il vostro sdegno che la vostra amicizia: che sia anche soggetta a difetti che la rendono oggetto del dispregio e dell’orrore del genere umano: ma quella persona è l’immagine di Dio, ella è il prezzo del suo sangue; ecco ciò che dovete risguardare in essa. Non sono i suoi vizi, i suoi difetti, i suoi disordini, che Dio vi comanda di amare, non è la sua condotta che vi chiede di approvare; si è la sua somiglianza, si è voi medesimo che convien considerare; chiudete gli occhi su tutto il restante: vi basti di sapere che Dio è rappresentato da quell’uomo che vi dispiace, che vi ha pur anche offeso, per non far conto di qualunque altra ragione, perché si è Dio che dovete amare in quell’uomo, e quell’uomo per Dio: diliges proximum. Che l’immagine del re sia scolpita sul piombo o sull’oro, ella è sempre rispettabile; che l’immagine di Dio sia in un uomo vizioso o virtuoso, ella è sempre in questa qualità degna dei vostri rispetti e del vostro amore. Riguardate questa immagine, o piuttosto riguardate Dio, e gli renderete ciò che domanda da voi; riguardate altresì ciò che il prossimo è a voi medesimi, e vi troverete un altro fondamento della carità che dobbiamo avere gli uni per gli altri. – Si può considerare l’uomo o per quel che è in sé stesso, o per quel che è in qualità di Cristiano. Sotto queste due qualità gli uomini hanno dei rapporti, dei legami gli uni cogli altri che debbono serrare i nodi d’una stretta carità. Ogni uomo è prossimo ad un altro uomo, dice s. Agostino; come uomini, noi siamo tutti usciti dalla medesima origine, abbiamo tutti il medesimo Padre. Affinché non abbiamo tutti che un medesimo cuore , dice il Crisostomo, noi siamo tutti composti della medesima natura, d’un corpo e d’un’anima somiglianti. noi abitiamo la medesima terra, noi siamo alimentati con i medesimi beni che essa produce. Non crediate dunque – dice s. Agostino – perché siete ricchi, ed il vostro prossimo è povero, di essere dispensati dall’amarlo. Perché voi siete ricchi, non avete bisogno di lui, io ne convengo; ma quel povero, quell’indigente, è uomo come voi, egli è vostro simile, non dipendeva che da Dio di arricchirlo, d’innalzarlo come voi, e forse meritato più l’ha egli che voi. Che cosa avete voi fatto a Dio di più di lui per avere dei beni ch’egli non ha? Dio non poteva forse ridurvi nel medesimo stato in cui egli è? Riguardate dunque voi medesimi in quell’uomo, che avete dispregiato, aggiunge s. Agostino: attende te ipsum. Egli è vostro fratello, egli è un altro a voi medesimo, e in questa qualità egli è degno del vostro amore; ma quanto non merita ancora in qualità di Cristiano! – Infatti noi siamo tutti fratelli di Gesù Cristo, ed il legame, che il Cristianesimo produce tra gli uomini è ancora più forte di quello dell’umanità. Come Cristiani, noi siamo tutti rigenerati con lo stesso Battesimo, noi abbiamo tutti lo stesso padre, che è Dio, la stessa madre, ch’è la Chiesa, lo stesso cibo, che sono i Sacramenti, la stessa eredità, che è il cielo; noi siamo i membri d’un medesimo corpo, di cui Gesù Cristo è il capo. Poveri e ricchi, grandi e piccoli, nobili e plebei, re e sudditi sapienti ed ignoranti, tutti appartengono al Corpo mistico di Gesù Cristo; tutti per conseguenza debbono esser uniti coi legami di una stessa carità. Mirate l’unione e la corrispondenza che sono tra le membra del corpo umano. Questo è il paragone di cui servesi il grande Apostolo. Vos estis corpus Christi, et membra de membro (1a Cor. XII). Tutti i suoi membri s’interessano l’uno per l’altro, il dolore dell’uno si comunica a tutti gli altri, e non si tosto è guarito, che ne risentono anch’essi alleviamento. Gli occhi conducono i piedi, le mani difendono il capo; nella distribuzione che si fa degli alimenti, ogni membro conserva solo ciò che gli è necessario, e lascia il restante pel nutrimento degli altri. Se qualcheduno di essi è incomodato o debole, gli altri lo soccorrono e lo sostengono; se il piede cammina su d’una spina e ne sia ferito, quantunque elevati sieno gli occhi, essi si abbassano per cercarla, la mano si mette in istato di cavarla; tutti i membri, in una parola, hanno una tal unione gli uni cogli altri, che i beni e i mali loro sono comuni a tutti. – Tali sono gli effetti che la carità deve produrre tra i Cristiani, che sono i membri d’un medesimo corpo. Tutti questi membri debbono essere talmente uniti insieme, che si rendano reciprocamente tutti gli aiuti di cui hanno bisogno, di modo che gli uni facciano la funzione degli occhi, gli altri quella del piede, come la Scrittura dichiara del Santo Giobbe, quando dice, che egli era l’occhio del cielo, il piede dello zoppo Oculus fui cæco, per claudo (Job. XXIX). Quelli che sono al di sopra degli altri per la loro autorità, e che sono come il capo del corpo, debbono scendere nella miseria dei poveri per dare loro soccorso; quelli che sono sani soccorrere gli infermi, i sapienti istruire gli ignoranti, aiutarli col consiglio. E per seguire il paragone di s. Paolo, per rapporto ai membri che sono inferiori agli altri, i piedi del corpo umano, benché molto inferiori al corpo, non portano invidia alcuna; così ì Cristiani che sono nella povertà e nell’abbassamento non debbono invidiare la sorte di coloro che sono più fortunati. Benché un membro sia incurabile, e con i suoi dolori faccia soffrire gli altri, niuno tuttavia si sdegna contro di lui; tutti al contrario lo compatiscono e non sono consentire a separarsi. Così dobbiamo soffrire dagli altri, dai nostri più crudeli nemici, ancora che mettono la nostra pazienza alla prova. Nulla deve estinguere la carità, che deve unir insieme i membri di Gesù Cristo. Chiunque è separato dal suo fratello per inimicizia contro di lui non appartiene a questo Corpo mistico, di cui Gesù Cristo è il capo; egli è un membro guasto, che trovasi in uno stato di morte: Qui non diligit, manet in morte (1 Jo. III); perché egli non ha quello spirito di carità, che è il segno a cui Gesù Cristo ha voluto che si riconoscessero i suoi discepoli: Si quis spirìtum Christi non habet, hic non est eius (Rom. VIII). – Con tutto ciò, fratelli miei, dove si trova questa carità cristiana, che deve tessere il legame dei cuori? Niun si veggono al contrario tra i Cristiani, che inimicizie, che divisioni, che dissapori, che gelosie, che ingiustizie. L’uno cerca di distrugger l’altro con vessazioni o con inganni ed artifici. Questi s’impadronisce ingiustamente d’un bene che non gli appartiene; quegli lacera crudelmente la riputazione del suo fratello: i grandi opprimono i piccoli; i piccoli portano invidia ai grandi; gli uguali non possono soffrirsi; di modo che si può dire, che tra le creature l’uomo non trova alcun più crudele nemico che l’uomo medesimo. Non v’è più fedeltà tra gli amici; non si sa più, dicesi, di chi fidarsi; il commercio degli uomini diventa insopportabile; e non si trova, per cosi dire, tranquillità che nel loro allontanamento; quei medesimi che sono i più prossimi, per i vincoli della carne e del sangue, sono talvolta i più grandi nemici; si trova sovente più di soccorso presso d’uno straniero che presso d’un congiunto. Testimonio quell’uomo dell’odierno Vangelo, che fu abbandonato da’ suoi vicini, e sollevato da un Samaritano, che era straniero alla sua nazione. Spesse volte, dirollo? voi vedrete persone che fanno, professione di pietà, le quali si lasciano trasportare da antipatie, da avversioni contro quelli che hanno la disgrazia di loro dispiacere, che essi non possono mirar di buon occhio, ed a cui danno al più al più alcuni segni esteriori di carità finta, che serve di mantello ad un rancore raffinato, ad una colpevole freddezza; voi le vedete nulladimeno accostarsi ai sacramenti, fare molte buone opere, osservare esattamente certe pratiche di divozione, le quali non essendo animate dallo spirito di carità, non possono essere gradite a Dio né meritar da Lui ricompensa. Oh carità dei primi Cristiani, che li univa sì intimamente che non facevano tutti che un cuore ed un’anima sola, purché non regni tu ancora nello spirito e nel cuore dei Cristiani dei nostri giorni? Possiate, fratelli miei, riaccendere in voi quel bel fuoco che animava il Cristianesimo nascente! Possiamo noi veder rivivere questa carità fraterna, che fa il carattere dei discepoli di Gesù Cristo? Bisogna mostrarvene la pratica: sicut te ipsum.

II. Punto. Allorché Dio ci ha fatto comandamento di amare il nostro prossimo, Egli prevedeva tutti i falsi pretesti, di cui servirebbesi l’amor proprio per eludere la forza di questa legge; Egli proscriveva per conseguenza di già anticipatamente quelle amicizie finte ed apparenti, sterili ed inefficaci, quelle amicizie politiche, le quali finiscono in alcune parole cortesi, in alcune offerte di servigi; amicizia apparente che non è nel cuore, amicizia sterile che è senza effetto. E perciò Dio ci ha comandato di amar il nostro prossimo come noi medesimi: Diliges sicut te ipsum; perché l’amore che abbiamo per noi medesimi è un amor sincero ed efficace. Tal deve essere altresì il nostro amore per il prossimo; deve essere un amor sincero che sia nel cuore, opposto alle amicizie apparenti, le quali non ne hanno che la scorza: deve essere un amor efficace, che si manifesti con le opere, opposto alle amicizie sterili, che sono senza effetto. Ma perché l’amore, che abbiamo per noi medesimi, benché sincero sia ed efficace, non è sempre ben regolato, non è sempre animato da un buon motivo, ed è sovente vizioso, mondano, carnale, interessato, Gesù Cristo ha voluto ancora purificare il nostro amore pel prossimo, proponendoci per modello quel che Egli ha per noi medesimi: Sicut dilexi vos (Jo. III). Laonde, per riassumere tutte le qualità e tutte te regole, che deve avere la carità fraterna, ella deve essere sincera nel suo principio, efficace nelle sue opere, pura nei suoi motivi. Tale fu quella del Samaritano, di cui Gesù Cristo ci propone l’esempio. Sincero. Noi ci amiamo con un amore sincero, e si può dire che in ciò non c’inganniamo; non solamente non ci vogliamo alcun male, ma ci desideriamo ancora tutti i beni, che ci sono necessari, utili e dilettevoli. Osservate dunque, dice s. Agostino, quanto vi amate voi medesimi, per amare nello stesso modo il vostro prossimo: Attende quantum te diligis, sic dilige proximum. Riguardate il vostro prossimo come un altro voi medesimo, per non desiderargli né fargli del male più che a voi medesimi, per desiderargli e fargli tutto il bene che gradireste fatto a voi. Ecco la regola della carità cristiana. Perché  amate voi medesimi, voi non vorreste che altri s’impadronisse ingiustamente dei vostri beni, che denigrasse la vostra riputazione con nere calunnie, che v’insultasse con amari motteggi: perché dunque non vi diportate così a riguardo del vostro prossimo? Perché amate voi medesimi, voi vi desiderate tutto il bene che vi è necessario per preservarvi dai mali della vita; dovete avere i medesimi sentimenti per il vostro prossimo. Non crediate dunque di soddisfare al dovere della carità vivendo in uno stato d’indifferenza a suo riguardo. Il precetto dell’amore domanda il vostro cuore, ricusarglielo si è mancar al precetto. Mirate il Samaritano del Vangelo, che Gesù Cristo vi propone a modello: alla vista di quel povero ferito, che ritrova mezzo morto sulla strada, sente toccarsi il cuore di compassione, misericordia motus; si mette in luogo di quel meschino per rendergli tutti i servigi che la carità gl’inspira. Si è dal cuore, si è da un amor sincero che partono tutti i passi, ch’egli fa per soccorrerlo, misericordia motus. Gran soggetto d’istruzione, fratelli miei, e nello stesso tempo di confusione per quei cuori duri ed insensibili alle miserie del prossimo, i quali sono indifferenti sulle altrui avversità, e si contentano al più di dare alcuni segni esteriori di compassione, ove il cuore non ha alcuna parte! Se voi foste nell’afflizione, oppressi da malattia, da sinistri accidenti, non gradireste voi che gli altri avessero di voi compassione, ed entrassero a parte dei vostri dolori? Invano dunque vi lusingate di amare il vostro prossimo se voi non avete per lui i medesimi sentimenti che vorreste egli avesse per voi medesimi: Diliges etc. – Perché voi vi amate con un amore sincero, volete che si sopportino i vostri difetti, che si abbia dell’indulgenza per voi; e voi sopportate similmente i difetti altrui, abbiate per gli altri la medesima indulgenza, che vorreste si avesse per voi, ed adempirete la legge di Gesù-Cristo: Alter alterius onera portate, et sic adimplebitis legem Christi (Gal. VI). Ecco qui, fratelli miei, un punto notabile per la pratica della carità. Noi abbiamo tutti dei difetti e delle debolezze, che ci espongono ad essere offesi gli uni dagli altri; siamo nulladimeno obbligati a vivere insieme; bisogna dunque, per rendere la società sopportabile, perdonali l’un l’altro, sopportare le nostre debolezze, altrimenti converrebbe rompere ogni commercio cogli uomini; nel che consiste la sapienza ammirabile del nostro Dio, che ci ha comandato di amarci gli uni con gli altri come noi medesimi, perché, amandoci in tal modo, noi vicendevolmente ci perdoniamo. Dio, che comanda a noi di sopportar gli altri, comanda loro di sopportar noi. Se ciascuno adempie al suo dovere, la pace non sarà giammai alterata, come è pur troppo dalle dissensioni, dalle guerre intestine, che desolano le famiglie: quale n’è la cagione? La mancanza di carità a sopportare i difetti del suo prossimo. Quanti ve ne sono che vogliono essere scusati e sopportati in ogni cosa, e nulla sanno sopportar negli altri? Domandano che si abbia dell’indulgenza per essi, mentre trattano gli altri con arroganza, li insultano, li dispregiano a cagione dei loro difetti. Ed è questo forse amar il suo prossimo come se stesso? No, senza dubbio, la carità cristiana segue la stessa regola pel prossimo che per sé. Ma quanto è mai raro ritrovare questa carità che soffre tutto, che perdona tutto, che desidera del bene a tutti! Credono essi di soddisfare al dovere della carità con alcune dimostrazioni di amicizia, che danno al prossimo; ma sotto queste belle apparenze non hanno alcun amore vero e sincero, ne volete la prova? Accada al prossimo qualche sinistro affare, qualche disgrazia, qualche perdita di beni: ne provano un piacere segreto, che hanno cura di nascondere sotto finte proteste di cordoglio che sentono dell’altrui avversità; al contrario si affliggono della sua prosperità, mentre esteriormente sembrano rallegrarsene, prova certissima che non l’amano come se stessi con un amor sincero, perché, per amarlo in tal modo, bisogna entrar a parte delle sue disgrazie e delle sue prosperità, come delle nostre proprie. No, no. fratelli miei, non è già nelle parole che consiste la carità, ma bensì nel cuore; e quando essa è nel cuore, si fa vedere con gli effetti: Non diligamus verbo, sed opere veritate (1. Jo. XIII). – Ma, torno a dire, qual è l’amore, che noi abbiamo per noi medesimi? Non solamente non ci desideriamo del bene, ma usiamo ancora tutti i mezzi di procurarcene e di trovare allievamento nei nostri bisogni. Siamo noi nell’indigenza? Cerchiamo i mezzi di pervenire ad una miglior fortuna. Siamo infermi? ricorriamo ai medici. Siamo nell’afflizione? cerchiamo la consolazione presso di un amico. In una parola, l’amore ingegnoso che abbiamo per noi medesimi, ci fa mettere in uso ogni mezzo per trovare tutto ciò che ci è necessario. Si è in tal modo che un amor sincero ed efficace dee diportarsi verso del suo prossimo. Perciocché contentarsi di semplici desideri senza venirne all’effetto è egli forse, fratelli miei, un adempiere i doveri della carità? Si è imitar quei viandanti, che videro quell’uomo ferito sulla strada di Gerico, e che si contentarono di avere per lui alcuni sentimenti di compassione senza dargli verun soccorso. Perché non imitiamo noi al contrario la condotta del pietoso Samaritano, che, seguendo i movimenti della sua compassione, gli diede tutte le prove d’una carità che previene, senza aspettare che quel povero ferito gli chiedesse aiuto? Egli si accosta a lui, molto diverso da quegli uomini duri, che nulla cotanto temono quanto l’aspetto dei miserabili, e da cui nulla si può ottenere se non a forza d’importunità: egli è premuroso di apportar rimedio ai mali di lui, versa dell’olio e del vino sopra le sue piaghe, lo porta alla vicina osteria, e con generosa carità si obbliga di pagar la spesa, che per quell’uomo farà d’uopo sino alla sua perfetta guarigione. Ecco, dice Gesù Cristo, il modello che dovete seguire: Vade, et tu fac similiter! Per venirne alla pratica fa d’uopo studiare tutti i bisogni del corpo e dell’anima, cui è ridotto il vostro prossimo, per dargli tutti gli aiuti che da noi dipendono. Il vostro fratello è egli nell’indigenza, abbattuto dagli infortuni, dalle miserie dei tempi? Porgetegli una mano pietosa per aiutarlo a rialzarsi col vostro danaro, col vostro credito, con la vostr’opera e con tutti i servigi che dipendono da voi. È egli stimolato dalla fame, divorato dalla sete, mancante di vestimenta? Dategli da mangiare, da bere, e di che vestirsi: prevenite anche i suoi bisogni, senz’aspettare che con sollecitazioni importune egli cavi da voi una limosina, che perde molto pel ritardo o la cattiva grazia con cui vien fatta; prevenitelo ad esempio di Abramo, il quale andava incontro ai pellegrini per indurli ad alloggiare in casa sua. Quell’altro è egli confinato nel letto da malattia o detenuto nelle prigioni per debiti o delitti? Visitatelo; procurate di sollevare quell’infermo, di liberare, o per lo meno soccorrere quel prigioniero; l’uno e l’altro meritano tanto più la vostra carità, quanto che non possono uscire come gli altri indigenti per cercare soccorso alle loro miserie. In una parola, rendete al vostro prossimo miserabile tutti i servigi che vorreste fossero renduti a voi medesimi: Vade, et tu fac similiter. – Ma quanto è mai raro trovare uomini abbastanza sensibili alle altrui miserie, per spargere nel loro cuore la carità benefica! Quanti cuori di bronzo lasciano languir miserabili che mancano di tutto, senza dar loro il minimo soccorso, mentre essi mancar non vogliono di cosa alcuna! Quanti che li trattano con disdegno e dispregi insultanti, aggiungendo nuovo peso alle loro miserie! Se si risolvono a far lor qualche limosina, non è che per liberarsi dalle loro importunità, ed è molto modica e comprata a molto caro prezzo per le maniere scortesi che l’accompagnano. Donde viene dunque, fratelli miei, questa durezza, questa insensibilità, che si ha per le miserie altrui? Da uno spirito d’interesse, che signoreggia la maggior parte degli uomini. La carità, dice s. Paolo, non cerca il suo interesse: Non quærit, quae sua sunt. Ma quasi tutti gli uomini lo ricercano questo interesse, dice il medesimo Apostolo: Omnes quæ sua sunt quærunt. Ecco ciò che distrugge la carità tra essi. La carità ama di comunicarsi; ma lo spirito d’interesse si ristringe in se stesso; egli riferisce tutto a se stesso, come a suo centro, ama solo se stesso e non ha che della durezza per gli altri. Questo spirito d’interesse rende non solamente gli uomini insensibili alle miserie del loro prossimo, egli mette ancora la divisione tra quei medesimi, che dovrebbero essere i più uniti: egli separa gli amici, i parenti, il figliuolo dal padre, il fratello dalla sorella, mette in scompiglio tutta la società. Donde viene che i primi Cristiani non facevano che un cuore ed un’anima sola? Si è perché non avevano alcun interesse a divider fra loro; tutti i loro beni erano comuni, ed essi facevano a gara a beneficarsi l’un l’altro: laddove l’interesse divide i Cristiani d’oggi giorno, e ne fa tanti cuori differenti, quanti sono i soggetti che compongono la società. Bisogna dunque, per essere caritatevole, staccarsi e spogliarsi del suo interesse, far parte agli altri de’ suoi beni, secondo i loro bisogni e la propria facoltà; di modo che chi ha molto dia molto, e chi ha poco dia poco, come diceva Tobia al suo figliuolo. – Ma non ci fermiamo solamente a provarvi che i bisogni del corpo del vostro prossimo debbono esser l’oggetto della carità; vi sono beni più nobili, quelli vale a dire dell’anima. Questa materia chiederebbe una istruzione particolare di cui non faccio che indicarvi in poche parole i capi principali: il vostro prossimo è nell’afflizione? Voi dovete consolarlo: è questo un esercizio di carità, che conviene a tutti, non v’è alcuno che non possa compierlo. Quante occasioni non se ne trovano negli avvenimenti funesti, che attraversano la vita degli uomini? Una parola di consolazione detta a proposito ad un infermo, ad un afflitto, calma l’amarezza dei suoi dolori. Il vostro prossimo è nell’ignoranza, o caduto a qualche disordine? Istruitelo, correggetelo. Quanti poveri ignoranti si trovano, che hanno bisogno d’istruzione, che per mancanza di essa si allontanano dalle vie della salute! Quanti peccatori, che si perdono nelle vie dell’iniquità per mancanza di una correzione salutevole, di un avviso prudente che li farebbe rientrar nel dovere! La più grande carità, che si possa dunque fare, è il faticare alla conversione dei peccatori, cooperare alla salute dell’anima del suo prossimo, sia con ammonizioni fatte a proposito, sia con i buoni esempi, i quali sono ancora più efficaci che le parole. Se voi vedeste una bestia da soma cader in un fosso, voi la rialzereste per carità verso colui cui essa appartiene, voi vedete un vostro fratello che i disordini conducono al precipizio, che è vicino a cader nell’inferno, e non farete alcuno sforzo per rattenerlo? Ov’è la vostra carità’? Ov’è il vostro zelo per la gloria di Dio? Ma qual crudeltà sarebbe la vostra se con malvagi consigli, con esempi perniciosi acceleraste la sua caduta? Iddio vi domanderebbe un conto terribile della perdita dell’anima di lui. – Finiamo. La carità deve essere pura nel suo motivo; ella sarà tale se noi ameremo il nostro prossimo, come Gesù-Cristo ci ha amati. È questo il modello che Egli ci propone: sicut dilexi vos. In qual modo Gesù-Cristo ci ha Egli amati, fratelli miei? Ci ha amati senza alcun merito dal canto nostro e senza alcun interesse dal suo. Egli ci amò fino a sacrificar i suoi beni, il suo riposo, la sua vita per nostra salute. Ecco la regola che propone alla nostra carità, Egli deve esserne il fine. Non è dunque né la nobiltà dell’origine, né  lo splendore delle ricchezze , né le qualità personali del corpo e dello spirito, che fissar devono il nostro amore per il prossimo, molto meno ancora la passione deve esserne il principio. Poiché amarsi per la colpa è un amarsi per l’inferno, dice il Crisostomo; l’amor cieco e profano non deve avere alcun luogo nell’ordine della carità cristiana. Voi potete bensì avere un affetto particolare per i parenti, gli amici, le persone che lo meritano per le loro buone qualità, per i loro benefizi, ma questo affetto deve sempre riferirsi a Dio come a suo primo oggetto. Perciocché, se voi non amate il vostro prossimo che per mire umane, solamente perché vi appartiene pei vincoli del sangue o per qualche attrattiva particolare che vi piace, se non gli rendete servigio che per l’utile che ne sperate, o per una inclinazione puramente naturale, che fate voi di più che i pagani? La vostra carità, non essendo soprannaturale come deve essere, sarà senza ricompensa presso di Dio. L’esempio del Samaritano del Vangelo vi confonderà ancora in questo punto. Che poteva egli sperare da quell’uomo cui gli assassini avevano tolto tutto quel che possedeva? Non era dunque in vista dell’interesse che gli rendette sì buoni uffizi, ma per solo principio della carità, che l’animava. Ah! quanto è rara una carità cosi disinteressata! Si ama, si coltiva l’amicizia di certe persone, o perché  hanno del credito, o per la speranza di certi vantaggi che se ne aspettano: si amano coloro che sono nella prosperità ed in istato di far del bene, ma dacché non si trova più il proprio interesse, dacché la fortuna ha cangiato, non avvi più amicizia. Prova certissima che Dio non n’è il principio ed il fine. Volete voi conoscere, fratelli miei, se la vostra carità viene da Dio e se ella si riferisce a Dio? Lo conoscerete quando essa non cangerà, malgrado i sinistri accidenti del vostro prossimo, malgrado i cattivi servigi che esso vi renderà; perché questa carità, trovando in Dio un motivo sempre costante, non deve giammai variare.

Pratiche. Non considerate che Dio in tutte le cose; amate il vostro prossimo in Dio, per Dio e come Dio vi ha amati, e voi lo amerete cristianamente. Volete voi sapere se avete questa carità? Riconoscetela ai segni che ce ne dà il grande Apostolo, i quali ne contengono la pratica. La carità, dice egli, è paziente e piena di bontà: Charitas patiens est, benigna est; ella è paziente per soffrire dai nostri fratelli gli affronti, le ingiurie, i dispregi; piena di bontà per far loro del bene. Essa non è invidiosa: Non æmulatur; perché, non attaccandosi alle cose di quaggiù, e non desiderando che i beni del cielo, essa non conosce quell’invidia maligna, che si affligge del bene altrui. Essa non si gonfia, non è ambiziosa: Non inflatur, non est ambitiosa; perché non crede meritar cosa alcuna, e, ben lungi dal dispregiar gli altri, non ha che umili sentimenti di sé medesima. Essa non s’irrita, perché non cerca il suo interesse: Non irritatur, non quærit, quæ sua sunt. Ella non pensa né giudica male di alcuno; non si rallegra del male, ma piuttosto del bene e della verità: non cogitat malum, congaudet veritati. Ella crede tutto, soffre tutto, spera tutto: Omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet. Faccia il cielo, fratelli miei, che la vostra sia tale, e che, dopo essere stati uniti sopra la terra coi legami di una stretta carità, lo siate un giorno nell’eternità beata. Cosi sia.

CREDO…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Exod XXXII: 11;13;14

Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel. Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo. [Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps CIII: 13; 14-15

De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet.

[Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/