I SERMONI DI BOSSUET, L’AQUILA DI MEAUX: “VADO AD PATREM MEUM”

I SERMONI DI BOSSUET

Vado ad Patrem meum

Io me ne vo a mio padre

(JOANN . XVI, 16).

SERMONE RECITATO NELLA CATTEDRALE DI MEAUX NELL’APERTURA DI UNA MISSIONE, L’ANNO 1692.

(Sermoni di J. B. BOSSUET – Palermo, Stabilim. Poligrafico Empedocle, 1843)

Nostro Signore, miei cari fratelli, dice questa parola nella persona de’ suoi fedeli ugualmente che nella sua propria; e per darci la confidenza di ripeterla con Lui, disse in un altro luogo: lo ascendo a mio Padre, e al Padre vostro; al mio Dio, e al vostro Dio (Joan.: XX, 17). Dunque suo Padre è altresì il Padre nostro, sebbene con un titolo differente; è Padre di lui per natura, è Padre nostro per adozione; e noi possiam dire con esso: Io me ne vo a mio Padre. Io posso anche aggiungere, miei cari fratelli, che questa parola in un qualche senso conviene più a noi che a Gesù Cristo; perché vivendo sopra la terra, Egli era già con suo Padre secondo la divinità; e perché, anche secondo la natura umana, la sua santa anima ne vedeva la di lui faccia. Egli era sempre con esso; e nel tempo in cui sembrava ancora lontano di ritornare nel luogo della sua gloria con suo Padre, non lasciava di dire: Io non sono solo; ma mio Padre, il quale mi ha mandato, ed Io, siamo sempre assieme (JOANN. VIII , 16). – Noi dunque siamo quelli, che siamo veramente separati dal Padre, noi siamo quelli, miei dilettissimi, che dobbiamo fare un continuo sforzo per ritornarvi: a noi tocca di dire incessantemente: io me ne vo a mio padre: siccome poi questa parola indicava la consumazione del mistero di Gesù Cristo nel suo ritorno alla sua gloria, così accenna la perfezione della vita cristiana, per mezzo del desiderio che ci inspira di ritornare a Dio con tutto il nostro cuore. – Pertanto penetriamo il senso di questa parola, concepiamo:

– prima cosa sia andare da nostro Padre;

– vediamo secondariamente ciò che ci deve avvenire, finché siamo in questo mondo; e comprendiamo finalmente qual bene avremo quando saremo ivi arrivati: tutto ciò ci sarà insinuato nel nostro Vangelo; ed io non farò che seguire a passo a passo ciò che Gesù Cristo in esso ci propone.

PRIMO PUNTO

Io me ne vo a mio Padre. Lo stato di un Cristiano è di sempre andare: ma donde egli parte, e dove deve arrivare? S. Giovanni ce lo fa intendere con questa parola… sapendo Gesù ch’era arrivata la sua ora di passare da questo mondo a suo Padre (JOA. XIII, 1); non proseguiamo maggiormente: noi dobbiamo fare questo passaggio con Gesù Cristo. Io non sono forse di questo mondo, come non lo sono essi (XVII 16). Secondo la sua parola, voi parimenti non siete del mondo: dunque abbandonatelo, camminate senza allentarvi; ma camminate verso vostro Padre. Ecco le due ragioni del vostro passaggio: la miseria del luogo da cui partite, e la bellezza di quello a cui siete chiamati. S. Paolo per esprimerci la prima: il tempo è breve, dice egli (1 Cor. VII, 29), il tempo è breve; se voi non abbandonale il mondo, esso abbandonerà voi: dunque rimane, che quello il quale è ammogliato, sia come non lo fosse; e che quelli i quali piangono, come se non piangessero; e quelli i quali godono, come se non godessero; e quelli i quali comprano, come se non comprassero; e quelli i quali si servono di questo mondo, come se non si servissero; perché la figura di questo mondo sen fugge (Ibid. 29, 30, 31, 32). Come se Egli dicesse: perché volete voi fermarvi in ciò che passa? Voi credete, che ciò sia un corpo, una verità; mentre non è che un’ombra e una figura, la quale sen passa e si dilegua: così in qualunque stato voi siate, non vi arrestate. I vincoli più fermi e più santi, come è quello del matrimonio, trovano la loro dissoluzione nella morte: le vostre tristezze passeranno ugualmente che le vostre allegrezze; ciò che voi credete di possedere con tutta giustizia, fugge da voi qualunque sia il prezzo con cui lo compraste; tutto passa nostro malgrado. Ma altro è, dice sant’Agostino (In JOANN . tr. LV, n. 1, T. lll, par. II, p. 632), passare col mondo, altro passare dal mondo per andare altrove. Il primo è la porzione de’ peccatori: porzione infelice, che loro non rimane; poiché se il mondo passa, eglino passano altresì con esso. Il secondo è la porzione de’ figliuoli di Dio, i quali per timore di sempre passare, come il mondo, escono dal mondo in ispirito, e passano per andare al Signore. Domìnii, possessioni, palazzi magnifici, superbi castelli, perché volete voi arrestarmi? voi un giorno cadrete, o se sussisterete, ben presto io stesso non sarò più per possedervi: addio, io passo, io vi abbandono, io me ne vo, io non ho il comodo di fermarmi. E voi, piaceri, onori, dignità, perché ostentate i falsi adescamenti? lo me ne vo. Invano mi domandate ancora alcuni momenti, questo residuo di gioventù e di vigore: no, no, io sono sollecitato, io parto, io me ne vo; voi non mi appartenete più. Ma ove andate voi? lo ve l’ho detto, io me vo a mio Padre: questa è la seconda ragione di accelerare la mia partenza. Il mondo è una cosa da poco, che i filosofi lo abbandonarono, senza anche sapere ove andare; disgustati della sua vanità, e delle di lui miserie, lo hanno abbandonato; lo hanno abbandonato, dico io, senza neppur sapere, se ritroverebbero, abbandonandolo, un altro soggiorno, in cui potessero fermamente stabilirsi. Ma io, io so ove vado: io vado a mio Padre. Che mai teme un figliuolo, quando va nella casa paterna? Quell’infelice prodigo, che allontanandosi da essa erasi perduto, ed erasi immerso in tanti peccati e in tante miserie, ritrova un qualche rimedio dicendo: io sorgerò, e me ne andrò da mio padre (Luc. XV, 18). Prodighi, cento volte più traviati del prodigo evangelico, dite dunque: io sorgerò, io ritornerò; ma piuttosto non dite, io ritornerò; partite subito. Gesù Cristo v’insegna a dire, non già, io andrò da mio padre, ma, io me ne vo; io parto subito: o se dite col prodigo, io ritornerò, una tal risoluzione sia seguita da un pronto effetto, come la sua; imperciocchè egli tosto si leva, e viene da suo padre. Dunque dite collo stesso spirito, io ritornerò da mio Padre: ivi i mercenari, le anime imperfette, quelli che principiano a servire al Signore, e che lo fanno anche con qualche specie d’interesse, non lasciano di trovare nella di lui casa un principio di abbondanza; dunque, quanta ne troveranno quelli che sono perfetti, e lo servono per puro amore? Andate pertanto, camminate: quando anche il mondo fosse sì bello, come esso si vanta, e che sembrasse tale a’ vostri sensi, bisognerebbe lasciarlo per una maggiore bellezza, per quella di Dio e del suo regno. Ma esso non è che un niente, e voi esitate, e dite sempre: io andrò, io sorgerò, io ritornerò da mio Padre, senza mai dire: io vado. – Ma supponiamo finalmente, che voi partiate; eccovi nella casa paterna. Attratti dalle sensibili dolcezze di una nascente conversione, ivi dimorate: questo è il vitello grasso, che tosto vi si porge, è la musica che si fa sentire in tutta la casa al vostro ritorno. Volete dunque restare in questo stato ameno, ed accoppiare ad esso il vostro cuore? No, no, camminate, avanzate: ricevete ciò che Iddio vi dona; ma alzatevi maggiormente alla croce, alla sofferenza, agli abbandonamenti di Gesù Cristo, alla aridità che gli fece dire: io ho sete (JOANN . XIX 28 ); in cui nondimeno non ricevette che un poco di aceto. – Ebbene, eccomi dunque arrivato; io sono passato per le prove, e il Signore mi donò la perseveranza; io dunque non ho a che arrestarmi. No, camminate sempre. Siete forse più perfetti di s. Paolo, il quale aveva bevuto tante volte il calice della passione del suo Salvatore? udite come egli parli, o piuttosto considerate come egli operi. Egli dice a’ Filippensi: fratelli miei, io non credo già di essere arrivato (Phil. III, 23). E che, o grande Apostolo, non siete voi nel numero de perfetti! e perché avete voi detto in questo stesso luogo: sebbene noi siamo perfetti, abbiamo questo sentimento? (Ibid. 15). Egli è perfetto, e nondimeno: No, dice egli, fratelli miei, io non sono ancora ove voglio andare, e non mi resta da fare che una cosa (Ibid. 13). Intendete: Non mi resta da fare che una cosa. E che? che obbliando ciò che io ho fatto, e tutto lo spazio che ho lasciato dietro a me nella carriera in cui corro, mi estenda a ciò ch’è innanzi di me. Io mi estendo; che vuol dire egli? Io fo continuamente nuovi sforzi; io mi frango, per così dire, e distruggo me stesso per lo sforzo continuo che fo per avanzarmi, e ciò incessantemente, senza prendere respiro, senza rallentare il piede per un momento nel cammino in cui mi trovo; io corro con tutte le mie forze verso il termine che mi è proposto (Ibid. 14). Ed inoltre, qual è questo termine? Vedremo noi un qualche fine al vostro corso durante questa vita mortale? Udite ciò che egli risponde: Siate miei imitatori, come io lo sono di Gesù Cristo (1 COR . IV, 16). Imitatore di Gesù Cristo? Dunque io più non mi stupisco, se dopo tanti sforzi, tante sofferenze, tante conversioni, tanti prodigi della vostra vita, voi dite sempre che non siete ancora arrivato. Il termine a cui mirate, ch’è d’imitare la perfezione di Gesù Cristo, è sempre lontano infinitamente da voi; per ciò voi sempre andrete, finché sarete questa vita; poiché tendete a un termine a cui non sarete mai perfettamente arrivato. –  E voi, fratelli mici, che farete voi mai, se non ciò che soggiunge lo stesso Apostolo nella sua lettera a’ Filippensi  (Philip . III, 17 ) . Fratelli miei, siate imitatori, e proponetevi l’esempio di quelli che si regolano secondo il modello che avete veduto in noi. Dunque bisogna sempre avanzare, sempre crescere: in qualsivoglia grado mai riposarsi, né arrestarsi mai. Io me ne vo, io me ne vo più alto, e sempre più vicino a mio Padre: vado ad Patrem! La strada ove si cammina, il monte ove si vuole, per così dire, arrampicarsi, è sì rigido, che se sempre non si avanza, si ricade; se non si sale incessantemente, e se si vuole, prendere un momento per riposarsi, si è strascinato giù dal proprio peso. Dunque bisogna sempre inoltrarsi, sempre elevarsi, senza fermarsi in veruna parte. Bisogna celebrare la Pasqua della nuova alleanza in abito di viaggiatore, col bastone in mano, colla veste cinta, e mangiare frettolosamente l’agnello pasquale; perché è la Pasqua, cioè, il passaggio del Signore (Exod. XII, 11): e come lo spiega Mosè poco dopo, la vittima del passaggio del Signore (Ibid. 27), la quale c’insegna a sempre avanzare senza mai arrestarci: imperciocchè Gesù Cristo, ch’è una tal vittima, sen va sempre a suo Padre, e ci conduce con Lui. Se non facciamo uno sforzo continuo per avvicinarci ad esso, e unirci sempre, noi non adempiamo il precetto: Voi amerete Iddio vostro Signore non con tutto il vostro cuore, con tutti i vostri pensieri, con tutte le vostre forze (Deut. VI, 5). – Ma quando si sarà arrivato a questo perfetto esercizio dell’amore di Dio, allora almeno sarà permesso di fermarsi e di prendere riposo? Che! voi dunque non sapete che amando si acquistano nuove forze per amare, il cuore si anima, si dilata; lo Spirito Santo che lo possiede, gl’istilla nuove forze e per amare sempre più? Quindi voi non amate con tutte le vostre forze, se non amate eziandio con quelle nuove forze, che vi porge l’amore perfetto. – Dunque bisogna crescere in amore durante tutto il corso di questa vita: quello che assegna limiti al suo amore, non sa cosa sia amare: quello che non tende sempre ad un grado più alto di perfezione, non conosce la perfezione, né gli obblighi del Cristianesimo. Siate perfetti – dice il Salvatore – come è perfetto il vostro celeste Padre (MATTH. V, 48). Per tendere verso quel termine a cui non si arriva mai perfettamente in questa vita, bisogna crescere in perfezione, sempre maggiormente amare. Io non so se anche in cielo l’amore sempre non andrà crescendo; poiché l’oggetto che si amerà, essendo infinito e infinitamente perfetto, somministrerà eternamente nuove fiamme all’amore. Se nondimeno convien dire che ci sono alcuni limiti, Iddio solo è quello che li assegna; siccome poi durante questa vita si può sempre avanzare sempre crescere, sempre fare, sempre dire  io me ne vo a mio Padre; cioè, io cammino non sol per andare ivi, allorché ne sono lontano, ma anche allora che mi avvicino, che mi unisco, io procuro di avvicinarmi e di unirmi maggiormente; finché arrivo a quella perfetta unità, ove io non sarò con esso che uno stesso spirito, ove io sarò totalmente a Lui simile, vedendolo come Egli è in se stesso (JOAN. III, 2); ove finalmente, e per dire tutto in una parola, Egli stesso sarà tutto in tutti (1. COR. V, 28); e sazierà tutti i nostri desideri. Ma intanto, che dobbiamo noi fare? Questo è ciò che vi devo spiegare nella seconda parte di questo sermone, o piuttosto ciò che Gesù Cristo stesso vi spiegherà nel nostro Vangelo.

SECONDO PUNTO.

Ciò che voi dovete fare, dic’Egli, aspettando il giorno della vostra liberazione, si è, che voi pian piangerete e gemerete, e il mondo godrà; ma voi sarete nella tristezza: Vos autem contristabimini. (JOAN. XVI, 20). Per intendere questa tristezza, bisogna ascoltare l’Apostolo, il quale ci dice, che ci sono due specie di tristezza: evvi la tristezza del secolo, la tristezza secondo il mondo, e la tristezza secondo il Signore (II COR. VII, 10). Non crediate già, fratelli miei, che perché Gesù Cristo profferì che il mondo sarà nel gaudio, non crediate, dico, che Egli abbia voluto dire che le sue allegrezze saranno senza amarezza, o che non saranno seguite dal dolore. Chi non vede colla esperienza, che quelli che amano il mondo, piangono quasi sempre la perdita de’ loro beni, de’ loro piaceri, della loro fortuna, delle loro speranze, in una parola di ciò che essi amano? Se dunque Gesù Cristo ha detto che il mondo godrà, ciò ha Egli detto perché il mondo cercherà sempre di godere; perché questo è il suo genio, questo il suo carattere: ma sebbene cerchi sempre il gaudio, non gli accade mai di trovarlo secondo il suo desiderio, cioè, puro e durevole. Salomone ha detto: È molto tempo che queste due qualità mancano a’ piaceri della terra: il riso sarà confuso col dolore (Prov. XIV, 13 ); dunque i piaceri del mondo non sono mai puri: le lagrime seguono da vicino il gaudio; dunque esso non sarà mai durevole; e qualunque felicità abbiasi nel mondo, vi è in esso più afflizione che piacere; in ciò dunque consiste quella tristezza del secolo di cui vi parlò san Paolo. –  Ma che ha detto di essa questo santo Apostolo? La tristezza del secolo produce la morte (II. Cor. VII, 10); perché proviene dalla adesione a’ beni transitori. A questa tristezza del secolo s. Paolo oppone la tristezza che è secondo il Signore, e che è il vero carattere de’ suoi figliuoli. La tristezza che ci può venire per parte del mondo, per la perdita de’ beni della terra, e per la infermità della natura, per le malattie, pei dolori, ci è comune cogli empi; quindi questa non è quella tristezza che il Salvatore compartisce a’ suoi fedeli, dicendo loro: Voi piangerete. Una tale tristezza, fratelli miei, è quel dolore, secondo Dio, di cui Egli vuol parlare: e quale ne è il motivo? se non che il mondo persecutore affligge ordinariamente le persone dabbene, « le tiene nella oppressione. Aggiungiamo che Iddio, come buon Padre, castiga i giusti come suoi figliuoli, e fa loro trovare in questo mondo i loro mali; per riservar loro nella vita futura i loro beni. Voi scorgete già molto bene qualche cosa di quella tristezza la quale è secondo il Signore. Assoggettatevi, miei cari fratelli, assoggettatevi all’ordine che Egli stabilì nella sua famiglia, e se, allorché è risoluto di punire il mondo, principia il suo giudizio dalla sua casa, da’ giusti che sono i suoi figliuoli; stendete umilmente gli omeri a quella mano paterna, e lasciategli esercitare un rigore sì pieno di misericordia. Ma ecco inoltre un’altra specie di questa tristezza secondo il Signore. Assisi sopra i fiumi di Babilonia, e in mezzo a’ beni che passano, i fedeli odono il loro bando, e piangono ricordandosi di Sionne loro cara patria. Ah! miei cari figliuoli, se qualche goccia di quella tristezza entra ne’ vostri cuori, e se pieni di sdegno e di disgusto contro ciò che passa, vi sentite afflitti di non godere peranco del bene che è eterno, dietro a cui sospirate; una tale tristezza è la tristezza secondo il Signore, che io vi desidero. Ma ciò non è ancora quello che io ho in animo di predicarvi in questo giorno con san Paolo. Quella tristezza, la quale è secondo il Signore, produce – dice quel sant’Apostolo – una stabile penitenza, (1 Cor. VII, 10). Dunque questo principalmente è quel dolore che io vi desidero; il rammarico de’ vostri peccati; la tristezza e l’amarezza della penitenza. Se io posso ispirarvi un tal dolore, allora, allora, miei cari fratelli, vi dirò coll’Apostolo: Ah! miei dilettissimi, io mi consolo, non già che siate contristati, ma che siate tali secondo il Signore mediante la penitenza (Ibid. 9); e inoltre: Chi è quello che mi possa recare qualche consolazione e qualche gaudio, se non quello che per motivo di me si affligge ( Ibid . 11, 2 ), a cui la mia predicazione e i miei avvertimenti hanno ispirata quella tristezza la quale è secondo il Signore, e il dolore de’ suoi peccati? Per ispirarvi, fratelli mici, questa salutare tristezza, io ho chiamati alcuni predicatori, i quali vi predicheranno la penitenza nelle vesti è sopra la croce. Voi comincerete ad udirli in questa sera, ed io fo l’apertura di queste missioni, da cui spero sì gran frutto. Dunque lasciatevi affliggere secondo il Signore, e immergetevi nella tristezza della penitenza. Io sono mosso da gran tempo dalla tristezza, che vi recano tante miserie, tanti aggravi, che molta pena soffrite a sopportarli, e che senza dubbio non potete soffrire lungamente, malgrado la vostra buona volontà. Io vi compiango; io li sento con voi: e quale sarebbe il mio giubilo, se potessi liberarvi da questo peso? ma bisogna che io vi parli come padre amoroso: quando voi esagerate i vostri mali, che sono grandi, voi non andate alla sorgente. Tulle le volte che Iddio percuote, e che si sentono alcune miserie o pubbliche o private; che si è flagellato ne’ propri beni, nella propria persona, somministrarci nella propria famiglia; non bisogna fermarsi a piangere i propri mali, e in mandar gemiti, che non li guariscono: bisogna rivolgere il proprio pensiero ai propri peccati, i quali ci attraggono questi mali. Mirate quel prodigo, di cui vi abbiamo parlato di sopra, ridotto a pascere un gregge immondo, e che guadagna appena un po’ di pane mercé un sì basso e sì indegno servigio. Egli non si contenta di dire: I servi infimi di mio padre sono alimentati abbondantemente, ed io che sono suo figliuolo, io muoio qui di fame (Luc. XV, 17): perché quel pianto sterile non avrebbe fatto che inasprire i suoi mali invece di alleggerirli. Egli va alla sorgente: egli sente, che la sorgente de’ suoi mali si è di avere lasciato suo padre e la sua casa, ove tutto è in abbondanza; di essersi contentato de’ beni, che si consumano sì velocemente, e che gli aveva strappati; perché quel padre sì sаvio e sì buono, il quale ne conosceva la malignità, provava difficoltà in accordarglieli. Egli dunque disse tra sé stesso: io andrò, io sorgerò (Ibid. 18), e ritornerò da mio padre; e non contento di dirlo con un modo fiacco e imperfetto, si leva, viene a suo padre, e prova le dolcezze de’ suoi teneri abbracciamenti. Se si fosse contentato di dire, ah! quanto infelice io sono! e se incolpando dei suoi mali, non già se stesso, ma il Signore, avesse bestemmiato contro il cielo; che altro avrebbe egli fatto, se non accrescere il suo peso? ma poiché nella sua miseria ha detto: Padre io ho peccato contro il cielo, e contro voi e non sono degno di essere chiamato vostro figliuolo; egli nello stesso tempo e cancellò il suo peccato e annientò i mali, che ne formavano il castigo. Ma, dilettissimi, fate anche voi lo stesso. Voi vedete tanti nemici congiurati da tutte le parti contro di voi: non dite già, come una volta facevano i Giudei: l’Egitto, i Caldei, la spada del re di Babilonia, sono quelli che ci perseguitano; dite piuttosto: i nostri peccati sono quelli che hanno messa la separazione tra Dio e noi (Isa. LIX, 2); i nostri peccati sono quelli che sollevano tanti nemici contro di noi i nostri peccati opprimono lo stato, come diceva san Gregorio, il regno non può più sostenersi sotto un tal peso. Pertanto venite a gemere innanzi al Signore, e alla voce di que’ santi missionari, i quali vengono per secondarmi e porgermi il loro soccorso, per prepararvi alla grazia del giubileo.  Voi mi direte: ma la grazia del giubileo è data per alleggerirci, e rilasciare le pene, che noi meritiamo pe’ nostri peccati; conseguentemente per somministrarci allegrezza, e non già per immergerci nella tristezza, a cui voi ci esortate. Voi non intendete, miei dilellissimi, il mistero della indulgenza, e del giubileo, e la natura della grazia. Evvi una pena e un dolore, che la indulgenza rimette: e ve ne un’altra, che essa accresce. La pena che rimette, è quella spaventosa austerità della penitenza, di cui dovremmo soffrire tutti i rigori dopo di avere peccato tante volte contro il Signore, e oltraggiato il suo Santo Spirito. Ma evvi una pena, che la indulgenza deve accrescere; e questa è la pena che ci causa il dolore di avere offeso il Signore. E perché mai la indulgenza accresce questa pena di un cuore affitto per i suoi peccati, e trafitto dal dolore di averne commesso un numero si grande? Perché, come dice il Salvatore, quello a cui viene rimesso maggiormente altresì ama (Luc.VII, 47), e amando il suo benefattore deve parimenti affliggersi maggiormente di averlo offeso con tanti delitti. In tal guisa pertanto la indulgenza accresce la pena; quella pena di aver commesso un peccato mortale, cento peccati mortali, un numero infinito di peccati mortali. La indulgenza è concessa per quelli, ne’ quali quella pena interna della penitenza si aumenta. Quelli poi, i quali fanno la penitenza indifferentemente, come parla il santo Concilio di Nicea (Can. XII, Lab. t. II, p. 42, non ottengono alcuna indulgenza. Lo spirito della Chiesa si è di concedere la indulgenza a quelli che sono penetrati e quasi oppressi dal dolore dei loro peccati. Ma io voglio inoltrarmi anche maggiormente, e porvi sotto gli occhi l’esempio di S. Paolo. La penitenza imposta, e la indulgenza concessa a quell’incestuoso di Corinto ha dato luogo alla eccellente dottrina che io vi ho riferita di quel grande Apostolo sopra la tristezza della penitenza. San Paolo aveva profferita contro quello scandaloso peccatore una dura e giusta sentenza, fino a lasciarlo in potestà di satanasso, per affliggerlo quanto al corpo, e salvarlo quanto all’anima (1. Cor. V, 5). La Chiesa di Corinto, mossa vivamente dal rimprovero che aveale fatto S. Paolo di soffrire in mezzo di essa uno scandalo sì grande, aveva posto in castigo quel peccatore; e poi, penetrata dalle di lui lagrime, ne avea raddolcito il rigore, supplicando il santo Apostolo ad aggradire questo caritatevole mitigamento. Ciò posto ecco la indulgenza, che S. Paolo concede: ecco il primo esempio di quella indulgenza apostolica, che in ogni tempo fu tanto apprezzata e stimata nella Chiesa. Eh bene! dice egli, basta che il peccatore scandaloso abbia ricevuta la correzione, abbia accettata la pena, che gli fu imposta della vostra assemblea dalla moltitudine, dice egli, dalla Chiesa, dai Pastori, con il consenso di tutto il popolo; imperciocchè questo senza dubbio è ciò che vogliono significare queste parole: Sufficit objurgatio hæc, quæ fit a pluribus (II COR. II, 6). Quindi invece di disapprovare ciò che la vostra carità ha fatto per lui, ed il raddolcimento della sua pena, io vi esorto al contrario di trattarlo con indulgenza, di consolarlo con questo mezzo nella estrema confusione e afflizione, che gli cagiona il suo delitto, per timore, dice l’Apostolo, che non resti oppresso dall’eccesso della tristezza (ibid, 7). Voi ora vedete, miei dilettissimi, ciò che lo rende degno della indulgenza della chiesa e di s. Paolo; essendosi abbandonato senza limiti a quella salutare tristezza della penitenza, s’immergeva in essa fino a far temere, che non ne rimanesse oppresso, che il suo dolore non lo assorbisse: Ne absorbeatur, che non lo inabissasse; cosicchè non potesse sostenerlo. Dunque abbandonatevi, a suo esempio, al dolore della penitenza, per rendervi degni della indulgenza, delle consolazioni, della carità della Chiesa. Ma, fratelli miei, non obbliate un carattere di quella tristezza, che è secondo il Signore, accennato da s. Paolo nel passo di cui trattiamo. La tristezza, la quale è secondo il Signore, produce, dice egli, una penitenza. Qual penitenza, fratelli miei? una penitenza stabile (Pœnitentiam stabilem) (II. Cor. VII, 10), e non già certi dolori passeggieri, che il primo attacco dei sensi e della tentazione tosto e senza alcuna resistenza invola. Una tale tristezza produce la morte ugualmente che quella del secolo; perché non serve al peccatore se non per fargli fare una confessione, la quale non avendo avuto alcun buon effetto, non ha potuto averne se non di cattivissimi, dando luogo a una ricaduta più pericolosa della prima. La penitenza che io vi domando è una penitenza durevole appoggiata a massime solide, e ad una prova conveniente. In che poi consiste la stabilità di questa tristezza? L’Apostolo dice che quando essa è perfetta, deve produrre una penitenza stabile per la salute: pertanto ha essa la stabilità che le conviene, quando vi conduce fino alla salute, fino alla unione perfetta con Dio, e all’ultimo adempimento di quella parola; io vado a mio Padre. Allora vi avverrà ciò che Gesù Cristo ha promesso nel nostro Vangelo; ciò che doveva formare l’ultimo punto di questo discorso, e che io brevemente espongo. – Allora, dice Egli, la vostra tristezza sarà cambiata in gaudio, e in un gaudio, che niuno potrà mai involarvi Gaudium vestrum nemo tollet a vobis (JOAN. XVI, 22). Ecco, fratelli miei, il gaudio che io vi desidero; e non que’ piaceri, che il mondo compartisce, e che il mondo toglie: esso li dà, già mosso dalla ragione, ma dal genio e dalla bizzarria; e li toglie senza sapere il perché, senza ragione, come li ha dati. Lungi da noi questi piaceri ingannevoli; lungi da noi la cecità, che producono nel cuore, e l’attacco peccaminoso con cui ad essi ci abbandoniamo. Io vi desidero quel gaudio che non si cambia mai; perché quello che lo concede è immutabile. Ma, fratelli miei, non vi scordate mai, che bisogna ivi arrivare mediante la tristezza, mediante la tristezza che è secondo il Signore, mediante la Tristezza della penitenza. Questo è ciò che ci spiega Gesù Cristo nel fine del nostro Vangelo con una similitudine ammirabile, e molto naturale. La donna, dice Egli, prova grandi dolori mentre partorisce, perché la sua ora è arrivata ma tosto che ha partorito un figliuolo, non si ricorda più de’ suoi mali, per il piacere che ha di aver posto al mondo un uomo (Joan. XVI, 21). Ecco il modello di questo dolore nella penitenza, che io vi ho predicato in questo giorno dietro a s. Paolo. Voi dovete partorire un uomo; e questo uomo che dovete partorire e a cui dovete dare una vita nuova, siete voi stesso. La vostra ora è arrivata, voi siete al termine; la guerra con tutte le sue sciagure, il principio di una campagna, che apertamente deve essere decisiva; la missione, il giubileo, le nostre pressanti ammonizioni vi avvertono che è tempo, che adempiate un tal parto, che sembrate incominciare dopo tanti anni con un modo sì languido e si fiacco. Ma, dilettissimi, se il dolore, che vi cagionano i vostri peccati, non è vivo, penetrante, tormentoso, voi non partorirete mai la vostra salute; ohime! voi sarete di quelli de’ quali sta scritto: il bambino si presenta, e sua madre non ha forza di darlo alla luce: Vires non habet parturiens (1. Reg. xix, 3). Voi non avete che alcuniimperfetti desiderii, alcune vacillanti risoluzioni; cioènon già risoluzioni, ma alcuni languidi movimenti,che finiscono in niente: voi perirete con il fruttoche dovete dare alla luce, cioè la vostra conversione e la vostra salute. Ma se gridate con tutte le vostre forze, se i vostri gemiti feriscono il cielo, se sono pressanti e costanti i vostri sforzi, e se siete di que’ violenti i quali vogliono rapire il ciclo violentemente; quanto felice sarà la vostra sorte! Quale sarà il vostro giubilo! imperciocchè se la madre si reputa felice per aver messo al mondo un figliuolo, il quale è invero un’altra se stessa, ma finalmente è un altro; quale esser deve la vostra consolazione, allorché avrete partorito, non già un altro, ma voi stessi! Per incominciare una nuova vita, abbandonatevi dunque al dolore giustissimo di avere offeso il Signore: se poi volete compiere questo parto salutare, che io vi predico a suo nome, non vi arrestate nel timore de’ suoi giudizi. Il timore de’ suoi giudizi è un tuono che stordisce, che scuole il deserto, che spezza i cedri, che abbatte l’orgoglio, che con vivi scuotimenti principia a sradicare i cattivi abiti. Ma per rendere feconda le terra, bisogna che questo tuono squarci la nube, e faccia discendere la pioggia la quale feconda la terra: Dominus diluvium inhabitare facit (Ps. XXVIII, 10). Quella pioggia di cui è irrigata e penetrata l’anima, che altro è mai, fratelli miei, se non il santo amore? Il terrore non muove che esteriormente; non vi è che l’amore il quale cambi il cuore. Il timore opera con violenza, e può bensì raffrenarci per un poco di tempo; la sola dilezione ci fa operare naturalmente per inclinazione, e produce risoluzioni permanenti non meno che dolci. E questo è ciò che dobbiamo anche fare dicendo, io men vo a mio Padre. Ah! Egli non è un giudice implacabile e rigoroso, a cui ci bisogni andare, come vili schiavi, come rei condannati; Egli è un Padre misericordioso e pieno di tenerezza. Dunque se volete vivere, amate; amate se cambiar volete il vostro cuore, e se volete fare un durevole cambiamento. Non vi stancate mai di dolervi per avere tanto offeso un Padre così buono; e dopo di avere gustata con un dolore sì santo l’amarezza della penitenza, riempirete a poco a poco il vostro cuore di quel gaudio, il quale non vi sarà mai involato: mediante la eterna benedizione del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen.

DOMENICA III DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA III DOPO PASQUA (2021)

Semidoppio. • Paramenti bianchi.

La Chiesa è nella gioia perché Gesù è risuscitato e ci ha fatti liberi (All.). Essa dà quindi gloria a Dio (Intr.) e ne canta le lodi (Off.). «Ancora un poco di tempo e non mi vedrete più, aveva detto Gesù nel Cenacolo, allora piangerete e vi lamenterete; ancora un poco di tempo e mi rivedrete e il vostro cuore si rallegrerà» (Vang.). Gli Apostoli, vedendo Gesù risuscitato, provarono quella gioia che risuona ancora nella liturgia pasquale; e come la Pasqua è un’immagine della Pasqua eterna, questa gioia è la stessa che avrà la Chiesa quando, dopo aver, nel dolore, generato anime a Dio, vedrà Gesù apparire trionfante nel cielo alla fine dei secoli, tempo assai breve, se paragonato all’eternità (Mattutino). « Egli allora cambierà la nostra afflizione in un gaudio che nessuno potrà più rapirci » (Vang.). Questo gaudio santo comincia già su questa terra, poiché Gesù non ci lascia orfani, ma viene a noi per mezzo dello Spirito Santo; e nella grazia sua siamo colmati di gioia nella speranza di una felicità avvenire. Non attacchiamoci ai vari piaceri del mondo, dice San Pietro, noi che siamo stranieri e viandanti avviati verso il cielo al seguito del divino Risuscitato, ma osserviamo i precetti tanto positivi, quanto negativi del Vangelo (Ep.), affinché, facendo professione di Cristianesimo, possiamo evitare quello che disonora questo nome e praticare quanto vi è conforme (Or.) e giungere cosi alla celeste Gerusalemme. «uno dei sette Angeli mi disse: Vieni e ti mostrerò la novella sposa, la sposa dell’Agnello. E vidi Gerusalemme che scendeva dal cielo, ornata dei suoi monili, alleluia. Come è bella la sposa che viene dal Libano, alleluia » (Respons.). L’eucaristico e divino alimento delle anime nostre protegga i nostri corpi (Postcomm.), affinché mitigando in noi l’ardore dei desideri terrestri, ci faccia amare i beni celesti (Secr.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui.

[Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]

Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio 

Orémus. – Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári.

[O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19

“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

(“Carissimi: Io vi scongiuro che da stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù Cristo Signor nostro”).

L’obbedienza e l’autorità come principio

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Tutta l’Epistola di questa domenica, terza domenica di Pasqua, è degna del suo autore umano e delle circostanze storiche in cui gli accadde di scrivere. San Pietro, apostolo dell’autorità tratta precisamente dell’autorità per garantirne i diritti. Ma non si circoscrive nel suo mondo religioso, non chiede obbedienza solo ai pastori d’anime, va oltre ei direbbe guardi di preferenza, almeno a momenti, l’autorità civile. Certo egli pensa a quel mondo romano che dopo essere stato il mondo della violenza, volle essere il mondo della legge. E si preoccupa, il Pontefice, ormai romano anch’esso, di quel mondo in cui vive, se nme preoccupa in due modi, per due ragioni. Intanto quel mondo ha un suo valore spirituale, morale, vero e proprio in quanto non è pio e non vuol essere il mondo della violenza bruta e dell’arbitrio personale, quel mondo non bisogna guastarlo per pretesa, neppur per pretesi interessi spirituali superiori come certi fanatici sarebbero pronti a fare; bisogna conservarlo. Il Cristianesimo assume il suo ufficio di conservatore della civiltà. Conservarlo per se stesso, conservarlo anche per creare uno scandalo civile alle coscienze di fronte all’invito religioso del Vangelo. – Ma per conservare quel mondo civile bisogna custodire, rafforzare il principio, uno dei principi su cui regge, che è proprio l’autorità col suo correlativo: l’obbedienza. L’autorità principio unificatore, l’autorità rappresentanza dell’intere collettivo di fronte alla somma degli interessi individuali, somma concorrente. – Il Cristianesimo per bocca dei suoi primi propagandisti più autorevoli, Pietro e Paolo, vi apporta il suggello di una vera e propria consacrazione, il paganesimo, in fondo, ha avuto – se è limitato al concetto di autorità per forza, o delle autorità entusiasmo – nell’un caso e nell’altro, un concetto personale dell’autorità, la persona del monarca (comunque poi si chiami chi comanda). Nel paganesimo, e dovunque il paganesimo, il laicismo civile risorge, comanda il più forte, in ragione ed in nome della sua forza. Il monarca è il potente, uomo o classe. – Che se poi si esce da questa situazione così precaria e avvilente, vuoi per chi comanda, vuoi per chi obbedisce, è per il rotto della cuffia dell’entusiasmo, il mito, il feticcio. Il monarca è Cesare, tutti lo acclamano e lo adulano. Di fronte alla sua autorità personale e mitologizzata l’obbedienza è servilità, una schiavitù dorata, schiavitù sempre. Il monarca nei due casi comanda, s’impone perché è lui. Il padrone sono me. Si fabbrica sull’arena mobile. Se la forza vien meno? Se l’entusiasmo si sgonfia? Che cosa succede? Dove va a finire la società di cui l’autorità è anima, vita, forza stabile, è verso la spersonalizzazione dell’autorità. L’autorità principio sostituita dall’autorità persona. E noi abbiamo di questo sforzo una formula magica nell’epistola di oggi. – « Obbedite ai vostri capi legittimi anche quando, anche se essi sono cattivi ». È l’ipotesi più terribile. La bontà e la qualità che sembra essenziale in chi comanda. Passi pure la mancanza di genio, d’ingegno, ma la bontà! La funzione del comando è proprio una funzione morale e moralizzatrice. E l’Apostolo è ben lontano dal negare in chi comanda l’utilità, la preziosità della bontà. Un buon monarca è il piu grande dono di Dio a un popolo. Ma non bisogna edificare lì; neppur lì, su questa facoltà preziosissima. Guai! Si tornerebbe al personalismo; l’obbedienza è alla discrezione dei sudditi e possono giudicare le qualità personali. E perciò obbedite ai vostri capi sempre, perché sono capi, qualunque siano le loro qualità o i loro difetti… anche ai (personalmente cattivi. Purché non comandino il male, purché non si erigano comandando né contro Dio, né contro la coscienza. – I Cristiani sono così i sudditi migliori, i più fidati dell’impero … d’ogni impero, d’ogni stato civile, diremmo oggi in linguaggio moderno. E perciò sono ciechi i governi che combattono il Cristianesimo; si danno la zappa sui piedi. Sono miopi i governi che accarezzano la religione per secondi fini, sono savi oltreché onesti, i governi che favoriscono senza ipocrisie, equivoci e sottintesi il Cristianesimo: lavorando in apparenza per la religione, lavorano in realtà abilmente ed efficacemente per sé.

Alleluja

Allelúja, allelúja. Ps CX: 9

Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo: alleluja.

[Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]

Luc XXIV: 46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja.

[Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Joannes XVI: 16; 22

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre. Dissero perciò tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che significa ciò che dice: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre? Cos’è questo poco di cui parla? Non comprendiamo quel che dice. E conobbe Gesù che volevano interrogarlo, e disse loro: Vi chiedete tra voi perché abbia detto: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico che voi piangerete e gemerete, laddove il mondo godrà, sarete oppressi dalla tristezza, ma questa si muterà in gioia. La donna, allorché partorisce, è triste perché è giunto il suo tempo: quando poi ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’affanno, a motivo della gioia perché è nato al mondo un uomo. Anche voi siete adesso nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi toglierà il vostro gàudio.]

OMELIA

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulle afflizioni.

Amen, amen dico vobis,

Quia plorabitis et flebitis  vos:

mundus autem gaudebit.”

(JOAN. XVI, 20) .

Chi potrebbe ascoltare senza stupire, Fratelli miei, il linguaggio che il Salvatore tiene ai discepoli prima di salire al cielo, quando predice che la loro vita non sarebbe stata che un succedersi di lagrime, di croci e di sofferenze; mentre i seguaci del mondo si abbandonerebbero ad una gioia insensata, ridendo come frenetici? « Non già – ci dice S. Agostino – che i seguaci del mondo, cioè i malvagi, non abbiano anch’essi le loro pene; i dolori e gli affanni sono le conseguenze di una vita peccaminosa, un cuore sregolato trova il suo supplizio nella propria sregolatezza. „ Essi sono travolti nella maledizione che Gesù Cristo pronuncia contro coloro i quali non pensano che ad abbandonarsi ai piaceri ed alla gioia. La sorte dei buoni Cristiani è ben differente: bisogna ch’essi si rassegnino a passare la vita nella sofferenza e nel pianto; ma poi, dalle lagrime e dai dolori passeranno ad una gioia e ad un piacere infinito nella sua grandezza e nella sua durata; mentre i seguaci del mondo, dopo qualche momento di gioia, mescolata ad amarezze, passeranno la loro eternità nelle fiamme. « Guai a voi, dice loro Gesù Cristo, guai a voi che non pensate che a godervela, poiché i vostri piaceri davanti alla mia giustizia vi saranno causa di danni senza fine. Ah! fortunati, dice poi ai buoni Cristiani, ah! fortunati voi, che passate i vostri giorni nelle lagrime, poiché verrà un giorno in cui Io stesso vi consolerò. » Vi mostrerò dunque, F . M., che le croci, i dolori, la povertà ed il disprezzo sono l’eredità di un Cristiano che cerca di salvare la propria anima e di piacere a Dio. O bisogna soffrire in questo mondo, o non sperar mai più di vedere Iddio lassù in cielo. Esaminiamo tutto questo un po’ davvicino.

I . — Dico primieramente che da quando siamo annoverati tra i figli di Dio, prendiamo una croce, la quale non deve abbandonarci che alla morte. Dovunque Gesù Cristo ci parla del cielo non manca di dirci che noi non possiamo meritarlo se non colle croci e colle sofferenze: « Prendete la vostra croce, ci dice Gesù Cristo, e seguitemi, non per un giorno, non per un mese, non per un anno, ma per tutta la vostra vita. » S. Agostino ci dice: « Lasciate le gioie ed i piaceri alla gente del mondo; ma voi che siete figli di Dio, piangete coi figli di Dio. » Le sofferenze e le persecuzioni ci sono vantaggiosissime sotto due rapporti. Primo, perché vi troviamo mezzi assai efficaci di espiare i nostri peccati passati, poiché, o in questo mondo, o nell’altro bisogna subirne la pena. In questo mondo le pene non sono infinite sia nella durata che nel rigore: siamo in mano di un Dio misericordioso che ci castiga perché ha grandi disegni di misericordia su di noi; Egli ci fa soffrire un momento per renderci felici durante tutta una eternità. Per quanto sieno grandi le nostre pene, Egli non ci tocca ora che col suo dito mignolo; mentre, nell’altra vita, i dolori ed i tormenti che sopporteremo saranno generati dalla sua potenza e dal suo furore. Sembrerà ch’Egli cerchi esaminare le sue forze per farci soffrire. In questo mondo le nostre pene sono ancora addolcite dalle consolazioni e dai conforti che troviamo nella nostra santa Religione; ma nell’altro mondo non avremo né consolazioni né sollievo; tutto sarà per noi motivo di disperazione. Oh! felice il Cristiano che passa la sua vita nelle lacrime e nei dolori, poiché eviterà tanti mali e si procurerà tanti piaceri e gioie eterne! – Il santo Giobbe ci dice che la vita dell’uomo non è che un “succedersi di miserie.„ Entriamo in qualche particolarità. Invero, se andiamo di casa in casa, vi troviamo dappertutto la croce di Gesù Cristo; qui, una perdita di beni, un’ingiustizia che riduce alla miseria una povera famiglia; là una malattia che inchioda quel povero uomo su un letto di dolore, affinché passi la sua vita nei patimenti; altrove una povera donna che bagna il suo pane di lagrime, per i dispiaceri che le fa provare un marito irreligioso e brutale. Se mi volgo ad un’altra, vedo la tristezza dipinta sul suo volto: se gliene domando il perché mi risponderà ch’è accusata di cose, cui non ha mai neppur pensato. Da una parte sono poveri vecchi rigettati e disprezzati dai loro figli e ridotti a morire di affanno e di miseria. Finalmente, da un’altra parte, sento una casa risuonare di pianti causati dalla perdita del padre, della madre, d’un figlio. Ecco in generale. F . M., ciò che rende la vita dell’uomo sì triste e miserabile, se consideriamo tutte queste cose solo umanamente; ma se ci volgiamo dalla parte della Religione, vedremo che siamo grandemente sventurati desolandoci e piangendo come facciamo.

II. — Vi dirò poi che quello che vi rende così disgraziati, si è il guardare sempre a quelli che stanno meglio di voi. Un povero, nelle miserie della sua povertà, invece di pensare ai delinquenti carichi di catene, condannati a passare i loro giorni nelle prigioni, o a perdere la loro misera vita su di un patibolo, porterà il suo pensiero nella casa d’un grande del mondo, che sovrabbonda di beni e di piaceri. Un ammalato, invece di pensare ai tormenti che soffrono gli infelici dannati, i quali urlano nelle fiamme, sono schiacciati dalla collera di Dio, mentre un’eternità di tormenti non potrà mai cancellare il minimo loro peccato; getterà gli occhi su quelli che mai non furon tocchi da malattia e dalla povertà. Ecco, F . M., ciò che rende i nostri mali insopportabili. E che cosa ne deriva da questo, se non lamenti e pianti, che ci fanno perdere ogni merito pel cielo? Poiché, da una parte noi soffriamo senza consolazione e senza speranza d’esserne ricompensati, dall’altra, invece di servircene per espiare i nostri peccati, non facciamo che aumentarli colle mormorazioni e colla mancanza di pazienza. Eccone la prova: da quando parlate male di quella persona che ha tentato farvi del male, che guadagno avete ottenuto? Il vostro odio s’è mitigato? No, F. M., no. Dopo tanti anni che non cessate di gridare contro quel marito, che colla sua ubriachezza, coi suoi stravizzi e colle sue folli spese vi addolora, è egli diventato più ragionevole? No, sorella, no. Quando accasciato da malattie e da dissesti finanziari vi siete abbandonato alla disperazione fin a volervi uccidere, fino a maledire coloro che vi hanno dato la vita, i vostri mali sono cessati, le vostre pene diventarono meno dolorose? No, F. M., no. Quel figlio che v’ha fatto versare tante lacrime è risuscitato? No, F. M., no. Così le vostre impazienze, la vostra mancanza di sottomissione alla volontà di Dio e la vostra disperazione non hanno servito che a rendervi più infelici, non avete fatto altro, dunque, che aggiungere nuovi peccati agli antichi. Ecco, F. M., la sorte infelice e sconfortante d’una persona che ha perduto di vista il fine per cui Iddio le manda le croci. Ma, mi direte voi, abbiamo già sentito cento volte questo linguaggio: queste sono parole e non consolazioni; anche noi parliamo così a quelli che soffrono. — Ah! amico mio, guarda, guarda in alto; togli il tuo cuore dal fango della terra in cui lo tieni immerso, togli quelle nebbie che ti nascondono i beni che ti possono procurare le tue pene. Ah! guarda in alto, osserva la mano d’un buon padre che ti prepara un posto beato nel suo regno; un Dio ti colpisce, per guarire le piaghe arrecate dal peccato alla tua povera anima; un Dio ti fa soffrire per coronarti di gloria immortale. Volete sapere, F. M., come dobbiamo ricevere le croci che ci vengono o dalla mano di Dio o da quella delle creature? Ecco. Come il santo Giobbe che, dopo aver perduto immense ricchezze ed una numerosa famiglia, non se la prese, né con la folgore che aveva distrutto una parte dei suoi armenti, né coi ladri che avevano rubato il resto, né col vento impetuoso che, fatta crollare la sua casa aveva schiacciato i suoi poveri figli: ma s’accontentò di dire: “Ahimè! la mano del Signore s’è aggravata su di me.„ Quando steso per un anno sul letamaio, coperto di ulceri, senza ristoro e consolazione, disprezzato dagli uni ed abbandonato dagli altri, perseguitato fin dalla moglie che, invece di consolarlo, si burlava di lui, dicendogli: “Domanda a Dio la morte affinché finiscano questi mali. Vedi come ti tratta il tuo Dio, che tu servi con tanta fedeltà? — Taci, le rispose, se abbiamo ricevuto con ringraziamenti la prosperità dalle sue mani, perché non dobbiamo ricevere i mali di cui ci affligge?„ Ma, voi pensate, non posso spiegarmi come sia Dio che ci affligge, Dio, che è la stessa bontà, che ci ama infinitamente. Domandatemi allora anche se è possibile che un padre castighi il figlio suo, che un medico dia un rimedio amaro ai suoi ammalati. Pensereste voi forse che sarebbe meglio lasciar vivere quel figliuolo nel suo libertinaggio, piuttosto che castigarlo, per farlo camminare sulla via della salute e condurlo al cielo? Vi pare che un medico farebbe meglio a lasciar morire il suo ammalato, per tema di dargli medicine amare? Oh! quanto siamo ciechi se ragioniamo così! Bisogna che Dio ci castighi, altrimenti non saremmo nel numero dei suoi figli, poiché Gesù Cristo stesso ci dice che il cielo non sarà dato che a coloro che soffrono e che combattono fino alla morte. Credete, F. M., che Gesù Cristo non dica la verità? Ebbene, esaminate la vita che hanno condotto i santi, vedete la via ch’essi hanno presa: quando non soffrono si credono perduti ed abbandonati da Dio. “Dio mio, Dio mio – esclamava piangendo S. Agostino – non risparmiatemi in questo mondo, fatemi soffrire molto; purché mi usiate misericordia nell’altro io sono contento.„ — “O quanto sono felice – diceva S. Francesco di Sales nelle sue Malattie – di aver trovato un mezzo così facile per espiare i miei falli. Oh! quant’è più dolce e consolante soddisfare la giustizia di Dio su di un letto di dolore che andarla a soddisfare nelle fiamme! „ Ed io dico, dopo tutti i santi, che i dolori, le persecuzioni e le altre miserie sono i mezzi più efficaci per attirare un’anima a Dio. Infatti, vediamo che i più gran Santi son quelli che hanno sofferto di più: Dio distingue i suoi amici soltanto colle croci. Vedete S. Alessio che restò per quattordici anni coricato su di un fianco tutto scorticato e, in quella crudele posizione, si accontentava di dire: ” Dio mio, voi siete giusto, mi castigate perché sono peccatore e m’amate.„ Vedete ancora santa Lidwina, giovane di straordinaria bellezza, domandare a Dio, se la sua beltà poteva essere motivo della caduta e della rovina della propria anima, di farle la grazia di perderla. Sull’istante fu coperta di lebbra, che la rese a tutti oggetto d’orrore, e questo per trentotto anni, cioè fino alla sua morte. E durante questo tempo ella non si lasciò sfuggire nemmeno una parola di lamento. Quanti, che. ora sono nell’inferno sarebbero in cielo, se Iddio avesse lor fatto la grazia di restar lungo tempo ammalati. Ascoltate S. Agostino: “Figli miei – ci dice – negli affanni, consolatevi col pensiero della ricompensa che vi è preparata.„ Si racconta nella storia che una povera donna era da molti anni stesa su di un letto di dolore; le si domandò che cosa poteva darle tanto coraggio per soffrire con tanta pazienza. “Eh! disse, sono così contenta d’essere come Dio mi vuole, che non cambierei con tutti i regni del mondo. Quando penso che Dio vuol ch’io soffra, mi consolo tutta.„ S. Teresa ci riferisce che un giorno Gesù Cristo apparendole le disse: « Figlia mia, non ti stupire di quanto vedi; i miei servi fedeli passano la loro vita nelle croci, nel disprezzo ; più il Padre mio ama qualcheduno e più lo fa soffrire.„ S. Bernardo accettava le sue croci con tanta riconoscenza, che un giorno diceva piangendo a Dio: “Ah! Signore, quanto sarei felice di aver la forza di tutti gli uomini, per poter soffrire tutte le croci dell’universo!„ S. Elisabetta, regina d’Ungheria, cacciata dal suo palazzo dai propri sudditi e trascinata nel fango, invece di pensare a punirli, corse alla chiesa a far cantare il Te Deum di ringraziamento. S. Giovanni Crisostomo, quel grande amante della croce, diceva che preferiva soffrire con Gesù Cristo che regnare in cielo con Lui. S. Giovanni della Croce, dopo aver provata tutta la crudeltà dei suoi fratelli, che lo misero in prigione e lo batterono sì barbaramente ch’egli era tutto coperto di sangue, che cosa rispose a coloro che erano testimoni dei suoi dolori? – E che, amici miei, voi piangete perché io soffro? Ma se non ho passato mai momenti così felici!„ Gesù Cristo, apparsogli, gli disse: “Giovanni, che cosa vuoi che ti dia per ricompensarti di quanto soffri per me ? — Ah! Signore, esclamò, fate ch’io soffra ancor più! „ Conveniamo dunque, F. M., che i Santi comprendevano meglio di noi la fortuna di soffrire per Dio. Si sente dire da molti tra voi quando hanno dei dolori: Ma che ho fatto a Dio perché mi mandi tante disgrazie? — Che male avete fatto, perché il buon Dio vi affligga così?… Prendete tutti i comandamenti della legge di Dio e vedete se ve ne ha uno contro cui non abbiate peccato. Che male avete fatto? Percorrete tutti gli anni della vostra giovinezza, passate nella memoria tutti i giorni della vostra miserabile vita; e poi domandate che male avete fatto perché il buon Dio vi affligga così. Contate dunque per nulla tutte le abitudini vergognose, in cui avete marcito sì lungo tempo? Contate dunque per nulla quella superbia la quale vi fa credere che debbono tutti inchinarsi davanti a voi per qualche pezzo di terra più degli altri che possedete e che, forse, sarà la causa della vostra dannazione? Contate dunque per nulla quell’ambizione che non vi lascia mai contenti, quell’amor proprio, quella vanità che vi occupa continuamente, quelle vivacità, quei risentimenti, quelle intemperanze, quelle gelosie? Contate dunque per nulla quella detestevole negligenza per i Sacramenti e per tutto ciò che riguarda la vostra povera anima: tutto questo voi l’avete dimenticato; ma siete perciò meno colpevole? Ebbene! amico, se siete colpevole, non è giusto che il buon Dio vi castighi? Ditemi, amico, che penitenze avete fatto per espiare tanti peccati? Dove sono i vostri digiuni, le vostre mortificazioni e le vostre buone opere? Se dopo tanti peccati non avete versato una lagrima; se dopo tanta avarizia vi siete accontentato solo di fare qualche leggera elemosina; se dopo tanta superbia non volete subire la minima umiliazione; se dopo aver fatto servire tante volte il vostro corpo al peccato, non volete sentir parlare di penitenza, bisogna che il cielo faccia giustizia poiché voi non volete farvela. Ahimè! quanto siamo ciechi! Vorremmo fare il male senza esser puniti, o meglio, vorremmo che Dio non fosse giusto. Ebbene! Signore, lasciate vivere tranquillo questo peccatore, non aggravate la vostra mano su di lui, lasciatelo impinguare come una vittima destinata alle vendette eterne, ed in quel fuoco, avrete tempo di fargli soddisfare la vostra giustizia; risparmiatelo in questo mondo, poiché egli lo vuole; nelle fiamme gli farete fare una penitenza inutile, senza fine. Dio mio! che questa disgrazia non ci tocchi mai! « Oh! – esclama S. Agostino – moltiplicate le mie afflizioni e le mie sofferenze fin che vorrete, purché mi usiate misericordia nell’altra vita!„ Ma, mi dirà un altro, tutto questo è per quelli che hanno commesso gravi peccati; non per me, che, grazie a Dio, non ho fatto gran male. — Eh! voi dunque credete che perché non avete fatto molto male non dovete soffrire? ed io vi dirò: appunto perché avete cercato di far bene il buon Dio vi affligge e permette che siate schernito e disprezzato e che si getti in ridicolo la vostra divozione; è Dio stesso che vi fa provare dispiaceri e malattie. E ne stupite? Date uno sguardo a Gesù Cristo, vostro vero modello, vedete se ha passato un solo istante senza soffrire pene che uomo alcuno non potrà comprendere. Ditemi, perché i farisei lo perseguitavano, e cercavano continuamente di poterlo sorprendere per condannarlo a morte? Era forse colpevole? No, senza dubbio; ma eccone la ragione. Perché  i suoi miracoli ed i suoi esempi d’umiltà e di povertà erano la condanna del loro orgoglio e delle loro cattive azioni. Diciamo meglio, F. M.; se percorressimo la sacra Scrittura, vedremmo che fin dal principio del mondo, le sofferenze, il disprezzo e gli scherni sono sempre stati il retaggio dei figli di Dio; cioè di quelli che hanno pensato di piacere a Dio. Infatti chi può disprezzare e burlarsi d’una persona che adempie i suoi doveri di Religione, se non un infelice dannato che l’inferno ha vomitato sulla terra per far soffrire i buoni, o per cercare di trascinarli negli abissi, dove egli è già per sempre? Ne volete la prova? Eccola. Perché Caino uccise suo fratello Abele? Non forse perché era più buono di lui? Non gli tolse forse la vita perché non poté indurlo al male? Perché i figli di Giacobbe gettarono il loro fratello Giuseppe in una cisterna? non forse perché la sua vita santa condannava la loro condotta libertina? Che cosa attirò tante persecuzioni sugli Apostoli che, ad ogni momento erano gettati in prigione, battuti, torturati; e la cui esistenza, dopo la morte di Gesù Cristo, non fu che un martirio continuo, giacché quasi tutti hanno finito i loro giorni nel modo più crudele e doloroso? Ora, che male facevano essi, i quali non cercavano che la gloria di Dio e la salute delle anime? Siete disprezzati, derisi, perseguitati quantunque non diciate né facciate male ad alcuno? Tanto meglio se vi si disprezza, e vi si deride. Se non aveste nulla da soffrire che cosa avreste da offrire a Dio nell’ora di morte? Ma, direte, essi offendono Dio, si perdono facendo soffrire gli altri; se Dio volesse, potrebbe impedirneli. — Certo che se lo volesse impedirebbe. Perché Iddio tollerava i tiranni? Gli era egualmente facile punirli come conservarli; ma si serviva dei loro cattivi intenti per provare i buoni ed affrettare la loro felicità. Non v’ha dubbio che dobbiate compiangerli e pregare per essi, non perché vi disprezzanoe vi deridono, ma per il male ch’essi fanno a se stessi. Bisogna infatti convenire che si deve essere ben ciechi disprezzando uno perché serve Dio meglio di noi, cerca con più diligenza la via del cielo, e fa maggior numero di buone opere e di penitenze. È questo un mistero veramente incomprensibile. Se vuoi dannarti: ebbene! fallo. Perché ti inquieti se, io vado dove tu non vuoi andare? Io voglio andare in cielo; se tu non ci vai, è perché nonlo vuoi. Apri gli occhi, amico, riconosci il tuo accecamento: quando m’avrai impedito di servire il buon Dio, o sarai la causa della mia dannazione, che ne ricaverai? Ancora una volta, apri gli occhi, esci dal tuo errore. Cerca d’imitare quelli ch’hai disprezzato fino ad ora, e troverai la felicità in questo mondo e nell’altro. Ma, mi direte, io non faccio loro alcun male; perché essi vogliono fame a me? — Tanto meglio, amico, buon segno; siete sicuro di essere sulla via che conduce al cielo. Ascoltate nostro Signore: « Prendete la vostra croce e seguitemi; se perseguitano me perseguiteranno anche voi; io sono disprezzato e voi pure lo sarete: ma. lungi dallo scoraggiarvi, rallegratevi, perché una grande ricompensa vi è promessa in cielo. Chi non è pronto a soffrir tutto, fino a perdere la vita por amor mio, non è degno di me. » Perché il santo Tobia diventò cieco? Non era egli forse un uomo dabbene? Ascoltate ciò che dice Gesù Cristo parlando a S. Pietro martire, che si lagnava di un oltraggio fattogli senza ch’egli vi avesse dato motivo. « Ed io, Pietro, disse Gesù Cristo, che male avevo fatto quando mi si fece morire? » Riconosciamolo tutti, F. M., noi facciamo belle promesse a Dio finché nessuno ci dice nulla, e tutto va a seconda dei nostri desideri; ma al primo piccolo scherno, disprezzo od anche alla minima burla di un empio, il quale non ha il coraggio di fare ciò che voi fate, arrossite, ed abbandonate il servizio di Dio. Ah! ingrato, non ricordi quanto Iddio ha sofferto per amor tuo? Non è forse, o amico, perché vi è stato detto che fate l’uomo dabbene, che non siete che un ipocrita, e che siete più cattivo di quelli che non si confessano mai, che avete abbandonato Dio, per mettervi dalla parte di quelli che saranno dannati? Fermatevi, amico, non andate più oltre; riconoscete la vostra pazzia, e non gettatevi nell’inferno.

III. — Ditemi, F. M., che cosa risponderemo quando Dio confronterà la nostra vita con quella di tanti martiri, dei quali gli uni sono stati fatti a pezzi dai carnefici, gli altri sono marciti nelle prigioni, piuttosto di tradire la propria fede? No, F. M., se siamo buoni Cristiani, non ci lamenteremo degli scherni che ci si fanno: invece, più ci si disprezza, più saremo contenti e più pregheremo Dio per quelli che ci perseguitano; rimetteremo ogni vendetta nelle mani di Dio, e, se egli lo trova conveniente per la sua gloria e per la nostra salute, lo farà. Vedete Mosè coperto ingiurie dal fratello e dalla sorella: a tutto questo disprezzo, oppone una bontà ed una carità sì grandi che Dio ne fu commosso. Lo Spirito Santo dice ch’egli era il più mite degli uomini che vivevano allora sulla terra.„ Il Signore colpì la sorella con un’orribile lebbra per punirla di aver mormorato contro il fratello. Mose, vedendola punita, lungi dall’esterne contento, disse al Signore: “Ah! Signore, perché punite mia sorella? Sapete ch’io non ho mai domandato vendetta; guarite, ve ne prego, mia sorella. „ Dio non poté resistere alla sua bontà; e la guarì. Oquale felicità per noi, F. M., se nel disprezzo e negli scherni che ci si fanno, ci comportassimo così! Quanti tesori pel cielo! No, F. M., fin che non vi si vedrà far del bene a quelli che vi disprezzano, preferirli anche agli stessi amici e non opporre alle loro ingiurie che bontà e carità, non sarete del numero di quelli che Dio ha destinato pel cielo, direte che cosa siamo noi? Eccolo. Noi facciamo come quei soldati che, finché non vi è pericolo, sembrano invincibili e che, al primo pericolo prendono la fuga; così finché siamo adulati pel nostro modo di vivere, e si lodano le nostre azioni, crediamo che nulla potrà farci cadere; ed invece un nonnulla ci fa precipitare, ed abbandonare tutto. Dio mio, come è cieco l’uomo quando si crede capace di qualche cosa, mentre non è capace che di tradirvi e di perdervi! E d io dico, F. M., che nulla è più adatto a convertire quelli che lacerano la nostra riputazione quanto la dolcezza e la carità. Essi non possono resistervi. Se sono troppo induriti ed hanno già messo il sigillo alla loro riprovazione, si confonderanno, e se n’andranno come disperati: eccone la prova. Si racconta che S. Martino aveva con sé un chierico giovanetto. Sebbene avesse fatto ogni possibile per ben allevarlo nel servizio di Dio, il chierico divenne un vero libertino, uno scandaloso: non v’era sorta d’ingiurie e d’oltraggi ch’egli non lanciasse contro il suo santo vescovo. Ma S. Martino invece di cacciarlo da sé, come meritava, lo trattava con sì grande bontà che sembrava moltiplicare le sue cure in proporzione degli insulti che riceveva. Ad ogni momento spargeva lacrime ai piedi del crocifisso, per sollecitare la sua conversione. Ad un tratto il giovane aprì gli occhi; considerando, da una parte, la carità del Vescovo, dall’altra le ingiurie di cui l’aveva coperto, corse a gettarsi ai suoi piedi per domandargli perdono. Il Vescovo l’abbraccia e benedice Dio d’aver avuto pietà di quella povera anima. Quel giovane fu. per tutta la vita, un modello di virtù e considerato come un santo. Prima di morire ripeté più volte che la pazienza e la carità di Martino, gli avevano valso la grazia della conversione. – Si, F. M.. ecco a che riusciremmo se, invece di rendere ingiuria per ingiuria, avessimo la fortuna di non opporre che dolcezza e carità. Ahimè! quando i santi non avevano occasione d’esser disprezzati, essi stessi la cercavano: eccone la prova.Leggiamo nella vita di sant’Atanasio che una dama, desiderando lavorare per guadagnarsi il cielo, andò dal vescovo e gli domandò uno dei poveri che veniva nutrito d’elemosina, por averne cura essa stessa: perché, diceva, vorrei esercitare un po’ la pazienza. Il santo Vescovo le mandò una donna estremamente umile e che non sapeva tollerare d’esser servita da quella dama. Ogni volta che le rendeva un servizio ella si profondeva in mille ringraziamenti. Malcontenta di tutti questi ringraziamenti, la dama, tutta triste, va dal Vescovo dicendogli: “Monsignore, voi non m’avete servita com’io desideravo; m’avete dato una persona che colla sua umiltà mi copre di confusione. Al minimo servizio ch’io le rendo, s’inchina fino a terra; datemene un’altra.„ Il vescovo, vedendo la sua voglia di soffrire, gliene diede una che era superba, collerica, disprezzatrice. Ogni volta che la dama la serviva, la copriva d’ingiurie, rinfacciandole ch’essa l’aveva domandata, non per averne cura, ma per farla soffrire. E giunse perfino a batterla; ed essa che fece? Eccolo: più la povera disprezzava la dama, più questa la serviva senza stancarsi e con maggior sollecitudine. Che avvenne? Commossa da tanta carità la donna si convertì e morì da santa. Oh! F. M., quante anime, nel giorno del giudizio ci rimprovereranno, perché se non avessimo opposte alle loro ingiurie che bontà e carità, sarebbero in cielo; mentre invece bruceranno nell’inferno eternamente! Se abbiamo detto in principio, F. M., che le croci, come tutte le miserie della vita, ci erano date da Dio per soddisfare la sua giustizia per i nostri peccati, possiamo dire anche ch’esse sono un preservativo contro il peccato. Perché Dio ha permesso che uno vi recasse danno, che un altro v’ingannasse? Eccone la ragione. Perché Dio, che vede l’avvenire, ha previsto che il vostro cuore s’attaccherebbe troppo alle cose della terra e che perdereste di vista il cielo. Egli permette che si laceri il vostro onore, che vi si calunni: e perché? Perché siete troppo superbi, troppo gelosi della vostra riputazione; per questo ha permesso che foste umiliati; altrimenti vi sareste dannati. Finendo dunque, F. M., io dico che non vi è alcuno più disgraziato nelle croci che l’uomo senza Religione. Ora accusa se stesso dicendo: Se avessi preso quelle misure, questa disgrazia non mi sarebbe toccata. Ora accusa gli altri: Fu quella persona la causa dei miei mali; non le perdonerò mai più. Egli si augura la morte e la augura agli altri. Maledice il giorno della sua nascita; commetterà mille viltà, che crederà lecite, per togliersi d’impaccio; ma no, la sua croce, o meglio il suo inferno, l’accompagnerà. Tale è la fine disgraziata di colui che soffre senza rivolgersi a Dio, che solo può consolarlo e sollevarlo. Ma guardate invece una persona che ama Dio e che desidera d’andarlo a vedere in cielo: Dio mio, dice, quanto sono poca cosa i miei dolori in confronto di ciò che i miei peccati meritano che io soffra nell’all’altra vita! Voi mi fate soffrire un piccolo momento in questo mondo per rendermi felice per tutta l’eternità. Quanto siete buono, mio Dio! fatemi soffrire; ch’io sia oggetto di disprezzo ed’orrore davanti al mondo; purché abbia la fortuna di piacervi, non voglio altro. Concludiamo dunque che chi ama Dio è felice anche in mezzo a tutte le tempeste del mondo. Dio mio, fate che noi soffriamo sempre, affinché dopo avervi imitato quaggiù, veniamo a regnare con voi in cielo!

Credo…

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps CXLV: 2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja.

[Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]

Secreta

His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia.

[In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja.

[Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis.

[Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLE AFFLIZIONI

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLE AFFLIZIONI

Amen, amen dico vobis,

Quia plorabitis et flebitis  vos: mundus autem gaudebit.”

(JOAN. XVI, 20).

Chi potrebbe ascoltare senza stupire, Fratelli miei, il linguaggio che il Salvatore tiene ai discepoli prima di salire al cielo, quando predice che la loro vita non sarebbe stata che un succedersi di lagrime, di croci e di sofferenze; mentre i seguaci del mondo si abbandonerebbero ad una gioia insensata, ridendo come frenetici? « Non già – ci dice S. Agostino – che i seguaci del mondo, cioè i malvagi, non abbiano anch’essi le loro pene; i dolori e gli affanni sono le conseguenze di una vita peccaminosa, un cuore sregolato trova il suo supplizio nella propria sregolatezza. „ Essi sono travolti nella maledizione che Gesù Cristo pronuncia contro coloro i quali non pensano che ad abbandonarsi ai piaceri ed alla gioia. La sorte dei buoni Cristiani è ben differente: bisogna ch’essi si rassegnino a passare la vita nella sofferenza e nel pianto; ma poi, dalle lagrime e dai dolori passeranno ad una gioia e ad un piacere infinito nella sua grandezza e nella sua durata; mentre i seguaci del mondo, dopo qualche momento di gioia, mescolata ad amarezze, passeranno la loro eternità nelle fiamme. « Guai a voi, dice loro Gesù Cristo, guai a voi che non pensate che a godervela, poiché i vostri piaceri davanti alla mia giustizia vi saranno causa di danni senza fine. Ah! fortunati, dice poi ai buoni Cristiani, ah! fortunati voi, che passate i vostri giorni nelle lagrime, poiché verrà un giorno in cui Io stesso vi consolerò. » Vi mostrerò dunque, F . M., che le croci, i dolori, la povertà ed il disprezzo sono l’eredità di un Cristiano che cerca di salvare la propria anima e di piacere a Dio. O bisogna soffrire in questo mondo, o non sperar mai più di vedere Iddio lassù in cielo. Esaminiamo tutto questo un po’ davvicino.

I . — Dico primieramente che da quando siamo annoverati tra i figli di Dio, prendiamo una croce, la quale non deve abbandonarci che alla morte. Dovunque Gesù Cristo ci parla del cielo non manca di dirci che noi non possiamo meritarlo se non colle croci e colle sofferenze: « Prendete la vostra croce, ci dice Gesù Cristo, e seguitemi, non per un giorno, non per un mese, non per un anno, ma per tutta la vostra vita. » S. Agostino ci dice: « Lasciate le gioie ed i piaceri alla gente del mondo; ma voi che siete figli di Dio, piangete coi figli di Dio. » Le sofferenze e le persecuzioni ci sono vantaggiosissime sotto due rapporti. Primo, perché vi troviamo mezzi assai efficaci di espiare i nostri peccati passati, poiché, o in questo mondo o nell’altro bisogna subirne la pena. In questo mondo le pene non sono infinite sia nella durata che nel rigore: siamo in mano di un Dio misericordioso che ci castiga perché ha grandi disegni di misericordia su di noi; Egli ci fa soffrire un momento per renderci felici durante tutta una eternità. Per quanto sieno grandi le nostre pene, Egli non ci tocca ora che col suo dito mignolo; mentre, nell’altra vita, i dolori ed i tormenti che sopporteremo saranno generati dalla sua potenza e dal suo furore. Sembrerà ch’Egli cerchi esaminare le sue forze per farci soffrire. In questo mondo le nostre pene sono ancora addolcite dalle consolazioni e dai conforti che troviamo nella nostra santa Religione; ma nell’altro mondo non avremo né consolazioni né sollievo; tutto sarà per noi motivo di disperazione. Oh! felice il Cristiano che passa la sua vita nelle lacrime e nei dolori, poiché eviterà tanti mali e si procurerà tanti piaceri e gioie eterne! – Il santo Giobbe ci dice che la vita dell’uomo non è che un “succedersi di miserie.„ Entriamo in qualche particolarità. Invero, se andiamo di casa in casa, vi troviamo dappertutto la croce di Gesù Cristo; qui, una perdita di beni, un’ingiustizia che riduce alla miseria una povera famiglia; là una malattia che inchioda quel povero uomo su un letto di dolore, affinché passi la sua vita nei patimenti; altrove una povera donna che bagna il suo pane di lagrime, per i dispiaceri che le fa provare un marito irreligioso e brutale. Se mi volgo ad un’altra, vedo la tristezza dipinta sul suo volto: se gliene domando il perché mi risponderà ch’è accusata di cose, cui non ha mai neppur pensato. Da una parte sono poveri vecchi rigettati e disprezzati dai loro figli e ridotti a morire di affanno e di miseria. Finalmente, da un’altra parte, sento una casa risuonare di pianti causati dalla perdita del padre, della madre, d’un figlio. Ecco in generale. F. M., ciò che rende la vita dell’uomo sì triste e miserabile, se consideriamo tutte queste cose solo umanamente; ma se ci volgiamo dalla parte della Religione, vedremo che siamo grandemente sventurati desolandoci e piangendo come facciamo.

II. — Vi dirò poi che quello che vi rende così disgraziati, si è il guardare sempre a quelli che stanno meglio di voi. Un povero, nelle miserie della sua povertà, invece di pensare ai delinquenti carichi di catene, condannati a passare i loro giorni nelle prigioni, o a perdere la loro misera vita su di un patibolo, porterà il suo pensiero nella casa d’un grande del mondo, che sovrabbonda di beni e di piaceri. Un ammalato, invece di pensare ai tormenti che soffrono gli infelici dannati, i quali urlano nelle fiamme, sono schiacciati dalla collera di Dio, mentre un’eternità di tormenti non potrà mai cancellare il minimo loro peccato; getterà gli occhi su quelli che mai non furon tocchi da malattia e dalla povertà. Ecco, F . M., ciò che rende i nostri mali insopportabili. E che cosa ne deriva da questo, se non lamenti e pianti, che ci fanno perdere ogni merito pel cielo? Poiché, da una parte noi soffriamo senza consolazione e senza speranza d’esserne ricompensati, dall’altra, invece di servircene per espiare i nostri peccati, non facciamo che aumentarli colle mormorazioni e colla mancanza di pazienza. Eccone la prova: da quando parlate male di quella persona che ha tentato farvi del male, che guadagno avete ottenuto? Il vostro odio s’è mitigato? No, F. M., no. Dopo tanti anni che non cessate di gridare contro quel marito, che colla sua ubriachezza, coi suoi stravizzi e colle sue folli spese vi addolora, è egli diventato più ragionevole? No, sorella, no. Quando accasciato da malattie e da dissesti finanziari vi siete abbandonato alla disperazione fin a volervi uccidere, fino a maledire coloro che vi hanno dato la vita, i vostri mali sono cessati, le vostre pene diventarono meno dolorose? No, F. M., no. Quel figlio che v’ha fatto versare tante lacrime è risuscitato? No, F. M., no. Così le vostre impazienze, la vostra mancanza di sottomissione alla volontà di Dio e la vostra disperazione non hanno servito che a rendervi più infelici, non avete fatto altro, dunque, che aggiungere nuovi peccati agli antichi. Ecco, F. M., la sorte infelice e sconfortante d’una persona che ha perduto di vista il fine per cui Iddio le manda le croci. Ma, mi direte voi, abbiamo già sentito cento volte questo linguaggio: queste sono parole e non consolazioni; anche noi parliamo così a quelli che soffrono. — Ah! amico mio, guarda, guarda in alto; togli il tuo cuore dal fango della terra in cui lo tieni immerso, togli quelle nebbie che ti nascondono i beni che ti possono procurare le tue pene. Ah! guarda in alto, osserva la mano d’un buon padre che ti prepara un posto beato nel suo regno; un Dio ti colpisce, per guarire le piaghe arrecate dal peccato alla tua povera anima; un Dio ti fa soffrire per coronarti di gloria immortale. Volete sapere, F. M., come dobbiamo ricevere le croci che ci vengono o dalla mano di Dio o da quella delle creature? Ecco. Come il santo Giobbe che, dopo aver perduto immense ricchezze ed una numerosa famiglia, non se la prese, né con la folgore che aveva distrutto una parte dei suoi armenti, né coi ladri che avevano rubato il resto, né col vento impetuoso che, fatta crollare la sua casa aveva schiacciato i suoi poveri figli: ma s’accontentò di dire: “Ahimè! la mano del Signore s’è aggravata su di me.„ Quando steso per un anno sul letamaio, coperto di ulceri, senza ristoro e consolazione, disprezzato dagli uni ed abbandonato dagli altri, perseguitato fin dalla moglie che, invece di consolarlo, si burlava di lui, dicendogli: “Domanda a Dio la morte affinché finiscano questi mali. Vedi come ti tratta il tuo Dio, che tu servi con tanta fedeltà? — Taci, le rispose, se abbiamo ricevuto con ringraziamenti la prosperità dalle sue mani, perché non dobbiamo ricevere i mali di cui ci affligge?„ Ma, voi pensate, non posso spiegarmi come sia Dio che ci affligge, Dio, che è la stessa bontà, che ci ama infinitamente. Domandatemi allora anche se è possibile che un padre castighi il figlio suo, che un medico dia un rimedio amaro ai suoi ammalati. Pensereste voi forse che sarebbe meglio lasciar vivere quel figliuolo nel suo libertinaggio, piuttosto che castigarlo, per farlo camminare sulla via della salute e condurlo al cielo? Vi pare che un medico farebbe meglio a lasciar morire il suo ammalato, per tema di dargli medicine amare? Oh! quanto siamo ciechi se ragioniamo così! Bisogna che Dio ci castighi, altrimenti non saremmo nel numero dei suoi figli, poiché Gesù Cristo stesso ci dice che il cielo non sarà dato che a coloro che soffrono e che combattono fino alla morte. Credete, F. M., che Gesù Cristo non dica la verità? Ebbene, esaminate la vita che hanno condotto i santi, vedete la via ch’essi hanno presa: quando non soffrono si credono perduti ed abbandonati da Dio. “Dio mio, Dio mio – esclamava piangendo S. Agostino – non risparmiatemi in questo mondo, fatemi soffrire molto; purché mi usiate misericordia nell’altro io sono contento.„ — “O quanto sono felice – diceva S. Francesco di Sales nelle sue Malattie – di aver trovato un mezzo così facile per espiare i miei falli. Oh! quant’è più dolce e consolante soddisfare la giustizia di Dio su di un letto di dolore che andarla a soddisfare nelle fiamme! „ Ed io dico, dopo tutti i santi, che i dolori, le persecuzioni e le altre miserie sono i mezzi più efficaci per attirare un’anima a Dio. Infatti, vediamo che i più gran Santi son quelli che hanno sofferto di più: Dio distingue i suoi amici soltanto colle croci. Vedete S. Alessio che restò per quattordici anni coricato su di un fianco tutto scorticato e, in quella crudele posizione, si accontentava di dire: ” Dio mio, voi siete giusto, mi castigate perché sono peccatore e m’amate.„ Vedete ancora santa Lidwina, giovane di straordinaria bellezza, domandare a Dio, se la sua beltà poteva essere motivo della caduta e della rovina della propria anima, di farle la grazia di perderla. Sull’istante fu coperta di lebbra, che la rese a tutti oggetto d’orrore, e questo per trentotto anni, cioè fino alla sua morte. E durante questo tempo ella non si lasciò sfuggire nemmeno una parola di lamento. Quanti, che ora sono nell’inferno sarebbero in cielo, se Iddio avesse lor fatto la grazia di restar lungo tempo ammalati. Ascoltate S. Agostino: “Figli miei – ci dice – negli affanni, consolatevi col pensiero della ricompensa che vi è preparata.„ Si racconta nella storia che una povera donna era da molti anni stesa su di un letto di dolore; le si domandò che cosa poteva darle tanto coraggio per soffrire con tanta pazienza. “Eh! disse, sono così contenta d’essere come Dio mi vuole, che non cambierei con tutti i regni del mondo. Quando penso che Dio vuol ch’io soffra, mi consolo tutta.„ S. Teresa ci riferisce che un giorno Gesù Cristo apparendole le disse: « Figlia mia, non ti stupire di quanto vedi; i miei servi fedeli passano la loro vita nelle croci, nel disprezzo ; più il Padre mio ama qualcheduno e più lo fa soffrire.„ S. Bernardo accettava le sue croci con tanta riconoscenza, che un giorno diceva piangendo a Dio: “Ah! Signore, quanto sarei felice di aver la forza di tutti gli uomini, per poter soffrire tutte le croci dell’universo!„ S. Elisabetta, regina d’Ungheria, cacciata dal suo palazzo dai propri sudditi e trascinata nel fango, invece di pensare a punirli, corse alla chiesa a far cantare il Te Deum di ringraziamento. S. Giovanni Crisostomo, quel grande amante della croce, diceva che preferiva soffrire con Gesù Cristo che regnare in cielo con Lui. S. Giovanni della Croce, dopo aver provata tutta la crudeltà dei suoi fratelli, che lo misero in prigione e lo batterono sì barbaramente ch’egli era tutto coperto di sangue, che cosa rispose a coloro che erano testimoni dei suoi dolori? – E che, amici miei, voi piangete perché io soffro? Ma se non ho passato mai momenti così felici!„ Gesù Cristo, apparsogli, gli disse: “Giovanni, che cosa vuoi che ti dia per ricompensarti di quanto soffri per me? — Ah! Signore, esclamò, fate ch’io soffra ancor più! „ Conveniamo dunque, F. M., che i Santi comprendevano meglio di noi la fortuna di soffrire per Dio. Si sente dire da molti tra voi quando hanno dei dolori: Ma che ho fatto a Dio perché mi mandi tante disgrazie? — Che male avete fatto, perché il buon Dio vi affligga così?… Prendete tutti i comandamenti della legge di Dio e vedete se ve ne ha uno contro cui non abbiate peccato. Che male avete fatto? Percorrete tutti gli anni della vostra giovinezza, passate nella memoria tutti i giorni della vostra miserabile vita; e poi domandate che male avete fatto perché il buon Dio vi affligga così. Contate dunque per nulla tutte le abitudini vergognose, in cui avete marcito sì lungo tempo? Contate dunque per nulla quella superbia, la quale vi fa credere che debbono tutti inchinarsi davanti a voi per qualche pezzo di terra più degli altri che possedete e che, forse, sarà la causa della vostra dannazione? Contate dunque per nulla quell’ambizione che non vi lascia mai contenti, quell’amor proprio, quella vanità che vi occupa continuamente, quelle vivacità, quei risentimenti, quelle intemperanze, quelle gelosie? Contate dunque per nulla quella detestevole negligenza per i Sacramenti e per tutto ciò che riguarda la vostra povera anima: tutto questo voi l’avete dimenticato; ma siete perciò meno colpevole? Ebbene! amico, se siete colpevole, non è giusto che il buon Dio vi castighi? Ditemi, amico, che penitenze avete fatto per espiare tanti peccati? Dove sono i vostri digiuni, le vostre mortificazioni e le vostre buone opere? Se dopo tanti peccati non avete versato una lagrima; se dopo tanta avarizia vi siete accontentato solo di fare qualche leggera elemosina; se dopo tanta superbia non volete subire la minima umiliazione; se dopo aver fatto servire tante volte il vostro corpo al peccato, non volete sentir parlare di penitenza, bisogna che il cielo faccia giustizia poiché voi non volete farvela. Ahimè! quanto siamo ciechi! Vorremmo fare il male senza esser puniti, o meglio, vorremmo che Dio non fosse giusto. Ebbene! Signore, lasciate vivere tranquillo questo peccatore, non aggravate la vostra mano su di lui, lasciatelo impinguare come una vittima destinata alle vendette eterne, ed in quel fuoco, avrete tempo di fargli soddisfare la vostra giustizia; risparmiatelo in questo mondo, poiché egli lo vuole; nelle fiamme gli farete fare una penitenza inutile, senza fine. Dio mio! che questa disgrazia non ci tocchi mai! « Oh! – esclama S. Agostino – moltiplicate le mie afflizioni e le mie sofferenze fin che vorrete, purché mi usiate misericordia nell’altra vita!„ Ma, mi dirà un altro, tutto questo è per quelli che hanno commesso gravi peccati; non per me, che, grazie a Dio, non ho fatto gran male. — Eh! voi dunque credete che perché non avete fatto molto male non dovete soffrire? ed io vi dirò: appunto perché avete cercato di far bene il buon Dio vi affligge e permette che siate schernito e disprezzato e che si getti in ridicolo la vostra divozione; è Dio stesso che vi fa provare dispiaceri e malattie. E ne stupite? Date uno sguardo a Gesù Cristo, vostro vero modello, vedete se ha passato un solo istante senza soffrire pene che uomo alcuno non potrà comprendere. Ditemi, perché i farisei lo perseguitavano, e cercavano continuamente di poterlo sorprendere per condannarlo a morte? Era forse colpevole? No, senza dubbio; ma eccone la ragione. Perché  i suoi miracoli ed i suoi esempi d’umiltà e di povertà erano la condanna del loro orgoglio e delle loro cattive azioni. Diciamo meglio, F. M.; se percorressimo la sacra Scrittura, vedremmo che fin dal principio del mondo, le sofferenze, il disprezzo e gli scherni sono sempre stati il retaggio dei figli di Dio; cioè di quelli che hanno pensato di piacere a Dio. Infatti chi può disprezzare e burlarsi d’una persona che adempie i suoi doveri di Religione, se non un infelice dannato che l’inferno ha vomitato sulla terra per far soffrire i buoni, o per cercare di trascinarli negli abissi, dove egli è già per sempre? Ne volete la prova? Eccola. Perché Caino uccise suo fratello Abele? Non forse perché era più buono di lui? Non gli tolse forse la vita perché non poté indurlo al male? Perché i figli di Giacobbe gettarono il loro fratello Giuseppe in una cisterna? non forse perché la sua vita santa condannava la loro condotta libertina? Che cosa attirò tante persecuzioni sugli Apostoli che, ad ogni momento erano gettati in prigione, battuti, torturati; e la cui esistenza, dopo la morte di Gesù Cristo, non fu che un martirio continuo, giacché quasi tutti hanno finito i loro giorni nel modo più crudele e doloroso? Ora, che male facevano essi, i quali non cercavano che la gloria di Dio e la salute delle anime? Siete disprezzati, derisi, perseguitati quantunque non diciate né facciate male ad alcuno? Tanto meglio se vi si disprezza, e vi si deride. Se non aveste nulla da soffrire che cosa avreste da offrire a Dio nell’ora di morte? Ma, direte, essi offendono Dio, si perdono facendo soffrire gli altri; se Dio volesse, potrebbe impedirneli. — Certo che se lo volesse impedirebbe. Perché Iddio tollerava i tiranni? Gli era egualmente facile punirli come conservarli; ma si serviva dei loro cattivi intenti per provare i buoni ed affrettare la loro felicità. Non v’ha dubbio che dobbiate compiangerli e pregare per essi, non perché vi disprezzanoe vi deridono, ma per il male ch’essi fanno a se stessi. Bisogna infatti convenire che si deve essere ben ciechi disprezzando uno perché serve Dio meglio di noi, cerca con più diligenza la via del cielo, e fa maggior numero di buone opere e di penitenze. È questo un mistero veramente incomprensibile. Se vuoi dannarti: ebbene! fallo. Perché ti inquieti se, io vado dove tu non vuoi andare? Io voglio andare in cielo; se tu non ci vai, è perché nonlo vuoi. Apri gli occhi, amico, riconosci il tuo accecamento: quando m’avrai impedito di servire il buon Dio, o sarai la causa della mia dannazione, che ne ricaverai? Ancora una volta, apri gli occhi, esci dal tuo errore. Cerca d’imitare quelli ch’hai disprezzato fino ad ora, e troverai la felicità in questo mondo e nell’altro. Ma, mi direte, io non faccio loro alcun male; perché essi vogliono fame a me? — Tanto meglio, amico, buon segno; siete sicuro di essere sulla via che conduce al cielo. Ascoltate nostro Signore: « Prendete la vostra croce e seguitemi; se perseguitano me perseguiteranno anche voi; io sono disprezzato e voi pure lo sarete: ma. lungi dallo scoraggiarvi, rallegratevi, perché una grande ricompensa vi è promessa in cielo. Chi non è pronto a soffrir tutto, fino a perdere la vita por amor mio, non è degno di me. » Perché il santo Tobia diventò cieco? Non era egli forse un uomo dabbene? Ascoltate ciò che dice Gesù Cristo parlando a S. Pietro martire, che si lagnava di un oltraggio fattogli senza ch’egli vi avesse dato motivo. « Ed io, Pietro, disse Gesù Cristo, che male avevo fatto quando mi si fece morire? » Riconosciamolo tutti, F. M., noi facciamo belle promesse a Dio finché nessuno ci dice nulla, e tutto va a seconda dei nostri desideri; ma al primo piccolo scherno, disprezzo od anche alla minima burla di un empio, il quale non ha il coraggio di fare ciò che voi fate, arrossite, ed abbandonate il servizio di Dio. Ah! ingrato, non ricordi quanto Iddio ha sofferto per amor tuo? Non è forse, o amico, perché vi è stato detto che fate l’uomo dabbene, che non siete che un ipocrita, e che siete più cattivo di quelli che non si confessano mai, che avete abbandonato Dio, per mettervi dalla parte di quelli che saranno dannati? Fermatevi, amico, non andate più oltre; riconoscete la vostra pazzia, e non gettatevi nell’inferno.

III. — Ditemi, F. M., che cosa risponderemo quando Dio confronterà la nostra vita con quella di tanti martiri, dei quali gli uni sono stati fatti a pezzi dai carnefici, gli altri sono marciti nelle prigioni, piuttosto di tradire la propria fede? No, F. M., se siamo buoni Cristiani, non ci lamenteremo degli scherni che ci si fanno: invece, più ci si disprezza, più saremo contenti e più pregheremo Dio per quelli che ci perseguitano; rimetteremo ogni vendetta nelle mani di Dio, e, se egli lo trova conveniente per la sua gloria e per la nostra salute, lo farà. Vedete Mosè coperto ingiurie dal fratello e dalla sorella: a tutto questo disprezzo, oppone una bontà ed una carità sì grandi che Dio ne fu commosso. Lo Spirito Santo dice ch’egli era il più mite degli uomini che vivevano allora sulla terra.„ Il Signore colpì la sorella con un’orribile lebbra per punirla di aver mormorato contro il fratello. Mose, vedendola punita, lungi dall’esterne contento, disse al Signore: “Ah! Signore, perché punite mia sorella? Sapete ch’io non ho mai domandato vendetta; guarite, ve ne prego, mia sorella. „ Dio non poté resistere alla sua bontà; e la guarì. O. quale felicità per noi, F. M., se nel disprezzo e negli scherni che ci si fanno, ci comportassimo così! Quanti tesori pel cielo! No, F. M., fin che non vi si vedrà far del bene a quelli che vi disprezzano, preferirli anche agli stessi amici e non opporre alle loro ingiurie che bontà e carità, non sarete del numero di quelli che Dio ha destinato pel cielo, direte che cosa siamo noi? Eccolo. Noi facciamo come quei soldati che, finché non vi è pericolo, sembrano invincibili e che, al primo pericolo prendono la fuga; così finché siamo adulati pel nostro modo di vivere, e si lodano le nostre azioni, crediamo che nulla potrà farci cadere; ed invece un nonnulla ci fa precipitare, ed abbandonare tutto. Dio mio, come è cieco l’uomo quando si crede capace di qualche cosa, mentre non è capace che di tradirvi e di perdervi! E d io dico, F. M., che nulla è più adatto a convertire quelli che lacerano la nostra riputazione quanto la dolcezza e la carità. Essi non possono resistervi. Se sono troppo induriti ed hanno già messo il sigillo alla loro riprovazione, si confonderanno, e se n’andranno come disperati: eccone la prova. Si racconta che S. Martino aveva con sé un chierico giovanetto. Sebbene avesse fatto ogni possibile per ben allevarlo nel servizio di Dio, il chierico divenne un vero libertino, uno scandaloso: non v’era sorta d’ingiurie e d’oltraggi ch’egli non lanciasse contro il suo santo vescovo. Ma S. Martino invece di cacciarlo da sé, come meritava, lo trattava con sì grande bontà che sembrava moltiplicare le sue cure in proporzione degli insulti che riceveva. Ad ogni momento spargeva lacrime ai piedi del crocifisso, per sollecitare la sua conversione. Ad un tratto il giovane aprì gli occhi; considerando, da una parte, la carità del Vescovo, dall’altra le ingiurie di cui l’aveva coperto, corse a gettarsi ai suoi piedi per domandargli perdono. Il Vescovo l’abbraccia e benedice Dio d’aver avuto pietà di quella povera anima. Quel giovane fu. per tutta la vita, un modello di virtù e considerato come un santo. Prima di morire ripeté più volte che la pazienza e la carità di Martino, gli avevano valso la grazia della conversione. – Si, F. M.. ecco a che riusciremmo se, invece di rendere ingiuria per ingiuria, avessimo la fortuna di non opporre che dolcezza e carità. Ahimè! quando i santi non avevano occasione d’esser disprezzati, essi stessi la cercavano: eccone la prova.Leggiamo nella vita di sant’Atanasio che una dama, desiderando lavorare per guadagnarsi il cielo, andò dal vescovo e gli domandò uno dei poveri che veniva nutrito d’elemosina, per averne cura essa stessa: perché, diceva, vorrei esercitare un po’ la pazienza. Il santo Vescovo le mandò una donna estremamente umile e che non sapeva tollerare d’esser servita da quella dama. Ogni volta che le rendeva un servizio ella si profondeva in mille ringraziamenti. Malcontenta di tutti questi ringraziamenti, la dama, tutta triste, va dal Vescovo dicendogli: “Monsignore, voi non m’avete servita com’io desideravo; m’avete dato una persona che colla sua umiltà mi copre di confusione. Al minimo servizio ch’io le rendo, s’inchina fino a terra; datemene un’altra.„ Il vescovo, vedendo la sua voglia di soffrire, gliene diede una che era superba, collerica, disprezzatrice. Ogni volta che la dama la serviva, la copriva d’ingiurie, rinfacciandole ch’essa l’aveva domandata, non per averne cura, ma per farla soffrire. E giunse perfino a batterla; ed essa che fece? Eccolo: più la povera disprezzava la dama, più questa la serviva senza stancarsi e con maggior sollecitudine. Che avvenne? Commossa da tanta carità la donna si convertì e morì da santa. Oh! F. M., quante anime, nel giorno del giudizio ci rimprovereranno, perché se non avessimo opposte alle loro ingiurie che bontà e carità, sarebbero in cielo; mentre invece bruceranno nell’inferno eternamente! Se abbiamo detto in principio, F. M., che le croci, come tutte le miserie della vita, ci erano date da Dio per soddisfare la sua giustizia per i nostri peccati, possiamo dire anche ch’esse sono un preservativo contro il peccato. Perché Dio ha permesso che uno vi recasse danno, che un altro v’ingannasse? Eccone la ragione. Perché Dio, che vede l’avvenire, ha previsto che il vostro cuore s’attaccherebbe troppo alle cose della terra e che perdereste di vista il cielo. Egli permette che si laceri il vostro onore, che vi si calunni: e perché? Perché siete troppo superbi, troppo gelosi della vostra riputazione; per questo ha permesso che foste umiliati; altrimenti vi sareste dannati. Finendo dunque, F. M., io dico che non vi è alcuno più disgraziato nelle croci che l’uomo senza Religione. Ora accusa se stesso dicendo: Se avessi preso quelle misure, questa disgrazia non mi sarebbe toccata. Ora accusa gli altri: Fu quella persona la causa dei miei mali; non le perdonerò mai più. Egli si augura la morte e la augura agli altri. Maledice il giorno della sua nascita; commetterà mille viltà, che crederà lecite, per togliersi d’impaccio; ma no, la sua croce, o meglio il suo inferno, l’accompagnerà. Tale è la fine disgraziata di colui che soffre senza rivolgersi a Dio, che solo può consolarlo e sollevarlo. Ma guardate invece una persona che ama Dio e che desidera d’andarlo a vedere in cielo: Dio mio, dice, quanto sono poca cosa i miei dolori in confronto di ciò che i miei peccati meritano che io soffra nell’altra vita! Voi mi fate soffrire un piccolo momento in questo mondo per rendermi felice per tutta l’eternità. Quanto siete buono, mio Dio! fatemi soffrire; ch’io sia oggetto di disprezzo ed orrore davanti al mondo; purché abbia la fortuna di piacervi, non voglio altro. Concludiamo dunque che chi ama Dio è felice anche in mezzo a tutte le tempeste del mondo. Dio mio, fate che noi soffriamo sempre, affinché dopo avervi imitato quaggiù, veniamo a regnare con voi in cielo!

DOMENICA II DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA II DOPO PASQUA (2021)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

Questa Domenica è chiamata la Domenica del Buon Pastore (Questa parabola fu da Gesù pronunziata il terzo anno del suo ministero pubblico allorché, alla festa dei Tabernacoli, aveva guarito a Gerusalemme il cieco nato. Questi è dai Giudei cacciato dalla Sinagoga, ma Gesù gli offre la sua Chiesa come asilo e paragona i farisei ai falsi pastori che abbandonano il loro gregge). Infatti, San Pietro, che Gesù risuscitato ha costituito capo e Pastore della sua Chiesa, ci dice nell’Epistola che Gesù Cristo è il pastore delle anime, che erano come pecore erranti. Egli è venuto per dare la propria vita per esse ed esse gli si sono strette intorno. Il Vangelo ci narra la parabola del Buon Pastore che difende le pecore contro gli assalti del lupo e le preserva dalla morte (Or.), e annunzia pure che i pagani si uniranno agli Ebrei dell’Antica Legge e formeranno una sola Chiesa e un solo gregge sotto un medesimo Pastore. Gesù le riconosce per sue pecorelle ed esse, come i discepoli di Emmaus « i cui occhi si aprirono alla frazione del pane » (Vang., 1° All., S. Leone, lezione V), riconoscono a loro volta, all’altare ove il sacerdote consacra l’Ostia, memoriale della passione, che Gesù « il Buon Pastore che ha dato la sua vita per pascer le pecorelle col suo Corpo e col suo Sangue » (S. Gregorio, lezione VII). Levando allora il loro sguardo su Lui (Off.), esse gli esprimono la loro riconoscenza per la sua grande misericordia (Intr.). « In questi giorni, dice S. Leone, Io Spirito si è diffuso su tutti gli Apostoli per l’insufflazione del Signore e in questi giorni il Beato Apostolo Pietro, innalzato sopra tutti gli altri, si è sentito affidare, dopo le chiavi del regno, la cura del gregge del Signore » (2° Notturno). È questo il preludio alla fondazione della Chiesa. Stringiamoci dunque intorno al divino Pastore delle anime nostre, nascosto nell’Eucarestia, e di cui il Papa, Pastore della Chiesa universale, è il rappresentante visibile.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXXII: 5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]

Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúja: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.

[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. [1 Petri II: 21-25]

Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum.

[Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle anime vostre]. –

In queste due parole « mors et vita » si compendia tutta la storia dell’umanità, individua e sociale. Due parole che si integrano a vicenda pur sembrando diametralmente contrarie, parole la cui sovrana importanza dal campo fisiologico si riverbera nel mondo spirituale. Che cosa è il Cristianesimo? Dottrina di vita, o dottrina di morte? Amici e nemici hanno agitato il problema, delicato e difficile anche per la varietà dei suoi aspetti, grazie ai quali quando fu imprecato al Cristianesimo dai neo pagani, come a dottrina velenosa e deprimente di morte, si poté rispondere e si rispose da parte nostra, rivendicando al Cristianesimo l’amore, il culto della vita; e quando invece da noi si esalta la dinamica vitale del Cristianesimo, si poté e si può dagli avversari rammentare tutto un insieme cristiano di austere parole di morte. La soluzione dell’enigma ce la dà San Pietro nella Epistola odierna. Il Cristianesimo è tutto insieme un panegirico di vita e un elogio di morte; ci invita a respirare la vita a larghi polmoni, ci invita ad accettare quel limite immanente della vita che è la morte. Tutto sta nel determinare bene: a che cosa dobbiamo morire per essere Cristiani? e a che cosa dobbiamo rinascere? Ce lo dice San Pietro in due parole dopo averci rimesso davanti l’esempio di N. S. Gesù Cristo, che prese sopra di sé i nostri peccati, espiandoli in « corpore suo super lignum. » Noi Cristiani dobbiamo morire al peccato, vivere alla giustizia. Morire al peccato, come chi dicesse morire alla morte, negare la negazione. Negare la negazione è la formula scultoria della affermazione. Morire alla morte è formula di vita…. e noi dobbiamo morire al peccato, cominciando dal convincerci che il peccato è morte, e che quindi si vive davvero morendo a lui. Purtroppo, il grande guaio è la riputazione che il peccato si è venuto usurpando. Il male morale si è usurpato una fama di cosa viva e vivificatrice. Noi viviamo, dicono con orgogliosa e fatua sicurezza quelli che si godono la vita e cioè la sfruttano, la sciupano, quelli che lasciano la briglia sciolta a tutte le passioni, non escluse le più vergognose e mortifere. Noi viviamo, dicono i seguaci del mondo; i loro divertimenti, le loro dissipazioni, i loro giochi, i loro folli amori, le loro vanità gonfie e vuote, tutto questo chiamano vita, esaltano come se fosse veramente tale. E della vita tutto questo simula le apparenze. Ma è febbre, calore sì, ma calore morboso; troppo calore… anche il precipitare è un moto, ma chi vorrebbe muoversi a quel modo? chi vorrebbe considerare come forma classica di moto il precipitare, la corsa pazza d’una automobile priva dei suoi freni? Così si muovono, così vivono i mondani. A guardar bene, sono come quei prodighi che vivono mangiando il capitale. Bella forma di economia! Il peccato ci logora, ci sciupa; è usura, logoramento delle nostre risorse più vitali. Così in realtà chi vive nel peccato, muore ogni giorno più alla vera vita. Chi folle, persegue l’errore, atrofizza, a poco a poco, quella capacità di rintracciar il vero che solo merita il nome di intelligenza, di vita intellettuale. Chi ama il fango, la materia, paralizza, a poco a poco, quella capacità di amare spiritualmente che è la vera forma di amare. Il programma della nostra vita cristiana deve essere un altro, tutt’altro; vivere per la giustizia. Gesù Cristo voleva che la giustizia fosse per noi cibo e bevanda. Beati quelli e solo quelli che hanno fame e sete di giustizia. Questo ardore per la giustizia è nell’uomo vita vera e duratura. Parola sintetica quella parola giustizia: tutto ciò che è diritto, che è vero, che è alto, che è dovere nostro, volontà di Dio. In questo mondo superiore devono appuntarsi le nostre volontà, dirigersi i nostri sforzi. Lì è vita, la forza, l’entusiasmo, la gioia vera, umana. Il cristianesimo ci ha fatto sentire la nostra vocazione autentica. Siamo una razza divina. Le razze inferiori possono vivere di cose basse: le superiori solo di cose alte. Razza divina, noi abbiamo bisogno proprio di questo cibo divino che è la giustizia. Di questo, con questo viviamo. Senza di esso, fuori di esso è la morte.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Alleluja

Allelúja, allelúja Luc XXIV: 35.

Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja

[I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia].

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja.

[Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.

Joann X: 11-16.

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”.

(“In quel tempo Gesù disse ai Farisei: Io sono il buon Pastore. Il buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle. Il mercenario poi, o quei che non è pastore, di cui proprie non sono le pecorelle, vede venire il lupo, e lascia lo pecorelle, e fugge; e il lupo rapisce, e disperde le pecorelle: il mercenario fugge, perché è mercenario, e non gli cale delle pecorelle. Io sono il buon Pastore; e conosco le mie, e le mie conoscono me. Come il Padre conosce me, anch’io conosco il Padre: e do la mia vita per le mie pecorelle. E ho dell’altre pecorelle, le quali non sono di questa greggia: anche queste fa d’uopo che io raduni: e ascolteranno la mia voce, e sarà un solo gregge e un solo pastore”.)

OMELIA

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla Perseveranza.

“Qui autem perseveraverit usque in finem, hic salvus erit”       

(chi pervererà fino alla fine sarà salvo)

(MATTH. X, 22).

Chi combatterà e persevererà fino alla fine dei suoi giorni, senza lasciarsi vincere, ci dice il Salvatore del mondo; oppure, caduto, si sarà rialzato e persevererà, sarà coronato, cioè sarà salvo: sono parole, F. M., che dovrebbero farci tremare ed agghiacciare dallo spavento, se consideriamo da una parte i pericoli a cui siamo esposti e dall’altra, la nostra debolezza ed il numero dei nemici che ci circondano. Perciò non meravigliamoci, se i più grandi santi hanno abbandonato parenti ed amici, ricchezze e piaceri per andare gli uni a nascondersi nelle foreste, gli altri a piangere nelle grotte; altri ancora a chiudersi fra quattro mura per passare nelle lacrime il resto della loro vita, ed essere più liberi e sciolti da tutti gli impacci del mondo, per non occuparsi che di combattere i nemici della loro salute, convinti che il cielo sarebbe dato solo alla loro perseveranza. — Ma, mi direte, cosa vuol dire perseverare? — Ecco. Esser pronti a sacrificare tutto: le ricchezze, la volontà, la libertà e la stessa vita, piuttosto che dispiacere a Dio. — Ma, mi direte ancora: cos’è il non perseverare? — Eccolo. Ricadere nei peccati che già abbiamo confessati, seguire le cattive compagnie che ci hanno portato al peccato, il più grande di tutti i mali, poiché con esso abbiam perduto il nostro Dio, abbiamo attirato su di noi tutta la sua collera, strappiamo la nostra anima al cielo e la condanniamo all’inferno. Volesse Iddio che i Cristiani che hanno la ventura di riconciliarsi con Dio per mezzo del sacramento della Penitenza, lo comprendessero bene! E per darvene un’idea, vi mostrerò i mezzi che dovete usare per perseverare nella grazia che avete ricevuto nel sacro tempo pasquale. Io ne trovo cinque principali, cioè: la fedeltà nel seguire i movimenti della grazia di Dio, la fuga delle cattive compagnie, la preghiera, la frequenza dei Sacramenti ed infine la mortificazione. Veramente oggi potrete dire che quello che sentirete non vi riguarda; almeno, un buon terzo di voi. Io, parlarvi della perseveranza? ma sono dunque un falso pastore? non lavoro dunque che alla vostra rovina spirituale? Il demonio si servirà di me per affrettare la vostra dannazione? dunque farò io tutto il contrario di ciò che Dio mi ha comandato di fare: Egli non mi manda in mezzo a voi che per salvarvi, e la mia occupazione sarà quella di trascinarvi nell’abisso? che io sia il crudele carnefice delle vostre anime! Dio mio! Quale disgrazia! Parlarvi della perseveranza! Ma questo linguaggio non conviene che a coloro che hanno abbandonato risolutamente il peccato, e che hanno stabilito di perdere mille vite piuttosto che tornare a commettere la colpa; dire ad un peccatore di perseverare! Dio mio! non sarò io la più disgraziata creatura che la terra abbia portata? No, no, non è questo il linguaggio che dovrei tenere, ma piuttosto: cessa, amico mio, di perseverare nel tuo stato deplorevole, altrimenti ti perderai. Io, dire di perseverare a quest’uomo che da parecchi anni non fa più Pasqua o la fa male? No, no, amico, se perseveri, sei perduto; il cielo non sarà mai per te! Io, dire a quella persona, che si accontenta di fare la Pasqua, di perseverare? ma non sarebbe questo il metterle una benda davanti agli occhi e trascinarla all’inferno? Io, dire di perseverare a quei padri e a quelle madri che fanno Pasqua e rallentano il freno ai loro figli? Ah! no, non voglio essere il carnefice della loro povera anima. Io, dir di perseverare a quelle giovani che hanno fatto la Pasqua col pensiero ed il desiderio di tornare ai balli ed ai piaceri? Oh! povero me! che orrore! che abbominazione! che catena di delitti e di sacrilegi! Io, dire di perseverare a quelle persone che frequentano cinque o sei volte all’anno i Sacramenti e non fanno apparire alcun cambiamento nel loro modo di vivere? gli stessi lamenti nelle loro pene, gli stessi impeti di collera, la stessa avarizia, la stessa noncuranza dei poveri; sempre pronti a calunniare e a denigrare la fama del prossimo… Dio mio! quanti Cristiani ciechi e venduti all’iniquità! Io, dire di perseverare a quelle persone che, senza inquietarsi o per rispetto umano, mangiano di grasso nei giorni proibiti, e lavorano senza scrupolo nei giorni di domenica? Dio mio! che disgrazia! A chi dunque mi volgerò? Non ne so nulla. Ah! no, no, F . M., non della perseveranza nella grazia avrei oggi dovuto parlarvi! Avrei piuttosto dovuto dipingervi lo stato spaventoso e disperato di chi non ha fatto Pasqua o l’ha fatta male, e persevera in questo stato. Ah! volesse Dio che mi fosse permesso di descrivervi la disperazione d’un peccatore davanti al tribunale del Giudice divino, e farvi sentire quei torrenti di maledizioni: “Va, maledetto dannato, va, peccatore indurito, va a piangere la tua vita peccaminosa ed i tuoi sacrilegi. Ah! non ti basta l’avervi marcito durante la tua vita… „ Bisognerebbe trascinarli sino alle porte dell’inferno, prima che il demonio ve li precipiti per sempre, e far loro sentire le grida, le urla di quegl’infelici dannati, e mostrare a ciascuno il posto a lor riservato. Dio mio! potrebbero vivere ancora?!!! Un cielo perduto… Un inferno… un’eternità.. Essi hanno disprezzato i dolori… che dico i dolori? la morte d’un Dio… Ecco la ricompensa della perseveranza nel peccato; sì, ecco il soggetto di cui avrei dovuto trattare oggi. Ma parlarvi della perseveranza, la quale suppone un’anima che teme più il peccato che la morte, che passa i suoi giorni nell’amor del suo Dio; un’anima spoglia di ogni affetto terreno e i cui desiderii non sono che pel cielo …Ebbene, dove volete ch’io mi rivolga? Dove io potrei trovarla quest’anima? Ah! dov’è? Qual è il paese fortunato che la possiede? Ahimè! io non ne ho trovato; od almeno, ne ho trovate ben poche. Dio mio! forse voi ne vedete alcuna ch’io non conosco. Io vi parlerò dunque come se fossi sicuro che ve ne fossero almeno più una o due, per mostrar loro i mezzi ch’esse devono usare per continuare la via fortunata che hanno cominciata. Ascoltate bene, anime sante, se pure ve n’ha alcuna tra quelli che mi ascoltano, ascoltate ciò che Iddio vi dirà per bocca mia.

I. — Anzitutto, il primo mezzo di perseverare nella via che conduce al cielo, è d’esser fedele nel seguirla, e nell’approfittare dei movimenti della grazia che Dio vuol accordarci. Tutti i santi non sono debitori della loro felicità che alla loro fedeltà nel seguire i movimenti operati in essi dallo Spirito Santo, ed i dannati non possono attribuire la loro disgrazia che al disprezzo che ne hanno fatto. Questo solo può bastare per farvene sentire tutto il valore, e la necessità d’esservi fedele. — Ma, mi direte, come, in qual modo possiamo conoscere se corrispondiamo a ciò che la grazia vuole da noi, oppure se vi resistiamo? — Se non lo sapete, ascoltatemi un momento e ne saprete ciò che è essenziale. In primo luogo la grazia è un pensiero il quale ci fa sentire la necessità d’evitare il male e di fare il bene. Entriamo, in qualche particolarità familiare, perché possiate meglio comprendere, e vedrete quando le resistete, oppure quando le siete fedeli. La mattina, quando vi svegliate, il buon Dio vi suggerisce il pensiero di offrirgli il vostro cuore, di offrirgli il vostro lavoro, di fare tosto in ginocchio la vostra preghiera: se lo fate subito e di buona volontà, seguirete le ispirazioni della grazia; e se non lo fate, ovvero lo fate male, non le seguite. Vi sentite ad un tratto il desiderio d’andarvi a confessare e di correggervi dei vostri difetti, di non rimanere nello stato in cui siete; pensando che se aveste a morire vi dannereste. Se seguite queste buone ispirazioni che vi dà Iddio, siete fedeli alla grazia. Ma voi lasciate passare tutto questo senza il pensiero di fare qualche elemosina, qualche penitenza, d’andare a messa nei giorni feriali, di mandarvi i vostri servi: non lo fate. Ecco F. M., che cos’è seguire la grazia o resistervi. Questo è ciò che si chiama la grazia interiore. Quelle che sono chiamate grazie esteriori, sono per esempio, una buona lettura, una conversazione con una persona dabbene, che vi fa sentire la necessità di cambiar vita, di meglio servir il buon Dio, il rimorso che proverete se non lo fate, in punto di morte: è un buon esempio che vi si presenta dinanzi e che sembra stimolarvi affinché vi abbiate a convertire; è infine un’istruzione che vi insegna i mezzi che bisogna usare per servire Dio e adempiere i vostri doveri verso di Lui, verso noi stessi e verso il prossimo. Badate bene, da qui dipende la vostra salvezza o la vostra dannazione. I santi non si sono santificati che con la loro grande attenzione nel seguire tutte le buone ispirazioni, che Dio mandava loro; ed i dannati non sono caduti nell’inferno se no perché le hanno disprezzate; e ne vedrete la prova. Vediamo nell’Evangelo che tutte le conversioni, operate da Gesù Cristo durante la sua vita, hanno fondamento sulla perseveranza! Come S. Pietro è stato convertito, F . M.? Sappiamo, è vero, che Gesù Cristo lo guardò, che S. Pietro pianse il suo peccato, ma che cosa ci assicura della sua conversione, se non l’aver egli perseverato nella grazia, e mai più peccato? (Luc. XXII, 61, 62). Come è stato convertito S. Matteo? Sappiamo, è vero, che Gesù Cristo, avendolo visto al suo banco, gli disse di seguirlo, e che egli lo seguì, ma ciò che ci assicura che la sua conversione fu vera è il fatto che egli non si sedette più a quel banco, e non commise più ingiustizie; è il fatto che dopo aver cominciato a seguire Gesù Cristo, non lo lasciò più. (Luc. V, 27, 28) La perseveranza nella grazia, la rinuncia per sempre al peccato, furono i segni certissimi della sua conversione. Sì, F. M., quand’anche aveste vissuto venti o trent’anni nella virtù e nella penitenza, se non perseverate, tutto è perduto per voi. Sì, dice un santo vescovo al suo popolo, quand’anche aveste dato ogni vostro avere ai poveri, lacerato il vostro corpo e ridottolo tutto una piaga, sofferto, da solo, quanto tutti i martiri assieme, foste stato scorticato come S. Bartolomeo, segato tra due tavole come il profeta Isaia, arrostito lentamente come S. Lorenzo; se, per disgrazia, non perseverate, cioè se ricadrete nel peccato che già avete confessato, e la morte avesse a sorprendervi in questo stato, tutto sarebbe perduto. Chi di noi si salverà? Forse chi avrà combattuto quaranta o sessant’anni? No, F. M. Forse chi sarà invecchiato nel servizio di Dio? No, F. M., se non persevera. Salomone, di cui lo Spirito Santo dice, parlando di lui, che fu il più saggio dei re della terra (III Reg. IV, 31); quantunque paresse sicuro della propria salute, pure ci lasciò a questo riguardo in una grande incertezza. Saul ce ne presenta un’immagine ancor più spaventosa. Scelto da Dio stesso per reggere il suo popolo, colmato di tante benedizioni, muore riprovato. (I Reg. XXXI, 6) Ah! disgraziato! ci dice S. Giovanni Crisostomo, guardati bene, dopo aver ricevuto la grazia del tuo Dio, di non disprezzarla. Io tremo allorquando considero con quanta facilità il peccatore ricade nel peccato già confessato; come oserà domandare perdono?„ Sì, F. M., vi basterebbe per non ricadere mai più nel peccato, vi basterebbe coll’aiuto della grazia, confrontare lo stato disgraziato in cui vi aveva ridotto il peccato con quello! in cui v’ha messo la grazia. Sì, F. M., un’anima che ricade nel peccato, abbandona il suo Dio al demonio, fa opera di carnefice e lo crocifigge sulla croce del suo cuore; strappa la sua anima dalle mani del suo Dio, la trascina all’inferno, l’abbandona a tutto il furore ed alla rabbia dei demoni, le chiude il cielo, e rivolge a sua condanna tutti i patimenti del suo Dio. Ah! Dio mio, chi potrebbe tornare a commettere il peccato, se si facessero tutte queste riflessioni? Ascoltiamo, F. M., le terribili parole del Salvatore: “Chi avrà combattuto fino alla fine sarà salvo. „ E poi tremiamo ad ogni momento. Non vi sarà più cielo per noi se non siamo più fermi di quanto siamo stati fino ad ora; ma non è ancora tutto. Giacche potete perseverare nella pratica della virtù e dannarvi. Le vostre confessioni sono ben fatte? Avete prese tutte le precauzioni che dovevate usare per ben fare le vostre confessioni e comunioni? Avete ben esaminata la vostra coscienza prima di avvicinarvi al tribunale della penitenza? Avete confessato tutti i vostri peccati come voi li conoscevate senza dire, forse, che non è male, che non è nulla, oppure: lo dirò un’altra volta? Avete vero dolore dei vostri peccati? L’avete domandato a Dio andando al confessionale? Avreste preferito la morte piuttosto che tornare a commettere i peccati che avevate appena confessati? Siete nella ferma risoluzione di non più frequentare quelle persone con cui avete fatto del male? Protestate al buon Dio che se doveste ancora offenderlo, preferireste ch’egli vi faccia morire? Eppure, anche con tutto questa disposizioni, tremate sempre; vivete una specie di speranza e di diffidenza. Oggi siete nell’amicizia di Dio, tremate che, forse domani, non siate in odio a Lui, e riprovato. Ascoltate S. Paolo, quel vaso d’elezione, che era stato scelto da Dio per portare il suo nome davanti ai principi e re della terra, che ha condotte tante anime a Dio, i cui occhi si offuscavano ad ogni momento per l’abbondanza delle lagrime ch’egli spargeva; egli esclamava ad ogni momento: “Ahimè! non cesso di mortificare il mio corpo e di ridurlo in servitù, e temo che dopo aver predicato agli altri i mezzi d’andare in cielo, non sia io stesso cacciato e dannato (I Cor. IX, 27)„ In un altro punto sembra avere un po’ più di confidenza; ma su che è fondata questa confidenza? “Sì, mio Dio, esclama, io sono come una vittima pronta per essere immolata, ben presto il mio corpo e la mia anima saranno separati, vedo che non vivrò più a lungo; ma la mia confidenza sta in ciò che ho sempre seguito le ispirazioni che la grazia di Dio m’ha dato. Da quand’ebbi la ventura di convertirmi, ho condotto tante anime a Dio quanto m’è stato possibile, ho sempre combattuto, ho fatto una guerra continua al mio corpo. Ah!quante volte ho domandato a Dio la grazia di disfarmi di questo miserabile corpo, che mi conduceva verso il male (II Cor. XII, 8); finalmente, grazie a Dio, riceverò la ricompensa di chi ha combattuto e perseverato fino alla fine (II Tim. IV, 8).„ O mio Dio! quanto son pochi quelli che perseverano, e per conseguenza, quanto pochi si salvano! Leggiamo nella vita di S. Gregorio che una dama romana gli scrisse per domandargli l’aiuto delle sue preghiere, affinché Dio le facesse conoscere se i suoi peccati le erano stati perdonati e se, un giorno, riceverebbe la ricompensa delle sue buone opere.”Ah! diceva ella, temo che Dio non m’abbia perdonata. „ — ” Ahimè! le dice S. Gregorio, mi domandate una cosa difficilissima; pure vi dirò che, se perseverate, potete sperare che Dio vi perdonerà e che andrete in cielo; ma se non perseverate, malgrado tutto ciò che avrete fatto, vi dannerete. „ Quante volte non teniamo lo stesso linguaggio, tormentandoci per sapere se ci salveremo o ci danneremo! Pensieri inutili, F. M.! Ascoltate Mosè che, vicino a morire, fece radunare le dodici tribù d’Israele. “Sapete, disse loro, che vi ho teneramente amati, che non ho cercato se non la vostra salute e la vostra felicità; ora che vado a render conto a Dio di tutte le mie azioni, bisogna vi avverta che vi raccomando di non dimenticare questo: servite fedelmente il Signore, ricordatevi di tante grazie, di cui vi ha colmati; ed a qualunque costo non separatevi mai da Lui. Vedrete nemici che vi perseguiteranno e faranno il possibile per farvi abbandonare, ma fatevi coraggio, siete sicuri di vincerli se siete fedeli a Dio (Deuter. XXXI). Ahimè! F. M., le grazie che Dio ci accorda sono ben più numerose ed i nemici che ci circondano sono ben più potenti. Io dico: le grazie, poiché essi non avevano ricevuto che qualche ricchezza e la manna; e noi abbiamo avuto la fortuna di ricevere il pendono dei nostri peccati, di strappare le nostre anime dall’inferno e d’esser nutriti non della manna, ma del Corpo e del Sangue adorabile di Gesù Cristo!… Dio mio! che fortuna! Non bisogna dunque rivolgerci indietro, e lavorare continuamente per non perdere questo tesoro. Si quanti non perseverano, perché temono il combattimento!  Leggiamo nella storia che un santo prete incontrò un giorno un cristiano che era in continua apprensione di soccombere alla tentazione. ” Perché temete? gli dice il prete. — Ahimè! padre, disse, temo d’esser tentato, di cadere, di perire. Ah! esclama piangendo, non ho forse di che tremare se tanti milioni di angeli soccombettero in cielo, se Adamo ed Eva sono stati vinti nel Paradiso terrestre, se Salomone, che era considerato il più saggio dei re, e che era giunto al più alto grado di perfezione, ha insozzato i suoi bianchi capelli coi delitti più vergognosi e disonoranti; se quest’uomo, dopo essere stato l’ammirazione del mondo ne è diventato l’orrore e l’obbrobrio; quando considero un Giuda che cadde ed era in compagnia di Gesù Cristo stesso; se tanti lumi fulgidi si sono spenti, che devo pensare di me che non sono che peccato? Chi potrebbe contare il numero delle anime che sono nell’inferno e che, senza le tentazioni, sarebbero in cielo? Dio mio! chi non può tremare e avere speranza di perseverare? — Ma, amico, gli dice il santo prete, non sapete ciò che ci dice S. Agostino, che cioè il demonio è simile ad un grosso cane incatenato, che abbaia e fa grande strepito, ma non morde se non chi gli si avvicina troppo? Abbiate confidenza in Dio, fuggite le occasioni di peccato, e non soccomberete. Se Eva non avesse ascoltato il demonio, se quand’egli le proponeva di trasgredire l’ordine di Dio, ella fosse fuggita, non sarebbe caduta. Quando sarete tentato, scacciate subito la tentazione e, se potete, fate devotamente il segno della croce, pensate ai tormenti che sopportano i dannati per non aver saputo resistere alla tentazione; alzate gli occhi al cielo e vedrete la ricompensa di chi combatte; chiamate in aiuto il vostro buon Angelo custode, gettatevi prontamente nelle braccia della Madre di Dio, invocando la sua protezione; sarete sicuro allora d’esser vittorioso dei vostri nemici, e ben presto li vedrete coperti di confusione.„ Se soccombiamo, F. M. , è dunque perché non vogliamo usare i mezzi che il buon Dio ci offre per combattere. Bisogna soprattutto esser convinti che, da soli, non possiamo che perderci; ma che con una grande confidenza in Dio possiamo tutto. S. Filippo Neri diceva spesso a Dio: “Ahimè! Signore, custoditemi! bene, io sono così cattivo che mi sembra a ogni momento di tradirvi; io sono sì poca cosa che, anche quand’esco per fare una buona opera, dico tra me: tu esci cristiano di casa e forse entrerai pagano, dopo aver rinnegato il tuo Dio. „ Un giorno, credendosi solo in una solitudine, si mise a gridare: ” Ahimè! sono perduto, sono dannato! „ Uno che lo senti venne da lui, dicendogli: “Amico, perché disperate della misericordia di Dio? non è essa infinita? — Ah! gli disse il gran santo io non dispero, anzi spero molto; ma dico che sono perduto e dannato se Dio m’abbandona a me stesso. Quando considero quante persone hanno perseverato fino alla fine e che per una sola tentazione si sono perdute; questo mi fa tremare notte e giorno, nel timore d’esser del numero di quei disgraziati. „ Ah! F. M., se tutti i santi hanno tremato per tutta la loro vita nel timore di non perseverare, che sarà di noi che, senza virtù, quasi senza confidenza in Dio, dal canto nostro carichi di peccati, non facciamo attenzione a metterci in guardia per non lasciarci prendere nelle insidie che il demonio ci tende? noi che camminiamo come ciechi in mezzo ai più grandi pericoli, che dormiamo tranquillamente tra una folla di nemici i più accaniti per trarci a perdizione? — Ma, mi direte, che bisogna dunque fare per non soccombere? — Eccolo: bisogna fuggire le occasioni che ci hanno fatto cadere altre volte; ricorrere incessantemente alla preghiera, e finalmente frequentare spesso e degnamente i Sacramenti; se fate questo, se seguite questa via, siete sicuri di perseverare; ma se non prendete queste precauzioni, avrete bel fare e prendere tutte le vostre misure; ma non sfuggirete per questo la dannazione.

II. — In secondo luogo, per quanto vi è possibile, dovete fuggire il mondo, perché il suo linguaggio ed il suo modo di vivere sono interamente opposti a ciò che deve fare un buon Cristiano; cioè una persona che cerca i mezzi più sicuri per andare in cielo. Domandatelo a S. Maria Egiziaca che abbandonò il mondo e passò la vita in fondo ad un orrido deserto: essa vi dirà ch’è impossibile poter salvare la propria anima e piacere a Dio, se non si fugge il mondo; perché dappertutto non vi si trova che lacci e agguati; e siccome è contrario a Dio, bisogna assolutamente disprezzarlo ed abbandonarlo per sempre. Dove avete sentito cattive canzoni e infami discorsi, che vi fanno nascere un’infinità di cattivi pensieri e di cattivi desideri? Non fu quando vi siete trovato in quella compagnia di libertini? Chi v’ha fatto fare giudizi temerari? Non fu il sentire parlare male del prossimo in compagnia di quei maldicenti? Chi v’ha dato l’abitudine di osare sguardi e contatti abbominevoli su voi o su altri? Non fu dopo aver frequentato quell’impudico? Qual è la causa per cui voi non frequentate più i Sacramenti? Non è forse da quando siete andato con quell’empio, che ha cercato di farvi perdere la fede, dicendovi che erano bestialità le cose che vi diceva il prete; che la religione serviva solo per tener in freno i giovani; che si era imbecilli andando a raccontare ad un uomo le proprie azioni; che tutti coloro che sono istruiti si ridono di tutto questo, fino alla morte,… allora poi confesseranno che si sono ingannati? (S. Gregorio Magno. — S. Leone Magno. — S. Agostino. — Massillon. — È vero che Voltaire ed altri, in punto di morte hanno confessato che si sono ingannati: cioè, sono vissuti da empi e sono morti nella loro empietà. (Nota del Beato). – Il Beato è d’accordo col libro della Sapienza che ci mostra gli empi nel giorno del giudizio parlare cosi dei giusti: “Ecco quelli che altre volte noi abbiamo derisi, e di cui ci siamo burlati. Noi, insensati, consideravamo la loro vita come una follia e la loro morte come disonorante. Ma ora essi sono annoverati nel numero dei figli di Dio, ed hanno la loro eredità tra i santi „ (Sap. v, vers. 3 e seg.). Ebbene! amico, senza quella cattiva compagnia, avreste avuto tutti questi dubbi? No, certo. Ditemi, sorella, da quanto tempo provate tanto diletto per i piaceri, le danze, i balli, gli appuntamenti, gli ornamenti mondani? Non forse da quando avete frequentato quella giovanotta mondana che non è ancora contenta d’aver perduta la sua povera anima e che ha perduta la vostra? Ditemi, amico, da quanto tempo frequentate i giuochi, le osterie? Non fu da quando avete conosciuto quel libertino? Da quando vi si sente vomitare ogni sorta di bestemmie e d’imprecazioni? Non forse dacché siete a servizio presso quel padrone, che grida continuamente e la cui bocca non è che una sorgente d’abbominazione? – Sì, F. M., nel giorno del giudizio, ogni libertino vedrà l’altro libertino domandargli la sua anima, il suo Dio, il suo paradiso. Ah! disgraziato, si diranno l’un l’altro, rendimi la mia anima che m’hai rovinata, rendimi il cielo che m’hai rapito. Disgraziato, dov’è la mia anima? Strappala dunque dall’inferno in cui deve piombare. Ah! senza di te non avrei certo commesso quel peccato che mi danna! Io non lo conoscevo neppure. No, io non avrei mai avuto quel pensiero; ah! il bel cielo che mi hai fatto perdere! Addio, bel cielo che m’hai rapito! Sì, ogni peccatore si getterà su chi gli ha dato cattivo esempio e l’ha portato per la prima volta al peccato. “Ah! dirà, avesse Iddio voluto ch’io non t’avessi conosciuto mai! Ah! se almeno fossi morto prima di vederti, ora sarei in cielo; e non andrei mai più… Addio, bel cielo, per ben poco io t’ho perduto!… „ No, F. M.,  non persevererete mai nella virtù se non fuggite le compagnie del mondo; potreste ben volervi salvare, ma fatalmente vi dannerete. O l’inferno o la fuga: non c’è via di mezzo. Scegliete ciò che preferite. Da quando un giovane od una giovane seguono il loro talento… sono giovani riprovati… Avrete un bel dire che non fate male, che forse io sono scrupoloso. Io vi dico che sarà sempre così, che, se non cambiate, un giorno sarete nell’inferno; e non solo lo vedrete, ma, di più, lo proverete. Tiriamo un velo, F. M., e passiamo ad un altro argomento.

III. — In terzo luogo per aver la fortuna di perseverare nella grazia di Dio dopo aver ricevuto il sacramento della Penitenza, è assolutamente necessaria la preghiera. Colla preghiera potete tutto, siete, per così dire, passi la frase, padroni della volontà di Dio; e senza la preghiera, non siete capaci di nulla, e questo solo basta per mostrarvi la necessità della preghiera. Tutti i santi hanno cominciato la loro conversione colla preghiera e con essa hanno perseverato; e tutti i dannati si sono perduti per la loro negligenza nella preghiera. Per perseverare la preghiera è assolutamente necessaria. Ma distinguo: non una preghiera fatta dormendo, appoggiati ad una sedia, o sdraiati sul letto; non una preghiera fatta vestendosi o spogliandosi o camminando; non una preghiera fatta accendendo il fuoco, sgridando i figli ed i servi; non una preghiera fatta girando tra le mani il cappello od il berretto; non una preghiera fatta baciando i figli, od accomodando il fazzoletto od il grembiule; non una preghiera fatta colla mente attenta a cose estranee; non una preghiera fatta a precipizio come una cosa che ci annoia, e della quale non vediamo che il momento di liberarci; tutto questo non è più una preghiera, ma un insulto che facciamo a Dio. Lungi dal trovarvi i mezzi per garantirci dalla caduta nel peccato, questa preghiera stessa ci è un argomento di caduta; perché invece di attingere un nuovo grado di grazia, Dio ci ritira quella che ci aveva già data, per punire il disprezzo che noi facciamo della sua augusta presenza. Invece d’indebolire i nostri nemici li rendiamo più forti; invece di strappar ad essi le armi che avevano per combatterci ne procuriamo loro di nuove; invece di mitigare la giustizia di Dio, l’irritiamo sempre più! Ecco, F. M., il profitto che abbiamo dalle nostre preghiere. Ma la preghiera di cui vi parlo, preghiera che è sì potente presso Dio, che attira su noi tante grazie, che sembra quasi legare la volontà di Dio, che sembra, per così dire, obbligarlo ad accordarci ciò che gli domandiamo, è una preghiera fatta in una specie di diffidenza e di speranza. Diffidenza, considerando la nostra indegnità ed il disprezzo che abbiamo fatto di Dio e delle sue grazie, riconoscendoci indegni di comparire davanti a Lui e di osare domandar grazia, noi che tante volte l’abbiamo già ricevuta, e l’abbiamo sempre contraccambiato con ingratitudini, il che deve condurci in ogni momento della nostra vita, a credere che la terra s’aprirà sotto i nostri piedi, che tutti i fulmini del cielo sono pronti a colpirci, e che tutte le creature gridano vendetta in vista degli oltraggi da noi arrecati al loro Creatore; perciò tremanti davanti a Lui aspettiamo se Dio lancerà la sua folgore per annientarci, o se vorrà perdonarci ancora una volta. Col cuore spezzato dal rimorso d’aver offeso un Dio sì buono, lasciamo scorrere le nostre lagrime di pentimento e di riconoscenza: il nostro cuore ed il nostro spirito sono compresi dell’umiltà del nostro nulla, e della grandezza di Colui che abbiamo offeso e che ci lascia ancora la speranza del perdono. Lungi dal considerare il tempo della preghiera come un momento perduto, lo consideriamo come il più felice ed il più prezioso della nostra vita, perché un Cristiano peccatore, non deve avere in questo mondo altra occupazione che quella di piangere ai piedi del suo Dio. Lungi dall’occuparsi anzitutto dei suoi affari temporali, e di preferirli a quelli della sua salute, li considera come inezie, anzi ostacoli alla propria salvezza, e non ha per essi che quelle cure ed attenzioni che Dio gli comanda, convinto che se non li compie lui vi penseranno altri; ma che, se non ha la fortuna di ottenere la grazia e di rendersi Dio favorevole, tutto è perduto per lui, e nessuno vi penserà per lui. Non abbandona la preghiera che a gran pena; i momenti in cui si trova alla presenza di Dio, sono un nulla, o meglio passano come un lampo; se il suo corpo lascia la presenza di Dio, il suo cuore ed il suo spirito sono fissi in lui. Durante la preghiera non pensa più al lavoro, né a sedersi, né a coricarsi… Un Cristiano deve essere tra la diffidenza e la speranza. La speranza, cioè ricordando la grandezza della misericordia di Dio, il desiderio ch’egli ha di renderci felici, e ciò che ha fatto per renderci degni del cielo. Animati da un pensiero sì consolante ci indirizzeremo a Lui con grande confidenza, e diremo con san Bernardo: “Dio mio, quello che vi domando non l’ho meritato, ma voi l’avete meritato per me. Se m’esaudite, è solo perché voi siete buono e misericordioso. „ Con questi sentimenti che fa un Cristiano? Eccolo. Penetrato dalla più viva riconoscenza, prende la ferma risoluzione di non più oltraggiare il suo Dio, che gli ha accordata la grazia. Ecco, F. M., la preghiera di cui vi voglio parlare, e che ci è assolutamente necessaria per ottenere il perdono dei nostri peccati ed il prezioso dono della perseveranza.

IV. — In quarto luogo per aver la fortuna di conservare la grazia di Dio dobbiamo aggiungere la frequenza dei Sacramenti. Un Cristiano che usa santamente della preghiera e dei Sacramenti, è così terribile pel demonio come un soldato sul suo cavallo, cogli occhi fulminei, armato di corazza, sciabola e pistola, davanti al nemico disarmato la sua sola presenza lo spaventa e lo mette  in fuga. Ma se scende dal cavallo ed abbandona le sue armi; subito il suo nemico gli si getta addosso, lo schiaccia sotto i piedi e se ne rende padrone; mentre, quand’era armato, la sua sola presenza sembrava annientarlo. Vera immagine questa d’un Cristiano munito delle armi della preghiera e dei Sacramenti. No, no, un Cristiano che prega, e che colle disposizioni necessarie frequenta i Sacramenti è più terribile pel demonio che quel soldato di cui v’ho parlato. Che cos’era che rendeva S. Antonio sì terribile alle potenze dell’inferno se non la preghiera? Ascoltate il linguaggio che gli teneva un giorno il demonio, chiedendogli perché lo faceva tanto soffrire, egli che era il suo più crudele nemico. “Ah! quanto siete dappoco; gli disse S. Antonio, io che non sono che un povero solitario, che non posso tenermi in piedi, con un solo segno di croce vi metto in fuga. „ Considerate ancora ciò che disse il demonio a S. Teresa, egli che per il grande amore di lei per Iddio e la frequenza dei Sacramenti, non poteva nemmeno respirare dov’ella era passata. Perché? Perché i Sacramenti ci danno tanta forza per perseverare nella grazia di Dio, che non s’è mai visto un santo allontanarsi dai Sacramenti e perseverare nell’amicizia del Signore; nei Sacramenti essi hanno trovato la forza per non lasciarsi vincere dal demonio: eccone la ragione. Quando preghiamo, Dio ci dà degli amici, ci manda or un santo od un angelo per consolarci; come fece con Agar, la serva di Abramo, (Gen. XXI, 17), col casto Giuseppe quand’era in prigione; e così con S. Pietro… ; ci fa sentire con più abbondanza le sue grazie per fortificarci ed incoraggiarci. Ma nei Sacramenti, non è un santo od un Angelo, è Lui stesso che viene colle sue folgori per annientare il nostro nemico. Il demonio, vedendolo nel nostro cuore, si precipita come un disperato negli abissi; ecco precisamente perché il demonio fa ogni cosa possibile per allontanarcene e farceli profanare. Sì, F. M., dal quando una persona frequenta i Sacramenti, il demonio perde tutta la sua potenza. Però bisogna distinguere: sono terribili al demonio quelli che frequentano i Sacramenti colle necessarie disposizioni, che hanno veramente in orrore il peccato, e che usano tutti i mezzi che Iddio ci dà per non più ricadervi ed approfittare delle grazie ch’Egli ci fa. Non voglio parlarvi di quelli che oggi si confessano e domani ricadono nel loro peccato; non voglio parlarvi di quelli che s’accusano dei loro peccati con poco rimorso e pentimento, come se narrassero una storia dilettevole; né di quelli che non hanno disposizioni o quasi, che vengono a confessarsi forse senza fare l’esame di coscienza, e che dicono quello che capita loro in mente; s’accostano alla sacra Mensa senza avere scrutato i nascondigli del proprio cuore, senza aver domandato la grazia di conoscere i propri peccati e di sentirne il dolore, e senza aver presa alcuna risoluzione di non più peccare. No, no, questi non lavorano che alla loro rovina. Invece di combattere contro il demonio, essi si mettono dalla sua parte e si gettano da sé nell’inferno. No, no, non è di costoro che voglio parlarvi. Se tutti quelli che frequentano i Sacramenti fossero ben disposti, quantunque il numero ne sia piccolo, pure vi sarebbero assai più eletti che non vi siano. Ma parlo di quelli che si allontanano o dal tribunale di penitenza, o dalla sacra Mensa, per comparire con grande confidenza davanti al tribunale di Dio, senza timore d’esser condannati per le mancanze di preparazione nelle loro confessioni o comunioni. Dio mio! quantunque siano rari, quanti Cristiani si sono perduti!

V. — In quinto luogo per avere la somma ventura di conservare la grazia che abbiamo ricevuta nel sacramento della Penitenza, dobbiamo praticare la mortificazione: è la via che hanno tenuto tutti i santi. O castigate questo corpo di peccato, o presto cadrete. Vedete il santo re Davide, per domandare a Dio la grazia di perseverare, mortificò il suo corpo per tutta la sua vita. Vedete S. Paolo che vi dice ch’egli trascinava il suo corpo come un cavallo. Innanzi tutto non dobbiamo mai lasciar passare un pasto senza privarci di qualche cosa, affinché possiamo in fine di ogni pasto offrire a Dio qualche privazione. Riguardo al sonno, di quando in quando, diminuiamolo un po’. Nella nostra fretta di parlare quando abbiamo qualche cosa da dire, priviamocene per il buon Dio. Ebbene, F. M., chi sono quelli che prendono tutte queste precauzioni di cui vi ho mostrato l’importanza? Dove sono? Ahimè! non ne so niente! Quanto sono rari! e quanto ne è piccolo il numero! Ma, e dove sono quelli che avendo ricevuto il perdono dei loro peccati, perseverano nello stato fortunato in cui li ha messi la penitenza? Ahimè! Dio mio, e dove bisogna cercarli? Tra quelli che mi ascoltano vi sono dei Cristiani tanto fortunati? Ahimè! non ne so nulla. Che dobbiamo dunque concludere, F. M. Ecco. Se ricadiamo, come prima, quando occasioni ci si presentano, è perché non prendiamo migliori risoluzioni, non aumentiamo le nostre penitenze, e non raddoppiamo le  nostre preghiere e le nostre mortificazioni. Tremiamo per le nostre confessioni, che all’ora della nostra morte non abbiamo a trovare che dei sacrilegi, e per conseguenza, la nostra rovina per tutta l’eternità. Felici, mille volte felici, quelli che persevereranno fino alla fine, poiché il cielo è per essi!…

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps LXII:2; LXII:5  Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.

Secreta

Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat.

[O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja.

[Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur.

[Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA PERSEVERANZA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: Sulla Perseveranza

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla Perseveranza.

“Qui autem perseveraverit usque in finem, hic salvus erit”  

(MATTH. X, 22).

Chi combatterà e persevererà fino alla fine dei suoi giorni, senza lasciarsi vincere, ci dice il Salvatore del mondo; oppure, caduto, si sarà rialzato e persevererà, sarà coronato, cioè sarà salvo: sono parole, F. M., che dovrebbero farci tremare ed agghiacciare dallo spavento, se consideriamo da una parte i pericoli a cui siamo esposti e dall’altra, la nostra debolezza ed il numero dei nemici che ci circondano. Perciò non meravigliamoci, se i più grandi santi hanno abbandonato parenti ed amici, ricchezze e piaceri per andare gli uni a nascondersi nelle foreste, gli altri a piangere nelle grotte; altri ancora a chiudersi fra quattro mura per passare nelle lacrime il resto della loro vita, ed essere più liberi e sciolti da tutti gli impacci del mondo, per non occuparsi che di combattere i nemici della loro salute, convinti che il cielo sarebbe dato solo alla loro perseveranza. — Ma, mi direte, cosa vuol dire perseverare? — Ecco. Esser pronti a sacrificare tutto: le ricchezze, la volontà, la libertà e la stessa vita, piuttosto che dispiacere a Dio. — Ma, mi direte ancora: cos’è il non perseverare? — Eccolo. Ricadere nei peccati che già abbiamo confessati, seguire le cattive compagnie che ci hanno portato al peccato, il più grande di tutti i mali, poiché con esso abbiam perduto il nostro Dio, abbiamo attirato su di noi tutta la sua collera, strappiamo la nostra anima al cielo e la condanniamo all’inferno. Volesse Iddio che i Cristiani che hanno la ventura di riconciliarsi con Dio per mezzo del sacramento della Penitenza, lo comprendessero bene! E per darvene un’idea, vi mostrerò i mezzi che dovete usare per perseverare nella grazia che avete ricevuto nel sacro tempo pasquale. Io ne trovo cinque principali, cioè: la fedeltà nel seguire i movimenti della grazia di Dio, la fuga delle cattive compagnie, la preghiera, la frequenza dei Sacramenti ed infine la mortificazione. Veramente oggi potrete dire che quello che sentirete non vi riguarda; almeno, un buon terzo di voi. Io, parlarvi della perseveranza? ma sono dunque un falso pastore? non lavoro dunque che alla vostra rovina spirituale? Il demonio si servirà di me per affrettare la vostra dannazione? dunque farò io tutto il contrario di ciò che Dio mi ha comandato di fare: Egli non mi manda in mezzo a voi che per salvarvi, e la mia occupazione sarà quella di trascinarvi nell’abisso? che io sia il crudele carnefice delle vostre anime! Dio mio! Quale disgrazia! Parlarvi della perseveranza! Ma questo linguaggio non conviene che a coloro che hanno abbandonato risolutamente il peccato, e che hanno stabilito di perdere mille vite piuttosto che tornare a commettere la colpa; dire ad un peccatore di perseverare! Dio mio! non sarò io la più disgraziata creatura che la terra abbia portata? No, no, non è questo il linguaggio che dovrei tenere, ma piuttosto: cessa, amico mio, di perseverare nel tuo stato deplorevole, altrimenti ti perderai. Io, dire di perseverare a quest’uomo che da parecchi anni non fa più Pasqua o la fa male? No, no, amico, se perseveri, sei perduto; il cielo non sarà mai per te! Io, dire a quella persona, che si accontenta di fare la Pasqua, di perseverare? ma non sarebbe questo il metterle una benda davanti agli occhi e trascinarla all’inferno? Io, dire di perseverare a quei padri e a quelle madri che fanno Pasqua e rallentano il freno ai loro figli? Ah! no, non voglio essere il carnefice della loro povera anima. Io, dir di perseverare a quelle giovani che hanno fatto la Pasqua col pensiero ed il desiderio di tornare ai balli ed ai piaceri? Oh! povero me! che orrore! che abbominazione! che catena di delitti e di sacrilegi! Io, dire di perseverare a quelle persone che frequentano cinque o sei volte all’anno i Sacramenti e non fanno apparire alcun cambiamento nel loro modo di vivere? gli stessi lamenti nelle loro pene, gli stessi impeti di collera, la stessa avarizia, la stessa noncuranza dei poveri; sempre pronti a calunniare e a denigrare la fama del prossimo… Dio mio! quanti Cristiani ciechi e venduti all’iniquità! Io, dire di perseverare a quelle persone che, senza inquietarsi o per rispetto umano, mangiano di grasso nei giorni proibiti, e lavorano senza scrupolo nei giorni di domenica? Dio mio! che disgrazia! A chi dunque mi volgerò? Non ne so nulla. Ah! no, no, F . M., non della perseveranza nella grazia avrei oggi dovuto parlarvi! Avrei piuttosto dovuto dipingervi lo stato spaventoso e disperato di chi non ha fatto Pasqua o l’ha fatta male, e persevera in questo stato. Ah! volesse Dio che mi fosse permesso di descrivervi la disperazione d’un peccatore davanti al tribunale del Giudice divino, e farvi sentire quei torrenti di maledizioni: “Va, maledetto dannato, va, peccatore indurito, va a piangere la tua vita peccaminosa ed i tuoi sacrilegi. Ah! non ti basta l’avervi marcito durante la tua vita… „ Bisognerebbe trascinarli sino alle porte dell’inferno, prima che il demonio ve li precipiti per sempre, e far loro sentire le grida, le urla di quegl’infelici dannati, e mostrare a ciascuno il posto a lor riservato. Dio mio! potrebbero vivere ancora?!!! Un cielo perduto… Un inferno… un’eternità.. Essi hanno disprezzato i dolori… che dico i dolori? la morte d’un Dio… Ecco la ricompensa della perseveranza nel peccato; sì, ecco il soggetto di cui avrei dovuto trattare oggi. Ma parlarvi della perseveranza, la quale suppone un’anima che teme più il peccato che la morte, che passa i suoi giorni nell’amor del suo Dio; un’anima spoglia di ogni affetto terreno e icui desiderii non sono che pel cielo …Ebbene, dove volete ch’io mi rivolga? Dove io potrei trovarla quest’anima? Ah! dov’è? Qual è il paese fortunato che la possiede? Ahimè! io non ne ho trovato; od almeno, ne ho trovate ben poche. Dio mio! forse voi ne vedete alcuna ch’io non conosco. Io vi parlerò dunque come se fossi sicuro che ve ne fossero almeno più una o due, per mostrar loro i mezzi ch’esse devono usare per continuare la via fortunati che hanno cominciata. Ascoltate bene, anime sante, se pure ve n’ha alcuna tra quelli che mi ascoltano, ascoltate ciò che Iddio vi dirà per bocca mia.

I. — Anzitutto, il primo mezzo di perseverare nella via che conduce al cielo, è d’esser fedele nel seguirla, enell’approfittare dei movimenti della grazia che Dio vuol accordarci. Tutti i santi non sono debitori della loro felicità che alla loro fedeltà nel seguire i movimenti operati in essi dallo Spirito Santo, ed i dannati non possono attribuire la loro disgrazia che al disprezzo che ne hanno fatto. Questo solo può bastare per farvene sentire tutto il valore, e la necessità d’esservi fedele.

— Ma, mi direte, come, in qual modo possiamo conoscere se corrispondiamo a ciò che la grazia vuole da noi, oppure se vi resistiamo? — Se non lo sapete, ascoltatemi un momento e ne saprete ciò che è essenziale. In primo luogo, la grazia è un pensiero, il quale ci fa sentire la necessità d’evitare il male e di fare il bene. Entriamo, in qualche particolarità familiare, perché possiate meglio comprendere, e vedrete quando le resistete, oppure quando le siete fedeli. La mattina, quando vi svegliate, il buon Dio vi suggerisce il pensiero di offrirgli il vostro cuore, di offrirgli il vostro lavoro, di fare tosto in ginocchio la vostra preghiera: se lo fate subito e di buona volontà, seguirete le ispirazioni della grazia; e se non lo fate, ovvero lo fate male, non le seguite. Vi sentite ad un tratto il desiderio d’andarvi a confessare e di correggervi dei vostri difetti, di non rimanere nello stato in cui siete; pensando che se aveste a morire vi dannereste. Se seguite queste buone ispirazioni che vi dà Iddio, siete fedeli alla grazia. Ma voi lasciate passare tutto questo senza il pensiero di fare qualche elemosina, qualche penitenza, d’andare a messa nei giorni feriali, di mandarvi i vostri servi: non lo fate. Ecco F. M., che cos’è seguire la grazia o resistervi. Questo è ciò che si chiama la grazia interiore. Quelle che sono chiamate grazie esteriori, sono per esempio, una buona lettura, una conversazione con una persona dabbene, che vi fa sentire la necessità di cambiar vita, di meglio servir il buon Dio, il rimorso che proverete se non lo fate, in punto di morte: è un buon esempio che vi si presenta dinanzi e che sembra stimolarvi affinché vi abbiate a convertire; è infine un’istruzione che vi insegna i mezzi che bisogna usare per servire Dio e adempiere i vostri doveri verso di Lui, verso noi stessi e verso il prossimo. Badate bene, da qui dipende la vostra salvezza o la vostra dannazione. I santi non si sono santificati che con la loro grande attenzione nel seguire tutte le buone ispirazioni, che Dio mandava loro; ed i dannati non sono caduti nell’inferno se no perché le hanno disprezzate; e ne vedrete l prova. Vediamo nell’Evangelo che tutte le conversioni, operate da Gesù Cristo durante la sua vita, hanno fondamento sulla perseveranza.! Come S. Pietro è stato convertito, F. M.? Sappiamo, è vero, che Gesù Cristo lo guardò, che S. Pietro pianse il suo peccato, ma che cosa ci assicura della sua conversione, se non l’aver egli perseverato nella grazia, e mai più peccato? (Luc. XXII, 61, 62). Come è stato convertito S. Matteo? Sappiamo, è vero, che Gesù Cristo, avendolo visto al suo banco, gli disse di seguirlo, e che egli lo seguì, ma ciò che ci assicura che la sua conversione fu vera è il fatto che egli non si sedette più a quel banco, e non commise più ingiustizie; è il fatto che dopo aver cominciato a seguire Gesù Cristo, non lo lasciò più. (Luc. V, 27, 28) La perseveranza nella grazia, la rinuncia per sempre al peccato, furono i segni certissimi della sua conversione. Sì, F. M., quand’anche aveste vissuto venti o trent’anni nella virtù e nella penitenza, se non perseverate, tutto è perduto per voi. Sì, dice un santo vescovo al suo popolo, quand’anche aveste dato ogni vostro avere ai poveri, lacerato il vostro corpo e ridottolo tutto una piaga, sofferto, da solo, quanto tutti i martiri assieme, foste stato scorticato come S. Bartolomeo, segato tra due tavole come il profeta Isaia, arrostito lentamente come S. Lorenzo; se, per disgrazia, non perseverate, cioè se ricadrete nel peccato che già avete confessato, e la morte avesse a sorprendervi in questo stato, tutto sarebbe perduto. Chi di noi si salverà? Forse chi avrà combattuto quaranta o sessant’anni? No, F. M. Forse chi sarà invecchiato nel servizio di Dio? No, F. M., se non persevera. Salomone, di cui lo Spirito Santo dice, parlando di lui, che fu il più saggio dei re della terra (III Reg. IV, 31); quantunque paresse sicuro della propria salute, pure ci lasciò a questo riguardo in una grande incertezza. Saul ce ne presenta un’immagine ancor più spaventosa. Scelto da Dio stesso per reggere il suo popolo, colmato di tante benedizioni, muore riprovato. (I Reg. XXXI, 6) Ah! disgraziato! ci dice S. Giovanni Crisostomo, guardati bene, dopo aver ricevuto la grazia del tuo Dio, di non disprezzarla. Io tremo allorquando considero con quanta facilità il peccatore ricade nel peccato già confessato; come oserà domandare perdono?„ Sì, F. M., vi basterebbe per non ricadere mai più nel peccato, vi basterebbe coll’aiuto della grazia, confrontare lo stato disgraziato! in cui vi aveva ridotto il peccato con quello! in cui v’ha messo la grazia. Sì, F. M., un’anima che ricade nel peccato, abbandona il suo Dio al demonio, fa opera di carnefice e lo crocifigge sulla croce del suo cuore; strappa la sua anima dalle mani del suo Dio, la trascina all’inferno, l’abbandona a tutto il furore! ed alla rabbia dei demoni, le chiude il cielo, e rivolge a sua condanna tutti i patimenti del suo Dio. Ah! Dio mio, chi potrebbe tornare a commettere il peccato, se si facessero tutte queste riflessioni? Ascoltiamo, F. M., le terribili parole del Salvatore: “Chi avrà combattuto fino alla fine sarà salvo. „ E poi tremiamo ad ogni momento. Non vi sarà più cielo per noi se non siamo più fermi di quanto siamo stati fino ad ora; ma non è ancora tutto. Giacche potete perseverare nella pratica della virtù e dannarvi. Le vostre confessioni sono ben fatte? Avete prese tutte le precauzioni che dovevate usare per ben fare le vostre confessioni e comunioni? Avete ben esaminata la vostra coscienza prima di avvicinarvi al tribunale della penitenza? Avete confessato tutti i vostri peccati come voi li conoscevate senza dire, forse, che non è male, che non è nulla, oppure: lo dirò un’altra volta? Avete vero dolore dei vostri peccati? L’avete domandato a Dio andando al confessionale? Avreste preferito la morte piuttosto che tornare a commettere i peccati che avevate appena confessati? Siete nella ferma risoluzione di non più frequentare quelle persone con cui avete fatto del male? Protestate al buon Dio che se doveste ancora offenderlo, preferireste ch’egli vi faccia morire? Eppure, anche con tutto questa disposizioni, tremate sempre; vivete una specie di speranza e di diffidenza. Oggi siete nell’amicizia di Dio, tremate che, forse domani, non siate in odio a Lui, e riprovato. Ascoltate S. Paolo, quel vaso d’elezione, che era stato scelto da Dio per portare il suo nome davanti ai principi e re della terra, che ha condotte tante anime a Dio, i cui occhi si offuscavano ad ogni momento per l’abbondanza delle lagrime ch’egli spargeva; egli esclamava ad ogni momento: “Ahimè! non cesso di mortificare il mio corpo e di ridurlo in servitù, e temo che dopo aver predicato agli altri i mezzi d’andare in cielo, non sia io stesso cacciato e dannato (I Cor. IX, 27)„ In un altro punto sembra avere un po’ più di confidenza; ma su che è fondata questa confidenza? “Sì, mio Dio, esclama, io sono come una vittima pronta per essere immolata, ben presto il mio corpo e la mia anima saranno separati, vedo che non vivrò più a lungo; ma la mia confidenza sta in ciò che ho sempre seguito le ispirazioni che la grazia di Dio m’ha dato. Da quand’ebbi la ventura di convertirmi, ho condotto tante anime a Dio quanto m’è stato possibile, ho sempre combattuto, hofatto una guerra continua al mio corpo. Ah!quante volte ho domandato a Dio la grazia di disfarmi di questo miserabile corpo, che mi conduceva verso il male (II Cor. XII, 8); finalmente, grazie a Dio, riceverò la ricompensa di chi ha combattuto e perseverato fino alla fine (II Tim. IV, 8).„ O mio Dio! quanto son pochi quelli che perseverano, e per conseguenza, quanto pochi si salvano! Leggiamo nella vita di S. Gregorio che una dama romana gli scrisse per domandargli l’aiuto delle sue preghiere, affinché Dio le facesse conoscere se i suoi peccati le erano stati perdonati e se, un giorno, riceverebbe la ricompensa delle sue buone opere.” Ah! diceva ella, temo che Dio non m’abbia perdonata. „ — “Ahimè! le dice S. Gregorio, mi domandate una cosa difficilissima; pure vi dirò che, se perseverate, potete sperare che Dio vi perdonerà e che andrete in cielo; ma se non perseverate, malgrado tutto ciò che avrete fatto, vi dannerete. „ Quante volte non teniamo lo stesso linguaggio, tormentandoci per sapere se ci salveremo o ci danneremo! Pensieri inutili, F. M.! Ascoltate Mosè che, vicino a morire, fece radunare le dodici tribù d’Israele. “Sapete, disse loro, che vi ho teneramente amati, che non ho cercato se non la vostra salute e la vostra felicità; ora che vado a render conto a Dio di tutte le mie azioni, bisogna vi avverta che vi raccomando di non dimenticare questo: servite fedelmente il Signore, ricordatevi di tante grazie, di cui vi ha colmati; ed a qualunque costo non separatevi mai da Lui. Vedrete nemici che vi perseguiteranno e faranno il possibile per farvi abbandonare, ma fatevi coraggio, siete sicuri di vincerli se siete fedeli a Dio (Deuter. XXXI) Ahimè! F. M.,le grazie che Dio ci accorda sono ben più numerose ed i nemici che ci circondano sono ben più potenti. Io dico: le grazie, poiché essi non avevano ricevuto che qualche ricchezza e la manna; e noi abbiamo avuto la fortuna di ricevere il pendono dei nostri peccati, di strappare le nostre anime dall’inferno e d’esser nutriti non della manna, ma del Corpo e del Sangue adorabile di Gesù Cristo!… Dio mio! che fortuna! Non bisogna dunque rivolgerci indietro, e lavorare continuamente per non perdere questo tesoro. (Si quanti non perseverano, perché temono il combattimento!  Leggiamo nella storia che un santo prete incontrò un giorno un cristiano che era in continua apprensione di soccombere alla tentazione. ” Perché temete? gli dice il prete. — Ahimè! padre, disse, temo d’esser tentato, di cadere, di perire. Ah! esclama piangendo, non ho forse di che tremare se tanti milioni di angeli soccombettero in cielo, se Adamo ed Eva sono stati vinti nel Paradiso terrestre, se Salomone, che era considerato il più saggio dei re, e che era giunto al più alto grado di perfezione, ha insozzato i suoi bianchi capelli coi delitti più vergognosi e disonoranti; se quest’uomo, dopo essere stato l’ammirazione del mondo ne è diventato l’orrore e l’obbrobrio; quando considero un Giuda che cadde ed era in compagnia di Gesù Cristo stesso; se tanti lumi fulgidi si sono spenti, che devo pensare di me che non sono che peccato? Chi potrebbe contare il numero delle anime che sono nell’inferno e che, senza le tentazioni, sarebbero in cielo? Dio mio! chi non può tremare e avere speranza di perseverare? — Ma, amico, gli dice il santo prete, non sapete ciò che ci dice S. Agostino, che cioè il demonio è simile ad un grosso cane incatenato, che abbaia e fa grande strepito, ma non morde se non chi gli si avvicina troppo? Abbiate confidenza in Dio, fuggite le occasioni di peccato, e non soccomberete. Se Eva non avesse ascoltato il demonio, se quand’egli le proponeva di trasgredire l’ordine di Dio, ella fosse fuggita, non sarebbe caduta. Quando sarete tentato, scacciate subito la tentazione e, se potete, fate devotamente il segno della croce, pensate ai tormenti che sopportano i dannati per non aver saputo resistere alla tentazione; alzate gli occhi al cielo e vedrete la ricompensa di chi combatte; chiamate in aiuto il vostro buon Angelo custode, gettatevi prontamente nelle braccia della Madre di Dio, invocando la sua protezione; sarete sicuro allora d’esser vittorioso dei vostri nemici, e ben presto li vedrete coperti di confusione.„ Se soccombiamo, P. M. , è dunque perché non vogliamo usare i mezzi che il buon Dio ci offre per combattere. Bisogna soprattutto esser convinti che, da soli, non possiamo che perderci; ma che con una grande confidenza in Dio possiamo tutto. S. Filippo Neri dicev spesso a Dio: “Ahimè! Signore, custoditemi! bene, io sono così cattivo che mi sembra a ogni momento di tradirvi; io sono sì poca cosa che, anche quand’esco per fare una buona opera, dico tra me: tu esci cristiano di casa e forse entrerai pagano, dopo aver rinnegato il tuo Dio. „ Un giorno, credendosi solo in una solitudine, si mise a gridare: ” Ahimè! sono perduto, sono dannato! „ Uno che lo senti venne da lui, dicendogli: “Amico, perché disperate della misericordia di Dio? non è essa infinita? — Ah! gli disse il gran santo io non dispero, anzi spero molto; ma dico che sono perduto e dannato se Dio m’abbandona a me stesso. Quando considero quante persone hanno perseverato fino alla fine e che per una sola tentazione si sono perdute; questo mi fa tremare notte e giorno, nel timore d’esser del numero di quei disgraziati. „ Ah! F. M., se tutti i santi hanno tremato per tutta la loro vita nel timore di non perseverare, che sarà di noi che, senza virtù, quasi senza confidenza in Dio, dal canto nostro carichi di peccati, non facciamo attenzione a metterci in guardia per non lasciarci prendere nelle insidie che il demonio ci tende? noi che camminiamo come ciechi in mezzo ai più grandi pericoli, che dormiamo tranquillamente tra una folla di nemici i più accaniti per trarci a perdizione? — Ma, mi direte, che bisogna dunque fare per non soccombere? — Eccolo: bisogna fuggire le occasioni che ci hanno fatto cadere altre volte; ricorrere incessantemente alla preghiera, e finalmente frequentare spesso e degnamente i Sacramenti; se fate questo, se seguite questa via, siete sicuri di perseverare; ma se non prendete queste precauzioni, avrete bel fare e prendere tutte le vostre misure; ma non sfuggirete per questo la dannazione.

II. — In secondo luogo, per quanto vi è possibile, dovete fuggire il mondo, perché il suo linguaggio ed il suo modo di vivere sono interamente opposti a ciò che deve fare un buon Cristiano; cioè una persona che cerca i mezzi più sicuri per andare in cielo. Domandatelo a S. Maria Egiziaca che abbandonò il mondo e passò la vita in fondo ad un orrido deserto: essa vi dirà ch’è impossibile poter salvare la propria anima e piacere a Dio, se non si fugge il mondo; perché dappertutto non vi si trova che lacci e agguati; e siccome è contrario a Dio, bisogna assolutamente disprezzarlo ed abbandonarlo per sempre. Dove avete sentito cattive canzoni e infami discorsi, che vi fanno nascere un’infinità di cattivi pensieri e di cattivi desideri? Non fu quando vi siete trovato in quella compagnia di libertini? Chi v’ha fatto fare giudizi temerari? Non fu il sentire parlare male del prossimo in compagnia di quei maldicenti? Chi v’ha dato l’abitudine di osare sguardi e contatti abbominevoli su voi o su altri? Non fu dopo aver frequentato quell’impudico? Qual è la causa per cui voi non frequentate più i Sacramenti? Non è forse da quando siete andato con quell’empio, che ha cercato di farvi perdere la fede, dicendovi che erano bestialità le cose che vi diceva il prete; che la religione serviva solo per tener in freno i giovani; che si era imbecilli andando a raccontare ad un uomo le proprie azioni; che tutti coloro che sono istruiti si ridono di tutto questo, fino alla morte,… allora poi confesseranno che si sono ingannati? (S. Gregorio Magno. — S. Leone Magno. — S. Agostino. — Massillon. — È vero che Voltaire ed altri, in punto di morte hanno confessato che si sono ingannati: cioè, sono vissuti da empi e sono morti nella loro empietà. (Nota del Beato). – Il Beato è d’accordo col libro della Sapienza che ci mostra gli empi nel giorno del giudizio parlare cosi dei giusti: “Ecco quelli che altre volte noi abbiamo derisi, e di cui ci siamo burlati. .Noi, insensati, consideravamo la loro vita come una follia e la loro morte come disonorante. Ma ora essi sono annoverati nel numero dei figli di Dio, ed hanno la loro eredità tra i santi „ Sap. v, vers. 3 e seg.). Ebbene! amico, senza quella cattiva compagnia, avreste avuto tutti questi dubbi? No, certo. Ditemi, sorella, da quanto tempo provate tanto diletto per i piaceri, le danze, i balli, gli appuntamenti, gli ornamenti mondani? Non forse da quando avete frequentato quella giovanotta mondana che non è ancora contenta d’aver perduta la sua povera anima e che ha perduta la vostra? Ditemi, amico, da quanto tempo frequentate i giuochi, le osterie? Non fu da quando avete conosciuto quel libertino? Da quando vi si sente vomitare ogni sorta di bestemmie e d’imprecazioni? Non forse dacché siete a servizio presso quel padrone, che grida continuamente e la cui bocca non è che una sorgente d’abbominazione? – Sì, F. M., nel giorno del giudizio, ogni libertino vedrà l’altro libertino domandargli la sua anima, il suo Dio, il suo paradiso. Ah! disgraziato, si diranno l’un l’altro, rendimi la mia anima che m’hai rovinata, rendimi il cielo che m’hai rapito. Disgraziato, dov’è la mia anima? Strappala dunque dall’inferno in cui deve piombare. Ah! senza di te non avrei certo commesso quel peccato che mi danna! – Io non lo conoscevo neppure. No, io non avrei mai avuto quel pensiero; ah! il bel cielo che mi hai fatto perdere! Addio, bel cielo che m’hai rapito! Sì, ogni peccatore si getterà su chi gli ha dato cattivo esempio e l’ha portato per la prima volta al peccato. “Ah! dirà, avesse Iddio voluto ch’io non t’avessi conosciuto mai! Ah! se almeno fossi morto prima di vederti, ora sarei in cielo; e non andrei mai più… Addio, bel cielo, per ben poco io t’ho perduto!… „ No, F. M.,  non persevererete mai nella virtù se non fuggite le compagnie del mondo; potreste ben volervi salvare, ma fatalmente vi dannerete. O l’inferno o la fuga: non c’è via di mezzo. Scegliete ciò che preferite. Da quando un giovane od una giovane seguono il loro talento… sono giovani riprovati… Avrete un bel dire che non fate male, che forse io sono scrupoloso. Io vi dico che sarà sempre così, che, se non cambiate, un giorno sarete nell’inferno; e non solo lo vedrete, ma, di più, lo proverete. Tiriamo un velo, F. M., e passiamo ad un altro argomento.

III. — In terzo luogo per aver la fortuna di perseverare nella grazia di Dio dopo aver ricevuto il sacramento della Penitenza, è assolutamente necessaria la preghiera. Colla preghiera potete tutto, siete, per così dire, passi la frase, padroni della volontà di Dio; e senza la preghiera, non siete capaci di nulla, e questo solo basta per mostrarvi la necessità della preghiera. Tutti i santi hanno cominciato la loro conversione colla preghiera e con essa hanno perseverato; e tutti i dannati si sono perduti per la loro negligenza nella preghiera. Per perseverare la preghiera è assolutamente necessaria. Ma distinguo: non una preghiera fatta dormendo, appoggiati ad una sedia, o sdraiati sul letto; non una preghiera fatta vestendosi o spogliandosi o camminando; non una preghiera fatta accendendo il fuoco, sgridando i figli ed i servi; non una preghiera fatta girando tra le mani il cappello od il berretto; non una preghiera fatta baciando i figli, od accomodando il fazzoletto od il grembiule; non una preghiera fatta colla mente attenta a cose estranee; non una preghiera fatta a precipizio come una cosa che ci annoia, e della quale non vediamo che il momento di liberarci; tutto questo non è più una preghiera, ma un insulto che facciamo a Dio. Lungi dal trovarvi i mezzi per garantirci dalla caduta nel peccato, questa preghiera stessa ci è un argomento di caduta; perché invece di attingere un nuovo grado di grazia, Dio ci ritira quella che ci aveva già data, per punire il disprezzo che noi facciamo della sua augusta presenza. Invece d’indebolire i nostri nemici li rendiamo più forti; invece di strappar ad essi le armi che avevano per combatterci ne procuriamo loro di nuove; invece di mitigare la giustizia di Dio, l’irritiamo sempre più! Ecco, F. M., il profitto che abbiamo dalle nostre preghiere. Ma la preghiera di cui vi parlo, preghiera che è sì potente presso Dio, che attira su noi tante grazie, che sembra quasi legare la volontà di Dio, che sembra, per così dire, obbligarlo ad accordarci ciò che gli domandiamo, è una preghiera fatta in una specie di diffidenza e di speranza. Diffidenza, considerando la la nostra indegnità ed il disprezzo che abbiamo fatto di Dio e delle sue grazie, riconoscendoci indegni di comparire davanti a Lui e di osare domandar grazia, noi che tante volte l’abbiamo già ricevuta, e l’abbiamo sempre contraccambiato con ingratitudini, il che deve condurci in ogni momento della nostra vita, a credere che la terra s’aprirà sotto i nostri piedi, che tutti i fulmini del cielo sono pronti a colpirci, e che tutte le creature gridano vendetta in vista degli oltraggi da noi arrecati al loro Creatore; perciò tremanti davanti a Lui aspettiamo se Dio lancerà la sua folgore per annientarci, o se vorrà perdonarci ancora una volta. Col cuore spezzato dal rimorso d’aver offeso un Dio sì buono, lasciamo scorrere le nostre lagrime di pentimento e di riconoscenza: il nostro cuore ed il nostro spirito sono compresi dell’umiltà del nostro nulla, e della grandezza di Colui che abbiamo offeso e che ci lascia ancora la speranza del perdono. Lungi dal considerare il tempo della preghiera come un momento perduto, lo consideriamo come il più felice ed il più prezioso della nostra vita, perché un Cristiano peccatore, non deve avere in questo mondo altra occupazione che quella di piangere ai piedi del suo Dio. Lungi dall’occuparsi anzitutto dei suoi affari temporali, e di preferirli a quelli della sua salute, li considera come inezie, anzi ostacoli alla propria salvezza, e non ha per essi che quelle cure ed attenzioni che Dio gli comanda, convinto che se non li compie lui vi penseranno altri; ma che, se non ha la fortuna di ottenere la grazia e di rendersi Dio favorevole, tutto è perduto per lui, e nessuno vi penserà per lui. Non abbandona la preghiera che a gran pena; i momenti in cui si trova alla presenza di Dio, sono un nulla, o meglio passano come un lampo ; se il suo corpo lascia la presenza di Dio, il suo cuore ed il suo spirito sono fissi in lui. Durante la preghiera non pensa più al lavoro, né a sedersi, né a coricarsi… Un Cristiano deve essere tra la diffidenza e la speranza. La speranza, cioè ricordando la grandezza della misericordia di Dio, il desiderio ch’egli ha di renderci felici, e ciò che ha fatto per renderci degni del cielo. Animati da un pensiero sì consolante ci indirizzeremo a Lui con grande confidenza, e diremo con san Bernardo: “Dio mio, quello che vi domando non l’ho meritato, ma voi l’avete meritato per me. Se m’esaudite, è solo perché voi siete buono e misericordioso. „ Con questi sentimenti che fa un Cristiano? Eccolo. Penetrato dalla più viva riconoscenza, prende la ferma risoluzione di non più oltraggiare il suo Dio, che gli ha accordata la grazia. Ecco, F. M., la preghiera di cui vi voglio parlare, e che ci è assolutamente necessaria per ottenere il perdono dei nostri peccati ed il prezioso dono della perseveranza.

IV. — In quarto luogo per aver la fortuna di conservare la grazia di Dio dobbiamo aggiungere la frequenza dei Sacramenti. Un Cristiano che usa santamente della preghiera e dei Sacramenti, è così terribile pel demonio come un soldato sul suo cavallo, cogli occhi fulminei, armato di corazza, sciabola e pistola, davanti al nemico disarmato la sua sola presenza lo spaventa e lo mette  n fuga. Ma se scende dal cavallo ed abbandona le sue armi; subito il suo nemico gli si getta addosso, lo schiaccia sotto i piedi e se ne rende padrone; mentre, quand’era armato, la sua sola presenza sembrava annientarlo. Vera immagine questa d’un Cristiano munito delle armi della preghiera e dei Sacramenti. No, no, un Cristiano che prega, e che colle disposizioni necessarie frequenta i Sacramenti è più terribile pel demonio che quel soldato di cui v’ho parlato. Che cos’era che rendeva S. Antonio sì terribile alle potenze dell’inferno se non la preghiera? Ascoltate il linguaggio che gli teneva un giorno il demonio, chiedendogli perché lo faceva tanto soffrire, egli che era il suo più crudele nemico. “Ah! quanto siete dappoco; gli disse S. Antonio, io che non sono che un povero solitario, che non posso tenermi in piedi, con un solo segno di croce vi metto in fuga. „ Considerate ancora ciò che disse il demonio a S. Teresa, egli che per il grande amore di lei per Iddio e la frequenza dei Sacramenti, non poteva nemmeno respirare dov’ella era passata. Perché? Perché i Sacramenti ci danno tanta forza per perseverare nella grazia di Dio, che non s’è mai visto un santo allontanarsi dai Sacramenti e perseverare nell’amicizia del Signore; nei Sacramenti essi hanno trovato la forza per non lasciarsi vincere dal demonio: eccone la ragione. Quando! preghiamo, Dio ci dà degli amici, ci manda or un santo od un angelo per consolarci; come fece con Agar, la serva di Abramo, (Gen. XXI, 17), col casto Giuseppe quand’era in prigione; e così con S. Pietro… ; ci fa sentire con più abbondanza! le sue grazie per fortificarci ed incoraggiarci. Ma nei Sacramenti, non è un santo od un Angelo, è Lui stesso che viene colle sue folgori! per annientare il nostro nemico. Il demonio, vedendolo nel nostro cuore, si precipita come un disperato negli abissi; ecco precisamente perché il demonio fa ogni possibile per allontanarcene e farceli profanare. Sì, F. M., dal quando una persona frequenta i Sacramenti, il demonio perde tutta la sua potenza. Però bisogna distinguere: sono terribili al demonio quelli che frequentano i Sacramenti colle necessarie disposizioni, che hanno veramente in orrore il peccato, e che usano tutti i mezzi che Iddio ci dà per non più ricadervi ed approfittare delle grazie ch’Egli ci fa. Non voglio parlarvi di quelli che oggi si confessano e domani ricadono nel loro peccato; non voglio parlarvi di quelli che s’accusano dei loro peccati con poco rimorso e pentimento, come se narrassero una storia dilettevole; né di quelli che non hanno disposizioni o quasi, che vengono a confessarsi forse senza fare l’esame di coscienza, e che dicono quello che capita loro in mente; s’accostano alla sacra Mensa senza avere scrutato i nascondigli del proprio cuore, senza aver domandato la grazia di conoscere i propri peccati e di sentirne il dolore, e senza aver presa alcuna risoluzione di non più peccare. No, no, questi non lavorano che alla loro rovina. Invece di combattere contro il demonio, essi si mettono dalla sua parte e si gettano da sé nell’inferno. No, no, non è di costoro che voglio parlarvi. Se tutti quelli che frequentano i Sacramenti fossero ben disposti, quantunque il numero ne sia piccolo, pure vi sarebbero assai più eletti che non vi siano. Ma parlo di quelli che si allontanano o dal tribunale di penitenza, o dalla sacra Mensa, per comparire con grande confidenza davanti al tribunale di Dio, senza timore d’esser condannati per le mancanze di preparazione nelle loro confessioni o comunioni. Dio mio! quantunque siano rari, quanti Cristiani si sono perduti!

V. — In quinto luogo per avere la somma ventura di conservare la grazia che abbiamo ricevuta nel sacramento della Penitenza, dobbiamo praticare la mortificazione: è la via che hanno tenuto tutti isanti. O castigate questo corpo di peccato, o presto cadrete. Vedete il santo re Davide, per domandare a Dio la grazia di perseverare, mortificò il suo corpo per tutta la sua vita. Vedete S. Paolo che vidice ch’egli trascinava il suo corpo come un cavallo. Innanzi tutto non dobbiamo mai lasciar passare un pasto senza privarci di qualche cosa, affinché possiamo in fine di ogni pasto offrire a Dio qualche privazione. Riguardo al sonno, di quando in quando, diminuiamolo un po’. Nella nostra fretta di parlare quando abbiamo qualche cosa da dire, priviamocene per il buon Dio. Ebbene, F. M., chi sono quelli che prendono tutte queste precauzioni di cui vi ho mostrato l’importanza? Dove sono? Ahimè! non ne so niente! Quanto sono rari! e quanto ne è piccolo il numero! Ma, e dove sono quelli che avendo ricevuto il perdono dei loro peccati, perseverano nello stato fortunato in cui li ha messi la penitenza? Ahimè! Dio mio, e dove bisogna cercarli? Tra quelli che mi ascoltano vi sono dei Cristiani tanto fortunati? Ahimè! non ne so nulla. Che dobbiamo dunque concludere, F. M. Ecco. Se ricadiamo, come prima, quando occasioni ci si presentano, è perché nonprendiamo migliori risoluzioni, non aumentiamo le nostre penitenze, e non raddoppiamo le nostre preghiere e le nostre mortificazioni. Tremiamo per le nostre confessioni, che all’ora della nostra morte non abbiamo a trovare che dei sacrilegi, e per conseguenza, la nostra rovina per tutta l’eternità. Felici, mille volte felici, quelli che persevereranno fino alla fine, poiché il cielo è per essi!…

DOMENICA PRIMA DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA PRIMA DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA IN ALBIS o OTTAVA DI PASQUA.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pancrazio.

Privilegiata di 1 classe. – Doppio maggiore. – Paramenti bianchi.

Questa Domenica è detta Quasimodo (dalle prime parole dell’Introito) o in Albis (anticamente anche post Albas), perché i neofiti avevano appena la sera precedente deposte le vesti bianche, oppure anche Pasqua chiusa, poiché in questo giorno termina l’ottava di Pasqua (Or.). Per insegnare ai neofiti (Intr.) con quale generosità debbano rendere testimonianza a Gesù, la Chiesa li conduceva alla Basilica di S. Pancrazio, che all’età di quattordici anni rese a Gesù Cristo la testimonianza dei sangue. Così devono fare i battezzati davanti alla persecuzione a colpi di spillo cui sono continuamente fatti segno; devono cioè resistere, appoggiandosi sulla fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, risorto. In questa fede, dice S. Giovanni, vinciamo il mondo, poiché per essa resistiamo a tutti i tentativi di farci cadere (Ep.). È quindi di somma importanza che questa fede abbia una solida base e la Chiesa ce la dà nella Messa di questo giorno. Base di questa fede è, secondo quanto dice S. Giovanni nell’Epistola, la testimonianza del Padre, che, al Battesimo del Cristo (acqua), lo ha proclamato Suo Figliuolo, del Figlio che sulla croce (sangue) si è rivelato Figlio di Dio, dello Spirito Santo che, scendendo sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste, secondo la promessa di Gesù, ha confermato quello che il Redentore aveva detto della propria risurrezione e della propria divinità. Nel Vangelo vediamo infatti come Gesù Cristo, apparendo due volte nel Cenacolo, dissipa l’incredulità di San Tommaso e loda quelli che han creduto in Lui senza averlo veduto.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

1 Pet II, 2. Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.

[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia,]

Ps LXXX: 2. Exsultáte Deo, adjutóri nostro: jubiláte Deo Jacob. [Inneggiate a Dio nostro aiuto; acclamate il Dio di Giacobbe.]

– Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.

[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia.]

Oratio

Orémus.

Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui paschália festa perégimus, hæc, te largiénte, móribus et vita teneámus.

[Concedi, Dio onnipotente, che, terminate le feste pasquali, noi, con la tua grazia, ne conserviamo il frutto nella vita e nella condotta.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joannis Apóstoli. – 1 Giov. V: 4-10.

“Caríssimi: Omne, quod natum est ex Deo, vincit mundum: et hæc est victoria, quæ vincit mundum, fides nostra. Quis est, qui vincit mundum, nisi qui credit, quóniam Jesus est Fílius Dei? Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine. Et Spíritus est, qui testificátur, quóniam Christus est véritas. Quóniam tres sunt, qui testimónium dant in coelo: Pater, Verbum, et Spíritus Sanctus: et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, et aqua, et sanguis: et hi tres unum sunt. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est: quóniam hoc est testimónium Dei, quod majus est: quóniam testificátus est de Fílio suo. Qui credit in Fílium Dei, habet testimónium Dei in se”.  – Deo gratias.

“Carissimi: Tutto quello che è nato da Dio vince il mondo: e questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non colui che crede che, Gesù Cristo è figlio di Dio? Questi è Colui che è venuto coll’acqua e col sangue, Gesù Cristo: non con l’acqua solamente, ma con l’acqua e col sangue. E lo Spirito è quello che attesta che Cristo è verità. Poiché sono tre che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo: e questi tre sono una cosa sola. E sono tre che rendono testimonianza in terra: lo spirito, l’acqua e il sangue: e questi tre sono una cosa sola. Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore. Ora, la testimonianza di Dio che è maggiore è questa, che egli ha reso al Figlio suo. Chi crede al Figlio di Dio, ha in sé la testimonianza di Dio” (1 Giov. V, 4-10).

Il Vangelo ci presenta la storia come una grande lotta del bene contro il male, della verità contro l’errore, e viceversa. A chi la vittoria? Ai figli di Dio, risponde la Epistola di quest’oggi, dovuta a San Giovanni, l’autore del quarto Vangelo. L’insieme delle forze del male, le negative forze dell’errore, delle tenebre e del gelo, ha un nome classico: si chiama il mondo; l’antitesi, l’antagonista di Dio, l’anti-Dio. Un anti-Dio in carne ed ossa, realissimo a suo modo, d’una realtà empirica e grossolana. Gente che c’è, che parla, che si agita, che si dà delle grandi arie e del gran daffare, che assume volentieri pose trionfatrici. Apparenza e menzogna nota, proclama l’Apostolo. La Vittoria non è del mondo, il mondo è l’eterno sconfitto. Vince Dio e chi nasce da Dio: i figli di Dio. Un altro termine prediletto del quarto Vangelo, che qui riappare: i nati di Dio. E chi è che nasce da Dio? A chi è perciò riservata la vittoria? Potremmo adoperare una frase del quarto Vangelo: « Hi qui credunt in nomine eius: » i credenti in Lui. C’è la frase precisa anch’essa nella nostra Epistola: « gli uomini di fede ». La Vittoria che vince, abbatte, schiaccia il mondo, è la nostra fede: « Hæc est Victoria quæ vincit mundum, fides nostra! – La nostra fede! Fede, badate, non credulità. C’è l’abisso fra le due cose, per quanto molti le scambino. La credulità è una debolezza di mente. Il credenzone è un vinto, vinto dalle illusioni a cui (stolto!) egli dà una consistenza che non hanno. Perché anche senza essere credenzoni o troppo creduli, si può avere una fede non, davvero religiosa o punto religiosa. Si può aver fede in un uomo; si può aver fede in un’idea, non divina. La fede di cui parla il Vangelo è sempre e sola fede religiosa, sanamente, profondamente religiosa: la fede, grazie alla quale noi siamo i figli di Dio, è qualcosa che viene da Lui e va a Lui. Fede buona nella Bontà; una fede, certezza immota, assoluta, profonda. – Il mondo non ha questa fede. Il mondo è scettico. Ha della fede, non la fede; degli idoli; non Iddio, il mondo. Non crede nella bontà amorosa e trionfatrice. Crede alle passioni, non alla ragionevolezza. Crede ai ciarlatani, non agli Apostoli. Crede all’astuzia, non alla verità. Noi siamo invece uomini di fede, gli uomini della fede, noi Cristiani. Noi crediamo alla carità, alla bontà di Dio, della Realtà più profonda, più vera, più alta: Dio! È la formula che adopera per altre volte lo stesso Apostolo: « nos credidimus charitati. » Sono tutte formule che si equivalgono: siamo figli di Dio, crediamo nel Suo nome, abbiamo fede nella Sua bontà. Questa fede è la nostra forza. Chi crede davvero alla Bontà sovrana, dominatrice, divina, è buono; comincia dall’essere o per essere buono. Egli stesso combatte, lotta per bontà, lotta fiduciosamente, colla fiducia della vittoria. Perché sa di essere dalla parte di Dio e di avere Iddio dalla parte propria. « Si Deus prò nobis quies contra nos? » Credere alla vittoria è il segreto per conseguirla. E infatti nella storia, chi l’abbracci nel suo meraviglioso complesso, trionfa la bontà, trionfa Dio. Lo scettico ha dei trionfi apparenti e momentanei… ì minuti. La fede ha per sé i secoli: trionfa con infinito stupore di chi credeva superbamente di aver potuto costruire un edificio sulla mobile arena dello scetticismo. Teniamo alta come segnacolo di vittoria la bandiera della nostra fede.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Alleluja

Alleluia, alleluia – Matt XXVIII: 7. In die resurrectiónis meæ, dicit Dóminus, præcédam vos in Galilæam.

[Il giorno della mia risurrezione, dice il Signore, mi seguirete in Galilea.]

Joannes XX:26. Post dies octo, jánuis clausis, stetit Jesus in médio discipulórum suórum, et dixit: Pax vobis. Allelúja.

[Otto giorni dopo, a porte chiuse, Gesù si fece vedere in mezzo ai suoi discepoli, e disse: pace a voi.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XX: 19-31.

“In illo témpore: Cum sero esset die illo, una sabbatórum, et fores essent clausæ, ubi erant discípuli congregáti propter metum Judæórum: venit Jesus, et stetit in médio, et dixit eis: Pax vobis. Et cum hoc dixísset, osténdit eis manus et latus. Gavísi sunt ergo discípuli, viso Dómino. Dixit ergo eis íterum: Pax vobis. Sicut misit me Pater, et ego mitto vos. Hæc cum dixísset, insufflávit, et dixit eis: Accípite Spíritum Sanctum: quorum remiseritis peccáta, remittúntur eis; et quorum retinuéritis, reténta sunt. Thomas autem unus ex duódecim, qui dícitur Dídymus, non erat cum eis, quando venit Jesus. Dixérunt ergo ei alii discípuli: Vídimus Dóminum. Ille autem dixit eis: Nisi vídero in mánibus ejus fixúram clavórum, et mittam dígitum meum in locum clavórum, et mittam manum meam in latus ejus, non credam. Et post dies octo, íterum erant discípuli ejus intus, et Thomas cum eis. Venit Jesus, jánuis clausis, et stetit in médio, et dixit: Pax vobis. Deinde dicit Thomæ: Infer dígitum tuum huc et vide manus meas, et affer manum tuam et mitte in latus meum: et noli esse incrédulus, sed fidélis. Respóndit Thomas et dixit ei: Dóminus meus et Deus meus. Dixit ei Jesus: Quia vidísti me, Thoma, credidísti: beáti, qui non vidérunt, et credidérunt. Multa quidem et alia signa fecit Jesus in conspéctu discipulórum suórum, quæ non sunt scripta in libro hoc. Hæc autem scripta sunt, ut credátis, quia Jesus est Christus, Fílius Dei: et ut credéntes vitam habeátis in nómine ejus.” – 

 “In quel tempo giunta la sera di quel giorno, il primo della settimana, ed essendo chiuse le porte, dove erano congregati i discepoli per paura de’ Giudei, venne Gesù, e si stette in mezzo, e disse loro: Pace a voi. E detto questo, mostrò loro le sue mani e il costato. Si rallegrarono pertanto i discepoli al vedere il Signore. Disse loro di nuovo Gesù: Pace a voi: come mandò me il Padre, anch’io mando voi. E detto questo, soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saran rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saran ritenuti a chi li riterrete. Ma Tommaso, uno dei dodici, soprannominato Didimo, non si trovò con essi al venire di Gesù. Gli dissero però gli altri discepoli: Abbiam veduto il Signore. Ma egli disse loro: se non veggo nelle mani di lui la fessura de’ chiodi, e non metto il mio dito nel luogo de’ chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo. Otto giorni dopo, di nuovo erano i discepoli in casa, e Tommaso con essi. Viene Gesù, essendo chiuse le porte, e si pose in mezzo, o disse loro: Pace a voi. Quindi dice a Tommaso: Metti qua il dito, e osserva le mani mie, e accosta la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma fedele. Rispose Tommaso, e dissegli: Signor mio, o Dio mio. Gli disse Gesù: Perché  hai veduto, o Tommaso, hai creduto: beati coloro che non hanno veduto, e hanno creduto. Vi sono anche molti altri segni fatti da Gesù in presenza de’ suoi discepoli, che non sono registrati in questo libro. Questi poi sono stati registrati, affinché crediate che Gesù ò il Cristo Figliuolo di Dio, ed affinché credendo otteniate la vita nel nome di Lui” (Jov. XX, 19-31). »

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla Confessione pasquale.

“Erat autem proximum

Pascha, dies festus Judæorum”.

(JOAN. VI, 4).

Sì, Fratelli miei, ecco giunto e trascorso questo tempo fortunato in cui tanti Cristiani hanno abbandonato il peccato, ed hanno strappate le loro povere anime dagli artigli del demonio per rimettersi sotto l’amabile giogo del Salvatore. Ah! avesse Iddio voluto che fossimo nati nel bel tempo dei primitivi Cristiani, che con santa allegrezza vedevano giungere questo momento! O giorno beato! Giorno di salute e di grazia, che cosa sei diventato ora? Dove sono quelle gioie sante e celesti che formano la felicità dei figli di Dio? Sì, M. F., questo tempo di grazia riuscirà a noi di vantaggio o di danno: sarà la causa della nostra felicità, se corrispondiamo alle grazie che ci vengono prodigate in questo prezioso momento; oppure sarà la nostra perdita, se non ne approfittiamo o ne abusiamo. — Ma, mi direte, che vuol dire questa parola Pasqua? — Non lo sapete? Ebbene! Ascoltate e lo saprete. Pasqua significa passaggio, cioè il passaggio dalla morte del peccato alla vita della grazia. Vedrete poi se le vostre Pasque sono buone, e se potete star tranquilli, massime voi, brava gente, che vi accontentate di adempiere il precetto della Chiesa, cioè di fare una sola confessione e comunione per Pasqua.

I. — Perché, F. M., la Chiesa ha stabilito il santo tempo della Quaresima? — Per prepararci a degnamente celebrare la santa Pasqua, mi rispondete; la Pasqua è il tempo in cui Dio sembra raddoppiare le sue grazie, ed eccitare i rimorsi delle nostre coscienze per farci uscire dal peccato. — Va benissimo, è ciò che vi insegna il Catechismo; ma se domandassi ad un fanciullo, qual è il peccato di coloro che non fanno Pasqua? mi risponderebbe semplicemente che è un grave peccato mortale; e se gli chiedessi: Quanti peccati mortali bastano per andare all’inferno? Mi soggiungerebbe: Basta un solo; se si muore senza averne ottenuto il perdono. Ebbene! che ne dite? Non avete fatto Pasqua? — No! mi rispondete. — Ma, poiché non avete fatto Pasqua, ed il non farla è un peccato mortale, dunque vi dannerete. Che ne pensate? Ciò non v’importa nulla? — Ah! avete ragione, dite tra voi, ma se io son dannato, non sarò solo. — Evvia! se ciò non v’importa, se v’è indifferente il salvarvi ed il perdervi, bisognerà proprio che vi consoliate, sperando che nella vostra disgrazia non sarete solo; e perciò non vi importuno più a lungo. Povera anima! che ne dite del linguaggio che tiene questo vostro corpo di peccato in cui avete la disgrazia di abitare? Oh! quante lagrime spargerete per tutta l’eternità! Oh! quanti lamenti! Oh! quanti urli manderete, là in mezzo alle fiamme senza speranza di uscirne! Oh! quanto siete disgraziata d’essere tanto costata a Gesù Cristo e d’essere da Lui separata per sempre! Perché, F. M., non avete fatto Pasqua? — Perché non l’ho voluto, mi direte. — Ma se morite in questo stato vi dannerete. — Tanto peggio! — Ebbene! ditemi, credete d’aver un’anima? — Ah! so bene che ho un’anima. — Ma, forse, credete che dopo la morte tutto sarà finito? — Ah! pensate tra voi: so che la nostra anima sarà felice od infelice, secondoché avrà fatto bene o male. — E che cosa può renderla infelice? — Il peccato, mi direte. — Vi sentite colpevole di peccato, dunque concludo che siete dannato. Non è vero, amico? Siete venuto una volta o due a confessarvi; ma siete sempre stato lo stesso. Perché? Perché non avete voluto correggervi, e vi è indifferente tanto il vivere nel peccato e dannarvi, quanto l’abbandonarlo per salvarvi. Volete dannarvi? Ebbene! non inquietatevi, lo sarete. — Non è vero, sorella mia, che avete lasciato passare Pasqua senza confessarvi? avete vissuto la Quaresima e la Pasqua, in peccato; e perché? Eccone la ragione: perché non avete più religione, avete perduta la fede, non pensate che a divertirvi un poco nel mondo, aspettando di esser gettata tra le fiamme. Vi vedremo, sorella mia, sì, un giorno vi vedremo; vedremo le vostre lagrime, la vostra disperazione; vi riconoscerò, almeno, lo credo; voi vi sarete dannata e ne eravate padrona. Ma tiriamo un velo; lasciamo nascoste nelle tenebre tutte queste sozzure fino al giorno del giudizio. Esaminiamo ora qual è la confessione e la comunione di coloro che si accontentano di accostarvisi una volta all’anno, e vedremo se essi possono esser tranquilli o no. Se per fare una buona confessione, bastasse domandar perdono a Dio, accusare i propri peccati e far qualche penitenza, il peccato, che la religione ci dipinge come una mostruosità, non avrebbe nulla di spaventevole; nulla sarebbe più facile che riparare la perdita della grazia di Dio e seguire la via che conduce al cielo, la quale invece, secondo Gesù Cristo stesso, è così difficile. Sentite ciò che Egli disse ad un giovane che gli domandava se sarebbero stati molti gli eletti, e se la via che conduce al cielo è difficile a seguirsi: Oh! come è stretta questa via! Quanto pochi sono quelli che la seguono! Oh! come sono pochi coloro che la cominciano e giungono alla fine (Matt. VII, 14)! Infatti, F. M., dopo aver vissuto per un anno intero senza fastidi, senza noie, non occupandovi che dei vostri affari temporali, delle vostre ricchezze od anche dei vostri piaceri, senza darvi pensiero di correggervi, né di lavorare per acquistare le virtù che vi mancano; verrete solo nella quindicina di Pasqua, più tardi che potrete, a raccontare i vostri peccati, come narrereste una storia: leggerete in un libro qualche preghiera, o ne farete qualche altra per un certo tempo. E con questo, tutto sarà fatto, e seguirete la vostra vita ordinaria; farete ciò che avete sempre fatto, vivrete come il solito; siete stati veduti ai giuochi e nelle osterie e vi ci si rivedrà: siete stato trovato nei balli e nei festini e vi sarete ritrovato: e così si dica del resto. Alla prossima Pasqua vi ripentirete della stessa cosa. E continuerete così fino alla morte: cioè il sacramento della Penitenza, in cui Dio sembra dimenticare la sua giustizia per non manifestare che la sua misericordia, non sarà più per voi che un gioco od un passatempo! Capite benissimo, che se nelle vostre confessioni non vi è nulla di meglio, potete giustamente concludere che esse non valgono nulla, per non dir di peggio.

II. — Ma per meglio convincervi, esaminiamo la cosa più davvicino. Per fare una buona confessione che possa riconciliarci con Dio, dobbiamo detestare i nostri peccati con tutto il nostro cuore; non perché siamo obbligati a dire al prete cose che vorremmo poter nascondere a noi stessi; ma bisogna pentirsi d’aver offeso un Dio così buono, d’esser restati sì lungo tempo nel peccato, d’aver disprezzato tutte le grazie colle quali ci sollecitava ad uscirne. Ecco, F. M., ciò che deve fare scorrere le nostre lagrime e spezzare il nostro cuore. Ditemi, se aveste questo vero dolore, non vi affrettereste a riparare il male che ne è la causa e a mettervi subito in grazia di Dio? Che direste di un uomo che guastatosi ingiustamente col suo amico e che poi, riconoscendo il suo torto se ne pente e non cerea il modo di riconciliarsi? Se l’amico suo fa qualche passo in proposito, non approfitterà egli dell’occasione? Ma se invece, non facesse conto di tutto ciò, non avreste ragione di dire che gli è indifferente d’essere in buona o cattiva relazione con quella persona? Il paragone è giusto. Chi ha la disgrazia di cadere nel peccato, o per debolezza od inavvertenza od anche per malizia, se ne ha un vero dolore, potrà restare lungamente in questo stato? Non ricorrerà subito al sacramento della Penitenza? Ma, se resta un anno nel peccato e vede con fastidio avvicinarsi il tempo della Pasqua, perché bisogna confessarsi; se, invece di presentarsi in principio di Quaresima al tribunale di Penitenza, per aver qualche tempo in cui potersi mortificare e non passare subito dal peccato alla sacra Mensa; se non vuol sentire parlare che a Pasqua della confessione, che cerca di ritardare per quanto gli è possibile presentandosi poi colle disposizioni di un condannato che vien condotto al supplizio; che cosa significa tutto questo? Eccovelo, che se la Pasqua fosse prolungata fino a Pentecoste, voi non vi confessereste che a Pentecoste: o se non venisse che ogni dieci anni, non vi confessereste che ogni dieci anni; e finalmente, se la Chiesa non ve lo comandasse, vi confessereste soltanto all’ora della morte. Che ne dite? Non è vero, che non è né il rimorso d’aver offeso Dio ciò che vi fa confessare; né l’amor di Dio, ciò che vi fa fare la Pasqua? — Ah! mi soggiungerete, è già qualche cosa, fare la S. Pasqua; e poi noi non la facciamo senza sapere il perché. — Ah! voi non sapete nulla; fate Pasqua per abitudine, per dire che l’avete fatta e, se voleste dire la verità, direste che ai vostri antichi peccati ne avete aggiunto uno nuovo. Non è dunque l’amor di Dio, né il rimorso di averlo offeso, che vi fa confessare e fare la Pasqua, e nemmeno il desiderio di condurre una vita più cristiana. Eccone la prova: se amaste il buon Dio, potreste acconsentire a commettere il peccato con tanta facilità, anzi con tanto piacere? Se aveste orrore del peccato, come dovreste averlo, potreste conservarlo per un anno intero sulla coscienza? Se aveste un vero desiderio di condurre una vita più cristiana, non si vedrebbe almeno qualche piccolo cambiamento nel vostro modo di vivere? No, M. F., non voglio parlarvi oggi di quei disgraziati, i quali non accusano che a metà i loro peccati per timore di non poter fare la Pasqua o d’essere rimandati; o forse per coprire col velo della virtù la loro vita vergognosa; e che, in questo stato s’avvicinano alla sacra Mensa e consumano la loro riprovazione, abbandonano il loro Dio al demonio, per esalare la loro anima dannata nell’inferno. No, voglio sperare che questo non vi riguardi; ma pure continuerò a dirvi che le vostre confessioni annuali non hanno nulla che possa tranquillizzare. — Ma, mi direte, che cosa bisogna fare perché la confessione sia buona? — Se volete saperlo, eccovelo: ascoltate bene, e vedrete se potete star sicuri. Affinché la vostra confessione meriti il perdono, bisogna ch’essa sia umile e sincera, accompagnata da un vero dolore causato dal rimorso d’aver offeso Dio, e non per i castighi che merita il peccato, ed un fermo proposito di non più peccare per l’avvenire. Ciò premesso, dico che è ben difficile che tutte queste disposizioni si trovino in coloro che non si confessano che una volta all’anno: lo vedrete. Cos’è un cristiano ai piedi del prete, al quale fa la confessione dei suoi peccati? È un peccatore che viene col dolore nel cuore, e si getta ai piedi del suo Dio come un reo davanti al giudice, per accusarsi lui stesso e domandare la grazia. Come s’accuserà? Ecco: Io sono un colpevole indegno del nome di figlio: ho vissuto finora in un modo tutto opposto a ciò che mi comandava la mia religione; non ho avuto che disgusto per ciò che si riferisce al servizio di Dio; i santi giorni della domenica e quelli di festa non sono stati per me che giorni di piaceri e di gozzoviglie; o, per dir meglio, non ho fatto nulla di bene fino ad ora; sono perduto e dannato se Dio non ha pietà di me. Ecco, F. M., i sentimenti di un Cristiano che ha in orrore il peccato. Ma, ditemi, si accusano così quelli che trovano non essere abbastanza il restare dodici mesi nel peccato, e trovano che le Pasque si avvicinano troppo veloci? Ahimè! Dio mio! voi vedete le confessioni annue che fanno questi poveri disgraziati, e vedete che le fanno con una noia mortale. Oh! no, no, costui, non è più un reo, coperto di vergogna e penetrato di dolore d’aver offeso Dio, che s’umilia, s’accusa lui stesso, e domanda un perdono di cui si riconosce infinitamente indegno: ma ahimè! oserò dirlo? è un uomo che sembra raccontare una storia, e la racconta male, cerca di mascherarsi e di comparire colpevole il meno che può. Ascoltatelo: non è lui che ha commesso quel peccato d’impurità, è un altro che ve l’ha sollecitato, come se non fosse stato padrone di non seguire quel consigliere. Non è lui che s’è incollerito: è colpa del suo vicino che gli ha detto una parola pungente. Ha mancato alla Messa, sì, ma la compagnia ne fu la causa. Una volta mangiò di grasso in un giorno proibito; se non vi fosse stato spinto non l’avrebbe fatto. Egli ha parlato male, ma fu quello ch’era vicino a lui che l’ha fatto peccare. Diciamo meglio: il marito accusa la moglie, la moglie accusa il marito; il fratello la sorella e la sorella il fratello; il padrone il servo ed il servo cerca, per quanto può, di scaricarsi sul suo padrone. Dicendo il Confiteor, accusano se stessi, dicendo: E mia colpa: due minuti dopo si scusano ed accusano gli altri. Niente umiltà, niente sincerità, niente dolore: ecco le disposizioni di quelli che non si confessano che una volta all’anno. Un parroco dal modo con cui s’accusano, s’accorgerà ch’essi non hanno affatto le disposizioni necessarie per ricevere l’assoluzione. Se dà loro un po’ di tempo per non far loro commettere un sacrilegio, che cosa fanno essi? Ascoltateli: mormorano dicendo che non hanno il tempo di ritornare e che un’altra volta non saranno meglio disposti; e finiscono col dirvi che se non si vuol riceverli, andranno da un altro, che non sarà così scrupoloso, e che li assolverà… Come se Dio non potesse vivere senza di essi! Poveri ciechi!… Vedete da questo quali siano le loro disposizioni. Il sacerdote, dal modo con cui s’accusano, vede ch’essi non dicono tutto; è obbligato di far loro mille domande; essi non dicono né il numero, né le circostanze che cambiano la specie. Vi sono certi peccati ch’essi non vorrebbero dire e neppur nascondere. Che fanno? Li dicono per metà, come se il prete potesse sapere ciò che avviene nel loro cuore. Si accontentano di raccontare in blocco i peccati, senza nemmeno distinguerne i pensieri dai desideri. Il sacerdote chiederà: Non avete mai avuto pensieri di superbia, di vanità, di vendetta o d’impurità? Sapete che quando ci si fermiamo su volontariamente essi sono peccato. Avete commesso qualcheduna di queste mancanze? — Può darsi, risponderà, ma non me ne ricordo. — Ma bisogna dire approssimativamente il numero, altrimenti le confessioni non valgono nulla. — Ah! reverendo, come volete che mi ricordi di tutti i pensieri che ho avuti in un anno? ciò m’è impossibile. — Ah! Dio mio, che confessioni, o piuttosto che sacrilegi! … E neppure, F. M., si occupano delle circostanze che aggravano il peccato e che possono renderlo mortale. Ascoltate come si confessano: mi sono ubbriacato, ho calunniato il mio prossimo, ho peccato contro la santa virtù della purità, ho altercato, mi sono vendicato; e se il confessore non fa domande, basta. — Ma, gli dirà il confessore, quante volte avete fatto questo? Avete commesso di questi peccati in chiesa? Era un giorno di domenica? L’avete fatto in presenza dei vostri figli, dei vostri servi? V’era molta gente? L’onore del vostro prossimo ha sofferto qualche danno? Questi pensieri di superbia vi sono venuti in chiesa, durante la santa Messa? Vi ci siete fermati su per molto tempo? Questi pensieri, contrari alla santa virtù della purità, sono stati accompagnati da cattivi desideri? Quest’altro peccato è stato per inavvertenza o per malizia? Non avete aggiunto peccato a peccato, pensando che vi costerebbe lo stesso confessarvi di molti come di pochi? Vi sono di quelli che escludono affatto il dovere di farvi alcun dettaglio dei loro peccati e vi dicono francamente che essi non hanno nulla da rimproverarsi, che non hanno tempo, che bisogna che se ne vadano. Non avete tempo, ebbene! andatevene. Andare o restare per voi è la stessa cosa. Dio mio! che disposizioni! Dio mio! Sono questi peccatori che vengono a piangere i loro peccati? Bisogna però convenire che vi sono alcuni i quali fanno il possibile per ben esaminarsi, e che dicono i loro peccati meglio che possono; ma con tale indifferenza, freddezza ed insensibilità che strazia il cuore d’un povero sacerdote. Non sospiri, non gemiti, non lagrime! non un segno che annunci il dolore dei loro peccati. Bisogna che il prete, per dar loro l’assoluzione, sia persuaso che essi hanno migliori disposizioni di quelle che mostrano. So bene che le lacrime ed i sospiri non sono segni infallibili di conversione né di contrizione. Succede troppo spesso che quelli che piangono non sono per questo più Cristiani degli altri. Ma è pure cosa impressionante sentir raccontare con tanta freddezza ed indifferenza ciò che deve necessariamente attristarci ed eccitare le nostre lagrime. Se un reo fosse sicuro che, confessando i suoi delitti, riceverà la grazia; vi lascio immaginare se potrebbe manifestarli senza lagrime, nella speranza di commuovere il cuore del giudice e meritarsi il perdono. Osservate un ammalato quando scopre le sue piaghe al medico; udite i suoi sospiri e vedete le sue lagrime. Vedete un amico che vi racconta le sue pene: i suoi atti, il tono della sua voce, il suo modo d’esprimersi, tutto in luì vi rivela il suo affanno ed il suo dolore. Perché, F. M., nulla appare di tutto questo, quando confessiamo i nostri peccati? Non lo sapete? Ebbene! ve l’insegnerò: il vostro cuore non è più commosso delle vostre parole, ed il vostro interno è simile al vostro esterno: i vostri peccati non vi danno più dolore di quello che ne dimostrate. Ecco perché, dopo le vostre Pasque, siete sì poco Cristiano, e non siete né più buono né meno peccatore di prima.

III. Ho detto che il rimorso d’aver offeso Dio, se è vero, deve necessariamente rinchiudere una sincera volontà di non voler più peccare: che se questa volontà è sincera ci porterà altresì a stare in guardia; a cacciare tutti i pensieri cattivi di vendetta, d’impurità, non appena ce ne accorgiamo; a fuggire le occasioni che ci avevan portato al peccato; a nulla trascurare per correggerci delle nostre cattive abitudini. Ebbene! amico, il vostro proposito di non più offendere il buon Dio non è dunque stato sincero, poiché vi si vedeva nelle osterie e vi ci si vede ancora; eravate stato visto in quella compagnia dove avete commesso quel peccato e vi comparite ancor oggi. Converrete con me che non avete fatto alcuno sforzo per viver meglio, che nel corso dell’anno passato. Perché questo, amico mio? Perché? Ecco: perché non desiderate affatto di correggervi, la vostra confessione non è stata che una menzogna e la vostra contrizione una larva di penitenza. Ne volete una seconda prova? Eccola. Di che vi accusavate l’anno scorso? Di ubriachezza, d’impurità, di superbia, di collera, di negligenza nel servizio di Dio? E di che vi accusate quest’anno? Delle stesse cose. E di che vi accuserete l’anno venturo se sarete ancora in vita? Ancora delle stesse cose. E perché, F. M., perché non desiderate affatto di condurre una vita più cristiana; ma vi confessate solo per sdebitarvi e per dire che avete fatto Pasqua; o, se voleste attestare la verità, direste che vi confessate ogni anno per aggiungere un nuovo peccato agli antichi; dicendo così, direste quello che veramente fate. Voi, dunque, non vi accorgete che il demonio vi inganna. S’egli a voi proponesse di abbandonar tutto, a voi che avete l’abitudine di confessarvi una volta l’anno, ne avreste orrore, non vorreste crederlo. Ma egli per avervi un giorno in suo potere, si accontenta di tenervi sempre nelle vostre cattive abitudini. Dubitate di quello che dico? Esaminate la vostra condotta, e vedete se vi siete corretto di qualche peccato dopo tanti anni che vi confessate solo a Pasqua; o per meglio dire, se ogni anno non vi affondate sempre più nell’abisso del peccato.  Ma, mi direte, tutto questo non ci spinge troppo a farci fare la Pasqua. — È vero, ma perché ingannarvi? Vi inganna già abbastanza il demonio; non c’è bisogno che anch’io mi unisca a lui. Io vi dico la pura verità; voi poi farete ciò che più vi aggrada. Io mi comporto in mezzo a voi come un medico in mezzo ad un gran numero di ammalati: egli propone a ciascuno i rimedi convenienti per ristabilirsi in salute; di quelli che disprezzano questi rimedi, egli non si cura; ma a quelli che vogliono usarne dice il gran bene che ne avranno stando alle prescrizioni, e nel medesimo tempo ricorda il male che ne verrà loro se non osserveranno i suoi ordini. Sì, F. M., io faccio lo stesso: vi faccio considerare quanto sono grandi i vantaggi che ci promettono i Sacramenti: o per dir meglio, che se non frequentiamo i Sacramenti, non vedremo mai la faccia di Dio, e siamo sicuri d’esser dannati. Quanto a quelli che, o per ignoranza, o per empietà, disprezzano questi salutari rimedi, i quali soli possono riconciliarli con Dio, faccio come quel medico che lascia da una parte coloro che non vogliono i suoi rimedi. Ma a quelli che mostrano desiderio di prenderli, bisogna assolutamente far conoscere le disposizioni che bisogna portarvi. Io penso, F. M., che forse tutto quello che vi ho detto, vi darà qualche inquietudine sulle vostre confessioni passate; lo desidero con tutto il mio cuore, affinché tocchi dalla grazia del buon Dio e dai rimorsi della coscienza usiate i mezzi che Dio vi offre oggi per uscire dal peccato. Ma, mi direte, cosa bisogna fare per riparare a tutto? — Volete saperlo e farlo? Ecco. Dovete ricominciare le vostre confessioni da quando credete d’averle fatte senza dolore; accuserete il numero delle confessioni e delle comunioni; e direte anche se avete taciuto qualche peccato, e se avete fatto qualche sforzo per non più ricadervi. Bisogna, perché le vostre confessioni possano consolarvi, che ogni confessione abbia operato in voi qualche cambiamento; bisogna che facciate, come dice S. Paolo parlando di Gesù Cristo, che uscì dalla tomba per non rientrarvi mai più (Rom. VI, 9); così voi, confessati i vostri peccati, non dovete tornare a commetterli mai più. Dovete nel vostro cuore, al posto di quella collera, di quell’aria di disprezzo che traspariva ad ogni menoma ingiuria che vi si faceva, far nascere la dolcezza, la bontà e la carità. Voi alla mattina ed alla sera mancavate di recitare le vostre orazioni, vi si vedeva farle senza attenzione e senza rispetto; ora, se siete veramente usciti dal peccato, vi si vedrà ogni mattina e sera fare le vostre preghiere con quel rispetto ed attenzione che il pensiero della presenza di Dio deve ispirarvi. Nei santi giorni di domenica vi si vedeva spesso entrare in chiesa quando le funzioni eran già molto avanzate; ora se avete ben fatto la Pasqua vi si vedrà di buon’ora prepararvi per santamente assistere a questa grande azione. Si vedrà quella madre, invece di correre di casa in casa ad osservare la condotta dell’una e dell’altra, la si vedrà occupata nelle sue faccende, ad istruire i suoi figli o, per meglio dire, la virtù trasparirà da ogni sua azione. Essa farà come quella giovane che da qualche tempo s’era data ai piaceri, anche ai più vergognosi; ma avendo riflesso sul suo spaventevole stato, e sentendo orrore di se stessa, si convertì. Qualche tempo dopo incontrò un giovane col quale spesso aveva trescato: questi cominciò a tenerle il solito linguaggio. Essa lo guardò con un’aria di disprezzo e d’indignazione, ricordandosi che questo disgraziato era stato la causa ch’ella offendesse il buon Dio. Stupito, le disse ch’essa senza dubbio non lo conosceva più. “Ah! disgraziato, t’ho conosciuto troppo! Vedo che tu sei sempre lo stesso, sepolto nel fango della colpa; ma, quanto a me, grazie a Dio, non son più la medesima; ho abbandonato quel maledetto peccato che aveva tanto sfigurata la povera anima mia. Ah! no, mille volte morire piuttosto che ricadere negli antichi peccati! „ Oh! bel modello per un Cristiano che ha avuto la disgrazia di peccare! Che dobbiamo dunque concludere? Eccolo, F. M.. Se non volete dannarvi, non dovete accontentarvi di confessarvi una volta all’anno; perché, ogni volta che vi trovate in peccato, correrete rischio di morirvi e di perdervi per tutta l’eternità. Se siete stati così disgraziati d’aver taciuto qualche peccato, o per timore o per vergogna, o se li avete confessati senza dolore, senza il desiderio di correggervene; od anche, se dopo tanti anni che vi confessate, non avete conosciuto alcun cambiamento nella vostra vita: concludete che tutte le vostre confessioni non valgono nulla e, per conseguenza, non sono state che sacrilegi ed abbominazioni che vi getteranno nell’inferno. Per quelli che non fanno Pasqua non ho nulla da dire; giacché vogliono assolutamente dannarsi, essi ne sono i padroni. Piangiamo la loro disgrazia, preghiamo per essi: la scambievole carità che dobbiamo avere vi ci obbliga. Domandiamo a Dio di non mai cadere in tale accecamento! Resistiamo coraggiosamente al mondo ed al demonio! Sospiriamo incessantemente la nostra vera patria che è il cielo, nostra gloria, nostra ricompensa e nostra felicità. È ciò che vi auguro…

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Matt XXVIII:2; XXVIII:5-6.

Angelus Dómini descéndit de coelo, et dixit muliéribus: Quem quaeritis, surréxit, sicut dixit, allelúja.

[Un Angelo del Signore discese dal cielo e disse alle donne: Quegli che voi cercate è risuscitato come aveva detto, alleluia.]

Secreta

Suscipe múnera, Dómine, quaesumus, exsultántis Ecclésiæ: et, cui causam tanti gáudii præstitísti, perpétuæ fructum concéde lætítiæ.

[Signore, ricevi i doni della Chiesa esultante; e, a chi hai dato causa di tanta gioia, concedi il frutto di eterna letizia.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

[Joannes XX: 27] Mitte manum tuam, et cognósce loca clavórum, allelúja: et noli esse incrédulus, sed fidélis, allelúja, allelúja.

[Metti la tua mano, e riconosci il posto dei chiodi, alleluia; e non essere incredulo, ma fedele, alleluia, alleluia.]

Postcommunio

Orémus.

 Quæsumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti; et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum.

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA CONFESSIONE PASQUALE

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla Confessione pasquale.

“Erat autem proximum

Pascha, dies festus Judæorum”.

(JOAN. VI, 4).

Sì, Fratelli miei, ecco giunto e trascorso questo tempo fortunato in cui tanti Cristiani hanno abbandonato il peccato, ed hanno strappate le loro povere anime dagli artigli del demonio per rimettersi sotto l’amabile giogo del Salvatore. Ah! avesse Iddio voluto che fossimo nati nel bel tempo dei primitivi Cristiani, che con santa allegrezza vedevano giungere questo momento! O giorno beato! Giorno di salute e di grazia, che cosa sei diventato ora? Dove sono quelle gioie sante e celesti che formano la felicità dei figli di Dio? Sì, M. F., questo tempo di grazia riuscirà a noi di vantaggio o di danno: sarà la causa della nostra felicità, se corrispondiamo alle grazie che ci vengono prodigate in questo prezioso momento; oppure sarà la nostra perdita, se non ne approfittiamo o ne abusiamo.

— Ma, mi direte, che vuol dire questa parola Pasqua? — Non lo sapete? Ebbene! Ascoltate e lo saprete. Pasqua significa passaggio, cioè il passaggio dalla morte del peccato alla vita della grazia. Vedrete poi se le vostre Pasque sono buone, e se potete star tranquilli, massime voi, brava gente, che vi accontentate di adempiere il precetto della Chiesa, cioè di fare una sola confessione e comunione per Pasqua.

I. — Perché, F. M., la Chiesa ha stabilito il santo tempo della Quaresima? — Per prepararci a degnamente celebrare la santa Pasqua, mi rispondete; la Pasqua è il tempo in cui Dio sembra raddoppiare le sue grazie, ed eccitare i rimorsi delle nostre coscienze per farci uscire dal peccato. — Va benissimo, è ciò che vi insegna il Catechismo; ma se domandassi ad un fanciullo, qual è il peccato di coloro che non fanno Pasqua? mi risponderebbe semplicemente che è un grave peccato mortale; e se gli chiedessi: Quanti peccati mortali bastano per andare all’inferno? Mi soggiungerebbe: Basta un solo; se si muore senza averne ottenuto il perdono. Ebbene! che ne dite? Non avete fatto Pasqua? — No! mi rispondete. — Ma, poiché non avete fatto Pasqua, ed il non farla è un peccato mortale, dunque vi dannerete. Che ne pensate? Ciò non v’importa nulla? — Ah! avete ragione, dite tra voi, ma se io son dannato, non sarò solo. — Evvia! se ciò non v’importa, se v’è indifferente il salvarvi ed il perdervi, bisognerà proprio che vi consoliate, sperando che nella vostra disgrazia non sarete solo; e perciò non vi importuno più a lungo. Povera anima! che ne dite del linguaggio che tiene questo vostro corpo di peccato in cui avete la disgrazia di abitare? Oh! quante lagrime spargerete per tutta l’eternità! Oh! quanti lamenti! Oh! quanti urli manderete, là in mezzo alle fiamme senza speranza di uscirne! Oh! quanto siete disgraziata d’essere tanto costata a Gesù Cristo e d’essere da Lui separata per sempre! Perché, F. M., non avete fatto Pasqua? — Perché non l’ho voluto, mi direte. — Ma se morite in questo stato vi dannerete. — Tanto peggio! — Ebbene! ditemi, credete d’aver un’anima? — Ah! so bene che ho un’anima. — Ma, forse, credete che dopo la morte tutto sarà finito? — Ah! pensate tra voi: so che la nostra anima sarà felice od infelice, secondoché avrà fatto bene o male. — E che cosa può renderla infelice? — Il peccato, mi direte. — Vi sentite colpevole di peccato, dunque concludo che siete dannato. Non è vero, amico? Siete venuto una volta o due a confessarvi; ma siete sempre stato lo stesso. Perché? Perché non avete voluto correggervi, e vi è indifferente tanto il vivere nel peccato e dannarvi, quanto l’abbandonarlo per salvarvi. Volete dannarvi? Ebbene! non inquietatevi, lo sarete. — Non è vero, sorella mia, che avete lasciato passare Pasqua senza confessarvi? avete vissuto la Quaresima e la Pasqua, in peccato; e perché? Eccone la ragione: perché non avete più religione, avete perduta la fede, non pensate che a divertirvi un poco nel mondo, aspettando di esser gettata tra le fiamme. Vi vedremo, sorella mia, sì, un giorno vi vedremo; vedremo le vostre lagrime, la vostra disperazione; vi riconoscerò, almeno, lo credo; voi vi sarete dannata e ne eravate padrona. Ma tiriamo un velo; lasciamo nascoste nelle tenebre tutte queste sozzure fino al giorno del giudizio. Esaminiamo ora qual è la confessione e la comunione di coloro che si accontentano di accostarvisi una volta all’anno, e vedremo se essi possono esser tranquilli o no. Se per fare una buona confessione, bastasse domandar perdono a Dio, accusare i propri peccati e far qualche penitenza, il peccato, che la religione ci dipinge come una mostruosità, non avrebbe nulla di spaventevole; nulla sarebbe più facile che riparare la perdita della grazia di Dio e seguire la via che conduce al cielo, la quale invece, secondo Gesù Cristo stesso, è così difficile. Sentite ciò che Egli disse ad un giovane che gli domandava se sarebbero stati molti gli eletti, e se la via che conduce al cielo è difficile a seguirsi: Oh! come è stretta questa via! Quanto pochi sono quelli che la seguono! Oh! come sono pochi coloro che la cominciano e giungono alla fine (Matt. VII, 14)! Infatti, F. M., dopo aver vissuto per un anno intero senza fastidi, senza noie, non occupandovi che dei vostri affari temporali, delle vostre ricchezze od anche dei vostri piaceri, senza darvi pensiero di correggervi, né di lavorare per acquistare le virtù che vi mancano; verrete solo nella quindicina di Pasqua, più tardi che potrete, a raccontare i vostri peccati, come narrereste una storia: leggerete in un libro qualche preghiera, o ne farete qualche altra per un certo tempo. E con questo, tutto sarà fatto, e seguirete la vostra vita ordinaria; farete ciò che avete sempre fatto, vivrete come il solito; siete stati veduti ai giuochi e nelle osterie e vi ci si rivedrà: siete stato trovato nei balli e nei festini e vi sarete ritrovato: e così si dica del resto. Alla prossima Pasqua vi ripentirete della stessa cosa. E continuerete così fino alla morte: cioè il sacramento della Penitenza, in cui Dio sembra dimenticare la sua giustizia per non manifestare che la sua misericordia, non sarà più per voi che un gioco od un passatempo! Capite benissimo, che se nelle vostre confessioni non vi è nulla di meglio, potete giustamente concludere che esse non valgono nulla, per non dir di peggio.

II. — Ma per meglio convincervi, esaminiamo la cosa più davvicino. Per fare una buona confessione che possa riconciliarci con Dio, dobbiamo detestare i nostri peccati con tutto il nostro cuore; non perché siamo obbligati a dire al prete cose che vorremmo poter nascondere a noi stessi; ma bisogna pentirsi d’aver offeso un Dio così buono, d’esser restati sì lungo tempo nel peccato, d’aver disprezzato tutte le grazie colle quali ci sollecitava ad uscirne. Ecco, F. M., ciò che deve fare scorrere le nostre lagrime e spezzare il nostro cuore. Ditemi, se aveste questo vero dolore, non vi affrettereste a riparare il male che ne è la causa e a mettervi subito in grazia di Dio? Che direste di un uomo che guastatosi ingiustamente col suo amico e che poi, riconoscendo il suo torto se ne pente e non cerea il modo di riconciliarsi? Se l’amico suo fa qualche passo in proposito, non approfitterà egli dell’occasione? Ma se invece, non facesse conto di tutto ciò, non avreste ragione di dire che gli è indifferente d’essere in buona o cattiva relazione con quella persona? Il paragone è giusto. Chi ha la disgrazia di cadere nel peccato, o per debolezza od inavvertenza od anche per malizia, se ne ha un vero dolore, potrà restare lungamente in questo stato? Non ricorrerà subito al sacramento della Penitenza? Ma, se resta un anno nel peccato e vede con fastidio avvicinarsi il tempo della Pasqua, perché bisogna confessarsi; se, invece di presentarsi in principio di Quaresima al tribunale di Penitenza, per aver qualche tempo in cui potersi mortificare e non passare subito dal peccato alla sacra Mensa; se non vuol sentire parlare che a Pasqua della confessione, che cerca di ritardare per quanto gli è possibile presentandosi poi colle disposizioni di un condannato che vien condotto al supplizio; che cosa significa tutto questo? Eccovelo, che se la Pasqua fosse prolungata fino a Pentecoste, voi non vi confessereste che a Pentecoste: o se non venisse che ogni dieci anni, non vi confessereste che ogni dieci anni; e finalmente, se la Chiesa non ve lo comandasse, vi confessereste soltanto all’ora della morte. Che ne dite? Non è vero, che non è né il rimorso d’aver offeso Dio ciò che vi fa confessare; né l’amor di Dio, ciò che vi fa fare la Pasqua? — Ah! mi soggiungerete, è già qualche cosa, fare la S. Pasqua; e poi noi non la facciamo senza sapere il perché. — Ah! voi non sapete nulla; fate Pasqua per abitudine, per dire che l’avete fatta e, se voleste dire la verità, direste che ai vostri antichi peccati ne avete aggiunto uno nuovo. Non è dunque l’amor di Dio, né il rimorso di averlo offeso, che vi fa confessare e fare la Pasqua, e nemmeno il desiderio di condurre una vita più cristiana. Eccone la prova: se amaste il buon Dio, potreste acconsentire a commettere il peccato con tanta facilità, anzi con tanto piacere? Se aveste orrore del peccato, come dovreste averlo, potreste conservarlo per un anno intero sulla coscienza? Se aveste un vero desiderio di condurre una vita più cristiana, non si vedrebbe almeno qualche piccolo cambiamento nel vostro modo di vivere? No, M. F., non voglio parlarvi oggi di quei disgraziati, i quali non accusano che a metà i loro peccati per timore di non poter fare la Pasqua o d’essere rimandati; o forse per coprire col velo della virtù la loro vita vergognosa; e che, in questo stato s’avvicinano alla sacra Mensa e consumano la loro riprovazione, abbandonano il loro Dio al demonio, per esalare la loro anima dannata nell’inferno. No, voglio sperare che questo non vi riguardi; ma pure continuerò a dirvi che le vostre confessioni annuali non hanno nulla che possa tranquillizzare. — Ma, mi direte, che cosa bisogna fare perché la confessione sia buona? — Se volete saperlo, eccovelo: ascoltate bene, e vedrete se potete star sicuri. Affinché la vostra confessione meriti il perdono, bisogna ch’essa sia umile esincera, accompagnata da un vero dolore causato dal rimorso d’aver offeso Dio, e non per i castighi che merita il peccato, ed un fermo proposito di non più peccare per l’avvenire. Ciò premesso, dico che è ben difficile che tutte queste disposizioni si trovino in coloro che non si confessano che una volta all’anno: lo vedrete. Cos’è un cristiano ai piedi del prete, al quale fa la confessione dei suoi peccati? È un peccatore che viene col dolore nel cuore, e si getta ai piedi del suo Dio come un reo davanti al giudice, per accusarsi lui stesso e domandare la grazia. Come s’accuserà? Ecco: Io sono un colpevole indegno del nome di figlio: ho vissuto finora in un modo tutto opposto a ciò che mi comandava la mia religione; non ho avuto che disgusto per ciò che si riferisce al servizio di Dio; i santi giorni della domenica e quelli di festa non sono stati per me che giorni di piaceri edi gozzoviglie; o, per dir meglio, non ho fatto nulla di bene fino ad ora; sono perduto edannato se Dio non ha pietà di me. Ecco, F. M., i sentimenti di un Cristiano che ha in orroreil peccato. Ma, ditemi, si accusano così quelli che trovano non essere abbastanza il restare dodici mesi nel peccato, etrovano che le Pasque si avvicinano troppo veloci? Ahimè! Dio mio! voi vedete le confessioni annue che fanno questi poveri disgraziati, evedete che lefanno con una noia mortale. Oh! no, no, costui, non è più un reo, coperto di vergogna e penetrato di dolore d’aver offeso Dio, che s’umilia, s’accusa lui stesso, e domanda un perdono di cui si riconosce infinitamente indegno: ma ahimè! oserò dirlo? è un uomo che sembra raccontare una storia, e la racconta male, cerca di mascherarsi e di comparire colpevole il meno che può. Ascoltatelo: non è lui che ha commesso quel peccato d’impurità, è un altro che ve l’ha sollecitato, come se non fosse stato padrone di non seguire quel consigliere. Non è lui che s’è incollerito: è colpa del suo vicino che gli ha detto una parola pungente. Ha mancato alla Messa, sì, ma la compagnia ne fu la causa. Una volta mangiò di grasso in un giorno proibito; se non vi fosse stato spinto non l’avrebbe fatto. Egli ha parlato male, ma fu quello ch’era vicino a lui che l’ha fatto peccare. Diciamo meglio: il marito accusa la moglie, la moglie accusa il marito; il fratello la sorella e la sorella il fratello; il padrone il servo ed il servo cerca, per quanto può, di scaricarsi sul suo padrone. Dicendo il Confiteor, accusano se stessi, dicendo: E mia colpa: due minuti dopo si scusano ed accusano gli altri. Niente umiltà, niente sincerità, niente dolore: ecco le disposizioni di quelli che non si confessano che una volta all’anno. Un parroco dal modo con cui s’accusano, s’accorgerà ch’essi non hanno affatto le disposizioni necessarie per ricevere l’assoluzione. Se dà loro un po’ di tempo per non far loro commettere un sacrilegio, che cosa fanno essi? Ascoltateli: mormorano dicendo che non hanno il tempo di ritornare e che un’altra volta non saranno meglio disposti; e finiscono col dirvi che se non si vuol riceverli, andranno da un altro, che non sarà così scrupoloso, e che li assolverà… Come se Dio non potesse vivere senza di essi! Poveri ciechi!… Vedete da questo quali siano le loro disposizioni. Il sacerdote, dal modo con cui s’accusano, vede ch’essi non dicono tutto; è obbligato di far loro mille domande; essi non dicono né il numero, né le circostanze che cambiano la specie. Vi sono certi peccati ch’essi non vorrebbero dire e neppur nascondere. Che fanno? Li dicono per metà, come se il prete potesse sapere ciò che avviene nel loro cuore. Si accontentano di raccontare in blocco i peccati, senza nemmeno distinguerne i pensieri dai desideri. Il sacerdote chiederà: Non avete mai avuto pensieri di superbia, di vanità, di vendetta o d’impurità? Sapete che quando ci si fermiamo su volontariamente essi sono peccato. Avete commesso qualcheduna di queste mancanze? — Può darsi, risponderà, ma non me ne ricordo. — Ma bisogna dire approssimativamente il numero, altrimenti le confessioni non valgono nulla. — Ah! reverendo, come volete che mi ricordi di tutti i pensieri che ho avuti in un anno? ciò m’è impossibile. — Ah! Dio mio, che confessioni, o piuttosto che sacrilegi! … E neppure, F. M., si occupano delle circostanze che aggravano il peccato e che possono renderlo mortale. Ascoltate come si confessano: mi sono ubbriacato, ho calunniato il mio prossimo, ho peccato contro la santa virtù della purità, ho altercato, mi sono vendicato; e se il confessore non fa domande, basta. — Ma, gli dirà il confessore, quante volte avete fatto questo? Avete commesso di questi peccati in chiesa? Era un giorno di domenica? L’avete fatto in presenza dei vostri figli, dei vostri servi? V’era molta gente? L’onore del vostro prossimo ha sofferto qualche danno? Questi pensieri di superbia vi sono venuti in chiesa, durante la santa Messa? Vi ci siete fermati su per molto tempo? Questi pensieri, contrari alla santa virtù della purità, sono stati accompagnati da cattivi desideri? Quest’altro peccato è stato per inavvertenza o per malizia? Non avete aggiunto peccato a peccato, pensando che vi costerebbe lo stesso confessarvi di molti come di pochi? Vi sono di quelli che escludono affatto il dovere di farvi alcun dettaglio dei loro peccati e vi dicono francamente che essi non hanno nulla da rimproverarsi, che non hanno tempo, che bisogna che se ne vadano. Non avete tempo, ebbene! andatevene. Andare o restare per voi è la stessa cosa. Dio mio! che disposizioni! Dio mio! Sono questi peccatori che vengono a piangere i loro peccati? Bisogna però convenire che vi sono alcuni i quali fanno il possibile per ben esaminarsi, e che dicono i loro peccati meglio che possono; ma con tale indifferenza, freddezza ed insensibilità che strazia il cuore d’un povero sacerdote. Non sospiri, non gemiti, non lagrime! non un segno che annunci il dolore dei loro peccati. Bisogna che il prete, per dar loro l’assoluzione, sia persuaso che essi hanno migliori disposizioni di quelle che mostrano. So bene che le lacrime ed i sospiri non sono segni infallibili di conversione né di contrizione. Succede troppo spesso che quelli che piangono non sono per questo più Cristiani degli altri. Ma è pure cosa impressionante sentir raccontare con tanta freddezza ed indifferenza ciò che deve necessariamente attristarci ed eccitare le nostre lagrime. Se un reo fosse sicuro che, confessando i suoi delitti, riceverà la grazia; vi lascio immaginare se potrebbe manifestarli senza lagrime, nella speranza di commuovere il cuore del giudice e meritarsi il perdono. Osservate un ammalato quando scopre le sue piaghe al medico; udite i suoi sospiri e vedete le sue lagrime. Vedete un amico che vi racconta le sue pene: i suoi atti, il tono della sua voce, il suo modo d’esprimersi, tutto in luì vi rivela il suo affanno ed il suo dolore. Perché, F. M., nulla appare di tutto questo, quando confessiamo i nostri peccati? Non lo sapete? Ebbene! ve l’insegnerò: il vostro cuore non è più commosso delle vostre parole, ed il vostro interno è simile al vostro esterno: i vostri peccati non vi danno più dolore di quello che ne dimostrate. Ecco perché, dopo le vostre Pasque, siete sì poco Cristiano, e non siete né più buono né meno peccatore di prima.

III. Ho detto che il rimorso d’aver offeso Dio, se è vero, deve necessariamente rinchiudere una sincera volontà di non voler più peccare: che se questa volontà è sincera ci porterà altresì a stare in guardia; a cacciare tutti i pensieri cattivi di vendetta, d’impurità, non appena ce ne accorgiamo; a fuggire le occasioni che ci avevan portato al peccato; a nulla trascurare per correggerci delle nostre cattive abitudini. Ebbene! amico, il vostro proposito di non più offendere il buon Dio non è dunque stato sincero, poiché vi si vedeva nelle osterie e vi ci si vede ancora; eravate stato visto in quella compagnia dove avete commesso quel peccato e vi comparite ancor oggi. Converrete con me che non avete fatto alcuno sforzo per viver meglio, che nel corso dell’anno passato. Perché questo, amico mio? Perché? Ecco: perché non desiderate affatto di correggervi, la vostra confessione non è stata che una menzogna e la vostra contrizione una larva di penitenza. Ne volete una seconda prova? Eccola. Di che vi accusavate l’anno scorso? Di ubriachezza, d’impurità, di superbia, di collera, di negligenza nel servizio di Dio? E di che vi accusate quest’anno? Delle stesse cose. E di che vi accuserete l’anno venturo se sarete ancora in vita? Ancora delle stesse cose. E perché, F. M., perché non desiderate affatto di condurre una vita più cristiana; ma vi confessate solo per sdebitarvi e per dire che avete fatto Pasqua; o, se voleste attestare la verità, direste che vi confessate ogni anno per aggiungere un nuovo peccato agli antichi; dicendo così, direste quello che veramente fate. Voi, dunque, non vi accorgete che il demonio vi inganna. S’egli a voi proponesse di abbandonar tutto, a voi che avete l’abitudine di confessarvi una volta l’anno, ne avreste orrore, non vorreste crederlo. Ma egli per avervi un giorno in suo potere, si accontenta di tenervi sempre nelle vostre cattive abitudini. Dubitate di quello che dico? Esaminate la vostra condotta, e vedete se vi siete corretto di qualche peccato dopo tanti anni che vi confessate solo a Pasqua; o per meglio dire, se ogni anno non vi affondate sempre più nell’abisso del peccato.  Ma, mi direte, tutto questo non ci spinge troppo a farci fare la Pasqua. — È vero, ma perché ingannarvi? Vi inganna già abbastanza il demonio; non c’è bisogno che anch’io mi unisca a lui. Io vi dico la pura verità; voi poi farete ciò che più vi aggrada. Io mi comporto in mezzo a voi come un medico in mezzo ad un gran numero di ammalati: egli propone a ciascuno i rimedi convenienti per ristabilirsi in salute; di quelli che disprezzano questi rimedi, egli non si cura; ma a quelli che vogliono usarne dice il gran bene che ne avranno stando alle prescrizioni, e nel medesimo tempo ricorda il male che ne verrà loro se non osserveranno i suoi ordini. Sì, F. M., io faccio lo stesso: vi faccio considerare quanto sono grandi i vantaggi che ci promettono i Sacramenti: o per dir meglio, che se non frequentiamo i Sacramenti, non vedremo mai la faccia di Dio, e siamo sicuri d’esser dannati. Quanto a quelli che, o per ignoranza, o per empietà, disprezzano questi salutari rimedi, i quali soli possono riconciliarli con Dio, faccio come quel medico che lascia da una parte coloro che non vogliono i suoi rimedi. Ma a quelli che mostrano desiderio di prenderli, bisogna assolutamente far conoscere le disposizioni che bisogna portarvi. Io penso, F. M., che forse tutto quello che vi ho detto, vi darà qualche inquietudine sulle vostre confessioni passate; lo desidero con tutto il mio cuore, affinché tocchi dalla grazia del buon Dio e dai rimorsi della coscienza usiate i mezzi che Dio vi offre oggi per uscire dal peccato. Ma, mi direte, cosa bisogna fare per riparare a tutto? — Volete saperlo e farlo? Ecco. Dovete ricominciare le vostre confessioni da quando credete d’averle fatte senza dolore; accuserete il numero delle confessioni e delle comunioni; e direte anche se avete taciuto qualche peccato, e se avete fatto qualche sforzo per non più ricadervi. Bisogna, perché le vostre confessioni possano consolarvi, che ogni confessione abbia operato in voi qualche cambiamento; bisogna che facciate, come dice S. Paolo parlando di Gesù Cristo, che uscì dalla tomba per non rientrarvi mai più (Rom. VI, 9); così voi, confessati i vostri peccati, non dovete tornare a commetterli mai più. Dovete nel vostro cuore, al posto di quella collera, di quell’aria di disprezzo che traspariva ad ogni menoma ingiuria che vi si faceva, far nascere la dolcezza, la bontà e la carità. Voi alla mattina ed alla sera mancavate di recitare le vostre orazioni, vi si vedeva farle senza attenzione e senza rispetto; ora, se siete veramente usciti dal peccato, vi si vedrà ogni mattina e sera fare le vostre preghiere con quel rispetto ed attenzione che il pensiero della presenza di Dio deve ispirarvi. Nei santi giorni di domenica vi si vedeva spesso entrare in chiesa quando le funzioni eran già molto avanzate; ora se avete ben fatto la Pasqua vi si vedrà di buon’ora prepararvi per santamente assistere a questa grande azione. Si vedrà quella madre, invece di correre di casa in casa ad osservare la condotta dell’una e dell’altra, la si vedrà occupata nelle sue faccende, ad istruire i suoi figli o, per meglio dire, la virtù trasparirà da ogni sua azione. Essa farà come quella giovane che da qualche tempo s’era data ai piaceri, anche ai più vergognosi; ma avendo riflesso sul suo spaventevole stato, e sentendo orrore di se stessa, si convertì. Qualche tempo dopo incontrò un giovane col quale spesso aveva trescato: questi cominciò a tenerle il solito linguaggio. Essa lo guardò con un’aria di disprezzo e d’indignazione, ricordandosi che questo disgraziato era stato la causa ch’ella offendesse il buon Dio. Stupito, le disse ch’essa senza dubbio non lo conosceva più. “Ah! disgraziato, t’ho conosciuto troppo! Vedo che tu sei sempre lo stesso, sepolto nel fango della colpa; ma, quanto a me, grazie a Dio, non son più la medesima; ho abbandonato quel maledetto peccato che aveva tanto sfigurata la povera anima mia. Ah! no, mille volte morire piuttosto che ricadere negli antichi peccati! „ Oh! bel modello per un Cristiano che ha avuto la disgrazia di peccare! Che dobbiamo dunque concludere? Eccolo, F. M.. Se non volete dannarvi, non dovete accontentarvi di confessarvi una volta all’anno; perché, ogni volta che vi trovate in peccato, correrete rischio di morirvi e di perdervi per tutta l’eternità. Se siete stati così disgraziati d’aver taciuto qualche peccato, o per timore o per vergogna, o se li avete confessati senza dolore, senza il desiderio di correggervene; od anche, se dopo tanti anni che vi confessate, non avete conosciuto alcun cambiamento nella vostra vita: concludete che tutte le vostre confessioni non valgono nulla e, per conseguenza, non sono state che sacrilegi ed abbominazioni che vi getteranno nell’inferno. Per quelli che non fanno Pasqua non ho nulla da dire; giacché vogliono assolutamente dannarsi, essi ne sono i padroni. Piangiamo la loro disgrazia, preghiamo per essi: la scambievole carità che dobbiamo avere vi ci obbliga. Domandiamo a Dio dinon mai cadere in tale accecamento! Resistiamo coraggiosamente al mondo ed al demonio! Sospiriamo incessantemente la nostra vera patria che è il cielo, nostra gloria, nostra ricompensa e nostra felicità. È ciò che vi auguro…

DOMENICA DI PASQUA (2021)

DOMENICA DI PASQUA 2021

Solennità delle Solennità.

Stazione a Santa Maria Maggiore

Doppio di I cl. con ottava privilegiata. – Paramenti bianchi.

Come a Natale, così a Pasqua, la più grande festa dell’anno, la Stazione si tiene a S. Maria Maggiore. Il Cristo risuscitato rivolge anzitutto al divin Padre l’omaggio della sua riconoscenza (Intr.). La Chiesa a sua volta ringrazia Iddio di averci, con la vittoria del Figlio Suo, riaperto la via, del Cielo e lo prega di aiutarci a raggiungere questo bene supremo (Oraz.). Come gli Ebrei mangiavano l’Agnello pasquale con pane non lievitato, dice S. Paolo, così noi pure dobbiamo mangiare l’Agnello di Dio con gli azzimi di una vita pura e santa (Ep., Com.) cioè, esente dai fermento del peccato. II Vangelo e l’Offertorio ci mostrano la venuta delle Marie che vogliono imbalsamare il Signore. Esse trovano una tomba vuota, ma un angelo annunzia il grande Mistero della Risurrezione. Celebriamo con gioia questo giorno nel quale Cristo, risuscitando, ci ha reso la vita (Pref. di Pasqua) ed affermiamo con la Chiesa, che » il Signore è veramente risuscitato » (Inv.); secondo il suo esempio, operiamo la nostra Pasqua, o passaggio, vivendo in modo da poter dimostrare che noi siamo risuscitati con lui.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps CXXXVIII: 18; CXXXVIII: 5-6.

Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuisti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. 

[Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Ps CXXXVIII: 1-2.

Dómine, probásti me et cognovísti me: tu cognovísti sessiónem meam et resurrectiónem meam. 

[O Signore, tu mi provi e mi conosci: conosci il mio riposo e il mio sòrgere.]

Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja.

[Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Oratio

Deus, qui hodiérna die per Unigénitum tuum æternitátis nobis áditum, devícta morte, reserásti: vota nostra, quæ præveniéndo aspíras, étiam adjuvándo proséquere. 

[O Dio, che in questo giorno, per mezzo del tuo Figlio Unigénito, vinta la morte, riapristi a noi le porte dell’eternità, accompagna i nostri voti aiutàndoci, Tu che li ispiri prevenendoli.] 

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 1 Cor V: 7-8

“Fratres: Expurgáte vetus ferméntum, ut sitis nova conspérsio, sicut estis ázymi. Etenim Pascha nostrum immolátus est Christus. Itaque epulémur: non in ferménto véteri, neque in ferménto malítiae et nequitiæ: sed in ázymis sinceritátis et veritátis.” 

Omelia I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

LA RISURREZIONE SPIRITUALE

“Fratelli: Togliete via il vecchio fermento, affinché siate una pasta nuova, voi che siete già senza lievito. Poiché Cristo, che è la nostra pasqua, è stato immolato. Pertanto celebriamo la festa non col vecchio lievito, né col lievito della malizia e delle perversità, ma con gli azimi della purità e della verità”. (1 Cor. V, 7-8).

L’Epistola è un brano della prima lettera di S. Paolo ai Corinti. Siamo alle feste pasquali. Gli Ebrei celebravano la loro pasqua, mangiando l’agnello con pane azimo, dopo aver fatto scomparire tutto il pane fermentato. Anche i Corinti devono liberarsi da tutte le tendenze grossolane e carnali, e rinunciare al lievito del peccato. – Gesù Cristo, il nostro agnello pasquale, immolando se stesso, ha istituito una pasqua che dura sempre. Anche i Corinti, rinnovellati in Gesù Cristo, devono condurre continuamente una vita innocente e retta davanti a Dio. Cerchiamo di ricavare anche noi qualche frutto dall’insegnamento dell’Apostolo.

1. Dobbiamo liberarci dal peccato.

2. Specialmente nel tempo pasquale,

3. Sigillando la nostra conversione col banchetto eucaristico.

1.

Fratelli: Togliete via il vecchio fermento. Comunque si vogliano intendere queste parole, che l’Apostolo indirizza ai Corinti, è certo che li esorta a vivere santamente, lontani da ogni peccato, tanto più che si avvicinava la solennità di Pasqua. « Non c’è uomo che non pecchi », dice Salomone (3 Re, VIII, 46). E si pecca non solo venialmente: da molti si pecca mortalmente con la più grande indifferenza. Forse cesserà il peccato di essere un gran male, perché è tanto comune? Una malattia non cessa di essere un gran male, perché molto diffusa; e il peccato non cessa di essere il gran male che è, perché commesso da molti. Dio, autorità suprema, ci dice: «Osservate la mia legge e i miei comandamenti» (Lev. XVIII, 5). E noi non ci curiamo della sua legge e dei suoi comandamenti, che mettiamo sotto i piedi. Quale guadagno abbiamo fatto col peccato, e qual vantaggio riceviamo dal non liberarcene? Se non hai badato al peccato prima di commetterlo; consideralo almeno ora che l’hai commesso. Col peccato avrai acquistato beni, ma hai perduto Dio. Avrai avuto la soddisfazione della vendetta; ma ti sei meritato un condegno castigo; perché « quello che facesti per gli altri sarà fatto per te: sulla tua testa Dio farà cadere la tua mercede » (Abdia, 15). Se non aggraverà su te la sua mano in questa vita, l’aggraverà nella futura. Avrai provato godimenti terreni, ma hai perduto il diritto ai godimenti celesti. Ti sei attaccato a ciò che è momentaneo, ma hai perduto ciò che è eterno. Ti sarai acquistata la facile estimazione degli uomini, ma hai perduto l’amicizia di Dio. Hai abusato un momento della libertà; ma sei caduto nella schiavitù del peccato. « Che cosa hai perduto, che cosa hai acquistato?… Quello che hai perduto è più di quello che hai acquistato » (S. Agostino Enarr. in Ps. CXXIII, 9). – Il peccatore, però, da questo stato di perdita può uscire, rompendo le catene del peccato. Egli lo deve fare. Dio stesso ve lo incoraggia: « Togliti dai tuoi peccati e ritorna al Signore » (Eccli. XVII, 21), dice egli. « Io non voglio la morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via, e viva… E l’empietà dell’empio non nuocerà a lui, ogni qual volta egli si converta dalla sua empietà » (Ezechiele XXXIII, 11…. 12). Non si è alieni dal ritornare a Dio; ma non si vuole far subito. Si vuole aspettare in punto di morte. Ma la morte ha teso le reti a tutti i varchi, e frequenti sono le sue sorprese. Può coglierci da sani, quando nessuno ci pensa; può coglierci da ammalati; quando non si crede tanto vicina, o si crede di averla già allontanata. Non sono pochi quelli che muoiono senza Sacramenti, perché si illudono che la malattia non sia mortale, o che il pericolo sia stato superato. E poi, non è da insensati trattare gli affari della più grande importanza, quando non si possono trattare che a metà, con la mente preoccupata in altre cose? E nessuno affare può essere importante quanto la salvezza dell’anima nostra; ed è imprudenza che supera ogni altra imprudenza volerlo trattare quando il tempo ci verrà a mancare, quando non avremo più la lucidità della mente. – Nessuno che è condannato a portare un peso, aspetterebbe a levarselo di dosso domani, se potesse levarselo quest’oggi. Nessuno che ha trovato una medicina, che può guarire una malattia recente, si decide a prenderla quando la malattia sarà inveterata. Nel nostro interno c’è la malattia del peccato; non lasciamola progredire. Un medico infallibile, Gesù Cristo, ci ha dato una medicina per la nostra guarigione spirituale, la confessione; non trascuriamola.

2.

Cristo, che è la nostra pasqua, è stato immolato. Per i Cristiani la festa pasquale è una festa che dura per tutta la vita, perché Gesù Cristo, nella festa pasquale, si è immolato una volta per sempre. Per tutta la vita, dunque, i Cristiani devono vivere in unione con Dio, mediante la santa grazia. E se il Cristiano avesse perduta la grazia? Non deve lasciar passare la Pasqua, senza riacquistarla Nei giorni della settimana santa la Chiesa ci ha rappresentato al vivo i patimenti di Gesù; e con questa rappresentazione voleva dire: Ecco, o peccatore, a qual punto i tuoi peccati hanno ridotto l’Uomo-Dio. Ecco in quale stato si è trovato per volerti liberare da essi. Ecco la croce su cui è morto per riparare i danni della colpa. Ecco il fiele da cui fu abbeverato, ecco le spine che gli forarono il capo, ecco i chiodi che gli trapassarono le mani e i piedi, ecco la lancia che gli aperse il costato, da cui uscirono acqua e sangue per lavacro delle anime. E tu rifiuterai di purificarti in questo lavacro? Davanti allo spettacolo di Dio che muore in croce per liberare gli uomini dal peccato, persino la natura si commuove: la terra trema, e le pietre si spezzano, e tu solo, o Cristiano resterai indifferente, mostrandoti più duro delle pietre? Imita piuttosto la moltitudine convenuta a quello spettacolo, che « tornava battendosi il petto » (Luc. XXIII, 48). Questa mattina la Chiesa ti invita a risorgere dal peccato col ricordo della risurrezione di Gesù Cristo. Essa ti rivolge le parole del salmista: « Questo giorno l’ha fatto il Signore, esultiamo e rallegrandoci in esso » (Salm. CXVII, 24. — Graduale —). Come prender parte all’esultanza della Chiesa in questo giorno, se l’anima nostra è morta alla grazia? Poiché l’esultanza che la Chiesa ci domanda non è l’esultanza delle piazze, delle osterie, dei caffè, degli spettacoli. È l’esultanza che viene dalla riconciliazione dell’uomo con Dio, dalla riacquistata libertà di suoi figli. Il peccatore non è insensibile all’invito della Chiesa. Ma la voce della Chiesa è soffocata da un’altra voce, per lui più forte, dalla voce del rispetto umano. Che diranno, se si verrà a sapere che sono andato a confessarmi? Se si tratta di curare una ferita non si ascoltano le voci dei profani, ma quella del chirurgo. Trattandosi di guarire le ferite prodotte dal peccato, saremmo ben stolti, se dessimo più peso alle chiacchiere dei negligenti, dei superbi, dei viziosi, che alla voce autorevole della Chiesa. Pensa quale consolazione procurò alla vedova di Naim la risurrezione del figlio. Le lagrime che avevano commosso Gesù, ora si sono cangiate in lagrime di consolazione. « Di quel giovane risuscitato gioì la vedova madre; degli uomini risuscitati spiritualmente goda ogni giorno la santa madre Chiesa» (S. Agostino Serm. 98, 2). Nel suono delle campane più festoso del solito essa vorrebbe farti sentire le parole dell’Apostolo: «E’ ora di scuoterci dal sonno» (Rom. XIII, 11). Svegliati, dunque, e non voler persistere nel pericolo di passare, senza svegliarti, dal sonno del peccato al sonno della morte.

3.

Gli Ebrei, purificata la casa da tutto ciò che era fermentato, mangiavano l’agnello pasquale. I Cristiani, devono anch’essi mangiare il vero Agnello pasquale, di cui l’antico agnello era tipo. Purificati, nella confessione, dal lievito dei peccati della vita trascorsa, con coscienza pura e retta intenzione, partecipino al banchetto pasquale. È quanto inculca l’Apostolo. Pertanto celebriamo la festa non col vecchio lievito, ne col lievito della malizia e della perversità; ma con gli azimi della purità e della verità.Quando si fanno feste solenni il banchetto ha sempre una parte principale. Il banchetto eucaristico deve avere una parte principalissima nella letizia della solennità pasquale. Poco importa assidersi a un banchetto materiale, se l’anima si lascia digiuna.« Peccando non abbiamo conservato né la pietà, né la felicità; ma, pur avendo perduto la felicità, non abbiam perduto la volontà di essere felici» (De Civitate Dei, L. 22, c. 30). L’uomo ha perduto il Paradiso terrestre, ma vi ritornerebbe ancor volentieri. Il Paradiso terrestre, perduto da Adamo, non possiamo più possederlo; ma possiamo possedere, ancor pellegrini su questa terra, un altro paradiso. Sta da noi, dopo aver preparato l’anima nostra ad accogliere l’Ospite divino, andargli incontro, riceverlo, metterlo nell’anima nostra, come su un piccolo trono. Il nostro cuore diventerebbe l’abitazione di Dio, e, dove c’è Dio, c’è il Paradiso. La Chiesa vorrebbe che noi li gustassimo sovente questi momenti di Paradiso. E, visto che noi non siamo tanto docili alla sua voce, ci prega, ci scongiura, ci comanda di voler provare queste delizie interne almeno a Pasqua. are Pasqua! Due parole che spaventano tanti Cristiani, e che, invece, dovrebbero essere accolte con la brama con cui un assetato accoglie l’annuncio d’una vicina sorgente ristoratrice. Accostarsi alla Confessione e alla Mensa eucaristica, vuol dire mettere il cuore in pace, trovare la felicità perduta.Sulla fine d’Ottobre del 1886 si presenta al confessionale dell’abate Huvelin, nella chiesa di S. Agostinoa Parigi, un giovane ragguardevole, Carlo de Foucald. Era stato luogotenente dei Cacciatori d’Africa, coraggioso e fortunato esploratore del Marocco. Nel suo cuore c’era l’inquietudine e la tristezza.« Signor abate — dice dopo un leggero inchino —io non ho la fede, vengo a chiederle d’istruirmi ». L’abate Huvelin lo guardò: « Inginocchiatevi confessatevi a Dio; crederete ». — « Ma non sono venuto per questo». —« Confessatevi ».Quel giovane cedette. S’inginocchiò, e confessò tutta la sua vita. Quando il penitente fu assolto, l’abate gli domanda: « Siete digiuno? » — « Sì ». — « Andate e comunicatevi». Il giovane si accostò subito alla sacra Mensa e fece « la sua seconda Prima Comunione ». Quella Confessione e quella Comunione furono il principio d’un’altra vita. Egli esce dal tempio con la pace nel cuore; pace che gli trasparisce sempre dagli occhi, dal sorriso, nella voce e nelle parole. Egli, da oggi, si prepara alla vita di trappista, di sacerdote, di eremita, che finirà nel Sahara, dopo esser vissuto vittima di espiazione per sé e per gli altri (Renato Bazin, Carlo de Foucauld. Traduzione dal Francese di Clelia Montrezza. Milano 1928, p. 48-49). Forse, il pensiero di dover cominciare una vita nuova, dopo essersi accostati alla Confessione e alla Comunione, intrattiene parecchi dal compiere il loro dovere in questi giorni. Eppure è nostro interesse procurare al nostro cuore una pace vera e una santa letizia, oltre essere nostro dovere è nostro interesse, e massimo interesse, incominciare una vita nuova, intanto che ne abbiamo il tempo; senza contare che « una grave negligenza richiede anche una maggiore riparazione» (S. Leone M. Serm. 84, 2). Facciamo una buona Pasqua col proponimento di camminare in novità di vita, e di non volere imitare gli Ebrei, che dopo aver mangiato l’agnello pasquale nella notte della loro liberazione, rimpiangono l’Egitto, la terra della loro oppressione. « Noi pure mangiamo la Pasqua, cioè Cristo… Nessuno di coloro che mangiano questa pasqua si rivolga all’Egitto, ma al cielo, alla superna Gerusalemme » (S, Giov. Crisost.); da dove ci verrà la forza di compiere il nostro pellegrinaggio, senza ritornare sui passi della vita passata.

Alleluja 

Alleluia, alleluia Ps. CXVII:24; CXVII:1 Hæc dies, quam fecit Dóminus: exsultémus et lætémur in ea. 

[Questo è il giorno che fece il Signore: esultiamo e rallegriàmoci in esso.] 

V. Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. Allelúja, allelúja. 

[Lodate il Signore, poiché è buono: eterna è la sua misericòrdia. Allelúia, allelúia.] 1 Cor V:7 

V.Pascha nostrum immolátus est Christus. 

[Il Cristo, Pasqua nostra, è stato immolato.]

Sequentia

“Víctimæ pascháli laudes ímmolent Christiáni. Agnus rédemit oves: Christus ínnocens Patri reconciliávit peccatóres. Mors et vita duéllo conflixére mirándo: dux vitæ mórtuus regnat vivus. Dic nobis, María, quid vidísti in via? Sepúlcrum Christi vivéntis et glóriam vidi resurgéntis. Angélicos testes, sudárium et vestes. Surréxit Christus, spes mea: præcédet vos in Galilaeam. Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére. Amen. Allelúja.” 

[Alla Vittima pasquale, lodi òffrano i Cristiani. – L’Agnello ha redento le pécore: Cristo innocente, al Padre ha riconciliato i peccatori. – La morte e la vita si scontràrono in miràbile duello: il Duce della vita, già morto, regna vivo. – Dicci, o Maria, che vedesti per via? – Vidi il sepolcro del Cristo vivente: e la glória del Risorgente. – I testimónii angélici, il sudàrio e i lini. – È risorto il Cristo, mia speranza: vi precede in Galilea. Noi sappiamo che il Cristo è veramente risorto da morte: o Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. Amen. Allelúia.]

Evangelium 

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Marcum. 

 Marc. XVI:1-7.

“In illo témpore: María Magdaléne et María Jacóbi et Salóme emérunt arómata, ut veniéntes úngerent Jesum. Et valde mane una sabbatórum, veniunt ad monuméntum, orto jam sole. Et dicébant ad ínvicem: Quis revólvet nobis lápidem ab óstio monuménti? Et respiciéntes vidérunt revolútum lápidem. Erat quippe magnus valde. Et introëúntes in monuméntum vidérunt júvenem sedéntem in dextris, coopértum stola cándida, et obstupuérunt. Qui dicit illis: Nolíte expavéscere: Jesum quǽritis Nazarénum, crucifíxum: surréxit, non est hic, ecce locus, ubi posuérunt eum. Sed ite, dícite discípulis ejus et Petro, quia præcédit vos in Galilǽam: ibi eum vidébitis, sicut dixit vobis.” 

[In quel tempo: Maria Maddalena, Maria di Giacomo, e Salòme, comperàrono degli aromi per andare ad úngere Gesú. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sàbato, arrivàrono al sepolcro, che il sole era già sorto. Ora, dicévano tra loro: Chi mai ci sposterà la pietra dall’ingresso del sepolcro? E guardando, vídero che la pietra era stata spostata: ed era molto grande. Entrate nel sepolcro, vídero un giòvane seduto sul lato destro, rivestito di càndida veste, e sbalordírono. Egli disse loro: Non vi spaventate, voi cercate Gesú Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui: ecco il luogo dove lo avévano posto. Ma andate, e dite ai suoi discépoli, e a Pietro, che egli vi precede in Galilea: là lo vedrete, come vi disse.]

Omelia II

[Mons. G. Bonomelli: MISTERI CRISTIANI, Brescia, Tip. E libr. Queriniana; vol. II, 1894]

RAGIONAMENTO I

Risurrezione di Cristo e la ragione umana.

[Mons. G. Bonomelli: Misteri Cristiani, vol. II, Queriniana, Brescia, 1894]

Nell’augusta nostra Religione vi è un fatto solenne e strepitoso, che è il vertice della vita di Cristo, che getta una luce sfolgorante sulla sua divina missione, che suggella tutta l’opera sua e fa scintillare sulla sua fronte gli infiniti splendori della sua divinità: voi mi avete già compreso: esso è il fatto della sua Risurrezione, che la Chiesa in questo giorno, con tutta la pompa del sacro rito e con santo tripudio del suo cuore, rammenta e festeggia. Tutta la nostra Religione, tutta la nostra fede poggia, come sulla sua pietra fondamentale, su questa verità: Gesù Cristo è vero Dio. – Ora le prove svariatissime della divinità di Gesù Cristo si legano e si intrecciano tra loro per guisa, che tutte mettono capo e quasi si incentrano nel gran fatto della Risurrezione. È questo il miracolo dei miracoli, la prova delle prove della sua Divinità: se questa non regge agli assalti della ragione umana e della miscredenza, tutto intero si sfascia l’edificio della nostra fede: se questa prova sta salda di fronte agli assalti dei nemici tutti, con essa e per essa sta ritta in piedi la grand’opera di Cristo, la Chiesa, e con la Chiesa e per la Chiesa la sua dottrina. Ecco perché gli Apostoli, fin dal primo dì che annunziarono il Vangelo, appellarono costantemente al miracolo della Risurrezione: ecco perché 1’Apostolo gridava ai Corinti – Se Cristo non è risuscitato, è vana la nostra predicazione, vana ancora la nostra fede; noi siamo falsi testimoni di Dio, voi siete ancora nei vostri peccati…. e siamo i più miserabili di tutti gli uomini (Iai Cor. XV, 14, 15, 17, 19) – Questo gran fatto, questo gran miracolo della Risurrezione da oltre diciotto secoli, cioè dal dì che fu annunziato fino ad oggi, è divenuto il bersaglio degli assalti più fieri della miscredenza. Dopo tante e sì lunghe prove: dopo tante e sì vergognose sconfitte, pareva che la miscredenza, fatta più savia, dovesse darsi per vinta e cessare dagli assalti. Ma non è così: gli uomini della miscredenza moderna, simili ai giganti della favola, proseguono nella loro lotta e confidano di dare la scalata al cielo, di balzare dal suo trono Cristo stesso, ed eccoli tutti affaccendati intorno al fondamento della sua Divinità, il miracolo della Risurrezione: agli ordigni antichi di guerra aggiungono i nuovi e fanno ogni sforzo per scrollarlo e rovesciarlo. Ma sono fanciulli, che, martellando la base granitica della più superba vetta dell’Alpi, credono di atterrarla. Si, dilettissimi figli! È certamente cosa che affligge e addolora il vederci costretti dopo tanti secoli a ripigliare le armi usate già dai primi apologisti per difendere il fatto e insieme il dogma capitale della nostra fede. Ma se è necessità il farlo, si faccia. La nostra fede non teme né le occulte insidie, né gli scoperti assalti della miscredenza, sia antica, sia moderna, da qualsivoglia parte le vengano. Essa attende a pie’ fermo i suoi nemici e sul terreno della pura ragione accetta qualunque combattimento, ad armi uguali. Il fatto, su cui poggia la massima prova della Divinità di Cristo, è la sua Risurrezione: gli nomini della miscredenza lo negano: la Chiesa l’afferma ed oggi canta per tutto il mondo – Resurrexit Dominus vere -. Io vi do parola di mostrarvi a tutto rigore questo fatto e questo miracolo, e di mostrarvelo, notatelo bene, con la sola ragione. Voi, che tenete salda la fede, vi sentirete in essa rinfrancati: e se tra voi che mi ascoltate, vi fosse alcuno che ha smarrita la fede, o in essa vacilla, dovrà toccare con mano che il fondamento della nostra Religione non paventa la luce della più severa discussione, della critica più inesorabile e non domanda di meglio che d’essere chiamato in giudizio. L’argomento è vasto e vi prego che non mi venga meno la vostra attenzione e la vostra pazienza, di cui forse avrò bisogno. Gesù Cristo è Egli veramente risorto? Si può dimostrare con la sola ragione ? L’una e 1’altra cosa io affermo e voi siate giudici se attengo la mia promessa. – Il fatto o miracolo, che siamo per esaminare, ha due parti distinte, ma inseparabili, la morte e la Risurrezione: non vi è Risurrezione vera di Cristo se non è preceduta da una morte vera: non occorre dimostrarlo. Ora la morte e la Risurrezione di Cristo sono due fatti, e come tutti i fatti, non si possono provare che con la testimonianza. Nessuno adunque esiga prove matematiche o metafisiche; l’argomento non le comporta. Né vi sia chi creda la certezza dei fatti essere inferiore alla certezza delle prove matematiche. Chi di voi dubita che i Romani siano stati disfatti a Canne, che Cesare sia stato trucidato, che Napoleone sia morto a S. Elena? Nessuno. E come e perché voi tenete questi fatti con assoluta certezza? Li avete voi veduti? No. Ve li accertano uomini degni di fede e vi basta: la vostra certezza è incrollabile. Ma quali condizioni si domandano perché voi possiate prestare pienissima fede ai testimoni che affermano un fatto qualunque? Due condizioni sono necessarie e bastevoli: che i testimoni non si ingannino, né vogliano ingannare: in altri termini, si domanda in essi la scienza di ciò che asseriscono e la probità o sincerità. Poste queste due condizioni essenziali, la loro testimonianza è irrecusabile e la certezza che ne deriva, assoluta. Sulla affermazione di due o tre testimoni forniti di queste due doti, un tribunale condanna a vita ed anche all’estremo supplizio un uomo come uno scellerato. Si può dare certezza maggiore? Ed ora a noi, o fratelli. Eccovi i due fatti della morte e della Risurrezione di Cristo: sono due fatti esterni, che cadono entrambi sotto dei sensi e che per conseguenza non si possono provare che con la testimonianza di uomini degni di fede. Li abbiamo noi questi uomini degni di fede? Sì, e tali che per numero e qualità non potrebbero essere più autorevoli. E da prima accertiamoci sulla verità della morte di Cristo. Abbiamo quattro scrittori di quattro libri distinti, che si chiamano Vangeli: Matteo, Marco, Luca e Giovanni: tutti e quattro sono contemporanei ai fatti che narrano e due han visto ciò che scrivono. Tutti e quattro, narrati i patimenti di Cristo e la sua crocifissione, dicono semplicemente: – Egli spirò -. Altri testimoni, Pietro, Paolo, Giacomo, lo ripetono nelle loro lettere, e con loro lo attestano in modo diretto e indiretto tutti quelli che vissero con Gesù Cristo e lo seguirono. Per voi, uomini della critica e della scienza, basta l’autorità di Platone, di Cicerone, di Tacito e di Svetonio per essere certi della morte di Socrate, di Cesare, di Caligola, di Claudio: perché per essere certi della morte di Cristo non vi basterà la testimonianza dei biografi di Lui e degli storici o scrittori contemporanei? Testimoni della morte di Cristo sono i Giudei, gli Scribi, i Sacerdoti, gli Anziani, i Farisei e tutta quella gran folla, che lo seguì sul Calvario, che contemplò e contò con gioia crudele le ore e quasi i minuti della sua agonia. Era la vigilia della maggior festa d’Israele,, la Pasqua, e una moltitudine immensa da ogni angolo della Palestina traeva a Gerusalemme. Il nome di Gesù, del gran profeta e taumaturgo, risuonava dovunque, e immaginate voi qual turba dovesse accorrere al Calvario, appena si sparse la voce ch’Egli là doveva essere confitto in croce. In mezzo a quella turba e più presso alla croce, su cui agonizzava Gesù, stavano senza dubbio i suoi implacabili nemici, lieti della vittoria e aspettanti l’estremo anelito della odiata loro vittima. Pensate voi se, memori della promessa ripetuta da Cristo – Risorgerò dopo tre dì – non dovevano accertarsi della sua morte! Non è tutto: Gesù la sera del giorno innanzi aveva sofferto tale stretta di cuore da cadere in deliquio e sudar sangue: la notte era stata orribile: abbandonato, rinnegato e tradito dai suoi cari, lasciato in balìa d’una soldatesca feroce, che ne aveva fatto ogni strapazzo; al mattino spietatamente flagellato e coronato di spine; poi trascinato sul colle, inchiodato sulla croce, esposto così straziato e sanguinolente all’aria, al sole, divorato dalla febbre, colmo di dolori morali senza nome, senza una stilla di conforto, tutto lacero e pesto, ridotto ad una sola piaga, doveva soccombere; anzi fa meraviglia che dopo tanti dolori e sì orrida carneficina potesse vivere tre ore in croce. Aveva chinato il capo, era cessato l’anelito affannoso, il corpo tutto s’era abbandonato,, un pallore mortale si era diffuso sul suo volto e la folla spettatrice aveva gridato: – Egli è morto – La festa era imminente: i corpi dei giustiziati dovevano essere levati di là e i manigoldi venuti per il tristo ufficio, visti ancor vivi i due ladroni crocifissi a lato di Gesù, secondo la barbara usanza, a colpi di mazza, fracassarono loro le gambe e li finirono. Venuti a Gesù e, -vistolo già morto, non gli ruppero le gambe, ma uno di loro, quasi per assicurarsi della sua morte, gli diede una lanciata nel petto, che gli dovette squarciare il cuore. Poco appresso un discepolo di Gesù ne chiese il corpo a Pilato per seppellirlo; e Pilato, prima di concederglielo, ebbe a sé il centurione, che presiedeva il drappello dei soldati presenti al supplizio e, accertatosi che Gesù era veramente morto, glielo accordò. Non basta ancora: il corpo di Gesù in sul calare della notte, fu tolto dalla croce, avvolto in un lenzuolo con una mistura di cento libbre di aloe e mirra e deposto in un sepolcro nuovo scavato, secondo l’uso dei Giudei, nella viva roccia e chiusane la bocca con una grossa pietra, che fu suggellata dai Giudei stessi, i quali vi posero a guardia alcuni soldati finché fosse passato il terzo dì, entro il quale Gesù aveva promesso di risorgere. Siamo sinceri, o signori. Poniamo che Gesù non fosse veramente morto sulla croce; che la sua morte fosse un deliquio, una sincope, o se vi piace meglio, una finta morte; vi domando: poteva Egli sopravvivere chiuso là nel sepolcro, avviluppato in tanti aromi, stretto nel lenzuolo, senz’aria, senza soccorso, senza cura di sorta? Riconosciamolo; se non era morto, doveva certamente morire. – Finalmente non vogliate dimenticare, che gli Ebrei non posero mai in dubbio la realtà della morte di Cristo, che era pure il partito più sicuro per negare il miracolo della Risurrezione; ma ricorsero, come vedremo, al ridicolo espediente del furto del cadavere e della menzogna dei discepoli. Qual prova più evidente che non era possibile negare la verità della morte di Cristo? Concludiamo adunque questa prima parte del nostro ragionamento, affermando con la massima sicurezza : Gesù, allorché fu calato nella tomba, era indubitatamente morto – È Egli veramente risorto? Come è certissimo il primo fatto della morte, è certissimo altresì il secondo della Risurrezione. Sì: quei testimoni, che provano il primo fatto, provano pure anche il secondo, e, se ci si permette il dirlo e se è possibile, anche con maggior forza. Come poc’anzi ho fatto avvertire, intanto si potrebbe dubitare ragionevolmente della testimonianza di quelli che affermano un fatto qualunque in quanto ché, o li possiamo supporre ingannati e allucinati, o li possiamo credere bugiardi e ingannatori. Dimostrata la impossibilità di queste due ipotesi, la certezza del fatto rimane là in tutto lo splendore della evidenza. La critica più sottile e più diffidente può essa dar luogo al sospetto, che i testimoni della Risurrezione di Cristo si fossero ingannati, che fossero vittima d’una allucinazione? Il terzo dì dopo la morte di Cristo, il sepolcro dove fu collocato il corpo esangue, è aperto e l’intera Gerusalemme lo può vedere vuoto a tutto suo agio. Che è avvenuto di quel corpo? Non lo si saprà mai, risponde il Renan. Come, non lo si saprà mai? Volete voi gettare le tenebre sulla luce del sole e far ammutolire le mille lingue, che lo predicano dovunque e a tutti, a costo della vita? Quel Gesù, che fu deposto nel sepolcro e che là si cerca indarno, è visto da parecchie donne lungo la via; è visto dalla Maddalena presso il sepolcro; è visto da Pietro; è visto da Giacomo, è visto il giorno stesso della Risurrezione da due discepoli, che se ne andavano ad un vicino castello. È visto da sette discepoli insieme sulla riva del lago di Genezaret; è visto nel Cenacolo da dieci discepoli e poco dopo da undici ivi raccolti; è visto da centoventi persone presso Betania; è visto, scrive S. Paolo, da circa cinquecento persone, molte delle quali vivevano ancora quando l’Apostolo dettava la sua lettera. È visto da uomini, da donne, ora insieme, ora separatamente, di giorno, di notte, in casa, a mensa, sulle sponde del lago, sulla via, sul monte, in un giardino; parlano con Lui, con Lui mangiano, lo toccano, ascoltano le sue parole, lo interrogano, risponde e ciò per quaranta giorni, in Gerusalemme, nella Giudea, nella Galilea. E tutte queste apparizioni non sarebbero che illusioni e allucinazioni? Illusioni e allucinazioni, che durano sì a lungo, in tanti e sì diversi luoghi, in centinaia di persone di sesso e di carattere diverse, che cominciano nello stesso giorno e finiscono lo stesso giorno? Non nego, o signori, la potenza meravigliosa della allucinazione, gli scherzi stranissimi della fantasia. So che Teodorico vedeva sulla mensa il teschio sanguinoso di Simmaco per suo comando ucciso; so che di Socrate e di Torquato Tasso si narra come si vedessero a fianco un genio: e celebre è l’ombra di Banco, creazione del sommo tragico inglese, creazione stupenda perché rispondente alla natura umana. Ma chi mai potrebbe pareggiare a queste creazioni del genio poetico o a quegli scherzi di fantasia le apparizioni di Cristo registrate nei Vangeli, negli Atti e nelle Lettere degli Apostoli? Teodorico solo vedeva sulla sua mensa la testa di Simmaco, una sola volta e se ne comprende il perché: nessuno di quei commensali la vedeva e compativano il misero re ed erano più che certi, la sua essere una illusione. Socrate e Tasso vedevano il loro genio, ma non lo vedevano gli amici, gli scolari: era una allucinazione momentanea, conosciuta come tale, senza importanza pratica, senza nesso alcuno con la Religione. Quale immensa differenza tra queste allucinazioni e le apparizioni di Cristo per il numero, per i testimoni, per il modo, per le circostanze e per 1’importanza del fatto e della dottrina, con cui sono strettamente unite? In tutta la storia della Umanità è impossibile trovare alcun che, non dico di uguale, ma di simile alla narrazione evangelica. – Se la storia delle apparizioni di Cristo potesse dare anche solo l’ombra di sospetto d’una continuata allucinazione, dovremmo rinunciare ad ogni certezza dei sensi, la storia intera perderebbe ogni base, nessun giudice potrebbe pronunciare una sentenza, nemmeno sopra la deposizione di dieci testimoni consenzienti e cadremmo in un desolante scetticismo. E dire, o signori, che questa è la spiegazione dell’autore troppo celebre della vita di Gesù! [Renan] – Alle pie donne, e sopra tutto alla Maddalena, ai discepoli non pareva vero che Gesù fosse morto: credevano confusamente alla immortalità dell’anima; intesero alcune espressioni di Cristo come una cotal promessa della sua Risurrezione: alla Maddalena, nell’ardore della sua fede, parve di udirlo e di vederlo nell’orto: le sfuggì nell’impeto della gioia la magica parola – È risorto -. Gli Apostoli erano chiusi e silenziosi nel Cenacolo: parve loro di sentire un lieve soffio che passava sul loro capo e taluno affermò d’aver udito in quel silenzio il saluto ordinario di Gesù – Pace – Bastò: si disse: È risorto: lo abbiamo udito: l’abbiamo veduto: e così nacque e si stabilì universale e fermissima la fede nella Risurrezione di Gesù e nella sua dottrina e così nacque e si stabilì il Cristianesimo. Esso poggia sopra la allucinazione d’una donna, per un cotal contagio e per una certa tendenza alla imitazione comunicata ad altre donne ed ai discepoli! – Fratelli, arrestiamoci. Voi forse credete ch’io scherzi riportandovi questa spiegazione della Risurrezione di Cristo e che io insulti alla memoria d’un uomo, a cui non fe’ difetto l’ingegno e la coltura e un senso estetico non comune. No, non ischerzo, né insulto chichessia: ho riferito fedelmente il pensiero e la spiegazione di quell’uomo, che parve compendiare in sé tutta la scienza razionalistica moderna. Siffatte ipotesi o spiegazioni non si confutano: accennarle è sfatarle. È più facile concepire che 1’eccelso colosso del Montebianco poggi sopra la punta di un ago di quello che 1’intero Cristianesimo con tutti i suoi dogmi, con tutta la sua morale, con lo stupendo organismo della sua gerarchia poggi sulla affermazione d’una donna, che in un istante di allucinazione esclama: – Gesù è risorto! – Né qui vi spiaccia, o fratelli, por mente ad un’altra osservazione, che mi parrebbe colpa passare sotto silenzio. Non nego che le allucinazioni siano possibili, ancorché non mai nelle proporzioni, che il razionalismo gratuitamente attribuisce ai testimoni della Risurrezione di Cristo. Ma quando queste allucinazioni sono possibili? Quando gli animi sono preparati a subirle, in preda a grande aspettazione, ad ardentissimi desideri, a passioni violente. Una madre che aspetta con ansia febbrile il ritorno d’ un figlio, che piange sconsolata sopra un bambino perduto, facilmente potrà credere di vederlo, di abbracciarlo. La fantasia dà esistenza reale al desiderio vivissimo. È forse questo il caso degli Apostoli? Ma se le donne non credono a ciò che vedono? Se credono involato il corpo di Cristo? Se gli Apostoli le reputano colte da delirio? Se essi stessi, vedendo Gesù, non credono ai propri occhi e pensano di trovarsi alla presenza d’un fantasma? Se è necessario che Gesù faccia loro toccare le mani, le cicatrici del suo corpo, segga e mangi con loro? Se uno dei discepoli si ostina a negar fede ai compagni, che affermano d’ aver veduto Gesù risorto e solo allora si arrende quando con le sue mani tocca le cicatrici delle sue mani e del suo costato? Gli Apostoli adunque e le donne erano ben lungi dal dar corpo alle ombre, dall’essere vittime d’una allucinazione, essi che spinsero la incredulità oltre i confini del verosimile. Ma tutti questi testimoni della Risurrezione di Cristo, si dice, eran rozzi, ignoranti, creduli, inchinevoli ad ammettere tutto ciò che è meraviglioso e sovrannaturale. La maggior parte, si; non tutti. Ma diasi che lo fossero tutti. Qui non si tratta di lunghi e sottili ragionamenti, di cose ardue, sulle quali 1’autorità degli ignoranti non ha peso alcuno. Qui trattasi di un morto che è risuscitato: trattasi d’un fatto visibile, materiale, ripetutamente e in vari modi avvenuto. Qui non si domandano ragionamenti, discussioni, esperienze difficili: basta aver occhi, orecchi e mani, per vedere, udire e toccare e gli Apostoli e le donne avevano tutto questo al pari e forse meglio di tutti gli accademici di Parigi e del mondo. Dov’è il tribunale, che dovendo verificare il fatto d’un ferimento o d’un omicidio avvenuto sopra una piazza, rifiuti la testimonianza di dieci, di venti persone con la ragione, che sono ignoranti, rozze, illetterate? Esso esigerà soltanto di conoscere con sicurezza se hanno veduto od udito ciò che attestano e se siano moralmente degne di fede. Due cose, o fratelli, sin qui son poste fuori d’ogni controversia: Cristo veramente morì: gli Apostoli e i testimoni della Risurrezione di Lui non furono ingannati, non poterono ingannarsi, non si possono supporre giuoco d’una illusione od allucinazione. Ora procediamo nel nostro ragionamento. – Giunti a questo punto della nostra dimostrazione, per negar fede alla testimonianza degli Apostoli, dei Discepoli e delle donne affermanti d’aver visto Gesù Cristo risorto, una sola via rimane aperta ed è l’affermare francamente, che essi vollero ingannare od ingannarono. Ebbene: io assumo di provare che non solo non vollero ingannare, ma che non avrebbero potuto ingannare quando pure l’avessero voluto. A me il dimostrarlo, a voi l’ufficio di giudici severissimi. Uno sguardo, o fratelli, a questi testimoni della Risurrezione di Cristo: sono uomini semplici, rustici, ignoranti, timidi, ignari delle cose del mondo finché volete; ma sinceri, schietti,, pieni di candore, come fanciulli, impotenti a mentire. Venuti dalla Galilea, ove avevano lasciato le reti e le loro barchette, portavano seco la semplicità della campagna, la felice ignoranza degli inganni e dei raggiri. È una lode, che più volte rende loro chi ce li rappresentò come poveri illusi. Tanta è la loro schiettezza, che negli scritti lasciatici, confessano al mondo intero i loro difetti, le loro debolezze, le gare e gelosie, che tra loro si manifestavano, la grossolana loro ignoranza, i rimproveri avuti dal Maestro, i loro timori, la fuga, gli spergiuri del loro capo, il tradimento orribile del loro compagno, gli inganni, in cui caddero, le loro illusioni, la loro ostinata incredulità, e il tutto narrano senza arte, senza debolezza, senza fasto, senza scusarsi o difendersi, con una semplicità infantile. E si vorrebbe che questi uomini ingannassero i loro fratelli, il mondo intero? Questi testimoni si presentano ai loro fratelli, a tutti gli uomini, annunziatori della dottrina del loro Maestro, a cui protestano di non aggiungere, né levare una sillaba. La dottrina ch’essi professano e che predicano in pubblico e in privato, come necessaria a salute, condanna e abbomina la menzogna e l’inganno sotto qualsivoglia forma; essa si compendia in questa sentenza del Maestro: – È, è; no, no – Possiamo noi credere che i discepoli e i maestri di questa dottrina si facessero artefici e propagatori della più scellerata menzogna, del più sacrilego inganno? A chi mai può bastare 1’animo di credere tutti i discepoli di Cristo e le donne stesse sì pie, sì generose, di crederli, dico, tutti bugiardi, sacrileghi, che si beffano di Dio e degli uomini? E poi veniamo a ragionamento più serrato e decisivo. O gli Apostoli e le donne credevano alla Risurrezione di Cristo, o non credevano: se credevano od anche solo ne dubitavano, a qual partito dovevano naturalmente appigliarsi? È chiaro: dovevano dire: Cristo risorgerà, come ha promesso: aspettiamo che risorga e lo annunzieremo: Egli avrà provata la sua divina missione; e non dovevano nemmeno pensare ad architettare 1’inganno e la menzogna. O non credevano alla Risurrezione, e allora perché mentire, ingannare i fratelli, gettarsi in una lotta disperata per far servigio ad un uomo, che conoscevano per un impostore? E non dimenticate che gli Apostoli e le donne erano Giudei credenti, pieni di venerazione per Mosè e per la legge, in cui erano nati, cresciuti ed educati. Vi sembra possibile che a questa legge loro, e dei padri loro ad un tratto potessero osare di sostituirne un’altra, che troppo bene sapevano essere fondata sulla impostura? Questi Apostoli e queste pie donne, dopo la catastrofe del Calvario e perdute le speranze della Risurrezione, dovevano rientrare in se stessi; dovevano vedere la difficilissima condizione, in cui li aveva messi il Maestro; resi invisi o sospetti a tutte le autorità per Lui, che dopo promessa la Risurrezione non risorgeva. E per Lui avrebbero mentito? Lui proclamato Messia e Redentore del mondo; Lui adorato come Dio; Lui che li aveva ingannati? Che altro sperare dall’insano tentativo che vessazioni, persecuzioni e una morte come quella del Maestro, il cui cadavere doveva stare loro sotto gli occhi? Senza capo, senza amici, senza forza, fuggiti da tutti, tremanti sui pericoli che li circondavano, dovevano in fretta pigliare la via di Galilea e farsi dimenticare, ritornando alle loro barchette e alle loro reti. Ma contro ogni verosimiglianza supponiamo che non temessero né Dio, né gli uomini; che spingendo il coraggio fino all’audacia, anzi alla disperazione, persistessero nella folle idea di fondare la nuova Religione sul fatto della Risurrezione del Maestro, ch’essi sapevano impossibile: supponiamo ch’essi volessero ripigliare l’opera, in cui il maestro era sì miseramente perito, e predicandolo risorto, farlo credere Salvatore del mondo e Figlio di Dio. Per riuscire nell’intento, dovevano ordire la trama e per modo, che presentasse almeno la possibilità della riuscita. i discepoli e le pie donne e tutti i testimoni della Risurrezione dovevano darsi la parola e riunirsi a consiglio. Quando? Precisamente in quel brevissimo spazio di tempo, che corse tra la morte di Cristo e l’affermazione che era risorto; non prima, perché non credevano possibile la sua morte; non dopo, perché il profeta era già chiarito falso profeta. Vi pare possibile siffatta riunione in quei momenti di trepidazione, di confusione e di suprema angoscia? Ma diasi possibile. Il più audace tra i convenuti doveva ragionare in questi sensi: Noi sappiamo che il Maestro non risorgerà; che per Lui tutto è ornai finito; ma noi dobbiamo compire l’opera per Lui iniziata e fondare la nuova Religione, ch’Egli aveva ideato. Affermiamo audacemente la sua Risurrezione; facciamone il capo saldo della Religione e predichiamo che il Maestro è Dio, che bisogna credere in Lui; morire per Lui; è una menzogna enorme, che ci costerà carceri, esili, la morte; ma non importa: così vendicheremo il Maestro e noi stessi. Giuriamo tutti di affermare sempre e dovunque, a costo della vita, che Gesù è risorto. L’empia e insensata proposta come doveva essere-accolta ? Quei poveri Apostoli conoscevano abbastanza se stessi da sentire l’impossibilità dell’impresa: – Vivente il Maestro, siamo fuggiti tutti ieri sera; l’abbiamo abbandonato, negato; uno di noi l’ha tradito; abbiamo contro di noi l’autorità dei Romani e del nostro Sinedrio: se il Maestro fu messo in croce, che sarà di noi? Come terremo il segreto, tutti, anche le donne? Se un solo tradisce, e scopre la congiura, siamo perduti tutti. E poi come e perché ingannare il mondo? Quale il guadagno qui in terra? E potremo sfuggire al braccio di Dio? – Erano riflessioni troppo ovvie perché non si affacciassero nemmeno alla mente degli Apostoli e delle donne e rendessero impossibile 1’impresa. Ma passiamo anche su questo e poniamo che la stoltissima ed empia proposta fosse accolta da tutti. Bisognava recarla ad effetto e subito prima che passasse il terzo dì, termine ultimo della prova fissato da Cristo stesso. La cosa più necessaria ed urgente era quella di levare il corpo del Maestro dal sepolcro e farlo sparire. Ma presso quel sepolcro stavano le guardie, probabilmente straniere, e senza dubbio vegliavano più che mai, avvertite del pericolo. Si potevano corrompere e guadagnare col danaro. Sì: ma ci voleva danaro e non poco e subito: chi lo forniva, se tutti erano poveri? Chi avrebbe assunto la pericolosissima missione di farne la proposta a quei soldati? Se avessero respinta l’offerta e trascinato chi la faceva dinanzi al Sinedrio? Se, avuto il danaro, non avessero mantenuta la promessa e denunziato i corruttori? Chi poteva assicurare il segreto tanto necessario? Potevasi rapire il corpo con la forza, mettendo in fuga i soldati. Ci volevano armi e coraggio: supporre quelle e più questo in quegli uomini, in quelle angustie, è un sogno. Ma supponiamo che tentassero un colpo di mano e assaltassero le guardie. Queste vincitrici, il corpo rimaneva: vinte, avrebbero detto: siamo state soverchiate dal numero e il corpo fu involato dai discepoli e la trama nell’uno e nell’altro caso era svelata. Ma i soldati potevano dormire e lo si disse dai Giudei: i discepoli vennero e se ne portarono il corpo di Cristo e fu possibile 1’affermazione: – Gesù è risorto -. I soldati dormivano! Tutti? E gli Apostoli e i discepoli potevano supporre che dormissero? E nessuno si destò al rumore dei discepoli, che venivano e tornavano, al rumore della grossa pietra levata dalla bocca del sepolcro? È troppo. E chi disse che i soldati dormivano? I soldati istessi. E i dormenti sono testimoni? E non furono puniti come infedeli al loro dovere? È troppo. Setto od otto anni appresso un Evangelista afferma solennemente, che i capi del popolo con danaro guadagnarono i soldati, perché spacciassero la favola, che mentre essi dormivano, i discepoli avevano fatto sparire il corpo di Cristo. Chi levossi a smentire il Vangelista? Nessuno! prova evidente che non era calunnia. Ma sovrabbondiamo in concessioni con i nostri avversari. Che donne e discepoli entrassero nell’infame ed empia congiura di affermare la Risurrezione di Cristo; che riuscissero a far scomparire il cadavere di Lui e tutto ciò fosse stabilito ed eseguito in quelle quarant’ore, che trascorsero fra la morte di Cristo e il grido emesso: – E risorto -. Voi vedete che è un cumolo di cose affatto moralmente impossibili. — Non im porta. — Si conceda tutto. – Esiste la congiura di ingannare la nazione e il mondo intero: ne fanno parte necessaria tutti i discepoli e le donne e spetta a queste fare i primi passi. Una congiura di questo genere, ordita in fretta e in furia, di cui fanno parte alcune decine di uomini e parecchie donne! Consci tutti della propria e dell’altrui debolezza, provata testè a fatti, potevano essi fidarsi a vicenda? Dove tra congiurati non sia sicura ed assoluta la fiducia, la congiura non è possibile. Perché quelle donne e quei discepoli di Cristo potessero accingersi alla scelleratissima impresa, bisogna supporli tutti, senza eccezione, tristi e malvagi in sommo grado: bisogna crederli tutti senza Religione, senza coscienza. Ingannare i loro fratelli e ingannarli in ciò che vi è di più augusto e di più santo, la Religione! Tener mano ad una congiura, che ha per iscopo di rovesciare la Religione propria e de’, loro padri per fondarne un’altra, il cui autore sarebbe un impostore od un pazzo! Dite: vi sembra possibile che Apostoli ignoranti, grossolani sì, ma onesti e retti; che codeste donne pie potessero e volessero prestarsi all’opera nefanda? – E proseguiamo ancora: Chi si accinge ad una impresa scabrosa e in cui sono in giuoco non la sola quiete, ma l’onore, la libertà e la vita istessa, a due cose particolarmente deve badare: l’impresa è possibile? Se è possibile, offre essa la speranza d’una mercede proporzionata ai pericoli e alle fatiche, che si devono sostenere? Per quanto li supponiamo ignoranti e inesperti del mondo codesti Apostoli e codeste donne, è forza convenire che dovevano vedere chiarissimamente la impossibilità della disperata impresa. Si riconoscevano poveri, ignoranti, timidi, nuovi del mondo, senza credito, senza amici, senza capo; vedevano di fronte a sé l’autorità della Sinagoga, per scienza, credito, ricchezza, potere, prestigio del passato, onnipotente; vedevano dietro ad essa l’autorità romana stessa, che nel terribile dramma del Maestro per timore aveva ceduto alla Sinagoga e l’aveva abbandonato al suo furore dopo averne tentato invano la difesa. Potevano essi nutrire speranza di riuscire là dov’era fallito il Maestro? E qual mercede attendere da un’impresa sì dissennata se non le carceri, i flagelli, gli esili, la morte più crudele e il disprezzo e l’infamia nella memoria dei futuri? Erano tutte considerazioni d’una evidenza massima, che rendevano impossibile la congiura negli uomini più audaci e più perversi; che dire poi negli Apostoli e nelle donne, sì timidi, sì onesti e sì religiosi? E tempo di conchiudere il nostro ragionamento. Non si può sollevare il più lieve dubbio sulla verità della morte di Cristo: la certezza della sua Risurrezione non può essere maggiore per il numero e per la qualità dei testimoni, che l’affermano; essi non poterono essere ingannati, né allucinati; essi non ingannarono, né poterono ingannare, quand’anche per una ipotesi assurda l’avessero voluto. – Mi sembra d’aver mostrato a punta eli logica, tutto questo e chiusa ogni via a qualunque sofisma e ne appello a voi stessi, o fratelli, alla vostra ragione. Quale la conseguenza che ne discende? Questa: – Cristo è veramente risorto -. Dunque, la dottrina ch’Egli ha insegnato è vera; dunque Egli è veramente Dio, il nostro Salvatore; prostrandoci pieni di fede e d’amore per Lui, coll’apostolo Tommaso esclamiamo: – Mio Signore e mio Dio! -.

 Credo…

IL CREDO

Offertorium 

Orémus 

Ps. LXXV: 9-10.

Terra trémuit, et quiévit, dum resúrgeret in judício Deus, allelúja. 

[La terra tremò e ristette, quando sorse Dio a fare giustizia, allelúia.]

Secreta

Súscipe, quaesumus, Dómine, preces pópuli tui cum oblatiónibus hostiárum: ut, Paschálibus initiáta mystériis, ad æternitátis nobis medélam, te operánte, profíciant. 

[O Signore, Ti supplichiamo, accogli le preghiere del pòpolo tuo, in uno con l’offerta di questi doni, affinché i medésimi, consacrati dai misteri pasquali, ci sérvano, per òpera tua, di rimédio per l’eternità.] –

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio 

1 Cor V: 7-8

Pascha nostrum immolátus est Christus, allelúja: itaque epulémur in ázymis sinceritátis et veritátis, allelúja, allelúja, allelúja.

[Il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, allelúia: banchettiamo dunque con gli àzzimi della purezza e della verità, allelúia, allelúia, allelúia.]

Postcommunio 

 Orémus.

Spíritum nobis, Dómine, tuæ caritátis infúnde: ut, quos sacraméntis paschálibus satiásti, tua fácias pietáte concordes. 

[Infondi in noi, o Signore, lo Spírito della tua carità: affinché coloro che saziasti coi sacramenti pasquali, li renda unànimi con la tua pietà.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

MESSA DEL GIOVEDI’ SANTO (2021)

Feria Quinta in Cœna Domini ~

Stazione a S. Giovanni in Laterano. Feria di I cl. – Paramenti bianchi.

Durante parecchi secoli del Medioevo si celebravano in questo giorno, tre differenti Messe: la 1° per la riconciliazione dei pubblici penitenti, con paramenti violacei; la 2° la Missa Chrismatis, ossia della benedizione dei Sacri Oli, con paramenti bianchi e con Gloria; la 3a a un’ora tarda della giornata per venerare l’istituzione della SS. Eucarestia, con paramenti rossi. Verso la fine del Medioevo, alla prima Messa si sostituì una semplice cerimonia di assoluzione, e la seconda diventò, nelle cattedrali, una cerimonia integrale dell’unica Messa mantenuta, nella quale la maggior parte degli elementi è sostituita dagli inizi della Passione ed i resto dalla Eucarestia (per la quale d’altra parte la Chiesa ha istituito una speciale Messa solenne). – La Chiesa nell’Unica Messa di questo giorno celebra l’istituzione del Sacramento dell’Eucarestia e quella del Sacerdozio cattolico creato innanzitutto per la rinnovazione del Mistero (Secr.). Questa Messa realizza dunque in maniera tutta speciale l’ordine dato da Gesù ai suoi sacerdoti di rinnovare l’ultima Cena. Nel momento in cui si complottava la Sua morte, il Salvatore trovava modo di immortalare la Sua presenza tra noi, perciò la Chiesa, sospeso per un momento il lutto, con santa gioia celebra in questo giorno il santo Sacrificio. Essa ricopre il crocifisso di un velo bianco, riveste i suoi ministri con paramenti di festa, canta il Gloria mentre suonano tutte le campane. Poi, cantato quest’inno, le campane restano silenziose  fino al Sabato santo. Nell’Epistola, biasimati alcuni abusi dovuti al fatto che primitivamente il banchetto eucaristico succedeva ad un altro banchetto, com’era avvenuto nell’ultima Cena, S. Paolo ci dice che la Messa è il « memoriale della morte di Gesù ». Amare il S. Sacrificio significa « gloriarsi della Croce di Gesù » (Intr.). Dopo la Messa si spoglia l’altare per indicare che il Sacrificio resta  sospeso e fino a Sabato non sarà più offerto a Dio. Il Sacerdote infatti, ha consacrato due ostie perché nel Venerdì santo la Chiesa, tutta preoccupata dell’adorazione del legno della Croce, non osa rinnovare sull’altare l’immolazione del Golgota. – In questo Giovedì Santo, nel quale l’Epistola ed il Vangelo ci riproducono nei suoi particolari l’istituzione del Sacerdozio e del Sacrificio eucaristico, riceviamo dalle mani del sacerdote la Vittima santa che si è immolata sull’altare, compiremo così santamente il precetto pasquale.



Sancta Missa

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Gal VI:14.
Nos autem gloriári opórtet in Cruce Dómini nostri Jesu Christi: in quo est salus, vita et resurréctio nostra: per quem salváti et liberáti sumus

[Quanto a noi non sia mai che ci gloriamo d’altro se non della croce del Signor nostro Gesù Cristo; in Lui è la salvezza, la vita e la resurrezione nostra; per mezzo suo siamo stati salvati e liberati.]

Ps LXVI:2
Deus misereátur nostri, et benedícat nobis: illúminet vultum suum super nos, et misereátur nostri.

[Dio abbia pietà di noi e ci benedica; faccia splendere su di noi il suo sguardo e ci usi pietà.]

Nos autem gloriári opórtet in Cruce Dómini nostri Jesu Christi: in quo est salus, vita et resurréctio nostra: per quem salváti et liberáti sumus

[Quanto a noi non sia mai che ci gloriamo d’altro se non della croce del Signor nostro Gesù Cristo; in Lui è la salvezza, la vita e la resurrezione nostra; per mezzo suo siamo stati salvati e liberati.]

Oratio

Orémus.
Deus, a quo et Judas reátus sui pœnam, et confessiónis suæ latro præmium sumpsit, concéde nobis tuæ propitiatiónis efféctum: ut, sicut in passióne sua Jesus Christus, Dóminus noster, diversa utrísque íntulit stipéndia meritórum; ita nobis, abláto vetustátis erróre, resurrectiónis suæ grátiam largiátur:

[Dio, da cui Giuda ricevette il castigo del suo delitto e il ladrone il premio del suo pentimento, fa a noi sentire l’effetto della tua pietà, affinché, come nella sua Passione Gesù Cristo Signor nostro diede all’uno e all’altro il dovuto trattamento, cosi tolte da noi le aberrazioni dell’uomo vecchio, ci dia la grazia della sua risurrezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XI: 20-32.
Fratres: Conveniéntibus vobis in unum, jam non est Domínicam cœnam manducáre. Unusquísque enim suam cenam præsúmit ad manducándum. Et alius quidem ésurit: álius autem ébrius est. Numquid domos non habétis ad manducándum et bibéndum? aut ecclésiam Dei contémnitis, et confúnditis eos, qui non habent? Quid dicam vobis? Laudo vos? In hoc non laudo. Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Jesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem. Simíliter et cálicem, postquam cœnávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine: hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis: mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo edat et de cálice bibat. Qui enim mandúcat et bibit indígne, judícium sibi mandúcat et bibit: non dijúdicans corpus Dómini. Ideo inter vos multi infirmi et imbecílles, et dórmiunt multi. Quod si nosmetípsos dijudicarémus, non útique judicarémur. Dum judicámur autem, a Dómino corrípimur,ut non cum hoc mundo damnémur.

(Fratelli; quando vi adunate in sacra adunanza, non vi comportate come chi deve prepararsi a mangiare la Cena del Signore, poiché  ciascuno  pensa  a consumare la propria cena tanto che uno patisce la fame e l’altro si ubriaca. Ma non avete le vostre case per mangiare e bere? O avete in disprezzo l’assemblea di Dio e desiderate far arrossire coloro che non hanno nulla? Che devo dirvi? forse lodarvi? In questo certamente no, Quello infatti che io vi ho insegnato me l’ha comunicato il Signore, e cioè: II Signore Gesù la notte in cui fu tradito, prese il pane e, dopo aver reso le grazie a Dio [di qui il nome di «Eucaristia»], lo spezzò e disse: «Prendete e mangiate: questo è il mio Corpo, che sarà dato a morte per voi; fate questo in memoria di me». E similmente, dopo aver cenato, prese anche il Calice, dicendo: «Questo Calice è il nuovo Patto nel mio Sangue: fate questo tutte le volte che ne berrete in mio ricordo», Quindi ogni qualvolta mangerete questo Pane e berrete questo Calice annunzierete la morte del Signore, finché Egli non venga [per il Giudizio]. Chiunque dunque mangerà questo Pane o berrà il Calice del Signore indegnamente sarà reo del Sangue e del Corpo del Signore. Ognuno pertanto esamini se stesso e poi mangi di quel Pane e beva di quel Calice; perché chi ne mangia e ne beve indegnamente, non pensando che quello è il Corpo del Signore, mangia e beve la sua condanna. -Ecco perché tra voi ci sono molti malati e deboli [spiritualmente], e parecchi ne muoiono. Se ci esaminassimo bene da noi stessi, non saremmo condannati; invece se siamo giudicati dal Signore, Egli deve castigarci [con castighi materiali] per non condannarci col mondo [ma per farci ravvedere]. )

Graduale

Phil II:8-9
Christus factus est pro nobis obœ́diens usque ad mortem, mortem autem crucis
V. Propter quod et Deus exaltávit illum: et dedit illi nomen, quod est super omne nomen

[Il Cristo si è fatto per noi obbediente fino alla morte e morte di croce.
V. Perciò Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome, che è sopra ogni altro nome.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann XIII: 1-15
Ante diem festum Paschæ, sciens Jesus, quia venit hora ejus, ut tránseat ex hoc mundo ad Patrem: cum dilexísset suos, qui erant in mundo, in finem diléxit eos. Et cena facta, cum diábolus jam misísset in cor, ut tráderet eum Judas Simónis Iscariótæ: sciens, quia ómnia dedit ei Pater in manus, et quia a Deo exivit, et ad Deum vadit: surgit a cena et ponit vestiménta sua: et cum accepísset línteum, præcínxit se. Deinde mittit aquam in pelvim, et cœpit laváre pedes discipulórum, et extérgere línteo, quo erat præcínctus. Venit ergo ad Simónem Petrum. Et dicit ei Petrus: Dómine, tu mihi lavas pedes? Respóndit Jesus et dixit ei: Quod ego fácio, tu nescis modo, scies autem póstea. Dicit ei Petrus: Non lavábis mihi pedes in ætérnum. Respóndit ei Jesus: Si non lávero te, non habébis partem mecum. Dicit ei Simon Petrus: Dómine, non tantum pedes meos, sed et manus et caput. Dicit ei Jesus: Qui lotus est, non índiget nisi ut pedes lavet, sed est mundus totus. Et vos mundi estis, sed non omnes. Sciébat enim, quisnam esset, qui tráderet eum: proptérea dixit: Non estis mundi omnes. Postquam ergo lavit pedes eórum et accépit vestiménta sua: cum recubuísset íterum, dixit eis: Scitis, quid fécerim vobis? Vos vocátis me Magíster et Dómine: et bene dícitis: sum étenim. Si ergo ego lavi pedes vestros, Dóminus et Magíster: et vos debétis alter altérius laváre pedes. Exémplum enim dedi vobis, ut, quemádmodum ego feci vobis, ita et vos faciátis.

[Prima della festa di Pasqua, Gesù sapendo che per lui era venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine: e fatta la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figliuolo di Simone Iscariota, il disegno di tradirlo: sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e ch’era venuto da Dio e a Dio se ne tornava: si leva da tavola, depone il mantello e, preso un asciugatoio, se Io cinge. Poi versa dell’acqua nel bacino, e si mette a lavare i piedi ai discepoli e a rasciugarli con l’asciugatoio. Viene dunque a Simon Pietro; e Pietro gli dice: Signore, tu lavare i piedi a me? Gesù gli rispose: «Quel che io faccio, tu adesso non lo sai; ma lo capirai dopo». Pietro gli dice: Tu non mi laverai i piedi, mai! E Gesù gli risponde: «Se io non ti laverò, non avrai parte con me». E Simon Pietro gli dice: Signore, non soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo! E Gesù gli dice : «Chi è stato lavato, non ha bisogno di lavarsi, se non i piedi, ma è interamente mondo. E voi siete mondi, ma non tutti». Siccome sapeva chi era colui che l’avrebbe tradito, per questo disse: «Non tutti siete mondi». Come dunque ebbe loro lavato i piedi, ed ebbe ripreso il mantello, rimessosi a tavola, disse loro: « Lo capite quel che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. Orbene, se io, che sono il Signore e il Maestro , vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi l’uno all’altro. Poiché vi ho dato un esempio, affinché cosi come ho fatto io, facciate anche voi».]

OMELIA

(Discorsi di San G. B. M. Vianney, curato d’Ars – Vol. II, IV. Ed. Marietti ed. Totino-Roma, 1933)

Caro mea vere est cibus.

La mia carne è veramente cibo. (S. Giov. VI, 56.)

Possiamo noi, fratelli miei, in tutta la nostra Religione, trovare un momento, una circostanza più felice, di quella dell’istante in cui Gesù-Cristo istituì il Sacramento adorabile dell’altare? No, fratelli miei, no! Perché questa circostanza ci richiama l’amore immenso di un Dio per le sue creature. È vero che in tutto ciò che Dio ha fatto, le sue perfezioni si manifestano infinitamente. Creando il mondo Egli fa brillare la grandezza della sua potenza. Governando questo vasto universo, ci prova una saggezza incomprensibile, ed anche noi possiamo dire con il salmista: « Si, Dio  mio Voi siete infinitamente grande nelle piccole cose, e nella creazione dell’insetto più vile. » (Quam magnificata sunt opera tua, Domine! … Animalia pusilla cum magnis. Ps CIII, 23-24) Ma nell’istituzione di questo grande Sacramento d’amore, Egli ci mostra non solo la sua potenza e sapienza, ma anche l’amore immenso del suo cuore per noi. Sapendo molto bene che era prossimo il suo tempo per tornare al Padre, non poté decidersi di lasciarci soli sulla terra, di fronte a tanti nemici, che cercavano tutti la perdita nostra. Sì, prima che Gesù-Cristo istituisse questo Sacramento d’amore, Egli sapeva pure a quanti disprezzi, profanazione, Egli andasse ad esporsi; ma tutto questo non fu capace di trattenerlo; Egli vuole che noi abbiamo la felicità di trovarlo tutte le volte che vorremmo cercarlo, e come questo grande Sacramento si obbliga a restar in mezzo a noi, giorno e notte; ed in Lui troviamo un Dio Salvatore che ogni giorno si offrirà per noi alla giustizia del Padre suo. O popolo fortunato! Chi ha mai compreso la tua felicità? Per ispirarvi un rispetto ed un grande amore verso Gesù-Cristo nel Sacramento adorabile dell’Eucaristia, vi mostrerò quanto Gesù-Cristo ci abbia amato nell’istituzione dell’Eucaristia. Quale fortuna, fratelli miei, per una creatura ricevere il suo Dio! nutrirsene, impinguarsene! O amore infinito, immenso ed incomprensibile! … Può un Cristiano, pensarvi e non morire d’amore e timore alla vista della sua indegnità? …

I. È vero che in tutti Sacramenti che Gesù-Cristo ha istituito, Egli ci mostra una infinita misericordia. Nel Sacramento del Battesimo ci strappa dalle mani di lucifero e ci rende i figli di Dio suo Padre; ci apre il Cielo che ci era chiuso; ci rende partecipi di tutti i tesori della Chiesa, e se restiamo fedeli ai nostri impegni, ci viene assicurata una eterna felicità. Nel Sacramento della Penitenza, ci mostra e ci fa partecipe della sua misericordia fino all’estremo; poiché ci strappa dall’inferno, ove i nostri peccati di malizia  ci avevano trascinato, e di nuovo ci applica i meriti infiniti della sua morte e della sua Passione. Nel Sacramento della Confermazione, per condurci nel cammino della virtù, ci dà uno Spirito di luce, che ci fa conoscere il bene che dobbiamo fare, ed il male che dobbiamo evitare; per di più, ci dà uno Spirito di forza per superare tutto ciò che possa impedirci di giungere alla nostra salvezza. Nel Sacramento dell’Estrema Unzione vediamo con gli occhi della fede che Gesù ci ricolma dei meriti della sua Morte e Passione. In quello dell’Ordine, Gesù-Cristo dà tutti i suoi poteri ai suoi Sacerdoti; essi lo fanno poi scendere … In quello del Matrimonio, vediamo che Gesù-Cristo santifica tutte le nostre azioni, anche quelle in cui sembra che seguiamo le inclinazioni corrotte della natura. – Ecco, voi mi direte, delle misericordie degne di un DIO che è infinito in tutto. Ma nel Sacramento adorabile dell’Eucaristia, Egli va oltre: tutto questo non sembra essere che un primo assaggio del suo amore per gli uomini; Egli vuole, per la felicità delle sue creature, che il suo Corpo e la sua Anima e la sua Divinità si trovino in tutti gli angoli del mondo, affinché, tutte le volte che si vorrà, lo si possa trovare, e con Lui, noi troviamo ogni sorta di felicità. Se siamo nelle pene e nel dolore, Egli ci consolerà e ci allevierà. Siamo malati? Egli ci guarirà, ci darà forze onde soffrire in maniera da meritare il cielo. Se il demonio, il mondo e le nostre inclinazioni ci fanno guerra, Egli ci darà armi per combattere, per resistere e riportare vittoria. Se noi siamo poveri, Egli ci arricchirà con ogni tipo di ricchezze per il tempo e per l’eternità. – Sono abbastanza queste grazie, mi direte. – Oh, no! Fratelli miei, il suo amore ancor non è soddisfatto, Egli ha da farci ancora altri doni che il suo immenso amore, ha trovato nel suo cuore infiammato per il mondo, questo mondo ingrato che non sembra essere ricolmo di tanti beni se non per oltraggiare il suo Benefattore. Ma no, fratelli miei, lasciamo l’ingratitudine degli uomini per un momento, apriamo la porta del suo Cuore sacro ed adorabile, rinchiudiamoci per un istante nelle sua fiamma d’amore, e vedremo quel che possa un Dio che ci ama. O Dio mio! chi potrà comprenderlo e non morire d’amore e di dolore vedendo da una parte tanta carità e dall’altra tanto disprezzo ed ingratitudine! Leggiamo nel Vangelo che Gesù-Cristo, conoscendo molto bene che il momento in cui i Giudei dovevano farlo morire fosse giunto, disse ai suoi Apostoli che « Egli desiderava fortemente celebrare la Pasqua con essi. » (Luc. XXII, 15). Essendo giunto l’istante sempre memorabile, Egli si pose a tavola, volendo lasciarci un pegno del suo amore. Poi si alza dalla tavola, si toglie i vestiti, si cinge di un asciugatoio; e messa dell’acqua in un catino, comincia a lavare i piedi dei suoi Apostoli ed anche di Giuda, ben sapendo che egli stava per tradirlo. Egli voleva con questo dimostrarci la purezza che dobbiamo imparare da Lui [… per mostrarci due cose: la purezza e l’umiltà (Nota del venerabile)]. Ritornato a tavola, prende del pane tra le sue mani sante e venerabili, alzando gli occhi al cielo per rendere grazie al Padre suo, al fine di farci comprendere che questo grande dono ci viene dal cielo; lo benedisse e lo distribuì ai suoi Apostoli dicendo loro: « Mangiatene tutti, questo è veramente il mio Corpo che per voi sarà dato. » Avendo poi preso il calice, ove aveva mescolato vino con acqua, lo benedisse ugualmente, lo presentò loro dicendo: « Bevetene tutti, questo è il mio sangue che sarà sparso per la remissione dei peccati, e tutte le volte che voi pronuncerete le stesse parole, farete le stesso miracolo; cioè voi cambierete il pane nel mio Corpo ed il vino nel mio Sangue. » Quale amore, M. F. !? quello di un Dio nell’istituzione del Sacramento adorabile dell’Eucaristia! Ora ditemi, F. M., da quale sentimento di rispetto non saremmo noi stati penetrati se fossimo stati sulla terra e avessimo visto con i nostri occhi Gesù-Cristo quando istituì questo grande Sacramento d’amore. Eppure! F. M., questo grande miracolo si ripete ogni vota che il Sacerdote celebra la santa Messa, in cui il divin Salvatore si rende presente sugli altari. – Ah! se avessimo questa fede viva, di qual rispetto noi non dovremmo essere penetrati? Con qual rispetto e timore non compariremmo davanti a questo grande Sacrificio, nel quale Dio ci mostra la grandezza del suo amore e della sua potenza! È vero che voi lo credete; ma vi comportate come se non lo credeste! – Per bisogna farvi ben comprendere la grandezza di questo mistero, ascoltatemi, e vedrete quanto grande dovrebbe essere il rispetto che dobbiamo portarne. Leggiamo nella storia che un sacerdote, nel dire la santa Messa in una chiesa della città di Bolsena, e dubitando della realtà del Corpo e del Sangue di Gesù-Cristo nell’Ostia santa, dopo aver pronunciate le parole della consacrazione, cioè se le parole della Consacrazione avessero veramente mutato il pane in Corpo di Cristo, ed il vino nel suo Sangue, nel medesimo istante, la santa Ostia fu tutta coperta di sangue. Gesù-Cristo sembra che abbia voluto rimproverare al suo ministro, la sua infedeltà, indurre a piangere, riportalo nel ravvedimento, fargli riacquistare la fede perduta con il suo dubbio; e nello stesso tempo, mostrarci con questo grande miracolo, quanto dobbiamo essere convinti della sua santa presenza nella santa Eucaristia. Questa Ostia santa versò sangue con tale abbondanza, che il corporale, il telo e lo stesso altare ne furono interamente bagnati. Il Papa, al quale fu riferito il miracolo, ordinò che gli si portasse questo corporale tutto insanguinato; esso fu portato nella città di Orvieto, ove fu ricevuto in pompa straordinaria e riposto in chiesa. Si costruì poi un magnifico tempio onde ricevere questo prezioso deposito … tutti gli anni si porta in processione questa preziosa reliquia, il giorno del Corpus Domini. Vedete, F. M., quanto questo debba fortificare la fede di coloro che hanno un qualsiasi dubbio. Ma, Dio mio, come poter dubitare, dopo le parole di Gesù-Cristo stesso, che disse ai suoi Apostoli, e nella loro persona a tutti i Sacerdoti: « Tutte le volte che pronuncerete queste stesse parole, farete lo stesso miracolo, cioè voi farete come me: voi cambierete il pane nel mio Corpo, ed il vino nel mio Sangue »? Quale amore! Fratelli miei, quale carità, quella di Gesù-Cristo di scegliere la vigilia del giorno in cui lo si doveva far morire, per istituire un Sacramento col quale resterà in mezzo a noi per essere nostro Padre, nostro Consolatore e tutta la nostra felicità! Più fortunati ancora di coloro che vivevano la sua vita mortale, quando non era che in luogo, e bisognava fare tante leghe per avere la felicità di vederlo; oggi, noi invece lo troviamo in tutti i luoghi del mondo, e questo beneficio ci è promesso fino alla fine del mondo. O amore immenso di un Dio per le sue creature! No, F. M., niente può arrestar Dio, quando si tratta di mostrare la grandezza del suo amore. In questo momento avventurato per noi, tutta Gerusalemme è in ardente agitazione, tutta la popolazione in rivolta, tutti cospirano per la sua perdita; tutti vogliono spargere questo sangue adorabile; ed è precisamente in questo momento che si prepara loro il pegno più ineffabile del suo amore. Gli uomini tramano i più neri complotti contro di Lui, mentre Egli non è occupato che a dar loro ciò che ha di più prezioso, che è Egli stesso. Non si pensa che ad erigergli una croce infame per farlo morire, ed Egli non pensa che ad erigere un altare per immolarsi. Egli stesso ogni giorno per noi. Ci si prepara a versare il suo Sangue, Gesù-Cristo vuole che questo stesso Sangue sia per noi una bevanda di immortalità per la consolazione e la felicità delle nostre anime. – Sì, F. M. noi possiamo dire che Gesù-Cristo ci ama fino ad esaurire le ricchezze del suo amore, sacrificandosi in tutto quanto la sua sapienza e la sua potenza hanno potuto ispirargli. O amore tenero e generoso di un Dio per vili creature come noi, che ne siamo sì indegni! Ah! F. M., quale rispetto non dovremo noi avere per questo gran Sacramento in cui un Dio si fa uomo rendendosi presente ogni giorno sui nostri altari! Benché noi vediamo che Gesù-Cristo sia la bontà stessa, Egli non lascia talvolta il punire rigorosamente il disprezzo che si fa per la sua santa presenza, come vediamo in parecchi fatti storici . – (Ahimè! Quanti che non hanno la fede dei demoni che tremano alla sua presenza. Ahimè, noi non abbiamo che una fede languida e quasi morta – nota del Venerabile). – Si racconta che un Sacerdote di Friburgo, nel portare il buon Dio ad un malato, si trovò a passare in una piazza dove c’era tanta gente che danzava. Il suonatore, benché senza religione, si fermò dicendo: « Io sento la campanella, si porta il buon Dio ad un malato, mettiamoci in ginocchio. » Ma in questa compagnia, si trovava una donna empia ispirata dal furore dell’inferno: « Continuiamo, sono delle campanelle appese al collo delle bestie di mio padre; quando esse passano, non ci si ferma, né ci si mette in ginocchio. » Tutta la compagnia applaudì a questa empietà e tutti continuarono a danzare. Nello stesso momento arrivò un temporale così violento che tutte le persone che danzavano furono portate via e non si è mai potuto sapere che cosa di loro sia avvenuto. Ahimè! F. M., tutti questi miserabili pagarono caramente il disprezzo che ebbero per la presenza di Gesù-Cristo: il che deve farci ben comprendere quanto dobbiamo noi rispettare la presenza santa di Gesù-Cristo, sia nel suo tempio, sia quando vediamo che lo si porta ai poveri malati.

II. Noi diciamo che Gesù-Cristo, per operare questo grande miracolo, scelse del pane che è il nutrimento di tutti, dei ricchi e dei poveri, di colui che è forte e di colui che langue, per mostrarci come questo celeste nutrimento sia per tutti i Cristiani che vogliono conservare la vita della grazia e la forza per combattere il demonio. Noi vediamo che quando Gesù-Cristo operò questo gran miracolo, levò gli occhi al cielo per rendere grazie al Padre suo, per farci vedere quanto questo momento felice per noi sia desiderato da Lui ed infine per provarci la grandezza del suo amore. Sì, figli miei, disse loro questo divin Salvatore, il mio Sangue è impaziente di essere sparso per voi; il mio Corpo brucia dal desiderio di essere distrutto per guarire le vostre piaghe; ben lungi dall’essere affranto dall’idea dell’amara tristezza che mi ha causato in anticipo il pensiero delle mie sofferenze e della mia morte, invece, è il colmo del mio piacere. Ciò che causa questo, è che voi troverete nelle mie sofferenze e nella mia morte un rimedio a tutti i vostri mali. Oh! Quale amore, fratelli miei, quello di un Dio per le sue creature! San Tommaso ci dice che il mistero dell’incarnazione, ha nascosto la sua divinità; ma che in quello del Sacramento dell’eucaristia, giunse persino a nascondere la sua umanità, ed è questo fatto un mistero di fede. (S. Tommaso, Ritmo Adoro te devote) – F. M., non c’è che la fede che possa agire in un mistero così incomprensibile. Sì, F. M., in qualunque luogo ci troviamo, volgiamo con piacere i nostri pensieri, i nostri desideri, dal lato ove trovasi questo Corpo Adorabile, per unirci agli Angeli che lo adorano con tanto rispetto. Guardiamoci bene dal fare come gli empi che non hanno rispetto in questi templi che sono così santi, così rispettabili e sacri per la presenza di un Dio fatto uomo, che giorno e notte abita in mezzo a noi! … – Spesso noi vediamo che il Padre eterno punisce rigorosamente coloro che disprezzano il suo divin Figlio. Leggiamo nella storia che un tale si era trovato in una casa ove si portava il buon Dio ad un malato, e coloro che erano vicino al malato, gli dissero di mettersi in ginocchio, ma egli non volle; con un’orribile blasfemia: « Io – disse – mettermi in ginocchio, io rispetto di più un ragno che è il più vile tra gli animali, che il vostro Gesù-Cristo che volete che io adori. » Ahimè!  F. M., di cosa è capace colui che ha perso la fede! Ma il buon Dio non lasciò impunito questo orribile peccato: all’istante medesimo un grosso ragno tutto nero si staccò dal soffitto e venne a posarsi sulla bocca del bestemmiatore pungendogli le labbra. Subito si gonfiò, e morì all’istante. Vedete, F. M., quanto siamo colpevoli quando non abbiamo questo grande rispetto per la presenza di Gesù-Cristo. – No, F. M., non stanchiamoci di contemplare questo mistero d’amore in cui un Dio, uguale al Padre suo, nutre i suoi figli non con un nutrimento ordinario, né con quella manna con cui il popolo giudeo era nutrito nel deserto; ma col suo Corpo adorabile e col suo Sangue prezioso. Chi potrebbe mai immaginarlo se questo miracolo non lo avesse annunziato ed operato Egli stesso ad un tempo? Oh! F. M., tutte queste meraviglie, sono degne della nostra ammirazione e del nostro amore! Un Dio, dopo essersi addossato le nostre debolezze, ci partecipa questi beni! O popolo cristiano, quanto sei felice nell’avere un Dio così buono e così ricco!  Leggiamo in San Giovanni che egli vide un Angelo al quale il Padre eterno affidava il calice del suo furore per versarlo su tutte le nazioni; ma qui vediamo il contrario. Il Padre eterno rimette nelle mani di suo Figlio il calice della misericordia per essere sparso su tutte le nazioni della terra. (Apoc. XV,). Parlandoci del suo Sangue adorabile, ci dice, come ai suoi Apostoli: « Bevetene tutti e vi troverete la remissione dei vostri peccati e la vita eterna. » (Matt- XVI, 27-28). O ineffabile felicità! … O beata sorgente! Chi dimostrerà fino alla fine dei secoli come questa credenza debba essere tutta la nostra felicità! Gesù-Cristo non ha cessato di far dei miracoli per portarci ad una fede viva nella sua Presenza reale. – Leggiamo nella storia, che eravi una donna cristiana, ma assai povera. Avendo avuto in prestito da un giudeo una piccola somma di denaro, ella gli diede in pegno i suoi migliori abiti. La festa di Pasqua era vicina, ella pregò il giudeo di restituirle per un giorno la roba datagli. Il giudeo le disse che non solo egli voleva condonargli le vesti, ma pure il suo denaro a condizione soltanto che gli portasse la santa Ostia che avrebbe ricevuta dalla mano del Sacerdote. Il desiderio di questa miserabile di riavere le cose sue e non essere obbligata a restituire il denaro imprestatole, la indusse ad un’azione orribile. All’indomani ella si recò nella chiesa della sua parrocchia. Dopo aver ricevuto l’Ostia santa sulla lingua, si affrettò a prenderla e metterla in un fazzoletto. La portò poi a questo miserabile giudeo che ne aveva fatto richiesta per esercitare il suo furore contro Gesù-Cristo. Questo uomo abominevole trattò Gesù-Cristo con una rabbia mostruosa; e noi vediamo che Gesù-Cristo medesimo rivelò quanto questo oltraggi gli erano sensibili. Il giudeo cominciò col mettere l’Ostia santa su un tavolo, gli diede dei colpi di temperino finché non fu sazio; ma questo disgraziato vide subito uscire dall’Ostia santa abbondante sangue, cosa che il figliuol suo ne fremette. Di poi, avendola con disprezzo tolta dal tavolo, la appese con un chiodo contro il muro e le diede dei colpi con uno staffile per un pezzo. La trafisse poi con una lancia, e ne uscì nuovamente sangue. Dopo tanta crudeltà, la gettò in una caldaia di acqua bollente: subito l’acqua sembrò mutarsi in sangue. L’Ostia apparve allora sotto la forma di Gesù-Cristo in croce: questo lo spaventò talmente che corse a nascondersi in un angolo della sua casa. Durante questo tempo i figli di quel giudeo che vedevano andare i Cristiani in chiesa, dicevano loro: « Ma dove andate, mio padre ha ucciso il vostro Dio; Egli è morto, non lo troverete più. » Una donna, che ascoltava ciò che dicevano questi bambini, entrò nella loro casa. Ed  infatti vide ancora l’Ostia santa sotto forma di Gesù-Cristo crocifisso; ma ben presto riprese la sua forma ordinaria. Questa donna, avendo preso un vaso che presentò, l’Ostia santa vi si andò a posare dentro. Questa donna felice, e piena di gioia, la portò successivamente alle chiesa di San Giovanni in Grève, dove fu posta in luogo conveniente per essere adorata. A questo disgraziato giudeo, gli si offrì il perdono se volesse convertirsi facendosi Cristiano; ma egli era così ostinato, che preferì bruciare vivo, piuttosto che farsi Cristiano. Tuttavia sua moglie, i suoi figli, ed una quantità di Giudei, si fecero battezzare. In seguito a questo miracolo che Gesù-Cristo aveva operato, e perché non se ne perdesse la memoria, si trasformò quella casa in una chiesa ove si stabilì una comunità, affinché vi fossero persone che continuamente facessero ammenda onorevole a Gesù-Cristo per gli oltraggi che questo disgraziato giudeo aveva fatto. (Prodigio conosciuto come Miracolo di Billettes). Noi non possiamo ascoltare questo, fratelli miei, senza fremere! Ebbene! F. M., ecco a cosa si espone Gesù-Cristo per nostro amore, ed a cosa sarà esposto fino alla fine del mondo. Che amore! F. M., di un Dio per noi! A quali eccessi non lo porta verso le sue creature! – Gesù-Cristo. tenendo il calice stretto tra le sue mani, disse agli Apostoli: « ancora un po’ di tempo e questo Sangue prezioso sta per essere sparso in maniera cruenta e visibile, ed è per voi che sta per essere sparso, l’ardore che Io ho di versarlo nei vostri cuori, mi ha fatto utilizzare questo mezzo. È vero che la gelosia dei miei nemici è certo una causa della mia morte, ma essa non è una delle principali; le accuse che essi hanno inventato contro di me per perdermi, la perfidia del discepolo che sta per tradirmi, la lassezza del giudice che sta per condannarmi, e la crudeltà dei carnefici che stanno per uccidermi, sono altrettanti strumenti di cui il mio amore infinito si serve per provarvi quanto vi ami. » Sì, F. M., è per la remissione dei nostri peccati. Vedete, fratelli miei, quanto Gesù Cristo ci ami, poiché Egli si sacrifica per noi alla giustizia del Padre con tanta premura; in più Egli vuole che questo Sacrificio si rinnovi tutti i giorni in tutti i luoghi del mondo. Qual felicità per noi, F. M., sapere che i nostri peccati, anche prima di averli commessi, sono stati espiati nel momento del grande Sacrificio della Croce! Veniamo spesso, F. M., ai piedi dei nostri tabernacoli, per consolarci nelle nostre pene, per fortificarci nelle nostre debolezze. Abbiamo la grande sventura di aver peccato? Il Sangue adorabile chiederà grazia per noi. – Ah! F. M., quanto più viva della nostra era la fede dei primi Cristiani! Nei primi tempi, una quantità di Cristiani attraversavano i mari per andare a visitare i luoghi santi ove si era operato il mistero della nostra Redenzione. Quando si mostrava loro il cenacolo in cui Gesù-Cristo aveva istituito questo divin Sacramento che è stato consacrato a cibare le nostre anime, quando si faceva loro vedere dove aveva irrorato la terra con le sue lacrime ed il suo Sangue durante la sua preghiera e la sua agonia, essi non potevano lasciar questi luoghi santi senza versare lacrime in abbondanza. Ma quando li si conduceva al Calvario, ove aveva Egli sopportato tanti tormenti per noi, essi sembravano non poter vivere più; erano inconsolabili, perché questi luoghi richiamavano il tempo, le azioni ed i misteri che si sono operati per noi; essi sentivano in essi la fede riaccendersi, il loro cuore bruciare di un fuoco nuovo. O luoghi fortunati! Esclamavano, in cui si sono operati tanti prodigi per salvarci. Ma, F. M., senza andare tanto lontano, e senza darci la pena di attraversare i mari, esporci a pericoli … non abbiamo noi qui, Gesù-Cristo in mezzo a noi non solamente come Dio, ma in Corpo ed Anima? Le nostre chiese non sono degne per noi di rispetto come i luoghi sacri ove questi pellegrini andavano? Oh! F. M., la nostra bella sorte è troppo grande; no, no noi non lo comprenderemo mai abbastanza. O Nazione beata quella dei Cristiani! Veder rinnovarsi ogni giorno tutti i prodigi che l’onnipotenza di Dio operò un tempo sul Calvario per salvare gli uomini. – Perché dunque, F. M., non vediamo questo amore, questa medesima riconoscenza, questo stesso rispetto, dal momento che ogni giorno si rinnovano sotto i nostri occhi gli stessi miracoli? Ahimè! Tanto noi abbiamo abusato delle grazie che il buon Dio, per punizione delle nostre ingratitudini, ci ha tolto in parte la nostra fede; appena noi la sentiamo, e comprendiamo di essere alla presenza di Dio. Mio Dio! Quale disgrazia per colui che ha perso la fede! Ahimè! F. M., da quando abbiamo perso la fede, noi non abbiamo più che disprezzo per questo augusto Sacramento, e quanti si lasciano trascinare fino all’empietà, deridendo coloro che sono così beati di attingervi le grazie e le forze necessarie per salvarsi. Temiamo, F. M., ché il buon Dio non ci punisca del poco rispetto che abbiamo per la sua adorabile presenza; eccone un esempio dei più terribili. – Il Cardinal Baronio riporta nei suoi Annali che vi era nella città di Lusignan, presso Poitiers, una persona che nutriva un gran disprezzo per la Persona di Gesù-Cristo; egli derideva e disprezzava coloro che frequentavano i Sacramenti; metteva in ridicolo la loro devozione. Frattanto il buon Dio, che preferisce la conversione del peccatore alla sua perdita, gli diede diverse volte dei rimorsi di coscienza, per cui vedeva benissimo di far male, che coloro che derideva erano più felici di lui; ma quando si ripresentava l’occasione ella ricominciava, e con tal mezzo, poco a poco, finì per soffocare questi rimorsi che il buon Dio gli dava. Ma per meglio nascondersi, cercò di guadagnare l’amicizia di un santo religioso, superiore del monastero di Bonneval. Luogo assai vicino. Vi andava spesso, gloriandosene anche, benché empio, e voleva essere creduto buono quando era con questi buoni religiosi. Il superiore che intuiva quasi ciò che aveva nell’anima, gli dice più volte: « Mio amico caro, voi non avete rispetto per la presenza di Gesù-Cristo nel Sacramento adorabile dei nostri altari; ma io credo che se volete convertirvi, vi converrà lasciare il mondo e ritirarvi in un monastero a farvi penitenza. Voi stesso sapete quante volte avete profanato i Sacramenti, siete ripieno di sacrilegi; se doveste morire, sarete gettato nell’inferno per tutta l’eternità. Date retta a me, pensate a riparare le vostre profanazioni; come potete vivere in tale miserevole stato? » Questo povero uomo sembrava ascoltarlo ed anche profittare dei suoi consigli, perché sentiva bene che la sua coscienza era carica di sacrilegi; ma non voleva fare qualche piccolo sacrificio che doveva, di modo che con tutti i suoi pensieri, restava sempre lo stesso; ma il buon Dio stanco della sua empietà e dei suoi sacrilegi, l’abbandonò: cadde malato. L’abate si premurò di andare a visitarlo, sapendo quanto la sua anima fosse in cattivo stato. Questo povero uomo vedendo questo buon padre, che era un santo e che veniva a visitarlo, si mise a piangere di gioia e, forse nella speranza che andasse a pregare per lui, per aiutarlo a far uscire la sua anima dal fango dei suoi sacrilegi, pregò l’abate di restare un po’ di tempo. Sopraggiunta la notte, tutti si ritirarono tranne l’abate che restò con il malato. L’infelice si mise a gridare spaventosamente: “Ah! Padre mio, soccorretemi! ah! Padre mio, venite, venite in mio soccorso! „ Ma, ahimè! non v’era più tempo: Dio l’aveva abbandonato per castigo de’ suoi sacrilegi e delle sue empietà. Ah! Padre mio, ecco due leoni terribili che vogliono trascinarmi via! Ah! Padre mio, aiuto! „ L’abate, tutto spaventato, si gettò in ginocchio domandando grazia per lui: ma era troppo tardi; la giustizia di Dio l’aveva abbandonato al potere dei demoni. L’ammalato tutto ad un tratto cambia voce, e prende un tono calmo; si mette a parlare come uno sano, e che è nel possesso delle sue facoltà:  « Padre mio, gli dice, quei leoni che prima mi circondavano, ora si sono ritirati. „ Ma intanto che parlavano insieme familiarmente, l’ammalato perse la parola e restò come morto. Il religioso, che tuttavia lo credeva morto, volle veder la fine disgraziata di quella faccenda, e si fermò tutto il resto della notte. Dopo un po’ di tempo l’infelice ritornò in sé, riprese la parola come prima, e disse al superiore:  « Padre mio, sono stato citato davanti al tribunale di Gesù Cristo, e le mie empietà e sacrilegi m’hanno fatto condannare a bruciar nell’inferno. „ Il superiore, spaventato, si mise a pregare, per ottenere, se eravi ancor speranza, la salvezza dello sventurato: il moribondo, vedendolo, gli disse: « Padre mio, tralasciate di pregare; il buon Dio non vi esaudirà mai per me; i demoni sono già ai miei fianchi; non aspettano che la mia morte, che non tarderà, per trascinarmi all’inferno ad abbruciarvi per tutta l’eternità. „ Ad un tratto, colpito da terrore: “Ah! Padre mio, il demonio mi trascina via: addio, Padre mio, ho disprezzato i vostri consigli, e sono dannato. „ Così dicendo esalò la sua anima maledetta all’inferno. Il superiore se ne partì versando lagrime sulla sorte del disgraziato che dal suo letto era precipitato nell’inferno. – Ahimè! F. M., quanto grande è il numero dei profanatori, dei Cristiani che hanno perso la fede per i loro sacrilegi! Ahimè! Fratelli miei, se vediamo tanti Cristiani che non frequentano più i Sacramenti o che non li frequentano raramente, non cerchiamo altra ragione che i sacrilegi. Ahimè! Quanti altri sono lacerati dai rimorsi di coscienza, e si sentono colpevoli di sacrilegi e che, in uno stato che fa inorridire il cielo e la terra, attendono la morte. Ah! F. M., non andate oltre, non arrivate allo stesso misero stato di questo riprovato del quale abbiamo parlato. Come potete sapere se prima della morte non sarete abbandonati da Dio come costui, e gettati nel fuoco? O Dio mio, come poter vivere in uno stato così spaventoso? Ah! Fratelli miei, c’è ancora tempo, torniamo allora a gettarci ai piedi di Gesù-Cristo che riposa nel Sacramento adorabile dell’Eucaristia. Egli nuovamente offrirà il merito della sua morte e passione per noi al Padre suo e noi saremo sicuri di ottenere misericordia. – Sì, F. M., noi siamo sicuri che se abbiamo grande rispetto per la presenza di Gesù-Cristo nel Sacramento adorabile dei nostri altari, otterremo tutto ciò che vorremo. E poiché, fratelli miei, queste processioni son tutte consacrate per adorare Gesù-Cristo nel Sacramento adorabile dell’Eucaristia, per ricompensarlo degli oltraggi che ha ricevuto, seguiamolo nelle nostre processioni, camminiamo al suo seguito con il rispetto e la devozione con cui lo seguivano i primi Cristiani nelle sue predicazioni, in cui Egli non passava mai in un luogo senza spandere ogni tipo di benedizioni (vedete il profeta nel deserto, Zaccheo, la beata madre di San Pietro, la Maddalena, la donna malata emorroissa, Lazzaro resuscitato – Nota del Venrabile). Sì, F. M., noi vediamo nella storia con tanti esempi come il buon Dio punisce i profanatori della presenza adorabile del suo Corpo e del suo Sangue. – Si narra che, essendo entrato un ladro di notte in una chiesa, prese tutti i vasi sacri ove erano rinchiuse le sante Ostie; li portò infino ad un luogo, cioè, una piazza che era nei pressi di San Dionigi. Qui giunto, volle vedere i vasi per sapere se ancora vi erano delle ostie. Egli ne trovò ancora una che, una volta aperto il vaso, saltò in aria e volteggiava sopra di lui; fu questo prodigio che fece scoprire il ladro da alcuni passanti che lo arrestarono. L’Abate di San Dionigi ne fu avvertito, e ne diede avviso al Vescovo di Parigi;  l’Ostia santa rimase miracolosamente sospesa in aria. Essendo venuto il Vescovo con tutti i suoi Sacerdoti, ed una quantità di altre persone in processione, l’Ostia santa di andò a posare nel ciborio del Sacerdote che l’aveva consacrata. La si portò in una chiesa ove si celebrò una gran Messa un giorno di ciascuna settimana in memoria di questo miracolo. Ora ditemi, F. M., non ci deve questo ispirare un grande rispetto per la presenza di Gesù-Cristo, sia che siamo nelle nostre chiese, sia che lo seguiamo nelle nostre processioni? Veniamo a Lui con grande confidenza; Egli è buono, è misericordioso; Egli ci ama, e pertanto siamo certi di ricevere tutto quel che gli domandiamo; ma abbiamo l’umiltà, la purezza, l’amore di Dio, il disprezzo della vita; … guardiamoci bene dal non lasciarci andare nelle distrazioni. Amiamo il buon Dio, F. M., con tutto il nostro cuore e così avremo il nostro Paradiso già in questo mondo …     

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXVII:16 et 17.
Déxtera Dómini fecit virtútem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.

[La destra del Signore ha mostrato la sua potenza; la destra del Signore mi ha esaltato: non morrò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]


Secreta

Ipse tibi, quǽsumus, Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus, sacrifícium nostrum reddat accéptum, qui discípulis suis in sui commemoratiónem hoc fíeri hodiérna traditióne monstrávit, Jesus Christus, Fílius tuus, Dóminus noster:

[O Signore santo, Padre onnipotente, eterno Dio, ti renda accetto questo nostro sacrificio quegli stesso, che con l’odierna istituzione insegnò ai suoi discepoli di offrirlo in sua memoria, Gesù Cristo, Figlio tuo, Signore nostro; il quale con te vive e regna.]


Præfatio


de Sancta Cruce
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui salútem humáni géneris in ligno Crucis constituísti: ut, unde mors oriebátur, inde vita resúrgeret: et, qui in ligno vincébat, in ligno quoque vincerétur: per Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che hai procurato la salvezza del genere umano col legno della Croce: cosí che da dove venne la morte, di là risorgesse la vita, e chi col legno vinse, dal legno fosse vinto: per Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:

Santo, Santo, Santo il Signore Dio degli esérciti I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell’alto dei cieli.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio


Joann 13:12, 13 et 15.
Dóminus Jesus, postquam cœnávit cum discípulis suis, lavit pedes eórum, et ait illis: Scitis, quid fécerim vobis ego, Dóminus et Magíster? Exemplum dedi vobis, ut et vos ita faciátis.

[Il Signore Gesù, come ebbe cenato con i suoi discepoli, lavò loro i piedi, e disse: comprendete quel che io, Signore e maestro ho fatto a voi? Io vi ho dato l’esempio, perché così facciate anche voi.]

Postcommunio

Orémus.
Refécti vitálibus aliméntis, quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quod témpore nostræ mortalitátis exséquimur, immortalitátis tuæ múnere consequámur.

[O Signore Dio nostro, ristorati da questi vitali alimenti, concedici di conseguire, col dono della tua immortalità, ciò che celebriamo durante la nostra vita mortale.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA DELLE PALME (2021)

DOMENICA DELLE PALME [2021]

Semidoppio Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La liturgia di oggi esprime con due cerimonie, l’una tutta piena di gioia, l’altra di tristezza, i due aspetti secondo i quali la Chiesa considera la Croce. Anzi tutto vengono la Benedizione e la Processione delle Palme. Esse traboccano di una santa allegrezza che ci permette, dopo venti secoli, di rivivere la scena grandiosa dell’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme. Poi c’è la Messa di cui i canti e le letture si riferiscono esclusivamente al doloroso ricordo della Passione del Salvatore.

I . — Benedizione delle Palme e Processione.

A Gerusalemme, nel IV secolo, si leggeva in questa Domenica nel luogo medesimo dove i fatti s’erano svolti, il racconto evangelico che ci descrive Cristo, acclamato come Re d’Israele, che prende possesso della sua capitale. In realtà, Gerusalemme non è che l’immagine del regno della Gerusalemme celeste. Poi un Vescovo, montato su un asino, andava dal sommo del Monte Oliveto alla chiesa della Risurrezione, circondato dalla folla che portava delle palme, cantando inni ed antifone. Questa cerimonia era preceduta dalla lettura del passo dell’Esodo riguardante l’uscita dall’Egitto. Il popolo di Dio, accampato all’ombra dei palmizi, vicino alle dodici fonti dove Mosè gli promette la manna, è il popolo cristiano che servendosi di rami dei palmizi attesta che il suo Re, Gesù,viene a liberare le anime dal peccato, conducendole al fonte battesimale e nutrendole con la manna eucaristica. La Chiesa di Roma, adottando questo uso, pare verso il IX secolo, ha aggiunto i riti della Benedizione delle Palme, da cui deriva il nome di Pasqua fiorita dato a questa Domenica. Questa cerimonia è una specie di messa con Orazione propria, Epistola, Vangelo e Prefazio proprio. La consacrazione è sostituita dalla benedizione delle palme e la comunione dalla distribuzione di queste palme. Queste cerimonie hanno un significato simbolico. « Dio, — dice la Chiesa — per un ordine meraviglioso della sua Provvidenza, ha voluto servirsi anche di queste cose sensibili per esprimere l’ammirabile economia della nostra salvezza » poiché « questi rami di palme segnavano la vittoria che stava per esser riportata sul principe della morte e i rami d’ulivo annunciavano l’abbondante effusione della misericordia divina ». « Infatti la colomba annunciò la pace alla terra per mezzo d’un ramoscello d’ulivo », « e le grazie che Dio moltiplicò su Noè all’uscita dall’arca, e su Mosè che abbandonava l’Egitto con i figli d’Israele, sono una figura della Chiesa» «che muove incontro a Cristo con opere buone» «con le opere che germogliano dai rami di giustizia » (Orazioni della Benedizione delle Palme). Questo corteo di Cristiani che, con le palme in mano e con il canto dell’osanna sulle labbra, acclamano ogni anno, in tutto il mondo, attraverso tutte le generazioni, la regalità di Cristo, è composta di tutti i catecumeni, dei penitenti pubblici, e dei fedeli che i sacramenti del Battesimo, della Eucaristia e della Penitenza assoderanno, nelle feste di Pasqua, a questo trionfatore glorioso. « E noi, che con integra fede rammentiamo il fatto e il suo significato « …ti preghiamo, Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio, per lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo affinché, ciò che il tuo popolo fa oggi esternamente, lo compia spiritualmente, riportando vittoria sul nemico ». Questo rappresenta la processione che si arresta alla porta della Chiesa. Alcuni coristi sono nell’interno, i loro canti s’alternano con quelli dei sacerdoti (Gloria, laus et honor-. Processione delle Palme): da una parte sono i « cori angelici », dall’altra i soldati di Cristo, ancora impegnati nel combattimento, che acclamano per turno il Re della gloria. Ben presto la porta si apre allorché il suddiacono vi avrà bussato per tre volte con l’asta della croce; così la croce di Gesù ci apre il cielo e la processione entra in Chiesa, come gli eletti entreranno un giorno con Cristo nella gloria eterna. — Conserviamo religiosamente nella nostra casa un ramoscello di olivo benedetto. Questo sacramentale, in virtù della preghiera della Chiesa, ci farà ottenere i favori del cielo e renderà più ferma la nostra fede in Gesù che, pieno di misericordia (simboleggiata dall’olivo, di cui l’olio mitiga le piaghe), ha vinto (vittoria simboleggiata dalle palme) il demonio, il peccato e la morte.

2. — Messa della Domenica delle Palme.

La benedizione delle palme si faceva a Santa Maria Maggiore, che a Roma rappresenta Betlemme, dove nacque Colui che i Magi proclamarono « Re dei Giudei ». La processione andava da questa Basilica a quella di S. Giovanni Laterano nella quale si teneva altre volte la Stazione, poiché, essendo dedicata al Santo Salvatore, essa rievoca il ricordo della Passione di cui tratta la Messa. — Il trionfo del Salvatore deve essere preceduto dalla « sua umiliazione fino alla morte e fino alla morte di croce » (Ep.) umiliazione che ci servirà di modello « affinché mettendo a profitto gli insegnamenti della sua pazienza possiamo renderci partecipi anche della sua risurrezione » (Or.).

Benedictio Palmorum

Ant. Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis.

[Osanna al Figlio di David, benedetto Colui che  viene nel nome del Signore. O Re di Israele: Osanna nel più alto dei cieli!]
Orémus.
Bene ☩ dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Christum Dominum nostrum.

[Bene ☩ dici Signore, te ne preghiamo, questi rami di palma e concedi che quanto il tuo popolo ha celebrato materialmente in tuo onore, lo compia spiritualmente con somma devozione, vincendo il nemico e corrispondendo con profondo amore all’opera della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore.]

De distributione ramorum

Ant. Púeri Hebræórum, portántes ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsisI

[I fanciulli ebrei, portando rami di olivo, andarono incontro al Signore, acclamando e dicendo: Osanna nel più alto dei cieli.].


D
ómini est terra et plenitúdo eius, orbis terrárum et univérsi qui hábitant in eo. Quia ipse super mária fundávit eum et super flúmina præparávit eum.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes …

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ.
Quis est iste rex glóriæ? Dóminus fortis et potens: Dóminus potens in prǽlio.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes…

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus virtútum ipse est rex glóriæ.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini. .

[I fanciulli Ebrei stendevano le loro vesti sulla via e acclamavano dicendo: Osanna al Piglio di David! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!]

Omnes gentes pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exultatiónis.
Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis, rex magnus super omnem terram.
Ant. Púeri Hebræórum  …
Subiécit pópulos nobis: et gentes sub pédibus nóstris.
Elegit nobis hereditátem suam: spéciem Iacob quam diléxit.
Ant. Púeri Hebræórum

Ascéndit Deus in iúbilo: et Dóminus in voce tubæ.
Psállite Deo nostro, psállite: psállite regi nostro, psállite.
Ant. Púeri Hebræórum …

Quóniam rex omnis terræ Deus: psállite sapiénter.
Regnávit Deus super gentes: Deus sedit super sedem sanctam suam.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Príncipes populórum congregáti sunt cum Deo Abraham: quóniam Dei fortes terræ veheménter elevati sunt.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum. [XXI, 1-9]

“In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini”.

[In quel tempo: Avvicinandosi a Gerusalemme, arrivato a Bètfage, vicino al monte degli ulivi, Gesù mandò due suoi discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio dirimpetto a voi, e subito vi troverete un’asina legata con il suo puledro: scioglietela e conducetemela. E, se qualcuno vi dirà qualche cosa, dite; – il Signore ne ha bisogno; e subito ve li rilascerà». Ora tutto questo avvenne perché si adempisse quanto detto dal Profeta: «Dite alla figlia di Sion : Ecco il tuo Re viene a Te, mansueto, seduto sopra di un’asina ed asinello puledro di una giumenta». I Discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro detto. Menarono l’asina ed il puledro, vi misero sopra i mantelli e Gesù sopra a sedere. E molta gente stese i mantelli lungo la strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li spargevano sulla via, mentre le turbe che precedevano e seguivano gridavano: «Osanna al Figlio di Davide; benedetto Colui che viene nel nome del Signore».]

De processione cum ramis benedictis

Procedámus in pace.

Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes prædicant: et in laudem Christi voces tonant per núbila: «Hosánna in excélsis».

[Con fiori e palme le folle vanno ad incontrare il Redentore e rendono degno ossequio al Vincitore trionfante. Le nazioni lo proclamano Figlio di Dio e nell’etere risuona a lode di Cristo un canto: Osanna nel più alto dei cieli!]

Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: «Hosánna in excélsis».

[Facciamo di essere anche noi fedeli come gli Angeli ed i fanciulli, acclamando al vincitore della morte: Osanna nel più alto dei cieli!]


Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: «Hosánna in excélsis».

[Immensa folla, convenuta per la Pasqua, acclamava ai Signore: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!]


Cœpérunt omnes turbæ descendéntium gaudéntes laudáre Deum voce magna, super ómnibus quas víderant virtútibus, dicéntes: «Benedíctus qui venit Rex in nómine Dómini; pax in terra, et glória in excélsis».

[Tutta la turba dei discepoli discendenti dal monte Oliveto cominciò con letizia a lodar Dio ad alta voce per tutti i prodigi che aveva veduti dicendo: Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in terra e gloria nell’alto dei cieli.]

Hymnus ad Christum Regem

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Israël es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta simul.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus ecce tibi.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium

[Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Tu sei il Re di Israele, il nobile figlio di David, o Re benedetto che vieni nel nome del Signore.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
L‘intera corte angelica nel più alto dei cieli, l’uomo mortale e tutte le creature celebrano insieme le tue lodi.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Il popolo Ebreo ti veniva dinanzi con le palme, ed eccoci dinanzi a te, con preghiere, con voti e cantici.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Essi ti offrivano il tributo del loro omaggio, quando tu andavi a soffrire; noi eleviamo questi canti a te che ora regni.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Ti piacquero essi: ti piaccia anche la nostra devozione, o Re di bontà, Re clemente, a cui ogni cosa buona piace.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.]

Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Psalmus CXLVII

Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion.
Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te.
Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te.
Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus.
Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit.
Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis sustinébit?
Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ.
Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël.
Non fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis.
Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Fulgéntibus palmis prostérnimur adveniénti Dómino: huic omnes occurrámus cum hymnis et cánticis, glorificántes et dicéntes: «Benedíctus Dóminus».

[Di festosi rami ornati, ci prostriamo al Signor che viene: a Lui incontro corriamo tra inni e canti, Lui glorifichiamo dicendo: Benedetto il Signore!]


Ave, Rex noster, Fili David, Redémptor mundi, quem prophétæ praedixérunt Salvatórem dómui Israël esse ventúrum. Te enim ad salutárem víctimam Pater misit in mundum, quem exspectábant omnes sancti ab orígine mundi, et nunc: «Hosánna Fílio David. Benedíctus qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis».

[Ave, o nostro Re, Figlio di David, Redentore del mondo, preannunciato dai Profeti come Salvatore venuto per la casa d’Israele. Il Padre mandò Te come vittima di redenzione per il mondo; t’aspettavano tutti i santi sin dall’origine del mondo, ed ora: Osanna, Figlio di David. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei Cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes,
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».
Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».

[Mentre il Signore entrava nella città santa, i fanciulli ebrei proclamavano la risurrezione alla vita,
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!
Avendo il popolo sentito che Gesù si avvicinava a Gerusalemme, gli mosse incontro
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

[Signor Gesù Cristo, Re e Redentore nostro, in onore del quale abbiamo cantato lodi solenni, portando questi rami, concedi propizio che la grazia della tua benedizione discenda dovunque questi rami saranno portati e che la tua destra protegga i redenti togliendo di mezzo a loro ogni iniquità ed illusione diabolica. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.]

Introitus

Ps XXI: 20 et 22.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

[Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Ps XXI:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum.

[Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti].

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

[Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Oratio

Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur.

[Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.]

Epistola

Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II: 5-11

“Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne genuflectátur cœléstium, terréstrium et inférnorum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris.”

“Fratelli: Siano in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, essendo della natura di Dio, non ritenne come una preda la sua parità con Dio, ma spogliò se stesso, prendendo la natura dì servo, divenuto simile agli uomini, e all’aspetto riconosciuto quale uomo. Abbassò, se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sublimato, e gli ha dato un nome superiore a ogni altro nome; perchè nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, sulla terra e nell’inferno, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre”.

LA GRANDE UMILIAZIONE.

Entriamo oggi nella Settimana Santa, durante la quale la Chiesa ci fa rivivere giorno per giorno; starei per dire ora per ora il mistero della passione e della morte di Gesù, segreto della nostra Redenzione. San Paolo nel brano della sua Epistola a quei di Filippi che forma la lettura di questa domenica ci dà la chiave, il segreto, la filosofia di questo mistero. Come ci redime N. Signore Gesù? Disfacendo pezzo per pezzo l’opera del peccato. Egli è il novello Adamo, antitesi dell’antico. La Passione è la negazione delle colpe antiche. Il riscontro ha persino dei lati materiali: da un giardino all’altro, dal giardino delle colpe all’orto dell’espiazione. Là e qua un albero; là l’albero della morte, qua l’albero della vita, la Croce. È la colpa d’Adamo la colpa classica e tipica, che cosa è essa mai? Due parole la descrivono, la definiscono, due brevi tremende parole: orgoglio e piacere, piacere ed orgoglio. L’orgoglio primeggia per chi approfondisce le cose. E la grande, la classica espiazione sarà il rovescio: umiltà e dolore. Un capolavoro di umiltà, come la colpa classica fu un capolavoro di orgoglio. Ci sono anche i capolavori del male. Paolo canta questa eroica umiltà del Verbo Incarnato, Gesù Cristo; l’accento del suo discorso è lirico, la sostanza è d’una logica stringente. L’umiltà è nei due poli: Verbo — Incarnato, Dio — uomo. Era nella forma di Dio, dice San Paolo, poteva senza scrupolo, senza timor di usurpazione dirsi uguale a Dio, senza timore d’ingiustizia e di usurpazione, non come Adamo che usurpò, volle usurpare quella uguaglianza. Era nella forma di Dio e volle prendere forma di schiavo.

« Humiliavit semetìpsum formam servi accipìens ». Padrone, volle diventare servo. È la forma specifica e logicamente efficace della umiliazione espiatrice. Perché l’orgoglio del colpevole Adamo era stato un orgoglio ribelle, un orgoglio affermatosi proprio lì, non voler obbedire alla legge, accettare la servitù, sottostare alla padronanza e signoria divina: ribellione alla legge. La soggezione volontaria distrugge, disfà la volontaria ribellione. Tanto più e tanto meglio perché dalle due parti le cose si spingono all’eroismo, l’eroismo della morte. Adamo affronta la morte con la sua ribellione. C’è la taglia della morte come sanzione del precetto di Dio, ed Adamo malgrado questa sanzione calpesta questo divieto. Eroico, malamente, ma eroico, eroico di un eroismo protervo, ma eroismo. Splendidamente, nobilmente eroica sarà l’espiazione di Gesù obbediente, nota San Paolo, fino alla morte, e che morte! La più ignominiosa e la più crudele. La più ignominiosa perché l’umiltà eroica del sacrificio ubbidiente sia autentica e perché all’umiltà il sacrificio del Martire del Golgota accoppi il dolore, lo strazio — antitesi e antidoto del piacere. Non si potrebbe essere più brevi, succosi e profondi di quello che è San Paolo in queste poche linee, le quali ci rivelano non solo il mistero intimo di quella colpa e di questa espiazione, ma di ogni colpa e di ogni espiazione, di ogni colpa per farla detestare, di ogni espiazione per farla amare. Ma l’antitesi continua anche nella catastrofe dei due drammi. Perché l’epilogo del dramma della colpa è un disastro: il ribelle è battuto, l’orgoglioso è, giustamente, umiliato. Nello sforzo di erigersi oltre misura, si esaurisce e si accascia il gigante, il Capaneo, Adamo. Nello sforzo nobile della sua umiliazione si aderge Gesù o, per usare la propria frase di San Paolo, quel Dio davanti a cui Gesù (nella sua e colla sua umanità) si è umiliato « lo esaltò e gli diede un Nome superiore ad ogni altro, affinché in quel Nome e davanti ad esso tutti genuflettano in cielo, in terra e negli abissi ». – L’epilogo dell’apoteosi per l’umiltà. Cerchiamo di essere primi in questa genuflessione; cerchiamo di farla più che nessun altro, alla scuola di Paolo, conscia e profonda.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

OMELIA

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e … Soc. Ed. Vita e Pens. VI ed. Milano, 1956]

L’ULIVO

Fu un giorno d’entusiasmo. La bella stagione esultava nel cielo sereno e sui campi in giro. Dall’alto dell’Oliveto le turbe strappavano i rami dalle siepi e li agitavano nell’aria acclamando: «Benedetto il Re che viene in nome del Signore! Benedetto nell’altissimo cielo! ». Intanto il piccolo esercito fervente discendeva nel calore del sole, tra il verde e gli inni. Gerusalemme, apri le porte! Quante volte udisti dal labbro de’ tuoi profeti che sarebbe giunto un re di pace, quante volte l’hai sospirato nelle sventure! Or eccolo, viene il tuo Re, mansueto; e cavalca un asinello. Solenne, col volto ardente, con gli occhi lucidi di pianto Gesù entrò nella città regina. La terra non conobbe trionfo più bello di questo. Si eran visti dei re venire a possesso della loro capitale circondati dalla potenza dei soldati, e da una folla curiosa; orgoglio di trionfatore e curiosità di popolo, ecco tutto il loro trionfo. Si erano visti conquistatori ritornare in patria in mezzo a tutta la pompa della vittoria: il trionfatore stava sul carro tirato da quattro cavalli bianchi: i veterani e le legioni procedevano innanzi cantando le lodi consuete; ma, dietro, aggiogati barbaramente venivano i vinti, imprecando alla sorte, alla vita, a Roma. Questi trionfi erano costati fiumi di sangue, incendi di città, lacrime d’infinite madri … – Non così il trionfo del Figlio di Dio: egli è Re di pace. Ecce rex mansuetua. Intorno a lui non l’urlo guerriero delle coorti, non il fragore degli scudi, non la fosca rabbia dei vinti incatenati che verranno uccisi nei giochi, o venduti schiavi;ma una fila di ammalati che Egli ha guariti, di poveri che Egli ha evangelizzato,di fanciulli che Egli colmava di carezze. E forse c’era anche il paralitico della piscina e forse c’era colui chiamato nato cieco, e certamente c’era Lazzaro il risuscitato da morte. E tutti levavano rami d’albero.Di quale albero?S. Matteo non lo dice: ma poiché li scerpavano dalle siepi del monte Oliveto, non potevano essere che rami d’ulivo. L’ulivo: il simbolo della pace. Quale altra fronda potevano scegliere gli Ebrei per agitare al passaggio del Re mansueto? Quale altra fronda possiamo noi agitare davanti a Cristo che ritorna trionfante nella santa Pasqua? La Chiesa, in questa domenica, ad ogni fedele dona un ramo di ulivo benedetto. È con l’ulivo in mano che dobbiamo prepararci a far Pasqua: ossia, è con la pace del cuore. Ma non si può aver pace nel cuore, se prima non si è in pace col prossimo e in pace con Dio.

1. L’ULIVO È PACE COL PROSSIMO

Giovanni Gualberto viveva, allora, la spensierata vita. Ricco, aitante, abile in armi, amava allegre compagnie della gioventù fiorentina e i giochi e i divertimenti. Una sera, un gentiluomo di Toscana venne a rissa con suo fratello, e glielo uccise, Giovanni, curvo sul cadavere insanguinato, strinse i pugni contro l’assassino che fuggiva e giurò, terribile, di farne vendetta. Passarono dei mesi. Un giorno di Venerdì Santo, in un vicolo, egli s’incontra con la figura d’un torvo cavaliere. Lo riconosce: è l’assassino di suo fratello. Era giunto l’istante della vendetta: quella vendetta che aveva giurato sul sangue fumante, che aveva covato in cuore per giorni e giorni, che aveva sognato nei silenzi della notte, era lì, davanti a lui, e l’affascinava. Mandò un urlo di belva, snudò la spada, e gli fu sopra. Ma quegli, tremando, si buttò in ginocchio nella via deserta e gemette: « Per amore di quel Gesù che oggi muore in croce perdonando a’ suoi crocifissori, tu perdonami! ». C’era nell’aria un silenzio misterioso: le campane tacevano per la morte del Signore. Giovanni sentiva il sangue fargli impeto sulle tempia e sul petto: il pensiero di Gesù morente in croce e perdonante lo dominò. « Alzati! — disse infine nello sforzo eroico di superarsi. — Nulla ti posso negare di ciò che domandi in nome del Salvatore. Ti dò la vita e l’amicizia e tu prega Dio che mi perdoni com’io perdono a te ». E si abbracciarono. — Quando le campane della Resurrezione squillarono nel cielo di Firenze, nessuno, in cuore, provò tanta gioia come Giovanni, poiché nessuno meglio di lui s’era preparato alla Pasqua. E Gesù risorto gli fece la bella grazia di farsi santo: S. Giovanni Gualberto. Pasqua è imminente: già il Re di pace viene, e vuol trovare pace sul suo passaggio. Guai a quelli che s’accosteranno alle sante feste con odio nel cuore. Gesù non li riconoscerà come suoi discepoli. « Io distinguerò fra tutti i miei discepoli per l’amore che si vorranno tra loro » ha detto un giorno. Nessuno di noi ha ricevuto un’offesa grande come quella che ricevette S. Giovanni Gualberto; e s’egli ha saputo perdonare, nessuno di noi potrà scusarsi da questo dovere. – In quante famiglie non c’è pace: sono fratelli in rissa fra loro, sono cognati, sono nuore che tutto il giorno passano in mormorazioni, in calunnie amare, in alterchi irosi, in silenzio pieno di rancore. Sono veri cristiani? dicono di esserlo, e di fatto sono battezzati, ma Gesù non li riconosce: « I miei discepoli si amano gli uni gli altri ». – In quanti paesi non c’è pace: una famiglia contro un’altra famiglia, un inquilino contro un altro inquilino, un proprietario contro un proprietario: è per la casa, è per la terra, è per la roba, e intanto c’è odio cordiale. Sono paesi cristiani? Dicono di esserlo, hanno anche una bella chiesa, ma Gesù non li riconosce: « I miei discepoli si amano gli uni e gli altri ». È duro perdonare e amare chi ci fece del male; è un martirio secreto e tremendo, ha detto S. Gregorio, che solo conosce chi l’ha provato. Ma Gesù lo vuole, lo comanda: Ego autem dico vobis diligite inimicos vestros. – S. Giovanni Gualberto, all’assassino di suo fratello che in nome di Gesù gli chiedeva perdono, rispose: « Nulla ti posso negare di ciò che domandi in nome del Salvatore ». E noi avremo coraggio di negare questo perdono al nostro prossimo, quando è Gesù stesso che ce lo chiede? Oggi, quando tra le mani stringerete il rametto d’ulivo per festeggiare il Re mansueto che viene, ricordatevi che quell’ulivo significa pace col prossimo.

2. L’ULIVO È PACE CON DIO

Dio è bontà e trova la sua gioia nell’abitare tra gli uomini. Ma quando l’uomo preferisce i suoi piaceri alla legge del Signore e cade in peccato, Dio non lo può sopportare. Fugge da lui, come noi fuggiamo dal serpente; non lo conta più tra i suoi fedeli, tra i suoi amici, tra i suoi figli. L’uomo, allora, cerca altrove la sua pace, ma non la può trovare perché non c’è pace quando s’è in collera con Dio. – Iniquitates vestræ diviserunt inter vos et Deum vestrum (Is., LIX, 2). C’è una muraglia tra Dio e voi: è la muraglia della vostra avarizia che non dice mai basta, fosse anche roba d’altri; è la muraglia della vostra superbia che non vuol correzioni né rimproveri; è la muraglia della vostra sensualità che non vuol freni alle sue sregolatezze. Non si può far Pasqua in collera col Signore; non si può muovere incontro al Re di pace che viene, se tra noi e lui c’è una muraglia. Bisogna abbatterla con la confessione. Quando il viaggiatore attraversa il deserto, calpestando le sabbie aride, a sera, ode diffondersi un lamento fioco. « Di chi è questa voce? » domanda esterrefatto alla sua guida araba che lo conduce attraverso il Sahara. « È il deserto che piange, perché vorrebbe divenire una prateria: ma gli manca l’acqua ». Nell’anima nostra il peccato ha fatto il deserto dove prima era il regno di Dio. Non sentite, talvolta, dentro di voi il lamento della vostra anima? Ella geme perché è maledetta da Dio; perché il peccato l’ha bruciata e riarsa come un deserto. Ha bisogno d’un’acqua che la lavi, che la disseti, che la fecondi: l’acqua che Gesù diede alla Samaritana, l’acqua che sgorga dal Sacramento della confessione. Confessarsi vuol dire far pace con Dio. Gesù, mentre ci vede inginocchiati a’ suoi piedi, stacca le mani dalla croce lentamente e ce le getta al collo e ci stringe al suo petto piagato. Confessarsi vuol dire far Pasqua. Oggi quando tra le mani stringerete un ramo d’ulivo benedetto per festeggiare il Re mansueto che viene, ricordatevi che quell’ulivo significa pace con Dio.

CONCLUSIONE

Una domenica degli Ulivi, Santa Gertrude fu presa da scoraggiamento. Le sembrava troppo difficile migliorare la sua vita, e che per lei fosse impossibile diventar santa. Gesù le apparve e la chiamò. « Guarda, le disse, non è difficile, non è impossibile. Basta una cosa sola: che tu dica: voglio ». – Ci sono molti che dicono di non poter perdonare certe offese, e neppure dimenticare. Ci sono altri che non vogliono confessarsi perché dicono di non saper resistere a certe tentazioni, a certe abitudini. O Cristiani, non è impossibile, non è difficile correre incontro a Gesù con il ramo d’ulivo, basta volerlo. Volere la pace col prossimo. Volere la pace con Dio.

Graduale

Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me.

[Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi hai accolto in trionfo.]

Quam bonus Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns.

[Com’è buono, o Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la prosperità degli empi.]

Tractus

Ps. XXI: 2-9, 18, 19, 22, 24, 32

Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?

Longe a salúte mea verba delictórum meórum.

Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad insipiéntiam mihi.

Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.

In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.

Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt confusi.

Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio plebis.

Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt caput.

Sperávit in Dómino, erípiat eum: salvum fáciat eum, quóniam vult eum.

Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.

Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte eum.

Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam ejus.

Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.

Evangelium

Pássio Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum.

[Matt XXVI: 1-75; XXVII: 1-66].

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C. At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem, ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce, appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturæ Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S. Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te facit. C. Tunc cœpit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit. Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant:S. Sine, videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum.

Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. …

Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea, ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus. Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes contra sepúlcrum.

 [In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, scrollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps LXVIII:21-22.

Impropérium exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in siti mea potavérunt me acéto.

[Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere dell’aceto.]

Secreta

Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat.

[Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt XXVI:42.

Pater, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua.

[Padre mio, se non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]

Postcommunio.

Orémus.

Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur.

 [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA