2 NOVEMBRE: MESSE PER I DEFUNTI (2021)

MESSE PER I DEFUNTI (2021)

Commemorazione di tutti i Fedeli Defunti.

Doppio. – Paramenti neri.

Alla festa di tutti i Santi è intimamente legato il ricordo delle anime sante che, pur confermate in grazia, sono trattenute temporaneamente in « Purgatorio » per purificarsi dalle colpe veniali ed « espiare » le pene temporali dovute per il peccato. Perciò, dopo aver celebrato nella gioia la gloria dei Santi, che costituiscono la Chiesa trionfante, la Chiesa militante estende le sua materna sollecitudine anche a quel luogo di indicibili tormenti, ove sono prigioniere le anime che costituiscono la Chiesa purgante. Dice il Martirologio Romano: « In questo giorno si fa la commemorazione di tutti i fedeli defunti; nella quale commemorazione la Chiesa, pia Madre comune, dopo essersi adoperata a celebrare con degne lodi tutti i suoi figli che già esultano in cielo, tosto si affretta a sollevare con validi suffragi, presso il Cristo, suo Signore e Sposo, tutti gli altri suoi figli che gemono ancora nel Purgatorio, affinché possano quanto prima pervenire al consorzio dei cittadini beati ». E questo il momento in cui la liturgia della Chiesa afferma vigorosamente la misteriosa unione esistente fra la Chiesa trionfante, militante e purgante, e mai come oggi si adempie in modo tangibile, il duplice dovere di carità e di giustizia che deriva, per ciascun cristiano, dalla sua incorporazione al corpo mistico di Cristo. Per il dogma della « Comunione dei Santi» i meriti e i suffragi acquistati dagli uni possono essere applicati agli altri. In questi modo, senza ledere gli imprescrittibili diritti della divina giustizia, che sono rigorosamente applicati a tutti nella vita futura, la Chiesa può unire la sua preghiera a quella del cielo e supplire a ciò che manca alle anime del Purgatorio, offrendo a Dio per loro, per mezzo della S. Messa, delle indulgenze, delle elemosine e dei sacrifizi dei fedeli, i meriti sovrabbondanti della Passione del Cristo e delle membra del suo mistico corpo. – Con la liturgia che ha il suo centro nel Sacrificio del Calvario, rinnovantesi continuamente sull’altare, è sempre stato il mezzo principale impiegato dalla Chiesa, per applicare ai defunti la grande legge della Carità, che comanda di soccorrere il prossimo nelle sue necessità, così come vorremmo esser soccorsi noi, se ci trovassimo negli stessi bisogni. – Forse la liturgia dei defunti è la più bella e consolante di tutte, ogni giorno, al termine d’ogni ora del Dìvin Ufficio sono raccomandate alla misericordia di Dio le anime dei fedeli defunti. Al Suscipe nella Messa, il sacerdote offre il Sacrificio per i vivi e per i morti; e a uno speciale Memento egli prega il Signore di ricordarsi dei suoi servi e delle sue serve che si sono addormentati nel Cristo e di accordar loro il luogo della consolazione, della luce e della pace. – Già fin dal V secolo si celebrano Messe per i defunti. Ma la Commemorazione generale di tutti i fedeli defunti si deve a S. Odilone, quarto Abate del celebre monastero benedettino di Cluny. Egli l’istituì nel 998 fissandola per il giorno dopo la festa di Ognissanti (In seguito a questa istituzione, la S. Sede accordò un’indulgenza plenaria toties quotìes alle medesime condizioni che per il 2 agosto, applicabile ai fedeli defunti il giorno della Commemorazione dei morti, a’ tutti quelli che visiteranno una Chiesa, dal mezzogiorno di Ognissanti alla mezzanotte del giorno dopo e pregheranno secondo le intenzioni del Sommo Pontefice. — ). L’influenza di questa illustre Congregazione fece sì che si adottasse presto quest’uso da tutta la Chiesa e che questo giorno stesso fosse talvolta considerato come festivo. Nella Spagna e nel Portogallo, come anche nell’America del Sud, che fu un tempo soggetta a questi Stati, per un privilegio accordato da Benedetto XIV in questo giorno i sacerdoti celebravano tre Messe. Un decreto di Benedetto XV del 10 agosto 1915 estese ai sacerdoti del mondo intero questa autorizzazione. Pio XI con decreto 31 ottobre 1934 concesse che durante l’Ottava tutte le Messe celebrate da qualunque Sacerdote siano ritenute come privilegiate per l’anima del defunto per il quale vengono applicate. La Chiesa, in un’Epistola, tratta da S. Paolo, ci ricorda che i morti risusciteranno, e ci invita a sperare, perché in quel giorno tutti ci ritroveremo nel Signore. La Sequenza descrive in modo avvincente il giudizio finale; nel quale i buoni saranno eternamente divisi dai malvagi. – L’Offertorio ci richiama al pensiero S. Michele, che introduce le anime nel Cielo, perché, dicono le preghiere per la raccomandazione dell’anima, egli è il « capo della milizia celeste », nella quale gli uomini sono chiamati ad occupare il posto degli angeli caduti. – « Le anime del purgatorio sono aiutate dai suffragi dei fedeli, e principalmente dal sacrificio della Messa » dice il Concilio di Trento! (Sessione| XXII, cap. II). Questo perché nella S. Messa il sacerdote offre ufficialmente a Dio, per il riscatto delle anime, il sangue del Salvatore. Gesù stesso, sotto le specie del pane e del vino, rinnova misticamente il sacrificio del Golgota e prega affinché Dio ne applichi, a queste anime, la virtù espiatrice. Assistiamo in questo giorno al Santo Sacrificio, nel quale la Chiesa implora da Dio, per i defunti, che non possono più meritare, la remissione dei peccati (Or.) e il riposo eterno (Intr., Grad.). Visitiamo i cimiteri, ove i loro corpi riposano, fino al giorno nel quale, alla chiamata di Dio, essi sorgeranno immediatamente per rivestirsi dell’immortalità e riportare, per i meriti di Gesù Cristo, la definitiva vittoria sulla morte (Ep.).

(La parola Cimitero, dal greco, significa dormitorio, nel quale ci si riposa. Chi visita il cimitero durante l’Ottava e prega anche solo mentalmente per i defunti, può acquistare nei singoli giorni, con le consuete condizioni, l’indulgenza Plenaria; negli altri giorni l’indulgenza parziale di sette anni; tanto l’una che l’altra sono applicabili soltanto ai defunti – S. Penit. Ap. 31- X – 1934)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

4 Esdr II: 34; 2:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV:2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].


Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

Oratio

Orémus.
Fidélium, Deus, ómnium Cónditor et Redémptor: animábus famulórum famularúmque tuárum remissiónem cunctórum tríbue peccatórum; ut indulgéntiam, quam semper optavérunt, piis supplicatiónibus consequántur:

[O Dio, creatore e redentore di tutti i fedeli: concedi alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la remissione di tutti i peccati; affinché, per queste nostre pie suppliche, ottengano l’indulgenza che hanno sempre desiderato:]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 51-57
Fratres: Ecce, mystérium vobis dico: Omnes quidem resurgámus, sed non omnes immutábimur. In moménto, in ictu óculi, in novíssima tuba: canet enim tuba, et mórtui resúrgent incorrúpti: et nos immutábimur. Opórtet enim corruptíbile hoc induere incorruptiónem: et mortále hoc indúere immortalitátem. Cum autem mortále hoc indúerit immortalitátem, tunc fiet sermo, qui scriptus est: Absórpta est mors in victória. Ubi est, mors, victória tua? Ubi est, mors, stímulus tuus? Stímulus autem mortis peccátum est: virtus vero peccáti lex. Deo autem grátias, qui dedit nobis victóriam per Dóminum nostrum Jesum Christum.

[Fratelli: Ecco, vi dico un mistero: risorgeremo tutti, ma non tutti saremo cambiati. In un momento, in un batter d’occhi, al suono dell’ultima tromba: essa suonerà e i morti risorgeranno incorrotti: e noi saremo trasformati. Bisogna infatti che questo corruttibile rivesta l’incorruttibilità: e questo mortale rivesta l’immortalità. E quando questo mortale rivestirà l’immortalità, allora sarà ciò che è scritto: La morte è stata assorbita dalla vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Ora, il pungiglione della morte è il peccato: e la forza del peccato è la legge. Ma sia ringraziato Iddio, che ci diede la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo].

Graduale

4 Esdr II: 34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps CXI: 7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.

[Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].

Tractus.
Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].

Sequentia

Dies iræ, dies illa
Solvet sæclum in favílla:
Teste David cum Sibýlla.

Quantus tremor est futúrus,
Quando judex est ventúrus,
Cuncta stricte discussúrus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepúlcra regiónum,
Coget omnes ante thronum.

Mors stupébit et natúra,
Cum resúrget creatúra,
Judicánti responsúra.

Liber scriptus proferétur,
In quo totum continétur,
Unde mundus judicétur.

Judex ergo cum sedébit,
Quidquid latet, apparébit:
Nil multum remanébit.

Quid sum miser tunc dictúrus?
Quem patrónum rogatúrus,
Cum vix justus sit secúrus?

Rex treméndæ majestátis,
Qui salvándos salvas gratis,
Salva me, fons pietátis.

Recordáre, Jesu pie,
Quod sum causa tuæ viæ:
Ne me perdas illa die.

Quærens me, sedísti lassus:
Redemísti Crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Juste judex ultiónis,
Donum fac remissiónis
Ante diem ratiónis.

Ingemísco, tamquam reus:
Culpa rubet vultus meus:
Supplicánti parce, Deus.

Qui Maríam absolvísti,
Et latrónem exaudísti,
Mihi quoque spem dedísti.

Preces meæ non sunt dignæ:
Sed tu bonus fac benígne,
Ne perénni cremer igne.

Inter oves locum præsta,
Et ab hœdis me sequéstra,
Státuens in parte dextra.

Confutátis maledíctis,
Flammis ácribus addíctis:
Voca me cum benedíctis.

Oro supplex et acclínis,
Cor contrítum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimósa dies illa,
Qua resúrget ex favílla
Judicándus homo reus.

Huic ergo parce, Deus:
Pie Jesu Dómine,
Dona eis réquiem.
Amen.

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann V: 25-29
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Amen, amen, dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mórtui áudient vocem Fílii Dei: et qui audíerint, vivent. Sicut enim Pater habet vitam in semetípso, sic dedit et Fílio habére vitam in semetípso: et potestátem dedit ei judícium fácere, quia Fílius hóminis est. Nolíte mirári hoc, quia venit hora, in qua omnes, qui in monuméntis sunt, áudient vocem Fílii Dei: et procédent, qui bona fecérunt, in resurrectiónem vitæ: qui vero mala egérunt, in resurrectiónem judícii.

[In quel tempo: Gesù disse alle turbe dei Giudei: In verità, in verità vi dico, viene l’ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio: e chi l’avrà udita, vivrà. Perché come il Padre ha la vita in sé stesso, così diede al Figlio di avere la vita in se stesso: e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non vi stupite di questo, perché viene l’ora in cui quanti sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dio: e ne usciranno, quelli che fecero il bene per una resurrezione di vita: quelli che fecero il male per una resurrezione di condanna].

OMELIA

COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI.

Venit nox, quando nemo potest operati.

Vien la notte, in cui niuno può lavorare.

(S. GIOVANNI IX, 4).

Tal’è, miei fratelli, la crudele e terribile condizione, in cui si trovano adesso i nostri padri e le nostre madri, i nostri parenti e i nostri amici, che sono usciti da questo mondo senza aver interamente soddisfatto alla giustizia di Dio. Li ha condannati a passare lunghi anni nel carcere tenebroso del purgatorio, ove la sua giustizia rigorosamente s’aggrava su loro, finché le abbiano interamente pagato il loro debito. «Oh! com’è terribile, dice San Paolo, cader nelle mani di Dio vivente! » (Hebr., X, 31) Ma perché, fratelli miei, sono oggi salito in pulpito? Che cosa vi dirò? Ah! vengo da parte di Dio medesimo; vengo da parte de’ vostri poveri parenti, per risvegliare in voi quell’amore di riconoscenza, di cui siete ad essi debitori: vengo a rimettervi sott’occhio tutti i tratti di bontà e tutto l’amore ch’ebbero per voi, quand’erano sulla terra: vengo a dirvi che bruciano tra le fiamme, che piangono, che chiedono ad alte grida il soccorso delle vostre preghiere e delle vostre opere buone. Mi par d’udirli gridare dal fondo di quel mare di fuoco che li tormenta: « Ah! dite ai nostri padri, alle nostre madri, ai nostri figliuoli e a tutti i nostri parenti, quanto sono atroci i mali che soffriamo. Noi ci gettiamo a’ loro piedi per implorare l’aiuto delle loro preghiere. Ah! dite ad essi che da quando ci separammo da loro, siamo qui a bruciar tra le fiamme! Oh ! chi potrà rimaner insensibile al pensiero di tante pene che soffriamo? » Vedete voi, miei fratelli, e udite quella tenera madre, quel buon padre, e tutti quei vostri congiunti che vi tendono le mani? « Amici miei, gridano gemendo, strappateci a questi tormenti, poiché lo potete ». Vediamo dunque, fratelli miei:

1° la grandezza de’ tormenti che soffrono le anime nel purgatorio;

2° quali mezzi abbiamo di sollevarli, cioè le nostre preghiere, le nostre opere buone, e soprattutto il santo Sacrificio della Messa.

I . — Non voglio trattenermi a dimostrarvi l’esistenza del Purgatorio: sarebbe tempo perduto. Niuno di voi ha su questo punto alcun dubbio. La Chiesa, a cui Gesù Cristo ha promesso l’assistenza del suo Santo Spirito, e che non può quindi né ingannarsi né ingannare, ce l’insegna in modo ben chiaro ed evidente. È certo e certissimo che v’è un luogo ove le anime dei giusti finiscono d’espiare i loro peccati prima d’essere ammesse alla gloria del paradiso per esse sicura. Sì, miei fratelli, ed è articolo di fede: se non abbiam fatto penitenza proporzionata alla gravezza e all’enormità de’ nostri peccati, sebben perdonati nel santo tribunale della penitenza, saremo condannati ad espiarli nelle fiamme del purgatorio. Se Dio, essenziale giustizia, non lascia senza premio un buon pensiero, un buon desiderio e la minima buona azione, neppur lascerà impunita una colpa, per quanto leggera; e noi dovremo andare a patire in Purgatorio, onde finir di purificarci, per tutto il tempo che esigerà la divina giustizia. Gran numero di passi della santa Scrittura ci mostrano che, quantunque i nostri peccati ci siano stati perdonati, pure Iddio c’impone anche l’obbligo di patire in questo mondo per mezzo di pene temporali, o nell’altro tra le fiamme del Purgatorio. Vedete che cosa accadde ad Adamo: essendosi pentito dopo il suo peccato. Dio l’assicurò che gli aveva perdonato, e tuttavia lo condannò a far penitenza per oltre 900 anni (Gen. III, 17-19); penitenza che sorpassa quanto può immaginarsi. Osservate ancora (II Re, XXIV): David, contro il beneplacito di Dio, ordina il novero de’ suoi sudditi; ma, spinto dai rimorsi della sua coscienza, riconosce il suo peccato, si getta con la faccia per terra e prega il Signore a perdonargli. E Dio, impietosito pel suo pentimento, gli perdona di fatto; ma tuttavia gli manda Gad che gli dica: « Principe, scegli uno de’ tre flagelli, che Dio ti ha apparecchiato in pena del tuo peccato: la peste, la guerra e la fame ». David risponde: «Meglio è cadere nelle mani del Signore, di cui tante volte ho sperimentato la misericordia, che in quelle degli uomini ». Scegli quindi la peste che durò tre giorni e gli tolse 70000 sudditi: e se il Signore non avesse fermato la mano dell’Angelo, già stesa sulla città, tutta Gerusalemme sarebbe rimasta Spopolata. David, vedendo tanti mali cagionati dal suo peccato, chiese in grazia a Dio che punisse lui solo, e risparmiasse il suo popolo ch’era innocente. Ohimè! miei fratelli, per quanti anni dovremo soffrire nel purgatorio noi che abbiam commesso tanti peccati: e che, col pretesto d’averli confessati non facciamo penitenza alcuna e non li piangiamo? Quanti anni di patimenti ci aspettano nell’altra vita! Ma come potrò io farvi il quadro straziante delle pene che soffrono quelle povere anime, poiché i SS. Padri ci dicono che i mali cui esse son condannate in quel carcere, sembrano pari ai dolori che Gesù Cristo ha sofferto nel tempo della sua passione? E tuttavia è certo che se il minimo dei dolori che ha patito Gesù Cristo fosse stato diviso tra tutti gli uomini, sarebbero tutti morti per la violenza del dolore. Il fuoco del Purgatorio è il fuoco medesimo dell’inferno, con la sola differenza che non è eterno. Oh! bisognerebbe che Dio. nella sua misericordia permettesse ad una di quelle povere anime, che ardono tra quelle fiamme, di comparir qui a luogo mio, circondata dal fuoco che la divora, e farvi essa il racconto delle pene che soffre. Bisognerebbe, fratelli miei, ch’essa facesse risuonar questa chiesa delle sue grida e de’ suoi singhiozzi; forse ciò riuscirebbe alfine ad intenerire i vostri cuori. « Oh! quanto soffriamo, ci gridano quelle anime; o nostri fratelli, liberateci da questi tormenti: voi lo potete! Ah! se sentiste il dolore d’essere separate da Dio! » Crudele separazione! Ardere in un fuoco acceso dalla giustizia d’un Dio! Soffrir dolori che uomo mortale non può comprendere! Esser divorato dal rammarico, sapendo che potevamo si agevolmente sfuggirli! «Oh! miei figliuoli, gridan quei padri e quelle madri, potete abbandonarci? Abbandonar noi che vi abbiam tanto amato? Potete coricarvi su un soffice letto e lasciar noi stesi sopra un letto di fuoco? Avrete il coraggio di darvi in braccio ai piaceri e alla gioia, mentre noi notte e giorno siam qui a patire ed a piangere? Possedete pure i nostri beni e le nostre case, godete il frutto delle nostre fatiche, e ci abbandonate in questo luogo di tormenti, ove da tanti anni soffriamo pene si atroci?… E non un’elemosina, non una Messa che ci aiuti a liberarci!… Potete alleviar le nostre pene, aprir la nostra prigione e ci abbandonate! Oh! son pur crudeli i nostri patimenti! » Si, miei fratelli, in mezzo alle fiamme si giudica ben altrimenti di tutte codeste colpe leggere, seppure si può chiamar leggero ciò che fa tollerare sì rigorosi dolori. « O mio Dio, esclamava il Re-profeta, guai all’uomo, anche più giusto, se lo giudicate senza misericordia! » (Ps. CXLII, 2). « Se avete trovato macchie nel sole e malizia negli Angeli, che sarà dell’uomo peccatore? » (I Piet. IV, 18). E per noi che abbiam commesso tanti peccati mortali, e non abbiamo ancor fatto quasi nulla per soddisfare alla giustizia divina, quanti anni di purgatorio!… – « Mio Dio, diceva S. Teresa, qual anima sarà tanto pura da entrare in cielo senza passare per le fiamme vendicatrici? » Nella sua ultima malattia essa ad un tratto esclamò: «O giustizia e potenza del mio Dio, siete pur terribile! » Durante la sua agonia Dio le fece vedere la sua santità, quale la vedono in cielo gli Angeli e i Santi, il che le cagionò sì vivo terrore, che le sue suore, vedendola tutta tremante e in preda ad una straordinaria agitazione, gridarono piangendo: « Ah! madre nostra, che cosa mai vi è accaduto? Temete; ancora la morte dopo tante penitenze, e lacrime sì copiose ed amare? » — « No, mie figliuole, rispose S. Teresa, non temo la morte; anzi la desidero per unirmi eternamente al mio Dio ». — « Vi spaventano dunque i vostri peccati dopo tante macerazioni? » — « Sì, mie figliuole, rispose, temo i miei peccati, ma temo più ancora qualche altra cosa ». — « Forse il giudizio? » — « Sì, rabbrividisco alla vista del conto che dovrò rendere a Dio, il quale in quel momento sarà senza misericordia; ma vi è oltre a questo una cosa il cui solo pensiero mi fa morire di spavento ». Quelle povere suore grandemente si angustiavano. « Ohimè! Sarebbe mai l’inferno? » — « No, disse la santa, l’inferno, per grazia di Dio, non è per me: Oh! sorelle mie, è la santità di Dio! Mio Dio. abbiate pietà di ine! La mia vita dev’essere confrontata con quella di Gesù Cristo medesimo! Guai a me, se ho la minima macchia, il minimo neo! Guai a me, se ho pur l’ombra del peccato! ». — « Ohimè! esclamarono quelle povere religiose, qual sarà dunque la nostra sorte?…  E di noi che sarà, fratelli miei, di noi che forse con tutte le nostre penitenze ed opere buone non abbiamo ancor soddisfatto per un solo peccato perdonatoci nel tribunale della penitenza? Ah! quanti anni e quanti secoli di tormenti per punirci!… Pagheremo pur cari tutti quei falli che riguardiamo come un nulla, come quelle bugie dette per divertimento, le piccole maldicenze, la non curanza delle grazie che Dio ci fa ad ogni momento, quelle piccole mormorazioni nelle tribolazioni ch’Egli ci manda! No, miei fratelli, non avremmo il coraggio di commettere il minimo peccato, se potessimo intendere quale offesa fa a Dio, e come merita d’esser punito rigorosamente anche in questo mondo. – Leggiamo nella santa Scrittura (III Re, XII) che il Signore disse un giorno ad uno de’ suoi profeti: « Va a mio nome da Geroboamo per rimproverargli l’orribilità della sua idolatria: ma ti proibisco di prendere alcun nutrimento né in casa sua, né per via ». Il profeta obbedì tosto, e s’espose anche a sicuro pericolo di morte. Si presentò dinanzi al re, e gli rimproverò il suo delitto, come gli aveva detto il Signore. Il re, montato in furore perché il profeta aveva avuto ardire di riprenderlo, stende la mano e comanda che sia arrestato. La mano del re rimase tosto disseccata. Geroboamo, vedendosi punito, rientrò in se stesso; e Dio, mosso dal suo pentimento, gli perdonò il suo peccato e gli restituì sana la mano. Questo benefizio mutò il cuore del re, che invitò il profeta a mangiare con lui. « No, rispose il profeta, il Signore me l’ha proibito: quando pure mi donaste metà del vostro regno, non lo farò ». Mentre tornava indietro, trovò un falso profeta, che si diceva mandato da Dio, il quale l’invitò a mangiar seco. Si lasciò ingannare da quel discorso, e prese un poco di nutrimento. Ma, uscendo dalla casa del falso profeta, incontrò un leone d’enorme grossezza, che si gettò su lui e lo sbranò. Or se chiedete allo Spirito Santo, quale sia stata la cagione di quella morte, vi risponderà che la disobbedienza del profeta gli meritò tal castigo. Vedete pure Mosè, che era sì caro a Dio: per aver dubitato un momento della sua potenza, battendo due volte una rupe per farne zampillar l’acqua, il Signore gli disse: « Aveva promesso di farti entrare nella terra promessa, ove latte e miele scorrono a rivi; ma per punirti d’aver battuto due volte la rupe, come se una sola non fosse stata bastante, andrai fino in vista di quella terra di benedizione, e morrai prima d’entrarvi » (Num. XX, 11, 12). Se Dio, miei fratelli, punì così rigorosamente peccati così leggeri, che cosa sarà d’una distrazione nella preghiera, del girare il capo in chiesa, ecc.?.. Oh! siam pur ciechi! Quanti anni e quanti secoli di Purgatorio ci prepariamo per tutte queste colpe che riguardiam come cose da nulla! … Come muteremo linguaggio, quando saremo tra quelle fiamme ove la giustizia di Dio si fa sentire così rigorosamente!… Dio è giusto, fratelli miei, giusto in tutto quello che fa. Quando ci ricompensa della minima buona azione, lo fa oltre i confini di ciò che possiamo desiderare; un buon pensiero, un buon desiderio, cioè il desiderar di fare qualche opera buona, quand’anche non si potesse fare, Ei non lascia senza ricompensa; ma anche quando si tratta di punirci, lo fa con rigore, e quando pur fossimo rei d’una sola colpa leggera, saremmo gettati nel Purgatorio. Quest’è verissimo, perché leggiamo nelle vite de’ Santi che parecchi sono giunti al cielo sol dopo esser passati per le fiamme del Purgatorio. S. Pier Damiani racconta che sua sorella stette parecchi anni nel purgatorio per avere ascoltato una canzone cattiva con qualche po’ di piacere. – Si narra che due religiosi si promisero l’un l’altro che, chi morisse pel primo, verrebbe a dire al superstite in quale stato si trovasse; infatti Dio permise al primo che morì di comparire all’amico, egli disse ch’era stato quindici giorni al purgatorio per aver amato troppo di far la propria volontà. E siccome l’amico si rallegrava con lui perché vi fosse stato sì poco : « Avrei voluto piuttosto, gli disse il defunto, esser scorticato vivo per diecimila anni continui; perché un simile tormento non avrebbe potuto ancora paragonarsi a ciò che ho patito tra quelle fiamme ». Un prete disse ad uno de’ suoi amici che Dio l’aveva condannato a più mesi di purgatorio per aver tardato ad eseguire un testamento in cui si disponeva per opere buone. Ohimè! miei fratelli, quanti tra quei che mi ascoltano debbono rimproverarsi un simile fatto! Quanti forse da otto o dieci anni ebbero da’ loro parenti od amici l’incarico di far celebrar Messe, distribuir limosine, e han trascurato tutto! Quanti, per timore di trovar l’incarico di far qualche opera buona, non si vogliono dar la briga neppur di guardare il testamento fatto a favor loro da parenti o da amici! Ohimè! quelle povere anime son prigioniere tra quelle fiamme, perché non si vogliono compiere le loro ultime volontà! Poveri padri e povere madri, vi siete sacrificati per mettere in miglior condizione i vostri figli o i vostri eredi; avete forse trascurato la vostra salute per accrescere la loro fortuna: vi siete fidati sulle opere buone, che avreste lasciate per testamento! Poveri parenti! Foste pur ciechi a dimenticare voi stessi! – Forse mi direte: « I nostri parenti son vissuti bene, erano molto buoni ». Ah! quanto poco ci vuole per cader tra quelle fiamme! Udite ciò che disse su questo proposito Alberto Magno, le cui virtù splendettero in modo straordinario: rivelò un giorno ad un amico che Dio l’aveva fatto andare al purgatorio, perché aveva avuto un lieve pensiero di compiacenza pel suo sapere. Aggiungete (cosa che desta anche maggior meraviglia) che vi son Santi canonizzati, i quali dovettero passare pel purgatorio. S. Severino, Arcivescovo di Colonia, apparve ad uno, de’ suoi amici molto tempo dopo la sua morte, e gli disse ch’era stato al Purgatorio per aver rimandato alla sera certe preghiere che doveva dire al mattino. Oh! quanti anni di purgatorio per quei Cristiani, che senza difficoltà differiscono ad altro tempo le loro preghiere, perché han lavoro pressante! Se desiderassimo sinceramente la felicità di possedere Iddio, eviteremmo le piccole colpe, come le grandi, poiché la separazione da Dio è tormento sì orribile a quelle povere anime! – I santi Padri ci dicono che il Purgatorio è un luogo vicino all’inferno; il che si capisce agevolmente, perché il peccato veniale è vicino al peccato mortale; ma credono che non tutte le anime per soddisfare alla giustizia divina sian chiuse in quel carcere, e che molte patiscano sul luogo stesso ove hanno peccato. Infatti S. Gregorio Papa ce ne dà una prova manifesta. Riferisce che un santo prete infermo andava ogni giorno, per ordine del medico, a prender bagni in un luogo appartato; e ogni giorno vi trovava un personaggio sconosciuto, che l’aiutava a scalzarsi e, fatto il bagno, gli presentava un panno per asciugarsi. Il santo prete mosso da riconoscenza, tornando un giorno da celebrare la santa Messa, presentò allo sconosciuto un pezzo di pane benedetto. « Padre mio, gli rispose egli, voi m’offrite cosa, di cui non posso far uso, quantunque mi vediate rivestito d’un corpo. Sono il Signore di questo luogo, che faccio qui il mio purgatorio». E scomparve dicendo: «Ministro del Signore, abbiate pietà di me! Oh! quanto soffro! Voi potete liberarmi; offrite, ve ne prego, per me il santo Sacrifizio della Messa, offrite le vostre preghiere e le vostre infermità. Il Signore mi libererà ». Se fossimo ben convinti di questo, potremmo sì facilmente dimenticare i nostri parenti, che ci stanno forse continuamente d’intorno? Se Dio permettesse loro di mostrarsi visibilmente, li vedremmo gettarsi a’ nostri piedi. « Ah! figli miei, direbbero quelle povere anime, abbiate pietà di noi! Deh! non ci abbandonate! ». Sì, miei fratelli, la sera andando al riposo, vedremmo i nostri padri e le madri nostre richiedere il soccorso delle nostre preghiere; li vedremmo nelle nostre case, nei nostri campi. Quelle povere anime ci seguono dappertutto; ma, ohimè! son poveri mendicanti dietro a cattivi ricchi. Han bell’esporre ad essi le loro necessità e i loro tormenti; quei cattivi ricchi sgraziatamente non se ne commuovono punto. « Amici miei, ci gridano, un Pater e un Ave! una Messa! » Ecché? Saremo ingrati a segno da negare ad un padre, ad una madre una parte sì piccola dei beni che ci hanno acquistato o conservato con tanti stenti? Ditemi, se vostro padre, vostra madre o uno de’ vostri figliuoli fossero caduti nel fuoco, e vi tendessero le mani per pregarvi a liberarli, avreste coraggio di mostrarvi insensibili, e lasciarli ardere sotto i vostri occhi? Or la fede c’insegna che quelle povere anime soffrono tali pene cui nessun uomo mortale sarà mai capace di intendere Se vogliamo assicurarci il cielo, fratelli miei, abbiamo gran divozione a pregar per le anime del Purgatorio. Può ben dirsi che questa divozione è segno quasi certo di predestinazione, ed efficace motivo di salute. La santa Scrittura nella storia di Gionata ci mette sott’occhio un mirabile paragone (1 Re XIV). Saul, padre di Gionata, aveva proibito a tutti i soldati, sotto pena di morte, di prendere alcun nutrimento prima che i Filistei fossero stati interamente disfatti. Gionata, che non aveva udito quella proibizione, sfinito com’era dalla fatica, intinse in un favo di miele la punta del suo bastone e ne gustò. Saul consultò il Signore per sapere, se alcuno aveva violato la proibizione. Saputo che l’aveva violata suo figlio, comandò che mettessero le mani su Gionata, dicendo: « Mi punisca il Signore, se oggi non morrai ». Gionata. vedendosi dal padre condannato a morte, per aver violato una proibizione che non aveva udita, volse lo sguardo al popolo, e, piangendo, pareva rammentare tutti i servigi che gli aveva reso, tutta la benevolenza che aveva loro usata, il popolo si gettò subito ai piedi di Saul: « Ecché? Farai morir Gionata, che ha poc’anzi salvato Israele?Gionata che ci ha liberati dalle mani de’ nostri nemici? No, no: non cadrà dal suo capo un capello: troppo ci sta a cuore conservarlo: troppo bene ci ha fatto, e non è possibile dimenticarlo sì presto ». Ecco l’immagine sensibile di ciò che avviene all’ora della morte. Se, per nostra buona ventura, avremo pregato per le anime del purgatorio, quando compariremo d’innanzi al tribunale di Gesù Cristo per rendergli conto di tutte le nostre azioni, quelle anime si getteranno ai piedi del Salvatore dicendo: «Signore, grazia per questa anima! Grazia, misericordia per essa! Abbiate pietà, mio Dio, di quest’anima così caritatevole, che ci ha liberate dalle flamine, e ha soddisfatto per noi alla vostra giustizia! Mio Dio, mio Dio, dimenticate, ve ne preghiamo le sue colpe, com’essa vi ha fatto dimenticare le nostre! » Oh! quanto efficaci son questi motivi per ispirarvi una tenera compassione verso quelle povere anime sofferenti! Ohimè! esse ben presto sono dimenticate! Si ha pur ragione di dire che il ricordo de’ morti svanisce insieme col suono delle campane. Soffrite, povere anime, piangete in quel fuoco acceso dalla giustizia divina; ciò non giova a nulla; nessuno vi ascolta; nessuno vi porge sollievo!… Ecco dunque, fratelli miei, la ricompensa di tanta bontà e di tanta carità ch’ebbero per noi mentre ancora vivevano. No, non siamo nel numero di questi ingrati; poiché lavorando alla loro liberazione, lavoreremo alla nostra salute.

II. — Ma, direte forse, come possiamo sollevarle e condurle al cielo! Se desiderate prestar loro soccorso, fratelli miei, vi farò vedere che è cosa facile il farlo; 1° per mezzo della preghiera e dell’elemosina; 2° per mezzo delle indulgenze; 3° soprattutto col santo sacrificio della Messa.

Dico primieramente per mezzo della preghiera.

Quando facciamo una preghiera per le anime del purgatorio, cediamo loro ciò che Dio ci concederebbe se la facessimo per noi; ma ohimè! quanto poca cosa sono le nostre preghiere, poiché è pur sempre un peccatore che prega per un colpevole! Mio Dio. Deve esser pur grande la vostra misericordia! … Possiamo ogni mattina offrire tutte le azioni della nostra giornata e tutte le nostre preghiere pel sollievo di quelle povere anime sofferenti. È ben poca cosa, certamente; ma ecco: facciamo ad esse come ad una persona, che abbia le mani legate e sia carica d’ un pesante fardello, a cui si venga di tratto in tratto a togliere qualche po’ di quel peso; a poco a poco si troverà libera del tutto. L’istesso accade alle povere anime del purgatorio, quando facciamo per esse qualche cosa: una volta abbrevieremo le loro pene di un’ora, un’altra volta d’un quarto d’ora, sicché ogni giorno avviciniamo al cielo.

Diciamo in secondo luogo che possiamo liberare le anime del purgatorio con le indulgenze, le quali a gran passi le conducono verso il paradiso. Il bene che loro comunichiamo è di prezzo infinito perché applichiamo ad essi i meriti del Sangue adorabile di Gesù Cristo, delle virtù della SS. Vergine e dei Santi, i quali han fatto maggiori penitenze che non richiedessero i loro peccati. Ah! se volessimo, quanto presto avremmo vuotato il purgatorio, applicando a queste anime sofferenti tutte le indulgenze che possiamo guadagnare!… Vedete, fratelli miei, facendo la Via Crucis, si possono guadagnare quattordici indulgenze plenarie (C. d. Ind. 1742). E si fa in più modi … (Nota del Santo andata persa – nota degli edit. francesi) . Oh! siete pur colpevoli per aver lasciato tra quelle fiamme i vostri parenti, mentre potevate così bene e facilmente liberarli!

Il mezzo più efficace per affrettare la loro felicità è la santa Messa, poiché in essa non è più un peccatore che prega per un peccatore, ma un Dio eguale al Padre, che non saprà mai negargli nulla. Gesù Cristo ce ne assicura nel Vangelo; dicendo; « Padre, ti rendo grazie perché mi ascolti sempre ! » (Joan. XI, 41-42). Per meglio persuadercene, vi citerò un esempio dei più commoventi, da cui intenderete quanto grande efficacia abbia la santa Messa. È riferito nella storia ecclesiastica che, poco dopo la morte dell’imperator Carlo (Carlo il Calvo), un sant’uomo della diocesi di Reims, per nome Bernold, essendo caduto infermo e avendo ricevuto gli ultimi Sacramenti stette quasi un giorno senza parlare, e appena appena si poteva riconoscere che ancor vivesse; finalmente aprì gli occhi, e comandò a chi lo assisteva di far venir al più presto il suo confessore. Il prete venne tosto, e trovò il malato tutto in lacrime, il quale gli disse: «Sono stato trasportato all’altro mondo, e mi son trovato in un luogo ove ho veduto il Vescovo Pardula di Laon, che pareva vestito di cenci sudici e neri, e pativa orribilmente tra le fiamme; ei m’ha parlato così: « Poiché avete la buona sorte di tornare in terra, vi prego d’aiutarmi e darmi sollievo; potete anzi liberarmi, e assicurarmi la grande felicità di vedere Iddio ». — « Ma, gli ho risposto, come potrò procurarvi tale felicità? ». — « Andate da quelli che nel corso della mia vita ho beneficato, e dite loro che in ricambio preghino per me, e Dio mi userà misericordia ». Dopo fatto ciò che mi aveva comandato l’ho riveduto bello come un sole: non pareva più che soffrisse, e, nella sua gioia mi ringraziò dicendo: « Vedete quanti beni e quante felicità mi han procurato le preghiere e la santa Messa » . Poco più in là ho veduto re Carlo, che mi parlò così: « Amico mio, quanto soffro! Va dal Vescovo Iucmaro, e digli che son nei tormenti per non aver seguito i suoi consigli; ma faccio assegnamento su lui perché m’aiuti ad uscire da questo luogo di patimenti; raccomanda pure a tutti quelli i quali ho beneficato nel corso della mia vita che preghino per me, ed offrano il santo Sacrificio della Messa, e sarò liberato » . Andai dal Vescovo che si apparecchiava a dir Messa, e che, con tutto il suo popolo, si mise a pregare con tale intenzione. Rividi poi il re, rivestito dei suoi abiti regali, e tutto splendente di gloria: « Vedi, mi disse, qual gloria m’hai procurata: ormai eccomi felice per sempre » . In quell’istante sentii la fragranza d’uno squisito profumo, che veniva dal soggiorno de’ beati. « Mi ci accostai, dice il P. Bernold, e vidi bellezze e delizie, che lingua umana non è capace di esprimere » (V. Fleury T. VII, anno 877). Ciò dimostra quanto siano efficaci le nostre preghiere e le nostre opere buone, e specialmente la S. Messa, per liberar dai loro tormenti quelle povere anime. Ma eccone un altro esempio tratto anche questo dalla storia della Chiesa: è anche più meraviglioso. Un prete, informato della morte d’un suo amico, che amava solo per Iddio, non trovò mezzo più potente per liberarlo che andar tosto ad offrire il santo Sacrificio della Messa. Lo cominciò con tutto il possibile fervore e col dolore più vivo. Dopo aver consacrato il Corpo adorabile di Gesù Cristo, lo prese tra mano, e levando al cielo le mani e gli occhi, disse: « Eterno Padre, io vi offro il Corpo e l’Anima del vostro carissimo Figliuolo. Eterno Padre! Rendetemi l’anima dell’amico mio, che soffre tra le fiamme del Purgatorio! Sì, mio Dio, io son libero d’offrirvi o no il vostro Figliuolo, voi potete accordarmi ciò che vi domando! Mio Dio facciamo il cambio; liberate l’amico mio e vi darò il vostro Figliuolo: ciò che vi offro val molto più di ciò che vi domando ». Questa preghiera fu fatta con fede sì viva, che nel punto stesso vide l’anima dell’amico uscir dal purgatorio e salire al cielo. Si narra pure che, mentre un prete diceva la S. Messa per un’anima del Purgatorio, si vide venire in forma di colomba e volare al cielo. S. Perpetua raccomanda assai vivamente di pregare le anime del purgatorio. Dio le fece vedere in visione suo fratello che ardeva tra le fiamme, e che pure era morto di soli sette anni, dopo aver sofferto per quasi tutta la vita d’un cancro che lo faceva gridar giorno e notte. Essa fece molte preghiere e molte penitenze per la sua liberazione e lo vide salire al cielo splendente come un angelo. Oh! son pur beati, fratelli miei, quelli che hanno di tali amici! A mano a mano che quelle povere anime s’avvicinano al cielo, par che soffrano anche di più. Sono come Assalonne: dopo essere stato qualche tempo in esilio torna a Gerusalemme, ma col divieto di veder suo padre che l’amava teneramente. Quando gli si annunziò che rimarrebbe vicino a suo padre, ma non potrebbe vederlo, esclamò: « Ah! vedrò dunque le finestre e i giardini di mio padre e non lui? Ditegli che voglio piuttosto morire, anziché rimaner qui, e non aver la consolazione di vederlo. Ditegli che non mi basta aver ottenuto il suo perdono. ma è ancor necessario che mi conceda la sorte felice di rivederlo » [II Re, XIV — Veramente le parole qui citate furon dette da Assalonne, non quando udì la sentenza del Re, ma due anni dopo. (Nota del Traduttore)]. Così quelle povere anime, vedendosi tanto vicine a uscire dal loro esilio, sentono accendersi così vivamente il loro amor verso Dio, e il desiderio di possederlo, che pare non possano più resistervi. « Signore, gridano esse, rimirateci con gli occhi della vostra misericordia: eccoci al fine delle nostre pene ». — « Oh! siete pur felici, gridano a noi di mezzo alle fiamme che le tormentano, voi che potete ancora sfuggire questi patimenti! … ». Mi pare anche d’udir quelle povere anime, che non han né parenti, né amici: Ah! se vi resta ancora un poco di carità, abbiate pietà di noi, che da tanti anni siamo abbandonate in queste fiamme accese dalla giustizia divina! Oh! se poteste comprendere la grandezza de’ nostri patimenti, non ci abbandonereste come fate! Mio Dio! nessuno dunque avrà pietà di noi? È certo, miei fratelli, che quelle povere anime non possono nulla per sé; possono però molto per noi. E prova di questa verità è che nessuno ha invocate le anime del purgatorio senza aver ottenuta la grazia che domandava. E ciò s’intende agevolmente: se i Santi, che sono in cielo e non han bisogno di noi, si danno pensiero della nostra salute, quanto più le anime del purgatorio che ricevono i nostri benefìci spirituali a proporzione della nostra santità. « Non ricusate, o Signore, (dicono) questa grazia a quei Cristiani che si adoperano con ogni cura a trarci da queste fiamme! » Una madre potrà forse far a meno di chiedere a Dio qualche grazia per figli, che ha tanto amato e che pregano per la sua liberazione? Un pastore, che in tutto il corso della sua vita ebbe tanto zelo per la salute de’ suoi parrocchiani, potrà non chieder per essi, anche dal purgatorio, le grazie, di cui hanno bisogno per salvarsi? Sì, miei fratelli, quando avremo da domandar qualche grazia, rivolgiamoci con fiducia a quelle anime sante e saremo sicuri d’ottenerla. Qual buona ventura per noi avere, nella divozione alle anime del purgatorio, un mezzo così eccellente per assicurarci il cielo! Vogliamo chiedere a Dio il perdono de’ nostri peccati? Rivolgiamoci a quelle anime che da tanti anni piangono tra le fiamme le colpe da loro commesse. Vogliamo domandare a Dio il dono della perseveranza? Invochiamole, fratelli miei, che esse ne sentono tutto il pregio; poiché solo quei che perseverano vedranno Iddio. Nelle nostre malattie, nei nostri dolori volgiamo le nostre preghiere verso il Purgatorio, ed otterranno il loro frutto. Che cosa concludere miei fratelli, da tutto questo? Eccolo. È certo molto scarso il numero degli eletti, che sfuggono interamente le pene del purgatorio; e i patimenti a cui quelle anime sono condannate, son molto superiori a quanto potremo intenderne. È certo pure che sta in nostra mano quanto può dar sollievo alle anime del Purgatorio, cioè le nostre preghiere, le nostre penitenze, le nostre elemosine e soprattutto la santa Messa. Finalmente siam certi che quelle anime, così piene di carità, ci otterranno mille volte più di quello che loro daremo. Se un giorno saremo nel Purgatorio, quelle anime non lasceranno di chiedere a Dio l’istessa grazia che avremo ad esse ottenuto; poiché han pur sentito quanto si soffre in quel luogo di dolori e quanto è crudele la separazione da Dio. Nel corso di quest’ottava consacriamo qualche momento ad opera sì bene spesa. Quante anime andranno in paradiso pel merito della santa Messa e delle nostre preghiere!… Ognun di noi pensi a’ suoi parenti, e a tutte le povere anime da lunghi anni abbandonate! Sì, fratelli miei, offriamo in loro sollievo tutte le nostre azioni. Cosi piaceremo a Dio che ne desidera tanto la liberazione, e ad esse procureremo la felicità del godimento di Dio. Il che io vi desidero.

CREDO ….

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Oremus

Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, quas tibi pro animábus famulórum famularúmque tuárum offérimus, propitiátus inténde: ut, quibus fídei christiánæ méritum contulísti, dones et præmium. [Guarda propizio, Te ne preghiamo, o Signore, queste ostie che Ti offriamo per le ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché, a coloro cui concedesti il merito della fede cristiana, ne dia anche il premio].

Comunione spirituale

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

4 Esdr II:35; II:34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Animábus, quǽsumus, Dómine, famulórum famularúmque tuárum orátio profíciat supplicántium: ut eas et a peccátis ómnibus éxuas, et tuæ redemptiónis fácias esse partícipes:

[Ti preghiamo, o Signore, le nostre supplici preghiere giovino alle ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché Tu le purifichi da ogni colpa e le renda partecipi della tua redenzione:].

Preghiere leonine

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

Orinario della Messa.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

SECONDA MESSA

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

4 Esdr II:34; II:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV: 2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
Ps LXIV: 2-3
[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].


Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis. [l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Oratio

Orémus.
Deus, indulgentiárum Dómine: da animábus famulórum famularúmque tuárum refrigérii sedem, quiétis beatitúdinem et lúminis claritátem.

[ O Dio, Signore di misericordia, accorda alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la dimora della pace, il riposo delle beatitudine e lo splendore della luce].

Lectio

Léctio libri Machabæórum.
2 Mach XII: 43-46
In diébus illis: Vir fortíssimus Judas, facta collatióne, duódecim mília drachmas argénti misit Jerosólymam, offérri pro peccátis mortuórum sacrifícium, bene et religióse de resurrectióne cógitans, nisi enim eos, qui cecíderant, resurrectúros speráret, supérfluum viderétur et vanum oráre pro mórtuis: et quia considerábat, quod hi, qui cum pietáte dormitiónem accéperant, óptimam habérent repósitam grátiam.
Sancta ergo et salúbris est cogitátio pro defunctis exoráre, ut a peccátis solvántur.

[In quei giorni: il più valoroso uomo di Giuda, fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato].

Graduale

4 Esdr 2:34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Ps 111:7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.

[V. Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].

Tractus.

Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].


Sequentia

Dies Iræ …. [V. sopra]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Gloria tibi, Domine!
Joann VI: 37-40
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Omne, quod dat mihi Pater, ad me véniet: et eum, qui venit ad me, non ejíciam foras: quia descéndi de cælo, non ut fáciam voluntátem meam, sed voluntátem ejus, qui misit me. Hæc est autem volúntas ejus, qui misit me, Patris: ut omne, quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resúscitem illud in novíssimo die. Hæc est autem volúntas Patris mei, qui misit me: ut omnis, qui videt Fílium et credit in eum, hábeat vitam ætérnam, et ego resuscitábo eum in novíssimo die.

[In quel tempo: Gesù disse alla moltitudine degli Ebrei: Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno].

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, pro animábus famulórum famularúmque tuárum, pro quibus tibi offérimus sacrifícium laudis; ut eas Sanctórum tuórum consórtio sociáre dignéris.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche in favore delle anime dei tuoi servi e delle tue serve, per le quali Ti offriamo questo sacrificio di lode, affinché Tu le accolga nella società dei tuoi Santi..]

Praefatio
Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in coelis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

 [È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:]

Communio

4 Esdr II:35-34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, Dómine: ut ánimæ famulórum famularúmque tuárum, his purgátæ sacrifíciis, indulgéntiam páriter et réquiem cápiant sempitérnam.
[Fa’, Te ne preghiamo, o Signore, che le anime dei tuoi servi e delle tue serve, purificate da questo sacrificio, ottengano insieme il perdono ed il riposo eterno].

TERZA MESSA

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

4 Esdr 2:34; 2:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

35
[L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]
Ps LXIV:2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente.]


Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]

Oratio

Orémus.
Deus, véniæ largítor et humánæ salútis amátor: quǽsumus cleméntiam tuam; ut nostræ congregatiónis fratres, propínquos et benefactóres, qui ex hoc sǽculo transiérunt, beáta María semper Vírgine intercedénte cum ómnibus Sanctis tuis, ad perpétuæ beatitúdinis consórtium perveníre concédas.

[O Dio, che elargisci il perdono e vuoi la salvezza degli uomini, imploriamo la tua clemenza affinché, per l’intercessione della beata Maria sempre Vergine e di tutti i tuoi Santi, Tu conceda alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la grazia di partecipare alla beatitudine eterna..]

Lectio

Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli
Apoc XIV:13
In diébus illis: Audívi vocem de cœlo, dicéntem mihi: Scribe: Beáti mórtui, qui in Dómino moriúntur. Amodo jam dicit Spíritus, ut requiéscant a labóribus suis: ópera enim illórum sequúntur illos.

[In quei giorni, io intesi una voce dal cielo che mi diceva: «Scrivi: “Beati i morti che muoiono nel Signore”. Sì, fin d’ora – dice lo Spirito – essi riposano dalle loro fatiche, perché le loro opere li accompagnano».]

Graduale

4 Esdr II:34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]
Ps 111:7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.
[Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole.]
Tractus.
Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.
[L ibera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna.]

Sequentia

[ut supra]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem
Joann VI: 51-55
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Ego sum panis vivus, qui de cœlo descéndi. Si quis manducáverit ex hoc pane, vivet in ætérnum: et panis, quem ego dabo, caro mea est pro mundi vita. Litigábant ergo Judæi ad ínvicem, dicéntes: Quómodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducándum? Dixit ergo eis Jesus: Amen, amen, dico vobis: nisi manducavéritis carnem Fílii hóminis et bibéritis ejus sánguinem, non habébitis vitam in vobis. Qui mánducat meam carnem et bibit meum sánguinem, habet vitam ætérnam: et ego resuscitábo eum in novíssimo die.

[In quel tempo: Gesù disse alla moltitudine degli Ebrei: «Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò per la vita del mondo è la mia carne». I Giudei dunque discutevano tra di loro, dicendo: «Come può costui darci da mangiare la sua carne?» Perciò Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».]

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.]

Secreta

Deus, cujus misericórdiæ non est númerus, súscipe propítius preces humilitátis nostræ: et animábus fratrum, propinquórum et benefactórum nostrórum, quibus tui nóminis dedísti confessiónem, per hæc sacraménta salútis nostræ, cunctórum remissiónem tríbue peccatórum.

[Dio, la cui misericordia è infinita, accogli propizio le nostre umili preghiere, e in grazia di questo sacramento della nostra salvezza, concedi la remissione di ogni peccato a tutti i fedeli defunti a cui hai accordato di dar testimonianza al tuo nome.]

Præfatio Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in cælis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:

Santo, Santo, Santo il Signore Dio degli esérciti I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell’alto dei cieli.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

4 Esdr II:35; 34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono.]

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens et miséricors Deus: ut ánimæ fratrum, propinquórum et benefactórum nostrórum, pro quibus hoc sacrifícium laudis tuæ obtúlimus majestáti; per hujus virtútem sacraménti a peccátis ómnibus expiátæ, lucis perpétuæ, te miseránte, recípiant beatitúdinem.

[Fa’, o Dio onnipotente e misericordioso, che le anime dei tuoi servi e delle tue serve, per le quali abbiamo offerto alla tua maestà questo sacrificio di lode, purificate da tutti i peccati per l’efficacia di questo sacramento, ricevano per tua misericordia la felicità dell’eterna luce.]

FESTA DI TUTTI I SANTI (2021)

FESTA DI TUTTI I SANTI (2021)

Santa MESSA

1° NOVEMBRE

Festa di tutti i Santi.

Doppio di 1a classe con Ottava comune. – Paramenti bianchi.

Il tempio romano di Agrippa fu dedicato, sotto Augusto, a tutti i dei pagani, perciò fu detto Pantheon. Al tempo dell’imperatore Foca, tra il 608 e il 610, Bonifacio IV Papa, vi trasportò molte ossa di martiri tolte dalle catacombe. Il 13 maggio 610 egli dedicò questa nuova basilica cristiana a « S. Maria e ai Martiri». Più tardi la festa di questa dedicazione fu solennemente celebrata e si consacrò il tempio a « Santa Maria » e a « Tutti i Santi «. E siccome esisteva in precedenza una festa per la commemorazione di tutti i Santi, celebrata in tempi diversi dalle varie chiese e poi stabilita da Gregorio IV (827-844) il 1° novembre, papa Gregorio VII trasportò in questo giorno l’anniversario della dedicazione del Panteon. La festa di Ognissanti ricorda il trionfo che Cristo riportò sulle antiche divinità pagane. Nel Pantheon si tiene la Stazione nel venerdì nell’Ottava di Pasqua. – I Santi che la Chiesa onorò nei primi tre secoli erano tutti Martiri, e il Pantheon fu dapprima ad essi destinato: per questo la Messa di oggi è tolta dalla liturgia dei Martiri. l’Introito è quello della Messa di S. Agata, più tardi usato anche per altre feste; il Vang., l’Off., e il Com., sono tratti dal Comune dei Martiri. La Chiesa oggi ci presenta la mirabile visione del Cielo, nel quale con S. Giovanni ci mostra il trionfo dei dodicimila eletti (dodici è considerato come un numero perfetto) per ogni tribù di Israele e una grande, innumerevole folla di ogni nazione, di ogni tribù, di ogni popolo e di ogni lingua prostrata dinanzi al trono ed all’Agnello, rivestiti di bianche stole e con palme fra le mani (Ep.). Intorno al Cristo, la Vergine, gli Angeli divisi in nove cori, gli Apostoli e i Profeti, i Martiri, imporporati del loro sangue, i Confessori, rivestiti di bianchi abiti e il coro delle caste Vergini formano, canta l’Inno dei Vespri, questo maestoso corteo. Esso si compone di tutti coloro che, qui, hanno distaccato i loro cuori dai beni della terra, miti, afflitti, giusti, misericordiosi, puri, pacifici, di fronte alle persecuzioni, per il nome di Gesù. « Rallegratevi dunque perché la vostra ricompensa sarà grande nei Cieli» dice Gesù (Vang., Com.). Fra questi milioni di giusti, che sono stati discepoli fedeli di Gesù sulla terra, si trovano numerosi nostri parenti, amici, comparrocchiani, che adorano il Signore, Re dei re e corona dei santi (invit. del Matt.) e ci ottengono l’implorata abbondanza delle sue misericordie (Or.). Il sacerdozio che Gesù esercita invisibilmente sui nostri altari, dove Egli si offre a Dio, si identifica con quello che Egli esercita visibilmente in Cielo. – Gli altari della terra, sui quali si trova «l’Agnello di Dio», e quello del Cielo, ov’è l’«Agnello immolato », sono un solo altare: perciò la Messa ci richiama continuamente alla patria celeste. Il Prefazio unisce i nostri canti alle lodi degli Angeli, e il Communicantes ci unisce strettamente alla Vergine e ai Santi.

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]


Ps XXXII:1.
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate nel Signore, o giusti: ai retti si addice il lodarLo.]

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei

 [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui nos ómnium Sanctórum tuórum omérita sub una tribuísti celebritáte venerári: quǽsumus; ut desiderátam nobis tuæ propitiatiónis abundántiam, multiplicátis intercessóribus, largiáris.
 

[O Dio onnipotente ed eterno, che ci hai concesso di celebrare con unica solennità i meriti di tutti i tuoi Santi, Ti preghiamo di elargirci la bramata abbondanza della tua propiziazione, in grazia di tanti intercessori.]

Lectio

Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli.
Apoc VII: 2-12
In diébus illis: Ecce, ego Joánnes vidi álterum Angelum ascendéntem ab ortu solis, habéntem signum Dei vivi: et clamávit voce magna quátuor Angelis, quibus datum est nocére terræ et mari, dicens: Nolíte nocére terræ et mari neque arbóribus, quoadúsque signémus servos Dei nostri in fróntibus eórum. Et audívi númerum signatórum, centum quadragínta quátuor mília signáti, ex omni tribu filiórum Israël, Ex tribu Juda duódecim mília signáti. Ex tribu Ruben duódecim mília signáti. Ex tribu Gad duódecim mília signati. Ex tribu Aser duódecim mília signáti. Ex tribu Néphthali duódecim mília signáti. Ex tribu Manásse duódecim mília signáti. Ex tribu Símeon duódecim mília signáti. Ex tribu Levi duódecim mília signáti. Ex tribu Issachar duódecim mília signati. Ex tribu Zábulon duódecim mília signáti. Ex tribu Joseph duódecim mília signati. Ex tribu Bénjamin duódecim mília signáti. Post hæc vidi turbam magnam, quam dinumeráre nemo póterat, ex ómnibus géntibus et tríbubus et pópulis et linguis: stantes ante thronum et in conspéctu Agni, amícti stolis albis, et palmæ in mánibus eórum: et clamábant voce magna, dicéntes: Salus Deo nostro, qui sedet super thronum, et Agno. Et omnes Angeli stabant in circúitu throni et seniórum et quátuor animálium: et cecidérunt in conspéctu throni in fácies suas et adoravérunt Deum, dicéntes: Amen. Benedíctio et cláritas et sapiéntia et gratiárum áctio, honor et virtus et fortitúdo Deo nostro in sǽcula sæculórum. Amen. – 

[In quei giorni: Ecco che io, Giovanni, vidi un altro Angelo salire dall’Oriente, recante il sigillo del Dio vivente: egli gridò ad alta voce ai quattro Angeli, cui era affidato l’incarico di nuocere alla terra e al mare, dicendo: Non nuocete alla terra e al mare, e alle piante, sino a che abbiamo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio. Ed intesi che il numero dei segnati era di centoquarantaquattromila, appartenenti a tutte le tribú di Israele: della tribú di Giuda dodicimila segnati, della tribú di Ruben dodicimila segnati, della tribú di Gad dodicimila segnati, della tribú di Aser dodicimila segnati, della tribú di Nèftali dodicimila segnati, della tribú di Manasse dodicimila segnati, della tribú di Simeone dodicimila segnati, della tribú di Levi dodicimila segnati, della tribú di Issacar dodicimila segnati, della tribú di Zàbulon dodicimila segnati, della tribú di Giuseppe dodicimila segnati, della tribú di Beniamino dodicimila segnati. Dopo di questo vidi una grande moltitudine, che nessuno poteva contare, uomini di tutte le genti e tribú e popoli e lingue, che stavano davanti al trono e al cospetto dell’Agnello, vestiti con abiti bianchi e con nelle mani delle palme, che gridavano al alta voce: Salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli che stavano intorno al trono e agli anziani e ai quattro animali, si prostrarono bocconi innanzi al trono ed adorarono Dio, dicendo: Amen. Benedizione e gloria e sapienza e rendimento di grazie, e onore e potenza e fortezza al nostro Dio per tutti i secoli dei secoli.]

Graduale


Ps XXXIII:10; 11
Timéte Dóminum, omnes Sancti ejus: quóniam nihil deest timéntibus eum.
V. Inquiréntes autem Dóminum, non defícient omni bono.

[Temete il Signore, o voi tutti suoi santi: perché nulla manca a quelli che lo temono.
V. Quelli che cercano il Signore non saranno privi di alcun bene.]

Alleluja

(Matt. XI:28)
Allelúja, allelúja – Veníte ad me, omnes, qui laborátis et oneráti estis: et ego refíciam vos. Allelúja.
[Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi: e io vi ristorerò. Allelúia.]

Evangelium


Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt V: 1-12
“In illo témpore: Videns Jesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli ejus, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum. Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt justítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequéntur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam: quóniam ipsórum est regnum cælórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis, et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudéte et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.”

[In quel tempo: Gesù, vedendo le turbe, salì sul monte, e postosi a sedere, gli si accostarono i suoi discepoli, ed Egli, aperta la bocca, gli ammaestrava dicendo: « Beati i poveri di spirito, perché loro è il regno de’ cieli. Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra. Beati coloro, che piangono, perché essi saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché  anch’essi troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati quelli che sono perseguitati per cagione della giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. Beati voi quando vi avranno vituperati e perseguitati e, mentendo, avranno detto ogni male di voi, per cagione mia. Rallegratevi e giubilate, perché grande è la mercede vostra in cielo ».]

Omelia

SULLA SANTITÀ

[I Sermoni del S. Curato d’Ars]

Sancti estote, quia ego sanctus

 Siate santi, perchè santo son io.

(Levitico XIX, 2).

Siate santi, perché santo son Io, dice il Signore. Perché mai, miei fratelli, Dio ci fa un simile comandamento? Perché siamo suoi figli, e se santo è il Padre, devono esserlo anche i figli. I Santi soltanto possono sperare la sorte felice d’andare a godere la visione di Dio, ch’è santità per essenza. Infatti essere Cristiani e viver nel peccato, è contraddizione mostruosa. Un Cristiano dev’esser santo. Sì, miei fratelli, questa verità la Chiesa Ci ripete continuamente, e, per istamparla ne’ nostri cuori, ci mette dinanzi un Dio infinitamente Santo, che rende sante un’infinita moltitudine d’anime, le quali pare ci dicano: « Rammentate, o Cristiani, che siete destinati a vedere Iddio e possederlo; ma non avrete questa felicità, se, nel corso della vostra vita mortale, non avrete ritratto in voi la sua immagine, le sue perfezioni e specialmente la sua santità, senza di cui niuno sarà ammesso a vederlo ». Ma se la santità di Dio, miei fratelli, ci si mostra al di sopra delle nostre forze, consideriamo quelle anime beate, quella moltitudine di creature d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione, che furono soggette all’istesse miserie che noi, esposte ai medesimi pericoli, soggette agli stessi peccati, assaliti da’ medesimi nemici, circondati da’ medesimi ostacoli. Ciò che poteron esse, possiamo anche noi, e non abbiamo scusa per dispensarci dal lavorare alla nostra salute, cioè a divenir santi. Non debbo dunque dimostrarvi altra cosa se non l’obbligo indispensabile che abbiamo di farci santi; e a tal fine vi mostrerò:

l° in che consiste la santità;

2° che noi possiamo acquistarla, come l’acquistarono i Santi, perché abbiamo le medesime difficoltà e i medesimi aiuti.

I. — I mondani, per esimersi dal lavorare ad acquistare la santità, il che certamente sarebbe ad essi d’impaccio nel loro modo di vivere, vogliono farci credere che per esser Santi bisogna fare azioni che facciano gran rumore, attendere a straordinarie pratiche di pietà, darsi a grandi austerità, far molti digiuni, ritirarsi dal mondo per internarsi nel deserto e passarvi giorni e notti in preghiera. Tutto questo è cosa buona, ed è la via seguita da molti Santi; ma Dio non domanda questo da tutti. No, miei fratelli, la nostra santa Religione non esige tanto; ma ci dice invece: « Alzate gli occhi al cielo, e vedete se tutti quelli che ne occupano i primi posti fecero cose fuor dell’ordinario. Dove sono i miracoli della SS. Vergine, di S. Giovanni Battista, di S. Giuseppe? » Udite, fratelli miei: Gesù Cristo medesimo dice: che nel giorno del giudizio molti grideranno: « Signore, Signore, non abbiamo noi profetizzato in vostro Nome; non abbiam cacciato i demoni e fatto miracoli? » — « Ritiratevi da me, risponderà loro il giusto Giudice: ecche? Comandaste al mare, e non avete saputo comandare alle vostre passioni? Liberaste gli ossessi dal demonio, e poi ne foste schiavi? Avete fatto miracoli, e non avete osservato i miei comandamenti?… Andate, sciagurati, al fuoco eterno: avete fatto grandi cose; eppur non faceste nulla per salvarvi e meritare il mio amore » (S. Matth. VII). Vedete dunque, fratelli miei, che la santità non consiste nel far grandi cose, ma nell’osservare fedelmente i comandamenti di Dio, e nell’adempiere i propri doveri in quello stato in cui Dio ci ha posti. – Si vede spesso una persona, che vive in mezzo al mondo, e compie fedelmente i piccoli doveri del suo stato, riuscire a Dio più gradita che i solitari nei loro deserti. Ecco un esempio che ve ne convincerà. Noi leggiamo nella storia, che due solitari domandavano a Dio la maniera di amarlo e servirlo, come si deve, poiché non avevano lasciato il mondo se non per questo. Essi intesero una voce che diceva loro di andare ad Alessandria, ove dimorava un uomo, di nome Eucaristo, e sua moglie che si chiamava Maria. Essi servivano il buon Dio più perfettamente dei solitari ed insegnavano loro come Egli debba essere amato. Contentissimi di questa risposta, si recarono celermente nella città di Alessandria. Là giunti, essi si informarono per diversi giorni senza trovare questi due santi personaggi. Temevano che questa voce li avesse ingannati ed avevano preso la decisione di tornare nel loro deserto, quando si accorsero di una donna sulla porta della sua casa. Essi le domandarono se conoscesse per caso un uomo un uomo chiamato Eucaristo. Ma è mio marito, ella disse loro. – Voi dunque vi chiamate Maria, le dissero i solitari? Chi vi ha fatto conoscere il mio nome? – Noi l’abbiamo conosciuto, con quello di vostro marito, per via soprannaturale, e veniamo qui per parlarvi. Il marito arrivò la sera, conducendo un piccolo gregge di montoni. I solitari corsero subito ad abbracciarlo, e lo pregarono di dirgli qual fosse il suo genere di vita. – Ahimè! padri miei, io non sono che un povero pastore. – Non è questo che vi chiediamo, gli dissero i solitari; diteci come vivete ed in qual modo, voi e vostra moglie, servite il buon Dio. — Padri miei, siete ben voi che dovete dire a noi cosa dobbiamo fare per servire il buon Dio; io non sono che un povero ignorante. — Non importa! Noi simo venuti da parte di Dio a domandarvi come lo servite. — Poiché voi me lo comandate, io ve lo dico. Io ho avuto la fortuna di aver avuto una madre che temeva Dio, e che fin dalla mia infanzia, mi ha raccomandato di fare tutto e soffrire tutto per amor di Dio. Io soffrivo le piccole correzioni che mi si facevano per amor di Dio; io riferivo tutto a Dio: al mattino, mi alzavo, facevo le mie preghiere e tutto il mio lavoro per suo amore. Per amor suo, io prendo i miei pasti; soffro la fame, la sete, il freddo ed il caldo, le malattie e tutte le altre miserie. Non ho figli, ho vissuto con mia moglie come mia sorella, e sempre in una grande pace. Ecco tutta la mia vita che è anche quella di mia moglie. — I solitari, meravigliati di vedere delle anime così gradite a Dio, gli domandarono se avesse dei beni. —  Io ho pochi beni, ma questo piccolo gregge di montoni che mio padre mi ha lasciato, mi è sufficiente, non ho altro. Dei miei guadagni ne faccio tre parti: ne do una parte alla Chiesa, un’altra ai poveri, ed il resto fa vivere me e mia moglie. Vivo in povertà, ma non me ne lamento: e soffro tutto questo per amor di Dio. — Avete nemici, gli chiesero i solitari? — Ahimè, padri miei, chi è colui che non ne ha? Io cerco di fare tutto il bene che posso, cerco di piacer loro in ogni circostanza, mi applico a non far male a nessuno. A queste parole i due solitari furono pieni di gioia nell’aver trovato un mezzo così facile di piacere a Dio ed arrivare alla più alta perfezione. Ecco, fratelli miei, che cos’è la santità, e che cos’è un santo agli occhi della religione. Ditemi, è forse cosa molto difficile il santificarsi nello stato, in cui Dio v’ha messo? Padri e madri, imitate que’ due Santi: ecco i vostri modelli: seguiteli e voi pure diverrete Santi. Fate com’essi. In tutte le cose cercate di piacere a Dio, di far tutto per suo amore, e sarete predestinati. Volete anche sapere che cos’è un santo agli occhi della Religione? È un uomo che teme Iddio, l’ama sinceramente e lo serve con fedeltà; è un uomo che non si lascia punto gonfiare dalla superbia, né dominare dall’amor proprio, ma è veramente a’ propri occhi umile e meschino; che, se sprovveduto de’ beni terreni, non li desidera, o, se li possiede, non v’attacca il cuore; è un uomo ch’è nemico d’ogni acquisto ingiusto; è un uomo che con la pazienza e con la giustizia tenendo a freno l’anima sua, non s’offende d’un’ingiuria che gli vien fatta. Ama i suoi nemici, e non cerca di vendicarsi. Rende al prossimo tutti i servigi che può, divide volentieri coi poveri i suoi beni; cerca Dio solo e sprezza i beni e gli onori di questo mondo. Non desiderando che i beni celesti, sente nausea de’ piaceri della vita e trova soltanto nel servizio di Dio la sua felicita. È un uomo assiduo alle funzioni della Chiesa, che frequenta i Sacramenti e lavora seriamente alla propria salvezza; è un uomo, che, avendo orrore di qualsiasi impurità, fugge, quanto può, le cattive compagnie per conservar puri il suo corpo e l’anima sua. È un uomo, che interamente si soggetta alla volontà di Dio in tutte le croci e le avversità che gli sopravvengono; non accusa né l’uno né l’altro, ma riconosce che per cagione de’ suoi peccati pesa su lui la divina giustizia. È un buon padre che cerca solo la salute de’ suoi figli, dando loro egli medesimo buon esempio, e non facendo nulla che possa scandalizzarli. È un padrone caritatevole, che ama i suoi domestici come fratelli e sorelle. È un figlio che rispetta il padre e la madre e li riguarda come posti a tener le veci di Dio medesimo. È un domestico che nella persona de’ suoi padroni vede Gesù Cristo in persona, che gli comanda per bocca loro. Ecco, miei fratelli, quello che voi chiamate un uomo onesto. Ma ecco pure quel che Dio chiama l’uomo del miracolo, il santo, il gran santo. « Chi è costui? chiede il Savio: noi lo colmeremo di lodi, non perché abbia fatto cose meravigliose nel corso della sua vita: ma perché fu provato dalle tribolazioni e ritrovato perfetto: sarà eterna la sua gloria » (Eccli. XXXI, 9, 10). Che deve intendersi per santa fanciulla: Santa fanciulla è quella che fugge i piaceri e la vanità: che mette ogni suo diletto nel piacere a Dio e ai suoi genitori: che frequenta volentieri le funzioni e i Sacramenti: che sa amare la preghiera; quella in una parola che a tutto preferisce Dio. Ne citerò un esempio meraviglioso, ma vero, tratto dalla storia ecclesiastica, su cui ciascuno potrà modellarsi. Nel tempo della persecuzione, che infierì nella città di Tolemaide, le fanciulle cristiane spiccarono per la loro virtù. Ve n’erano moltissime di nascita illustre, ed erano sì pure che amavano meglio incontrare la morte anziché perder la castità: da se stesse si tagliarono le labbra e parte del viso per apparire più orribili agli occhi di chi loro s’accostasse. Furono lacerate con maglie di ferro e sotto i denti de’ leoni. Quelle impareggiabili giovinette vollero piuttosto tollerare sì acerbi tormenti, che esporre il loro corpo alla licenza dei libertini. Oh! qual condanna sarà quest’esempio per quelle fanciulle leggere, che pensano solo a comparire, ad attirarsi gli sguardi della gente, a segno da divenire spregevoli !… Citerò ancora l’esempio di Santa Coleta (Ribadeneira, al 6 Marzo), vergine sì pura e sì riservata, che temeva tanto di farsi vedere quanto le fanciulle mondane han premura di mostrarsi. Udì un giorno in una conversazione lodarsi la sua bellezza: ne arrossì, e corse subito a prostrarsi a’ piedi del suo crocifisso. « Ah! mio Dio, esclamava piangendo, questa bellezza che m’avete data, sarà cagione della perdita dell’anima mia e di quella d’altri con me? ». Da quel momento abbandonò il mondo, e andò a chiudersi in un monastero, ove soggettò il suo corpo ad ogni sorta di macerazioni. Morendo diede visibili segni d’aver serbata l’anima pura, non solo agli occhi del mondo, ma anche a quelli di Dio. Riconosco, sì, che questi due esempi sono un po’ straordinari, e pochi possono imitarli; ma eccone uno che si adatta assolutamente alle condizioni vostre. Udite attentamente, o giovani, e vedrete, che, se vorrete seguire le attrattive della grazia, ben presto sarete disilluse a riguardo de’ piaceri e delle vanità del mondo che vi allontanano da Dio. Si narra d’una giovane damigella della Franca contea, per nome Angelica, che aveva molto spirito, ma era mondana assai. Avendo udito un predicatore predicar contro la vanità e il lusso nel vestire, andò a confessarsi da lui. Egli le fece intender sì bene quanto fosse colpevole e quante anime poteva trarre a perdizione, che, fin dal giorno dopo, lasciò tutte le sue vanità e si vestì in modo semplicissimo, da cristiana. Sua madre, ch’era come la maggior parte di quei poveri ciechi, i quali par non abbiano figliuole che per precipitarle all’inferno riempiendole di vanità, la riprese perché non s’abbigliava più come prima. « Madre mia, le rispose, il predicatore, da cui sono stata a confessarmi, me l’ha proibito. Quella povera madre, accecata dalla collera, va a cercare il confessore, e gli domanda, se veramente ha proibito a sua figlia di abbigliarsi secondo la moda. « Io non so, le rispose il confessore che cosa abbia detto a vostra figlia: ma vi basti sapere che Dio proibisce di vestirsi conforme alla moda, se questa non è secondo Dio, ma colpevole e perniciosa alle anime ». — « Padre mio, qual moda chiamate voi colpevole e perniciosa alle anime? » — « Quella, per es., di portar vesti troopo aperte, o che mettan troppo in rilievo le forme del corpo; o portar abiti troppo ricchi e più costosi di quel che permette il proprio stato ». Le fece quindi vedere i pericoli di queste mode, e come dessero cattivo esempio. — « Padre mio, gli disse la donna, se il mio confessore m’avesse detto quanto m’avete detto voi, non avrei mai permesso a mia figlia di portar tutte quelle vanità, ed io stessa sarei stata più assennata; eppure il mio confessore è dotto assai! Ma che m’importa che sia dotto, se mi lascia vivere a mio capriccio, e in pericolo di perdermi eternamente? » Tornata a casa, disse a sua figlia: « Benedici Iddio d’aver trovato tal confessore e seguine gli avvertimenti ». La giovane damigella ebbe poi a sostenere terribili combattimenti da parte delle altre compagne, che se ne facevan beffe e la mettevano in ridicolo. Ma l’assalto più forte le venne dalla parte di talune che si provarono a farle mutar pensiero. « Perché, le dissero, non vi abbigliate voi come le altre? » — «Non sono punto obbligata a far come le altre, rispose Angelica: mi vesto come quelle che fan bene e non come quelle che fanno male ». — « Ecché? Facciam dunque male ad abbigliarci quali ci vedete? » — « Sì certamente, fate male, perché date scandalo a chi vi guarda ». — « Quanto a me, disse una tra loro, non ho alcuna intenzione cattiva; mi vesto a modo mio, e se alcuno se ne scandalizza, peggio per lui ». — « Peggio anche per voi, riprese Angelica, perché ne siete occasione; se dobbiam temere di cader noi in peccato, dobbiam pur temere di far peccar gli altri ». — « Checché ne sia delle vostre buone ragioni, replicò un’altra, se non vi vestite più come noi, le vostre amiche vi abbandoneranno, e non avrete più coraggio di comparire nelle belle conversazioni e nei balli ». — « Desidero piuttosto, rispose Angelica, la compagnia della mia cara madre, delle mie sorelle e di alcune morigerate giovinette che tutte codeste belle conversazioni e codesti balli. Non mi vesto per piacere, ma per coprirmi; i veri ornamenti d’una fanciulla non istanno negli abiti, ma nella virtù. Del resto, signore, se la pensate così, non la pensate da cristiane, ed è vergogna che, in una Religione santa come la nostra, vi sia chi si permette tali violazioni della modestia ». Dopo tutti questi discorsi una della compagnia disse: « Davvero è vergogna che una giovinetta di diciott’anni debba darci lezione: il suo esempio sarà un giorno nostra condanna. Siam pur cieche in far tanto per piacere al mondo, che poi si burla di noi! » Angelica perseverò sempre nelle sue buone disposizioni, non ostante tutto ciò che poterono dirle. Ebbene, fratelli miei, chi v’impedisce di far come questa giovine contessa? Essa si è santificata vivendo nel mondo. Oh! qual motivo di condanna sarà nel giorno del giudizio quest’esempio per molti e molti Cristiani! Si può farsi Santi anche nello stato coniugale. Lo Spirito Santo nella sacra Scrittura si diletta di farci il ritratto d’una donna santa; e conforme alla descrizione che ce ne fa (1 Tim. II,, V; Ephes. V) vi dirò che donna santa è quella che ama e rispetta il suo sposo, veglia con sollecitudine sui figliuoli e sui domestici, è attenta a farli istruire e farli accostare ai Sacramenti, s’occupa delle faccende domestiche e non della condotta de’ suoi vicini; è riserbata ne’ discorsi, caritatevole nelle opere, nemica dei divertimenti mondani: una donna siffatta, dico, è un’anima giusta: Dio la loda, la canonizza; insomma è una santa. Vedete dunque, fratelli miei, che per esser santi, non è necessario abbandonar tutto; ma adempier bene i doveri dello stato, in cui Dio ci ha messo, e far tutto ciò che facciamo coll’intenzione di piacere a Lui. Lo Spirito Santo ci dice che per esser santi basta allontanarci dal male e fare il bene (Ps. XXXIII, 13-14). Ecco, miei fratelli, qual santità ebbero tutti i Santi, e dobbiamo avere anche noi. Ciò ch’essi han fatto, possiam fare noi pure con la grazia di Dio; poiché abbiamo com’essi i medesimi ostacoli alla nostra salute e gli stessi aiuti per vincerli.

II. — Dico: 1° che i Santi incontrarono i medesimi ostacoli che noi a giungere alla santità: ostacoli di fuori, ostacoli dentro di sé medesimi. Ostacoli da parte del mondo: il mondo era allora qual è a’ tempi nostri, del pari pericoloso ne’ suoi esempi, del pari corrotto nelle sue massime, del pari seducente ne’ suoi piaceri, sempre nemico della pietà e sempre pronto a metterla in ridicolo. N’è prova il fatto che la maggior parte de’ Santi disprezzò e fuggì il mondo con gran cura; preferirono la ritiratezza alle adunanze mondane; anzi molti, temendo di perdervisi, l’abbandonarono del tutto; gli uni per andarsene a passare il resto de’ loro giorni in un monastero, altri nel fondo dei deserti, quali un S. Paolo primo eremita, un S. Antonio (Vita dei Padri del Deserto. T. I), una santa Maria Egiziaca (Ibid. T. V, pag. 379) e tanti altri. – Ostacoli da parte del loro stato: parecchi erano, come voi, impegnati in affari del mondo, aggravati dagli impicci del governo d’una famiglia, dalla cura de’ figliuoli; obbligati, la maggior parte, a guadagnarsi il pane col sudore della loro fronte; ora, ben lungi dal pensar, come noi, che in un altro stato si salverebbero più facilmente, erano persuasi d’aver grazie maggiori in quello nel quale li aveva messi la Provvidenza. Non vediam forse che nel tumulto del mondo e tra gl’impicci d’una famiglia e le faccende domestiche si salvò un gran numero di Santi? Abramo, Isacco, Giacobbe, Tobia, Zaccaria, la casta Susanna, il santo Giobbe, S. Elisabetta: tutti questi illustri santi dell’antico Testamento, non erano stabiliti nel mondo? E nella nuova Legge può forse contarsi il numero di coloro che si santificarono nelle ordinarie condizioni della vita? Perciò S. Paolo ci dice che i Santi giudicheranno le nazioni (1 Cor. VI, 2). Non vuol dirci con ciò che non v’è uomo sulla terra, il quale non trovi qualche Santo nel suo stato, che sarà condanna della sua infingardaggine, facendogli vedere che avrebbe potuto far, come lui, ciò per cui ha meritato il cielo? Se dagli ostacoli esteriori passiamo adesso agli interni, vedremo che i Santi ebbero tentazioni e combattimenti quanti possiamo averne noi, e forse più. Primieramente dalle abitudini cattive. Non crediate, fratelli miei, che tutti i Santi sian sempre stati santi. Quanti ve ne sono che cominciarono male e vissero lungo tempo in peccato. Vedete il santo re David, vedete S. Agostino, vedete S. Maddalena. Facciamoci dunque coraggio, fratelli miei; sebbene peccatori, possiamo pure divenir santi: se non saremo tali per l’innocenza, lo saremo almeno per la penitenza; poiché una gran parte de’ Santi si è santificata così. Ma, direte forse, costa troppo! — Costa troppo, fratelli miei? E credete che ai Santi non abbia costato nulla? Vedete David, che bagna il suo pane con le sue lacrime, e il suo letto col suo pianto (Ps. CI, 10; VI, 7). Credete che ad un re, qual egli era, non costasse nulla? Credete che gli riuscisse indifferente darsi spettacolo a tutto il suo regno, e servire a tutti di zimbello? Vedete santa Maddalena: in mezzo ad una numerosa adunanza, si getta ai piedi del Salvatore, e piangendo dirottamente accusa alla presenza di tutti le sue colpe (S. Luc. VII); segue Gesù Cristo fino a’ piedi della croce (S. GIOVANNI, XIX, 25.), e ripara qualche anno di debolezza con lunghi anni di penitenza: credete forse, fratelli miei, che siffatti sacrifici non le costassero alcuno sforzo? Credo con certezza che chiamerete beati i Santi, i quali han fatto tale penitenza e versato tante lagrime. Ohimè! se potessimo anche noi, come quei Santi, intendere la gravezza dei nostri peccati e la bontà di Dio che abbiamo offeso; se, com’essi, pensassimo all’inferno che abbiamo meritato, all’anima nostra che abbiam perduta, al sangue di Gesù Cristo che abbiam profanato! Ah! se avessimo ne’ nostri cuori tutti questi pensieri, quante penitenze faremmo per cercare di placare la giustizia di Dio da noi irritata! – Credete forse che i Santi sian giunti senza fatica a quella semplicità, a quella dolcezza, ond’eran mossi a rinunziare alla propria volontà, ogni qual volta se ne presentasse l’occasione? Oh! no, miei fratelli! Udite S. Paolo: « Ohimè! io faccio il male che non vorrei, e non faccio il bene che vorrei: sento nelle mie membra una legge che si ribella contro la legge del mio Dio. Ah! me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? ». Quali combattimenti non dovettero sostenere i primi Cristiani nel lasciare una religione, che tendeva solo a blandire le loro passioni, per abbracciarne un’altra che mirava invece a crocifiggere la carne? Credete forse che S. Francesco di Sales non si sia dovuto far violenza per divenir dolce com’era? Quanti sacrifizi dovette fare!… I Santi non furon Santi, se non dopo molti sacrifizi e molte violenze!

2° Dico in secondo luogo che noi abbiamo le medesime grazie, da cui essi furono avvalorati. E primieramente il Battesimo non ha egual virtù di parificarci, la Confermazione di fortificarci, l’Eucaristia d’indebolire in noi la concupiscenza e d’accrescere nelle nostre anime la grazia? E la parola di Gesù Cristo non è sempre la stessa? Non udiamo noi ripetercisi ad ogni tratto quel consiglio: « Lasciate tutto e seguitemi? » E questo appunto convertì a santità S. Antonio, S. Arsenio, S. Francesco d’Assisi. Non leggiamo forse nel Vangelo quell’oracolo: « Che giova all’uomo guadagnar tutto il mondo, se poi perde l’anima sua? (Matth. XVI, 26). Queste medesime parole non convertirono S. Francesco Saverio, e d’un ambizioso ne fecero un apostolo. – Non sentiamo pure ogni giorno ripetere: « Vegliate e pregate continuamente » E da questa dottrina appunto furono formati i Santi. Finalmente, fratelli miei, quanto a buoni esempi, per quanto sregolato sia il mondo, non ne abbiam ancor dinanzi agli occhi qualcuno, e certo più di quelli che potremo seguire? Insomma la grazia ci manca più che non ai Santi? E non contiamo per nulla que’ buoni pensieri, quelle salutari ispirazioni di staccarci da quel peccato, di rompere quella cattiva abitudine, di praticare quella virtù, di fare quell’opera buona? Non sono grazie quei rimorsi di coscienza, quei turbamenti, quelle inquietudini che proviamo dopo d’aver litigato? Ohimè! miei fratelli, quanti Santi, che sono adesso in cielo, ebbero meno grazie di noi! Quanti pagani e quanti Cristiani sono all’inferno, che sarebbero divenuti gran Santi, se avessero avuto tante grazie, quante ne abbiam ricevute noi!… – Sì, miei fratelli, possiamo esser Santi, e dobbiamo lavorar tutti a divenirlo. I Santi furono mortali come noi, deboli e soggetti alle passioni come noi; noi abbiamo gli stessi aiuti, le stesse grazie, i medesimi Sacramenti; ma bisogna fare com’essi: rinunciare ai piaceri del mondo, fuggire il mondo, quanto possiamo, esser fedeli alla grazia; prenderli a modello: poiché non dobbiamo dimenticar mai che santi o riprovati dobbiamo essere, vivere pel cielo o per l’inferno: non v’è via di mezzo. – Concludiamo, miei fratelli, dicendo che, se vogliamo, possiamo esser Santi, perché Dio non ci negherà mai la sua grazia, che ci aiuti a divenirlo. È nostro Padre, nostro Salvatore, nostro Amico: desidera ardentemente di vederci liberati dai mali della vita. Vuol ricolmarci d’ogni sorta di beni, dopo averci dato fin da questo mondo immense consolazioni, saggio di quelle del cielo, che io vi desidero.

Credo … 

IL CREDO

Offertorium


Orémus
Sap III:1; 2; 3
Justórum ánimæ in manu Dei sunt, et non tanget illos torméntum malítiæ: visi sunt óculis insipiéntium mori: illi autem sunt in pace, allelúja.

[I giusti sono nelle mani di Dio e nessuna pena li tocca: parvero morire agli occhi degli stolti, ma invece essi sono nella pace.]

Secreta


Múnera tibi, Dómine, nostræ devotiónis offérimus: quæ et pro cunctórum tibi grata sint honóre Justórum, et nobis salutária, te miseránte, reddántur.

[Ti offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio


Matt V: 8-10
Beáti mundo corde, quóniam ipsi Deum vidébunt; beáti pacífici, quóniam filii Dei vocabúntur: beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam, quóniam ipsórum est regnum cœlórum.

[Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio: beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio: beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.]

Postcommunio


Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, fidélibus pópulis ómnium Sanctórum semper veneratióne lætári: et eórum perpétua supplicatióne muníri.

[Concedi ai tuoi popoli, Te ne preghiamo, o Signore, di allietarsi sempre nel culto di tutti Santi: e di essere muniti della loro incessante intercessione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

DOMENICA DI CRISTO RE (2021)

DOMENICA DI CRISTO RE (2021)

Messa della DOMENICA DI CRISTO RE (2021)

DÒMINE Iesu Christe, te confiteor Regem universàlem. Omnia, quæ facta sunt, prò te sunt creata. Omnia iura tua exérce in me. Rénovo vota Baptismi abrenùntians sàtanæ eiùsque pompis et opéribus et promitto me victùrum ut bonum christiànum. Ac, potissimum me óbligo operàri quantum in me est, ut triùmphent Dei iura tuæque Ecclèsiæ. Divinum Cor Iesu, óffero tibi actiones meas ténues ad obtinéndum, ut corda omnia agnóscant tuam sacram Regalitàtem et ita tuæ pacis regnum stabiliàtur in toto terràrum orbe. Amen.

DOMENICA In festo Domino nostro Jesu Christi Regis ~ I. classisL’ULTIMA DOMENICA D’OTTOBRE

Festa del Cristo Re.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di prima classe. – Paramenti bianchi.

La festa del Cristo Re, per quanto d’istituzione recente, perché stabilita da Pio XI nel dicembre 1925, ha le sue più profonde radici nella Scrittura, nel dogma e nella liturgia. Merita, a questo riguardo d’esser riportato qui integralmente in versione italiana dall’ebraico, il famoso salmo messianico, che nel Salterio reca il n. 2. Il salmista comincia dal descrivere la congiura di popoli e governanti contro il Messia, cioè il Cristo:

A che prò si agitano le genti

e le nazioni brontolano vanamente?

Si sollevano i re della terra

e i principi congiurano insieme

contro Dio ed il suo Messia:

« Spezziamo i loro legami

e scotiamo da noi le loro catene ».

Popoli e governanti considerano come legami e catene intollerabili i precetti divini e cercano di ribellarvisi: tentativo ridicolo, conati di impotenti contro l’Onnipotente:

Chi siede nei cieli ne ride,

il Signore se ne fa beffe.

Poi loro parla con ira

e col suo sdegno li sgomenta.

Dio stesso dichiara che il Re da Lui costituito su tutto il mondo è il Messia:

« Ho consacrato io il mio Re,

(l’ho consacrato) sul Sion, il sacro mio monte »..

Alla sua volta il Cristo Re dichiara:

« Promulgherò il divino decreto.

Dio m’ha detto: Tu sei il mio Figlio;

Io quest’oggi t’ho generato.

Chiedi a me e ti darò in possesso le genti

e in tuo dominio i confini della terra.

Li governerai con scettro di ferro,

quali vasi di creta li frantumerai ».

Il Salmista conchiude, rivolgendo un caldo appello al governanti:

Or dunque, o re, fate senno:

ravvedetevi, o governanti della terra!

Soggettatevi a Dio con timore

e baciategli i piedi con tremore;

affinché non si adiri e voi siate perduti,

per poco che divampi l’ira sua.

Felici quelli che ricorrono a Lui!

(Trad. Vaccari)

Un altro salmo, il più celebre di tutto il salterio, insiste sugli stessi concetti: regalità del Cristo, il quale, nello stesso tempo che Re dei secoli, è anche sacerdote in eterno; ribellione di re e popoli contro il Cristo; trionfo finale, schiacciante ed assoluto del Cristo sui propri nemici:

Responso del Signore (Dio) al mio Signore (il Cristo):

« Siedi alla mia destra,

finché io faccia dei tuoi nemici

lo sgabello dei tuoi piedi ».

Da Sionne stenderà il Signore

lo scettro di tua potenza;

impera sui tuoi nemici…

Il Signore ha giurato e non se ne pentirà;

« Tu sei sacerdote in eterno

alla guisa di Melchisedecco…».

(Ps. CIX).

Attraverso queste espressioni metaforiche ed orientali infravediamo delle grandi verità religiose e storiche: la dignità assolutamente regale e sacerdotale del Cristo; i suoi diritti, per generazione divina e per la redenzione del genere umano (vedi Merc. Santo, lez. di Isaia, c. LIII 1-12); la signoria di tutto il mondo (vedi Fil. II, 5-11); la feroce guerra mossa al Cristo dagli avversari in tutto ciò che sa di religioso e particolarmente di cristiano; la vittoria del Cristo Re. Venti secoli di storia cristiana dicono eloquentemente quanto siasi già avverata la Scrittura. Da Erode, cosi detto il Grande, che s’adombra del Cristo bambino, a Caifa, che paventa per la sua nazione, e Pilato, che teme per la sua sedia curule, ai Giudei, uccisori del Cristo e persecutori degli Apostoli, agli imperatori romani, che ad intervalli perseguitano la Chiesa per oltre due secoli, fino alle moderne rivoluzioni, che tutte si accaniscono anzitutto e soprattutto contro la Chiesa, è una lunga incessante storia di ribellioni di popoli e principi contro Dio ed il Cristo Re. Se guardiamo semplicemente al nostro secolo, alla persecuzione sanguinosa dei Boxer contro i Cattolici cinesi, alle persecuzioni del Messico, a quelle di quasi tutta l’Europa, dalla Russia alla Spagna, che guerra al Cristo Re! È fatale; ma altrettanto fatale la vittoria del Cristo. Ai suoi discepoli il Cristo Re dice: Confidate: io ho vinto il mondo (Giov., XVI, 33). Ai suoi nemici: Chiunque cadrà su questa pietra sarà spezzato; e colui sul quale la pietra cadrà sarà stritolato, Luc. XX,18). Per impartirci tale dottrina « un’annua solennità è più efficace di tutti i documenti ecclesiastici, anche i più gravi» (Pio XI, enciclica 11 dic. 1925). La festa di oggi è una grande lezione per tutti: lezione specialmente di illimitata fiducia pei veri fedeli: Felici quelli che ricorrono a Lui (al Cristo Re). Lezione anche di devoto, generoso servizio sotto il vessillo del Cristo Re. La Messa odierna ricorda soprattutto la gloria tributata al Cristo Re dai beati del Cielo (Introito); il regno del Figlio Unigenito, ed il suo primato assoluto in tutto e su tutto (Epistola); quel regno celeste che Gesù ha rivendicato davanti a Pilato, il quale non credeva che al proprio grado e stipendio (Vangelo). il Prefazio canta le caratteristiche sublimi del regno del Cristo.  – Gesù-Cristo è il Verbo creatore, è l’Uomo-Dio seduto alla destra del Padre, è il nostro Salvatore. Sono questi i tre titoli di regalità.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum.

[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza, forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]
Ps LXXI: 1
Deus, iudícium tuum Regi da: et iustítiam tuam Fílio Regis.

[Dio, da al Re il tuo giudizio, ed al Figlio del Re la tua giustizia] –


Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum…

[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza. Forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui in dilécto Fílio tuo, universórum Rege, ómnia instauráre voluísti: concéde propítius; ut cunctæ famíliæ géntium, peccáti vúlnere disgregátæ, eius suavissímo subdántur império: Qui tecum …

[Dio onnipotente ed eterno, che ponesti al vertice di tutte le cose il tuo diletto Figlio, Re dell’universo, concedi propizio che la grande famiglia delle nazioni, disgregata per la ferita del peccato, si sottometta al tuo soavissimo impero: Egli che …].

Commemoratio Dominica XXIII Post Pentecosten I. Novembris

Absólve, quǽsumus, Dómine, tuórum delícta populórum: ut a peccatórum néxibus, quæ pro nostra fragilitáte contráximus, tua benignitáte liberémur.

[Perdona, o Signore, Te ne preghiamo, i delitti del tuo popolo: affinché dai vincoli del peccato, contratti per lo nostra fragilità, siamo liberati per la tua misericordia.]

Orémus.

Largíre, quǽsumus, Dómine, fidélibus tuis indulgéntiam placátus et pacem: ut páriter ab ómnibus mundéntur offénsis, et secúra tibi mente desérviant.

[Largisci placato, Te ne preghiamo, o Signore, il perdono e la pace ai tuoi fedeli: affinché siano mondati da tutti i peccati e Ti servano con tranquilla coscienza].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 12-20
Fratres: Grátias ágimus Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem ejus, remissiónem peccatórum: qui est imágo Dei invisíbilis, primogénitus omnis creatúra: quóniam in ipso cóndita sunt univérsa in cœlis et in terra, visibília et invisibília, sive Throni, sive Dominatiónes, sive Principátus, sive Potestátes: ómnia per ipsum, et in ipso creáta sunt: et ipse est ante omnes, et ómnia in ipso constant. Et ipse est caput córporis Ecclésiæ, qui est princípium, primogénitus ex mórtuis: ut sit in ómnibus ipse primátum tenens; quia in ipso complácuit omnem plenitúdinem inhabitáre; et per eum reconciliáre ómnia in ipsum, pacíficans per sánguinem crucis ejus, sive quæ in terris, sive quæ in cœlis sunt, in Christo Jesu Dómino nostro.

[Fratelli, ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.]

Graduale

Ps LXXI: 8; LXXVIII: 11
Dominábitur a mari usque ad mare, et a flúmine usque ad términos orbis terrárum.

[Egli dominerà da un mare all’altro, dal fiume fino all’estremità della terra]

V. Et adorábunt eum omnes reges terræ: omnes gentes sérvient ei.

[Tutti i re Gli si prostreranno dinanzi, tutte le genti Lo serviranno].

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Dan VII: 14.
Potéstas ejus, potéstas ætérna, quæ non auferétur: et regnum ejus, quod non corrumpétur. Allelúja.

[La potestà di Lui è potestà eterna che non Gli sarà tolta e il suo regno è incorruttibile]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. – Joann XVIII: 33-37

In illo témpore: Dixit Pilátus ad Jesum: Tu es Rex Judæórum? Respóndit Jesus: A temetípso hoc dicis, an álii dixérunt tibi de me? Respóndit Pilátus: Numquid ego Judǽus sum? Gens tua et pontífices tradidérunt te mihi: quid fecísti? Respóndit Jesus: Regnum meum non est de hoc mundo. Si ex hoc mundo esset regnum meum, minístri mei útique decertárent, ut non tráderer Judǽis: nunc autem regnum meum non est hinc. Dixit ítaque ei Pilátus: Ergo Rex es tu? Respóndit Jesus: Tu dicis, quia Rex sum ego. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimónium perhíbeam veritáti: omnis, qui est ex veritáte, audit vocem meam.

[In quel tempo, disse Pilato a Gesù: “Tu sei il re dei Giudei?”. Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Pilato rispose: “Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?”. Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”.  Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”].

OMELIA

 [Giov. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle Feste del Signore e dei Santi – Soc. Edit. Vita e Pesiero, Milano, VI ed. 1956]

CRISTO RE DEI CUORI

Il vecchio Giacobbe, presagendo imminente la sua fine, chiama dattorno i suoi dodici figliuoli. Non era giusto che portasse con sé nel segreto della tomba la gran promessa che Dio gli aveva fatto. Per ciò, prima di morire sentì il bisogno di confidarla ai figli e parlò loro con accento profetico: « Venite e ascoltate, figliuoli di Giacobbe; ascoltate vostro padre ». E dopo aver predetto ad alcuni il proprio avvenire, si rivolse a Giuda: « Giuda, mio piccolo leone! tu regnerai sopra i tuoi fratelli, e la tua mano premerà la cervice dei tuoi nemici. Regnerai; ma fin quando verrà colui che deve venire. Tutte le genti lo aspetteranno, allora; sarà di una bellezza sovrumana; avrà gli occhi più fulvi del vino e i denti più bianchi del latte. Giuda, tu gli cederai il tuo scettro e il tuo impero » (Genesi, XLIX). – I dodici capi delle dodici tribù, con gli occhi aperti, sognavano il gran re, che sarebbe venuto, ed il loro cuore balzava, attraverso i secoli, incontro a Lui. – Da Giacobbe, tutti i patriarchi prima di morire chiamavano i figli e i nipoti per richiamare in loro la speranza del re venturo, poi in pace chiudevano gli occhi nella morte. E Noè benedirà Sem perché nei suoi padiglioni nascerà il gran re. E Mosè dirà al popolo di non piangere per la sua morte, perché verrà un condottiero più grande di lui. – Quando i tempi furono maturi, quando tutte le generazioni erano in attesa, il gran re venne: Gesù Cristo. — Ma i Giudei lo rifiutarono e lo condussero davanti a Pilato, che gli disse: «Sei tu il re dei Giudei? » Risponde Gesù: « Lo dici da te, o perché altri te l’ha suggerito?» Risponde Pilato: « Forse ch’io son Giudeo? È la tua gente, sono i tuoi sacerdoti che ti hanno trascinato a me: che hai fatto? ». Risponde Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo. Se fosse di questo mondo, vedresti come i miei sudditi, con le armi, mi strapperebbero dalle mani dei Giudei. Ma il mio regno non è di quaggiù ». Allora Pilato gli domanda: « Dunque, tu sei Re? Risponde Gesù: «Tu lo dici: io lo sono ». – Fu un urlo brutale che salì dalla folla aizzata: « Non sappiamo che farne di questo re. Vogliamo Barabba ». – Gesù Cristo allora patì il più acerbo dei suoi dolori, e la più bassa delle sue ingiurie: il re era tra i suoi sudditi, e i sudditi non lo volevano. In propria venit et sui eum non receperunt (Giov., I, 11).Ma oggi i popoli hanno compreso lo sbaglio fatale di quel branco di Giudei. È passata la guerra che ci ha fatto piangere e sanguinare tanto, ed ognuno ha sentito il bisogno di un re, che non ha regno nelle ingiustizie e nelle iniquità di questo mondo, di un re che comprenda i nostri dolori e le nostre aspirazioni e ci voglia bene, di un re di pace. Princeps pacis (Isaia). E tutti i popoli nell’anno santo andarono a Roma dal Papa a contare i propri bisogni, e passando sotto al Vaticano, tutti gridavano la parola di S. Paolo: « Questo abbiam bisogno; che Egli regni ». Pio XI comprese; e nella sua enciclica, dell’11 dicembre 1925 impose che si facesse una festa a Cristo Re, ogni anno, all’ultima Domenica di Ottobre, e tutti consacrassero il proprio cuore a Lui. Cristo è Re, e Re dei cuori! «O popoli, battete le mani; tutti! Cantate un canto di gioia. Il Signore altissimo, il Signore terribile, il Re grande su tutta la terra finalmente regna ». (Salmi, XLVI, 1-3).

1. CRISTO È RE

Davide vide il Messia seduto sopra un trono di maestà e di gloria nell’atto d’umiliare la baldanza sciocca dei suoi nemici; e l’udì pronunciare queste parole: « Io sono stato costituito re da Dio. Il Signore mi ha detto: tu sei il figlio mio: oggi ti ho generato. Domandalo, e ti darò in eredità le genti e in possesso i confini di tutta la terra» (Salmi, II). – Se Dio stesso l’ha creato re, chi oserà contestargli la dignità regia? Cristo è re perché ne ha tutti i diritti: di nascita e di conquista. È re perché lo hanno proclamato i profeti, e lo proclamano oggi tutti i popoli del mondo. Re per diritto di nascita. — Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo: due nature in una persona. Come Dio è Figlio di Dio e possiede tutto quello che Dio possiede. Per ciò è padrone di tutte le cose e regna dall’uno all’altro mare. Dominabitur a mari usque ad mare. (Ps., LXXI, 8). Anzi non solo è re, ma il Re dei re, per il quale soltanto i re possono regnare; perché ogni potestà viene da lui. Come uomo, Gesù è figlio di re e discende direttamente da Davide. Ecco perché  l’Arcangelo nell’Annunciazione dirà alla Vergine: « Il Signore lo porrà sul trono di Davide, padre suo» (Lc., I, 32). – Re per diritto di conquista. — Il peccato d’origine ci aveva resi schiavi e figli della maledizione: Gesù Cristo ci ha conquistati, tutti, non sborsando oro e argento come un vile mercenario, ma tutto il suo sangue, generosamente come non saprebbe il più coraggioso dei re (I Petr., I, 18). – Re per diritto di proclamazione. — I patriarchi, i profeti, i re lo proclamano. Isaia dice che nascerà bambino, che gli porranno sulle spalle l’imperio, e sarà un imperio di pace (IX, 6-7). E Davide canta che ai piedi di questo re si prostreranno gli Etiopi, e i suoi nemici davanti a lui lambiranno la polvere. I re di Tarso e gli abitanti dell’isola, gli offriranno doni; i monarchi degli Arabi e di Saba gli faranno offerte. Tutti i re della terra l’adoreranno; tutti i popoli della terra si metteranno sotto il suo impero (Salmi, LXXI). – Oggi la magnifica profezia si è avverata: in quest’ultima domenica d’Ottobre, di qua e di là dei mari, un coro unisono s’eleva: « Viva Cristo re ».!

2. RE DEI CUORI

I Dori, con arma e con incendio, invadevano l’Attica. In fretta s’arruolarono uomini per arrestare l’invasore: e già gli eserciti erano schierati a battaglia. Narra la leggenda che sia gli Atticesi che i Dori consultarono l’oracolo sul risultato dell’impresa e n’ebbero in risposta che la vittoria sarebbe toccata a quella parte il cui re fosse morto in guerra. Re d’Attica era Codro. Costui fu preso da tanto amore per i suoi che si travestì da contadino, si insinuò nel campo nemico e si fece uccidere. Quando i Dori seppero che il re d’Attica era morto, si spaventarono e fuggirono urlando. Codro è una favola; Gesù Cristo è una realtà. Egli ha dato la sua vita per noi. E perché potesse morire per la nostra salute, da Dio si è travestito da vero uomo, si è cacciato in mezzo ai suoi nemici, che l’hanno messo in croce. Ma la sua morte fu la vittoria: il demonio vinto ritornò nell’inferno. – Ma che re può essere quello che dà la vita per i suoi, se non un re d’amore? Cristo allora è re d’amore; re dei cuori. Osservate: Quando Gesù venne al mondo fu posto in una greppia vicino a due animali. Pure si capì che era un re. Una gran luce attraversò il cielo nel cuor della notte, gli Angeli cantarono, accorsero i pastori, accorsero tre re. Una bella occasione per cominciare il suo regno, se Gesù avesse voluto regnare con soldati e con oro. Ma re di questo mondo, Cristo non ha voluto esserlo: e lasciò tornare, per un’altra via i Re Magi. – Quando Gesù nel deserto moltiplicò i pani e sfamò migliaia di persone, tutto il popolo delirante d’entusiasmo per la sua persona lo proclamava re. Bella occasione se avesse voluto regnare come un re dei corpi, che sa nutrirli prodigiosamente. Ma re dei corpi, Cristo non ha voluto esserlo; e fuggì a nascondersi in mezzo alle montagne. – Quando Gesù fu mostrato al popolo dal litostrato di Pilato aveva in testa una corona, ma di spine; aveva sulle spalle e sul petto la porpora, di sangue suo; stringeva nelle mani lo scettro, ma di canna. Pilato gridò al popolo: « Ecco il vostro Re ». Ecce rex vester (Giov., XIX, 14). Il popolo ghignava. Bella occasione di far piovere fuoco e zolfo, di soffocare eternamente quegli uomini crudeli. Ma re di terrore, di strage, Cristo non ha voluto esserlo, mai. Cristo è re, e re del cuore. Eccolo in trono: sulla croce. In alto in diverse lingue sta scritta la sua dignità, re dei Giudei. Porta la corona di spine, la porpora di sangue, decorazioni di piaghe atroci. Un soldato, con la lancia gli trapassa il petto, gli mostra il cuore. Ora veramente è re. Dominus regnavit a ligno. – Guardiamolo, Cristiani, il nostro re sopra quel legno! Dal suo lato perforato esce un grido regale: « Figlio, dammi il tuo cuore! »

CONCLUSIONE

So di un’anima, di una giovane anima che, durante la persecuzione messicana del 1927, gli ha risposto: « Sì, Cristo re, il mio cuore te lo do ». Il suo nome, che bisogna dire con venerazione come quello dei martiri è Juan Sanchez dello stato di Ialisco nel Messico. Ricco e nobile di famiglia, più ricco e più nobile per sentimenti cattolici, fu arrestato dai legionari di Calles. Pretendevano che apostatasse. Pubblicamente gli fu imposto di rinunciare alla Religione; egli rispose: « Viva Cristo Re ». Il martirio fu cruento e degno dei carnefici, i quali cominciarono a tagliargli un orecchio poi l’altro e quindi ad amputargli le gambe. Ma benché immerso nel suo sangue non cessava d’acclamare a Cristo Re. – Con un vero furore satanico i carnefici gli squarciarono la gola: ma dalla gola squarciata insieme al gorgoglio del sangue usciva un rantolo: « Viva Cristo Re! ». Non potevano farlo tacere, e gli strapparono la lingua. E fu finita (« Civiltà Catt. » 16 luglio 1927). Appena compiuto il truce misfatto la folla si precipitava sulla salma martoriata per intingere in quel sangue i pannolini; né minacce, né colpi, né scoppi valsero a rattenerla. – Poveri barbari che strappate le lingue! Se anche le lingue tacessero, lo gridedebbero le pietre. Anzi, e meglio, voi stessi lo griderete, in un giorno non lontano: « Galileo, hai vinto! ». E noi preghiamo perché Cristo re li vinca nella forza del suo amore e non in quella della sua vendetta.

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps II: 8.
Póstula a me, et dabo tibi gentes hereditátem tuam, et possessiónem tuam términos terræ.

[Chiedi a me ed Io ti darò in eredità le nazioni e in dominio i confini della terra]

Secreta

Hóstiam tibi, Dómine, humánæ reconciliatiónis offérimus: præsta, quǽsumus; ut, quem sacrifíciis præséntibus immolámus, ipse cunctis géntibus unitátis et pacis dona concédat, Jesus Christus Fílius tuus, Dóminus noster: Qui tecum …

[Ti offriamo, o Signore, la vittima dell’umana riconciliazione; fa’, Te ne preghiamo, che Colui che immoliamo in questo Sacrificio, conceda a tutti i popoli i doni dell’unità e della pace: Gesù Cristo Figliuolo, nostro Signore, Egli …]

Præfatio
de D.N. Jesu Christi Rege

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui unigénitum Fílium tuum, Dóminum nostrum Jesum Christum, Sacerdótem ætérnum et universórum Regem, óleo exsultatiónis unxísti: ut, seípsum in ara crucis hóstiam immaculátam et pacíficam ófferens, redemptiónis humánæ sacraménta perágeret: et suo subjéctis império ómnibus creatúris, ætérnum et universále regnum, imménsæ tuæ tráderet Majestáti. Regnum veritátis et vitæ: regnum sanctitátis et grátiæ: regnum justítiæ, amóris et pacis. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che il tuo Figlio unigénito, Gesú Cristo nostro Signore, hai consacrato con l’olio dell’esultanza: Sacerdote eterno e Re dell’universo: affinché, offrendosi egli stesso sull’altare della croce, vittima immacolata e pacífica, compisse il mistero dell’umana redenzione; e, assoggettate al suo dominio tutte le creature, consegnasse all’immensa tua Maestà un Regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXVIII:10;11
Sedébit Dóminus Rex in ætérnum: Dóminus benedícet pópulo suo in pace.

[Sarà assiso il Signore, Re in eterno; il Signore benedirà il suo popolo con la pace]

Postcommunio

Orémus.
Immortalitátis alimóniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, qui sub Christi Regis vexíllis militáre gloriámur, cum ipso, in cœlésti sede, júgiter regnáre póssimus: Qui

[Ricevuto questo cibo di immortalità, Ti preghiamo o Signore, che quanti ci gloriamo di militare sotto il vessillo di Cristo Re, possiamo in cielo regnare per sempre con Lui: Egli che …]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica negli anni in cui la Pasqua cade il 24, o il 25 Aprile si anticipa al Sabato (rispettiv. 19, 20 Nov.) con tutti i privilegi della Domenica occorrente, cioè Gioria, Credo, Prefazii della Trinità e Ite Missa est per lasciar luogo rispettivamente nei giorni 20, 21 Novembre alla Domenica ultima dopo Pentecoste. Il tempo dopo Pentecoste è simbolo del lungo pellegrinaggio della Chiesa verso il cielo; le ultime Domeniche ne descrivono profeticamente le ultime tappe. In quest’epoca si leggono nel Breviario gli scritti dei grandi e dei piccoli profeti, che annunziano quello che accadrà alla fine del mondo. Quando i Caldei ebbero condotti gli Ebrei in cattività a Babilonia, Geremia percorse le rovine di Gerusalemme, ripetendo le sue Lamentazioni « Guarda, Signore, poiché è caduta nella desolazione la città che una volta’ era piena di ricchezza, la padrona delle nazioni è assisa nella tristezza. Essa amaramente piange durante la notte e le sue lagrime scorrono sulle sue gote » (3° Responsorio, 1a Dom. Nov.; Antit. del Magnificat, 2a Dom.). E profetizzò il doppio avvento del Messia che restaurerà tutte le cose. « Il Signore ha riscattato il suo popolo e lo ha liberato; e verranno ed esulteranno sul monte Sion e si rallegreranno dei beni del Signore» (1° Responsorio, lunedì 2a settimana). Fra i prigionieri condotti a Babilonia si trovava un sacerdote detto Ezechiele. Egli aveva annunziato la cattività che stava per ricadere su Israele: « Ora la fine è su di te e manderò contro di te il mio furore; e ti giudicherò secondo la tua vita e non avrò pietà » (1a Lezione, Mercoledì, 1a settimana). E nell’esilio egli profetizzò: « Le nostre iniquità e i nostri peccati sono sopra di noi; come dunque possiamo vivere? Ma il Signore ha detto: Non voglio la morte dell’empio, ma che egli si tolga dalla cattiva strada e viva. – Distoglietevi dalle vostre male vie e non morrete » (3a lezione, Lunedì 2a settimana). Dio mostrò al profeta in una visione, il futuro su di un’alta montagna e gli indicò il culto perfetto che Egli attendeva dal suo popolo quando lo condurrebbe verso i colli eterni di Sionne (7a lezione Venerdì 2a settimana). Daniele, che era pure tra i prigionieri di Babilonia, spiegò il sogno di Nabucodonosor, dicendo che la piccola pietra che, dopo aver fatto cadere la statua d’oro, d’argento, di ferro e di argilla, diventò una grande montagna, è figura di Cristo, il regno del quale, consumerà tutti gli altri regni e sussisterà eternamente (Lunedì 3° settimana). – Le guarigioni e le risurrezioni corporali, compiute dal Signore, sono la figura della nostra liberazione e della nostra risurrezione futura: Da tutte le parti ricondurrò i prigionieri » dice Geremia nell’Introito «Tu hai fatto cessare la cattività di Giacobbe» aggiunge il Versetto dell’Introito «Signore, tu ci hai liberato da coloro che ci odiavano » continua il Graduale. « Dal fondo dell’esilio le nazioni hanno infatti gridato verso il Signore, supplicandolo di ascoltare la loro preghiera » spiegano l’Alleluia e l’Offertorio e, come in Dio vi è un’abbondante redenzione, egli riscatterà il suo popolo da tutte le sue iniquità » (stesso Salmo, vers. 7 e 8). Preghiamo dunque con fiducia, poiché se Gesù risuscitò la figlia di Giairo e guarì l’emorroissa, ciò fu fatto secondo la parola del Signore: « Tutto quello che domanderete, lo riceverete ».

Quale terrore quando il giudice verrà ad esaminare rigorosamente ognuno! dice la Sequenza dei Defunti. La tromba squillerà fra le tombe e convocherà tutti gli uomini davanti al Cristo. La morte e la natura resteranno interdette quando la creatura risorgerà per rispondere al giudizio divino. Allorché l’eterno Giudice siederà sul suo seggio, tutto quello che è nascosto sarà palesato e nulla resterà impunito. Giusto Giudice, nella tua clemenza accordami grazia e perdono prima del giorno del rendiconto». Nelle ultime parole dell’Epistola odierna, l’Apostolo allude al libro di vita ove sono scritti i nomi dei Cristiani che la loro condotta esemplare rende degni della vita eterna.

Gesù resuscita la figlia di Giairo con la stessa facilità con la quale noi svegliamo una persona che dorme. Così la sua divin virtù resusciterà i nostri corpi l’ultimo giorno.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Jer XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.

[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio

Orémus.
Absólve, quǽsumus, Dómine, tuórum delícta populórum: ut a peccatórum néxibus, quæ pro nostra fraglitáte contráximus, tua benignitáte liberémur.

[Perdona, o Signore, Te ne preghiamo, i delitti del tuo popolo: affinché dai vincoli del peccato, contratti per lo nostra fragilità, siamo liberati per la tua misericordia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses.
Phil III: 17-21; IV: 1-3

Fratres: Imitatóres mei estóte, et observáte eos, qui ita ámbulant, sicut habétis formam nostram. Multi enim ámbulant, quos sæpe dicébam vobis – nunc autem et flens dico – inimícos Crucis Christi: quorum finis intéritus: quorum Deus venter est: et glória in confusióne ipsórum, qui terréna sápiunt. Nostra autem conversátio in cœlis est: unde etiam Salvatórem exspectámus, Dóminum nostrum Jesum Christum, qui reformábit corpus humilitátis nostræ, configurátum córpori claritátis suæ, secúndum operatiónem, qua étiam possit subjícere sibi ómnia. Itaque, fratres mei caríssimi et desideratíssimi, gáudium meum et coróna mea: sic state in Dómino, caríssimi. Evódiam rogo et Sýntychen déprecor idípsum sápere in Dómino. Etiam rogo et te, germáne compar, ádjuva illas, quæ mecum laboravérunt in Evangélio cum Cleménte et céteris adjutóribus meis, quorum nómina sunt in libro vitæ.

(“Fratelli: Siate miei imitatori, e ponete mente a coloro che si diportano secondo il modello che avete in noi. Poiché ci sono molti dei quali spesse volte vi ho parlato; e adesso vene parlo con lacrime, i quali si diportano da nemici della croce di Cristo: la loro fine è la perdizione; il loro Dio è il ventre: si vantano in ciò che forma la loro confusione, e non han gusto che per le cose terrene. Noi, invece, siamo cittadini del cielo, da dove pure aspettiamo, come Salvatore, il nostro Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso; per quella potenza che ha di poter anche assoggettare a sé ogni cosa. Pertanto, miei fratelli carissimi e desideratissimi, mio gaudio e mia corona, continuate a star così fermi nel Signore, o amatissimi. Prego Evodia ed esorto Sintiche ad avere gli stessi sentimenti nel Signore. E prego anche te, fedel compagno, di venir loro in aiuto: esse hanno combattuto con me per il Vangelo, insieme con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita”.).

LA NUOVA IDOLATRIA.

Ecco: voi siete convinti, credo tutti, che l’idolatria ha fatto il suo tempo; il Cristianesimo l’ha seppellita. E se io vi dicessi che v’è ancora, che vive, forse vi scandalizzereste e, scandalizzati, mi dareste su la voce. E invece ecco qua San Paolo che ci parla di una idolatria diversa da quella che adorava Giove, Saturno… ma non meno verace idolatria di quella. E ce la presenta come l’abisso nel quale precipitano i nemici della Croce di Gesù Cristo. Questi nemici sono due; singolarmente due passioni, due stati d’animo: due gruppi di persone in questi stati d’animo: il piacere e l’orgoglio. L’orgoglio odia la Croce di Gesù Cristo, perché essa è simbolo e personificazione di umiltà. « Umiliò se stesso alla obbedienza della Croce » dice San Paolo, parlando di N. S. Gesù Cristo. Ma per ciò gli orgogliosi non lo tollerano, par loro un’ignominia, un avvilimento. Parlano con sdegno della servitù o schiavitù della Croce… Abbiamo ancora nell’orecchio le frasi blasfeme del poeta pagano. Gesù, egli il pagano poeta, lo vede nell’atto di gettare una Croce sulle spalle di Roma, dicendole, intimandole: portala e servi. E coll’orgoglio fa comunella contro la Croce il piacere, contro la Croce che canta l’inno austero del dolore, che gronda lagrime, lagrime amare. C’è un mondo che vuol divertirsi, che intuisce la vita come voluttà, come piacere. La Croce a questo mondo di uomini sensuali fa paura. Non la vogliono, le si ribellano, la respingono. Ma le passioni che li allontanano dalla Croce diventano il loro castigo, la divina nemesi della loro apostasia. La sensualità vince gli uomini del piacere, che, del piacere, diventano schiavi. E allora il loro Dio, il loro padrone, colui al quale tutto sacrificano e che non sacrificherebbero mai, in nulla e per nulla, il loro Dio è il ventre. Si riducono a vivere per mangiare, invece di mangiare per vivere e vivere per Dio. O se il loro Dio, il loro tiranno, il loro ideale non è il cibo con la bevanda relativa, è l’abito, la vanità nel vestire, o la casa comoda, sfarzosa, sempre la materia. Alla quale servono proni, supinamente proni, invece di servirsene. Il loro Dio è il ventre, dice San Paolo, che ha poche nebbie al suo pensiero e pochi peli sulla lingua quando il suo pensiero nitido si tratta di esprimerlo: « quorum Deus venter est ». Bella divinità! Valeva la pena di ribellarsi a Gesù Cristo, alla sua Croce, per cadere così in basso? Per gli orgogliosi c’è un altro destino, un altro castigo. L’orgoglioso diventa lo schiavo di se stesso, rimane solo in balìa di sé, delle sue esaltazioni tumide. Il suo Dio è il suo io, l’ipertrofia del suo io. L’umanità è bella, buona, ma a posto suo, come, del resto, ogni cosa di questo mondo. Fuor di posto, messa al posto di Dio, fa pessima figura e si guasta. La domestica sta bene al posto suo proprio, la serva-padrona è ridicola e funesta a sé e agli altri. È la sorte della umanità divinizzata, e la divinizzazione dell’umanità è la logica della superbia, dell’orgoglio nemico della umile Croce di Gesù Cristo. Il confusionismo è poi la risultante di questo orgoglio, confusionismo di idee e confusionismo di opere. – E quando si contemplano i due abissi a cui mettono capo l’orgoglio e la sensualità dei nemici del Cristianesimo, viene voglia non solo di prostrarsi con rinnovato fervore di adorazione davanti alla Croce, ma di abbracciarla e baciarla ripetendo: «O Crux, ave spes unica! »

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

 Graduale

Ps XLIII: 8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.

[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]


In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja.

[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno..]

Alleluja

Allelúia, allelúia

Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt IX: XVIII, 18-26
In illo témpore: Loquénte Jesu ad turbas, ecce, princeps unus accéssit et adorábat eum, dicens: Dómine, fília mea modo defúncta est: sed veni, impóne manum tuam super eam, et vivet. Et surgens Jesus sequebátur eum et discípuli ejus. Et ecce múlier, quæ sánguinis fluxum patiebátur duódecim annis, accéssit retro et tétigit fímbriam vestiménti ejus. Dicébat enim intra se: Si tetígero tantum vestiméntum ejus, salva ero. At Jesus convérsus et videns eam, dixit: Confíde, fília, fides tua te salvam fecit. Et salva facta est múlier ex illa hora. Et cum venísset Jesus in domum príncipis, et vidísset tibícines et turbam tumultuántem, dicebat: Recédite: non est enim mórtua puélla, sed dormit. Et deridébant eum. Et cum ejécta esset turba, intrávit et ténuit manum ejus. Et surréxit puélla. Et éxiit fama hæc in univérsam terram illam.

“In quel tempo, mentre Gesù parlava alle turbe, ecco che uno de’ principali se gli accostò, e lo adorava, dicendo: Signore, or ora la mia figliuola è morta; ma vieni, imponi la tua mano sopra di essa, e vivrà. E Gesù alzatosi, gli andò dietro co’ suoi discepoli. Quand’ecco una donna, la quale da dodici anni pativa una perdita di sangue, se gli accostò per di dietro, e toccò il lembo della sua veste. Imperocché diceva dentro di sé: Soltanto che io tocchi la sua veste, sarò guarita. Ma Gesù rivoltosi e miratala, le disse: Sta di buon animo, o figlia; la tua fede ti ha salvata. E da quel punto la donna fu liberata. Ed essendo Gesù arrivato alla casa di quel principale, e avendo veduto i trombetti e una turba di gente, che faceva molto strepito, diceva: Ritiratevi; perché la fanciulla non è morta, ma dorme. Ed essi si burlavano di lui. Quando poi fu messa fuori la gente, egli entrò, e la prese per una mano. E la fanciulla si alzò. E se ne di volgo la fama per tutto quel paese”

OMELIA

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla morte del giusto.

Pretiosa in conspectu Domini, mors sanctorum ejus.

(Ps. cxv, 15).

La morte, Fratelli miei, è un giusto motivo di turbamento e di paura per il peccatore impenitente, che si vede costretto ad abbandonare i suoi piaceri. Accasciato dal dolore, assediato dal pensiero del giudizio che sta per subire, divorato innanzi tempo dal timore degli orrori dell’inferno dove ben presto sarà precipitato; egli si vede abbandonato dalle creature e da Dio stesso. Ma, per una legge al tutto contraria, la morte riempie di gioia e di consolazione l’uomo giusto che ha vissuto secondo l’Evangelo, che ha camminato sulle tracce di Gesù Cristo stesso, e soddisfatto con una vera penitenza alla giustizia divina. I giusti riguardano la morte come la fine dei loro mali, dei dispiaceri, delle tentazioni e di tutte le altre miserie; essi la considerano come il principio della loro felicità; essa procura loro l’accesso alla vita, al riposo ed alla beatitudine eterna. Ma, F. M., non v’è uomo, anche il più scandaloso, che non desideri, e non si auguri questa preziosa morte. L’inesplicabile si è che noi tutti desideriamo una buona morte, e che quasi nessuno adopera i mezzi per rendersi felice. È un accecamento difficile a spiegarsi; ora siccome desidero ardentemente che facciate una buona morte, voglio indurvi a vivere in modo da poter sperare questa felicità, mostrandovi:

1° i vantaggi di una buona morte; e

2° i mezzi per renderla buona.

I. — Se dovessimo morire due volte, una volta potremmo rischiarla; ma non si muore che una volta sola (Statutum est hominibus semel mori. Hebr. IX, 27), e dalla nostra morte dipende la nostra eternità. Dove l’albero cade, ivi resta. Se una persona, in punto di morte, si trova con qualche cattiva abitudine, la sua povera anima cadrà nell’inferno; se, invece, si trova in buono stato di coscienza, prenderà la via del cielo. O strada fortunata che ci conduce al godimento dei beni perfetti! Dovessimo anche passare per le fiamme del purgatorio, siamo sicuri d’arrivarvi. Tuttavia questo di penderà dalla vita che avremo condotta: è certo che la nostra morte sarà conforme alla nostra vita; se abbiamo vissuto da buoni Cristiani e secondo la legge di Dio, morremo anche da buoni Cristiani per vivere eternamente con Dio. Al contrario, se viviamo secondo le nostre passioni, nei piaceri e nel libertinaggio, morremo infallibilmente nel peccato.Non dimentichiamo mai questa verità che ha convertito tanti peccatori: dove l’albero cadrà, ivi resterà per sempre (Eccli. XI, 3) . Ma, F. M., la morte per se stessa, non è così spaventosa come si vuol credere, poiché non sta che a noi il renderla felice, bella e gradita. S. Girolamo era vicino a morire: avendoglielo i suoi amici annunciato, sembrò raccogliere tutte le sue forze per esclamare: “O buona e felice e notizia! o morte, vieni presto! ah! da quanto tempo ti desidero! vieni a liberarmi da tutte le miserie di questo mondo! Vieni, tu mi unirai al mio Salvatore! „ E volgendosi agli astanti: “Amici, per non temere la morte e trovarla dolce, bisogna camminare per la via che Gesù Cristo ci ha tracciata, e mortificarsi continuamente. „ Infatti è in punto di morte che un buon Cristiano comincia ad essere ricompensato del bene che ha potuto fare durante la vita; in quel momento il cielo sembra aprirsi per fargli gustare la dolcezza de’ suoi beni. Ecco, su questo punto, un bell’esempio. – S. Francesco di Sales, visitando la sua diocesi, fu pregato di recarsi da un buon contadino ammalato, che prima di morire desiderava, ardentemente di ricevere la sua benedizione. Con tutta fretta il santo Vescovo andò a lui, e trovò nell’ammalato un’intelligenza ancora lucidissima. Infatti l’ammalato testimoniava al suo Vescovo la gioia che provava nel vederlo, e domandò di confessarsi. Quand’ebbe finito, vedendosi solo col santo Prelato, gli fece questa domanda: “Monsignore. morirò io presto? „ Il santo, credendo che la paura facesse fare all’ammalato questa domanda, gli rispose per assicurarlo, che aveva visto guarire ammalati assai più gravi di lui, e che del resto, doveva confidare in Dio, al quale solo appartiene la nostra vita come la nostra morte. — “ Ma, chiese di nuovo, Monsignore, credete che io dovrò morire? „ — “Figlio mio, a questo un medico risponderebbe meglio di me: tutt’al più, vi dirò che la vostr’anima è in stato molto buono, e forse in altro tempo, non potreste avere così belle disposizioni. Il meglio che possiate fare si è di abbandonarvi interamente alla provvidenza ed alla misericordia di Dio, perché disponga di voi a suo beneplacito. „ — “Monsignore, non è il timore della morte che mi fa domandare se morrò di questa malattia; ma piuttosto il timore di vivere più a lungo. „ Il santo sorpreso da un linguaggio così straordinario e, sapendo che solo una grande virtù od un’eccessiva tristezza può far nascere il desiderio della morte, domandò al malato da che cosa provenisse questo suo disgusto per la vita. “Ah! Monsignore, esclamò l’ammalato, questo mondo è cosa tanto da poco! io non so come si possa amare questa vita. Se il buon Dio non ci comandasse di restarvi sinché Egli vi ci lascia, da molto tempo io non vi sarei più. „ — “È forse il dolore, la povertà, che vi ha così disgustato della vita? „ — “No, Monsignore, ho passato una vita serenissima fino all’età di settant’anni, in cui mi vedete e, grazie a Dio, non so che cosa sia la povertà. „ — “Forse avete avuto dei disgusti da parte di vostra moglie o dei figli? „ — “Nemmeno questo; essi non mi hanno mai recato il minimo dispiacere ed hanno sempre cercato di rendermi felice; la sola cosa che mi rincrescerebbe, lasciando questo mondo, sarebbe di doverli abbandonare. „ — “Perché dunque desiderate così ardentemente la morte? „ — Perché ho sentito dire nelle prediche tante meraviglie dell’altra vita, e delle gioie del paradiso, che questo mondo è per me, come un’oscura prigione. „ Ed allora parlando coll’effusione del cuore, quel contadino disse cose così belle e così sublimi sul cielo, che il santo Vescovo si ritirò rapito d’ammirazione, ed approfittò egli stesso di questo esempio per animarsi a disprezzare le cose create ed a sospirare la felicità del cielo. Non avevo dunque ragione di dirvi che la morte è dolce e consolante per un buon Cristiano, poiché lo libera da tutte le miserie della vita e gli dà il possesso dei beni eterni? O miserabile vita, come si può attaccarsi così fortemente a te?… Giobbe in poche parole ci dice che cos’è la vita: “L’uomo vive poco tempo, e la sua vita è ripiena di miserie. Come il fiore, non fa che apparire, e già appassisce. È come l’ombra che passa e scompare (Giob. XIV, 1, 2). „ Non v’è infatti animale sulla terra che, come l’uomo sia ripieno di miserie. Dalla testa ai piedi non v’è parte che non sia soggetta ad ogni sorta di malattie. Senza contare i timori, gli orrori dei mali che, più spesso, non ci toccheranno mai. E, la morte, F. M., ci libera da tutte queste miserie. S. Paolo, scrivendo agli Ebrei dice loro: “Noi siamo qui come poveri esiliati che non hanno dimora fissa; ma ne cerchiamo una, che è nell’altro mondo (Hebr. XIII, 14) . „ Quale gioia, F. M., per una persona esiliata dalla patria, e tenuta per molti anni in schiavitù, quando le si annuncia che il suo esilio è finito, che tornerà nella patria, vedrà i parenti e gli amici! Ora, un’anima che ama Dio, aspetta la stessa felicità e languisce, quaggiù, di desiderio d’andare a vedere il cielo in mezzo ai santi, che sono i suoi veri parenti ed amici. Essa sospira quindi ardentemente il momento della sua liberazione. La morte. F . M., è per l’uomo giusto ciò che il sonno è per il lavoratore che si rallegra all’avvicinarsi della notte, in cui troverà il riposo delle fatiche della giornata. La morte libera il giusto dalla prigionia del corpo: per questo diceva S. Paolo: “Ah! me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte? „ (Rom. VII, 24.) — “Togliete, mio Dio, diceva il santo re Davide, togliete la mia anima dalla prigione di questo corpo, poiché i giusti m’aspettano, fino a che m’abbiate data l a mia ricompensa. (Ps. CXLI, 8);Ahi chi mi darà le ali come di colomba (Ps. XLIV, 7) ? „ E la Sposa dei cantici: ” Se avete visto il mio diletto, ditegli ch’io languisco d’amore (Cant. V, 8)! „ Ahimè! la nostra povera anima è nel nostro corpo come un diamante nel fango. O morte felice  che ci liberi da tante miserie! … S. Gregorio racconta che un povero uomo chiamato Preneste, da lungo tempo paralitico in tutte le membra, vicino a morire, pregò quelli che l’assistevano di cantare. Gli si domandò perché, e che cosa poteva rallegrarlo nello stato in cui si trovava. “Ah! disse, è perché ben presto la mia anima lascerà il corpo! Fra breve sarò liberato da questa prigione! „ Quand’ebbero cantato un momento, sentirono una soave musica d’angeli. “Ah! disse il moribondo, non sentite gli Angeli che cantano? lasciateli, lasciateli cantare! „ e morì. Subito si sparse attorno a lui un profumo tanto soave, che la camera ne fu imbalsamata. In questo esempio vediamo adempirsi alla lettera ciò che Dio disse per bocca del profeta Isaia: “Levati, Gerusalemme, diletta mia, svegliati, poiché hai bevuto di mia mano, sino alla feccia, il calice della mia collera …, tutti i mali si sono riversati su di te… Ascolta, Gerusalemme, povera città, in avvenire non berrai più il calice della mia indignazione …; rivestiti della tua forza, Sionne; rivestiti degli indumenti della tua gloria Esci dalla polvere e spezza il giogo che grava il tuo collo… 1 „» (Isa. LI, 17, 22; LII, 1, 2). Chi potrebbe comprendere, F. M., la grandezza delle gioie di S. Liduina? Dopo ventisette anni di malattia, rosa da un cancro e dai vermi, vedendosi al termine dei suoi mali esclamò: “ O gioia! tutti  i miei mali sono finiti! … Felice notizia! morte preziosa, affrettati! Da sì lungo tempo ti desidero!„ (RIBADENEIRA, 14 Aprile). – Quale soddisfazione per S. Clemente martire, quando dopo trentadue anni di prigionia e di tormenti gli si venne ad annunciare la sua condanna a morte! “O beata notizia! esclama; addio prigione, torture e carnefici! ecco dunque finalmente il termine della mia vita e dei miei dolori. O morte, quanto sei preziosa, oh! non tardare!…; o morte desiderata, vieni a colmare la mia felicità riunendomi al mio Dio!… „ (RIBADENEIRA, 23 Gennaio, S. Clemente vescovo d’Ancira e martire). – Quanto dunque è felice un Cristiano, se ha il coraggio di camminare sulle tracce del divin Maestro!… Ma in che consiste la vita di Gesù Cristo? Ecco, F. M. Essa consiste in tre cose, cioè: preghiera, azioni, dolori. Sapete che nella sua vita pubblica il Salvatore si è spesso ritirato in disparte per pregare, e che era sempre in moto per la salute delle anime. Ora, bisognerebbe, F. M., che il pensiero di Dio ci fosse naturale come il respiro. Durante la sua vita di preghiera e d’azione, Gesù Cristo ha molto sofferto: ora la povertà, ora la persecuzione, ora le umiliazioni ed ogni sorta di cattivi trattamenti. “La mia vita, ci dice per bocca del suo profeta, ha finito nel dolore ed i miei anni nei gemiti, la mia forza s’è affievolita nella povertà. „ (Ps. XXX, 18) La vita d’un Cristiano può essere differente da quella d’un uomo confitto alla croce con Gesù Cristo? Il giusto è un crocifisso. Vediamo che i santi hanno trovato tanti piaceri nel dolore, che non potevano saziarsene: Vedete il gran Papa Innocenzo I: era coperto d’ulceri da capo a piedi, eppure non era ancora contento, ed aspirava sempre a nuove sofferenze. E ne domandava ogni giorno a Dio colle sue preghiere: “Mio Dio, diceva, aumentate i miei dolori, mandatemi malattie ancor più crudeli, purché però mi diate nuove grazie!„ — “Perché, gli si diceva, domandate a Dio un aumento di sofferenze? Siete tutto coperto di piaghe.„ — “Voi non sapete quant’è grande il merito delle sofferenze. Ah! se poteste comprendere quanto vale il dolore come l’amereste!„ S. Ignazio martire, temendo che i leoni e le tigri venissero, come qualche volta accadeva, a lambirgli i piedi, disse queste belle parole: “Quand’è che potrò baciarvi bestie feroci, che siete preparate pel mio supplizio? Ah! quando vi accarezzerò? Se non mi volete divorare, io vi ecciterò, affinché vi avventiate su di me con maggior furore; vi ecciterò perché vi affrettiate a divorarmi. „ Egli scriveva ai suoi discepoli: “Vi scrivo per annunciarvi quanto sono felice! morirò per Gesù Cristo, mio Dio! Tutto quello che vi domando è di non far nulla per istrapparmi alla morte, so quello che mi è vantaggioso. Io sono il frumento di Dio; e bisogna ch’io sia macinato tra i denti dei leoni per diventare pane degno di Gesù Cristo.„ (Ribadeneira. 1 Febbr.). Sentite ancora S. Andrea, che alla vista della croce su cui lascerà la vita, esclama: “O croce beata, per te sarò riunito al mio Maestro! ah! croce benedetta, ricevimi tra le tue braccia; poiché, dalle tue braccia passerò in quelle di Dio. „ La folla vedendo il buon vegliardo appeso alla croce, voleva uccidere il proconsole e distaccare il santo. “No, figli miei, gridò loro S. Andrea dall’alto della croce, lasciate, lasciate ch’io termini una vita così miserabile, poiché andrò al mio Dio.(ibid. 30 Nov.) „ S. Lorenzo è steso sulla graticola di ferro, mentre le fiamme, che un’altra volta avevano risparmiato i tre fanciulli nella fornace di Babilonia, crudelmente lo abbruciano. Egli è già arrostito da una parte, ed in compenso domanda di essere voltato dall’altra, affinché in cielo tutte le parti del suo corpo siano egualmente gloriose. Senza dubbio, M. F., questo esempio è un miracolo della grazia, che è onnipotente in chi ama Dio. Ma vedete S. Paola. Questa dama romana era torturata da violenti dolori di stomaco e preferì morire piuttosto che bere un po’ di vino che le si voleva far prendere. (Ibid. 26 Gennaio). S. Gregorio ci racconta d’un povero, ma celebre mendicante che, da molti anni paralitico, non potendosi muovere dalla paglia su cui era coricato, soffriva incredibili dolori, eppure, non cessò un momento di benedire Dio. E morì cantandone le lodi. Ah! dice S. Agostino, com’è consolante il morire colla coscienza quieta! La quiete dell’anima e la tranquillità del cuore sono i doni più preziosi che possiamo ottenere; ci dice lo Spirito Santo: non v’è piacere paragonabile alla gioia del cuore. (Eccli. XXX, 16). Il giusto, dice lo stesso dottore, non teme la morte, perché essa lo riunisce col suo Dio e lo mette in possesso di ogni specie di delizie. Vedete la gioia che mostrano i santi andando alla morte.. Vedete, ci dice S. Giovanni Crisostomo, l’intrepidezza e la gioia con cui S. Paolo va a Gerusalemme, sebbene sappia i cattivi trattamenti che l’attendono: “So che per me vi sono soltanto tribolazioni e catene; so le persecuzioni ed i mali che vi soffrirò; non importa; io non temo nulla, perché son persuaso di far l’interesse di un buon padrone, che non m’abbandonerà. Gesù Cristo stesso me lo garantisce. „ E vedendo i suoi discepoli piangere, l’apostolo aggiungeva: “Che fate, piangendo, ed affliggendo il mio cuore? poiché son pronto non solo ad esser legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù. „ (Act. XX,) Noi non siamo sicuri, è vero, d’essere come S. Paolo, gli amici di Dio; però quantunque peccatori, se abbiamo confessato i nostri peccati con sincero dolore, e se abbiamo cercato di soddisfarli quanto ci è stato possibile, colla preghiera e colla penitenza; ma soprattutto, se ad un grande dolore dei nostri peccati va unito un ardente amore per Iddio, possiamo confidare: i nostri peccati sono stati sepolti nel Sangue prezioso di Gesù Cristo, come l’esercito di Faraone nel Mar Rosso. F. M., v’erano tre croci sul Calvario, quella di Gesù Cristo, che è la croce dell’innocenza: ma noi non possiamo aspirare a questa, perché abbiamo peccato. Poi, quella del buon ladrone, la croce della penitenza: questa dev’essere la nostra. Imitiamo il buon ladrone che approfittò degli ultimi istanti di sua vita per pentirsi, e dalla croce salì al cielo. Gesù Cristo glielo disse: “Oggi sarai meco in paradiso. „ (Luc. XXIII, 43) La terza croce è quella del cattivo ladrone, e dobbiamo lasciarla a quei peccatori che vogliono morire nel loro peccato… Ma noi, F. M., possiamo certamente, se lo vogliamo, essere nel numero di quelli che fanno una buona morte. Alla morte tutto ci abbandona: ricchezze, parenti, amici: ma ciò che è un supplizio pel peccatore, diventa pel giusto una grande gioia. Ditemi qual dispiacere potrebbe provare un buon Cristiano in punto di morte? Potrebbe addolorarsi per questi beni che ha disprezzati durante la sua vita? Il corpo? egli lo considera come un crudele nemico, che più d’una volta l’ha messo in pericolo di perdere l’anima. Forse i piaceri del mondo? No, senza dubbio, poiché ha passata la vita nei gemiti, nella penitenza e nelle lagrime. No, F. M., egli non rimpiange nulla di tutto questo. La morte non fa che separarlo da ciò che ha sempre odiato e disprezzato; cioè, dal peccato, dal mondo, dai piaceri. Andandosene egli porta con sé tutto quanto ha amato: le sue virtù e le sue buone opere; egli abbandona ogni sorta di miserie per andare ad impossessarsi di ineffabili ricchezze; abbandona il combattimento per andare a godere la pace; abbandona un nemico crudele, il demonio, per andare a riposare nel seno del migliore dei padri. Sì, le sue buone opere lo conducono in trionfo davanti a Dio, il quale gli appare non come un giudice, ma come un tenero amico che, dopo aver compatito le sue sofferenze, non desidera che di ricompensarlo. Il profeta Isaia ci insegna che le nostre buone opere andranno a sollecitare per noi la bontà di Dio, ci apriranno le porte del paradiso, e determineranno la nostra dimora in cielo. È perfettamente vero che le nostre buone opere ci accompagneranno. Ecco un bell’esempio del pio re Ezechia. Lo Spirito Santo ci mostra questo re adorno dei meriti del giusto. Egli si dà con tutto il suo cuore alla pratica delle buone opere, la sua intenzione è pura, il motivo di tutte le sue azioni è unicamente quello di piacere a Dio. Egli osserva fedelmente, e con grande rispetto tutte le cerimonie della legge. Ma che avvenne? Eccolo. Ogni cosa gli riuscì durante la vita. Ma in punto di morte tutta la sua magnificenza e tutte le sue ricchezze, che erano grandissime, lo abbandonarono; i sudditi più fedeli furono costretti ad abbandonarlo; mentre le sue buone opere non lo lasciarono. Per queste, prega il buon Dio di fargli grazia: “Ve ne scongiuro, Signore, ricordatevi che ho sempre camminato davanti a voi con cuor puro e retto; ho sempre cercato ciò che ho creduto vi fosse più gradito.„ (Isa. XXXVIII, 3) Tale è, F. M., la fine felice d’una persona che ha lavorato durante tutta la sua vita a fare tutto ciò che potesse piacere a Dio solo. “Beati, dice S. Giovanni, quelli che muoiono nel Signore, poiché le loro opere li seguono! „ (Apoc. XIV, 13) Sì, F. M., porteremo con noi quanto abbiamo di più prezioso; i beni che passano li lasceremo sulla terra, e quelli che dureranno eternamente ci seguiranno. Il solitario sarà accompagnato dal suo silenzio, da suo ritiro e da tutte le sue orazioni; il religioso dalle penitenze, dai digiuni, dalle astinenze; il sacerdote da tutti i suoi lavori apostolici: egli vi vedrà tutte le anime che aveva salvate e che saranno la sua ricompensa e la sua gloria; il Cristiano fedele ritroverà tutte le buone confessioni e comunioni fatte, tutte le virtù praticate durante la sua vita. Che morte felice. F. M., quella del giusto! Ascoltate il profeta Isaia: ” Dite al giusto ch’egli è felice, poiché raccoglierà il frutto delle sue buone opere (Isa. III, 10). Converrete dunque che la morte del giusto è preziosa davanti agli uomini; la sola presenza del sacerdote, che visita quel moribondo! Lo confermerà nella fede e nella speranza; se gli si parla di Dio e delle sue grazie, subito il suo amore s’infiammerà come fornace ardente; quando gli si parla degli ultimi Sacramenti, cosa che agghiaccia un peccatore di orrore e di timore, è inondato da un torrente di delizie; poiché il suo Dio verrà nel suo cuore per condurlo con sé in paradiso. San Gregorio ci racconta che sua zia S. Tarsilla, vicina a morire, esclamò fuori di sé per la gioia: ” Ah! ecco il mio Dio! ecco il mio sposo! „ e spirò in uno slancio d’amore. Vedete nancora S. Nicola da Tolentino (Ribadeneira 10 settem.). Negli ultimi otto giorni della sua malattia, quando aveva ricevuto il corpo del Salvatore, si sentivano gli Angeli cantare nella sua camera; e quando i canti cessarono egli morì: gli Angeli lo condussero al cielo in loro compagnia. Felice morte quella del giusto!… S. Teresa apparsa splendente di gloria ad una religiosa del suo ordine, l’assicurò che nostro Signore era presente alla sua morte, ed aveva condotto la sua anima in cielo. Felice l’anima che può essere assistita in morte da Gesù Cristo in persona!… Quanto è dolce e consolante il morire nell’amicizia di Dio!… Non è questa forse una prima ricompensa del bene che si è potuto fare durante la vita?

II. — So, F. M., che tutti desideriamo di fare una buona morte; ma non basta desiderarlo, bisogna anche lavorare per meritarci questa fortuna, questa grande fortuna. Volete sapere ciò che può procurarci questa fortuna? Eccolo in poche parole. Fra i mezzi che dobbiamo adoperare per ben morire, ne scelgo tre che colla grazia di Dio, ci condurranno infallibilmente ad una buona morte. Bisogna prepararvisi: 1° con una santa vita; 2° con una vera penitenza, se abbiamo peccato; e 3° con una perfetta conformità della nostra morte con quella di Gesù Cristo. – Ordinariamente, si muore come si è vissuto: è una delle grandi verità che la Scrittura ed i santi Padri ci affermano in vari luoghi. Se vivete da buoni Cristiani, siete sicuri di morire da buoni Cristiani; ma se vivete male, state sicuri di fare una cattiva morte. Dice il profeta Isaia: “Guai all’empio che non pensa che a fare il male, poiché sarà trattato come merita: alla morte riceverà il compenso del suo lavoro (Isa. III, 11)„ È però vero che qualche volta si può, per una specie di miracolo, cominciare male e finir bene; ma questo avviene così raramente che, secondo S. Girolamo, la morte è| ordinariamente l’eco della vita; credete che allora ritornerete al buon Dio? no, voi perirete nel male. Ma se, pentiti, cominciate a vivere cristianamente, sarete nel numero di quei penitenti che commuovono il cuore di Dio e guadagnano la sua amicizia. Sebbene meno ricchi di meriti, pure arrivano al cielo, e Dio si serve |precisamente di essi per manifestare la sua misericordia. Lo Spirito Santo ci dice: ” Se avete un amico, fategli del bene prima di morire. „ « (Eccli. XIV, 13). Eh! F. M., possiamo avere amico migliore della nostra anima? facciamo ora per essa tutto ciò che possiamo; giacché quando vorremo farle del bene, non lo potremo più!… La vita è breve. Se differite di convertirvi sino all’ora della vostra morte, siete ciechi, poiché non sapete né dove né quando morrete, né se avrete qualche soccorso spirituale. Chi sa se questa notte stessa, non dovrete comparire coperto di peccati, davanti al tribunale di Gesù Cristo?… No, F. M., non dovete fare cosi: dovete purificarvi, e tenervi sempre pronti a comparire davanti al vostro giudice. Ecco un esempio che vi mostrerà come chi ritarda di giorno in giorno la sua conversione, muore come è vissuto. S. Pier Damiani ci racconta che un religioso aveva passata la maggior parte della sua vita in questioni e contese co’ suoi fratelli. Quando fu in punto di morte, i suoi fratelli lo scongiuravano di confessare i suoi peccati, di domandarne perdono a Dio e di farne penitenza, con un buon proposito di non più ricadervi, se fosse guarito. Non poterono cavargli una sola parola. Ma poco dopo, quand’ebbe ripresa la parola, parlò loro, e di che? ahimè! di ciò che era stato l’oggetto delle sue conversazioni durante tutta la sua vita: di processi e d’altri affari. I fratelli lo scongiuravano di pensare alla sua anima; tutto fu inutile: si assopì, e morì senza il minimo segno di pentimento. Sì, F . M., quale è la vita tale è la morte. Non sperate in un miracolo che Dio fa solo raramente: vivete nel peccato e nel peccato morrete. – Un gran numero d’esempi ci prova che dopo una cattiva vita, non dobbiamo aspettare una buona morte. Leggiamo nella S. Scrittura (Jud. IX) che Abimelech, principe fiero ed orgoglioso, s’impadronì del regno che doveva dividere coi fratelli, e li fece morire per regnare da solo. Mentre assediava una fortezza, essendosi gli assediati rifugiati in una torre, egli si avvicinò per appiccarvi il fuoco. Una donna che dall’alto del bastione lo vide, gli scagliò una pietra e gli spaccò la testa. Il disgraziato sentendosi ferito, chiamò il suo scudiero e gli disse: “Leva la tua spada e trafiggimi… Fammi morire subito, per risparmiarmi la vergogna d’essere stato ucciso da una donna. „ Che strana condotta, F. M.! E forse il primo principe che è stato ferito così? Perché volle che il suo scudiero lo avesse ad uccidere? ahimè! perché durante la sua vita era stato un ambizioso!.. Saulle aveva dato battaglia agli Amaleciti: la sorte pendeva incerta: egli si sentiva perduto perché già ferito, e vedeva l’esercito nemico che stava per gettarsi su di lui. Appoggiato il petto alla sua spada, e vedendo venire un soldato gli disse: “Vieni, amico, chi sei? „ — ” Sono un Amalecita. „ — “Ebbene fammi un favore: gettati su di me ed uccidimi; sono accasciato dal dolore e non saprei morire; finiscimi. „ (1I Reg. XXXI). E perché, F. M., questo miserabile volle morire per mano d’un Amalecita? Era forse il solo principe che avesse perduto una battaglia? Non stupitevi di questo, ci rispondono i santi Padri, è un principe che, durante la sua vita, s’è dato ai vizi, s’è lasciato dominare dall’invidia, dall’avarizia e da ogni altra passione. Perché muore in un modo così disonorante? Perché ha vissuto male. Tutti sanno che Assalonne era sempre stato disobbediente e ribelle al suo buon padre. L’ora della sua morte, che Dio aveva già fissata da tutta l’eternità, essendo ormai giunta, passando sotto una pianta vi restò sospeso per i capelli. Gioabbo, vedendolo, gli tirò tre frecce (II Reg. XVIII). Da che proviene, F. M., la fine disgraziata di questo principe? da questo che tutta la sua vita era stata quella di un cattivo figliuolo. Morì così perché aveva vissuto male. – Vedete dunque chiaramente, F. M., che se vogliamo fare una buona morte, dobbiamo condurre una vita cristiana e far penitenza dei nostri peccati; dobbiamo eccitare in noi, colla grazia di Dio, una profonda umiltà in un cuore pieno di rimorso d’aver offeso un padrone così buono. Ma un terzo mezzo per prepararci a ben morire, è quello di regolare la nostra morte su quella di Gesù Cristo. Quando si porta il buon Dio ad un ammalato, si porta anche la croce: questo non si fa solo per cacciare il demonio, ma molto più perché questo Salvatore crocifisso serva di modello al moribondo, e perché, gettando lo sguardo sull’immagine d’un Dio crocifisso per la sua salute, egli si prepari alla morte come vi si è preparato Gesù Cristo. La prima cosa che fece Gesù Cristo prima di morire fu di separarsi dagli Apostoli: un ammalato deve fare lo stesso, allontanarsi dal mondo, distaccarsi per quanto può dalle persone che gli sono più care, per non occuparsi che di Dio solo e della sua salute. Gesù Cristo, sapendo vicina la sua morte si prostrò colla faccia a terra nel giardino degli Olivi, pregando con insistenza. (Matth. XXVI, 39). Ecco quanto deve fare un ammalato all’avvicinarsi della morte; deve pregare con fervore e, nella sua agonia, unirsi all’agonia di Gesù Cristo. L’ammalato che vuol rendere il suo male meritorio deve accettare la morte con gioia, o almeno con una grande sottomissione alla volontà del Padre celeste, pensando che bisogna assolutamente morire per andare a veder Dio, e che in ciò consiste tutta la nostra felicità. S. Agostino ci dice che chi non vuol morire, ha il carattere di riprovato. Oh! F. M., quanto è felice in quell’ultimo momento un Cristiano che ha santamente vissuto! Egli abbandona ogni sorta di miserie per entrare in possesso di ogni sorta di beni!… Felice separazione! Essa ci unisce al nostro sommo bene, che è Dio stesso!… E quello che io vi auguro.

Credo… 

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta

Pro nostræ servitútis augménto sacrifícium tibi, Dómine, laudis offérimus: ut, quod imméritis contulísti, propítius exsequáris.

[Ad incremento del nostro servizio, Ti offriamo, o Signore, questo sacrificio di lode: affinché, ciò che conferisti a noi immeritevoli, Ti degni, propizio, di condurlo a perfezione.]

Comunione spirituale

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quos divína tríbuis participatióne gaudére, humánis non sinas subjacére perículis.

(Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché a coloro ai quali concedi di godere di una divina partecipazione, non permetta di soggiacere agli umani pericoli.)

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: Sulla MORTE DEL GIUSTO

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA MORTE DEL GIUSTO

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla morte del giusto.

Pretiosa in conspectu Domini, mors sanctorum ejus.

(Ps. cxv, 15).

La morte, Fratelli miei, è un giusto motivo di turbamento e di paura per il peccatore impenitente, che si vede costretto ad abbandonare i suoi piaceri. Accasciato dal dolore, assediato dal pensiero del giudizio che sta per subire, divorato innanzi tempo dal timore degli orrori dell’inferno dove ben presto sarà precipitato; egli si vede abbandonato dalle creature e da Dio stesso. Ma, per una legge al tutto contraria, la morte riempie di gioia e di consolazione l’uomo giusto che ha vissuto secondo l’Evangelo, che ha camminato sulle tracce di Gesù Cristo stesso, e soddisfatto con una vera penitenza alla giustizia divina. I giusti riguardano la morte come la fine dei loro mali, dei dispiaceri, delle tentazioni e di tutte le altre miserie; essi la considerano come il principio della loro felicità; essa procura loro l’accesso alla vita, al riposo ed alla beatitudine eterna. Ma, F. M., non v’è uomo, anche il più scandaloso, che non desideri, e non si auguri questa preziosa morte. L’inesplicabile si è che noi tutti desideriamo una buona morte, e che quasi nessuno adopera i mezzi per rendersi felice. È un accecamento difficile a spiegarsi; ora siccome desidero ardentemente che facciate una buona morte, voglio indurvi a vivere in modo da poter sperare questa felicità, mostrandovi:

1° i vantaggi di una buona morte; e

2° i mezzi per renderla buona.

I. — Se dovessimo morire due volte, una volta potremmo rischiarla; ma non si muore che una volta sola (Statutum est hominibus semel mori. Hebr. IX, 27), e dalla nostra morte dipende la nostra eternità. Dove l’albero cade, ivi resta. Se una persona, in punto di morte, si trova con qualche cattiva abitudine, la sua povera anima cadrà nell’inferno; se, invece, si trova in buono stato di coscienza, prenderà la via del cielo. O strada fortunata che ci conduce al godimento dei beni perfetti! Dovessimo anche passare per le fiamme del purgatorio, siamo sicuri d’arrivarvi. Tuttavia, questo di penderà dalla vita che avremo condotta: è certo che la nostra morte sarà conforme alla nostra vita; se abbiamo vissuto da buoni Cristiani e secondo la legge di Dio, morremo anche da buoni Cristiani per vivere eternamente con Dio. Al contrario, se viviamo secondo le nostre passioni, nei piaceri e nel libertinaggio, morremo infallibilmente nel peccato. Non dimentichiamo mai questa verità che ha convertito tanti peccatori: dove l’albero cadrà, ivi resterà per sempre (Eccli. XI, 3) . Ma, F. M., la morte per se stessa, non è così spaventosa come si vuol credere, poiché non sta che a noi il renderla felice, bella e gradita. S. Girolamo era vicino a morire: avendoglielo i suoi amici annunciato, sembrò raccogliere tutte le sue forze per esclamare: “O buona e felice notizia! o morte, vieni presto! ah! da quanto tempo ti desidero! vieni a liberarmi da tutte le miserie di questo mondo! Vieni, tu mi unirai al mio Salvatore! „ E volgendosi agli astanti: “Amici, per non temere la morte e trovarla dolce, bisogna camminare per la via che Gesù Cristo ci ha tracciata, e mortificarsi continuamente. „ Infatti è in punto di morte che un buon Cristiano comincia ad essere ricompensato del bene che ha potuto fare durante la vita; in quel momento il cielo sembra aprirsi per fargli gustare la dolcezza de’ suoi beni. Ecco, su questo punto, un bell’esempio. – S. Francesco di Sales, visitando la sua diocesi, fu pregato di recarsi da un buon contadino ammalato, che prima di morire desiderava, ardentemente di ricevere la sua benedizione. Con tutta fretta il santo Vescovo andò a lui, e trovò nell’ammalato un’intelligenza ancora lucidissima. Infatti l’ammalato testimoniava al suo Vescovo la gioia che provava nel vederlo, e domandò di confessarsi. Quand’ebbe finito, vedendosi solo col santo Prelato, gli fece questa domanda: “Monsignore. morirò io presto? „ Il santo, credendo che la paura facesse fare all’ammalato questa domanda, gli rispose per assicurarlo, che aveva visto guarire ammalati assai più gravi di lui, e che del resto, doveva confidare in Dio, al quale solo appartiene la nostra vita come la nostra morte. — “ Ma, chiese di nuovo, Monsignore, credete che io dovrò morire? „ — “Figlio mio, a questo un medico risponderebbe meglio di me: tutt’al più, vi dirò che la vostr’anima è in stato molto buono, e forse in altro tempo, non potreste avere così belle disposizioni. Il meglio che possiate fare si è di abbandonarvi interamente alla provvidenza ed alla misericordia di Dio, perché disponga di voi a suo beneplacito. „ — “Monsignore, non è il timore della morte che mi fa domandare se morrò di questa malattia; ma piuttosto il timore di vivere più a lungo. „ Il santo sorpreso da un linguaggio così straordinario e, sapendo che solo una grande virtù od un’eccessiva tristezza può far nascere il desiderio della morte, domandò al malato da che cosa provenisse questo suo disgusto per la vita. “Ah! Monsignore, esclamò l’ammalato, questo mondo è cosa tanto da poco! io non so come si possa amare questa vita. Se il buon Dio non ci comandasse di restarvi sinché Egli vi ci lascia, da molto tempo io non vi sarei più. „ — “È forse il dolore, la povertà, che vi ha così disgustato della vita? „ — “No, Monsignore, ho passato una vita serenissima fino all’età di settant’anni, in cui mi vedete e, grazie a Dio, non so che cosa sia la povertà. „ — “Forse avete avuto dei disgusti da parte di vostra moglie o dei figli? „ — “Nemmeno questo; essi non mi hanno mai recato il minimo dispiacere ed hanno sempre cercato di rendermi felice; la sola cosa che mi rincrescerebbe, lasciando questo mondo, sarebbe di doverli abbandonare. „ — “Perché dunque desiderate così ardentemente la morte? „ — Perché ho sentito dire nelle prediche tante meraviglie dell’altra vita, e delle gioie del paradiso, che questo mondo è per me, come un’oscura prigione. „ Ed allora parlando coll’effusione del cuore, quel contadino disse cose così belle e così sublimi sul cielo, che il santo Vescovo si ritirò rapito d’ammirazione, ed approfittò egli stesso di questo esempio per animarsi a disprezzare le cose create ed a sospirare la felicità del cielo. Non avevo dunque ragione di dirvi che la morte è dolce e consolante per un buon Cristiano, poiché lo libera da tutte le miserie della vita e gli dà il possesso dei beni eterni? O miserabile vita, come si può attaccarsi così fortemente a te?… Giobbe in poche parole ci dice che cos’è la vita: “L’uomo vive poco tempo, e la sua vita è ripiena di miserie. Come il fiore, non fa che apparire, e già appassisce. È come l’ombra che passa e scompare (Giob. XIV, 1, 2). „ Non v’è infatti animale sulla terra che, come l’uomo sia ripieno di miserie. Dalla testa ai piedi non v’è parte che non sia soggetta ad ogni sorta di malattie. Senza contare i timori, gli orrori dei mali che, più spesso, non ci toccheranno mai. E, la morte, F. M., ci libera da tutte queste miserie. S. Paolo, scrivendo agli Ebrei dice loro: “Noi siamo qui come poveri esiliati che non hanno dimora fissa; ma ne cerchiamo una, che è nell’altro mondo (Hebr. XIII, 14) . „ Quale gioia, F. M., per una persona esiliata dalla patria, e tenuta per molti anni in schiavitù, quando le si annuncia che il suo esilio è finito, che tornerà nella patria, vedrà i parenti e gli amici! Ora, un’anima che ama Dio, aspetta la stessa felicità e languisce, quaggiù, di desiderio d’andare a vedere il cielo in mezzo ai santi, che sono i suoi veri parenti ed amici. Essa sospira quindi ardentemente il momento della sua liberazione. La morte. F. M., è per l’uomo giusto ciò che il sonno è per il lavoratore che si rallegra all’avvicinarsi della notte, in cui troverà il riposo delle fatiche della giornata. La morte libera il giusto dalla prigionia del corpo: per questo diceva S. Paolo: “Ah! me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte? „ (Rom. VII, 24.) — “Togliete, mio Dio, diceva il santo re Davide, togliete la mia anima dalla prigione di questo corpo, poiché i giusti m’aspettano, fino a che m’abbiate data la mia ricompensa. (Ps. CXLI, 8); Ahi chi mi darà le ali come di colomba (Ps. XLIV, 7) ? „ E la Sposa dei cantici: ” Se avete visto il mio diletto, ditegli ch’io languisco d’amore (Cant. V, 8)! „ Ahimè! la nostra povera anima è nel nostro corpo come un diamante nel fango. O morte felice  che ci liberi da tante miserie! … S. Gregorio racconta che un povero uomo chiamato Preneste, da lungo tempo paralitico in tutte le membra, vicino a morire, pregò quelli che l’assistevano di cantare. Gli si domandò perché, e che cosa poteva rallegrarlo nello stato in cui si trovava. “Ah! disse, è perché ben presto la mia anima lascerà il corpo! Fra breve sarò liberato da questa prigione! „ Quand’ebbero cantato un momento, sentirono una soave musica d’Angeli. “Ah! disse il moribondo, non sentite gli Angeli che cantano? lasciateli, lasciateli cantare! „ e morì. Subito si sparse attorno a lui un profumo tanto soave, che la camera ne fu imbalsamata. In questo esempio vediamo adempirsi alla lettera ciò che Dio disse per bocca del profeta Isaia: “Levati, Gerusalemme, diletta mia, svegliati, poiché hai bevuto di mia mano, sino alla feccia, il calice della mia collera …, tutti i mali si sono riversati su di te… Ascolta, Gerusalemme, povera città, in avvenire non berrai più il calice della mia indignazione …; rivestiti della tua forza, Sionne; rivestiti degli indumenti della tua gloria Esci dalla polvere e spezza il giogo che grava il tuo collo… „ (Isa. LI, 17, 22; LII, 1, 2). Chi potrebbe comprendere, F. M., la grandezza delle gioie di S. Liduina? Dopo ventisette anni di malattia, rosa da un cancro e dai vermi, vedendosi al termine dei suoi mali esclamò: “ O gioia! tutti  i miei mali sono finiti! … Felice notizia! morte preziosa, affrettati! Da sì lungo tempo ti desidero!„ (RIBADENEIERA, 14 Aprile). – Quale soddisfazione per S. Clemente martire, quando dopo trentadue anni di prigionia e di tormenti gli si venne ad annunciare la sua condanna a morte! “O beata notizia! esclama; addio prigione, torture e carnefici! ecco dunque finalmente il termine della mia vita e dei miei dolori. O morte, quanto sei preziosa, oh! non tardare!…; o morte desiderata, vieni a colmare la mia felicità riunendomi al mio Dio!… „ (RIBADENEIRA, 23 Gennaio, S. Clemente Vescovo d’Ancira e martire). – Quanto dunque è felice un Cristiano, se ha il coraggio di camminare sulle tracce del divin Maestro!… Ma in che consiste la vita di Gesù Cristo? Ecco, F. M. Essa consiste in tre cose, cioè: preghiera, azioni, dolori. Sapete che nella sua vita pubblica il Salvatore si è spesso ritirato in disparte per pregare, e che era sempre in moto per la salute delle anime. Ora, bisognerebbe, F. M., che il pensiero di Dio ci fosse naturale come il respiro. Durante la sua vita di preghiera e d’azione, Gesù Cristo ha molto sofferto: ora la povertà, ora la persecuzione, ora le umiliazioni ed ogni sorta di cattivi trattamenti. “La mia vita, ci dice per bocca del suo profeta, ha finito nel dolore ed i miei anni nei gemiti, la mia forza s’è affievolita nella povertà. „ (Ps. XXX, 18). La vita d’un Cristiano può essere differente da quella d’un uomo confitto alla croce con Gesù Cristo? Il giusto è un crocifisso. Vediamo che i santi hanno trovato tanti piaceri nel dolore, che non potevano saziarsene: Vedete il gran Papa Innocenzo I: era coperto d’ulceri da capo a piedi, eppure non era ancora contento, ed aspirava sempre a nuove sofferenze. E ne domandava ogni giorno a Dio colle sue preghiere: “Mio Dio, diceva, aumentate i miei dolori, mandatemi malattie ancor più crudeli, purché però mi diate nuove grazie!„ — “Perché, gli si diceva, domandate a Dio un aumento di sofferenze? Siete tutto coperto di piaghe.„ — “Voi non sapete quant’è grande il merito delle sofferenze. Ah! se poteste comprendere quanto vale il dolore come l’amereste!„ S. Ignazio martire, temendo che i leoni e le tigri venissero, come qualche volta accadeva, a lambirgli i piedi, disse queste belle parole: “Quand’è che potrò baciarvi bestie feroci, che siete preparate pel mio supplizio? Ah! quando vi accarezzerò? Se non mi volete divorare, io vi ecciterò, affinché vi avventiate su di me con maggior furore; vi ecciterò perché vi affrettiate a divorarmi. „ Egli scriveva ai suoi discepoli: “Vi scrivo per annunciarvi quanto sono felice! morirò per Gesù Cristo, mio Dio! Tutto quello che vi domando è di non far nulla per istrapparmi alla morte, so quello che mi è vantaggioso. Io sono il frumento di Dio; e bisogna ch’io sia macinato tra i denti dei leoni per diventare pane degno di Gesù Cristo.„ (Ribadeneira. 1 Febbr.). Sentite ancora S. Andrea, che alla vista della croce su cui lascerà la vita, esclama: “O croce beata, per te sarò riunito al mio Maestro! ah! croce benedetta, ricevimi tra le tue braccia; poiché, dalle tue braccia passerò in quelle di Dio. „ La folla vedendo il buon vegliardo appeso alla croce, voleva uccidere il proconsole e distaccare il santo. “No, figli miei, gridò loro S. Andrea dall’alto della croce, lasciate, lasciate ch’io termini una vita così miserabile, poiché andrò al mio Dio. (ibid. 30 Nov.) „ S. Lorenzo è steso sulla graticola di ferro, mentre le fiamme, che un’altra volta avevano risparmiato i tre fanciulli nella fornace di Babilonia, crudelmente lo abbruciano. Egli è già arrostito da una parte, ed in compenso domanda di essere voltato dall’altra, affinché in cielo tutte le parti del suo corpo siano egualmente gloriose. Senza dubbio, M. F., questo esempio è un miracolo della grazia, che è onnipotente in chi ama Dio. Ma vedete S. Paola. Questa dama romana era torturata da violenti dolori di stomaco e preferì morire piuttosto che bere un po’ di vino che le si voleva far prendere. (Ibid. 26 Gennaio). S. Gregorio ci racconta d’un povero, ma celebre mendicante che, da molti anni paralitico, non potendosi muovere dalla paglia su cui era coricato, soffriva incredibili dolori, eppure, non cessò un momento di benedire Dio. E morì cantandone le lodi. Ah! dice S. Agostino, com’è consolante il morire colla coscienza quieta! La quiete dell’anima e la tranquillità del cuore sono i doni più preziosi che possiamo ottenere; ci dice lo Spirito Santo: non v’è piacere paragonabile alla gioia del cuore. (Eccli. XXX, 16). Il giusto, dice lo stesso dottore, non teme la morte, perché essa lo riunisce col suo Dio e lo mette in possesso di ogni specie di delizie. Vedete la gioia che mostrano i santi andando alla morte.. Vedete, ci dice S. Giovanni Crisostomo, l’intrepidezza e la gioia con cui S. Paolo va a Gerusalemme, sebbene sappia i cattivi trattamenti che l’attendono: “So che per me vi sono soltanto tribolazioni e catene; so le persecuzioni ed i mali che vi soffrirò; non importa; io non temo nulla, perché son persuaso di far l’interesse di un buon padrone, che non m’abbandonerà. Gesù Cristo stesso me lo garantisce. „ E vedendo i suoi discepoli piangere, l’apostolo aggiungeva: “Che fate, piangendo, ed affliggendo il mio cuore? poiché son pronto non solo ad esser legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù. „ (Act. XX,) Noi non siamo sicuri, è vero, d’essere come S. Paolo, gli amici di Dio; però quantunque peccatori, se abbiamo confessato i nostri peccati con sincero dolore, e se abbiamo cercato di soddisfarli quanto ci è stato possibile, colla preghiera e colla penitenza; ma soprattutto, se ad un grande dolore dei nostri peccati va unito un ardente amore per Iddio, possiamo confidare: i nostri peccati sono stati sepolti nel Sangue prezioso di Gesù Cristo, come l’esercito di Faraone nel Mar Rosso. F. M., v’erano tre croci sul Calvario, quella di Gesù Cristo, che è la croce dell’innocenza: ma noi non possiamo aspirare a questa, perché abbiamo peccato. Poi, quella del buon ladrone, la croce della penitenza: questa dev’essere la nostra. Imitiamo il buon ladrone che approfittò degli ultimi istanti di sua vita per pentirsi, e dalla croce salì al cielo. Gesù Cristo glielo disse: “Oggi sarai meco in paradiso. „ (Luc. XXIII, 43) La terza croce è quella del cattivo ladrone, e dobbiamo lasciarla a quei peccatori che vogliono morire nel loro peccato… Ma noi, F. M., possiamo certamente, se lo vogliamo, essere nel numero di quelli che fanno una buona morte. Alla morte tutto ci abbandona: ricchezze, parenti, amici: ma ciò che è un supplizio pel peccatore, diventa pel giusto una grande gioia. Ditemi qual dispiacere potrebbe provare un buon Cristiano in punto di morte? Potrebbe addolorarsi per questi beni che ha disprezzati durante la sua vita? Il corpo? egli lo considera come un crudele nemico, che più d’una volta l’ha messo in pericolo di perdere l’anima. Forse i piaceri del mondo? No, senza dubbio, poiché ha passata la vita nei gemiti, nella penitenza e nelle lagrime. No, F. M., egli non rimpiange nulla di tutto questo. La morte non fa che separarlo da ciò che ha sempre odiato e disprezzato; cioè, dal peccato, dal mondo, dai piaceri. Andandosene egli porta con sé tutto quanto ha amato: le sue virtù e le sue buone opere; egli abbandona ogni sorta di miserie per andare ad impossessarsi di ineffabili ricchezze; abbandona il combattimento per andare a godere la pace; abbandona un nemico crudele, il demonio, per andare a riposare nel seno del migliore dei padri. Sì, le sue buone opere lo conducono in trionfo davanti a Dio, il quale gli appare non come un giudice, ma come un tenero amico che, dopo aver compatito le sue sofferenze, non desidera che di ricompensarlo. Il profeta Isaia ci insegna che le nostre buone opere andranno a sollecitare per noi la bontà di Dio, ci apriranno le porte del paradiso, e determineranno la nostra dimora in cielo. È perfettamente vero che le nostre buone opere ci accompagneranno. Ecco un bell’esempio del pio re Ezechia. Lo Spirito Santo ci mostra questo re adorno dei meriti del giusto. Egli si dà con tutto il suo cuore alla pratica delle buone opere, la sua intenzione è pura, il motivo di tutte le sue azioni è unicamente quello di piacere a Dio. Egli osserva fedelmente, e con grande rispetto tutte le cerimonie della legge. Ma che avvenne? Eccolo. Ogni cosa gli riuscì durante la vita. Ma in punto di morte tutta la sua magnificenza e tutte le sue ricchezze, che erano grandissime, lo abbandonarono; i sudditi più fedeli furono costretti ad abbandonarlo; mentre le sue buone opere non lo lasciarono. Per queste, prega il buon Dio di fargli grazia: “Ve ne scongiuro, Signore, ricordatevi che ho sempre camminato davanti a voi con cuor puro e retto; ho sempre cercato ciò che ho creduto vi fosse più gradito.„ (Isa. XXXVIII, 3). Tale è, F. M., la fine felice d’una persona che ha lavorato durante tutta la sua vita a fare tutto ciò che potesse piacere a Dio solo. “Beati, dice S. Giovanni, quelli che muoiono nel Signore, poiché le loro opere li seguono! „ (Apoc. XIV, 13) Sì, F. M., porteremo con noi quanto abbiamo di più prezioso; i beni che passano li lasceremo sulla terra, e quelli che dureranno eternamente ci seguiranno. Il solitario sarà accompagnato dal suo silenzio, da suo ritiro e da tutte le sue orazioni; il religioso dalle penitenze, dai digiuni, dalle astinenze; il sacerdote da tutti i suoi lavori apostolici: egli vi vedrà tutte le anime che aveva salvate e che saranno la sua ricompensa e la sua gloria; il Cristiano fedele ritroverà tutte le buone confessioni e comunioni fatte, tutte le virtù praticate durante la sua vita. Che morte felice F. M., quella del giusto! Ascoltate il profeta Isaia: “Dite al giusto ch’egli è felice, poiché raccoglierà il frutto delle sue buone opere (Isa. III, 10). Converrete dunque che la morte del giusto è preziosa davanti agli uomini; la sola presenza del sacerdote, che visita quel moribondo! Lo confermerà nella fede e nella speranza; se gli si parla di Dio e delle sue grazie, subito il suo amore s’infiammerà come fornace ardente; quando gli si parla degli ultimi Sacramenti, cosa che agghiaccia un peccatore di orrore e di timore, è inondato da un torrente di delizie; poiché il suo Dio verrà nel suo cuore per condurlo con sé in paradiso. San Gregorio ci racconta che sua zia S. Tarsilla, vicina a morire, esclamò fuori di sé per la gioia: ” Ah! ecco il mio Dio! ecco il mio sposo! „ e spirò in uno slancio d’amore. Vedete ancora S. Nicola da Tolentino (Ribadeneira 10 settem.). Negli ultimi otto giorni della sua malattia, quando aveva ricevuto il corpo del Salvatore, si sentivano gli Angeli cantare nella sua camera; e quando i canti cessarono egli morì: gli Angeli lo condussero al cielo in loro compagnia. Felice morte quella del giusto!… S. Teresa apparsa splendente di gloria ad una religiosa del suo ordine, l’assicurò che nostro Signore era presente alla sua morte, ed aveva condotto la sua anima in cielo. Felice l’anima che può essere assistita in morte da Gesù Cristo in persona!… Quanto è dolce e consolante il morire nell’amicizia di Dio!… Non è questa forse una prima ricompensa del bene che si è potuto fare durante la vita?

II. — So, F. M., che tutti desideriamo di fare una buona morte; ma non basta desiderarlo, bisogna anche lavorare per meritarci questa fortuna, questa grande fortuna. Volete sapere ciò che può procurarci questa fortuna? Eccolo in poche parole. Fra i mezzi che dobbiamo adoperare per ben morire, ne scelgo tre che colla grazia di Dio, ci condurranno infallibilmente ad una buona morte. Bisogna prepararvisi: 1° con una santa vita; 2° con una vera penitenza, se abbiamo peccato; e 3° con una perfetta conformità della nostra morte con quella di Gesù Cristo. – Ordinariamente, si muore come si è vissuto: è una delle grandi verità che la Scrittura ed i santi Padri ci affermano in vari luoghi. Se vivete da buoni Cristiani, siete sicuri di morire da buoni Cristiani; ma se vivete male, state sicuri di fare una cattiva morte. Dice il profeta Isaia: “Guai all’empio che non pensa che a fare il male, poiché sarà trattato come merita: alla morte riceverà il compenso del suo lavoro (Isa. III, 11) „ È però vero che qualche volta si può, per una specie di miracolo, cominciare male e finir bene; ma questo avviene così raramente che, secondo S. Girolamo, la morte è ordinariamente l’eco della vita; credete che allora ritornerete al buon Dio? no, voi perirete nel male. Ma se, pentiti, cominciate a vivere cristianamente, sarete nel numero di quei penitenti che commuovono il cuore di Dio e guadagnano la sua amicizia. Sebbene meno ricchi di meriti, pure arrivano al cielo, e Dio si serve precisamente di essi per manifestare la sua misericordia. Lo Spirito Santo ci dice: “Se avete un amico, fategli del bene prima di morire. „ « (Eccli. XIV, 13). Eh! F. M., possiamo avere amico migliore della nostra anima? facciamo ora per essa tutto ciò che possiamo; giacché quando vorremo farle del bene, non lo potremo più!… La vita è breve. Se differite di convertirvi sino all’ora della vostra morte, siete ciechi, poiché non sapete né dove né quando morrete, né se avrete qualche soccorso spirituale. Chi sa se questa notte stessa, non dovrete comparire coperto di peccati, davanti al tribunale di Gesù Cristo?… No, F. M., non dovete fare cosi: dovete purificarvi, e tenervi sempre pronti a comparire davanti al vostro giudice. Ecco un esempio che vi mostrerà come chi ritarda di giorno in giorno la sua conversione, muore come è vissuto. S. Pier Damiani ci racconta che un religioso aveva passata la maggior parte della sua vita in questioni e contese co’ suoi fratelli. Quando fu in punto di morte, i suoi fratelli lo scongiuravano di confessare i suoi peccati, di domandarne perdono a Dio e di farne penitenza, con un buon proposito di non più ricadervi, se fosse guarito. Non poterono cavargli una sola parola. Ma poco dopo, quand’ebbe ripresa la parola, parlò loro, e di che? ahimè! di ciò che era stato l’oggetto delle sue conversazioni durante tutta la sua vita: di processi e d’altri affari. I fratelli lo scongiuravano di pensare alla sua anima; tutto fu inutile: si assopì, e morì senza il minimo segno di pentimento. Sì, F. M., quale è la vita tale è la morte. Non sperate in un miracolo che Dio fa solo raramente: vivete nel peccato e nel peccato morrete. – Un gran numero d’esempi ci prova che dopo una cattiva vita, non dobbiamo aspettare una buona morte. Leggiamo nella S. Scrittura (Jud. IX) che Abimelech, principe fiero ed orgoglioso, s’impadronì del regno che doveva dividere coi fratelli, e li fece morire per regnare da solo. Mentre assediava una fortezza, essendosi gli assediati rifugiati in una torre, egli si avvicinò per appiccarvi il fuoco. Una donna che dall’alto del bastione lo vide, gli scagliò una pietra e gli spaccò la testa. Il disgraziato sentendosi ferito, chiamò il suo scudiero e gli disse: “Leva la tua spada e trafiggimi… Fammi morire subito, per risparmiarmi la vergogna d’essere stato ucciso da una donna. „ Che strana condotta, F. M.! E forse il primo principe che è stato ferito così? Perché volle che il suo scudiero lo avesse ad uccidere? ahimè! perché durante la sua vita era stato un ambizioso!.. Saulle aveva dato battaglia agli Amaleciti: la sorte pendeva incerta: egli si sentiva perduto perché già ferito, e vedeva l’esercito nemico che stava per gettarsi su di lui. Appoggiato il petto alla sua spada, e vedendo venire un soldato gli disse: “Vieni, amico, chi sei? „ — ” Sono un Amalecita. „ — “Ebbene fammi un favore: gettati su di me ed uccidimi; sono accasciato dal dolore e non saprei morire; finiscimi. „ (II Reg. XXXI). E perché, F. M., questo miserabile volle morire per mano d’un Amalecita? Era forse il solo principe che avesse perduto una battaglia? Non stupitevi di questo, ci rispondono i santi Padri, è un principe che, durante la sua vita, s’è dato ai vizi, s’è lasciato dominare dall’invidia, dall’avarizia e da ogni altra passione. Perché muore in un modo così disonorante? Perché ha vissuto male. Tutti sanno che Assalonne era sempre stato disobbediente e ribelle al suo buon padre. L’ora della sua morte, che Dio aveva già fissata da tutta l’eternità, essendo ormai giunta, passando sotto una pianta vi restò sospeso per i capelli. Gioabbo, vedendolo, gli tirò tre frecce (II Reg. XVIII). Da che proviene, F. M., la fine disgraziata di questo principe? da questo che tutta la sua vita era stata quella di un cattivo figliuolo. Morì così perché aveva vissuto male. – Vedete dunque chiaramente, F. M., che se vogliamo fare una buona morte, dobbiamo condurre una vita cristiana e far penitenza dei nostri peccati; dobbiamo eccitare in noi, colla grazia di Dio, una profonda umiltà in u n cuore pieno di rimorso d’aver offeso un padrone così buono. Ma un terzo mezzo per prepararci a ben morire, è quello di regolare la nostra morte su quella di Gesù Cristo. Quando si porta il buon Dio ad un ammalato, si porta anche la croce: questo non si fa solo per cacciare il demonio, ma molto più perché questo Salvatore crocifisso serva di modello al moribondo, e perché, gettando lo sguardo sull’immagine d’un Dio crocifisso per la sua salute, egli si prepari alla morte come vi si è preparato Gesù Cristo. La prima cosa che fece Gesù Cristo prima di morire fu di separarsi dagli Apostoli: un ammalato deve fare lo stesso, allontanarsi dal mondo, distaccarsi per quanto può dalle persone che gli sono più care, per non occuparsi che di Dio solo e della sua salute. Gesù Cristo, sapendo vicina la sua morte si prostrò colla faccia a terra nel giardino degli Olivi, pregando con insistenza. (Matth. XXVI, 39). Ecco quanto deve fare un ammalato all’avvicinarsi della morte; deve pregare con fervore e, nella sua agonia, unirsi all’agonia di Gesù Cristo. L’ammalato che vuol rendere il suo male meritorio deve accettare la morte con gioia, o almeno con una grande sottomissione alla volontà del Padre celeste, pensando che bisogna assolutamente morire per andare a veder Dio, e che in ciò consiste tutta la nostra felicità. S. Agostino ci dice che chi non vuol morire, ha il carattere di riprovato. Oh! F. M., quanto è felice in quell’ultimo momento un Cristiano che ha santamente vissuto! Egli abbandona ogni sorta di miserie per entrare in possesso di ogni sorta di beni!… Felice separazione! Essa ci unisce al nostro sommo bene, che è Dio stesso!… È quello che io vi auguro.

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In quest’epoca le letture dell’Officiatura sono spesso tolte dal Libro dei Maccabei. Giuda Maccabeo, avendo udito quanto potenti fossero i Romani e come avessero sottomesso dei paesi assai lontani ed obbligato tanti re a pagar loro un tributo annuale, e d’altra parte sapendo che essi solevano acconsentire a quanto veniva loro chiesto e che avevano stretto amicizia con tutti coloro che con essi si erano alleati, mandò a Roma alcuni messi per fare amicizia ed alleanza con loro. Il Senato romano accolse favorevolmente la loro domanda e rinnovò più tardi questo trattato di pace con Gionata, e poi con Simeone che succedettero a Giuda Maccabeo, loro fratello. Ma ben presto la guerra civile sconvolse questo piccolo regno, poiché dei fratelli si disputarono tra di loro la corona. Uno di questi credette fare una mossa abile chiamando i Romani in aiuto; essi vennero infatti e nel 63 Pompeo prese Gerusalemme. Roma non soleva mai rendere quello che le sue armi avevano conquistato e la Palestina divenne quindi e restò una provincia romana. Il Senato nominò Erode re dei Giudei ed egli, per compiacere costoro, fece ingrandire il Tempio di Gerusalemme e fu in questo terzo tempio che il Redentore fece più tardi il suo ingresso trionfale. Da quel momento il popolo di Dio dovette pagare un tributo all’imperatore romano ed è a ciò che allude il Vangelo di oggi. Questo episodio avvenne in uno degli ultimi giorni della vita di Gesù. Con una risposta piena di sapienza divina, il Maestro confuse i suoi nemici, che erano più che mai accaniti per perderlo. L’obbligo di pagare un tributo a Cesare era tanto più odioso ai Giudei in quanto contrastava allo spirito di dominio universale che Israele era convinto di aver ricevuto con la promessa. Quelli che dicevano che si doveva pagarlo, avevano contro di loro l’opinione pubblica, quelli che dicevano che non si dovesse farlo incorrevano nell’ira dell’autorità romana imperante e dei Giudei che erano a questa favorevoli e che si chiamavano erodiani. I farisei pensavano dunque che forzare Gesù a rispondere a questo dilemma voleva sicuramente dire perderlo, sia davanti al popolo, sia davanti ai Romani, e che tanto dagli uni come dagli altri avrebbero potuto farlo arrestare. Per essere sicuri di riuscirvi gli mandarono una deputazione di Giudei che appartenevano ai due partiti, « alcuni dei loro discepoli con degli erodiani », dice S. Matteo. Questi uomini, per ottenere una risposta, cominciarono col dire a Gesù che sapevano come egli dicesse sempre la verità e non fosse accettatore di persone; poi gli tesero un tranello: « È permesso o no pagare il tributo a Cesare?». Gesù, conoscendo la loro malizia, disse loro: « Ipocriti, perché mi tentate?» Poi, sfuggendo loro destramente, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo, per forzarli, come sempre faceva in queste circostanze, a rispondere essi stessi alla loro domanda. Infatti, quando i Giudei gli ebbero presentato un danaro che serviva per pagare il tributo: « Di chi è questa effigie e questa iscrizione? » chiese loro. «Di Cesare», risposero quelli. Bisognava infatti per pagare il tributo, cambiare prima la moneta nazionale in quella che portava l’effigie dell’imperatore romano. Con questo scambio i Giudei venivano ad ammettere di essere sotto la dominazione di Cesare, poiché una moneta non ha valore in un paese se non porta l’effigie del suo sovrano. Acquistando dunque quel denaro con l’impronta di Cesare, riconoscevano essere egli il signore del loro paese, al quale essi avevano l’intenzione di pagare il tributo. « Rendete dunque a Cesare — disse loro Gesù — quello che è di Cesare ». Ma allora il Maestro, diventando ad un tratto il giudice dei suoi interlocutori interdetti, aggiunse: « Rendete a Dio quello Che è di Dio ». Ciò vuol dire: che appartenendo l’anima umana a Dio, che l’ha fatta a propria immagine, tutte le facoltà di quest’anima devono far ritorno a Lui, pagando il tributo di adorazione e di obbedienza. « Noi siamo la moneta di Dio, coniata con la sua effigie . dice S. Agostino – e Dio esige il suo denaro, come Cesare il proprio » (In JOANN.). « Diamo a Cesare la moneta che porta l’impronta sua, aggiunge S. Girolamo,, poiché non possiamo fare diversamente, ma diamoci anche spontaneamente, volontariamente e liberamente a Dio, poiché l’anima nostra porta l’immagine sfolgorante di Dio e non quella più o meno maestosa di un imperatore ». (In MATT.). – « Questa immagine, che è l’anima nostra – dice ancora Bossuet – passerà un giorno di nuovo per le mani e davanti agli occhi di Gesù Cristo. Egli dirà ancora una volta guardandoci: Di chi è quest’immagine e quest’iscrizione? E l’anima risponderà: di Dio. È per Lui ch’eravamo stati fatti: dovevamo portare l’immagine di Dio, che il Battesimo aveva riparato, poiché questo è il suo effetto e il suo carattere. Ma che cosa è diventata questa immagine divina che dovevamo portare? Essa doveva essere nella tua ragione, o anima cristiana! e tu l’hai annegata nell’ebbrezza; tu l’hai sommersa nell’amore dei piaceri; tu l’hai data in mano all’ambizione; l’hai resa prigioniera dell’oro, il che è un’idolatria; l’hai sacrificata al tuo ventre, di cui hai fatto un dio; ne hai fatto un idolo della vanagloria; invece di lodare e benedire Iddio notte e giorno, essa si è lodata e ammirata da sé. In verità, in verità, dirà il Signore, non vi conosco; voi non siete opera mia, non vedo più in voi quello che vi ho messo. Avete voluto fare a modo vostro, siete l’opera del piacere e dell’ambizione; siete l’opera del diavolo di cui avete seguito le opere, di cui, imitandolo, vi siete fatto un padre. Andate con lui, che vi conosce e di cui avete seguito le suggestioni; andate al fuoco eterno che per lui è stato preparato. O giusto Giudice! dove sarò io allora? mi riconoscerò io stesso, dopo che il mio Creatore non mi avrà riconosciuto? » (Medit. sur l’Èvangile, 39e jour) In questo modo dobbiamo interpretare il Vangelo, in questa Domenica, che è una delle ultime dell’anno ecclesiastico e che segna per la Chiesa gli ultimi tempi del mondo. Infatti, a due riprese, l’Epistola parla dell’Avvento di Gesù, che è vicino. S. Paolo prega Dio che ha cominciato il bene nelle anime di compierlo fino al giorno del Cristo Gesù », poiché è da Lui che viene la perseveranza finale. E l’Apostolo invoca appunto questa grazia: che « la nostra carità abbondi vieppiù in cognizione e discernimento, affinché siamo puri e senza rimproveri nel giorno di Gesù Cristo » (Epistola). In questo terribile momento, infatti se il Signore tiene conto delle nostre iniquità, chi potrà sussistere davanti a Lui? (Introito). « Ma il Signore è il sostegno e il protettore di coloro che sperano in Lui » (Alleluia), poiché « la misericordia si trova nel Dio d’Israele» (Intr., Segret.). E noi risentiremo gli effetti di questa misericordia se saremo noi stessi misericordiosi verso il prossimo. « Come bello è soave è per i fratelli essere uniti! » dice il Graduale. E dobbiamo esserlo soprattutto nella preghiera, all’ora del pericolo, poiché se gridiamo verso il Signore, Egli ci esaudirà » (Com.). E la preghiera eminentemente sociale e fraterna, alla quale Dio è più specialmente propizio, è la preghiera della Chiesa, sua sposa, che Egli ascolta ed esaudisce come fece il re Assuero, allorché, come ricorda l’Offertorio, la sua sposa Ester si rivolse a Lui per salvare dalla morte il popolo di Dio (v. 19a Domenica dopo Pentecoste).

Il dono della perseveranza nel bene ci viene da Dio. San Paolo domanda a Dio di accordarlo ai Filippesi, che gli sono sempre stati uniti nelle sue sofferenze e nelle sue fatiche apostoliche e che egli ama, come Cristo Gesù stesso li ama. La loro carità dunque cresca continuamente, affinché il giorno dell’avvento di Gesù, colmi di buone opere, rendano gloria a Dio.

« Se noi siamo attaccati ai beni che dipendono da Cesare, dice S. Ilario, non possiamo lamentarci dell’obbligo di rendere a Cesare quello che è di Cesare; ma dobbiamo anche rendere a Dio quello che gli appartiene in proprio, cioè consacrargli il nostro corpo, l’anima nostra, la nostra volontà » (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps. CXXIX: 3-4

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Ps CXXIX: 1-2

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Oratio

Orémus.

Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Phil I: 6-11

“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, et enim defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse. Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.

(“Fratelli: Abbiam fiducia nel Signore Gesù, che colui il quale ha cominciato in voi l’opera buona la condurrà a termine fino al giorno di Cristo Gesù. Ed è ben giusto ch’io nutra questi sentimenti per voi tutti; poiché io vi porto in cuore, partecipi come siete del mio gaudio, e nelle mie catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Mi è, infatti, testimonio Dio come ami voi tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E questa è la mia preghiera: che il vostro amore vada crescendo di più in più in cognizione e in ogni discernimento, si da distinguere il meglio, affinché siate puri e incensurati per il giorno di Cristo, ripieni di frutti di giustizia, mediante Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”).

AUGURI CRISTIANI DI UN APOSTOLO.

Che cosa dobbiamo noi Cristiani desiderare ed augurare a noi stessi e agli altri? dico così: a noi e agli altri, perché dovendo noi amare il prossimo come noi stessi, s’ha da desiderare agli altri ed augurare né più, né meno di quello che desideriamo ed auguriamo a noi. È un problema molto pratico, se si consideri il gran numero d’auguri che per consuetudine antica, si cambiano in mille circostanze diverse, anche fra noi Cristiani. I quali spesso, troppo spesso, ci auguriamo, quello stesso che si augurano fra di loro i pagani, come se il Cristianesimo non esistesse, come se nelle fatti specie non avesse un bel nulla da insegnarci. Opportunissima è al proposito l’Epistola paolina di questa domenica, nella quale San Paolo lascia libero sfogo al suo grande cuore. E dice ai suoi figli, ai Cristiani da lui convertiti, da lui rigenerati al fonte battesimale, quale sia l’oggetto precipuo e costante delle sue preghiere per loro. La preghiera, giova ricordarlo tra parentesi, è la forma cristiana dell’augurio. Il pagano augura, il Cristiano prega. Ordunque che cosa augura e prega il grande Apostolo ai suoi cari? Una carità in un aumento costantemente progressivo. «Chiedo a Dio che la vostra carità abbondi più e più». Che cosa auguriamo noi istintivamente a quelli che amiamo? Lo si sa: salute e felicità. E dicendo salute, quando parliamo il linguaggio comune, fondato sulla comune psicologia, intendiamo la salute del corpo, e la felicità del tempo. Ebbene: noi Cristiani sappiamo che c’è una salute più preziosa della corporea: è la salute dell’anima; c’è una felicità più vera della comunemente intesa, è la felicità spirituale ed eterna. Tutto questo è nella carità. La carità cristiana, amore fervido di Dio e dei fratelli, unico moto con due poli ed estremità, la carità; l’ardore di essa è la vita dell’anima. Si vive di carità; senza essa si muore, muore la parte più vera, più intima, più umana di noi: «qui non diligîit, manet in morte. » E questo amore divino, divino sempre, divino ancora quando sembra diventare umano, è la gioia più profonda ed indistruttibile. L’amore profano con le sue gioie è un abbozzo della gioia che porta nell’anima l’amore celeste. Desiderare la carità agli altri (e a noi) significa desiderare (e chiedere, per conseguenza), la vita, la salute più vera e la felicità più completa. Lo sentiamo noi questo? ne siamo noi veramente convinti? Ecco, se mai, una buona occasione per ridestare in noi questa convinzione, per rettificare nella nostra anima, come dicono oggi, la scala dei valori. In cima a questa benedetta scala, che regola poi in pratica i moti, i voli della nostra anima; in cima la carità. Nella quale non si progredisce mai abbastanza e bisogna progredire sempre. Quando si è convinti della preziosità di una cosa qualsiasi, non se ne ha, non si crede mai di averne abbastanza, se ne desidera sempre di più. La carità è il nostro tesoro per eccellenza, il vero tesoro cristiano. Paolo la desidera, la prega ai fedeli sempre maggiore, in aumento continuo e indefinito. E sempre meglio. Fiamma più ardente e fiamma più pura. Progresso in quantità e in qualità. In che cosa l’Apostolo faccia consistere il miglioramento qualitativo, non è chiarissimo. Ma tra le interpretazioni in cui s’indugiano i critici, gli esegeti, la migliore mi par questa: la nostra carità S. Paolo desidera e prega diventi sempre più conscia (questo significa quello che il testo chiama progresso in scientia), alimentata cioè da una conoscenza sempre più chiara, esatta, profonda di Dio, Signor Nostro. – Meglio si vede una cosa o persona bella e più acceso ne ferve in noi il desiderio, nell’ordine naturale. Lo stesso nell’ordine soprannaturale: più, meglio, si conosce Dio e più e meglio lo si ama. E anche il prossimo nostro lo amiamo tanto più quanto più lo guardiamo, e vediamo in una luce divina colta, afferrata bene dal nostro occhio interiore. Ma lì nel prossimo ci vuol giudizio. San Paolo dice proprio: la carità divina verso Dio sempre più conscia; la carità verso il prossimo sempre più giudiziosa. Non si potrebbe dire di meglio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

  Ps CXXXII: 1-2

Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum!

[Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]

V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron.

[È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXIII: 11

Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est. Allelúja.

[Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt XXII: 15-21

In illo témpore: Abeúntes pharisæi consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Caesaris, Caesari; et, quæ sunt Dei, Deo.

( “In quel tempo, i Farisei ritiratisi, tennero consiglio per coglierlo in parole. E mandano da lui i loro discepoli con degli Erodiani, i quali dissero: Maestro, noi sappiamo che tu sei verace, e insegni la via di Dio secondo la verità, senza badare a chicchessia; imperocché non guardi in faccia gli uomini. Spiegaci adunque il tuo parere: È egli lecito, o no, di pagare il tributo a Cesare? Ma Gesù conoscendo la loro malizia, disse: Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un danaro. E Gesù disse loro: Di chi è questa immagine e questa iscrizione? Gli risposero: Di Cesare. Allora egli disse loro: Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”).

OMELIA

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla restituzione.

Reddito ergo quæ sunt Cæsaris, Cæsari: et quæ sunt Dei, Deo.

(MATTH. XXII, 21).

Dare a Dio quello ch’è di Dio, ed al prossimo quello che gli è dovuto; niente di più giusto, niente di più ragionevole. Se tutti i Cristiani seguissero questa via, l’inferno non avrebbe più alcun abitatore, ed il cielo sarebbe popolato. Ah! volesse Iddio, ci dice il gran S. Ilario, che gli uomini non perdessero mai di vista questo precetto! Ma, ahimè! quanti si illudono! Essi passano la loro vita rubando all’uno, ed ingannando l’altro. Si, F. M., non vi è cosa più comune delle ingiustizie, non vi è cosa più rara delle restituzioni. Il profeta Osea aveva ben ragione di dire che le ingiustizie ed i latrocini coprivano la faccia della terra, e che assomigliavano al diluvio che aveva distrutto l’universo  (Os. IV, 2). E disgraziatamente quanti sono i colpevoli altrettanti sono quelli che non vogliono riconoscersi tali. Mio Dio! quanti ladri farà scoprire la morte! Per convincervene, F. M., vi mostrerò:

1° che i beni di mal acquisto non portano fortuna;

in quanti modi si reca danno al prossimo;

3° come ed a chi dovete restituire ciò che non vi appartiene.

I. — Noi siamo sì ciechi, che passiamo tutta la vita nel cercare di ammassare beni che poi, nostro malgrado, perderemo, e trascuriamo quelli che potremo conservare per tutta l’eternità. Le ricchezze di questo mondo per un Cristiano sono degne soltanto di disprezzo, e noi invece corriamo precisamente dietro ad esse. L’uomo è dunque un insensato, perché agisce in un modo tutto contrario al fine per cui Dio l’ha messo al mondo. Non voglio parlarvi, F. M., di coloro che prestano ad usura, al sette, otto, nove e dieci per cento; lasciamoli da una parte. Bisognerebbe, per far sentir loro tutta l’enormità della loro ingiustizia e crudeltà, che uno di quei vecchi usurai, che da tre o quattro mila anni bruciano nell’inferno, venisse a raccontar loro i tormenti che soffre a causa delle sue innumerevoli ingiustizie. No, non è questo il mio assunto. Costoro sanno che fanno male e che Dio non perdonerà loro mai, se non restituiscono a quelli che hanno danneggiato. Tutto ciò che potrei dire servirebbe soltanto a renderli più colpevoli. Entriamo invece in certi particolari che riguardano la maggior parte dei Cristiani. – Dico anzitutto che i beni acquistati ingiustamente non arricchiscono mai chi li possiede. Al contrario saranno una sorgente di maledizioni per tutta la sua famiglia. Mio Dio! quanto è cieco l’uomo! Egli è perfettamente convinto che viene in questo mondo per brevissimo tempo; ad ogni istante ne vede partir uomini più giovani e più robusti di lui; non importa; ciò non gli fa aprire gli occhi. Può ben dirgli lo Spirito Santo, per bocca di Giobbe, che egli è venuto nel mondo sprovvisto di tutto e che se ne andrà nella stessa condizione (Job I, 21); che tutti questi beni dietro ai quali egli corre, lo abbandoneranno quando meno vi penserà; tutto questo non vale a trattenerlo. S. Paolo afferma che chi vuol diventar ricco per vie ingiuste, non tarderà a cadere in grandi traviamenti; e di più non vedrà mai la faccia di Dio (I Tim. VI, 9). E questo è così vero, che un avaro, od anche, se volete, una persona arricchita per frode o con male arti, senza un miracolo della grazia non si convertirà quasi mai, tanto questo peccato acceca chi lo commette. Ascoltate come san Agostino parla a quelli che ritengono beni altrui (Ep CLIII ad Macedonium, c. VI, 22). Potrete ben confessarvi, dice, far penitenze e piangere i vostri peccati, se non restituite, quando potete, Iddio non vi perdonerà mai. Tutte le vostre confessioni e comunioni non saranno che sacrilegi l’un sopra l’altro. O rendete quello che non è vostro, o risolvetevi di andar a bruciare nell’inferno. Lo Spirito Santo non ci proibisce solo di prendere e desiderare i beni del prossimo, manon vuole nemmeno che li guardiamo nel timore che questa vista vi ci faccia mettere sopra le mani. Il profeta Zaccaria ci dice che la maledizione di Dio resterà sulla casa di chi ruba, fino a che essa non sarà distrutta (Zach. V, 3,4). Ed io aggiungo, che non solo i beni acquistati con frode o con male arti non vi daranno alcun profitto, ma saranno la causa che abbiate da quelli legittimamente acquistati, e che si abbrevino i vostri giorni. Se ne dubitato, ascoltatemi un momento e ne sarete persuasi. Leggiamo nella sacra Scrittura, che il re Acabbo volendo allargare il suo giardino, andò da un uomo chiamato Naboth, per domandargli di vendergli la sua vigna. “No, gli disse Naboth, è l’eredità dei miei padri, e voglio conservarla.„ Il re fu così indispettito per questo rifiuto, che ne ammalò. Non poteva né bere, né mangiare, e si mise a letto. La regina venne, e gli domandò la causa della sua malattia. Le rispose il re che voleva allargare il giardino, e che Naboth erasi rifiutato di vendergli la sua vigna. « Ecchè! disse la regina, dov’è dunque la vostra autorità? Non inquietatevi tanto; io ve la farò avere. E s’affrettò a cercare qualcuno che, corrotto con denaro, testimoniasse che Naboth aveva bestemmiato contro Dio e contro Mosè. Il povero uomo poté ben difendersi, affermando che era innocente del delitto di cui lo si accusava, invano; non gli si volle credere: fu trascinato dalla folla e lapidato. La regina vistolo immerso nel proprio sangue, corse dal re annunciandogli di impossessarsi pure della vigna, poiché colui che aveva ardito rifiutargliela era morto. A questa notizia il re guarì, e corse come un pazzo ad impossessarsi della vigna. Lo sciagurato non pensava che qui appunto l’aspettasse Iddio per punirlo. Il Signore chiamò il suo profeta Elia, e gli ordinò d’andare dal re a dirgli da parte sua che, nel luogo stesso dove i cani avevano leccato il sangue di Naboth, leccherebbero anche il suo, e che nessuno dei suoi figli regnerebbe dopo di lui. Lo mandò poi dalla regina Gezabele per annunziarle che, in punizione del suo delitto, i cani la mangerebbero. Come il profeta aveva predetto, così avvenne. Il re fu ucciso in un combattimento, ed i cani leccarono il suo sangue. Il nuovo re chiamato Jehu, entrando nella città, vide una donna affacciata ad una finestra. Ella s’era vestita come una dea, sperando affascinare il cuore del nuovo re. Questi domandò chi fosse. Gli fu risposto che era la regina Gezabele. Subito comandò di gettarla dalla finestra; e uomini e cavalli la calpestarono sotto i loro piedi. Alla sera, quando si volle darle sepoltura, non si trovò di lei che qualche misero avanzo: i cani avevano mangiato il resto. “Ah! esclamò Jehu, ecco adempiuta la parola del profeta.„ (IV, Reg. IX). Il re Acabbo lasciava settanta figli, tutti principi; il nuovo re ordinò che a tutti fosse mozzata la testa, e che le teste fossero raccolte in panieri alle porte della città, per mostrare con uno spettacolo così orrendo quali disgrazie attirino sui figli le ingiustizie dei genitori (IV, Reg. X, 7). S. Vittore ci racconta un esempio che non è meno sorprendente. Un uomo, egli dice, era entrato nel granaio del suo vicino per rubargli del grano. Nel momento in cui s’impadroniva del sacco, il demonio s’impadronì di lui, e lo trascinò davanti a tutti come se lo portasse all’inferno (Vedere nel RIBADENEIRA, al 26 Febbraio la vita di san Vittore d’Arcis-sur-Aube.). Dio mio, come è cieco l’uomo, che vuol dannarsi per sì poca cosa. – La seconda ragione che ci deve far temere d’impossessarci dei beni altrui, è che questa colpa ci trascina all’inferno. Il profeta Zaccaria dice che, in una visione, Iddio gli fece vedere un libro, dove era scritto che mai i rapitori dei beni altrui vedranno Dio, e che essi saranno gettati nelle fiamme. Eppure, F. M., vi sono alcuni talmente ciechi che preferirebbero morire e dannarsi, anziché restituire le ricchezze mal acquistate, anche se la morte fosse sul punto di strapparle loro dalle mani. Un uomo aveva passato la sua vita rubando e saccheggiando… Aveva appena trent’anni, quando fu preso da una malattia, della quale poi morì. Uno dei suoi amici, vedendo ch’egli non domandava il sacerdote, andò egli stesso a cercarne uno. “Amico, gli dice il prete, mi sembrate molto aggravato. Non pensavate dunque a chiamarmi? Volete confessarvi? — Ah! Reverendo, rispose l’ammalato smarrito, mi credete dunque già spacciato? — Ma, amico, più conoscenza avrete, e meglio riceverete i Sacramenti. — Non me ne parlate; in questo momento sono stanco; quando starò meglio verrò io stesso in chiesa. — No, amico, se aveste a morire senza Sacramenti, ne sarei troppo addolorato. Siccome sono qui, non me ne andrò finché non vi siate confessato.„ Vedendovisi costretto, acconsente; ma come lo fa? come una persona che avendo dei beni altrui non vuol restituirli. Non ne dice nulla… – “Se peggiorerete verrò a portarvi il Viatico.„ Infatti l’ammalato si avvicina alla morte: si corre ad avvertire il prete che il suo penitente sta per spirare, ed egli si affretta ad accorrere. Quando l’ammalato sentì il campanello, domandò che cos’era, e sapendo che il signor Parroco gli portava il Viatico: “Ecché! esclamò, non vi avevo detto, che non volevo riceverlo? Ditegli pure che non venga avanti.„ Frattanto entrò il sacerdote, ed accostandosi al letto di lui, gli dice: “Voi non volete dunque ricevere il buon Dio, che vi consolerebbe, e che vi aiuterebbe a sopportare le vostre pene? — No, no, ho già fatto troppo male. — Ma scandalizzerete tutta la parrocchia. — Eh! che m’importa che tutti sappiano ch’io mi son dannato? — Se non volete ricevere i Sacramenti, non potrete essere sepolto cristianamente. — Un dannato merita forse di essere sepolto tra i santi? Quando il demonio si sarà impossessato della mia maledetta anima, gettate il mio corpo ai lupi, come quello d’un animale… „ E vedendo sua moglie piangente: “Tu piangi? consolati; se mi hai accompagnato per andare di notte a rubare ai vicini, non tarderai a raggiungermi nell’inferno. „ E gridava disperato: “Ah! orrori dell’inferno, aprite i vostri abissi, venite a strapparmi da questo mondo; io non posso più reggere. „ E muore con segni visibili di riprovazione. — Ma, mi direte, egli aveva certo commesso grandi peccati. — Ahimè! amico, se osassi, vi direi ch’egli faceva quello che fate quasi tutti; ora rubava un fascio di legna, ora una bracciata di fieno, ovvero un covone di grano.

II. — Se volessi, F. M., esaminare la condotta di quelli che sono qui presenti, forse non troverei altro che ladri. Vi stupisce questo? Ascoltatemi un momento e converrete con me che ciò è vero. S’io comincio coll’esaminare la condotta dei servitori, li trovo colpevoli verso i padroni e verso i poveri. I servi sono colpevoli verso i padroni e, per conseguenza obbligati a restituire, tutto il tempo di più dell’occorrente che hanno impiegato per riposarsi o che hanno sciupato nelle osterie; se hanno lasciato andar in rovina e rubare i beni dei loro padroni, e se potendo impedirlo non l’abbiano fatto. Parimente, se, un servo offrendo l’opera sua ha assicurato che era capace di far certi lavori, sapendo benissimo ch’egli non li conosceva o padrone della perdita che deriva dalla sua ignoranza o dalla sua debolezza. Di più, ruba ai poveri tutte le volte che spende il denaro nel giuoco, all’osteria, o in altre cose inutili. — Ma, mi direte, questo denaro è mio, è il mio guadagno. — Vi risponderò: Voi avete lavorato per guadagnarlo, è vero; eppure siete colpevoli. Ascoltatemi e capitemi bene. Forse i vostri genitori sono tanto poveri da essere obbligati a ricorrere alla carità pubblica; se voi aveste conservato il vostro guadagno, potreste sollevarli; siete nell’impossibilità di farlo; non è rubare ai poveri? Una serva od un domestico hanno sprecato tutto il loro denaro, l’una nel comperare oggetti di vanità, l’altro nelle osterie e nei giuochi; se il buon Dio manda loro qualche malattia od infermità, sono obbligati di andar all’ospedale a mangiare il pane dei poveri; oppure aspetteranno che una persona caritatevole tenda loro la mano, dando ad essi quello che verrà a mancare ad altri che sono più disgraziati. Se contraggono matrimonio, eccoli ridotti in miseria insieme coi loro figliuoli. Perché tutto questo? Perché da giovani non hanno saputo metter nulla da parte. Non è vero, sorella mia, che se si riflettesse un po’, la vanità non andrebbe tant’alto? E il più desolante si è, che voi non solo sprecate un bene che poi vi mancherà, ma perdete la vostra anima. – Ma ecco un peccato tanto più deplorevole quanto è più comune: quello dei fanciulli e dei servitori che rubano ai loro genitori padroni. I fanciulli non devono mai nulla prendere ai genitori col pretesto che non è abbastanza. Quando i vostri genitori vi hanno nutriti, vestiti ed istruiti, non vi devono più nulla. Del resto quando un ragazzo ruba ai suoi genitori, lo si considera capace di tutto. Tutti lo fuggono e lo disprezzano. Un servo mi dirà: “Non vengo pagato delle mie fatiche, bisogna dunque che mi ricompensi. — Se non siete pagato delle vostre fatiche, amico mio, perché restate presso questi padroni? Quando vi siete presentato, sapevate quale era il vostro guadagno, e quanto potevate meritare; dovevate indirizzarvi dove avreste potuto guadagnare di più. E quelli che ricevono in custodia quanto i servi rubano ai loro padroni od i figli ai genitori, stiano bene attenti! Quando pure quegli oggetti fossero stati presso di loro solo cinque minuti: e quand’anche non ne conoscessero il valore, questi nasconditori sono obbligati a restituirli, sotto pena di dannarsi, se i colpevoli non li restituiscono essi stessi. Alcuni, compreranno qualche oggetto da un figlio di famiglia o da un domestico; ora, quando pure lo pagassero più di quello che vale, sono obbligati di restituire al padrone l’oggetto od il suo valore; altrimenti saranno gettati nell’inferno. Se avete consigliato ad una persona di rubare, quand’anche voi non ne aveste ricavato alcun profitto, se il ladro non restituisce, tocca a voi di farlo; altrimenti è inutile sperare il cielo. I furti più comuni si fanno nelle vendite e nelle compere. Entriamo nei particolari, affinché conosciate il male che avete fatto, e, nel medesimo tempo possiate correggervene. Quando portate a vendere le vostre derrate, vi si domanderà se le vostre uova ed il vostro burro sono freschi, e vi affretterete di rispondere: Sì; mentre sapete benissimo che è vero il contrario. Perché lo dite, se non per rubare due o tre soldi ad una povera madre di famiglia che, forse li ebbe in prestito per preparare il pranzo? Un’altra volta sarà vendendo il cotone. Voi avrete la precauzione di nascondere in mezzo il più piccolo ed il più brutto. Forse direte: Se non facessi così non ne venderei tanto. — Cioè se vi diportaste da buon Cristiano non rubereste come fate. Un’altra volta, vi siete accorto che nel conto vi fu dato più di quanto vi si doveva, ma non avete detto nulla. — Tanto peggio per quella persona; non è mio sbaglio. — Ah! amico mio, verrà un giorno in cui vi si dirà forse con più ragione: Tanto peggio per te!… Il tale vuol comperare da voi del grano, del vino o delle bestie, e vi domanderà se quel grano è buono. Senza esitare l’assicurate di sì. Il vino lo mescolate con dell’altro cattivo e lo vendete come se fosse buono. Se non siete creduto, giurate; e non una, ma anche venti volte date la vostra anima al demonio. Ah amico mio, non fa bisogno che ti affatichi tanto per darti a lui; già da molto tempo gli appartieni! Questa bestia, vi si chiederà, ha qualche difetto? Non dovete ingannarmi; ho preso in prestito questo denaro, e se mi ingannate sono in miseria. — No, no, rispondete, questa bestia è sanissima. Se la vendo, non lo faccio senza rincrescimento; se potessi altrimenti certo non la venderei. Ed infatti la vendete solo perché non val nulla, e non può più servirvi. — Io faccio come fanno tutti; peggio per chi resta ingannato. Sono stato ingannato e cerco d’ingannare, altrimenti perderei troppo. — Ma, amico, gli altri si dannano e bisogna che vi danniate anche voi? gli altri vanno all’inferno, e dovete proprio andarvi insieme? Voi preferite avere qualche soldo di più e andar a bruciare nell’inferno per tutta l’eternità? Ebbene! vi dico che se avete venduto una bestia con dei difetti nascosti, siete obbligati a ricompensare il compratore della perdita che quei difetti possono avergli recato; altrimenti vi dannerete. — Ah! se voi foste al nostro posto, fareste come noi. — Sì, senza dubbio, farei come voi se, come voi, volessi dannarmi; ma, volendo salvarmi, farei tutto il contrario di quello che voi fate. Altri passando per un prato, per un campo di rape, per un orto non si faranno scrupolo di riempire i loro grembiuli di erbe o di rape e di portar via i panieri e le tasche piene di frutta. I genitori vedranno ritornare i figli colle mani piene di cose rubate e li rimprovereranno ridendo: — Ehei! è troppo, sai! — F. M, se rubate ora un soldo, ora due, ben presto avrete accumulato la materia d’un peccato mortale. D’altra parte, potete commettere peccato mortale anche prendendo un centesimo, se avete intenzione di rubare tre lire. Che debbono dunque fare i genitori quando vedono i figli con qualche oggetto rubato? ecco. Debbono obbligarli ad andare essi stessi a restituirli a quelli cui li hanno rubati. Una o due volte basteranno per correggerli. Un esempio mostrerà come dovete essere fedeli in questo. Si racconta che un fanciullo dai nove ai dieci anni cominciava a commettere piccoli furti, come di frutta o d’altre cose di lieve valore. E andò sempre aumentando i suoi furti fino a che più tardi lasciò la vita sul patibolo. Prima di morire, domandò ai giudici, che si facessero venire i suoi genitori; quand’essi furono presenti: “O padre e madre sciagurati, esclamò, voglio che tutti sappiano che voi siete la causa della mia morte infame. Voi siete disonorati davanti al mondo; ma siete dei disgraziati! se m’aveste corretto quando cominciavo a commettere i miei piccoli furti, non avrei certo commessi quelli che mi hanno condotto su questo patibolo. „ Dico, F. M., che i genitori debbono essere molto circospetti riguardo ai loro figli, quando pure dimenticassero di aver un’anima da salvare. Si vede infatti, ordinariamente, che quali sono i genitori, tali sono i figli. Ogni giorno si sente dire: Il tale ha dei figli che ripeteranno quello che ha fatto lui quand’era giovane. — Questo non vi riguarda, mi direte, lasciateci tranquilli, non venite a disturbarci; noi non pensavamo più a questo e voi venite a ricordarcelo. Il fuoco dell’inferno non è dunque abbastanza rigoroso, e l’eternità abbastanza lunga, perché ci facciate soffrire così in questo mondo? — È vero, F. M., ma è perché non vorrei vedervi dannati. — Ebbene, peggio per noi; se noi facciamo il male, non ne porterete voi la pena. — Contenti voi, tanto meglio!… Altra volta, sarà un calzolaio che adopererà cuoio cattivo e filo scadente e lo farà pagare come buono. Oppure sarà un sarto, che col pretesto di non ricevere un buon prezzo di fattura, riterrà senza dir nulla un pezzo di stoffa. Dio mio! quanti ladri scoprirà la morte!… Ovvero un tessitore che guasta una parte del filo, piuttosto di affaticarsi a districarlo; oppure ne metterà di meno e, senza dir nulla, nasconderà quello che gli venne dato. Ecco una donna cui si darà della canapa da filare; essa ne getterà via una parte col pretesto che non è ben pettinata, poi ne nasconderà un poco per sé e, mettendo il filo in un luogo umido, il peso sarà ancora uguale. Essa forse non pensa che questo filo appartiene ad un povero domestico, il quale non potrà servirsene, perché già mezzo marcio: essa, dunque, sarà la causa di molte sue maledizioni contro il padrone che gli avrà dato questa canapa in compenso del salario; un pastore sa benissimo che non è permesso condurre a pascolare in quel prato od in quel bosco; non importa: gli basta non esser visto. Un altro sa che è proibito raccogliere il loglio tra quel grano, perché è fiorito; ed egli guarda se nessuno lo vede e vi entra. Ditemi, F. M., sareste contenti se il vostro vicino facesse così con voi? No, senza dubbio: ebbene credetemi: colui che… Se esaminiamo ora la condotta degli operai, ne troviamo una parte che sono ladri; e ne sarete subito convinti. Se si fanno lavorare a cottimo, sia a zappare, sia a scavare, sia per qualunque altro lavoro, ne faranno male la metà, e non mancheranno di farsi ben pagare. Presi a giornate, si accontentano di lavorar bene quando il padrone li osserva, e poi si mettono a chiacchierare o ad oziare. Un servo non si farà scrupolo di ricevere e trattar bene i suoi amici in assenza dei padroni pur sapendo che essi non lo tollererebbero. Altri fanno grosse elemosine per essere in voce di persone caritatevoli. Non dovrebbero invece farle col loro guadagno che sì spesso sciupano in vanità? Se questo vi è capitato, non dimenticate l’obbligo che avete di restituire a chi spetta quanto avete dato ai poveri all’insaputa e contro la volontà dei vostri padroni. Può esservi pure un primo servo cui il padrone ha affidata la sorveglianza sugli altri domestici o sugli operai, e che, domandato da loro darà ad essi vino o qualche altra cosa: attenti bene: se sapete dare, bisognerà saper restituire sotto pena di dannazione. Un uomo d’affari sarà stato incaricato di comperare del grano, del fieno o della paglia, e dirà al mercante: “Fatemi una quietanza su cui noterete pel mio padrone qualche misura di più di grano; dieci, dodici quintali di paglia e di fieno più di quanto m’avete dato. Ciò non può far danno. „ Ora se quel povero cieco fa una tale quietanza, è obbligato lui stesso a restituire il denaro che quest’uomo fa spendere in più al suo padrone, altrimenti deve risolversi ad andare a bruciare nell’inferno. – Se ci volgiamo ora dalla parte dei padroni, credo che non mancheremo di trovarvi dei ladri. Infatti, quanti padroni non danno ai loro dipendenti tutto ciò che è stato convenuto; e che, avvicinandosi la fine dell’anno fanno ogni possibile per licenziarli affine di non doverli pagare. Se una bestia muore, malgrado tutte le cure da parte di chi ne era incaricato, gliene riterranno il valore sul suo salario; così che quel poveretto avrà lavorato tutto l’anno, ed alla fine si troverà colle mani vuote. Quanti avendo promesso della tela, la faranno fare più corta o di filo peggiore, od anche la fanno aspettare per parecchi anni; così che bisogna citarli in giudizio per obbligarli a pagare. Quanti infine coltivando, falciando, mietendo oltrepassano i propri confini; oppure tagliano al loro vicino un alberello per fare il manico alla zappa, ovvero un vinciglio per legare il covone, o farne una corda per la loro carretta. Non avevo ragione di dire, F. M., che esaminando da vicino la condotta della gente del mondo, non troveremmo altro che ladri e mariuoli? Non mancate di esaminarvi su quanto ho detto; e se la vostra coscienza vi rimorde, affrettatevi a riparare il male che avete fatto, e mentre ne siete ancora in tempo, restituite subito, se potete, od almeno lavorate con tutte le vostre forze per restituire ciò che avete male acquistato. Ricordatevi di dire nelle vostre confessioni quante volte avete trascurato di restituire essendo in grado di farlo; poiché avendovene Dio dato il pensiero, sono tante grazie disprezzate. – Vi parlerò anche d’un furto assai comune nelle famiglie, quando certi eredi, al tempo della divisione, nascondono più roba che possono. Questo è un vero rubare e si è obbligati a restituire, altrimenti si è dannati. Vi ho detto in principio, che nulla è più comune della ingiustizia, e nulla è più raro della restituzione: sono pochi, come vedete, quelli che non hanno nulla sulla coscienza. Ebbene! dove sono quelli che restituiscono? Io non lo so. Eppure, F. M., quantunque siamo obbligati a restituire i beni mal acquistati sotto pena di dannarci, quando lo facciamo Dio non lascia di ricompensarcene. Un esempio ve lo proverà chiaramente. Un fornaio, che da molti anni aveva usato falsi pesi e false misure, volendo acquietare la sua coscienza, consultò il proprio confessore, che lo consigliò di usare, per qualche tempo, pesi un po’ più abbondanti. Essendosene sparsa la voce, il concorso dei clienti diventò grandissimo, e, sebbene guadagnasse poco, Dio permise che restituendo, aumentasse considerevolmente la sua fortuna.

III. — Ora, direte voi, possiamo sperare di conoscere, almeno superficialmente, il modo con cui possiamo commettere ingiustizia. Ma come ed a chi bisogna restituire? — Volete restituire? Ebbene! ascoltatemi un momento e lo saprete. Non bisogna accontentarsi di rendere la metà, né i tre quarti; ma tutto, se lo potete, altrimenti vi dannerete. Vi sono di quelli che, senza cercare il numero delle persone alle quali hanno recato danno, faranno qualche elemosina, o faranno celebrare qualche messa; e dopo questo, si crederanno sicuri in coscienza. È vero, le elemosine e le messe sono buonissime cose, ma bisogna che siano fatte col vostro denaro, e non con quello del vostro prossimo. Questo denaro non è vostro; rendetelo al suo padrone, e poi date del vostro, se volete; farete benissimo. Sapete come chiama queste elemosine S. Gio. Crisostomo? le elemosine di Giuda e del demonio. Quando Giuda ebbe venduto nostro Signore, vedendolo condannato, corse a restituire il denaro ai dottori; questi, sebbene avarissimi, non vollero accettarlo; ne comperarono un campo per seppellirvi i forestieri. — Ma, mi direte, quando i danneggiati sono morti, a chi bisogna restituire? Non si può ritenersi il denaro o darlo ai poveri? Amico, ecco ciò che dovete fare. Se hanno dei figli, dovete restituire a loro; se non ne hanno, ai parenti, agli eredi; se non hanno parenti né eredi, andate dal vostro pastore ed egli vi dirà ciò che dovete fare. Altri dicono: Io ho danneggiato il tale, ma egli è ricchissimo, soccorrerò una persona povera che ha molto maggior bisogno. — Amico, a questa persona date del vostro; ma restituite al vostro prossimo ciò che gli avete rubato. — Egli l’adoprerà malamente. — Ciò non v’importa: dategli il suo, pregate per lui e state tranquillo. Ahimè! oggi la gente del mondo è così avara, così attaccata ai beni della terra, che, credendo di non averne mai abbastanza, fa a chi sarà più accorto ed ingannerà meglio degli altri. Ma voi, F. M., non dimenticatevi che se per colpa vostra ad alcuno avete recato danno, quand’anche aveste dato il doppio ai poveri, se non restituirete al padrone ciò che avete rubato, vi dannerete. Io non so se la vostra coscienza è tranquilla; ne dubito molto … Ho detto che il mondo è pieno di ladri e di imbroglioni. I mercanti rubano ingannando coi pesi e colle misure; essi approfittano della semplicità d’una persona per vendere più caro, e per comperare a miglior prezzo; i padroni rubano ai loro dipendenti facendo perdere loro una parte del salario; altri, facendoli aspettare per un tempo considerevole, diminuendo perfino un giorno di malattia, come se avessero preso il male in casa di un vicino e non al loro servizio!… Da parte loro i domestici rubano ai padroni o non facendo il lavoro stabilito, o lasciandone rovinare colpevolmente gli averi; un operaio si fa pagare mentre il lavoro è fatto per metà. Quelli che tengono le osterie, questi serbatoi d’iniquità, porte d’inferno, calvari dove Gesù Cristo è incessantemente crocifisso, scuole infernali dove satana insegna la sua dottrina, dove si distruggono la religione e la morale, gli osti, dico, rubano il pane d’una povera donna e dei suoi figli dando del vino a questi ubbriaconi, che la domenica sprecano tutto il guadagno della settimana. Un mezzadro distrarrà mille cose per sé, prima di dividere col padrone, e non ne terrà conto. Dio mio, dove siamo? Quante cose da giudicare dopo la morte!… Se la loro coscienza grida troppo forte, costoro andranno dal ministro del Signore. Vorrebbero ottenere la remissione del loro debito; se invece vengono sollecitati a restituire, troveranno mille pretesti per provare che altri hanno recato danno anche a loro e che per ora non possono. Ah! io non so se il buon Dio si accontenterà delle vostre ragioni! Se voleste diminuire un po’ quelle vanità, quelle golosità, quei giuochi; andare un po’ meno all’osteria e al ballo e raddoppiare il vostro lavoro, avreste ben presto pagata una parte dei vostri debiti. Ricordatevi, che se non fate il possibile per restituire a ciascuno quanto gli dovete, qualsiasi penitenza facciate, non tralascerete di cadere nell’inferno: statene sicuri!… Troverete molti così ciechi da dire che i figli lo faranno dopo la loro morte. I vostri figli. amico mio, lo faranno al pari di voi. Del resto, volete che della vostr’anima abbiano più cura i vostri figli di voi? Vi dannerete; ecco ciò che vi toccherà. Ditemi, avete soddisfatto voi piccole ingiustizie dei vostri genitori? Ve ne siete ben guardati, ed i vostri poveri genitori sono all’inferno per non aver restituito quand’erano vivi, fidandosi troppo della vostra buona volontà. Infine, per tagliar corto, quanti tra quelli che m’ascoltano, incaricati dai loro genitori, forse più di venti anni fa, di far elemosine o celebrare messe, l’han fatto? se ne sono ben guardati! Preferiscono allargare le loro possessioni, frequentare i giuochi e le osterie, comperare vanità alle loro figliuole. – S. Antonino racconta che un usuraio preferì morire senza Sacramenti piuttosto che restituire ciò che non gli apparteneva. Egli non aveva che due figli; uno temeva Dio, l’altro no. Quello che si dava pensiero della salute della sua anima fu così commosso dallo stato sciagurato in cui era morto suo padre, che dopo aver usata una parte della sua fortuna per riparare le ingiustizie del padre, si fece monaco per non aver più nulla a cui pensare fuorché a Dio solo. L’altro invece dissipò tutto il suo denaro in stravizi e morì improvvisamente. Ne fu portata la notizia al religioso il quale si mise subito in orazione. Vide in spirito la terra spalancata e, nel suo centro, una profonda voragine da cui uscivano fiamme. In mezzo a queste fiamme suo padre e suo fratello bruciavano e si maledicevano l’un l’altro. Il padre malediceva il figlio, poiché volendo egli lasciargli molte ricchezze, non aveva temuto di dannarsi per lui, ed il figlio rimproverava al padre i cattivi esempi ricevuti. Dovrò io parlarvi di quelli che aspettano fino alla loro morte prima di restituire? Vi proverò con due esempi che, in quel momento, o non lo vorrete, o, quand’anche lo vorreste, non lo potrete più.

1° Non lo vorrete. Si racconta che stando per morire un padre di numerosa famiglia, i suoi figli gli dissero: “Padre, lo sapete, queste ricchezze che ci lasciate, non sono nostre, bisognerebbe restituirle. — Figli miei, disse il padre, se restituissi tutto ciò che non è mio, non vi resterebbe quasi nulla. — Padre, piuttosto che vi danniate, noi preferiamo lavorare per guadagnarci da vivere. — No, figli miei, non voglio restituire; voi non sapete che cos’è l’esser poveri. — Se non restituite, andrete all’inferno. — No, non restituirò nulla. „ E morì dannato… Dio mio! quanto il peccato d’avarizia acceca l’uomo!

2° Ho detto che, in quel momento quand’anche il voleste, non lo potrete. Un missionario racconta che un padre, vedendo la sua fine prossima, fece venire i figli vicino al suo letto, e disse loro: “Figli miei, sapete che io ho danneggiato molta gente; se non restituisco sono perduto. Andate in cerca di un notaio che abbia da ricevere le mie disposizioni. — Ecchè! padre, gli risposero i figli, vorreste disonorare voi e noi, facendovi passare per uomo disonesto? Vorreste ridurci in miseria e costringerci a mendicare il pane? — Ma, figli miei, se non restituisco mi dannerò! „ Ed uno di quegli empi figliuoli non temette di dirgli: “Padre, voi dunque temete l’inferno? Via, si abitua a tutto: in otto giorni vi sarete già avvezzo… „ – Ebbene, F. M., che cosa concluderemo da tutto questo? Che voi siete estremamente ciechi! Voi perdete le vostre anime per lasciare qualche palmo di terra, o un po’ dibeni di fortuna ai vostri figli, i quali lungi, dall’esservene grati, si rideranno di voi, mentre voi brucerete nell’inferno. Finisco dicendo che siamo insensati non pensando che ad ammassare ricchezze, le quali ci rendono infelici mentre le accumuliamo, per tutto il tempo che le possediamo, quando le lasciamo ed anche per tutta l’eternità. Siamo più saggi, F. M., attacchiamoci a quei beni che ci accompagneranno nell’altra vita e formeranno la nostra felicità nei giorni senza fine: ciò che vi auguro…

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Esth XIV: 12; 13

Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis.

[Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]

Secreta

Tua, Dómine, propitiatióne, et beátæ Maríæ semper Vírginis intercessióne, ad perpétuam atque præséntem hæc oblátio nobis profíciat prosperitátem et pacem.

[Per la tua clemenza, Signore, e per l’intercessione della beata sempre vergine Maria, l’offerta di questo sacrificio giovi alla nostra prosperità e pace nella vita presente e nella futura.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVI: 6

Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea.

[Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole.]

Postcommunio

Orémus.

Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium.

[Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA RESTITUZIONE

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla restituzione.

Reddito ergo quæ suntCæsaris, Cæsari: et quæ sunt Dei, Deo.

(MATTH. XXII, 21).

Dare a Dio quello ch’è di Dio, ed al prossimo quello che gli è dovuto; niente di più giusto, niente di più ragionevole. Se tutti i Cristiani seguissero questa via, l’inferno non avrebbe più alcun abitatore, ed il cielo sarebbe popolato. Ah! volesse Iddio, ci dice il gran S. Ilario, che gli uomini non perdessero mai di vista questo precetto! Ma, ahimè! quanti si illudono! Essi passano la loro vita rubando all’uno, ed ingannando l’altro. Si, F. M., non vi è cosa più comune delle ingiustizie, non vi è cosa più rara delle restituzioni. Il profeta Osea aveva ben ragione di dire che le ingiustizie ed i latrocini coprivano la faccia della terra, e che assomigliavano al diluvio che aveva distrutto l’universo  (Os. IV, 2). E disgraziatamente quanti sono i colpevoli altrettanti sono quelli che non vogliono riconoscersi tali. Mio Dio! quanti ladri farà scoprire la morte! Per convincervene, F. M., vi mostrerò:

1° che i beni di mal acquisto non portano fortuna;

in quanti modi si reca danno al prossimo;

3° come ed a chi dovete restituire ciò che non vi appartiene.

I. — Noi siamo sì ciechi, che passiamo tutta la vita nel cercare di ammassare beni che poi, nostro malgrado, perderemo, e trascuriamo quelli che potremo conservare per tutta l’eternità. Le ricchezze di questo mondo per un Cristiano sono degne soltanto di disprezzo, e noi invece corriamo precisamente dietro ad esse. L’uomo è dunque un insensato, perché agisce in un modo tutto contrario al fine per cui Dio l’ha messo al mondo. Non voglio parlarvi, F. M., di coloro che prestano ad usura, al sette, otto, nove e dieci per cento; lasciamoli da una parte. Bisognerebbe, per far sentir loro tutta l’enormità della loro ingiustizia e crudeltà, che uno di quei vecchi usurai, che da tre o quattro mila anni bruciano nell’inferno, venisse a raccontar loro i tormenti che soffre a causa delle sue innumerevoli ingiustizie. No, non è questo il mio assunto. Costoro sanno che fanno male e che Dio non perdonerà loro mai, se non restituiscono a quelli che hanno danneggiato. Tutto ciò che potrei dire servirebbe soltanto a renderli più colpevoli. Entriamo invece in certi particolari che riguardano la maggior parte dei Cristiani. – Dico anzitutto che i beni acquistati ingiustamente non arricchiscono mai chi li possiede. Al contrario saranno una sorgente di maledizioni per tutta la sua famiglia. Mio Dio! quanto è cieco l’uomo! Egli è perfettamente convinto che viene in questo mondo per brevissimo tempo; ad ogni istante ne vede partir uomini più giovani e più robusti di lui; non importa; ciò non gli fa aprire gli occhi. Può ben dirgli lo Spirito Santo, per bocca di Giobbe, che egli è venuto nel mondo sprovvisto di tutto e che se ne andrà nella stessa condizione (Job I, 21); che tutti questi beni dietro ai quali egli corre, lo abbandoneranno quando meno v i penserà; tutto questo non vale a trattenerlo. S. Paolo afferma che chi vuol diventar ricco per vie ingiuste, non tarerà a cadere in grandi traviamenti; e di più non vedrà mai la faccia di Dio (I Tim. VI, 9). È questo è così vero, che un avaro, od anche, se volete, una persona arricchita per frode o con male arti, senza un miracolo della grazia non si convertirà quasi mai, tanto questo peccato acceca chi lo commette. Ascoltate come san Agostino parla a quelli che ritengono beni altrui (Ep CLIII ad Macedonium, c. VI, 22). Potrete ben confessarvi, dice, far penitenze e piangere i vostri peccati, se non restituite, quando potete, Iddio non vi perdonerà mai. Tutte le vostre confessioni e comunioni non saranno che sacrilegi l’un sopra l’altro. O rendete quello che non è vostro, o risolvetevi di andar a bruciare nell’inferno.Lo Spirito Santo non ci proibisce solo di prendere e desiderare i beni del prossimo, manon vuole nemmeno che li guardiamo nel timore che questa vista vi ci faccia mettere sopra le mani. Il profeta Zaccaria ci dice chela maledizione di Dio resterà sulla casa di chi ruba, fino a che essa non sarà distrutta (Zach. V, 3,4). Ed io aggiungo, che non solo i beni acquistati con frode o con male arti non vi daranno alcun profitto,ma saranno la causa che abbiate da perdere anche quelli legittimamente acquistati, e che si abbrevino i vostri giorni. Se ne dubitato, ascoltatemi un momento e ne sarete persuasi. Leggiamo nella sacra Scrittura, che il re Acabbo volendo allargare il suo giardino, andò da un uomo chiamato Naboth, per domandargli di vendergli la sua vigna. “No, gli disse Naboth, è l’eredità dei miei padri, e voglio conservarla.„ Il re fu così indispettito per questo rifiuto, che ne ammalò. Non poteva né bere, né ì mangiare, e si mise a letto. La regina venne, e gli domandò la causa della sua malattia. Le rispose il re che voleva allargare il giardino, e che Naboth erasi rifiutato di vendergli la sua vigna. « Ecchè! disse la regina, dov’è dunque la vostra autorità? Non inquietatevi tanto; io ve la farò avere. E s’affrettò a cercare qualcuno che, corrotto con denaro, testimoniasse che Naboth aveva bestemmiato contro Dio e contro Mosè. Il povero uomo poté ben difendersi, affermando che era innocente del delitto di cui lo si accusava, invano; non gli si volle credere: fu trascinato dalla folla e lapidato. La regina vistolo immerso nel proprio sangue, corse dal re annunciandogli di impossessarsi pure della vigna, poiché colui che aveva ardito rifiutargliela era morto. A questa notizia il re guarì, e corse come un pazzo ad impossessarsi della vigna. Lo sciagurato non pensava che qui appunto l’aspettasse Iddio per punirlo. Il Signore chiamò il suo profeta Elia, e gli ordinò d’andare dal re a dirgli da parte sua che, nel luogo stesso dove i cani avevano leccato il sangue di Naboth, leccherebbero anche il suo, e che nessuno dei suoi figli regnerebbe dopo di lui. Lo mandò poi dalla regina Gezabele per annunziarle che, in punizione del suo delitto, i cani la mangerebbero. Come il profeta aveva predetto, così avvenne. Il re fa ucciso in un combattimento, ed i cani leccarono il suo sangue. Il nuovo re chiamato Jehu, entrando nella città, vide una donna affacciata ad una finestra. Ella s’era vestita come una dea, sperando affascinare il cuore del nuovo re. Questi domandò chi fosse. Gli fu risposto che era la regina Gezabele. Subito comandò di gettarla dalla finestra; e uomini e cavalli la calpestarono sotto i loro piedi. Alla sera, quando si volle darle sepoltura, non si trovò di lei che qualche misero avanzo: i cani avevano mangiato il resto. “Ah! esclamò Jehu, ecco adempiuta la parola del profeta.„ (IV, Reg. IX). Il re Acabbo lasciava settanta figli, tutti principi; il nuovo re ordinò che a tutti fosse mozzata la testa, e che le teste fossero raccolte in panieri alle porte della città, per mostrare con uno spettacolo così orrendo quali disgrazie attirino sui figli le ingiustizie dei genitori (IV, Reg. X, 7) . S. Vittore ci racconta un esempio che non è meno sorprendente. Un uomo, egli dice, era entrato nel granaio del suo vicino per rubargli del grano. Nel momento in cui s’impadroniva del sacco, il demonio s’impadronì di lui, e lo trascinò davanti a tutti come se lo portasse all’inferno (Vedere nel RIBADENEIRA, al 26 Febbraio la vita di san Vittore d’Arcis-sur-Aube.). Dio mio, come è cieco l’uomo, che vuol dannarsi per sì poca cosa. – La seconda ragione che ci deve far temere d’impossessarci dei beni altrui, è che questa colpa ci trascina all’inferno. Il profeta Zaccaria dice che, in una visione, Iddio gli fece vedere un libro, dove era scritto che mai i rapitori dei beni altrui vedranno Dio, e che essi saranno gettati nelle fiamme. Eppure, F. M., vi sono alcuni talmente ciechi che preferirebbero morire e dannarsi, anziché restituire le ricchezze mal acquistate, anche se la morte fosse sul punto di strapparle loro dalle mani. Un uomo aveva passato la sua vita rubando e saccheggiando… Aveva appena trent’anni, quando fu preso da una malattia, della quale poi morì. Uno dei suoi amici, vedendo ch’egli non domandava il sacerdote, andò egli stesso a cercarne uno. “Amico, gli dice il prete, mi sembrate molto aggravato. Non pensavate dunque a chiamarmi? Volete confessarvi? — Ah! Reverendo, rispose l’ammalato smarrito, mi credete dunque già spacciato? — Ma, amico, più conoscenza avrete, e meglio riceverete i Sacramenti. — Non me ne parlate; in questo momento sono stanco; quando starò meglio verrò io stesso in chiesa. — No, amico, se aveste a morire senza Sacramenti, ne sarei troppo addolorato. Siccome sono qui, non me ne andrò finché non vi siate confessato.„ Vedendovisi costretto, acconsente; ma come lo fa? come una persona che avendo dei beni altrui non vuol restituirli. Non ne dice nulla… – “Se peggiorerete verrò a portarvi il Viatico.„ Infatti l’ammalato si avvicina alla morte: si corre ad avvertire il prete che il suo penitente sta per spirare, ed egli si affretta ad accorrere. Quando l’ammalato sentì il campanello, domandò che cos’era, e sapendo che il signor Parroco gli portava il Viatico: “Ecché! esclamò, non vi avevo detto, che non volevo riceverlo? Ditegli pure che non venga avanti.„ Frattanto entrò il sacerdote, ed accostandosi al letto di lui, gli dice: “Voi non volete dunque ricevere il buon Dio, che vi consolerebbe, e che vi aiuterebbe a sopportare le vostre pene? — No, no, ho già fatto troppo male. — Ma scandalizzerete tutta la parrocchia. — Eh! che m’importa che tutti sappiano ch’io mi son dannato? — Se non volete ricevere i Sacramenti, non potrete essere sepolto cristianamente. — Un dannato merita forse di essere sepolto tra i santi? Quando il demonio si sarà impossessato della mia maledetta anima, gettate il mio corpo ai lupi, come quello d’un animale… „ E vedendo sua moglie piangente: “Tu piangi? consolati; se mi hai accompagnato per andare di notte a rubare ai vicini, non tarderai a raggiungermi nell’inferno. „ E gridava disperato: “Ah! orrori dell’inferno, aprite i vostri abissi, venite a strapparmi da questo mondo; io non posso più reggere. „ E muore con segni visibili di riprovazione. — Ma, mi direte, egli aveva certo commesso grandi peccati. — Ahimè! amico, se osassi, vi direi ch’egli faceva quello che fate quasi tutti; ora rubava un fascio di legna, ora una bracciata di fieno, ovvero un covone di grano.

II. — Se volessi, F. M., esaminare la condotta di quelli che sono qui presenti, forse non troverei altro che ladri. Vi stupisce questo? Ascoltatemi un momento e converrete con me che ciò è vero. S’io comincio coll’esaminare la condotta dei servitori, li trovo colpevoli verso i padroni e verso i poveri. I servi sono colpevoli verso i padroni e, per conseguenza obbligati a restituire, tutto il tempo di più dell’occorrente che hanno impiegato per riposarsi o che hanno sciupato nelle osterie; se hanno lasciato andar in rovina e rubare i beni dei loro padroni, e se potendo impedirlo non l’abbiano fatto. Parimente, se, un servo offrendo l’opera sua ha assicurato che era capace di far certi lavori, sapendo benissimo ch’egli non li conosceva o padrone della perdita che deriva dalla sua ignoranza o dalla sua debolezza. Di più, ruba ai poveri tutte le volte che spende il denaro nel giuoco, all’osteria, o in altre cose inutili. — Ma, mi direte, questo denaro è mio, è il mio guadagno. — Vi risponderò: Voi avete lavorato per guadagnarlo, è vero; eppure siete colpevoli. Ascoltatemi e capitemi bene. Forse i vostri genitori sono tanto poveri da essere obbligati a ricorrere alla carità pubblica; se voi aveste conservato il vostro guadagno, potreste sollevarli; siete nell’impossibilità di farlo; non è rubare ai poveri? Una serva od un domestico hanno sprecato tutto il loro denaro, l’una nel comperare oggetti di vanità, l’altro nelle osterie e nei giuochi; se il buon Dio manda loro qualche malattia od infermità, sono obbligati di andar all’ospedale a mangiare il pane dei poveri; oppure aspetteranno che una persona caritatevole tenda loro la mano, dando ad essi quello che verrà a mancare ad altri che sono più disgraziati. Se contraggono matrimonio, eccoli ridotti in miseria insieme coi loro figliuoli. Perché tutto questo? Perché da giovani non hanno saputo metter nulla da parte. Non è vero, sorella mia, che se si riflettesse un po’, la vanità non andrebbe tant’alto? E il più desolante si è, che voi non solo sprecate un bene che poi vi mancherà, ma perdete la vostra anima. – Ma ecco un peccato tanto più deplorevole quanto è più comune: quello dei fanciulli e dei servitori che rubano ai loro genitori padroni. I fanciulli non devono mai nulla prendere ai genitori col pretesto che non è abbastanza. Quando i vostri genitori vi hanno nutriti, vestiti ed istruiti, non vi devono più nulla. Del resto quando un ragazzo ruba ai suoi genitori, lo si considera capace di tutto. Tutti lo fuggono e lo disprezzano. Un servo mi dirà: “Non vengo pagato delle mie fatiche, bisogna dunque che mi ricompensi. — Se non siete pagato delle vostre fatiche, amico mio, perché restate presso questi padroni? Quando vi siete presentato, sapevate quale era il vostro guadagno, e quanto potevate meritare; dovevate indirizzarvi dove avreste potuto guadagnare di più. E quelli che ricevono in custodia quanto i servi rubano ai loro padroni od i figli ai genitori, stiano bene attenti! Quando pure quegli oggetti fossero stati presso di loro solo cinque minuti: e quand’anche non ne conoscessero il valore, questi nasconditori sono obbligati a restituirli, sotto pena di dannarsi, se i colpevoli non li restituiscono essi stessi. Alcuni, compreranno qualche oggetto da un figlio di famiglia o da un domestico; ora, quando pure lo pagassero più di quello che vale, sono obbligati di restituire al padrone l’oggetto od il suo valore; altrimenti saranno gettati nell’inferno. Se avete consigliato ad una persona di rubare, quand’anche voi non ne aveste ricavato alcun profitto, se il ladro non restituisce, tocca a voi di farlo; altrimenti è inutile sperare il cielo. I furti più comuni si fanno nelle vendite e nelle compere. Entriamo nei particolari, affinché conosciate il male che avete fatto, e, nel medesimo tempo possiate correggervene. Quando portate a vendere le vostre derrate, vi si domanderà se le vostre uova ed il vostro burro sono freschi, e vi affretterete di rispondere: Sì; mentre sapete benissimo che è vero il contrario. Perché lo dite, se non per rubare due o tre soldi ad una povera madre di famiglia che, forse li ebbe in prestito per preparare il pranzo? Un’altra volta sarà vendendo il cotone. Voi avrete la precauzione di nascondere in mezzo il più piccolo ed il più brutto. Porse direte: Se non facessi così non ne venderei tanto. — Cioè se vi diportaste da buon Cristiano non rubereste come fate. Un’altra volta, vi siete accorto che nel conto vi fu dato più di quanto vi si doveva, ma non avete detto nulla. — Tanto peggio per quella persona; non è mio sbaglio. — Ah! amico mio, verrà un giorno in cui vi si dirà forse con più ragione: Tanto peggio per te!… Il tale vuol comperare da voi del grano, del vino o delle bestie, e vi domanderà se quel grano è buono. Senza esitare l’assicurate di sì. Il vino lo mescolate con dell’altro cattivo e lo vendete come se fosse buono. Se non siete creduto, giurate; e non una, ma anche venti volte date la vostra anima al demonio. Ah amico mio, non fa bisogno che ti affatichi tanto per darti a lui; già da molto tempo gli appartieni! Questa bestia, vi si chiederà, ha qualche difetto? Non dovete ingannarmi; ho preso in prestito questo denaro, e se mi ingannate sono in miseria. — No, no, rispondete, questa bestia è sanissima. Se la vendo, non lo faccio senza rincrescimento; se potessi altrimenti certo non la venderei. Ed infatti la vendete solo perché non val nulla, e non può più servirvi. — Io faccio come fanno tutti; peggio per chi resta ingannato. Sono stato ingannato e cerco d’ingannare, altrimenti perderei troppo. — Ma, amico, gli altri si dannano e bisogna che vi danniate anche voi? gli altri vanno all’inferno, e dovete proprio andarvi insieme? Voi preferite avere qualche soldo di più e andar a bruciare nell’inferno per tutta l’eternità? Ebbene! vi dico che se avete venduto una bestia con dei difetti nascosti, siete obbligati a ricompensare il compratore della perdita che quei difetti possono avergli recato; altrimenti vi dannerete. — Ah! se voi foste al nostro posto, fareste come noi. — Sì, senza dubbio, farei come voi se, come voi, volessi dannarmi; ma, volendo salvarmi, farei tutto il contrario di quello che voi fate. Altri passando per un prato, per un campo di rape, per un orto non si faranno scrupolo di riempire i loro grembiuli di erbe o di rape e di portar via i panieri e le tasche piene di frutta. I genitori vedranno ritornare i figli colle mani piene di cose rubate e li rimprovereranno ridendo: — Ehei! è troppo, sai! — F. M, se rubate ora un soldo, ora due, ben presto avrete accumulato la materia d’un peccato mortale. D’altra parte, potete commettere peccato mortale anche prendendo un centesimo, se avete intenzione di rubare tre lire. Che debbono dunque fare i genitori quando vedono i figli con qualche oggetto rubato? ecco. Debbono obbligarli ad andare essi stessi a restituirli a quelli cui li hanno rubati. Una o due volte basteranno per correggerli. Un esempio mostrerà come dovete essere fedeli in questo. Si racconta che un fanciullo dai nove ai dieci anni cominciava a commettere piccoli furti, come di frutta o d’altre cose di lieve valore. E andò sempre aumentando i suoi furti fino a che più tardi lasciò la vita sul patibolo. Prima di morire, domandò ai giudici, che si facessero venire i suoi genitori; quand’essi furono presenti: “O padre e madre sciagurati, esclamò, voglio che tutti sappiano che voi siete la causa della mia morte infame. Voi siete disonorati davanti al mondo; ma siete dei disgraziati! se m’aveste corretto quando cominciavo a commettere i miei piccoli furti, non avrei certo commessi quelli che mi hanno condotto su questo patibolo. „ Dico, F. M., che i genitori debbono essere molto circospetti riguardo ai loro figli, quando pure dimenticassero di aver un’anima da salvare. Si vede infatti, ordinariamente, che quali sono i genitori, tali sono i figli. Ogni giorno si sente dire: Il tale ha dei figli che ripeteranno quello che ha fatto lui quand’era giovane. — Questo non vi riguarda, mi direte, lasciateci tranquilli, non venite a disturbarci; noi non pensavamo più a questo e voi venite a ricordarcelo. Il fuoco dell’inferno non è dunque abbastanza rigoroso, e l’eternità abbastanza lunga, perché ci facciate soffrire così in questo mondo? — E vero, F. M., ma è perché non vorrei vedervi dannati. — Ebbene, peggio per noi; se noi facciamo il male, non ne porterete voi la pena. — Contenti voi, tanto meglio!… Altra volta, sarà un calzolaio che adopererà cuoio cattivo e filo scadente e lo farà pagare come buono. Oppure sarà un sarto, che col pretesto di non ricevere un buon prezzo di fattura, riterrà senza dir nulla un pezzo di stoffa. Dio mio! quanti ladri scoprirà la morte!… Ovvero un tessitore che guasta una parte del filo, piuttosto di affaticarsi a districarlo; oppure ne metterà di meno e, senza dir nulla, nasconderà quello che gli venne dato. Ecco una donna cui si darà della canapa da filare; essa ne getterà via una parte col pretesto che non è ben pettinata, poi ne nasconderà un poco per sé e, mettendo il filo in un luogo umido, il peso sarà ancora uguale. Essa forse non pensa che questo filo appartiene ad un povero domestico, il quale non potrà servirsene, perché già mezzo marcio: essa, dunque, sarà la causa di molte sue maledizioni contro il padrone che gli avrà dato questa canapa in compenso del salario; Un pastore sa benissimo che non è permesso condurre a pascolare in quel prato od in quel bosco; non importa: gli basta non esser visto. Un altro sa che è proibito raccogliere il loglio tra quel grano, perché è fiorito; ed egli guarda se nessuno lo vede e vi entra. Ditemi, F. M., sareste contenti se il vostro vicino facesse così con voi? No, senza dubbio: ebbene credetemi: colui che… Se esaminiamo ora la condotta degli operai, ne troviamo una parte che sono ladri; e ne sarete subito convinti. Se si fanno lavorare a cottimo, sia a zappare, sia a scavare, sia per qualunque altro lavoro, ne faranno male la metà, e non mancheranno di farsi ben pagare. Presi a giornate, si accontentano di lavorar bene quando il padrone li osserva, e poi si mettono a chiacchierare o ad oziare. Un servo non si farà scrupolo di ricevere e trattar bene i suoi amici in assenza dei padroni pur sapendo che essi non lo tollererebbero. Altri fanno grosse elemosine per essere in voce di persone caritatevoli Non dovrebbero invece farle col loro guadagno che sì spesso sciupano in vanità? Se questo vi è capitato, non dimenticate l’obbligo che avete di restituire a chi spetta quanto avete dato ai poveri all’insaputa e contro la volontà dei vostri padroni. Può esservi pure un primo servo cui il padrone ha affidata la sorveglianza sugli altri domestici o sugli operai, e che, domandato da loro darà ad essi vino o qualche altra cosa: attenti bene: se sapete dare, bisognerà sapier restituire sotto pena di dannazione. Un uomo d’affari sarà stato incaricato di comperare del grano, del fieno o della paglia, e dirà al mercante: “Fatemi una quietanza su cui noterete pel mio padrone qualche misura di più di grano; dieci, dodici quintali di paglia e di fieno più di quanto m’avete dato. Ciò non può far danno. „ Ora se quel povero cieco fa una tale quietanza, è obbligato lui stesso a restituire il denaro che quest’uomo fa spendere in più al suo padrone, altrimenti deve risolversi ad andare a bruciare nell’inferno. – Se ci volgiamo ora dalla parte dei padroni, credo che non mancheremo di trovarvi dei ladri. Infatti, quanti padroni non danno ai loro dipendenti tutto ciò che è stato convenuto; e che, avvicinandosi la fine dell’anno fanno ogni possibile per licenziarli affine di non doverli pagare. Se una bestia muore, malgrado tutte le cure da parte di chi ne era incaricato, gliene riterranno il valore sul suo salario; così che quel poveretto avrà lavorato tutto l’anno, ed alla fine si troverà colle mani vuote. Quanti avendo promesso della tela, la faranno fare più corta o di filo peggiore, od anche la fanno aspettare per parecchi anni; così che bisogna citarli in giudizio per obbligarli a pagare. Quanti infine coltivando, falciando, mietendo oltrepassano i propri confini; oppure tagliano al loro vicino un alberello per fare il manico alla zappa, ovvero un vinciglio per legare il covone, o farne una corda per la loro carretta. Non avevo ragione di dire, F. M., che esaminando da vicino la condotta della gente del mondo, non troveremmo altro che ladri e mariuoli? Non mancate di esaminarvi su quanto ho detto; e se la vostra coscienza vi rimorde, affrettatevi a riparare il male che avete fatto, e mentre ne siete ancora in tempo, restituite subito, se potete, od almeno lavorate con tutte le vostre forze per restituire ciò che avete male acquistato. Ricordatevi di dire nelle vostre confessioni quante volte avete trascurato di restituire essendo in grado di farlo; poiché avendovene Dio dato il pensiero, sono tante grazie disprezzate. – Vi parlerò anche d’un furto assai comune nelle famiglie, quando certi eredi, al tempo della divisione, nascondono più roba che possono. Questo è un vero rubare e si è obbligati a restituire, altrimenti si è dannati. Vi ho detto in principio, che nulla è più comune della ingiustizia, e nulla è più raro della restituzione: sono pochi, come vedete, quelli che non hanno nulla sulla coscienza. Ebbene! dove sono quelli che restituiscono? Io non lo so. Eppure, F. M., quantunque siamo obbligati a restituire i beni mal acquistati sotto pena di dannarci, quando lo facciamo Dio non lascia di ricompensarcene. Un esempio ve lo proverà chiaramente. Un fornaio, che da molti anni aveva usato falsi pesi e false misure, volendo acquetare la sua coscienza, consultò il proprio confessore, che lo consigliò di usare, per qualche tempo, pesi un po’ più abbondanti. Essendosene sparsa la voce, il concorso dei clienti diventò grandissimo, e, sebbene guadagnasse poco, Dio permise che restituendo, aumentasse considerevolmente la sua fortuna.

III. — Ora, direte voi, possiamo sperare di conoscere, almeno superficialmente, il modo con cui possiamo commettere ingiustizia. Ma come ed a chi bisogna restituire? — Volete restituire? Ebbene! ascoltatemi un momento e lo saprete. Non bisogna accontentarsi di rendere la metà, né i tre quarti; ma tutto, se lo potete, altrimenti vi dannerete. Vi sono di quelli che, senza cercare il numero delle persone alle quali hanno recato danno, faranno qualche elemosina, o faranno celebrare qualche messa; e dopo questo, si crederanno sicuri in coscienza. È vero, le elemosine e le messe sono buonissime cose, ma bisogna che siano fatte col vostro denaro, e non con quello del vostro prossimo. Questo denaro non è vostro; rendetelo al suo padrone, e poi date del vostro, se volete; farete benissimo. Sapete come chiama queste elemosine S. Gio. Crisostomo? le elemosine di Giuda e del demonio. Quando Giuda ebbe venduto nostro Signore, vedendolo condannato, corse a restituire il denaro ai dottori; questi, sebbene avarissimi, non vollero accettarlo; ne comperarono un campo per seppellirvi i forestieri. — Ma, mi direte, quando i danneggiati sono morti, a chi bisogna restituire? Non si può ritenersi il denaro o darlo ai poveri? Amico, ecco ciò che dovete fare. Se hanno dei figli, dovete restituire a loro; se non ne hanno, ai parenti, agli eredi; se non hanno parenti né eredi, andate dal vostro pastore ed egli vi dirà ciò che dovete fare. Altri dicono: Io ho danneggiato il tale, ma egli è ricchissimo, soccorrerò una persona povera che ha molto maggior bisogno. — Amico, a questa persona date del vostro; ma restituite al vostro prossimo ciò che gli avete rubato. — Egli l’adoprerà malamente. — Ciò non v’importa: dategli il suo, pregate per lui e state tranquillo. Ahimè! oggi la gente del mondo è così avara, così attaccata ai beni della terra, che, credendo di non averne mai abbastanza, fa a chi sarà più accorto ed ingannerà meglio degli altri. Ma voi, F. M., non dimenticatevi che se per colpa vostra ad alcuno avete recato danno, quand’anche aveste dato il doppio ai poveri, se non restituirete al padrone ciò che avete rubato, vi dannerete. Io non so se la vostra coscienza è tranquilla; ne dubito molto … Ho detto che il mondo è pieno di ladri e di imbroglioni. I mercanti rubano ingannando coi pesi e colle misure; essi approfittano della semplicità d’una persona per vendere più caro, e per comperare a miglior prezzo; i padroni rubano ai loro dipendenti facendo perdere loro una parte del salario; altri, facendoli aspettare per un tempo considerevole, diminuendo perfino un giorno di malattia, come se avessero preso il male in casa di un vicino e non al loro servizio!… Da parte loro i domestici rubano ai padroni o non facendo il lavoro stabilito, o lasciandone rovinare colpevolmente gli averi; un operaio si fa pagare mentre il lavoro è fatto per metà. Quelli che tengono le osterie, questi serbatoi d’iniquità, porte d’inferno, calvari dove Gesù Cristo è incessantemente crocifisso, scuole infernali dove satana insegna la sua dottrina, dove si distruggono la religione e la morale, gli osti, dico, rubano il pane d’una povera donna e dei suoi figli dando del vino a questi ubbriaconi, che la domenica sprecano tutto il guadagno della settimana. Un mezzadro distrarrà mille cose per sé, prima di dividere col padrone, e non ne terrà conto. Dio mio, dove siamo? Quante cose da giudicare dopo la morte!… Se la loro coscienza grida troppo forte, costoro andranno dal ministro del Signore. Vorrebbero ottenere la remissione del loro debito; se invece vengono sollecitati a restituire, troveranno mille pretesti per provare che altri hanno recato danno anche a loro e che per ora non possono. Ah! io non so se il buon Dio si accontenterà delle vostre ragioni! Se voleste diminuire un po’ quelle vanità, quelle golosità, quei giuochi; andare un po’ meno all’osteria e al ballo e raddoppiare il vostro lavoro, avreste ben presto pagata una parte dei vostri debiti. Ricordatevi, che se non fate il possibile per restituire a ciascuno quanto gli dovete, qualsiasi penitenza facciate, non tralascerete di cadere nell’inferno: statene sicuri!… Troverete molti così ciechi da dire che i figli lo faranno dopo la loro morte. I vostri figli. amico mio, lo faranno al pari di voi. Del resto, volete che della vostr’anima abbiano più cura i vostri figli di voi? Vi dannerete; ecco ciò che vi toccherà. Ditemi, avete soddisfatto voi piccolo ingiustizie dei vostri genitori? Ve ne siete ben guardati, ed i vostri poveri genitori sono all’inferno per non aver restituito quand’erano vivi, fidandosi troppo della vostra buona volontà. Infine, per tagliar corto, quanti tra quelli che m’ascoltano, incaricati dai loro genitori, forse più di venti anni fa, di far elemosine o celebrare messe, l’han fatto? se ne sono ben guardati! Preferiscono allargare le loro possessioni, frequentare i giuochi e le osterie, comperare vanità alle loro figliuole. – S. Antonino racconta che un usuraio preferì morire senza Sacramenti piuttosto che restituire ciò che non gli apparteneva. Egli non aveva che due figli; uno temeva Dio, l’altro no. Quello che si dava pensiero della salute della sua anima fu così commosso dallo stato sciagurato in cui era morto suo padre, che dopo aver usata una parte della sua fortuna per riparare le ingiustizie del padre, si fece monaco per non aver più nulla a cui pensare fuorché a Dio solo. L’altro invece dissipò tutto il suo denaro in stravizi e morì improvvisamente. Ne fu portata la notizia al religioso il quale si mise subito in orazione. Vide in spirito la terra spalancata e, nel suo centro, una profonda voragine da cui uscivano fiamme. In mezzo a queste fiamme suo padre e suo fratello bruciavano e si maledicevano l’un l’altro. Il padre malediceva il figlio, poiché volendo egli lasciargli molte ricchezze, non aveva temuto di dannarsi per lui, ed il figliò rimproverava al padre i cattivi esempi ricevuti. Dovrò io parlarvi di quelli che aspettano fino alla loro morte prima di restituire? Vi proverò con due esempi che, in quel momento, o non lo vorrete, o, quand’anche lo vorreste, non lo potrete più.

1° Non lo vorrete. Si racconta che stando per morire un padre di numerosa famiglia, i suoi figli gli dissero: “Padre, lo sapete, queste ricchezze che ci lasciate, non sono nostre, bisognerebbe restituirle. — Figli miei, disse il padre, se restituissi tutto ciò che non è mio, non vi resterebbe quasi nulla. — Padre, piuttosto che vi danniate, noi preferiamo lavorare per guadagnarci da vivere. — No, figli miei, non voglio restituire; voi non sapete che cos’è l’esser poveri. — Se non restituite, andrete all’inferno. — No, non restituirò nulla. „ E morì dannato… Dio mio! quanto il peccato d’avarizia acceca l’ uomo!

2° Ho detto che, in quel momento quand’anche il voleste, non lo potrete. Un missionario racconta che un padre, vedendo la sua fine prossima, fece venire i figli vicino al suo letto, e disse loro: “Figli miei, sapete che io ho danneggiato molta gente; se non restituisco sono perduto. Andate in cerca di un notaio che abbia da ricevere le mie disposizioni. — Ecchè! padre, gli risposero i figli, vorreste disonorare voi e noi, facendovi passare per uomo disonesto? Vorreste ridurci in miseria e costringerci a mendicare il pane? — Ma, figli miei, se non restituisco mi dannerò! „ Ed uno di quegli empi figliuoli non temette di dirgli: “Padre, voi dunque temete l’inferno? Via, si abitua a tutto: in otto giorni vi sarete già avvezzo… „ – Ebbene, F. M., che cosa concluderemo da tutto questo? Che voi siete estremamente ciechi! Voi perdete le vostre anime per lasciare qualche palmo di terra, o un po’ di beni di fortuna ai vostri figli, i quali lungi, dall’esservene grati, si rideranno di voi, mentre voi brucerete nell’inferno. Finisco dicendo che siamo insensati non pensando che ad ammassare ricchezze, le quali ci rendono infelici mentre le accumuliamo, per tutto il tempo che le possediamo, quando le lasciamo ed anche per tutta l’eternità. Siamo più saggi, F. M., attacchiamoci a quei beni che ci accompagneranno nell’altra vita e formeranno la nostra felicità nei giorni senza fine: ciò che vi auguro…

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SULL’AMORE DEL PROSSIMO”

I SERMONI DEL CURATO D’ARS:

DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEY CURATO D’ARS

Vol. III, Marietti Ed. Torino-Roma, 1933~

Visto nulla osta alla stampa. Torino, 25 Novembre 1931.

Teol. TOMMASO CASTAGNO, Rev. Deleg.

Imprimatur.

C . FRANCISCUS PALEARI, Prov. Gen.

Proprietà è della traduzione (23-XI-07-10- 29-XII-32-15).

Sull’amore del prossimo.

“Vade, et tu fac similiter”.

(Luc. X, 37).

Un dottore della legge, narra S. Luca, si presentò a Gesù Cristo dicendogli per tentarlo: “Maestro, che cosa bisogna fare per ottenere la vita eterna?„ Gesù Cristo gli rispose:” Che cosa sta scritto nella legge, che cosa vi leggi?„ E l’altro rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze: ed il prossimo tuo come te stesso.„ — “Hai risposto bene, gli replicò Gesù Cristo: va, fa questo, ed avrai la vita eterna.„ Il dottore gli domandò poi chi fosse il suo prossimo, e chi dovesse amare come se stesso. Gesù Cristo gli propose questa parabola: “Un uomo andava da Gerusalemme a Gerico: cadde fra le mani dei ladri che non contenti di averlo spogliato, lo copersero di ferite e lo lasciarono mezzo morto sulla strada. Per caso passò di là un sacerdote che scendeva per la medesima via. Avendolo visto in così misero stato, non lo guardò nemmeno. Poi un levita, avendolo scorto, passò via parimente: ma un Samaritano che faceva la stessa strada, avendolo visto gli si avvicinò, e ne fu vivamente mosso a compassione: discese dal cavallo, e si mise ad aiutarlo con ogni suo mezzo. Lavò le sue ferite con olio e vino, le fasciò, e messolo sul suo cavallo lo condusse ad un albergo, dove ordinò al padrone di prenderne cura, dicendogli che se il danaro datogli non bastava, al ritorno gli darebbe ciò che avesse speso di più. „ Gesù Cristo disse al dottore “Quale dei tre credi tu sia stato prossimo a quest’uomo che cadde nelle mani dei ladri?„ Il dottore gli rispose: “Credo sia colui che gli ha usato misericordia.„ — “Ebbene va, gli disse Gesù Cristo, fa altrettanto ed avrai la vita eterna.„ Ecco F. M., il modello perfetto della carità che dobbiamo avere pel nostro prossimo. Vediamo quindi, F. M., se abbiamo questa carità che ci assicura la vita Eterna. – Ma, per meglio farvene sentire la necessità, vi mostrerò che tutta la nostra religione non è che falsità, e tutte le nostre virtù non sono che larve, e noi non siamo che ipocriti davanti a Dio, se non abbiamo questa carità universale per tutti senza distinzione: cioè per i buoni come per i cattivi, per i poveri come per i ricchi, per tutti coloro che ci fanno del male come per coloro che ci fanno del bene. No, F . M., non vi è virtù che meglio della carità ci faccia conoscere se siamo figli di Dio! e l’obbligo che abbiamo di amare il nostro prossimo è così grande, che Gesù Cristo ce ne fa un comandamento, che mette subito dopo quello col quale ci ordina di amar Lui con tutto il nostro cuore. Ci dice che tutta la legge ed i profeti son compresi nel comando di amare Dio e il prossimo.(Matt. XXII, 40). Sì, F. M., dobbiamo considerare questo dovere come il più universale, il più necessario ed essenziale alla religione e alla nostra salvezza; perché adempiendo questo comandamento adempiamo tutti gli altri. S. Paolo ci dice che gli altri comandamenti ci proibiscono l’adulterio, il furto, le ingiurie e il dire il falso in testimonio: se amiamo il nostro prossimo non faremo niente di tutto questo, perché l’amore che portiamo al nostro prossimo non può soffrire che gli facciamo alcun male (Rom. XIII, 9, 10). Dico anzitutto, che: – 1° questo comandamento che ci ordina di amare il nostro prossimo, è il più necessario alla nostra salvezza, poiché S. Giovanni ci dice che se non amiamo i nostri fratelli, cioè gli uomini, siamo in istato di riprovazione. Vediamo altresì che Gesù Cristo ha tanto a cuore l’adempimento di questo comandamento, che ci dice che solo dall’amore che avremo gli uni per gli altri Egli ci riconoscerà per suoi figli (Giv. XIII, 35). – 2° Affermo inoltre, F. M., che questo obbligo così grande di amarci gli uni gli altri, ci è imposto perché abbiamo tutti il medesimo Creatore, tutti la stessa origine; siamo tutti d’una stessa famiglia, della quale Gesù Cristo è il padre, e tutti portiamo la sua immagine e somiglianza; siamo tutti creati per uno stesso fine, che è la gloria eterna; e tutti fummo redenti dalla passione e morte di Gesù Cristo. Dopo di ciò, F. M., non possiamo rifiutarci di amare il nostro prossimo, senza offendere Gesù Cristo in persona che ce lo comanda sotto minaccia di dannazione eterna. S. Paolo ci dice che avendo tutti una stessa speranza, la vita eterna, uno stesso Signore, una stessa fede, uno stesso battesimo ed uno stesso Dio che è Padre di tutti gli uomini, dobbiamo amare tutti gli uomini come noi stessi se vogliamo piacere a Gesù Cristo e salvare le anime nostre (Ephes. IV, 2-6). Ma, forse chiederete, in che consiste adunque l’amore che dobbiamo al nostro prossimo?

— F. M., esso consiste in tre cose:

1 ° nel voler il bene di tutti; 2° nel farne loro ogni qual volta il possiamo; 3° nel sopportare, scusare e nascondere i loro difetti. Ecco, F. M., la vera carità dovuta al prossimo, ed il vero segno d’una vera carità, senza la quale non possiamo né piacere a Dio né salvare le anime nostre.

1° Dobbiamo desiderare bene a tutti, e sentirci afflitti davvero quando sappiamo che accade al nostro prossimo qualche sventura, perché dobbiamo considerare tutti gli uomini, anche i nemici, come nostri fratelli: dobbiamo usare maniere belle ed affabili verso tutti: non invidiare coloro che stanno meglio di noi; amare i buoni per le loro virtù, ed i cattivi perché diventino buoni: augurare la perseveranza ai primi e la conversione ai secondi. Se un uomo è gran peccatore, possiamo odiare il peccato che è opera dell’uomo e del demonio; ma bisogna amare l’uomo che è immagine di Dio.

2° Dobbiamo far del bene a tutti, almeno quanto possiamo: e lo si fa in tre maniere, che si riferiscono ai beni del corpo, dell’onore e dell’anima. Riguardo ai beni del corpo non dobbiamo mai recar danno al prossimo, né impedirgli di fare un guadagno anche se questo potesse esser nostro. Non vi sono Cristiani così accetti a Dio come quelli che hanno compassione pei disgraziati. Vedete S. Paolo: ci dice che piangeva coi piangenti, e gioiva con chi era contento Quanto all’onore del prossimo, dobbiamo guardarci bene dal nuocere alla sua riputazione con maldicenze e molto meno con calunnie. Se possiamo impedire quelli che parlano male, dobbiamo farlo; se non possiamo, dobbiamo lasciarli od almeno dire tutto il bene possibile di quelle persone. Ma quanto ai beni dell’anima, che sono cento volte più preziosi di quelli del corpo, possiamo loro procurarli pregando per loro, allontanandoli dal male coi nostri consigli, e soprattutto coi buoni esempi: vi siamo specialmente obbligati verso coloro coi quali viviamo. I padri e le madri, i padroni e le padrone vi sono obbligati in modo particolare per il conto che dovranno rendere a Dio dei loro figli e dei loro servi. Ahimè! F. M., si può dire che i padri e le madri amano i loro figli, quando li vedono vivere così indifferenti per ciò che riguarda la salvezza delle anime loro, e non muovono un dito? Ahimè! F. M., un padre ed una madre, che avessero la carità che debbono avere pei loro figli, potrebbero vivere senza piangere dì e notte sullo stato miserando dei loro figliuoli che sono in peccato, che vivono, purtroppo, da reprobi, che non sono più pel cielo, ma sono invece per l’inferno? … Ahimè! F. M., come desidereranno di procurare la loro salvezza se non pensano neppure alla propria? Davvero, F. M., quanti padri e madri che dovrebbero gemere e pregare continuamente per la condizione dei loro miseri figli, li distraggono invece dal bene e li avviano al male parlando ad essi dei torti, delle offese, delle ingiurie, che hanno loro detto o fatto i vicini, della lor mala fede, dei mezzi impiegati per vendicarsi: il che spinge spesso i figli a volersi essi pure vendicare, od almeno a conservare l’odio nel cuore. Oh! F. M., quanto i primi Cristiani erano ben lontani da ciò, perché comprendevano il valore di un’anima! F. M., se un padre ed una madre conoscessero il valore d’un’anima, potrebbero con tanta indifferenza lasciar perdere quelle dei loro figli o domestici? Potrebbero far loro trascurare la preghiera, per farli lavorare? Avrebbero il coraggio di farli mancare alle sacre funzioni? Mio Dio! che risponderanno a Gesù Cristo quand’Egli mostrerà loro che hanno preferito una bestia all’anima dei loro figli? Ah! che dico? un pugno di fieno! O povera anima, quanto poco sei stimata! No, no, F. M., questi padri e queste madri ciechi ed ignoranti, giammai hanno compreso che la perdita dell’anima è un male più grande che la distruzione di tutte le creature che esistono sulla terra. Giudichiamo, F. M., della dignità d’un’anima da quella degli Angeli: un Angelo è così perfetto che quanto vediamo sulla terra od in cielo è meno d’un grano di polvere in confronto al sole: eppure per quanto perfetti siano gli Angeli, non hanno costato a Dio che una parola: mentre un’anima ha costato il prezzo del suo Sangue adorabile. Il demonio per tentare il Salvatore gli offerse tutti i regni del mondo, dicendogli: “Se vuoi prostrarti davanti a me, ti darò tutti questi beni (Matt. IV, 9): „ il che ci mostra che un’anima è infinitamente più preziosa agli occhi di Dio, ed anche del demonio, che non tutto l’universo con quanto contiene (Matt. XVI, 26). Ah! quale vergogna per questi padri e queste madri che stimano l’anima dei loro figli meno di quanto le stima il demonio stesso! Sì, F. M., la nostra anima ha un valore così grande che, dice S. Giovanni Crisostomo, se vi fosse stato anche un sol uomo sulla terra, la sua anima è così preziosa agli occhi di Gesù Cristo, che non avrebbe stimato indegno di sé il morire per salvarla. ” Sì, dice egli, un’anima è sì cara al suo Creatore, che, se essa l’amasse, Egli annienterebbe i cieli piuttosto che lasciarla perire.„ —” 0 mio corpo, esclamava S. Bernardo, quanto sei onorato di albergare un’anima così bella! „ Ditemi, F. M., se foste stati ai piedi della croce, ed aveste raccolto in un vaso il Sangue adorabile di Gesù Cristo, con qual rispetto l’avreste conservato? Ora, F. M., dobbiamo avere altrettanto rispetto e cura per conservare l’anima nostra, perché essa è costata tutto il sangue di Gesù Cristo. “Dacché ho riconosciuto, ci dice S. Agostino, che la mia anima è stata redenta col sangue d’un Dio, ho deciso di conservarla a costo pure della mia vita, e di non ridonarla mai al demonio col peccato. „ Ah! padri e madri, se foste ben convinti che siete i custodi delle anime dei figli vostri, potreste lasciarle perire con tanta indifferenza? Mio Dio, quante persone dannate per aver lasciato perdere qualche povera anima, ciò che, volendo, avrebbero potuto impedire! No, F. M., non abbiamo la carità che dovremmo avere gli uni per gli altri, e soprattutto pei nostri figli e domestici. – Leggiamo nella storia che al tempo dei primi Cristiani, quando gli imperatori pagani li interrogavano per sapere chi fossero, rispondevano: “Ci domandate che cosa siamo, eccolo: non formiamo che un solo popolo ed una sola famiglia, unita insieme dai vincoli della carità: Quanto ai nostri beni, sono tutti in comune: chi ha dà a chi non possiede; nessuno si lamenta, nessuno si vendica, nessuno dice male dell’altro o fa male ad alcuno. Noi preghiamo gli uni per gli altri, ed anche per i nemici; invece di vendicarci facciamo del bene a chi ci fa del male, benediciamo quelli che ci maledicono. „ Ah! F. M., dove sono quei tempi felici? Ahimè! quanti Cristiani al presente non hanno che amore per se stessi, niente pel prossimo! –  Volete sapere, F. M., che cosa sono i Cristiani dei nostri giorni? Ecco, ascoltatemi. Se due persone maritate sono del medesimo umore, dello stesso carattere, ovvero hanno le medesime inclinazioni, voi le vedete che amandosi vivono insieme: questo non è cosa rara. Ma se l’umore od il carattere non si accordano, non v’è più pace, amicizia, carità, prossimo. Ahimè! F. M., sono Cristiani che non hanno che una falsa religione: amano il loro prossimo solo quando esso possiede le loro inclinazioni, o favorisce i loro sentimenti ed interessi, altrimenti non possono più vedersi, né tollerarsi in compagnia: bisogna separarsi, si dice, per avere la pace e salvare l’anima propria. Andate, poveri ipocriti, andate, separatevi da quelli che non sono, come dite, del vostro carattere, e coi quali non potete vivere: non potete allontanarvi tanto da essi quanto già lo siete da Dio. Andate, la vostra religione non è che apparenza, e voi stessi non siete che dei riprovati. Non avete mai conosciuto né la vostra religione, né ciò che vi comanda, nè la carità che dovete avere pel vostro fratello per piacere a Dio e salvarvi. Non è difficile amare quelli che ci amano, e che sono del nostro parere in quanto diciamo o facciamo, perché in ciò non facciamo nulla di più dei pagani, che facevano altrettanto. S. Giacomo ci dice (Giac. II, 2, 3): “Se fate bella accoglienza ad un ricco, e disprezzate il povero; se salutate con garbo chi vi ha fatto del bene, mentre appena salutate chi vi ha insultato, voi né adempite la legge, né avete la carità che dovete avere: non fate niente di più di coloro che non conoscono il buon Dio. „ — Ma, mi direte, come dobbiamo adunque amare il nostro prossimo? — Eccolo. S. Agostino ci dice che dobbiamo amarlo come Gesù Cristo ci ama: Egli non ha ascoltato né la carne né il sangue, ma ci ha amati per santificarci e meritarci la vita eterna. Noi dobbiamo augurare e desiderare al nostro prossimo tutto il bene che possiamo desiderare per noi stessi. Sì, F. M., non conosceremo di essere sulla strada del cielo e di amare veramente il buon Dio, se non quando trovandoci con persone interamente opposte al nostro carattere e che sembrano contraddirci in tutto, tuttavia le amiamo come noi stessi, le vediamo di buon grado, ne parliamo bene e mai male, cerchiamo la loro compagnia, le preveniamo, e rendiamo loro servizi, a preferenza di tutti quelli che ci interessano e non ci contraddicono in nulla. Se facciamo questo, possiamo sperare che l’anima nostra sia nell’amicizia di Dio, e che amiamo il nostro prossimo cristianamente. Ecco la regola ed il modello che Gesù Cristo ci ha lasciato e che tutti i santi hanno riprodotto: non inganniamoci, non v’ha altra via che ci conduca al cielo. Se non fate questo, non dubitate un solo istante che voi camminate per la via della perdizione. Andate, poveri ciechi: pregate, fate penitenza, assistete alle funzioni sacre, frequentate i Sacramenti tutti i giorni, se vi piace: date tutta la vostra sostanza a quelli che vi amano, non per questo sfuggirete d’andar a bruciare nell’inferno dopo la vostra vita! Ahimè! F. M., quanto è scarsa la vera divozione, quante divozioni invece di capriccio, d’inclinazione! Vi sono di quelli che danno tutto, e sono pronti a tutto sacrificare, quando si tratta di persone che loro convenga di trattar così o che essi amano. Ahimè! pochi hanno quella carità che piace a Dio e conduce al cielo! F. M., volete un bell’esempio di carità cristiana? eccovene uno che potrà servirvi di modello per tutta la vostra vita. Si racconta nella storia dei Padri del deserto (Vita dei Padri del deserto, t. IV, pag. 23. Storia di Eulogio d’Alessandria e del suo lebbroso), che un solitario incontrò un giorno per via un povero storpio, coperto di ulceri e di putredine: era in istato così miserabile da non poter né guadagnarsi la vita, e neppur trascinarsi. Il solitario, mosso a compassione, lo portò nella sua colletta, e gli diede tutti i conforti possibili. Avendo il povero riprese le forze, il solitario gli disse: “Volete, fratello mio, restare con me? farò quanto potrò per nutrirvi, e pregheremo e serviremo il buon Dio insieme. „ — “Oh! qual gioia mi date, dissegli il povero; quanto son felice di trovare nella vostra carità un sollievo alla mia miseria!„ Il solitario che stentava già tanto a guadagnarsi da vivere, raddoppiò il lavoro per poter nutrire il povero il meglio che potesse, ed assai meglio di se stesso. Ma, dopo qualche tempo, il povero cominciò a mormorare contro il suo benefattore, lamentandosi che lo nutriva troppo male. ” Ahimè! caro amico, gli disse il solitario, vi nutro meglio di me, non posso fare di più per voi. „ Alcuni giorni dopo, l’ingrato ricominciò i suoi lamenti, e lanciò contro il benefattore un torrente d’ingiurie. Il solitario soffrì tutto con pazienza, senza rispondere. Il povero si vergognò d’aver parlato in tal modo ad un uomo così santo, che non gli faceva che del bene, e gli domandò scusa. Ma ricadde bentosto nelle stesse impazienze, e concepì un tal odio contro il buon solitario, che nol poteva più sopportare. “Sono stanco di vivere con te, voglio che tu mi riporti dove m’hai trovato; non son uso ad esser nutrito così male… Il solitario gli domandò perdono, promettendogli che cercherebbe di trattarlo meglio. Il buon Dio gli ispirò d’andare da un caritatevole benestante vicino per domandargli del cibo migliore pel suo storpio. Il benestante, mosso a compassione, gli disse di venire ogni giorno a prendere il vitto. Il povero sembrò contento: ma dopo alcune settimane, ricominciò a fare nuovi e pungenti rimproveri al solitario. ~ Va, gli diceva, tu sei un ipocrita, fai mostra di cercar l’elemosina per me, ed invece lo fai per te: tu mangi la parte migliore di nascosto, e non mi dai che i tuoi avanzi. „ — “Ah! amico mio, dissegli il solitario, mi fate torto. vi assicuro che non domando mai niente per me , che non tocco neppur un briciolo di quanto mi si dà per voi: se non siete contento dei servizi che vi rendo, abbiate almeno pazienza per amore di Gesù Cristo, aspettando ch’io faccia meglio. „ — ” Va, rispose il povero, non ho bisogno delle tue esortazioni, „ e, preso un sasso, lo scagliò alla testa del solitario, che appena poté evitarlo. Di poi il tristo, preso un grosso bastone, di cui servivasi per trascinarsi, gli diede un colpo così forte da gettarlo a terra. “Il buon Dio vi perdoni, dissegli il solitario; da parte mia, per amor di Gesù Cristo vi perdono i cattivi trattamenti che mi usate. „ — “Dici che mi perdoni, ma non è che a fior di labbra; perché so che tu vorresti vedermi morto. „ — “Vi assicuro, amico mio, dissegli dolcemente il solitario, che è con tutto il mio cuore che vi perdono. „ E volle abbracciarlo per dimostrargli che l’amava. Ma il miserabile lo prese alla gola, gli graffiò il viso colle unghie, e tentava strangolarlo. Essendosi il solitario svincolato dalle sue mani, il povero gli disse: “Va pure, ma non morrai che per mano mia. „ Il solitario, sempre preso da compassione e ripieno di carità veramente cristiana, portò pazienza con lui per tre o quattro anni. Durante questo tempo, Dio solo seppe quanto ebbe a soffrire da parte del povero. Questi gli diceva ad ogni momento di riportarlo al luogo dove l’aveva trovato, che preferiva morir di fame o di freddo, od esser divorato dalle belve piuttosto che vivere con lui. Il solitario non sapeva a qual partito appigliarsi: da una parte, la carità gli dimostrava che, riportandolo al posto dove l’aveva trovato, sarebbe morto di miseria: dall’altra, temeva di perder la pazienza nella prova. Pensò d’andar a consultare S. Antonio sul partito da prendere per essere più accetto a Dio: non temeva né le pene, né gli oltraggi che riceveva in cambio dei suoi benefizi; ma voleva soltanto conoscere la volontà di Dio. Arrivato da sant’Antonio, prima ancora di parlare, questi inspirato dallo Spirito Santo, gli disse : “Ah! figlio mio, so che cosa ti conduce qui, e perché vieni a trovarmi. Guardati bene dal seguire il pensiero che hai di mandar via quel povero: è una cattiva tentazione del demonio che vuol rapirti la corona: se avessi la sventura di abbandonarlo, figlio mio, non l’abbandonerebbe il buon Dio. „ Sembrava, a quanto dissegli S. Antonio, che la sua salvezza dipendesse dalle cure che aveva pel poveri. “Ma, padre mio, dissegli il solitario, temo di perdere la pazienza. „ — ” E perché la perderesti, figliuol mio? gli replicò S. Antonio: non sai che è appunto verso quelli che ci trattano peggio, che dobbiamo esercitare la nostra carità più generosamente? Figlio mio dimmi, qual merito avresti esercitando la pazienza con chi non ti facesse mai alcun male? Non sai tu che la carità è una virtù coraggiosa, che non guarda i difetti di chi ci fa soffrire, ma invece guarda Iddio solo? Quindi, figlio mio, ti impegno assai a custodire questo povero: più è cattivo, più devi averne pietà: quanto gli farai per carità, Gesù Cristo lo riterrà fatto a se stesso. Mostra colla tua pazienza che sei discepolo d’un Dio che ha patito. Ricordati che dalla pazienza e dalla carità si conosce il Cristiano. Considera questo povero come quegli di cui vuol servirsi Iddio per farti guadagnare la tua corona. „ Il solitario fu soddisfattissimo di udire da quel gran santo ch’era volontà di Dio ch’ei custodisse il suo povero, e che quanto faceva per luì era assai accetto al Signore. Ritornò presso il suo povero, e dimenticando tutte le ingiurie ed i maltrattamenti ricevuti sino allora, mostrò verso di lui una carità senza limiti, servendolo con una umiltà ammirabile, e non cessando di pregare per lui. Il buon Dio vide nel giovane solitario tanta pazienza e carità che gli convertì il povero: e con questo mostrò al suo servo, quanto gli fosse gradito tutto quello che aveva fatto, perché concesse all’infelice la conversione e la salvezza. Che ne pensate, F. M.? È questa una carità cristiana, sì o no? Oh! quanto quest’esempio nel gran giorno del giudizio confonderà i Cristiani che non vogliono neppur soffrire una parola, sopportare per otto giorni il cattivo carattere d’una persona senza mormorare, e forse volerle male. Bisogna lasciarsi, si dice bisogna separarsi per aver la pace. O mio Dio, quanti Cristiani si dannano per mancanza di carità! No, no, F. M., faceste anche miracoli, non andrete mai salvi, se non avete la carità. F. M., non aver carità è non conoscere la propria religione: è avere una religione di capriccio, stravagante, e volubile. Andate, andate, non siete che ipocriti e riprovati! Senza la carità giammai vedrete Dio, giammai vedrete il cielo… Date i vostri beni, fate grandi elemosine a quelli che v’amano o vi piacciono, ascoltate tutti i giorni la santa Messa, comunicatevi anche, se vi piace ogni dì: non siete che ipocriti e riprovati: continuate la vostra strada e ben presto vi troverete all’inferno! … Non potete sopportare i difetti del vostro prossimo, perché è troppo noioso, non vi piace starvene con lui. Andate, andate pure, disgraziati, non siete che ipocriti, non avete che una falsa religione, la quale, con tutto il bene che fate, vi condurrà all’inferno. Mio Dio! Come è rara questa virtù! Ahimè! è così rara come sono rari quelli che andranno in cielo. Non amo vederli, mi direte: in chiesa, mi causano distrazioni con ogni loro atto. — Ah! disgraziato; di’ piuttosto che non hai carità, che sei un miserabile, che ami solamente quelli che s’accordano coi tuoi sentimenti od interessi, che non ti contraddicono in nulla, e ti adulano per le tue buone opere, che usano ringraziarti dei tuoi benefici, e ti ricambiano con la riconoscenza. – Voi farete di tutto per costoro, non vi rincresce neppur di privarvi del necessario per soccorrerli: ma se vi disprezzano, se vi contraccambiano con ingratitudini, non li amate più, non volete più vederli, fuggite la loro compagnia: nei colloquii che avete con loro, tagliate corto. Mio Dio! quante false divozioni che devono condurci tra i riprovati! Se ne dubitate, F. M., ascoltate S. Paolo, che non può ingannarvi: “Se donassi, egli dice, ogni mio avere ai poveri, se facessi miracoli risuscitando i morti, ma non avessi la carità, non sono altro che un ipocrita (1 Cor. XIII, 3). „ Ma per meglio convincervene, percorrete tutta la passione di N. Signore Gesù Cristo, vedete tutte le vite dei Santi, non ne troverete alcuno che non abbia questa virtù, cioè che non abbia amato quelli che lo ingiuriavano, che gli volevan male, che lo ricambiavano d’ingratitudine nei suoi benefizi. No, no, non ne vedrete uno, che non abbia preferito far del bene a chi gli abbia fatto qualche torto. Vedete S. Francesco di Sales, che ci dice che se avesse un’opera buona soltanto da fare, sceglierebbe chi gli ha fatto qualche oltraggio, piuttosto che uno da cui avesse ricevuto qualche servigio. Ahimè! F. M., una persona che non ha la carità quanto va innanzi nel male! Se alcuno le ha fatto qualche torto, vedetela esaminare ogni sua azione: le giudica, le condanna, le volge in male, credendo sempre d’aver ragione. — Ma, mi direte, tante volte, si vede che agiscono male, non si può pensar diversamente. — Amico mio, non avendo carità, credi che facciano male: ma se avessi la carità, penseresti ben diversamente, perché crederesti sempre che puoi ingannarti, come spesso avviene: e per convincervene, eccovi un esempio, che vi prego di non iscancellar dalla vostra mente, specialmente quando vi verrà il pensiero che il vostro prossimo faccia male. – Si racconta nella storia dei Padri del deserto (Vita dei Padri del deserto, t. VIII, pag. 244, S. Simeone, soprannominato Sal, o Salus. cioè lo Stravagante), che un solitario chiamato Simeone, dopo essere stato più anni nella solitudine, ebbe il pensiero di andare nel mondo: ma domandò a Dio che giammai gli uomini potessero conoscere le sue intenzioni. Avendogli Dio accordata questa grazia, andò nel mondo. Faceva il pazzo, liberava gli ossessi dal demonio, guariva gli ammalati: entrava nelle case delle donne di mala vita, faceva loro giurare che non avrebbero amato altri che lui, dando loro tutto il denaro che aveva. Ognuno lo teneva per un solitario impazzito. Si vedeva ogni giorno quest’uomo, che aveva più di settant’anni, giuocare coi fanciulli per le vie: altre volte si gettava in mezzo ai balli pubblici per danzare cogli altri, dicendo loro qualche parola che mostrasse il male che facevano. Ma tutto ciò si considerava come cosa che veniva da un pazzo, non raccoglieva che disprezzi. Altre volte saliva sui teatri, e gettava pietre su quelli ch’erano sotto. Quando vedeva qualche ossesso dal demonio, si metteva in sua compagnia e imitava l’ossesso come se lo fosse egli pure. Lo si vedeva correre per le osterie, accompagnarsi cogli ubbriachi: nei mercati si rotolava per terra, e faceva mille altre cose assai stravaganti. Tutti lo condannavano, lo disprezzavano; gli uni lo stimavano pazzo, gli altri un libertino ed un cattivo soggetto, meritevole solo della prigione. Eppure, F. M., malgrado ciò, era un santo, che cercava solo il disprezzo, e di guadagnare anime a Dio, sebbene il mondo lo giudicasse male. Il che ci mostra che sebbene le azioni del nostro prossimo ci appariscano cattive, non dobbiamo giudicarle male. Spesso le giudichiamo cattive, mentre agli occhi di Dio non sono tali. Ah! chi avesse la fortuna di possedere la carità, questa bella ed incomparabile virtù, si guarderebbe dal giudicare il suo prossimo e dal volergli male! — Ma, direte, il suo carattere: è troppo cattivo, non si può sopportarlo. — Voi non potete sopportarlo, amico mio; credete dunque d’essere un santo e senza difetti? povero cieco! vedrete un giorno che ne avete fatto soffrire più voi a coloro che vi stanno intorno, che non essi a voi. È cosa solita che i cattivi credono di non far soffrire nulla agli altri, e che debbono tutto soffrire dagli altri. Mio Dio, quanto l’uomo è cieco, quando la carità non trovasi nel suo cuore! D’altra parte, se non aveste nulla da soffrire da coloro che vivono con voi, che cosa avreste da presentare al buon Dio? — Quando, dunque, si potrà conoscere di essere sulla strada che conduce al cielo? — No, no, F. M., finché non amerete coloro che sono d’umore, di carattere differente dal vostro, ed anche coloro che vi contraddicono in quanto fate, sarete solo un ipocrita, mai un buon Cristiano. Fate, finché volete tutte le altre opere buone; esse non vi impediranno d’andar dannati. Del resto vedete la condotta che tennero i Santi, e come si diportarono col prossimo: ed eccovi un esempio che ci mostra come questa virtù sola, sembra assicurarci il cielo. Narrasi nella storia che un solitario, il quale aveva condotto una vita assai imperfetta, almeno in apparenza ed agli occhi del mondo. si trovò all’ora della morte così contento e consolato, che il superiore ne fu sorpreso. Pensando fosse un inganno del demonio, gli domandò donde potesse venirgli tale contentezza, sapendo benissimo che la sua vita non poteva troppo rassicurarlo, considerato che i giudizi di Dio sono così terribili, anche pei più perfetti. “È vero, Padre mio, dissegli il morente; io non ho fatto opere straordinarie, anzi quasi nulla di bene: ma ho cercato in tutta la mia vita di praticare quel gran precetto del Signore, che è quello d’amar tutti, di pensar bene di tutti, di sopportare i difetti, di scusarli, di render loro servizi; io l’ho fatto tutte le volte che n’ebbi occasione: ho procurato di non far mai male ed alcuno, di non parlar male, e di pensar bene di tutti: ecco, Padre mio, ecco quanto forma tutta la mia consolazione e speranza in questo momento, e che, malgrado le mie imperfezioni, mi dà fiducia che il buon Dio avrà pietà di me. „ Il superiore ne fu così meravigliato, che esclamò con trasporto di ammirazione: “Mio Dio! quanto questa virtù è bella e preziosa agli occhi vostri. „ — “Andate, figlio mio, disse al solitario, avete tutto fatto ed adempiuto osservando questo comandamento: andate, il cielo per voi è sicuro. „ Ah! F. M., se conoscessimo bene questa virtù, e quale ne sia il valore davanti a Dio, con quanta premura coglieremmo tutte le occasioni per praticarla, poiché essa racchiude tutte le altre, e ci assicura così facilmente il cielo! No, no, F. M., non saremo che ipocriti, finché questa virtù non accompagnerà tutte le nostre azioni. Ma, penserete tra voi, donde nasce che non abbiamo questa carità, mentr’essa ci rende felici anche in questo mondo per la pace e l’unione che regnano tra coloro che hanno la gran fortuna di possederla ? — F. M., tre cose ce la fanno perdere, cioè: l’avarizia, l’orgoglio e l’invidia. — Ditemi: perché non amate quella persona? — Ahimè! perché non ne avete alcun interesse: avrà detto qualche parola o fatto qualche cosa che non vi piacque: ovvero le avete domandato qualche favore che vi ha rifiutato: ovvero avrà fatto qualche guadagno che speravate voi: ecco ciò che vi impedisce d’amarla come dovreste. E non pensate che, finché non amerete il vostro prossimo, cioè tutti gli uomini, come vorreste essere amati voi, siete un, che se aveste a morire sareste dannato. Eppure vi piace ancora nutrire nel vostro cuore sentimenti che non son davvero caritatevoli; fuggite quelle persone; ma badate bene, amico mio, che anche il buon Dio non vi fugga. Non dimenticate che finché non amate il vostro prossimo, Dio è in collera con voi: se veniste a morire, vi precipiterebbe subito nell’inferno. Mio Dio! si può vivere coll’odio nel cuore? Ahimè! amico mio, voi siete davvero abbominevole agli occhi di Dio, se siete senza carità. È perché vedete dei grandi difetti nel vostro vicino? Ebbene, amico mio, siate ben persuaso che ne avete anche voi; e forse più grandi agli occhi di Dio, e che non conoscete. E vero che non dobbiamo amare i difetti ed i vizi del peccatore; ma dobbiamo amare la persona; perché sebbene peccatore, non cessa d’essere una creatura di Dio, fatta a sua immagine. Se non volete amare che coloro che non hanno difetti, non amereste nessuno, perché nessuno è senza difetti. Ragioniamo, F. M., un po’ più da Cristiani: più un Cristiano è peccatore, più è degno di compassione e d’aver un posto nel nostro cuore. No, P. M., per quanto cattivi siano coloro coi quali viviamo, non dobbiamo odiarli: ma, ad esempio di Gesù Cristo, amarli più di noi stessi. Vedete come Gesù Cristo, nostro modello, si è comportato coi suoi nemici: ha pregato per loro, e per loro è morto. Chi ha indotto gli apostoli attraversare i mari, ed a finire la vita col martirio? Non fu l’amore per gli uomini? Vedete la carità di S. Francesco Zaverio, che abbandona la patria ed i beni, per andar ad abitare tra i barbari, che gli fanno soffrire quanto è possibile far soffrire ad un Cristiano, salvo la morte. Vedete S. Abramo, un solitario, che abbandona la solitudine per andare a predicare la fede in un paese, dove nessuno aveva potuto farla ricevere. Non fu la sua carità causa ch’ei fosse battuto, e trascinato per terra fino ad esservi abbandonato mezzo morto? Non poteva lasciarli nella loro cecità? Sì, senza dubbio; ma la carità, il gran desiderio di salvare quelle povere anime gli fece soffrire tutte queste ingiurie (Vita dei Padri del deserto, t. VIII, pag. 165, s. Abramo, prete e solitario). Sì, F. M., chi ha la carità non vede i difetti del fratello, ma soltanto la necessità di aiutarlo a salvar l’anima a qualunque costo. Aggiungo inoltre, che se amiamo davvero il nostro prossimo ci guarderemo dallo scandalizzarlo, o far cosa che possa distoglierlo dal bene e portarlo al male. Sì, F. M., dobbiamo amar tutti, e a tutti far del bene quanto possiamo e per l’anima e pel corpo: perché Gesù Cristo ci dice, che quando facciamo qualche bene al prossimo nel suo corpo, lo facciamo a Lui stesso: quindi, a più forte ragione, quando l’aiutiamo a salvar l’anima. Non dimentichiamo mai queste parole che Gesù Cristo ci dice nel Vangelo: “Venite, benedetti del Padre mio, ebbi fame, e mi deste da mangiare, ecc. (Matt. XXV, 34). „ Vedete la carità di san Serapione, che lasciò il suo abito per donarlo ad un povero: ne incontrò un altro, gli diede la sottoveste: non restandogli che il libro del Vangelo, va a venderlo per poter ancora dare. Un discepolo gli domandò chi l’avesse cosi spogliato. Rispose, che avendo letto nel suo libro: “Vendete, date quanto avete ai poveri, ed avrete un tesoro in cielo: perciò ho venduto anche il libro. „ Andò ancora più innanzi, diede se stesso ad una povera vedova perché lo vendesse, e ne ricavasse di che nutrire i suoi figli: e, condotto fra i barbari, ebbe la lieta sorte di convertirne buon numero. Oh! bella virtù! se avessimo la felicità di possederti, quante anime condurremmo al buon Dio!… Quando S. Giovanni l’Elemosiniere pensava a questa bella azione di S. Serapione: “Credetti, diceva a’ suoi amici, d’aver fatto qualche cosa, dando tutto il mio denaro ai poveri: ma ho riconosciuto che non ho ancora fatto nulla, perché non ho dato me stesso come il beato Serapione, che si vendé per nutrire i figli della vedova „ (Vita dei Padri del deserto, t. IV, pag. 49. S. Serapione il Sindonita). – Concludiamo, F. M., che la carità è una delle più belle virtù, e che più d’ogni altra ci assicura l’amicizia del buon Dio: colle altre virtù, possiamo essere ancora sulla strada dell’inferno: ma con la carità, che è universale, che non fugge, che ama i nemici come gli amici, che fa del bene a chi ci fa del male, come a chi ci fa del bene! Chi la possiede è sicuro che il cielo è suo!… È  la felicità ch’io vi auguro.

DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le letture dell’Ufficio divino che si fanno in questa Domenica sono spesso quelle dei Maccabei (vedi Dom. precedente). « Antioco, soprannominato Epifane, avendo invaso la Giudea e devastato tutto, dice S. Giovanni Crisostomo, aveva obbligato molti Ebrei a rinunziare alle sante pratiche dei padri loro, ma i Maccabei rimasero costanti e puri in queste prove. Percorrendo tutto il paese, essi riunivano tutti i membri ancora fedeli e integri che incontravano; e di quelli che si erano lasciati abbattere o corrompere, ne riconducevano molti al loro primo stato, esortandoli a ritornare alla fede dei padri loro e rammentando loro che Dio è pieno di indulgenza e di misericordia e che mai rifiuta di accordare la salvezza al pentimento, che ne è il principio. E questa esortazioni facevano sorgere un esercito di uomini più valorosi, che combattevano non tanto per le loro donne, i loro figli, i loro servitori, o per risparmiare al paese la rovina e la schiavitù, quanto per la legge dei padri loro e i diritti della nazione. Dio stesso era il loro capo, e perciò, quando in battaglia serravano le file e prodigavano la loro vita, il nemico era messo in fuga: essi stessi fidavano meno nelle loro armi che nella causa che li armava e pensavano che essa sarebbe sufficiente per vincere anche in mancanza di qualunque armatura. Andando al combattimento, non empivano l’aria di vociferazioni e di canti profani come usano fare alcuni popoli: non si trovavano tra loro suonatori di flauto come negli altri campi; ma essi pregavano invece Iddio di mandar loro il suo aiuto dall’alto, di assisterli, di sostenerli, di dar loro man forte, poiché per Lui facevano guerra e combattevano per la sua gloria » (4a Domenica di ottobre Notturno). Dio non considera nel mondo che il suo popolo, Gesù Cristo e la sua Chiesa che sono una cosa sola. Tutto il resto è subordinato a questo. « Dio, che esiste ab æterno e che esisterà per tutti i secoli, è stato per noi, dice il Salmo del Graduale, un rifugio di generazione in generazione» (Introito). «Allorché Israele usci dall’Egitto e la casa di Giacobbe da un popolo barbaro » continua il Salmo dell’Alleluia, Dio consacrò Giuda al suo servizio e stabilì il suo impero in Israele ». Dopo aver mostrato tutti i prodigi, che Dio fece per preservare il suo popolo, il salmista aggiunge: « Il nostro Dio è in cielo, tutto quello che ha voluto, Egli lo ha fatto. La casa di Israele ha sperato nel Signore; Egli è il loro soccorso ed il loro protettore ». Il Salmo del Communio e del Versetto dell’Introito, dice il grido di speranza che le anime giuste innalzano al cielo: « L’anima mia è nell’attesa della tua salvezza, quando farai giustizia dei miei persecutori? Gli empi mi perseguitano, aiutami, Signore mio Dio». «Signore, aggiunge l’Introito, ogni cosa è sottomessa alla tua volontà, poiché Tu sei il Creatore e il padrone dell’Universo ». – « Signore, dice ugualmente la Chiesa nell’Orazione di questo giorno, veglia sempre misericordiosamente sulla tua famiglia, affinché essa sia, per mezzo della tua protezione, liberata da ogni avversità e attenda, con la pratica delle opere buone, a glorificare il tuo nome ». Il popolo antico e il popolo nuovo hanno un medesimo scopo, che è la glorificazione di Dio e l’affermazione dei suoi diritti. Tutti e due hanno anche gli stessi avversari, che sono satana e i suoi ministri. La Chiesa, ispirandosi alle Letture del Breviario delle Domeniche precedenti, ricorda oggi gli assalti che Giobbe ebbe da sostenere da parte di satana (Offertorio) e Mardocheo da parte di Aman, che fu calunniatore come il demonio (Introito). Dio liberò questi due giusti, come pure liberò il suo popolo dalla cattività d’Egitto, come venne in aiuto ai Maccabei che combattevano per difendere la sua causa. Cosi pure i Cristiani devono subire gli assalti degli spiriti maligni, poiché i persecutori della Chiesa sono suscitati dal demonio, come quelli del popolo d’Israele nell’antica legge. «Abbiamo da combattere, dice San Paolo, non contro esseri di carne e di sangue, ma contro i principi di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male sparsi nell’aria (Epistola). Come per i Maccabei che, per quanto valorosi, fidavano più in Dio che nelle loro armi, così i mezzi di difesa che devono adoperare i Cristiani sono anzitutto di ordine soprannaturale. « Fortificatevi nel Signore, dice l’Apostolo, e nella sua virtù onnipotente. Rivestitevi dell’armatura di Dio per difendervi dal demonio ». – I soldati romani, servono di esempio al grande Apostolo nella descrizione minuziosa che ci dà della panoplia mistica dei soldati di Cristo. Come armi difensive la Chiesa ha ricevuto nel giorno della Pentecoste, la rettitudine, la giustizia, la pace e la fede; come armi offensive le parole divinamente ispirate dallo Spirito Santo. Ora la parabola che Gesù ci dice nell’Evangelo di questo giorno, riassume tutta la vita cristiana nella pratica della carità, che ci fa agire verso il prossimo come Dio ha agito verso di noi. Egli ci ha perdonato delle gravi colpe: sappiamo a nostra volta perdonare ai nostri fratelli le offese che essi ci fanno e che sono molto meno importanti. Il demonio geloso porta gli uomini ad agire come quel servitore cattivo che prese per la gola il compagno, che gli doveva una somma minima e lo fece mettere in prigione perché non poteva pagare immediatamente. Se anche noi agiremo così, nel giorno del giudizio, cui ci prepara la liturgia di questa Domenica, dicendo: « Il regno dei cieli è simile ad un re che volle farsi rendere i conti dai suoi servi », Dio sarà verso di noi, quali noi saremo stati verso il prossimo. – L’Apostolo parla di una lotta accanita contro i nemici invisibili che ci lanciano dardi infiammati. Il combattimento è terribile e dobbiamo armarci fortemente per poter restare in piedi dopo aver riportata una vittoria completa. Come il soldato, il Cristiano deve avere un largo cinturone, una corazza, dei calzari, uno scudo, un elmo ed una spada.

Mostrarci implacabili per una ingiuria ricevuta, dice s. Girolamo, e rifiutare ogni riconciliazione per una parola amara, non è forse giudicare noi stessi degni della prigione? Iddio ci tratterà secondo le intime disposizioni del nostro cuore: se non perdoniamo, Dio non ci perdonerà. Egli è nostro giudice e non vuole un semplice perdono puramente esteriore. Ognuno deve perdonare a suo fratello « di tutto cuore », se vuol esser perdonato nell’ultimo giorno » (Mattutino).

Incipit9

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Esth. XIII: 9; 10-11
In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, cœlum et terram et univérsa, quæ cœli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es.

[Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, coelum et terram et univérsa, quæ coeli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es.

[Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Oratio

Orémus.

Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut a cunctis adversitátibus, te protegénte, sit líbera, et in bonis áctibus tuo nómini sit devóta.

[Custodisci, Te ne preghiamo, o Signore, con incessante pietà, la tua famiglia: affinché, mediante la tua protezione, sia libera da ogni avversità, e nella pratica delle buone opere sia devota al tuo nome.]

Lectio

Lectio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes VI: 10-17

Fratres: Confortámini in Dómino et in poténtia virtútis ejus. Indúite vos armatúram Dei, ut póssitis stare advérsus insídias diáboli. Quóniam non est nobis colluctátio advérsus carnem et sánguinem: sed advérsus príncipes et potestátes, advérsus mundi rectóres tenebrárum harum, contra spirituália nequítiae, in coeléstibus. Proptérea accípite armatúram Dei, ut póssitis resístere in die malo et in ómnibus perfécti stare. State ergo succíncti lumbos vestros in veritáte, et indúti lorícam justítiæ, et calceáti pedes in præparatióne Evangélii pacis: in ómnibus suméntes scutum fídei, in quo póssitis ómnia tela nequíssimi ígnea exstínguere: et gáleam salútis assúmite: et gládium spíritus, quod est verbum Dei.

“Fratelli, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Vestite tutta l’armatura di Dio, perché possiate tener fronte alle insidie del demonio; poiché noi non abbiamo a combattere contro la carne ed il sangue, ma sì contro i principati, contro le podestà, contro i reggitori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti malvagi, per i beni celesti. Per questo pigliate l’intera armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e in ogni cosa trovarvi ritti in piedi. Presentatevi adunque al combattimento cinti di verità i lombi, coperti dell’usbergo della giustizia, calzati i piedi in preparazione dell’Evangelo della pace. Sopra tutto prendete lo scudo della fede, col quale possiate spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Pigliate anche l’elmo della salute e la spada dello spirito, che è la parola di Dio „.

SOLDATI DI CRISTO.

L’Epistola d’oggi ci schiude dinanzi degli orizzonti di una vastità sconfinata, che sono però gli orizzonti stessi della vita cristiana. Ogni vita, nessuno ormai lo ignora, è a base di lotta, dalla forma più elementare e semplice alla più alta e complicata. La lotta è la condizione naturale della vita, ne è la intima legge. Non tutte le lotte hanno la stessa importanza appunto perché non tutte le forme di vita si svolgono allo stesso livello. Purtroppo, noi diamo molta importanza a lotte che ne hanno poca, pochissima. Tali, ad esempio, le nostre lotte economiche, che pure tanto ci appassionano, che noi giudichiamo spesso le maggiori, le massime nostre lotte. Il poeta moderno le poté perciò definire: « il ronzìo d’un’ape dentro un bugno vuoto ». Le grandi lotte, le vere, sono le lotte tipiche del Cristianesimo, le lotte morali. Il Cristianesimo è vita superiore, vita altissima dell’anima in Dio, Dio verità, Dio giustizia, Dio bontà, bontà sovratutto. La vita della verità, la vita cristiana della verità è per la bontà morale. E questa vita è lotta perché il bene ha un misterioso avversario: il male. Lotta individuale e sociale; ogni Cristiano impegna la sua lotta, per la verità contro l’errore, per la giustizia contro l’iniquità, per il bene contro il male. L’ultimo Cristiano, il più modesto, la povera donnicciola, l’umile contadino, l’operaio, sono militi di questa guerra. Che è poi la vita e la lotta della società cristiana, della Chiesa. – Ebbene, nelle lotte economiche anche più colossali, è impegnata una piccola parte del nostro pianeta. E ne risulta che le lotte (economiche) più all’apparenza gigantesche, sono piccole, sono cosa da poco, da nulla. E lasciano effettivamente di sé traccia così breve! Di fronte ad esse il Cristianesimo ha sempre affermato, afferma ancora la grandezza della sua lotta, la grande lotta morale, la lotta del bene e del male. San Paolo scrive frasi classiche per questa epica grandezza. Grandezza cosmica. In esso è interessato il mondo, proprio il mondo, tutto il mondo spirituale. Questo mondo spazia oltre la materia, oltre l’umanità per gli innumeri gradi che ricollegano Dio, lo Spirito più alto, all’uomo, l’infimo nella gerarchia spirituale. Tutto questo vastissimo mondo visibile e invisibile è ricollegato da quella unità di interesse. Nella vittoria del bene è interessata con Dio la falange degli spiriti buoni; nella vittoria del male è interessata l’opposta falange degli spiriti malvagi. Ecco le vere forze che stanno le une di fronte all’altre, di qua e di là tutte collegate. Il piccolo soldato che ha il suo piccolo settore di combattimento non si accorge della vastità del fronte suo, del fronte avverso; non la sente questa grandezza. San Paolo scuote questa incoscienza, scarsa coscienza nella quale ciascuno di noi rischia di precipitare: questa, chiamiamola così, involuzione, per cui ciascuno crede di avere il suo nemico solo dentro di sé, come dice benissimo l’Apostolo, la carne ed il sangue, il nostro egoismo, la nostra corruzione. Questa nemica individuale, intima, piccola c’è e bisogna rompere questa trincea fatale dell’egoismo; bisogna guarire dalla corruzione per vincere, per dar ragione in noi stessi a Dio, per diventare soldati suoi. Ma il nemico interiore ha degli alleati fuori di noi, alleato il mondo, l’ambiente sociale, le coalizioni di tutta la parte dell’umanità che non è con Dio. La quale, non essendo con Lui, è contro di Lui e contro tutti quelli che lo amano e lo seguono. E colla carne e col mondo, compie il trinomio grandioso il demonio, la coalizione del male, e la coalizione contro Dio. – Quando siamo chiamati a deciderci, e la decisione è il punto saliente, il vero momento tragico, della vita, non siamo chiamati a deciderci tra entità astratte, bene e male, ma tra forze concrete e vive e innumerevoli, estesissime. Ogni vittoria nostra, ogni vittoria in noi del bene ha ripercussione immensa in tutta la falange degli spiriti buoni, di rabbia nel mondo degli spiriti malvagi: e viceversa d’ogni nostra sconfitta che noi decretiamo al bene, si rallegra la falange malvagia; la santa falange si rattrista. E anche questo deve essere a noi motivo e stimolo di valore. Alla grandezza della pugna dev’essere proporzionata la grandezza spirituale del combattente. Armiamoci nel Nome di Dio, per una lotta nella quale sono impegnati l’onore di Lui e i destini del mondo.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps LXXXIX: 1-2
Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie.
V. Priúsquam montes fíerent aut 9 terra et orbis: a saeculo et usque in sæculum tu es, Deus.

[O Signore, Tu sei il nostro rifugio: di generazione in generazione.
V. Prima che i monti fossero, o che si formasse il mondo e la terra: da tutta l’eternità e sino alla fine]

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps 113: 1
In éxitu Israël de Ægýpto, domus Jacob de pópulo bárbaro. Allelúja.

[Quando Israele uscí dall’Egitto, e la casa di Giacobbe dal popolo straniero. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XVIII: 23-35
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Assimilátum est regnum cœlórum hómini regi, qui vóluit ratiónem pónere cum servis suis. Et cum cœpísset ratiónem pónere, oblátus est ei unus, qui debébat ei decem mília talénta. Cum autem non habéret, unde rédderet, jussit eum dóminus ejus venúmdari et uxórem ejus et fílios et ómnia, quæ habébat, et reddi. Prócidens autem servus ille, orábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Misértus autem dóminus servi illíus, dimísit eum et débitum dimísit ei. Egréssus autem servus ille, invénit unum de consérvis suis, qui debébat ei centum denários: et tenens suffocábat eum, dicens: Redde, quod debes. Et prócidens consérvus ejus, rogábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Ille autem nóluit: sed ábiit, et misit eum in cárcerem, donec rédderet débitum. Vidéntes autem consérvi ejus, quæ fiébant, contristáti sunt valde: et venérunt et narravérunt dómino suo ómnia, quæ facta fúerant. Tunc vocávit illum dóminus suus: et ait illi: Serve nequam, omne débitum dimísi tibi, quóniam rogásti me: nonne ergo opórtuit et te miseréri consérvi tui, sicut et ego tui misértus sum? Et irátus dóminus ejus, trádidit eum tortóribus, quoadúsque rédderet univérsum débitum. Sic et Pater meus cœléstis fáciet vobis, si non remiséritis unusquísque fratri suo de córdibus vestris.

In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. E avendo iniziato a fare i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Ma non avendo costui modo di pagare, il padrone comandò che fosse venduto lui, sua moglie, i figli e quanto aveva, e cosí fosse saldato il debito. Il servo, però, gettatosi ai suoi piedi, lo supplicava: Abbi pazienza con me, e ti renderò tutto. Mosso a pietà, il padrone lo liberò, condonandogli il debito. Ma il servo, partito da lí, trovò uno dei suoi compagni che gli doveva cento denari: e, presolo per la gola, lo strozzava dicendo: Pagami quello che devi. E il compagno, prostratosi ai suoi piedi, lo supplicava: Abbi pazienza con me, e ti renderò tutto. Ma quegli non volle, e lo fece mettere in prigione fino a quanto lo avesse soddisfatto. Ora, avendo gli altri compagni veduto tal fatto, se ne attristarono grandemente e andarono a riferire al padrone tutto quello che era avvenuto. Questi allora lo chiamò a sé e gli disse: Servo iniquo, io ti ho condonato tutto quel debito, perché mi hai pregato: non dovevi dunque anche tu aver pietà di un tuo compagno, come io ho avuto pietà di te? E sdegnato, il padrone lo diede in mano ai carnefici fino a quando non avesse pagato tutto il debito. Lo stesso farà con voi il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello.”

OMELIA

Sulla collera.

Tenens suffocabat eum, dicens: Redde quod debes.

(MATTH. XVIII, 28).

Come sono differenti i sentimenti dell’uomo da quelli di Dio! Questo miserabile, cui era stato condonato tutto ciò che doveva al suo padrone, invece di sentirsi mosso a riconoscenza ed esser pronto ad usare la medesima indulgenza verso il suo fratello, non appena lo scorge, monta su tutte le furie, non sa trattenersi, lo prende per la gola e sembra volerlo strozzare. L’altro può ben gettarglisi ai piedi per domandargli grazia, niente lo commuove, niente lo trattiene. Bisogna che sfoghi il suo furore contro quell’infelice, e lo fa gettare in prigione finché abbia pagato il debito. Tale è, Fratelli miei, la condotta della gente del mondo. Dio ci è rappresentato nel padrone. Se Egli ci condona volontariamente quanto dobbiamo alla sua giustizia, se ci tratta con tanta bontà e dolcezza, è perché, dietro il suo esempio, noi ci abbiamo a comportare allo stesso modo coi nostri fratelli. Ma un uomo, ingrato e violento, dimentica subito ciò che il buon Dio ha fatto per lui. Per un nonnulla lo si vedrà abbandonarsi a tutto il furore d’una passione così indegna di un Cristiano, e così oltraggiosa verso un Dio di dolcezza e di bontà. Temiamo, F. M., una passione così malvagia, così capace di allontanarci da Dio e che fa condurre a noi ed a tutti quelli che ci circondano una vita infelice. Vi mostrerò:

1° quanto la collera oltraggi Dio;

2° quanto sia indegna d’un Cristiano.

I. — Non intendo parlarvi di quelle piccole impazienze, di quei borbottamenti che sono così frequenti. Sapete che ogni qualvolta non vi frenate offendete Dio. Sebbene questi non siano ordinariamente peccati mortali, non dovete però mancare di accusarvene. Se voi mi domandate che cos’è la collera, vi risponderò che è un moto violento, impetuoso dell’anima, che rigetta con veemenza ciò che le dispiace. Se apriamo i libri santi dove si contengono le azioni degli uomini che formarono l’ammirazione del cielo e della terra, vediamo dappertutto che essi hanno sempre avuto in orrore questo maledetto peccato, e che l’hanno considerato come segno di riprovazione. Frattanto vi dirò con S. Tommaso che v’ha una santa collera, la quale proviene dallo zelo che abbiamo nel difendere la causa di Dio. Si può, dice egli, qualche volta adirarsi senza offendere Dio, secondo il Re profeta: Adiratevi; ma non peccate„. (Ps. IV, 5) Vi ha dunque una collera giusta e ragionevole, la quale si può piuttosto chiamare zelo che collera. La sacra Scrittura ce ne mostra un gran numero d’esempi. Vi leggiamo che Finees (Num. XXV), uomo che temeva il Signore e sosteneva la sua causa, entrò in una santa collera alla vista dello scandaloso peccato di un Giudeo con una Madianita, e li uccise con un colpo di spada. Non solo egli non offese il Signore colla morte di quei due miserabili, ma al contrario fu lodato del suo zelo nel vendicar le offese che gli si facevano. E tale fu la condotta di Mosè. Indignato perché gli Israeliti avevano adorato un vitello d’oro disprezzando il vero Dio, ne fece uccidere ventitré mila per vendicare il Signore; e ciò per ordine di Dio stesso (Exod. XXXII, 28). Tale ancora fu quella di Davide che, fin dal mattino, dichiarava guerra a tutti quei grandi peccatori che passavano la vita oltraggiando Iddio (Ps C, 8). E tale infine fu quella di Gesù Cristo stesso, quando entrò nel tempio per scacciare quelli che compravano e vendevano, dicendo loro: “La mia casa è casa di preghiera, e voi ne avete fatto una spelonca di ladri (Matt. XXI, 13)„. – Tale deve essere la collera d’un pastore, cui sta a cuore la salute dei suoi parrocchiani e la gloria di Dio. Se un pastore resta muto vedendo Dio oltraggiato e le anime perdersi, guai a lui! Se non vuol dannarsi bisogna che, se vi è qualche disordine in parrocchia, metta sotto i piedi il rispetto umano ed il timore d’essere odiato o disprezzato dai suoi parrocchiani, e quand’anche fosse certo d’esser ucciso appena sceso dal pulpito, ciò non deve trattenerlo. Un pastore che vuol adempiere il suo dovere deve sempre avere la spada in mano per difendere gli innocenti, ed incalzare i peccatori finché non siano ritornati a Dio; questo continuo incalzare deve durare fino alla morte. Se non fa così, è un cattivo sacerdote, che perde le anime, invece di condurle a Dio. Se vedete succedere qualche scandalo nella vostra parrocchia, ed i vostri pastori non dicono nulla; guai a voi, perché Dio mandandovi tali pastori vi punisce. Dico dunque che tutte queste collere non sono che sante collere, lodate ed approvate da Dio stesso. Se tutte le vostre collere fossero così, non si potrebbe che lodarvi. Ma quando riflettiamo un poco su ciò che avviene nel mondo, quando s’odono tanti sussurri, si vedono dissensioni regnare tra vicini e vicine tra fratelli e sorelle; riconosciamo in ciò una passione violenta, ingiusta, viziosa ed irragionevole, di cui occorre mostrarvi gli effetti dannosi, per farvene concepire l’orrore che merita. Ascoltate quello che ci dice lo Spirito Santo: L’uomo quando s’incollerisce, non solo perde la sua anima ed il suo Dio, ma accorcia anche i suoi giorni, « Zelus et iracundia minuunt dies ». (Eccli. XXX, 26). – Ve lo provo con un esempio sorprendente. Leggiamo nella storia della Chiesa che l’imperatore Valentiniano, ricevendo gli ambasciatori dei Quadi, s’infuriò così grandemente, che perdette il respiro e morì sull’istante. Dio mio! che orrore! che passione detestabile e mostruosa! essa dà la morte a chi se ne lascia soggiogare. So bene che non si va di frequente a tali eccessi; ma quante donne incinte, abbandonandosi alla collera, fanno perire i loro poveri figli prima di aver loro dato la luce ed il battesimo! Questi disgraziati non avranno dunque mai più la fortuna di vedere Dio! Nel giorno del giudizio li vedremo perduti: essi non andranno mai in cielo! E la collera d’una madre ne sarà stata la sola causa! Ahimè! questi poveri fanciulli gridano spesso nell’inferno: Ah, maledetto peccato di collera, di quanti beni ci hai privati!… tu ci hai strappato il cielo; tu ci hai condannati ad essere divorati dalle fiamme! Dio mio, quanti beni ci ha strappati questo peccato! Addio, bel cielo, noi non ti vedremo mai: ah! quale disgrazia!… Mio Dio, una donna che si fosse resa colpevole d’un tal delitto, potrebbe vivere senza versare giorno e notte torrenti di lacrime, e non ripetere ad ogni momento: Disgraziata, che hai fatto? dov’è il tuo povero bambino? tu l’hai gettato nell’inferno. Ahimè! quali rimproveri nel giorno del giudizio, quando lo vedrai venire a domandarti il cielo! Questo povero bambino si getterà sulla madre con un furore spaventoso. Ah! madre! le dirà, maledetta madre! rendimi il cielo! tu me l’hai strappato! Questo bel cielo che non vedrò mai, te lo domanderò per tutta l’eternità; questo bel cielo che la collera d’una madre mi ha fatto perdere!… Mio Dio! che disgrazia! Eppure quanto è grande il numero di questi poveri bambini! — Una donna incinta, confessandosi d’un peccato di collera, se vuol salvarsi non deve mancare di far conoscere il suo stato, perché invece d’un peccato mortale può averne commessi due. Se non fate così, cioè se non dite questa circostanza, dovete dubitare delle vostre confessioni. Così un marito che ha fatto incollerire sua moglie deve accusarsi di questa circostanza, e lo stesso devono fare tutti coloro che si sono resi colpevoli del medesimo fallo. Ahimè! come son pochi quelli che si accusano di questo! Mio Dio! quante confessioni cattive! Il profeta Isaia ci dice che l’uomo in collera è simile ad un mare in tempesta. (Isa. LVII, 20). Bella similitudine, F. M… Infatti, niente rispecchia meglio il cielo come il mare quand’è calmo; è un grande specchio nel quale gli astri sembrano riprodursi; ma subito, quando l’uragano commove le acque, tutte queste celesti immagini scompaiono. Così, l’uomo che ha la fortuna di conservare la pazienza e la dolcezza è, in questa calma, un’immagine sensibile di Dio. Ma non appena la collera e l’impazienza hanno distrutta questa calma, l’immagine della divinità scompare. Quest’uomo cessa d’essere l’immagine di Dio, e diventa l’immagine del demonio. Ne ripete le bestemmie, ne riproduce il furore. Quali sono i pensieri del demonio? Non sono che pensieri di odio, di vendetta, di divisione, e tali sono quelli di un uomo in collera. Quali sono le espressioni del demonio? Maledizioni e bestemmie orribili. Se ascolto un uomo in collera, dalla sua bocca non si sentono che spergiuri e maledizioni. Mio Dio! che triste compagnia è quella d’una persona che va soggetta alla collera! Vedete una povera donna che ha un tal marito: se essa ha il timor di Dio e vuol evitare a lui delle offese, ed a sé dei cattivi trattamenti, non può dire una sola parola, anche se ne avesse il più gran desiderio. Bisogna che si accontenti di lamentarsi e piangere in segreto, per poter vivere d’accordo e non dare scandalo. — Ma, mi dirà un uomo stizzoso, perché ella mi resiste? sa bene che sono stizzoso. — Voi, amico, siete stizzoso, ma credete che gli altri non lo siano al par di voi? Dite piuttosto che non avete religione, e direte quello che veramente siete. Una persona che ha il timor di Dio non deve forse saper domare le proprie passioni, invece di lasciarsi domare da esse? – Ahimè! se ho detto che vi sono delle mogli disgraziate perché hanno mariti furiosi; vi sono dei mariti che non sono meno disgraziati con donne, che non sapranno mai dire una parola dolce, che per un nonnulla s’infuriano e vanno fuori di sé. Ma quale disgrazia in un matrimonio quando né l’uno né l’altra si vogliono piegare; sono continui alterchi, collere e maledizioni. Gran Dio! Non è questo un vero inferno anticipato? Ahimè! a quale scuola sono quei poveri fanciulli? quali lezioni di bontà e di dolcezza ricevono? S. Basilio ci dice che la collera rende l’uomo simile al demonio, perché non vi sono che i demoni capaci di abbandonarsi a tale sorta di eccessi. Una persona in questo stato è simile ad un leone furente, il cui ruggito fa di terrore gli altri animali. Vedete Erode, poiché i re Magi l’avevano ingannato, preso da tale collera, o meglio da tale ira che fece sgozzare tutti i piccoli fanciulli di Betlemme e dei dintorni (Matt. II, 16). E non si contentò di questi orrori, ma fece pugnalare anche sua moglie ed i suoi figli. Ahimè! quanti poveri fanciulli sono storpiati per tutta la loro vita, per i crudeli colpi che hanno avuti dai loro genitori in questi eccessi di collera! Ma aggiungo che la collera quasi mai è sola, essa è sempre accompagnata, come vedremo, da molti altri peccati.

II. — La collera trascina con sé spergiuri, bestemmie, rinnegamenti di Dio, maledizioni, imprecazioni. S. Tommaso ci dice che il giurare è un peccato così grave, così orribile agli occhi di Dio, che noi non potremo mai comprendere l’oltraggio che gli fa. Questo peccato non è come gli altri che per la leggerezza della materia sono soltanto peccati veniali. Nei giuramenti, più la materia è leggera, e più il peccato è grave, perché è un maggior disprezzo ed una maggior profanazione del santo Nome di Dio. Lo Spirito Santo ci assicura che la casa dell’uomo solito a giurare sarà piena d’iniquità, e non cesseranno per essa i castighi di Dio fino a che non sarà distrutta (Eccli. XXIII, 12). Si può sentire senza fremere questi disgraziati, che osano portare il loro furore fino a giurare sul santo Nome di Dio, questo Nome adorabile che gli Angeli con tanta gioia ripetono incessantemente: “Santo, santo, santo, è il Dio degli eserciti! sia benedetto per tutti i secoli de’ secoli! „ Se si riflettesse bene prima di usare la lingua, che essa è un organo datoci da Dio per pregarlo, per cantare le sue lodi; che questa lingua è stata bagnata dal Sangue prezioso di Gesù Cristo, che essa tante volte ha servito di altare al Salvatore stesso; si potrebbe servirsene per oltraggiare un Dio così buono, e per profanare un Nome così santo e così rispettabile?… Vedete come i Santi abborrivano i giuramenti. S. Luigi, re di Francia, aveva fatta una legge per la quale chi giurasse avrebbe la lingua forata da un ferro rovente. Un cittadino di Parigi, in un alterco, giurò il santo Nome di Dio. Fu condotto davanti al re, che tosto lo condannò ad avere forata la lingua. Essendo venuti tutti i personaggi insigni della città per domandare grazia, il re rispose loro che, se egli avesse avuto sventura di cadere in tale peccato, da stesso se la sarebbe traforata. Ed ordinò che la sentenza fosse eseguita. Quando andò a combattere in Terra santa, venne fatto prigioniero. Gli si domandò un giuramento che, del resto, non sembrava offendere la sua coscienza, tuttavia, preferì esporsi alla morte, tanto temeva di giurare (Ribadeneira, 25 Ag.). Perciò vediamo che chi giura spesso, d’ordinario è una persona abbandonata da Dio, oppressa da mille disgrazie che fa non di rado una fine infelice. Leggiamo nella storia un esempio che può ispirarci il più grande orrore pel giuramento. Quando S. Narciso governava la chiesa di Gerusalemme, tre libertini lo calunniarono orribilmente, appoggiando le loro asserzioni con tre esecrabili giuramenti. Il primo disse che, se quanto affermava non era vero, voleva essere abbruciato vivo; l’altro che voleva morire di male caduco; ed il terzo che  voleva gli fossero strappati gli occhi. Per queste calunnie, S. Narciso fu scacciato dalla città come un infame, cioè come un Vescovo che s’abbandonava ad ogni sorta d’impurità. Ma la vendetta di Dio non tardò a punire quegli infelici. Essendosi appiccato il fuoco alla casa del primo, questi vi restò abbruciato vivo. Il secondo morì di male caduco; il terzo, spaventato da sì orribili castighi, perdette la vista piangendo i suoi peccati. So che questi giuramenti avvengono di rado. I più ordinari sono: In fede mia! — In coscienza! — Mio Dio! sì; — Mio Dio! no; perbacco! — caspita! — cane d’un…! – Quando vi confessate, dovete dire il perché avete giurato; se per affermare cose false o vere: se avete fatto giurare altre persone, perché non volevate credere ad esse. Dovete dire se ne avete l’abitudine, e da quanto tempo. Bisogna poi guardarsi bene di non aggiungere al giuramento l’imprecazione. Vi sono alcuni che dicono: “Se questo non è vero, che non mi muova mai più di qui; che non veda il cielo; che Dio mi danni! che la peste mi soffochi! che il diavolo mi porti via! …„ Ahimè! amico, forse il diavolo non aspetta che la tua morte per portarti via! … Dovete dire nelle vostre confessioni, se ciò che avete detto era o no contro la verità. Alcuni credono che non sia alcun male giurando per assicurare che una cosa è vera. Il male, non è certo così grave come se si fosse giurata una cosa falsa; ma è sempre un peccato e grave. Siete adunque obbligati di accusarvene sempre, senza di che vi dannerete. Eccone un esempio che fa tremare. Si racconta nella vita di S. Edoardo, re d’Inghilterra (Ribadeneira, 13. ott.) che il conte Gondevino, suocero del re, era così geloso che non poteva sopportare persona alcuna vicino al re. Il re l’accusò un giorno d’aver cooperato all’uccisione di suo fratello. Il conte rispose che se ciò era vero, voleva che un boccone di pane lo soffocasse. Il re fece il segno di croce su un pezzo di pane; il suocero lo prese e, mentre l’inghiottiva, il pane gli s’infisse nella gola e lo soffocò, ed egli morì. Terribile punizione, F. M. Ahimè! dove andò la sua povera anima, poiché morì nell’atto di commettere questo peccato? Non solo: non dobbiamo giurare per qualunque pretesto, anche se si trattasse di perdere i beni, l’onore e la vita; perché, giurando, perdiamo il cielo, il nostro Dio e la nostra anima; ma non dobbiamo nemmeno far giurare gli altri. S. Agostino ci dice (Serm. CCCVIII) che, se prevediamo che quelli che facciamo chiamare in giudizio, giureranno il falso, non dobbiamo farli chiamare; noi siamo colpevoli al par loro, ed ancor più colpevoli che se togliessimo loro la vita. Infatti, uccidendoli, non facciamo che dare la morte al loro corpo, se hanno la fortuna di essere in istato di grazia; il male è tutto nostro; invece facendoli giurare, perdiamo la loro povera anima, e la perdiamo per tutta l’eternità. Si racconta che un cittadino di Ippona, uomo dabbene, ma molto attaccato alla terra, costrinse uno, cui aveva prestato del denaro, a giurare in giudizio; costui giurò il falso. La stessa notte, si trovò in sogno presentato al tribunale di Dio. — Perché hai tu fatto giurare quest’uomo?… Non dovevi perdere ciò che ti doveva piuttosto che rovinare la sua anima? Gesù Cristo gli disse che per questa volta gli perdonava, ma che lo condannava ad essere staffilato; il che fu sull’istante eseguito dagli Angeli. Al domani si trovò tutto coperto di piaghe. — Voi mi direte: Devo perdere quello che mi si deve? — Sì, dovreste perdere quello che vi è dovuto: stimate voi, dunque, meno l’anima del vostro fratello che il vostro denaro? – Del resto, siete sicuri che se farete questo per Iddio, Egli non mancherà certo di ricompensarvene. I padri e le madri, i padroni e le padrone devono esaminarsi se non sono mai stati, per i loro figli o dipendenti, causa di qualche giuramento, pel timore d’essere maltrattati o rimproverati. Si giura tanto il vero che il falso. Guardatevi bene, quando sarete chiamati in giudizio, di non giurare mai il falso. Anche se non avete giurato, dovete esaminarvi se avete avuto il pensiero, e quante volte l’avete avuto; se avete consigliato agli altri di giurare il falso col pretesto, che, dicendo la verità, verrebbero condannati. Siete obbligati a dire tutto questo. Accusatevi anche se avete usato qualche astuzia di parole per dire in modo differente da quello che pensavate; perché siete obbligati di dire ciò che pensate, ciò che avete visto e sentito; altrimenti commettete un grave peccato. Dovete altresì accennare distintamente se avete fatto qualche cosa per indurre gli altri a mentire: così un padrone, che minacciasse il servo di maltrattarlo o di fargli perdere il posto, deve dir in confessione tutto questo, altrimenti la confessione non sarebbe che un sacrilegio. Lo Spirito Santo ci dice che il falso testimonio sarà punito rigorosamente (Deut. XIX, 18. 21).  – Ho detto che cos’è il giuramento e lo spergiuro; vediamo ora che cos’è la bestemmia. Vi sono molti che non sanno distinguere la bestemmia dal giuramento. Se non sapete distinguere l’uno dall’altra, non potete sperare che le vostre confessioni siano buone, poiché non fate conoscere i vostri peccati come li avete commessi. Ascoltatemi dunque, affinché abbiate a togliere questa ignoranza che certissimamente vi dannerà. Bestemmia è parola greca che vuol dire detestazione, maledizione d’una beltà infinita. S. Agostino ci dice (De morìbus Manichæorum lib. II, lib. XI) che si bestemmia quando si attribuisce a Dio quello che non ha o non gli conviene: quando gli si toglie quello che gli compete, o, infine, quando si attribuisce a sé quello che non è dovuto che a Dio. Spieghiamoci.

1° Noi bestemmiamo quando diciamo che Dio non è giusto, se ciò che facciamo od intraprendiamo non riesce.

2° Dire che Dio non è buono, come fanno alcuni nell’eccesso della loro miseria, è una bestemmia.

3° Bestemmiamo quando diciamo che Dio non sa tutto; che non bada a quello che avviene sulla terra; ch’Egli non sa che noi siamo al mondo; che tutto va a casaccio; che Dio non si cura di sì poca cosa; che venendo al mondo siamo destinati ad essere felici od infelici, o che Dio non vi muta nulla.

4° Quando diciamo: Se Iddio usasse misericordia con quel tale, non sarebbe proprio giusto, perché ne ha fatte troppe, e non merita che l’inferno.

5° Quando ci adiriamo con Dio per qualche perdita, e diciamo: No, Dio non può farmi più di quello che mi ha fatto. Ed è pure una bestemmia mettere a burla e motteggiare la Ss. Vergine od i Santi dicendo: È un santo che ha poca potenza; son già più giorni che prego… e non ho nulla ottenuto; certo non ricorro più a lui. È una bestemmia dire che Dio non è potente, e trattarlo indegnamente, come dicendo: A dispetto di Dio! ecc. – I Giudei avevano talmente in orrore questo peccato che, quando sentivano bestemmiare, si stracciavano le vesti in segno di dolore (Per esempio Caifa, durante la passione. Matth. X. vers. 65). Il santo Giobbe temeva questo peccato a tal segno che, nel timore che i suoi figli l’avessero a commettere, offriva a Dio dei sacrifizi in espiazione (Job. I, 5). Il profeta Nathan disse a Davide: Poiché sei stato la causa che si bestemmiasse Dio, tuo figlio morrà, ed i castighi non si allontaneranno dalla tua casa per tutta la tua vita (II Reg. XII, 14). Il Signore dice nella sacra Scrittura (Lev. XXIV, 16.): Chiunque bestemmierà il mio santo Nome, voglio sia messo a morte; quando gli Ebrei erano nel deserto, venne sorpreso un uomo che bestemmiava, ed il Signore ordinò che fosse ucciso a colpi di pietra (Lev. XXIV, 14). Sennacherib, re degli Assiri, che assediava Gerusalemme, aveva bestemmiato il Nome di Dio, dicendo che a dispetto di Dio prenderebbe la città e la metterebbe tutta a ferro e fuoco; il Signore allora mandò un Angelo, che in una sola notte uccise cento ottantacinquemila uomini, e il re stesso fu sgozzato dai suoi propri figli al suo ritorno a Ninive, nel tempio di Moloch, (IV Reg. XIX). Fin dal principio del mondo la bestemmia è sempre stata in orrore: essa è infatti il linguaggio dell’inferno, poiché il demonio ed i dannati non cessano di proferirla. Quando l’imperatore Giustino sapeva che qualcuno dei suoi sudditi aveva bestemmiato, gli faceva tagliare la lingua. Durante il regno del re Roberto, la Francia fu afflitta da una grande guerra. Il buon Dio rivelò ad un’anima santa che tutti questi mali durerebbero sino a che nel regno non si cessasse dal bestemmiare. Non è dunque uno straordinario miracolo, che una casa dove si trova un bestemmiatore non venga schiacciata dalla folgore, ed oppressa da ogni sorta di disgrazie? S. Agostino dice ancora che la bestemmia è un peccato più grave dello spergiuro; perché in questo si prende Dio come testimonio d’una cosa falsa; in quella invece è una cosa falsa che si attribuisce a Dio (S. Aug. Contra mendacium, c. XIX). Riconoscete dunque con me, F. M., l’enormità di questo peccato e la disgrazia di chi vi si abbandona. Quando taluno vi si è abbandonato, non deve temere che la giustizia di Dio lo punisca sull’istante come ha fatto con tanti altri? – Vediamo ora la differenza che passa tra la bestemmia ed il rinnegar Dio. Non voglio parlarvi di quelli, che rinnegano Dio abbandonando la Religione Cattolica per abbracciarne una falsa, come i protestanti, i giansenisti e tanti altri. Noi chiamiamo queste persone rinnegati ed apostati. Parlo ora di quelli che, dopo qualche perdita o qualche disgrazia, hanno la maledetta abitudine di uscire in parole di collera contro Dio. Questo peccato è orribile, perché per la minima cosa che ci accade, ce la prendiamo con Dio stesso, e ci adiriamo con Lui: è come se dicessimo a Dio: Siete un…! un… ! uno sciagurato, un vendicativo! Voi mi punite per quell’azione, voi siete ingiusto! Dio deve subire la nostra collera, come se fosse la causa della perdita che abbiamo fatto, dell’incidente che ci è toccato. Non fu questo tenero Salvatore che ci ha tratti dal nulla, che ci ha creati a sua immagine, che ci ha riscattati col proprio Sangue prezioso, e che ci conserva così lungamente, mentre meriteremo già da molti anni d’essere inabissati nell’inferno?… Egli ci ama di un amore ineffabile, e noi lo disprezziamo; profaniamo il suo santo Nome, lo spergiuriamo, lo rinneghiamo! Oh orrore! V’ha forse delitto più mostruoso? Non è imitare il linguaggio dei demoni? dei demoni, che null’altro fanno nell’inferno? Ahimè! F. M., se li imitate in questa vita, state ben certi di andare a far loro compagnia nell’inferno. Dio mio! può un Cristiano abbandonarsi a tali orrori! Una persona che s’abbandona a questo peccato deve aspettarsi una vita disgraziata, anche in questo mondo. Si racconta che un uomo, il quale aveva bestemmiato per tutta la sua vita, disse al prete che lo confessava: Ahimè! padre, quanto fu disgraziata la mia vita! Io avevo l’abitudine di giurare, di bestemmiare il Nome di Dio; ho perduto le mie ricchezze, che erano considerevoli; i miei figli, su cui non ho attirato che maledizioni, non sono buoni a nulla; la mia lingua, che ha giurato, bestemmiato il Nome santo di Dio, è ulcerata e va incancrenandosi. Ahimè! dopo essere stato disgraziato in questo mondo, temo di dannarmi in causa delle mie bestemmie. Ricordatevi, F. M., che la lingua non vi è stata data che per benedire il buon Dio; essa gli è stata consacrata col santo Battesimo e colla santa Comunione. Se per disgrazia andate soggetti a questo peccato, dovete confessarvene con grande dolore e farne un’aspra penitenza; altrimenti ne subirete il castigo nell’inferno. Purificate la vostra bocca, pronunciando con rispetto il Nome di Gesù. Domandate spesso a Dio la grazia di morire, piuttosto di ricadere in questo peccato. Non avete mai pensato quanto la bestemmia sia orribile davanti a Dio e davanti agli uomini? Ditemi, vi siete confessati come si deve? Non vi siete accontentato di dire che avete giurato, oppure che avete detto delle parole triviali? Esaminate la vostra coscienza, e non addormentatevi, poiché può darsi che le vostre confessioni non valgano nulla. – Vediamo ora che cosa s’intende per maledizione ed imprecazione. Ecco. Si cade nella maledizione quando, trascinati dall’odio o dalla collera, vogliamo annientare o rendere disgraziato chiunque si opponga alla nostra volontà. Queste maledizioni cadono su di noi, sui nostri simili, sulle creature animate od anche inanimate. Quando facciamo così, non operiamo secondo lo spirito di Dio, che è uno spirito di dolcezza, di bontà e di carità; ma secondo lo spirito del demonio, il cui ufficio è solo quello di maledire. Le maledizioni più cattive sono quelle che i padri e le madri invocano sui loro figli, per i grandi mali che ne seguono. Un figlio maledetto dai suoi genitori è ordinariamente, un figlio maledetto da Dio stesso; perché Dio ha detto che se i genitori benedicono i loro figli, Egli li benedirà: al contrario, se li maledicono, la maledizione cadrà su di loro. (Eccli. III, 11). S. Agostino ne cita un esempio degno d’essere impresso per sempre nel cuore dei padri e delle madri. Una madre, ci dice, incollerita, maledisse i suoi tre figli ed all’istante essi furono invasi dal demonio (De civ. Dei). Un padre disse ad uno dei suoi figli: Non morirai una benedetta volta dunque? Il figlio cadde morto a’ suoi piedi. Ciò che aggrava di più questo peccato, è che se un padre ed una madre hanno l’abitudine di commetterlo, i figli contrarranno la medesima abitudine, ed il vizio diventa ereditario nella famiglia. Se vi sono tante case disgraziate, e che sono veramente la soddisfazione dei demoni e l’immagine dell’inferno, ne troverete la spiegazione nelle bestemmie e nelle maledizione degli antenati, che sono passate da nonno in padre, da padre in figlio, e continuerete così di generazione in generazione. Voi avete sentito un padre incollerito pronunziar giuramenti, imprecazioni e maledizioni; ebbene! ascoltate i suoi figli quando sono in collera: hanno sulle labbra gli stessi giuramenti; le stesse imprecazioni. Così i vizi dei genitori passano nei loro figli, come le loro ricchezze e meglio ancora. Gli antropofagi non uccidono che gli stranieri per mangiarli; ma, fra i Cristiani vi sono dei padri e delle madri che, per soddisfare le loro passioni, augurano la morte a coloro ai quali essi stessi han dato la vita ed abbandonano al demonio tutti coloro che Gesù Cristo ha riscattati col suo Sangue prezioso. Quante volte si sente dire da questi padri e madri senza religione: Ah! maledetto ragazzo, non creperai… una volta? Mi dai fastidio; il buon Dio non ti punirà dunque una buona volta?… vorrei che tu fossi lontano da me quanto mi sei vicino! cane d’un ragazzo! demonio d’un figlio! Carogne di figli!… bestie! O mio Dio! possibile che tutte queste maledizioni escano dalla bocca d’un padre e d’una madre, i quali non dovrebbero augurare e desiderare ai loro poveri figli che le benedizioni del cielo? Se vediamo tanti figli scemi, storpi, stizzosi, senza religione, non cerchiamone la causa, almeno per la maggior parte dei casi, che nelle maledizioni dei genitori. – Qual è poi il peccato di coloro che nei momenti di malumore maledicono se stessi? È un delitto spaventoso, contrario alla natura e alla grazia; poiché la natura e la grazia ci comandano l’amore verso noi stessi. Chi maledice se stesso rassomiglia ad un arrabbiato, che si uccide colle proprie mani; egli è anche peggiore; spesso se la prende colla sua anima, dicendo: Che Dio mi danni! che il diavolo mi porti via! vorrei essere all’inferno piuttosto che in questa condizione! Ah! disgraziato, dice S. Agostino, che Dio non ti esaudisca; perché andresti a vomitare il veleno della tua rabbia nell’inferno! Mio Dio! se un Cristiano pensasse a ciò che dice, avrebbe la forza di pronunciare queste bestemmie, che potrebbero, in qualche modo, obbligare Dio a maledirlo dall’alto del suo trono? Oh! quanto è disgraziato un uomo soggetto alla collera! Egli costringe a punirlo quel Dio, il quale non vorrebbe che il suo bene e la sua felicità! Si riuscirà mai a comprendere questa cosa? – Qual è pure il peccato d’un marito e d’una moglie, d’un fratello e d’una sorella che vomitano l’un contro l’altro ogni sorta di maledizioni? È un peccato di cui non si potrà mai esprimere l’enormità; è un peccato tanto più grande quanto più rigorosamente essi sono obbligati ad amarsi ed a sopportarsi a vicenda. Ahimè! Quante persone maritate non cessano di vomitarsi vicendevolmente ogni sorta di maledizioni! Un marito ed una moglie che non dovrebbero farsi che dei felici augùri, e sollecitare la misericordia di Dio per ottenere l’un per l’altro d’andar in cielo a passare insieme l’eternità, si caricano di maledizioni; si strapperebbero, potendolo, gli occhi, si toglierebbero la vita! Maledetta moglie, o maledetto marito, gridano, non t’avessi, almeno, mai visto o conosciuto! Ah! maledetto mio padre, che m’ha consigliato di sposarti! … Mio Dio! quale orrore per dei Cristiani, i quali non dovrebbero occuparsi che di diventar santi! Essi fanno come i demoni ed i dannati! Quanti fratelli e sorelle vediamo augurarsi la morte, maledirsi, perché uno è più ricco, o per qualche ingiuria ricevuta; e conservare spesso l’odio per tutta la vita, ed a stento perdonarsi anche prima di morire! È altresì un grave peccato maledire il tempo, le bestie, il proprio lavoro. Quante persone, quando il tempo non è come vorrebbero, lo maledicono, dicendo: Maledetto tempaccio, non ti cambierai più dunque? Voi non sapete quello che dite: è come se diceste: Ah! maledetto Dio, che non mi dai il tempo come vorrei. Altri maledicono le loro bestie : Ah! maledetta bestia, non potrò farti andare come voglio?… Che il diavolo ti porti via, che il fulmine ti annienti! che il fuoco del cielo ti abbruci!… Ah! disgraziati, le vostre maledizioni hanno il loro effetto, più spesso che non crediate. Spesso alcune bestie periscono o si storpiano, e ciò in conseguenza dello maledizioni che avete loro date. Quante volte le vostre maledizioni, i vostri impeti di collera, le vostre bestemmie hanno attirato la brina o la grandine sui vostri raccolti! – Ma qual è il peccato di coloro che augurano male al prossimo? Questo peccato è grande in proporzione del male che augurate, e del danno che gli procurerebbe, se ciò si avverasse. Voi dovete accusarvene ogni. qualvolta fate di questi augùri. Quando vi confessate dovete dire quale male avete augurato, e quale danno ne sarebbe avvenuto se il vostro augurio si fosse adempito. Dovete spiegare se si trattava dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, dei vostri cugini o cugine, zii o zie. Ahimè! Quanto pochi sono quelli che confessandosi fanno queste distinzioni! Si saran maledetti i fratelli, le sorelle, i cugini, le cugine, e si starà contenti di dire che si ha augurato male al prossimo, senza dire a chi, né quale era l’intenzione. Quanti altri hanno fatto giuramenti orribili, pronunciato bestemmie, imprecazioni, rinnegamenti di Dio da far rizzare i capelli in capo, e si accontentano di dire che hanno detto parole grossolane e nient’altro. Una parola grossolana, lo sapete, è una specie di piccola imprecazione detta senza collera. Ahimè, quante confessioni e comunioni sacrileghe! Ma, mi direte, che cosa bisogna fare per non commettere questi peccati, che sono così orribili e capaci di attirare su di noi ogni sorta di disgrazie? —Bisogna che tutte le pene che ci colpiscono ci facciano ricordare che, essendoci noi ribellati contro Dio, è giusto che le creature si rivoltino contro di noi. Bisogna non dar mai occasione agli altri di maledirci. I figli ed i servi soprattutto devono fare il possibile per non obbligare i genitori ed i padroni a maledirli, poiché è certo, presto o tardi toccherà loro qualche castigo. I padri e madri devono considerare che non hanno nulla di più caro al mondo che i loro figli, e lungi dal maledirli, non devono cessare di benedirli affinché Dio effonda su di loro i beni che essi augurano. Se vi capita qualche cosa di doloroso, invece di coprire di maledizioni chi non fa come voi vorreste, vi sarebbe ben facile dire: Dio vi benedica. Imitate il santo Giobbe che benediceva il Nome del Signore in tutte le grandi sventure che gli toccavano, e riceverete le stesse grazie. Vedendo la sua grande sottomissione alla volontà di Dio, il demonio fuggì, le benedizioni si sparsero abbondantemente sulle sue ricchezze, e tutto gli venne raddoppiato. Se, per disgrazia, vi capita di pronunciare qualcheduna di queste cattive parole, fate subito un atto di contrizione per domandarne perdono, e promettete che non vi ricadrete mai più. S. Teresa ci dice che, quando pronunciamo con rispetto il Nome di Dio, tutto il cielo si rallegra; come fa l’inferno, quando pronunciamo ogni cattiva parola. Un Cristiano non deve perdere di vista che la sua lingua non gli è data che per benedire Dio in questa vita, ringraziarlo dei beni di cui l’ha colmato, per benedirlo durante tutta l’eternità cogli Angeli e coi santi: questa sarà la sorte di quelli che avranno imitato gli Angeli e non il demonio. Io ve la desidero…

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Job I. 1
Vir erat in terra Hus, nómine Job: simplex et rectus ac timens Deum: quem Satan pétiit ut tentáret: et data est ei potéstas a Dómino in facultátes et in carnem ejus: perdidítque omnem substántiam ipsíus et fílios: carnem quoque ejus gravi úlcere vulnerávit.

[Vi era, nella terra di Hus, un uomo chiamato Giobbe, semplice, retto e timorato di Dio. Satana chiese di tentarlo e dal Signore gli fu dato il potere sui suoi beni e sul suo corpo. Egli perse tutti i suoi beni e i suoi figli, e il suo corpo fu colpito da gravi ulcere.]

Secreta

Suscipe, Dómine, propítius hóstias: quibus et te placári voluísti, et nobis salútem poténti pietáte restítui.

[Ricevi, propizio, o Signore, queste offerte con le quali volesti essere placato e con potente misericordia restituire a noi la salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 81; 84; 86
In salutári tuo ánima mea, et in verbum tuum sperávi: quando fácies de persequéntibus me judícium? iníqui persecúti sunt me, ádjuva me, Dómine, Deus meus.

[L’ànima mia ha sperato nella tua salvezza e nella tua parola: quando farai giustizia di coloro che mi perseguitano? Gli iniqui mi hanno perseguitato, aiutami, o Signore, Dio mio.]

Postcommunio

Orémus.
Immortalitátis alimoniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, quod ore percépimus, pura mente sectémur.

[Ricevuto il cibo dell’immortalità, Ti preghiamo, o Signore, affinché di ciò che abbiamo ricevuto con la bocca, conseguiamo l’effetto con animo puro]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SULLA COLLERA”

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla collera.

Tenens suffocabat eum, dicens: Redde quod debes.

(MATTH. XVIII, 28).

Come sono differenti i sentimenti dell’uomo da quelli di Dio! Questo miserabile, cui era stato condonato tutto ciò che doveva al suo padrone, invece di sentirsi mosso a riconoscenza ed esser pronto ad usare la medesima indulgenza verso il suo fratello, non appena lo scorge, monta su tutte le furie, non sa trattenersi, lo prende per la gola e sembra volerlo strozzare. L’altro può ben gettarglisi ai piedi per domandargli grazia, niente lo commuove, niente lo trattiene. Bisogna che sfoghi il suo furore contro quell’infelice, e lo fa gettare in prigione finché abbia pagato il debito. Tale è, Fratelli miei, la condotta della gente del mondo. Dio ci è rappresentato nel padrone. Se Egli ci condona volontariamente quanto dobbiamo alla sua giustizia, se ci tratta con tanta bontà e dolcezza, è perché, dietro il suo-esempio, noi ci abbiamo a comportare allo stesso modo coi nostri fratelli. Ma un uomo, ingrato e violento, dimentica subito ciò che il buon Dio ha fatto per lui. Per un nonnulla lo si vedrà abbandonarsi a tutto il furore d’una passione così indegna di un Cristiano, e così oltraggiosa verso un Dio di dolcezza e di bontà. Temiamo, F. M., una passione così malvagia, così capace di allontanarci da Dio e che fa condurre a noi ed a tutti quelli che ci circondano una vita infelice. Vi mostrerò:

1° quanto la collera oltraggi Dio;

2° quanto sia indegna d’un Cristiano

I. — Non intendo parlarvi di quelle piccole impazienze, di quei borbottamenti che sono così frequenti. Sapete che ogniqualvolta non vi frenate offendete Dio. Sebbene questi non siano ordinariamente peccati mortali, non dovete però mancare di accusarvene. Se voi mi domandate che cos’è la collera, vi risponderò che è un moto violento, impetuoso dell’anima, che rigetta con veemenza ciò che le dispiace. Se apriamo i libri santi dove si contengono le azioni degli uomini che formarono l’ammirazione del cielo e della terra, vediamo dappertutto che essi hanno sempre avuto in orrore questo maledetto peccato, e che l’hanno considerato come segno di riprovazione. Frattanto vi dirò con S. Tommaso che v’ha una santa collera, la quale proviene dallo zelo che abbiamo nel difendere la causa di Dio. Si può, dice egli, qualche volta adirarsi senza offendere Dio, secondo il Re profeta: Adiratevi; ma non peccate„. (Ps. IV, 5) Vi ha dunque una collera giusta e ragionevole, la quale si può piuttosto chiamare zelo che collera. La sacra Scrittura ce ne mostra un gran numero d’esempi. Vi leggiamo che Finees (Num. XXV), uomo che temeva il Signore e sosteneva la sua causa, entrò in una santa collera alla vista dello scandaloso peccato di un Giudeo con una Madianita, e li uccise con un colpo di spada. Non solo egli non offese il Signore colla morte di quei due miserabili, ma al contrario fu lodato del suo zelo nel vendicar le offese che gli si facevano. E tale fu la condotta di Mosè. Indignato perché gli Israeliti avevano adorato un vitello d’oro disprezzando il vero Dio, ne fece uccidere ventitré mila per vendicare il Signore; e ciò per ordine di Dio stesso (Exod. XXXII, 28). Tale ancora fu quella di Davide che, fin dal mattino, dichiarava guerra a tutti quei grandi peccatori che passavano la vita oltraggiando Iddio (Ps C, 8). E tale infine fu quella di Gesù Cristo stesso, quando entrò nel tempio per scacciare quelli che compravano e vendevano, dicendo loro: “La mia casa è casa di preghiera, e voi ne avete fatto una spelonca di ladri (Matt. XXI, 13)„. – Tale deve essere la collera d’un pastore, cui sta a cuore la salute dei suoi parrocchiani e la gloria di Dio. Se un pastore resta muto vedendo Dio oltraggiato e le anime perdersi, guai a lui! Se non vuol dannarsi bisogna che, se vi è qualche disordine in parrocchia, metta sotto i piedi il rispetto umano ed il timore d’essere odiato o disprezzato dai suoi parrocchiani, e quand’anche fosse certo d’esser ucciso appena sceso dal pulpito, ciò non deve trattenerlo. Un pastore che vuol adempiere il suo dovere deve sempre avere la spada in mano per difendere gli innocenti, ed incalzare i peccatori finché non siano ritornati a Dio; questo continuo incalzare deve durare fino alla morte. Se non fa così, è un cattivo sacerdote, che perde le anime, invece di condurle a Dio. Se vedete succedere qualche scandalo nella vostra parrocchia, ed i vostri pastori non dicono nulla; guai a voi, perché Dio mandandovi tali pastori vi punisce. Dico dunque che tutte queste collere non sono che sante collere, lodate ed approvate da Dio stesso. Se tutte le vostre collere fossero così, non si potrebbe che lodarvi. Ma quando riflettiamo un poco su ciò che avviene nel mondo, quando s’odono tanti sussurri, si vedono dissensioni regnare tra vicini e vicine tra fratelli e sorelle; riconosciamo in ciò un passione violenta, ingiusta, viziosa ed irragionevole, di cui occorre mostrarvi gli effetti dannosi, per farvene concepire l’orrore che merita. Ascoltate quello che ci dice lo Spirito Santo: L’uomo quando s’incollerisce, non solo perde la sua anima ed il suo Dio, ma accorcia anche i suoi giorni,« Zelus et iracundia minuunt dies ». (Eccli. XXX, 26). – Ve lo provo con un esempio sorprendente. Leggiamo nella storia della Chiesa che l’imperatore Valentiniano, ricevendo gli ambasciatori dei Quadi, s’infuriò così grandemente, che perdette il respiro e morì sull’istante. Dio mio! che orrore! che, passione detestabile e mostruosa! essa dà la morte a chi se ne lascia soggiogare. So bene che non si va di frequente a tali eccessi; ma quante donne incinte, abbandonandosi alla collera, fanno perire i loro poveri figli prima di aver loro dato la luce ed il battesimo! Questi disgraziati non avranno dunque mai più fortuna di vedere Dio! Nel giorno del giudizio li vedremo perduti: essi non andranno mai in cielo! E la collera d’una madre ne sarà stata la sola causa! Ahimè! questi poveri fanciulli gridano spesso nell’inferno: Ah, maledetto peccato di collera, di quanti beni ci hai privati!… tu ci hai strappato il cielo; tu ci hai condannati ad essere divorati dalle fiamme! Dio mio, quanti beni ci ha strappati questo peccato! Addio, bel cielo, noi non ti vedremo mai: ah! quale disgrazia!… Mio Dio, una donna che si fosse resa colpevole d’un tal delitto, potrebbe vivere senza versare giorno e notte torrenti di lacrime, e non ripetere ad ogni momento: Disgraziata, che hai fatto? dov’è il tuo povero bambino? tu l’hai gettato nell’inferno. Ahimè! quali rimproveri nel giorno del giudizio, quando lo vedrai venire a domandarti il cielo! Questo povero bambino si getterà sulla madre con un furore spaventoso. Ah! madre! le dirà, maledetta madre! rendimi il cielo! tu me l’hai strappato! Questo bel cielo che non vedrò mai, te lo domanderò per tutta l’eternità; questo bel cielo che la collera d’una madre mi ha fatto perdere!… Mio Dio! che disgrazia! Eppure quanto è grande il numero di questi poveri bambini! — Una donna incinta, confessandosi d’un peccato di collera, se vuol salvarsi non deve mancare di far conoscere il suo stato, perché invece d’un peccato mortale può averne commessi due. Se non fate così, cioè se non dite questa circostanza, dovete dubitare delle vostre confessioni. Così un marito che ha fatto incollerire sua moglie deve accusarsi di questa circostanza, e lo stesso devono fare tutti coloro che si sono resi colpevoli del medesimo fallo. Ahimè! come son pochi quelli che si accusano di questo! Mio Dio! quante confessioni cattive! Il profeta Isaia ci dice che l’uomo in collera è simile ad un mare in tempesta. (Isa. LVII,20). Bella similitudine, F. M… Infatti, niente rispecchia meglio il cielo come il mare quand’è calmo; è un grande specchio nel quale gli astri sembrano riprodursi; ma subito, quando l’uragano commove le acque, tutte queste celesti immagini scompaiono. Così, l’uomo che ha la fortuna di conservare la pazienza e la dolcezza è, in questa calma, un’immagine sensibile di Dio. Ma non appena la collera e l’impazienza hanno distrutta questa calma, l’immagine della divinità scompare. Quest’uomo cessa d’essere l’immagine di Dio, e diventa l’immagine del demonio. Ne ripete le bestemmie, ne riproduce il furore. Quali sono i pensieri del demonio? Non sono che pensieri di odio, di vendetta, di divisione, e tali sono quelli di un uomo in collera. Quali sono le espressioni del demonio? Maledizioni e bestemmie orribili. Se ascolto un uomo in collera, dalla sua bocca non si sentono che spergiuri e maledizioni. Mio Dio! che triste compagnia è quella d’una persona che va soggetta alla collera! Vedete una povera donna che ha un tal marito: se essa ha il timor di Dio e vuol evitare a lui delle offese, ed a sé dei cattivi trattamenti, non può dire una sola parola, anche se ne avesse il più gran desiderio. Bisogna che si accontenti di lamentarsi e piangere in segreto, per poter vivere d’accordo e non dare scandalo. — Ma, mi dirà un uomo stizzoso, perché ella mi resiste? sa bene che sono stizzoso. — Voi, amico, siete stizzoso, ma credete che gli altri non lo siano al par di voi? Dite piuttosto che non avete religione, e direte quello che veramente siete. Una persona che ha il timor di Dio non deve forse saper domare le proprie passioni, invece di lasciarsi domare da esse? – Ahimè! se ho detto che vi sono delle mogli disgraziate perché hanno mariti furiosi; vi sono dei mariti che non sono meno disgraziati con donne, che non sapranno mai dire una parola dolce, che per un nonnulla s’infuriano e vanno fuori di sé. Ma quale disgrazia in un matrimonio quando né l’uno né l’altra si vogliono piegare; sono continui alterchi, collere e maledizioni. Gran Dio! Non è questo un vero inferno anticipato? Ahimè! a quale scuola sono quei poveri fanciulli? quali lezioni di bontà e di dolcezza ricevono? S. Basilio ci dice che la collera ronde l’uomo simile al demonio, perché non vi sono che i demoni capaci di abbandonarsi a tale sorta di eccessi. Una persona in questo stato ad un leone furente, il cui ruggito fa di terrore gli altri animali. Vedete Erode, poiché i re Magi l’avevano ingannato, preso da tale collera, o meglio da tale ira che fece sgozzare tutti i piccoli fanciulli di Betlemme e dei dintorni (Matt. II, 16). E non si tentò di questi orrori, ma fece pugnalare che sua moglie ed i suoi figli. Ahimè! poveri fanciulli sono storpiati per loro vita, per i crudeli colpi che hanno avuti dai loro genitori in questi eccessi di collera! Ma aggiungo che la collera quasi mai sola, essa è sempre accompagnata, come vedremo, da molti altri peccati.

II. — La collera trascina con sé spergiuri, bestemmie, rinnegamenti di Dio, maledizioni, imprecazioni. S. Tommaso ci dice che il giurare è un peccato così grave, così orribile agli occhi di Dio, che noi non potremo mai comprendere l’oltraggio che gli fa. Questo peccato non è come gli altri che per la leggerezza della materia sono soltanto peccati veniali. Nei giuramenti, più la materia è leggera, e più il peccato è grave, perché è un maggior disprezzo ed una maggior profanazione del santo Nome di Dio. Lo Spirito Santo ci assicura che la casa dell’uomo solito a giurare sarà piena d’iniquità, e non cesseranno per essa i castighi di Dio fino a che non sarà distrutta (Eccli. XXIII, 12). Si può sentire senza fremere questi disgraziati, che osano portare il loro furore fino a giurare sul santo Nome di Dio, questo Nome adorabile che gli Angeli con tanta gioia ripetono incessantemente: “Santo, santo, santo, è il Dio degli eserciti! sia benedetto per tutti i secoli de’ secoli! „ Se si riflettesse bene prima di usare la lingua, che essa è un organo datoci da Dio per pregarlo, per cantare le sue lodi; che questa lingua è stata bagnata dal Sangue prezioso di Gesù Cristo, che essa tante volte ha servito di altare al Salvatore stesso; si potrebbe servirsene per oltraggiare un Dio così buono, e per profanare un Nome così santo e così rispettabile?… Vedete come i santi abborrivano i giuramenti. S. Luigi, re di Francia, aveva fatta una legge per la quale chi giurasse avrebbe la lingua forata da un ferro rovente. Un cittadino di Parigi, in un alterco, giurò il sanito Nome di Dio. Fu condotto davanti al re, che tosto lo condannò ad avere forata la lingua. Essendo venuti tutti i personaggi insigni della città per domandare grazia, re rispose loro che, se egli avesse avuto sventura di cadere in tale peccato, da stesso se la sarebbe traforata. Ed ordinò che la sentenza fosse eseguita. Quando andò a combattere in Terra santa, venne fatto prigioniero. Gli si domandò un giuramento che, del resto, non sembrava offendere la sua coscienza, tuttavia, preferì esporsi alla morte, tanto temeva di giurare (Ribadeneira, 25 Ag.). Perciò vediamo che chi giura spesso, d’ordinario è una persona abbandonata da Dio, oppressa da mille disgrazie che fa non di rado una fine infelice. Leggiamo nella storia un esempio che può ispirarci il più grande orrore pel giuramento. Quando S. Narciso governava la chiesa di Gerusalemme, tre libertini lo calunniarono orribilmente, appoggiando le loro asserzioni con tre esecrabili giuramenti. Il primo disse che, so quanto affermava non era vero, voleva essere abbruciato vivo; l’altro che voleva morire di male caduco; ed il terzo che  voleva gli fossero strappati gli occhi. Per queste calunnie, S. Narciso fu scacciato dalla città come un infame, cioè come un Vescovo che s’abbandonava ad ogni sorta d’impurità. Ma la vendetta di Dio non tardò a punire quegli infelici. Essendosi appiccato il fuoco alla casa del primo, questi vi restò abbruciato vivo. Il secondo morì di male caduco; il terzo, spaventato da sì orribili castighi, perdette la vista piangendo i suoi peccati. So che questi giuramenti avvengono di rado. I più ordinari sono: In fede mia! — In coscienza! — Mio Dio! sì; — Mio Dio! no; perbacco! — caspita! — cane d’un…! – Quando vi confessate, dovete dire il perché avete giurato; se per affermare cose false o vere: se avete fatto giurare altre persone, perché non volevate credere ad esse. Dovete dire se ne avete l’abitudine, e da quanto tempo. Bisogna poi guardarsi bene di non aggiungere al giuramento l’imprecazione. Vi sono alcuni che dicono: “Se questo non è vero, che non mi muova mai più di qui; che non veda il cielo; che Dio mi danni! che la peste mi soffochi! che il diavolo mi porti via! …„ Ahimè! amico, forse il diavolo non aspetta che la tua morte per portarti via! … Dovete dire nelle vostre confessioni, se ciò che avete detto era o no contro la verità. Alcuni credono che non sia alcun male giurando per assicurare che una cosa è vera. Il male, non è certo così grave come se si fosse giurata una cosa falsa; ma è sempre un peccato e grave. Siete adunque obbligati di accusarvene sempre, senza di che vi dannerete. Eccone un esempio che fa tremare. Si racconta nella vita di S. Edoardo, re d’Inghilterra (Ribadeneira, 13 ott.) che il conte Gondevino, suocero del re era così geloso che non poteva sopportare persona alcuna vicino al re. Il re l’accusò un giorno d’aver cooperato all’uccisione di suo fratello. Il conte rispose che se ciò era vero, voleva che un boccone di pane lo soffocasse. Il re fece il segno di croce su un pezzo di pane; il suocero lo prese e, mentre l’inghiottiva, il pane gli s’infisse nella gola, lo soffocò, morì. Terribile punizione, F. M. Ahimè! dove andò la sua povera anima, poiché morì nell’atto di commettere questo peccato? Non solo non dobbiamo giurare per qualunque pretesto, anche se si trattasse di perdere i beni, l’onore e la vita; perché, giurando, perdiamo il cielo, il nostro Dio e la nostra anima; ma non dobbiamo nemmeno far giurare gli altri. S. Agostino ci dice (Serm. CCCVIII) che, se prevediamo che quelli che facciamo chiamare in giudizio, giureranno il falso, non dobbiamo farli chiamare; noi siamo colpevoli al par loro, ed ancor più colpevoli che se togliessimo loro la vita. Infatti, uccidendoli, non facciamo che dare la morte al loro corpo, se non hanno la fortuna di essere in istato di grazia; il male è tutto nostro: invece facendoli giurare, perdiamo la loro povera anima, e la perdiamo per tutta l’eternità. Si racconta che un cittadino di Ippona, uomo dabbene, ma molto attaccato alla terra, costrinse uno, cui aveva prestato del denaro, a giurare in giudizio; costui giurò il falso. La stessa notte, si trovò in sogno presentato al tribunale di Dio. — Perché hai tu fatto giurare quest’uomo?… Non dovevi perdere ciò che ti doveva piuttosto che rovinare la sua anima? Gesù Cristo gli disse che per questa volta gli perdonava, ma che lo condannava ad essere staffilato; il che fu sull’istante eseguito dagli Angeli. Al domani si trovò tutto coperto di piaghe. — Voi mi direte: Devo perdere quello che mi si deve? — Sì, dovreste perdere quello che vi è dovuto: stimate voi, dunque meno l’anima del vostro fratello che il vostro denaro? – Del resto, siete sicuri che se farete questo per Iddio, Egli non mancherà certo di ricompensarvene. I padri e le madri, i padroni e le padrone devono esaminarsi se non sono mai stati, per i loro figli o dipendenti, causa di qualche giuramento, pel timore d’essere maltrattati o rimproverati. Si giura tanto il vero che il falso. Guardatevi bene, quando sarete chiamati in giudizio, di non giurare mai il falso. Anche se non avete giurato, dovete esaminarvi se avete avuto il pensiero, e quante volte l’avete avuto; se avete consigliato agli altri di giurare il falso col pretesto, che, dicendo la verità, verrebbero condannati. Siete obbligati a dire tutto questo. Accusatevi anche se avete usato qualche astuzia di parole per dire in modo differente da quello che pensavate; perché siete obbligati di dire ciò che pensate, ciò che avete visto e sentito; altrimenti commettete un grave peccato. Dovete altresì accennare distintamente se avete fatto quale cosa per indurre gli altri a mentire: così un padrone, che minacciasse il servo di maltrattarlo o di fargli perdere il posto, deve dir in confessione tutto questo, altrimenti la confessione non sarebbe che un sacrilegio. Lo Spirito Santo ci dice che il falso testimonio sarà punito rigorosamente (Deut. XIX, 18. 21).  – Ho detto che cos’è il giuramento e lo spergiuro; vediamo ora che cos’è la bestemmia. Vi sono molti che non sanno distinguere la bestemmia dal giuramento. Se non sapete distinguere l’uno dall’altra, non potete sperare che le vostre confessioni siano buone, poiché non fate conoscere i vostri peccati come li avete commessi. Ascoltatemi dunque, affinché abbiate a togliere questa ignoranza che certissimamente vi dannerà. Bestemmia è parola greca che vuol dire detestazione, maledizione d’una beltà infinita. S. Agostino ci dice (De morìbus Manichæorum lib. II, lib. XI) che si bestemmia quando si attribuisce a Dio quello che non ha o non gli conviene: quando gli si toglie quello che gli compete, o, infine, quando si attribuisce a sé quello che non è dovuto che a Dio. Spieghiamoci.

1° Noi bestemmiamo quando diciamo che Dio non è giusto, se ciò che facciamo od intraprendiamo non riesce.

2° Dire che Dio non è buono, come fanno alcuni nell’eccesso della loro miseria, è una bestemmia.

3° Bestemmiamo quando diciamo che Dio non sa tutto; che non bada a quello che avviene sulla terra; ch’Egli non sa che noi siamo al mondo; che tutto va a casaccio; che Dio non si cura di sì poca cosa; che venendo al mondo siamo destinati ad essere felici od infelici, o che Dio non vi muta nulla.

4° Quando diciamo: Se Iddio usasse misericordia con quel tale, non sarebbe proprio giusto, perché ne ha fatte troppe, e non merita che l’inferno.

5° Quando ci adiriamo con Dio por qualche perdita, e diciamo: No, Dio non può farmi più di quello che mi ha fatto. Ed è pure una bestemmia mettere a burla e motteggiare la Ss. Vergine od i santi dicendo: È un santo che ha poca potenza, son già più giorni che prego… e non ho nulla ottenuto; certo non ricorro più a lui. È una bestemmia dire che Dio non è potente, e trattarlo indegnamente, come dicendo: A dispetto di Dio! ecc. – I Giudei avevano talmente in orrore questo peccato che, quando sentivano bestemmiare, si stracciavano le vesti in segno di dolore (Per esempio Caifa, durante la passione. Matth. X. vers. 65). Il santo Giobbe temeva questo peccato a tal segno che, nel timore che i suoi figli l’avessero a commettere, offriva a Dio dei sacrifizi in espiazione (Job. I, 5). Il profeta Nathan disse a Davide: Poiché sei stato la causa che si bestemmiasse Dio, tuo figlio morrà, ed i castighi non si allontaneranno dalla tua casa per tutta la tua vita (II Reg. XII, 14). Il Signore dice nella sacra Scrittura (Lev. XXIV, 16.): Chiunque bestemmierà il mio santo Nome, voglio sia messo a morte; quando gli Ebrei erano nel deserto, venne sorpreso un uomo che bestemmiava, ed il Signore ordinò che fosse ucciso a colpi di pietra (Lev. XXIV, 14). Sennacherib, re degli Assiri, che assediava Gerusalemme, aveva bestemmiato il Nome di Dio, dicendo che a dispetto di Dio prenderebbe la città e la metterebbe tutta a ferro e fuoco; il Signore allora mandò un Angelo, che in una sola notte uccise cento ottantacinquemila uomini, e il re stesso fu sgozzato dai suoi propri figli (al suo ritorno a Ninive, nel tempio di Moloch, IV Reg. XIX). Fin dal principio del mondo la bestemmia è sempre stata in orrore: essa è infatti il linguaggio dell’inferno, poiché il demonio ed i dannati non cessano di proferirla. Quando l’imperatore Giustino sapeva che qualcuno dei suoi sudditi aveva bestemmiato, gli faceva tagliare la lingua. Durante il regno del re Roberto, la Francia fu afflitta da una grande guerra. Il buon Dio rivelò ad un’anima santa che tutti questi mali durerebbero sino a che nel regno non si cessasse dal bestemmiare. Non è dunque uno straordinario miracolo, che una casa dove si trova un bestemmiatore non venga schiacciata dalla folgore, ed oppressa da ogni sorta di disgrazie? S. Agostino dice ancora che la bestemmia è un peccato più grave dello spergiuro; perché in questo si prende Dio come testimonio d’una cosa falsa; in quella invece è una cosa falsa che si attribuisce a Dio (S. Aug. Contra mendacium, c. XIX). Riconoscete dunque con me, F. M., l’enormità di questo peccato e la disgrazia di chi vi si abbandona. Quando taluno vi si è abbandonato, non deve temere che la giustizia di Dio lo punisca sull’istante come ha fatto con tanti altri? – Vediamo ora la differenza che passa tra la bestemmia ed il rinnegar Dio. Non voglio parlarvi di quelli, che rinnegano Dio abbandonando la Religione Cattolica per abbracciarne una falsa, come i protestanti, i giansenisti e tanti altri. Noi chiamiamo queste persone rinnegati ed apostati. Parlo ora di quelli che, dopo qualche perdita o qualche disgrazia, hanno la maledetta abitudine di uscire in parole di collera contro Dio. Questo peccato è orribile, perché per la minima cosa che ci accade, ce la prendiamo con Dio stesso, e ci adiriamo con Lui: è come se dicessimo a Dio: Siete un…! un… ! uno sciagurato, un vendicativo! Voi mi punite per quell’azione, voi siete ingiusto! Dio deve subire la nostra collera, come se fosse la causa della perdita che abbiamo fatto, dell’incidente che ci è toccato. Non fu questo tenero Salvatore che ci ha tratti dal nulla, che ci ha creati a sua immagine, che ci ha riscattati col proprio Sangue prezioso, e che ci conserva così lungamente, mentre meriteremo già da molti anni d’essere inabissati nell’inferno?… Egli ci ama di un amore ineffabile, e noi lo disprezziamo; profaniamo il suo santo Nome, lo spergiuriamo, lo rinneghiamo! Oh orrore! V’ha forse delitto più mostruoso? Non è imitare il linguaggio dei demoni? dei demoni, che null’altro fanno nell’inferno? Ahimè! F. M., se li imitate in questa vita, state ben certi di andare a far loro compagnia nell’inferno. Dio mio! può un Cristiano abbandonarsi a tali orrori! Una persona che s’abbandona a questo peccato deve aspettarsi una vita disgraziata, anche in questo mondo. Si racconta che un uomo, il quale aveva bestemmiato per tutta la sua vita, disse al prete che lo confessava: Ahimè! padre, quanto fu disgraziata la mia vita! Io avevo l’abitudine di giurare, di bestemmiare il Nome di Dio; ho perduto le mie ricchezze, che erano considerevoli; i miei figli, su cui non ho attirato che maledizioni, non sono buoni a nulla; la mia lingua, che ha giurato, bestemmiato il Nome santo di Dio, è ulcerata e va incancrenandosi. Ahimè! dopo essere stato disgraziato in questo mondo, temo di dannarmi in causa delle mie bestemmie. Ricordatevi, F. M., che la lingua non vi è stata data che per benedire il buon Dio; essa gli è stata consacrata col santo Battesimo e colla santa Comunione. Se per disgrazia andate soggetti a questo peccato, dovete confessarvene con grande dolore e farne un’aspra penitenza; altrimenti ne subirete il castigo nell’inferno. Purificate la vostra bocca, pronunciando con rispetto il Nome di Gesù. Domandate spesso a Dio la grazia di morire, piuttosto di ricadere in questo peccato. Non avete mai pensato quanto la bestemmia sia orribile davanti a Dio e davanti agli uomini? Ditemi, vi siete confessati come si deve? Non vi siete accontentato di dire che avete giurato, oppure che avete detto delle parole triviali? Esaminate la vostra coscienza, e non addormentatevi, poiché può darsi che le vostre confessioni non valgano nulla. – Vediamo ora che cosa s’intende per maledizione ed imprecazione. Ecco. Si cade nella maledizione quando, trascinati dall’odio o dalla collera, vogliamo annientare o rendere disgraziato chiunque si opponga alla nostra volontà. Queste maledizioni cadono su di noi, sui nostri simili, sulle creature animate od anche inanimate. Quando facciamo così, non operiamo secondo lo spirito di Dio, che è uno spirito di dolcezza, di bontà e di carità; ma secondo lo spirito del demonio, il cui ufficio è solo quello di maledire. Le maledizioni più cattive sono quelle che i padri e le madri invocano sui loro figli, per i grandi mali che ne seguono. Un figlio maledetto dai suoi genitori è ordinariamente, un figlio maledetto da Dio stesso; perché Dio ha detto che se i genitori benedicono i loro figli, Egli li benedirà: al contrario, se li maledicono, la maledizione cadrà su di loro. (Eccli. III, 11). S. Agostino ne cita un esempio degno d’essere impresso per sempre nel cuore dei padri e delle madri. Una madre, ci dice, incollerita, maledisse i suoi tre figli ed all’istante essi furono invasi dal demonio (De civ. Dei). Un padre disse ad uno dei suoi figli: Non morirai una benedetta volta dunque? Il figlio cadde morto a’ suoi piedi. Ciò che aggrava di più questo peccato, è che se un padre ed una madre hanno l’abitudine di commetterlo, i figli contrarranno la medesima abitudine, ed il vizio diventa ereditario nella famiglia. Se vi sono tante case disgraziate, e che sono veramente la soddisfazione dei demoni e l’immagine dell’inferno, ne troverete la spiegazione nelle bestemmie e nelle maledizioni degli antenati, che sono passate da nonno in padre, da padre in figlio, e continuerete così di generazione in generazione. Voi avete sentito un padre incollerito pronunziar giuramenti, imprecazioni e maledizioni; ebbene! ascoltate i suoi figli quando sono in collera: hanno sulle labbra gli stessi giuramenti; le stesse imprecazioni. Così i vizi dei genitori passano nei loro figli, come le loro ricchezze e meglio ancora. Gli antropofagi non uccidono che gli stranieri per mangiarli; ma, fra i Cristiani vi sono dei padri e delle madri che, per soddisfare le loro passioni, augurano la morte a coloro ai quali essi stessi han dato la vita ed abbandonano al demonio tutti coloro che Gesù Cristo ha riscattati col suo Sangue prezioso. Quante volte si sente dire da questi padri e madri senza religione: Ah! maledetto ragazzo, non creperai… una volta? Mi dai fastidio; il buon Dio non ti punirà dunque una buona volta?… vorrei che tu fossi lontano me quanto mi sei vicino! cane d’un ragazzo! demonio d’un figlio! Carogne di figli!… bestie! O mio Dio! possibile che tutte queste maledizioni escano dalla bocca d’un padre e d’una madre, i quali non dovrebbero augurare e desiderare ai loro poveri figli che le benedizioni del cielo? Se vediamo tanti figli scemi, storpi, stizzosi, senza religione, non cerchiamone la causa, almeno per la maggior parte dei casi, che nelle maledizioni dei genitori. – Qual è poi il peccato di coloro che nei momenti di malumore maledicono se stessi? E’ un delitto spaventoso, contrario alla natura e alla grazia; poiché la natura e la grazia ci comandano l’amore verso noi stessi. Chi maledice se stesso rassomiglia ad un arrabbiato che si uccide colle proprie mani; egli è anche peggiore; spesso se la prende colla sua anima, dicendo: Che Dio mi danni! che il diavolo mi porti via! vorrei essere all’inferno piuttosto che in questa condizione! Ah! disgraziato, dice S. Agostino, che Dio non ti esaudisca; perché andresti a vomitare il veleno della tua rabbia nell’inferno! Mio Dio! se un Cristiano pensasse a ciò che dice, avrebbe la forza di pronunciare queste bestemmie, che potrebbero, in qualche modo, obbligare Dio a maledirlo dall’alto del suo trono? Oh! quanto è disgraziato un uomo soggetto alla collera! Egli costringe a punirlo quel Dio, il quale non vorrebbe che il suo bene e la sua felicità! Si riuscirà mai a comprendere questa cosa? – Qual è pure il peccato d’un marito e d’una moglie, d’un fratello e d’una sorella che vomitano l’un contro l’altro ogni sorta di maledizioni? E un peccato di cui non si potrà mai esprimere l’enormità; è un peccato tanto più grande quanto più rigorosamente essi sono obbligati ad amarsi ed a sopportarsi a vicenda. Ahimè! Quante persone maritate non cessano di vomitarsi vicendevolmente ogni sorta di maledizioni! Un marito ed una moglie che non dovrebbero farsi che dei felici augùri, e sollecitare la misericordia di Dio per ottenere l’un per l’altro d’andar in cielo a passare insieme l’eternità, si caricano di maledizioni; si strapperebbero, potendolo, gli occhi, si toglierebbero la vita! Maledetta moglie, o maledetto marito, gridano, non t’avessi, almeno, mai visto o conosciuto! Ah! maledetto mio padre, che m’ha consigliato di sposarti! … Mio Dio! quale orrore per dei Cristiani, i quali non dovrebbero occuparsi che di diventar santi! Essi fanno come i demoni ed i dannati! Quanti fratelli e sorelle vediamo augurarsi la morte, maledirsi, perché uno è più ricco, o per qualche ingiuria ricevuta; e conservare spesso l’odio per tutta la vita, ed a stento perdonarsi anche prima di morire! È altresì un grave peccato maledire il tempo, le bestie, il proprio lavoro. Quante persone, quando il tempo non è come vorrebbero, lo maledicono, dicendo: Maledetto tempaccio, non ti cambierai più dunque? Voi non sapete quello che dite: è come se diceste: Ah! maledetto Dio, che non mi dai il tempo come vorrei. Altri. maledicono le loro bestie : Ah! maledetta bestia, non potrò farti andare come voglio?… Che il diavolo ti porti via, che il fulmine ti annienti! che il fuoco del cielo ti abbruci!… Ah! disgraziati, le vostre maledizioni hanno il loro effetto, più spesso che non crediate. Spesso alcune bestie periscono o si storpiano, e ciò in conseguenza delle maledizioni che avete loro date. Quante volte le vostre maledizioni, i vostri impeti di collera, le vostre bestemmie hanno attirato la brina o la grandine sui vostri raccolti! – Ma qual è il peccato di coloro che augurano male al prossimo? Questo peccato è grande in proporzione del male che augurate, e del danno che gli procurerebbe, se ciò si avverasse. Voi dovete accusarvene ogniqualvolta fate di questi augùri. Quando vi confessate dovete dire quale male avete augurato, e quale danno ne sarebbe avvenuto se il vostro augurio si fosse adempito. Dovete spiegare se si trattava dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, dei vostri cugini o cugine, zii o zie. Ahimè! Quanto pochi sono quelli che confessandosi fanno queste distinzioni! Si saran maledetti i fratelli, le sorelle, i cugini, le cugine, e si starà contenti di dire che si ha augurato male al prossimo, senza dire a chi, né quale era l’intenzione. Quanti altri hanno fatto giuramenti orribili, pronunciato bestemmie, imprecazioni, rinnegamenti di Dio da far rizzare i capelli in capo, e si accontentano di dire che hanno detto parole grossolane e nient’altro. Una parola grossolana, lo sapete, è una specie di piccola imprecazione detta senza collera. Ahimè, quante confessioni e comunioni sacrileghe! Ma, mi direte, che cosa bisogna fare per non commettere questi peccati, che sono così orribili e capaci di attirare su di noi ogni sorta di disgrazie? — Bisogna che tutte le pene che ci colpiscono ci facciano ricordare che, essendoci noi ribellati contro Dio, è giusto che le creature si rivoltino contro di noi. Bisogna non dar mai occasione agli altri di maledirci. I figli ed i servi soprattutto devono fare il possibile per non obbligare i genitori ed i padroni a maledirli, poiché è certo, presto o tardi toccherà loro qualche castigo. I padri e madri devono considerare che non hanno nulla di più caro al mondo che i loro figli, e lungi dal maledirli, non devono cessare di benedirli affinché Dio effonda su di loro i beni che essi augurano. Se vi capita qualche cosa di doloroso, invece di coprire di maledizioni chi non fa come voi vorreste, vi sarebbe ben facile dire: Dio vi benedica. Imitate il santo Giobbe che benediceva il Nome del Signore in tutte le grandi sventure che gli toccavano, e riceverete le stesse grazie. Vedendo la sua grande sottomissione alla volontà di Dio, il demonio fuggì, le benedizioni si sparsero abbondantemente sulle sue ricchezze, e tutto gli venne raddoppiato. Se, per disgrazia, vi capita di pronunciare qualcheduna di queste cattive parole, fate subito un atto di contrizione per domandarne perdono, e promettete che non vi ricadrete mai più. S. Teresa ci dice che, quando pronunciamo con rispetto il Nome di Dio, tutto il cielo si rallegra; come fa l’inferno, quando pronunciamo ogni cattiva parola. Un Cristiano non deve perdere di vista che la sua lingua non gli è data che per benedire Dio in questa vita, ringraziarlo dei beni di cui l’ha colmato, per benedirlo durante tutta l’eternità cogli Angeli e coi santi: questa sarà la sorte di quelli che avranno imitato gli Angeli e non il demonio. Io ve la desidero…