DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le lezioni dell’Ufficio divino in questo tempo sono spesso ricavate dai libri dei Maccabei. Dopo la cattività di Babilonia, il popolo era ritornato a Gerusalemme e vi aveva ricostruito il Tempio. Ma lo stesso popolo ben presto fu di nuovo punito da Dio perché gli era stato nuovamente infedele: Antioco Epifane s’impadronì di Gerusalemme e saccheggiò il Tempio, quindi pubblicò un editto che proibiva in ogni luogo la professione della religione giudaica. Furono allora da per tutto eretti altari agli idoli e il numero degli apostati crebbe in guisa che sembrò che la fede di Abramo, Mosè e Israele dovesse scomparire. Dio suscitò allora degli eroi: un sacerdote, chiamato Mathathia raccolse tutti coloro che erano ancora animati da zelo per la legge e per il culto dell’Alleanza e designò suo figlio Giuda Maccabeo come capo della milizia, che suscitò per rivendicare i diritti del vero Dio. E Giuda col suo piccolo esercito combatté con gioia i combattimenti di Israele. Nella battaglia era simile ad un giovane leone, che ruggisce sulla sua preda. Sterminò tutti gli infedeli, mise in fuga il grande esercito di Antioco e ristabilì il culto a Gerusalemme. Animati dallo Spirito divino i Maccabei riconquistarono il loro paese e salvarono l’anima del loro popolo. « Le sacrileghe superstizioni della Gentilità, disse S. Agostino, avevano insozzato il tempio stesso; ma questo fu purificato da tutte le profanazioni dell’idolatria dal valoroso capitano, Giuda Maccabeo, vincitore dei generali di Antioco » (2a Domenica di ottobre, 2° Notturno). – « Alcuni, commenta S. Ambrogio, sono accesi dal desiderio della gloria delle armi e mettono sopra ogni cosa il valore guerresco. Quale non fu mai la prodezza di Giosuè, che in una sola battaglia fece prigionieri cinque re! Gedeone con trecento uomini trionfò di un esercito numeroso; Gionata, ancora adolescente, si distinse per fatti d’arme gloriosi. Che dire dei Maccabei? Con tremila Ebrei vinsero quarantottomila Assiri. Apprezzate il valore di capitano quale Giuda Maccabeo da ciò che fece uno dei suoi soldati: Eleazaro aveva osservato un elefante più grande degli altri e coperto della gualdrappa regale, ne dedusse dover essere quello che portava il re. Corse dunque con tutte le forze precipitandosi in mezzo alla legione e, sbarazzatosi anche dello scudo, si slanciò avanti combattendo e colpendo a destra e sinistra, finché ebbe raggiunto l’elefante; passando allora sotto a questo, lo trafisse con la sua spada. L’animale cadde dunque sopra Eleazaro che perì sotto il suo peso. Coperto più ancora che schiacciato dalla mole del corpo atterrato, fu seppellito nel suo trionfo » (la Domenica di ottobre, 2° Notturno). – Per stabilire un parallelo fra il Breviario e il Messale di questo giorno, possiamo osservare che, come i Maccabei, che erano guerrieri, si rivolsero a Dio per ottenere che la loro razza non perisse, ma che conservasse la sua religione e la sua fede nel Messia (e furono esauditi), così pure nel Vangelo è un ufficiale del re, che si rivolge a Cristo perché il suo figliuolo non muoia; egli con tutta la sua famiglia credette in Gesù, quando vide il miracolo compiuto in favore di suo figlio. Constatiamo inoltre che i Maccabei opponendosi agli uomini insensati che li circondavano, cercarono presso Dio luce e forza per conoscere la sua volontà in circostanze difficili (5° responsorio, Dom. 1° respons. del Lunedì) ed esauditi nel nome di Cristo che doveva nascere dalla loro stirpe, resero in seguito azioni di grazie nel Tempio, « benedicendo il Signore con inni e con lodi » (2° responsorio del Lunedi). – Cosi pure S. Paolo, nell’Epistola, parla di uomini saggi che, in tempi cattivi, cercano di conoscere la volontà di Dio e che, liberati dalla morte (f. 14 di questa Epistola) per la misericordia dell’Altissimo, gli rendono grazie in nome di Gesù Cristo, cantando inni e cantici. Tutti i canti della Messa esprimono anch’essi sentimenti simili in tutto a quelli dei Maccabei. « Signore, dice il 5° responsorio, i nostri occhi sono rivolti a te, affinché non abbiamo a perire » e il Graduale: « Tutti gli occhi si alzano con fede verso di te, o Signore ». Il Salmo aggiunge: « Egli esaudirà le preghiere di coloro che lo temono, li salverà e perderà tutti i peccatori ». – « O Dio, canterò i tuoi gloriosi trionfi », dichiara l’Alleluia, e termina con queste parole: « Con Dio compiremo atti di coraggio ed Egli annienterà i nostri nemici ». L’Offertorio è un cantico di ringraziamento dopo la liberazione dalla cattività di Babilonia e la riedificazione di Gerusalemme e del suo Tempio. (Ciò che si rinnovò sotto i Maccabei). Il Salmo del Communio, che è il medesimo di quello del Versetto dell’Introito, ci mostra come Iddio benedica coloro che lo servono e venga loro in aiuto nelle afflizioni. L’Introito, finalmente, dopo aver riconosciuto che i castighi piombati sul popolo eletto sono dovuti alla sua infedeltà, domanda a Dio di glorificare il suo Nome, mostrando ai suoi la sua grande misericordia. – Facciamo nostri tutti questi pensieri. Riconoscendo che le nostre disgrazie hanno per origine la nostra infedeltà, uniformiamoci alla volontà divina (Intr.), domandiamo a Dio di lasciarsi commuovere, di perdonarci e di guarirci (Vangelo), affinché la sua Chiesa possa servirlo nella pace (Orazione). Poi, pieni di speranza nel soccorso divino e pieni di fede in Gesù Cristo, riempiamoci dello Spirito Santo, che deve occupare tutta la nostra attenzione in questo tempo dopo la Pentecoste e nel nome del Signore Gesù cantiamo tutti insieme nei nostri templi Salmi alla gloria di Dio, che ci ha liberati dalla morte e che nei giorni difficili della fine del mondo (Epistola) libererà tutti coloro che hanno fede il Lui (Vangelo). – « Sorgi d’infra i morti, dice S. Paolo, e Cristo ti illuminerà » (v. 14). Salvati dalla morte per opera dì Cristo, non prendiamo più parte alcuna alle opere delle tenebre (v. 11), ma viviamo come figli della luce (v. 8). Approfittiamo del tempo che ci è stato dato per fare la volontà di Dio. Non conosciamo altra ebbrezza che quella dello Spirito Santo e, uniti gli uni agli altri nell’amore di Gesù, rendiamo grazie al Padre, che ci ha liberati per mezzo del Figlio suo e che ci libererà nell’ultimo giorno ». – Gesù salvò dalla morte il figlio dell’ufficiale, per dare la vita della fede a lui ed a tutta la sua famiglia. Questo miracolo deve cooperare ad aumentare la nostra fede in Gesù, per opera del quale Dio ci ha liberati dalla febbre del peccato e dalla morte eterna, che ne è la conseguenza. « Quegli che chiedeva la guarigione del figlio, dice S. Gregorio, senza dubbio credeva, poiché era venuto a cercare Gesù, ma la sua fede era difettosa ed egli chiedeva la presenza corporale del Signore, che con la sua presenza spirituale si trova dappertutto. Se la sua fede fosse stata perfetta, avrebbe senza dubbio saputo, che non esiste luogo ove Dio non risieda; egli crede bensì che Colui al quale si rivolge abbia il potere di guarire, ma non pensa che sia invisibilmente vicino al figlio che sta per morire. Ma il Signore, che egli supplica di venire, gli prova che è già presente là dove egli gli chiedeva di andare; e Colui che ha creato tutte le cose, rende la salute a questo malato col semplice suo comando. (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Dan III: 31; 31:29; 31:35
Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non obœdívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ.

[In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non oboedívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ.

[In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Largíre, quǽsumus, Dómine, fidélibus tuis indulgéntiam placátus et pacem: ut páriter ab ómnibus mundéntur offénsis, et secúra tibi mente desérviant.

[Largisci placato, Te ne preghiamo, o Signore, il perdono e la pace ai tuoi fedeli: affinché siano mondati da tutti i peccati e Ti servano con tranquilla coscienza.]

Lectio

 Fratres: Vidéte, quómodo caute ambulétis: non quasi insipiéntes, sed ut sapiéntes, rediméntes tempus, quóniam dies mali sunt. Proptérea nolíte fíeri imprudéntes, sed intellegéntes, quae sit volúntas Dei. Et nolíte inebriári vino, in quo est luxúria: sed implémini Spíritu Sancto, loquéntes vobismetípsis in psalmis et hymnis et cánticis spirituálibus, cantántes et psalléntes in córdibus vestris Dómino: grátias agéntes semper pro ómnibus, in nómine Dómini nostri Jesu Christi, Deo et Patri. Subjecti ínvicem in timóre Christi.

(“Fratelli: Badate di camminare con circospezione, non da stolti, ma da prudenti, utilizzando il tempo, perché i giorni sono tristi. Perciò non siate sconsiderati, ma riflettete bene qual è la volontà di Dio. E non vogliate inebriarvi di vino, sorgente di dissolutezza, ma siate ripieni di Spirito Santo. Trattenetevi insieme con salmi e inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando coi vostri cuori, al Signore, ringraziando sempre d’ogni cosa Dio e Padre nel nome del Signor nostro Gesù Cristo. Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.).”

IL CONTAGOCCE DELLA VITA.

Se fossi un poeta seicentista o un predicatore, anche solo un predicatore di quel secolo stravagante, definirei il tempo: « il contagocce della vita », perché la vita ci è proprio data così goccia a goccia, minuto per minuto, scorre la vita e si compone di istanti. Potremmo anche dire che il tempo è la misura della vita. Perciò noi con la vita stessa lo identifichiamo. Fare buon uso del tempo è la misura della vita. La saggezza cristiana San Paolo la fa consistere nel buon uso del tempo, come nel rovescio, cioè nello sciupìo del tempo consiste la incoscienza, la leggerezza pagana. Del tempo, ossia della vita, di tutte le sacre energie che la costituiscono ora per ora, noi possiamo fare tre usi: possiamo usarne male, cioè per fare il male. Il mondo non adopera questa parola, la copre, la maschera. Dice: per divertirci, per distrarci. Chiamano anche questo: godere la vita. Il paganesimo pretende sia questo l’uso vero, saggio della vita. Quelli che sfrenatamente, bassamente, non ne godono come egli fa e insegna a fare, li chiama stolti. Per noi Cristiani il tempo speso così nei bagordi, nel trionfo della materia, è tempo perduto… anzi perduto è un aggettivo troppo blando, è tempo sciupato, è vita sciupata, sciupata energia. Sciupare un oggetto prezioso è più che perderlo: è un disfarlo, un farlo a rovescio. Così è il tempo speso nel peccato, nel male morale, comunque mascherato. Ma c’è anche il tempo perduto. Ed è quello che noi passiamo non facendo niente, né bene né male. Nell’ozio, o nella futilità della vita. La neutralità è veramente un sogno, un’utopia. Non si riesce alla neutralità, al far niente. In realtà l’ozio, la frivolezza, il conato di neutralità morale nell’azione, è un’utopia: far niente vuol dire far del male. Il tempo speso così è tempo perduto. E perder tempo è già un male, come il non guadagnare denaro in commercio, come il perdere un bell’oggetto. E quanto tempo si perde, specialmente, in chiacchiere inutili! che poi, viceversa, non sono inutili, sono dannose, dannosissime. Educano l’anima di chi vi si abbandona alla superficialità, alla frivolezza. Spianano la via alla cattiveria vera e propria, quando non sono già cattiveria matricolata, insulti costanti alla carità cristiana, alla purezza con le loro insinuazioni e le loro larvate oscenità. Sottraggono il tempo all’operosità buona. La quale costituisce l’impiego savio e sacro, cristiano del tempo. « Dum tempus habemus operemur bonum. » Questa è la vita per noi, Cristiani; fare il bene. Farlo in tutti i modi: parlando, tacendo (perché spesso il silenzio è d’oro, spesso ci vuole più virtù a tacere che a parlare, e si fa più bene al prossimo con un silenzio dignitoso, paziente, che con mille chiacchiere), operando, lavorando, soffrendo: farlo in tutte le forme, bene a noi stessi, bene agli altri, gloria e cioè bene a Dio. Il tempo che si passa così è tempo bene speso, veramente bene speso. È un tempo impiegato. Speso bene, perché, a parte anche le considerazioni soprannaturali, noi siamo fatti per il bene, e quando mettiamo a servizio della buona causa le nostre energie, a servizio della verità il nostro intelletto, a servizio della carità la nostra influenza sociale, a servizio dei poveri il nostro denaro; quando facciamo così, stiamo bene. Ma è anche bene impiegato, perché il bene resta. Il piacere passa, finisce inesorabilmente. Goduto una volta non c’è più. Il bene fatto una volta resta sempre. San Paolo parla di riscatto, di redenzione del tempo. E cioè dobbiamo tanto più intensificare la nostra attività nel bene, quanto più scarsa è stata la nostra attività nel bene, quanto più abbondante è stata forse la nostra operosità cattiva. La morte si avanza e incalza: prima che essa giunga a troncare le possibilità del bene e del premio, avaramente, spendiamo per Dio il tempo ch’Egli ci dona.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CXLIV: 15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno.

Aperis tu manum tuam: et imples omne ánimal benedictióne.

[Tutti rivolgono gli sguardi a Te, o Signore: dà loro il cibo al momento opportuno.

V. Apri la tua mano e colmi di ogni benedizione ogni vivente.]

Allelúja.

Ps CVII:2
Allelúja, allelúja
Parátum cor meum, Deus, parátum cor meum: cantábo, et psallam tibi, glória mea. Allelúja.

[Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto: canterò e inneggerò a Te, che sei la mia gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia   sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.
Joannes IV: 46-53
In illo témpore: Erat quidam régulus, cujus fílius infirmabátur Caphárnaum. Hic cum audísset, quia Jesus adveníret a Judaea in Galilæam, ábiit ad eum, et rogábat eum, ut descénderet et sanáret fílium ejus: incipiébat enim mori. Dixit ergo Jesus ad eum: Nisi signa et prodígia vidéritis, non créditis. Dicit ad eum régulus: Dómine, descénde, priúsquam moriátur fílius meus. Dicit ei Jesus: Vade, fílius tuus vivit. Crédidit homo sermóni, quem dixit ei Jesus, et ibat. Jam autem eo descendénte, servi occurrérunt ei et nuntiavérunt, dicéntes, quia fílius ejus víveret. Interrogábat ergo horam ab eis, in qua mélius habúerit. Et dixérunt ei: Quia heri hora séptima relíquit eum febris. Cognóvit ergo pater, quia illa hora erat, in qua dixit ei Jesus: Fílius tuus vivit: et crédidit ipse et domus ejus tota.

(“In quel tempo eravi un certo regolo in Cafarnao, il quale aveva un figliuolo ammalato. E avendo questi sentito dire che Gesù era venuto dalla Giudea nella Galilea, andò da lui, e lo pregava che volesse andare a guarire il suo figliuolo, che era moribondo. Dissegli adunque Gesù: Voi se non vedete miracoli e prodigi non credete. Risposegli il regolo: Vieni, Signore, prima che il mio figliuolo si muoia. Gesù gli disse: Va, il tuo figliuolo vive. Quegli prestò fede alle parole dettegli da Gesù, e si partì. E quando era già verso casa, gli corsero incontro i servi, e gli diedero nuova come il suo figliuolo viveva. Domandò pertanto ad essi, in che ora avesse incominciato a star meglio. E quelli risposero: Ieri, all’ora settima, lasciollo la febbre. Riconobbe perciò il padre che quella era la stessa ora, in cui Gesù gli aveva detto: Il tuo figliolo vive: e credette egli, e tutta la sua casa”)

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

LA FEDE

Si può essere gente buona, di vita austera, di cuor generoso, rispettosi di ogni autorità, ma se manca la fede, tutte queste opere buone sono come un edificio costruito sulla sabbia, che il primo vento o la prim’acqua fanno scrosciare al suolo. È inutile: senza la fede non si può piacere a Dio. Sine fide impossibile est placere Deo. Chi vuol piacere a Dio, — dice S. Paolo, — deve cominciare a credere che Dio esiste, che ci ha rivelato tutto quello che la Chiesa cattolica ci propone a credere. La fede è un gran dono di Dio. Eppure quanto poco lo si apprezza. Avete voi, — qualche volta almeno, — ringraziato Dio d’avervi fatto nascere nella fede? Potevate nascere sotto il sole d’Africa, in una capanna di selvaggi che vi avrebbero allevati come le bestie, e invece siete nati da Cristiani che vi hanno allevati come figli di Dio; e voi non l’avete ringraziato? Avete voi cura della vostra fede? Non vi siete astenuti da letture, da compagnie pericolose? Se non avete fatto nulla di tutto questo è segno che non capite ancora che tesoro sia la fede. Preghiamo umilmente il Signore, che almeno adesso ce lo faccia capire, attraverso il suo Vangelo. « Un principe di Cafarnao aveva un figlio malato gravemente. Appena gli venne ad orecchio che Gesù era tornato in Galilea, corse a scongiurarlo di venir in casa sua a guarirglielo: ero ormai moribondo. Ma prima ancora che aprisse bocca, Gesù aveva compreso che la fede del principe era poca. Infatti, se veramente avesse creduto in Lui come Figlio di Dio, avrebbe anche creduto che poteva far miracoli da lontano, senza andargli in casa. Perciò il Signore disse: « Voi altri se non vedete miracoli non credete ». Ma il principe lo supplicava: « Signore vieni prima che muoia ». Poca fede anche qui. Forse che Gesù non avrebbe saputo risuscitarlo, se morto? « Torna » gli risponde Gesù « che tuo figlio vive ». Corre a casa il principe, e per via incontra i servi che gli annunciano la guarigione del figliuolo. « A che ora è guarito? » Ancora poca fede. Se credeva alla parola di Gesù, doveva pur sapere che suo figlio era guarito nell’ora stessa che il divin Maestro glielo aveva detto. Quando sentì ch’era proprio guarito in quell’ora, credette; e insieme a lui credettero tutti quei di casa sua ». Solo allora però; più beati noi, se anche senza miracoli, avremo fede ferma, e fede viva. – 1. FEDE FERMA. Vorrei spiegarvi con qualche esempio che significhi fede ferma. Vi potrei parlare di Abramo, il patriarca della fede, che, quando Dio lo chiamò fuori della terra in cui era nato e cresciuto, credette ed esultò. Quando Dio gli promise di farlo padre di una generazione numerosa come le stelle del cielo, come l’arena del mare, egli credette, benché vecchio e senza figliuoli. Quando Dio dopo avergli donato Isacco, gli disse: « Il tuo unico figlio lo sacrificherai per me: tu stesso, con le tue mani se vuoi diventare il padre della generazione numerosa come le stelle e come l’arena », Abramo credette. E non disse, neppure in cuore, come era possibile ciò. Credette Abramo e fu giustificato. Voglio ricordare l’esempio di una creatura santa, fragile come noi, vissuta al nostro tempo e che del nostro tempo sperimentò i pericoli e le lusinghe; Santa Teresa di Lisieux. Giovanetta appena, s’era chiusa nel chiostro austero delle carmelitane scalze: ella ch’era ricca, sana e avvenente; era amata in casa come una reginetta; che poteva, nella vita, aspettarsi tutte le gioie che il mondo può dare. E nel convento non fu compresa, e talvolta disprezzata. Tutto aveva dato a Dio, e Dio ora così la ripagava? Ella non pensa a questo, ma crede che Dio è buono, tanto buono con lei. Intanto le muore il papà, la persona che più di tutti amava sulla terra. Soffre giornate d’angoscia, ma crede che Dio è buono, tanto buono anche a prenderle il papà. E poi si ammala, lentamente. La sera d’un giovedì santo, dopo una notte di preghiere presso il sepolcro di Gesù, risalì in cella tremando di febbre: era sfinita. Quando spense il lume, sentì il cuore spezzarsi, sentì salirle dal cuore spezzato un fiotto alle labbra: sangue. Aveva passato una quaresima pregando, digiunando aspramente, facendo tutte le severe penitenze del Carmelo; e ora il Signore la pagava con la tisi? Non c’erano anche allora, in giro per il mondo donne cattive che meritavano la tisi invece di lei povera creatura innocente e santa? Questi sono i pensieri della gente di poca fede. Ella credeva che Dio era buono, tanto buono con lei da mandarle una malattia dolorosa ed implacabile. Non pensate però che questa fede fermissima le costasse niente. I Santi non sono diversi da noi: ma di carne e di sangue come noi. Quando voleva farsi coraggio, stanca di quelle sofferenze, pensava al paradiso. Ma una voce diabolica le sibilava nell’orecchio parole disperate: « Povera sciocchina! tu sogni il momento di finire i tuoi dolori… tu sogni d’arrivare, morendo, in un luogo di delizie… tu aneli la morte perché ti farà veder Dio… Avanti, che la morte verrà! Ma dopo la morte non c’è più niente ». A queste parole, tremava tutta di spavento e fuggiva in chiesa, si prostrava davanti all’altare e gemeva: « Gesù, io credo. Credo che c’è il Paradiso… credo che Tu sei buono a lasciarmi tentare così ». Poi aggiungeva: « Patisco volentieri, sperando di impedire o riparare, con le mie lacrime anche una sola colpa commessa contro la fede » (Storia di un’anima, cap. IX). Dunque anche per le nostre mancanze di fede ha sofferto la piccola santa, martire senza martirio. Ha sofferto per le nostre imprecazioni alla divina Provvidenza: « È impossibile che Dio mi voglia ancora bene… se Dio ci fosse… se ci fosse il paradiso come dicono i preti… ». Che significano questi insulti se non una fede mal ferma? Fede… mal ferma?!… fede vuol dir certezza. Dunque fede mal ferma vuol dire non aver fede. Se è così, gettiamo, come Pietro, un grido al Signore: « Adauge nobis fidem ». – 2. FEDE VIVA. Fede viva è fede che opera. S. Giacomo ha detto che la fede senza le opere è morta; una fede morta è disprezzabile. Voi stessi la disprezzate quando, ad un uomo che si vanta di credere e non agisce secondo la sua fede, lanciate quel bruciante insulto: « Ci vuol altro che andare in Chiesa, e poi far quel che fai ». È necessario dunque la fede viva e operante che ha vinto il mondo. Così scriveva anche il discepolo che Gesù amava: « Qual è, o fratelli, questa vittoria che ci ha fatto trionfare del mondo? La fede nostra ». Nel mondo, tre cose cagionano la nostra rovina: gli errori che seducono; le dolcezze che corrompono; le persecuzioni che spaventano. La fede viva vince queste tre malizie del mondo. Vince gli errori. — Volevano far rinnegare la fede ad Eleazaro, un buon vecchio di novant’anni. « Eleazaro, tu devi mangiare carne porcina ». La cosa era proibita ai Giudei. Eleazaro rispose: « Mai » e stringeva le sue mascelle dure. Gli apersero la bocca, a forza. Alcuni amici pietosi, nascostamente. gli porsero dell’altra carne, non proibita, e gli sussurrarono: « Mangia Eleazaro, che non è di porco. Così ti salverai ». Ecco la teoria del mondo: le finzioni, le mezze misure, un po’ a Dio e un po’ al diavolo, la Messa e il ballo, amico dei preti e nemico dei Sacramenti; dar la giovinezza ai piaceri e la vecchiaia alla penitenza; godi fin quando puoi, e quando non ne puoi più rivolgiti al buon Gesù. Eleazaro respinse gli amici pietosi, gridando: « Ho creduto fino a novant’anni, ed ora darò il mal esempio? ». Il mondo che non ha fede giudica questo atto stoltezza, ma « è piaciuto a Dio di salvare gli uomini per quegli atti che al mondo sembrano stoltezza » (I Cor. I, 21). Vince le delizie mondane. — Un ufficiale ricco e fortunato, amante del mondo e più ancora dell’allegria e dei piaceri, è portato in un ospedale, infermo. Intanto la sua fede si risveglia in lui, si fa viva. E guarito, balza dal letto esclamando: « O come le dolcezze del mondo sono insipide, se levo al cielo gli occhi ». Fu S. Ignazio di Loyola. Paolo: « Mi guardi Dio dal gloriarmi d’altro che non sia Gesù Crocifisso; per Lui, io son crocifisso alle dolcezze del mondo, e le dolcezze del mondo a me » (Gal., VI, 14). Vince le persecuzioni. — La morte di un figlio è qualcosa di straziante per una madre. Ma se questo figlio le vien massacrato nel fior della vita, sotto a’ suoi occhi, è più straziante ancora. Ebbene, non uno, ma sei già ne avevano uccisi sotto gli occhi della madre dei Maccabei. Ora rimaneva l’ultimo: il più giovane e il più caro. Il tiranno lo lusingava, sperando nella sua giovanile età. Ma la madre corse da lui e gli disse: « Figlio! pietà della tua mamma. Guarda il cielo e la terra: e credi che Dio ha fatto tutte queste cose, ed anche noi, dal nulla. Accetta la morte, perché ti possa riavere in paradiso ». E figlio e madre morirono, vincendo la persecuzione del mondo. E noi temiamo una parola di scherno, un sorriso maligno; siamo vittime del rispetto umano. Noi abbiamo paura a difendere la nostra fede dalle male lingue, dai giornali; noi ci lasciamo influenzare da qualche mal esempio. Perché siamo così deboli? Propter incredulitatem vestram (MT., XVII, 19). – Se la fede è la condizione essenziale per essere amati da Dio, non meravigliatevi se in essa sarete tentati con forza: direttamente ed indirettamente. Direttamente, con le stampe, con discorsi, con mali esempi. Indirettamente: con il vizio impuro. Quando un’anima è travolta nelle passioni brutali, è impossibile che veda. C’è troppo fango sopra i suoi occhi. Non spaventatevi; Gesù ci ha già insegnato a vincere queste tentazioni. Quando il demonio gli disse: « Converti i sassi in pani », rispose: « Sta scritto… ». Quando gli disse: « Gettati giù dal fastigio del tempio », rispose: « Sta scritto… ». Quando gli disse: « Adorami e ti darò il mondo », rispose: « Sta scritto… ». Col demonio non si deve ragionare, ma bastonare. Ad ogni tentativo contro la fede rispondiamogli: « Che vuoi saperne, tu, demonio? più del Vangelo?… Sta scritto nel Vangelo: perciò credo ». E nel Vangelo, soprattutto, sta scritto che i mondi di cuore son quelli che vedranno Dio. — LA PRESENZA DI DIO. Davide, profeta e re secondo il cuore di Dio, con una sola parola ha descritto la desolazione del mondo: Terra oblivionis. Terra della dimenticanza. E in realtà, dove trovare nel tramestio furioso del mondo chi pensi a Dio? A che cosa pensano i ragazzi?… dove hanno la mente i giovani?… di che cosa si occupano la maggior parte delle donne? Quali sono i pensieri del letterato, del negoziante, dell’operaio, del contadino? L’ubbriaco, il bestemmiatore, l’empio, a che pensano?… forse a Dio? le loro iniquità provano il contrario. Dio riempie della sua presenza i cieli e la terra, ma per la maggior parte degli uomini è uno sconosciuto. Ma guai a loro perché, dimenticato Iddio, il cuore nostro non è che una terra abbandonata dove lussureggiano le ree semenze delle passioni… Terra oblivionis! Terra della dimenticanza. Ascoltiamo dunque il Vangelo, e raccogliamone il prezioso insegnamento della presenza di Dio. Udite un commento di S. Gregorio: « Il padre esigeva che Gesù discendesse fino alla sua casa per guarirgli il figlio. Voleva la presenza umana di Colui che con la sua divinità è dappertutto. Se la sua fede fosse stata perfetta avrebbe senza dubbio saputo che non c’è luogo dove Dio non sia e non operi » (In Prover., 28). Questo è lo sbaglio, non di quel magistrato soltanto, ma di moltissimi altri uomini, i quali benché abbiano studiato sul catechismo che Dio è l’onnipotente, nella pratica della vita vivono come se ciò non fosse. Eppure la terra è piccola come uno sgabello per la divina immensità (Is., LXVI 1) e tutte le acque del mare possono stare accolte nel pugno di Dio, e i cieli possono essere sostenuti dalle palme delle sue mani (/s., XL, 12). Dice Geremia: « Ingannatore e impenetrabile è il cuore dell’uomo, e nessuno lo può conoscere. Ma il Signore lo indaga e lo scruta, e vede ogni secreto ed a ciascuno dà il suo in proporzione giusta delle sue opere » (XVII, 9-10). – Oh, se il pensiero della presenza di Dio illuminasse i giorni della nostra vita, noi avremmo un presidio nel male, e un conforto nel dolore. –  1. UN PRESIDIO NEL MALE. Ricordati che Dio ti vede e non cadrai in peccato. Tra le leggende antiche si trova anche che il re Antioco, avendo fermato l’esercito in una pianura, udì dal suo padiglione due soldati che mormoravano contro dì lui. Il monarca cacciò fuori la testa dalla tenda e disse ai due imprudenti: « Fatemi più in là che io non vi senta ». Quei miseri tremarono dallo spavento e fuggirono. Ma dove potranno fuggire coloro che discorrono di cose oscene e blasfeme perché Dio non li senta? E allora, chi può determinarsi ad offendere Iddio, ove pensi che è presente, e lo vede, e conosce anche i suoi desideri malvagi e i suoi pensieri maligni? lo scellerato più infame non osa commettere un omicidio davanti al giudice che potrebbe sull’istante punirlo; il servo non osa trasgredire gli ordini in presenza del padrone; il disonesto arrossisce e fugge appena s’accorge d’essere veduto; il ladro non ha coraggio di rubare quando sa che un bambino lo vede. Ebbene, se la presenza anche di un fanciullo, o del più volgare uomo arresta il colpevole in mezzo a’ suoi disordini, come non ci arresterà dal commettere il male la presenza di Dio accusatore, testimone, giudice, e vendicatore della colpa, d’un Dio che tutto vede? Ci fu un tempo sulla terra in cui tutti gli uomini erano diventati cattivi, ed ogni pensiero del loro cuore, era sempre rivolto al male così che Dio si pentì d’averli creati. Eppure uno ve n’era che in mezzo all’orribile corruzione universale aveva saputo conservarsi buono. Come aveva fatto? Non sentiva egli l’impeto delle passioni, la lusinga del peccato, il fascino dei cattivi esempi? Forse egli era di una meno debole natura? No; anch’egli era di carne e di sangue come gli altri: Noè camminava davanti a Dio (Gen., VI, 9). Dopo molte peripezie un giovanotto ebreo era capitato a servire una famiglia ricca d’Egitto. Ma la padrona di casa voleva indurlo a peccato. « Come potrò io peccare davanti a Dio? » ripeteva Giuseppe alla donna di Putifar; e fuggì lasciandole nelle mani il mantello suo (Gen., XXXIX). E chi diede forza a Susanna di sventare l’insidia di due uomini? « Meglio cadere vittima — esclamò — che peccare in presenza di Dio » (Dan., XIII, 23). E levò un grido che accorse gente nel giardino. Il pensiero della presenza di Dio non solo ci deve salvare dal peccato; ma ci deve anche aiutare a risorgere se mai in esso per disgrazia fossimo caduti. Adamo ed Eva dopo la colpa corsero a nascondersi: ingenui! s’illudevano d’occultarsi all’occhio di Dio. Ma tosto udirono la sua terribile voce avvicinarsi: « Adamo, dove sei? » Ramingava Caino per i deserti e le boscaglie, disperatamente fuggendo dalla faccia di Dio; ma l’occhio di Dio batteva implacabile la sua coscienza lorda di sangue fraterno. La voce di Dio, l’occhio di Dio sono continuamente sull’anima dei peccatori: e come possono resistere essi in tale stato senza confessarsi? Egli li guarda, ed essi non hanno la veste nuziale: ma perché non temono di momento in momento d’essere gettati nelle tenebre esteriori dell’inferno? Dio mi vede! questo pensiero strozza il peccato e lo mette in fuga. Quando il demonio muove all’assalto dei vostri cuori, dite: Dio mi vede! Quando le passioni cercano di sedurvi, dite: Dio mi vede! Se gli amici, i compagni vi vogliono indurre al male, dite: Dio mi vede! Con questo pensiero, vincerete! E non solo vincerete il male, ma avrete conforto nel dolore. – 2. CONFORTO NEL DOLORE. Il primo conforto è quello della preghiera sincera e affettuosa. Quando si pensa che Dio è con noi, ci vede, ci ascolta, ci ama teneramente, dal nostro cuore s’elevano le orazioni più belle, le parole ci spuntano sulle labbra, senza cercarle, e noi parliamo a Dio lungamente senza stancarci mai. Questa preghiera fatta alla viva presenza di Dio è la più efficace, è la più consolatrice. Si rimane meravigliati davanti a quegli uomini di preghiera che furono i Santi. Come facevano a pregare notti intere, settimane e settimane, senza quasi interruzione? Essi sapevano stare alla presenza di Dio così da sentirlo vicino, da vederlo con gli occhi. Questo ci spiega ancora perché i Santi, nonostante le molte afflizioni, apparivano sempre lieti. Quale forza, e quale sollievo non sentiremmo noi nelle fatiche del lavoro e del commercio quotidiano, se dicessimo frequentemente: « Dio vede tutto, tutto esamina, terrà conto d’ogni sorta di sudore ch’io verso per il pane de’ miei figliuoli, per il sostentamento della mia famiglia? ». Un santo religioso ripeteva nella sua semplicità: « Quando devo fare qualche lavoro, io prendo con me Gesù, lavoro insieme con Lui; per verità, in due il lavoro rende di più e pesa di meno, specialmente poi se uno di questi due è il Signore ». Cristiani, santificate le vostre fatiche d’ogni giorno con la presenza di Dio. Questo pensiero ci reca ancora un gran conforto in tutte le tribolazioni. Certe volte gli uomini ci calunniano, e noi innocenti siamo guardati con disprezzo, con risa maligne: certe altre volte ci sentiamo incompresi in casa nostra, poco amati, poco considerati, troppo trascurati; certe volte ancora abbiamo soffocanti apprensioni per il nostro avvenire e ci angustiamo per le strettezze finanziarie, per le difficoltà d’ogni genere… Oh, come in questi momenti è dolce, è buono, pensare che Dio è con noi, sa tutto, può tutto. Una volta Santa Teresa era angosciatissima: i suoi dispiaceri erano tanti e tali che non le riusciva più d’inghiottire un boccone e la sola vista del cibo le provocava vomiti strazianti. Trovandosi in questo stato, una sera, mentre stava a tavola e non sapeva decidersi a tagliare il pane, si fece coraggio pensando che Gesù la vedeva presente così, che Gesù comprendeva la sua tribolazione amara. E Gesù a un tratto le apparve visibilmente, e a lei sembrò che spezzasse il pane e glielo avvicinasse alla bocca, dicendo: « Mangia, figlia mia! Mi rincresce che tu soffra: ma in questo momento conviene che tu soffra… ». Subito una gran dolcezza le entrò in cuore e si sentì la forza di portare avanti la sua pesante croce. La nostra pesante croce noi pure potremo portarla in rassegnazione cristiana, se sapremo trarre il conforto dalla presenza di Dio. La qual presenza sarà l’unico conforto nei dolori e nei timori del passo estremo. Alessandro Manzoni saliva a Stresa, sulla ridente sponda del lago Maggiore, per visitare l’amico suo morente, il sacerdote filosofo Antonio Rosmini: Lo trovò pallido nel letto, e intravvide ne’ suoi occhi grandi l’ombra della morte imminente. « Come state? ». « Sono nelle mani di Dio: dunque sto bene ». Così rispondeva l’anima virginea del grande filosofo al sommo poeta, mentre la mano che aveva scritto la « Teosofia » stringeva quella che scriveva « I Promessi Sposi ». Animœ iustorum in manibus Dei sunt et non tanget illos tormentum mortis. (Sap., III, 1). – Giuda il Maccabeo valoroso, muoveva guerra contro Timoteo. Ma egli disponeva solo di seimila uomini, e questo di ben centoventi mila fanti e duemila cinquecento cavalieri. I soldati di Giuda, però, camminavano alla presenza di Dio, e Dio combatteva con loro. Ebbene: appena apparve la prima coorte di Giuda, l’esercito immenso di Timoteo si spaventò, e si diede a fuga scompigliata così che venivano travolti gli uni dagli altri, e cadevano colpiti dalla loro spada: avevano visto, in mezzo alla corte di Maccabeo, Dio presente. La vita è una milizia, e noi ogni giorno muoviamo contro nemici fisici e morali visibili e invisibili. Ma se Dio è con noi, chi ci potrà vincere? non la morte, non l’afflizione, non la spada, non la povertà, non le passioni, non il mondo, non il demonio.ALCUNI DIFETTI DEI Genitori. Una delle famiglie più cospicue di Cafarnao, quella del Regolo, era provata dal dolore: Osservate, o genitori cristiani, con quale impeto questo padre è corso a chiamare Gesù per il suo figliuolo, e come voleva condurlo in casa sua davanti al letto della sua creatura malata. « Signore, ho un figlio che sta male: tu me lo devi guarire! Vieni in fretta, altrimenti morrà ». Quanto diversa è la condotta di molti padri e di molte madri che s’affannano a procurare tutto ai loro figli, tranne quello di cui hanno maggiormente bisogno: Gesù. Ci sono genitori che si affaticano per far dei loro figli degli avvocati, dei medici, vi sono altri che si logorano la salute per farli ricchi; altri che s’industriano a renderli abili commercianti, valenti operai; e nessuno penserà seriamente a far dei propri figli dei Cristiani? Questo è vergognoso: eppure in troppi casi è la realtà. Perché, — si domanda continuamente, — il mondo è diventato così corrotto? Perché le nuove generazioni crescono con un’aria d’insubordinazione, di indifferenza religiosa, di malignità? Perché i figli di adesso non sono più come i figli d’una volta? Io penso che a queste domande, vi sia un’unica risposta, perché i genitori d’adesso non sono timorati di Dio come quelli d’una volta. In essi, per venire al pratico, tre sono i difetti principali che li fanno cattivi educatori: la fiacchezza del carattere, l’avarizia, la poca fede. – 1. LA FIACCHEZA DEL Carattere. In Silo, ad offrire i sacrifici nel tempio di Dio stava Heli con i suoi due figliuoli. Ma questi erano empi: rubavano nelle offerte, mangiavano le vittime prima di sacrificarle, vivevano lussuriosamente perfino nel recinto sacro. Il vecchio padre sapeva tutto quello che i figli commettevano contro Dio e contro il popolo, e s’accontentava di sgridarli così: « Figliuoli, da tutta la gente sento mormorare per le brutte azioni che fate. Non va bene così! » Naturalmente i figli non se ne curavano. Un uomo di Dio, sospinto dallo spirito profetico, passò davanti alla casa di Heli, e biecamente guardandola disse: « Guai a te, Heli! Sapevi quanto i tuoi figli agivano indegnamente, e non li hai corretti. Perciò ho giurato che la casa di Heli cadrà; e il vostro peccato né da vittima né da offerta si potrà espiare in eterno ». Ed ecco, poco tempo dopo scoppiare la guerra coi Filistei, e Ophni e Phinees furono uccisi. Un soldato corse ad annunciare la sciagura al vecchio padre, che seduto sopra un’alta sedia guardava la strada per cui li aveva visti andare al combattimento. « Che è accaduto? » chiese Heli. E quell’uomo rispose: « Tutto Israele è sconfitto. I tuoi figliuoli sono morti. L’arca di Dio fu presa ». Appena dette queste parole, Heli cadde all’indietro dalla sua sedia, vicino alla porta, e rottosi il collo morì (I Re, II-IV). Questo pauroso esempio della Storia Sacra esprime molto chiaramente che la debolezza nel correggere, diventa la rovina eterna dei genitori e dei figli. Chi risparmia il castigo meritato, odia, e non ama i figliuoli. È così appunto che il tiranno di Siracusa, Dionigi il Vecchio, sfogò il suo odio contro il genero Dione. Gli prese il figliuolo e gli concesse ogni libertà; comandò che ubbidissero ad ogni suo capriccio, senza rimproverarlo o castigarlo mai, in qualunque eccesso riuscisse. Dopo qualche anno lo restituì a Dione, il quale non seppe più riconoscere il figlio, e morì di crepacuore. I grandi nemici dei giovani sono quelli che li lasciano crescere senza insegnar loro la virtù e il timore di Dio. E spesso si trovano dei padri che picchiano brutalmente le loro creature perché hanno rotto un vaso, prodotto un guasto nella casa: e poi quando li sentono bestemmiare, tenere cattivi discorsi, quando li vedono rubare o trasgredire altri comandamenti di Dio e della Chiesa, non dicono che qualche parola languida di rimprovero e li lasciano fare. Quante volte capita di fermare un padre o una madre e dirle con amorevolezza: « Sentite: le vostre figliuole vestono così sommariamente che fanno scandalo… » e sentirsi rispondere: « Le ho già sgridate cento volte, ma non mi vogliono ubbididire »; Ecco dei genitori fiacchi: ma chi è che comanda in casa? ma chi paga i vestiti? ma chi deve ubbidire? Il Signore anche contro di questi ripete la sua maledizione: « Magis honorasti filios quam me ». Voi potete osservare a qualche mamma: « Sentite: la vostra figlia sta fuori di casa anche quando è troppo tardi e troppo oscuro. Non ha niente da ricamare, da rammendare? dica il Rosario, ma stia in casa » e vi sentirete rispondere: « Il Rosario, la mia figliuola va a dirlo tutte le sere al cimitero ». « Allora è meglio che vada a letto, e non lo dica ». Sembra strano, eppure è così. Possibile che i genitori non vedono le cartoline i fogli, le illustrazioni che entrano in casa? Possibile che solo essi non sappiano quello che sa tutto il paese? E se lo sanno, perché non hanno energia per metterci un severo rimedio? « Magis honorasti filios quam me ». Se poi fate notare a questi genitori che i loro figli si vedono di raro in chiesa ai Sacramenti, alla Dottrina cristiana, all’Oratorio, vi risponderanno che la colpa è dei preti che non li sanno attirare. Ma prima dei preti, la responsabilità dei figli l’avete voi, o genitori.2. AVARIZIA. Spesso, in quelle famiglie dove la religione è quasi spenta, i figliuoli sono considerati come fastidi fin tanto che sono piccoli; e fatti grandicelli diventano oggetto di speculazione e di guadagno. E pur di guadagnare si mandano i figliuoli, giovani e innocenti ancora, a lavorare lontano: non si bada più se sui treni dovranno sentire discorsi e bestemmie, se nelle città si incontreranno in pericoli tremendi per la loro virtù; si guarda soltanto che la giornata sia pingue. O beati quei tempi quando i genitori preferivano avere qualche lire in meno, ma i figliuoli più buoni, più obbedienti, più timorati! Quanto pochi sono quelli che prima di collocare un loro figliuolo a lavoro, riflettono se quel posto è adatto per lui: alle sue forze fisiche, alla sua anima buona, se si troverà tra bestemmiatori, tra gente corrotta, tra persone di sesso diverso. Quanto pochi sono quelli che prima di mettere un fanciullo in un albergo, in un negozio fanno il patto col padrone perché gli lasci il tempo di compiere i doveri di religione. Quando non si ha più nessun interesse se non l’interesse materiale, si comprende come possa avvenire un colloquio simile tra un prete e una mamma. Domanda il prete: « La vostra fanciulla dov’è? ». « È a servizio di una famiglia, in quella città » risponde la madre. « Vi siete informata se è una famiglia onesta e ben composta? » « Non c’è da dubitare: appena scocca la fin del mese, arriva il vaglia. Sono onesti pagatori ». E il prete, sentendosi stringere il cuore, continua: « Anche questo non va trascurato. Ma e in quanto a moralità, a buoni costumi; si trova bene? E la madre, meravigliata quasi della domanda, risponde: « Qui, ci deve pensare il Signore… ». Ci deve pensare il Signore! E allora perché accanto ai figli ha messo un padre e una madre? Il Signore ci penserà, ma per richiederne ai genitori un conto esoso al momento opportuno. Molti in quel momento piangeranno perché non hanno custodito i loro figli, immersi com’erano negli affari. Molti in quel momento piangeranno perché unendoli in matrimonio hanno guardato soltanto al ricco partito, e non alla salvezza spirituale della nuova famiglia. Piangeranno, ma troppo tardi.3. POCA FEDE. La causa più dannosa nell’educazione odierna dei figli è la mancanza di fede nei genitori. Mancanza di fede nel ricevere i figli dalle mani di Dio: anzi calpestando ogni più sacra legge della natura, della società, del Signore, si cerca di rifiutarli. Mancanza di fede nel far amministrare a loro i Sacramenti. E si comincia a ritardare il Battesimo, per sciocchi pretesti: aspettiamo da lontano i padrini, aspettiamo che la madre sia in grado partecipare alla festa. E intanto si lascia una creatura sotto il giogo del demonio, priva della grazia di Dio per giorni e settimane; e se morisse?… Una madre fervente cristiana, dopo molti anni di sterilità fu rallegrata da una bambina. A coloro che gliela porgevano perché la baciasse: « No — rispondeva — adesso no; ma tra breve, appena avrà ricevuto il Battesimo, e sarà fatta figlia di Dio, rigenerata nel sangue di Cristo ». Poche madri vivono di fede così. Mancanza di fede nel pregare. Che differenza fra tante madri d’oggigiorno e quelle dei Santi! Le madri dei santi quante belle e fervorose orazioni elevavano a Dio e alla Vergine per il loro figlio, quando ancora lo portavano in seno! E poi, in fasce, lo portavano sovente in chiesa nelle ore in cui è più deserta per offrirlo al Signore, e giuravano di morire piuttosto che lasciar cadere in peccato per colpa loro quella santa creatura. E se, cresciuto, lasciava qualche preoccupazione, non imprecavano, non si disperavano, ma pregavano e facevano penitenza. Mancanza di fede nella presenza di Dio. Voi sapete che il nostro corpo è tempio dello Spirito Santo, è come una pisside di carne in cui è venuto ad abitare il Signore. È quindi con un senso di religiosa adorazione che i genitori si devono accostare alle loro piccole creature, e devono avere orrore di poterle scandalizzare in qualunque modo. Sarebbe un delitto pessimo quello di uccidere la vita dell’anima a quelli a cui si è dato la vita del corpo. A questo pensiero nessun rimorso addolora la nostra coscienza? Nessuna madre può dire di aver mancato di delicatezza nel vestire, portare, fasciare, nutrire i propri bambini? E magari in presenza dei più grandicelli? Infine mancanza di fede nell’offrire i figliuoli a Dio in una vita di perfezione. Mancano i sacerdoti, i missionari, i religiosi; perché? Perché mancano i padri e le madri degni di ricevere la grazia immensa d’avere un figlio sacerdote, missionario, religioso. Perché, o genitori, non chiedete a Dio questa grazia? O forse Iddio già ve l’ha fatta e voi gliel’avete rifiutata? Un giovane si presentò al guardiano di un convento di Cappuccini in Francia per esservi accettato. Fu ammesso. Ma i suoi genitori furenti accorsero e lo strapparono dal coro ove pregava e lo condussero nel mondo. Passarono pochi anni, e quel giovane divenne un sanguinario massacratore di innocenti: Massimiliano Robespierre.Nel 1271 un cavaliere del re di Navarra, conducendo sui monti il principino ereditario, per sbadataggine lo lasciò precipitare nell’abisso. Vedendolo sul fondo insanguinato e immobile, il cavaliere fu preso da un tremito di disperazione. « Non c’è perdono per me — gridò — non c’è misericordia! ». E dicendo così, egli pure si precipitò nel vuoto. Genitori, i vostri figliuoli non sono proprietà vostra assoluta, ma vi furono affidati da Dio, il Re dei re e il Signore dei signori, perché li conduciate salvi attraverso i monti della vita! Guai, se per colpa vostra, al giudizio finale dovreste vederne qualcuno cadere nell’abisso dell’inferno. Non più perdono ci sarebbe allora per voi, non più misericordia! Tutta la Trinità santissima vi maledirebbe: vi maledirebbe l’Eterno Padre perché avendovi scelto a partecipare del suo nome di Padre, voi ne usaste in rovina delle anime! vi maledirebbe il Figlio perché invece di cooperare alla redenzione, avete aiutato il demonio alla perdizione! vi maledirebbe lo Spirito Santo, perché gli avete ostacolato la santificazione dei vostri figliuoli. Gli Angeli custodi, a cui avete reso inutile la vigilanza, accorrerebbero contro di voi, a precipitare voi pure nell’abisso dell’inferno in cui, pel colpa vostra, avete lasciato cadere un vostro figlio. Ma non sia così.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXXVI: 1
Super flúmina Babylónis illic sédimus et flévimus: dum recordarémur tui, Sion.

[Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto: ricordandoci di te, o Sion.]

Secreta

Cœléstem nobis præbeant hæc mystéria, quǽsumus, Dómine, medicínam: et vítia nostri cordis expúrgent.

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che questi misteri ci siano come rimedio celeste e purífichino il nostro cuore dai suoi vizii.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

 Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 49-50
Meménto verbi tui servo tuo, Dómine, in quo mihi spem dedísti: hæc me consoláta est in humilitáte mea.

[Ricordati della tua parola detta al servo tuo, o Signore, nella quale mi hai dato speranza: essa è stata il mio conforto nella umiliazione.]

Postcommunio

Orémus.
Ut sacris, Dómine, reddámur digni munéribus: fac nos, quǽsumus, tuis semper oboedíre mandátis.

[O Signore, onde siamo degni dei sacri doni, fa’, Te ne preghiamo, che obbediamo sempre ai tuoi precetti].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia fa leggere nell’Ufficio divino la storia di Ester verso quest’epoca (5a Domenica di Settembre). Reputiamo quindi cosa utile, al fine di rivedere ogni anno con la Chiesa tutte le figure dell’Antico Testamento e per continuare a studiare le Domeniche dopo Pentecoste in corrispondenza del Breviario, di parlare in questo giorno di Ester. – L’lntroito della Domenica 21 dopo Pentecoste è la preghiera di Mardocheo. Non potremo noi vedervi un indizio della preoccupazione della Chiesa di unire, a questo periodo liturgico, la storia di Ester ad una Messa di questo Tempo? « Assuero, re di Susa in Persia, aveva scelto per prima regina Ester, nipote di Mardocheo. Aman, l’intendente del palazzo, avendo osservato che Mardocheo rifiutava di piegare le ginocchia davanti a lui, entrò in grande furore e, saputo che era ebreo, giurò dì sterminare insieme a lui tutti quelli che fossero della sua razza. Accusò quindi al re gli stranieri che si erano stabiliti in tutte le città del suo regno e ottenne che venisse dato ordine di massacrarli tutti. Quando Mardocheo lo seppe, si lamentò e fu presso tutti gli Israeliti un gran duolo.- Mardocheo disse allora a Ester che essa doveva informare il re di quanto tramava Aman, fosse pure col pericolo della sua vita medesima. » Se Dio ti ha fatta regina, non fu forse in previsione di giorni simili? ». Ed Ester digiunò tre giorni con le sue ancelle; e il terzo giorno, adorna delle sue vesti regali, si presentò davanti al re e gli domandò di prender parte ad un banchetto con lui e Aman. Il re acconsentì. E durante questo banchetto Ester disse al re: « Noi siamo destinati, io e il mio popolo, ad essere oppressi e sterminati ». Assuero sentendo che Ester era giudea, e che Mardocheo era suo zio, le disse: « Chi è colui che osa far questo? ». Ester rispose: « Il nostro avversario e nostro nemico è questo crudele Aman ». Il re, irritato contro il suo ministro, si levò e comandò che Aman fosse impiccato sulla forca che egli stesso aveva fatto preparare per Mardocheo. E l’ordine fu eseguito immediatamente, mentre veniva revocato l’editto contro i Giudei. Ester aveva salvato il suo popolo e Mardocheo divenne quel giorno stesso ministro favorito del re e uscì dal palazzo portando la veste regale azzurra e bianca, una grande corona d’oro e il mantello di porpora, e al dito l’anello regale ». — Il racconto biblico ci mostra come Dio vegli sul suo popolo e lo preservi in vista del Messia promesso. « Io sono la salvezza del popolo, dice il Signore, in qualunque tribolazione mi invochino, li esaudirò e sarò il loro Signore » (Introito). « Quando cammino nella desolazione Tu mi rendi la vita, Signore. Al di sopra dei miei nemici, accesi d’ira, tu mi stendi la mano e la tua destra mi assicura la salvezza » (Off.); il Salmo del Communio parla del giusto che è oppresso dall’afflizione e che Dio non abbandona; quello del Graduale, ci mostra come, rispondendo all’appello di coloro che in Lui sperano, Dio fa cadere i peccatori nelle loro proprie reti; il Salmo dell’Alleluia canta tutte le meraviglie che il Signore ha fatto per liberare il suo popolo. Tutto questo è una figura di quanto Dio non cessa di fare per la sua Chiesa e che farà in modo speciale alla fine del mondo. Aman che il re condannò durante il banchetto in casa di Ester, è come l’uomo che è entrato al banchetto di nozze di cui parla il Vangelo, e che il re fece gettar nelle tenebre esteriori, perché non aveva la veste di nozze, cioè « perché non era rivestito dell’uomo novello che è creato a somiglianza di Dio nella vera giustizia e nella santità, per non aver deposto la menzogna e i sentimenti di collera, che nutriva in cuore verso il prossimo » (Epistola). Cosi iddio tratterà tutti coloro che, pur appartenendo al corpo della Chiesa per la loro fede, sono entrati nella sala del banchetto senza essere rivestiti, dice S. Agostino, della veste della carità. Non essendo vivificati dalla grazia santificante, non appartengono all’anima del Corpo mistico di Cristo, e rinunziando alla menzogna, dice S. Paolo, ognuno di voi parli secondo la verità al suo prossimo, perché siamo membri gli uni degli altri. Possa il sole non tramontare sull’ira vostra » (Epistola). E quelli che non avranno adempiuto a questo precetto saranno dal Giudice supremo gettati nel supplizio dell’inferno, come pure gli Ebrei che hanno rifiutato l’invito al pranzo di nozze del figlio del re, cioè di Gesù Cristo con la sua sposa che è la Chiesa (2° Notturno) e che hanno messo a morte profeti e gli Apostoli recanti loro questo invito. — Assuero in collera, fece impiccare Aman. Anche il Vangelo ci narra che il re montò in furore, inviò i suoi eserciti per sterminare quegli assassini e bruciò la loro città. Più di un milione di Giudei morirono nell’assedio di Gerusalemme per opera di Tito, generale dell’esercito romano, la città fu distrutta e il Tempio incendiato. Aman infedele, fu sostituito da Mardocheo; gli invitati alle nozze furono sostituiti da coloro che i servi trovarono ai crocicchi. I Gentili presero il posto degli Ebrei e verso di quelli si volsero gli Apostoli, riempiti di Spirito Santo, nel giorno di Pentecoste. E al Giudizio universale, che annunziano le ultime domeniche dell’anno, queste sanzioni saranno definitive. Gli eletti prenderanno parte alle nozze eterne e i dannati saranno precipitati nelle tenebre esteriori e nelle fiamme vendicatrici, ove sarà pianto e stridore di denti. – Bisogna spogliarsi dell’uomo vecchio, dice S. Paolo, come ci si toglie una veste vecchia e rivestirsi di Cristo come ci si mette una veste nuova. Bisogna dunque rinunziare alla concupiscenza traditrice delle passioni che, come figli di Adamo, abbiamo ereditato, e aderire a Cristo accettando la loro verità evangelica, che ci darà la santità nei nostri rapporti con Dio e la giustizia nei nostri rapporti col prossimo.

« Dio Padre, dice S. Gregorio, ha celebrate le nozze di Dio suo Figlio, allorché l’unì alla natura umana nel seno della Vergine. E le ha celebrate specialmente allorché, per mezzo dell’Incarnazione, lo unì alla santa Chiesa. Inviò due volte i servi per invitare i suoi amici alle nozze, perché i Profeti hanno annunziata l’Incarnazione del Figlio di Dio come cosa futura e gli Apostoli come un fatto compiuto. Colui che si scusa col dover andare in campagna, rappresenta chi è troppo attaccato alle cose della terra; l’altro che si sottrae col pretesto degli affari, rappresenta chi desidera smodatamente i guadagni materiali. E ciò che è più grave, è che la maggior parte non solo rifiutano la grazia data loro di pensare al mistero dell’Incarnazione e di vivere secondo i suoi insegnamenti, ma la combattono. La Chiesa presente è chiaramente indicata dalla qualità dei convitati, tra i quali si trovano coi buoni anche I cattivi. — Cosi il grano si trova mescolato con la paglia e la rosa profumata germoglia con le spine che pungono. — All’ultima ora Dio stesso farà la separazione dei buoni dai cattivi che ora la Chiesa contiene. Quegli che entra al festino nuziale senza l’abito di nozze appartiene alla Chiesa colla fede, ma non ha la carità. Giustamente la carità è chiamata abito nuziale perché essa era posseduta dal Creatore allorché si unì alla Chiesa. Chi per la carità è venuto in mezzo agli uomini ha voluto che questa carità fosse l’abito nuziale. Allorché uno è invitato alle nozze in questo mondo, cambia di abiti per mostrare che partecipa alla gioia della sposa e dello sposo e si vergognerebbe di presentarsi con abiti spregevoli in mezzo a tutti quelli che godono e celebrano questa festa. Noi che siamo presenti alle nozze del Verbo, che abbiamo fede nella Chiesa, che ci nutriamo delle Sante Scritture e che gioiamo dell’unione della Chiesa con Dio, rivestiamo dunque il nostro cuore dell’abito della carità, che deve comprendere un doppio amore: quello di Dio e quello per il prossimo. Scrutiamo bene i nostri cuori per vedere se la contemplazione di Dio non ci faccia dimenticare il prossimo e se le cure verso il prossimo non ci facciano dimenticare Dio. La carità è vera se si ama il prossimo in Dio e se si ama teneramente il nemico per amore di Dio » (Omelia del giorno).

Incipit

In nomine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum

[Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.]

Ps LXXVII: 1
Attendite, pópule meus, legem meam: inclináte aurem vestram in verba oris mei.

[Ascolta, o popolo mio, la mia legge: porgi orecchio alle parole della mia bocca.]

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum

[Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, univérsa nobis adversántia propitiátus exclúde: ut mente et córpore páriter expedíti, quæ tua sunt, líberis méntibus exsequámur.

[Onnipotente e misericordioso Iddio, allontana propizio da noi quanto ci avversa: affinché, ugualmente spediti d’anima e di corpo, compiamo con libero cuore i tuoi comandi.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 23-28


“Fratres: Renovámini spíritu mentis vestræ, et indúite novum hóminem, qui secúndum Deum creátus est in justítia et sanctitáte veritátis. Propter quod deponéntes mendácium, loquímini veritátem unusquísque cum próximo suo: quóniam sumus ínvicem membra. Irascímini, et nolíte peccáre: sol non occídat super iracúndiam vestram. Nolíte locum dare diábolo: qui furabátur, jam non furétur; magis autem labóret, operándo mánibus suis, quod bonum est, ut hábeat, unde tríbuat necessitátem patiénti.”

(“Fratelli: Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestitevi dell’uomo nuovo, che è creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità. Perciò, deposta la menzogna, ciascuno parli al suo prossimo con verità: poiché siamo membri gli uni degli altri. Nell’ira siate senza peccato: il sole non tramonti sul vostro sdegno. Non lasciate adito al diavolo. Colui che rubava non rubi più: piuttosto s’affatichi attendendo con le proprie mani a qualche cosa di onesto, per aver da far parte a chi è nel bisogno.”)

IDEALE E REALTÀ.

Il Cristianesimo è venuto al mondo con una realtà nuova e divina ch’era un ideale e con un ideale umano che era una realtà divina. Non è per quanto possa parerlo, non è un bisticcio, un gioco di parole: le parole qui traducono un concetto magnifico e che a voi, Cristiani miei uditori, dovrebbe essere famigliare. O non è forse il Cristianesimo venuto al mondo con Gesù Cristo? E non è Gesù Cristo vero uomo e vero Dio? È la formula precisa che la Chiesa mette sulle nostre labbra nelle famose benedizioni popolari e semiliturgiche. Vero. C’è l’eco di una frase di San Paolo nel brano che oggi leggiamo. Vero vuol dire qui: reale, che è realmente uomo e Dio. Ma vero vuol dire che N. S. Gesù Cristo rappresenta in sé l’umanità quale deve, quale dovrebbe essere. Egli è il nostro modello. E San Paolo lo proclama oggi apertamente. Invita i suoi lettori, a diventare copie di Gesù Cristo. –  Dobbiamo trasformarci interiormente, ricreare in noi l’uomo nuovo, che è poi viceversa molto antico, in quanto nell’uomo nuovo si realizza quell’ideale di umanità che brillò davanti a Dio Creatore. Gesù, Signor Nostro, nella Sua reale umanità (ipostaticamente unita alla divinità) è perfetto, è ciò che Dio voleva fare e sognò di fare sin da principio, fece anzi da parte sua fin da principio. Ecco il paganesimo. – Chi è l’uomo vero? forse l’uomo pagano? l’uomo passionale e passionato? che alla passione si abbandona? alla passione, che è ragione contro la ragione? Purtroppo molti lo pensano. Salutano l’umanesimo pagano. È un ritornello preferito degli anticlericali. Il paganesimo è (o era) umano: e ciò significa ed implica che il Cristianesimo non lo è: è antiumano. Il Cristianesimo è veramente umano. È stato e continua ad essere una restaurazione. Quando si restaura un edificio, che cosa si fa? lo si prende deformato e lo si riconduce alla purezza, alla verità delle linee primitive. Dio ha restaurata l’umanità in Gesù Cristo. La linea primitiva, il disegno divino dell’uomo era bello. Dio lo aveva creato a Sua immagine e somiglianza: con un intelletto fatto per la verità, con una volontà indirizzata verso il bene. E l’uomo guastò in se stesso l’opera di Dio, si scostò dal disegno divino. Adoperò l’intelletto per ributtare coi sofismi la verità: adoperò la sua volontà per fare il male. Il senso si sovrappose alla ragione, e la passione alla volontà. Umanità rovesciata: ecco il paganesimo. – Ma viene Gesù Cristo, l’uomo nuovo, dice San Paolo, il nuovo Adamo; proprio così dice San Paolo e lo dice benissimo. Nuovo Adamo quello (è San Paolo che continua), che fu creato proprio secondo il disegno di Dio (secundum Deum) e perciò fu creato giusto e vero. E il nostro sforzo d’uomini e di Cristiani deve essere quello di ricopiare, di rifare Gesù Cristo.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CXV: 2

Dirigátur orátio mea, sicut incénsum in conspéctu tuo, Dómine.

[Si innalzi la mia preghiera come l’incenso al tuo cospetto, o Signore.]
V. Elevatio mánuum meárum sacrifícium vespertínum. Allelúja, allelúja

[L’elevazione delle mie mani sia come il sacrificio della sera. Allelúia, allelúia]
Ps CIV: 1

Alleluja

Alleluja, Alleluja

Confitémini Dómino, et invocáte nomen ejus: annuntiáte inter gentes ópera ejus. Allelúja.

[Date lode al Signore, e invocate il suo nome, fate conoscere tra le genti le sue opere.]

Evangelium

Sequéntia   sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt XXII: 1-14


“In illo témpore: Loquebátur Jesus princípibus sacerdótum et pharisaeis in parábolis, dicens: Símile factum est regnum cœlórum hómini regi, qui fecit núptias fílio suo. Et misit servos suos vocáre invitátos ad nuptias, et nolébant veníre. Iterum misit álios servos, dicens: Dícite invitátis: Ecce, prándium meum parávi, tauri mei et altília occísa sunt, et ómnia paráta: veníte ad núptias. Illi autem neglexérunt: et abiérunt, álius in villam suam, álius vero ad negotiatiónem suam: réliqui vero tenuérunt servos ejus, et contuméliis afféctos occidérunt. Rex autem cum audísset, iratus est: et, missis exercítibus suis, pérdidit homicídas illos et civitátem illórum succéndit. Tunc ait servis suis: Núptiæ quidem parátæ sunt, sed, qui invitáti erant, non fuérunt digni. Ite ergo ad exitus viárum et, quoscúmque invenéritis, vocáte ad núptias. Et egréssi servi ejus in vias, congregavérunt omnes, quos invenérunt, malos et bonos: et implétæ sunt núptiæ discumbéntium. Intrávit autem rex, ut vidéret discumbéntes, et vidit ibi hóminem non vestítum veste nuptiáli. Et ait illi: Amíce, quómodo huc intrásti non habens vestem nuptiálem? At ille obmútuit. Tunc dixit rex minístris: Ligátis mánibus et pédibus ejus, míttite eum in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

(“In quel tempo Gesù ricominciò a parlare a’ principi dei Sacerdoti ed ai Farisei per via di parabole dicendo: Il regno dei cieli è simile a un re, il quale fece lo sposalizio del suo figliuolo. E mandò i suoi servi a chiamare gl’invitati alle nozze, e non volevano andare. Mandò di nuovo altri servi, dicendo: Dite agl’invitati: Il mio desinare è già in ordine, si sono ammazzati i buoi e gli animali di serbatoio, e tutto è pronto, venite alle nozze. Ma quelli misero ciò in non cale, e se ne andarono chi alla sua villa, chi al suo negozio: altri poi presero i servi di lui, e trattaronli ignominiosamente, e gli uccisero. Udito ciò il re si sdegnò; e mandate le sue milizie, sterminò quegli omicidi e diede alle fiamme le loro città. Allora disse a’ suoi servi: Le nozze erano all’ordine, ma quelli che erano stati invitati, non furono degni. Andate dunque ai capi delle strade e quanti riscontrerete chiamate tutti alle nozze. E andati i servitori di lui per le strade, radunarono quanti trovarono, e buoni e cattivi; e il banchetto fu pieno di convitati. Ma entrato il re per vedere i convitati, vi osservò un uomo che non era in abito da nozze. E dissegli: Amico, come sei tu entrato qua, non avendo la veste nuziale? Ma quegli ammutolì. Allora il re disse ai suoi ministri: Legatelo per le mani e pei piedi, e gettatelo nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridor di denti. Imperocché molti sono i chiamati e pochi gli eletti”)

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

1.

IL NOSTRO BATTESIMO

Il regno dei cieli — dice la parabola — è simile alla festa che un re ordinò per le nozze del figlio. Mandò i servi a chiamare gl’invitati, e questi non vollero venire. Mandò, quando tutto fu pronto, un’altra volta altri servi. Degli invitati alcuni fecero gl’indifferenti e se ne andarono in campagna o al mercato; altri fecero gli offesi per quell’insistenza e assaltarono i servi oltraggiandoli o uccidendoli. Il re adirato comandò lo sterminio degli omicidi e l’incendio della loro città, ma non rinunciò alle nozze. Altri invitati, raccolti da tutte le strade, buoni e cattivi, riempirono la sala del banchetto. Uno però sedeva senza la veste nuziale. « Amico, che fai in quest’arnese? » domandò il re. L’altro non ebbe parola. « Legatelo mani e piedi, gettatelo fuori: che pianga nel buio e digrigni i denti ». Il senso di questa parabola è la chiamata degli uomini alla fede, alla vita soprannaturale simboleggiata nelle nozze del figlio del re. Negli invitati che rifiutarono e uccisero i servi, bisogna vedere i Giudei ostinati che malmenarono i profeti e misero in croce Gesù, onde furono poi essi dispersi e la loro città messa a ferro e a fuoco dai Romani. Negli altri invitati che subentrarono al posto dei primi, bisogna vedere i popoli che da ogni parte del mondo vennero alla fede cristiana. Due motivi nella parabola ci fanno pensare al nostro Battesimo. Il Battesimo, infatti, è la porta per la quale entrammo nella sala del re cioè la Chiesa Cattolica, fummo ammessi a partecipare alle nozze del figlio di Dio, a vivere della sua stessa vita divina. Inoltre, nel Battesimo ricevemmo anche noi quella bianca veste nuziale, senza la quale se fossimo scoperti dal gran Re quando verrà nel momento della morte, saremmo anche noi gettati nelle tenebre e nel fuoco eterno. Approfittiamo dunque per ricordare il nostro Battesimo, il grande Sacramento che ci fece e ci vuole uomini di carattere cristiano. Santa Gertrude dà questo prezioso consiglio: « Perché tu possa, al termine della tua vita, presentare immacolata al Signore la veste della tua innocenza battesimale e inviolato il sigillo della fede cristiana, procura in tempi determinati di celebrare la memoria del Battesimo » (Esercizi di S. Geltrude, Praglia, 1932, pag. 2). Da parte sua la santa, a Pasqua e a Pentecoste, ripensava ad una ad una le cerimonie battesimali, accompagnandole con appropriate e fervide preghiere. Ripensiamo anche noi a qualcuna di quelle cerimonie, così comprenderemo meglio ciò che siamo e ciò che dobbiamo fare. Così non avverrà più che qualcuno ritardi, senza serio motivo, anche di un sol giorno il Battesimo dei suoi bambini. – 1. LA CACCIATA DEL DEMONIO.  Ogni uomo che nasce appartiene a una stirpe decaduta. Discende da un progenitore, Adamo; che si lasciò sedurre e travolgere da satana, il quale esercita da allora su tutta l’umanità una signoria nefasta. Bisogna liberare l’uomo dalla schiavitù demoniaca, e dai perversi influssi che promanano dalla presenza del Maligno. Ed ecco alla porta della chiesa il sacerdote che ferma il candidato al Battesimo ed esige da lui una triplice rinunzia. Rinunzi tu a satana? Rinunzio. Rinunzi alle sue opere? Rinunzio. Rinunzi alle sue pompe? Rinunzio. Allora il Sacerdote, soffiando lievemente sulla bocca del battezzando, dirà rivolgendosi al demonio: « Esci, spirito immondo e lascia il posto allo Spirito Santo ». E poi ancora chiederà a Dio di rompere ogni sua insidia. « Io ti esorcizzo, spirito immondo, nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo, perché tu esca e ti allontani da questo servo di Dio; te lo comanda, o maledetto, colui che camminò sulle acque del mare, che sostenne con la sua mano Pietro mentre stava per affondare. Riconosci, maledetto, la tua condanna… allontanati da questo servo di Dio, poiché Lui stesso s’è degnato chiamarlo alla sua santa grazia; e non osar mai, diavolo maledetto, di violare questo segno di croce che tracciamo sulla sua fronte ». Così, o Cristiani, il nemico fu scacciato dalle anime nostre. Così noi abbiamo giurato di rinunciare a satana. Ricordate che venne scritta sul libro eterno della vita quella nostra irrevocabile rinuncia. Bisogna mantenere i nostri giuramenti: mantenerli non appena con le parole, mai coi fatti; non appena con le labbra, ma con le opere. « Sappiate — dice S. Agostino — che avete mosso guerra ad un nemico esperto e scaltro. Non possa più avere nessun diritto, per trascinarvi di nuovo alla sua schiavitù. O Cristiano, tu ti scopri e tradisci quando pratichi diversamente da quello che dici di credere: vai in Chiesa a pregare, e poi corri ai divertimenti proibiti. Perché ti confondi con le pompe del diavolo a cui rinunziasti? » (Lezione del II Nott. della Vigilia di Pentec.). – 2. L’ACQUA BATTESIMALE. Scacciato dalla casa colui che indegnamente la occupava, è necessario ripulirla e ornarla e adattarla come dimora del nuovo Ospite divino. Perciò il Sacerdote traccia la croce sulla fronte e sul petto del battezzando; gli mette tra le labbra un po di sale benedetto simbolo della sapienza evangelica di cui la sua anima dovrà nutrirsi; gli tocca con le dita bagnate di saliva le orecchie e le narici, perché siano aperte all’armonia e al profumo della grazia di Cristo; infine l’unge, tracciando la croce, sul petto e tra le spalle. Ed eccoci al Battesimo. Nel momento in cui il Sacerdote versa l’acqua lustrale, (oppure, secondo il rito ambrosiano, immerge) avvengono tre operazioni: a) La scomparsa del peccato originale e la conformazione dell’anima a immagine del Cristo. Naaman, capo dell’esercito del re di Siria, aveva contratto la lebbra che gli aveva sconciato il volto orrendamente. Il profeta Eliseo lo fece immergere sette volte nell’onda del Giordano e ne uscì senza più una piaga e col viso rifatto nuovo, fresco e splendido (IV Re, V). Ebbene, Dio aveva creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Il peccato originale lo sfigurò come una turpe malattia, ma il Battesimo lo risana dal peccato e gli ridona la primitiva bellezza, e la conformità a Cristo. L’acqua battesimale è vero simbolo del sangue divino del Redentore alla cui virtù non può resistere nessuna macchia e da cui si esce divinamente rinnovellati. b) L’adozione a figlio di Dio. Quando, sulle rive del Giordano, il Battista versò l’acqua sul capo del Salvatore, i cieli si aprirono, lo Spirito Santo discese in figura di bianca colomba, e s’udì la voce del Padre celeste dire: « Questi è il mio Figlio diletto in cui Io mi sono compiaciuto ». Qualcosa di simile avviene nel nostro Battesimo. Configurati a Cristo, incorporati in Lui, partecipiamo alla sua stessa vita. Perciò anche su noi s’aprono i cieli, anche su noi discende lo Spirito Santo, anche a noi il Padre dice: « Questi è il mio figlio diletto ». C’è però una profonda differenza: Gesù Cristo è Figlio consustanziale del Padre, il battezzato non è che un figlio adottivo di Dio, partecipe della natura divina. « Sicché tu non sei più servo, ma figlio, e, se figlio, anche erede per opera di Dio » (Gal., IV, 7). c) L’inabitazione della SS. Trinità è la terza meraviglia operata dal Battesimo. Nel momento in cui il Sacerdote versando l’acqua pronunzia il Nome delle tre Persone Divine, esse entrano, nell’anima del battezzato e la santificano. L’anima d’un Cristiano è un piccolo cielo; più sacra del tabernacolo di marmo degli altari. Così si compie il desiderio del cuore di Dio, che non avendo bisogno di nulla, che bastando sovrabbondantemente alla propria inesauribile felicità, trova le sue delizie nell’abitare tra i figli degli uomini. I primi Cristiani conoscevano bene questa verità dell’inabitazione divina in noi. S. Paolo scriveva ai Corinti: « Non sapete che le vostre membra sono tempio dello Spirito Santo?… portate Dio nei vostri cuori… Chi profanerà questo tempio sarà dannato da Dio, perché il tempio è santo, il tempio siete voi » (I Cor., VI, 20; III, 6-17). –  3. LA VESTE BIANCA E LA FIACCOLA ACCESA. Prima di terminare il rito, il Sacerdote consegna al battezzato la veste bianca e la fiaccola accesa. Consegnando la bianca veste dice: « Ricevi la veste candida, serbala immacolata, perché tu possa presentarti puro al tribunale di Dio e ricevere la vita eterna ». Il commento più bello a questo simbolico gesto sono le parole dell’Apostolo: « Ricordatevi che avete deposto il vecchio uomo con tutti i suoi vizi; ricordatevi che vi siete rivestiti del nuovo, che continuamente si rinnova ad immagine di colui che l’ha creato. Rivestitevi di misericordia, di bontà, d’umiltà, di pazienza e dolcezza, sopportandovi e perdonandovi a vicenda » (Coloss., III, 9-14). E Dobbiamo dunque, con ogni sacrificio e premura, badare di non perdere la nostra veste e di non insudiciarla tanto da renderla irriconoscibile, perché quando meno ce l’aspettiamo il Re divino può passarci accanto per il controllo e rimproverarci: « Amico, come sei entrato qui, senza la veste nuziale? ». Eppure in questo mondo, che è fatto di tenebre e di tranelli, è troppo facile incespicare e cadere. Ma la Chiesa mette maternamente una fiaccola accesa tra le mani del battezzato, che gli illumini il cammino. Essa è simbolo della fede nella dottrina del Signore e nei suoi comandamenti. « Ricevi questa fiaccola ardente. Sii irreprensibile nel conservare la grazia del tuo Battesimo, osserva i comandamenti di Dio, sicché quando il Signore verrà per le sue nozze tu possa andargli incontro con tutti i santi nella sala del convito celeste, possedere la vita eterna e vivere nei secoli dei secoli ». – Ringraziamo dunque Dio Padre per il suo Figlio nello Spirito Santo. Viviamo il nostro Battesimo! che non isterilisca in noi come un seme gettato tra le pietre dei nostri peccati. Deponiamo il vecchio uomo fatto di concupiscenza e d’orgoglio; sviluppiamo la vita divina che è in noi con la preghiera, coi Sacramenti, con le opere buone. Ciascuno si ricordi di quale Capo, di quale Corpo è stato fatto membro. ..– L’UOMO DALLA VESTE SORDIDA. Il senso di questa parabola non è oscuro: la prima metà tocca i Giudei che invitati per i primi al regno spirituale del Messia, oltraggiarono, ferirono, uccisero i profeti; il Figlio di Dio fu suppliziato sul Calvario, Giovanni Battista fu decapitato, Stefano fu lapidato, Giacomo fu gettato giù dal tempio. Allora Iddio sdegnato distrusse Gerusalemme; nell’anno 70, le milizie romane sotto la guida di Tito furono lo strumento della vendetta divina: Tito stesso dovette confessare che la distruzione della città fu opera di Dio. Cento undici mila furono schiavi, e delle case non restò pietra su pietra. Ed eccoci alla seconda parte della parabola, e questa tocca noi. Avendo il popolo Giudeo rifiutato di partecipare al banchetto mistico della Chiesa, tutte le genti del mondo furono invitate al loro posto. Ed anche noi lo fummo, e siamo entrati col S. Battesimo: ma la fede, ma il Battesimo non bastano a salvarci, è necessario rivestirci di una veste nuziale fatta di opere buone e di mondezza d’anima. Dite un po’: se quest’oggi il Re del Cielo passasse accanto all’anima nostra non la troverebbe, forse, come l’uomo dalla veste sordida? Non dovrebbe anche per noi ripetere la condanna tremenda: « Prendetelo, legatelo, gettatelo fuori nel buio, nel pianto, nel brividore? ». Nessuno sia fatto come l’uomo dalla veste sordida! Prima che il Re ci sorprenda, esaminiamo l’anima nostra, e, se è necessario, deposto l’abito indecente, adorniamola con il velo nuziale. – 1. DEPONETE LA VESTE SORDIDA. I figli di Giacobbe avevano peccato molto: avevano con frode devastata la città di Salem: avevano commesso omicidio, furto di oro e di armenti; avevano inclinato il cuore verso gli idoli. Il vecchio patriarca non faceva che gemere: — Voi m’avete addolorato, m’avete reso odioso al cielo e alla terra: perirò io e tutta la mia casa. — Ma poi volendo salvare i suoi figli dall’ira di Dio, convocò la famiglia e disse: « Cambiate le vesti, mondatevi! gettate via gli dèi stranieri! ». Lo ubbidirono e gli consegnarono tutti gli idoli, e gli oggetti d’oro che Giacobbe sotterrò ai piedi del terebinto che è al di là della città di Salem. Così Dio tornò a benedire il patriarca e la sua discendenza (Gen., XXXV). La santa Chiesa, tenerissima madre, facendoci meditare la parabola dell’uomo dalla veste sordida, non intende forse imitare con noi quello che Giacobbe fece con i suoi figliuoli? Noi pure abbiamo molto peccato e forse in questo momento l’anima nostra porta un abito di ignominia: ascoltiamo dunque la supplichevole voce della Chiesa: « Cambiate le vesti, mondatevi! gettate via gli dei stranieri! ». Deponete la veste sordida dell’ingratitudine, che ci ha reso ribelli ai nostri superiori, che ci ha reso cattivi coi nostri genitori. Deponete la veste sordida degli odi che amareggiano a noi e agli altri la vita: la vendetta è aspra e solo il perdono è soave; soltanto coll’amore del prossimo potremo avviarci. all’amore di Dio; soltanto concedendo perdono, otterremo perdono. Deponete la veste diabolica, intessuta con le bestemmie, con giuramenti sacrileghi, con ingiurie, con le calunnie, con le mormorazioni, con le bugie, con le parole oscene: « se uno crede di essere religioso e non tiene a freno la lingua, e anzi seduce il suo cuore, la sua religione è vana » (Giac., I, 26). Deponete la veste sordida della sensualità: quelle amicizie pericolose, quelle letture avvelenate, quegli spettacoli immodesti, quegli sguardi incustoditi, quegli affetti illeciti, quei pensieri impuri, tutta l’anima vostra hanno ricoperto di immondezze. Oh se il gran Re vi sorprendesse nel giorno della morte così, avrebbe schifo di voi. Deponete la veste sordida delle ingiustizie: ogni cosa sia del suo padrone: ogni lavoro abbia la giusta ricompensa; ogni commercio sia senza frode. Sono questi i cattivi abiti di cui dovete spogliarvi, sono questi gli dei stranieri a cui già troppo avete servito. Mondatevene, poiché ancora siete a tempo. Seppelliteli sotto il terebinto del confessionale: Dio ritornerà a benedirvi. – 2. RIVESTITE LA VESTE NITIDA. Non basta entrare nella sala del banchetto nuziale, bisogna anche indossare una veste bella. Non basta purgare il campo dalle spine e dalla gramigna, bisogna anche fenderlo con l’aratro e con la vanga e seminarlo. Non basta dire « Signore, Signore! », ma bisogna anche fare la volontà di Dio. Non basta la fede, ci vogliono anche le buone opere. Le buone opere sono dunque la veste nuziale. È una sera d’inverno. Nevica. Un fratello e una sorella orfani, ignudi, affamati battono alla porta di un palazzo. Dalle finestre escono fasci di luce che investono la nebbia e la tramutano in polvere d’oro; viene anche il profumo di squisite pietanze fumanti sul bianco della tovaglia. Come si sta bene là dentro, nella luce, nel caldo, nell’abbondanza, nell’amore, ed essi sono nella notte e nel freddo e nella miseria, soli. Bussano: ed ecco appare un signore avvolto in pelliccia. « Oh poverini! — esclama scorgendo le due creature palpitanti d’angoscia. — Voi avete bisogno di ricoprirvi, di riscaldarvi, di nutrirvi e state qui a morire di inedia; andatevene via in fretta, correte a ripararvi e a rifocillarvi ». Poi ravvolgendosi il collo nelle morbide pelli sparisce, senza dar nulla ai due infelici. « Ebbene così è la fede senza le opere, come se a un fratello e a una sorella ignudi e bisognosi del vitto quotidiano uno di voi dicesse: — Andate in pace, riscaldatevi e satollatevi — senza dar loro le cose necessarie al corpo » (Giac., II, 14-17). Vano è quindi essere diventati Cristiani, se poi di cristiano non avete la vita. Vano è l’essere entrati al mistico banchetto della Chiesa, se poi non vi rivestite con l’abito della grazia e delle opere buone. Deposta quindi la veste sordida, rivestite — come han fatto San Paolo e Davide — la veste nitida. S. Pietro, nella notte della passione, tre volte aveva rinnegato il Signore per rispetto umano e per timore dei patimenti; ma poi pianse il suo peccato e, dopo la Resurrezione, per due volte affermò il suo amore a Gesù. Ma alla terza volta l’Apostolo si conturbò, e nel suo animo riecheggiò, lungo e straziante, un canto di gallo, e singhiozzante rispose: « Signore, tu vedi in me, tu lo sai se io ti amo »; una trentina d’anni dopo, quando i Romani lo crocifissero con la testa in giù, dimostrò quanta forza di sincerità racchiudevano le sue parole. Anche noi, Cristiani, abbiamo rinnegato il Signore: forse tre volte abbiamo perduto la S. Messa in domenica per rispetto umano, per divertimento; ebbene ora dobbiamo affermare il nostro amore con ascoltarne tre nei giorni feriali. Forse abbiamo rinnegato il Signore con molte bestemmie; ebbene. ora dobbiamo affermargli il nostro amore con molte giaculatorie. Forse abbiamo rinnegato il Signore tralasciando per pigrizia il Rosario e le preghiere; ebbene ora affermiamogli l’amore nostro aggiungendo qualche orazione di più. Ricordate anche Davide: egli aveva gravemente peccato abusando della donna di Uria. Ma poi, quando un giorno di guerra e di calura bruciava di sete, egli prese l’acqua della cisterna Betlemitica che i suoi soldati con tanto eroismo gli recavano nell’elmo, e la rovesciò per terra senza gustarne. Una volta si era preso un piacere illecito, ed ora si puniva privandosi di un altro lecito. I nostri occhi pure, o Cristiani, si sono talvolta presi dei piaceri illeciti, ed ora siano privati anche di qualcuno lecito e siano custoditi con santa modestia. Il nostro corpo, o Cristiani, molti piaceri illeciti si è preso; ed ora è giusto che noi l’abbiamo a mortificare negandogli qualche piacere innocente: nel cibo, nel sonno, nelle vesti. – Frate Francesco predicava nel convento di S. Severino, e molta gente andava per ascoltarlo; diceva egli della sventura dell’anima peccatrice e dello splendore dell’anima buona. Vi andò anche il trovatore Guglielmo Divini, tanto famoso a quei tempi, che si era meritato una corona d’alloro in Campidoglio ed il bel titolo di « re dei versi ». Le parole semplici del Poverello d’Assisi trafissero il suo cuore bramoso di vera gloria. Finita la predica, Guglielmo Divini andò a gettarsi ai piedi di S. Francesco, gridandogli: « Frate! conducimi lontano dagli uomini e consacrami a Dio. Toglimi questa veste del mondo, e ricoprimi con quella del paradiso ». Il giorno seguente, S. Francesco lo vestì dell’abito grigio dei frati, gli cinse i fianchi di una corda, e gli mise il nome di Pacifico, perché aveva egli trovata la pace di Dio. Anche voi, Cristiani, oggi avete sentito una predica che somiglia a quella di S. Francesco: avete compreso come è sordida la veste dell’anima se essa è in peccato, e come è nitida se è in grazia e compie opere buone. Cercate dunque presto un Sacerdote di Dio, e confessandovi dite anche voi: « Toglimi questa veste del mondo, e ricoprimi con quella del paradiso. » È certo che troverete allora anche voi la pace di Dio. — LA GRAZIA. Dunque: per entrare nel Regno de’ cieli, all’eterno banchetto di nozze con Cristo, non è necessario essere nobili; e neppure essere sapienti; e nemmeno essere ricchi; e neanche essere sani e belli di corpo. Una cosa sola è necessaria: indossare la veste nuziale. Quale profondo mistero Gesù ha svelato sotto questo simbolo? Il mistero della grazia. Si sa che la grazia si riceve nel S. Battesimo; si sa che s’accresce con le opere buone e specialmente coi Sacramenti; è risaputo anche che al primo peccato mortale si perde, e di solito non si può riaverla se non per mezzo d’una buona Confessione. Ma pochi sono quelli che hanno compreso e che vivono il mistero della grazia. Alcuni credono che essere in grazia, significhi soltanto essere senza peccati mortali; è troppo poco questa; essa importa molto di più. Che cos’è allora la grazia? È difficile dirlo, tanto è cosa meravigliosa e divina; però dagli effetti che essa produce nelle anime, possiamo formarcene un’idea. È difficile dire che cosa sia la forza che noi chiamiamo elettricità: ma quando noi osserviamo la differenza che v’è tra un filo con la corrente ed uno senza, quando vediamo il treno divorare le distanze rumorosamente, quando sentiamo il rullare sordo di gigantesche motrici, quando in un attimo vediamo illuminarsi una città che prima era nelle tenebre, un grido di meraviglia ci sfugge dal labbro: « Ma questa è la più bella forza del mondo! ». Così quando consideriamo l’infinita distanza che v’è tra un un’anima con la grazia ed una senza, quando pensiamo che la grazia ci mette Dio in cuore, ci rende figli di Dio, ci fa degni della vita eterna, allora è un grido d’amore che erompe dal nostro cuore: « Ma questo è il più bel dono di Dio! ». – 1. CI METTE DIO IN CUORE. In diversi modi Dio è presente nel mondo. « Dov’è Dio?» domanda il Catechismo, e risponde: « Dio è in ogni luogo. Egli è l’immenso ». Ma questa presenza universale di Dio in tutti gli esseri, nei minerali e nei vegetali, nelle cose e negli uomini, nei buoni e nei cattivi, finisce per impressionare un piccolo numero soltanto di anime. Per la maggior parte essere da per tutto, equivale a non essere in nessun posto. Dio, inoltre, è presente in Cielo. Ma in Cielo ci si arriva soltanto dopo la morte: e siccome alla morte gli uomini non ci vogliono mai pensare, così non pensano neppure alla presenza di Dio nel Cielo. Dio è presente, ancora sui nostri altari nell’Eucaristia: questa presenza, benché anch’essa molto misteriosa, è assai più sensibile. Noi possiamo sempre dire: — « Dietro a quelle apparenze di pane, vi è realmente Iddio ». Ma la presenza eucaristica, nella Comunione, dura poco; né possiamo restare in chiesa tutto il giorno e far della nostra vita una perpetua visita al Santissimo Sacramento. Ma v’ha un’altra meravigliosa presenza di Dio tra gli uomini: quella per mezzo della grazia. « Se qualcuno mi ama, — ha detto Gesù — mio Padre ed Io l’ameremo: e verremo a lui, e resteremo in lui come in casa nostra ». Dunque, quelli che amano Gesù, ossia che non fanno peccati e si mantengono in grazia, hanno Dio nel loro cuore. Quando S. Ignazio martire fu trascinato davanti a Traiano, non potendo il tiranno indurlo all’apostasia, gli gridò: — Tu sei un miserabile! — E il Martire calmo e solenne gli rispose: « Nessuno osi chiamare, miserabile Ignazio, perché egli porta Cristo ». — Come puoi dire di portar Cristo? « Posso dirlo, perché è verità: io porto Dio in me ». Dio in noi! ecco che cosa è la grazia. E se Dio è con noi, che cosa ci potrà spaventare? Quando verranno le tribolazioni ad angustiarci, non rattristiamoci, che abbiamo con noi il Dio della letizia. Quando il demonio con le seduzioni cercherà di lusingarci al peccato, resistiamogli che abbiamo con noi il Dio della fortezza. E quand’anche in casa nostra ci fosse e la miseria, e la fame, e la nudità, e la malattia, Dio è con noi, non temiamo. Una cosa sola ci deve far paura: il peccato. Perché il peccato ci toglie la grazia, e, con la grazia, Dio. – 2. CI RENDE FIGLI DI DIO. S. Luigi, re di Francia, quando firmava qualche decreto, accanto al suo nome, poneva anche il nome della città in cui era stato battezzato. Gli osservarono: « Perché vi ostinate a chiamarvi Luigi di Poissy, quando ben altri titoli più gloriosi che non quello d’un’oscura città potrebbero far corona al vostro nome? ». — E non sapete, — rispose il Re, — che a Poissy nel santo Battesimo la grazia mi ha fatto figlio di Dio? E v’è forse sulla terra una nobiltà maggiore di quella d’essere figlio di Dio? Quando S. Giovanna d’Arco guidava il gregge sui pascoli paterni e non s’era ancora decisa di lasciare i suoi monti e le sue pecore e di correre, lei fanciulla ignorante e debole, in capo agli eserciti e salvare la Francia, udiva spesso delle voci misteriose gridarle: — Va, Figlia di Dio, va! — Come quella pastorella poteva essere detta figlia di Dio? Sì, qualunque anima in grazia è figlia di Dio. Perché il digiuno di Gesù? Perché i suoi sudori? Perché i suoi flagelli? Perché le sue spine? Perché la sua croce? Perché la sua morte? In una parola, perché da figlio di Dio s’è fatto Figliuolo dell’uomo?… Perché noi che siamo figli dell’uomo avessimo a diventare figliuoli di Dio!… dedit eis potestatem filios Dei fieri (Giov., I, 12). Ecco perché Gesù, compita la redenzione, salendo al Cielo disse alla Maddalena: « Ascendo al Padre mio e Padre vostro ». Considerate, adunque, le meraviglie della grazia: Dio diventa nostro Padre e noi suoi figli! Ma pensate anche l’orrore del peccato mortale: noi cessiamo di essere figli di luce e diventiamo figli d’oscurità, non è più Dio il nostro padre, ma il demonio. Vos ex patre diabolo estis (Giov., VIII, 44). – 3. CI FA DEGNI DELLA VITA ETERNA. Come alle nozze della parabola nessuno poteva entrare senza la candida veste, così in paradiso nessuno può ascendere che non sia rivestito di splendore. La grazia è appunto questo splendore che fa bella l’anima e la rende degna del Cielo e della compagnia degli Angeli e dei Santi. Quando a Montpellier, in un’oscura prigione sotto il letto d’un fiume, morì S. Rocco, nessuno se ne accorse. L’avevano rinchiuso là sotto credendolo una spia, ed invece era il nipote del governatore della città, che tornava dopo aver pellegrinato per tutta la vita. Ma appena la sua anima uscì dal corpo, una gran luce uscì dal carcere per ogni fessura, tanto che un grande incendio vi pareva sepolto. Che cos’era quella luce se non lo splendore della sua anima ornata di grazia? Quando a Lisieux, nella clausura delle carmelitane, morì S. Teresa del Bambino Gesù, tutte le suore sentirono per le scale, per le celle del convento, un finissimo olezzo di violette, tanto che sembrava ritornata la primavera. Che cos’era quell’olezzo se non il profumo della sua anima ornata di grazia? La grazia è splendore, è profumo dell’anima. S. Caterina da Siena vide un giorno, per favore divino un’anima priva di peccato e divinizzata dalla grazia. Era tanta la bellezza di quella visione e la dolcezza che ne ridondava in lei ammirante, che sarebbe venuta meno se Dio non l’avesse sostenuta. E Nostro Signore, indicandole quel divino splendore, le soggiungeva: « Non ti sembra graziosa e bella quest’anima? Chi dunque non accetterebbe qualunque pena per guadagnare una creatura così meravigliosa? ». E chi di noi, ora che abbiam compreso che cos’è la grazia, non preferirebbe qualsiasi sofferenza, pur di non perdere tanto splendore con un peccato mortale? S’io sapessi tutti i libri degli scienziati a che mi gioverebbe senza la grazia? Senza la grazia a che mi gioverebbero gli onori di questo mondo, le ricchezze, la beltà? Tutto finisce con la morte: unica cosa che vale ancora più in là è la grazia. Solo per la grazia ci verrà aperta la porta del paradiso e più grazia avremo e più gloria ci sarà data. Per ciò nell’Imitazione di Cristo c’è questa preghiera: « O Signore, dammi la grazia e mi basta: di tutto il resto non m’importa!  (L., III, 4). Noi invece il nostro cuore l’attacchiamo a tutto il resto, danaro, piaceri, onori, e della grazia non c’importa. Non sappiamo quasi nemmeno che ci sia: per noi Gesù è morto inutilmente. Siam come quell’uomo del Vangelo che aveva nel suo campo un tesoro ingente sepolto e non lo sapeva. — Durante la persecuzione dei Vandali, Elpidoro apostatò. Era stato battezzato da poco tempo, con gioia aveva portato per otto giorni la candida veste simbolo della grazia, ma davanti alle lusinghe e alle minacce dei cattivi, aveva ceduto e aveva rinunciato alla sua fede. Allora il vecchio diacono che l’aveva battezzato, prese con sé la veste con cui aveva rivestito l’altro nel giorno della sua ammissione alla Chiesa e gli andò incontro. Davanti a lui spiegò la veste e l’agitò come un vessillo bianco: « Prendita, Elpidoro, e guarda! Riconosci quest’abito. Oggi tu l’hai profanato, tu l’hai lacerato, tu l’hai insozzato. Esso ti accuserà nel giorno del giudizio. Pensa bene a quello che fai ». Anche a noi, quando fummo battezzati, il Sacerdote ci pose indosso la candida veste, simbolo della grazia. Ma se quest’oggi, tra voi, ci fosse qualcuno che ha ceduto alle lusinghe del demonio e si trova in peccato, anch’io come quel vecchio diacono agito, davanti a lui, la sua veste battesimale come un vessillo bianco; e gli grido: « Prendila, e guardala. Col tuo peccato tu l’hai insozzata, tu l’hai stracciata, Tu hai perso la grazia. Quest’abito ti accuserà nel giorno del giudizio, quando il Re del Cielo vedendoti senza la veste nuziale, dirà anche a te: « Amico; con che coraggio ti presenti così? ». Non aspettate, o Cristiani, quel giorno d’ira. Ma tutti mettetevi in grazia con una santa Confessione, perché Dio non getti voi pure dalla porta del paradiso, legati e mani e piedi, a stridere i denti nel gelo e nel fuoco della notte eterna.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXXVII: 7
Si ambulávero in médio tribulatiónis, vivificábis me, Dómine: et super iram inimicórum meórum exténdes manum tuam, et salvum me fáciet déxtera tua.

[Se cammino in mezzo alla tribolazione, Tu mi dai la vita, o Signore: contro l’ira dei miei nemici stendi la tua mano, e la tua destra mi salverà.]

Secreta

Hæc múnera, quǽsumus, Dómine, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, salutária nobis esse concéde.

[Concedi, o Signore, Te ne preghiamo, che questi doni, da noi offerti in onore della tua maestà, ci siano salutari.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

 Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 4-5
Tu mandásti mandáta tua custodíri nimis: útinam dirigántur viæ meæ, ad custodiéndas justificatiónes tuas.

[Tu hai ordinato che i tuoi comandamenti siano osservati con grande diligenza: fai che i miei passi siano diretti all’osservanza dei tuoi precetti.]

Postcommunio

Orémus.
Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et tuis semper fáciat inhærére mandátis.

[O Signore, l’opera medicinale del tuo sacramento ci liberi benignamente dalle nostre perversità, e ci faccia vivere sempre sinceramente fedeli ai tuoi precetti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

11 OTTOBRE: FESTA DELLA MATERNITÀ DELLA B. V. MARIA (2022)

11 OTTOBRE

MATERNITÀ DELLA B. V. MARIA

(Dom  Gueranger: l’Anno Liturgico-vol. II;S. Paolo ed. Alba, 1957)

Il titolo di Madre di Dio.

Il titolo di Madre di Dio, fra tutti quelli che vengono attribuiti alla Madonna, è il più glorioso. Essere la Madre di Dio è per Maria la sua ragion d’essere, il motivo di tutti i suoi privilegi e delle sue grazie. Per noi il titolo racchiude tutto il mistero della Incarnazione e non ne vediamo altro che più di questo sia sorgente per Maria di lodi e per noi di gioia. Sant’Efrem pensava giustamente che credere e affermare che la Santissima Vergine Maria è Madre di Dio è dare una prova sicura della nostra fede. La Chiesa quindi non celebra alcuna festa della Vergine Maria senza lodarla per questo privilegio. E così saluta la beata Madre di Dio nell’Immacolato Concepimento, nella Natività, nell’Assunzione e noi nella recita frequentissima dell’Ave Maria facciamo altrettanto.

L’eresia nestoriana.

« Theotókos », Madre di Dio, è il nome con cui nei secoli è stata designata Maria Santissima. Fare la storia del dogma della maternità divina sarebbe fare la storia di tutto il Cristianesimo, perché il nome era entrato così profondamente nel cuore dei fedeli che quando, davanti al Vescovo di Costantinopoli, Nestorio, un prete che era il suo portavoce, osò affermare che Maria era soltanto madre di un uomo, perché era impossibile che Dio nascesse da una donna, il popolo protestò scandalizzato. Era allora Vescovo di Alessandria san Cirillo, l’uomo suscitato da Dio per difendere l’onore della Madre del suo Figlio. Egli tosto manifestava il suo stupore: « Mi meraviglia che vi siano persone, che pensano che la Santa Vergine non debba essere chiamata Madre di Dio. Se nostro Signore è Dio, Maria, che lo mise al mondo, non è la Madre di Dio? Ma questa è la fede che ci hanno trasmessa gli Apostoli, anche se non si sono serviti di questo termine, ed è la dottrina che abbiamo appresa dai Santi Padri ».

Il Concilio di Efeso.

Nestorio non cambiò pensiero e l’imperatore convocò un Concilio, che si aprì ad Efeso il 22 giugno del 431 sotto la presidenza di san Cirillo, legato del Papa Celestino. Erano presenti 200 Vescovi i quali proclamarono che « la persona di Cristo è una e divina e che la Santissima Vergine deve essere riconosciuta e venerata da tutti quale vera Madre di Dio ». I Cristiani di Efeso intonarono canti di trionfo, illuminarono la città e ricondussero alle loro dimore con fiaccole accese i vescovi « venuti – gridavano essi – per restituirci la Madre di Dio e ratificare con la loro santa autorità ciò che era scritto in tutti i cuori ». Gli sforzi di satana avevano raggiunto, come sempre, un risultato solo, cioè quello di preparare un magnifico trionfo alla Madonna e, se vogliamo credere alla tradizione, i Padri del Concilio, per perpetuare il ricordo dell’avvenimento, aggiunsero all’Ave Maria le parole: « Santa Maria, Madre di Dio, pregate per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte ». Milioni di persone recitano ogni giorno quella preghiera e riconoscono a Maria la gloria di Madre di Dio, che un eretico aveva preteso negare.

La festa dell’undici ottobre.

Il 1931 ricorreva il xv centenario del Concilio di Efeso e Pio XI pensò che sarebbe stata « cosa utile e gradita per i fedeli meditare e riflettere sopra un dogma così importante » come quello della maternità divina e, per lasciare una testimonianza perpetua della sua divozione alla Madonna, scrisse l’Enciclica Lux veritatis, restaurò la basilica di Santa Maria Maggiore in Roma e istituì una festa liturgica, che « avrebbe contribuito a sviluppare nel clero e nei fedeli la divozione verso la grande Madre di Dio, presentando alle famiglie come modelli, Maria e la sacra Famiglia di Nazareth », affinché siano sempre più rispettati la santità del matrimonio e l’educazione della gioventù. Che cosa implichi per Maria la dignità di Madre di Dio lo abbiamo già notato nelle feste del primo gennaio e del 25 marzo, ma l’argomento è inesauribile e possiamo fermarci su di esso ancora un poco.

Maria sterminio delle eresie.

« Godi, o Vergine, perché da sola hai sterminato nel mondo intero le eresie ». L’antifona della Liturgia insegna che il dogma della maternità divina è sostegno e difesa di tutto il Cristianesimo. Confessare la maternità divina è confessare la natura divina e l’umana nel Verbo Incarnato in unità di persona ed è altresì affermare la distinzione delle Persone in Dio nell’unità di natura ed è ancora riconoscere tutto l’ordine soprannaturale della grazia e della gloria.

Maria vera Madre di Dio.

Riconoscere che Maria è vera Madre di Dio è cosa facile. « E7 il Figlio della Santa Vergine è Dio, scrive Pio XI nell’Enciclica Lux veritatis, Colei che l’ha generato merita di essere chiamata Madre di Dio; se la Persona di Gesù Cristo è una e divina, tutti, senza dubbio, devono chiamare Maria Madre di Dio e non solamente di Cristo uomo. Come le altre donne sono chiamate e sono realmente madri, perché hanno formato nel loro seno la nostra sostanza mortale, e non perché abbiano creata l’anima umana, così Maria ha acquistato la maternità divina per aver generato l’unica Persona del Figlio suo ».

Conseguenze della maternità divina.

« Derivano di qui, come da sorgente misteriosa e viva, la speciale grazia di Maria e la sua suprema dignità davanti a Dio. La beata Vergine ha una dignità quasi infinita, che proviene dal bene infinito, che è Dio, dice san Tommaso. E Cornelio a Lapide spiega le parole di san Tommaso così: Maria è la Madre di Dio, supera in eccellenza tutti gli Angeli, i Serafini, i Cherubini. È la Madre di Dio ed è dunque la più pura e più santa di tutte le creature e, dopo quella di Dio, non è possibile pensare purezza più grande. È Madre di Dio, sicché, se i Santi ottennero qualche privilegio (nell’ordine della grazia santificante) Maria ebbe il suo prima di tutti ».

Dignità di Maria.

Il privilegio della maternità divina pone Maria in una relazione troppo speciale ed intima con Dio, perché possano esserle paragonate dignità create di qualsiasi genere, la pone in un rapporto immediato con l’unione ipostatica e la introduce in relazioni intime e personali con le tre persone della Santissima Trinità.

Maria e Gesù.

La maternità divina unisce Maria con il Figlio con un legame più forte di quello delle altre madri con i loro figli. Queste non operano da sole la generazione e la Santa Vergine invece ha generato il Figlio, l’Uomo-Dio, con la sua stessa sostanza e Gesù è premio della sua verginità e appartiene a Maria per la generazione e per la nascita nel tempo, per l’allattamento col quale lo nutrì, per l’educazione che gli diede, per l’autorità materna esercitata su di lui.

Maria e il Padre.

La maternità divina unisce in modo ineffabile Maria al Padre. Maria infatti ha per Figlio il Figlio stesso di Dio, imita e riproduce nel tempo la generazione misteriosa con la quale il Padre generò il Figlio nell’eternità, restando così associata al Padre nella sua paternità. « Se il Padre ci manifestò un’affezione così sincera, dandoci suo Figlio come Maestro e Redentore, diceva Bossuet, l’amore che aveva per te, o Maria, gli fece concepire ben altri disegni a tuo riguardo e ha stabilito che Gesù fosse tuo come è suo e, per realizzare con te una società eterna, volle che tu fossi la Madre del suo unico Figlio e volle essere il Padre del tuo Figlio » (Discorso sopra la devozione alla Santa Vergine).

Maria e lo Spirito Santo.

La maternità divina unisce Maria allo Spirito Santo, perché per opera dello Spirito Santo ha concepito il Verbo nel suo seno. In questo senso Leone XIII chiama Maria Sposa dello Spirito Santo (Encicl. Divinum munus, 9 maggio 1897) e Maria è dello Spirito Santo il santuario privilegiato, per le inaudite meraviglie che ha operate in Lei.

« Se Dio è con tutti i Santi, afferma san Bernardo, è con 0Maria in modo tutto speciale, perché tra Dio e Maria l’accordo è così totale che Dio non solo si è unita la sua volontà, ma la sua carne e con la sua sostanza e quella della Vergine ha fatto un solo Cristo, e Cristo se non deriva come Egli è, né tutto intero da Dio, né tutto  intero da Maria, è tuttavia tutto intero di Dio e tutto intero di Maria, perché non ci sono due figli, ma c’è un solo Figlio, che è Figlio di Dio e della Vergine. L’Angelo dice: Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te. È con te non solo il Signore Figlio, che rivestisti della tua carne, ma il Signore Spirito Santo dal quale concepisti e il Signore Padre, che ha generato colui che tu concepisti. È con te il Padre che fa sì che suo Figlio sia tuo Figlio; è con te il Figlio, che, per realizzare l’adorabile mistero, apre il tuo seno miracolosamente e rispetta il sigillo della tua verginità; è con te lo Spirito Santo, che, con il Padre e con il Figlio santifica il tuo seno. Sì, il Signore è con te » (3.a Omelia super Missus est).

L’amore di Gesù per la Madre.

« Se fosse permesso spingere tanto innanzi l’analisi del suo sviluppo umano, si direbbe che in Gesù, come in altri, vi fu qualcosa dell’influenza della Madre sua. La grazia, la finezza squisita, la dolcezza indulgente appartengono solo a Lui, ma proprio per tali cose si distinguono coloro, che spesso hanno sentito il cuore come addolcito dalla tenerezza materna e lo spirito ingentilito, per la conversazione con la donna venerata e amata teneramente, che si compiaceva iniziarli alle sfumature più delicate della vita. Gesù fu davvero, come lo chiamavano i concittadini, il « figlio di Maria ». Egli tanto ha ricevuto da Maria, perché l’amò infinitamente. Come Dio, la scelse e le donò prerogative uniche di verginità, di purezza immacolata, e nello stesso tempo la grazia della maternità divina; come uomo, l’amò tanto fedelmente che sulla croce, in mezzo alle spaventevoli sofferenze, l’ultimo pensiero fu per lei: Donna, ecco tuo figlio. Ecco tua Madre. » Ma il doppio amore gli fece scegliere per la madre una parte degnissima di lei. Il profeta aveva preannunziato Lui come il Servo di Jahvè e la Madre fu la Serva del Signore nell’oblio di sè, nella devozione e nel perfetto distacco: « vi è più gioia nel dare che nel ricevere ». Cristo, che aveva presa per sé questa gioia, la diede alla Madre e Maria comprese così bene questo dono che nei ricordi d’infanzia segnò con attenzione particolare i rapporti che a un lettore superficiale sembrano duri: « Perché mi cercavate? Non sapevate che debbo occuparmi delle cose che riguardano il Padre mio? » E più tardi: « Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?… » Gesù vuole insegnarci il distacco che da noi esige e darcene l’esempio » (Lebreton. La Vie et Venseignement de J. C. N. S., p. 62).

Maria nostra Madre.

Salutandoti oggi col bel titolo di Madre di Dio, non dimentichiamo che « avendo dato la vita al Redentore del genere umano, sei per questo fatto stesso divenuta Madre nostra tenerissima e che Cristo ci ha voluti per fratelli. Scegliendoti per Madre del Figlio suo, Dio ti ha inculcato sentimenti del tutto materni, che respirano solo amore e perdono » (Pio XI Enc. Lux veritatis). – « O Vergine tutta santa, è per i tuoi figli cosa dolce dire di te tutto ciò che è glorioso, tutto ciò che è grande, ma ciò facendo dicono solo il vero e non riescono a dire tutto quello che tu meriti (Basilio di Seleucia, Omelia 39, n. 6. P. G. 85, c. 452). Tu sei infatti la meraviglia delle meraviglie e di quanto esiste o potrà esistere, Dio eccettuato, niente è più bello di te » (Isidoro da Tessalonica. Discorso per la Presentazione di Maria P. G. 189, c. 69). Dalla gloria del cielo ove sei, ricordati di noi, che ti preghiamo con tanta gioia e confidenza. « L’Onnipotente è con te e tu sei onnipotente con Lui, onnipotente per Lui, onnipotente dopo di Lui », come dice san Bonaventura. Tu puoi presentarti a Dio non tanto per pregare quanto per comandare, tu sai che Dio esaudisce infallibilmente i tuoi desideri. Noi siamo, senza dubbio, peccatori, ma tu sei divenuta Madre di Dio per causa nostra e « non si è mai inteso dire che alcuno di quelli che sono ricorsi a te sia stato abbandonato. Animati da questa confidenza, o Vergine delle vergini, o nostra Madre, veniamo a te gemendo sotto il peso dei nostri falli e ci prostriamo ai tuoi piedi. Madre del Verbo incarnato, non disprezzare le nostre preghiere, degnati esaudirle » (San Bernardo).

Doppio di II Classe – Paramenti bianchi

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Isa 7:14.
Ecce Virgo concípiet, et páriet fílium, et vocábitur nomen ejus Emmánuel.

Ecco, una Vergine concepirà e darà alla luce un Figlio: che sarà chiamato Emanuele.


Ps 97:1.
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit.


[Canto nuovo cantate al Signore poiché fatti mirabili Egli ha operato.]

Ecce Virgo concípiet, et páriet fílium, et vocábitur nomen ejus Emmánuel.

[Ecco, una Vergine concepirà e darà alla luce un Figlio: che sarà chiamato Emanuele.]
Ps XCVII:1.

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui de beátæ Maríæ Vírginis útero Verbum tuum, Angelo nuntiánte, carnem suscípere voluísti: præsta supplícibus tuis; ut, qui vere eam Genitrícem Dei crédimus, ejus apud te intercessiónibus adjuvémur.

[O Dio, che hai voluto che all’annuncio dell’angelo il tuo Verbo s’incarnasse nel seno della beata Vergine Maria: concedi a noi di essere aiutati presso di te dall’intercessione di Colei che crediamo vera madre di Dio.]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XXIV: 23-31
Ego quasi vitis fructificávi suavitátem odóris: et flores mei, fructus honóris et honestátis. Ego mater pulchræ dilectiónis, et timóris, et agnitiónis, et sanctæ spei. In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ et virtútis. Transíte ad me omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini. Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum. Memória mea in generatiónes sæculórum. Qui edunt me, adhuc esúrient: et qui bibunt me, adhuc sítient. Qui audit me, non confundétur: et qui operántur in me, non peccábunt. Qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.
R. Deo grátias.

 [Come una vite, io produssi pàmpini di odore soave, e i miei fiori diedero frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza. In me si trova ogni grazia di dottrina e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, voi tutti che mi desiderate, e dei miei frutti saziatevi. Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e la mia eredità più dolce di un favo di miele. Il mio ricordo rimarrà per volger di secoli. Chi mangia di me, avrà ancor fame; chi beve di me, avrà ancor sete. Chi mi ascolta, non patirà vergogna; chi agisce con me, non peccherà; chi mi fa conoscere, avrà la vita eterna.]

A buon diritto la Chiesa anche qui applica alla Madonna un testo che è stato scritto con riferimento al Messia. Non è Maria la vera vigna, che ci ha data l’uva generosa, che riceviamo tutti i giorni nell’Eucarestia? Vi è gloria paragonabile a quella di Maria, che, essendo Vergine, è divenuta Madre di Dio, senza perdere la verginità? La Chiesa la canta con gioia Madre del bell’amore e ci invita ad accostarci a Lei con confidenza, perché in Maria si incontra ogni speranza della vita e della virtù e chi l’ascolta non sarà mai confuso.

Graduale

Isa XI: 1-2.
Egrediétur virga de rádice Jesse, et flos de rádice ejus ascéndet.
V. Et requiéscet super eum Spíritus Dómini. Allelúja, allelúja.
V. Virgo Dei Génitrix, quem totus non capit orbis, in tua se clausit víscera factus homo. Allelúja.

[Un germoglio spunterà dalla radice di Iesse, un fiore crescerà dalla radice di lui.
V. E su di esso si poserà lo Spirito del Signore. Alleluia, alleluia.
V. O Vergine, Madre di Dio, nel tuo seno, fattosi uomo, si rinchiuse Colui che l’universo non può contenere. Alleluia].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc II:43-51
In illo témpore: Cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus. Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diei, et requirébant eum inter cognátos, et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos, et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? ecce pater tuus, et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est quod me quærebátis? nesciebátis quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse. Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis.

[In quel tempo, mentre essi se ne tornavano, il fanciullo Gesù rimase in Gerusalemme, senza che i suoi genitori se ne accorgessero. Credendo che egli si trovasse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, e lo cercavano fra parenti e conoscenti. Ma, non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme per farne ricerca. E avvenne che lo trovarono tre giorni dopo, nel tempio, seduto in mezzo ai dottori e intento ad ascoltarli e a interrogarli. E tutti quelli che lo udivano restavano meravigliati della sua intelligenza e delle sue risposte. Nel vederlo, essi furono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché facesti a noi così? Ecco, tuo padre ed io addolorati ti cercavamo». Ma egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che è necessario che io sia nelle cose del Padre mio?». Essi però non compresero ciò che aveva detto loro. Ed egli scese con essi e tornò a Nazareth; ed era loro sottomesso.

Omelia

[Emilio Campana: Maria nel dogma cattolico, VI, ed.  – Marietti ed. 1946]

Grandezza della divina maternità di Maria.

I. — Il celebre panegirista di Filippo il Macedone, volendo esaltare fino al sommo della gloria il suo eroe, dopo aver illustrato la nobiltà dei suoi natali, la vastità delle sue ricchezze, la rarità del suo coraggio, l’energia dei suoi propositi, l’estensione delle sue conquiste, la eccellenza dei suoi talenti, infine espone l’argomento che doveva essere come il suggello, la corona di tutto il suo discorso; ed esclamò : « Hoc unum tibi dixisse sufficiat, filium te habuisse Alexandrum. — Ma io lascio tutto il resto, e per mostrarti superiore agli altri uomini mi basti il dirti che tu hai per figlio Alessandro ». Retorica! Vero, ma che esprime bene una verità innegabile. Poiché gli è certo che gloria grande deriva ai genitori dalla grandezza dei figli loro. Genitori e figli formano, come a’ dire, una sola personalità morale; il vincolo di unione che passa fra loro è tale che non è possibile trovarne un altro più intimo e più forte. Perciò come l’onore dei genitori si riversa sui figli, ai quali si tramanda in sacra eredità, così lo splendore dei figli risale ad illuminare quelli da cui essi ricevettero la vita. – Ciò che si verifica per tutti gli altri, a più forte ragione ha luogo in riguardo di Maria. La grandezza del suo divin Figlio Gesù riverbera su di Lei un raggio così fulgido di nobiltà e di elevazione, che giustamente si può ripetere di Lei la frase dell’oratore ricordato da Sabellico, e dire: Hoc unum tibi dixisse sufficiat, Filium te habuisse Jesum.

II. — La divina maternità, in altri termini, è la perla più fulgida che brilli nel serto di gloria ond’è cinta la fronte della gran Vergine: e per il solo fatto che è Madre di Dio, si trova collocata ad una veramente vertiginosa altezza di dignità, possiede una elevazione assolutamente impareggiabile; sta al sommo gradino dell’immensa scala costituita dalla svariatissima gradazione e gerarchia degli esseri creati.

III. — La misura della perfezione delle cose è nota. Essa sta nella maggiore o minore vicinanza che le cose hanno con Dio, loro supremo principio. Come l’acqua è più pura. e più fresca man mano che si sale alla fonte donde scaturisce, come la luce è più radiante quanto più è vicina alla sorgente luminosa; così la creatura è tanto più grande, quanto è in più stretto rapporto con Dio. Dio è la maestà senza limiti, è l’essere non soggetto ad alcun difetto, è la pienezza della perfezione e della potenza, è il mare infinito di ogni entità. Quando crea le cose non fa altro che conceder loro, per sua somma liberalità, un riflesso, una partecipazione delle sue doti eminenti; e secondo l’accentuazione di questa partecipazione le cose sono più o meno vicine a Dio, sono più o meno elevate nella scala della nobiltà e della dignità. Alla stregua di questo principio è facile determinare quali siano le grandi basi della gerarchia che la divina sapienza ha costituito tra le sue opere. All’infimo posto stanno gli esseri privi di vita, i minerali, che non operano se non sotto l’impulso di un agente esteriore, che sono, si potrebbe dire, lo zimbello di forze estranee. Più su troviamo i viventi vegetali, che hanno in sé il principio di alcune loro operazioni, che hanno risorse proprie. Ma la loro non è che una vita molto imperfetta; non è che il più tenue barlume, riflesso di quella vita ond’è esuberante Iddio, e nella quale trova la sua felicità indefettibile. 1 sensitivi, gli animali cioè, si elevano già ad un gradino superiore perché hanno operazioni nuove, sono capaci di conoscere, sono già più indipendenti nella loro vita, hanno in sé un’energia più vasta, meno soggetta alle determinazioni dell’ambiente esterno; sono capaci di determinarsi spontaneamente nei loro rapporti collo spazio per mezzo del moto locale, e nei loro rapporti col tempo per mezzo della memoria. Tuttavia siamo ancora lontani dalla immagine di Dio, elevato immensamente al di sopra di tutto ciò che è materiale, ed assolutamente indipendente da qualunque altro essere. Quest’immagine comincia ad apparire sufficientemente delineata nell’uomo, che per mezzo dell’intelletto e della volontà trascende la ristretta cerchia della materia, arriva a scoprire l’essenza delle cose, spazia in un mondo superiore al mondo del luogo e del tempo; guarda alle cose dalle cime più elevate dell’astrazione, ed è padrone del proprio atto, essendo pienamente libero nelle sue aspirazioni razionali. Per questo la Scrittura giustamente dice dell’uomo, che fu fatto ad immagine e somiglianza di Dio. L’uomo, infatti, è la somiglianza di Dio, così S. Tommaso, p. I, q. It. ad 2, non secundum corpus, sed secundum id quo homo excellit alia animalia… excellit autem homo alia animalia quantum ad rationem et intellectum. Ma avremmo torto di illuderci, come appunto si illudono i razionalisti contemporanei, pensando che l’umana intelligenza non ammetta altre facoltà conoscitive a sé superiori, che l’uomo stia al supremo grado della perfezione. No; già Aristotile diceva che 8nell’ordine intellettuale noi occupiamo soltanto l’infimo posto: che il nostro acume è, di fronte alla verità, debole come l’occhio di certi animali notturni in presenza della luce del sole. Al di sopra dell’uomo c’è un mondo sterminato di altri esseri, di altre intelligenze che tutte ci superano di gran lunga, e che alla lor volta sono, ci si perdoni la frase, scaglionate su una vastissima scala di graduata perfezione. Sono gli angeli. Liberi dagli impacci della materia, sono dotati di un intelletto sommamente vigoroso, di una volontà piena di energia, e sottomettono ai loro cenni le forze fisiche. Di questi spiriti, più che di noi si può e si deve dire che sono l’immagine e la somiglianza di Dio. Ma la distanza fra gli Angeli e Dio è ancora infinita; tra queste sublimi creature e Dio vi è ancora un abisso insormontabile. Dio non volle che questo intervallo fosse totalmente vuoto; ma vi ha creato l’ordine soprannaturale. L’ordine soprannaturale consiste in ciò che Dio, con un atto della sua onnipotenza, ha dato aulla creatura ragionevole nuove qualità, nuove facoltà, nuove operazioni, di cui essa 8naturalmente sarebbe stata incapace. Queste nuove prerogative trasportano la creatura immensamente al di sopra dello stato in cui avrebbe dovuto trovarsi stando alle sole esigenze della sua natura, e la mettono in certa guisa al livello medesimo di Dio, la fanno vivere della vita di Dio, la rendono beata della beatitudine di Dio, la trasformano secondo un certo senso in Dio, perché diventa, giusta l’espressione di S. Pietro, consorte della natura divina. L’ordine soprannaturale fa sparire la distanza fra la creatura e Dio, e mette questi alla portata di quella, in maniera che la creatura può vedere immediatamente Iddio, e può amarlo con tutto lo slancio delle sue energie, amarlo in maniera perfetta, amarlo necessariamente e senza fine. A quest’ordine sono elevati gli Angeli e gli uomini, quali sotto questo rispetto diventano immensamente superiori a tutto il creato. Però gli Angeli e gli uomini non esauriscono tutta la nobiltà possibile del soprannaturale; a loro non è dato di toccare le più alte cime che la sapienza infinita di Dio ha elevato in quest’ordine. La creatura intelligente, nell’ordine soprannaturale si unisce con Dio per mezzo dell’operazione, ma resta sempre lontano da Lui quanto all’essere. Il suo essere è essenzialmente limitato, contingente, ben diverso dall’essere divino. Se qualche natura creata potesse sussistere in Dio medesimo, possedesse l’esistenza medesima di Dio, certo si lascerebbe indietro di gran lunga tutte le altre cose. Ebbene questa natura non manca. È la natura del Red and red are a entore. Gesù ha una personalità divina, epperò anche in quanto uomo, ha raggiunto il massimo dell’elevazione. Egli sta nel centro di tutta la creazione; tutto s’aggira attorno a Lui, tutto è inferiore a Lui, Ecco dunque come si evolve la scala degli esseri: il mondo materiale; il mondo dei viventi vegetativi; quello dei viventi sensitivi, il mondo ragionevole, gli uomini e gli Angeli; ed al di sopra di tutti Gesù Cristo, che siede alla destra di Dio Padre onnipotente.

IV. — Il posto di Maria qual è? Essa viene immediatamente dopo Gesù, suo figlio; essa è superiore al mondo sensibile, al mondo razionale, agli Angeli; inferiore solo a Gesù ed a Dio. Prima vien Dio, poi Gesù in quanto uomo; il terzo posto è della Madre sua Maria, la quale appunto perché Madre sua appartiene al piano medesimo, quantunque in subordine nel quale si svolge il mistero dell’’Uomo-Dio; tutto il restante del mondo creato fa sgabello ai suoi piedi.

V. — Considerata relativamente, la divina maternità pone Maria al di sopra di tutte le altre pure creature: che se poi la si vuol analizzare nel suo valore assoluto bisogna conchiudere che è qualche cosa di così nobile, che Dio medesimo non potrebbe creare, non ostante tutta la sua onnipotenza, una dignità più augusta di questa. Non solo Maria vien di fatto subito dopo Dio, nella scala della grandezza, ma la sua congiunzione con Lui è così stretta che non vi è più posto per un’altra creatura inferiore a Dio e superiore a Maria. Colla divina maternità, Dio ha dato alla creatura tutto ciò che ad essa si può concedere. Intendiamoci: noi non parliamo della natura di Maria; parliamo soltanto della sua dignità, dei suoi pregi gratuiti, della sua elevazione insomma nelle regioni dell’ordine soprannaturale. Cosicché nessuno potrebbe negare che per natura, molte altre creature sono superiori a Maria. Per natura essa si trova al nostro medesimo livello, di ente materiale corporeo, e quindi per natura è inferiore agli Angeli, come del resto per natura anche Gesù in quanto uomo stava al di sotto delle creature spirituali; Angelis inferior factus est. Ma altro è la natura di una cosa, altro la dignità e la nobiltà, a cui questa cosa viene elevata. Non succede ogni giorno anche nel mondo, che non sempre quelli che hanno le migliori doti naturali toccano in pari tempo anche il sommo della dignità? E Dio nell’ordine soprannaturale si è compiaciuto appunto di dare un posto privilegiato all’uomo di fronte all’Angelo. All’ordine soprannaturale nessuno aveva diritto; l’Angelo non ce ne aveva più che l’uomo. Fu per pura sua liberalità che Dio elevò entrambe queste sue creature a tanta altezza. Ma nella distribuzione di questi nuovi seggi di gloria s’è compiaciuto appunto di conferire i più grandi ai rappresentanti l’umanità, a Gesù, ed alla Madre sua. In questo senso diciamo che Dio non potrebbe fare una dignità, più grande di Maria, perché è impossibile per la creatura vuoi materiale, vuoi spirituale, avere con Dio una congiunzione più intima, una partecipazione più larga ai suoi doni, di quello che comporti la divina maternità.

VI. – Quest’asserzione potrà sembrare ardita; ma noi l’abbracciamo con tutto lo slancio di una convinzione incrollabile, anzitutto perché è l’idea che della dignità di Maria ebbe in ogni tempo la Chiesa, che è la colonna ed il fondamento di ogni verità. Certo fu questa l’idea che dominò incontrastata presso i teologi scolastici, dei quali ci basti citare qualche nome, essendo la cosa fuori di ogni controversia. Al sorgere della Riforma, quando incominciavano i primi attacchi da parte del protestantesimo contro la ineffabile elevazione di Maria, il Card. Caietano, uno dei più fulgidi astri della metafisica, ed in pari tempo uno dei più arditi antesignani della critica moderna, e che non ebbe mai difficoltà ad esprimere le proprie convinzioni anche quando le sapeva riprovate dai suoi contemporanei, parlando della Madre di Dio scriveva: « Ad fines divinitatis propria operatione attigit, dum Deum concepit, peperit, genuit et lacte proprio pavit. — Toccò le regioni della divinità, e divenne affine con Dio quando lo concepì, lo generò, e lo nutrì della propria sostanza » (Comm. alla S. Th.: II-II, q. CIII, a. 4). – Ed un altro insigne scrittore di quel tempo, uno dei più serii e dotti trattatisti di Maria, il S. Dott. P. Canisio, in cui la scienza fu pari alla santità, nel lib. II De excellentia B. V., c. XIII, scrive: « Spectet ac miretur qui velit pulcherrimi huius mundi fabricam atque gubernationem; quidquid autem in caelo vel in terra creatum est, quantum vis amplum, excellens, illustre videatur ab hoc opere uno divino quod in Maria tam electo Vase peractum est, multis sane modis superatur et obfuscatur. — Ammiri chi vuole il bellissimo edificio dell’universo ed il suo governo: ma tutto ciò che fu creato sia nel cielo come sulla terra, per quanto grande, elevato e nobile esso possa sembrare, è, sotto molti aspetti, superato ed oscurato da questo solo prodigio (che fu fatta Madre del Verbo) operatosi in Maria la quale divenne vaso di singolare elezione). – Un altro Santo di poco anteriore ai due citati teologi, san Tommaso da Villanova, che fu insigne teologo ed illustre predicatore, commentando quelle parole della Scrittura, che applica a Maria: Quæ est ista quæ ascendit, ecc., dice « Quis poterit istis respondere: Quæ est ista? Etiamsi stellæ vertantur in linguas et arenæ maris in verba commutentur, non poterit dignitas Mariæ pro merito explicari. — Anche se le stelle del cielo si mutassero in lingue, e se le arenedel mare si cambiassero in parole, non si arriverebbe mai ad esprimerecondegnamente la dignità di Maria » (Concio V in Fest. Assump.. B. V.).Né questa è rettorica da secentista. S. Tommaso, così esatto e misurato nelle sue espressioni, che non si lascia mai tradire dall’entusiasmo,, ma che procede sempre colla calma e colla lucidezza dichi tutto vuol provare a rigor di logica, aveva già molto tempo innanziscritte queste parole che non dovrebbero mai cadere dalla mente dinessun devoto di Maria: « Maria ex hoc quod est mater Dei, habet quamdam dignitatem infinitam ex bono infinito quod est Deus, et ex hac parte non potest aliquid fieri melius; sicut non potest aliquid esse melius Deo. — Maria per ciò che è Madre di Dio ha una dignità pressochéinfinita per i suoi rapporti con Dio bene infinito; e sotto questoriguardo non è possibile niente di meglio; come non è possibiletrovare cosa alcuna che sia migliore di Dio stesso » (Sum. Theol., I, q. XXV, a. 6 ad. 4.). Pressoché identico è il linguaggio dell’autore dello Specul. B. M. V., lib. X, già comunemente ritenuto di S. Bonaventura: « Esse mater Dei est gratia maxima puræ creaturæ conferibilis. Ipsa est qua maiorem facere Deus non potest. Maiorem mundum posset facere Deus; maius cælum: maiorem matrem, quam Matrem Dei non posset facere. Essere Madre di Dio è tale grazia, che Dio non puòfarne un’altra più grande. Egli potrebbe fare un mondo ed un cielopiù grande; fare una madre più grande della Madre di Dio, è ancheper Lui una cosa impossibile ».

VII. — Lo so che più d’uno si riderà di queste sentenze, credendo di averle inappellabilmente condannate alla gogna, dicendo che sono opinioni degli scolastici. Pare ormai che presso una certa classe di studiosi diventi di moda il classificare tutte le teorie degli scolastici nel numero delle opinioni inconsistenti colle solide dottrine dell’antica Chiesa, e spacciarle come ritrovate solo in grazia di un sottile e vano argomentare aprioristico. Il fatto innegabile però si è, che questo sublime concetto della sorprendente ed insuperabile dignità di Maria, lo troviamo espresso con ammirabile unità di consenso, nelle opere dei Padri di tutte le età. È appunto quello che ci accingiamo a dimostrare. Premettiamo innanzi tutto che qui ci accontenteremo soltanto di un numero ristretto di citazioni, le quali però, :ci affrettiamo a dirlo, sono più che sufficienti alla dimostrazione del nostro assunto. Altre testimonianze in favore della dignità di Maria, le porteremo altrove, quando ci occuperemo cioè dei doni soprannaturali di cui Ella fu ornata. Allora vedremo più dettagliatamente che cosa pensarono gli antichi scrittori ecclesiastici della grandezza della grazia posseduta da Maria. Orbene, come opportunamente fa osservare il Livius, tutto quello che serve a provare la grandezza della santità di Maria, dimostra in pari tempo la singolare dignità di Lei. « Queste due cose, così il citato autore, la dignità e la santità di Maria, sono così intimamente legate, secondo il modo di pensare dei Padri, che l’idea la quale appare forse meglio di ogni altra come fondamentale in tutta la loro dottrina circa l’Incarnazione, è appunto questa, che il Figlio di Dio volle per sé una madre degna di sé, vale a dire degna fino a quel punto di dignità al quale può essere trasportata una semplice creatura ». Ciò premesso, e limitandoci per ora al preciso concetto della dignità di Maria in quanto Madre di Dio, ecco che cosa ne pensarono gli scrittori anteriori all’epoca scolastica. Eadmero, il fedele discepolo di S. Anselmo (m. 1137), nel libro De excellentia B. V., cap. III dice: « Se mai è lecito paragonare le cose celesti alle terrene, osservisi come tra gli uomini corre tal costumanza, che quando un potente e ricco signore è per andare ad albergo in alcun luogo, vadano innanzi i suoi servi a guardare dalle insidie le vie, a nettar la casa da ogni bruttura, ad ornarla di preziosi arredi, sicché al venire del loro signore tutto sia decoroso e convenevole alla sua dignità. Ora, se tale Preparamento si suol fare per l’arrivo di un uomo di fango e di una podestà caduca, quale apparecchiamento di ogni più eletto bene pensiamo noi che si sarà fatto per l’arrivo del Re celeste ed eterno, nel cuore della beatissima Vergine, la quale non solo doveva in sé transitoriamente ospitarlo, ma di più doveva generarlo della propria sostanza? Qui si sollevi il pensiero della mente umana e per quanto può comprenda, se ha tanta lena, di qual pregio fossero presso l’onnipotente Iddio, i meriti di questa beatissima Vergine. Contempli ed ammiri, io dico, come l’eterno Padre generò della sua sostanza, senza cominciamento, un Figlio consostanziale è coeterno a se Stesso, e come per mezzo di Lui fece tutte le creature visibili ed invisibili. Orbene, il divin Genitore non volle che questo unico e dilettissimo Figlio rimanesse di Lui solo, ma volle diventasse in tutta verità il Figlio unico, dilettissimo e naturale della B. Vergine Maria. E non in questo senso che vi fossero due figli, uno quello di Dio, l’altro quello di Maria; no, ma un solo e medesimo Figlio, che nell’unità di una sola e medesima Persona, fosse Figlio di Dio e di Maria. Chi meditando questo mistero non sì sente sbalordito e non stima questo prodigio dell’Altissimo ammirevole oltre ogni credere? ». – Un secolo prima S. Pietro Damiani, che fu tanta parte del suo tempo, scriveva: « E come mai la transitoria parola dell’uomo mortale potrà lodare Colei che generò di sé il Verbo eterno? Qual lingua trovar potrassi che sia idonea alle lodi di Colei che diede in luce Quegli, cui tutti gli elementi danno lode e con tremore obbediscono? Quando noi vogliamo esaltare i generosi fatti di alcun martire e magnificarne le insigni virtù a gloria del nostro Redentore, benché la pochezza dell’ingegno non ci presenti molti concetti, e la infecondità del ragionare ci renda aridi, pure la materia stessa della cosa somministra copia al dire. Ma quando trattasi delle lodi della beatissima Madre di Dio, essendo argomento nuovo ed inaudito, non troviamo parole che siano sufficienti ad esprimerle degnamente, perché la singolarità della materia toglie ogni potere al discorrerne ». –  E nell’inno 48 In Assumpt., il medesimo santo scrittore così si esprime: « Il coro degli Angeli beati, i sacri Profeti e l’ordine degli Apostoli, vedono al di sopra di sé, te sola, dopo la Divinità ». Più indietro ancora, cioè nel secolo VII, S. Giovanni Damasceno, nella hom, I De Dormitione Virgo n. 10, parlando di Maria, dice nientemeno « che Ella si eleva ad un’altezza infinità al disopra degli altri servi di Dio. — At infinitum Dei servorum ac matris discrimen est ». Cfr. Summa aurea, vol. 6, col. 138,Nel medesimo secolo, S. Germano, patriarca di Costantinopoli,che visse qualche decennio prima di S. Giovanni Damasceno (morì nel 733, all’età di 90 anni), così scriveva in una lettera letta ed approvata nella sessione IV del Concilio generale VII:« Noi onoriamo eglorifichiamo nella Vergine Maria Colei che è propriamente e veramente la Madre di Dio, e come tale noi la riteniamo superiore alle creature visibili ed invisibili ».Identico fu il linguaggio tenuto da Teodoro di Gerusalemme in una lettera sinodale, approvata essa pure dal Concilio VII – Revera Dei mater est, et tam ante quam post partum Virgo permansit, atque omni creatura facta est gloria et splendore præstantior.S. Ildefonso Toletano (m. 667), nel discorso 1° sull’assunzione diMaria, dice: « Cristo collocò insieme con sè la Madre sua sul tronodell’eterno regno; la trasferì nella gloria dell’immortalità, e la innalzò al di sopra dei cori angelici con inaudita solennità ». Mezzo secolo prima, S. Gregorio Magno, nato nel 540, e morto nel 604, nel libro I dell’Esposizione del I° dei Re, interpreta allegoricamente di Maria il monte di Efraim e dice: « Col nome: di questo monte si può indicare la beatissima e sempre vergine Maria Madre di Dio. Essa infatti fu un monte, che colla dignità della sua elezione si elevò al di sopra dell’altezza di ogni eletta creatura. E come si potrà negare che sia un monte sublime Maria, che per arrivare alla concezione dell’eterno Verbo, elevò il vertice dei suoi meriti sopra tutti i cori degli Angeli e lo spinse sino alla soglia della divinità? Fu davvero un monte collocato sul vertice degli altri monti, perché l’elevazione di Maria rifulse sopra quella di tutti i Santi ». – E per saltar subito ad autori più antichi, S. Ambrogio nel lib. II De Virg., scrive: « Quid nobilius Dei Matre, quid splendidius ea quam splendor elegit? — Che cosa havvi più nobile di Maria, che cosa mai più splendido, dal momento che fu prescelta dallo stesso splendore? ». Il lettore l’ha dunque compreso: il linguaggio tenuto da Pio IX nella Bolla Ineffabilis, che diceva: « Dio ornò Maria dell’abbondanza dei celesti carismi, attinti nel tesoro della divinità, in una maniera di gran lunga superiore a quella che usò cogli Angeli », non è altro che la fedele ripetizione di quello che ha sempre detto la Chiesa universale, vuoi greca, vuoi latina, fin dai secoli più prossimi alla sua origine.

VIII. — Per essere esatti riconosciamo che la formola esplicita, che attesta la superiorità di Maria, in quanto Madre di Dio, a tutte le cose non appare nei Padri anteriori a quelli che citammo; ma nessuno potrebbe per questo dedurne la conseguenza, che dunque la dottrina sulla grandezza di Maria è di data assai recente; poiché ai primi scrittori ecclesiastici se manca la formola non fa però difetto l’idea. Essi pure sentirono di Maria come sentirono le generazioni posteriori: i primi discepoli di Gesù, non meno di noi hanno vagheggiato in una visione piena di conforto le cime sublimi, riflettenti i raggi più puri della divinità, a cui Maria fu innalzata per la divina maternità. In realtà, come lo dimostreremo altrove a tutto agio, fin dal primo sorgere della Chiesa, Maria fu sempre considerata come la compagna indivisibile di Gesù nell’opera della Redenzione, come la piena di grazia. La qual dottrina, come già osservammo, implica l’altra della ineffabile dignità di Maria, è la premessa da cui necessariamente scaturisce la conclusione che Maria fu costituita, dopo Gesù, il centro di tutto il creato. – Che più? a dissipare ogni dubbio, a togliere qualsivoglia ombra di perplessità, e convincere anche i più meticolosi, che davvero Maria fu innalzata fino all’estremo limite del possibile per una semplice creatura, abbiamo la grande attestazione di Maria medesima, che passa attraverso l’anima del credente come il più caro soffio confortato. Maria disse di sè: « Fecit mihi magna: qui potens est. — Colui che è potente mi ha fatto grandi cose ». Qui sta compendiato tutto ciò che si può dire di splendido e di sublime per la gran Vergine. Iddio fece a Maria cose grandi non solo in sé, ma grandi relativamente alla sua stessa potenza infinita; fece tali cose per cui Ella sarà esaltata sempre da tutte le generazioni non solo umane, ma celesti, non solo dagli uomini, ma anche dagli Angeli; i quali, mentre era ancor sulla terra, già s’inchinavano davanti a Lei, come a Regina, salutandola con ogni rispetto. Il colmo di queste elargizioni sovrane dell’onnipotente Iddio sta nell’averla scelta per sua Madre.

IX. — Ma se così è, se la divina maternità innalza tanto in alto Maria secondo il comune sentire della Chiesa, come si spiega poi quello che disse Gesù a riguardo della Madre sua, e che è riportato da S. Luca al c. XI? Gesù predicava alla folla da cui era assiepato: con intuizione sorprendente discopriva i segreti macchinamenti che contro di Lui ruminavano in cuore i farisei, e con argomentazione invincibile sfolgorava la loro iniquità. Tra quella moltitudine fuvvi una donna, che non potendo frenare il suo entusiasmo per Gesù, esclamò, in maniera che tutti la udirono: « Fortunato il seno che ti portò, ed il petto che ti allattò! ». Ma Gesù rispose: « Che anzi fortunati quelli che ascoltano la parola di Dio e la conservano ». Queste parole di Gesù hanno gettato nell’imbarazzo più d’un teologo, a riguardo del vero valore della divina maternità. Nessuno mai ha negato che Maria debba proclamarsi la prima delle creature, l’impareggiabile capolavoro dell’Onnipotente; ma alcuni hanno creduto di dover dire che la più grande dignità di Maria proviene dall’essere Ella non precisamente la Madre di Dio, ma la sua prima figlia adottiva. Hanno pensato che fosse più grande per la grazia abituale, che per la divina Maternità. Di questo parere furono i teologi Salmanticesi, seguiti da altri in numero però relativamente ristretto. Ma quel che è più, sembra che anche tra i Padri non siano mancati coloro che hanno interpretato le parole di Gesù, nel senso di una prevalenza della grazia sopra la Maternità. Così sembra aver pensato Agostino e lo pseudo Giustino. La maggior parte dei teologi però non dubiuta di affermare che il titolo primario della grandezza di Maria sii è l’essere stata Ella Madre del Creatore. Come pensare su di tale questione? Chi non ama l’indagine speculativa potrebbe tenersi perfettamente indifferente di fronte all’una ed all’altra sentenza, perché qualunque sia l’abbracciata, non modifica, come dicemmo, il giudizio che dobbiamo avere della grandezza di Maria. Tutti, nessuno eccettuato, ammettono che Maria è la più nobile delle creature. Ma, volendo entrare nel merito della questione di indole metafisicale, è tutt’altro che inutile ed indifferente, specialmente per ciò che riguarda l’assegnare il posto che ebbe Maria nel piano dell’eterna predestinazione, volendo dico entrare nel merito della questione, non v’ha dubbio che la divina maternità debba, tutto considerato, proclamarsi superiore di gran lunga alla filiazione adottiva di Dio, che è l’effetto formale della grazia santificante. Dico « tutto considerato » perché sarebbe un equivoco grossolano quello di pensare che Maternità divina e grazia santificante siano nel medesimo ordine e sì possano così disporre parallelamente, sì da trarne un confronto armonico per tutte le parti della loro estensione. No: esse sono di un ordine tutt’affatto differente, e come opportunamente fa notare il Suarez, ciascuna ha delle Prerogative e degli effetti superiori alle Prerogative ed agli effetti dell’altra. Præcisive sumpta vix possunt hæc: Dei maternitas et filiatio adoptiva comparari; sunt enim diversi ordinis, et mutuo sese quodammodo excedunt (Suarez, Comm. in q. 27, III, S, Th., Disp I, sect. 2, n. 5).Infatti, avviene nei rapporti tra la divina maternità e la grazia santificante, quello che accade nel confronto tra la potestà di ordine e di giurisdizione nel Romano Pontefice. Sono due poteri distinti nonsolo, per così esprimerci, individualmente, ma anche specificamente. Col potere di giurisdizione il Vicario di Cristo governa la Chiesa per mezzo di leggi e di conseguenti giudizi e sanzioni; ciò che non potrebbe fare in virtù del semplice carattere episcopale, Il qual carattere però gli dà facoltà di compiere atti santificatorii e consacratorii delle anime, che invano si domanderebbero al semplice Potere di giurisdizione. Ognuno lo vede: sono Prerogative aventi effetti differenti, dei quali non è sempre facile dire quale sia il più stimabile. Tuttavia iteologi, tenuto calcolo di tutto, non dubitano di dire che il potere digiurisdizione è superiore al potere di ordine. E chi non sa che il Romano Pontefice è il capo supremo e venerato della Chiesa; è, dopo Cristo, il membro più insigne di questo corpo vivo che è la Chiesa militante, appunto per la giurisdizione e non per l’ordine? E così è della grazia, e della divina Maternità. Entrambe congiungono a Dio, ma per vie diverse. La grazia congiunge a Dio per mezzo delle operazioni, dà cioè il diritto di vedere un giorno Dio a faccia a faccia, di saziare la nostra ardente brama di verità nella sua luce senza ombre, e di estinguere la nostra incoercibile ed indomabile sete di felicità nella sua bontà senza difetti. La grazia ci solleva a toccar Dio, a sprofondarci in Lui per mezzo dell’intelletto e della volontà. La Maternità divina invece congiunge con Dio per mezzo dell’essere,Il lettore si ricorderà, che abbiamo detto che è una relazione reale che lega Maria alla Divinità. Per la divina maternità tutta la persona di Maria entra in stretta parentela con Dio. Ognuno poi facilmente comprende che per certi riguardi è più amabile la felicità, frutto della grazia, e per certi altri deve darsi la preferenza alla congiunzione con Dio fondata nell’essere, la quale appartiene all’ordine dell’unione ipostatica. Perché colloca Maria nell’ordine dell’unione ipostatica, la sua Maternità divina la unisce a Dio con tale un legame, di cui non è possibile in pura creatura immaginarne un altro più forte. La lega non soltanto al Verbo che Ella ha generato secondo la carne, ma a tutta la SS. Trinità, come diremo più sotto di proposito. Con ciò la maternità divina è per Maria fonte di santificazione anche indipendentemente della grazia santificante. Non oseremo dire che la santifica in quella guisa che l’unione ipostatica santifica l’umanità di Gesù, tribuendole quella che i Teologi chiamano la santità sostanziale. Non ignoriamo che questa idea è cara ad autori anche di gran nome, ma riteniamo che manchi di solido fondamento. Poiché mentre nell’unione ipostatica la divinità, che è la santità per essenza, viene data e legata sostanzialmente all’umanità assunta, niente di tutto questo è importato nella divina Maternità, la quale ciò non ostante entra nell’ordine diquell’unione perché ha cooperato a prepararla, ed ha di conseguenza con essa dei rapporti indelebili. La divina maternità è tuttavia fonte di santificazione in quanto consacra Maria a Dio, la rende a Lui carissima, e di più la costituisce, con necessità morale, impeccabile. E quando c’è tutto questo, come si potrebbe ancor dire che manca la santità, la quale altro non è se non l’adesione a Dio, e la fuga di tutto ciò che potrebbe offenderlo, almeno gravemente? Ebbene la divina Maternità consacra Maria a Dio. E si noti, non come gli potrebbe essere consacrata un’altra persona od un oggetto qualsiasi; non per esempio come gli potrebbe essere consacrato un tempio, od un uomo mediante il carattere sia battesimale, sia sacerdotale; ma in una maniera incomparabilmente più cospicua. Poiché  le altre consacrazioni dicono solo un legame parziale tra le creature ed il Creatore, un legame che si limita alla capacità passiva od alla potenza attiva. La Maternità divina invece lega tutta la vita di Maria a Dio, tanto è vero che, come diremo a suo luogo, Maria non sarebbe mai stata creata, se non fosse stata destinata ad essere Madre di Dio. La divina Maternità è tutta la ragione della sua Stessa esistenza. Nemmeno Dio non l’ha mai pensata se non come la sua futura Madre. E sarebbe un non comprenderla in tutta la sua estensione, il ridurre la divina Maternità solo a quegli atti fisiologici coi quali Maria ha cooperato dispositivamente all’unione del Verbo coll’umanità assunta. Gli atti della concezione e della generazione sono semplicemente il fondamento della maternità. In sé questa appartiene ad un altro predicamento, alla relazione. Nel caso presente è tutta la realtà di Maria che resta così riferita, legata a Dio. – Legata in modo che si impone indeclinabilmente all’amore di Lui. Ripugna che Dio Possa non amare la sua Madre. Come anche il buon senso ci costringe a pensare che Egli in Lei prima ed al di sopra  della sua figlia adottiva debba amare la Madre che gli è legata coi vincoli del sangue. Perché gli è Madre (anche se Maria per ipotesi assurda non avesse altro) Dio la amerebbe più di quello che ama il complesso delle sue altre creature dalle infime alle più elevate. Ed anche Maria alla sua volta, perché sì sente Madre di Dio, facciamo consistere l’impeccabilità che le derivava dalla divina maternità. Non una impeccabilità fisica, sul tipo di quella che dobbiamo ammettere in Gesù per via dell’unione ipostatica: poiché la ripugnanza del peccato in Gesù era assoluta. Se avesse potuto peccare Gesù, codesta triste possibilità non sarebbe stata di una creatura, ma di Dio medesimo, poiché le azioni sono della Persona, come del soggetto adeguato di attribuzione. L’incompatibilità del peccato colla persona di Maria era invece solo di ordine morale, risolvendosi in una suprema indecenza, non spiegabile se non mediante delle anormalità in Lei, che Dio non avrebbe mai Permesso. Perché sua Madre, Dio dovette esentare Maria anche dal peccato di origine, che pure per malizia è il minimo dei peccati, non dipendendo dal nostro volere. Ed anche quelli che ancora tergiversano davanti a queste osservazioni, che a noi paiono solidissime, debbono però ammettere come indiscutibile una ragione sulla quale si può fondare un giudizio certo a riguardo della superiorità fra la divina Maternità e la grazia. Consiste nell’ordine col quale si succedono. Come l’essere precede sempre l’operazione, così la divina Maternità precede necessariamente la grazia santificante e tutti gli altri carismi in Maria. Non solo li precede, ma li esige. Immaginarsi la Madre di Dio spoglia della grazia, dei doni dello Spirito Santo, delle virtù naturali e soprannaturali, sarebbe come immaginare nella più augusta delle reggie, la madre venerata dal re aggirarsi vestita. con miseri panni da pezzente, e priva dei paludamenti convenienti alla sua elevazione sociale. Tutte le prerogative di cui va adorna Maria sono contenute, come in radice, nella sua divina Maternità. La divina Maternità è il centro attorno a cui s’aggirano tutte le effusioni della divina liberalità verso Maria: e di quella sono, come meglio apparirà in seguito, o disposizioni, o conseguenze. È questo, e ci preme di farlo notare, anche il pensiero di S. Agostino il quale nel libro De natura et gratia, c. 36, scrive: « Inde novimus tantam gratiam illi (Mariæ) esse collatam, quia Deum concipere meruit ac parere. — La ragione per cui fu concessa a Maria una grazia così grande, sta nell’aver concepito e generato Dio medesimo ». – Basta questo per farci comprendere come la divina Maternità sia senza alcun dubbio superiore ad ogni altra prerogativa di Maria, sia davvero il titolo più valido che la eleva al di sopra di tutto il creato, e la lascia seconda a Dio solo. – E le parole di Gesù? Per potervi cogliere il genuino pensiero del divin Maestro, è necessario non perdere di vista le circostanze in cui le pronunciò. La donna che presa da un fremito irrefrenabile di entusiasmo alzò la voce di mezzo alla folla, non conosceva la vera natura di Gesù; ella era ben lontana dal sospettare che fosse il Figlio di Dio, e che sotto le apparenze umane, si nascondesse in Lui la pienezza della divinità. Ella pensava di Gesù, quello che ne pensavano allora comunemente i suoi ammiratori. Lo credeva un gran santo, un gran sapiente, un gran profeta, un gran taumaturgo, ma non trascendente i limiti della semplice umanità. Nella madre di Gesù, ella supponeva quindi una madre fortunata, unicamente per questo, che avesse un figlio sovra-eccellente agli altri per semplici qualità accidentali. Forse anch’ella come la madre di Giovanni e di Giacomo, vagheggiava pei suoi figli un trionfo pari a quello di Gesù. Ed allora il suo pensiero con movimento rapido corse alla Madre dell’ammirato profeta, se ne rappresentò le gioie per i trionfi di un tanto figlio ed esclamò. Fortunato il seno che ti portò! Il pensiero di quella donna si sarebbe potuto tradurre così: Come sarei fortunata anch’io se avessi tali figli! Dati i sentimenti di questa donna che, in maniera più o meno consapevole, dovevano essere i sentimenti della maggior parte della folla che l’attorniava, Gesù se ne servì come di occasione opportuna per inculcare un insegnamento morale di una importanza capitale. L’insegnamento che volle dare Gesù era che: le buone opere, compiute in conformità colla parola di Dio, valgono molto più che non le semplici relazioni di parentela, con ascendenti o discendenti santi. In altri termini, Gesù. non pensava in quel momento a mettere a confronto la divina maternità colla grazia di Maria. I termini del paragone erano: la maternità in genere in quanto dice rapporto fisico col discendente, chiunque esso sia, e il merito emergente delle buone opere, alimentato dalla parola di Dio. La preferenza Gesù la diede a quest’ultimo. Chi mai dubiterebbe di fare altrettanto? Alla stessa stregua vanno intese le sentenze di S. Agostino e dello pseudo Giustino, che sembrano deprimere la divina maternità di fronte alla filiazione adottiva di Dio. Essi giudicano di questi due carismi della Vergine sotto un punto di vista particolare; li confrontano cioè in ordine al merito, che serve come di tessera per l’ingresso nell’eterna felicità del cielo. Ed allora è verissimo, che per la beatifica visione è preferibile la filiazione adottiva alla maternità. Ma S. Agostino, per il primo, riconosce nelle sue parole testé riportate, che ogni grazia di Maria è richiesta e misurata dalla divina Maternità, il che significa collocare il segreto dell’ineffabile dignità di Maria, appunto in questo che è Madre di Dio.

IL CREDO

Offertorium

Matt 1:18
Cum esset desponsáta mater ejus María Joseph, invénta est in útero habens de Spíritu Sancto.

[Essendo Maria, la madre di lui, sposata a Giuseppe, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo].

Secreta

Tua, Dómine, propitiatióne, et beátæ Maríæ semper Vírginis, Unigéniti tui matris intercessióne, ad perpétuam atque præséntem hæc oblátio nobis profíciat prosperitátem, et pacem.

[Per la tua clemenza, Signore, e per l’intercessione della beata Vergine Maria, madre del tuo unico Figlio, l’offerta di questo sacrificio giovi alla nostra prosperità e pace nella vita presente e nella futura].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitate beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus.

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea. 

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Beáta víscera Maríæ Vírginis, quæ portavérunt ætérni Patris Fílium.

[Beato il seno della Vergine Maria che portò il Figlio dell’eterno Padre].

Postcommunio

Orémus.
Hæc nos commúnio, Dómine, purget a crímine: et, intercedénte beáta Vírgine Dei Genitríce María, cœléstis remédii fáciat esse consórtes.

[Questa comunione ci mondi dalla colpa, o Signore, e per l’intercessione della beata sempre Vergine Maria, Madre di Dio, ci faccia perennemente partecipi del rimedio celeste].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semìdoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica, inserita nel Messale dopo il Sabato delle Quattro-Tempora, era anticamente libera. La liturgia della vigilia si prolungava, infatti, fino alla Domenica mattina, e quindi questo giorno non aveva Messa propria. La lezione del Breviario nella Domenica che segue le Quattro Tempora (4a Domenica di settembre) è quella del libro di Giuditta, che S. Ambrogio, nel 2° Notturno riporta a questo tempo di penitenza, attribuendo ai digiuni e all’astinenza di quest’eroina la sua miracolosa vittoria. Per continuare il riavvicinamento che abbiamo stabilito fra il Messale e il Breviario, possiamo anche studiare la Messa del Sabato delle Quattro Tempora, che era anticamente quella di questa Domenica in rapporto con la storia di Giuditta. – Nabuchodonosor, re degli Assiri, mandò Oloferne, generale del suo esercito, a conquistare la terra di Canaan. Quest’ufficiale assediò la fortezza di Betulia. Ridotti agli estremi, gli assediati decisero di arrendersi nello spazio di cinque giorni. Viveva allora in questa città una vedova chiamata Giuditta, che godeva grande riputazione. « Facciamo penitenza per i nostri peccati disse ella, e imploriamo il perdono da Dio con molte lacrime! Umiliamo le anime nostre davanti a Lui e preghiamolo di farci sperimentare la sua misericordia. Crediamo che questi flagelli, con i quali Dio ci castiga, ci sono mandati per correggerci e non per rovinarci ». E questa santa donna entrò allora nel suo oratorio rivestita di cilicio e con la testa cosparsa di cenere si prostrò a terra davanti al Signore. Compiuta la sua preghiera, mise le sue vesti più belle ed uscì dalla città con la sua ancella. Sul far del giorno giunse agli avamposti dei Caldei e dichiarò che era venuta per dare i suoi nelle mani di Oloferne. I soldati la condussero dal generale che fu colpito dalla sua grande bellezza « che Dio si compiacque di rendere ancor più abbagliante, poiché aveva per scopo non la passione, ma la virtù ». Oloferne credette alle parole di Giuditta e offrì in suo onore un gran banchetto. Nel trasporto della gioia bevve con intemperanza maggiore del solito e oppresso del vino si distese sul letto e si addormentò. Tutti si ritirarono allora e Giuditta restò sola presso di lui. Ella pregò il Signore di dar forza al suo braccio per la salvezza di Israele; poi, staccata la spada appesa al capo del letto, tagliò coraggiosamente la testa di Oloferne, la consegnò all’ancella ordinandole di nasconderla nella borsa da viaggio e ambedue rientrarono a Betulia quella notte medesima. Quando gli Anziani della città appresero quello che Giuditta aveva fatto, esclamarono: « Benedetto sia il Signore, che ha creato il cielo e la terra! ». L’indomani la testa sanguinante di Oloferne venne esposta sulle mura della fortezza. I Caldei gridarono al tradimento ma, inseguiti dagli Israeliti, furono massacrati o messi in fuga. Quando il Sommo Sacerdote venne da Gerusalemme con gli Anziani per festeggiare la vittoria, tutti acclamarono Giuditta, dicendo: « Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la letizia di Israele, tu l’onore del nostro popolo ». S. Ambrogio, nel 2° Notturno della IV Domenica di Settembre commenta questa pagina della Bibbia dicendo: « Giuditta tagliò la testa ad Oloferne in forza della sua sobrietà ». Armata del digiuno, essa penetrò arditamente nel campo nemico. Il digiuno di una sola donna ha vinto le innumerevoli schiere degli Assiri ». La Messa del Sabato delle Quattro Tempora è piena di sentimenti analoghi. Le Orazioni implorano il soccorso della misericordia divina, appoggiandosi sul digiuno e sull’astinenza che ci rendono più forti dei nostri nemici. Perdonaci le nostre colpe, Signore, dice il l° Graduale. Vieni in nostro aiuto, o Dio nostro Salvatore; liberaci, per l’onore del nome tuo ». – « O Signore, Dio degli eserciti, continua il 2° Graduale, presta l’orecchio alle preghiere dei tuoi servi ». « Volgi il tuo sguardo, o Signore; sino a quando volti da noi la tua faccia? aggiunge il 3° Graduale, abbi pietà dei tuoi servi ». — Le Lezioni fanno tutte allusioni alla misericordia di Dio verso il popolo, che ha fatto penitenza. Così parla il Signore degli eserciti: « Come ebbi l’intenzione di far del male ai vostri padri quando essi provocarono la mia collera, cosi in questi giorni ho avuto l’intenzione di fare del bene alla casa di Gerusalemme ». – Il racconto della liberazione del popolo ebreo dalla servitù assira per mezzo di Giuditta (nome che è il femminile di Giuda) dopo che essa ebbe digiunato è un’immagine della liberazione del popolo di Dio alla Pasqua, per mezzo di Gesù (della stirpe di Giuda) dopo la Quaresima. – Più tardi, allorché non si attese più la sera per celebrare il santo Sacrificio il Sabato delle Quattro Tempora, si prese per la 18° Domenica dopo Pentecoste, la Messa che era stata composta al VI secolo per la Dedicazione della Chiesa di San Michele a Roma e che fu celebrata il 29 settembre; infatti tutto il canto si riferisce alla consacrazione di una Chiesa. « Mi rallegrai quando mi dissero Andremo nella casa del Signore (Versetto All’Introito e Graduale). Mosè consacrò un altare al Signore, dice l’Offertorio. « Entrate nell’atrio del Signore e adoratelo nel Tempio suo santo », aggiunge al Communio, e questa è una immagine del cielo ove affluiranno tutte le nazioni quando verrà la fine dei tempi indicata da questa Domenica e dalle seguenti che vengono alla fine del Ciclo. L’Alleluia è infatti quello delle Domeniche dopo l’Epifania, che annunziava l’ingresso dei Gentili nel regno dei cieli. L’Epistola parla di coloro che attendono la rivelazione di Nostro Signore al suo ultimo avvento; allora essi godranno eternamente, nella casa del Signore, la pace che, come dissero i Profeti, Egli accorderà a quelli che lo attendono (Intr., Graduale). Questa pace Gesù ce l’ha assicurata morendo sulla croce, che è il sacrificio vespertino. Questa pace e questo perdono noi lo godiamo già nella Chiesa, in grazia del potere accordato da Gesù ai suoi sacerdoti. Questa Messa, che segue il sabato delle Ordinazioni fa infatti allusione anche al sacerdozio. Come il Salvatore, che esercitò il suo ministero e guarì l’anima del paralitico guarendone il corpo, quelli che sono ora stati ordinati Sacerdoti predicano la parola di Cristo (Epistola), celebrano il santo Sacrifizio (Offert.) e rimettono i peccati (Vangelo). E cosi preparano gli uomini a ricevere irreprensibili il loro divin Giudice (Epistola). La predicazione evangelica è una testimonianza resa a Gesù Cristo. Quelli che l’accettano ricevono doni celesti in sovrabbondanza e possono attendere con fiducia l’avvento glorioso di Gesù alla fine dei tempi. – Giovanni Crisostomo così commenta la risposta data da Gesù agli Scribi che non gli riconoscevano la facoltà di perdonare i peccati: « Se non credete la potestà di rimettere le colpe, credete la facoltà di conoscere i pensieri, credete la virtù del sanare da malattie incurabili i corpi. Più facile sanare il corpo; ma giacché non credete alla maggiore meraviglia, ve ne mostrerò una minore ma aperta ai sensi.  »                                                                           

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Eccli XXXVI: 18
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël.

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Ps CXXI: 1
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai per ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore].

Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Dírigat corda nostra, quǽsumus, Dómine, tuæ miseratiónis operátio: quia tibi sine te placére non póssumus.

[Te ne preghiamo, o Signore, l’azione della tua misericordia diriga i nostri cuori: poiché senza di Te non possiamo piacerti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor 1: 4-8
Fratres: Grátias ago Deo meo semper pro vobis in grátia Dei, quæ data est vobis in Christo Jesu: quod in ómnibus dívites facti estis in illo, in omni verbo et in omni sciéntia: sicut testimónium Christi confirmátum est in vobis: ita ut nihil vobis desit in ulla grátia, exspectántibus revelatiónem Dómini nostri Jesu Christi, qui et confirmábit vos usque in finem sine crímine, in die advéntus Dómini nostri Jesu Christi.

[“Fratelli: Io rendo continuamente grazie al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù; perché in lui siete stati arricchiti di ogni cosa, di ogni dono di parola e di scienza, essendosi stabilita solidamente in mezzo a voi la testimonianza di Cristo, in modo che nulla vi manca rispetto a qualsiasi grazia; mentre aspettate la manifestazione di nostro Signor Gesù Cristo, il quale vi manterrà pure saldi sino alla fine, così da essere irreprensibili nel giorno della venuta del nostro Signor Gesù Cristo”.]

LE RICCHEZZE DEL CRISTIANESIMO.

Fratelli: Io rendo continuamente grazie al mio Dio, riguardo a voi, per la grazia di Dio che vi è stata fatta in Gesù Cristo; perché in lui siete divenuti ricchi di ogni cosa, d’ogni dono di parole e di scienza, essendo la testimonianza di Cristo confermata in mezzo a voi in modo che non manchi dono alcuno a voi che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, il quale vi farà anche perseverare sino alla fine, perché siate senza colpa nel giorno della venuta del Signore nostro Gesù Cristo.

(S. Paolo, I ai Corinti: 1, 4-8).

Anche il lettore più zotico e disattento capisce subito che quando San Paolo afferma arricchiti in Gesù e per Gesù i Cristiani, arricchiti in tutti i modi, non parla di ricchezze materiali: il discorso dell’Apostolo si svolge su un piano diverso e superiore al piano della materia, che è il piano dello spirito. Però in quel piano la frase di San Paolo ha una verità, una esattezza matematica: N. S. Gesù col suo Vangelo ha, spiritualmente, arricchito l’umanità. C’è più vita al mondo e nella storia dopo di Lui, maggiore e migliore, più intensa e più alta. C’è più luce. La fede non è una barriera, un limite, è un progresso, uno slancio. Dove si ferma la ragione con la sua luce umana, comincia la fede con la sua luce divina, divina e umanizzata, messa per opera di Gesù, il Rivelatore, il Maestro, alla portata dell’umanità. Prima di Gesù c’è la filosofia, dopo Gesù accanto e oltre la filosofia c’è la Teologia. Prima c’è Dio — mistero — poi ci sono i Misteri di Dio. Il Cristiano sa tutto ciò che sapeva il pio pagano e sa molto di più. E anche il patrimonio di verità comuni, nella mente del Cristiano è più luminoso. Le stesse cose noi le sappiamo meglio. Meglio la sua grandezza, meglio la sua bontà, la giustizia così severa, la misericordia così grande. Il più umile Cristiano, sotto questo rispetto, è più avanti del più grande filosofo pagano. C’è una vita morale più ricca. Si vive nella sfera morale più intensamente, con maggiore severità e maggiore dolcezza. Nostro Signore ci ha tenuto ad affermare questa superiorità morale del Suo Vangelo sulla antica Legge, non discutendo neanche la superiorità della Legge mosaica sulla etica pagana. Sinteticamente ha detto che la giustizia, la bontà dei suoi seguaci, deve essere superiore a quella degli Scribi e dei Farisei. E ha specificato una serie di superiorità morali, spirituali. La parola nostra è più sincera, deve essere tersa come uno specchio. – Non bisogna solo non nascondere la verità delle parole, bisogna non velarla. La morale giudaica, salvo le apparenze, provvede ad evitare il male sociale, la morale cristiana va al fondo della realtà, mette l’anima nella luce e al contatto di Dio. Dove il Cristianesimo trionfa è nel regno della carità, dell’amore. Dopo N. S. Gesù c’è più amore al mondo, un amore più operoso. Chi li aveva mai neanche lontanamente sognati i miracoli della carità cristiana nell’inverno dell’età pagana? Cera a Roma la Vestale; non c’era la Suora di carità. L’ha creata Gesù. Tra il paganesimo e il Cristianesimo, c’è la differenza dal verno alla primavera. Il nostro amore è più intimo. Non si benefica solo nel Cristianesimo, non si fa solo del bene, si fa del bene, perché si vuole bene. C’è la fratellanza dell’anima, oltre le divisioni sociali. Rimangono materialmente i poveri e i ricchi, ma poveri e ricchi non conta nulla; si è fratelli. La carità cristiana va oltre la divisione nazionale; ci sono ancora i greci, i romani, i barbari, ma greci, romani e barbari si sentono fratelli, si chiamano con questo bel nome, si amano con questo bel titolo.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CXXI: 1; 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore.]

Alleluja

V. Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. Allelúja, allelúja

[V. Regni la pace nelle tue mura e la sicurezza nelle tue torri. Allelúja, allelúja]

Ps CI: 16

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. Allelúja.

 [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: e tutti i re della terra la tua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. IX: 1-8
“In illo témpore: Ascéndens Jesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce, offerébant ei paralýticum jacéntem in lecto. Et videns Jesus fidem illórum, dixit paralýtico: Confíde, fili, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce, quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Jesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccáta tua; an dícere: Surge et ámbula? Ut autem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralýtico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit et ábiit in domum suam. Vidéntes autem turbæ timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus”.

[“In quel tempo Gesù montato in una piccola barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Quand’ecco gli presentarono un paralitico giacente nel letto. E veduta Gesù la loro fede, disse al paralitico; Figliuolo, confida: ti son perdonati i tuoi peccati. E subito alcuni Scribi dissero dentro di sé: Costui bestemmia. E avendo Gesù veduti i loro pensieri, disse: Perché pensate male in cuor vostro? Che è più facile, di dire: Ti sono perdonati i tuoi peccati; o di dire: Sorgi e cammina? Or affinché voi sappiate che il Figliuol dell’uomo ha la potestà sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse Egli allora al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. Ed egli si rizzò, e andossene a casa sua. Ciò udendo le turbe s’intimorirono e glorificarono Dio che tanta potestà diede ad uomini].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

IL POTERE DI PERDONARE I PECCATI

La casa dove si trovava Gesù era assiepata di gente, sicché non vi si poteva più entrare e nemmeno avvicinarsi alla porta. Ecco arrivare ancora quattro uomini, portando su di un lettuccio un paralitico. Venivano probabilmente da molto lontano, a prezzo di lunghe fatiche e non volevano ritornare senza aver visto Gesù. Non potendo per la ressa aprirsi un varco, salgono sul tetto. Doveva essere una casa bassa, con una scala esterna che metteva direttamente sulla terrazza che faceva da tetto. Smuovono alcune travi e calano giù il lettuccio del paralitico, il quale si trova davanti al Figlio di Dio. « Uomo, abbi fede: i tuoi peccati ti sono rimessi ». Parole più inaspettate, più strane di queste, Gesù non avrebbe potuto dire a quell’uomo ch’era venuto solo per la speranza d’essere guarito dalla paralisi. Eppure dovevano rispondere a qualche silenziosa implorazione che il Figlio di Dio ascoltava. Forse, giunto sotto lo sguardo purissimo e penetrante del Signore, quell’infelice, per un’improvvisa grazia di lucidità, vide che la sua sventura più compassionevole non era nella carne ma nell’anima. Vide le sue colpe, ne misurò per la prima volta l’estensione, la profondità, la bruttura; ne inorridì. Dal profondo del cuore gridò allora non già: « Guariscimi! », ma: « Perdonami! ». – Tutti allora udirono la risposta a quella domanda che nessuno aveva sentito: « Ti sono rimessi i tuoi peccati ». Cominciò lo scandalo. Gli Scribi e i Farisei, tacevano; ma nel loro interno si ribellavano: « Come può parlare così un uomo? Bestemmia. Chi può rimettere i peccati se non Dio solo? » E Gesù diede loro una duplice prova della sua divinità: leggendo nei loro cuori, sanando il paralitico. « Rispondetemi: è più facile secondo voi dire a costui: « Ti siano rimessi i tuoi peccati » o dirgli « levati su, e cammina? » Nessuno osava fiatare, perché si sentivano smascherati e senza ripari nella coscienza, davanti a Lui che li scrutava. « Ebbene, affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha sulla terra il potere di rimettere i peccati, — e si voltò al paralitico – ti dico, alzati, prendi il tuo lettuccio e va a casa tua ». E quegli s’alzò, prese il letto sulle spalle e andò via, tra lo sbigottimento e le grida della folla. Tutti glorificavano Dio che diede al Cristo tale potere, quello di rimettere i peccati. Anche noi dobbiamo ora per tale motivo glorificare Dio, considerando due cose intorno alla remissione dei peccati: la misericordia divina e la grettezza umana.  – 1. LA CONFESSIONE E LA MISERICORDIA DIVINA. L’uomo che commette peccato, in un momento di viltà e di ebbrezza e d’esaltazione, si slancia a colpire Dio e invece manda in rovina la propria anima. La quale dal peccato è paralizzata in ogni opera meritoria per il paradiso, è spogliata dalla vita della grazia, e come morta giace in un letto di miseria e di maledizione. Intanto il rimorso dilania il cuore. Quell’uomo lavora e picchia vigorosamente il suo martello, ma tra colpo e colpo ode una voce che gli s’infigge tra fibra e fibra, come una freccia: « Sei maledetto dal Signore! » Il martello gli diventa pesante, gli scivola di mano, si asciuga il sudore: è sudore di spavento. Quella donna canta sulla culla del suo bambino, e sembra beata nella sua gioia materna; ma una voce secreta l’amareggia: « Sei indegna di baciare l’innocenza di questo bambino ». Il canto le si spegne sulle labbra, e trema di spavento. Quella figliuola è inginocchiata davanti all’altare. Ha tanto bisogno di Dio ed è così sola al mondo! Però una voce la respinge dall’altare. « Hai offeso il Signore Dio tuo, hai meritato l’inferno!  » Si copre il volto per angoscia e per spavento. E se il Signore  non perdonasse più? È forse obbligato a perdonare? Se non perdonasse più, dopo il primo peccato sarebbe finita per sempre: la nostra vita diverrebbe come quella di Caino, la nostra morte quella di Giuda. Invece Dio perdona ancora. Ha istituito un sacramento in cui i suoi ministri hanno ricevuto il potere di perdonare i peccati: di perdonarli tutti, di perdonarli sempre. È necessario soltanto confessarli con grande sincerità, con profondo dolore. A intravvedere la misericordia infinita di Dio nella confessione, ci gioverà una parabola. Essa c’insegna che Dio ha dato al Sacerdote, il potere di perdonare tutto, anche i peccati enormi. « Un cavaliere aveva ucciso un uomo: la giustizia non lo sospettava, ma i rimorsi lo facevano andare triste ed errabondo. Un giorno, accadendogli di passare davanti ad una chiesa protestante, gli sembrò che il segreto sarebbe stato meno pesante, se avesse potuto confidarlo; entrò dunque e domandò al vicario di ascoltare la sua confessione. Questo vicario era un giovane molto perbene e molto istruito, ma, come tutti i protestanti, disconosceva il potere di perdonare i peccati nella confessione, sacramento istituito dal nostro divino Redentore crocifisso. « Apritemi il cuore, potete dirmi tutto come ad un padre ». L’altro incominciò: « Ho ucciso un uomo ». Il vicario scattò: « E venite a dirlo a me! miserabile assassino! Io non so se il mio dovere di cittadino non sarebbe quello di condurvi al più prossimo posto di polizia… ad ogni modo è mio dovere di persona rispettabile di non tenervi sotto il mio tetto un solo minuto di più ». E l’uomo se ne andò. Alcuni chilometri più lungi, vide sulla via che egli seguiva, una chiesa cattolica. Un’ultima moribonda speranza lo fece entrare, ed egli si inginocchiò dietro alcune vecchiette che attendevano vicino al confessionale. Venuta la sua volta, diede uno sguardo al prete che dentro nell’ombra pregava con la testa tra le mani e salì. « Padre mio », disse « non sono Cattolico, ma vorrei confessarmi da voi ». « Vi ascolto, figlio mio ». « Padre mio; ho ucciso ». Attese l’effetto della rivelazione spaventosa, Nell’augusto silenzio, la voce del sacerdote sussurrò dolce come fosse quella di una madre amorosa e dolente: « Quante volte, figlio mio! » (Cfr.: I silenzi del Colonnello Bramble, romanzo di ANDRÈ MAUROIS, Grasset, Parigi, 1921, pagg. 91-93). Nessun peccato può essere così enorme che il sangue del Figlio di Dio non basti a cancellarlo; basta che l’anima lo confessi sincera e pentita, che Dio non solo perdona tutto, ma sempre. A S. Pietro che gli domandava quante volte avrebbe dovuto perdonare al fratello pentito e se bastassero sette volte, Gesù in tono amorevole di rimprovero rispose dicendo: « Settanta volte sette! », cioè sempre. Finché nel cuore contrito gli resterà una goccia di fiducia nella misericordia divina, l’uomo potrà sempre ottenere il perdono dei suoi peccati. – 2. LA CONFESSIONE E LA GRETTEZZA UMANA. Di fronte alla misericordia di Dio, senza confini e senza misure, come è irritante la grettezza e la piccineria degli uomini, incapaci a comprendere le meraviglie del Cuore divino! a) Dicono certi uomini: « Se il peccato è un’offesa di Dio, solo Dio può perdonarlo; stando così le cose, io me la intenderò con Dio solo a solo, senza che il prete si metta di mezzo ». Questo ragionamento incomincia bene e conclude male. È vero: Dio solo può perdonare, e nessun’altro, neppur la Madonna, neppure gli Angeli e i Santi! Perché a Dio solo si deve chiedere perdono. Ma nel modo stabilito da Lui. Tocca all’offeso dettare le norme della riparazione. Ebbene Dio per concedere il perdono dei peccati ha stabilito come norma la confessione al suo ministro e rappresentante, il prete. b) Soggiungono ancora certi uomini: « Ma dove, ma quando Dio prescelse la Confessione per rimettere i peccati? ». Non avete sentito nel Vangelo d’oggi che Gesù prova d’essere Dio leggendo nei cuori, guarendo il paralitico, e dimostra di avere in proprio il potere di perdonare i peccati? Ebbene leggete qualche altra pagina del Vangelo, e troverete che il medesimo Gesù dirà agli Apostoli e nella persona degli Apostoli a tutti i loro successori parole come queste: « Come il Padre ha mandato me, così io mando voi… Ricevete lo Spirito Santo; quelli a cui rimetterete i peccati saranno rimessi, quelli a cui li riterrete saranno ritenuti » (Giov., XX, 21-23). c) Certi uomini dicono anche così: « La confessione è una viltà, è una degradazione, perché ci fa inginocchiare davanti a un uomo, ci obbliga a svelargli i segreti più personali della nostra coscienza ». Tutto ciò sarebbe vero, qualora veramente il confessore fosse un semplice uomo. Ma egli non è tale: egli è un uomo investito di divini poteri; è il rappresentante e il ministro di Cristo stesso. Prostrarci a lui, è come prostrarci a Cristo: è un umiliarsi, sì, ma non un degradarsi o un avvilirsi. – Merita d’essere riferito quel brano di Alessandro Manzoni della Morale cattolica (cap. XVIII): « Sì, noi ci inginocchiamo davanti al Sacerdote, gli raccontiamo le nostre colpe, ascoltiamo le sue correzioni e i suoi consigli. Ma quando il sacerdote, fremendo in ispirito della sua indegnità e dell’altezza delle sue funzioni, ha steso sul nostro capo le mani consacrate, stupito ad ogni volta di profferire le parole che danno la vita, noi, alzandoci da’ suoi piedi, sentiamo di non aver commesso una viltà. Noi siamo stati ai piedi di un uomo che rappresentava Gesù Cristo, per deporre, se fosse possibile, tutto ciò che inclina l’animo alla bassezza ». d) Ci sono infine certi altri uomini che dicono: « La confessione è un tormento e una debilitante angustia della coscienza ». A costoro risponderò con una bella pagina di Bossuet. « Si legge nella Storia Sacra (Esdra, III, 1, 3), che quando questo gran profeta, ebbe ricostruito il tempio di Gerusalemme, distrutto dall’esercito assiro, il popolo, confondendo insieme il triste ricordo della rovina e la gioia di una sì lieta ricostruzione, parte singhiozzava di dolore, parte cantava di giubilo, di modo che non si potevano distinguere i gemiti dalle grida di allegrezza. Ebbene, questa misteriosa confusione di dolore e di gioia è un immagine assai naturale di quanto avviene nel Sacramento della penitenza. L’anima, decaduta dalla grazia, vede in se stessa rovesciato il tempio di Dio; e quella spaventosa devastazione non l’hanno fatta già gli Assiri ma l’ha fatta lei stessa, distruggendo e profanando il santuario del suo cuore per farne tempio di idoli. Quell’anima piange, geme, rifiuta ogni consolazione: ma in mezzo ai dolori mentre fa scorrere le lacrime, vede che lo Spirito Santo, tocco dal suo tormento, dal suo pentimento, rialza quel santo edificio, ricostruisce l’altare abbattuto, e finalmente riconsacra quella coscienza nella quale ritorna a fare la propria dimora » (Dal Sermone sul figlio prodigo). – Un peccatore convertito s’incontrò, un giorno, nel complice di tanti peccati e misfatti. Questi lo chiamò: « Amico, non mi conosci più? sono io ». E il convertito francamente gli rispose: « Ah! siete voi; ebbene: io, non sono più io ». Le nostre confessioni siano sempre fatte con tale sincerità e con tale proposito che abbiano ad operare in noi una vera trasformazione, sicché ciascuno abbia a poter dire di non essere più quello di prima. Come il paralitico, dopo l’ordine di Gesù, si alzò dal suo lettuccio e se ne andò a casa, così noi pure dopo l’assoluzione dobbiamo alzarci dalle cattive abitudini, dalle occasioni di peccato, da ogni miseria terrena, e incamminarci veramente alla nostra casa che è il santo paradiso. — PARALISI SPIRITUALE. Salì una navicella, traversò il lago e sbarcò alla sua Cafarnao. Subito gli portarono incontro un povero paralitico, sopra un letto. Gesù gli dice: « Sorgi, prendi il tuo letto, torna a casa ». « Surge! Tolle! Vade! ». La folla attonita fu presa prima da uno sgomento di terrore, poi da un grande entusiasmo verso l’Uomo che comanda alle malattie e cominciò a glorificare Dio che tanta potestà aveva riposta in Lui. Più ancora di quella gente, noi dobbiamo glorificare Dio, perché i tre misteriosi comandi « surge, tolle, vade » furono rivolti al paralitico in vista del peccatore in esso rappresentato. Attraverso la guarigione di quell’infermo, Gesù intendeva insegnarci il modo di guarire da un’altra più terribile paralisi: quella dell’anima. I tre mali che la paralisi arreca al corpo, sono dal peccato recati all’anima. Infatti, quest’infermità ci proibisce di reggerci in piedi, di compiere qualsiasi fatica, di camminare. Così, nell’anima il peccato: ci proibisce di star ritti nella grazia e curva nella schiavitù del demonio; ci rende inermi nelle tribolazioni e nelle tentazioni; infine, non ci lascia camminare verso il paradiso sulla via della virtù e delle buone opere. Ma Dio contro questi tre mali ha comandato tre rimedi: « Surge! Tolle! Vade! » – 1. SURGE! Quando un’anima si macchia di peccato, avviene in lei una trasformazione orribile. Decade dalla sua nobiltà e giace in una vergognosa miseria. Oh, se gli uomini potessero comprendere bene come, peccando, si abbrutiscono davanti a Dio, non  abbandonerebbero così facilmente in balìa del demonio! Gesù ne prova un’immensa compassione, e passando vicino grida: « Sorgi! ». Saulo di Tarso perseguitava ferocemente i discepoli del Signore. Aveva negli occhi una torbida fiamma di odio, aveva nelle mani le lettere del capo sacerdote, che lo autorizzavano a prendere, quanti più poteva, Cristiani e tradurli a Gerusalemme. Mentre faceva la strada di Damasco, un’improvvisa folgore dal cielo lo circondò, e lo atterrò. Il superbo stordito dal colpo, rotolava nella polvere e non capiva nulla. Poi udì una voce potente che lo chiamava: « Surge! entra nella città e là ti verrà detto quello che devi fare » (Atti, IX, 6). Saulo tremando si levò da terra; sbarrò gli occhi ad accogliere la luce, ma era diventato cieco. In Damasco l’aspettava il sacerdote Anania che l’avrebbe risanato. Quella voce che risuonò all’orecchio di Saulo gettato nella polvere della strada, risuona pure all’orecchio di ogni uomo caduto in peccato: « Surge! ». Sorgi dalla colpa che uccide l’anima, sorgi dalla tua vita cattiva che ti abbassa al livello delle bestie, sorgi dalla schiavitù del demonio che ti costringe, non in un duro letto come il paralitico, ma nell’inferno. Quando Saulo udì la voce di Gesù che l’invitava a rialzarsi, rispose: « Signore che debbo fare? » E il Signore a lui: « Entra in città, e lo saprai ». Questa città è la Chiesa dove il peccatore che ritorna, conosce quello che il Signore vuole da lui. E il Signore vuole che si presenti ad Anania, al Sacerdote, che confessi e pianga davanti a lui il suo peccato; ed il sacerdote nella confessione, novello Anania, gli aprirà gli occhi sopra le sue miserie, gli darà una mano per rialzarsi. Surge! Non lo sentite voi questo divino comando che in mille modi risuona intorno a voi? Sono i buoni esempi, sono i rimorsi, sono le tribolazioni, le campane che vi chiamano alla chiesa: « Sorgi dal fango in cui ti sei buttato; sorgi dalle cattive abitudini; sorgi dalla tua ignoranza in fatto di religione; sorgi dal rancore che ti rode contro il prossimo… ». Non resistiamo a Gesù. Ma come il figliuol prodigo diciamo anche noi: « Surgam! »: « sorgerò e andrò da mio Padre ». – 2. TOLLE! Dopo averlo risanato, Gesù disse al paralitico: « Tolle grabatum tuum » – « Prendi su il tuo letticciuolo ». E che altro significa il letticciuolo se non la propria parte di dolori e di pene che ad ognuno è riservata sulla terra? Non basta dunque sorgere dal peccato, ma è necessario accettare e portare con rassegnazione e con spirito di penitenza le nostre croci, quaggiù. Mirabile è la Provvidenza nel comandare agli uomini di portar la propria croce. Osservate: ad ogni istante gli uomini si sprofondano nel male. Si pecca nelle vie, nelle case, nei teatri, nei ritrovi, in pubblico, in privato. Ma se non ci fossero i dispiaceri, le croci, le disgrazie, la morte a porre un freno, chi fermerebbe l’uomo sulla china del male? Ecco perché l’Ecclesiastico dice: « Il cuore dei santi sta dove c’è tristezza e il cuore degli stolti dove c’è allegria ». È necessario patire. Sul calvario si ergevano tre croci: quella di Gesù innocente, quella del ladro penitente, quella del ladro disperato. Chi non vuol patire con Gesù innocente, chi non vuol patire col ladro penitente, dovrà egualmente patire, col ladro disperato. Eppure, è tanto frequente l’udire bestemmie contro la Divina Provvidenza, non solo dalla bocca degli uomini, ma specialmente da quella delle donne, delle mamme di famiglia: « Che ho fatto io di male per castigarmi così? Ah, se Dio c’è, non è giusto! ci mette al mondo e poi ci tormenta… ». Povera gente! pretende d’essere cristiana, senza portare la croce di Cristo. Si sbaglia di grosso. Il Redentore apparve alla Beata Margherita di Savoia. Le recava sulle palme forate dalle stigmate, tre doni a scelta: o la calunnia, o la malattia, o la persecuzione. Ella pensò. La calunnia? essere creduta da parenti o da amici forse una ladra, forse una mondana, forse… ed essere innocente: oh mio Dio! La malattia?…: e si vedeva inchiodata in un letto duro, con la febbre alta, con un male ributtante che la consumava senza finirla mai, sola perché avrebbero avuto schifo di lei, per mesi, per anni… La persecuzione?… scacciata come una zingara mentr’era principessa, rincorsa, incarcerata, battuta, martirizzata terribilmente… Mentr’ella pensava, Gesù le stava davanti: e sorrideva protendendo sulle mani forate dalle stigmate, tre doni; a scelta. Tremò la beata in tutta la persona, un istante; ma poi protese ella pure le sue mani con gioia e disse: « Io li scelgo tutti e tre ». Gesù l’esaudì. Per tutta la vita tre acute spade la trafissero. – 3. VADE. Quando il paralitico si fu rizzato sulle gambe, quando si fu gettato sulle spalle il letticciuolo del suo dolore, Gesù aggiunse: « Va! ». Non basta quindi lasciare il peccato, accettare le tribolazioni in penitenza dei peccati, ma è necessario andare. « Vade in domum tuam ». La nostra casa è il paradiso; e al paradiso si va con le buone opere. Non chi avrà detto: « Signore, Signore » entrerà nel regno dei cieli, ma chi avrà fatto opere cristiane. Sventurate le vergini stolte! come rimasero male, quando, sopraggiunto lo sposo, furono escluse dal convito. Erano fuori nel buio e nel freddo della notte: udendo le grida di gioia, le risa festose, i canti nuziali, il profumo dei vini e dei cibi, trepidanti bussarono alla porta. Venne lo sposo; le guardò un istante e buttò loro in faccia quel tremendo: « Nescio vos ». Non so chi siete. Che avevano fatto di male? avevano mancato di fedeltà? no: solo avevano dormito senza procurarsi l’olio nelle lampade. L’olio delle buone opere. Anche l’albero di fico, piantato lungo la via dove passò Gesù non aveva prodotto frutti velenosi, ma solo una dovizia di ampie foglie; eppure fu maledetto e inaridì sul momento, perché non aveva fatto frutti… I frutti di buone opere. Non basta non dare scandalo, ma è necessario dare buon esempio. Non basta rifiutare libri e giornali cattivi, ma è necessario appoggiare con l’opera e con l’offerta la buona stampa. Non basta non maltrattare il prossimo, ma è necessario praticar la virtù. « Et vade! » e va. Va, dunque, con frequenza ai santi sacramenti della Confessione e della Comunione; va ad ascoltare la S. Messa, non solo alla domenica, ma appena lo puoi (e potrai se’ lo vorrai) anche nei giorni feriali. Va ad acquistarti i beni eterni col di stacco dai beni temporali. Va con la mortificazione e la preghiera a vincere le tentazioni del demonio. Va! e il Signore sarà sul tuo cammino e l’Angelo del Signore camminerà con te. — LA BESTEMMIA. « Figlio, confida: i tuoi peccati ti son perdonati ». Gli Scribi udirono queste parole e inorriditi dicevano tra loro: « Chi può rimettere i peccati se non Dio? E costui osa perdonarli…; bestemmia ». Hic blasphemat. Gesù che leggeva nei cuori domandò: « È più facile rimettere i peccati o guarire un paralitico? Perché sappiate che il Figlio dell’Uomo può rimettere i peccati, io dico a questo infelice: Alzati, prendi il tuo letto, torna a casa tua ». Quegli si levò e andò a casa. Tutti allora glorificarono Dio. Hic blasphemat! veramente i bestemmiatori erano gli scribi che osavano ingiuriare il Salvatore. Ma avete notato con quale senso di disprezzo quei maligni accusarono Gesù di bestemmia? Essi, la bestemmia, dovevano sentirla come un orribile delitto. Soltanto ai Cristiani, dopo venti secoli di Cristianesimo, la bestemmia deve sembrare una parola innocua? È vergognoso. Eppure è così: forse, nessun peccato è diffuso come la bestemmia. Bestemmiano i poveri, bestemmiano i ricchi, bestemmiano gli ignoranti e bestemmiano gli istruiti. Perfino le donne bestemmiano: nelle officine hanno imparato l’insulto atroce e credono di farsene un vanto ripetendolo. Talvolta s’odono anche fanciulli a bestemmiare: chi fu ad insegnare a quelle labbra innocenti l’orrenda parola? Da chi l’udirono la prima volta? In tutta Italia si conduce una lotta magnifica « contro l’orribili favelle », per purificare l’idioma gentile di nostra gente da questa turpitudine. È bello quando si viaggia, e nelle stazioni e negli uffici e sui treni accanto al cartello dell’igiene: « È proibito sputare per terra », leggere un altro avviso: « È proibito bestemmiare ». Hanno fatto bene a metterli insieme, perché colui che bestemmia sputa per terra la sua bava diabolica, infetta l’aria, ammorba il prossimo. Sorgete anche voi! purificate la parrocchia da questo disonore. Non si deve più tacere; non si può più tacere. È per entusiasmarvi a questa nobile crociata, ch’io voglio dirvi che cosa è la bestemmia, la sua gravità, le sue futili scuse. – 1. CHE COS’È LA BESTEMMIA. La bestemmia è un’ingiuria fatta a Dio. Può essere di pensiero: quando alcuno senza nulla esprimere all’esterno agita nel suo cuore sentimenti di odio o di scherno contro Dio. Può essere anche di opera: quando si levano i pugni, gli occhi in atto di minaccia contro il Cielo, quando si calpesta un crocifisso o si sfregia per disprezzo un’immagine santa. Ma la bestemmia più comune è quella di parola. Con le parole in due modi si può bestemmiare: a) Quando si attribuisce a Dio cosa che essenzialmente a Lui ripugna, come quando lo si chiama falso, ingiusto, crudele… Questa è la bestemmia ereticale, ed è frequente sulle labbra delle donne. « Dio non è giusto. -Dio preferisce quei che fan del male. Dio mi ha rigettata, è inutile far bene… ». — Povero me! — dirà qualcuno — ma tutti i giorni io ripeto queste frasi. « Ebbene, tutti i giorni voi bestemmiate ». — Ma chi lo sapeva? « Chi lo sapeva? ogni buon Cristiano. Ed anche voi l’avreste dovuto sapere, se foste stato alla dottrina cristiana tutte le domeniche ». b) Il secondo modo di bestemmiare con le parole si ha quando ai nomi di Dio, della Vergine, dei Santi si aggiunge un titolo ingiurioso, osceno… Quelli che dicono appena il nome di Dio, di Cristo, della Madonna, senza odio, senza unirvi parole cattive, non dicono bestemmie; però non dicono nemmeno giaculatorie, e fanno molto male. Eppure c’è della gente che non può tirare il fiato senza mandar fuori questi santissimi Nomi, che gli Angeli pronunciano adorando e tremando; e sono magari fanciulle, e sono magari mamme di famiglia dalla cui bocca i figli non dovrebbero raccogliere che parole edificanti. . 2. GRAVITÀ DELLA BESTEMMIA. È un lontano venerdì, così doloroso che la memoria durerà sempre. In mezzo al cortile del presidio, nella torre Antonia, c’è un divino prigioniero. In giro a lui scrosciano le grasse risate di parecchi soldatacci. Perché ridono? Hanno fatto sedere il Figlio di Dio sopra una scranna; gli han gettato sulle spalle piagate dalla flagellazione uno straccio rosso come la porpora dei re; sopra la testa gli hanno calcato una corona di spine. Ed ora se ne fanno zimbello. Alcuni gli danno bastonate sul capo… percutiebant caput eius. Altri gli passano di dietro e d’improvviso lo schiaffeggiano, urlando: « Profeta, indovina chi è stato! ». E tutti gli sputano sulle vesti, in faccia, negli occhi. Expuentes in eum. Chi sa come fremevano intorno le invisibili legioni di Angeli! Intanto dalla piazza veniva l’urlo della folla adunata sotto il litostrato di Pilato: « Lo vogliamo crocifisso. Crucifiggilo. dunque!… Dacci Barabba, ma lui no. Fallo morire! ». Povero Gesù! Perché ti bestemmiavano? che cosa avevi fatto di male a quei soldati, a quella gente? Da Dio ti eri fatto uomo, povero e umile, per salvarli: forse per questo ti bestemmiavano? Avevi dato vino miracoloso agli sposi nel banchetto nuziale, e avevi dato pane miracoloso a quattro mila persone affamate nel deserto: forse per questo ti bestemmiavano? Avevi voluto bene ai loro bambini e sulle tue braccia li accarezzavi; avevi guarito i loro malati; avevi mondato i loro lebbrosi; avevi risuscitato i loro morti: forse per questo ti bestemmiavano, forse per questo ti sputavano in faccia? L’infamia di quella gente ci fa rabbrividire. Ma pensate, Cristiani, che noi abbiamo fatto di ogni giorno un venerdì santo. Ogni giorno son milioni e milioni di bestemmie che i Cristiani lanciano sul volto al Creatore, al Salvatore, alla Madre dì Dio!.. S. Gerolamo spaventato diceva: Nihil orribilius blasphemia: niente è più orribile di una bestemmia. Più orribile della calunnia, più orribile del furto, più orribile dell’omicidio. Questi peccati recano ingiuria al prossimo, ma la bestemmia reca ingiuria a Dio, direttamente. Ditemi: fa maggior torto a suo padre il figlio che lo disubbidisce o il figlio che osasse alzare contro il suo volto un pugno minaccioso?… certo, il secondo. Ebbene: il Cristiano che ruba, calunnia, uccide, fa grande ingiuria a Dio trasgredendo i suoi comandi; ma chi bestemmia fa peggio, perché non solo trasgredisce agli ordini di Dio, ma se la prende contro la divina Persona, e attenta quasi alla sua vita. Nombrod,  un re crudele e bestiale, invaso da furore diabolico contro Dio che l’aveva umiliato, imbracciò l’arco e scoccava saette contro il Cielo, per colpire il Signore. Povero pazzo: quelle saette ricadevano sul suo capo. Così le vostre bestemmie o bestemmiatori: tutte ridiscendono sul vostro capo. O come terribili castighi in questa vita, o come eterna dannazione in fuoco nell’altra vita. – 3. LE FUTILI SCUSE. La bestemmia non ha nessuna scusa. Io capisco uno che ruba: le sofferenze della povertà, gli stimoli della fame, la lusinga dell’oro, l’onore compromesso, sono sempre delle attenuanti che rendono meno ignominioso il mestiere del ladro. Io capisco anche uno che prende l’ubriachezza: talvolta la sete è così bruciante e il piacere del vino vellica così terribilmente la gola, che a resistervi occorre una sforzo non comune. Ecco la riprova che la bestemmia è un peccato diabolico, e chi bestemmia è un posseduto dal demonio. Ma che vantaggio c’è a bestemmiare? che gusto si prova? Nessun VANTAGGIO! Nessun gusto. Eppure si bestemmia. — Possibile, — dicono alcuni — che quando bestemmio commetto un peccato così orrendo!? — Se quelle brutte parole che voi dite a Dio, un altro le dicesse a voi, non è vero che lo prendereste a schiaffi? E forse che Dio merita meno rispetto della vostra persona? — Ma io bestemmio perché il lavoro, gli affari van male, — Già: a forza di bestemmiare, l’esperienza insegna, che andranno poi bene. Voi somigliate a quel tale che per spegnere l’incendio in casa sua ci vuotava sopra secchi di benzina. — Ma io bestemmio per farmi ubbidire dai figliuoli — Tu che bestemmi tuo Padre che è ne cieli, come puoi illuderti che i tuoi figli avranno rispetto per il loro padre che sta in terra? Quando, scandalizzati dalla tua bocca d’inferno saran cresciuti bestemmiatori essi pure come te, ti malediranno. Oh, purifichiamo l’aria da questa sozzura! I padroni non tollerino più nelle loro botteghe l’operaio che bestemmia. Chi bestemmia Iddio non servirà bene a nessun padrone, mai. Oh, purifichiamo il paese nostro da questa inciviltà tate che alcuno bestemmi vicino a voi: Dio vi potrebbe castigare, perché non avete parlato. Oh, purifichiamo le famiglie dalla bestemmia! E tocca a voi, o mamme, o spose, o figlie, tocca a voi. È compito vostro. Anzitutto non dite voi le bestemmie. Non dite voi inutilmente e scioccamente i santi Nomi di Dio, di Cristo, di Maria. Poi mortificate la vostra lingua: perché non di rado è la lingua lunga delle donne che fa bestemmiare l’uomo. Ma quando al vostro marito, al vostro padre, al fratello vostro è passato il momento di furore, prendetelo a parte, e con angoscia mostrategli il suo torto immenso: supplicatelo ad aver pietà della sua casa. – Tutti sapete l’ultimo grido di quell’uomo che aveva un cancro alla lingua. Il dottore gli aveva detto: « Se volete tentare di salvarvi, è necessario che vi lasciate amputare la lingua ». L’infelice sudò di spavento, ma pur d’avere dinanzi ancora una speranza di vita, accettò. Al momento dell’operazione il dottore gli disse: « Se avete qualcosa da dire; ditelo subito perché è l’ultima volta che potete parlare ». Il malato, calmo, meditò un istante, poi con impeto gridò: « Sia lodato Gesù Cristo ». L’ultima parola fu quella. Sia lodato Gesù Cristo! si dica oggi da tutti noi come un solenne giuramento contro la bestemmia. Sia lodato Gesù Cristo! Ripetiamo ogni giorno, e più volte al giorno durante tutta la nostra vita. Meriteremo così che l’ultima parola nostra, sul letto di morte sia questa ancora: « Sia lodato Gesù Cristo ». E l’anima nostra, uscendo dal corpo, udrà allora gli Angeli del paradiso risponderci: « Sempre sia lodato ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Exod. XXIV: 4; 5
Sanctificávit Móyses altáre Dómino, ófferens super illud holocáusta et ímmolans víctimas: fecit sacrifícium vespertínum in odórem suavitátis Dómino Deo, in conspéctu filiórum Israël.

[Mosè edificò un altare al Signore, offrendo su di esso olocausti e immolando vittime: fece un sacrificio della sera, gradevole al Signore Iddio, alla presenza dei figli di Israele.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes éfficis: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo dei venerandi scambii di questo sacrificio, ci rendi partecipi della tua sovrana e unica divinità, concedi, Te ne preghiamo, che, come conosciamo la verità, cosí la conseguiamo con degna condotta.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus.

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea. 

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 8-9
Tóllite hóstias, et introíte in átria ejus: adoráte Dóminum in aula sancta ejus.

 [Prendete le vittime ed entrate nel suo atrio: adorate il Signore nel suo santo tempio.]

Postcommunio

Orémus.
Grátias tibi reférimus, Dómine, sacro múnere vegetáti: tuam misericórdiam deprecántes; ut dignos nos ejus participatióne perfícias.

[Nutriti del tuo sacro dono, o Signore, Te ne rendiamo grazie, supplicando la Tua misericordia di renderci degni di raccoglierne il frutto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

FESTA DEL S. ROSARIO DELLA B. V. MARIA (2022)

Festa del S. Rosario della B. V. M. (2022)

Doppio di 2° classe – Paramenti bianchi

La festa odierna fu istituita da S. Pio V per ricordare la strepitosa vittoria riportata dai Cristiani sui musulmani a Lepanto il 7 ottobre del 1571, giorno in cui le numerose e diffuse confraternite del Rosario onoravano in modo particolare Maria SS. Sotto l’invocazione di Madonna del Rosario. Forma popolare di devozione e risultato d’una lunga evoluzione attraverso gli ultimi secoli del basso Medio evo, il Rosario – ad imitazione dei 150 Salmi del Salterio – consta di 150 Ave Maria, ogni decina delle quali è intercalata con un Pater e accompagnata dalla meditazione di uno dei principali episodi della vita di Gesù e di Maria. Questa forma altrettanto semplice che facile di preghiera, adatta anche ai meno colti, è divenuta una delle più care alla pietà privata, favorita ed arricchita da indulgenze da parte dei Papi. La festa odierna, celebrando una grande vittoria, celebra pure l’umile ma potente arma cui è dovuta: la preghiera e particolarmente quella del Rosario.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.


Confíteor

Confiteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre beátæ Maríæ Vírginis: de cujus sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei.

[Rallegriamoci tutti nel Signore celebrando questo giorno di festa in onore della beata Vergine Maria! Della sua festa gioiscono gli angeli, e insieme lodano il Figlio di Dio]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Deus, cujus Unigénitus per vitam, mortem et resurrectiónem suam nobis salútis ætérnæ præmia comparávit: concéde, quǽsumus; ut, hæc mystéria sacratíssimo beátæ Maríæ Vírginis Rosário recoléntes, et imitémur, quod cóntinent, et quod promíttunt, assequámur.

[O Dio, il tuo Unico Figlio ci ha acquistato con la sua vita, morte e risurrezione i beni della salvezza eterna: concedi a noi che, venerando questi misteri nel santo Rosario della Vergine Maria, imitiamo ciò che contengono e otteniamo ciò che promettono.]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Prov VIII:22-24; VIII:32-35

Dóminus possédit me in inítio viárum suárum, ántequam quidquam fáceret a princípio. Ab ætérno ordináta sum et ex antíquis, ántequam terra fíeret. Nondum erant abýssi, et ego jam concépta eram. Nunc ergo, fílii, audíte me: Beáti, qui custódiunt vias meas. Audíte disciplínam, et estóte sapiéntes, et nolíte abjícere eam. Beátus homo, qui audit me et qui vígilat ad fores meas quotídie. et obsérvat ad postes óstii mei. Qui me invénerit, invéniet vitam et háuriet salútem a Dómino.


[Dall’inizio delle sue vie Iddio mi ha posseduta, dal principio dei tempi, prima di ogni opera sua. Fin dall’eternità io sono stata formata; dai tempi remoti, prima che la terra fosse. Ancora non c’era l’abisso, ma io ero già stata concepita. Or dunque, figlioli, ascoltatemi: beati coloro che custodiscono le mie vie. Ascoltate l’ammonizione e diventate saggi, e non vogliate disprezzarla. Beato l’uomo che mi ascolta, che veglia ogni giorno alle mie porte e custodisce la soglia della mia casa. Chi trova me, trova la vita: e dal Signore attingerà la salvezza.]

Graduale

Ps XLIV:5;11;12
Propter veritátem et mansuetúdinem et justítiam, et dedúcet te mirabíliter déxtera tua.
V. Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam: quia concupívit Rex spéciem tuam. Allelúja, allelúja.
V. Sollémnitas gloriósæ Vírginis Maríæ ex sémine Abrahæ, ortæ de tribu Juda, clara ex stirpe David. Allelúja.

[Per la tua fedeltà e mitezza e giustizia la tua destra compirà prodigi.
V. Ascolta e guarda, tendi l’orecchio, o figlia: il Re si è invaghito della tua bellezza.
Alleluia, alleluia.
V. Celebriamo la gloriosa vergine Maria, della discendenza di Abramo, nata dalla tribù di Giuda, nella nobile famiglia di Davide.
Alleluia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc 1:26-38

In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elisabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

[In quel tempo, l’angelo Gabriele fu inviato da Dio in una città della Galilea, di nome Nazareth, ad una vergine sposa di un uomo di nome Giuseppe, della stirpe di Davide; e il nome della vergine era Maria. L’angelo, entrando da lei, disse: «Ave, piena di grazia; il Signore è con te; tu sei benedetta fra le donne». Mentre l’udiva, fu turbata alle sue parole, e si domandava cosa significasse quel saluto. E l’angelo le disse: «Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai nel tuo seno e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre: e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». L’angelo le rispose, dicendo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’ Altissimo ti coprirà della sua ombra. Per questo il Santo, che nascerà da te, sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio nella sua vecchiaia ed è già al sesto mese, lei che era detta sterile: poiché niente è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: sia fatto a me secondo la tua parola».]

OMELIA

« SALVE, PIENA DI GRAZIA »

(O. Hopfan: Maria – Marietti ed. 1953)

« Al sesto mese l’Angelo Gabriele fu da Dio mandato in una città della Galilea, detta: Nazaret, ad una vergine sposata ad un uomo, chiamato Giuseppe, della casa di David; e la vergine si chiamava Maria. Ed entrato da lei, disse: “ Salve, o piena di grazia! Il Signore è con te ».

In una piccola cappella di montagna una campanella suona per tre volte: “Ave, Ave, Ave!”. Allora i monti eterni paiono ergere le candide vette e irrigidiscono di stupore. In un’ampia cattedrale piange e giubila un violino, e un fanciullo puro canta: « Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine »; in quell’istante il popolo credente tutto si leva, s’inginocchia, riflette e ringrazia, tocco nel più profondo del suo essere. In Cielo, dalle auree schiere si stacca un Angelo e vola giù sulla misera terra; la madre terra ha un brivido per la gioia che il Cielo s’abbassi nuovamente verso di essa, e Giovanni nel suo Vangelo scrive il Mistero: « Il Verbo si è fatto carne ». O Angelo Gabriele, messaggero di Dio, quale scompiglio non provochi tu quaggiù col tuo messaggio! Il miracolo, che tu vieni ad annunciare, trascende e incorona tutti gli altri miracoli di Dio: Iddio stesso vuole unirsi alla sua creazione in maniera nuova, inaudita, e ricondurre a Sè la sconvolta umanità per mezzo di Sé, in Se stesso. Il primo uomo un dì richiese temerariamente di divenire come Dio stesso; ora quell’ardito sogno del paradiso dev’essere realizzato in altro modo, in modo divino: Iddio si fa uomo. Con lieve batter d’ala va Gabriele a un’umana dimora per invitare la Creatura eletta dallo stesso Santo Spirito di Dio, la quale in questa sublimissima opera divina deve dare il suo contributo. Vi è nel tuo “Ave”, o degnissimo Angelo, tanta fragranza e armonia e profondità, che d’or’innanzi alletterà gli artisti alle creazioni più splendide; e nondimeno tutte le immagini e melodie e parole d’amore intorno al mistero dell’Annunciazione non raggiungeranno mai l’armonia del primo “Ave”. O Angelo sublime, permetti che anch’io aggiunga alla rosa d’oro del tuo saluto il semplice fiore del mio “Ave” alla Benedetta; possa qualche po’ della riverenza e bellezza del tuo saluto avere un’eco sommessa anche nel mio! – Il Messaggero. Gli Angeli son esseri sublimi, puri spiriti, principi dell’al di là, lampi di scienza, eroi di potenza, rivestiti della dignità di dominatori; secondo i nomi misteriosi ricordati dalla Bibbia stessa essi sono “Troni ”, “Principati”, “Dominazioni”, “Virtù”, “ Potestà”. Essi costituiscono la guardia palatina della divina Maestà: « Migliaia e migliaia Lo servono, e miriadi a centinaia di migliaia stanno ai suoi cenni ». Essi sono avvolti dall’abbagliante luce dei divini splendori e grazie a questa partecipazione alla magnificenza di Dio stesso son divenuti “gloria”. Gli antichi libri apocrifi giudaici distinguevano « Angeli della faccia », i quali stanno sempre dinanzi al trono di Dio, e « Angeli del servizio », i quali sono convocati per servire alla creazione e specialmente all’umanità. I Libri Santi riferiscono molti esempi di Angeli, che furono inviati con missioni divine agli uomini, ad Abramo, a Lot e Giacobbe, a David, Elia, Isaia, Tobia, a Ezechiele, Daniele, Zaccaria, ai pastori all’inizio del Vangelo e alle pie donne al suo concludersi, la prima volta col “Gloria”, l’altra con l’ “Alleluja”. La fede cristiana inoltre sa persino che un Angelo cammina a fianco di ciascun uomo; essi se ne stanno non solo dinanzi al volto di Dio, ma anche sui nostri sentieri e alle svolte della nostra vita, essi sono « posti a servizio di coloro, che conseguiranno la salvezza ». Gli Angeli son dunque i ponti di Dio, che formano l’arco fra il regno del puro spirito e il mondo dei corpi. Gli Angeli sono i messaggeri di Dio, i quali dalle celesti dimore portano nelle valli degli uomini i divini decreti. Gli Angeli sono i raggi di Dio, che scendono col dono dell’eterna luce all’umanità priva del fuoco divino. Non quasi alla divina Onnipotenza difetti il potere di tutto operare da sola, ma conviene invece alla divina Sublimità uno sterminato esercito di spiriti che la servano; e conviene al divino Amore chiamare a parte della magnificenza del creato anche altri esseri, affinché la simmetria e la sinfonia governino i mondi di Dio. Ogni volta che gli Angeli vengono nei mondi visibili, appaiono rivestiti di sublimità; il loro corpo è luce e il loro parlare è come un fragore possente; nonostante tutta la loro bontà, hanno però con gli uomini la sostenutezza degli eterni e i terreni mortali si spaventano dinanzi a loro e sono tentati di adorarli come il Signore stesso. Come va dunque che un Angelo s’inginocchia umilmente dinanzi a Maria? Annuncia il messaggio non come un principe in atteggiamento di comando, no! ma come un servo; poi attende modestamente sino a che quella Creatura umana si compiace di rispondere alla sua richiesta, quasi fosse quella Fanciulla una regina, la sua regina. Non era uno qualunque delle miriadi di Angeli quegli che in quel giorno si piegò così riverente dinanzi a Maria, non un piccolo o un giovanissimo, sebbene anche il minimo fra gli Angeli per sua natura superi enormemente in potenza e scienza anche i più celebri fra gli uomini; era il potente e sublime Angelo Gabriele, uno dei tre grandi Angeli, che solo con Michele e Raffaele è chiamato nella Sacra Scrittura col proprio nome. Gabriele — da “géber” = uomo forte, e “el” = Dio — significa etimologicamente “uomo forte di Dio”, ma può essere tradotto anche con ‘confidente di Dio’ o “forza di Dio”. Gabriele presenta se stesso al sacerdote Zaccaria, dicendogli con nobile orgoglio: « Io son Gabriele, che sta dinanzi a Dio, e sono mandato a te per portarti questo lieto messaggio » ; e così egli stesso allude a quello che gli è proprio: egli è il nunzio del lieto messaggio. Iddio fra i miliardi di Angeli ha messo a parte del suo più profondo e tenero Mistero, che è l’Incarnazione, lui, proprio lui. Quando noi nell’ “Angelus Domini” preghiamo: «L’Angelo del Signore portò a Maria il messaggio », circoscriviamo insieme l’intera missione propria a Gabriele e ben anche la sua attitudine, poiché anche negli Angeli essere e operare si corrispondono. Gabriele è l’Angelo lieto e che allieta; è fra gli Angeli, ma in modo molto più sublime, quello che è Luca fra gli Evangelisti, il nunzio non dei giudizi, ma dell’amore misericordioso di Dio. Già seicento anni prima del suo invio alla Vergine egli ebbe una missione di manifesto conforto per il profeta Daniele, che nell’esilio di Babilonia era sprofondato «in grande tribolazione »; e a lui che attendeva ansiosamente la salvezza diede con la celebre profezia delle « settanta settimane di anni » un primo preciso indizio dell’era messianica, quando sarebbe « sorto l’Unto, il Principe »!. – I fiumi di Babilonia continuarono a rumoreggiare a lungo e tempi gravi passarono su quelle parole prima che si adempissero; ma adesso, « sei mesi » prima — l’Evangelista con questa indicazione cronologica intende riannodare eventi che si richiamano —, Gabriele aveva messo piede nuovamente sul suolo di questa terra e lassù nel Tempio aveva annunziato al sacerdote Zaccaria il precursore e l’araldo del Signore. E presto intonerà, qual corifeo del celebre esercito, il canto del lieto messaggio sulle campagne di Betlemme, perché è di nuovo Gabriele, l’Angelo dell’Incarnazione, che annunzia ai pastori « il grande gaudio »!. – Gabriele invita al nuovo paradiso non con la spada sguainata fatta per respingere, come il severo Angelo alle porte del primo paradiso, no, ma col giglio in mano e in atteggiamento benigno e incoraggiante. Visse il suo giorno più radioso quando portò il lieto messaggio a Maria; quell’ora fu per tutti e due, per Maria e per l’Angelo, la più importante della loro esistenza; soli e insieme vissero la più grande delle opere di Dio, l’Incarnazione; e quell’incontro dovette legare quei due Santi, Maria e Gabriele, in eterna amicizia. È una delle tante trovate intelligenti della Liturgia fare precedere immediatamente alla festa dell’Annunciazione di Maria, il 25 marzo, quella dell’angelo Gabriele. Maria — Gabriele! Si stenta quasi a togliere lo sguardo da questo quadro così ricco di grazia e di splendore e di musica, di purezza candida, di nobiltà umile e di perfetta prontezza per le opere di Dio. All’epoca dell’Annunciazione, Maria non era più lassù a Gerusalemme; i suoi genitori forse eran già morti ed Ella era orfana; si potrebbe intendere come accenno a questo il fatto che Lei stessa si portò a Betlemme per il censimento. Non si trovava neppure in casa di Giuseppe ancora, perché la sua partenza per la casa dello sposo seguì l’Annunciazione. – Nazaret era una cittadina in Galilea di nessuna importanza, così insignificante e così disprezzata, che più tardi il giovane apostolo Natanaele-Bartolomeo chiese sprezzante: « Che può venir di buono da Nazaret? ». Ma precisamente dal suolo di quest’angolo dimenticato doveva zampillare la sorgente, la cui sovrabbondanza avrebbe regalato al mondo tutto grazia su grazia; le opere infatti di Dio non dipendono dalle norme dell’umana grandezza. La casetta, nella quale entrò Gabriele, non era un lembo di Cielo, non un appartamento principesco, non l’ampio portico simile a una chiesa e neppure l’intimo idillio, che gli artisti creano bellamente e con riverenza verso la Benedetta; il colloquio più decisivo della storia umana sì svolse in una povera casupola, costruita probabilmente sul pendio del monte. La Fanciulla pure, che contava tredici o quattordici anni, si presentava senza alcun fasto, non era figlia di principi, non di notabili e ricchi del paese; sconosciuta a se stessa, era come una violetta sperduta che non sa della sua bellezza. Se Iddio ha una missione per questa Creatura umana, basta un sacerdote o un uomo illuminato per comunicarGliela, non c’è bisogno di un Angelo, tanto meno di uno di quei sette eccelsi spiriti che, come Gabriele, stanno al cospetto di Dio. Ma Maria è una meraviglia più sublime di un Angelo, Ella è un angelo in carne umana, per natura meno grande di Gabriele, ma per grazia e per dignità superiore a lui e a tutti gli altri Angeli, non esclusi i Serafini stessi. Al momento del suo primo ingresso nel Vangelo Maria ha al suo fianco un Angelo, e in questo v’è un importante significato simbolico: fra Maria e gli Angeli esiste profonda affinità di spirito; gli Angeli accanto a Maria e Maria accanto agli Angeli sono nel proprio ambiente; « Maria degli Angeli » è forse per la nobile Signora il titolo più amabile, è certamente il più originario, fiorito dallo stesso Vangelo, profumato dal giglio di Gabriele e avvolto nelle misteriose armonie dei nove cori degli Spiriti beati. Il quadro di Maria e Gabriele risveglia ancor altri e più gravi pensieri. Un Angelo e una donna stettero di fronte già un’altra volta, nel paradiso; veramente quello era un angelo decaduto e con la sua astuzia aggirò una debole donna. Quel fatale colloquio fra il serpente ed Eva fu la nostra rovina; Gabriele e Maria pensano alla nostra salvezza; I’ “Ave” a Maria capovolgerà il malanno di Eva. Che forse Gabriele si sia inchinato così profondamente dinanzi a Maria anche per risarcire in nome di tutti i nobili Spiriti il femmineo sesso per il misfatto perpetrato da uno del loro mondo ai danni d’una donna? Maria vide l’Angelo con gli occhi del corpo, come risulta evidente dalle parole evangeliche: « L’Angelo entrò da Lei »; in quell’ora non Le stette dinanzi uno svanito fantasma, non una splendida creazione della fantasia, e neppure una visione bella, ma puramente spirituale; Ella vide una figura ben distinta, rivestita di luce; a Maria fu regalata con la conoscenza spirituale anche una manifesta visione. Questo farsi visibili dei mondi invisibili stava in strettissima connessione con la nota caratteristica di quell’ora densa di mistero: Iddio era sul punto di uscire dalla sua eterna invisibilità e di rivestirsi d’un corpo umano, affinché noi uomini, vedendolo sensibilmente, fossimo così accesi d’amore anche per le cose invisibili. In quell’ora del grande mistero dell’incarnazione di Dio, Gabriele, il rappresentante dei puri Spiriti, per rendere omaggio allo stesso Mistero, assunse con una specie di finissima incorporazione la figura eterea del corpo umano: tanto onore celeste, divino anzi, fu reso allora al corpo dell’uomo! Gabriele in forma umana s’inginocchia dinanzi a Maria, che presto concepirà Iddio non solamente secondo lo spirito, ma anche secondo il corpo; per questo non solo il suo spirito, ma per l’apparizione dell’Angelo anche i suoi sensi dovettero essere beatificati e assicurati dell’evento imminente. – Gli uomini furono sempre storditi all’irrompere visibile dei Celesti in questa terra. Quando l’angelo Gabriele vi comparve per la prima volta — « era in vesti di lino, cinto i fianchi d’una fascia d’oro finissimo. Il suo corpo splendeva come crisolito, il suo volto mandava lampi, e aveva gli occhi come faci accese; le sue braccia e i suoi piedi scintillavano come bronzo lisciato, e il suono della sua Voce era come il rumore d’una moltitudine » —, allora, come racconta il profeta Daniele stesso, « sentii mancarmi le forze, mentre ebbi questa grandiosa visione, cambiai d’aspetto e tutte le forze svanirono; quando poi udii il suono della sua Voce, caddi stordito dinanzi a me, col volto aderente al suolo ». Anche la seconda apparizione di Gabriele, quella a Zaccaria, causò uno scompiglio: « Zaccaria si turbò alla visione dell’Angelo e s’impossessò di lui il timore ». E persino un eroe così valoroso qual era Gedeone, quando gli si fece dinanzi un Angelo, gridò sgomento: « Ahimè, onnipotente Signore, io ho visto l’Angelo del Signore faccia a faccia! ». E invece quale serenità placida e lieta alita nell’annunciazione di Maria! È vero che il Vangelo riferisce che anche Maria fu turbata, e anzi usa un’espressione forte, ma Ella non fu turbata per l’apparizione, bensì per il saluto dell’Angelo; all’Angelo stesso Ella guarda col tranquillo stupore d’un bambino, che vede venire a sé una stella d’oro; anzi sembra quasi che l’Angelo rimanesse più confuso dinanzi a Maria che non Maria dinanzi all’Angelo. Sulla fine del quinto secolo un predicatore orientale, l’abate Abramo di Efeso, descrive questo felice turbamento così: « Appena Gabriele fu entrato dalla Vergine e Le ebbe detto: “ Chaîre — Salve! ”, cominciò a tremare, perché scorse (già) in Lei Colui che lo aveva inviato e lo aveva prevenuto sulla via che dal Cielo scende sulla terra; e, come si fosse trovato sul trono dei Cherubini, non ardiva elevare a Lei i suoi occhi a motivo di Colui, che in Lei s’era fatto presente ». « Ecco, questo atterrisce! Ed essi rimasero turbati tutti e due. Poi l’Angelo cantò la sua melodia ». Oh sì, grande Angelo, canta ora la tua melodia! E Gabriele allora prese la parola e parlò e cantò, e in quel momento rifulsero sommessi tutti i Cieli, e in quell’istante risuonarono lontane tutte le campane, e in quell’ora giubilarono in impeto tranquillo tutti gli Spiriti, «e l’Angelo disse: “Ave — Ti saluto!” ».  – Il Saluto. Vi è qualche cosa di bello nel saluto. Esso è il gettar dell’àncora da un’anima a un’altra; è il ponticello di sbarco dall’io al tu: è l’inchinarsi dinanzi al bene dell’altro. Ove gli uomini non vogliono avvicinarsi, ove vogliono persistere a vicendevole distanza, ivi non si scambia il saluto; ove poi stanno gli uni contro gli altri ostilmente, ove nell’altro scorgono non il bene, ma solamente il male, ivi il saluto è impedito dal gelo, ivi « non si concedono il mutuo saluto », poiché il saluto significa affermare e riconoscere del bene nell’altro. Ora in ogni uomo, anche nell’ultimo, si trova una scintilla di bene; ogni uomo dunque merita anche il saluto; ma quanto più il bene in un uomo è puro e grande, tanto più egli è meritevole d’esser salutato. Nell’Annunciazione fu l’Angelo che salutò Maria dicendoLe: “Ave!” e Già qui l’Angelo fa tacitamente capire la sua inferiorità rispetto alla Vergine, poiché è costume del Cielo e della terra, un costume veramente cosmico, che l’inferiore saluti il superiore. Altri Angeli avevano portato dei messaggi agli uomini prima che Gabriele venisse da Maria, ma mai avevan portato il saluto; Maria è la prima e anche l’unica, che sia degna persino del saluto degli Angeli, perché il bene ch’è in Lei oltrepassa persino quello d’un Angelo. E quell’ “Ave” dell’Angelo fu così timido, che egli non osò neppure chiamar la Benedetta col suo nome proprio “Maria”, quasi che questa immediata allocuzione fosse in qualche modo troppo confidenziale e ne restasse offesa la distanza conveniente all’augusta Signora. Gabriele dice soltanto: “Ave — Salve”; il nome “Maria” l’abbiamo aggiunto poi noi al suo “Ave”, perché per noi Lei è e resta anche nella sua ora più solenne una della nostra stirpe, la nostra eccelsa e buona Sorella; questa terrena parentela e le terrene necessità danno a noi il diritto di chiamarLa non con i suoi titoli, ma col suo nome, con quel nome, che Ella portò sulla terra e col quale L’avevan già chiamata i suoi genitori: Maria! Frattanto l’ “Ave” di Gabriele fu più che un semplice saluto, esso fu già un occulto augurio. La parola usata dai Greci per salutare, da Luca inserita nel suo Vangelo e corrispondente al latino “Ave”, era “chaîre”; “chaîre” alla lettera significa: « Rallégrati! »; e già i Padri greci interpretarono quel saluto, rivolto da Gabriele a Maria, quale invito alla gioia; in questo “chaîre” risuona il primo lieto accordo in maggiore del Magnificat. Nel saluto però in lingua aramaica vi è un senso anche più profondo; Gabriele infatti, rivolgendosi a Maria, ch’era una fanciulla ebrea ignara delle lingue straniere, dovette certamente parlare in lingua orientale e dirle: « Salòm »; “Salòm” significa pace, e veramente pace in ogni direzione della felicità, nella vita esterna e intima, felicità che si dispone intorno a una vera e profonda pace. « “Salòm”, “Chaîre”, “Ave”: quale ricca e lieta pienezza non si cela già nella primabe sola  paroletta dell’Angelo! un suono penetrante, che dà inizio al messaggio dell’Angelo. Pace a Te, letizia a Te, mezzo tuo pace e letizia a noi tutti, o Causa della nostra letizia! – «Tu sei piena di grazia ». Questa seconda parola è la radice dell’intero saluto angelico; se Maria infatti riceve dal Cielo un “Ave”, se Ella è benedetta, se diverrà la Madre del Signore, se è avvolta negli omaggi degli Angeli e degli uomini, tutto questo Le spetta solamente perché Ella è « piena di grazia ». Il testo originale, il testo greco cioè del Vangelo usa qui il termine “kecharitoméne”, che vuol dire la “graziosa”; la lingua greca non aveva un termine proprio per esprimere il nuovo concetto cristiano della “grazia”; nondimeno l’espressione greca scelta dall’evangelista Luca rende molto bene il senso cristiano: Colei che agli occhi di Dio è la “graziosa” per la leggiadria e la bellezza del corpo e dell’anima, è senz’altro “la donata di grazia”. Nel termine greco è già inclusa anche una “pienezza di graziosità”; giustamente quindi le versioni siriache e latine anche del secondo secolo tradussero quel kecharitoméne — donata di grazia” con “piena di grazia”. Maria è semplicemente “la donata di grazia”, “la graziosa”. Quell’esperto di Scrittura e di lingue che era Girolamo (m. 420) ammette: « Non ricordo di aver letto in altro luogo della Scrittura quello che dice l’Angelo ora; a nessun uomo mai è stato concesso di sentire simili parole: “Salve, o piena di grazia”; questo saluto è riservato a Maria ». Piena di grazia! Maria è un terso cristallo, rischiarato dal sole da parte a parte; Maria è un campo di fiori, sul quale posa una nube di profumo; Maria è una sala incantevole, che risuona di ogni melodia. La donata di grazia, la piena di grazia, questo è il nome essenziale di Maria. D’ora innanzi quando si fa parola della “piena di grazia”, ogni Angelo sa che con questo termine s’intende Maria, e lo sappiamo anche noi e non dobbiamo dimenticarlo. – Il profondo pensatore Tommaso d’Aquino propone una distinzione riguardo all’espressione « piena di grazia », e questa distinzione è necessaria per mettere in chiaro rilievo la pienezza della grazia di Cristo rispetto alla pienezza della grazia di Maria. In un determinato senso, infatti, è pieno di grazia Cristo, in tutt’altro Maria; un bicchiere può esser già pieno d’acqua, in altro modo è pieno un lago, e di nuovo in modo diverso, immensamente diverso è pieno d’acqua il mare. Tommaso insegna: « Quando si parla della pienezza della grazia, si deve badare alla grazia stessa e a chi riceve la grazia. La grazia si trova in pienezza dove essa raggiunge in chi la riceve la misura massima secondo l’essere e secondo l’operare; questa pienezza spetta unicamente a Cristo. Colui che riceve la grazia, la possiede in pienezza quand’essa corrisponde pienamente alle sue condizioni di vita, se lo rende capace di adempiere tutti i doveri del suo stato e i compiti della sua vita. « Ora la beatissima Vergine è chiamata “piena di grazia” non perché abbia posseduto la grazia nella misura massima e per tutte le opere; piuttosto la pienezza della grazia per Lei significa che la misura della sua grazia corrispondeva alla elezione alla dignità di Madre di Dio. Così anche Stefano è detto “pieno di grazia”, perché possedeva grazia bastante per essere martire di Dio e provarsi fedele diacono. Vista così, una “pienezza di grazia” può superare un’altra, secondo l’eccellenza dello stato a cui ciascuno è chiamato da Dio ». La pienezza di grazia di Maria è unica, infinitamente distante dalla pienezza di grazia di Cristo, e però essa oltrepassa immensamente la grazia partecipata a noi. Cristo è l’oceano della grazia; nelle Litanie del Sacro Cuore di Gesù professiamo che in Lui « abita tutta la pienezza della Divinità », che si trovano in Lui « tutti i tesori della sapienza e della scienza »; Cristo è così pieno di grazia, che non può più crescere in essa. Maria invece dovrà crescere nella grazia lungo tutto il corso della sua vita; anche se da Gabriele fu salutata come piena di grazia sin dal principio, Ella dovrà percorrere ancora dei tratti lunghissimi prima del suo rimpatrio. Ella pure è viatrice, giunge continuamente dinanzi ad altezze ancora più ardue, riceve sempre nuovi impulsi alla perfezione. Per tutto questo Maria è a noi così umanamente vicina; anche Lei è una creatura che si evolve, cresce e matura. Certamente Ella ricevette una grazia che è senza misura al di là della nostra, Ella è più di noi tutti “piena di grazia”; il suo posto e missione ne esigeva sin dal principio una sovrabbondanza, che nessuna creatura mai ricevette o potrà ricevere: « Maria è così bella e perfetta, Ella presenta una tale pienezza di purezza e di santità, quale, a prescindere da quella di Dio, non si può escogitare e comprendere da nessuno eccetto che da Dio ». Nonostante questi diecimila talenti, Maria, umile e grata alla grazia, si tiene aperta costantemente a nuovi incrementi, mai pensa d’essere abbastanza perfetta. Se dunque Lei, piena di grazia sin dal principio, mai pensa che sia finito, potremo noi supporre di esser perfetti con quei talenti, che ci sono concessi secondo la misura della nostra vocazione, e dimenticarci dell’ascesa a maggiore perfezione? – « Il Signore è con Te ». AI suo saluto « Piena di grazia » Gabriele si affrettò ad aggiungere sull’istante: « Il Signore è con Te ». Maria infatti non è “piena di grazia” da sé, anche Lei come noi tutti ha « ricevuto della sua pienezza grazia su grazia ». La pienezza della grazia di Maria è come la mite luce della luna, che deve al sole il suo splendore d’oro. Questi due tratti del saluto angelico: « Piena di grazia — il Signore è con Te » sono annodati insieme così saldamente, non solo nel seguito del saluto, ma anche nel loro contenuto, che non si potrebbe pensare l’uno senza l’altro: chi ha ricevuto grazia, ha il Signore con sé, e chi ha il Signore con sé, ha ricevuto grazia.  – Nella santa Messa le stesse parole dette a Maria vengono dette al popolo credente: « Dominus vobiscum! ». Eppure nel medesimo saluto si cela una sottile differenza; a Maria è detto: « Il Signore è con Te! », al popolo: « Il Signore sia con voi! »; la parola del sacerdote al popolo esprime un pio voto, quella dell’Angelo a Maria invece una sicura realtà. L’assicurazione « il Signore è con te » non la leggiamo unicamente e nella scena dell’Annunciazione, ma la ascoltiamo spesso nelle Scritture Sante. Questa parola incoraggiante è gridata talora dall’alto a uomini che Iddio ha scelti per un’opera grandiosa o difficile; così, ad esempio, con questa espressione: « Il Signore è con te, o prode valoroso! », è assicurato della soccorritrice presenza del Signore Gedeone, cui fu affidata la liberazione di Israele dalla oppressione dei Madianiti. Nessuna persona ebbe a compiere opera più sublime e più difficile di Maria; per questo subito, nella prima ora della sua comparsa, prima ancora che Ella possa sospettare il suo augusto compito, viene corredata della fortezza per camminare la sua via solitaria e sublime: « Il Signore è con Te ». Egli è con Maria in un modo nuovo, talmente inaudito ed ininterrotto, che d’or in poi non la si potrà pensare più senza il Signore. Il Padre è con Lei, perché la virtù di Dio L’adombrerà; il Figlio è con Lei, perché sarà il Frutto benedetto del ventre suo; lo Spirito Santo è con Lei, Egli con benignità e pazienza divina attende soltanto che Gabriele e Maria finiscano il loro santo dialogo per trasfigurarLa, dopo l’ultima parola, come un’Ostia dopo l’ultima parola della consacrazione. – In questa terza parola dell’Angelo quindi: « Il Signore è con Te » vibra già la prima nota e il silenzioso passaggio al Mistero stesso: il saluto dell’Angelo sta vicino al suo messaggio. Prima di ascoltare questo messaggio, concediamo alla Benedetta l’intervallo d’un minuto, perché possa riflettere su quel saluto che toglie il respiro; Gabriele stesso, dopo quelle prime battute sconvolgenti, fa un piccolo passo indietro, come il diacono all’altare nel supremo istante della solennità del Mistero. Il Vangelo stesso informa: « Maria si turbò a queste parole, e si domandava che potesse dire quel saluto »: così importante, così gravido è il saluto, che persino Maria deve sulle prime comporsi.  Queste prime parole di Gabriele son come i primi sonori accordi d’un preludio, che annunziano qualche cosa di ineffabilmente bello. Maria aveva certamente confidato l’ “Ave” di Gabriele al discepolo dell’amore Giovanni, che L’aveva pregata di aggiornarlo delle cose avvenute in principio; e Giovanni legò in eredità quell’ “Ave” come una preziosità delicata all’evangelista Luca, perché l’assicurasse nel suo Vangelo; ma può essere che Luca stesso l’abbia colto sulle labbra di Maria. Da quel giorno il saluto di Gabriele ha fatto suonare mille campane e mille cuori; milioni di uomini son divenuti Gabriele presentando alla Benedetta il saluto dell’Angelo giorno per giorno, al mattino, a mezzodì e alla sera nell’« Angelus Domini» e nella bella preghiera del Rosario, che non si può separare quasi dall’Ave: tanto spesso lo ripete in meditazione e amore. Tutta la terra è piena di “Ave — Ave Maria, Salve Regina, Ave Regina!”, e ciascuno di questi “Ave” saluta non solamente Maria, ma in Lei anche il Mistero, che sta all’inizio della nostra salvezza, l’Incarnazione del Verbo nel grembo verginale. Dovremmo quindi anche noi come Maria riflettere sul significato di questo saluto. Che forse l’ “Ave ” dell’Angelo sublime non esce spesso dalle nostre labbra troppo di volo? non si fa attenzione qualche volta più al numero che non al senso degli “Ave”? Quando ripetiamo il devoto e riverente saluto dell’Angelo, vediamo che esso non sia mai indegno dell’Angelo e della Piena di grazia! Molti fratelli Cristiani protestano contro ogni “Ave”. Strano che non s’accorgano della scortesia, che usano alla Donna del Vangelo rifiutandoLe il saluto. La maggior parte di essi agisce in questa materia in buona fede; pensano così di offrire un omaggio a Dio. Ma fu ben Iddio stesso che per mezzo di Gabriele fece rivolgere a Maria il saluto. Sarebbe un bel costume se noi fedeli cattolici offrissimo a Maria un duplice “Ave”: il primo in nome nostro, l’altro per supplire i nostri fratelli ancor muti dinanzi a Lei.

[Primo a introdurne l’uso e a diffondere la Salutazione Angelica e quello che chiamiamo il « Suono dell’Angelus » fu l’Ordine Francescano. Già S. Bonaventura nella sua qualità di Generale dell’Ordine e poi un Capitolo dell’Ordine tenuto nel 1295 ordinarono che le campanelle di tutte le chiesette francescane fossero suonate tre volte al giorno in onore della Beatissima Vergine e che in quel momento si recitassero tre Ave Maria. Per ricordare che la Porziuncola, la chiesa madre dell’intero Ordine, è dedicata a « Maria degli Angeli », i Francescani aggiunsero al saluto angelico anche la seconda parte: « Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte ».]

Offertorium

Orémus.
Eccli XXIV:25; Eccli XXXIX:17
In me grátia omnis viæ et veritátis, in me omnis spes vitæ et virtútis: ego quasi rosa plantáta super rivos aquárum fructificávi

[In me ogni grazia di verità e dottrina in me ogni speranza di vita e di forza. Sono fiorita come una rosa, piantata lungo i corsi delle acque].

Secreta

Fac nos, quǽsumus, Dómine, his munéribus offeréndis conveniénter aptári: et per sacratíssimi Rosárii mystéria sic vitam, passiónem et glóriam Unigéniti tui recólere; ut ejus digni promissiónibus efficiámur:

[Rendici degni, Signore, di offrirti questo sacrificio: e concedi che, venerando nel santo rosario i misteri della vita, passione e gloria del tuo unico Figlio, diventiamo partecipi dei beni da lui promessi]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitate beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festivitate della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:


Pater noster

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

Communio

Floréte, flores, quasi lílium, et date odórem, et frondéte in grátiam, collaudáte cánticum, et benedícite Dóminum in opéribus suis.

[Fiorite, come gigli, o fiori, date profumo, spandetevi in bellezza: cantate in coro la lode divina e benedite Dio nelle sue opere.]

Postcommunio

Orémus.
Sacratíssimæ Genetrícis tuæ, cujus Rosárium celebrámus, quǽsumus, Dómine, précibus adjuvémur: ut et mysteriórum, quæ cólimus, virtus percipiátur; et sacramentórum, quæ súmpsimus, obtineátur efféctus:

[Ci aiutino, Signore, le preghiere della tua santissima Madre, nella festa del suo rosario: concedi a noi di sentire l’efficacia dei misteri che veneriamo, e di ottenere il frutto dei sacramenti che abbiamo ricevuto:]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La storia di Tobia che si legge nell’Officio divino a questa epoca, coincide spesso con questa Domenica. Sarà dunque cosa utile, continuare a studiare la Messa in relazione col biblico racconto. Tobia sarebbe vissuto, sembra, sotto il regno di Salmanasar, verso la fine del secolo VIII prima di Cristo, al tempo della deportazione degli Israeliti in Assiria. Come Giobbe, questo santo personaggio, diede prova di costanza e di fedeltà a Dio in mezzo a tutte le sue afflizioni. « Non abbandonò mai la via della verità, distribuendo ogni giorno quanto poteva avere ai fratelli e a quelli della sua nazione, che con lui erano in prigionia e, quantunque egli fosse il più giovane nella tribù di Nephtali, nulla di puerile riscontravasi nei suoi atti ». Il Salmo dell’Introito può essergli applicato, poiché parla di un adolescente che fin dai suoi più teneri anni ha camminato nella legge del Signore. Fino dagli anni della sua fanciullezza, dice la Sacra Scrittura, « Tobia osservava ogni cosa conformemente alla legge di Dio. Sposata una donna della sua tribù, per nome Anna, ne ebbe un figlio cui diede il proprio nome e al quale insegnò fin dall’infanzia a temere Iddio e ad astenersi da ogni peccato. Condotto prigioniero a Ninive, Tobia di tutto cuore si ricordò di Dio, visitando gli altri prigionieri e dando loro buoni consigli, consolandoli e distribuendo a tutti del proprio avere, secondo quello che poteva. Nutriva chi aveva fame, vestiva quelli che erano nudi, e seppelliva con cura quelli che erano morti o che erano stati uccisi ». Dio permise che venisse cieco, affinché la sua pazienza servisse di esempio alla posterità come quella del sant’uomo Giobbe. « Avendo sempre temuto il Signore fin dalla sua infanzia ed avendo osservato i suoi comandamenti, non si rattristò contro Dio per essere stato colpito da questa cecità, ma rimase fermo nel timore di Dio, rendendogli grazie tutti i giorni della sua vita ». « Noi siamo figli dei santi, soleva dire, e attendiamo quella vita che Dio deve dare a coloro che non hanno mai cambiato la loro fede verso di Lui ». E poiché sua moglie insultava alla sua disgrazia, Tobia proruppe in gemiti e cominciò a pregare con lagrime (Allel. ), dicendo parole che sono identiche a quelle dell’Introito: «Tu sei giusto, Signore, tutti i giudizi tuoi sono equi e tutti i tuoi disegni sono misericordiosi. Ed ora, o Signore, trattami secondo la tua volontà ». E, parlando a suo figlio Tobia, disse: « Figlio mio, abbi sempre in mente Dio tutti i giorni della tua vita, e guardati bene dall’acconsentire ad alcun peccato. Fa elemosina dei tuoi beni e non distogliere il tuo volto dal povero. Sii caritatevole in quel grado che puoi e quello che ti dispiacerebbe fosse fatto a te, guardati bene dal farlo ad altri ». Questo precetto dell’amore di Dio e del prossimo e la sua attuazione sono inculcati dall’Epistola e dal Vangelo: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, tutta l’anima tua e tutto il tuo spirito, e il prossimo tuo come te stesso » (Vang.). « Camminate in umiltà, dolcezza e pazienza, sopportandovi a vicenda con carità, sforzandovi di mantenere l’unità di spirito nei vincoli della pace » (Ep.). Tobia mandò suo figlio presso Gabelo a Rages, sotto la guida dell’Arcangelo Raffaele. Per via, l’Angelo disse a Tobiolo di prendere un pesce che lo aveva voluto divorare e di serbarne il fegato per scacciare ogni specie di demoni e gli indicò inoltre il mezzo per prendere in moglie Sara, senza che il demonio, che aveva già uccisi i suoi primi sette mariti, potesse fargli del male. « Il demonio, spiegò l’Arcangelo, ha potere su coloro che nel contrar matrimonio bandiscono Dio dal loro cuore e ad altro non pensano se non a soddisfare la loro passione ». L’Orazione prega Iddio di dare al suo popolo la grazia di evitare i contatti diabolici, « affinché possa con puro cuore essere unito a te solo che sei il suo Dio ». « Come figli di Dio, noi non possiamo, dissero Tobia e Sara, sposarci come pagani, che non conoscono Dio », e « pregarono insieme istantemente il Signore che ha fatto il cielo e la terra, il mare, le sorgenti ed i fiumi con tutte le creature che contengono ». E Dio « benedisse il loro matrimonio, come aveva benedetto quello dei patriarchi, affinché essi avessero dei figli della stirpe di Abramo » (Graduale). Tobia ritornò con Sara e guarì suo padre dalla cecità e questi allora intonò un cantico di ringraziamento, una specie di Benedictus o di Magnificat, nel quale scoprì le grandiose aspettative messianiche: « Gerusalemme tu castigata per le sue opere malvagie, ma essa brillerà di fulgida luce e si rallegrerà nei secoli dei secoli. Dai lontani paesi verranno verso lei le nazioni, portandole delle offerte e adoreranno in essa il Signore. Maledetti saranno coloro che la disprezzeranno e quelli che la bestemmieranno saranno condannati. Beati, continua egli, coloro che ti amano! lo sarò felice se qualcuno della mia stirpe sopravvivrà per vedere lo splendore di Gerusalemme. Le sue porte saranno di zaffiri e di smeraldi e tutta la cinta delle sue mura sarà di pietre preziose. Tutte le pubbliche piazze saranno lastricate di pietre bianche e pure e nelle strade si canterà: Alleluia. La rovina di Ninive è vicina, poiché la parola di Dio non resta senza effetto ». È questo il « cantico nuovo che troviamo nel Salmo del Graduale « Dio è fedele alla sua parola; Egli dissipa i progetti delle nazioni e rovescia i consigli dei principi. Beato il popolo che Egli ha scelto per suo retaggio. Palesa, o Signore, la tua misericordia su di noi, secondo la speranza che abbiamo posta in te ». E il Salmo del Communio aggiunge: « Dio ha infranto tutte le forze nemiche, i re superbi sono stati abbattuti e i loro eserciti distrutti. Offrite dunque sacrifizi di ringraziamento a questo Dio terribile », poiché, continua l’Offertorio, « Egli ha gettato uno sguardo favorevole sul popolo in favore del quale il suo Nome è stato invocato ». – Gerusalemme, ove il popolo di Dio regna e ove affluiscono tutte le nazioni per lodare il Signore, è il regno di Dio, è la Gerusalemme celeste. Tutti vi sono chiamati con una comune vocazione a formarvi « un solo corpo », la Santa Chiesa, che è una nuova creazione, dice S. Gregorio Magno, e che è animata da « un solo Spirito, una sola speranza, un solo battesimo e una sola fede in un solo Signore » (Epistola). È Gesù Cristo, Figlio di Dio e Figlio di David, che il « Dio unico e Padre di tutti gli uomini, ha fatto sedere alla sua destra fino al giorno in cui tutti i suoi nemici, vinti, saranno sgabello ai suoi piedi ». Questo Dio « sia benedetto nei secoli dei secoli » (Epistola). – L’unità della nostra fede, del nostro battesimo e delle nostre speranze, come pure dello Spirito Santo, di Cristo e di Dio Padre, dice S. Paolo, fa a tutti noi un dovere di essere uniti dai vincoli della carità, sopportandoci a vicenda.

Il comandamento di Dio di amare il prossimo è simile a quello che ci fa amare Dio, poiché è per amor suo che amiamo il prossimo. « Doppio è il comandamento, dichiara S. Agostino, ma una è la carità ». E per consolidare il suo insegnamento agli occhi dei farisei, Gesù Cristo dà loro, in un testo di David, una prova della sua divinità. Dobbiamo dunque, nella fede e nell’amore, essere uniti a Cristo Gesù. « Interrogato circa il primo comandamento, Gesù rivela il secondo, che non è inferiore al primo, facendo loro comprendere che lo interrogavano soltanto per odio, poichéla carità non è invidiosa » (I Cor. XIII, 4). Egli dimostra inoltre il suo rispetto per la legge ed i profeti. Dopo aver risposto, Cristo interrogò a sua volta, e dimostra che pur essendo figlio di David, ne è il Signore, essendo Egli il Figlio unico del Padre, e li spaventa dicendo che un giorno avrebbe trionfato su tutti coloro che si oppongono al suo regno, poiché Iddio farà dei suoi nemici sgabello ai suoi piedi. Con ciò dimostra la concordia e l’unione che esiste fra Lui e il Padre » (S. Giov. Crisostomo – Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confiteor

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps CXVIII: 137;124
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini retti: che procedono secondo la legge del Signore.]

Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secundum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.


Oratio

Oremus.
Da, quǽsumus, Dómine, populo tuo diabólica vitáre contágia: et te solum Deum pura mente sectári.

[O Signore, Te ne preghiamo, concedi al tuo popolo di evitare ogni diabolico contagio: e di seguire Te, unico Dio, con cuore puro.]

Orémus.
Commemoratio Ss. Angelorum Custodum
Deus, qui ineffábili providéntia sanctos Angelos tuos ad nostram custódiam míttere dignáris: largíre supplícibus tuis; et eórum semper protectióne deféndi, et ætérna societáte gaudére.

[O Dio, che con provvidenza ineffabile ti degni di inviare i tuoi angeli a nostra custodia: concedi a noi, che ti supplichiamo, di essere sempre difesi dalla loro protezione, e di goderne l’eterna compagnia].


Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum …

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 1-6

 “Fatres: Obsecro vos ego vinctus in Dómino, ut digne ambulétis vocatióne, qua vocáti estis, cum omni humilitáte et mansuetúdine, cum patiéntia, supportántes ínvicem in caritáte, sollíciti serváre unitátem spíritus in vínculo pacis. Unum corpus et unus spíritus, sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestræ. Unus Dóminus, una fides, unum baptísma. Unus Deus et Pater ómnium, qui est super omnes et per ómnia et in ómnibus nobis. Qui est benedíctus in sæcula sæculórum. Amen.”

[“Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati, con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi con carità scambievole, solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un sol corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati a una sola speranza per la vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, che opera in tutti, che dimora in tutti. Egli sia benedetto nei secoli dei secoli. Così sia.”]

LA VOCAZIONE.

Come sono solenni e dense di significato le poche battute con cui si apre il brano domenicale della Epistola agli Efesini! Vi scongiuro, — dice l’Apostolo, e perché lo scongiuro sia più efficace e commovente, si chiama prigioniero di Dio (in Dio), — a camminare degnamente in quella che è la vostra vocazione. E il pensiero corre subito alla « vocazione » di Cristiani, quali erano proprio e tutti i suoi primi, immediati lettori. C’è sotto alle parole dell’Apostolo, una grande, una nobilissima idea di questa vocazione cristiana. È Iddio che chiama i suoi figli dalle tenebre del paganesimo, dalla penombra della religione naturale, alla luce del Cristianesimo. Ogni Cristiano è un chiamato da Dio. Molti lo hanno dimenticato, lo dimenticano. Credono che l’essere Cristiani sia la cosa più naturale del mondo: che si nasca Cristiani come si nasce bimani o bipedi, che la vocazione sia un privilegio di pochi, e precisamente di quei pochi che si avviano al Sacerdozio, oppure entrano in un Monastero. Idee piccole e false. Dio ci ha chiamati, tutti e ciascuno, noi Cristiani alla Religione nostra, al Cristianesimo, al Vangelo che è e rimane una grazia! Ci vuole Lui Cristiani. Manda i Suoi apostoli a battezzarci, a istruirci, a convertirci. Nobilissima vocazione, perché Dio ci chiama nel Cristianesimo mercè del Battesimo, ci chiama ad essere suoi figlioli: « ut fili Dei nominemur et simus. » Basta pronunciare bene, sillabando, meditando, questa parola fili Dei, per capire l’altezza di questa dignità e la gravità degli obblighi che ne conseguono. Bisogna rendersi, in qualche modo, degni del nome e del carattere di figli, ricevuti nel Santo Battesimo, con la bontà delle opere. Bisogna vivere da figli di Dio; vivere veramente da buoni Cristiani. C’è qui tutto un programma, riassunto ancor più largamente nelle parole di un Santo Pontefice, grande anima romana e cristiana, San Leone Magno: — Riconosci, o Cristiano, la tua dignità, e, diventato partecipe della natura divina (non è forse il figlio della stessa natura del padre?) non volere con una condotta degenere tornare all’antica bassezza e viltà. — Sentiamola questa dignità di Cristiani oggi meglio d’allora, oggi dopo quasi duemila anni di esperienza, dopo che, con la loro vita, milioni di Santi e di Eroi, ci hanno mostrato che cosa può produrre di eroico il Vangelo in un’anima, in una società. Diventare Cristiani col Battesimo, oggi, vuol dire ricevere una eredità gloriosa di bene, inserirsi in una corrente luminosa, calda, satura di ciò che vi è al mondo di più sacro e più augusto. E ciò non toglie che ciascuno di noi abbia anche una vocazione, una destinazione, una destinazione provvidenziale in un altro senso. Perché ognuno è chiamato poi dal Padre a servirLo in modo speciale. Nella Casa del Padre, ci sono molte mansioni, o funzioni, come in tutte le case bene ordinate, e ciascuno ha la sua, e tutte sono materialmente diverse ma tutte sono spiritualmente belle e nobili, perché nulla è ignobile nella casa del Padre Celeste, Iddio. E noi dobbiamo stare al nostro posto, fedeli e valorosi come soldati che montano la guardia, e lavorano, e combattono, sapendo di contribuire veramente a una sola, grande vittoria: la vittoria di Dio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXXII: 12;6
Beáta gens, cujus est Dóminus Deus eórum: pópulus, quem elégit Dóminus in hereditátem sibi.

[Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore: quel popolo che il Signore scelse per suo popolo.]

Alleluja

Verbo Dómini cœli firmáti sunt: et spíritu oris ejus omnis virtus eórum. Allelúja, allelúja

[Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Allelúia, allelúia]


Ps CI: 2
Dómine, exáudi oratiónem meam, et clamor meus ad te pervéniat. Allelúja.

[O Signore, esaudisci la mia preghiera, e il mio grido giunga fino a Te. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. XXII: 34-46

“In illo témpore: Accessérunt ad Jesum pharisæi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Jesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisæis, interrogávit eos Jesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cujus fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius ejus est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogare”.

[“In quel tempo, accostandosi i Farisei a Gesù, avendo saputo com’Egli aveva chiusa la bocca ai Sadducei, si unirono insieme: e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: Maestro, qual è il gran comandamento della legge? Gesù dissegli: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta l’anima tua, e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta quanta la legge, e i profeti. Ed essendo radunati insieme i Farisei, Gesù domandò loro, dicendo: Che vi pare del Cristo, di chi è egli figliuolo? Gli risposero: di Davide. Egli disse loro: Come adunque Davide in ispirito lo chiama Signore dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, sino a tanto che io metta i tuoi nemici per sgabello ai tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, come è Egli suo figliuolo? E nessuno poteva replicargli parola; né vi fu chi ardisse da quel dì in poi d’interrogarlo”.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

AMORE DI DIO

Nella legge ebraica si contavano generalmente 613 comandamenti. Come si faceva a ricordarli tutti e, peggio, ancora, a metterli in pratica? Di qui le lunghe discussioni per conoscere quali fossero gli indispensabili da sapere e da osservare. Un legista, meravigliato della saggezza con cui Gesù chiudeva la bocca ai suoi maligni nemici, si rivolse a lui per farsi indicare il comandamento più importante. « Il massimo e primo comandamento — gli rispose — è questo: ama il Signore Dio tuo con tutte le tue forze di mente, di cuore, di opere. Il secondo poi è simile al primo: ama il prossimo come te stesso. Tutti i precetti della Legge, tutte le prescrizioni dei profeti sono riassunti in questi due comandamenti d’amore ». Si badi bene come il Vangelo unisce sempre l’amore del prossimo all’amor di Dio; e S. Giovanni l’evangelista vi ha scorto una relazione così intima da giudicarli veramente inseparabili (I Giov., IV, 20-21). Per questa volta noi fermiamo l’attenzione soprattutto sull’amor di Dio. – Un principe russo, camminando per una strada campestre, si imbatté in una contadina che reggeva in braccio un bambino e lo allattava. Ella era ancor giovane e il bambino poteva avere sei settimane. D’improvviso la donna mandò un grido di gioia: per la prima volta da che era nato, il bambino aveva sorriso a sua madre, incominciando a riconoscerla. Il principe vide allora la contadina guardare in alto e farsi devotamente il segno della croce: « Perché fate questo? » le chiese. Ed ella gli rispose: « Come una mamma è lieta allora che scopre il primo sorriso del suo bambino, così Dio gioisce ogni volta che dall’alto dei cieli scorge un atto d’amore » (Cfr.: L’idiota di Dostoievsky). Dio è amore; e l’amore è il sorriso con cui gli uomini cominciano a riconoscerlo come Padre. Perciò egli vuole che essi lo amino con tutta la loro mente, il loro cuore, con tutte le loro opere. 1. CON TUTTA LA MENTE. Per amare davvero Dio con tutta la mente, occorrono tre cose: a) Bisogna tenerla sgombra da ogni pensiero vano o cattivo. L’amore di Dio, nella nostra mente è come la stella luminosa, incoraggiante, orientatrice; ma i pensieri vani o cattivi sono come la nebbia e le nuvole che soffocano quel mite splendore sotto una coltre opaca. Ricorderò un profittevole fatto storico. I Medici, potente famiglia che teneva la signoria di Firenze, avevano imprigionato e condannato a morte nel 1512 un cittadino di nome Pier Paolo Boscoli perché ardente repubblicano com’era, aveva congiurato contro di loro. Dovendo egli morire, sul punto estremo fu avvicinato dal famoso artista Luca della Robbia che lo confortava a rassegnarsi e raccomandarsi a Dio. Ma il Boscoli che aveva letto moltissimo e aveva la mente ingombra di idee rivoluzionarie assorbite man mano leggendo, non riusciva a fissare il suo pensiero nel Signore, e gemeva: « Deh, Luca, cavatemi dalla testa quelle scene e quelle idee, acciò ch’io possa almeno morire da Cristiano! » (« Arch. Stor. It. », I, 1842, pagg. 289-290). Come possono pretendere di vivere da Cristiani, quelli che hanno la mente piena delle figure invereconde viste al cinematografo, o sui giornali, degli intrecci impudichi di tante novelle e romanzi, delle parole equivoche e oscene raccolte nei crocchi degli amici? È impossibile che riescano a pregare con qualche raccoglimento, con qualche consolazione. b) Bisogna pensare spesso al Signore. « Vi capita di restar lungo tempo senza pensare a Dio? » fu domandato un giorno a S. Francesco di Sales; ed egli con semplicità poté dare questa risposta: « Quasi un quarto d’ora ». A un’eguale domanda, che cosa potremmo rispondere noi: Forse appena due volte, una volta al giorno; forse appena una volta alla domenica quando veniamo a Messa, se pur non si è anche allora distratti; forse da qualcuno si sta dei mesi senza ricordarsi di Dio. Eppure, non mancano, nella giornata, frequenti occasioni di pensare al Signore. Tutti almeno due volte al giorno dobbiamo sollevare a Lui la nostra mente: al mattino e alla sera. Poi, secondo l’ammonimento di S. Paolo, dobbiamo sforzarci di ricordare il Signore più spesso che possiamo: prima e dopo i pasti, prima e dopo il lavoro, nella gioia e nel dolore, e specialmente nel momento della tentazione. Così spontaneamente fa chi ama una creatura, e così dobbiamo fare noi se amiamo il nostro divin Padre e Creatore. c) Bisogna cercare di conoscerlo sempre più e sempre meglio. Chi ama con tutta la sua mente il Signore frequenta la dottrina cristiana, studia il catechismo, legge il Vangelo o qualche buon libro che parla di Lui, della sua Chiesa, dei Santi, dei Missionari. – 2. CON TUTTO IL CUORE. S. Agostino, predicando al suo popolo d’Ippona, dopo d’aver spiegato la bontà del Signore, uscì in questa domanda: « V’ha al mondo, o fratelli, qualche cosa che voi non sapreste sacrificare all’’amor di Dio? Se da una parte voi aveste radunati tutti i tesori, tutti i piaceri, tutti i beni del mondo, e, avendo dall’altra Iddio, foste costretti nell’alternativa di perdere o Uno o gli altri, che fareste voi? » A tali parole un grido potente, unanime si sollevò da tutta l’assemblea: « Vadano i beni della terra, ma ci resti Dio — Maneat nobis Deus, pereant universa! ». Quel popolo amava Dio con tutto il cuore; poiché amar qualcuno con tutto il cuore vuol dire preferirlo a tutto e a tutti. Dio non lo si può amare se non con questo amore di esclusiva preferenza perché Egli vale più d’ogni altro bene. Bisogna dunque amarlo più di qualsiasi fortuna; e se il suo amore lo esige, bisogna essere preparati a rinunciare a qualsiasi guadagno. Non possediamo noi qualche cosa che invoca il suo vero padrone? Non c’è nel nostro lavoro, nel nostro commercio, nella nostra industria qualche profitto ingiusto? Se così fosse, l’amor di Dio, ne esige subito la rinuncia e la riparazione. Bisogna amarlo più di qualsiasi onore; per quanto ambito e grande sia; e se ci sono degli onori che sono per noi occasioni di peccato, e che si possono conservare solo conculcando la coscienza, l’amor di Dio ne esige la rinuncia. Bisogna amarlo più di qualsiasi affetto umano anche del più caro e tenero: e se  tra i nostri affetti ve ne fosse qualcuno che non s’armonizza con l’amore di Dio, che sia riprovato e condannato dall’amore di Dio, bisogna combatterlo, soffocarlo, strapparlo dal nostro cuore senza indulgenza. Oh, so bene tutte le sottili ragioni, tutti i pretesti che si possono addurre e di fatto s’adducono per giustificare certe amicizie, certi affetti pericolosi: ma io vi dico appoggiato sopra una esperienza che non sbaglia e sopra la voce della vostra  stessa coscienza invano soffocata, che i vostri sono pretesti e non vi scusano. Se voi conservate il diritto di esserci, voi contendete il vostro cuore a Dio, voi lo dividete, fate delle parti illegittime, Dio è totalitario: o lo si ama con tutto il cuore, o non lo si ama per niente. – 3. CON TUTTE LE OPERE. L’amor di Dio deve essere « operoso », cioè non lo si può e non lo si deve far consistere in semplici parole, in sospiri, in formule meccaniche di preghiera, ma nelle opere. Non è raro il caso di udire anime buone lamentarsi così: « Ho l’amor di Dio, ma: io non lo sento!… ». Non c’è bisogno di sentirlo, perché non è richiesto l’amor « sensibile », ma è richiesto l’amore « operoso ». Le vostre opere vi diranno se davvero amate Dio, poiché la prova infallibile dell’amore non sono le parole, bensì i fatti. « Non chiunque dirà: Signore, Signore; ma chi farà la volontà del Padre celeste, entrerà nel regno dei cieli » (Mt., VII, 21); « chi osserva i miei comandamenti, è quello che mi ama » (Giov., XIV, 21). E bisogna osservare tutti i comandamenti, perché bisogna amare Dio con tutte le opere. Non ama Dio con tutte le opere quel giovane fedele negli altri comandamenti, ma non nel sesto. Non amano Dio con tutte le opere quegli sposi, anche buoni in molti punti ma non in quello d’accettare la legge di Dio nel matrimonio. Non amano Dio con tutte le opere quei padroni che, benché devoti e onesti, sfruttano l’operaio, ricompensandolo così scarsamente che non gli è possibile una vita civile e decorosa. Non amano Dio con tutte le opere quelli che potendolo non soccorrono i poveri, gli ammalati, gli afflitti. Questo della elemosina e del conforto verso i fratelli bisognosi è il segno più sicuro del vero amor di Dio. – Prima che il Beato Giovanni Colombini si convertisse, sua moglie Biagia dei Carretani aveva pregato tanto perché il marito si desse a miglior vita. Giovanni non era uomo delle mezze misure, il poco o la metà per lui non contavano: o tutto o nulla. E quando si volse a Dio, si diede a Lui con tanta interezza di pensiero, di cuore e di opere che la moglie rimasta nella sua mediocrità spirituale non poteva capirlo: « Non sei stata forse tu a pregare perché mi convertissi? ». « Sì; — ella rispose — ma io pregavo che piovesse non che venisse il diluvio ». La psicologia di quella donna, è pur quella di tanti Cristiani. Vorrebbero essere buoni ed amare Dio per quel tanto che basta, secondo la loro opinione, a tacitare la coscienza e scampare dall’inferno; ma non fino al punto di rinunciare anche a tutti i comodi e piaceri, specialmente a qualche abitudine o affetto caro sopra ogni altro! Il Vangelo insiste sulla necessità d’un amore totalitario a Dio. « Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente ». — AMORE DEL PROSSIMO. Quando una persona cara è sull’atto di partire, per una lontananza che forse sarà senza ritorno, con quale batticuore si godono le ultime parole! Le ultime parole in cui, chi le dice, mette il suo cuore e la sua volontà per sempre; e colui che le ascolta le porta con sé come una preziosissima eredità per sempre. Giuda era uscito e la notte s’era fatta in giro al cenacolo. C’era Gesù che stava per partire da questo mondo e diceva le ultime parole ai suoi « Figliuolini! ». Non li aveva mai chiamati così; questa espressione di suprema tenerezza aveva voluto riservarla per l’ora della separazione. « Figliuolini, sono gli ultimi momenti che sto con voi; poi mi cercherete invano. Prima di partire vi lascio il mio comandamento nuovo: amatevi tra di voi » (Giov., XIII, 33). Nel Vangelo di questa Domenica v’è un’altra scena importante. È un dottore della legge che domanda a Gesù: « Maestro, qual è il più gran comandamento? ». E a lui Gesù: « Amerai il Signore con tutte le tue forze. Ma v’è un altro comandamento simile a questo: amerai il tuo prossimo come te stesso ». Nessuno può amare Dio, se prima non ama il suo prossimo. Coloro che non hanno carità verso i loro fratelli, s’illudono d’amare il Signore. Ecco perché Gesù Cristo, morendo non ha ricordato l’amore a Dio, ma solo l’amore al prossimo. Ecco perché Gesù ha detto che i suoi discepoli si riconosceranno non per l’amore di Dio, ma dall’amore che porteranno al prossimo. Ecco perché S. Giovanni Evangelista vecchio predicava continuamente così: « Figliuolini, amatevi tra di voi ». E quando gli uditori stanchi gli chiesero: « E poi? » rispose semplicemente: « E poi, basta ». Diliges proximum tuum. In che modo si ama il prossimo? Non a parole, ma coi fatti: con l’aiutarci e compatirci. – 1. AIUTARCI. S. Paolino incontrò una volta una donna che piangeva sconsolatamente. Ella aveva un unico figliuolo, e le era stato fatto prigioniero, e non aveva un soldo per liberarlo. Il santo che non aveva denari, né roba, nulla fuor che la sua persona, si esibì a quella povera mamma per essere egli stesso venduto, così, col prezzo ricavato, potesse poi liberare il figlio. Fu accettata la proposta e S. Paolino venduto schiavo, per molto tempo fece l’ortolano. Ma poi si venne a conoscere la sua santità e il padrone impietosito lo liberò. Ecco come i santi sanno interpretare il gran comandamento della carità: fino all’eroismo dei più forti sacrifici. Se noi per il nostro prossimo non siamo stati capaci mai di patire qualche cosa, non possiamo dire d’amarlo. È vero: non sempre è possibile ad ognuno far quello che ha fatto S. Paolino, ma quanti mezzi noi abbiamo per aiutare il nostro prossimo, che non abbiamo usato mai! Anzitutto la preghiera. S. Teresa, fanciulletta ancora, aveva udito parlare di un gran delinquente, di nome Pranzini, condannato a morte per orrendi delitti. La sua impenitenza faceva anche temere della sua eterna salute. Allora la piccola santa cominciò a pregare perché quello sventurato prima di morire sì convertisse e salvasse così la sua anima dall’inferno. L’indomani della esecuzione della sentenza, ella aperse con tremore il giornale. Il Pranzini era salito sul patibolo senza confessione, senza assoluzione; già i carnefici lo trascinavano verso il punto fatale, quando, come riscosso a un tratto da. una improvvisa ispirazione, Si volta, afferra un Crocifisso presentatogli da un sacerdote, e bacia tre volte quelle santissime piaghe. Nella nostra piccola esperienza possiamo anche noi conoscere qualche persona che vive nei peccati; magari è una persona di casa nostra, del nostro paese. Invece di mormorare, di calunniare, di fingerci scandalizzati, preghiamo Iddio che le usi misericordia, che la tocchi nel cuore e la converta. La preghiera è il primo aiuto che noi possiamo dare al prossimo, ed è il più utile, il più importante, perché se noi possiamo far qualche cosa e con stento, Dio può far tutto e in un attimo. Anche con il consiglio, dobbiamo aiutare il nostro prossimo. San Sebastiano, nascostamente, ogni giorno scendeva nelle carceri ad esortare i Cristiani al martirio. Quando s’accorse che i due fratelli Marco e Marcelliano, inteneriti dalle lagrime dei parenti, avevano paura di morire per la fede di Cristo, così li consigliò: « Fratelli eccovi già vicini alla meta gloriosa e voi volete tornare indietro? I pianti di una donna e le grida de’ vostri figli vi faranno dunque cadere dal capo una corona gloriosa? ». A queste parole i due fratelli si rincorarono al martirio. Una buona parola, un amorevole eccitamento, un saggio consiglio suggerito con bel modo, e a tempo opportuno, può portar frutti più abbondanti che non un intero quaresimale. Un consiglio buono è più prezioso dell’oro e dell’argento; è una guida esperta in una strada oscura. V’è una fanciulla che usa una moda immorale, oh, se una compagna umilmente e con amore la consigliasse ad allungare le vesti come bene avrebbe messo in pratica il gran comandamento. C’è quella donna che è troppo leggera? V’è quella nuora che è in una rissa eterna? V’è quel giovane che perde la Messa? V’è quell’uomo che bestemmia? Consigliamoli saggiamente, e senza pretesa. Noi avremo fatto un’opera di amore verso il prossimo. Infine, aiutiamo il prossimo con le opere. Quando vediamo, una persona che ha bisogno della nostra mano, del nostro soldo, non facciamoci rincrescere. Ricordiamoci che noi facciamo un piacere non a una persona di questo mondo, ma a Gesù Cristo stesso. Tito imperatore alla sera di ogni giorno passato senza un’opera buona di misericordia esclamava tristemente: « Ho perduto una giornata ». E costui era un pagano. Quanti Cristiani giungendo al termine della loro vita dovran forse dire: « Ho perso tutta la mia vita ». – 2. COMPATIRCI. V’è una paraboletta molto espressiva in proposito. Lungo una via domandavano l’elemosina un povero cieco e un povero zoppo. Il cieco gridava: fate la carità al cieco che non ha occhi per vedere la sua strada. Lo zoppo gridava: fate la carità allo zoppo che non ha gambe per fare la sua strada. La disgrazia era gravissima da entrambe le parti. Ma un giorno il cieco disse allo zoppo: « Io non vedo, ma ho le gambe molto buone, tu non hai buone le gambe, ma la tua vista è ottima. Tra tutti e due abbiamo dunque l’occorrente per rimediare in parte alla nostra sventura. Facciamo così: io ti prenderò in spalla, e tu camminerai colle mie gambe ed io vedrò con i tuoi occhi ». La proposta fu bella e accettata; e da quel momento, il cieco prestando le gambe allo zoppo e lo zoppo prestando gli occhi al cieco, formarono un gruppo d’amore vicendevole che girava per il mondo. – S’io fossi un pittore dipingerei in un quadro quelle due dolci creature e poi vorrei che in tutte le case ve ne fosse una copia: in tutte le case, dove ci sono nuore e suocere che non si vogliono bene, in tutte le case, dove ci sono fratelli in lite coi fratelli, cognati in lite coi cognati, vicini coi vicini. Sarebbe una bella esortazione ad amare il nostro prossimo tollerandoci a vicenda i difetti come il cieco tollerava il peso dello zoppo e lo zoppo tollerava la cecità del cieco. S. Agostino ha una piccante osservazione: nell’arca di Noè, durante il diluvio erano raccolte tutte le specie più diverse di animali, domestici e feroci. Eppure, tutti erano in pace. In molte famiglie invece, dove sono tutti uomini, figli di Dio e creati per il Cielo vi è un vero serraglio di belve. Perché? Perché manca il compatimento vicendevole. Non dobbiamo attendere ai difetti del prossimo, ma alle sue virtù, che non son poche; non dobbiamo osservare che è zoppo, ma che ha la vista buona. Del resto ricordiamoci che pur noi abbiamo difetti, e ben grossi quantunque non li conosciamo: che se il prossimo cammina male perché zoppo, noi razzoliamo peggio perché ciechi. – Il povero re di Roma, il pallido figlio di Napoleone I, dovette passare dolorosamente i pochi anni della sua giovinezza in Austria. Il ministro Metternich quando voleva scoraggiare l’Aquilotto, gli mostrava che non aveva nulla di suo padre, nulla che lo rendesse capace di governare. « Voi avete il cappello, ma non la testa di vostro padre! ». A quanti che si dicono Cristiani si potrebbe ripetere l’acerbo rimprovero: « Tu hai il nome, ma non il cuore di Gesù Cristo ». Perché? Perché non sai né aiutare né compatire il tuo prossimo.CHE VE NE PARE DI CRISTO? I sadducei e i farisei erano giunti a tentare Gesù. Il Maestro, con poche ma ardenti parole, ribatté ogni loro ragionamento, poi, Egli stesso rivolse a’ suoi tentatori  una terribile domanda: « Che ve ne pare di Cristo? Di chi è Figlio? ». Qualcuno ardì rispondere: « Di Davide ». Gesù incalzò: « Di Davide, tu dici? Allora, e perché Davide lo chiama suo Signore? ». Più nessuno osò fiatare. A noi, venuti venti secoli dopo, il Maestro rivolge la medesima domanda: « Quid vobis videtur de Christo? ». Cosa che fa stupire: oggi, in cui si parla di fratellanza universale; in cui, senza filo, possiamo comunicare da un estremo altro della terra; in cui, sorpassato ogni confine di monte e di mare, l’uomo in poche ore vola sopra le nazioni e congiunge  i continenti, basta rivolgere questa domanda: « che ve ne pare di Cristo » per mettere gli uomini in contraddizione tra loro. Aveva ragione, il candido vecchio che nel tempio aveva consumato la sua vita aspettando il Messia, quando, stringendolo tra le braccia, esclamava: « Ecco il segno della contraddizione: e molti avranno per lui la vita, e molti avranno per lui la morte ». Gesù stesso dirà di sé la medesima cosa: « Venni al mondo per un giudizio: quei che non hanno la vista l’acquisteranno, quei che hanno la vista la perderanno » (Giov. IX, 39). E voleva dire che le anime umili saranno da Cristo illuminate, mentre i superbi da lui saranno accecati. Il crocifisso che domina il mondo, che domina i troni e le potenze della terra, come già una volta sul Calvario è il segno della divisione. Chi lo bestemmia, chi lo ignora, chi lo contempla con amore. « Quid vobis videtur de Christo? ». A questa domanda gli uomini rispondono in un triplice modo: odio, ignoranza, amore.  – 1. ODIO. Un giorno del 1797, un ufficiale, passando non lontano dalla città d’Aosta, incontrò nel fondo di una torre in rovina, un disgraziato che vi dimorava da anni, privo d’ogni compagnia. « Che fate qui? » disse il militare. « Sono gli uomini, che non mi possono vedere » gemette l’infelice. Dopo aver scambiate alcune parole, l’ufficiale gli domandò il suo nome. « Il mio nome? » rispose il solitario « ah, il mio nome è terribile. Mi chiamano il Lebbroso ». Cristiani! io conosco qualcuno che fin nell’ultimo villaggio trascorre i suoi giorni nella solitudine, dove l’odio degli uomini cerca di confinarlo. Se domandate il suo nome, quello che un angelo portò dal cielo per lui, è Gesù; ma in terra, l’hanno chiamato con un nome terribile: il Lebbroso. Tale, infatti, lo vide il profeta… putavimus eum quasi leprosum. (Is., LIII, 4). E della sua storia si può dire quanto l’ufficiale diceva di quello d’Aosta: « È una lacrima, una lacrima continua ». — In antico, quando all’alba un lebbroso si lasciava sorprendere presso l’abitato, tutti, urlando, lo cacciavano a sassate. Ed a sassate i nemici della religione hanno cercato d’allontanare Cristo dalla società. E lo hanno cacciato dai comuni, ove insegnava a reggere i popoli: e via l’hanno cacciato dalle scuole ove benediceva la crescente gioventù; e via l’hanno cacciato dai tribunali, ove insegnava la giustizia. Perfino dagli ospedali l’hanno cacciato via, dove gli infermi lo cercavano sulle squallide pareti perché lenisse il loro dolore. — In antico, quando un lebbroso s’avvicinava, per bisogno, agli uomini, doveva segnalare la sua venuta col suono della raganella, e chiunque lo udiva, correva lontano, temendo il contagio. Oggi, quando Gesù esce come Viatico dei morenti nelle vie dei nostri paesi, e il chierichetto davanti l’annunzia col suono del campanello, ecco ripetersi l’antica scena di obbrobrio; tutti fuggono, tutti deviano, tutti, se possono, si nascondono dietro i portoni, per non vederlo, per non salutarlo: il Lebbroso! — « Le mie delizie sono tra i figliuoli degli uomini » ha detto il Signore; ma i figliuoli degli uomini ripetono l’urlo di Voltaire: « schiacciamo l’infame »; e i figliuoli degli uomini l’hanno scomunicato dalla loro società. E Gesù è costretto a ritirarsi in solitudine, perché le bestemmie e il turpiloquio offendono pubblicamente le sue sante orecchie, perché una moda sfacciata e scandalosa, ad ogni passo, offende la sua purissima pupilla, quella che pur guardando convertiva i cuori; è costretto a ritirarsi dalle nostre case e dai nostri cuori perché sono diventati luoghi di peccato. « Quid vobis videtur de Christo? ». — Via! via! crucifiggilo — rispondono gli uomini. – 2. IGNORANZA. Quando Giovanni cominciò a battezzare sulle rive del Giordano, a tutti balenò il sospetto ch’egli fosse il Messia. I Giudei da Gerusalemme mandarono una legazione di sacerdoti e di leviti a interrogarlo. Ma il Battista rispose: « Ecco il Messia è già tra voi: e non lo sapete ». Medius vestrum stetit quem vos nescitis (Giov., I, 26). Questo è il rimprovero che meriterebbero ancora non pochi Cristiani. Dite a loro: « Che ve ne pare di Cristo? ». Sgranerebbero gli occhi come a rispondere: « E che ce ne importa? ». Vivono perciò nell’indifferenza della religione, e quando hanno soddisfatto alle brame del loro corpo, non desiderano più nulla. Cristo è venuto sulla terra e per trent’anni col suo esempio, e per tre anni con la sua parola ci ha istruiti: e ci ha detto chi è Dio e quanto ci ama e che vuole da noi e come si fa ad amarlo e servirlo. Ma gli uomini, che pur sanno tante e tante cose per il loro corpo, non sanno nulla per la loro anima. E non desiderano di sapere, anzi non vogliono sapere; e il solo pensiero di ascoltare una predica, una spiegazione della dottrina cristiana, li fa morir di noia. Ignorano Cristo, perché ignorano il suo Vangelo. Cristo è venuto sulla terra nostra e ha istituito mirabili sacramenti, tra cui il sacramento del perdono, che da colpevoli ci ritorna innocenti, da maledetti ci fa figliuoli di Dio. Ha pure istituito il sacramento che nutrisce l’anima di un cibo soprasostanziale, che fortifica e santifica: questo cibo è la carne stessa, il sangue vero di Cristo nell’Eucaristia. Eppure, gli uomini non lo sanno, Non vengono mai a confessarsi, a comunicarsi; solo qualche volta all’anno, e malamente. Ignorano Cristo, perché ignorano i suoi sacramenti. Cristo è venuto sulla terra nostra debole e bambino avvolto in panni, Lui che è Dio d’eserciti; è venuto nel freddo e nelle tenebre, Lui che ha creato il sole ed ogni fuoco; e pativa fame e sete, Lui che ha cibo per ogni uccello dell’aria e per ogni giglio della valle. E poi si lasciò tradire, e volle essere umiliato, crocefisso. Eppure, gli uomini ignorano tutto questo, perché non amano che i piaceri dei sensi, le ricchezze del mondo, il cibo e le vesti. Ignorano Cristo, perché non sanno quanto Cristo ha patito per loro. Perciò ha detto bene S. Giovanni (I, 10) in principio del suo Vangelo; « In mundo erat et mundus eum non cognovit ». – 3. AMORE!. Fortunatamente però ci furono e ci sono anime che alla domanda: « Quid vobis videtur de Christo », rispondono: « Amore ». Da quel giorno che Pietro ruppe in quel grido: «Tu sei il Cristo, figlio di Dio”, una lunga schiera d’anime sante hanno saputo rendere a Cristo testimonianza vera, con sacrificio e con sangue, e soprattutto con amore. Furono dapprima i martiri che morivano per Lui; pallidi e sanguinanti, tra la vita e la. morte, il loro ultimo palpito era, sempre l’amore di Cristo. È santa Caterina d’Alessandria che davanti ai sapienti parla di Gesù; e poiché tentavano di persuaderla ch’era follia, lei ricca e giovane, adorare un povero ed oscuro Nazareno, la coraggiosa fanciulla gridò: « Cristo è Dio; e chi crede in Lui vivrà anche se muore ». E porse il suo vergine corpo ai tormenti del martirio. Vennero poi i vergini e le vergini che per amore di Gesù, rinunziarono ad ogni amore terreno. È sant’Agnese che alla profferta di un giovane nobile e potente rispose ch’ella amava il Signore con tanta forza che più non le restava amor di creatura. È S. Filippo Neri che nella festa di Pentecoste fu preso da un impeto d’affetto così forte per Gesù Cristo, che il suo cuore non seppe contenersi e ruppe due coste. È S. Teresa che nel monastero d’Avila vide un serafino che le punse il cuore con un dardo d’oro dalla punta infuocata: e da quel giorno non visse che per celeste ardore. Desiderava di morir mille volte per convertire i peccatori; piangeva sulla iniquità degli uomini e si flagellava per ripararle; era insaziabile di dolore e ripeteva  sotto i portici del chiostro: O patire o morire. In fine, consumata dal fuoco divino in Alba di Termez morì d’amore per Cristo. Anche ai nostri tempi vivono di queste anime generose e sante, e non sono appena frati e monache; ma anche giovani, come Domenico Savio che preferiva la morte ma non il più piccolo peccato; ma anche uomini, come il professore Contardo Ferrini che si ebbe gli onori dell’altare. E noi, noi che cosa ne pensiamo di Cristo? A parole, certo, tutti diciamo che è Figlio di Dio: ma coi fatti, con la vita nostra quotidiana, che cosa pensiamo di Cristo? Nella notte della passione, il principe dei sacerdoti osò domandare a Cristo cosa egli pensasse di sé. «Ti scongiuro, per Dio vivo, se tu sei figlio di Dio, dillo! ». E Gesù rispose: « L’hai detto ». Allora il principe dei sacerdoti si stracciò i vestimenti. Cristo aggiunse: « Verrà giorno e mi vedrai, seduto alla destra di Dio, giudicare dalle nubi i vivi ed i morti ». In questa vita, come già l’ipocrita Caifa, possiamo pensare quel che vogliamo noi di Cristo. È libero calunniarlo; è libero avvoltolarci nella polvere e nel fango dei vizi, stracciare coi peccati la veste dell’anima che è la grazia santificante. Ma quando lo vedremo sulle nubi, nella maestà, tra gli Angeli, calare verso noi a giudicarci, che cosa potremo pensare di Lui, allora?

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Dan. IX: 17;18;19
Orávi Deum meum ego Dániel, dicens: Exáudi, Dómine, preces servi tui: illúmina fáciem tuam super sanctuárium tuum: et propítius inténde pópulum istum, super quem invocátum est nomen tuum, Deus.

[Io, Daniele, pregai Iddio, dicendo: Esaudisci, o Signore, la preghiera del tuo servo, e volgi lo sguardo sereno sul tuo santuario, e guarda benigno a questo popolo sul quale è stato invocato, o Dio, il tuo nome.]

Secreta

Majestátem tuam, Dómine, supplíciter deprecámur: ut hæc sancta, quæ gérimus, et a prætéritis nos delictis éxuant et futúris.

[Preghiamo la tua maestà, supplichevoli, o Signore, affinché questi santi misteri che compiamo ci liberino dai passati e dai futuri peccati.]

Commemoratio Ss. Angelorum Custodum
Súscipe, Dómine, múnera, quæ pro sanctórum Angelórum tuórum veneratióne deférimus: et concéde propítius; ut, perpétuis eórum præsídiis, a præséntibus perículis liberémur et ad vitam perveniámus ætérnam.

[Accogli, O Signore, i doni offerti in onore dei tuoi santi angeli; e concedici propizio, per la loro continua protezione, di essere salvi dai pericoli presenti e di raggiungere la vita eterna].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXV: 12-13
Vovéte et réddite Dómino, Deo vestro, omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera: terríbili, et ei qui aufert spíritum príncipum: terríbili apud omnes reges terræ.

[Fate voti e scioglieteli al Signore Dio vostro; voi tutti che siete vicini a Lui: offrite doni al Dio temibile, a Lui che toglie il respiro ai príncipi ed è temuto dai re della terra.]

 Postcommunio

Orémus.
Sanctificatiónibus tuis, omnípotens Deus, et vítia nostra curéntur, et remédia nobis ætérna provéniant.

[O Dio onnipotente, in virtù di questi santificanti misteri siano guariti i nostri vizii e ci siano concessi rimedii eterni.]

Orémus.
Commemoratio Ss. Angelorum Custodum
Súmpsimus, Dómine, divína mystéria, sanctórum Angelórum tuórum festivitáte lætántes: quǽsumus; ut eórum protectióne ab hóstium júgiter liberémur insídiis, et contra ómnia advérsa muniámur.

[O Signore, abbiamo ricevuto i divini misteri nella lieta festa dei tuoi santi angeli; concedici che per la loro protezione, siamo sempre liberi dagli assalti dei nemici e difesi contro ogni avversità.]
Per Dóminum nostrum Jesum Christum …

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2022)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Come Domenica scorsa, la lettura dell’Uffizio divino coincide spesso in questo giorno con quella del libro di Giobbe che si suol fare nella 1a e nella 2a Domenica di Settembre. – Continuiamo quindi a leggere i testi del Messale in corrispondenza con quelli del Breviario. Giobbe è la figura del giusto, che il demonio superbo cerca di umiliare profondamente, affinché si rivolti contro Dio. « Lascia che io lo provi, dichiarò satana all’Altissimo, egli ti bestemmierà ». E Jahvè glielo permise, per fare di Giobbe il modello dell’anima che proclama il supremo dominio di Dio e si sottomette interamente alla sua volontà divina. La gelosia del demonio non conobbe allora più freno e fece piombare sullo sventurato Giobbe, con gradazione sapiente, tutte le calamità che ebbero potuto abbatterlo. Pure, benché privo di tutto e coricato sul letamaio, Giobbe non maledisse la mano onnipotente di Dio, che permetteva al demonio di accanirsi contro di lui, ma la baciò umilmente. Il Salmo dell’Introito rende mirabilmente la sua preghiera. « Abbi pietà di me, o Signore, porgi, o Signore, il tuo orecchio, poiché sono misero e povero ». Il Salmo del Graduale è anch’esso « la preghiera del povero quando è nell’afflizione », e i Versetti da 3 a 6: « Sono stato colpito come l’erba, a forza di gemere le ossa mi si sono attaccate alla pelle », sembrano l’eco delle parole di Giobbe che dice: « Le mie ossa si sono attaccare alla pelle, non mi restano che le labbra intorno ai denti » (Vers. 19, 20). Il Salmo dell’Offertorio parla anch’esso «del povero e dell’indigente» che supplica Iddio: « Non allontanare da me le tue misericordie, o Signore, poiché mali senza numero mi hanno circondato. Siano svergognati coloro che insidiano la vita mia » (Versetti 12-14). Infine, l’antifona della Comunione dice: « Piega, o Signore, verso di me, il tuo orecchio! Quante numerose e crudeli tribolazioni mi facesti provare! La mia lingua proclamerà dovunque soltanto la tua giustizia, e questa giustizia mi renderai quando coloro che cercano il mio danno saranno coperti di confusione e di vergogna » (Vers. 2, 20 e 24). Iddio, dicono infatti gli amici di Giobbe, esalta coloro che si sono abbassati, rialza e guarisce gli afflitti. La gloria degli empi è breve e la gioia dell’ipocrita non dura che un momento. Quando anche il suo orgoglio si innalzasse fino al cielo e la sua testa toccasse le nuvole, alla fine egli perirà. Tale è il retaggio che Dio serba agli empi. Essi si sono innalzati per un momento e saranno umiliati. – E Giobbe aggiunge: « Iddio ritirerà il povero dall’angoscia. Dio è sublime nella sua potenza. Chi può dirgli: Hai commesso un’ingiustizia? L’uomo che discute con Dio non sarà giustificato ». Infatti, commenta S. Gregorio, chiunque discute con Dio si mette alla pari con l’Autore di ogni bene; attribuisce a se stesso il merito della virtù, che ha ricevuta, e lotta contro Dio con gli stessi beni di Lui.. È quindi giusto che « l’orgoglioso sia abbattuto e l’umile innalzato » (2° Notturno, 2a Domenica di Settembre). « Chiunque si innalza sarà abbassato e chiunque si umilia sarà rialzato », dice anche il Vangelo di questo giorno. Dio, infatti, dopo aver umiliato Giobbe, lo rialzò, rendendogli il doppio di quanto prima possedeva. Giobbe è una figura di Gesù Cristo, che, dopo essersi profondamente abbassato, è stato esaltato meravigliosamente; è anche figura di tutti i Cristiani, ai quali Iddio darà un posto di onore al banchetto celeste se di tutto cuore avranno praticato la virtù dell’umiltà sulla terra. L’orgoglio, dice S. Tommaso, è un vizio per il quale l’uomo cerca, contro la retta ragione, di innalzarsi al disopra di quello che egli è in realtà; l’orgoglio è quindi fondato sull’errore e l’illusione; l’umiltà, ha, al contrario, il suo fondamento nella verità, ed è una virtù che tempera e frena l’anima, affinché questa non si innalzi al disopra, super, di quello che è realmente (donde il nome di superbia dato all’orgoglio). L’anima umile accetta in piena sottomissione il posto che ad essa si conviene; quel qualsiasi posto che da Dio, verità suprema ed infallibile, le è assegnato. Umiltà nelle parole, umiltà nelle azioni, umiltà nel sopportare le prove e le contraddizioni, è la virtù che Giobbe ci insegna durante tutta la sua vita e che Gesù Cristo ci raccomanda nel Vangelo della Messa di oggi. « Dopo aver guarito l’idropico, dice S. Ambrogio, Gesù dà una lezione di umiltà » (3° Notturno). Vedendo come i Farisei scegliessero sempre i posti migliori, Egli volle farli accorti della loro malattia spirituale e spingerli a cercarne la guarigione; a questo scopo guarì dapprima uno sventurato, che la malattia aveva fatto gonfiare, e cercò quindi, velando la lezione sotto una parabola, di guarire la spirituale enfiagione che affliggeva i convitati presenti e che purtroppo affligge anche la maggior parte degli uomini. – Il mondo è in balìa di tutte le esaltazioni e di tutte le infatuazioni dell’orgoglio, mentre l’umiltà è la condizione assoluta per entrar nel regno dei cieli, ed è questa la virtù che la Chiesa ci inculca nell’Orazione ove dice che la grazia di Dio deve sempre prevenire ed accompagnarci, e che S. Paolo insegna con energia ai Cristiani nell’Epistola di questo giorno. Senza merito alcuno da parte nostra, spiega l’Apostolo agli Efesini, ma unicamente perché serviamo di strumento di lode alla sua gloria, Dio ci ha eletti in Cristo. Allorché eravamo figli della collera, l’Onnipotente, che è ricco di misericordia, ci ha reso la vita in Gesù Cristo, per l’amore immenso che ci porta. Noi tutti, pagani ed estranei alle alleanze conchiuse da Dio col popolo di Israele, siamo stati riavvicinati e riuniti nel Sangue del Redentore, poiché Egli è la nostra pace, Egli che di due popoli ne ha fatto uno solo e per il quale abbiamo, gli unì e gli altri accesso presso il Padre, in un medesimo Spirito. Non siamo più dunque degli estranei, ma dei membri della famiglia divina. E questo non è opera nostra, ma di Dio, affinché nessuno glorifichi se stesso. Gettiamoci dunque ai piedi del Padre nostro, di nostro Signore Gesù Cristo, che è anche Padre nostro, affinché, attingendo nei tesori della sua divinità, sempre di più ci mandi lo Spirito Santo che ha effuso sulla Chiesa nella festa di Pentecoste e che nella fede e nell’amore ci unisce a Gesù, in modo che noi siamo colmati della pienezza di Dio. E chi potrà mai misurare questa carità sconfinata che iddio ci ha manifestata per mezzo del Figlio Suo? Questo amore del Padre per i suoi figli sorpassa infinitamente tatto quello che noi potremmo concepire e domandare a Dio. – A Lui dunque sia gloria in Gesù Cristo e nella Chiesa per tutti i secoli. « Cantiamo al Signore un cantico nuovo, poiché Egli ha operato prodigi » (Alleluia). « Tutte le nazioni temano il nome del Signore, tutti i re della terra annunzino la gloria sua », perché  Dio ha stabilito il suo popolo nella celeste Gerusalemme (Graduale). E questo  popolo che prenderà parte al gran banchetto della visione beatifica, sarà formato di tutti quelli che, rifuggendo da un’orgogliosa ambizione, saranno sempre stati umili sulla terra: Dio li esalterà nella stessa misura in cui essi si saranno con buon volere sottomessi alla sua santa volontà. S. Paolo ha ricevuto da Dio la missione di annunziare ai Gentili che essi, ai pari dei Giudei, sono eletti a far parte del popolo di Dio: elezione gratuita che deve riempirli di un’umile riconoscenza verso il Signore e premunirli contro lo scoraggiamento che è una forma di orgoglio. Per non lasciare un asino o un bue annegare in fondo ad un pozzo, i Giudei non esitavano a fare tutto quello che era necessario per ritirarneli, non ostante il giorno di Sabato in cui ogni opera servile era proibita. Perché dunque il Redentore non doveva poter guarire un ammalato in quel giorno? – « Va, mettiti all’ultimo posto » non vuol dire che il Superiore debba mettersi al di sotto dei suoi subordinati, né esporre la sua dignità al disprezzo; ma egli deve ricordare queste parole dei Sacri Libri: « Quanto più sei grande, tanto più devi mostrarti umile in tutte le cose e troverai grazia davanti a Dio » (Eccl. III, 20).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.

R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.

M. Misereátur nobis omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.

S. Amen.

S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.

R. Amen.

Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXXV: 3; 5
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].


Ps LXXXV: 1
Inclína, Dómine, aurem tuam mihi, et exáudi me: quóniam inops, et pauper sum ego.

[Porgi l’orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi, perché sono misero e povero].

Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Orémus.
Tua nos, quǽsumus, Dómine, grátia semper et prævéniat et sequátur: ac bonis opéribus júgiter præstet esse inténtos.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes III: 13-21

Fratres: Obsecro vos, ne deficiátis in tribulatiónibus meis pro vobis: quæ est glória vestra. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis et in terra nominátur, ut det vobis secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo et longitúdo et sublímitas et profúndum: scire etiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei. Ei autem, qui potens est ómnia fácere superabundánter, quam pétimus aut intellégimus, secúndum virtútem, quæ operátur in nobis: ipsi glória in Ecclésia et in Christo Jesu, in omnes generatiónes sæculi sæculórum. Amen.

[“Fratelli: Vi scongiuro di non perdervi di coraggio a motivo delle tabulazioni che io soffro per voi. Esse sono la vostra gloria. Perciò io piego i ginocchi davanti al Padre del Nostro Signore Gesù Cristo, dal quale prende nome ogni famiglia, in cielo e in terra, affinché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore: che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori, affinché, profondamente radicati e fondati nella carità, possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità; e d’intendere anche quell’amore di Cristo che sorpassa ogni coscienza, di modo che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. A Lui che, secondo la possanza che opera in noi, può tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo e pensiamo: a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni di tutti i secoli”.]

PIENI DI DIO IN GESU’ CRISTO.

Una delle cose più stupende, e, se volete anche strane, quando ci facciamo a studiare bene l’uomo, è la sua estrema elasticità. Gli animali sono quel che sono, tutti: i buoi tutti lenti, gravi; i cervi tutti veloci; i leoni tutti crudeli, e gli agnelli tutti mansueti. Ma l’uomo… l’uomo è capace di assumere gli atteggiamenti più diversi, più contrari. Può andare da un estremo all’altro. Un trasformismo fenomenale. Possiamo purtroppo abbrutirci, e quanti uomini si abbrutiscono! Potrebbero essere degli uomini e diventano animali e peggio. S. Paolo l’afferma nettamente l’esistenza di questo « animalis homo.» E’ l’uomo che discende la scala dell’abisso. Si abbrutisce nel pensiero, che non è più pensiero, ricerca faticosa, conquista umile della verità, ma schiavitù dei sensi, superficialismo di impressioni molteplici e varie. Pensa e ragiona come una bestia: cioè non pensa, non ragiona più; urla, non parla. Si abbrutisce l’animalis homo, nel cuore corrotto e violento. Nessun battito generoso più, ma bramiti come di belva. Sogni, compiacenze voluttuose: il fango. Oppure la crudeltà: la belva accanto al bruto; col fango il sangue. La guerra e il dopoguerra hanno moltiplicate queste dolorose esperienze di crudeltà feroce, di ferocia bestiale. Abbiam visti uomini capaci di far paura alla bestia. Artigli, zanne, occhi iniettati di sangue. E per queste vie trionfali di discesa, si direbbe non ci sia limite. Si può andare, e si va sempre più in giù, e ci si abbrutisce sempre più. Tutto questo bisognava ricordare, bisogna meditare per comprendere l’altro moto diametralmente contrario. L’uomo può angelicarsi, mi direte voi. Ciò, vi dico con San Paolo, è ancora poco, troppo poco per il Cristiano, il quale, invece, può e deve divinizzarsi. Dal fango a Dio. Sicuro, è il programma del Cristianesimo, di quel Cristianesimo che davvero atterra e suscita questa povera umanità. L’atterra nella polvere davanti a Dio, la umilia profondamente, ci proclama peccatori, guasti; corrotti, figli di ira, vuole che ci mettiamo in ginocchio, che ci mostriamo davanti a Lui. « Venite adoremus. » Ma ci esalta, perché ci scopre la nostra origine e razza divina, ci dà il diritto di chiamarci, e il potere di diventare figli di Dio, di divinizzarci. Meditiamo pure bene, meditiamo spesso questi contrasti. L’umanità è cattiva, peccatrice, ci insegna il Cristianesimo, ed eccoci nella polvere della abbiezione. E, a parte che dobbiamo stare in ginocchio, colla faccia a terra, perché siamo peccatori, dovremmo starci ginocchioni così, prostrati così davanti a Dio, perché siamo uomini, povere creature di Dio, scintille davanti a un incendio, gocce di fronte al mare. È questo il preludio del dramma, non è il dramma. Il dramma è l’esaltazione sino a Dio. L’eritis sicut Dei, che suonò audace bestemmia sulle labbra del demone, suona dolce invito sulle labbra di Gesù Cristo. « Estote perfectì sicut Pater vester coelestis perfectus est. » Gesù non invita all’impossibile; se mai, ci invita all’impossibile, rendendolo possibile. Dobbiamo diventare come Dio in ciò che Dio ha di più tipico, di più suo, di più caratteristico: la bontà.«Nemo bonus nisi unus Deus:» ma anche noi dobbiamo diventare buoni, anzi perfettamente buoni (estote perfecti), come Lui, come Dio. Non si può andare più in là, più in su. Ma San Paolo adopera un linguaggio ancor più espressivo, più enfatico, direi, se la parola enfasi non portasse con sé l’idea della esagerazione. Paolo vuole che ci riempiamo noi Cristiani, ci riempiamo di Dio, anzi, per usare proprio la sua frase, d’ogni pienezza divina.Quanti sono i Cristiani pieni di Dio? Ne conosco tanti pieni di ben altre cose, di vanità, d’orgoglio, di avarizia, di viltà, di invidia… ma pieni di Dio! Cerchiamo di fare noi questo miracolo in noi stessi, coll’aiuto di Dio, nel nome di Cristo.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.

[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore, e tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua.

[Poiché il Signore ha edificato Sion e sarà veduto nella sua maestà.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps XCVII: 1
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit Dóminus. Allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo: perché Egli fece meraviglie. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV: 1-11
In illo témpore: Cum intráret Jesus in domum cujúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Jesus dixit ad legisperítos et pharisæos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cujus vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

[“In quel tempo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno de’ principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti. E Gesù rispondendo prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: È egli lecito di risanare in giorno di sabato? Ma quelli si tacquero. Ed egli toccandolo lo risanò, e lo rimandò. E soggiunse, e disse loro: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato? Né a tali cose poterono replicargli. Disse ancora ai convitati una parabola, osservando com’ei si pigliavano i primi posti dicendo loro: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché a sorte non sia stato invitato da lui qualcheduno più degno di te: e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedi a questo il luogo; onde allora tu cominci a star con vergogna nell’ultimo posto. Ma quando sarai invitato va a metterti nell’ultimo luogo, affinché venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti fia d’onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato; e chi si umilia sarà innalzato”.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

IL MANSUETO

Con tutta probabilità, l’invito a pranzo che, in quel sabato, i Farisei offersero a Gesù era un ignobile tranello. Infatti, entrato nella sala, si trovò davanti a un poveretto, ammalato d’insanabile idropisia: Gesù s’accorse che il capoccia e gli altri commensali gli tenevano gli occhi addosso. Nelle loro pupille bieche traspariva la malvagia disposizione dell’interno del cuore: guarire una malattia generalmente tenuta per incurabile non era la cosa più facile; dato poi il caso che riuscisse a guarirla, quello era giorno di sabato, e allora l’avrebbero accusato come un violatore della gran legge del riposo. Che razza d’abbietti! usare della miseria e della vergogna umana per una segreta e bassa mira! Perché Iddio non li ha travolti con un vento furioso? Perché non li ha sbranati come un leone? Per insegnarci che non è gloria per il leone sbranare un branco d’agnelli, ma gloria è per un agnello trionfare di un branco di leoni. Ecco perché il mansueto Figlio di Dio si rivolse a loro che sapevano a memoria il codice mosaico e disse: « Ditemi, per piacere, è lecito o no curare gli ammalati in sabato? ». Silenzio perfetto. Di quei dottoroni nessuno rispose. Gesù allora prese dolcemente nella sua la mano del sofferente e lo guarì. Mentre il miracolato se ne andava lietissimo, riprese a domandare: « Se un vostro asino o un vostro bue in sabato cadesse nel pozzo, chi di voi lo lascerebbe affogare dentro? ». Ancora silenzio perfetto. Di quei dottoroni nessuno poteva rispondere, senza tirarsi la zappa sui piedi. Intanto era venuto il momento di mettersi a tavola, e Gesù osservava come alcuni s’affannavano per sospingersi ai posti d’onore. Ne approfittò per contare la succosa paraboletta di un certo invitato a nozze che s’era messo al primo posto, ma al sopraggiungere di un personaggio altolocato fu costretto dal padrone, a tirarsi indietro, così dovette finire pien di vergogna dopo tutti. Di tre cose parla dunque il brano evangelico di questa domenica: del sabato, dell’idropico, dell’invitato a nozze. Ebbene da ognuna di esse possiamo ricavare il medesimo insegnamento: la mansuetudine. Attendete. Non fu tutto mansuetudine il contegno di Gesù coi maligni Farisei nella subdola questione del riposo sabbatico? E l’idropsia che gonfia le vene, il corpo e fa tumultuoso il battito del cuore, non è simile all’ira che gonfia l’anima e getta in tumulto il nostro intimo? Perché il miracolo dell’idropico guarito è un invito a guarire dall’ira. Infine la paraboletta di chi volle occupare il primo posto e fu mandato all’ultimo, indirettamente, con l’invito all’umiltà, non essa pure c’inculca la mansuetudine? Infatti, la dolcezza e l’umiltà sono sorelle mai l’una dall’altra disgiunte, come pure la collera è sorella della superbia. Non c’è uomo dolce, se in cuor suo non tace la passione dell’alterigia, come non c’è bonaccia in mare se il vento non posa. Allora lasciate ch’io condensi tutta l’esortazione pratica di stavolta in quelle parole dell’Agnello divino: « Imparate da me che sono umile e mite di cuore ». Cristiani, due pensieri adunque vi proporrò: non adiratevi! non provocate all’ira. – 1. NON ADIRATEVI. Un famoso medico pagano di nome Galeno vide sulla soglia d’una casa un uomo iroso, proprio nella raffica della sua passione. Aveva gli occhi sanguigni e stralunati, agitava tutta la persona come un epilettico, e con labbra livide e tremante vomitava contro il cielo una grandinata d’orribili giuramenti e di bestemmie atroci. Di tanto in tanto taceva, ma la sua bocca era convulsa e il suo petto mandava gemiti come di un toro ferito. Galeno fu preso da un tremito d’orrore poiché gli sembrava che quello non era più uomo ma una bestia selvaggia, e concepì tale avversione per la collera che in tutta la sua vita non gli sfuggì uno scatto d’ira. Se la ragione è ciò che distingue gli uomini dalle bestie, dobbiamo conchiudere proprio che l’ira ci trasforma in bestie poiché appunto ci priva della ragione. E magari per una vera inezia. Il collerico si mette a scrivere: la penna scricchiola e non lascia inchiostro. Niente di straordinario, eppure già è diventato rosso come una fragola, già trema, già tutto va per aria, foglio penna e calamaio. Il collerico apre un uscio: la chiave s’intoppa e non gira. Niente di straordinario, eppure digrigna i denti stizzosamente, picchia i piedi, si slancia da forsennato contro la porta, la batte coi pugni. Il collerico siede a tavola: alla prima cucchiaiata s’accorge che la minestra è insipida. Una sbadataggine della moglie, ma presto rimediabile; basterebbe aspergerla con sale raffinato. Invece è una cateratta di parole ingiuriose, d’imprecazioni, di bestemmie ed infine, come conclusione, scaglia la scodella contro la parete e la posate sul pavimento. I bambini impauriti si sono rifugiati dietro la porta e piangono. Basta di questi incresciosi episodi: intanto pensiamo che vita penosa nella case del collerico! Se poi di carattere furioso è la donna, allora ha ragione lo Spirito Santo che è meglio scappare nel deserto. Melius est habitare in terra deserta, quam cum muliere rixosa et iracunda (Prov., XXI, 19). Intanto pensiamo ai mali esempi, ai danni materiali, alle inimicizie, ai disordini che provengono dall’ira. Pensiamo soltanto alle infinite bestemmie che ogni giorno salgono a provocare la vendetta di Dio, le quali tutte sono male erbe nate nel campo dell’iroso. Prevengo un’obbiezione. « Capisco che non vado bene — dice il collerico — ma io son fatto così ». « Sei fatto così, ma devi correggerti ». « È impossibile!… ». « Non è vero; altri più di te infelici nel carattere sono diventati mansuetissimi, quindi anche tu, se vuoi, puoi modificarti. E se lo vuoi veramente usa questi tre mezzi: la preghiera, perché niente di buono possiamo compiere senza l’aiuto dall’Alto; lo sforzo quotidiano ed energico per dominare te stesso, perché il Cielo t’aiuta se t’aiuti; infine, la frequente Confessione, la quale t’obbligherà a ripensare le tue mancanze e a detestarle e t’infonderà nuovo coraggio. E poi aggiungo un consiglio indispensabile! non dire né fare nulla mentre sei agitato dall’ira, perché quando il sangue bolle l’occhio è turbato, la mente è nuvolosa e non parleresti né agiresti con assennatezza. Archita, filosofo di Taranto, rincasando una sera udì dal fattore i malestri compiuti da alcuni servi e montò sulle furie. « Che debbo fare? » chiese il fattore. « Se non fossi adirato, — soggiunse il filosofo — li farei battere tutti a sangue. Ma torna domattina, e ti darò gli ordini opportuni ». Saggia risposta! Ed ancora state attenti di non sgridare, né castigare i vostri figliuoli nei momenti di furia: non sapreste conservare il giusto mezzo, e la riprensione non otterrebbe lo scopo. Lasciate sbollire la collera, poi vedrete meglio l’entità dello sbaglio e il castigo adatto a punirlo. Racconta Seneca che Platone, una volta, si lasciò sorprendere da un colpo di rabbia contro il suo schiavo ed afferrò lo staffile. Ma come s’accorse d’essere adirato, rimase con la mano sospesa in atto di colpire ma immobile come una statua. Proprio in quel momento gli capitò in casa un amico: « Che fai?» gli disse meravigliato. « Sto aspettando che mi passi la rabbia » rispose Platone (De ira; lib. III, cap. 12). – 2. NON PROVOCATE ALL’IRA. Quando le palle di cannone incontrano il soffice non esplodono e si fermano innocue. Ecco perché durante la guerra con imbottiture di lana e con sacchetti di sabbia si difendono i monumenti d’arte dagli obici degli avversari. Non diversamente è nella vita: se voi circondate l’uomo collerico con la vostra dolcezza, egli è disarmato ed innocuo. Aggiungerò un’altra similitudine. Quando Davide vedeva il re Saul in preda a furore come un indemoniato, in silenzio, in quiete prendeva l’arpa e ne traeva dolcissimi accordi. Man mano le note s’alzavano tremule nell’aria, Saul le sentiva come gocce di rugiada cadere sull’arsura della sua anima, le sentiva come gocce di balsamo diffondersi in lenimento de’ suoi bruciori. Non diversamente è nella vita: se nella vostra casa, se nel vostro vicinato, se nella vostra officina c’è un carattere furioso, placatelo con la soave musica della vostra dolcezza: È dolcezza mantenere con tutti la bontà del cuore e delle azioni; non porgere stimoli all’ira altrui con risposte scortesi o maligne; soffrire con pazienza le ingiurie; e soprattutto tacere, tacere, tacere. Un gentiluomo di Ginevra l’aveva a morte col Vescovo della città, S. Francesco di Sales, e non sapeva ormai che cosa inventare a sfogo della sua verde bile. Un giorno corse al vescovado con tutti i suoi cani e i servitori, gli uni perché abbaiassero e gli altri perché insultassero. Fu un baccano d’inferno, ma nessuno venne alla finestra. Allora egli stesso, salì in camera del santo e vomitò contro di lui ogni più barbara specie d’ingiurie. Il Vescovo l’ascoltava senza far querela; ma il suo nemico interpretando quel silenzio per disprezzo raddoppiò la foga, e non potendone più se ne venne via. Gli amici di S. Francesco, che avevano assistito alla scenata, gli chiesero come avesse potuto tacere. Rispose il santo: « Abbiam fatto un patto, la mia lingua ed io: si è convenuto che fin tanto che il cuore è agitato dalla bocca non esca verbo ». Questo medesimo patto devono concluderlo tutte le donne che hanno il marito iroso; tutti gli uomini che hanno la moglie collerica; tutti quelli che hanno in casa una suocera o una nuora, un cognato o una cognata facili all’ira. E poiché siamo tutti — più o meno — suscettibili d’iracondia, tutti dobbiamo fare il patto che San Francesco fece con la sua lingua: saper tacere. Allora, o Cristiani, in ogni nostra famiglia avverranno quei miracoli di trasformazione che S. Agostino dice avvenuti nella sua famiglia per opera di Monica sua madre. Si era Monica sposata con Patrizio, di religione infedele, di professione soldato, di costume barbaro. Oltre ad alcuni bei difettucci, il padre di S. Agostino era un tipo collerico. « E Monica al vederlo in furia cedevagli, e né con fatto né con parola contrastava alla sua ira. E se in collera fosse montato a torto, lasciatolo calmare, coglieva il destro opportuno per ammonirlo del suo modo di fare. « Accadeva talvolta che molte signore, che pur avevano mariti più discreti, imbattendosi a discorrere insieme, si querelavano in confidenza dei mali trattamenti dei mariti loro, e documentavano la verità mostrando il volto ammaccato da battiture. E Monica, benché scherzevole in sembianti, con serietà le avvisava: « Tal sia di voi; è la vostra lingua che ve le tira… ». « Monica ebbe anche a fare colla suocera, la quale messa su dalle serve, era intrattabile e faceva dispetti e scenate ad ogni cosa di lei. Ma la buona nuora tutto in silenzio in mansuetudine sopportava, e tanto le si pose intorno con ossequio e cortesia, che alla fine se la rese amica. « D’altra bella qualità tu, o Signore, avevi fornita quella buona ancella di mia madre, cioè il metter pace da per tutto ovunque lo potesse. Interveniva spesso che delle donne rissose venivano a lei; e l’una, assente l’altra, garriva e gettava fuori le più nere calunnie contro l’avversaria, quali appunto sa far vomitare la stizza e  discordia sobbollita. E Monica prudentissima non ne manifestava all’altra se non quanto valesse a ricomporre gli animi e a ritornare la pace. Questo io non lo avrei a gran merito, se con molto dolore, non mi toccasse tutto di vedere gente senza numero, presa da malignità pestilente e rovinosa, non solo rapportare male dall’uno all’altro, ma aggiungervi anche a bella posta cattivezze e tristizie, per fare maggior ira. Orrenda cosa e contraria alla natura!» (Le confessioni, lib. IX, Cap. IX). – Non v’è ignota lo storia di Giuseppe ebreo, quello che fu venduto ai mercanti d’Egitto, e divenne vicerè. Poi che i suoi fratelli sospinti dalla carestia andarono in terra egiziana a comprare frumento, egli dopo averli messi alla prova, li colmò di doni e li rimandò alla casa del vecchio padre con queste parole: «Non adiratevi lungo il viaggio » Ne irascamini in via. Anche Gesù, o Cristiani, oggi vi dice lo stesso. Questo viaggio non è che la mia strada che dobbiamo fare per giungere alla casa dell’eterno nostro Padre, il Cielo. Non adiriamoci dunque gli uni contro gli altri nel cammino della vita, ma tutti uniti nel vincolo della fede e dell’amore, andiamo in pace verso la beata eternità.Nella sala del convito erano rimasti in piedi, con gli occhi sbarrati sul nuovo miracolo che Gesù aveva operato. Un povero idropico gli si era messo davanti sulla soglia invocando la guarigione: il Salvatore l’aveva toccato e sanato in un attimo. Passato il primo stupore, tutti pensarono al banchetto ed ecco molti affannarsi per correre a sedere nei posti migliori. Gesù li osservava. Poi, non tanto per insegnare una regola di civiltà esteriore, quanto per inculcare a’ suoi fedeli la fuga dell’ambizione ed esortali, non solo a star contenti degli ultimi posti, ma ad amarli e preferirli con sincera umiltà, disse questa parabola: « Se mai ti capiterà la fortuna di essere invitato a un pranzo di nozze, non correre a sedere nel primo posto. Può darsi che sia già stato invitato qualcuno più degno di te; e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: — Ritirati indietro. — Che figura allora per te dover lasciare in faccia a tutti il primo posto e andare a sedere in uno degli ultimi! Meglio allora, se t’avverrà d’andare a nozze, che tu ti metta a sedere all’ultimo posto. Il padrone, scorgendoti in luogo umile, ti dirà: — Amico, vieni più in su. — Che onore allora per te, esser condotto dallo stesso padrone, in faccia a tutti, a sedere al primo posto! « Chiunque s’innalza sarà abbassato, concluse Gesù, e chiunque s’abbassa sarà innalzato ». Questa non è soltanto la conclusione della parabola, ma può stare a conclusione di tutto il Vangelo. – La rovina degli uomini venne dalla superbia, quando Adamo in una follìa, che solo il demonio poteva rendere credibile, accettò il frutto proibito sperando di diventar uguale a Dio. La nostra salvezza, dunque, non ci poteva venire che dall’umiltà. Di umiltà fu il primo atto di redenzione: Dio che si fa uomo. Di umiltà la prima parola di Gesù quando dalla montagna promulgò la legge nuova: « Beati i poveri di spirito perché il regno dei cielo è loro ». Di umiltà è il modello che dobbiamo seguire: « Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore ». Non disse, come osserva S. Agostino, imparate da me a fabbricare i cieli e la terra; imparate da me a non mangiare né bere per quaranta giorni; imparate da me a risanar gli infermi, a scacciare i demoni, a risuscitare i morti, o far altre cose prodigiose; ma imparate, disse, da me ad essere mansueti ed umili di cuore. Discite a me quia mitis sum et humilis corde (Mt., XI, 29). Si può fare miracoli, e finire all’inferno; ma nessun umile di cuore verrà escluso dal paradiso, perché il paradiso è dei piccoli. Ma non è della bellezza dell’umiltà, non è de’ suoi vantaggi che io voglio parlarvi; ma è soltanto di alcune contingenze pratiche della vita in cui si distingue chi è umile, da chi è superbo. – 1. VINCERE IL RISPETTO UMANO. A Pollone, paese del Piemonte, durante una Messa festiva, mancando il sacrestano, era passato tra la folla un giovane distintissimo, figlio d’un senatore, studente universitario, con la borsetta a ritirar l’elemosina. Nell’uscir dalla chiesa, mentre i fedeli sfollavano, qualcuno gli si avvicinò e gli disse: « Oh, Pier Giorgio, sei diventato un bigotto! » E quel giovane, che è morto nel fior della vita e nel profumo delle santità, rispose semplicemente: « Non sono diventato niente. Sono rimasto quel che ero: un Cristiano ». Che cosa siamo noi? Ricchi e poveri, sapienti e ignoranti, re e sudditi, tutti siamo creature di Dio. Perché dobbiamo aver vergogna di umiliarci davanti a Lui che ci creò, perché dobbiamo aver rossore di compiere per Lui, anche i più umili uffici? Quei che si lasciano vincere dal rispetto umano sono superbi: ci tengono al giudizio della gente, hanno paura di essere presi come bigotti, come ignoranti, come persone di poco spirito. Per me, Davide non riesce mai così simpatico come quando me lo immagino danzare davanti all’Arca. Si doveva condurre l’Arca dalla casa di Obededon levita fino a Gerusalemme, e Davide organizzò un ingresso trionfale. Sette cori cantavano inni di lode, e ad ogni sei passi dal s’immolava un bue e un montone. Intanto davanti all’Arca Davide il re, deposte le insegne regali e vestito di un ephod di lino, saltava con tutte le sue forze come un fanciullo. Et David saltabat totis viribus ante Dominum (II Re VI, 14). Quando ritornò a casa, Michol, che l’aveva spiato dalla finestra, gli disse con pungente disprezzo: « Come stava bene oggi il re, danzante in faccia ai suoi sudditi come un buffone! » Ed il re le rispose fieramente: « Al cospetto del Signore, il quale elesse me piuttosto che tuo padre a capo d’Israele, io danzerò ancora di più; ancora di più mi avvilirò e sarò umile! ». Dei Cristiani che ragionano come Michol, ve ne sono ancora. Quanti non vogliono inscriversi alle associazioni e nelle confraternite, per non portare la candela nella processione, per non rivestire la divisa benedetta! Siamo umili, Cristiani! Il mondo ci chiami pure buffoni « Unus de scurris ». Davanti a Dio è gloriosissimo essere anche buffoni. – 2. ACCETTARE LE CORREZIONI. Serapio, il famoso santo del deserto si vide un giorno comparire un certo monaco che quasi ad ogni parola si chiamava peccatore. Il santo allora, dopo averlo fatto sedere alla sua mensa ospitale, si permise di fargli alcune osservazioni per il bene della sua anima. « Figliuolo — gli disse con grande dolcezza e carità — sei sulla via giusta. Però se vuoi progredire nella perfezione, non andar troppo in giro di qua e di là: rimani ritirato nella tua cella, attendendo all’orazione, al lavoro, al raccoglimento interno, altrimenti… ». Non poté finire, perché il monaco s’era fatto cupo, e tentava di rispondere malamente come fosse stato insultato. « Fratello mio, — disse al monaco — ti manca tutta l’umiltà ». Provate voi, a far la medesima correzione, a una donna, a una fanciulla: « Anima del Signore, sei sempre fuori di casa: di mattina, di mezzogiorno, di sera, sprechi ore e ore oziando, cianciando inutilmente… ». Basta un’osservazione di queste per suscitare una lite in tutta la contrada. Per essere umili non basta aver il coraggio, e ce ne vuol poco in questo caso, di manifestar alcuni nostri difetti, ma bisogna aver il coraggio di sentirseli dire dagli altri, e senza perdere la pazienza, ma con animo tranquillo, anzi riconoscente. Mancano quindi d’umiltà quei Cristiani che, quando il prete fa delle osservazioni nelle prediche, per tutto il giorno e per altri ancora, non fanno che mormorare. Mancano d’umiltà quelle mogli che non accettano correzioni dal marito; quelle nuore che non le accettano dalla suocera. Mancano d’umiltà quei figli, e quelle figlie anche, che, ai genitori che li avvisano in bene, hanno la sfrontatezza di rispondere: « I vostri consigli teneteli per voi, ho la mia età ». – 3. PERDONARE FACILMENTE. Al cominciar della quaresima del 1076, come in tutti gli anni in quel tempo, il papa Gregorio VII teneva un sinodo. Erano convenuti moltissimi perché si dovevano trattare affari importanti e prendere urgenti deliberazioni contro l’imperatore Enrico IV che perfidamente angariava la Chiesa. Mentre tutti già erano adunati, entrò un messo dell’imperatore, Rolando. Costui aveva offeso più volte e crudelmente il cuore del Papa: lo aveva chiamato odioso tiranno, aveva sparso nel popolo la voce ch’egli non era il sommo pastore di Cristo, ma il lupo feroce. Come lo videro comparire, i presenti, indignati, scattarono e con le spade e i pugnali si lanciarono sopra quel tristo per trafiggerlo: ma il Papa, ch’era un santo, in una mossa fulminea era disceso dal trono e si mise tra le spade e il colpevole, coprendolo con la sua persona. « Rolando » gli diceva in mezzo al tumulto, « son io che ti salvo e ti perdono. E tu pentiti, che ti possa perdonare anche Iddio ». Quanta umiltà d’animo! Il papa Gregorio VII era stato offeso nel modo più atroce e nel modo più ingiusto: eppure non aspetta che l’altro domandi perdono, è lui il primo che spontaneamente glielo concede, e lo salva dalla morte. Eppure, ci sono moltissimi Cristiani che vivono per anni ed anni, covando in cuore un odio terribile, e desiderando l’ora della vendetta. — Io non posso perdonare, il mio onore non me lo permette — rispondono alcuni. — Ma se perdona anche Iddio? dunque voi vi credete più in alto che Dio stesso. — Ma l’offesa che m’ha fatto è troppo grave. — Considerate con occhi d’umiltà questa vostra offesa, e vedrete che il Signore ne ha perdonato a voi di ben più gravi. È la vostra superbia che vi gonfia come un pallone un torto da nulla. — Sì, io gli perdono, ma deve venire a domandarmi scusa in ginocchio… — Ma questo è un perdono che tutti sanno dare; anche i pagani sanno perdonare così. — Sì, io perdono; ma però il torto che m’ha fatto non lo dimenticherò mai; non avrà più da me una parola. — Tutta superbia: le anime umili perdonano facilmente, dimenticano subito le offese, e beneficano di preferenza quelli da cui ricevettero qualche male. – 4. PREGARE CONTINUAMENTE. Dio è tutto. Noi siamo nulla. Quando Sansone, cedendo alle insidie d’una donna, perse coi capelli la grazie di Dio, divenne debole come un bambino, ed i fanciulli stessi se ne facevano ludibrio. Talvolta lo sorprendevano a dormire, o assorto nel dolore della sua abbiezione, e improvvisamente gridavano: « Sansone, levati! levati! ti sono sopra i Filistei. » Egli si levava, imponente come una torre, credeva di abbatterli tutti con un pugno gli eserciti dei Filistei, e invece s’accorgeva che tutta la sua forza lo aveva abbandonato, e non avrebbe più saputo far male a un passero. E tornava ad accasciarsi disperatamente. Come mai, giovanetto ancora, s’era avventato sopra un leone, e afferrandolo per la gola l’aveva squartato in un colpo? Come mai con un osso d’asino era riuscito a sgominare un esercito armato di spada e di scudo? Come mai un mattino, da solo, aveva sconficcato dai cardini le porte di Gaza e con quelle era corso sul monte? Per la grazia di Dio. E senza la grazia di Dio? Non ha potuto far nulla. Così anche noi, Cristiani. Tutto quello di buono che siamo o che facciamo è solo per la grazia di Dio. Dunque, bisogna continuamente invocarla questa grazia: ogni mattina, ogni sera; quando lavoriamo, quando mangiamo; mentre godiamo, mentre soffriamo; nella preghiera e nella tentazione. – Gesù camminava davanti, solo: forse pregava. Intanto dietro gli Apostoli litigavano, discutendo chi di loro doveva essere il primo nel regno dei cieli. Forse Giovanni, il prediletto, ch’era il più giovane? Forse Andrea che fu uno dei primi a seguire Gesù? Forse Pietro ch’era costituito capo dei dodici? Forse Giuda che teneva il danaro per tutti? Gesù li sentì, e volgendosi disse: « Gli ultimi saranno i primi ». O Cristiani! chi di noi ascenderà più in alto in paradiso? chi di noi sarà il primo nel regno dei cieli? Non il più ricco, non il più sapiente, non il più bello, ma il più umile: l’ultimo.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 14; 15
Dómine, in auxílium meum réspice: confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam: Dómine, in auxílium meum réspice.

[Signore, vieni in mio aiuto: siano confusi e svergognati quelli che insidiano la mia vita per rovinarla: Signore, vieni in mio aiuto.]

Secreta

Munda nos, quǽsumus, Dómine, sacrifícii præséntis efféctu: et pérfice miserátus in nobis; ut ejus mereámur esse partícipes.

[Purificaci, Te ne preghiamo, o Signore, in virtù del presente Sacrificio, e, nella tua misericordia, fa sì che meritiamo di esserne partecipi].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei,

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXX: 16-17;18
Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus: Deus, docuísti me a juventúte mea: et usque in senéctam et sénium, Deus, ne derelínquas me.

[O Signore, celebrerò la giustizia che è propria solo a Te. O Dio, che mi hai istruito fin dalla giovinezza, non mi abbandonare nell’estrema vecchiaia.]

Postcommunio

Orémus.
Purífica, quǽsumus, Dómine, mentes nostras benígnus, et rénova coeléstibus sacraméntis: ut consequénter et córporum præsens páriter et futúrum capiámus auxílium.

[O Signore, Te ne preghiamo, purifica benigno le nostre anime con questi sacramenti, affinché, di conseguenza, anche i nostri corpi ne traggano aiuto per il presente e per il futuro].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2022)

XV DOMENICA DOPO PENTECOSTE. (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La Lezione dell’Ufficio in questo giorno coincide spesso con quella del libro di Giobbe. Questo pio e ricco signore del paese di Hus, dapprima ripieno d’ogni bene, fu colpito dai mali più spaventosi che si possono quaggiù immaginare. « satana, dicono le Sacre Scritture, si presentò un giorno avanti a Dio e gli disse: Circuivi terram, ho percorsa tutta la terra e ho visto come hai protetto Giobbe, la sua casa, le sue ricchezze. Ma stendi la tua mano su di lui e tocca quello che possiede e vedrai come ti maledirà. Il Signore gli rispose: Va: tutto quello che lui possiede è in tuo potere, ma non togliergli la vita. E satana uscì dal cospetto del Signore. E ben presto Giobbe perdette il bestiame, i beni, la famiglia e fu colpito da satana con un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi fino alla testa ». E Giobbe, disteso su un letamaio, fu costretto a togliere il putridume delle sue ulceri con un coccio » La Chiesa, pensando alla malizia di satana, ci fa domandare di essere sempre difesi contro gli assalti del demonio, contra diabolicos incursus (Segr.). satana ha l’impero della morte e, se Dio lo lasciasse fare, dicono i Padri, egli toglierebbe a tutti gli esseri la vita che posseggono. S. Paolo definisce una sua malattia: «L’angelo di satana che lo colpisce «. Ed il demonio, dice la S. Scrittura, riduce Giobbe a un punto tale, che il santo uomo può gridare: « Il soggiorno dei morti è diventato la mia dimora, io ho preparato il mio giaciglio nelle tenebre, e ho detto al marciume: tu sei mio padre; alla putredine: madre mia, sorella mia. (XVII, 14). Le mie carni si sono consumate come un vestito roso dai tarli, e le mie ossa si sono appiccicate alla mia pelle ». Così la Chiesa applica ai Defunti il disperato appello che Giobbe fece allora ai suoi amici: « Abbiate pietà di me almeno voi, o amici, poiché la mano del Signore m’ha colpito «. Ma il suo appello rimase senza risposta; Giobbe allora si rivolse verso Dio e gridò con una salda speranza: « Io so che il mio Redentore vive e ch’io risusciterò dalla terra l’ultimo giorno; che sarò di nuovo rivestito della mia pelle e nella mia carne rivedrò il mio Dio. Lo vedrò io stesso e i miei occhi lo contempleranno: questa speranza riposa nel mio cuore ». E Giobbe descrive la gioia con la quale ascolterà un giorno la voce di Dio che lo chiamerà a una vita nuova: « Tu mi chiamerai e io ti risponderò, tu stenderai la tua destra verso l’opera delle tue mani ». – « Il Signore, mettendo fine ai mali che lo travagliavano, gli rese il doppio di quello che possedeva prima e lo colmò di benedizioni più negli ultimi anni di vita che non nei primi ». — La Chiesa, raffigurata in Giobbe, domanda a Dio « di essere purificata, protetta, salvata e governata da Lui » (Oraz.). Col Salmo dell’Introito essa dice: « Rivolgi, o Signore il tuo occhio verso di me ed esaudiscimi, che io sono povera e mancante di tutto (Versetto 1°). Signore, abbi pietà di me, che ho gridato verso di te tutto il giorno. Vieni alla mia anima che io ho elevata fino a te (Versetto 4°). Io ti loderò, o Signore, poiché mi hai liberato dall’inferno più profondo (Versetto 13°)». Col Salmo dell’Offertorio essa aggiunge: « Io ho atteso il Signore con perseveranza, ed Egli infine si è volto verso di me, ha esaudita la mia preghiera e ha messo sulle mie labbra un cantico nuovo ». Questo cantico è quello delle anime cristiane risuscitate alla vita di grazia. « È bello, esse dicono, lodare il Signore e annunciare la sua grande misericordia » (Grad.). « Sì, davvero il Signore è il Dio onnipotente, il Gran Re che regna su tutta la terra » (All.).L’Epistola di S. Paolo è intieramente consacrata alla vita soprannaturale che lo Spirito Santo dà o rende alle anime. « Se noi viviamo per lo Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito », cioè siamo umili, dolci, caritatevoli, verso quelli che cadono, ricordandoci che noi siamo deboli e che di fronte al supremo Giudice porteremo il fardello delle nostre colpe personali. Contraccambiamo generosamente con beni temporali (denaro, cibi, vesti) le persone che ci predicano la parola di Dio (divina parola che dà la vita) e non indugiamo, perché Dio non tollera che ci burliamo di Lui. Il raccolto sarà conforme alla natura della semenza gettata. Seminiamo opere piene di spirito soprannaturale e mieteremo la vita eterna. Non tralasciamo un istante di fare il bene. Evitiamo le opere della carne che sono la mancanza di carità, l’orgoglio, l’avarizia e la lussuria, poiché quelli che commettono peccati sono morti alla vita di grazia e non mieteranno che corruzione. Usciamo, dunque, dalla morte e viviamo come veri risuscitati. — Il Vangelo ci dà questo stesso insegnamento raccontandoci la risurrezione del figlio della vedova di Naim. Gesù, vedendo il dolore di questa madre, fu mosso a compassione: si accostò al feretro e toccando il morto disse: « Giovinetto, te lo comando, alzati! ». E subito il morto si levò e cominciò a parlare. E tutti glorificavano Iddio dicendo; « un grande profeta è apparso in mezzo a noi e Dio ha visitato il suo popolo ». Il Verbo facendosi carne si è accostato alle anime che giacevano nella morte del peccato, e, commosso dalle lacrime della Chiesa, nostra madre, le ha resuscitate alla vita della grazia. Poi, mediante l’Eucaristia ha posto nei corpi un germe di vita, affinché essi risuscitino nell’ultimo giorno (Com.). — Fa, o Signore, che il nostro corpo e la nostra anima siano interamente sottomessi alla influenza dell’Ostia divina, affinché l’effetto di questo sacramento domini sempre in noi (Postcom.). – Vivificati dallo Spirito Santo, solleviamo con sollecitudine quelli che sono morti alla vita della grazia, aiutiamo con le nostre sostanze quelli che con la parola della verità diffondono la vita dello Spirito, e promuovono sempre più in noi la vita soprannaturale che abbiamo ricevuta nel Battesimo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.


Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.

S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXXV: 1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]


Ps LXXXV: 4

Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.

[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’anima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.

[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; VI: 1-10

Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

[Fratelli: Se viviamo di spirito, camminiamo secondo lo spirito. Non siamo avidi di vanagloria, provocandoci a vicenda, a vicenda invidiandoci. Fratelli, quand’anche uno venisse sorpreso in qualche fallo, voi che siete spirituali ammaestratelo con lo spirito di dolcezza, e bada a te stesso che tu pure non cada nella tentazione. Gli uni portate i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. Poiché, se alcuno crede di essere qualche cosa, e invece non è nulla, costui inganna sé stesso. Piuttosto ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi soltanto in se stesso, e non nel confronti con gli altri. Perché ciascuno porterà il proprio fardello. Chi poi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i beni a chi lo istruisce. Non vogliate ingannarvi: Dio non si lascia schernire. Ciascuno mieterà quello che avrà seminato. Così, chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà corruzione: chi, semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non stanchiamoci dunque dal fare il bene; poiché se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo. Perciò mentre abbiamo tempo facciamo del bene a tutti, e in modo speciale a quelli che, per la fede, sono della nostra famiglia.]  

CONOSCI TE STESSO

L’Epistola di quest’oggi è la continuazione di quella della domenica scorsa, nella quale si inculcava di vivere secondo lo spirito. Per vivere secondo lo spirito, prosegue l’Apostolo, bisogna fuggire la vanagloria e l’invidia. Si deve correggere chi sbaglia con spirito di dolcezza; tutti hanno a sopportarsi vicendevolmente. Persuasi del proprio nulla, devono esaminar spassionatamente le proprie azioni. Siamo, inoltre, generosi con chi ci istruisce nella fede. E conclude esortando di non stancarci di fare il bene, essendo la nostra vita il tempo della semina. Se in questa vita non ci stancheremo a seminare nello spirito, a suo tempo, mieteremo la vita eterna. – Accogliamo l’invito di S. Paolo, a esaminare le nostre opere.

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

Graduale

Ps XCI: 2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime.

[È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]


V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemm.

[È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV: 3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja.

[Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.

[“In quel tempo avvenne che Gesù andava a una città chiamata Naim: e andavan seco i suoi discepoli, e una gran turba di popolo. E quand’ei fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato fuori alla sepoltura un figliuolo unico di sua madre, e questa era vedova: e gran numero di persone della città l’accompagnavano. E vedutala il Signore, mosso di lei a compassione, le disse: Non piangere. E avvicinossi alla bara, e la toccò (e quelli che la portavano si fermarono). Ed egli disse: Giovinetto, dico a te, levati su; e il morto si alzò a sedere, e principiò a parlare. Ed egli lo rendette a sua madre. Ed entrò in tutti un gran timore; e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi; e ha Dio visitato il suo popolo” (Luc. VII, 11-16).]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano, 1957)

RESURREZIONE E VITA

È probabile che Gesù abbia risuscitato più morti; ma quelli ricordati dal Vangelo sono tre. Una figlioletta appena spirata, un giovane che già portavano alla sepoltura, un uomo morto da quattro giorni e sepolto: e cioè la figlia di Giairo capo della sinagoga, il figlio della vedova, Lazzaro di Betania. Parliamo oggi della seconda risurrezione, ossia del figlio della vedova di Naim. Accompagnato dai suoi discepoli, Gesù era giunto alle porte della città di Naim, quando s’imbatté in un funerale che ne usciva per avviarsi al cimitero. Sopra una barella, come era l’uso d’allora in quei luoghi, si portava  un giovane a seppellire. Era l’unico figlio d’una vedova. Povera madre! Già triste per la vedovanza, ora perdeva anche l’unico conforto dei suoi giorni presenti e l’unica speranza di quelli a venire, e lo perdeva troppo prematuramente. Ella seguiva il feretro con un aspetto così distrutto dal dolore che Gesù non seppe resistere. Non richiesto, mosso soltanto dalla sua pietà, raggiunse quella madre e le disse: « Non piangere ». Tali parole in quelle circostanze, dette da qualsiasi altro sarebbero suonate come un incoraggiamento vano o come un invito fuor di proposito; ma non sulle labbra di Gesù. S’avviò alla bara e la fermò toccandola. Poi, in mezzo allo stupore muto della gente, comandò con la sicurezza di chi sa d’essere infallibilmente ubbidito: « Giovane, levati su! ». Il morto immediatamente si levò a sedere, e mentre la turba presa dall’entusiasmo magnificava il Signore, Gesù lo rese vivo a quella madre a cui aveva detto di non piangere. Questo fatto dimostra anzitutto che Gesù è Dio, potente come il Padre. Non soltanto comanda alla natura modificandola, alle malattie guarendole d’improvviso, ai demoni scacciandoli, alle volontà ribelli piegandole amorosamente alla sua grazia, ma comanda alla più ineluttabile e fatale delle cose umane: la morte. « Come il Padre risuscita i morti e rende ad essi la vita, così il Figliuolo rende la vita a quelli che vuole ». Questo fatto dimostra inoltre che Gesù è Dio Redentore. La morte è la più amara delle conseguenze del peccato; se Gesù ci libera dalla morte, è perché prima ci ha liberato dalla causa, cioè dal peccato. Dunque, Egli è il Redentore che ci redime dalla colpa e dalla pena. Allora veramente Egli può dire di sé quello che ha detto: « Io sono la resurrezione e la vita » (Giov., XI, 25). La resurrezione della carne. La vita dell’anima. -1. LA RISURREZIONE DELLA CARNE. Non dovevamo morire. Fu il demonio a travolgerci nella morte coll’indurci al peccato. « Stipendium peccati mors ». (Rom., VI, 23). Siccome il peccato non ebbe eterna vittoria su di noi, ma temporanea perché fummo redenti da Gesù, così la morte non avrà su di noi eterna vittoria ma temporanea, Risorgeremo! a) La risurrezione della carne è una verità di fede; è l’undicesimo articolo del Credo. Ci è rivelata da Gesù stesso: « Verrà l’ora in cui tutti i morti risorgeranno: quelli che han fatto bene per la risurrezione eterna; quelli che han fatto male per la maledizione eterna » (Giov., V, 28-29). Ci è garantita da tre miracoli di risurrezioni, e soprattutto dalla risurrezione stessa del Redentore. Quel Gesù che risuscitò da morte la bambina di Giairo, il figlio della vedova, Lazzaro di Betania, quel Gesù che risuscitò se stesso dopo tre giorni per non più morire, vivificherà anche i nostri corpi mortali e darà a loro l’immortalità. Non siamo forse nutriti dall’Eucaristia anche perché già fin d’ora nella nostra carne mortale sia deposto il germe divino di una carne immortale? « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, io lo risusciterò all’ultimo giorno » (Giov., VI, 55). b) La risurrezione conformerà i nostri corpi a quello di Gesù risorto. saranno chiari e splendidi come il sole (Mt., XIII, 43); saranno sottili che potrebbero penetrare nel Cenacolo a porte chiuse; saranno agili talmente da trasportarsi con la velocità del pensiero; saranno impassibili, immunizzati dalle malattie e dalla morte. Allora, finalmente, la parola di Gesù « noli flere » Si sarà verificata nella sua pienezza. Più nessuno piangerà. « Dio asciugherà per sempre dagli occhi nostri tutte le lagrime: non ci sarà più né lutto, né lamenti, né dolori » (Apoc., XXI, 4). c) La risurrezione ci fa comprendere la grande stima in cui dobbiamo tenere il nostro corpo, e il grande rispetto con cui lo dobbiamo trattare. Lavato dall’acqua battesimale, unto col sacro crisma, nobilitato dal contatto con l’Eucaristia, un giorno dovrà essere degno di onorare il Regno di Dio. Non è cosa che si possa usare secondo i capricci del piacere, ma deve essere conservato secondo le leggi di Dio. Conserviamolo puro perché possa albergare un’anima santa; liberiamolo con la mortificazione dai malvagi istinti di corruzione che il peccato vi ha immesso. – 2. LA VITA DELL’ANIMA. La risurrezione del figlio della vedova non ci parla appena della risurrezione della carne, ma anche di quella dello spirito. La morte, conseguenza del peccato, prima che nel corpo aveva fatto strage nell’anima. Con tre mali il peccato aveva rovinata l’anima. La rese colpevole di fronte alla Giustizia Divina, e nel medesimo tempo incapace di soddisfare da sola, poiché l’offesa era stata infinita. La spogliò della vita soprannaturale della grazia riducendola nelle proporzioni di nuda e debole creatura. Le chiuse il cielo per sempre, essendo quella la beata dimora riservata ai figli di Dio. Orbene Gesù Cristo, morendo in croce, con tre beni redense l’anima. Pagò per lei la Divina Giustizia, espiò per i suoi peccati. « Ecco che il mio sangue sarà sparso per molti in remissione dei peccati » (Mt., XXVI, 28). Le ridonò la vita della grazia che è la sua stessa vita di Figlio di Dio. « Io sono venuto — diceva — perché abbiate la vita e ne abbiate tanta ». (Giov., X, 10). Riaprì a loro le porte del cielo, i regni del suo Divin Padre, la casa della gioia immensa ed eterna. « Bisogna — diceva — che il Figlio dell’uomo sia sospeso sulla croce perché ogni uomo che crede in Lui abbia la vita eterna » (Giov., III, 14-15). S. Bernardo incomincia una sua predica con una parabola che ci rende evidenti questi benefici della redenzione. Eccola: « Mi trovavo coi miei amici sopra una piazza a divertirmi allegramente: e non sospettavo che intanto nel palazzo reale venisse emanata una condanna di morte contro di me. Il figlio del re appena l’apprese, subito depose la sua corona, i suoi abiti principeschi, e rivestito con un rozzo saio di penitenza, il capo sparso di cenere, uscì dalla reggia a piedi nudi, gemendo e piangendo perché il suo servo doveva essere condannato a morte. Come lo vidi in quella guisa compassionevole, gli chiesi che cosa ciò significasse, ed egli mi rispose ch’era deciso di morire al mio posto ». Fin qui S. Bernardo. Ma non era lui di certo il giovane dissipato intento a godere sulla piazza della vita: quel giovane era simbolo dell’umanità. L’umanità con cieca leggerezza s’è abbandonata ai peccati, privandosi della felicità eterna. Venne il Redentore, si rivestì della nostra miseria, espiò la nostra colpa, ci ridonò la vita, ci riaperse la reggia celeste. – Forse, nonostante la Redenzione, qualcuno di noi si ostina nel sonno della morte. Non ode Gesù che scuote la sua anima incadaverita; non ode la santa madre Chiesa che lo segue piangendo. Apri gli occhi e guarda: guarda in quale stato ti ha ridotto il peccato. Apri gli occhi e guarda, guarda sulla croce in quale stato s’è ridotto per te il tuo Dio Redentore, Sorgi ora dalle iniquità per risorgere un giorno gloriosamente. Sorgi adunque, dico a te, peccatore. « Tibi dico, surge ». — RICORDATI, UOMO… Questo racconto evangelico ci presenta due scene: una ordinaria e l’altra straordinaria. Straordinaria è la risurrezione di un morto; ed in questa vita, forse, il Signore a noi non farà grazia di vederla. Ordinaria invece è la cerimonia della sepoltura. Fermiamo la nostra considerazione su questa. Un funerale non è cosa rara; e chissà quante volte ci siamo imbattuti in un corteo funebre! Levato il berretto, fermati al margine della strada con tanti altri curiosi, abbiamo osservato sfilare le confraternite, abbiamo contato il numero dei preti, delle corone di fiori, delle bandiere e degli stendardi, abbiamo ammirato il lusso e tante altre cose. Così per noi, e per molti, il funerale è diventato uno spettacolo di curiosità, e lasciamo inascoltato il monito solenne che dal feretro ci viene: « Memento, homo… Ricordati, uomo! ». « Ch’io mi ricordi della morte?! me ne scampi il cielo. Ho gli interessi a cui pensare, ho una lite da vincere, ho la moglie, ho la famiglia, ho i divertimenti… e se mai questo melanconico pensiero saltasse in mente, son sempre all’erta per annegarlo in un bicchier di vino ». Eppure, la morte viene a lungo passo: è già vicina. « Ch’io mi ricordi della morte? ma ho vent’anni, ne ho trenta, ne ho appena quaranta… ». Non devi dire: io ho, ma: io non ho… non ho più questi vent’anni da vivere; questi trenta, questi quaranta non li ho più. La morte è vicina: e nessuno ci pensa. – Una nave faceva rotta per Tarsis. Sotto coperta portava un uomo che dormiva profondamente. Era il profeta Giona che dormiva, benché sull’anima gli stesse il peccato di una grossa disubbidienza al Signore. Sul mare, improvvisa come una vendetta, scoppiò la burrasca. Ulula il vento, rugge l’acqua, scricchia il fianco della nave: e Giona dorme. I marinai remano disperatamente, e ciascuno invoca il suo Dio e getta in mare ogni roba che pesa: e Giona dorme. Un mostro dal dorso enorme affiora, tra onda e onda, in giro alla nave spalancando le fauci ingorde, bramose delle prossime vittime; e Giona dorme. « Svegliati! Svegliati! — urlava il pilota dandogli riscossoni — Alzati e invoca il tuo Dio che voglia ricordarsi di noi, e non ci lasci sprofondare » (Giona, I, 1-6). Cristiani, ciascuno di noi non è un altro Giona? siamo sulla fragile nave della vita; da ogni parte ci stringono le malattie, le disgrazie, i pericoli: e noi dormiamo con forse sull’anima qualche peccato grave. Da un momento fondare nell’abisso dell’eternità: e noi dormiamo in mezzo alle nostre quotidiane faccende. Già intorno ci sta il mostro infernale, il demonio, con la sua fauce per ingoiare la nostra anima sventurata: e noi dormiamo in quella abitudine peccaminosa, in quella relazione illegittima, in quella trascuratezza d’ogni dovere cristiano. Svegliamoci,  griderò io, ripetendo le parole del pilota. — Alziamoci e invochiamo il nostro Dio che ci scampi dalla morte improvvisa, che ci lasci il tempo di pensare frequentemente alla nostra fine, prima di scendere nella regione tenebrosa, avvolta dalla caligine di morte. Memento, homo… Ricordati, uomo che sei pellegrino, che sei cenere, che sei putredine. Sei pellegrino: non attaccarti alla terra. Sei cenere: non insuperbirti. Sei putredine: non cedere agli istinti della tua carne. – 1. … CHE SEI PELLEGRINO. Chi è pellegrino è di passaggio: La nostra vita è davvero un passaggio sulla terra: « ma breve come un sogno che all’alba del giorno eterno svanisce; ma inconsistente come un’ombra che non si lascia stringere dalle mani; ma veloce come un uccello che attraversa il cielo e scompare senza lasciarvi traccia; ma leggero come la polvere che il vento solleva un istante vorticosamente, e poi depone; ma delicato come la rugiada che ai primi raggi del sole svapora; ma caduco come il fior della rosa che dura poche ore e poi si sfoglia » (S. Greg. Naz., Or. X). Se così breve è il nostro passaggio sulla terra, non mette conto d’attaccare corpo e cuore alle cose di quaggiù. Se un viaggiatore, montato in treno, si mettesse affannosamente a pitturare il suo scompartimento, e vi spendesse le sue sostanze per adornarlo d’oggetti preziosi, e con tutta la passione del suo cuore lo vagheggiasse, voi vi persuadereste di essere davanti ad un pazzo. Ebbene il mondo è pieno di questi pazzi che tutta la vita e tutti gli affetti e tutti i sudori sprecano soltanto per le cose materiali, delle quali non potranno godere più di quello che un viaggiatore gode del suo scompartimento. Ancora pochi anni, pochi mesi, pochi giorni e poi la morte fischierà, e bisognerà lasciare il nostro treno, e scendere. Scendere, ma dove? All’eternità. « Io mi sono logorato per comprare quel terreno … » Va bene: ti sei logorato per tuo fratello che lo erediterà. « Io mi sono consumato giorno per giorno, e anche di notte, per quella casa » Va bene: ti sei consumato per i tuoi figli a cui l’abbandonerai. « Io mi sono strappato il boccone di bocca per mettere insieme quel danaro, per arrotondare la cifra sul libro di risparmio… ». Va bene: ti sei mortificato per ì tuoi eredi i quali si godranno le tue fatiche senza scrupoli e senza ringraziamenti. « E allora, di molt’anni di stenti che cosa mi resta? ». Il sepolcro. Et solum mihi superest sepulcrum. Di tanti possessi non è solo questo che rimane anche ad Alessandro Magno? Udite come di lui parla la Santa Scrittura: Possedeva la Grecia; e conquistò terra dei Persi, la terra dei Medi; e dopo si prese le fortezze di tutti i regni, le chiavi di tutte le città. E dopo si spinse fino all’estremo limite del mondo, s’impossessò delle ricchezze delle nazioni; l’universo ammutolì davanti a lui. E dopo… dopo il padrone dei re e dei popoli si pose in un letto e morì. Post hæc decidit in lectum… et mortuus est (I Macc. I, 1-8). Poveri noi! dopo aver comprato case e campi e robe, dove aver trascurati i precetti di Dio e della Chiesa per arricchire e guadagnare, dopo aver lavorato con ingiustizia e con frode, di festa e non di festa, cosa ci resterà da fare? metterci in un letto e morire. – 2. … CHE SEI CENERE. S. Efrem, spesse volte al tramonto andava tra le sepolture, a meditare, Triste e pensieroso s’aggirava di tumulo in tumulo, leggendo le iscrizioni e i titoli dei defunti: principi della città, magistrati della provincia, ricchi signori, sapienti ammirati dal mondo… Il santo, a volte, li chiamava ad alta voce per nome: nessuno più rispondeva. Dove sono quelle superbe figure di uomini, di donne, a cui tutti si assoggettavano? Quella lingua che non parlava se non dei propri meriti, se non dei difetti altrui, dov’è? dove sono quelle orecchie che non volevano sentire se non la propria lode? Tutto è diventato cenere. Ricordati, uomo superbo, che sei cenere! Allora S. Efrem ritornava nella sua casa più umile e più paziente. Perché mai Luigi Gonzaga ha gettato via gli abiti di raso e di velluto per indossare la saia del gesuita? Perché ha rifiutato la gloria del marchesato, l’onore di palazzi superbi, l’ubbidienza di molte popolazioni, per nascondersi in squallidi conventi ed applicarsi ai mestieri dei servi? Di questo fatto non vi saprete mai dare una soddisfacente spiegazione, se non osserverete quel cranio di morto che i pittori sogliono raffigurare accanto a lui. Luigi Gonzaga si è ricordato, e come! di essere cenere. Così non vi saprete mai spiegare perché S. Carlo Borromeo, ricco di famiglia, cardinale in giovane età, amato dal Papa suo zio, era diventato tanto umile, se non vi ricorderete che nel suo arcivescovado aveva fatto dipingere l’immagine della morte. Ogni volta che le passava davanti, S. Carlo le sorrideva come per dire: « Lo so, lo so che tra poco verrai a ridurmi in cenere ». Adesso potrete anche comprendere perché noi siamo superbi: in casa non vogliamo osservazioni, non comandi; per strada desideriamo che gli altri ci guardino; in compagnia ci annoiamo se altri non discorrono di noi; dappertutto vogliamo apparire più di quello che siamo; a tutti vogliamo imporre i nostri pareri. Senza riguardi offendiamo il prossimo e maltrattiamo i familiari; se alcuno poi offende noi non gli perdoniamo mai senza umiliarlo. Perché questa superbia in noi? Perché non ci ricordiamo di essere cenere. Ricordati, uomo… – 3. … CHE SEI PUTREDINE. ,C’è nella Storia Sacra un esempio terribile. Iezabel era donna corrotta e amante dei piaceri. Adorava il suo corpo, si cerchiava di nero gli occhi, si adornava senza modestia. Ebbene alla mattina era alla finestra, perfidamente lusingatrice… Non era ancor calato il sole ed alcuni uomini trovarono sotto a quella finestra il cadavere della disgraziata, orribilmente sconciato dai cani, con il cranio, i piedi, le mani staccate del tronco. Inorriditi quegli uomini fuggirono esclamando: « I cani han mangiato la carne di Iezabel, e il suo corpo è una putredine sulla faccia della terra » (IV Re, IX, 37). L’applicazione è chiara. Quella donna che oggi dissacra la bellezza del suo volto con artifizi, quella giovane che adora il suo corpo e si veste non come a una cristiana conviene, quel giovane e quell’uomo che schiavi della loro carne si abbandonano agli istinti più disonesti e brutali, dite, tra poco che saranno? Alla mattina profumati e azzimati come idoli, e alla sera, forse, marcia e vermi. Putredini dixi: pater meus mater mea et soror mea, vermibus (Giob., XVII, 14). Se ogni volta che gli occhi vogliono guardare, se ogni volta che il corpo vuol godere, noi pensassimo alla morte, oh quanti peccati di meno! Perdere l’anima, per accontentare questa carne che diverrà tra poco putredine e vermi, non è stoltezza? Da S. Filippo Neri si presenta, un giorno, un giovane dissoluto e già tanto corrotto. « Padre! — geme, mettendosi in ginocchio davanti all’amabile santo. — Padre, voglio convertirmi, ma non ci riesco. Le tentazioni sono più forti di me, non ci riesco ». S, Filippo, sollevandolo e abbracciandolo paternamente, gli dice: « Coraggio, tutti i giorni dirai la Salve Regina, e penserai alla morte: immaginerai il tuo corpo sotterra, i tuoi occhi putridi, la tua carne marcia, la tua bocca verminosa, e dirai: ecco per che cosa ho perduto il paradiso. » Accetta il giovane e parte: riesce a tenersi puro per una volta, per due, per sempre. Sembrerebbe incredibile, eppure fu così. – Or udite una parabola che raccontava, predicando, s. Antonio da Padova. Un uomo inseguito da una belva, cadde in un burrone. Per sua fortuna poté aggrapparsi a un arboscello che sporgeva dalla parete rocciosa: rimase così sospeso a quell’esile sostegno, senza speranza di risalire, con sotto i piedi l’abisso. Ed ecco due topi, l’uno bianco e l’altro nero, farsi intorno all’arboscello suo salvatore, e rosicchiargli la radice. Tra pochi istanti che sarebbe avvenuto dell’infelice? Eppure, lo credereste? dimentico del pericolo, era intento a succhiare alcune gocce di miele sparse sulle foglie del suo sostegno. Come quel disgraziato siamo tutti noi, Cristiani. Da un momento all’antro la vita nostra si può spezzare: l’abisso eterno è spalancato ai nostri piedi. Il topo bianco il giorno, il topo nero la notte, senza requie rodono l’arboscello della nostra esistenza e noi, dimentichi del supremo pericolo, badiamo soltanto a succhiare dalle cose di quaggiù, dalla gloria, dal piacere qualche stilla di godimento. Memento, homo… Ricordati uomo che sei pellegrino, che sei cenere, che sei putredine. — LA SANTA MADRE CHIESA PIANGE. Questa donna di Naim mi ricorda un’altra mistica donna che oggi piange dietro alle anime morte non di uno solo, ma di mille e mille suoi figli giovanetti: la santa madre Chiesa. Non è essa la sposa di Cristo vedovata per l’Ascensione di Lui al cielo? Tutti i giovani che hanno perso l’innocenza della vita, e l’amore alla preghiera e il desiderio della Comunione, non sono forse i suoi figliuoli morti? La gioventù non respira più nell’atmosfera cristiana, ma agonizza e muore nello spasimo di un’asma morale. V’è un attossicamento di anime, una lebbra di cuori, una tubercolosi spirituale, per ciò la Chiesa oggi piange. O Cristiani aprite una volta gli occhi e vedete la corruzione della nostra gioventù come dilaga; poi ricercatene qualche causa per opporvi rimedio. – 1. LA CORRUZIONE DEI GIOVANI. Un giorno che il Papa San Gregorio attraversava la piazza del mercato di Roma, vide un gruppo di giovani legati sopra un banco: bellissimi di forma, piacevoli di volto e tutti biondi di capelli. Erano schiavi ed aspettavano che qualcuno li comprasse. Il beato Gregorio passando vicino, domandò al mercante donde li avesse condotti. « Di Bretagna, — rispose quello — là, ove gli abitanti risplendono di simigliante bianchezza ». E ancora domandò: « Almeno sono essi Cristiani? » E il mercante rispose: « Non sono Cristiani, anzi sono involti negli orrori del paganesimo ». Allora S. Gregorio incominciò fortemente a sospirare in mezzo al mercato, e a piangere come un fanciullo, così dicendo: « Ohimè, dolente! che bellissimi giovani e che splendidi facce son venduti schiavi agli uomini pessimi e al demonio maligno ». Usciamo anche noi, e guardiamo con occhi cristiani su questa gran piazza di mercato che è il mondo: guardiamo la sorte della nostra gioventù. Sono fanciulli che a otto a dieci anni perdono di già la santa Messa nei giorni festivi; che di già non pregano più né mattina né sera. Sono giovani che non vengono mai alla dottrina cristiana, che non vogliono frequentare più l’oratorio, per divertirsi tutta la domenica e offendere il Signore. – I campi sportivi, i divertimenti; i balli rigurgitano di giovanetti: alla sera tornano a casa, ma il loro occhio non è limpido, ma la loro fronte non è più serena, ma la loro anima è una fiamma. Una fiamma d’impurità che li divora. Essi hanno visto, hanno udito, hanno imparato il male. E quando il demonio del vizio brutto entra in corpo a un nostro figliuolo lo rende muto. Subito ve ne accorgete, perché non prega più, non si confessa più come una volta, non apre più la sua bocca a ricevere il Pane degli Angeli. Allora è finita. E che cosa si può sperare ancora quando finanche le fanciulle hanno perso il senso del pudore istintivo nel cuor della donna? Voi le vedete in giro ad ogni ora, e sole: di giorno, di sera, di notte. Voi le sentite frivolmente ridere e scherzare per le strade; vestono una moda così immorale che forse non s’è vista mai, neppure al tempo dei pagani. E la gioventù ha l’anima bella. Un’anima splendente, che non vien di Bretagna come quei giovani che vide il beato Gregorio, ma viene da Dio e a Dio deve ritornare. Ma chi piange ora che sì belle anime cadono schiave di uomini pessimi e del demonio maligno? Il Papa più volte ha levato il suo grido d’allarme e contro alla moda e contro alla corruzione che dilaga. Il Papa dal Vaticano, come un giorno S. Gregorio sul mercato di Roma, sospira fortemente e piange sulla rovina della gioventù. – 2. QUALCHE CAUSA. « Oh i ragazzi adesso, non sono più come quelli di una volta! Nascono già con un istinto più perverso… » così dicono le mamme ed anche i papà. Può darsi: ma è proprio possibile che il Signore tutti i buoni figliuoli li abbia già fatti nascere, e per i nostri tempi, abbia riserbato soltanto i cattivi? « Adesso si respira un’aria diversa. Ai nostri tempi non c’erano tanti luoghi di divertimento, tanti sports: e siamo cresciuti più sani e più onesti ». Sì, questo è vero ma non basta a spiegar tutto. Io credo, — e scusate genitori se Ve lo dico, è per vostro bene — io credo che la vera colpa di tanto sfacelo morale ricada sui padri e sulle madri. Sapete perché i ragazzi di adesso non sono più come quelli di una volta? Perché anche igenitori d’adesso non sono più come quelli d’allora. Il figlio in mano vostra è come una cera e cresce come voi lo volete. Il grande vescovo di Costantinopoli S. Giovanni Crisostomo, quell’uomo meraviglioso che tanta orma di sé ha impresso sui secoli della storia, nacque nel 344, in una ricca e distinta famiglia. Il padre Secondo morì nel fior dell’età e lasciò vedova a vent’anni Antusa. A questa donna, ben degna dell’augusto nome di madre, si deve in gran parte la gloria del figlio. Per donarsi totalmente all’educazione del suo Giovanni, rifiutò un secondo matrimonio. Fu così fedele per ben due decenni ai suoi doveri di madre da strappare al pagano Libanio queste parole: « Che donne meravigliose ci sono tra i Cristiani! ». Or dove sono queste mamme? Che meraviglia allora che non ci siano più figli come Giovanni Crisostomo? Naturalmente non basta sorvegliare e avvisare i figli, sgridarli, castigarli: bisogna dar loro l’esempio. Perché i giovani non ragionano ancora e vivono di imitazione. Il piccolo Origene era un’anima ardente e pura. In quel tempo infieriva la persecuzione contro i Cristiani: lo sapeva il fanciullo, ma non aveva paura. Anzi agognava il martirio, per testimoniare col suggello della vita e del sangue a Cristo tutto il suo amore. Già in secreto aveva deciso di consegnarsi spontaneamente nelle mani dei carnefici. E sarebbe morto martire se l’astuzia della madre non fosse riuscita ad impedirglielo. La santa donna, che aveva intuito l’eroico disegno del suo figliuolo, ,prima che si svegliasse, nascose tutti i suoi abiti e l’obbligò a rimane a letto (EUSEBIO, Storia Eccl., VI, 2-5). Com’è possibile in un fanciullo tanto coraggio, tanta fede e questo entusiasmo fino alla morte? Com’è possibile? Suo padre gliene aveva dato l’esempio: il beato Leonida era morto martire. O genitori! i vostri figliuoli cresceranno secondo i vostri esempi. Li volete obbedienti? Cominciate voi a ubbidire a tutte le leggi di Dio. Li volete devoti, che frequentino i Sacramenti? Cominciate voi ad essere devoti e a frequentare i Sacramenti. Li volete puri, onesti, lavoratori? Cominciate voi ad essere puri, onesti, lavoratori. Infine vi raccomando: pregate per i vostri figliuoli, offrite qualche sacrificio per loro, fate per loro qualche elemosina. Perché noi ci affanniamo, ma quello che fa tutto è Dio. Una volta ho sentito una mamma che in un momento di stizza, fece questa imprecazione contro un suo bambino: « Che Dio ti faccia morire! ». No: non dite mai, non dite più questa parola. Bisogna pregar Dio per i vostri figliuoli ogni giorno, non perché li faccia morire, ma perché ce li preservi dal male, che è tanto nel mondo, che è orribile. Così pregava Gesù per i suoi Apostoli, che teneramente amava come figliuoli: « O Signore! non perché li tolga da questo mondo, ma perché li preservi dal male, io ti prego ». Non rogo ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo (Giov., XVII, 15). – O Gesù! che un giorno hai sentito fremere il tuo cuore davanti alla desolata donna di Naim piangente sul suo giovanetto figlio, oggi ti prenda compassione anche della santa madre Chiesa, che piange la rovina di tanti suoi figli giovanetti. Non permettere che pianga più oltre: consola il tuo Vicario. O Gesù! come un giorno alle porte di Naim, avvicinati oggi alle porte delle nostre città, alle porte dei nostri paesi, alle porte del cuore dei nostri figliuoli. Toccali tu. Liberali dalla morte del peccato. Grida anche loro la tua parola di vita: « Giovanetto, risorgi: son io che te lo comando ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro.

[Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta

Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus.

[I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:


[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann VI: 52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.

[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio

Orémus.

Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus.

[L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SETTE DOLORI DELLA B. V. MARIA 15 SETTEMBRE (2022) FESTA DELLA VERGINE ADDOLORATA

FESTA DELLA VERGINE ADDOLORATA 15 SETTEMBRE.

I sette Dolori della B. V. Maria (2022)

Doppio di 2° classe. – Paramenti bianchi.

Maria stava ai piedi della Croce, dalla quale pendeva Gesù (Intr., Grad,. Seq., All., Vangelo) e, come era stato predetto da Simeone (Or.) una spada di dolore trapassò la sua anima(Secr.). Impotente, Ella vede il suo dolce Figlio desolato nelle angosce della morte, e ne raccoglie l’ultimo sospiro » (Seq.). L’affanno che il suo cuore materno provò ai piedi della croce, le ha meritato, pur senza morire, la palma del martirio (Com.). – Queste festa era celebrata con grande solennità dai Serviti nel XVII secolo. Fu estesa da Pio VII, nel 1817, a tutta la Chiesa, per ricordare le sofferenze che la Chiesa stessa aveva appena finito di sopportare nella persona del suo capo esiliato e progioniero, e liberato, grazie alla protezione della Vergine. Come la prima festa dei dolori di Maria, al tempo della Passione, ci mostra la parte che Ella presa al Sacrificio di Gesù, così la seconda, dopo la Pentecoste, ci dice tutta la compassione che prova la Madre del Salvatore verso la Chiesa, sposa di Gesù, che è crocifissa a sua volta nei tempi calamitosi che essa attraversa. Sua Santità Pio X ha elevato nel 1908 questa festa alla dignità di seconda classe.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostrs, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.
V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Joann XIX:25
Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et Salóme et María Magdaléne.

[Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Salome, e Maria Maddalena.]

Joann XIX:26-27
Múlier, ecce fílius tuus: dixit Jesus; ad discípulum autem: Ecce Mater tua.

[Donna, ecco tuo figlio, disse Gesù; e al discepolo: Ecco tua madre]


Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et Salóme et María Magdaléne.

[Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Salome, e Maria Maddalena.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, in cujus passióne, secúndum Simeónis prophetíam, dulcíssimam ánimam gloriósæ Vírginis et Matris Maríæ dolóris gladius pertransívit: concéde propítius; ut, qui transfixiónem ejus et passiónem venerándo recólimus, gloriósis méritis et précibus ómnium Sanctórum Cruci fidéliter astántium intercedéntibus, passiónis tuæ efféctum felícem consequámur:

[O Dio, nella tua passione, una spada di dolore ha trafitto, secondo la profezia di Simeone, l’anima dolcissima della gloriosa vergine e madre Maria: concedi a noi, che celebriamo con venerazione i suoi dolori, di ottenere il frutto felice della tua passione:]

Lectio

Léctio libri Judith.
Judith XIII:22;23-25
Benedíxit te Dóminus in virtúte sua, quia per te ad níhilum redégit inimícos nostros. Benedícta es tu, fília, a Dómino, Deo excélso, præ ómnibus muliéribus super terram. Benedíctus Dóminus, qui creávit cœlum et terram: quia hódie nomen tuum ita magnificávit, ut non recédat laus tua de ore hóminum, qui mémores fúerint virtútis Dómini in ætérnum, pro quibus non pepercísti ánimæ tuæ propter angústias et tribulatiónem géneris tui, sed subvenísti ruínæ ante conspéctum Dei nostri.

[Il Signore nella sua potenza ti ha benedetta: per mezzo tuo ha annientato i nostri nemici. Benedetta sei tu, o figlia, dal Signore Dio altissimo più di ogni altra donna sulla terra. Benedetto il Signore, che ha creato il cielo e la terra, perché oggi egli ha tanto esaltato il tuo nome, che la tua lode non cesserà nella bocca degli uomini: essi ricorderanno in eterno la potenza del Signore. Perché tu non hai risparmiato per loro la tua vita davanti alle angustie e alla afflizione della tua gente: ci hai salvato dalla rovina, al cospetto del nostro Dio.]

Graduale

Dolorósa et lacrimábilis es, Virgo María, stans juxta Crucem Dómini Jesu, Fílii tui, Redemptóris.
V. Virgo Dei Génitrix, quem totus non capit orbis, hoc crucis fert supplícium, auctor vitæ factus homo. Allelúja, allelúja.

V. Stabat sancta María, cœli Regína et mundi Dómina, juxta Crucem Dómini nostri Jesu Christi dolorósa.
[Addolorata e piangente, Vergine Maria, ritta stai presso la croce del Signore Gesù Redentore, Figlio tuo.
V. O Vergine Madre di Dio, Colui che il mondo intero non può contenere, l’Autore della vita, fatto uomo, subisce questo supplizio della croce! Alleluia, alleluia.
V. Stava Maria, Regina del cielo e Signora del mondo, addolorata presso la croce del Signore.]

Sequentia

Stabat Mater dolorósa
Juxta Crucem lacrimósa,
Dum pendébat Fílius.

Cujus ánimam geméntem,
Contristátam et doléntem
Pertransívit gládius.

O quam tristis et afflícta
Fuit illa benedícta
Mater Unigéniti!

Quæ mærébat et dolébat,
Pia Mater, dum vidébat
Nati pœnas íncliti.

Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si vidéret
In tanto supplício?

Quis non posset contristári,
Christi Matrem contemplári
Doléntem cum Fílio?

Pro peccátis suæ gentis
Vidit Jesum in torméntis
Et flagéllis súbditum.

Vidit suum dulcem
Natum Moriéndo desolátum,
Dum emísit spíritum.

Eja, Mater, fons amóris,
Me sentíre vim dolóris
Fac, ut tecum lúgeam.

Fac, ut árdeat cor meum
In amándo Christum Deum,
Ut sibi compláceam.

Sancta Mater, istud agas,
Crucifixi fige plagas
Cordi meo válida.

Tui Nati vulneráti,
Tam dignáti pro me pati,
Pœnas mecum dívide.

Fac me tecum pie flere,
Crucifíxo condolére,
Donec ego víxero.

Juxta Crucem tecum stare
Et me tibi sociáre
In planctu desídero.

Virgo vírginum præclára.
Mihi jam non sis amára:
Fac me tecum plángere.

Fac, ut portem Christi mortem,
Passiónis fac consórtem
Et plagas recólere.

Fac me plagis vulnerári,
Fac me Cruce inebriári
Et cruóre Fílii.

Flammis ne urar succénsus,
Per te, Virgo, sim defénsus
In die judícii.

Christe, cum sit hinc exíre.
Da per Matrem me veníre
Ad palmam victóriæ.

Quando corpus moriétur,
Fac, ut ánimæ donétur
Paradísi glória.
Amen.


[Sequenza
Stava di dolore piena e di pianto
la Madre presso la croce,
da cui pendeva il Figlio.

L’anima di Lei gemente,
di tristezza e di dolore piena,
una spada trafiggeva.

Oh! quanto triste ed afflitta
fu la benedetta
Madre dell’Unigenito!

S’affliggeva, si doleva
la pia Madre contemplando
le pene del Figlio augusto.

E chi non piangerebbe
mirando la Madre di Cristo
in tanto supplizio?

E chi non s’attristerebbe
vedendo la Madre di Cristo
dolente insieme al Figlio?

Per i peccati del popolo suo
Ella vide Gesù nei tormenti
e ai flagelli sottoposto.

Ella vide il dolce Figlio,
morire desolato,
quando emise lo spirito.

Orsù, Madre fonte d’amore,
a me pure fa’ sentire l’impeto del dolore,
perché teco io pianga.

Fa’ che nell’amar Cristo, mio Dio,
così arda il mio cuore
che a Lui io piaccia.

Santa Madre, deh! tu fa’
che le piaghe del Signore
forte impresse siano nel mio cuore.

Del tuo Figlio straziato,
che tanto per me s’è degnato patire,
con me pure dividi le pene.

Con te fa’ che pio io pianga
e col Crocifisso soffra,
finché avrò vita.

Stare con te accanto alla Croce,
a te associarmi nel piangere
io desidero.

O Vergine, delle vergini la più nobile,
con me non esser dura,
con te fammi piangere.

Fammi della morte di Cristo partecipe,
e della sua passione consorte;
e delle sue piaghe devoto.

Fammi dalle piaghe colpire,
dalla Croce inebriare
e dal Sangue del tuo.

Perché non arda in fiamme
ma da te sia difeso, o Vergine,
nel dì del giudizio

O Cristo, quando dovrò di qui partire,
deh! fa’, per la tua Madre,
che al premio io giunga.

E quando il corpo perirà,
fa’ che all’anima
la gloria del cielo sia data.
Amen.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Glória tibi, Dómine.
Joann XIX: 25-27.
In illo témpore: Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et María Magdaléne. Cum vidísset ergo Jesus Matrem, et discípulum stantem, quem diligébat, dicit Matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus. Deinde dicit discípulo: Ecce Mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.

[In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Maria Maddalena. Gesù, dunque, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che amava, disse a sua madre: « Donna, ecco tuo figlio». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

OMELIA

(Otto Ophan: Maria; Marietti ed. Torino, 1953)

SUL CALVARIO

« Presso la croce di Gesù stava ».

Possiamo chiederci se a Maria sul Calvario non sia stato domandato troppo. Non fu ivi posto sulle spalle d’una donna delicata, d’una povera Madre una tale enormità, ch’Ella sotto tanto peso doveva crollare, fisicamente e ancor più spiritualmente? Per Maria l’impotenza sarebbe stata benefica, perché avrebbe occultata al suo spirito l’ora della scena più straziante. Ma il suo spirito sul Calvario restò sveglio; era come un lago turchino, sul quale il sole cocente bruciava senza misericordia. Quali insopportabili strazi dovette Maria sostenere sul Calvario! Se persino il Figlio suo gridò nell’abisso del suo strazio le parole: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai tu abbandonato? », che cosa non dovette passare anche nel cuore della Madre sua? Tempeste di chiarezza infuriavano sull’anima di Lei; i flutti del suo cuore non La cacceranno sulle bianche spiagge, sicché spumeggino e s’impennino nella disperazione e nella ribellione? Qual minaccia non costituisce per la fede un grande patire, anzi già il semplice patire! Come si presenta pericolosa vicino al sofferente l’audace domanda: ma v’è Iddio? ma v’è proprio un Dio? Può esserci un Dio, se accade il fatto più raccapricciante, l’uccisione… dell’Uomo-Dio? E se L’hanno ucciso, Iddio dunque è morto! Questo fatto enorme, pazzesco, folle non si oppone anche al minimo d’intelligenza? Le orribili sofferenze e i delitti del nostro tempo hanno bruciata la fede in Dio in esseri innumerevoli precisamente con queste fiaccole infuocate. Ma se tuttavia Iddio è — ed Egli è! —, non è Egli un Dio totalmente diverso da quello che Gesù aveva annunziato, un essere oscuro, indifferente, sublimissimo, che troneggia nelle lontane e gelide altezze? Maria sul Calvario ricordò forse con dolore la predicazione del Figlio suo circa il Padre, il Padre che veste i gigli del campo, che nutre gli uccelli del cielo, e si prende cura d’ogni capello del nostro capo. Ov’è adesso Egli, questo Padre provvido, questo Padre amante? Ma v’è anzi quaggiù anche solamente il governo d’un Dio giusto? il Figlio suo lacerato non è una palpabile confutazione, un sanguinoso sprezzo della consolante predica intorno a un Dio paterno? Quanto dev’esser crudele quest’Essere sublimissimo, che procura al più nobile, al più santo di tutti gli uomini e alla Madre sua innocente tanto tormento o anche permette che lo si procuri, mentre noi stessi non lo arrecheremmo al peggiore dei nostri nemici! La bestemmia contro Dio sta vicina al credente più di quello che non si possa sospettare. L’incredulo conclude presto: nega semplicemente Iddio, e con questa misera soluzione si « spiega » gli enigmi della vita; il credente invece sa troppo bene dell’esistenza di un Essere supremo; i problemi della vita e del mondo lo disorientano non quanto all’esistenza, ma quanto al modo d’essere di Dio, quanto alla provvidenza, alla bontà e alla giustizia di Dio. E ora il Vangelo dà netto risalto all’atteggiamento della Vergine: « Stava accanto alla croce di Gesù sua Madre ». Ella stava sommersa nell’uragano che su di Lei muggiva. La terra tremò e le rocce si spaccarono: Maria stava. Il velo del Tempio si stracciò dall’alto al basso, e il Figlio suo rese il suo spirito con un forte grido: Maria stava. Ritta, solitaria stava là, come un albero principesco, attorno al quale un’intera selva giace abbattuta. Nelle Litanie lauretane noi esaltiamo Maria quale « Torre eburnea »: « eburnea » fu accanto alla croce per il pallore; ma Ella fu anche « torre », che resistette agli assalti paurosi del dubbio e della disperazione intrepida e invitta. Maria non è solamente la Madre amabile, quale spesso ci viene mostrata; ancor meno Ella è la figurina graziosa, quasi leziosa d’una merce fuori d’uso; Maria è la donna forte, che, degna del Figlio suo, va innanzi con Lui all’esercito dei martiri di sangue asperso qual Regina, la Regina dei martiri. Maria sul Calvario non disse alcuna parola. Non si lamentò, non dubitò, non maledisse, nemmeno interrogò più. Al Dodicenne chiese in dolorosa sorpresa: « Fanciullo, perché ci hai fatto tu così? »; anche alle nozze di Cana Gli presentò la sommessa preghiera: « Non hanno più vino »; sul Calvario Ella non è altro che silenzio. C’è un silenzio anche per alterigia o per impietrimento, come secondo l’antica leggenda greca fu il silenzio di Niobe, cui la saetta di Apollo aveva ucciso tutti i figli; Maria sopravvanza in grandezza d’animo le povere madri sofferenti degli antichi pagani, Niobe ed Ecuba, per l’infinita perfezione cristiana. Il suo silenzio non è protesta, ma silenziosa adesione. A dir il vero, le sue labbra sono sigillate dal dolore, sicché non può più gridare, come nell’ora felice dell’Annunciazione laggiù a Nazaret, il suo “Fiat”. Anche nella nostra vita giungono momenti, nei quali non possiamo più parlare, non più pregare, nemmeno più gemere; in quei momenti. non resta che il linguaggio dell’atteggiamento. Maria sul Calvario disse il suo Sì nella lingua commovente dell’atteggiamento: « Ella stava presso la Croce ». Questo stare era più che un discorso; con questa resistenza e perseveranza Ella espresse tutto quello che quassù sul Calvario aveva da dire. – L’informazione evangelica dice certamente: « Stavano presso la croce di Gesù la madre sua e la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria Maddalena », e anche il discepolo che Gesù amava stava lì. Maria dunque stava presso la croce di Gesù non da sola; anche le altre stavano, e di questo dovrebbe tener conto anche l’arte, la quale preferisce rappresentare Maria Maddalena svenuta ai piedi della Croce, sopraffatta dal dolore. L’atteggiamento eretto della coraggiosa Madre di Gesù fu però più eroico che quello delle altre: le altre attinsero energia in quell’atteggiamento della Madre per non abbandonarsi senza ritegno al dolore; la fortezza d’animo della Madre tenne ritte presso la croce anche le altre: se accanto alla croce sta ritta persino la Mamma, neppure le altre devono ivi cadere, non devono di là fuggire. Il racconto evangelico sottolinea intelligente questa posizione eretta; non scrive cioè: « Quando Gesù vide sua Madre e il suo discepolo che Egli amava presso la croce », ma: « Quand’Egli vide ch’Ella stava ritta »; non la presenza di Maria sul Calvario fu il grande fatto, ma la sua posizione eretta. E qui sta nascosto qualche cosa di ancor più profondo. Lo stare di Maria accanto alla croce del Figlio manifestava non solamente la sua magnanimità, ma anche il suo consenso, che voleva dire ben di più. Maria non stava soltanto presso la croce, Ella stava per la croce, l’approvava. Ella sul Calvario era di nuovo posta, come un tempo laggiù a Nazaret, dinanzi a una decisione, stavolta dinanzi a una « decisione sanguinante » nel senso più terribile della parola: a Nazaret Ella dovette decidersi se accogliere il Figlio suo, sul Calvario dovette decidere se darLo. Sul Calvario avrebbe potuto richiamarsi a buon diritto alla splendida profezia di Gabriele in occasione dell’Annunciazione, la quale diceva che Iddio « avrebbe dato il trono di suo padre David al Figlio di Lei »; adesso ne eravamo così lontani, che Gesù pendeva dalla croce fra due delinquenti. La raccapricciante realtà del Calvario non era una stridente offesa di quella lontana promessa? non era Maria una povera donna ingannata, cui le promesse fatte non erano state mantenute? Molti sul Calvario si sarebbero querelati e stizziti con simili amarezze, sarebbero stati per il Figlio, non però per la sua croce. Maria invece non stette solamente per il Figlio, ma anche per la croce di suo Figlio. Col sì di Nazaret Ella aveva data a Dio carta bianca per tutta la sua vita; quanto Iddio scriveva sulle bianche pagine della sua vita, è già in precedenza ratificato e sottoscritto dal “Fiat” di Lei; quando quella sublimissima mano cominciò a scrivere con scrittura di sangue, col sangue del Figlio suo, Maria non disdisse il suo si di Nazaret, ma lo completò col Sì del Calvario. Non si lamentò dicendo: « Oh, adesso basta! adesso è troppo! »; neppure come preghiera e supplica raccolse la parola risuonataLe vicina, che i nemici avevan scagliata contro la croce a dileggio di Gesù e quasi a tentazione per Lei: « Figlio mio, discendi dalla croce! hai aiutato gli altri, aiuta anche te stesso! »; Ella Lo lasciò sulla croce. Non mosse un dito, non mosse labbro per liberarLo dall’abbraccio della morte. Ella, come la magnanima madre dei Maccabei il figlio suo più giovane e ancor più eroica di quella, incoraggiava con la sua silenziosa presenza il Figlio morente: «Figlio mio, abbi pietà di me! sostieni la morte! ». Sul Calvario quindi Maria stette sulla cima del sacrificio che tutto comprende. Niente, niente affatto Ella ritenne per sé; donò, per compiere la volontà di Dio e per la nostra salvezza, persino il Figlio suo, persino il suo… Dio. La parola, che del Padre celeste Gesù aveva detta e che scrisse il discepolo allora presente con Maria presso la croce, valeva anche per Lei: « Tanto la Madre ha amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, affinché chiunque in Lui crede non perisca, ma abbia la vita eterna ». Maria sapeva della donazione generosa del Figlio voluta dal Padre per la salvezza del mondo, e, sostenuta dalla solida base di questa parola, scorse il segreto delle paurose vicende del Calvario: quivi si compiva la salvezza dell’umanità; la redenzione, la redenzione per amore; il Figlio suo, con le mani lacerate dai chiodi, portava di nuovo in alto, su, su, alla casa del Padre l’umanità allontanatasi da Dio. Quivi era in questione la misericordia, la misericordia sconfinata, non la crudeltà. E in realtà in nessun’opera la divina misericordia e la divina giustizia si son così strettamente abbracciate come… nell’inchiodamento del Figlio di Dio sulla croce, e in nessun luogo arde l’amore di Dio più caldo che nel suo Sangue, che fu « versato per molti in espiazione dei peccati ». L’umanità sofferente del Signore ricevette senza dubbio forza e conforto dalla coraggiosa presenza della Madre accanto alla croce. Durante la sua ineffabile tristezza sul Monte degli Olivi il Signore aveva cercato conforto nei discepoli; ma questi non stavano, essi dormivano; e allora Iddio benigno per incoraggiare il Figlio suo sofferente Gli inviò un Angelo dal Cielo; sulla vetta del Calvario non volò nessun Angelo, ma ivi stava la Madre; una madre è l’Angelo più consolatore di tutti. Ella baciava quei piedi inchiodati, e le sue labbra pallide divennero rosse di sangue; a Lui pendente dalla croce sussurrava tutti i nomi dell’amore, nomi così soavi quali dall’infanzia non aveva più osato dirGli. Ella stava là, vicina alla croce, e intercettava gli sguardi dei suoi occhi, perché non dovessero andar vaganti nella notte e fra le bestemmie, ma trovassero difesa e riposo negli occhi della Madre sua. Il Padre suo L’aveva abbandonato, ma la Madre era là, e nella Madre era vicino anche il Padre, perché una madre è la garanzia più soave e più sensibile dell’invisibile ed eterno amore di Dio. Senza dubbio la presenza della Madre presso la sua croce fu per il Signore anche una indicibile sofferenza. Che cosa non doveva soffrire a causa sua la Poveretta, la buona Donna! Tommaso d’Aquino scrive commosso che anche gli occhi di Gesù, come gli altri suoi sensi, dovettero soffrire sulla croce una pena propria: essi scorsero la Madre e il discepolo dell’amore piangenti ai piedi della croce. A questo penoso dolore però andava unito un grande conforto, quello di possedere una Madre dall’amore talmente invincibile e d’una fortezza insuperabile. Pietro ieri sera Gli aveva giurato: « Anche se tutti pigliassero scandalo di te, io, io non lo piglierò giammai ». Dov’era Pietro? Sua Madre non si scandalizzò di Lui; Ella stava presso di Lui anche nella defezione di tutti, anche in mezzo al più compassionevole fallimento, anche sommersa in un inferno di tormenti. Proprio la Madre, la Madre sua buona e cara, la migliore e la più santa di tutti gli uomini, proprio Lei resse accanto a Lui, l’impalato, il crocefisso. E da questa Madre s’apriva dinanzi allo sguardo del Signore una via luminosa perdentesi nell’infinito. Questa Donna solitaria accanto alla sua croce è la prima redenta, la redenta perfettamente. Sin dal momento della sua concezione rumoreggia in Lei la grazia della redenzione talmente ricca e possente, che sarebbe valsa la pena di soffrire e di morire già solamente per Lei; era pure grazia di redenzione ch’Ella ora se ne stesse nella bufera del Calvario. Maria però non è sola, Ella accanto alla croce è la rappresentante di tutti i redenti; in Lei si inginocchia la Chiesa dell’avvenire; in Lei le schiere, che nessuno può contare, dicono grazie al l’Agnello, perché le loro vesti son divenute bianche nel suo Sangue. In Maria il Padre presenta al Figlio che muore l’umanità redenta; in Maria il Figlio scorge come in un modello e in un simbolo l’infinito valore della sua passione. Era come se dalla Madre accanto alla croce ascendesse verso l’infuriar dei tormenti e verso il fremito del Sangue del Figlio morente un canto lontano e bello: « Degno è l’Agnello, che fu ucciso, di ricevere potenza e regno e sapienza e fortezza e onore e gloria e lode ». In quel momento un sorriso sfiorò il volto sfigurato del Figlio e un raggio penetrò anche negli occhi della Madre. Da tutto questo appare chiaramente che alla Madre del Signore spetta una parte importante anche per la nostra redenzione. Maria sul Calvario non fu semplicemente la mamma amante e sofferente d’un figlio morente: milioni di povere madri hanno assistito i figli morenti; Maria stette sul Calvario quale « Madre del Redentore »: « Pro peccatis suæ gentis vidit Jesum in tormentis — ah! Ella vide Gesù sopportare martiriiper i peccati dei suoi fratelli, flagelli, spine. derisioni e scherni». A questa redenzione dell’umanità per mezzo del Sangue e della mortedel Figlio suo Maria disse il suo Sì stando accanto alla croce; per questo il suo amore e il suo dolore materno si elevavano immensamente più in alto che quelli di qualunque altra povera madre sofferente, si portarono su, nell’altipiano del mistero della redenzione, furono un contributo per la salvezza del mondo.Il Vangelo stesso allude a questo posto ufficiale di Maria accanto alla croce del Figlio: esso ha sempre taciuto di Lei durante tutto il lungoperiodo della vita nascosta di Gesù a Nazaret come della sua attività pubblica; accanto alla croce di Gesù invece Ella riappare nuovamentenella relazione evangelica grande, in una luce singolare; qui dunque ci vien segnalato che la presenza di Maria presso il Figlio morente non fu soltanto l’esigenza d’un commovente affetto materno; quivi si trattò d’un atto solenne e addirittura ufficiale. Questo spettacolo commovente della Madre presso la croce è come una solenne ed edificante Liturgia. Questa Donna regale sta ritta, non assopita dal dolore, non sprofondata nella disperazione, ma, come osaaffermare con parola ardita San Bonaventura, « intenerita per la gioia che il suo Unigenito debba essere offerto in vittima per la salvezza del mondo ».Maria accanto alla croce prega col Sommo Sacerdote dell’umanità, offre con Lui, soffre con Lui. « Ella sul Calvario, quale nuova Eva, Lo offrì all’Eterno Padre per tutti i figli di Adamo con sacrificio totale dei suoi diritti materni e del suo materno amore ». Per questo già dal tempo di Alberto Magno, Maria è chiamata con senso profondo « aiutante » della redenzione, a somiglianza di Eva che era stata « aiutante di Adamo »; Ella è la « inserviente » della redenzione, la « diaconessa » della redenzione. Il diacono porta all’altare le offerte del pane e del vino per la Messa solenne, egli le prepara; egli assiste il sacerdote offerente, è pure a lui unito con intima comunione e sentimento sacrificale. Maria sul Calvario fece così: Ella preparò l’Offerta santa, il Corpo del Figlio suo, nell’Incarnazione e lo fece grande a Nazaret; Ella presentò questa preziosissima Proprietà per il sacrificio, Ella entrò in perfettissima comunanza d’amore e di dolore col Sacerdote offerente, che era nello Stesso tempo la Vittima offerta. Questo confronto « sacerdote-diacono » ci richiama però anche alla differenza essenziale fra l’oblazione di Gesù e quella di sua Madre. Il diacono non raggiunge l’indipendenza del Sacerdote offerente; egli non pregiudica la sufficienza del sacrificio sacerdotale; egli piuttosto compie il suo ufficio in piena dipendenza dal Sacerdote, come conviene al suo posto di sott’ordine quale diacono. Maria ebbe parte in questo modo alla nostra redenzione: il sacrificio sulla croce del nostro Eterno e Sommo Sacerdote, che mediante il suo Sangue penetrò i Cieli e aprì a noi peccatori la via al trono della grazia, tanto che adesso ci è concesso di accostarci con fiducia dinanzi alla terribile maestà di Dio e ivi conseguire grazia per l’aiuto opportuno, è d’una sufficienza e d’una sovrabbondanza talmente infinita, che non ha bisogno d’alcun umano completamento e sostegno. La cooperazione di Maria non fu un contributo necessariamente richiesto per la redenzione operata dal nostro unico e solo Signore e mediatore Gesù Cristo; Ella non poté portare nessun completamento a quello che in sé era già perfetto; ora l’azione di Cristo fu sufficiente per la redenzione di mille mondi. Però « l’opera della salvezza doveva in questa cooblazione della nuova Eva ornarsi di bellezza in ogni parte ed essere del tutto completa anche in linea dell’essere e dell’operare semplicemente creato » (Feckes). E così l’augusta Signora sul Calvario, accanto alla croce del Figlio suo, presentò anche il dolore e la riconoscenza del suo cuore materno e la indigenza e la povera buona volontà della stirpe umana, che Ella fu chiamata a rappresentare. Ella ornò il calice traboccante del Sangue di Cristo con le pietre preziose delle sue lagrime e col ramo di mirra della sua pena amara, che sopportò per noi peccatori. E chi potrebbe dubitare che questo materno dolore, unito al sacrificio del Figlio suo, divenisse benedizione per il mondo intero, se già la preghiera e il sacrificio delle nostre povere madri torna a noi di salvezza? Persino Paolo, l’inesorabile predicatore dell’unico e solo redentore Gesù Cristo, scrive e per di più di se stesso le misteriose parole: « Io godo nei patimenti in pro vostro, e in contraccambio compio le deficienze delle tribolazioni del Cristo nella mia carne in pro del Corpo di Lui, che è la Chiesa ». Se così, il tremendo patire della Madre accanto alla Croce potrebbe essere rimasto privo d’una efficacia tutta particolare per la vita della Chiesa? La passione infinita di Cristo non abbisogna affatto in sé d’un « compimento », però a tutte le membra del mistico Corpo di Gesù Cristo spetta anche una determinata misura di sofferenza; se il Capo, Cristo, soffre, con Lui soffriamo noi tutti, suoi membri. In questo misterioso Corpo di Cristo ogni membro, soffrendo e offrendo, deve giovare alla salvezza anche degli altri, ciascuno in proporzione del suo posto e dell’importanza in questo « Corpo », questi solamente per pochi, quell’altro per molti, Maria, la Madre del Redentore, per tutti quanti furono redenti dal Sangue del Figlio suo. Non v’è « dunque affatto nessuno (fra tutti i membri dell’organismo mistico di Cristo) che abbia contribuito o che abbia potuto mai contribuire alla riconciliazione di Dio con gli uomini quanto vi contribuì Maria ».  –  Ti siano rese grazie, o augusta e amata e povera Signora, per le lacrime, che tu, ai piedi della Croce hai pianto e che si mescolarono col Sangue del Figlio tuo in salvezza per noi! E onore e gloria sia al Figlio tuo, unico nostro Salvatore e Redentore, Gesù Cristo!

« Presso la Croce di Gesù stava sua Madre ».

« Gesù, vedendo sua Madre e vicino ad essa il discepolo, che prediligeva, dice alla madre: “Donna, ecco il tuo figliuolo”. E poi dice al discepolo: “Ecco la Madre tua”. E da quel momento il discepolo se la prese con sé in casa sua ». Questa parola del Signore morente alla Madre sua derelitta è così commovente che vorremmo piangere su di essa. Molto tempo è passato dall’ultima parola che Gesù rivolse pubblicamente alla Madre sua; la disse a Cana, e quella parola fu apparentemente dura; anche adesso, sulla croce ancora, Egli dapprima si ricordò dei suoi nemici e poi del ladrone; la Madre, che accanto alla sua croce piangeva, La lasciò in disparte. Ha così poca importanza per Lui la Madre sua, è così un niente, che persino in quest’ultimo momento Egli parli ancora per gli altri, con gli altri, ma alla propria Madre non dica nemmeno una paroletta? oppure quegli altri hanno bisogno delle sue amorose parole più urgentemente dell’abbandonata Madre piena di grazia? Finalmente, a metà, nel cuore delle sette ultime parole di Gesù in croce, rifulse la parola anche per la Madre sua, ancor prima del grido al Padre. Si sente chiaramente che questa parola si sprigionò da un fortissimo ingorgo d’amore del Figlio per la Madre; essa dà sfogo all’amore di Gesù per la Madre rimasto legato durante la vita pubblica, ne svela la profondità e la delicatezza. Quest’unica ed ultima parola del Signore a sua Madre presso la croce lascia intravvedere quanto in realtà Maria stesse vicina al cuore del Figlio suo; Egli non può morire se non sa che sua Madre versa in migliori condizioni di protezione; Egli stesso in quel momento stava quasi per affogare in un mare di tormenti e la grigia notte dell’abbandono di Dio già Gli si avvicinava: per questo, prima d’entrare nella sua suprema tortura e morte; vuole mettere al sicuro sua Madre quasi da una bufera imminente. In quell’ora ogni parola era per il Signore una pena. Ah, i morenti, anche con lo sforzo dell’ultimo amore, possono appena dire « sì, sì » e « oh, oh »… Il Signore in quel momento raccolse le sue forze, strinse più fortemente le teste dei chiodi e dalle labbra del Figlio, come una stella d’oro nell’oscurità della notte, si librò sulla Madre l’ultima sua parola: « Donna, ecco tuo figlio! », e al discepolo: « Ecco tua Madre! ». « Donna », chiama Gesù in croce Maria, non « Madre ». Come già a Cana infatti e ancor più che a Cana, Maria sul Calvario tiene un posto ufficiale quale aiutante della redenzione del mondo. Ella non è soltanto colma di dolore, è anche adorna di sublimità e di solennità, più regale di Ester, più forte di Giuditta, la Donna del mondo, la rappresentante dell’umanità, l’assistente accanto alla Vittima sanguinante sulla croce. Questa parola è piena di rispetto e di onore, forse anche piena d’un intimo singhiozzar d’amore, come se Gesù in quell’ora non osasse più rivolgersi a Maria con il tenero nome di Madre per non provocare lo straripamento degli umani sentimenti di cui era colmo il loro cuore. La parola del Figlio morente mette la Madre sotto la protezione di Giovanni e Giovanni sotto la benedizione di Maria. Il Signore s’era preoccupato già il giorno precedente di tutti i suoi discepoli, poiché il dolore più acuto d’un nobile morente è l’abbandono e la mancanza di sicurezza di coloro che egli ama. Tutti i discepoli la sera del Giovedì Santo erano stati da Lui affidati allo Spirito Santo: « Non vi lascerò orfani: Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro confortatore ». Anche Giovanni stava in questa sicurezza dello Spirito Santo e ancor più Maria, a cominciare dall’Incarnazione, anzi già dal primo momento della sua esistenza; ma Maria era anche donna, la quale abbisognava d’una assistenza visibile; e Giovanni era il discepolo dell’amore; il Signore voleva dargli un pegno anche terreno dell’amore dello Spirito Santo in quella Donna, che di Spirito Santo era stata adombrata. Quest’ultimo legato del Signore fece di Giovanni il figlio di Maria, e di Maria la madre di Giovanni; l’uno ora era dato all’altra in dono e a carico. Maria ricevette dal Figlio morente un altro figlio, l’amico di Lui, Giovanni, la persona più cara che Gesù possedesse sulla terra accanto alla Madre sua, quel discepolo dell’amore, che la sera precedente aveva potuto ascoltare, riposando sul cuore di Gesù, il fluttuare del suo amore. Per Maria Giovanni era l’aureo scrigno, entro il quale l’amore di Gesù s’era nascosto prima della morte come in un Sacramento. Giovanni era per Lei il monumento vivente dell’amore di Gesù verso la Madre. Ancor più di Maria in Giovanni aveva ricevuto da Gesù Giovanni in Maria. Fu un onore senza uguali. Un giorno insieme con suo fratello Giacomo Maggiore egli aveva preteso un primo posto nel regno messianico; adesso gli tocca di più. Ieri ebbe per un’ora il suo posto sul cuore del Signore; da oggi in poi il suo posto è a fianco della Madre del Signore per tutta la vita. Il Signore anche nell’estrema povertà della croce poté arricchire di doni i due esseri a Lui più cari, Maria con Giovanni e Giovanni con Maria. Le sue due più care creature! Accanto alla croce v’eran certo anche altri, la sorella di sua Madre, la moglie di Cleofa, e Maria Maddalena; anch’esse avevan dato prova al Signore di tanta bontà, e il Signore era legato in amore anche a loro; esse ricevettero una preziosa benedizione per la fedeltà sino alla sua morte; ma solo a Maria e a Giovanni fece dono della preziosità d’un’ultima parola tutta propria per loro e della preziosità d’una cara persona. Quella parola fu certamente per i due anche un obbligo. Maria doveva adesso essere la madre di Giovanni. Giovanni aveva già una madre, quella nobile Salome, che secondo l’informazione di Matteo era presente anche sul Calvario e « osservava da lontano »; « da lontano », perché lei e le altre « molte donne di Galilea » non furono ammesse dai soldati presso la Croce; essi, ascoltando un sentimento d’umanità, avevan permesso l’accesso soltanto alla Madre e a un esiguo accompagnamento. La parola del Signore a Giovanni: « Ecco tua madre! » non voleva privare Salome dei suoi diritti materni: Maria deve essere per Giovanni madre spirituale. Ella adesso deve donare a Giovanni il suo amore materno privo di Gesù; Ella deve proteggere in questo discepolo dell’amore l’eredità, che Gesù in lui ha deposto; Ella lo deve formare come aveva formata l’anima umana di Gesù; in una parola Ella dev’esserGli « madre ». Giovanni dev’essere figlio di Maria. Egli deve offrirLe e casa e sostegno e patria; deve essere sollecito del sostentamento della Donna a lui affidata; deve rallegrare alla Solitaria le sere e l’età. Quale esempio non aveva dato a Giovanni, il secondo figlio della Vergine, Gesù stesso nella sollecitudine per la Madre! Sino al trentesimo anno di vita, per un tempo così lungo Egli aveva provveduto alla Mamma con la propria augusta mano; probabilmente, per il periodo della sua attività pubblica, aveva pregato d’interessarsi di Maria quanti Gli erano stretti per amicizia. Ed ora, morente, affida la Madre all’amico suo, indicandogli così insieme il motivo e la misura della sollecitudine per la Madre. Per mezzo di Gesù tutti e due, Giovanni e Maria, sono adesso legati l’uno all’Altra come figlio e madre, e per mezzo di Maria anche Gesù e Giovanni si son fatti ancor più vicini, come fratello rispetto a fratello. Giovanni nel Vangelo può tributarsi questa lode modesta: « Da quel momento il discepolo se La prese con sé ». L’espressione greca « eis tà idia — in proprietà » nell’uso corrente del discorso significa « in casa sua ». Può essere frattanto che Giovanni abbia usato questa espressione, che può avere vari sensi, di proposito; la parola si presta a una spiegazione ancor più profonda: «eis tà idia — in proprietà » significa nel suo senso pieno più che « casa » solamente; con essa può essere indicato tutto l’insieme della vita esterna ed intima d’un uomo; Giovanni non accolse Maria soltanto in casa, ma anche nel suo cuore, nel suo sentimento e sollecitudine, nel suo dolore e amore. – Con quale maternità dal canto suo Maria abbia accolto Giovanni « nella sua proprietà », più che non dalle pie descrizioni, risulta con evidenza dagli scritti di Giovanni. Gli scritti di Giovanni, e anzitutto il suo Vangelo, sono percorsi da un mirabile afflato mariano; esso si diffonde dalla possente affermazione del prologo del Vangelo giovanneo: « Il Verbo si fece carne » attraverso Cana sino al Calvario. Da Giovanni e solamente da lui noi veniamo a sapere che il Signore era stretto alla Madre sua anche durante il tempo della sua attività pubblica — Cana! — e nella passione — Calvario! —. Nei lunghi anni di convivenza Maria dischiuse al discepolo dell’amore visioni e connessioni sempre più profonde nel mistero di Gesù. Non solamente Giovanni accolse Maria, anche Maria accolse Giovanni nella « sua proprietà ». La parola di congedo, che il Signore morente rivolse a sua Madre e al suo amico, ha una profondità che la cristianità ha scoperta e scopre soltanto un po’ alla volta lungo il corso dei secoli; poiché anche oggi il mistero di questa parola non è ancora dischiuso in ogni sua parte, il mistero cioè della maternità di Maria rispetto all’intera cristianità. Il sentimento cristiano cominciò a sospettare e capì sempre più chiaramente che Gesù sulla croce aveva costituita Maria Madre non solamente di Giovanni bensì di tutti noi, e che non solamente Giovanni, ma noi tutti siamo figli e figlie di Maria. Giovanni non è che un nostro rappresentante; Maria è la Madre dell’intera umanità raccolta in Cristo; « Giovanni » è quindi… « ognuno di noi ». La parola evangelica, considerata in sé sola, non permette certamente una conclusione così spinta; ivi non si fa parola che di Giovanni, a lui, a lui solo viene trasmesso presso la croce l’onore e il dovere della cura di Maria; e a lui, a lui solo, non a un altro discepolo Maria viene indirizzata come a un figlio, cui da parte sua dev’esser, può essere madre. I Padri della Chiesa, quindi, intesero questo testo sempre e ovunque del rapporto di madre e figlio solamente, che sussistette fra Maria e Giovanni, mentre non hanno una parola per la maternità spirituale della Vergine rispetto a noi tutti. Soltanto presso Origene (f 254) si trova un testo, che estende quella parola del Signore anche ai credenti in Cristo, a quanti Cristo amano. Nondimeno passarono ancora secoli prima che in Occidente, per la prima volta l’abbate Ruperto di Deutz, all’inizio del secolo x, e poi con tutta chiarezza e direttamente Dionisio Cartusiano nel secolo xv mettessero quella parola del Signore in relazione con una maternità spirituale universale di Maria. Ma questa maternità spirituale della Vergine è una realtà; è dottrina sicura, cattolica; essa però non si erige su questa parola, bensì sui fatti che si svolsero sul suo medesimo suolo insanguinato, nelle sue immediate vicinanze, sul Calvario. – Due fatti han creata la maternità spirituale di Maria. L’uno fu il suo assenso all’Incarnazione. Sin d’allora, a quel primo Sì, Ella è divenuta anche Madre spirituale di noi tutti: « Mentre Maria portava in grembo suo il Redentore, portava anche tutti coloro la vita dei quali era rinchiusa nella vita del Redentore. Noi, che siamo incorporati a Cristo, siamo nati dal seno di Maria come Corpo Mistico legato col capo ». Nell’incarnazione Gesù è divenuto nostro fratello, Maria, la Madre di Gesù, è divenuta così anche la Madre di tutti i suoi fratelli. Presso la Croce Maria portò al suo compimento amaro e sanguinoso quel Sì del principio. Ella accanto alla croce patì col Figlio suo, e quanto dolore trova posto nel cuore d’una madre, specialmente nel cuore della Madre di Dio! Ella cooffrì con il Figlio suo, fu internamente d’accordo per la morte di Gesù a nostra salvezza, e quella morte ha dato a noi la vita. Poiché Ella ebbe parte nella morte, ebbe parte anche nella vita; Ella col suo dolore materno ha reso a noi possibile questa nuova vita, che si eleva al di sopra della natura. Quale aiutante di Cristo nell’opera della salvezza, Ella divenne la madre della cristianità. Per questo Pio XII, nella sua Enciclica sul « Corpo Mistico di Cristo », richiama con insistenza a questo vincolo di causalità fra la compassione e la cooblazione di Maria presso la Croce e la sua spirituale maternità: « Ella, che sul Golgota col sacrificio totale dei suoi diritti materni e del suo materno amore, ha offerto all’Eterno Padre il Figlio suo, a motivo di questo nuovo titolo di dolore, già Madre del nostro Capo quanto al Corpo, divenne anche la Madre di tutti i suoi membri quanto allo spirito ». La maternità spirituale di Maria quindi è più che una figura solamente, più che una bella espressione poetica soltanto, essa è una realtà misteriosa che si erige sui due misteri fondamentali della nostra fede, l’Incarnazione e il Sacrificio della croce. Quest’invisibile realtà diventa visibile, come in un simbolo, in Maria e Giovanni presso la Croce; quivi Maria fu costituita Madre di Giovanni e Giovanni figlio di Maria. Proprio in quell’ora, nella quale essi si unirono dinanzi alla croce del Signore per contrarre un legame dolorosamente bello, proprio nell’ora della redenzione Maria divenne anche la Madre dei redenti, e i redenti divennero tutti figli di Maria. A motivo nostro Ella perdette Gesù, il Figlio suo, a motivo di Gesù noi fummo generati figli suoi. Quanto si svolse dinanzi alla Croce, quasi sul proscenio, ci sospinge a guardare in fondo, al di là di Giovanni: in Giovanni siamo presi in considerazione noi tutti, in Maria è data a tutti noi una Madre. – O Donna, ecco qui dunque il figlio tuo! È vero, noi siamo meno, molto meno degni di Te che non il gentile e nobile Giovanni, il quale Ti fu affidato in figlio dal Figlio sulla croce. Colpito da quello scambio con Giovanni, già S. Bernardo esclama: « Quale scambio! Giovanni Ti vien dato al posto di Gesù, il servo invece del Signore, il discepolo invece del Maestro. il figlio di Zebedeo invece del Figlio di Dio, un puro uomo invece del vero Dio ». E ora Tu devi accogliere addirittura noi invece del Figlio! Le nostre meschinità devono farTi nausea, o regale Signora! Di fronte al tuo nobil animo noi siamo d’una condizione tanto inferiore. o Santissima, o Purissima! Noi siamo piccini, poco buoni, impuri, cenciosi, talvolta anche diavoli camuffati, ripieni di reale malizia. E costoro devon essere i tuoi figli! A costoro Tu devi essere madre! Tu, che sei passata sulla terra come un giglio e in Cielo troneggi sopra gli Angeli. Tu però stesti anche sul Calvario, accanto alla croce del Figlio, sulla quale Egli morì per noi peccatori. Tu udisti com’Egli fece grazia al ladrone, e pregò persino per la malignità ostinata. Il Figlio tuo Ti impegna per noi peccatori. Ma perché scongiuriamo noi con parole retoriche il tuo cuore e spesso in tal modo che si potrebbe pensare che valga a persuaderTi, a costringerTi ad esser buona? Non sei Tu il vertice più tenero dell’eterno amore di Dio verso di noi? Egli ha scelto il tuo cuore materno a simbolo della sua propria bontà sconfinata e della sua immensa misericordia. Iddio cioè non è solamente Padre; in Te e per Te, o Maria, Egli vuol manifestare anche la sua infinita maternità. Se anche una madre qualunque consacra le cure più premurose al più povero dei suoi figli, quanto amore non vi sarà per il peccatore nel tuo cuore, ch’è il riflesso più soave dell’amore di Dio! Madre! Madre della misericordia! « Peccatores non abhorres, sine quibus numquam fores mater tanti Filii — Tu non aborri i peccatori, senza dei quali mai saresti Madre d’un tanto Figlio ». E così, o Signora, guarda a noi tuoi figli! Accogli anche noi « eis tà idia — in tua proprietà ». E questa proprietà tutta a Te propria è Gesù: riempici dei sentimenti di Gesù, che da Te si irradiano luminosissimi! E dopo questa miseria mostraci Gesù, il Frutto benedetto del tuo ventre. Poi, « o Vergine, Madre di Dio, mentre stai dinanzi al Signore, ricordaTi di dire una buona parola per noi, perché Egli storni da noi il suo sdegno ». – Figlio, ecco pure tua Madre! È una grandissima gioia per un uomo possedere una madre, alla quale egli possa guardare, alla quale possa elevarsi. La sua figura resta viva anche al di là della morte; essa l’accompagna come un angelo. Lungo tutta la vita sino al giorno del lieto arrivederci sui portali dell’eternità. Le nostre ottime madri si son formate in Maria, ed esse, quasi preoccupate per il tempo nel quale non avrebbero più potuto precederci col loro esempio, richiamarono la nostra attenzione a Maria, la Madre eterna. Nessuna madre può come Maria elevare i nostri pensieri e i nostri desideri; Ella è il segno grande nel cielo, ammantata di sole e irradiata di dodici stelle; Ella tiene sveglia la nostra eterna nostalgia. E Maria è il grande segno anche sulla terra, aspersa del sangue del Figlio suo ed elevantesi presso la Croce sul Calvario. Figlio, dalla notte della tua tribolazione, guarda alla Madre tua sul Calvario! Neppure accanto alla croce del Figlio suo Ella si querelò, dubitò, vacillò; Ella stette, forte e ferma. E così « io attacco ogni tedio e il dolore di tutte le notti e ogni nostalgia dell’ultima meta al tuo abito d’argento, o Madre » (Hauser). Maria non ritornò dal Calvario col cuore spezzato; insieme con la tristezza era in Lei una grande ed intima gioia: il mondo adesso era redento; tanto aveva fatto il Figlio suo. E dopo tre giorni Egli risorgerà. Ella sapeva della prossima risurrezione come era stata al corrente della prossima passione. Se ne andò dal sepolcro del Figlio, mentre calava la notte, con la fiaccola della speranza. Questa eterna speranza è l’atteggiamento cristiano più profondo; essa oltrepassa e sopravvanza le tre disposizioni che sono alla radice della esistenza umana puramente naturale, la tristezza, l’angoscia e la nausea. Noi come Maria, al di sopra di tutte le notti, guardiamo a Cristo; Egli non è solamente morto, Egli è anche risorto dai morti, è asceso al Cielo e un giorno Egli ritornerà per giudicare i vivi e i morti. Vi son Calvari, tanti e tetri; ma io credo anche nella risurrezione dei morti e nella vita eterna.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Jer XVIII:20
Recordáre, Virgo, Mater Dei, dum stéteris in conspéctu Dómini, ut loquáris pro nobis bona, et ut avértat indignatiónem suam a nobis.

[Ricordati, o Vergine Madre di Dio, quando sarai al cospetto del Signore, di intercedere per noi presso Dio, perché distolga da noi la giusta sua collera].

Secreta

Offérimus tibi preces et hóstias, Dómine Jesu Christe, humiliter supplicántes: ut, qui Transfixiónem dulcíssimi spíritus beátæ Maríæ, Matris tuæ, précibus recensémus; suo suorúmque sub Cruce Sanctórum consórtium multiplicáto piíssimo intervéntu, méritis mortis tuæ, méritum cum beátis habeámus:
[Ti offriamo le preghiere e il sacrificio, o Signore Gesù Cristo. supplicandoti umilmente: a noi che celebriamo. in preghiera i dolori che hanno trafitto lo spirito dolcissimo della santissima tua Madre Maria, per i meriti della tua morte e per l’amorosa e continua intercessione di lei e dei santi che le erano accanto ai piedi della croce, concedi a noi di partecipare al premio dei beati:]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Transfixióne beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Transfissione della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:
Pater noster
Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Felíces sensus beátæ Maríæ Vírginis, qui sine morte meruérunt martýrii palmam sub Cruce Dómini.

[Beata la Vergine Maria, che senza morire, ha meritato la palma del martirio presso la croce del Signore.]

Postcommunio

Orémus.
Sacrifícia, quæ súmpsimus, Dómine Jesu Christe, Transfixiónem Matris tuæ et Vírginis devóte celebrántes: nobis ímpetrent apud cleméntiam tuam omnis boni salutáris efféctum:
[O Signore Gesù Cristo, il sacrificio al quale abbiamo partecipato celebrando devotamente i dolori che hanno trafitto la vergine tua Madre, ci ottenga dalla tua clemenza il frutto di ogni bene per la salvezza:]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

FESTA DEL SS. NOME DI MARIA (2022)

FESTA DEL SS. NOME DI MARIA (2022)

Doppio magg. – Paramenti bianco

Questa festa fu istituita da Innocenzo XI in ricordo della vittoria riportata contro i Turchi sotto le mura di Vienna il 13 settembre 1683. La Messa esalta la grandezza e la potenza el Nome di Maria, al quale anche i grandi della terra chiedono aiuto e protezione (Intr. – Oraz.). Perfino l’Arcangelo Gabriele pronunziò questio nome con sommo rispetto e venerazione (Vang. – Offert.). Tu pure saluta ed invoca Maria in ogni bisogno della tua vita; parla spesso di Ella che ha promesso la vita eterna a chi illustrerà il suo Nome (Epist.)

[A, Mastrorigo: Messale romano quotidiano. Vicenza – Casa editrice Favero, 1953]

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

 V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

… Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XLIV:13;15-16
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

Ps XLIV: 2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.

V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sǽcula sæculórum. Amen.

Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[I ricchi del popolo implorano il tuo volto. Dal re sono introdotte le vergini con lei: le sue compagne ti sono portate con festevole esultanza.

Vibra nel mio cuore un ispirato pensiero, mentre al Sovrano canto il mio poema.

V. Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo.
R. Come era nel principio e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.

I ricchi del popolo implorano il tuo volto. Dal re sono introdotte le vergini con lei: le sue compagne ti sono portate con festevole esultanza].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Orémus.

Concéde, quǽsumus, omnípotens Deus: ut fidéles tui, qui sub sanctíssimæ Vírginis Maríæ Nómine et protectióne lætántur; ejus pia intercessióne a cunctis malis liberéntur in terris, et ad gáudia ætérna perveníre mereántur in cœlis.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

[Concedi benigno, o Dio onnipotente, che i tuoi fedeli, che si rallegrano del Nome e della protezione della Vergine Maria, per la sua protezione, siano liberati da ogni male in terra e meritino di pervenire ai gaudi eterni in cielo.]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli 24:23-31
Ego quasi vitis fructificávi suavitátem odóris: et flores mei fructus honóris et honestátis. Ego mater pulchræ dilectiónis et timóris et agnitiónis et sanctæ spei. In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ et virtútis. Transíte ad me, omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini. Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum. Memória mea in generatiónes sæculórum. Qui edunt me, adhuc esúrient: et qui bibunt me, adhuc sítient. Qui audit me, non confundétur: et qui operántur in me, non peccábunt. Qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.
R. Deo grátias.

[Come una vite, io produssi pàmpini di odore soave, e i miei fiori diedero frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza. In me si trova ogni grazia di dottrina e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, voi tutti che mi desiderate, e dei miei frutti saziatevi. Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e la mia eredità più dolce di un favo di miele. Il mio ricordo rimarrà per volger di secoli. Chi mangia di me, avrà ancor fame; chi beve di me, avrà ancor sete. Chi mi ascolta, non patirà vergogna; chi agisce con me, non peccherà; chi mi fa conoscere, avrà la vita eterna].

Graduale

Benedícta et venerábilis es, Virgo María: quæ sine tactu pudóris invénta es Mater Salvatóris.
V. Virgo, Dei Génitrix, quem totus non capit orbis, in tua se clausit víscera factus homo. Allelúja, allelúja.
V. Post partum, Virgo, invioláta permansísti: Dei Génitrix, intercéde pro nobis. Allelúja.

[Tu sei benedetta e venerabile, o Vergine Maria, che senza offesa del pudore sei diventata la Madre del Salvatore.
V. O Vergine Madre di Dio, nel tuo seno, fattosi uomo, si rinchiuse Colui che l’universo non può contenere. Allelúia, allelúia.
V. O Vergine, anche dopo il parto tu rimanesti inviolata; o Madre di Dio, prega per noi. Alleluia].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam.
R. Glória tibi, Dómine.
Luc 1:26-38
In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elisabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

[In quel tempo, l’angelo Gabriele fu inviato da Dio in una città della Galilea, di nome Nazareth, ad una vergine sposa di un uomo di nome Giuseppe, della stirpe di Davide; e il nome della vergine era Maria. L’angelo, entrando da lei, disse: «Ave, piena di grazia; il Signore è con te; tu sei benedetta fra le donne». Mentre l’udiva, fu turbata alle sue parole, e si domandava cosa significasse quel saluto. E l’angelo le disse: «Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai nel tuo seno e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre: e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». L ‘angelo le rispose, dicendo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’ Altissimo ti coprirà della sua ombra. Per questo il Santo, che nascerà da te, sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio nella sua vecchiaia ed è già al sesto mese, lei che era detta sterile: poiché niente è impossibile a Dio ». Allora Maria disse: « Ecco la serva del Signore: sia fatto a me secondo la tua parola ».

Omelia

(Otto Hophan: MARIA; Trad. G. Scattolon, Imprim.Treviso 1953. Marietti ed. Torino, 1955).

Maria

Una colomba candida dall’eternità di Dio spiccò il suo volo nell’angusta vastità dei terreni millenni, lungo il succedersi delle umane generazioni e sopra le profondità dei cuori umani, la colomba volò e volò e, come quella di Noè, cercò una terra risparmiata dai flutti ed un ramo di olivo verdeggiante; non riposò nel suo volo, finché non li ebbe trovati tutti e due. La candida colomba è lo Spirito Santo di Dio, il ramo di olivo verdeggiante su terra non tocca è Maria. Maria! Il suo nome ci è familiare come il nome di mamma nostra e come le campane della patria e come le candide vette dei nostri monti, che in maestà salutano le sottostanti vallate. Maria! Mille volte abbiam ripetuto questo nome nella preghiera, nel canto, nel pianto, nei giorni lieti e tristi. Mille donne prendono nome dalla Benedetta. Nessun nome fra il popolo cattolico torna più frequente e più amato; esso intesse fili d’oro anche intorno alla più semplice donnetta. Maria! Nell’oscurità della vita e della morte voglio appoggiarmi a questo nome; esso è la promettente aurora, che annunzia il sorgere del sole, Gesù, nel Vangelo e nell’anima. Ti saluto, o Maria! Una folta edera di interpretazioni — sino a settanta! — si è attorcigliata al nome di Maria; quasi tutte però hanno avuto origine più dalla devozione che dalla conoscenza delle lingue. Probabilmente il nome di Maria risale al patrimonio linguistico egiziano: la sorella di Mosè e di Aronne, nata come i due fratelli in Egitto, è l’unica fra tutte le donne ricordate nel Vecchio Testamento che porti il nome Maria. Lo possiamo far derivare dalla radice egiziana “mr = amare” e da “Jam = Jahu (Jahve) ”, così da significare “Mirjam” l’amante di Dio o l’amata da Dio. Quando visse la beatissima Vergine, questo senso originario non era forse più evidente per la cultura del popolo israelitico; in quel tempo era più comodo spiegare “ Maria” con “màròm” = l’augusta, la sublime, interpretazione che corrisponde alle nostre espressioni “Madonna” “Notre Dame”, “Unsere liebe Frau”. «Nomen est omen — ogni denominazione ha la sua importanza », sin dai tempi di Adamo”. Quando i genitori imposero il nome Maria alla piccola Bambina, non sapevano che così esprimevano in modo eccellente la natura e la missione di quella creaturina, poiché non v’è persona che come Maria sia “amata da Dio” e come Lei sia “Donna eccelsa, cara” e Signora dell’umanità. Nel Nuovo Testamento sono ricordate anche altre Marie, ma, a differenza della Madre di Dio, esse non son dette nella versione greca ‘“ Mariam ”, bensì “Maria”, certamente per esplicita intenzione degli Evangelisti, che vollero riservare solo alla Benedetta la forma del nome di Maria, veneranda per antichità, come lo aveva portato la sorella di Mosè. Prevista! Il nome della beatissima Vergine splende nel Vangelo per la primissima volta alla fine di quella lunga serie di generazioni del Vecchio Testamento, che Matteo adduce come “albero genealogico di Gesù Cristo” nel primo capitolo del suo Vangelo: « Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda », e così continua per tre gruppi di quattordici generazioni ciascuno, sino che alla fine rifulge mite il nome di Maria come una luce finale di quella serie di generazioni veterotestamentarie: «…. Giacobbe generò Giuseppe, lo Sposo di Maria, dalla quale nacque Gesù, che è detto il Cristo ». Non è un caso fortuito, ma superiore disposizione che ci si faccia incontro per la prima volta il nome di Maria proprio qui, all’estremo lembo dell’Antico Testamento; i vincoli fra quella storia e Maria sono intimi e vari: quelle generazioni elencate da Matteo, vigorose e principesche alle origini, gravi, stanche, oscurate ed incomprese verso il tramonto, quali vigili che nella notte attendono la prima leggera luce, hanno spiato questa sublime Signora, e questa amata Signora con molte parole e immagini han previsto e predetto. Sino dalle prime pagine della Scrittura risuona Maria quale una canzone da terra lontana. Dopo il primo fallo, quando il Signore Iddio dovette scagliare la prima maledizione contro la sua recente e bella creazione, la maledizione contro il serpente seduttore che aveva tratto in inganno riguardo al paradiso la prima coppia umana, allora, nella tragedia e nel lutto di quell’istante, risuonò pure una prima melodia confortatrice: « Allora il Signore Iddio apostrofò il serpente:… Porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua schiatta e la schiatta di Lei. Essa ti schiaccerà il capo, mentre tu non le ferirai che il calcagno ». La lotta fra l’umanità e il serpente, iniziatasi già nel paradiso, prenderà un giorno una piega favorevole all’umanità, verrà giorno in cui un discendente di quella prima misera donna, che soccombette al serpente, lo vincerà pienamente; non è rivelato ancora chi sarà questo trionfatore del serpente, alla luce però del compimento della profezia sappiamo che è Cristo; Egli stesso infatti disse immediatamente prima della sua passione: « Adesso il principe di questo mondo è cacciato fuori ». Nella passione Cristo ha vinto il demonio e in essa Egli è stato anche “ferito” da quel maligno, e proprio alla lettera, “al calcagno”, ché i suoi piedi sono stati trafitti. Accanto alla Croce sta una donna, Maria; l’inimicizia fra questa “Donna” e il serpente è dura come il diamante, assoluta, implacabile, inestinguibile e non affatto paragonabile con la opposizione compiacente di Eva di fronte al seduttore. Col Figlio suo e grazie al Figlio suo, può anch’Ella affermare: « Il principe di questo mondo non può nulla contro di me »; Lei è la Donna, che è nemica del serpente molto più decisamente che non ogni altra. Giustamente, quindi, i Dottori della Chiesa, sin dai primi tempi, hanno colto in quella antichissima espressione biblica l’intonazione del cantico a Maria. Persino l’antica traduzione latina della Bibbia, la Volgata, legge: « Ella ti schiaccerà la testa »; “Ella” invece di “Egli”, come propriamente si legge nel testo originale; la Chiesa quindi esprime la sua fede nella inesorabile e vittoriosa inimicizia anche di Maria contro il demonio. – Pio IX nella proclamazione della verità dell’Immacolata Concezione riferisce questo testo scritturistico, riguardante Cristo, anche a Maria, scrivendo: « Come Cristo, il mediatore fra Dio e gli uomini… cancellò il chirografo avverso a noi e lo inchiodò alla croce vittoriosamente, così in pari tempo la beatissima Vergine, con Lui e per mezzo di Lui, stritolò con immacolato piede il capo al velenoso serpente, cui La oppone eterna inimicizia, riportandone pieno trionfo ». La prima immagine di Maria delineataci dalla Sacra Scrittura è vigorosa, combattiva: è la Donna in veste di nemica trionfatrice del serpente! Come è consolante per noi questa minaccia contro il nostro più rabbioso nemico! –  Delicata e anche molto più chiara è la seconda immagine di Maria offertaci dal Vecchio Testamento, abbozzata già nell’ottavo secolo prima di Cristo da Isaia, il più grande dei Profeti del popolo eletto: Maria, la Vergine-Madre. « L’Onnipotente stesso vi darà un segno: ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio e gli imporrà il nome di Emmanuele ». Isaia disse queste parole profetiche al re Achaz, che in mentita pietà verso Iddio non voleva nessun “segno” per la sua imminente battaglia con i re nemici, sotto pretesto « di non tentare il Signore »; fu allora che Iddio stesso gli impose un “segno”, un segno inaspettato e singolare: una donna gravida e partoriente che è nello stesso tempo “almàh”, che significa “vergine”. Nel vangelo di Matteo l’Angelo dell’Incarnazione rinvia esplicitamente l’esitante Giuseppe a questo testo profetico di Isaia, che s’adempiva nella sua Sposa: « Giuseppe, figlio di David, non temere di accogliere presso di te Maria, la tua sposa, perché quello che ha concepito è dallo Spirito Santo…”. Tutto questo è avvenuto perché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del Profeta:  “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, e gli si imporrà il nome di Emmanuele, che significa Iddio con noi”».  Maria è la “ha almàh ”, la vergine. Che questo ebraico “ ‘almàh ” risuonasse all’orecchio dell’amabile poeta e monaco Germano lo Zoppo a Reichenau (7 1054), quando diede inizio a un bellissimo Inno in onore di Maria con le parole: « Alma Redemptoris Mater — augusta Madre del Redentore »? Con la profezia di Isaia l’Antico Testamento ha già presagito e predetto di Maria i doni più eccelsi, i suoi due privilegi essenziali, quello più soave e quello più augusto, la verginità e la divina maternità, poiché il Bambinello che Ella partorisce è “Emmanuele — Iddio con noi”. E qualche cos’altro ancora di giocondo si cela nell’aurea profondità di questo vaticinio: quale importanza non avrà Maria per l’umanità, se Iddio stesso, fra tutte le dimostrazioni possibili della sua onnipotenza « nelle profondità o nelle altezze », sceglie qual suo “segno” per l’umanità la Vergine-Madre! Nel Vecchio Testamento ricorre anche una terza parola profetica riferentesi a Maria, un passo del profeta Michea. È breve, eppure corona d’un’ultima aureola l’immagine di Maria delineataci nel Vecchio Testamento. Nella tribolazione del suo popolo Michea grida le profetiche parole: « Ma tu, Betlemme in Efrata, la minima fra i distretti di Giuda, da te Mi uscirà Colui, che sarà il dominatore in Israele. La sua origine è dal principio dei giorni dell’eternità. Per questo Egli li abbandonerà sino al tempo, nel quale la partoriente partorirà. Allora le reliquie de suoi fratelli ritorneranno ai figli di Israele. Egli si stabilirà e dominerà con la potenza del Signore… Abiteranno allora sicuri; Egli starà grande e sarà la salvezza » (Mi. V.,1 seg.). Questo misterioso vaticinio, cui d’intorno aleggia eternità, colloca Maria accanto al Dominatore e Salvatore del mondo; ivi abbiamo un primo sommesso accenno al posto regale di Maria, “la partoriente”, a fianco di Colui che « dominerà con la potenza del Signore ». Nemica del serpente, vergine-madre, genitrice del Dominatore del mondo: con queste poche parole il Vecchio Testamento ha espresso profondi presagi riguardo a Maria. Ma queste tre profezie così parche non dicon tutto quello che l’Antico Testamento annunzia di Lei; dalle venerande torri delle Scritture veterotestamentarie pendono silenti molte campane, che al nome di Maria emettono note soavi. Nel libro dei Proverbi, ad esempio — la Chiesa usa il brano come lettura nella festa della Concezione di Maria e della sua nascita —, leggiamo: « Il Signore mi ebbe con sé dall’inizio delle sue imprese, prima che facesse cosa alcuna, da principio. Ab æterno sono stata costituita, anteriormente alla formazione della terra. Io già era generata e gli oceani non esistevano e le fonti delle acque non scaturivano ancora, né i monti ancora si ergevano sulla loro grave mole; prima dei colli io fui generata… Quando gettava i fondamenti della terra, io Gli ero a fianco plasmatrice… Mi trastullavo dinanzi a Lui continuamente, mi trastullavo nel cerchio della terra, e le mie delizie eran starmene con i figli degli uomini » (VIII, 22-35). Queste parole direttamente convengono al Verbo, alla Sapienza personale di Dio, che fatto uomo pose la sua tenda fra gli uomini; ma frattanto lo Spirito Santo non avrà avuto dinanzi in questo testo, come in un gioco d’amore, anche Maria? – Nella festa della Visitazione di Maria, in questo giorno tutto fragranza e intimità, quando la Benedetta si affrettò a recarsi alla regione montana, il sole sul volto e i fiori e il vento sui capelli inanellati, la Chiesa chiede a prestito al Cantico dei Cantici le parole: « Sorgi, affrettati, amica mia, colomba mia, bella mia, e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia e se n’è andata; i fiori son riapparsi sulla nostra terra… I vigneti in fiore spandono il loro profumo. Sorgi dunque, amica mia, vieni, bella mia! Colomba nei crepacci della rupe, celata nei dirupi, fammi vedere il tuo viso, fammi sentire la tua voce! Perché soave è la tua voce, delizioso il tuo viso » (II, 8-14). Da capo, si pensa che lo Spirito Santo abbia qui eseguito, secoli prima, una melodia in onore della Beatissima Vergine, anzi tutto il Cantico dei Cantici, infuocata canzone di amore fra fidanzati e sposi, ha avuto il suo sublime compimento in Maria, la Madre e la Sposa dell’eterna Parola. Nella festa della Maternità di Maria la Chiesa coglie la sua lettura nel giardino del libro di Gesù, figlio di Sirach, e noi dobbiamo nuovamente ammirare come queste antiche espressioni adornano in modo tanto appropriato Maria, quasi siano state scelte per Lei già molto tempo prima: « Io uscii dalla bocca dell’Altissimo… Sulle altezze eressi la mia tenda… L’orbita del cielo percorsi io sola… Presso ogni popolo, in ogni tribù cercai una dimora… Allora mi comandò il Creatore di tutte le cose, e Quegli che mi creò mi diede una stabile dimora. Diss’Egli: “Drizza la tua tenda in Giacobbe, in Israele procurati un’eredità”… Come una vite feci sbocciare soavità di profumo e i miei fiori germogliarono vaghi e belli. Io son la madre del bell’amore, del timore e della scienza e della santa speranza. In me è la grazia di ogni via e di ogni verità, in me è tutta la speranza di vita e di virtù. Venite a me, o voi tutti che mi desiderate, e saziatevi de’ miei frutti» (Eccl. XXIV). Questi tratti del Vecchio Testamento e molti altri ancora — incontreremo i significativi versi del Salmo XLIV nell’ultimo capitolo — valgono direttamente per Gesù, che è il sublime termine di tutta la Sacra Scrittura, non per Maria; essi ebbero “ compimento ” in Gesù; non possono quindi queste frasi bibliche essere addotte come prove a se stanti per Maria; pure la loro applicazione alla Vergine non è un pio giochetto soltanto, è invece intimamente fondata. Per questo la Liturgia e i Dottori della Chiesa non hanno esitato ad interpretare molte parole del Vecchio Testamento anche di Maria, il che conferisce ad esse di nuovo un peso particolare. Maria, infatti, sta in stretta armonia col suo Figlio; quando dunque nelle Scritture Sante risuona il potente accordo Gesù, entra nel concerto anche l’arpa deliziosa, Maria. Il Vecchio Testamento quindi, possente preludio del futuro e sublime Redentore, è ricco di segrete armonie mariane, che un cuore amante può ascoltando cogliere facilmente. Possiamo completare la stessa considerazione con un’altra immagine. Vi sono nel Vecchio Testamento numerose pre-figure, tipi, che in santa televisione fan vedere in anticipo persone e avvenimenti. La Sacra Scrittura stessa riguardo a Cristo rinvia ripetutamente ai tipi dell’Antico Testamento; Adamo, Melchisedech, Isacco, il serpente di bronzo, David, Giona e molti altri ancora furono contemplazioni di Cristo da lontano, televisioni di Cristo. – Nel Vecchio Testamento vi son pure televisioni di Maria, che l’attento e pio senso della Chiesa ha percepite per tempo. Maria è il giardino del paradiso, nel quale fiorisce l’albero della vita; Maria è l’arca di Noè, che sta alta sui flutti del diluvio; Maria è la colomba col ramo di olivo, che annunzia al mondo la pace; Maria è la scala di Giacobbe, per la quale Iddio scese in terra; Maria è il roveto ardente, che circondato dal fuoco non brucia; Maria è l’arca dell’alleanza, sulla quale riposa la maestà di Dio; Maria è il santo tabernacolo, nel quale troneggia Iddio stesso; Maria è la suppellettile aurea, sacra unicamente al servizio di Dio; Maria è la città di Sion, fabbricata sul monte santo, Maria è il tempio del Signore, più prezioso di quello di Salomone. Maria è il vello di Gedeone, irrorato dalla grazia, preservato da macchia; Maria è la nuvoletta dal mare, che dissigillò il torrente della misericordia; Maria è il giardino chiuso, nel quale nessuno può metter piede se non il Signore solo; Maria è la torre robusta dalla quale risplendono mille scudi. Quanta parte occupa Maria già nella lontana visione del Vecchio Testamento! – Le Litanie Lauretane riflettono nelle loro invocazioni parecchie di queste figure: « Sede della Sapienza », « Vaso spirituale », «Vaso degno d’onore », « Vaso insigne di devozione », « Rosa mistica », «Torre di David», «Torre d’avorio », « Casa d’oro », « Arca dell’Alleanza », « Porta del Cielo ». – Maria, per seguire un raffronto che è vecchio quanto il Cristianesimo stesso, è la vera Eva, la Madre dei viventi; Maria è la coraggiosa Giuditta, che superò il nemico di Dio; Maria è l’avvenente Ester, che gode sempre dell’accesso al Re. Veramente nel Vecchio Testamento già si avvera quanto canta il pio poeta protestante Novalis: « Ti veggo in mille immagini, Maria, graziosamente espressa e dolce e pura, pur nessuna fra tutte Ti figura qual intender Ti può l’anima mia ». – Preparata! L’annoso albero, fra i cui rami v’è misterioso stormir di Maria, ha fornita alla Vergine anche l’origine. Ella sta alla fine di quelle lunghe generazioni, è il frutto più squisito e regale dell’umanità precristiana. Quelle generazioni giunsero a maturare in Maria, il loro ultimo significato e la loro più intensa aspirazione han trovato compimento in Lei, poiché « da Lei nacque Gesù, che è detto il Cristo ». Maria è emersa dal fiume di sangue, che scorse attraverso Abramo, Giacobbe, Giuda, David, sì che il popolo israelitico non Le ha intessuto soltanto una immagine spirituale, ma anche la veste corporea; sia pure la sua dignità al di sopra del creato, Lei stessa non è una creazione eterea, dal cielo per caso libratasi quaggiù; Ella è sangue da quel sangue, figlia di quel popolo e vincolata in venerazione e fedeltà a quelle generazioni, alle quali deve il suo essere. Maria, secondo l’accenno dell’Evangelista stesso, dev’esser vista insieme con quelle generazioni; Ella non appartiene solo al Nuovo Testamento; è vero, è la prima del Nuovo Testamento, la prima cristiana; però è anche — già nel primo capitolo del Vangelo Ella annunzia la sua comunanza col popolo di Dio prima e dopo Cristo — il frutto più delicato dell’Antico Testamento, la perfetta donna israelita, la figlia di David, di Abramo, di Adamo. Maria… la figlia di David. La genealogia di Matteo presenta direttamente gli antenati di Giuseppe, non quelli di Maria; all’Evangelista infatti stava a cuore di provare subito, sin dall’inizio del Vangelo, ai suoi lettori giudeo-cristiani l’origine davidica di Gesù: solo se Gesù aveva per antenato David i Giudei potevano discutere se in linea di massima Egli fosse il Messia; a David infatti era stata fatta la profezia che un frutto delle sue viscere avrebbe posseduto in eterno il trono di Israele; ora i Giudei potevano ritenere Gesù quale “figlio di David” soltanto se suo “padre” Giuseppe discendeva dalla stirpe di David. Per questo Matteo fu costretto a proporre l’albero genealogico di Giuseppe, padre legale di Gesù, quale prova dell’origine di Lui da David; presso gli Ebrei la parentela e persino la paternità non si fondavano solo sul sangue, ma anche sul titolo giuridico. Non si tessevano genealogie per le donne, almeno dalla Sacra Scrittura non se ne può dedurre nessun esempio; però anche Maria per conto suo era una figlia di David. Paolo infatti sottolinea che Gesù « secondo la carne » — non dunque solo secondo una discendenza legale! — « è figlio di David », ma « secondo la carne » Gesù poteva risalire a David solo per mezzo di Maria, sua Madre fisica, perché Giuseppe non era padre di Gesù « secondo la carne », ma solo secondo la legge; anche Maria quindi doveva essere figlia di David; del resto, almeno sino a David, gli antenati di Giuseppe son pure gli antenati di Maria. « Noi riteniamo che Maria « discenda dalla stirpe di David », scrive Agostino, « perché crediamo alle critture; or due cose dicono le Scritture: che Cristo secondo la carne è del seme di David, e che sua Madre Maria era una vergine, che non ebbe relazioni con nessun uomo ». I Vangeli stessi del resto alludono all’origine davidica di Maria in vari luoghi. Nel racconto, per esempio, dell’Annunciazione si dice: « Nel mese sesto l’Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine fidanzata a un uomo di nome Giuseppe, della casa di David »; questo inciso « della casa di David » può riferirsi a Giuseppe, ma può ben, e più probabilmente, riferirsi anche a Maria, perché Lei è qui la protagonista del racconto. E questa impressione è confermata dal seguito del discorso angelico: « Il Signore Iddio Gli (a Gesù) darà il trono di David suo padre ». Anche l’altra circostanza notata dall’Evangelista: « Giuseppe ascese dalla Galilea, dalla città di Nazaret, in Giudea, alla città di David, chiamata Betlemme, perché era della casa e della famiglia di David, per farsi iscrivere insieme a Maria », fa pensare che Maria sia stata indotta ad ascendere a Betlemme per il censimento perché Lei pure « discendeva dalla casa e dalla famiglia di David ». A buon diritto quindi già nella prima epoca cristiana il martire Ignazio di Antiochia (f 107), il martire Giustino (f 165) sottolineavano che Maria era una figlia di David. Anzi l’antico profeta Isaia stesso richiamò l’attenzione sull’origine davidica della Vergine nel passo conosciuto: « Uscirà un pollone dalla radice di Jesse e un germoglio ascenderà dalla sua radice »; Jesse era padre di David. « Il Profeta », spiega Agostino, « dicendo “pollone”’ indica Maria la vergine, dicendo “germoglio dalla radice” indica il Figlio della Vergine, il Signore Gesù Cristo ». Perché questo lungo discorso per l’origine davidica di Maria? Perché aveva per Lei stessa una grande importanza. Ella manifesta sin dall’Annunciazione una regale riservatezza, prudenza, chiaroveggenza e magnanimità, e mai e poi mai si scopre traccia in Lei della minima scipitezza e affettazione. Donde in questa modesta fanciulla un portamento così elevato? Certamente dalla grazia; ma la grazia anche in Maria costruisce sopra la natura. Scorreva nelle sue vene sangue regale; per quanto la stirpe di David fosse divenuta nel corso dei secoli e povera e insignificante, in quella semplice fanciulla s’era conservata la regale nobiltà dei suoi lontani antenati. Quella fanciulla di stirpe regale fu scelta da Dio a Regina del Cielo e della terra: anche nel regno della grazia non si deve stimare da poco l’origine di una persona da una tribù e casa piuttosto che da un’altra. – Il nostro tempo crea e vuole e assiste il “proletario”, non l’aristocratico, e così il livello dello spirito e del cuore si è abbassato, in qualche luogo sino alla barbarie. Forse il compito sociale più importante consiste oggi nel risvegliare nuovamente nel così detto “proletario” l’elemento aristocratico, la sua nobiltà interiore, e dalle banalità o anche dalle volgarità elevarlo di nuovo alla regalità, alla coscienza cioè della sua dignità e del suo valore. Abramo fu scelto a capostipite del popolo di Dio, e per questo la Scrittura lo dice « principe di Dio», « amico di Dio », « prediletto di Dio », «servo di Dio ». A lui fu fatta la promessa: « Nel tuo seme saranno benedette tutte le genti della terra » . Maria è Colei, che partorì al mondo questa Benedizione. Ella, quindi, non è una qualunque fra le molte figlie di Abramo, ma di quell’eletto è la più eletta, il preziosissimo nocciolo di quel venerando guscio. Il Vangelo ci mette dinanzi quanto questa Figlia eletta sia stata degna di quell’eletto padre. Abramo fu l’uomo della fede eroica e di una tale dedizione a Dio, che fu pronto a offrire in sacrificio al Signore persino il suo unico figlio Isacco, sul quale riposava tutta la divina promessa. Ancor più grande di suo padre Abramo nella fede e nel sacrificio fu la sua figlia Maria: Lei pure, sostenuta dalla fede, accompagnò al luogo del sacrificio il suo Unigenito; ma a Lei non venne in aiuto nessun Angelo, che impedisse col suo comando l’uccisione: Ella dovette condurre a termine il sacrificio nella persona del suo unico e amato Figlio. Il quadro sarebbe degno d’un artista: Abramo e Maria, il canuto Patriarca con la sua benedetta Figlia; Abramo dovrebbe imporre le sue vecchie mani su questa Fanciulla per significare che le promesse a lui fatte si son adempiute in Lei; poi dovrebbe lentamente inginocchiarsi dinanzi a Maria e adorare in Lei, ostensorio vivente di Gesù, quel Sublime, che, come vero Melchisedech, offre a Dio pane santo e vino consacrato. Ancor più commovente, ancor più profondo è l’ultimo quadro: Maria… la figlia di Adamo. Le chiarissime parole del libro veterotestamentario della Sapienza riguardanti l’umana esistenza valgono anche per Maria: «Sono anch’io un uomo mortale al pari di tutti, e rampollo di colui che primo fu plasmato di terra. Nel seno di mia madre fui formato uomo, nello spazio di dieci mesi coagulato in sangue per virtù di uomo, secondo il piacere sensibile. Anch’io, nato che fui, respirai l’aria comune, e caddi sulla medesima terra di tutti gli altri, e la prima voce emessa, come quella di tutti, fu un vagito. Fui nutrito in fasce e con grandi cure. Nessun re ebbe altro principio del suo essere, ma tutti hanno lo stesso ingresso alla vita come anche uguale l’uscita ». Maria non fu una fanciulla favolosa, deposta su questa terra da un altro mondo; la sua origine umana è uguale alla nostra: non fu generata dai suoi genitori in modo miracoloso o addirittura senza uso del matrimonio, come van favoleggiando graziose leggende; il Mistero del suo immacolato concepimento e anche quello della virginale concezione di Gesù non han nulla da che vedere con questo fatto umano, come talora pensano delle anime pie. Maria, come ne fan cenno Matteo e Luca nelle genealogie, sta nella stessa fila con noi, anche Lei è un membro di quella lunga catena, che comincia col primo uomo; Adamo è suo padre e la povera Eva è sua madre. Maria è così perfettamente figlia di Adamo, che il Figlio di Dio per mezzo di Lei e solo per mezzo di Lei divenne pure Figlio dell’uomo; solo per mezzo di Lei la seconda Persona divina fece ingresso nella stirpe umana, per mezzo di Maria soltanto. Il Verbo eterno di Dio non ebbe nessun padre umano che Lo potesse congiungere con Adamo; anello di congiunzione col nostro progenitore fu per il Verbo Maria; Ella introdusse quell’augusto divino Germoglio nella nostra stirpe; senza Maria Gesù non sarebbe affatto in relazione con Adamo, non sarebbe uno di noi, sarebbe al di fuori della nostra schiatta. D’altra parte, questo collegamento con Adamo fu per la redenzione del genere umano estremamente significativo e prezioso: il Figlio di Dio assunse la natura umana per strapparla al peccato e ricondurla alla grazia; come il medico deve entrare dagli ammalati, così e ancor più volle il Redentore entrare, penetrare nella discendenza ammalata di Adamo per poterla risanare sin dalla sua radice. Nessuna minaccia per Lui stesso, nessuna infezione rendeva pericoloso questo suo ingresso; Gesù è il Santo, il Figlio di Dio per natura; Egli, qual nuova creazione, fu miracolosamente plasmato in Maria dallo Spirito Santo. Ma come van le cose per Lei? Ella infatti è una figlia di Adamo, sangue del suo sangue, e lo dovette essere proprio a motivo di Gesù stesso; ora il torrente di questo sangue, cui Lei deve la sua origine, è avvelenato nella Sua stessa sorgente, in Adamo ed Eva: potrà mai essere che non venga travolta in questo vortice intorbidato? Quanto il peccato abbia reso pesante il torrente del sangue umano da Adamo in poi lo prova, e non senza sconcertare, quella genealogia, che sfocia ansiosa nei sublimi nomi di Maria e di Gesù. Perché veramente in quei gruppi di generazioni non sfilano soltanto venerandi Patriarchi, nobili re e santi sacerdoti; non v’è anzi vizio, non v’è crimine, che non abbia insudiciato quel succedersi di generazioni. Persino i più eletti fra quei personaggi — Abramo, Giacobbe, Giuda, David — pagarono un grosso contributo al peccato; e questo vale in modo speciale per le donne che quell’albero genealogico ricorda; rimase sorpreso lo stesso Girolamo, così competente in campo biblico, che la tavola genealogica di Matteo non nomini nessuna delle nobili donne d’Israele — non Sara, non Rebecca, non Rachele —, e invece ricordi Tamar, che commise incesto col proprio suocero Giuda; Rahab, che era una nota meretrice; Ruth, che non apparteneva al popolo eletto; la moglie di Uria, come Matteo stesso scrive con pudica riservatezza a causa del delitto che perpetrò David commettendo adulterio con Betsabea, il cui sposo egli fece poi vilmente uccidere. Che vi è mai in Maria di comune con questa società, perché il suo nome quale astro errante risplenda su quelle torbide generazioni? Noi solleveremmo dei gravi dubbi per un uomo, che ereditariamente fosse gravato di così triste carico. Maria discende da questo sangue curvo sotto la maledizione; David, Giuda, Giacobbe sono i suoi progenitori; Tamar, Rahab, Ruth, Betsabea son le sue progenitrici. Eva, l’infelice madre, abbraccia piangente la più eletta delle sue creature e le confessa la propria colpa; e Adamo tace e piange, perché non può trasmettere alla più nobile delle sue figlie se non un’eredità macchiata. Maria è intrecciata alla generazione di Adamo; come potrà sfuggire al suo destino? La radice è malata: avvizziranno anche i rami; la sorgente è inquinata: tutte le acque saran contaminate… A questo punto però avvenne qualche cosa; proprio qui, alle origini di Maria, capitò qualche cosa: all’oscura ombra della sua genealogia sbocciò un giglio; a questo primo e importante capitolo del Vangelo si appoggia il suo primo soave Mistero, siccome un delicato fiore a una frana, che s’è arrestata improvvisamente dinanzi ad esso: un fiore tutto bianco, un fiore tutto miracolo, il fiore della sua Immacolata Concezione.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Luc 1:28; 1:42
Ave, María, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

Secreta

Tua, Dómine, propitiatióne, et beátæ Maríæ semper Vírginis intercessióne, ad perpétuam atque præséntem hæc oblátio nobis profíciat prosperitátem et pacem.
[Per la tua clemenza, Signore, e per l’intercessione della beata vergine Maria, l’offerta di questo sacrificio giovi alla nostra prosperità e pace nella vita presente e nella futura].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine

…. Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:
[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei,

 qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Beáta víscera Maríæ Vírginis, quæ portavérunt ætérni Patris Fílium.

[Beato il seno della Vergine Maria, che portò il Figlio dell’eterno Padre].

Postcommunio

Orémus.
Sumptis, Dómine, salútis nostræ subsídiis: da, quǽsumus, beátæ Maríæ semper Vírginis patrocíniis nos úbique protegi; in cujus veneratióne hæc tuæ obtúlimus majestáti.
[Ricevuti i misteri della nostra salvezza, ti preghiamo, o Signore, di essere ovunque protetti dalla beata sempre vergine Maria, ad onore della quale abbiamo presentato alla tua maestà questo sacrificio].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)