LO SCUDO DELLA FEDE (XIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

L’ESISTENZA DI DIO.

— L’esistenza di Dio dimostrata dall’esistenza nostra. — Dall’esistenza del mondo. — Dall’ordine dell’universo e del suo movimento. — Dal comune consentimento dei popoli. — Da coloro stessi che la negano.

— Capisco bene, che dopo d’esser stato convinto che devo credere a tutte le verità che insegna la Chiesa Cattolica, non avrei più da fare difficoltà di sorta per nessuna di esse. Ma il desiderio di istruirmi sempre più e di togliermi dalla mente ogni falsa idea anche intorno ai punti particolari della dottrina cristiana mi spinge a farmi da capo, certo che la sua bontà in rispondermi non verrà meno.

Ciò che tu desideri, lo desidero ancor più io per giovarti quanto più mi è possibile. Domanda perciò, esponi liberamente ogni dubbio, obbietta tutto quello che credi opportuno al tuo fine anche riguardo ai punti particolari della dottrina cristiana.

— Quale sarebbe adunque la prima verità da credere?

L’esistenza di Dio. S. Paolo dice chiaro a nome del Signore che chi vuol andare a Lui deve credere anzitutto che Egli esiste (V. Lettera agli Ebrei, Capo XI, Versetto 6). Epperò è questa la verità, che appare per la prima nell’insegnamento cristiano, la verità che ad ogni tratto ci è rivelata nelle Sacre Scritture sia dalle manifestazioni (teofanie) continue che di Dio ci sono in esse narrate, sia dalle affermazioni che esse ce ne fanno.

— Ma! Sarà poi vero che vi sia un Dio?

E sarà vero che ci sia tu?

— Oh! di questo mi pare di non dover dubitare.

Ma tu perché ci sei?

— Ci sono perché ci sono stati i miei genitori, che mi han dato la vita.

E i tuoi genitori perché ci sono stati?

— Oh bella questa! Perché ci furono i loro avi.

E i loro avi perché ci furono?

— Ma comprenderà bene che è sempre la stessa storia.

Oh no! questo che dici non è giusto. Se tu prendi in mano una catena e dalla fine di essa vai giù di anello in anello, arriverai certamente al primo. Così se risali da genitori in genitori bisogna pure che tu arrivi a trovare quelli che furono i primi genitori.

— Ciò è verissimo.

Or bene quei primi genitori, dimmi, hanno essi avuti altri genitori?

— Eh! allora non sarebbero più stati i primi.

Dunque come hanno fatto ad esistere quei primi genitori?

— Saran venuti fuori dalla terra.

Bambini o già adulti?

— Saran venuti fuori bambini.

Ma bambini non sarebbero morti subito per mancanza di aiuto?

— Allora saran venuti fuori adulti?

Adulti? Ma ti pare? Il solo pensiero che un uomo ed una donna siano saltati fuori dalla terra già grandi e grossi tutto ad un tratto non ti fa ridere? E poi perché, se ciò fosse avvenuto una volta, adesso non accade più mai?…  Inoltre come si son formati dalla terra questo primo uomo e questa prima donna?

— Si saran formati a poco a poco per mezzo di successive trasformazioni. Per esempio prima saranno stati un pugno di fango e poi questo pugno di fango per certe forze intrinseche si sarà sviluppato e trasformato in una specie di animale, questa specie di animale, ancora molto imperfetto, a poco a poco si sarà trasformato in un altro animale più perfetto, e questo in un altro ancor più perfetto fino a tanto che si sarà arrivati alla scimmia, e dalla scimmia il passaggio all’uomo non deve essere stato difficile.

Ah sì? E come mai da migliaia di anni, che il mondo si trova quale esso è, non si è più mai veduto nulla di simile ? Com’è che le scimmie sono sempre rimaste scimmie? che le rane sono sempre rimaste rane e i pesci sempre rimasti pesci? Com’è che se tu pigli un pugno di fango e lo poni, mettiamo, in una scatola, e lo lasci lì per anni ed anni, per secoli e secoli, rimane sempre un pugno di fango? E poi quando pure fosse come tu dici, non ci sarebbe ancor sempre da spiegare come cominciò ad esistere quel pugno di fango, e donde originarono quelle forze che lo hanno trasformato? Non ricordi il problema dell’uovo e della gallina? Un amico chiedeva ad un altro: Mi sapresti dire qual dei due sia stato prima: l’uovo o la gallina? — La gallina, rispose questi. — E questa gallina, riprese quegli, dond’è venuta? — Da un uovo. — E allora non fu più la gallina ad esistere per la prima. — Già lo vedo anch’io; dunque prima esistette l’uovo. — E questo uovo da chi provenne? — Eh, caro mio, vedo che non si finirebbe più sia a pensarla in un modo sia a pensarla ad un altro. — Dunque bisogna riconoscere che v’è stato chi produsse o il primo uovo o la prima gallina. – Alla peggio pertanto, tornando a noi, non bisognerebbe ammettere che c’è stato chi ha dato esistenza a quel primo pugno di fango e vi ha infuso dentro quelle forze?

— Ah! questo è vero.

Ma siccome il fango rimane sempre fango, perché non ha in sé e per sé nessuna forza che lo faccia passare ad uno stato migliore, siccome le bestie rimangono sempre bestie, siccome non è possibile che un primo uomo ed una prima donna, siano venuti fuori dalla terra né grandi e grossi, né piccoli bambini, e siccome vi è stato un primo uomo e una prima donna, da cui sono venuti al mondo tutti gli altri, perciò bisogna che vi sia stato qualcuno, che abbia formati il primo uomo e la prima donna, e ben si capisce qualcuno dotato di ragione e di volontà, di gran lunga superiore all’uomo, perché nessun uomo può formare per creazione un altro uomo; bisogna insomma che vi sia stato, che vi sia Dio.

— Ma come si fa a credere che ci sia Dio se non si vede?

E tu hai già veduto la tua mente? Hai già veduto l’aria? Hai già veduto la febbre? Eppure dubiti che ci sia la tua mente, che ci sia l’aria, la febbre?

— Ma la mia mente si rivela nei pensieri, che mi vengono, nelle parole che profferisco, nelle azioni che compio; l’aria la respiro, e la febbre posso sentirmela in dosso.

È la stessa cosa di Dio. Gira gli occhi intorno a te, levali in alto, gettali in basso, che cosa vedi tu?

— Vedo millanta cose. Vedo gli uomini, vedo gli animali, vedo le piante, vedo le case, vedo le colline, le montagne, il mare, i fiumi, il sole; di notte vedo la luna, le stelle!

E tutte queste cose che vedi chi le ha fatte?

— Talune, come le case, le hanno fatte gli uomini.

Benissimo! E vedendo una casa qualsiasi, fosse pure una miserabile catapecchia, ti è mai passata per la mente che siasi fatta da sé?

— Allora sarei un matto.

E se saresti matto nel pensare che una casa qualsiasi, fosse pure una catapecchia, si sia fatta da sé, non saresti matto egualmente nel pensare che siansi fatte da sé tutte le altre cose che esistono, e gli uomini non possono aver fatte, come le piante, i fiori, le erbe, le montagne, i mari, i fiumi, gli animali, gli uccelli, i pesci, le stelle, il sole, la luna, eccetera?

— Oh certamente.

Se adunque la luna, il sole, le stelle, i pesci, gli uccelli, gli animali, i fiumi, i mari, le montagne, le erbe, i fiori, le piante, eccetera, non si sono fatte da per sé, non ti rivelano chiaro che deve esistere qualcuno che le abbia fatte? che deve esistere il loro creatore? Che deve esistere Iddio?

— Sì, è vero.

Dicevano dunque bene quei due Arabi, ai quali chiedendosi in qual modo conoscessero che Dio esiste, rispondevano, l’uno: « Allo stesso modo che io riconosco dalle tracce segnate sulla sabbia che vi è passato un uomo od una belva; » e l’altro: « Non è forse l’aurora che mi annunzia il sole? » Epperò quanto giustamente le Sacre Scritture vanno dicendo che « la magnificenza della creazione fa vedere e conoscere all’anima nostra il Creatore d’ogni cosa « (v. Libro della Sapienza, Capo XIII, Versetto 5); e che « i cieli sono come le pagine di un libro, in cui si può leggere la sua gloria, e il firmamento annunzia ch’esso è l’opera delle sue mani, e il nome ammirabile di Dio si legge su tutta la terra » (v. Salmi XVIII e VIII). Ne son prova questi altri fatti. Il filosofo Sintennis prese un bambino e lo condusse in una villa segregandolo del tutto dal mondo e non parlandogli mai di Dio, pensando per tal guisa di poter dimostrare col fatto che l’uomo non arriva di per sé a conoscere l’esistenza di Dio. Ma rimase deluso. Perché cresciuto il fanciullo, un mattino lo vide tra l’incanto della natura indirizzare i suoi passi sopra un poggetto del giardino ed ivi inginocchiarsi e mandare baci al sole e dire: « O tu che sei così bello e che sei più vicino al Creatore di tutte le cose, salutalo per me, e digli ch’io l’amo! » Interrogato quindi il fanciullo chi gli avesse detto che c’era un Dio Creatore del mondo e chi gli avesse insegnato a pregare così, quegli rispose: « Tutto ciò che vedo e mi circonda, tutto mi dice che c’è chi ha fatto il mondo, e che io lo devo adorare. – Anche il giovane Tagliapietre di Saint Point, come narra Lamartine, ad un gentiluomo che lo interrogò, perché mai tutto solo attendesse al lavoro nella sua valletta rispose: « In tutta la mia vita non mi sono mai sentito solo un momento. Si è forse soli, quando si ha Dio al fianco e si è circondati da Dio? ». « Hai ragione, replicava il gentiluomo ; ma tu come hai saputo tutto da te sollevarti fino a questa presenza di Dio e avvezzarti a vedertelo al fianco come un amico? » – « Come ho potuto? Io sono ignorante, ma ho appreso da mia madre e da molte anime buone a conoscere e adorare Iddio. Ma quando anche ciò non fosse stato, quando pure non avessi mai udito il catechismo della Parrocchia, forse che non ci ha un catechismo in ogni cosa che ne circonda, il quale insegna agli occhi e all’anima dei più ignoranti? Il nome di Dio non abbisogna di lettere dell’alfabeto per essere letto. L’idea di Dio s’incontra coi nostri sguardi sin dal primo raggio di luce che ci visita e ci rallegra ».

« Dunque tu vedi Iddio? »

« Se lo vedo! E potrei io esprimere per quali modi e per quante immagini? Ora lo vedo come un cielo senza confine seminato di occhi da ogni parte Ora lo vedo come un mare che non ha lido, donde escono in gran numero isole e terre. Ora lo vedo come un gigante, carico di montagne, di mari, di soli, di mondi addossati l’un l’altro, di cui non sente il peso … Io sono un insipiente, le frasi e le immagini mie sono quelle di un ignorante… Ma io vedo il mio Dio! » – Il Metastasio espresse pur bellamente la stessa verità con queste due belle strofe:

Dovunque il guardo io giro

Immenso Dio, ti vedo;

Nell’opre tue t’ammiro,

Ti riconosco in me.

La terra, il mar, le sfere

Parlan del tuo potere:

Tu sei per tutto, e noi

Tutti viviamo in te.

Ma non è solo l’universo e la sua bellezza che ci mostrino l’esistenza di Dio; ce la mostrano altresì l’ordine, l’armonia, la disposizione ammirabile delle cose tutte. Se tu guardi un bel quadro, una bella statua, se tu consideri la struttura di un magnifico orologio, se tu ammiri un giardino ordinato con vaghissime aiuole, oseresti tu dire che quel quadro si è dipinto da sé e che i colori si sono distesi e stemperati gli uni accanto e sopra gli altri sulla tela fino a che ne è venuto fuori quel quadro stupendo? Oseresti tu dire che nel blocco di marmo, da cui è venuta fuori quella statua, da per sé si sono rotti i pezzi, levate le schegge lisciate le parti, fino a che di per sé si è formata la bella statua? Oseresti tu dire che in quell’orologio si sono collocati a posto di per sé i perni, e dentro di essi le ruote, e le une si sono di per sé incastrate nelle altre, tanto da mettere in movimento quell’orologio! Oseresti dire infine che in quel giardino le aiuole da se stesse si sono ordinate e piantate di fiori?

— Sarebbe da ridere.

Ebbene non sarebbe da ridere anche più nel vedere l’ordine che vi regna nell’universo, e dire che quest’ordine si è fatto da sé? Mira le stelle: ciascuna sta sempre al suo posto, percorre sempre la stessa orbita. Mira le stagioni; si succedono sempre regolarmente le une alle altre. Mira gli uomini, gli animali, le piante, si riproducono sempre secondo la loro specie. E non ci sarà dunque chi tutto ha ordinato così, come c’è un giardiniere che ha ordinato le aiuole di un giardino, come c’è un orologiaio che ha messo a posto le ruote d’un orologio, come c’è uno scultore che ha fatto una statua, come c’è un pittore che ha fatto un quadro?

— Sì, è vero, verissimo; ma non si potrebbe dire che il mondo si è fatto e ordinato a caso?

A caso? Ma che cos’è il caso?

— Non saprei dire.

Il caso, in questo caso, è nulla. E il nulla non fa nulla, non ordina nulla. Curiosa questa! Non diresti mai che il caso ha dipinto un quadro, tratta una statua, composto un orologio, ordinato un giardino, e vorresti dire che il caso ha fatto e ordinato l’universo?

— Ha ragione; ma se non si può dire che ciò abbia fatto e ordinato il caso, non può invece averlo fatto e ordinato madre natura?

Madre natura? Ecco; se per madre natura tu intendi quell’Essere che, dotato di intelligenza e volontà, ha tutto fatto ed ordinato, con ciò ammetti senz’altro l’esistenza di Dio creatore ed ordinatore, benché con una espressione affatto impropria e che tutt’altro che chiarire le cose non fa che ingarbugliarle. Ma se per madre natura intendi le proprietà e le forze che vi sono nel mondo, cioè nelle cose che essi stono, tu verresti a dire questa grande assurdità che il mondo si è creato ed ordinato dalle proprietà e forze che vi erano nel mondo già creato ed ordinato.

— E già, è così.

Aggiungi poi che oltre all’ordine nell’universo vi è il moto. Tutto ciò che nell’universo esiste tutto trovasi in movimento. Si muove la terra, si muovono gli astri, si muovono i mari, si muovono gli animali, le piante, si muove l’uomo, insomma non c’è essere alcuno che o in un modo o in un altro non si muova. Ora qualunque cosa che si muova, non altrimenti si muove, se non perché c’è una forza che la fa muovere. Questa forza potrà essere ripetutamente mediata, ma ti fa d’uopo da essa risalire ad una immediata. Quando ad esempio tu vedi un carrozzone elettrico che corre rapidamente sopra un binario, benché non veda esternamente alcuna forza che lo tiri o lo spinga, sai non di meno che è l’energia elettrica, con la quale è posto in comunicazione, che lo fa muovere. Ma l’energia elettrica è già ancor essa un movimento, del quale cercando la causa la troverai in un altro movimento, ad esempio in quello dell’acqua o del fuoco. E il movimento dell’acqua o del fuoco è cagionato esso pure da altro movimento. Così potrai da movimento in movimento andare fino ad un certo punto, ma alla fine ti è necessario arrivare ad una prima causa, che dà immediatamente movimento alle altre senza più essere mossa da alcuna, poiché altrimenti tu correresti nell’infinito senza potere trovare mai un punto ove fermarti, ciò che invincibilmente ripugna alla nostra mente. Ora quello che ti è d’uopo riconoscere gettando lo sguardo sopra un carrozzone elettrico, lo devi riconoscere gettando lo sguardo sopra qualsiasi altro essere, che ti capiti sotto gli occhi. E così da ogni essere in movimento (e tutti gli esseri, come già ti dissi, si trovano in un modo o in un altro in tale condizione), potrai e dovrai risalire a quell’essere, che senza punto essere mosso da alcuno è il motore di tutto, e che tutti intendono essere Dio.

— Anche questa dimostrazione è chiara. E congiunta alle altre non deve più assolutamente lasciar dubitare dell’esistenza di Dio.- Non di meno se ne dicono tante a questo riguardo… Per esempio, si dice che siano stati i sacerdoti, che abbiano inventato Iddio.

Chi parla così, parla assurdamente e non sa quel che si dice. Se io dicessi che tu hai inventato tuo padre…

— Mi metterei a ridere.

Ma molto più dovresti ridere quando ti si dice che sono i sacerdoti che hanno inventato Dio. I sacerdoti sono i rappresentanti di Dio presso gli uomini e i rappresentanti degli uomini presso Dio. Ora come mai i sacerdoti potevano essere tali, se prima di essi non era riconosciuta l’esistenza di un Dio, del quale essi si dichiaravano ministri? Dire adunque che i sacerdoti hanno inventato un Dio è la stessa assurdità che dire che i figli hanno inventato il padre.

— Ma non è forse verissimo che vi sono tanti uomini al mondo, che non credono all’esistenza di Dio?

È verissimo tutto il contrario. Tutti i popoli antichi e moderni, barbari ed inciviliti, in ogni tempo, in ogni luogo, sotto ogni clima, hanno riconosciuto che vi è Dio. Sono celebri in proposito le affermazioni di Cicerone e di Plutarco. « Non vi ha nazione sì rozza e sì selvaggia, dice il primo, che non creda l’esistenza degli dèi, sebbene s’inganni quanto alla loro natura ». E il secondo: « Voi potrete trovare una città senza muraglie, senza case, senza ginnasi, senza leggi, senza uso di moneta, senza coltura di lettere; ma un popolo senza Dio, senza preghiere, senza sacrifizio, senza riti religiosi, non si vide giammai ». Anche Massimo di Tiro osservò « che nel mondo vi ha un gran cozzo di leggi e di opinioni, ma che tutte le leggi e le opinioni si accordano su questo punto cioè che vi ha un signore e padre di tutte le cose ». – Pertanto se vi sono degli uomini, che non credano all’esistenza di Dio, prima di tutto essi sono assai pochi e difficilmente accade che non vi credano per sistema, per convinzione, e stabilmente, per un lungo corso di tempo. In generale dicono con la lingua di non credere all’esistenza di Dio, ma nel cuore la pensano ben diversamente; e se pure talvolta fanno una tal negazione per qualche tempo, quando cioè si trovano dominati da una sfrenata superbia, non persistono mai tuttavia in essa per lunghi anni, e il più delle volte al punto della morte cambiano parere. In secondo luogo quegli uomini, che non credono o dicono di non credere all’esistenza di Dio, sono per lo più coloro che lasciandosi sopraffare dalle loro malnate passioni, e dandosi ad operare il male, temono perciò i castighi di Dio e vorrebbero che Dio non esistesse, perché non li avesse a punire.

— Questo è vero, confesso che se talvolta ho avuto anch’io qualche dubbio sull’esistenza di Dio, l’ho avuto allora che ho accontentato od avrei voluto accontentare le mie cattive inclinazioni.

Vedi adunque che la Sacra Scrittura ha avuto ragione di dire che lo stolto ha detto in cuor suo che non vi è Dio. In cuor suo, e non nella sua mente, perché la negazione di Dio più che dall’offuscarsi della mente procede dal corrompersi del cuore. Chi si conserva buono, chi vive virtuosamente, non penserà mai a negare l’esistenza di Dio. – Il La Bruyère nel suo libro intitolato I Caratteri ha detto: « Io vorrei trovare un uomo sobrio, moderato, casto, equo, che dica non esservi Dio; egli almeno lo direbbe senza interesse; ma quest’uomo voi lo cercherete indarno ». E per altra parte c’è da meravigliarsi che vi siano stati e vi siano tuttora alcuni uomini che non credano all’esistenza di Dio? In una provincia di 500,000 abitanti non v i sono sempre per lo meno un 500 pazzi? È troppo naturale adunque che nella generalità degli uomini, i quali tutti ammettono la esistenza di Dio, ve ne sia pure qualcuno che non l’ammetta, e questa eccezione, eccezione rarissima, è una piena conferma della regola.

— Ma molti popoli nel credere all’esistenza di Dio non fecero cosa ridicola, come quelli ad esempio che credettero essere tanti dèi, e quegli altri che credettero essere dèi gli animali, le piante, gli astri o le statue fabbricate dalle loro mani?

Sì, è vero, molti popoli hanno errato nell’ammettere più di un Dio e nel credere Dio ciò che non era e non poteva assolutamente essere tale; ma con tutto ciò essi ammisero l’esistenza della divinità. Fecero adunque cosa ridicola nel concepire nella loro mente le pluralità degli dèi, e la essenza di Dio diversa da quella che è, ma fecero opera assennata credendo che Iddio esiste. Aggiungi poi che in generale tutti i popoli idolatri hanno pur sempre ammesso un Dio ai di sopra di tutti e di tutto. Sofocle in pieno teatro ricordava agli Ateniesi, adoratori delle divinità dell’Olimpo « che nelle leggi sublimi del mondo v’ha un Dio supremo, che non invecchia mai » (nell’Edipo).

— Ma i popoli nel credere all’esistenza di Dio non potrebbero essere stati vittima del timore, dell’ignoranza, dei pregiudizi?

Vittima del timore, dell’ignoranza, dei pregiudizi lo furono nel credere Dio ciò che non era Dio in tante maniere diverse secondo la diversità dei tempi, dei luoghi, delle passioni, come ad esempio lo sono tuttora certi abitatori delle Indie che per timore, per ignoranza e per pregiudizio credono divinità certi serpenti velenosissimi, ai quali perciò si guardano ben bene di dare la morte; ma i popoli non furono, né possono essere vittima del timore, dell’ignoranza, dei pregiudizi in un fatto che si presenta uniforme e costante, lo stesso in tutti i luoghi e in tutti i tempi.

— E una tale credenza non sarebbe forse nata dalla superstizione?

Tutt’altro; perciocché la superstizione è l’esagerazione del sentimento legittimo della fede sincera in Dio: quindi coloro che si abbandonano alla superstizione non altrimenti lo fecero e lo fanno che dopo esservi già stata tra di loro la credenza che Dio esiste.

— Ma in questa credenza gli uomini non avrebbero potuto seguire una consuetudine?

Qualunque consuetudine deve avere la sua origine e la ragione per cui si è formata. Ora quale origine e quale ragione si potrebbe assegnare a questa consuetudine di credere all’esistenza di Dio? Eh! si ha bel cercare e ricercare, ma nel fatto uniforme e costante del credere all’esistenza di Dio non si può trovare altra spiegazione di questa: che una tale credenza è una inclinazione della nostra natura, è una legge intrinseca della nostra intelligenza.

— Ma moltissime volte la nostra intelligenza si sbaglia.

Sì; ma vorresti tu affermare che tutto l’uman genere, con a capo tanti filosofi pagani e cristiani, Mercurio Trimegisto, Talete, Anassagora, Socrate, Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca, S. Agostino, S. Anselmo, S. Tommaso d’Aquino, S. Bonaventura, eccetera, eccetera, abbia errato? No, ciò non è possibile.

— Dunque che si ha da dire di coloro che si ostinano a negare Dio?

Si ha da dire che sono anch’essi una prova che Dio esiste. « Se l’ateo ritenesse per certo che Dio non esiste, non si affannerebbe tanto a combatterlo. Ma perché mai il suo odio contro questa verità si spinge fino alla collera? La sua collera sino al furore? Il suo furore fino alla rabbia? La sua rabbia fino alla follia? » – Il poeta greco Aristofane, nella sua commedia intitolata I Cavalieri, ha introdotto tra due suoi personaggi questo breve dialogo:

« Credi tu, o Nicea, che esistano gli dèi ? »

« Certamente ».

« E la prova? »

« Eccola: io li odio ».

Credilo, amico mio, non pochi atei son qui dipinti; « il loro odio contro Dio è figlio della fede che hanno in Lui, e dall’accento con cui dicono: « Dio non esiste », è agevol cosa conchiudere che Dio esiste » (Monsabrè).

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (X)

Catechismo dogmatico (X) 

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova:

Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

CAP. VII
DEI SACRAMENTI.

§ IV.

 Della Ss. Eucaristia. 

— La Ss. Eucaristia è un Sacramento della nuova Legge?

È  un vero Sacramento della nuova Legge, e che sia tale è un espresso articolo di Fede (Conc. Trid. sess. VII, c. 1).

È pure un vero Sacrificio?

È similmente un espresso articolo di Fede che sia un vero Sacrifizio ( Conc. Trid. sess. XXII, cap. 1).

— Come si definisce la Ss. Eucaristia in quanto è Sacramento?

Un Sacramento della nuova legge, che contiene realmente il corpo e il sangue di Gesù Cristo sotto le specie del pane e del vino istituito a spirituale refezione dei fedeli. »

— Qual è  la materia di questo Sacramento?

Il pane fatto di frumento e il vino fatto di uva.

— Quale ne è la forma?

Sono le parole della consacrazione che proferisce il Sacerdote sopra il pane e il vino nella S. Messa.

— Proferite le parole della consacrazione, quale cangiamento si fa nel pane e nel vino?

È articolo di Fede che tutta la sostanza del pane si cambia nel corpo di Gesù Cristo, e tutta la sostanza del vino si cambia nel suo sangue.

— Perché si dice: tutta la sostanza?

Perché è articolo di Fede dichiarato dalla Chiesa contro alcuni eretici, che fatta la Consacrazione non vi resta più nulla della sostanza del pane e del vino, ma si cangia tutta nel Corpo e Sangue di Cristo; e per denotare che restano le specie, cioè il colore, l’odore, il sapore e la quantità tanto del pane quanto del vino; e perciò cangiandosi quelle sostanze nel Corpo e Sangue di Cristo, restano le apparenze del pane e del vino.

— Dunque nell’ostia consacrata vi è solo il corpo, e nel calice consacrato vi è solo il sangue di Cristo?

Questa sarebbe una eresia ( Conc. Trid. Sess. XIII, c. 3); giacché è di Fede che tanto sotto le specie del pane, quanto sotto le specie del vino, vi è Cristo intero, e perciò vi è anche la sua anima e la sua Divinità. Si dice che il pane si cambia nel corpo di Cristo, e il vino nel sangue di Lui, perché in virtù delle parole della Consacrazione il pane si cambia nel suo corpo, che come corpo vivo ha il suo sangue, e perché in virtù delle parole della Consacrazione del calice il vino si cambia nel sangue di Cristo, che come sangue vivo è unito al suo corpo; perciò per concomitanza insieme al corpo vi è il sangue, insieme al sangue vi è il corpo.

— Dunque tanto sotto le specie del pane quanto sotto le specie del vino si riceve Cristo vivo ed intero?

Certamente, e questo è un articolo di Fede.

— Quale sorta di pane si deve consacrare?

Qualunque pane: purché sia fatto di farina di frumento si consacra validamente; perciò sia pane fatto con lievito o senza lievito, con le parole della Consacrazione si cambia nel corpo del Signore; bisogna però avvertire, che la Chiesa ci comanda di usare il pane senza lievito, e ci è proibito di consacrare il pane fatto col lievito. Notate per altro che molti Greci, avendo l’uso antichissimo di consacrare il pane fatto col lievito, la Chiesa loro permette quest’uso; anzi non solo lo permette, ma vuole che lo mantengano (vedi Antoine, in opere morali de Euch. Append. De Orient. Ecc. etc. § 1).

— Non sarebbe cosa ben fatta che anche i secolari si comunicassero ricevendo il Ss. Sacramento sotto le specie del pane e insieme sotto le specie del vino?

Per molte savie ragioni ha proibito la Chiesa che si amministri ai secolari il Ss. Sacramento sotto le specie del vino; anzi sotto le specie del vino non si possono comunicare né meno i sacerdoti, quando non celebrano la S. Messa. Di più sarebbe eresia, condannata dal S. Concilio di Trento (sess. XXI, c. 1), il dire che i Cristiani siano obbligati a comunicarsi anche sotto le specie del vino. Si noti inoltre che, ricevendosi Cristo vivo e intero tanto sotto le specie del pane, quanto sotto le specie del vino, chi lo riceve soltanto sotto le specie del pane non può restare defraudato del frutto intero del Sacramento.

— Dividendosi un’ostia consacrata che cosa succede del corpo di Cristo?

Non avviene alcuna alterazione o cambiamento nel corpo di Cristo; ma è di fede che divisa quell’ostia anche in minute particelle tutto Cristo vivo e intero è in ciascuna delle particelle medesime (Conc. Trid. sess. XIII, can. 3); e lo stesso avviene se si dividono le specie del vino nel calice anche in minute gocce.

— Per quanto tempo resta realmente presente nel Ss. Sacramento il corpo e il sangue di Cristo?

È articolo di fede che Vi resta presente finché le specie non si consumino o non si corrompano; perciò se lasciate le specie del vino nel calice, svaporassero o si cangiassero in aceto, in quel calice non vi sarebbe più il sangue di Cristo.

— Quando ci comunichiamo, per quanto tempo resta in noi la reale presenza di Cristo?

Resta in noi finché il calore dello stomaco non cambia le specie sacramentali; perciò secondo la maggiore o minore forza degli stomachi resta per più o per meno tempo Cristo in noi realmente presente.

— Quale è il ministro del Sacramento dell’Eucaristia?

Il solo Sacerdote può consacrare il pane e il vino, cosicché né meno in caso di necessità chi non è Sacerdote può consacrare validamente. Perciò se, per esempio, un Diacono dicesse Messa non consacrerebbe, e quel pane resterebbe sempre pane, quel vino sempre vino, e ciò è di fede (C. Trid. sess. XXI, c. 2). L’amministrazione poi di questo Sacramento spetta pure ai soli Sacerdoti, sicché nessun altro può comunicare, ordinariamente parlando; e si dice ordinariamente parlando, perché in caso di necessità può comunicare anche il Diacono, e perciò è ministro straordinario di questo Sacramento, non per la consacrazione, ma per l’amministrazione (Hubert de Euch. c.  IV).

— Chi è il soggetto di questo Sacramento?

Ciascun uomo battezzato è il soggetto, ossia è capace di ricevere questo Sacramento; per altro per riceverlo con frutto, si richiedono le necessarie disposizioni negli adulti.

— I fanciulli adunque si possono anche essi comunicare?

Per molti secoli la Chiesa costumò di comunicare anche i fanciulli prima dell’uso della ragione; ma adesso questa consuetudine è cessata, sicché secondo l’odierna disciplina non è più lecito comunicarli. Anzi si avverta che il S. Concilio di Trento scomunicò chiunque asserisse essere necessaria la Comunione ai fanciulli prima che arrivino all’uso della ragione (Sess. XXI cap. 4).

— Quali disposizioni si richiedono negli adulti?

La grazia santificante; la cognizione del Sacramento, che cioè conoscano ciò che ricevono; tolto il caso di pericolo di morte, il digiuno da ogni sorta di cibo, e di bevanda ancorché fosse per medicamento. Queste sono le disposizioni più essenziali, ve ne sono altre che conferiscono a far ricevere questo Sacramento con maggior frutto; ma di quelle parlano i maestri di spirito.

— Chi fosse in peccato mortale e dovesse comunicarsi, basterebbe che si mettesse in istato di grazia con un atto di contrizione perfetta?

Nella risposta alla D. 14 del presente Capitolo § 1, abbiamo detto che no, essendovi il precetto di S. Paolo, il quale obbliga a premettere la Confessione ogni qualvolta chi vuole comunicarsi, è reo di qualche peccato mortale. Ciò però s’intende generalmente parlando; giacché se vi fosse urgente necessità di comunicarsi, e mancasse il Confessore, si potrebbe ricevere la S. Comunione col solo atto di contrizione perfetta; ma dei casi di tale necessità ne ragionano i moralisti, come dell’obbligo che quindi resta di confessare il peccato.

— Quali sono gli effetti di questo Sacramento?

Il primo effetto è lo spirituale nutrimento dell’anima mediante l’aumento della grazia santificante, il secondo effetto è la liberazione dai peccati veniali, il terzo il preservamento dai peccati mortali: questi effetti assegna il Sacrosanto Concilio di Trento (sess.XIII, c. 2). I Concili Fiorentino e Viennense, aggiungono il quarto effetto della dilettazione spirituale, il quale però come osserva San Bernardo (serm. de Ascens.) non si conferisce se non a quelli che sono bene staccati dagli  affetti terreni, e molto fervorosi di spirito. Questi sono quelli che comunicandosi provano sensibilmente quanto soave sia il Signore (Antoine de Euch. cap. IV art. 1, q. 2).

— Quale necessità vi è di ricevere la Ss. Comunione?

Tutti gli adulti per precetto Divino, ed Ecclesiastico sono obbligati a comunicarsi, e la Chiesa ha stabilito che questo obbligo vi è una volta all’anno; perciò chi non adempisse a quest’obbligo non si potrebbe salvare: vi è pure obbligo di comunicarsi avvicinandosi il termine di morte; ma di queste obbligazioni parlano i teologi moralisti. Si osservi però che questa necessità è solo di precetto, sicché qualora un adulto si trovasse impossibilitato a ricevere la S. Comunione potrebbe, ciò non ostante, salvarsi.

— Mi ha detto che la Ss. Eucaristia non solo è un Sacramento, ma che è pure un vero Sacrifizio: vorrei in primo luogo imparare che cosa sia sacrifizio?

Il Sacrifizio si definisce « Un’oblazione, ossia offerta, di una cosa sensibile fatta a Dio dal suo legittimo ministro in ricognizione del suo supremo dominio sopra tutte le creature, e questa offerta deve importare una qualche distruzione della cosa, ossia della vittima che si offerisce; altrimenti mancando questa distruzione non è più Sacrifizio ma una semplice oblazione. Questa definizione conviene pure ai sacrifizi dell’antica legge, nei quali si offrivano a Dio gli animali per mezzo dei legittimi Sacerdoti in ricognizione della sua suprema autorità e si offrivano dando loro la morte.

— Come si può appropriare questa definizione alla Ss. Eucaristia?

Nella S. Messa vi è l’oblazione di una cosa sensibile, cioè del Corpo e Sangue di Gesù Cristo sotto le specie dei pane e del vino. Vi è il legittimo ministro che è il Sacerdote, e vi è l’immolazione ossia distruzione della vittima la quale fu fatta realmente nel Sacrifizio della Croce, quando Gesù Cristo realmente versò il suo sangue e realmente morì; questa immolazione si fa misticamente nella S. Messa, in cui Gesù Cristo non versa più il suo sangue e non muore più realmente, ma misticamente, in quanto che in forza delle parole della consacrazione il corpo di Cristo vien soltanto sotto le specie del pane, e il sangue di Cristo soltanto sotto le specie del vino, e se insieme al corpo vi è pure il sangue e insieme al sangue vi è pure il corpo, questo succede per concomitanza, non potendo più separarsi realmente il sangue di Cristo dal suo corpo; ma non succede in forza delle parole della Consacrazione. Perciò nella Messa, stanti le specie diverse del pane e del vino, si offerisce come separato il corpo e il sangue del Signore, e questo basta perché si abbia una mistica distruzione, ossia immolazione della vittima (vedi Hubert de Euch. Antoine de Sacrif. Missæ e gli altri Teologi).

— Quale Sacrifizio si dovrà dire che sia la S. Messa?

È definito dal Sacrosanto Concilio di Trento (sess. XXII cap. 2), che la santa Messa è lo stesso Sacrifizio della Croce, solo diverso da quello nel modo in cui viene offerto, perché la stessa vittima che si offrì allora si offre adesso sugli altari, cioè Gesù Cristo che si è fatto vittima per i nostri peccati e lo stesso Sacerdote, offre questa vittima perché Gesù Cristo è il principale offerente, il Quale si offre come sul Calvario, mediante però il ministero dei Sacerdoti: quando dunque si celebra la S. Messa, si rinnova il Sacrifizio della Croce che allora fu cruento, cioè con vera effusione di sangue, e adesso è incruento, cioè con mistica e non reale effusione di sangue.

— Quali sono le qualità del Sacrifizio della Santa Messa?

È Lateutrico, cioè Sacrifizio di lode, che dà a Dio una lode infinita.  – È Eucaristico cioè Sacrifizio di ringraziamento, che vale a ringraziarlo di tutti i possibili benefizi. – È Propiziatorio, che cioè vale a placarlo per tutti i peccati. – É Impetratorio, che cioè vale ad impetrarci ogni grazia.

— Il Sacrifizio della Croce non ebbe tutte queste doti, e non bastò per tutto? Perché dunque si dovrà riconoscere per vero Sacrifizio la S. Messa?

In primo luogo bisogna osservare che come dimostra S. Tommaso [S. Th. 2. 2. q. 86, art. 1], la vera Religione deve avere un Sacrifizio che possa offrire a Dio; or noi non abbiamo altro Sacrificio, perché gli antichi sono stati abrogati e perciò, se non vi fosse la S. Messa, la Religione Cristiana non potrebbe offrire a Dio nessun Sacrifizio. Bisogna osservare in secondo luogo che, quantunque il Sacrifizio della Croce sia stato bastante e più che bastante per tutto, per altro con la S. Messa si rinnova a Dio l’onore che ebbe dal Sacrifizio della Croce, ed ella è un mezzo potentissimo perché ci siano applicati i meriti del Sacrifizio medesimo che offrì sulla Croce il nostro Salvatore (Antoin. pars 2 de Sacrif. Missæ q. l § 3).

— Il Sacrifizio della S. Messa giova soltanto ai vivi?

È articolo di fede definito dal S. Concilio di Trento (sess. XXII, c. 2), che il Sacrifizio della S. Messa non solo giova ai vivi ma anche ai defunti che sono nel Purgatorio.

— Si possono celebrare le Messe in onore dei Santi?

È similmente articolo di Fede, definito nella stessa sessione citata, che è cosa ben fatta celebrare le Messe ad onore dei Santi; intendesi però che il S. Sacrifizio si deve solo offrire a Dio per ringraziarlo delle grandi grazie concesse ai Santi, e per ottenere il loro patrocinio; perciò a nessun Santo si può offrire la Santa Messa, ma solo a Dio in ringraziamento delle grazie loro accordate e affinché si degni farci partecipi della loro intercessione; frattanto siccome tutto ciò ridonda ad onore dei Santi, si dice giustamente che si celebrano Messe in onore dei Santi.

— Chi può offrire il Sacrifizio della Santa Messa?

Gesù Cristo che lo istituì nell’ultima cena, e che fin d’allora, offrì in tal modo un vero Sacrifizio del suo corpo, e del suo Sangue sotto le specie del pane e del vino, è veramente e propriamente il principale offerente della Santa Messa. In secondo luogo il Sacerdote, immediatamente e propriamente come ministro, può egli soltanto offrire questo sacrifizio, come già abbiamo detto, e la S. Messa non si potrebbe celebrare validamente da qualunque altra persona che non fosse Sacerdote. In terzo luogo tutti i fedeli come membri della Chiesa quando ascoltano convenientemente la S. Messa offrono anche insieme col Sacerdote il S. Sacrifizio come consta dalle orazioni del canone (Antoin. de Sacrif. Missæ cap. ult. q. 6).

— Se anche tutti i fedeli offeriscono il Sacrifizio insieme col Sacerdote, dovranno tutti comunicarsi nella Messa che ascoltano?

É bene che tutti quelli che sono disposti si comunichino; ma non vi è alcuna necessità; anzi sarebbe scomunicato dal Concilio di Trento chi asserisse non potersi celebrare la S. Messa, senza che si comunichino i circostanti.

— É necessario nella S. Messa mettere nel vino da consacrarsi un poco di acqua?

Non è necessario per la validità, giacché per le parole della consacrazione il vino si cambierebbe nel sangue di Cristo ancorché nel calice non vi fosse stata posta quell’acqua: ma è necessario il mettervela perché, come dicono i ss. Padri, così fece Cristo nell’ultima cena, così la Chiesa ha sempre costumato, e severissimamente comanda che così si costumi. Anzi sarebbe scomunicato dal S. Concilio di Trento (sess. XXII can. 9) chi asserisse non doversi mettere nel vino quel poco di acqua. Bisogna però osservare di non mettere nel calice acqua in troppa quantità, perché il vino mescolato con tanta acqua non resterebbe materia adattata per la consacrazione.

— Non sarebbe cosa meglio fatta se la Santa Messa si celebrasse in lingua volgare e tutta a voce alta, affinché il popolo potesse intenderne tutte le preghiere?

Chi dicesse che la Messa si deve celebrare solo in lingua volgare, e tutta a voce alta, compreso il canone, e le parole della consacrazione, incorrerebbe la scomunica fulminata dal Concilio di Trento (sess. XXI can. 9). Similmente incorrerebbe la scomunica fulminata dallo stesso Concilio chi disprezzasse le cerimonie, i riti, o le vesti che si usano nel celebrare la S. Messa.

[Ogni pseudo-Messa del “Novus Ordo” ricade, oltre che in diverse altre, in questa terribile scomunica che coinvolge non solo il celebrante (oggi quasi tutti falsi preti mai validamente consacrati), ma pure i laici partecipanti, che da quella sacrilega cerimonia uscirebbero scomunicati eternamente, salvo remissione operata da un Sacerdote Cattolico con Giurisdizione e facoltà di rimozione delle censure – ndr. -]

LO SCUDO DELLA FEDE (VIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

VIII.

I FALSI MIRACOLI E LO SPIRITISMO.

I Falsi miracoli delle false religioni. — I prodigi del diavolo e perché Dio li permétta. — Lo spiritismo e sua malizia. — Le apparizioni buone.

— Ma non vi sono forse miracoli in tutte le religioni?

Dato che ciò fosse vero, bisognerebbe spingerli senz’altro come seduzioni d’una potenza nemica del vero, del giusto, del divino.

— E perché?

Ascolta bene. Se Dio ha operati dei miracoli a prò della religione cristiana affine di

mostrarla vera, è chiarissimo che le altre religioni a lei contrarie sono false, e con esse sono falsi i pretesi miracoli, che si adducono in loro favore, perché già te l’ho detto, Iddio non farà mai dei miracoli che provino delle religioni contrarie a quella, che ha dimostrata vera precisamente coi miracoli.

— Che dire adunque di certi miracoli, che raccontano avvenuti nelle altre religioni?

Puoi dire che se qualche volta è avvenuto qualche vero miracolo, Dio l’avrebbe operato non in favore della falsa religione, in cui fu operato, ma a prò e difesa di qualche virtù. E così potresti credere del miracolo, che si dice avvenuto in favore della famosa Claudia vergine e sacerdotessa vestale, la quale, accusata di grave colpa, a dimostrarsi innocente dicesi aver portato dell’acqua in un crivello, senza che ne cadesse a terra una goccia. Non potrebb’essere che davvero Dio abbia operato questo miracolo a mostrare e difendere l’innocenza di quella donna? – Ma in generale puoi dire e credere che sono favole. Favole i pretesi prodigi di Apollonio Tianéo, raccontati da Filostrato, filosofo del terzo secolo, giacché nessuno degli altri scrittori più accreditati e suoi contemporanei ne fanno cenno; favola, della quale si ride lo stesso Cicerone, il miracolo di Accio Nervo, che dicesi aver tagliato una cote col rasoio; favola il miracolo di Vespasiano, che si narra aver guarito un cieco, che lo stesso Tacito attesta non aver perduta la forza visiva; favola il miracolo di Maometto, che riaggiustò la luna, la quale essendo caduta sulla terra si era fatta in pezzi!

— Dunque in comprova di una religione contraria alla Cattolica non possono accadere miracoli!

No, assolutamente: se si ammettesse ciò, sarebbe lo stesso che dire che può avvenire un miracolo per dimostrare che le tenebre sono la luce. Del resto la storia medesima comprova questa verità.

— Davvero? Sarei curioso di saper in proposito qualche cosa.

Ti accennerò due fatti principali, dei quali non si può avere alcun dubbio, essendo narrati da molti storici degnissimi di fede. Un falso patriarca ariano di Africa per nome Cirilla per opporsi al vescovo S. Eugenio, che dimostrava con tanti miracoli la verità del Cristianesimo, e guadagnar gente all’arianesimo, subornò un uomo con cinquanta monete d’oro, affinchè si fìngesse cieco, e al suo passaggio in un giorno determinato alla presenza di gran popolo gli chiedesse la vista. Così fece quel misero. E Cirilla gli comandò di aprire gli occhi e veder la luce. Ma ecco che in quel momento colui, che si era fìnto cieco, lo divenne realmente, epperò fattosi fremente di rabbia contro Cirilla disvelò la sua finzione e lo fece andare scornato. Buon per lui che essendo stato richiesto S. Eugenio, questi col segno della croce gli fece riacquistare la vista perduta. – Calvino, volendo egli pure acquistare fede ai suoi errori, s’intese con un certo Brulé, che si fingesse morto, perché egli potesse dare ad intendere di risuscitarlo. Il Brulé allettato dalla speranza di denaro si adattò a quell’inganno. Si finge morto, e la sua moglie mette grida di dolore nel momento che Calvino seguito da molti passava di là. Questi come per compassione entra con la sua comitiva in casa, si avvicina al morto e poi dice: « Affinché siate convinti che sono divine le cose, che io v’insegno, ecco che io adesso richiamerò a vita questo morto ». E preso il Brulé per mano gl’intima di risorgere. Ma… oh miracolo tutto all’incontrario! Chi si era finto morto, era morto davvero e nulla valse a farlo risuscitare. Chi può dire lo scorno patito da Calvino! Aveva dunque ragione Erasmo di Rotterdam nel dire ai Protestanti: « I miracoli non sono il vostro forte! Finora non avete guarito neppure un cavallo zoppo! » Vedi adunque se avvengano miracoli a prò delle false religioni.

— Ma per altro ho sentito dire che anche i diavoli, i maghi, gli spiritisti possono fare dei miracoli.

Certamente i diavoli, di natura spirituale, con l’esercizio della loro attività ed intelligenza di gran lunga superiore a quella dell’uomo, combinando prontamente e repentinamente varie leggi ed agenti naturali possono, permettendolo Iddio, operare dei prodigi, cui si può anche dare il nome di veri nel senso che sono fatti, i quali ancor essi sorpassano le leggi ordinarie della natura, come sarebbe far comparire una persona, una casa, sollevare in aria un uomo, far muovere delle tavole, dei candelabri, delle sedie, degli armadii, dei canestri, drizzare una penna su una tavola e farla scrivere rapidamente e simili. E come li possono operare per sé, così li possono col loro intervento far operare dai maghi, dai falsi sacerdoti, dai lama, dai bonzi, dagli spiritisti, da tutti i loro rappresentanti. La storia sacra ci parla appunto di quei maghi, che alla presenza di Faraone tramutarono le loro verghe in serpenti, e fecero qualche altro prodigio; e lo stesso Gesù Cristo dice nel Vangelo che negli ultimi tempi sorgeranno dei falsi cristi e falsi profeti, che faranno segni grandi e prodigi per modo, che gli stessi eletti, se fosse possibile, saranno indotti in errore. (V. Vangelo di S. Matteo, capo XXIV, versetto 24). I missionari poi e gli stessi viaggiatori nelle loro relazioni attestano di aver veduto coi loro occhi dei prodigi operati dai maghi e dagli stregoni dei popoli pagani. E da tutti si sa che per opera degli spiriti, nei nostri stessi paesi, alle volte per inganno e ciarlataneria, ma altre volte realmente, avvengono dei fenomeni affatto meravigliosi. Ma siccome Iddio ha scelto il miracolo come una prova della verità dei suoi insegnamenti, perciò non sarà mai che Egli permetta i prodigi diabolici per guisa che non possano facilmente riconoscersi per tali, come fece per esempio nei prodigi dei maghi di Faraone, i quali fino a tre o quattro volte poterono operare qualche cosa di simile ai veri miracoli di Mosè, ma poi non poterono più nulla, e dovettero confessare che solamente il dito di Dio poteva operare ciò, che Mose andava operando.

— E a quali indizi si possono riconoscere i veri miracoli dai prodigi diabolici?

I principali sono questi : 1° Nei veri miracoli si manifesta una potenza illimitata, somma, sia pei loro effetti, come pel loro numero; nei prodigi diabolici, sia per l’una che per l’altra cosa, c’è una potenza ristretta, limitata. 2° I veri miracoli sono operati generalmente dai santi, giacché, sebbene a rigore uomini perversi possano operare prodigi con parole sante e segni sacri, Dio non lo permette che per modo di eccezione. Invece gli operatori di prodigi diabolici, certi maghi, certi sacerdoti di false divinità sono gente scellerata, che, anche allora che non è addirittura immorale, non lascia di essere superba. 3° I veri miracoli sono compiuti dai santi con la massima semplicità, con qualche preghiera, con un segno di croce, con un comando fatto a nome di Dio; al contrario i prodigi diabolici sono operati in modo strano, con prestigi, con allucinazioni, con segni e figure ridicole, con cerimonie superstiziose e simili. 4° I veri miracoli hanno per scopo immediato generalmente la beneficenza e sono fatti per qualche grave necessità, come per guarire degli ammalati, per nutrire una moltitudine famelica, per eccitare la pietà. I prodigi del diavolo per lo più non hanno altro scopo che pascolare la curiosità pubblica facendo ad esempio rumori spaventevoli, evocando dei fantasmi, eccetera. 5° Da ultimo i veri miracoli si trovano in compagnia di, una dottrina santa, qual è la dottrina cristiana, dottrina che non può venire che da Dio; i prodigi diabolici si trovano invece in compagnia di dottrine cattive, materialistiche, opposte le une alle altre, epperò piene di errori.

— Ma se è dunque vero che i diavoli, e con il loro concorso i maghi, i falsi sacerdoti possano operare dei prodigi, ed è certo che questi prodigi sono avvenuti ed avvengono, e da essi molti popoli poterono e possono essere ingannati, come mai Iddio li permette?

Se dovessi rispondere adeguatamente a questa tua difficoltà entreremmo in un campo troppo vasto, e nel quale potremo entrare più di proposito in seguito. Per ora mi contento di osservarti che Iddio se ha permesso e permette tuttora questo rischio per tanti popoli, non è, forse, se non perché questi popoli con la loro malvagia vita e con la continua resistenza alle grazie sue si sono meritato tale castigo. Del resto che cosa non ha fatto, che cosa non fa anche oggi il Signore per mezzo dei santi e dei missionari affine di togliere dall’errore questi popoli disgraziati e a un tempo colpevoli! No, dell’inganno che questi popoli cercano pur troppo essi medesimi, o nel quale per lo meno amano di restare, non è da incolpare affatto la Divina Provvidenza, come non è da incolpare se vi hanno tra di noi di coloro che amano lo spiritismo, si abbandonano alle sue empie pratiche e vi annettono una somma importanza.

— Fanno adunque male coloro che si occupano di spiritismo e prendono parte alle sue pratiche?

Fanno male assai, perché lo spiritismo in certi casi è una semplice ciarlataneria, e il dedicarvisi e darvi importanza è allora una ciurmeria; in certi altri è l’effetto di cause naturali, pericolose e riprovevoli, ed allora è violazione della stessa legge di natura; ed in altri ancora è vero spiritismo, cioè rivela il vero intervento degli spiriti, ed allora il praticarlo è una vera empietà, e in tutti i casi è una vera immoralità.

— Avrei caro in proposito di conoscere meglio quanto asserisce.

Ti dirò qualche cosa con la massima brevità. Il vero spiritismo è una manifestazione di spiriti. Ecco in una sala alla presenza di molte persone una tavola muoversi e dare colpi cadenzati, una sedia levarsi in aria e danzare sulle teste, ecco una penna scrivere da sé o nella mano di un medium, rapidamente, sotto la dettatura di un essere misterioso, dare risposte, consigli, rivelazioni di cose lontane, di malattie interne e simili; ecco farsi avanti persino delle apparizioni incarnate, che si mostrano composte di carne d’ossa, come il corpo umano, e che nel loro linguaggio rivelano una intelligenza di gran lunga superiore a quella dell’uomo. Qui adunque siamo alla presenza di una forza soprannaturale ed intelligente, alla presenza di uno spirito: altrimenti non si possono spiegare questi fatti. Ora sarà egli possibile che si tratti di uno spirito buono, di un Angelo per esempio, dell’anima di un santo o di un defunto? No, assolutamente. Capisco che Iddio potrebbe metterci in commercio e con gli spiriti angelici e con quelli dei santi e di qualche defunto, ed è certo anzi che talvolta Egli lo fa. Ma in tutti i casi ei lo farebbe sempre per un fine buono, in modo degno di Lui, e in conformità del suo divino volere. Ma nello spiritismo non c’è nulla di ciò. Il fine non apparisce buono, perché a confessione degli stessi più celebri spiritisti, generalmente gli spiriti dicono cose, che sono di una empietà e malizia finissima e spudorata, che mirano perciò a travolgere la fede e a trascinare per la china delle passioni, non ostante che astutissimamente talora sembrino dare dei santi consigli per ingannare tanti poveri bagiani. Il modo non è decoroso, perché gli spiriti danno segno di loro presenza con strepiti, con rumori strani, con sghignazzi, con colpi di tavole, con balli di sedie e simili frivolezze. – Il fatto poi non è conforme al volere di Dio, perché nelle Sacre Scritture Iddio ha, espressamente proibito ogni evocazione degli spiriti e dei defunti. Di fatti nel libro I dei Re (Capo XXVIII, versetto 2) si rimprovera a Saul di avere chiesto alla Pitonessa l’evocazione dell’ombra di Samuele; nel Deuteronomio (Capo VIII, versetti 9-11) si legge: « Non imitate le genti degl’infedeli. Che tra di voi non vi sia un miserabile così temerario da interrogare gl’indovini, da badare ai segni ed agli auguri, da fare malefizi ed incantesimi… e da cercare presso i morti la verità; » e tutti i profeti condannano tali pratiche non solo in Israele, ma anche negli altri popoli, ed ascrivono giustamente a pratiche siffatte il castigo della prima schiavitù, cui dovette soggiacere il popolo ebreo, ciò che dimostra aver Iddio punite tali evocazioni spiritiche come gravi peccati. – Dunque, vedi chiaro da tutto ciò, che né gli spiriti degli Angeli, né quelli dei santi o dei defunti non sono quelli, che intervengano nello spiritismo. E se non sono gli spiriti buoni, bisognerà senza dubbio che siano gli spiriti malvagi, che siano i demoni, i quali per tal modo anche tra i popoli civili e colti si studiano di fare sempre maggiori acquisti. Ed ecco perché lo spiritismo è cattivo ed illecito, e la Chiesa giustamente ne ha fatto speciale e severissima proibizione.

— Ma allora se Dio non permette agli spiriti buoni di comunicare coi vivi, e nelle manifestazioni spiritiche è sempre uno spirito maligno che interviene, non potremmo riderci di tante rivelazioni, visioni, apparizioni dei santi?

Adagio, caro mio. Che Dio non permetta agli spiriti buoni di comunicare coi vivi vale solo per le manifestazioni dello spiritismo. Del resto già ti ho detto che Dio può, e non di raro vuole, fare delle manifestazioni celesti agli uomini, specialmente a qualche suo servo eletto. Ma nelle rivelazioni, visioni, apparizioni che si leggono nelle vite dei santi c’è una differenza enorme dalle manifestazioni spiritiche. In queste lo spiritista è egli che contro la volontà espressa di Dio batte alla porta dell’invisibile e invoca gli spiriti; in quelle invece il santo riceve una apparizione che non ha punto richiesta; nelle sedute spiritiche si ricorre a mezzi troppo spesso grotteschi, si prepara l’ambiente, si ricorre ai mediums ufficiali, si dispongono i mobili, si abbassa la luce…; nelle apparizioni ai santi o dei santi non accade nulla di tutto ciò; da ultimo nelle manifestazioni spiritiche vi è quasi sempre, sia pure velatamente, lo scherno alla fede ed alla morale; nelle apparizioni dei santi vi è invece l’eccitamento alla fede ed alla virtù, vi è nulla insomma che sia indegno di Dio e degli spiriti buoni, e in tutto l’insieme si manifestano celesti. Basta leggere le apparizioni avute da S. Teresa, da S. Caterina da Siena, dalla Beata Margherita Alacoque, da S. Filippo Neri, da S. Antonio di Padova, da S. Gaetano Tiene e da molti altri santi e sante per essere convinti della serenità, della calma, della soavità, della bellezza e della maestà delle medesime. Chi pertanto volesse mettere a paro queste rivelazioni, visioni od apparizioni colle manifestazioni spiritiche e ridersi di esse, sarebbe per lo meno un povero insensato.

— Ho inteso, e mi trovo soddisfatto.

L’AGONIA DI GESU’: QUARTO VENERDI’ DI QUARESIMA

QUARTO VENERDÌ DI QUARESIMA

[Don U. Banci: L’AGONIA DI GESU’, F. Pustet ed. Roma, 1935 – impr.]

In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen.

Actiones nostras, quæsumus  Domine, adspirando præveni et adiavando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat et per Te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Inspira, o Signore, le nostre azioni ed accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e opera da Te sempre incominci e col tuo aiuto sempre si compia. Per Cristo nostro Signore. Così sia.]

INVITO

Già trafitto in duro legno/Dall’indegno popol rio

La grand’alma un Uomo Dio, / Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete, /Non perdete, o Dio, i momenti

Di Gesù gli ultimi accenti /Deh! venite ad ascoltar.

QUARTA PAROLA DI GESÙ IN CROCE

Deus meus, Deuis meus, ut quid dereliquisti me? (MATTEO, cap. XXVII, v. 46) .

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

CONSIDERAZIONE

Uno strano fenomeno ricordato dagli Evangelisti, accompagna l’agonia del Salvatore. Una densa caligine avvolge il sole ed un’ombra triste e paurosa si stende su tutta la terra. Oh! Tenebre misteriose, che gettando lo sgomento negli uomini, contribuiste a rendere più desolata la pietosa scena del Calvario, voi siete immagine di quella spaventosa solitudine, che lacera l’anima del mio Signore quando volgendo lo sguardo al cielo esclama: Eli, Eli, lamma sabactani? Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?  Questo grido che fu l’espressione di uno strazio che non ha nome, fu occasione per i suoi nemici di nuovi scherni. Mal comprendendo le sue parole, alcuni presenti dissero: Costui chiama Elia, ed altri, quelli forse che poco prima lo avevano sfidato a scendere dalla croce soggiunsero con sarcasmo: Lascia, vediamo se viene Elia a liberarlo! [MATTEO, cap. XXVII, v. 47, 4 8]. Ma quelli che parlano così sono coloro che non sanno quello che fanno. Tu però, anima cristiana, cerca di ben comprendere ciò che Gesù ti ha voluto dire con queste parole, affinché quella desolazione, che Egli volle soffrire per te, arrechi conforto all’anima tua, travagliata dal dolore.

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La sera innanzi, entrando nel Getsemani per pregare, come era suo costume, aveva confidato ai suoi amici che l’anima sua era triste di una tristezza mortale: L’anima mia è addolorata a morte [MARCO, cap. XIV, v. 34]. E l’agonia che incomincia. E tu sai, anima cristiana, a quale angoscia mortale fu in preda in quella sera il tuo Salvatore. Nella solitudine di quella grotta, nella quale era entrato per raccogliersi in preghiera, con la sua penetrazione divina vide ed ebbe la sensazione fisica di presentire simultaneamente nelle sue delicate carni tutti i dolori della sua passione; vide l’ingratitudine del suo popolo, che lo aveva fatto piangere sulla strada di Gerusalemme; vide la moltitudine immensa dei peccati di tutti i popoli, che come torrente impetuoso si rovesciava nell’anima sua desolata; vide l’inutilità del suo sacrificio per tante anime, che con la loro incomprensione ed ostinata ingratitudine frustravano l’aspirazione ardente di tutta la sua vita. Questa visione orrenda, che nel Getsemani lo aveva spaventato fino al punto da farlo sudar sangue, si ripete ora sulla croce, aggravata da una circostanza ben dolorosa, l’abbandono del Padre. E un momento questo, in cui il dramma della passione di Gesù si rivela in tutto il suo orrore. Era scritto: È maledetto da Dio chi pende dalla croce Deuteronomio, [cap. XXI, v. 23], e la maledizione di Dio si fa sentire in tutto il suo rigore su di Lui, mallevadore dei nostri peccati; e la misura è ormai colma, la sua desolazione è al completo, il Martire si rivela il vir dolorum, l’uomo del dolore, [ISAIA, cap. LIII, v. 3] e si sarebbe anche qui sulla croce rinnovato il sudore di sangue, se ormai le sue vene non fossero esauste. Anima cristiana, quando senti il peso delle tue tribolazioni, volgi il tuo pensiero a Gesù, che agonizza sulla croce, e pensa che per quanto grandi possano essere i tuoi dolori, senza paragone più grandi furono quelli di Gesù, poiché anche Gesù aveva un corpo in tutto simile al tuo, e come il tuo soggetto al dolore. Anzi, dice il grande S. Tommaso d’Aquino: « Non vi fu nulla più perfettamente ordinato e completo del corpo di Gesù, tanto che nessun altro poteva sentire, come il suo, tutta l’intensità del dolore » [Somma teologica, parte III, q. 46, art. 6].

2 . E la sua divinità, lungi dall’attenuargli il dolore, contribuì, ed in modo efficace, a renderglielo più forte; poiché, appunto perché Dio, Gesù poté avere la previsione certa, esatta, circonstanziata di tutta la sua passione e della sua morte; appunto perché Dio poté misurare tutta la gravità del peccato e prevedere tutte le ingratitudini umane, che tanto cordoglio procurarono al suo cuore. D’altra parte Egli stesso volle che fosse sospesa quell’impressione di felicità, che gli arrecava la visione beatifica, conseguenza dell’unione ipostatica della natura umana con la natura divina, in modo che nulla potesse impedire alla sua benedetta umanità di sentire il dolore in tutto il suo rigore. Già il Profeta lo aveva predetto, che sarebbe stato solo a sostenere tutto il peso del suo formidabile dolore. E a questa che fu la passione del suo cuore, divenuto il ricettacolo di ogni amarezza, si aggiunse la passione del corpo. Guarda infatti, ancora una volta, come sul corpo di Gesù si siano accumulati i tormenti di ogni martirio. Non c’è senso che non abbia il suo dolore; non c’è parte del corpo che non sia ferita, piagata, insanguinata. Si verifica alla lettera la parola del Profeta Isaia: Dalla pianta dei piedi, fino alla sommità del capo, non v’è in Dio sanità, ma ferite, lividure, piaghe sanguinanti [ISAIA, loc. cit. ]. Dunque ripeti con lo stesso Profeta: Veramente i nostri languori Egli ha preso sopra di sé; ed ha portato i nostri dolori, [Isa. Cap. LIII, 4] e quindi devi concludere con S. Tommaso d’Aquino che « i dolori sopportati da Gesù nel corpo e nell’anima furono i più grandi che mai siano stati in questa vita » [Somma teologica, loc. cit.]. Che se la sua benedetta umanità poté resistere al cumulo di tanti dolori, ciò fu perché sostenuta da una virtù soprannaturale. Te lo dice Gesù con quelle parole: L’anima mia è triste fino a morirne, cioè, commenta S. Ilario, «nell’intimo di me stesso l’abbattimento e lo spavento sono così grandi che ne morrei, se non avessi i soccorsi della mia forza divina » [S . ILARIO, Intorno al cap. XXVI di S. Matteo]. Egli dunque può ben dire a te, tormentato da lunga malattia: Conosco, o povero e caro infermo, le tue ore di abbandono nella tua cameretta solitaria; anch’io le ho provate. Può ben dire a te, povera sposa, caduta ad un tratto nella più dolorosa solitudine; a te, povera madre, che invano vai cercando quel figlio che più non è; può ben dire a voi, cuori incompresi e contraddetti, a voi diseredati del mondo, i cui giorni passano senza consolazioni; a voi tutti perseguitati dalla sventura, a cui la vita sembra non abbia riserbato altro che il pianto: Conosco le vostre sventure; non mi è nuovo l’angoscioso vostro isolamento; esso fu anche il mio! Crudeli isolamenti, solitudini amare, spietate separazioni, abbandoni di ogni specie, Dio Salvatore vi volle soffrire tutti per mettere su ciascuno di voi un raggio del suo amore; un’impronta della sua grazia; il merito della sua accettazione » [LANFANT, Il cuore al Getsemani, serm, IV]. Non dire più nei momenti di sconforto: perché, o Signore, debbo essere così infelice! Perché mi avete abbandonata? No, anima cristiana, non sei abbandonata, come non lo era Gesù sulla croce. Talvolta, è vero, Iddio punisce coi suoi abbandoni l’orgoglio, la sensualità, la presunzione, il peccato; ma è anche vero che il più delle volte la desolazione con cui ti affligge è una prova del suo amore. È per distaccarti dal mondo e da te stessa; è per renderti più pura e più bella agli occhi suoi, che ti fa passare per il crogiuolo della tribolazione. Tre volte, diceva S. Paolo, ho domandato di essere liberato dallo schiaffo di Satana, e Dio mi rispose: ti basti la mia grazia. La sublimità delle celesti rivelazioni avrebbe potuto inorgoglirmi”  [Epistola ai Corinti, cap. XII, v. 7]. Anzi non sei forse mai tanto vicina al tuo Dio, come allora quando la tua vita è un Calvario. Nelle tue solitudini, dunque, in tutte le tue pene solleva, come Gesù, il tuo sguardo al cielo, e come le pie sorelle di Betania, desolate per la morte del fratello, chiamalo Gesù; Egli verrà e non sarai più sola. « E se tu piangerai, Egli piangerà con te; se pregherai, pregherà con te; se sarai oppressa dai patimenti, dall’agonia, dalla morte, Egli sarà là vicino a te per consolarti e per aprirti il Paradiso » Poiché Gesù non ti chiede, o anima cristiana, di soffocare le improvvise esplosioni della natura trambasciata, spesso più forti di qualunque coraggio. Se il tuo cuore è ferito nei suoi affetti dall’onta, dall’ingratitudine, da separazioni crudeli, tu puoi piangere, perché anche Gesù ha pianto sulla sventurata Gerusalemme e sulla tomba del suo amico Lazzaro. – Se temi i mali che sono per incoglierti, puoi domandare a Dio che li rimuova, perché anche Lui ha temuto per se stesso ed ha detto al Padre: Padre, fate che questo calice passi lontano da me. – Se il tuo povero corpo è straziato dal dolore, tu puoi implorare sollievo, poiché anche Lui ha gridato dall’alto della croce: Ho sete. Se la tua anima è sopraffatta dall’angoscia, se ti senti abbandonata, puoi gemere, lagnarti, perché anche Lui ha lasciato cadere dalle sue labbra queste dolorose parole: La mia anima è triste fino alla morte. Mio Dio, mio Dio perché mi avete abbandonato? [MONSABRÈ, Ritiri pasquali, 1S83]. E non è Gesù stesso che ti rivolge quel caro invito: Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi ed io vi ristorerò? [MATTEO, cap. XI, v. 28]. – Ascoltala, anima cristiana, questa voce; è la voce di quel cuore che arde di amore per gli uomini. Ma un’altra cosa ti vuol dire Gesù. Se il Divin Padre non risparmia lo stesso suo Unigenito, se gli impone di bere fino alla feccia il calice di ogni amarezza, se Gesù ha l’impressione di provare in sé un abbandono simile a quello che forma la disperazione del dannato, è perché Iddio vede in Lui l’immagine del peccato. Ora, se questo si fa nel legno verde, che sarà nel secco? [LUCA, cap. X XIII, v. 31]. – Se la giustizia divina punisce con tanto rigore in Colui che è la stessa santità, solo l’apparenza del peccato, che cosa non farà in chi del peccato si rende realmente reo! Non è dunque il dolore che ti deve affliggere e che devi temere; ma più di ogni altra cosa devi temere il peccato, perché è questo l’unico vero male, la causa unica di ogni dolore. Pensa, anima cristiana, a quando nel dì finale dovrai presentarti dinanzi a Cristo per sostenere il suo gran giudizio. Tu allora vorrai associarti alla moltitudine potente degli Angeli e degli eletti, la quale canterà la fine dell’esilio e le delizie della patria conquistata [MONSABRÉ, Ritiri pasquali, 1875]; ma se ostinata nel peccato, nel peccato morrai, sentirai gridarti in faccia da Gesù stesso quella terribile invettiva: Via da me, maledetto, al fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli”. [MATTEO, cap. XXV, v. 41]. E mentre mille voci ti grideranno « vattene maledetto », tu confuso e tremante esclamerai come il Salvatore: « Dio, Dio mio perché mi abbandonate?», ma il tuo grido non avrà conforto; « e sarà questa l’elegia del tuo cuore, che affranto da una maledizione irrimediabile, riempirà l’eco della tua eternità. Ascolta dunque, anima cristiana, il grido di angoscia di Gesù, abbi pietà di te stessa, e trattieni con un pronto pentimento Iddio, che forse già si allontana da te » [MONSABRÉ, Ritiri pasquali, 1880].

Breve pausa, poi si reciti la seguente …

PREGHIERA

O addolorato Salvatore, il grido di angoscia uscito dalle vostre labbra, mi dice tutta la desolazione del vostro cuore. Non meritavate certamente Voi di essere abbandonato dal Padre; sono io che per la moltitudine dei miei peccati, essendomi da Voi allontanato, ho tante volte meritato di essere da Voi abbandonato. Ma Voi, generosissimo mio Salvatore, avete voluto soffrirlo questo abbandono appunto perché non fossi io abbandonato ai rigori della divina giustizia. E che cosa, vi dirò col Salmista, che cosa vi renderò per tanto benefizio? Vi prometterò di non volere più, ad ogni costo allontanarmi da Voi? Sì, o mio addolorato Salvatore, ve lo prometto, ma conosco troppo bene la mia debolezza; stanno dinanzi al mio sguardo le mie numerose ingratitudini, che depongono contro di me e mettono in dubbio la mia perseveranza. Lo so per esperienza, o mio Gesù, che lontano da Voi non c’è pace, non c’è felicità. Io so che Voi solo avete parole di vita eterna, perché Voi solo siete la via, la verità, la vita; e che quindi coloro che si allontanano da Voi periranno; so tutto, lo so come lo sapeva il vostro Apostolo Pietro, ma purtroppo anch’io come lui, nonostante le mie più calde e ripetute promesse, ho più volte ceduto di fronte alla tentazione. Continuando così, nonostante il vostro grande amore per me, nonostante quello che per me avete sofferto, vi costringerò ad abbandonarmi in vita, in morte, per tutta l’eternità. No, o mio Salvatore, per quel dolore che provaste sulla croce quando in Voi stesso sentiste l’abbandono del Padre, vi scongiuro a non abbandonarmi. Voi ben lo sapete perché ce lo avete detto, che senza di Voi a nulla noi siamo capaci; dunque aiutate la mia debolezza; sostenetemi con la vostra grazia, affinché mai più mi allontani da Voi. No, o Signore, non sia per me quella terribile sentenza, che segnerà un’eterna separazione tra Voi e il peccatore. Io voglio, sia pure per la via del Calvario, giungere alla vostra gloria per cantarvi il cantico perenne della mia gratitudine. O Maria, madre dei viventi, come Eva fu madre dei peccatori, aiuto potente dei cristiani, vegliate su di me con la vostra materna sollecitudine, e per quel dolore che provò il vostro cuore nell’udire il pietoso lamento di Gesù, ottenetemi la grazia della finale perseveranza. Auxilium christianorum, ora prò nobis ( Aiuto dei cristiani prega per noi).

Pater, Ave e Gloria.

Dunque dal Padre ancora

Abbandonato sei?

Ridotto ti ha l’amore

A questo, o buon Gesù?

Ed io, coi falli miei,

Per misero gioir,

Potrotti abbandonar?

Piuttosto, o Dio, morir!

Non più, non più peccar,

Non più peccar, non più.

GRADI DELLA PASSIONE

1. V. Jesu dulcissime, in horto mœstus, Patrem orans,

et in agonia positus, sanguineum sudorem effundens;

miserere nobis.

R). Miserere nostri Domine, miserere nostri.

2. V. Jesu dulcissime, osculo traditoris in manus

impiorum traditus et tamquam latro captus et ligatus

et a discipulis derelictus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

3. V. Jesu dulcissime ab iniquo Iudæorum concilio

reus mortis acclamatus, ad Pilatum tamquam malefactor

ductus, ab iniquo Herode spretus et delusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

4. V . Jesu dulcissime, vestibus denudatus, et in

columna crudelissime flagellatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

5. V. Jesu dulcissime, spinis coronatus, colaphìs

cæsus, arundine percussus, facie velatus, veste purpurea

circumdatus, multipliciter derisus et opprobriis

saturatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

6. V . Jesu dulcissime, latroni Barabbæ postpositus,

a Judæis reprobatus, et ad mortem crucis injuste condemnatus;

miserere nobis.

R). Miserere etc.

7. V . Jesu dulcissime, tigno crucis oneratus,

ad locum supplicii tamquam

ovis ad occisionem ductus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

8. V. Jesu dulcissime, inter latrones deputatus,

blasphematus et derisus, felle et aceto potatus, et

horribilibus tormentis ab hora sexta usque ad horam

nonam in ligno cruciatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

9. V. Jesu dulcissime, in patibulo crucis, mortuiis et

coram tua sancta Matre lancea perforatus simul

sanguinem et aquam emittens; miserere nobis.

R). Miserere etc.

10. V . Jesu dulcissime, de cruce depositus et lacrimis

mœstissimæ Virgiuis Matris tuæ perfusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

11. Jesu dulcissime, plagis circumdatus, quinque

vulneribus signatus, aromatibus conditus et in

sepulcro repositus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Adoramus Te Christe, et benedicimus Tìbi.

R). Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

OREMUS

Deus, qui prò redemptione

mundi nasci voluisti,

circumcìdì, a Judæis reprobavi

et Judæ traditore

osculo tradi, vinculis alligavi,

sic ut agnus innocens

ad victimam duci, atque

conspectibus Annæ, Caiphæ,

Pilati et Herodis

indecenter offevri, a falsis

testibus accusari, flagellis

et colaphis cædi, opprobriis

vexari, conspui, spinis

coronari, arundine percuti,

facie velari, vestibus

spoliari, cruci clavis afFigi,

in cruce levari, inter

latrones deputari, felle et

aceto potari et lancea vulnerari;

Tu Domine, per

has sanctissimas pœnas,

quas ego indignus recolo,

et per sanctissimam crucem

et mortem tuam libera

me a pœnis inferni et perducere

digneris quo perduxisti

latronem tecum

crucifixum. Qui cum Patre

et Spiritu Sancto vivis

et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[1. V . O dolcissimo Gesù, triste nell’orto, al Padre con la preghiera rivolto, agonizzante e grondante sudore di sangue; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà.

.2. V . O dolcissimo Gesù, con un bacio tradito e nelle mani degli empi consegnato, e come un ladro preso e legato e dai discepoli abbandonato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

3. V . O Gesù dolcissimo, dall’iniquo Sinedrio giudaico reo di morte proclamato, e come malfattore a Pilato presentato, e dall’iniquo Erode disprezzato e schernito; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

4. V . O dolcissimo Gestì, delle vesti spogliato, e c rudelmente alla colonna flagellato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

5. V. O dolcissimo Gesù, di spine coronato, schiaffeggiato, con la canna percosso, bendato, di rossa veste rivestito, in tanti modi deriso e di obbrobri saziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

6. V. O dolcissimo Gesù, al ladro Barabba posposto, dai Giudei riprovato; ed alla morte di croce ingiustamente condannato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

7. V. O dolcissimo Gesù, del legno della croce gravato, e come agnello al luogo del supplizio condotto, per esservi immolato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

8. V. O dolcissimo Gesù, tra i ladroni annoverato, bestemmiato e deriso, di fiele e di aceto abbeverato, e con orribili tormenti dall’ora sesta fino all’ora nona nel legno straziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

9. V. O dolcissimo Gesù, sul patibolo della croce morto, ed alla presenza della tua santa Madre con la lancia trafitto versando insieme sangue ed acqua; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

10. V. O dolcissimo Gesù, dalla croce deposto, e dalle lacrime dell’afflittissima tua Vergine Madre bagnato;abbi di noi pietà

R). Pietà di noi ecc.

11. V. O dolcissimo Gesù, di piaghe coperto, da cinque ferite trafitto, di aromi cosparso, e nel sepolcro deposto; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

V. Ti adoriamo, o Cristo, e Ti benediciamo.

R). Poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.

PREGHIAMO

O Dio, che per la redenzione del mondo volesti nascere, essere circonciso, dai Giudei riprovato, da Giuda traditore con un bacio tradito, da funi avvinto, come agnello innocente al sacrifizio condotto, ed in modo indegno ad Anna, Caifa, Pilato ed Erode presentato, da falsi testimoni accusato, con flagelli e schiaffi percosso, con obbrobri oltraggiato, sputacchiato, di spine coronato, con la canna percosso, bendato, delle vesti spogliato, alla croce con chiodi confitto, sulla croce innalzato, tra i ladroni annoverato, di fiele e di aceto abbeverato, e con la lancia ferito; Tu, o Signore, per queste santissime pene, che io indegno vado considerando, e per la tua croce e morte santissima, liberami dalle pene dell’inferno e, desiati condurmi dove conducesti il ladrone penitente con Te crocifisso. Tu che col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Così sia.]

CANTO DEL TEMPO DI QUARESIMA

Attende, Domine, et miserere, quia peccavìmus Tìbi.

R). Attende, Domine, et miserere, quia peccavimus Tibi.

1. Ad Te, rex summe,

omnium redemptor,

oculos nostros sublevamus

flentes; exaudi Christe,

supplicantium preces.

R). Attende etc.

2. V. Dextera Patris, lapis

angularis, via salutis,

janua cœlestis, ablue nostri

maculas delicti.

R). Attende etc.

3. V . Rogamus, Deus,

tuam majestatem, auribus

sacris gemitus exaudi; crimina

nostra placidus indulge.

R). Attende etc.

4. V. Tibi fatemur crimina

admìssa; contrito corde

pandimus occulta; tua, Redemptor,

pietas ignoscat.

R). Attende etc.

5. V. Innocens captus,

nec repugnans ductus, testibus

falsis prò impiis damnatus,

quos re demisti Tu

conserva, Christe.

R). Attende etc.

OREMUS

Respice, quæsumus Domine, super hanc familiam

tuam, prò qua Dominus noster Jesus Christus non dubitavit

manibus tradì nocentium, et Crucis subire tormentum.

Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

[R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

1. V. A Te, o Sommo Re, redentore universale, eleviamo i nostri occhi piangenti;  esaudisci, o Cristo, la preghiera di chi a Te si raccomanda. R). Ascolta ecc.

2. V. O destra del Padre, o pietra angolare, o via di salvezza, o porta del cielo, tergi le macchie del nostro peccato. R). Ascolta ecc.

3. V. Preghiamo, o Dio, la tua maestà, porgi le sacre orecchie ai gemiti, e perdona benigno i nostri delitti. R). Ascolta ecc.

4. V. A Te confessiamo i peccati commessi; con cuore contrito manifestiamo ciò che è nascosto; la tua pietà, o Redentore, ci perdoni. R). Ascolta ecc.

5. V. Imprigionato innocente, condotto non riluttante, da falsi testimoni per i peccatori condannato, Tu, o Cristo, salva coloro che hai redento. R). Ascolta ecc.

PREGHIAMO

Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale nostro Signore Gesù Cristo non dubitò di darsi in mano ai nemici e di subire il supplizio di croce. Egli che vive e regna Teco nei secoli dei secoli. Così sia.]

L’AGONIA DI GESU’: SECONDO VENERDI’ DI QUARESIMA

SECONDO VENERDI’ DI QUARESIMA

[d. Umberto BANCI, Libr. Federico PUSTET, ROMA, 1935]

 In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen.

Actiones nostras, quæsumus  Domine, adspirando præveni et adiavando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat et per Te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Inspira, o Signore, le nostre azioni ed accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e opera da Te sempre incominci e col tuo aiuto sempre si compia. Per Cristo nostro Signore. Così sia.]

INVITO

Già trafitto in duro legno/Dall’indegno popol rio

La grand’alma un Uomo Dio, / Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete, /Non perdete, o Dio, i momenti

Di Gesù gli ultimi accenti /Deh! venite ad ascoltar.

SECONDA PAROLA DI GESÙ IN CROCE

Amen dico tibi: hodie mecum eris in Paradiso.

In verità ti dico: oggi sarai meco in Paradiso.

(S. LUCA, cap. XXIII, v. 43).

CONSIDERAZIONE

I due ladri, che per somma ingiuria al Martire Divino erano stati crocifissi l’uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra, si unirono al popolo ed agli anziani per bestemmiarlo. E quelli crocifissi con Lui, lo svillaneggiarono (MARCO, cap. XV, v. 32) Ma l’atteggiamento non comune del Martire, la sua rassegnazione e più il perdono implorato sui suoi nemici fanno ad un tratto cessare la bestemmia sulle labbra di uno dei ladri, il quale aiutato dalla grazia incomincia a sentire per Gesù amore e venerazione. Ed un santo sdegno si accende nel suo cuore contro il suo compagno, il quale negli spasimi del suo tormento non cessa di ripetere: Se tu sei il Cristo salva te stesso e noi [Lc. XXIII, 39]; ed a lui rivolto: Non temi tu dunque Dio, gli dice con rimprovero, trovandoti in uguale supplizio?, e noi davvero giustamente, soggiunge, perché paghiamo la pena dei nostri misfatti; ma Luì non ha fatto nulla di male. E dopo avere così coraggiosamente difeso l’innocenza di Gesù, dopo avere sinceramente detestato le proprie colpe, a Lui rivolto, gli rende l’omaggio della sua fede e della sua speranza dicendogli : Signore, ricordati di me, quando giungerai nel tuo regno [Lc. c. XXIII, 40]. Ma che cosa mai, povero ladrone, puoi sperare da Gesù, tu che sei sempre vissuto dimentico di Dio ed hai calpestato la sua legge; tu, che per tua stessa confessione soffri una pena dovuta ai tuoi delitti; tu, che fino a pochi momenti fa hai bestemmiato quel Gesù, al quale ora osi rivolgere la tua preghiera? Ma non si bussa mai invano alle porte di quel Cuore. Ha infatti il povero crocifisso appena finito di parlare, che Gesù gli rivolge parole che contengono tale una promessa che nessuno mai si sarebbe potuto aspettare: In verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso. Quanta bontà! La sua grande pazienza lo aveva trattenuto dal rispondere agli insulti dei suoi nemici; la sua ardente carità lo spinge a rispondere subito ad un peccatore pentito. – Era ben nota la sua misericordia verso i traviati. Una donna è colta in adulterio; è presa e condotta dinanzi a Lui, si reclama contro di lei la pena di morte, si vuole ad ogni costo lapidarla; ma Gesù, dopo averla liberata dai suoi implacabili ed ingiusti accusatori, la rimanda in pace perdonandola [Gv. VIII]. – È invitato a desinare da un Fariseo, e mentre è seduto a mensa, ecco entrare nella sala del banchetto una donna; è una famosa peccatrice, la quale presa da sincero pentimento gli si getta ai piedi, li bagna con le sue lacrime e li asciuga coi suoi capelli. La cosa attira l’attenzione dei commensali e si incomincia a mormorare contro di lei; ma Gesù difende la peccatrice dalle maligne insinuazioni del Fariseo, e poi, a lei rivolto, le dice: Ti sono perdonati i peccati… la tua fede ti ha fatto salva; va in pace [Lc. VII, 48, 59]. Ed a Pietro spergiuro, nell’atto stesso della sua triplice apostasia, rivolge uno sguardo di tanta misericordia che gli conquide il cuore e lo fa stemprare in lacrime. Ma in nessun caso, anima cristiana, la misericordia di Gesù rifulge meglio che qui sul Calvario, verso il buon ladro. A questo grande peccatore, che ha al suo passivo tutta una vita consumata nel vizio e nei più gravi delitti, che giustamente gli meritarono la pena di morte; a costui che, nella consapevolezza della sua indegnità, aveva domandato a Gesù soltanto che si degnasse ricordarsi di lui, non solo concede il perdono di tutti i peccati, ma lo conferma in grazia, assicurandogli che senza indugio, quel giorno stesso, sarebbe con Lui entrato nella gloria dei Santi. E perché non dubitasse affatto di questa grande promessa, la fa precedere da quelle parole, che nelle sue labbra assumono quasi la forza di un giuramento: In verità ti dico : oggi sarai con me in Paradiso. – Oh carità infinita del Cuore di Gesù, che sola sai compiere tali prodigi! Quanto non dovette essere grande la gioia del buon ladro nel vedersi così ad un tratto aperte le porte del cielo! Ma più grande ancora, senza dubbio, fu la gioia di Gesù nel poter stringere al suo cuore paterno quell’anima traviata. Si fa più festa in cielo per un peccatore pentito, aveva detto, che non per novantanove  giusti, i quali non hanno bisogno di penitenza [Lc. XV, 7] . Quale festa, quale gioia di Paradiso dunque, non provò in quel momento Gesù, questo buon pastore, che ha ritrovata la pecorella smarrita; questo padre buono, che riabbraccia finalmente il figliuolo che era morto ed è risuscitato, che era smarrito e fu ritrovato! [Lc. XV] . Questo nuovo trionfo della sua grazia gli fa dimenticare per un momento i suoi grandi dolori e lo compensa, almeno in parte, dell’amarezza provata per la perdita di Giuda, il cui corpo squarciato e maledetto tuttora pende dall’infame capestro. – Dinanzi a questa nuova prova di bontà di quel grande Cuore tutto carità per i peccatori oseresti, anima cristiana, dubitare ancora della misericordia divina? Oseresti ancora lasciarti vincere dal dubbio che i tuoi peccati ti tengano per sempre separata da Dio? No, non voler dire con l’empio Caino: Il mio peccato è sì grande, che io non posso meritare perdono \[Gen. IV, 13] tuoi peccati, per quanto numerosi e gravi, non saranno mai tanto grandi quanto è grande la misericordia di Dio. E disperando del perdono faresti un torto a Gesù, ben maggiore di quello che gli facesti con tutti insieme i tuoi peccati. Quel Dio che per mezzo dei suoi Profeti aveva protestato che non è suo costume spezzare la canna fessa e spegnere il lucignolo fumigante [Mt. XII, 20] , bensì sostenere tutti quelli che stanno per cadere, rialzare coloro che sono caduti e volere non già la morte del peccatore ma la conversione e la vita, ti vieta di dubitare della sua misericordia. E Gesù non la poteva meglio illustrare questa misericordia divina, che con l’associare alla sua gloria il ladro pentito. – Ma la tua confidenza non degeneri in presunzione. Non ti lusingare cioè di poter dare a Dio gli ultimi avanzi di una vita consumata nel peccato; è maledetto da Dio chi pecca nella speranza del perdono. Non stancare la bontà di Dio col rimandare a domani quello che puoi fare oggi, o col rimettere la conversione al giorno della morte; il domani non è nelle tue mani, e tu non sai se potrai ricevere questa grazia in quel momento estremo, quando Gesù ti esorta a star pronto ed essere vigilante, poiché la morte verrà come un ladro di notte, verrà quando meno te lo aspetti [Mt. XXIV]. Queste stolte procrastinazioni potrebbero farti incorrere in quella terribile invettiva : Morirete nel vostro peccato![Gv. VIII, 21]Impara, dice S. Girolamo, che la grazia ha il suo tempo, affinché tu non abbia a lusingarti che vi sarà sempre tempo di approfittarne. D’altra parte osserva che se uno dei ladri si converte e si salva, l’altro, che è pure lì vicino a Gesù, si ostina e si danna. Bada bene, dice perciò S. Agostino: di due che muoiono sul Calvario ai fianchi di Gesù, uno si salva, dunque non disperare; uno si danna, dunque non presumere. Non tardare dunque, o peccatore, a gettarti con grande confidenza ai piedi di Gesù. Sì, anche tu, chiunque tu sia, puoi, se veramente pentito, ottenere il perdono di tutte le tue colpe. Oh se l’esempio del buon ladro ti facesse ritrovare la via della salvezza! Oh! fosse questo per te, anima traviata, il giorno della tua salute, quel giorno tanto auspicato da Gesù per il popolo ebreo, quando avvicinandosi all’ingrata Gerusalemme, piangendo uscì in quelle parole piene di profondo cordoglio, e che tu devi ritenere oggi come a te personalmente rivolte: Oh! se conoscessi anche tu, e proprio in questo giorno quel che giova alla tua pace! [Lc. XIX, 42]. – Ed ora abbraccia col tuo sguardo i tre crocifissi. Guarda: uno è Gesù, la stessa innocenza, la santità incarnata; l’altro, quello di destra, è peccatore, ma ravveduto, il buon ladrone; il terzo, quello di sinistra, è il cattivo ladro, un peccatore impenitente e ostinato nel suo peccato. Tutti e tre sono in croce, tutti e tre soffrono le stesse pene. Ciò ti conferma, più e meglio di ogni altra cosa, una verità elementare, se vuoi, ma da molti non compresa; che cioè nessuno può sperare quaggiù di vivere senza la sua croce. L’hanno i buoni la croce e l’hanno i cattivi; l’hanno i giusti, come l’hanno anche i peccatori, i quali anzi alla croce, che la Provvidenza destina ad ognuno, aggiungono quella che viene a loro dai propri vizi; onde S. Agostino scrisse che fra tutte le tribolazioni non ve n’è alcuna maggiore del rimorso dei propri delitti. Non potendo dunque sfuggire la croce, prendi e quella, che ti viene data da Dio, e quella che per caso ti venisse procurata dagli uomini; e porta l’una e l’altra con rassegnazione, sia perché anche tu devi ripetere con il buon ladro: Noi non riceviamo altro se non ciò che è dovuto ai nostri peccati; sia ancora perché dice S. Paolo : Se noi soffriremo con Cristo, con Lui saremo glorificati [Rom. VIII, 17]. Solo così la croce perderà la sua pesantezza; solo così il dolore si trasformerà in gaudio, poiché sta di fatto: chi soffre come soffrì il cattivo ladro, sarà dannato; chi soffre come soffrì il buon ladro, sarà perdonato; chi soffre come soffrì Gesù, sarà glorificato.

Breve pausa, poi si reciti la seguente:

PREGHIERA

O mio Gesù crocifisso, se ripenso ai peccati di cui è piena la mia vita, dovrei fuggire lontano da Voi, riconoscendomi indegno di starvi vicino. Sì, o Signore, ho peccato e molto peccato! Ma che sarebbe di me se Voi mi abbandonaste? Dove potrei andare lontano da Voi, che solo avete parole di vita? Ma no, o mio Salvatore, troppo grande è la vostra misericordia perché io possa disperare del vostro perdono. Ed oggi che il ricordo della vostra agonia mi ha condotto qui, ai vostri piedi, considerando i prodigi della vostra carità, che non si esaurisce e che non dubita di salvare anche un miserabile ladrone così vicino alla perdizione, sento rinascere in me una grande fiducia in Voi. Ecco qui ai vostri piedi, o Signore, un altro peccatore che, con le lacrime agli occhi, detesta di cuore tutti i suoi peccati; che riconosce in tutte le pene ed i travagli di questa misera vita una giusta pena alle sue colpe e che fiducioso e rassegnato dal fondo della sua miseria, dalla croce dei suoi dolori alza a Voi la sua voce e grida: Signore, ricordatevi di me. Sì, o Signore, ricordatevi di me e di quanti peccatori viviamo in mezzo a tanti pericoli che insidiano alla virtù, che ci traviano dal retto sentiero; ricordatevi di tutti i tribolati, che in questa misera valle di lacrime gemono nei loro dolori; e ricordatevi di noi specialmente nel momento supremo della nostra ultima agonia. Allora soprattutto voglio essere vicino a Voi, o Signore, affinché rinnoviate in me i prodigi della vostra carità. E fin da questo momento accetto volentieri quel genere di morte col quale a Voi piacerà chiudere questo mio pellegrinaggio terreno, lo accetto con tutte le ansie e i dolori che lo accompagneranno. E quando il mio sguardo languido annunzierà prossima la mia fine; quando con la mano tremante stringerò al petto la vostra cara immagine, quei gemiti, quei sospiri, quegli ultimi palpiti del mio cuore siano per Voi, o Gesù; accettateli come l’espressione del mio ardente desiderio di unirmi per sempre a Voi; e Voi allora, o mio pietosissimo Signore, mentre nel vostro bacio starò per spirare l’anima mia, degnatevi ripetermi le dolci parole: Oggi sarai con me in Paradiso. – O Madre mia, addolorata Maria, Voi che giustamente siete chiamata l’Avvocata dei peccatori, prendete a cuore la mia causa; ottenetemi da Dio il perdono dei miei peccati; ispiratemi un vivo desiderio di vivere il resto della mia vita tutto per Gesù, così che al punto della mia morte ritrovi in Lui non già un giudice adirato, ma un Padre pieno di bontà, che mi accolga tra le braccia della sua misericordia infinita. Così sia.

Pater, Ave e Gloria.

Quando morte con l’orrido artiglio,

La mia vita a predare ne venga,

Deh ! Signor, Ti sovvenga di me.

Tu mi assisti nel fiero periglio,

E, deposta la squallida salma,

Venga l’alma a regnare con Te.

GRADI DELLA PASSIONE

1. V. Jesu dulcissime, in horto mœstus, Patrem orans,

et in agonia positus, sanguineum sudorem effundens;

miserere nobis.

R). Miserere nostri Domine, miserere nostri.

2. V. Jesu dulcissime, osculo traditoris in manus

impiorum traditus et tamquam latro captus et ligatus

et a discipulis derelictus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

3. V. Jesu dulcissime ab iniquo Iudæorum concilio

reus mortis acclamatus, ad Pilatum tamquam malefactor

ductus, ab iniquo Herode spretus et delusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

4. V . Jesu dulcissime, vestibus denudatus, et in

columna crudelissime flagellatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

5. V. Jesu dulcissime, spinis coronatus, colaphìs

cæsus, arundine percussus, facie velatus, veste purpurea

circumdatus, multipliciter derisus et opprobriis

saturatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

6. V . Jesu dulcissime, latroni Barabbæ postpositus,

a Judæis reprobatus, et ad mortem crucis injuste condemnatus;

miserere nobis.

R). Miserere etc.

7. V . Jesu dulcissime, tigno crucis oneratus, ad locum supplicii tamquam ovis ad occisionem ductus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

8. V. Jesu dulcissime, inter latrones deputatus,

blasphematus et derisus, felle et aceto potatus, et

horribilibus tormentis ab hora sexta usque ad horam

nonam in ligno cruciatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

9. V. Jesu dulcissime, in patibulo crucis, mortuiis et

coram tua sancta Matre lancea perforatus simul

sanguinem et aquam emittens; miserere nobis.

R). Miserere etc.

10. V . Jesu dulcissime, de cruce depositus et lacrimis

mœstissimæ Virgiuis Matris tuæ perfusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

11. Jesu dulcissime, plagis circumdatus, quinque

vulneribus signatus, aromatibus conditus et in

sepulcro repositus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Adoramus Te Christe, et benedicimus Tìbi.

R). Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

OREMUS

Deus, qui prò redemptione

mundi nasci voluisti,

circumcìdì, a Judæis reprobavi

et Judæ traditore

osculo tradi, vinculis alligavi,

sic ut agnus innocens

ad victimam duci, atque

conspectibus Annæ, Caiphæ,

Pilati et Herodis

indecenter offevri, a falsis

testibus accusari, flagellis

et colaphis cædi, opprobriis

vexari, conspui, spinis

coronari, arundine percuti,

facie velari, vestibus

spoliari, cruci clavis affigi,

in cruce levari, inter

latrones deputari, felle et

aceto potari et lancea vulnerari;

Tu Domine, per

has sanctissimas pœnas,

quas ego indignus recolo,

et per sanctissimam crucem

et mortem tuam libera

me a pœnis inferni et perducere

digneris quo perduxisti

latronem tecum

crucifixum. Qui cum Patre

et Spiritu Sancto vivis

et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[1. V . O dolcissimo Gesù, triste nell’orto, al Padre con la preghiera rivolto, agonizzante e grondante sudore di sangue; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà.

2. V . O dolcissimo Gesù, con un bacio tradito e nelle mani degli empi consegnato, e come un ladro preso e legato e dai discepoli abbandonato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

3. V . O Gesù dolcissimo, dall’iniquo Sinedrio giudaico reo di morte proclamato, e come malfattore a Pilato presentato, e dall’iniquo Erode disprezzato e schernito; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

.4. V . O dolcissimo Gestì, delle vesti spogliato, e c rudelmente alla colonna flagellato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

5. V. O dolcissimo Gesù, di spine coronato, schiaffeggiato, con la canna percosso, bendato, di rossa veste rivestito, in tanti modi deriso e di obbrobri saziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

6. V. O dolcissimo Gesù, al ladro Barabba posposto, dai Giudei riprovato; ed alla morte di croce ingiustamente condannato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

7. V. O dolcissimo Gesù, del legno della croce gravato, e come agnello al luogo del supplizio condotto, per esservi immolato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

8. V. O dolcissimo Gesù, tra i ladroni annoverato, bestemmiato e deriso, di fiele e di aceto abbeverato, e con orribili tormenti dall’ora sesta fino all’ora nona nel legno straziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

9. V. O dolcissimo Gesù, sul patibolo della croce morto, ed alla presenza della tua santa Madre con la lancia trafitto versando insieme sangue ed acqua; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

10. V. O dolcissimo Gesù, dalla croce deposto, e dalle lacrime dell’afflittissima tua Vergine Madre bagnato;abbi di noi pietà

R). Pietà di noi ecc.

11. V. O dolcissimo Gesù, di piaghe coperto, da cinque ferite trafitto, di aromi cosparso, e nel sepolcro deposto; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

V. Ti adoriamo, o Cristo, e Ti benediciamo.

R). Poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.

PREGHIAMO

O Dio, che per la redenzione del mondo volesti nascere, essere circonciso, dai Giudei riprovato, da Giuda traditore con un bacio tradito, da funi avvinto, come agnello innocente al sacrifizio condotto, ed in modo indegno ad Anna, Caifa, Pilato ed Erode presentato, da falsi testimoni accusato, con flagelli e schiaffi percosso, con obbrobri oltraggiato, sputacchiato, di spine coronato, con la canna percosso, bendato, delle vesti spogliato, alla croce con chiodi confitto, sulla croce innalzato, tra i ladroni annoverato, di fiele e di aceto abbeverato, e con la l’ancia ferito; Tu, o Signore, per queste santissime pene, che io indegno vado considerando, e per la tua croce e morte santissima, liberami dalle pene dell’inferno e, desiati condurmi dove conducesti il ladrone penitente con Te crocifisso. Tu che col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Così sia.]

CANTO DEL TEMPO DI QUARESIMA

Attende, Domine, et miserere, quia peccavìmus Tìbi.

R). Attende, Domine, et miserere, quia peccavimus Tibi.

1. Ad Te, rex summe,

omnium redemptor,

oculos nostros sublevamus

flentes; exaudi Christe,

supplicantium preces.

R). Attende etc.

2. V. Dextera Patris, lapis

angularis, via salutis,

janua cœlestis, ablue nostri

maculas delicti.

R). Attende etc.

3. V . Rogamus, Deus,

tuam majestatem, auribus

sacris gemitus exaudi; crimina

nostra placidus indulge.

R). Attende etc.

4. V. Tibi fatemur crimina

admìssa; contrito corde

pandimus occulta; tua, Redemptor,

pietas ignoscat.

R). Attende etc.

5. V. Innocens captus,

nec repugnans ductus, testibus

falsis prò impiis damnatus,

quos re demisti Tu

conserva, Christe.

R). Attende etc.

OREMUS

Respice, quæsumus Domine, super hanc familiam

tuam, prò qua Dominus noster Jesus Christus non dubitavit

manibus tradì nocentium, et Crucis subire tormentum.

Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

[R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

1. V. A Te, o Sommo Re, redentore universale, eleviamo i nostri occhi piangenti;  esaudisci, o Cristo, la preghiera di chi a Te si raccomanda. R). Ascolta ecc.

2. V. O destra del Padre, o pietra angolare, o via di salvezza, o porta del cielo, tergi le macchie del nostro peccato. R). Ascolta ecc.

3. V. Preghiamo, o Dio, la tua maestà, porgi le sacre orecchie ai gemiti, e perdona benigno i nostri delitti. R). Ascolta ecc.

4. V. A Te confessiamo i peccati commessi; con cuore contrito manifestiamo ciò che è nascosto; la tua pietà, o Redentore, ci perdoni. R). Ascolta ecc.

5. V. Imprigionato innocente, condotto non riluttante, da falsi testimoni per i peccatori condannato, Tu, o Cristo, salva coloro che hai redento. R). Ascolta ecc.

PREGHIAMO

Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale nostro Signore Gesù Cristo non dubitò di darsi in mano ai nemici e di subire il supplizio di croce. Egli che vive e regna Teco nei secoli dei secoli. Così sia.]

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (3)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

(3)

La prudenza nell’esercizio della Penitenza

La prudenza è una virtù cardinale che compone nel modo debito la obiettiva riflessione e deliberazione con la motivata e serena decisione. È una sintesi e per questo è una virtù difficile, non eccessivamente usata e più facilmente svisata in precipitazione o irresolutezza. La prudenza nel Sacramento della Penitenza riguarda il contegno generale e riguarda il giudizio in particolare.

1. – Cominciamo dalla prudenza nel contegno in generale. Consta dei seguenti elementi.

– La netta coscienza della propria umana debolezza, della propria emotività, le brecce nella sfera affettiva, le reazioni comuni agli uomini comuni. Questa conoscenza porta ad una umile accettazione di uno stato di fatto ed a tutte le conseguenze. Per taluni entra utilmente la memoria a documentare la debolezza preferita. Quando si sa di esser debole, non si fa l’eroe. Oggi si sfornano teorie per distruggere questo buon senso; purtroppo tali teorie in uomini non molto provveduti distruggono il buon senso, ma non distruggono la realtà dei fatti e delle condizioni. Si dice che i pericoli li creiamo noi con le inibizioni morali e che pertanto basta annullare le inibizioni morali per annullare i pericoli. – La risposta a questa teoria è data dalle conseguenze della medesima: l’accresciuta immoralità, anticipazione di tutte le brutture, crescente inconsistenza della famiglia, degenerazione del tessuto sociale, dilagare della pazzia e della anormalità. Questo, senza tener conto dell’esame obiettivo della natura, al di fuori di quanto è spaventosamente cresciuta la infelicità degli uomini e, si direbbe, la stessa incapacità di godere, nonostante l’aumento generale e vorticoso del benessere. Qualcuno dice anche che il male non esiste, che, comunque agiamo, siamo tutti buoni. Difatti. Lo spettacolo del simile che mangia il proprio simile – per fermarci solo a quello – cresce a tutti i livelli e qualche volta si esibisce anche dove non dovrebbe. Non anestetizziamo il mondo con teorie stupide e ricordiamoci che un mondo anestetizzato è un mondo prossimo a morire. La debolezza c’è e con essa tutti dobbiamo fare i conti: non basta la pubblicità o la popolarità a coprire le sue insufficienze e le sue vergognose deformazioni.

– La netta coscienza delle debolezze degli altri. -Si conoscono a poco a poco e proprio per questa distribuzione della esperienza nel tempo la cautela deve essere aumentata. Il novellino abbia la umiltà di accettare questo, altrimenti sarà facile per lui cadere. Ora, il sesso, le anormalità ben diffuse, la sfera affettiva in cerca di appoggi, sono argomenti che spingono tutti i confessori a rivestire la autentica corazza. E difficile accorgersi subito come e quanto questi elementi si insinuino nella confessione. Pertanto è necessario sempre sospettarne la presenza, ammetterne la possibilità e contenersi con tutti i riguardi. Tale atteggiamento interiore ed esteriore può subire un certo rallentamento quando si è arrivati a conoscere a fondo di che stoffa è fatto il penitente. – Parliamo, anche in questo caso, solo di un «certo» rallentamento, perché anche se c’è posto nella vita per la onesta amicizia, questa non ha come sede delle sue effusioni un Sacramento in cui si agisce in nome e per deputazione divina. L’argomento dovremo riprenderlo in sede propria.

– La netta coscienza dei «limiti» nei quali agisce il Sacramento.

Il salotto, il pettegolezzo, la agenzia di informazione, gli sfoghi di sentimenti di rabbia, di invidia e di gelosia, le dolci conversazioni, il rilassamento della amabile compagnia etc. si trovano tutti fuori dei limiti del Sacramento. Il sacerdote, quando entra in confessionale, è e deve essere un altro uomo da quello che agisce fuori del confessionale. La stessa confidenza, finché indica semplice e pura apertura dell’anima in materia che riguarda il Sacramento o il dovere da esercitare nel Sacramento, potrà ammettersi; diversamente va esclusa. La delicatezza, la soavità senza smancerie, la dolcezza, la amabile pazienza, la educazione – tutte cose che stanno bene nel Sacramento – non debbono arrivare alla pericolosa confidenza. La osservanza delle regole canoniche per il locus aptus della confessione sia mantenuta; ha una profonda giustificazione umana e psicologica. Da venti anni andiamo insistendo con tutti che i confessionali degli uomini vanno assimilati in gran parte a quelli delle donne, almeno per quanto riguarda la distinzione e separazione della sede e l’uso di una certa grata. Sconsigliamo qualunque confessore dall’uso di carezze, abbracci, etc. Dirà taluno: «ma questo si legge di certi santi». Ecco la risposta: si faccia prima santo, comprovi veramente di esserlo con il dono dei miracoli e dopo ne discuteremo. Se noi pensiamo che certe ganghe, note nella storia grande e piccola, sono nate dai confessionali nei quali queste regole non si osservavano, troviamo pieno motivo di insistere con i nostri consigli.

La chiara coscienza dell’ufficio.

L’ufficio è quello del giudice e – dopo – del medico e del padre. L’ufficio del medico e del padre è in ordine al fine del Sacramento che è quello di togliere il peccato e di prevenire il peccato accrescendo la virtù. Non si tratta dunque di fare il medico a tutti gli effetti pensabili. Per questi, se saranno giustificati, ci sarà posto fuori del confessionale, a norma delle leggi canoniche. Il confessore non è un conversatore, un assistente sociale, un amicone. Deve confortare, certamente, ma sempre nella dignità e carità confacenti al Sacramento, mai nella forma, magari diluita, – che potrà essere onesta o disonesta a seconda dei casi – che appartiene ad una sfera di sentimento, al tutto impropria e sconveniente per il Sacramento. Il Sacramento della Penitenza è un contatto spirituale profondo: deve essere terribilmente difeso, anche per il rispetto verso le anime, dal pericolo di diventare un contatto meno che purissimamente spirituale e funzionale.

Il chiaro avveduto giudizio su tutte le colleganze possibili con il Sacramento della Penitenza. Le colleganze sono tutti gli incontri fuori confessionale, i discorsi spirituali a due, le direzioni spirituali. Sembrerebbe che quanto accade fuori del Sacramento sia pure fuori dell’oggetto di cui trattiamo. Non è così, perché esistono, tra il Sacramento e fuori, sia il rapporto di causa ed effetto, sia il rapporto circostanziale od occasionale, sia la identità delle persone che hanno agito nel Sacramento; e pertanto la prudenza, regina in questo, ha il diritto di continuare ad essere regina anche in quanto è a questo per qualunque titolo collegato. – Le chiacchiere prima e poi non sono mai necessarie, se non contenutissime e giustificate da educazione, conoscenza, ragioni di fatto emergenti e valevoli. Esse generalmente servono a far perdere al penitente la pietà e la devozione, che è pur conveniente se non addirittura necessaria, prima e dopo la amministrazione del Sacramento. – I discorsi spirituali a due possono essere santissime cose e possono essere preludio di pessime cose. La maggior parte di coloro che hanno perduto le penne nel loro ministero hanno cominciato con incontri di carattere spirituale e persino mistico. Accadde anche a Tertulliano. Per questo motivo i discorsi spirituali fuori del confessionale e collegati con quello vanno prudentissimamente razionati e cautelati. Il luogo dove si tengono è bene sia controllabile dagli altri; la diversità di sesso, o le particolari caratteristiche degli interlocutori sono da soppesarsi severamente agli effetti della cautela; ogni forma confidenziale va esclusa. Il sacerdote prudente, prima di concedere tali colloqui, ragioni, preghi e sia deciso quando occorre dire di no. –

La direzione spirituale è congeniale con il Sacramento della Penitenza.

Infatti lo stesso Sacramento, con la sua parte di giudizio e di illuminazione, contiene una direzione spirituale. È logico che questa in clima più disteso e più diffuso possa estendersi fuori del Sacramento. Anzi molte volte deve estendersi fuori di esso, perché è uno degli ausili più afferenti alla vera formazione delle anime. Qui ci è sufficiente ricordare che tutte le ragioni di prudenza vanno considerate a proposito della direzione spirituale, con la sola aggiunta che, essendo questa bene spesso necessaria, non può e non deve evitarsi, deve favorirsi e pertanto richiede maggiori sussidi spirituali e la massima serietà in chi la attua. Riparleremo a suo tempo dell’argomento.

– Netta coscienza del dovere del distacco del cuore, della modestia, della vigorosa e pronta rinuncia. Nessuno che non sia libero è in grado di guidare utilmente gli altri, solo le cose or ora enunciate danno la necessaria libertà.

La indipendenza di spirito necessaria al confessore

Nessuno penserà che qui parliamo della indipendenza contraria alla verità, alla legge, alla virtù. Si tratta di altro. Il penitente con le sue doti fisiche, intellettuali e morali, con la sua maggiore abilità può esercitare una influenza indebita sul confessore. Parliamo di influenza indebita, perché, finché si tratta, ad esempio, di dare edificazione, nulla potrebbe essere ritenuto indebito. È adunque da questa indebita influenza che si deve sottrarre il confessore ed è esclusivamente in questo senso che parliamo di indipendenza.

– Tutto ciò che è piacere umano deve essere cautamente ed anche energicamente respinto. Anche se il piacere non è in sé peccaminoso, ma a più forte ragione se fosse peccaminoso. Attenti che parliamo di piacere «umano» per indicare quello che parte dai sensi ed arriva ai sensi, dalla naturale sfera affettiva ed in quella agisce, dalla vana compiacenza ed in quella compie le sue evoluzioni. Un piacere puramente spirituale sul bene che si compie, sulla luce che irradia, sul mutamento di purificazione che viene operato, non potrebbe essere chiamato «piacere umano». Tuttavia certi sentimenti possono quasi incoscientemente mutarsi in piaceri d’altra natura.

– Con non minore rigidità deve respingersi dall’esercizio del Sacramento ogni umano interesse, nel senso che – nell’ambito di esso – nulla deve ammettersi che abbia per fine un interesse. Amministrare il Sacramento ad un certo modo, con particolare selezione di penitenti, con particolari cure e magari attrazioni per taluni di essi, in modo da cavarne un lucro, una possibilità di potere su vicende umane e magari politiche, un dominio di famiglie… sarebbe cosa al tutto dissona dalla santità e dalla indipendenza di un tale sacramento. Vi sono delle conseguenze del genere, che possono venire senza alcuna anche lontana intenzione da parte del confessore. In tal caso nulla gli si potrebbe imputare con giustizia, però bisognerebbe ricordargli che di tali effetti egli deve usare con infinita cautela (talvolta potrebbe esser nel caso di respingerli), sicché non ne venga direttamente od indirettamente danno al Sacramento, alla Religione, all’Ordine ecclesiastico. – Ci sono sacerdoti i quali, per essere i confidenti spirituali di taluni personaggi a loro devoti, possono avere la tentazione di influire su persone e su fatti, su affari e vicende, che non sono assolutamente di loro pertinenza. Non si lascino ingannare scendendo su un terreno che può non essere il loro, evitando ambizioni e vane compiacenze, ricordando che la grazia del loro stato è per guidare anime verso una maggiore purificazione e perfezione. Fa parte del loro obbligo rispondere a quesiti sulla moralità di affari, vicende, imprese; rispondano serenamente per quanto sanno e possono, ma sempre in ordine ad indicare la giusta via secondo Dio e mai in ordine a far essi l’uomo d’affari, l’uomo politico, il gestore d’un qualunque potere umano.

Il Sacramento della Penitenza non è un ponte per raggiungere la posizione o l’esercizio di un potere estraneo a quello del Sacramento.

La serietà del Sacramento domanda che non si faccia sfoggio di una competenza che non si ha. Nessun sacerdote presuma di dare consigli medici. Se ha conoscenze di medicina se ne serva, ove occorresse, per quanto può fare come sacerdote e soprattutto per formulare il ragionevole dubbio di inviare il penitente da un medico. Fosse lui stesso medico, sempre salve tutte le convenienze, il consiglio, è meglio lo dia fuori confessione. Nessuno si prenda responsabilità per le quali Cristo non ha istituito il sacramento della Penitenza. Vi sono tante altre faccende umane per le quali può prendere il prurito di trattare in confessione. Si resti estremamente cauti, perché quella non è per sé materia di confessione. Se una giusta causa, ad esempio di carità, ci fosse, pare consigliabile parlarne dopo aver assolto l’impegno del Sacramento. – La questione è delicatissima allorché si tratta della convenienza o meno di contrarre matrimonio. Finché la convenienza riguarda l’aspetto morale e religioso il confessore, dopo aver pensato a fondo e pregato, potrà cautamente arrivare a dare anche un consiglio risolutivo. Ma quando si è fuori dell’aspetto morale e religioso, il confessore eviti ogni responsabilità che non gli competa. Se fuori del Sacramento, per esperienza, competenza, argomenti ben noti potesse dire in materia qualcosa di più, vada estremamente cauto, perché non ne venga danno a quelli che intenderebbe beneficiare e non scenda un ombra sul suo ministero. Nel nostro, ormai lungo, ministero episcopale abbiamo conosciuto casi nei quali sarebbe stato meglio il sacerdote avesse parlato solo di quello cui era deputato, non oltre. – Nessuno presuma di guidare affari pubblici attraverso qualificati penitenti. Questa di guidare è una tentazione che può venire e non è detto che nessuno ci caschi. Ma, oltreché una grave presunzione ed equivalente responsabilità, costituirebbe una aberrazione nel Sacramento. Se si sa si risponda sul valore morale delle azioni; per il rimanente si rispetti la libertà di chi ha diritto a decidere. Insomma la indipendenza del Sacramento e del ministro stanno in questo: nel distacco del cuore da tutte le cose terrene, nella purezza per cui resta alieno da ogni profana contaminazione. – Non si può finire il discorso senza parlare anche della indipendenza dalla curiosità. Il pericolo di soggiacervi è quasi sempre immediato, sia per la materia, sia per la facilità con cui troppi penitenti indulgono ai particolari, alla prolissità, alla chiacchiera. Per la seconda volta rimandiamo la materia ai testi approvati sul modo e sui limiti della interrogazione al penitente. Chi indulge in confessione alla curiosità non sa mai dove e come può finire.

[Continua …]

STORIA DEL BUON LADRONE di mons. J. J. GAUME (1)

STORIA

DEL BUON LADRONE

DEDICATA AL SECOLO XIX.

DI MONSIGNOR GAUME

[Prato, Tip. Guasti. 1879]

PREFAZIONE

Dedica di questa Istoria al secolo decimonono. — Ragioni di questa  dedica. — Il secolo decimonono trova nel buon Ladrone il suo  modello. — Colpevole al pari di lui, come lui può e deve pen­tirs i.— La sua conversione è la soluzione unica di tutti i  problemi sociali. — Risposta alle difficolta. — Utilità di questa  Istoria: essa rivela molti fatti curiosi, dimenticati o poco noti: — Dessa unisce la Storia evangelica con la Storia profana: —  apre l’anima ai più nobili sentimenti, l’ammirazione e l’ amore; — ed è un preservativo o un rimedio possente contro lo  scoraggiamento e la disperazione.

I.

Io amo i Santi che non furono sempre santi. Se  parrà strana una tal propensione; è ella forse degna  di biasimo ? Un illustre dottore della Chiesa la spiega  e la giustifica con queste parole: « Noi comprendiamo,  dice s. Ambrogio,  l’utilità dei peccati de’ santi, ed il  perché la Provvidenza li permise. Destinati a servirci  di modello, è bene per noi che abbiano alcuna volta  errato. Se non ostante le insidie di che sovrabbonda il  cammin della vita, non avessero eglino mai messo il  piè in fallo percorrendolo, noi ci perderemmo d’animo,  e deboli come ne siamo, ci sentiremmo tentati a crederli di una natura superiore alla nostra e quasi divina,  soggetta a fallire peccando. Persuadendoci di essere di altra inferiore natura,  un tal concetto ci distoglierebbe da una imitazione  riguardata come impossibile. Quindi è che la grazia di Dio ha lasciato anche a loro sentire un po’ la propria debolezza, affinché la loro vita fosse per noi un modello  di accessibile imitazione, ed i loro atti fossero una doppia  lezione di fedeltà e di penitenza. Il perché, quando io  leggo le loro cadute, vedo che parteciparono della mia  debolezza, e ravvisandoli non esenti da infermità,  prendo fiducia di poter correre dietro ai loro passi » [S. Ambrogio, In prior. Davidis apolog., cap. II.]

II.

Or ecco la storia di un gran peccatore, divenuto un  gran santo. Essa  è  dedicata ad un gran peccatore, che ha il più urgente bisogno di divenire un gran santo. Il secolo decimonono è il nome di questo gran peccatore. Nel colpevole illustre richiamato alla sua memoria, gran peccatore, gran ladro e gran santo, il secolo deci­monono riconoscerà esattamente quello che egli è, e  quel che deve essere. – Il dire di questo secolo che è un gran peccatore  ed un gran ladro, al pari di quello del Calvario, non  è un calunniarlo. Il dire che dee pentirsi, e pentirsi senza ulteriore  indugio, egli è un mostrargli la sola via di salute, che  gli resta. – Il dire che può pentirsi, egli è un ridestare in esso la fiducia ed incoraggiare i suoi sforzi. Uopo è stabilire queste tre proposizioni per giustificare la dedica di questa storia, e dimostrarne la convenienza  e l’utilità.

III.

1.° Dire del secolo decimonono che è un gran peccatore, e come quello del Calvario, un gran Ladro,  non è un calunniarlo. — Un secolo si caratterizza non già per i fatti ch’esso presenta, ma sì per lo spirito generale che lo  distingue. Questo spirito si rivela nelle idee dominanti  in fatto di politica e di religione. Alla loro volta codeste idee hanno la loro espressione nella condotta dei governi,  nelle istituzioni, nelle leggi, nei pubblici costumi e nelle  occupazioni e passatempi preferiti, nei libri e nei gior­nali che godono del favor popolare. In una parola, un  secolo si caratterizza per l’insieme delle sue aspira­zioni e tendenze intellettuali, religiose e sociali. – Che in questo secolo vi abbiano delle individualità  più o meno numerose, non partecipanti al general mo­vimento, e che queste diano segno della loro indipen­denza, con atti isolati o collettivi in opposizione allo spirito dominante, non perciò il secolo conserva meno il carattere che lo distingue, e per il quale si è in diritto  di definirlo. Ciò sia detto per mostrare che noi siamo ben lontani dal voler sminuire e molto meno negare il  bene che oggigiorno si fa, pur sostenendo il nostro giu­dizio sul secolo decimonono considerato nel suo insieme. Veniamo alle prove. Qual è mai lo spirito del secolo decimonono? È desso cattolico, o no ? Per farne retto ed imparziale  giudizio, non è da prendersi in esame presso una sola  nazione. Ragion vuole che, nelle loro generali manifestazioni, siano considerate tutte le nazioni almeno dell’Occidente. – È forse lo spirito cattolico che regna nella Russia,  nella Prussia, nella Svezia, nella Danimarca, nell’Inghilterra, in tutti i paesi protestanti e scismatici, vale  a dire per lo meno, nella metà dell’Europa? E qual è lo spirito che domina nelle nazioni, che diconsi ancora  cattoliche, Francia, Spagna, Austria, Portogallo, Italia?  Come nazioni tendono esse al Cattolicesimo, o alla parte  opposta? Cosa puerile sarebbe il discutere una siffatta  questione: il solo proporla è lo stesso che risolverla.

IV.

Or il secolo decimonono faccia il suo esame di co­scienza. V’ha una legge, la più santa di tutte le leggi,  e madre di tutte le leggi degne di questo nome; una  legge discesa dal cielo e data da Colui, innanzi al quale deve curvarsi ogni fronte, star muto ogni labbro, pie­garsi ogni ginocchio; una legge che ha la sanzione di  ricompense e pene temporali ed eterne; una legge,  della quale il battesimo rende l’osservanza ben più  rigorosa pei popoli cristiani, che per le nazioni infedeli. Questa legge, che si compone di dieci articoli, si chia­ma il  Decalogo. – Or di questi dieci articoli, qual è quello che il  secolo decimonono osservi sul serio, e secondo lo spirito  del divino legislatore, in Russia, in Francia, in Italia e presso le altre nazioni d’Europa? O piuttosto qual è quella nazione che, da nord a mezzogiorno non li violi tutti apertamente ed ostinatamente? Egli è doloroso a dirsi; ma al veder la condotta del secolo decimonono, non si può mettere in dubbio che per esso Iddio è non un so qual vecchio re quasi detronizzato, i cui consigli, le cui prescrizioni, i cui divieti, le cui promesse e minacce, oggetto d’indifferenza per gli uni, e di scherno per gli altri, non pesano più sulla vita delle nazioni, come nazioni, di quello che sul piatto di una bilancia una leggerissima piuma. – Dove trovate voi la parte di Dio nella, politica dei e, nei discorsi e negli atti officiali dei governi? Si potrà nominare un solo uomo di stato veramente cristiano in tutta la moderna Europa? Il secolo decimonono non fa ora dei codici nei quali non si rincontra una sola volta il nome di Dio? Qual secolo anche pagano, ha mai proferito e lasciato proferire tante bestemmie contro quel nome adorabile, e contro tutto ciò, che Egli adombra della sua divina maestà? Tranne quella della spada, qual potenza è sacra per esso? E son tuttavia sacri per esso i giorni riserbati al riposo? E qual’è l’andazzo dei pubblici costumi? Depositaria della divina autorità e ministra delle sue leggi, la Chiesa è ella pel secolo decimonono l’oggetto di un’esemplare venerazione? Promotrice e guardiana della vera civiltà, riceve forse la Chiesa il ben meritato omaggio di una positiva riconoscenza, e di un filiale attaccamento?

V.

Se non ché, la violazione audacissima della più  santa delle leggi non è già la più grande iniquità del secolo decimonono. V’ha una differenza enorme tra la  reità d’un figlio, che disobbedisce al padre, riconoscen­do pur sempre la paterna autorità, e quella di un figlio,  che non solo trasgredisce i paterni comandi, ma nega  ancora la paterna autorità. E di questa reità è imputabile il secolo decimonono. Non contento di ribellarsi a Dio ed alla sua Chiesa  disconosce la loro autorità: « Io sono norma e regola a me medesimo, così nel pensare, nel discorrere e  nell’operare. Che bisogno ho io di Gesù Cristo e della  sua Chiesa? Qual’uopo ho del Papa? Combattere la  loro tirannica autorità è mio buon diritto; scuoterne il giogo è mia gloria, e liberarne la umanità egli è aprire ad essa un’èra di libertà, di progresso e di felicità. » Ed  ecco per chi vuole intenderlo il perpetuo ritornello del secolo decimonono in tutta la sua estensione, e l’ultima  parola del suo modo di pensare più o meno officiale. – Quindi ciò che per  l’addietro non era mai avvenuto,  i titoli dei suoi pubblici fogli sono:  Il Libero Pensiero, La Morale Indipendente, e pur anche l’Àteo.

VI.

Di là proviene ancora il tutto nuovo carattere del  male all’epoca nostra. In tutti i tempi v ’ebbero degli errori; ma la legale riconoscenza dei dritti dell’errore  nelle nazioni cattoliche, ch’è quanto dire la patente  concessa ai falsi monetarii della verità di batter falsa  moneta pubblicamente; ma società formate in piena  luce col fine palese di tener lontano come un malefico  il Cristianesimo dalla culla del bambino, dal capezzale  del moribondo, e se sia possibile, di  soffocarlo nel fango; ecco ciò che nel secolo decimonono solamente si è ve­duto avverarsi. – Del pari in tutti i tempi v’ebbero delitti e misfatti  contro la proprietà ed i buoni costumi; ma l’apologia  del furto e della disonestà, e con essa la glorificazione  del suicidio, ecco altresì quel che non si ritrova, col  lascia-passare delle opinioni, se non nel secolo decimonono. Finalmente in tutti i tempi vi furono tumulti e  ribellioni contro le legittime potestà; ma la teoria della rivoluzione e del regicidio, anzi la consacrazione del principio dell’uno e dell’altra, con la proclamazione  legale della sovranità dell’uomo, ecco ciò che invano si cercherebbe fuorché nel secolo decimonono. Nega­zione dell’autorità divina e della coscienza umana, si  è questo il distintivo carattere della sua perversità. A giudizio di ogni spirito imparziale, essa è ben al  di sopra di quella dei secoli precedenti. « Chi può senza fremere risovvenirsi (diceva il conte de Maistre) del  frenetico fanatismo del sedicesimo secolo, e delle spa­ventevoli scene di che fece spettacolo al mondo! Qual furore sopratutto contro la Santa Sede! Noi tuttora  arrossiamo per la natura umana, leggendo nelle storie del tempo le sacrileghe ingiurie vomitale da quei novatori villani contro la romana gerarchia. « Nessuno dei nemici della fede si è mai ingannato. Tutti, battendosi contro Dio, si battono invano; ma tutti sanno ove bisogna battere. Ciò che v’ha di più  notevole si è, che a misura che i secoli passano, gli  attacchi contro l’edificio cattolico si fan sempre più  poderosi, di maniera che, sempre dicendo:  Non si può andar più, oltre, si rimane sempre ingannati. » [Du Pape, t. II, p. 271.] E di  tal verità è prova evidentissima il nostro secolo.

VII.

Il decimonono secolo è dunque un gran peccatore;,  ma soprattutto un gran Ladro.  La borsa o la vita era  stata fin qui la parola del ladro di pubblica strada. — La borsa e la vita è la parola del secolo decimonono. Di  due specie sono i beni dell’uomo, i beni del corpo, e  i beni dell’anima. Beni del corpo, la borsa; beni dell’anima, la vita. Il ladro di pubblica strada prende la  borsa e lascia la vita; il secolo decimonono prende la  borsa e la vita. – Esso prende la borsa. Non è ancora compito un  secolo che la Chiesa Cattolica era la più ricca proprie­taria del mondo. La Francia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia ed una parte notabile dell’Alemagna erano  coperte di proprietà della Chiesa. Essa oggigiorno non ha più nulla di proprio, e se alcuna cosa le rimane, è per la precaria tolleranza degli spogliatori quali  son sempre disposti, come pur confessano,  a stendervi l’avida mano. – In questo stesso momento l’Italia finisce di vendere  i beni della Chiesa; e gran mercé di Dio se al Capo  augusto di quella ricchissima Chiesa rimane un angolo di terra indipendente su cui riposare il capo. E questo piccolo possesso, oppugnato da mille sofisti, e sempre  minacciato dalle armi degli invasori, uopo è difenderlo a costo del più puro sangue, senza potersi ripromettere che lo sarà sempre con fortunato successo. Certo giam­mai il furto sacrilego fu praticato in simile proporzione  e con sì sfacciata impudenza!

VIII.

Uno è il diritto di proprietà, ed è ugualmente sacro nella persona del prete come in quella di qualsiasi uomo del secolo. Violatore di questo diritto nell’ ordine reli­gioso, il secolo decimonono non poteva a lungo rispet­tarlo nell’ordine sociale. E con quale impassibilità non ha esso spogliato Re e Principi di sangue reale! La storia conta già più di  sessanta troni rovesciati da esso. E ben superiore è il numero dei re e delle regine, dei principi e delle prin­cipesche famiglie spogliate dei loro diritti ereditari, e della loro personale fortuna, espulsi, esiliati; di sovrani  divenuti vassalli, ed erranti per le diverse contrade dell’Europa, cercando un’ospitalità che non sempre  vien loro accordata. – Non parliamo delle provincie ingiustamente invase,  né delle nazionalità soppresse, né delle mostruose tasse  imposte ai vinti a profitto dei loro depredatori. Notiamo  soltanto che a tutte queste ingiustizie, a tutti questi  furti a mano armata, il secolo decimonono impresse il proprio suggello della sua perversità. Col suo più mellifluo tuono di voce, esso li chiama annessioni, risultati inevitabili delle aspirazioni dei popoli, conseguenza le­gittima del nuovo diritto.

IX.

Come il torrente che scende dalla montagna e si  precipita nella valle che copre di arena e di fango e  che devasta; così il furto esercitato nelle alte regioni  è disceso negli ordini inferiori della società. Tra tutti gli altri, il secolo decimonono è il secolo delle subite  scandalose fortune; scandalose per la loro rapidità,  scandalose per la loro enormità, scandalose per i mezzi adoperati a farne acquisto. Per quanto poco iniziato uno sia di ciò che avviene, e non potrebbonsi nelle diverse carriere amministrative,  industriali, commerciali, finanziarie indicar persone,  che quindici o venti anni addietro potevano dirsi poveri,  e che ora posseggono un patrimonio di milioni? Come  persuadersi che questi rapidi acquisti di ricchezze siano  esclusivo frutto di onesto lavoro, il prodotto legittimo  di un’ industria, o di mezzi non condannevoli né avanti  a Dio né avanti agli uomini? Fin qui l’opinion pubblica  si ricusa di crederlo.

X.

E che pensare poi della giustizia del secolo decimonono nelle transazioni commerciali ed anche nelle  ordinarie relazioni di compra e vendita? È stato detto  già: di tutte le scienze moderne, quella che ha progre­dito più è la scienza del rubare. Pare che la chimica  non sia stata inventata per altro, che per falsificare  più abilmente i prodotti dell’industria, e fino le sostanze  alimentari. Se dobbiamo credere alle rimostranze, ai lamenti  che sentiamo farsi per ogni dove, ed ai processi che  del continuo si tengono nei tribunali, vi han pochi, i  quali possano dire: « Son certo che il vino che io bevo non è punto adulterato, e che sostanze nocive non v’hanno nel pane ch’io mangio, nell’olio che mi fa lume. – « Io sono egualmente sicuro che non v’ha cotone  in quella stoffa ch’io compro, perché la credo di refe,  di seta, o di lana, e che non v’è frode nella fabbri­cazione degli oggetti che acquisto per mio uso, e che  ognuno rifugge dall’ingannarmi sulla misura e sul peso,  e dal vendermi per buone delle merci danneggiate, o d’infima qualità. – « In fine io ho la certezza che nella mia casa non  v’ha frode alcuna, e che né i miei domestici, né i miei  operai, né tampoco i sarti o le sarte mi rubino in modo  alcuno, e che se talvolta vi ha furto, la è cosa ben rara  e seguita sempre da un sincero pentimento, e da una  giusta riparazione. »

XI.

Ma ciò non è tutto. Posseduto da uno sfrenato amore della ricchezza, il secolo decimonono ha posto in voga due cose, che ad ogni istante compromettono la giu­stizia, cioè, il ciarlatanismo e la concorrenza illimitata. Di che mai dal principio alla fine dell’anno, son ripiene  le ultime pagine dei giornali ? Di annunzii. E le canto­nate delle città di che sono tappezzate? Di avvisi  stampati di ogni colore e di ogni dimensione. E questi annunzii ed avvisi che dicono mai? Essi  dicono che, in virtù di novelli processi e di condizioni eccezionalmente fortunate, si vende a buon mercato,  e tale da non credersi, tutto ciò che v’ha di meglio, e di più bella apparenza in fatto di tessuti o di derrate d’ogni genere. Voi correte a comprare, e siete rubato. Essi dicono che sì scoprirono talune preparazioni medicinali di tanta efficacia da guarire le malattie più ribelli ad ogni rimedio. Voi comprate e siete rubato. Essi dicono che si è formata una società con un capitale di più milioni per dar vita ad una industria, il cui successo è talmente sicuro, che oltre l’interesse della loro moneta gli azionisti riceveranno ricchi divi­dendi. Sedotti dall’esca del guadagno, rassicurati dai nomi che figurano nel manifesto, i gonzi accorrono, e ne dividono la sorte. – Il ricco, l’artigiano, il domestico recano, chi le sue  rendite, chi i suoi risparmi, e chi il suo salario; e per accrescere il numero dei creduli, nei primi anni gli interessi sono regolarmente pagati. Vi si aggiunge pur anco un dividendo, che peraltro resta ad aumento del capitale sociale; e ben tosto non vi han più né inte­ressi, né dividendi, né capitale; tutto è perduto. In questa specie di furti, il secolo decimonono può vantarsi  di portare la palma su tutti.

XII.

E non meno a tutti gli altri secoli va esso innanzi  per la novella invenzione che dicesi concorrenza illi­mitata. Come applicazione della libertà rivoluzionaria, la concorrenza illimitata ha per iscopo di produrre più che uno può al miglior mercato possibile; e chi non vede in essa una permanente tentazione di frode e di furto? Il mio vicino vende a tal prezzo gli stessi pro­dotti ch’ io vendo ; acquista credito, e la sua concor­renza cagiona la mia rovina, e m’impedisce di far fortuna. È dunque necessario ch’io venda a più basso prezzo di lui. Ma se impiego le stesse materie, se fo uso dello stesso metodo di fabbricazione usato finora, il prezzo di fattura rimarrà sempre Io stesso così per me, come per lui, e gli avventori continueranno a preferirlo. Come dunque eludere la difficoltà ? Alterando le ma­terie prime con la mescolanza di altre affini e di minor costo, e ponendo minor cura nella fabbricazione: in una  parola rubando.

XIII.

Il seguente fatto riassume tutte queste specie di falsificazioni nate dalla concorrenza illimitata. Regnava il Buon Luigi Filippo, e i Deputati della Gironda domandavano  la riduzione della imposta sui vini. Con una patetica esposizione rappresentavano la misera condizione dell’industria vinicola, e particolarmente le gravezze insop­portabili, che pesavano sulla loro provincia. Un deputato di non so qual’altro dipartimento dirigendosi all’ora­tore, gridò dicendo: « Io domando, come voi, non sola­mente la riduzione, ma la soppressione del diritto fiscale sul vino, se voi potrete provarmi che in commercio vi ha un solo ettolitro di vino di Bordò che sia pretto e vero Bordò, » Si tacque allora il deputato della Gironda, la camera rise, e la domanda fu rigettata. più furto, ma è abilità, saper fare. A forza di raggiri indefinibili, sappiate procurarvi cento mila lire di rendita, e voi certamente avrete la riputazione di uomo abile. Abbiatene due cento mila, e sarete un grand’uomo, al quale saranno accessibili tutte le sale di ricevimento aristocratiche. – Senza che gli sia pur passato pel capo di farlo im­prigionare come un nemico dell’umana società, o di separarlo da essa come un pazzo della più pericolosa natura, il decimonono secolo ha inteso un sofista proclamare questa massima: La proprietà è il furto.

XV.

È tale l’aberrazione del senso morale, che a pre­venire i tremendi effetti di un siffatto principio, uomini di stato stimaronsi obbligati a pubblicare dei volumi per confutarlo. I loro sforzi furon essi coronati di buon successo? Mi è lecito dubitarne. Dopo come per l’in­nanzi, grandi furti ebbero luogo, poche o nessune restituzioni. Al tempo istesso, il socialismo minaccia la società. E che sono mai il socialismo, il comunismo, il dritto al lavoro, la democrazia universale, la grande repub­blica mazziniana, la rivoluzione in una parola, se non il furto eretto a principio? Incoraggiata dagli uni, glorificata dagli altri, più o meno ben accolta da quanti non son cattolici di vecchia data, la rivoluzione può, per le future sue rapine, come per le sue passate ingiustizie, contare su quel decreto d’indennità, al quale il secolo decimonono ha dato corsoe valore: È un fatto compiuto.Ed ecco nell’ordine materiale accennate alcune delle attinenze del secolo decimonono col principio della giu­stizia. Ora vediamo quali sono esse nell’ordine morale.

XVI.

Per colpevole che e’ sia, il furto della borsa può passare per un peccato da nulla in confronto col furto della vita. La verità è la vita dell’uomo, è il suo pane,  il suo vino, l’aria sua respirabile; è il suo padre e la sua madre, come già fu detto nelle lingue orientali. La verità è la sua fede, la sua speranza, la sua consola­zione; è la bussola che dirige l’esistenza, e la forza  che dà lena a portarne il peso. La verità è lo scudo  che protegge l’onore, la innocenza, la forza nelle in­certezze dello spirito, contro gli smoderati desideri del  cuore, e contro le insidie e le lusinghe del mondo. – Il più reo pertanto di tutti i furti sì è quello della  verità. Spogliandone quell’essere, da un canto sì misero, che si chiama uomo, egli è un renderlo cieco, e con­dannarlo a brancolare nel vuoto; egli è un farlo zim­bello d’ogni fantasma, e sospingerlo barbaramente di  precipizio in precipizio; egli è un cangiarlo in bestia immonda alternativamente e crudele, in fino a che, torturato da dubbi, perda ogni lume di ragione; o che  stanco di una vita senza norma e senza scopo, invochi il nulla e ponga fine ai suoi giorni.

XVII.

Il decimonono secolo è egli reo di un simile furto?  E n’è egli veramente reo più che ogni altro secolo? Non si ha che aprir gli occhi per rispondere a simili  interrogazioni. Che sono mai quei milioni di scritti cat­tivi, opuscoli, libri, giornali, canzoni, farse, opere tea­trali, romanzi, incisioni, stampe di ogni formato ed anche del più basso prezzo, che ogni sera, dal principio alla fine dell’anno, partono da tutte le capitali d’Europa, se non bande di ladroni, che in tutti i luoghi abitati, e fin nei più umili villaggi, vanno a pervertire le menti, a profanare i cuori, ad assassinare le anime? Al giovine han tolto il rispetto alla paterna autorità, alla donzella il pudore, al ricco la pietà, al povero la rassegnazione, a tutti il sentimento cristiano, la vita soprannaturale, e con essa ogni conforto nel presente,  ogni speranza nell’avvenire; inestimabili tesori com­perati al prezzo del sangue di un Dio, e deposti col Battesimo nel cuore del cristiano.

XVIII.

E che sia cosi, il fatto non può revocarsi in dubbio.  Agli ottimisti più dichiarati esso rivelasi per lo stra­ripamento della vita materiale. Come ai tempi che pre­cedendo il diluvio, l’uomo del nostro secolo, perduta la vita dello spirito è fatto carne, ed i movimenti del suo cuore invece di sollevarsi in alto, vanno abbas­sandosi. Soggiogare la materia, sorprendere i segreti della materia, manipolare e trasfigurar la materia, glorifi­carsi nella materia; consumar tutta la vita nei godi­menti della materia; nulla vedere, nulla desiderare e nulla ammettere fuori della materia; sprezzare, deri­dere, calunniare, perseguitare coloro che gli propongono  altra cosa che la materia: ecco 1’uomo qual è fatto dai  ladroni della verità. – A tutti questi ladroni mille volte più rei di quelli  che forzano gli scrigni, il secolo decimonono lascia  libero il campo. Essi sono i suoi veri figli, e s’ispirano  del suo spirito e realizzano il suo pensiero. Al punto di vista morale egualmente che al punto di vista ma­teriale, dire che il secolo decimonono è un ladro, ed un gran ladre, non è dunque un calunniarlo.

XIX.

2.°  Il dir poi che esso deve pentirsi, e pentirsi al più presto,  è un indicargli la sola via di salute che gli ri­manga. — Ripetere che la situazione dell’Europa è grave, estremamente grave; che la presente società è  malata e seriamente malata; che nell’antico mondo,  come nel nuovo, fermentano elementi di dissoluzione universale: egli è questo un esprimere delle verità triviali; tanto son esse ora conosciute. Indarno i piaggiatori non cessano di cullare colle loro lodi il secolo decimonono. « La tua educazione è perfetta, gli dicono, e tu hai bene di che vantarti al  paragone dei secoli precedenti. Tu sei abbastanza forte per avanzarti nella via del progresso. Giammai non fu  il mondo più illuminato, più libero e prosperoso. Giam­mai le grandi nazioni dell’Europa non furono gover­nate con maggior sapienza, e maggior gloria. Le agitazioni che provi, non sono che superficiali: nè mai  l’edifìcio sociale riposò sopra più solide basi. » – Ma il secolo decimonono non è perciò completamente  rassicurato. Un segreto istinto lo avverte, non essere egli nell’ordine, e tutto ciò che è fuor dell’ordine non può  durare. L’ordine porta seco la pace, e la pace non si trova in alcun luogo. Vero è che in questo momento tutte le parole dei re suonano pace; ma tutte le loro  braccia fanno apparecchi di guerra. Per ogni dove da  un giorno all’ altro la guerra minaccia di venire ai fatti. Di qui ha origine quel sentimento sconosciuto  nelle epoche regolarmente costituite, la paura. – Il secolo decimonono prende di assalto città stimate  inespugnabili; ed ha paura. Con un pugno di soldati riporta lontane e strepitose vittorie su potenti nemici; ed ha paura. Sei milioni di baionette vegliano a ras­sicurarlo; ed ha paura. Esso domina gli elementi, sop­prime le distanze, moltiplica le meraviglie della sua industria; ed ha paura. L’oro cola in gran copia dalle sue mani; nei suoi vestimenti la seta ha preso luogo  della rustica stoffa di lana; la natura tutta quanta è fatta tributaria del suo lusso; la sua vita è somigliante al festino di Baldassarre; ed ha paura. Le nazioni te­mono delle nazioni: i re dei popoli: i popoli dei re. La società ha paura del presente ed ancora più dell’avvenire: e troppo generale è questo sentimento per non dover essere ben fondato.

XX.

Perché mai il secolo decimonono ha tanta paura? Noi lo abbiamo già detto: egli è perché sente bene di non essere nell’ordine. E perché non è esso nell’or­dine? Perché è reo di peccato, e di gravissimo pec­cato. Il suo capitale delitto è quello di essere in piena insurrezione contro Dio, re e legislatore supremo, e contro la Chiesa depositaria dei diritti di Dio, ed organo delle sue volontà. – « Dappoiché non vogliono conciliarsi collo spirito che mi anima, né accettare un ordine sociale che mi è a grado, né approvare la libertà, la civiltà, il pro­gresso, com’io l’intendo, Iddio e la Chiesa facciano i fatti loro; io più non voglio che su di me abbiano  influenza ed impero. Io saprò ben vivere e prosperare senza di essi, lungi da essi e, loro malgrado: Nolumus hunc regnare super nos. » Tal’è senza che si possa negare, il grido d’insensata ribellione, che tutte riassume le generali aspira­zioni del secolo decimonono. Noi la diciamo insensata e ben a ragione. Questo secolo pretende di vivere e  prosperare volgendo le spalle al Cristianesimo ed alla Chiesa. Ma tra associati, la separazione esige la liquidazione.  Che dunque il Cristianesimo e la Chiesa riprendano, e  ne hanno bene di diritto, tutto quello che han dato al secolo decimonono, e che gli danno tutto giorno e a tutte le ore, di lumi, di credenze, di costumi, di principii sociali, di libertà, di utili istituzioni, di rispetto al principio di autorità e di proprietà; e vedremo  quello che rimarrà al secolo decimonono. La insurrezione dell’uomo intanto non vale a de­tronizzare Iddio. L’orgoglio di un vermicciolo non  istrappa la folgore dalla mano dell’Onnipotente. Come  la calamita attira il ferro, così il peccato attira il castigo. Checché si faccia per divagarsi e vivere spen­sierato, il secolo decimonono comprende una tale ine­sorabile attrazione; e quindi è che ha paura. Come mai sottrarsi al castigo e sostituire la fiducia alla paura? Per trovare la soluzione del definitivo  problema, mille pensatori si affaticano e studiano. Ogni giorno gli uomini di differenti partiti recano il loro progetto di scampo e di salvezza. Gli uni si fan cam­pioni dell’assolutismo, e combattono la democrazia ed il sistema costituzionale. Gli altri esaltano la pura de­mocrazia, e mostrano i pericoli dell’ assolutismo, e l’inefficacia del regime costituzionale. Molti levano alle stelle il regime costituzionale, ed hanno in orrore la democrazia al pari dell’assolutismo. E quei che sono  indifferenti sulla forma dei governi, si confidano di ri­generare l’Europa, per virtù dell’industria, della pub­blica istruzione e della materiale prosperità. – Quindi a mille a mille le teorie economiche, po­litiche e sociali; ed assolute affermazioni, e negazioni  assolute. Quindi molte e nobili intelligenze che consu­mano le loro forze in una sterile agitazione. Quindi insomma, quella gran guerra dell’ignoranza, – Magnum inscientiæ bellum, di cui dice la Scrittura, che non lascia  nelle anime se non dubbi, stanchezza e sconforto, e nelle società vani conati, e prove, e riprove eterne. Babele certamente non fu teatro di una maggiore con­fusione d’idee e di linguaggio. Il secolo decimonono ha dato ragione a tutte le  opinioni. L’una dopo l’altra ha fatto saggio di tutte le svariate forme di governo. L’industria è divenuta la sua vita, l’istruzione la sua più sollecita cura, il benessere materiale il suo Nome; ma non perciò è  guarito.

XXI

Dopo tante inutili esperienze, tante contraddittorie  soluzioni, il cattolico osa pur esso proporre la sua, e perché non usare anch’egli di un diritto che ognuno  si arroga? Per lui non è questo solamente un diritto, ma un dovere, poiché nel comune pericolo ogni uomo è soldato. A differenza di tutte le altre, la soluzione del cat­tolico non è un palliativo, nè un’utopia. Non è il parto  di una mente umana, ma è proposta da Quello stesso,  che fece sanabili tutte le nazioni. Essa è unica, e Iddio non ne conosce altra. Essa è quella, che da sei mila anni invariabilmente propone  alle genti, trascinate all’orlo del precipizio dalle loro iniquità. Tutte le volte che essa fu abbracciata, i problemi sociali più complicati e difficili furono risoluti all’istante; svanirono i pericoli, restaurato fu l’ordine, e la pace tornò a discendere sulla terra. Essa è forzata, perché radicale: ed è radicale perché sola ripone ogni cosa al suo posto: Dìo in alto e l’ uomo a basso. Né è soltanto radicale. Legislatore e padre, Iddio volle che fosse pur facile, e la espresse in una sola parola: PENTIMENTO.

XXII.

Se dunque il secolo decimonono riconoscendo di aver forviato, risolve di rientrare nel buon sentiero e pentirsi, ei sarà salvo; altrimenti no; mille volte no. E si prenda ben sul serio la cosa; non si tratta qui, come diranno sicuramente certuni, di una soluzione mistica, totalmente estranea alla scienza politica e sociale, e conseguentemente di una soluzione di poca importanza rispetto alle cose di questo mondo. In vero così la discorrono coloro che han nome di sapienti, ma che non hanno la scienza, la quale procede dalla verità e conduce alla verità èVani enim sani omnes homines, in quibus non subest scientia Dei. Sap. XIII 1]: uomini presuntuosi che non dubitano di nulla perché non si accorgono di nulla, buoni soltanto a traviare i popoli colle loro utopie; e la cui vista, disse già s. Agostino, non va al di là del loro naso. Il vero si è che questa soluzione è talmente politica, talmente sociale, talmente decisiva nelle cose di questo mondo, che senza di essa tutte le soluzioni, tutti gli espedienti non han dato, né potranno dare mai alcun durevole risultato. Senza di essa, certamente potrete reprimere una sommossa come a Parigi nelle giornate di giugno 1848; ma ciò è reprimere una manifestazione della rivoluzione, ma non un vincere la rivoluzione. Potrete battere Garibaldi sulla via che conduce a  Roma, come avvenne a Mentana nel 1867, ma questo è arrestare nella sua marcia un figlio della rivoluzione, non già vincere la rivoluzione. Come or ora fece il Corpo Legislativo Francese, potrete con un voto solenne confermare la conserva­zione di quel che rimane al santo Padre dell’antico  suo stato; ma ciò è sospendere l’adempimento dei voti  della rivoluzione, non un vincere la rivoluzione. Tutti questi atti ed altri della medesima specie son  tanto meno vittorie, in quanto che i sedicenti nemici della rivoluzione cadono nella più manifesta contraddi­zione. Se eglino con una mano si oppongono alla rivo­luzione, coll’altra le somministrano giornalmente no­vello vigore. E che altro mai si fa pubblicando e lasciando del continuo pubblicare, in tutte le lingue, le dottrine della rivoluzione in fatto di religione, di politica e di filosofia, non che di storia e di letteratura? Pretendete di tener saldo e conservare l’edificio, e lo lasciate minare! Volete raffrenare l’impeto del torrente, e ne accrescete le forze! Un fatto si distrugge con un altro; ma la rivolu­zione non è un fatto. La rivoluzione è un principio, una potenza morale, un’idea: e le idee non si uccidono a colpi di fucile. Queste non possono esser vinte che da idee contrarie. L’idea rivoluzionaria è l’uomo in  alto, e Dio in basso. Quindi la rivoluzione non sarà mai vinta, che quando si tornerà a riporre Dio in alto, e l’uomo in basso. E Dio non può essere posto in alto e l’uomo in basso che dal pentimento.

XXIII.

Giudichi imparzialmente di ciò lo stesso secolo de­cimonono. Alla presente situazione, sì piena di pericoli e d’incertezze, non v’hanno che due soluzioni, e due  solamente, la rivoluzionaria e la cattolica. Nella sua ultima formula, la soluzione rivoluzionaria  è il rovesciamento completo dell’ordine religioso e  sociale stabilito dal Cristianesimo; rovesciamento se­guito dalla barbarie assoluta, e quel che è peggio, dalla barbarie letterata, e forse dall’una e dall’altra:  perocché sarà l’uomo posto in alto, e  Dio in basso in  tutte le cose. – Nella sua ultima formula, la soluzione cattolica è  la restaurazione universale dell’ordine religioso e so­ciale; restaurazione seguita da un’ èra di pace e di prosperità, perocché sarà Dio ricollocato in alto e 1’uomo in basso. Ora il primo, indispensabile elemento della soluzione cattolica è il  pentimento. Così, e solamente così possono essere risoluti, nell’interesse dei governanti e dei governati i minacciosi problemi che ci incalzano: tra questi ricorderemo so­lamente la gran questione del momento: la Questione  Romana. Al punto in cui si trova attualmente la questione  romana sfida la sagacia di tutti i diplomatici e di tutti  i congressi. Ond’è che solo il pentimento delle nazioni  può risolverla. Sol esso può far rientrare nelle anime dei re e dei popoli il sentimento protettore della de­bolezza oppressa, ed il religioso rispetto dell’altrui  proprietà. Solo per conseguenza può esso emendare la commessa ingiustizia. Solo esso può, intorno agli stati della Chiesa resi al legittimo possessore, rialzare la barriera di venerazione e di amore, che sì lungo tempo conservò intero e tranquillo il dominio temporale della Santa Sede, e con la sovranità temporale assicurò la  indipendenza necessaria all’oracolo del supremo capo  della vera Chiesa di Dio. – Non bisogna farsi illusione; il voto pronunziato dalla nostra Camera Legislativa il 5 dicembre 1867 non  risolve punto la questione romana. Esso non è che un  primo passo nella buona via, e speriamo che non sia l’ultimo: altrimenti lo  statu quo quale ci si promette,  sarebbe sotto ogni aspetto, una cosa ben deplorabile. Dal punto di vista politico, sarebbe esso per la Fran­cia una incancellabile vergogna. Con qual diritto gli  Italiani si sono impadroniti delle più importanti provincie della Santa Sede? Calpestando la firma posta  dalla Francia alle stipulazioni di Villafranca ed al trat­tato di Zurigo; stipulazioni e trattato che nel modo più solenne garantivano la inviolabile integrità degli Stati della Chiesa, e ciò che accresce la gravità dell’insulto la si è che nelle provincie usurpate si ritrova la dote, che la figlia primogenita della Chiesa, la Francia,  ebbe già costituita alla sua Madre. – E la Francia, la quale non avrebbe che a parlare  per essere obbedita, soffrirà senza far motto simili  oltraggi? Ma allora che diventa il nostro onor nazio­nale? Chi mai vorrà fidarsi più della nostra parola?  Rovinare una nazione nei suoi materiali interessi, è  un danno che può ripararsi: rovinarla moralmente,  egli è un fallo irreparabile. Dal punto di vista religioso, per una parte sarebbe lo stesso che consacrare l’ingiustizia, e sullo spoglio sacrilego dei due terzi del patrimonio Pontificio far valere l’iniqua teorica del fatto compiuto. E dall’altra  parte ridurre il Sommo Pontefice al possesso del lembo di terra che gli rimane, sarebbe un condannarlo alla mendicità. Si vedrebbe, diciamolo pur francamente,  l’applicazione del programma di quel libercolo di trista memoria:  Il Papa ed il Congresso. Lo che sarebbe  lasciare al Papa il Vaticano, il suo cameriere, il suo cuoco,  ed il suo giardino con qualche jugero di terra  di più. E che altro mai sarebbe questo se non proprio il trionfo della rivoluzione? Si passino pure in rivista tutte le questioni di un ordine più o meno elevato, che or tengono l’Europa in una irrimediabile agitazione, e si arriverà sempre alla  medesima necessaria, inevitabile soluzione; il  pentimento. Del rimanente tal’è, in diversi termini, l’assioma di geometria sociale, contenuto nel famoso detto:  La ri­voluzione incominciala con la proclamazione dei diritti dell’uomo, non finirà che con la restaurazione dei diritti di Dio. Deh! possa finalmente il secolo decimonono prender  sul serio il suo partito; e chiudendo l’orecchio a chi  vuole addormentarlo adulandolo, ed agli utopisti che lo fan traviare, provvedere alla propria salvezza, rien­trando nelle condizioni di vitalità divinamente prescritte  alle nazioni!

XXIV.

3.°Il dire che può esso pentirsi, egli è un ridestare in lui la fiducia ed un incoraggiarne gli sforzi. – Qui si affaccia l’obbiezione prevista fin dal prin­cipio, e della quale, quanto altri, sentiamo tutta la forza. « Domandare che il secolo decimonono si penta, è un tentar l’impossibile; lo sperarlo sarebbe follia.  La proposta soluzione altro dunque non è che un’utopia. » Una parola in risposta. Più volte nel corso della sua esistenza, il popolo Ebreo si pentì: si pentirono pur essi i Niniviti, e una gran parte del mondo pagano si pentì all’annunzio  della verità evangelica: più tardi tutte le nazioni, venute successivamente alla fede, si pentirono. Perché dunque il secolo decimonono non potrebbe far ciò che  tante altre generazioni han potuto? Gli mancano forse motivi e mezzi per compiere un atto sì salutare? Noi Io sappiamo purtroppo: ciò che ad esso manca è la volontà. Questa manca ai governanti ed ai gover­nati: manca ai doviziosi e ai negozianti: manca alla  maggior parte di coloro che formano lo spirito pubblico, scienziati, giornalisti, uomini di lettere; e manca alle  masse, grossolanamente ignoranti, e stupidamente in­credule. Pure mancherà essa lor sempre? Ben doloroso sa­rebbe il pensarlo. Fin qui senza dubbio, il decimonono  secolo si è mostrato ribelle alla voce di Dio ed alla  voce della Chiesa, che non si rimasero di chiamarlo al  pentimento. A più riprese, la Chiesa gli ha parlato per  bocca del più mansueto dei Pontefici; e Iddio gli ha pur  esso parlato col doppio linguaggio dei benefici, e dei castighi. – Dopo l’eccezionale benefìcio di una pace di quarant’anni, di che esso non volle profittare, vennero eccita­menti di una specie diversa. Per non farne una lunga enumerazione, l’anno scorso (ciò che non era mai av­venuto) tutti i flagelli di Dio ad una volta piombarono sul mondo. La peste negli uomini e negli animali; la misteriosa malattia delle uve, dei pomi di terra, della  canna di zucchero e dei vegetali; la fame, la guerra, i terremoti; lo straripamento dei fiumi, e la invasione degli insetti voraci. Fuvvi giammai avvertimento più chiaro e più solenne?

XXV.

Malgrado l’immenso danno, il pubblico benessere non fu seriamente alterato, ed il secolo decimonono, rimasto sordo alla voce della Provvidenza, nulla ha cangiato nelle sue sciagurate abitudini; ma non è esausto il calice dell’ira divina. Fino a che non fu colpito dalla giustizia umana, istrumento della giustizia divina, il Ladrone del Cal­vario proseguì la sua vita di delitti e di brigantaggio; egli non pensava a pentirsi. Ma inchiodato che fu sulla croce, fu tu tt’altro. Nelle strette del dolore, ed in faccia  alla morte, torno in sé; ascoltò la sua coscienza, si  pentì, e fu salvo. Lasciate che l’angelo della giustizia versi fino alla  feccia sul mondo ribelle il calice dell’ira divina. Senza un pronto pentimento, come quello di Ninive, quel calice sarà senza fallo versato. Tal si raccoglie qual si semina: e sì nell’ordine morale, come nel fìsico, questa legge è del pari inflessibile. Allorché dunque pel secolo decimonono sarà venuto  il momento di raccogliere quel che ha seminato di dot­trine sovversive intorno alla religione, alla società, alla proprietà, alla famiglia; e seminato a piene mani ogni giorno su tutta la faccia dell’Europa, non ostante i gridi di allarme di tutti gli uomini sensati, verranno allora i mietitori, e saranno quali si fecero. Sciami di  selvaggi civilizzati, che arruolati in mille tenebrose sètte, si mostreranno in pieno giorno, e faran sentire al mondo spaventato ciò che siano le moltitudini am­maestrate a non creder nulla, fuorché alle disordinate passioni. – Infiammati di un odio senza freno e lungamente contenuto, i novelli barbari faranno quel che già fecero i barbari di altra età. Strumenti della divina giustizia,  come già Nabucco a Gerusalemme, Attila nelle Gallie, Genserico a Roma, quando avranno compita la loro  trista missione, incendiato, saccheggiato, massacrato e dispersa questa civiltà corrotta e corruttrice, che il mondo cristiano affascina e desola, come desolò già il mondo pagano; quando finalmente oppresso dal socia­lismo e dalla barbarie, il secolo decimonono sarà stremato di forze e di coraggio, allora, ci giova sperarlo, griderà: Misericordia! Esso imiterà il modello che la divina provvidenza pare aver fatto per lui, e del quale quest’opera gli ri­chiama la consolante memoria. A solo fine di rialzar l’animo depresso dei più disperati peccatori e dei più cor­rotti secoli (dicono i padri della Chiesa), il Redentore del mondo volle coronare la sua vita con questo splen­dido esempio di misericordia.

XXVI.

E perché il secolo decimonono non vorrà farne suo pro? La scuola della sventura è per eccellenza la scuola della virtù e del ravvedimento. Non con altro mezzo che con la croce il Figlio di Dio ha salvato il mondo, e sulla croce soltanto si salvano le anime e i popoli. Senza dubbio il nostro secolo è un gran peccatore, e quel che è peggio un peccatore indurito. Ma se la voce delle sue iniquità grida vendetta, vi ha un’altra voce che grida misericordia: e come Iddio vuol perdonare, sempre avviene così. E qual’è mai la voce che domanda grazia pel secolo decimonono? La è la voce delle opere cattoliche per ogni dove moltiplicate, per ogni dove animate di novella attività; pie associazioni di carità, pellegrinaggi pubblici, ordini religiosi, apostolato della donna, propagazione della fede e missioni alle più remote parti del mondo. Ella è la voce di tutta quanta la Chiesa, che proclamando il domma dell’Immacolata Concezione di Maria, obbliga in certo modo la Regina degli Angeli a far prova della sua gran potenza; la Madre delle misericordie a disarmare lo sdegno di Dio; l’Èva novella a schiacciare anche una volta la testa del serpente. Ella è la voce degli eroici sacrifici, lo spettacolo dei quali impone l’ammirazione, e rivela tesori dj fede, riposti in cuori di venti anni. La è la voce del sangue il più puro generosamente versato per la causa di Dio e della Chiesa. La è la voce della lunga agonia dell’immortale Pio IX calunniato, tradito, spogliato e perseguitato come il suo divino maestro, e mansueto come Lui. – E chi può dire quanto pesino sulle divine bilance tante lacrime, tante preghiere, tante elemosine, tanti sacrifici, tante opere sante generosamente effettuale, e tante sofferenze accettate con la coraggiosa rassegnazione dei martiri? Quel che noi sappiamo si è che in questo solamente è fondata la speranza del secolo decimonono.

XXVII.

Gli verrà obbiettato. « L’opera vostra non conseguirà il suo intento. Il secolo decimonono è un essere collet­tivo. P arlare ad esso è parlare a tutti in generale: e parlare a tutti in generale, egli è lo stesso che non parlare ad alcuno. Predicazione nel deserto, vano rumore di cembalo risonante, tal sarà la vostra parola. Che val dunque cotesto libro? Quale importanza può avere?  In un secolo come il nostro, dove mai troverà lettori? »

XXVIII.

A che val questo libro? Senza dubbio il secolo decimonono è un essere collettivo; ma l’essere collettivo  si compone d’individualità. E queste hanno orecchie  per sentire, una coscienza per giudicare, e mente e cuore per volere. Arrivando ad esse la parola, indiriz­zata a tutti, si individua e può diventare efficace. Del  rimanente, tal è la condizione di ogni parola pubblica,  scritta o parlata; e potrà dirsi che sia del tutto inutile? Oggi pure, come sempre, la parola è quella che governa  il mondo.

XXIX

Riflettiamo poi che per esercitare una potente in­fluenza, non è necessario che la parola s’impadronisca  di tutti, e neppur di un gran numero al tempo stesso. – Nel bene, come nel male, le rivoluzioni furono sempre il fatto delle minorità. Dodici apostoli rivoluzionarono il mondo. In ciascuno dei diciotto secoli trascorsi si son veduti poveri Missionari levare in rivoluzione cristia­namente intere popolazioni. Il medesimo avviene delle rivoluzioni in senso opposto. Anche oggidì, qualunque sia la grandezza del male, datemi dodici Re, sinceramente convertiti come uomini e come Re; meno ancora; quanti giusti si richiedevano per salvar Sodoma; e non dubitate, avverranno cose maravigliose. Oltre la naturale tendenza ad imitare i  grandi, i popoli del secolo decimonono, bisogna render  loro questa giustizia, son malvagi meno dei loro governi.

XXX.

« Ma i Re non si convertiranno. In luogo di farsi e chiamarsi, come Costantino,  Vescovi al di fuori o come Carlo Magno, i Servitori di Gesù Cristo e i  Sergenti della Chiesa, dimenticheranno sempre più a quali con­dizioni venne lor confidato il potere. Perdendo affatto l’istinto della propria conservazione, eglino e i popoli andranno incontro a inevitabili catastrofi. A che dunque gioverà questo libro? » – Nel pubblicar questa storia, noi prendemmo di mira il bene generale ed il bene particolare. Inutile, a vostro giudizio, pel primo fine, lo sarà pure del tutto pel  secondo? Indicare il solo rimedio ai mali che tanto ci gravano, e alle calamità che ne minacciano; eccitare lo zelo di alcune sante vittime le cui lacrime ed espiazioni possono  far piegare dal lato della misericordia la divina bilancia:  sarà dunque nulla? Far conoscere in tutte le sue parti una meraviglia incomparabilmente più bella che tutti i capo-lavori  dell’Esposizione universale: sarà dunque nulla? – « Se è egli ben fatto, dice la Scrittura, di tener  nascosti i segreti dei Re, è cosa lodevole di rivelare e  annunziare le opere di Dio. » [Tob., XII, 7]. – Or tra tutti i prodigi  della sua destra, havvene uno che sia tanto degno di esser tramandato di generazione in generazione, e cono­sciuto fino all’estremità della terra, quanto quello della conversione del Buon Ladrone? Trarre il mondo dal nulla con una parola, egli è un miracolo dell’Onnipotenza. Con altra parola far di una pietra un figlio di Abramo, egli è un miracolo più grande ancora. Ma di un veterano del delitto, di un  masnadiero già sospeso al patibolo, sul quale espia tutta una vita di furti e di opere di sangue, farne in men ch’io noi dico, un Apostolo, un evangelista, un santo canonizzato ancor vivo, è tale un prodigio che tuttii  secoli non videro il simile, e che nel suo genere supera  tutti gli altri.

XXXI.

« Qual’ importanza può egli aver questo libro? » Non tutti quelli che san leggere sono associati ai perniciosi giornali, grandi o piccoli, né fan loro pasto dei romanzi. Se un troppo gran numero si contenta di mangiar paglia e fieno, ven’ha, grazie al cielo, pur molti di quelli, che conservano gusti più puri, e che vogliono un nutrimento più sano. Sarà forse senza importanza offrire ad essi un ali­mento, che risponda ai loro nobili istinti? Sarà senza importanza forse soddisfare una legittima  curiosità, rilevando delle circostanze, il cui interesse è proporzionato alla grandezza eccezionale del fatto a cui  si attengono? Sarà egli senza importanza, specialmente oggigiorno,  mantenere o risvegliare nelle anime i sentimenti che  le nobilitano e le santificano: l’ammirazione, la confi­denza, l’amore? E non solamente risvegliarli, ma con lo spettacolo di un sublime modello, elevarli al più alto grado di potenza? Sarà senza interesse per tante vittime dello scorag­giamento e della disperazione, trovare nel buon Ladrone la risposta perentoria ai loro dubbi, la calma delle loro  agitazioni di spirito, la guarigione dei loro sinistri pen­sieri, ed una protezione potente presso il Padre delle misericordie?

XXXII.

« In un secolo come il nostro, dove troverà esso lettori? » Egli è pur troppo vero, che il secolo decimonono,  più che ogni altro, è affascinato dalla vanità delle cose mondane e periture. Ciò nondimeno si con­tano ancora nobili intelligenze e dei nobili cuori, i quali vivono altra vita che quella dei sensi. A motivo appunto  dell’atmosfera di piombo, che col suo peso li soffoca, queste anime sentono più costante e più vivo il bisogno di respirare un aer puro, di conoscere ed ammirare  tutt’altra cosa che la materia e le sue manipolazioni,  di sperare ed amare ben altra cosa che pane e sensuali soddisfazioni. E tali saranno i lettori di questo libro.

XXXIII.

Il fatto cui n arra ha luogo nelle regioni superiori  del mondo morale, del quale fa rilevare le sorprendenti  realtà. Due elementi prodigiosamente combinati l’hanno  prodotto: la grazia di Dio nella pienezza della sua effi­cacia e nella rapidità della sua azione; e la cooperazione  dell’uomo in tutta l’energia della sua fede. Contemplandolo, abbiamo sotto gli occhi uno spettacolo che  rende l’anima estatica e ne esalta l’ammirazione. Sommariamente ricordato nell’Evangelio, questo fatto unico e più bello a considerarsi che la stessa  creazione del mondo, fu accompagnato da circostanze generalmente poco conosciute e nondimeno, per più  rapporti, di un serio interesse. Queste da un canto aprono dei nuovi orizzonti allo studio dell’antichità;  dall’altro canto, rannodando la storia sacra alla profana, rischiarano il sacro testo, raffermano la fede del cri­stiano, e danno una smentita di più a chi non presta  piena fede al racconto evangelico. Il metterle in rilievo è, fra gli altri, intento di quest’opera.

XXXIV.

Ingolfarsi nelle cose materiali, e per naturale con­seguenza, la ignoranza del mondo morale, delle sue leggi e delle sue magnificenze, non è la sola piaga del1’epoca nostra. Altre ve ne hanno vive non meno, e che di giorno in giorno tendono a dilatarsi: e da que­ste non son esenti gli stessi cristiani. Per gli uni par­liamo dell’indebolimento della fede; per gli altri del  manco di fiducia nella misericordia di Dio. – Questa fede, la quale se raggiungesse la grandezza  di un granello di senapa varrebbe a traslocar le mon­tagne; questa fede che nella persona dei primi cristiani  vinse l’intero mondo, e nei loro discendenti potrebbe  rigenerarlo; questa fede che dà ali alla preghiera, la conduce fino al trono di Dio, e ve la mantiene fino a  che l’Altissimo l’abbia esaudita; fede che in ogni tempo ha operato un sì gran numero di strepitose conversioni,  ed ottenuto contro ogni speranza, tanti insigni favori,  questa fede, nelle grandi masse, va pur troppo visi­bilmente mancando.

XXXV.

Ora come ravvivarla? Col mezzo di grandi e luminosi esempi, « Come il fuoco, dice un antico autore, non è mai così necessario quanto nel rigore dei più ge­lidi inverni; così gli esempi di grandi e luminose virtù non son mai più utili ed opportuni, che quando il mondo è pieno di grandi vizi. Ed ancorché questi esempi non siano di persone viventi, ma di già morte da tanti se­coli; ciò nondimeno, come le reliquie dei loro corpi, benché ridotti in polvere, hanno ancora una virtù di­vina da far miracoli, e le loro stesse immagini valgono talvolta, per la divina grazia, ad operare la conver­sione dei peccatori; così la storia della loro vita è una delle più preziose reliquie che di loro ci rimangono, e l’immagine della bellezza della loro anima, la quale è immortale, può ben tirare le benedizioni del Signore  nello spirito e nel cuore dei lettori, per la virtù che  lo Spirito Santo ha impressa in quelle antiche e mira­bili fatture della sua grazia, e per la potenza dell’intercessione di quei gran santi a pro di coloro che li invocano leggendo la loro vita. E queste parole non bastano a dimostrare l’utilità della storia del buon Ladrone? Se havvi un più grande  esempio di fede e di tutti gli effetti della sincera fede;  l’amor di Dio, il disprezzo del rispetto umano, il co­raggio a tutta prova, certo i Padri della Chiesa nol  conobbero. E farlo rivivere, non è forse apprestare un rimedio di grande efficacia ad una delle più gravi in­fermità del secolo nostro?

XXXVI.

Veniamo alla diffidenza della misericordia di Dio. Questa infelice disposizione, che in molte anime altronde fedeli costituisce come il fondo della lor vita, ne forma  anche il tormento e il pericolo. Vedendo in Dio più un  giudice severo che un padre misericordioso, essa fa trovar duro e pesante un giogo dall’istesso Nostro Si­gnore dichiarato soave e leggero; offusca la pietà, frange l’energia del bene, e ingenera il tedio e lo sco­raggiamento. – Ben fortunate le sue vittime se non le conduce alla finale disperazione dopo aver abbandonato il freno a tutte le loro passioni. O non è dessa sanabile, o la guarigione di questa terribile malattia è nella storia che noi prendiamo a narrare. Dopo aver veduto spa­lancarsi la porta del cielo ad un ladro insigne, chi po­trebbe più disperare? Quis hic desperet, sperante ladrone!

XXXVII

A coloro poi che sotto qualsiasi forma di condotta  avessero avuto la disgrazia d’imitarne la vita, il Buon Ladrone insegna imitarlo nella sua morte. – Sia pur  gravata di delitti e d’iniquità la vostra coscienza (egli lor dice) e presso al termine la vostra vita, un istante di sincero pentimento basta per chiudervi le porte dell’inferno ed aprirvi quelle del cielo. Ricordatevi soltanto che Quegli che ha promesso il perdono, non ha già pro­messo il domani. Profittate adunque dei giorno che ancor vi rimane. Bentosto verrà la notte e non avrete più tempo a pentirvi. » – L’istoria del Buon Ladrone non è solamente un in­coraggiamento per i più gran peccatori, ma è pur anche un punto di appoggio pel sacerdote, il quale è chiamato ad assistere al peccatore moribondo negli Ergastoli, nelle Prigioni, negli Ospedali, nel tugurio del povero, e troppo spesso ancora nel palazzo del ricco. Quanto mai gli bisogna contare sui tesori dell’infinita miseri­cordia di Dio! Potrà egli vederla brillare di una luce più  rassicurante, che nella conversione di Disma crocifisso? Render popolare questa mirabile conversione, egli è un secondare i disegni pietosi del Padre delle misericordie, del Dio d’ogni consolazione. Egli è un prevenire  la disperazione, non già un incoraggiare al male; pe­rocché sul Calvario, presso la Croce a destra v’è pur la croce a sinistra. Egli è uno stimolo non già al di­sprezzo, ma all’amore di un Dio, la cui paterna bontà, come la giustizia, confonde la ragione umana. Possa quest’opera contribuire a formare in coloro  che la leggeranno, disposizioni conformi alle intenzioni mille volte adorabili di Colui che venne a cercare e salvare, senz’alcuna eccezione, quei che si erano per­duti. « Venit enim Filius hominis quærere et salvum facere quod perierat [Luc. XIX, 10] ».

 

 

J.-J. Gaume: IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (14)

CAPITOLO XXVIII

FINE DELLA RISPOSTA ALLE OBIEZIONI

Non contenti all’avere distrutto la prima obbiezione che viene opposta al ritorno dei classici cristiani, dimostrando che la restaurazione generale delle scienze, delle lettere e delle arti è anteriore al Rinascimento, noi prendemmo l’offensiva affermando che quello è l’epoca e la cagione principale del decadimento e della corruzione della lingua latina in Europa. Questo è ciò che ci rimane a provare. Noi non sappiamo più il latino! Ecco quello che ripetono, a chi li vuole ascoltare, gli uomini i più interessati a sostenere il contrario. Vari anni fa, un eminente funzionario della francese Università diceva in una pubblica scrittura: « L’insegnamento è limitato ad un piccolo numero, è inutile e pericoloso per la più parte di coloro che sono compresi in questo numero, è incompiuto e cattivo per tutti. Anche il greco ed il latino, questi oggetti speciosi degli studi collegiali, sono male insegnati: prova ne sia che tutti gli studenti ignorano il greco, e che nessuno sa bene il latino. Del rimanente, per il valore scientifico dell’insegnamento in Francia esiste un’infallibile pietra di paragone: e sono gli esami detti del baccellierato. Ebbene! io lo dichiaro francamente; sette anni fa io diedi per la prima volte di tali esami, e da sette anni in qua non ho trovato un solo candidalo su dieci, che rispondesse soltanto passabilmente (Lettera del sig. Gaziano Attutali, profess. di lat.. alla Facoltà diLettere di Tolosa.) ».Noi non sappiamo più il latino ! Ecco ciò che il senso intimo dice piano ad ognuno di noi! Uscendo di collegio, appena se i più valorosi fossero stati capaci di leggere senza dizionario una pagina di Cicerone o di Tacito; ma per fermo non un solo sarebbe stato nel caso di sostenere una conversazione od una discussione latina un po’ estesa. Oggi è anche peggio; la nostra memoria non conserva del latino se non ricordanze così indebolite, che ad eccezione di coloro i quali fecero, per istato loro, della lettura delle opere latine 1’occupazione ordinaria della loro vita, noi non oseremmo arrischiarci a spiegare un passo d’ un autore alcun che difficile, né forse tradurlo senza traduzione, ed ancor meno scrivere in latino i nostri pensieri. [stendiamo un velo pietoso sul sistema scolastico italiano, nel quale non solo gli studenti sono incapaci di balbettare anche qualche sillaba, ma ancor più gli insegnanti – si fa per dire – non hanno più alcuna nozione delle lingue barbare del passato, sia per ciò che concerne grammatica e sintassi, sia per quanto attiene alla letteratura – ndr. -] Noi non sappiamo più il latino! Ecco ciò che provano i fatti. Che sia vero, ad esempio, che il discorso in latino, pronunciato da tempo immemorabile al gran concorso dei collegi di Parigi da una delle sommità universitarie, si farà d’ora in poi in francese, per risparmiare alla dotta corporazioue i quolibet coi quali il latino dei suoi professori fu accolto da più anni? Che sia vero che uno dei motivi per cui non s’insegna più in latino né la filosofia, né il diritto Romano, sia la difficoltà, non oso dire per il professore, ma pei discepoli, di esprimere chiaramente e facilmente i loro pensieri in tale lingua? Non solo noi non sappiamo più né parlare, né scrivere latino, ma neppure giudicarne. Il fatto seguente è noto a tutta Francia. – Verso l’anno 1825, il dottissimo cardinale Mai, bibliotecario di Propaganda, scoperse una parte della Repubblica di Cicerone e la fece stampare. Alcuni esemplari ne giunsero a Parigi. Fra le persone, nelle cui mani vennero dapprima, eranvi un sostituto d’uno dei grandi collegi della Capitale ed un padre di famiglia, il cui figliuolo seguitava il corso di esso collegio. Ora, il maestro aveva giudicato conveniente di tradurre in francese una pagina ritrovata di Cicerone e di darla per tema ai suoi discepoli: egli era sicurissimo che nessuno potrebbe saccheggiare (copiare altrove il lavoro). Il padre, esaminando a caso il tema di suo figlio, conosce donde fu tolto e detta ei medesimo al figliuolo la pagina latina di Cicerone. La copia viene rimessa con le altre. Il sostituto trovandosi occupato, il tema è corretto dal professore titolare, che non sa donde sia stato tolto. Dopo un maturo e coscienzioso esame, ei riconosce che cinque discepoli avevano tradotto meglio che non colui il quale aveva copiato; in modo che Cicerone non fu se non il sesto della classe di colui! – Noi non sappiamo più il latino! Eppure si consacrano sei o sette anni ad impararlo; si spendono in libri ed in professori somme immense. Sembra, vedendo la grande importanza che è data a questo studio, che noi dovremmo essere i più solenni latinanti del mondo. Donde mai deriva siffatto indebolimento nella conoscenza d’un idioma sul quale riposa però tutto quanto il sistema della nostra pubblica istruzione ? Oltre varie cagioni, la cui esposizione ci trarrebbe troppo lungi, una ve n’ha che devo indicare, sia perché è la prima, sia per giustificare la proposizione enunciata più sopra. Lo studio d’una lingua morta presenta già di per se difficoltà abbastanza grandi. Queste difficoltà crescono quando la lingua da studiare è quella di un popolo, le cui idee, i cui sentimenti, la cui religione, le cui istituzioni, i cui usi, la cui vita pubblica e privata sono totalmente diverse dalle nostre. Il giovinetto non trova né nella sua prima educazione, né nella società in mezzo alla quale egli vive, alcuna o quasi alcun’idea corrispondente a quella del mondo di cui è condannato a studiare la lingua; egli deve indovinare ed il senso delle parole ed il senso del pensiero. In questo mondo affatto nuovo per lui, egli non sa come orizzontarsi; il più delle volte cammina a tastoni, si vede fermato da difficoltà insormontabili ch’egli sfugge cadendo in contro-sensi, e finisce con disgustarsi di uno studio che rimane sempre per lui come una fatica, senza mai essere un piacere. – Ecco (ne chiedo a testimoni tutti coloro che fecero le loro classi), ciò che avvenne ad ognuno di noi. Lo stesso succedette a tutti i nostri predecessori dopo il Rinascimento del paganesimo letterario. Ci si fa studiare la lingua latina pagana, cioè la lingua di una società che non ha nessun rapporto con la nostra; una lingua il cui procedere traspositivo non rassomiglia in nulla al procedere logico della nostra lingua materna; una lingua, il cui fondo si compone d’idee, di fatti e di cose, alla cui intelligenza nulla ci ha preparati. Quindi, l’estrema difficoltà d’imparare; quindi, l’imperfetta conoscenza che noi acquistiamo di questa lingua, per non dire l’ignoranza nella quale rimaniamo. – Diversamente avveniva prima del regno del paganesimo classico. Si studiava dapprima la lingua latina cristiana. Questa sola parola lascia trasparire quante difficoltà di meno si opponevano ai progressi del giovinetto. Come madre delle nostre lingue moderne, la lingua latina cristiana presenta relazioni mirabili, e numerose, con l’idioma materno. Aprendo il suo libro latino, il giovane discepolo ritrovava lo stesso procedere semplice e naturale; poco o nulla di inversioni; lo stesso fondo d’idee ch’egli aveva acquistato nella sua prima educazione. La sua intelligenza cristiana indovinava senza pena una parte dei pensieri nascosti sotto una forma estranea. Ei si orizzontava agevolmente in quel mondo che non era più nuovo per lui. A ciascun passo incontrava nomi, fatti, cose, con cui le sue prime letture, la conversazione con sua madre, le istruzioni del sacerdote lo avevano da lungo tempo reso famigliare. Lo studio del latino non era quasi più per lui se non un affare di memoria. Bentosto il piacere congiungevasi al lavoro, perché l’intelligenza entrava facilmente di mezzo, e quegli imparava rapidamente la lingua latina cristiana, la parlava senza pena e la scriveva correttamente. Ecco quanto attestano tutti i monumenti di quella epoca. – Ciò è vero, dicono, ma ei non conosceva la lingua del secolo di Augusto, la bella latinità. Rispondo primieramente, ch’ei conosceva almeno uno dei due idiomi latini. In questo era a noi superiore, poiché dimenticando la lingua latina cristiana per darci esclusivamente allo studio della lingua latina pagana, noi riuscimmo a non sapere né luna né l’altra. Rispondo poi che nulla è più falso quanto il credere e il dire che prima del Rinascimento gli spiriti colti ignorassero la lingua del secolo di Augusto, la bella latinità. Me ne appello alla buona fede di tutti gli eruditi, e li prego di dire se prima del Rinascimento si possedessero, si leggessero, si ammirassero con minore intendimento e buon gusto, di quello che poscia fu fatto, le grandi opere dell’ antichità? Rispondo finalmente che la bella latinità non è solo, come noi provammo, la latinità del secolo di Augusto, ma ancora, e soprattutto, la latinità dei grandi secoli cristiani. – La prima obbiezione che noi esaminammo è dunque falsa del tutto, giacché riposa per intero su una confusione d’idee e di parole condannate dai fatti, ma ostinatamente conservata nella discussione dai partigiani del paganesimo classico. – La seconda obbiezione consiste nel dire che il rimedio, cioè la sostituzione dei classici cristiani ai classici pagani, è impossibile, poiché il baccellierato richiede imperiosamente lo studio degli autori profani. Ed io chiedo, per prima risposta, se sia o no vero, che l’uso esclusivo dei libri pagani nell’educazione è uno dei motivi che maggiormente contribuirono a corrompere i costumi, a pervertire le idee da tre secoli in qua, ed a condurre la società sull’orlo dell’abisso in cui siamo minacciati di vederla sparire? Chiedo inoltre se si possa o no continuare, per una considerazione qualunque, un simile sistema? Supposto che il baccellierato sia un invincibile ostacolo all’adozione di un cammino contrario, ne segue che la questione è impegnata tra la società ed il baccellierato: e poiché la è questione di vita o di morte, ne conchiudo semplicemente che bisogna sopprimere il baccellierato per lasciar vivere la società. Se dunque la società è ancora guaribile, e se i l rimedio proposto è necessario, noi siamo in diritto di affermare che un tal rimedio è possibile. Rispondo di più, che i classici cristiani non sono solo necessari alla Francia, ma all’Europa intera. Ora, grazie a Dio, l’Europa intera non è condannata al baccellierato. Libero dunque ad essa di fare, quando voglia, la riforma che può assicurare 1’avvenire. Finalmente rispondo, che i l Consiglio Superiore stabilito dalla nuova legge sulla pubblica istruzione può pure, quando lo voglia, modificare il programma degli esami da subirsi dai futuri baccellieri. Invece di non farvi figurare se non autori pagani, esso può, senza danno per la letteratura, per la società, per la religione, diminuirne il numero, e chiedere che i giovani cristiani siano tenuti di conoscere a l meno i principali autori cristiani. Può eziandio (il che è ben più conforme alla libertà) contentarsi di esigere dal candidato che sappia il latino, senza obbligarlo ad impararlo in un’opera piuttosto che in un’altra. Oso affermare che, così facendo, il Consiglio Universitario renderà il maggior servizio possibile alla patria, e se eccita le ingiurie dei tristi, avrà per compenso l’approvazione di tutti gli uomini saggi, che seriamente si occupano dell’avvenire. – Passando dal ragionamento alla pratica, noi sosteniamo che simile rimedio è benissimo applicabile. Qui è il luogo di dire tutto quanto il nostro pensiero. Una grande legge sociale fu violata nel XVI secolo. La fonte cristiana, destinata a togliere la sete alle generazioni cristiane, fu mutata in una fonte pagana, e l’educazione diventata pagana produsse una società pagana, ed in seno a questa società noi vedemmo svilupparsi tutte le idee e tutti i vizi del paganesimo. Noi chiediamo un termine a sì strana aberrazione; noi chiediamo che l’ordine venga ristabilito nell’educazione per rientrare nella società; noi chiediamo in conseguenza che i filosofi ed i retori di Atene o di Roma non siano più i soli, né i principali pedagoghi della gioventù cristiana; che autori cristiani adempiscano oramai sì nobile, sì delicata funzione. – Vogliamo noi con ciò escludere gli autori profani? Quando lo volessimo, noi non saremmo se non gli echi dei più grandi uomini e dei più grandi secoli della storia moderna. Ma rassicuratevi, noi vogliamo semplicemente che l’accessorio cessi di essere il principale. Ora, in fatto di educazione cristiana, voi ci concederete senza pena che il paganesimo è solamente l’accessorio, e che a questo titolo il suo posto non deve essere se non secondario. Giacché voi gli date importanza, noi vi concediamo che il giovinetto cristiano abbia a conoscere due società, quella di cui è figliuolo e che deve un giorno servire e onorare; e l’altra ch’egli può ignorare senza danno per la sua felicità o per quella dei suoi simili. Gli autori cristiani sono gli organi della prima, gli autori pagani della seconda: a voi sta di fissare il loro posto rispettivo. Qui io vi vedo uscir fuori con una nuova impossibilità. Voi dite: « Non è possibile studiare a un tempo gli autori cristiani e gli autori pagani; il tempo delle classi non lo permette. Non adottando se non classici profani, appena se ne possono spiegare alcuni, e fra quelli che si spiegano non ve n’ha quasi alcuno che si veda per intero. Il maggior numero dei giovani escono dalla retorica senza avere mai letto, ed ancor meno spiegato Virgilio, Ovidio, Orazio e Quinto Curzio da capo a fondo. Che sarà se voi date loro anche autori cristiani? ». Ecco appunto l’inconveniente dell’uso dei classici pagani nell’educazione. La difficoltà estrema d’imparare la lingua d’una società totalmente diversa dalla nostra, condanna la gioventù ad uno studio lungo e ingrato, e le toglie il tempo di leggere gli autori; a più forte ragione poi di sviscerarne alcuno. Un tale inconveniente sparisce, almeno in gran parte, se voi fate studiare prima la lingua latina cristiana (Bisognerebbe pure modificare il metodo attuale d’imparare le lingue. Un metodo che richiede sei o sette anni per imparare una lingua che in fin dei conti non si sa poi, non può essere essenzialmente buono). La facilità con cui il discepolo la impara, gli lascia tempo da leggere molto latino. Alla sua volta questa lettura abbondante gli dà una meravigliosa facilità per capire la lingua latina pagana, di cui, in fine, le parole sono in generale le stesse che quelle dell’idioma cristiano. D’altra parte, quand’egli fosse vero che 1’uso dei classici cristiani diminuisse un poco lo studio dei classici pagani, qual danno tanto grave ne potrebbe mai derivare? Conoscere un po’ meno Fedro ed Esopo, ed un poco più la Sacra Scrittura; un po’ meno Ovidio e Virgilio, ed un poco più i Salmi e i Profeti; un po’ meno Cicerone e Demostene, ed un poco più San Gregorio e San Crisostomo, sarebbe forse ciò un nuocere allo sviluppo dell’intelligenza, un falsare l’educazione, un compromettere la società, un oltraggiare il senso comune? Noi crediamo dunque, e l’esperienza lo conferma, che cominciando dal far imparare esclusivamente la lingua latina cristiana, non solo si possano vedere i principali autori pagani che servono di presente da classici, ma anche vederli molto meglio. Il giovinetto conoscerà tutto ciò che egli conosce, e lo conoscerà meglio. Di più, conoscerà una lingua ed autori che non conosce in verun modo. Cosi rassicuratevi, il baccellierato che inspira tanta sollecitudine, nulla avrà a soffrire. Soltanto la sua influenza sarà meno funesta alla gioventù ed alla società: ecco tutto. – Ho io d’uopo di aggiungere, che, nella sua forma attuale, il baccellierato non ha alcuna promessa d’immortalità? che l’interesse il più serio dell’avvenire richiede ch’esso venga o soppresso o profondamente modificato? Il mezzo di ucciderlo o di mutarlo è precisamente il mezzo che noi proponiamo. Inutile ancora il dire che per buona sorte il baccellierato non è obbligatorio per il clero; che il clero può dunque immediatamente e con gran vantaggio adottare i classici cristiani. Ora, si “È ANCORA DAL CLERO CHE DEVE COMINCIARE, COME TUTTE LE ALTRE, QUESTA RIFORMA DECISIVA PER LA RELIGIONE E PER LA SOCIETÀ. Per ultima obbiezione si dice: « Il rimedio sarà inefficace, poiché con classici cristiani il professore può sempre, quando Io voglia, formare discepoli pagani ». Rispondo in primo luogo, che la cosa sarà meno focile che noi sia oggidì. In secondo luogo rispondo, che con classici cristiani, i cattivi professori diventeranno sempre più rari, e che i buoni diventeranno eccellenti: è questo il caso di applicare il proverbio: Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei. Rispondo in terzo luogo, che, se con classici cristiani un cattivo professore può formare discepoli pagani, un buon professore non può, in regola generale, con classici pagani formare discepoli cristiani : tre secoli di esperienza stanno dietro di me per provarlo. Ecco la grandissima differenza che separa l’uno e l’altro sistema. Ridotta alla sua più semplice espressione, questa diversità significa che, se i classici cristiani non possono, per colpa degli uomini, salvare in Europa la religione e la società, i classici pagani, malgrado tutti gli sforzi degli uomini, perderanno infallibilmente e senza scampo la religione e la società nell’Europa intera. Quando pure le probabilità di successo fossero ancora più deboli che voi non supponete, io domando se sia lecito esitare un sol momento sull’uso dei classici cristiani. Fra due rimedii, dei quali l’uno ucciderà per fermo l’ammalato, e l’altro offre qualche probabilità d’efficacia, la coscienza non ingiunge forse al medico, in modo sacrosanto, di rigettare il primo e di servirsi del secondo?

[Oggi il buon Abate Gaume stramazzarebbe apprendendo che la gioventù attuale si forma con i libri del maghetto Henry Potter, dei Ninjia, dei Pokemon. Ma per fortuna ora egli vive nella Eternità beata e gode dei frutti del suo instancabile lavoro di “allerta alla società!” Che il Signore lo abbia in gloria! – ndr.-]. (Continua)

DOMENICA II dopo PENTECOSTE

Introitus Ps XVII:19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me. [Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.] Ps XVII:2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus. [Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.] Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis. [Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III:13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

I Omelia

[Mons. Bonomelli. Omelia, vol III – Torino 1899, Omel. V]

“Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere stati tramutati dalla morte alla vita, perciò amiamo i fratelli. Chi non ama, resta nella morte. Chiunque odia il fratello suo è un micidiale; ora voi sapete, che nessun omicida ha la vita eterna in sé. In questo poi abbiamo conosciuto la carità di Dio, ch’Egli diede per noi la sua vita, e noi dobbiamo per i fratelli dare la vita. Ora se alcuno ha dei beni di questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio alberga in costui? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non in parole e colla lingua, ma coi fatti e colla verità. „ (S. Giovanni, I . c. III, vers. 13-18). –

Voi stessi avrete compreso, che queste sentenze debbono appartenere all’apostolo della carità, S. Giovanni. Gli scritti di questo diletto discepolo di Gesù Cristo, e specialmente la prima delle sue lettere, dalla quale è tolto il brano che avete udito, hanno un carattere tale, una fisionomia sì spiccata, che è impossibile non riconoscerne tostamente l’autore. – Pressoché tutte le sue sentenze sono un’armonia continuata, una variazione stupenda di due soli motivi fondamentali, l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Nessuno degli autori ispirati del nuovo Testamento meglio di lui mise in luce l’indole e la natura della legge di grazia, che è l’amore, secondo quella sentenza di nostro Signore, che disse: “La legge ed i profeti si compendiano nella carità “Ex quo universa lex pendet et prophetæ”.– Nessuna meraviglia pertanto che negli scritti di Giovanni, e nominatamente nella prima lettera, siano frequentissime le ripetizioni. Narra S. Girolamo, che l’evangelista e l’Apostolo della carità, già nonagenario, era portato a braccia dai discepoli in mezzo alla radunanza dei fedeli, affinché rivolgesse loro qualche parola di edificazione. Ed egli non faceva che ripetere queste parole: “Miei figlioletti, amatevi tra di voi. „ Annoiati i fedeli, gli domandarono, perché dicesse sempre la stessa cosa; ed egli, scrive S. Girolamo, diede una risposta degna di lui: “Perché, disse, è comando del Signore, e se questo si osserva, basta. „ La lettera, che abbiamo di lui, sì direbbe essere la fedele ripetizione della esortazione, che l’Apostolo faceva alle pie adunanze, delle quali fa cenno Girolamo. – Se voi pertanto udrete, anche in questa omelia. ripetuta più e più volte la stessa verità dell’amore fraterno, non vogliate meravigliarvi: né annoiarvi: è precetto del Signore, e se questo si adempie, basta. Seguitiamo dunque il maestro e l’Apostolo della carità, e meditiamone le sante parole. Perché possiate intendere meglio la spiegazione dei versetti sopra riferiti, è mestieri rifarci alquanto indietro e rilevare il nesso che corre tra loro. Quelli che fan male, dice S. Giovanni, perciò stesso che fan male, si mostrano seguaci del demonio, e figli di Dio si palesano quelli che fanno bene. Il grande annunzio, portato sulla terra da Gesù Cristo è l’amore dei fratelli. Il mondo, cioè i cattivi, i seguaci del demonio odiano naturalmente i buoni, i figli di Dio: essi cominciano da Caino, che odiò ed uccise il fratel suo, Abele e continuano sino a noi. Per il che, dice Giovanni: “Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. „ È questa la ripetizione alla lettera d’una sentenza di Gesù Cristo che leggiamo nel Vangelo dello stesso Giovanni: ” Voi non siete del mondo, anzi io vi ho eletti dal mondo, per questo il mondo vi odia „ (XV, 19). Il santo Apostolo non vuole che ci meravigliamo di questo odio del mondo contro i discepoli di Gesù; eppure a me sembra cosa piena di meraviglia, perché quasi incredibile. Questi cristiani, a somiglianza del divino loro Maestro, non fan male a chicchessia; amano tutti come fratelli, a tutti fanno quel bene che possono, anche ai loro nemici più implacabili: sono umili, modesti, pazienti, casti, adorni di tutte le virtù, formano lo stupore degli stessi pagani. Nessuno dunque poteva odiarli, tutti dovevano amarli, od alla men peggio tollerarli. Nondimeno essi sono fieramente odiati, e S. Giovanni afferma che nessuno doveva stupirne: “Nolite mirari si odit vos mundus”. Come ciò? Come si spiega questa contraddizione manifesta del mondo? Il mondo, cioè gli uomini tristi generalmente odiano i buoni e li devono odiare: le tenebre sono nemiche della luce e i tristi sono nemici dei buoni; la virtù di questi è un rimprovero continuo e amaro per quelli: la condotta dei buoni è la condanna dei malvagi, sveglia nei loro cuori il rimorso, li umilia, li offende, li ferisce, e perciò non vorrebbero vederli, né udirli, e se fosse possibile li vorrebbero sbanditi dalla terra. L’odio dei malvagi contro dei buoni, più che dalla ragione, e dalla riflessione, deriva dall’istinto, nasce dalla natura delle cose; è l’odio del lupo per l’agnello, del cane che si getta sulla lepre: non provocati e nemmeno stimolati dalla fame, il lupo sbrana l’agnello, il cane insegue e addenta la lepre, e l’uomo tristo si strugge di odio contro il virtuoso. Il mondo ha odiato e perseguitato gli Apostoli, tutti i Santi, il Santo dei santi, Gesù Cristo: e noi stupiremo che odi e perseguiti quelli che camminano dietro a Lui? – Il mondo ci odia, come Caino odiò Abele, e i Giudei odiarono Cristo: quale conforto possiamo avere? Questo: “Noi sappiamo di essere stati tramutati dalla morte alla vita „ – Che importa a noi l’essere odiati e perseguitati da questo mondo perverso? Noi camminavamo nelle tenebre dell’errore: eravamo noi pure figli di questo mondo riprovato e morti a Dio; ora, per sua grazia, siamo usciti da queste tenebre, ci siamo separati da questo mondo, siamo sfuggiti alla morte, e pel Battesimo e per la fede siamo entrati nel regno della vita. E come lo sappiamo noi? Quale prova ne abbiamo? Questa è sicurissima: “Che amiamo i fratelli, – Quoniam diligimus fratres„ Segno infallibile che abbiamo la vita della grazia, a cui risponderà a suo tempo la vita della gloria, è il sentire in noi stessi l’amore verso de’ fratelli. Non dubito punto, che con la parola fratelli, qui usata, S. Giovanni intenda non solo i fratelli nella fede, ma tutti indistintamente gli uomini, anche non credenti e nemici, perché anche questi sono fratelli. E invero S. Giovanni in questo luogo vuol mettere sottocchio ai suoi lettori cristiani il contrassegno indubitato, ch’essi sono nel regno della vita divina, e lo mette nella carità fraterna. Se questa carità fosse stata circoscritta ai pochi cristiani, che allora esistevano, ad esclusione di tutti gli altri, come poteva essere un segno ch’essi erano trasportati nel regno della vita, nel regno di Gesù Cristo? Anche gli Ebrei, anche i pagani, fino ad un certo punto si amavano tra loro, almeno i congiunti, almeno gli amici, i conoscenti, i connazionali, mase noi pigliamo questa parola “fratelli, nel senso amplissimo, in quantoché abbraccia tutti gli uomini, allora ci dà veramente il carattere sovraumano e divino della carità. “Noi, così S. Giovanni, abbiamo una prova d’essere figli di Dio in questo che amiamo tutti gli uomini e tutti li teniamo in conto di fratelli, anche quando ci odiano, ci calunniano e ci perseguitano. „ Questo amore universale, sì generoso e sì costante all’uomo è impossibile con le sole forze della natura: esso non può venire che dall’alto, da Dio stesso, è dono al tutto suo, e perciò in esso noi abbiamo la certezza d’essere veri seguaci di Gesù Cristo, e d’avere nei nostri cuori la sua grazia: “Nos scimus, quoniam translati sumus de morte ad vitàm, quoniam diligimus fratres”. – Accennata la carità verso dei fratelli, questo segno caratteristico dei discepoli di Gesù e della trasformazione meravigliosa operata dalla grazia, S. Giovanni, seguendo il suo stile, dirò meglio, il bisogno del suo cuore, mostra il pregio di questa virtù, e scrive: “Chi non ama, dimora nella morte: „ “Qui non diligit, manet in morte”. Chi non ama, cioè chi non ha l’amore dei fratelli, l’amore operoso, che scaturisce dalla grazia, è in peccato, e perciò, ancorché vivo nel corpo, è morto nell’animo. L’anima, per fermo, è immortale per se stessa, come apprendiamo dalla fede e sappiamo dalla ragione: ma priva della grazia, è separata da Dio, e perciò priva della fonte d’ogni vita. Il corpo come e perché è vivo? È vivo in quanto e perché è unito all’anima, che tutto lo penetra ed informa. Separate l’anima dal corpo: che vedete voi? Esso è morto, e va tosto disfacendosi. Così fate che l’anima sia separata dalla grazia, ossia da Dio, essa è come morta. Ora non apparisce la sua morte agli occhi del corpo, come nella stagione invernale non apparisce quali siano gli alberi vivi e quali morti: ma aspettate la bella stagione ed allora vedrete morti i morti e vivi i vivi, Similmente quanto all’anima, e per ragion dell’anima anche quanto al corpo: aspettate la seconda venuta di Gesù Cristo, aspettate: Rispunti il sole di eterna giustizia e vedrete che cosa voglia dire la morte dell’anima e del suo compagno eterno. – L’anima senza la grazia o senza la carità, è in stato di morte. Questa idea della morte desta nello scrittore ispirato un’altra idea analoga, ma che rischiara e ribadisce la prima: “Chiunque odia il fratel suo è omicida. Parmi chiaro che per S. Giovanni il non avere amore per i fratelli è un odiarli, ancorché per sé il non amare non sia sempre odiare, giacché si concepisce uno stato di indifferenza, quasi medio tra l’amore e l’odio. Ma in questo luogo l’Apostolo dice chiaramente: “Chi non ama, odia, e chi odia il fratello è omicida. „ Omicida di chi? Di sé o del fratello? Si può intendere che è omicida di sè, perché non avendo in sé la carità verso il fratello, anzi odiandolo, pecca gravemente, e perciò uccide l’anima sua, e in questo senso disse benissimo S. Ambrogio, che “chi odia, anzitutto uccide se stesso, „ Qui odit, non alium prius quam seipsum occidit”. Ma non sembra questo il senso più ovvio e naturale della sentenza apostolica: essa sembra esigere che l’ucciso non sia chi odia, ma l’odiato. Ma come può dire che chi odia il fratello lo uccide? Non è questa una esagerazione? Tra l’odiare e l’uccidere una persona corre una differenza grandissima. E vero l’odio non è l’omicidio, e guai al mondo se l’uno fosse sempre l’altro: ma ricordiamoci, o fratelli, di un’altra sentenza del Vangelo simile a questa: “Chi avrà rimirata una donna con desiderio di lei, dice Gesù Cristo, ha già commesso peccato con lei in cuor suo „ (Matt. V, 28). Il che vuol dire, che il solo pensiero deliberato di commettere peccato, dinanzi a Dio è come commesso, perché Dio vede e giudica i cuori; similmente in questo luogo S. Giovanni vuol dire: badate, o figliuoli, di non albergare nel vostro cuore odio contro il fratello, perché quell’odio vi porterà a volere il suo male e a desiderare di torgli la vita e a toglierla di fatto. Ed in vero, donde le risse, i ferimenti e gli omicidi? Dall’odio. L’odio partorisce l’omicidio e in quanto ne è causa si può chiamare omicida chi lo accoglie in cuore. Scrive S. Girolamo (Epist. 36 Ad castor.). Grazie a Dio, non sono molti quelli che odiano il fratello: ma quelli che lo vedono di mal occhio, che nutrono rancore contro di lui, che non sanno dimenticare un’offesa ricevuta, spesso immaginaria, che tengono chiuso cuore con lui e se non l’odiano, certo non l’amano, pur troppo sono molti, e non è il caso anche tra persone che si reputano devote. Che dire di costoro? Dio solo legge nei cuori e pesa sulla sua bilancia le colpe degli uomini: ma ciò che è indubitato è, che di questo difetto di carità comunemente non si tiene calcolo o leggero, tantoché le stesse persone non se ne curano. Eppure vi è sempre colpa e tale che spesso apre la via all’odio manifesto. Carissimi! stiamo in guardia e non lasciamo penetrare nel nostro cuore questo mal seme, che traligna facilmente in odio. – Ora, domanda l’Apostolo, qual è la pena riserbata all’omicida? La morte. Dunque, chi odia non può avere la vita eterna. E qui S. Giovanni torna da capo all’idea della carità ed al modello supremo della carità, che è Gesù Cristo, ed esclama: “E in questo noi abbiamo conosciuto la carità di Dio, che Egli diede per noi la sua vita. „ Gli uomini troppo spesso odiano e tolgono la vitaai fratelli loro: Gesù Cristo per contrario ama tutti gli uomini, e li ama per guisa che dà per essi la sua vita. Quale e quanta carità! Qual modello da imitare! E non è fuor di proposito l’osservare come San Giovanni in questo luogo chiami Gesù Cristo Dio, giacché dice espressamente, che noi abbiamo conosciuto l’amore di Dio nel fatto che Egli egli diede la sua vita per noi. Ora chi diede la sua vita e si immolò per noi? Gesù Cristo! Dunque Gesù Cristo in questa sentenza è chiamato Dio. E che dobbiamo apprendere da Gesù Cristo, modello supremo di carità? ” Egli diede per noi la sua vita e noi dobbiamo porre la nostra per i fratelli. „ Questa sentenza di nostro Signore significa forse che noi possiamo sacrificare la vita dell’anima, la vita eterna per la salvezza spirituale dei fratelli nostri? Più che una follia sarebbe un’empia bestemmia il solo pensarlo: la vita dell’ anima è il supremo nostro bene, e per esso tutto devesi sacrificare, non mai esso ad altro bene quale che sia. La vita, di cui parla S. Giovanni e che noi dobbiamo sacrificare per i fratelli, non può essere che la vita del corpo. Ma come? direte voi. Siamo noi obbligati a dare la vita per i fratelli nostri? È questo un Debemus, come dice il sacro testo? E sempre? Ma in tal caso noi saremmo tenuti ad amare il prossimo più di noi stessi, mentre il Vangelo e la stessa natura ci impongono di amare il prossimo come noi stessi, cioè ad imitazione dell’amore, che dobbiamo a noi medesimi. – La risposta è piana e manifesta. L’ ordine della carità vuole che amiamo noi stèssi più dei fratelli, perché ciascuno è più prossimo a sé che non io sia il fratello, e perciò per regola ordinaria nessuno è tenuto a dare la sua vita per salvare quella del fratello. E se lo fa, che diremo noi? Se per salvare chi travolto dalla corrente d’un fiume, chi è circondato da un incendio, altri si getta nel fiume e si slancia tra le fiamme, diremo che viola l’ordine della carità, che merita biasimo? Ce ne guardi il cielo: nessuno è obbligato a far questo, onde se non lo fa, non pecca, perché non viola nessuna legge: ma se 1o fa noi lo saluteremo come un eroe e ci inchineremo riverenti dinanzi a tanta grandezza d’animo, a questo martire glorioso della carità, a questo imitatore del divino Maestro, che diede la vita per noi! – E se accadesse che per salvare la vita spirituale del fratello fosse necessario far getto della mia temporale, sarei io tenuto ad immolarla? Senza dubbio sarei tenuto ad immolarla quando fossi tenuto per ufficio, che tengo. Onde in ogni tempo noi vedemmo sacerdoti, parrochi, vescovi, pastori di anime non esitare un istante a sfidare la morte al capezzale degli appestati negli ospedali e nei lazzaretti per offrir loro i conforti della Religione. Se il soldato, fedele al suo dovere, non paventa la morte sui campi di battaglia per la difesa della patria, per gli interessi della terra, come potremmo esitar noi ad affrontare la morte, allorché si tratta degli interessi del cielo, dell’acquisto della patria superna? No, non vi è sulla terra spettacolo più sublime di colui che offre il sacrificio della propria vita per salvare la vita temporale del fratello: che dovrà essere quando l’offre per salvare non la vita temporale, ma 1’eterna del fratello? – Dopo aver parlato della carità verso dei fratelli in genere e del supremo suo grado, che consiste in dare per essi, se è necessario, anche la vita, il nostro Apostolo discende alla pratica applicazione più comune della carità, e così prosegue: “Se alcuno ha beni in questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio albergherà in costui? „ – La carità, la vera carità si manifesta nelle opere: vuoi tu conoscere se questa carità alberga nel tuo cuore? Guarda alle opere: la bontà dell’albero si conosce e si giudica dai frutti e non dalle foglie. Vedi tu il fratello che soffre la fame? che mal vestito trema dal freddo? che non ha tetto, che lo copra? Che non ha un giaciglio su cui passare la notte? Che infermo non ha chi lo assista? che soffre e non ha chi lo conforti? Qui si vedrà alla prova la tua carità. A te sfamarlo, vestirlo, trarlo, soccorrerlo colla limosina, o meglio ancora, se è possibile, col dargli lavoro, limosina che non umilia: a te, se non puoi aiutarlo del tuo, farti suo avvocato presso chi può soccorrerlo: a te rivolgergli una parola di consiglio, di conforto, aprirgli il tuo cuore affinché egli ti apra il suo. – Il mondo, atterrito, ode grida di minaccia e vede turbe di uomini, che si aggirano per le vie chiedenti pane o lavoro: vede un esercito immenso di sofferenti, che aspettano o vagheggiano 1’ora dello sconvolgimento sociale: il fragore della bufera (che vale dissimularlo?) più e più si avvicina: la marea monta, monta sempre e finirà col passare come un torrente di lava, su tutto il continente, distruggendo tutto ciò che troverà sul suo passaggio. Vi è un rimedio, che ci salvi da tanta rovina? Sì, vi è; ma non è riposto nei discorsi, nei trattati, nei libri dei dotti e nemmeno nelle leggi e nella forza armata, a difesa delle leggi. Esso sta riposto nella gran legge della carità: gli istruiti, i ricchi, i grandi si abbassino, amino davvero i loro fratelli, li ammaestrino, li soccorrano: li soccorrano nel loro superfluo, e sopratutto si mescolino a loro, formino con essi una sola famiglia per quella carità, che tutto pareggia, e la bufera sarà dissipata. La soluzione del tremendo problema, che si agita intorno a noi, è tutta in questi due periodi di S. Giovanni: “Se qualcuno ha beni di questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuderà il suo cuore verso di lui, come mai la carità di Dio albergherà in esso? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non con parole e con la lingua, ma colle opere e in verità. „ Ecco il rimedio infallibile ai mali, che ci minacciano; ecco la vera e pratica soluzione del problema che ci affanna: la eguaglianza, figlia non della forza e della ingiustizia, ma della carità volontaria. – Chiuderò la mia omelia, ripetendo le parole di due Padri della Chiesa: il primo parla al Vescovo e, fatta proporzione, ai preti; l’altro a voi, o laici. Udite il primo, S. Bernardo: “Guai a te, vescovo. Non ti è lecito spiegar lusso con i beni della Chiesa e sprecare in cose superflue: non ti è lecito arricchire: non ti è lecito portare in alto i consanguinei: non ti è lecito fabbricare palazzi: tutto ciò che oltre il vitto necessario ed il semplice vestito tieni dalla Chiesa, non è tuo: è rapina, è sacrilegio! „ – Udite il secondo, o laici: ” Forse che tu non sei spogliatore, tu, che reputi tuo ciò che hai ricevuto per distribuirlo altrui? Quel pane, che tieni per te, è pane dell’affamato: appartiene all’ignudo quella veste, che conservi nell’armadio: allo scalzo spettano quei calzari, che si consumano in casa tua: è denaro del povero quello che crudelmente possiedi. Ondeché tu fai ingiuria a tanti poveri, quanti sono quelli, ai quali potresti porgere soccorso. „

Graduale

Ps CXIX:1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me. [Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

V. Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja [O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja. [Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. R. Gloria tibi, Domine! Luc XIV:16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit coenam meam”.

Omelia II

Omelia della DOMENICA II dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Numero dei Peccati.

E perché al primo rifiuto degl’invitati nell’odierna parabola vien fulminata sentenza fatale di esclusione perpetua dal regno di Dio? Un uomo di qualità, imbandita una grande cena, mandò il suo servo ad invitare molti. Il primo di questi invitati si scusò con dire, aver lui fatto acquisto di una villa, e conveniva si conducesse sul luogo a vederla. Il secondo allegò per scusa aver comprato cinque paia di buoi, e doveva andar a provarli se erano idonei all’aratro. Disse il terzo, che di fresco aveva presa moglie, e gli era impossibile venir al convito. Offeso da questi villani rifiuti quel personaggio, altamente si protestò che niun di costoro si sarebbe mai più assiso alla sua mensa, mai più avrebbe gustato della sua cena. Quest’uomo qualificato, al dir di S. Cirillo e del magno Gregorio, riportati dall’angelico dottor S. Tommaso (in Cat. Aurea), egli è Dio che ha imbandita una lauta mensa delle carni immacolate del divino agnello, ha spedito il suo servo, cioè i ministri della sua Chiesa ad invitar tutti i fedeli, a partecipare di così santo e salutare convito; ma molti ingrati corrispondono a tanta bontà con un rifiuto. E perché, io ripeto, dopo il primo rifiuto gl’invitati dell’indicata parabola sono fulminati con fatale sentenza? Ecco, uditori, una risposta, che racchiude una spaventosissima verità. Compirono con quel rifiuto la misura della loro malvagità. Che in fatti vi sia un certo numero di peccati da Dio stabilito universalmente per tutti, dopo il quale non resti più luogo a perdono, e qual possa essere in particolare per ciascuno quello stesso numero, è ciò che formerà il soggetto della presente spiegazione.

Che il grande Iddio, che tutto ordina dispone ed eseguisce in numero, peso e misura, abbia determinato un certo numero di peccati, compiuto il quale più non accordi perdono, è cosa certa, dice S. Agostino, comprovata dal giudizio di Dio medesimo nelle divine Scritture: “Esse certum peccatorum numerum atque mensuram, ipsius Dei iudicio certissime comprobatur”. Promette infatti Iddio ad Abramo la fertilissima terra di Canaan, ma tu, soggiunge non entrerai al possesso della medesima, finché non sian compiute le iniquità degli Amorrei: “Necdum enim completæ sunt iniquitates Amorrhæorum” (Ge. XV, 16), Gesù Cristo, rinfacciando ai caparbi scribi e ai superbi farisei l’empietà delle loro massime, e la scostumatezza delle loro opere. Compite, dice ad essi, compite la misura dei malvagi vostri genitori: “et vos implete mensuram patrum vestrorum” (Matth. XXV, 32). Lo stesso finalmente conferma l’apostolo nella prima sua epistola (cap. II, 15) a quei di Tessalonica. A rendervi più sensibile questa importantissima verità fatevi tornare a mente l’universale diluvio, allorché Iddio, per castigare con esempio inaudito il peccato della disonestà, tutta sommerse l’umana generazione. Poteva l’onnipotente Iddio in un sol giorno, in un’ora, in un istante affogare nell’acque il mondo intero, pure volle impiegarvi lo spazio di giorni quaranta di pioggia dirotta. Fu questo, dice S. Giovanni Crisostomo, un tratto di misericordia, acciocché in vista di un castigo che aveva cominciamento e progresso, potessero i rei aver tempo a salvarsi; ma fu altresì ripiglia Origene, un atto di sua tremenda giustizia; perciocché nei primi giorni andarono in fondo quei che compito avevano il numero de’ propri peccati, e così nei giorni susseguenti gradatamente restarono sommersi coloro che ripiena avevano la misura dei loro delitti: “Quam mensurasn credendam et fuisse completam ab iis , qui diluvio perierunt(Orig.). Mi chiedete ora qual sia per ciascuno in particolare questa determinata misura? Questa per alcuni è più ampia, per altri è più ristretta. Apriamo di nuovo le divine Scritture: ah, diceva Iddio a Mosè, io voglio una volta disfarmi queste tue genti; e assegnando la cagione della sua collera. È già la decima volta, soggiunge, che questa malnata genìa provoca, il mio furore: “Tentaverunt me iam per decem vices” (Num. XIV, 22). – Lo stesso Dio, parlando dei popoli di Damasco, dice ad Amos profèta: Io perdonerò a questo popolo le sue scelleratezze la prima, la seconda, la terza volta, e non più: “Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum” (Am. I, 3). Ma, Signore, non siete sempre il Dio delle misericordie tanto la prima, che la seconda, la quarta e la centesima fiata? Io sono in natura, in sostanza, in ogni tempo, ma per il popolo di Damasco nol sarò in effetto, se non fino alla terza volta, ma non per la quarta. “Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum”. Ecco dunque per gli Ebrei nel deserto, che la loro misura arriva fino a dieci, e per quel di Damasco fino a tre. Vi sono o esser vi possono ancor più corte misure? O giudizi di Dio tremendi, profondi, inscrutabili! Vi sono purtroppo numeri più ristretti, misure più scarse. Per alcuni talvolta il primo peccato è l’ultimo. Così avvenne agli Angeli nel cielo empireo, così agl’invitati nell’odierna parabola. – Fissate bene le prove di questa formidabile verità, ditemi, fedeli amatissimi, siete voi nello stato d’innocenza? Mi giova il crederlo. Ah! se così, tenetevi ben cara questa gemma preziosa, guardatevi bene di macchiare la candida stola della vostra battesimale integrità, perché il primo peccato potrebbe forse essere l’ultimo, potrebbe cadere su voi quel fulmine improvviso e irreparabile, che colpì gli Angeli prevaricatori, e i convitati dell’odierno Vangelo, come già vi accennai. Se poi, perduta la prima tavola dell’innocenza, vi siete appigliati alla seconda della penitenza, se, abbandonata la strada di perdizione, vi siete incamminati in quella della salute, deh! Per pietà non tornate addietro, non date un passo, non mettete un piede fuor di questa via, perché il primo passo potrebb’essere per voi un precipizio, una caduta, che vi sprofondasse nel baratro sempiterno.Se finalmente foste ancora nello stato di peccato, stato d’inimicizia con Dio, stato di dannazione, uscite per carità da stato sì pericoloso, non aggiungete colpa a colpa, peccato a peccato; perché la bilancia che sta in mano alla divina giustizia è già carica dal peso de’ vostri reati e va ondeggiando, sostenuta, a non preponderare a vostro danno, dalla divina misericordia; ma un altro peccato, che vi si accresca, può farla tracollare a vostra rovina. – Forse alcun di voi andrà dicendo fra sé: “conviene dire che la misura de’ miei peccati sia ben dilatata ed estesa: poiché dopo tanti che ne ho commessi senza numero, senza fine, in ogni genere, in ogni modo, la giustizia di Dio non mi ha fatto sentire neppure il fischio del suo flagello; invece io vivo sano, vegeto, robusto e prosperoso. – Perdonatemi se vi compiango, e uditemi con pazienza. Un orologio montato a svegliarino corre con un leggiero moto e poco si fa sentire tutta la notte, ma giunto al punto fissato da chi lo caricò, ecco un’improvvisa rivoluzione di ruote, uno strepito di martelli, un sì forte trambusto, che sveglia chi anche profondamente dormiva. – Voi al presente dormite tranquillo in seno al peccato, sentite però a qualche ora un leggiero movimento, il rimorso cioè della rea coscienza, che non sa tacere; pur proseguite il vostro sonno, o piuttosto il vostro letargo; ma al giungere di quel punto fatale determinato dal padrone della vita e della morte, si scaricherà su di voi la giusta sua collera, vi sveglierete dalla profonda letargia, aprirete gli occhi, e vedrete il mondo che vi fugge, la morte che v’incalza, l’eternità che vi assorbe, l’ira di Dio che vi sta sopra in atto di fulminarvi, e sprofondarvi all’abisso. Succederà a voi come a tanti pari vostri, uomini di bel tempo, che nel fior dell’età, nel più bello dei loro sozzi piaceri, venuto il fatal punto, furono all’improvviso precipitati all’inferno: “Ducunt in bonis dies suos, et in puncto, notate bene, et in puncto ad inferna discendunt” [finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli negli inferi] (Job. XXI, 13). Questo terribile punto fissato dalla mano dell’Onnipotente, arrivò già per i superbi e rivoltosi Core, Datan e Abiron, “si aprì loro la terra sotto de’ piedi, e vivi vivi piombarono nel profondo dell’inferno”: “Descenderuntque vivi in infernum” (Num. XVI, 33). Questo formidabile punto non preveduto arrivò per l’incestuoso Ammone, e la mano di Dio lo colse sedente a lauto convito, che fu il palco funesto della sua morte. Questo punto non preveduto giunse per l’empio Baldassarre, e la divina vendetta lo colpì, mentre giaceva in un profondo sonno, trucidato dalle spade nemiche de’ Medi e dei Persiani. Questo punto arrivò per Sisara generale di grande armata, addormentato nel padiglione di Giaele, da lungo chiodo dall’una all’altra tempia miseramente trafitto. Questo punto arrivò per l’orgoglioso Oloferne, mentre sepolto nel sonno e nel vino, lasciò la testa sotto la spada della forte Giuditta. Questo punto, a finirla, arrivò per tanti libertini dei nostri tempi, increduli, scostumati, scandalosi, da noi conosciuti, che nella debolezza dei loro animi, e nella bruttezza dei loro vizi affettavano spirito forte, e mascherato patriottismo, colpiti da improvvisa morte nel fiore degli anni, senza sacramenti, senza un segno di religione, senza un atto di cristiana pietà. Per tutti quest’infelici, non è egli evidente che si avverò l’oracolo dello Spirito Santo per bocca di Giobbe: “Ducunt in bonis dies suos, et in puncto – notate di nuovo – et in puncto ad inferna descendunt”? Questo divino oracolo, questa tremenda minaccia si compirà in chiunque mette la sua felicità nelle terrene cose, nei vietati piaceri, nello sfogo delle brutali passioni, in chiunque non teme Dio, non si cura di Dio, calpesta le sue leggi e mena una vita peggiore delle bestie insensate. Sì, miserabili, seguite pure la via del piacere, vedrete ove andrà a terminare: impegolatevi nelle crapule, ubriacatevi nelle sensualità, coronatevi di rose; anche i montoni s’incoronano di fiori, e si lasciano carolare sul prato, ma son già destinati alla scure ed al macello. Cantino pure nella prigione quei scioperati malfattori, si divertano con giuochi villani, con tresche brutali; intanto la sentenza del loro supplizio è già pronunziata dal giudice e spiccata dal tribunale, ed essi nol sanno, e proseguono a ridere ed a cantare. Voi li compiangete; ma ecco il vostro caso precisamente (perdonatemi se vi parlo con evangelica libertà pel bene che vi voglio, per l’amore che vi porto), ecco, diceva, precisamente il caso vostro. È fissato, peccatori restii, il punto di vostra sorte, siete posti sulla bilancia come Baldassarre, tanti peccati farete e non più, tanti saranno i vostri giorni e non più: suonerà per voi l’ultima ora, la vostra sentenza è già scritta in cielo, la vostra condanna è in moto, già ne sento il tuono, già ne veggo il fulmine diretto a togliervi di questa terra, e ad inabissarvi all’inferno. – Ma dove mi trasporta l’amore di giovarvi, peccatori miei cari? Perdonate lo zelo di chi vi amareggia a fin di sanarvi, di chi vi minaccia a fin di salvarvi. Confortate il vostro cuore, e ditegli ch’è ancor luogo a sperare. La misura de vostri peccati è ampia, è vero, ma non è ancor compita: si compie, dice S. Agostino, quando una improvvisa morte colpisce un’anima impenitente; ma fin che Dio vi soffre in vita, è segno che non sono ancor chiuse le viscere della sua misericordia. Cessate da quest’ora dal più peccare: cancellate or ch’è tempo accettevole il chirografo delle colpe con lacrime di contrizione sincera, provvedete ai vostri novissimi, riformate la vostra condotta, intraprendete la via di salute: all’invito che oggi vi fa per mia bocca Iddio pietoso, non allegate scuse, come i convitati dell’odierno Vangelo: un rifiuto vi può costare la vita temporale ed eterna: ricordatevi che il primo peccato può essere l’ultimo, e il sigillo fatale della vostra eterna riprovazione. Che Iddio vi guardi!

Credo …

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps VI:5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam. [O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem. [Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

Communio

Ps XII:6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi. [Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza.]

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -III- di mons. J. J. Gaume [capp. XI-XIII]

MORTE al CLERICALISMO -III- [capp. XI-XIII]

CAPITOLO XI

SACRIFICIO UMANO

I.

Abele, Noè, Abramo e gli altri Patriarchi offrivano sacrifici al Signore. satana se ne avvide, e tosto, scimmia di Dio, o piuttosto suo ambizioso rivale, vuole avere anch’esso i suoi sacrifici. E tanta fu sin dal principio la sua formidabile potenza, che ottenne fino dal popolo di Dio vittime umane. È vero che gli Ebrei, durante il loro soggiorno in Egitto, non offrirono mai nessun sacrificio agl’idoli; ma appena usciti dalla schiavitù, cominciarono ad adorare il vitello d’oro.

II.

Bentosto, al contatto delle abominevoli nazioni di Chanaan, immerse nella più licenziosa e sanguinaria idolatria, dovevano essi lasciarsi corrompere e troppo spesso partecipare al loro culto. Il Signore, a premunire il suo popolo contra lo scandalo, dettò a Mose quell’articolo di legge: « Chiunque sacrificherà agli dèi stranieri, sarà punito di morte: qui immolat diis occidetur.» [Exod. XXII» 20]. Poscia il medesimo divieto é rinnovato con pena più grave. « Se qualcuno, dice il Signore, sacrifica a Moloch uno dei suoi figli, sarà punito di morte, e tutto il popolo lo lapiderà; che se il popolo trascurando i miei ordini, non ne fa conto, sterminerò Io stesso il colpevole, la sua famiglia, e tutti coloro i quali avranno acconsentito al suo delitto. » [Levit. XX, 2-5].

III.

Malgrado questi divieti reiterati e le pene terribili comminate contro i prevaricatori, gli Ebrei affascinati dal demonio e dall’esempio dei popoli che essi avevano missione di sterminare, si lasciano trascinare all’idolatria. Disertori del vero Dio, si vedono troppo spesso offrire vittime agl’idoli. Questo è il rimprovero che Mose stesso sul punto di morire fa ad essi: « Hanno offerte vittime agl’idoli, e non a Dio; a dèi sconosciuti, non adorati giammai da’ loro padri. » [Deut XXXII, 19].

IV.

Quali erano queste vittime? Ce lo dice Davide. Delineando a grandi tratti la storia dei suoi antenati, li accusa d’avere offerto al demonio numerose vittime umane e soprattutto vittime preferite, giovanetti dell’uno e dell’altro sesso. « Si mischiarono ai gentili; impararono le loro opere; adorarono i loro idoli, ed immolarono i loro figli e le loro figlie ai demoni!; sparsero il sangue innocente, il sangue dei loro figli e delle loro figlie, cui sacrificarono agl’idoli di Chanaan: quos sacrificaverunt sculptilibus Chanaan. » 1 1.[ Ps. CV; 35, 36].

V.

Trecento anni dopo Davide, Isaia ci mostra il sacrificio umano sempre in vigore presso gli Ebrei, suoi contemporanei. « Non siete voi, loro dice, figli scellerati, una razza menzognera, voi che cercate la vostra consolazione negl’idoli, sotto alberi fronzuti, immolando i fanciulli nelle caverne dei torrenti: Immolantes parvulos in lorrentibtus. » [VII, 5]. – Cento anni dopo Isaia, il Profeta Geremia prova la persistenza del sacrificio umano presso i suoi compatrioti, e ci dice di qual maniera compievasi: « Essi inondarono di sangue la valle dei figli di Ennon; offriron sacrifici agli dèi stranieri, ed innalzaron altari a Baal, per bruciarvi i loro figli in onore di Baal. Et ædificaverunt excelsa Baalim, ad comburendos filios suos igni in holocaustum Baalim. » [XIX, 4, 5].

VI.

Cento anni dopo Geremia, udiamo il Profeta Ezechiele levar la voce contro lo stesso scandalo. « Voi avete, dice il Signore, preso i vostri figli e le vostre figlie, cui avete messo al mondo per me, e li avete immolati agl’idoli per servir loro di pascolo: Et immolasti eis ad devorandum. » [XVI, 20] – Il medesimo rimprovero è nel Profeta Osea il quale ci avvisa che non solo si sacrificavano fanciulli, ma ancora uomini fatti, a somiglianza di tutti i popoli pagani: Immolate homines, vitulos adorantes. [XIII, 2]. Finalmente, il libro della Sapienza ne rivela le abominevoli turpitudini che accompagnavano i sacrificii umani: Filios suos sacrificantes, obscura sacrificia facientes, insaniæ plenas vigilias habentes, etc. [XIV, 23, 27]. – Avveniva lo stesso presso tutt’ i popoli pagani, presso i Romani in particolare, i cui anfiteatri erano ogni giorno accompagnati da terme o fornice». Dopo d’aver preso un bagno di sangue umano, si andava a prendere un bagno di lussuria. Ecco quanto avveniva ogni giorno nella bella antichità.

VII.

La principale divinità dei Cananei, alla quale gli Ebrei immolavano i loro fanciulli, era Moloch. È qui il luogo di far conoscere questo spaventevole demonio. Moloch passava pel Signore degli dèi. Con tal titolo, il suo culto era più comune e più celebre che quello di tutti gli altri dèi, maschi o femmine. Era onorato in due principali maniere, consacrando a lui i fanciulli, ovvero immolandoli in suo onore.

VlII.

La prima maniera consisteva in far passare queste innocenti creature fra due siepi di fuochi accesi, i quali mettevano capo alla statua di Moloch. Il che appellavasi iniziare a Moloch. Cotesto atto d’idolatria era proibito sotto pena di morte. Nondimeno gli Ebrei non se ne astenevano. Era una parodia sacrilega del battesimo. [IV Reg.„ XXIII, 10 ) – [Ier., XXII, 23].

IX.

La seconda maniera, la cui sola memoria fa fremere, aveva luogo come segue: Moloch era rappresentato da una mostruosa statua di bronzo, di forma umana, sormontata da una testa di vitello; aveva larghissime mani, sopra le quali deponevansi le piccole vittime; e un braciere ardente scaldava la statua che era concava. Il fanciullo posto su queste mani incandescenti era ben tosto consumato. Gli spettatori esclamavano che egli era morto tra gli abbraccia di Moloch, che il sacrificio era gradito al dio, e che il fanciullo era sollevato al cielo. Per soffocare le grida dilanianti delle innocenti vittime, i sacerdoti del dio facevano una musica assordante. – Credesi che il Moloch, al quale gli Ebrei sacrificavano i loro fanciulli, avesse una testa di vitello, in memoria del vitello che essi avevano adorato nel deserto. – Se, malgrado i lumi, di cui il Signore li aveva favoriti, malgrado la pena di morte comminata a chiunque sacrificasse agli idoli, gli Ebrei si mostravano talmente inchinati all’idolatria, che per molti secoli inondarono del sangue dei loro figliuoli gli altari dei falsi dèi, si può giudicare anticipatamente di ciò che doveva aver luogo presso le nazioni infedeli. Ne daremo un cenno nel corso di questa opera.

CAPITOLO XII

ASIA ANTICA. — I FENICI. — I SIRI. — I MOABITI. — I GRECI

I.

Uno dei più antichi e celebri popoli del mondo fu quello de’ Fenici. Il loro paese, contrada della Siria, stendevasi lunghesso il mare, dall’Antilibano fino all’imboccatura del fiume Belo. Commercianti attivi ed ardimentosi, essi fabbricarono molte illustri città, Tiro, Sidone, Berito, Biblo, Acri, ed altre ancora. Naviganti audaci, percorsero per molti secoli i diversi mari conosciuti a quell’epoca. Si crede pure che navigassero l’Oceano Atlantico, e facessero il giro dell’Africa. Checche sia di ciò,eglino ricoprirono le coste e le isole del Mediterraneo di lor colonie e di loro stazioni coloniali; fra le quali Cartagine, la rivale di Roma, Ippona, Utica, Gades, Palermo, Lilibeo.

II

Quanto corrotto, altrettanto attivo, nessun popolo poteva esser meglio scelto da Satana, per propagare l’idolatria nel mondo, ed in particolare l’uso barbaro del sacrificio umano, che presso di loro risaliva alla più remota antichità. Uno dei più antichi storici, loro compatriotta, Sanconiatone, i cui scritti ci sono stati conservati da un altro loro compatriotta, Filone di Biblo, cosi si esprime: « Presso i Fenici è un’antica usanza, che nei gravi pericoli, a prevenire una rovina universale, i capi della città e della nazione consegnano i loro più cari figliuoli, per essere immolati, come prezzo del riscatto, agli dèi vendicatori. – È per questo che Crono, re di quel paese, quegli stesso che dopo la sua morte fu consacrato nell’astro che porta il suo nome, avendo avuto da una ninfa della contrada, di nome Anobret, un figlio unico, cui per questa ragione appellò Ieoud, come anche oggidì s’appellano in Fenicia i figli unici; essendo il paese minacciato da grandi pericoli di guerra, rivesti quel figlio degli attribuiti della sovranità, e l’immolò sull’altare, che aveva egli stesso preparato. [Apud Euseb. Præp. evang. lib. IV., c. XVI].

III.

A Laodicea di Siria una vergine era immolata ogni anno a Minerva. « La Scrittura stessa riferisce che Mesa, re dei Moabiti, rifiutando di pagare a Ioram, re d’Israele, il tributo che era solito di pagare al padre, Ioram marciò contro lui insieme con Giosafat, re di Giuda, e col re d’Edom. Mesa, vedendosi stretto e non potendo più resistere a tanti nemici, prese con se settecento uomini di guerra, per forzare il campo del re d’Edom; ma non vi riusci. Allora prendendo il suo primogenito, il quale doveva regnare dopo lui, l’offri in olocausto sulle mura della città, in presenza degli assedianti. » [IV. Reg., III].

IV.

Tali sacrifìci, dice lo storico, erano accompagnati da cerimonie misteriose. Quali erano queste cerimonie? A giudicarne per analogia, egli è verisimile che consistessero in preghiere, in evocazioni, in pratiche superstiziose, e nella partecipazione al sacrifìcio per la manducazione della vittima in tutto, o in parte; al qual proposito, io fo qui un’osservazione, che mi vien sotto la penna. – Noi vedremo che presso la più parte degli idolatri moderni, il sacrifìcio umano è seguito dalla manducazione della vittima. Credere che l’antropofagia sacra fosse sconosciuta presso i popoli del mondo antico, sarebbe un errore. Fino al secolo nono essa vigeva nella Cina, a Pegu, a Giava e nelle nazioni dell’Indocina. I condannati a morte, i prigionieri di guerra erano uccisi e divorati. Si portavano a mensa pasticci di carne umana. [Annales de phil. chret, t. VI, Serie 4, p. 162. »]. – Vicini ai Fenici, i cittadini di Domata, città d’Arabia, immolavano ogni anno un fanciullo che sotterravano sotto l’altare, ov’era sacrificato, e che loro teneva luogo di statua. [Apud Euseb. Praep. evang. Ub. IV, c. XVI.]. Questo accadeva presso gli Ebrei, presso i Fenici, e presso le nazioni vicine, avanti la predicazione del clericalismo. E oggidì vogliono sterminarlo! E si dice che tutte le religioni sono egualmente buone!

V.

Prima di abbandonare l’alta Asia, trasportiamoci al Giappone. Nessun luogo della terra è sfuggito all’impero del demonio, il quale ha avuto dappertutto il suo culto omicida. Il grande e bel paese del Giappone gli ha pagato il suo tributo. Si sa che i Giapponesi idolatri riconoscono più di centomila dèi, che essi appellano Kamis. Certi animali, i quali passano per servitori dei Kamis, vi sono onorati come divinità protettrici. Quello che meglio è servito è la volpe (inari): i Giapponesi onorano soprattutto quella color grigio come la più intelligente. La consultano negli affari più spinosi: le innalzano un tempietto nell’interno delle loro case, e le offrono in sacrificio fagioli e riso rosso. Se gli alimenti spariscono, si crede che la volpe li ha mangiati, e l’esito dell’affare sarà felice; se mai restano intatti, guai!

VI.

Nei tempi più antichi, olocausti umani erano offerti alle divinità malefiche, quali Kiou-Sisiou, il dragone a nove teste del monte Toka-Kousi. Poscia il sacrificio si ridusse a diverse vivande, di riso, di pesci, di caprioli. Una volta avvenendo la morte dei grandi, veniano sotterrati vivi con essi un certo numero dei loro amici e dei loro servi. Più tardi non si sotterrarono più, ma da se stessi s’aprivano il ventre. E questa usanza si perpetuò sino alla fine del sedicesimo secolo. [HisL gèn. de* ini*, t. I, art. 2, p. 468. — Eccellente opera per lo spirito come pel cuore, e dilettevole]. Questo succedeva nel Giappone, avanti la predicazione del clericalismo! Ed oggidì vogliono sterminarlo! E si dice che tutte le religioni sono egualmente buone! Terminando la nostra escursione nell’alto Oriente, gettiamo uno sguardo sulla Tartaria. Allorché i Tartari marciano al combattimento, il generale passa una rivista delle otto bandiere riunite, e si rinnova una cerimonia barbara, usitata, dicesi, da tempi immemorabili fra quei popoli. S’immola un cavaliere, e tutti gli altri, dal semplice soldato al comandante delle otto bandiere, vanno a bagnare la punta delle loro lance nel sangue ancora fumante. [Ann. de la Foi, n. 116, p. 12]. – Discendiamo ora ai Greci. Quanto ai nostri studi classici, questo popolo è riputato il più civile, il più forbito, il più perfetto dei popoli della bella antichità. Parlando cosi i nostri maestri, non han guardato, e non ci han mostrato che la superficie. Il considerar le cose sotto il rapporto dei costumi e della barbarie, avrebbe guastato i loro elogi. Ora la storia del sacrificio umano presso i Greci riduce quegli elogi al loro giusto valore.

VII.

Fra tutti i riti sacri, prescritti da Mose al popolo di Dio, io non so se ve ne sia uno più misterioso e più celebre di quello del capro emissario. Due capri, nutriti a tal uso, erano menati al gran sacerdote all’ ingresso del tabernacolo. Carichi di tutt’i peccati del popolo, l’uno era immolato in espiazione, l’altro cacciato nel deserto, per denotare 1′ allontanamento dei flagelli meritati. Il sacrificio aveva luogo ogni anno, verso l’autunno, alla festa solenne delle espiazioni.

VIII.

Il grande omicida di essi premura di contraffare questa divina istituzione, ma la contraffece a suo modo: invece del sangue d’un capro pretése il sangue di un uomo. Ascoltiamo i pagani stessi raccontare nella loro calma glaciale l’orribile costume. – Nelle repubbliche della Grecia, e specialmente in Atene, nutrivansi a spese dello Stato alcuni uomini vili, ed inutili. Avveniva una peste, una carestia, o un’altra calamità? Si prendevano due di queste vittime, e s’immolavano per purificare e liberare la città. Queste vittime si chiamavano Demosioi, nutriti dal popolo; Pharmakoi, purificatori; Katharmata, espiatori.

IX.

« Era costume d’immolarne due la volta; uno per gli uomini, ed uno per le donne, a render senza dubbio più completa la parodia dei due capri emissarii. E affinché tutti potessero godere della festa, si sceglieva un luogo acconcio pel sacrificio. Uno degli arconti, o dei principali magistrati, era incaricato di curarne tutti i preparativi, e di vigilarne tutti i particolari.

X.

Il corteggio mettevasi in cammino, accompagnato da cori di musici superbamente organizzati. Durante il tragitto, si percuotevano sette volte le vittime con rami di fico, e con cipolle selvatiche, dicendo: Siate la nostra espiazione ed il nostro riscatto. « Arrivati al luogo del sacrificio, gli espiatori erano bruciati sopra un rogo di legno selvaggio, e le loro ceneri gettate al vento nel mare, per la purificazione della città inferma. « L’immolazione che da principio fu accidentale, addivenne periodica, e ricevette il nome di Feste delle Targelie. La si faceva in autunno, e durava due giorni, durante i quali i filosofi celebravano con allegri banchetti la nascita di Socrate e di Platone. » [Annales de phil. chrèt., luglio 1861, p. 46 e seg.].

XI.

Nella medesima categoria si può annoverare il sacrificio annuale, offerto dagli Ateniesi a Minosse. Gli Ateniesi avendo fatto morire Androgeo, furono assaliti dalla peste e dalla carestia. L’oracolo di Delfo, interrogato sulla causa della doppia calamità, e sul mezzo di mettervi fine, rispose: « La peste e la carestia cesseranno, se voi designerete a sorte sette giovanetti e sette giovanette vergini per Minosse. Le imbarcherete sul mare sacro, in isconto del vostro delitto. Cosi vi renderete favorevole il Nume» [Ex Acnomao, apud Euseb., Præp. evang., lib. V, cap. XIX].

XII.

Questo non è né un’allegoria, né una favola, è un fatto storico attestato dalla doppia testimonianza degli storici pagani, e degli storici cristiani. – Le povere vittime erano condotte nell’isola di Creta e rinchiuse in un labirinto, dove erano divorate da un mostro, mezzo uomo e mezzo toro, che non si nutriva che di carne umana. [Questo mostro era un aborto della natura, alla cui formazione Satana aveva avuto parte. La sua esistenza non è più dubbiosa di quella, per esempio, de’ fauni, di cui parlano Plinio, S. Girolamo, e S. Atanasio.

XIII.

« Chi è dunque questo Apollo (l’oracolo di Delfo), questo Dio liberatore, cui consultano gli Ateniesi? domanda Eusebio agli autori pagani, storici del fatto. Senza fallo, egli esorta gli Ateniesi al pentimento ed alla pratica della giustizia. Ma che importano tali cure per questi eccellenti dèi, o piuttosto per questi demoni perversi? Loro bisognano al contrario azioni del medesimo genere, senza misericordia, feroci, inumane, aggiungendo, come dice il proverbio, la peste alla peste, la morte alla morte. « Apollo ordina ad essi di inviare ogni anno al Minotauro sette giovanetti e sette giovanette, scelti fra i loro figli. Per una sola vittima, quattordici vittime innocenti! E non una sola volta, ma sempre; di maniera che sino al tempo della morte di Socrate, ossia più di cinquecento anni dopo, l’odioso tributo non era ancora soppresso presso gli Ateniesi. Questa fu in effetti la causa del ritardo dell’esecuzione della sentenza capitale pronunziata contro questo filosofo. » [S. Euseb. ibid. lib. V, c. XVIII].

XIV.

Senza contare le Targelie, ecco durante cinquecento anni settemila vittime umane, il fiore della giovinezza ateniese, immolata al demonio! E non si cessa di vantarci la bella antichità: Atene soprattutto, come il tipo inimitabile della civiltà!

CAPITOLO XIII.

I GRECI

(Continuazione)

I.

Non era solamente Atene, la Repubblica modello, che sacrificava vittime umane, ma era tutta la Grecia. Ogni anno al mese di maggio, il sesto giorno della nuova luna, la città di Rodi immolava un uomo a Saturno. Col tempo questa costumanza fu modificata, ma non soppressa. A vece d’un prigioniero, o d’uno schiavo, sacrificavasi un condannato a morte. Arrivata la festa dei Saturnali, si conduceva quest’uomo fuori le mura, in faccia alla dea Aristobula, e lì, fattogli bere del vino, era scannato.

II.

A Salamina s’immolava regolarmente un uomo ad Àgi aura, figlia di Cecrope e della ninfa Aglauride. L’infelice condannato a morte era condotto da alcuni giovani nel tempio della dea, e faceva correndo tre volte il giro dell’altare; dopo la qual cosa, il sacerdote lo feriva di lancia nello stomaco, e consumavalo interamente su di un rogo preparato a tale effetto.

III.

Diciamo di passaggio ciò che aveva luogo in Egitto, il paese dei dotti. Ad Eliopoli gli Egiziani erano usi d’immolare degli uomini alla dea, conosciuta in Occidente sotto il nome di Giunone. Questi uomini erano scelti nella stessa maniera, che i tori sacri; venivano bollati. Se ne immolavano tre nello stesso giorno.

IV.

A Scio, isola dell’arcipelago greco, si squartava un uomo per immolarlo a Bacco; altrettanto si faceva a Tenedo ed a Sparta in onore del Dio Marte. Aristomene, re di Messina, scannò trecento Spartani in onore di Giove d’Itome, credendo che ecatombe di tal fatta e cosi numerose dovessero piacergli. Tra le vittime era anche Teopompo, re di Sparta.

V.

A Pella, città di Tessaglia, s’immolava un uomo dell’Acaia in onore di Peleo e di Chirone. I Lizii, popolo di Creta, sgozzavano un uomo in onore di Giove; i Lesbi in onore di Bacco; ed i Focesi immolavano in olocausto un uomo a Diana. Eretteo Ateniese immolò la sua propria figliuola a Proserpina.

VI.

Oltre queste immolazioni periodiche, gli Ateniesi ne casi d’avversità non esitavano punto, al pari degli altri popoli della bella antichità, di ricorrere, quando gli dèi volevano, ai sacrifici umani. Giunto il momento di dar battaglia alla flotta di Serse, « mentre Temistocle, scrive Plutarco, sacrificava sopra la trireme capitana, gli furono presentati tre prigionieri, bellissimi d’aspetto, pomposamente vestiti, e d’oro adornati, i quali, per quanto se ne diceva, figliuoli erano di Sandauce, sorella del re, e di un principe nominato Artacto.

VII.

« Come Eufrantide, l’indovino, ebbe veduti costoro, nel tempo medesimo appunto che dalle vittime si alzò una gran fiamma lucida e pura, e che si udì uno starnuto a destra, in segno di buon augurio, preso per mano Temistocle, gli ordinò di sacrificare, facendo sue preghiere, tutti e tre quei giovanetti a Bacco Omeste (divoratore di carne cruda); poiché in un tal sacrificio consisteva la salvezza e la vittoria dei Greci. Sbigottissi Temistocle nel sentire un vaticinio si atroce; ma il popolo, siccome addivenir suole ne’ gran pericoli e nelle cose difficili, sperando salvezza piuttosto per i mezzi inusitati e stravaganti, che pei consueti e convenevoli, invocava ad una voce il Nume, e nel punto medesimo condotti i prigionieri all’altare, volle a forza che fatto fosse il sacrifìcio, come ordinato avea l’indovino » [Plutarco, Vita di Temistocle, c. XIII, n. 3]. Lo steso storico Plutarco dice che tutti i Greci immolavano in comune vittime umane, prima di muovere contra i nemici 8 ]Apud Euseb., lib. IV, c. XVI].

VIII.

Quale che siasi 1’origine greca o germanica dei Pelasgi, noi li collochiamo qui, perché abitarono la magna Grecia. Tutti sanno che la magna Grecia era contrada situata all’estremità orientale d’Italia. Colà, come in ogni altro luogo, satana domandava il sangue dell’uomo, e sopratutto il sangue dell’innocenza, « Citerò, dice Eusebio, un testimonio non sospetto della ferocia sanguinaria dei demoni, nemici implacabili di Dio e degli uomini: Dionigi d’Alicarnaso, scrittore versatissimo nella storia romana, da lui tutta abbracciata in un opera scritta colla più grande accuratezza.

IX.

« I Pelasgi, dice egli, restarono poco tempo in Italia, grazie agli dèi che vegliavano sugli Aborigeni. Prima della distruzione della città, la terra era minacciata dalla siccità, di modo che niun frutto maturava sugli alberi. Le biade se germinavano e fiorivano, non potevano però produrre la spiga. Il foraggio non bastava più al nutrimento del bestiame. Le acque perdevano la loro salubrità, e delle fontane quali diseccavano nell’estate, quali per sempre.

X.

« Una sorte simile colpiva gli animali domestici e gli uomini. Perivano pria di nascere o poco dopo la nascita. Se alcuni scampavano alla morte, erano sopraffatti da infermità o da deformità d’ogni maniera. Per colmo di mali, le generazioni pervenute al loro intero sviluppo, erano in preda a malattie ed a mortalità, che sorpassavano tutti i calcoli di probabilità. – « In tale strettezza, i Pelasgi consultarono gli oracoli per sapere quali déi loro inviavano queste calamità, per quali trasgressioni, ed infine per quali atti religiosi potevano sperarne la cessazione. Il dio diede quest’oracolo: Ricevendo i beni che avevate domandati, non avete reso quel che avevate fatto voto d’offrire; ma ritenete presso di voi i più preziosi ». Infatti, i Pelasgi avevan fatto voto d’ offrire in sacrifizio a Giove, ad Apollo ed ai Cabiri la decima di tutti i loro prodotti.

XI.

« Allorché quest’oracolo fu loro annunziato, non poterono comprenderne il senso. In tale perplessità uno dei vegliardi lor disse: Voi vi ingannate a partito, se pensate che gli dèi vi richiedano ingiuste restituzioni. È vero che voi avete dato fedelmente le primizie delle vostre ricchezze, ma nulla avete dato dell’umana generazione, ch’è l’offerta più preziosa per gli dèi. Se soddisfate a questo debito, gli dèi si placheranno, e vi saranno propizi. – « Gli uni trovarono questa soluzione pienamente ragionevole, gli altri ci videro sotto una insidia. In conseguenza proposero di consultare il Nume per sapere se veramente conveniva a lui di ricevere la decima degli uomini. Deputano dunque una seconda volta dei ministri sacri, e il Nume rispose affermativamente.

XII.

« Ben tosto si levarono delle difficoltà fra essi pel modo di pagare questo tributo. La dissensione ebbe luogo primieramente tra i capi delle città; poscia scoppiò fra i cittadini, che supponevano causa di ciò i magistrati. Città intere furono distrutte, una parte degli abitanti abbandonò il paese, non potendo sopportar la perdita degli esseri, che loro erano più cari, e la presenza di coloro che li avevano immolati. – « Tuttavia i magistrati continuarono ad esigere rigorosamente il tributo, parte per essere accetti agli dèi, parte per timore d’essere accusati d’aver risparmiate delle vittime; sino a che la razza dei Pelasgi, trovando la sua esistenza insopportabile, si disperse in lontane regioni. » [“Multæ propterea migrationes, quae Pelasgam gentem varias in terras longe lateque deportarunt”. Dion. D’Alicarn., Storia, lib. I]. – Ecco quel che prima della predicazione del clericalismo avveniva presso i Greci tanto celebrati. Ed oggidi vogliono sterminarlo! E si dice che tutte le religioni sono egualmente buone!