RIFLESSIONI SUI NOVISSIMI E L’ETERNITÁ

RIFLESSIONI SUI NOVISSIMI E L’ETERNITÁ

[da: Il giardino spirituale; Napoli 1903 – imprim.]

I.—Sopra la morte.

.1. Il primo de’ Novissimi é la Morte, e felice quel cristiano che non la perde mai di vista, e che procura di esser tale, quale vorrebbe trovarsi in quel punto estremo, decisivo di una Eternità, o felice, o disperata per sempre. Anima mia, pensaci spesso, che questo è l’unico preservativo per vivere da buon Cristiano e salvarsi.

2. La morte è certa, ma il tempo, il luogo, la Maniera tutte le sue circostanze sono incerte. – Soltanto so che ho da morire, ma quando, o pur di qual male e di qual accidente, questo punto nol saprò: Iddio così ha ordinato affinché io stia vigilante, e sempre pronto a comparirgli davanti. Dunque devo vigilare di continuo sopra di me stesso, e pregar sempre la divina bontà acciò mi usi misericordia.

3. La morte è certa, ed è certo altresì che una sola volta debbo morire: e se questa volta io muoio male, cioè in peccato, allora è finita per me qualunque speranza di rimediare al mal fatto, resterò eternamente col peccato nell’anima, per conseguenza nemico di Dio, ed eternamente rinchiuso nell’orribile carcere dell’inferno; oh! quanto dunque è importante, anzi importantissimo il morir bene ! E perciò domanda spesso al Signore, e con molte lacrime, questa grazia, perché errato che si è una volta, si errato per sempre.

II.— Morte del Peccatore

.1. Ridotto che sarà il povero peccatore al punto terribile della morte, si vedrà circondato da innumerevoli demoni, i quali pieni d’ira pel poco tempo che loro resta, fanno tutti gli sforzi per assicurarsi di quell’anima; e per riuscirvi, e con forti tentazioni, e con incitamenti alla disperazione, combatteranno il povero moribondo per vincerlo e farne loro preda. Ora se in vita egli non ha resistito alle piccole tentazioni, come resisterà allora?

2. Il demonio rappresenterà al povero moribondo in un punto tutti i peccati commessi dacché ebbe l’uso di ragione; ed a questa vista, oh! Come tremerà egli! Non vorrebbe vederli, ma sarà dalla propria coscienza a rimirarli senza perderli mai di vista: egli allora vorrebbe tempo per piangerli, e poi farne vera penitenza, e questo tempo non avrà: allora il misero piangerà, ma inutilmente, tanto tempo perduto. Or chi mai potrà concepire la confusione, in cui si troverà?

3. Qual pena e qual timore semini il peccatore moribondo nel vedersi già prossimo a dover passare all’eternità, assediato da tanti demoni, colla storia luttuosa della sua vita innanzi agli occhi. Oh Dio! ed in qual costernazione si troverà egli! Temerà, e con ragione, di cadere tra pochi momenti nelle fiamme infernali, e dirà: Io ho errato. Ah! se vuoi evitare una tal morte, fa adesso ciò che allora non potrai.

III.— Stato del corpo morto.

.1. Immaginati di vedere un corpo morto. Oh Dio! che spettacolo funesto! ei più non vede, non parla, non ha moto, né sentimento alcuno, egli è così contraffatto, pallido, deforme, schifoso e puzzolente, per esser prossimo a corrompersi, che fa fuggire ognuno, e non ispira altro che orrore e spavento. Oh! che capitale dunque di umiliazioni ti porge una tale riflessione! E pure 1′ uomo superbo non sa umiliarsi!

2. Ei lascia per sempre i beni , le case, i mobili e quanto ha in questo mondo, ed altro non porta al sepolcro che una veste lacera! Resta solo in una stanza, abbandonato da tutti per l’orrore, ed appena si trova, e con ribrezzo, chi gli fa la carità di vestirlo; e tutte le possessioni in altro non consistono che d’esser posto in una fossa, dove sarà coperto di vermi. E questo spettacolo non è bastante a farti ravvedere?

3. Se vuoi quindi contemplare quel cadavere, apri quella fossa e miralo, che già è divenuto un marciume puzzolente, schifoso, putrefatto; in quella marcia si generano i vermi, i quali s’impadroniscono di tutto il corpo; sicché tra poco quel cadavere diverrà un arido scheletro, che poi si ridurrà in polvere. In questo ritratto vedi te stesso, e quello che sarai fra breve. Pensaci seriamente.

IV.— Giudizio particolare.

.1. Separata che sarà l’anima dal corpo, subito sarà presentata al divin tribunale di Cristo Giudice per ricevere la finale sentenza. Alla sinistra vede il demonio, che ride e sghignazza aprendole in faccia un gran volume, acciò legga tutti i suoi peccati: alla destra vede l’Angelo suo Custode mesto e turbato, che le manifesta come un piccolo libro quel poco di bene che fece. Oh! che comparsa orribile. Che pentimento, ma inutile pentimento avrà allora dei suoi peccati.

2. Il mio esame sarà minutissimo sopra tutti i peccati commessi con pensieri, parole ed azioni. I demoni che m’istigarono, mi accuseranno; i compagni che io sedussi, mi accuseranno; la mia stessa coscienza, che mi avvisò con tanti interni rimorsi, mi accuserà; e Cristo Giudice, che fu testimonio di tutte le mie iniquità, me ne domanderà strettissimo conto. Dove fuggirò allora?

3. La mia sentenza sarà irrevocabile; non vi sarà scusa, né supplica e né appellazione: appena profferita la sentenza, se sarà di gloria, subito l’anima sarà accompagnata dagli Angeli con festa in Paradiso: se poi sarà di pena, sarà all’ istante dai demoni trascinata all’Inferno. Oh! che orrenda pena sentirà il misero peccatore al primo tocco di quelle fiamme eterne! Da quale disperazione sarà preso! Deh meditatelo con attenzione!

V.— Segni del Giudizio universali.

.1. I segni che precederanno questo Giudizio saranno terribili: il sole si oscurerà, la luna si eclisserà, le stelle cadranno giù dal cielo; tutti i corpi celesti si sconvolgeranno, il mare in tempesta muggirà, la terra si aprirà in profonde voragini, guerre, pestilenze, etc. E quale spavento non sentiranno allora i poveri peccatori!

2. S. Girolamo ogni qualvolta pensava al Giudizio tremava dal capo ai piedi. Il Nazianzeno disse che il timore del futuro Giudizio non gli permetteva di respirare: e così ancora si legge di vari altri Santi. Il Vangelo poi dice che gli uomini diverranno quel gran giorno intisichiti per il timore di ciò che sopravverrà all’universo. E tu, anima mia, che dici? se non temi, guai a te! è segno questo, che o non ci credi, o hai perduto il cervello.

3. Pioverà fuoco dal cielo e si distenderà sulle quattro parti del mondo, e si dilaterà in un mare sterminato di fiamme, che infine consumeranno ed inceneriranno piante, animali, campagne, città, palazzi: quanto vi sarà nel mondo tutto diverrà un mucchio di cenere.

VI.— Giudizio universale.

.1. Peccatore, adesso fa quel che vuoi, ma verrà un giorno in cui Dio farà ciò che vorrà, e questo giorno sarà quello del Giudizio finale. Allora tutti al suono della tromba risorgeranno e ripiglieranno i loro corpi, e cosi in anima e corpo compariranno avanti al tribunale della divina Giustizia nella gran Valle di Giosafat, per essere giudicati. Allora tutti, pieni di costernazione e di timore, piangeranno, e sbalorditi tremeranno dal capo ai piedi per ciò che loro avverrà.

2. Peccatore, quale sarà la tua confusione in quel giorno, quando Dio ti metterà avanti gli occhi tutti i tuoi peccati, cioè le ubriachezze, le mormorazioni, le bestemmie, i furti, le disonestà, ecc.. in cui senza mai emendarti, t’immergi con grande offesa di Dio, e disgusto del tuo Angelo Custode. Ed allora di qual orrendo rossore arderà il tuo volto?

3. Profferita la finale sentenza, i giusti andranno in anima e corpo a godere Dio nel Cielo, e i peccatori ancor èssi in anima e corpo saranno gettati nel fuoco dell’Inferno e penarvi per sempre in compagnia dei demoni, nemici implacabili del genere umano: « Ibunt hi in supplicium æternum, iusti autem in vitam æternum. » Cosi finirà tutto. Gran punto è questo! Punto da farci incanutire per lo spavento, anche prima dell’età. Pensateci.

VII.— Sopra l’Inferno.

.1. L’Inferno è una radunanza d’infelici, di scellerati, di gente senza pietà, è una prigione piena di disperati e furibondi, di uomini vendicativi e sanguinari, sempre pieni di odio, di rabbia, etc. L’Inferno è un carcere orribile pieno di demoni, i quali ad altro non attendono che a straziare ed a tormentare sempre quei miseri dannati. Oh! Che luogo infame! che società orribile!

2. Le pene dell’Inferno sono senza numero, sono eccessive ed intollerabili. Atrocissima è quella del fuoco, in comparazione di cui il nostro è una ombra; e questo fuoco in un istante s’insinua per tutto il corpo del dannato; ed all’ardore di questo fuoco bollono gli umori, il sangue nelle vene, il cervello nel cranio, le viscere tutte, e sin le midolle nelle ossa. Or pensate se potete abitare « cum igne devorante, et cum ardoribus sempiternis. »

3. La pena della soffocazione sarà oltremodo orribile nell’Inferno, perché tutt’i dannati staranno ammucchiati, gli uni sopra degli altri, strettamente a guisa di uve premute sotto al torchio dell’ira di Dio; ed il dannato come cadrà nell’Inferno, così resterà immobile, e si sentirà soffocato per tutta la Eternità, senza poter mai muovere un piede, né una mano, senza potersi voltare dall’altro lato. Oh Dio’ e come farà un tale sventurato?

VIII.— Pena del senso che si soffre nell’Inferno.

.1. Così la fame come la sete sono un tormento il più insoffribile in questa vita, in modo che se uno starà per pochi giorni senza cibo, muore da disperato. Or quale sarà quella de’ dannati, i quali soffrono una fame canina, ma più di tutto, una sete ardentissima, senza poter avere in eterno un boccone di pane, né una stilla di acqua, e per la gran fame son costretti ad addentarsi le proprie carni. Oh! fame infernale, quanto sei insopportabile! Adesso nessuno pensa a te; ma bensì alle crapule ed alla golosità! Oh pazzia, dei mondani! –

2. Quale orrore mai io avrei se udir potessi le grida spaventevoli di milioni di condannati all’Inferno, ì quali, tra urli e gemiti da disperati, non fanno altro che bestemmiare e maledire Dio, l’umanità santissima di Gesù Cristo, Maria santissima, i Santi avvocati, etc. Malediranno ancora là in mezzo a quelle fiamme i loro genitori ed il giorno che nacquero. Qual vita da demonio sarà mai questa! Qual disperazione! Ah mio Dio, usatemi misericordia! –

3. La densità delle tenebre affliggerà, e la quantità del fumo chiuso là nell’Inferno, crucierà in modo i poveri dannati, che piangeranno dirottamente ed urleranno disperatamente. Oh! che spavento sarà ancora l’aver sempre ai lati demoni bruttissimi ed in vari modi orribili, che tormentano, percuotono, insultano, etc. Cercate dunque di chiudere i vostri occhi ad ogni oggetto pericoloso, per non piangere poi inutilmente per tutta l’Eternità nell’inferno.

IX.— Pena del danno.

.1. Anima mia, leggi e con riflessione, e di’ a te stessa: perdere Dio, e perderlo per sempre, senza speranza di mai più ricuperarlo: perdere Dio, e perderlo per colpa propria, e perderlo per non vederlo mai più. Oh! che pena è mai questa! Perdere Dio, sommo Bene, e perché? pel desiderio che io ebbi di godere, e per l’aborrimento che io ebbi al patire. Oh me sventurato! come farò se andrò dannato? starò senza Dio per una Eternità!

2. Fremono per lo sdegno, e si disperano quegli infelici nell’Inferno per aver avute tante belle occasioni di salvarsi, ed averle disprezzate; per aver avuto tanto tempo di salvarsi, ed averlo speso per dannarsi. Si ricorderanno dei piaceri passati, si conturberanno e diranno tra sé: E come! per poche soddisfazioni prese, per un piacere momentaneo, abbiamo perduto il Paradiso, l’anima e Dio per sempre! Oh per quanto poco potevamo salvarci ! e questo poco non l’abbiamo mai fatto, perché l’abbiamo sempre differito, abbiamo fatto i sordi alle divine voci. Guai a me, se a queste riflessioni io non mi ravvedo!

3. Se l’Inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno, e questo è il tormento maggiore dei dannati, l’eternità delle pene, la quale è di fede. O Eternità, sei pure spaventevole, Eternità, che sempre duri! O Eternità chi mai ti può capire!

X.— Sopra il Paradiso.

1. Se la minaccia dell’Inferno non ti ha persuaso o anima mia, a mutar vita, forse ti arrenderai alla promessa ed al premio del Paradiso. Dove al primo entrare avrai tutt’i beni senza mescolanza di alcun male; là godrai tutt’i contenti, senza un minimo patimento, in compagnia di Gesù Cristo, di Maria Santissima, e di tutti gli Angeli e Santi del Paradiso. Oh! che bella è consolante conversazione sarà mai questa! E qual ineffabile godimento si avrà in quella celeste Sionne!

2. Il maggiore di tutti i contenti, e la più viva di tutte le delizie dei beati nel cielo, è vedere, amare e benedire Dio. Oh! come stupirai, anima mia, allorché vedrai la grandezza, la santità, la bontà infinita di questo Dio! ed a questo Dio l’anima beata starà sempre unita e trasformata in Lui, in modo che parrà sia divenuta un altro Dio. Deh ! rallegrati di tanta bontà del Signore, e nei patimenti e nelle pene di questa vita alza gli occhi al cielo, dicendo: Paradiso, quanto sei bello! tu sarai la patria mia, se mi uniformerò sempre, ed in tutto alla divina volontà.

3. Se vuoi salvarti, anima mia, due strade vi sono: l’innocenza e la penitenza. Per la strada dell’innocenza, non puoi, perché l’hai perduta pel peccato; per la strada della penitenza, non vuoi; come dunque devi salvarti? Mortificati e fa penitenza dei tuoi peccati, altrimenti non ci è perdono per te né speranza di Paradiso. L’intendi? E se l’intendi, perché non metti la mano all’opera? Pensa seriamente che si tratta d’un Paradiso eterno!

I NOVISSIMI

Mortal, ricordati

Che dèi morire,

E del gran Giudice

Tu devi udire

La tua sentenza

A pronunciar.

Se pura hai l’anima

Nel cielo andrai;

Ma se colpevole

Allor sarai,

Nel fuoco eterno

Dovrai piombar.

Mortal, deh pentiti

Che Dio t’invita.

Pensa che l’ultimo

Della tua vita

Questo momento

Forse sarà.

A queste immagini

Cosi tremende,

Chi può resistere,

Chi non s’arrende

Perduto ha il senno

Nell’empietà.

AVVERTIMENTO SULL’ETERNITÀ

Sappi, o divoto lettore, che chi entra una volta nell’ Inferno, non ne uscirà mai più, perchè questo luogo si chiama Casa di eternità: Domus æternitatis; e nel Vangelo di S. Giovanni si legge: “Ibunt hi in supplicium æternum”, E chi mai potrà col pensiero concepire che cosa sia Eternità? Ma ti Sei mai fissato di proposito a considerare ciò che dir voglia Eternità di pene? O Eternità! chi ti può capire? Dimmi un poco, se tu avrai la disgrazia di dannarti, come farai? Allora a chi ricorrerai? Ti figuri forse esser ciò impossibile a succederti ? E si ora tu fossi colpito dalla morte, che la Scrittura ci dice che viene come un ladro, “tamquam fur”, e ti trovassi in disgrazia di Dio, non saresti precipitato certamente nell’Inferno? Questa lusinga quanti ne ha precipitati negli abissi giacché per esser loro venuta buona, per tanto tempo, nel quale Dio gli aveva aspettati a penitenza con tanta pazienza, si son lusingati che gli avrebbe in avvenire anche sopportati, e frattanto si son veduti all’ improvviso assaliti dalla morte, ed ora si trovano ad urlare e gemere nelle fiamme dell’Inferno, senza speranza di più uscirne. Ad un tal riflesso trema dal capo ai piedi e procura che non succeda anche a te questa disgrazia, come di fatti è succeduta a tanti ingannati cristiani, i quali, perduti dietro le cose presenti, non hanno pensato seriamente all’Eternità delle pene. Procura tu, o caro mio lettore, di meditarla spesso, e prendila per regola della tua vita e della tua condotta. Ah! se avessi vivamente presente, che dopo questa vita vi è una Eternità inevitabile, che sarà per te o un colmo di felicità o un abisso di miserie, e dicessi fra te stesso, come s. Ambrogio: “in hanc, vel illam æternitatem vadam necesse est”, certamente non differiresti tanto a convertirti, e a darti di vero cuore a Dio. O Eternità! esclama S. Agostino, o Eternità! e si può pensare a te, senza pensare anche a far penitenza? Oh! questo non si può mai, almeno quando non si abbia perduto la fede, o non si abbia più cuore nel petto. “O æternitas, qui te cogitat, nec poenitet, aut certe fidem non habet aut si habet, cor non habet”. Se queste verità saranno impresse vivamente nel tuo cuore, penserai senza meno a servire Dio, starai sempre unito a Dio e nel tempo e nella beata Eternità.

Riflessioni sull’ Eternità.

Oh quanto lunga! quanto profonda! quanto immensa! quanto beata o misera è la signora di tutti i secoli, l’interminabile e sempre vivente eternità! O uomini mortali, che avete anima immortale, studiate, meditate, pensate attentamente questa gran parola: eternità! –

O Eternità! quanto sei lontana dal pensiero degli uomini: quanto di rado gli uomini pensano a te: Eternità

O Eternità! che potrò dire di te? In che modo ti esprimerò? E chi mai intenderà ciò che vuol dire eternità?

Io penso mille anni, e centomila, e cento milioni di volte mille anni, ed altrettanti milioni di mille anni, quante foglie e germogli di erba sono sulla terra, quanti grani di arena e gocce d’acqua sono nel mare, atomi nell’ aria e stelle nel firmamento: e non ho ancora incominciato a dire ciò che significa questa parola eternità.

Eternità! Oh Eternità di Paradiso! Chi non ti ha da volere?

Oh Eternità d’Inferno! Chi non ti ha da temere?

Che voglio io dire? Non lo posso, e non posso neppur pensarvi: lino a che Dio sarà Dio l’Inferno durerà. Ma quanto tempo, e fino a quando? Per sempre: per una eternità. Sempre! Mai! Eternità! . I piaceri passano; e le pene dei piaceri sono eterne. Le afflizioni passano; e le ricompense dureranno eternamente. Scegliete: o il piacere di un momento e la pena dell’Eternità, o la pena di un momento ed il piacere dell’Eternità. L’Eternità dipende dalla morte; la morte dipende dalla vita; la vita da un momento; da un momento dipende l’Eternità.

Conversione dell’anima a Dio.

Piangi, anima mia, detesta i tuoi peccati, lascia le tue iniquità, innalzati verso il tuo centro, e non differire più la tua conversione. Mira quel fuoco tormentosissimo acceso dal furore di un Dio Onnipotente, per vendicarsi di te per tutta l’Eternità, se ora disprezzando le sue chiamate paterne, non ti lascerai accendere dal dolcissimo fuoco del suo amore. Il passato più non è, l’avvenire non è in tuo potere, ed il presente non è che un momento a te accordato per servire a Dio, guadagnarti la beatissima Eternità, e scansare l’infelicissima Eternità. Comprendi bene e pesa la forza di queste parole:

UN DIO! UN MOMENTO! UNA ETERNITÀ!

Un Dio, che ti vede.

Un momento, che ti fugge.

Un’Eternità, che ti attende.

Un Dio, che è tutto.

Un momento, che non è niente.

Un’Eternità,che è la felicità,o l’infelicità per sempre.

Un Dio, che tu servi sì male!

Un momento, di cui ti approfitti si poco.

Un’Eternità, che tu rischi sì facilmente.

 

O DIO! O MOMENTO! O ETERNITÀ!

O mio Dio! io mi presento dinanzi a voi con un sincero pentimento dei miei falli. Io vi adoro con umile sommissione. Io credo in Voi e nell’ Eternità. Io spero in Voi e da Voi una felice Eternità. Io vi amo con tutto il mio cuore, e per tutta l’Eternità. Io mi sottometto a tutto ciò che vi piacerà qui ordinare di me. Bruciate, segate, tagliate, purché voi mi risparmiate nell’ETERNITÀ. Accordatemi, Dio Onnipotente ed infinitamente buono, le grazie necessarie per servirvi fedelmente in vita, e possedervi per tutta 1′ ETERNITÀ.

O Maria, Madre dell’eterna benedizione, fate che benediciamo il vostro divin Figliuolo, e nostro amabilissimo Gesù per tutta l’ETERNITÀ. Così sia.

De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. XLI-XLIV]

XLI.

NON BISOGNA ESSER BIGOTTO.

R. Eh! senza, dubbio, non bisogna esser bigotto! Chi vi parla di ciò? Il bigottismo non è la religione, esso ne è l’abuso. I difetti delle persone, che in tal modo abusano della religione, ordinariamente per ignoranza, non devonsi ad essa imputare. Si abusa di lei come si abusa di tutte le cose buone. Bisogna rigettare l’abuso, e conservare l’uso. Bisogna essere devoto: non bisogna esser bigotto. Dio ama l’uno, e non ama l’altro. Egli vuol vedere nel nostro cuore la devozione, cioè la prontezza al suo servizio, prontezza per i doveri che impone, e per l’amore alla sua legge; ma non vuol vedere il bigottismo,cioè queste smanie, queste abitudini meschine o superstiziose della Religione, che spesso sostituiscono al principale l’accessorio, e prendono i mezzi pel fine. Tuttavia, convien dirlo, che questi abusi della religione non sono né cosi grandi, né così odiosi come si vuol pretendere. – Ordinariamente non fan male a nessuno e non nuocono che a quelli che li commettono. Quei che vi cadono sono persone (donne per lo più; gli uomini sono meno portati a questi difetti) poco illuminate,che si stancano che s’impacciano in pratiche esteriori buone in sé ma troppo moltiplicate; che hanno modi singolari d’agire; che si angustiano la coscienza col timore di operar male: che s’accendono per un zelo mal inteso quando sarebbe meglio tacere ecc. Ecco che cosa è il bigottismo. È un difetto; ma piaccia a Dio che giammai vi sia altro abuso sulla terra! Quelli che declamano contro il bigottismo, quei che s’indignano per queste ridicolezze, mi rammemorano quel tale che condannato ai lavori forzati perpetui per un orribile assassinio, si sdegnava perché gli si era dato alla galera per compagno di catena… un Son ben più da condannarsi di quelli che essi riprendono. – Il loro libertinaggio, la loro condotta, la loro dimenticanza dei più sacri doveri, la loro ignoranza religiosa, ì loro discorsi impudichi, i loro esempi, ecc. ecc., tutte queste cose non sono esse abusi?E sovente non sono anche delitti? – La loro intera vita è un abuso; e l’abuso della devozione è il solo, io credo, di cui non sono colpevoli. Non sarebbe meglio, domando, che avessero questo solo e non gli altri? Non siate dunque bigotto, ma cristiano e buon cristiano. Amate Dio, serviteLo fedelmente, osservate tutti i suoi comandamenti, adempite per piacere a Dio tutti i vostri doveri, e siate docile agli insegnamenti dei ministri di Gesù Cristo.

XLIl.

LA VITA CRISTIANA È TROPPO FASTIDIOSA, È TROPPO TRISTE PRIVARSI DI TUTTO, AVER PAURA DI TUTTO: CHE VITA!

R. Eh! là là! piano piano, mio buon amico! non vi spaventale così presto! Non vi obbliga a temere tutto ed a privarvi di tutto. » Voi vi esagerate le cose; se la legge dell’evangelio è un giogo, nostro Signor Gesù Cristo che ce lo impose, ci dichiara Egli stesso a che questo giogo è dolce, che questo peso è leggero. » Conoscete senza dubbio dei buoni cristiani. Hanno essi forse l’aspetto sì triste, sì spiacevole, sì sgraziato? Tutti quelli che conosco, hanno al contrario un non so che dì piacevole, d’onesto, di gaio, sul volto; solo il vederli anima al bene. Io non nego che sia d’uopo per essere un vero cristiano, vegliare sopra se stesso ed evitare certi piaceri illeciti e dannosi. Io non nego che la lotta della volontà contro le passioni, non sia qualche volta difficilissima. Ma trovatemi uno stato di vita senza lotta e senza sacrifici! Per apprendere il vostro stato, per guadagnarvi la vita non è forse d’uopo che vi affatichiate e molto? Anche per divertirsi bisogna ordinariamente imporsi qualche sacrificio…. E si vorrebbe che la più grande, la più importante, la sola necessaria tra tutte le cose, che è l’opera della salute eterna, non costasse niente! Ciò è impossibile. Il mondo vede i Cristiani pregare, fare penitenza, imporsi dei sacrifici, dare ciò che hanno ai poveri, soffocare le loro passioni, privarsi dei piaceri del senso, e fare tali e tali altre cose che gli fanno parere questa vita sgradevole e rigorosa. – Ma ciò non n’è che la corteccia. Penetrate nell’interno, e vedrete il cuore giulivo e magnanimo che rende, facili anzi gradevoli questi sacrifici in apparenza sì penosi. – Un buon figlio che si priva di qualche cosa per sua madre, non è egli contento delle privazioni che si impone? La pietà cristiana cambia in dolce ciò che è amaro nella pratica del dovere, come le api che cambiano in miele il sugo amarissimo ch’esse raccolgono sul fiore del timo. Gustate e Bisogna provarle queste cose; le parole non le possono far comprendere a chi non ne ha l’esperienza. A tal fine forse voi non avete che a portare il pensiero ai giorni della vostra infanzia. Son pochi gli uomini, che non abbiano gustato questa pura contentezza dell’amore di Dio al grande e solenne momento della loro prima Comunione… Voi allora eravate felice!… Perché? Perché eravate puro, casto, dato al bene, in una parola perché eravate Cristiano. Ritornate a questo stato e ancora sarete felice. Il Dio della vostra infanzia non ha cambiato… come voi, eh! Egli vi ama sempre, ed aspetta il ritorno del suo figliuolo prodigo. Non abbiate paura di Lui; è desso l’amabile Salvatore, è il rifugio dei peccatori pentiti: Giammai, Ei disse, giammai Io rigetterò colui che viene a me! Addossatevi questo giogo dolce e leggero della vita cristiana, e troverete il riposo, la pace del cuore, la vera gioia in questo mondo, e dopo morte l’eterna felicità del cielo.

XLIII

BISOGNA LASCIAR PASSARE LA GIOVENTÙ

R. A far che? Sciocchezze? a ber vino? a perder l’anima, l’onore, la sanità, il denaro con libertini? a far ciò, che Dio proibisce di fare? Ecco al certo una ben strana morale! E non so da qual parte del vangelo, od anche dal buon senso sia stata dedotta! Si, bisogna lasciar passare la gioventù; ma è necessario che passi come tutta la vita nella pratica del bene, nella fuga del male, nell’adempimento del dovere. La sola differenza tra la gioventù e la vecchiezza consiste in ciò, che la gioventù ha più di vivacità e di forza, e che perciò deve fare il bene, con più zelo, più ardore, più prontezza. Sì, bisogna che la gioventù passi in guisa da essere onorevole avanti Dio e avanti gli uomini; per essere il preludio d una vecchiaia rispettabile e benedetta da Dio: per preparare di lontano in messe, che l’anima raccoglierà al giorno della sua partenza sulle soglie dell’eternità. Non vi ha nulla al mondo, che più rapisca, che una gioventù santa e pura. Non vi ha nulla di più bello, di più commovente, di più amabile d’un giovane casto, modesto, laborioso, fedele a’ suoi doveri! Oh! se la gioventù cristiana conoscesse ciò che essa è!… per nulla al mondo vorrebbe perdere la sua gloria! Perduta una volta non può più ritornare. Il pentimento ha le sue dolcezze, ma non è più l’innocenza! Oh se conoscesse la gioventù, se potesse la vecchiaia!

XLIV.

PIÙ TARDI PRATICHERÒ LA RELIGIONE, QUANDO NON AVRÒ PIÙ TANTI AFFARI. MI CONFESSERÒ PIÙ TARDI.  ALLA MORTE. CERTAMENTE NON MORRÒ SENZA SACRAMENTI.

R. Più tardi? — Certamente?

Sì, se v’ha un più tardi per voi, e se voi n’avete i mezzi al punto della morte, ciò che certamente è in dubbio. Quanti han detto come voi: « Domani, più tardi » per cui non vi ebbe più, che il giudizio e l’eternità!… Quanti han trascurato di confessarsi, quando facilmente il potevano, e non lo poterono fare quando l’avrebbero desiderato! Voi vi confesserete alla morte? Ma se Dio mette la morte avanti la confessione? « Oh! rispondete voi, .egli è misericordioso. » — Sì: e perciò Egli oggi vi offre un perdono, che non meritate. Ma Colui che ha promesso il perdono al peccatore penitente non gli ha promesso il domani. Ben all’opposto lo ha avvertito di tenersi sempre sulla vedetta perché la morte sarà mandata all’improvviso… Ascoltate il maestro ed il giudice: « A tutti il dico, vegliate! — State preparati, perché il Figliuol dell’uomo verrà in quell’ora che non pensate… Sì, il Signore verrà in un giorno, in cui non l’aspetterete, e nel momento, che ignorate; e rigetterà il servo infedele… Si è allora che vi sarà pianto e stridor di denti… » (s. Matt. c. XXIV). Qual follia metter a rischio l’eternità con un forse! Un giovane aveva abbandonato per trascuranza i suoi doveri religiosi. Tuttavia conservava la fede, e ragionava come voi: io mi confesserò più tardi; ad ogni costo non vorrò morire senza sacramenti. Egli cade gravemente ammalato. Sua madre gli parla dell’anima sua, di un prete, di confessione… Esita, e differisce. Il male peggiora. Finalmente si decide. Si corre a cercare il prete; era di notte. Era stato chiamato presso un altro malato… si passa qualche tempo nel cercarlo; finalmente si trova. Accorre in tutta fretta… Era troppo tardi!… Una crisi aveva tolto di vita l’infelice; moriva in un’orribile disperazione! Gli esempi di morti improvvise totalmente Impreviste, sono quotidiani. Egli è poco tempo (1849) un operaio padre di famiglia, e membro della società di mutua assistenza di s. Francesco Saverio, cadde dall’altezza di alcuni piedi sopra il lastrico della via de Vaugirard, a Parisi. Restò sul colpo. Non poté neanche mandare un grido!— Egli aveva capito l’avvertimento del Vangelo…si confessava e si comunicava ogni otto giorni. Se vi accadesse lo stesso in questo giorno, sareste voi pronto, come egli, ad entrare nella vostra eternità? Più recentemente ancora un uomo passava nella via di… vacilla e cade. Vien tosto circondato e portato in una vicina bottega. Si chiama un medico; egli esamina e dichiara che la morte era stata istantanea, anche avanti che l’infelice fosse interamente caduto a terra. Costui non era punto apparecchiato!… Dopo ciò, contate sul domani per salvarvi! Dopo ciò, parlatemi di più tardi! dopo ciò dormite tranquillo con questo pensiero: Io mi confesserò certamente alla morte! – Un fattorino aveva fatto da qualche mese la sua prima Comunione. Aveva preso una sola risoluzione, ma l’aveva presa seriamente: « Se vengo a cadere in un peccato mortale, andrò a confessarmi, avanti dì coricarmi, lo stesso giorno. » Questa disgrazia gli accadde. Era un sabbato; faceva tempo cattivo. Il prete stava lungi. Dice tosto fra sé: « Andrò a confessarmi fra alcuni giorni, ma la sua promessa gli passava per la memoria ed un non so che gli diceva: Fa ciò che hai pròmesso: vatti a confessare. Egli esitava. In questo combattimento interiore si mette a ginocchi, e dice un’Ave Maria per ottenere la grazia di conoscere la volontà di Dio…. La preghiera è la salute dell’anima… Si alza, e si mette in cammino. Al suo ritorno, incontra una signora, che gli domanda d’onde viene; colla gioia sul viso glielo racconta e le dice, che va a dormir in pace avendo ricuperata l’amicizia di Dio. Sua madre aveva l’usanza di lasciarlo in letto un poco più di tempo alla domenica che agli altri giorni. Secondo la sua usanza dunque essa non lo sveglia che a sette ore, picchiando alla porta della sua cameretta, e chiamandolo. Un quarto d’ora dopo Paolo dormiva ancora. La madre lo chiama di nuovo, e resa impaziente per non aver risposta, entra nella camera: «Su, pigro! sono ornai le sette e mezzo, non hai tu vergogna!… » Si avvicina al suo ragazzo, che non si moveva… gli prende la mano, la trova agghiacciata… Spaventata sta attonita . . . e mandando un grido spaventevole, cade a terra svenuta… Il fanciullo era morto, ed i1 suo cadavere già freddo!! Felice di non essersi rimesso al più tardi! di non essersi rimesso solo al dimani!! Voi che leggete questo libro, possiate essere altrettanto savio e fare lo stesso.

CONCLUSIONE

Mio caro lettore, forse voi udirete nel mondo, nelle officine, nei giornali sollevare altre difficoltà contro la religione. Noi qui non abbiamo notato che le più popolari. Quali esse siano, io vi do parola, che non sono che sofismi, cioè ragionamenti che hanno l’apparenza del vero, ma che peccano per qualche punto.— Contro la verità non si può aver ragione. – Se alcuna di queste obbiezioni vi colpisce, credetemi, andate a trovar qualche buon prete (grazie a Dio, fra noi non ne mancano); e state certo anzi tutto, che benevolmente vi accoglierà. Esponetegli francamente la vostra difficoltà; egli ve ne farà conoscere la soluzione. – Cercate d’istruirvi nella religione: più si conosce, più si ama, e più si ama, più si pratica. Molti l’attaccano, perché non la conoscono. Essi se la figurano lutt’altro da quello che è, ed hanno da ciò bel giuoco per burlarsene. Io auguro, che i miei discorsi con voi siano utili alla vostr’anima. —Rileggete, e meditate i punti, che vi fanno ancora difficoltà. Se gli argomenti che vi do, vi sembrano insufficienti, siate ben persuaso, che la colpa è solamente mia, non già della santa causa della verità, che ho voluto difendere. La necessità d’esser brevissimo nelle mie risposte e il povero mio ingegno, sono le sole cause della debolezza della difesa. Potessi io tuttavia esservi riuscito! Potessi aver aumentato nel vostro cuore il rispetto per la fede, l’amore per la virtù, lo zelo per la vostra salute; questa è tutta la mia pretensione in questa operetta! . . . Avrei faticato per la vostra felicità ed il mio libro sarebbe una buona azione. Prego Iddio di benedirlo, di benedir voi e di benedir me stesso. E con ciò vi lascio, mio caro lettore: a rivederci, come spero, in paradiso! G. S.

De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. XXXVII-XL]

 

XXXVII.

NON SO CHE FARMENE D’ANDARE A MESSA: PREGO DIO EGUALMENTE A CASA MIA.

R. E lo pregate voi molto in casa vostra? Perdonatemi se m’inganno: ma io sospetto un poco che non Lo preghiate più a casa vostra che alla Chiesa. La questione, notate, non e di sapere se voi pregate Iddio cosi bene a casa vostra che alla Messa; ma di sapere se Iddio vuole che nella domenica e nelle feste, Io preghiate alla Messa e non a casa vostra. – Or Egli lo vuole. – Voi vi ricordale, che abbiamo già ragionato di ciò insieme, ed abbiamo convenuto che le leggi religiose de’ pastori della Chiesa cattolica erano obbligatorie in coscienza, perché essi fanno queste leggi colla stessa autorità di Gesù Cristo. « Chi ascolta voi, ascolta me, chi disprezza voi, disprezza me. » La Chiesa prescrivendoci d’assistere alla Messa, nelle domeniche e feste di precetto, è disobbedire a nostro Signor Gesù Cristo, è disobbedire a Dio stesso il trascurare d’andarvi. – Il motivo che ha dato luogo a questa legge è importantissimo; anche la legge stessa lo è moltissimo. È la necessità del pubblico culto che è d’uopo rendere a Dio. – Noi non viviamo solo individualmente come uomini, come cristiani: viviamo ben anco come società religiosa: e questa società di cui siamo i membri, stabilita da Dio stesso ha verso di Lui doveri ad adempiere, egualmente che ciascuno di noi in particolare. Ora il culto pubblico della società ( o Chiesa) cristiana è precisamente l’assistere al sacrifizio della Messa, che ci riunisce tutti alla presenza del nostro Dio, nel suo tempio, in giorni a ciò stabiliti, gli uni da Dio stesso [È Dio il quale ha istituito , dall’origine del mondo, il riposo del settimo giorno a perpetua memoria della creazione e della eternità. La domenica è il giorno di Dio, il giorno in cui ci dobbiamo più specialmente occupare di Lui e prepararci alla nostra eternità che sarà il riposo eterno e l’eterna domenica], altri da nostro Signor Gesù Cristo, altri finalmente dagli Apostoli o loro successori. Il non unirsi in questi solenni momenti al resto della famiglia cristiana, è, in qualche modo, rinunciare al titolo di cristiano, di Figlio di Dio, di discepolo di G. C , di membro della Chiesa cattolica. – Perciò è un grave peccato mancare alla Messa nella domenica e nelle feste comandate, senza una vera necessità. La gravità di questa trascuranza tanto più si comprende, quanto più si conosce la grandezza, la santità, l’eccellenza divina del sacrificio della Messa. La Messa è come il centro di tutta la Religione. E come potrebbe essere altrimenti? Essa è il sacrificio di Gesù Cristo centro di tutta la Religione, Dio dei cristiani, principio e fine di tutte le cose. – Nella Messa Gesù Cristo è presente, vivo e glorioso nella sua divinità e nella sua umanità; vi compie e vi rinnova l’atto supremo di tutta la sua vita, il suo Gesù Cristo è la gran vittima della salute del mondo. L’uomo per causa del peccato sì era diviso da Dio, e l’incenso della sua preghiera non era più che un incenso insozzato ed impuro. Gesù Cristo il figlio di Dio fatto uomo, soffrendo e morendo per noi ha riparato questo disordine. Egli ci salvò, rese alle nostre anime lo Spirito Santo che ne è la vita eterna’. Quando noi siamo uniti ad e s so per via della grazia, cioè, quando il suo Spirito vivifica e santifica la nostra anima, possediamo in germe la vita eterna, e se ci troviamo in questo stato felice al momento di nostra morte, noi entriamo nella vita eternamente beata per rimanervi per sempre. Gesù Cristo adunque è stato il nostro Salvatore, la vittima della nostra salute. Tutta la sua vita è stata una preparazione al gran sacrificio che ha offerto per noi sulla croce, nel venerdì santo. – Or bene la Messa è la continuazione non cruenta di questo sacrificio di Gesù Cristo attraverso dei secoli e delle generazioni umane. Non avvi alcuna sostanziale differenza tra il sacrificio della croce e il sacrificio della Messa. È lo stesso sacrificio offerto sotto forma differente. Il prete è lo stesso, è Gesù Cristo: visibile sul Calvario, invisibile e nascosto nel sacerdote all’altare. La vittima è la stessa, Gesù Cristo: cruenta al Calvario, incruenta e velata sotto le specie del sacramento all’altare. Le differenze non sono che puramente esteriori ed apparenti; ma nella sostanza il sacrifizio è lo stesso. – Il Salvatore volle che tutti gli uomini avessero la buona ventura di assistere all’atto di loro salute, e che ciascheduno potesse ricevere da Lui stesso in persona la benedizione che apporta a tutti. È al momento della consacrazione (o elevazione) verso la metà della Messa, che Gesù Cristo, la vittima del grande sacrificio discende sopra l’altare, si offre nuovamente a suo Padre per adorarLo in nostro nome, per ringraziarLo a nome nostro, per domandarGli il perdono cui i nostri peccati ci rendono indegni di ottenere, per domandarGli tutte le grazie, tutti i beni di cui abbiamo bisogno. – Per la parola misteriosa e divina del sacerdote, o piuttosto di Gesù Cristo medesimo, che parla per mezzo del suo ministro, lo stesso miracolo d’amore, che si è operato alla santa Cena il Giovedì santo, si rinnovella ciascun giorno sui nostri altari. Il pane ed il vino son cambiati nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo, e non conservano più che le semplici specie del pane e del vino; di maniera che dopo la consacrazione non vi è sull’altare altro che il corpo, e il sangue di Gesù Cristo; che Gesù Cristo vivente, compendiando così nel santo Sacramento tutti gli stati, tutti i misteri della sua carriera mortale, e della sua vita gloriosa. Il momento del Sacrificio, come abbiamo detto, è quello della consacrazione. Si è in questo solo momento, infatti, che Gesù Cristo sì offre nuovamente a suo Padre, e rinnova l’offerta che ha fatto sulla croce dei suoi patimenti e della sua morte per la nostra salute. Tutto ciò che precede la consacrazione è la preparazione a questo adorabile sacrificio, tutto ciò che la segue ne è il compimento ed il ringraziamento. Mutate dunque ormai di linguaggio. Venite con tutti i vostri fratelli, venite al vostro Salvatore; è per voi, che discende, che s’immola in questo gran mistero. Egli vi ama, vi benedice…. e voi, che avete tanto bisogno di Lui, voi, che senza Lui non potete salvare la vostr’anima, voi non Lo curate, Lo disprezzate, Gli preferite occupazioni futili, frascherie, bagattelle!…. Credetemi, rientrate in voi stesso; diventate migliore. Adempite un dovere, che è tanto facile, quanto importante e necessario. Andate alla domenica ai piedi di Dio per rivedere come avete passata la settimana, e provvedervi per la seguente. Dio vi benedirà, e voi sarete felice.

XXXVIII

MI MANCA IL TEMPO.

R. Avete il tempo per mangiare?

— Senza dubbio.

— E perché mangiate?

— Qual domanda! per non morire. Il nutrimento é la vita dei corpo.

— Qual val più, la vostr’anima, o il vostro corpo?

— Bella domanda nuovamente! la mia anima senza alcun dubbio.

— Ehi fate dunque per la vostr’anima almeno quanto fate per il corpo! Trovale, prendete il tempo per far vivere il corpo, e non prendete quello di far vivere radiala!  Io vorrei vedere, che il vostro padrone pretendesse di togliervi il tempo di mangiare. Certamente voi abbandonereste subito lui, e il suo negozio, e direste; Anzi tutto bisogna vivere. Or bene, io vi dico in modo più urgente ancora: Anzi tutto, anche prima della vita del corpo, anzi tutto non lasciate morire la vostra anima, che è la parte principale di voi stesso, la vostra anima che fa di voi un uomo, poiché per il corpo non siamo che animale, è l’anima sola che fa l’uomo, e lo distingue dal bruto. La religione vi dà la vita della vostra anima unendola a Dio, e voi dite, “Mi manca il tempo di praticar la mia religione?” Or bene prendetevelo questo tempo necessario. Prendetevelo, ad ogni costo, non importa in che tempo ed a spese di qualsiasi. Nessuno ha il diritto di privarvene, né il vostro padrone, né i vostri maestri, né vostro padre, né vostra madre; nessuno senza eccezione! – La salute eterna della vostra anima non può esservi tolta da alcuna creatura, e se qualcheduno osasse portar attentato al più sacro dei vostri diritti, sarebbe il caso di praticare questa grande regola degli apostoli: è meglio obbedire a Dio che agli uomini. « Ma il mio stato, soggiungete voi, m’impedisce di attendere alla mia salute. » È ciò vero? Badate alla risposta; perché se mi rispondete: SI, dopo avervi ben riflettuto, io vi dirò: Allora bisogna abbandonarlo, e sceglierne un altro. La vita, infatti, passa prontamente; ma l’eternità rimane. È dunque il pensiero dell’eternità che deve dominare tutta la vostra vita. A che vi servirà guadagnare il mondo intero, se venite a perdere la vostra anima?- Ma siamo sinceri. È egli poi vero che non possiate salvarvi, vivere cristianamente nel vostro stato? È forse il vostro stato che v’impedisce di fare una breve preghiera mattina e sera? È forse il vostro stato che vi impedisce di sollevare di tempo in tempo il vostro cuore a Dio nel corso della giornata, di offrirGli le vostre preghiere, il vostro lavoro, le vostre privazioni? Non è già esso che vi fa giurare, bestemmiare il nome di Dio, frequentare ì trivj, i balli, le bettole, i luoghi di depravazione… Il tempo che consumate in tal modo sarebbe cento volle sufficiente per fare di voi un buon cristiano se voi l’impiegaste ad operare la vostra salute. – Non è già il vostro stato che vi impedisce, la sera, dopo la vostra giornata, alle vigilie delle grandi feste, di andare a trovare un confessore, d’andare a ricevere col perdono dei vostri peccati, consigli e incoraggiamenti per meglio vivere in avvenire. In fatto di coscienza, è cosa ben chiara, sì ha il tempo di fare ciò che si vuole. Ma bisogna volerlo fortemente, energicamente e con perseveranza. Non ripetete dunque più: « Io non ho tempo di vivere cristianamente ; » perché ingannereste voi stesso. – Dite piuttosto so volete: Io non ho tanto tempo, tanta facilità, quanto vorrei » — Sia; ma, in sostanza, è il cuore e la buona volontà che Dio domanda; e non è necessario gran tempo per amare Iddio, fuggire il peccato, pentirsi delle proprie colpe; non abbisogna gran tempo per far la sua preghiera in ciascun giorno, e non abbisogna pur anco molto tempo per assistere alle funzioni parrocchiali nella domenica, e per andar a confessarsi quattro o cinque volte nell’anno. Altri fanno tutto ciò, e più ancora. Ne conosco, che non lanciano passare un mese senza ricevere i sacramenti, e non sono perciò cattivi operai.—Come fanno essi?— Fate ciò, che essi fanno;abbiate buona volontà, come essi; e come essi voi vivrete da vero cristiano; e come essi voi andrete in paradiso in luogo d’andare all’inferno. Chi non dà a Dio il suo tempo, Iddio gli negherà la sua eternità.

XXXIX.

IO NON POSSO! È TROPPO DIFFICILE!

R. Dite piuttosto che voi non volete! Si può tutto ciò che si vuole in tutto quello che riguarda la coscienza e la salute. Ciò che manca non è già il potere, è il coraggio. Si teme la fatica, s’indietreggia. Il vero cristiano è un prode; simile a un buon soldato, che gli sforzi de’ nemici non fanno che eccitarlo vieppiù a combattere, nulla teme, appoggiato a Gesù Cristo, da Lui prende tutta la sua forza. Se cade si rialza, e ricomincia il combattere più forte che prima. – « Io non posso! » Il pigro, che al mattino sbadiglia, si stira, si voltola nel letto, e ricomincia a dormire in luogo di lavorare, dice pure: “Io non posso”. Verrà giorno, in cui vedrete che potevate. Ma allora non sarà più tempo e il momento della fatica sarà passato: starete davanti al tribunale di Gesù Cristo, ed udirete la sua terribile parola: «Via da me maledetti, al fuoco eterno, che fu preparato pel diavolo e per i suoi angeli » (s. Matteo, c. XXV). In quel giorno comprenderete, che potevate! Ciò nulla meno vi ha qualche cosa di assai vero in ciò che dite. No, voi non potete vincere le vostre passioni, e praticare le virtù così sublimi del cristiano, se non cercate, colà dove si trova, la forza necessaria a ciò. – No, voi non potete evitare i peccati, di cui avete l’abitudine, se non impiegate i mezzi, che Gesù Cristo vostro Salvatore ha consegnati a questo fine nelle mani della sua Chiesa. Questi mezzi voi li conoscete. In tempi più felici, quando eravate buono, puro, onesto, perché eravate cristiano, voi li avete impiegati, e avete sentito da voi medesimo tutta la loro dolcezza, tutta la loro forza. È la preghiera; È la santificazione della domenica; È l’istruzione religiosa; È soprattutto la frequenza della confessione e della santa Comunione. È la fuga delle occasioni pericolose, dei piaceri colpevoli, dei cattivi compagni e delle cattive letture. Senza questi mezzi, no, voi non potete esser buono. Con questi mezzi non solamente lo potete, ma niente vi è di più dolce, di più facile. Quanti giovani ed uomini d’ogni età e condizione hanno passioni più violente che voi, e le domano tuttavia, e le hanno signoreggiate! Molti sono più esposti che voi nol siate, e hanno più ostacoli d’ogni genere a vincere. Perché non potrete voi fare ciò che essi fanno? Coraggio dunque! È questo che manca. Si è cristiano, quando efficacemente si vuole!

XL.

MI SI FAREBBERO LE BEFFE! NON BISOGNA FARE IL SINGOLARE, BISOGNA FARE COME GLI ALTRI.

R. Siete voi una capra, amico, ovvero un uomo? Le capre, ben lo so, seguonsi l’una l’altra; se la prima si getta in un buco, la seconda la segue, la terza segue la seconda, la quarta segue la terza; e così di seguito; esse vi si gettano perché le altre vi si son gettate: esse fanno come le altre. Ma gli uomini devono essi agire d’una maniera così stupida? Eh! quanti sono capre in questo punto! Quanti vanno all’inferno perché gli altri vi vanno! – « Non bisogna fare il singolare, » si dice. Si deve fare, bisogna fare il singolare, non per orgoglio o perché si sdegnino gli altri, ma perché bisogna essere buono in mezzo al mondo malvagio. Il male abbonda, e il bene è raro; vi sono molti perversi e pochi buoni, molti pagani e pochi Cristiani. I malvagi formano la massa; sono essi che fanno la moda ed il costume. Chi vuol seguir l’altra strada, che è la buona, è perciò costretto a singolarizzarsi. Or bene, questa singolarità bisogna averla. Essa è il segno, la condizione necessaria della vostra eterna salute. Nostro Signor Gesù Cristo ci ha dichiarato in termini formali: « Entrate – dice Egli – per la porla stretta; perché « larga è la porta, e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quei che entrano per essa. Quanto angusta è la porta e stretta la via che conduce alla vita; e quanto pochi son quei che la trovano! » (s. Matteo cap. VII). – « E non temete coloro – aggiunge egli in un altro passo dell’evangelo – non temete coloro che uccidono il corpo e non possono uccidere l’anima, ma temete piuttosto colui che può mandare in perdizione e l’anima e il corpo all’inferno…». « Chiunque mi rinnegherà dinanzi agli uomini, Io rinnegherò anche io dinanzi al Padre mio che è ne’ cieli » (s. Matteo cap. X). « E chi persevererà sino alla fine, questi sarà salvo malgrado tutti gli ostacoli, malgrado soprattutto le beffe, gli esempi e gli sforzi dei libertini» (s. Matteo cap. XXIV). È egli chiaro l’avviso? È il Giudice eterno che ce lo annunzia. È Colui che non parla giammai invano, e che di sua propria bocca proclama che « Il cielo e la terra passeranno, ma che le sue parole non passeranno mai. » Bisogna dunque, sotto pena di eterna dannazione, vivere nel mondo, differente dal mondo. Bisogna gloriarsi di questa singolarità, anziché temerla ed arrossirne. È dessa che ci fa Cristiani. « Ma si faranno beffe di me. » E che?! Lasciate che si burlino di voi; voi non morrete per ciò! Burlatevi di quelli che si burlano di voi; essi sono i ridicoli, voi siete il savio. Quale dei due deve burlarsi dell’altro: il folle del savio, o il savio del folle? – Se si burlassero di voi perché mangiate, o perché camminate su i piedi, e non sulla testa, cessereste perciò di mangiare, e vi mettereste a camminar sulle mani? No. E perché? Perché ciò che fate è ragionevole e ben fatto, e che vi si vorrebbe veder fare un assurdo. – Quanto è più assurdo il perdere la vostra anima per piacere a qualche sconsigliato, di cui nel fondo del vostro cuore disprezzate il libertinaggio! La lode di simili persone è vera vergogna; il loro biasimo è un bene. È segno che non si somiglia ad essi. – “Si burleranno di me”; dunque non voglio servir Dio. Sarebbe un ragionamento simile a quello di un francese il quale non volesse più servire la Francia sua patria, per tema di spiacere agli inglesi nemici della Francia! – Ma non esagerate troppo le cose. Voi non sarete il solo del vostro partito. Benché vi siano più cattivi, che buoni, il numero di questi è tuttavia più grande di quello che credesi, specialmente a’ giorni nostri, in cui la Religione va riprendendo vieppiù il suo benefico impero.— Nelle alte classi della società è ora un’onorevole raccomandazione l’essere Cristiano. Siate buono, amabile, officioso verso tutti, ridete cogli altri di ciò di cui si può ridere senza offendere Dio; ed essi vi lasceranno tosto tranquillo in riguardo della Religione, appena appena vi attaccheranno. – Non vi mostrate debole per una parola, per uno sguardo, per un sogghigno… Lasciate che si perdano coloro, che vogliono perdersi; voi che conoscete come va la cosa, salvate la vostra anima. Lasciate ridere chi vorrà ridere. “Riderà bene, chi riderà l’ultimo”.

Sacramento dell’ORDINE -2-

Sacramento dell’ORDINE -2-

[J. –J. Gaume, Catechismo di perseveranza. Vol. II cap. XLIV– Torino 1881]

Ordini minori. — Ostiarii: loro funzioni. — Cerimonie e preghiere che ne accompagnano l’ordinazione. — Lettori: loro funzioni. — Cerimonie e preghiere che ne accompagnano l’ordinazione. — Esorcisti: loro funzioni. — Cerimonie e preghiere che ne accompagnano l’ordinazione. — Accoliti : loro funzioni. — Cerimonie e preghiere che ne accompagnano l’ordinazione. Ordini maggiori: Suddiaconato; funzioni dei Suddiaconi. — Preghiere e cerimonie della loro crdinazione. — Diaconato ; funzioni dei Diaconi. — Preghiere e cerimonie della loro ordinazione. — Sacerdozio; funzioni e potestà dei Sacerdoti. — Cerimonie e preghiere della loro ordinazione. — Benefizi sociali del Sacramento dell’Ordine.

La Lezione precedente vi ha mostrato le relazioni degli Ordini fra di loro, e coll’augustissima Eucaristia. Egli è perciò tempo di spiegare partitamente ciascuno di essi.

– Il primo degli Ordini minori che si riceve dopo la cerimonia della tonsura è quello di Ostiario. Se nel palazzo di un re tutti gl’impieghi sono onorevoli, nella casa di Dio tutti i Ministri sono santi; donde nasce, che la Chiesa consacra tutti coloro a cui vengono affidati. L’Ordine dell’Ostiario era nei primi secoli indispensabile poiché non tutti erano Cristiani. Era ufficio degli Ostiarii d’impedire ai pagani di entrare nelle chiese, di nuocere ai fedeli, di profanare i santi Misteri. Dovevano inoltre far rimanere ciascuno nei luoghi destinati, tenere il popolo diviso dal clero, gli uomini dalle donne, far osservare il silenzio e la modestia, annunziare le ore della preghiera, custodire fedelmente il tempio, conservarlo con ogni accuratezza pulito ed ornato, provvedere a che nulla andasse perduto, aprire e chiudere a tempo debito le porte sì della chiesa che della sacristia, finalmente aprire il libro al Ministro che predicava. Scorgesi da ciò, che riunendo tutti questi uffici, l’incarico non era troppo leggiero: l’Ostiariato conferivasi a persone di età matura [FLEURY, Istituzioni di Diritto Canonico, part. I]. – Tutte codeste incombenze trovansi rammemorate nelle preghiere e nelle cerimonie della ordinazione. Dopo che il Vescovo le ha spiegate agli Ostiarii, l’Arcidiacono conduce i medesimi alle porte della Chiesa e facendola chiudere ed aprire, pone fra le loro mani la corda delle campane onde suonino qualche tocco, riconducendoli poscia a’ piedi dell’ altare. Cotali cerimonie che potrebbero forse sembrare superflue a chi non ne conosce né l’origine né il significato, agli occhi del Cristiano pio ed istruito si mostrano sommamente rispettabili. – Esse gli ricordano la santità della casa di Dio, la tremenda maestà dell’augusto Sacrificio, la gloriosa antichità della Chiesa, e finalmente quei giorni felici di fede e d’innocenza, che saranno eterno obbietto della nostra ammirazione e del nostro rammarico. Il Vescovo termina l’ordinazione degli Ostiarii chiedendo per essi al Signore la celeste benedizione e la grazia che possano santamente esercitare il loro ufficio, onde essere ammessi un giorno coi suoi eletti nel soggiorno della gloria eterna.

– L’ordine dei Lettori è più nobile di quello degli Ostiarii, giacché si riferisce più immediatamente all’Eucaristia. I Lettori, spesse volte più giovani d’età che non gli Ostiarii, servivano come segretari i Vescovi ed i Sacerdoti, e s’iniziavano al sapere, leggendo e scrivendo sotto la loro direzione. In tal guisa si addestravano agli studi quelli che vi si mostravano più abili, e che potevano poscia giungere al Sacerdozio. Le loro funzioni erano grandemente necessarie, poiché sempre fu costume di leggere nelle chiese le Scritture dell’antico e del nuovo Testamento, tanto nel tempo della Messa, quanto ancora degli altri uffici e principalmente della notte. Leggevansi eziandio ne’ primi secoli le epistole degli altri Vescovi; gli atti dei Martiri, le omelie ed i sermoni, come è pure usanza de’ nostri giorni, colla sola diversità, che in oggi tale ufficio è adempiuto da tutti i Ministri che risiedono in coro, mentre nei primordi apparteneva ai soli Lettori. – Fra la nave della Chiesa, che conteneva i fedeli ed il coro, ove risiedevano i Ministri dell’altare, vi era un palco a cui salivasi mediante sette od otto scalini, circondato da balaustrata e capace di contenere otto persone.. Questa specie di tribuna, era detta ambone, dacché vi si saliva per due gradinate e guardava tanto verso i l popolo che verso i Sacerdoti. Chiamavasi anche col nome di Jube, dalla circostanza che Lettore, innanzi di cominciare a leggere chiedeva al Vescovo la benedizione con le parole: Jube, Domine, benedicere; e di questa voce jube spesso ripetuta si valse il popolo per indicare il luogo destinato ai Lettori. Questa tribuna vedesi ancora in alcune antiche chiese, e serviva, come si è detto, alla predicazione ed alle altre letture religiose. – I Lettori erano altresì incaricati della custodia dei libri sacri, ufficio assai pericoloso in tempo di persecuzione. La formula della loro ordinazione, tolta come quelle degli altri Ordini inferiori dal quarto Concilio di Cartagine celebrato l’anno 398, ricorda ch’essi devono leggere per colui che predica, cantare le laudi, benedire il pane ed i nuovi frutti. Il Vescovo nell’ordinarli, dopo di aver chiesto per essi la grazia di poter compiere degnamente le sante funzioni, fa ai medesimi toccare un libro di sacre Letture e pronunzia in tal tempo le seguenti parole: « Ricevete questo libro e siate lettori della parola di Dio; se voi adempirete con fedeltà un tale incarico voi avrete parte fra quelli che sino dal principio hanno con saviezza dispensato la divina parola ».

– Il terzo degli Ordini minori è quello dell’Esorcista. Uffizio degli Esorcisti si è quello di scacciare i demoni. Nei primi secoli del Cristianesimo frequentissimi erano gli ossessi, fra i pagani specialmente; e di questo noi abbiamo le prove autentiche nei Evangeli, negli atti degli Apostoli e nei Padri della Chiesa. Come attestato del più gran disprezzo pel nemico dell’umano genere e pel suo potere, la Chiesa attribuiva l’incarico di scacciarlo a’ suoi Ministri inferiori. Questi, nel solenne Battesimo esorcizzavano i catecumeni, e facevano uscire dalla Chiesa, innanzi che fosse fatta l’oblazione dei doni sacri, coloro che non si comunicavano, vale a dire, i catecumeni stessi e gli energumeni. In oggi la podestà di esorcizzare è riserbata ai soli Sacerdoti, né questi pure possono valersene senza avere espressa licenza dal Vescovo. Essendo il numero degli ossessi divenuto più ristretto, dacché il Signor Nostro Cristo ha debellato la possanza infernale, è stato mestieri, per evitare ogni impostura, di agire con più cautela, oculatezza ed autorità. Ed ecco perché la Chiesa, mentre ha conservato gli usi della sua venerabile antichità, ha limitato il potere di esorcizzare, né concede un tale ufficio se non se a’ Sacerdoti specialmente a ciò destinati, e dopo eziandio di aver fatto ad essi subire rigorosi e minutissimi esami [Spirito delle cerimonie, p. 133]. – Terminate le preghiere dell’ordinazione, il Vescovo fa posare agli Esorcisti la mani sul messale, e dice: « Ricevete ed imparate questo libro, ed abbiate il potere di imporre le mani agli energumeni, sia battezzati, sia catecumeni ». Scongiura poscia il Signore con fervide preghiere a volerli proteggere affinché adempiano santamente le loro funzioni, e qual medici irreprensibili risanino gli altri, dopo di essersi eglino stessi risanati.

– Il quarto degli ordini minori è quello di Accolito. La parola Accolito vuol dire seguace, ossia colui che accompagna. L’Ordine degli Accoliti è il più nobile dei quattro Ordini minori. Ne’ tempi antichi gli Accoliti erano giovani, di età fra i venti e i trent’anni, destinati a seguire ognora il Vescovo e a star pronti a’ suoi ordini. Portavano dovunque le sue ambasciate, recavano le Eulogie e talvolta l’Eucaristia, e servivano all’altare sotto la dipendenza de’ Diaconi. In oggi che son mutate le circostanze, il Pontificale non attribuisce loro altro ufficio che quello di portare le torce, accendere i ceri e preparare l’acqua ed il vino pel Sacrificio. – Nella cerimonia della loro ordinazione, il Vescovo ammonisce gli Accoliti di risplendere nella Chiesa, come faci ardentissime, mediante l’esempio di tutte le virtù; di farsi specchio immacolato ai fedeli, di condurre vita purissima, di essere, a dir breve, degni di presentare l’acqua ed il vino all’altare del Signore. Fa loro in seguito toccare un candeliere sostenente un cero, nonché un’ampolla vuota, dicendo: « Ricevete questo candeliere e questo cero, e non obliate giammai che nel nome del Signore voi siete eletti per accendere le fiaccole nella Chiesa. Ricevete quest’ampolla; essa deve servire per presentare l’acqua e il vino al Sacrificio del sangue di Gesù Cristo ». – Tali sono i quattro Ordini minori; tali erano nei tempi andati gli uffici che conferivano. – Non è a credersi che i Santi, i quali hanno governato la Chiesa nei primi tempi, cercassero soltanto dilettevole occupazione nel regolare con tanta cura il culto esteriore, e nello stabilire Ordini speciali per distribuire minutamente anche le più piccole incombenze. No; essi avevano compreso l’importanza di tutto ciò che colpisce i nostri sensi, come sarebbero, ad esempio, la beltà de’ luoghi, l’ordine delle congregazioni, il silenzio, il canto, la maestà delle cerimonie. Tutte queste cose aiutano anche le persone più spirituali ad innalzarsi a Dio, e sono poi assolutamente necessarie agli idioti per dar loro una grande idea della Religione, e per farne loro amare l’esercizio. Quando vediamo che il primo tempio di Gerusalemme, in cui non si conservava che l’Arca dell’Alleanza, e il secondo tempio egualmente, in cui più non si trovava, erano regolarmente amministrati da migliaia di Leviti; quando sappiamo che ivi le cerimonie si compievano colla massima pompa e maestà, noi dobbiamo provare estrema confusione nel vedere le nostre chiese, entro le quali riposa il Corpo di Gesù Cristo, e le sante nostre funzioni governate con tanta negligenza, da non poter gareggiare per questa parte di confronto con quei templi antichi! È sventura dei tempi, che ai giorni nostri coloro che sono insigniti degli Ordini minori possano di rado compierne gli onorevoli uffici. – Anticamente ogni chiesa aveva i suoi Chierici, laddove in oggi i Leviti vivono nei seminari onde prepararsi al Sacerdozio; e perciò nelle parrocchie, i Sacerdoti, i Diaconi, i Suddiaconi, i semplici Chierici, ed i laici persino, adempiono le funzioni che a quelli spetterebbero. Il Concilio di Trento avrebbe bensì desiderato che si fosse potuto ritornare all’antica disciplina pel maggior profitto dei fedeli; ma questo voto non si poté finora effettuare. Per altro, nel mentre si aspettano giorni più propizi, la Chiesa ha conservato i santi Ordini minori come monumento prezioso dell’antica disciplina, e come scala che conduce alla santità, e da percorrersi perciò dai Leviti che aspirano agli Ordini sacri [Spirito delle cerimonie, p. 146].

– Il primo degli Ordini maggiori o sacri è il Suddiaconato, Ad esso fu donato queste grado dal tempo in cui la Chiesa ha impesto al medesimo l’obbligo di conservare la castità [II più celebre ed il più autorevole degli storici protestanti dell’Alemagna moderna, Enrico LUDES, soprannominato il padre della Storia » Alammanica, non esita ad asserire quanto segue nel Volume VIII della sua — Istoria del Popolo Germanico — pubblicata nel 1833: « Noi andiamo debitori di tutto ciò che siamo e di tutto ciò che possediamo al celibato ecclesiastico; tutto egli ci ha conservato: l’intelligenza, la coltura dello spirito, il progresso, in una parola, del genere umano ». – Veggesi pure COBBET, Storia della riforma in Inghilterra; — l’Abate JAGÉR. Del Celibato ecclesiastico; le Memorie di Religione, Morale e letteratura di Modena, n. 47-48, 283]. Per lo innanzi il Suddiaconato annovera vasi fra gli Ordini minori, ed i Suddiaconi non erano che i segretari dei Vescovi, i quali li adoperavano nei viaggi e negli affari ecclesiastici. Essi erano incaricati delle elemosine e della amministrazione dei beni temporali, e fuori della Chiesa compievano le funzioni medesima dei Diaconi. Ai Suddiaconi ordinariamente si confidava la gestione dei patrimoni di San Pietro [Si chiamavano con tal nome i beni donati alla Chiesa di Roma] nelle diverse parti della Cristianità in cui erano collocati. Amministratori di queste sostanze sotto l’autorità dei Papi, eseguivano ad un tempo i loro comandi anche rispetto ad importantissimi affari ecclesiastici: e tali erano, per cagione d’esempio, il correggere gli abusi in quelle Provincie in cui erano situati i beni, il vegliare sulle congregazioni conciliari, trasmettere d’ordine del Pontefice parziali avvisi ai Vescovi riguardanti la loro condotta, e finalmente riferire con esattezza al Papa gli avvenimenti del paese in cui risiedevano [Si vedano le Lettere di San Gregorio]. – In oggi il ministero dei Suddiaconi è limitato al servizio dell’altare ed all’assistenza del Vescovo e del Sacerdote nelle ecclesiastiche solennità. Essi preparano gli ornamenti, i vasi sacri, il pane, il vino, l’acqua pel Sacrificio; cantano l’Epistola alla Messa solenne, tengono aperto innanzi al Diacono al tempo debito il libro degli angeli, servono il Diacono in tutte le sacre funzioni, ed è appunto per ciò che sono detti Suddiaconi; inoltre danno a baciare il libro dell’Evangelo al celebrante ed ai fedeli, preparano pel Diacono all’altare il calice e la patena, mettono l’acqua nel calice dopo che il Diacono vi ha posto il vino, versano l’acqua sulle mani del Sacerdote celebrante, lavano le animette, i corporali ed i purificatoi. – Maestose sono le cerimonie dell’ordinazione del Suddiacono. Vittime volontarie, che si presentano per fare a Dio un eroico sacrificio, stanno in atto di chi rinunzia al mondo ed alle sue speranze; tutto dimostra in essi la consacrazione e la natura di questo sacrificio. Assumono primieramente il contegno d’uomini che si apparecchiano a partire; un bianco pannolino, chiamato amitto, ricopre loro il capo, come il caschetto il capo del guerriero; un camice bianco li riveste interamente, simbolo di virtù specchiata; un cordone loro cinge le reni, contrassegno di castità; portano sul braccio sinistro una funicella, espressione della gioia del loro cuore; tengono in una mano il manipolo, emblema delle fatiche che li aspettano; nell’altra un cero acceso, immagine vivissima della loro carità. In tal modo preparate ed ornate, queste giovani vittime aspettano silenziose l’istante del Sacrificio. Ed ecco il Pontefice, rappresentante di Gesù Cristo, rivolger loro queste parole: « Miei figli dilettissimi, voi qui vi presentate per ricevere il Suddiaconato. Riflettete seriamente, e ponderate con tutta l’attenzione qual sia il peso a cui bramate sottoporvi. Voi siete tuttora liberi, siete tuttora in tempo di rimanervi nella vita laicale; ma ricevuto che abbiate quest’Ordine, non potrete giammai retrocedere dall’obbligo che state per assumere. Voi apparterrete a Dio per tutta la vostra vita, dovrete servirlo fedelmente, conservare la castità, ed esser pronti in qualunque ora pel ministero della Chiesa. Vi ripeto che siete ancora in tempo…. ma se perseverate nel vostro santo proposito, avvicinatevi». – Dopo tali parole, se gli aspiranti si sentono il coraggio e la forza di obbligarsi per tutta la vita, fanno un passo avanti. Passo immenso! che mette fra essi e il mondo uno spazio insuperabile. Ed a mostrare che sono per sempre morti al mondo ed alle sue speranze, si prosternano al suolo, e colla faccia volta a terra danno un eterno addio a questa terra medesima che abbracciano, ai loro parenti, agli amici, protestando che sono oramai, come Melchisedech, quell’antica figura del Sacerdozio cristiano, senza padre, senza madre, senza genealogia. – Ma chi donerà loro la forza sovrumana di cui abbisognano per sostenere tutto il tempo della vita questo eroico sacrificio? Quel Dio medesimo che ha ispirato la loro volontà. Ed ecco la ragione per la quale il Vescovo e tutto il popolo, inteneriti e in certo modo spaventati dalla grandezza dell’obbligo che assumono, cadono ginocchioni ed implorano su queste nobili vittime la benedizione del Cielo. Rivolgonsi alle tre Persone dell’augustissima Trinità, alla Vergine potentissima. agli Angeli, ai Patriarchi, ai Profeti, agli Apostoli, ai Martiri, ai Confessori, a tutta la Corte celestiale. Poscia il Vescovo sorge, benedice e consacra tutte queste vittime, facendo tre volte su di loro il segno della Croce. – Tutto è ormai compiuto, le vittime sono immolate; esse si rialzano, giacché devono vivere e continuare per tutto il tempo avvenire il sacrificio testé consumato. Il Vescovo prega tutti i fedeli presenti ad orare per questi novelli ministri che interamente si consacrano al loro servizio. Indica poscia ai Suddiaconi le funzioni del loro Ordine, del quale conferisce loro gli attributi facendo toccare il calice e la patena [Pare che il toccare, ossia la tradizione del calice e della patena costituisca tutta la materia dell’Ordine del Suddiaconato nella Chiesa Latina. Eugenio IV lo insegna nel decreto agli Armeni: “Subdiaconatus confertur per ealicis vacui cum patena vacua superposita traditionem”. Nella Chiesa Greca la materia del Suddiaconato è l’imposizione delle mani che il Vescovo fa sulla testa degli ordinandi, mentre la forma è la preghiera che è da lui nello stesso tempo recitata: null’altro ritrovasi nei loro Eucologii, vuoi antichi, vuoi moderni, cui possa darsi il nome di materia o di forma. – Mettendo loro l’amitto sul capo, così si esprime: «Ricevete questo amitto, che simbolizza la mortificazione della Croce, in nome del Padre, del Figliuolo, dello Spirito Santo; cosi sia » . La vigilanza sulle proprie parole e sui propri sensi saranno quind’innanzi gli obblighi e le virtù del novello Suddiacono. – Il Pontefice loro mette poscia sul braccio sinistro il manipolo e dice: «Ricevete questo manipolo; esso vi richiama alla memoria il frutto delle buone opere. Nel nome del Padre, ecc. »: indi li riveste della funicella, proferendo le parole: « Vi doni il Signore la tunica della felicità e il vestimento della fede. Nel nome del Padre, ecc. ». Finalmente loro porge il messale, pronunziando queste parole: «Ricevete il libro delle Epistole, e insieme la podestà di leggerle nella Chiesa, tanto pei vivi, quanto pei defunti. Nel nome del Padre, ecc. ». Tale si è, in compendio, l’ordinazione dei Suddiaconi. Noi ora chiediamo se v’abbia cosa più acconcia di questa per penetrare il popolo di rispetto profondo verso la santa Eucaristia e verso i suoi Ministri, e nello stesso tempo più efficace per insegnare ad essi le virtù che son necessarie alla santa e sublime loro vocazione? Questi salutari avvertimenti continuano nell’ordinazione dei Diaconi. Ascoltiamoli con religiosa attenzione.

– La parola Diacono significa servitore. Gli Apostoli ordinarono i primi Diaconi nella circostanza delle mormorazioni che si suscitarono tra i fedeli di Gerusalemme per la distribuzione delle elemosine, e confidarono loro l’incarico di vegliare all’amministrazione ed al regolamento delle mense con cui le vedove ed i poveri erano provveduti di quanto abbisognava al loro corporale sostentamento; attesoché i poveri, fin dal nascere della Chiesa, furono l’oggetto delle sue più affettuose sollecitudini. Esonerati in tal modo gli Apostoli da quell’ufficio affidato ai Diaconi, poterono dedicarsi interamente alla predicazione del Vangelo ed alla preghiera. Per altro non fu questo né l’unico e neppure il fine principale dell’istituzione de’ Diaconi; essi ben presto si videro chiamati a più nobili e più sante funzioni. – Ai servigi che dovevano essi prestare alle mense che alimentavano il corpo, si aggiunse l’amministrazione della Tavola santa nella quale si distribuiva ai fedeli l’Eucaristia per nutrimento spirituale delle anime. Né guari stette che venne loro conferito eziandio l’ufficio di predicare la parola divina e di conferire il Sacramento del Battesimo. Noi leggiamo infatti che Santo Stefano e San Filippo si dedicarono con molto zelo a tale ministero, che divisero in un cogli Apostoli; senza che per altro i Diaconi cessassero per questo dall’incarico primiero di governare le mense, alle quali le vedove ed i poveri gratuitamente si assidevano lutti i giorni. I Diaconi nei primi tempi del Cristianesimo, incaricati di sacre funzioni, ministri della Chiesa e degli Apostoli, accompagnavano i Vescovi in tutte le circostanze, vegliavano alla loro custodia quando predicavano, li seguivano ai Concili, li assistevano nelle ordinazioni e nell’amministrazione degli altri Sacramenti. I Vescovi non offrivano punto il Sacrificio senza essere assistiti dai Diaconi; siccome il glorioso San Lorenzo rammentò al pontefice San Sisto, allorché questi veniva condotto al martirio: «Padre santo, ei gli disse, dove n’andate senza il vostro Diacono? Giammai non avete offerto il Sacrificio senza di lui ». Erano i Diaconi che leggevano alla Messa il Vangelo, siccome è loro ufficio anche ai giorni nostri; essi presentavano al Sacerdote il pane ed il vino che dovevano esser cangiati nel corpo e nel sangue del Salvatore. Né soltanto amministravano il Battesimo, dispensavano le elemosine e vegliavano al nutrimento delle vedove e dei poveri: era inoltre loro obbligo di visitare e sollevare i Confessori ed i Martiri che gemevano nelle prigioni, onde esortarli, consolarli, animarli a soffrire coraggiosamente per la fede. Ai tempi nostri le funzioni dei Diaconi son limitate al servigio dell’altare in cui offrono l’augusto Sacrificio i Vescovi ed i Sacerdoti, ed a cantare l’Evangelio nelle Messe solenni. – Rispetto all’ordinazione dei primi Diaconi, i fedeli di Gerusalemme scelsero fra loro sette uomini di buona riputazione, pieni di Spirito Santo e di sapienza, e li condussero davanti gli Apostoli, i quali, fatta orazione, imposero loro le mani [Atti, VI, 5-6]. Donde scorgesi che in allora, siccome al presente, le cerimonie della loro ordinazione consistevano nell’orazione e nell’imposizione delle mani. Allorché il Vescovo è seduto sul suo faldistorio nel mezzo dell’altare, l’Arcidiacono gli dice : « Mio reverendo Padre, la santa Chiesa cattolica, madre nostra, vi domanda di conferire a questi Suddiaconi l’ufficio del Diaconato.— Sapete voi, risponde il Prelato, ch’essi ne siano degni?—Lo so, risponde l’Arcidiacono, e ne faccio testimonianza, per quanto è dato di conoscerlo all’umana debolezza. — Sia ringraziato Iddio, risponde il Vescovo. Poscia rivolgendosi al clero ed al popolo, loro dice: Coll’aiuto di Dio e del Salvator nostro Gesù Cristo noi scegliamo questi Suddiaconi per innalzarli alla dignità di Diaconi. Se alcuno ha contr’essi qualche reclamo da esporre, si avanzi arditamente e parli; ma non dimentichi lo stato suo. E ciò detto, si ferma qualche istante onde lasciare ai fedeli il tempo di rispondere. – Codesto avviso rammemora l’antica usanza della Chiesa, giusta la quale il clero ed il popolo erano consultati intorno alle ordinazioni dei sacri Ministri; in oggi le necessità dei tempi indussero la Chiesa a cangiar di sistema su questo punto di disciplina, ed a riserbare ai soli superiori l’incarico di esaminare gli aspiranti sulle loro doti e sulla loro vocazione. Ciò nondimeno per conservare, quant’è possibile, il rito antico, e per assicurarsi che l’eletto è veramente irreprensibile, la Chiesa ha stabilito delle pubblicazioni che si fanno prima di cominciare i discorsi parrocchiali, nonché la cerimonia che precede, siccome abbiamo detto poc’anzi, l’ordinazione dai Diaconi e dei Sacerdoti. – Se i fedeli non inoltrano alcuna lagnanza, il Vescovo si rivolge agli ordinandi, e loro ricorda la dignità dell’Ordini che sono per ricevere, le incombenze che vi sono annesse e le virtù che tali uffici esigono. Il Vescovo comincia poscia la lettura di un prefazio, che è come l’introduzione alla grand’opera che sta per compiere, ed arrestandosi ad un tratto a mezzo del medesimo, impone la mano destra sul capo di ogni ordinando, e gli dice: «Ricevi lo Spirito Santo onde aver forza di resistere al demonio ed alle sue tentazioni ». Non impone ad essi ambedue le mani, a fine di mostrare che i Diaconi non ricevono lo Spirito Santo con quella pienezza con cui lo ricevono i Sacerdoti. Compiuta questa cerimonia e terminato il prefazio, il Vescovo porge a ciascuno dei Diaconi la stola, simbolo della podestà che vien loro conferita: « Ricevi, egli dice, dalla mano di Dio, questa bianca stola, ed adempì il tuo ministero: Iddio è onnipossente, Egli aumenterà in te la sua grazia ». La stola del Diacono non è indossata alla guisa istessa con cui se ne rivestono i Sacerdoti, e ciò per mostrare che non hanno l’istessa dignità. Il Vescovo li veste in seguito della dalmatica: pronunziando le parole : « Ti doni Iddio il vestito della salute, e l’indumento della gioia, e per la sua potenza ti ricopra mai sempre colla dalmatica della giustizia. Così sia ». Finalmente il Vescovo presentando al Diacono il libro degl’Evangeli, gli dice: « Ricevi il potere di leggere gli Evangeli nella Chiesa pei vivi e pei defunti, in nome del Padre, ecc. ». L’ordinazione finisce colla preghiera del Vescovo e del popolo, che uniscono le loro voci ed i cuori onde invocare sui nuovi eletti protezione del Signore.

– All’ordinazione dei Diaconi tiene dietro quella dei Sacerdoti. – Offrire il santo Sacrifizio; benedire il popolo nella Messa, nelle assemblee e nell’amministrazione dei Sacramenti, onde attirare sopra di lui le grazie del Cielo; presiedere alle adunanze che si tengono nella Chiesa per rendere a Dio il culto che gli è dovuto; predicare la divina parola di cui sono i banditori; battezzare ed amministrare gli altri Sacramenti, e quelli in ispecial modo che sono stati stabiliti per la remissione dei peccati: ecco quali furono, sino dai primordi della Chiesa, e quali sono ancora ai giorni nostri le funzioni dei Sacerdoti. Soltanto, nei primi secoli, la predicazione fu riserbata ai Vedovi, e ciò fino al tempo di San Giovanni Crisostomo e di Sant’Agostino, i quali idempirono cotale ministero per comando dei loro Vescovi, sebbene non fossero allora che semplici Sacerdoti. Laonde gli offici dei Preti sono di due sorta: gli uni riguardano il corpo naturale del Signor Nostro Gesù Cristo; gli altri riguardano il suo corpo mistico ch’è la Chiesa. Non esistono funzioni più auguste, né poteri più formidabili. – Prima di confidarli ad essi, il Vescovo, assiso nel mezzo dell’altare sul suo faldistorio, vuole assicurarsi se ne sono degni. Mio reverendo Padre, gli dice l’Arcidiacono, la santa Chiesa cattolica, madre nostra, domanda che voi consacriate Sacerdoti questi Diaconi che io vi presento. — « Sapete voi, ripiglia il Vescovo, ch’essi ne siano meritevoli? » Ed avuta risposta favorevole dall’Arcidiacono, il Prelato così prosegue: « Sia lodato il Signore. » Rivolgendosi poscia al popolo, e ricordandogli che il suo spirituale vantaggio esige che egli abbia de’ santi Sacerdoti, lo interroga, onde conformarsi all’antica disciplina della Chiesa, come la pensi de’ novelli Diaconi [L’elezione di San Basilio è un esempio illustre che ci dimostra fin dove spingevasi nei primi secoli della Chiesa la deferenza che i Vescovi avevano per la scelta e pei suffragi del popolo nelle ordinazioni, e come ancora vi si opponessero, allorquando si accorgevano che tali opposizioni erano suggerite dalla passione o dall’intrigo, anziché dall’osservanza delle regole, e dallo zelo per la gloria di Dio e pel vantaggio de’ fedeli]. Se nessuno si alza per reclamare, il Pontefice s’indirizza ai Diaconi, e li ammonisce sulla natura, sull’origine e sulle funzioni sublimi del Sacerdozio. I Preti, ei dice loro, sono i successori dei settantadue vegliardi, che Mose per comando di Dio, aveva scelti onde l’aiutassero nel suo ministero, amministrassero la giustizia, e vegliassero sull’osservanza dei dieci Comandamenti. – Questi vegliardi non erano che la figura de’settantadue discepoli che Gesù Cristo mandò a due a due per predicare ed istruire colla parola e coll’esempio. « Siate degni, o miei cari figli, soggiunge il Pontefice, di essere gli aiutanti di Mosè e dei dodici Apostoli, vale a dire, dei Vescovi cattolici, figurati da Mosè e dagli Apostoli, e stabiliti per governare la Chiesa di Dio ». – Dopo questa esortazione comincia maestosa cerimonia della prostrazione. Innanzi di essere ammesso al Battesimo l’uomo dové per tre volte rinunciare a satana; e così pure prima di venir ammesso al Sacerdozio, il Cristiano deve per tre volte rinunziare alla terra, alla carne ed al sangue. Egli è soltanto dopo di aver fatto questa triplice rinunzia che gli si apre l’adito per giungere fino al santo altare. Seguita poscia l’imposizione delle mani. Il Vescovo in silenzio impone le mani sul capo di ogni Diacono, e tutti i Sacerdoti assistenti all’augusta cerimonia rivestiti della sacra stola, imitano il suo esempio. Il Vescovo risale quindi all’altare, e rivolgendosi verso gli ordinandi stende sovr’essi le mani, imitato in ciò da tutti i Sacerdoti, e recita nello stesso tempo una preghiera colla quale scongiura il Signore a donar loro il suo Santo Spirito e la grazia del Sacerdozio. – La podestà di conferire gli Ordini sacri non spetta che al Vescovo, ed egli solo come consacrante può imporre le mani. Se i Sacerdoti presenti all’ordinazione impongono con lui, ciò è solo per conformarsi all’uso della Chiesa primitiva; uso venerabile che ricorda come l’Episcopato ed il Clero formino un solo Sacerdozio. Il Vescovo mette quindi sul petto degli ordinandi in forma di croce la stola, che a grado di Diaconi portavano sulla spalla sinistra, e loro dice: «Ricevete il gioco del Signore : Il suo giogo è dolce, e soave è il suo peso ». Li riveste poscia della pianeta, loro rivolgendo queste parole: « Ricevete l’abito sacerdotale, simbolo della carità » . E il sacerdote sarà per ciò un uomo di carità, anzi la carità personificata. La pianeta che il Vescovo porge ai Sacerdoti, non è distesa dal lato posteriore, ma rimane avvolta sulle spalle. Essi non hanno ancora ricevuto tutta la grazia del Sacerdozio; allora soltanto deve essa distendersi compiutamente, quando il Vescovo avrà ad essi conferito il potere di rimettere i peccati. – Dopo la recita di un bel prefazio, che annunzia un’opera sublime, il Vescovo intona il Veni creator, onde chiamare sugli ordinandi lo Spirito santificatore con tutti i suoi doni. Mentre il coro prosegue nel canto dell’inno, il Pontefice consacra le mani dei nuovi Sacerdoti mediante copiosa unzione coll’olio de’ catecumeni. Egli dice intanto: « Degnatevi, o Signore, di consacrare e di santificare queste mani colla santa unzione e colla vostra benedizione ». Fa poscia il segno della croce, e continua: « Possa, nel nome di Gesù Cristo Signor Nostro, esser benedetto tutto ciò ch’essi benediranno, e consacrato e santificato tutto ciò che consacreranno e santificheranno». Ognuno degli ordinandi risponde : « Così sia ». – Si legano dopo di ciò le mani dei nuovi Sacerdoti con un nastro, e le dita consacrate sono disgiunte dalle altre col mezzo di una fettuccia di pane che servirà a purificarle; il Vescovo fa loro poscia toccare il calice, in cui v’ha e vino ed acqua, e fa toccare egualmente la patena sulla quale è un’ostia, loro dicendo nello stesso tempo: « Ricevete il potere di offrire a Dio il Sacrificio e di celebrare la Messa, tanto pei vivi quanto pei defunti». Ed eccoli Sacerdoti per sempre secondo l’ordine di Melchisedech! La prima funzione del Sacerdote è di offrire il Sacrificio, e tosto essi l’offrono in compagnia del Vescovo. La Messa celebrata in tal modo ricorda il rito praticato nei primi secoli: allorché in tutte le chiese non si faceva che un officio solo, il Vescovo stava all’altare, e tutti i Sacerdoti offrivano insieme con lui. Compiuta la Comunione, il Vescovo recita il bellissimo responsorio, composto colle parole che il Salvatore nell’effusione del suo cuore rivolse agli Apostoli, dopo di averli fatti partecipi del suo corpo e del suo sangue: « Io non vi chiamerò più miei servitori, o amici dilettissimi, poiché sapete tutto ciò che ho fatto in mezzo a voi. Voi siete i miei amici; fate quello che vi ho comandato». – Il Vescovo, dopo aver pronunziate queste parole, si assicura della fede dei novelli Sacerdoti facendo loro recitare il Simbolo degli Apostoli. Essi sono inviati per predicare; essi devono annunziare la fede in tutta la sua purezza. I nuovi eletti vengono poscia a prostrarsi a piedi del Prelato, ed egli impone loro le mani, dicendo: « Ricevete lo Spirito Santo: saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete »; ed a fine di mostrare ai medesimi la pienezza della loro podestà scioglie la pianeta tuttora avvolta sulle spalle, dicendo: « Iddio vi rivesta del manto della innocenza »; vale a dire, siate puri e santi onde render santi anche gli altri. – Esige poscia da ciascuno d’essi rispetto ed obbedienza, perciocché la Chiesa è bella e terribile come esercito schierato a battaglia. Cotal dote di beltà e di forza non può sussistere senza l’ordine, né l’ordine senza subordinazione. Questa per altro è dolce e mite nella Chiesa, ed è rivolta a fare di tutti i cuori de’ suoi Ministri un cuor solo ed un’anima sola, poiché si fonda interamente sulla carità. Ed ecco perché il Vescovo, finite tutte queste nobili e splendide cerimonie, dona il bacio di pace a tutti i novelli Sacerdoti. Ripetiamolo ancora una volta: si tenga dietro al complesso di tutte queste magnifiche cerimonie, e poi si dica se il culto cattolico non soddisfaccia ad un tempo la ragione, il cuore ed i sensi! Che potremmo ora dire dell’importanza del Sacramento dell’Ordine? – Una sola parola basta per provare la sua necessità sociale: non esiste società senza Religione, non Religione senza Sacerdoti, non Sacerdoti senza il Sacramento dell’Ordine; dunque senza il Sacramento dell’Ordine non può esistere società. E con questo intendo di dire vera società, vale a dire, consorzio d’uomini fra loro legati per conservare e perfezionare il loro essere fisico, intellettuale, morale. – Le società antiche, tranne la giudaica, erano piuttosto aggregazioni d’individui vincolati dalla forza, e non aventi altro scopo che l’esistenza e lo svolgimento degli interessi materiali. Le società protestanti, se, pur son degne di tal nome, non vanno debitrici del loro perfezionamento, per quanto il posseggono, che a quelle tradizioni cattoliche cui hanno conservate; giacché i popoli non possono vivere che per le verità cristiane; e vero cristianesimo non esiste fuori della Chiesa, né è che dal Sacerdozio cattolico debbono i nostri fratelli separati riconoscere la loro vita sociale, ossia tutto quello che loro rimane di credenze e di costumi.

Preghiera

O mio Dio, che siete tutto amore, ringrazio che abbiate stabilito diversi Ordini di Ministri nella vostra Chiesa. Ciò è per vostra gloria e per mia salute: concedetemi la grazia di poter essere figlio docile e rispettoso di questa Chiesa così santa, così bella, così tenera pei suoi figli. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose e il prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore avrò il più profondo rispetto per le persone consacrate a Dio.

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(Nota redazionale: Questo è il vero sacerdozio cattolico istituito dalla Chiesa di Cristo da secoli e millenni. Tutto ciò che si discosta dal conferimento di questo Ordine Sacro, definito infallibilmente ed irreformabilmente dal Santo Concilio di Trento, non si può definire cattolico, ma è blasfemo e sacrilego. Questo vale per la setta del Novus Ordo, che ha usurpato l’etichetta di “cattolica”, che non le appartiene più da tempo e serve per ingannare gli sprovveduti, nonché per le sette senza giurisdizione e missione canonica, lupi e briganti, melma che cola dal sepolcro imbiancato del massone Lienart [si, il grande eletto, il cavaliere Kadosh, l’iniziato perfetto, il cavaliere dell’aquila bianca e nera, quello di Nekam Adonai !!] e dello psicopatico famelico Thuc! Che Dio conservi la Chiesa Cattolica e le dia nuovamente splendore e visibilità … non praevalebunt …!)

 

 

 

 

Sacramento dell’ORDINE -1-

[J. –J. Gaume, Catechismo di perseveranza. Vol. II – Torino 1881]

I Sacramenti preparano, compiono, restaurano, rassodano la nostra unione col Signore Nostro. Ma questa unione divina deve essere possibile per tutte le generazioni che verranno a questo mondo fino alla fine dei secoli; ed ecco il Figlio di Dio ne volle stabiliti i mezzi; poiché Egli è il Salvatore di tutti gli uomini che sono stati, sono e saranno; ed a tant’uopo ha istituito:

Il Sacramento dell’Ordine.

I . Definizione di questo Sacramento. — L’Ordine è un Sacramento istituito dal Signor Nostro Gesù Cristo, che dona la podestà di fare l’ecclesiastiche funzioni, e la grazia di esercitarle santamente. Ritrovasi nell’azione, colla quale vengono consacrati i Ministri degli altari, tutto ciò che si richiede perchè sia un Sacramento della nuova Legge. 1° Un segno esteriore e sensibile sono l’imposizione delle mani ed il tocco dei sacri vasi, nonché le preghiere del Vescovo; 2° è un segno istituito da Nostro Signore Gesù Cristo; 3° è un segno che ha la virtù di produrre la grazia. Nel corso della presente Lezione troveremo le prove di tutto questo. Perciò l’Ordine è sempre stato ritenuto un Sacramento, come dimostrano le più antiche liturgie, quelle comprese eziandio delle sètte disgiunte dall’unità cattolica, cominciando fino dai primi secoli [Drouin, De re Sacrament. – Chardon. Istoria dei Sacramenti, t. VI, etc.], i Padri più illustri della Chiesa, quali, ad esempio, Sant’Agostino [Lib. II Cont. Epist. Parmen., c. 13], San Giov. Crisostomo [Lib. III, De Sacerdot. , c. 42], San Girolamo [Adv. Lucifer.], San Leone [Epist. Ad Dioscor. LXXXI], favellano dell’Ordine come di un vero Sacramento. Ed a tali irrefragabili autorità noi aggiungeremo soltanto il fatto seguente. Nel quarto secolo viveva un santo personaggio, di nome Martirio, il quale, per umiltà, rifiutava di esser ordinato Diacono, e diceva a Nettario, Patriarca di Costantinopoli, nuovamente battezzato ed ordinato: « Voi siete stato purificato e santificato mediante due Sacramenti, il Battesimo e l’Ordine » [Sezem. Histor. Lib. VII, c. 10]. Si credeva dunque che l’Ordine era un Sacramento istituito da Gesù Cristo, e che aveva, come il Battesimo, la virtù di conferire la grazia. Tu dunque, o Chiesa, fosti l’organo infallibile, su questo punto, come su tutti gli altri, della tradizione e della Scrittura, allorché scagliasti contro la superbia della ragione questo solenne anatema: «Se alcuno osa asserire, che l’Ordine o l’Ordinazione non è un vera Sacramento istituito da Nostro Signore Gesù Cristo, sia costui anatema! » [Conc. Trid., sess. XXIII, can. 3.]. – Questo Sacramento vien detto Ordine, perché in esso trovansi più gradi, subordinati gli uni agli altri, ma tutti rivolti ad un fine medesimo, siccome in seguito spiegheremo.

II. Elementi del Sacramento dell’Ordine. L’imposizione delle mani e il toccamente dei vasi sacri sono la materia di questo Sacramento; le preghiere del Ministro ne sono la forma [FERRARIS, art. Ordo, II. 49]. Queste preghiere non potrebbero essere più venerabili, atteso ché le veggiamo adoperate cominciando dai primordi della Chiesa fino ai nostri giorni: nell’ordinare i primi Diaconi gli Apostoli loro imponevano le mani e pregavano per I Ministri del Sacramento dell’Ordine sono i Vescovi: tale si è l’insegnamento della Chiesa cattolica.

III. Sua istituzione. Il Sacramento dell’Ordine fu preconizzato dal Salvatore, allorché disse ai suoi Apostoli che li avrebbe fatti suoi Ministri, e pescatori di uomini. [Matth. IV]. Egli li ordinò Sacerdoti la sera, in cui dopo di aver ai medesimi distribuito il suo corpo ed il suo sangue allor allora consacrato, rivolse ad essi le seguenti parole: « Fate questo in memoria di me.» Parole onnipotenti e sempremai efficaci, che conferiscono agli Apostoli ed ai loro successori il sublime potere di operare il miracolo che il Figlio di Dio aveva in quel punto operato, vale a dire, il tramutare il pane ed il vino nel suo corpo e nel suo sangue, e di distribuirlo ai fedeli. Egli finalmente li consacrò Sacerdoti com’esso, secondo l’ordine di Melchisedech, vale a dire, per sempre; ed ecco perchè il Concilio di Trento dichiarò anatema colui che avesse osato asserire che il carattere sacerdotale può venir cancellato. [Sess. XXIII, can. 4].

IV. Suoi effetti. Gli effetti del Sacramento dell’ordine sono: 1° di dare a colui che lo riceve una grazia che lo santifica e lo mette in istato di compiere le sue funzioni per il vanaggio della Chiesa; 2° d’imprimere un carattere incancellabile, di modo che non possa giammài venir perduto, né per conseguenza venir ristabilito mediante una nuova ordinazione ; 3° di conferire la potestà di consacrare il corpo di Nostro Signore, e la possanza di rimettere e di ritenere i peccati degli uomini. Laonde le funzioni del Sacerdote non hanno solamente per iscopo di consacrare l’Eucaristia, ma si estendono ben anco a tutto ciò che si riferisce alla salute dei fedeli. Egli è perciò che dicesi conferir l’Ordine un duplice potere: 1° sul corpo naturale di Gesù Cristo, cui i Sacerdoti possono consacrare e distribuire ai fedeli; 2° sul corpo mistico di Gesù Cristo, che è la Chiesa, di cui i Sacerdoti sono appunto come l’anima. Continuatori del Figlio di Dio, essi hanno il potere d’insegnare, di battezzare, di rimettere i peccati; in una parola, di fare tutto ciò ch’è necessario onde conservare ognor vivo questo corpo e condurlo alla sua eterna unione nei Cieli col nuovo Adamo che n’è il capo. – Tutti codesti poteri discendono dal medesimo Signor Nostro Gesù Cristo. E primieramente il potere di consacrare il suo corpo ed il suo sangue. Questo Ei conferì ai suoi Apostoli ed ai loro successori colle parole poc’anzi da noi accennate: “E preso il pane, rendé le grazie, e lo spezzò, e lo diede loro dicendo: Questo è il mio corpo, il quale è dato per voi; fate questo in memoria di me “. – In seguito, il potere d’insegnare, di battezzare e di governare, colle seguenti: “È stata data a me tutta la podestà in cielo ed in terra. Andate dunque, istruite tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo; insegnando loro di osservare tutto quello che vi ho comandato [Matt. XXVII, 18-20]. Finalmente il potere di rimettere tutti i peccati e di togliere tutti gli ostacoli, che potrebbero impedire ai fedeli di giungere al Cielo, mediante queste parole: “Come mandò me il Padre, anch’io mando voi…. Ricevete lo Spirito Santo: saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saran ritenuti a chi li riterrete [Giov. XX, 21-23]. In verità vi dico: Tutto quello che legherete sulla terra, sarà legato anche nel Cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra, sarà sciolto anche nel Cielo” [Matt. XVIII, 18].– Tali sono i poteri, formidabili agli Angeli stessi, che il nuovo Adamo ha confidato ai suoi Ministri. Quale umano linguaggio può convenevolmente esporre la dignità del Sacerdozio e la grandezza del Sacerdote? Era grande il primo uomo, che, costituito re dell’universo, comandava a tutti gli abitanti de’ suoi vasti domini, e n’era docilmente obbedito. Era grande Mosè, che con una parola divideva le acque del mare, e fra le sponde da quelle formate faceva passare a piedi asciutti un popolo intero. Era grande Giosuè, che intimava al sole: « Fermati, o sole»; e il sole si fermava, obbedendo alla voce di un mortale. Son grandi i re della terra, che comandano a numerosi eserciti, e fanno tremare il mondo col solo loro nome. Or bene, esiste un uomo più grande ancora; esiste un uomo, che ogni giorno, quando gli piaccia, apre le porte del Cielo, ed indirizzandosi al Figlio dell’Eterno, al Monarca dei mondi, gli dice: Discendete dal vostro trono, e venite. Docile alla voce di quest’uomo, il Verbo di Dio, Colui pel quale tutto è stato fatto, discende sull’istante dal soggiorno della sua gloria, e s’incarna fin le mani di questo uomo più possente dei re, più degli Angeli, più dell’augusta Maria; e quest’uomo gli dice: Voi siete mio figlio, in oggi vi ho generato; voi siete mia vittima, ed Egli si lascia immolare, collocare dove vuole, donare a chi vuole: quest’uomo è il Sacerdote!!! Ma il Sacerdote non è soltanto onnipossente sul Cielo e sul corpo naturale dell’Uomo-Dio; egli è ancora onnipossente e sulla terra e sul corpo mistico di Gesù Cristo. Mirate. Un uomo è caduto fra i lacci del demonio; quale potenza potrà liberanelo? – Chiamate in aiuto di questo infelice gli Angeli e gli Arcangeli, San Michele istesso, capo della celeste milizia, vincitore di satana e delle ribelli sue legioni. Il santo Arcangelo potrà bensì cacciare i demoni che assediano questo sventurato, ma non già quello che ha sede nel suo cuorem non potrà mai infrangere le catene del peccatore che pure ha riposto in lui la sua fiducia. A chi dunque rivolgersi per esserne liberato? Chiamate Maria, la Madre di Dio, la Regina degli Angeli e degli uomini, il terrore dell’inferno: Ella può bensì pregare per quest’anima, ma non può assolverla dal minimo peccato: il solo Sacerdote ne ha il potere. Mirabile a dirsi! Supponete che il Redentore in Persona discenda visibilmente in una chiesa, ed assidasi in un confessionale per amministrare il Sacramento della Penitenza, mentre un Sacerdote va collocarsi in un altro. Il Figlio di Dio dice: Io ti assolvo; e il Sacerdote dall’altra parte pronunzia: Io ti assolvo; così dall’uno come dall’altro il penitente rimane egualmente assolto da’ suoi peccati. Laonde il Sacerdote, possente come Iddio, può in un istante strappare all’inferno il peccatore, renderlo degno del paradiso; può, da schiavo del demonio, tramutarlo in un figlio di Abramo, e Iddio medesimo si obbliga di riportarsi al giudizio del Sacerdote, di ricusare o concedere il suo perdono, secondo che il Sacerdote ricusa od accordi l’assoluzione, purché il penitente ne sia degno [Maxim. Episc. Taurin]. La sentenza è pronunciata dal Sacerdote: Iddio non fa che sottoscriverla. Si può mai concepire potere più grande, dignità più sublime? – Più non mi meraviglio se ascolto il Figlio di Dio rivolgere ai Sacerdoti queste sublimi parole: « Colui che vi ascolta, ascolta me; colui che vi disprezza, disprezza me »; o se rivolge il seguente avvertimento a tutte le nazioni dell’universo: «Guardatevi dal toccare i miei unti; colui che li tocca, tocca la pupilla de’ miei occhi ». Più non mi meraviglio se vedo nel Concilio di Nicea il padrone del mondo, il magno Costantino, scegliere per sé l’ultimo posto dopo quelli di tutti i Sacerdoti, e ricusarsi di sedere, se prima non ha ottenuto il loro permesso. Più non mi meraviglio se ascolto San Francesco d’Assisi, che per umiltà ricusò finché visse l’onore del Sacerdozio, esclamare: Se incontrassi in compagnia di un Angelo un Sacerdote, piegherei primieramente il ginocchio innanzi al Sacerdote, ed in seguito innanzi all’Angelo. No; nulla di tutto questo mi reca meraviglia; ciò solo che all’eccesso mi sorprende, si è di vedere gli uomini ed i fanciulli stessi disprezzare il Sacerdote! Abbiamo fin qui parlato della sua possanza; ma chi potrà enumerare i suoi benefizi? Il Sacerdote è il benefattore della umanità colle sue preghiere, colle sue istruzioni, colla sua carità. – Colle sue preghiere. Il mondo è un vasto campo di battaglia, in cui gli uomini stanno alle prese colle potenze infernali e colle proprie passioni. La vittoria sarebbe perduta per gl’infelici figli di Adamo, se novelli ed onnipossenti Mosè non pregassero per loro sulla montagna; questi Mose sono i Sacerdoti. La terra colpevole invia notte e giorno verso il Cielo milioni di delitti che provocano le vendette di Dio; come in un giorno di tempesta la folgore scoppierebbe ad ogni minuto sulla testa dei colpevoli, se i Sacerdoti, mediante le loro preghiere e il loro sacrificio, non le trattenessero nelle mani dell’Onnipossente. Gli uomini bisognosi e colpevoli mancano del pane necessario al loro sostentamento: peccatori quali sono, come potrebbero invocare la bontà del Padre che non rifiniscono di oltraggiare? Ma il Sacerdote innalza per essi verso il Cielo le pure sue mani, e la rugiada benefica feconda le campagne, e l’abbondanza succede alla carestia. – Colle sue istruzioni. Il mondo è un vasto deserto in cui regna continuamente una fonda oscurità; mille strade s’incrocino, ingannano i viaggiatori e li traggono nell’abisso; mille precipizi sono sparsi ovunque; mille mostri affamati aspettano preda a gola spalancata, con occhi a viaggiatore costretto a percorrere il pericoloso deserto della vita. Donde vien esso? Ei nulla ne sa. Dove va? Ei lo ignora. Qual via deve pigliare? Egli non sa discernerla. Ma sarà dunque infallibilmente perduto? No; il Sacerdote è pronto al suo soccorso; guida fedele, viene a prendere per mano il giovane viaggiatore, gl’insegna la strada, la percorre in sua compagnia, e non lo abbandona che dopo averlo messo al sicuro. – Ecco ciò che fa il Sacerdote per tutti gli uomini che vengono al mondo. Ecco quello che ha fatto pel genere umano tutto intero, per questo cieco si fattamente perduto, che, or sono diciotto secoli, più non sapeva correre che di abisso in abisso. È il Sacerdote che disperde la nebbia degli errori più grossolani, più brutali, più vergognosi, de’ quali il mondo era vittima infelice e conculcata; è il Sacerdote che toglie il mondo dalla barbarie, e gl’impedisce di ricadérvi; è il Sacerdote, che a prezzo del suo sangue stesso e della sua vita civilizza tuttora le selvagge nazioni, come un tempo civilizzò i nostri padri. [Si possono consultare le Lettere recentissime dei Missionari dell’Oceania, pubblicate negli Annali della Propagazione della Fede, n. 56]. Colla carità. Percorrete le città e le campagne, informatevi chi ne fu il fondatore, chi sia il sostegno delle istituzioni veramente utili all’umanità, così per l’infanzia che ha fatto appena il suo ingresso nel mondo, come per la vecchiaia che ben presto è per uscirne: voi sempre udrete nominare un Sacerdote. Discendete nella capanna del povero, chiedetegli chi mai gli abbia donato il pane di cui si ciba; e vi risponderà ch’è un Sacerdote, od una persona eccitata dallo zelo del Sacerdote. Accostatevi al capezzale dell’ammalato, di quell’ammalato che tutto il mondo abbandona, di cui tutti si stancano; interrogatelo chi sia l’angelo consolatore che versa nel suo cuore il balsamo del refrigerio e della speranza; e vi risponderà, un Sacerdote. Penetrate nella carcere del malfattore; chi è che alleggerisce il peso de’ suoi ferri? un Sacerdote. Salite sul patibolo del condannato; chi trovate voi a fianco della vittima? è qui pure un Sacerdote, un Sacerdote che con una mano presenta la croce a quello sciagurato, coll’altra gli addita il Cielo. Esaminate ad una ad una tutte le miserie corporali e spirituali della povera umanità, e non ne troverete una sola che non sia giornalmente alleviata dal Sacerdote, senza fasto, senza ostentazione, senza terrene speranze, senza umane ricompense. Noi siamo obbligati di amar tutti, di amare come noi stessi i nostri nemici, e ciò nondimeno a’ giorni nostri non si ama il Sacerdote! In oggi si odia il Sacerdote, e si fa scopo di sacrileghi ludibri, di empie calunnie! Il Sacerdote non se ne lagna: il discepolo non è da più del Maestro! La sua bocca non s’apre che per perdonare, come il suo braccio non si muove che per benedire. – A tutti coloro che si affliggono nel vederlo in tal guisa disconosciuto, oltraggiato, perseguitato, ei si contenta di rispondere come il suo Maestro, quando portava la croce sul Calvario: Figliuole di Gerusalemme, non piangete su di me; egli è su di voi e sui vostri figli che dovete piangere; il popolo che oltraggia il proprio Sacerdote si fa complice del delitto de’giudei; egli avrà parte alle sue punizioni. E frattanto, ad imitazione de’ primi Cristiani che ritardavano con tutta la forza delle loro preghiere la caduta dell’Impero Romano, il Sacerdote scongiura colle proprie suppliche gli uragani già pronti a scatenarsi sul mondo colpevole. Imitatore del divino Esemplare, ei cerca di passare operando il bene. I suoi più crudeli nemici ancor essi sono partecipi della sua carità: udite. Uno di quei grandi scellerati, il quale, durante i giorni delle nostre sventure, si era macchiato de’più orribili delitti, e più volte si era bagnato nel sangue dei Sacerdoti, cadde infermo. Egli aveva giurato che nessun Sacerdote avrebbe mai posto piede nelle sue stanze, o almeno, se per sorpresa vi si fosse intromesso, più non ne sarebbe uscito. Intanto la malattia assunse aspetto mortale, ed un Sacerdote ne venne avvisato, senza dissimulargli le ostili disposizioni dell’infermo. Ma non importa: il buon pastore sa che deve offrire la vita per salvare le sue pecorelle. Egli perciò fa di se stesso il sacrificio senza punto esitare, e si presenta coraggioso. Al vederlo colui monta in furia, e raccogliendo tutte le sue forze: E che, esclamò egli con voce terribile, e che? Un Sacerdote a casa mia! Mi si diano tosto le armi! — Fratello mio, gli chiese allora il Sacerdote, che volete voi farne? Io ne ho delle più possenti da contrapporvi: la mia carità e la mia costanza. — Presto le mie armi! ripeteva quel maniaco ; un Sacerdote ai miei fianchi? A me le armi! — Com’è facile immaginare, queste non gli furono recate; per cui traendo fuori del letto un braccio nerboruto: Sai tu, disse allora al Sacerdote, sai tu che questo braccio ha sgozzato dodici tuoi pari? — V’ingannate, o fratel mio, soggiunse allora dolcemente il Ministro; a quel numero ne manca uno; il dodicesimo non mori; il dodicesimo son io. Mirate, proseguì poscia scoprendosi il petto, ecco le cicatrici dei colpi che mi scagliaste. Iddio mi ha conservato in vita per salvarvi: e in ciò dire gettossi con tutto l’affetto al collo dell’infermo, ed lo aiutò a ben morire. Se mille Sacerdoti non hanno offerto simile esempio, egli è perché ad un solo si è presentata sì bella occasione. Ecco il Sacerdote!!!

V. Disposizioni per ricevere il Sacramento dell’Ordine. – Oltre una scienza convenevole e una virtù più che ordinaria, che faccia dei Sacerdoti altrettante guide e modelli del gregge confidato alle loro cure, tutti quelli che aspirano agli ordini santi devono avere eziandio, l’età richiese dai sacri canoni. Pel suddiaconato ventidue anni; pel diaconato ventitré; pel presbiterato venticinque [Conc. Trid. Sess. XXIII, c. 12] . Può forse immaginarsi cosa più saggia di questa disciplina? Se anche negli affari mondani è prescritta un’età matura all’uopo di poter occupare un’impiego, a ben maggior dritto la esige la Chiesa in coloro che desiderano di essere innalzati al Sacerdozio. 2° Essi non devono essere legati da qualsiasi censura od irregolarità che li renda indegni del Ministero ecclesiastico, [ad es. l’appartenenza alla massoneria, come fu il caso del sig. Achille Lienart,  “nokem adonay”-cavaliere kadosh 30° liv. che, non avendo mai ricevuto l’ordine, non lo ha mai neppure trasmettere ad alcuno, compreso M. Lefrebvre e gli epigoni delle pseudo-fraternità “non” sacerdotali … attenti al lupo -ndr.!!!!] od inabili ad esercitarne le funzioni. 3° Devono possedere una singolare vocazione per questo stato di vita. A Dio si appartiene lo scegliere i suoi ministri, come al re di eleggere propri servitori ed ufficiali.

VI. Necessità del Sacramento dell’Ordine. Codesto Sacramento è necessario alla Chiesa ed alla società. Senza il Sacramento dell’Ordine che procura ministri alla Chiesa e superiori ai fedeli, la Chiesa stessa non sarebbe più una società: tutto cadrebbe nel disordine e nella confusione; imperocché non possono darsi superiori che comandino senza inferiori che obbediscano. Ma se la Chiesa non esistesse, la società civile, di cui ella è anima, non potrebbe nemmeno esistere; poiché, sì come in seguito proveremo, non si dà società senza religione; non religione senza la Chiesa; non la Chiesa senza Vicari e Sacerdoti; non Sacerdoti senza il Sacramento dell’Ordine: dond’è che il Sacramento dell’Ordine è il cardine della Religione e dello Stato. Dopo di questo potrete voi meravigliarvi, se prima di conferire la podestà e la dignità del Sacerdozio, il nuovo Adamo e la Chiesa sua sposa richiedano lunghe prove ed austere preparazioni? Ah! è a questo proposito specialmente che si deve ammirare la loro divina saviezza !

Il primo passo verso il Santuario, è il ricevimento della tonsura. I più antichi Padri della Chiesa ed i sommi Scrittori ecclesiastici attestano che ella viene dagli Apostoli. Si assicura però che il primo ad istituirla fu l’apostolo San Pietro in memoria della corona di spine del Signor Nostro [DIONYS., De Eccl. hierar., 6., part. 2. — AUG., Serm. XVII, ad patres in eremo. – HIERON. in cap. XLIV Ezech. — RABAN. MAUR., lib. De Institut. cleric. — BED., lib. V, Hist. angl., c. 22]. Ma checché sia di ciò, la tonsura era stabilita nell’ottavo secolo, e sappiamo che risaliva eziandio a tempo più antico [Vedi FLEURY, Istituzioni di diritto canonico, part. I, c. 5]. Ora, portare la testa rasa era costume ignominioso che rendeva spregevole, dacché presso i Greci ed i Romani era questo un contrassegno di schiavitù [ARLSTOPH., in Avibus. — PHILOSTR., lib. VII]; ed ecco perché, secondo San Cipriano, si recidevano i capelli e la barba ai Cristiani condannati alle miniere [Epist. LXXVII]. Laonde la corona clericale è un segno di modestia e di rinunzia al mondo, una professione di amore verso la Croce e le umiliazioni di Gesù Cristo, che con tal mezzo appunto ha trionfato del mondo, e perciò i suoi successori non devono portare altre armi che queste. Assumere le insegne dell’Uomo-Dio è dunque il primo passo [è ovvio che chi non abbia fatto questo passo, né i successivi, non potrà mai considerarsi un sacerdote cattolico! -ndr.- ] da farsi per tutti quelli che aspirano all’onore di continuare la sua missione. Tutti i significati della tonsura son resi sensibili dalle preghiere e dalle cerimonie di cui fa uso la Chiesa nel conferirla. – Il Vescovo assiso su d’un faldistorio nel mezzo dell’altare, alla guisa del Salvatore medesimo nel mezzo de’ suoi discepoli, chiama gli aspiranti a ricevere la tonsura, ognuno pel suo proprio nome, onde mostrare che niuno per se stesso può entrare nella santa milizia, ma è mestieri esservi chiamato da Dio alla maniera di Aronne [Ebr. V, 4]. Tutti rispondono a lor volta di essere presenti, e si avvicinano all’altare per rendere testimonianza della loro prontezza nel corrispondere alla grazia della loro vocazione. Essi sono in sottana, lunga veste nera, che la Chiesa ha adottato pei suoi Ministri. Il colore e la forma denotano che devono essere morti al mondo, e che devono rinunziare colla mortificazione ai desideri della vita presente. Portano sul braccio sinistro una cotta bianca, simbolo di loro innocenza; nella mano destra un cero acceso, immagine eloquente della carità che infiamma i loro cuori, e li spinge a consacrarsi a Dio, e a dedicarsi interamente al suo servigio. [Vedi M. THIRAT, Spirito delle cerimonie della Chiesa, p. 141]. Allorquando sono inginocchiati attorno all’altare, il Vescovo si alza e supplica il Signore a cangiare, a purificare, ad infiammare il cuore de’ novelli suoi servi.- Tutto il popolo unisce le proprie alle preghiere del Pontefice, intonando il salmo che comincia : « Salvatemi, o Signore, poiché in voi solo io spero ». Nel mentre che il coro continua il canto, il Vescovo recide colle forbici in forma di croce i capelli dei tonsurati, e questi nello stesso tempo pronunziano quelle parole che attestano il loro desiderio di separarsi dal mondo, e di non voler possedere che il solo Gesù Cristo: « Il Signore è il mio calice e la mia ricchezza; siete voi, o mio Dio, che mi restituite la mia eredità ». Il Vescovo poscia adorna i tonsurati colla cotta, simbolo dell’innocenza nella quale devono vivere costantemente, e loro dice: « Vi rivesta il Signore dell’uomo che fu creato ad immagine di Dio, in uno stato di giustizia e di santità perfetta! » Con ciò la cerimonia è compiuta. Il Chierico più non appartiene al mondo; è servo di Dio, di cui ha indossato le insegne; il Nuovo Adamo è d’ora innanzi il solo suo modello. – La tonsura non è un Ordine, ma sebbene una santa cerimonia stabilita dalla Chiesa per separare dal mondo coloro che essa chiama allo stato ecclesiastico. È una specie di tirocinio che introduce al chiericato, soggetta alle leggi che riguardano i membri del clero, e diviene una preparazione per ricevere gli Ordini. Ma non basta l’aver separati dal secolo coloro che devono comporre la santa tribù, e che sono destinati a diventare la luce del mondo, il sole della terra, gli ausiliari di Gesù Cristo nell’opera di redenzione. Un esercito, perché possa riuscire vittorioso, deve essere disciplinato, deve avere e capi e soldati con attribuzioni diverse. Ed ecco perché Gesù Cristo ha stabilito diversi Ordini nel chiericato. « Siccome, dice santo Concilio di Trento, il Sacerdozio è una cosa tutta divina, era conveniente pel miglior governo della Chiesa, e affinché fosse esercitato con tutta la possibile dignità e col maggior decoro, che vi fossero molti e diversi ordini di ministri, i quali secondo i doveri delle proprie incombenza aiutassero i Sacerdoti a compiere le loro funzioni, e che essendo stati primieramente insigniti della clericale tonsura, salissero per questi diversi Ordini, come per altrettanti gradini, alla sommità del Santuario ». [Sess. XXIII]. Dopo queste parole del sacro Concilio si può risguardare l’altare come una montagna, santa ad un tempo e terribile, sulla quale non si può ascendere che lentamente, e dopo lunghe e rigorose preparazioni.I diversi Ordini sono dunque gli scalini di questa misteriosa montagna. Se ne contano sette, cioè: quattro minori: quello dell’Ostiario, del Lettore, dell’esorcista, dell’Accolito; e tre maggiori, Suddiaconato, Diaconato, Presbiterato. Questa distinzione di Ordini risale ai tempi apostolici [Lettere del Papa S. Cornelio nel 231. – Quarto Concilio di Cartagine, nel 398]. – Ascoltiamo su ciò l’Angelo delle scuole: la sua dottrina è ammirabile. «Tutti gli Ordini, esso dice,si riferiscono all’Eucaristia, e la loro dignità viene dal rapporto più o meno diretto ch’essi hanno con questo adorabile Sacramento. Nel grado il più sublime è il Sacerdote, perciocché consacra il corpo ed il sangue del Salvatore; nel secondo è il Diacono, che lo distribuisce; nel terzo il Suddiacono, poiché prepara nei sacri vasi la materia che deve essere tramutata; nel quarto l’Accolitato, che la prepara e la presenta in vasi non consacrati. Gli altri Ordini sono istituiti per preparare coloro che devono ricevere l’Eucaristia se sono impuri od immondi. Ora questi possono esser tali per tre modi: gli uni possono essere battezzati ed istruiti, ma se fossero energumeni non devono essere ammessi alla santa Comunione; dond’è che nel quinto grado si trovano gli Esorcisti, poiché sono stati stabiliti per liberarli dal demonio e renderli degni della santa Mensa. Altri non sono ancora né battezzati né istruiti sufficientemente, ma desiderano di esserlo; e per questi si trovano nel sesto grado i Lettori che sono incaricati di prepararli con le loro istruzioni, al Sacramento dei nostri altari. Gli ultimi finalmente sono gli infedeli, indegni per conseguenza di partecipare ai santi misteri; e per essi pure, al settimo grado si rinvengono gli Ostiarii, il cui ufficio è di allontanarli dalle congregazioni dei fedeli [Tutti questi divini Ministri, destinati dal loro stato a ciò che riguarda il culto di Dio ed il servizio della Chiesa, sono compresi sotto il nome di Chierici. Questa parola significa che sono scelti dal Signore, che sono sua ricchezza, e che il Signore medesimo è la loro eredità. San Gerolamo a Nepoziano]. Essi inoltre devono mantenere l’ordine e la decenza nell’interno del tempio in cui si deve offrire l’augusto Sacrificio » [III p., Suppl. 9, art. 2]. E non è questa forse un’ammirabile gerarchia? Ecco quanto guadagna la Religione, allorché sia degnamente studiata nelle sue istituzioni!

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, vi ringrazio che abbiate istituito il Sacramento dell’Ordine per perpetuare la vostra reale presenza fra gli uomini, e per donare dei Ministri alla vostra Chiesa: io vi chiedo in grazia di poter nutrire un sommo rispetto per questo Sacramento, e per quelli che lo ricevono. – Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose e il prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore, pregherò spesso pei Sacerdoti. [continua …[

[Le sottolineature sono redazionali]

 

 

 

 

 

 

F. Sarda Y Salvani: MASSONISMO E CATTOLICESIMO -3-

F . Sarda y Salvany:

MASSONISMO E CATTOLICESIMO:

Parallelo tra la dottrina delle logge e quella della santa Chiesa cattolica, apostolica e romana. -3-

XVII

Quanto differisce la dottrina del massonismo e quella del Cattolicesimo circa la beneficenza

Su questo punto, come per tutto il resto, il criterio massonico è in opposizione diretta con il criterio francamente cristiano; con questa sola differenza, qui il nemico lavora in modo molto più abile, ed introduce nella società una confusione molto più grande. Qui il demone della massoneria porta la sua maschera fin sugli occhi, per così dire; cosa che fa che sia banalmente considerato come l’angelo della carità, anche da persone che su altri soggetti sono molto abili a comprendere dall’inizio il suo inganno infernale. Qui si scambia frequentemente per dolce riflesso della luce celeste ciò che non è altro che il sinistro bagliore delle fiamme dell’abisso. Qui l’arte di ingannare è il più possibile ingegnosa; al punto tale che l’orpello e lo stagno circolano talvolta sul mercato della vita sociale e sono accettate come moneta corrente allo stesso titolo dell’oro e dell’argento meglio purificato. La ragione di ciò, a ben considerare, si trova nella delicatezza della materia alla quale si fa subire questa alterazione. In altre branche, il nemico ha bisogno di sostituire al vizio una virtù, e questo per dare a questo vizio i colori dell’apparenza di questa stessa virtù, ciò che, come si vede, è una cosa difficile. Qui invece la cosa è più facile, poiché il sentimento naturale di compassione che ci ispirano le afflizioni ed i bisogni dei nostri simili, diviene simpatia e finisce per sedurre con ciò che sarebbe imprevidente, anche dopo aver rimosso l’aureola del soprannaturale. Qui il naturalismo presenta qualcosa di nobile e di elevato che gli permette certi falsi aspetti del divino, anche quando compie gli sforzi più grandi per separarsi da Dio e muoverGli guerra. È dunque un campo di operazioni più favorevole alla seduzione, e la massoneria esercita questa seduzione in tre maniere: 1° – essa storna l’attenzione dell’uomo dai bisogni principali del suo fratello, come quelli dell’anima, per fissarla solo sui bisogni del suo corpo che sembrano più pressanti, perché sono più visibili e più sensibili; 2° – mediante questi obiettivi falsificati o per lo meno mutilati, essa gli propone egualmente una serie di stimolazioni puramente umane, come la pura soddisfazione di un sentimentalismo femminile, o la soddisfazione ancor più grossolana dell’amor proprio, della vanità e del rispetto umano; 3° – conformemente al carattere puramente umano di questi stimoli, essa suggerisce come mezzi per esercitare la carità, mezzi semplicemente terrestri, subordinati ad una moralità puramente terrena, e pertanto esente da qualsiasi scrupolo. Ecco i tre aspetti che, a nostro umile avviso, caratterizzano la beneficenza massonica, volgarmente chiamata “filantropia”, e la pongono in diretta opposizione con la beneficenza cristiana, la sola che possa glorificarsi del bello e santo nome di “carità”. La carità, al contrario di ciò che abbiamo visto per la filantropia di cui la massoneria si copre come maschera, si distingue per i seguenti caratteri: 1° – Essa ha come obiettivo l’uomo completo, l’uomo intero, vale a dire con il suo corpo e l’anima; ma il fine supremo dell’anima è il suo principale scopo. 2° – L’amore di Dio ed il sentimento del dovere, ecco il suo principale stimolo: e di conseguenza, in tutti i casi essa ha un motivo sovrannaturale. 3° – I suoi processi sono in tutto conformi alla legge divina, e per la stessa ragione non sono per nulla, neanche nei minimi dettagli, in opposizione alla più rigida morale. Questi tre punti di vista, del massonismo e del Cattolicesimo relativamente alla beneficenza, vengono esposti, confrontati ed esaminati nei paragrafi seguenti che, come i nostri lettori avranno avuto già modo di intravedere, hanno un carattere praticamente incontestabile ed hanno nell’ora presente una sovrana opportunità.

XVIII

Si esamina il primo dei tre punti di vista segnalati più in alto.

Trattando del modo di sovvenire ai bisogni del prossimo, dobbiamo mostrare la differenza radicale che esiste, tra il massonismo ed il Cattolicesimo, nel modo di apprezzare questi bisogni. Per il massonismo, che non è altro che “naturalismo”, l’uomo non ha altri bisogni che quelli della vita naturale; questi bisogni occupano il primo posto, o meglio essi costituiscono gli unici bisogni. Tutto il fine dell’uomo, secondo il naturalismo massonico, è in se stesso e non esce dalla sfera della sua vita materiale e terrena. I soli bisogni degni di essere presi in considerazione nell’uomo sono quelli che si riconducono al suo corpo, al più, alla sua intelligenza, per ciò che riguarda le verità della filosofia umana. Da questo il naturalismo conclude con una logica rigorosa, benché si appoggi sopra un falso principio, che la sofferenza, sia fisica che morale, è per la creatura umana il male essenziale, e che non possa essere vista altrimenti, e sia da considerare unicamente nella sua opposizione al bene terrestre. Da ciò risulta che ogni beneficenza massonica, o ispirata dal massonismo, abbia come unico oggetto di liberare l’uomo da questa sofferenza, o almeno alleviarla, senza andare assolutamente più in là, poiché non esistono altri orizzonti per i suoi occhi bendati., Questo uomo che pretende a torto di essere caritatevole, crede bonariamente di aver fatto molto, o meglio di aver fatto tutto quando abbia appagato la fame dell’indigente con un pezzo di pane, o coperto le sue membra nude con un sottile pezzo di stoffa, o portato qualche sollievo ai suoi dolori, procurando i rimedi prescritti dal medico o dal chirurgo e, quando non riesce nell’intento, si crede nell’impossibilità assoluta di fare ciò che sia di più perfetto; e a ben vedere non si può esigere di più da chi nell’uomo non vede che il suo involucro esteriore, cioè solamente il suo corpo. Il Cattolicesimo ha dell’uomo una idea ben superiore, e pertanto si pone a suo riguardo in modo completamente diverso. Esso vede in lui un coro e soprattutto un’anima; di conseguenza, distingue tra ordini di bisogni e di sofferenze, e prescrive in suo favore due specie di opere di beneficenza, che il Catechismo designa sotto il nome soave di « Opere di misericordia corporale e spirituale ». E siccome riconosce la superiorità dell’anima sul corpo, riconosce pure, molto logicamente, che le opere corporali appartengano ad un ordine inferiore alle opere spirituali, e che esse debbano essere subordinate a queste ultime, benché possano essere esse stesse elevato allo stesso rango se nel compierle ci si proponga un fine spirituale, oltre al motivo superiore della fede che deve animarle tutte. Tale è l’apprezzamento giustissimo del Cattolicesimo. Il fine supremo dell’uomo, il suo fine più nobile, l’unicamente importante, poiché definitivo, è quello della sua anima immortale, che deve salvare e che può perdere. Dunque ogni opera di beneficenza, qualunque sia la sofferenza che abbia come scopo di alleviare, deve principalmente avere di vista questo fine ultimo dell’uomo, ed essere considerato principalmente come un mezzo per arrivare a questo fine nobilissimo. Il pane che viene dato per lenire la fame, il vestito destinato a coprire la nudità del povero, la visita ed il rimedio destinato al sollievo dell’infermo, hanno come fine immediato, e per così dire tangibile, di lenire la fame e vestire la nudità, risollevare da un’infermità, ma devono avere come fine superiore ed ultimo il perfezionare l’anima ed aiutarla ad ottenere i beni che gli sono propri e cioè: la verità e la grazia di Dio, e soprattutto la felicità eterna! Certamente questo non fa che questo soccorso materiale che viene dato, valga di meno o sia dato con minore spontaneità ed abbondanza; ma esso viene porto in maniera più degna dell’uomo e della sua nobilissima condizione; esso viene offerto non come ad un cane o ad un cavallo, ai quali vogliamo unicamente conservare la vita, ma come si deve effettivamente donare ad un essere ragionevole per il quale si desiderano, oltre all’assistenza passeggera del momento, le gioie della suprema felicità. Questo sia detto per i bisogni che possono in qualche modo essere soccorsi, e per i dolori che possono ricevere qualche sollievo. Ma quando il bisogno è tale che nessun soccorso umano possa soddisfarlo, e che la spina del dolore sia così profonda che alcuna mano d’uomo può strappare, ah! È allora che si vede molto chiaramente quanto sia vano, impotente, sterile, la beneficenza puramente umana, e quanto sia sublime, feconda e potente la vera carità! È allora infatti che la luce della fede rivela agli occhi dell’afflitto tutta la sua filosofia sul dolore insegnandogli in primo luogo, che essa è transitoria, e che di conseguenza non ha il carattere del male assoluto ed inaccessibile ad ogni speranza; in secondo luogo che essa è meritoria e che può e deve essere, accettandola con rassegnazione, il principio e la causa di una felicità infinita; in terzo luogo che essa è soddisfattoria, vale a dire che essa serve mirabilmente, nel piano divino, a purificarci, a farci espiare e pagare in questa vita i debiti a volte molto pesanti che abbiamo contratto con la suprema Maestà. Tutto questo modifica, eleva e, in qualche modo, trasforma talmente la sofferenza agli occhi del buon cristiano, che considera l’afflizione non solo come qualche cosa di tollerabile, ma spesso, e lo si vede in tante anime giuste, come qualcosa di desiderabile. Trasformazione meravigliosa, impero completo dello spirito sulla materia, realizzata dalla fede e dalla grazia di Dio, per rendere efficace la vera carità, che è unicamente soprannaturale e cristiana. Si constata dunque quale distanza immensa, infinita, separi primariamente l’idea cattolica della carità, dall’ideale naturalista e massonica della stessa virtù. Questa differenza traspare in modo ancor più evidente per il modo in cui il massonismo ed il Cattolicesimo considerano l’uomo ed il suo fine ultimo, come constateremo anche più chiaramente nei successivi paragrafi.

XIX

Si esamina il secondo dei punti segnalati più in alto.

Il massonismo essenzialmente opposto al Cattolicesimo, nel modo di apprezzare l’oggetto materiale della beneficenza, vale a dire l’uomo, non lo è meno nell’apprezzare il motivo formale e della regola di questo apprezzamento, che deve può e essere esclusivamente l’amore di Dio. Vediamo ora questo secondo aspetto della questione, che non offre un minore interesse. Il motivo formale delle beneficenza massonica o naturalista si riduce all’amore dell’uomo per l’uomo stesso, senza considerazione per un’altra idea superiore. In vero questo sentimento è chiamato giustamente “filantropia”, parola greca che significa “amore dell’umanità”. Questa parola è sonora ed ampollosa, non possiamo negarlo, e talvolta è a questa sonorità musicale che bisogna attribuire l’effetto che produce su certe immaginazioni. Ma se ci arrestiamo un istante ad esaminarne il valore ideologico, è possibile che lo troveremo anche vuoto ed insignificante, per quanto in apparenza pomposa, come succede per la maggior parte delle parole la cui risonanza è in proporzione alla loro vacuità di significato. Amare l’uomo solo per l’uomo, significa esporsi a due inconvenienti molto gravi, e così possiamo diffidare di tutti i filantropi passati e presenti ed evitarli con il loro sistema assurdo ed impotente. In primo luogo si presentano dei casi, e sono i più frequenti, nei quali l’uomo è di per se stesso poco amabile, sia che si consideri dal punto di vista fisico o da quello morale: ed in questi casi, se non devo amare l’uomo per ciò che vale, ditemi, vi prego, come posso fare per dare una base, un motivo all’amore che devo avere per degli esseri poco simpatici? In secondo luogo, esistono degli altri casi, anche molto numerosi, in cui l’uomo è estremamente amabile, ed allora, se non ci sono altre ragioni che amare l’uomo per se stesso, oh! … è ancora peggio: ditemi, quali limiti, qual freno darete a questo sentimento per impedirgli di essere disordinato e mantenerlo entro i giusti limiti? – Ci si permetta di dare qualche sviluppo a ciascuno dei due pensieri: l’uomo, abbiamo detto, è spesso un essere molto poco amabile. Gli esempi in appoggio a questa verità sono conosciuti da tutti, e sarebbe ozioso riportarli per provarlo con lunghe dimostrazioni. Considerato fisicamente, il povero è d’ordinario ripugnante: quasi sempre il misero è disgustoso e più sovente, l’infermità impressiona negativamente. I poveri simpatici e buoni non si trovano che nei drammi teatrali o nei romanzi: nella vita reale, la casa del povero, lungi dall’attirare, ripugna. Bisogna fare uno sforzo, fare spesso violenza ai movimenti naturali della sensibilità e dell’impressionabilità per avvicinarsi al letto di un tisico, per penetrare nella mansarda o nella soffitta dell’indigente. Chiamiamo a testimoniarne le persone le più generose e le più dedite alle opere di carità. Coloro che sono decisi su questo punto, lo sono perché sono riusciti a vincere da sé nella battaglia contro la natura; ed è in ciò che precisamente consiste il merito principale della loro virtù. Questa battaglia esiste specialmente quando si considera nel povero non la sua difformità fisica, ma la sua difformità morale, che è talvolta ancor più sordida. Ci sono dei poveri che sono realmente buoni, che hanno un cuore nobile e riconoscente, ma ve n’è di quelli che sono cattivi ed hanno degli istinti perversi, vili, abietti, e che non sanno ricambiare i benefici ricevuti se non con una nera ingratitudine. E tuttavia essi devono essere amati da colui che è veramente caritatevole, e molto più degli altri, perché deve soccorrerli non solo nei loro bisogni fisici, ma ancor più correggerli nelle loro deformità morali. E benché lo spirito ripugni nell’avvicinarsi ad una di queste creature degradate, bisogna ugualmente accostare il proprio cuore a questo altro cuore a volte gangrenato e corrotto. Ditemi ora dunque: quando l’uomo non è amabile, né fisicamente né moralmente; quando al contrario è nel fisico e nel morale antipatico, disprezzabile, degno di odio e talvolta ben colpevole, se l’uomo non deve essere amato se non quando e perché lo meriti, come tale uomo potrà essere amato? Che il naturalismo discorra finché vorrà, esso non troverà mai un motivo sufficiente per determinarsi a fare del bene a tali creature, se non nel merito che tale azione ha agli occhi di Dio nostro Signore. – Vediamo ora la controparte di questo ragionamento. Si supponga che un misero o indigente, invece di essere poco simpatico, lo sia sfortunatamente anche oltre misura. Supponiamo il caso, che non è raro, in cui una donna che possiede un fascino pieno di attrazione e che abbia bisogno del soccorso di un uomo, o ancora quello in cui un uomo nel pieno vigore giovanile abbia bisogno di essere soccorso da una donna dalla mano carezzevole e delicata. Se la beneficenza deve essere puramente umana, come dice il naturalismo, chi regolerà i movimenti naturali del cuore? E notate che qui parliamo dello straripamento degli istinti più nobili, ma comunque di un’esondazione!. Chi può sostenerli, frenarli, se essi deviano? Se nel primo caso c’è bisogno del motivo della fede, come uno stimolante divino, non è certo che nel secondo si abbia bisogno ancor più del motivo della fede come di un moderatore divino? Quale uomo riservato e discreto invierà le nostre giovani ed angeliche “sorelle di carità” a respirare l’atmosfera viziata dei campi, che somigliano così poco ad un chiostro, senza un divino salvacondotto? Quale campione cattolico o qual giovane prete affronterà senza danni per la sua anima certi focolai di infezione senza questa celeste salvaguardia? E come, in questi casi si potrà praticare, anche senza un vero successo, ma semplicemente senza incorrere in gravi danni, la nobilissima ma delicatissima e fragilissima virtù della carità? Noi crediamo aver detto abbastanza per essere compresi, e perché si veda chiaramente che se c’è una circostanza in cui sia necessario, non solo di credere in Dio, ma di pensare molto a Lui, è quando si tratta di essere veramente caritatevole. È così che la religione ha sempre insegnato con profonda saggezza; è quello che conferma nella pratica una esperienza certa mai smentita. Amare l’uomo per l’uomo solo, ed amarlo sinceramente, è una formula più facile da scrivere nei libri massonici e da sviluppare pomposamente nei gioiosi banchetti delle logge, che da impiantare nelle sale degli ospedali e nelle mansarde delle periferie dei nostri grandi centri suburbani. Amare l’uomo per l’uomo solo ed amarlo sinceramente, sono due cose praticamente irrealizzabili! La prova ne è evidente, poiché praticamente la cosa non si è mai vista realizzare. L’uomo sente non raramente per l’altro uomo null’altro che un sovrano disprezzo, se non addirittura una avversione profonda, nel caso in cui non provi per lui un’attrazione puramente sensuale ed una grossolana passione. La ragione di questo è molto chiara. L’uomo per l’uomo solo non è in fondo, e non può essere logicamente, che l’uomo considerato per il proprio interesse. Senza l’idea di Dio chi, in effetti è unicamente il mio prossimo, se non io stesso? L’egoismo è dunque la conseguenza inevitabile del principio naturalista. Ebbene! Questo egoismo umano ha ordinariamente due forme che lo volgono in brutalità: a) la forma del disprezzo, quando si prova per il fratello l’indifferenza o la repulsione; b) quella di un grossolano appetito, quando il fratello eccita una colpevole passione. E la filantropia naturale, lo abbiamo visto, non ha rimedi contro questo doppio male. E tuttavia questa falsa carità grida, si agita, fa capricci, come dunque si procura stimolanti per le sue opere? Come e con quale filo a piombo e con quale livella li rinnega e li ordina? Noi studieremo queste questioni con maggiori dettagli di quanto fatto qui, nel successivo paragrafo, nel quale vedremo e costateremo in modo più suggestivo le differenze essenziali che distinguono la vera dalla falsa beneficenza, quella che è cattolica e quella detta massonica, quella che è di Dio, e quella che è del demonio, la scimmia di Dio!

XX

Si esamina il terzo punto menzionato più in alto, quello che oggi è il più pratico.

Stabilendo la beneficenza, senza l’amore di Dio come stimolante, e senza la legge di Dio per regola, è chiaro che il massonismo vada alla ricerca di altri stimolanti e di altre regole. È appunto là che brilla il suo “genio”! Entriamo nell’esame del quadro che offre ai nostri occhi la filantropia o carità naturale. – Costa all’uomo spogliarsi di ciò che gli appartiene per darlo sconsideratamente ad un altro uomo. Perché egli si decida a questo difficile sacrificio, occorre che gli si offra una ricompensa. Il Cattolicesimo la offre da quaggiù nei vantaggi del merito, e nell’avvenire con la prospettiva della ricompensa. Coloro che escludono Dio dalla beneficenza, non possono riconoscere in essa né questo merito soprannaturale, né questa ricompensa promessa. – Essi devono cercare e proporre all’uomo delle compensazioni nella vita presente, ed essi la offrono nel modo seguente: – In primo luogo, essi eccitano la sensibilità naturale, che non può fare a meno di commuovere l’uomo, anche il più depravato, al sola vista delle afflizioni altrui. Questo sentimento è il più nobile di tutti quelli che sono puramente umani, ma è così debole per se stesso, che non produce qualche atto in favore dell’indigente che nel caso in cui non sia necessario imporsi per questo dei pesanti sacrifici. Tra il veder soffrire il fratello ed imporre a se stessi qualche sofferenza, è chiaro che si opterà per la prima soluzione, a meno che una ragione superiore non incoraggi od obblighi a fare altrimenti. In secondo luogo essi lusingano con la vanità mediante i pubblici applausi, e portano tale uomo o tale donna ad essere generosi ed a compiere questo o tal altro atto di carità come ostentazione dell’amor proprio. In terzo luogo, essi minacciano con il ridicolo del rispetto umano colui che non doni di buon grado o dia mal volentieri la somma di denaro che gli si domanda, somma che si porge alla fine mormorando e brontolando, non con un sentimento di compassione fraterno per l’indigente, ma talvolta maledicendolo, a causa della costrizione che opera con le sue esigenze. Noi vediamo tanti esempi di questo genere, dalle sottoscrizioni ufficiali o i doni volontariamente forzati che il governo impone sotto il pretesto delle calamità pubbliche, fino alle commissioni che, sotto una forma più o meno autoritaria, percorrono talvolta i quartieri della città con lo stesso oggetto. – In quarto luogo, quando questo non sia sufficiente, cioè quando il ricco non si risolva a soccorrere il povero con lo stimolante della sua naturale sensibilità, o per un movimento di vanità, o sotto l’impulso del rispetto umano, il massonismo per questo non si perde d’animo; esso conosce perfettamente tutte le risorse che fanno agire l’uomo bestiale “animalis homo”, e non mancherà di metterli tutti in gioco. Esso fa allora appello alla frivolezza, in cambio dell’elemosina che vuol trarre dalla sua borsa, perché non si può dire che l’ottenga dal cuore, lo sottomette alla tentazione più forte, perché è la più grossolana: gli offre cioè dei divertimenti. A questo scopo apre come un mercato pubblico di sensualità, per ottenere in favore delle opere di beneficenza un contributo in rapporto al gusto di ognuno: offre delle canzoni a colui al quale piace ascoltarle, delle danze più o meno indecenti a chi ha il palato meno delicato, i sorrisi ed i favori di una donna a colui che ha bisogno di questo apparato per allentare la sua borsa. Si vede allora ciò che nessuno potrebbe credere se non lo vedesse con i propri occhi. Le grandi calamità nazionali, i grandi lutti della patria, sembrano produrre nelle anime lo stesso effetto dei più gloriosi trionfi, poiché si traducono ugualmente all’esterno con divertimenti e feste: a questo punto la contraffazione della carità ha snaturato i sentimenti più naturali dell’uomo; in tal modo si è venuto a spogliare della sua natura ed a cadere in ciò che è contrario alla natura, a forza di voler fuggire il soprannaturale cristiano. Vogliano i nostri lettori osservare bene la progressione discendente di questi stimolanti “naturalistici” ai quali si è dovuto ricorrere per rimpiazzare lo stimolante soprannaturale. Dapprima le emozioni o l’impressionabilità nervosa; in seguito la sete di applausi, più tardi la paura del ridicolo e la censura; infine la sete di piaceri. Di modo che, per non volere attenersi alla carità discesa dal cielo e penetrata dai profumi del tempio, si giunge a chiederla con le passioni più basse dell’umanità, e perfino ricorrendo all’infamia della prostituzione. – Perciò si vede chiaramente innanzitutto quanto una beneficenza di questo tipo abbia ben poco di nobile, e poi quanto ben poca consistenza abbia. L’elemosina procurata con tali mezzi deve logicamente considerarsi un semplice soccorso materiale. Colui che dona per tali motivi da al più uno scudo o un franco, ma non offre un sentimento del cuore capace di incoraggiare il povero, di fargli comprendere che lo si guarda come un proprio simile, che lo si abbracci e lo si consoli come un fratello. Ed ancor mano lo si rispetterà o servirà come un’immagine vivente di Dio. Si da al povero, così come si getta un pezzo di pane ad un cane che si vuole allontanare dal cammino, o come si paga al governo la tassa di un contributo. Questa carità, al più, è una carità passeggera, un fuoco di artificio che non dura oltre la festa per la quale viene preparato. Durante qualche istante, sotto la prima impressione di una grande catastrofe, al cospetto delle esigenze dell’opinione pubblica fortemente eccitata, si fa qualcosa, si raccoglie una certa somma; ma ben presto l’egoismo nativo e l’indifferenza abituale riprendono i loro antichi diritti. Non c’è nulla delle opere che richiedono perseveranza, che domandano pazienza. Non è così che vengono fondate istituzione che vivono per secoli, come ad esempio gli ospedali e gli asili, che assorbono una intera vita, tutta una fortuna; ciò che si fa attualmente è artificioso, frivolo, temporaneo, giornaliero. Nulla di strano, l’idea di Dio e dell’Eternità, non presiedono a nulla di tutto questo!

XXI

Seguito sullo stesso soggetto.

 Se la beneficenza senza Dio deve essere necessariamente fatta con stimolanti sufficienti, deboli, incostanti, poco disposti a tutto ciò che abbia il carattere di vero sacrificio, non è men certo che in assenza di regole e di moderatore, debba essere inevitabilmente poco delicata, senza scrupolo alcuno nei suoi mezzi e nei suoi processi. Cosa si propone la beneficenza senza Dio? Tutt’al più di trarre l’indigente da un imbarazzo materiale. – Non prendendo Dio come motivo primario, né come fine ultimo, né come regolatore dei mezzi da impiegare per giungere a tal fine, è naturale e logico che essa giudichi buoni e convenienti tutti i processi, a condizione che essi acquisiscano una somma di denaro con il cui aiuto si uscirà abilmente da una difficoltà. Essa non può supporre che per delle pure ragioni di umana convenienza, si rinunzi ad impiegarli: soprattutto quando si sa già in precedenza che il criterio della convenienza umana è molto elastico in tutte le questioni di morale che si offrono al suo apprezzamento, e soprattutto lo è ancor più quando una maggiore elasticità possa dissimularsi e darsi un’apparenza di onestà, con il pretesto che la si tolleri perché opera buona, per … soccorrere pressanti bisogni. – Qualcuno dei nostri lettori avrà probabilmente trovato eccessivo ciò che abbiamo detto più in alto, e cioè che una certa carità moderna non esiti talvolta a ricorrere anche alle turpitudini della prostituzione. Noi siamo stati ben lontani, quando abbiamo scritto questo, dal pensare di avere sottomano un fatto che giustificasse la nostra asserzione. È satana stesso, che diviene talvolta a nostro vantaggio, nelle nostre opere, un eccellente collaboratore, che ci fornisce questa prova per mezzo di uno dei suoi rappresentanti più autorevoli della stampa locale (della città di Barcellona). Noi prendiamo ricopiamo da questo organo satanico il passo seguente, che sembra espressamente scritto per darci ragione. Vi è scritto infatti: « I due avvenimenti del giorno più curiosi sono una festa di carità a Parigi ed un processo in Germania. La festa di carità è consistita in un concorso di nuoto al quale hanno preso parte delle donne. Questo concorso ha avuto luogo di notte, nel ginnasio nautico. Queste donne hanno nuotato in pubblico e con abilità. Noi ci dispensiamo dal menzionare il tipo di pubblico che ha assistito ad uno spettacolo così nuovo e attraente: la carità scusa tutto, secondo la moderna dottrina, e non osiamo meravigliarci di ciò che potrebbero tentare nel tempo le dame francesi, sempre sotto la copertura della carità. E allora? È così che poco a poco la carità puramente umana stima leciti ed onesti per un suo fine dei mezzi che altrimenti non potrebbe impiegare se dovesse sottostare al freno severo della legge di Dio. Ma senza parlare di cose indegne di essere menzionate, la pratica della carità senza Dio presenta un altro genere di inconveniente che, per essere di un ordine più o meno abietto, non manca di essere molto in voga. Tali sono coloro che risultano dalla frode e dalla malversazione con la quale mani poco delicate riescono a stornare a loro profitto personale dei fondi destinati al sollievo dei bisogni altrui. Questa lebbra è così contagiosa e colpisce oggi fortemente ogni specie di carità laica o civile che nelle recenti calamità abbiamo potuto vedere con i nostri occhi personaggi che non si potevano certamente sospettare di attacchi al clericalismo, andare a depositare i loro doni tra le mani del vescovo o del curato, sicuri così, con tal mezzo, di vedere arrivare questi doni alla loro vera destinazione, perché incerti nel saperli arrivare invece per tutt’altro cammino. Sì, il trionfo della Carità Cattolica sulla sua rivale, sul suo nemico, la sua contraffazione, la carità massonica o civile, è manifesta, splendida, indiscutibile, abbiamo potuto costatarlo in occasione degli ultimi terremoti. Il buon senso naturale ha prevalso spontaneamente in questa occasione nella maggior parte dei cuori, sul pregiudizio della setta: tutti hanno compreso che il miglior filo conduttore della carità, dal cuore di colui che può soccorrere fino al cuore di colui che ha bisogno di essere soccorso, e pertanto dalla borsa ben guarnita del primo, alla borsa vuota del secondo, è il filo della credenza religiosa, e che tutt’altro modo di domandare la carità e tutt’altro modo di praticarla e distribuire dei soccorsi, sarà attuale e liberale, fin tanto che si vorrà, ma non darà mai risultati. – In definitiva, sia ha bisogno di credere in Dio, di parlare di Dio, di pensare a Dio e di credere a Dio per dare molto al prossimo, e dare in modo tale che il prossimo sia veramente soddisfatto. Le epidemie dell’ultimo anno hanno mostrato nella stessa vicina Nazione un altro vantaggio, dello stesso genere, della vera carità sulla carità massonica. La massoneria aveva allontanato dagli ospizi e dagli asili gli infermieri e le infermiere appartenenti agli istituti religiosi, avendo messo al loro posto dei laici dal repubblicanesimo più accentuato ed i meno sospetti di clericalismo. Arriva l’ora terribile, non si tratta più di praticare gli ordinari trattamenti, ma di esporre la propria vita per la salute del prossimo. E questi valenti secolari d’ambo i sessi abbandonano quasi tutti vergognosamente il loro posto, provando con ciò che erano solo dei soldati che non servono che in tempo di pace. E la stessa massoneria che domina nella maggior parte dei consigli municipali e provinciali, deve subire l’umiliazione di fare un nuovo appello ai religiosi ed alle religiose che essi avevano allontanato con violenza dai letti degli ammalati. E religiosi e religiose sono accorsi subito all’appello dei loro nemici, non per vantarsi di una vittoria sì gloriosa, o per rinfacciare loro l’incoerenza presente e la loro ingiustizia passata, ma semplicemente per morire per i loro fratelli, così come accaduto a molti di essi. Quale lezione? Il mondo attuale li ha visto all’opera, e certamente non si può essere probabilmente più convincenti! Esso li ha sotto gli occhi e sotto mano, affinché veda e tocchi ciò che può e sa fare con tanta facilità la carità che ha Dio come principio, come fine, come regola, e che non può né sa fare in altro modo, per numerosi che siano i suoi sforzi, la carità che si ostina a fare a meno di Dio.

XXII

Opposizione radicale che esiste tra il cattolicesimo e la massoneria, nel modo di apprezzare l’arte.

L’arte è uno dei punti sui quali ci siamo proposti di indicare rapidamente in cosa differisca l’apprezzamento e l’influenza del massonismo e del Cattolicesimo. Andremo ora a trattare questo soggetto, ma senza dargli gli sviluppi che desideriamo, per non prolungare oltremodo un soggetto che oltrepassa già i limiti ordinari. L’arte, nelle sue diverse manifestazioni, come espressione del bello, innato nell’uomo, potrebbe chiamarsi il meno umano di tutti i concetti umani, o se si vuole, il meno terrestre, tanto è ideale, sublime e vicino al divino ed al celeste. Tutti i popoli, gli infedeli ed i cristiani, hanno riconosciuto nell’arte vera e nei veri artisti, qualcosa di divino il « quid divinum », che dà alle opere d’arte un carattere che le distingue essenzialmente da tutte le altre cose concepite dal sapiente o dell’artista di talento. L’arte e l’artista vivente respirano e si sviluppano in una regione molto più elevata e più pura di quella in cui si muove il comune mortale; essi godono di orizzonti illuminati da una luce più viva di quella di cui si gode nelle comuni sfere della vita; essi appartengono all’umanità, ma ne sono, come noi abbiamo visto, la parte più nobile; è con esse che, nell’ordine naturale, si manifesta nel modo più evidente, l’origine divina dell’uomo e la fiammella del fuoco celeste dispensata dalla mano del Creatore in questo vaso di fango che si chiama corpo. È una ragione in più per cui, il nemico di Dio e dell’uomo si sforza di rapire loro l’onore ad entrambi, oscurando con neri vapori e bagliori sinistri dell’abisso, la pura e serena luce del cielo, che l’arte e l’artista hanno la missione di far risplendere con l’aiuto delle loro opere sulle aride vallate terrestri. Il naturalismo o il massonismo, ha qui uno scopo facile da comprendere: fare che ciò che il Creatore ha elargito all’uomo per guardare unicamente in alto, sia rivolto unicamente in basso; padroneggiare ed esaltare un’arte che sia l’espressione delle concupiscenze che abbrutiscono ed animalizzano l’uomo; in luogo di proporgli e raccomandargli un’arte che sia l’espressione dei sentimenti elevati che nobilitano ed elevano la sua dignità. La materia in qualche modo spiritualizzata, era, per così dire, la formula dell’arte cristiana. Lo spirito abbassato quanto più possibile alle vili soddisfazioni della carne: ecco la divisa dell’arte naturalista. Cantare, dipingere, scolpire di modo che la poesia, il quadro, la statua o il monumento, siano come tante ali per mezzo delle quali l’uomo si elevi, al di sopra della sua condizione di esiliato, a gioie superiori, a sentimenti più nobili e, di conseguenza, ad un livello superiore nelle sue idee e nei suoi atti; tale sarà l’apostolato divino dell’arte che in qualche artista giunge ad essere una vera religione. Cantare, dipingere, scolpire, perché le immondizie della materia lusinghino ancor più i sensi, perché l’uomo trovi più gioia in ciò che lo avvilisce e lo imbratta, perché si getti più risolutamente nel fango; perché egli dimentichi ed anche detesti il cielo con la più cieca ostinazione: tale è l’apostolato satanico dell’arte empia e nemica di Dio. – da queste caratteristiche si riconoscerà facilmente a quale movimento obbedisca e quale luce, se celeste o infernale, si rifletta sulla fronte della maggior parte degli artisti del nostro tempo infame. Per il fatto che anche molto spesso allontani l’uomo da Dio, e lo degradi, l’arte moderna lascia chiaramente vedere quali siano il suo principio ed il suo spirito: se non è Dio, è certamente il suo nemico! La massoneria, che è questo nemico universale di Dio, organizzato, concentrato e costituito, per così dire, in una vasta congiura di forze nemiche di Dio, proclama, propaga ed incoraggia quest’arte avvilita e corruttrice che abbrutisce l’uomo, mentre che l’arte ispirata dalla fede cristiana tende costantemente a divinizzarlo: la musica, la letteratura, la pittura, la scultura sono nelle mani della massoneria e nelle mani di spiriti che essa ispira disgraziatamente, come tanti focolai ardenti di grossolana sensualità e di brutale concupiscenza che, dopo aver disseccato il cuore come una febbre bruciante, lo indurisce al punto che non potrà mai provare un sentimento più nobile. Con le emozioni della carne e dei nervi svaniscono nell’anima la gioia serena, pura ed entusiasta che produce in esso la vera bellezza. In luogo dell’estasi intellettuale artistica, si trova e si ottiene l’ebbrezza e l’eccitazione nervosa, che non è che l’imitazione e la parodia. Ditemi di grazia: non è questo più frequentemente il carattere dell’arte della nostra epoca? Non sono forse i suoi effetti manifesti e deplorevoli?

XXIII

Come si vede chiaramente l’applicazione di questa dottrina

nei piaceri moderni.

Giungiamo al termine di queste semplici considerazioni, che non sono certamente un enunciato di idee, e che richiederebbero, per essere sviluppate in modo conveniente, molto più dello spazio di quello che abbiamo potuto loro consacrare nell’insieme. L’applicazione più comune e più pratica di ciò che noi dicevamo nel precedente paragrafo sull’arte che ha subito l’influenza funesta della massoneria, si offre chiaramente ai nostri occhi nelle distrazioni o nei piaceri pubblici, e nella stampa, branca speciale della letteratura, che può e deve essere annoverata tra questi passatempi. Sì, i divertimenti pubblici e la stampa moderna sono generalmente oggi, un puro massonismo [e non c’erano ancora il cinema e la televisione! –ndt. -], vale a dire il prodotto dell’influenza massonica e nel contempo un mezzo per propagarlo ed estenderlo. Noi ne abbiamo la prova sottomano, e per comprenderlo, è sufficiente ricordare i principi che abbiamo enunciato in precedenza. Il massonismo non è null’altra cosa che il naturalismo; ed i divertimenti moderni e la letteratura contemporanea si sforzano, da molti anni, di essere esclusivamente naturalisti. Ne risulta che essi sono radicalmente ed assolutamente massonici e … massonizzanti, un effetto e nel contempo una causa molto attiva di questa orribile cospirazione di tutti gli elementi sociali contro il regno soprannaturale di Dio Nostro-Signore sulla creatura e sulla società umana. – Che il naturalismo sia assolutamente l’oggetto e l’ispiratore di tutto ciò che l’uomo scrive, canta o propone per il piacere dell’umanità, è innegabile a meno che non si sia ciechi o miopi nel costatarlo su ogni locandina teatrale, in ogni pubblicazione giornalistica circolante tra il pubblico, o in tutti i cartelli agli angoli delle strade. Attualmente, la materia non è più idealizzata come ai tempi in cui si credeva universalmente che essa fosse uno degli oggetti primordiali dell’arte, ma l’idea si materializza, si prostituisce, si avvilisce vergognosamente per essere un apparato seducente per l’uomo. Una gran parte, o meglio la quasi totalità degli spettacoli e della produzione letteraria del giorno sono delle cloache immonde, che non causano nausea a tutti gli stomaci, semplicemente perché questi hanno contratto anch’essi una deplorevole infermità, e sono diventati assolutamente carnali e grossolani. E non è solo la critica cattolica che formula questo giudizio e avanza questa condanna, i dottori del razionalismo contemporaneo stesso, nei loro frequenti intervalli di lucidità e nei momenti di sano apprezzamento costatano questo male, lo deplorano e lo stigmatizzano. Zola nel romanzo, Echegaray nell’arte drammatica, Sara Bernhart nell’ambizione plastica di quest’arte, sono tre tipi che possono personificare in pieno tre scuole che meriterebbero meglio il nome di “ignobile prostituzione”. Queste scuole regnano oggi e predominano quasi in assoluto, e come il sovrano Pontefice lo ha denunciato per la massoneria, esse esercitano sul gusto una influenza sociale che in qualche modo può definirsi un dominio. Si leggono queste produzioni e non si legge nessun’altra cosa! Si ascolta, si vede, si applaude tutto questo con furore, e non si ascolta, non si vede e non si applaude se non questo: ogni altro nutrimento artistico ed intellettuale diviene senza gusto ed insipido per i palati abituati a queste salse fortemente speziate. Ecco precisamente un campo nel quale la massoneria può gloriarsi di regnare anche su coloro che apparentemente sono i suoi più risoluti nemici. L’anima si spaventa alla vista delle numerose famiglie cattoliche, e sinceramente cattoliche, che con il favore del romanzo e dello spettacolo massonico, respirano, bevono e mangiano ogni giorno ed ogni notte, a dosi piene, il veleno del massonismo più sottile e più raffinato. Nelle letture, gli spettacoli, non si predica null’altro che l’odio dell’ordine soprannaturale cristiano, o quantomeno l’astrazione voluta ed affettata di quest’ordine. Questi uomini vanno formando insensibilmente i loro sentimenti, le loro idee ed i loro costumi su questi modelli naturalistici; essi si abituano a pensare, a sentire, a giudicare, a determinarsi secondo questo criterio; e alla fine essi si trovano ad essere, nel loro foro interiore, dei perfetti massoni di grado superiore, benché nella loro vita, essi non abbiano mai visto un triangolo, né portato grembiulini, né assistito ad alcun rito ufficiale della setta. Che importa tuttavia che essi non abbiano partecipato a riti esteriori, se la loro vita è interamente conforme al suo spirito, se essi sono diventati proseliti delle sue massime e delle sue usanze e se, così spesso, senza forse rendersene conto, ne sono divenuti dei campioni calorosi e zelanti? Questo non è tutto; qui il pregiudizio è tanto più grande ed il risultato più considerevole quanto più l’azione è segreta e procede da persone contro le quali si è meno in guardia. Così vanno oggi le cose; ed è ciò che spiega l’immensa influenza del massonismo scientifico, letterario, artistico e pratico nella società attuale. Noi abbiamo convenuto ingenuamente che non c’è massone che non sia passato attraverso le prove grottesche dell’iniziazione, quando in realtà il massonismo conta soprattutto sul prestigio e sull’influenza di coloro che non si sono mai sottomessi a simili cerimonie. A che cosa dunque servono questi riti simbolici? Queste logge misteriose? Questi clubs tenebrosi? Se si attribuiscono alla massoneria tutti i risultati ottenuti su molti degli infelici cattolici, questi vanno ben al di là delle loro speranze. Pertanto, e lo abbiamo detto già fin dall’inizio, e tale è l’oggetto vero del nostro presente lavoro, il massonismo è nella nostra epoca più pericoloso della stessa massoneria. Ci piace dirlo ancora: quest’ultima potrebbe ben indebolirsi ed anche sparire dal quadro delle istituzioni, mentre l’altro dimorerebbe e regnerebbe in modo assoluto e quasi esclusivo, così come oggi la cosa comincia disgraziatamente a delinearsi.

EPILOGO

Eccoci giunti, conformemente al piano che abbiamo tracciato, al termine delle nostre considerazioni sul massonismo ed il Cattolicesimo. Noi ci fermiamo qui, senza far posto a mille altre questioni che si presentano in questo momento sotto la nostra penna e che ci renderebbero interminabili su questo soggetto. Ci sembra del resto che noi abbiamo sufficientemente provato la nostra tesi, cioè l’aver dimostrato l’opposizione radicale ed assoluta che esiste tra il massonismo ed il Cattolicesimo, mostrando successivamente la soluzione opposta che essi danno a tutti ed a ciascuno dei problemi filosofico-sociali che si agitano oggi in Europa. Non resta più da ascoltare su questo soggetto che la voce più autorevole di tutte, cioè quella del Dottore supremo che, dalla suo soglio di Roma, ci ha parlato con tanta precisione e chiarezza nella sua celebre enciclica Humanun Genus. Non ci resta che ascoltare la voce della massoneria alfine di decidere come catalogare per nostro conto questi cattolici più ciechi e più ostinati, che non ha potuto convincere nemmeno l’oracolo universale del Vaticano, e che hanno bisogno, per uscire dalla loro strana perplessità, della decisione più autorizzata forse da satana stesso: noi vogliamo parlare dell’oracolo delle logge. Sì, questo oracolo ha pure parlato, ha reso omaggio alla verità delle affermazioni pontificie, a vergogna di tanti pretesi cattolici che si ostinano a tacciarle di esagerazioni e di pessimismo. Sì, è la mano ufficiale della massoneria che ha scritto in uno dei suoi bollettini più autorevoli (Bulletin Maçonnique de la grande Loge symbolique Écossaise), le seguenti frasi di una spaventosa esattezza. Tutti i nostri lettori vi vedranno la sintesi e nello stesso tempo la conferma di tutto ciò che abbiamo scritto su questo soggetto: « la franco-massoneria – viene detto – non può fare a meno di ringraziare il sovrano Pontefice, Leone XIII, per la sua ultima Enciclica che, con una autorità incontestabile ed una grande abbondanza di prove, viene a dimostrare una volta in più, che esiste un abisso insormontabile tra la Chiesa, di cui egli è il rappresentante, e la rivoluzione, della quale la massoneria è il braccio destro. È bene che coloro che sono esitanti cessino di riporre vane speranze di conciliazione. Bisogna che tutti si abituino a comprendere che è giunta l’ora di optare tra l’ordine antico che si appoggia sulla rivoluzione, e l’ordine nuovo che non riconosce altri fondamenti che la scienza e la ragione umana: tra lo spirito di autorità e lo spirito di libertà. » [Fine. Leggi l’enciclica in: UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO … e pure il masso-illuminato dell’«ECCLESIA»: Hunanum genus/exsurgatdeus.org]

 

LE INDULGENZE

LE INDULGENZE

[J.-J.- Gaume: il “Catechismo di Perseveranza”, Speirani ed. Torino 19881, vol. II, cap. XLI]

Che cosa siano le indulgenze. — Potestà di concederle. — Loro utilità. — Sono irreprensibili agli occhi della ragione. — Tesoro delle indulgenze. — Indulgenza plenaria e particolare. — Che cosa sia necessario per lucrarle. — Mezzi per guadagnare le indulgenze. — Che cosa sia il Giubileo.

Nella tema che fossimo spaventati e disanimati dal rigore delle penitenze, che siamo obbligati di fare per ragione dèi numero e dell’enormità delle nostre colpe, il Padre nostro celeste ha trovato un mezzo di provvedere alla debolezza de’suoi figli, conservando ad un tempo intatti i sacri diritti della sua giustizia. Egli perciò volle che l’innocente pagasse pel colpevole, e che le soddisfazioni soprabbondanti dei nostri fratelli ritornassero abbastanza a comune profitto, e d’altrettanto diminuissero il nostro debito; questo mezzo di cui parliamo sono le indulgenze. Noi non temiamo di asserire, che questo è uno dei più bei dogmi del Cristianesimo, e nello stesso tempo uno dei mezzi i meno apprezzati e i più calunniati. Per rivendicarlo dai blasfemi, basterà, noi crediamo, di esporre ciò ch’egli è realmente, e questo appunto apprendiamo a dimostrare.

Che cosa sono le indulgenze? — In una famiglia, un fanciullo si mostra disobbediente, ed il padre perciò gl’impone una penitenza. Il colpevole è in procinto di eseguirla, allorché la madre, o il fratello, o la sorella, sopraggiungono ed implorano grazia pel medesimo. Il padre si lascia piegare e perdona, a riguardo delle preghiere e della intercessione della sua sposa o de’ suoi figli: ed ecco che questo padre di famiglia ha accordato un’indulgenza. – In un regno, un uomo si rende colpevole di delitto, e le leggi lo condannano a morte. Già sale sul patibolo, quando un illustre personaggio gettasi a’ piedi del monarca, ed implora grazia pel condannato. Il re si lascia piegare, ed il colpevole è salvo: questo re concede un’indulgenza. Nella persona di Adamo il genere umano tutto intero si ribellò contro Dio, e fu quindi condannato alla morte eterna. Ben tosto il Figlio di Dio si presenta e si offre di morire in vece nostra. L’eterno Padre accetta il sacrifizio, e l’uomo viene assolto: Iddio allora accordò un’indulgenza. Fondato su questo mistero, il Cristianesimo intero non è che una grande indulgenza concessa al genere umano, che si è reso malfattore, ad intercessione del Giusto per eccellenza, volontariamente sacrifìcatosi per il mondo colpevole. Voi vedete perciò che l’indulgenza, in generale, è la riversibilità dei meriti del giusto sul colpevole; è la sorgente consolatrice, e ad un’ora terribile, della fraternità e della solidarietà che stringe fra di loro tutti gli uomini; è in fine la base stessa delle società, l’essenza stessa del Cristianesimo. Scendiamo ora da queste generali indicazioni, e vediamo che cosa si abbia ad intendere sotto il nome d’indulgenza propriamente detta, di cui è nostro obbligo occuparci al presente. La teologia definisce l’indulgenza: La remissione della pena temporale che rimane a subire dopo la remissione della colpa e della pena eterna; remissione accordata fuori del Sacramento della Penitenza, per l’applicazione de’ meriti di Gesù Cristo e dei Santi. [“Indulgentia est gratia, qua certo aliquo opere quod concedens praescribit, praestito, debita Deo poena temporalis (non autem culpa) extra Sacramentum, sacrifìcium et martyrium, per applicationem satisfactionum Christi et Sanctorum remittitur”. S. ALPH., lib. VI, tract. IV, n. 531; Ferraris, art. Indulg.] – Per comprendere la natura delle indulgenze e gli effetti che producono, è mestieri ricordarsi: 1° che ogni peccato deve essere punito in questa vita o nell’altra. Se il peccato è mortale, dev’essere punito nell’altra vita con pene eterne senza pregiudizio delle pene temporali: se poi non è che veniale, esso dev’essere punito con pene temporali qui in terra, oppure nel purgatorio; 2° che dopo la remissione, mercé il sacramento della Penitenza, tanto del peccato veniale quanto del mortale e della pena eterna che a questo è dovuta, rimane ordinariamente da subire una pena temporale: imperocché è raro che si abbiano disposizioni perfette di contrizione e di carità, che escludano ogni affezione al peccato e che pienamente ne giustifichino in faccia a Dio. – Che nel rimettere il peccato e la pena eterna, Iddio non rimetta già sempre la pena temporale che Gli è dovuta, ella è questa una verità resa incontestabile dalla condotta di Dio medesimo per riguardo ai più illustri penitenti. Adamo diviene colpevole, e Iddio gli rimette e il suo fallo e la pena eterna ch’esso merita; ma nullameno non lo esonera dalle pene temporali dovute al suo peccato: gli lascia il duro incarico di procacciarsi il pane col sudore della fronte, e la triste necessità di patire e di morire. Gl’Israeliti sono assolti dalle loro mormorazioni, e Davide egualmente dal suo doppio delitto; pur ciò nonostante subiscono per queste colpe, già perdonate, delle pene temporali. Ora, in questo disegno, noi dobbiamo riconoscere la sapiente sollecitudine del nostro Padre celeste, « il quale, dice sant’Agostino, allo scopo di mostrare al peccatore la grandezza del male che ha commesso e la punizione che ha meritato; affine di correggere una natura sempre inclinata all’errore, ed indurla ad esercitare la pazienza che le è necessaria, permette che pene temporali colpiscano l’uomo, anche quando più non sia condannato per i suoi falli ad una eternità di supplizi ».

Chi può accordare le indulgenze? — Ma è forse necessario che queste pene temporali siano assolutamente da noi subite, in tutto il loro rigore e in tutta la loro estensione, o in terra, o nel purgatorio? No: La fede c’insegna che la Chiesa ha ricevuto dal Signor Nostro Gesù Cristo il potere di addolcirle, potere consolatore, che noi con gratitudine riponiamo fra i più segnalati benefizi del divino Mediatore: dogma sacro, che riposa, al pari della stessa Religione, sopra fondamenti inconcussi.Noi ben cel sappiamo: un padre nella propria famiglia, un re nei suoi domini, godono la pacifica prerogativa di conceder grazia; e perché dunque la Chiesa, nostra madre e nostra regina, non avrebbe ugual privilegio rispetto ai suoi figli? L’Unigenito di Dio che l’ha fondata, avrebbe forse mancato del potere o della volontà di concederlo alla medesima? Del potere? Niuno lo sostiene. Della volontà? Niuno può sostenerlo. E difatti il Salvatore ha donato alla Chiesa l’autorità di accordare le indulgenze, allorquando ha detto a San Pietro: “E a te io darò le chiavi del regno de’Cieli; e qualunque cosa avrai legato sopra la terra, sarà legata anche nei Cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra, sarà sciolta anche ne’Cieli [Matteo XVI, 19].Codesta promessa è generale e non ammette eccezione di sorta. Su di che noi formiamo il seguente raziocinio: La Chiesa ha ricevuto da Gesù Cristo, nella persona di San Pietro, che è il suo capo, la podestà di aprire le porte del Cielo ai peccatori pentiti; essa ha dunque il potere di togliere tutti gli ostacoli che potrebbero loro impedire di entrarvi. Ora, le pene temporali che rimangono ad essi da subire dopo la remissione della pena eterna, sono altrettanti ostacoli, che vietano al peccatore convertito il suo ingresso nel Cielo, ove non è dato di entrare senza aver pagato alla giustizia divina, e sino all’ultimo obolo, tutto ciò che le è dovuto. La Chiesa ha dunque ricevuto il potere di rimettere queste pene; ed ella ne usa col mezzo delle indulgenze. Brevemente, la Chiesa ha ricevuto autorità di rimettere i peccati: dunque a più forte ragione può rimettere la pena dovuta ai peccati. Un’altra prova che la Chiesa ha ricevuto da Gesù Cristo la podestà di concedere le indulgenze, desumesi dal contegno degli Apostoli. Ammaestrati da Gesù Cristo medesimo, hanno usato di tale autorità, testimonio l’apostolo San Paolo. Codesto infaticabile operaio di Cristo aveva predicato il Vangelo nella città di Corinto, dove era giunto a stabilire una Chiesa fiorente. Chiamato dallo zelo che l’infiammava in altre provincie, sente che uno de’suoi neofiti è caduto in gravissimo fallo. Tosto egli scrive alla Chiesa di Corinto di espellerlo dal suo seno [Cor. V] . Gli vien risposto che il colpevole si mostra pentito; l’Apostolo, tocco da compassione, scrive una seconda lettera, nella quale ei si mostra pronto ad usare indulgenza verso questa pecora traviata sì ma penitente, per tema che un eccesso di tristezza divenga per essa una tentazione a disperare, e soggiunge: Io ho usato indulgenza per amor vostro, e la ho usata a nome di Cristo [Cor. II, 10]. – San Paolo credeva dunque che il Figlio di Dio aveva concesso ai suoi Apostoli, e per conseguenza alla sua Chiesa, il potere di conceder grazia ai peccatori, per riguardo alle preghiere ed ai meriti de’suoi fratelli innocenti, vale a dire, il potere di accordare indulgenze. Gli eretici e gli empi, che hanno negato alla Chiesa questo diritto, oserebbero essi forse di credersi meglio istruiti sui disegni di Gesù Cristo che non San Paolo, e di determinare con maggiore esattezza tutta l’estensione dei poteri che il divino Fondatore ha accordato alla sua Chiesa? Il più grande inimico delle indulgenze nei tempi moderni, Lutero, non diceva forse, innanzi di venir condannato dal sovrano Pontefice: Se alcuno osa negare la verità delle indulgenze del Papa sia anatema? – Una terza prova ritrovasi nella condotta dei successori degli Apostoli, i quali sino dai primi secoli, e sull’esempio dei loro maestri, ritennero costantemente l’usanza di concedere delle indulgenze. Nel terzo secolo i montanisti, nel quarto i novaziani, combatterono con falso zelo la facilità colla quale i pastori della Chiesa ammettevano i peccatori alla penitenza, e loro accordavano l’assoluzione e la comunione. A far cessare consimili clamori, fu spinto molto innanzi il rigore delle penitenze che s’imponevano ai peccatori prima di riconciliarli colla Chiesa. Ma i pastori, malgrado la testardaggine degli eretici, continuarono ad usare indulgenza [‘ Essi erano autorizzati dai canoni dei Concili di Nicea, di Ancira, di Lerida, ecc. ecc.— S . BASILIO, S. GIOV. CRISOSTOMO, ecc. approvano tale condotta.] verso i penitenti, tanto per riguardo al fervore col quale essi compievano le loro penitenze, quanto per l’approssimare delle persecuzioni, onde poter loro distribuire la comunione, quale necessario preservativo contro i pericoli da cui erano minacciati, come in fine per rispetto ai martiri ed ai confessori trattenuti nelle prigioni o condannati alle miniere, i quali chiedevano spesse volte ai Vescovi cotali indulgenze in favore di alcuni penitenti. – Questi generosi campioni di Cristo, imitando il loro Maestro sul punto di spirare, racchiusi nelle carceri e destinati alla morte, erano da impulsi di carità sospinti verso i loro fratelli, e chiedevano grazia per loro. Quando sapevano o potevano scrivere ponevano il nome de’ loro protetti sopra un biglietto, ch’era perciò comunemente detto libello dei martiri; allorché non potevano scrivere si contentavano di nominarli ai diaconi da’quali erano visitati nelle carceri. I diaconi portavano tali libelli o riferivano le raccomandazioni verbali ricevute dai martiri ai Vescovi; e questi per rendere onore alla costanza dei martiri concedevano indulgenze ai penitenti, vale a dire, accorciavano la durata delle loro penitenze. Fra i figli della Chiesa tutti i beni spirituali essendo comuni, essi giudicavano che i meriti dei martiri potessero essere legittimamente applicati ai penitenti, pei quali i campioni della fede si degnavano di pregare [CYPR , ep. X, XI, XII, XIII, XXIII.]. – Dopo la conversione degli Imperatori non v’ebbero più martiri per intercedere in favore dei penitenti; ma non per questo si ritenne che la sorgente delle grazie della Chiesa fosse inaridita e nemmeno diminuita. E noi infatti vedremo fra poco che questa fonte è inesauribile. Ella è dunque verità di fede appoggiata sulle parole di Gesù Cristo medesimo, sull’esempio degli Apostoli e sulla tradizione di tutti i secoli, che la Chiesa ha la podestà di concedere indulgenze. Quindi il santo Concilio di Trento pronunzia l’anatema contro chiunque osasse asserire che le indulgenze sono inutili, o che la Chiesa non ha l’autorità di accordarle [Sess. XV, c. 23].

III. Qual è l’utilità delle indulgenze? — Egli è certo che l’indulgenza concessa con quella discrezione, che sempre ha contrassegnato in modo si luminoso la sposa infallibile di Gesù Cristo, è interamente rivolta al vantaggio dei fedeli. Essa è per i Santi viventi una ragione di più per moltiplicare le loro buone opere; pei peccatori un motivo di confidenza nella comunione dei Santi, ed uno stimolo efficace ad evitare tutti i peccati ai quali è annessa la scomunica; pei giusti e pei peccatori ad un tempo un vincolo ammirabile di fraterna carità! È dunque errore gravissimo darsi a credere che le indulgenze conducano alla rilassatezza ed alla depravazione; poiché esse non hanno mai autorizzato un peccatore a ricusare la penitenza impostagli dal Confessore, ad esimersi da una restituzione, o da una riparazione che fosse in obbligo di fare. L’obbietta delle indulgenze fu sempre quello di supplire a penitenze omesse, o malamente adempiute, o troppo leggere per riguardo alla enormità delle colpe. La Chiesa dice presso a poco così ai peccatori, verso dei quali usa di tale favore: «Voi siete debitori di tanto; e nulla avete o quasi nulla per pagare: ma se voi fate quella tal cosa sarete esonerati dal debito ». È un padre, un re che commuta la pena meritata da un figlio disobbediente o da un suddito ribelle. Operando in tal guisa, la Chiesa non fa che seguire l’esempio di Dio medesimo. Che cosa infatti, come altrove abbiamo detto, che cosa è il Cristianesimo? Che cosa è la redenzione di Gesù Cristo, primo fondamento della nostra fede? Non è essa forse una grande indulgenza concessa all’uomo colpevole per riguardo alla gran Vittima innocente? In una parola: l’uomo è colpevole; egli non può soddisfare neanche per la più piccola delle offese; la divina giustizia reclama nonostante tutti i suoi diritti: dunque senza indulgenza, vale a dire, senza i meriti del Giusto applicati ai peccatori e ricevuti in pagamento del suo debito, non si dà remissione possibile, non redenzione, non Cristianesimo. Ecco ciò che mostra come il dogma delle indulgenze si fondi sulla base stessa della Religione di Gesù Cristo; imperocché le indulgenze che accorda la Chiesa non sono che una particolare applicazione della grande indulgenza, che è la base pur anco del Cristianesimo. – Il dogma delle indulgenze è esso contrario alla ragione? — Nulla è più conforme alla ragione quanto il dogma delle indulgenze, imperocché nulla concilia più mirabilmente i diritti della giustizia e della misericordia divina. Iddio non può lasciare un peccato senza punizione, più di quanto possa lasciare un’opera buona senza ricompensa: ed è rigorosamente necessario che un peccato sia punito quando lo merita. [Aug., lib. III, De Lib. Arbitr., c. 9 et 10; id. De Natur. Boni, c. 7. — “Nec sufficit solummodo reddere quod ablatum est, sed prò contumelia illata plus debet reddere quam abstulit…” — Anselm., lib. \, Cur Deus homo, cap. II]. La sua misericordia pertanto non è riposta nel dare l’impunità al colpevole, ma sebbene, come ci dimostra il dogma delle indulgenze, a contentarsi della soddisfazione di Gesù Cristo e dei Santi per l’espiazione dei peccati degli uomini. Egli potrebbe esigere da noi stessi tutto quanto Gli dobbiamo, sino all’ultimo obolo; ma, per bontà, degnasi accettare l’altrui soddisfazione in pagamento di un debito, che avrebbe avuto diritto di reclamare da noi in tutta la sua integrità.

  1. Qual è il tesoro delle indulgenze? — Queste nozioni suppongono: 1° che si danno nella Chiosa soddisfazioni sovrabbondanti; 2° che queste soddisfazioni possono essere applicate ai fedeli. Questa doppia supposizione è una realtà. E primieramente si danno nella Chiesa soddisfazioni sovrabbondanti. Difatti tutte le buone opere fatte in istato di grazia sono ad un tempo stesso impetratorie, meritorie, soddisfattorie; esse ottengono la grazia, meritano la gloria, espiano il peccato. In questo modo le azioni di Nostro Signore, esemplare di tutte le buone opere dei Santi, Gli hanno acquistato, per gli uomini grazie di salute, per la sua umanità il più alto grado di gloria, e finalmente hanno cancellato il peccato dal mondo. Egualmente un giusto che faccia un’opera buona in istato di grazia aggiunge una gemma di più alla propria corona, ottiene una grazia di più, e da ultimo espia qualcuno de’ peccati che può avere commesso. Che se questo giusto non ha peccati da espiare, oppure il merito della sua opera buona sopravanza il suo debito, la sua buona azione non ottiene che una parte della dovuta ricompensa, ed in quanto ella è espiatoria, rimane priva del suo effetto: e innanzi a Dio, che è la giustizia stessa, questo genere di merito non può andare perduto.Ciò premesso, egli è certo: che le soddisfazioni di Nostro Signore hanno di molto sorpassato i peccati del mondo; esse sono infinite, mentre i peccati del mondo non lo sono. Quindi le memorande parole del pontefice Clemente VI, che spiegano sì bene il pensiero della Chiesa sul proposito delle indulgenze. « Il Salvatore, immolato sull’altare della Croce, non ha soltanto versato una goccia del suo sangue, che pure, per ragione della dignità di sua natura, avrebbe bastato per la redenzione del genere umano, ma lo ha versato tutto quanto. Come dunque dev’essere immenso il tesoro delle grazie che ha acquistato alla Chiesa militante, affinché si gran copia di meriti non restasse vana ed inutile! Esso non ha sepolto codesto tesoro, ma sebbene ha donato al Principe degli Apostoli ed a suoi successori il potere di distribuirne le ricchezze ai fedeli [“Unigenitus Dei Filius… pretioso sanguine nos redemit, quem in ara Crucis innocens immolatus, non gutlam sanguinis modicam, quae tamen propter unionem ad Verbum prò redemptione totius humani generis suffecisset, sed copiose, velut quoddam profluvium nascitur effudisse… Quantum ergo exinde ut nec supervacua, inanis et superflua tantae effusionis miseratio redderetur, thesaurum militanti Ecclesiae acquisivit, volens suis thesaurizare filiis pius Pater, ut sic sit infinitus thesaurus hominibus quo qui usi sunt, Dei amicitiae participes sunt affecti. Quemquidem thesaurum, non in sudario repositum, non in agro absconditum, sed per B. Petrum Coeli clavigerum, eiusque successores, suos in terris vicarios, commisit fldelibus salubriter dispensandum, et propriis et rationalibus causis, nunc prò totali, mine prò partiali remissione poenae temporalis pro peccatis debitae, tam generaliter, quam specialiter (prout cum Deo expedire cognoscerent) vere poenitentibus et confessis miserieorditer applicandum”. Extravag. Unigenitus, etc.»]. – Egli è certo che i Santi hanno fatto molte soddisfazioni sovrabbondanti. Chi può negarlo della santa Vergine, la quale, esente da ogni macchia, ha ciò non ostante sofferto cotanto? Chi può negarlo di tanti Martiri, che dal sacro fonte del Battesimo, nel quale erano stati pienamente purificati, sono saliti ben tosto sul patibolo, ove han fatto il sacrificio della vita? Chi può negarlo di tanti altri Santi, che colpevoli appena di qualche leggiera mancanza, hanno nondimeno passata la vita nelle austerità, nei digiuni, nelle privazioni di ogni specie? Tale si è ancora la dottrina della Chiesa [Extravag. Unigenitus,]. Laonde il tesoro delle indulgenze si compone dei meriti sovrabbondanti del Signor Nostro Gesù Cristo, della santa Vergine e dei Santi: questo tesoro è inesausto, poiché i meriti del Salvatore sono infiniti. – Noi abbiamo detto in secondo luogo, che questi meriti possono essere applicati ai fedeli, e noi ciò abbiamo stabilito, col dimostrare che la Chiesa ha la podestà di concedere indulgenze. Aggiungiamo che la giustizia medesima esige che cosi appunto avvenga: ed è agevole l’intenderlo. Ditemi di grazia, non sarebbe forse cosa strana che in una società così perfetta com’è la Chiesa un tesoro sì dovizioso rimanesse sepolto? Iddio potrebbe mai lasciare inutili tanti meriti di Gesù Cristo e dei Santi? Egli non può farli servire né a benefizio del suo Figlio né de’ Beati, poiché essi non hanno debiti personali da pagare. La giustizia richiede dunque che simile tesoro divenga fruttuoso in vantaggio de’ suoi figli che ne hanno bisogno: e ciò Egli ha fatto sin dall’ origine del mondo, e lo fa tuttavia. Nel terrestre paradiso accettò l’intercessione del Figlio suo in favore dell’uomo colpevole : nell’antica Alleanza fu visto spesse volte perdonare ai più grandi peccatori, quantunque non facessero che leggiere penitenze, purché qualche santo personaggio offrisse per loro le proprie soddisfazioni. Così egli perdonò agli Israeliti ribelli per intercessione di Mose suo servitore; così avrebbe perdonato alle cinque infami città, se vi si fossero trovati solamente dieci giusti; così al profanatore Eliodoro, per riguardo al gran sacerdote Onia. Nella Legge novella moltiplica per sua grazia i meriti de’ Santi che ci sono applicati mediante le indulgenze.

VI . Che cosa si deve intendere per indulgenza plenaria, e per indulgenza parziale? — La remissione della pena temporale dovuta ai nostri peccati non ci sempre accordata nella istessa misura: talvolta essa è piena ed intera, altre volte non è tale. Da ciò le indulgenze plenari e le indulgenze parziali: per esempio di sette anni, di sette quarantene, ed altre, più o meno lunghe. – L’indulgenza plenaria è la remissione non solo di tutte le penitenze sacramentali e canoniche, ma ancora di tutte le pene del Purgatorio. [v. S. Alfonso lib IV, tract. IV, n. 535, p. 264, etc. etc.] Laonde il Cristiano, cosi felice da guadagnare in tutta la sua interezza un’indulgenza plenaria, diventa puro come il fanciullo all’uscire dal fonte battesimale: se muore in questo stato avventuroso, egli sale diritto al Cielo senza passare pel Purgatorio [Raccolte di indulgenze, etc. Roma, 1841, p. XVI]. Conoscete voi una verità più di questa consolatrice? Ma direte voi: Colui che acquista in tutta la sua pienezza un’indulgenza plenaria a benefizio de’ trapassati è sicuro di liberare infallibilmente dal Purgatorio quell’anima a cui si è inteso di applicarla? – No, egli non è sicuro, ed eccovi la ragione. Un’anima può essere ritenuta nel Purgatorio o per peccati veniali che non sono stati rimessi, ovvero, se sono stati rimessi, per subire la pena da essi meritata, non meno che per peccati mortali perdonati nel Sacramento della Penitenza. – Se l’anima è ritenuta nel Purgatorio per ragione di peccati veniali che non siano stati condonati, l’indulgenza non potrebbe liberamela, attesoché, e scolpitelo bene nella memoria, l’indulgenza non rimette né i peccati mortali né i veniali, ma solamente la pena temporale ad essi dovuta. Perciò allorquando voi leggete nella formula ossia concessione di qualche indulgenza le parole: «Colui che l’acquisterà, riceverà la remissione di tutti i suoi peccati, « remissionem omnium peccatorum » voi sempre dovete intendere le pene temporali dovute ai peccati stessi. [Ferraris, art. Indulg., p. 232]. Se l’anima è trattenuta nel Purgatorio per subire soltanto le pene temporali, egli è certo, secondo Sant’Agostino, San Giovanni Crisostomo, San Tommaso ed i principali Teologi, che l’anima è infallibilmente liberata, sempreché Iddio ne’ disegni imperscrutabili di sua giustizia non giudichi conveniente di negarle l’applicazione di quel benefizio nella intera sua estensione. Aggiungasi ch’è assai difficile il conoscere se noi abbiamo guadagnato in tutta la sua pienezza un’indulgenza plenaria; ed ecco perché, senza pretendere di scrutare i misteri di Dio, noi facciamo opera buona applicandone il più gran numero possibile alle anime che ci son care. – Rispetto alle indulgenze di sette anni, per esempio, di sette quarantene, ecc., esse rimettono la pena che sarebbe stata cancellata da sette anni, o da sette volte quaranta giorni, di penitenza pubblica imposta nei primi secoli della Chiesa; ma ciò non vuol significare menomamente ch’esse diminuiscano di sette anni o di sette volte quaranta giorni le pene del Purgatorio [“Indulgenza alia est partialis, qualis est unius, vel aliquot annorum; itera septenae, quadragenae, etc. Per quas non significatur tolli tantam durationem Purgatorii, sed tantam poenam remitti, quanta deleretur per ieiunium unius, aut aliquot annorum, aut quadraginta dierum in pane et aqua, secundum canones olira imponi solitum”. S. ALPH. , n. 555; FERRARIS, 225. — Noi faremo osservare con Sant’Antonino che il numero sette si trova spesso adoperato nelle indulgenze per contrapposizione ai sette peccati capitali.]. per eccitare in noi il più vivo desiderio di acquistarle, basta sapere ch’esse le diminuiscono in quella misura ch’è stabilita dalla misericordia sapientissima del Giudice sovrano. Ma è ormai tempo di passare alla settima questione, alla quale risponderemo con brevi parole.

VII. Che cosa dobbiamo fare per acquistare le indulgenze? — Siccome abbiamo superiormente insegnato, le indulgenze sono un immenso benefizio tanto per noi quanto per le anime del Purgatorio. Ciò che ne accresce il pregio e manifesta luminosamente l’infinita bontà del nostro Padre celeste, è la facilità delle condizioni che ci sono imposte per ottenerle. Facilità negli atti che sono richiesti. Talora è una breve preghiera, tal’altra una visita ad una Chiesa; spesso il conservare una croce, una medaglia, accompagnando tale azione con certi atti di pietà, che tutti, e dotti e ignoranti, e giovani e vecchi, possono egualmente adempire, Cosi, né alcuno di voi può ignorarlo, parecchie indulgenze sono annesse alla recitazione del rosario, degli atti delle virtù teologali, delle litanie dei santi nomi di Gesù e della Vergine, dell’Angelus e di una quantità d’altre preghiere che lutti sanno a memoria, o che leggonsi in quei libri che corrono per le mani d’ ognuno. Sono pure annesse delle indulgenze alle diverse confraternite della santa Vergine, del Santissimo Sacramento, del sacro Cuore , del catechismo, delle anime del Purgatorio, del Rosario, del sacro Scapolare, della propagazione della fede, ecc.; né fa d’uopo ch’io m’intrattenga nel dimostrarvi la facilità di tutte le pratiche religiose di queste devote confraternite. La giornaliera meditazione, l’atto pio di accompagnare il Santissimo Sacramento che si porta agli ammalati, non meno che la maggior parte delle opere di carità spirituale e corporale verso il prossimo, sono tutte sorgenti feconde di sante indulgenze. – Facilità nel modo di compiere gli atti prescritti. Si osservi primamente, che le indulgenze sono beni che appartengono alla Chiesa. Per goderne, bisogna dunque appartenere a questa santa società; è necessario essere battezzato. Questi sono beni destinati a pagare i nostri debiti; è dunque necessario di averne contratti; ossia, in una parola, aver commesso dei peccati. Laonde i fanciulli che sono senza peccati non potrebbero guadagnarne per se medesimi. – I fedeli defunti non cessano di esser membri della Chiesa, e possono perciò profittare delle Indulgenze. Ciò non ostante è necessario che il sommo Pontefice autorizzi ad applicare quelle tali indulgenze alle anime del Purgatorio, perciocché a lui spetta di regolare la distribuzione dei meriti di Gesù Cristo. È mestieri da ultimo che i fedeli abbiano intenzione di applicarle. – Ciò premesso, è necessario, per acquistare le indulgenze: 1° farle nel tempo e nel modo prescritti, e conforme all’intenzione di colui che accorda l’indulgenza; 2° farle intere, e personalmente; 3° essere in istato di grazia, allorché almeno si compie l’ultima azione comandata, giacché la pena dovuta al peccato non può essere rimessa prima che il peccato stesso abbia ottenuto perdono; 4° avere intenzione, almeno abituale ed interpretativa di acquistare l’indulgenza [FERRIRIS, p. 228. — “Etsi in opere praestito non habueris intentionem consequendi induldentias … et videtur certum si habueris interpretativam”. S. ALPH. , n. 5, 54, p. 261. — 1’intenzione interpretativa consiste nella disposizione in cui ci troviamo di acquistare le indulgenze, senza che vi sia per parte della volontà intenzione alcuna o attuale, o virtuale e nemmeno implicita. M. GOUSSET, t . I , p. 20. Vedi Raccolta etc. p. XXIII]. Per compiere quest’ultima condizione, basta il volgerle la propria attenzione nel mattino, dicendo per esempio: “Mio Dio, io ho l’intenzione di acquistare in oggi tutte le indulgenze che stanno unite alle orazioni e alle buone opere che io farò nel corso di questa giornata”. – È questo il luogo di fare quattro importanti osservazioni sulla confessione, sulla comunione, sulle preghiere da recitarsi, e sugli obbietti privilegiati d’ indulgenza.

1° Sulla confessione. Le persone che conservano la santa abitudine di confessarsi ogni otto giorni possono acquistare tutte le indulgenze che si presentano nel corso della settimana, purché perseverino nello stato di grazia. È d’uopo soltanto di eccettuare le indulgenze del Giubileo e quelle in cui la confessione è prescritta come parte essenziale dell’opera buona che deve farsi1.

2° Sulla comunione. Quando la comunione è comandata per acquistare un’indulgenza plenaria in particolare, ella può farsi nella vigilia della festa stabilita per l’indulgenza.

3° Sulle preghiere. Sebbene noi siamo obbligati a compiere da noi stessi le buone opere ingiunte, null’ostante la Santa Sede ha definito che le persone le quali recitano, alternativamente con altre, le preghiere stesse, acquistano le indulgenze.

4° Per acquistare le indulgenze annesse ai rosari, alle croci, ai crocifissi, alle medaglie, è necessario o di portare sulla propria persona questi diversi obbietti, senza che perciò abbiano a tenersi fra le mani, oppure conservarle presso di sé. Le preghiere prescritte come condizione per acquistare le suddette indulgenze devono essere recitate, o avendo addosso le croci, le medaglie, ecc., oppure tenendole custodite rispettosamente nella propria stanza, o in altro luogo decente della casa, ovvero recitando davanti a questi obbietti le preci ingiunte. Finalmente non è lecito donarle, venderle, prestarle ad altri allo scopo di acquistare indulgenze senza che perdano ben tosto il loro privilegio. Che cosa può darsi di più semplice e di più facile di tali condizioni? Per adempierle basta solo volere; ma quand’anche fossero così ardue come son facili, non dovremmo nemmeno per questo esimerci da verun sacrificio onde ottenere gli immensi benefizi che ne procurano le indulgenze.

VIII. Quali sono i motivi che abbiamo per guadagnare le indulgenze, tanto per noi stessi quanto pei trapassati ? — Parliamo primamente per noi stessi. Qual è colui fra gli uomini, che riguardando alla sua vita cogli occhi della fede non debba ripetere col profeta Isaia: « La mia vita rassomiglia a pannolino insozzato »; tante sono le imperfezioni ed i difetti che macchiano le nostre buone opere istesse [“Quasi pannus menstruatæ universæ iustitiæ nostræ”. Isaia, LXIV, 6]. – Chi è colui che non debba soggiungere con Davide: Il cumulo delle mie iniquità sopravanza l’altezza del mio capo? “Iniquitates meæ supergressæ sunt caput meum?” [Ps. XXXVII]. E non dovrà interrogare se stesso con quelle altre parole del Profeta: Chi è che gli errori conosca? [“Delicta quis intelligit?” Ps. XVIII]. – Qual è l’età della nostra vita che non sia stata bruttata da particolari peccati? Fra i dieci comandamenti di Dio avvi un solo che sia stato da noi costantemente rispettato? Ma che dico io mai? Qual è quella delle leggi divine che non sia stata trasgredita, e spessissimo trasgredita con pensieri, con parole, con opere, con omissioni? I precetti della Chiesa hanno essi forse ottenuto per parte nostra una fedeltà più religiosa, un rispetto più reale e più costante? Ohimè! e non li abbiamo forse disprezzati più facilmente ancora che non i comandamenti di Dio? Tale pur troppo è la fedele pittura dell’intera nostra vita. – E d’altra parte quali penitenze abbiamo noi fatto per tanti peccati? Quali penitenze facciamo noi presentemente? C’imponiamo forse di buon grado mortificazioni od austerità per soddisfare alla divina giustizia? «Le penitenze che ci vengono imposte nel sacro tribunale della riconciliazione sono elleno proporzionate al numero ed alla enormità dei nostri peccati? E con qual fervore si compiono da noi? Accettiamo noi forse, non dirò già con gratitudine, ma almeno con rassegnazione, le croci e le tribolazioni che nella sua misericordia ci manda il Signore? Lo scoraggiamento, la tristezza, i pianti, le mormorazioni, l’impazienza non sorgono forse nel nostro cuore, non escono forse dalle nostre labbra, non solo per rendere inutili questi avvisi salutari, ma anche per farne pretesto di nuove cadute? Tutto ciò significa che noi siamo carichi di debiti, che tutto giorno ne facciamo di nuovi, e che noi non ne paghiamo alcuno. Eppure Iddio è tale creditore, a cui niuno impunemente può rifiutarsi di pagare. Continuiamo pure a vivere nella spensieratezza, e tardi purtroppo ci persuaderemo, che ogni peccato sarà punito, punito come merita di essere, o in questo mondo o nell’altro! – Dacché noi per liberarci dai nostri debiti non facciamo nulla o quasi nulla, è evidente che in luogo di studiarci affin di addolcirli o di evitarli, noi procuriamo al mondo tanti flagelli pubblici e privati, come sono, per esempio, le rivoluzioni, le infermità, i dolori di ogni fatta che sono il castigo del peccato; ed inoltre egli è evidente che colla nostra noncuranza accettiamo, come condizione la più favorevole che nell’altro mondo possiamo sperare, il fuoco del Purgatorio, quei tormenti la cui durata è sconosciuta, il cui rigore sopravanza tutto ciò che di penoso può immaginarsi sulla terra. E siamo noi che facciamo questi calcoli, noi che tanto paventiamo il soffrire! – Sforzarsi di acquistar le indulgenze, non è utile soltanto per pagare i nostri debiti, ma ben anco per non incontrarne de’ nuovi; non solo per chiudere il Purgatorio, ma inoltre per aprire il Cielo. Abbiamo già detto, che per acquistare un’indulgenza mestieri di essere in istato di grazia. Ora, non è forse un possente stimolo per rimanere o per ritornare in questo felice stato il salutar pensiero che possiamo ottenere un’indulgenza? Quanto più noi apprezzeremo somigliante favore, tanto maggiori saranno gli sforzi che faremo per adempiere le condizioni, senza le quali non possiamo meritarla. Adunque il dogma delle indulgenze, anziché portare alla rilassatezza, come pretendono certi eretici, e come ripetono certi cattivi Cristiani, questo dogma degnamente apprezzato basta solo per innalzare i fedeli al più alto grado di pietà, per popolare la terra di Santi, per riempiere il Cielo di Beati. Tali sono i possenti motivi che abbiamo per ottenere le indulgenze a nostro particolare vantaggio; ma non meno possenti sono le ragioni che noi abbiamo per acquistarle a benefizio delle anime del Purgatorio. – Signore, venite e vedete, diceva al Salvatore la sorella di Lazzaro; e in così dire lo conduceva all’ingresso del sepolcro, in cui da quattro giorni era rinchiuso il suo fratello. E il Redentore pianse e risuscitò il suo amico. Io dirò altresì a voi: Fratello mio, mia sorella, veni et vide. Venite sul limitare del Purgatorio, ed osservate per entro quelle fiamme divoratrici il padre vostro, vostra madre, vostro fratello, vostra sorella, che sollevano verso di voi le loro mani supplichevoli, e vi scongiurano di liberarli. Essi colà patiscono, non già da quattro giorni, ma forse da molti mesi, e son condannati a rimanervi tuttavia per dieci, per venti, per un numero anche maggiore di anni. Voi potete alleviare questi loro tormenti, accorciarne la durata, ridurla forse anche a nulla: per questo basta il guadagnare e l’applicare ad essi le indulgenze, che la Chiesa vi accorda con tanta liberalità ed a sì facili condizioni, e voi ricusate farlo? E intanto voi oserete ripetere in tutti i luoghi il vostro affanno, il vostro rammarico per la perdita de’congiunti? vestirvi a lutto, e parlare del vostro affetto per coloro che avete perduto? Dolore pagano! Lutto ipocrita! Affezione mentita! Il vero affetto, dice il Salvatore, non è riposto in vane parole; esso consiste in atti positivi: se amate i vostri trapassati, dimostratelo col sollevarli. In caso diverso io vi chiederò: Avete voi la carità? È ben palese che ne siete privi. Vi domanderò ancora: Avete voi la fede? Allorquando si pensa alla prodigiosa influenza che il dogma delle indulgenze ha esercitato sui secoli cristiani; quando si riflette che più volte l’Europa intera coi suoi re, coi suoi guerrieri, colle sue intere popolazioni si è mossa per ottenere un’indulgenza; quando si legge che il più magnifico tempio dell’universo è stato terminato mediante un’indulgenza [Vedi ancora per quello che avviene nella Chiesa della Madonna degli Angeli il giorno dell’indulgenza plenaria, la Vita di San Francesco d’Assisi scritta da CHEVIN]; quando sappiamo che tutti i paesi cristiani si sono coperti di monasteri, di chiese, di meravigliosi monumenti per ottener delle indulgenze; quando ci si narra che S. Francesco Saverio non conosceva mezzo più efficace dell’indulgenza per togliere dall’abisso dei vizi i propoli cristiani delle Indie; e pel contrario quando si medita sull’indifferenza mortale che noi mostriamo per questo favore inestimabile, una profonda tristezza ci trafigge il cuore, ed abbiamo tutta la ragione di chiedere, tremando per la risposta: Questo nostro mondo ha ancora la fede? Io suppongo che andiamo a visitare una vasta prigione, nella quale trovasi rinchiusa moltitudine di sgraziati, carichi di catene. Eglino son condannati a pene gravissime, gli uni per anni dieci, altri per venti, altri per quaranta. Noi loro diciamo: Il re nella sua clemenza vuole abbreviare le vostre miserie, e forse ancora interamente perdonarvi, al solo patto che voi reciterete la tale preghiera, porrete in pratica la tal opera di pietà, del resto facilissima e brevissima. Se voi accettate si apriranno le porte della prigione, potrete rivedere i parenti, gli amici, la famiglia. – Vi sarebbe forse un solo prigioniero che ricusasse sì dolce, sì facile condizione? Or bene, questi prigionieri siamo noi; noi, debitori insolvibili verso la giustizia di Dio. Tale prigione si è il Purgatorio; le pene di questa terra sono un nulla in paragone di quelle che ivi soffronsi. Ci vien proposto di liberarcene a condizioni facilissime, e noi le ricusiamo: e noi le adempiamo con scandalosa svogliatezza! E possiamo dirci ragionevoli? Ma se un giorno saremo condannati a languire per lunga serie di anni nelle fiamme del Purgatorio, di chi ne sarà la colpa? – Parliamo da ultimo della grande indulgenza della Chiesa cattolica; il Giubileo. Il Giubileo è un’indulgenza plenaria alla quale vanno uniti molti privilegi straordinari: 1° Essa è più estesa; essa è data alla Chiesa universale, laddove le altre indulgenze plenarie non sono destinate che ad una parte dell’ovile di Gesù Cristo. 2° I Confessori approvati hanno facoltà di assolvere da tutti i casi riservati e dalle censure; di commutare i voti, non meno che le opere prescritte per acquistare il Giubileo, a quelli che non trovansi in grado di compierle. Queste opere sono per l’ordinario in numero di sette: la processione, la visita delle chiese, la preghiera nelle chiese, la confessione, la comunione, il digiuno e l’elemosina. Durante il Giubileo, tutte le indulgenze rimangono sospese, eccettuate le seguenti ed alcune altre: le indulgenze concesse in articolo di morte; quelle che stanno unite alla recita dell’Angelus, ed al pio costume di accompagnare il Santissimo Sacramento allorché vien portato agli infermi; quelle degli altari privilegiati pei defunti; quelle concesse direttamente pei defunti [Vedi FERRARIS, art. Giubileo.] – Il Giubileo propriamente detto, ossia il grande Giubileo, è quello che si celebra al compiersi di ogni venticinquesimo anno, che perciò vien detto l’anno santo. Oh! sì; anno santo per eccellenza, e perché la Chiesa ci fa una singolare applicazione dei meriti di Gesù Cristo, sorgente inestinguibile di ogni santità, e perché quello è sopra di ogni altro il tempo della grazia, della clemenza, della liberalità del Signore. I sommi Pontefici nel salire al trono di San Pietro, hanno pure il costume di concedere un Giubileo; ma non è di questo che ora ci proponiamo di parlare. – La parola Giubileo vuol dire ritorno o remissione. Era questo presso i giudei il nome che si dava ad ogni anno cinquantesimo. Al ricorrere di questo anno felice, tutti i prigionieri, tutti gli schiavi venivano rimessi in libertà; le vendute eredità tornavano agli antichi loro padroni, i debiti erano cancellati, e la terra si lasciava incolta: era questo un anno di grazia e di riposo [Levit. XV — Num. X]. – Ora il Giubileo della Legge antica non era che figura di quello della Legge novella. Il Giubileo del Cristianesimo rimette i debiti spirituali di cui sono carichi i peccatori; libera i prigionieri e gli schiavi del giogo del demonio, ci ritorna al possesso dei beni spirituali che abbiamo perduto col peccato. Finalmente, nell’intenzione della Chiesa, devono i fedeli tutti considerare quest’anno come tempo di santo riposo, e durante il medesimo, dimentichi delle cure terrene e raccolti nel silenzio e nella meditazione, occuparsi degli anni eterni. Laonde il Giubileo richiama alla mente dei Cristiani che la loro Religione è nata col mondo, che è l’adempimento delle figure Mosaiche, ch’essi sono figli del Dio d’Israele ed i veri eredi delle promesse fatte ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe. Risveglia pure il Giubileo tutte le rimembranze della pietà antica. Codesta ammirabile istituzione risale ad epoca più assai remota di quanto si creda comunemente. – Il pontefice Bonifacio VIII, al quale essa è attribuita, in sul principio del secolo quattordicesimo, non altro fece che regolare un uso assai antico; imperocché ci narra l’istoria, che ne’ primi giorni dell’anno stesso in cui questo Pontefice pubblicò la sua bolla intorno al Giubileo, gli abitanti di Roma, in ciò imitati da molti stranieri, per spontaneo loro impulso accorrevano a visitare la basiliche del Vaticano per acquistare quelle indulgenze che solevano ottenersi ogni cent’anni secondo la tradizione degli antichi. Clemente VIII giudicando che il periodo di un secolo fosse troppo lungo, atteso ché poche persone vedono la fine di tal periodo, e che perciò gran numero di fedeli rimanevano privi di tal grazia, stabilì che il Giubileo dovesse celebrarsi ogni anno cinquantesimo. Per somigliante ragione Paolo II, nell’anno 1460, ne fissò la ricorrenza ad ogni venticinquesimo anno. – Il grande Giubileo comincia a Roma la vigilia del Natale; ed è annunziato nel giorno dell’Ascensione precedente col mezzo della bolla papale, il che si fa colla massima pompa nella basilica di San Pietro dopo l’Evangelo della Messa solenne. Dura un anno in Roma, e poscia si estende a tutto l’orbe cattolico. Quant’era mai splendido, quanto esemplare, quanto commovente lo spettacolo che nei tempi addietro offriva la cristianità nell’occorrenza dell’anno santo! Appena la sacra tromba si era fatta udire dall’alto del Vaticano, le parole del comun padre dei Cristiani, col ministero dei Vescovi e degli Arcivescovi, giungevano alle estremità della terra. Allora tutti i cuori battevano dalla gioia all’udire questa voce sì cara alla pietà. Come i figli d’Israele, cosi i figli della Chiesa si rallegravano poiché ricevevano l’avviso che ben presto essi andrebbero alla casa del Signore, a quella eterna Roma che è dimora del Vicario di Cristo. Allora s’indossavano gli abiti del pellegrino, e preso il bordone ricevuto in eredità dai padri si mettevano in cammino. Da ogni parte numerosi viaggiatori, abbandonando la loro patria, i congiunti, gli amici, affrontavano a piedi un viaggio lunghissimo e disagi d’ogni sorta. Era questa un’immensa deputazione che ogni venticinque anni il mondo cattolico inviava al Vicario di Gesù Cristo per rendergli omaggio, protestargli al suo cospetto la propria fede, la propria affezione, raccoglierne le benedizioni e portarle in tutti i paesi abitati dalla numerosa sua famiglia. – Nulla era più edificante che il pellegrinaggio di queste religiose carovane. Dall’aurora di quel giorno in cui si ponevano in cammino, innalzavano al Cielo cantici devoti in lode del Signore e dei Santi, protettori dei pellegrini; oppure, come il marinaio perduto nell’immensità dell’Oceano, invocavano la Vergine del Buon Soccorso, rivolgendole quella preghiera angelica, della quale l’esule soltanto può appieno comprendere ed apprezzare la divina beltà e l’affetto inenarrabile che suscita in cuore. Al giungere della sera battevano alla porta di un monastero, e quivi ritrovavano durante la notte in quei religiosi albergatori tanti fratelli, prima d’allora non conosciuti, ma che la religione loro faceva ben tosto conoscere. I servigi i più cordiali, le sollecitudini le più ingegnose ristoravano i viaggiatori dalle loro fatiche, e loro facevano sembrare di trovarsi, benché tanto lontani dalla paria, in seno alla famiglia ch’essi avevano abbandonato: la fede spingeva ad intraprendere questo pellegrinaggio, la carità ne sosteneva, per cosi dire, le spese. – Frattanto si giungeva al termine del cammino. La città eterna cominciava a disegnarsi confusamente e da lontano agli occhi dei viandanti; i pellegrini salutavano quella apparizione con grida festose, anelando l’istante in cui potessero inginocchiati baciare rispettosamente i sacri suoi monumenti. L’accoglimento il più affettuoso aspettava questi pellegrini in quella Roma, che è patria comune di tutti i fedeli. – Immensi ospizi erano preparati per albergarli; erano figli, erano fratelli che si aspettavano da lunga pezza. Allora che nobile spettacolo! Quanti affetti si destavano in folla nel cuore commosso! Uomini di tutte le nazioni si assidevano alla mensa stessa, l’abitatore d’Europa a lato dell’Africano e dell’Asiatico; uomini che prima d’allora non si erano giammai veduti, che neppure intendevano le favelle l’uno dell’altro, mangiavano gratuitamente lo stesso pane, si amavano, si comprendevano, né altrimenti si consideravano che quali fratelli riuniti nella casa paterna. Il Padre comune di tanti Cristiani si riputava fortunato di poter visitare questa numerosa famiglia; e per imitare l’esempio del divino Maestro, li serviva colle proprie mani, li contemplava con immenso affetto, e stringeva al seno dei figli non più veduti, e che più non doveva rivedere. – Invano si cercherebbe nell’istoria delle diverse nazioni qualche cosa egualmente sublime, qualche cosa che più di questa toccasse il cuore. Qual circostanza più acconcia per proclamare altamente e sanzionare quella gran massima, la cui osservanza formò la gloria della Chiesa fin dal suo nascere, e formerebbe ancora la felicità della terra; vale a dire, che tutti gli uomini sono fratelli, che non devono avere che un cuor solo, un’anima sola, siccome non v’ha che un Dio, un Battesimo, una Chiesa, un Capo visibile di tutti i Cristiani! Che di più atto a richiamare l’uomo ai gravi e santi pensieri della religione, di questi esempi di fervore e di penitenza, che venivano offerti da persone di ogni grado e di ogni paese? Qual cosa infine è più efficace, onde rianimare la fede, della vista di Roma, teatro dei combattimenti dei martiri e delle vittorie del Cristianesimo? Codesti figli venuti da sì lontano, non redivano al loro paese se non dopo di aver ricevuto la benedizione del loro Padre comune. Ma chi può dipingere gli effetti che questa splendida cerimonia doveva produrre sopra gli uomini non abituati a simili pompe, e nelle quali il cuore e i sensi trovavano ciascuno ad un tempo un’alta soddisfazione? Si ricordino tutti quelli, scrive un autore, ch’ebbero il benefizio di esserne gli avventurosi testimoni, quanto la Religione apparisca divina, come il Sommo Pontefice si mostri grande, allorché circondato da tutta la pompa di un monarca e da tutta la dignità di capo della Chiesa universale, composta di cento milioni di cattolici, si avanza fra il suono delle campane ed il fragore delle artiglierie, preceduto da Cardinali e da Vescovi della Chiesa Greca e della Chiesa Latina, sull’immenso portico del maggior tempio del mondo, e di quivi si presenta a migliaia di spettatori accorsi da tutte le parti per contemplarlo. Quale spettacolo non offre questo Re, Pontefice e Padre di tutti gli uomini [Mettendogli la tiara sul capo, il Cardinale pronunzia queste parole: « Accipe thiaram tribus coronis ornatam, ut scias te esse patrem principum et regum, rectorem orbis in terra vicarium Salvatoris Domini Nostri Jesu Christi, cui honor et gloria in sæcula sæculorum »], immerso nella felicità di vedere nel più vasto recinto i suoi innumerevoli figli prostrati ai suoi piedi! Il Vicario di Gesù Cristo, il successore dei pescatori di Galilea, stabilito su quel circo medesimo ove il crudele Nerone immolò tante vittime al suo odio feroce pel nome cristiano! Qual trionfo per la Religione! Quale conforto per la fede! Da ogni parte regna profondo silenzio: ed allora dall’alto della cattedra Apostolica in cui si asside, e che sorge sublime adornata da tutta la pompa e magnificenza religiosa, il successore di Pietro getta uno sguardo di paterna bontà su questa immensa famiglia. Col cuore commosso egli si alza maestosamente in piedi, avendo cinta la fronte del triplice diadema e sembra, a chi riguarda nei suoi occhi pieni di fede, che, nell’impartire l’Apostolica benedizione, egli cerchi di attingere nel Cielo quei tesori di grazie, che egli prodiga a Roma ed all’universo, Urbi et Orbi ». – Testimonio di questa ineffabile cerimonia, uno dei nostri filosofi esclamava: In quel momento io ero cristiano». Queste parola non abbisogna di commenti! Noi ci siamo diffusi su questo argomento per mostrare quanto siano ingiuste le declamazioni degli empi contro il Giubileo, i pellegrinaggi e le pompe della Chiesa Romana.

Preghiera

O mio Dio, che siete tutto amor: ringrazio che abbiate lasciato alla Chiesa un tesoro d’indulgenze nei meriti sovrabbondanti di Gesù Cristo e dei Santi: concedetemi la grazia ch’io possa rimarne degno. – Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso, per amor di Dio, ed in prova di queste non ometterò nessun mezzo per acquistare delle indulgenze.

 

TEMPO PASQUALE

TEMPO PASQUALE

[Dom Guéranger. L’Anno Liturgico, vol. I]

Definizione del Tempo Pasquale.

Si dà il nome di Tempo Pasquale al periodo formato dalle settimane che decorrono dalla Domenica di Pasqua al Sabato dopo la Pentecoste. Questa è certo la parte più sacra dell’anno, perché ad essa converge l’intero ciclo liturgico. Ce ne renderemo conto facilmente considerando l’importanza della festa di Pasqua, chiamata fin dagl’inizi del Cristianesimo la « Festa delle feste », la « Solennità delle solennità », allo stesso modo, ci dice il Papa san Gregorio, per cui la parte più sacra del Tempio di Gerusalemme si chiamava il « Santo dei Santi » e tuttora si dà il nome di « Cantico dei cantici » al sublime epitalamio dell’unione del Figlio di Dio con la santa Chiesa. – È infatti nel giorno di Pasqua che la missione del Verbo incarnato, fino ad ora sempre tesa a questa meta, raggiunge la pienezza del suo compimento; è nel giorno di Pasqua che il genere umano viene risollevato dalla sua caduta e rientra in possesso di tutto ciò che aveva perduto per il peccato di Adamo.

Il Cristo vincitore.

Il Natale ci aveva dato un Uomo-Dio; tre giorni fa abbiamo raccolto il suo Sangue di un valore infinito per il nostro riscatto; ma all’alba della Pasqua non abbiamo più sotto i nostri occhi una vittima immolata, vinta dalla morte: è il trionfatore che l’ha annientata perché figlia del peccato, e che proclama la vita, quella vita immortale che ci ha riconquistata. Non è più l’umiltà delle fasce, non sono più gli spasimi dell’agonia e della croce; è la gloria, prima per Lui, poi per noi. Nel giorno di Pasqua Dio restaura nell’Uomo-Dio risuscitato la sua opera iniziale; il passaggio della morte non ha lasciato maggior traccia di quella del peccato, di cui l’Agnello divino si era degnato prendere la somiglianza; e non è solo Lui che torna alla vita immortale, ma tutta intera l’umanità. « Poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, ci dice l’Apostolo, anche per mezzo di un uomo vi è la risurrezione dei morti. E come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo saranno vivificati » (I Cor. XV, 21-22).

La preparazione della Pasqua.

L’anniversario di questo evento è dunque il giorno più grande, il giorno di allegrezza, il giorno per eccellenza, quello a cui tutto l’anno converge, quello su cui esso si fonda. Ma proprio perché questo giorno è santo fra tutti gli altri, perché ci apre la porta della vita celeste nella quale entreremo risuscitati come Cristo, la Chiesa non ha voluto che venisse a splendere su di noi senza che avessimo prima purificato il nostro corpo per mezzo del digiuno e restaurato con la compunzione le nostre anime. È a questo fine che ha istituito la penitenza quaresimale e che, fin dalla Settuagesima, ci avverte che è venuto il momento di aspirare alle gioie purissime della Pasqua e di disporre l’animo nostro ai sentimenti che deve infonderci il suo avvicinarsi. – Ed ecco che ormai abbiamo terminato di prepararci e il Sole della Risurrezione si alza su di noi!

Santità della Domenica.

Ma non era sufficiente festeggiare il giorno solenne che ha visto Cristo, nostra Luce, sfuggire dall’ombra del sepolcro; un altro anniversario reclamava pure il nostro culto riconoscente. – Il Verbo incarnato è risuscitato il primo giorno della settimana, lo stesso giorno in cui, Verbo increato del Padre, aveva cominciato l’opera della creazione, sprigionando la luce dal seno del caos, separandola dalle tenebre e dando inizio così al giorno dei giorni. Nella Pasqua dunque il nostro divino risuscitato consacra la domenica una seconda volta e da allora il sabato cessa di essere il giorno sacro della settimana. La nostra risurrezione, compiutasi in Nostro Signore Gesù Cristo una domenica, completa la gloria del giorno iniziale; il precetto divino del sabato soccomberà insieme con tutta la legge mosaica; e gli Apostoli d’ora in avanti ordineranno ai fedeli di santificare il primo giorno della settimana, nel quale la gloria della creazione si unisce a quella della divina rigenerazione.

Data della festa di Pasqua.

La resurrezione delI’Uomo-Dio era avvenuta di domenica; la sua commemorazione, quindi, non poteva aver luogo in un altro giorno della settimana. Era perciò necessario separare la Pasqua dei Cristiani da quella degli Ebrei, la quale, fissata irrevocabilmente al quattordici della luna di marzo, anniversario dell’uscita del popolo dall’Egitto, cadeva ora in uno, ora in un altro dei giorni della settimana. La loro Pasqua non era che una figura: la nostra è la realtà, dinanzi alla quale l’ombra svanisce. Fu necessario dunque, che la Chiesa spezzasse quest’ultimo legame con la Sinagoga e proclamasse la sua emancipazione, fissandola più solenne delle sue feste in un giorno tale da non coincidere mai con quello in cui gli Ebrei celebravano la loro Pasqua, sterile ormai di ogni speranza. Gli Apostoli decisero che d’ora innanzi essa non sarebbe mai più il quattordici della luna di marzo, neppure quando questo cadesse di domenica, ma che si sarebbe celebrata in tutto l’universo la domenica che segue il giorno in cui l’ormai scaduto calendario della Sinagoga seguita a piazzarla. Nondimeno, in considerazione del gran numero di Ebrei che avevano ricevuto il Battesimo e che formavano da principio il nucleo della Chiesa cristiana, per non urtare la loro suscettibilità, fu pure presa la risoluzione che la legge relativa al giorno della nuova Pasqua sarebbe stata applicata successivamente e con prudenza. Del resto Gerusalemme non doveva tardare a soccombere sotto i colpi dei Romani, secondo la predizione del Salvatore, e la nuova città, ricostruita sulle sue rovine e abitata dalla colonia cristiana, avrebbe avuto anche la sua Chiesa, ma una Chiesa completamente indipendente dall’elemento giudaico, che la giustizia di Dio aveva in modo così chiaro ripudiato in quei medesimi luoghi. – La maggior parte degli Apostoli, nelle loro lontane predicazioni e nella fondazione delle Chiese in tante regioni situate anche fuori dei confini dell’Impero Romano, non ebbero da lottare contro consuetudini ebraiche. Delle loro reclute i più erano gentili. La Chiesa di Roma, che diveniva Madre e Maestra di tutte le altre, non conobbe mai altra Pasqua da quella che unisce, nella domenica, il ricordo del primo giorno del mondo e la memoria della gloriosa risurrezione del Figlio di Dio e di noi tutti che ne siamo le membra.

Usi dell’Asia Minore.

Una sola provincia della Chiesa, l’Asia Minore, rifiutò per molto tempo di uniformarsi a questo uso comune. San Giovanni, che visse a lungo ad Efeso e vi morì, aveva creduto bene di non esigere dai numerosi Ebrei che dalla Sinagoga erano passati al Cristianesimo la rinuncia alla legge giudaica per la celebrazione della Pasqua, ed i fedeli che, convertiti dal paganesimo, vennero ad accrescere il numero di quella cristianità così fiorente si appassionarono fino all’eccesso per quella tradizione, che si riallacciava all’origine delle Chiese dell’Asia Minore. Ma con l’andare avanti degli anni una tale anomalia era fonte di scandalo; vi si sentiva come un’impronta di giudaismo e l’unità del culto cristiano veniva a soffrire di una divergenza che impediva ai fedeli di essere tutti uniti nella gioia della Pasqua e nella tristezza dei giorni santi che la precedono. Il Papa san Vittore, che governò la Chiesa dall’anno 185, rivolse le sue cure contro tale abuso e pensò che era venuto il momento di far trionfare l’unità anche esteriore del culto cristiano in un punto tanto essenziale da formarne il centro. Già sotto il pontificato di S. Aniceto, circa l’anno 150, la Sede apostolica aveva tentato per mezzo di trattative amichevoli di condurre le Chiese dell’Asia Minore all’uso universale; ma nulla si era potuto ottenere contro un pregiudizio che si fondava su di una tradizione reputata sacra in quelle regioni. S. Vittore credé di potervi riuscire meglio dei suoi predecessori: per aver maggior influenza sugli abitanti dell’Asia, mediante la testimonianza unanime di tutte le Chiese, dette ordine che si tenessero concili nei vari paesi in cui il Vangelo era penetrato, e che vi venisse esaminata la questione della Pasqua. Ovunque l’accordo fu perfetto: e lo storico Eusebio, un secolo e mezzo dopo, scriveva che ancora si conservava il ricordo delle decisioni prese in proposito, oltre che dal concilio di Roma, anche da quelli tenuti nelle Gallie, nell’Acaia, nel Ponto, nella Palestina e nell’Osroene in Mesopotamia. – Il concilio di Efeso, presieduto da Policrate, Vescovo di quella città, fu il solo a resistere agli intenti del Pontefice ed all’esempio dato da tutta la Chiesa. Vittore, giudicando che questa opposizione non poteva venire sopportata più oltre, emise una sentenza con la quale le Chiese ribelli dell’Asia Minore venivano separate dalla comunione con la Santa Sede. Una condanna tanto severa formulata solo dopo ripetute istanze da parte di Roma perché si rinunziasse a quei pregiudizi asiatici, suscitò la commiserazione di molti vescovi. S. Ireneo, che reggeva allora la cattedra di Lione, intervenne presso il Papa in favore di quelle Chiese, le quali, secondo lui, non erano colpevoli che di una decisione poco illuminata. E ottenne la revoca di un provvedimento la cui severità sembrava sproporzionata alla colpa. Questa indulgenza produsse il suo effetto: durante il secolo seguente S. Anatolio, vescovo di Laodicea, nel suo libro sulla Pasqua, scritto nel 276, attesta che già da qualche tempo le Chiese dell’Asia Minore seguivano l’uso romano.

L’opera del concilio di Nicea.

Per una strana coincidenza, press’a poco nella stessa epoca, vi fu lo scandalo di una nuova scissione circa la celebrazione della Pasqua, questa volta da parte delle Chiese della Siria, della Cilicia e della Mesopotamià. Si videro infatti abbandonare la consuetudine cristiana e apostolica, per riprendere quella, di rito giudaico, del quattordici della luna di marzo. – Questo scisma nella liturgia afflisse la Chiesa; e uno dei primi intenti del Concilio di Nicea fu di promulgare l’obbligo universale di celebrare la Pasqua di domenica. Il decreto fu approvato all’unanimità ed i Padri componenti il Concilio ordinarono che « essendo stata superata ogni controversia, i fratelli orientali solennizzerebbero la Pasqua nello stesso giorno dei Romani, degli Alessandrini e di tutti gli altri fedeli » [Spicilegium Solesmense. t. IV. p, 541] – Interessando l’essenza stessa della liturgia cristiana, la questione sembrava così grave che S. Atanasio, nel riassumere i motivi che avevano provocato la convocazione del Concilio di Nicea, ci dice che essi furono: 1° condannare l’eresia ariana e 2° ristabilire l’unione nella celebrazione della Pasqua [Lettera ai Vescovi d’Africa]. Il Concilio di Nicea decise pure che il vescovo di Alessandria sarebbe incaricato di far fare i calcoli astronomici, necessari a determinarne ogni anno il giorno preciso, e che avrebbe inviato al Papa il risultato di tali studi affidati agli scienziati di quella città, scienziati che godevano della più grande reputazione. Il Romano Pontefice si sarebbe poi incaricato d’indirizzare a tutte le Chiese lettere con l’ordine della simultanea celebrazione della grande festa del Cristianesimo. In questo modo l’unità della Chiesa si manifestava con l’unità della liturgia; e la Cattedra Apostolica, fondamento della prima, era nel medesimo tempo mezzo per realizzare la seconda. Del resto, anche prima del Concilio di Nicea, il Romano Pontefice aveva la consuetudine d’indirizzare ogni anno a tutte le Chiese un’enciclica pasquale recante l’intimazione del giorno in cui si sarebbe dovuta celebrare la solennità della Risurrezione. Ce lo dice la lettera sinodale indirizzata al Papa S. Silvestro, nel 314, dai Padri componenti il concilio di Arles. « In primo luogo, essi scrivevano, noi chiediamo che il tempo e il giorno destinato alla celebrazione della Pasqua del Signore sia il medesimo nel mondo intero e che, secondo l’usanza già esistente, a tutti tu faccia pervenire lettere in proposito » (Concilio delle Gallie). – Nondimeno quest’uso non sopravvisse di molto al Concilio di Nicea. L’imperfezione dei mezzi astronomici condusse a confusione nel modo di calcolare il giorno della Pasqua. È vero che ormai essa fu sempre solennizzata di domenica e che nessuna Chiesa si permise più di celebrarla lo stesso giorno di quella degli Ebrei, ma, essendovi vari pareri sull’epoca precisa dell’equinozio di primavera, accadde che in alcuni anni la data della festa variò a seconda dei luoghi. A poco a poco ci si allontanò dalla regola del Concilio di Nicea, che stabiliva di considerare il 21 marzo come il giorno dell’equinozio. Occorreva riformare il calendario e nessuno era in grado di farlo. I calendari si moltiplicavano in contraddizione gli uni con gli altri, di modo che spesso Roma ed Alessandria non riuscivano a mettersi d’accordo. Pur essendoci buona fede da entrambe le parti, alcune volte la Pasqua venne così celebrata senza quella simultaneità universale che il Concilio di Nicea aveva voluto instaurare.

La riforma del Calendario.

L’Occidente si uniformò all’uso di Roma, che finì per trionfare anche di alcune opposizioni sorte nella Scozia e in Irlanda, le cui Chiese erano state sviate da Cicli inesatti. Finalmente i progressi della scienza permisero al Papa Gregorio XIII d’intraprendere e di portare a termine la riforma del calendario. Si trattava di ristabilire al 21 marzo l’equinozio di primavera, in conformità alla decisione presa dal Concilio di Nicea. Ciò che fece il Sommo Pontefice per mezzo della bolla del 24 febbraio 1581, togliendo dieci giorni all’anno seguente, dal 4 al 15 ottobre, e completando così l’opera di Giulio Cesare, che al tempo suo aveva già rivolto la sua attenzione ai calcoli astronomici. Ma la Pasqua era stata l’idea fondamentale e lo scopo della riforma operata da Gregorio XIII. Il ricordo e le regole dettate dal Concilio di Nicea influivano ancora su tale questione capitale dell’anno liturgico, e il Romano Pontefice ancora una volta fissava il giorno della Pasqua per tutto l’universo; non più però per un solo anno, ma per tutti i secoli. Le nazioni dove imperava l’eresia sentirono, loro malgrado, la potenza divina della Chiesa in questa grande innovazione, che interessava tanto la vita religiosa che quella civile, e protestarono contro la riforma del calendario come già avevano protestato contro la regola della fede. L’Inghilterra e gli Stati luterani della Germania conservarono ancora a lungo l’antico calendario, che la scienza ripudiava, piuttosto di accettare dalle mani di un Papa una riforma che il mondo riconosceva indispensabile. – Ai giorni nostri, tra le nazioni europee, non c’è che la Russia che, per avversione verso la Roma di S. Pietro, persiste a restare in ritardo dai dieci ai dodici giorni sul resto del mondo civile.

Avvenimenti miracolosi.

Tutti questi dettagli, che noi siamo obbligati di abbreviare notevolmente, mostrano però a sufficienza quale importanza si debba attribuire alla data della solennità di Pasqua, e il Cielo ha spesso manifestato, con dei prodigi, di non rimanerne indifferente. All’epoca in cui la confusione dei vari cicli e l’imperfezione dei mezzi astronomici portarono a tante indecisioni nello stabilire l’epoca dell’equinozio di primavera, fatti miracolosi servirono più di una volta a fornire quelle indicazioni che la scienza e l’autorità non potevano più dare con certezza. – Pascasino, vescovo di Lilibeo in Sicilia, in una lettera indirizzata nel 444 a S. Leone Magno, attesta che sotto il pontificato di S. Zosimo, mentre Onorio era console per l’undicesima volta e Costanzo per la seconda, il giorno della vera Pasqua fu rivelato ad una popolazione semplice ma religiosa, per mezzo di un intervento del Cielo. Tra montagne inaccessibili e fitte di foreste, in un angolo isolato della Sicilia, si trovava un villaggio chiamato Meltina. La sua chiesa era delle più povere, ma lo sguardo e la bontà di Dio vigilavano su di essa, poiché ogni anno, durante la notte pasquale, al momento in cui il sacerdote si dirigeva verso il battistero per benedirne l’acqua, il sacro fonte se ne trovava miracolosamente riempito, senza che esistesse condotto o sorgente per alimentarlo. Una volta finito di amministrare il Battesimo, l’acqua scompariva da se stessa, lasciando la piscina completamente asciutta. Ma avvenne che nell’anno più sopra indicato, quando il popolo, che era caduto in inganno per calcoli sbagliati, si radunò a celebrare la notte di Pasqua e, finite le profezie, si recò col sacerdote al battistero, il fonte apparve completamente privo d’acqua. I catecumeni attesero invano la presenza dell’elemento per mezzo del quale dovevano essere rigenerati: al levarsi del giorno si ritirarono. Il 22 aprile seguente (decimo dalle calende di maggio) la piscina si trovò riempita fino al labbro, manifestando così che quello era il giorno della vera Pasqua per l’anno in corso. – Cassiodoro, scrivendo in nome del re Atalarico ad un certo Severo, racconta un altro prodigio che sì verificava annualmente, per il medesimo fine, la notte di Pasqua in Lucania, presso l’isoletta di Leucotea, in un luogo chiamato Marciliano, ove esisteva una grande piscina scelta per amministrare il Battesimo. Appena il sacerdote cominciava le preghiere solenni della benedizione sotto la volta del cielo, naturale copertura di questo fonte, l’acqua sembrava prender parte alla gioia pasquale aumentando nel suo bacino, di modo che, se prima arrivava fino al quinto gradino, dopo si vedeva salire fino al settimo, quasi volesse andare incontro alle meraviglie della grazia di cui era lo strumento. Dio dimostrava in tal modo che anche le cose insensibili, quando Egli lo permette, possono associarsi alle gioie sacre del più solenne dei giorni dell’anno. – S. Gregorio di Tours ci parla di un altro fonte, che ai suoi tempi esisteva in una chiesa dell’Andalusia, in un luogo chiamato Osen, i cui fenomeni miracolosi servivano a discernere il vero giorno di Pasqua. Tutti gli anni, il giovedì santo, il vescovo vi si recava con i fedeli. Il fondo e le pareti della piscina, a forma di croce, erano ornati di mosaici. Si costatava che essa era completamente asciutta, e dopo alcune preghiere tutti uscivano dalla chiesa e il vescovo ne chiudeva là porta apponendovi il suo sigillo. Il sabato santo il pontefice vi ritornava insieme con il popolo e ne riapriva le porte, dopo aver verificato che i sigilli fossero intatti. Entrati scorgevano la piscina piena d’acqua fin sopra il livello del pavimento, senza però che si riversasse all’intorno. Il vescovo pronunciava gli esorcismi su quest’acqua miracolosa e vi versava il sacro Crisma. Venivano poi battezzati i catecumeni; e quando il Sacramento era stato amministrato a tutti, l’acqua spariva immediatamente, senza sapere che cosa avvenisse di essa. – Anche le cristianità orientali furono testimoni di prodigi simili. Giovanni Mosco, nel XII secolo, parla di un fonte battesimale in Licia: l’acqua lo riempiva ogni anno la vigilia di Pasqua, dimorandovi per cinquanta giorni e prosciugandosi improvvisamente dopo la festa di Pentecoste. Il prato spirituale, c. CCXV]. – Nel cenno storico sul tempo della Passione noi abbiamo ricordato la legge degli imperatori cristiani che proibivano i processi civili e penali durante tutta la quindicina di Pasqua, ossia dalla domenica delle Palme fino all’ottava dopo la Risurrezione. S. Agostino, in un sermone pronunciato il giorno di detta ottava, esorta i fedeli ad estendere a tutto l’anno una simile sospensione da liti, contese e inimicizie che la legge civile aveva voluto interrompere almeno durante quei quindici giorni.

Il dovere della Comunione.

La Chiesa impone a tutti i suoi figli di ricevere la santa Eucaristia durante il tempo pasquale. Questo dovere si fonda sulla stessa intenzione del divin Salvatore che, se non ha fissato direttamente l’epoca in cui i fedeli si sarebbero accostati a questo grande Sacramento, ne ha però lasciato la missione alla sua Chiesa, insieme con l’autorità di determinarla. Nei primi secoli del Cristianesimo la Comunione era frequente e in alcuni luoghi quotidiana. Più tardi i fedeli divennero freddi verso questo mistero divino e noi sappiamo dal canone diciottesimo del concilio di Agde nel 506 che molti cristiani, anche nelle Gallie, avevano perduto il loro fervore primitivo. Perciò si decise che quei laici che non si fossero accostati alla Comunione a Natale, a Pasqua e a Pentecoste non sarebbero più stati annoverati tra i cattolici. Questa disposizione del concilio di Agde passò come legge quasi generale in tutta la Chiesa d’Occidente. La troviamo, fra l’altro, nelle prescrizioni dettate da Egberto, arcivescovo di York, e nel terzo concilio di Tours. Nello stesso periodo, in parecchi luoghi si vede la Comunione prescritta tutte le domeniche di Quaresima e negli ultimi tre giorni della settimana santa, senza che per questo ne fosse pregiudicato l’obbligo per la festa di Pasqua. Fu solo al principio del XIII secolo, nel IV concilio ecumenico Lateranense del 1215, che la Chiesa, testimone della freddezza sempre più diffusa nella società, decretò, pur con dolore, che la Comunione per i cristiani era strettamente obbligatoria solo una volta l’anno e che doveva aver luogo a Pasqua. E per far sentire ai fedeli che questa condiscendenza rappresentava l’ultimo limite accordato alla loro negligenza, il santo concilio dichiarò che a colui, il quale osasse infrangere questa legge, potrebbe venire interdetto l’ingresso in chiesa durante la vita e sarebbe poi privato della sepoltura ecclesiastica dopo la morte, come se egli stesso avesse rinunciato a far parte della comunità cattolica [Più tardi il Papa Eugenio IV, nella costituzione «Fide digna» dell’anno 1440, dichiarò che questa Comunione annuale poteva aver luogo dalla domenica delle Palme fino alla domenica « Quasi modo » (in Albis) inclusa. – Queste disposizioni, prese da un concilio ecumenico, mostrano sufficientemente l’importanza del dovere che sono destinate a sanzionare. Nello stesso tempo ci fanno dolorosamente costatare il miserando stato di una nazione cattolica, ove milioni di cristiani sfidano ogni anno le minacce della santa madre Chiesa rifiutandosi di sottomettersi d un obbligo il cui adempimento porterebbe la vita nelle anime e costituirebbe la prova essenziale della loro fede. Detraendo dal numero di coloro che non sono sordi alla voce della Chiesa e che vengono ad assidersi al banchetto pasquale coloro i quali hanno vissuto come se la penitenza quaresimale non esistesse, ci sarebbe da abbandonarsi all’angoscia ed al timore sulla sorte di questo popolo, se qualche indizio consolante non venisse di tanto in tanto a risollevare le speranze e promettere per l’avvenire generazioni più cristiane della nostra.

Riti Liturgici.

Il periodo di cinquanta giorni che separa la festa di Pasqua da quella di Pentecoste è stato sempre oggetto del maggior rispetto da parte della Chiesa. La prima settimana di esso, consacrata in modo speciale ai misteri della Risurrezione, doveva essere celebrata con adeguato splendore, ma anche le altre seguenti furono degnamente onorate. Oltre la divina allegrezza che pervade tutta questa parte dell’anno, di cui l’Alleluia è l’espressione, la tradizione cristiana assegna due usi, esclusivi al tempo pasquale, che servono a differenziarlo dal resto dell’anno. Il primo consiste nella proibizione di digiunare durante questi quaranta giorni, estendendo così l’antico precetto, che già lo vietava in tutte le domeniche. E ciò perché questo periodo di gioia deve essere considerato come una sola ed unica domenica. Tale uso fu accolto anche dagli Ordini religiosi più severi, sia dell’Oriente sia dell’Occidente. L’altro rito particolare, conservatosi scrupolosamente nelle Chiese orientali, consiste nel non genuflettere durante la celebrazione degli uffici, dalla Pasqua fino alla Pentecoste. Le consuetudini occidentali hanno poi modificato quest’uso che aveva regnato pure da noi per alcuni secoli. La Chiesa latina ha riammesso da un pezzo le genuflessioni nella Messa durante il tempo pasquale e le sole vestigia che essa ha conservato delle antiche prescrizioni sono diventate quasi impercettibili ai fedeli che non hanno familiarità con le rubriche del servizio divino. – Tutto il tempo pasquale è dunque come un solo giorno di festa; è ciò che attesta anche Tertulliano già nel III secolo, rimproverando certi cristiani che per la loro sensualità si dolevano di aver dovuto rinunziare, dopo il Battesimo, a tante gaie solennità del mondo pagano. Così loro diceva: « Se amate le feste, ne trovate certamente da noi; e feste di molti giorni, non di uno solo come nel paganesimo, dove, una volta avvenuta, la celebrazione non si ripete più per tutto l’anno. Per voi adesso tante settimane, altrettante feste! Addizionate pure tutte le solennità dei gentili: non arriverete mai ai nostri cinquanta giorni della Pentecoste » De Idolatria, c. XIV). – S. Ambrogio, sul medesimo soggetto, scrivendo ai suoi fedeli, fa questa osservazione: « Se gli Ebrei, non contenti del loro sabato settimanale, ne celebrano un altro che dura tutto un anno, quanto più dovremo fare noi per onorare la Risurrezione del Signore! È per questo che ci hanno insegnato a celebrare i cinquanta giorni della Pentecoste quale parte integrante della Pasqua. Sono sette settimane complete e la Pentecoste ne comincia l’ottava. Come in ogni domenica, che è il giorno della Risurrezione del Signore, anche durante questo periodo la Chiesa vieta il digiuno, perché simili ad una sola ed unica domenica sono considerati tutti questi giorni » (Comm. in Lucam, 1. VIII, c. XXV).

Il vertice dell’Anno Liturgico.

Tra tutti i periodi dell’Anno Liturgico, il Tempo Pasquale è sicuramente il più fecondo per i grandi misteri che commemora: il punto culminante di tutta la Mistica liturgica dell’Anno. Chiunque ha la fortuna di penetrare, con la pienezza dello spirito e del cuore, nell’amore e nell’intendimento del mistero pasquale, può dirsi giunto al centro stesso della vita soprannaturale; ed è per questo motivo che la Santa Madre Chiesa, venendo in aiuto alla nostra debolezza, ogni anno ci invita nuovamente a commemorarlo. – Ciò che l’ha preceduto non ne era che la preparazione: l’attesa dell’Avvento, la gioia del Tempo Natalizio, i grandi ed austeri pensieri della Settuagesima, la compunzione e la penitenza della Quaresima , la visione lacerante della Passione; tutta questa serie di sentimenti e di fatti meravigliosi convergevano alla meta a cui siamo giunti. E per farci capire meglio che la solennità di Pasqua rappresenta ciò che sulla terra vi è di più importante per l’uomo, Dio ha voluto che questi due grandi misteri, tesi ad un unico fine, la Pasqua e la Pentecoste, venissero offerti alla Chiesa nascente dopo un passato che contava già quindici secoli: periodo enorme, che non è però sembrato troppo lungo alla Divina Sapienza per preparare, con apposite figure, le grandi realtà di cui noi oggi siamo in possesso. – In questi giorni si uniscono le due grandi manifestazioni di Dio verso gli uomini: la Pasqua d’Israele e la Pasqua Cristiana; la Pentecoste del Sinai e la Pentecoste della Chiesa; i simboli, concessi ad uno solo tra i popoli, e la verità svelata e propagata a tutte le nazioni. Dobbiamo ora dimostrare dettagliatamente come le antiche figure si siano avverate nella realtà della nuova Pasqua e della Pentecoste: il crepuscolo della legge mosaica lascia il posto allo splendore del giorno evangelico. Ma noi ci sentiamo compresi da profondo rispetto, riflettendo che le solennità che noi celebriamo contano già più di tremila anni di esistenza, e che esse si ripeteranno ogni anno, finché non si udirà la voce dell’angelo gridare: « non vi sarà più tempo » (Apoc. X, 6). Allora vedremo aprirsi le porte dell’eternità!

La Pasqua eterna.

L’eternità felice è la vera Pasqua: ed è per questo che la Pasqua di quaggiù è la Festa delle feste, la Solennità delle solennità. II genere umano era in preda alla morte, si sentiva oppresso sotto la sentenza che lo aveva lasciato nella polvere del sepolcro: le porte della vita gli erano chiuse. Ed ora ecco che il Figlio di Dio esce dalla tomba ed entra in possesso della vita eterna; e non sarà Lui solo a non morir più; il suo Apostolo ci insegna che Egli « è il primogenito tra i morti » (Col. I, 18). La Santa Chiesa vuole dunque che noi ci consideriamo risorti con Lui, come fossimo già in possesso della vita che non ha fine. I Santi Padri dicono che questi cinquanta giorni del tempo pasquale sono l’immagine della beatitudine eterna. Essi sono completamente consacrati alla gioia, esclusa ogni tristezza; e la Chiesa non sa più rivolgere la parola al suo Sposo senza intramezzarla con l’Alleluia, questo grido del cielo che risuona nelle vie e nelle piazze della Gerusalemme Celeste, secondo quanto ci dice la Liturgia [Pontificale Romano, per la Dedicazione delle chiese.]. Eravamo stati privati di quel canto di ammirazione, di allegrezza durante nove settimane: dovevamo immolarci insieme con Cristo, nostra vittima; ma adesso che siamo usciti con Lui dalla tomba e che non vogliamo più morire di quella morte che uccide l’anima e fa spirare sulla Croce il nostro Redentore, l’Alleluia è di nuovo a noi!

La Pasqua e la natura.

La sapiente provvidenza di Dio, che ha disposto in una perfetta armonia l’opera visibile di questo mondo e l’opera soprannaturale della grazia, ha voluto far coincidere la risurrezione del nostro divin Salvatore con l’epoca in cui anche la natura sembra uscire dalla sua tomba. I campi rinverdiscono, gli alberi della foresta hanno rimesso le foglie, il canto degli uccelli rallegra l’aere, e il sole, emblema di Gesù trionfante, versa fiotti di luce sulla terra rigenerata. A Natale invece, liberandosi a stento dalle ombre che sembravano minacciare di spegnerlo per sempre, l’astro benefico si mostrava in armonia con la nascita dell’Emmanuele, avvenuta nel profondo della notte, sotto umili spoglie; oggi possiamo dire insieme con il salmista: «È un campione che si slancia a correre la sua via… e nulla si asconde al suo calore » (Sal. XVIII, 6-7). Ascoltate la sua voce nel Cantico (II, 10-13) ove invita l’anima fedele ad unirsi a questa vita nuova che comunica a tutto ciò che respira: « Levati, amata mia colomba » esso dice « e vienitene; perché, vedi, l’inverno è passato, la pioggia è passata, se n’è andata. I fiori si mostrano per la campagna, si ode per la nostra contrada il tubar della tortora. Il fico getta i suoi frutterelli, le viti in fiore mandano il loro profumo ».

Nobiltà della Domenica.

Nel capitolo precedente abbiamo spiegato perché il Figlio di Dio avesse scelto la domenica, a preferenza di tutti gli altri giorni, per trionfar della morte e proclamar la vita. Non poteva dimostrare con maggiore energia, come tutto il creato si rinnova nella Pasqua, che ridando l’immortalità all’uomo, attraverso la sua persona, nel medesimo giorno in cui aveva creato la luce dal nulla. Non soltanto l’anniversario della sua Risurrezione diventa d’ora in avanti il più importante dei giorni, ma; in ogni settimana, la domenica ricorderà la Pasqua, sarà la giornata sacra. Israele, secondo il comandamento di Dio, festeggiava il Sabato per onorare il giorno del riposo del Signore dopo l’opera della creazione: la santa Chiesa, sposa del Cristo, si associa all’opera stessa dello Sposo. Lascia trascorrere il Sabato, il giorno che Egli passò nel riposo del sepolcro, ma, illuminata dagli splendori della Risurrezione, consacra d’ora in poi il primo giorno della settimana alla contemplazione dell’opera divina, che vide di volta in volta uscire dall’ombra e la luce materiale, prima manifestazione della vita sul caos, e Colui che, essendo lo Splendore eterno del Padre, si è degnato di dirci: « Io sono la luce del mondo » (Gv. VIII, 12). – Che la settimana, dunque, termini pure col suo Sabato: a noi cristiani occorre l’ottavo giorno, quello che supera la misura del tempo; a noi occorre il giorno dell’eternità, il giorno in cui la luce non sarà più intermittente, né data con circospezione, ma si spanderà senza fine e senza limiti. Così parlano i santi Dottori della fede, rivelandoci gli splendori della domenica ed il motivo dell’abrogazione del sabato. – Senza dubbio era bello per l’uomo prendere quale giorno di religioso riposo settimanale quello stesso in cui il Creatore del mondo visibile si era riposato; ma in esso non si trovava che il ricordo della creazione materiale. – Il Verbo riappare nel mondo, che Egli aveva creato nel principio: questa volta nasconde la luce della sua natura divina sotto i veli della carne umana. È venuto a compiere la realizzazione delle antiche figure. Prima di abrogare il Sabato vuole realizzarlo nella sua Persona, come tutto il resto della legge, passandolo nell’assoluto riposo, dopo il travaglio della Passione, sotto la volta funebre del sepolcro. Ma ai primi albori dell’ottavo giorno il divin prigioniero si slancia verso la vita e inaugura il regno della gloria. « Lasciamo dunque » ci dice Ruperto « lasciamo all’ebreo, schiavo dell’amore per i beni di questo mondo, di abbandonarsi alla gioia ormai sorpassata del suo sabato, che non rappresenta più altro che il ricordo di una creazione materiale. Assorto in questioni terrestri, esso non ha saputo riconoscere il Signore che ha creato il mondo; non ha voluto vedere in lui il Re dei Giudei, perché Egli diceva loro: «Beati i poveri». Il Sabato dei cristiani, il nostro Sabato, è l’ottavo giorno, che, allo stesso tempo, è il primo; e la gioia che noi vi attingiamo non viene dal fatto che il mondo è stato creato, ma piuttosto da quello che esso è stato salvato » [Gli Offici Divini, 1. VII, c. XIX.]. Il mistero del settenario seguito da un ottavo giorno, che è quello sacro, ha un’applicazione nuova e ancor più larga nella stessa disposizione del Tempo Pasquale. Questo periodo si compone di sette settimane, che formano una settimana di settimane, di cui il giorno seguente viene di nuovo ad essere una domenica, quella di Pentecoste. Dio stesso stabilì, senza che noi ne comprendiamo il mistero, il numero di questi giorni, quando istituì, nel deserto del Sinai, la prima Pentecoste, cinquanta giorni dopo la prima Pasqua. – Quest’ordine fu raccolto dagli Apostoli per essere applicato al periodo pasquale dei cristiani. Ce lo insegna sant’Ilario di Poitiers, la cui dottrina ci viene trasmessa da sant’Isidoro, da Amalario, da Rabano Mauro, e generalmente da tutti gli antichi interpreti dei misteri liturgici. « Se noi moltiplichiamo per sette il settenario – egli ci dice – riconosceremo che questo santo periodo di tempo è veramente il sabato dei sabati; ma ciò che lo completa e lo eleva fino alla pienezza evangelica, è l’ottavo giorno’che lo segue, quel giorno che è contemporaneamente il primo e l’ottavo. Gli apostoli hanno fatto delle sette settimane una istituzione così sacra, che durante tutto questo tempo non si deve genuflettere in segno di adorazione né turbare, col digiuno, le delizie spirituali di questa festa così prolungata. – La medesima disposizione si estende ad ogni domenica, poiché questo giorno, che segue il sabato, è divenuto, mediante l’applicazione dei progressi evangelici, il perfezionamento del sabato stesso e il giorno che noi passiamo festosamente e nell’allegrezza» [Prologo sul Salmi]. Cosi, dunque, maggiormente sviluppato nella forma, noi ritroviamo nel Tempo Pasquale lo stesso mistero che in ogni domenica ci viene ricordato. Tutto per noi ormai ha la sua data di origine nel primo giorno della settimana, perché la resurrezione del Cristo l’ha illuminato per sempre della sua gloria, di cui la creazione della stessa luce materiale non era che un’ombra. Abbiamo visto poco fa che questa istituzione era già accennata nell’antica Legge, anche se il popolo d’Israele ancora non ne possedeva il segreto. La Pentecoste degli Ebrei cadeva nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, in quello, ossia, che seguiva immediatamente le sette settimane. Un’altra figura del nostro Tempo Pasquale la troviamo pure in una delle prescrizioni che Dio aveva dato a Mosè nell’anno giubilare. In ogni cinquantesimo anno le case ed i campi che erano stati alienati durante gli altri quarantanove precedenti, dovevano ritornare ai loro possessori, e gli Israeliti che la miseria aveva costretto a vendersi, avrebbero riacquistata la loro libertà. – Quell’anno, chiamato espressamente anno sabbatico, seguiva le sette settimane di anni che l’avevano preceduto e portava così l’immagine del nostro ottavo giorno, nel quale il Figlio di Maria, risuscitato, ci ha riscattato dalla schiavitù della tomba, facendoci tornare eredi della nostra immortalità.

Usi liturgici.

Gli usi liturgici che caratterizzano il Tempo Pasquale nell’attuale disciplina dei riti sono principalmente i due seguenti: la ripetizione continua dell’Alleluia, di cui abbiamo già parlato poco fa, e l’impiego dei colori bianco e rosso, secondo le esigenze delle due solennità, di cui una apre questo periodo e l’altra lo chiude. Si esige il colore bianco per il mistero della Risurrezione, che è quello della luce eterna, luce senza ombra e senza macchia, e che produce in coloro che lo contemplano un sentimento di inenarrabile purezza e di beatitudine sempre crescente. – La Pentecoste, che fin da questa vita ci dona lo Spirito Santo con il suo fuoco che brucia, col suo amore che consuma, richiedeva un colore speciale che potesse esserne l’espressione e la Chiesa ha scelto il rosso per esprimere il mistero del divino Paraclito, che, manifestandosi in lingue di fuoco, scese su tutti coloro che si erano radunati nel Cenacolo. Più sopra abbiamo già detto che nella liturgia latina non restano che poche tracce dell’antico uso di non genuflettere durante il Tempo Pasquale. – Le feste dei Santi, sospese in tutto il corso della settimana precedente la Pasqua, lo saranno ancora durante i primi otto giorni del Tempo Pasquale, ma, dopo, esse ricompariranno nel ciclo, gioconde e numerose, attorno al Sole Divino. Lo scorteranno nella sua gloriosa Ascensione; ma, tanto grandioso è il mistero della Pentecoste, che ne verranno nuovamente sospese a cominciare dalla vigilia di questa solennità fino al termine di tutto il Tempo Pasquale. I riti della Chiesa primitiva in rapporto ai neofiti che erano stati rigenerati nella notte di Pasqua, offrono ancora numerosissimi episodi del più commovente interesse. Non è qui il momento di parlarne, poiché non si riferiscono che alle due ottave, quelle della Pasqua e della Pentecoste; ma ne daremo ampie spiegazioni a mano a mano che se ne presenterà l’occasione nello svolgersi della Liturgia.

La gioia spirituale.

Il riflesso di questo periodo sacro si riassume nella gioia spirituale che esso deve produrre nelle anime risuscitate assieme a Cristo, gioia che è una pregustazione della felicità eterna e che il Cristiano deve, d’ora in avanti, conservare in sé, cercando sempre più con ardore quella Vita che è nel nostro divin Salvatore e fuggendo, con costante energia, la morte, figlia del peccato. – Nelle settimane precedenti abbiamo dovuto dolerci di noi stessi, piangere le nostre colpe, abbandonarci all’espiazione, seguire Gesù fino al Calvario; ma adesso la Chiesa c’impone, invece, di rallegrarci. Essa stessa ha bandito ogni tristezza; non geme, ormai, che come la colomba; canta, quale sposa che ha ritrovato il suo sposo! E per rendere più universale questo sentimento di gioia, essa si è adattata alla debolezza dei suoi figli. Dopo aver loro ricordato la necessità dell’espiazione, ha concentrato tutto il vigore della penitenza cristiana nei quaranta giorni appena trascorsi; ed ora, rendendo la libertà al nostro corpo, e nel medesimo tempo ai sentimenti dell’anima nostra, ci ha trasportato in una regione dove non esiste che allegrezza, luce e vita, dove tutto è gioia, serenità, dolcezza e speranza di immortalità. – È così che è riuscita a suscitare, anche nelle anime meno elevate, un sentimento analogo a quello di cui godono le più perfette: di modo che, nell’inno che si eleva dalla terra per dar lode al nostro adorabile trionfatore, non vi sono dissonanze, e tutti, ferventi e tiepidi, uniscono le loro voci nell’entusiasmo universale. – Il più profondo e dotto liturgista del secolo XII, Ruperto, Abate di Deutz, così spiega questo indovinato stratagemma della Santa Chiesa: «Vi sono – egli dice – degli uomini sensuali che non sanno aprire gli occhi per contemplare i beni spirituali che quando si presenta loro l’occasione di qualche incidente materiale che gliene dà l’impulso. La Chiesa, per commuoverli, ha dovuto cercare un mezzo proporzionato alla loro debolezza. A questo fine ha istituito il digiuno quaresimale che rappresenta la decima dell’anno offerta a Dio, di modo che questa santa carriera non debba terminarsi che con la solennità della Pasqua, e che dopo vi siano cinquanta giorni consecutivi, durante i quali non se ne trovi neppure uno di digiuno. «Accade così che gli uomini mortificano il loro corpo, sostenuti però dalla speranza che la festa di Pasqua verrà a liberarli da quel giogo di penitenza; essi, nei loro desideri, pregustano l’arrivo della solennità; ogni giorno della Quaresima è per loro ciò che è una sosta per il viaggiatore; essi le contano con cura, pensando che il numero diminuisce progressivamente; ed è così che questa festa, da tutti desiderata, a tutti diviene cara, come lo è la luce per coloro che camminano nelle tenebre, la sorgente zampillante per quelli che hanno sete e la tenda preparata dal Signore medesimo per il viandante affaticato » [Gli Offici Divini, 1. IV, c. XXVII.]. Felice quel tempo in cui, in tutto l’esercito cristiano, come dice san Bernardo, nessuno si asteneva dal compiere il proprio dovere; quando giusti e peccatori camminavano di pari passo nella pratica delle cristiane osservanze. Ai giorni nostri la Pasqua non produce più la medesima sensazione di gioia nella nostra società. Senza dubbio la causa risiede nella mollezza e nella falsità delle coscienze che conducono molte persone a considerare l’obbligo della Quaresima come se per loro non esistesse. Ne consegue che tanti fedeli vedono giungere la Pasqua come una grande festa, è vero, ma non sono che superficialmente impressionati da quel sentimento di viva gioia sul quale la Chiesa impronta in questi giorni tutto il suo atteggiamento. E si sentono ancor meno disposti a mantenere, durante il periodo dei cinquanta giorni, quell’allegrezza a cui hanno partecipato in misura così esigua nel giorno tanto desiderato dai veri cristiani. – Non hanno digiunato, non hanno osservato l’astinenza durante la Quaresima; la condiscendenza della Chiesa verso la loro debolezza non è stata neppure sufficiente; per loro si sono dovute dare altre dispense; e, fortuna ancora, quando non se ne sono esonerati da se medesimi; essi non sentono neppure il rimorso di non aver adempiuto a questi ultimi resti del dovere cristiano! Quale sensazione può produrre in loro il ritorno dell’Alleluja? Quelle anime non sono state purificate dalla penitenza: sarebbero esse abbastanza agili per seguire Cristo Risuscitato, la cui vita è ormai più del cielo che della terra? Ma non andiamo contro le intenzioni della Chiesa rattristandoci con questi pensieri scoraggianti: preghiamo piuttosto il Divin Risuscitato, affinché, nella sua infinita potenza e bontà, illumini queste anime con gli splendori della sua vittoria sul mondo e sulla carne, e che le sollevi fino a Lui. Niente deve distoglierci in questi giorni dalla nostra felicità. Lo stesso Re di gloria ci dice: « Possono forse i compagni dello sposo stare afflitti, finché lo sposo è con essi? » (Mt. IX, 15). Gesù resterà ancora con noi per quaranta giorni; non soffrirà più; non morirà più; che dunque i nostri sentimenti siano consoni al suo stato di gloria e di felicità, che deve ormai durare per sempre. – Ci lascerà, è vero, per salire alla destra del Padre; ma di là ci manderà il divin Consolatore, che resterà con noi, affinché non restiamo orfani (Gv. XIV). Che tali parole siano dunque nostra bevanda e nutrimento per questi giorni: « I figli dello stesso sposo non devono rattristarsi mentre lo sposo è con essi ». Esse sono la chiave di tutta la liturgia di quest’epoca; non perdiamole di vista neppure per un istante e sentiremo che, se la compunzione e la penitenza della Quaresima ci sono state salutari, la gioia pasquale non lo sarà certo di meno. Gesù in croce e Gesù risuscitato è sempre il medesimo Gesù; ma in questo momento Egli ci vuole attorno a Lui, insieme con la sua Santissima Madre, con i suoi Discepoli, con la Maddalena, tutti abbagliati e rapiti per la sua gloria, dimenticando, in queste ore troppo veloci, le angosce della Passione.

Il desiderio della Pasqua eterna.

Ma quest’epoca piena di delizia giungerà al suo termine e non ci resterà che il ricordo della gloria e della familiarità del nostro Redentore. Cosa faremo noi allora nel mondo quando Colui, che ne era la vita e la luce, non sarà più visibile? Cristiano, tu aspirerai ad una nuova Pasqua! Ogni anno tornerà a darti quella felicità che tu hai saputo comprendere; e di Pasqua in Pasqua tu arriverai alla Pasqua eterna che durerà tanto quanto Dio stesso, il cui splendore arriva fino a te quale preludio alle gioie che essa ti riserva. Ma non è ancora tutto: ascolta la Santa Chiesa che ha previsto il disinganno nel quale potresti essere tentato di cadere; ascolta ciò che domanda per te al Signore: « Concedi ai tuoi servi di esprimere colla vita il Sacramento ricevuto mediante la fede » [Colletta del martedì di Pasqua]. – Il mistero di Pasqua non deve cessare di essere visibile sulla terra; Gesù, risuscitato, sale al Cielo, ma lascia in noi l’impronta della sua risurrezione e noi dovremo conservarla finche Egli ritorni.

Vita nuova in Cristo.

E come, effettivamente, questa impronta divina potrebbe non rimanere in noi, sapendo che partecipiamo a tutti i misteri di Cristo? Dacché Egli si è incarnato non ha fatto un passo senza di noi. Quando è nato a Betlemme, noi nascevamo con Lui; quando è stato crocifisso a Gerusalemme, l’antico uomo che era in noi, secondo la dottrina di san Paolo, è stato con Lui inchiodato alla Croce; quando è stato posto nel sepolcro, anche noi siamo stati sepolti assieme a Lui. Ne consegue che quando Egli risuscita da morte, anche noi dobbiamo vivere di una nuova vita (Rom. VI, 6-8). – Ora « Cristo risorto da morte – seguita l’Apostolo – più non muore e la morte non ha più dominio su di Lui. Poiché morendo Egli morì al peccato una sola volta per tutte; vivendo Egli vive a Dio » (ibidem 9-10). – Noi formiamo le sue membra: la nostra sorte, quindi, deve essere uguale alla sua. Morire nuovamente per via del peccato significherebbe rinunziare a Lui, separarci da Lui, rendere per noi inutile quella morte e quella risurrezione a cui noi abbiamo partecipato. Vegliamo dunque per mantenere in noi quella vita che non viene da noi, ma che, nondimeno, ci appartiene completamente, poiché Colui che l’ha conquistata morendo, ce l’ha data insieme a tutto ciò che possiede. Peccatori, che avete ritrovato la vita della grazia in occasione della solennità pasquale, non vi esponete più alla morte, ma compite opere degne di una vita di risurrezione e di redenzione. – Giusti, che il mistero pasquale ha rianimato, intraprendete una vita più generosa sia nei vostri sentimenti che nelle vostre opere. È così che tutti vi incamminerete nella vita rinnovata che l’Apostolo ci raccomanda. Noi non svilupperemo qui le meraviglie del mistero della Risurrezione di Gesù Cristo: risalteranno esse stesse dal nostro modesto commento e metteranno anche in maggior evidenza il dovere imposto ai fedeli di imitare il loro Divin Salvatore, mentre ci aiuteranno a capire meglio la magnificenza e l’estensione dell’opera essenziale dell’Uomo-Dio. – Troviamo qui nel Tempo Pasquale il punto culminante della Redenzione con le tre grandi manifestazioni dell’amore e del potere divino: Risurrezione, Ascensione e discesa dello Spirito Santo. Nell’ordine dei tempi, tutto ha servito a preparare questa conclusione, in seguito alla promessa fatta ai nostri progenitori, dopo la loro colpa, dal Signore irritato, ma misericordioso; e nell’ordine della Liturgia, dopo le settimane di attesa dell’Avvento, eccoci giunti al termine; e Dio appare come una potenza e una sapienza che sorpassano infinitamente tutto ciò che noi potevamo prevedere. Gli stessi Spiriti celesti ne rimangono confusi di ammirazione e di stupore, e la Chiesa ce lo esprime in uno dei cantici del Tempo Pasquale: « Gli Angeli – è detto – sono commossi dal terrore vedendo la rivoluzione che si opera nello stato della natura umana. La carne ha peccato ed è la carne che purifica; un Dio viene a regnare e in Lui la carne è unita alla Divinità» [Inno del Mattutino dell’Ascensione]. – Il tempo pasquale appartiene pure alla « vita illuminativa ». Esso ne è la parte più elevata, poiché non ci manifesta solamente le umiliazioni e le sofferenze dell’Uomo-Dio come nei precedenti periodi, ma ce le mostra in tutta la sua gloria, ce lo fa scorgere, esprimendo nella sua umanità, il più alto grado della trasformazione della creatura in Dio. La discesa dello Spirito Santo viene poi ad aggiungere il suo splendore a questa luce e rivela alle anime i rapporti che devono unirle alla Terza Persona della Santissima Trinità. Così si sviluppa la via ed il progresso dell’anima fedele, che, essendo diventata l’oggetto dell’adozione del Padre celeste, è iniziata a questa splendida vocazione dagli insegnamenti e dagli esempi del Verbo incarnato, e perfezionata dalla visita e dall’inabitazione dello Spirito Santo. Da qui risulta l’insieme delle pie pratiche che la conducono all’imitazione del suo Divin modello, e la preparano a quell’unione a cui è invitata da Colui che « a quanti lo accolsero, a quelli che credono nel suo nome, diede il diritto di diventare figli di Dio; i quali, non da sangue, né da voler di carne, né da voler di uomo, ma da Dio sono nati» (Gv. I, 12-13).

L’UFFICIO DELLE TENEBRE

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, I vol.]

Prima dell’ultima riforma, la Chiesa anticipava, negli ultimi tre giorni della Settimana Santa, il Notturno al pomeriggio della vigilia, per permettere ai cristiani di parteciparvi. Mattutino e Lodi venivano quindi recitati nel pomeriggio. In seguito tali ore vennero scomode, occupate dal lavoro, e quindi la Chiesa ha stabilito di celebrare l’ufficio nelle ore normali. Per quanto lo permettono le loro occupazioni, i fedeli devono cercare di prendervi parte. Quanto al merito di tale devota assistenza, non v’è, dubbio ch’è superiore ad ogni altra pratica di devozione privata. Il mezzo più sicuro per arrivare al cuore di Dio è sempre quello di servirsi come intermediaria della sua Chiesa; quanto alle salutari impressioni che potranno aiutarci a penetrare i misteri di questi tre grandi giorni, ordinariamente, quelle che attingeremo nei divini Uffici saranno più potenti e più solide di quelle che potremo trovare nei libri degli uomini. Nutrita della meditazione delle parole e dei riti della Liturgia, l’anima cristiana s’avvantaggerà doppiamente degli esercizi e delle letture, alle quali non mancherà d’abbandonarsi secondo la particolare devozione. In questi anniversari, sarà dunque la preghiera della Chiesa la base sulla quale eleveremo tutto l’edificio della pietà cristiana: e con essa imiteremo i nostri padri, che, nei secoli di fede, erano così profondamente cristiani, perché vivevano della vita della Chiesa per mezzo della sua Liturgia.

GIOVEDÌ’ SANTO

AL NOTTURNO

Carattere di tale Ufficio.

L’Ufficio del Mattutino e delle Lodi dei tre ultimi giorni della Settimana Santa differisce non poco da quello degli altri giorni dell’anno. Giovedì, Venerdì e Sabato la Chiesa tralascia quelle esclamazioni di gioia e di speranza con cui suole cominciare la lode di Dio. Non si sente il recitativo del « Domine, labia mea aperies : Signore, sciogli le mie labbra, affinché possa annunziare la tua lode »; nè il “Deus, in adjutorium meum intende”: O Dio, vieni in mio soccorso; né il Gloria Patri alla fine dei Salmi, dei Cantici e dei Responsori. Negli Uffici rimane solo ciò ch’è loro essenziale nella forma, scomparendo tutte quelle vive aspirazioni che i secoli vi avevano aggiunte.

Il Nome.

Si dà comunemente il nome di Tenebre ai Mattutini ed alle Lodi degli ultimi tre giorni della Settimana Santa, perché vengono celebrate al mattino presto, prima del levar del sole.

Il Triangolo dei quindici ceri.

[Ufficio delle tenebre a Sessa Aurunca -CE-]

Un rito imponente e misterioso, esclusivo di questi Uffici, conferma tale appellativo. Nel tempio, presso l’altare, si colloca un grande candeliere di forma triangolare, dove si dispongono quindici ceri. Questi ceri, come pure i sei dell’altare, sono di cera gialla, come quelli degli Uffici dei Defunti. Al termine d’ogni Salmo, o Cantico, si spegne successivamente uno dei ceri del grande candeliere; alla fine ne rimarrà acceso uno solo, quello posto al vertice del triangolo. Ora spieghiamo il senso di queste diverse cerimonie. Siamo nei giorni in cui la gloria del Figlio di Dio rimane eclissata sotto le ignominie della sua Passione. Egli era la « luce del mondo », potente in opere ed in parole, poco fa accolto dalle acclamazioni di tutto un popolo; ed ora eccolo spogliato di tutte le sue grandezze e divenuto « l’uomo dei dolori, un lebbroso », dice Isaia; « un verme della terra, e non più uomo », dice il Re Profeta; « un motivo di scandalo per i suoi discepoli», dice egli stesso. Tutti s’allontanano da Lui: Pietro stesso nega d’averlo conosciuto. Tale abbandono e tale defezione pressoché generale sono appunto figurati nell’estinzione successiva dei ceri che stanno sul Triangolo e di quelli dell’altare.

Un antico rito.

Secondo un’usanza di origine franca, che ci è confermata da Amalario e ch’ebbe vita fino alla recente riforma, essendo stati spenti i ceri dell’altare durante la recita del Benedictus, il cerimoniere prendeva l’unico cero rimasto acceso sul candeliere e lo teneva appoggiato sull’altare durante il canto dell’antifona che si ripete dopo il Cantico. Poi andava a nascondere questo cero, senza spegnerlo, dietro l’altare. E lo conservava così, lontano da tutti gli sguardi, per tutta la recita del Miserere e della sua orazione conclusiva. Terminata la quale, si faceva un po’ di rumore contro gli scanni del coro fino all’apparire del cero ch’era stato nascosto dietro l’altare. Con la sua luce sempre conservata annunciava la fine dell’Ufficio delle Tenebre. – In realtà, la luce misconosciuta del Cristo non s’era mai spenta. Si metteva per un momento il cero sull’altare per indicare ch’esso era là come il Redentore sul Calvario dove soffriva e moriva. Poi, per significare la sepoltura di Gesù, si nascondeva il cero dietro l’altare e la sua luce scompariva. Allora un brusio confuso si diffondeva nel tempio immerso nelle tenebre per la scomparsa di quell’ultima fiammella. Tale rumore, unito alle tenebre, esprimeva la convulsione della natura nel momento in cui, spirato il Salvatore sulla croce, la terra aveva tremato, le rocce si erano spaccate e s’erano aperti i sepolcri. Ma tutto ad un tratto il cero riappariva nel pieno splendore della sua luce e tutti rendevano omaggio al vincitore della morte.

Le Lamentazioni di Geremia su Gerusalemme.

Le Lezioni del primo Notturno di ciascuno di questi tre giorni sono prese dalle Lamentazioni di Geremia. In esse vediamo lo spettacolo desolante che offrì la città di Gerusalemme, quando il suo popolo fu portato prigioniero in Babilonia, in punizione del peccato dell’idolatria. La collera di Dio è tutta impressa su queste rovine che Geremia deplora con parole così vere e terribili. Però un tale disastro non era che la figura d’un altro ancora più spaventoso. Se Gerusalemme cade in mano altrui ed è condannata alla solitudine dagli Assiri, almeno conserva il proprio nome; del resto, il Profeta che oggi si lamenta sopra di lei, aveva pure predetto un limite alla sua desolazione, che non sarebbe durata più di settant’anni. Ma nella seconda rovina la città infedele perdette anche il nome. Riedificata poi dai vincitori, per più di due secoli portò il nome di Elia Capitolina; e se, ristabilita la pace della Chiesa, tornò a chiamarsi Gerusalemme, non fu in ossequio a Giuda, ma per ricordarsi del Dio del Vangelo che Giuda aveva crocifisso nella sua città. – Non è valsa la pietà di S. Elena e di Costantino, né i valorosi sforzi dei crociati a ridare in maniera durevole a Gerusalemme almeno l’ombra d’una città secondaria: la sua sorte è d’essere schiava degl’infedeli, fino alla fine dei tempi. È la maledizione che s’è attirata addosso in questi giorni: ecco perché la santa Chiesa, per farci capire la grandezza del delitto commesso, ci fa rintronare nelle orecchie i pianti del Profeta, che solo ha potuto adeguare le lamentazioni ai dolori. È un’elegia commovente, che si canta su un tono semplicissimo, e risale alla più remota antichità. Le lettere dell’alfabeto ebraico, che separano le strofe, indicano la forma acrostica che questo poema contiene nell’originale; noi le cantiamo perché anche i Giudei le cantavano.

BENEDIZIONE DEGLI OLI SANTI

La seconda Messa che anticamente si celebrava il Giovedì Santo, era accompagnata dalla consacrazione degli Oli santi, rito annuale che ha sempre richiesto il Vescovo come consacratore. Ora questa importante cerimonia si compie nella prima Messa, detta crismale, che si celebra solo nelle cattedrali. Avendo luogo soltanto nelle chiese cattedrali, noi non illustreremo qui tutti i dettagli di questa benedizione; però neppure vogliamo privare i lettori dell’utile istruzione che potranno ricavare dal mistero degli Oli santi. La fede c’insegna che, se mediante l’acqua noi siamo rigenerati, mediante l’olio consacrato siamo confermati e fortificati. L’olio è fra i principali elementi, che il divino autore dei Sacramenti scelse a significare ed insieme produrre la grazia nelle anime. – La Chiesa ha fissato molto per tempo il giorno, nel quale rinnovare ogni anno i santi Oli, la cui virtù è molto grande, sotto i suoi molteplici aspetti; infatti s’avvicina il momento in cui ne deve fare abbondante uso sui neofiti, che genererà nella notte di Pasqua. Occorre quindi che i fedeli conoscano dettagliatamente la sacra dottrina d’un sì alto simbolo; e noi qui la spiegheremo, sebbene brevemente, per eccitare la loro riconoscenza verso il Redentore, che s’è servito di creature visibili nelle opere della sua grazia, dando loro, per il suo sangue, la virtù sacramentale che ormai in esse risiede.

L’Olio degl’infermi.

Il primo degli Oli santi a ricevere la benedizione del Vescovo è quello che si chiama l’Olio degli infermi, e che è la materia del sacramento dell’Estrema Unzione. Esso cancella nel cristiano morente i resti del peccato, lo fortifica nell’estremo combattimento e, per la virtù soprannaturale che possiede, talvolta gli restituisce anche la sanità corporale. Anticamente, la benedizione di quest’Olio non si faceva solo il Giovedì Santo, perché il suo uso è per così dire, continuo (i). Più tardi la si fissò nel giorno in cui si consacrano gli altri due Oli per la somiglianza dell’elemento che loro è comune. – I fedeli assisteranno con raccoglimento alla santificazione di quell’olio che un giorno scorrerà sulle loro membra languenti e purificherà ogni parte del loro corpo: pensino alla loro ultima ora, e benedicano l’inesauribile bontà del Salvatore, « che fa scorrere abbondante il suo sangue insieme a questo liquido prezioso » (Bossuet, Orazione funebre ad Enrichetta d’Inghilterra).

Il sacro Crisma.

Il più nobile degli Oli santi è il Sacro Crisma, e la sua consacrazione si svolge con maggiore solennità. Per mezzo del Crisma lo Spirito Santo imprime il suo indelebile sigillo nel cristiano già membro di Gesù Cristo per il Battesimo. Mentre l’Acqua ci fa nascere, l’Olio del Crisma ci conferisce robustezza; e finché non riceviamo questa unzione, non possediamo ancora la perfezione del carattere di cristiano: unto di quest’olio, il fedele diviene visibilmente un membro dell’Uomo-Dio, il cui nome Cristo significa l’unzione ricevuta come Re e Pontefice. La consacrazione del cristiano col Crisma è talmente nello spirito dei nostri misteri, che all’uscire dal fonte battesimale, un momento prima d’essere ammesso alla Confermazione, il neofita riceve sulla testa una prima unzione, sebbene non sacramentale, di quest’Olio regale, a dimostrare ch’egli già partecipa della regalità di Gesù Cristo. – Per esprimere con un segno sensibile l’alta dignità del Crisma, la tradizione apostolica vuole che il Vescovo vi unisca del balsamo, che rappresenta ciò che l’Apostolo chiama « il buon odore di Cristo » (II Cor. II, 15), [I Canoni d’Ippolito (III secolo) ci mostrano questa cerimonia in tutte le Messe pontificali. Sul punto di terminare il Canone della Messa, il Vescovo benediceva i frutti o i legumi che gli si presentavano, e così pure consacrava l’olio che doveva servire all’unzione dei malati, sia nel sacramento dell’Estrema Unzione che per privata devozione, come si fa oggi di quello d’alcuni santuari], di cui è anche scritto «che correremo all’odore dei suoi profumi» (Cant. 1, 3). La rarità e l’alto costo dei profumi, in Occidente, obbligò la Chiesa Latina ad usare il balsamo solo nella confezione del sacro Crisma; mentre la Chiesa Orientale, più favorita dal clima e dai prodotti delle regioni che abita, vi fa entrare fino a trentatrè sorta di profumi che, condensati con l’Olio santo, formano un unguento dall’odore delizioso. Oltre all’uso sacramentale nella Cresima e sui nuovi battezzati, il sacro Crisma è usato dalla Chiesa nella consacrazione dei Vescovi, per ungerne la testa e le mani; in quella dei calici e degli altari e nella benedizione delle campane; infine, per la dedicazione delle Chiese, in cui il Vescovo ne segna le dodici croci che attesteranno ai posteri la gloria della casa di Dio.

L’Olio dei Catecumeni.

Il terzo degli Oli santi è quello chiamato dei Catecumeni. Non è materia d’alcun Sacramento, ma è ugualmente d’istituzione apostolica, e serve nelle cerimonie del Battesimo per le unzioni che si fanno al Catecumeno sul petto e sulle spalle, prima dell’immersione o infusione dell’acqua. Si usa anche nell’ordinazione dei Sacerdoti, per ungere le mani, e nella consacrazione dei Re e delle Regine. Sono queste le nozioni che deve conoscere il fedele, per avere un’idea della funzione compiuta dal Vescovo nella Messa odierna, in cui, come canta S. Fortunato nell’Inno che daremo qui appresso, egli soddisfa al suo dovere operando la triplice benedizione che non può venire che da lui solo.

De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. XXIX-XXXII]

XXIX.

PERCHÈ PARLAR LATINO? PERCHÈ PARLARE UNA LINGUA SCONOSCIUTA?

R. I protestanti che hanno tutto innovato nella religione, peri primi dichiararono guerra al Ialino, senza badare che la predicazione, la sola parte del culto divino che abbiano conservato, è anche presso di noi in lingua volgare, e che così tutto ciò che essi hanno noi pure l’abbiamo. – Per il sacrifizio (che essi rigettarono e che è l’essenziale del culto) importa poco al popolo che le sue parole sacramentali che si pronunciano a voce bassa, siano recitate in francese, in italiano, ecc. o in latino o in ebraico. – Oltre che un numero considerevole di persone conoscono il latino, si provvide a tutto colla traduzione di tutte le preghiere della Chiesa. Questi libri, in numero infinito, s’adattano a tutte le età, a tutte le intelligenze, a tutti i caratteri. Certe cerimonie, certi movimenti, certi suoni conosciuti avvertono l’assistente il meno istruito di ciò che si fa e si dice nei nostri uffizi. Sempre può seguire il prete e la Messa; se egli è distratto, colpa sua. – Qual idea sublime, d’altronde, quella d’una lingua universale per la Chiesa universale! Da un capo all’altro del mondo (se si eccettuino le Chiese di rito orientale), il cattolico che entra in una Chiesa del suo rito è come in sua patria. Niente è straniero a lui. Arrivando intende ciò che intese in tutta la sua vita; può unire la sua voce a quella de’ suoi fratelli. La fratellanza che risulta da una lingua comune è un legame misterioso d’una forza immensa! Niente inoltre pareggia la dignità, la grandezza, la chiarezza, la beltà della lingua latina. È la lingua dei conquistatori dell’universo, dei Romani, è la lingua della civilizzazione, la lingua della scienza. Questa lingua è la regina delle lingue; essa meritava l’onore di diventare la lingua della religione. – Finalmente tutte le lingue, che variano (come son quelle che ancora si parlano) convengono poco ad una religione immutabile. Presso ogni moderna nazione il parlare odierno è ben differente da quello che si usava duecento, o trecent’anni orsono, ed assai più da quello, che si parlava cinque o sei secoli fa. Oltre questi grandi cambiamenti, che mutano le sembianze delle lingue viventi, ve ne sono molti altri, che sembrano poco importanti, ma infatti Io son molto. Cosi in tutti i giorni l’uso cambia il senso delle parole, e sovente le guasta per licenza. Se la Chiesa parlasse la nostra lingua, potrebbe dipendere dalla sfrontatezza d’un bello spirito il rendere la parola più sacra della liturgia o ridicola, o indecente. Per tutti i riguardi immaginabili, la lingua della religione deve esser messa fuori del dominio dell’uomo. – Ecco perché la Chiesa cattolica parla il latino.

XXX.

PERCHÈ I PRETI FANNO PAGARE I LORO SERVIGI? NON SI DEVON VENDERE LE COSE DI DIO.

R. Ciò è vero, e voi avreste gran torto di credere che i preti vendano le cose sante, i sacramenti, la messa, etc., perché pagate, quando voi domandate quest’uffizio dal loro ministero. La ragione di quest’usanza cosi spiacevole a primo aspetto, è giustissima, come ve la spiego in due parole. Il prete non è prete per sé, ma per Dio, e per i suoi fratelli. Egli è l’uomo di Dio, e l’uomo di tutti, incaricato di salvare eternamente le anime de’ suoi fratelli, loro facendo conoscere, amare, e servire Dio. – Consacrandosi interamente ad una cosi sublime vocazione, rinuncia a tutto, alla fortuna domestica, alle gioie del matrimonio, alle dolcezze della famiglia, e così ad ogni mezzo di procacciarsi la vita, quale il commercio, il lavoro delle mani , l’industria, ecc. – Egli si consacra tutto ai suoi fratelli. È ben giusto, che in cambio di questo generale sacrificio, e della vita dell’anima, che loro dona, i fedeli contribuiscano a procurargli i mezzi d’esistenza. Benché prete egli è uomo. In tutti i secoli dopo nostro Signor Gesù Cristo, il popolo fedele ha somministrato il necessario a’suoi preti, ha variata la forma, ma la cosa fu sempre così. Non bisogna però credere, che tutto il danaro che forma la rendita delle Chiese sia per i preti. Così ne’ grandi matrimoni, ne’ pomposi funerali che sovente costano sì caro, la maggior parte di ciò che pagasi alla Chiesa, va nelle borse dei laici. Con questi mezzi inoltre si provvede alla conservazione delle Chiese, alla riparazione degli altari, alle spese necessarie del culto, al canto ecc. Vi sono taluni che s’immaginano che in quei giorni i preti prendono il pollo, cioè guadagnano grosso. È vero per niente, e prendono sovente meno il pollo di quelli che loro lo invidiano. – Lo vedete dunque, voi non pagate le cose di Dio, ma , al contrario pagate un debito di giustizia, e se posso aggiungerlo, un debito dì riconoscenza verso il prete che si è donato tutto a voi. Se alcuna volta (ciò che grazie a Dio è raro) un prete obliando la santità’ del suo stato, s’attacca troppo al denaro, fatica per la terra invece di faticare per il cielo, dovete ricordarvi, che egli è uomo, ed inclinato al male al par di voi, ma che le debolezze dell’uomo non macchiano il sacerdozio di cui è rivestito. Il prete infedele è ben colpevole, ma il suo sacerdozio rimane sempre puro. Noi l’abbiamo detto, è il sacerdozio di Gesù Cristo che niuna cosa può alterare.

XXXI.

I BENI DEL CLERO.

Sì muove frattanto una guerra accanita ai beni che gode il clero — si cercano tutti i pretesti, e tutti gli appunti per spogliarli — si va malignamente decantando la povertà degli Apostoli, e dei Vescovi nei secoli primitivi della Chiesa, per opporla alle attuali possessioni della Chiesa — Principalmente poi non cessasi dì opporre le fallaci conclusioni dell’economia politica alla conservazione delle da loro chiamate Mani morte, cioè de’ beni ecclesiastici nelle mani del clero — Miseri che s’illudono, e la passione loro impedisce d’accorgersene! — Osservate difatti come essi dimenticano il gran bene che procurano agli stati le proprietà direttamente amministrate dal clero — Il sollievo dei poveri, oltre essere un dovere cristiano, anzi un dei primi, è anche un obbligo dello stato sì stretto, che gli scrittori d’economia politica prescrissero a quest’uopo somme grosse di danaro a carico del Governo — Così si pratica in Inghilterra e in altri paesi acattolici della Germania, ove nei tempi della pretesa riforma si fecero passare nelle mani dei secolari i beni della Chiesa, e in cui non pertanto regna tuttora in tutta la sua orridezza il pauperismo. Ora ditemi: — Non viene scemato un gran peso del governo, se i beni ecclesiastici, cioè il patrimonio dei poveri, servono specialmente al loro sollievo, a cui ogni chierico deve dispensare ciò che gli sopravanza ad una decente sustentazione? — Sentite infatti uno scrittore non sospetto a questi falsi politici (Mirabeau, Ami des hommes t. A. pag. 159). « Sono le abadìe, che fauno vivere una quantità d’operai: esse dispensano le loro rendite con una saggia economia: esse lasciano un onesto assegnamento ai loro affittuari, affinchè nutriscano i poveri pei loro contorni, e nei tempi di carestia alimentino una quantità d’uomini, che senza il loro soccorso soccomberebbero sotto il peso della miseria » — Quando dunque sentite calunniare i sacerdoti per questi loro beni, mostrate a quest’insensati le opere di pietà, i luoghi d’educazione, gli ospedali, e tanti luoghi, in cui si viene in soccorso all’umanità soffrente, tutti quasi o fondati o sostenuti colle rendite ecclesiastiche, e di cui ovunque vedete l’esistenza sia nelle città, che nei borghi, e villaggi. — Dite loro, che per l’ordinario gli ecclesiastici non hanno quel forte motivo che suol distogliere dalla limosina i secolari, cioè il lusso, che pure è molto dannoso [La legge di residenza imposta dai canoni ai benefiziali prova pure quanto la Chiesa abbia a cuore oltre gl’interessi spirituali, anche il temporale bene dei popoli facendo che l’ecclesiastico spenda sul luogo ove ha il benefizio ciò che da esso ricava, mentre d’altronde ben a ragione si deplora nei laici molto ricchi l’assenteismo dalle loro terre e quindi la miseria, che ne conseguita, come quotidianamente lo va provando l’Irlanda e altri paesi d’Europa.]. Quanto dunque sarebbe contrario alla politica utilità, che fossero ingiustamente tolti dalla Chiesa e dati al governo, o venduti ai secolari i beni di essa, che sono in gran parte applicati ai soccorsi dei poveri! — Ma le rendite ecclesiastiche non circolano nel paese, quindi non arrecano vantaggio al pubblico stando nelle mani del clero: che se il governo se ne impossessasse, e le vendesse ai laici, sarebbero più proficue alla generalità dei cittadini — Speciosa falsità, che basta a distruggerla il pensare che nel mentre che i fondi dei laici restano per più secoli in una stessa stirpe, che sola ne gode, i fondi della Chiesa passano a tante famiglie, quanti sono ordinariamente gli individui, che s’ascrivono al clero — Inoltre ai beni dei laici ha dritto il solo erede; ai beni della Chiesa chiunque del popolo, che sia chiamato da Dio al sacerdozio — Il laico tesoreggia per i suoi figli; il sacerdote che è celibe è tenuto a dispensare ai poveri ciò che è superfluo al suo sostentamento. Il secolare distribuisce le rendite a capriccio; l’ecclesiastico invece secondo la norma dei canoni, che tendono al vero bene dell’umanità— Un padre di famiglia non può collocare tutta la numerosa figliolanza in decorosa condizione — ebbene, se Dio chiama alcuno dei suoi figli a quest’augusto stato del sacerdozio, avrà questi di che vivere, e ne godrà il rimanente della bisognosa famiglia. Da tutto questo ben dunque vedete quanto sia utile alla società che i fondi ecclesiastici siano posseduti, e amministrati dal clero stesso. – Ma le possessioni ecclesiastiche sono mal coltivate — non rendono ciò che dovrebbero—sarà meglio dunque darle all’attività, e al commercio dei cittadini, dei laici. — Anche qui un falso supposto mena ad una conclusione ancor più falsa — L’esperienza, e l’autorità di dotti scrittori attesta il contrario — Jay, e Rossi celebri scrittori d’economia politica affermano come i beni posseduti dai regolari, e da altre comunità ecclesiastiche sono più e assai meglio coltivati che i beni delle case secolari private, i quali per lo più son sempre mal tenuti e derelitti, massimamente quando si posseggono da dette case in gran quantità, ond’è che si vede ocularmente, che le più gran tenute dei più ricchi signori sono ordinariamente deserte, e ridotte a macchia, o ad erba solamente — Dunque se tutti fossero in mano dei laici, sarebbero meno coltivati, e quindi gran danno allo stato — I laici non tenuti come gli ecclesiastici da un dovere positivo che loro impone la Chiesa, di rendere migliori, o almeno nello stato cche si ricevettero, i beni ecclesiastici ai propri successori. Il dovere è una forza più potente che i propri comodi, e la libera volontà dei secolari a questa cultura non astretto — E poi a confessione dello stesso Mirabeau, non erano che orridi deserti gli odierni stabilimenti ecclesiastici, e noi dobbiamo, egli dice, ai primi cenobiti lo sterpamento di più della metà dell’interiore delle nostre terre — Bella gratitudine sarebbe dunque a questi benefizi del clero per la società, toglier ad essi la possessione di tali suoi migliorati, e ben coltivati fondi. – Il clero è troppo ricco, soggiungono, gli apostoli fondarono la Chiesa senza tante ricchezze — Il clero è per le cose spirituali, dunque deve astenersi dai preoccuparsi dei beni di quaggiù, deve lasciare ai laici i beni temporali — Scaltra, ed ipocrita fallacia dei nemici dei beni del clero — Osservate difatti come male si appongono— Si vuole fingere strabocchevole ricchezza dove non è che il puro necessario, ed il superfluo è tutti i giorni in memoria di benedizione, e gratitudine accolto, e ricevuto dai poveri — Guardate questi poveri di Gesù Cristo, che si affollano alla casa del beneficiato e ne partono soddisfatti nei loro bisogni, e ditemi se questa sia lussuriosa ricchezza — Quanti poi vi sono tra i sacerdoti che non hanno che il puro necessario! — E poi non ha il clero diritto ad un decoroso sostentamento, esso che esercita il più augusto dei ministeri sulla terra?—È falso poi, che gli apostoli siano stati poveri nel senso, che si vorrebbe dagli avversari — Il clero sarebbe contentissimo d’essere trattato oggidì dalla liberalità dei fedeli, come furono trattati gli apostoli dai primitivi cristiani che vendevano i loro beni, e ne portavano il prezzo agli apostoli [Act.. II. v. 54]. Se la missione del clero è tutta spirituale, se esso deve occuparsi degl’interessi eterni del popolo a lui affidato, non scema però in esso il diritto di vivere coi beni della terra, che per contrario s’accresce il dovere dei laici di sussidiare il ministro dell’altare che si impiega in officio così nobile, quale è l’eterna salvezza dei popoli — Perché dunque invece di concorrere al mantenimento del clero, si pensa oggi cotanto a levargli pur anco quei beni, che la pietà dei nostri padri loro ha dati? Il perché lo ravviserete nelle tendenze irreligiose dei nostri politici, che non contenti di sconnettere le cose civili, vorrebbero riformare la veneranda antichità di questa disciplina della Chiesa in ciò che concerne i beni da essa sempre legittimamente posseduti. – I cavilli e le obiezioni, che v’esposi e confutai, non son le sole, che escono dalla feconda sorgente che n’è l’irreligiosità politica — I tranelli di essa son multiformi e molteplici.— Saprete però resistere a tutti questi inganni se ben riterrete: 1.° che il clero per la sua dignità merita un decoroso trattamento; 2.° Che cominciando dai leviti dell’antico testamento, e venendo agli Apostoli, e ai loro successori, si vede come i fedeli fossero liberali verso di essi, in ogni tempo; 3.° Che gl’invasori dei beni ecclesiastici furono sempre creduti rei di sacrilegio.- 4.° Che i principi buoni sempre accrebbero i beni della Chiesa e ne furono ricompensati; 5.° Che i diritti, che il clero acquistò per i beni che possiede è sacrosanto quanto quello d’un privato qualunque, e che deve essere garantito e difeso dalla legge civile. 6.° Che l’opera della pietà di diciotto secoli nel sovvenire il clero ha ben più valore morale, che le strane idee dei tempi che corrono — Se, dico, riterrete tutto ciò, ben comprenderete che il disegno degli avversari dei beni del clero, altro non è se non d’avere, col mezzo della miseria, sacerdoti abbietti, ignoranti, alieni delle sagre funzioni, per ottenere infine la decadenza della Religione, e dei troni.

XXXII.

SONO I PRETI CHE INVENTARONO LA CONFESSIONE

R. Si, è facile cosa il dirlo, ma ben altra il provarlo. No non sono i preti, si è Colui che ha fatto i preti, si è nostro Signor Gesù Cristo che stabilì la confessione dei peccati come il mezzo necessario per ottenerne il perdono. – Aprite infatti il Vangelo: nel giorno stesso di sua risurrezione, nel giorno di Pasqua, i suoi apostoli erano riuniti in Gerusalemme, nel cenacolo. Tutto ad un tratto, a porte chiuse. Gesù Cristo compare in mezzo d’essi. Essi son tosto compresi da timore, prendendolo per un fantasma. Ma Egli mostrando loro le sue mani, ed il costato: « Pace a voi: come mandò me il Padre, anch’Io mando voi – e detto questo soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete » (S. Giovanni cap. XX vers. 22.). Queste parole non hanno bisogno di commenti. Nostro Signore concede dunque a’ suoi primi preti, di cui il sacerdozio ed i poteri durano sino alla fine dei secoli, la virtù di perdonare, potere talmente assoluto, che i peccati ormai non possono essere perdonati che mediante il loro ministero, o in riguardo di questo loro ministero [Noi aggiungiamo a bello studio queste ultime parole; perché quando non puossi ricorrere al ministero di un confessore, si può ottenere da Dio la remissione dei peccati mediante un perfetto dolore. Ma uopo è che a questa contrizione perfetta sia congiunta la ferma risoluzione d’obbedire al più presto possibile al comando di Gesù Cristo che vuole che ogni grave peccato sia portato al tribunale della penitenza. Dunque non è che in riguardo del ministero dei suoi sacerdoti che Dio rimette i peccati in questi casi straordinari.]. – Ma il sacerdote non può perdonarci peccati che ignora; quando un penitente si presenta a lui, esso non sa neppure se questo penitente abbia peccato. Uopo è dunque che costui faccia conoscere la sua coscienza, dichiari i suoi peccati, di maniera che il sacerdote possa giudicare se debba perdonargli tosto, oppure ritenere i suoi peccati sino a migliore disposizione. – Or bene in ciò sta la confessione. E voi ben vedete dietro la parola sì chiara di Gesù Cristo, interpretata dal più semplice buon senso, che si è Egli che inventò la confessione. – Chi lo nega non conosce più la storia, di quello che conosca il Vangelo. Dai primi secoli del Cristianesimo si vede la confessione dei peccati, sia segreta sia pubblica, fatta al Sacerdote, e susseguita dalla assoluzione sacramentale riguardala come la condizione necessaria del perdono. Sempre e dovunque la si vede praticala come istituzione divina. – I protestanti che rigettarono la confessione perché loro recava molestia, si sono sforzati invano a trovar l’inventore umano di essa. Furonvi taluni che ignoravano talmente l’istoria della religione, che dichiararono la confessione essere stata inventata nel secolo tredicesimo dal concilio di Laterano. Sventuratamente per questi dotti l’istoria della Francia ci conservò il nome del confessore di Carlo Magno e di quello di suo figlio Luigi il Buono, che vivevano qualche cinque cento anni avanti il concilio di Laterano I. – Colui, che inventò la confessione, giova il ripeterlo, è Colui che ha inventato i concili, Colui che ha inventato la Chiesa, Colui che ha fatto la religione, Colui, che ha fatto l’uomo, il mondo, e tutte le cose, il Figlio eterno di Dio, che si è fatto uomo, nel tempo, per salvarci. Si, è per misericordia, che ci ha dato la confessione. È per meglio assicurarci del perdono dei nostri peccati e per dare così la pace all’anima nostra. Quando noi abbiamo domandato a Dio perdono di qualche mancanza, noi siamo sicuri dì aver domandato il perdono, ma non siamo sicuri d’averlo ottenuto. Quando al contrario, abbiamo udito la parola sacramentale del sacerdote : « Io t’assolvo da’ tuoi peccati in nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo, » e che d’altronde abbiamo fatto ciò che abbiamo dovuto, e potuto per parte nostra, siamo assolutamente sicuri, che la nostra anima è purificata. Gesù Cristo l’ha detto: « Saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete. » Inoltre noi riceviamo nel Sacramento della Penitenza una perfetta ed intera applicazione dei meriti del Salvatore, come in tutti i sacramenti. Gesù Cristo supplisce all’imperfezione, all’insufficienza della nostra contrizione; mentre che, abbandonati a noi stessi, noi non riceviamo la grazia di Dio, che in proporzione delle nostre disposizioni personali sempre ben povere e misere. Nostro Signore coll’ istituire la confessione de’ peccati, non fece, del resto, che trasportare nella religione uno degl’istinti, uno dei bisogni del nostro cuore nell’ordine naturale. Chiunque ha commesso una mancanza, sembra sollevato, e quasi giustificato, col confessarla. Chi non ha provato in un momento di dispiacere, il desiderio di espandere il suo cuore nel seno d’un amico? Tale è la confessione. Il peccato è il vero male, che pesi sopra un cuore onesto e retto; il sacerdote è il confidente di questo rimorso, il consolatore di questa pena. Egli fa più che sollevarla, la toglie, e gli rende la calma, e la gioia della buona coscienza! Non confesserete voi, che Dio è assai buono in quest’invenzione della confessione? Traduciamo in volgare, come ci accade alcuna volta questa parola inconsiderata: « Sono i preti, che hanno inventata la confessione. » – Essa vuol dire il più delle volte :« Io non voglio confessarmi, perché: Io sono un orgoglioso o un libertino, che ne avrei troppe a raccontare; « e che 2.° non voglio correggermi de’ miei vizi. » Voi che parlate contro la confessione, oserete dire, che io m’inganno?