I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (III)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (III)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A  TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica – 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

PRIMO PRINCIPIO FONDAMENTALE LA PREGHIERA (2)

La preghiera è il principio d’ogni bene nell’uomo. Cosicchè imparar a pregare, stimare, amare e praticare fervorosamente e come si deve la preghiera, è un tesoro inapprezzabile pel tempo e per l’eternità.

CAPITOLO V.

Efficacia illimitata della preghiera.

È Innumerevoli e magnifici sono i beni che si conseguono mediante la preghiera.

1. Ciò che la Preghiera ha di comune con tutte le altre opere soprannaturali, è di essere meritoria e soddisfattoria: ma l’efficacia ber conseguire quello che si domanda, è sua esclusiva proprietà. L’uomo prega e domanda, e Dio ascolta e concede, non perché l’uomo lo meriti, ma perché lo domanda. L’efficacia, dunque, dipende dalla forza e dal potere della preghiera come tale, non dal merito di colui che prega. Il che appartiene esclusivamente alla preghiera, e non v’è cosa che tanto indichi la sua superiorità, come questo suo potere dinanzi a Dio.

2. E fin dove arriva questa sua efficacia? Fin dove si estende la necessità dell’uomo e la potenza e misericordia di Dio, nulla eccettuato. Dio disse. Qualunque cosa domanderete nell’orazione, credendo, la otterrete. (Matt. XXI, XXII:7, 7). Qualunque cosa domanderete al Padre nel nome mio, la farò: affinché sia glorificato il Padre nel Figliuolo. (Giov. XIV, 13), L’uomo non deve fare eccezioni di sorta, dove Dio non ne fa. Dunque, possiamo chiedere a Dio quanto ragionevolmente e conforme alla sua volontà desideriamo. È cosa evidente che dobbiamo chiedere anzitutto ciò che riguarda l’anima, e possiamo essere tanto più sicuri di conseguirlo, quanto più necessario ed utile ci sia. Riguardo alle cose temporali dobbiamo por attenzione nel chiedere, perché, attesa la loro natura, potrebbero tornarci di castigo anzi che di bene se Iddio ce le concedesse. – La Sacra Scrittura ci descrive con mano maestra il potere della preghiera. Il popolo d’Israele e la sua marcia attraverso il deserto; Mosè, Giosuè, le imprese dei Giudici e dei Maccabei, i miracoli di Gesù Cristo e degli Apostoli; in una parola, tutta la storia del popolo eletto e della Chiesa Cattolica, formano la storia della preghiera e della sua efficacia. I bisogni dell’uomo e la sua preghiera sono allacciati, come una lunga e mirabile catena, alla bontà e all’aiuto di Dio. Non vi sono leggi naturali che resistano al potere della preghiera, tanto che per essa alle volte possono sospendersi, e di fatto furono anche sospese. Al comando della preghiera il sole si fermò (Gios. X,, 13), o indietreggiò (IV dei Re, XX, 14). Come il cielo circonda la terra, così la preghiera abbraccia colla sua efficacia tutta l’umanità lungo i secoli.

3. Ma v’è un mondo invisibile in gran parte agli occhi nostri, e noto soltanto al cielo, nel quale si manifesta con più potere e magnificenza l’efficacia della preghiera: è il mondo delle anime con tutto quello che si riferisce alla loro purificazione, trasformazione, santificazione. Nessuna cosa può a lungo resistere alla soave e potente influenza della preghiera; non le passioni, non la forza delle tentazioni e dei pericoli; trionfa di tutto: trasforma insensibilmente i sentimenti, le idee, la volontà ed i pensieri dell’uomo. Colla preghiera, senza accorgersi, l’uomo diventa un altro. Com’è difficile lavorare il ferro quand’è freddo! Ma messo nella fucina si può modellare facilmente. Prega e prega incessantemente ed arriverai a dominar tutte le tue passioni. Ecco, egli fa orazione (Att. IX, 4, 11) dice, di Paolo poco prima convertito, il Signore ad Anania. Gesù colla sua potenza atterrava Saulo, acerrimo suo nemico, e la preghiera ne faceva un Apostolo. Di un uomo e per un uomo che prega, non v’è nulla da temere. – Quella luce e pace dello spirito, quella moderazione negli affetti, e fortezza d’animo nel soffrire che gli antichi cercavano nella filosofia, ai primi Cristiani comunicavasi nella preghiera. La preghiera era per essi la scuola più santa e la più sublime metafisica, la leva con cui rovesciarono e sfasciarono il mondo pagano; la preghiera è pur oggi il braccio forte della Chiesa, e la sua scienza di governo. All’apparire di qualche persecutore, essa fa ricorso a Dio, prega e vince, o atterrando il nemico, o, come quasi sempre avviene, convertendolo…

4. Ma, in che consiste l’efficace segreto della preghiera? Nell’unione dell’uomo con Dio. È mirabile già per sé il dominio che ha l’uomo sulla natura. E qual potere e quale scienza non acquista egli quando opera in unione a Dio, quando confida in Lui, nella sua provvidenza, potenza e sapienza! Quali saranno allora i limiti del suo potere? Può uno meravigliarsi che vi siano dei miracoli? Per la preghiera l’uomo è uno strumento nelle mani di Dio e partecipa alle mirabili sue opere. In quest’alleanza che si stabilisce tra Dio e l’uomo mediante la preghiera, questi non porta altro che il riconoscimento della propria debolezza, contro la quale chiede aiuto; Dio in cambio gli va incontro colla sua bontà, onnipotenza e fedeltà: verità consolantissima e degna d’aversi sempre presente. Nella preghiera non si tratta del merito nostro, ma della bontà e misericordia di Dio. Sono queste le cause che Lo muovono ad esaudirci. La debolezza può sempre molto di fronte a chi è veramente grande. Se una povera bestiolina ci pregasse di risparmiarle la vita, certamente non ci rifiuteremmo di esaudirla. Il bambino non può nulla in famiglia, eppure nulla gli manca, vive della sua debolezza; domanda e tutto ottiene. Se paragoniamo l’uomo agli animali, risulta inferiore in molte cose: l’animale entra nel mondo vestito, armato e ben provvisto per la vita; l’uomo al contrario, quanto tempo deve rimanere senza poter fare da sè! Ma in compenso Dio lo ha dotato di un braccio forte e industrioso, con cui si provvede poi di tutto. Invero la preghiera è per l’uomo un braccio spirituale con cui si nutre, si veste, si adorna, si difende; con essa può tutto e fa tutto. La preghiera è la leva del fedele; oh! se sapessimo valercene! Grazie alla preghiera l’uomo ha la parola ed il voto nei consigli della Santissima Trinità. dove si decidono tutti gl’interessi del mondo: la sua voce arriva dovunque. Cosicchè l’uomo, l’umile e semplice fedele, può mutare colla sua preghiera la faccia della terra. La sorte del Cristianesimo non si decise unicamente sul campo di battaglia al ponte Milvio né sugli eculei o negli anfiteatri dove si tormentavano i confessori della fede, ma anche nel silenzio delle catacombe dove pregava il popolo cristiano, sotto il palmeto di San Paolo primo eremita, e nella caverna di San Antonio abbate. Immensa è la efficacia della preghiera e non ci è dato di calcolare quanto possiamo con essa. Mediante la preghiera noi comandiamo a Dio medesimo, poiché solo di fronte ad essa Dio si mostra debole. Infatti, pare che la preghiera s’imponga, perché Egli stesso così vuole: ma non è una debolezza questa che Lo abbassi, che Lo glorifica anzi: ciò deve infondere in noi vigore e fiducia nella preghiera, se tanto può, o, a dir meglio, se tutto può.

CAPITOLO VI.

Come deve farsi la preghiera.

Se talvolta la nostra preghiera non ha il suo buon esito, dobbiamo cercare la causa non in Dio ma in noi. Possono per ciò darsi tre ragioni: o la nostra propria indegnità, o il pregare non come si deve, o il chiedere che non conviene. Mali, male, mala. In generale la nostra preghiera deve riunire le seguenti doti. – Prima di tutto, dobbiamo sapere noi stessi quello che andiamo ad esporre a Dio, e per questo è necessario pregare con fervore, con attenzione e senza distrazioni. Qui sta la forza che non vogliamo essere distratti e che non ci lasciamo andare in distrazioni volontarie, Come può prestarci attenzione Dio, se non prestiamo attenzione a noi Stessi e non sappiamo quel che diciamo? Tornerebbe anche di poco onore e gradimento al nostro Angelo custode il dover presentare a Dio una preghiera piena di distrazioni; sia dunque fermo il nostro proposito di non dar occasione a ciò, poiché ogni distrazione volontaria nella preghiera è peccato e ci attrarrà non grazie ma castighi. Al contrario, le distrazioni involontarie che ci sopravvengono nostro malgrado, nulla ci tolgono, né del merito, né del profitto, né della forza che ha la preghiera dinanzi a Dio, ma ci privano soltanto della dolcezza che porta con sé la preghiera ben fatta. Non s’annoiano il padre e la madre perché il loro bambino, non avente ancora l’uso di ragione, ciarla senza senso. Iddio conosce la nostra debolezza ed ha pazienza. In secondo luogo, seriamente convinti che importa molto di essere esauditi, dobbiamo pregare con fervore ed impegno. Il fervore non consiste in lunghe preghiere, ma nell’affetto della volontà. L’incenso non sale al cielo convertito in aroma se le braci non consumano. Il fervore è l’anima della preghiera. Dio attende al cuore, non alle labbra. Siccome il trattare con Dio è già di per sé cosa molto importante e ciò che domandiamo è sempre alcunché di grande, viene di conseguenza che la nostra preghiera dev’essere accompagnata dal fervore e dal desiderio. Se dubitiamo che le nostre preghiere siano accette a Dio, chiediamo l’aiuto altrui, pregando in comune, invocando i Santi; ed in particolare il Nome di Gesù al quale è assicurata la forza d’impetrazione e concessione delle grazie (Giov. XVI, 23). – La terza condizione che si richiede nella nostra preghiera è l’umiltà. Ci presentiamo a Dio come mendici, non come creditori: come peccatori, non come giusti. Aiuta molto altresì l’umiltà esterna. in quanto che piace e fa violenza a Dio ed eccita in noi il fervore. – La quarta condizione importante della nostra preghiera è la fiducia. Tutto ci richiama ad essa: Dio medesimo vuole che preghiamo, e per conseguenza desidera esaudirci: siamo creature e figli suoi, ed Egli sa molto meglio di noi valutare questo titolo che Lo muove a darci ascolto. Non dobbiamo finalmente dimenticare, che nella preghiera anzitutto e principalmente trattiamo colla bontà e misericordia di Dio, dalla quale ha da martire la finale decisione. Quanto più spirituale è ciò che domandiamo, più sicuri siamo di essere esauditi. Trattandosi di cose temporali, fa d’uopo guardarci da due difetti: primo, di chiedere incondizionatamente qualunque cosa temporale, ché alle volte potrebbe pregiudicarci; secondo di credere che non dobbiamo pregare per i beni terreni, mentre anche questi ordinariamente devono chiedersi; perché Iddio vuole che lo riconosciamo altresì come fonte e principio di tutti i beni di quaggiù, e appunto perciò ci ha ha comandato nel « Pater noster  che Glieli domandiamo.» – La quinta dote della Preghiera è la perseveranza che occupa un posto assai distinto tra le condizioni che per precetto divino deve avere Dobbiamo pregare, “Sempre pregare, né mai stancarci” (Luc. XVIII, 1). Non stancarci mai di pregare, equivale a non tralasciare mai la preghiera per negligenza, né per accidia, né per pusillanimità, né per svogliatezza. E pregheremo sempre, se non trascuriamo di farlo nei tempi determinati. Come suol dirsi che mangiamo sempre, perché mai omettiamo di mangiare a suo tempo, Se Dio ritarda nell’esaudirci, pensiamo di non essere sufficientemente disposti o che vuol provare la nostra buona volontà, e ricordiamoci che noi altresì abbiamo fatto attendere Lui molte volte. Non perderemo nulla frattanto: al contrario anzi Iddio ci premierà con nuovi meriti ogni qualvolta noi rinnoveremo la preghiera. Nemmeno dobbiamo dimenticare che Iddio non è nostro servitore da essere obbligato a soddisfare tutti i nostri desiderî: Egli è nostro Padre e concede quando e come trova conveniente pel bene nostro. A noi tocca il pregare, a Dio appartiene l’esaudire: il meglio per noi è di lasciare tutto nelle sue mani. – Appartiene altresì alla perseveranza il pregare molto, pregare tanto quanto possiamo. Dobbiamo pregare molto, perché siamo molti ed è molto da domandare. Colui che Prega solo per sé e per le proprie particolari necessità, non occupa bene il suo posto in questo mondo, né dà motivo che risplenda tutto il potere e la forza della preghiera. La nostra preghiera è la preghiera del Figlio di Dio. che si estende a tutte le necessità della Chiesa e dell’umanità. E quante e quanto grandi necessità, dalle quali dipende in gran parte la salute delle anime e la gloria di Dio, si presentano ogni istante dinanzi alla Maestà di Dio, attendendo la sua decisione! Se unissimo nella nostra preghiera a tutte le necessità del mondo per presentarle e raccomandarle a Dio, allora sì che pregheremo come apostoli, come Cattolici e come l’uomo-Dio. Così fece il Redentore, e così insegnò a noi a farlo nel « Pater noster », Se ci accadesse di non avere un fine onde pregare, facciamo in spirito un giro intorno al mondo, e presentiamo a Dio tutte le necessità che vi sono. Esse attendono l’aiuto della nostra preghiera. – Dobbiamo finalmente pregare molto, per imparare a pregar bene. Il migliore modo ed il più rapido per imparare a pregare, è il pregare; così come imparammo a camminare, a leggere, ed a scrivere, camminando, leggendo e scrivendo. Se ci riesce dura la preghiera, gli è perché preghiamo troppo poco. E pensare la grande ed importante cosa che è il conseguire gusto e facilità nella preghiera! Se trovassimo diletto nel pregare, troveremmo il tempo poiché per ciò che si vuole davvero il tempo non manca mai.  

CAPITOLO VII.

La preghiera vocale.

La necessità della preghiera è indispensabile; il suo potere è immenso; consolante è la sua facilità. A rendere facile la preghiera contribuiscono non poco i molti e vari modi che si hanno nel farla. Parlando generalmente, vi sono due classi di preghiera: vocale e mentale.

1. Preghiamo vocalmente quando ci serviamo d’una formola determinata di preghiera, pronunciandone a voce alta o no le parole.

2. L’orazione mentale è senza dubbio molto migliore; quantunque non sia da disprezzarsi affatto la vocale, che anzi conviene tenere in gran pregio. Infatti, anzitutto essa è una conversazione con Dio, e basta già questa ragione per preferirla a tutte le altre cose. Inoltre, è una preghiera che corrisponde molto alla natura nostra, composta di Spirito e di materia. Noi dobbiamo lodare Dio con tutto l’essere ch’Egli ci ha dato, e quindi col corpo e coll’anima. Nella preghiera vocale è tutto l’uomo che prega, giubilando in Dio col corpo e coll’anima (Sal. LXXXIII, 3). La preghiera nella Scrittura chiamasi: Il frutto delle labbra, che confessano il nome di Dio (Ebr. XIII, 15). Vi sono molte labbra, che lungi dal dare questi frutti di lode a Dio, ne vituperano piuttosto l’adorabile Nome. È ben giusto quindi che le nostre labbra compensino questa mancanza, il che si fa nella preghiera vocale. La memoria trova un sicuro appoggio nella formula della preghiera, il sentimento viene eccitato colla pronuncia delle parole e l’intelligenza trova una ricca miniera di pensieri e di verità nelle parole stesse. Essendo le parole segni ed immagini sante, toccate colla verga magica della memoria discoprono mondi meravigliosi di verità. e fanno scaturire acque di celesti consolazioni. Lo Spirito Santo medesimo, nei salmi. ha ispirato le più belle preghiere vocali, ed il Salvatore non credette di venir meno alla sua dignità prescrivendoci una formula di preghiera, il Pater poster. La Chiesa, generalmente, nella celebrazione de’ suoi divini ufficiî, adopera solo preghiere vocali, molto brevi. La maggior parte degli uomini conosce soltanto la preghiera vocale, per la quale trova eterna sua felicità. È  questa preghiera la via reale del cielo, la scala d’oro per la quale gli Angeli discendono ed ascendono, dal cielo alla terra e dalla terra al cielo, portandovi suppliche e riportandone grazie. La preghiera vocale, finalmente, è quella che dà unità, in tutto il mondo, al modo di pregare del Cattolicesimo: è la voce potente della professione di fede. che muove, eccita e rinvigorisce i buoni. sconfigge gl’increduli e dà gioia a tutto il cielo: quando, principalmente, riuniti i fedeli in processioni, rogazioni e pellegrinaggi, escono sulle vie pubbliche, per le campagne ed attraverso le città, percorrendole con solenne gravità, alternando la recita del Rosario, le Litanie dei santi pii cantici. Questi popoli sono le schiere dell’esercito di Dio sulla terra, il cui passo la cui voce risuona tremenda agli spiriti increduli: essì rendono testimonianza meglio d’ogni altra dimostrazione che il mondo non appartiene del tutto agli empî, e che costoro hanno da fare con un popolo che prega. La preghiera vocale è una grazia molto grande, tale da non poter mai ringraziare Iddio abbastanza d’avercela concessa e che di essa dobbiamo far uso incessantemente.

3. Come tutte le cose di questo mondo, anche la preghiera vocale ha le sue difficoltà. che sono l’abitudine e le distrazioni. Procedono queste dall’uso frequente e quotidiano e dalla continua ripetizione d’una stessa formula. Per superarle, disponiamo dei mezzi seguenti: anzitutto, teniamo come norma fissa e costante, di non cominciare mai una preghiera vocale, per quanto sia breve, senza raccoglierci un momento per chiederci che cosa andiamo a fare, e per domandare a Dio aiuto di farla bene. Chi vuol oltrepassare un fossato, conviene che indietreggi un po. e prenda la corsa per dare il salto. Non premettendo questo breve raccoglimento di spirito, incominceremo distratti e distratti proseguiremo. Può dirsi che quanto è più breve la preghiera, tanto è più necessario questo raccoglimento. Se la preghiera poi è lunga, fa d’uono ripeterlo di frequente, sia pure brevissimamente, poiché non vi è altro modo che aiuti a pregar bene e con attenzione. – In secondo luogo è necessario frenare la vista, o tenendo gli occhi chiusi, o fissandoli in un punto. – In terzo luogo, è bene qui notare che mentre recitiamo vocalmente, l’attenzione nostra ed i pensieri possono concentrarsi o nel senso e significato delle parole con cui preghiamo, o nella persona a cui va diretta la preghiera, o in noi e nelle nostre necessità, o nei rapporti che passano tra noi e la Persona a cui si parla; il che è sufficiente per l’attenzione che si richiede, e nel far uso d’una o d’altra di queste industrie, giova moltissimo a rendere facile e soave la preghiera vocale.

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (IV)

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (8) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (V)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (8)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE, AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (V)

Mi sono alquanto diffuso nell’esempio di questo illustre Atleta della libertà Ecclesiastica. Ma non è egli il solo. Basta scorrere le vite dei Santi Pastori, per esempio di S. Ambrogio, di S. Anselmo, di S. Antonino, di S. Carlo Borromeo, e da per tutto si trovano luminosi esempi di giusta resistenza alla loro invasione dei laici. Ora avrebber essi esposta la loro vita e la pace della Chiesa per conservare l’immunità e la giurisdizione Ecclesiastica, se non lo avesser creduto necessario? O pure la Chiesa ricorderebbe con lode il lor coraggio apostolico, se nol credesse degno d’ammirazione? Passo al presente all’ultima ricerca, cioè della vita e dell’esempio necessario e nella pace, e nella persecuzione ad un Vescovo. Il Concilio di Trento ei somministra in pochi tratti il metodo di vita, e l’esemplarità dovuta da un Pastore in ogni circostanza in faccia al suo gregge; e da questo metodo sarà facile l’argomentare come debba diportarsi, quando vede se stesso, e la sua Chiesa perseguitata, e combattuta (Concil. Trident. Sess. 25 de reform. cap. 1). « Optandum est (dice il Sacro Concilio), ut ii, qui Episcopale Ministerium suscipiunt, quæ suæ sint partes, agnoscant; ac se non ad propria commoda, non ad divitias, aut luxum; sed ad labores, et sollicitudines pro Dei gloria vocatos esse intelligant. Nec enim dubitandum est, et fideles reliquos ad religionem, innocentiamque facilius inflammandos, si præpositos suos viderint non ea, quæ mundi sunt, sed animarum salutem, ac cœlestem patriam cogitantes. Hæc cum ad restituendam ecclesiasticam disciplinam præcipue esse necessaria Sancta Synodus animadvertat; admonet Episcopos omnes, ut secum ea sæpe meditantes factis etiam ipsis, ac vitae actionibus, quod est veluti perpetuum quoddam prædicandi genus, se muneri suo conformes ostendant: în primis vero ita mores suos omnes componant, ut reliqui ab eis frugalitatis, modestiæ, continentiæ, acquæ nos tantopere commendat Deo, sanetae humilitatis exempla petere possint. Quapropter exemplo Patrum nostrorum in Concilio Carthaginensi, non solum iubet, ut Episcopi modesta suppellectili, et mensa, ac frugali vietu contenti sint; verum etiam in reliquo vitæ genere, ac tota cius domo caveant, ne quid appareat, quod a sancto hoc instituto sit alienum; quodque non simplicitatem, Dei zelum, ac vanitatum contemptum præseferat. Omnino vero iis interdicit, ne ex redditibus Ecelesiæ consanguineos, familiares suos augere studeant: cum el Apostolorum canones prohibeant, ne res ecclesiasticas, quæ Dei sunt, consanguineis donent, sed, sì pauperes sint, iis, ut pauperibus, distribuant eas autem non distrahant, nec dissipent illorum causa: immo quam maxime potest, eos saneta Synodus monet, ut omnem humanum hune erga fratres, nepoles, propinquosque carnis affectum, unde multorum malorum in Ecclesia seminarium extat, penitus deponat. » [Sarebbe desiderabile che chi riceve il ministero episcopale conosca i propri doveri e comprenda di essere stato chiamato non per cercare la propria utilità, né per procurarsi ricchezze o vivere nel lusso, ma a fatiche e preoccupazioni per la gloria di Dio. Non c’è dubbio che anche gli altri fedeli saranno piú facilmente incitati alla religione e all’onestà, se vedranno i loro pastori preoccupati non delle cose del mondo, ma della salvezza delle anime e della patria celeste. Il santo Sinodo comprende che questi principi sono fondamentali per il rinnovamento della disciplina nella Chiesa ed esorta tutti i vescovi perché, meditandoli spesso, anche con i fatti stessi e le azioni della vita, si mostrino conformi al loro ufficio: cosa che può considerarsi un continuo modo di predicare. E prima di tutto, diano un andamento tale a tutto il loro modo di vivere, che gli altri possano prendere da essi esempio di frugalità, di modestia, di continenza e di umiltà, che ci rende tanto graditi a Dio. Sull’esempio, quindi, di quanto prescrissero i nostri padri al Concilio di Cartagine (412), non solo comanda che i vescovi si contentino di una modesta suppellettile, di una sobria mensa e di un vitto frugale, ma che si guardino bene perché nel resto della loro vita e in tutta la loro casa non vi sia nulla di alieno da questo santo genere di vita, che non mostri zelo per Iddio e disprezzo per le vanità. In modo particolare, poi, proibisce loro assolutamente di cercare di favorire esageratamente i loro parenti e familiari con i redditi della Chiesa, poiché anche i canoni degli apostoli proibiscono loro di donare ai loro parenti i beni ecclesiastici che sono di Dio. Se poi fossero poveri, li diano loro come poveri, ma non li sottraggano e non li dissipino per essi. Anzi il santo Sinodo li esorta vivamente, perché depongano del tutto questo affetto umano della carne verso i fratelli, i nipoti e i parenti, da cui nella Chiesa hanno avuto origine tanti mali. Le cose dette dei vescovi non solo devono valere tenuto conto del grado di ciascuno per tutti quelli che hanno benefici ecclesiastici, sia regolari che secolari, ma si stabilisce che debbano valere anche per i cardinali della Santa Chiesa Romana, poiché sarebbe inconcepibile che quelli col consiglio dei quali il Romano Pontefice governa la Chiesa universale, non debbano poi brillare per le virtù e per una vita castigata, che attiri a buon diritto gli sguardi di tutti. Vuole dunque il Sacro Concilio ed esige dai Vescovi: la Frugalità, la Modestia, la Continenza, l’Umiltà, non di qualunque ge- nere, ma tale, che tutti gli altri da loro ne possano prender esempio. Vuole e comanda, che queste belle virtù traspirino e nella loro mensa, e nelle loro suppellettili, e in tutta la loro famiglia di modo che da per tutto si veda semplicità, zelo della gloria di Dio, e disprezzo di tutte le vanità mondane. Vuole e comanda, che le rendite della Chiesa si impieghino in usi pii, e non mai in accrescere lo stato dei congiunti, avvertendo, che quest’umano affetto è nella Chiesa di Dio un seminario di molti mali.]. – Queste regole generali di vita per tutti i Pastori della Chiesa si possono vedere minutamente ridotte a una legge pratica dai Concili Provinciali di Milano celebrati sotto l’insigne Pastore di quella Chiesa, dico l’immortale S. Carlo Borromeo. Io ne ho riportato un breve squarcio. nell’Opuscolo intitolato: Abusi nella Chiesa: ma ciascuno può da se stesso molto meglio mettersi all’esame di quelle savissime leggi. Che se alcuno replicasse, che di que’ tempi il lusso tra i secolari non era così eccessivo, come ai tempi nostri, e che perciò più facilmente potevano moderare lo splendor della lor famiglia anche gli Ecclesiastici; rispondo: primo, che ciò è falso, perché l’istesso S. Carlo nella sua Istruzione ai Confessori dice espressamente così: Sono ridotte le pompe di questi tempi nel maggior colmo, che possano essere (Act. 4, p. 652, edit. Lugdun. ann. 1862). Secondo, perché quanto è maggiore il lusso nei secolari, tanto dev’essere maggiore la moderazione negli Ecclesiastici, essendo inutile ogni altro mezzo per estirpare il lusso, fino a tanto che i secolari potranno dire: che gli Ecclesiastici insegnano una cosa, e ne fanno un’altra. Se un arboscello è molto inclinato da una parte, non basta tirarlo al mezzo per raddrizzarlo, ma bisogna piegarlo violentemente dall’altra, perché lasciandolo in libertà torni al suo sito, e alla sua dirittura naturale. Altrimenti se uno si contentasse di tirarlo soltanto al mezzo, lasciandolo poi andare, ripiglierebbe subito la sua prima inclinazione. Voglio dire, che quanto è maggiore il lusso ne’ laici, tanto dev’essere maggiore la semplicità, e la frugalità degli Ecclesiastici, per riformare col loro esempio il mondo ingannato. Guardate, se siamo lontani che quella scusa abbia nessuna forza nel caso nostro. Certo è, che senza distinzione alcuna di tempo né di circostanze decide su questo particolare il Cardinal Bellarmino (ad Nepot. Controv. 8) così: « Certum est peccare mortaliter eos Episcopos, qui non sunt contenti frugali mensa, et tenui suppellectili, et reliqua non insumunt in reparationem Ecclesiæ, et usum pauperum ». Ed è da notare, che appoggia la sua decisione sull’autorità di (2, 2 qu. 183, art. 7) S. Tomaso. Replica non molto di poi spiegando sempre più chiaramente la sua opinione: « Frugalius vivere debent, multoque cum minori pompa, quam divites huius mundi. Negue conviviorum aut lautities illis est licita, neque alius domesticus apparatus. Nam, ut ait Hieronymus, de altari illis vivere fas est, non luxuriari. » – Passo innanzi adesso, e dico così: Se la frugalità, la modestia, l’umiltà, il disinteresse, la semplicità d’un Vescovo dev’esser somma in ogni tempo, molto più lo dev’essere in tempo di persecuzione. E perché? Perché questo è un mezzo necessario per recidere e per deludere la persecuzione medesima. Questa proposizione viene corroborata da tre gagliarde ragioni. Primo; perché questo è quello, che ordinariamente vuole Iddio col permettere la persecuzione. Secondo; perché questo è quello, che più spaventa il furore della Podestà secolare. Terzo; perché questo è quello, che rende un Vescovo quasi affatto libero per esercitare il suo ministero, e per difendere la sua Chiesa. Spiego tutte queste ragioni una per una.

Primo: Dio col permettere la persecuzione ordinariamente domanda riforma negli Ecclesiastici, e specialmente nei Pastori. Dunque in tempo di persecuzione i Pastori devono in singolar modo attendere a riformarsi non solo nello spirito, ma anche nell’esterno tenor di vita. Questo si prova con un argomento d’induzione. Imperocchè ordinariamente le persecuzioni si sono permesse da Dio in pena, e in emenda dei falli. Chi è colui, dice Geremia (Thren. III, 37 et segg.) il quale va dicendo, che i mali d’Israele sono accaduti senza comando del Signore? « Quis est iste, qui dixit, ut fieret, Domino non iubente? Ex ore Altissimi non egredientur nec bona, nec mala? » Questa diventa una falsa difesa dei peccati. Quid murmuravit homo vivens, vir pro peccatis suis? Esploriamo puree ricerchiamo i nostri passi, e torniamo al Signore; per questo Egli è divenuto inesorabile, e ha stesa dinanzi a’ suoi occhi una nube, perché non passino al suo cospetto le nostre orazioni: Scrutemur vias nostras, et quæramus, et revertamur ad Dominum… Nos inique egimus, et ad iracundiam provocavimus idcirco tu inexorabilis es…. Opposuisti nubem tibi, ne transeat oratio. Questo è quello, che dice anche Iddio per bocca del Profeta Amos (Am. III, 4): Osservate, se v’è male nessuno, che non sia stato fatto dal Signore: Si erit malum in civitate, quod non fecerit Dóminus. Io l’ho detto in altro luogo (Lettera a Sofia) su la scorta del Vangelo. Quando il vizio è arrivato a diseccare, o a infracidare molti tralci della vite, i quali non fanno più frutto, viene l’agricoltore celeste, e gli recide, e gli (Joa. XV, 2) separa; e in quella stessa occasione rimonda i tralci fruttiferi, acciocchè facciano più frutto. Quando tra il grano eletto si è mescolata molta paglia, il capo di famiglia prende in mano il vaglio (Luc. III, 17), e separa l’uno dall’altra, raduna il frumento nel suo granaio, e ammucchia le paglie sul fuoco per arderle. Quando la religione è divenuta quasi soltanto una esterior apparenza, e lo zelo non si distingue ormai più dall’interesse, perché producono quasi gli stessi effetti, allora Iddio permette nella sua Chiesa una gran tentazione; affinché (Luc. III, 34, et 35) si scuoprano gli occulti pensieri dei cuori (Joan. II, 19) ipocriti. Per questo Iddio permise la profanazione del Tempio (2 Machab. V, 17 et sequ. VI, 12 et seq.) sotto Antioco, e non la permise. sotto Seleuco, cioè « propter peccata habitantium civitatem… propter quod et accidit circa locum destructio. . .. perché non propter locum gentem, sed propter gentem locum Deus elegit. Ideoque et ipse locus particeps factus est populi malorum. » La permise Iddio per correzione del suo popolo: « Reputent ea, quæ ceciderunt, non ad interitum, sed ad correctionem esse generis nostri.» Per questo Iddio permise nella sua Chiesa la crudele persecuzione di Decio, e di Diocleziano, come osservano Eusebio, e S. Cipriano (Eused. hast. lib. 8, c. 1, S. Cypr. ep. 7, et lib. de Lapsis edit. Venet. 1758, col. 435); rilevando specialmente la corruttela, la negligenza, l’avarizia dei Pastori di quel tempo. Per questo ha permesso Iddio tant’altre (Sanct. Bernardin. Senens, in Apoc. cap. 2 Edit. Venet. 1745, 1.5, p. 18) persecuzioni nella sua Chiesa; e ciò ben si conosce col riflettere, che le persecuzioni non sono ordinariamente cessate, se non con qualche riforma specialmente degli Ecclesiastici; e così avvenne dell’eresia di Lutero, la quale non fece gran progressi dopo le riforme del Concilio di Trento. Dunque ogni qual volta si vuole il termine di qualche atroce persecuzione: Scrutemus vias nostras, et quæramus, et revertamur ad Dominum; altrimenti non avranno nessuno forza le nostre orazioni; Opposuisti nubem tibi, ne transeat oratio.

Secondo: non v’è cosa, che spaventi tanto la podestà secolare, quanto la sobrietà, l’umiltà e il disinteresse d’un Vescovo. Dunque in tempo di persecuzione sono sommamente necessarie queste virtù in un Pastore per far argine alle invasioni della secolar podestà. La ragione è molto chiara, se si rifletta, che l’idolo del mondo è l’interesse, l’onore, e la grandezza, e che queste sono le cose, che nel mondo si stimano, e che queste sono i premi, che dà il mondo, e che la privazione di questi beni è uno dei maggiori castighi del mondo. Quando adunque il mondo vede un Vescovo, che non cura nessuna di queste cose, si spaventa ne’ suoi disegni, perché non ha più come assalirlo, né con speranza di premi, né con minacce di povertà, e d’esilio, e in conseguenza resta molte volte avvilito nelle sue pretese. Infatti le prime mosse del mondo contro la Podestà Ecclesiastica incominciano d’ordinario dall’impadronirsi de’ suoi Beni, per avere in mano il freno; con cui regolare a capriccio la sua giurisdizione, e la sua fede. Dunque non v’è un mezzo migliore in tempo di persecuzione per resistere alle macchine del mondo, quanto un totale disprezzo de’ suoi beni. – In fine il disinteresse è quello, che rende un Vescovo. Quasi affatto libero nell’esercizio del suo ministero e nella difesa del suo gregge. Dunque il disinteresse è sommamente necessario al Vescovo in tempo di battaglia. Anche questo si manifesta ad evidenza riflettendo, che le Maggiori tentazioni per tradire il proprio impiego nascono d’ordinario dalla cupidigia d’avere, o di conservare i beni del mondo; e quanto più uno è spogliato di questo attacco, tanto è più coraggioso per intraprendere qualunque affare di servigio di Dio, e della Chiesa; ma dei primi non è così: « Qui volunt divites fieri in tentationem, et in laqueum diaboli, ‘et desideria multo inutilia, et nociva, quæ mergunt homines in interitum, et perditionem. Radix enim omnium malorum est cupiditas: quam quidam appetentes erraverunt a fide.  Al contrario coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L’attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori. – 1 Timot. VI, 9 ».  E pure troppo è verissimo quello, che dice, e ripete l’Ecclesiastico (Eccles. XI, 10): Si fueris dives; non eris immunis a delictose esagererai, non sarai esente da colpa; e (XXXIV, 5) si aurum diligit, non iustificabitur – se ami l’oro, non sarai giustificato … Onde per evitare questi pericoli non v’è altro rimedio, che posseder le ricchezze, come se non si avessero, ed esser poveri di spirito in mezzo all’abbondanza. Per questo anche ha detto Gesù Cristo quella gran sentenza: (Luc. XIV,  33). Qui non renuntiat omnibus, quæ possidet, non potest meus esse discipulus; che chi non rinunzia coll’affetto a tutto ciò che possiede, non può essere discepolo. Ora dico io, come può essere distaccato col cuore dai beni della Chiesa quel Vescovo, il quale se ne serve per far buona comparsa nel mondo, e mette prima da parte tutti i suoi comodi, e tutta quella, che il mondo chiama decenza dello stato superiore talvolta alla decenza dei ricchi del secolo; e poi destina gli avanzi, e le briciole, che cascano dalla mensa, al sovvenimento dei poveri, i quali per altro sono quasi egualmente padroni dei beni della sua Chiesa? Come può un tal Vescovo aver le mani libere per esercitare la sua autorità, e per difendere la sua fede, quando il mondo lo minacci di spogliarlo di tutto quello, che sino allora amò con tanta sollecitudine? Non mancheranno pretesti e dettami per acquietare insieme la propria cupidigia, e la propria coscienza; e si vorranno conciliare insieme questi due padroni, cioè Dio, e il mondo; ma sì perderà certamente Iddio, perché servire a due padroni non si può; e questo è di fede. – Ma un Vescovo, che non abbia attacco né ai suoi comodi, né al proprio lustro, e che possa dire, che il mondo non trova in lui niente del suo, non ha nemmeno nessuna paura della morte. Ma un Cristiano frugale, e disinteressato non ha grande inimicizia colla morte, perché la morte poco gli può togliere, e molto gli può dare col metterlo ai confini di quell’eternità, dove sarà liberato di tutto il peso del suo ministero, e riceverà cento per uno di tutto quello, che fedelmente ha distribuito ai poveri. Oltre a che Dio è impegnato ad aiutare in tale circostanza quel servo fedele, che ha mostrato tanta cura della sua famiglia, e che ha vestito e sfamato tante volte Lui medesimo nella persona de’ suoi poverelli. Dunque la frugalità, e il disinteresse rendono un Vescovo libero, e coraggioso nell’esercizio della sua giurisdizione e nell’insegnamento della Fede. Dunque la frugalità, e il disinteresse sono oltremodo a lui necessari in tempo di persecuzione, in cui si combatte la Fede e l’Autorità della Chiesa. E con ciò io credo di aver abbastanza soddisfatto a quei tre articoli, che mi proposi ad esaminare sin da principio scorrendo quei punti principali, che potrebbero esigere qualche esame in queste circostanze. Sarebbe stato facile il recare più esempi, o più autorità intorno ad ogni quesito. Ma questa non è un Opera; è un Opuscolo, che può correre agevolmente per le mani di molti senza spaventare colla sua mole, e col suo peso chi si presenta a riguardarlo, e a leggerlo. Questo è stato il costume di molti Padri, come per esempio di Tertulliano, di S. Ambrogio, di S. Cipriano, di S. Bernardo, di S. Pier Damiani, e di più altri. V’è la sua utilità nelle Opere grandi, e v’è nelle piccole. Ognuno segue il suo talento, il suo genio, e i suoi fini.

F I N E

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (7) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (IV)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (7)

ESPOSTI

DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ, ROMA

STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (IV)

 Ma ormai è tempo di esaminar il debito della giurisdizione d’un Vescovo in tempo di persecuzione. L’ esame è facile, e la decisione è certa dopo quello, che abbiam veduto circa il suo pastorale ufficio in tempo di pace. Ciò, ch’egli è tenuto di fare o ad omettere: per istituzione divina, e per indole del suo stesso ministero; di tenuto a farlo e ad ometterlo in ogni tempo; non v’è né pur legge ecclesiastica, che possa dispensarlo da questo dovere; dunque anche in tempo di persecuzione deve un Vescovo esaminare ed approvare quelli, che vogliono accostarsi al Santuario per non introdurre il contagio tra le pecore, né mai in qualunque caso, né per veruna minaccia potrà abilitare al Sacerdozio, alla cura Parrocchiale, o all’amministrazione dei Sacramenti persone di depravato costume, o di cattiva fede; Chierici, che abbiano frequentate scuole sospette d’eresia, o appresa la dottrina da libri condannati dalla Chiesa; Parrochi de’ quali sappiasi, che tengono massime erronee, sospette, pericolose, e molto più eretiche; confessori, i quali mostrano in pratica dottrine scandalose, pregiudizievoli alla salute dell’anime. Tutti questi cani traditori deve il Pastore tenerli lontano dalla greggia, o aspettarsi sicuramente d’essere anch’egli condannato di tradimento. Imperocchè se sarà riprovato non solo chi commette il male, ma anche chi vi acconsente, potendo impedirlo; quanto più incorrerà nell’eterna dannazione chi vi concorre coll’opera sua, e presta le armi in mano ai malfattori? Sarebbe un perder di tempo il voler provare più a lungo una verità per se stessa evidente. – Così pure sarà sempre tenuto ad invigilare, che i Fedeli si accostino ai Santi Sacramenti almeno una volta all’anno, secondo il precetto della Chiesa. In tempo di persecuzione tanto ne ha maggior obbligo, quanto è maggiore per i Cristiani il bisogno dell’aiuto dei Sacramenti. Questo è così vero, che ai tempi di S. Cipriano, quando la penitenza era molto più rigorosa, tuttavia, avvicinandosi la persecuzione, se ne accorciava a’ penitenti la durata, per poterli armare colla Eucaristia alla battaglia della Fede. Lungi pertanto quella scandalosa dottrina, che insegna essere inutile in certi tempi su questo punto la pastoral vigilanza. Quanto più il contagio s’avvicina, tanto più studia il Pastore nuovi mezzi per preservarne la greggia. E se la greggia non ostante le sue diligenze resta sorpresa dall’infezione, il Pastore però avrà liberata l’anima sua. È incerto, se riusciranno inutili le premure; le grida, e le correzioni del Pastore; ma è certo, che riuscirà dannosa la sua dissimulazione, e il suo silenzio. – Che diremo poi delle leggi Ecclesiastiche? Può un Vescovo in tempo di persecuzione soffrire in silenzio, che sieno violate dalla podestà secolare? In tempo di persecuzione, rispondo, ordinariamente di no. Forse può darsi il caso, in cui il Pastore vedendo una trasgression della legge Ecclesiastica, possa dissimularla, o perché giudichi, che questa disubbidienza fu una leggerezza, e un impeto di passion passeggiera o perché creda, che non produrrà scandalo, né  altra perniciosa conseguenza; o perché tema prudentemente d’inasprire gli animi senza nessun buon effetto. Ma in tempo di persecuzione non si disubbidisce alla Legge Ecclesiastica per fragilità, ma per massima; si mette mano in tutte le leggi della Chiesa, per attaccare nella sua radice la giurisdizione Ecclesiastica; perché si pensa, e s’insegna, e si vuol far credere, che la Chiesa è una podestà dipendente, che non ha forza coattiva, e che tutte le sue leggi sono subordinate a quelle del Principato. La massima, che fa agire, è quella, che si legge in tanti empii libercoli, che hanno ai nostri tempi infestata tutta l’Europa, e che in sostanza fanno il Principe, secondo i principii di Lutero, Capo della Chiesa. Si aggravano i beni della Chiesa, perché la Chiesa non gode immunità, e si disprezzano su questo particolare le sue censure, perché la Chiesa non ebbe autorità di difender con esse i suoi beni, si rapiscono le sostanze del Clero, perché il Clero non ha diritto di possedere. Si assegna ai Claustrali, e ai Chierici l’età di consacrarsi a Dio, perché la Chiesa non ha facoltà di determinarla da sé. Si allargano le autorità ai Vescovi per sottrarli dalla giurisdizione del Vicario di Gesù Cristo; e così andate discorrendo di mille altre innovazioni contro la Chiesa. Dunque, questi son fatti appoggiati a una massima scismatica, ed eretica. Dunque, dissimulando questi fatti, si viene col silenzio ad autorizzare lo scisma, e l’eresia. Dunque per ragion dello scandalo contro la fede non può un Vescovo ai nostri tempi dissimular questi fatti. Né vi sorprenda, se chiamo eresia una disubbidienza di massima, e una ribellion di sistema contro le leggi, e l’autorità Ecclesiastica. Così chiamava S. Pier Damiani col nome di Nicolaiti i Chierici (Opusc. 5 Argum.) fornicatori, e perché? Udite il Santo. « Vitium quippe in hæresim vertitur, cum perversi dogmatis assertione firmatur. » Così chiamava lo stesso Santo col nome di eretici quelli, che (ibid. Serm.) tentavano d’involare i privilegi della Romana Sede, e perché? Ecco, che lo spiega egli medesimo: « Non dubium, quia quisvis cuilibet Ecclesiæ ius suum detrabit, iniustitiam facit: qui autem Romanæ Ecclesiæ privilegium ab ipso summo omnium Ecelesiarum Capite traditum auferre conatur, hic proculdubio in hæresim labitur: et cum ille notetur iniustus, hic est dicendus hæreticus. Fidem quippe violat, qui adversus illam agit, quæ Mater est Fidei; et illi contumax invenitur, qui eam cunetis Ecclesiis prætulisse cognoscitur. » – Molto meno potrà un Vescovo positivamente concorrere a queste violazioni. Non potrà egli stesso pubblicar leggi contrarie alla giurisdizione Ecclesiastica. Non potrà eseguire ordini e decreti di simil natura. Non potrà ricevere dai magistrati o dal Principe una più ampia giurisdizione. Non potrà dispensare da quelli impedimenti, né assolvere da quelle censure, che sono riservate al Papa. Non potrà rinunziare all’immunità, né al possesso dei beni della sua Chiesa. Questo sarebbe un concorso diretto e positivo alla trasgression della legge, e un concorso indiretto allo scisma e all’eresia, che detta, e inspira, ed eseguisce tutte queste violente e maligne trasgressioni. Ora chi dirà mai, che un Pastore possa per qualunque motivo o in qualunque più grave circostanza favorire l’eresia e lo scisma? Né le minacce, né il timore, né il falso pretesto di non accrescere i mali della Chiesa può mai lusingare un Pastore a cooperare colla sua autorità e col suo esempio a ciò, che intrinsecamente è male, cioè allo scandalo e al pericolo della fede. Sia pur vero, che le leggi violate sono leggi umane, ma, come avverte il Bellarmino: tutti i Dottori convengono in un punto; (Risposta a Giovanni Marsilio Napolitano preposizione quinta edit. Rom. 1601, c. 67, e segg.) cioè, che il timore non iscusa mai dal precetto umano, quando dal non osservare il precetto umano ne segue la trasgressione del precetto divino e naturale. Come per esempio il non mangiar carne il venerdì è comandamento umano, e nondimeno se alcuno fosse costretto dagli eretici a mangiar carne il venerdì in dispregio della nostra Santa Fede, o in segno e protesta di essere della setta Luterana, non potria mangiarla, ancorché gli fosse minacciata la morte; né il timore saria giusto, né scuserebbe in modo alcuno, perché il dispregio della fede, e la protezione dell’eresia è contro il precetto divino, e naturale. E così la Santa Chiesa ricevé nel numero de’ gloriosi Martiri i sette fanciulli Maccabei con la loro Madre, e con quel venerando vecchio Eleazaro, perché vollero prima morire con acerbissimi tormenti, che gustare la carne proibita nell’antica legge, sebbene quella era legge positiva, e naturale. Similmente il precetto, che proibisce il matrimonio ne’ gradi remoti di consanguineità ed affinità, massime nel terzo, e quarto grado, è precetto umano; e nondimeno non dee, né può nessuno per qualsivoglia timore indursi a fare il matrimonio, e molto meno a consumarlo con persona congiunta in terzo o quarto grado senza dispensa; perché sebbene quell’impedimento è stato introdotto per legge umana, nondimeno rende la persona inabile al matrimonio; e congiungersi con persona inabile per parentela non è matrimonio, ma incesto, il quale è proibito per legge divina naturale. All’istesso modo l’interdetto è censura di precetto umano, e nondimeno non si può per qualsivoglia timore lasciar di osservarlo, quando chi costringe a osservar l’interdetto, lo faccia per dispregio della podestà Ecclesiastica, perché il non dispregiare la podestà Ecclesiastica è precetto divino naturale. Finalmente per non moltiplicare più esempi, non è lecito per qualsivoglia timore disobbedire al precetto umano, se da quella disobbedienza ne segua scandalo, il quale è proibito per legge divina naturale. Ed in questa proposizione così dichiarata siamo d’accordo con i sette Dottori, come si vede dalla loro dichiarazione, e massime nel fine, dove allegano il Soto (lib. 1 de justitia, et iure q. 6, art. 4) e Silvestro (Verbo excommunicatio 5, n. 14), i quali dicono, che il timore non è giusto, e non iscusa quando la disobbedienza del precetto umano è con iscandalo, o in pregiudizio della Fede. Sin qui sono parole del Cardinal Bellarmino. Lo stesso è il sentimento del Suarez. (De Legibus l. 3, cap. 28, num. 24). « Transgredi legem (Prælati) ex contemptu eiusdem, quatenus Prælatus est, semper censeo esse peccatum mortale. … Ratio autem est, quia illud est contemnere Potestatem eius et quia tunc contemnitur quatenus repræsentat Deum, et vices eius gerit, et ideo talis contemptus redundat in contemptum Dei (Luc. X). Qui vos audit, me audit, et qui vos spernit, me spernit. » Et cap. 50, num. 7. « Per accidens fieri posse, ut etiam in eo casu (scalicet periculo mortis) obligetur homo ad (humanam) servandam legem, communis etiam est; talisque necessitas esse consetur, quando violatio legis propter talem metum cederet in contemptum, vel iniuriam religionis, aut grave scandalum pusillorum: tunc enim bonum commune, et religionis præferendum est privato etiam propriæ vitæ. Item quia tune trasgredi præceptum humanum esset vel deficere in confessione fidei tempore debito, vel cooperari ad aliquod intrinsece malum… Nec satis erit in huiusmodi casu habere intentionem non contemnendi nec scandalizandi, et exterius agere contra legem ad vitandum mortem. Hoc non est satis, quia tenemur exterius non contemnere, nec contemnentibus consentire, vel cooperari; et similiter ad vitandum scandalum maxime necessarium esse solet actum externum vitare. Si autem protestatio aliqua externa sufficeret ad tollendum scandalum, tunc cessaret illa necessitas, ut notavit Bonavent. in 4, dist. 33, dub. 8, et latius in tractat. de scandalo. » Dalla qual dottrina agevolmente si può dedurre la soluzione di molti dubbi, che talvolta occorrono. Può un Vescovo acconsentire, dissimulare, o cooperare alla violazione delle leggi ecclesiastiche per timore di sé medesimo, o di un peggior male alla Chiesa? In tempo di persecuzione, torno a risponder di no. Imperocché è manifesto a tutti i buoni Cattolici, che questo spirito di disubbidienza nasce, come abbiam detto, da ribellione alla podestà Ecclesiastica, e da disprezzo, o da mancanza di Fede. Dunque l’acconsentire, il dissimulare, il cooperare in questi tempi alla violazione delle leggi ecclesiastiche, è un acconsentire, un dissimulare, un cooperare alla ribellione contro una legittima Podestà instituita da Gesù Cristo, e al disprezzo della Fede e allo scandalo dei Fedeli, il che è proibito per legge divina e naturale. E siccome sino nella Dottrina Cristiana s’insegna, che né pure una sola bugia potrebbe dirsi per impedire la rovina di tutto il Paradiso; così molto meno si può dar mano allo scandalo, e al disprezzo della Fede, e della Podestà Ecclesiastica per impedire la propria rovina, o anche la rovina (che non è possibile) della Chiesa medesima. La ragione di tutto questo è una sola, e breve e chiara; cioè che in nessun caso, né per nessun timore di male né per nessuna speranza di bene, né in nessun tempo si può mai fare una cosa qualunque sia intrinsecamente cattiva. Ma il dar mano, o coll’opera, o col silenzio, o coll’accettazione al disprezzo della Fede e della Chiesa, e allo scandalo dei Fedeli è una cosa intrinsecamente mala. Dunque assolutamente non si può, e non si può da nessuno di qualunque rango e dignità. Così in altri tempi (Fleury Stor. Eccles. an. 895) protestarono i Vescovi delle Provincie di Reims, e di Roven a Lodovico Re di Germania con queste rimarchevoli parole: « Le Chiese, che Dio ci ha confidate non sono feudi, che il Re abbia diritto di dare, o di togliere, come gli piace. Essi sono beni consacrati a Dio, dei quali niuno può entrare in possesso senza commettere sacrilegio. » Ma vediamone le efficaci espressioni nella lettera di questi Vescovi al suddetto Re, che il Labbé riporta all’ann. 858 (t. 10, col. 95, et 96) « Res, et facultates Ecclesiasticas, quae sunt vota fidelium, pretia peccatorum, stipendia ancillarum, et. Dei Servorum, deprœdari, et ab Ecclesiis discindi, nolite sustinere, sed fortiter, ut Rex Christianus et Ecclesiœ alumnus resistite, atque defendite… Et sacri Canones Spiritu Sancto dictati eos, qui facultates ecclesiasticas diripiunt, et res ecclesiasticas indebile sibi usurpant, Iudae traditori Christi similes computant. De quibus sacrilegis in Prophetia Psalmi 82 prædictum est: Qui dixerunt: Hæreditate possideamus Sanctuarium Dei. Deus meus pone illos, ut rotam, et sicut stipulam ante faciem venti; et sicut ignis, qui comburit sylvam, et sicut flamma comburens montes, ita persequeris illos in tempestate tua, et in ira tua turbabis eos; imple facies eorum ignominia. » Sono anche molto efficaci l’espressioni di Pietro Blesense nella sua lettera già citata (ep.112) al Vescovo di Orleans, dove gl’inculca di resistere al Re, se avesse voluto violare l’immunità Ecelesiastica; delitto molto enorme; e perchè? « Si enim testimonio veritatis in ignem æternum mittitur, qui sua pauperibus non dedit: ubi quæso mittendus est, qui bona pauperum vel Ecclesiæ rapuit aut fraudavit? » Indi soggiunge: Scio, quod si Rex tuus angariis, parangariis, exectioninibus, capitationibus, caeterisque sordidis, et extraordinariis muneribus Ecelesiam decreverit praegravare, quam plures Episcopos huius rei fautores inveniet… Sie olim Rege Antioco iura templi, et Sacerdetii pervertente, multi de Israel egressi sunt, quia solius adulationis, aut vani timoris intuitu in consensum illius tyrannidis transierunt. Tu vero, Reverendissime Pater, pro domo Israel ex adverso ascendas, et pro testamento Dei murum inexpugnabilem te opponas. Enorme namque famæ, et animæ discrimen incurres, sì hanc iniuriam Christi silentio, aut neglectu dissimules. » S. Tommaso tratta espressamente questo articolo, cioè se (2, 2 qu. 43, art. 8 în corp.) per timore di scandalo debbano dimettersi i Beni temporali; e risolve così: « Contra est, quod Beatus Thomas Cantuariensis repetiit res Ecclesiarum cum scandalo Regis. Respondeo dicendum, quod circa temporalia distinguendum est: Aut enim sunt nostra, aut sunt nobis ad conservandum pro aliis commisa; sicut Bona Ecclesiae committuntur Prælatis, et Bona communia quibusecumque Reipublicæ rectoribus. Et talium conservatio, sicut et depositorum imminet his, quibus sunt commissa ex necessitate: et ideo non sunt propter scandalum dimittenda: sicut nec alia, quæ sunt de necessitate salutis.» Anzi aggiunge il Santo Dottore, che né meno i propri beni devono dimettersi per timore di scandalo, quando lo scandalo non nasce da ignoranza, ma da malizia. « Aliquando vero scandalum nascitur ex malitia, quod est scandalum Phariseorum: et propter eos, qui sic scandala concitant, non sunt temporalia dimittenda: quia hoc et noceret bono communi; (daretur enim malis rapiendi occasio) et noceret ipsis rapientibus; qui retinendo aliena in peccato remanerent. Unde Gregorius in 31 Moral. dicit (cap. 8 circa med.). Quidam, dum temporalia a nobis rapiunt; solummodo sunt tolerandi: quidam vero æquitate servata prohibendi non sola cura, ne nostra subtrahantur, sed ne rapientes non sua semetipsos perdant. » – Ed ecco altre due ragioni, per cui non può un Pastore dissimulare, e molto meno cooperare all’avvilimento, al disprezzo, o all’usurpazione della giurisdizione ecclesiastica. Prima ragione: Quia hoc noceret bono communis; daretur enim malis rapiendî occasio; questo modo di operare e di tacere nuocerebbe al bene comune spirituale, e all’onore di Dio e della Chiesa, perché darebbe occasione ai malvagi di sopraffare la Podestà ecclesiastica, vedendo il suo notabil timore. Lo avvertiva anche S. Cipriano fin dai suoi tempi scrivendo (ep. 55) a Papa Cornelio. « Si ita res est frater carissime, ut nequissimorum timeatur audacia, et quod mali iure, atque æquitate non possunt, temeritate, ac desperatione perficiant, actum est de episcopatus vigore, et de Ecclesiæ gubernandæ sublimi, ac divina potestate, nec christiani ultra aut durare, aut esse iam possumus, si ad hoc ventum est, ut perditorum minas, atque insidias pertimescamus. Nam et gentiles, et iudæi minantur, et hæretici, atque omnes, quorum pectora, et merites diabolus obsedit, venenatam rabiem suam quotidie furiosa voce testantur. » – Seconda ragione: Quia hoc noceret ipsis rapientibus, qui retinendo aliena in peccato remanerent; questo modo di operare edi tacere nuocerebbe altresì alle anime degli stessi magistrati, edei Principi, che trasgrediscono le leggi ecclesiastiche e divine;perché le pecore erranti vedendo, che il Pastor non le sgrida, oche le accompagna ne’ loro errori, comincerebbero a persuadersi d’aververo diritto contro la podestà Ecclesiastica, e diverrebbero inemendabili e ostinati nella loro prevaricazione. Dove bisogna riflettere, che il Vescovo non solo a titolo (La Croix cum omn. doctor. 1.2 de Charit. dub. 4, num. 208, et seg.) di carità, ma di giustizia deve la correzione fraterna, anzi dirò meglio la paterna correzione anche ai Principi e ai Magistrati. Dunque dissimulando i loro errori, o quel che è peggio; secondando le loro trasgressioni, manca d’eseguire un debito di giustizia coll’anime a lui commesse; debito tanto importante, quanto importa l’eterna loro salute.Ed è ben da notare che l’Immunità dei Beni Ecclesiastici, o sia diritto divino, o sia diritto umano, è inviolabile dalla Podestà secolare, sotto pena di sacrilegio. Dunque un Vescovo passando in silenzio l’invasione laica dei beni della Chiesa, lascerebbe dormire le sue Pecore in un continuo enorme peccato. E chi dirà mai, che un tal silenzio convenga coll’ufficio pastorale d’un Vescovo?Vediamo un altro passo di S. Tommaso, in cui conferma di nuovo l’accennata dottrina. Parla il Santo Dottore dell’obbligo, che corre ad ogni Cristiano di professare anche esteriormente la fede in certi tempi, e in alcuni luoghi, e ragiona così (2, 2 qu. 3, ar. 2). « Confiteri fidem non semper, nec in quolibet loco est de necessitate salutis, sed in aliquo loco, et tempore, quando scilicet per omissionem huius confessionis substraheretur honor debitus Deo, et etiam utilitas proximis impendenda; puta, si aliquis interrogatus de fide taceret, et ex hoc crederetur, vel quod non haberet fidem, vel quod fides non esset vera, vel alii per eius taciturnitatem averterentur a fide. » V’é dunque obbligo di protestare esternamente la fede, quando per l’omissione di una tal protesta si toglierebbe l’onor dovuto a Dio, o si mancherebbe alla cura dovuta al prossimo; per esempio quando il silenzio di uno, che fosse interrogato in materia di fede, facesse credere o ch’egli non avesse fede, o che la fede non fosse vera, o desse con ciò occasione agli altri di mancare alla fede. Ora, soggiungo adesso, il silenzio di un Pastore, che vede invasa la Podestà ecclesiastica,che soffre in pace questa usurpazione peggio, che la seconda e vi concorre; è un silenzio e una cooperazione, che fa credere che né pur egli vuol esser soggetto alla Podestà ecclesiastica, o che anch’egli dubita dell’esistenza di questa Podestà istituita da Gesù Cristo; e inoltre è un silenzio, e una cooperazione, che fa prevaricare anche gli altri, specialmente i Chierici e i Parrochi a lui Soggetti; e in fine è un silenzio e una cooperazione, che conferma i Principi e i Magistrati nelle loro usurpazioni e nel disprezzo della Podestà Ecclesiastica; usurpazioni e disprezzo, che attaccan la fede. Dunque un Pastore non può essere sicuro in coscienza, adoperando in questi casi un timoroso silenzio; e molto meno cooperando a un mal sì grande e sì scandaloso coll’accettare, promulgare ed eseguire i decreti contrari alla libertà Ecclesiastica.Questo si conoscerà sempre meglio coll’esempio de’ più Santi Pastori della Chiesa. Si trattava forse di fede ai tempi di S. Tomaso di Cantuaria nell’Inghilterra? No, ma bensì di consuetudini contrarie alla libertà e alla giurisdizione ecclesiastica, che riuscivano d’impedimento, di scandalo e di disprezzo della Podestà ecclesiastica. Non si voleva, che i Vescovi uscissero dal Regno per andare (Convent. Clarendon. an. 1164) a Roma senza licenza della Corte. Si voleva, che i Chierici si presentassero al tribunale dei Laici anche senza concessione della Chiesa. Non si voleva che alcun Ministro del Re fosse scomunicato senza intelligenza del Principe. Si voleva, che la Curia del Re giudicasse in ultima istanza delle appellazioni de’ Chierici. In somma si trattava solo di questi e d’altri simili articoli oltraggiosi alla Immunità della Chiesa. E pure né S. Tomaso, né Papa Alessandro voller mai cedere su questo punto ad Enrico. Quando S. Tommaso (Vit. S. Thom. c. 24)fu chiamato dal Re, prima ch’egli entrasse all’udienza, Bartolomeo Vescovo uscendo dalla stanza di Enrico si gettò ai piedi del Santo, e gli disse: Padre mio, abbi pietà di te, e di noi perché tutti siamo in pericolo per causa tua. Imperocchè è uscito un editto del Re, che chiunque abbraccerà il tuo partito, sarà riguardato come pubblico nemico, e condannato al taglio della testa; e Tommaso guardandolo: fuggi via di qua, gli rispose, che non hai cognizione degl’interessi di Dio. Alessandro Papa ne avea tanta estimazione, che colle lagrime agli occhi disse ai messaggeri del (Quadrip. vit. S. Thom. l. 2, c. 5) Santo: Dominus vester adhuc vivens iam martyrii privilegium sibi vindicat; Il vostro padrone benché vivo gode il privilegio di martire. Anche al Santo si fecero le stesse istanze, che sono state adoperate in ogni tempo. Gli domandarono, se voleva promettere l’osservanza di quelle consuetudini, che alla (S.Thom. l. 2, ep. 27 et 28) fine non erano nuove nel Regno, ma praticate dagli stessi antecessori d’Enrico. Con questo si ridonava la pace a lui, e a tutto il Regno. Tommaso rispose, che non avrebbe mai permesso l’osservanza di quelle consuetudini, che apertamente sono contrarie alla legge di Dio, che distruggono i privilegi della Sede Apostolica, e che opprimono la libertà della Chiesa. E bene, soggiunsero, almeno promettete di dissimulare e di tollerare. Rispose Tommaso: che chi tace confessa: Taciturnus spiritum prætendit confitentis; e che voleva piuttosto morir esule, che fare una pace di questa sorte con danno della sua salute e della Ecclesiastica libertà. Patres nostri, disse un’altra volta il Santo (In Quadri,cap. 23) in faccia a due Re, cioè a quello di Francia, e a quello d’Inghilterra: Patres nostri passi sunt, quia Christi nomen tacere noluerunt. Et ego, ut hominis gratia restituatur, Christi honorem deberem supprimere? Absit. Ma che? Non (ibid. cap. 26) molto di poi il Re Ludovico di Francia ebbe a chieder perdono al Santo del cattivo consiglio datogli di cedere ad Enrico: « Rex gemens ait: Vere domine mi pater, tu solus vidisti; nos omnes cœci fuimus, qui contra Deum tibi dedimus consilium in tua causa, ad nutum hominis honorem Dei remittentes. Pœniteo, pater, et graviter pœniteo. Ignosce ergo, et ab hac culpa me absolve.» Tanto è vero, che Iddio protegge i suoi Ministri fedeli, e coraggiosi contro tutte le podestà della terra; e che vani sono gli spaventi dei figliuoli delle tenebre; perché cor Regis in manu Domini, et quocumque voluerit inclinabit illud. Né questare sistenza di Tommaso ad Enrico di non voler approvare le consuetudini contrarie all’Ecclesiastica libertà, era capricciosa e riprensibile.Alessandro III scrisse di suo pugno ai Vescovi d’Inghilterra proibendo loro di prestare verun giuramento diverso da quello, che tutti i Vescovi sogliono dare al Re, e ordinando ad essi di rivocare qualunque giuramento prestato in danno della libertà della Chiesa? (Alexander Episc. 6, Labbé tom. 13, col. 73): « Præcipiendo mandamus, et in virtute obedientiæ iniungimus, quatenus, si illustris Anglorum Rex quidquam a vobis aliquo tempore requisierit, quod contra Ecclesiasticam libertatem existat, hoc ei facere nullatenus attentetis. Nec vos in aliquo, et maxime contra Romanam Ecelesiam obligetis: aut novæ promissionis, seu iuramenti formam inducere præsumatis, præter id, quod Episcopisuis Regibus facere consueverunt. Si autem iam dicto Regi superhuiusmedi vos in aliquo adstrictos cognoscitis, quod promisistis,nullatenus observetis, sed hoc potius revocare curetis; et de promissione illicita Deo studeatis, et. Ecclesiæ reconciliari. » –  E perché forse Enrico si scusava delle ruberie commesse sopra i beni della Chiesa col pretesto di volerne convertire le vendite in limosine e in usi pii, è notabile ciò, che gli scrisse in tal proposito Papa Alessandro (ibid. ep. 10, col. 76). « Si autem universo, quæ in usus tuos per buiusmodi angarias de bonis ecclesiasticis convertuntur, in refectionem pauperum, vel aliis pietatis operibus expenderes; obsequium non magis Deo gratius efficeres, quam si altari quolibet discooperto, aliud cooperires: aut si Petrum crucifigeres, ut Paulum a mortis periculo liberares. » Enrico convocò in seguito i Vescovi del suo Regno per intimar loro un editto, (S. Thom. I. 3, ep. 65) in cui vietava d’accettare l’interdetto del Papa. – Ma quanto può mai in tutti i Vescovi anche l’esempio e il coraggio d’un solo? Quelli, che prima parevano tutti dichiarati contra Tommaso, dopo aver poi ammirata la sua costanza, ricusarono d’intervenire a quest’adunanza, alcuni di loro protestarono in iscritto contra ogni attentato del Principe. Si riconciliò in fine, benché di mala voglia, il Re col Santo Arcivescovo, senza fare né pur parola di quelle consuetudini (S. Thom., lib. 5, ep. 43), per cui erasi sino allora mostrato così ribelle alla Chiesa; ed è notabile quello che scrisse allora lo stesso S. Tomaso (S. Thom. I 5, ep. 48) a Graziano Legato del Papa:« Ecce ut facta est vox nuperrimæ comminationis Apostolicæ in auribus Regis, qua constitit terram eius subiiciendam esse Interdicto, et mandati prævaricatores Episcopos suspendendos, vel excommunicandos, illico ad honorem Dei et Ecelesiae….. pacem fecit. Nec dubium, quin infra duos primos exilii nostri annos eam fecisset, si cum ab initio hac via aggressus esset Dominus Papa.» – È vero, che questa pace fu di corta durata, e che Tommaso ritornò nel Regno per ispargere il sangue generoso sul pavimento della sua Chiesa. Ma la sua morte fu onorata ben presto per tutto il Cristianesimo, e si vide il Re Enrico in abito penitente domandar perdono di questo sangue, che si era per altro versato senza suo comando. Così in fine Dio esalta i suoi servi, e umilia i loro persecutori.

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (6) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (III)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (6)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE – AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (III)

Ma intanto io procedo più oltre. Ho mostrato quello, che deve far colla lingua un Vescovo in ogni circostanza. Passo a cercare il debito e l’uso della sua giurisdizione. Quando il sacro Concilio di Trento afferma, che un Pastore è tenuto ad amministrare al suo gregge i Sacramenti, comprende in queste parole i principali offici della giurisdizione di un Vescovo. Ora io cerco, che cosa porta questo debito in tempo di pace, per prender poi norma di ciò, che esige in tempo di persecuzione. Distinguo due parti nella giurisdizione di un Pastore; cioè quella, ch’egli può e deve esercitare; e quella, che non deve e non può mai praticare. – Comincio subito dalla prima, e dico così. Il Vescovo amministra i Sacramenti in due modi. Alcuni ne amministra solo da sé, cioè la Cresima e l’Ordine Sacro. Alcuni ne amministra insieme cogli altri, ma però in modo, che gli altri dipendano nell’amministrazione di questi Sacramenti della sua autorità. L’obbligo di conferire da sé a tutti la Cresima, e a quelli, che vi sono chiamati, l’Ordine Sacro, genera nel Vescovo un’altra obbligazione, cioè quella della residenza nella sua Diocesi. Non è questo realmente il solo titolo della residenza, ma è per altro il principale. Anche gli altri doveri del Pastore colla sua greggia lo costringono ad invigilare colla sua presenza ed autorità, affinché il lupo non divori le pecore senza ch’egli neppure il sappia. Per non dipartirci dalla nostra brevità, specialmente in un punto, che non ha mestieri di prova, eccovi le sanzioni del Sacro Concilio di Trento (Sess. 6 de reform. cap. 1). Dopo di aver raccomandato a tutti i Pastori l’adempienza del lor ministero, soggiunge così: « Implere autem illud se nequaquam posse sciant, si greges sibi commissos mercenarioruin more deserant; atque ovium suarum, quarum sanguis de eorum est manibus a supremo iudice requirendus, custodiæ minime incumbant: cum certissimum sit, non admitti pastoris excusationem, si lupus oves comedit, et pastor nescit. – [Sappiano poi, che non potranno adempierlo in nessun modo se, come mercenari, abbandoneranno i greggi loro affidati, e non attenderanno alla custodia delle loro pecore, del cui sangue il Giudice supremo chiederà conto alle loro mani. È certissimo infatti che non sarà accettata alcuna scusa per il pastore se il lupo ne divora le pecore e egli non se ne accorge.] »  Passa di poi il Concilio a rinnovare gli antichi canoni, e a decretare giuste pene ai Pastori, che non risiedono nella loro Diocesi. Ripete le stesse cose alla Sessione de reform. cap. 1; né  questo è un dovere, che possa in verun conto chiamarsi in questione. Passiamo adunque ad altro. – Al Vescovo spetta per ufficio proprio e inalienabile l’esaminare ed approvare quelli, che domandano d’entrare nel Santuario. La ragione è palpabile ed evidente. Il Pastore è il custode dell’ovile: tocca a lui lo scegliere i cani da mettervi in guardia. Il prelato è il Padre di famiglia: tocca a lui il deputare i custodi e i maestri de’ suoi figliuoli. Il Vescovo è il primo nella Casa di Dio: tocca a lui l’eleggere i ministri idonei al divino servigio (can. 24 dist. Concil. Carth. 3, c. 22). Quindi il Sacro Concilio di Trento inerendo agli antichi Canoni comanda ai Vescovi di esaminare insieme con altre persone esercitate nelle leggi Ecelesiastiche, e da lui scelte a tal fine, tutti quelli, che si accostano a domandare il Sacro Ministero: (Conc. Trid. Sess. XXIII de refor. cap. 7). « Sancta Synodus, antiquorum canonum vestigiis inhærendo, decernit, ut, quando Episcopus ordinationem facere disposuerit, omnes, qui ad sacrum ministerium accedere voluerint, feria quarta ante ipsam ordinationem, vel quando Episcopo videbitur, ad civitatem evocentur, Episcopus autem, Sacerdotibus, et aliis prudentibus viris peritis divinæ legis, ac in Eccelesiasticis sanctionibus exercitatis, sibi adscitis, ordinandorum genus, personam, ætatem, institutionem, mores, doctrinam, et fidem diligenter investiget, el examine. » E infatti avendo Iddio conferita ai Pastori podestà di creare i Ministri della Chiesa, deve anche aver loro conferito i mezzi necessari a questo fine, cioè l’autorità di esaminare i costumi e la fede. Quindi è, che S. Paolo a Tito, e non ad altri prescriveva alcune riflessioni da praticarsi nell’elezione de’ Sacerdoti (ad Tit. I., 2 et seq.): « Huius rei gratia reliqui te Cretæ, ut ea qua desunt, corrigas, et constituas per civitates Presbyteros, sicul et ego disposui tibi. – [Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato] » E quindi passa ad insegnargli, quali debbano esser le doti dei Ministri, che deve introdurre nel Santuario. Così pure prescrive a Timoteo (1 ad Timoth. III, 2 et seq.), e non solo per la scelta de’Sacerdoti, ma anche de’ Diaconi, e vuole, che da lui siano prima provati, e poi passino ad esercitare il lor ministero: « Et hi autem probentur primum: et sic ministrent, nullum crimen habentes. » – Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi al loro servizio. – Anche i Parrochi da lui dipendono: e spetta ad esso il distribuire il popolo in certe e proprie Parrocchie, affinché ognuno abbia il suo Parroco determinato, a cui ubbidire, e da cui ricevere i Sacramenti. Così comanda (c. Ecclesias. 13, g. 1, c. pœn. de iis, quæ fiunt a prælat. c.1, 13, q.1, cap. plures 16, qu. 1, cap.1, de paroch. Conc. Tolos. an. 843, c. 7) il Sacro Concilio di Trento sulla scorta delle antiche leggi (Sess. 14 de reform. c. 9, sess.24, c. 4 et sess. 24, c. 13). « Mandat Sancta Synodus Episcopis, pro tutiori animarum eis commissarum salute, ut distincto populo incertas propriasque parochias, unicuique suum perpetuum, peculiaremque Parochum assignent, qui eas cognoscere valeat, et a quo solo licite Sacramenta suscipiant, aut alio utitiori modo, prout loci qualitas exegerit, provideant. Idemque in iis civitatibus, ac locis, ubi nullac sunt parochiales, quam primum fieri curent: non obstantibus quibuscumque privilegiis, et consuetudinibus etiam immemorabilibus. » Aggiungo di più, che al Vescovo istesso spetta l’assegnare e ai Sacerdoti, e ai Parrochi il congruo loro sostentamento, e il regolare le tasse funerali, ed altri simili. Quindi è, che il Sacro Concilio di Trento ha ingiunto ai Vescovi di non promuovere (Sess. XXI de ref. c.2 et 3) nessuno agli ordini sacri, se non è bastantemente provveduto a vivere onestamente, e senza disonore del suo carattere. AI Vescovo ha ingiunto di fissare in tutte le Cattedrali, e Collegiate le quotidiane distribuzioni. A lui (ibid. e. 5) pure di unire più Chiese Parrocchiali, se divise non possono sussistere per la loro povertà. E il Concilio medesimo alle (sess. XXV de reform. c. 13) Cattedrali e Parrocchie ha voluto, che si paghi dai fedeli la tassa, che chiamasi la Quarta funerale. È facile il dire, che tutto questo si è fatto dal Concilio con intelligenza, e con dipendenza dalla secolar podestà; ma è impossibile il provarlo con argomenti positivi, poiché nell’ordinazioni del Concilio di Trento, e negli antichi canoni su tali materie, non si fa nessuna menzione del consenso dei Laici. Se nei capitolari dei Franchi, o anche nelle leggi degl’Imperatori si trovano alcune simili ordinazioni, abbiamo anche un’espressa accettazione dei Concili, da cui concludere, che questi ordini hanno avuto il lor vigore dall’approvazione della Chiesa; e si sono vedute tali sanzioni emanate privativamente dai Concili, ma non privativamente e impunemente dai Magistrati, in modo che la Chiesa o non abbia mai reclamato, o pure abbia confessato una vera e necessaria dipendenza dalle leggi del secolo. – In realtà per qual titolo devono avere i Sacerdoti dai fedeli il lor congruo sostentamento? per essere Ministri di Dio, per occuparsi della salute dell’anime, per il servigio dell’Altare. Ma la mercede degli operai della vigna spirituale, deve assegnarsi dai ministri del padron della vigna, i quali sono i depositari della volontà del Signore, conoscono l’abilità, le forze, e il lavoro degli operai, e devono render conto della vigna medesima. Dunque, non ha da farsi l’assegno di questa mercede da uomini non chiamati da Dio alla ispezione della sua vigna. Se questi tali, vorranno intromettersi in un ufficio non loro, non è forse troppo facile, che paghino gli operai senza discrezione di meriti e di lavoro? Essi non sanno e non devono sapere della coltura di una vigna spirituale: Come, dunque vorranno pagarne con dovuta misura i suoi coltivatori? Inoltre, chi sono questi stipendiati? sono i Ministri di Dio e della sua Chiesa. Ora domando, qual è in tutto il mondo quella casa privata, che non abbia né pur diritto di pagare di proprio arbitrio i suoi servi e i suoi ministri? E quel diritto, che ha ogni casa privata anche tra i barbari, non l’avrà la Casa di Dio in mezzo ai Cristiani? In fine di dove si trae questa mercede dei Ministri di Dio? Dalle decime, dalle primizie e dalle oblazioni; e queste sono di Dio medesimo (Concil. Trid. Sess. XXV de refor. c. 12, Exod. 22 et 23, Levit. 27, num. 12, Tob. 1, Malach. 3, c. decimas 16, q.1, c. decimas cum seq. 16, q. 7, c. parochianos c. ex transmissa. Conc. Matiscon. 2 Ticin. versi in sacris); o pure dai fondi Ecclesiastici; e questi parimenti appartengono a Dio (Concil. Trident. Sess. XXIII de refor. c. 1, e l’Opuscolo dell’Immunità reale letter. prima). Dunque da’ suoi Ministri devono dispensarsi, e non già dagli stranieri. Dunque e per la qualità delle persone, che ricevono lo stipendio ecclesiastico, e per la situazione del campo, dove lavorano, e per la natura dei beni, dai quali ricavasi un tale stipendio, la distribuzione del congruo sostentamento ai Parrochi e agli altri Sacerdoti dipende privativamente dalla podestà Ecclesiastica. Il fare altrimenti sarebbe un invertire e sconvolgere tutte le idee, e i diritti comuni, e le pratiche universali, e specialmente il buon ordine della Chiesa. Questa confusione di cose non può essere da Dio. Dunque da Dio non può avere avuto la podestà secolare il diritto della distribuzione de’ beni ecelesiastici ai Ministri della stessa Chiesa. – In fatti negli Atti Apostolici noi leggiamo, che gli Apostoli eran quelli, che distribuivano le sostanze della Chiesa secondo il bisogno di ciascheduno; e’ che essi destinaron di poi (Act. IV et VI) alcuni Diaconi per questo Ministero. S. Paolo ingiungeva a Tito (ad Tit. V, 16 et sequ.) di non dispensare l’entrate ecclesiastiche a quelle vedove, che potevano essere mantenute da’ loro congiunti, ut non gravetur Ecclesia; e all’opposto voleva, che i Sacerdoti più degni ricevessero un doppio stipendio. Non sarà dunque mai giusto e lodevole, che la Chiesa resti priva di quella libertà, che godeva sotto Caligola e Nerone. – Quindi nel Concilio Lateranense quarto sotto Innocenzo III anno 1215, cap. 44 si proibisce ai Laici di fare costituzioni, che si chiamano piuttosto distruzioni, e colle quali si alienino e si vendano i beni ecclesiastici, e si usurpi la giurisdizion della Chiesa, anche sulle tasse funerali, o altre simili cose che sono annesse allo spirituale diritto, e si condannano i contravventori ad essere scomunicati. Così pure nella sessione 10 del Lateranese quinto sotto Leone X. (Labbé tom. 19, col. 911). Circa l’età e le disposizioni di quelli, che vogliono essere ammessi nel Santuario, il Concilio di Trento (Sess. XXIII de reform.) ha saggiamente prescritte ai Vescovi le regole più opportune secondo i sacri canoni. A loro dunque appartiene il riconoscere e le persone e l’età di quelli, che vogliono dedicarsi al divino servigio. Non può la secolar podestà impedire a veruno il mettersi fra le mani della Chiesa contro i decreti della Chiesa medesima. Se si trovano delle leggi Imperiali, che proibiscono ad alcuni occupati nei pubblici impieghi, o nella milizia di entrare nel Santuario e nel Chiostro; bisogna anche sapere due cose; Primo, che alcune di queste proibizioni erano conformi ai canoni stessi della Chiesa (Tomassini de Benefic. part. 4, lib. 3, c. 61) e perciò lecite anche al Principe Secolare difensore dei canoni. Per esempio il Concilio d’Orleans all’anno 1141 vieta di ascriversi al Clero a quelli, che non avessero licenza del Re, o dai Magistrati. Faceva la Chiesa questo divieto appunto per l’indennità dell’ordine civile che per quanto si può deve aversi presente dalle leggi Ecclesiastiche. Secondo, che quando gl’Imperatori promulgarono delle leggi su questo particolare contrarie alla volontà della Chiesa, i Papi e i Vescovi reclamarono, e non ubbidirono. Maurizio Imperatore e Carlo Magno fecero leggi in cui si vietava ai militari di entrare ne’ Monasteri. Ma S. Gregorio (Vit. S. Gregor. per Ioan. Diacon. l. 3, c.16, et S. Gregor. 1.12, ep. 23), e gli altri Vescovi vi si opposero, e queste leggi furono distrutte. Basta leggere su tal proposito ciò, che scriveva Inemaro Arcivescovo di Reims a Carlo Calvo Re di Francia: « Tulianus, et postea Imperator Mauritius decreverunt, ut ei, qui semel in terrena militia signatus fuerit, nisi aut expleta militia, aut pro debilitate corporis repulsus in Monasterio recipi, et Christo eum militare non liceat. Quod religiosi Imperatores, et Sanctus Gregorius auctoritate Apostolica, et generali Episcoporum consensu, Ecclesiastico vigore, et Reipublicæ Christianæ cohibente religione destruxerunt; velut in eius epistolis ad Mauritium Imperatorem, et ad plurimos Episcopos directis ostenditur. Quod, et divæ memoriæ avo vesto Carolo surripuit, sicut maiorum traditione, et verbis, et scriptis discimus. Et in libro 1 Capitul. cap. 112 demonstratur de liberis hominibus ad servitium Dei sine sua licentia non convertendis. Quod Ecelesia, et Respublica non consentit, quodque postea correxit, sicut in eodem libro cap.134 monstratur (Spilic. tom. 2, pag. 823). » Così pure Giustiniano volle prefiggere al suddiaconato l’anno vigesimo quinto. Ma il canone Trullano non ostante la legge dell’Imperatore ordinò, che fosse sufficiente l’anno ventesimo. E Leone il sapiente inerendo ai canoni abrogò la (Novel. 123, constit. 16 ) legge di Giustiniano appunto come contraria ai decreti della Chiesa. Che se S. Gregorio dopo aver disapprovata la legge di Maurizio, nondimeno la promulgò, bisogna avvertire, che S. Gregorio non la credé affatto empia, ma (4b. 3, epist. 65), solo non conforme alla pietà; quia lex Deo minime concordat; e che quella legge poteva sostenersi col Concilio Gangrense can. 3, e molto più col canone 4 del Concilio Calcedonese. E nondimeno questa legge fu poi in seguito, come abbiam detto, del tutto abrogata. Niente dunque provano questi fatti contro l’autorità ecclesiastica. Mostrano solo, che la secolar podestà ha tentato talvolta d’invadere i confini del Santuario, ma che poco dopo si è pentita delle sue invasioni. – Per tale autorità il Sacro Concilio di Trento (Sess. XXV de regularib. c. 18), ha fulminato l’anatema contro tutti quelli, anche rivestiti di qualunque dignità, i quali sanctarum virginum vel aliarum mulierum voluntatem vel accipiendi, vel voti emittendi, quoquo modo sine iusta causa impedierint (che non impedirono con giusta causa il forzare la volontà delle sante vergini o di altre donne a di prendere o emettere voti). E certamente non può essere causa giusta quella, che espressamente combatte i decreti della Chiesa, come sarebbe nel nostro caso il motivo dell’età, dopo che l’istesso Concilio di Trento (ibid. cap. 15) ha fissato l’anno decimo sesto compito, come termine, dopo cui può ciascuno essere ammesso alla religiosa professione. In fine sarà tenuto il Vescovo ad invigilare sui costumi e sulla fede di tutti i suoi sudditi, perché per questo appunto si chiama Vescovo. Episcopus, dice Alcuino (de offic. divin. cap. de tons. Cleric.), dicitur superintendens, supervidens: quia ipse debet supervidere vitam subiectorum suorum, qualiter vivant, qualiter Dei præcepta custodiant. Al qual proposito si può anche vedereciò che ne serive Rabano Mauro (de Inst. Cleric. lib. 1, c. 5), eS. Isidoro (de Eccles. Offic. lib. 2, cap. 5); e Ugone da S. Vittore(Erudit. Theol. lib.1, cap. 40). Imperocchè se il Vescovo è ordinato a indirizzare i Cristiani alla vita eterna, non può ometterela vigilanza sulla loro fede, che è il principio della salute.Veduto adesso ciò, che spetta sempre ai Pastori per l’esercizio della loro giurisdizione, diamo un’occhiata a ciò, che a loro non appartiene senza l’intervento della Chiesa universale, o del Romano Pontefice. Non può per esempio il Vescovo ampliare i confini della sua diocesi, o lo faccia di propria autorità, o lo faccia per intervento, e per comando della podestà secolare. La ragione è non, solo chiara, ma evidente. La giurisdizione di un Vescovo è spirituale; dunque non può essere conferita, né ampliata dai secolari magistrati. La giurisdizione di un Vescovo è stata limitata o dalla Chiesa, o dal Capo della Chiesa a un territorio determinato; dunque non può il Vescovo usurparsi alcuna maggior estensione senza l’intervento della podestà ecclesiastica. – Molto meno potrà un Vescovo permettere, che i suoi Chierici frequentino scuole sospette, o studino libri infetti e condannati dalla Chiesa. Se a tutte le pecore è obbligato il Pastore d’interdire i pascoli nocivi, molto più a quelle, che devono un giorno divenir guide delle sua greggia. Non solo la podestà secolare, ma neppur qualunque ecclesiastica podestà. può dispensarlo da questo suo dovere, inerente per natura e per divina istituzione al suo pastoral ufficio, Questo sarebbe un permettere espressamente, e tacitamente acconsentire, che la sua greggia fosse divorata dai lupi. Che se mai avesse il Pastore nella sua Diocesi alcuno o maestro in privata scuola, o lettore in pubblica Università, che insegnasse dottrine eretiche, o sospette, non potrà per verun modo dissimulare con lui, ma dovrà resistere, ed opporsi con tutto il vigore Apostolico. – Che sarebbe mai, se un Pastore vedesse il lupo in mezzo alla greggia, e non alzasse la verga per discacciarlo? Questi sarebbe peggiore di un mercenario, perché il mercenario vedendo accostarsi il lupo fugge per timore, ma questo tale avrebbe il coraggio di vedersi scannare senza dolore sotto degli occhi tutta la greggia. Io confesso, che quasi quasi mi ha fatto tremare il leggere negli Atti dei Concilii di Milano quello, che si prescriveva due secoli fa contro il commercio degli eretici, e l’obbligo, che s’ingiungeva ai Parrochi d’invigilare sulla loro condotta in ogni ora, e per così dire in ogni momento: È da sperarsi (Concil. Province. 5 part. 1, edit. Lugdun. 1862 tom. 1, pag. 167) dice il Concilio, che i Principi e i Magistrati pel loro dovere di difendere la Fede cattolica, e pel loro amore verso la religione, non permetteranno mai, che vengano in questi paesi soggetti al lor dominio soldati di diversa fede da quella della Cattolica Romana Chiesa, né pure a riposarvi di passaggio; essendo cosa certa e ben sperimentata, che nessuna cosa offende tanto gravemente Iddio, né tanto provoca la sua collera, quanto la peste dell’eresia: e inoltre, che non v’è cosa, la quale tanto cooperi alla rovina dei Regni e delle Provincie, quanto questa spaventosa infezione. Ma se ciò mai accadesse (il che tenga Iddio lontano), metta il Vescovo tutta la diligenza dell’animo suo, e tutta l’industria del pastoral ufficio, e si adoperi in ogni maniera, affinché le pecorelle redente col Sangue di Gesù Cristo, e a lui commesse, non restino in verun modo attaccate da questo contagio. Primieramente per tanto si porti egli stesso in persona a quei luoghi, ne’ quali saranno alloggiati questi uomini pestilenti; avvisi con tutto calore, e diligenza il popolo fedele, che non prenda mai norma dai loro costumi; che non dia mente, né orecchio alle loro parole; che non conversi in nessuna maniera con loro; che non imiti la loro dissolutezza e la libertà del loro vivere; ma che perseverando con timore e con tremore nella Fede ortodossa, e nella grazia del Signor nostro Gesù Cristo, si mantenga nell’unità ed obbedienza della santa Romana Cattolica Chiesa, e negli esercizi di Cristiana pietà. Passa indi a prescrivere ai Parrochi, « … che osservino, se è possibile non solo ad ogni ora, ma anche ad ogni momento, che essi facciano, che cosa si pensi, e si macchini intorno alla Fede: che tengan lontane le insidie di satana, e per quanto possono impediscano ogni sforzo degli avversarii. » Vuole inoltre il Concilio, che i detti Parrochi informino ogni giorno il Vescovo dello stato delle cose, e che il Vescovo non sia contento di tutte queste diligenze, ma ne studi sempre delle nuove, e mandi in que’ luoghi de’ zelanti Predicatori per conservare la sua greggia; e ch’egli (ibid. p. 169, col. 1) medesimo invigili di continuo secondo le costituzioni de’ Sommi Pontefici, e specialmente d’ Innocenzo III, e di Martino V per impedire ed estirpare l’eresia. . Chi non ha da tremare vedendo, che tanto sono mutati i tempi, non essendo per altro mutata la dottrina di Gesù Cristo, e della Chiesa? Oggi tra i Cattolici sono mescolati senza necessità non solo gli eretici, ma persino gl’increduli; e che diligenza si usa per preservare i sani Cattolici da questo veleno? Oggi una buona parte dei libri, che vengono alla luce del mondo dalle tenebre dell’inferno, insegnano espressamente, o tacitamente l’empietà e la dissolutezza; e a questa ingratitudine infernale, che riparo si oppone? Oggi nelle Cattedre dell’Università cattoliche siedono impunemente maestri di proscritta dottrina; e chi alza la voce per farli tacere? Oggi persin quelli, che devono entrare nel Santuario si fanno prima discepoli in questa scuola di satana, e chi li respinge? Chi renderà conto di tanta infezione della greggia, e di tante pietre di scandalo, che s’incastrano persin nelle mura del Santuario e del Tempio? Questa digressione veniva più opportuna, quando parleremo di poi della giurisdizione de’ Vescovi in tempo di persecuzione; ma non si può aspettar troppo a spremere il proprio dolore sulle piaghe esacerbate della Chiesa Cattolica. Torniamo al filo del nostro esame. – Per queste istesse ragioni non può un vero Pastore servirsi di ministri sospetti nell’esercizio della sua giurisdizione; e i ministri saranno sospetti, quando gli saranno proposti dai nemici della Chiesa; molto più se, per pubblica fama fossero già notoriamente mal costumati, o poco Cattolici. Molto meno potrà assegnar alle Chiese vacanti qualche Parroco di cattiva dottrina, o tollerarlo nell’attuale esercizio, s’egli sia tale; e tale sarà, se si vedrà, che stringa lega cogli uomini dichiarati contro la Chiesa. In fine, per accorciare questa materia, non può il Vescovo di propria autorità dispensare da quelli impedimenti, che al matrimonio appose la Chiesa. Solo la Chiesa stessa, e il di lei Capo, cioè il Vicario di Gesù Cristo in terra, possono dispensare da questi impedimenti, che per comune consenso vi furono apposti. Se un Vescovo intraprendesse un qualche attentato contro i canoni della Chiesa, sarebbe lo stesso, come se un privato volesse disfar le leggi del suo Monarca. Non v’è podestà civile, che possa al Pastore conferire questa autorità negl’impedimenti del matrimonio. Imperocchè la Chiesa può mettere nuovi impedimenti al Sacramento del matrimonio, che non solo lo rendano illecito, ma anche invalido. Questo è di fede (Concil. Trid. Sess. XXIV, can. 3). Ma le leggi si devono dispensare solo da quella legittima potestà che le ha stabilite. Dunque, alla Chiesa tocca il dispensare da quelli impedimenti, ch’Ella «medesima ha fissati nel Sacramento del matrimonio. Ogni altra dispensa non solo è illecita, ma anche invalida. Come, dunque, potrebbe un Pastore prevalersene per la sua greggia senza delitto?

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (7) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (IV)

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (5) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (II)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (5)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE, AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (II)

Avete altri dubbi da farmi? E se i Principi stessi e le Podestà del secolo vietassero al Pastore di annunziare la verità della Fede, di opporsi agli empii, e di pascere il suo popolo; in tal caso deve il Pastore ubbidire e tacere? Rispondo, che il Pastore in questo caso né deve accettare il comando, né deve ubbidire. Un Vescovo non ha la sua missione dal Principe, ma da Dio. Accettando e ubbidendo a un ordine di questa sorte, viene implicitamente a riconoscere l’autorità del Principe come superiore a quella di Dio. Mi spiego anche meglio. L’obbligo d’un Vescovo di pascere il suo popolo non solo è precetto Ecclesiastico, ma ancora divino. Dunque non v’è nel mondo autorità nessuna, che possa distruggerlo e dispensarlo. Solo la Chiesa, come giudice della Fede, può prescrivere ciò che devesi insegnare, o tacere, per eseguire questo divino precetto. Non tocca all’autorità laica il prescrivere i dogmi da insegnarsi, o da porsi in silenzio. Chi si presta timoroso a un simil comando, viene a riconoscere tacitamente la podestà laica per giudice della Fede. E questa non sarebbe una specie d’apostasia in un Vescovo? – Avete mai letto nelle Scritture, che Geroboamo, Ozìa, Acabbo, e Giosìa mandassero i Profeti a predicare ad Israele e a Giuda? Io vi ho dato per Profeta alle genti: disse Dio (Ier. 1, 5) a Geremia. Udite, o cieli, e tu ascolta, o terra, perché Dio è quegli, che parla: diceva (Isaî. 1, 2) Isaia. Ecco la parola del Signore, che si è fatta sentire ad Osea: così si legge nel primo capo(Ose. I, 1) di questo Profeta, e così si ripete in tutti gli altri. Poterono bene le podestà del secolo perseguitare un Elia, un Geremia,e tant’altri profeti; ma questi non tacquero, e la loro persecuzione fu alfine vendicata da Dio. Avete forse letto nel Vangelo, che Erode mandasse Giovanni Battista a predicare nel deserto? – Voi troverete tutto all’opposto, che Giovanni fu mandato da Dio (Joan. I, 16) Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Ioannes. E perché Giovanni era mandato da Dio, non ebbe timore di protestare ad Erode più volte che non gli era lecito l’aver la moglie di suo fratello: Non licet te habere uxorem fratris tui (Marc. VI, 18) sicché per la libertà del suo predicare perdette la vita.Avete voi letto, che Cesare, o Pilato spedissero gli Apostoli a predicare? Io ho ben letto, che Gesù Cristo gli elesse, e gli spedì senza il rescritto di Augusto per tutta la Giudea (Math. X, 5et sequ.). Questi dodici furono mandati da Gesù. Hos duodecim misit Jesus. E insieme prescrisse loro quello, che doveano predicare;fu Gesù, che loro il prescrisse, e non il Re, né il Governatore della Giudea, né Cesare. Andate e predicate dicendo, che si è avvicinato il Regno de’ Cieli: Euntes autem prædicate dicentes: Quia appropinquavit regnum cœlorum. Sapeva Gesù Cristo che avrebbero per questo incontrato degli oppositori: vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; ecce ego mitto vos in medio luporum.Ma non per questo insegnava loro a tacere, ma bensì a parlare, promettendo ad essi di mettere la parola dello Spirito Santo sulle loro labbra. « Cum autem tradent vos, nolite cogitare, quomodo, aut quid loquamini: dabitur enim vobis in illa hora, quid loquamini. Non enim vos estis qui loquimini, sed Spiritus Patris vestri, qui loquitur in vobis. (E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi) [Matt. X, 19]. » In fine dopo la sua risurrezione gli spedisce a promulgare il suo Vangelo non più alla sola Giudea, ma a tutta la terra (Marc. XVI, 15). Et dixit eis: Euntes in mundum universum prædicate Evangelium omni creaturæ. – Con questa missione divina gli Apostoli predicarono in ogni luogo senza punto dipender dalla secolar podestà. (Marc. XVI, 20). Illi autem profecti prædicaverunt ubique. Quando gli Apostoli dopo aver ricevuto lo Spirito Santo salirono (Act. III, 4) in pulpito ad annunziare la nuova legge; non presero il rescritto del Governatore a questo fine. Dissero e predicarono liberamente secondo l’istinto del divino Spirito: Prout Spiritus Sanctus dabat eloqui illis. Se Pilato avesse loro proibito di entrare in alcune questioni, avrebbero essi dovuto ubbidire a Pilato, o pure allo Spirito Santo, che gl’ispirava diversamente? Ora i Vescovi sono i successori degli Apostoli; e gli eredi della loro ordinaria autorità e della divina missione. Non possono dunque e non devono dipendere dalla secolare podestà nella predicazione della Fede. Se fanno diversamente, vengono tacitamente a riconoscere nella podestà temporale un’autorità superiore a quella di Cristo. Poterono è vero i Sacerdoti e i Magistrati del Tempio imprigionar per questo gli Apostoli: fecero anche loro divieto di non insegnar più nessun dogma nel nome di Gesù Cristo (Act. IV, 18). Et vocantes eos denuntiaverunt, ne ommnino loquerentur, neque docerent in nomine Iesu. Ma per questo gli Apostoli ubbidirono? No: ma Pietro, e Giovanni a nome anche degli altri risposero, che la loro missione era da Dio, e che rimettevano al giudizio altrui, se era lor debito il prestar orecchio piuttosto ad essi, che non a Dio (Ibi, v. 19). Si iustum est in conspectu Dei, vos potius audire quam Deum, iudicate. Non enim possumus, quae vidimus, et audivimus, non loqui.Di nuovo sono arrestati gli Apostoli per la libertà del lor predicare;e Iddio per mostrare che la sua Chiesa non dipende da nessuno, spedisce dal cielo un Angelo, che (Act. V, 19 et segg.) apre le porte della prigione, e gli manda un’altra volta a predicare nel Tempio. Se i Giudei avessero avuto diritto d’impedireagli Apostoli di predicare, avrebbe mai Dio approvata con un miracolo la disubbidienza de’ suoi predicatori? E che risposero dopo. questo gli Apostoli ai Magistrati, i quali gl’interrogarono, perché avessero trasgrediti i lor comandi? Risposero con coraggio apostolico,che bisognava ubbidire prima a Dio, e poi agli uomini (Act.IV,19et V, 29). Obedire oportet Deo magis, quam hominibus. I Magistrati gli fanno battere, e intimano loro di nuovo l’istesso divieto: Ne omnino loquerentur in nomine Jesu (Act. V, 40). E gli Apostoli? (Ibi v. 42). Omni die non cessabant in templo, et circa domos, docentes, et evangelizantes Christum Jesum. – E ogni giorno, nel tempio e a casa, non cessavano di insegnare e di portare il lieto annunzio che Gesù è il Cristo).Ecco l’esempio della libertà evangelica necessaria ne’ Pastori. in tempo di persecuzione e in ogni tempo. Non è stato il Vangelo. pubblicato dal Principe, ma da Dio. Tocca dunque ai Pastori suoi ministri il divulgarlo come, e quando, e dove lor piace. Anche il principe è pecora dell’ovile di Gesù Cristo. Non appartiene alle pecore il regolar la voce del Pastore. Al Pastore appartiene. il pascere, il correggere e lo sgridare le pecore. Ha il Pastore. anch’egli a chi render conto della sua predicazione, cioè a Quegli,che lo ha mandato. Ma se il Pastore temesse tanto le minacce di una pecora, che si lasciasse da lei chiuder la bocca, e non ardisse per rispetto di lei di sgridare i lupi, guai a questo Pastore. Egli sottoporrebbe il comando del suo padrone a quello di una pecora.Non ne riporterebbe dunque perciò un’eterna confusione, avendo avvilito in questa guisa l’autorità divina, e il proprio ministero? –  Quando Costanzo Imperatore nell’an. 638 pubblicò il famoso Tipo (Concil. Lateran. Secret. 4) in cui ordinò, che nessuno dei suoi sudditi altercasse o contendesse contra i Monoteliti, a lor favore,ubbidì forse la Chiesa a quest’Editto? Noi sappiamo, che il. Capo stesso della Chiesa, il Santo Papa Teodoro depose subito Paolo. Patriarca di Costantinopoli, per essere stato autore a Costante di. un tal comando. E pure i Monoteliti non erano stati condannati da un Concilio di Laterano intorno al Tipo di Costante? (Concil.Later. Secret. 4). « Relectus Typus bonum quidem intentum habere dignoscitur; dissonantem autem virtutem intentui continet. Bonum est namque procul dubio… cohibere dissensiones, et altercationes pro causa fidei; sed non est utile, et bonum cum malo, destruere bonum, id est cum hæreticis orthodoxorum Patrumverba, et dogmata; quoniam hoc potius exurit, non enim mitigat merito controversiarum statum nullo videlicet patiente denegare cum impietate hæretica venerabile verbum fidei… Sufficit nobis Patriarchæ voce Serenissimum Principum alloqui… ( Gen. 18).Nullo modo tu facies secundum hoc verbum, ut interficias iustum cum impio, et erit iustus sicut impius… Propterea intentum Typi bonum laudamus, sed modum ab intentu dissonantem avertimur: quoniam omnino est inconveniens Catholicæ Ecelesiæ regulæ, in qua utique adversa tantummodo iubentur merito sepeliri silentio. » In fine, che uso fa del Tipo medesimo. il Concilio di Laterano? Lo condanna, e vuole che siano condannati tutti quelli che non lo condannano (Concil. Later. an. 649, can.18). Si quis… » non anathematizat anima, et ore… scelerosum Typum, qui ex suasione Pauli nuper factus est a Serenissimo Principe Costantio Imperatore contra Catholicam Ecclesiam, utpote cum Sanctis Patribus, et scelerosos hæreticos ab omni reprehensione, et condemnatione iniuste liberari definientem, in amputationem catholicæ Ecclesiæ definitionum, seu regulæ… huiusmodi condemnatus sit. » E quando poi si volle persuadere a S. Massimo Abate di ricevere il Tipo, che metteva la pace dall’una parte e dall’altra, che fece il S. Abate? Si gettò in terra, e colle lagrime agli occhi (Mans Concil. tom. 11, col. 8) rispose: Non debuerat contristariî benignus, et pius dominus adversus humilitatem meam; non enim possum contristare Deum tacens, quæ ipse nos. loqui, et confiterî præcepit. Non ho io detto a ragione sin da principio, che la Scrittura, i Padri, i Concili e gli esempii de’ Santi istruiscono abbastanza un Pastore del suo dovere in tempo di persecuzione? –  E che diremo poi, se il Principe istesso errasse nella fede e nei costumi, e direttamente o indirettamente perseguitasse la Chiesa e le sue leggi, e la spogliasse della sua autorità e de’ suoi privilegi? È forse tenuto un Vescovo ad annunziare anche al Principe la verità, ad ammonirlo e a correggerlo coll’ecclesiastica verga, se faccia bisogno? Io non credo, che si possa (Concil. Mediol. edit. Lugd. p. 66, col. 2) porre in dubbio questo debito del Pastore da chiunque rifletta, che cosa è Chiesa, e che cosa sono i Cristiani. La Chiesa è un ovile; il Vescovo è il Pastore; i Cristiani sono gli agnelli. Anche il Principe è un agnello di questa greggia. Da chi dunque si deve pascere il Principe cristiano, da chi ammonire, da chi correggere, se non se dai Pastori della Chiesa? Chi dovrà render conto della sua perdita, e della perdita degli altri, a cui il Principe fu d’inciampo, di rovina, di scandalo, se non colui che dovea guidarlo al pascolo cogli altri agnelli? Ecco che cosa disse Iddio a Geremia, quando lo mandò a predicare, e a profetare sotto il Regno di Giosia Re di Giuda (Ier.I, 18). Ego quippe dedi te hodie in civitatem munitam, et in columnam ferream, et in murum aereum, super omnem terram, Regibus Iuda, Principibus eius, et Sacerdotibus, et Populo terræ [Ed ecco oggi io faccio di tecome una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese]. Era uno scandalo pubblico quello, che commetteva Erode col tenere la moglie di suo fratello, e S. Giovanni Battista si credeva obbligato (Marc. VI, 18) ad intimargli, che ciò non era lecito: Non licet. Infine S. Paolo scrivendo a Timoteo, non gli prescrive soltanto la condotta, che deve tenere col volgo, (1 Timoth. VI, 17, et sequ.) anche il comando, che deve esercitare coi Grandi del secolo: Divitibus huius saeculi præcipe: se bene agere. [Ai ricchi in questo mondo raccomanda … di fare del bene]. È soverchio il provar questo punto (S. Gregor. Nazianz. orat. ad cives. et Chrysost. 1.3 de Sacerd. Ambros. de dign. Sacerd. c.2, Gregor. Magn. ad Maurit. Bellarm. de offic. Princip. 1.1, c.5), che da nessun Cattolico è mai stato messo in dubbio. Quis enim dubitat, scriveva S. Tommaso Arcivescovo di Cantuaria (ad Episc. Angliae Labbé tom. 13, col. 79), Sacerdotes Christi Regum, et Principum , et omnium Fidelium Patres, et Magistros censeri? Dunque anche i Principi sono tenuti ad ubbidire ai Vescovi nelle cose spirituali, come agnelli ai pastori, come figliuoli ai padri, come discepoli ai maestri; e i Vescovi sono obbligati ad invigilare (Vid.Lucifer. Calarit. de non parcendo in Deum delinquentibus), sui Principi, come maestri sui discepoli, come padri sui figliuoli, come pastori sugli agnelli. Dunque sarebbe delitto per un Vescovo il dissimulare i peccati, i sacrilegii, gli errori e le usurpazioni dei Principi. « Ex Sacris Scripturis, scriveva il Bellarmino (respons. ad duos libellos Colon. Agrip. an.1607, pag.15), quæ ius divinum positivam complectuntur, Sacerdotes Pastores sunt; Laici quamvis Principes oves; Sacerdotes patres, Laici filii; ac iusta naturæ inductionem, quia ius divinum naturale est, ovis pastori, non illi pastor parere debet; filius itidem patri, non pater filo. » Volendo il Re Chilperico, a sommossa della Regina Fredegonda, opprimere il Vescovo Pretestato, il quale era stato calunniosamente accusato di lesa maestà, vi si oppose S. Gregorio Turonense; ed ecco in qual maniera ammonì gli altri Vescovi, i quali non osavano di resistere alla volontà del Re (Hist. Francor. 1.5, c.19). « Attenti estote sermonibus meis, o sanctissimi Sacerdotes Dei; et præsertim vos, qui familiariores esse Regi videmini. Adhibete ei Concilium sanctum, atque Sacerdotale, ne excandescens in Ministrum Dei pareat, ac ira eius et regnum perdat, et gloriam.» E perchè essi a queste parole tacevano, vi aggiunse. « Mementote, Domini mei Sacerdotes, verbi prophetici, quod ait: Si viderit speculator iniquitatem hominis, ct non dixerit, reus erit animæ pereuntis. Ergo nolite silere, sed prædicate, et ponite ante oculos Regis peccata eius, ne forte ei aliquid mali contingat, et vos rei sitis pro anima eius. » Così narra questo fatto lo stesso S. Gregorio. Un altro esempio ci somministra egli della pastoral fermezza. Domandava Chilperico, che suo figlio Meroveo, fosse espulso dalla Chiesa, in cui erasi rifugiato; ma non potè ottenere dal Santo, benché gli minacciasse di far incendiare tutto quel paese, ch’egli concorresse alla violazione dell’ecclesiastica Immunità (l8.5, cap. 14). « Chilperieus nuntios ad nos direxit dicens: Eiicite Apostatam illum de Basilica; sin autem aliud totam regionem illam igni suecendam. Cumque nos rescripsissemus, impossibile esse, quod temporibus hæreticorum non fuerat, Christianorum temporibus nunc fieri, ipse exercitum commovet, et illuc dirigit.  … cacciate l’eretico fuori dalla basilica …] » Troppo nota è l’ecclesiastica libertà, con cui rispose il Vescovo Osio a Costanzo, il quale volea da lui estorcere la sottoscrizione alla condanna dell’innocente Atanasio (apud Atanas. epist. Ad solit. et apud Mansi Concil. tom. 3, col. 246). « Desine quæso, et memineris te mortalem esse; reformida diem iudicii; serva te in illum diem purum, ne te misceas ecclesiasticis, neque nobis » in hoc genere præcipe, sed potius ea a nobis disce. Tibi Deus Imperium commisit; nobis quae sunt Ecclesiæ coneredidit. Et quemadmodum qui tuum Imperium malignis’ oculis carpit, contradicit ordinationi divinæ: ita et tu cave, ne, quae sunt Ecclesiæ, ad te trahens, magno crimini obnoxius fias. Date, scriptum est, quae sunt Cæsaris Casari, et quae sunt Dei Deo. Neque enim fas est nobis in terris Imperium tenere: neque tu thimiamatum et sacrorum potestatem habes, imperator. Hæc quidem ob curam tuæ salutis seribo: et de iis, quae in epistolis scribis, hanc meam sententiam accipe. Ego neque Arianis assideo, neque suffragor, sed eorum haeresim anathemate damno: neque in Athanasium accusationibus subscribo, quem nos et Romana Ecclesia, et universa Synodus innocentem pronunciavit. » Queste erano l’espressioni, che suggeriva ai Vescovi anche negli ultimi tempi l’immortale Benedetto XIV, dove vietava ad essi di riconoscere nella secolar podestà il diritto d’intimare pubbliche preghiere nelle Chiese, o di prescriverne le formole (Constit. Quemadmodum preces. §. 6. Bullar. tom. 1). « Sin autem, quod Nobis persuadere non possumus, laicalis aliqua Potestas usu, vel consuetudine aliqua (quæ abusus revera dici debet) praesumat auctoritatem vestram in hoc minime agnoscere, sed iure suo directe velit publicas preces indicere, immo et poenam parere renuentibus statuere audeant; loquiminor et Vos, quemadmodum Osius ad Imperatorem loquutus est. » Converrebbe scorrer tutta la lettera prima dal S. Pontefice Felice III diretta ad Acacio, e nella quale egli lo riprende per la sua dissimulazione contro gli eretici e gl’invasori, e per la sua taciturnità su questo particolare coll’imperator Zenone. Ecco che cosa fra le altre esso gli scrisse (Mansî Concil.t. 7, col. 1028, et sequ.) « Cur eorum, frater, quærere semitas veteres nunc relinquis? Cur irruentibus in ovile dominicum lupis nulla vigilantia ministerii pastoralis obsistis, sed æquanimiter atque securus commissum gregem aut laniari perspicis, aut necari? Non dicentem recolis Dominum, et animam suam quidem pro ovibus ponere pios pro devotione pastores; mercenarium autem de his curam penitus non habentem, mox ut bestiam forte conspexerit, sine ulla diffugere consideratione testantem?… Diligenter attende, nihil aliud esse, non procurare quæ Christi sunt, nisi se palam profiteri eius inimicum… Atque ideo, cum ita sit, moneo, hortor, et suadeo, ut quæ commissa sunt corrigas, el sequentibus studiis de te facias meliora sentire. Negligere quippe, cum possis deturbare perversos, nihil est aliud quam fovere. Non caret scrupolo societatis occultæ, qui evidenti facinori desinit obviare….. Verumtamen, salvo eo, quod in die iudicii talem a nobis Ecclesiam, certum est, qualem a patribus accipimus, exigendam; etiam in hac vita se ad eam non pertinere cognoscat, qui quippe, cum possis deturbare perversos, nihil est aliud quam fovere. Non caret serupolo societatis occultae, qui evidenti facinori desinit obviare….. Verumtamen, salvo eo, quod in die iudicii talem a nobis Ecclesiam, certum est, qualem a patribus accipimus, exigendam; etiam in hac vita se ad eam non pertinere cognoscat, qui non solum plenitudini eius noxia conatur inferre, sed etiam qui es, quæeidem congruentis sunt, dissimulat providere. » – né già per questo si credé dispensato il S. Pontefice dal fare istanza egli stesso presso l’imperatore per il bene della Chiesa con quella schiettezza e libertà, che richiedeva il suo pastoral magistero, come può vedersi dalla di lui lettera seconda e nona, nella quale così conchiude (Mansi ibid. col. 1066). « Et ex hoc quidem de his hominibus conscientiam meam ante tribunal Christi causam dieturus absolvo. Vestræ mentis intererit magis ac magis cogitare, et in rerum præsentium statu sub divina nos exam natione subsistere, ac post huius vitae cursum ad divinum consequenter venturos esse iudicium. » – Imperocchè aveano presenti questi Santi Pontefici la risposta, che dà S. Girolamo a quelli, che negano di parlare, perché non sono ascoltati. In Ezech. cap. 33. « Nec statim respondeamus: quid prodest docere, si nolit auditor facere, quae docueris? Unusquisque enim ex suo animo atque officio iudicatur: Tu si loquutus non fueris: ille, si audire contempserit. »  – La Chiesa è stata sempre così gelosa della paterna e pastorale autorità dei Vescovi, che ha loro espressamente proibito l’umiliare colla podestà temporale non solo la loro giurisdizione, ma persino il loro decoro. Basta leggere per tutti su questo proposito l’ultimo general Concilio di Trento (Concil. Trid. sess. XXV, c. 17 de ref.), il quale nello stesso tempo ricorda, anzi comanda ai Principi di onorare e rispettare i Vescovi come lor Padri. Eccone i termini precisi: « Non potest Sancta Synodus non graviter dolere, audiens Episcopos aliquos, sui status oblitos Pontificiam dignitatem non leviter debonestare, qui cum Regum ministris, Regulis, et Baronibus in Ecclesia, et extra indecenti quadam demissione se gerunt, et veluti inferiores ministri altaris, nimis indigne non solum loco cedunt, sed etiam personaliter itlis inserviunt. Quare hæc, et similia detestans Sancta Synodus, sacros canones omnes, Conciliaque generalia, atque alias Apostolicas sanctiones ad dignitatis decorem, et gravitatem pertinentes renovando, praecipit, ut ab huiusmodi in posterum Episcopi se abstineant; mandans eisdem, ut tam in Ecclesia, quam foris suum gradum, et Ordinem præ oculis habentes, ubique se Patres, et Pastores esse meminerim; reliquis vero tam Principibus, quam cæteris omnibus, ul cos paterno honore, ac debita reverentia prosequantur. [Il santo Sinodo non può non rammaricarsi grandemente, sentendo che alcuni vescovi, dimenticando il loro stato, abbassano non poco la loro dignità episcopale, comportandosi in Chiesa e fuori di essa con indecente servilismo con ministri regi, governatori, baroni, e quasi fossero inservienti di second’ordine all’altare, non solo danno ad essi la precedenza, senza alcuna dignità, ma li servono anche personalmente. Perciò questo santo Sinodo, detestando queste e simili manifestazioni, rinnovando tutti i sacri canoni e i concili generali e le altre disposizioni apostoliche, che riguardano il decoro e la maestà della dignità vescovile, comanda che in avvenire i vescovi si astengano da questo modo di agire e che, in Chiesa e fuori abbiano dinanzi agli occhi il loro grado e il loro ordine e si ricordino dovunque di essere padri e pastori. Esorta, poi, i principi e tutti gli altri a trattarli con l’onore dovuto ai padri e con la debita riverenza.] » – Provati questi doveri d’un Vescovo col suo popolo e col Capo del popolo istesso, in ogni tempo, e massime in tempo di persecuzione, resta a fare un’altra domanda; cioè in che modo dovrà esercitare il Vescovo questo dover d’istruzione colle sue pecore, coi suoi figliuoli, coi suoi discepoli. Rispondo con una risposta sicura e con una decisione inappellabile. Il Vescovo dovrà tener quella strada, e quei mezzi, che la Chiesa assistita dallo Spirito Santo, dietro gl’insegnamenti di Gesù Cristo e de’ Padri, ha prescritti al Vescovo istesso. Chi potrà rifiutare l’indirizzo o l’istruzion della Chiesa sua Madre? Ora io trovo nel Concilio di Trento (Sess.13, cap. de refor.) disegnata a un Pastore tutta la traccia della sua pastorale condotta in questo particolare. Ricorda dunque il Concilio ai Vescovi, primo, di procurare di tener lontani i lor sudditi dal mal fare coll’esortazioni e coll’ammonizioni: « Elaborent, ut hortando, et monendo ab. illicitis deterreant; e perché? ne ubi deliquerint, debitis eos pocnis coercere cogantur. » Secondo: di rimproverarli, e sgridarli con bontà e con pazienza, giusta l’avviso dell’Apostolo quando cadono in qualche fallo: « Quos tamen, si quid per humanam fragilitatem peccare contigerit illa Apostoli ab eis servanda prœceptio, ut illos arguant, obsecrent, increpent in omni bonitate, et patientia: cum sæpe plus erga corrigendos agat benevolentia, quam austeritas; plus exhortatio, quam comminatio; plus charitas, quam potestas. » Terzo: se faccia bisogno di usar verga, di, usarla, ma con mansuetudine e con misericordia: « Sin autem ob delicti gravitatem virga opus fuerit; tune cum. mansuetudine rigor, cum misericordia iudicium, cum lenitate severitas adbibenda est; ut sine asperitate disciplina populis salutaris, ac necessaria conservetur, el qui correcti fuerint, emendentur; aut si resipiscere noluerint, caeteri salubri in eos animadversionis exemplo a vitiis deterreantur. » Porta il sacro Concilio al nostro proposito l’esempio del Pastore, che all’infermità delle pecore applica da prima alcuni leggieri fomenti; indi se il morbo si aggrava, passa a più pungenti e gravi rimedii; in fine, se né pur questi portano alcun profitto, separa dalla greggia l’agnelle morbose per salvar dal contagio le altre, che tuttavia son sane :« Cum sit diligentis, et pii simul pastoris officium, morbis ovium levia primum adhibere fomenta; post, ubi morbi gravitas ita postulet,ad acriora, et graviora remedia descendere; sin autem, ne ea quidem proficiant, illis submovendis, caeteras saltem oves contagionis periculo liberare. »Dove osservo due cose; prima, all’ammonizione, alla correzione, e anche al castigo vuole la Chiesa, che sempre vada unita la mansuetudine e la misericordia, di modo che si veda un Padre, un Maestro, un Pastore, che sferza contro sua voglia un figlio, un discepolo, una pecora, unicamente pel desiderio di ridurli sul buon sentiero. Così anche si spiegano le Costituzioni Apostoliche (I. 2,c. 15): « Misericors cum iustitia Dominus noster, bonus, et singulari in homines charitate, reo criminis, ac malefico non dat impunitatem, redeuntem in viam rectam recipit, eique vitam tribuit. » – Così pure scriveva Pietro Blesense al Vescovo d’Orleans (cp.142).« Si Regis Francorum faciem revereris, adhibe tibi de Coepiscopis tuis, qui spiritu Dei aguntur, ut tanta verboram moderatione utaris, ut si fortis est sermo, nibilominus sit suavis: nam et sapientia, quæ attingit a fine usque ad finem fortiter, staviter universa disponit. » Secondo, che la Chiesa in tutta questa condotta colle pecore inferme e contagiose, mai e poi mai prescrive al Vescovo il silenzio, perché senza la parola del Vangelo adempie non si l’obbligazion di un Pastore. – Lo Spiega in poche parole S. Bernardo, scrivendo a (de Consider. L 4, c. 3, n. 6) Papa Eugenio:« Evangelizare pascere est. Fac opus Evangelistæ, et Pastoris opus implevisti.» Ma parlando, dirà taluno, specialmente ai grandi del secolo, si corre pericolo di aggravar la persecuzione. E tacendo, rispondo io, non solo si corre pericolo di aggravar la persecuzione, ma la persecuzione certamente si aggrava. Quando i Pastori hanno parlato unendo insieme lo spirito della giustizia a quello della discrezione, si sono veduti alcuni contumaci figliuoli delle tenebre ribellarsi alla luce, e inasprirsi contro la Chiesa. E quando i Pastori hanno taciuto, i lupi fra le tenebre e il silenzio si sono insinuati impunemente nell’ovile, e hanno divorata la greggia. Se il Pastore si presenta coll’armi incontro al lupo, corre rischio egli medesimo di essere assalito, e che il lupo inferocisca forse con più rabbia contro le pecore. Ma se il Pastore al vedere i lupi non si mette in difesa, e la greggia e il Pastore sarà preda inevitabile di quella fiera. Dunque non si deve per un incerto pericolo esporre la greggia a una rovina sicura. Oltre a che v’è un altro equivoco in questa difficoltà. Quando il Vescovo si oppone con zelo apostolico alla podestà temporale che perseguita la Chiesa, corron pericolo d’ordinario solo, o quasi solo le sostanze, l’onore e anche la vita dei fedeli. Ma quando il Vescovo tace in faccia a un Principe persecutore, vanno a perire la fede, la religione, e le anime dei Cristiani. Ora siccome il bene spirituale deve onninamente anteporsi ad ogni ben temporale; così il pericolo delle anime deve per ogni conto fuggirsi assai più, che non il pericolo delle sostanze e della vita.?Quando al S. Pontefice Felice si faceva questa obbiezione, affinché rimettesse Acacio alla comunion della Chiesa; « Come? rispose il Papa; (Felicis Pap. III, tractat. Labbé tom. 5, col. 197)se si custodisce la fede e la cattolica comunione, corre pericolo la religione. E poi se resta violata la fede e la cattolica comunione, si dirà, che la religione è in salvo? Dio non voglia che questa proposizione esca dalle labbra di un Cattolico. Se si conserva la fede e la comunion cattolica, voi direte, che si diminuisce la dignità della Sede Apostolica? E poi se si offende la fede e la cattolica comunione, direte che si è conservato il decoro dell’Apostolica Sede? Dio non voglia, che questa proposizione si proferisca da un Cattolico. Se si conserva la fede e la cattolica comunione, direte, che si offende l’Imperatore? e violandole, forse l’Imperatore non si offende? Dio ci guardi, che l’Imperatore, o un qualche Cattolico parli così. Sarebbe l’istesso, che dire che bisogna offender la fede per non offendere 1’Imperatore. Ma noi amiamo tanto l’Imperatore,che vogliamo, ch’egli faccia quanto è necessario per la sua salute, per l’anima sua e per la sua coscienza. » Anche più forti sono a questo proposito i sentimenti, che scriveva il martire S. Cipriano al S. Papa Cornelio, intorno agli eretici Fortunato, Felicissimo, e a loro seguaci, che per via di minacce voleano ritornare alla Chiesa, ed esser trattati come cattolici (S.Cyp.ep. 55). « Io abbraccio, egli scrive, prontamente e con tutto l’amore quelli che penitenti ritornano, confessando il lor peccato con umile e semplice soddisfazione. Ma se alcuni pensano di poter ritornare al seno della Chiesa, non colle preghiere, ma colle minacce, e credono di aprirsi la strada non col pianto e colla penitenza, ma col farci timore, sieno pur certi, che per loro è serrata la Chiesa di Dio, e che il campo di Gesù Cristo forte, munito, e invincibile per la protezione di Dio non può esser vinto dalle minacce. Un Sacerdote di Dio, che sta attaccato al Vangelo, e che osserva iprecetti di Cristo, può essere ucciso, ma non può esser vinto. ..Imperocchè, se alcuni pochi temerari e scellerati lasciano le celestie salutari strade del Signore, e non facendo il bene sono abbandonati dallo Spirito Santo; non per questo anche noi dobbiamo dimenticarci delle divine tradizioni, e far più conto della scelleraggine di alcuni furibondi, che non del giudizio dei Sacerdoti; né dobbiam credere, che abbia più forza per combatterci l’umana podestà di quello, che ne abbia per difenderci la divina protezione.O pure si deve forse sacrificare la dignità della Chiesa Cattolica,l’incorrotta gravità del popolo fedele alla Chiesa, e la Sacerdotale autorità, perché possano giudicare della condotta della Chiesa uomini posti fuori della Chiesa, e gli eretici dei Cristiani, gl’infermi dei forti, i feriti dei sani, i caduti dei fedeli, i rei del giudice, i sacrilegi del Sacerdote? Che cosa manca in questo caso, se nonché la Chiesa ceda il posto al Campidoglio, e che partendo i Sacerdoti,e portando seco l’Altare del Signore, passino nel sacro e venerabil consesso del nostro Clero i simulacri, e gl’idoli coiloro altari? » -« Se domandano pace, depongan le armi. E se vogliono dar soddisfazione, perché minacciano? Ma se vogliono minacciare, sappiano, che i Sacerdoti di Dio non hanno timore di loro. Imperocché né men l’Anticristo, quando verrà, potrà entrare colle sue minacce nella Chiesa, né si cederà alle sue armi, ed alla sua violenza, perché protesterà di voler uccidere, chi gli farà resistenza. Ci fanno gli eretici prender le armi, quando credono di spaventarci colle loro minacce; nè ci abbattono in tempo di pace, ma vie più ci muovono e ci accendono, mentre presentano ai loro fratelli una pace peggiore della persecuzione…. Preghiamo e supplichiamo quel Dio, ch’essi non cessano di provocare, e d’inasprire, affinché i lor cuori si facciano mansueti. .. Che se vorranno persistere nel lor furore, e perseverare crudelmente in queste parricidiali insidie e minacce, non vi è tra i Sacerdoti di Dio alcuno sì debole, né alcuno sì prostrato e abbattuto, né alcuno così imbecille ed invalido per umana miseria, il quale non si alzi per aiuto sovrano contro i nemici e gl’impugnatori di Dio, e la di cui umiltà e debolezza non prenda coraggio dal vigore e dalla fortezza donatagli dal Signore. A noi niente importa l’essere uccisi da uno o da un altro, in questo o in quel tempo, sapendo, che da Dio riceveremo il premio della nostra morte. » lo confesso, che nel trascrivere questi gloriosi sentimenti di S. Cipriano vo’ domandando a me stesso: perché non potrebbe un Vescovo in tempo di persecuzione opporre queste medesime parole alla Podestà persecutrice? Chi avrà coraggio di rimproverarlo per aver ricopiato lo squarcio di una lettera di S. Cipriano? E pure l’umana prudenza non cessa per anche di opporre le sue difficoltà. Se un Vescovo facesse così, gli direbbero forse altri: Come siete dunque voi solo, che vi volete salvare? Il numero forse maggiore di quelli, che tacciono, cercherebbe di opprimere quelli, che parlano; e si farebbe anche comparire per singolarità, e per superbia lo zelo Pastorale dell’ecclesiastica e della divina giustizia. Ma in questo caso che cosa bisognerebbe rispondere? Quello che rispose l’illustre S. Massimo ai suoi accusatori, e nemici, i quali volevano che comunicasse con quelli, ch’erano stati condannati dalla Chiesa. Come? Gli disser costoro, recandogli l’esempio degli (Acta S. Maximi t. 1, Oper. n. 6, Parisiis 1675) altri, che ubbidivano all’Imperatore: Ergo tu solus salvaberis, et omnes perierunt? « Non dico questo, rispose S. Massimo; e non condanno nessuno. Non condannarono né pur veruno i tre Fanciulli di Babilonia, i quali non vollero adorar la statua adorata da tutti. Imperocché non pensavano a ciò, che gli altri facevano, ma pensavano per se stessi a non mancare alla vera religione. Così anche Daniele chiuso nel lago de’ leoni non condannò nessuno di quelli che per ubbidire al decreto di Dario non aveano fatta orazione a Dio: ma fece quello, ch’egli doveva fare, e volle piuttosto morire, che offendere Iddio, e prevaricare contro la stessa legge di natura. Né pur io (così me ne tenga lontano Iddio) né pur io ardisco di condannare veruno, né dico, che io solo mi salverò. Del resto voglio morir piuttosto, che operare contro i dettami della mia coscienza, e cedere all’errore in pregiudizio della fedeltà dovuta a Dio. » Ripigliarono di poi i Commissarii dell’Imperatore: Almeno (ibid. num. 8, et 9) non date questo disgusto all’Imperatore, il quale ha fatto il Tipo solo per la pace, e non per altra causa. E allora il Santo gettandosi col volto a terra, e bagnando il pavimento di lagrime, … Non doveva, rispose, disgustarsi il benigno e pio Imperatore coll’umile suo servo. Imperocché io non posso disgustare Iddio, tacendo quello, ch’Egli ci ha comandato di dire e professare. Ma dunque, ripresero coloro (ibid. num. 13) tu hai detto anatema al Tipo? Si l’ho detto; rispose il Santo. Ed essi: Hai detto anatema al Tipo? In conseguenza hai detto anche anatema all’Imperatore: Typum anathematizasti? Imperatorem anathematizasti. Rispose il Servo di Dio: io non ho anatemizzato l’Imperatore, ma bensì uno scritto alieno alla Fede della Chiesa: Ego Imperatorem non anathematizavi, sed Chartam alienam ab Ecclesiastica Fide. – Così rispondevano i Santi alle maligne accuse del secolo. Anzi non erano essi, che rispondevano, ma lo Spirito Santo per bocca loro (Matth. X, 19). Cum autem tradent vos, nolite cogitare, quomodo, aut quid , dabitur enim vobis in illa ora quid loquamini. E non occorre, che nessuno si scusi col dire: io non sono un santo. – Questa condotta dei santi non era una condotta di consiglio, ma di precetto. Essi così rispondevano, perché non potevano diversamente rispondere, salva la loro coscienza. Imitando de’ Santi non si corre nessun pericolo; ma si cammina ben molto all’oscuro e all’incerto, se si vuol tener dietro a quelli, che non furono Santi. Dio non condannerà nessuno per aver preso in prestito le parole da un S. Felice, da un S. Massimo, da un S. Cipriano. Ma potrà ben rimproverare, chi le avrà prese in prestito dai prudenti figliuoli del secolo. Se un S. Anselmo e un S. Tomaso di Cantuaria avessero prestato orecchio alle timide insinuazioni dei loro confratelli, essi non sarebbero Santi; questo è poco: ma io aggiungo, che forse non sarebbero né pur salvi. Perché S. Tomaso cedette al Re in una sola parola, ne provò subito tal rimorso, che si determinò di scrivere a Roma per l’assoluzione. Questi sono fatti, che dovrebbero far tremare le pietre’ più forti del Santuario.

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA – OBBLIGHI DI UN PASTORE (I)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (4)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE

AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (I)

Che cosa deve far un Vescovo per soddisfare alle sue obbligazioni? Io tremo nel dover risponder a questa interrogazione, perché potrebbe parer a taluno, che io fossi ardito a tal segno di voler prescriver leggi ai Pastori della Chiesa. Nondimeno ho speranza, che troverò scusa appresso tutti quelli, che mi leggeranno, quando vedranno, che io non parlo né come Autore, né come Teologo alla Chiesa Cattolica, ma come un semplice raccoglitore dei sentimenti dei Teologi, dei Padri e dei Concilii. Ma per trattare quest’argomento con qualche metodo, convien distinguere nell’esercizio del pastoral ministero due tempi diversi; tempo di calma, e tempo di tempesta. Ricerchiamo dunque i doveri d’un piloto nella calma, e conosceremo insieme i suoi doveri nella procella. Mostratemi gli obblighi d’un pastore, che non è circondato dai lupi, ed io vi mostrerò i suoi obblighi, quando i lupi insidiano l’ovile e la greggia. Quello, che un pilota, e un pastore è tenuto a fare in tempo che gode la pace coi venti e colle fiere, è molto più tenuto a farlo, quando entra in battaglia colle fiere e coi venti. E quello che un Vescovo deve al suo popolo in tempo di calma, lo deve molto più al suo popolo in tempo di agitazione.

Dunque quali sono i principali doveri di un Vescovo in tempo di pace?

Gesù Cristo ha chiamato se medesimo col nome di Pastore: Ego sum pastor bonus (Ioan. X, 11). Egli medesimo raccomandando a S. Pietro tutti i fedeli, lo ha dichiarato Pastor della Chiesa: Pasce agnos meos… pasce oves meas (Joan. XXI, 16, 17). S. Paolo Apostolo indirizzando il discorso a tutti i Vescovi raccomanda loro, come a Pastori la greggia: Attendite vobis, et universo gregi, in quo vos Spiritus Sanctus posuit Episcopos regere Ecclesiam Dei (Act. XX, 28). Dunque, i doveri di un Vescovo sono quelli di un Pastore, cioè, secondo il Concilio di Trento, di pascère il suo popolo colla divina parola, coll’amministrazione de’ Sacramenti (Concil. Trident. Sess. XXIII, Decr. de ref. c.1, Act. Eccles. Mediol. part. A, orat. S. Carol. in Concil. Province. primo Lugdun. 1682, pag. 50), e coll’esempio di tutte le buone opere. « Præcepto divino mandatum est omnibus, quibus animarum cura commissa est, oves suas agnoscere… verbique divini prædicatione, Sacramentorum administratione, ac bonorum omnium operum exemplo pascere. » – E per cominciare dal primo, il predicare al popolo la divina parola è un obbligo così rigoroso in un Vescovo, che non lo può dispensare, se non un legittimo impedimento, perché la predicazione, del Vangelo è il principale ufficio del Pastore (Concil. Cart. 4, can. 20, Concil. Mogunt. an. 813, can. 25, Concil. Rhemens. 2, c. 14 et 15, Tolet. A1, can. 2, Trullan. can.19, 20, Arelat. an. 843, can. 3, Turonens. 3, an. 81 3, can. 17, Ticinens. an. 850, can. 5, Lateran. 4, can. 10, Avenion. an. 1209, can. 4, Paris. an.1212, can. 3, Balsamon. în can. 58, Apost. Orat. S.Carol. in 2 Concil. Provinc. Bellarmin. ad Nepot. contr. 2). Perciò, allorquando il Vescovo è consacrato, gli consegnano il Vangelo, e gli dicono: Accipe Evangelium, vade, et prædica populo tibi commisso [Ricevi il Vangelo e predica al popolo a te affidato]. Nè queste sono leggi antiquate, o che possano abolirsi. L’ultimo general Concilio di Trento lo ricorda e lo ingiunge a tutti i Pastori in questa forma: Quia  vero Christianæ Reipublicæ non minus necessaria est prædicatio Evangelii, lectio; quam et hoc est præcipuum Episcoporum munus; statuit, et de- crevit cadem Sancta Synodus, omnes Episcopos, Archiepiscopos, Primates, et omnes alios Ecclesiarum Praclatos teneri per se ipsos, si legitime impediti non fuerint, ad prædicandum sanctum Jesu Christi Evangelium. (Concil. Trident. Sess. 3 de reform. cap. 2) Ripete la stessa cosa alla sessione vigesima quarta capo quarto; e senza questa né pure una lunghissima desuetudine può dispensare i Vescovi da questa legge, la quale, come abbiam veduto coll’autorità dello stesso Concilio, non è legge Ecclesiastica, ma divina: Præcepto divino mandatum est. E infatti le pecore devono seguir il Pastore, e ascoltar la sua voce, e il Pastore deve chiamarle a nome una per una, e condurle al pascolo: Ques vocem eius audiunt, proprias oves vocat nominatim et adducit eas. Et cum proprias oves emiserit, ante eas vadit: et oves illum sequuntur, quia sciunt vocem eius [Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce – Joan. X, 3 et segg.). Dunque è necessario, che il Vescovo faccia sentire al Popolo la sua voce. Di più i Vescovi sono i successori degli Apostoli nell’Episcopato, e gli Apostoli hanno predicato per se medesimi il Vangelo per tutta la terra: In omnem terram exivit sonus eorum, et în  fines orbis terræ verba eorum [Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola. – Psalm. XVIII, 5]. S. Paolo protestavaagli Efesini di aver predicato e in pubblico, e per le case; Vos scitis… quomodo nihil subtraxerim utilium, quominus annuntiarem vobis, et docerem vos publice, et per domos [voi sapete … come non mi sia sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio pubblicamente e nelle case … – Act. XX). Aggiungeva, che questo fosse un dovere, e guai, se non avesse predicato, (1 Cor., IX, 16). Si Evangelizavero non est mihi gloria, necessitas enim mihi incumbit: væ enim mihi est, si non evangelizavero [Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo (1 Cor. IX, 18). Non enim misit me Christus baptizare, sed evangelizare. Quindi scriveva a Tito: Tu autem loquere, quæ decent sanam doctrinam [Tu però insegna ciò che è secondo la sana dottrina:  – Ad. Tit. II, 1]; e a Timoteo: Prædica verbum, insta opportune: argue, obsecra, increpa in omni patientia, et doctrina [… annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. – 2 Timot. IV, 2].Che però il Concilio Romano dell’anno 1074 arriva a dire, che niente giova a un Vescovo l’esser virtuoso, se poi non è capace0d’istruire il suo popolo (Concil. Roman. an. 1074, cap. 16), e di esortarlo a mantenersi nella sana dottrina. « Oportet Episcopum esse Doctorem: nihil enim prodest ei conscientia virtutum perfrui, nisi et creditum sibi populum posset instruere, et valeat exhortari in doctrina, et eos qui contradicunt redarguere.. [… è necessario che il Vescovo sia dotto, nulla gli vale una   non ha credito nell’insegnare ed esortare alla dottrina e redarguire gli oppositori …] » E questo è ciò, che scriveva anche S. Girolamo (lib. 2 ep. select. 2) a Paolino: Sancta quippe rusticitas solum sibi prodest: et quantum ædificat ex vitæ merito Ecclesiam Christi, tantum nocet, si destruenti non resistat.[una santa rusticità serve a sé solamente, ma edifica col merito della Chiesa di Cristo, e tanto nuoce se non resiste ai ribelli]. – Troppo sarebbe, se io volessi qui riferire tutti i detti de’ Padri, i quali, (S. Gregor. Reg. Past. p. 2, c. 4 et in Evang. hom. 17,S. Agost. ep. 59, S. Leone ep.62, S. Isidor. de Eccles. offic. l. 2,S. Iar. 1.8 de Triniît. S. Cæsar. Vit. c. 6, S. Fulbert. Carnot. ep. 88ad Robert. Petrus Blesens. de instit. Episc. S. Thom,3 p. q. 67,art. 2) quando hanno parlato de’ Vescovi, si sono sempre dichiarati per questo incontrastabile loro dovere. Ma ecco quello, che scriveva S. Bernardo a un semplice Abate, ricordandogli l’obbligo di pascere col pane della divina parola i suoi sudditi, e sciogliendo insieme quelle (Bern. ep. 101, n.2) difficoltà, che dall’umana pigrizia. si sogliono produrre. « Procura di farti trovare dal servo fedele e prudente, e di comunicare a’ tuoi fratelli il celeste grano senza invidia, e di distribuirlo senza pigrizia; e non volerti scusar vanamente col dire, che sei uomo nuovo ed imperito; il che non so, se tu lo credi veramente, o pure se il fingi. Imperocchè non piace una infruttuosa verecondia, né deve lodarsi una falsa umiltà. Abbi dunque l’occhio al tuo impiego. Caccia via la vergogna in riflesso del tuo dovere, ed opera da maestro. Sei uomo nuovo, ma sei debitore; e sappi, che allora sei divenuto debitore, quando hai preso questo legame. Forse la novità Scuserà appresso il tuo creditore la perdita che farai del guadagno? Forse il trafficante soffre, che Scorrano senza frutto i primi mesi? Ma risponderai, che non sei abile a questo incarico. Come se il tuo buon animo dovess’essere accetto per quello, che non hai, e non piuttosto per quello, che hai. Devi esser pronto a render ragione di quel solo talento, che hai ricevuto, e niente più. Se hai ricevuto molto, molto hai da rendere; se poco, devi fruttificar questo poco. Imperocché chi non è fedele nel poco, non lo è né pure nel molto. Dà tutto quello che hai, perché dovrai render conto sino all’ultimo denaro; ma certamente quello che hai, non quel che non hai.» Qui finisce il Santo; ed io discorro così: Se s. Barnardo incaricava sì strettamente ad un Abate di predicare a’ suoi Monaci, che avrà poi detto a un Pastore di molte migliaia di anime? Così pensava ancora Giuliano Pomerio quando scriveva (De vit. contempl. l. 1, c. 21). « Nec vero se per imperitiam Pontifex excusabit, quasi » propterea docere non valeat, quod ci sufficiens, et luculentus sermo non suppetat; quando nulla alia Sacerdotis doctrina debet esse, quam vila; salisque auditores possint proficere, si a Doctoribus suis, quod vident Specialiter fieri, hoc sibi ctiam simpliciter » audiant prædicari: dicente Apostolo: Et si imperitus sermone, » sed non lingua….. Non igitur in verborum splendore, sed in Operum virtute totam prædicandi fiduciam ponat. » Ed infatti chi doveva parere più insufficiente a predicare di un Ambrogio, che di laico all’improvviso fu creato Vescovo, e dai tribunali fu di repente introdotto nel Santuario? Lo rifletteva egli medesimo; e pure non si credeva per questo dispensato dall’ob- bligo di predicare (S. Ambr. Office. 1. 1, c.1): S. Agostino racconta di averlo sentito (Conf. I. 6, c. 3) egli medesimo a predicare ogni Domenica. Chi potrà dunque scusarsi al tribunale di Dio per non avere dispensata al popolo la sua parola, quando Dio gli rinfaccerà l’esempio di un laico togato, che in un giorno solo è divenuto zelante banditore del suo Vangelo? Ma se in ogni tempo; e di precetto divino è tenuto un Pastore ad aprire le labbra colle sue pecorelle, molto più sarà tenuto di farlo in tempo di persecuzione. S’egli è obbligato a conservar la fede, quando è rispettata, molto più è obbligato a difenderla quando è assalita. S’egli deve guidar le pecore ai pascoli, quando i pascoli sono sani, molto più deve guardarle, quando sono infetti. Le pecore non conoscono i lupi, conoscono solo il pastore; e se il pastore non parla, andran senza riparo in bocca ai lupi. E se anche le pecore conoscessero il lupo, tuttavia non potrebbero da se difendersi; tocca al pastore o a custodirle nell’ovile, o a farsi innanzi a loro, e a spaventar colla sua voce, e a cacciare il lupo. Non è un pastore, ma un mercenario colui il quale quando vede venire il lupo, o fugge, o si nasconde, questo è segno, che le pecore non sono sue; questo è indizio, che a lui non appartengono quelle pecore (Joan. X, 12 et segg.). « Mercenarius autem, et qui non est pastor, cuius non sunt oves propriæ, videt lupum venientem, et dimittit oves, et fugit: et lupus rapit, et dispergit oves. Mercenarius autem fugit, quia mercenarius est, et non pertinet ad eum de ovibus. [Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore ]» Ma il Pastore deve alzar la voce anche contro quelli, che non sembrano lupi al di fuori, e che si coprono colle lane degli agnelli? Sì: bisogna avvisar le pecore, che si guardino anche da questi. Così ha fatto il primo Pastore Gesù Cristo Signor Nostro, il quale ha detto espressamente: (Math. VII, 15). Attendite a falsis prophetis, qui veniunt ad vos in vestimentis ovium, intrinsecus autem sunt lupi rapaces. [Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci]. Anzi più contro questi, che non contro gli altri,quanto è più facile il pericolo di seduzion nelle pecore. Se la pecora non può difendersi dal lupo, fugge almeno da lui, quando lo conosce per tale. Ma da un lupo travestito d’agnello la pecora né si difende, né fugge. « Episcopi, præsbyteri, scriveva Alcuino (de Offic. divin. de tons. Cleric.) debent annuntiare populis sibi subiectis adventum nequissimi hostis diaboli ut se prævideant, ne eius laqueo capiantur. »Ma dovrà dunque un Pastore espor la vita per la difesa delle sue pecorelle? Il Mercenario no: ma il Pastore anche la vita deve perdere per la loro salute. (Joan. X, 11). Così ha insegnato, e ha praticato Gesù Cristo. Ego sum Pastor bonus. Bonus Pastor animam suam dat pro ovibus suis. [Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore]. È vergogna per un Pastore, diceva Giovanni Scolastici (de Pastor Offic.) il temere la morte: Confusio est Pastori formidare mortem. (Quindi asseriva giustamente Giovanni Fonseca Dottore Spagnuolo nella sua Orazione recitata (Lab. t. 20, col.572) ai Padri del Concilio di Trento. Tenetur Pastor, sì quandoingruerit persecutionis procella, exemplo sui ducis Christi Crucifixi proprium caput pro ovium salute periculis obiicere; I fasti della Chiesa sono pieni delle gesta di zelanti Pastori, che hanno sostenuta la morte in difesa della fede, ed essi sono grandi nel Cielo, non per aver fatta un’opera di libera elezione, ma per aver compito intrepidamente al debito loro.Fu ricercato S. Pietro Damiani da Enrico Arcivescovo di Ravenna, qual fosse il suo sentimento su l’Antipapa Cadolao, e insieme fu avvertito, che mandasse la sua risposta segretamente per. non esporsi a qualche affronto. Che cosa rispose il Santo? Rispose circa il primo punto, ch’egli giudicava Cadolao un simoniaco, e perciò indegno del Pontificato. E intorno al secondo punto, eccole sue parole: (Petri Damian. L 3, p. 4 edit. Bassan.1783 t. 1,col. 91). « Quod autem scripsistis, ut mitterem vobis litteras taciturnitate signatas, quasi paterno mihi consulentes affectu, ne adversafortassis incurrerem, si sensa cordis cum libertate proferrem;absit a me, ut in tali negotio dura prorsus, et aspera perpetisubterfugiam, et negligendo tam ingenuæ matris incestum, sub, umbra degener filius delitescam. Immo peto, ut epistola hæc in publicum veniat, et sic per vos, quid super hoc totius mundi periculo sentiendum sit, omnibus innotescat. »Ma se non si spera di placar la fame dei lupi, né di ritirarle pecore dal pascolo dovrà tanto e tanto il Pastore alzar la voce autorevole, ed esporsi forse a un insulto? Il Pastore sì: il Mercenario no: perché il mercenario non cerca che il suo vantaggio, e il pastore non bada che al suo dovere. Dio, che consegnò quella greggia al pastore, non gli domanderà conto della vita delle pecore, ma gli chiederà conto della sua vigilanza. La vita delle pecore non dipende totalmente dal pastore; dal pastore dipende il vegliare perché non si perdano. (Ezech. III, 17) « Io ti ho messo, disse Iddio ad Ezechiele, io ti ho messo per guardia della casa d’Israele; ed ascolterai le parole, che escono dalle mie labbra, e le promulgherai ad essi in mio nome. Se quando io dico all’empio, tu morirai, non lo farai sapere a lui, e non parlerai, affinché rivolga i passi dall’empio sentiero, e non muoia, colui se ne morrà nel suo peccato, ma io domanderò conto alle tue mani del suo sangue. Che se tu l’annunzierai all’empio, ed egli non si ritirerà dal suo peccato, e dall’iniquo sentiero; egli senza dubbio morirà nella sua iniquità,ma tu avrai messo in salvo l’anima tua. » Ecco il primo dovere di un Pastore, cioè di sgridar gli empii, che cercano di divorare la greggia, benché non speri, che costoro cangino le vie e i pensieri d’iniquità. Segue adesso l’altro dovere di un Pastore, cioè di ammonire i giusti, perché non si lascino depravar dagli empii (Ibi 20 et seg.) … « Che se un giusto abbandonerà le vie della giustizia, e diverrà iniquo: metterò un’inciampo dinanzi a lui, egli morirà, perché tu non l’hai avvertito; morirà nel suo peccato, e non resterà più memoria dell’opere buone ch’egli fece: ma del suo sangue io domanderò conto alle tue mani. Ma se tu avviserai il giusto, perché non pecchi, ed egli infatti non peccherà: conserverà la sua perché tu l’ammonisti, e tu avrai messo in salvo l’anima tua. » – Non son forse queste espressioni, e questi sentimenti a sufficienza terribili per l’anima di un Pastore? Ma se queste non bastano (Ved. le constitut. Apost. lib. 2, cap. 20), eccone delle altre (Ezech. XXXIV, 2 et segg.): « Guai, dice il Signore Iddio ai Pastori d’Israele, che pascevano se medesimi: non son forse le greggi, che devon esser pasciute dai Pastori? Voi mangiavate del latte, e vestivate delle lane, e uccidevate le più pingui agnelle; ma non pascevate la mia greggia. Non rinvigoriste le deboli, non risanaste le inferme, non fasciaste le lor ferite, e non riconduceste le smarrite, e non cercaste conto delle perdute; ma sovrastaste loro con austerità e con potere. E le mie pecore andaron disperse per non aver pastore; e caddero in bocca a tutte le bestie del campo, e si dispersero… Ecco dunque, che io stesso domanderò conto ai pastori della mia greggia.» – Faremo ancora tanto caso di questa scusa: a che serve il predicare, l’ammonire, il correggere? in questi tempi non può sperarsi alcun profitto. Ma dunque non è ancora evidente, che Iddio non cerca dal pastore la guarigion delle pecore, ma la cura della lor infermità. Nè pur da Pietro cercava Gesù Cristo altra cosa, fuorché il medicar le pecore, non già il guarirle, come diceva il Dottor Pietro Frago ai Padri (Labbé tom. 20, col. 332) del Concilio di Trento. Ne Christus quidem aliud a Petro postulavit: non enim a Pastore sanatio, sed cura, et sollicitudo exigitur. E Pietro Blesense al Vescovo di Orleans, esortandolo a difendere l’Immunità dinanzi al Principe (ep. 112): Ab exortatione, gli scrive, quæso non cesses, licet ille suorum consilio assessorum se obduret. Non scriveva S. Paolo a Timoteo, che aspettasse il frutto delle sue prediche, ma bensì che predicasse in tutte le guise. (2 Timoth. IV, 2). Prædica verbum, insta opportune; importune; argue, obsecra, increpa in omni patientia, et doctrina. [… annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina]. Che ottenne Gesù Cristo dai Giudei, che lo perseguitavano, colle sue prediche? Ottenne la morte sopra un patibolo, e questa fu la sua gloria più bella, e la sua maggior soddisfazione. – Bisogna leggere ciò, che scriveva S. Bernardo a Papa Eugenio intorno all’obbligo di predicare anche ai ribelli della fede, e ai trasgressori della legge. Voi dite, scriveva (de Consid. l. 4, c. 4, num. 8) il Santo Dottore, voi dite, che non siete punto migliore dei vostri Padri, i quali non furono ascoltati, ma anzi piuttosto derisi da un popolo iniquo. Ma appunto Maggiormente per questo voi dovete insistere per vedere se mai diano orecchio, e si calmino, insister dovete anche con quelli, che vi resistono. Potrebbe darsi, che queste mie parole vi sembrassero troppo avanzate. E che son forse (2 Timot. IV, 2) mie quelle parole: Insta opportune, importune?All’Apostolo, e non a me dovete dar la taccia d’indiscreto, se avete tanto coraggio. A un Profeta si comanda (Isai. LVIII, 1). Clama, ne cesses. E con chi? se non se cogli scellerati, e coi peccatori? Annuntia populo meo scelera eorum, et domui Jacob peccata eorum. Avvertite saggiamente, che s’indicano insieme e gli scellerati, e il popolo di Dio. Dovete far l’istesso concetto dei vostri Sudditi. Quantunque siano scellerati ed iniqui, guardatevi da quel rimprovero del Signore (Matth. XXV, 45), Quod uni ex minimis meîs non fecisti, nec mihi fecisti. Confesso, che codesto popolo sino ad ora ha mostrato una cervice dura, e un cuore indomito, ma non vedo poi, come possiate saper di certo, che sia un popolo affatto indomabile. Può succedere quello, che sino ad ora non è accaduto. Se voi diffidate, ricordatevi per altro, che nessuna cosa è impossibile dinanzi a Dio. Se hanno una fronte dura, indurate ancor voi la vostra contra di loro. Nessuna cosa è tanto dura, che non ceda a una più dura di lei. Diceva Iddio al Profeta (Ezec. III, 8). Dedi frontem tuam duriorem frontibus corum. [Ecco io ti do una faccia tosta quanto la loro e una fronte dura quanto la loro fronte]. Una sola cosa vi si può assolvere, cioè se avete operato col vostro popolo in guisa, che possiate dire; Popule meus, quid tibi debui facere, et non feci? [Popolo mio cosa avrei dovuto fare che non ho fatto?]. Se avete operato così, ma senza profitto, ecco che cosa vi resta da fare, e da dire. Uscite fuori da codesta Città dei Caldei, e dite, che v’è bisogno di predicare anche ad altre Città. Credo, che non vi pentirete d’andar esule, cangiando una Città con tutto il mondo. V’è dunque un tempo, in cui può un Pastore lasciar di predicare e di correggere il suo popolo. Ma quando? non quando teme di non far profitto, ma quando, dice S. Bernardo, avendo predicato, sgridato e resistito a un popolo iniquo, trova di non aver ricavato alcun profitto: « Insiste Magis… insiste et resistentibus …. Potest » fore, quod nec dum fuit….. Si dura fronte sunt, durato et tu contra tuam…… Unum est, quod te absolvit, si egisti cum populo illo, ut possis dicere: Popule meus, quid tibi debui facere, et non feci? » – Non sono meno spaventosi i sentimenti di S. Pietro Damiani a Niccolò II Pontefice. Signoreggiava a quei tempi fra i Chierici l’incontinenza, e scriveva il Santo al Sommo Pontefice (S. Petri Damian. Opusc. 18, Dissert. 2, cap. 8, tom. 3, col. 409) ricordandogli il suo dovere di opporsi con tutto lo zelo all’inondazione di questo vizio. « Valde tibi cavendum est, venerabilis Pater, qui quamvis temetipsum præbeas vernantis pudicitiæ candore conspicuum permittis tamen, ut in Clero tuo, tamquam cruenta illa Iezabel, obtineat luxuria principatum; de qua nimirum Angelo Thiatiræ Ecclesiæ dicitur ( Apoc. II, 20). Habeo adversum te pauca: quod permittis mulierem Iezabel, quæ se dicit Prophetam, docere el seducere servos meos fornicari. [Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Iezabèle, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione e a mangiare carni immolate agli idoli.]. Authentica certe est illa sententia, qua dicitur: Facti culpam habet, qui quod potest, negligit emendare. Quid enim profuit Heli (1 Reg. II), quia in luxuriam ipse non corruit, sed fornicantes filios paterna quidem pietate,non autem sacerdotali auctoritate corripuit? » [Eli non si diede alla lussuria, ma non emendò il comportamento dei figli con la sua autorità sacerdotale]. Al quale proposito soggiunge altrove il Santo (Opusc. 17, col. 379): « Si ergo Heli propter duos dumtaxat filios, quos non ea, qua digni crant, invectione corripit, cum eis simul, et cum tot hominum moltitudine periit; qua arbitramur dignos esse sententia, qui in aula Ecclesiastica, et soliis indicantium praesident, et super non ignotis pravorum hominum criminibus tacent? Qui dum dehonestare homines in publico metuunt, ad contumeliam superni Iudicis divinæ legis mandata confundunt; et dum perditis hominibus amittendi honoris officium servant, ipsum Ecclesiasticæ dignitatis Auctorem crudeliter inhonorant. » Conformi a questi sentimenti di S. Pier Damiani son pure le parole del Concilio di Aquisgrana, ann. 816, (lib. 1, cap. 26, Labbé tom. 9, col. 434). « Ille autem, » cui dispensatio verbi commissa est etiam si sancte vivat, et tamen perdite viventes arguere aul erubescat, aut metuat, cum omnibus, qui eo tacente perierunt, perit. Et quid ei proderit non puniri suo, qui puniendus est alieno peccato? » Quindi è, che Papa Agatone nella sua lettera a Tiberio ed Eraclio, Augusti, recitata nell’Azione quarta del terzo Concilio Costantinopolitano, ed Ecumenico l’an. 680 dopo aver esaltata la libertà Apostolica dei suoi predecessori nell’annunciare con infallibile certezza la Fede, soggiunge di se stesso così; (Labbé tom. 7, col. 662). « Væ enim mihi erit, si veritatem Domini mei, quam illi sinceriter prædicarunt, prædicare neglexero. Vae mihi erit, si silentio texero veritatem, quam erogare nummulariis iussus sum, idest Christianum populum imbuere, et docere. Quid in ipsius Christi futuro examine dicam si hic, quod absit, praedicare eius sermonum veritatem confundor?... [Guai a me se dimenticassi di predicare sinceramente la verità del Signore mio …]  Quem infidelium saltem non perterreat illa severissima comminatio, qua indignaturum se protestatur, et asserit inquiens [incorrerei nelle severissima sentenza di indignazione comminata in …] (Math. X, 34): Qui me negaverit coram hominibus, negabo et ego eum coram Patre meo, qui in Coelis est. [ …chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.   » –  Ecco anche che cosa scriveva Pietro Blesense al Vescovo d’Orleans animandolo a sostenere coraggiosamente l’Immunità Ecclesiastica (Ep.112 edit. Paris.1667, pag.175): « Noli æmulari in malignantibus Episcopis dico, qui Regem tuum blandis adulationibus palpant, canes muti, non valentes latrare. Acceptissima quidem est in Episcopis apud Deum professio veritatis. Animam pro veritate ponere non formides, ut videas dies bonos, quia sanguinem pereuntis Dominus de manu muti Sacerdotis exquiret. Arca siquidem Dei capitur, et populus gladio ruit, dum Sacerdos in filiorum correctione torpescit. [Non imitare quei Vescovi maligni che cercano di adulare il tuo re, che come cani muti, non abbaiano … graditissima presso Dio è nei Vescovi la professione della verità …]  »,  Io ho recato ancora altre testimonianze su questo particolare nell’Opuscolo XXX, che ha per titolo Gregorio VII, e difendono la libertà Apostolica di questo Sommo Pontefice. – E che direm poi, se dalla esecuzione del debito pastorale si temano e si prevedano alla Chiesa mali maggiori, come sarebbe per esempio una violenta persecuzione, che togliesse l’esercizio del pubblico culto, onde verrebbero i Fedeli a restar privi del pascolo dei Sacramenti e della predicazione, e si troverebbero esposti a perdere facilmente anche la Fede? Rispondo, che se la Chiesa dovesse, unicamente reggersi secondo l’umana prudenza, questa difficoltà potrebbe avere gran peso. Ma poiché la Chiesa dev’essere secondo le divine ordinazioni governata, avendo Iddio sì chiaramente comandato, che i suoi pastori non tacciano, quest’umana prudenza indurrebbe una vera trasgressione della legge di Dio, e sarebbe a Lui ingiuriosa, quasi che l’infinita sapienza, e provvidenza di Dio non avesse mezzi, onde assicurare la conservazione e il buon ordine della sua Chiesa. Si potrà, non nego, in qualche caso differire l’ammonizione e la correzione, aspettando circostanze più favorevoli; ma è assai da temere per i Pastori, che la stessa dilazione non renda poi la piaga immedicabile, e che ciò che non si è fatto da prima per timore di qualche scandalo, si renda sempre più difficile a farsi in progresso, allorquando la piaga non medicata si sarà dilatata anche alle membra più sane, e avrà distese le sue radici alle parti vitali del corpo. Allora farà d’uopo d’una cura più assidua, d’un ferro più tagliente, d’una scienza più profonda, di un coraggio più intrepido. Allora l’infermo si contorcerà ed urlerà sempre più alla vista del medico e all’apparato della medicina; sinché atterrito l’uno e l’altro, arrivi finalmente a incancrenire la piaga, e a toglier la vita. Troppo pericolosa è quest’umana prudenza, la quale scuserebbe quasi sempre i Pastori dall’obbligo di ammonire e correggere i delinquenti. Imperocché quando mai accade, che questi cedano alla verga pastorale senza resistenza? È notabile a questo proposito ciò, che leggesi nei Dialoghi di Severo Sulpizio (l. 3) essere accaduto al Vescovo S. Martino. L’Imperator Massimo avea minacciato al Santo, che se egli non avesse comunicato con Itacio, da cui più Vescovi cattolici si erano separati per aver egli procurata la sentenza di morte contro i Priscillianisti, avrebbe mandato i tribuni nella Spagna a togliere e sostanze e vita a questi eretici. Non v’era dubbio, che in questa esecuzione sarebbero stati compresi anche molti cattolici de’ più santi. E perché Martino non avea voluto cedere all’istanze dell’Imperatore, questi avea già diretti i tribuni cogli ordini i più violenti. « Quod ubi Martino compertum est, dice Severo, iam noctis tempore, Palatium irrumpit, spondet, si parceretur, se communicaturum, dummodo Tribuni iam in excidium Ecclesiarum ad Hispanias missi retraherentur. Nec mora intercessit; Maximus indulget omnia. » E di fatti Martino comunicò coi Vescovi Itaciani nell’ordinazion di Felice, satius aestimans ad horam cedere, quam his non consulere, quorum cervicibus gladius imminebat. Convien qui riflettere, che alla fine Itacio non era un’eretico, onde il comunicare cogl’Itaciani non era un approvare qualch’errore, ma piuttosto un mostrare di non disapprovare la loro sanguinolenta condotta contro gli eretici contraria allo Spirito della Chiesa, la quale ha bensì procurato la deportazione degli eretici ostinati e perniciosi, ma si è sempre astenuta dal domandare contro di loro la pena capitale. Inoltre S. Martino vi aveva acconsentito per breve tempo ad horam e per salvare tant’innocenti, che altrimenti, sarebber periti. E pure ciò non ostante egli ne provò di poi un gran rammarico, e n’ebbe quest’avviso da un Angelo: « Merito, Martine, compungeris, sed aliter exire nequisti. Repara virtutem, resume constantiam, ne iam non periculum gloriæ, sed: salutis incurreris. » Laonde da quel tempo in poi si guardò il Santo con gran diligenza dal comunicare cogl’Itaciani. E non dimeno confessava egli stesso, che dopo un tal fatto avea sentita diminuire in sé medesimo la virtù de’ miracoli. « Cæterum, cum quosdam ex energumenis tardius quam solebat et gratia minore curaret, subinde nobis cum lacrimis fatebatur, se propter communionis illius malum, cui se vel puncto temporis, necessitate, non spiritu miscuisset, detrimentum sentire Virtutis. » Questo fatto può far comprendere, quanto dispiaccia a Dio qualunque azione ed omission d’un Pastore la quale diasegno o di approvare, o di non disapprovare abbastanza l’erroree l’empietà de’ malvagi, per il motivo di non irritarli vie più contro la Chiesa, e d’impedire mali maggiori. Se una qualche connivenza fosse in alcuni casi tollerabile, lo sarebbe al più ad horam per impedire un’imminente disordine, e a patto di ritrattarla subito che fosse possibile, come fece il santo Vescovo, e nei termini più ristretti, come praticò questo Santo, il quale comunicando una sola volta cogl’Itaciani, verumtamen summa vi Episcopis nitentibus, ut communionem illam subscriptione firmaret, extorqueri non potuît. Il vero è, che S. Ambrogio non volle dipoi a nessun patto comunicare cogl’Itaciani, sebbene con ciò irritasse sommamente l’animo di Massimo, e mettesse un impedimento ai felici effetti della sua legazione presso quest’Imperatore. (Paulin in vit. S. Ambros. et Ambros. in epist. ad Valentinian.). – Se S. Ambrogio avesse abbracciata questa falsa opinione, che per impedire maggioni mali si può condiscendere nelle cose, che immediatamente non riguardano il dogma, certamente non si sarebbe opposto con tanta fermezza a Valentiniano, che voleva, che gli consegnasse la Basilica e i sacri vasi per darli dipoi in mano agli Ariani. Avrebbero potuto dire, ch’egli cedeva le cose sacre all’Imperatore, che non apparteneva a lui il cercare ciò ch’egli ne avrebbe fatto, ch’esso non acconsentiva al sacrilego uso che ne farebber gli eretici; e che intanto era men male condiscendere agli ordini del Principe, che non esporre resistendo tutti i Cattolici alla di lui collera. Poteva aggiungere, che non volendo ubbidire, egli sarebbe stato per lo meno cacciato in esilio, e che il popolo senza pastore sarebbe poi stato facilmente sedotto dagli eretici; e che perciò non era prudenza il voler contrastare ai comandi risoluti di un Monarca irritato. E pure tale non fu il discorso del Santo Dottore, né conforme a questi dettami fu la sua risoluzione; ma rispose intrepidamente: « Absit a me, ut tradam Christi hæreditatem… Respondi ego quod Sacerdotis est; quod Imperatoris est, faciat Imperator; prius est, ut animam mihi, quam fidem auferat… Fugere autem et relinquere Ecclesiam non soleo; ne quis gravioris poente metu factum interpretetur. Scitis et vos ipsi, quod Imperatoribus soleam deferre non cedere; suppliciis me libenter offerre, nec metuere quæ parantur (Ambr. In Auxent.).» Ma perché il Santo sostenne coraggiosamente la causa di Dio, che ne seguì? Ecco che cosa ne dice il Cardinal Baronio nella sua Storia ecclesiastica. « Sed quæ post hace sunt subsequata? admiratione plane digna, Uni Ambrosio pro Ecclesiastica libertate pugnanti populus ac milites subditi atque principes, terra cœlumque mortales et superi, viventes atque vita functi, et quid insuper? ipsi denique spiritus adversarii, licet inviti, ei lamen præsto fuere. »

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA: OBBLIGHI DEI FEDELI (III)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE

AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI

  • 1866

RIFLESSIONI SULLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (III)

La storia della Chiesa è fedele maestra di tutte queste verità; ed io mi accingo a darne un brevissimo saggio nella persecuzione eccitata nel secolo decimo sesto in Inghilterra contro la Cattolica Religione. So benissimo, che non mancano degli Scrittori, i quali hanno attribuito quei disastri alla imprudenza e precipitazione dei Papi piuttosto, che ai vizi di Arrigo, e degli ecclesiastici e secolari di quel tempo. Ma io reputo questa imputazione essere una calunnia di uomini poco esperti e inconsiderati contro la Santa Sede, nata da false idee e da principii di non retto raziocinio. Chiamo una falsa idea il pretendere, che la Santa Sede avrebbe operato più prudentemente col dissimulare il fallo di Arrigo, o coll’astenersi almeno dagli estremi rimedii delle censure, dalle quali irritato il Re passò finalmente alle più violente risoluzioni contro la Cattolica Chiesa. Chiamo un raziocinio men retto il supporre, che la Fede non si sarebbe perduta in Inghilterra, se i Papi si fossero mostrati più circospetti e moderati nell’usar del rigore, e il voler attribuire un fatto certo, qual è la perdita della fede, a una cagione incerta, qual è la costanza e la fermezza de’ Sommi Pontefici. E infatti, siccome non v’ha dubbio, che vi sono delle circostanze, nelle quali anche la prudenza Evangelica consiglia di tacere, dissimulare e differire, così parimenti è indubitato esservi altre circostanze, in cui né differire si può, né tacere, né dissimulare. Nobis caute discendum est, quatenus os discretum, et congruo tempore vox aperiat, et rursum congruo taciturnitas claudat. Così diceva S. Gregorio Magno (Regul. Pastoral.). David tacebat non semper, sed pro tempore, non iugiter, neque omnibus, sed irritanti adversario; provocanti peccatori non respondebat. Così S. Ambrogio (De offic. lib. 1, cap.10, num. 14). Ora il decidere e il giudicare, quanto sia spediente all’onor di Dio e al bene della Chiesa il tacere, o il parlare, non è officio di persone private, ma bensì di quelli, che Iddio ha posti a pascere il suo popolo, e ai quali lo Spirito Santo somministra i lumi e le ispirazioni opportune all’adempimento del lor ministero. Se Gesù Cristo avesse osservato la regola prescritta da questi uomini troppo prudenti, non avrebbe sgridati e minacciati così spesso gli Scribi, e i Farisei, né gli avrebbe chiamati col nome d’ipocriti, e di prole di serpenti. Non v’ha dubbio che costoro s’irritarono sempre più contro il Figliuol di Dio per la libertà de’ suoi rimproveri, e congiurarono più rabbiosamente contro la di Lui vita. Ma perché essi erano maligni, superbi, e impenitenti, perché essi prendevano occasione d’imperversare sempre di più, quanto più erano corretti dal Redentore, per questo avrete voi il coraggio di accusar Gesù Cristo d’imprudenza e di temerità? Lo scandalo, ch’essi prendevano, era uno scandalo ingiusto e malizioso, e che da essi appunto ha preso il nome di farisaico, eche non deve impedire a veruno l’uso della correzione, allorquandolo esige l’onor di Dio e il bene universale. Clemente VII cassò l’illegittimo matrimonio di Arrigo VIII con Anna Bolena vivente la legittima di lui consorte Caterina, mediante la sentenza data in Roma del 1534 il 23 Marzo, e che comincia: Cum pendente lite etc. (apud Sander. – de Schism. Anglic. l. 1). Sin qui che cosa potete voi opporre, poiché lo stesso Arrigo aveva portata questa causa al tribunale del Papa, e pendente ancora la lite il Papa avea frattanto inibito ad Arrigo queste illegittime nozze? Se Clemente avesse dissimulato un tal eccesso, oltre l’offendere i Principi congiunti per sangue a Caterina, oltre il mancare di giustizia con lei medesima, avrebbe confermato il Re Arrigo nel suo delitto, avrebbe dato segno di non far conto di tali eccessi, o di non avere abbastanza di zelo per correggerli, avrebbe somministrata occasione ad altri d’imitare la dissolutezza d’Arrigo, avrebbe eccitata l’ammirazione e lo scandalo in tutti i buoni, i quali avean presente il coraggio di Giovanni Battista adoperato con Erode a costo della vita. Gli ambasciatori di Arrigo avevano parlato con alterigia e con impudenza al Sommo Pontefice per quest’affare in Marsiglia, udendoli il Re di Francia, ed aveano appellato dalla sua autorità a un futuro Concilio. Fu allora, che il Re Francesco cominciò a vergognarsi della sua interposizione, e Clemente a pentirsi dell’indulgenza adoperata sino a quel punto. (Sander. Ibidem). – Poteva egli dunque il Papa tacere più a lungo su questo fatto senza incorrere la taccia d’indolenza, di connivenza e di mancanza al proprio dovere? Ma direte voi, poteva almeno il Papa in quell’incontro risparmiar le censure. Imperocchè, « Henricus, hac accepta sententia, cum ea non aliter atque si ipsi iniuria facta fuisset mire interpretaretar, tantum abfuit, ut eidem pareret, aut penitentiam cogitaret, ut perditorum potius hominum more pervicacius multo progrederetur, et doloris sui ulciscendi causa nihil aliud versaret animo, quam vindictam. » Così scrive lo stesso Sandero. E infatti i Cardinali stessi, che aveano dissuaso il Papa dal differire quella sentenza; parvero dipoi pentiti, e pensarono, ma senza risolversi, ai mezzi di ritrattare quel passo (Raynald. an.1534 n,. 5). – Sempre più Arrigo fu irritato per la Bolla di Paolo III, con cui questo Pontefice gl’intimava le pene più gravi adoperate dalla Chiesa, se non desisteva da’ suoi eccessi. Io non nego, che queste cose non contribuissero ad infiammare sempre più l’animo di Arrigo contro la Chiesa. Ma qui si tratta di sapere, se i Papi fossero imprudenti per questo loro procedere, e se sarebbero stati col più lodevoli differire o moderare almeno la correzione. E qui appunto è dove un privato non può farsi giudice, trattandosi non di una prudenza mondana, ma di una prudenza ecclesiastica e spirituale, che è un dono dello Spirito Santo compartito per il ben comune della Chiesa a quelli specialmente, ch’Egli ha eletti a reggerla e governarla. Pio procedé forse anche con maggior vigore contro la Regina Elisabetta; ma egli era un Santo. Tommaso di Cantuaria parve feroce e implacabile contro Enrico II, e i Vescovi suoi fautori; ma anche questi era un Santo. Piuttosto, che moderare il pastoral suo vigore col Re, egli si esibì a Papa Alessandro di rinunziare liberamente in sua mano il Vescovato, che non avea voluto rassegnare alle minacce di Enrico, e alle rimostranze degli altri Vescovi, poiché diceva egli: « Si ad Regis comminationem, ut coepiscopi mei persuasere instantias, renunciassem Episcopalis  auctoritatis mihi indulto privilegio, ad Principum votum et voluntatem Catholicæ Ecclesiæ perniciosum relinqueretur exemplum » (S. Tom. Vit. Quadripart. lib. 2, cap. 12 inter Oper. Christian. Lupi Venet. 1727, tom. 10). E benchè ad alcuni sembrasse di profittare di questa occasione per sedare l’ira del Re, provvedendo la Chiesa di Cantuaria d’altro Pastore più accetto, e la persona di Tomaso d’altra Chiesa, pur nondimeno altri si opposero dicendo: « Eo cadente: caderent universi Episcopi, ut nullis futuris temporibus auderet quis obviare Principis voluntati: et sic vacillaret status Catholicæ Ecclesiæ, et Romani Pontificis deperiret auctoritas. Expedit igitur restitui etiam invitis omnibus, et ei, qui pro nobis dimicat, omnimode succurrendum (Ibidem). » Questo consiglio fu seguito da Papa Alessandro, il quale lo confermò nella Sede di Cantuaria, di cui Tomaso temeva di non aver avuto sino allora un legittimo possesso, dicendogli: « Nunc demum, Frater, nobis liquet, quem habuisti, et habes zelum pro Domo Domini, quoniam sincera conscientia te ipsum statuisti murum ex adverso…. Et sicut nostræ persecutionis factus es particeps, et consors individuus, ita tibi, Deo auctore in nullo deesse poterimus, quamdiu in hoc corpore mortali duraverit spiritus (Ibid.). » Ora voi sapete, quanto crebbe dipoi la persecuzione d’Enrico in tutto il regno per la sola persona di Tomaso, sinché o per ordine suo, p per far piacere a lui, quest’intrepido Vescovo fu tolto crudelmente di vita. Tutto questo, direste voi, avrebbe potuto impedirsi se il Pontefice avesse accettata la rinunzia del Vescovato da Tomaso. E pure egli non giudicò di dover procedere di questa maniera: e finalmente Enrico dopo la morte di Tomaso si ravvide de’ suoi eccessi, ne fece pubblica e solenne penitenza, e restituì la pace alla Chiesa. Fingiamo adesso, che invece di ravvedersi si fosse Enrico sempre più ostinato ne’ suoi trasporti, e avesse finalmente sradicata sin d’allora la fede dall’Inghilterra. Che cosa non direste voi dell’imprudenza di Papa Alessandro, quasi che per sostenere la sola persona di Tomaso avesse sacrificato la Fede di tutto un regno? Ma l’esito non fu tale, anzi ne ridondò alla Chiesa onore e utilità. Quindi forse non avrete il coraggio di condannare la condotta del Sommo Pontefice Alessandro. Dove io discopro in voi un falso metodo di ragionare, volendo dall’esito giudicare della prudenza, o imprudenza dell’Apostolica Sede. Se voi vi applicherete a leggere accuratamente la Regola Pastorale di S. Gregorio Magno, vi troverete degli ammirabili e minuti precetti sulla condotta d’un Pastore verso i trasgressori della divina legge; ma dovrete insieme concludere, che la giusta applicazione di quei precetti alla pratica non è un affare della sola prudenza dell’uomo, ma molto più di un lume particolare della divina Sapienza, la quale certamente assiste in singolar modo i Pastori collocati sulla Cattedra della verità a governare la Chiesa. E in conseguenza, io torno a ripetere, sarà sempre temerità quella di un privato, il quale pretende di giudicare con franchezza della diversa condotta usata dai Sommi Pontefici nelle diverse circostanze della Chiesa, secondo i diversi lumi e aspirazioni del divino Spirito, che gli assiste e dirige. Ma sarà anche insieme un falso ragionare il voler dall’esito misurar la giustizia e la prudenza del loro operare. No, non fu la sentenza di Clemente VII, non furono le sue censure secondo alcuni troppo precipitate, né la Bolla di Paolo III, che cagionaron la perdita della Fede in Inghilterra, ma bensì i peccati di quel regno, che provocarono la collera di Dio, e disposer quel popolo ad abbandonarsi finalmente all’errore. Anche senza quelle procedure de’ Papi la Fede si sarebbe perduta in Inghilterra forse con meno strepito, ma probabilmente con maggior danno della Chiesa, e de’ Fedeli. Già prima della sentenza di Clemente ecco di quali persone ridondava la corte di Arrigo. « Statim Henrici aula eiusmodi hominibus completa est, qui sacra omnia ridere, sacerdotibus illudere, religiosorum vitam in contemptum adducere, ecclesiasticorum divitias ac potentiam carpere, ridiculas de monachis fabulas fingere, et supra omnia Pontifici Romano detrahere, invidiamque facere solebant, et qui in his se petulantissimos et audacissimos praebebant, ii primas apud Annam, et per eam etiam apud Regem obtinebant (Sander. 1. 1). » – I consiglieri d’Arrigo erano il segretario Tomaso Cromvelo, l’Arcivescovo Graumero, e il Cancelliere Audleo, uomini egualmente scaltri, e propensi all’eresia. I Vescovi erano già caduti nell’errore di giurare obbedienza al Re nelle cause ecclesiastiche e spirituali, indottivi dall’autorità di Giovanni Fischero Vescovo Roffense, il quale per declinare la tempesta sovrastante al Clero, e sperando opportuno rimedio dal tempo, avea tratti a questo passo i Prelati più fermi, medicando il sacrilego giuramento colla clausola: Quantum per Dei verbum liceret (Sander. Ibid.). Nel Gennaio del 1533 cioè due mesi prima della sentenza del Papa erasi adunato in Londra il Parlamento a decidere gli affari di religione, e s’era disciolto il primo di Marzo per testimonianza di Burneto (Histor. lib. 2). Era dunque già seguita l’apostasia dalla Fede prima, che Clemente le censure fulminasse contro Arrigo. Nè questo Re prometteva pentimento e correzione, se il Papa avesse differito di lanciare i suoi fulmini, ma soltanto di dilazionare anch’egli la sua deserzione dal Papa, che per altro aveva incominciato. Così racconta Belcairo Zelcai (l. 20) « Bellaius… quamvis indignatum eo perduxit, ut si Clemens suam fulminationem differret, ipse quoque quod animo intenderat, nempe ut Clementi pristinam observantiam renuntiaret, exequi differret. » Dal che può conoscersi, che cosa avrebbe ottenuto il Papa con una maggior dilazione, da chi faceva con lui patti così arditi e minacciosi. Qual fosse eziandio la corruttela degli Ecclesiastici in quel regno si vide di poi sotto Eduardo VI, allorché una gran parte di essi non ebbe difficoltà di legarsi con vincolo di pubblico matrimonio, o a dir meglio di sacrilego concubinato (Sander. lib. 1). Ma qual attestato più autentico della vera cagione della perdita della Fede in Inghilterra, quanto ciò, che si osservò sotto il regno di Maria, e dipoi in quello di Elisabetta? Lo stesso Arrigo prima di morire avea tentato di riconciliarsi colla Chiesa, spinto a questo passo dagli stimoli della coscienza. Ma non volendo pubblicamente confessare il suo delitto, né farne la debita penitenza, ben dimostrò, qual animo fosse il suo, e quale stato sempre sarebbe, e qual era la moderazione, che egli esigeva dal Sommo Pontefice per conservare nel regno la Cattolica Religione, cioè una totale dissimulazione e connivenza egualmente ingiuriosa a Dio e scandalosa ai Fedeli. A lui sottentrò Eduardo, ed indi la Regina Maria, sotto il cui comando si riconciliò l’Inghilterra colla Chiesa. Si vide allora, quanto fosse sorprendente l’indulgenza dell’Apostolica Sede per quel regno. Il Cardinal Polo come Legato del Papa dichiarò con pubblico istrumento assoluti in perpetuo dalle pene e censure canoniche tutti quelli, che nel tempo dello scisma aveano acquistati i Beni monastici; benché non lasciasse di avvisarli, « ut corum, qui in Scripturis Sacris de hoc genere sacrilegii notantur, metuant exitus, ac Dei omnipotentis in tales severissima iudicia non obliviscantur, licet  Ecclesia suum ius secundum canones non persequatur (Sander. lib. 2). » Si dispensò con tutti i coniugati, ch’erano quasi innumerabili, dagl’impedimenti ecclesiastici del matrimonio. Benché si distaccassero dalle Sedi Vescovili gli eretici intrusi per restituirvi i Vescovi Cattolici, nondimeno si confermarono i Vescovi di credenza cattolica, ch’erano stati creati durante lo scisma, e si ritennero sei nuovi Vescovati eretti al tempo di Arrigo. (Sander. lib. 2, Fleury lib. 149, num. 56, e lib. 150, num. 37). Per parte poi degl’Inglesi parve del tutto sincera la loro riconciliazione. La Regina Maria rassegnò nelle mani del Legato tutte le decime, primizie e benefizii, ed altri simili proventi, che sotto Arrigo ed Eduardo erano stati applicati al regio erario (Sander. Ibidem; Fleury lib. 130, num. 87). Il Parlamento presentò al Legato del Papa una supplica concepita con tutti i segni più rispettosi di umile pentimento e di sincera ritrattazione, aggiuntavi la protesta di far tutto il possibile per l’abrogazion delle leggi contrarie alla Chiesa (apud Sander. Ibid.). Il Legato a nome del Sommo Pontefice benedice e assolve pubblicamente i Parlamentari e il Re, e la Regina, i quali piegati a terra le ginocchia ricevono l’assoluzione del Papa (ibidem). Si spediscono a Roma ambasciatori a protestare obbedienza al Sommo Pontefice a nome di tutto il Regno. I Vescovi di credenza cattolica, ma creati in tempo dello Scisma, non contenti della Pontificia dispensa, domandano tutti in particolare, eccettuatone un solo, alla Sede Apostolica il perdono dell’antecedente lor colpa, e la conferma nei lor Vescovati (ibidem). Si restituiscono nelle Accademie le Scuole di Cattolica dottrina, e di Scolastica teologia; ma giova di aggiungere il rimanente colle stesse parole del Sandero. « Restituuntur ac ornantur passim Ecclesiæ, altaria eriguntur ct consecrantur, collegia nova amplissima dote fundantur, cœnobia Benedictinoraum, Carthusianorum, Brigittensium, Dominicanorum, Observantium, ac aliorum Ordinem a devotis personis ræedificantur, catholicis Regibus in hoc genere pietatis subditis omnibus prælucentibus. Ad sanctum Sacrificium, Confessionem, Communionem, publicas preces plebs alacri studio concurrit. Et ad Sacramentum quidem Confirmationis, quia per totum fere sexennium, quo Eduardus regnavit, legittime non administrabatur, tam innumerabilis parvulorum ex omnibus urbibus, Oppidis, pagis, agris turba deferebatur, ut Episcopi variis locis pene opprimerentur… Alque ita quidem religioni Catholicæ studio omnia fervebant (ibidem). » Chi non avrebbe sperato dopo sì felici successi una stabil perseveranza della Cattolica Religione in Inghilterra? E pure chi nol sa? Dopo cinque anni e Quattro mesi di regno muore la piissima Regina Maria; il Trono è occupato da Elisabetta; la persecuzione infierisce con maggior crudeltà, che non avea fatto sotto Arrigo; e la Cattolica religione è finalmente proscritta da quel regno. Questa è la vera epoca della perdita stabile e durevole della Fede in Inghilterra, là dove sotto Arrigo questa perdita fu soltanto passeggera. Ora che diran qui i sapienti del secolo? Fu forse l’imprudenza e la precipitazione di Clemente VII, e di Paolo III, che diedero occasione a questa nuova persecuzione dappoichè l’indulgenza di Giulio III lor successore avea riparati con tanta moderazione tutti i disordini e gli effetti dello scisma, e dell’eresia? – Qui è dove fa d’uopo ricorrere piuttosto agli occulti impenetrabili giudizi della divina provvidenza. Ma siccome per altro la sottrazion della Fede da un regno è uno de’ più severi castighi dell’irritata divina giustizia, ed ogni castigo suppone un delitto, convien anche dire, che molti e gravissimi fossero agli occhi di Dio gli eccessi di quel popolo infelice, e somma fosse la di lui ingratitudine, per cui si videro da lui sottratte le divine beneficenze. Forse, dice il Sandero, la cagion fu l’ostinazione. degli Ecclesiastici, i quali per la più parte non vollero prestarsi alla riforma decretata in un Sinodo dal Cardinal Legato, e approvata dal Papa, e l’ambizion di quel Clero, e l’infinita sollecitudine di accumular Beneficii; unde iam tum homines aliquot vere pii, et secundum Deum prudentes timuerunt, ne iterum a Domino gravioribus quam ante flagellis vapularemus (Sander. lib. 2 sub fin.). Forse furono i sacrilegi gravissimi d’Arrigo, e del suo popolo, che non potevano espiarsi con sì leggiera e breve penitenza. Forse la retenzione dei Beni Ecclesiastici, che sono il patrimonio di Gesù Cristo, e dei Poveri; e benché Giulio III avesse dato facoltà al suo Legato di transigere e dispensare coi detentori di tali Beni a tal segno, ut prædicta Bona sine ullo scrupulo in posterum retinere possit (apud Baynald. an. 1554, num. 8); nondimeno convien rammentarsi, che lo stesso Legato avea avvisati gli occupatori, che avesser i severissimi giudizi di Dio sopra i sacrilegi: « In quo tamen huiusmodi occupantes gravissime admonet, ut eorum, qui in Scripturis Sacris de hoc genere sacrilegii notantur, metuant exitus, ae Dei omnipotentis in tales severissima iudicia non obliviscantur (Sander. lib. 2). » Lo stesso Cardinal Legato, uomo per altro così pio, dotto e prudente erasi mostrato forse troppo indulgente coi Sacerdoti ammogliati, ai quali, dopo averlì separati dalle mogli, e privati degli anteriori Benefizii, avea permesso di ascendere troppo presto ad altro maggior grado, risolvendosi a ciò fare per la grande penuria de’ Sacerdoti: « In eo paulo indulgentior, ut a multis observatum fuit, quod in sacerdoles, ac religiosos uxoratos non apimadvertit satis; sed a praetentis uxoribus tantum separatos, atque beneficiis prioribus privatos, mox ad alia maiora sacerdotia nimis cito admiserit. Sed ut illud fieret, presbyterorum magnæ tum penuriæ indultum dicebatur » (Sander. ibidem). I Vescovi di credenza cattolica creati nello Scisma di Arrigo fuor della. Chiesa, e che aveano sottoscritto al Primato di Eduardo, non ostante l’umile e sincera loro ritrattazione, tuttavia non aveano forse ancor data a Dio e alla Chiesa quella soddisfazione e riparazion dello scandalo, che competeva a così gran delitto, e che Dio volle da essi in questa seconda persecuzione colla effusion del lor sangue per la confession della Fede. « Cuius criminis gravissimas paulo post pœnas… .. deinde multo magis sub Elisabetha omnes luerunt, depositionem, et diuturnos carceres usque ad mortem patientissime tollerantes, misericordiamque simul, et iustissima in se Dei iudicia collaudantes » (Sander. lib. 2 Eduard.). Certo è, che assai meno accuserebbero i prudenti del secolo la fermezza e severità dei Pastori della Chiesa, se fossero qualche poco istruiti nelle divine Scritture, in cui leggiamo, qual conto faccia Iddio di ciò, che ordinariamente poco si apprezza anche tra i savi, qual severissima pena Egli ne esiga. Ma non convien dimenticare per questo ciò, che ho detto da prima, cioè che Iddio della persecuzione medesima si prevale a far pompa della sua misericordia non solo coi giusti, ma eziandio coi peccatori, e ad ingrandire sempre più i trionfi della sua Chiesa. – Quanti sotto Elisabetta espiarono con una gloriosa morte per la Fede l’apostasia, in cui erano caduti sotto Arrigo ed Eduardo, o la timida e interessata condiscendenza adoperata da loro con quei Principi? Così imitarono il celebre Giovanni Fischero Vescovo e Cardinale, di cui abbiam parlato, e il quale sotto Arrigo era stato autore agli altri di sottoscrivere il sacrilego giuramento coll’eccezione; quantum per Dei verbum liceret,. Del qual fatto egli pentito dipoi pubblicamente si accusava e diceva: « Suas idest Episcopi partes fuisse, non cum exceplione dubia, sed aperte, et disertis verbis cœleros potius docuisse, quid verbum Dei permitteret, quidve probiberet, quo minus alii in fraudem incurrerent; nec unquam sibi deinceps peccatum hoc Satis expiasse videbatur, quousque proprio sanguine hanc maculam eluisset » (Sander. lib. A). Come di fatti ebbe la sorte di poter ottenere sotto o Stesso Arrigo con tanta gloria sua e della cattolica religione. Ma nulla può essere più a proposito di ciò che lasciò scritto il Ribadeneira, e leggesi nell’Appendice allo Scisma Anglicano, o sia libro quarto di quella Storia (cap. 32, Colon. 1628). « Essendo, dic’egli, per dar compimento a questa Storia dello Scisma Anglicano, pare che sarà cosa utile l’investigare alcuna di quelle cagioni, per cui l’ineffabile e secreta provvidenza di Dio ha permessa in quel regno così barbara persecuzione. Imperocchè temo, che si trovino alcuni non solo tra il volgo, ma anche tra i più prudenti, i quali riguardando semplicemente con occhi carnali lo stato dell’Inghilterra e il potere de’ nemici di Dio, possano dire, che Iddio ha abbandonata la propria causa e l’onor proprio, e che non vendica i suoi servi. A queste difficoltà ho destinato coll’assistenza del Signore di soddisfare almeno in parte. Iddio nelle opere sue due cose riguarda, vale a dire la propria gloria, e la nostra eterna salute; e amendue questi fini sommamente risplendono nell’Anglicana persecuzione. Imperocchè qual maggior ossequio può l’uomo prestare a Dio, quanto il morire per esso Lui? Ma nello stesso tempo non può l’uomo provveder meglio a se stesso, quanto sacrificando la vita per quel Signore, il quale per lui la sacrificò molto prima. Nei combattimenti e nella vittoria dei Martiri la gloria di Dio e il loro vantaggio sono così scambievolmente connessi, che l’una cosa senza l’altra non crescerebbe, ma dall’onor di Dio risulta maggiore la corona del martirio. E poiché Dio è zelatore della propria gloria, e amico de’ nostri vantaggi, non dee far meraviglia, se permette tali combattimenti, dai quali egli ricava tanto onore, e l’uomo tante utilità e mercede. Considerate dall’una parte le armi, colle quali il demonio assale questi beati Martiri, ed esaminate dall’altra il vigore e la fortezza, con cui essi resistono, e intenderete subito, quanto sia ammirabile la grazia e il favore divino. Combattono contro i Martiri i demonii e i lor ministri, combatton la fame, la sete, la nudità, l’infamia, le lusinghe, le speranze, i timori e le vane promesse; combattono i tormenti delle carceri, le catene, le ruote, il fuoco, i patiboli e la spada; combatte 1’infermità della carne, la debolezza della complessione, e l’amor proprio. E pure benché sì gran moltitudine d’uomini contro essi combatta, nondimeno per opera della divina grazia si vede, che uomini e donne, fanciulletti e fanciulle’ con tanta fortezza gli vincono, che ne restan confusi i giudici, affaticati ì tiranni, confermati i Cattolici e consolati gli Angioli istessi. Quindi alcuni, i quali non erano Inglesi, né mai vissuti erano in Inghilterra, mossi dall’esempio di tanti gloriosi Martiri Inglesi, si trasferirono a quel regno, e vollero imitarli, e accompagnarli nei supplici e nello spargimento di sangue per la Fede. « Oltre a che questa persecuzione ha portato somma utilità agl’Inglesi cattolici, poiché con essa sono provati, esaminati, dai terreni affetti si purgano, e tutto giorno a Dio si offrono in sacrifizio. Laonde giudico, che si trovino al presente in Inghilterra uomini più santi di quello, che trovar si potessero in tempo di quiete e di tranquillità. Imperocchè la prosperità assai volte snerva gli uomini, e gli rende fiacchi ed effeminati; laddove la tribolazione gli fa divenire martiri, fervorosi e costanti. Quelli adunque, che soccombendo nelle persecuzioni abbandonan la fede, dimostrano, che hanno dissolutamente vissuto sino ad ora, e che non erano nella fede forti e saldi abbastanza. Ma quelli, che sono piantati non già sull’arena, ma sul fondamento di Gesù Cristo, questi crescono fra le tribolazioni, come alcuni alberi fra i ghiacci e le nevi. Quanto poi di gloria ottiene la Chiesa dalla fortezza di questi suoi Martiri? Quanta edificazione e buon esempio da essa deriva? Quanto è onorevole alla Chiesa l’aver dei figli così illustri, così magnanimi, così bellicosi? « Che dirò poi dell’altro frutto, che da questa presecuzione si raccoglie; poiché tutte le provincie e i regni cattolici di qua imparano, qual tenore debbano osservar cogli eretici. Fioritissimo fu per un tempo il Regno d’Inghilterra e tale da far meraviglia per la virtù, la religione, l’umanità, la pace, la concordia, la libertà, e per la dolce comunicazione fraterna. Ora poi sembra divenuta un’altra Babilonia per la varietà, contrarietà e confusione delle eresie; è spelonca di ladri per le ingiustizie, è macello dei servi di Dio; è sede della guerra civile, della servitù, e di una miserabile cattività; anzi, è un incendio, che nato da una scintilla di cieco amore si è poi dilatato dalla setta di Calvino. Laonde di quanta vigilanza hanno mestieri i Re, i Principi e le cattoliche Repubbliche, affinché questo fuoco infernale non invada ancora i loro Regni. Insegna ancora quest’anglicana persecuzione, quanto dobbiam compatire quelli, che son presi di mira, vedendoli proscritti dalla patria, cacciati dalle case, spogliati degli averi e degli onori, avuti in conto di traditori, e trattati come sediziosi. Imperocché tutti noi siamo Cattolici, e siam membra d’un sol corpo mistico, il quale è la Chiesa, e il di lui capo è Gesù Cristo, e il suo Vicario in terra il Romano Pontefice. Chi non soffre pazientemente la povertà vedendo oggi nell’Inghilterra tanti ricchi e illustri personaggi spogliati de’ loro beni, e stretti in carcere non avere con che coprirsi, né pane con cui sfamarsi? Quale infermo non si farà coraggio, pensando come innumerabili Sacerdoti, e delicatissime Matrone oggi in Inghilterra sono con crudelissimi tormenti straziati? Non per altra cagione permette Iddio questa persecuzione, se non perché si confermi la nostra fede, si rassodi la speranza, si accenda la carità, si comprenda il vigore della divina grazia, si fortifichi la pazienza, si ecciti la divozione, si faccia rinunzia ai piaceri, si scuota la pigrizia, e si confonda finalmente la nostra negligenza e pusillanimità. Permette dunque Iddio, che gli eretici affliggano e vessino la Chiesa, affinché questa agitata nel vaglio delle persecuzioni più pura diventi, più santa e più perfetta; e affinché a tutti sia palese, ch’essa al par della Luna soffre talvolta le sue ecclissi e oscurità, ma non perisce giammai, né resta priva di sua virtù.» Sin qui il Ribadeneira. Finalmente vi prego a riflettere, che rigorosamente parlando la Fede non si è mai perduta in Inghilterra. Il culto pubblico della Cattolica Religione, questo è quello, che mancò del tutto in quel regno. Del rimanente da quell’epoca sino ai nostri giorni vi si è sempre mantenuto un buon numero di fervorosi Cattolici, dei quali scriveva ai suoi tempi il Ribadeneira, e credo, che possa anche affermarsi al presente: eristimo sanctiores nunc in Anglia homines reperiri, quam lempore quietis et prosperitatis potuerint inveniri. – Che se Arrigo non si fosse pubblicamente e solennemente separato dalla Romana Chiesa; se non avesse suscitata contro i Cattolici la tempesta della persecuzione, chi sa, se nessun vero cattolico saria rimasto in quella nazione. Imperocchè non par verosimile, ch’egli avesse voluto abbandonare il partito già preso, né rinunziare alla passione, né ritrattare il mal fatto, né allontanare i cattivi consiglieri, e gli eretici dal suo fianco, onde parte per le frodi di costoro, parte per il di lui mal esempio, parte per la connivenza dei Prelati, a poco a poco l’errore avrebbe corrotti anche i buoni, senza che nessuno gli avvertisse, e facesse loro coraggio a persistere nella cattolica Fede. Io credo che la Fede in un regno possa rassomigliarsi a un robusto naviglio nel mare, il quale se viene scosso e agitato dalla tempesta, benché spesso si trovi in pericolo di restar sommerso, e benché abbia a sgravarsi d’una gran parte del peso, onde è carico, nondimeno spesse volle anche cogli alberi infranti arriva a salvamento, e nel porto si ristora finalmente dai danni sofferti. Ma se mentre sembra, che l’acque dormano in calma, e i nocchieri non vegliano alla sua custodia, furtivamente e inosservata vi penetra di fianco l’onda insidiosa, a poco a poco lo vedete abbassarsi, ed indi scomparire del tutto, senza che quasi nessuno siasi avveduto del suo totale e irreparabil naufragio. – Che se voleste risalire alla prima sorgente delle tribolazioni della Chiesa, la troverete d’ordinario nel rilassamento del Clero. Questo Ceto destinato da Dio per essere il sale della terra, se svanisce e perde il suo sapore, non è più atto a servire di condimento, e conviene per conseguenza, che ogni cibo divenga insipido e noioso. Tutto allora è freddezza, indifferenza e languore nella Fede; e il sale non essendo più idoneo a condire vien gittato sulla pubblica strada, e lo calpestano quanti vi passano. Questo, che in sostanza è l’avvertimento, che diede Gesù Cristo ai suoi Apostoli (Matth. V, 13), forma da se solo la spiegazione delle tribolazioni, che tante volte ha dovuto sostenere il Clero Cattolico, e del disprezzo, a cui si è veduto esposto in mezzo allo stesso popolo Cristiano. S. Cipriano, ed Eusebio han rilevata la corruzione del Clero che precedette l’orribili persecuzioni de’ lor tempi, e gli storici del secolo decimo sesto hanno fatta la stessa osservazione all’epoca dell’eresia di Lutero. Quindi il fine principale della tribolazione è di richiamare il Clero al dovere, e alla perfezion del suo stato, e per mezzo del di lui zelo ed esemplarità rinnovare lo spirito dei Fedeli. Indarno si aspirerebbe alla Riforma della vita secolaresca, se non vi si faccia precedere la Riforma della condotta ecclesiastica. Questa è stata sempre la comune opinione fondata non solo nella provvidenza di Dio, il quale ha collocati i suoi Ministri come fiaccola accesa sul Monte Santo di Sion, affinché allo splendor di quel lume il popolo discuopra il sentiero, per cui deve camminare al termine della salute, ma eziandio perché è cosa pur troppo conforme all’umana natura, che non si creda alla dottrina di un uomo, il quale opera all’opposto di quello, che agli altri insegna, insinua e prescrive. È notabile ciò che riferisce Odorico Rainaldi all’anno 1559, §. 30 essere accaduto sotto il Pontificato di Paolo IV, perché il suddetto Pontefice avendo risaputo un grave e pubblico delitto d’un Porporato, ed infiammato di sacro zelo avendo esclamato con alta voce, Reformatio, Reformatio; allora il Cardinal Paciecco, che v’era presente, si fece coraggio a rispondere: Recte quidem, sed Reformatio a nobis ut exordium sumat, necessum est. Oimè, esclamava il Vescovo Laudense nella sua Orazione recitata per l’esequie del Cardinal di Bari (Mansi Concil. tom. 28col. 526) nel Concilio di Costanza, io lo dirò con dolore, ma trattenere non posso il concepito sentimento. « Nos Clerici debemus esse exemplar laicorum, ut vitam et mores suos emendarent.Iam cito nobis opus est ut accipiamus exemplum vivendi ab eis.Nonne magis moraliter, magis seriose, magis composite, magis devote, ct reverenter se gestant in Ecelesiis, quam nos? O dolor,o plus quam dolor! quod Christi Sponsa praeelecta, mater Ecclesia,per nostram dissolutionem, et vanitatem ita deturpatur. Propter quod, hoc etiam Deo permittente, et suam defensionemdetrahente, multa mala nos involvunt. Nam at flebilis nos docetexperientia, iam fere omnes Principes, barones, milites, cives etclientes, servi et liberi, nos persequuntur, nobis detrahunt, nosdeplumant, nos despiciunt. Et si in his angustiis constituti clamemusad Dominum pro auxilio quid nobis respondit? Misererinequeo, quia poenitere non vultis. Tollite vos causam, sive malamvestram vitam, quantum in vobis fuerit, et ego tollam effectum,sive hanc vestram persecutionem. Verumtamen, ReverendissimiFratres, ecce nune tempus acceptabile, ecce nunc diessalutis; emendemus in melius, quod ignoranter peccavimus. »Né deesi sfuggire dal Clero di confessare i proprii delitti pertimore di scandalizzare il popolo, o di riconoscere e autorizzare incerto modo per vere le sediziose e atroci calunnie degli avversari della Chiesa. L’umile confessione è quella che placa non solo Iddio,ma che edifica ancora il popolo, il quale così impara ciò che devefar egli stesso, e che prende piuttosto scandalo, se si accorge, che vogliono scusarsi, o dissimularsi anche quelle prevaricazioni, che per altro sono innegabili. Gli eretici poi rimangon confusi da un’umile confessione incomprensibile, e impraticabile dalla loro indurata. alterigia; e disarmati si trovano a poter nuocere colla calunnia al buon nome del Clero cattolico, allorché questi confessandole sue trasgressioni viene a separare virtualmente il vero dal falsocon una efficacia, e con un esito più felice di qualunque eloquente apologia. Imperocché allora nessun uomo fornito di buon senso e di equità potrà darsi a credere, che quelli i quali con sentimenti di umiltà confessano al pubblico i loro errori, vogliano poi tacere,o dissimulando negare, se fosser veri, anche que’ più atroci ed esagerati delitti, che dagli eretici sono ad essi malignamente imputati.I Principi stessi Cattolici, che devono essere dal Clero ammoniti,coi quali il dissimulare l’ingiurie di Dio sarebbe vera empietà, come asseriva il citato Vescovo Laudense (Ibid. col. 563), rimangonoin tal modo più convinti dell’equità della correzione, e più disposti a riformare ancor essi la loro condotta verso la Chiesa.Ben lo conobbero in Francia i Prelati, che nell’anno 881 si adunarono da diverse provincie in un luogo detto S. Macra della Diocesi di Reims, ed ivi tennero il loro Sinodo dopo l’infestazionede’ barbari e la persecuzione dei perversi Cristiani, sotto il regno del Re Ludovico (Concil. Mansi tom. 17, col. 573 et sequ.). Ivi dopo di avere stabiliti gli uffici della pontificale e della regia autorità,prima di procedere ad indicare al Principato gli abusi contro la Chiesa introdotti, e necessari ad essere estirpati colla di lui cooperazione ed aiuto; prima di ammonire de’ suoi doveri il Monarca, e i di lui Ministri; ben conoscendo, che potea forse ad essi non piacere l’episcopal correzione, prendon principio dall’accusa di sé medesimi, e della lor negligenza, per cui, dicono, è avvenuto ciò, che sta scritto in Isaia 14. « Et erit sic ut populus, sic et sacerdos. Sacerdos enim non distat a populo, quando nullo vitæ suæ merito vulgi transcendit actionem. Ecce iam pene nulla est sæculi actio, quam non Sacerdotes administrent. Quanto autem mundus gladio feriatur aspicimus, quibus quotidie percussionibus intereat populus, videmus. Cuius hoc nisi nostro præcipue peccato agitur? Ecce depopulatæ urbes, eversa castra, ecclesiæ ac monasteria destructa, in solitudinem agri redacti sunt; sed nos pereunti populo auctores mortis existimus, qui esse debuimus duces ad vitam. Ex nostro enim peccato populi turba prostrata est, quia faciente nostra negligentia ad vitam erudita non est. Pensemus ergo, qui unquam per linguam nostram conversi deperverso suo opere, nostra increpatione correpti pœnitentiam egerunt; quis luxuriam ex nostra eruditione deseruit, quis avaritiam, quis superbiam declinavit. Hic pastores vocati sumus, et cum ante æterni Pastoris oculos venerimus, ibi gregem nostra prædicatione conversum non ducemus. Sed utinam, si ad prædicationis virtutem non sufficimus, loci nostri officiùm in innocentia teneamus (Ibid. cap. 2, col. 540).»

Questo è dunque fuor di dubbio il mezzo principale non solo per riparare ai mali della Chiesa; ma per potere applicarsi ancora con qualche frutto alla Riforma del popolo Cristiano, le di cui colpe sono sempre il motivo delle straordinarie tribolazioni. Né egli è difficile dopo questo primo passo il trovare un piano di Riforma ecclesiastica, e laicale, dappoichè ne abbiamo non pochi, e tutti proficui, che ci sono stati lasciati dai nostri maggiori quasi in eredità. Anzi egli è tanto più facile di quello, che lo fosse ai nostri maggiori, quanto che l’ecumenico Concilio di Trento ne ha stabiliti i fondamenti, né si troverà certamente in esso cosa alcuna, che debba detrarsi, e poche, che si possano aggiungervi per un Piano universale, che deve da tutti essere abbracciato, e nel quale perciò la moltiplicazion delle leggi genera piuttosto inciampo, che facilità all’osservanza. E certamente se si volessero ripigliar di bel nuovo tutti i punti di Riforma, che dai Prelati, dai Principi e dalle Nazioni furono proposti prima del Tridentino Concilio e nelle sue sessioni, e quelli, che si affacciarono ai Concili di Costanza e di Basilea, e che si trovano per disteso negli Annali di Odorico Rainaldi nelle recenziori edizioni dei Concili, e nella Istoria del Concilio di Trento scritta dal Cardinal Pallavicini, chi ha scorso questi volumi anche solo alla sfuggita, si avvedrà subito, che l’appigliarsi a questo metodo sarebbe lo stesso, che gittarsi a nuoto in un vasto oceano senza poter fissare giammai un lido sicuro di terra ferma, a cui dirigersi. Tutti i piani, le istanze, le riflessioni, e consultazioni anteriori al Tridentino Concilio si versarono, dirò così, in seno al sacro Consesso di quei dottissimi Padri, i quali ne fecero un lungo ed accurato esame, e diretti dal divino Spirito procedettero alla dichiarazione di quelle Riforme, ch’erano necessarie, utili, praticabili, e che la Chiesa ha dipoi avuto ed avrà sempre sotto l’occhio sino alla fine de’ secoli. Egli è dunque più conducente allo scopo proposto l’esigere diligentemente l’osservanza dei Tridentini Decreti, che il moltiplicarne il numero con nuove addizioni. È ben vero, che il Concilio di Trento non istabilì, come abbiam osservato, che i principali fondamenti di una perfetta Riforma, e che in riguardo alla esecuzione ed all’applicazion pratica, specialmente nei punti subalterni e minuti di disciplina, i quali su que’ fondamenti si posano, e insieme gli riparano dall’essere smossi ed offesi, può nascere gran variazione nelle diverse provincie e diocesi, da cui insensibilmente viene dappoi la disciplina a risentirne anche nella sostanza. Ma questo Supplemento, che certamente sembra necessario, è stato già donato alla Chiesa dal Santo Cardinal Borromeo nella Copiosa Raccolta dei Concilii Provinciali di Milano distribuita in due Volumi, e nella «quale sono anche registrati molti Editti e Decreti di quell’immortal Porporato. Chiunque si ponga a leggere, ed a considerare quest’insigne Raccolta, troverà poche cose da desiderare, pochissime da cangiarsi; ed egli sarebbe certo d’una somma utilità l’aver pronto un Piano quasi adeguato di Riformazione, la quale altrimenti potrebb’essere molto a lungo desiderata ed aspettata, ma senza effetto. È da riflettersi eziandio, che i suddetti Concilii di Milano cominciarono a celebrarsi poco dopo la fine del Tridentino, vale a dire quando era ancora recente la memoria delle discussioni in esso tenute, e dello spirito di quel venerabil Consesso. Né perciò sarebbe da trascurarsi la collazione di altri simili Concilii, che si tennero a quell’epoca per l’esecuzione del Tridentino; e giovar potrebbero ancora le particolari Memorie per la Riforma dell’ecclesiastica universale o particolar disciplina presentate a Paolo III, ed a Clemente VIII, e scritte di lor commissione; l’una dai Cardinali Contarini, Carafa, Polo, e Sadoleto con altri insigni Prelati l’an. 1588, e che vien riportata da Natale Alessandro al secolo decimo sesto (cap. 1, art.16, § 3, e seg.), anteriore di poco tempo alla convocazione del Tridentino; l’altra dal Cardinal Bellarmino, e trovasi inserita nel fine della Vita di questo Cardinale scritta dal Padre Daniello Bartoli, ed impressa nuovamente in Napoli l’anno 1739. L’esempio particolare di una Provincia o Metropoli, che coll’approvazione della Santa Sede intraprendesse a praticare le disposizioni dei Concilii di Milano potrebbe assai giovare all’universal riforma, la quale altrimenti sarebbe troppo malagevole e tarda, se decretar si dovesse da un generale Concilio. Io ho accennato questo metodo sin dalla prima edizione di quest’Opera nell’Opuscolo degli Abusi nella Chiesa; né però ho mai preteso, come neppur ora pretendo di usurpare un magistero incompetente al mio grado e alle mie cognizioni. Sarebbe questa un’intollerabile temerità, parto ordinario della superbia insieme, e dell’ignoranza, giacché l’uomo mediocremente istruito dee conoscere, che una teoria speculativa non è sempre riducibile alla pratica, e che chi si trova in un punto della circonferenza non iscuopre con distinzione i raggi del circolo, come per altro li vede quegli, il quale è collocato nel centro, in cui vanno tutti i raggi ad unirsi e a terminare in un punto. Ma egli non è per altro superfluo il recar pietre alla fabbrica di un signorile edifizio, dalle quali poi l’artefice sceglie quelle che giudica al suo lavoro più opportune. Ripigliando pertanto il mio principale argomento conchiudo. – Cessate finalmente di meravigliarvi e di scandalizzarvi delle tribolazioni della Chiesa. Questa meraviglia e questo scandalo non suol esser effetto, che della debolezza dell’animo, dell’attacco ai propri comodi, o della mancanza d’istruzione. Ammirate piuttosto la provvidenza e la sapienza di quel Dio, che la governa, e che purgandola nel fuoco delle tribolazioni la fa poi di là uscire non solo illesa, ma più splendida e più robusta a gloria sua, o a confusione de’ suoi nemici.

[Fine Prima parte]

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA: OBBLIGHI DEI FEDELI (II)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA

ESPOSTI DAL

P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE – AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

RIFLESSIONI SULLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (II)

Né questa è la sola gioia della Chiesa. Quanti anche di quelli, che prevaricarono, pentiti ritornano al di lei seno, confessan il lor delitto, divengono agli altri esempio di penitenza, e attestano nella loro riconciliazione la pietà della madre, che gli ha generati! Né tutti aspettano l’aura di pace, che gli trasporti tranquillamente al lido. In mezzo alla stessa tempesta alcuni si ravvedono della apostasia dalla fede, che il timore o l’interesse, o l’ambizione in essi produssero. Perseguitati fuor della Chiesa da un atroce rimprovero della coscienza più che non lo furono nella Chiesa dalle minacce de’ suoi nemici, delusi nelle fallaci loro speranze, spogliati da quei medesimi che gl’invitarono a una vergognosa diserzione, s’avvedono finalmente della seduzione, riconoscono il lor delitto, rendendo col loro ritorno una gloriosa testimonianza alla verità della fede, che abbandonarono. La storia ecclesiastica ridonda di questi trofei della Religione, e infonde venerazione e invidia ai più calamitosi tempi della Chiesa per la gloria, ch’essa vi raccolse ne’ suoi confessori e penitenti. – Intanto dalle agitazioni sofferte dalla Chiesa, e da essa per divino aiuto vittoriosamente superate senza lesione o macchia della sua dottrina e della sua morale si accrescono ogni giorno più i motivi di credibilità appresso gli esatti pensatori per conoscere la divinità della di lei Fondazione. Come mai fra le violenze dei pagani, fra le sottigliezze degli eretici, fra le discordie degli stessi teologi, minata sotto ai piedi dagl’insidiosi artifizii di una ingegnosa, erudita e onnipotente incredulità, la Chiesa Cattolica ha potuto sussistere, e sussiste tuttavia immacolata nella sua credenza e nelle sue leggi? Come mai in una guerra di diciotto secoli attizzata da tutte le parti e in tutt’i modi contro la di lei Dottrina, pur nondimeno oggi s’insegnano da essa quelle stesse verità, che furono insegnate da Gesù Cristo e dagli Apostoli, senza diminuzione varietà e alterazione veruna, con essersi queste sempre più dichiarate e dilucidate in mezzo a quelli stessi sulfurei globi di fumo, che l’abisso ha continuamente vomitato dalle sue viscere per oscurarle? Come mai è ciò accaduto nella sola Chiesa Cattolica; non ne’ Portici e nelle Accademie dei filosofi e dei letterati? Gli astronomi, i fisici, i naturalisti, i medici, i chimici, i giurisconsulti, i politici, i ragionatori di religione, di morale, di commercio e di legislazione sono stati rovesciati gli uni sugli altri coi loro sistemi dalle onde dei secoli, che incalzandosi seppellirono sotto i lor gorghi, o trasportarono nell’oceano del disprezzo e della confusione quelle sublimi produzioni, che furono il risultato dello studio più profondo, del genio più ammirato, e della protezione de’ principi più liberali. Non si può più discernere con sicurezza ciò, che insegnarono Platone, Aristotile, Zenone, Epicuro. I loro discepoli alterarono la dottrina dei maestri: e gli eruditi de’ secoli posteriori dopo le più accurate diligenze per separare l’originale dottrina di que’ filosofi dalle addizioni e variazioni introdotte dai discepoli, lasciano luogo tuttavia a prolisse e interminabili disputazioni. Ma il Codice della dottrina e della legislazione divina della Chiesa Cattolica corre tuttavia senza variazione nelle mani di tutti; si è conservato ad onta dei saccheggi dei barbari rapaci, e della stupidità dei secoli tenebrosi; i nemici più eruditi della Chiesa non hanno trovato argomento plausibile per negare la sua legittima autenticità. Ora ecco da una parte la dottrina di Mosè, di Gesù Cristo, e degli Apostoli; ecco dall’altra la dottrina presente della Chiesa Cattolica. Confrontate e mostrateci, se è possibile, alcuna diversità tra l’una e l’altra. Che se questa costante purità e integrità della cattolica insegnanza si fosse conservata sotto la protezione dei potenti del secolo per un corso così lungo di tempo, ciò sarebbe nondimeno un evento meritevole di somma ammirazione, per non essere mai accaduto dacché mondo è mondo di qualunque altra più favorita dottrina. Ma poiché ciò è avvenuto fra tanti urti, inimicizie, assalti, e insidie di tutt’i poteri della terra, e degli abissi, questo fatto non può certamente spiegarsi, se non si ammetta, che una podestà soprannaturale e divina è quella, che presiede e sostiene intatta la dottrina della Chiesa di Gesù Cristo. Bisogna pur confessare per l’amore della sincerità, e della divina gloria della Chiesa, che vi sono stati dei tempi così infelici, di cui sembra quasi, che non possano immaginarsi i peggiori, e nei quali veduta si è deturpata dai vizii persino la Cattedra de’ Romani Pontefici. Tale fu il secolo decimo, di cui ecco che cosa scrive il Padre della storia ecclesiastica, il Ven. Cardinal Baronio all’anno 900 (num. 1 e 3): « Incomincia, egli dice, un nuovo secolo solito a chiamarsi Ferreo per la sua barbarie e sterilità del bene, di Piombo per la deformità del vizio inondatore, e Oscuro per la inopia di Scrittori… Certamente non parve, che la Chiesa si trovasse giammai in più grave cimento, né in più manifesto pericolo di total ruina, come lo fu nel vedersi agitata dalle tumultuose procelle di questo secolo. Imperocchè tutto ciò, che soffrì un giorno la Chiesa o sotto i gentili Imperatori, dagli eretici, o dagli scismatici e da qualunque altro siasi persecutore, tutto dee riputarsi a confronto di questi mali quasi un giuoco di fanciulli; e anzi dee computarsi per un guadagno, essendochè per quelle antiche persecuzioni la Chiesa divenne più bella, più estesa e più gloriosa, avendo mai sempre riportati trionfi sulla sconfitta empietà. Ma quali furono questi mali, e donde nacque la più acerba di tutte le tempeste? Eccone la cagione, ma tale, che appena si troverà chi lo creda, anzi neppure appena sarà creduto, se pure nol veda co’ propri occhi, e nol maneggi egli stesso. Che indegne cose, turpi e deformi, e inoltre esecrande e abbominevoli fu costretta a soffrire la Sacrosanta Sede Apostolica, sul cui cardine tutta si aggira la Cattolica Chiesa, allorquando i Principi secolari quantunque Cristiani, ma in questa parte degni d’esser chiamati ferocissimi tiranni, si usurparono dispoticamente l’elezione dei Romani Pontefici! Quanti mostri orrendi a vedersi, oh vergogna e dolore! furono allora intrusi in quella Sede, che agli Angeli stessi è rispettabile! Quanti mali per essi nacquero; quante tragedie si consumarono! Di quante sordidezze rimase allor aspersa quella, ch’era senza macchia e senza ruga, di qual fetore infetta, di quali lordure imbrattata, e per esse di perpetua infamia denigrata! » Sin qui il Cardinal Baronio in qualità di storico sincero, che compiange i mali della Chiesa, ma non gli nasconde. Ascoltate ora lui stesso parlare e ragionar da filosofo (Ivi num. 1) « Sulle porte di questo secolo infelice al rimirare in faccia l’abbominazione desolante nel Tempio di Dio, non prendano scandalo i pusilli, ma piuttosto ammiri ciascuno, come alla custodia di questo Tempio sta vigilante la Divina Onnipotenza, poiché a sì turpe abbominazione non tenne dietro, come altra volta, la desolazione e ruina del Tempio, e si conosca, che questo secondo Tempio è stabilito su fondamenti più saldi del primo; cioè nelle promesse di Cristo più immobili del cielo e della terra, come protestò Egli medesimo. Imperocchè essendo quest’ultimo opera di Dio, fu egli altresì, che con quella onnipotente parola, con cui fermò nel gran vacuo i cieli, stabili perpetuo questo Tempio, allorchè collocandone il fondamento sopra di se medesimo pietra immobile, e congiungendo con indissolubile glutine pietra a pietra disse all’Apostolo Pietro. Tu sei Pietro e sopra questa Pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevaleranno contro di essa. Pertanto siccome è immobile la prima pietra, che è Cristo, così la seconda a lei sovrapposta, che è Pietro, e così immobile e perenne la Chiesa edificata sopra di essi; né potrà distruggersi per i peccati degli uomini l’edificio di Dio, come fu per essi distrutto quello di Salomone: Ecce enim plus, quam Salomon, Hic.» Gli stessi racconti e le stesse riflessioni possono riscontrarsi nel Cardinal Bellarmino (præfat. in libr. de Rom. Pontif.); in Natale Alessandro (histor. eccles. sæc. 9 et 10, cap. 1, art. 17); ed in Mabillon (præf. ad sæcul. 5, Benedict. . § 1, n. 9). E ben vero però, che può prudentemente sospettarsi, esservi della esagerazione nei vizii de’ Romani Pontefici intrusi nella Sede Apostolica durante il secolo decimo, poiché si vedono descritti da una penna piuttosto satirica, che istorica, e poiché gli Annalisti Franchi di quei tempi non ne fanno menzione alcuna. Ma nondimeno quand’anche fossero a dieci doppi maggiori, non farebbero altro, che mostrar sempre più la divina protezione a favore della Cattolica Chiesa, ed a verificare con maggior evidenza le infallibili promesse di Gesù Cristo, non essendo perita la Chiesa, né contaminata essendosi la sua dottrina sulla Cattedra di così viziosi Pontefici. È intanto è da notare anche in quei tempi la provvida sostituzione di mezzi e di grazie a sostegno e propagazione della sua Chiesa. Mentre i Principi arrogandosi una legittima autorità intrusero nella Sede di Pietro alcuni Pastori troppo degeneranti dalla santità dell’Apostolico Ministero non mancarono tuttavia d’illustrarla colla probità, santità della vita, dottrina ecclesiastica, e dilatazione della fede altri non pochi Pontefici. Tali furono Benedetto V, Stefano VIII, Leone VI, Agapito II, Anastasio III, Leone VII, Martino II, Giovanni XIII, Benedetto VII, Giovanni XV, Gregorio V, Silvestro II; come può riscontrarsi nel Breviario de’ Romani Pontefici di Francesco Pagi, nelle loro Vite riportate nell’ultima edizione de’ Concili di M. Mansi, e nel Conato cronologico istorico di Daniele Papebrochio. Donde sempre più si conferma; essersi notabilmente esagerato il numero dei Pontefici scandalosi sedenti sulla Cattedra Romana nel secolo decimo » ed essersi trovato anche in qualche parte ingannato il Cardinal Baronio, che seguendo le testimonianze della continuazione di Luitprando e d’altri storici di quel secolo, non avea sotto gli occhi i posteriori documenti scoperti e pubblicati dopo l’edizione della di lui Storia Ecclesiastica. Intanto ancora fu fioritissimo lo Stato della Chiesa a quell’epoca nell’Italia, Germania, Francia, ed Inghilterra, per la presidenza di ottimi e zelanti Vescovi, e per la religiosa esemplarità di santi Monaci, come può vedersi dal catalogo, che il Padre Mabillon ha inserito nella sua Prefazione al tomo terzo degli Annali Benedettini. Ma comparvero ancora degli uomini abbastanza istruiti secondo la letteratura di que’ tempi nelle scienze ecclesiastiche, come apparisce dai cataloghi degli ecclesiastici Scrittori del Bellarmino, di Natale Alessandro, e di altri recenziori. Che se rivolgasi l’occhio alla Chiesa Orientale, si troverà, che in que’ tempi fiorirono Basilio Macedone, Leone Sapiente, Costantino Porfirogenito benemeriti delle buone lettere e della Fede cattolica, con altri, i quali nella Bizantina istoria vengono con somma lode commendati. I Patriarchi di Costantinopoli, di Alessandria, di Antiochia, e di Gerusalemme comunicavano nella Fede colla Cattedra di Pietro, né si erano lasciati sedurre dallo Scisma di Fozio. Santissimi Monaci risplendevano negli Asceteri della Siria e della Palestina, nel monte Athos, ed in altri eremi della Grecia. Fortissimi Martiri si lasciarono uccidere per la confessione della cattolica Fede dai Saraceni, dai Bulgari e dagli Sciti; e si fa menzione dei gloriosi loro combattimenti nei Menei della Greca Chiesa. Nell’Occidente si tennero non pochi Concili per restaurare l’ecclesiastica disciplina, e vi concorse specialmente nell’Inghilterra lo zelo ancora di alcuni Monarchi cattolici, quali furono Edmondo, ed Egaro Rè di quest’isola. Ciò per altro, che merita maggior attenzione, è ciò, che è stato rilevato da M. Giuseppe Simonio Assemani nella sua Prefazione o dedica al Tomo secondo de’ Calendarii della Chiesa Universale. « Egli è evidente, dice questo eruditissimo Letterato, che nel decimo secolo si aggiunse alla Chiesa Cattolica quasi la terza parte dell’Orbe Cristiano.. Vale a dire gli Slavi, gli Unni, e i Normanni, che tenevano il lor soggiorno nella Svezia, nella Danimarca, nella Russia, nella Polonia, nella Boemia, nella Moravia, nella Carintia, nella Dalmazia, nell’Illirico, nella Macedonia, nella Ungheria, Valachia, Moldavia, Scizia, e negli altri luoghi, nei quali è in uso il linguaggio Slavico, o Turco. » La qual conquista della Chiesa Cattolica vien anche confessata da Guglielmo Cave scrittore eterodosso nella sua Istoria Letteraria sul principio del decimo secolo. Da tutto il qual complesso manifestamente apparisce esservi nella Chiesa Cattolica una superiore divina provvidenza, la quale non solamente la sostiene immobile e ferma fra le tempeste, ma compensa eziandio prodigiosamente le sue perdite e i suoi disastri. – Ma mi direte, che nella persecuzione la Chiesa perde talvolta provincie e regni intieri, dai quali parte esigliata per sempre la fede. Questo è verissimo; ed è uno di que’ più terribili flagelli; con cui nella sua collera punisce Iddio le peccatrici e impenitenti nazioni. Ma questo, che è un danno irreparabile per esse, non suole essere per la Chiesa una perdita, anzi piuttosto un’occasione di nuovi acquisti. In questo caso alle nazioni ribelli d’ordinario Iddio sostituisce le nazioni più barbare, e le arricchisce di quei doni, che furono ingratamente rifiutati da un popolo eletto e beneficato. Si vedono allora compite le minacce di Dio e dei suoi Profeti, e le fiamme dell’incendio dei regni devastati dall’eresia, e abbandonati dalla fede insegnano alle future generazioni, che l’Onnipotente non ha bisogno delle adorazioni e degl’incensi degli uomini, e ch’essi divengano a Lui oggetto di riprovazione, se non si arrendono alle sue correzioni e ai temporali suoi castighi. Il Regno di Dio vi sarà tolto, dicea agli Ebrei il Salvatore del mondo, e sarà dato a un popolo, che ne produrrà i frutti (Matth. XXI, 43). Che cosa farà il Padrone a que’ vignaiuoli, che si sono ribellati contro di lui? Farà malamente perire questi miserabili, ed affitterà la vigna ad altri, che la coltiveranno, e si prenderanno cura di farla fruttificare (Ib. V, 40). Quindi S. Paolo e S. Barnaba ritirandosi dall’ostinata Giudea, e portandosi a predicare ai Gentili il Vangelo, dissero agli Ebrei: Poiché voi rigettate la parola di salute, e vi reputate indegni della vita eterna, ecco che noi ci rivolgiamo verso le Nazioni, perché il Signore ci ha così ordinato (Act. XIV, 46). – Terribile sostituzione, io non lo nego, ma la quale non è che un avveramento delle minacce del Signore, e che in conseguenza conferma la divinità della Cattolica Chiesa. Sostituzione, la quale, come ho già detto, compensa abbondantemente la Chiesa della sua perdita. Che cos’era il popolo Giudeo in paragone di tutte le nazioni del mondo? Or perché questo popolo non volle ricevere la legge Evangelica, a quali e quante nazioni non fu predicata? quanti popoli non si sono convertiti e santificati? Che cosa erano alcuni regni e provincie dell’Europa a confronto delle immense regioni dell’America? Or perché questi regni e provincie si ribellarono a Dio, e preferirono degli apostati a Gesù Cristo, quante barbare genti di là dai mari agghiacciati piegarono il collo al soave giogo del Vangelo? Né in questo severo giudizio Iddio si dimenticò de’ suoi servi Fedeli. Forse non si convertirono alla Fede anche alcuni del popolo Giudeo, benché la Sinagoga fu riprovata? Forse nell’Inghilterra non rimase mai sempre un numero eletto di fervorosi Cattolici, benché restasse soggiogata dall’eresia? Forse negli ultimi tempi non rimanevano molte famiglie emulatrici della credenza e della carità de’ primitivi Cristiani in que’ luoghi medesimi, di dove pareva. Per sempre sbandita la Fede? Ricorrete i secoli scorsi, e osservate, come Iddio ha continuamente ricompensate le perdite della sua Chiesa, ed ha persino rivolti a propagarla quei mezzi, che i di lei nemici adoperano a distruggerla. La Chiesa nascente fu sbandita dalla Giudea, dove aveva ricevuta la culla. Ma quella persecuzione le apri un campo immenso in cui dilatare il suo dominio, e nella sua fuga si distese da Gerusalemme sino a Roma, alla Grecia, all’Europa e al mondo tutto. Sparse Ario la pestilente sua dottrina, mentre perseverava ancora contro la Chiesa a incrudelire la Romana ferocia. Ma non molto di poi il gran Costantino sottomise alla Sede di Pietro l’Imperial Diadema, e seco trasse la conversione d’innumerabili gentili; acquisto senza dubbio Superiore ai detrimenti, che dagli Ariani la Chiesa sostenne. É vero, che per due secoli e mezzo l’Ariana eresia soffocò gran parte dei seminati, e desertò le campagne di Cristo. Ma in que’ secoli istessi si fece tributarii alla Fede i Galli, e le lontane regioni situate vicino all’Istro, gli Armeni, i Borgognoni, i Saraceni, gli Scozzesi, i Persiani, i Bavari, gli Omeriti di là dall’Egitto, i Franchi sotto îl famosissimo Clodoveo (Sozom. lib. 2, cap. 5 e seg. Ruffin. 1.1, cap. 9, Socrat. 1.1, cap. 19, et l. 4, c. 33 e 36, Theodoret. I. 1, c. 24; Evagr. lib. 4, cap. 20 e seg.). – Si aggiunsero compagne ad Ario l’eresie di Nestorio, di Eutiche, di Pelagio, di Sergio e di Pirro, favoreggiate dalla potenza di molti Imperatori. E per altro furono compensate le perdite colla conversione dell’Ibernia, dell’Inghilterra, delle Fiandre, e d’altri popoli della Germania (Sigisbert. in Chronic.). Mentre gl’Iconomaci Imperatori d’Oriente infuriavano contro le sacre Immagini, Gregorio II ridusse a compimento per opera di Bonifazio la gloriosa conquista dell’Alemagna. Si sottomisero a Cristo i Dani, i Sassoni domati da Carlo Magno, gli Sclavi, gli Unni, i Gothi, i Suevi, i Boemi, i Bolgari (Bzovius 1. 4, sign. 7). Recò gran piaga alla Chiesa lo Scisma ostinato della Chiesa Greca, e la vita scandalosa di alcuni Romani Pontefici. Ma come abbiamo veduto, in quel tempo si perfezionò ed ampliò la conversione delle nazioni d’Europa. Abbracciarono la fede i Moravi, i Dalmati, i popoli dell’Ilirico, della Scizia e della Pomerania. Seguirono le loro orme la Norvegia, la Zelandia, la Scandinavia, l’Ungheria, la Polonia e la Russia. E così fu trasportata sino a’ nostri giorni la Fede da uno ad altro popolo, onde si verificasse mai sempre la parola di Gesù Cristo intorno alla indefettibile durazione della Chiesa, e al castigo delle nazioni apostate dal Vangelo. Voi vedete adunque, che non sono le persecuzioni per la Chiesa, e per i Fedeli quel gran male, che voi andate immaginando, e che sono anzi per essa, e per loro un tesoro nascosto della divina beneficenza. E pure vi sono degli uomini, i quali non sanno combinare queste permissioni di Dio colla sua gloria, e colla sua santità. Come, mai dicono essi, lascia Iddio, che gli empii s’innalzino a un grado così sublime di prosperità, e sopraffacciano i giusti, di modo che si direbbe, che Dio stesso gli ha piantati, e che ha dilatate le lor radici? Quare via impiorum prosperatur? Plantasti eos, et radicem miserunt; proficiunt, et faciunt fructum? (Ierem. 12, 1). Ma io vi ho già risposto, che voi supponete il falso. Imperocchè la maggior parte de’ tribolati non sono veramente giusti. Aggiungo ora, essere egualmente falso, che gli empii sieno totalmente prosperati, benché prevalgano per qualche tempo contra il giusto. Essi potrebbero assomigliarsi a que’ demonii, che nell’abisso tormenta noi peccatori, e i quali non per questo possono chiamarsi felici. Quanti anche di loro periscono sotto la spada; quanti languiscono negli stenti; quanti sono straziati dai rimorsi della coscienza, dalla incontentabilità delle passioni! Essi non son forti, che per eseguirei giudizi di Dio a correzione de’ peccatori, e a prova de’ giusti, Domine in iudicium posuisti eum, et fortem, ut corriperes; fundasti eum (Habac. 1). Ma sostenete ancora per qualche tempo, e vedrete, che gli empii non esistono più, e non vivono fuorché nell’abbominazione degli uomini.Il vostro peggior errore per altro si è di misurare la gloria di Dio e della Chiesa col tempo e non colla eternità. Sembra impossibile in un Cristiano questo errore, ed io di fatti non lo credo in esso lui un errore, ma una irriflessione, e una dimenticanza. Il regno di Dio è un regno eterno. Egli ha presenti al suo sguardo tutti, e nel medesimo istante i secoli scorsi; e quelli, che verrannodi poi, e nello stesso tempo, che vede i momentanei assalti degli empii contro il suo trono, contempla ancora l’ignominiosa eterna loro sconfitta. Per questo, dice S. Agostino, Dio è perchè così paziente, è eterno. Dominus patiens, quia æternus. La Chiesa sposa di Gesù Cristo, ed or militante contro l’armi de’ suoi nemici, sarà finalmente coronata di trionfi e di gloria senza timore d’esser mai più assalita. Il giorno estremo dell’universale giudizio giustificherà la divina provvidenza per la sua Chiesa, e riempirà di confusione e d’obbrobrio que’ perfidi, che l’insultarono. Ma questo giorno, che tarda per voi, e che vedete così di lontano fra l’ombre incerte e oscure de’ tempi, non tarda per Dio. Questo giorno è presente a’ suoi occhi, come lo sarà per noi, allorquando sen giunga, ed egli sin d’ora calca col piè vittorioso il dorso degli avversari della Sposa. sua Quel tempo, che noi chiamiamo col nome di secolo, il corso di mille anni non è “appresso di lui, che un sol giorno, e un giorno è a lui dinanzi, come lo sono per noi mille anni”. Unum vero hoc non lateat vos, charissimi, quia unus dies apud Dominum sicut mille anni, et mille anni sicut dies unus (2 Petr. III, 8). Riflettete, che questa verità è di tanta importanza, che l’Apostolo S. Pietro vi scongiura ad averla presente, quasi fosse la sola cosa necessaria a sapersi: unum vero hoc non lateat vos, charissimi. E perchè? Perché in questa verità sta nascosta la soluzione di tutti i dubbi vostri di tutte le vostre meraviglie, di tutti i vostri scandali. Voi stupite e vi scandalizzate persino, che la Chiesa di Gesù Cristo sia perseguitata. È quanto, dite voi, quanto mai tarderà Iddio a farsi temere e a vendicarsi? Ah non tarda Iddio, no non tarda. Non tardat Dominus promissionem suam, sicut quidam ezistimant. (Ibidem). Voi parlate un linguaggio, che non è quello di Dio, perché la dilazione di mille anni è per lui come quella di un sol giorno. Apud Dominum mille anni sicut dies unus. Egli non tarda, ma opera pazientemente in grazia vostra, non volendo che alcuno perisca, desiderando, che tutti ritornino a penitenza. Sed patienter agit propter vos, nolens aliquos perire, sed omnes ad pœnitentiam reverti. Che se i suoi nemici vorranno perseverare nella impenitenza, e nell’odio contro la Chiesa, verrà poi alla fine quel giorno preparato dai secoli eterni, nel quale risarcirà la Chiesa della sua gloria, e coprirà l’empio dell’eterna irreparabile ignominia. Opera Iddio colla sua Chiesa della stessa provvida maniera, con cui ha operato col suo divin Figliuolo sulla terra. Imperocché Gesù Cristo è il capo, e la Chiesa è il di lui corpo. Troppo dunque era conveniente, che nell’ordine della provvidenza a Gesù Cristo divenisse conforme la Chiesa; E quale avvilimento non dovrebbe a voi parer quello, con cui Gesù Cristo è venuto al mondo? Egli apparisce un impotente per la sua povera condizione, per la mancanza di protezioni, per la sua età di bambino. I Betlemmiti ricusano di prestare un alloggio a sua Madre benché vicina al parto, e bisogna cedere alla lor crudeltà senza il minimo risentimento. Voi siete, o mio Dio, che avete fatto l’estate e il verno, la primavera e l’autunno, ma sembra, che non possiate difendervi dai rigori della stagione. Voi non potete fare un passo da voi stesso, ed è necessario, che Maria e Giuseppe vi trasportino da un luogoall’altro sulle loro braccia.Chi avrebbe mai detto, che Gesù era la sapienza del Padre? Egli mostra apparentemente l’ignoranza e l’imbecillità di un bambino,che non sa nemmeno articolare una parola per esprimere i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Nelle circostanze della sua nascita egli comparisce di un grado inferiore alla condizione degli altri uomini. Qual uomo nasce in una stalla; qual bambino ha per culla una mangiatoia, e per compagnia due animali? Ma avvicinate questo giorno a quello del Giudizio, che per voi è sì lontano, ma dinanzi a Dio è più vicino, che il giorno di domani. Allora Gesù Cristo spiegherà un carattere di sovranità, di potenza e di sapere tutto proprio d’un Dio. In quel giorno il Padre gli darà la stessa sua gloria, e tutto il corteggio degli Angeli, affinché il Figliuolo dell’Uomo sia riconosciuto ancora per Figliuolo di Dio: Filius homines venturus est în gloria Patris sui cum Angelis suis (Matih. XVI, 27).In quel giorno tutte le tribù della terra lo vedranno discender dal Cielo sul dorso luminoso delle nubi con gran potere e maestà. Videbunt Filium hominis venientem în nubibus cœli cum virtute multa, et maiestate (Matth. XXIV, 30). In quel giorno egli sarà grande in modo, che collo splendore della terribil sua gloria illuminerà tutta la terra. Si farà veder come una folgore; che si striscia rapidamente per i sentieri dell’aria, e sembra, che voglia avvampare con una luce sanguigna le sottoposte campagne. Sicut fulgur coruscans de sub Cœlo in ea quæ sub Cœlo sunt, fulget; ita erit Filius die sua (Luc. XVII, 24). Allora Egli produrrà tutto il potere sovrano d’un Dio. Potere di distruzione, che oscurerà il sole e la luna, e farà precipitare dal cielo le stelle, che avvamperà d’incendio la terra, che invilupperà nelle fiamme i suoi nemici, e farà commuovere dalle lor sedi i cieli, e liquefarsi in fumo. Potere di edificazione istantanea e miracolosa, che richiamerà a ricomporsi, ad organizzarsi, e a rivivere le polveri dei defunti disperse sulla faccia della terra, o mescolate colle arene del mare. Potere di giudizio, per cui convocherà ad esame, e pronunzierà sentenza inappellabile su tutte le generazioni d’Adamo. Potere di Re, con cui metterà a possesso d’un regno eterno i fedeli suoi servi, e fulminerà per sempre col folgore della maledizione i suoi nemici. Ah allora si farà conoscere altresì da questo secolo tutto luce, e tutto tenebre; luce di carnale sapienza, e tenebre di celeste verità. Svilupperà in faccia al Mondo il mistero della sua dissimulazione e del suo silenzio, per cui s’argomentarono gli empii, che Dio non vi fosse, o fosse divenuto imbecille: silenzio di provvidenza, che voleva lasciar libero il corso a quelle vicende, che avrebbero corretta e migliorata la Chiesa: silenzio di prova, con cui, voleva tentare un sovrano esperimento della fedeltà de’ suoi eletti: silenzio di pena, con cui la divina giustizia abbandona l’incredulo alla sua cecità e al suo induramento: silenzio d’un Dio, che stava dall’alto dei Cieli contemplando, qual nuovo ordine di società e di culto avrebber saputo effettuare quei geni superbi, che anelavano a distruggere l’ordine da Lui stabilito. Ecco quel giorno aspettato da Dio nel suo silenzio per vendicare i torti fatti a Gesù Cristo e alla Chiesa; e questo stesso è quel giorno, che deve in silenzio aspettare il Cristiano per veder l’esito delle persecuzioni e dei persecutori. Il prescindere da quest’oggetto, il dimenticarlo, il non farne quasi più conto, egli è segno di una fede debole e vacillante; è un indizio di cuore unicamente sollecito dei beni caduchi, e della gloria momentanea del Mondo. Sarebbe certamente vergognosa debolezza per un Cristiano il lasciarsi superare in queste riflessioni da un Filosofo gentile. Plutarco ha scritto un Commentario intitolato: de tarda Dei vindicta; nel quale propone molte buone ragioni sul presente argomento. Se è cosa ardua, egli dice, per gl’imperiti l’indovinare il consiglio del medico, perché abbia fatto il taglio non prima, ma dopo, e perché piuttosto oggi che ieri abbia apprestata qualunque medicina; molto meno debbono cercar gli uomini di sapere, perché Dio, il qual conosce il tempo opportuno di punire l’improbità, scelga piuttosto un tempo che l’altro; anzi comprender debbono, non essere conveniente, che in questo egli osservi un solo e medesimo tempo per tutti. Quid ergo mirandum, si cum res humanæ ita sint obscuræ, de consilio dicere parum espeditum sit, quamobrem delinquentium ab his postea, ab illis, prius piacula exigat? Niun miglior frutto può l’uomo raccoglier da Dio quando esprimendo e ricopiando in se stesso l’ornamento delle di lui perfezioni. Ora Egli suole punire lentamente i malvagi a fine di toglier da noi la ferocia e l’impeto della vendetta, e per insegnarci a non lasciarci trasportar dalla collera impetuosa, che s’infiamma a dispetto della ragione contro coloro, che ci travagliarono; ma vuole, che ricopiato la di Lui piacevolezza e lentezza con moderazione e riflessione,e che prendiamo a nostro consigliere il tempo, il quale non precipita in azioni soggette a pentimento, e di questa maniera procediamo ad esiger dagli altri il castigo. Per lo che se gli esempi degli uomini celebri, e le loro moderate azioni sono capaci di frenare in noi il bollor della collera; molto più dee ciò da noi ottenere la contemplazione di Dio, il quale non soggetto a timore o pentimento, pur nondimeno sospende la vendetta, e ne aspetta pazientemente il giorno. Dobbiam dunque giudicare, che la mansuetudine e tolleranza appartiene a una virtù divina, la quale se punisse subito correggerebbe pochi, e castigando tardi apporta a molti. utilità ed emendazione; quæ plectendo paucos corrigit; tarda plectendo multis commodat, eosque emendat. Questo non è, che un piccolo saggio dei nobili sentimenti, che Plutarco ha lasciati in questa operetta, e che avrebbero anche più vigore, se fossero corroborati non dagli esempi di eroi pagani, ma da quelli del Figliuol di Dio, e de’ suoi fedeli seguaci. Che rimprovero sarebbe per noi, se col lume della fede, colla dottrina del celeste nostro Maestro, colla scorta della mansuetudine del Figliuol di Dio e dei Santi non giungessimo a tanto di pareggiar almeno i gentili filosofi, che rimasero di queste verità persuasi dalla sola guida della ragione, e dall’esempio di alcuni de’ loro falsi Eroi? Io ripiglio ora quello, che ho detto sin ora, e lo ristringo in breve tratto per maggior chiarezza. La provvidenza di Dio nel governo della sua Chiesa è diretta al bene spirituale de’ Fedeli, alla gloria della Chiesa in tutti i secoli, e alla di lei esaltazione nella fine dei tempi. – Qual è il bene spirituale dei Fedeli? La pratica delle virtù, la mortificazione delle passioni e della carne, e l’estirpazione de’ vizi. Ora egli è evidente, che le persecuzioni sono il mezzo più sicuro e più universale per ottener quest’effetto. Dunque, è conveniente che Dio procuri alla sua Chiesa questi vantaggi per mezzo delle persecuzioni. Qual è la gloria della Chiesa in tutti i secoli? L’essere sempre stata combattuta in tutti i modi dagli empii, e il non essere mai stata superata da loro. Questa è la gloria principale della Chiesa, perché mostra, che l’onnipotenza divina veglia costantemente a suo favore, e perché in lei e di lei così verificano le predizioni del Figliuol di Dio. Dunque la provvidenza di Dio deve permettere sì fatti combattimenti nella sua Chiesa. Quale sarà l’esaltazione della Chiesa nella fine dei tempi? L’essere coronata come vincitrice de’ suoi nemici, e l’essere riconosciuta per la vera Chiesa da’ suoi sprezzatori. Tunc stabunt iusti in magna constantia adversus cos qui se angustiaverunt, et qui abstulerunt labores eorum (Sap. 5). Gesù Cristo medesimo sarà glorificato nella sua Chiesa e colla sua Chiesa, quando tutti i suoi nemici saran posti sotto i suoi piedi. Oportet illum regnare, donec ponat inimicos omnes sub pedibus eius (1 Corinth. XV, 25). Egli non è dunque meraviglia, se intanto Dio permette così frequenti e feroci assalti contro la Chiesa di Gesù Cristo. Se non vi fossero guerre,ostilità e persecuzioni, non vi sarebbero nemmeno vittorie e trionfi. -Ma gl’increduli non conoscono questa provvidenza, e intanto deridono la Chiesa di Dio. Lasciate, ch’essi si prendano questa momentanea soddisfazione. Iddio gli abbandona alla lor maligna e affettata ignoranza, e questa è una vendetta degna di Dio sopra i superbi. Un Dio, che non ha bisogno di nessuno, saprà glorificare in essi la sua giustizia, poiché essi non han voluto glorificare la sua misericordia. Universa propter semetipsum operatus est Dominus: impium quoque ad diem malum (Prov. XVI, 4).Ma gli stessi Cattolici si scandalizzano della condotta di Dio, e del trionfo passeggero degli empii. Quali sono questi Cattolici? Quelli, che hanno attaccato il lor cuore al Mondo, e pare che ristringano tutte le benedizioni di Dio a una misera felicità temporale. Quelli, che si dolgono, che la Fede sia perseguitata, non tanto per zelo della Fede, quanto perché nella persecuzione si trovano al cimento di perdere i posti, le sostanze e gli onori. Quelli, che hanno una fede, e una cognizione debole dei beni dell’altra vita, e del premio, che Iddio tiene preparato ai tribolati. Imperocchè se avessero una fede viva, una ferma speranza, un’ardente carità, si consolerebbero piuttosto delle disgrazie sofferte per la confession del Nome di Gesù Cristo. Ibant gaudentes a conspectu Concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine lesu contumeliam pati (Act. V, 41). Ora che deve fare Iddio per correggerli? Secondarie i lor desiderii, renderli tosto vittoriosi degli empii, moltiplicare ad essi le sostanze e gli onori? Questo sarebbe un fomentare i lor vizi, e un confermarli nell’errore. È dunque più vantaggioso per essi, che colla privazione dei beni della terra ne conoscano la caducità e la vanità, e sieno tratti quasi per forza a prender maggior sollecitudine dei beni eterni, e ad abbandonarsi tra le braccia della divina provvidenza. Dite lo stesso e molto più di tant’altri, i quali hanno la fede, ma una fede contradetta dalle opere, e che non basta a salvarli. Sono essi, che in virtù di una fede morta pretenderebbero di aver parte in tutte le benedizioni di Dio, e di trionfare gloriosamente de’ lor nemici. Se Iddio gli esaudisse, essi moltiplicherebbero i lor peccati, e si allontanerebbero sempre più dalla via della salute. Egli è a questi, che Dio intima per mezzo della persecuzione: Usquequo claudicatis în duas partes? Si Dominus est Deus, sequimini eum; si autem Baal, sequimini illum (3 Reg. XVIII, 21).Ma pur troppo non pochi di questi scellerati nel tempo della persecuzione si dividono dalla Chiesa, e si collegano co’ suoi nemici. È vero; ma essi rendono giustizia in questa maniera alla santità della Chiesa, colla quale non eran d’accordo i lor costumi. Essi faceano più nocumento alla Chiesa col mostrarsi falsi Cattolici, che nol faranno coll’arrolarsi fra i miscredenti. Longe plus nocet falsus catholicus, quam sì verus appareret hæreticus (S. Bernard. In Cantic. Serm. 65, num. 4). Bisogna consolarsi, quando questi malvagi escono dalla Chiesa, così cessano di attaccare segretamente il contagio alla greggia di Gesù Cristo.« Gratulandum est, cum tales de Ecclesia separantur, ne oves Christi sæva sua, et venenata contagione prædentur… Sic probantur fideles, sic perfidi deteguntur. Sic et ante iudicii diem hic quoque iam iustorum atque iniustorum animae dividuntur, et a frumento paleæ separantur » (S. Cyprian. de Unitat. Eccl.).» Alcuni di loro tornano poi alla Chiesa, e con un sincero e pubblico pentimento rendono onore alla Fede, e assicurano la propria salute. Ma vi sono anche de’ giusti, dei timorati e prudenti, che si lasciano sedurre o dalle lusinghe, o dalle minacce dell’eresia. Chi può credere, ch’essi fossero veracemente giusti, e timorati, e prudenti, se si lasciarono così facilmente guadagnar dall’errore? « Quare ille vel ille fidelissimi, prudentissimi in Ecclesia in illam partem transierunt? Quis hoc dicens non ipse sibi respondet, neque prudentes, neque fideles æstimandos, quos hæreses potuerint demandare (Tertull. de Præscript. cap. 3).» Il grano non è trasportato in aria dal vento, né le piante di profonda radice sono svelte dalla procella. Le vuote paglie sono innalzate dal vento, e i deboli arboscelli sono spiantati dal turbine. « Triticum non rapit ventus, nec arborem solida radice fundatam procella subvertit. Inanes paleæ tempestate iactantur, invalidæ arbores turbinis incursione evertuntur. » (Cyprian. de Unitat. Eccles.). [2 Continua …]

LE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA: OBBLIGHI DEI FEDELI (I)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE

TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

RIFLESSIONI SULLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA

Obblighi dei fedeli (I)

Voi siete Cattolico, siete istruito nei principii della vostra Religione, voi amate la Chiesa; siete anche ardente di zelo per la gloria di lei; e nondimeno vi scandalizzate delle tribolazioni, ch’Ella soffre. Non vorreste, che Dio permettesse a’ suoi nemici di aggravarla di catene e d’ignominie; vi meravigliate, com’essi sopravvivano sulla terra; se poteste strappare i fulmini all’Onnipotente, e stringerli nella vostra destra, voi gli avventereste con tutto l’impeto contro coloro, che vilipendono la Chiesa di Dio. Siete dunque Cattolico? Siete istruito nei principii della vostra religione? E pensate di questa guisa? Fate un torto a voi stesso, perché dimostrate con questa collera di esser mancante di raziocinio, non sapendo dedurre da quei principii, che avete appresi, le conseguenze legittime. Se v’è argomento di Religione, in cui sia necessario il buon uso di un sano e diritto ragionare, questo è certamente. uno dei più interessanti, essendo connesso colle verità fondamentali della Fede, e colla gloria, che Iddio pretende di ricavare per se, e per noi da queste tribolazioni. Non vorreste persecuzioni della Chiesa? Dunque vorreste smentir Gesù Cristo, che le ha predette con tanta sicurezza e costanza. Egli ha pur detto, che il fratello avrebbe tradito a morte il fratello, e il padre il figlio; e che i figli si sarebbero ribellati ai loro genitori, e gli avrebbero messi a morte; e che i suoi discepoli sarebbero divenuti oggetto d’odio per tutti a motivo della confessione del di lui Nome (Matth. X, 21, et seq., Marc. XIII,12. Luc. XXI,11 et sequ.). Egli ha ricordato a’ suoi discepoli, che avessero sempre presente il suo parlare; che il servo non è maggiore del padrone, e che, se Egli era stato perseguitato, doveano esserlo ancor essi (Joan. XV, 17, et sequ.). Egli è giunto a dir loro, che chiunque gli avesse uccisi, avrebbe immaginato di prestar ossequio a Dio medesimo (Joan. XVI, 2). Era necessario, che si verificassero in tutti i tempi queste predizioni, che Gesù Cristo faceva per tutti i tempi a’ suoi discepoli. Se Dio operasse a norma de’ vostri suggerimenti, e non permettesse mai nella Chiesa le persecuzioni, verrebbe a condannar se stesso di menzogna. Non avete voi penetrata questa fatal conseguenza del vostro zelo irragionevole? Ma non ci sta, direte voi, la gloria di Dio, e della sua Chiesa. E di qual gloria parlate voi? Della gloria di questo mondo, o pur di quella dell’altro? Dovreste saper nondimeno, che la gloria dei seguaci di Gesù Cristo in questa vita è il soffrire le persecuzioni per la giustizia; è l’essere maledetti, e caricati d’ogni contumelia in grazia di lui (Matth. V, 10). Dovreste sapere, che alla gloria dell’altra vita accrescono lustro e grandezza le tribolazioni di questa. Il Regno dei cieli è aperto a coloro, che sono ingiustamente perseguitati, e per essi è ivi apparecchiata una copiosa mercede (Ibidem). La gloria di Dio e della sua Chiesa? Ma in che l’hanno riposta i più fedeli seguaci di Gesù Cristo? Noi ci gloriamo nelle tribolazioni; dice 1’Apostolo, sapendo che la tribolazione dà occasione alla pazienza, e la pazienza è la prova della nostra fede (Rom. V, 3). Egli si gloriava persino della tribolazione de’ suoi fratelli. Io medesimo mi glorio per voi nella Chiesa di Dio, scrive a quelli di Tessalonica, mi glorio nella vostra pazienza, e nella vostra fede, e in tutte le persecuzioni e tribolazioni, che sostenete, in dichiarazione del giusto giudizio di Dio, per cui patite, e da cui sarete riputati degni del suo regno; giacché è cosa giusta al suo cospetto di rendere tribolazione a quelli, che vi danno tribolazione, e riposo a voi, che siete tribolati, insieme con noi, allorquando Gesù Cristo Signor Nostro manifesterà in cielo in mezzo agli Angeli, che lo servono, il suo potere, vendicandosi colle fiamme di coloro, che non conobber Dio, e che non ubbidirono al Vangelo del Signor Nostro Gesù Cristo: pagheranno essi la pena con una morte eterna lontani dalla faccia del Signore, e dalla gloria della sua onnipotenza, allorché egli verrà a glorificarsi de’ suoi Santi, e a farsi ammirare in tutti quelli, che credettero in lui (2 Thessal. 1, 4 et sequ.).  La Gloria di Dio e della sua Chiesa? Ma qual maggior gloria per Dio e per la Chiesa, quanto il vedere degli uomini perseguitati, che benedicono e pregano per i loro persecutori? Noi siam maledetti e benediciamo, dice l’Apostolo; siamo perseguitati, e lo soffriamo in pace: bestemmiano contro di noi, e preghiamo per essi; siam divenuti quasi la feccia del mondo, e il ludibrio di tutti(1 Cor. IV, 12). E pure io soprabbondo. d’allegrezza in tutte le mie tribolazioni, egli soggiunge (2 Cor. VII, 4). E pure io mi compiaccio nelle mie infermità, nelle contumelie, nelle necessità, nelle persecuzioni e nelle angustie sofferte per Cristo (2 Cor. XII, 10). Qual gloria vi può esser maggior di questa per la Chiesa? Gloria che la distingue da tutte le false religioni, e da quella superba filosofia, che non conosce questa virtù nemmen per nome. E pure questa gloriosa virtù non comparirebbe mai così luminosa nella Chiesa, se non esistessero le persecuzioni. Ma v’è ancora un motivo più interessante per la gloria della Chiesa medesima, onde Dio ha permesso in ogni tempo tante e sì feroci tempeste contro di lei. La persecuzione è un testimonio sensibile della verità della nostra Religione. Imperocchè uno dei caratteri della vera religione è la santità; e una religione santa non può stare senza persecuzioni. Il demonio non può soffrire in pace una Religione, che abbatte il suo dominio, che diminuisce il numero de’ suoi sudditi, che è ordinata a popolare il regno dei cieli da lui perduto. Questo spirito maligno ostinato nel male e nell’odio contra Dio non può soffrire una religion santa, da Dio stabilita, e a Lui onorevole. Ma i malvagi abbandonati alle sfrenate loro passioni devono anch’essi abborrire una Religione, che gli giudica, gli spaventa, gli condanna. E in conseguenza la iniquità degli abissi collegata con quella del mondo vomiterà sempre tutto il veleno-di una ostinata avversione contro la Chiesa, di cui ella può dirsi naturale nemica. Se il mondo vi odia, diceva Gesù Cristo a’ suoi discepoli, sappiate, che Io fui odiato da lui prima di voi. Se voi foste stati del mondo, il mondo avrebbe amato ciò, che era suo. Ma perché voi non siete del mondo, ma dal mondo io vi ho eletti, per questo il mondo vi odia (Joan. XV,17). Noi intendiamo, scriveva S. Cipriano a Lucio sommo Pontefice, noi intendiamo e penetriamo in tutta la luce del nostro cuore i santi e salutari consigli della divina maestà, e le ragioni, per cui è insorta di fresco questa repentina persecuzione, e per cui la secolar podestà ha fatto impeto all’improvviso contro la Chiesa di Cristo, contro il beato Vescovo e Martire Cornelio, e contro voi tutti; cioè per confondere e respinger gli eretici ha voluto Iddio mostrare, qual è la Chiesa, quale quel Vescovo unico per divina ordinazione eletto, quali i Preti per sacerdotale onore congiunti col Vescovo, quale il vero popolo adunato con Cristo, e il gregge del Signore in carità unito, chi erano gli assaliti dal nemico, e quali all’incontro quelli, che il demonio come suoi risparmiava. Imperocchè l’avversario di Cristo non perseguita, e non assalta se non i soldati e gli accampamenti di Cristo. – Gli eretici già abbattuti una volta e fatti gli suoi non gli cura, e trapassa. Quelli cerca di abbattere, che stanno ancora in piedi. Hæreticos prostratos semel, et suos factos contemnit, et præterit. Eos quaerit deticere quos videt stare (Cyprian. ep. 58). In conseguenza la persecuzione distingue i fedeli a Cristo, e i suoi nemici, gli fa discernere a tutti, gli divide e separa anche esterna- mente dal corpo della Chiesa, ond’essa possa gloriarsi di essere l’unica e vera Sposa di Cristo. – Sappian dunque gli eretici, perché poterono essere risparmiati dagl’increduli, perché poterono vivere in pace con essi, perché ritener poterono i loro altari, perché non furon dispersi sulla terra, perché furono eziandio rispettati ed onorati dagli empii. Neque enim persequitur, et impugnat Christi adversarius nisi castra, et milites Christi. Essi non erano soldati di Cristo, non appartenevano a quella Chiesa, che viene abborrita ed assalita dall’inferno. Per questo non hanno la gloria di esser perseguitati dagli infedeli, con cui se non sono affatto congiunti, hanno per altro un nodo di Non remota consanguineità, che gli rende tollerabili al loro cospetto. Alla sola Cattolica Chiesa appartiene il cimento della persecuzione e la palma della vittoria. – Anzi v’è ancora di più. La persecuzione, che rispetta gli eretici e gli distingue, gli separa altresì come abbiam detto visibilmente dalla Chiesa, e con ciò dai maligni umori si purga il di lei corpo. Imperocchè v’ha degli eretici che si divisero esternamente dal corpo di Gesù Cristo, o innalzarono a parte una Chiesa, e conoscer si fecero, che non erano dei nostri, perché con noi non rimasero. Ex nobis prodierunt, sed non erant ex nobis: nam st fuissent ex nobis, mansissent utique nobiscum (1 Ioan. II, 19). Ma v’ha ancora di quelli, i quali benché pei loro errori non più appartengono all’anima della Chiesa, nondimeno esternamente partecipano a’ suoi riti e a’ suoi Sacramenti; lupi, che vivono fra l’armento ricoperti della pelle d’agnello, e divorano impunemente il fedele e innocente gregge di Cristo. Questi appiattati nell’ovile arriverebbero a poco a poco a trasformare gli agnelli medesimi in lupi, a comunicare ad essi la loro falsa dottrina, e a cangiare il regno di Dio nel regno dell’errore e della incredulità. Ma il folgore della persecuzione gli sbalordisce e gli spaventa dosso la pelle: gittan di insidiosa, sbalzano fuor della Chiesa per isfuggir la tempesta, e compariscono quali erano ma non conosciuti, scaltri e maligni nemici della Chiesa medesima. Allora il Fedele si mera- viglia insieme e si consola; e la Chiesa sgravata di questi perniciosi umori acquista uno stato di più vegeta sanità. Hæretici… sic sunt în corpore Christi, sicut humores mali. Quando evomuntur, tunc relevatur corpus; sic et mali quando exeunt tunc relevatur Ecclesia (S. August. Tract. 3 in epist. S. Ioan. num. 4). Né di questi soli si sgrava in tempo di persecuzione la Chiesa, ma eziandio di tanti rapaci, superbi, molli e dissutili, che disonorano la di lei santità. Anche questa separazione appartiene alla di lei gloria e alla di lei conservazione. Imperoechè la Chiesa è santa principalmente per la santità del suo Capo, della sua Fede e della sua Legge, ma poi anche secondariamente, perché in essa fioriscono degli uomini per santità insigni, e perché in essa si conserva la purità de’ costumi. Ma questo estrinseco lustro di santità e di purità verrebbe in essa ad intorbidarsi, e a perire quasi del tutto, se la pace e il riposo prendessero in lei uno stabile domicilio. Ella è questa la condizione delle umane cose stabilita nella fragilità, nella malizia e nella volubilità del cuor dell’uomo, e accertata in ogni tempo dall’esperienza maestra. La pace, il riposo, l’abbondanza e sicurezza ammolliscono l’animo, e lo preparano ad ogni sorte di vizi. Allora il lusso, la morbidezza, l’intemperanza, la sete di acquistare, la scostumatezza del vivere s’introduce, si moltiplica e diventa costume. Allora si macchia al di fuori la purità e la santità della Chiesa, e la trascuranza dell’educazion giovanile, e lo scandalo della pubblica dissolutezza rendono il vizio nelle successive generazioni trionfante, irreparabile e perpetuo. Permette dunque Iddio, che allora massimamente insorga il vento della persecuzione, il qual risveglia la vigilanza dei suoi ministri, atterrisce i peccatori, separa dal grano la paglia, e monda 1’aia della Chiesa di Gesù Cristo. – Chi crederebbe mai, che nel terzo secolo della Chiesa la feroce persecuzione di Decio fosse stato il rimedio apparecchiato da Dio a rinvigorire l’ecclesiastica disciplina infievolita e corrotta dall’ozio di una lunga pace? E pure questo è ciò, che attesta espressamente l’eloquentissimo S. Cipriano (lib. de Lapsis). Ha voluto, egli dice, il Signore, che fosse provata la sua famiglia, e poiché una lunga pace aveva corrotto la disciplina dataci da Dio, la celeste punizione risvegliò la Fede, che giaceva, e per così dire dormiva. Quia traditam nobis divinitus disciplinam pax longa corruperat, iacentem fidem, et pœne ut ita dixerim dormientem censura cœlestis erexit. E quali erano i vizi, che nel seno di quella pace avean gittate tra i Fedeli di que’ primi tempi le velenose radici? Seguite a leggere S. Cipriano in quel luogo, e vi troverete una minuta descrizione della corruttela, che erasi già introdotta fra le lusinghe del riposo in mezzo al gregge dei Fedeli. Tutti attendevano, egli dice, ad accrescere il lor patrimonio, e dimenticati di ciò, che i Fedeli avean fatto sotto gli Apostoli, e che sempre avrebber dovuto praticare affaticavano con insaziabile cupidigia a moltiplicar le sostanze. Non si vedeva divozion religiosa ne’ sacerdoti, non fedeltà sincera nei ministri, non misericordia nelle opere, non disciplina ne’ costumi. Corrotta negli uomini la barba, e miniata la faccia nelle femmine. Insidiavano gli occhi adulteri alle creature di Dio, e si dipingevano con fallaci colori i capelli. Astute frodi si mettevano in opera per ingannare i semplici, e si meditavan le arti più inique per circonvenire i fratelli. Con gli infedeli stringevasi il legame del matrimonio, e si prostituivano a’ gentili le membra di Cristo. Non sol si giurava inconsideratamente, ma si spergiuava, si sprezzavano con alterigia i superiori, si scagliavano a vicenda velenose maledizioni, e si nutrivano odi e discordie pertinaci. Moltissimi Vescovi, ai quali incombeva di esortar gli altri, e di porgere ad essi buon esempio, negligentando il divin ministero erano divenuti procuratori de’ secolari negozi, e lasciata la cattedra, e abbandonato il popolo scorrevano straniere provincie, andando a caccia di lucrosa mercatura, volendo in mezzo alla penuria de’ fratelli abbondare di argento, usurpando con insidiose frodi gli altrui fondi, e moltiplicando usure per aumentare il guadagno. Che cosa non meritavamo noi di soffrire per così fatti peccati? Iddio l’aveva a noi prenunziato e predetto- Ma noi dimentichi delle leggi e dell’osservanza, e sprezzando i divini comandi abbiam costretto Iddio a ricorrere ai più severi rimedii per correggere i nostri delitti e per provare la nostra fede. Sin qui il santo martire Cipriano. Io Vi prego intanto a confrontare questa descrizione colle nostre passate prevaricazioni, e a riflettere, se una persecuzione era necessaria anche per noi a risvegliare la fede sopita in seno di una lunghissima pace. Fingete, che Dio rendesse perpetua nella sua Chiesa la pace, in tal caso moltiplicherebbe in modo la zizania, che non avrebbe più luogo a spuntare e a germogliarvi il grano. V’è dunque un tempo di mietitura, in cui il Celeste Agricoltore ordina a’ suoi ministri di mietere il campo, e di separar dal grano la zizania. Dopo di che innaffiando di nuovo colle sue grazie il campo, e gittandovi nuova semenza, lo apparecchia a produrre una messe più eletta. E perché dormendo i custodi in tempo di pace, torna il nemico e seminarvi nuova zizania, un’altra mietitura è preparata ai Fedeli, e succedendo a vicenda la tempesta a riposo, o s’impedisce, che perisca affatto la santità nella Chiesa. Così la divina provvidenza ha ordinate le tribolazioni alla salute e alla santità degli eletti. La guerra medesima, riflette Teodoreto parlando della persecuzione Persiana (lib. 5, cap. 38); la guerra medesima, come ci mostra l’esperienza, suole apportare maggior vantaggio, che non la pace; perché la pace ci rende molli, infingardi e timidi; ma la guerra scuote e risveglia gli animi, e costringe a disprezzare i beni della presente vita, come beni caduchi. Confermerò il sin qui detto con un passo simile a quello di S. Cipriano, tratto dall’istorico Eusebio, il quale fu testimonio della posteriore atrocissima persecuzione di Diocleziano, e minutamente assegna la ragione per cui Dio la permise, nell’eloquente sua narrazione. Ecco dunque le parole, i sentimenti, e le riflessioni di questo Storico (Euseb. hist. Eccl. lib. 8, cap. 1: « Io certamente, dic’egli, non posso adeguatamente spiegare, quale e quanta gloria, e insieme libertà aveva conseguita presso i Greci non solo, ma eziandio presso i Barbari avanti questa persecuzione la dottrina del vero culto verso il Dio supremo annunziata da principio agli uomini da Gesù Cristo. Può esserne bastante argomento la benignità degl’Imperatori verso i nostri, ai quali commettevan persino il governo delle provincie, liberandoli dal timore di dover prestarsi ai sacrifici, per quella singolar benevolenza, da cui verso la religion nostra eran compresi. Che duopo v’è di parlar di quelli, che godean cariche negl’imperiali palagi, o degl’imperatori medesimi, i quali aveano accordata facoltà ai domestici, e loro mogli, figliuoli e servi di esercitare liberamente e colle pratiche, e coi discorsi la lor religione sotto i propri occhi; e permetteano ad essi di gloriarsi in certo modo, e di far ostentazione della libertà della lor fede; e con singolar amore sopra tutti gli altri ministri gli abbracciavano. Così pure avreste veduto riveriti e amati tutti i Prelati delle Chiese e dalle persone private, e dai reggitori delle provincie. E chi potrà interamente descrivere l’innumerabil moltitudine degli uomini, che si rifugiavano quotidianamente in seno alla Fede di Gesù Cristo; chi il numero delle Chiese aperte in tutte le città; chi il luminoso concorso dei popoli ai sacri edifizi? Donde avvenne, che non bastando l’antiche fabbriche, s’innalzarono dai fondamenti spaziose Chiese in ciascuna città. Né tali stabilimenti, che ogni giorno in meglio crescevano, poterono dal livore distruggersi, né dalla malignità de’ demonii, né dalle insidie degli uomini, sinché la destra dell’Onnipotente Iddio protesse e custodì il suo popolo, ch’erasi reso degno di tal presidio. Ma poiché noi per la troppa libertà eravamo divenuti negligenti e pigri; poiché cominciarono ad invidiarsi l’un l’altro, e a mormorare; poiché tra noi si destarono guerre intestine, e colle parole quasi con armi ed aste l’un l’altro ferivansi; poichè i Prelati contro i Prelati, e i popoli contro i popoli eccitavan discordie e tumulti; in fine, poiché la frode e la finzione erano giunte al sommo della malizia; allora con leggier colpo, come è solito, a poco a poco e moderatamente cominciò la divina vendetta a muoversi contro di noi, essendo ancora intatto lo stato della Chiesa, e adunandosi liberamente per anco i Fedeli; e dié principio la persecuzione contro quelli, che militavano. Ma posciachè privi d’ogni senno, non pensavano neppure a placare l’ira divina: che anzi piuttosto a somiglianza degli empii giudicando, che le umane cose non vengono dalla cura e provvidenza di Dio governate, e aggiungevamo ogni giorno delitti a delitti; mentre i nostri Pastori non curando le regole della Religione con iscambievoli contese fra lor combattevano, non attendendo ad altro, che ad acerescer le ingiurie, le minacce, l’emulazione, gli odii e le scambievoli inimicizie; vendicando con somma contenzione a se stessi la prelatura, come una tirannide; allora finalmente, conforme all’espressione di Geremia, oscurò il Signore nella sua collera la figlia di Sionne, e precipitò dall’alto la gloria d’Israele, e mostrò di non ricordarsi nel giorno dell’ira sua dello sgabello de’ suoi piedi. Sommerse il Signore ogni decoro d’Israele, e distrusse tutti i muri di sua difesa. E come è predetto nei Salmi, rovesciò il testamento del suo servo, profanò in terra la di lui santità, vale a dire colla sovversion delle Chiese distrusse tutti i suoi ripari, e gli dié per baluardo il timore. Lo depredarono tutte le turbe del popolo, che passavan per via; laonde divenne l’obbrobrio de’ suoi vicini. Imperocchè Iddio esaltò la destra de’ suoi nemici, e gli tolse l’aiuto della sua spada, né gli prestò soccorso nella guerra. Lo purificò sino all’ultimo, e fece in pezzi il di lui soglio battendolo a terra. Scemò i giorni della sua vita; e lo coprì d’ignominia. Hæc omnia nostris temporibus completa sunt.» Son queste tutte parole di Eusebio. – Ma non debbo omettere un bel passo di S. Giovanni Grisostomo, laddove spiega il capo terzo di S. Matteo, perché troppo fecondo di utili riflessioni. « L’aia, dic’egli, è la Chiesa; il granaio è il regno celeste, e il campo è questo mondo. Siccome adunque un padre di famiglia mandando i mietitori raccoglie le spighe dal campo, e le trasporta nell’aia per ivi triturarle e vagliarle, e per separare il grano dalla paglia: così il Signore mandando gli Apostoli e gli altri dottori quasi mietitori, recise dal mondo i gentili, e gli ragunò nell’aia della Chiesa. Qui dobbiamo esser battuti, e vagliati. Imperocché siccome il grano racchiuso nella paglia non esce fuori, se non vien battuto: così anche l’uomo dagl’impedimenti mondani e dagli affetti carnali, in cui trovasi quasi in paglia inviluppato, difficilmente si stacca se non viene agitato da qualche tribolazione. E siccome il grano, che è pieno, appena leggermente percosso, sbuca fuori dalla sua pelle: ma se è sottile e macilento, tarda di più: se poi è vuoto, non esce mai fuori, ma resta pesto dentro la stessa sua buccia, e in conseguenza è gittato fuori insiem colle paglie; così tutti gli uomini stanno come in paglia racchiusi nei loro affetti carnali. Ma chi è fedele e di buona volontà, ed ha dentro il midollo della virtù, appena è leggermente tribolato, sbuca fuori de’ suoi carnali diletti, e se ne corre a Dio. Ma se è alquanto infedele, fa d’uopo di grande tribolazione, per farlo sortire della sua carne, e andarsene a Lui. Chi è poi veramente infedele e vuoto per quanto sia pesto, siccome il grano vuoto non sbuca fuori della sua paglia, così né pur egli mai si sviluppa da’ suoi carnali desiderî, e dai mondani impedimenti; né passa in seno a Dio; ma nei suoi mali si pesta e s’indura, per esser poi cacciato fuori dell’aia insieme cogl’infedeli… Ma forse direte; non era meglio, che Dio sin da principio avesse chiamato tutti gli eletti al Cristianesimo, affinché non fosse bisogno di sempre vagliare la Chiesa, ma dessa se ne stesse piuttosto in pace? Rispondete: potreste voi, mentre avete ancora la messe nel campo, separare dalle paglie il grano? No: ma se tentaste una cosa simile, non dividereste il grano dalla paglia; bensì piuttosto perdereste amendue. Così dunque non era possibile il discernere e il chiamare gli eletti di mezzo ai Giudei, o ai Gentili senza la tentazione; perché chi non conosce Cristo, né la sua parola, se commette errore o peccato, non si sa se lo commetta per mal animo, ovvero per ignoranza. Ma chi ha conosciuto Cristo e la sua Legge, e contuttociò cade in errore e in peccato, è troppo chiaro, che non erra né pecca per non saper chi sia Dio, e qual sia la sua volontà, ma perché non ama la legge di Dio. E questo come può scuoprirsi senza la tentazione? Imperocché se nello stadio non si mette in vista la palma, non potete mai incolpare l’atleta, il quale non vuol entrare nella lotta, come uomo debole e fiacco; perché non si sa, se si ritiri dalla lotta per essere debole e fiacco, o pure perché non vede proposta a’ vincitori la palma. Che se vede la palma, e rifiuta di lottare, allora è chiaro, che per la sua pigrizia lo rifiuta. Così anche il gentile, che ignora il futuro giudizio e il premio della risurrezione, non si può conoscere, se lasci di fare il bene, perché non l’ama, o pure perché non ne spera alcuna mercede. Che se poi diverrà Cristiano, e sarà istruito del futuro Giudizio, allora peccando mostrerà chiaramente, che pecca, perché non ama il bene. Ma voi forse ripiglierete così, questo va bene tra gli uomini, ma non con Dio, che conosce i cuori, e prevede il futuro, e così poteva ben Egli sapere senz’altro di che volontà ciascuno sarebbe. Ma rispondo: nel giusto giudizio di Cristo non si cerca solo, ch’Egli conosca la rettitudine del suo giudizio sull’uomo, ma si vuole altresì, che l’uomo stesso conosca di essere rettamente giudicato da Cristo col testimonio de’ suoi pensieri, e colla prova delle sue azioni, siccome sta scritto: Cogitationibus invicem accusantibus, aut etiam defendentibus în die, cum iudicaverit Deus occulta hominum [… dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono]. (Rom. II, 15). Se dunque l’uomo senza conoscer Cristo, né la sua legge, fosse condannato solamente dalla sapienza di Dio, come potrebbe capire di essere stato giustamente condannato? Imperocchè è ben vero, che Dio conoscitore de’ cuori sa di condannarlo giustamente; ma il peccatore non saprebbe di essere giustamente condannato, e potrebbe dire: Ancor io se avessi avuto cognizione di Cristo, avrei osservata la sua fede e la sua legge. Perciò Cristo tutti chiamò alla cognizione della verità, affinché si veda manifestamente, che i peccatori non per ignoranza, ma per cattiva volontà peccarono; e rinunziando a Cristo si diedero volontariamente al partito del demonio. È dunque necessario, che tutti e buoni e cattivi si faccian Cristiani, e che tutti ricevano il lume della verità, sinché poi sopravvenendo la tentazione pochi si eleggan tra i molti, e s’adempia ciò, che sta scritto; Multi sunt vocati, pauci vero electi (Matth. XX). Ditemi: siete voi degno di reprensione, perché separate il grano dalla paglia, e così separato lo riponete ne’ granai? Questo poi no; né sarebbe ben fatto di riporre insiem col grano le paglie, le quali non sono necessarie per vostro uso. E perché dunque incolperemo Iddio, che dai fedeli separa gl’infedeli, i quali non giovano alla sua gloria? Con questo di più, che quelle paglie hanno dalla natura l’esser paglie, né possono mai esser grano: ma gl’infedeli sono infedeli non per natura, ma per cattiva lor volontà, non volendo in se ritenere il midollo della giustizia. Se dunque quelle paglie, che non possono esser mai grano, pur tuttavia si brucian nel fuoco; quanto più ragionevolmente arderanno nel fuoco gl’infedeli, che potevano divenire grano, se non avessero rifiutata la giustizia? » Sin qui il Grisostomo. Voi potete di qui rilevare, quanto era giusto, che Iddio facesse raccogliere colla rete della predicazione e giusti e malvagi nella sua Chiesa per giustificare la sua sincera volontà di salvar tutti gli uomini; ma quanto insieme era necessario, che lasciasse a ogni tratto libero il corso alla persecuzione per separare i malvagi dai giusti, riparando così all’onore della sua Sposa, e preservando gli eletti dalla corruzione, in cui cadrebbero per gli esempi e per la compagnia dei malvagi. So benissimo quel che opporrete a questa riflessione, cioè che la violenza della persecuzione mette a cimento anche i giusti medesimi, e che nella persecuzione vi sono ancora de’ buoni, che cadono vinti dalla tentazione, e i quali senza questa sorte di tentazione avrebber perseverato nel bene sino alla morte. Ma primieramente ignorar non potete, che la tentazione è fatta appunto dirò così per i giusti, perchè Iddio vuol prender prova della lor fedeltà, e questa prova non è mai così luminosa quanto, allorquando è assalita la fede e perseguitata la virtù. Dio vi tenta, diceva Mosè agli Ebrei, affinchè si manifesti, se l’amate, o no, con tutto il cuore e con tutta l’anima (Deut. XIII, 14). Egli tenta, cioè fa prova dell’amore e della fedeltà de’ giusti, vuole, ch’essi medesimi conoscano alla prova, se temono veramente Iddio, fa ad essi toccar con mano la propria debolezza, e la necessità della sua grazia, gli assiste intanto co’ suoi aiuti, e gli solleva per mezzo della tribolazione a un grado più sublime d’umiltà, di coraggio, di fiducia, d’amore pér lui. Così è, dice S. Paolo: omnes qui pie volunt vivere in Christo Iesu, persecutionem patientur (2 Timot. III, 12). I nostri Padri soffrirono anch’essi ignominie e battiture, carcere e catene; furono lapidati, segati per mezzo e tentati; moriron di spada, e girarono vagabondi, vestiti di rozze pelli, mendici, angustiati ed afflitti, erranti per le solitudini, nei monti, nelle spelonche e nelle caverne della terra. Essi furono tutti tentati per la confession della fede. Et hi omnes testimonio fideî probati (ad Hebr. XI, 39). Le Sacre Carte sono così piene di questa verità, che non può concepirsi, come un Cristiano possa prenderne meraviglia, e dimostrarsene quasi ignaro. Né crediate, che sia sì facile la prevaricazione dei veri giusti nel tempo della persecuzione. Non tutti quelli, che giusti appariscono, tali sono veracemente al cospetto di Dio, che penetra nel fondo dei cuori. L’uomo giusto e temente Iddio è quegli, che adempie tutta la legge, ed ama Iddio con tutto il cuore e con tutta l’anima; e perché molti vi sono, che giusti compariscono fallacemente agli occhi propri e a quelli del mondo, per questo vuole Iddio, che per mezzo della persecuzione si renda a tutti palese la verità. Niuno pensi, dice S. Cipriano, che i buoni possano separarsi dalla Chiesa. Nemo existimet bonos ab Ecclesia posse recedere (S. Cyprian. De Unît. Eccl.). Niuno, attesta S. Agostino, si trasferisce al partito degli eretici, se non il peccatore. Non enim quisquam în eos sectandos incidit, nisi peccator (S. August. in Psalm. 10). – L’eresie, aggiunge Tertulliano, hanno molto vigore contro quelli che non han vigore nella fede. Hæreses apud cos multum valent, qui in fide non valent (Tertullian. de Præscript. cap. 2). Quindi rare volte si verifica, che trascinati dall’impeto della tentazione periscano fuor della Chiesa coloro che nella Chiesa si sarebber salvati. Ex his enim hominibus hæretici fiunt, qui etiam si essent in Ecclesia, nihilo minus errarent (Sanctus August. de vera Relig. cap. 8). E infatti quali furono coloro, che prevaricarono nella persecuzione di Decio? Quelli, di cui S. Cipriano avea descritti i perversi costumi, e che erano soverchiamente solleciti di conservare il loro patrimonio, non già que’ giusti e timorati di Dio, che aveano il cuore distaccato dal disordinato amore dei beni della terra. « Dissimulanda, fratres dilectissimi, veritas non est, nec vulneris nostri materia et causa reticenda. Decepit multos patrimonii sui amor cæcus, nec ad recedendum parati aut expediti esse potuerunt, quos facultates suæ velut compedes ligaverunt. Illa fuerunt remanentibus vincula, illæ catenæ, quibus et virtus retardata est, et fides pressa, et mens vincta, et anima præclusa, ut serpenti terram secundum Dei sententiam devoranti præda et cibus fierent, qui terrestribus inhærerent (S. Cypr. de Lapsis).» Egli è dunque falso, che molti si perdano nella persecuzione di quelli, che senza la persecuzione si sarebber salvati. Imperocchè d’ordinario la persecuzione sorprende la Chiesa nel tempo, in cui corrotti i costumi de’ Fedeli pochi di loro si salverebbero in essa. – Così rifletteva il Grestsero essere accaduto nella Germania innanzi all’invasione delle eresie di Lutero e di Calvino. Inscitiæ ruditate, morum corruptela, et omnium Ordinum tum politicorum, quam ecclesiasticorum depravatione, quæ ante Lutheranam, et Calvinianam hæresim Germaniam insederant, quam pauci salvabantur (in lib. haereticor. iudex Oper. Tom. 17, cap. 10). Anzi quanto non acquistano di guadagno i giusti dalla persecuzione? Imperoechè qual è quell’uomo sì giusto, il quale possa presumere di non essere a Dio debitore per le sue colpe? Quis est homo, ut immaculatus sit, et ut iustus appareat natus de muliere? Ecce inter sanctos eius nemo immutabilis, et coeli non sunt mundi in conspectu eius (Tob. XIII). Ora la persecuzione gli mette in istato di soddisfare alla divina giustizia per le loro colpe, e di purgare più leggermente in questa vita que’ difetti, che avrebbero dovuto più gravemente scontare nell’altra. Non basta. Essa fa loro conoscere delle colpe, che a Dio sommamente dispiacevano, e che gli avrebber finalmente strascinati ad eccessi, e ne procura in essi la detestazione e l’emendazione. Nel tempo di pace e di riposo il torrente, che. strascina con sé le pianticelle sottili insidia ancora alle radici delle piante più robuste, e le divelte finalmente insieme col terreno, in cui sono piantate. L’ozio e la morbidezza dominante, il desiderio dei comodi e dei piaceri della vita, il genio di crescere di grado e di dilatare i possedimenti antichi con nuovi acquisti, insensibilmente si apprende anche alle persone oneste e timorate. Si diminuisce la cognizion del disordine, quando è diventato comune, non si apprende più per quello, ch’è veramente, l’uomo comincia a reputarsi innocente, perché è più riservato degli altri nelle soddisfazioni, che accorda alle sue passioni. Se questo stato di calma fosse durevole, non resterebbe quasi più nessun giusto sulla terra. Ma nella persecuzione l’uomo giusto si trova necessitato a rinunziare a tutti gli agi superflui, e a non pensare ad altri acquisti, mentre è costretto ad abbandonare anche gli antichi. Deve rinunziare un posto, che non può più ritenere salva la legge di Dio e la sua coscienza. Non ambisce più degl’impieghi e degli onori, che non si possono accordare colla sua fede. Una felice necessità distacca il suo cuore dai beni della terra, e a proporzione di questo distacco egli si accosta e si avvicina a Dio. Perciò nel tempo delle persecuzioni si formano quelli uomini eroicamente virtuosi, che servono d’esemplare alle future generazioni, e che hanno fatto in ogni tempo la gloria della cattolica Religione. Se la persecuzione arriva a togliere e ad interdire il culto pubblico, si vedono intiere private famiglie emulare il fervore e la carità de’ primitivi Fedeli. – Che se finalmente alla persecuzione succede la pace, che spettacolo di gioia, e di trionfo non si presenta allora agli occhi di tutta la Chiesa! Con quali colori, e con quali espressioni ci ha lasciato dipinto questo trionfo l’eloquente S. Cipriano! « È arrivato, egli diceva, quel giorno da tutti desiderato, e dopo la tetra orribile caligine di lunga notte comparve dalla divina luce rischiarato il mondo. Rivediamo con gioia i Confessori, che si sono segnalati per il loro buon nome e per la fama della lor fede, e non sappiamo stancarci nel baciarli e nello stringerli con insaziabile soddisfazione fra le nostre braccia. Avete resistito valorosamente al mondo, presentaste uno spettacolo glorioso agli occhi di Dio, foste d’esempio a quelli, che verranno dopo di noi. Quelle mani illustri, e assuefatte continuamente alle sacrosante azioni resistettero ai sacrilegi sacrifizii; e le labbra santificate dal cibo celeste del Sangue e del Corpo del Signore rifiutarono il profano contatto degli avanzi degl’idoli. La vostra fronte immacolata non potè soffrire, che la corona del demonio riposasse sul luogo, dov’era impresso il segno di Dio, e si riservò a cingere la corona del Signore. Oh con qual allegrezza vedendovi ritornare dalla battaglia vi abbraccia nel suo seno la Chiesa! Oh come beata e giuliva spalanca le sue porte, perché a schiere possiate entrarvi coi trofei dei superati nemici Vengono! cogli uomini trionfanti anche le femmine, le quali combattendo col secolo vinsero ancora il proprio sesso. Vengono in doppia schiera di gloria le verginelle e i fanciulli, che sorpassarono gli anni colla loro virtù. E tutta l’altra moltitudine segue la vostra gloria, e accompagna con insegne quasi eguali i vostri passi » (S. Cyprian. de Lapsis).

[1 Continua …]

LA SITUAZIONE (15)

LA SITUAZIONE (15):

DOLORI, PERICOLI, DOVERI E CONSOLAZIONI DEI CATTOLICI DEI TEMPI PRESENTI

OPERA DI MONSIGNORE G. G. GAUME PROTONOTARIO APOSTOLICO

Custos, quid nocte?

Sentinella: che è della notte?

DOVERI

Lettera Decimaquinta

Caro Amico

La prescienza divina di Nostro Signore, e la Previdenza che governa le Società, provate sino all’evidenza dal doppio diluvio delle iniquità che macchiano le nazioni moderne, e delle catastrofi ond’esse sono percosse e sconvolte, ecco, o mio amico, le due prime, e certo solidissime consolazioni che ne trae il Cattolico dei giorni nostri. Ve n’è una terza, anche più grande. Sapere che la Chiesa Romana, nostra Madre prediletta, è la sposa unica, sempre fedele, e sempre feconda dello Dio del Calvario; saper tanto per scienza certa, senza aver bisogno di ricorrere né a libri, né a dottori; vedere tuttocciò cogli occhi proprii, come si vede il Sole; questa sì, questa è oggidì la nostra suprema consolazione. E il Cattolico ne dee saper grado al diluvio di persecuzioni mosse contro la S. Sede. « O voi, la cui saggezza è uguale alla bontà, può egli esclamare col Profeta , voi, o Signore, avete proporzionato le vostre consolazioni alla moltitudine dei miei dolori. La Madre mia viene oltraggiata: io piango con lei! Ma sovrabbonda in me la gioia in mezzo alle sue tribolazioni. »

Voi mi richiedete di qual maniera io ciò intenda. Ed io domando a voi, amico mio, come intendete voi le parole pronunziate diciotto secoli fa intorno alla Madre vostra e mia? « Se voi foste della Città di satana, la Città di satana vi porterebbe alletto: ma perché voi non siete di essa Città di satana, ed essa vi detesterà. Anzi sarete oggetto d’odio eterno per cagion mia. Vi perseguiteranno, vi spoglieranno, vi tradurranno innanzi a tribunali, vi abbevereranno di obbrobrii, vi opprimeranno d’ingiurie e calunnie per causa del mio nome. Arriveranno sino a dire ed a far credere che col mettervi a morte, e’ servono gl’interessi della pace, della libertà, della giustizia, alla causa di Dio medesimo. (Joan. XV, 18-19; XVI, 2). Passeranno i secoli, passeranno gli uomini e gl’imperi, i cicli e la terra passeranno; ma queste parole non passeranno giammai. Che estendendosi a tutta la durazione del mondo, elle si avranno a compiere fino a tanto che la Chiesa sarà nel mondo. Or essa vi resterà infino a che non abbia raccolto l’ultimo fiato dell’ultimo degli eletti. Che promette mai alla sua sposa il Dio del Calvario e della Croce? Una corona di spine; una corona che le sarà a punto data, per essere sua sposa, la madre dei suoi figli, la depositaria della sua dottrina. E questo diadema di dolori non è promesso che a lei. In tutti i luoghi, fra l’onda di tutti i secoli, egli la distinguerà dalle sette menzognere, delle quali niuna potrà usurparlo. E infinattanto che essa si rimarrà fedele, mai esso non cadrà dalla sua fronte verginale.

« Noi comprendiamo, esclamava con trasporto S. Cipriano, l’illustre vescovo di Cartagine, mille e seicento anni sono, noi vediamo chiaramente i salutari disegni della Divina Maestà nelle persecuzioni. A fin di confondere gli eretici, Iddio mostra quale è la Chiesa, quale è il Vescovo unico scelto per ordine divino; quali i sacerdoti uniti al Vescovo mediante l’onore sacerdotale: qual è il vero popolo unito a Gesù Cristo, ed il gregge del Signore legato con la carità; chi sono quelli che l’inimico attacca, chi quelli per contrario che esso risparmia. Il nemico di Gesù Cristo non attacca in verità che i campi di Gesù Cristo; non perseguita, che i suoi soldati. In quanto agli eretici, già divenuti suoi, ei li lascia tranquilli. Sua unica cura è tutta in far cadere quelli che si mantengono ancora in piedi 1 ». (S. Cyprian. Ep. Ad Lucium, 58). Or vedendosi dopo diciotto secoli d’incessanti combattimenti la stessa preferenza riservata solo alla Chiesa Romana; quando si veggono ricomparire per la comune Madre i giorni della di lei infanzia; quando il verace Cattolico vede il mondo di oggidì, e i re, e gl’imperatori, ed i popoli scambiare il di lei dorso per incudine, e battervi sopra, come faceva il mondo d’altra volta; quando ascolta le medesime ingiurie, le medesime calunnie, i medesimi disegni, le stesse ipocrisie, le stesse violenze; quando in somma e’ con i suoi occhi vede appressare alle labbra della sua venerabile madre la stessa tazza di amarezza, onde fu già abbeverata nella sua culla; egli vede ad un tempo brillare sul di lei capo con splendore sempre antico e sempre nuovo, il diadema dei dolori, segno incomunicabile della sua incorruttibile fedeltà. – Con quale tenerezza pertanto non abbraccia egli questa madre augusta e prediletta! Con qual sentimento di nobile orgoglio egli non dice a se stesso: » Io son suo figliuolo; il figliuolo della vera Sposa! A dietro i sofismi dell’empietà ( Si scrive da Londra che in questo momento i protestanti inglesi battono le mani ad ogni nuova umiliazione della Chiesa romana. Ei stiano tranquilli; che non accadrà mai altrettanto alla loro chiesa. Miseri che non sanno nemmeno più leggere la Bibbia, e che si rallegrano di ciò a punto che forma la nostra gloria e la loro vergogna. Non c egli scritto che il Cristo deve soffrire per entrare nella sua gloria? Su questa terra la vera Chiesa non è essa la persona continuata di Gesù Cristo? Può essa arrivare al termine del suo pellegrinaggio altrimenti che per le persecuzioni?); a dietro gli scandali e le defezioni dei falsi fratelli; a dietro le minacce della tirannia: io sono il figlio di mia madre, il possessore della verità. Possessore della verità! sì, di quella verità che dura eternamente, che illumina il presente, ed assicura l’avvenire! Credete voi caro amico, che nei tristi tempi in cui viviamo, possa esservi consolazione paragonabile a questa? In quanto a me io non ne conosco maggiore, né uguale, eccetto quella di sapere che le potenze del male non prevarranno contro la Chiesa; che ella consumerà i suoi nemici come la lima consuma il ferro; che non cadrà un capello dal nostro capo senza la permissione del Padre onnipotente che veglia sopra di noi; e questi è al nostro fianco durante la tribolazione, il quale numera, e conta un per uno i nostri dolori, e parlerà per la nostra bocca davanti ai tribunali persecutori della nostra fede. – Di tal fatta sono le consolazioni fondamentali, che trae il Cattolico dalle attuali circostanze: e certo se non ve n’ha di più dolci, non ce n’ha di più feconde. – La calma in mezzo alla tempesta, la fermezza di carattere, la grandezza d’animo, la fedeltà a tutta pruova, il nobile sagrifizio, la dolce rassegnazione del confessore, ed accadendo ancora, il coraggio eroico del martire; tutto ciò in somma che onora l’uomo e santifica il Cristiano viene di là, come il frutto dall’ albero, ed il profumo dal fiore. Queste consolazioni, sarebbero, mi direte, purissime, se non fossero accompagnate sì dal pensiero delle sofferenze riservate ai buoni, e sì delle defezioni forse numerose, che s’hanno a temere. Ma essendo noi Cattolici, sì ragioniamo da Cattolici. Se all’oro fosse dato di poter parlare, e’ si rallegrebbe di esser messo nel crogiuolo. E di fatto dove perde esso la lega grossolana che lo abbassa di pregio? dove acquista il valore che fa col suo prezzo, l’abbagliante splendore onde brilla ai nostri occhi? Oro immortale, destinato abrillare come gli astri del firmamento nella corte del gran Re, non è egli necessario che il Cristiano venga purificato? Non è forse suo meglio che si purifichi ed affini su questa terra piuttosto che altrove? Il Maestro e Modello degli eletti non esultò forse di gioia alla vista della sua croce? Che sono per altra parte le tribolazioni del tempo paragonate alle delizie dell’eternità? Oltracciò non fa egli di bisogno che la Madre degli Eroi, cioè la Chiesa Cattolica mostri a tutti i secoli la sua eterna fecondità? Non convien forse clic essa faccia impallidire tutte le false virtù, davanti alle virtù dei suoi figli? E non sono, oggi più che mai, questi miracoli necessari? Quando coll’occhio della fede noi consideriamo la faccia del mondo cristiano, che altro vi vediamo? Milioni di anime battezzate che vivono come se non fossero tali; ed altri milioni di mezzi Cristiani la cui tiepidezza muove nausea; razza degenerante, di fede languida, di zelo intiepidito, di costumi ammolliti, di frivoli pensieri, di sensuali abitudini ed egoistiche; canne fluttuanti atutti i venti delle tentazioni dello spirito e del cuore; perpetuamente zoppicanti che hannodel continuo un piede nel bene ed un altro nel male; ed in mezzo atutto questo , appena un piccolo numero di Cristiani veramente degni di questo gran nome. E montava tanto adunque che il Figlio di Dio discendesse di Cielo e spargesse il suo sangue, per in fine ottenere sì tenue successo? A tale spettacolo per verità il cuore riman preso da noja mortale. La vita vi è di peso; onde si aspira ad uscirne, o a veder rinnovarsi la faccia della terra. Or questo prodigio è riservato alla tribolazione. E di fatto come la folgore squarcia la nube, così la prova lacera il lenzuolo d’indifferenza nel quale il Cristiano è ravvolto. Essa risveglia gli addormentati, risuscita i morti. – Le preoccupazioni terrestri, l’amore del lusso e del ben essere, tutto questo fascino delle frivolezze che diletta, seduce, e rovina, dà luogo a pensieri più gravi. Il  Cristiano rientra in se stesso; cosicché taluni si sarebbero perduti nella calma della pace, i quali si salvano mediante i pericoli, le privazioni, e le fatiche della guerra. Ed allora avviene, che le anime si ritemprano, perché si veggono apparire uomini di virtù eroica, che poi servono di modello alle generazioni future, e di vivente dimostrazione alla verità della Chiesa Cattolica. Tale avvenne in tutte le età; e la nostra non può fare che siane eccezione. Senza la persecuzione diretta contro la S. Sede, il mondo sarebbe mai stato testimonio di uno dei più beglispettacoli, che esso abbia contemplato? – Di nuovi Maccabei, al fiore degli anni, che si levano per difendere la terra sacra d’Israello; che abbandonano la famiglia e la patria, rinunziando a tutte le speranze di quaggiù; che lottano, malgrado il lor picciol numero, contro forze assai superiori, e benché assassinati e traditi, fanno prodigii di valore, sinché cadendo da eroi onorano la Chiesa e la stessa umanità con una morte più gloriosa della loro vita; evvi mai cuore sì freddo che non abbia palpitato a questo spettacolo? Ah! simiglianti miracoli, in quella che ci fanno esser superbi d’esser Cattolici, consolano del pari molti dolori!

Voi temete le defezioni: ed esse sono tristi senza dubbio. Ciò non ostante anch’esse hanno il lor lato consolante. Ascoltiamo in vero i nostri antenati. « La Chiesa è un’aja, dice S. Giangrisostomo. Ivi dobbiamo noi essere battuti e vagliati. Allorché il grano è pieno, sboccia dal suo inviluppo non appena è leggermente battuto. Se poi è piccolo e magro, n’esce più difficilmente: e vuoto, non vien fuora affatto, restando nell’inviluppo, da essere gittato al fuoco colla paglia. Così tutti gli uomini sono rinchiusi nelle loro affezioni terrestri, come il grano nella paglia. Colui che è sinceramente virtuoso, alla minima tribolazione che fosse, esce dalle sue affezioni grossolane, e si porta verso Dio. Se è un poco infedele, nol fa che dopo grandi tribolazioni. Se è del tutto infedele e vuoto, vien battuto invano; ch’egli non lascia la sua vita colpevole, e finisce coll’essere gittato fuori dell’aja cogl’infedeli. (Hom. XII, in Matth. Cap. II). La separazione dei veri dai falsi Cristiani importa a noi assai più che la separazione del buon grano dal cattivo non importa al lavoratore. La Chiesa rigettando dal suo seno i membri che la disonorano, fa tacere gli empii, ed allontana dall’ovile le pecore morbose che potrebbero infettare le buone. In quanto ai veri giusti, la persecuzione ne fa cadere molto meno che non si pensi. Tutti coloro che sembrano, non sono in realtà giusti: la prova manifesta la verità. « Nessuno creda che i buoni possano separarsi dalla Chiesa: niuno si dà alla parte degli eretici, se non il peccatore. Sicché le eresie hanno sì molta forza, ma contro coloro la cui fede non è forte. Gli è ben raro che coloro, i quali si sarebbero salvati nella Chiesa, siano dalla prova trascinati a perire fuori della Chiesa. » – Così parlano, illuminati da esperienza lor propria, S. Cipriano, Tertulliano, S. Agostino. (De unit. Eccl. – Præscript. cap. 2. – De vera Relig. cap. 8 . in Ps. 10.). È dunque falso che molti di coloro che si sarebbero salvati senza la persecuzione, si perdono nella persecuzione. Ordinariamente la persecuzione soprapprende la Chiesa nel tempo, in cui i costumi dei Cattolici sono sì cattivi, che piccol numero se ne salverebbe restando nella Chiesa. (v. Muzzarelli, Tribol. nella Chiesa p. 18). Né ciò basta. Iddio, che sa cavare bene dal male, fa uscire dalle cadute medesime ineffabili consolazioni. Onde si vede che tutti coloro, che ebbero la sventura di mostrarsi deboli, non perseverano nella loro viltà. Ve ne ha alcuni, che al meglio del combattimento si strappano all’apostasia. Tormentati fuori della Chiesa dai rimorsi strazianti della loro coscienza, più che non furono nella Chiesa dalle minacce dei loro nemici, essi riconoscono il loro fallo, rendono col loro ritorno una splendida testimonianza alla verità, e rinnovano alla Chiesa tutte le gioje del festino, ove il padre del figliuol prodigo il ricevette figliuolo pentito. Se un soldato pur per un istante infedele cagiona alla Chiesa sì dolci consolazioni; comprenderete la felicità di cui la inebbria colui che non disertò mai le di lei bandiere; anzi la difese con intrepidezza in venti campi di battaglie, ed ora ritorna tutto coverto di gloriose ferite. Oh! con quale orgoglio materno la Chiesa lo addita ai suoi amici ed ai suoi nemici! Mancante le parole per esprimere la sua gioja. Ascoltate quel che Ella diceva, sono ormai sedici secoli, per bocca di S. Cipriano: « Alla fine, eccolo il giorno cotanto desiderato. Alle oscure tenebre d’una lunga notte succede la luce divina. Con quale gioja noi vediamo i confessori che si sono segnalati per la loro fede! Noi non possiamo stancarci dal baciarli, dallo stringerli tra le nostre braccia. Voi avete vinto il mondo; voi avete offerto glorioso spettacolo agli Angeli; voi avete dato esempio alle future generazioni. Coteste mani venerabili hanno resistito ai sacrifizii sacrileghi; coteste labbra santificate dal corpo e dal sangue del Signore non patirono d’esser profanate dalle reliquie degl’idoli. La vostra fronte immacolata non ha consentito che il segno del demonio si posasse ove Dio ha impressa la sua immagine: essa si è riservata alla corona immortale. Con quale allegrezza la Chiesa vi riceve nel suo seno di ritorno dal combattimento! Quale felicità essa non sente in aprirvi le sue porte  onde vi entriate coi trofei riportati dai vinti nemici! Ed ancora le donne partecipano al trionfo. Anzi, combattendo esse, hanno vinto due nemici; il mondo e la loro debolezza. Giovani vergini, teneri fanciulli, dei quali la virtù vinse l’età, voi ritornate con doppia messe di gloria. Voi siete la gioja d’Israello, l’onore della Chiesa: la vostra gloria è la gloria di tutto il popolo. 1 » (S. Cyprian, De lapsis, cap. 1, 2). –  Tale è dunque la persecuzione nei suoi effetti provvidenziali: SEMPRE ESSA RINGIOVANISCE LA CHIESA. E quindi hanno origine quei trasporti di allegrezza materna, e Quegl’inni di trionfo, a’ quali testé accennammo. Essa non canta i suoi più belli cantici, se non dopo le grandi battaglie: la pace non gli ascolta. Poiché dunque la cosa è così, e che le gioje della Chiesa debbono essere le nostre gioje, come i suoi dolori sono i nostri dolori; ben voi vedete, mio caro amico, che i Cattolici del secolo decimonono hanno a poter sopportare il presente con coraggio, ed attendere l’avvenire con tranquillità. Due cose solamente sono loro domandate, la fedeltà ai loro doveri, e la fiducia in Colui, che ha detto: « Tutti i capelli del vostro capo sono numerati; neppur uno ne cadrà senza il permesso del vostro Padre celeste ». Con ciò il Cristiano può soffrire; egli può anche morire. La sofferenza per lui non è un male, ma un guadagno; la morte non è una disfatta, ma un trionfo: Evangelium tenens, et præcepta custodiens, occidi potest, vinci non potest.

Tutto vostro ecc.

Di Parigi il dì 23 Novembre, festa di S. Clemente Papa e martire.

FINE