I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (XIII)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (XIII)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica; 1922.

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

TERZO PRINCIPIO FONDAMENTALE: L’amore a Nostro Signor Gesù Cristo

CAPITOLO XI

Vita gloriosa

L’aurora che sorse il giorno seguente al sabato di Pasqua non trovò più il Salvatore sepolto tra i morti alle radici del monte Calvario. Era risorto per incominciare la vita gloriosa, terzo ed ultimo stadio della sua vita d’Uomo-Dio, ricolmo al sommo di graziosa condiscendenza ed amabilità.

1. La risurrezione è il riunirsi di nuovo del corpo coll’anima, però non per la vita temporale di prima, ma per un’altra totalmente nuova e gloriosa. Il corpo, rivestendosi di proprietà somiglianti a quelle dello spirito senza lasciare di essere corpo, mutasi in altro essere affatto distinto e meraviglioso, capolavoro della sapienza e dell’onnipotenza di Dio tra le creature visibili, e questo per l’anima glorificata non è un semplice ornamento ed una decorazione, ma una sorgente di conoscimenti, di gaudio e di potere mai prima immaginata. Così risorse Cristo a questa nuova vita, ricolmo e pieno di gloria e chiarezza, manifestandosi anche nel corpo come vero Figlio di Dio, risplendendo sul suo volto la maestà divina, adornato delle doti di chiarezza. di beltà e d’immortalità. Chi potrà formarsi un’idea della bellezza e maestà di Cristo risorto? Tutte le ombre della sua vita mortale sparirono: la sua faccia brilla più risplendente che il sole; tutta la sua persona respira nobiltà, grandezza e perfetta pace; e siccome dall’intero creato ad ogni istante elevasi un mare di gaudio che va a rifrangersi nel suo Cuore, così Egli a sua volta diffonde un paradiso di felicità e di delizie nei cuori di quanti a Lui s’avvicinano. Tanto constatiamo nel Vangelo; la sua presenza rallegra tutti gli animi, la parola sua porta la calma in tutti i cuori, e dovunque Ei trovasi vi è un perpetuo festeggiamento. Un’occhiata di Cristo e il godere per brevi istanti della vita dell’umanità sua santissima bastano a renderci felici. La bellezza col seducente suo aspetto ha il potere di piegare il cuore umano. Ma, ahi! quante volte ripaga con disinganni, infedeltà e morte! Tutto il creato è soggetto a continui mutamenti ed a perpetua instabilità. Se vogliamo godere d’una bellezza vera, immortale, capace di renderci felici, leviamo la vista più in alto, contempliamo Cristo risorto. La risurrezione è con tutta proprietà la festa del suo corpo. L’anima fu glorificata nell’istante medesimo della morte; nella risurrezione lo fu soltanto il corpo, ed in una maniera completa e perfettissima. L’ascensione non Gli aggiunse nessuna interna gloria, ma solo l’esterna che risultava dal sito ove ascese: e così fu nella risurrezione dove cominciò l’immortale bellezza del Salvatore, la medesima che di presente forma la meraviglia del cielo e della terra. Per questo la Pasqua è realmente la festa della bellezza, quella che svela ai nostri desideri il campo d’una bellezza più nobile e imperitura, prototipo d’ogni bellezza, la cui speranza è già una ricompensa per chi rinunzia a tutte le bellezze terrene. L’ora del nostro sposalizio, dice uno scrittore cattolico, non è ancora arrivata; ma arriverà, e la felicità nostra sarà ricolma e sovrabbondante.

2. Dopo la risurrezione il Salvatore non salì immediatamente al cielo, ma rimase ancora quaranta giorni sopra la terra tra i suoi per tutto regolare e disporre, prendendosi cura di essi con una sollecitudine ed amabilità divina. Spesso ebbe a consolare separatamente i suoi discepoli e le pie donne, premiando i loro servigi o dando loro incarichi particolari; altre volte si occupò in ciò che riguardava la fondazione della Chiesa. Fu in questo frattempo che istituì i due Sacramenti del Battesimo e della Penitenza; rivelò e confermò le verità della fede circa i misteri della Santissima Trinità e della risurrezione, e diede compimento all’edifizio della Chiesa coll’istituzione del Primato. – E tutto questo il Signore operava con inesauribile bontà e dolcezza. Può affermarsi che i patimenti, la Passione e la morte, lungi dall’aver diminuito l’amore suo per noi, l’aveano accresciuto; tanto si mostrò Egli clemente nel consolare e perdonare le passate colpe. La Penitenza, il Battesimo, il Primato, l’Immortalità, che doni di Pasqua, regali divini per l’umanità. Quanto la risurrezione civile ci rivela la bellezza e la immortalità del Salvatore, altrettanto la sua permanenza di quaranta giorni sulla terra ci manifesta la sua bontà.

3. Sale infine il Signore trionfante al cielo. L’ascensione è il compimento della sua vita terrena, il principio e l’inaugurazione della sua gloria, poiché per essa entra in possesso del regno de cieli. Mèta più eccelsa e sublime non poteva avere la vita dell’Uomo- Dio. Il Salvatore conduce i suoi discepoli sul monte degli olivi e di lassù, alla loro presenza ascende maestosamente al cielo, lasciandoci intravedere qualche cosa di quel regno glorioso del quale prende possesso per noi. Il cielo è il felice termine di tutto ciò che esiste e l’ultimo messaggio che il Signore c’invia. Come grande e magnifico è questo suo regno! Regno nobilissimo, regno di soavissima e imperturbabile pace e di vera quiete; regno di gloriosa ed ininterrotta attività, per l’onore e la gloria del nostro Dio immenso ed infinito; regno finalmente d’inconcepibili e d’interminabili delizie. Quale onore e quale conforto di poter aspirare ad un tal regno coi suoi beni imperituri! Con quale ansia ed amore dobbiamo elevare verso il medesimo i nostri pensieri ed il nostro cuore, e indirizzare le nostre occupazioni e quanto siamo ed abbiamo onde conseguirlo! Il cielo è l’opera più eccellente del potere, della ricchezza, della bontà e dell’amore di Gesù Cristo; l’ascensione è la base fermissima della nostra fede, della nostra speranza e della carità nostra; Cristo è la stella del mattino che non conosce sera né tramonto; si elevò nella risurrezione e brilla nel cielo dal giorno dell’Ascensione, affinché allontaniamo i nostri pensieri, i nostri desideri ed il cuor nostro dalle cose mutevoli e fragili della terra e l’indirizziamo a Lui, in cui trovasi l’eterna e vera felicità nostra. – Di modo che il cielo, gaudio eterno ed infinito, è il compimento della vita temporale ed il compendio della vita gloriosa di nostro Signore Gesù Cristo. E così doveva essere; come Dio Egli è per essenza santo, esemplare e fonte d’ogni felicità e non può esserne privo senza cessare di essere chi Egli è. Come uomo è la copia più perfetta della divinità, causa, fondamento e signore della beatitudine del cielo, al di sopra d’ogni creatura. Ciò che patì sulla terra non fu che transitorio; l’assunse di sua volontà e lo sopportò per amore di Dio e nostro, ma non era questa, né poteva esserlo, la parte che di diritto Gli spettasse. Lo stesso avviene fra noi, creature, servi e fratelli suoi: i patimenti e dolori non sono il fine a cui sia indirizzata la vita nostra, bensì la felicità e la beatitudine. Non lo dimentichiamo: la felicità è la colonna miliare del Cristianesimo e l’ordine del giorno del nostro Duce, e nessun’altra disposizione conviene né a Lui né a noi. Ed è meraviglioso il potere e l’efficacia che ha comunicato a questa parola (felicità): essa ci rende coraggiosi ed invincibili, ci aiuta a superare tutte le difficoltà ed a risolvere tutti i dubbi e c’infiamma d’amore verso Colui che ripone l’onore suo e la sua gloria unicamente nella felicità nostra e nel nostro gaudio. « La vostra vita è la nostra via »; dice bene l’Imitazione di Cristo (L. 3, cap. 18), « e per la santa pazienza camminiamo verso di Voi, che siete la nostra corona ».

CAPITOLO XII.

II Santissimo Sacramento

Il Salvatore salì al cielo, e nondimeno, sappiamo per la fede che rimase altresì corporalmente sulla terra. Questa meraviglia si operò mediante il Santissimo Sacramento, la cui essenza consiste in ciò, che il Salvatore è realmente e veramente presente col suo corpo ed anima, coll’umanità sua e divinità, nascosto sotto il velo delle specie sacramentali, finché durano queste. Il Santissimo Sacramento è la catena d’oro che unisce in istretto vincolo la terra al cielo.

1. Questo ci porta, naturalmente, a considerare uno dei fini della sua istituzione, la permanenza, cioè, di Gesù Cristo qui sulla terra. L’amor suo fu più forte che la morte. Prima che i suoi nemici riuscissero a levarlo dal mondo, togliendogli la vita, Egli aveva già istituito quest’altra maniera di presenza sacramentale; la quale, pel modo che si verifica è veramente ammirabile. Per essa può trovarsi contemporaneamente in cielo ed in migliaia di tabernacoli; per essa apparisce ai sensi come morto e come pane senza nulla perdere perciò della sua vita, della sua perfezione, della sua bellezza; per essa apparisce così piccolo, che può stare nella mano d’un fanciullo; mentre i cieli non lo possono contenere: cose tutte meravigliose che solo l’amore ed il potere uniti realizzarono. Come perle di rugiada sopra un ramo di fiori, così i miracoli brillano nel Santissimo Sacramento, che è tutto un prodigio. Inoltre, colla sua presenza reale nell’Eucaristia Gesù Cristo ci si manifesta amabilissimo, pieno di bontà e capace di cattivarsi tutta la nostra confidenza. Di qual piccolo sito si contenta! Quanto poco ci domanda! Unicamente che Lo riceviamo e ci alimentiamo di Lui; in tutto il resto si rimette all’amor nostro ed alla nostra generosità. L’onore suo esterno è quello che siamo disposti a tributargli. Quando viveva fra gli uomini facevasi cercare da essi; ora è Lui che viene ad essi, fissa la sua dimora fra essi e li rende felici, non solo colla sua presenza ma anche co’ benefizi che la stessa trae seco, e colle tenerissime divozioni a cui dà origine. Come triste e solitario resterebbe il mondo, senza questo Sacramento!

2 Il Salvatore non solo rimane continuamente fra noi per farci compagnia nell’Eucaristia, ma si sacrifica per noi, che è il secondo fine della sua istituzione. – La continua presenza del Signore nel Tabernacolo suppone necessariamente la celebrazione della S. Messa, e questa è per sua essenza il Sacrificio della Croce e quello della Cena. La Messa è Sacrificio completamente identico a quello della Cena, ed in sostanza è il medesimo altresì della Croce; poiché non è un semplice ricordo o una rappresentazione di esso, ma la sua ripetizione, continuazione e consumazione, col medesimo Sommo Sacerdote, la medesima vittima ed il valore medesimo. Sono gli uomini che si cambiarono, e non sono oggi gli stessi che assistettero al Sacrificio della Croce e della Cena. E qui rifulge la degnazione di nostro Signore Gesù Cristo, il quale vuole rinnovare perpetuamente il suo Sacrificio, mettere, per così dire, in mano di ciascuno degli uomini i meriti suoi e rendere per ognuno a Dio il dovute tributo d’adorazione, di riverenza, di ringraziamento e di soddisfazione. Più ancora: adesso non offre Egli solo il Sacrificio come la prima volta, ma tra gli uomini sceglie dei sacerdoti, per offrirlo con essi e per mezzo di essi. Così fa realmente nostro il suo Sacrificio, comunicandogli valore infinito, col quale possiamo presentare a Dio un’offerta degna dell’infinita sua maestà. E non si stanca mai il Salvatore di rinnovare questo Sacrificio di lode, che a guisa del sole gira tutto il mondo, e da innumerevoli altari elevasi a Dio il suo odore soavissimo, da convertire tutta la terra in un vivo ed immenso tempio dell’Altissimo. Come ci ha arricchiti, altresì dinanzi a Dio, l’amore e la benignità di Nostro Signore Gesù Cristo! Con nessun altro mezzo consegue Dio così appieno e splendidamente il fine della creazione come colla santa Messa.

3. Però l’Eucaristia non è unicamente Sacrificio, ma anche Sacramento, e questo è il terzo fine dell’istituzione sua. Come Sacrificio appartiene in primo luogo a Dio, come Sacramento, a noi; per esso Dio ci comunica la grazia onde poter meritare la vita soprannaturale e salvarci. Questa vita soprannaturale la riceviamo nel Battesimo, e si conserva e vigoreggia con la divina Eucaristia. Negli altri Sacramenti Cristo ci comunica la grazia mediante segni sensibili; in questo si serve del proprio suo Corpo come istrumento di essa. Il Sacramento dell’Altare, quindi, è il Corpo di Gesù Cristo sotto le specie di pane ed in forma d’alimento. Che stupendo pegno d’amore! Il Santissimo Sacramento è nientemeno che il Corpo di Gesù Cristo, il quale ce lo dà ora e lo fa istrumento de’ suoi favori come in altro tempo valevasi delle mani sue divine per sanare infermi e risuscitare morti. Ma con maggiore degnazione, perché adesso ci dà il suo corpo, santuario della divinità e meraviglia del cielo e della terra, ed insieme col corpo, l’anima sua, la sua divinità, i suoi meriti, la sua grazia: tutto quello ch’Egli è e possiede fa nostra proprietà. Dove si troverà nel mondo uno così ricco ed onorato come chi porta in petto il suo Dio e Salvatore? Che di più avremmo potuto noi chiedergli, e che di più poteva Egli dare a noi? E se questo Sacramento è Gesù Cristo in persona, ne segue che è il più eccellente di tutti, e non solo in quanto alla sua dignità, ma altresì in quanto all’efficacia. La Comunione è l’intima unione corporale ed insieme morale con Cristo, e perciò supera tutti gli altri Sacramenti in efficacia per conservare ed accrescere in noi la vita soprannaturale. Come Cristo è la vita, così questo è il Sacramento della vita (Giov. VI, 56-57). Inoltre. sono suo effetto, in modo particolare, le virtù e i doni più eccellenti, quali la carità, la pace, il gaudio, la fortezza, la castità, la generosità. Mediante la Comunione noi partecipiamo della medesima vita divina di Gesù Cristo (Giov. VI, 58), ed insieme il nostro corpo riceve il pegno della sua gloriosa risurrezione. E tutti questi meravigliosi effetti sono magnificamente rappresentati nelle specie sacramentali del pane e del vino. Il pane ed il vino sono simbolo della vita; il nutrimento significa l’intima unione e fortezza; il banchetto è l’espressione della gioia e della cordiale amicizia. Infine, sotto qual altra forma avrebbe potuto il Salvatore mostrarci con maggior vivezza quanto sia tenero e disinteressato l’amore ch’Ei ci porta? Sapendo che non v’ha nulla che così intimamente si unisca a noi come l’alimento corporale, il quale entra e si trasforma nell’essere nostro e diventa una cosa sola con noi: e non potendo soffrire che vi fosse qualche cosa che a noi si unisse più strettamente che Lui, si converte in alimento dell’anima nostra e del nostro corpo. Ma possiamo dir meglio, che siamo noi che ci trasformiamo in Lui, anziché Lui in noi. Egli, l’Onnipotente, ci attrae a Sé per trasformarci spiritualmente in Sé e farci, per quanto è possibile, partecipi della sua divinità. Vedete questo frammento di pane, in apparenza senza vita? È egli possibile che tutta l’immensità di Dio voglia nascondersi, umiliarsi ed abbassarsi in questo modo? Ma Egli è così che consegue ciò che l’amor suo pretende: attrarre il cuor nostro per renderlo felice, per onorarci, per arricchirci. Che tenero e commovente pensiero questo, che non vi sia Ostia consacrata la quale non vada a finire nel petto umano!

4. Come si presenta grande, magnifico e divino, nei diversi effetti del Santissimo Sacramento dell’Altare, l’amore che Gesù Cristo ci porta! Come mantiene realmente la sua parola, di non lasciarci orfani, ma di rimanere sempre con noi, di essere Egli la vite e noi i tralci e che noi dovevamo formare con Lui un tutto organico! Mediante l’Eucaristia estende in certo modo l’Incarnazione sua a tutti i singoli gli uomini. Nell’Incarnazione prese solamente una natura umana; nella Comunione si dona a ciascuno in particolare e si unisce con Lui con istrettissimo vincolo. Per la creazione Gesù Cristo è nostro Padre; per la conservazione è nostro Nutritore e Maestro; e per la giustificazione è nostro Salvatore; ma pel Santissimo Sacramento è per noi qualche cosa di così indicibilmente intimo, che è difficile esprimere, se pur non vogliamo dire, che è tutto questo insieme. Ciò che in questa circostanza Lo mosse e determinò a così operare, fu non solo la sua compassione, la sua misericordia e bontà per noi, ma l’amor suo, amore disinteressato è senza limiti, amore che oggi altresì non s’arretra dinanzi a qualunque sacrificio. – Gli sarebbe bastato meno per mostrarcelo; bastava che fosse rimasto presente in un solo luogo del mondo, che ci avesse rallegrati con una sua visita sola una volta in vita nostra, e questa unicamente a favore di coloro che se ne fossero regni degni; sarebbe stato bastante che si trovasse presente puramente al momento di riceverlo; ma Egli rigetta tutte queste riserve, a costo di esporsi a mille irriverenze e sacrilegi. Non dimentichiamo il numero senza numero d’ingratitudini e mancanze di rispetto per cui deve passare onde venire sacramentalmente ai nostri cuori, e come Va chiamando alla nostra porta colle parole dello sposo del Cantico dei Cantici: Apri, sorella mia, amica mia, mia colomba, mia immacolata; perocché il mio capo è pieno di rugiada, ed i miei capelli dell’umido della notte (Cant. V, 2). Dove potremmo noi ripagare il Signore con maggiore facilità, per l’amore che ci porta, se non nel Santissimo Sacramento, nel quale divampa un tale incendio di carità che giustamente chiamasi Sacramento di amore? Per la presenza reale è sempre e dovunque con noi, per noi si sacrifica nella santa Messa, a noi si unisce intimamente nella santa Comunione. Qual motivo e quale eccellente mezzo per crescere nell’amor suo!

CAPITOLO XIII.

L’ ultimo mandato.

Le ultime parole d’un affettuoso amico che s’allontana da noi, d’un padre o d’una madre moribondi, s’imprimono nell’anima nostra e sono come un preziosissimo e sacro legato ed un pegno di benedizioni celesti. Per questo volle parimente il Salvatore prima della sua Passione lasciare ai suoi Apostoli e per essi a noi, il suo testamento in quel sublime discorso d’addio nel quale manifestò i più profondi segreti del suo cuore, e diede loro l’ultimo suo mandato, il quale sarà anche l’ultima parola di quest’operetta.

1. Quale fu questo mandato? Che quanti si amano davvero, desiderano ed esigono vicendevolmente, allorché devono separarsi colla persona, di rimanere sempre uniti nello spirito. Questo è altresì ciò che più volte e con grande affetto raccomanda il Salvatore ai suoi Apostoli al momento di lasciarli, ed insieme a noi: Rimanete in me (Giov. XV, 4, 6, 9).

2. Ma; come dobbiamo intendere quest’unione? Evidentemente il legame che deve tenerci uniti a Lui non può essere che spirituale; però, com’Egli stesso dichiara, è qualche cosa di reale, vero, vivo, non transitorio ma duraturo, qualche cosa che esca dal fondo del nostro cuore. Perciò si vale nel dichiararlo della bella e significativa parabola della vite e dei tralci (Giov. XV, 1 sgg.). I tralci sono uniti organicamente colla vite e formano con essa un tutto vitale. Così deve essere, in certo modo, l’unione nostra con Cristo, e tale è in effetto quella che si verifica per la grazia santificante. La grazia santificante è una qualità reale spirituale e permanente dell’anima nostra, partecipazione creata della natura divina ed immagine della filiazione divina. Essa ci fa spiritualmente figli di Dio, assomigliandoci così al Salvatore, il quale lo è per natura. Conservando noi la grazia santificante, si adempie perfettamente ciò che il Salvatore dice di questa unione, cioè, che Egli sta e rimane in noi, che siamo una cosa sola con Lui e con suo Padre, com’essi (Persone) sono tra loro una cosa sola (Giov. XVII, 24 sgg.). Il Padre ed il Figlio sono una cosa sola per avere la stessa natura divina, ma noi per la grazia santificante abbiamo una copia e somiglianza della natura divina, ed il suo possesso è l’elemento primo, essenziale e permanente dell’unione con Cristo, così com’è il fondamento di tutti i doni e le virtù che costituiscono la vita spirituale.

3. Questa grazia santificante, che ha sua radice nell’essenza dell’anima nostra, è accompagnata da forze ed aiuti soprannaturali, mediante i quali possiamo esercitare atti virtuosi. Sono tre le virtù che enumera il Salvatore e che manifestano l’unione nostra con Lui. – La prima è la fede, primo passo per avvicinarci a Dio, unendoci, cioè, a Lui mediante l’intelligenza, riconoscendolo e stimandolo, quale Egli ci si manifesta, come Dio e come nostro supremo ed ultimo fine. E per muoverci a quest’unione per mezzo della fede, il Salvatore adduce bellissimi motivi, quali sono il testimonio formale della sua divinità, il rimetterci ai suoi miracoli e, finalmente, l’imprescindibile necessità in cui ci troviamo di dipendere da Lui mediante la fede se non vogliamo essere tagliati fuori ma produrre frutti di vita eterna. Credete in Dio, credete anche in me… Chi vede me, vede anche il Padre mio. Non credete che Io sono nel Padre e il Padre è in me? Se non altro credetelo per le stesse opere (ai miracoli). In verità, in verità vi dico: Chi crede in me, farà anche egli le opere che fo Io, e ne farà delle maggiori di queste (Giov. XIV, 4, 9, 11, 12). Io sono la vite, voi i tralci: se uno si tiene in me, e io mi tengo in lui, questi porta gran frutto, perché senza di me non potete far nulla. Quelli che non si terranno in me, gettati via a guisa di tralci seccheranno (Ib. XV; 5. 6.). Quanto è necessario, quindi, che apprezziamo la fede, e quale non dev’essere la vostra premura di esercitarla, poiché è l’unico mezzo di tenersi stretti a Cristo, che è il centro da cui partono i raggi vivificanti della carità. Questa carità ed amore è il secondo e più adeguato mezzo d’unirci a Cristo, in quanto che è una inclinazione costante della volontà verso l’oggetto amato. Tenetevi nella mia carità (Giov. XV, 9). Molto consolante è l’avviso che ci dà qui il Salvatore, che l’amore consiste, non in una certa mozione sensibile e soave, ma nell’osservanza perfetta dei comandamenti di Dio (26. 44; 15, 24, 23, 24; 15, 40, 44) alla quale va unita la carità chiamata abituale. inseparabile compagna della grazia santificante, e che perdura in noi, unendo per tal modo la nostra volontà a Dio, purché non commettiamo un peccato mortale. Questa è la carità e l’amore che inculca il Salvatore; e adduce come motivi ad esso in primo luogo l’amore che il Padre ci porterà, se noi amiamo Lui. suo Figliuolo (Giov. XIV; 24, 23; XVI, 27) che c’inviò; in secondo luogo, l’amore ch’Egli stesso ci portò scegliendoci ad amici e comunicandoci la sua dottrina ed i misteri del cielo (Ib. XV. 45.), e dando la vita per noi Ib. XV, 13.); in terzo luogo, la promessa di singolarissime comunicazioni fatte alle anime amanti dalle tre divine Persone della Santissima Trinità (Ib. XIV, 23.), indicando con queste parole il profondo e soave mistero della grazia che, in diversi gradi, hanno da ricevere nel mondo le anime nella loro mistica unione con Dio, preludio ed aurora dell’amore e beatitudine del cielo. – Ma la fede e l’amore hanno necessità d’un mezzo efficace per comunicare con Dio e questo è la preghiera, terzo esercizio dell’unione nostra con Lui. La preghiera che il Salvatore raccomanda nel sermone della Cena è in strettissimo rapporto colla sua persona, poiché deve farsi in suo nome (XIV; 13, 14; XV; 16, 23, 26.). Prega in nome di Cristo chi sta intimamente unito a Lui mediante la grazia, chi unisce le proprie intenzioni a quelle del Salvatore per la gloria di Dio e la dilatazione del suo regno e, finalmente, chi offre le preghiere proprie per i meriti di Gesù Cristo. Questo è pregare in nome di Cristo. E quest’idea della preghiera, nelle intenzioni di Cristo, doveva essere per gli Apostoli una specie di compensazione per la di Lui assenza visibile. Ciò che per gli Apostoli era il trattamento con Gesù Cristo, questo vuole Egli che sia per noi la preghiera. Per mezzo di essa vuole istruirci, fortificarci e porgere rimedio a tutte le nostre necessità. Per questo disse agli Apostoli che fino allora non avevano chiesto nulla in suo Nome, perché stava con essi (Giov. XVI, 24), ma che in avvenire Egli concederebbe ad essi ed a noi tutti quanto Gli domanderemo in suo Nome. E l’efficacia della preghiera fatta in Nome di Gesù Cristo non ha limiti, poiché è la sua onnipotente preghiera (Giov. XIV, 14; XV, 16.): tanto è vero, che la preghiera fatta in suo Nome non ha nemmeno bisogno ch’Ei la raccomandi a suo Padre (Ib. XVI, 26). Questa preghiera è l’unione più intima con Lui, ed il più potente mezzo per l’esaltazione e dilatazione del suo regno. Può darsi motivo più forte, più bello e più nobile per animarci a pregare? – Questo è, dunque, l’ultimo mandato del Signore: che ci uniamo a Lui mediante la grazia, la fede, l’amore e la preghiera. È l’ultima e consolante manifestazione che ci fa, di amarci e di volere che l’amiamo; è l’ultimo suo sacro mandato, assicurato sulla sua parola; è l’estremo e più ardente suo desiderio. Come non lo riceveremo con quell’affetto e venerazione che si merita? Basta esso solo per unirci perfettamente a Cristo: la fede unisce l’intelligenza nostra alla sua: l’amore, la nostra volontà; la preghiera, la memoria nostra ed i nostri affetti. Così tutto l’uomo è unito a Gesù Cristo e diventa una cosa sola con Lui, di maniera che non sia l’uomo, che viva in sè ma Cristo in lui (Gal. II, 20). – Incominciammo quest’opera colla preghiera; e per l’amore che cerca Gesù Cristo nella preghiera ritorniamo al punto donde siamo partiti… La preghiera, l’abnegazione e l’amore di Dio, strettamente uniti tra loro, sono il triplice vincolo della vita spirituale e della perfezione cristiana per quanti desiderano conseguirla, sia che vivano liberi nel secolo, o ritirati nella pace della vita religiosa. Ma nessuno di questi mezzi deve mancare: dove non c’è preghiera, non vi può essere nemmeno la forza necessaria per vincere sé stessi e per conoscere ed amare Dio; e mancando l’abnegazione, verrà meno anche l’amore alla preghiera, è l’egoismo impedirà che metta radici e cresca l’amore di Dio: finalmente, chi non ama Dio, non può avere nemmeno lo spirito di preghiera e di sacrificio. Uniti i tre mezzi, aiutandosi reciprocamente, fanno conseguire la corona della giustizia. Di questi tre mezzi così intimamente intrecciati, il più eccellente è l’amore o carità (I Cor. XIII, 13), vincolo della perfezione e primo ed ultimo mandato del Signore, il quale ciò che propriamente da noi esige è amore, lasciando a noi la cura sul resto. Per l’amore Egli è il padrone assoluto del nostro cuore. Per l’amore non vi sono difficoltà, che anzi le converte in mezzi ed occasioni propizie onde manifestarsi. « Ama e fa quello che vuoi», dice S. Agostino (In epist. Joannis ad Parthos tr. 7, n. 8) e S. Giovanni: E noi abbiamo conosciuto e creduto alla carità che Dio ha per noi (I Giov. IV, 16). Tutto deve cedere dinanzi a questo amore di Gesù Crocifisso; Egli ha vinto il mondo. Come è infinitamente amabile Dio nostro Signore e Salvatore, e quanto degno d’essere corrisposto! Ci amò sino a dare la vita per noi e ci ama ancora in una maniera ineffabile; non è questo per noi, poveri e miserabili, bisognosi d’amore e di felicità, più che bastante? È così grande e desiderabile questo bene dell’amore, che non potremo mai fare abbastanza per conseguirlo: preghiamo sempre, perché non ci avvenga di essere sorpresi dalla morte senza averlo perfettamente conseguito. La cognizione e l’amore di Cristo è la più alta ricompensa che possiamo desiderare nel tempo e nell’eternità; infelice per sempre colui che in vita sua non godette mai un raggio di questa conoscenza ed amore. Conoscere ed amare Gesù Cristo è tutta la nostra sapienza, la santità nostra e la nostra felicità temporale ed eterna. E fosse pure tutta la nostra vita una croce continua ed in martirio, non ci scoraggiamo; ché degno di grandi patimenti è il premio cui aspiriamo. Certamente che colle consolazioni sensibili tutto ci viene reso più facile, però non più meritorio. L’amore di Dio, che in Cielo non incontra nessuna difficoltà, nel mondo, mentre viviamo solo di fede, lottando con frequenza contro gli ostacoli od i piaceri che c’impediscono di elevare il cuore a Lui mediante l’amore, è spesso una vera arte ed un modo eccellentissimo di onorarlo. – Confidiamo tuttavia; ché pur quaggiù deve venire il giorno in cui brillerà per noi, soave e dolcissima, la cognizione di Gesù Cristo, aurora dell’eterna beatitudine.

A. M. D. G.

NEC NON

B. M. V. I. ac S. I. EJUSDEM SPONSO

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (XII)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (XII)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A  TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica – 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

TERZO PRINCIPIO FONDAMENTALE: L’amore a Nostro Signor Gesù Cristo

CAPITOLO VIII.

Il libro della vita.

Nella vita del Salvatore si rileva un fatto, efficace come pochi per muoverci ad amarlo e consacrarci a Lui (Luc. X, 17 sgg. Matt. XI, 25 Seg.).

I. Era il terzo anno della sua predicazione, quando erasi già scelto, oltre gli Apostoli, i settantadue Discepoli perché l’aiutassero nel ministero apostolico. A capo di poco tempo fecero ritorno i Discepoli pieni di gaudio: tutto, secondo che riferivano, era riuscito loro bene, grazie al potere da Lui ricevuto, tanto che perfino i demoni eransi sottomessi. Si rallegrò il Salvatore all’udire le umili parole di suoi Discepoli, ma rispose che dovevano godere non tanto per questo felice successo, quanto per altra cosa più elevata e di maggiore importanza, qual era quella che i loro nomi fossero scritti nel libro della vita. Imperocché ben più importante che aiutare gli altri a salvarsi era d’aver assicurata la propria salvezza, come l’aveano essi, in virtù d’essere stati predestinati da tutta l’eternità, e che i loro nomi fossero scritti nel libro della vita.

2. In questa circostanza il Salvatore getta uno sguardo sopra il grande mistero della predestinazione. Da una parte Ei vede i sapienti e i prudenti del mondo, che, incominciando dagli angeli ribelli e sino alla fine dei tempi, nella loro superbia e presunzione si allontanano da Dio e periscono; dall’altra, gli umili e piccoli che, sottomettendosi a Dio perfettamente, si salvano. Fa conoscere inoltre la causa da cui procedono queste due sorti così distinte, che è Egli medesimo e l’eterno suo Padre. Di Sè stesso dice: Tutto mi è stato dato dal Padre, e nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui a cui il Figlio vorrà rivelarlo. Ed in altro luogo: Non può alcuno venire a me se non lo attiri il Padre (Giov. VI, 44). È con queste parole il Salvatore si manifesta come causa che coopera e perfeziona, come mediatore e punto centrale del grandioso mistero della predestinazione. Come Verbo e Sapienza increata del Padre e come Uomo-Dio Egli è realmente la sorgente di tutte le divine cognizioni e di tutta la salvezza, ed il punto principale da cui diramansi le diverse vie delle creature. – Chi vuole salvarsi deve andare dal Padre in Lui e per Lui. Egli è veramente il libro della vita, in cui stanno scritti i nomi dei predestinati. E perciò questo mistero è una splendida dimostrazione della gloria, della divinità e maestà del Salvatore a cui ed in cui tutto affluisce e si concentra. Perciò Egli esulta nello Spirito Santo e rende grazie all’eterno suo Padre, ma non unicamente in riguardo proprio, poiché la carità sua Lo muove altresì a ringraziare a nome degli Apostoli e di quanti saranno i predestinati per la fede e l’amore alla sua Persona.

3. Dalle parole sopraccitate il Salvatore trae la conseguenza. Se solamente per Lui noi possiamo salvarci ed arrivare sino al Padre, ne segue necessariamente che dobbiamo sottometterci e unirci a Lui totalmente. Per questo Ei dice: « Venite a me »; vale a dire, unitevi a me mediante la fede e l’amore; « prendete su di voi il mio peso ed il mio giogo», cioè, il giogo della mia dottrina, de’ miei precetti e della sudditanza al mio dominio. » – « Imparate da me », fatevi miei discepoli nell’umiltà e nella mansuetudine. In altri termini dobbiamo essere come i fanciulli ed i piccoli che Egli loda ed ai quali promette la vita eterna. Dobbiamo, quindi, togliere da noi ogni propria soddisfazione e presunzione, cercare solo in Gesù la felicità temporale ed eterna e sottometterci a Lui con tutta umiltà e prontezza. Solo così possiamo sperare che il Padre ci mostri Cristo e che Cristo ci conduca dal Padre; allora solamente potremo essere annoverati tra gli eletti ed inscritti nel libro della vita, che è quanto il Salvatore da noi desidera. E per indurci ad accettare l’invito suo, aggiunge alcune ragioni bellissime e di somma efficacia. E prima, a ciò deve muoverci la nostra grande ed universale indigenza. Siamo inclinati naturalmente ed irresistibilmente alla cognizione della verità, all’amore ed alla felicità perfetta. Ma dove trovarle? In noi no certamente, e non nel mondo e nemmeno nelle creature; in Dio unicamente, in Gesù Cristo, verità, bontà e bellezza infinita, il solo che possa renderci completamente felici. Tutti d’altronde siamo pieni di miserie, di travagli e di patimenti nel corpo e nell’anima, nell’ordine naturale e nel soprannaturale. Gemiamo sotto l’impero delle passioni disordinate, del peccato e dei mali e penalità della vita. Dove trovare aiuto, conforto e pace piena allo spirito se non nel Salvatore? Le sue parole, i suoi esempî ci confortano, e la sua grazia ci rende tutto possibile e soave. Per questo Ei ci dice: « Venite a me, o voi tutti, che siete, addolorati ed oppressi, ed io vi ristorerò ». – La seconda ragione per unirci a Cristo è la sua medesima Persona ed amabilità. Troppo conosciamo la insufficienza nostra e sentiamo la necessità che qualcuno ci regga. Orbene; possiamo scegliere soltanto tra Cristo e il mondo; ma, come risalta la benignità, la mansuetudine, la fedeltà e il disinteresse di Cristo in comparazione dell’egoismo, della superbia e della tirannia del mondo! La dottrina di Gesù così conforme alla retta ragione nobilita e consola; pochi sono i suoi precetti, copiose le grazie e magnifica la ricompensa che ci promette. Egli è saggio, ricco e potente, e vuole essere personalmente la nostra mercede; solo in Lui troveremo la vera pace dell’anima. Stando così le cose, non esclameremo con S. Pietro: Signore, da chi andremo? Voi avete parole di vita eterna. Chi vuole salvare l’anima propria deve unirsi a Cristo mediante la fede e l’amore. Egli è la via che ci rende felici. Che ci rimane, dunque, da desiderare in Cielo e sulla terra, se non Dio, il Dio del nostro cuore, l’eredità nostra per tutti i secoli? Quid enim mihi est in cœlo? et a te quid volui super terram? (Salm. LXXII, 25). – « Mihi autem adhærere Deo bonum est; ponere in Domino Deo spem meam ». (Id. 28). Che dolce cosa è lo stare uniti a Dio e in Lui collocare tutta la nostra speranza!

CAPITOLO IX.

Era buono.

Quando il Salvatore entrò in Gerusalemme l’ultima volta per la festa dei Tabernacoli, tutti parlavano di Lui. Alcuni dicevano: È un sedizioso; altri: È buono (Giov. VII, 12). Questi ultimi avevano ragione. L’uomo è ciò che sono le sue opere, E queste si manifestano nel tratto col prossimo. Il Salvatore Era buono; e come no? se era Dio, e Dio è la bontà medesima?

I. Era buono verso i ricchi. Due sorta d’ingiustizia si commettono di frequente in riguardo ai ricchi, odiandoli o idolatrandoli: il primo modo è invidia, il secondo stoltezza. Ben diversamente comportavasi il Salvatore, il quale amò i ricchi, desiderando loro ogni bene; poiché anch’essi hanno un’anima e sono figli di Dio. Li compativa per le loro ricchezze e li avvisava di regolarsi bene con esse, ché sono un grande pericolo per l’anima; ma riscontrava altresì nei ricchi e nelle ricchezze un mezzo potente nel regno di Dio e la salvezza degli nomini. Per questo non trascurò i ricchi e procurò di attrarli al bene, sebbene in un modo conveniente e degno di Dio. Non andava in cerca di loro, ma voleva che essi si muovessero a cercar Lui. Erode l’avrebbe visto volentieri alla sua corte, ma Egli non volle mai andarci. Guarì il figlio del regolo da lontano, senza pensare di andar alla sua casa. Pregato dal centurione gentile, si mise tosto in cammino Verso la sua abitazione, ma non vi entrò, da che il centurione medesimo per umiltà vi si oppose. Invece, si oppone con amabile insistenza all’archisinagogo, e lo segue in casa, perché la figlia di lui era già morta e poteva operare al di lui favore qualche cosa. Dava sempre ascolto alle suppliche dei ricchi, senza badare a contrarietà né attendere riconoscenza.

2. Fu parimente buono coi poveri, cogli afflitti e cogl’infermi, tanto che questi erano sempre l’oggetto della sua predilezione, imperocché non sono i sani, diceva, coloro che abbisognano del medico, ma gl’infermi (Matt. IX, 12). Come la calamita attrae a sé il ferro, così Gesù era sempre circondato da miserabili e da languenti. Aveva un’intima e ardente compassione per i poveri e i disgraziati, perché sono figli di Dio, suoi fratelli e così ricolmi di tante sciagure. E questa compassione non la teneva nascosta nel suo interno, ma la manifestava colle sue parole, colle sue lagrime, coi conforti che prodigava e con infiniti altri benefizi. Non aspettava che i disgraziati venissero a Lui, ma Egli stesso usciva a cercarli, pronto a offrir loro il suo aiuto, senza badare alle loro importunità od alle ingratitudini. Nulla risparmiò per soccorrerli, ponendo a servizio della sua bontà la sua sapienza e la sua onnipotenza.

3. Tra tutti i disgraziati preferiva i peccatori, come i più infelici e degni di compassione. Il mondo non ha alcun rimedio per questi sofferenti, non sa calcolare la loro sfortuna, e lascia che disperati si perdano per sempre. Così facevano i farisei; ma ben altrimenti il Salvatore, il quale come buon pastore e padre misericordioso usciva incontro al figliuol prodigo per ratificare con un bacio d’amore le sue parole di pentimento e rimetterlo nello stato suo primitivo. Sì nota era la usa bontà verso i peccatori, che i nemici varie volte se ne servirono per gli storti loro fini, e tentarono di perderlo valendosi della sua misericordia (Giov. VIII, 3; Luc, VI, 7).

4. Anche con questi nemici il Signore era buono sopra ogni misura. Un incredibile impegno mettevano essi nell’esacerbare il Cuore di Gesù, resistendo a tutti gli sforzi, ch’Ei faceva per salvarli. In una delle feste più solenni del Tempio i giudei Lo circondarono per lapidarlo con i sassi che portavano in pugno. Allora il Signore indirizzò loro queste parole: Molte buone opere vi ho fatto, per quale di queste mi lapidate? — Non ti lapidiamo per un’opera buona, risposero ì Giudei, ma perché tu essendo uomo, ti fai Dio » (Giov. X, 32). Ed era vero: preziosi benefici sopra benefici avea loro fatto; ma la dottrina non incontrò che opposizioni; i suoi miracoli malevolenza; la più nera ingratitudine i suoi benefici; ed odio mortale e la morte più crudele ed ignominiosa l’amor suo. E malgrado tutto questo il Salvatore continua ad esercitare il suo ministero con ammirabile carità e mansuetudine; non li abbandona, risponde alle scortesi ed importune loro domande, e dalle medesime prende occasione per vieppiù istruirli e farli avvisati del castigo che li attende. È non cessa di mostrar loro la sua bontà con nuovi benefici, finchè inchiodato sopra una croce, apre il Cuor suo e pronunzia già moribondo parole di perdono per suoi nemici. – Oh! sì, il Salvatore. era realmente buono. Come immagine vera e personale della bontà di Dio (Sap. VII, 26), passò pel mondo facendo del bene, perché Dio era con Lui (Att. X, 38). Siccome nessuno può sottrarsi ai raggi benefici e vivificanti del sole (Salm. XVIII, 7), così non vi è alcun essere che questa bontà e quest’amore non rallegri e renda felice. E che consegue da ciò? Che dobbiamo essere buoni anche noi, com’era il Salvatore? Sì, senza dubbio; ma la prima conseguenza è che dobbiamo amare Colui che fu buono sopra ogni cosa. Noi amiamo tutto ciò che è buono e tutti coloro che sono buoni con noi; perché non ameremo Gesù? Non ci dimostra Egli la sua bontà? Tutto abbiamo ricevuto da Lui: l’inestimabile grazia del Battesimo e della fede, e quella di vivere nel seno della Chiesa Cattolica, per la quale godiamo beni superiori ad ogni comparazione, e, chi sa ancora, il beneficio di essere stati perdonati innumerevoli volte dell’abuso fatto delle sue grazie e della sua misericordia! Ricordiamoci di tutto questo ch’Ei ci diede, e dell’altro bene più ineffabile che vuol continuare a darci, Sé medesimo nell’Eucaristia, e vedremo che non dobbiamo amare nessuno tanto quanto il Salvatore.

CAPITOLO X.

Passione e morte.

Il crogiuolo dove si mette a prova l’amore sono i patimenti. Tanto grande è l’amore quanta è la disposizione a soffrire per la persona amata, ed il Salvatore medesimo non seppe arci altra misura dell’amor suo per noi, che facendolo passare pel battesimo di fuoco della sua Passione (Luc. XII, 49). E questo battesimo di sangue è così sublime che non v’ha cosa che possa muovere tanto i cuori generosi ed eccitarli a ricambiare amore con amore, patimenti con patimenti. Si danno tre motivi principali per ciò. – Il primo è la causa della Passione. Sentiamo compassione e persino una specie di rispetto verso un uomo che sconta con gravi tormenti e pene ciò che deve per le sue colpe, se li sopporta con spirito di penitenza e per soddisfare alla giustizia. Il Salvatore scontava ciò che non doveva: la sua vita era stata innocentissima e santissima, ed appunto perciò fu eletto da Dio quale vittima propiziatoria per i peccati nostri e per quelli di tutto il mondo. Le nostre colpe e quelle di tutti gli uomini gridavano vendetta al cielo se non davasi una giusta riparazione; e la Passione di Cristo coi suoi inauditi tormenti altro non era se non la ripercussione terribile dei peccati, che cadde sopra il Salvatore, nostro pietosissimo mallevadore. invece di cadere sopra di noi. I quale da Dio fu preordinato propiziatore in virtù del suo Sangue per mezzo della fede, affine di far conoscere la sua giustizia nella remissione dei peccati (Rom. III, 25). L’amore ineffabile del Figlio di Dio fece che si offrisse per noi. E che morisse sulla croce per i nostri peccati. Scontò ciò che non doveva (Sal. LXVIII, 5). Lo stesso ripete con tenerissime parole in altro luogo l’Apostolo: Egli mi amò, e diede Sé stesso per me (Gal. II, 20). In questo modo dobbiamo considerare la Passione del Signore: sul Calvario, dietro i Giudei, immediati strumenti della morte di Gesù. stiamo noi, carichi di colpe, come principalissimi moventi di sì orribili tormenti. In tutte le particolarità della Passione può ciascuno dire a sé medesimo: Ciò che qui patisce Cristo, lo dovevi patire tu! Il Salvatore ci portò inoltre una nuova religione con la sua fede e la sua morale, con una nuovo ordine di grazia ed un nuovo sacrifizio, e conveniva che colla sua morte ratificasse la fede. aprisse le ricchissime sorgenti della grazia, consacrasse col suo Sangue l’altare del sacrifizio, ed era necessario soprattutto che ci precedesse Egli colla croce della mortificazione e del dolore, e ce la rendesse meritoria di vita eterna; tutto questo eseguì mediante la sua Passione. Finalmente, volle il Salvatore riunirci tutti qui sulla terra, in un immenso e magnifico regno, e così uniti, condurci al Cielo. Ma il mondo giaceva sotto il potere di satana, e soltanto un duello a morte poteva guadagnarci questo regno delle anime. Come principe generoso, Gesù Cristo volle riscattare noi, suo popolo, colla sua morte. Il suo sangue fu il brezzo ch’Ei versò per comprarci un posto nel regno della sua Chiesa: sarà mai possibile dimenticarci della sua generosità? Per tutto questo, le cause della Passione di Cristo sono intimamente legate a suoi medesimi: per noi, pel bene supremo ed inapprezzabile della salvezza delle anime nostre patì e morì nostro Signore Gesù Cristo.

2. Un altro motivo che deve servire ad eccitare la nostra compassione e gratitudine è la molteplicità e grandezza dei dolori della Passione. Sono sì grandi, sì svariati, sì nuovi, che invano ne cercheremmo di somiglianti altrove. Dolori interni, nel corpo e nell’anima; dolori provenienti da Sé medesimo e da altri e molte volte da tutte le parti. Non vi fu alcuno tra coloro che Lo circondavano, che non contribuisse alla sua Passione; ebbe moltissimo da soffrire per parte di amici e di nemici, dicasi lo stesso del genere dei tormenti: oltraggi, diffamazioni, disprezzi, burle, ingratitudini, tradimenti ed ingiurie, così sensibili ad ogni cuor nobile. In nessun luogo trovò giustizia; tutti gl’incaricati ad esercitarla Lo lasciarono senza appoggio, Lo abbandonarono e Lo condannarono alla morte più crudele ed ignominiosa. Troviamo nella sua Passione supplizi crudeli ed umilianti, come la flagellazione e la crocifissione; pene contro ogni consuetudine e diritto, quali la coronazione di spine e le atroci ingiurie nella casa di Caifasso; patimenti misteriosi e degni d’ammirazione, che solo Lui poteva soffrire, come l’agonia nell’orto e la morte sulla croce. Furono tali queste interiori angustie dell’anima, che sorpassarono in intensità ed amarezza. Tutti i patimenti umani. Tutti i generi di tormenti immaginabili oppressero il Salvatore da tutte le parti, di maniera che possono applicarsi a Lui le parole che pronunziava il profeta Geremia, riferendosi alle calamità di Gerusalemme: O voi tutti che passate per questa via, considerate e vedete se vi è dolore uguale al mio (Thr. I, 12). Immensa come il mare è l’afflizione mia (Ib. II, 13). – Per comprendere in qualche maniera la profondità e l’amarezza di questi tormenti, sarebbe necessario che ci formassimo un’idea della natura e complessione dell’umanità di Cristo, della delicatezza e sensibilità del suo Corpo, e dell’impressione che facevano sulla di Lui anima i dolori e gli oltraggi. Era vivissimo in Lui il conoscimento della propria dignità divina e dell’onore che Gli si doveva. Pochi giorni innanzi incedeva trionfalmente per queste medesime vie, acclamato come profeta e taumaturgo rispettato e venerato da molti dei principali e più saggi figli del suo popolo, e l’intera città Gli si era prostrata ai piedi rendendogli omaggio. Ed, ora tutto termina col fine più ignominioso! Sacrificare la propria vita per condurre a capo un’azione eroica, lasciando dietro di sé la gloria e l’universale riconoscenza, è un’impresa di cui molti sono capaci; ma morire come un colpevole e volgare malfattore, abbandonato e negletto da Dio e dagli uomini, senza onore, senza conforto, con una morte che manifesta tutto l’abbandono e l’impotenza umana, in mezzo alla gioia feroce di perfidi nemici (Matt. XXVII, 49), questa è la cosa più dura, più triste e straziante che immaginare si possa. Tanto sentì il Salvatore e lo manifestò in quel grido d’angoscia che diede dall’alto della croce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Ib. XXVII, 46) e già prima l’avea predetto per bocca dei profeti: Ma io sono un verme, e non un uomo; l’obbrobrio degli uomini, e il rifiuto della plebe (Sal. XXIV, 7). Egli non ha vaghezza né splendore, e noi l’abbiamo veduto, e non era bello a vedersi: e noi non avemmo inclinazione per lui. Dispregiato e l’infimo degli uomini. Ed era quasi ascoso il suo volto, ed egli era vilipeso, onde noi non ne facemmo alcun conto… Lo reputammo come un lebbroso, e come flagellato da Dio (Is. LIII, 2 sgg.). Mi collocò in luoghi tenebrosi, come quei, che son morti per sempre… Ed oltre a ciò, quand’io alzi le grida, e lo pregai, ha chiuso il varco alla mia orazione… È bandita dall’anima la pace: non so più che sia bene. Ogni termine per me è sparito, e la aspettazione mia nel Signore. Ricordati della miseria, miseria mia eccedente, e dell’assenzio, e del fiele. Queste cose ho di continuo alla memoria, e si strugge l’anima mia dentro di me (Thr. 3). Oh terribile Calvario, testimonio dell’abbandono di un Dio e di quell’ora tristissima in cui, vittima volontaria dell’amor suo smisurato per noi, il Salvatore, Signore di quanto esiste, santissimo, gloriosissimo, il più bello ed amabile tra i figli degli uomini, patisce quella morte ch’Ei medesimo erasi eletta! Sarà possibile che ce ne dimentichiamo?

3. Finalmente la Passione di Gesù Cristo è gloriosa pel modo che la soffrì e le diede fine. Imperocchè non Lo colse d’improvviso ed impensatamente. Tutto era stato previsto e da Lui scelto e determinato, sino dall’eternità. Quante volte l’annunziò a’ suoi discepoli! Nell’ora segnata della cattura ricusò ogni difesa; miriadi d’Angeli, com’Ei disse, sarebbero stati pronti a difenderlo; con una semplice parola Egli atterrò la banda de’ suoi nemici. E colla stessa libertà e padronanza con cui comincia la Passione la porta a compimento, chinando il capo prima di spirare, per far comprendere che nessuno avrebbe potuto privarlo della vita contro sua volontà e che disponeva di essa con perfetta padronanza. Veramente, si sacrificò per noi perché volle (Is. LIII, 7). La seconda dote che risplende nella Passione è l’ammirabile fortezza e magnanimità. Non patisce nostro Signore con indifferenza stoica né con orgoglioso disprezzo della morte, ma nemmeno con debolezze ed abbattimenti. Sente vivamente i dolori e non arrossisce di manifestarli, non per lamentarsi, ma perché ci serva di conforto nel vedere che in realtà patisce indicibili tormenti e che per essi sconta ciò che dovevamo noi a Dio pei nostri peccati, come Sommo Sacerdote, il quale, secondo afferma San Paolo, nei giorni della sua carne avendo offerto preghiere e suppliche con forte grido e con lacrime a colui che lo poteva salvare dalla morte, fu esaudito per la sua riverenza (Ebr. V, 7). – L’ultimo distintivo della sua Passione e morte fu la santità; imperocchè patì e morì esercitando le più alte e sublimi virtù. Perdona ai suoi carnefici; implora la misericordia del Padre per quanti cooperano alla sua morte; pensa e provvede colla più delicata sollecitudine a sua Madre che costantemente persevera ai pie’ della croce; ascolta ed esaudisce la pia invocazione del ladrone convertito; dà compimento alle ultime profezie e, con un sospiro d’immenso amore agli uomini e di sommessione e filiale abbandono all’eterno suo Padre, al medesimo consegna l’anima propria. Per questo la di Lui morte non solo è santa, ma è l’esempio altresì, la causa e perfezione della morte di tutti i santi. – Così spirò il Salvatore, lottando colla morte, e morendo come uno di noi, non obbligato, ma volontariamente per darci a conoscere l’amore che ci portava. – Lì, a’ pie’ della croce, nel contemplare le ‘ultime gocce di sangue che escono dall’aperta ferita del Costato e dal cuore trafitto del Signore, ricordiamoci di quelle parole: Nessuno ha carità più grande che quella di colui che dà la sua vita pe’ suoi amici (Giov. XV, 13). Io ho abbandonato la mia casa, ho rigettato la mia eredità ed ho lasciato la dolce vita mia nelle mani dei miei nemici (Ger. XII, 7). Io sono il buon pastore che dà la vita per le sue pecorelle (Giov. X, 14); e di quelle altre bellissime di S. Paolo: Ma Dio dà a conoscere la sua carità verso di noi, mentre essendo noi tuttora peccatori… Cristo per noi morì (Rom. V, 8-9). La croce ci dice tutto questo. Non poteva nostro Signore Gesù Cristo fare e patire più di quanto fece e patì per provarci l’amor suo. Ma se l’amore esige corrispondenza, sarà forse troppo che Gli offriamo tutte le cose del mondo e la nostra propria vita? La risposta fu data da un’anima generosa che desiderava consacrarsi totalmente a Dio in un severo Ordine di penitenza. Vollero precedentemente provarla, e la condussero nel coro della chiesa, dove dovea trascorrere lunghe ore durante le notti d’inverno; le indicarono in seguito il refettorio, luogo di digiuno più che di refezione; indi il duro letto, più adatto per passare le notti insonni che per un riposo tranquillo, e la richiesero infine che cosa pensasse della sua vocazione. « Avrò nella mia cella un crocifisso? » domandò a sua volta. E ricevuta una risposta affermativa aggiunse risolutamente: « Allora spero di adempiere tutti i doveri della mia vocazione. » È il pensiero medesimo che esprimeva l’Apostolo san Paolo: Ma di tutte queste cose (nelle tribolazioni, nelle angustie, nella fame, nelle persecuzioni) siam più che vincitori per Colui che ci ha amati (Rom. VIII, 37).

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (XI)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (XI)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A  TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO VICENZA Società Anonima Tipografica – 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922. Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

TERZO PRINCIPIO FONDAMENTALE: L’amore a Nostro Signor Gesù Cristo

CAPITOLO V.

Il migliore Maestro e Direttore delle anime.

1. Giunto all’età perfetta, comincia il Salvatore la sua vita pubblica. Come Profeta e come Maestro era già stato preannunziato nella Scrittura, e l’insegnamento sosteneva la parte essenziale dell’ufficio suo di Redentore. Senza la fede è impossibile vivere rettamente e salvarsi. Abbiamo bisogno, quindi, d’un maestro, ed il migliore e più sapiente lo troviamo in Gesù Cristo nostro Salvatore. –

2. E certamente Egli aveva tutte le doti per insegnare. La prima è l’autorità. Istruire ed educare è in certo qual modo creare, potere che appartiene esclusivamente a Dio ed a chi Egli l’abbia comunicato. L’autorità del Salvatore non derivava dagli uomini, ma dalla sua stessa persona divina, e siccome era Sommo Sacerdote, così del pari era Maestro per natura. Tutto questo si dica della seconda dote, della scienza. Cristo è Dio, la Verità, l’Unigenito e la Sapienza del Padre, partecipe di tutti i secreti del cielo e del cuore umano. Quante volte, nel corso della sua predicazione, si valse di quest’interno conoscimento delle anime! La terza dote dell’insegnamento suo è l’efficacia, che anzitutto derivava dalla santità della sua vita, la quale già di per sé era un vivo insegnamento; seguiva, quindi, il potere di far miracoli, coi quali confermava irrefragabilmente la propria dottrina, ed infine la grazia che a tutto questo aggiungeva per muovere i cuori, e rendere facile e soave l’adempimento de’ suoi precetti. Per questo Egli insegnava come avente autorità, ed i suoi insegnamenti erano d’un’efficacia incomparabile.

3. E che cosa insegnava il Salvatore? Anzitutto, ciò che voleva Dio che insegnasse, e ciò che era necessario ed utile per noi. C’insegnò a considerare Dio come Padre, e come nostro ultimo e beato fine; c’insegnò la preghiera, l’umiltà, l’abnegazione e la resistenza alla passione dominante, ed il modo di portare la nostra croce con rassegnazione ed altresì con gaudio; ci insegnò ad amare Dio sopra tutte le cose e con tutto il nostro cuore, ed il prossimo come noi medesimi. Questo è il compendio della sua dottrina: quanto potevamo aver bisogno in questo mondo per essere felici. E spargeva questi insegnamenti dovunque e di continuo a piene mani, e sebbene avesse potuto dirci di più all’infinito, volle farne riserva pel Cielo, perché avessimo il merito della fede. Lassù Egli ci comunicherà tutto, e senza pericolo di farci cadere in superbia. Gesù Cristo c’insegna la scienza, ma più ancora la sapienza, e la più alta sapienza consiste nel credere.

4. Il modo che adoperava il Salvatore nell’insegnare era, in primo luogo, con una tale chiarezza e semplicità, che persino i più rozzi ed i fanciulli potevano intenderlo; e nello stesso tempo con una profondità e con sì elevati sensi, che nemmeno l’intelligenza più acuta poteva, senza una sua spiegazione, penetrare sempre tutto il valore delle sue parole. In secondo luogo, istruiva con prudente moderazione e misura, senza dire tutto a tutti, e sempre a tempo debito (Luc. V, 35), per non sopraccaricare l’intelletto e la volontà degli uomini, o impor loro più di quanto avessero potuto portare. – Viene richiesto dal giovane ricco come poteva conseguire la sua salvezza, e Gesù Cristo passo passo lo va conducendo dai più semplici doveri all’osservanza dei Comandamenti sino ad indicargli i consigli (Matt. XIX, 16 sgg.). Agli Apostoli dice che non potevano ancora comprendere tutta la verità, ma che più tardi saprebbero tutto (Giov. XVI, 12). E quanta saggezza e prudenza dimostrò Egli nel rivelare la sua morte di croce ed il mistero della sua divinità! Finalmente, il Salvatore insegna con grande pazienza, spargendo instancabilmente la semente feconda della sua dottrina nei cuori, sebbene veda che di sovente va a cadere sull’aperto cammino o tra le spine, ed è calpestata o mangiata dagli uccelli, o non germina, o viene soffocata o dà il frutto con somma lentezza. Ma Egli non si stanca mai: ancora nella prima solennità di Pasqua il granellino della fede era caduto nel cuore di Nicodemo, ed aspettò di germogliare tre anni dopo, in seguito alla morte del Signore in croce, Quanto tempo spese nel formare gli Apostoli e renderli degni dell’ufficio a cui li aveva chiamati! Ed il risultato coronò magnificamente le sue fatiche, non soltanto per le anime di ciascuno di essi, ma per le anime insieme di tutta l’umanità; e se la Giudea, terreno pietroso, non ricevette la semente divina della sua parola, lo Spirito Santo a mezzo degli Apostoli la portò ai gentili e di essi formò un mondo cristiano; con scienza, civiltà, leggi ed arti cristiane. E prosegue l’opera sua il Salvatore, mediante la predicazione, convertendo le anime, insegnando agli ignoranti, infondendo il conforto e la letizia nei cuori (Sal. XVIII, 8).

5. Abbiamo bisogno di verità, di luce e di grazia; abbiamo bisogno d’un maestro che ci guidi: dove trovarlo se non in Gesù Cristo? Egli è nostro Dio, e come ci trasse fuori dal nulla, così continua a formarci e ad educarci; Egli è il Signore della nostra coscienza e conosce le nostre debolezze e la suscettibilità nostra di essere educati; Egli sa renderci perfettamente felici, ha la pazienza di sopportare l’incostanza nostra e la nostra miseria; tiene a sua disposizione grazie potenti, per compiere l’opera sua felicemente. Cerchiamolo come Nicodemo, come Pietro, come Andrea, come Natanaele, i quali trovarono in Lui il Maestro sapientissimo inviato da Dio, il Signore della loro coscienza, della loro vita, della loro felicità. Maestro, dove abiti? Gli domandarono; e immediatamente Lo seguirono e divennero suoi discepoli (Giov. 1, 37 segg.). Cerchiamolo, leggendo e meditando il suo santo Vangelo. Oh! il gran bene che si ricaverà dal sedersi ai piedi della Verità eterna e dall’ascoltarne le parole! E quando, come si apprende dal Vangelo, Dio medesimo viene agli uomini per portar loro la sua legge soave e vivificatrice e per rivelare agli stessi, con parole sublimi e semplici nello stesso tempo, i secreti del cielo, chi potrebbe dubitare che in esse non s’inchiudano verità d’una importanza immensa, spettacoli celesti meritevoli di tutta considerazione e tali da riempirci d’ammirazione e d’amore verso quell’intelligenza altissima e quel Cuore sapientissimo da cui questi insegnamenti scaturiscono? Lì abbiamo il Maestro più sapiente e guida delle anime; lì abbiamo Gesù Cristo che realmente ci conduce alla salvezza, alla sapienza ed alla giustizia dinanzi a Dio (I. Cor. IV, 30). Signore, a chi andremo noi? Tu hai parole lì vita eterna (Giov. VI, 69). Con questa risposta piena di fede e d’amore, allontanò Pietro i pericoli d’un’ora decisiva; la vittoria fu il risultato d’un’altr’ora felice, in cui seduto ai piedi del suo Maestro ascoltò attentamente le istruzioni sue. Rabbonì, buon Maestro, fu la parola con cui Maddalena, la discepola del Signore, lo salutò al vederlo la prima volta dopo risuscitato (Ib. XX, 16): unica parola, ma che comprende tutto quello che la Maddalena sa, sente ed è. Non si danno corrispondenze più belle, più nobili, più delicate né più commoventi di quelle che corrono tra il discepolo e 1’educatore, perché esse sono un complesso di rispetto, di gratitudine, di confidenza e d’amore.

CAPITOLO VI.

Il Figliuolo dell’Uomo.

Il sovrannome di Figliuolo dell’Uomo col quale i profeti preannunziarono il Salvatore (Dan. VII. 13 segg.) e che Egli diede a sé medesimo ripetute volte (Matt. XXVI, 64), non lo prendiamo qui nel significato di Messia, Figliuolo di Dio o capo dell’umanità, ma in quello di persona che sostiene la natura umana nel senso più perfetto ed elevato della parola. Il Salvatore è l’espressione e l’immagine del più amabile degli nomini. E questa amabilità rilevasi in tre cose principali.

1. La prima è che il Salvatore visse costantemente la vita ordinaria degli uomini. Non così San Giov. Battista, suo precursore e profeta la cui vita fu straordinariamente austera, rozzo il vestito e la sua dimora il deserto, senza che méttesse mai piede nelle città. La sua voce potente udivasi sulle rive del Giordano, attraendo là le moltitudini. Gesù Cristo, al contrario, abitò e visse tra gli uomini, trattando continuamente con essi come membro di una stessa famiglia e di una medesima società. Si sottomise parimenti a tutte le cure e le attenzioni, grandi e piccole, che porta con sé la vita ordinaria. Il suo primo riguardo fu per la religione; Egli, Verità eterna; Principio e Fine di tutti i doveri religiosi, si adattò alle prescrizioni d’una religione determinata, e, come pio israelita, compì ogni giustizia frequentando il tempio e la sinagoga. Più ancora: volle assoggettarsi anche alle pratiche di pietà secondarie e non rigorosamente comandate, e per questo si portò cogli altri ad udire la predicazione di Giovanni ed a ricevere il suo battesimo. Al dovere d’osservare la religione segue quello d’obbedire alle autorità, vincolo d’unione d’ogni umano consorzio; e nemmeno al Salvatore mancarono dei superiori, in famiglia prima, e nella vita pubblica, sia nazionali, sia stranieri; tutti i quali esigevano da Lui il tributo dell’obbedienza; ed Egli vi si sottomise come il più docile dei sudditi, e volle che nel Vangelo si facesse espressa menzione di questa sua soggezione alle autorità (Luc. II, 54), e nel processo che seguì il giorno della sua Passione, l’unica accusa da cui si difese fu quella di ribellione alle autorità costituite (Giov. XVIII, 37). Il lavoro è la terza condizione della vita sociale, ed il Salvatore lavorò sempre. Passò la maggior parte del suo vivere in un’umile e faticosa arte, guadagnandosi il pane colle sue proprie mani, e, nobilissimo tra i figli degli uomini. Facendosi il più fedele compagno degli operai. Né prende parte soltanto alle serie occupazioni ed al lavoro, ma anche alle liete effusioni d’uso comune. Già al principio della sua vita pubblica Lo vediamo presenziare ad una festa di nozze; e l’imbarazzo degli sposi lo commuove sì che opera il duo primo miracolo, convertendo l’acqua in vino, il giorno precisamente in cui fondavasi una nuova famiglia. A quanto pare, era costume in Terra Santa d’invitare al convito i dottori della Legge che andavano predicandola per le diverse regioni, ed il Salvatore non volle contrariare quest’usanza, ed accettava gl’inviti, quantunque sapesse che molte volte facevansi con intenzioni tutt’altro che rette ed aprissero la via a penosi compromessi ed a spiacevoli discussioni (Luc. VII, 36; XIV, 1), e conoscesse altresì che accettandoli veniva tracciato di mangiatore e bevitore (Matt. XI, 19). Perfino nella sua vita gloriosa, dopo la risurrezione, volle far uso delle costumanze della buona società, prendendo congedo da’ suoi discepoli con un banchetto (Att. 1, 4). – Per mantenersi nel grado ordinario degli uomini, il Signore nascose le straordinarie qualità della sua Persona. Così nascondeva la grazia e la beltà della sua giovinezza all’ombra d’una bottega di falegname in un piccolo villaggio, talmente che nessuno mai avrebbe potuto immaginare, nemmeno lontanamente, i tesori di sapienza, di potere e di santità ch’Ei possedeva. E dal momento che volle vivere in sì umile villaggio, avrebbe potuto almeno valersi dell’altissima sua intelligenza per molte cose, principalmente per la salvezza delle anime; ma non volle fare nemmen questo, ed anche della sua santità non manifestò se non quanto corrispondeva a un fanciullo o ad un giovane buono e pio. E tenne occulti talmente i suoi doni straordinari, che Natanaele, il quale abitava a poche leghe da Nazaret. non aveva nemmeno sentito parlare di Lui (Giov. 1, 46). Per questo, con molta ragione, s’impose il nome di vita nascosta agli anni che passò a Nazaret. Ma anche durante la sua vita pubblica, quando per tutte le parti correva la fama de’ suoi prodigi, non manifestò la sua sapienza, il suo potere e la sua santità se non nella misura che richiedeva il suo ministero, ed è infinitamente di più ciò che occultò agli occhi degli uomini. E se è certo che questa premura del Salvatore di voler apparire sempre eguale a noi ebbe per oggetto di darci esempio d’umiltà. molto più però procedette dal desiderio di cattivarsi l’amor nostro per la delicatezza ch’ebbe di non voler apparire da più di noi, poiché l’uguaglianza è la condizione necessaria ed il fondamento dell’amore.

2. Ciò che in secondo luogo fa vieppiù risaltare il bellissimo carattere del Figliuolo dell’Uomo, è l’attenzione e sollecitudine amorosa che sempr’ebbe per coloro che Lo circondavano e seguivano. Nella seconda moltiplicazione dei pani, non Gli sfuggì che molti erano venuti da lontano e pativano fame e stanchezza, e mosso a compassione diede ordine agli Apostoli che presentassero loro da mangiare (Marc. XIII, 2 segg.). – Fu sì vivo il sentimento che ebbe pel dolore di quella povera e desolata vedova di Naim che seguiva la funebre comitiva del seppellimento dell’unico suo figlio, che le venne in aiuto senza che nessuno ne Lo avesse pregato. In mezzo alle feste religiose ed al giubilo della seconda Pasqua, non si dimenticò dei poveri infermi della probatica piscina, ma passò a consolarli ed a guarire il più abbandonato di essi. – Che di più insignificante d’un pezzettino di pane? Eppure Egli medesimo ha comandato che Glielo domandiamo nel Pater noster; e nella moltiplicazione dei nani ordinò agli Apostoli che raccogliessero i frammenti rimasti. Quando scacciò la prima volta dal tempio i venditori, rovesciò le tavole dei banchieri, ma ebbe compassione dei colombi, e comandò di portarli fuori nelle loro gabbie (Giov. II, 16). Con questi riguardi e come amorevolmente si comportò col padre del povero muto, indemoniato (Marc. IX. 20) e coi fanciulli che gli Apostoli, per un riguardo alla di Lui Persona, volevano allontanarli! Nel giorno viù glorioso della sua vita, in mezzo alle acclamazioni di giubilo, il pensiero della futura rovina di Gerusalemme Lo commuove a tal punto da farlo versar lagrime. Sulla croce, tra le angustie e i dolori dell’agonia, ascolta i gemiti di pentimento del buon ladrone, pensa alla propria Madre e ne prende cura con tenerezza. L’inconsiderazione e la dimenticanza provengono sempre da poca previsione e da poco amore, e possono cagionare incalcolabili disgusti. Chi sa mantenere in tutto i dovuti riguardi, dimostra di essere prudente e di aver un buon cuore, e si merita perciò la nostra gratitudine e confidenza. Orbene, così fu il Salvatore.

3. Una delle qualità proprie d’un animo nobile è la gratitudine; e questa rifulge in un modo tutto proprio nella vita di Gesù Cristo. Come regalmente e divinamente ricompensava qualunque servizio e dimostrazione d’amore! Per un’ora nella quale Pietro mise a sua disposizione la propria barca affinché da essa predicasse, lo ripaga con una pesca miracolosa e col farlo pescatore d’uomini; in premio d’averlo confessato risolutamente per Figlio di Dio, lo costituisce Sommo Pontefice della Chiesa. Nicodemo riceve la grazia della fede pel piccolo incomodo che si prese d’andarlo a visitare nottetempo; Zaccheo, per essergli andato incontro alcuni passi, ha la fortuna d’averlo ospite in casa sua, e di ricevere insieme con Lui grazie straordinarie per la propria salvezza. Giusta una pia tradizione, la Veronica offrì il suo velo al Salvatore, perché si rasciugasse il sudore lungo il cammino del Calvario, ed ai soldati il vino mescolato con mirra che dovea servire a Gesù pel momento terribile della sua crocifissione, e come prova tenerissima di gratitudine essa riceve da Lui indietro il velo, su cui meravigliosamente era rimasto impresso il suo volto, e per far piacere all’anima compassionevole che Gli aveva preparato il vino mescolato con mirra e manifestarle la propria riconoscenza, ne gustò altresì anticipatamente alcune gocce, A S. Giovanni, in premio dell’amore che dimostrò seguendolo sino al Calvario. lascia come un legato preziosissimo sua Madre. Incoraggia e conforta le pie donne con parole della più tenera compassione. A Maria Maddalena in premio di ciò che avea fatto a di Lui servigio, promette, in ricompensa, la perenne memoria che dovea restare di essa, nella Chiesa (Matt. XXVI, 14). E finalmente, Lazzaro, il risuscitato, non è una splendida prova dei premi magnifici e straordinarî che possono sperare gli amici di Gesù?

4. Da ciò che si è detto vediamo quanto si manifesti amabile ed umano nostro Signore e Dio, come la sua maestà ci si presenti sotto la forma così attraente dell’umanità sua nobile e semplice, e come Egli cammini tra gli uomini quasi uno di essi, perché la sua vita non apparisce realmente se non come la vita ordinaria di tutti. Si direbbe che abbia voluto darci come un compenso della sua divinità e maestà incomprensibile. Poteva, chi sa, averci intimoriti con la magnificenza del suo potere, ed in sua vece vuole attrarci a Sé mostrandoci l’umanità sua amabilissima; il che è più che degnazione, è amore e tenerezza dell’eterna Verità, di cui sta scritto che prima istruì Giacobbe, suo servo, ed Israele suo prediletto: poi fu visto Egli stesso sulla terra e camminò tra gli uomini (Bar. III, 37-38).

CAPITOLO VII.

L’Operatore di maraviglie.

Il Salvatore era uomo nel più perfetto e vero senso della parola; ma era anche infinitamente più di quello che competesse alla natura che per noi avea preso, era l’Essere per eccellenza, poiché era Dio. La prova convincente ci viene data dai suoi miracoli, i quali nello stesso tempo parlano potentemente al nostro cuore, in tre distinte maniere, considerandoli in relazione alla fede, all’amore ed alla fiducia.

1. Innumerevoli sono i miracoli che operò il Salvatore nell’ordine invisibile degli spiriti e della verità, mediante le profezie, e nel mondo visibile, con prodigi d’ogni genere. Il fine a cui mirava nell’operarli, come ripetutamente lo manifestò (Giov. V, 36; X, 25; XI, 42), era di confermare con essi la sua dottrina acciocchè vi credessimo. La fede è il primo e più indispensabile requisito per conseguire la salvezza, ed il miracolo è il mezzo più semplice, più rapido e, per molti, l’unico che conduca alla fede. Imperocchè dove interviene un miracolo vero per confermare la dottrina, là è Dio che ne dà testimonianza, e ciò che dice Dio è verità infallibile. Ed è per questo che il Salvatore sì appella così di frequente e con tanta solennità ai suoi miracoli, come prova della propria dottrina e della propria missione, poiché tutto l’edificio della nostra fede si basa sulla realtà di questi miracoli. Da ciò possiamo dedurre di quale importanza siano per noi, e quanta riconoscenza dobbiamo a Gesù per essi. Ma è anche bello e sorprendente il nesso che passa tra i miracoli e la dottrina di Gesù. Molti de’ suoi insegnamenti Egli li conferma con un miracolo corrispondente. Io sono la luce del mondo, dice, e rende la vista ad un cieco; afferma che Egli è la risurrezione e la vita, e risuscita un morto; si dice pane di vita, e segue il prodigio della moltiplicazione dei pani; per provare che ha il potere d’infrangere le catene del peccato, sana il paralitico. Molti altri suoi miracoli sono immagini e predizioni di ciò che dovea succedere nella Chiesa. Così il ridonare la vista ai ciechi, l’udito e la favella ai sordo-muti, figuravano gli effetti del Battesimo; la guarigione dei lebbrosi ed il richiamo in vita dei morti erano figura del Sacramento della Penitenza; la moltiplicazione dei pani indicava l’Eucaristia; la navicella di Pietro rappresentava la Chiesa ed il Primato di San Pietro medesimo, di maniera che i miracoli erano altrettante manifestazioni della sua dottrina, delle0 sue opere e della sua persona. E questa bella ed intima correlazione e dipendenza tra i suoi insegnamenti ed i suoi miracoli, quanto rende evidente e fortifica la nostra fede, altrettanto serve ad accrescere poderosamente l’amor nostro verso Colui che con tanta sapienza, con tanta efficacia e sollecitudine così disponeva tutto pel bene nostro.

2: I miracoli di Gesù Cristo, inoltre, eccitano l’amor nostro; poiché ci rivelano non già il temibile suo potere, ma l’immensa carità sua. Venne il Redentore su questa terra per salvarci, e come Salvatore, dovea liberarci dal potere del demonio, il quale unitamente al peccato avea introdotto ogni sorta di miserie, anche corporali, infermità e con esse la morte. E questo tristissimo campo fu scelto dal Salvatore per manifestare il suo potere, e dinanzi a Lui fuggono tutte le calamità, i dolori, l’impero del demonio, la morte. I suoi miracoli insieme al carattere sovrumano e divino presentano la impronta della bontà e dell’amabilità più squisita, perocché tutti sono prove del più puro suo amore agli uomini, e per conseguenza stimoli poderosi affinché ci consacriamo all’amor suo. E questo carattere amabilissimo de’ suoi miracoli influisce dal canto Suo sulla fede; imperocché siccome la materia della fede è formata da verità che superano il potere dell’intelligenza nostra, interviene necessariamente la volontà per farcele accettare; ed i benefizi fatti da Cristo agli uomini per mezzo de’ suoi miracoli inclinano efficacemente la volontà ben disposta. Di buon grado prestiamo fede a coloro che ci dimostrano amore. E questo è il modo con cui la bontà del Signore, che risplende nei suoi miracoli, opera parimente sul terreno della fede e attrae a Sé tutto l’uomo mediante la fede e l’amore.

3. Finalmente 1 miracoli di Gesù Cristo eccitano in noi una somma fiducia. 1 miracoli sono per se stessi prova d’un potere infinito, e quelli di Gesù Cristo manifestano questo potere in una maniera chiarissima ed irrefragabile, dimostrando il dominio che ha sopra tutte le creature, razionali. ed irrazionali, sopra viventi e morti, sugli Angeli ed i demoni, quale supremo ed assoluto Signore di quanto esiste. Non c’è dolore, non disgrazia cui non possa porgere sollievo; le porte stesse dell’eternità sì aprono al suo comando. In qualunque necessità e tribolazione in cui abbia a trovarsi l’uomo può fare ricorso al Salvatore e dirgli: «Signore, sé volete potete venire in mio aiuto e salvarmi». – Una prova luminosissima è il fatto della risurrezione del giovane di Naim. Lo portavano già al sepolcro, e sua madre desolata seguiva il feretro. I numerosi amici non trovavano altri termini che ripeterle: «Non piangere. Arriva il Salvatore pronunzia queste medesime parole, ma insieme richiama in vita il figlio e 10 restituisce alla madre (Luc. VII, 13). E quando si trovò di fronte al sepolcro di Lazzaro, e le sorelle e gli amici del defunto ed una innumerevole turba che Gli si erano prostrati dinanzi piangevano, attendendo unicamente da Lui il rimedio nella loro afflizione, Sì commosse e versò lagrime Egli parimenti; ma non si arrestò alla pura compassione ed alle lagrime, Gesù per l’amico Lazzaro, operò infinitamente di più: lo richiama in vita, lo restituisce alle sorelle ed agli amici e muta in gaudio una sì grande tribolazione. Ecco il conforto che dà il Salvatore; ed Egli è l’unico che possa darlo. Espande il suo potere ed amore con prodigalità a favore di tutti, Egli che nessun vantaggio personale ritrae dai suoi miracoli. Orbene, anche adesso ha il medesimo potere e pari amore, e l’amor suo è onnisciente ed il suo potere infinito; chi sarà mai colui che credendo in Gesù Cristo ed amandolo non riponga in Lui tutta la sua fiducia? La morte è l’estremo male di questo mondo, ma Egli la vinse anche. e ci assisterà in essa colla sua vittrice grazia. Per questo conchiude sapientemente l’Imitazione di Cristo: « In vita ed in morte riponi la tua fiducia in Colui che mai t’abbandonerà, avvenisse pure che tutti t’abbandonassero ».

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (XII)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (X)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (X)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica; 1922

Nihil obstat quominus imprimatur. Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

TERZO PRINCIPIO FONDAMENTALE: L’amore a Nostro Signor Gesù Cristo

Bella e dolcissima occupazione è quella d’intrattenersi con Dio nella preghiera. Degnissimo di lode è altresì il saperci dominare e vincere nella lotta contro le passioni, per renderci degni di trattare con Dio: nondimeno sì l’una che l’altra cosa, in molte occasioni sono difficili all’uomo; ma se interviene l’amore ad informarle riescono più che agevoli.

CAPITOLO I.

L’amore.

1. Staccare il cuore dalla terra ed elevarlo al cielo; portare generosamente la croce ed accettare con gioia ogni sorta di sacrifici, senza dubbio è cosa molto ardua alla povera natura nostra; e molto ci gioverebbe se avessimo a nostra disposizione qualche mezzo che soavemente e poderosamente ci stimolasse ed incoraggiasse a sopportare, con animo tranquillo tutte le tribolazioni della vita.

2. Ora, questo mezzo è l’amore. L’amore è l’inclinazione della volontà nostra a un bene adeguato al nostro cuore, che soddisfa i suoi desideri di felicità, ed il cui possesso lo ricolma di pace e di gioia. Suoi compagni sono sempre la tranquillità e la contentezza, che nascono naturalmente dal possesso del bene anelato, e con esse tutto domina. L’amore è la forza più potente che esista in cielo e sulla terra. Dio è amore, e l’amore è il dono e la partecipazione più eccellente da Lui fatta agli uomini.

3. Ma perché l’amore sia durevole e capace di soddisfare tutti gli appetiti dell’uomo, il bene, oggetto di codesto amore, e che è la sorgente di pace e di gaudio, dev’essere un ideale supremo di verità, di bontà e di bellezza; ideale vero e reale, non immaginario e puramente possibile, il quale da una parte bisogna che sia molto elevato sopra di noi perché possa innalzarci verso di sé, e dall’altra che sia somigliante a noi medesimi perché lo possiamo comprendere, abbracciare, sentirci con tutta sicurezza attratti a Lui. Inoltre fa d’uopo che sia immutabile, incorruttibile, perpetuo, che oltrepassi i limiti della vita nostra; poiché altrimenti sarebbe inferiore a noi. È necessario, infine, che sia un bene senza limiti né misura, perché possa colmare tutte le nostre aspirazioni e l’immensa e sconfinata capacità del nostro cuore.

4. Ma, dove trovare sulla terra quest’ideale, se quaggiù tutto è piccolo e fragile? Fa d’uopo salire più su, al cielo, per trovarlo e trarlo a noi (Deut. XXX, 12). Iddio che ha impresso nel nostro cuore la brama d’amore e di felicità ci ha dato nello stesso tempo il modo di ricolmarla. Esiste un essere più alto della terra e più immenso che il cielo, Dio ed uomo insieme, ed in cui si uniscono la maestà divina e la grandezza umana,  dalla Cui vita traggono esistenza tutte le cose nel cielo e sulla terra, e che tutto rallegra con lo splendore della sua bellezza, Mai, nemmeno in tutta l’eternità, potremo abbracciare né comprendere la sua maestà; basta un raggio della sua essenza per rendere felice l’intera vita e per compensare ogni gusto e piacere terreno, ed è un balsamo per tutte le pene ed un gaudio anticipato del paradiso. Quest’ideale, quest’essere è nostro Signor Gesù Cristo, Dio benedetto nei secoli (Rom. IX, 5). Per stimolarci ad amarlo addurremo qui alcuni tratti del suo carattere e della sua vita, i quali basteranno per infondere nel cuor nostro quest’amore, accrescerlo e portarlo a sì alto grado che valga ad informare tutta la nostra vita.

CAPITOLO II.

Cristo – Dio

Dio solo basta all’uomo per la sua perfetta felicità, Come lo dimostra una triste esperienza, erra ed inutilmente si affanna quel cuore che si attacca alle creature, credendo di trovare in esse una completa soddisfazione. Quant’è piccolo e spregevole tutto ciò che appartiene a questo mondo, di quante imperfezioni e nere ombre è coperto, e come presto tutto passa lasciandoci inquieti e con le stesse ansie infinite di felicità e d’amore! Solo un bene infinito ed eterno, solo Dio può soddisfarci. È l’immagine di Dio che portiamo impressa nell’anima nostra, è l’innata dipendenza che abbiamo dal nostro Creatore e l’istinto della divina filiazione ciò che ci porta a Dio come all’ultimo fine nostro, e fa che Lo consideriamo quale sorgente d’ogni felicità.

1. Rallegriamoci: stando con Cristo stiamo con Dio; poiché Egli è vero Dio e Dio nostro. Non è qui il luogo di provarlo scientificamente; parliamo ad anime che sono più che convinte di questa verità, e solo desiderano di penetrarne la bellezza ed efficacia di cui è adorno.

2. San Giovanni comincia il suo Vangelo colle parole: In principio era il Verbo, e il Verbo era appresso Dio, e il Verbo era Dio (Giov. I, 1). Per la qual cosa, da tutta l’eternità nel suo essere Cristo si manifesta come Dio, come soggetto e possessore della vera divinità. E nella divinità Egli è il Verbo, la sapienza, la verità, il Figlio, la luce, la vita, la bellezza. Sono tutti questi nomi che Ei si dà a Sè medesimo e che la Scrittura Gli attribuisce, e che indicano le qualità della sua Persona. E quali immagini e sentimenti non destano nel nostro cuore. Qual cosa più piacevole, più dolce, più amabile e quale maggior fiducia può infondere nel cuore che la verità, la bellezza, la vita? Ebbene, tutto questo, nel più elevato grado, è la persona di nostro Signore Gesù Cristo.

3. San Giovanni continua: Egli era nel principio, e per Mezzo di Lui furono fatte le cose tutte (Giov. I, 3). Come sapienza del Padre Egli era il libro della vita in cui stava l’esemplare della bontà creatrice di Dio e della sua partecipazione alle creature, con infinita perfezione, varietà e bellezza; e secondo questo esemplare il Padre creò tutte le cose. E chi potrà concepire il potere e la magnificenza di questa forza creatrice? Là stavamo noi pure come vive immagini della sua bontà, là vivevamo e là eravamo amati in una maniera singolare, posto che volle darci realmente l’esistenza, mentre altri innumerevoli esseri rimasero nel numero dei meramente possibili. Fu, dunque, la sapienza di Dio il primo focolare nostro. originario ed eterno, la sorgente e il fondamento del nostro essere e dell’esistenza nostra. Come potremo noi non amarlo ? Sarà egli possibile che ci dimentichiamo di Lui? Spesso ci viene il pensiero e il desiderio: « Oh se io potessi vedere Dio! Come mi tornerebbe allora facile amarlo! » Ebbene, in qualche maniera, Lo vediamo anche adesso; vediamo almeno qualche cosa di Lui, nella natura e nelle creature. Il mondo della scienza e dell’arte, le cose visibili ed invisibili non sono, certamente, che un’immagine, immagine però di Dio, per la quale possiamo formarci un’idea di Lui ed amarlo. Ed anche queste creature terrene e visibili si presentano con una tale bellezza e magnificenza, che siamo obbligati a lottare e vincerci perché il cuor nostro non si lasci trascinare da esse e perdiamo Dio. Ora, che sarà Dio medesimo? È un essere affatto distinto da quanto possiamo figurarci, e sarà sempre vero ch’Egli è infinitamente più grande e bello di quanto ci sia dato concepire. Egli è la causa di tutti gli esseri, e perciò l’intero creato nella sua vita; nel suo ordine, nella sua varietà e nella sua bellezza rispecchia l’immagine del Figlio, e tutto il visibile è una manifestazione dell’invisibile maestà sua. Chi potrebbe dubitare che il Signore, il Creatore della bellezza, Colui che ha impresso su quanto esiste una sì incomparabile beltà, non sia Egli medesimo infinitamente più bello ? (Sap. XIII, 3 segg.). Oh! quanto, dunque, dev’essere Egli grande, eccelso, amabile!

4. Gesù Cristo è Dio; e per darci una testimonianza di questa verità, che torna a nostro onore ed a nostra salvezza, Ei venne in questo mondo. E quanto spesso, ed in quante commoventi e diverse maniere manifestò la coscienza che aveva della propria divinità! Conversava un giorno teneramente co’ suoi Apostoli, descrivendo loro la dimora celeste e parlando di suo Padre, ed essi Gli dissero: Signore, facci vedere il Padre, e siamo contenti. Gesù rispose: Filippo, chi vede me, vede anche il Padre… Non credete voi che Io sono nel Padre, e il Padre è in me? (Giov. XIV, 8 Segg.). Io e il Padre siamo una cosa sola. (Ib. 10, 30). Io sono la luce (VIII, 12) e la vita del mondo. (Ib. IX, 3). Io sono la via, la verità e la vita (Ib. XIV, 6). Or la vita eterna è questa, che conoscano te, solo vero Dio, e Gesù Cristo mandato da te. (Ib. XVII, 3). E per confermare queste parole operò miracoli nel mondo degli spiriti, profetizzando, e nel mondo visibile, sanando infermi e risuscitando morti. Ed in cambio di queste prove Egli esige fede: Credete in Dio (nel Padre), credete anche in me (ib. XIV, 1); e più che fede, ci domanda amore quale unicamente un Dio può domandare: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore (Luc. X, 27). Dio solo può esigere che Gli si consacrino tutti gli affetti del cuore, come Egli solo è l’unico che possa rendere pienamente soddisfatte le sue ansie di felicità e d’amore.

5. E dal canto suo Egli ha trovato amore quale solamente a un Dio può tributarsi. Di passaggio sulla terra vi fondò un regno: universale, un regno nel quale Egli è adorato ed amato come Dio. Incominciando dagli Apostoli e dai primi discepoli si ebbe sempre una moltitudine di anime che rinunciarono a tutti i beni della terra, disprezzarono e sacrificarono la stessa vita, crocifissero il mondo nel loro cuore e si consacrarono totalmente all’amore di Cristo. E così avverrà sempre. Ogni vero Cristiano è disposto a confermare questa verità fondamentale del Cristianesimo col sacrificio della propria vita e dei suoi viù cari interessi. Fede ed amore sono le basi di questo regno, e non verranno meno mai. Ed una prova splendida della divinità di Gesù Cristo è la vittoria morale che conseguì sul mondo, convertendolo alla sua fede ed al suo amore. Vissero dei grandi uomini che colla potenza del loro genio e colla propria vigoria trassero dietro di sé il mondo, mentre vissero; ma chi è colui che per amore ai medesimi rinnegò se stesso e le intime aspirazioni del proprio cuore? Sparirono quei potenti, il loro operato con essi, né v’ha più chi si ricordi di loro. Dunque altro potere completamente distinto è quello che opera ed influisce di continuo nel mondo, dacché Cristo partì da esso, e quello che alimenta nelle anime la sua fede ed il suo amore; e questo è il potere della sua divinità che dall’uno e l’altro lato del sepolcro manifestasi splendido e vittorioso.

6. Cristo, in Cui crediamo, in Cui speriamo, e Cui amiamo è Dio: esultiamo. In Lui abbiamo quanto il nostro cuore con tanto ardore ed incessantemente desidera. Imperocché Cristo non è solamente l’essere primo, il più nobile, il più forte e bello del creato; è Dio, e per ciò è infinitamente più che tutte le creature insieme. Non solo possiamo ammirarlo, lodarlo ed amarlo, ma anche adorarlo. In Lui troviamo l’ultimo nostro fine e riposo; è inutile cercar altrove verità, bontà, bellezza: in Cristo troviamo tutto questo perfettamente. Servire Lui è servire Dio, e tutto il nostro bene e la nostra felicità consistono nell’onorarlo. Né il tempo né la morte che ci strappano da tutto ciò che è terrena, potranno mai privarci dell’oggetto del nostro amore. Mai sazietà o noia potranno distruggere né diminuire questo gaudio. Poiché avviene con Dio il contrario di ciò che succede fra noi. Noi siamo mutuamente gli uni per gli altri sorgenti povere e meschine di conforto, che tocchiamo l’esaurimento senza averci potuto saziare; l’infedeltà o la morte troncano tutto. Al contrario, in Dio, quanto più si cerca, tanto più si scopre; e la pace, l’amore ed il gaudio non hanno fine. Ed è anche in questo senso che si possono interpretare le parole di S. Giovanni: Dio è maggiore del nostro cuore (Giov. Epist. I, III, 20). E nessuno vi toglierà il vostro gaudio (Giov. XVI, 22). Chi crede nel Figliuolo ha la vita eterna (Ib. 3, 36). – Ma la vita, come scrive S. Agostino, consiste nel conoscere, amare ed essere felice: Vacabimus et videbimus, videbimus et amabimus, amabimus et laudabimus: ecce quod erit in fine sine fine (De civ. Dei 1. 22, c. 30, n. 5). « Riposeremo e vedremo, vedremo ed ameremo, ameremo e loderemo.., Ecco quello che sarà in fine e non avrà fine ». – La prima condizione, dunque, dell’amore, vale a dire, che il suo oggetto sia molto superiore a noi e infinito sotto ogni rapporto, resta perfettamente soddisfatta dalla divinità di Gesù Cristo, Quanti ringraziamenti non dobbiamo al nostro celeste Padre per averci inviato il suo Figliuolo e con lui tutte le cose, anche Se stesso e lo Spirito Santo ! Non abbiamo più bisogno di andar mendicando amore e felicità fra le creature: in Cristo, Figlio di Dio, abbiamo tutto. E possiamo dire cogli Apostoli, sebbene in diverso modo: « Padre, mostraci il Figlio, e questo a noi basta » (Giov. XIV, 8).

CAPITOLO III.

Dio – Uomo

L’uomo per la sua felicità ha bisogno in primo luogo di Dio, ed in secondo luogo dell’uomo stesso. Per questo Dio s’è fatto uomo, per avvicinarglisi di più e cattivarsi l’amor suo. Dio per natura è invisibile e puro spirito, e fu d’uopo che si presentasse in figura visibile, affinché l’uomo potesse conoscerlo e comprenderlo debitamente. E come dev’essere bella ed amabile l’immagine che Iddio ci diede di se stesso. E così è realmente; codesta immagine è l’umanità di Cristo, e Cristo vero Dio ed uomo, apparve in mezzo a noi ricolmo di amabilità e di tenerezza (Tit. III, 4).

4. Il Figlio di Dio, senza lasciare di esserlo, s’è fatto uomo, prendendo realmente l’umana carne, Aveva, quindi, corpo ed anima, intelletto e volontà, fantasia e sentimenti, come noi, colla differenza che la Persona divina era quella che sosteneva in Lui le due nature, la divina e l’umana, tra loro unite. Ma questa unione non alterava mai minimamente l’umana natura; l’unica cosa che faceva era di elevarla alla partecipazione della dignità e gloria divina, e di comunicare alle potenze naturali una perfezione mai vista fino allora. L’intelletto suo chiarissimo penetrava i più reconditi secreti delle verità naturali e soprannaturali; la sua volontà, dotata d’un’ingenita purità e santità, aveva un potere così immenso che non conosceva limiti né in cielo né sulla terra; il suo corpo, delicatissimo e bellissimo, era lo strumento di meravigliose azioni; l’Uomo-Dio era sotto ogni aspetto il capolavoro della creazione, e la manifestazione più ammirabile di Dio.

2. E se noi riflettiamo sul modo che il Figlio di Dio tenne nel prendere l’umana carne, vedremo che fu quello che più poteva obbligare l’amor nostro e la nostra riconoscenza. Perocché non la prese ricevendola, come Adamo, immediatamente dalle mani di Dio, ma nascendo dalla nostra stirpe e dal nostro sangue, di maniera che poterono contarsi i suoi antenati sino al primo uomo. Più ancora: volle essere, in tutto, uomo come noi, aver madre, appartenere a famiglia, a patria, a nazionalità, a religione determinata, e ricevere persino un nome come gli altri. In tutto, eccettuato unicamente il peccato, volle rassomigliarsi a noi; e così realmente e con tutta verità è del nostro sangue fratello nostro secondo la carne. Inoltre, Ei prese la natura nostra, non già come la ricevette Adamo originariamente, immortale e impassibile, ma tale come restò dopo il peccato; soggetta ai patimenti ed alla morte. E questi stessi suoi patimenti non furono quelli che comunemente proviamo tutti nel corpo e nell’anima, ma nella misura che Egli determinò, e che manifestò durante la sua vita. Giusta il parere molto probabile di teologi, Iddio mostrò al Salvatore nel primo istante del suo essere tutti i mezzi che potevano servirgli onde salvarci, lasciandone a Lui la scelta. E con un atto perfettamente libero, come conveniva al Figlio di Dio, determinò tutte le circostanze della vita e Passione sua santissima, facendone realmente la scelta al momento dell’Incarnazione (Ebr. X, 5 sgg.). E sappiamo bene in quale misura rinunziò agli onori e comodità terrene, e come abbracciò la povertà, le fatiche, le umiliazioni, i patimenti. Così, con questa elezione, impresse su tutta la sua vita il sigillo e la marca del sacrifizio; così effettivamente annichilò sé stesso presa la forma di servo (Filipp. II, 7).

3. E perché volle così? La ragione ultima è l’amore che ci portò. Per la gloria di Dio e per soddisfare compiutamente pel peccato, sarebbe stata sufficiente la più piccola opera dell’Uomo-Dio; poiché quanto fece e patì aveva un valore infinito ed a ciò più che bastante. Nemmeno cercava la sua propria gloria e vantaggio, poiché la gloria sostanziale eragli stata comunicata totalmente nel primo istante dell’essere suo, e non era suscettibile d’aumento; e per quello che riguarda la gloria accidentale, che consiste nell’onore e nell’amore che noi Gli tributiamo, era bastantemente amabile in Se stesso perché avessimo ad amarlo sopra tutte le cose ed in tutto Lo servissimo, ed avevamo inoltre la sua grazia che ce lo rendesse possibile. Di maniera che resta infine solo l’amore come causa della elezione che fece. Perché non volle in vita sua essere da più di noi suoi fratelli, ma in tutto rassomigliarci: volle che in tutti i nostri patimenti avessimo in Lui un modello ed un fedele compagno e consolatore, e che seguendolo conseguissimo l’eterna ricompensa delle opere e dei patimenti nostri. Che amore disinteressato, nobile e fedele! Tanto ci amò fin d’allora e si diede per noi (Gal. II, 20).

4. E quanti beni e vantaggi non ci apportò l’unione sua colla natura nostra! In primo luogo, disposandosi il Figlio di Dio con essa, la elevò e nobilitò sino a renderla quasi divina e imparentata, per così dire, con Dio. Uno di noi è per natura vero Figlio di Dio. Siamo oggetto di venerazione anche agli Angeli, poiché  in Cristo la nostra schiatta è stata elevata al di sopra di tutte le Gerarchie angeliche. Cristo è Signore degli Angeli, ma non loro fratello per natura, e tutti essi adorano Lui che sta seduto sul trono di Dio. In secondo luogo, con Cristo ci vennero tutte le ricchezze. Egli è il Capo dell’umanità, e come il capo comunica ai membri tutti i suoi beni, così Cristo rende partecipe l’umana natura di tutti i suoi tesori. La vita soprannaturale, la grazia, la gloria e tutti i meriti di Cristo ci appartengono e ne siamo possessori nella loro sorgente. Abbiamo un diritto su di essi, se crediamo in Cristo e l’amiamo. Più; persino rispetto a Dio ci siamo arricchiti in Cristo, poiché per suo mezzo possiamo offrire al Signore il dovuto tributo d’adorazione, di ringraziamento e di soddisfazione, in modo tale che corrisponda degnamente a quanto Dio esige da noi. In terzo luogo, il considerare che Cristo è anche vero uomo risveglia nelle anime nostre sentimenti d’intima consolazione e di confidenza senza limiti. Oh, sì! Cristo è vero Dio, ma nello stesso tempo è vero uomo, con tutto ciò che appartiene all’umanità, eccetto il peccato, e quanto ha in più di noi lo deve esclusivamente alla liberalità e condiscendenza di Dio. Ben lo sapeva Egli, e per questo era ed è così umile, così buono, così misericordioso con noi, malgrado la nullità nostra e le nostre miserie. Prima di giungere ad essere il Sommo Sacerdote, pieno di misericordia, si sottomise a tutte le penalità della vita (Ebr, V, 2). Non dobbiamo, quindi, mirarlo con timore, e come se fosse collocato a una immensa distanza da noi e di distinta natura. No; non è Egli un essere estraneo e superiore da doverlo contemplare con apprensione; è come noi, della medesima nostra natura, uno di noi; e perciò dobbiamo amarlo ed appressarci a Lui con tutta fiducia; perocché come uomini, come fratelli suoi, quantunque sì miserabili e peccatori, possiamo fare assegnamento sull’illimitato amore del suo cuore. – Tutto questo si è fatto per noi il Figliuolo di Dio mediante l’Incarnazione, il cui effetto è l’Uomo-Dio, quest’Essere mirabile ed immenso; quest’Essere che la Scrittura chiama la causa, il primogenito fra le creature (Col. I, 15, 16, 19), l’erede universale di Dio (Ebr. I, 2); Uomo-Dio, quest’Essere potentissimo, dinanzi al quale si piega ogni ginocchio in cielo, in terra e nell’inferno (Filipp. II, 10); Uomo-Dio, il più bello ed amabile, la quintessenza dei pensieri di Dio; Uomo-Dio, l’amore e l’ammirazione del cielo; Uomo-Dio, la vita e il conforto della povera umanità; Gesù, che si fece fratello nostro e che stringendoci al cuore colle braccia dell’amor suo ci solleva alla patria eterna, e ci presenta a suo Padre come dolci conquiste della sua tenerezza ed amabilità. Che mai potrebbe Dio ideare e creare di più per un cuore che non si commovesse a tanta maestà e bellezza?

CAPITOLO IV.

Dio – Bambino

1. Dio si fece Uomo in tutta l’estensione della parola, e per conseguenza, anche bambino; perché l’infanzia appartiene naturalmente all’essere ed alla vita dell’uomo. È qui noi prendiamo la parola fanciullezza, non nel senso più ristretto, ma riel più ampio, che abbraccia tutto il periodo dello sviluppo dell’uomo, dal suo primo momento fino all’acquisto completo delle sue forze giovanili. E questa è la prima differenza fra il primo ed il secondo Adamo. Il primo non conobbe infanzia né gioventù, ma si presentò immediatamente al mondo come uomo perfetto. Il secondo Adamo volle percorrere tutti gli stadi della vita, e così l’infanzia di Gesù è una conseguenza del mistero dell’Incarnazione, e del proposito suo di voler conformare perfettamente la propria vita alla nostra.

2. E qual è il tratto più caratteristico di questa prima apparizione di Cristo tra gli uomini? L’Apostolo ce lo dice con queste parole: Apparve la benignità e l’umanità di Dio nostro Salvatore (Tit. III, 4). La benignità e l’amabilità sono il carattere, quindi, della prima venuta di Gesù al mondo, ed a manifestarle concorreva appunto il suo modo di presentarsi. Ed invero, che di più amabile d’un fanciullo? L’uomo è l’essere più nobile delle creature visibili, ed il fanciullo è il fiore dell’umanità. Chi può contemplare la sua bellezza fresca e delicata, l’anima tenera che vi s’intravede e l’attrattiva della semplicità ed innocenza di lui, senza commuoversi ed amarlo? Chi sarebbe capace di respingere un fanciullo, quando confidente si stringesse a lui per implorare soccorso? Ebbene, questa fu l’arte del Figliuolo di Dio al suo primo apparire sulla terra onde cattivarsi l’amor nostro. – Tutte le manifestazioni di Dio sono altrettanti modi di cui si vale nella sua bontà per avvicinarsi a noi; ma non ve n’ha una che sia tanto commovente come questa (Ebr. I, 2). Di fronte a questo fanciullo sembra di sentirci più sapienti, più forti di lui, a tal punto da aver compassione di Dio, povero ed abbandonato sulla terra. Spariscono qui tutte le barriere che la divina Maestà innalzava tra Lui e noi. Dio s’è fatto come uno di noi e, in apparenza, meno di noi. Un pargoletto è nato a noi, e il Figlio è dato a noi (Is. IX, 6). Figlio dell’uomo chiamasi l’eccelso Dio nostro; il segno meraviglioso della sua venuta dato ai pastori era, che avrebbero trovato un Bambino povero ed ignorato, ravvolto in pannicelli e giacente in una mangiatoia. Come con verità e bellamente disse S. Bernardo: « Grande è il Signore e degno di lode oltre ogni misura; il Signore è piccolo e si merita tutto l’amore senza eccezioni! » E lo stesso modo tenne durante la sua fanciullezza e gioventù. Che amabilità quella dell’Onnipotente nel sottomettersi alle sollecitudini d’una madre e di un padre putativo su questa terra, nel ricevere da essi l’alimento e mostrare che fossero i suoi difensori contro i propri nemici! Qual soave mistero quello del suo crescere e svilupparsi, allorché il suo corpo diveniva sempre più bello e dignitoso, allorchè l’anima di Lui manifestavasi ognor più risplendente, allorchè Egli eseguiva gradatamente azioni vieppiù perfette! Quanto amabile l’umiltà sua, la sua obbedienza, la sua pietà, la laboriosità della sua vita nascosta, meraviglia del cielo e della terra, la cui vista eccitava, a favore de’ proprî figli, una santa emulazione nelle donne di Nazareth verso la fortunata madre di quel Fanciullo! Qual soave mistero quello della sua fermata nel tempio, raggio anticipato della sua vita pubblica, in cui si manifesta come Messia e Figlio di Dio, ma povero e staccato da quanto sa di carne e di sangue, per dichiararci quanto prima che più che alla Madre sua appartiene a noi, che ardentemente desidera giunga l’ora di essere tutto nostro! Il presepio medesimo col suo Silenzio e la sua povertà è un segno eloquente di ciò che ha da operare più tardi a nostro favore; la madre Lo involge ora in pannicelli, più innanzi Lo involgerà nella Sindone: adesso Ei versa lagrime, verserà poi tutto il suo Sangue; nasce in una misera grotta in aperta campagna, e più tardi un sepolcro prestatogli ne riceverà l’adorabile corpo.

3. Le circostanze di luoghi e persone che circondano l’infanzia del Salvatore fanno che ne risalti vieppiù l’amabilità sua. Si presenta innanzi tutto la piccola, ma regale città di Davidde, distesa sopra verdi colline e ondeggianti praterie, ricca di gradite memorie degli antichi tempi; quindi, la misteriosa terra dei Faraoni colle sue piramidi, alla cui ombra si ammaestrarono i figli d’Israele nella religione, nelle arti e nei lavori, fino a divenire un popolo potente; indi la pacifica Nazareth, gradita dimora per tanto tempo della sua gioventù e testimonio della sua vita nascosta e del suo tranquillo lavoro: e finalmente il sacro tempio di Gerusalemme, l’antica città dei profeti, dove ci si Manifesterà un giorno glorioso e dove ora fa che i dottori della legge, venerati quasi superstiziosamente dai Giudei, rendano omaggio a Lui, Fanciullo di dodici anni: luoghi tutti celebri e strettamente legati alla vita di Gesù Cristo. Similmente amabile e pieno di significati è il gruppo di persone che circonda la sua infanzia: la Vergine Madre, di regale prosapia, il giusto e fedelissimo Padre putativo, i semplici e pii pastori, i celesti messaggeri che intonano inni di giubilo, i santi Simeone ed Anna, i Re Magi fedeli alla vocazione della stella. Tali sono i santissimi personaggi che intervengono alla nascita di Gesù, i suoi primi adoratori e profeti, che annunziano al mondo la di Lui venuta e fanno testimonianza della sua divinità. E questa divinità per noi è della massima importanza; perocché a che gioverebbe senza di essa la povertà e l’amabilità del Bambino Gesù? Ei non vuole da sé stesso rompere il silenzio della propria infanzia per manifestarsi Dio qual è, ma ne lascia la cura a codesti santi, e per ciò i medesimi sono intimamente legati alla prima di Lui età, ed offrono al mondo l’incomparabile loro servigio di attestarne la divinità.

4.Che quadro stupendo è mai quello dell’infanzia del nostro Dio! Un Dio-Bambino, giacente in una mangiatoia, che abbisogna d’alimento e di attenzioni, che piange, che si sottrae colla fuga ai suoi nemici, che vive vita nascosta e si guadagna l’alimento con un’umile arte! E pensare che in Lui non può aver luogo alcuna debolezza interiore né l’inconsapevolezza degli altri fanciulli! Al contrario, tutto in Lui vibra forza e vita, vita divina che tutto vivifica, sotto la forma dell’amabilità senza limiti e dell’amore più tenero; potere che tutto attrae a sé irresistibilmente. Infatti, dove sarebbe al mondo colui che non sentisse l’attrattiva potente di quest’infanzia? Non fu dessa la delizia della prima nostra età? Non furono per Betlemme i primi palpiti del nostro cuore, gli affetti tutti dell’anima nostra? Oh! con che soavità ed amore pregavamo dinanzi al presepio, come mai forse l’avremo poi fatto! E perché non possiamo tornar al fervore di quei giorni? Nella grotta di Betlemme come sul Calvario, dinanzi al l’abernacolo come in Cielo, nostro Signore è sempre il medesimo, degno mai sempre d’adorazione, di rispetto e d’amore. Tutte le divozioni indirizzate all’umanità di Cristo conducono a Dio. Per questo un S. Francesco, un S. Bernardo e tanti altri santi personaggi, col fervore del loro spirito rinnovarono il mondo, furono specialissimamente devoti dell’infanzia di Gesù Dove potremmo trovare più verità, più sapienza, più amabile grandezza, beltà più attraente che non nel Bambino di Betlemme? Confidenza ed amore sono la caratteristica della divozione al Bambino Gesù; perché non dovrebbero formare altresì la caratteristica della nostra vita?

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (IX)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (IX)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN. DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica, 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

SECONDO PRINCIPIO FONDAMENTALE: VINCERE SE STESSO (IV)

CAPITOLO XIV.

La superbia

4. L’albero genealogico della superbia è il seguente: il tronco è l’amor proprio, il quale si protende in due rami, la superbia e la sensualità. Dalla superbia germogliano: prima la vanità, creatura mansueta ma un po’ impertinente; seconda l’ambizione, personaggio irrequieto che vuol essere stimato da tutti; terzo, la brama di comando, che ha in uggia qualunque soggezione, e vuol dominare, vero diavoletto in casa, di cui nessuno, nemmeno Dio può fidarsi. Tutte possiedono una caratteristica particolare di famiglia che le distingue, ed è che si sforzano di essere o di apparire disordinatamente e senza limiti più di quel che sono, e desiderano d’assumersi e sostenere incarichi oltre quanto il loro potere e la loro forza consentano. – Venendo al particolare, suol essere indizio di superbia la propria soddisfazione, che loda tutto ciò che le appartiene, attribuendolo a sé stessa. Quindi la troppa sensibilità alterandosi per ogni piccolo disprezzo, per un sospetto e per una supposta umiliazione. Non esiste una sensitiva così delicata come il superbo: crede di avere e possedere unicamente quello che in lui vedono ed ammirano gli altri. Ha la mania altresì di tutto criticare e giudicare: il superbo non la risparmia né ai vivi né ai morti, arriva a mettersi sopra un piedistallo come un semidio; ei sa tutto, nessuno può insegnargli, basta a sé medesimo, tutti gli altri devono essergli inferiori. Semidei di questo genere non sono rari nel mondo; essi sono precisamente coloro che non vogliono udir parlare nè di Chiesa nè di Dio. Se ne incontra dappertutto: tra principi e sudditi, tra nobili e plebei, tra scienziati ed ignoranti. Risulta, infine, esser un’epidemia generale del mondo, dal giorno che il serpente scrisse nel libro de’ nostri progenitori: « Voi sarete come dei », parole che noi loro figli non dimenticheremo mai.

2. L’umiltà è tutto l’opposto. Fondata sulla moderazione e figlia dell’interiore modestia, governa ed invigila tutti i moti disordinati di superbia, tutte le ambizioni d’onore, di stima e d’assoluta indipendenza; l’umile aspira ad un lodevole disprezzo anche davanti gli altri, nutre una bassa opinione di sé stesso e si rallegra che il pubblico la condivida e manifesti, fugge l’onore, che non si prepone, sopporta con pazienza e gioia le umiliazioni, non si scusa, si umilia riconoscendo con semplicità le proprie miserie e debolezze in tempo opportuno, specialmente nella Confessione. L’opera sua magistrale ed eroica è amore alle umiliazioni.

3. Condizione previa al tempo stesso che educatrice, maestra e consigliera dell’umiltà è la propria cognizione, la quale gli insegna che tutto ciò che ha di buono e compie è dono ed opera di Dio: che egli per sé nulla può né possiede se non peccati e miserie. Di qui si chiarisce bene tutto ciò che fa e lascia di fare l’umile, persino l’amore stesso alle umiliazioni… Questo principio retto e ragionevole dell’abnegazione propria è il germe, l’anima ed il movente dell’umiltà.

4. Quanti motivi abbiamo per combattere la superbia con una vera umiltà!

Solo se siamo umili possiamo giudicarci con verità, imperocché l’umiltà è la verità. La conoscenza di noi stessi, che è uno specchio che non inganna, c’insegna che tutto abbiamo ricevuto da Dio e nulla è nostro; per cui la superbia è menzogna, mancanza di probità, un furto che si fa all’onore di Dio, dinanzi al quale è un’abbominazione, come dinanzi agli uomini di buon senso è una ridicolaggine. Il confidare troppo nelle proprie forze è segno che i nostri pensieri sono piccoli, infinitamente piccoli. E che cos’è, finalmente, la gloria mondana? Inoltre, quanto importante è l’umiltà per la vita spirituale! Tutto dipende dalla grazia di Dio. Se siamo superbi non può Dio darci grazie speciali; non per ciò che s’attiene a Lui, poiché soltanto l’umiltà Gli rende l’onore dovuto; e nemmeno in riguardo a noi, perché le grazie senza l’umiltà non farebbero che pregiudicarci e darci motivo da insuperbire di più. – Insomma, se vogliamo vivere vita pura ed esente da colpe, siamo umili, poiché da difetto d’umiltà proviene il maggior numero delle quotidiane nostre imperfezioni. Infatti, d’onde l’abbandono della preghiera, l’invidia, il parlare de’ difetti altrui, la detrazione, l’immodestia, la disobbedienza, l’esagerata delicatezza, le affezioni disordinate, l’impazienza, i lamenti nei travagli e disgusti, la tristezza e la disperazione? Tutte queste mancanze ed innumerevoli altre spariscono coll’umiltà. Suol dirsi che i piccoli non fanno cadute gravi, ma il superbo ed orgoglioso trovasi in pericolo di cadere e, forse, vergognosamente, e questa è l’unica via che possa farlo rientrare in sé. La superbia è la sorgente di tutti i peccati: l’umiltà il fondamento di tutte le virtù, non perché sia in sé la più sublime, ma perché è la condizione, si direbbe, « sine qua non », per ogni opera buona. Come può fare un passo sicuro colui che ignora ciò che è e ciò che può? E davvero che il superbo non lo sa, ma unicamente l’umile mediante il conoscimento di sé stesso. Infine, chi vuol operare qualche cosa di grande per la gloria di Dio, deve amare l’umiliazione, che è il più elevato grado dell’umiltà. Infatti, cercare ed amare l’umiliazione è il sacrificio più gravoso, il passo più difficile della vita spirituale, la linea che separa i perfetti dai non perfetti. La superbia è l’amor proprio portato sino all’odio di Dio; l’umiltà è l’amore di Dio sino all’odio di sé medesimo. Questa conseguentemente è la vera e perfetta vittoria, la vera adorazione e glorificazione di Dio in noi. Allora soltanto Dio può contare su noi incondizionatamente; altrimenti saremo sempre suoi strumenti malsicuri. D’altronde, premio dell’umiltà suole essere una vita felice, esente da colpe e ricca in virtù. Quanto importante finalmente è questa virtù dell’umiltà per abbracciare una vocazione e perseverare in essa, ed in generale, quanto necessaria per la pace e felicità della società umana! Molti ambiscono posti più elevati per dare maggior gloria a Dio e poter lavorare di più; com’essi dicono; ma in fondo è solamente ambizione d’onore quella che li spinge. Non riesce la cosa né ha buon esito? Oh! allora si scoraggiano e non sono più capaci di nulla. Non possono soffrire che il loro talento stia nascosto sotto terra; per essi le cose del servizio di Dio non sono che gradini per salire più in alto. E se loro riesce di avere un posto elevato, allora la superbia li priva di tutto il merito dinanzi a Dio. Non c’è peggiore nemico della superbia e della brama d’onore per far perdere un carattere, spogliare l’uomo della sua dignità, indipendenza, lealtà e sincerità dinanzi a Dio ed agli uomini. Sono gli animalia gloriæ di cui parla Tertulliano. E, se no, da qual causa provengono nella vita sociale l’inquietudine, la disordinata brama di salire, la ripugnanza a tutto ciò che sa d’autorità; da qual causa tutte le rivoluzioni e moti popolari, se non dalla superbia, dall’ambizione di gloria e di comando? Lungi, dunque, da noi l’ambizione, coll’ingannevole suo frutto: l’onore mondano. L’onore e la stima degli uomini non sono che beni apparenti e di nessun valore. Che guadagnerebbe un mendico se venisse lodato da un altro mendico? Cerchiamo mediante la vera umiltà ed abnegazione l’onore che procede da Dio, e verrà il momento che l’avremo; onore che in fin de’ conti è l’unico vero.

CAPITOLO XV.

Antipatia e simpatia.

In questo capitolo si tratta dell’amore, e particolarmente dell’amore al prossimo.

1. La carità è una virtù che ci fa amare Dio per essere Egli chi è, e riposare in Lui perfettamente come nel bene supremo. L’oggetto suo è duplice: Dio e l’uomo; quest’ultimo, in quanto si riferisce a Dio come creatura e figlio adottivo che Gli è. Imperocché Dio non ama solo sé medesimo, ma ama tutte le sue creature; e così, perché l’amor nostro sia divino, deve estendersi a Dio ed al prossimo; ma il motivo di amare è uno solo, Dio: di maniera che tutto il resto deve amarsi per Lui, in Lui e con Lui. L’ordine che dobbiamo tenere è questo: primo, amare Dio sopra ogni cosa; secondo, amare sé stessi; terzo, il prossimo, però non come si vuole, ma come noi medesimi. Tanto in noi come nel nostro prossimo, dobbiamo anteporre il bene spirituale al temporale, così che va data la preferenza al bene spirituale del prossimo in confronto col bene nostro corporale. In quanto al vantaggio nostro temporale, possiamo posporlo a quello del prossimo, sebbene non sia necessario. Il disordine, pertanto, in questa materia consiste, o che non amiamo tutte le cose per amore di Dio, o che amiamo qualche creatura più che non Dio, o, finalmente, che anteponiamo il bene temporale al bene spirituale nostro o del prossimo. – Le ragioni che provano l’eccellenza dell’amore e carità sono le seguenti.

2. L’amore è il primo e principale dei Comandamenti ed il compendio e la sorgente di tutti, in quanto che gli altri non sono che applicazioni di questo. Mediante l’amore Iddio s’impossessa della volontà, la cui principal forza è amare. Per esso Dio si fa suo tutto l’uomo e gli può comandare ciò che vuole. Per esso unisce tutti gli uomini gli uni agli altri ed a Sé medesimo, loro ultimo fine, nella maniera più perfetta. Così l’amore è veramente vincolo di perfezione nel senso più elevato. Per questo il Salvatore presenta il Cristianesimo come religione d’amore, e l’amore come la tessera de’ suoi discepoli. Propriamente parlando abbiamo una sola legge ed un’unica occupazione: amare.

3. L’amore di Dio e del prossimo ha un avversario e nemico che può vivere solo a di lui spese. È questo l’amor proprio disordinato che si stima ed ama sopra tutto, che tutto-giudica: a suo modo, in tutto cerca sé medesimo, persino nell’amore del prossimo, or per simpatia, o per antipatia.

4. Si dice, e giustamente, che l’uguaglianza e la concordia sono condizione e fondamento dell’amore. Per cui le cause dell’avversione o manchevolezza d’amore che proviamo contro il prossimo possono fondarsi sulla diversa condizione naturale o sul vario modo di sentire, di pensare e d’operare, cose tutte che lo rendono, come suol dirsi, antipatico o ripugnante. Un’altra causa da cui nasce l’avversione sono le offese, vere od immaginarie, da parte del prossimo. Dal che, come terza causa d’antipatia, derivano pensieri di disprezzo, di critica, d’avversione e di sospetti, che ben presto si trasformano in parole amare, in osservazioni intempestive o pungenti, ed in recriminazioni che nuocciono molto alla carità e mettono la disunione nei cuori. Corrono gran pericolo di venir meno allo spirito di carità coloro che, essendo d’ingegno acuto, non ne fanno buon uso. Un’arguzia porta sovente più danno che una manifesta offesa. È un pericoloso talento quello del burlone, e serve di frequente a nascondere una mordacità e disamore satanico. Di rado lo spiritoso è inoffensivo; mira quasi sempre a sé stesso, ed in tutto vuol far spiccare le proprie acutezze, nulla badando all’umiltà ed alla carità. Sono cose queste che l’amor vero, bene così alto ed elevato, esige che evitiamo. Non diamo mai adito scientemente nel nostro cuore ad antipatie od avversioni e non mettiamoci di proposito a rivangare torti ricevuti dal prossimo, né a pensare ai difetti del suo carattere o qualità sue antipatiche; ché ciò, a nulla giova, né fa che le cose cambino modo d’esistere: l’unico risultato è d’aumentare la nostra mala disposizione. Il germe dell’antipatia è l’indifferenza. Procuriamo perciò di evitarla, nutrendo in noi idee di carità affettuosa. Un uomo che fomenti questi pensieri, dice il P. Faber, è certamente un santo. Ci sono alcuni che sembrano nati solo per molestarci: sono intempestivi sempre e tutto quel che fanno è disordinato e disgusta. E vi sono altri che realmente ci amareggiano ed offendono colle cattive loro abitudini e colpe. Che si deve fare allora, se non aver pazienza? Dovremmo allontanarci dalla società se nulla volessimo patire e sopportare. Siffatte cose spiacevoli è d’uopo prenderle in cambio dei vantaggi del vivere in società. Nojosissima sarebbe la vita, se tutti fossimo d’ugual tratto. Alla fine il maggior vantaggio della vita socievole è l’esercizio continuo di pazienza e di carità, che è la cosa più sublime. È quasi sempre l’amor proprio, il dolore immaginario, l’ostinazione e attaccamento al nostro parere, oppure la mancanza di abitudine o senso pratico per comprendere gli altri e conformarvici, ciò che ci rende così difficile la loro convivenza. Un buon consiglio è di comportarci coi falli altrui come coi proprî, che da principio non li crediamo, in seguito li attenuiamo col bene che abbiamo o pensiamo d’avere, e finalmente, perché non può farsi altrimenti, li sopportiamo. Né mai parliamo senza un giusto motivo dei falli altrui, poiché ciò non serve che ad inasprirci di più e dare cattivo esempio. Evitare l’incontro di coloro che ci sono contrarî per non adirarci, non è un buon mezzo; è molto più facile e giovevole allo scopo cui si mira, avvicinarli e vincerne la scortesia a forza di buone maniere. Definitivamente in questo caso è di somma importanza essere compresi di tutte queste difficoltà della vita comune, affrontarle a piè fermo, sopportarle con pazienza e uscirne vincitori. Una massima sapientissima è questa, giudicare tutto possibile in questo mondo e non meravigliarsi di nulla.

5. La simpatia in sé e per sé è buona; è l’ago magnetico che mediante l’amore unisce gli uomini in società temporale, come le anime in società spirituale. Essenzialmente è un sentimento involontario ed una tendenza istintiva; perché meriti il nome di carità è necessario che abbia la coscienza di ciò che fa e che sia fondata su motivi ragionevoli. – In questa materia può darsi disordine, prima, quando il motivo non sia Dio, poiché in tal caso l’amore non sarebbe divino, ma puramente naturale. In secondo luogo, l’affezione è disordinata se non osserva il retto ordine determinatole da Dio e dalla ragione. – Dopo Dio e noi stessi, dobbiamo amare coloro che per consanguineità o precetto divino ci sono più prossimi; come per es., i genitori e parenti, i superiori, i benefattori, quelli in cui rifulge più specialmente l’autorità, la santità o i doni di Dio, o che hanno maggior bisogno dell’aiuto nostro. In terzo luogo, è disordinato l’amore che non ha per oggetto i doni spirituali del prossimo, ma le sue qualità corporali e chi sa ancora con danno dell’anima. Questo, che non va più su dell’amor proprio volgare, non solo non è amare il prossimo, ma piuttosto, considerandolo da un punto di vista più elevato, è odiarlo. Finalmente è disordinato l’amore che si lascia trascinare da pura simpatia verso un individuo, pregiudicando così il bene generale; poiché più che ad uno solo siamo obbligati a tutta la società. – In questa specie di amore disordinato s’inchiudono tutte quelle benevolenze sensuali che diconsi amicizie particolari. Soglionsi conoscere queste in quanto che distolgono dall’amor nostro coloro ai quali siamo più obbligati, e ci mettono in pericolo di peccare contro i Comandamenti di Dio. Sono senz’altro un furto fatto all’umanità ed al ristretto numero di persone in mezzo alle quali viviamo. Quanto il vero amor di Dio e del prossimo nobilita l’uomo rendendolo grande e felice, altrettanto l’amore falso e spurio, che è la morte della vera carità, lo umilia e degrada.

6. Dobbiamo abbandonare questo amore teatrale, ed elevarci al vero amore di Dio e degli uomini, unico che ci renda indipendenti e ricchi mettendoci in condizione di operare un bene immenso in questo mondo. Nessuno per discolparsi metterà innanzi la ragione che potrà fare poco o nulla. Amiamo davvero e potremo fare molto a favore del prossimo. Avremo allora pensieri pieni di carità, i quali muovono il cuore e questo la mano. E che ci vuole di più per operare il bene? Non ci mancheranno le parole affettuose, e con una parola d’affetto possiamo dissipare malintesi e fugare ogni diffidenza. Avremo un occhio amorevole, ed uno sguardo di compassione può mettere un argine alla mestizia ed alle tentazioni, e infondere gioia e coraggio; e chi non sa che l’allegrezza cambia la terra in un paradiso? Un uomo amabile e gioviale è una vera provvidenza di Dio nel mondo; è un esorcista che scaccia demonî, un apostolo ed evangelista, un oratore che sa presentare il divin Salvatore con tutta la munificenza ed amor suo. Abbiamo un vero amore e carità verso il prossimo, e non ci mancheranno i mezzi per fare il bene. – La carità non viene meno (1 Cor. XIII, 18), non è povera e senza consiglio. Non potremo far mai bene bastante nel mondo; ma per farlo è necessario essere dotati d’energia ed ilarità. Ogni opera di carità porta con sé consolanti benedizioni, nuova soddisfazione pel bene che si opera e finalmente la nobile passione d’intraprendere sempre qualche cosa di nuovo: questa è la perfetta vittoria del bene, o, per dir meglio, del divino nel cuore dell’uomo.

CAPITOLO XVI.

La passione dominante.

1. Per carattere intendiamo il distintivo, la qualità e nota predominante della condizione naturale di un individuo. Passione dominante nel carattere d’una persona sarà, secondo questo, un disordine, eccesso o difetto nelle qualità dell’anima e nelle reciproche loro relazioni, proprio e caratteristico di tale persona.

2. Più o meno, tutti gli uomini hanno qualche particolare difetto. Dio solo pel suo Essere semplicissimo e infinitamente perfetto esclude da Sé necessariamente e naturalmente ogni disuguaglianza. Non vi è in Lui nessuna proprietà che sia più o meno perfetta d’un’altra. Ben diversamente è nelle creature e quindi nell’uomo, il quale è finito, limitato e disuguale. Esiste inogni uomo una disposizione e qualità anemica che predomina su tutte le altre, che perturba l’armonia e il retto andamento dell’essere generale e rende possibili i traviamenti: è la passione dominante.

3. Può provenire questo squilibrio dalla disposizione d’animo, secondo che predomini l’intelletto o la volontà, la fantasia o il sentimento, e non a vantaggio ma a danno di altre facoltà, lasciando l’impronta sua su tutto l’uomo. Così distinguiamo gli uomini intellettuali, indipendenti, inflessibili, energici, esaltati, sentimentali o appassionati. Questa diversità può provenire anche dal corpo, cioè, dal temperamento, che influisce sull’animo comunicandogli le sue qualità, a motivo dell’intima unione dell’anima col corpo. Perciò diciamo che vi sono dei temperamenti sanguigni, collerici, flemmatici e melanconici. I quali tutti presentano i loro vantaggi ed i loro inconvenienti.

4. Per correggere il difetto particolare di ciascuno, bisogna anzitutto conoscerlo; poiché sebbene, più o meno, tutti ne abbiamo alcuno, non è sempre facile scoprirlo, opponendosi molte volte, sia la mancanza del proprio conoscimento, sia il difetto di riflessione od anche la superbia ed accecamento interiore. Il riconoscersi colpevole sempre umilia; per questo si cercano delle attenuanti. Possono trovarsi anche degli uomini d’un carattere così eguale e temperato, che torni difficile constatare in essi un’azione spiacevole. In questi naturali il difetto suol essere la timidezza, la pusillanimità e indecisione per manifestarsi ed intraprendere qualche cosa. – Diamo qui alcune regole che possono giovare per conoscere la nostra passione dominante. Conviene osservare anzitutto che cosa sia in noi che predomini, se l’intelletto, la volontà o il sentimento, e vedere che sorta di temperamento sia il nostro. Si noterà in secondo luogo quali siano i peccati e le mancanze in cui più di frequente cadiamo, che ci porteranno con certezza a scoprire la comune radice, che è la passione dominante. – In terzo luogo, fermiamo l’attenzione nostra sulle virtù che abbiamo: con esse sotto gli occhi potremo rintracciare la passione dominante, imperocchè ogni pianta ha il suo parassita, così ogni virtù ha del pari l’ombra sua. – In quarto luogo, osserviamo quale sia l’inclinazione che più si distingue nell’anima nostra. Essa c’indicherà sicuramente la tendenza dell’essere e carattere nostro, come l’osservare ciò che ci rallegra ed eccita, in qual modo ci compensiamo in seguito ad un’opera buona mal riuscita, e quali siano i pensieri che più tengono occupata la mente nostra. Tra i mezzi esterni si presentano le divine ispirazioni nella preghiera, il giudizio del direttore nostro spirituale e dei nostri compagni. Ascoltiamone il consiglio, poiché non è facile che cadano in errore.

5. Conosciuta la passione dominante, dobbiamo combatterla con impegno e costanza. Tre sono le ragioni principali che c’inducono. Prima di tutto tale passione è un difetto ed una deformità non esteriore certamente, ma, ciò che più importa considerare, dell’anima, ed offusca in noi la magnifica immagine di Dio. Con quanta attenzione evitiamo le minime macchie sul volto! Ora, perché non faremo altrettanto rispetto a quelle dell’anima? Inoltre, il resistere alla passione dominante è della massima importanza nella vita spirituale, in quanto che è il maggior ostacolo che si oppone al progresso nostro, poichè non è un difetto unico, ma la sorgente e principio di molti altri che gli tengono dietro. Lottare, quindi, contro la passione dominante, è lottare contro tutti i difetti; vincerla è vincerli tutti. Quante volte non sì sente dire dagli uomini: « Solo che mi togliessero questo disgraziato difetto, mi tornerebbe facile superare gli altri! » Secondo questo, dunque, esso è un vero tirannello; e, ciò nonostante, pretende di passare come virtù. Nella vita spirituale; tutto dipende dalla grazia, dalla nostra cooperazione e dal merito. La maggior parte delle grazie Dio le concede là dove sono più necessarie. Orbene: ciò di che più noi abbisogniamo è di guerreggiare e vincere la passione dominante; dunque possiamo star sicuri che in questa lotta Dio è con noi. La passione dominante è il nemico più terribile di Dio e nostro. Essa tenta di privarci della grazia e del merito delle nostre fatiche. Non c’è parassita che danneggi tanto una pianta, quanto tenta di pregiudicar noi questa passione. È un principio generale dei maestri di spirito, che tra i mezzi naturali di cui si serve Iddio per condurre le anime al loro ultimo fine, nessuno è così importante come quello d’un carattere buono e docile. Dobbiamo corrispondere a questa indicazione della divina provvidenza, lottando strenuamente contro la nostra passione dominante. La vittoria suole premiarsi altresì quaggiù colla purità, chiarezza e pace dell’anima. – Chi non vede, in terzo luogo, quanto sia importante questo combattimento contro la passione dominante, per corrispondere alla nostra vocazione? Chi non si sente di guerreggiarla, si ritiri al deserto e rinunzi al po’? di bene che potrebbe fare tra gli uomini. Così almeno non sarà pietra d’inciampo e non recherà danno agli altri. Ma chi desidera convivere cogli uomini ed occuparsi del loro bene, deve procurarsi un perfetto dominio di sé medesimo. La passione dominante o restringe l’attività nostra o la distrugge completamente, Per fare qualche cosa a favore degli uomini è necessaria molta virtù: una sola colpa può tutto rovinare e renderci totalmente inutili. Quante belle speranze furono distrutte dall’ira mal repressa, dalla imprudenza e dalla sensualità. I migliori talenti restano in questo modo inutilizzati. Ne viene per conseguenza, che qui anzitutto deve applicarsi seriamente la mortificazione. Dovremmo combattere anche se non ci si presentasse speranza alcuna di vincere. Ma qui tutto ci fa sperare la vittoria. Dobbiamo in questa lotta pensare a un solo nemico e quindi tutte le nostre forze devono essere dirette a un solo punto. Questo è il giusto modo di combattere. Inoltre, Iddio ci aiuterà perché si tratta d’una sua impresa. Come i Santi seppero domar bene lo spirito cattivo della loro passione dominante! E perché non lo faremo noi? Non si richiede altro che buona volontà e costanza. Nulla resiste ad una volontà retta e risoluta. Facciamo quanto ci è possibile: non potremo cambiare radicalmente il nostro carattere; possiamo però reprimerne gli eccessi e correggere i suoi difetti. Il tempo non ci manca, vogliamo, lottiamo e preghiamo, ché questo basta.

CAPITOLO XVII.

Ricapitolazione e fine

1. Da tutto ciò che abbiamo detto ne consegue, che dobbiamo fare un fermo proposito di dominarci, e questo proposito, unito alla massima di consacrarci sempre alla preghiera, dev’essere una delle basi sopra cui posi la nostra vita spirituale ed uno dei principî fondamentali di essa. Questo, dunque, è quanto dobbiamo tenere sempre presente agli occhi della mente, né mai perdere di vista, malgrado tutte le ricadute in cui avessimo da trovarci. Senza dubbio che molte volte verremo meno, ma non ne riceveremo gran danno finché ci terremo fermi al proposito; le cadute al contrario diverranno più rare, ed esso finalmente arriverà a signoreggiare e dominare gloriosamente su di noi.

2. Ma il giorno in cui dovessimo trascurare questo proposito noi saremmo perduti per la vita solida dello spirito e per la perfezione. Col solo pregare non si raggiunge il fine; contentarsi della preghiera senza l’esercizio dell’abnegazione, è uno dei punti di codesta nauseante ascetica moderna, che pretende di trovare Dio ed arrivare a Lui senz’altro cammino che quello della preghiera. Povere fatiche! Dopo molti anni e andirivieni, trovasi uno dove cominciò. No, la preghiera e l’abnegazione devono trovarsi in pieno accordo, al modo stesso che per volare sono necessarie due ali  per lavarsi le mani devono concorrere entrambe. L’una e l’altra, preghiera e mortificazione, devono aiutarsi, sostenersi e completarsi; ambedue devono andare sempre unite. Senza abnegazione è impossibile pregare, e per la preghiera è indispensabile l’abnegazione; diversamente, anche pregando, non si trova Dio. L’uomo immortificato cerca Dio nella preghiera, ma non lo trova; in cambio, a chi è mortificato, Dio medesimo va incontro, perché il suo cuore è puro e disposto ad unirsi a Lui. Iddio desidera venire a comunicarsi a noi molto più di quanto desideriamo noi; l’unica cosa ch’Ei desidera è un cuore mondo e mortificato. – Similmente, noi non ci mortificheremo se non preghiamo; è cosa dura la mortificazione, e solamente la grazia di Dio può rendercela possibile ed anche soave, e la grazia si ottiene solo con la preghiera per la preghiera. Chi, dunque, è prudente e desidera edificare la sua casa sopra solide fondamenta, l’innalzi sulla pietra della preghiera e dell’abnegazione.

3. Certamente che la parola mortificazione è dura ed è più duro ancora percorrerne il cammino; ma siamo noi stessi che col peccato vi ci si siam messi e dobbiamo percorrerlo, a qualunque costo. Però non dimentichiamo che non è più soave, anzi è molto più aspro il sentiero del vizio ed il giogo delle passioni sfrenate. Noi non eviteremo mai i peccati se non mortificandoci ci resta solo: da scegliere tra mortificarci o peccare. Ci si presenta difficile la via della mortificazione, semplicemente perché non ci risolviamo con serietà a percorrerla. Facciamo un proposito generoso, e confidiamo che il sentiero del rinnegamento di noi stessi col tempo ci diverrà non solo facile ma altresì gradito. Dalla morte viene la vita, e dalla forza la dolcezza (Giudici XLIV, 14). Ed è così, che la pianta della mortificazione non produce solo spine, ma rose altresì di gioia e di consolazione spirituale: soltanto che questa consolazione bisogna meritarla lottando, come avviene per tutto ciò che v’ha di grande e di bello quaggiù. Le difficoltà e la stanchezza spariscono di fronte alla gioia prodotta dall’eroismo. Questo è il lato bello di codesta mortificazione che tanto impaurisce.

4. Obiezioni contro la mortificazione non ne mancano. « Ai nostri tempi, dicono, è impossibile; non vi resistono né la salute né le occupazioni». Facciamo una distinzione: la mortificazione interna non potrà mai omettersi, e d’altra parte non nuoce alla salute, né impedisce il lavoro; e della mortificazione esterna può dirsi, che ai nostri tempi si godrebbe assai più salute se si praticasse un no’ di più. Il lavoro, senza dubbio, è una buona mortificazione; però anche per lavorare seriamente con coscienza è necessaria la mortificazione, poiché altrimenti l’uomo perderà il suo tempo in futilità lasciandosi dominare dal capriccio, il che non è lavoro. « Ma questa ascetica ha già fatto il suo tempo ». E se non erriamo; il mondo di oggi è quello medesimo di ieri, senza nulla cambiare. Nemmeno nostro Signore Gesù Cristo si è cambiato; ed il fine e la via che a Lui ci conducono sono sempre lì come prima. Di modo che bisogna rassegnarci alla mortificazione dei secoli passati. « Riguardo  alla mortificazione interna transéat, ma l’esterna.:. »  C’è qui della verità, ed è che la mortificazione interna è migliore in ogni caso e più necessaria: che non l’esterna; ma da ciò non segue che si debba trascurare del tutto l’esterna, tolta ogni mortificazione esterna, l’interna non può esistere. Disprezzare e non curarsi della mortificazione esterna, oltreché si oppone allo spirito di Gesù Cristo, dimostra completa ignoranza circa lo stato e condizione a cui ci ridusse il peccato originale. Le nostre difficoltà e i peccati provengono per una buona metà dal corpo. Più: secondo la dottrina cattolica, la mortificazione non è solamente per tenere in freno il nostro corpo, istrumento del peccato, ma per soddisfare altresì alle nostre colpe ed a quelle di tutto il mondo, e quale valore e prezzo per conseguire maggiori grazie e maggiori lumi e meriti per la vita eterna! Per questo le anime innocenti sono quelle che più si distinsero nella mortificazione esterna. « Al cominciare una vita di perfezione potrà ben giovare la mortificazione esterna, ma poi non più ». Come non potremo mai staccarci dall’ombra nostra, nemmeno ci tornerà possibile sottrarre l’anima nostra all’influenza del corpo. Il rinnegamento di sé stessi è l’a b c della vita spirituale: non lo si deve mai dimenticare. Il rinnegare sé stessi è senza dubbio cosa penosa per l’uomo decaduto, e si richiede un continuo sacrificio a mantenervici. Ma è precisamente quanto ci vuole per vincere il male ed acquistare forza per il bene. Aspra è la via, ma grande e glorioso è il fine, e per un fine grande l’uomo generoso volentieri si sacrifica. Perciò il Kempis chiude le sue istruzioni sul cammino reale della croce, colle parole: « Lette dunque e ben esaminate tutte le cose, sia questa la final conclusione: che per mezzo di molte tribolazioni ci bisogna entrare nel regno di Dio » (L. II, Cap. 12). Per sopportare come conviene la tribolazione è necessario dominarci, però non come si vuole, ma radicalmente, totalmente e costantemente.

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (VIII)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (VIII)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN. DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica, 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

SECONDO PRINCIPIO FONDAMENTALE: VINCERE SE STESSO (IV)

CAPITOLO X.

Delle passioni.

Per legare insieme i concetti e comprendere ciò che segue, convien dire qualche cosa sopra le passioni.

1. Le passioni (presa questa parola non come sinonimo d’inclinazioni cattive e disordinate. ma di proprietà naturali) sono moti dell’appetito sensitivo o parte inferiore verso ciò che naturalmente ci piace o dispiace, e che si presenta all’anima per mezzo dei sensi e della fantasia, od anche ordinariamente mediante un’eccitazione materiale ben percettibile. Se l’oggetto è gradevole, risveglia in noi il desiderio; Se sgradevole, orrore e ripugnanza. Si danno, quindi, come due estremi a cui possono ridursi le passioni: amore ed odio. Il primo si suddivide in desiderio, speranza, coraggio e gioia; il secondo in ripugnanza, timore, disperazione e tristezza.

2. Le passioni hanno il loro fondamento nella nostra natura, composta di spirito e di materia, e servono per la conservazione e benessere d’entrambi, in quanto che li aiutano a tendere al loro proprio fine con facilità ed energia, tenendoli lontani dal male. I moti delle passioni che prevengono la riflessione e la volontà non hanno per sé valore morale e sono indifferenti, ma possono, secondo che si decida la volontà, essere occasione e strumento sia del peccato come della virtù, vale a dire, possono essere innocui o pericolosi. In conseguenza del peccato originale, le passioni manifestano le loro tendenze ed attività non solo all’insaputa e senza il consenso della volontà, ma altresì contro di essa e contro la ragione; e sono perciò causa di disordine, di scissura e d’inquietudine, causa di tentazioni e persino di peccato, se la volontà vi aderisce e loro si sottomette. Ma la volontà è sempre libera nel determinarsi, negando o prestando loro il proprio consenso. Le passioni presentano tuttavia i loro vantaggi e sono di grande aiuto al bene, poiché offrono facilità, costanza ed anche slancio per le virtù eroiche, e conferiscono grandi meriti se operano sotto l’influsso della parte superiore della volontà. Cooperando le passioni è tutto l’uomo che opera e con tutte le sue forze. Inoltre, le naturali inclinazioni ben indirizzate sono norma sicura ed infallibile delle sue azioni.

3. Il buon uso è servizio delle passioni torna, quindi, di grandissima utilità alla vita spirituale, in quanto che sono una forza. potente sia pel male che pel bene, Sono, come suol dirsi, cattive consigliere, ma buone ausiliarie. Per questo bisogna tenerle lontane dal male, e farle servire al bene. Passioni ne abbiamo e dobbiamo averne; ciò che importa è di servirci bene di esse. Non è possibile soggiogarle dispoticamente, né violentarle, sradicarle o sopprimerle; fa d’uopo trattarle diplomaticamente, sia col distoglierle da ciò che è vietato e offrir loro occupazioni serie, sia col proporre un bene non proibito e farle servire di alleate nell’adempimento del dovere. La divozione al divin Cuore di Gesù ed allo Spirito Santo riesce di somma utilità per conseguire un retto uso delle passioni.

CAPITOLO XI.

La pigrizia.

Vediamo ora in particolare il modo che dobbiamo tenere circa alcune passioni e difetti.

1. La pigrizia è una certa pesantezza dell’anima e delle sue potenze, che cerca disordinatamente il riposo e l’inazione. V’è anzitutto pigrizia d’intelletto, che consiste in una certa svogliatezza di pensare, nell’occupare lo Spirito in cose vaghe e inutili, nel fare castelli in aria, nel darsi a divagazioni e a idee superficiali o nebulose, nel far pòsa or qua or là, in una certa, vertigine e sonnolenza spirituale che si fa sentire specialmente in tempo di preghiera. – Anche la volontà ha la sua specie di pigrizia, che consiste in una inerzia indolente e melanconica per tutto ciò che non le va a genio e disgusta, nell’indecisione per operare, in un perpetuo rimandar le cose al domani, ed in un vivere senza metodo, senza un piano e norme fisse. Nel corpo la pigrizia si manifesta per la fiacchezza, indolenza e ricerca di comodità. Il pigro preferisce la quiete al moto, il sedere allo star in piedi, lo sdraiarsi allo star seduto. La prediletta sua occupazione è di dormire molto.

2. La pigrizia intellettuale negli esercizî spirituali si supera con fervidi e frequenti colloquî, colla preghiera vocale, con positure rispettose e col variare il modo di far orazione. Nelle nostre azioni in generale dobbiamo essere diligenti, ma non affannosi. Ciò che deve farsi non si deve rimandare. L’occuparsi in cose inutili non è altro che una finta attività. In tutte le occupazioni regni l’ordine, e nell’adempimento dei propositi la rettitudine e la fedeltà. Un mezzo sommamente buono per combattere la pigrizia, sia dell’anima come del corpo, è la pratica di penitenze esteriori ed anzitutto il dominio di se stessi, vincendo così la lentezza del corpo e rinvigorendo lo spirito.

3. Molti motivi abbiamo per allontanare da noi la pigrizia. Essa soprattutto è un nemico universale; più o meno s’infiltra in tutti, perché tutti constiamo in parte di materia. Tende insidie anche ai più avveduti e fervorosi. sebbene in diversa maniera: ad uno lancia addosso l’accidia intellettuale, ad un altro quella della volontà, ad un terzo la corporale. La flemma, la melanconia, l’insofferenza non sono che forme distinte della pigrizia. Inoltre, è un nemico scaltro ed una dolce schiavitù: cresce con noi e senza avvedercene vi ci abituiamo. Sa molto bene nascondersi quando prevede di non essere bene accolta. Il suo peccato è come un peccato che non ha corpo; non farà cadere alla prima, ma userà l’arte di chi ci deruba, fingendosi amico. Finalmente la pigrizia è un nemico cattivo e perverso, che indebolisce e paralizza tutta la vita spirituale. Se uno non sa proporsi nulla né elevarsi a qualche cosa di grande, è colpa della pigrizia che stringe i lacci della volontà e dello spirito, indebolisce l’anima, presta forze alla materia, ci ruba tempo e meriti incalcolabili e cagiona alla vita nostra spirituale molteplici danni. Il peggio è che di solito s’introduce nelle azioni più importanti della vita spirituale, come nella meditazione, negli esami di coscienza, nelle pratiche di pietà. Si rassomiglia molto alla tiepidezza, tarlo dello spirito, compagna ed alleata. Nessuno vuol essere considerato pigro; motivo sufficiente per proporre di non esserlo.

CAPITOLO XII.

La paura

Una certa affinità colla pigrizia ha la paura.

1. La paura è un sentimento d’agitazione e d’inquietudine dell’anima di fronte a un male imminente che può evitarsi, non senza però una notevole difficoltà. L’oggetto e causa della paura, quindi, è un male che s’approssima e la cui rimozione, sebbene possibile, è costosa, La pressione che naturalmente esercita sull’anima e sulla volontà è d’inquietudine, deperimento, spossatezza; influenza che cresce e si fa forte a proporzione del pericolo che si teme e dello sforzo che si richiede per allontanarlo, e secondo che è più o meno debole la persona minacciata. Questa debolezza cresce colla confusione ed oscurità dell’intelletto, coll’esaltazione della fantasia e della sensibilità, e colla eccitazione dei nervi. Perciò sono più soggetti all’influenza della paura i vecchi. le donne ed i fanciulli. Alle volte la paura si comunica anche ai sensi, e può avvenire che cagioni spasimi e svenimenti. Non vogliamo parlare qui di questo potere terribile che ha la paura, ma solo dell’influenza che esercita sulla nostra volontà nella vita ordinaria, nella quale manifesta altresì il suo potere snervante e disordinato. Per questo si associa in certo modo alla pigrizia.

2. Essere colti dalla paura naturalmente non è nessuna debolezza. Si suol dire che solo i pazzi e gli animali non hanno paura; i primi perché sono fuori del loro giudizio, ed i secondi perché ne sono privi e quindi incapaci di conoscere ed apprezzare il pericolo. Una paura moderata può essere segno persino di prudenza e previsione. Ma l’uomo ragionevole e di buon senso deve dominare questo sentimento, e non lasciarsi per esso allontanare dal suo dovere, sotto pena di venire annoverato tra gli esseri più deboli. Questa è la prima ragione che si presenta per opporsi alla paura, per stare all’erta e non lasciarsi dominare da essa; perché può condurre l’uomo a pervertire l’ordine della ragione, il che è peccato. Secondo il retto ordine, devono sottomettersi alla ragione tanto il sentimento come l’appetito sensitivo; però la ragione non ci dice semplicemente che noi dobbiamo evitare questo e cercare quello, ma ci comanda di fuggire e raggiungere alcune cose piuttosto che altre, e di affrontare persino il pericolo per eseguire molte buone imprese. Orbene, se noi per paura d’un male non aspiriamo a un bene necessario; in altre parole, se non adempiamo il nostro dovere, allora cadiamo in una imperfezione, in un peccato, più o meno leggiero, più o meno grave. Così pur troppo nella vita quotidiana la ignobile paura d’un disgusto (è il rispetto umano) ci spinge o trascina a una moltitudine d’infedeltà contro la coscienza e il dovere. È questo un motivo sufficiente per stare in guardia contro la paura, e fare quanto si può per difenderci dalla sua influenza. – Ben più perniciosa si può dire che sia questa influenza della paura in ordine al bene ed allo spirito di perfezione sradicare i difetti e i disordini è la prima condizione per progredire. Un mezzo molto proficuo a tale effetto è la manifestazione e confessione de’ nostri peccati e imperfezioni a chi si deve e da cui possiamo ricevere consigli. Ma la paura vi si oppone; o per un ingiustificabile rossore di far conoscere le nostre miserie, o pel timore di dovercene emendare. Quanto giova inoltre alla perfezione implorare e seguire le divine ispirazioni! Ma chi è che rende vane queste ispirazioni e queste chiamate di Dio così ricolme di grazie se non la paura, la pigrizia e l’orrore della natura nostra per la mortificazione? D’altronde, senza solidi principî e nobili aspirazioni è impossibile parlare di perfezione, che solo può conseguirsi sacrificando le comodità, il benessere materiale e la vita quieta; che tanto si ricercano da questa povera nostra natura. Orbene, la paura è come un peso che ci schiaccia e rende vani in noi tutti i sacrifici e le generose risoluzioni che Dio si degna di chiederci. Da ciò risulta che restiamo sempre nella bassezza d’una vita volgare ed ordinaria. Tuttavia sono ben più deplorabili gli effetti della paura, quando si estendono all’anima e riescono a infondervi orrore ed avversione a qualche impresa grande ed importante per la gloria di Dio e la salvezza delle anime, come sarebbe la vocazione ad una vita più rigida ed elevata. Il danno allora è incalcolabile. Questo lo vediamo chiaramente in quel giovane del Vangelo, a cui la tristezza, compagna della paura, impedì di seguire l’alta vocazione, che il Signore stesso con mano così liberale e cuore sì generoso aveagli offerta. La talpa è una triste aiutatrice del giardiniere. Nei giardini di Dio, vale a dire della Chiesa, è la paura che fa da talpa e cagiona non piccola strage. La perfezione, a guisa di girasole, non germina se non sotto il chiaro cielo dell’allegria e del valore: sotto la fosca e fredda luce dell’inerzia e della pusillanimità non prospera nulla di grande e di bello. Chi non può dominare la paura, può rinunciare senz’altro alla perfezione. Infine, se vogliamo vivere una vita allegra e veramente felice, dobbiamo bandire da noi la paura. Certamente che vi sono dei mali nel mondo, ed il solo pensarvi ci atterrisce e ci toglie la pace e l’allegria; ma il più delle volte è la paura che ci fa vedere mali dove non sono, e, se ne scorge, li ingrandisce ed esagera. La paura ci fa veder spettri dappertutto: disprezziamo queste novelle da veglia. Il pauroso si tormenta con mali immaginarî, specie di martirio senza gloria ed onore; l’intrepido al contrario che, senza punto lasciarsi si smuovere da vani fantasmi, prosegue tranquillo per la via del dovere, dimostra buon criterio e una volontà ancor più indipendente. Qual cosa può togliere la pace e quiete di spirito a colui che non teme né i mali del mondo né i terrori della paura? Il sole non risplende soltanto per conto suo, ma infonde vigore su quanto gli si avvicina e partecipa de’ suoi raggi; lo stesso opera il valoroso: infonde energia e buon umore in molti altri.

3. Molto bene e presto detto; ma esiste alcun rimedio per bandire la paura ed essere coraggiosi? Quelli che più danno da fare alla volontà perché possa sovrapporsi all’angoscia sono il sentimento e la fantasia; questi sono che mediante mutue influenze tutto esagerano, imponendo alla volontà i loro terrori e difficoltà. Il sentimento stesso è indipendente dalla volontà nostra. Ciò che possiamo fare è di frenare e restringere i suoi eccessi e le sue ribellioni, di modo che non presenti alla volontà tanto pericolo. Dobbiamo procurare altresì che il sentimento obbedisca come un cagnolino ben istruito, il quale, sebbene al primo impeto s’agita ed abbaia, non sì tosto gli fa segno il suo padrone si ritira e s’accuccia. – Tre rimedî molto giovevoli si offrono a questo fine. Il primo è di convincersi che su questa terra, in cento casi, la maggior parte delle cose che possono allietarci o impressionarci, non esistono nella realtà tanto quanto nella nostra fantasia od immaginazione che tutto esagera. Propriamente parlando, il solo pensiero dell’eternità dovrebbe infonderci gaudio o terrore. Imprimiamoci nella mente ben profondamente questo detto: « I tre quarti sono pura immaginazione », e ripetiamolo quando la paura volesse impossessarsi di noi, sicuri che con tale pensiero le toglieremo la forza. Il secondo rimedio è di essere realmente persuasi e praticamente convinti che la cosa è così e non altrimenti. La paura vorrebbe farci credere che, adempiendo un nostro dovere ed operando ciò che si richiede per conseguire la perfezione, ne sentiremo danno; non le diamo retta. Vorrebbe insinuarci l’attaccamento ad una creatura, quasi che non potessimo vivere senza di essa; lasciamola, e vedremo che nulla si perderà per questo e che possiamo vivere ugualmente bene: come prima ed anche meglio. Quante volte ne avremo già fatto esperienza in vita! Quante cose ci si presentarono alla mente con aspetto spaventoso, prima che succedessero, ed avvenute, ci si resero facili! Tutti gli avvenimenti di quaggiù, per quanto ardui, passano; e tutto ciò che dà pena, col tempo si rende lieve. Animiamoci con questi pensieri. È veramente terribile e deplorevole l’influenza che la fantasia ha su di noi, e i danni che cagiona alla vita spirituale. Ci fa vedere gli oggetti attraverso un prisma e ce li fa pesare sopra una bilancia inesatta, di maniera che ci appariscono diversamente da quel che sono, e ne diamo un giudizio erroneo. Di qui derivano tanti falsi pregiudizi, tante impossibilità e timori immaginarî. La fantasia vede fantasmi dappertutto (Prov. XXVI, 13), e trascina l’uomo nelle cose più indegne d’un essere ragionevole. Solo resistendo risolutamente a codesti fantasmi si libera uno dalla loro indegna schiavitù e diviene valoroso, cioè uomo senza paure e imperfezioni. Per questo la prima lezione che gli antichi maestri di vita spirituale davano, era di ridurre a ragione la fantasia: Corrigere phantasiam. – Il terzo rimedio contro la paura e la pusillanimità è la preghiera e fiducia in Dio. Così c’insegnò coll’esempio il nostro Divin Redentore. Il terrore e l’angoscia non fecero ancora sudar sangue a noi; il Signore permise che s’impadronissero di Lui, per insegnarci che il timore non è peccato né disordine, per consolarci, per ottenerci grazia e per indicarci la via che dobbiamo seguire in angustie simili a quelle ch’Ei provò nell’Orto. Dobbiamo pregare come Lui con umiltà e perseveranza. Mediante la preghiera l’umanità sua santissima ricevette grande conforto, non perché n’abbisognasse, ma perché così volle; e con questo sollievo corse eroicamente incontro ai terribili tormenti della sua Passione. Se Dio, per provarci, permettesse un’ora somigliante di desolazione, possiamo esser certi che ci assisterebbe colla sua grazia. E se Egli è con noi, qual cosa vi sarà che non si possa fare e soffrire? (Come fedeli siamo soldati di Cristo, e non c’è cosa più umiliante per un soldato della paura e codardia. Il cristiano nel Battesimo ha dato il nome suo pel combattimento e sacrificio; egli è quell’invitto guerriero sì mirabilmente dipinto da Dürer, che senza timore della morte e del demonio, i quali a guisa di fantasmi gli stanno sempre ai fianchi, prosegue impavido il suo cammino. Solamente il cane, come contrapposto, lascia cadere pauroso la coda. Il Cattolico non teme che Dio ed il peccato; tutto il resto, compresa la morte, ché morendo Gesù Cristo ed i suoi Discepoli vinsero il mondo, reputa guadagno e vittoria (Fil. IV, 21). Nella vita spirituale si suol badare assai poco alla necessità di vivere la paura e la pusillanimità; eppure non è altra l’origine disgraziata di tanti e così gravi mali. La paura è il pungiglione con cui la pigrizia, la mollezza e lo scoraggiamento uccidono in noi ogni nobile aspirazione e ci condannano a una miserabile mediocrità. «Quante volte », scrive santa Teresa, « lo sperimentai! Quando. all’imprendere alcuna opera buona. io vinceva la resistenza nella natura nemica, sempre ne provava conforto. Quanto maggiore era il timore. altrettanto era la dolcezza dell’anima, nel fare ciò che d’altronde sembrava così difficile. Se io dovessi dare un consiglio, direi: Non fate caso della paura naturale, né mai riceviate con sfiducia i doni di Dio, allorché v’ispira qualche impresa grande ed eccellente ». – La paura e la pigrizia sono sorelle che a nulla di buono conducono. Secondo Dante, la turba dei pusillanimi e paurosi, non merita lode né odio; è un cumulo di polvere, che non si sa da qual parte e dove andrà a cadere, sollevata dal vento.

CAPITOLO XIII.

L’ira e l’impazienza

1. Tanto l’ira come l’impazienza sono un disordinato desiderio di vendetta. L’ira presuppone un torto vero o immaginario, fatto a noi od al nostro prossimo, e vuole ristabilire l’ordine per mezzo del castigo e della vendetta. Generalmente si oppone alla mansuetudine, alla moderazione e al dominio di sé stesso.

2. Anche come uomini dobbiamo opporci all’ira ed all’impazienza, perché, data l’eccitazione che cagionano, di solito molto violenta, nulla v’ha che al pari di esse impedisca il retto uso della ragione. Ed avviene che non solo non si ristabilisce la giustizia, ma s’accumula un monte d’ingiustizie, anche contro persone che molte volte sono innocenti e per nulla meritevoli di vendetta. Il principale movente non suole ordinariamente essere lo zelo per la giustizia o il ristabilimento dell’ordine, bensì una passione o voglia di rifarsi, nella qual cosa consiste precisamente il disordine dell’iracondo ed il peccato d’ira. Nello stesso tempo il collerico pregiudica sé medesimo, perché l’ira, come disordine e peccato che è, lo disonora, lo rende abietto e odioso. La brama di vendicarsi lo inviperisce e gli fa credere che il perdonare o cedere sia una debolezza, un abbassamento, una viltà e uno sconfessare se stesso. E la cosa certa è l’opposto; imperocché è lo sfogo d’ira che è una vera debolezza e deficienza di dominio, e quindi una rinunzia alla propria dignità. L’ira si basa sull’accecamento e disordine delle idee, il che, lungi dal nobilitare l’uomo, lo disonora, lo deprime. Come Cristiani abbiamo ancora maggior obbligo di frenare la collera. Ci comandò Gesù Cristo espressamente la mansuetudine e l’amore ai nemici, oltre l’esempio mirabile di pazienza che ci diede e che fu imitato da tutti i Santi e dai veri Cristiani. Il meraviglioso e divino modo di lottare del Cristianesimo consiste in questo, nel trionfare della forza, non colla forza ma colla pazienza e colla morte. Questo spirito è la pietra di paragone della solida virtù e della perfezione cristiana, e per ciò si esige in sì alto grado nei Religiosi. L’ira, che ne’ suoi giusti limiti procede dallo zelo della giustizia, della gloria di Dio e della salvezza delle anime, non solo è buona, ma è virtù del più alto grado.

3. Il rimedio generale contro l’ira e l’impazienza è la mansuetudine, che modera i desiderî sregolati di vendetta ed i moti eccessivi dell’ira stessa. Quello che fa della mansuetudine una virtù non è la naturale insensibilità, indifferenza, apatìa o timidezza, ma l’amore alla stessa per essere così conforme alla ragione, così bella e così nobile.  – E quanti motivi abbiamo per praticare la mansuetudine! Anzitutto è necessaria nella vita, ché senza di essa nulla si può fare (Ebr. X, 36). Non è, di certo, la virtù più eccellente, ma nella vita ordinaria non potrà presentarsene un’altra che sia più necessaria. Lo zucchero è migliore che il sale; ma questo è assai più importante, poiché il suo consumo è continuo e richiesto quasi in tutto. Nulla ci concilia tanto il rispetto, la confidenza e l’amore altrui come la mansuetudine, che presuppone sempre gran discrezione, retto giudizio, matura esperienza della vita e soprattutto forza non comune di volontà, cuore buono, umile e caritatevole. Che si richiede di più per cattivarsi i cuori degli uomini, guadagnarli e farli nostri? La vicinanza d’un vulcano mette in fuga tutti; ora, l’impazienza e la collera rassomigliano non poco a un vulcano. Non fanno nessun bene, ma sì molto male, o, per dir meglio, fanno più male di quel che si crede. Coll’impazienza noi guastiamo anche le cose divine, di maniera che nemmeno Dio può giovarsi di noi per qualche impresa. La impazienza si addice ancor meno alla nuova Legge, che è un vincolo d’amore, di confidenza e di pace. La mansuetudine ci rende cari a Dio ed agli uomini.

4. Per essere costantemente miti è necessaria una perseverante attenzione contro le sorprese dell’impazienza. Bisogna in questo mondo tenerci preparati a tutto, non meravigliarci di nulla, ed armarci di rassegnazione. Dobbiamo conformarci alla massima di sopportare tutte le ingiustizie, quali possano essere e da qualsiasi parte ci vengano, sotto questa o quella forma, da questo o da quel lato; altrimenti non s’avrebbe alcuna croce. Convinciamoci che non c’è alcun motivo d’impazientarci. Manteniamo il silenzio finché dura la irritazione, fosse pure per falli de’ nostri dipendenti, ché la forza della buona disciplina non istà nel correggere immediatamente il colpevole, ma nell’osservare tutto e nulla lasciar sfuggire per rimediarvi a tempo debito. Chiunque, il quale sia dotato di buona e nobile volontà, accetta una ripercussione ragionevole; ma nessuno può sopportare uno sfogo di collera. Giudica i falli altrui come giudichi i tuoi, con pazienza e tolleranza. Trattare dolcemente con uomini di temperamento pacifico, non dimostra mansuetudine in noi ma in loro. La vera mansuetudine, lo stesso che il vero amore, deve soffrire e sopportare qualche cosa. Non manifestare i tuoi disgusti ad altri, ché non conseguirai se non di renderti più impaziente, e fare cattiva impressione in chi ti ascolta. Per riuscire ad essere veramente paziente non solo non bisogna fuggire le occasioni che si presentano, ma è bene affrontarle. L’amore e la pazienza sono il mezzo per conseguire la mansuetudine. Quando cominci a impazientarti, pensa che tutto passa, che il giorno seguente non sentirai più l’ingiustizia; rivolgi la mente ad altro, e sarai lieto d’esserti conservato in pazienza.

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (IX)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (VII)

I TRE PRINCIPIIDELLA VITA SPIRITUALE (VII)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN. DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica 1922

Nihil obstat quominus imprimatur. Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR Vicetiæ, 25 Martii 1922.  M. Viviani, Vic. Gen

SECONDO PRINCIPIO FONDAMENTALE: VINCERE SE STESSO (II)

CAPITOLO VI.

Mortificazione esterna.

1. L’esterna mortificazione consiste nella forza necessaria, per dominare e tener soggetti i sensi e le potenze corporali e fare di esse quell’uso che è richiesto dalla ragione e dalla coscienza.

2. Il fine della mortificazione esterna in generale è il retto uso dei sensi, preservandoli da ogni eccesso e disponendoli ad operare il bene con costanza. In altre parole: sottrarre ai sensi tutto ciò che li possa mettere in pericolo; rinunziare a tutte le lusinghe sensuali che abbiano per oggetto solo il piacere, ed abituare il corpo a sopportare quanto gli riesce sgradito e faticoso. In particolare, bisogna abituare la vista a non vedere e leggere tutto, specialmente se dovesse riceverne pericolose impressioni, Nemmeno all’udito si deve concedere la soddisfazione d’inutili conversazioni; ed al gusto non si deve permettere che vada alla caccia di squisitezze, ma che si contenti d’ogni cosa, e non si lamenti del cibo, né oltrepassi i limiti della sobrietà. Del bere nulla si dica, nel quale richiedesi somma moderazione. Il tatto deve abituarsi a portare la croce di un lavoro severo, a moderarsi nel dormire, a sopportare la stanchezza, il freddo ed il caldo e rendervisi indifferente. Un mezzo generale, innocuo e durevole, è il tenere esternamente la condotta che corrisponde a ciascuno, giusta lo stato suo e condizione.

3. Anzitutto, nel modo d’esercitare la mortificazione conviene usare moderazione e prudenza. Il fine suo, che è d’aiutare la natura, non di pregiudicarla, è quello che deve regolare e governar tutto. Una regola importante è di non perseverare troppo a lungo in una medesima austerità, ma variarla di quando in quando. Il privarsi di qualche cosa ogni qual tanto non fa danno. Fa d’uopo raccomandare e seguire un metodo di vita, che conservi l’individuo, e particolarmente il giovane, in buone forze. « Poco, ma con costanza », diceva un Santo, parlando della mortificazione esterna.

4. Il primo motivo che si presenta per la pratica di questa virtù, si basa sull’attuale condizione del corpo nostro moralmente considerato. Giusta il principio cattolico, il corpo, dopo la prima caduta, è una fucina di perversità e di peccato; per cui la Sacra Scrittura lo chiama semplicemente: corpo di peccato (Rom. VI, 6), legge di peccato (Ivi VII, 23); e dice che la carne ha desiderî contrari allo spirito (Gal. V, 47). Perciò San Paolo castiga il suo corpo e considera la mortificazione come una prova della sua missione apostolica, Risulta, quindi, da quanto si è detto, che trattare il corpo in questo modo è molto conforme all’idea cristiana. La concupiscenza che ci trascina al peccato, risiede propriamente nell’anima; ma il corpo e l’anima vivono uniti, formando un composto naturale, e per quest’intima unione, ciò che entra per i sensi influisce sull’anima, e può arrivare ad esser peccato, se si aggiunge il consenso. Chi non sa l’impressione e il danno che può cagionare un’occhiata imprudente? La maggior parte delle tentazioni arrivano all’anima mediante i sensi; per questo frenare i sensi equivale a prevenire le tentazioni e togliere forza al male. Bisogna mortificarsi, non solamente per levare al corpo il disordine delle passioni e l’ansia per le impressioni sensuali, ma per liberarlo altresì dalle difficoltà e indecisioni sue ad operare il bene, dalla sua accidia, pigrizia ed amore alle comodità, e per procurargli nello stesso tempo facilità, prontezza buona disposizione e costanza nel compimento d’ogni bene; per il che non c’è via migliore che mortificare il corpo ed i sensi. Da questa mortificazione corporale ne ricava vantaggio altresì l’anima, per conseguire l’umiltà. Imperocchè il trattamento che senza nessun riguardo è obbligata a dare al suo corpo, le ricorda di continuo la sua debolezza ed inclinazione al peccato, e così si guarda dalla superbia, radice di tutti i vizî e schiva umilmente e cautamente ogni pericolo di peccare. Anche lo spirito guadagna forza contro la sensualità, ed acquista prontezza, fervore, animo, gusto alla preghiera e facilità di farla; mediante l’esercizio della penitenza esterna, che consiste nella mortificazione corporale, eleva i suoi pensieri, a guisa d’aquila ringiovanita, dalle miserie di questa terra alle bellezze del cielo.

5. Finalmente, la mortificazione esterna ci viene predicata in tutti i toni dai Santi, anche i più dolci ed amabili; i quali non sono in ciò se non gl’interpreti della vita e degli esempi di Gesù Cristo. Essi parimente praticarono la mortificazione esterna, per quanto lo permettevano il loro stato e condizione. Somma è la stima che di questa mortificazione ha lo spirito cristiano; chi non facesse caso e la disprezzasse, non arriverebbe mai ad essere uomo spirituale.

CAPITOLO VII.

Mortificazione interna.

1. La mortificazione interna, come contrapposta all’esterna, consiste nel governare e indirizzare le interiori potenze dell’anima, per tenerle lontane dal male, conservarle nel bene e renderle atte ad ogni perfezione… Per potenze interne intendiamo l’intelletto, la volontà, l’immaginazione e l’appetito sensitivo.

2. Quanto sia l’importanza dell’interna mortificazione, chiaro apparisce, in primo luogo, comparandola coll’esterna, che non è altro se non un mezzo, una condizione e un frutto dell’interna. Questa è la sorgente ed il fine di quella alla quale comunica tutto il suo valore. Più ancora: mancando l’interna mortificazione non può aver durata l’esterna; senza di quella avremmo al più la religiosità del fakiro, o un’educazione puramente esterna della quale sono suscettibili persino gli animali. L’esterna penitenza può venire supplita in dati casi dall’interna, mediante il ritiro, il raccoglimento di spirito e la purità di cuore. Inoltre, quella dev’essere circoscritta a luogo, tempo e misura; mentre l’interna si può e si deve praticare sempre, dovunque e senza alcuna restrizione.  Si dimostra in secondo luogo l’importanza della interna mortificazione considerando le sue relazioni colla moralità e col progresso nella virtù. L’ordine e il disordine morale, il peccato ed il merito derivano dalle interne potenze dell’anima. Da esse, dall’intelligenza e dalla libera volontà, dipende il valore morale della nostra vita e la responsabilità delle nostre azioni. L’azione esterna. non aggiunge nulla d’essenziale. È nel cuore che si commettono i peccati, come disse il Salvatore: Dal cuore partono i mali pensieri, gli omicidî, gli adulterî, le fornicazioni, i furti, i falsi testimonî, le maldicenze. Queste sono le cose che imbrattano l’uomo (Matt. XV, 18). L’interna mortificazione possiede in grado eminente le vere condizioni e contrassegni che caratterizzano le virtù solide. Solido è anzitutto quello che proviene da un principio vero e stabile, non dalla passione, né dall’utilità propria o impulso naturale, ma da Dio, da motivi soprannaturali, da una retta volontà; solido è inoltre quello che ci costa qualche molestia e difficoltà, poiché il farlo è segno certo che non cerchiamo noi stessi e che va contro la natura; solido finalmente è ciò che ci fa progredire, vale a dire, ciò che rimuove gl’impedimenti che opponiamo alla divina grazia. Orbene; tutte queste condizioni della virtù solida e massiccia si riscontrano unicamente nella mortificazione interna. Per questo è riconosciuta e indicata da tutti i santi e maestri di spirito come la vera e infallibile pietra di paragone della virtù, della perfezione e della santità. Basandosi sulla medesima, il maestro infallibile d’ogni santità, Gesù Cristo, distinse e giudicò le virtù. Gl’ipocriti farisei del giudaismo suoi contemporanei, malgrado l’esteriore loro apparenza di santità, non erano per Lui che dei sepolcri coperti e imbiancati al di fuori, e di dentro pieni d’immondezze e di ossa di morti (Matt. XXIII, 27).

3. Ma, in che cosa dobbiamo noi mortificarci? Anzitutto in ciò che risguarda la nostra vocazione, vale a dire, in quelle cose che c’impediscono di compiere perfettamente i doveri del nostro stato. In secondo luogo, in ciò di che ciascuno abbisogna in modo particolare, ,date le difficoltà sue personali e proprî difetti, siano essi interni od esterni. Finalmente, in ciò che Iddio vuole ed esige da noi.

CAPITOLO VIII.

La mortificazione dell’ intelletto.

Discendiamo a specificare di più l’oggetto della mortificazione.

4. Trattandosi dell’intelletto, è cosa evidente che quanto in esso debbasi mortificare non può essere che qualche disordine o mancanza colpevole, sia per eccesso o per difetto, nell’educazione ed uso del medesimo.

2. L’intelletto è la facoltà che conosce la verità, e siccome questa si consegue quando acquistiamo cognizioni, si deduce che nel raggiungimento di essa ed in quello della scienza consiste la formazione intellettuale. Aver una cura speciale per questa formazione, è la prima cosa e la più importante che dobbiamo fare; poiché l’intelletto è la più elevata e nobile facoltà dell’uomo, ed in un certo senso la più necessaria per la vita. Gl’ignoranti a nulla servono, né a Dio, né al mondo, né al demonio.

3. Nell’acquisto delle cognizioni si può peccare anzitutto per difetto. Esse devono essere certe, chiare e così estese come lo richiede la nostra condizione; bisogna guardarsi dalla superficialità e dalla pigrizia. Tra le cognizioni che dobbiamo acquistare non possono assolutamente mancare le verità religiose, quelle sublimi ed eterne verità (rationes æternæ), che rivelandoci i rapporti che passano tra noi e ciò che ci sta d’attorno, tra il mondo, Dio e l’eternità, ci fanno concepire una retta idea delle cose, idea ché senza dubbio è, l’oggetto più nobile che possa e debba conseguire l’intellettuale formazione; senza quest’idea manca la base ed il laccio d’unione con tutte le altre scienze, e per essa si arriva alla cognizione delle massime cristiane che regolano la vita morale, massime senza le quali l’uomo resterebbe privo di sostegno. Siccome questi fondamenti si basano sulla fede, ne consegue che dessa è ciò che col maggiore impegno dobbiamo conoscere e cercar di tradurre nella vita pratica.

4. D’altra parte, può anche avvenire che qualcuno voglia troppo sapere e studiare, ed allora è necessario reprimere la smoderata brama di penetrar tutto senza distinguere l’utile e necessario dall’inutile, superfluo e pericoloso; come anche di lanciarsi solo per presunzione e vanità in ciò che non si può raggiungere. – Gli antichi designavano in proposito una virtù speciale che chiamavano studiosità, la quale frena e modera la smoderata brama di sapere, ed a ragione; poiché questo vizio trae con sé molti inconvenienti, dei quali il primo è un’eccessiva preponderanza dell’intendimento; e siccome di frequente accade che ciò che pretendiamo di sapere supera le nostre forze intellettuali, risulta o una falsità e disordine di idee e di concetti, o una lamentabile superficialità e confusione. Imperocchè nulla vi ha che preoccupi tanto l’essere nostro, come lo studio e l’investigazione.. Conseguenza d’uno studio esagerato è l’impossessarsi che fa di noi una desolante aridità di cuore, accompagnata da una vera inettitudine di pregare, per nulla dire di un’incresciosa debolezza della volontà, che disgraziatamente patiscono tanti uomini d’ingegno. Dobbiamo, quindi, regolarci colla scienza come coll’alimento corporale; poiché, siccome il troppo mangiare nuoce allo stomaco, così l’esagerato sapere gonfia ed invanisce l’uomo. La scienza non è il bene maggiore che possa darsi; è assai più la verità, senza la quale ogni sapere non è che inganno e menzogna. Perciò alla scienza od all’investigazione non si può concedere incondizionatamente il preteso primato. Insomma, ciò che prima si deve apprendere è il necessario, poi l’utile e finalmente il dilettevole.

5. Guardiamoci, infine, dall’essere rigidi ed inflessibili nei nostri giudizî ed opinioni, poiché alla tenacità non può andare unita la pietà. Questa virtù cammina sempre colla semplicità, col candore e l’umiltà, virtù queste di cui è privo lo spirito pertinace, il quale invece genera dissensioni e rende l’uomo odioso e aborrito. La tenacità di giudizio diventa una specie di fanatismo e non si arrende alla verità; ed è già noto che la cosa migliore che può farsi coi fanatici è di lasciarli soli. – La tenacità di giudizio è nemica d’ogni verità e d’ogni scienza. Non vi fu eresia che in essa non abbia avuto i suoi principî. Non possono frenare l’ostinato né Dio, né la Chiesa; poiché risulta che egli rigetta non soltanto le verità speculative, ma anche le morali, e spesso tutta la scienza della vita pratica che si fonda sul buon senso e la ragionevolezza. Non v’è cosa che sia più opposta alla vita pratica dell’insensatezza, come del pari nulla si dà che più s’avvicini all’insensatezza della tenacità ed ostinazione al proprio parere. – Non crediamo d’essere giunti a far nostre tutte le scienze e di avere l’ultima parola in tutte le questioni; è infinitamente più ciò che ignoriamo di quel che sappiamo. Pensare da sé è buona cosa; ma è anche bene, e spesso meglio, ascoltare ed accettare ciò che dicono gli altri. È buona l’indipendenza, ma a condizione che non sia contro la verità. La conoscenza di sé è il migliore preservativo contro la tenacità di questo giudizio; essa ci rende umili e ragionevoli. I più saggi sono sempre i più docili.

CAPITOLO IX.

La mortificazione della volontà.

I. Si danno tre ragioni per provare l’esistenza somma che ha in sé la mortificazione o formazione della volontà. La prima è perché questa facoltà si presenta tra le principali dell’uomo, il quale, nato per la verità ed il bene, li comprende coll’intelletto e la volontà. La volontà in un certo senso è la facoltà principale; ma cieca in sé e per sé, ha bisogno che l’intelletto le indichi e proponga il bene a cui deve tendere, ed essa ordinariamente vi consente; e dico ordinariamente, perché non è necessità ad abbracciare questo o quel bene, come lo è l’intelletto a conoscere la verità, ma può qualche volta dissentire da ciò che questo le propone. È libera, e come libera che è e dev’esserlo. Nessun uomo e nemmeno Dio potrà mai costringerla. Mercè questa libertà che per scegliere e determinarsi possiede la volontà, essa è così grande ed eccellente, vera immagine dell’indipendenza divina. Il bene ed il male, tutti gli atti morali dipendono dalla volontà e da essa vengono determinati. Per questo la medesima è il pomo di discordia tra Dio e il demonio. Insomma, della felicità o infelicità dell’uomo è la sua propria volontà che decide. – La seconda ragione è la necessità che ha la volontà di essere formata e d’assoggettarsi inoltre ad una severa educazione. Di sua natura è limitata e cieca nelle sue decisioni; in conseguenza del peccato originale fu resa più debole e fiacca. Essa ricevette il primo e principale colpo dal detto peccato e ne sente continuamente gli effetti, parte per la concupiscenza, parte per le tentazioni che le vengono dal di fuori. Or da lacci sì sottili come sono le forze dell’umana volontà stà pendente la felicità dell’uomo. E questa precisamente è la ragione del perché Dio abbia dato molta più virtù alla volontà che non all’intelletto. – La terza ragione è che la volontà umana è sommamente suscettibile di educazione e di formazione; al che si aggiunge che questa educazione riesce molto più utile e vantaggiosa che non quella dell’intelletto. L’uomo può assoggettarsi la volontà, non così l’intelletto. Inoltre, per tutte parti s’incontrano difficoltà che l’intelletto non può superare: la volontà, in cambio, colla grazia di Dio può tutto. E a provarlo abbiamo l’esempio dei Santi, nei quali ciò che vale a canonizzarli è la buona volontà.

2. La mortificazione deve liberare la volontà da tre mancamenti ed eccessi.

Il primo è il disordine e la mancanza di rettitudine nell’intenzione. L’ordine, la rettitudine e la purità d’intenzione consistono nell’assoggettamento e nell’obbedienza della volontà a tutto ciò che la ragione e la coscienza le dettano come buono e necessario; la mancanza di rettitudine, nella resistenza ed insubordinazione contro ciò che come tale riconosce. Questo è il peggior peccato che possa commettere la volontà. Deve, quindi, lasciarsi reggere dalla ragione e dalla coscienza, il che non nuoce alla sua dignità regale. È cieca e deve tener dietro a chi la guida, se non vuol inciampare e cadere; poiché, infine, si assoggetta a Dio, regola suprema di bontà, che le si manifesta mediante la ragione e la coscienza. Sarà perfetta la purità d’intenzione quando la volontà nulla intraprenda né faccia che non sia conforme alla ragione, e operi tutto il bene che le corrisponde.

Il secondo mancamento è la durezza, l’immobilità, l’indecisione, la lentezza nell’operare il bene conosciuto, ed al quale è obbligata. Certamente che bisogna prima pensare ai motivi, ma poi fa d’uopo correre, e correre con sollecitudine ed energia, senza tentennamenti di sorta. Altrimenti potrebbe costar troppo caro il ritardo, poiché può trattarsi talvolta del cielo o dell’inferno.

Il terzo mancamento è la fiacchezza, la poca costanza ed energia, che molte volte derivano da qualche attacco ad alcun bene della terra. E bisogna considerare che questa affezione è sempre una degradante schiavitù, che, oltre ad inceppare la nostra libertà di azione e movimento, ci abbassa e impiccolisce rendendoci ridicoli e degni di compassione. Allora non ci resta altro rimedio che di sradicare e tagliare ciò che ci trattiene. Così si libera il cuore, che ricupera la sua pace e fortezza. L’incostanza della volontà può derivare altresì da pusillanimità o poca energia nel vincere le difficoltà, o dal timore di dover dar mano a maggiori e più difficili imprese. Non ci sfugga dalla memoria: una volontà debole non è fatta per questo mondo, dove non mancano mai croci e contraddizioni; o facciamo noi forse propositi solo per la quiete? Una volontà che non abbia energia per operare e resistere, non è volontà; tutt’al più essa potrebbe servire da banderuola.

3. Mezzo d’educazione della volontà è anzitutto la preghiera, che considerata in sé è una scuola di pazienza, specialmente se si fa in tempo determinato, qualsisiano le circostanze. Oltr’a ciò mediante la preghiera ci viene la grazia, senza la quale non possiamo noi assoggettare la riluttante nostra volontà, né sottrarci alla volubilità e leggerezza sua. – Un altro mezzo è di aver solidi e chiari principî, e di fare propositi risoluti e ben determinati. Se malgrado tali propositi e principî siamo così deboli ed incostanti, che saremmo senza di essi? È anche un buon mezzo avere una norma fissa di vita a cui assoggettarci; poiché ciò che le regole sono pel Religioso, pel secolare è l’orario quotidiano. Ad esso dobbiamo attenerci invariabilmente, e ad esso ritornare se avesse dovuto soffrire qualche turbamento. – Un’ottima occasione per rinvigorire la volontà sono le tentazioni che ci sopravvengono, vere guerre e battaglie in cui si esercita il nostro valore e la nostra costanza; e siccome sono tante e così diverse, possiamo, se sappiamo rintuzzarle con energia, acquistarci col tempo grande fermezza di carattere e copia di solida virtù.  – Un mezzo altresì eccellente per educare la volontà è il vincersi nelle cose piccole e indifferenti che ad ogni passo s’incontrano durante il giorno, le quali, quantunque leggiere, sono molte, e la volontà vi acquista sempre forza. Esigua è la cosa, ma grande l’efficacia.

4. Un’educazione solida, retta e duratura della volontà è oggidì tanto più importante e necessaria, in quanto che si attende più esclusivamente e sovrabbondantemente a formare l’intelletto, lasciando la volontà abbandonata a sé stessa ed a tutte le tempeste, come un arbusto selvatico in campo aperto. E quali ne saranno i risultati? Che più tardi, quando dovrà lottare contro le insorgenti sue passioni, troverassi impotente a resistere. Gli è che nessuno avea pensato di darle un’educazione. Non s’insisterà mai abbastanza sostenendo che non è troppo l’occuparsi nell’educare e rinvigorire la volontà con un metodo chiaro, forte e sodo. Si fa presto ad imparare quello che è necessario per divenire buoni ed utili. Se metà dell’attenzione e fatica che in ciò mettiamo. l’adoperassimo nella formazione della volontà, saremmo presto santi.

I TRE PRINCPII DELLA VITA SPIRITUALE (VI)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (VI)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica; 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M. Viviani, Vic. Gen.

SECONDO PRINCIPIO FONDAMENTALE: VINCERE SE STESSO (I)

Oltre che necessaria, la preghiera è il principio d’ogni bene; ma non più che il principio. Ad essa deve necessariamente unirsi la vittoria di se stesso, che è il secondo dei tre principî fondamentali, e quello che rende sicura ed anche soave la nostra vita spirituale,

CAPITOLO I.

Retta idea dell’uomo.

La preghiera regola e indirizza a Dio i nostri pensieri; per cui riesce facile a chi conosce Dio il pregare. Il vincere sé stessi volge le nostre cure su noi medesimi, e c’insegna come dobbiamo trattarci. Ma, perché  uno si regoli convenientemente, fa d’uopo che prima si conosca ed abbia di sé e della propria natura un giusto concetto. Tre sono le principali dottrine circa l’uomo.

1. Cominciando dalla prima, l’uomo fin dalla sua origine e di sua natura è assolutamente buono e perfetto; la sua depravazione viene più tardi, e nasce non da lui ma dal suo contatto col mondo corrotto e dalla influenza malefica che questo esercita su di lui. Per cui l’uomo non ha da far altro che guardarsi dall’azione perversa del mondo esterno. Quanto al resto, ben può lasciarsi andare e svilupparsi conforme agli impulsi della sua natura. Questo è il concetto che dell’uomo si formano i materialisti di tutte le sfumature. Negano ogni intervento soprannaturale, e non vogliono sentir parlare di peccato originale né delle fatali sue conseguenze nell’uomo. Sovversivo ottimismo, che, non volendo vedere questo disordine e questa desolazione evidenti e palpabili che si manifestano nell’uomo, distrugge tutto il Cristianesimo.

2. La seconda teoria o dottrina è del tutto opposta alla prima. L’uomo fu creato buono da Dio; però il peccato originale l’ha inclinato in tal modo al male, che nel suo essere non c’è nulla di buono ma solo peccati manifesti. Non può nemmeno Dio migliorarlo più interiormente; solamente, obbligato a prescindere dalla di lui malizia, lo riveste all’esterno colla giustizia di suo Figlio, della quale l’uomo s’adorna mediante la fede e la speranza; restando per sé sempre cattivo, anche in cielo. Così la pensavano i riformatori del secolo XVI. È questo un pessimismo infondato e può dirsi anche una specie di manicheismo, nel quale Dio medesimo apparisce incapace di dominare il male che una volta ha permesso. Siccome questo sistema di giustificazione è un controsenso, all’uomo non resta altro rimedio che la disperazione.

3. La terza dottrina insegna che Dio da principio creò l’uomo buono e retto; ma che costui, sedotto dal serpente, cadde, e, in conseguenza del peccato originale e della perdita della grazia santificante, non solo restò privo del suo fine soprannaturale, ma indebolito altresì nella sua natura, sebbene non essenzialmente, per la disordinata concupiscenza. Mediante il santo Battesimo ricupera la grazia santificante, la bontà, la giustizia e santità interne; gli restano nondimeno la concupiscenza e le sregolate passioni, le quali, pur non privandolo della sua libertà, gli muovono una guerra accanita e gli offrono continuo incentivo alla colpa, sempre certo però che, tanto per la grazia di Gesù Cristo e della propria cooperazione, quanto per l’uso dei mezzi offertigli dalla Chiesa, nella preghiera e nell’esercizio del vincere se stesso, può uscire vittorioso.

Questa è la dottrina cattolica unicamente vera e retta rispetto all’uomo. In essa si dà a Dio la parte dovutagli; e così all’uomo, cui al tempo stesso umilia ed eleva, previene, incoraggia ed infonde speranza. Tutto vi stà al suo giusto posto; a Dio, come autore e consumatore della santità, si offre la riconoscenza; all’uomo, l’onore ed il merito di cooperare alla propria salvezza. Qui non v’è alcuna esagerazione. È il pessimismo più moderato, ed il più ragionevole e nobile ottimismo. – Pertanto, è della massima importanza il persuaderci fermamente che il vincere sé stessi è il campo in cui dobbiamo anzitutto manifestare l’attività propria.

CAPITOLO II.

Che cosa sia il rinnegare sé stessi.

Il rinnegare sé stessi, detto altresì mortificazione, è ciò che forma lo spauracchio degli uomini. Nulla v’è di peggio d’una cieca paura, che non sa rendersi ragione; e per toglierla, nessun rimedio migliore del mettere allo scoperto l’oggetto che la produce, e far vedere che è pretta fantasia. Orbene, dicasi altrettanto del vincere sé stessi o mortificarsi: basta osservare ciò che è per allontanare da noi ogni ripugnanza.

1. Che cosa è, dunque, il rinnegare o vincere sé  stessi? Non è altro che l’imposizione o sforzo morale che dobbiamo farci per vivere secondo che lo esigono la ragione, la coscienza e la fede; la fatica che ci costa per operare in conformità del nostro dovere ed essere realmente ciò che dobbiamo e vogliamo: uomini ragionevoli e di carattere. È chiaro che per ciò, richiedesi una non comune energia, conseguenza questa della prima caduta, ed un ricordo che ha lasciato in noi il peccato originale. Anteriormente tutto tornava facile e soave, ed ora non più. A causa della lotta che dobbiamo sostenere, riceve questa virtù diversi nomi: abnegazione, resistenza, dominio, mortificazione, odio di sé stessi, i quali tutti denotano la medesima cosa, che giustamente, attesa la violenza che dobbiamo farci, prendeva i varî titoli seguendo l’esempio della Sacra Scrittura. Tutti questi nomi, infatti, richiamano precisamente l’idea del combattimento, contrasto e forza richiesta, che interiormente ci fa provare un certo malessere. La difficoltà non deriva tanto dalla cosa in sé, poiché possiamo persino volerla ed apprezzarla, bensì da noi, dall’attuale nostra natura, debole e sensibile, che fa d’uopo portare in alto.

2. Qual è propriamente l’oggetto di questa lotta? Che cosa è che dobbiamo combattere e distruggere? La natura? Tutt’altro. Non l’abbiamo creata noi, né ci appartiene: è di Dio. Possiamo farne uso, ma sprecarla no. E tanto meno sono oggetto di mortificazione le potenze naturali; al contrario ne abbiamo bisogno e ci sono indispensabili per vivere e lavorare. Quanto più sono forti e perfette, tanto meglio. Similmente, nemmeno le passioni considerate in sé stesse sono quelle che dobbiamo combattere; le passioni sono parti integranti della natura nostra, e, prese in sé, sono buone od almeno indifferenti; è solo l’uso cattivo che le rende nocevoli. Nessuna di queste cose è oggetto della mortificazione, ma unicamente ciò che in esse v’è di disordinato. Qual cosa, dunque, potremo dire disordinata? Ecco, tutto quello che si oppone direttamente al fine, o ce lo fa perdere, o ci mette in pericolo d’allontanarcene, o finalmente ciò che in nessun modo torna utile a conseguirlo. Disordinato è dunque, secondo questo, anzitutto ciò che è peccaminoso: poi ogni pericolo di peccare cercato od accettato senza necessità; infine tutto quello che è inutile e non necessario e che si oppone alla nostra ragione, alla coscienza ed alla fede. Questo e solo questo è l’oggetto della mortificazione, e contro di esso dobbiamo combattere sino a distruggerlo, se vogliamo condurre una vita pura e degna d’un essere ragionevole.

3. Con ciò resta altresì ben assodato che il fine della mortificazione non è di contrariare, costringere, danneggiare o distruggere la natura, ma di averne cura, di sostenerla, guidarla, ordinarla, educarla, migliorarla, renderla forte, volonterosa, costante e disposta ad ogni cosa buona: di ritornarla per quanto è possibile alla sua primitiva purezza, giustizia e santità, di rinvigorirla e addestrarla nel buon uso delle sue facoltà, al servizio di Dio ed all’aiuto e salvezza degli uomini. Per cui il fine a cui è diretta l’abnegazione propria, non può essere la violenza colle sue difficoltà. – L’uomo non nasce al dolore, ma alla felicità sia dell’anima come del corpo, egli era felice da principio, e solo dopo il peccato cessò di esserlo. Il dolore, quindi, gli è semplice compagno e non fine; è la guida che ha da condurlo gloriosamente alla vittoria ed alla pace. Il dolore stesso e la pena andranno insensibilmente scomparendo, nella proporzione che noi ci consacreremo con energia ed animo virile al rinnegamento di noi stessi e vi persevereremo con costanza.

4. Una luce ancor maggiore avremo circa la natura e l’importanza della mortificazione, nel considerare il posto che questa virtù occupa tra le altre e nel sapere a quale di esse appartenga. Non appartiene propriamente a nessuna in particolare, ma prende posto dovunque occorra energia e buona volontà. Viene in aiuto quasi sempre della temperanza e della fortezza, giusta la necessità di frenare e reprimere l’immoderato zelo d’una passione, o d’infondere vitalità, energia e costanza in un’impresa difficile. Questa, dunque, e non altro è l’abnegazione o dominio di sé stessi. Come si vede, è la cosa più semplice e naturale del mondo, attese le presenti circostanze. – Si tratta unicamente di arrivare coll’aiuto suo ad essere ciò che dobbiamo e vogliamo essere, di renderci, cioè, per quanto è possibile, uomini stimati, nobili, puri e buoni Cristiani. Come in poche parole insegna molto bene S. Ignazio nel libro degli Esercizi, la mortificazione consiste nel diportarsi in maniera da non lasciarsi travolgere da alcuna passione sregolata. Credere che la mortificazione sia qualche cosa di più di quello che abbiamo detto, è pura fantasia, e serve solo a renderla spregevole. Gran parte dell’orrore che essa ispira proviene precisamente dall’errata idea che se ne ha: è proprio il leone del pigro, ricordato dalla Sacra Scrittura (Prov. XXVI, 13), lo spauracchio terribile che spoglia de’ suoi diritti la nobile nostra natura creata da Dio, e che la mette in angustie di morte; e nulla di più falso! Importa moltissimo aver idee giuste in proposito, ché tagliano di colpo il nodo gordiano.

CAPITOLO II.

Perché dobbiamo mortificarci.

I motivi che abbiamo di mortificarci sono innumerevoli.

1. Anzitutto bisogna aver presente che noi viviamo in uno stato di natura decaduta; stato di disordine e di depravazione, come chiaramente ce lo insegna l’esperienza. La natura nostra è simile ad un vecchio albero. traforato ed infetto da una moltitudine di piccoli insetti: sono inclinazioni ed appetiti, piccoli sì ma pericolosi ed anche ripugnanti. i quali ritraendosi dal bene, ci spingono al male e c’inclinano al peccato. Siamo pieni d’amor proprio, di vanità, d’invidia, di pusillanimità, d’impazienza, di sensualità, d’infingardaggine e d’incostanza. L’uomo migliore può cadere miseramente, se non si fa continua violenza. Un sol giorno che lasciassimo campo libero alle passioni, potrebbe bastare perché fossimo trascinati al male in una maniera incredibile. Le bestie feroci si custodiscono in gabbia, e non è da fidarsi del tutto nemmeno degli animali domestici. Non v’ha nulla di così basso e volgare, di cui non sia capace l’uomo, se è trascinato da passioni sfrenate. L’unico rimedio è la grazia di Dio e il dominio di sé stessi.

2. Siamo uomini e viviamo in mezzo agli uomini. Il mondo non è per noi un inferno, ma neppure un paradiso. La vita è un viaggio, però non un semplice viaggio di piacere; è una lotta continua e faticosa, e la fatica stanca; è un servizio militare, di cui non passiamo dispensarci; è una guerra, e guerra di vita o di morte; è un intreccio di dolori e di gioie. di fortune e sfortune, che alle volte c’innalzano fino a renderci superbi, tal altra ci deprimono fino allo scoraggiamento ed alla disperazione; è una società in cui gli uni e gli altri si sostengono mediante una rete d’associazioni, classi, stati e vocazioni distinte, ciascuna delle quali esige particolari sacrifici. sarà capace di soddisfare a tutti quegli obblighi senza farsi violenza, senza sacrificarsi, senza una gran provvista di pazienza? È necessario aver pazienza con tutti: con noi, col prossimo, e persino con Dio medesimo. Ma può darsi pazienza senza mortificazione?

3. Siamo Cristiani e non v’è cosa nel Cristianesimo che non ci obblighi alla mortificazione. Il Salvatore, che fondò la nostra Religione, non ristrette un momento dal predicarcela colla dottrina e coll’esempio. Dalla culla alla croce tutti i misteri della sua vita sono un esercizio continuo di mortificazione; la impone come condizione necessaria ai suoi discepoli e seguaci (Matt. XVI, 24), e ne fa il contrassegno e distintivo della sua Chiesa, La fede cristiana è una croce per l’orgogliosa nostra scienza, ed è l’armeria dove si trovano schierati tutti gli argomenti pel rinnegamento di sé stessi; anche i Comandamenti sono oggetto di mortificazione, e perfino i Sacramenti sono emblemi di abnegazione per ciò che rappresentano, e moventi di essa per la grazia che comunicano; insomma, giusta San Paolo, tutta la vita cristiana è un morire ed essere sepolti con Cristo (Rom. VI, 4 – Col. III, 3). Senza l’essenziale abnegazione, necessaria per evitare tutti i peccati mortali, osservare tutti i Comandamenti e resistere a tutte le tentazioni, il nostro Cristianesimo sarebbe cosa vana ed inutile. Soltanto per la spinosa via e l’angusta porta della mortificazione. Si può arrivare al cielo (Matt. VII, 44). Rigettare per sistema il rinnegamento di noi stessi, è di spiriti nemici di Dio, ed equivale a disertare dal Cristianesimo e dal concetto cristiano del mondo.

4. Più ancora: dobbiamo essere virtuosi; poiché solo per mezzo delle virtù conseguiremo il fine nostro. La via per giungervi sono le buone opere, e siccome per ben operare sono necessarie le forze, e queste precisamente sono le virtù che consistono nell’abituale energia, risulta che, in maggiore o minor grado, ci sono necessarie. Ora: tutte le virtù costano, e perciò dobbiamo abbracciare la mortificazione e lottare contro noi stessi. Da ciò risulta che non è questa un’unica virtù, ma coopera con tutte. La virtù in sé stessa è bella e desiderabile, ma la difficoltà di possederla ed esercitarla ci rimuove ed allontana. Ed ecco, che la abnegazione supera questa difficoltà; quegli che ha imparato a vincersi, possiede la chiave di tutte le virtù. – Questa è la parte importantissima che la mortificazione sostiene nella vita virtuosa.

5. Altrettanto dicasi del merito, senza del quale non si può conseguire la gloria. Non si dà merito più sicuro di quello dell’abnegazione, poiché questa va direttamente contro l’inclinazione nostra naturale, ed è libera perciò d’ogni inganno. Ma v’ha di più. Il dominio di sé stessi non solo ha il merito più certo, ma anche il più grande, in quanto che è la cosa più difficile, e per la quale è necessario esercitare le più alte virtù. Come apprezzeremo qualunque sacrificio, qualunque atto d’abnegazione, ancorché piccola, all’avvicinarsi dell’eternità, quando giungerà il momento in cui si deciderà del merito delle nostre azioni! E quanti atti di mortificazione, grandi e piccoli, potremmo praticare tutti i giorni, mettendo un po’ di cura!

6. Stando così le cose, è evidente che il miglior maestro spirituale è colui che ci anima a dominare noi stessi, il libro migliore d’ascetica quello che c’insegna l’arte della mortificazione. « Tanto sarà il profitto tuo, quanto sarà la violenza che ti farai», dice Tomaso da Kempis. È certo che la vera vita spirituale,. libera d’inganni, consiste nel conservare il cuore mondo dai peccati, nell’esercitare atti virtuosi ed estirpare le sregolate passioni, il che può conseguirsi solamente colla mortificazione, vera pietra di paragone dell’ascetica.

7. Finalmente, noi desideriamo e dobbiamo essere uomini del giorno, uomini moderni, d’attualità. Vale a dire, che, ben intesa la cosa, dobbiamo vivere col tempo, facendo nostre le sue buone idee ed aspirazioni e caldeggiandole in noi. Dio non si oppone a questo; anzi, tali ideali ed eccitamenti, sono mezzi coi quali Egli guida l’umanità sempre verso la mèta assegnatale. Si parla molto presentemente e si tratta della formazione, cultura, incivilimento e progresso in generale; e venendo al concreto, si discute circa la formazione dell’individualità, della personalità e del carattere. E giustamente; imperocchè a che giovano tutti i progressi esteriori, tutta la scienza, tutta la cultura, l’arte di governare i popoli, se l’uomo si presenta come rozzo, barbaro e d’inferiore condizione, come un mendicante, moralmente parlando, e come un misero schiavo delle più basse passioni, in mezzo alla grandezza del mondo, sua dimora, avverandosi così letteralmente il detto del profeta: La terra è piena d’argento, e d’oro, e i suoi tesori sono inesausti… ma in mezzo ad essi c’è l’uomo… incurvato e umiliato (Is. II, 7 sgg.)? Ed in che altro consiste la formazione del carattere personale e dell’individualità propria, se non nel formare, educare e rendere pronta la volontà, per tutto ciò che sa di buono, di nobile ed elevato? E come conseguire questa formazione e perfezionarla? Vincendo sé stessi principalmente. In questo modo si provano le forze della volontà, e bisogna che questa seguiti tal metodo se vuol diventare uno strumento di bene.

8. L’uomo che pratica questi insegnamenti è veramente nel posto d’onore e di grandezza, in cui era stato collocato primitivamente da Dio. Ogni atto vittorioso sulle cattive inclinazioni, l’avvicina di più al modello divino e col tempo arriverà ad essere ciò che Dio si propone di lui: un riflesso della divinità; ; un vero santuario di giustizia, di sapienza; di ordine, di bellezza, di verità e di fede. Notisi bene però: tutto questo potrà solo conseguirsi al prezzo della propria abnegazione.

CAPITOLO IV.

Proprietà dell’ abnegazione propria.

Il fine della propria abnegazione è veramente magnifico; però non ogni abnegazione può conseguirlo; ma solo la vera, che deve avere le proprietà seguenti:

1. Solidità: Non è raro il caso di trovar uomini che consentono di vincersi di quando in quando, in date occasioni, in via eccezionale, quando non possono far a meno. Ma questo non basta. Il dominio di sé dev’essere costante, radicale, premeditato, e sorga naturalmente dallo stesso metodo di vita. È d’uopo proporci seriamente di essere guardinghi, e di non lasciar passare occasione di farci violenza, altrimenti non finiremo mai di vincere le passioni sregolate e le cattive inclinazioni che continuamente ci tendono insidie e minacciano. Non bisogna dimenticare che il disordine ed il mal germe non si trovano in noi soltanto di passaggio e in date circostanze, ma che pur troppo sono l’eredità della natura che portiamo con noi dalla nascita e che saranno il perpetuo martello nostro per tutta la vita. Il male, come dice l’Apostolo S. Paolo, (Rom. VII, 23) è in noi una legge ed un abito radicato, una forza saldamente fondata. E siccome una consuetudine non può vincersi che con altra consuetudine, una legge con altra legge, una forza con altra forza equivalente alla prima, ne viene di conseguenza che chi voglia vivere sicuro bisogna che rammenti questa sentenza: « Se non vuoi che il male s’impadronisca di te, devi farti violenza e vincere ».

2. La forza di mortificarci e vincere deve, in secondo luogo, tenere presente ed abbracciare tutto. Nulla può escludere: bisogna che si estenda al corpo ed all’anima, alle potenze ed alle passioni, all’intelletto ed alla volontà. Una passione a cui non badassimo, sarebbe un nemico di più lasciato alle spalle, che potrebbe assalirci e farci cadere. Chi avrebbe pensato che l’avarizia potesse spingere un Apostolo al tradimento ed al suicidio? Ricordiamoci, infine, che ogni passione disordinata è uno spirito cattivo che può rovinarci.

3. In terzo luogo, il dominio di noi stessi dev’essere costante e senza interruzioni; imperocchè mentre noi lavoriamo d’abnegazione, non riposa il male, ma avanza, come si riproducono le cattive erbe nei giardini. Per questo suol dirsi che fa d’uopo aver sempre alla mano il sarchiello. Inoltre, far contro la propria sensualità e dominarci costa fatica, e solo coll’esercizio e coll’abito può rendersi lieve. È il caso degli animali da tiro, che una volta avviati seguono con facilità; al contrario, quante grida e quante frustate non sono necessarie perché riprendano il cammino dopo una lunga fermata! Ora, lo stesso avviene nella lotta che dobbiamo sostenere noi con noi stessi: se l’interrompiamo per alcun tempo, torniamo a sentire la stessa difficoltà che da principio. E così l’esistenza nostra viene ad essere una fatica ed un lavoro continuo.

4. L’ultima proprietà è che chi vuol riuscire vincitore non deve stare solamente sulla difensiva, ma deve prendere l’offensiva, e tenersi sempre pronto all’attacco. Questo che nelle guerre di quaggiù è un principio fondamentale, ha una non minore applicazione trattandosi della lotta spirituale, nella quale non dobbiamo attendere di essere assaliti, ma dobbiamo noi assalire, altrimenti potrebbe accadere che fossimo sorpresi, e che, quando vorremo resistere fosse troppo tardi. È sempre più facile assalire che difendersi. Nell’attacco, siamo noi che operiamo e godiamo il vantaggio; nella difesa, soffriamo e ci troviamo in condizioni inferiori. Se vuoi la pace, trovati preparato alla guerra. Questa è la tattica che nei suoi Esercizi insegna S. Ignazio: non contentarsi del puro necessario, ma progredire sempre più. Siamo tentati di oltrepassare la giusta misura nel cibo, o d’accorciare alquanto il tempo fissato per la preghiera? Ebbene, mangiamo un po’ meno, e prolunghiamo un po’ più la preghiera. Tal è il soldato che ci descrive nel Regno di Cristo: così diventeremo temibili al nemico. Queste sono le proprietà della vera abnegazione, e queste le armi dei valorosi d’Israele. Con esse, ma solo con esse, potremo tener fronte a qualunque nemico.

CAPITOLO V.

Alcune obiezioni.

Non si può negare che la vera mortificazione non è cosa da potersi prendere in giuoco, ma un’azione seria, grande e santa. Se non fosse così, come potrebbe produrre sì mirabili effetti? Senza fatica, nulla si fa in questo mondo, e ciò che nulla costa, nulla vale. Non c’è, quindi, da meravigliarsi, che in questa materia si suscitino delle obiezioni e difficoltà: è cosa di tutti i tempi, e molto ovvia e naturale.

1. La prima obiezione presenterebbe l’impossibilità di imprendere e mantenere sempre una vita sì mortificata. Il precetto dell’abnegazione fu dato dal divin Salvatore a tutti gli uomini, ed è conseguenza naturale del peccato originale. Non si può fare altrimenti: dobbiamo conformarci alla realtà; vincere o perire. rinnegare sé stessi è considerato anche dagli uomini di buon senso e Cristiani come una vera esigenza della ragione. D’altra parte, le proprietà che abbiamo più sopra numerate, nascono dal fine medesimo del dominio di noi stessi, e senza di esse è impossibile che questo possa conseguirsi. Ma ciò che Dio comanda, e gli uomini di buon senso reputano giusto; ciò che è non solo approvato ma ordinato dalla ragione, deve necessariamente essere non soltanto possibile ma anche facile. E infatti, sono moltissimi coloro che giunsero e giungono pur di presente a conseguirlo. Perché, dunque, non riusciremo noi? Aiuti e mezzi non ci mancano: non siamo soli. Deplora S. Paolo le molteplici miserie interiori che si riscontrano in noi, e termina, non con un grido di scoraggiamento, ma con una preghiera ricolma di speranza e di visione profetica inneggiando alla vittoria: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio, per Gesù Cristo Signor nostro (Rom. VII, 24-25). Abbiamo la grazia, abbiamo la preghiera, abbiamo una volontà dotata di pieghevolezza e resistenza senza limiti, e non ci manca, infine, la grande fiducia di conseguire in Dio e coll’aiuto di Dio la vittoria.

2. Ma questa continua resistenza alle proprie sregolate passioni, non ci tornerà di nocumento e pericolo alla salute? Ciò potrebbe avvenire, mancando la prudenza; e questa non si avrebbe se si procedesse senza ordine, senza attendere al fine a cui dev’essere diretta la nostra mortificazione. Il fine certamente non è quello di distruggere la natura, ma d’aiutarla. Per cui non sì tosto avvenisse che le si rechi un danno reale, il procedimento dev’essere cambiato. Ora, se si trattasse di una indisposizione insignificante e passeggera, ciò non dovrà reputarsi un danno né un pericolo. Si potrebbe anche essere imprudenti, quando non si avesse riguardo all’oggetto della mortificazione, che è di opporsi soltanto al peccato, al disordine, all’inclinazione pericolosa ed inutile, non alla natura stessa ed a ciò che in essa v’è di buono e di ordinato: ché questo deve sempre conservarsi e favorire. – Altra imprudenza sarebbe il voler conseguire tutto in una volta. Finchè Iddio ci dà vita, diamo tempo al tempo; e la natura e la grazia opereranno insensibilmente. se noi saremo costanti nel lavoro. Finalmente mecchierebbesi d’imprudenza se si volesse procedere di propria testa, senza guida né consiglio. No: lasciamo che un prudente direttore ci determini il come ed il quando, e ci indichi persino fin dove dobbiamo arrivare. Tenendo presenti queste avvertenze, la mortificazione non nuocerà; al contrario, il non mortificarsi è molto più pericoloso e nocevole. Sono in maggior numero quelli che s’ammalano e muoiono per non mortificarsi e vincere sè stessi, che altri pel troppo mortificarsi; e soccombono i primi certamente con assai minor gloria! – « Ma, s’insisterà, è che essa è difficile ». Non dimentichiamo che non è meno gravoso, lasciando da parte la mortificazione, il servire a briglia sciolta le passioni. Breve è il godimento, e non resta che il rimorso. Inoltre, la difficoltà diventa leggera col tempo, e la soddisfazione interiore, la quiete e il gaudio dello spirito rendono più lievi la fatica e l’incomodo. A dire il vero la mortificazione si fa difficile, quando non si esercita con buona volontà e non si continua sempre e in tutto. Il nostro spirito è infermo e se vogliamo guarire bisogna metterci sotto cura. Quante difficoltà ha vinto questa parola: voglio; e che grandi e sublimi imprese non ha compiuto! Vogliamo, dunque; ché volendo, tutto conseguiremo.

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (V)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (V)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S. J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica, 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

PRIMO PRINCIPIO FONDAMENTALE: LA PREGHIERA (4)

CAPITOLO IX.

L’ Orazione mentale.

L’orazione mentale, chiamata altresì interna, è un’altra maniera di pregare. –

I. Dicesi interna, perché in essa non si fa uso d’una determinata formula di preghiera, né si pronunciano le parole; mentale, poiché anzitutto è una seria riflessione sulle verità della fede, affine di regolare la nostra vita in conformità delle medesime. Senza questa applicazione alla vita pratica, la meditazione riuscirebbe semplicemente uno studio di teologia. Chiamasi finalmente orazione o preghiera, perché la considerazione non è altro, parlando con proprietà, se non un apparecchio a pregare e trattenersi con Dio con maggior fervore ed intimità. La preghiera è sempre una conversazione con Dio; per cui, se si togliesse Dio dalla preghiera, riuscirebbe questa al più una considerazione o conversazione con sé stessi, un soliloquio.

2. Bisogna guardarsi anzitutto di pensare che la meditazione sia cosa troppo sublime e difficile e quindi ineseguibile. Nessuno potrà negare che tutti meditiamo molte volte senza saperlo. Pensando per es. se dobbiamo prenderci l’incarico d’un affare e come si debba condurlo a buon termine, che altro è se non una ben seria meditazione? Orbene, facciamo conto che questo affare si riferisca alla vita spirituale, e che pensando al medesimo preghiamo, ed avremo una vera meditazione.

3. Varî sono i metodi che sogliono darsi per meditare. Alcuni maestri di vita spirituale si contentano di proporre una serie di pensieri, atti virtuosi, riflessioni per es. di adorazione e rispetto dinanzi alla divina Maestà, atti di fede, di speranza, di carità, ecc., mediante i quali uno può intrattenersi con Dio. Sant’Ignazio insegna il metodo che consiste nell’applicar le tre potenze dell’anima, memoria, intelletto e volontà od una verità della fede, o ad alcun mistero della vita di Gesù Cristo. La memoria propone brevemente la verità, o il fatto storico, con una leggiera occhiata alla composizione di luogo fatta dall’immaginazione; l’intendimento speculativo procura di penetrare il mistero per comprenderne bene la verità, l’eccellenza, la bellezza e soavità, e l’intendimento pratico lo applica alla vita. Il sentimento dal canto suo eccita i suo corrispondenti atti d’amore o di odio a quanto si è già compreso, e la volontà abbraccia gl’insegnamenti ricevuti anzitutto mediante fermi propositi e chiede tosto la grazia di metterli in pratica. A tutto questo si suol premettere una breve preghiera preparatoria per chiedere a Dio la grazia di ben meditare. L’essenziale, quindi, di questo metodo consiste nell’applicazione delle potenze dell’anima ad una verità della fede o a un fatto storico, che secondo il suo contenuto può dividersi in diversi punti, in ciascuno dei quali possono considerarsi le persone, le parole e le azioni. Questo metodo di meditazione è semplice, facile, come dato dalla natura, molto efficace poiché in esso si occupa tutto l’uomo con tutte le sue forze per raggiungere, coll’aiuto di Dio, la verità divina e metterla fermamente e definitivamente in pratica. Per i principianti servono le regole; ma a poco a poco si va uno abituando a meditare, ed allora gli si rendono anche più facili e durevoli le applicazioni. Sant’Ignazio c’insegna ancora altri tre metodi d’orazione mentale.

Il primo consiste nel percorrere i misteri della vita di nostro Signore applicando ai medesimi ed alle virtù che vi si distinguono i sensi interni ed esterni, la vista, l’udito, il tatto, ecc. E° un metodo semplice e pratico che purifica e santifica la nostra fantasia, muove la volontà ed introduce l’intelletto nel santuario dei sentimenti e virtù del Redentore. Anche i grandi santi praticarono questo metodo d’orazione.

Il secondo metodo consiste nel percorrere i Comandamenti, i doveri del proprio stato, i sensi interni ed esterni, e vedere come ci troviamo, pentendocene di cuore e proponendo l’emendazione, se per disgrazia fossimo caduti in qualche peccato. Questo propriamente è un diligente esame di coscienza che può convertirsi in meditazione, col solo considerare in ogni parte quali sono le cose che ordinano e proibiscono i Comandamenti; e rispetto ai sensi, perché ci furono dati e qual uso ne fecero Gesù Cristo ed i santi. Vale moltissimo questo metodo per la delicatezza di coscienza, ed è un eccellente apparecchio alla Confessione.

– Il terzo metodo versa sopra una preghiera conosciuta, considerandone ciascuna parola e intrattenendovisi colla mente finché ci si presentino idee ed affetti. Questo modo di pregare offre ottimi vantaggi nelle lunghe funzioni di chiesa e quando si è stanchi o si patiscono distrazioni, e ci porta a conoscere l’intima essenza della preghiera, la sua bellezza ed elevato valore. Tanto più che è un buon aiuto insperato per far bene la preghiera vocale.

4. A chi ha tempo e facilità di meditare non si potrà mai raccomandare abbastanza, che procuri di dedicarsi quanto gli è possibile a quest’esercizio dell’orazione mentale. Quante volte Iddio nella Sacra Scrittura ci ammonisce di considerare la sua legge e d’apprezzare i di Lui benefizi! Il divin Salvatore, giorno e notte, era sempre intento alla meditazione, e lodò la vita contemplativa di Maria sorella di Marta, assicurandola che avea scelto la miglior parte. Per sé stessa la meditazione fa che la preghiera si prolunghi, gli affetti che da essa nascono eccitano il nostro fervore e desiderio, e così la preghiera consegue una forza intima di cui è priva senza la meditazione: con che crescono ed acquistano valore gli effetti della preghiera, quali sono il merito, la soddisfazione e l’efficacia. Convengono i grandi maestri di spirito che per raggiungere la perfezione, la preghiera mentale è moralmente necessaria. Deve, perciò, fra gli esercizî di pietà, occupare il primo posto nelle Case religiose, specialmente in quelle dei Religiosi di vita mista ed apostolica, i quali sono obbligati a vivere in contatto e comunicazione continua col mondo. La meditazione, prescritta in ogni Ordine dalle sue Costituzioni, fatta con diligenza, può compensare una meno rigorosa clausura ed austerità esterna. Come si potrà divenire apostolo, uomo di fede, se non si hanno presenti di continuo le verità della fede, meditandole e ruminandole ponderatamente, regolando la vita conforme ad esse e tenendole come principî fondamentali; se mediante l’orazione fervorosa non si scolpiscono nel cuore, perché diventino il capitale da cui tragga alimento la nostra vita? Senza questo deposito, si vivrà sempre meschinamente senza mai uscire dalla miseria, né arrivare ad una vita più fervorosa ed edificante. In ben diverso modo si forma e rinvigorisce lo spirito coll’orazione mentale che non colla vocale. Egli è certo che in questa si esercita la memoria, l’intelletto e la volontà, ma nella meditazione quest’esercizio è incomparabilmente più efficace, più intenso e di maggior durata, L’efficacia della meditazione continuata per lunghi anni è quella che d’un uomo di poca virtù deve fare un vero servo di Dio. Per questo un grande maestro di spirito dice che leggere pregare vocalmente e udire sermoni, aiutano molto per cominciare, ma che la meditazione, dev’essere il nostro libro, la preghiera nostra ed il nostro sermone; altrimenti saremo sempre scolari senza mai raggiungere la vera scienza. Ed ecco il perché, conchiude, sono così pochi i contemplativi tra i Religiosi, Sacerdoti e Teologi. (Gersone, Lib. di mist. teolog. prat., consid. II). – Il nostro più fermo proposito, quindi, dev’essere di meditare, se è possibile, tutti i giorni. In ogni caso quando non si possa, qualunque lettura spirituale, accompagnata da riflessioni e domande potrà servire di meditazione. Del resto dovremmo sempre preferire l’orazione mentale alla vocale, ed anche in questa se più non ci è determinata la durata, possiamo meditarne le parole e con brevissime pause fare degli atti d’elevazione a Dio dall’intimo del cuore. Una magnifica scuola d’orazione mentale sono gli Esercizi di Sant’Ignazio, la cui principal base è la meditazione: ivi si apprende a meditare, o vi si ritorna se mai ne fosse stato perduto l’uso.

CAPITOLO X.

Le divozioni della Chiesa.

Importa moltissimo per la vita della preghiera, praticare le divozioni della Chiesa.

1. Sono tutte un esercizio del culto divino ed appartengono essenzialmente agli atti dell’orazione e del servizio di Dio. L’oggetto di queste divozioni è sempre qualche cosa che deriva dalla fede, o che è in rapporto con essa; da ciò si deduce che non sono una novità. Di nuovo c’è soltanto questo, che secondo la diversità dei tempi, un fiore dell’albero secolare della fede, come colpito repentinamente da un raggio di luce, attrae a sé l’attenzione dei fedeli e risveglia nelle loro anime speciali sentimenti d’ammirazione e d’affetto, i quali, approvati dalla Chiesa, si cambiano in pratiche di pietà, che entrano a formar parte del pubblico culto. La cosa è antica; di nuovo non c’è che la luce. Questa luce procede dallo Spirito Santo, la cui azione consiste nel guidare la Chiesa ad ogni verità, nell’aprirle, secondo il bisogno dei tempi, nuove fonti di consolazione e soccorso e indirizzare l’attività sua vitale a quei fini che la divina Provvidenza le traccia lungo il corso dei secoli.

2. La preghiera è la prima e più naturale manifestazione delle divozioni, in quanto che queste appartengono propriamente alla religione, il cui esercizio principale è l’orazione. Le divozioni invitano i fedeli a pregare, e di pari passo che quest’invito va guadagnando terreno, va introducendosi altresì nella vita pratica la divozione, che a sua volta diventa un mezzo per esercitarsi nella preghiera. Merita considerazione il ricco corredo di preghiere, di feste e di cerimonie che le divozioni hanno regalato alla Chiesa. Quale decadimento e qual danno non si noterebbe nella vita della preghiera, se lasciando solo la Messa e la Comunione, si volessero togliere tutte le altre pratiche! Levate via i numerosi e svariati atti d’ossequio con cui si onorano la Santissima Vergine ed i Santi; sopprimete il bel numero di feste, preghiere ed usi della Chiesa, e vedrete come deserto e povero uscirebbe il nostro anno ecclesiastico, di quanta varietà, di quanti ornamenti e di magnificenze resterebbero spoglie le nostre chiese! Sono le divozioni che arricchiscono i giardini della Chiesa con i fiori sempre freschi della preghiera e della pietà.

3. E colla preghiera vengono tutte le grazie che le fan corteggio. Di essa sì servono come di mezzo queste devozioni, affinché si producano in maggior abbondanza le grazie che si trovano chiuse nelle verità della fede ed affluiscano nella Chiesa come ricche correnti. I frutti di benedizione che trae seco una divozione Popolare, possono molto bene rinnovare un’epoca, e infonderle una vita vigorosa e feconda. Per mezzo dei Santi, degli Ordini, delle Congregazioni Religione e delle grandi divozioni, si dice che Iddio rinnovi di continuo la faccia della terra.

4. Queste divozioni possiedono una tale attrattiva per indurre alla Preghiera, ed eccitano in tal modo la vita d’orazione in un Popolo, da far rammentare, senza volerlo, il detto d’Osea: « Io li trarrò, dice Iddio, coi vincoli propri degli uomini »; In funiculi Adam traham eos (Os. XI, 4). Come dire che mediante le divozioni discende Dio a noi per elevarci a Sé. In queste Ei s’adatta al carattere, spirito e tendenza di tutti gli uomini e di tutti i tempi; perciò esse sono tante quanti sono i tempi e gli uomini; e lo Spirito Santo ne suscita sempre di nuove. Colle medesime Egli sostiene la sua Chiesa, e la guida nell’opera cara al suo cuore, qual è di scandagliare i tesori di verità e di Sapienza che le lasciò in dote lo Sposo suo divino, e di applicare le scoperte alla capacità e necessità dei propri figli facendo risaltare per tal modo le grazie di sua bellezza, varietà e forza di adattamento. Così, accanto alle forme antiche di culto ne sorgono altre ché rompono la severità e rigidezza delle prime, e si adattano all’indole e gusto di ciascuno. Le devozioni della Chiesa sono come il grande e splendido banchetto d’Assuero (Est. I, 3 sgg.), in cui ognuno trova ciò che gli conviene e lo soddisfa; per esse ci si offre la grazia della preghiera nella forma che più conviene al nostro carattere, e con esse sembra che Dio e la Chiesa trattino di accaparrarci, per così dire, accomodandosi al nostro gusto, alla nostra predilezione spirituale, onde affezionarci alla preghiera che è il gran mezzo per conoscere la grazia. Chi oserà resistere a Dio, se Egli si abbassa così a noi? Potrebbe dirsi che le divozioni sono l’esca di cui si vale per trarci alla preghiera. Oh potesse conseguirlo a nostro favore! Nessun vantaggio a Lui risulta: vuole invece guadagnar noi alla preghiera, e per essa ad ogni bene, alla perfezione ed al Cielo.

CAPITOLO XI.

Lo spirito di preghiera.

I. Per spirito d’una cosa s’intende l’essenza, il midollo, la parte più nobile, più elevata di essa, come sarebbe l’anima ed il complesso di condizioni senza le quali non potrebbe esistere. Lo spirito di preghiera, quindi, è ciò che le dà efficacia, ciò che ad essa ci attrae e ci trattiene, ciò che infonde vigore all’orazione nostra e ciò che aiuta a farci conseguire il fine suo glorioso.

2. Lo spirito d’orazione consiste in tre cose. La prima è la stima della preghiera, la viva convinzione della sua eccellenza e dignità. Dobbiamo esser convinti che non possiamo far cosa che per sé sia migliore e più elevata, poiché pregare è mettersi in comunicazione e conversare con Dio, il massimo bene che della preghiera sì possa dire. Certamente che per volontà di Dio abbiamo altre cose importanti da fare, per es. adempiere gli obblighi del nostro stato, il che in un certo senso è anche una specie di preghiera e di servizio di Dio; ma c’è una differenza, ed è che tutto il resto che per volontà di Dio dobbiamo fare, non si riferisce a Lui direttamente, ma a qualche cosa fuori di Dio, a qualche cosa che appartiene a Lui, e che in certo modo bisogno restituirgliela; la preghiera invece mira direttamente a Dio, ed è un servigio personale della sua divina Maestà ed un atto del culto divino, e sappiamo che la virtù che ha per oggetto il culto di Dio dopo le teologali, è la più grande ed eccellente; cosa che non presenta nulla di strano se si osserva che anche nel mondo, tra gl’impiegati di corte, i più rispettati sono coloro che servono da vicino la persona del principe. Bisogna avere anzitutto una retta idea di Dio, per stimare come si deve la preghiera; perché se non si conosce Dio essa è sì poco stimata, ed anche molte volte, per disgrazia, posposta a tutto il resto. Pregare, si sente dire da alcuni, è far nulla;  la preghiera è buona per i fanciulli e per le donne, per i vecchi e gl’infelici. Noi non arriviamo a tanto; ma la leggerezza e mancanza di serietà soprannaturale e di fede viva, ci mettono in pericolo di non apprezzare come dobbiamo l’orazione e di subordinarla ad altre occupazioni nelle quali hanno la loro parte la leggerezza, la vanità o qualche altro fine mondano. Dovremmo stimare ed apprezzare la preghiera come Dio medesimo, e sotto quest’aspetto preferirla, giusta la misura de’ nostri doveri, ad ogn’altra occupazione, sacrificandole tutte ad essa, poiché è servigio e servigio personale ed eccellentissimo di Dio. A questo riguardo un profondo teologo diceva che avrebbe preferito di perdere tutto il suo sapere, anziché omettere di sua volontà un’Ave Maria sola di cui era in obbligo. – In secondo luogo, appartiene altresì allo spirito d’orazione l’intimo convincimento dell’assoluta necessità che di essa abbiamo per la vita spirituale, onde progredire nello spirito e di più salvarci. Stimiamo poco la preghiera perché conosciamo poco Dio, e non preghiamo perché non siamo convinti della nostra miseria e povertà e dell’assoluto bisogno che abbiamo di pregare: fa d’uopo aver presente che la preghiera è per noi un mezzo indispensabile e che non può surrogarsi per la perfezione e salvezza, e questo non solo perché così ha ordinato Iddio, ma per quello che essa è in sé. Se nostro Signore Gesù Cristo e gli Apostoli, la Chiesa ed i Santi Padri insistono così di frequente e con parole gravi a raccomandare la preghiera, è perché essa è basata sulla legge naturale di Dio e nella natura e disposizione dell’ordine della grazia. Il bisogno della grazia ed il precetto di Dio ci dichiarano l’imprescindibile necessità dell’orazione. Dobbiamo, dunque, pregare, se vogliamo progredire nel bene e non perderci; così che non vale il dire: « Pregare o non pregare, succederà lo stesso ciò che ha da succedere », perché è innegabile che molte cose avvengano perché si prega e molte non avvengono perché precisamente non si prega. « Ma io non so pregare ».  Impara adunque; poiché quello che è necessario, è altresì possibile. Quante cose abbiamo imparato in vita nostra più difficili della preghiera! « Il male è che io non ho fede e per questo non posso pregare ». Però la grazia della preghiera non ti manca; domanda la fede, e l’avrai; ché pregando s’impara a Credere. Il giorno in cui lasceremo la preghiera e ne faremo poco caso, saremo nuovamente esposti ad ogni pericolo, al peccato ed all’ultima rovina. La vita è un sentiero pieno di pericoli e d’insidie. Gli uomini sono per disgrazia ordinariamente tali qual è l’ambiente in cui vivono. Una grazia grande, quindi, ed un particolar favore di Dio, è di trovarci sempre in un ambiente sano, fuori d’ogni seduzione o senza provar il male che ci sta d’attorno; gli uomini privi di quest’aiuto speciale passano di pericolo in pericolo fino a perdersi. Ora, come potremo conseguire ed assicurarci questa protezione e difesa? Colla preghiera: con essa noi ci stringiamo alla mano di Dio, e se il fanciullo sostenuto dalla mano di sua madre non corre pericolo, quanto meno chi si stringe alla mano divina! Chi non vuole tenervisi, pensi lui cosa gli accadrà. La preghiera, dunque, è un mezzo indispensabile; ma è anche onnipotente: senza di essa, nulla; con essa, conseguiremo tutto. – Ed eccoci alla terza cosa; che infonde vigore e vita, all’orazione: l’illimitata fiducia in essa. Con essa noi possiamo ed otteniamo tutto, perché Dio ha impegnato la sua parola: Domandate ed otterrete! Questa fiducia consiste nell’intimo convincimento non esservi cosa che non si possa conseguire con una buona e costante preghiera. Egli è chiaro che nemmeno si debbano omettere le altre condizioni richieste dalla ragione e dalla coscienza. Chi si contentasse di pregare e si esponesse poi alle pericolose occasioni, pretendendo con ciò di non cadere, si burlerebbe della preghiera esigendo un vero miracolo. All’infuori di questo, non v’è dubbio che per la preghiera tutto è possibile, anche ciò che è più difficile e d’altissimo valore, com’è la trasformazione del cuore ed il conseguimento della perfezione. – Nel catechismo c’è una parola d’oro sopra la preghiera. Vi sì dice che la preghiera ci fa pensare come Angeli e Santi. Chi frequenta i saggi diventa saggio; il trattare frequentemente con Dio ci rende simili a Lui nei pensieri, nei principî, nei sentimenti, nelle parole ed intenzioni. Quanto più l’uomo prega, tanto più, insensibilmente e senza accorgersi ma in modo profondo e radicale, va rassomigliandosi a Dio. Fossero pur mondani i nostri affetti, a poco a poco il nostro cuore ed i pensieri nostri si muteranno; ciò che prima ci ripugnava e riusciva duro ed aspro, ci si renderà facile e soave; il mondo che trascinavaci dietro di sé, perderà tutte le sue attrattive; Dio solo e l’eternità diverranno per noi grandi e degni delle nostre aspirazioni. È questa la maggiore e più fondamentale vittoria che, contro questo fango della nostra natura, consegue la preghiera costante colla grazia che l’accompagna, i cui insegnamenti sono così teneri ed efficaci, come quelli che ricevevamo sul grembo materno. E siccome in codesta scuola senza alcuna fatica e sforzo imparavamo molte cose e molto buone, poiché apprendemmo a pensare ed a parlare, diventammo uomini e Cristiani, perché ivi era un essere caro, la madre, che abbassandosi a noi, si faceva piccina come noi, tutto esponeva come noi, e ci rassomigliava a sé, di maniera che copiammo i suoi modi di pensare e di parlare; similmente nella preghiera è Dio nostro Creatore e Padre che c’istruisce ed educa, e ci trasforma per la seconda volta a sua immagine e somiglianza in qualche cosa di sublime e divino. – La preghiera c’infonde altresì la stessa fiducia nell’esercizio del nostro ministero od in qualsiasi opera di carità a favore del prossimo, la cui perfezione e salvezza è ufficio della grazia e non della natura. È Dio il Signore della grazia; per conseguenza, quanto più intimamente stiamo uniti a Lui, tanto maggior numero di grazie si comunicheranno agli altri per mezzo nostro. Tutto ciò che è esterno e naturale non è che una spada, la quale, per quanto buona, vale ben poco se un forte braccio non l’impugna. Ciò che a Dio ci unisce è molto più poderoso ed efficace di quanto ci unisce agli uomini, perché Iddio può operare cose grandi con spregevoli strumenti; orbene, ciò che ci unisce a Dio è il soprannaturale, la preghiera. Dio esige la preghiera per l’aiuto del nostro prossimo. Dobbiamo convertire il mondo non tanto col lavoro, quanto con la preghiera: la stessa legge che ha valore per noi vale anche pel prossimo; così disponeva Dio per riservarsi l’onore e la gloria, e che non avessimo noi ad insuperbirci attribuendoci ciò che è suo. La preghiera inoltre è un mezzo assai più efficace della predicazione e di qualsiasi altro. Sempre e dovunque si può pregare, e l’efficacia dell’orazione è la più estesa ed universale. Possono poco la parola e la penna; non così la preghiera che si eleva sino a Dio e discende ricolma di frutti di benedizione, spargendo grazie su popoli e nazioni, regioni e secoli. Anche qui la storia della propagazione della fede e della riforma della Chiesa non è altro che la storia della preghiera. Quegli è migliore missionario, migliore cittadino e migliore patriota, che sa meglio pregare. Figli del secolo XX, noi abbiamo occasione di constatarlo. Vediamo dovunque i segni del lavoro più grande, più intenso e direi eccessivo, ma, disgraziatamente, solo materiale; si apprezza e stima unicamente l’attività esterna e naturale, ciò che brilla e fa rumore nel mondo, L’epoca nostra si distingue per una brama insaziabile di beni materiali. E che cosa resta in fine? Tutto passa e noi insieme; soltanto la pietà ha la promessa della vita di adesso e della futura (1. Tim. IV, 8). Prega e lavora, ecco il detto giusto, cristiano e di durata.

3. Lo spirito di preghiera, dunque, è la stima profonda di essa, il convincimento pratico della sua necessità, e la fiducia nella sua forza soggiogatrice. È una delle grazie più preziose della vita spirituale, il principio di tutte, l’introduzione ad ogni bene perfetto, il mezzo per eccellenza. Finché questo spirito dura in noi, Iddio e la virtù avranno la loro sede nell’anima nostra; con esso tutto si può sorreggere e migliorare. Al contrario, senza il medesimo, siamo messaggeri mal sicuri e Dio può fidarsi poco di noi. La maggiore infelicità sarebbe la perdita di questo spirito, poiché l’uomo allora non avrebbe più alcun fondamento né appoggio in Dio, e perirebbe senz’altro. S. Alfonso de’ Liguori, tra i numerosi ed utilissimi libri d’ascetica che scrisse, ne pubblicò uno piccolissimo, ma ch’ei giudicò, giusta la prefazione appostavi, come il più importante ed utile; tanto che osò affermare che, se per ipotesi tutte le sue opere fossero dovuto perire e questa sola si fosse conservata, sarebbe rimasto soddisfatto. È il libriccino che tratta della preghiera. — Ed ecco qui, pertanto, raccolto tutto ciò che riguarda il primo fondamento della vita spirituale; cioè: l’intimo convincimento dell’eccellenza, necessità, efficacia e facilità della preghiera.

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (IV)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (IV)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica; 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

PRIMO PRINCIPIO FONDAMENTALE: LA PREGHIERA (3)

CAPITOLO VIII.

Modelli di preghiera.

Possediamo un gran numero di preghiere vocali belle e degne di venerazione, sia per rispetto al loro contenuto, sia per l’autore, che talvolta non è altri che Dio e la Chiesa. Basta ricordare i Salmi, il Pater noster, l’Ave Maria, le Litanie dei Santi e le preghiere degli Uffici divini. Due parole in particolare sopra ciascuno di questi modelli.

1. I Salmi sono le preghiere più antiche che esistono nella Chiesa, e furono ispirati da Dio medesimo. – Destinati in gran parte al culto ebraico, appartengo altresì alla Chiesa per la loro relazione col Messia, sono preghiera nostra, che, grazie al Tabernacolo, riceve il suo pieno significato e adempimento. – L’oggetto e fondamento di questi sacri cantici, è Dio e l’uomo per i molteplici rapporti che passano fra la creatura ed il Creatore, resi manifesti mediante la rivelazione e la legge, con tutte le annesse benedizioni, speranze e ricompense. In essi ci si presenta Dio ora come Legislatore, come Principe, come Re, Maestà, Creatore e Padre; ora come Messia o Sposo della nostra Chiesa, ora come suo gran Pontefice di stirpe regale, o come Redentore che in mezzo a pene e dolori ci redime; ivi l’uomo stupefatto considera le opere e meraviglie di Dio, gioisce nella legge del Signore, duole delle proprie infedeltà, confessandole e pentendosene; ricorre a Dio per mezzo della preghiera e rendimenti di grazie, e sospira pel di Lui possesso; ivi, in quelle orazioni e in quei canti, trovano il loro posto tutti i sentimenti ed affetti che possono commuovere il cuore dell’uomo: il dolore ed il gaudio, il più profondo desiderio per conseguire misericordia da Dio, il grido di angoscia nelle pene; tutto ivi è perfettamente contenuto, per tutti gli stati d’animo s’incontrano espressioni appropriate. Perciò i Salmi penitenziali, e sopra tutti il Miserere, sono divenuti la preghiera ufficiale di penitenza e la pubblica confessione di tutto il mondo. – Ivi troverà altresì bellezze inarrivabili, nobili ed elevati concetti, chi sente e gusta la poesia. Non è possibile svolgere le pagine del Salterio senza restarne compresi in questo dialogo divino. Lì ci troviamo tutti riuniti, ed è Dio medesimo che ci mette la parola in bocca.

2. Tutto quello che si è detto fin qui si compie ancor meglio nel Pater noster, il cui insigne privilegio è di essere stato pronunciato la prima volta dal Figliuolo di Dio. Possiamo ben dire che da Chi ricevemmo l’essere ricevemmo anche la preghiera; ed Egli medesimo Cui dobbiamo pregare, nella sua bontà c’insegnò il moto e la maniera di farlo. Ma pur prescindendo da ciò è la preghiera più eccellente. È chiara, breve e completa. Se guardiamo alla sua totalità abbraccia tutto quello che appartiene alla preghiera, cioè: l’esortazione, o invocazione e la domanda. L’invocazione: Pater noster, è vera, di sommo onore a Dio, e di grande vantaggio a noi. Infatti; essa ci ricorda la relazione che come tra noi e Dio come Padre, ci risveglia sentimenti consolanti di rispetto, d’amore e di confidenza, e ci richiama la solidarietà nostra con tutto il genere umano, che è la grande famiglia di Dio. Le petizioni poi contengono quanto ci conviene ragionevolmente chiedere, e tutto giusta il retto ordine a cui dobbiamo conformare le nostre suppliche. – Tutte le petizioni del Pater noster si riducono al fine od ai mezzi per conseguirlo. Duplice è il fine: riguardo a Dio, il suo onore e la sua gloria; riguardo a noi, la nostra salvezza ed il conseguimento del Paradiso. – Queste sono le due prime suppliche che comprendono il fine; i mezzi per raggiungerlo si presentano in due serie; in primo luogo sono quelli che si riferiscono ai beni necessari per la vita dell’anima e del corpo, e questi sono compresi nella terza e quarta petizione; in secondo luogo vengono quelli che hanno di mira la fuga dei mali che mettono in pericolo o rendono: difficile il raggiungimento dell’ultimo fine, mali che sono indicati nelle tre ultime petizioni. Non possiamo pensare né desiderare di più; tutto è qui riunito. Così il Pater noster è un perfetto modello di preghiera, pieno di pensieri, di idee e petizioni grandi e sublimi; abbraccia tutta l’esistenza nostra, ciò che v’è di più elevato e di basso, di temporale e d’eterno; ed è, come dicono i santi Padri, un compendio del Vangelo e della religione. Istruisce il nostro intelletto, dirige rettamente la nostra volontà, ed è quello che dà la norma a cui devono conformarsi tutti i nostri desideri, suppliche e preghiere, perché ci accompagnino al cielo. Il Pater noster è anche un sicuro pegno che saremo esauditi, poiché preghiamo colle parole di nostro Signore Gesù Cristo, Sacerdote eterno, il quale prega con noi, e sappiamo che la preghiera sua è sempre esaudita per rispetto dovutogli come a Figlio di Dio. E certamente nessun’altra preghiera ci avvicina tanto alle idee, intenzioni e sentimenti del Salvatore, allo spirito e desiderî suoi, per promuovere l’onore di Dio e la salvezza nostra quanto il Pater noster. È desso una bella ed eloquente espressione dell’amore di Gesù Cristo che tutto abbraccia: Iddio, la Chiesa e l’intera umanità; tutto vi è lì riunito, le necessità individuali, quelle di tutti i popoli e quelle del genere umano di tutti i tempi; è la preghiera, finalmente, della famiglia e regno di Cristo e della Chiesa.

3. L’Ave Maria ci presenta la parte soavissima che nelle nostre preghiere vocali ha la SS.ma Vergine Regina e Signora del Cristianesimo. È una prova, che nella Chiesa non manca la Madre per le cui mani passa tutto, e che i fedeli non vogliono senza di Essa né lavorare, né vivere, né morire. – Anche l’Ave Maria ha un’origine sublime. Un Angelo disceso dal cielo l’adoperò in nome di Dio per salutare Maria come mai creatura umana fu salutata; lo Spirito Santo l’amplificò per mezzo di Santa Elisabetta, e la Chiesa ratificandola con una supplica che vi aggiunse, di semplice saluto dell’angelo, la fece una preghiera perfetta. Dal secolo XVI si prese a recitare l’Ave Maria lai fedeli nella forma presente. Tra i Cristiani suol seguire quasi sempre il Pater noster come in bell’accordo finale d’amore verso la Madre di Dio: e divenne la principale e più cara espressione del culto Mariano. Qualcuno la chiamò, e giustamente, il saluto interminabile, poiché siccome il sole illumina successivamente nel suo corso tutta la terra, così, da un estremo all’altro di essa, si rinnova incessantemente e sale al cielo la preghiera dell’Ave Maria. – Quanto alla sua composizione e contenuto, questa preghiera come qualunque altra consta di due parti: Invocazione e supplica, la prima delle quali comprende cinque titoli di lode per la Madre di Dio. I tre primi li pronunciò l’Angelo e sono intimamente uniti al mistero dell’Incarnazione, che egli Le annunciò. Il primo è la degna preparazione di Maria pel grande mistero, per la pienezza di grazia che Le fu comunicata: il secondo è il mistero stesso dell’Incarnazione che si verificò pel concepimento del Figliuolo di Dio nel seno di Maria, ed il terzo, finalmente, è l’importanza di questo mistero per Maria, in quanto che per esso doveva essere lodata e benedetta sopra tutte le donne. Segue tosto Santa Elisabetta a indicare come fondamento di questa grandezza e pienezza di grazia in Maria il Figlio di Dio che essa ha concepito e darà alla luce; e, finalmente, la Chiesa ripete e conferma quanto l’Angelo ed Elisabetta avevano detto intorno alle grandezze di Maria, condensandole in quella formula sempre memoranda di Madre di Dio. Cosicchè questa gloriosa invocazione contiene tutto quello che la fede c’insegna intorno a Maria, ed è come un compendio della dottrina cattolica circa la SS.ma Vergine. La supplica, classicamente breve, non dimenticando i due grandi momenti, il presente e il punto della morte, comprende tutte l’esistenza nostra, e le nostre necessità, e risulta una splendida manifestazione del concetto che ha il Cristianesimo del potere onnipotente d’intercessione di Maria e della fiducia che in Essa quale Mediatrice della grazia ripongono i fedeli. E con ciò, tuttavia, non è esaurita la parte che l’Ave Maria sostiene come modello di preghiera. Varie combinazioni ed amplificazioni dell’angelico saluto vengono a costituire due generi di preghiera molto importanti: l’Angelus Domini pel quale tre volte al giorno dànno il segnale le campane, ed il Rosario. L’una e l’altra devozione non sono che un intreccio d’Ave Maria con brevi aggiunte che mettono in relazione particolare il significato e contenuto delle parole coi misteri della la vita, passione e glorificazione di Gesù e Maria. Se noi quindi arriviamo a penetrare il profondo significato dell’Ave Maria, e prendiamo l’abitudine di recitarla con devozione, avremo conseguito non poco affine di pregare fervorosamente, nel vantaggio nostro spirituale e nell’onorare la Madre di Dio. Ogni giorno della nostra vita sarà allora un rosaio sempre fiorito nel quale Nostra Signora morrà tutte le sue dilezioni.

Ma, « quella noiosa. onnrimente ed eterna ripetizione! » ci si dirà. Se il ripetere ci annoia e stancamente, ciò dipende unicamente da noi. La frequente vista d’un ritratto di persona a noi cara, il ripetere un nome caro od un bel canto, per sé è la cosa più naturale del mondo e tutt’altro che fastidiosa. Un uccello tutto il santo giorno ripete i medesimi gorgheggi, quand’è che ci Stanca? Un fanciullo, va ripetendo ai suoi genitori le stesse domande, i medesimi nomi, le stesse idee, e, lungi dal rendersi fastidioso,  infonde nel loro cuore la più viva gioia, solo perché procedono dall’amato figlio. Tutto ed unicamente, quindi, dipende dallo spirito ed amore con cui pensano a qualche cosa; e precisamente ciò che produce e mantiene vivo questo spirito e quest’amore è la frequente ripetizione delle medesime idee e verità. e il ritornarvi sopra una e più volte.

4. Altrettanto può dirsi del Credo, del Gloria Patri, e del Segno di croce. La Chiesa cattolica, in tutto, anche nelle sue Preghiere, possiede una forza e varietà di sviluppo e adattabilità sorprendenti, alla maniera che Iddio nello spargere sulla terra tantissime sementi di fiori, ne fa germogliare innumerevoli specie e varietà, così opera in mille modi lo Spirito Santo nel fecondo e bel regno della preghiera. È tale la ricchezza ed abbondanza di varietà che in sé racchiudono le preghiere della Chiesa Cattolica, da poter dire che sono una sorgente inesauribile, che sotto una forma o l’altra rimane sempre ricchissima. Il Gloria Patri ad es. è un’amplificazione delle semplici parole del Segno di croce; ed il Credo, che altro è se non il Gloria ed il segno della croce sviluppati con maggior ampiezza? – Nel Gloria e nel segno di croce si manifestano chiaramente ed apertamente i nomi delle tre divine Persone; e solo analizzando un po’ meglio le loro relazioni, procedenza ed operazioni ad extra. Si presenta già sviluppato nel Credo, alla maniera della Divina Commedia, non solo un perfetto compendio della dottrina della fede, ma ancora un’esposizione sublime. delle opere di Dio e de’ suoi misteri soprannaturali.

5. Diciamo due parole intorno alle preghiere che la Chiesa adopera nei divini uffizi restando con ciò approvate di fatto da essa. Queste preghiere, dopo quelle che furono rivelate da Dio, meritano senza dubbio il primo posto nella nostra stima e venerazione. La Chiesa, che insegna ciò che dobbiamo credere, c’insegna altresì come dobbiamo pregare; e la regola del credere è anche la regola del suo pregare. In nessun’altra parte troveremo preghiere più ricche di significati, né più efficaci; in esse vive veramente lo spirito ed il gusto cristiano e cattolico; v’è in esse, lo stesso che nei Salmi e nell’orazione domenicale, chiarezza, semplicità, brevità ed efficacia. Quando prega la Chiesa prega insieme lo Spirito Santo che la dirige. Chi vuol conoscere l’amore e le cure materne della Chiesa per gli uomini, legga gli Oremus della Messa domenicale e, ad esempio, quelli del Venerdì e Sabato Santo. Non v’è circostanza, condizione o bisogno dell’uomo a cui la Chiesa non porga aiuto, e non v’è nulla che sfugga all’influenza delle sue preghiere, della sua compassione e della sua misericordia. Tutti gli uomini sono suoi figli, e come tali tutti se li stringe al cuore, e per tutti ha una preghiera. – Altra preghiera molto eccellente sono le Litanie principalmente quelle di tutti i Santi. Questa maniera di pregare ci fa rimontare ai primi secoli della Chiesa, quand’essa con rogazioni e suppliche pellegrinava alle tombe dei Martiri ed alle basiliche. Le Litanie dei Santi per la medesima loro struttura e varietà sono la preghiera delle grandi moltitudini: esse ci fanno rivivere, per così dire, nel centro del Cristianesimo; in esse si contengono espressamente le grandi e comuni preghiere della Chiesa, poiché clero e popolo alternando le loro voci elevano al cielo le proprie suppliche: il clero intona le invocazioni, ed il popolo vi aderisce, ripetendole. E ciò ricorda la costituzione gerarchica e divina della Chiesa. Questa invocazione dei Santi è una nota singolarissima dello spirito cattolico che manifesta l’umiltà cristiana e la credenza nella comunione ed intercessione dei Santi, ed anzitutto nella mediazione di nostro Signore Gesù Cristo, il grande ed universale Mediatore, la cui intercessione imploriamo solennemente per i meriti e misteri della sua Passione e della sua vita gloriosa: magnifica confessione della fede cristiana. In questo genere di preghiera tutto è istruttivo, semplice, naturale, grande e veramente cattolico; insomma, questo è un magnifico modello di preghiera popolare. Si potrebbero altresì menzionare le Antifone che ad onore della Vergine la Chiesa aggiunge ai suoi Uffizi nelle diverse epoche dell’anno; fiori di poesia semplice e filiale che sbocciano tutti i mesi nei giardini dell’anno ecclesiastico, e che sono di frequente, come la Salve Regina, meravigliosamente profonde e sublimi.

6. Questi sono alcuni gioielli del tesoro delle orazioni vocali della Chiesa: tesoro veramente grande e magnifico, del quale sono depositari tutti i fedeli che pregano. Molti altri sono sparsi nei libri di devozione. La ricchezza ci ha quasi resi poveri; ed è che l’eccessiva abbondanza porta con sé il pericolo della frivolezza. A dir poco, non vi sembra che sia un po’ strano il dover mettere mano a libri di devozione, perché c’ispirino la preghiera da rivolgersi a Dio? Tuttavia, se proprio non si può da tutti fare a meno, aiutiamoci con essi: poiché vale più il pregare mediante un libro che il non pregare e pregar male. Ma, deh! procuriamo anzitutto di far uso delle antiche ed usuali nostre preghiere apprese e recitate nell’infanzia: il Pater noster, l’Ave Maria, il Credo ed il Gloria Patri. Queste devono essere il nostro libro di divozione: tutto ciò che è stampato nei libri, noi lo troveremo qui molto più chiaro, più pratico e più commovente. Ciò che dovremmo fare, è d’impiegare tutte le nostre forze a renderci famigliari queste preghiere, di studiarle, conoscerle a fondo e comprendere bene tutto il loro valore. Un modo di pregare del tutto privato e personale, è l’uso delle così dette giaculatorie; esse consistono in brevissime aspirazioni ed atti di virtù che lungo il giorno, di quando in quando, e senza previo apparecchio, escono dal cuore e salgono a Dio, ferventi e piene di vita. Differenti motivi possono dar occasione a questi slanci del cuore: un dolore, per es., che ci tormenta, un gaudio inatteso, una grazia straordinaria per parte di Dio, una repentina tentazione, la memoria e rinnovazione dei buoni propositi, la chiusa dell’esame particolare, il passare di fronte ad una chiesa e ad un’immagine devota, l’incontro di persona a cui desideriamo un bene, o d’altra cui vogliamo allontanare È una disgrazia, la cura d’utilizzare gli istanti perduti che abbondano nel giorno, ogni poco d’attenzione che si faccia. Riesce di somma importanza per colui che ama la preghiera, il procurare di rendere produttivo, poco a poco e con quiete questo terreno sterile ed incolto dei momenti perduti, consacrandoli ad essa. Il profitto che se ne ritrae rispetto allo spirito, può compararsi ad un commercio al minuto; nessun negoziante prudente disprezza i piccoli guadagni, perché in fine dei conti lo arricchiscono. Inoltre chi disprezza il poco non è degno del molto. Le giaculatorie sono piccoli granelli, ma d’oro. E si noti che questo modo di pregare non è esposto al pericolo comune delle distrazioni, poiché prima che quelle sopravvengano, le giaculatorie volarono già a Dio, occultandosi negli spazi più elevati del cielo. L’uso moderato di questi affetti oh, mantiene sempre in buona disposizione per pregare. Chi vuol pregare soltanto quando lo esige la necessità, corre pericolo di pregar male. Ciò che è l’esercito delle stelle scintillanti nel cielo, lo divengono queste giaculatorie che abbelliscono il giorno della nostra vita, e sono quelle cui è riservato l’ufficio di consolarci nella notte non lontana in cui dovremo lasciare questo mondo.