UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO IX – “GRAVIBUS ECCLESIÆ”

In questa lettera di S. S. Pio IX, viene bandito un anno giubilare, anno di grazie e di indulgenze da lucrare per i fedeli vivi, che possono ottenere perdono per i propri peccati, e per i defunti, che possono vedersi ridotto da chi per essi acquista le indulgenze, il tempo della loro espiazione prima di accedere alla eterna beatitudine. Erano tempi difficili per la Chiesa, ma c’era la consolazione di avere un Santo Padre che si affannava per la salute dell’anima dei fedeli di tutto il mondo. Oggi che abbiamo dei burattini massonici ad occupare fraudolentemente la santa Sede e la Cattedra di S. Pietro, mentre la vera Chiesa è eclissata ed il Papa, Vicario di Cristo, impedito e costretto all’ “inerzia” domiciliare, questa consolazione non l’abbiamo più, canonicamente parlando (i falsi papi-marionetta proclamano falsi anni santi per i settari della falsa chiesa-sinagoga dell’uomo). Ma anche questa è volontà di Dio che all’occorrenza si serve degli angelos malos (Ps LXXVII, 49) per punire il suo popolo ed i suoi ministri infedeli, sordi alla voce di Dio e lungi dall’osservare un fervente culto divino, e riportarli così sulla retta via della salvezza … Ma la grazia può esserci data dallo Spirito Santo – se impediti – anche in altro modo, come dice espressamente l’Angelico Dottore, se siamo fermamente adesi alla fede apostolica ed in comunione – anche solo di desiderio – col vero Santo Padre, condicio sine qua non per giungere alla beata vita eterna. Oggi non abbiamo anni giubilari validamente banditi dal Santo Padre impedito, ma la nostra pazienza, la nostra caparbia resistenza agli errori-orrori propinati da falsi chierici e ai perversi costumi del secolo pagano e corrotto, può farci guadagnare una serie infinita di grazie e di meriti spirituali. Godiamoci questa bella e santa lettera Enciclica, ma conserviamo la nostra piena fiducia ed osservanza nella parola del Verbo incarnato e del Magistero infallibile ed irreformabile della vera Chiesa Cattolica, aspettando con gioia il martirio, a Dio piacendo, anche se questa è una grazia veramente speciale e non concessa a tutti.


Pio IX
Gravibus Ecclesiæ

Mossi dalle gravi calamità della Chiesa e di questo secolo, nonché dalla necessità d’implorare l’aiuto divino, giammai omettemmo nel tempo del Nostro Pontificato di eccitare il popolo cristiano, affinché si sforzasse di placare la Maestà di Dio e di meritare la clemenza celeste con i santi costumi della vita, con le opere della penitenza e con le pie e doverose suppliche della preghiera. A questo scopo aprimmo più volte ai fedeli, con apostolica liberalità, i tesori spirituali delle indulgenze, affinché, stimolati alla vera penitenza e purgati, per il Sacramento della riconciliazione, dalle macchie dei peccati, potessero più fiduciosi appressarsi al trono della grazia, ed essere fatti degni che le loro preghiere venissero benignamente ricevute da Dio. Questo poi, come altre volte, così specialmente pensammo doversi compiere da Noi in occasione del Concilio Ecumenico Vaticano, affinché l’opera importantissima intrapresa per l’utilità della Chiesa universale, con le preghiere parimenti di tutta la Chiesa venisse accolta favorevolmente presso l’Altissimo; e quantunque rimanga sospesa, per la calamità dei tempi, la celebrazione dello stesso Concilio, tuttavia facemmo noto e dichiarammo, a beneficio del popolo fedele, che l’indulgenza da conseguirsi in forma di Giubileo, promulgata in quella occasione, rimaneva, come rimane tuttora, in tutta la sua forza, fermezza e vigore. Senonché, proseguendo ancora il corso di tristissimi tempi, incomincia già l’anno 1875 dell’era cristiana, l’anno cioè che segna quel sacro spazio di tempo, che la santa consuetudine dei Nostri Maggiori e le disposizioni dei Pontefici Nostri Predecessori consacrarono a celebrare la solennità del Giubileo universale. Con quanto rispetto e religione sia stato praticato l’anno del Giubileo, quando i tranquilli tempi della Chiesa permisero di celebrarlo con ogni solennità, lo attestano gli antichi ed i recenti monumenti della storia. Esso, infatti, fu sempre considerato come l’anno della salutare espiazione di tutto il popolo cristiano, come l’anno della redenzione e della grazia, della remissione e dell’indulgenza, nel quale si concorreva da tutto il mondo in quest’alma Nostra Città e Sede di Pietro, e a tutti i fedeli, eccitati ad opere di pietà, si offrivano abbondantissimi aiuti di riconciliazione e di grazia per la salute delle anime. Quale pia e santa solennità fu vista nello stesso nostro secolo, quando cioè, essendo stato indetto da Leone XII, Predecessore Nostro di felice memoria, il Giubileo nell’anno 1825, questo beneficio, fu ricevuto con tanto fervore dal popolo cristiano al punto che lo stesso Pontefice poté rallegrarsi di aver visto per tutto il corso dell’anno un ininterrotto concorso di pellegrini in questa Città, nella quale si era meravigliosamente manifestato lo splendore della religione, della pietà, della fede, dell’amore e di tutte le virtù. Oh, fosse pur tale oggi la Nostra condizione, e la condizione delle cose civili e sacre Ci permettesse di poter felicemente celebrare, secondo l’antico rito e costume, che solevano osservare i Nostri Maggiori, quella solennità del massimo Giubileo che, ricorrendo nell’anno 1850 di questo secolo, Ci fu necessario omettere per le luttuose circostanze dei tempi! Ma quelle gravi cause che allora C’impedirono d’indire il Giubileo, anziché essere oggi cessate, si sono invece, così permettendo Iddio, giornalmente accresciute. – Tuttavia, vedendo Noi i tanti mali che affliggono la Chiesa, i tanti sforzi dei suoi nemici diretti a svellere dagli animi la fede in Cristo, a corrompere la sana dottrina, e a propagare il veleno dell’empietà, i tanti scandali che si offrono ovunque ai veri credenti, la corruzione dei costumi che spaziosamente si propaga, e la turpe manomissione dei diritti divini ed umani tanto ampiamente diffusa, tanto feconda di rovine, e che tende a distruggere nell’animo degli uomini lo stesso senso del retto; considerando che in tanta colluvie di mali maggiormente Noi dobbiamo procurare, secondo il Nostro Apostolico dovere, che la fede, la religione e la pietà siano premunite e si ravvivino, che lo spirito della preghiera sia sostenuto e si accresca, che i traviati siano eccitati alla penitenza del cuore e alla emendazione dei costumi, che i peccati, i quali meritarono l’ira di Dio, siano redenti con sante operazioni, frutti tutti, al conseguimento dei quali è principalmente diretta la celebrazione del massimo Giubileo: pensammo di non dovere Noi permettere che in questa occasione il popolo cristiano fosse privato di questo salutare beneficio, secondo quella forma che è permessa dalla condizione dei tempi, affinché così confortato nello spirito cammini più alacremente nelle vie della giustizia, e purgato dalle colpe consegua più facilmente e più ubertosamente la divina propiziazione ed il perdono. Riceva dunque la Chiesa di Cristo universale e militante le Nostre voci, con le quali indiciamo, annunciamo e promulghiamo per tutto il prossimo anno 1875 l’universale e massimo Giubileo. In funzione ed in considerazione di esso sospendiamo e dichiariamo sospesa, a beneplacito Nostro e di questa Sede Apostolica, la indulgenza sopra ricordata, concessa in forma di Giubileo in occasione del Concilio Vaticano, e apriamo in tutta la sua ampiezza quel celeste tesoro che, formato dai meriti, dalle passioni e dalla virtù di Cristo Signore, e della di Lui Vergine Madre, e di tutti i Santi, venne dall’Autore dell’umana salvezza affidato alla Nostra dispensazione. – Pertanto, confidando nella misericordia di Dio e nella autorità dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, in forza di quella suprema potestà di legare e di sciogliere che Iddio volle conferita a Noi, quantunque immeritevoli, concediamo e misericordiosamente impartiamo nel Signore, a tutti e singoli i fedeli di Cristo tanto dimoranti in questa Nostra alma Città, o che saranno per venire in essa, quanto a tutti quelli esistenti fuori della detta Città, in qualunque parte del mondo, e che si trovano nella grazia e nell’obbedienza della Sede Apostolica, i quali (veramente pentiti, confessati e comunicati, una volta al giorno per quindici giorni continui, o interpolati, naturali o ecclesiastici, da computarsi cioè dai primi vespri di un giorno fino all’intero vespertino crepuscolo del giorno seguente) visiteranno i primi le Basiliche dei Santi Pietro e Paolo, di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore in Roma, e i secondi la loro Chiesa Cattedrale, o maggiore, e altre tre Chiese della stessa città o luogo, ovvero dei suburbi del medesimo, da designarsi dagli Ordinari dei luoghi, o dai loro Vicari, o da altri per disposizione dei medesimi, dopo che sarà venuta loro a notizia questa Nostra lettera, ed ivi innalzeranno umili preghiere al Signore per la prosperità e l’esaltazione della Chiesa Cattolica e di questa Sede Apostolica, per l’estirpazione delle eresie, per la conversione di tutti gli erranti, per la pace e l’unità di tutto il Popolo Cristiano, secondo la Nostra mente, [concediamo] che una volta nell’annuo spazio di tempo sopra detto possano conseguire la pienissima indulgenza dell’anno del Giubileo, e la piena remissione e il perdono di tutti i loro peccati. Concediamo che tale indulgenza possa anche essere applicata come suffragio e valga per quelle anime che congiunte a Dio per carità partirono da questa vita. – In virtù poi della presente Nostra lettera concediamo che i naviganti ed i viaggiatori, quando avranno fatto ritorno ai loro domicilii, o saranno giunti ad una certa dimora, compiute le opere sopra prescritte, e visitata altrettante volte la Chiesa Cattedrale, o maggiore, o Parrocchiale del luogo del loro domicilio o dimora, possano e siano abili a conseguire la stessa indulgenza. Parimenti concediamo ai sopraddetti Ordinari dei luoghi che possano, secondo il prudente loro consiglio, dispensare, solamente per quanto si riferisce alle visite, le monache oblate, le fanciulle e le donne viventi nella clausura dei monasteri, o in altre case religiose o pie, e comunità, nonché gli anacoreti e gli eremiti, ed altre persone qualunque esse siano, tanto laiche che ecclesiastiche, o regolari, esistenti in carcere, o in cattività, o affette da qualche infermità del corpo, o trattenute da qualunque altro impedimento, purché siano assolutamente impossibilitate a compiere le dette visite; concediamo che i fanciulli non ancora ammessi alla prima Comunione siano dispensati dalla predetta Comunione, prescrivendo ad essi tutti e singoli, sia da loro stessi sia per mezzo dei rispettivi superiori o prelati regolari, o per mezzo di prudenti confessori, altre opere di pietà, carità e religione in luogo delle visite, o della sacramentale Comunione che dovrebbe compiersi dai medesimi. Inoltre, ai Capitoli e alle Congregazioni tanto di secolari che di regolari, ai Sodalizi, alle Confraternite, alle Università che visiteranno processionalmente le nominate Chiese, concediamo che possano ridurre le prescritte visite ad un numero minore. – Inoltre, alle stesse monache e alle loro novizie concediamo che possano a questo effetto scegliersi qualunque confessore fra quelli approvati dall’attuale Ordinario del luogo ove si trovano i loro monasteri per ascoltare le confessioni delle monache; e a tutti e singoli gli altri fedeli di ambedue i sessi sia laici sia ecclesiastici, e ai regolari di qualunque Ordine, Congregazione e Istituto da doversi ancora specialmente nominare, concediamo licenza e facoltà di potersi al medesimo effetto scegliere qualunque Sacerdote confessore tanto secolare, quanto regolare, di qualunque diverso Ordine e Istituto, e parimenti approvato per ascoltare le confessioni delle persone secolari dagli attuali Ordinari nelle città, diocesi e territori nei quali si dovranno ricevere le dette confessioni. Tali confessori, entro lo spazio dell’anno sopra nominato, potranno assolvere coloro che sinceramente e seriamente avranno deciso di lucrare il presente Giubileo e con questo intento compiranno le opere necessarie e si confesseranno; potranno assolverli dalla scomunica, dalla sospensione e da altre sentenze ecclesiastiche e censure comminate ed inflitte a jure vel ab homine per qualunque causa, anche se riservata agli Ordinari dei luoghi, a Noi o alla Santa Sede Apostolica, compresi i casi in modo speciale riservati a chiunque, al Sommo Pontefice, alla Sede Apostolica, e che altrimenti in qualunque concessione, quantunque ampia, non s’intenderebbero concessi; parimenti potranno i detti confessori assolvere i nominati penitenti da tutti i peccati ed eccessi, per quanto gravi ed enormi anche, come si dice, riservati agli stessi Ordinari e a Noi e alla Sede Apostolica, ancorché siano ingiunte ad essi una penitenza salutare, ed altre cose da comminarsi per diritto. Inoltre, potranno commutare in altre opere pie e salutari qualunque voto, anche giurato e riservato alla Sede Apostolica (eccettuati però sempre i voti di castità, di religione e di obbligazione che sia stata accettata da un terzo, o nei quali si tratti del pregiudizio di un terzo, nonché i voti penali che chiamansi preservativi dal peccato, seppure la commutazione non si giudichi tale che non meno della prima materia del voto allontani dal commettere il peccato). Inoltre, con la stessa autorità ed ampiezza della benignità apostolica concediamo e permettiamo che possano dispensare quei penitenti, anche regolari costituiti negli Ordini sacri, dall’occulta irregolarità per l’esercizio dei medesimi Ordini, e per ascendere agli altri superiori, contratta solamente per la violazione delle censure. – Non intendiamo poi, in forza della presente, dispensare da qualunque altra irregolarità, pubblica od occulta, o difetto, o nota, o da qualunque altra incapacità o inabilità in qualunque maniera contratta, o concedere una qualche facoltà di dispensare dalle medesime, o riabilitare, e restituire nello stato primiero, anche nel foro della coscienza; né ancora intendiamo derogare alla Costituzione, con le opportune dichiarazioni, emanata da Benedetto XIV, Nostro Predecessore di felice memoria, che incomincia Sacramentum Poenitentiæ, dell’1 giugno 1741, anno primo del suo Pontificato. Né infine intendiamo che questa stessa Nostra lettera possa o debba giovare a quelli che da Noi e dalla Sede Apostolica, o da qualunque altro Prelato o Giudice ecclesiastico fossero stati nominativamente scomunicati, sospesi, interdetti, o dichiarati caduti in altre sentenze e censure, o pubblicamente denunziati, se entro il termine del predetto anno non avranno soddisfatto e concordato, ove occorra, con le parti. – Del resto, se alcuni con il proposito di conseguire questo Giubileo dopo aver incominciato l’adempimento delle opere prescritte, colpiti dalla morte, non potranno compiere il prestabilito numero di visite, Noi, desiderando giovare alla loro pia e pronta volontà, vogliamo che i medesimi veramente pentiti, confessati e comunicati siano partecipi della predetta indulgenza e remissione come se avessero nei prescritti giorni realmente visitato le predette Chiese. – Se alcuni poi dopo avere ottenuto, in forza della presente, le assoluzioni dalle censure o le commutazioni dei voti, o le dispense predette, muteranno quel serio e sincero proposito di lucrare questo Giubileo e perciò di compiere le opere necessarie per lucrarlo, quantunque per questo stesso possano reputarsi immuni dal reato di colpa, tuttavia decretiamo e dichiariamo persistere nel loro vigore le assoluzioni, commutazioni e dispense ottenute con la predetta disposizione. – Vogliamo ancora e decretiamo che la presente lettera sia valida ed efficace in tutto ed abbia ed ottenga i suoi pieni effetti dovunque sarà stata dagli Ordinari dei luoghi pubblicata e mandata in esecuzione, e che giovi a tutti i fedeli di Cristo persistenti nella grazia ed obbedienza della Sede Apostolica che dimorano in detti luoghi, o che ivi si porteranno dopo la navigazione ed il viaggio: nonostante le Costituzioni delle indulgenze da non concedersi ad instar e le altre Costituzioni Apostoliche, e le Costituzioni, Ordinazioni e le generali o speciali riserve di assoluzioni, concessioni e dispense edite nei Concili generali, provinciali e sinodali, nonché gli statuti, le leggi, gli usi e le consuetudini di qualunque Ordine di Mendicanti, e Militari, Congregazione e Istituto, corroborati anche da giuramento, apostolica conferma, e da qualunque altro sostegno, come ancora i privilegi, gl’indulti e le lettere apostoliche ai medesimi concesse, e quelle specialmente nelle quali è espressamente proibito che i professi di qualche Ordine, Congregazione e Istituto confessino i loro peccati fuori della propria religione. Alle quali cose tutte e singole, quantunque per la loro sufficiente derogazione, di esse e di tutto il loro tenore si dovesse fare speciale, specifica, espressa e individua menzione, e a ciò si dovesse riservare qualche speciale forma, avendo tal tenore per inserito, e tali forme per esattissimamente osservate, per questa volta e soltanto per l’effetto sopraccennato, pienamente deroghiamo come anche deroghiamo a qualunque altra cosa in contrario. – Mentre poi, per l’ufficio Apostolico che esercitiamo e per la sollecitudine con la quale dobbiamo abbracciare tutto il gregge di Cristo, proponiamo questa salutare opportunità di conseguire la remissione e la grazia, non possiamo astenerci dal pregare e scongiurare per il nome del Signor Nostro e Principe di tutti i Pastori Gesù Cristo, tutti i Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e gli altri Ordinari dei luoghi, i Prelati, e coloro che legittimamente esercitano locale ordinaria giurisdizione in mancanza dei Vescovi e Prelati sopraddetti, aventi grazia e comunione con la Sede Apostolica, affinché annuncino un tanto bene ai popoli affidati alla loro fede, e con ogni studio s’impegnino affinché i fedeli tutti, riconciliati per la penitenza con Dio, convertano in lucro ed utilità delle loro anime la grazia del Giubileo. Pertanto sarà vostra prima cura, Venerabili Fratelli, dopo avere implorato con pubbliche preghiere la Divina Clemenza allo scopo che riempia della sua luce e della sua grazia le menti e i cuori di tutti, dirigere con opportune istruzioni e ammonizioni il popolo cristiano onde percepisca il frutto del Giubileo, e perché accuratamente intenda quali siano la forza e la natura del Giubileo cristiano per l’utilità e il vantaggio delle anime; in esso con una spirituale ragione si compiono abbondantissimamente, per la virtù di Cristo Signore, quei beni che una vecchia legge aveva introdotto presso il popolo giudaico, annunciatrice delle cose future ogni cinquant’anni. Ciò, affinché il popolo sia anche sufficientemente istruito intorno alla forza delle Indulgenze e su tutte quelle cose che deve compiere per la fruttuosa confessione dei peccati, e per ricevere santamente il Sacramento dell’Eucaristia. Poiché, poi, non solo l’esempio, ma è assolutamente necessaria l’opera del ministero ecclesiastico onde si abbiano nel popolo i frutti della desiderata santificazione, non omettete, Venerabili Fratelli, di eccitare lo zelo dei vostri sacerdoti perché specialmente in questo tempo di salute vogliano alacremente esercitare il loro ministero: al che, e per il bene comune, conferirà certo molto, ove questo possa farsi, se essi precedendo il popolo cristiano con l’esempio della pietà e della religione vorranno per mezzo degli esercizi spirituali rinnovare lo spirito della loro santa vocazione, affinché poi s’impieghino più utilmente e più salutevolmente nel disimpegno dei propri uffici e nelle sacre Missioni da espletare presso i popoli secondo l’ordine ed il metodo da voi prescritto. – Siccome poi tanti sono in questo secolo i mali che hanno bisogno di essere riparati, e i beni che abbisognano d’essere promossi, brandendo la spada dello spirito, che è la parola di Dio, ponete ogni cura perché il vostro popolo venga indotto a detestare l’immane delitto della bestemmia, secondo il quale in questo tempo nulla è così sacro da meritare rispetto, e perché conosca ed adempia i suoi doveri nell’osservare santamente i giorni festivi, nel rispettare le leggi del digiuno e dell’astinenza da osservarsi secondo il prescritto della Chiesa di Dio, e così evitare quelle pene che il disprezzo di tali cose ha chiamato sulla terra. – Parimenti il vostro studio e il vostro zelo veglino costantemente nel mantenere la disciplina del clero, e nel procurare la retta formazione dei chierici; con ogni maniera possibile recate aiuto alla assediata gioventù, la quale si trova esposta a tanti pericoli e a tante gravi rovine quali voi certamente non ignorate. Questo genere di male fu così acerbo al cuore dello stesso Redentore Divino da fargli proferire contro gli autori del medesimo quelle parole: “Chiunque avrà scandalizzato uno di questi fanciulli che hanno fede in me, meglio sarebbe per lui che gli fosse circondato il collo con una mole asinaria, e fosse gettato nel mare” (Mc IX,41). – Niente poi è più degno del tempo del sacro Giubileo quanto esercitarsi indefessamente in ogni opera di carità; sarà perciò anche ufficio del vostro zelo, Venerabili Fratelli, aggiungere stimoli, perché siano aiutati i poveri, i peccati siano redenti con le elemosine, alle quali nelle Sante Scritture si attribuiscono tanti benefici: e perché più ampiamente rimanga il frutto della carità, e riesca più stabile, sarà molto opportuno che i sussidi della carità siano diretti a fomentare o eccitare quei pii Istituti che sono stimati in questo tempo più idonei alla utilità delle anime e dei corpi. Se per conseguire questi beni, si uniranno le vostre menti ed i vostri sforzi, non potrà mancare che il regno di Cristo e la sua giustizia ricevano grandi incrementi, e che in questo tempo favorevole e in questi giorni di salute la celeste clemenza non diffonda sopra i figli dell’amore grande quantità di doni superni. – A voi infine, Figli tutti della Chiesa cattolica, rivolgiamo il Nostro discorso; e voi tutti e singoli esortiamo con paterno affetto perché così vi serviate di questa occasione di Giubileo per conseguire il perdono, come da voi richiede il severo studio della vostra salvezza. Se lo è sempre, ora poi è necessarissimo, Figli dilettissimi, mondare la coscienza dalle opere morte, offrire i sacrifici di giustizia, fare frutti degni della penitenza, e seminare nelle lacrime per mietere nell’esultanza. La divina Maestà a sufficienza ci fa noto cosa ricerchi da noi, mentre già da gran tempo per la nostra pravità ci affatichiamo sotto le sue minacce e sotto l’ispirazione dello spirito dell’ira sua. In verità “gli uomini sono soliti ogni volta in cui patiscono una troppo ardua necessità, mandare dei legati alle genti vicine per riportarne un soccorso. Noi, ciò che è meglio, destiniamo una delegazione allo stesso Dio“; da Lui imploriamo gli aiuti, a Lui rivolgiamoci col cuore, con le orazioni, con i digiuni e con le elemosine. Infatti, “quanto più saremo vicini a Dio, tanto più lontani da noi saranno respinti i nostri avversari“. Ma poiché siamo Noi i legati di Cristo, voi ascoltate principalmente la voce apostolica: voi che siete travagliati e preoccupati; allontanandovi dalla strada della salvezza rimanete oppressi dal giogo delle prave cupidigie e della diabolica servitù. Non vogliate disprezzare le ricchezze della bontà, della pazienza e della longanimità di Dio; e mentre vi si apre davanti una via così facile ed ampia per conseguire il perdono, non vogliate per la vostra contumacia rendervi inescusabili presso il Divino Giudice, e accumulare su di voi l’ira nel giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio. Ritornate pertanto, o peccatori, al cuore; riconciliatevi con Dio; il mondo passa, e con esso la sua concupiscenza; rigettate le opere delle tenebre, indossate le armi della luce, cessate di essere nemici delle anime vostre, onde meritare finalmente la pace in questo secolo, e nell’altro i premi eterni dei giusti. Questi sono i Nostri voti; queste cose non cesseremo di chiedere al clementissimo Signore, e questi stessi beni, congiunti a Noi tutti i figli della Chiesa Cattolica in una società di preghiere, confidiamo potere abbondantemente conseguire dal Padre delle Misericordie. – Frattanto per il fausto e salutare frutto di questa santa opera sia auspice di ogni grazia, e di ogni celeste dono, l’Apostolica Benedizione che a voi tutti, Venerabili Fratelli, e a voi, diletti Figli, quanti siete annoverati nella Chiesa Cattolica, dall’intimo del Nostro cuore affettuosamente concediamo nel Signore.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 dicembre 1874, anno ventinovesimo del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII “SÆPE NOS”

Il Santo Padre Leone XIII, in questa breve Enciclica, richiama il popolo cattolico irlandese, coinvolto in burrascose vicende politiche e sociali, a moderare gli animi verso i nemici della Chiesa, senza venire mai meno né ai doveri civili verso le autorità né alle esigenze della carità verso i fratelli. Parole quanto mai opportune oggi, tempo di animosità e ribellioni sociali e personali verso ogni autorità e soprattutto di quella somma Autorità divina che tutto regola secondo perfetti meccanismi ove somma si manifesta la legge della carità. Meditiamo queste espressioni di pace e di carità cristiana, espressioni che sono le medesime impiegate dal Maestro divino e dai suoi Apostoli, ripetute da tutti i suoi Vicari in terra attraverso il Magistero infallibile ed irreformabile della vera Chiesa Cattolica, contestato appunto da tutti i facinorosi adepti alle conventicole demoniache che agiscono nell’ambito sociale, politico e pseudo-religioso ben camuffati da filantropi ipocriti e lupi ingannatori in talare, pronti a sbranare le malcapitate pecorelle erranti che pensavano di affidarsi a loro per salvarsi dalla rovina del corpo e dell’anima. Seguiamo il “vero” Santo Padre, anche solo di desiderio, fortifichiamoci nella fede, studiamo giorno e notte la dottrina della Chiesa di sempre, rifuggiamo dai novatori modernisti del “novus ordo” e da chi non si introduce nell’ovile per la porta, come i falsi religiosi senza autorità, senza missione né giurisdizione canonica, i ladri e briganti del cavaliere kadosh, i sedevacantisti ed i vari cani sciolti autoreferenziati… Che la Vergine Maria, Madre di Dio, schiacci quanto prima la testa di cobra, bungari, crotali e vipere di tante specie che numerosi cercano di avvelenare coi loro morsi fatali tante ignare anime riscattate con il Sangue preziosissimo di Nostro Signore Gesù Cristo versato sulla croce.

Leone XIII
Sæpe Nos

Lettera Enciclica

Spesso, dall’atto di questo Apostolico ufficio, Noi abbiamo dedicato attenzioni e riflessioni ai vostri concittadini Cattolici: più di una volta abbiamo espresso il nostro proposito con pubbliche lettere, nelle quali è manifesto ad ognuno, senza alcun dubbio, da quali sentimenti siamo animati verso l’Irlanda. Oltre i decreti che negli anni precedenti la Sacra Congregazione di Propaganda Fide promulgò a nome Nostro sulle questioni irlandesi, parlano abbastanza chiaro le lettere che a più riprese abbiamo inviato al Nostro Venerabile Fratello Cardinale Mac-Cabe, Arcivescovo di Dublino; lo stesso si dica del discorso che abbiamo recentemente rivolto a molti cattolici della vostra nazione, dai quali abbiamo ricevuto non solo felicitazioni e voti per la Nostra salute, ma anche espressioni di gratitudine per la Nostra buona disposizione verso gli Irlandesi. Anche in questi ultimi mesi, quando si decise di innalzare in questa alma Città un tempio in onore di Patrizio, grande Apostolo degli Irlandesi, Noi abbiamo incoraggiato questo proposito con tutto il fervore dell’anima e ne favoriremo il compimento secondo le Nostre forze. – Ora, mentre perdura in Noi questo stesso paterno affetto, non possiamo tuttavia nascondere la profonda angoscia che Ci proviene dalle recenti vicende di costà. Ci riferiamo a quella inattesa concitazione degli animi, sorta all’improvviso in seguito al decreto del Santo Ufficio che nella lotta contro i nemici della Chiesa proibisce di usare quel metodo che si chiama piano di campagna e boicottaggio a cui molti avevano cominciato a far ricorso. – Ed è ancor più deplorevole il fatto che siano in gran numero coloro che si ostinano a radunare il popolo in tumultuose assemblee nelle quali si diffondono sconsiderate e pericolose opinioni, senza rispetto per l’autorità del decreto che viene travisato con fallaci interpretazioni, molto lontane dal fine cui esso realmente tende. Anzi, negano perfino che da esso derivi l’obbligo dell’obbedienza, come se la missione vera e propria della Chiesa non fosse quella di giudicare della onestà e della malvagità delle azioni umane. Un tal modo di agire si allontana parecchio dalla professione del nome Cristiano, di cui senza dubbio sono compagne le virtù della moderazione, del pudore, dell’obbedienza verso il potere legittimo. Inoltre non conviene, in una buona causa, dare l’impressione di imitare quegli uomini che pretendono di ottenere con le agitazioni ciò che chiedono senza alcun diritto. E ciò è tanto più grave in quanto Noi abbiamo esaminato con cura ogni questione per poter conoscere a fondo e senza errore la vostra situazione e i motivi delle proteste popolari. Abbiamo informatori degni di fede; abbiamo personalmente interrogato voi stessi e inoltre, lo scorso anno, Noi vi abbiamo inviato come Legato un uomo apprezzato e serio con l’incarico di ricercare con la massima diligenza la verità e di riferirla fedelmente a Noi. Per questo nostro zelo il popolo Irlandese volle renderci pubblici ringraziamenti. Non è dunque avventato chi afferma che Noi abbiamo giudicato senza un’adeguata cognizione di causa? Tanto più che abbiamo riprovato azioni che gli uomini onesti concordemente condannano, cioè tutti coloro che non sono coinvolti in codesta vostra contesa e quindi possono esaminare i fatti con più sereno giudizio. – È del pari offensivo il sospetto che la causa dell’Irlanda non Ci stia debitamente a cuore e che non Ci preoccupiamo abbastanza della condizione del vostro popolo. Al contrario, la sorte degli Irlandesi Ci colpisce assai più di chiunque altro, e nulla desideriamo maggiormente che di vederli sereni, dopo aver conseguito la pace e la prosperità dovuta e meritata. Ad essi Noi non abbiamo mai contestato il diritto di battersi per una vita migliore, ma si può sopportare che nella contesa si dia adito ai delitti? Anzi, proprio perché nell’irrompere delle passioni e degli interessi delle fazioni politiche, il lecito e l’illecito si trovano rimescolati nella stessa causa, Noi ci siamo sempre preoccupati di distinguere ciò che è onesto dal disonesto, e di distogliere i Cattolici da tutto ciò che la morale cristiana non approvava. Perciò con tempestivi suggerimenti abbiamo raccomandato agli Irlandesi di ricordare la loro fede cattolica, di non fare mai nulla che contrastasse con la normale onestà e che non fosse consentito dalla legge divina. Pertanto il recente decreto non deve essere giunto inatteso, tanto più che Voi stessi, Venerabili Fratelli, riuniti a Dublino nel 1881, avete raccomandato al Clero e al popolo di evitare ogni atto contrario all’ordine pubblico e alla carità; di non insistere nel negare a chi di diritto la restituzione di ciò che gli è dovuto; di guardarsi dal far violenza alle persone o ai beni di chicchessia o di opporre la forza alle leggi, o anche a coloro che ricoprono un incarico pubblico; di non aggregarsi in associazioni clandestine o in altre dello stesso genere. Queste raccomandazioni, ispirate a giustizia e del tutto opportune, hanno ottenuto i Nostri elogi e la Nostra approvazione. – Tuttavia, dato che il popolo era travolto e sconvolto da inveterato ardore di passioni, né mancavano coloro che ogni giorno suscitavano nuove fiammate, abbiamo compreso che occorreva formulare precetti più definiti di quelli di carattere generale che in precedenza avevamo ricordato a proposito di giustizia e di carità. Il Nostro ufficio ci proibiva di tollerare che tanti Cattolici, la cui salvezza è anzi tutto affidata a Noi, continuassero a percorrere una via lubrica e precipitosa che conduceva alla sovversione più che a un lenimento delle miserie. Occorre dunque la situazione secondo verità: l’Irlanda riconosca in quel decreto il Nostro animo ricolmo d’amore per essa e concorde nel desiderio di prosperità, poiché una causa, per quanto giusta essa sia, non incontra mai tanti ostacoli come quando è difesa con la forza e con gli oltraggi. – L’Irlanda apprenda, grazie al vostro magistero, Venerabili Fratelli, ciò che vi abbiamo scritto. Noi abbiamo fiducia che Voi, uniti, come è necessario, da idee e volontà comuni, e sorretti non solo dalla vostra ma anche dalla Nostra autorità, conseguirete i migliori risultati e specialmente quello di impedire che le tenebre delle passioni offuschino ancora la facoltà di distinguere il vero e soprattutto che i sobillatori del popolo si pentano di aver agito in modo temerario. Siccome sono molti coloro che sembrano cercare pretesti per sfuggire ai doveri, anche i più elementari, fate in modo di non concedere spazio all’ambiguità circa l’efficacia di quel decreto. Comprendano tutti che non è assolutamente lecito adottare una linea di condotta che Noi abbiamo interdetta. Cerchino tutti, onestamente, beni onesti, e soprattutto, come si addice ai Cristiani, serbando intatte la giustizia e l’obbedienza alla Sede Apostolica: in queste virtù l’Irlanda ha trovato in ogni tempo conforto e forza d’animo. – Frattanto, come auspicio di celesti doni e come testimonianza del Nostro affetto, a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero e al popolo Irlandese, con grande amore nel Signore impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 giugno 1888, nell’anno undicesimo del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII “GRANDE MUNUS”

Questa bella lettera Enciclica è dedicata al culto dei Santi fratelli Cirillo e Metodio: vengono ricordate le gloriose vicende umane dei Santi slavi ed il culto viene reso universale nella santa Chiesa Cattolica. In particolare viene sottolineato il massimo rispetto mostrato dai Santi fratelli, nei confronti della Sede Apostolica alla quale riferivano costantemente la loro indefessa opera in favore della conversione e dell’adesione dei popoli slavi all’unità della Chiesa di Cristo. Esempio questo di vero e santo ecumenismo che consiste appunto nel raccogliere tutto il gregge di Cristo in un’unico ovile e sotto un unico Pastore, ben diversamente dall’apostasia della falsa chiesa-sinagoga dell’uomo del Vat. II che ha trasformato questo santo concetto, nell’accoglienza e mescolanza acritica di tutte le pseudo-fedi e di tutte le false religioni demoniache in un unico sincretismo (meglio il neologismo sincretinismo), calderone e confusione di idee, di cosmogonie strampalate. stralunate teologie e fantasie infernali di ogni genere … pachamama docet… Il demonio si è impadronito ormai di tutto l’orbe terrestre e la Chiesa di Cristo sembra soccombere, ma noi sappiamo che le forze del male – compresi i falsi profeti del Novus (dis)Ordo, gli eretici fallibilisti lefebvriani e i sedevacantisti scismatici – non praevalebunt. Quindi in tutta serenità noi, pusillus grex, ci godiamo questa “chicca” magisteriale e celebriamo la santità dei santi fratelli slavi invocandone l’intervento che riporti tante nazioni traviate dall’errore panteista, nella pace della Chiesa di Cristo.

GRANDE MUNUS

LETTERA ENCICLICA
DI SUA SANTITÀ
LEONE PP. XIII

A tutti i Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati,
Arcivescovi e Vescovi del mondo cattolico
che hanno grazia e comunione con la Sede Apostolica.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Il grande compito di diffondere il nome cristiano, affidato in modo particolare al Beato Pietro, Principe degli Apostoli, ed ai suoi successori, spinse i Pontefici Romani a mandare annunziatori del Santo Vangelo in tempi diversi ai vari popoli della terra, come era richiesto dalle circostanze e dalla volontà del misericordioso Iddio. Pertanto, come destinarono Agostino curatore di anime presso gli Inglesi, Patrizio presso gli Irlandesi, Bonifacio presso i Germani, Villebrordo presso i Frisii, i Batavi e i Belgi, ed altri sovente presso altri popoli, così concessero a Cirillo e a Metodio, uomini santissimi, di esercitare l’apostolico ministero presso i popoli Slavi, i quali, grazie alla loro premura e al loro impegno, conobbero la luce del Vangelo, e da una vita selvatica furono condotti ad una società umana e civile.  – Se gli Slavi, memori dei benefici, non cessarono mai di celebrare Cirillo e Metodio, Apostoli nobilissimi, con non minore studio la Chiesa Romana li ebbe sempre in grande culto, rendendo onore all’uno e all’altro in molte occasioni mentre vissero, e custodendo le ceneri di uno di essi quando morì.  – Fin dall’anno 1863 agli Slavi della Boemia, Moravia e Croazia, i quali solevano festeggiare ogni anno Cirillo e Metodio il 9 marzo, fu concesso dalla benignità di Pio IX, Nostro Predecessore di immortale memoria, di celebrare per l’avvenire quella festa il 5 luglio, e di onorare la memoria di Cirillo e Metodio con la sacra officiatura. Né passò molto tempo che, all’epoca del grande Concilio Vaticano, molti Vescovi supplicarono questa Sede Apostolica affinché il culto di quei Santi e la decretata solennità si estendessero a tutta la Chiesa. Ma poiché la proposta fino ad oggi non ha avuto seguito, ed essendosi in quelle contrade mutato lo stato della cosa pubblica, Ci parve giunta l’opportunità di soddisfare i popoli Slavi, della cui incolumità e salute siamo grandemente solleciti. Dunque, poiché non possiamo permettere che in alcuna cosa venga meno ad essi la Nostra paterna carità, vogliamo ampiamente estendere ed accrescere il culto religioso di quegli uomini santissimi, i quali, come una volta, spargendo il seme della Fede cattolica tra le genti Slave, le richiamarono dalla morte alla salvezza, così ora col celeste loro patrocinio le difenderanno validamente. E perché più chiaramente emerga quali sono questi personaggi che proponiamo alla venerazione ed al culto dell’orbe cattolico, Ci piace narrare brevemente la storia delle loro gesta.  – Cirillo e Metodio, fratelli germani, nati a Tessalonica da nobilissima famiglia, in tenera età si trasferirono a Costantinopoli per imparare le umane discipline nella principale città dell’Oriente. Né stette nascosta la scintilla dell’ingegno, che già fin d’allora splendeva nei due giovanetti; infatti l’uno e l’altro impararono moltissimo e rapidamente, soprattutto Cirillo, il quale conseguì nelle scienze tale lode che in segno di onore singolare fu chiamato Filosofo. Non andò molto che Metodio si fece monaco. Cirillo fu poi ritenuto degno dall’imperatrice Teodora, su consiglio del Patriarca Ignazio, di istruire nella fede cristiana i Khazari, che abitavano oltre il Chersoneso, i quali avevano chiesto a Costantinopoli ministri idonei nelle cose sacre. Egli accettò tale incarico di buon grado. Pertanto, recatosi in Crimea tra i Tauri, studiò per qualche tempo, come alcuni affermano, la lingua di quel popolo, e nello stesso tempo gli avvenne, e fu ottimo auspicio, di trovare le ceneri di San Clemente I P. M., che non gli fu difficile riconoscere, sia per il ricordo degli anziani, sia per l’ancora con la quale quel fortissimo martire fu gettato in mare per ordine dell’imperatore Traiano e, come si sapeva, successivamente tumulato.  – Impadronitosi di questo tesoro così prezioso, penetrò nelle città e nelle case dei Khazari; i quali, istruiti dai suoi precetti e mossi dalla grazia di Dio, distrutte le tante superstizioni, furono da lui condotti a Gesù Cristo. Ottimamente costituita questa nuova comunità cristiana, egli diede una memorabile prova di temperanza e di carità, rifiutando tutti i doni offerti dagli indigeni, eccettuato l’affrancamento degli schiavi che professassero il Cristianesimo. Poscia Cirillo ritornò rapidamente a Costantinopoli e si rinchiuse nel monastero di Policrone, nel quale Metodio si era già ritirato. Frattanto la fama delle cose da lui felicemente operate presso i Khazari era giunta a Ratislao, Principe della Moravia. Questi, mosso dall’esempio dei Khazari, chiese all’imperatore Michele III alcuni operai evangelici di Costantinopoli; né ebbe difficoltà ad ottenere quello che richiedeva. Pertanto, la virtù nobilitata da tanti fatti e la manifesta volontà che Cirillo e Metodio avevano di giovare al prossimo fecero sì che essi venissero destinati alla missione nella Moravia. Mentre viaggiavano per la Bulgaria, già iniziata alla Religione cristiana, in nessun luogo si lasciarono sfuggire l’opportunità di diffondere la religione. Incontrati ai confini del Principato da gran moltitudine di popolo, furono ricevuti in Moravia da moltissima disponibilità e con straordinaria gioia. Né tardarono un momento dall’intraprendere ad educare gli animi nelle dottrine cristiane ed a confortarli con la speranza dei beni celesti. Ciò fecero con tanta efficacia e con tanto operoso impegno, che in poco tempo il popolo Moravo abbracciò con tutto l’animo la religione di Gesù Cristo.  – A tale opera non poco giovò la conoscenza della lingua Slava, che Cirillo aveva imparato prima, e molto servirono i libri del nuovo e dell’antico Testamento che egli aveva tradotto nella lingua di quel popolo. Per la qual cosa tutta la nazione degli Slavi deve moltissimo a questo uomo, poiché da lui ricevette non solo il beneficio della Fede cristiana, ma anche quello della civiltà: infatti Cirillo e Metodio trovarono per primi quelle lettere con le quali è rappresentata ed espressa la lingua Slava, della quale, non a torto, sono ritenuti i padri. – Da così lontane e separate province la fama aveva recato a Roma il felice annunzio di quelle imprese. E avendo Nicolò I, Pontefice Massimo, ordinato ai due ottimi fratelli di venire a Roma, questi senza indugio obbedirono e, messisi in viaggio per Roma, portarono con sé le reliquie di San Clemente. A tale notizia, Adriano II, che era succeduto al defunto Nicolò, accompagnato dal Clero e dal popolo per testimoniare un grande onore, uscì incontro agli illustri ospiti. Il corpo di San Clemente, glorificato da improvvisi prodigi, con solenne pompa fu portato nella Basilica innalzata al tempo di Costantino sui ruderi della casa paterna del coraggiosissimo martire. Poi Cirillo e Metodio, presente il Clero, resero conto al Pontefice Massimo dell’Apostolica missione alla quale santamente e laboriosamente si erano dati. E poiché fu loro contestato che avevano operato contro il costume degli antichi e contro regole santissime, in quanto avevano usato la lingua Slava negli uffici sacri, addussero ragioni così forti e sicure che il Pontefice e tutto il Clero li lodarono ed approvarono.  – Allora ambedue, dopo aver fatto, secondo la formula cattolica, la professione di fede e aver giurato che si sarebbero mantenuti fedeli al Beato Pietro e ai Romani Pontefici, furono creati e consacrati Vescovi dallo stesso Adriano, e molti loro discepoli furono iniziati a vari gradi dei sacri Ordini. – Era però divinamente stabilito che Cirillo finisse in Roma il corso della sua vita il 14 febbraio 869, maturo più nella virtù che negli anni. Furono fatti pubblici funerali, e con magnifico apparato, quello stesso che si usa per i Romani Pontefici; fu posto con ogni onore in quel sepolcro che Adriano aveva preparato per se stesso. Il sacro corpo del defunto, poiché il popolo romano non permise che si trasportasse a Costantinopoli, benché ne facesse accorata domanda la madre, fu portato alla Chiesa di San Clemente e sepolto vicino alle ceneri di questi, che Cirillo aveva per tanti anni custodite con venerazione. E mentre si portava la sua salma per la città, tra il canto solenne dei salmi, con una pompa piuttosto di trionfo che di funerale, parve che il popolo romano volesse tributare all’uomo santissimo un saggio degli onori celesti.  – Ciò fatto, Metodio, per ordine e sotto gli auspici del Pontefice Massimo, ritornò Vescovo in Moravia, ad esercitarvi i consueti uffici del ministero apostolico. In quella provincia, divenuto con tutto l’animo un esemplare del gregge, si diede tutto agl’interessi cattolici con uno zelo che cresceva di giorno in giorno; resistette fortemente a faziosi innovatori, perché con insane opinioni non guastassero il nome cattolico; istruì nella religione il principe Suentopolco che era succeduto a Ratislao; ammonì il medesimo, che non curava il proprio dovere, lo riprese e infine lo punì con l’interdetto da ogni cosa sacra. Per tali motivi si attirò l’odio dell’empio e impurissimo tiranno, dal quale fu cacciato in esilio. Ma richiamato dopo poco tempo, con opportune esortazioni ottenne che il Principe desse segno di ravvedimento e comprendesse il bisogno di riacquistare con un nuovo tenore di vita l’antico comportamento. È poi meraviglioso che la vigilante carità di Metodio, superati i confini della Moravia, come già ai tempi di Cirillo era arrivata ai Croati e ai Serbi, così ora abbracciava gli Ungari, il cui Principe, di nome Cocelo, egli istruì nella Religione cattolica e mantenne nella carica; i Bulgari, i quali unitamente al loro re Bogoris confermò nella fede cristiana; i Dalmati, con i quali divideva e ai quali comunicava i celesti carismi, e i Carinzi, per i quali molto operò al fine di condurli alla conoscenza ed al culto dell’unico vero Dio.  – Ma ciò gli procurò dei guai. Infatti, alcuni della nuova comunità cristiana, portando invidia ai fatti preclari e alla virtù di Metodio, intervennero presso Giovanni VIII, successore di Adriano, accusando lui, innocente, di sospetta fede e di violata tradizione dei maggiori, i quali nelle sacre funzioni avevano solitamente usato soltanto la lingua latina o la greca, e nessun’altra. Allora il Pontefice, assai preoccupato dell’integrità della fede e dell’antica disciplina, comandò a Metodio di recarsi a Roma per difendersi e liberarsi delle accuse. Questi, sempre pronto a obbedire e confortato dalla testimonianza della propria coscienza, nell’anno 880, presentatosi dinanzi a Giovanni, ad alcuni Vescovi ed al Clero urbano, facilmente provò che egli aveva sempre professato ed insegnato quella fede che, in presenza di Adriano e con la sua approvazione, aveva dichiarato e confermato con giuramento presso il sepolcro del Principe degli Apostoli. Quanto alla lingua Slava, usata nelle sacre funzioni, lo aveva fatto per giuste ragioni, con il consenso dello stesso Pontefice Adriano, non contraddicendovi le Sacre Scritture. Con tale discorso egli si liberò da ogni sospetto, tanto che il Pontefice subito lo abbracciò, e di buon grado gli conferì la potestà arcivescovile e approvò la sua missione nella Slavonia.  – Inoltre, scelti alcuni Vescovi che dovevano dipendere da Metodio, e della cui opera egli si sarebbe giovato nell’amministrazione delle cose sacre, il Pontefice, munitolo di lettere commendatizie, lo rimandò in Moravia con pieni poteri. Tutte queste cose il Sommo Pontefice volle poi confermare con lettere mandate a Metodio, quando di nuovo egli dovette subire l’invidia dei malevoli. – Pertanto, sicuro nell’animo, unito con strettissimo vincolo di carità e di fede al Sommo Pontefice e alla Chiesa Romana, Metodio perseverò con sempre maggior impegno ad espletare la missione assegnatagli; né il positivo frutto della sua opera si fece a lungo desiderare. Infatti, avendo dapprima egli stesso condotto alla fede cattolica Borzivoio, Principe dei Boemi, e poscia Ludmilla, sua moglie, con l’aiuto di un sacerdote, in breve ottenne che fra quella gente il nome cristiano si divulgasse assai e per ogni dove. – Nello stesso tempo si adoperò per introdurre la luce del Vangelo nella Polonia, dove entrò e dove fondò la sede episcopale di Leopoli, dopo avere attraversato la Galizia. Successivamente, come alcuni raccontano, recatosi nella Moscovia propriamente detta, fondò il trono pontificale di Kiev. Con questi allori non certo caduchi, tornò ai suoi in Moravia. Sentendo avvicinarsi la morte, scelse il proprio successore, e dopo avere esortato alla virtù il Clero e il popolo con le ultime raccomandazioni, placidamente uscì da quella vita che per lui era stata la via verso il cielo. – Come Roma pianse Cirillo, così la Moravia pianse la morte di Metodio; celebrò con dolore la sua perdita e onorò in tutti i modi i suoi funerali.  – Di questi fatti, Venerabili Fratelli, torna a Noi graditissimo il ricordo; Ci commuoviamo non poco quando osserviamo splendidamente iniziata fin da tempi remoti l’unione delle genti Slave con la Chiesa Romana.  – Effettivamente questi due propagatori del nome cristiano, dei quali abbiamo parlato, se ne andarono da Costantinopoli presso popoli pagani, tuttavia fu necessario che la loro missione fosse interamente comandata da questa Sede Apostolica, centro dell’unità cattolica, o regolarmente e santamente approvata, come fu fatto più volte. Infatti qui, nella città di Roma, essi resero ragione dell’opera intrapresa e risposero alle accuse; qui, presso i sepolcri di Pietro e Paolo effettuarono il giuramento della Fede cattolica e ricevettero la Consacrazione episcopale, insieme con il potere di costituire la sacra Gerarchia, conservando la diversità degli Ordini.  – Infine, qui fu autorizzato l’uso della lingua Slava nei santissimi riti, e quest’anno si compie il decimo secolo dacché Giovanni VIII, Pontefice Massimo, scrisse a Suentopolco, Principe della Moravia, queste parole: “Approviamo giustamente che le lodi dovute a Dio risuonino nella lingua slava, e comandiamo che nella medesima lingua si narrino gli elogi e le opere di Gesù Cristo Signor Nostro. Né alcunché si oppone alla sana fede o alla dottrina, sia che si cantino le messe nella stessa lingua slava, si che si leggano il santo Vangelo o le lezioni divine del Nuovo e Antico Testamento, bene tradotte ed interpretate, e si salmeggi nelle altre ore della ufficiatura”. Dopo molte vicende, Benedetto XIV sanzionò tale consuetudine con lettera apostolica del 25 agosto 1754. I Pontefici Romani, poi, tutte le volte che furono richiesti di aiuto dai Principi che comandavano sui popoli convertiti al cristianesimo per opera di Cirillo e Metodio, non permisero mai che si avesse a desiderare la loro benignità nel soccorrere, la loro umanità nell’istruire, la loro benevolenza nel consigliare, la loro buona volontà in tutte le cose che potevano. Fra gli altri, Ratislao, Suentopolco, Cocelo, santa Ludmilla, Bogoris sperimentarono, secondo le circostanze e il tempo, l’insigne carità dei Nostri Predecessori.  Né con la morte di Cirillo e di Metodio cessò o si indebolì la paterna sollecitudine dei Romani Pontefici per i popoli Slavi, ma sempre rifulse nel tutelare presso di loro la santità della religione e nel conservare la prosperità pubblica. Infatti Nicolò I mandò da Roma, presso i Bulgari, sacerdoti che istruissero il popolo, e i Vescovi di Populonia e di Porto perché ordinassero quella nuova comunità di cristiani. Del pari, a proposito delle frequenti controversie dei Bulgari intorno al diritto sacro diede amorevolissime risposte, nelle quali anche coloro che per nulla sono favorevoli alla Chiesa Romana, lodano ed ammirano la somma prudenza. E dopo la luttuosa calamità dello scisma, è merito di Innocenzo III l’avere riconciliato con la Chiesa Cattolica i Bulgari; e poi di Gregorio IX, di Innocenzo IV, di Nicolò IV, di Eugenio IV di averli mantenuti nella compiuta riconciliazione. Similmente verso i popoli della Bosnia e dell’Erzegovina, ingannati dal contagio di prave opinioni, in modo insigne risplendette la carità dei Nostri Predecessori, cioè di Innocenzo III e di Innocenzo IV, i quali si adoperarono per sradicare l’errore dagli animi; di Gregorio IX, Clemente VI e Pio II, che si adoperarono per fermare stabilmente in quelle regioni i gradi della sacra gerarchia. – Né si deve credere che Innocenzo III, Nicolò IV, Benedetto XI e Clemente V abbiano rivolto piccola od ultima parte delle loro cure ai Serbi, dai quali tennero provvidissimamente lontane le frodi, escogitate astutamente per contaminarne la Religione. Anche i Dalmati e i Liburni, per la costanza nella fede e per l’adempimento dei loro doveri, si meritarono singolare favore e grandi lodi da Giovanni X, Gregorio VII, Gregorio IX e Urbano IV. Infine, nella stessa Chiesa di Srijem, distrutta nel sesto secolo da invasioni barbariche e successivamente ricostruita con amorosa pietà da Santo Stefano I, re dell’Ungheria, sono molti i monumenti della benevolenza di Gregorio IX e di Clemente XIV. – Pertanto, Ci pare doveroso rendere grazie a Dio che Ci ha offerto l’occasione opportuna di far cosa gradita alla gente Slava e di esserle utile certamente con non minore premura di quella che mostrarono in ogni tempo i Nostri Predecessori. A questo Noi miriamo, questo desideriamo unicamente: di adoperarci in ogni modo affinché tutte le genti Slave vengano istruite dal maggior numero di Vescovi e di Sacerdoti; affinché si confermino nella professione della vera fede, nell’obbedienza alla vera Chiesa di Gesù Cristo e ogni giorno di più sentano per esperienza quanta ricchezza di beni ridondino dalle istituzioni della Chiesa Cattolica sulla società domestica e su tutti gli ordini della cosa pubblica. – Quelle Chiese certamente esigono gran parte delle Nostre cure; né vi è cosa che più desideriamo quanto il provvedere alla loro comodità e alla loro prosperità, a unirle tutte a Noi con quel perpetuo legame di concordia che è il massimo e migliore vincolo di salute. Resta che Iddio, ricco di tutte le misericordie, arrida ai Nostri propositi e assecondi quanto abbiamo intrapreso. Frattanto Noi poniamo quali intercessori presso di Lui Cirillo e Metodio, maestri della Slavonia, dei quali, come vogliamo amplificarne il culto, così confidiamo non Ci mancherà il patrocinio celeste. – Pertanto, ordiniamo che il 5 luglio, giorno stabilito da Pio IX di felice memoria, sia inserita nel Calendario Romano e della Chiesa universale e si faccia ogni anno la festa dei santi Cirillo e Metodio con Officio e Messa propria, di rito doppio minore, come venne approvato dalla Sacra Congregazione dei Riti.  – A Voi tutti poi, Venerabili Fratelli, ordiniamo che curiate la pubblicazione di questa Nostra Lettera e comandiate che le cose in essa prescritte siano osservate da tutti i sacri ministri che celebrano l’Ufficio divino della Chiesa Romana, ciascuno nelle proprie chiese, province, città, diocesi e case dei Regolari. Infine vogliamo che per Vostra esortazione e Vostro consiglio, in tutto il mondo si preghino Cirillo e Metodio, perché con quel favore di cui godono presso Dio, in tutto l’Oriente tutelino gli interessi cristiani, implorando costanza per i cattolici e il proposito di riconciliarsi con la vera Chiesa per i dissidenti. – Queste cose, come furono sopra scritte, così comandiamo siano stabili e ferme, nonostante le Costituzioni apostoliche emanate dal Pontefice San Pio V, Nostro Predecessore, e da altri sulla riforma del Breviario e del Messale romano, e nonostante gli statuti e le consuetudini, anche immemorabili, e ogni altra cosa contraria. – Auspice dei doni celesti e pegno della Nostra particolare benevolenza, a Voi tutti, Venerabili Fratelli, e a tutto il Clero e al popolo affidato ad ognuno di Voi, impartiamo con tutto l’affetto nel Signore la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 settembre 1880, anno terzo del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX “NEMO CERTE IGNORAT”

In questa lettera Enciclica, indirizzata ai Vescovi ed al clero irlandese, S. S. Pio IX, invitando alla massima coesione di fede i prelati ed i fedeli cattolici dell’Isola, li incita all’osservanza dei decreti del Concilio riunito in quella Nazione e sottoscritti dalla stessa Sede Apostolica per resistere al meglio all’azione nefasta dei nemici della Chiesa di Cristo che stavano montando in una infame marea di destabilizzazione morale e corruttela – dei giovani in particolare – e di disgregazione dell’unità dottrinale della fede cattolica. Questa muraglia, così pensata ed organizzata dal Santo Padre in ogni Nazione dell’orbe cattolico, ha però potuto resistere agli assalti esterni, e soprattutto interni, non per molto tempo, prima di essere infranta circa un secolo dopo, il 26 ottobre del 1958 con la cacciata del Pontefice canonicamente eletto (S. S. Gregorio XVII), e la successiva farsa dell’elezione di un antipapa, nella persona del massone 33° A., Roncalli, che inaugurava una linea di successione anticristica che ancora dura oggigiorno nella falsa sinagoga dell’uomo che oscura, in un’eclisse truffaldina, la vera Chiesa Cattolica Romana, l’unica Sposa senza ruga e senza macchia di Cristo, scaturita dalla ferita del suo costato.

Pio IX
Nemo certe ignorat

Nessuno certamente ignora, Venerabili Fratelli, con quale straordinaria e ferma fedeltà e venerazione verso questa Cattedra di Pietro, madre e maestra di fede di tutti i Cristiani, e con quale singolare concordia spirituale e con quale perseveranza i Presuli d’Irlanda si siano sempre preoccupati di distinguersi nel difendere il cattolicesimo e nell’adempiere all’ufficio episcopale. Da ciò consegue che essi, pur tra violente tempeste, con somma gloria del proprio nome e consolazione di questa Sede Apostolica, assolvendo coraggiosamente con sforzi congiunti il proprio ministero, hanno ben meritato della Chiesa poiché nulla hanno considerato più importante del distogliere con sollecitudine e con animo pienamente concorde i popoli della nobile Irlanda dal contagio dell’errore, e tra essi proteggere, difendere, custodire con estrema diligenza il deposito della nostra santissima fede e della verità cattolica. – Mentre Ci compiacciamo di ricordare tutto ciò con grande gioia dell’animo Nostro e con onore insigne per il Vostro Ordine, Venerabili Fratelli, non poco siamo addolorati e preoccupati per il fatto che abbiamo appreso con quali insidie il nemico antico cerchi al presente di minare e indebolire la concordia dei Vostri animi e di suscitare il dissenso. – Perciò sebbene sia radicata in Noi una tale opinione della Vostra pietà, in forza della quale non dubitiamo minimamente che Voi, opponendovi con energia alle insidie del nemico con zelo sempre crescente, combatterete con fermezza e prudenza nel campo del Signore per la causa di Dio e della Santa Chiesa, tuttavia per dovere del Nostro ministero apostolico e per il grande amore che nutriamo per Voi e per codesti fedeli non possiamo non inculcare in Voi insistentemente sentimenti di vicendevole concordia. – “Sappiamo infatti ed è evidente – Per usare le medesime parole del Nostro Antecessore S. Gregorio Magno – che la linea dell’accampamento appare terribile per i nemici quando sia raccolta e chiusa in modo che in nessun punto appaia interrotta. Infatti, se è disposta in modo che si lasci un varco attraverso il quale il nemico possa penetrare certamente, non è più terribile per i suoi avversari. Anche noi dunque, quando schieriamo l’esercito per la battaglia spirituale contro gli spiriti maligni, dobbiamo assolutamente farci trovare sempre uniti e avvinti dalla carità e non divisi mai dalla discordia, poiché, qualunque opera buona ci sia stata in noi, se manca la carità, attraverso il male della discordia si apre nel nostro schieramento un varco dal quale l’avversario potrà entrare per colpirci“. – Perciò, Venerabili Fratelli, la Nostra bocca si schiude davanti a Voi e con profondo affetto del Nostro cuore Vi confortiamo, ammoniamo, esortiamo e scongiuriamo perché uniti e vincolati sempre più da un saldissimo patto di reciproca carità nell’accrescere la gloria di Dio, nel difendere la dottrina della Chiesa Cattolica, nel propugnare i suoi diritti, nel proteggere l’integrità del gregge a Voi affidato, nello sconfiggere le insidie e gli errori degli avversari, nell’adempiere agli altri doveri del Vostro importantissimo ufficio episcopale siate sempre più unanimi, in perfetta identità di intenti e di opinioni e siate solleciti nel conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. – E poiché nella vostra sapienza sapete benissimo quanto questa sacerdotale e fedele concordia degli animi, delle volontà e dei pensieri sia necessaria e giovi al bene della Chiesa e all’utilità dei fedeli, Noi siamo assolutamente sicuri per la Vostra esimia pietà e virtù che Voi non stimerete mai nulla più importante non solo dell’alimentare sempre più tale concordia tra di Voi, ma anche del difenderla maggiormente ed accrescerla specialmente con gli altri Venerabili Fratelli di Inghilterra e con i Presuli di Scozia. – Sapete bene infatti che Voi ed Essi, con unico e identico zelo religioso e sotto il presidio della mutua carità, dovete con ogni sforzo dedicarvi al perfezionamento dei fedeli nell’opera del ministero, per l’edificazione del Corpo di Cristo, e che di nulla dovete maggiormente preoccuparvi quanto di compiere con energie congiunte, sotto la guida di questa Sede Apostolica, tutto ciò che serve a promuovere la gloria di Dio e la salvezza eterna degli uomini. Per parte Nostra, Venerabili Fratelli, tanto più confidiamo che sarete sempre solleciti di tale concordia perché ricordiamo certo con grande gioia dell’animo Nostro quale sia stata la Vostra unanimità nel sottoscrivere gli atti del Sinodo da Voi tutti celebrato a Thurles nel 1850 per la difesa degli interessi della Chiesa Cattolica in Irlanda. E volendo richiamare rapidamente un punto riguardante quel Sinodo, ricorderete, Venerabili Fratelli, la lettera a Noi inviata da dodici di Voi dopo la celebrazione del Sinodo l’11 settembre dello stesso anno 1850, e sottoscritta anche dal Venerabile Fratello Daniele Arcivescovo di Dublino, da poco scomparso con Nostro dolore: lettera nella quale si trattava specialmente di codesti cosiddetti Collegi della Regina, e non ignorate i Decreti da Noi emessi, dopo matura riflessione, attraverso la Nostra Congregazione preposta alla Propagazione della Fede. Peraltro, poiché riteniamo opportuno e ardentemente desideriamo che Voi tutti conosciate in quali termini abbiamo scritto al suddetto Arcivescovo di Dublino su questa importantissima questione nella Nostra lettera personale del 17 novembre dell’anno scorso, abbiamo ritenuto di rendervi note con questa Nostra lettera le stesse parole che abbiamo usato e che sono le seguenti: “Per quanto riguarda i Collegi della Regina, di cui parli nella tua ricordata lettera, sii certo che Ci è stato graditissimo sapere che Tu, Venerabile Fratello, dopo i decreti emessi da questa Sede Apostolica su una questione di tanta importanza, hai dichiarato con animo prontissimo di ubbidire a tali Decreti. E siamo convinti che non solo darai sollecita esecuzione ai Decreti stessi, ma provvederai anche con ogni azione, sollecitudine e zelo perché i medesimi Decreti siano onorati con l’ossequio dovuto e siano sollecitamente messi in pratica con ogni impegno da quei Presuli dai quali abbiamo ricevuto la lettera dell’11 settembre dell’anno scorso, da Te pure sottoscritta. Questi Decreti invero Ci sono stati sempre molto a cuore e ardentemente desideriamo e vogliamo che siano da tutti osservati con ogni diligenza e scrupolo poiché in essi si tratta della difesa della dottrina cattolica; cosa, questa, di cui nulla può e deve essere per Noi più importante“. – Da ciò facilmente intendete come quel Venerabile Fratello sia stato da Noi esortato ed incitato ad applicare tutte le sue forze perché quei Decreti fossero sia da lui sia dagli altri rispettati con ogni diligenza. Ma poiché Egli, impedito dalla morte, forse non ha potuto portare a compimento ciò che era nei Nostri voti, Noi stessi con la maggiore possibile insistenza, più e più volte ripetutamente raccomandiamo e ripetiamo insistentemente a Voi tutti che, per la Vostra devozione, i Decreti sopra ricordati siano con ogni diligenza osservati da tutti. – Certo a nessuno di Voi, Venerabili Fratelli, è ignoto che gli Atti e Statuti del Sinodo da Voi celebrato a Thurles, dopo maturo esame, sono stati da Noi approvati con alcuni emendamenti fin dal giorno 23 maggio dell’anno scorso, con un Decreto emesso dalla richiamata Nostra Congregazione preposta alla Propagazione della Fede e confermato dalla Nostra suprema Autorità. Poiché dunque abbiamo deciso di approvare, confermare e sancire nuovamente i medesimi Atti e Statuti con i menzionati emendamenti, in forma più solenne per mezzo di Nostra Lettera Apostolica con il sigillo dell’Anello del Pescatore in data 23 di questo mese, sarà compito della Vostra sollecitudine episcopale vegliare con ogni cura e zelo che essi siano considerati definiti e perfetti e da tutti osservati con la massima diligenza. Mentre dunque Vi tributiamo il meritato elogio per il fatto che nel ricordato Concilio di Thurles, solleciti, tra l’altro, per la sana educazione cattolica della gioventù, avete deciso con provvida saggezza di concordare i Vostri propositi e di istituire quanto prima una Università Cattolica irlandese nella quale i giovani, senza pericolo per la fede cattolica, vengano istruiti nelle umane lettere e nelle più severe discipline, Vi incitiamo, Venerabili Fratelli, a non volere risparmiare cure e zelo affinché questa opera utilissima sia condotta alla realizzazione desiderata con la maggiore rapidità possibile. Per questa ragione, assecondando molto volentieri le Vostre richieste, con la Nostra predetta Lettera Apostolica abbiamo approvato con grande gioia dell’animo Nostro l’istituzione della Università Cattolica di cui trattasi. E molto Ci siamo rallegrati quando abbiamo saputo che i fedeli d’Irlanda con tanta alacre pietà e liberalità sono venuti incontro a questi Vostri eccellenti progetti, in modo che già si sono procurati consistenti aiuti per questo fine. Perciò, mentre calorosamente Ci congratuliamo con Voi e con i fedeli stessi, concepiamo rinnovata speranza che questa Università Cattolica, con l’aiuto di Dio, sia quanto prima eretta con esito prospero e felice secondo i Nostri e Vostri desideri. – Ora dunque, siccome non vi è nulla, come Voi, Venerabili Fratelli, avete accertato e verificato, che maggiormente educhi gli altri alla pietà e al culto assiduo di Dio quanto la vita e l’esempio di coloro che si sono dedicati al ministero divino, non tralasciate mai di impegnare ogni Vostra iniziativa e attività perché tutti i chiamati al servizio del Signore, memori della loro vocazione e del loro ufficio rifuggano assolutamente da ciò che è vietato ai Chierici e che ad essi non si addice affatto, e siano di esempio ai fedeli nella parola, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella castità affinché dimostrino un decoroso atteggiamento sacerdotale coerente con il loro ordine e la loro dignità, e assolvano con pietà e convenienza i compiti del loro ministero, affinché amministrino ai fedeli con lo scrupolo, il decoro e la cura adeguata i Santissimi Sacramenti della Chiesa, per mezzo dei quali ogni vera giustizia ha inizio, e se iniziata viene accresciuta, e se perduta viene riacquistata; affinché attendano assiduamente alla preghiera e coltivino con diligenza lo studio, specialmente delle sacre discipline, e sotto la Vostra guida si dedichino con grande zelo alla salvezza delle anime. – Ognuno di Voi sa benissimo quanto sia importante per la Chiesa, soprattutto in tempi tanto avversi, avere Ministri idonei, che non possono derivare se non da Chierici ottimamente formati. Perciò, Venerabili Fratelli, non desistete mai dal dedicare tutte le vostre cure e i vostri pensieri con indefesso zelo a questo fine, che cioè i giovani Chierici fin dai primi anni siano tempestivamente educati ad ogni pietà, virtù e spirito ecclesiastico, e siano accuratamente istruiti sia nelle umane lettere, sia nelle più severe discipline, specialmente quelle sacre, lontano da ogni pericolo di novità profana e di errore, in modo che rifulgano dell’ornamento di tutte le virtù, e protetti dal presidio di salutare e solida dottrina siano in grado a tempo opportuno di ammaestrare con la parola e con l’esempio il popolo cristiano e confutare i contradditori. – Ecco, Venerabili Fratelli, ciò che per l’intenso affetto verso di Voi e codesti fedeli abbiamo ritenuto di dovere indicarvi con questa lettera, e certo non dubitiamo Vi onoriate di corrispondere pienamente ai Nostri desideri. La Vostra fedeltà, la Vostra pietà e la Vostra venerazione verso di Noi e questa Sede Apostolica e la Vostra virtù episcopale e sollecitudine sono tali che confidiamo senza riserve che Voi, uniti da un sempre più stretto vincolo di carità e con identico sentimento reciproco, non lascerete mai nulla di intentato perché, con l’aiuto della grazia divina, continuiate con zelo sempre crescente ed ogni costanza e prudenza a opporre un muro a difesa della casa di Israele e a tenere lontano da pascoli avvelenati il gregge affidato alla Vostra cura, e a indirizzarlo verso pascoli salutari, e a ricondurre su sentieri di verità e giustizia i miseri erranti, e a tentare ogni mezzo perché tutti crescano nella scienza di Dio e nella conoscenza del Nostro Signore Gesù Cristo. Noi, frattanto, in umiltà di cuore non tralasciamo in ogni preghiera e supplica, unite al ringraziamento, di implorare il Padre clementissimo delle misericordie perché sempre effonda propizio su di Voi i più fecondi doni della sua Bontà, nella preghiera che tali doni discendano copiosamente anche sulle dilette pecore a Voi affidate. – E come auspicio di questo celeste presidio e pegno del Nostro ardentissimo affetto verso di Voi, ricevete la Benedizione Apostolica che dall’intimo del cuore e unita al voto di ogni vera felicità impartiamo molto amorevolmente a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutti i Chierici e Laici fedeli affidati alla Vostra fede.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 marzo 1852, anno sesto del Nostro Pontificato.

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA SECONDO LA COSTITUZIONE PASTOR ÆTERNUS

P. Andrea Oddone s. j.

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA SECONDO LA COSTITUZIONE PASTOR ÆTERNUS

S. E. I. MILANO, – 1937

IMPRIMI POTEST

P. Josephus Peano, Præp Prov. Faur., Sol.

Die VII Aprilis MCMXXXVII

Nihil obstat quominus imprimatur

Sac. Carolus Figini, Cens. Eccles.

IMPRIMATUR

In Curia Arch. Medio]; die IV Maii MCMXXXVII

+. P. Castiglioni, Vic. Generalis

INTRODUZIONE

Pio IX apriva solennemente il Concilio Vaticano l’8 Dicembre del 1869, e per le dolorose circostanze della presa di Roma, lo sospendeva il 20 Ottobre con la Bolla Postquam Dei munere. (A.Oppone: Concili-ecumenici e vicende del Concilio Vaticano). Il Concilio promulgò due Costituzioni dogmatiche importantissime, che sono tra i più insigni documenti del Magistero straordinario della Chiesa: la Dei Filius e la Pastor Æternus. Za prima condanna le dottrine razionaliste intorno a Dio, alla creazione, alla rivelazione, alla fede e ai rapporti tra fede e ragione. – « Questa Costituzione, scriveva il Card. Manning, è l’affermazione più larga e più ardita del soprannaturale e spirituale, che si sia mai gettata sino al presente in faccia al mondo ». Fu votata all’unanimità il 24 Aprile del 1870 e approvata solennemente dal Papa. – La seconda determina e dichiara la dottrina rivelata riguardante la podestà pontificia. Fu animosamente discussa con la più ampia libertà, fu oppugnata e tenacemente contrastata sopra alcuni punti, sino all’ultimo, da una minoranza battagliera, e usciva infine vittoriosa il 18 Luglio con. 532 placet, e soli 2 non placet.

Il Concilio Vaticano verrà ricordato e apprezzato sopra tutto per la definizione dell’infallibilità pontificia, con la quale restaurò negli animi il principio di autorità scosso dal razionalismo, senza degenerare in oppressione delle legittime libertà. « L’autorità del Romano Pontefice, diceva Pio IX concludendo quel grande dibattito, non opprime, ma solleva; non rovina, ma edifica, e spesso conferma la dignità, riunisce nell’amore e difende i diritti dei fratelli ».

Presento agli studenti dell’Università Cattolica del S. Cuore una breve analisi della Costituzione Pastor Æternus. Spero in tal modo di colmare qualche lacuna delle mie lezioni e di invogliare, anche mediante riferimenti bibliografici, a studi più profondi intorno a questo argomento, che mira a promuovere sempre più l’attaccamento e la devozione della coscienza cristiana al Romano Pontefice.

P. ANDREA ODDONE S. J.

Professore nell’ Università Cattolica del S. Cuore

I.

RELAZIONE TRA CRISTO E LA Chiesa.

La Costituzione Pastor Æternus consta di un breve prologo e di quattro capitoli. Nel prologo si accenna in generale all’istituzione divina della Chiesa, alla sua natura e al suo scopo. I dottori cattolici, i Padri della Chiesa, i teologi, gli asceti, hanno scrutate le Scritture e la Tradizione per conoscere il posto che Gesù Cristo occupa nel piano divino. Essi hanno sopprattutto studiato S. Paolo, che nelle sue magnifiche Lettere parla così frequentemente e così entusiasticamente di Cristo, e ci dà la più alta idea della pienezza della sua perfezione e della eccellenza della sua missione. « Egli, dice l’Apostolo, è l’immagine di Dio invisibile, generato prima di ogni creatura, poiché in Lui tutte le cose furono create, e quelle che sono nel cielo e quelle che sono sulla terra, le cose visibili e le cose invisibili, e i Troni e le Dominazioni e i Principati e le Potestà. Tutto è stato creato da Lui e per Lui; ed Egli è prima di tutte le cose, e ogni cosa sussiste in Lui. Egli è il capo del corpo, che è la Chiesa, come è il principio, il primogenito di tra i morti, affinché tenga in ogni cosa il primato. Poiché a Dio piacque di fare abitare in Lui tutta la pienezza, e riconciliare per mezzo suo tutte le cose » (Coloss., cap. 1, 15-20). Queste sublimi parole di S. Paolo delineano magistralmente la trascendenza divina di Gesù Cristo, il suo dominio e il suo influsso sopra tutta la creazione. Tutto si riferisce a Lui come a modello, a salvatore, a capo. (Pratt.: Teologia di S. Paolo, Vol. 1, pag: 278: « Il primato di Cristo ») Egli è il perno, l’asse di rotazione, il centro di tutta la storia; attorno a Lui si aggira il mondo morale come il mondo fisico si aggira attorno al sole. Egli comprende tutte le epoche, dirige e modera tutti gli avvenimenti, che senza di Lui non si possono pienamente spiegare, perché, secondo il motto di Tertulliano, Gesù Cristo è la soluzione di ogni questione, la chiave di ogni mistero religioso e profano: Omnis quæstionis solutio est Christus. Gesù Cristo è il principio di ogni armonia nell’universo, è la pace tra il cielo e la terra, è il bacio di Dio con la creatura, dice eloquentemente Vito Fornari: a Lui tutto deve far capo, tutto deve servire a Lui, alla sua gloria. (Vita di Gesù Cristo, Proemio, pag. 27). L’attento e imparziale filosofo della storia scorge facilmente la conferma di questa verità nello svolgersi delle vicende puramente profane, che senza di Gesù Cristo sono per lui come un libro da cui si toglie il principio e il fine. Ma nella storia religiosa e nella storia della Chiesa il fatto è di una evidenza impressionante. Cristo è soprattutto il fondamento incrollabile, l’anima e il compendio di tutto l’edificio religioso. Tutta la teologia s’ impernia in Lui e in Lui si sintetizzano tutti i dogmi. Egli è il fonte unico di ogni grazia, il maestro unico degli uomini, l’unica via di salvezza per il genere umano. Gesù Cristo è come un faro, che attira gli sguardi dell’umanità tutta intera. Domina i secoli che hanno preceduto la sua venuta: l’Antico Testamento è ripieno di Lui, è tutto un’ombra, una figura, una profezia del Messia futuro; Il Nuovo Testamento è la luce vivida del sole atteso, è la realtà, è la storia della vita umana e mortale di Gesù Cristo in mezzo a noi. Dopo la sua morte sul Calvario, Gesù Cristo vive di una vita personale e trionfante in cielo, di una vita mistica, ma reale, nell’Eucaristia, di una vita provvidenziale nella società umana, di una vita soprannaturale nella Chiesa, che è l’opera sua più grande e meravigliosa. (Jesus Christus heri et hodie; ipse et in sæcula. – S. Paolo; Heb., XIII, 8).

* * *

Gesù Cristo è fondatore immediato della Chiesa, cioè di quella società di Cristiani uniti dalla professione della medesima fede e dalla comunione degli stessi Sacramenti, e governati dal Papa e dai Vescovi. E quando si dice che Cristo fondò immediatamente la Chiesa non si vuole significare che Egli con la sua dottrina e con la sua condotta abbia soltanto suscitato un movimento religioso, che poi per evoluzione naturale provocò la formazione della Chiesa, o che abbia semplicemente dato ad altri la potestà di fondarla, ma che di fatto. Egli stesso determinò la natura della Chiesa, cioè i suoi elementi essenziali e la sua forma specifica. – I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le Lettere di S. Paolo e degli altri discepoli, sono i documenti autentici e oggi incontestati; almeno per la vera scienza, dove si legge la storia dell’origine della Chiesa. Da questi documenti risulta chiaramente che la formazione della Chiesa è la prima e, quasi oserei dire, la principale preoccupazione di Gesù Cristo. Nella creazione soprannaturale della Chiesa possiamo distinguere due periodi, l’uno di preparazione, l’altro di organizzazione propriamente detta. Gesù esprime nettamente il pensiero e il proposito di volere fondare una società distinta e separata dalla Sinagoga giudaica. A Simone muta il nome in quello di Pietro, o meglio di Petra, e promette che sopra di lui innalzerà un nuovo edificio: « Tu sei Pietro, e sopra questa Pietra (sopra di te Pietra) edificherò la mia Chiesa ». (Matt. XVI, 18). La promessa fu solennemente fatta da Cristo nella sua qualità di Messia e di Figlio di Dio, ed ebbe una qualche relazione remunerativa per Pietro, che aveva pubblicamente affermato la divinità di Cristo; la promessa fu assoluta, non condizionata. Anche se mancassero altre prove, potremmo dunque legittimamente conchiudere che Cristo deve aver mantenuto la promessa. (Batiffol: La Chiesa nascente, pag. 94-113. — TANQUEREY: De Ecclesia, p. 613, nota). E l’idea sociale della nuova istituzione si ripete sotto altre forme non meno evidenti. Gesù vagheggia un ovile, una casa, una famiglia, una città, un regno. Specialmente l’idea di regno è quella che domina nella predicazione di Gesù. Egli è venuto a stabilire il regno di Dio, il regno dei cieli; attorno al tema di questo regno si aggira il suo insegnamento per un triennio; a questo regno ritorna ancora il suo pensiero negli ultimi colloqui che tiene con i discepoli. E in tutte queste figure e immagini è sempre l’idea sociale che si afferma in modo chiaro, sempre qualche cosa di visibile e di esterno, che deve attuarsi primieramente quaggiù in mezzo agli uomini. (Oddone: La Costituzione sociale della Chiesa, pag. 74). Per innalzare l’edifizio mistico della sua Chiesa, Gesù, come un abile architetto, incomincia a raccogliere i materiali, cioè a scegliere alcuni suoi discepoli, che dovranno essere il fondamento e le colonne dell’edifizio. « E chiamò a sé quelli che egli volle… e ne stabilì dodici che stessero con lui ». (Marco, III, 14. — Cf. Etudes, Anno 1916, Vol. 148-149: Jésus et son oeuvre éducatrice, pag. 51). I dodici non solo dimoravano con Gesù, ma lo accompagnavano dappertutto nelle sue missioni: « E Gesù percorreva le città e i villaggi annunziando la lieta novella del regno di Dio, e lo accompagnavano i Dodici ». (Luca; VIII, 1) Gesù li vuole vicini a sé, specialmente quando compie i suoi miracoli, perché i suoi miracoli insieme con le sue affermazioni, costituiscono la grande prova della divinità della sua missione. Avendoli abitualmente in sua compagnia, Gesù può compiere sopra i Dodici una speciale opera educatrice e impartire ad essi una cultura più intensa. A loro tiene particolari esortazioni, e per loro ha spiegazioni complementari e rivelazioni dei suoi più sublimi misteri. « Parlava alle folle in parabole, dice S. Marco; ma in disparte spiegava poi ogni cosa ai suoi discepoli ».(Marco, IV, 33) Li ammaestra intorno alle più importanti virtù; li adopera in particolari mansioni; promette loro l’ufficio di giudici; li informa separatamente della sua passione e morte e mangia con loro la Pasqua. (FONTAINE: L’Eglise ou le Christianisme vivant, pag. 35). – Al periodo di preparazione tiene dietro il periodo di attuazione. La società è « l’unione stabile di più individui che tendono di comune accordo ad uno stesso fine ». Non ogni moltitudine di uomini quindi costituisce la società, ma solo quella che cospira in modo stabile allo stesso fine. Questa costante cospirazione o tendenza di molti, risulta da alcuni vincoli, che uniscono le volontà e gli sforzi della moltitudine, tra i quali tiene il primo posto l’autorità. Perciò la materia della società è la moltitudine, la forza sono i vincoli e principalmente l’autorità, l’autore è colui che ponendo i vincoli unisce la moltitudine. Ora Gesù Cristo unì e associò i suoi seguaci con un triplice vincolo, cioè con la professione della stessa fede, con i medesimi riti e con lo stesso governo: un vincolo simbolico, un vincolo liturgico, un vincolo gerarchico. A tutti impose la professione della stessa fede: « Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura: chi crederà e sarà battezzato sarà salvo; chi non crederà sarà condannato ». (Marco, XIV, 15) Per tutti stabilì la comunione degli stessi riti, specialmente del Battesimo e dell’Eucaristia: « Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo. Nessuno se non nasce per acqua e Spirito, può entrare nel regno dei Cieli. (Marco, XIV, 15) — Il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo. Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita ». (Giovanni, VI, 52.) Tutti sottopose allo stesso governo, perché ai soli Apostoli, ai quali aveva innanzi promessa la facoltà di legare e di sciogliere, affida la podestà di predicare, di battezzare, di governare e di assolvere. (Matteo, XVIII, 18. — Matt., XXVIII, 19) Inoltre al solo Pietro dà l’incarico di pascere le sue pecorelle. (Giov., XXI, 15). Se creare una società significa raccogliere un gruppo, un corpo di persone, ordinarle tra loro e destinarle ad uno scopo, dar loro una legge e un capo e determinati mezzi di che devono valersi per raggiungere l’intento; allora la Chiesa è evidentemente opera di Cristo. Egli attrasse a sé alcuni pescatori della Galilea, li formò alla sua scuola, trasfuse in essi il suo spirito e diede loro l’incarico di predicare, di presiedere, di dirigere, di condurre le anime al cielo con il soccorso della sua grazia, di continuare insomma la sua missione. Ecco la piccola società di Gesù, la Chiesa, con la sua forma gerarchica nella quale sono bene designate e messe in rilievo le parti dell’autorità. In essa vi sono maestri e vi sono discepoli; vi sono pastori e vi sono pecorelle; vi sono governanti e vi sono governati. Non alla moltitudine, ma a pochi fu detto: Andate, ammaestrate, insegnate le cose che Io ho insegnate a voi, battezzate. Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me. Queste testimonianze del Vangelo già così chiare di per sé, sono avvalorate e confermate dalla interpretazione autentica e non interrotta degli Apostoli e di tutti i secoli cristiani. Gli Atti e le Lettere degli Apostoli ci dicono che si costituì subito, sino dal principio del Cristianesimo, la Chiesa, cioè una moltitudine di chiamati, con un fine determinato, fornita di speciali mezzi, governata da un’autorità istituita da Cristo. I primitivi Cristiani, infatti, attendono alla santificazione delle anime per mezzo dell’esercizio della Religione cristiana. Ai Giudei che domandano a Pietro che cosa devono fare, egli risponde: « Fate penitenza e si battezzi ciascuno di voi nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; e riceverete il dono dello Spirito Santo ». (Atti, II, 37). Viene descritta nei più interessanti particolari la vita della nuova società. « Erano assidui alle istruzioni degli Apostoli e alla comune frazione del pane e all’orazione… E ogni giorno trattenendosi lungamente tutti d’accordo nel tempio, e spezzando il pane per le case, prendevano cibo con gaudio e semplicità di cuore, lodando Dio ed essendo ben veduti da tutto il popolo. Il Signore poi aggiungeva alla stessa Società ogni giorno gente, che si salvasse ». (Atti, VI, 43.). La società è retta dall’autorità degli Apostoli, che dicono espressamente di avere ricevuto da Dio autorità sui fedeli, di predicare la parola di Dio, per comando di Cristo e si chiamano ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. ((I Cor., 4) « È Gesù Cristo stesso, dice S. Paolo, che alcuni costituì Apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori e dottori… affinché non siamo più fanciulli, sbalzati e portati qua e là da ogni vento di dottrina per la malizia degli uomini e per la loro abilità nello spargere l’errore. » (Efes, IV, 11). Gli Apostoli attribuiscono esplicitamente a Cristo l’istituzione della Chiesa. Essi insegnano che i fedeli formano « una casa spirituale » edificata « sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, con Gesù Cristo stesso come pietra maestra angolare »; (I Pierro, II, 4. — Efes., Il, 20) che Cristo è « capo supremo della Chiesa, la quale è il suo corpo, il complemento di Lui »; (Efes.,.1, 22) che Cristo acquistò la Chiesa « con il suo sangue »; (Atti, XX, 28.) che la Chiesa è la sposa di Cristo, da lui amata, per la quale diede se stesso, « a fine di santificarla e farla comparire davanti a sé  rivestita di splendore ». (Efes., V, 25). Non sono dunque gli avvenimenti politici abilmente sfruttati che abbiano dato origine alla società della Chiesa, così fortemente organizzata sino dai primi giorni della sua esistenza. Essa è già nelle pagine divine del Nuovo Testamento, che rispecchiano esattamente le idee e i voleri di Cristo: essa è opera diretta di Cristo. – Il Concilio Vaticano asserisce solennemente che « il Pastore eterno e il Vescovo delle anime nostre, per rendere perpetua l’opera salutare della sua redenzione, decretò di edificare la Santa Chiesa, nella quale, come nella casa del Dio vivente, tutti i fedeli si mantenessero uniti con il vincolo di una sola fede e di un solo amore ». Lo stesso Concilio riprende coloro che « pervertono la forma di governo costituita da Cristo nella sua Chiesa ». E precedentemente, nella Costituzione De fide, aveva già detto che « affinché noi possiamo soddisfare al dovere di abbracciare la vera fede e di perseverare in essa costantemente, Dio mediante il suo Figlio Unigenito istituì la Chiesa ». (Anzi nel Concilio Vaticano si era già preparata una definizione a questo riguardo. Il che chiaramente significa quale fosse la mente dei Padri del Concilio.). Nel Decreto Lamentabili viene esplicitamente condannato l’errore del Loisy: « Fu alieno dalla mente di Cristo il costituire la Chiesa come società che dovesse durare sulla terra una lunga serie di anni ». (DENZINGER, n. 2052. — CAVALLERA, THESAURUS., N. 309. — Enciclica « Pascendi ». — DENZINGER, N. 2091) Nel Giuramento antimodernista si professa la stessa verità: « Credo fermamente che la Chiesa fu prossimamente e dirittamente istituita dallo stesso Cristo vero e storico ». L’affermazione quindi che Cristo sia autore immediato della Chiesa è storicamente certa e dogmaticamente di fede. Avvertiamo tuttavia che con questo non intendiamo dire che Cristo abbia formato con le sue mani tutte le ruote dell’organismo, che abbia istituiti tutti gli uffici, che la Chiesa avrebbe disimpegnato nel corso dei secoli per adattarsi ai diversi bisogni della società: ma diciamo che ha incaricato gli Apostoli di continuare la sua missione, di predicare la sua dottrina, di applicare alle anime per mezzo dei Sacramenti l’efficacia della sua Redenzione, e che per tutti i secoli li ha investiti di poteri sufficienti per bastare a tutte le esigenze. La Chiesa deriva da Gesù Cristo come l’albero dalla radice, come il fiume dalla sorgente viva e perenne: la Chiesa è l’espansione dello spirito di Gesù in una forma visibile, di cui Egli stesso in molti e vari modi ha dato lo schema e le linee essenziali. (Dieckmann: De Ecclesia, Vol. II, 223).

***

Gesù Cristo ha con la Chiesa la relazione di autore e fondatore divino; ma ben diversa dalla relazione di un fondatore di una società umana. L’autore di una società puramente umana, scomparendo dalla scena del mondo, abbandona l’opera sua, e viene spezzato il vincolo giuridico con la società da lui fondata. Forse rimane in qualche modo nei suoi seguaci l’indirizzo che egli ha dato; ma alla sua morte cessa ogni relazione di fondazione. Nessuna società meramente umana sfugge a questa sorte; sono perciò scomparse le società politiche antiche, le false sette religiose e le scuole dei sapienti della Grecia. – La Chiesa cattolica per volontà assoluta ed efficace di Cristo deve invece essere universale e perenne. Questa volontà di Cristo importa una seconda relazione di Cristo con la sua Chiesa, cioè una relazione di assistenza e di presidio perenne, affinché la Chiesa in mezzo a gravissimi pericoli e a lotte continue non solo rimanga sino al termine dei secoli, ma adempia con ogni fedeltà i suoi uffici. « Poiché conveniva, dice Leone XIII, che la missione divina di Cristo fosse perenne, Egli si aggregò dei discepoli della sua dottrina e li fece partecipi del suo potere; e avendo sopra di essi chiamato lo Spirito Santo, comandò loro di percorrere tutta la terra, predicando fedelmente quanto Egli aveva insegnato e comandato, nell’intento che tutto il genere umano potesse conseguire la santità in terra e la felicità sempiterna nel cielo. » (Enciclica. « Satis cognitum ».). – La perennità della Chiesa significa che essa rimarrà sino al termine dei secoli; la indefettibilità indica inoltre che non muterà sostanzialmente in sé, che sarà sempre come Cristo l’ha stabilita, che non verrà mai meno alla missione che le fu affidata. Gesù Cristo ha detto ai suoi Apostoli che le porte dell’inferno non prevarranno contro la Chiesa e che Egli sarà con loro fino alla consumazione dei secoli. (Matt., XXVIII, 20.) Sono espressioni che nei Libri Santi rappresentano una protezione sicura e invariabile di Dio. Quindi nessuna violenza, nessuna seduzione, nessun vizio, nessun errore, potrà mai nuocere agli Apostoli e ai loro successori, nell’insegnare in virtù del loro magistero, nell’amministrare i Sacramenti in virtù del loro ministero. Gesù sarà sempre con il potere insegnante, sarà sempre con il potere santificante, e né l’uno e né l’altro potranno mai venir meno o variare, in mezzo ai pericoli, che vengono dalla violenza esteriore, che nascono dall’incomprensione o dal falso zelo dei discepoli, o che sono creati dall’orgoglio e dalle passioni. (Ollivier: L’Eglise: sa raison d’étre, pag. 106). Lo stesso Gesù Cristo promette ai suoi Apostoli l’assistenza dello Spirito Santo: « Io pregherò il Padre e vi darà un altro Avvocato, affinché rimanga per sempre con voi, lo Spirito di verità, che il mondo non può ricevere ». (Giovanni: XIV, 16) Se la Chiesa non fosse indefettibile, non sarebbe vero che lo Spirito Santo le fu dato sino alla fine dei tempi, per stabilirla incrollabilmente nella verità e nella santità. – Sono eloquentissime le testimonianze dei Padri a questo riguardo. « Non allontanarti dalla Chiesa, dice S. Giovanni Crisostomo, perché nulla vi è più forte della Chiesa. La tua speranza è la Chiesa: essa è più alta del cielo, più vasta della terra. Non invecchia mai, ma è sempre giovane ». (Hom. « De capto Entropio », n. 6.). E S. Agostino scrive: « Fino a tanto che durerà il volgere dei secoli, non verrà meno la Chiesa di Dio o il Corpo di Cristo sulla terra…. Verrà meno la Chiesa se verrà meno il fondamento: ma come può mai venir meno Gesù Cristo? Non declinando Cristo neppure la Chiesa declinerà in eterno ». (In Psalm. LXXI, n. 8. — Enarratio in Ps. CIII, Serno II, n. 5).

La Chiesa fu istituita per la salvezza degli uomini, per indicare loro la via del cielo e somministrare loro i mezzi. Se essa non fosse indefettibile, se essa potesse variare cambiando dottrine e istituzioni, non sarebbe più la vera arca di salvezza. I fedeli dei diversi tempi muterebbero l’oggetto della loro fede e più non aderirebbero alla Chiesa fondata da Cristo.

Questo è l’insegnamento del Concilio Vaticano:

« Cristo volle che nella Chiesa vi fossero pastori e dottori sino alla consumazione dei secoli… e istituì un perpetuo principio di unità e di comunione; affinché sopra di esso si costruisse un tempio eterno ». (DENZINGER, D. 1821). Sino alla fine del mondo rimarrà quindi la Chiesa, rimarranno le sue funzioni e le sue potestà. Non si esauriranno mai i tesori della Chiesa e le sorgenti delle sue grazie; la Chiesa sarà sempre la colonna e il fondamento della verità; non andrà mai soggetta a mutazione la sua forma di governo. (Dieckmann: De Ecclesia. Vol. 225; n. 924.). Per questa ragione la Chiesa è veramente, come dice il Vaticano, « un perpetuo motivo di credibilità e un testimonio irrefragabile della missione divina di Cristo… uno stendardo levato in alto tra le nazioni… un sigillo della sua origine soprannaturale e divina ». Gesù Cristo non solo è autore della Chiesa, non solo la protegge continuamente, ma rimane sempre, anche dopo la sua Ascensione, il suo Capo vivo e vivificante, al quale essa è soggetta. Pietro e i suoi successori, infatti, sono soltanto Vicari di Cristo, non nel senso che non godano di una potestà propria, ma nel senso che qui in terra fanno le veci di Cristo, il vero e proprio Re e Capo della Chiesa, e nel suo Nome e con la sua autorità governano i fedeli cristiani. – Tra Gesù Cristo e la Chiesa esiste non solo una relazione morale e giuridica, ma anche una relazione più intima e più corrispondente. ai disegni divini e all’indole della Chiesa, una relazione cioè di perenne flusso vitale nella Chiesa, considerata come società religiosa santificatrice delle anime. S. Paolo, volendo illustrare questo concetto, ci presenta spesso la Chiesa come « corpo di Cristo ». Nella I Lettera ai Corinti dice: « Voi siete il corpo di Cristo e ciascuno poi individualmente, sue membra…. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?».(Lettera I Cor., cap. XII, 27; cap. VI, 15) Scrivendo agli Efesini dice nuovamente: « Ed egli alcuni costituì apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri dottori e pastori, per rendere atti i santi all’opera di ministero, per l’edificazione del corpo di Cristo ». (Efes., IV, 1 segg. — Cf. .V, 23) E ancora nella Lettera ai Colossesi: « Egli è il capo del corpo che è la Chiesa ». (Coloss., I, 18). Questo modo di considerare la Chiesa come « corpo di Cristo » dopo S. Paolo, divenne comune non solo presso i SS. Padri e i Dottori, ma presso il popolo cristiano e si può dire la definizione cristiana della Chiesa, come osserva il Franzelin. (De Ecclesia, pag. 308). L’Apostolo, parlando della Chiesa come corpo di Cristo, non intende certamente il corpo di Cristo fisico,  formato da Maria Vergine per opera dello Spirito Santo, offerto per noi nel sacrificio del Calvario, presente anche adesso in terra nell’Eucaristia; né intende un corpo morale, con il qual nome viene designata qualunque società; ma lo considera in un senso speciale, che non si verifica in nessun altro organismo. Gesù Cristo è Capo vivificante della Chiesa suo Corpo. La vita che Egli comunica alla Chiesa è la vita soprannaturale, la vita della grazia e della filiazione divina, (Rom. VI, 1 segg., VIII, 1. — Tit, IV, 5), una vita quaggiù nascosta sotto il velo del mistero, ma che sarà poi manifestata in cielo. (1 Cor., XIII, 10; 27 Cor., IV, 16). Questa vita viene comunicata, secondo la volontà di Cristo, ai singoli uomini, come a membri del Corpo di Cristo, cioè della Chiesa. Da Cristo, Capo e fonte unico, discende quindi questa vita nell’organismo e si diffonde in tutte le parti; dalla pienezza di lui noi tutti riceviamo. Il fine della Chiesa perciò consiste nel rendere gli uomini partecipi dei frutti della Redenzione di Cristo e insieme nel formare con essi un organismo soprannaturale, quasi la famiglia di Dio, (Efes., II, 19; II, 6; III, 6.) anzi un corpo vivo, congiunto con il capo vivo « dal quale tutto il corpo ben fornito e ben compaginato per mezzo di giunture e di legamenti, riceve l’aumento di Dio ». (Coloss., II, 19: — Cf Efes, II, 21; IV; 15) A questo corpo e alla sua vita servono tutti i carismi e i ministeri, che Cristo diede alla sua Chiesa, la quale è la pienezza di Cristo. (1 Cor., XII. — Rom; XII. — Efes., IV, 11). Nel suo Vangelo Gesù Cristo aveva paragonato se stesso alla vite e i suoi discepoli ai tralci inseriti nella vite, dalla quale traggono il succo vitale. (Giov. XV, 1). S. Agostino commentando questo passo del Vangelo di S. Giovanni osserva: « Quando il Signore dice di essere Egli la vite e i discepoli i tralci, lo dice secondo che Egli è capo della Chiesa e noi siamo suoi membri… La vite e i tralci sono della stessa natura. Perciò essendo Dio, la cui natura noi non siamo, si fece uomo, affinché in esso fosse vite, cioè natura umana, della quale anche noi uomini possiamo essere tralci ». (Tract. in Jo., 80,1. — S. Tomaso, seguendo le orme dei Padri, trattò spesso e profondamente di questo tema nelle sue opere, e specialmente nella Somma Theol. (III q. 8) e nella questione De Veritate (q. 29 a. 4). Giustamente, quindi, la Chiesa è chiamata Corpo mistico di Cristo, cioè non fisico, non soltanto morale, né del tutto maturale, ma soprannaturale, il mistero cioè della Chiesa, della sua vita e della sua unione con Cristo. Questo concetto non solo ci fa meglio comprendere la natura della Chiesa, ma diffonde anche splendidissima luce sulle altre  dottrine della nostra fede, specialmente su quelle che concernono i sacramenti. (Dorsch: De Ecclesia, pag: 355.— Cf. Enciclica « Satis cognitum » di Leone XIII).

II.

IL PRIMATO DI S. PIETRO

La Chiesa è una società gerarchica, cioè una società ineguale, il cui potere fu conferito da Cristo non già a tutti i fedeli, ma al Collegio degli Apostoli e ai loro successori. (La società nella quale tutti i soci godono per riguardo all’autorità degli stessi diritti, in modo che nessuno possa esercitare l’autorità se non per delegazione degli altri, si dice uguale o democratica. Se invece il governo della società per uno speciale diritto appartiene ad uno o a più soci; si ha la società ineguale, la quale, se è sacra, si dice società gerarchica. La parola gerarchia etimologicamente considerata significa principato sacro o sacro impero: se si prende in astratto significa la stessa potestà sacra; in concreto denota la persona o il ceto di persone che tengono ed esercitano l’autorità. La società gerarchica può avere la forma aristocratica o monarchica.). Nella Chiesa quindi vi sono i sudditi e vi sono i capi, ma questi capi governano non per delegazione dei sudditi, ma per istituzione divina. Solo ai Dodici e ai loro successori legittimi, Gesù Cristo conferì i poteri, che Egli aveva ricevuti dal Padre, cioè il potere di dirigere, di santificare, d’insegnare. – Sorge ora la questione intorno alla forma di questa gerarchia ecclesiastica, cioè se la Chiesa per volere divino sia una società aristocratica, nella quale l’autorità somma risieda presso il Collegio degli Apostoli uguali tra di loro, oppure sia una società monarchica, in cui Cristo abbia designato un capo al Collegio Apostolico. Il Concilio Vaticano afferma che Gesù Cristo ha istituito la Chiesa in forma monarchica: « Insegniamo e dichiariamo, secondo la testimonianza del Vangelo, che il primato di giurisdizione su tutta la Chiesa di Dio, fu promesso e dato da Cristo Signore immediatamente e direttamente al beato Apostolo Pietro ». (Costituzione « Pastor afernus », cap. I) – Già S. Leone IX aveva rivendicato, contro Michele Cerulario (1053), i privilegi di Pietro. (DENZINGER, n. 351) Giovanni XXII aveva condannato (1327) la concezione oligarchica sostenuta da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis. Più tardi Innocenzo X fece censurare-come eretica dal S. Officio (24 gennaio 1647), una proposizione gallicana che tendeva a stabilire un’eguaglianza assoluta tra S. Pietro e S. Paolo. (DENZINGER, n. 1901) Ma era riservato al Vaticano di formulare a questo riguardo una definizione. –

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La parola « primato » indica in generale una qualunque preminenza. Si suole distinguere in modo speciale un triplice primato: il primato di onore, il primato di direzione o di ispezione e il primato di giurisdizione. Il primato di onore non importa alcuna autorità né  alcuna direzione, ma soltanto una mera precellenza di onore fondata in una certa equità. Colui che gode di questo primato viene nominato per il primo nelle assemblee, siede al primo posto e per il primo dice il suo parere, ma non influisce in alcun modo. nel reggere o nel dirigere, se non forse con il suo esempio. Il primato di direzione o di ispezione è privo anch’esso di ogni potestà veramente precettiva, ma non è limitato da confini soltanto onorifici. Benché infatti non diriga gli altri propriamente come sudditi, possiede tuttavia il potere di procurare che ogni cosa proceda convenientemente in un determinato affare. Questo primato compete per esempio nei Parlamenti ai Presidenti delle due Camere, che concedono o tolgono o restringono la facoltà di parola, stabiliscono l’ordine delle cose che devono trattarsi, pongono termine all’assemblea, reggono con la parola e applicando gli statuti, lo svolgersi di ,una seduta parlamentare. – Il primato di giurisdizione include una vera e suprema potestà di giurisdizione, alla quale tutti i soci sono tenuti ad ubbidire. Non è tuttavia contro la ragione di questo primato che vi siano nella stessa società altri membri forniti di vera e propria potestà di comandare, anzi la ragione del primato non richiede che questi altri veri superiori ricevano il loro potere dal capo supremo. La ragione del primato esige soltanto questo che colui che ne è investito, non abbia nella società nessuno superiore e nessuno pari, ma che tutti i soci, sia singolarmente sia collettivamente presi, a lui ubbidiscano come veri sudditi. – Il primato di cui parla il Vaticano non è altro quindi che la potestà di giurisdizione, estensivamente universale ed intensivamente somma, concessa immediatamente da Cristo a Pietro, di reggere e ammaestrare tutta la Chiesa. Più brevemente si potrebbe dire che il primato è la giurisdizione gerarchica monarchica. Si tratta perciò di un primato di governo, di un’autorità reale, esigente da tutti i membri della Chiesa, senza alcuna eccezione, non solamente la deferenza e il rispetto, ma anche la sottomissione propriamente detta, l’ubbidienza esteriore ed interiore. – Questo potere tuttavia, se implica l’unità di comando, non trae seco né la soppressione né l’assorbimento delle giurisdizioni secondarie, e nemmeno la centralizzazione di tutta l’amministrazione ecclesiastica.

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Avversari del primato sono dapprima tutti coloro che sostengono la costituzione democratica della Chiesa. Marsilio da Padova afferma che Pietro non ebbe maggiore autorità degli altri Apostoli né fu in alcun modo loro capo e che Cristo non lasciò nella Chiesa alcun suo vicario. (DENZINGER, n. 496.). I Protestanti collocano ogni autorità sacra nella comunità cristiana, nel popolo: ogni fedele è sacerdote. Gli Anglicani e gli Orientali separati ammettono la forma gerarchica della Chiesa, ma non monarchica: il primato fu concesso da Cristo a tutto il Collegio Apostolico: Pietro ebbe un primato soltanto di onore. I Giansenisti e i Gallicani ammettono il primato di Pietro, ma vogliono che gli sia stato conferito non direttamente e immediatamente dallo stesso Cristo, ma dalla Chiesa, in nome della quale Pietro ricevette la potestà. Secondo i Modernisti infine « Pietro non sospettò nemmeno che a lui fosse affidato da Cristo il primato sopra tutta la Chiesa », (DENZINGER, n. 2055). – Contro questi errori lancia la condanna il Vaticano, dopo avere esposta la dottrina cattolica: « Se qualcuno dice che il beato Pietro apostolo non fu costituito da Cristo Signore principe di tutti gli Apostoli e capo visibile di tutta la Chiesa militante, oppure che il medesimo Pietro ha ricevuto direttamente e immediatamente dallo stesso Gesù Cristo Signor nostro solamente un primato d’onore, e non di vera e propria giurisdizione, sia anatema ». (Pastor Æternus; cap. I). Bisogna quindi riconoscere a Pietro un primato effettivo e di diritto divino.

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PRIMATO DI Pietro NEL VANGELO. — Il Vangelo contiene con indiscutibile chiarezza la dottrina del primato di Pietro. Nel Vangelo Pietro occupa un posto privilegiato, emerge sopra gli altri Apostoli ed è messo in evidenza in tutte le occasioni importanti. Da Gesù egli riceve un nome simbolico: «Tu sei Simone, figlio di Giuda. Ti chiamerai d’ora innanzi Cefa, che vuol dire Pietra ».(S. Giov. I, 42). Pietro appare spesso come interprete degli altri Apostoli e Gesù Cristo e i suoi compagni sembrano accettarlo come tale. Nella Trasfigurazione S. Pietro parla a Gesù ed è come in risposta a lui che la voce si fa udire attraverso alla nube: « Questi è il Figlio mio diletto: ascoltatelo ». (S. Mrco IX, 7). Nel racconto del giovane ricco è San Pietro che dice: « Ecco. che noi abbiamo lasciato tutto, e ti abbiamo seguito ». (S. Marco X, 8) Pietro richiama l’attenzione del Salvatore sul fico sterile e domanda: « Maestro, quante volte devo perdonare il fratello che mi offende? ». (S. Matt. XVIII, 21). Gesù espone, alla domanda di Pietro, la parabola delle cose che contaminano l’uomo; (S. Matt. XV, 5) lo stesso avviene per la parabola del fattore buono e di quello infedele. (S. Luc. XII, 41). Nella Sinagoga di Cafarnao Gesù tiene un discorso e parla in modo profondo e insinuante dell’Incarnazione e dell’Eucaristia, la quale sarà un prolungamento di essa. Alla fine del discorso, allontanandosi molti suoi discepoli da Gesù, egli chiede ai Dodici: « Anche voi ve ne volete andare? ». San Pietro allora, a nome anche degli altri Apostoli, fa una solenne professione di fede intorno a quelle due verità: « Signore, da. chi andremo noi? Tu hai parole di vita eterna. E noi abbiamo creduto e sappiamo che tu sei il Cristo Figliuolo di Dio ». (1S. Giov. VI, 68). E a Cesarea di Filippo, quando Gesù domanda ai suoi Apostoli che cosa pensino di lui, Pietro risponde: « Tu sei il Cristo Figlio del Dio vivente ». (S, Matt. XVI, 15) In tutte queste circostanze Pietro si fa sempre innanzi, ma in modo così naturale e normale, che non trova una ragione sufficiente nel suo carattere impetuoso, ma suppone una disposizione di Gesù e un tacito riconoscimento della sua superiorità da parte degli Apostoli. (Vernon Ionnson: Ur solo Dio, una sola fede). – Si aggiunga che Pietro appare frequentemente associato a Gesù nella manifestazione taumaturga della sua potenza, e suo compagno e confidente nelle più solenni occasioni. Pietro infatti presiede alle due pesche miracolose. Nella prima Gesù sale sulla barca di Pietro; a lui ordina di spingersi al largo e di gettare le reti; a lui dice: « Non temere, d’ora innanzi tu sarai pescatore d’uomini ». Nella seconda Pietro dirige la barca, si slancia alla riva, tira fuori della barca la rete piena di pesci (S. Luca, V; S. Giov., XXI, 6). Al comando di Gesù, Pietro cammina sulle acque per andare a Lui e viene sorretto dallo stesso  Salvatore, che stendendogli la mano, gli dice: « Uomo di poca fede, perché hai dubitato? ». (Matt., XIV, 28.) A Cafarnao Gesù opera il miracolo della moneta estratta dal pesce, con la quale paga il tributo a Cesare per sé e per Pietro. (S. Matt., XVII, 24). Tra gli Apostoli privilegiati scelti da Gesù per essere testimoni della risurrezione della figlia di Giario, (S. Marco, V, 37), della sua trasfigurazione, (S. Marco, IX, 1) della sua agonia (S. Marco, XIV, 33; S. Matt., XXVI, 37) e per preparare l’ultima cena, (S. Luca, XXII, 8) figura sempre Pietro e sempre in primo luogo. Dopo la sua risurrezione Gesù ha un pensiero speciale per S. Pietro e tra gli Apostoli gli concede il favore, nonostante la sua negazione, di essere il primo testimonio del grande avvenimento. (S. Luca, XXVI, 12-34; I Cor., XV, 5) Come dalla barca di Pietro Gesù tenne il suo primo discorso alle turbe, così nella casa di lui fece il primo miracolo sugli ammalati, risanando la « suocera di Pietro » dalla febbre, e spesso era ospite in questa casa. Per Pietro Gesù prega in modo speciale e a lui predice il genere di morte. (5(5) Ballerini: La Chiesa: Il primato di Pietro). Osserviamo infine che nelle quattro liste del collegio apostolico, che ci hanno tramandato gli Evangelisti, l’accordo non è uniforme per gli altri Apostoli, ma Pietro è sempre nominato il primo. (In qualche caso, in cui questo non si verifica, gli Evangelisti non intendono darci l’elenco, diciamo così, ufficiale dei Dodici, né parlare della loro dignità) Nulla autorizza a pensare che Pietro fosse il più anziano degli Apostoli o che fosse stato chiamato per il primo alla sequela di Gesù, ma questa qualificazione di « primo » non può avere altro senso che quello di una preminenza. Non si può semplicemente vedere in questo un numero di ordine, che sarebbe stato superfluo o avrebbe richiesto di poi un altro numero davanti a ciascun Apostolo. Questi fatti, benché siano indizi da non trascurarsi, non ci dànno tuttavia per sé una prova diretta ed evidente del primato di Pietro. Sono piuttosto qualche cosa di accessorio e preparano in certo qual modo la via all’argomento principale, che si deduce da tre importanti testi evangelici, cioè il « Tu es Petrus », il « Confirma fratres » e il « Pasce oves meas ».Pietro in questi telebri passi è revocato in dubbio da due sistemi interamente opposti. L’uno ammette come autentiche e storiche le parole indirizzate da Gesù a Pietro, ma sostiene che esse non significano affatto che Pietro sia costituito capo della Chiesa di Cristo. L’altro invece concede la forza probativa dei testi per riguardo al primato, ma nega la loro autenticità e storicità. Il punto di vista è comunemente quello degli scismatici e dei protestanti ortodossi; il secondo punto di vista è per lo più quello della critica liberale, cioè dei razionalisti, dei protestanti liberali e dei modernisti. L’esegeta cattolico deve quindi affrontare due quesstioni differenti; i testi sono autentici e storici, non apocrifi; i testi manifestano chiaramente il primato di Pietro. Noi supponiamo provata l’autenticità e storicità dei testi, e ci limitiamo ad una breve spiegazione teologica quale è richiesta da questo lavoro. (Per l’autenticità e storicità dei testi, oltre i lavori scritturali sì confronti il Dict. Théol.: « Primauté » e la rivista Etudes, anno  1909, Vol. 119).

LA PROMESSA DEI. PRIMATO. — Nei dintorni di Cesarea di Filippo, Gesù interroga i suoi discepoli che cosa si dica in mezzo al popolo del Figlio dell’uomo. Varie sono le congetture dei Giudei. Per gli uni Gesù è Giovanni Battista; per altri è Elia; per altri ancora è Geremia o qualche altro profeta risuscitato. « Ma voi, riprende Gesù, che pensate di me?» — « Tu sei il Cristo, il figlio di Dio vivente », risponde immediatamente S. Pietro. Gesù allora ricompensa la fede del suo apostolo con queste parole: « Te beato, o Simone, figlio di Giona, perché non è la carne né il sangue che te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. Ed io dico a te, che tu sei Pietro (Pietra), e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte. dell’inferno non prevarranno contro di essa; Ed Io darò a te le chiavi del regno dei cieli, e tutto quello che tu legherai sopra la terra, sarà legato nei cieli, e tutto quello che tu scioglierai sopra la terra, sarà sciolto nei cieli ». (Matt., XVI, 17). Le parole di Cristo vengono indirizzate al solo Pietro e non a tutti gli Apostoli. Ciò appare innanzi tutto dal testo e dal contesto del discorso. Infatti, alla duplice interrogazione di Cristo viene data una duplice risposta, la prima da tutti gli Apostoli, la seconda dal solo Pietro. Ora Cristo rispondendo alle parole di Pietro, si rivolge non a tutti gli Apostoli, ma a Pietro solo e lo chiama con il nome di Pietro, che Egli stesso gli aveva imposto, e vi aggiunge espressamente il nome del padre. Del resto tutto il tenore del discorso designa chiaramente la persona singolare di Pietro. Giustamente osserva il Caietano: « Con quali parole avrebbe dovuto l’Evangelista indicarci che il discorso era rivolto al solo Pietro? I notai non nominano le persone eredi o legatarie con maggiore precisione di quella usata dall’Evangelista per designare la persona di Pietro ». (De Rom. Pontif. institutione, c. 4). Nelle parole di Cristo è contenuta la promessa del primato di giurisdizione sopra tutta la Chiesa. Questo è evidente per gli stessi razionalisti; anzi l’affermazione perentoria di una vera supremazia gerarchica riconosciuta nel testo a S. Pietro, è il motivo principale e dichiarato che li induce a negarne l’autenticità e la storicità. Pietro è la rocca, il fondamento sopra cui sarà edificata la Chiesa, cioè tutta la comunità visibile dei discepoli di Gesù, e come il fondamento dà unità e coesione, fermezza e stabilità a tutto l’edificio, così Pietro deve essere il principio primo visibile dell’unità e della fermezza della Chiesa. Ma essendo la Chiesa una società, il principio efficiente della sua unità e stabilità non può essere altro che l’autorità piena e suprema. Come nell’edificio materiale ogni cosa si appoggia sopra il fondamento, così nella società ogni cosa dipende dall’autorità. (Zapelena: De Ecclesia, pag. 92). Gesù Cristo promette in secondo luogo di dare a Pietro le chiavi del regno dei cieli. Le chiavi nell’uso biblico e profano significano la potestà suprema nel suo genere: presso i popoli antichi specialmente orientali, dare le chiavi della casa o della città a qualcuno, significava consegnargli il potere sulla stessa casa o città. Il regno dei cieli, di cui si parla qui, è evidentemente la Chiesa militante. Certo a Pietro non si promette l’autorità nel regno della gloria, perché nello stadio finale della Chiesa trionfante, non vi sarà l’esercizio delle chiavi, non dovendosi più nulla aprire o chiudere. Perciò Cristo espressamente soggiunge: « ciò che legherai sulla terra ». Nella Chiesa cristiana quindi, che costituirà quaggiù il regno di Dio sotto il suo aspetto esteriore e sociale, che preparerà il regno di Dio sotto il suo aspetto escatologico e glorioso, l’Apostolo Pietro sarà colui che in nome di Cristo eserciterà la suprema autorità. In nessun altro luogo del Vangelo si legge che Cristo abbia consegnato le chiavi del regno dei cieli agli altri Apostoli. Il senso della metafora delle chiavi viene meglio spiegato dalle parole della terza metafora. Poiché Pietro avrà la suprema giurisdizione nella Chiesa, verrà ratificato in cielo, cioè presso Dio, tutto quello che Pietro legherà o scioglierà sulla terra. Si tratta di vincoli di ordine morale; perciò « legare » significa imporre una obbligazione, « sciogliere » vuol dire togliere l’obbligazione. – Questa potestà sarà universale: « ogni cosa », in ordine, s’intende, all’indole della Chiesa e al fine per il quale fu istituita. Potrà quindi Pietro stabilire tutte quelle cose che sono necessarie o utili al governo di tutta la Chiesa. « Fondamento della Chiesa; chiavi del regno dei cieli; potere di legare e slegare con sentenza efficace »; le tre metafore si completano e si rischiarano a vicenda. Nessun equivoco è possibile: Pietro sarà il capo supremo della Chiesa.

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CONFERMA DEL PRIMATO. — Il primato effettivo promesso a Cesarea viene solennemente confermato da Gesù Cristo, quando affida a Pietro l’incarico di stabilire i suoi fratelli nella fede. « Simone, Simone, ecco che satana ha richiesto che gli siate dati per vagliarvi come il grano. Ma Io ho pregato per te, affinché la fa fede non venga meno, e tu, quando sarai convertito conferma i tuoi fratelli ». (S. Luca, XXII, 31) In questo passo è assicurato a Pietro il privilegio di una fede indefettibile. Preservando Pietro, la cui rovina avrebbe trascinato tutti gli altri, Gesù ha preservati in certo modo tutti. Questo discorso di Gesù presuppone che Pietro fosse il primo degli Apostoli; la sua resistenza o caduta, avrebbe deciso più o meno della resistenza o caduta degli altri. Il testo di S. Luca, se si isolasse, potrebbe riferirsi solamente alla circostanza dello scandalo prossimo degli Apostoli. Ma il suo tenore è assoluto: il che ci autorizza a riallacciarlo alla promessa già fatta a Pietro, roccia incrollabile sulla quale sarà costruita la Chiesa. La nuova dichiarazione di Cristo determina che questa solidità della roccia è quella di una fede, che nulla può scuotere, perché appoggiata sulla preghiera di Cristo. (LAGRANGE: L’Evangile de Jésus Christ, pag. 512)-

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CONFERIMENTO DEFINITIVO DEL PRIMATO. — Il Vangelo di S. Giovanni ci narra il conferimento definitivo del primato a Pietro. Apparendo Gesù un po’ prima dell’Ascensione ai suoi discepoli, chiede a Simone Pietro: « Simone di Giovanni, mi ami più di costoro? — Sì, o Signore, gli risponde: tu sai che io ti amo. — Gli dice: Pasci i miei agnelli. — Gli chiede ancora per la seconda volta: Simone di Giovanni, mi ami tu? — Sì, o Signore, gli risponde: tu sai che io ti amo. — Gli dice: Pasci i miei agnelli. — Gli domanda per la terza volta: Simone di Giovanni, mi ami tu? Si rattristò Pietro, perché  per la terza volta gli avesse domandato: — Mi ami tu? — e gli rispose: Signore, tu sai tutto ; tu conosci che io ti amo. — E Gesù gli disse: Pasci le mie pecorelle ». (S.Giovanni, XXI, 15). Non v’è alcun dubbio che mediante queste parole venga conferito a Pietro il primato di giurisdizione sopra tutta la Chiesa. Gli agnelli e le pecorelle di Cristo non possono significare altro che la Chiesa universale: il verbo pascere, quando si adopera per esseri razionali, equivale al verbo reggere o dirigere: anche i re sono qualche volta chiamati pastori dei popoli. Se quindi al solo Pietro, in quanto è distinto dagli altri Apostoli, viene imposto l’ufficio di reggere tutta la Chiesa di Cristo, ne segue che egli è investito della vera giurisdizione sopra tutti coloro che appartengono alla Chiesa. Come potrebbe adempiere il suo ufficio senza di essa? Aggiungiamo infine che i testi sopra citati furono intesi in tal senso dalla tradizione costante della Chiesa; il che toglie ogni dubbio, che potesse ancora rimanere, dopo la discussione che ne abbiamo fatto. (De Journel: Enchiridion Patristicum. — Cf. Hervé: Théol. Dogm., pag. 331. — Zapelena: De Ecclesia, pag. 103).

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La storia della Chiesa primitiva ci dimostra Pietro nell’esercizio del primato di cui è investito. Dopo l’Ascensione di Cristo, S. Pietro effettivamente parla e opera come capo e dottore della Chiesa universale. Lo dicono chiaramente gli Affi degli Apostoli. Pietro invita i suoi compagni ad eleggere un altro al posto di Giuda e a completare il collegio apostolico, e presiede all’elezione di Mattia. (Atti Apostolici, I, 15). Il giorno di Pentecoste, presentandosi come capo della comunità evangelica, inaugura la predicazione apostolica ai Giudei. (Atti Apost., II, 14) È bensì circondato dagli altri Apostoli, ma è nominato per il primo, come loro capo. Per il primo esercita il dono dei miracoli nella guarigione dello storpio. (Atti Apost., III, 1). Davanti al Sinedrio Pietro rende testimonianza a Gesù Cristo, in nome degli Apostoli e della Chiesa, dichiara ufficialmente la divinità di Colui che il Sinedrio ha condannato a morte. Questa affermazione fatta dinanzi ad una tale assemblea, è la prima grande manifestazione dell’assoluta indipendenza della Chiesa cristiana dalla religione ufficiale dei Giudei. (Atti Apost., IV, 12). Quando si tratta di punire Anania e Safira, questa missione è riservata a San Pietro, come pure a lui tocca di condannare il primo simoniaco Simon Mago. (Atti Apost., V, 1) Egli per il primo con autorità apre le porte della Chiesa ai Gentili, ammettendo al battesimo il centurione Cornelio e i suoi dipendenti senza farli passare per il Giudaismo. (Atti Apost., XI, 1). Pietro ci appare come capo venerato e amato, quando prigioniero del re Erode Agrippa e poi miracolosamente liberato, è oggetto di pena e di preghiere di tutti i fedeli, e anche causa della loro gioia. (Atti Apost.,, XII) Infine nell’assemblea apostolica di Gerusalemme prende per il primo la parola nella questione delle osservanze legali ed esercita manifestamente un primato che nessuno gli contesta. (Atti Apost., XV, 6) Per chi ammette il valore storico degli Atti degli Apostoli, queste testimonianze sono decisive. S. Paolo nelle sue Lettere fa spesso allusione a San Pietro e alla sua autorità. Nella Lettera ai Galati egli dice: « Mi recai a Gerusalemme per visitare lo stesso Pietro e vi rimasi presso di lui quindici giorni. Ma non vidi nessun altro degli Apostoli, eccetto Giacomo, il fratello del Signore ». (Galat., 1, 18) Lo scopo quindi del viaggio di Paolo è quello di incontrarsi con Pietro e intrattenersi con lui. Questo modo di procedere, presentato ai lettori come la cosa più naturale, senza una sola parola di spiegazione, suppone che i fedeli riconoscessero a Pietro un’autorità a parte. Il conflitto di Antiochia tra Pietro e Paolo, che è stato così spesso sfruttato contro il primato di Pietro, è anzi una bella prova dello stesso primato. Perché l’intervento piuttosto rude di Paolo? Perché appunto Pietro non è un Apostolo come gli altri, e l’esempio venuto da lui, collocato in una speciale autorità, sarebbe stato quanto mai dannoso. La reazione di Paolo si spiega quindi per il prestigio unico di Pietro, per il suo grande ascendente sopra i fedeli. Se Paolo non fa maggiori dichiarazioni sul primato di Pietro, ciò si deve al carattere proprio delle sue Lettere, che erano composte per rispondere a qualche situazione particolare e supponevano una chatechesi già esistente. (Galat., II,11.— Cf. Oppone: Teoria degli Atti umani, pag.180. Il primato di Pietro è per così dire impresso anche sui monumenti dell’arte cristiana. (Cf. Ermoni: Ilo primato del Vescovo di Roma, pag. 13). Questo breve studio è sufficiente per fondare una adesione ragionevole, anche per un razionalista, al primato di Pietro. Ogni altra spiegazione o ipotesi opposta all’esegesi cattolica, si presenta fragile e priva di sana critica storica. E sarebbe poi irragionevole esigere nell’esercizio del primato di Pietro quell’estensione che oggi troviamo nel Pontefice di Roma. Questo non era necessario né opportuno al tempo degli Apostoli, tutti eletti da Gesù Cristo come colonne della sua Chiesa. Il dogma del primato di Pietro si andò, come gli altri dogmi del Cristianesimo, sviluppando e precisando nei suoi successori.

III.

PERPETUITÀ DEL PRIMATO DI PIETRO NEL ROMANO PONTEFICE

Gesù Cristo ha istituito la Chiesa sotto forma monarchica, dando a S. Pietro il primato di guirisdizione. L’abbiamo visto nelle pagine precedenti. Possiamo ora domandarci, se il primato fu stabilito da Gesù Cristo con la condizione che rimanesse perpetuamente nella Chiesa; e se tale fu la volontà di Cristo, possiamo ulteriormente insistere e chiedere chi sia colui che succede a Pietro nella dignità del primato. – Bisogna distinguere negli Apostoli e quindi anche in Pietro, l’ufficio di fondatori o iniziatori dell’opera di Cristo, e l’ufficio di pastori della Chiesa. Come fondatori godevano di certe prerogative straordinarie, di certi privilegi personali non trasmissibili: tutti erano ornati di santità eroica, avevano la scienza divinamente infusa delle cose soprannaturali, godevano dell’infallibilità personale nelle cose di fede e di costumi, della potestà di fare miracoli, della giurisdizione universale sui fedeli, almeno delle Chiese che ciascuno di essi fondava. – Queste prerogative non furono trasmesse ai Vescovi successori degli Apostoli. Come pastori gli Apostoli avevano la podestà di governo, di magistero, e di ordine o di santificazione. Questa triplice potestà appartenente all’essenza della Chiesa, essi trasmisero ai loro successori nel Collegio Apostolico. – Il primato di S. Pietro non era un privilegio suo personale, ma apparteneva all’essenza della Chiesa, e fu trasmesso nei Romani Pontefici. Due verità queste che sono definite nel capo II della Pastor Æternus, cioè il beato Pietro avrà per diritto divino perpetui successori nel primato sopra tutta la Chiesa, e i Romani Pontefici saranno per diritto divino successori del beato Pietro nel medesimo primato: « Se qualcuno dice che non è per istituzione dello stesso Cristo Signor Nostro, ossia di diritto divino, che il beato Pietro ha perpetui successori nel primato su tutta la Chiesa o che il Romano Pontefice non è il successore del beato Pietro nello stesso primato, sia anatema ».

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S. Pietro avrà perpetui successori nel primato. La perpetuità dei diritti primaziali di Pietro s’intende in una sola persona fisica, in modo che la Chiesa sarà sempre monarchica per l’istituzione di Cristo stesso. Quando diciamo che il primato durerà sempre, intendiamo parlare di continuità morale, che non s’interrompe nel tempo in cui si elegge un nuovo successore. Possiamo dire che il primato di Pietro fu in parte personale, perché concesso a lui solo e non al Collegio Apostolico, e in parte personale, in quanto non doveva finire con la morte di Pietro, ma doveva trasmettersi ai successori. La Chiesa di Cristo deve essere perpetua, perché  deve continuare sino alla fine dei tempi la missione di salvare le anime. Sarà dunque anche perpetuo il suo fondamento, la sua base, senza la quale non può esistere, cioè sarà perpetuo il primato di Pietro, che fu appunto istituito per dare unità alla Chiesa, come dice il Concilio Vaticano: « Affinché l’episcopato fosse uno e indiviso, e si conservasse nella unità della fede e della comunione tutta la moltitudine dei credenti per mezzo della coesione dei sacerdoti, pose il beato Pietro a capo degli altri Apostoli, e istituì in lui il principio perpetuo e il fondamento visibile di questa doppia unità, volendo che sopra la sua solidità si costruisse il tempio eterno e che sulla fermezza della sua fede si innalzasse la Chiesa sino all’altezza dei cieli ». (« Pastor Æternus »: Prologo) Questo è l’argomento che arreca anche S. Tomaso; (Contra Gentes, lib. 4, cap. 76) il primato deve durare finché dura la ragione per cui fu istituito, la quale ragione è la fermezza e stabilità dell’edificio ecclesiastico. La perpetuità del primato si deduce anche dai testi evangelici citati di sopra per dimostrare il primato di Pietro. A Pietro fu affidato l’ufficio di confermare i fratelli nella fede e di pascere gli agnelli e le pecorelle: ma i fedeli delle posteriori generazioni cristiane appartengono anch’essi all’ovile di Cristo, e Pietro deve confermare e pascere anche questi, non certo direttamente, ma per mezzo dei suoi successori. Anzi la necessità degli uffici del primato è molto più urgente dopo i tempi apostolici. Oggi, infatti, la Chiesa è molto più diffusa che al principio del Cristianesimo, quando i fedeli erano un corpo solo e un’anima sola; gli Apostoli forniti come erano dell’infallibilità e dell’autorità universale, potevano conservare più facilmente nell’unità le diverse Chiese sparse dappertutto; erano di grande aiuto allora i doni carismatici più frequenti che nei tempi posteriori. Tutto questo rendeva meno frequente nei primi tempi della Chiesa nascente l’esercizio del primato. Sono eloquentissime a questo riguardo le numerose testimonianze dei Padri della Chiesa e degli antichi scrittori cattolici, nelle quali si afferma che Pietro vive, governa, insegna nei suoi successori; che la Chiesa ha ricevuto in Pietro e per mezzo di Pietro le chiavi; Pietro dalla propria sede continua a dare la verità della fede a chi la cerca. Riporto le splendide parole che san Bernardo rivolgeva al Papa Eugenio III:« Tu sei il capo dei Vescovi, l’erede degli Apostoli… Vi sono anche  altri clavigeri del cielo e pastori di greggi: ma tu ereditasti l’uno e l’altro nome tanto più gloriosamente quanto più differentemente degli altri. Hanno anche gli altri singolarmente i loro particolari greggi; a te sono invece affidati tutti, e a te solo. Tu sei l’unico pastore non solo delle pecore, ma anche degli altri pastori. Tu mi chiedi come io provi questa mia asserzione? Dalle parole del Signore. A chi, non dico dei Vescovi, ma anche degli Apostoli, così assolutamente e senza eccezione, furono affidate tutte le pecore? Se mi ami, o Pietro, pasci le mie pecorelle. Quali? I popoli di questa o di quella città, di questa o di quella regione, di questo o di quel regno? Le mie pecore, disse Gesù. Evidentemente non designò alcune soltanto, ma le assegnò tutte. Nulla viene eccettuato e nulla viene distinto ». (De Consider. L. 2, cap. 8, n. 15).  La verità di questa dottrina verrà meglio illustrata dalle testimonianze che arrecheremo per la dimostrazione del secondo punto definito dal Concilio Vaticano.

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Il Pontefice Romano è per diritto divino successore di Pietro nel primato di giurisdizione sopra tutta la Chiesa. I razionalisti e i modernisti attribuiscono il primato romano esercitato e riconosciuto sino dai primi secoli nella Chiesa, a cause puramente naturali, come lo splendore della città di Roma e la sua dignità imperiale, l’ambizione dei Vescovi di Roma, la carità e la sollecitudine della Chiesa romana verso le altre Chiese, la necessità di qualche centro comune; che congiungesse tra loro tutti i fedeli e tutte le Chiese. La verità del primato romano si può dimostrare in generale con un argomento di esclusione. Cristo, come abbiamo detto, ha stabilito che Pietro avesse perpetui successori nel primato di giurisdizione, i quali fossero il fondamento perpetuo della sua Chiesa. In qualche luogo e presso qualcuno deve dunque trovarsi questo primato. Ora tra i diversi ceti cristiani oggi esistenti, la sola Chiesa romana si attribuisce ed esercita il primato sopra tutta la Chiesa, e questo essa fa da molti secoli: lo ammettono coloro stessi che le contestano il diritto di questo primato. Bisogna quindi logicamente conchiudere che il primato o non esiste, o se esiste, si trova soltanto nella Chiesa romana. – Si giunge direttamente alla stessa conclusione mediante una via storica di testimonianze e di fatti, che è un monumento apologetico veramente insigne. Affinché l’argomento storico si presenti in tutta la sua forza probativa è necessario premettere alcune osservazioni. – Nella storia ecclesiastica si narra la venuta di S. Pietro a Roma. Che S. Pietro sia venuto a Roma, che vi abbia esercitato l’ufficio di Vescovo della Chiesa romana, e che sia stato martirizzato nella città di Roma sotto l’imperatore Nerone, è ammesso dalla massima parte di storici imparziali, anche estranei al Cattolicismo. Qualche polemista soltanto si ostina a sostenere il contrario per fini che non hanno nulla di comune con la scienza. L’Harnack e il Duschesne considerano la cosa decisa in favore della tradizione. (HarnacK: La cronologia dell’antica letteratura cristiana sino ad Eusebio. — Duschesne: Storia antica della Chiesa. — Per potere affermare che San Pietro fu Vescovo di Roma, non si richiede che sia sempre rimasto nella città di Roma. (Cf. Van Nort: De Ecclesia Christi, pag. 62). La venuta di Pietro a Roma e la sua morte come Vescovo di Roma, apre per i Vescovi di Roma, la successione legittima nel primato universale. Il primato infatti doveva continuarsi, ed è norma generale che i diritti annessi ad una sede si trasmettano insieme con la sede, se non viene in modo positivo disposto diversamente. Bisogna quindi anche nel presente caso applicare questa norma, eccetto che si dimostri che Cristo o Pietro abbiano provveduto alla successione del primato in altro modo, del che non vi è il minimo indizio in nessun documento storico. (Dio poteva stabilire o immediatamente o per mezzo di Pietro, che dopo Pietro il primato continuasse nella sede romana, anche se Pietro non avesse mai occupata quella sede. Le due questioni quindi che Pietro è venuto a Roma e fu Vescovo di Roma e che ai successori di Pietro nella Sede romana compete il primato, non sono per sé strettamente e necessariamente connesse. (Cf. Tanquerey: De Vera Religione, pag. 444, n, 705). – Osservo in secondo luogo che nessuno può ragionevolmente esigere che subito dopo la morte di S. Pietro, il primato dei suoi successori si manifesti sulle altre comunità religiose, con quella attività e intensità, che verrà man mano accentuandosi nei secoli posteriori. Chi attentamente considera la condizione della Chiesa nascente e le difficoltà dei primi tempi del Cristianesimo, facilmente comprende che i successori di Pietro non hanno esercitato frequentemente e solennemente i loro diritti sulle Chiese lontane da Roma, dove spesso governavano personaggi insigni per santità e dottrina. Avveniva perciò che in dette Chiese non si sperimentasse molto l’influsso del primato di Roma, e che in qualche occasione ci fosse qualche tentativo di resistenza. La dottrina e le istituzioni cristiane sono come un seme che, affidato alla terra, non subito manifesta tutta la sua vitalità, né da tutti è convenientemente apprezzato; ma sotto l’influsso divino e delle circostanze del tempo e del luogo, cresce a poco a poco e giunge così lentamente al suo pieno rigoglio. Questo principio di ben inteso progresso dogmatico, si deve applicare al primato romano. Basta quindi far vedere che i germi del primato del Romano Pontefice già si trovano nelle opere dei Padri antichi, che vanno man mano sviluppandosi, in modo, tuttavia, che le numerose e chiare affermazioni dei secoli posteriori non sono altro che la legittima spiegazione di quello che era già insegnato con tutta verità, benché meno chiaramente, nei primi secoli. (Fontaine: La Teologia del Nuovo Testamento).

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Nella tradizione dei primi tre secoli della Chiesa non vi è nulla che veramente si opponga al primato del Pontefice di Roma; troviamo anzi non poche testimonianze, che gli sono favorevoli e che grandemente ci persuadono della sua esistenza. Verso la fine del primo secolo (93-97), il Pontefice S. Clemente, vescovo di Roma, che aveva conosciuto gli Apostoli Pietro e Paolo e che aveva conversato con essi, manda una lettera alla Chiesa di Corinto. Questa Chiesa, fondata da S. Paolo, era turbata da dissidi e controversie interne: i più giovani si erano ribellati ai prebisteri e li avevano cacciati di sede. La Chiesa di Roma intervenne per far cessare uno scandalo così dannoso, per estinguere « una sedizione empia e abbominevole, accesa da pochi-uomini temerari e audaci », per ristabilire la pace e l’unione. « Veniamo a conoscere, o fratelli, scrive il Pontefice, cose molto cattive e indegne della professione cristiana: la forte e antichissima Chiesa di Corinto suscita, per colpa di pochi, sedizione contro i presbiteri… Voi quindi, che avete gettati i principi della sedizione, siate soggetti nell’ubbidienza ai presbiteri e ricevete in penitenza la correzione… Se alcuni poi non ubbidiranno a quello che Cristo dice per mezzo nostro, sappiano che saranno rei di colpa e correranno pericolo grande…: noi saremo innocenti di questo peccato. Ci porgerete gaudio e letizia, se ubbidendo a ciò che vi abbiamo scritto per mezzo dello Spirito Santo, sopprimerete il desiderio di uno zelo intempestivo, seguendo la nostra esortazione di pace e di concordia, che vi esponiamo in questa lettera ». – Il Batiffol chiama giustamente questa Lettera « l’epifania del primato romano ». (La Chiesa nascente, pag. 153. — Cf. Freppel: Padri Apostoli: « Le Lettere Clementine »). La Lettera è caritatevole e dolce: ma non manca in essa il tono autoritativo. Senza mire formalmente teologiche, senza alcuna presentazione dei suoi titoli al primato, Clemente ha coscienza della sua posizione e del suo ufficio: non solo esorta, ma veramente comanda ed esige l’ubbidienza, in forza di una potestà divinamente ricevuta. Chi parla in tal modo si sente in possesso di un potere veramente considerevole. Si pensi che Clemente si accinge a comporre la lite tra i Corinti, mentre è ancora in vita S. Giovanni evangelista, il cui intervento nella faccenda sembrava con diritto richiesto e quasi dovuto dalla sua eccelsa dignità apostolica e dalla condizione e maggiore vicinanza delle chiese orientali, a cui egli presiedeva. Le relazioni tra Efeso e Corinto erano evidentemente più naturali di quelle fra Corinto e Roma. Eppure, da Roma viene l’ammonizione e il rimprovero e l’ordine di ristabilire l’unione. La Chiesa romana era stata sollecitata dai Corinti a intervenire o il suo intervento fu spontaneo? Dalla lettera non si può nulla dedurre con certezza. Se i presbiteri cacciati di sede ricorsero a Roma, il loro ricorso è grandemente degno di nota per la supremazia della Sede di Roma. Perché chiedere l’intervento di una Chiesa così lontana? Se tutte le Chiese erano al principio uguali, tornava certamente più comodo ai Cristiani di Corinto rivolgersi ad una delle floridissime comunità di Tessalonica, di Filippi, di Efeso. Questo appello a Roma non trova ragionevole spiegazione, se non nel fatto che Roma era già considerata come centro dell’unità cristiana: si ricorreva ad essa, perché in essa stava il supremo potere, il primato spirituale. (Bariffol: La Chiesa nascente, pag. 168.). Si aggiunga che il Papa S. Clemente mandò a Corinto i suoi legati, affinché fossero come testimoni e intermediari tra lui e i Cristiani di Corinto. La pace fu ristabilita e tornò l’unione tra i fedeli. Dionisio di Corinto, loro Vescovo, verso il 170, ci fa sapere che la Lettera di Clemente, la Prima Clementis, come si suole denominare, era ancora letta e conservata nella loro Chiesa accanto alle Scritture canoniche. (Freppel, l. c., pag. 184). S. Ireneo infine cita questa Lettera come esempio della particolare autorità, che compete alla Chiesa di Roma a preferenza delle altre Chiese.

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Al cominciare del secolo II, Ignazio di Antiochia ci offre un documento importante della supremazia di Roma. Egli scrive ai Romani una Lettera per supplicarli a non opporsi al suo martirio. (Eusebio: Hist. Eccl., 1. IV, cap. XXIII, n. 11). L’indirizzo di questa Lettera è solenne per i magnifici epiteti con cui designa la Chiesa romana: « Ignazio alla Chiesa che ha ottenuto misericordia per la magnanimità del Padre Altissimo e di Gesù Cristo suo Figliuolo unico; alla Chiesa amata e illuminata dalla volontà di Colui che ha voluto tutto ciò che esiste, secondo l’amore di Gesù Cristo, nostro Dio: alla Chiesa, la quale presiede nel luogo della regione dei Romani, degna di Dio, degna di onore, degna di benedizione, degna di lode, degna di essere esaudita, degna e casta, e prima di tutte nell’amore, in possesso della legge di Cristo, avente il nome del Padre e che io saluto in nome di Gesù Cristo ». – Questa magnificenza di espressioni è un primo indizio che Sant’Ignazio tributa più onore alla Chiesa di Roma che alle altre Chiese a cui scrive. Più sicuro indizio dànno alcune locuzioni, che sono oggetto di accanite discussioni tra i critici. Che cosa significano le frasi « la Chiesa che presiede nella regione dei Romani… che presiede alla carità »? Viene indicata, secondo alcuni celebri scrittori cattolici, la preminenza della Chiesa di Roma sulle altre Chiese. La Chiesa di Roma presiede: questo termine, di cui Ignazio si serve due volte nell’introduzione della Lettera, e che non adopera mai per le altre Chiese, non vuol dire « segnalarsi », ma implica una reale presidenza, un governo e un’autorità sopra altri. La Chiesa di Roma presiede alla carità, alla religione dell’amore: la parola greca « agape », che corrisponde alla parola « carità », significa in questo passo di S. Ignazio, la Chiesa universale. Infatti, questo termine agape più volte negli scritti di Ignazio è sinonimo di Chiesa. Dal momento che una Chiesa locale può essere chiamata « agape », perché questa stessa parola non indicherebbe la Chiesa universale nella Lettera ai Romani? Questo è l’argomento del Funk contro l’Harnack,, il quale sostiene che l’espressione « prima di tutte nell’amore » significa « la più caritatevole, la più generosa, la più soccorritrice di tutte le Chiese. » (Funk: Patres Apost., Vol. I, pag. 252. — Batiffol: La Chiesa nascente, pag. 177). – Qualcuno crede alquanto sforzata questa interpretazione del Funk, e tutt’al più riconosce all’argomento una semplice probabilità. Comunque sia, nessuno può negare che dal contesto dell’indirizzo della Lettera balzi abbastanza chiaro il pensiero di Ignazio sul primato della Chiesa di Roma. Egli loda la fedeltà dei Romani a tutti i precetti di Gesù Cristo, e perché essi sono ricolmi per sempre della grazia di Dio, e perché  sono « puri da ogni estraneo elemento ». Si congratula con loro di avere « istruito gli altri » e di non avere mai « ingannato nessuno », e soggiunge: « In quanto a me vorrei che i vostri precetti fossero praticamente confermati ». Se i Romani hanno istruito « gli altri », questi « altri» rappresentano altre Chiese all’infuori di quella di Roma, le quali Chiese vengono a domandare a Roma o ricevono da Roma, senza averla chiesta, la lezione dei precetti apostolici, dei quali Roma stessa è un più sicuro deposito. (Batiffol: La Chiesa nascente, pag. 178.)

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S. Ireneo, Vescovo di Lione (180) e discepolo di S. Policarpo, è il più esplicito assertore del primato romano verso la fine del II secolo. Per S. Ireneo la Chiesa romana è la « massima e più antica Chiesa, da tutti conosciuta, fondata dai due gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo ». (Haer., II,-2; 3) Nella Chiesa romana, secondo S. Ireneo, si trova la tradizione apostolica, la vera regola di fede: con essa devono concordare le altre Chiese per la sua autorità particolare. Trascriviamo il celebre passo: « Per riguardo alla tradizione degli Apostoli, manifestata in tutto l’universo, è facile ritrovarla nella Chiesa intera, per chiunque cerchi sinceramente la verità. Noi non abbiamo che a trascrivere la lista di quelli, che sono stati istituiti Vescovi e dei loro successori sino a noi… Ma poiché sarebbe troppo lungo in questo libro mostrare questa successione per tutte le Chiese, noi ci accontenteremo di segnalare la tradizione della più grande e della più antica di tutte, di quella che è conosciuta dal mondo intero, che è stata fondata e costituita a Roma dai gloriosi Apostoli Pietro e Paolo. Nel riferire questa tradizione, che essa ha ricevuto dagli Apostoli, questa fede, che ha annunziata agli uomini e trasmessa sino a noi mediante la successione dei suoi Vescovi. noi confondiamo tutti coloro che in qualsiasi modo formano delle assemblee illegittime. Con questa Chiesa è necessario che si accordino tutte le Chiese, cioè tutti i fedeli di qualunque luogo, a cagione della sua particolare autorità (suprema principalità). In questa Chiesa si è sempre conservata la tradizione degli Apostoli da coloro che sono di tutti i paesi ». – La Chiesa di Roma è chiamata da Ireneo massima e principale tra le altre Chiese, non già per maggiore antichità né per ragione dell’apostolicità, ma per motivo della dignità primaziale: Alla Chiesa di Roma devono le altre Chiese conformarsi e sottomettersi: essa è la regola di fede e lo è in forza della sua eminente autorità. (Batiffol: La Chiesa nascente, pag. 260.— Dict. Théol. Cath. « Infallibilité », pag. 1656. — Zappelena: De Ecclesia, pag. 140)) Il Duchesne, a proposito di questa testimonianza di Ireneo, dice che « è difficile trovare un’espressione più precisa dell’unità dottrinale nella Chiesa universale, dell’importanza suprema della Chiesa come testimonio, custode e organo della tradizione apostolica, della sua superiore preminenza nell’insieme della cristianità ». ( Eglises séparées, pag. 216). – Tertulliano, cattolico, riconosce il primato di Pietro, fondamento della Chiesa, depositario delle chiavi del regno dei cieli, investito di pieni poteri per legare e per sciogliere. Tra le Chiese apostoliche ai cui insegnamenti bisogna stare attaccati, quella di Roma, secondo Tertulliano, occupa un posto eminente. Divenuto montanista, combatte gli editti del Pontefice di Roma, ma con le sue parole implicitamente viene ad ammettere che per i Cattolici tali decreti sono perentori. (D’Alés: La théologie de Tertullien, pag. 119). – S. Cipriano, Vescovo di Cartagine, chiama la Chiesa romana: chiesa principale, principio e centro di unità: Petri cathedram atque ecclesiam principalem, unde unitas sacerdotalis exorta est; la dice « radicem et matricem » di tutta la Chiesa cattolica; le altre Chiese stanno alla Chiesa di Roma come raggi al sole, come rami all’albero; come ruscelli alla fonte; secondo San Cipriano la comunione con il Vescovo di Roma è la comunione con tutta la Chiesa. (De Unitate Ecclesiæ.). – Queste testimonianze dei primi tre secoli intorno al primato della Chiesa di Roma, pure essendo qualche volta alquanto indeterminate e incerte, si impongono per la loro importanza ad ogni storico imparziale. « Così tutte le Chiese, scrive il Duchesne, sentono in ogni cosa, nella fede, nel disciplina, nel governo, nel rito, nell’opera di carità, l’incessante azione della Chiesa di Roma. Essa è dappertutto conosciuta, come dice Ireneo, dappertutto presente, dappertutto rispettata, dappertutto seguita nella sua direzione. Davanti ad essa nessuna concorrenza, nessuna rivalità: nessun’altra Chiesa osa mettersi a confronto con essa ». (Eglises séparées, pag. 155). Le testimonianze riportate di sopra ricevono una maggiore luce dai fatti. I Romani Pontefici intervengono con autorità nelle discussioni che sorgono nelle altre Chiese, S. Clemente Romano, come abbiamo visto, calma le agitazioni della Chiesa di Corinto; S. Vittore (189-199) risolve la questione del giorno della celebrazione della Pasqua, e scomunica, o almeno minaccia di scomunicare, i riottosi; Zefirino (199-217) scaccia dalla Chiesa i Montanisti di Asia e di Africa, tra cui Tertulliano; Callisto (217-222) promulga un editto perentorio intorno alla disciplina penitenziale, per autorità di Pietro, di cui si stima successore, come dice Tertulliano ; De pudic., 1, 21) S. Stefano (254-257) ordina che non si devono ribattezzare gli eretici e impone ai Vescovi di Africa di abbandonare la sentenza opposta. Durante il secolo secondo illustri personaggi vennero a Roma per visitare il Vescovo di quella città e richiedere il suo consiglio intorno a questioni di fede e di disciplina. – S. Policarpo, Vescovo di Smirne, discepolo di S. Giovanni, si reca a Roma nel 155 per consultare il Papa Aniceto sulla celebrazione della Pasqua. Questa visita ha un significato speciale, perché S. Policarpo è un personaggio apostolico, che occupa in Oriente una sede importante ed è l’oracolo dell’Asia. A Roma, pure sotto Aniceto, va Egesippo, palestinese, con l’intenzione di « verificare la sicura tradizione della predicazione e della successione apostolica », e vi rimane sino al pontificato di Eleuterio. (Batiffol: La Chiesa nascente, p. 215). Come Policarpo e come Egesippo, fa il viaggio a Roma anche Abercio, Vescovo di Jerapoli, « per contemplare la sovrana e per vedere la regina dalle vesti d’oro e dalle calzature d’oro». I martiri di-Lione, al tempo di S. Ireneo, mandano una legazione al Papa Eleuterio, affinché voglia rendere la pace alla Chiesa di Asia turbata dagli errori di Montano. Inoltre, da varie province della cristianità molti Vescovi ricorrono a Roma per rendere ragione della loro fede o per comporre una qualche controversia o per chiedere consiglio o per avere l’approvazione dei Concili particolari. Spesso vi ricorre lo stesso S. Cipriano, che alcuni vogliono rappresentare come ribelle a Roma.

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Tutto questo avviene nei primi tre secoli. A partire dal secolo IV l’affermazione del primato della Cattedra Romana prende un tale sviluppo di chiarezza e di precisione negli scritti e nei fatti, che non crediamo necessario insistervi a lungo. Basteranno alcune principali citazioni, tanto più che gli avversari sono su questo punto d’accordo con noi. S. Ottato di Milevi, confutando i Donatisti, che sostenevano essere la Chiesa formata dai soli giusti e perciò la santità costituire la sua nota principale, dimostra che vi sono altre due note, cioè la cattolicità e l’unità. L’unità la fa derivare dalla « Cattedra di Pietro costituita a Roma », perché Pietro è capo di tutti gli Apostoli; egli insegna che tutte le altre cattedre derivano da quella di Roma e che è necessario, sotto pena di peccato e di scisma, conservare « la comunione con questa cattedra di Pietro », che perseverò sino a noi attraverso la serie dei Pontefici Romani. (De schismate Donatistarum, 1. II, cap. 23,9). Similmente S. Ambrogio di Milano afferma che Pietro è centro della Chiesa, che la Chiesa romana è capo di tutto l’orbe cattolico e che è segno di vera fede essere in comunione con la Chiesa di Roma. « Dove è Pietro, scrive egli, quivi è la Chiesa, e dove è la Chiesa, non vi è morte alcuna, ma vita eterna…. Dalla Chiesa romana, capo del mondo cattolico, provengono tutti i nostri diritti». (In Ps. 40, n. 30. — Epist. XI ad imperatorem, n. 4). Narra, inoltre, come suo fratello Satiro, sbattuto dalla tempesta sopra ignoti lidi, chiamasse a sé il Vescovo e chiedesse se la sua fede fosse d’accordo con i Vescovi cattolici, cioè con la Chiesa romana». (De excessu fratris sui, I, n. 47. — Cf. Tanquerey: De Vera Religione, pag. 465.). – Numerose ed esplicite sono le testimonianze di S. Agostino sul primato romano. Per lui « il principato della cattedra apostolica fu sempre in vigore nella Chiesa romana »; (Epist. 43, n. 7.) afferma che «la successione dei sacerdoti dalla sede dell’Apostolo Pietro sino al presente episcopato » è il motivo che lo tiene nella Chiesa cattolica. (Contra Epist. Manich., c. 4). Altrove riconosce che contro la sua sentenza si può appellare alla Sede Apostolica, anzi dice che i Concili provinciali desumono la loro autorità soprattutto dall’approvazione di Roma: « Intorno a questa causa (dei Pelagiani) furono già inviati alla Sede Apostolica gli atti di due Concili; di là vennero le risposte; la causa è finita ». (Sermo 132, n. 10. — Batiffol: Le catholicism de S. Augustin). –  Né meno esplicito è S. Girolamo. Egli scrive al Papa Damaso: « Io sono unito in comunione con la tua Beatitudine, cioè con la cattedra di Pietro. So che sopra questa cattedra è edificata la Chiesa. Chiunque mangerà l’agnello fuori di questa casa, è un profano ». (Epist. 15. — Cf. Hurter: Theol. Dogm., p. 393). Lo stesso S. Girolamo attesta che, essendo segretario del Papa Damaso, doveva rispondere « alle domande che pervenivano a Roma dall’Oriente e dall’Occidente ». Il che significa che ai suoi tempi si ricorreva a Roma da ogni parte. (I Vescovi espulsi dalla loro sede ricorrono a Roma, (Cf, Hurter: Theol. dogm., Vol. I, pag. 397. — Tanquerey: De vera Religione, pag. 467).

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La storia dei Concili ci porge una prova eloquentissima a favore del primato del Pontefice di Roma. Nel Concilio di Efeso (431) S. Cirillo, patriarca di Alessandria, invia per mezzo del diacono Possidonio una lettera al Papa Celestino, nella quale ricordando « la tradizione di sottoporre a Roma le difficoltà serie », espone gli avvenimenti intorno all’eresia di Nestorio, trasmette i documenti relativi e chiede l’intervento papale: « Degnatevi, scrive, dichiarare il vostro sentimento: se bisogna ancora comunicare con Nestorio o denunziargli chiaramente che verrà da tutti abbandonato, se persiste nella dottrina erronea, che predica e favorisce ». (Migne: Dict. de Patrol., p. 1227) Celestino nomina Cirillo suo vicario e manda ad Efeso i suoi legati, dei quali uno, il sacerdote Filippo, tiene ai Padri congregati del Concilio un discorso dove afferma che « è a tutti noto che il primato è passato da Pietro al Pontefice di Roma ». (Mansi: Concil; IV, 1295. — A. Oddone: Il vero concetto di unità religiosa nella tradizione, pag. 12. — Cf. TAnquerey, l. c., pagina 169. Dict. Théol. Cath.: « Primauté », pag. 282). I Padri accettano questa affermazione e dichiarano scomunicato Nestorio « indotti dai canoni e dalle lettere del Vescovo di Roma ». – Il Pontefice di Roma, Leone I, domina nel Concilio di Calcedonia (451), nel quale sono presenti circa seicento Vescovi, quasi tutti orientali. S. Leone scrive una celebre lettera, nella quale condanna gli errori di Eutiche, e manda legati che presiedano in suo nome al Concilio. Dopo la lettura del documento davanti ai Padri, essi esclamano: « Questa è la fede dei Padri, questa è la fede degli Apostoli. Tutti noi così crediamo: così credono gli ortodossi: anatema a chi non crede. Pietro ha parlato per mezzo di Leone ». (Mansi, I. c. — Oppone: Il vero concetto di unità religiosa nella tradizione, pag. 12). Ai Padri del III Concilio di Costantinopoli la professione di fede contro il Monotelismo, è inviata ancora da Roma, dal Pontefice S. Agatone. I Padri ricevono la professione di fede e rispondono ad Agatone con parole vibranti di devozione, di docilità e di esaltazione della Sede di Roma: « Per tutto ciò che si deve fare, noi ci riferiamo a Voi, Vescovo della prima Sede e capo delle Chiesa universale, a Voi che siete stabilito sulla roccia solida della fede. Noi abbiamo condannato gli eretici conformemente alla sentenza, che Voi avete fatto conoscere per mezzo della vostra sacra lettera ». (Patrol. Lat., Vol. LXXXVIII, col. 1243). La parola d’ordine partita da Roma sarà sempre la norma e la guida di ogni altro Concilio ecumenico. In ogni Concilio si riscontrerà sempre una consegna obbligatoria inviata dal Pontefice di Roma, una consegna eseguita dal corpo episcopale con sacrificio, qualche volta, eroico, di personali vedute. E se qualche Vescovo, sia pure Patriarca, si discosterà dal pensiero di Roma, la Chiesa non dubiterà di reciderlo dal suo albero e di considerarlo come eretico. – Conchiudiamo questa trattazione con un argomento di prescrizione, che compendia in certo modo ciò che abbiamo detto. Storicamente consta, dai documenti riferiti, che i Pontefici di Roma, almeno dal secolo quinto, furono riconosciuti come successori di Pietro dalla Chiesa universale, sia Occidentale che Orientale, e che essi esercitarono per diritto divino legittimamente il primato di giurisdizione sopra tutta la Chiesa. Ora questa persuasione non poté derivare se non dagli Apostoli. Infatti, se nei tempi apostolici si credeva universalmente che tutti i Vescovi fossero uguali per diritto divino, come vogliono gli avversari del primato romano, è necessario che sia avvenuta una grande mutazione nella fede e nella pratica di tutta la Chiesa. Il che è moralmente impossibile, perché dappertutto e da molti Vescovi sarebbe stata avvertita e sarebbero sorte delle proteste da parte loro, trattandosi di cosa riguardante l’essenza della Chiesa e i privilegi e i diritti degli stessi Vescovi. Di queste proteste non ci sono vestigi, e i pochi fatti sfruttati dagli avversari provano anzi che l’autorità del Pontefice di Roma era riconosciuta da quelli stessi che non ne eseguirono fedelmente i comandi. Perciò la dottrina del primato romano è storicamente certa, dogmaticamente una verità di fede. (Si suole fra i Teologi agitare la questione se il primato sia annesso alla Sede di Roma per diritto divino o per diritto ecclesiastico. Intorno a questo punto non vi è nulla di definito. (Mazzella: De Ecclesia, n. 912). La sentenza più comune tiene che il primato è congiunto con l’Episcopato Romano per diritto divino; diritto divino antecedente, se Cristo stesso designò Roma come la Chiesa a cui il primato doveva congiungersi in perpetuo: diritto divino conseguente se confermò la scelta fatta da Pietro. In ambedue i casi la congiunzione è immutabile. Non è tuttavia degna di nessuna censura l’opinione di alcuni vecchi Teologi che credettero che la congiunzione del primato con la Sede Romana sia soltanto di diritto ecclesiastico, cioè sia stata stabilita dalla sola autorità di Pietro: in tal caso il Papa potrebbe cambiare e disgiungere il primato dalla Sede Romana. – Cf. Hervé: Théol. Dogm., Vol. I, p. 400).

IV

NATURA ED EFFICACIA DEL PRIMATO ROMANO

Il Concilio Vaticano, dopo aver trattato dell’istituzione e della perpetuità del primato nel Romano Pontefice, giudicò necessario di proporre per essere creduta e tenuta da tutti i fedeli, la dottrina sulla natura del primato, secondo l’antica e costante fede della Chiesa universale, e di proscrivere e condannare gli errori contrari tanto dannosi al gregge di Cristo ». (Pastor Æternus: Prologo) Il Concilio quindi nel capo II della « Pastor Æternus » definisce che il Papa ha non solo l’ufficio di ispezione e di direzione, ma piena e suprema potestà di giurisdizione sopra tutta la Chiesa; che ha tale potestà di giurisdizione non solo nelle cose di fede e di costumi, ma anche in quelle di disciplina e di regime; che non ha soltanto le parti migliori, ma la pienezza di questa potestà; che questa potestà è ordinaria, episcopale, immediata in tutte e singole le Chiese, in tutti e singoli i pastori e i fedeli. Sviluppiamo alquanto queste importantissime decisioni. – Il Papato ebbe a sostenere grandi lotte, specialmente dopo il Grande Scisma d’Occidente. Abusi nel governo pontificio e ambizioni del potere civile, determinarono una profonda crisi e diedero origine ad errori funesti intorno ai diritti della Chiesa, alle sue prerogative, alla sua stessa costituzione. Accenniamo brevemente ai principali di questi errori, che il Vaticano colpì con la sua. definizione. – Una teoria sovversiva della potestà pontificia è il Cesarismo assoluto, di cui fu fautore principale Marsilio da Padova nel suo libro « Defensor Pacis ». La pienezza del potere religioso e civile risiede, come viene esposto in quest’opera, nel popolo, e dal popolo, come da propria fonte, immediatamente promana. Il popolo a sua volta la trasmette all’imperatore, il quale, come depositario della volontà legislatrice del popolo e rappresentante della comunità dei fedeli, è capo della società civile e della Chiesa stessa. La Chiesa quindi non è che un elemento dello Stato: essa ha, come organo di governo il Concilio ecumenico, formato da Vescovi, chierici e laici e presieduto dal Principe. Il Papa è un semplice mandatario del Concilio, dal quale può essere punito e deposto. (Oddone: Il Concilio Vaticano, pag. 46. — Cf. Dict. Téol. Catt. « Primauté », pag. 309). La formulazione quasi ufficiale di queste dottrine si ebbe nel Concilio di Pisa (1409) e in quello di Costanza (1414), specialmente mediante l’opera di Pietro d’Aillly e di Giovanni Gersone, nei quali Concili sidecretò con particolari canoni la supremazia del Concilio ecumenico sopra il Papa. A questi principi s’ informò poi il Gallicanismo portando in essi qualche moderazione. Per Gallicanismo i generale s’intende un complesso di dottrine, che mira a limitare l’autorità del Papa, attribuendo alla Chiesa d Francia e alle autorità politiche della nazione francesi un certo numero di diritti e di privilegi designati sotto il nome di libertà gallicane. Esso si presenta quindi sotto l’aspetto ecclesiastico e sotto l’aspetto politico. Il Gallicanismo ecclesiastico o episcopale attribuisce ai Vescovi privilegi e diritti in riguardo alla Sede di Roma e determina l’estensione del potere spirituale e il soggetto di questo potere. Nel sec. XVII-XVIII esso era comunemente insegnato nelle Scuole teologiche di Francia e specialmente alla Sorbona. Il potere spirituale del Papa non si estende in nessun modo sui re e su certi privilegi dei Vescovi francesi; il soggetto del potere spirituale non è il Papa solo, ma la Chiesa universale radunata in Concilio; il Papa dal punto di vista dottrinale non è infallibile se non con il Concilio ecumenico; dal punto di vista disciplinare è vincolato dai canoni della Chiesa intera e dagli usi delle Chiese particolari. – Il Gallicanismo politico o parlamentare o regale mirava a regolare le relazioni tra lo Stato e la Chiesa, e nelle sue pretese andava più oltre che il Gallicanismo ecclesiastico; estendendo i diritti del potere politico in modo da invadere addirittura il dominio spirituale della Chiesa. I re si arrogavano infatti il diritto di convocare i Concili nazionali; restringevano e sorvegliavano l’amministrazione del Papa e dei Vescovi; facevano dipendere dal loro beneplacito l’entrata in Francia dei legati pontifici, il viaggio dei Vescovi francesi a Roma, la pubblicazione delle bolle pontificie e delle ordinanze episcopali; nominavano i Vescovi; appoggiavano i loro diritti con mezzi di rigore, quali il placet, l’appello al Concilio generale, l’appello ab abusu ecc. Si voleva insomma costituire per la Chiesa di Francia come un corpo separato nel Cristianesimo. Luigi XIV fece votare dall’Assemblea del clero gallicano nella Dichiarazione del 1682, le quattro celebri proposizioni: 1° S. Pietro e i suoi successori non hanno ricevuto da Dio se non il potere sulle cose spirituali; sulle cose temporali non hanno alcuna giurisdizione né diretta né indiretta; 2° La pienezza di potere che la Sede Apostolica e i successori di Pietro, Vicari di Gesù Cristo, banno sulle cose spirituali, è limitata dai decreti del Concilio di Costanza, che proclamò la superiorità del Concilio sul Papa; 3° La Sede Apostolica deve rispettare le regole, le usanze e le costituzioni ricevute nel regno e nella Chiesa gallicana; 4° Benché il Papa abbia la parte principale nelle questioni di fede e i suoi decreti riguardino tutte le Chiese e ciascuna Chiesa in particolare, tuttavia il suo giudizio non diviene irreformabile se non dopo il consenso della Chiesa universale. – Simile al Gallicanismo è il Cesarismo mitigato, seguito dai politici della scuola liberale moderna. Essi non negano alla Chiesa il diritto di governare, di insegnare e di amministrare le cose sante in virtù di una missione divina. La Chiesa può fare leggi canoniche, approvare istituzioni religiose, scomunicare e assolvere: lo Stato, avendo un fine temporale, non può ingerirsi positivamente e direttamente nelle cose della Chiesa. Ma affinché la Chiesa non rechi nocumento al fine dello Stato, esso deve avere necessariamente un potere indiretto negativo nelle cose sacre, mediante il quale, benché non possa mutare la sostanza degli atti della giurisdizione spirituale, può in qualche modo irritarli. La fede religiosa, dal momento che cessa di essere cosa intima e individuale per divenire pubblica e comune, cade sotto il dominio della autorità civile. Viene quindi attribuito allo Stato il diritto di supremo dominio sui beni ecclesiastici, il diritto di suprema ispezione in tutta la vita esterna e sociale della Chiesa, il diritto di ricevere i ricorsi dei fedeli contro le autorità ecclesiastiche, il diritto di proibire la pubblicazione degli atti pontifici e vescovili senza il permesso del tribunale civile. Lo Stato non riconosce nel suo territorio alcun’altra autorità che non sia la sua, e per conseguenza non ammette alcuna società che non sia sotto la sua dipendenza.

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E il Concilio Vaticano definì contro ogni forma di Cesarismo, che la potestà del Papa è piena e suprema sopra tutta la Chiesa, veramente episcopale, ordinaria e immediata.

La giurisdizione del Papa è per sé piena e suprema; è piena perché egli ha non soltanto le parti principali della potestà, ma tutta la potestà che Cristo comunica alla sua Chiesa; è suprema, perché nessun’altra potestà è maggiore o eguale alla sua. Perciò il Papa può da solo compiere tutto ciò che appartiene al governo della Chiesa senza alcun concorso di Vescovi o consenso della Chiesa; egli non dipende da alcun altro, né la sua potestà è coartata da alcun limite o per riguardo alle persone o per riguardo ai luoghi o per riguardo agli oggetti: si estende assolutamente a tutte le cause, a tutte le particolari Chiese. Il Romano Pontefice infatti, in forza dei suoi uffici di clavigero del regno dei cieli, di Pastore supremo e di confermatore dei suoi fratelli nella fede, ha sopra tutti e singoli i fedeli e i Vescovi, anche presi collegialmente, la potestà di vera e propria giurisdizione estendentesi a tutto ciò che appartiene al fine della Chiesa; e questa potestà è affatto indipendente nel suo esercizio, non abbisogna della cooperazione di alcun altro, da essa anzi deriva e dipende qualunque altra potestà ecclesiastica. S. Leone Magno scrivendo al Vescovo di Tessalonica, da lui elevato alla sede vescovile di quella città, gli diceva: « Come usarono i miei predecessori con i predecessori vostri, io pure, seguendo l’esempio degli antichi, ho delegato alla vostra carità le veci del mio ufficio, affinché penetrato dai sentimenti stessi della vostra mansuetudine, ci veniate in aiuto nella cura, che per divina disposizione ci fu commessa di tutte le Chiese, e in certa guisa rappresentiate la nostra persona nelle province lontane dalla Sede Apostolica… Nel commettere alla carità vostra le nostre veci, vi abbiamo chiamato a parte della nostra sollecitudine, non dei nostri pieni poteri ». (Ferrè: La Costituzione dogmatica : « Pastor aeternus », Volume II, pag. 315). Conseguenza immediata ed evidente della pienezza e supremazia della potestà pontificia, è la sua superiorità sul Concilio ecumenico. Il Papa per disposizione di Cristo è il fondamento della Chiesa, ha la potestà delle chiavi su tutta la Chiesa, ha l’autorità di confermare i suoi fratelli. Ma questa triplice divina prerogativa del Papa sarebbe nulla, se egli non fosse superiore al Concilio. Osserviamo, per meglio precisare, che l’autorità del Concilio unito al Papa in confronto dell’autorità del Papa solo, è bensì maggiore estensivamente, perché anche i Vescovi come veri giudici concorrono insieme con il Papa a formare i decreti dogmatici e disciplinari; ma intensivamente, ossia per intrinseca efficacia, è al tutto uguale, perché il Papa ha in sé la piena potestà di compiere tutti gli atti richiesti dal governo della Chiesa. Se il Papa da solo, fuori del Concilio, pronunzia una definizione dogmatica, oppure emana una legge disciplinare per tutta la Chiesa, tutti i Vescovi e i semplici fedeli sono strettamente obbligati a credere e ubbidire. Se tale definizione venisse pronunziata in un Concilio, l’obbligo non sarebbe per questo più grave, perché quando si tratta di intrinseca obbligazione morale, non si dà né il più né il meno. (Oppone: I Concili ecumenici, pag. 49). – Il Concilio Vaticano affermando la piena e suprema autorità del Papa lasciò intatta la questione dell’origine della giurisdizione dei Vescovi. Si disputa e soprattutto si disputò durante il Concilio di Trento, se la giurisdizione episcopale derivi immediatamente da Dio o immediatamente dal Papa. La potestà di giurisdizione è nei Vescovi propria e ordinaria, e perciò alcuni sostengono che proviene immediatamente da Dio con la consacrazione. Altri teologi molto più numerosi dicono invece che tale potestà proviene immediatamente dal Pontefice e mediatamente da Dio. Qualunque sentenza si scelga, sempre bisogna tenere come vere le due seguenti osservazioni. La prima che i Vescovi non sono meri delegati del Papa, ma che la loro potestà è ordinaria e propria e che il grado episcopale non può essere abolito nella Chiesa, perché istituito da Gesù Cristo stesso. La seconda che la potestà dei Vescovi, anche se venga immediatamente conferita da Dio, dipende sempre dal Papa sia nel suo esercizio, perché il Papa la può limitare, amplificare o togliere del tutto in qualche caso particolare, sia per ragione del soggetto, che viene determinato dal Pontefice, sia per ragione del termine, cioè del popolo che viene affidato alla cura del Vescovo. (Tanquerey: De vera religione, pag. 574, n. 879. — De Guibert: De Ecclesia, pag. 243).

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La giurisdizione del Papa è veramente episcopale. Per autorità episcopale s’intende il diritto e il potere di fare quelle cose, che secondo l’istituzione di Gesù Cristo sono necessarie e vantaggiose per la santificazione degli uomini e per la loro salvezza spirituale. L’autorità episcopale consiste, in altre parole, nella potestà immediata e ordinaria di pascere, di reggere e di governare il gregge a sé commesso, e importa quindi il diritto e il dovere di ammaestrare i popoli nella verità della fede, di amministrare i Sacramenti, di regolare le funzioni del culto sacro, di fare leggi, di decidere le controversie e di punire i delinquenti: è insomma la potestas pascendi, regendi ac gubernandi gregem sibi commissum. Al PapaGesù Cristo conferì questa potestà episcopale quandogli affidò l’incarico di pascere i suoi agnelli e le sue pecorelle: senza di essa il Papa non sarebbe più Pastore universale del gregge di Cristo. Perciò il Papa non hasoltanto il diritto di ispezione e di vigilanza sopra altre Chiese, come voleva Pietro Tamburini, (Il Papa avrebbe soltanto il diritto di supplire alla negligenza altrui, di provvedere, con le esortazioni e con gli esempi, all’unità della Chiesa. La potestà del Papa sarebbe simile a quella dell’Arcivescovo nelle diocesi dei suoi suffraganei, nelle quali non ha potestà episcopale) il gran corifeo dei Giansenisti in Italia, ma il diritto di compiere gli uffici del Vescovo in qualunque Chiesa particolare, e può esercitare la sua giurisdizione sopra i diversi fedeli della cristianità non soltanto per mezzo dei Vescovi, ma direttamente per sé o per mezzo dei suoi legati. Il Papa può in tutto il mondo cattolico compiere l’ufficio di Vescovo. Che differenza passa dunque tra la potestà di un semplice Vescovo, avente la propria diocesi determinata, e quella del Papa? La differenza sta in questo che la potestà nel Sommo Pontefice si trova nella sua pienezza, nei Vescovi invece ristretta; nel Sommo Pontefice indipendente nei Vescovi dipendente; nei Vescovi limitata alle loro diocesi, nel Sommo Pontefice senza alcuna limitazione di luogo, estesa sino alle estremità della terra. ( Cf. Ferré, I. c., pag: 329: — Bernardi: Il Papa secondo il Concilio Vaticano, pag. 57). Se la potestà del Papa è veramente episcopale bisogna anche dire che questa potestà è pure ordinaria. La giurisdizione ordinaria, secondo i canonisti, è quella che compete a qualcuno per proprio suo diritto, per ragione della sua dignità e del suo ufficio, conformemente alla legge, ai canoni e alla consuetudine. La giurisdizione delegata invece è quella che non compete per ragione di ufficio, ma viene ricevuta da colui che possiede l’ordinaria, ed esercitata in suo nome. Carattere quindi della giurisdizione ordinaria è che colui che ne è rivestito può delegarla ad un altro, che faccia le sue veci. Evidentemente la giurisdizione del Papa deve essere ordinaria, perché il primato pontificio non può essere effetto di una delegazione, non essendovi alcuno al mondo che possegga tanta autorità e la possa delegare. D’altra parte il Papa agisce sempre in suo nome, per sua propria autorità, e a lui appartiene delegare la giurisdizione spirituale in tutta la Chiesa. Il Papa ricevette questa giurisdizione da Gesù Cristo, che gliela comunicò nell’atto stesso che lo elevava ad essere il capo visibile di tutta la Chiesa, il pastore supremo di tutto il suo mistico ovile. Perciò giustamente viene detto Ordinario degli Ordinari. Questa verità era già stata definita sotto Innocenzo II con il seguente decreto, quasi letteralmente ripetuto dal Vaticano: « La Chiesa di Roma per disposizione del Signore ha sopra tutte le altre, potestà ordinaria, come quella che è madre e maestra di tutti i fedeli di Cristo ». (Si confronti anche S. Bonaventura: In breviloguio, p. 6, cap. 12. — FERRÈ, l. c., pag . 335). Dalla dottrina esposta segue infine che la giurisdizione del Papa è mnediata; il che significa che può essere validamente e lecitamente esercitata in tutte le diocesi senza alcun controllo di intermediari, né dei Vescovi né dei governi. Il Papa può, come il Vescovo nella sua diocesi, esercitare la potestà legislativa, giudiziaria e coercitiva immediatamente sopra tutti i fedeli del mondo cattolico; può amministrare in qualunque diocesi i Sacramenti senza alcuna licenza dell’Ordinario del luogo. Conseguentemente ciascun fedele è tenuto a sottomettersi con piena docilità ai decreti del Papa riguardanti la fede e i costumi, a conformarsi alle regole della disciplina ecclesiastica da lui emanate, e a tutto ciò che egli decide e prescrive in ordine al governo della Chiesa cattolica. La ragione si è che ciascun fedele è immediatamente sottomesso per ordine di Cristo alla suprema giurisdizione del Papa.

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Questa autorità suprema, ordinaria e immediata del Papa sopra tutto il Cristianesimo, non nuoce alla giurisdizione ordinaria e immediata dei Vescovi. « Tanto è lungi, dice il Concilio Vaticano; che questa potestà del Sommo Pontefice sia di detrimento al potere ordinario e immediato di giurisdizione episcopale…. che anzi questo loro potere viene al contrario affermato, corroborato e rivendicato dal Pastore supremo e universale, secondo le parole di S. Gregorio Magno: Il mio onore è l’onore della Chiesa universale; il mio onore è la forza solida dei miei fratelli. Allora io sono veramente onorato se a ciascuno è dato l’onore, che gli compete. » (« Pastor Æternus », cap. III). La verità dell’asserzione del Concilio Vaticano è dimostrata con tutta evidenza dalla storia, la quale ci presenta il fatto costante delle diocesi cattoliche, che si moltiplicarono e prosperarono sotto il primato romano. La potestà pontificia è come il fonte, da cui scaturisce la giurisdizione episcopale: non può quindi essere che le riesca di incaglio e di nocumento. Il Papa in rapporto ai Vescovi ha ragione di capo, di fondamento e di maestro: ora quanto maggiormente il capo è glorioso e onorato, tanto più decoro e nobiltà ricevono le membra; quanto più il fondamento è sicuro e inconcusso, tanto maggiore solidità ne ritraggono tutte le parti dell’edifizio; è infine certamente vanto del discepolo l’eccellenza del maestro. – Durante le discussioni del Concilio Vaticano, coloro che temevano un danno per la giurisdizione episcopale dall’asserita potestà del Papa, obbiettavano l’inconveniente che la medesima Chiesa possa avere due Vescovi, il Papa e il Vescovo locale. Rispondeva Mons. Pie, citando S. Tommaso: « Non si dica che sorge l’inconveniente di due Vescovi della medesima Chiesa. Vi è inconveniente, dice S. Tomaso, se due con pari autorità vengano posti a reggere lo stesso popolo: ma se hanno autorità ineguale non sorge più l’inconveniente. E così si capisce come hanno potestà immediata sopra il medesimo popolo e il Parroco e il Vescovo e il Papa. La ragione si è che quando due cause, anche totali, non sono del medesimo ordine, ma una è subordinata all’altra e sono vicendevolmente connesse, non si escludono mutuamente né generano confusione; come il concorso di Dio non esclude né turba l’azione delle cause seconde. Il Papa dunque, come supremo e universale Pastore e Vescovo della Chiesa, non impedisce punto che l’Ordinario proprio di una Chiesa particolare, si denomini e sia vero Vescovo della medesima; come il titolo ordinario del parroco niente sottrae alla superiore e più universale autorità del Vescovo in tutta la sua diocesi; benché il buon ordine domandi che le rispettive attribuzioni dei singoli non vengano senza motivo e senza discrezione, turbate e interrotte, la qual cosa è ammessa da turbate e interrotte, la qual cosa è ammessa da tutti.» (GRANDERATH: Const. Dogm. Conc. Vatic. explicatæ, pag. 118). – Non nocumento quindi, ma anzi vantaggio arreca ai Vescovi, il primato pontificio. I Vescovi ricevono aiuto grande dalla sottomissione e ubbidienza al Papa. Essi insegnano le più sublimi verità della fede con intimo convincimento, poiché sanno di non errare aderendo al maestro universale della Chiesa; e se qualche dubbio sorge loro nell’animo, hanno aperta la via per dissiparlo ricorrendo con docilità al giudice supremo della fede. Nel regolare le molteplici pratiche di pietà procedono sicuramente, poiché sono certi che quando esse vengano approvate dal Papa, non possono essere infette di superstizione. Se avvengono difficili casi di diritto e di morale, è per i Vescovi di gran sollievo il poter deferire al tribunale del Papa la questione e attenderne la sentenza definitiva. Anche nelle dure lotte contro i nemici della fede, prendono vigore e conforto nel sapersi approvati, aiutati e difesi dal Papa. – Aggiungiamo che il primato del Papa è ordinato alla necessaria unità della Chiesa di Cristo, nella quale deve esserci un solo ovile e un solo Pastore. (Giov. X, 16) Se il Papa non fosse il Vescovo e il Pastore universale con giurisdizione piena, ordinaria e immediata, i Vescovi non avrebbero alcun pastore sopra di sé, e perciò la Chiesa non sarebbe un ovile solo sotto l’autorità di un solo visibile pastore; ma vi sarebbero tanti Pastori quanti Vescovi, i quali non sarebbero governati da alcun Pastore supremo. Conseguentemente contro l’istituzione di Cristo svanirebbe l’unità della fede e della disciplina, vi sarebbero tante membra che non costituirebbero un corpo vivo e unificato. È pertanto chiarissimo che, come l’unità delle Chiese particolari procede dall’unità del Vescovo, così dall’unità del Vescovo supremo è universale deriva l’unità della Chiesa universale. (Perrone: De locis theol., p. I, n. 606). Il Papa, dice il De Maistre, è il solo principio possibile, il principio divino d’unità nella Chiesa. Per mezzo di lui soltanto si può realizzare l’indispensabile unità di dottrina e di governo, e quindi la vera cattolicità; per mezzo di lui soltanto si può mantenere indefettibile la apostolicità, con il progresso e la fecondità dell’evangelizzazione. Il Papa soltanto, dominando dal suo principato spirituale, tutte le potenze terrestri, può assicurare alla Chiesa indipendenza e libertà. Del resto i fatti registrati nelle pagine della storia e più eloquenti di tutte le dimostrazioni, ci dicono che le Chiese separate soffrono di divisione e anche di sgretolamento e di anarchia, per mancanza di un’autorità superiore unificatrice. (Il Papa. — Cf. Vladimiro Soloviev:, La Russie et l’Église universelle, p. LXVI. — D’ Herbigny: Teol. de Ecclesia). Possiamo dire che la costituzione della Chiesa cattolica presenta un carattere particolare che non ci permette nessun confronto con le altre costituzioni. La Chiesa non è una federazione, nella quale dinastie più o meno autonome, si raggruppino intorno ad un presidente, come i diversi sovrani della Germania del 1871 si univano attorno all’imperatore. La Chiesa non è neppure uno Stato centralizzato secondo la formula napoleonica, dove opererebbero, nelle diverse parti del territorio nazionale, dei prefetti ad nutum, semplici delegati del potere centrale. Essa ha una costituzione tutta speciale, dove bisogna tener conto delle istituzioni di diritto divino e delle determinazioni, che gli avvenimenti hanno apportato a questo diritto. Al Papa, nel quale si trova la pienezza del potere sulla Chiesa, spetta conciliare il suo diritto e la sua missione con la missione e con il diritto dei Vescovi. Secondo una saggezza e una discrezione, che imitano il governo del Padre celeste, egli prenderà quelle misure che gli sembreranno più opportune per la salvezza delle anime, che è la legge suprema. Primato non significa assorbimento di tutte le giurisdizioni inferiori, soprattutto non significa centralizzazione amministrativa illimitata o dittatura intollerabile. Il Vicario di Cristo stringe o allarga con un senso superiore e divino di giusta comprensione, i legami che uniscono alla prima sede le altre sedi, secondo le opportunità dei tempi e dei luoghi. – Ai canonisti appartiene in modo speciale determinare l’oggetto della giurisdizione pontificia e il modo con cui si esercita. Per la nostra trattazione basta un semplice e breve cenno. Il Sommo Pontefice può emanare leggi per tutta la Chiesa, anche senza il consenso dei Vescovi. Questo potere gli fu dato da Cristo, quando disse a Pietro: Tutto quello che legherai sulla terra sarà legato in cielo. Al Papa fu pure concessa la potestà di « sciogliere », cioè non solo d’interpretare autenticamente, ma anche di mutare, di abrogare o di dispensare dalle sue leggi, da quelle dei suoi predecessori e anche dei Concili ecumenici. Anzi egli può dispensare dalle leggi fatte dai Vescovi o abrogarle, perché i Vescovi sono a lui soggetti e non possono validamente esercitare la loro autorità, se non dipendentemente dall’autorità pontificia. – Il Papa può avocare al suo tribunale le cause ecclesiastiche, riservare a sé le cause maggiori, ricevere gli appelli da qualunque giudizio dei Vescovi e pronunziare sentenze definitive, che non ammettono più alcun appello. La potestà giudiziaria infatti è una conseguenza della potestà legislativa, e colui che ha la potestà di fare leggi per tutta la Chiesa, con ciò stesso può pronunziare sentenze giudiziali per tutti i sudditi cristiani e in ogni affare ecclesiastico. Inoltre, essendo i Vescovi giudici soggetti al Papa, è sempre lecito appellare a lui dalle sentenze dei Vescovi. Non essendovi poi alcun tribunale maggiore di quello del Papa, dalle sue decisioni non è lecito appellare al Concilio ecumenico, come dice espressamente il Vaticano. (Durante il periodo del Giansenismo furono condannati gli Appellanti al futuro Concilio – Già era stato affermato da Pio II, nella Bolla Execrabilis – ndr.). Il Papa in forza del primato ha il diritto di assegnare ai singoli Vescovi il loro gregge particolare, di erigere Diocesi o di sopprimerle, di eleggere i Vescovi o almeno di confermarne l’elezione, di stabilire le norme dell’amministrazione ecclesiastica, di giudicare, trasferire o anche deporre i Vescovi, secondo che lo crederà conveniente per il bene della Chiesa. I Vescovi infatti non possono esercitare la loro potestà se non in dipendenza dal Capo della Chiesa: se qualcuno potesse ritenere ed esercitare una parte dell’autorità ecclesiastica fuori del consenso del Romano Pontefice, si spezzerebbe il vincolo dell’unità. – Appartiene al Romano Pontefice convocare, celebrare e confermare i Concili-ecumenici. (Oppone: I Concili ecumenici, pag. 29). Egli ha pure il potere di delegare ad altri la sua autorità e inviare Legati nei vari Stati, ai Concili ecumenici, per affari di grave importanza, affinché essi facciano le sue veci là dove il Papa non può recarsi, e lo informino dell’andamento delle cose religiose. Quest’uso fu in vigore sino dai primi secoli della Chiesa. Nell’esercizio della sua autorità il Papa è coadiuvato non solo dai Legati, che manda nelle diverse parti, e dai Nunzi, che risiedono presso le diverse nazioni, ma anche dalla Curia Romana, che attualmente comprende diciannove Dicasteri, cioè undici Congregazioni, tre Tribunali e cinque Uffici. (Cf. Codex J. C.). Alla piena e somma potestà del Romano Pontefice, qualunque sia il modo con cui egli la esercita, corrisponde il dovere strettissimo in tutti i figli della Chiesa della più intera e assoluta ubbidienza ai suoi decreti. I documenti della tradizione cattolica ci attestano, che quest’obbligo fu sempre riconosciuto e praticato dai veri fedeli e che dai Sommi Pontefici ne fu sempre rigorosamente richiesto l’adempimento. (FERRE, l. c., Vol. Il, p. 361. — Pio X: Il fermo proposito).

Il punto più importante definito dalla Costituzione Pastor Æternus è l’infallibilità del Papa, intorno alla quale si ebbero lunghe e forti discussioni durante il Concilio Vaticano. (Oddone: I Concili ecumenici, pag. 126.) Avversari di questa dottrina sono tutti coloro che negano il primato del Romano Pontefice. Giovanni Gersone e Pietro d’Ailly dell’Università di Parigi, insegnarono, come abbiamo già accennato; che solo la Chiesa o il Concilio ecumenico, rappresentante di essa, sono giudici infallibili nelle questioni di fede. (Il Gersone nell’opera: Quomodo et an liceat in causis fidei a Summo Pontifice appellare. — ll D’arivy nell’opera: Tractatus de Ecclesia.) All’infallibilità pontificia si opposero in modo speciale i Galliani, secondo i quali il giudizio del Papa non è irreformabile, se non vi si aggiunge il consenso della Chiesa. Essi furono seguiti nel sec. XVIII dai Febroniani e dai Giansenisti. Nello stesso Concilio Vaticano esisteva il partito degli antiinfallibilisti; ma per la verità bisognadire che la maggior parte di essi impugnarono piuttostola opportunità della definizione. Dopo il Concilio Vaticano continuarono ad opporsi al dogma dell’infallibilità, i così detti Vecchi Cattolici, guidati dal Déllinger. (De Guibert: De Ecclesia, pag. 247).

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Precisiamo innanzi tutto, per evitare equivoci ed ovviare a difficoltà, la natura dell’infallibilità. Infallibilità significa in generale immunità dell’errore o incapacità di errare in un soggetto intelligente. Se questa impossibilità di errare si prende nella sua maggiore ampiezza, e come attributo naturale e radicato nell’essenza stessa dell’essere intelligente, non appartiene che a Dio solo, perchè Egli solo è verità per essenza, nella quale per ragione della sua perfezione infinita, non può cadere ombra di errore. Questa infallibilità di Dio è assoluta, universale e imparticipata. Ma Dio può comunicare anche alle sue creature intelligenti una infallibilità condizionata e limitata ad un determinato ordine di verità: avremo in tal caso l’infallibilità anche nell’uomo, ma participata. (1(1) Così possiamo dire che le creature sono infallibili intorno ai primi principi del ragionamento e della legge morale, che non possono essere ignorati né fraintesi dall’ uomo. (Cf. FERRÉ, 1..c., Vol. III, pag. 196).  È chiaro che l’infallibilità della Chiesa e del Papa è una infallibilità partecipata. L’infallibilità ecclesiastica è una prerogativa soprannaturale secondo la quale:

la Chiesa, per una speciale assistenza divina, viene sempre e necessariamente custodita immune dall’errore nel proporre la dottrina rivelata, in modo che non solo non erra, ma non può errare. L’elemento formale della infallibilità è la immunità dall’errore; l’elemento materiale si trova nelle cose di fede e di costumi, che ci vengono comunicate dalla Rivelazione e che si devono custodire intatte; la causa efficiente è l’assistenza dello Spirito Santo. – L’infallibilità, quindi, come risulta dalla definizione; esclude nonsolo il fatto dell’errore (inerrantia facti) ma anche la possibilità dell’errore (inerrantia iuris). Si tratta non di infallibilità essenziale, che compete a Diosolo, ma di infallibilità participata; si tratta di infallibilita’ soprannaturale, che supera cioè le forze e le esigenze della natura, comunicata da Dio per una speciale causa, e che differisce quindi da quella infallibilità naturale di cui è fornito il nostro intelletto per riguardo ai primi principi speculativi e pratici. Dio potrebbe in moltimo di preservare la sua Chiesa dall’errore, ma di fatto sceglie l’assistenza, cioè quegli aiuti della sua divina provvidenza, mediante i quali non si permette che la Chiesa erri nell’esercizio del suo Magistero. Tali aiuti possono riferirsi alle stesse facoltà dell’uomo, la volontà e l’intelletto, che vengono applicate direttamente nella ricerca della verità, o possono trovarsi nelle cose esterne, che distolgano il Papa da una falsa definizione. L’infallibilità non importa per sé sempre un influsso divino positivo; quando le cose procedano bene, lo Spirito Santo può lasciare a se stessa l’attività e l’industria umana. Il dono dell’infallibilità non esclude l’opera e l’indagine propria di colui che definisce, anzi la presuppone, come si deduce chiaramente dalla parola assistenza: si suppongono gli sforzi del Magistero ecclesiastico; ai quali Dio possa assistere e cooperare. Sappiamo che per la prima definizione della Chiesa, gli Apostoli e i Seniori si radunarono in assemblea e molto discussero per trovare la verità e comporre la controversia (Act. XV, 6). La infallibilità differisce dalla rivelazione e dall’ispirazione:

la rivelazione è la stessa manifestazione di una qualche verità in quanto tale; l’ispirazione è l’impulso divino a scrivere la verità rivelata; l’infallibilità invece consiste nell’assistenza a trovare la verità rivelata: suppone quindi la rivelazione, ma non è rivelazione. Distinguiamo ancora l’infallibilità attiva e passiva: la infallibilità attiva è propria della Chiesa docente e consiste nell’immunità dall’errore nell’insegnare; la infallibilità passiva compete ai fedeli che sono ammaestrati, e consiste nell’immunità dall’errore nel credere. La prima fa sì che i dottori autentici della Chiesa non possano mai insegnare il falso quando definiscono: la seconda, quasi effetto della prima, non permette che tutta la Chiesa aderisca ad un errore di fede. – Da questa breve analisi del concetto di infallibilità, si comprende quanto stoltamente e ingiustamente. Si confonda da alcuni la infallibilità con l’impeccabilità o con la omniscienza o scienza universale e assoluta.

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L’infallibilità della Chiesa è innanzi tutto un corollario della sua indefettibilità. Se la Chiesa, infatti, potesse universalmente errare nella vera fede, non sarebbe più la vera Chiesa di Gesù Cristo, la quale deve essere apostolica di apostolicità di dottrina; le porte dell’inferno prevarrebbero allora contro di essa. La indefettibilità ecclesiastica importa immutabilità nelle cose sostanziali; ora il dogma e la morale appartengono alle cose sostanziali. In modo più esplicito e diretto la infallibilità della Chiesa si deduce dalle promesse che fa Cristo, di essere con gli Apostoli sino al termine dei secoli, e di mandare loro lo Spirito Santo, affinché con loro rimanga e continui ad ammaestrarli. Cristo inoltre ha imposto a tutti di credere agli Apostoli sotto pena di dannazione eterna: « Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; chi non crederà, sarà condannato ». (Marc. XVI, 16) Dunque se non si vuol dire che Cristo abbia potuto obbligare gli uomini all’errore, bisogna ammettere il Magistero infallibile della Chiesa. Gli Apostoli nel loro insegnamento esigono un assenso irreformabile e chiamano la Chiesa « colonna e base della verità ». (Columna et firmamentum veritatis – 1 Tim. III, 15). L’infallibilità del Papa è una forma dell’infallibilità della Chiesa, è la stessa infallibilità della Chiesa considerata in un soggetto determinato, che è il Romano Pontefice. « Il Romano Pontefice, dice il Vaticano, quando parla ex cathedra, gode di quella infallibilità di cui il Redentore divino volle essere fornita la sua Chiesa nel definire una dottrina sulla fede e sui costumi, e perciò le definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili per se stesse e non in virtù del consenso della Chiesa ». (« Pastor Æternus », Cap. IV).Si tratta d’infallibilità nell’insegnamento e non nell’azione,molto meno ancora nella condotta personale delPapa. Non è questione di un insegnamento qualunque,ma di un atto dottrinale proprio ad impegnare la Chiesa. L’infallibilità non appartiene dunque ai sentimenti privatidell’uomo, ma alle decisioni ufficiali del capo. Essanon si estende a tutto il dominio del sapere, ma unicamentealle materie di fede e di costumi, le sole sullequali ha competenza il Magistero ecclesiastico… Comequella della Chiesa, l’infallibilità del Papa deve la suaorigine ad un privilegio divino, che consiste in una graziadi assistenza e non di ispirazione. Per conseguenza nonesenta il Papa dalle leggi comuni della prudenza umana:essa garantisce soltanto dall’errore il risultato definitivodelle sue deliberazioni. Il suo scopo quindi non è quellodi accrescere di nuove verità il tesoro della rivelazionedivina; ma di assicurare la perfetta conoscenza e conservazione delle verità rivelate. L’infallibilità è un privilegioindividuale in questo senso che appartiene al Papasolo e non potrebbe egli delegarla ad un altro. Tuttavianon è un carisma destinato all’esaltazione della sua persona, ma un mezzo per lui di compiere la sua missione di Pastore supremo: tende così tutta intera al bene comunedelle anime cristiane. Quando si parla dell’infallibilità della Chiesa e dell’infallibilità del Papa, non si vogliono già designare due autorità separate e rivali, di cui si possa temere l’opposizione, ma di due organi differenti,l’uno collettivo, l’altro personale, per comunicare ai credenti la verità, di cui Gesù Cristo è la fonte e il custode. La medesima protezione e assistenza divina si estende al Corpo e al Capo. –  Così intesa, l’infallibilità del Papa è una verità che risulta chiaramente dalla Scrittura e dalla Tradizione. L’infallibilità è distinta dal primato, come appare dalla definizione. Ma se si segue lo sviluppo teorico e pratico di questi due dogmi, si constata che essi si affiancano e si implicano vicendevolmente. L’infallibilità è intimamente connessa con il primato: deriva dal primato come una conseguenza da un principio o piuttosto si identifica con il primato come una proprietà necessaria. L’infallibilità è, nel dominio della giurisdizione dottrinale, il coronamento logico del primato: poiché il Papa è il capo supremo della Chiesa, egli è pure il supremo dottore e possiede per questa ragione la infallibilità. Perciò lo studio intorno alla infallibilità pontificia utilizza gli stessi documenti e gli stessi fatti recati per il primato. (Hervé: Théol. Dogm., Vol. I, pag. 443.).

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Un argomento generale a favore della infallibilità pontificia si deduce dalle verità già dimostrate di sopra. AI Pontefice fu data la piena e suprema autorità sulla Chiesa, e d’altra parte la Chiesa è infallibile nell’insegnare. Ora se la potestà magisteriale del Romano Pontefice  fosse fallibile, non potrebbe più dirsi piena e suprema, perché dovrebbe completarsi con quella dei Vescovi e del Concilio: cioè sarebbe più piena la potestà di tutto l’episcopato che quella del Papa solo. Si cadrebbe in uno di questi due assurdi, o la Chiesa dovrebbe rinnegare il suo Capo supremo per rimanere fedele alla verità da lui falsificata, o perdere il possesso della verità per rimanergli fedele. Alla stessa conclusione ci conducono i testi del primato, che abbiamo a suo luogo esaminati.

Il Romano Pontefice è fondamento visibile di tutta la Chiesa, principio efficiente della sua unità e della sua fermezza, principio quindi efficace della fede, che è l’elemento essenziale e precipuo dell’edificio della Chiesa. (Matth. XVI, 18) Ma il Papa non potrebbe essere principio e causa della ferma fede della Chiesa, se egli non fosse di per sé fermissimo nella fede, se potesse insegnare a tutta la Chiesa un errore in questioni di fede. Similmente Cristo ha assicurato che gli assalti dell’inferno, tra i quali sono specialmente le eresie, non avranno mai ragione contro la Chiesa: dunque molto meno prevarranno contro la Pietra, sopra la quale si appoggia la Chiesa e la fermezza della fede. Ora prevarrebbero certamente, se il Pontefice nell’adempiere l’ufficio di supremo maestro, non fosse di per sé fermo nella fede. Ancora dallo stesso testo di S. Matteo sappiamo che Dio ha promesso di legare e ratificare in cielo tutto ciò che il Papa lega in terra: ma Dio non può ratificare in cielo ciò che il Papa lega in terra, se egli nell’emanare un decreto dottrinale obbligante tutta la Chiesa, erra nella fede. Più espliciti sono gli altri testi del Vangelo. « Io ho pregato per te, dice Cristo rivolto a Pietro, affinché la tua fede non venga meno… Conferma i tuoi fratelli ». (S. Luc. XXII, 31). Viene così scartato ogni indebolimento, ogni danno nella fede di Pietro: viene formalmente assicurata, nonostante i pericoli, la indefettibilità di Pietro nella fede, cioè l’infallibilità. E questo affinché egli possa consolidare e fortificare i suoi fratelli. Pietro dunque e i suoi successori sino al termine dei secoli, parlando o insegnando come capi della Chiesa, devono confermare nella fede tutti i fedeli considerati isolatamente o collettivamente, facendoli partecipare alla loro propria indefettibilità. Ma affinché la promessa di Gesù non sia vana e che i fedeli non siano trascinati nell’errore, bisogna che questo insegnamento di S. Pietro e dei suoi successori, quando parlano come capi della Chiesa, sia, in virtù della promessa divina, assolutamente e costantemente garantito contro ogni possibilità di defezione nella fede. Sappiamo pure dal Vangelo che Gesù Cristo diede a Pietro e ai suoi successori l’incarico di pascere gli agnelli e le pecorelle, cioè di dirigere e di nutrire con dottrina salutare, tutto ilo gregge di Cristo, Vescovi e fedeli, e d’allontanarli dai pascoli velenosi: ora quest’ufficio importa necessariamente la infallibilità nel senso che abbiamo esposto. (S. G. XXI, 15). Supponiamo infatti che il Papa errasse nel definire la dottrina cristiana: in tal caso o tutta la Chiesa accetterebbe la sua sentenza, e verrebbe allora a mancare la infallibilità e indefettibilità della Chiesa; o la Chiesa protesterebbe contro la decisione del Papa e la correggerebbe, e cesserebbe allora l’ordine gerarchico istituito da Cristo: il gregge pascerebbe il pastore. – La infallibilità del Papa, benché non sia così esplicitamente e categoricamente asserita dai Padri della Chiesa, tuttavia fu realmente riconosciuta e in pratica e in teoria fino dai tempi più antichi, come appare dalle testimonianze degli stessi Padri, dal modo di agire dei Romani Pontefici, dagli atti dei Concili. Si confronti tutto ciò che abbiamo detto parlando del primato del Romano Pontefice nella parte III. La tradizione anzi illumina sempre meglio gli stessi fondamenti evangelici. Nei primi tre secoli la dottrina dell’infallibilità è implicitamente contenuta nell’autorità sovrana, che si riconosce nei giudizi della Chiesa di Roma, nella credenza universale che la integrale dottrina apostolica sia presso i Romani. Per S. Ignazio d’Antiochia i Romani sono quelli che « ammaestrano gli altri »; per S. Ireneo « bisogna far decidere a Roma le questioni che sorgono tra i Cristiani »; secondo S. Cipriano di Cartagine, « a Roma non ha accesso la perfidia e l’errore ». L’infallibilità pontificia risplende maggiormente nelle controversie trinitarie e cristologiche dei secoli IV e V, mediante numerosi interventi dei Papi soprattutto nei Concili e attraverso alle eloquenti affermazioni dei Padri, specialmente di S. Agostino, di S. Ambrogio e di S. Gerolamo, che furono riportate ed esaminate altrove. Nel Medio evo questa autorità suprema dottrinale del Papa continua ad affermarsi e a precisarsi nello sviluppo dottrinale scolastico. S. Bernardo rimanda Abelardo a Roma « dove la fede non può mai provare alcun eclisse »: (Epist. CXC. P. L., Vol. 182, col. 1053). S. Tommaso sentenzia che appartiene al Papa stabilire dei Simboli, perché è « proprio della sua missione decidere in ultimo luogo le questioni della fede ». (Summ. Theol.,, II, II, q.1 a 15. — Cf. Bricout: Pape, p. 246). Gli assalti del Gallicanesimo non oscurano né scuotono questa magnifica tradizione, ma provocano i Cattolici ad uno studio più profondo di essa, che culmina nella definizione dogmatica del Vaticano.

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Il Concilio Vaticano definendo il dogma dell’infallibilità pontificia, ha precisato le condizioni che deve presentare un atto del Papa, per beneficiare di questo privilegio. Secondo un’espressione da lungo tempo in uso nelle scuole, « il Romano Pontefice è infallibile quando parla ex cathedra ». La cattedra è in generale simbolo di autorità soprattutto dottrinale: le formule « parlare ex cathedra », « definire ex cathedra », sono adoperate per designare il pieno esercizio del magistero pontificale. Affinché si abbia una definizione infallibile, si richiede dapprima che il Papa si pronunzi ufficialmente come tale, che eserciti cioè l’ufficio di Pastore e di Dottore pubblico di tutti i Cristiani. Se il Papa parla come persona privata, discorrendo con i suoi familiari, come dottore privato, stampando un libro di materia religiosa; se opera come re temporale; se parla come Vescovo della diocesi di Roma, tenendo un’istruzione pubblica per esempio in una chiesa della città, non deve dirsi infallibile. Anzi non basta un modo qualunque di proporre una dottrina anche quando il Papa esercita l’ufficio di dottore e pastore pubblico, ma si richiede che adoperi la sua autorità pienamente, in tutta la sua forza ed estensione, emanando una sentenza perentoria, irreformabile, che ponga fine ad ogni incertezza e turbamento di animo. – Si richiede che la sua sentenza riguardi tutta la Chiesa, sia imposta cioè a tutti i Cristiani. Non sembra tuttavia necessario che il documento contenente la definizione, sia immediatamente diretto alla Chiesa universale: basta che sia destinato a tutta la Chiesa, benché direttamente sia forse indirizzato al Vescovo di qualche regione, dove è più diffuso l’errore che il Papa vuole condannare. – È necessario che l’intenzione di definire sia manifesta. Si tratta infatti di imporre una legge a tutta la Chiesa; la quale legge, finché rimane dubbia, non può imporre obbligazione. Il Diritto Canonico decreta: « Nessuna cosa si intende dogmaticamente dichiarata o definita, se ciò non appare manifesto ». (Can. 1323). Non è per sé determinata alcuna formola speciale per rendere manifesta la intenzione del Papa: soltanto si richiede che venga fatta conoscere in modo chiaro o esplicitamente o con termini equivalenti. (Van Noort, l. c., pag. 183).

È necessario, infine, che si tratti di un insegnamento intorno alla fede e ai costumi: res fidei et morum. Oggetto primario o diretto del Magistero infallibile del Papa, sono tutte e singole le verità religiose contenute formalmente nelle fonti della rivelazione. (Una verità può essere rivelata formalmente o virtualmente. Si dice rivelata formalmente se è rivelata in se stessa, sia esplicitamente sia implicitamente, cioè nel suo concetto: si dice rivelata virtualmente, quando in se stessa non è rivelata né esplicitamente né implicitamente, ma si può dedurre da una verità formalmente rivelata mediante un raziocinio deduttivo. Sulle verità rivelate virtualmente i Teologi non hanno però tutti la stessa nozione. (Cf. I Problemi della fede). Oggetto secondario e indiretto dell’infallibilità sono tutte quelle verità, che sono talmente connesse con la rivelazione, che, se intorno ad esse non si potesse portare un giudizio assolutamente certo, la stessa rivelazione patirebbe detrimento. Alcune di queste verità sono presupposte alla rivelazione, come i preamboli della fede filosofici e storici; altre derivano come necessaria conseguenza dalle verità rivelate; altre sono necessarie o sommamente convenienti, affinché si possa ottenere il fine della rivelazione. L’infallibilità del Papa quindi si estende a verità filosofiche, alle conclusioni teologiche, ai fatti dogmatici, alla disciplina generale della Chiesa, all’approvazione degli Ordini religiosi e alla Canonizzazione dei Santi. L’ambito dell’infallibilità del Papa è quello stesso della Chiesa. (Per lo sviluppo di questa dottrina rimandiamo il lettore alla nostra opera: « I Problemi della fede ». — Cf. ZAPELENA: De Ecclesia, pag. 314. — VAN Noort, l. c., pag: 90).

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Precisiamo in ultimo il nostro atteggiamento davanti al Magistero del Papa. Dobbiamo aderire con consenso interno, assoluto e irreformabile a tutto ciò che il Papa insegna infallibilmente come rivelato da Dio o come connesso con le verità rivelate. Ogni opposizione a questo riguardo ci separa dalla Chiesa. Non possiamo quindi ammettere dottrine contrarie alle definizioni pontificie. Siamo pure obbligati a sottometterci in coscienza alle decisioni dottrinali dell’autorità ecclesiastica, benché non infallibili. Il magistero della Chiesa non è una pura e semplice esposizione della verità, ma ha inseparabilmente congiunto il potere di comandare ai suoi sudditi l’ubbidienza dell’assenso intellettuale a ciò che viene insegnato. Ogni insegnamento autentico della Chiesa, per l’autorità da cui promana, per la luce che proviene alla Chiesa dall’assistenza dello Spirito Santo, per la ponderatezza dei suoi processi dottrinali, per la prudenza dei suoi giudizi, è così ragionevole e grave, che ogni Cattolico gli deve docile soggezione. Questa soggezione non importa per sé un’adesione irreformabile, ma però domanda, oltre l’esteriore sottomissione, un interno virtuoso assenso. Dovesse questo atteggiamento in qualche caso rarissimo e « per accidens », costare un reale sacrifizio allo scienziato; questo è ben dovuto a beni di ordine immensamente superiore, quali sono l’unità e l’incolumità della fede e la pace della coscienza. Allo scienziato credente è lecito presentare nelle debite forme, alla competente autorità della Chiesa, le ragioni del suo interiore dissidio, attendendo sereno dalla Divina Provvidenza, che veglia sulla Chiesa, l’immancabile trionfo della verità. Sottomissione piena ed umile alla parola del Papa riconosciuta divina, è la grande semplificazione dello spirito cattolico, è la via breve che mena alla soluzione di tutti i grandi problemi che tormentano la nostra ragione. « Dove è il Papa, è la Chiesa; dove è il Papa, non vi è la morte, ma la vita eterna; non vi è l’errore, ma la verità ». (S. Ambrogio).

LA COSTITUZIONE « PASTOR ÆTERNUS »

PROLOGO. — Il Pastore eterno e il Vescovo delle anime nostre, per rendere perpetua l’opera salutare della sua redenzione, decretò di edificare la Santa Chiesa, nella quale, come nella Casa del Dio vivente, tutti i fedeli si mantenessero uniti. con il vincolo di una sola fede e di un solo amore. Perciò prima di essere glorificato, pregò il Padre suo non solo per gli Apostoli, ma anche per quelli che avrebbero creduto in Lui per la loro parola, affinché tutti fossero una cosa sola in quel modo che sono una cosa sola lo stesso Figlio e il Padre. Come dunque mandò gli Apostoli, che si era scelti dal mondo, nella maniera stessa con cui egli era stato mandato dal Padre, così volle che nella Chiesa sua vi fossero pastori e dottori fino alla consumazione dei secoli. Ed affinché lo stesso episcopato fosse uno ed indiviso, e si conservasse nella unità della fede e della comunione tutta la moltitudine dei credenti per mezzo della coesione di sacerdoti, pose il beato Pietro a capo degli altri Apostoli, e istituì in lui il principio perpetuo e il fondamento visibile di questa doppia unità, volendo che sopra la sua solidità si costruisse il tempio eterno e che sulla fermezza della sua fede si innalzasse la Chiesa sino all’altezza dei cieli. E poiché le porte dell’inferno insorgono da ogni parte con odio sempre crescente contro il fondamento divinamente istituito della Chiesa, per abbatterla, se fosse possibile, noi con la approvazione del santo Concilio giudichiamo necessario per la salvaguardia, la salvezza e l’accrescimento del popolo cattolico, di proporre per essere creduta e tenuta, conformemente all’antica e costante fede della Chiesa universale, la dottrina sull’istituzione, la perpetuità e la natura del sacro primato apostolico, sopra la quale riposa la forza e la solidità di tutta la Chiesa, e di proscrivere e condannare gli errori contrari, tanto dannosi al gregge del Signore.

Capo I. — Dell’istituzione del primato apostolico nel beato Pietro

Insegniamo quindi e dichiariamo, secondo la testimonianza del Vangelo, che il primato di giurisdizione su tutta la Chiesa di Dio fu promesso e dato da Cristo Signore immediatamente e direttamente al beato apostolo Pietro. Infatti, a Simone soltanto, al quale già aveva detto: « Tu ti chiamerai Cefa », a lui solo che gli aveva fatta questa confessione: « Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo », Gesù disse: « Beato sei tu, Simon Bar lona, perché non la carne e il sangue te lo ha rivelato, ma il Padre mio, che è nei cieli. E dico a te, che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non avranno forza contro di essa. E a te to darò le chiavi del regno dei cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli ». Ed ancora al solo Simon Pietro diede Gesù, dopo la sua resurrezione, la giurisdizione di Sommo Pastore e Rettore su tutto il suo ovile, dicendo: « Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle ». A questa dottrina così chiara della Sacra Scrittura, come fu sempre intesa da tutta la Chiesa, sono apertamente contrarie le perverse opinioni di coloro che, pervertendo la forma di governo costituita da Cristo Signore nella sua Chiesa, negano che il solo Pietro sta stato investito da Cristo di un vero e proprio primato di giurisdizione su tutti gli altri Apostoli, sia separatamente uno dall’altro, sia collettivamente insieme; o affermano che questo stesso primato non è stato conferito immediatamente e direttamente al beato Pietro, ma alla Chiesa, e per questa a lui, come a ministro della stessa Chiesa. Se qualcuno, quindi, dice che il beato Pietro apostolo non fu costituito da Cristo Signore principe di tutti gli Apostoli, e capo visibile di tutta la Chiesa militante, oppure che il medesimo Pietro ha ricevuto direttamente ed immediatamente dallo stesso Gesù Cristo Signor nostro solamente un primato d’onore, e non di vera e propria giurisdizione, sia anatema.

Capo II. — Della perpetuità del primato di Pietro nei Romani Pontefici.

Quello poi che, a perpetua salute e bene perenne della Chiesa, il principe dei pastori ed il gran pastore delle pecorelle, il Signor Gesù Cristo, istituì nel beato apostolo Pietro, deve necessariamente, sotto l’azione dello stesso Cristo, durare nella Chiesa, la quale fondata sopra la pietra, starà ferma fino alla fine dei secoli. A nessuno, infatti, può cadere in dubbio, anzi è un fatto notorio in tutti i secoli, che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli Apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa Cattolica, ha ricevuto da Nostro Signore Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano, le chiavi del regno; egli fino a questo tempo e sempre, vive e regna e giudica nei suoi successori, i Vescovi della Santa Romana Sede, da lui fondata e consacrata col suo sangue. Perciò chiunque succede in questa cattedra a Pietro, egli, secondo l’istituzione dello stesso Cristo, tiene il primato di Pietro su tutta la Chiesa. Rimane dunque ciò che la verità ha stabilito, e il beato Pietro, conservando sempre la fortezza della pietra, non abbandona mai, dopo averlo una volta preso, il governo della Chiesa. Per questa ragione fu sempre necessario che alla Chiesa Romana per la sua superiorità eminente si riferisse ogni Chiesa, ossia tutti i fedeli sparsi per ogni luogo, affinché, uniti come membri al loro capo, formassero un solo e medesimo corpo in questa Sede, donde provengono su tutti i diritti della venerata Comunione. Se qualcuno, quindi, dice che non è per istituzione dello stesso Cristo: Signor Nostro, ossia di diritto divino, che il beato Pietro ha perpetui successori nel primato su tutta la Chiesa; o che il Romano Pontefice non è il successore del beato Pietro nello stesso primato, sia anatema.

Capo III. Della forza e della ragione del primato del Romano Pontefice.

Per la qual cosa, appoggiati alle manifeste testimonianze delle sacre lettere, ed aderendo ai decreti formali e perpetuamente chiari, tanto dei Romani Pontefici, nostri predecessori, quanto dei Concili generali, rinnoviamo la definizione. del Concilio ecumenico di Firenze, in virtù della quale tutti î fedeli di Cristo sono tenuti a credere che la santa Sede Apostolica ed il Romano Pontefice tiene il primato in tutto il mondo, e che lo stesso Romano Pontefice è successore del beato Pietro, principe degli Apostoli, e vero Vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa, e padre e dottore di tutti i Cristiani; e che a lui nel beato Pietro fu affidata da Gesù Cristo, Signor nostro, piena potestà di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come pure questo è contenuto negli Atti dei Concili ecumenici e nei sacri canoni. Insegniamo pertanto e dichiariamo che la Chiesa di Roma ha, per una disposizione del Signore, il principato della potestà ordinaria sopra tutte le altre Chiese; e questa potestà di giurisdizione del Romano Pontefice, veramente episcopale, è immediata: che verso di essa i pastori ed i fedeli di qualunque rito e dignità, sia ciascuno separatamente che tutti insieme, sono astretti dal dovere di subordinazione gerarchica e di vera ubbidienza non solo in quelle cose che appartengono alla fede e ai costumi, ma anche in quelle che riguardano la disciplina ed il governo della Chiesa sparsa per il mondo intero; così che mantenendo l’unità sia di comunione sia di professione della stessa fede con il Romano Pontefice, la Chiesa di Cristo formi un solo gregge sotto un solo Sommo Pastore. Questa è la dottrina della verità cattolica, dalla quale nessuno può deviare senza perdere la fede e la salvezza. Tanto poi è lungi che questa potestà del Sommo Pontefice sia di detrimento al potere ordinario e immediato di giurisdizione episcopale, in forza della quale i Vescovi, posti dallo Spirito Santo e successori degli Apostoli, pascono e reggono come veri pastori ciascuno il gregge particolare affidato alla sua cura, che anzi questo loro potere viene al contrario affermato, corroborato e rivendicato dal Pastore supremo e universale, secondo le parole di S. Gregorio Magno: « Il mio onore è l’onore della Chiesa universale. Il mio onore è la forza solida dei miei fratelli. Allora io sono veramente onorato, quando a ciascuno è dato l’onore che gli compete ». Da questa suprema potestà del Romano Pontefice di governare la Chiesa universale, risulta per lui il diritto di comunicare liberamente, nell’esercizio della sua carica, con i pastori e i greggi di tutta la Chiesa, affinché questi possano essere istruiti e diretti da lui nella via della salute. Perciò condanniamo e riproviamo le sentenze di coloro che dicono che questa comunicazione del capo supremo con i pastori e i greggi può essere lecitamente impedita; oppure la fanno dipendere dalla potestà secolare e pretendono che le disposizioni prese dalla Sede Apostolica o in virtù della sua autorità per il governo della Chiesa, non hanno forza e valore, se prima non siano confermate dal placito della potestà secolare. E poiché il Romano Pontefice per diritto divino del primato apostolico presiede a tutta la Chiesa, insegniamo anche e dichiariamo che egli è giudice supremo dei fedeli, e che in tutte le cause che sono di competenza ecclesiastica, essi possono ricorrere al suo giudizio; e che il giudizio della Sede Apostolica, al disopra della quale non v’è autorità, non può essere riformato da nessuno e che a nessun è lecito giudicare un tale giudizio. Perciò sono lungi dal sentiero della verità coloro che affermano essere lecito appellarsi dai giudizi dei Romani Pontefici al Concilio ecumenico, come ad autorità superiore al Romano Pontefice. – Se pertanto qualcuno dice che il Romano Pontefice ha solamente l’incarico d’ispezione o di direzione, ma non piena e suprema potestà di giurisdizione in tutta la Chiesa, non solo in quelle cose che concernono la fede e i costumi, ma in quelle anche che riguardano la disciplina ed il governo della Chiesa diffusa per tutto il mondo; o che ha soltanto la parte principale, e non tutta la pienezza di questa suprema potestà; oppure che questa sua potestà non è ordinaria ed immediata sia su tutte e singole le Chiese come su tutti e singoli i pastori e î fedeli, sia anatema.

Capo IV. — Del magistero infallibile del Romano Pontefice

Nel primato apostolico che il Romano Pontefice possiede su tutta la Chiesa come successore di Pietro, principe degli Apostoli, è compresa anche la suprema potestà di magistero: ciò ha sempre tenuto questa santa Sede, è provato dall’uso perpetuo della Chiesa e fu dichiarato dagli stessi Concili ecumenici e da quelli stessi principalmente in cui l’Oriente e l’Occidente convenivano insieme nell’unione della fede e della carità. – I Padri, infatti, del Concilio Costantinopolitano IV, seguendo le orme dei maggiori, emisero questa solenne professione: « La salute sta prima di tutto nel custodire la regola della retta fede. E poiché non può essere vana la parola di Nostro Signor Gesù Cristo, che disse: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa ,, questa parola è verificata dai fatti; perché nella Sede Apostolica si è sempre conservata immacolata la religione cattolica e professata la santa dottrina. Pertanto, desiderosi di non essere separati in nulla dalla sua fede e dalla sua dottrina speriamo di meritarci d’essere in quell’unica comunione, che viene predicata dalla Sede Apostolica, ed in cui esiste l’’intiera e verace solidità della Religione cristiana » . Con l’approvazione del secondo Concilio di Lione, i Greci hanno fatto questa professione: « La Santa Romana Chiesa ha sopra tutta la Chiesa cattolica il sommo e pieno primato e principato, che essa veracemente e umilmente riconosce d’aver ricevuto, insieme con la pienezza della potestà, dallo stesso Signore nel beato Pietro, principe e capo degli Apostoli, di cui il Romano Pontefice è successore, e poiché è tenuta più delle altre Chiese a difendere la verità della fede, così se intorno alla fede sorgeranno questioni, si devono definire conil suo giudizio ». Finalmente il Concilio di Firenze ha definito: « Il Romano Pontefice è il vero Vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa e Padre e dottore di tutti i Cristiani; a lui è trasmessa nella persona del beato Pietro dal Signor nostro Gesù Cristo la piena potestà di pascere, di reggere e di governare la Chiesa universale ». Per adempiere ai doveri di questo ufficio pastorale i nostri predecessori si adoperarono sempre indefessamente a propagare presso tutti i popoli della terra la dottrina salutare di Cristo, e vigilarono con uguale sollecitudine a conservarla pura e senza mescolanza dovunque fosse stata ricevuta. Perciò î Vescovi di tutto il mondo, ora personalmente, ora congregati in Concili, seguendo l’antica consuetudine della Chiesa e la formula dell’antica regola, a questa santa Sede segnalarono quei pericoli che si presentavano soprattutto nelle cose di fede, affinché i danni portati alla fede, fossero riparati in modo più speciale colà dove la fede non può patire danno. Da parte loro i Romani Pontefici, secondo che la condizione dei tempi e delle cose lo consigliava, ora convocando Concili ecumenici, nei quali s’informavano del pensiero della Chiesa dispersa per il mondo, ora per mezzo di Sinodi particolari, ora adoperando altri aiuti, che venivano somministrati dalla Divina Provvidenza, hanno definito che si doveva ritenere ciò che avevano, con l’aiuto divino, conosciuto conforme alle Sacre Scritture e alle Tradizioni apostoliche. Lo Spirito Santo, infatti, fu promesso ai successori di Pietro non già per pubblicare, sotto la sua rivelazione, nuove dottrine, ma perché custodissero e fedelmente esponessero, con la sua assistenza, la rivelazione tramandata dagli Apostoli, ossia il deposito della fede. La loro dottrina apostolica fu da tutti i venerabili Padri e Dottori ortodossi abbracciata, venerata e seguita, sapendo perfettamente che questa Sede di San Pietro rimase sempre esente da ogni errore, secondo la divina promessa del Signor nostro Salvatore fatta al principe dei suoi discepoli: « lo ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede, e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli ». Il dono della verità e della fede, che non viene mai meno, è stato dunque divinamente concesso a Pietro e ai suoi successori in questa Cattedra, affinché per la salute di tutti adempissero al proprio ufficio; e così tutto il gregge di Cristo allontanato con il loro aiuto dal pascolo velenoso dell’errore, si nutrisse con il cibo della dottrina celeste: e tolta ogni occasione di scisma, la Chiesa si conservasse tutta intera nell’unità e che, appoggiata sopra il suo fondamento, si mantenesse incrollabile contro le porte dell’inferno. E poiché in quest’età in cui si ha più bisogno della salutifera efficacia del Magistero apostolico, si trovano non pochi che denigrano la sua autorità, noi giudichiamo che sia assolutamente necessario di definire in modo solenne la prerogativa che il Figlio di Dio si è degnato congiungere con il supremo ufficio pastorale. Pertanto, aderendo fedelmente alla tradizione ricevuta fin dall’esordio della fede cristiana, a gloria di Dio nostro Salvatore, ad esaltazione della Religione cattolica, ed a salute dei popoli cristiani, coll’approvazione del Sacro Concilio, insegniamo e definiamo come dogma da Dio rivelato, che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, ossia quando esercitando l’ufficio di pastore e dottore di tutti i Cristiani, definisce, in virtù della sua suprema apostolica autorità, che una dottrina sulla fede o sui costumi si deve tenere da tutta la Chiesa, gode, per l’assistenza divina a lui promessa nel beato Pietro, di quella infallibilità di cui il Divin Redentore volle essere fornita la sua Chisa nel definire una dottrina sulla fede e sui costumi; e perciò che tali definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili per se stesse e non in virtù del consenso della Chiesa. Se qualcuno poi, tolgalo Iddio, osasse contraddire a questa nostra definizione, sia anatema.

Dato a Roma nella Sessione pubblica tenuta solennemente nella Basilica Vaticana, l’anno dell’Incarnazione del Signore 1870, il18 luglio, del nostro Pontificato XXIV.

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA (6)

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA (6)

P. Andrea Oddone s. j.

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA SECONDO LA COSTITUZIONE PASTOR ÆTERNUS S. E. I. MILANO, – 1937

LA COSTITUZIONE « PASTOR ÆTERNUS »

PROLOGO. — Il Pastore eterno e il Vescovo delle anime nostre, per rendere perpetua l’opera salutare della sua redenzione, decretò di edificare la Santa Chiesa, nella quale, come nella Casa del Dio vivente, tutti i fedeli si mantenessero uniti. con il vincolo di una sola fede e di un solo amore. Perciò prima di essere glorificato, pregò il Padre suo non solo per gli Apostoli, ma anche per quelli che avrebbero creduto in Lui per la loro parola, affinché tutti fossero una cosa sola in quel modo che sono una cosa sola lo stesso Figlio e il Padre. Come dunque mandò gli Apostoli, che si era scelti dal mondo, nella maniera stessa con cui egli era stato mandato dal Padre, così volle che nella Chiesa sua vi fossero pastori e dottori fino alla consumazione dei secoli. Ed affinché lo stesso episcopato fosse uno ed indiviso, e si conservasse nella unità della fede e della comunione tutta la moltitudine dei credenti per mezzo della coesione di sacerdoti, pose il beato Pietro a capo degli altri Apostoli, e istituì in lui il principio perpetuo e il fondamento visibile di questa doppia unità, volendo che sopra la sua solidità si costruisse il tempio eterno e che sulla fermezza della sua fede si innalzasse la Chiesa sino all’altezza dei cieli. E poiché le porte dell’inferno insorgono da ogni parte con odio sempre crescente contro il fondamento divinamente istituito della Chiesa, per abbatterla, se fosse possibile, noi con la approvazione del santo Concilio giudichiamo necessario per la salvaguardia, la salvezza e l’accrescimento del popolo cattolico, di proporre per essere creduta e tenuta, conformemente all’antica e costante fede della Chiesa universale, la dottrina sull’istituzione, la perpetuità e la natura del sacro primato apostolico, sopra la quale riposa la forza e la solidità di tutta la Chiesa, e di proscrivere e condannare gli errori contrari, tanto dannosi al gregge del Signore.

Capo I. — Dell’istituzione del primato apostolico nel beato Pietro.

Insegniamo quindi e dichiariamo, secondo la testimonianza del Vangelo, che il primato di giurisdizione su tutta la Chiesa di Dio fu promesso e dato da Cristo Signore immediatamente e direttamente al beato apostolo Pietro. Infatti, a Simone soltanto, al quale già aveva detto: « Tu ti chiamerai Cefa », a lui solo che gli aveva fatta questa confessione: « Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo », Gesù disse: « Beato sei tu, Simon Bar lona, perché non la carne e il sangue te lo ha rivelato, ma il Padre mio, che è nei cieli. E dico a te, che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non avranno forza contro di essa. E a te to darò le chiavi del regno dei cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli ». Ed ancora al solo Simon Pietro diede Gesù, dopo la sua resurrezione, la giurisdizione di Sommo Pastore e Rettore su tutto il suo ovile, dicendo: « Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle ». A questa dottrina così chiara della Sacra Scrittura, come fu sempre intesa da tutta la Chiesa, sono apertamente contrarie le perverse opinioni di coloro che, pervertendo la forma di governo costituita da Cristo Signore nella sua Chiesa, negano che il solo Pietro sta stato investito da Cristo di un vero e proprio primato di giurisdizione su tutti gli altri Apostoli, sia separatamente uno dall’altro, sia collettivamente insieme; o affermano che questo stesso primato non è stato conferito immediatamente e direttamente al beato Pietro, ma alla Chiesa, e per questa a lui, come a ministro della stessa Chiesa. Se qualcuno, quindi, dice che il beato Pietro apostolo non fu costituito da Cristo Signore principe di tutti gli Apostoli, e capo visibile di tutta la Chiesa militante, oppure che il medesimo Pietro ha ricevuto direttamente ed immediatamente dallo stesso Gesù Cristo Signor nostro solamente un primato d’onore, e non di vera e propria giurisdizione, sia anatema.

Capo II. — Della perpetuità del primato di Pietro nei Romani Pontefici.

Quello poi che, a perpetua salute e bene perenne della Chiesa, il principe dei pastori ed il gran pastore delle pecorelle, il Signor Gesù Cristo, istituì nel beato apostolo Pietro, deve necessariamente, sotto l’azione dello stesso Cristo, durare nella Chiesa, la quale fondata sopra la pietra, starà ferma fino alla fine dei secoli. A nessuno, infatti, può cadere in dubbio, anzi è un fatto notorio in tutti i secoli, che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli Apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa Cattolica, ha ricevuto da Nostro Signore Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano, le chiavi del regno; egli fino a questo tempo e sempre, vive e regna e giudica nei suoi successori, i Vescovi della Santa Romana Sede, da lui fondata e consacrata col suo sangue. Perciò chiunque succede in questa cattedra a Pietro, egli, secondo l’istituzione dello stesso Cristo, tiene il primato di Pietro su tutta la Chiesa. Rimane dunque ciò che la verità ha stabilito, e il beato Pietro, conservando sempre la fortezza della pietra, non abbandona mai, dopo averlo una volta preso, il governo della Chiesa. Per questa ragione fu sempre necessario che alla Chiesa Romana per la sua superiorità eminente si riferisse ogni Chiesa, ossia tutti i fedeli sparsi per ogni luogo, affinché, uniti come membri al loro capo, formassero un solo e medesimo corpo in questa Sede, donde provengono su tutti i diritti della venerata Comunione. Se qualcuno, quindi, dice che non è per istituzione dello stesso Cristo: Signor Nostro, ossia di diritto divino, che il beato Pietro ha perpetui successori nel primato su tutta la Chiesa; o che il Romano Pontefice non è il successore del beato Pietro nello stesso primato, sia anatema.

Capo III. Della forza e della ragione del primato del Romano Pontefice.

Per la qual cosa, appoggiati alle manifeste testimonianze delle sacre lettere, ed aderendo ai decreti formali e perpetuamente chiari, tanto dei Romani Pontefici, nostri predecessori, quanto dei Concili generali, rinnoviamo la definizione. del Concilio ecumenico di Firenze, in virtù della quale tutti î fedeli di Cristo sono tenuti a credere che la santa Sede Apostolica ed il Romano Pontefice tiene il primato in tutto il mondo, e che lo stesso Romano Pontefice è successore del beato Pietro, principe degli Apostoli, e vero Vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa, e padre e dottore di tutti i Cristiani; e che a lui nel beato Pietro fu affidata da Gesù Cristo, Signor nostro, piena potestà di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come pure questo è contenuto negli Atti dei Concili ecumenici e nei sacri canoni. Insegniamo pertanto e dichiariamo che la Chiesa di Roma ha, per una disposizione del Signore, il principato della potestà ordinaria sopra tutte le altre Chiese; e questa potestà di giurisdizione del Romano Pontefice, veramente episcopale, è immediata: che verso di essa i pastori ed i fedeli di qualunque rito e dignità, sia ciascuno separatamente che tutti insieme, sono astretti dal dovere di subordinazione gerarchica e di vera ubbidienza non solo in quelle cose che appartengono alla fede e ai costumi, ma anche in quelle che riguardano la disciplina ed il governo della Chiesa sparsa per il mondo intero; così che mantenendo l’unità sia di comunione sia di professione della stessa fede con il Romano Pontefice, la Chiesa di Cristo formi un solo gregge sotto un solo Sommo Pastore. Questa è la dottrina della verità cattolica, dalla quale nessuno può deviare senza perdere la fede e la salvezza. Tanto poi è lungi che questa potestà del Sommo Pontefice sia di detrimento al potere ordinario e immediato di giurisdizione episcopale, in forza della quale i Vescovi, posti dallo Spirito Santo e successori degli Apostoli, pascono e reggono come veri pastori ciascuno il gregge particolare affidato alla sua cura, che anzi questo loro potere viene al contrario affermato, corroborato e rivendicato dal Pastore supremo e universale, secondo le parole di S. Gregorio Magno: « Il mio onore è l’onore della Chiesa universale. Il mio onore è la forza solida dei miei fratelli. Allora io sono veramente onorato, quando a ciascuno è dato l’onore che gli compete ». Da questa suprema potestà del Romano Pontefice di governare la Chiesa universale, risulta per lui il diritto di comunicare liberamente, nell’esercizio della sua carica, con i pastori e i greggi di tutta la Chiesa, affinché questi possano essere istruiti e diretti da lui nella via della salute. Perciò condanniamo e riproviamo le sentenze di coloro che dicono che questa comunicazione del capo supremo con i pastori e i greggi può essere lecitamente impedita; oppure la fanno dipendere dalla potestà secolare e pretendono che le disposizioni prese dalla Sede Apostolica o in virtù della sua autorità per il governo della Chiesa, non hanno forza e valore, se prima non siano confermate dal placito della potestà secolare. E poiché il Romano Pontefice per diritto divino del primato apostolico presiede a tutta la Chiesa, insegniamo anche e dichiariamo che egli è giudice supremo dei fedeli, e che in tutte le cause che sono di competenza ecclesiastica, essi possono ricorrere al suo giudizio; e che il giudizio della Sede Apostolica, al disopra della quale non v’è autorità, non può essere riformato da nessuno e che a nessun è lecito giudicare un tale giudizio. Perciò sono lungi dal sentiero della verità coloro che affermano essere lecito appellarsi dai giudizi dei Romani Pontefici al Concilio ecumenico, come ad autorità superiore al Romano Pontefice. – Se pertanto qualcuno dice che il Romano Pontefice ha solamente l’incarico d’ispezione o di direzione, ma non piena e suprema potestà di giurisdizione in tutta la Chiesa, non solo in quelle cose che concernono la fede e i costumi, ma in quelle anche che riguardano la disciplina ed il governo della Chiesa diffusa per tutto il mondo; o che ha soltanto la parte principale, e non tutta la pienezza di questa suprema potestà; oppure che questa sua potestà non è ordinaria ed immediata sia su tutte e singole le Chiese come su tutti e singoli i pastori e î fedeli, sia anatema.

Capo IV. — Del magistero infallibile del Romano Pontefice.

Nel primato apostolico che il Romano Pontefice possiede su tutta la Chiesa come successore di Pietro, principe degli Apostoli, è compresa anche la suprema potestà di magistero: ciò ha sempre tenuto questa santa Sede, è provato dall’uso perpetuo della Chiesa e fu dichiarato dagli stessi Concili ecumenici e da quelli stessi principalmente in cui l’Oriente e l’Occidente convenivano insieme nell’unione della fede e della carità.

I Padri, infatti, del Concilio Costantinopolitano IV, seguendo le orme dei maggiori, emisero questa solenne professione: « La salute sta prima di tutto nel custodire la regola della retta fede. E poiché non può essere vana la parola di Nostro Signor Gesù Cristo, che disse: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa ,, questa parola è verificata dai fatti; perché nella Sede Apostolica si è sempre conservata immacolata la religione cattolica e professata la santa dottrina. Pertanto, desiderosi di non essere separati in nulla dalla sua fede e dalla sua dottrina speriamo di meritarci d’essere in quell’unica comunione, che viene predicata dalla Sede Apostolica, ed in cui esiste l’’intiera e verace solidità della Religione cristiana » . Con l’approvazione del secondo Concilio di Lione, i Greci hanno fatto questa professione: « La Santa Romana Chiesa ha sopra tutta la Chiesa cattolica il sommo e pieno primato e principato, che essa veracemente e umilmente riconosce d’aver ricevuto, insieme con la pienezza della potestà, dallo stesso Signore nel beato Pietro, principe e capo degli Apostoli, di cui il Romano Pontefice è successore, e poiché è tenuta più delle altre Chiese a difendere la verità della fede, così se intorno alla fede sorgeranno questioni, si devono definire con il suo giudizio ». Finalmente il Concilio di Firenze ha definito: « Il Romano Pontefice è il vero Vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa e Padre e dottore di tutti i Cristiani; a lui è trasmessa nella persona del beato Pietro dal Signor nostro Gesù Cristo la piena potestà di pascere, di reggere e di governare la Chiesa universale ». Per adempiere ai doveri di questo ufficio pastorale i nostri predecessori si adoperarono sempre indefessamente a propagare presso tutti i popoli della terra la dottrina salutare di Cristo, e vigilarono con uguale sollecitudine a conservarla pura e senza mescolanza dovunque fosse stata ricevuta. Perciò î Vescovi di tutto il mondo, ora personalmente, ora congregati in Concili, seguendo l’antica consuetudine della Chiesa e la formula dell’antica regola, a questa santa Sede segnalarono quei pericoli che si presentavano soprattutto nelle cose di fede, affinché i danni portati alla fede, fossero riparati in modo più speciale colà dove la fede non può patire danno. Da parte loro i Romani Pontefici, secondo che la condizione dei tempi e delle cose lo consigliava, ora convocando Concili ecumenici, nei quali s’informavano del pensiero della Chiesa dispersa per il mondo, ora per mezzo di Sinodi particolari, ora adoperando altri aiuti, che venivano somministrati dalla Divina Provvidenza, hanno definito che si doveva ritenere ciò che avevano, con l’aiuto divino, conosciuto conforme alle Sacre Scritture e alle Tradizioni apostoliche. Lo Spirito Santo, infatti, fu promesso ai successori di Pietro non già per pubblicare, sotto la sua rivelazione, nuove dottrine, ma perché custodissero e fedelmente esponessero, con la sua assistenza, la rivelazione tramandata dagli Apostoli, ossia il deposito della fede. La loro dottrina apostolica fu da tutti i venerabili Padri e Dottori ortodossi abbracciata, venerata e seguita, sapendo perfettamente che questa Sede di San Pietro rimase sempre esente da ogni errore, secondo la divina promessa del Signor nostro Salvatore fatta al principe dei suoi discepoli: « lo ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede, e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli ». Il dono della verità e della fede, che non viene mai meno, è stato dunque divinamente concesso a Pietro e ai suoi successori in questa Cattedra, affinché per la salute di tutti adempissero al proprio ufficio; e così tutto il gregge di Cristo allontanato con il loro aiuto dal pascolo velenoso dell’errore, si nutrisse con il cibo della dottrina celeste: e tolta ogni occasione di scisma, la Chiesa si conservasse tutta intera nell’unità e che, appoggiata sopra il suo fondamento, si mantenesse incrollabile contro le porte dell’inferno. E poiché in quest’età in cui si ha più bisogno della salutifera efficacia del Magistero apostolico, si trovano non pochi che denigrano la sua autorità, noi giudichiamo che sia assolutamente necessario di definire in modo solenne la prerogativa che il Figlio di Dio si è degnato congiungere con il supremo ufficio pastorale. Pertanto, aderendo fedelmente alla tradizione ricevuta fin dall’esordio della fede cristiana, a gloria di Dio nostro Salvatore, ad esaltazione della Religione cattolica, ed a salute dei popoli cristiani, coll’approvazione del Sacro Concilio, insegniamo e definiamo come dogma da Dio rivelato, che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, ossia quando esercitando l’ufficio di pastore e dottore di tutti i Cristiani, definisce, in virtù della sua suprema apostolica autorità, che una dottrina sulla fede o sui costumi si deve tenere da tutta la Chiesa, gode, per l’assistenza divina a lui promessa nel beato Pietro, di quella infallibilità di cui il Divin Redentore volle essere fornita la sua Chisa nel definire una dottrina sulla fede e sui costumi; e perciò che tali definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili per se stesse e non in virtù del consenso della Chiesa. Se qualcuno poi, tolgalo Iddio, osasse contraddire a questa nostra definizione, sia anatema.

Dato a Roma nella Sessione pubblica tenuta solennemente nella Basilica Vaticana, l’anno dell’Incarnazione del Signore 1870, il 18 luglio, del nostro Pontificato XXIV.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “VIX PERVENIT”

Questa Lettera Enciclica affronta il tema spinoso per un Cristiano dell’usura e dei prestiti in genere, questioni di cui si dibatteva all’epoca tra teologi e canonisti. Ogni forma di prestito ad usura, sotto qualunque pretesto e sotterfugio, viene condannato senza mezzi termini ed eccezioni, dovendosi naturalmente rispettare tutti i criteri della giustizia umana e divina. Quante sono oggi numerose le pratiche di usura più o meno velate praticate da istituti bancari, società finanziarie, istituti di credito, sotto apparenza di legalità. Altro inganno, basato sulla estorsione di somme per acquisti di beni virtuali con la promessa di rimunerazione facile e senza impegno di sudore e fatica, è il guadagno prospettato da operazioni borsistiche o da acquisizioni di criptovalute, cioè denaro immaginario senza alcun corrispettivo reale. In tali ambiti, oramai, non c’è più moralità ma tutto viene imperniato sulla avidità di un facile guadagno immancabilmente deluso con perdite truffaldine di risorse economiche reali. Il Signore ha stabilito che un guadagno lecito ed onesto è solo quello basato sul lavoro personale giustamente retribuito. La sete di guadagno facile e di benessere economico ha invaso ogni mente lontana dal pensiero cristiano-cattolico, con conseguenze disastrose per economie personali, societarie o nazionali. Il desiderio di possesso di beni e servizi è una lampante violazione di comandamenti divini che regolano gli aspetti sociali della convivenza umana, in particolare il divieto di rubare e di desiderare i beni altrui non concessi dal Signore. Tutto questo oggi è allegramente obliato e la vita paganeggiante attuale è tutta mirata alle cose terrene ed egoisticamente godute; la parabola del ricco epulone evidentemente non è più attuale e tutti hanno orrore della vita terrena di Lazzaro, vita che invece, in prospettiva spirituale, è tesa all’acquisizione dei beni eterni che non temono tarli, ruggine e latrocini di uomini senza scrupoli che approfittano spudoratamente – giusto divin castigo – dei mezzi di sopravvivenza di tanti increduli della divina Provvidenza.

S. S. Benedetto XIV
Vix pervenit

Non appena pervenne alle nostre orecchie che a cagione di una nuova controversia (precisamente se un certo contratto si debba giudicare valido) si venivano diffondendo per l’Italia alcune opinioni che non sembravano conformi ad una saggia dottrina, ritenemmo immediatamente che spettasse alla Nostra Apostolica carica apportare un rimedio efficace ad impedire che questo guaio, con l’andar del tempo e in silenzio, acquistasse forze maggiori; e bloccargli la strada perché non si estendesse serpeggiando a corrompere le città d’Italia ancora immuni.

1. Perciò, prendemmo la decisione di seguire la procedura della quale sempre fu solita servirsi la Sede Apostolica: cioè, abbiamo spiegato tutta la materia ad alcuni Nostri Venerabili Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa, che sono molto lodati per la loro profonda dottrina in fatto di Sacra Teologia e di Disciplina Canonica; abbiamo interpellato anche parecchi Regolari coltissimi nell’una e nell’altra materia, scegliendoli, alcuni fra i Monaci, altri nell’Ordine dei Mendicanti, altri ancora fra i Chierici Regolari; abbiamo aggiunto anche un Prelato laureato in utroque jure e dotato di lunga pratica del Foro. Stabilimmo che il giorno 4 del luglio scorso si riunissero tutti alla Nostra presenza e chiarimmo loro i termini della questione. Apprendemmo che già essi ne avevano notizia e la conoscevano a fondo.

2. Successivamente abbiamo ordinato che, liberi da qualsiasi parzialità e avidità, esaminassero accuratamente tutta la materia ed esprimessero per iscritto le loro opinioni; tuttavia non abbiamo chiesto che giudicassero il tipo di contratto che aveva motivato la controversia, perché mancavano parecchi documenti indispensabili, ma che fissassero, a proposito delle usure, un criterio definitivo, al quale sembrava recassero un danno non indifferente quelle idee che da un po’ di tempo cominciavano a diffondersi fra la gente. Tutti ubbidirono. Infatti, comunicarono le loro opinioni in due Congregazioni, delle quali la prima fu tenuta in Nostra presenza il 18 luglio, l’altra il primo agosto scorsi; alla fine tutti consegnarono le proprie relazioni scritte al Segretario della Congregazione.

3. All’unanimità hanno approvato quanto segue:

I. Quel genere di peccato che si chiama usura, e che nell’accordo di prestito ha una sua propria collocazione e un suo proprio posto, consiste in questo: ognuno esige che del prestito (che per sua propria natura chiede soltanto che sia restituito quanto fu prestato) gli sia reso più di ciò che fu ricevuto; e quindi pretende che, oltre al capitale, gli sia dovuto un certo guadagno, in ragione del prestito stesso. Perciò ogni siffatto guadagno che superi il capitale è illecito ed ha carattere usuraio.

II. Per togliere tale macchia non si potrà ricevere alcun aiuto dal fatto che tale guadagno non è eccessivo ma moderato, non grande ma esiguo; o dal fatto che colui dal quale, solo a causa del prestito, si reclama tale guadagno, non è povero, ma ricco; né ha intenzione di lasciare inoperosa la somma che gli è stata data in prestito, ma di impiegarla molto vantaggiosamente per aumentare le sue fortune, o acquistando nuove proprietà, o trattando affari lucrosi. Infatti, agisce contro la legge del prestito (la quale necessariamente vuole che ci sia eguaglianza fra il prestato e il restituito) colui che, in forza del mutuo, non si vergogna di pretendere più di quanto è stato prestato, nonostante fosse stato convenuta inizialmente la restituzione di una somma eguale a quella prestata. Pertanto, colui che ha ricevuto, sarà obbligato, in forza della norma di giustizia che chiamano commutativa (la quale prevede che nei contratti umani si debba mantenere l’eguaglianza propria di ognuno) a rimediare e a riparare quanto non ha esattamente mantenuto.

III. Detto questo, non si nega che talvolta nel contratto di prestito possano intervenire alcuni altri cosiddetti titoli, non del tutto connaturati ed intrinseci, in generale, alla stessa natura del prestito; e che da questi derivi una ragione del tutto giusta e legittima di esigere qualcosa in più del capitale dovuto per il prestito. E neppure si nega che spesso qualcuno può collocare e impiegare accortamente il suo danaro mediante altri contratti di natura totalmente diversa dal prestito, sia per procacciarsi rendite annue, sia anche per esercitare un lecito commercio, e proprio da questo trarre onesti proventi.

IV. Come in tanti diversi generi di contratti, se non è rispettata la parità di ciascuno, è noto che quanto si percepisce oltre il giusto ha a che vedere se non con l’usura (in quanto non vi è prestito, né palese né mascherato), certamente con qualche altra iniquità, che impone parimenti l’obbligo della restituzione. Se si conducono gli affari con rettitudine, e li si giudica con la bilancia della Giustizia, non c’è da dubitare che in quei medesimi contratti possano intervenire molti modi e leciti criteri per conservare e rendere numerosi i traffici umani e persino lucroso il commercio. Pertanto, sia lungi dall’animo dei Cristiani la convinzione che, con l’usura, o con simili ingiustizie inflitte agli altri possano fiorire lucrosi commerci; invece abbiamo appreso dallo stesso Divino Oracolo che “La Giustizia eleva la gente, il peccato rende miseri i popoli“.

V. Ma occorre dedicare la massima attenzione a quanto segue: ciascuno si convincerà a torto e in modo sconsiderato che si trovino sempre e in ogni dove altri titoli legittimi accanto al prestito, o, anche escludendo il prestito, altri giusti contratti, col supporto dei quali sia lecito ricavare un modesto guadagno (oltre al capitale integro e salvo) ogni volta che si consegna a chiunque del danaro o frumento o altra merce di altro genere. Se alcuno sarà di questa opinione, avverserà non solo i divini documenti e il giudizio della Chiesa Cattolica sull’usura, ma anche l’umano senso comune e la ragione naturale. A nessuno, infatti, può sfuggire che in molti casi l’uomo è tenuto a soccorrere il suo prossimo con un prestito puro e semplice, come insegna soprattutto Cristo Signore: “Non respingere colui che vuole un prestito da te“. Del pari, in molte circostanze, non vi è posto per nessun altro giusto contratto, eccetto il solo prestito. Bisogna dunque che chiunque voglia seguire la voce della propria coscienza, si accerti prima attentamente se davvero insieme con il prestito non si presenti un altro giusto titolo e se non si tratti invece di un altro contratto diverso dal mutuo, in grazia del quale sia reso puro e immune da ogni macchia il guadagno ottenuto.

4. In queste parole riassumono e spiegano le loro opinioni i Cardinali, i Teologi e Uomini espertissimi di Canoni, il parere dei quali abbiamo sollecitato su questa gravissima questione. Anche Noi non abbiamo tralasciato di dedicare il nostro privato impegno alla stessa questione, prima che si riunissero le Congregazioni, e durante i loro lavori e quando già li avevano conclusi. Infatti, con estrema attenzione abbiamo seguito le opinioni (già da Noi ricordate) di quegli uomini prestigiosi. E a questo punto confermiamo e approviamo tutto ciò che è contenuto nelle Sentenze esposte più sopra, in quanto è chiaro che tutti gli scrittori, i professori di Teologia e dei Canoni, numerose testimonianze delle Sacre Lettere, decreti dei Pontefici Nostri Predecessori, l’autorità dei Concili e dei Sacerdoti sembrano quasi cospirare per un’approvazione unanime delle medesime Sentenze. Inoltre, abbiamo conosciuto chiaramente gli autori ai quali devono essere attribuite opinioni contrarie; e così pure coloro che le incoraggiano e le proteggono, o che sembrano offrire ad essi un appiglio o un’occasione. E non ignoriamo con quanta severa dottrina abbiano assunto la difesa della verità i Teologi vicini a quei territori in cui hanno avuto origine tali controversie.

5. Perciò abbiamo inviato questa Lettera Enciclica a tutti gli Arcivescovi, Vescovi e Ordinari d’Italia, in modo che essa fosse nota a Te, Venerabile Fratello, e a tutti gli altri; e ogni qual volta avverrà di celebrare Sinodi, di parlare al popolo, di istruirlo nelle sacre dottrine, non si pronunci parola che sia contraria a quelle Sentenze che più sopra abbiamo esaminato. Inoltre, vi esortiamo vivamente a impedire con tutto il vostro zelo che qualcuno osi con Lettere o Sermoni insegnare il contrario nelle Vostre Diocesi; se poi qualcuno rifiutasse di obbedire, lo dichiariamo colpevole e soggetto alle pene stabilite nei Sacri Canoni contro coloro che abbiano disprezzato e violato i doveri apostolici.

6. Sul contratto che ha suscitato queste nuove controversie, per ora non prendiamo decisioni; non stabiliamo nulla neppure sugli altri contratti, circa i quali i Teologi e gli Interpreti dei Canoni sono lontani tra loro in diverse sentenze. Tuttavia, pensiamo di dover infiammare il religioso zelo della vostra pietà perché mandiate ad effetto tutto ciò che vi suggeriamo.

7. In primo luogo fate sapere con parole severissime che il vizio vergognoso dell’usura è aspramente riprovato dalle Lettere Divine. Esso veste varie forme e apparenze per far precipitare di nuovo nella estrema rovina i Fedeli restituiti alla libertà e alla grazia dal sangue di Cristo; perciò, se vorranno collocare il loro denaro, evitino attentamente di lasciarsi trascinare dall’avarizia che è fonte di tutti i mali, ma piuttosto chiedano consiglio a coloro che si elevano al di sopra dei più per eccellenza di dottrina e di virtù.

8. In secondo luogo, coloro che confidano tanto nelle proprie forze e nella propria sapienza, da non aver dubbi nel pronunciarsi su tali problemi (che pure esigono non poca conoscenza della Sacra Teologia e dei Canoni) si guardino bene dalle posizioni estreme che sono sempre erronee. Infatti, alcuni giudicano queste questioni con tanta severità, da accusare come illecito e collegato all’usura ogni profitto ricavato dal danaro; altri invece sono talmente indulgenti e remissivi da ritenere esente da infamante usura qualunque guadagno. Non siano troppo legati alle loro opinioni, ma prima di dare un parere esaminino vari scrittori che più degli altri sono apprezzati; poscia facciano proprie quelle parti che sanno essere sicuramente attendibili sia per la dottrina, sia per l’autorità. E se nasce una disputa mentre si esamina qualche contratto, non si scaglino contumelie contro coloro che seguono una contraria Sentenza, né dichiarino che essa è da punire con severe censure, soprattutto se manca dell’opinione e delle testimonianze di uomini eminenti; poiché le ingiurie e le offese infrangono il vincolo della carità cristiana e recano gravissimo danno e scandalo al popolo.

9. In terzo luogo, coloro che vogliono restare immuni ed esenti da ogni sospetto di usura, e tuttavia vogliono dare il loro denaro ad altri in modo da trarne solo un guadagno legittimo, devono essere invitati a spiegare prima il contratto da stipulare, a chiarire le condizioni che vi sono poste e l’interesse che si pretende da quel denaro. Tali spiegazioni contribuiscono decisamente non solo a scongiurare ansie e scrupoli di coscienza, ma anche a ratificare il contratto nel foro esterno; inoltre chiudono l’adito alle dispute che spesso occorre affrontare perché si possa capire se il danaro che sembra prestato ad altri in modo lecito, contenga in realtà un’usura mascherata.

10. In quarto luogo vi esortiamo a non lasciare adito agli stolti discorsi di coloro che vanno dicendo che l’odierna questione sulle usure è tale solo di nome, perché il danaro, che per qualunque ragione si presta ad altri, procura solitamente un profitto. Quanto ciò sia falso e lontano dalla verità si comprende facilmente se ci rendiamo conto che la natura di un contratto è totalmente diversa e separata dalla natura di un altro, e che del pari molto fra di loro divergono le conseguenze di contratti tra loro diversi. In realtà una differenza molto evidente intercorre tra l’interesse che a buon diritto si trae dal danaro, e che perciò si può trattenere in sede legale e in sede morale, e il guadagno che illegalmente si ricava dal danaro e che quindi deve essere restituito, conformemente al dettato della legge e della coscienza. Risulta dunque che non è vano proporre la questione dell’usura in questi tempi e per la seguente ragione: dal denaro che si presta ad altri si riceve molto spesso qualche interesse.

11. In modo particolare abbiamo ritenuto opportuno esporvi queste cose, sperando che voi rendiate esecutivo ciò che da Noi è prescritto con questa Lettera: che ricorriate anche a opportuni rimedi, come confidiamo, se per caso e per causa di questa nuova questione delle usure si agiti la gente nella vostra Diocesi o si introducano corruttori con l’intento di alterare il candore e la purezza della sana dottrina.

Da ultimo impartiamo a Voi e al Gregge affidato alle vostre cure l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 1° novembre 1745, anno sesto del Nostro Pontificato.

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA (5).

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA (5)

P. Andrea Oddone s. j.

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA SECONDO LA COSTITUZIONE PASTOR ÆTERNUS – S. E. I. MILANO, – 1937

V

L’INFALLIBILITÀ PONTIFICIA

Il punto più importante definito dalla Costituzione Pastor Æternus è l’infallibilità del Papa, intorno alla quale si ebbero lunghe e forti discussioni durante il Concilio Vaticano. (Oddone: I Concili ecumenici, pag. 126.) Avversari di questa dottrina sono tutti coloro che negano il primato del Romano Pontefice. Giovanni Gersone e Pietro d’Ailly dell’Università di Parigi, insegnarono, come abbiamo già accennato; che solo la Chiesa o il Concilio ecumenico, rappresentante di essa, sono giudici infallibili nelle questioni di fede. (Il Gersone nell’opera: Quomodo et an liceat in causis fidei a Summo Pontifice appellare. — ll D’arivy nell’opera: Tractatus de Ecclesia.) All’infallibilità pontificia si opposero in modo speciale i Galliani, secondo i quali il giudizio del Papa non è irreformabile, se non vi si aggiunge il consenso della Chiesa.Essi furono seguiti nel sec. XVIII dai Febroniani e dai Giansenisti. Nello stesso Concilio Vaticano esisteva il partito degli antiinfallibilisti; ma per la verità bisogna dire che la maggior parte di essi impugnarono piuttosto la opportunità della definizione. Dopo il Concilio Vaticano continuarono ad opporsi al dogma dell’infallibilità, i così detti Vecchi Cattolici, guidati dal Déllinger. (De Guibert: De Ecclesia, pag. 247).

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Precisiamo innanzi tutto, per evitare equivoci ed ovviare a difficoltà, la natura dell’infallibilità. Infallibilità significa in generale immunità dell’errore o incapacità di errare in un soggetto intelligente. Se questa impossibilità di errare si prende nella sua maggiore ampiezza, e come attributo naturale e radicato nell’essenza stessa dell’essere intelligente, non appartiene che a Dio solo, perchè Egli solo è verità per essenza, nella quale per ragione della sua perfezione infinita, non può cadere ombra di errore. Questa infallibilità di Dio è assoluta, universale e imparticipata. Ma Dio può comunicare anche alle sue creature intelligenti una infallibilità condizionata e limitata ad un determinato ordine di verità: avremo in tal caso l’infallibilità anche nell’uomo, ma participata. (Così possiamo dire che le creature sono infallibili intorno ai primi principi del ragionamento e della legge morale, che non possono essere ignorati né fraintesi dall’uomo. – Cf. FERRÉ, l. c., Vol. III, pag. 196).  È chiaro che l’infallibilità della Chiesa e del Papa è una infallibilità partecipata. – L’infallibilità ecclesiastica è una prerogativa soprannaturale secondo la quale: la Chiesa, per una speciale assistenza divina, viene sempre e necessariamente custodita immune dall’errore nel proporre la dottrina rivelata, in modo che non solo non erra, ma non può errare. L’elemento formale della infallibilità è la immunità dall’errore; l’elemento materiale si trova nelle cose di fede e di costumi, che ci vengono comunicate dalla Rivelazione e che si devono custodire intatte; la causa efficiente è l’assistenza dello Spirito Santo. – L’infallibilità, quindi, come risulta dalla definizione; esclude nonsolo il fatto dell’errore (inerrantia facti) ma anche la possibilità dell’errore (inerrantia iuris). Si tratta non di infallibilità essenziale, che compete a Dio solo, ma di infallibilità participata; si tratta di infallibility soprannaturale, che supera cioè le forze e le esigenze della natura, comunicata da Dio per una speciale causa, e che differisce quindi da quella infallibilità naturale di cui è fornito il nostro intelletto per riguardo ai primi principi speculativi e pratici. Dio potrebbe in molti modi preservare la sua Chiesa dall’errore, ma di fatto sceglie l’assistenza, cioè quegli aiuti della sua divina provvidenza, mediante i quali non si permette che la Chiesa erri nell’esercizio del suo Magistero. Tali aiuti possono riferirsi alle stesse facoltà dell’uomo, la volontà e l’intelletto, che vengono applicate direttamente nella ricerca della verità, o possono trovarsi nelle cose esterne, che distolgano il Papa da una falsa definizione. L’infallibilità non importa per sé sempre un influsso divino positivo; quando le cose procedano bene, lo Spirito Santo può lasciare a se stessa l’attività e l’industria umana. Il dono dell’infallibilità non esclude l’opera e l’indagine propria di colui che definisce, anzi la presuppone, come si deduce chiaramente dalla parola assistenza: si suppongono gli sforzi del Magistero ecclesiastico; ai quali Dio possa assistere e cooperare. Sappiamo che per la prima definizione della Chiesa, gli Apostoli e i Seniori si radunarono in assemblea e molto discussero per trovare la verità e comporre la controversia (Act. XV, 6). La infallibilità differisce dalla rivelazione e dall’ispirazione: la rivelazione è la stessa manifestazione di una qualche verità in quanto tale; l’ispirazione è l’impulso divino a scrivere la verità rivelata; l’infallibilità invece consiste nell’assistenza a trovare la verità rivelata: suppone quindi la rivelazione, ma non è rivelazione. Distinguiamo ancora l’infallibilità attiva e passiva: la infallibilità attiva è propria della Chiesa docente e consiste nell’immunità dall’errore nell’insegnare; la infallibilità passiva compete ai fedeli che sono ammaestrati, e consiste nell’immunità dall’errore nel credere. La prima fa sì che i dottori autentici della Chiesa non possano mai insegnare il falso quando definiscono: la seconda, quasi effetto della prima, non permette che tutta la Chiesa aderisca ad un errore di fede. – Da questa breve analisi del concetto di infallibilità, si comprende quanto stoltamente e ingiustamente. Si confonda da alcuni la infallibilità con l’impeccabilità o con la omniscienza o scienza universale e assoluta.

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L’infallibilità della Chiesa è innanzi tutto un corollario della sua indefettibilità. Se la Chiesa, infatti, potesse universalmente errare nella vera fede, non sarebbe più la vera Chiesa di Gesù Cristo, la quale deve essere apostolica di apostolicità di dottrina; le porte dell’inferno prevarrebbero allora contro di essa. La indefettibilità ecclesiastica importa immutabilità nelle cose sostanziali; ora il dogma e la morale appartengono alle cose sostanziali. In modo più esplicito e diretto la infallibilità della Chiesa si deduce dalle promesse che fa Cristo, di essere con gli Apostoli sino al termine dei secoli, e di mandare loro lo Spirito Santo, affinché con loro rimanga e continui ad ammaestrarli. Cristo inoltre ha imposto a tutti di credere agli Apostoli sotto pena di dannazione eterna: « Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; chi non crederà, sarà condannato ». (Marc. XVI, 16) Dunque se non si vuol dire che Cristo abbia potuto obbligare gli uomini all’errore, bisogna ammettere il Magistero infallibile della Chiesa. Gli Apostoli nel loro insegnamento esigono un assenso irreformabile e chiamano la Chiesa « colonna e base della verità ». (Columna et firmamentum veritatis – 1 Tim. III, 15). L’infallibilità del Papa è una forma dell’infallibilità della Chiesa, è la stessa infallibilità della Chiesa considerata in un soggetto determinato, che è il Romano Pontefice. « Il Romano Pontefice, dice il Vaticano, quando parla ex cathedra, gode di quella infallibilità di cui il Redentore divino volle essere fornita la sua Chiesa nel definire una dottrina sulla fede e sui costumi, e perciò le definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili per se stesse e non in virtù del consenso della Chiesa ». (« Pastor Æternus », Cap. IV). Si tratta d’infallibilità nell’insegnamento e non nell’azione, molto meno ancora nella condotta personale del Papa. Non è questione di un insegnamento qualunque, ma di un atto dottrinale proprio ad impegnare la Chiesa. L’infallibilità non appartiene dunque ai sentimenti privati dell’uomo, ma alle decisioni ufficiali del capo. Essa non si estende a tutto il dominio del sapere, ma unicamente alle materie di fede e di costumi, le sole sulle quali ha competenza il Magistero ecclesiastico… Come quella della Chiesa, l’infallibilità del Papa deve la sua origine ad un privilegio divino, che consiste in una grazia di assistenza e non di ispirazione. Per conseguenza non esenta il Papa dalle leggi comuni della prudenza umana:essa garantisce soltanto dall’errore il risultato definitivo delle sue deliberazioni. Il suo scopo quindi non è quello di accrescere di nuove verità il tesoro della rivelazione divina; ma di assicurare la perfetta conoscenza e conservazione delle verità rivelate. L’infallibilità è un privilegio individuale in questo senso che appartiene al Papa solo e non potrebbe egli delegarla ad un altro. Tuttavia non è un carisma destinato all’esaltazione della sua persona, ma un mezzo per lui di compiere la sua missione di Pastore supremo: tende così tutta intera al bene comune delle anime cristiane. Quando si parla dell’infallibilità della Chiesa e dell’infallibilità del Papa, non si vogliono già designare due autorità separate e rivali, di cui si possa temere l’opposizione, ma di due organi differenti, l’uno collettivo, l’altro personale, per comunicare ai credenti la verità, di cui Gesù Cristo è la fonte e il custode. La medesima protezione e assistenza divina si estende al Corpo e al Capo. –  Così intesa, l’infallibilità del Papa è una verità che risulta chiaramente dalla Scrittura e dalla Tradizione. L’infallibilità è distinta dal primato, come appare dalla definizione. Ma se si segue lo sviluppo teorico e pratico di questi due dogmi, si constata che essi si affiancano e si implicano vicendevolmente. L’infallibilità è intimamente connessa con il primato: deriva dal primato come una conseguenza da un principio o piuttosto si identifica con il primato come una proprietà necessaria. L’infallibilità è, nel dominio della giurisdizione dottrinale, il coronamento logico del primato: poiché il Papa è il capo supremo della Chiesa, egli è pure il supremo dottore e possiede per questa ragione la infallibilità. Perciò lo studio intorno alla infallibilità pontificia utilizza gli stessi documenti e gli stessi fatti recati per il primato. (Hervé: Théol. Dogm., Vol. I, pag. 443.).

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Un argomento generale a favore della infallibilità pontificia si deduce dalle verità già dimostrate di sopra. AI Pontefice fu data la piena e suprema autorità sulla Chiesa, e d’altra parte la Chiesa è infallibile nell’insegnare. Ora se la potestà magisteriale del Romano Pontefice  fosse fallibile, non potrebbe più dirsi piena e suprema, perché dovrebbe completarsi con quella dei Vescovi e del Concilio: cioè sarebbe più piena la potestà di tutto l’episcopato che quella del Papa solo. Si cadrebbe in uno di questi due assurdi, o la Chiesa dovrebbe rinnegare il suo Capo supremo per rimanere fedele alla verità da lui falsificata, o perdere il possesso della verità per rimanergli fedele. Alla stessa conclusione ci conducono i testi del primato, che abbiamo a suo luogo esaminati. Il Romano Pontefice è fondamento visibile di tutta la Chiesa, principio efficiente della sua unità e della sua fermezza, principio quindi efficace della fede, che è l’elemento essenziale e precipuo dell’edificio della Chiesa. (Matth. XVI, 18) Ma il Papa non potrebbe essere principio e causa della ferma fede della Chiesa, se egli non fosse di per sé fermissimo nella fede, se potesse insegnare a tutta la Chiesa un errore in questioni di fede. Similmente Cristo ha assicurato che gli assalti dell’inferno, tra i quali sono specialmente le eresie, non avranno mai ragione contro la Chiesa: dunque molto meno prevarranno contro la Pietra, sopra la quale si appoggia la Chiesa e la fermezza della fede. Ora prevarrebbero certamente, se il Pontefice nell’adempiere l’ufficio di supremo maestro, non fosse di per sé fermo nella fede. Ancora dallo stesso testo di S. Matteo sappiamo che Dio ha promesso di legare e ratificare in cielo tutto ciò che il Papa lega in terra: ma Dio non può ratificare in cielo ciò che il Papa lega in terra, se egli nell’emanare un decreto dottrinale obbligante tutta la Chiesa, erra nella fede. Più espliciti sono gli altri testi del Vangelo. « Io ho pregato per te, dice Cristo rivolto a Pietro, affinché la tua fede non venga meno… Conferma i tuoi fratelli ». (S. Luc. XXII, 31). Viene così scartato ogni indebolimento, ogni danno nella fede di Pietro: viene formalmente assicurata, nonostante i pericoli, la indefettibilità di Pietro nella fede, cioè l’infallibilità. E questo affinché egli possa consolidare e fortificare i suoi fratelli. Pietro dunque e i suoi successori sino al termine dei secoli, parlando o insegnando come capi della Chiesa, devono confermare nella fede tutti i fedeli considerati isolatamente o collettivamente, facendoli partecipare alla loro propria indefettibilità. Ma affinché la promessa di Gesù non sia vana e che i fedeli non siano trascinati nell’errore, bisogna che questo insegnamento di S. Pietro e dei suoi successori, quando parlano come capi della Chiesa, sia, in virtù della promessa divina, assolutamente e costantemente garantito contro ogni possibilità di defezione nella fede. Sappiamo pure dal Vangelo che Gesù Cristo diede a Pietro e ai suoi successori l’incarico di pascere gli agnelli e le pecorelle, cioè di dirigere e di nutrire con dottrina salutare, tutto ilo gregge di Cristo, Vescovi e fedeli, e d’allontanarli dai pascoli velenosi: ora quest’ufficio importa necessariamente la infallibilità nel senso che abbiamo esposto. (S. G. XXI, 15). Supponiamo infatti che il Papa errasse nel definire la dottrina cristiana: in tal caso o tutta la Chiesa accetterebbe la sua sentenza, e verrebbe allora a mancare la infallibilità e indefettibilità della Chiesa; o la Chiesa protesterebbe contro la decisione del Papa e la correggerebbe, e cesserebbe allora l’ordine gerarchico istituito da Cristo: il gregge pascerebbe il pastore. – La infallibilità del Papa, benché non sia così esplicitamente e categoricamente asserita dai Padri della Chiesa, tuttavia fu realmente riconosciuta e in pratica e in teoria fino dai tempi più antichi, come appare dalle testimonianze degli stessi Padri, dal modo di agire dei Romani Pontefici, dagli atti dei Concili. Si confronti tutto ciò che abbiamo detto parlando del primato del Romano Pontefice nella parte III. La tradizione anzi illumina sempre meglio gli stessi fondamenti evangelici. Nei primi tre secoli la dottrina dell’infallibilità è implicitamente contenuta nell’autorità sovrana, che si riconosce nei giudizi della Chiesa di Roma, nella credenza universale che la integrale dottrina apostolica sia presso i Romani. Per S. Ignazio d’Antiochia i Romani sono quelli che « ammaestrano gli altri »; per S. Ireneo « bisogna far decidere a Roma le questioni che sorgono tra i Cristiani »; secondo S. Cipriano di Cartagine, « a Roma non ha accesso la perfidia e l’errore ». L’infallibilità pontificia risplende maggiormente nelle controversie trinitarie e cristologiche dei secoli IV e V, mediante numerosi interventi dei Papi soprattutto nei Concili e attraverso alle eloquenti affermazioni dei Padri, specialmente di S. Agostino, di S. Ambrogio e di S. Gerolamo, che furono riportate ed esaminate altrove. Nel Medio evo questa autorità suprema dottrinale del Papa continua ad affermarsi e a precisarsi nello sviluppo dottrinale scolastico. S. Bernardo rimanda Abelardo a Roma « dove la fede non può mai provare alcun eclisse »: (Epist. CXC. P. L., Vol. 182, col. 1053). S. Tommaso sentenzia che appartiene al Papa stabilire dei Simboli, perché è « proprio della sua missione decidere in ultimo luogo le questioni della fede ». (Summ. Theol.,, II, II, q.1 a 15. — Cf. Bricout: Pape, p. 246). Gli assalti del Gallicanesimo non oscurano né scuotono questa magnifica tradizione, ma provocano i Cattolici ad uno studio più profondo di essa, che culmina nella definizione dogmatica del Vaticano.

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Il Concilio Vaticano definendo il dogma dell’infallibilità pontificia, ha precisato le condizioni che deve presentare un atto del Papa, per beneficiare di questo privilegio. Secondo un’espressione da lungo tempo in uso nelle scuole, « il Romano Pontefice è infallibile quando parla ex cathedra ». La cattedra è in generale simbolo di autorità soprattutto dottrinale: le formule « parlare ex cathedra », « definire ex cathedra », sono adoperate per designare il pieno esercizio del magistero pontificale. Affinché si abbia una definizione infallibile, si richiede dapprima che il Papa si pronunzi ufficialmente come tale, che eserciti cioè l’ufficio di Pastore e di Dottore pubblico di tutti i Cristiani. Se il Papa parla come persona privata, discorrendo con i suoi familiari, come dottore privato, stampando un libro di materia religiosa; se opera come re temporale; se parla come Vescovo della diocesi di Roma, tenendo un’istruzione pubblica per esempio in una chiesa della città, non deve dirsi infallibile. Anzi non basta un modo qualunque di proporre una dottrina anche quando il Papa esercita l’ufficio di dottore e pastore pubblico, ma si richiede che adoperi la sua autorità pienamente, in tutta la sua forza ed estensione, emanando una sentenza perentoria, irreformabile, che ponga fine ad ogni incertezza e turbamento di animo. – Si richiede che la sua sentenza riguardi tutta la Chiesa, sia imposta cioè a tutti i Cristiani. Non sembra tuttavia necessario che il documento contenente la definizione, sia immediatamente diretto alla Chiesa universale: basta che sia destinato a tutta la Chiesa, benché direttamente sia forse indirizzato al Vescovo di qualche regione, dove è più diffuso l’errore che il Papa vuole condannare. – È necessario che l’intenzione di definire sia mafesta. Si tratta infatti di imporre una legge a tutta la Chiesa; la quale legge, finché rimane dubbia, non può imporre obbligazione. Il Diritto Canonico decreta: « Nessuna cosa si intende dogmaticamente dichiarata o definita, se ciò non appare manifesto ». (Can. 1323). Non è per sé determinata alcuna formola speciale per rendere manifesta la intenzione del Papa: soltanto si richiede che venga fatta conoscere in modo chiaro o esplicitamente o con termini equivalenti. (Van Noort, l. c., pag. 183). – È necessario, infine, che si tratti di un insegnamento intorno alla fede e ai costumi: res fidei et morum. Oggetto primario o diretto del Magistero infallibile del Papa, sono tutte e singole le verità religiose contenute formalmente nelle fonti della rivelazione. (Una verità può essere rivelata formalmente o virtualmente. Si dice rivelata formalmente se è rivelata in se stessa, sia esplicitamente sia implicitamente, cioè nel suo concetto: si dice rivelata virtualmente, quando in se stessa non è rivelata né esplicitamente né implicitamente, ma si può dedurre da una verità formalmente rivelata mediante un raziocinio deduttivo. Sulle verità rivelate virtualmente i Teologi non hanno però tutti la stessa nozione. (Cf. I Problemi della fede). Oggetto secondario e indiretto dell’infallibilità sono tutte quelle verità, che sono talmente connesse con la rivelazione, che, se intorno ad esse non si potesse portare un giudizio assolutamente certo, la stessa rivelazione patirebbe detrimento. Alcune di queste verità sono presupposte alla rivelazione, come i preamboli della fede filosofici e storici; altre derivano come necessaria conseguenza dalle verità rivelate; altre sono necessarie o sommamente convenienti, affinché si possa ottenere il fine della rivelazione. L’infallibilità del Papa quindi si estende a verità filosofiche, alle conclusioni teologiche, ai fatti dogmatici, alla disciplina generale della Chiesa, all’approvazione degli Ordini religiosi e alla Canonizzazione dei Santi. L’ambito dell’infallibilità del Papa è quello stesso della Chiesa. (Per lo sviluppo di questa dottrina rimandiamo il lettore alla nostra opera: « I Problemi della fede ». — Cf. ZAPELENA: De Ecclesia, pag. 314. — VAN Noort, l. c., pag: 90).

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Precisiamo in ultimo il nostro atteggiamento davanti al Magistero del Papa. Dobbiamo aderire con consenso interno, assoluto e irreformabile a tutto ciò che il Papa insegna infallibilmente come rivelato da Dio o come connesso con le verità rivelate. Ogni opposizione a questo riguardo ci separa dalla Chiesa. Non possiamo quindi ammettere dottrine contrarie alle definizioni pontificie. Siamo pure obbligati a sottometterci in coscienza alle decisioni dottrinali dell’autorità ecclesiastica, benché non infallibili. Il magistero della Chiesa non è una pura e semplice esposizione della verità, ma ha inseparabilmente congiunto il potere di comandare ai suoi sudditi l’ubbidienza dell’assenso intellettuale a ciò che viene insegnato. Ogni insegnamento autentico della Chiesa, per l’autorità da cui promana, per la luce che proviene alla Chiesa dall’assistenza dello Spirito Santo, per la ponderatezza dei suoi processi dottrinali, per la prudenza dei suoi giudizi, è così ragionevole e grave, che ogni Cattolico gli deve docile soggezione. Questa soggezione non importa per sé un’adesione irreformabile, ma però domanda, oltre l’esteriore sottomissione, un interno virtuoso assenso. Dovesse questo atteggiamento in qualche caso rarissimo e « per accidens », costare un reale sacrifizio allo scienziato; questo è ben dovuto a beni di ordine immensamente superiore, quali sono l’unità e l’incolumità della fede e la pace della coscienza. Allo scienziato credente è lecito presentare nelle debite forme, alla competente autorità della Chiesa, le ragioni del suo interiore dissidio, attendendo sereno dalla Divina Provvidenza, che veglia sulla Chiesa, l’immancabile trionfo della verità. Sottomissione piena ed umile alla parola del Papa riconosciuta divina, è la grande semplificazione dello spirito cattolico, è la via breve che mena alla soluzione di tutti i grandi problemi che tormentano la nostra ragione. « Dove è il Papa, è la Chiesa; dove è il Papa, non vi è la morte, ma la vita eterna; non vi è l’errore, ma la verità ». (S. Ambrogio).

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA (4)

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA (4)

P. Andrea Oddone s. j.

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA SECONDO LA COSTITUZIONE PASTOR ÆTERNUS – S. E. I. MILANO, – 1937

IV

NATURA ED EFFICACIA DEL PRIMATO ROMANO

Il Concilio Vaticano, dopo aver trattato dell’istituzione e della perpetuità del primato nel Romano Pontefice, giudicò necessario di proporre per essere creduta e tenuta da tutti i fedeli, la dottrina sulla natura del primato, secondo l’antica e costante fede della Chiesa universale, e di proscrivere e condannare gli errori contrari tanto dannosi al gregge di Cristo ». (Pastor Æternus: Prologo) Il Concilio quindi nel capo II della « Pastor Æternus » definisce che il Papa ha non solo l’ufficio di ispezione e di direzione, ma piena e suprema potestà di giurisdizione sopra tutta la Chiesa; che ha tale potestà di giurisdizione non solo nelle cose di fede e di costumi, ma anche in quelle di disciplina e di regime; che non ha soltanto le parti migliori, ma la pienezza di questa potestà; che questa potestà è ordinaria, episcopale, immediata in tutte e singole le Chiese, in tutti e singoli i pastori e i fedeli. Sviluppiamo alquanto queste importantissime decisioni. – Il Papato ebbe a sostenere grandi lotte, specialmente dopo il Grande Scisma d’Occidente. Abusi nel governo pontificio e ambizioni del potere civile, determinarono una profonda crisi e diedero origine ad errori funesti intorno ai diritti della Chiesa, alle sue prerogative, alla sua stessa costituzione. Accenniamo brevemente ai principali di questi errori, che il Vaticano colpì con la sua definizione. – Una teoria sovversiva della potestà pontificia è il Cesarismo assoluto, di cui fu fautore principale Marsilio da Padova nel suo libro « Defensor Pacis ». La pienezza del potere religioso e civile risiede, come viene esposto in quest’opera, nel popolo, e dal popolo, come da propria fonte, immediatamente promana. Il popolo a sua volta la trasmette all’imperatore, il quale, come depositario della volontà legislatrice del popolo e rappresentante della comunità dei fedeli, è capo della società civile e della Chiesa stessa. La Chiesa quindi non è che un elemento dello Stato: essa ha, come organo di governo il Concilio ecumenico, formato da Vescovi, chierici e laici e presieduto dal Principe. Il Papa è un semplice mandatario del Concilio, dal quale può essere punito e deposto. (Oddone: Il Concilio Vaticano, pag. 46. — Cf. Dict. Téol. Catt. « Primauté », pag. 309). La formulazione quasi ufficiale di queste dottrine si ebbe nel Concilio di Pisa (1409) e in quello di Costanza (1414), specialmente mediante l’opera di Pietro d’Aillly e di Giovanni Gersone, nei quali Concili sidecretò con particolari canoni la supremazia del Concilio ecumenico sopra il Papa. A questi principi s’informò poi il Gallicanismo portando in essi qualche moderazione. Per Gallicanismo i generale s’intende un complesso di dottrine, che mira a limitare l’autorità del Papa, attribuendo alla Chiesa d Francia e alle autorità politiche della nazione francesi un certo numero di diritti e di privilegi designati sotto il nome di libertà gallicane. Esso si presenta quindi sotto l’aspetto ecclesiastico e sotto l’aspetto politico. Il Gallicanismo ecclesiastico o episcopale attribuisce ai Vescovi privilegi e diritti in riguardo alla Sede di Roma e determina l’estensione del potere spirituale e il soggetto di questo potere. Nel sec. XVII-XVIII esso era comunemente insegnato nelle Scuole teologiche di Francia e specialmente alla Sorbona. Il potere spirituale del Papa non si estende in nessun modo sui re e su certi privilegi dei Vescovi francesi; il soggetto del potere spirituale non è il Papa solo, ma la Chiesa universale radunata in Concilio; il Papa dal punto di vista dottrinale non è infallibile se non con il Concilio ecumenico; dal punto di vista disciplinare è vincolato dai canoni della Chiesa intera e dagli usi delle Chiese particolari. – Il Gallicanismo politico o parlamentare o regale mirava a regolare le relazioni tra lo Stato e la Chiesa, e nelle sue pretese andava più oltre che il Gallicanismo ecclesiastico; estendendo i diritti del potere politico in modo da invadere addirittura il dominio spirituale della Chiesa. I re si arrogavano infatti il diritto di convocare i Concili nazionali; restringevano e sorvegliavano l’amministrazione del Papa e dei Vescovi; facevano dipendere dal loro beneplacito l’entrata in Francia dei legati pontifici, il viaggio dei Vescovi francesi a Roma, la pubblicazione delle bolle pontificie e delle ordinanze episcopali; nominavano i Vescovi; appoggiavano i loro diritti con mezzi di rigore, quali il placet, l’appello al Concilio generale, l’appello ab abusu ecc. Si voleva insomma costituire per la Chiesa di Francia come un corpo separato nel Cristianesimo. Luigi XIV fece votare dall’Assemblea del clero gallicano nella Dichiarazione del 1682, le quattro celebri proposizioni: 1° S. Pietro e i suoi successori non hanno ricevuto da Dio se non il potere sulle cose spirituali; sulle cose temporali non hanno alcuna giurisdizione né diretta né indiretta; 2° La pienezza di potere che la Sede Apostolica e i successori di Pietro, Vicari di Gesù Cristo, banno sulle cose spirituali, è limitata dai decreti del Concilio di Costanza, che proclamò la superiorità del Concilio sul Papa; 3° La Sede Apostolica deve rispettare le regole, le usanze e le costituzioni ricevute nel regno e nella Chiesa gallicana; 4° Benché il Papa abbia la parte principale nelle questioni di fede e i suoi decreti riguardino tutte le Chiese e ciascuna Chiesa in particolare, tuttavia il suo giudizio non diviene irreformabile se non dopo il consenso della Chiesa universale. – Simile al Gallicanismo è il Cesarismo mitigato, seguito dai politici della scuola liberale moderna. Essi non negano alla Chiesa il diritto di governare, di insegnare e di amministrare le cose sante in virtù di una missione divina. La Chiesa può fare leggi canoniche, approvare istituzioni religiose, scomunicare e assolvere: lo Stato, avendo un fine temporale, non può ingerirsi positivamente e direttamente nelle cose della Chiesa. Ma affinché la Chiesa non rechi nocumento al fine dello Stato, esso deve avere necessariamente un potere indiretto negativo nelle cose sacre, mediante il quale, benché non possa mutare la sostanza degli atti della giurisdizione spirituale, può in qualche modo irritarli. La fede religiosa, dal momento che cessa di essere cosa intima e individuale per divenire pubblica e comune, cade sotto il dominio della autorità civile. Viene quindi attribuito allo Stato il diritto di supremo dominio sui beni ecclesiastici, il diritto di suprema ispezione in tutta la vita esterna e sociale della Chiesa, il diritto di ricevere i ricorsi dei fedeli contro le autorità ecclesiastiche, il diritto di proibire la pubblicazione degli atti pontifici e vescovili senza il permesso del tribunale civile. Lo Stato non riconosce nel suo territorio alcun’altra autorità che non sia la sua, e per conseguenza non ammette alcuna società che non sia sotto la sua dipendenza.

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E il Concilio Vaticano definì contro ogni forma di Cesarismo, che la potestà del Papa è piena e suprema sopra tutta la Chiesa, veramente episcopale, ordinaria e immediata. La giurisdizione del Papa è per sé piena e suprema; è piena perché egli ha non soltanto le parti principali della potestà, ma tutta la potestà che Cristo comunica alla sua Chiesa; è suprema, perché nessun’altra potestà è maggiore o eguale alla sua. Perciò il Papa può da solo compiere tutto ciò che appartiene al governo della Chiesa senza alcun concorso di Vescovi o consenso della Chiesa; egli non dipende da alcun altro, né la sua potestà è coartata da alcun limite o per riguardo alle persone o per riguardo ai luoghi o per riguardo agli oggetti: si estende assolutamente a tutte le cause, a tutte le particolari Chiese. Il Romano Pontefice infatti, in forza dei suoi uffici di clavigero del regno dei cieli, di Pastore supremo e di confermatore dei suoi fratelli nella fede, ha sopra tutti e singoli i fedeli e i Vescovi, anche presi collegialmente, la potestà di vera e propria giurisdizione estendentesi a tutto ciò che appartiene al fine della Chiesa; e questa potestà è affatto indipendente nel suo esercizio, non abbisogna della cooperazione di alcun altro, da essa anzi deriva e dipende qualunque altra potestà ecclesiastica. S. Leone Magno scrivendo al Vescovo di Tessalonica, da lui elevato alla sede vescovile di quella città, gli diceva: « Come usarono i miei predecessori con i predecessori vostri, io pure, seguendo l’esempio degli antichi, ho delegato alla vostra carità le veci del mio ufficio, affinché penetrato dai sentimenti stessi della vostra mansuetudine, ci veniate in aiuto nella cura, che per divina disposizione ci fu commessa di tutte le Chiese, e in certa guisa rappresentiate la nostra persona nelle province lontane dalla Sede Apostolica… Nel commettere alla carità vostra le nostre veci, vi abbiamo chiamato a parte della nostra sollecitudine, non dei nostri pieni poteri ». (Ferrè: La Costituzione dogmatica : « Pastor aeternus », Volume II, pag. 315). Conseguenza immediata ed evidente della pienezza e supremazia della potestà pontificia, è la sua superiorità sul Concilio ecumenico. Il Papa per disposizione di Cristo è il fondamento della Chiesa, ha la potestà delle chiavi su tutta la Chiesa, ha l’autorità di confermare i suoi fratelli. Ma questa triplice divina prerogativa del Papa sarebbe nulla, se egli non fosse superiore al Concilio. Osserviamo, per meglio precisare, che l’autorità del Concilio unito al Papa in confronto dell’autorità del Papa solo, è bensì maggiore estensivamente, perché anche i Vescovi come veri giudici concorrono insieme con il Papa a formare i decreti dogmatici e disciplinari; ma intensivamente, ossia per intrinseca efficacia, è al tutto uguale, perché il Papa ha in sé la piena potestà di compiere tutti gli atti richiesti dal governo della Chiesa. Se il Papa da solo, fuori del Concilio, pronunzia una definizione dogmatica, oppure emana una legge disciplinare per tutta la Chiesa, tutti i Vescovi e i semplici fedeli sono strettamente obbligati a credere e ubbidire. Se tale definizione venisse pronunziata in un Concilio, l’obbligo non sarebbe per questo più grave, perché quando si tratta di intrinseca obbligazione morale, non si dà né il più né il meno. (Oppone: I Concili ecumenici, pag. 49). – Il Concilio Vaticano affermando la piena e suprema autorità del Papa lasciò intatta la questione dell’origine della giurisdizione dei Vescovi. Si disputa e soprattutto si disputò durante il Concilio di Trento, se la giurisdizione episcopale derivi immediatamente da Dio o immediatamente dal Papa. La potestà di giurisdizione è nei Vescovi propria e ordinaria, e perciò alcuni sostengono che proviene immediatamente da Dio con la consacrazione. Altri teologi molto più numerosi dicono invece che tale potestà proviene immediatamente dal Pontefice e mediatamente da Dio. Qualunque sentenza si scelga, sempre bisogna tenere come vere le due seguenti osservazioni. La prima che i Vescovi non sono meri delegati del Papa, ma che la loro potestà è ordinaria e propria e che il grado episcopale non può essere abolito nella Chiesa, perché istituito da Gesù Cristo stesso. La seconda che la potestà dei Vescovi, anche se venga immediatamente conferita da Dio, dipende sempre dal Papa sia nel suo esercizio, perché il Papa la può limitare, amplificare o togliere del tutto in qualche caso particolare, sia per ragione del soggetto, che viene determinato dal Pontefice, sia per ragione del termine, cioè del popolo che viene affidato alla cura del Vescovo. (Tanquerey: De vera religione, pag. 574, n. 879. — De Guibert: De Ecclesia, pag. 243).

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La giurisdizione del Papa è veramente episcopale. Per autorità episcopale s’intende il diritto e il potere di fare quelle cose, che secondo l’istituzione di Gesù Cristo sono necessarie e vantaggiose per la santificazione degli uomini e per la loro salvezza spirituale. L’autorità episcopale consiste, in altre parole, nella potestà immediata e ordinaria di pascere, di reggere e di governare il gregge a sé commesso, e importa quindi il diritto e il dovere di ammaestrare i popoli nella verità della fede, di amministrare i Sacramenti, di regolare le funzioni del culto sacro, di fare leggi, di decidere le controversie e di punire i delinquenti: è insomma la potestas pascendi, regendi ac gubernandi gregem sibi commissum. Al PapaGesù Cristo conferì questa potestà episcopale quandogli affidò l’incarico di pascere i suoi agnelli e le sue pecorelle:senza di essa il Papa non sarebbe più Pastoreuniversale del gregge di Cristo. Perciò il Papa non hasoltanto il diritto di ispezione e di vigilanza sopra altreChiese, come voleva Pietro Tamburini, (Il Papa avrebbe soltanto il diritto di supplire alla negligenza altrui, di provvedere, con le esortazioni e con gli esempi, all’unità della Chiesa. La potestà del Papa sarebbe simile a quella dell’Arcivescovo nelle diocesi dei suoi suffraganei, nelle quali non ha potestà episcopale) il gran corifeo dei Giansenisti in Italia, ma il diritto di compiere gli uffici del Vescovo in qualunque Chiesa particolare, e può esercitare la sua giurisdizione sopra i diversi fedeli della cristianità non soltanto per mezzo dei Vescovi, ma direttamente per sé o per mezzo dei suoi legati. Il Papa può in tutto il mondo cattolico compiere l’ufficio di Vescovo. Che differenza passa dunque tra la potestà di un semplice Vescovo, avente la propria diocesi determinata, e quella del Papa? La differenza sta in questo che la potestà nel Sommo Pontefice si trova nella sua pienezza, nei Vescovi invece ristretta; nel Sommo Pontefice indipendente nei Vescovi dipendente; nei Vescovi limitata alle loro diocesi, nel Sommo Pontefice senza alcuna limitazione di luogo, estesa sino alle estremità della terra. ( Cf. Ferré, I. c., pag: 329: — Bernardi: Il Papa secondo il Concilio Vaticano, pag. 57). Se la potestà del Papa è veramente episcopale bisogna anche dire che questa potestà è pure ordinaria. La giurisdizione ordinaria, secondo i canonisti, è quella che compete a qualcuno per proprio suo diritto, per ragione della sua dignità e del suo ufficio, conformemente alla legge, ai canoni e alla consuetudine. La giurisdizione delegata invece è quella che non compete per ragione di ufficio, ma viene ricevuta da colui che possiede l’ordinaria, ed esercitata in suo nome. Carattere quindi della giurisdizione ordinaria è che colui che ne è rivestito può delegarla ad un altro, che faccia le sue veci. Evidentemente la giurisdizione del Papa deve essere ordinaria, perché il primato pontificio non può essere effetto di una delegazione, non essendovi alcuno al mondo che possegga tanta autorità e la possa delegare. D’altra parte il Papa agisce sempre in suo nome, per sua propria autorità, e a lui appartiene delegare la giurisdizione spirituale in tutta la Chiesa. Il Papa ricevette questa giurisdizione da Gesù Cristo, che gliela comunicò nell’atto stesso che lo elevava ad essere il capo visibile di tutta la Chiesa, il pastore supremo di tutto il suo mistico ovile. Perciò giustamente viene detto Ordinario degli Ordinari. Questa verità era già stata definita sotto Innocenzo II con il seguente decreto, quasi letteralmente ripetuto dal Vaticano: « La Chiesa di Roma per disposizione del Signore ha sopra tutte le altre, potestà ordinaria, come quella che è madre e maestra di tutti i fedeli di Cristo ». (Si confronti anche S. Bonaventura: In breviloguio, p. 6, cap. 12. — FERRÈ, l. c., pag . 335). Dalla dottrina esposta segue infine che la giurisdizione del Papa è mnediata; il che significa che può essere validamente e lecitamente esercitata in tutte le diocesi senza alcun controllo di intermediari, né dei Vescovi né dei governi. Il Papa può, come il Vescovo nella sua diocesi, esercitare la potestà legislativa, giudiziaria e coercitiva immediatamente sopra tutti i fedeli del mondo cattolico; può amministrare in qualunque diocesi i Sacramenti senza alcuna licenza dell’Ordinario del luogo. Conseguentemente ciascun fedele è tenuto a sottomettersi con piena docilità ai decreti del Papa riguardanti la fede e i costumi, a conformarsi alle regole della disciplina ecclesiastica da lui emanate, e a tutto ciò che egli decide e prescrive in ordine al governo della Chiesa cattolica. La ragione si è che ciascun fedele è immediatamente sottomesso per ordine di Cristo alla suprema giurisdizione del Papa.

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Questa autorità suprema, ordinaria e immediata del Papa sopra tutto il Cristianesimo, non nuoce alla giurisdizione ordinaria e immediata dei Vescovi. « Tanto è lungi, dice il Concilio Vaticano; che questa potestà del Sommo Pontefice sia di detrimento al potere ordinario e immediato di giurisdizione episcopale…. che anzi questo loro potere viene al contrario affermato, corroborato e rivendicato dal Pastore supremo e universale, secondo le parole di S. Gregorio Magno: Il mio onore è l’onore della Chiesa universale; il mio onore è la forza solida dei miei fratelli. Allora io sono veramente onorato se a ciascuno è dato l’onore, che gli compete. » (« Pastor Æternus », cap. III). La verità dell’asserzione del Concilio Vaticano è dimostrata con tutta evidenza dalla storia, la quale ci presenta il fatto costante delle diocesi cattoliche, che si moltiplicarono e prosperarono sotto il primato romano. La potestà pontificia è come il fonte, da cui scaturisce la giurisdizione episcopale: non può quindi essere che le riesca di incaglio e di nocumento. Il Papa in rapporto ai Vescovi ha ragione di capo, di fondamento e di maestro: ora quanto maggiormente il capo è glorioso e onorato, tanto più decoro e nobiltà ricevono le membra; quanto più il fondamento è sicuro e inconcusso, tanto maggiore solidità ne ritraggono tutte le parti dell’edifizio; è infine certamente vanto del discepolo l’eccellenza del maestro. – Durante le discussioni del Concilio Vaticano, coloro che temevano un danno per la giurisdizione episcopale dall’asserita potestà del Papa, obbiettavano l’inconveniente che la medesima Chiesa possa avere due Vescovi, il Papa e il Vescovo locale. Rispondeva Mons. Pie, citando S. Tommaso: « Non si dica che sorge l’inconveniente di due Vescovi della medesima Chiesa. Vi è inconveniente, dice S. Tomaso, se due con pari autorità vengano posti a reggere lo stesso popolo: ma se hanno autorità ineguale non sorge più l’inconveniente. E così si capisce come hanno potestà immediata sopra il medesimo popolo e il Parroco e il Vescovo e il Papa. La ragione si è che quando due cause, anche totali, non sono del medesimo ordine, ma una è subordinata all’altra e sono vicendevolmente connesse, non si escludono mutuamente né generano confusione; come il concorso di Dio non esclude né turba l’azione delle cause seconde. Il Papa dunque, come supremo e universale Pastore e Vescovo della Chiesa, non impedisce punto che l’Ordinario proprio di una Chiesa particolare, si denomini e sia vero Vescovo della medesima; come il titolo ordinario del parroco niente sottrae alla superiore e più universale autorità del Vescovo in tutta la sua diocesi; benché il buon ordine domandi che le rispettive attribuzioni dei singoli non vengano senza motivo e senza discrezione, turbate e interrotte, la qual cosa è ammessa da turbate e interrotte, la qual cosa è ammessa da tutti.» (GRANDERATH: Const. Dogm. Conc. Vatic. explicatæ, pag. 118). – Non nocumento quindi, ma anzi vantaggio arreca ai Vescovi, il primato pontificio. I Vescovi ricevono aiuto grande dalla sottomissione e ubbidienza al Papa. Essi insegnano le più sublimi verità della fede con intimo convincimento, poiché sanno di non errare aderendo al maestro universale della Chiesa; e se qualche dubbio sorge loro nell’animo, hanno aperta la via per dissiparlo ricorrendo con docilità al giudice supremo della fede. Nel regolare le molteplici pratiche di pietà procedono sicuramente, poiché sono certi che quando esse vengano approvate dal Papa, non possono essere infette di superstizione. Se avvengono difficili casi di diritto e di morale, è per i Vescovi di gran sollievo il poter deferire al tribunale del Papa la questione e attenderne la sentenza definitiva. Anche nelle dure lotte contro i nemici della fede, prendono vigore e conforto nel sapersi approvati, aiutati e difesi dal Papa. – Aggiungiamo che il primato del Papa è ordinato alla necessaria unità della Chiesa di Cristo, nella quale deve esserci un solo ovile e un solo Pastore. (Giov. X, 16) Se il Papa non fosse il Vescovo e il Pastore universale con giurisdizione piena, ordinaria e immediata, i Vescovi non avrebbero alcun pastore sopra di sé, e perciò la Chiesa non sarebbe un ovile solo sotto l’autorità di un solo visibile pastore; ma vi sarebbero tanti Pastori quanti Vescovi, i quali non sarebbero governati da alcun Pastore supremo. Conseguentemente contro l’istituzione di Cristo svanirebbe l’unità della fede e della disciplina, vi sarebbero tante membra che non costituirebbero un corpo vivo e unificato. È pertanto chiarissimo che come l’unità delle Chiese particolari procede dall’unità del Vescovo, così dall’unità del Vescovo supremo è universale deriva l’unità della Chiesa universale. (Perrone: De locis theol., p. I, n. 606). Il Papa, dice il De Maistre, è il solo principio possibile, il principio divino d’unità nella Chiesa. Per mezzo di lui soltanto si può realizzare l’indispensabile unità di dottrina e di governo, e quindi la vera cattolicità; per mezzo di lui soltanto si può mantenere indefettibile la apostolicità, con il progresso e la fecondità dell’evangelizzazione. Il Papa soltanto, dominando dal suo principato spirituale, tutte le potenze terrestri, può assicurare alla Chiesa indipendenza e libertà. Del resto i fatti registrati nelle pagine della storia e più eloquenti di tutte le dimostrazioni, ci dicono che le Chiese separate soffrono di divisione e anche di sgretolamento e di anarchia, per mancanza di un’autorità superiore unificatrice. (Il Papa. — Cf. Vladimiro Soloviev:, La Russie et l’Église universelle, p. LXVI. — D’ Herbigny: Teol. de Ecclesia). Possiamo dire che la costituzione della Chiesa cattolica presenta un carattere particolare che non ci permette nessun confronto con le altre costituzioni. La Chiesa non è una federazione, nella quale dinastie più o meno autonome, si raggruppino intorno ad un presidente, come i diversi sovrani della Germania del 1871 si univano attorno all’imperatore. La Chiesa non è neppure uno Stato centralizzato secondo la formula napoleonica, dove opererebbero, nelle diverse parti del territorio nazionale, dei prefetti ad nutum, semplici delegati del potere centrale. Essa ha una costituzione tutta speciale, dove bisogna tener conto delle istituzioni di diritto divino e delle determinazioni, che gli avvenimenti hanno apportato a questo diritto. Al Papa, nel quale si trova la pienezza del potere sulla Chiesa, spetta conciliare il suo diritto e la sua missione con la missione e con il diritto dei Vescovi. Secondo una saggezza e una discrezione, che imitano il governo del Padre celeste, egli prenderà quelle misure che gli sembreranno più opportune per la salvezza delle anime, che è la legge suprema. Primato non significa assorbimento di tutte le giurisdizioni inferiori, soprattutto non significa centralizzazione amministrativa illimitata o dittatura intollerabile. Il Vicario di Cristo stringe o allarga con un senso superiore e divino di giusta comprensione, i legami che uniscono alla prima sede le altre sedi, secondo le opportunità dei tempi e dei luoghi. – Ai canonisti appartiene in modo speciale determinare l’oggetto della giurisdizione pontificia e il modo con cui si esercita. Per la nostra trattazione basta un semplice e breve cenno. Il Sommo Pontefice può emanare leggi per tutta la Chiesa, anche senza il consenso dei Vescovi. Questo potere gli fu dato da Cristo, quando disse a Pietro: Tutto quello che legherai sulla terra sarà legato in cielo. Al Papa fu pure concessa la potestà di « sciogliere », cioè non solo d’interpretare autenticamente, ma anche di mutare, di abrogare o di dispensare dalle sue leggi, da quelle dei suoi predecessori e anche dei Concili ecumenici. Anzi egli può dispensare dalle leggi fatte dai Vescovi o abrogarle, perché i Vescovi sono a lui soggetti e non possono validamente esercitare la loro autorità, se non dipendentemente dall’autorità pontificia. – Il Papa può avocare al suo tribunale le cause ecclesiastiche, riservare a sé le cause maggiori, ricevere gli appelli da qualunque giudizio dei Vescovi e pronunziare sentenze definitive, che non ammettono più alcun appello. La potestà giudiziaria infatti è una conseguenza della potestà legislativa, e colui che ha la potestà di fare leggi per tutta la Chiesa, con ciò stesso può pronunziare sentenze giudiziali per tutti i sudditi cristiani e in ogni affare ecclesiastico. Inoltre, essendo i Vescovi giudici soggetti al Papa, è sempre lecito appellare a lui dalle sentenze dei Vescovi. Non essendovi poi alcun tribunale maggiore di quello del Papa, dalle sue decisioni non è lecito appellare al Concilio ecumenico, come dice espressamente il Vaticano. (Durante il periodo del Giansenismo furono condannati gli Appellanti al futuro Concilio – Già era stato affermato da Pio II, nella Bolla Execrabilis – ndr.). Il Papa in forza del primato ha il diritto di assegnare ai singoli Vescovi il loro gregge particolare, di erigere Diocesi o di sopprimerle, di eleggere i Vescovi o almeno di confermarne l’elezione, di stabilire le norme dell’amministrazione ecclesiastica, di giudicare, trasferire o anche deporre i Vescovi, secondo che lo crederà conveniente per il bene della Chiesa. I Vescovi infatti non possono esercitare la loro potestà se non in dipendenza dal Capo della Chiesa: se qualcuno potesse ritenere ed esercitare una parte dell’autorità ecclesiastica fuori del consenso del Romano Pontefice, si spezzerebbe il vincolo dell’unità. – Appartiene al Romano Pontefice convocare, celebrare e confermare i Concili-ecumenici. (Oppone: I Concili ecumenici, pag. 29). Egli ha pure il potere di delegare ad altri la sua autorità e inviare Legati nei vari Stati, ai Concili ecumenici, per affari di grave importanza, affinché essi facciano le sue veci là dove il Papa non può recarsi, e lo informino dell’andamento delle cose religiose. Quest’uso fu in vigore sino dai primi secoli della Chiesa. Nell’esercizio della sua autorità il Papa è coadiuvato non solo dai Legati, che manda nelle diverse parti, e dai Nunzi, che risiedono presso le diverse nazioni, ma anche dalla Curia Romana, che attualmente comprende diciannove Dicasteri, cioè undici Congregazioni, tre Tribunali e cinque Uffici. (Cf. Codex J. C.). Alla piena e somma potestà del Romano Pontefice, qualunque sia il modo con cui egli la esercita, corrisponde il dovere strettissimo in tutti i figli della Chiesa della più intera e assoluta ubbidienza ai suoi decreti. I documenti della tradizione cattolica ci attestano, che quest’obbligo fu sempre riconosciuto e praticato dai veri fedeli e che dai Sommi Pontefici ne fu sempre rigorosamente richiesto l’adempimento. (FERRE, l. c., Vol. Il, p. 361. — Pio X: Il fermo proposito).

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA (5).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO – S. S. GREGORIO XVI: “LE ARMI VALOROSE”


Questa breve lettera loda il comportamento delle truppe austriache intervenute a sedare la rivolta di facinorosi ed accaniti ribelli all’ordine costituito dello Stato Pontificio, ubbidienti alle conventicole di perdizione, nazionali e straniere, che cercavano di destabilizzare quei territori per annetterli ad uno stato italiano che togliesse la libertà all’azione pontificia e alla Chiesa di Cristo. Le conventicole sataniche, allora ed oggi, sono sempre in azione per affossare completamente (ma sappiamo che … non praevalebunt… ) la Chiesa ed il Vicario di Cristo. In quei tempi c’era però qualche Nazione che difendeva i diritti legittimi e divini della Santa Sede; oggi essa è attaccatta da ogni parte, dall’esterno e soprattutto dalla quinta colonna infiltrata al punto da apparire dominante e sul punto di sradicare totalmente la Creatura e Sposa di Cristo (… la Chiesa – vera – sarà eclissata…). Ma Dio, ci dice l’Apocalisse, ha dato le ali alla Donna rivestita di sole, portandola nel deserto per sottrarla al dragone infernale che con il suo vomito di corruzione sta distruggendo l’intera umanità e, travestito da mondialismo finto-democratico e falso.filantropico, coadiuvato spiritualmente dagli apostati falsi profeti vaticani, da pseudotradizionalisti scismatici ed eretici, vuole trascinare con sé quante più anime è possibile nello stagno di fuoco. Certo, l’Apocalisse ce lo dice da millenni, il tutto si compirà onde il Signore possa vagliare il grano dalla pula, la fede vera dall’ipocrisia e dalla comoda falsa pietà, ma alla fine, dopo persecuzioni, falsità ed ingiustizie di ogni tipo, la Chiesa risorgerà splendida e perfetta agli occhi increduli dei suoi nemici, e alla venuta prossima del Signore, le “bestie” demoniache, cioè i poteri mondialisti, le conventicole talmudico-cabaliste, il “falso profeta”, cioè la falsa chiesa dell’uomo con i suoi accoliti modernisti e pseudotradizionalisti, saranno bruciati con il fuoco della bocca di Cristo e scaraventati nello stagno di fuoco eterno, dove li raggiungerà infine anche il dragone maledetto, il baphomet-lucifero, il “corona” signore dell’universo. Così è scritto e così sarà, la parola di Dio si compirà fino all’ultimo trattino, fino all’IPSA CONTERET CAPUT TUUM!

Gregorio XVI
Le armi valorose

Le armi valorose che Noi invocammo dal sempre pio ed augusto monarca austriaco Francesco I per ricondurre fra voi quella tranquillità, quell’ordine e quella calma, che le passate perturbazioni vi avevano involato, si ritirano ora da codeste province nella certezza che i traviati, finalmente disingannati, si riuniscano anch’essi a coloro che formano la maggior parte di codeste popolazioni, e tutti, concordemente calcando le vie che la Religione dei padri loro, i doveri di sudditanza, gli stimoli dell’onore hanno segnato, concorrano tutti indistintamente ed efficacemente a conseguire quelle prosperità che soltanto una sana morale può procurare e che la civile concordia ed un vero amore di pace possono consolidare.

Voi le vedeste queste armi vittoriose, come seppero darvi prove di valore non meno che di esemplare moderazione. Esse entrarono fra di voi come amiche, e tali si sono mostrate costantemente. Esse vennero per sollevare l’oppresso e per contenere gli oppressori, né hanno neppure per un istante smentito la generosa loro missione. Esse hanno pienamente corrisposto sia al bisogno stringente di chi le chiamò a comprimere gl’impeti di una furiosa tempesta, sia agli ordini augusti del loro signore, cui null’altro stava a cuore che ricondurre i figli al loro padre, ridonando la quiete ai domini della madre comune, la Santa Chiesa Romana. Esse insomma si ritirano dai Nostri Stati con la certezza di avervi risparmiato mali gravissimi, e con la fondata lusinga che sappiate ora voi stessi prevenirne il più funesto ritorno.

È a quest’oggetto che non vogliamo in tal momento rimanerci in silenzio, e non aprirvi di nuovo il Nostro cuore. Forti Noi nei sacri diritti di questa Santa Sede, nonché nelle solenni ed a voi non ignote garanzie rinnovateci in questo incontro dalle alte potenze di Europa, dovremmo parlarvi più da Sovrano che da Padre; ma il linguaggio di quello lo riserbiamo alla circostanza in cui infaustamente si tentassero nuovi disordini, e nuovi traviamenti insorgessero a turbare la pubblica o la privata tranquillità: e vogliamo, per ora, che i Nostri figli tornino ad ascoltare le sole voci di Padre. Noi fummo addolorati, e fortemente addolorati dalle tristissime passate vicende, e sa Iddio Ottimo Massimo se, più del dolore che soffrivamo, si straziava il Nostro cuore all’idea di essere un giorno costretti ad adoperare la spada della giustizia. E poiché Egli medesimo, come speriamo, Ci ha aperto la via delle misericordie, con vero giubilo dell’animo Nostro vogliamo annunciarvi Noi stessi che nulla più desideriamo quanto il poterci dimenticare del passato. Sappia ognuno, e Noi lo ripetiamo con effusione di paterna tenerezza, che chi demeritò tra voi la Nostra grazia potrà recuperarla se darà prove non dubbie del proprio ravvedimento. L’amore scambievole, ma vero, ma permanente vi riunisca tutti, e tutti formino una sola famiglia, e faccia l’Onnipotente che altra distinzione non si vegga d’ora innanzi fra voi, che quella risultante dai gradi maggiori nella virtù, nella fedeltà, nella obbedienza. A questo aspiri ciascuno, e di questo si vantino le patrie vostre, che lo contino a gloria, e per risultato ne abbiano la tranquillità vera e durevole innanzi alla Religione e alla società.

Riconfortati Noi in così bella speranza, Ci andremo indefessamente occupando del vostro bene. In mezzo alle afflizioni ed alle angustie che Ci danno tanta amarezza da quando fummo assunti al Pontificato, è stato questo ancora un oggetto delle Nostre sollecitudini, e lo avete veduto in effetto. Esso diverrà a Noi caro principalmente, se non dovremo combattere nuove ed infauste perturbazioni, e con esse quei molti disastri che ne sarebbero l’immancabile conseguenza.

È in questi sentimenti che con fiducia abbiamo dilatato su voi il Nostro cuore, e che imploriamo su tutti voi dal Padre delle consolazioni la pienezza della vera felicità con l’Apostolica Benedizione.