LA FESTA DI CRISTO-RE (3)

LA FESTA DI CRISTO-RE (3)

R. P. Edouard HUGON, o. P.

MAESTRO DI TEOLOGIA PROFESSORE DI DOGMATICA AL COLLEGIO PONTIFICIO « ANGELICUS » DI ROMA E MEMBRO DELL’ACCADEMIA ROMANA DI S. TOMMASO D’AQUINO

LA FESTA SPECIALE di GESÙ-CRISTO RE  

QUINTA EDIZIONE Rivista ed accresciuta

PARIS (VIe) PIERRE TÉQUI, LIBRAIRE-ÉDITEUR 8a, RUE BONAPARTE, 83 1938

APPROBATIONS

Visto e approvato:

Rome, Angelico, le 10 aprile 1927. Fr. Ceslas PABAN-SEGOND, O. P. Maître en S. Théologie.

Fr. Réginald GARRIGOU-LAGRANGE, O. P. Maître en S. Théologie.

PERMIS D’IMPRIMER :

17 aprile 1927. Bonaventura GARCIA DE PAREDES. Mag. Gen. Ord. Frnt. Prædic.

IMPRIMATUR :

Parisiis, die 5 a decembris it>27. V. DUPIN, v. g.

CAPITOLO V

UNA DELLE MANIERE PIU EFFICACI DI PROCLAMARE QUESTA REGALITÀ, È L’ISTITUZIONE D’UNA FESTA SPECIALE DI GESÙ-CRISTO RE UNIVERSALE.

Era certamente necessario che un’enciclica papale esponesse questa dottrina con tutta la solennità del Magistero Supremo. Ma è questo sufficiente per il popolo sul quale lo spirituale fa poca impressione, a meno che non sia presentato in modo visibile, palpabile e che parli alla sua natura intera? Dal momento che anche Dio si serve di sacramenti sensibili per condurre l’uomo alla conoscenza dei misteri soprannaturali, è quindi opportuno istruire i credenti con delle feste esteriori, che scuotano le anime colpendo i sensi, che traducano la verità divina col linguaggio efficace delle realtà concrete e sottomettano tutto l’uomo a Dio con il suo corpo ed il suo spirito (Cf. S. THOM., III a., q. 60, a. 4). Si possono qui applicare le parole con cui il Concilio di Trento dimostra la necessità di una celebrazione speciale del Santissimo Sacramento: “È giusto e opportuno che i Cristiani riservino alcuni giorni per testimoniare con un significato più accentuato e più straordinario quanto siano riconoscenti al loro comune Signore e Redentore per questo ineffabile e divino beneficio. Occorreva che la verità, anch’essa vittoriosa, celebrasse il suo trionfo sulla menzogna e l’eresia, cosicché i suoi avversari, alla presenza di tale splendore e in un così grande gioia della Chiesa universale, si fermasse come distrutta ed annientata, o che, almeno coperto da vergogna e confusione, tornasse a resipiscenza (Conc. Trid., sess. XIII, cap. 5. — Cf. can. 6). “Così, ai nostri giorni, la verità apparirà in tutto il suo splendore, Gesù Cristo sarà compensato dell’ingratitudine e degli oltraggi, i suoi diritti rivendicati, se la sua assoluta regalità è celebrata con una festa solenne. – Ecco ciò che ben comprendono sia i prelati o capi di Ordini religiosi, che hanno chiesto al Sommo Pontefice una Messa e un ufficio in onore della Regalità Sociale di Gesù Cristo. Già una petizione firmata dal Cardinal Sarto, il futuro Pio X, e da altri rappresentanti del Sacro Collegio, era stata indirizzata a Leone XIII, che si degnò di farne buona accoglienza. Da allora, il movimento si è sviluppato in tutto il mondo, più di settecento membri della gerarchia hanno insistito presso la Santa Sede per l’istituzione di una festa speciale di Gesù Cristo Re universale delle società (Le suppliche rivolte al Santo Padre, sono state firmate da 40 cardinali, 703 Arcivescovi o Vescovi, 102 superiori degli Ordini religiosi, 12 Università, tra le quali la Gregoriana e l’Angelico) per dimostrare che è necessario una proclamazione eclatante, stabilendo abbagliante annuncio, come necessario, una festa speciale. –

*

* *

L’obiezione spontanea, ripetuta tante volte, è che bisogna diffidare di feste nuove, come di devozioni nuove. – Tutta la questione, risponderemo, è sapere se ne risulti una nuova gloria per Nostro Signore! In questo caso, non abbiamo che da gioire, poiché noi dobbiamo trovare le nostre gioie migliori in ciò che glorifica Dio. E, proprio come la scienza medica non può che fare buona accoglienza ad un nuovo rimedio, se è questo davvero efficace, quindi la teologia e la pietà non potranno che trarre beneficio dall’uso di un rimedio appositamente adattato al male più terribile della nostra epoca, questo laicismo di cui abbiamo parlato. – Una festa speciale, si aggiunge, deve essere riportata ad un fatto storico o ad uno di quei misteri esterni che ricordano la vita, la passione, la resurrezione e l’ascensione di Nostro-Signore, o la discesa visibile dello Spirito Santo sugli Apostoli, e non riferirsi ad un’idea, un concetto o ad un oggetto invisibile, come la dignità regale di Cristo. – La risposta viene da se stessa: poiché la liturgia è l’espressione vivente del dogma e che la legge della preghiera esterna è anche la legge della fede interiore, una festa visibile, può riferirsi ad un oggetto, può riferirsi ad un oggetto invisibile, purché questo oggetto non rimanga vago ed astratto, ma sia ben determinato e definito, e si affermi con qualche manifestazione sensibile, e che ci sia un motivo speciale per giustificare un culto speciale. È così che la Chiesa ha potuto istituire la festa della Santissima Trinità e la festa del sacerdozio di Nostro Signore. Ora, in questo caso, l’oggetto è tutto di fatto preciso e concreto, Gesù Cristo, Re universale delle nazioni e delle società, con quelle qualità e attribuzioni molto nette che la Scrittura e la Tradizione gli hanno dato in termini propri. Sottolineiamo che questa regalità non rimane astratta; essa si è irradiata e si è affermata, non solo nell’Epifania, ma anche nella maggior parte dei misteri della vita di Nostro Signore. – Ma allora, si dirà, essa è sufficientemente onorata negli altri misteri, e quindi non c’è bisogno di una nuova festa. – No, rispondiamo noi. Essa si afferma tra le altre per non rimanere puramente invisibile; essa non è espressamente onorata con questo oggetto e motivo speciale che deve caratterizzarla. A Natale, il Salvatore appare in tutto il suo  essere, con la sua bontà e dignità, apparuit humanitas, apparuit benignitas, come dice la liturgia citando San Paolo, non è questo il Re che si impone al mondo. All’Epifania, Nostro Signore si rivela ai Gentili buoni, che lo riconoscono come re; ma queste non sono ancora le nazioni organizzate in società che proclamano i propri diritti, e, se questa è già la festa della manifestazione di Gesù Cristo, non è ancora la festa della sua sovranità sulle società stesse. Inoltre, all’Epifania, Egli non ha ancora tutti i suoi titoli di re: se Egli è sovrano per diritto di nascita fin dall’inizio, la sua regalità per diritto di conquista si completa con la sua morte sulla croce. Nella solennità della Domenica delle Palme, si intende bene che i Giudei acclamano il figlio di Davide, ma non si scorge con sufficienza il suo impero sulle società umane. La Resurrezione mostra il suo potere sulla morte e sull’inferno; l’Ascensione, il Trionfatore che si innalza sopra tutti i cieli; resta da celebrare in maniera più caratteristica il Re delle nazioni da quaggiù. Nell’ufficio del Santissimo Sacramento adoriamo il Cristo sovrano delle nazioni, Christum Regem dominantem gentibus, da un punto di vista particolare, che ci ricorda gli effetti del cibo eucaristico qui se manducantibus dat spiritus pinguedinem. La festa del Sacro Cuore esalta certamente Gesù Re, ma l’oggetto non è il medesimo della festa progettata. Nel culto del Sacro Cuore l’oggetto specialmente considerato è l’amore, il termine è Gesù tutto amante e tutto amabile, e dunque il Re d’amore; qui l’oggetto è la sovranità regale in se stessa, il termine è Gesù Re in assoluto, su tutti gli uomini e su tutte le creature, e che deve imporre il suo impero, anche là dove il suo amore è respinto. Così dunque, poiché l’oggetto è diverso, c’è bisogno di una festa nuova e speciale. – Ma le anime veramente pie, che cercano soprattutto gli interessi dell’unico Maestro, non hanno da temere che la nuova festa possa nuocere alla devozione del Sacro Cuore; questa devozione, al contrario, non può che avvantaggiarsene, perché il Re dell’Amore è onorato per il fatto che si proclama il Re Universale e la solennità che esalta la regalità senza restrizioni lascia intendere che Gesù regna soprattutto attraverso la carità (Su questo soggetto si veda il bel libro di Mons.  SINIBALDI, Segretario della sacra Congr. dell’Università: il Regno del Sacro Cuore, Milano 1922 – Nel libro citato il Vescovo Sinibaldi espone i seguenti argomenti: Gesù è Re. – Gesù è Re d’amore. – Gesù è Re con il suo Cuore. – Gesù governa con l’amore. – Gesù chiede solo amore). La portata della festa è perfettamente caratterizzata dalla liturgia, di cui stiamo per riassumere i principali insegnamenti.

CAPITOLO VI

GLI INSEGNAMENTI DELLA LITURGIA NELLA FESTA DI DI GESÙ – CRISTO RE

Una festa liturgica è più efficace anche di un documento pontificio solenne. Il documento è rivolto soprattutto allo spirito; la liturgia, all’uomo intero, perché grazie alle cerimonie e ai riti esteriori, alle parole e ai canti, la si comprende con l’aiuto del corpo e delle diverse facoltà, i propri sensi e l’immaginazione, il cuore e la volontà, non meno che con l’intelligenza. – Il documento di per sé ha solo un effetto passeggero; la celebrazione, che si rinnova periodicamente, ne moltiplica e perpetua i risultati. Il documento è l’espressione scientifica della fede; la festa ne è il linguaggio e l’azione, come un dramma vivente, che traduce con energia il sacro dogma. Un rapido studio della liturgia di questa nuova festa ci mostrerà come sono tutti gli insegnamenti così profondi di quella gloriosa solennità sono riassunti nell’Ufficio e nella Messa. Insisteremo sul Prefatio, che è uno splendido poema, che celebra con magnificenza i nostri più alti misteri.

I.

L’Ufficio e la Messa.

Fermiamoci innanzitutto al titolo: « Ultima domenica di ottobre, festa di Gesù Cristo Re ». Bisognava evitare che vi fosse confusione con altre feste del Salvatore e, quindi, celebrarlo a una data abbastanza lontana dalle feste del Santissimo Sacramento e del Sacro Cuore. Si poteva scegliere solo una domenica perché il popolo cristiano potesse restituire al suo Re il più splendido tributo pubblico. Siccome la liturgia delle domeniche dopo la Pentecoste ricorda il regno di Cristo sulla terra, che si completa con il trionfo dei suoi servi e dei suoi soldati associati alla sua felicità, la festa è giustamente collocata nell’ultima domenica di ottobre, seguita, molto opportunamente, della solennità di Ognissanti. – Erano stati espressi desideri per un titolo più esplicito, ad es. re delle nazioni, re dei secoli. Aggiungere questa o qualsiasi altra cosa sarebbe stato restringere la regalità assoluta. Tutto l’insieme della festa dimostra con certezza che Cristo è il re delle nazioni e delle società, e fin dai primi Vespri, l’Inno lo saluta Regem gentium, il Re che l’intera società deve onorare, i governanti, i magistrati, i padroni, i legislatori. Ma c’è ancor di più, perché Egli è il Re dell’intera creazione, universorum rege, come dice la colletta della Messa, e, secondo l’espressione dell’Inno, il Principe di tutti i secoli. Conviene, senza dubbio, esaltare il regno sociale del Cristo, e noi comprendiamo che le riviste ed i Congresso pongono particolare enfasi su questo tema e ne fanno risaltare questo aspetto. Ma, mi diceva un giorno Pio XI, possiamo concepire un regno che non sia sociale? È questo e molto di più, è sia all’interiore che esteriore, invisibile e visibile, spirituale e temporale, senza limiti e senza riserve e senza fine. – Diciamo dunque semplicemente con la liturgia: il Cristo Re, e, come consiglia il Papa: il regno di Cristo, senza l’amplificazione dei pleonasmi e senza la restrizione degli epiteti.L’oggetto della festa è la dignità regale o l’impero assoluto: mentre nel Sacro Cuore noi Consideriamo l’amore e Gesù che regna attraverso l’amore,qui è la regalità in se stessa, è Gesù che deve regnare anche là dove il suo amore è respinto. L’ufficio mette in piena evidenza questo regno eterno, al quale tutte le nazioni devono sottomettersi, sotto pena di condannarsi altrimenti alla rovina ed alla distruzione; perché ogni regno che non riconoscerà questo Sovrano perirà o sarà colpito da sterilità. Tale è il riassunto dei Mattutini e delle Lodi. Gli Inni cantano il Monarca che tiene lo scettro dell’universo, e la Messa, il Re di tutte le cose, sotto lo stendardo del quale abbiamo la gloria di combattere e di trionfare. – Ma, se l’oggetto della nostra festa non è lo stesso della festa del Sacro Cuore, lo scopo è necessariamente identico, le due solennità devono concludersi nell’amore; ed è per questo che Pio XI, istituendo una nuova e distinta festa, ha voluto che la consacrazione del genere umano al Sacro Cuore sia fatta nello stesso giorno, come risposta efficace della terra e come degno coronamento di tutti gli atti liturgici. – I fondamenti di questa regalità possono essere fatte risalire ai due capitoli che l’enciclica di Pio XI sviluppa magistralmente: per diritto di eredità, in virtù dell’unione ipostatica, e per diritto di conquista, in virtù della Redenzione, come il nostro opuscolo ha già esposto. Il Cristo, come Dio, ha un impero universale allo stesso titolo del Padre; come Dio e uomo, o come Verbo incarnato, è erede del Padre ed associato a tutto il suo impero. Dal primo istante dell’Incarnazione, la Persona divina ha unito la sua Umanità santa, l’ha penetrata, l’ha imbalsamata e questa sostanziale unzione è l’unzione di gioia che ha consacrato Gesù Re e Pontefice per l’eternità. – In virtù di questa consacrazione, egli merita un tale onore per cui gli Angeli e gli uomini devono adorarlo non solo come Dio, ma anche con la sua umanità santa, e possiede una potenza tale che tutte le creature devono assolutamente sottomettersi al suo impero anche come uomo (Act. Apost. Sed., XVII, 58, 599.). Ecco perché San Paolo ci dice che quando Dio introduce il suo Figlio nel nostro universo, comanda ai suoi Angeli di adorarlo: Et adorent eum omnes angeli Dei (Hebr. I, 6). Questa è stata la prima intronizzazione di Gesù Cristo Re nella creazione, quando gli Angeli lo hanno adorato ed acclamato per primi come loro Capo. Per noi umani, come abbiamo già spiegato, Egli è Re per un titolo particolarmente dolce; noi siamo chiamati populus acquisitionis, il popolo della sua conquista, proprio come Lui ha acquisito la sua Chiesa a prezzo del suo sangue, e per il fatto che ci riscattato a un tale prezzo, noi non siamo più nostri, non possiamo più venderci o farci schiavi degli uomini (1 Petr., II. 9; Act. XX, 28; 1. Cor, VI, 19, 20; 1, Petr., I, 18.3). – Tutto l’insieme dell’officio della Messa fa emergere questi due titoli. La Colletta afferma questo diritto di nascita, in virtù dell’unione ipostatica. Così come già San Paolo diceva: hæredem universorum, la liturgia canta: universorum Regem. I Mattutini celebrano il Messia che si è affermato Re come Dio stesso, che riceve in eredità le nazioni della terra, alle quali l’Onnipotente sottomette tutte le creature, alle quali i re di quaggiù vengono a rendere omaggio, e il cui trono deve durare tanto quanto l’astro del giorno e l’astro della notte. Le lezioni del secondo notturno, tratte dall’enciclica, insistono su questo titolo di unione sostanziale, e l’omelia, tratta da Sant’Agostino, ci mostra in Gesù il vero sovrano, che è Re e dei Giudei e dei Gentili, perché è Figlio di Dio, perché il Signore gli ha detto: “Oggi Ti ho generato, chiedimi, ed io ti consegnerò le nazioni e come dominio l’universo intero. L’Introito della Messa considera in particolare il diritto di conquista e di redenzione: Egli merita di ricevere tutti gli onori della regalità dell’Agnello che è stato immolato. Ma ben presto riappare il diritto di nascita, sia nell’epistola, in cui San Paolo glorifica il regno ed il potere del Figlio diletto di Dio, di Colui che ha il primato assoluto, perché è l’immagine del Dio invisibile; sia nel Vangelo, dove Nostro Signore, interrogato da Pilato, afferma chiaramente di essere Re; sia nel prefatio, in cui il Cristo è chiamato sacerdote e re in virtù della sostanziale unzione dell’Incarnazione. Una lettura sommaria dei testi è sufficiente per constatare che la liturgia mette in rilievo sia il diritto di nascita, come l’antifona dei primi Vespri, al Magnificat, ricorda che Gesù riceve da Dio il trono di Davide; sia il diritto di conquista, parlando del Signore che ci ha lavati nel suo sangue; sia il diritto e quasi abitualmente i due titoli insieme, come l’antifona dei secondi Vespri, al Magnificat, esalta il Sovrano che porta il mantello della natura umana e che ha la virtù divina, il Re dei Re, il Signore dei Signori. È quindi ben vero che la liturgia è la teologia vivente della festa. Ci resta da dimostrare come il poema del Prefatio traduce e glorifica tutto il dogma dell’Incarnazione.

II

Il Prefatio della nuova Messa.

È con tutto lo slancio del lirismo biblico e con tutta la magnificenza di un poema che il Prefatio solleva i cuori, delizia gli spiriti:  « È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che il tuo Figlio unigenito, Gesù Cristo nostro Signore, hai consacrato con l’olio dell’esultanza: Sacerdote eterno e Re dell’universo: affinché, offrendosi Egli stesso sull’altare della croce, vittima immacolata e pacifica, compisse il mistero dell’umana redenzione; e, assoggettate al suo dominio tutte le creature, consegnasse all’immensa tua Maestà un Regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine … » Il Prefatio unisce in Cristo il sacerdozio e la regalità e mostra che entrambi tendono allo stesso termine e hanno gli stessi effetti. Bellissima e profonda associazione, che è già contenuta nel canto immortale del profeta salmista (Ps. CIX). Sotto l’ispirazione dell’Altissimo, David esclama: « Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché non ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi » Questa è la dignità regale del vero Signore, che deve regnare in mezzo ai suoi nemici, perché è il Figlio di Dio, generato prima dell’aurora. Subito dopo il veggente celebra il mistero del sacerdozio: “Il Signore ha giurato e non si pentirà: Tu sei un sacerdote in eterno secondo l’ordine de Melchisédech “. Poi il salmo ritorna alla regalità del Sovrano che giudicherà le nazioni, distruggerà la testa dei malvagi, per stabilire il regno della giustizia. È molto interessante che David unisca, come inseparabili, nel Messia, i due titoli di Re e Sacerdote, e che  sottolinei con tanta enfasi la maestà del giuramento: « Sì, il Signore ha giurato: Juravit Dominus; ha giurato, e non si pente Juravit et non peœnitebit eum; Egli ha giurato a te, mio Gesù, a te suo Figlio, a te fratello dell’umanità, ha giurato che tu sarai Sacerdote per sempre, sempre, sempre: tu es sacerdos in æternum. Gesù è Sacerdote in virtù del giuramento di Dio. Capisci che un atto così solenne non può avere come scopo il conferire un titolo che è puramente onorifico (Padre MONSABRÊ, XLII conferenza, Quaresima del 1879.). » Di per sé, la regalità, che comprende i poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo (L’enciclica di Pio XI sul Cristo Re fa ben emergere questo triplice carattere della sua regalità. Act. Apost. sed., XVII,599.), è ben distinta dal Sacerdozio, il cui ruolo è quello di pregare, sacrificare, santificare; ma in Cristo la triplice potenza del Re si conduce al fine del Sacerdozio, che è la salvezza del mondo. Per mostrare quanto sia teologico questo bel Prefatio, vi spiegheremo che una stessa unzione sostanziale consacra il Cristo allo stesso tempo Re e Pontefice e quanto siano inseparabili in Nostro Signore i poteri e gli effetti della regalità e del sacerdozio.  Abbiamo già detto che la sostanziale unzione della Persona divina stabilisce il Cristo Re, perché, in virtù di tale unione, Egli merita di essere venerato dagli Angeli e dagli uomini e ha il diritto a che tutte le creature siano soggette al suo impero. Vediamo come lo consacra pontefice. Il sacerdote è essenzialmente mediatore, posto tra la terra ed il cielo per far salire verso Dio i doni dell’uomo – la preghiera ufficiale ed il sacrificio, che sono il nostro obbligo fondamentale – e far discendere i doni di Dio sull’uomo, la grazia ed il perdono, che dovrebbero condurci alla salvezza. Ne consegue quindi che il triplice buon ruolo del sacerdote, come abbiamo detto, è quello di pregare e sacrificare, in nome dell’umanità, e di santificare gli uomini, in nome di Dio. In virtù della grazia d’unione, il Cristo è  mediatore, perché se la natura divina si unisce alla natura umana in una sola Persona, abbiamo immediatamente un intermediario tra Dio e gli uomini. Da quel momento in poi, Egli può stabilire la corrente dalla terra al cielo, pregare a nome di tutti gli esseri umani, di cui è rappresentante ufficiale, sacrificare o immolarsi Egli stesso come vittima per tutti i suoi membri, e far discendere la corrente dal cielo alla terra, santificare comunicando agli uomini la scienza del soprannaturale e della grazia che li fanno vivere (Encicl. di Pio XI, lectio V della Festa di Gesù-Cristo Re). – Pertanto, il Cristo è sacerdote, necessariamente, essenzialmente, per la stessa Incarnazione stessa: la sua vocazione al sacerdozio è inclusa nell’atto stesso  che ne ha decretato l’Incarnazione. San Paolo, che insiste sulla necessità della chiamata divina onde costituire sacerdote, dichiara che Cristo è stabilito pontefice da Colui che gli ha detto: “Tu sei mio Figlio, Io oggi ti ho generato. (Hebr. V) Così il Salvatore è Sacerdote sacro nello stesso momento in cui è stabilito re sul Monte Sion. – Comprendiamo allora, come Pio XI, il 28 dicembre 1925, nell’allocuzione solenne a conclusione delle feste per il centenario di Nicea, abbia potuto dire: « Nel Cristo si diffuse e si diffonde inesauribile ed infinita, questa Unzione sostanziale, che lo ha consacrato Sacerdote in eterno (Civiltà Cattolica, 1926, p. 182, e  Bollettino per la commemorazione del XVI centenario del concilio di Nicea, n° 6, p. 195). » Si vede ora di quale serena e profonda chiarezza si illuminano le parole del nostro Prefatio: « O Dio, che hai unto con l’olio di esultanza Sacerdote eterno Sacerdote e Re dell’universo Gesù Cristo, tuo Figlio unigenito e nostro Signore… » Non è meno chiaro che gli effetti della regalità e del sacerdozio in Gesù Cristo sono inseparabili; poiché la sua regalità tende alla salvezza delle anime ed il suo sacerdozio, santificando e redimendo il mondo, riesce a stabilire il regno universale ed eterno. – Il potere legislativo in Gesù Cristo è veramente sacerdotale, perché promulga questa legge della vita divina, questa scienza del soprannaturale, che le labbra del sacerdote devono dare alle anime (Questa è stata infatti la concezione che si aveva del ruolo del sacerdote nell’antico Testamento, conservare e dare la scienza o la dottrina rivelata: « Labia sacerdotis custodient scientiam et legem ex éjus ore requirent. » MALACH., II, 7); questo codice evangelico che comprende la santità comune attraverso la pratica dei comandamenti, la santità perfetta attraverso la pratica dei precetti e dei consigli, la santità suprema, che giunge fino all’eroismo permanente. Infine il potere giudiziario in Lui è ugualmente sacerdotale, perché Egli deve cacciare il principe di questo mondo (S. Giov. XVI, 11) castigare il peccato, vendicare i diritti misconosciuti e con ciò procacciare questo regno di giustizia che il sacerdote deve annunciare e promuovere. Infine, il potere esecutivo in Lui è sacerdotale, perché Egli deve mettere in opera e condurre a buon termine questi mezzi di salvezza la cui economia è affidata al ministero sacro del Sacerdozio. D’altra parte, tutto l’officio sacerdotale di Gesù-Cristo deve servire al suo regno, perché si riporta alla redenzione e la redenzione è uno dei titoli della sua regalità soprannaturale. Ecco ancora ciò che il Prefatio fa emergere pienamente, celebrando nel contempo e gli effetti del sacerdozio, sia gli effetti della sua regalità: immolandosi come vittima, Gesù compie i misteri della redenzione umana; dopo aver sottomesso tutte le creature al suo impero, Egli offre il regno universale all’immensa maestà di Dio. Occorreva certo che la medesima unzione di esultanza consacrasse Sacerdote e Re il Figlio di Dio incarnato per la nostra salvezza: se fosse stato solo un Re, non potevasi offrire e immolare come vittima per la nostra redenzione; se fosse stato solo un sacerdote non avrebbe potuto rimettere a Dio un regno. Ma, poiché Egli è nel contempo pontefice e re, il seguito del Prefatio appare piena di armonia e bellezza: Egli compie la grande opera della nostra redenzione e rimette al Padre il regno eterno ed universale di giustizia, di amore e pace! – Ecco come la meditazione dei testi liturgici di questa bella festa ci insegnerà a penetrare nelle sante profondità del Cristo Re e Pontefice e ci introdurrà così alle fonti della grazia, della santità e della vera e duratura felicità.

CAPITOLO VII

LE FELICI CONSEGUENZE DI QUESTA FESTA

L’enciclica sottolinea energicamente le felici conseguenze che devono derivare dall’istituzione di questa festa.  In relazione alla Chiesa. Questa festa dimostrerà che la Chiesa, la società perfetta, istituita da Gesù Cristo, ha diritti imperscrittibili, che gli Stati devono garantire la sua piena indipendenza e libertà di azione in tutte le questioni relative alla sua missione divina, che è proprio quella di promuovere questo regno benedetto del Cristo, procurando la salvezza delle anime. Bisogna che questa Chiesa debba poter governare liberamente attraverso il suo Capo visibile, il Romano Pontefice, Vicario di Nostro Signore, con la gerarchia composta dai Vescovi, dai sacerdoti e dai ministri, e anche con gli Ordini e gli Istituti che sono la prova vivente della sua meravigliosa fecondità.  – In relazione allo Stato religioso. Questo stato deve assicurare il regno del Salvatore, combattendo le tre grandi concupiscenze attraverso la pratica dei voti, e facendo risplendere nella Chiesa la nota o l’aureola della perfetta santità.  Questo è il magnifico insegnamento che San Tommaso aveva così ben formulato (S. TOMMASO, IIa IIæ q. 164) e che l’enciclica consacra solennemente. Il Papa indica il posto e il ruolo degli Ordini e degli Istituti religiosi nella società del soprannaturale: essi costituiscono lo stato di perfezione. « Essi fanno sì che la santità donata alla Chiesa dal suo divino Fondatore, come carattere e segno distintivo, risplenda sempre con maggiore splendore davanti allo sguardo dell’universo. »  Questa è una splendida apologia degli Ordini e delle Congregazioni: i religiosi hanno diritto alla libertà stessa di cui debba godere la Chiesa  società perfetta, perché Cristo è Re! – Sì, se Cristo è Re nella società, Egli chiede che la sua Chiesa e lo stato religioso, che appartiene all’integrità di questa Chiesa, godano della libertà indispensabile alla loro missione, che è quella di espandere il suo regno benedetto … In relazione alla società civile. Bisogna che essa debba essere governata secondo i principi del diritto cristiano. Cristo Re deve essere rappresentato nel tribunale, dove si fa giustizia; nella scuola, dove si insegna. Egli merita il culto pubblico nella città; e i capi di Stato saranno giudicati per aver violato questo diritto sovrano di Nostro Signore o per aver voluto rimanere neutrali. Questo è il grave monito del Sommo Pontefice alle Nazioni!  Nella direzione interiore delle anime. Riassumiamo ciò che abbiamo detto in precedenza. Gesù eserciterà il suo dominio su tutte le nostre facoltà: sullo Spirito e sulla volontà, che deve essere conforme ai giudizi ed alla volontà dell’unico Re; sul cuore e sugli affetti, per realizzare l’ideale che San Tommaso esprime in poche parole, cioè amare nulla e nessuno più di Dio, tanto quanto Dio, a malgrado Dio (S. THOM., IIa IIæ, q. 184, a. 3, ad 3); finanche sui nostri corpi e sulle nostre membra, che devono cooperare come strumenti nell’opera della giustizia e della santità, arma justitiæ Deo (Rom. VI, 18).  – Il vero Cristiano si ricorderà che servire Cristo è regnare; e così come santa Teresa provò una sorta di brivido quando sentì cantare le parole del Credo: Cujus regni non erit finis, anche noi saremo consolati dal pensiero che Cristo è per sempre nella gloria del Padre e che, se rimarremo legati a Lui senza riserve e senza ritorno, sarà vero il dire della nostra felicità e del nostro regno, come quello della sua beatitudine e del suo regno a Lui: non erit finis, non vi sarà fine! Abbiamo appena assistito ad una doppia proclamazione della regalità di Gesù Cristo; 1 un dottrinale, con questa magnifica enciclica, in cui tutta la dottrina è stata esposta con ampiezza; l’altro liturgica, con questa solenne festa, in cui la legge della preghiera esteriore è venuta a glorificare la legge della fede e del dogma. Sarà possibile desiderarne una terza, sia dottrinale che liturgico, se i vescovi e i cardinali e il Papa, in una parola, tutti i membri della Gerarchia, riuniti in un concilio ecumenico, definissero questo regno universale e celebrassero insieme davanti a tutto il mondo, di cui sono i rappresentanti spirituali, la solenne festa di  Gesù Cristo Re delle nazioni, delle società, dell’intero universo.  – Se questo trionfo completo è ancora lontano, i veri credenti possono prepararlo e con la loro vita veramente cristiana dire già: Cristo è vittorioso, Cristo regna, Cristo ha un impero assoluto. Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat…  Non bisogna dimenticare che, secondo le parole della Prefazio, la ragione per cui Gesù è Sacerdote sacro e Re, e proprio per questo è voluta l’Incarnazione, è la redenzione umana. L’unzione sostanziale che è l’unione ipostatica avviene affinché Cristo si offra Egli stesso sull’altare della croce. – Nostro Signore appare anche essenzialmente vittima così come Sacerdote e Re. La sua liturgia canta sempre di un’incarnazione redentrice, di un Uomo-Dio che è il Salvatore, e così ci invita ad andare fino al sacrificio di noi stessi per andare al fine all’amore….

FINE

LA FESTA DI CRISTO-RE (2)

LA FESTA DI CRISTO-RE (2)

R. P. Edouard HUGON, o. P.

MAESTRO DI TEOLOGIA PROFESSORE DI DOGMATICA AL COLLEGIO PONTIFICIO « ANGELICUS » DI ROMA E MEMBRO DELL’ACCADEMIA ROMANA DI S. TOMMASO D’AQUINO

LA FESTA SPECIALE di GESÙ-CRISTO RE

QUINTA EDIZIONE Rivista ed accresciuta.

PARIS (VIe) PIERRE TÉQUI, LIBRAIRE-ÉDITEUR 8a, RUE BONAPARTE, 83 1938

APPROVAZIONI

Visto ed approvato:

Roma, Angelico, il 10 aprile 1927. Fr. Ceslas PABAN-SEGOND, O. P. Maître en S. Théologie.

Fr. Réginald GARRIGOU-LAGRANGE, O. P. Maître en S. Théologie.

PERMESSO DI STAMPA:

17 aprile 1927. Bonaventura GARCIA DE PAREDES. Mag. Gen. Ord. Frnt. Prædic.

IMPRIMATUR:

Parisiis, die 5 a decembris 1927. V. DUPIN, v. g.

CAPITOLO III.

COME QUESTO POTERE REALE DI CRISTO SIA UNIVERSALE, SU TUTTI GLI UOMINI E SU TUTTE LE SOCIETÀ.

Il Salvatore è re su tutti coloro sui quali si irradia l’influenza della sua grazia capitale (Cf. S. THOM., III a , q. 8). Questa azione si manifesta nei beati, ai quali ha meritato grazia e gloria, e nei giusti, ai quali comunica grazia e carità. Si estende ai fedeli, anche ai peccatori, che da lui derivano le virtù soprannaturali della fede e della speranza; si estende anche agli scismatici, agli eretici, agli ebrei, ai pagani e agli infedeli, perché tutti ricevono da lui l’aiuto dell’illuminazione e dell’ispirazione per uscire dalla loro miseria e raggiungere la salvezza. Per questo Papa Alessandro VIII, il 7 dicembre, 1690 (Denzig. 1295), ha condannato questa proposizione: « I gentili, gli ebrei, gli eretici e gli altri che si trovano in tali condizioni non ricevono in alcun modo l’influenza di Cristo. » Egli è morto per tutti e per ciascuno; tutti sono una sua vera conquista. « Ci sono popoli che non hanno né l’Eucaristia, né il Battesimo, né i sacerdoti; ma non ce n’è nessuno del tutto estraneo all’influenza del Verbo fatto carne. Anche le nazioni più degradate, immerse nell’ignoranza e nel crimine, sono talvolta visitate dall’Uomo-Dio: perché, nonostante tutto, ricevono luci, bagliori soprannaturali illuminanti, grazie attuali, ed è questa l’attività strumentale della gloriosa Umanità che porta loro questo aiuto (La causalità strumentale). »  Gli Angeli stessi devono a Gesù Cristo certe grazie, certe nuove gioie o glorie accidentali, perché l’Incarnazione, elevando gli uomini al livello dei cori angelici, ripara le rovine che il peccato aveva fatto nelle gerarchie celesti, e perché la contemplazione di una così perfetta Umanità aggiunge stupore alla loro felicità.  Non comunica Egli più la vita soprannaturale ai dannati, ma regna ancora con la sua giustizia su tutti coloro che non hanno voluto lasciarlo regnare con misericordia ed amore.

*

* *

Da tutto ciò che abbiamo appena esposto risulta con assoluta ovvietà che la regalità di Gesù Cristo come eredità e in virtù dell’unione ipostatica si estende a tutte le creature senza eccezione, e che la sua regalità come conquista e per grazia capitale si estende a tutte le creature ragionevoli, specialmente agli uomini, redenti dal suo sangue.  E poiché Egli ha riparato tutta la nostra natura, corpo e anima e facoltà, deve regnare nel nostro interno, che Egli divinizza con la grazia santificante; nella nostra intelligenza, che deve accettare il suo dogma ed i suoi insegnamenti; nella nostra volontà, che deve piegarsi ai suoi precetti; nel nostro cuore e nei nostri affetti, perché non amiamo nulla e nessuno più di Lui, invece che Lui (Cf. S. THOM., lIa, IIæ, q. 184, a. 3, ad 3); nei nostri membri, che devono cooperare come strumenti all’opera della giustizia e della santità, per la sua gloria e il suo onore, arma justitiæ Deo (Rom. VI, 13). – Le stesse ragioni dimostrano che questa regalità deve essere universale, su tutta la società. Riuniti e raggruppati nella società, gli uomini non possono essere allontanati dall’impero del Salvatore, e i doveri che incombono agli individui vincolano la nazione, la patria, gli Stati, che sono assoggettati a Dio e al suo Cristo, ancor più che l’uomo privato. Il Cardinale Pie difendeva valorosamente questi diritti divini contro le negazioni dell’incredulità e del liberalismo; in questo senso citava la magnifica lettera di Sant’Agostino a Macedonio, alto funzionario dell’impero: « Sapendo che voi siete un uomo sinceramente desideroso della prosperità dello Stato, vi chiedo di osservare come sia certo, con l’insegnamento delle Sante Lettere, che le società pubbliche partecipano ai doveri dei privati e possono trovare la felicità solo dalla stessa fonte. » – « Benedetto – diceva il Re Profeta – il popolo il cui Dio è il Signore. » Questo è il voto che dobbiamo augurare nella nostra società di cui siamo cittadini; perché la patria non può essere in alcuna condizione diversa dal singolo cittadino, poiché la città non è altro che un certo numero di uomini ordinati secondo la stessa legge. E per stabilire che la società debba sottomettersi alla regalità di Cristo, il Vescovo di Poitiers dichiara: « Il regno visibile di Dio sulla terra è il regno del Figlio suo incarnato, e il regno visibile del Dio incarnato è il regno permanente della sua Chiesa…. Il dogma cattolico consiste interamente nella sequenza di queste tre verità: un Dio che abita in cielo; Gesù Cristo, il Figlio di Dio inviato agli uomini; la Chiesa come organo permanente e interprete di Gesù Cristo sulla terra. Ora queste tre verità collegate tra loro sono il triplo pacchetto che non può essere infranto (La regalità sociale del Cristo secondo il Cardinal Pie, p. 32 – S Aug. P. L. XXXII, 670). »

*

* *

Per dimostrare i diritti sovrani di Cristo sulle nazioni e sugli stati, è sufficiente ricordare che  Egli è come Dio, autore, conservatore, benefattore della società, e come il Verbo Incarnato il principio e la fonte da cui le società derivano, per le società come per gli individui, le energie indispensabili per la salvezza e la prosperità. Innanzitutto, è chiaro che Dio è l’autore della società, perché è da Lui, come ben spiega Leone XIII, che deriva da l’autorità, senza la quale non esiste un governo (Encyclic. Immortale Dei, 1 nov. 1885. LEONIS XIII PP. ACTA, VOL. V, p. 120). E, allo stesso modo che ogni creatura ha bisogno della continua influenza di Dio per sussistere e del suo soccorso immediato per agire e tendere al proprio fine, così la società ha bisogno dell’aiuto incessante di Dio per vivere, svilupparsi, progredire, per raggiungere la sua perfezione. Ecco perché, aggiunge Leone XIII, la società esteriore che riceve tali benefici dal suo Autore, è vincolato da un rigoroso dovere di onorare Dio con un culto pubblico, religione publica satisfacere. Ma, nelle attuali condizioni di caduta, la nostra povera umanità è come il viaggiatore di Gerico, spogliato, ferito, mprente (S. Luc, IX, v. interp. di Beda ven.P. L., XCIÏ, 468, 469), con il libero arbitrio indebolito, incline al male, infirmatum, viribns attenuatum et inclinatum, secondo l’espressione del Concilio di Orange (can. XIII) e del Concilio di Trent (Sess. VI, cap. 1). San Paolo, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, Sant’Agostino, San Tommaso, si dicono, con irresistibile eloquenza che l’uomo non è in grado di osservare la legge naturale senza la grazia del Mediatore (S. PAUL, Rom., VII, 17-25; S. AUGUSTIN, Serm., 248, P. L., XXXVIII, 1160; S. AMBROS., In ps. XLlII, 71, P. L., XIV, 1123; cf. THOM., Ia IIæ, q. 109. a. 4 et a. 8). Se gli individui non possono, senza tale aiuto, mantenere l’onestà fondamentale del Decalogo, come potrà esservi fedele la società intera, se non rigenerata dalla virtù divina? Ora, tutta l’energia divina, tutte gli aiuti soprannaturali, tutta la grazia, sono elargizione dell’Incarnazione, essendo Cristo l’unica fonte necessaria a cui rivolgersi per avere la vita. E’ per le società, non meno che per gli individui, che San Pietro ha detto: « Non c’è salvezza se non in Lui, e non c’è altro Nome che promette la salvezza alla razza. decaduta ( Act. IV, 12). – Inoltre, la storia è lì per dimostrare che la civiltà avanza o indietreggia nella stessa misura dove la società accetta o rifiuta il beato regno di Gesù-Cristo, che tutto ciò che è squisito nelle nazioni moderne viene a loro dal Vangelo, che i popoli, ingrati come sono, si abbeverano alla luce di Cristo e della Chiesa. Il nuovo Adamo, che è Cristo, spiega Leone XIII, ha istituito la vera fraternità umana, fraternità di individui tra di loro e tra le nazioni (12Leone XIII, lettera ai Vescovi del Brasile, 5 maggio 1888, Acr. LEONIS PAPA XIII, t. VIII, P. 175). Le nazioni, aggiunge Pio XI, hanno bisogno della pace di Cristo nel regno di Cristo (Act, Apost. Sed. Dic. 1922) . « La terra tremerà alla sua base ed inquieta nelle sue viscere – esclamava Mons. Pie, Vescovo di Poitiers – non troverà il suoi assetto fino a quando uno scossone favorevole avrà riparato la perturbazione ed i disordini portati all’equilibrio politico del mondo cristiano dalla scomparsa del suo capo (op. cit. p. 184). » Ma, se è vero che Nostro Signore è la fonte dei veri beni per gli individui, le famiglie, le nazioni, è ugualmente manifesto anche che tutti gli uomini e tutte le società hanno l’obbligo di riconoscere i suoi benefici, che le autorità pubbliche non saprebbero senza iniquità sottrarre al loro regno sociale. – Tale è la sostanza di questa dottrina indiscutibile: Gesù Cristo è il Re delle nazioni e delle società: come Dio allo stesso titolo come il Padre; come uomo in virtù dell’unione ipostatica, perché fornisce loro i mezzi e i soccorsi senza il quale non possono raggiungere la loro prosperità ed il loro fine completo (Quest’ultimo può essere riassunto come segue: Le nazioni e le società devono riconoscere come loro sovrano Colui dal quale ricevono come da una fonte costante l’aiuto di cui hanno bisogno per raggiungere il loro fine. Ora Cristo stesso come l’uomo è il principio secondo il quale le nazioni e le società ricevono questi indispensabili soccorsi. Così tutto il Cristo ed anche come uomo deve essere riconosciuto come il sovrano delle nazioni e delle società. – L’enciclica afferma espressamente che si tratterebbe di un errore grossolano contestare a Gesù-Cristo uomo l’impero assoluto su tutte le cose civili: « Turpiter, ceteroquin, erret
qui a Christo homine rerum civilium quarumlibet imperium abjudicet. » Act. Apost. Sedis,
XVII. 600. 

CAPITOLO IV

NECESSITÀ DI PROCLAMARE SOLENNEMENTE QUESTA REGALITÀ NEL NOSTRO TEMPO.

Se mai ci fosse mai un momento per affermare e vendicare i diritti di Dio, è sovranamente necessario proclamarli ora, nella nostra epoca in cui il crimine è l’apostasia della società, come se questa potesse impunemente fare a meno di Dio. «Il crimine principale che il mondo sta espiando in questo momento – scriveva il cardinale Mercier nella sua Pastorale del 1918 – è l’apostasia ufficiale degli Stati. Non esito a proclamare che questa indifferenza religiosa, che mette sullo stesso piano la Religione divina e le religioni di umana invenzione così da avvilupparle tutte nel medesimo scetticismo, è una blasfemia che ancor più che i crimini degli individui e delle famiglie, richiama sulla società il castigo di Dio. » Il cardinale Pie aveva detto la stessa cosa: “Al presente Gesù Cristo è cacciato dalla società con la secolarizzazione assoluta delle leggi, dell’educazione, del regime, amministrative, delle relazioni internazionali e dell’intera economia sociale (Op. cit., p. 47- Vedi questa seconda parte: Apostasia delle nazioni moderne e sue conseguenze) ». – Per riparare questo crimine della lesa-divinità, dobbiamo esaltare Gesù Cristo come Re universale, degli individui, delle famiglie, delle società. Questo sarà la confutazione pratica del laicismo, che è una delle più grandi calamità del nostro tempo. Ci sono tre forme principali che bisogna combattere. Il laicismo sostiene innanzitutto che la religione sia una questione puramente privata, di cui le autorità pubbliche non debbano occuparsi, che la sua nozione lo escluda persino dai doveri della società. – Se viene proclamata la regalità universale di Cristo, se viene riconosciuto il suo regno sociale, l’errore immediatamente è colpito nella sua radice e ugualmente così trionfa la verità che esprimeva Leone XIII: « È evidente che la società è legata a Dio da numerosi doveri di primaria importanza, ai quali debba soddisfare rendendo a Dio un culto pubblico. La natura e la ragione, che prescrivono agli individui di onorare Dio perché sono nelle sue mani, vengono da Lui e devono tornare da Lui, dicono anche che la stessa legge obbliga la società civile (Leone XIII, Encyclic. Immortale Dei, Acta, vol. V, p. 123). » – In secondo luogo, il laicismo insegna che se si deve seguire una religione, si possa seguire, si possa scegliere quella che più piace, e che la società è assolutamente libera … di rimanere neutrale. – La solenne proclamazione del regno universale di Gesù Cristo colpisce questa nuova forma di errore e dice al mondo che l’unica vera religione è quella che il Figlio di Dio si è degnato di portarci. « Nel culto che dobbiamo alla divinità – continua Leone XIII – dobbiamo assolutamente seguire quello che Dio stesso ha determinato in modo manifesto. » Ora non è difficile capire quale sia la vera religione, se si considerano, con prudente e sincero giudizio, i numerosi ed eclatanti argomenti che lo stabiliscono: la verità delle profezie, l’abbondanza miracoli, la rapida diffusione della fede in mezzo a nemici ed ostacoli di ogni tipo, la testimonianza dei martiri. Queste ed altre prove simili dimostrano che esiste una sola vera religione, quella che Gesù Cristo ha istituito e della quale ha incaricato la sua Chiesa di diffondere e propagare (Ibid., p. 123, 124). » Infine, ciò che caratterizza il laicismo è l’odio e l’orrore che ha del soprannaturale. Il diavolo ha peccato fin dall’inizio (Cf. S. THOM., Ia, q. 63, a. 3), rifiutando il soprannaturale propriamente detto, e allo stesso modo il laicismo, che è lo spirito satanico, si fa un dogma ed una religione nel combattere il soprannaturale con ogni mezzo possibile e per escluderlo dall’umanità. Si può dire che tutta la lotta attuale non sia, in ultima analisi, che una lotta contro il soprannaturale. – Ora il soprannaturale si manifesta efficacemente nel Verbo incarnato per la nostra redenzione. Quindi, dal momento che Gesù Cristo viene riconosciuto Re universale, e si promulga così la necessità e la verità del soprannaturale, il laicismo è rifiutato mentre nel contempo si afferma la missione divina della Chiesa. « Il Figlio unico di Dio – dice Leone XIII nello stesso documento, istituì sulla terra una società, la Chiesa, alla quale affidò l’alta e divina missione di trasmettere fino alla fine dei secoli ciò che Egli stesso ha ricevuto dal Padre: come il Padre ha inviato me, così Io mando voi. » Colpendo il laicismo questa proclamazione affretterebbe il completamento del magnifico programma di Pio IX: « La pace del Cristo nel regno del Cristo ». La pace, secondo una famosa definizione di Sant’Agostino, è la tranquillità dell’ordine: tranquillitas ordinis (S.AUGUSTIN, De Civit. Det, lib. XV, c. XIII; P. L., XLI, 640.). E l’ordine chiede che, ovunque ci sia pluralità, disuguaglianza, diversità, ogni cosa sia al suo posto: Parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio. Così, al fine di garantire la pace, è necessario stabilire l’ordine, e per stabilire l’ordine bisogna mettere ogni cosa al proprio posto. – Nell’individuo, la pace richiede che il corpo sia sottomesso all’anima, gli appetiti inferiori alla ragione, e la ragione a Dio; nell’universo intero, la pace richiede che tutte le società, la famiglia, la patria, le nazioni, siano soggette a Cristo Re come Cristo è soggetto al Padre. Proclamare Gesù Re universale ed espandere il suo regno, significa preparare e garantire la pace, e allo stesso tempo il trionfo della Chiesa, “No –  esclama Bossuet, no, Gesù Cristo non regna se la sua Chiesa non è autorizzata; i pii monarchi lo hanno ben riconosciuto; e la loro autorità, oso dirlo, non è non è stata più cara che l’autorità della Chiesa (BOSSUET, Terzo sermone per la domenica delle Palme). ». Pio XI aveva perfettamente ragione a dire nella sua prima enciclica: « Non possiamo lavorare più efficacemente per la pace che restaurando il regno di Cristo (Act. Apost. Sed., XIV, 690). » Gli eventi attuali aggiungono a questo linguaggio una brillante e dolorosa conferma. Il movimento Bolscevico che, dopo aver devastato la Russia, si sta diffondendo in Oriente e minaccia di invadere il mondo musulmano, e a poco a poco anche l’Europa, dovrebbe farci comprendere chiaro che lo spirito del male regna dove il Cristo non regna più,  « Quando la religione non è più la mediatrice tra i re ed i popoli, il mondo è alternativamente vittima degli eccessi degli uni e degli altri. Il potere, libero da ogni freno morale, si erge in tirannia, fino a quando la tirannia – divenuta intollerabile – non porta al trionfo della ribellione. Poi dalla ribellione esce qualche nuova dittatura, ancor più odiosa” delle precedenti (Cardinal Pie, nell’opera citata, p. 68) ». Il mezzo dunque per scongiurare l’immenso pericolo dei nuovi tempi è quello di proclamare e stabilire il regno di Gesù-Cristo, così come quello della sua Chiesa, perfetta società spirituale, con i suoi dogmi immutabili, la sua morale intangibile, i suoi diritti imprescrittibili. – Un’altra utilità di questa proclamazione, sarà il temprare i caratteri. Ciì che troppo spesso è mancato ai Cristiani del nostro tempo è questa energia, questo valore, questa costanza alle quali sono riservate le grandi vittorie. Ma se essi avessero davanti ai loro occhi il Cristo Re, che li invita a lottare per la sua causa, si sentirebbero attratti da lui, applicando le parole dell’Apostolo: Lavorate come il buon soldato di Cristo Gesù (II Tim. III). – Per riassumere il tutto in poche parole: dichiarare autenticamente la regalità universale di Nostro Signore è quindi proclamare per gli individui, le famiglie, le nazioni, tutte le società, l’obbligo di sottomettere a Cristo tutte le intelligenze attraverso la fede nella sua dottrina, tutte le volontà, tutte le leggi e la vita intera, con la completa obbedienza ai suoi comandamenti ed un efficace riconoscimento della sua Chiesa.

LA FESTA DI CRISTO-RE (3)

LA FESTA DI CRISTO-RE (1)

LA FESTA DI CRISTO-RE (1)

R. P. Edouard HUGON, o. P.

MAESTRO DI TEOLOGIA PROFESSORE DI DOGMATICA AL COLLEGIO PONTIFICIO « ANGELICUS » DI ROMA E MEMBRO DELL’ACCADEMIA ROMANA DI S. TOMMASO D’AQUINO

LA FESTA SPECIALE di GESÙ-CRISTO RE  

QUINTA EDIZIONE Rivista ed accresciuta.

PARIS (VIe) PIERRE TÉQUI, LIBRAIRE-ÉDITEUR 8a, RUE BONAPARTE, 83 1938

APPROBATIONS

Visto ed approvato

Roma, Angelicus, li 10 aprile 1927.

Fr. Ceslas PABAN-SEGOND, O. P. Maître en S. Théologie.

Fr. Réginald GARRIGOU-LAGRANGE, O. P. Maître en S. Théologie.

PERMESSO DI STAMPA:

17 aprile 1927. Bonaventura GARCIA DE PAREDES. Mag. Gen. Ord. Frnt. Prædic.

IMPRIMATUR:

Parisiis, die 5 a decembris 1927. V. DUPIN, v. g.

PREFAZIONE

È in risposta al desiderio ed all’invito del Sommo Pontefice Pio XI, che abbiamo deciso di affrontare questo tema per il grande pubblico. Il Papa ha voluto procedere con quella maturità e quella saggezza che caratterizzano gli atti del suo Pontificato, chiedendo che la festa di Gesù Cristo Re fosse preparata con un movimento di opinione cattolico. “Il Santo Padre – scriveva nel 1924 Sua Eminenza il Cardinale Laurenti al signor Georges de Noaillat – ha giudicato il progetto molto bello, molto grande, molto opportuno. Proprio per la sua importanza, questo progetto è una realizzazione degna, grandiosa, epocale, che scuote gli animi…. Per ottenere questa preparazione, è necessario agitare, propagare la questione a parole e per iscritto, con scritti per gli studiosi, con scritti popolari… Tale preparazione sarebbe coronata da un atto solenne del Papa, che troverebbe il mondo pronto ad apprezzarne il significato (Cfr. Nouvelles Religieuses, aprile 1924, e la rivista Regnabit, 1924, pp. 197, 198). »  Ci è stato molto gradito entrare in queste considerazioni del Capo supremo della Chiesa, e, per procedere con la chiarezza e l’ordine desiderati, abbiamo cercato di mostrare che Gesù Cristo è veramente Re; quindi, come e in quale veste sia Re e come la sua regalità sia universale e si estenda a tutte le nazioni e società; come sia sovranamente importante proclamare questa verità nel nostro tempo, il cui crimine capitale è l’apostasia ufficiale degli Stati e dell’opinione pubblica; infine, che uno dei modi più efficaci per rimediare a questa iniquità, per combattere il secolarismo e per rivendicare i diritti di Dio, sia l’istituzione di una festa speciale di Gesù Cristo, Re universale delle nazioni e delle società, in una parola di tutte le creature. – Abbiamo avuto la grande consolazione di vedere come l’Enciclica Quas primas confermasse questi insegnamenti e che la liturgia della festa li traducesse in una forma adatta a tutte le intelligenze. – Così teologia e liturgia hanno unito le loro voci per cantare lo stesso inno di lode, lo stesso inno d’amore a Cristo Re; e queste sono le armonie che abbiamo voluto far emergere in questa nuova edizione.

CAPITOLO PRIMO

GESÙ-CRISTO È VERAMENTE RE

Si può dire che tutti i testi messianici, nello stesso momento in cui predicono il Cristo futuro, affermano la sua regalità universale. « Non c’è uno dei profeti, dice il cardinale Pie, non c’è uno degli Evangelisti e degli Apostoli che non gli assicuri la sua qualità e le sue attributi di re (Cfr. il ben documentato libro di p. THÉOTIME DE SAINT-JUST, La regalità sociale di Gesù-Cristo, secondo il cardinale Pie, p. 23). Lo citeremo ancora più di una volta). – Già la Genesi annuncia che le nazioni della terra saranno benedette in Lui e che Egli sarà atteso dalle nazioni; i Numeri dicono che da Giacobbe uscirà il vero dominatore (Gen. XII, 2, 3; XXIII, 17; XXVI, 4; XLIX, 8). I Salmi cantano questa dignità. Il Salmo II rappresenta il Messia come una Persona distinta dal Padre a cui il Padre parla e che Egli genera come suo vero Figlio: Dominus dixit ad me; Filius meus es tu, ego hodie genui te; e allo stesso tempo come Persona divina, eterna, onnipotente, che esercita la regalità su Sion e la cui eredità sono tutte le nazioni della terra: Postula a me, et dabo tibi gentes hæreditatem tuam. Il salmo CIX esalta nel Messia il Signore di Davide, uguale a Dio Padre nella potenza regale, poiché Egli siede alla sua destra e deve un giorno regnare sui suoi nemici, che sono diventati lo sgabello dei suoi piedi. Il Salmo LXXI descrive  le prerogative di questa regalità, che è eterna, cum sole et ante lunam, ed universale, fino ai confini della terra. I Profeti annunciano Colui che è nato bambino e che è Dio e Principe della Pace, che è Re, con un immenso impero: Deus Fortis e Princeps pacis … Multiplicabitur ejus imperium (ISAI., IX, 6-7). È questo stesso regno che Daniele predice quando parla della piccola pietra che rompe la colossale statua, diventa una montagna gigantesca e riempie tutta la terra (Dan., II, 34 ss.), e cioè che il regno di Cristo deve sostituire gli imperi terreni. Sant’Agostino esclama a questo proposito: « Non sorprende che i Giudei non abbiano riconosciuto quella che disprezzavano come la piccola pietra giacente ai loro piedi; quelli che piuttosto ci stupiscono sono coloro che si rifiutano di riconoscere una tale montagna (S. Agostino, Enarrat. 1n ps. XLV, 12; P. L., XXXVI, 522). Altri profeti, come Zaccaria, celebrano le virtù di questo Re, che viene con giustizia, mitezza ed in povertà a salvare il suo popolo: « Ecce rex tuus venit tibi justus et salvator, ipse pauper » (Zacc. IX, 9). È stato quindi giustamente detto che la regalità di Gesù Cristo è come la spina dorsale dell’Antico Testamento, così come la figura benedetta del Salvatore domina entrambi i versanti della storia. – Il Nuovo Testamento lo afferma con ancora più forza. I Vangeli sinottici sottolineano questa dignità regale. L’angelo che annuncia la nascita alla Beata Vergine le dice: “Il Signore gli darà il trono di Davide suo padre, ed Egli regnerà per sempre nella casa di Giacobbe” (Lc. I, 32). Cristo esercita questa potenza suprema in vari modi: perfeziona la Legge, che è di istituzione divina (Mt., V, 7); è il Padrone del sabato, che è anche di diritto divino (Mt., IX, 15); con una sola parola perdona i peccati con la sua stessa virtù (Luc. V, 17-26); Egli diffonde il suo dominio su tutto il creato, sia materiale che spirituale, come spiega meravigliosamente S. Tommaso (S. Thom., IIIa, q. 44), e gli Angeli stessi che sono suoi sudditi, hanno l’onore di servirlo (Luc., II, 13. Matth.,11; XXVI, 53). Prima di ascendere al cielo, disse ai suoi apostoli: « Mi è stato dato ogni potere in cielo ed in terra. Andate ed insegnate a tutte le nazioni » (Matteo, XXVIII, 18-19).  – Si vedrà qui il carattere pubblico e sociale di quest’autorità: poiché Egli ha tutto il potere, le nazioni, tutte le nazioni, sono tenute a sottomettere docile la loro mente alla sua dottrina, e la loro vita alla sua morale e alle sue leggi, che derivano dal Battesimo, baptizandes … – San Giovanni, nel prologo del suo Vangelo, gli attribuisce il potere regale e divino di rigenerare e divinizzare i figli di Dio; e poi riporta la risposta di Gesù alla domanda di Pilato: Sei Tu dunque re? – « Tu l’hai detto », risponde Gesù. “Il Cardinale Pie sottolinea che questa risposta è fatta con tale accento di autorità che Pilato, nonostante tutte le rimostranze dei Giudei, consacra la regalità di Gesù con una scritta pubblica ed un segno solenne (op. cit. p. 23-24). A questo proposito, il Vescovo di Poitiers fa sue le magnifiche parole di Bossuet: « Che la regalità di Gesù Cristo sia promulgata nella lingua ebraica, che è la lingua del popolo di Dio, nella lingua greca, che è la lingua dei dotti e dei filosofi, e nella lingua romana, che è la lingua dell’impero e del mondo, la lingua dei conquistatori e dei politici. Ora avvicinatevi, o Giudei, eredi delle promesse; e voi, o Greci, inventori delle arti; e voi Romani, padroni della terra: venite a leggere questa scritta mirabile: inginocchiatevi davanti al vostro Re. »  – Nella sua Rivelazione, San Giovanni chiama Gesù il Principio e la Fine, il Re dei re, il Signore dei signori, il Giudice supremo, che dona a ciascuno secondo le sue opere (APOC, I, 18; IV, 9-10;VI, 10;III, 7; XXII, 13;XVII, 15;XIX. 16). San Paolo (Philipp.. II; Rom., VIII 31;Hébr., I) predica sia la divinità di Cristo che la sua potenza regale: Colui che ha la forma e la natura di Dio, che è il Figlio di Dio stesso, ha il dominio universale: e per diritto di eredità, perché è erede costituito di tutte le cose in virtù dell’unione ipostatica; e per diritto di merito, perché è esaltato per essersi umiliato; e per diritto di conquista avendo acquisito la sua Chiesa a prezzo del suo sangue: Regere Ecclesiam Dei, quam acquisivit sanguine suo (Àct., XX,28. ). L’importanza di questo testo per stabilire la divinità e la regalità di Cristo non può essere abbastanza sottolineata: chi ha acquisito la Chiesa è DIO, e il suo sangue è il sangue di DIO, così come la sua Chiesa è la Chiesa di DIO. Riunendo i vari titoli di Cristo, l’Apostolo conclude: OPORTET illum regnare, deve essere re (I Cor., XV, 25, 27).

* *

La tradizione patristica lo ha affermato fin dall’inizio con la stessa energia. San Giustino, nel suo Dialogo con Trifone, mostra ai Giudei che Cristo è il Signore che si è manifestato nell’Antico Testamento, il sovrano che governa con perfetta preveggenza (Cf. JUSTIN, Dialog. Cum Tryphone, P. G.,VI, 600, 620) Allo stesso modo, sant’Ireneo stabilisce, contro gli gnostici, che Cristo è il principio e la fine di tutte le cose, Colui che consola il suo popolo afflitto e si prende cura di esso lui come padrone. (Cf. IREN., Cont. Hæres., lib. IV, c. Xll; P. G.,VII, 1095). – Tra le tante testimonianze della Chiesa latina, basta citare questo passo di sant’Ambrogio: « Il titolo è giustamente posto sulla croce, perché sulla croce si irradiava la maestà del Re Gesù: supra crucem tamen Régis majestas radiabat (S. AMBROS., Exposit. In Luc, X, P. L., XV, 1925). »  La Chiesa siriaca ci dice per bocca del suo dottore Sant’Efrem che Cristo è il Re pacifico il cui scettro è la croce. Egli innalza questa croce come un ponte sulla morte, attraverso il quale le anime passano dalla regione della morte alla regione della vita: Tibi gloria! Qui CRUCEM TUAM PONTEM EXSTBILISTI SUPER MORTEM, ut per eum transeant animæ eregione mortis in regionem vitæ (EPHRAEM, édit. LAMY, t, I, p. 138. Cf.t. II, p. 578). »  La Chiesa di Alessandria spiega, con San Cirillo, che il Salvatore è davvero Re: non ha negato davanti a Pilato questa suprema regalità, ha fatto solo capire che il suo impero è di un altro ordine, che non è imposto dalla violenza o stabilito in modo umano, ma che viene dalla sua stessa natura e si estende su tutto il creato: « Creaturarum omnium dominatum non per vim extortum nec aliunde invectum, sed essentia sua et natura (S. CYR1LL. ALEXANDR., In Joant lib.XII; P. G., LXXI V, 622. 23). » – La liturgia celebra frequentemente questo titolo di Re; nel Te Deum, saluta il Re della gloria, tu rex gloriæ, Christe; nelle antifone dell’Avvento, il Re delle nazioni, O rex gentium; nell’lnvitatorio, il Re degli angeli, il Re degli apostoli, il Re dei martiri, ecc. e, nella festa del Santissimo Sacramento, Cristo Re, Sovrano delle nazioni: Christum Regem dominantem gentïbus….

***

Le ragioni teologiche sono evidenziate da San Tommaso. Il grande Dottore dedusse la regalità da queste parole del Simbolo: Cristo è seduto alla destra del Padre… « Sedersi alla destra del Padre significa condividere con il Padre la gloria della divinità, la beatitudine e il potere giudiziario; e questo in modo immutabile e regale: et hoc immutabiliter et REGALITER (S. THOM., IIIa, q. 58, a. 2). “Egli possiede questa dignità come Dio, è manifesto, ma anche come uomo per l’unità della Persona; è per questo che noi onoriamo con uno stesso onore il Figlio di Dio con la natura umana che Egli si è unita (lbid.,a. 3.). – Dappertutto nella Scrittura Cristo è rappresentato come il Giudice supremo, e lo stesso Salvatore afferma che il Padre gli ha dato questo potere di giudicare: Pater omne judicium dédit Filio (Joan., V, 22). Il potere giudiziario, dice San Tommaso, deriva dalla dignità regale: « Judiciaria potestas consequitur regiam dignitatem ». Quindi, se Cristo è Giudice, è Re costituito da Dio. (IIIa, q. 50, a. 4, nd. 1.26) Questa conclusione, inoltre, emergerà con piena evidenza dalle considerazioni che seguono.

CAPITOLO II

IN CHE MODO E A QUAL TITOLO GESÙ CRISTO È RE

Tutti i teologi (V. commentatori di San Tommaso, III, P.) concordano che Nostro Signore non ha esercitato in questo mondo l’ufficio di re temporale, né in Giudea né in altre contrade, né è stato incaricato di dirimere controversie tra individui, come Egli stesso dichiara: « Homo, quis me constituit judicem aut divisorem inter vos (Luc. XII, 14)? »  –  D’altra parte, è evidente che Gesù Cristo, in quanto Dio, è Signore e Re di tutte le cose, per il fatto stesso che tutto è stato fatto da Lui e tutto sussiste in Lui, in cielo e in terra, nel mondo visibile e invisibile (Col. I, 16). – Si riconosce inoltre che anche come uomo, Egli ha, almeno, una regalità spirituale su tutti gli individui e tutte le società: questa è la conclusione immediata dei già citati testi della Scrittura e della Tradizione, che chiamano Gesù Cristo Re, Sovrano delle nazioni, Re dei re, Signore dei signori, ecc.  – La questione è sapere se come uomo avesse il dominio dell’intero universo e se fosse il Re temporale di tutti i re e di tutti gli imperi.  – Qui la soluzione non è stata unanime: scrittori di grande fama, come il B. Bellarmino Tolet, Sylcius Billuart, ecc. rispondono negativamente, mentre la risposta affermativa già insegnata da San Tommaso e Sant’Antonino, validamente difesa dalla teologia di Salamanca, diviene sempre più comune nella nostra epoca (Cf. BELLARM., de Rorn. Pont., cap. iv et v; TOLET. SYLVIUS, in IIIa, q. Billuart, de Justitia, 4 diss. III, art. VI; SALMANT., de ïncarn., diss. XXXII, dub. II). – Una festa liturgica non dovrebbe basarsi su dottrine controverse, ed è noto che in passato già l’approvazione del culto del Sacro Cuore è stata ritardata perché dei sostenitori partigiani volevao basarla sulla discutibile teoria che il cuore è l’organo delle passioni. – Ma sembra che ai nostri giorni sia possibile evitare le polemiche e arrivare ad una reale certezza ponendo la questione sotto suo il suo vero punto di vista.  – I teologi che lo negano o ne dubitano lo considerano in modo troppo ristretto, le loro argomentazioni dimostrano solo che Nostro Signore non è un sovrano terreno come i re di questo mondo, e che non esercita esteriormente il suo potere reale e il suo sovrano dominio.  – Altri sono rimasti impressionati da questo sofisma: se Nostro Signore avesse un potere diretto sui re e sugli imperi, lo avrebbe anche il Papa, il che è chiaramente insostenibile. – È facile rispondere, con la teologia di Salamanca: non tutto il potere spirituale di Cristo passa al suo Vicario, per esempio il potere di istituire i Sacramenti o di modificare la costituzione della Chiesa; e, quindi, anche se il Papa non ha un potere diretto sugli Stati, Cristo può averlo, completo e assoluto se gli conviene, a motivo della stessa unione ipostatica.  – Questo è il vero principio che deve essere invocato per risolvere il problema: bisogna sempre considerare ciò che questa unione sostanziale comporti in termini di diritti e prerogative nel Cristo intero.  Non basta quindi confessare che Nostro Signore come Dio è Re, perché dubitare di questo significherebbe dubitare della sua divinità; ed è troppo poco dire che come uomo è solo un re spirituale, perché questo sarebbe limitare una regalità che la Scrittura e la Tradizione gli attribuiscono senza alcuna riserva. Consideriamo la questione in un modo più alto e più universale e diciamo: il Cristo tutto intero, questo Redentore, questo Salvatore benedetto, che sussiste nelle sue due nature, la natura divina e la natura umana, è il Re in assoluto, sia per l’ordine temporale che per l’ordine spirituale, senza alcuna restrizione.  – I testi già citati suggeriscono questa soluzione. Colui che dice: Tutto il potere mi è stato dato in cielo e in terra, è il Cristo nella sua doppia natura, il Cristo visibile che conversa con gli Apostoli. Ora nulla è escluso dal suo impero, che è assoluto sia in terra come in cielo. Il Cristo si è definito Giudice e quindi anche Re, perché che Egli è il Figlio dell’uomo: Judicium facere, quia Filius hominis est (JOAN., V, 27.). – È nello stesso senso che parla San Paolo: “Omnia subjecta sunt ei, sine dubio, præter eum qui subjecit ei omnia” (I Cor., XV, 27.). Tutto nell’ordine temporale, come nell’ordine spirituale, tutto tranne il Padre, è soggetto a Lui. Questo è il Cristo, non solo nell’ordine divino, secondo il quale non ha bisogno che il Padre gli sottometta le creature, ma ancora nella sua natura umana, a motivo della quale può ricevere l’impero dell’universo.  – San Pietro, per glorificare il Salvatore, che ha sofferto e che è risorto, gli attribuisce questo dominio sovrano su tutto, hic est Dominus omnium, insieme al potere giudiziario: constitutive est a Deo judex vivorum et mortuorum (Act., XV, 36, 42). – Nell’Apocalisse, Cristo, chiamato Re dei re e Signore dei signori, senza restrizioni e in qualsiasi ordine i governanti possano comandare, è il Redentore nella sua duplice natura: la natura divina, poiché il suo nome è il Verbo di Dio; la sua natura umana, poiché la sua veste è coperta del suo sangue (Apoc, XIX. 13, 16).  – I Padri che abbiamo citato attribuiscono la regalità universale al Cristo visibile, che è stato sospeso sulla croce per salvarci.  – La liturgia ( « O rex gentium… veni et salva hominem quem de limo formasti. » – Ant. O dell’Avvento) saluta il Salvatore come Re delle nazioni nella sua duplice natura, per cui unisce Dio e l’uomo, e conclude : Vieni a salvare l’uomo che hai formato dal limo, cioè a dire, salvate per le sofferenze della vostra natura umana, l’uomo che avete creato in virtù della vostra natura divina. – Così, per conservare i testi della Scrittura e della Tradizione nella loro pienezza, è necessario confessare che Nostro Signore tutto intero con la sua duplice natura è Re assolutamente, senza restrizioni, Re di tutti gli uomini e di tutto l’universo. – Se Nostro Signore ha detto che il Suo regno non è di questo mondo, voleva dire che il Suo potere non ha origine da qui sotto e non è esercitato in modo mondano; non ha negato di essere il vero sovrano di questo mondo, Lui che ha anche detto: Tutto il potere mi è stato dato in cielo e in terra. Abbiamo già suggerito la vera ragione teologica, il cui valore probatorio ci sembra inconfutabile. Come Cristo, in virtù dell’unione ipostatica, merita un tale onore che tutte le creature, uomini o Angeli, debbano adorarlo interamente con la sua santa umanità, così come Egli ha diritto, in virtù della stessa unione, a tale potere e sovranità, che tutte le creature devono obbedirgli anche secondo la sua natura umana e sottomettersi a Lui sotto ogni aspetto, senza eccezioni. – Questo solo titolo dell’unione ipostatica conferisce così al Cristo tutto intero la regalità su tutto l’universo, anche se non l’ha esercitata durante la sua vita mortale. – È così che parla infatti San Tommaso: « Cristo, pur essendo stato costituito re da Dio stesso, non ha voluto avere sulla terra l’amministrazione temporale di un regno terreno. » (IIIa, q. 59, a 4, ad 1.) Il Dottore Angelico afferma qui tre cose: – 1° che Nostro Signore, anche nell’ordine temporale, aveva ricevuto da Dio la qualità di vero Re; – 2° che non ha avuto, durante la sua vita quaggiù, l’esercizio o l’amministrazione di questo potere; -3° che, se non l’ha esercitato, è perché Egli non ha voluto fare uso di questo potere e di questo diritto.  – Nei confronti degli uomini, egli è Re ad un titolo particolarmente dolce, cioè il diritto di conquista e di redenzione, in virtù della sua grazia capitale. È con buona ragione che ci chiamiamo populus acquisitionis (I PETR., II, 9), così come si è acquistato la sua Chiesa a prezzo del suo sangue, quam acquisivit sanguine suo. L’Apostolo ha stabilito con invincibile eloquenza questo dominio reale e sovrano del Salvatore su ciascuno di noi: poiché Egli ci ha riscattati a tale prezzo, non siamo più nostri, non possiamo più venderci e renderci schiavi degli uomini: « Non estis vestri: empti enim estis pretio magno » (I Cor., VI, 19-20.). – « Pretio empti estis, nolite fieri servi hominum. » (Rom. VII, 23). »  Questo è anche ciò che ci ricorda San Pietro:  « Sappiate che siete stati riscattati, non con oro o argento corruttibile, ma con il sangue dell’Agnello immacolato, il Cristo immacolato » (I Piet. I. 18,19). »  – San Giovanni nell’Apocalisse, riunisce questi due titoli e questi diritti di eredità e di conquista, e celebra il Principe dei re della terra, che ci ha amato e ci ha lavato dai nostri peccati nel suo sangue (Apoc. I, 5). Per questo motivo, l’enciclica dichiara espressamente che il potere reale in senso stretto deve essere rivendicato per il Cristo uomo. Aggiunge che sarebbe un grave errore contestare al Cristo uomo il dominio sulle questioni civili. Il Papa insiste sulla ragione che abbiamo appena sviluppato: il solo titolo dell’unione ipostatica esige che tutte le creature, Angeli e uomini, gli obbediscano e siano soggetti al suo impero (Act. Apost. Sedis, 596, 598, 599).  L’enciclica sottolinea poi il titolo di conquista in virtù della redenzione.

LA FESTA DI CRISTO-RE (2)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “IAMPRIDEM CONSIDERANDO”

 « … Tutti sono d’accordo nel ritenere che l’umana ragione, se si allontana dalla divina autorità della fede, è necessariamente travolta nei flutti del dubbio ed esposta ad imminenti pericoli di errore, e che facilmente uscirà da questi pericoli se gli uomini troveranno rifugio nella filosofia cattolica… » Queste sono parole veramente illuminate e che rendono ragione anche della crisi mondiale che stiamo tutti vivendo, Senza una luce certa ed infallibile, c’è solo smarrimento, confusione, violenza, terrore, morte dell’anima e del corpo. Se il mondo attuale raccogliesse queste parole e quelle tutte della lettera di S. S. Leone XIII, e le facesse sue, vedrebbe uno spiraglio di luce che potrebbe illuminare finalmente coscienze addormentate, false, morte alla grazia, guidate dal demonio all’inferno per l’eterna dannazione. La filosofia cristiana, ed in primo luogo il tomismo dell’Angelico, ha costituito per secoli la base della ragione umana dei popoli cristiani apportando civiltà e progresso vero. Ecco perché tanto accanimento delle conventicole della perdizione nell’elaborare sistemi filosofici o teologici strampalati e fallimentari di pseudointellettuali massonici … Kant, Hegel, Fichte, Schilling, etc., ma la cui base era sempre la stessa: il panteismo gnostico diversamente mascherato. Lo stesso panteismo gnostico antitomistico ha alimentato pure le idiozie del modernismo – somma di tutte le eresie – della Nouvelle theologie che satana ha fatto trionfare nella setta della sinagoga vaticana attraverso il conciliabolo dei suoi adepti Roncalli e Montini, ed è tuttora in pieno delirio postconciliabolo, con i funambolismi dei due sepolcri imbiancati usurpanti il trono di Pietro e valletti dell’anticristo. Chi vuole restare cattolico e nel Corpo mistico di Cristo, cioè il vero Cattolico del pusillus grex, deve assolutamente tornare a S. Tommaso ed alla sua dottrina, dottrina che è quella della vera Chiesa di Cristo, seguirne i modelli e gli esempi. I problemi creati dal modernismo anticristiano, possono essere facilmente risolti alla luce del pensiero di S. Tommaso, come giustamente annota Papa Pecci, per poterci così avviare, anche tra le persecuzioni di ogni tipo che subiremo, verso la patria celeste nella eterna beatitudine. Che la Vergine Maria ci protegga e S. Michele ci difenda dal demonio e dal colle Vaticano attuale.

Leone XIII
Iampridem considerando

Lettera

Già da gran tempo, per riflessione ed esperienza, abbiamo compreso che nulla vale a prontamente e felicemente estinguere, con il divino aiuto, l’atrocissima guerra ora mossa contro la Chiesa e la stessa umana società quanto il reintegrare ovunque, mercé le discipline filosofiche, i retti principi del comprendere e dell’operare. Perciò conviene sommamente far rifiorire in ogni parte del mondo la sana e genuina filosofia. A questo scopo abbiamo mandato recentemente a tutti i Vescovi dell’orbe cattolico una Lettera enciclica nella quale con molti argomenti abbiamo dimostrato non doversi cercare tale vantaggiosa soluzione se non nella filosofia cristiana prodotta ed accresciuta dagli antichi Padri della Chiesa: quella filosofia che non solo si accorda quanto mai con la fede cattolica, ma le porge anche opportuno ed idoneo aiuto di difesa e di luce. Abbiamo ricordato che tale filosofia, seme fecondo di grandi frutti nel volgere dei secoli, venne ricevuta quasi in retaggio da San Tommaso d’Aquino, sommo maestro degli Scolastici, e che nel darle ordine, nell’illustrarla ed accrescerla, l’acume e la virtù di quel sublime Intelletto rifulsero in tal modo che l’Angelico Dottore sembra abbia raggiunto il massimo della gloria per il suo nome. Con le più fervide parole delle quali eravamo capaci abbiamo poi esortato i Vescovi ad unire le loro forze alle Nostre affinché si adoperassero a rialzare quell’antica filosofia, ormai scossa e pressoché caduta, e a ridonarla alle scuole cattoliche ed a ricollocarla nell’onorato seggio che un giorno occupava. – Non Ci procurò poca consolazione apprendere che quella Nostra Lettera, con l’aiuto di Dio, incontrò dappertutto il deferente ossequio e il singolare consenso degli animi. Del che Ci porgono chiara testimonianza molte lettere di Vescovi a Noi pervenute, specialmente dall’Italia, dalla Francia, dalla Spagna e dall’Irlanda; esse Ci recano le espressioni di egregi sentimenti sia di persone singole, sia di gruppi della stessa provincia o della stessa nazione. Né è mancato il suffragio dei dotti, in quanto insigni Accademie di uomini eruditi si compiacquero dichiararci per iscritto intendimenti del tutto eguali a quelli dei sacri Pastori. – In tali lettere, poi, Ci torna oltremodo gradito l’ossequio prestato alla Nostra autorità e a questa Sede Apostolica; graditi Ci tornano i propositi e i giudizi espressi dagli scrittori. Una sola, infatti, è la voce di tutti; una sola è l’opinione: si nota e si indica con sicurezza in quella Nostra Lettera il luogo nel quale è riposta la radice dei mali presenti e donde debba derivare il rimedio. Tutti sono d’accordo nel ritenere che l’umana ragione, se si allontana dalla divina autorità della fede, è necessariamente travolta nei flutti del dubbio ed esposta ad imminenti pericoli di errore, e che facilmente uscirà da questi pericoli se gli uomini troveranno rifugio nella filosofia cattolica. – Pertanto, Venerabile Fratello, è nei Nostri più caldi desideri che la dottrina di San Tommaso, conforme in modo assoluto alla fede, riviva quanto prima in tutte le Scuole cattoliche, e specialmente torni a fiorire in questa Città, capitale del Cattolicesimo, la quale – appunto perché è sede del Pontefice Massimo – deve eccellere sulle altre per le migliori discipline. A questo si aggiunga che a Roma, centro dell’unità cattolica, convengono solitamente in gran numero da ogni paese i giovani per attingere meglio e più abbondantemente che altrove la vera ed incorrotta sapienza presso l’augusta cattedra del Beato Pietro. Conseguentemente, se da qui sgorgherà larga e copiosa la vena di quella cristiana filosofia di cui abbiamo detto, essa non resterà circoscritta nei confini di una sola città, ma simile a fiume in piena giungerà a tutti i popoli. – Quindi procurammo dapprima che nel Seminario Romano, nel Liceo Gregoriano, nell’Urbaniano e in altri Collegi soggetti tuttora alla Nostra autorità le discipline filosofiche, informate al concetto e ai principi del Dottore Angelico, vengano insegnate e coltivate con chiarezza, ampiamente e in profondità. E soprattutto vogliamo che la vigile cura e gli sforzi dei maestri si prefiggano quale scopo principalissimo di impartire gradevolmente e vantaggiosamente per i discepoli, spiegandole ed ampliandole, quelle ricchezze di dottrina che essi stessi avranno già raccolte con diligenza dai volumi di San Tommaso. – Ma oltre a ciò, affinché questi studi vigoreggino e fioriscano sempre più, si deve provvedere a che gli amanti della filosofia Scolastica si adoperino di continuo per farla apprezzare: soprattutto si organizzino in società e tengano di frequente adunanze nelle quali ciascuno rechi e volga a comune utilità il frutto dei propri studi. – Questi giudizi e questi Nostri concetti abbiamo voluto comunicare a Te, Venerabile Fratello Nostro che presiedi la Sacra Congregazione degli studi, confortati da sicura speranza che in un affare di tanto rilievo non Ci verranno meno la Tua operosità e la Tua prudenza. Tu non ignori certamente che le adunanze dei dotti, cioè le Accademie, furono come nobilissime palestre, nelle quali personaggi insigni per acuto ingegno e per dottrina non solo si esercitavano utilmente scrivendo e disputando delle cose della massima importanza, ma anche insegnavano ai giovani con grande vantaggio delle scienze. Da quest’ottima usanza ed istituzione di congiungere le forze e di radunare le intelligenze più vive presero origine quegli illustri Collegi di Dottori, alcuni dei quali si dedicavano collegialmente a diverse discipline, ed altri a singole scienze. – Sono ancora vive la fama e la gloria di quei Collegi i quali, col favore accordato dai Romani Pontefici per diverse ragioni, fiorirono ovunque nella nostra Italia: a Bologna, a Padova, a Salerno e altrove. Poiché tali adunanze di uomini raccoltisi volontariamente per la cultura e il lustro delle discipline umane giunsero a tanta lode e riuscirono di tanta utilità, e poiché sopravvive ancora larga parte di quella lode e di quella utilità, Noi intendiamo valerci dello stesso presidio per recare pienamente ad effetto il Nostro disegno. – Conseguentemente decidiamo di istituire in Roma un’Accademia la quale, insignita del nome e del patronato di San Tommaso d’Aquino, indirizzi gli studi e le attività a spiegare e ad illustrare le opere di lui; ne esponga i principi e li metta a confronto con quelli degli altri filosofi, antichi o recenti; dimostri la forza e le ragioni delle sue teorie; s’impegni a propagarne la salutare dottrina e si adoperi a confutare gli errori serpeggianti e ad illustrare i nuovi ritrovati. Pertanto a Te, Venerabile Fratello Nostro, del quale conosciamo i pregi dottrinari, il pronto ingegno, lo studio e la sollecitudine per tutto ciò che appartiene alle umane discipline, affidiamo il compito di eseguire il Nostro proposito. Per ora rifletti attentamente la cosa, e non appena avrai escogitato la soluzione che corrisponda ai Nostri concetti, la sottoporrai per iscritto alla Nostra valutazione, affinché possiamo approvarla e corroborarla della Nostra autorità. – Infine, perché più ampiamente si conosca e si diffonda la sapienza del Dottore Angelico, stabiliamo che nuovamente si pubblichino tutte le sue opere, secondo l’esempio lasciatoci dal Nostro Predecessore San Pio V, illustre per gloria d’imprese e per santità di vita, al quale toccò in sorte di vedere così felicemente compiuti i suoi voti, che gli esemplari di Tommaso editi per suo ordine siano ancora assai stimati presso i dotti e vengano ricercati con somma cura. Sennonché, quanto più rara diventa quell’edizione, tanto più si è cominciato a sentire il desiderio di una nuova che, per nobiltà ed eccellenza possa essere confrontata con la Piana. D’altronde, le altre edizioni, sia le antiche, sia le più recenti, o perché non offrono tutti gli scritti di San Tommaso, o perché non contengono i commenti dei migliori interpreti ed esegeti, o infine perché mostrano minore accuratezza formale, non sembra che abbiano raggiunto la perfezione. – Si nutre una certa speranza che a tale bisogno verrà provveduto con la nuova edizione, la quale comprenderà assolutamente tutti gli scritti del Santo Dottore, stampati con i migliori caratteri possibili ed emendati accuratamente. Ci si avvantaggerà anche del sussidio di codici manoscritti che in questa nostra età sono venuti alla luce e in uso. – Oltre a ciò, avremo cura che congiuntamente si pubblichino i lavori dei suoi più illustri interpreti, come Tommaso de Vio Cardinale Gaetano e il Ferrarese: lavori dai quali, come per rivi copiosi, scorre limpida la dottrina di un così grande uomo. Per la verità, sono presenti all’animo Nostro non solo la grandezza ma anche le difficoltà dell’impresa; nondimeno esse non giungono al punto di distoglierci dal mettere mano all’opera quanto prima e con grande alacrità. Infatti, in cosa di tanto rilievo, la quale riguarda in sommo modo il comune bene della Chiesa, nutriamo fiducia che Ci conforteranno il divino aiuto, il concorde impegno dei Vescovi e la prudenza e l’operosità tua, già sperimentate e da lungo tempo conosciute. – Intanto, come pegno della Nostra speciale dilezione, dall’intimo affetto del cuore impartiamo a Te, Venerabile Fratello Nostro, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 ottobre 1879, anno secondo del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “UBI PRIMUM”

Quanta delicatezza, sapienza, rettitudine di intenti, paterne esortazioni, contiene questa prima lettera enciclica dell’appena eletto Cardinal Lambertini al soglio di Pietro, con il nome di Benedetto XIV. Con grande lungimiranza il Sommo Pontefice comprende che il futuro della Chiesa di Cristo e la sua stabilità morale e dottrinale dipende dalle capacità ed dalla volontà benigna dei Vescovi, successori degli Apostoli ed in comunione con il Vicario di Cristo. Quando le sette della perdizione concepirono il turpe disegno di infiltrare la Chiesa di Cristo per poterla demolire dall’interno – si fieri potest – si concentrarono sui chierici più coriacei – ad esempio i Gesuiti – e particolarmente sui Vescovi cercando, fin dai primi anni di seminario, di avvelenare con falsi sofismi e gnostiche teologie la purissima dottrina evangelica ed il Magistero perenne della Chiesa. Certo la loro opera di infiltrazione minante la sacra Gerarchia è stata lunga e paziente, ma hanno trovato varchi e smagliature dottrinali e liturgiche, oltre che incompetenze e complicità accidiose e infingardia in chi doveva vegliare con attenzione sul gregge preso d’assalto da lupi voraci, lupi che dal 26 ottobre del 1958 e con il conciliabolo successivo anatemizzato con mezzo millenio d’anticipo, hanno preso il sopravvento, ed in tutta tranquillità oggi sbranano pecorelle ed agnelli ignari ma complici per ignoranza colpevole, ingannati da una falsa pietà ed affettata santità, da sorrisetti ammiccanti ed ironici, da un parlare da drago, come recita l’Apocalisse, ben mascherando gli empi propositi – sepolcri imbiancati rivestiti da corna ed insegne luciferine – di condurre tante anime costate sangue al Figlio di Dio incarnato e lacrime alla Madre nostra Maria, all’inferno dai loro capi demoniaci ai quali sono soggetti e referenti. Ma certo la loro opera infame è destinata a perire ed esaurirsi, con il giudizio finale di Cristo Giudice e dei suoi Apostoli seduti sui troni a giudicare con infallibile giustizia chi ha servito rettamente il Figlio di Dio-uomo, e chi ha abusato del suo Nome per servire il signore dell’universo, il baphomet-lucifero imperante nelle false chiese della sinagoga di satana vaticana. E là … sarà pianto e stridor di denti.


Benedetto XIV
Ubi primum

Allorché piacque a Dio, ricco di misericordia, collocare la Nostra umile persona nella Sede suprema del Beato Pietro e assegnare a Noi, benché nessun merito Ci raccomandi, la vicaria potestà di Nostro Signore Gesù Cristo per il governo di tutta la sua Chiesa, Ci sembrò che alle Nostre orecchie risonasse quella voce divina: “Pascola i miei agnelli; pascola le mie pecore“; cioè che fosse imposta al Romano Pontefice, successore dello stesso Pietro, la missione di guidare non solo gli agnelli del gregge del Signore, che sono i popoli sparsi per tutta la terra, ma anche le pecore, cioè i Vescovi, che, come le madri per gli agnelli, generano i popoli in Gesù Cristo e una seconda volta li partoriscono. – Accettate dunque, Fratelli, con questa nostra lettera, anche le parole del Vostro Pastore. Chiamati al compito di spronare, nella pienezza del mandato affidatoci da Dio, Voi comprendete quanto nei Nostri stessi inviti e nelle Nostre esortazioni Ci stia a cuore di non trascurare nessuno dei Nostri doveri, e quanto grande sia la forza della Nostra paterna carità verso di voi: in forza di essa, siamo portati a desiderare al massimo che dal profitto delle sante pecore provengano gioie eterne ai Pastori.

1. Innanzi tutto, in verità, operate con impegno e con ogni Vostra possibilità affinché l’integrità dei costumi e lo studio del culto divino risplendano nel Clero, e che la disciplina ecclesiastica sia conservata integra e sana, e sia ristabilita là dove sia caduta. È abbastanza noto, infatti, che non vi è nulla che più efficacemente ammaestri, stimoli e infiammi tutto il popolo alla pietà, alla religione e alle norme della vita cristiana quanto l’esempio di coloro che si sono dedicati al Divino ministero. – Pertanto l’acutezza della Vostra mente deve essere rivolta prima di tutto a far sì che con accurata scelta siano iscritti alla milizia clericale coloro dai quali a ragione si può prevedere che la loro vita sia oggetto di ammirazione da parte di quanti camminano nella legge del Signore, procedono di virtù in virtù e con la loro opera portano un vantaggio spirituale alle Vostre Chiese. Per certo, è meglio avere pochi Ministri, ma onesti, idonei ed utili, che molti i quali non siano per nulla destinati all’edificazione del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Voi, Fratelli, non ignorate quanta prudenza richiedano in proposito ai Vescovi i Sacri Canoni; quindi non lasciatevi distogliere da quanto prescritto (che deve essere osservato totalmente) né da qualsiasi rispetto umano, né da inopportune suggestioni dell’ambiente, né da richieste di patrocinatori. Soprattutto bisogna osservare il precetto dell’Apostolo, di non ordinare nessuno troppo frettolosamente, allorché si tratta di promuovere qualcuno ai Sacri Ordini e ai Santissimi Ministeri, dei quali nulla è più divino. – Infatti non basta l’età che le sacre leggi della Chiesa prescrivono per ciascun Ordine, né indiscriminatamente deve aprirsi il passaggio a posizioni più elevate, quasi di diritto, a tutti coloro che siano già stati posti in qualche Ordine inferiore. Voi dovete con grande attenzione e diligenza indagare se il modo di vivere di coloro che hanno preso i primi Ministeri sia stato conforme, e il loro progresso nelle sacre dottrine sia stato tale che veramente si debbano giudicare degni di sentirsi dire: “Sali più in alto“. Quanto è meglio, inoltre, che taluni rimangano ad un grado inferiore, piuttosto che siano promossi ad uno più alto, con maggior pericolo per loro e motivo di scandalo per gli altri.

2. E giacché importa soprattutto che coloro i quali sono chiamati al servizio del Signore siano formati fin dalla giovane età alla pietà, all’integrità dei costumi e alla disciplina canonica (come le pianticelle novelle nel loro inizio), Vi deve quindi stare a cuore che, dove eventualmente non siano ancora stati istituiti i Seminari dei Chierici, vengano istituiti quanto prima possibile, o siano ampliati quelli già esistenti se, data la situazione della Chiesa, vi sia bisogno di un numero maggiore di Alunni, impiegando a questo scopo i mezzi che i Vescovi hanno già il potere di procurare, e ai quali Noi ne aggiungeremo altri se da Voi saremo informati della loro necessità. – In verità è indispensabile che gli stessi Collegi siano vigilati dalla Vostra particolare cura: ispezionandoli spesso; esaminando la vita, l’indole e il progresso negli studi dei singoli adolescenti; destinando maestri preparati e uomini forniti di spirito ecclesiastico per la loro formazione; onorando talvolta le loro esercitazioni letterarie o le funzioni ecclesiastiche con la Vostra presenza; infine concedendo alcuni privilegi a coloro che abbiano dato più evidente prova dei loro meriti ed abbiano riportato maggiore lode. Non Vi pentirete di avere somministrato tale irrigazione a questi arboscelli durante la loro crescita; anzi la Vostra opera Vi porterà consolanti frutti nella copiosa abbondanza di buoni operai. Senza dubbio molto spesso i Vescovi furono soliti lamentarsi che la messe era molta e gli operai pochi; ma forse avrebbero dovuto anche dolersi di non aver dedicato essi stessi lo zelo necessario per formare operai pari e adeguati alla messe. Infatti i buoni e valorosi operai non nascono, ma si fanno; e spetta soprattutto alla solerzia e all’impegno dei Vescovi che si facciano.

3. Inoltre è della massima importanza che la cura delle anime sia affidata a coloro che per dottrina, pietà, purezza di costumi e per insigni esempi di buone opere possono far luce negli altri in tal misura da essere giudicati luce e sale del popolo. Costoro sono veramente i primi Vostri collaboratori nell’istruire, reggere, purificare, dirigere sulla via della salvezza, e incitare alle virtù cristiane il gregge a Voi affidato. Quindi è facile comprendere quanto debba starvi a cuore che siano prescelti all’ufficio parrocchiale coloro che meritatamente siano giudicati i più idonei a dirigere utilmente le folle. Ma soprattutto insistete perché tutti coloro che hanno cura d’anime nutrano di salutari parole (almeno le domeniche e nelle altre feste comandate) le genti loro affidate, secondo la propria e la loro capacità, insegnando tutto ciò che i fedeli di Cristo devono apprendere per la loro salvezza e spiegando gli articoli della legge divina, i dogmi della Fede e inculcando nei fanciulli i rudimenti della Fede stessa, dopo aver rimosso del tutto ogni cattiva abitudine, dovunque si manifesti. – E invero, come potranno dare ascolto, se manca il predicatore? O in che modo i popoli potranno comprendere una legge che prescrive un giusto credo e un giusto comportamento, se i pastori di anime saranno stati, in tale ufficio, pigri, negligenti e inoperosi? Non si può comprendere compiutamente con l’animo o spiegare con le parole quanto danno per la Repubblica Cristiana derivi dalla negligenza di coloro, ai quali è affidata la cura delle anime, soprattutto nell’insegnare ai fanciulli il catechismo. Sarà poi di grande vantaggio se vi impegnerete in modo che tanto coloro che hanno cura d’anime, quanto coloro che sono destinati a ricevere le confessioni dei penitenti, per alcuni giorni e ogni anno attendano agli esercizi spirituali: certamente in tale pio ritiro si rinnoveranno nella loro vita spirituale e dall’alto saranno rivestiti di virtù idonee a compiere con più premura e alacrità quei doveri che si rivolgono alla gloria di Dio, al profitto e alla salute spirituale del prossimo.

4. In verità già sapete, Fratelli, che per divino precetto fu ordinato a tutti i Pastori di anime di conoscere le loro pecorelle e di nutrirle con la predicazione del verbo divino, con la somministrazione dei Sacramenti e con l’esempio di ogni opera buona; ma non possono affatto adempiere a questi e agli altri doveri pastorali, come è ovvio, coloro che non vigilano, e non assistono il loro gregge, e non custodiscono assiduamente la vigna del Signore alla quale sono stati preposti come custodi. Pertanto dovete rimanere nel vostro posto di guardia, e conservare nella Vostra Chiesa, o Diocesi, la residenza personale alla quale siete obbligati dal vincolo del Vostro incarico, conforme a quanto dichiarano e prescrivono chiaramente numerosi decreti dei Concili generali e le Costituzioni dei Nostri Predecessori. Guardatevi poi dal credere che sia consentito ai Vescovi essere assenti per tre mesi ogni anno per capriccio o per qualsivoglia motivo. Perché ciò sia lecito ai Vescovi, occorre che una giusta causa richieda una tale assenza, e che ad un tempo si escluda che al gregge possa derivarne alcun danno. – Ricordate inoltre che il futuro Giudice sarà Colui agli occhi del quale tutte le cose sono nude e aperte, perciò fate in modo che la causa sia veramente tale da trovar credito presso questo supremo Principe dei Pastori che quanto prima vi chiederà conto del sangue delle pecore a Voi affidate. In questo processo, invano il Pastore cercherà di difendersi con la scusa che il lupo ha rubato e divorato le pecore mentre egli era assente e ignaro; infatti, se si esamina la questione fino in fondo, appare evidente che nessun male o scandalo si manifesta in una Diocesi tanto abbandonata, che non sia da attribuire a colui che doveva richiamare con le sue ammonizioni i sudditi che uscivano dal retto sentiero, sollecitarli con l’esempio, animarli con le parole, tenerli a freno con l’autorità e con la carità. Chi poi non comprende che è molto meglio affrontare le questioni altrove, quando fosse necessario, per mezzo di altri, piuttosto che dallo stesso Vescovo dimorante fuori della sua Diocesi; e che l’impegno, certo più urgente di tutti, di custodire e dirigere il gregge, sia assolto direttamente dal Vescovo e non attraverso intermediari? Infatti, tali ministri siano pure idonei e stimati quanto si vuole, tuttavia il gregge non è così aduso ad ascoltare la loro voce, come la voce del suo vero pastore; e per vasta esperienza è risaputo che la loro opera vicaria non sostituisce a sufficienza la vigilanza e l’azione dello stesso Vescovo, che è soccorso dalla grazia particolare dello Spirito Santo.

5. A queste cose Vi ammoniamo ed esortiamo, Fratelli, perché come anche in ogni amministrazione domestica nulla è più utile del fatto che lo stesso padre di famiglia guardi bene di frequente tutto, e promuova con la sua vigilanza l’operosità e la diligenza dei suoi, così Vi comandiamo di visitare Voi stessi le Vostre Chiese e le Vostre Diocesi (a meno che intervenga una grave e legittima causa, che imponga che ciò sia affidato ad altri), affinché conosciate Voi stessi le Vostre pecore e il volto del Vostro gregge. – Quella sicurissima sentenza, che sopra abbiamo ricordata, che non è ammessa scusa per il pastore se il lupo mangia le pecore, e il pastore non lo sa, è certamente ispirata da grande paura e terrore. Senza dubbio il Vescovo ignorerà molte cose, molte gli rimarranno nascoste, o quantomeno le apprenderà più tardi del necessario, se non si reca in ogni parte della sua Diocesi. Se di persona non vede, non ascolta, non verifica dovunque, non sa a quali mali porgere la medicina e quali siano le cause di essi e in quale modo possa con lungimiranza provvedere a che essi, una volta repressi, non possano manifestarsi di nuovo. Inoltre, è tale la fragilità umana che nel campo del Signore (la cura del quale è affidata al Vescovo) a poco a poco crescono sterpi, spine ed erbe inutili e dannose, qualora il coltivatore non ritorni spesso a tagliarle; perciò la stessa floridezza, ottenuta con le sue vigili fatiche, con l’andar del tempo finirà per affievolirsi. Ma non è neppure sufficiente che le Diocesi siano da Voi visitate e che con le Vostre opportune disposizioni si provveda alla loro gestione: vi resta ancora il compito di controllare, con ogni sforzo, che sia veramente messo in pratica tutto ciò che durante le visite fu convenuto. Infatti sarà nulla l’utilità delle leggi, anche se ottime, se ciò che fu stabilito a parole non è tradotto correttamente nei fatti da chi ne ha il mandato. Perciò, dopo che avrete preparato farmaci salutari per espellere o allontanare le malattie delle anime, non per questo il Vostro zelo si attenui, ma dovrete sollecitare con ogni Vostra energia l’applicazione delle disposizioni da Voi impartite; e conseguirete questo scopo soprattutto per mezzo di visite reiterate.

6. Da ultimo, per dire molte cose in breve, Fratelli, è opportuno che in ogni funzione sacra ed ecclesiastica e in ogni esercizio del culto Divino e della pietà, Voi stessi siate promotori, conduttori e maestri, perché sia il Clero, sia tutto il gregge attingano luce quasi dallo splendore della Vostra santità e si riscaldino alla fiamma della Vostra carità. Pertanto nella frequente e devota offerta del tremendo Sacrificio, durante la solenne celebrazione delle Messe, nell’amministrare i Sacramenti, nell’esercizio degli Uffici Divini, nella pompa e nella lucentezza dei templi, nella disciplina della Vostra casa e della Vostra famiglia, nell’amore dei poveri e nell’aiuto che recherete loro, nel visitare e soccorrere gl’infermi, nell’ospitare i pellegrini, infine in ogni manifestazione della virtù Cristiana, sarete Voi il modello del Vostro gregge, in modo che tutti siano Vostri imitatori, come Voi di Cristo, così come conviene ai Vescovi, che lo Spirito Santo pose a governare la Chiesa di Dio, che Egli conquistò col suo sangue. Considerate spesso gli Apostoli, al posto dei quali siete subentrati, per seguire le loro orme nel sopportare le fatiche, le veglie, gli affanni; nel tener lontani i lupi dai Vostri ovili, nell’estirpare le radici dei vizi, nell’esporre la legge evangelica, nel ricondurre a salutare penitenza coloro che hanno peccato. Vi sarà accanto, per certo, Dio onnipotente e misericordioso, il cui soccorso ci rende tutto possibile; a Voi non verrà meno neppure l’aiuto dei Principi religiosi, come senza alcun dubbio crediamo. Inoltre da questa Santa Sede non Vi mancheranno gli aiuti ogni volta che riterrete necessaria la Nostra apostolica autorità. Pertanto con grande coraggio e con grande fiducia venite a Noi, Voi tutti, che amiamo come fratelli, collaboratori e Nostra corona in nome di Gesù Cristo; venite alla Santa Romana Chiesa, madre, guida e maestra Vostra e di tutte le Chiese, da dove ebbe origine la Religione e dove è la pietra della Fede, la fonte dell’unità dei sacerdoti, la dottrina dell’incorrotta verità; nulla infatti può essere per Noi più desiderato e più gradito che insieme con Voi essere al servizio della gloria di Dio e affaticarci per la custodia e la diffusione della Fede Cattolica; per salvare le anime verseremmo con somma gioia, se fosse necessario, il Nostro stesso sangue e la Nostra vita. E ora Vi inciti e Vi stimoli nella Vostra corsa la grande e sicura ricompensa che Vi attende.

Infatti quando apparirà il Principe dei Pastori, riceverete l’incorruttibile corona della gloria, la corona della giustizia che è stata riservata ai fedeli interpreti dei misteri di Dio e agli strenui e vigili custodi della casa d’Israele che è la Santa Chiesa dello stesso Dio. Noi che per quanto indegni facciamo le Sue veci in terra, molto affettuosamente benediciamo Voi Fratelli e con paterno amore impartiamo la Nostra stessa Apostolica Benedizione anche al Vostro Clero e al Vostro fedele popolo.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 3 dicembre 1740, anno primo del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “NON MEDIOCRI”

Questa breve lettera Enciclica riguarda la fondazione di un collegio spagnolo che potesse ospitare seminaristi e chierici di quella Nazione sconvolta da tragici avvenimenti bellici e sociali che ne avevano sovvertito le istituzioni ecclesiastiche; questo per poter dare adeguata istruzione religiosa ai futuri chierici che dovevano perpetuare una tradizione cattolica tra le più luminose nel mondo fin dalla fondazione della Chiesa. Quando le forze bestiali del demonio si scatenano contro popoli ed istituzioni sociali, mirano sempre a colpire la Chiesa e le sue strutture, vero bersaglio di ogni pseudo-rivoluzione, che tutte sono la ribellione contro Dio, il suo Cristo e la sua Chiesa. Questo è avvenuto da sempre, ed oggi con maggior forza ancora si sono scatenate le forze dell’Anticristo che non solo combattono la Chiesa frontalmente senza ritegno, con regnanti e governanti indegni e blasfemi, tutti aderenti alle sette di perdizione, e dall’interno per mezzo di falsi non-chierici che affettando santità e devozione che non hanno, ingannano le masse di compiacenti illusi ed ignoranti fedeli, portandone un numero immenso nello stagno di fuoco. Il santo Padre Leone XIII, come altri sommi Pontefici nel passato e fino a Pio XII, hanno cercato di arginare questa bestia satanica – abominio della desolazione – che ha usato ogni strategia, ogni mezzo, per sbarazzarsi della sua nemica giurata, la Chiesa di Cristo, ed in particolare, del successore di Pietro e Vicario di Cristo, il Capo visibile di quella ‘‘Donna vestita di sole’’ (Apoc. XII) che minacciata dal dragone è stata portata nel deserto – la “Chiesa eclissata” di La Salette – per salvarsi dalle bestie del mare e della terra che la minacciano dall’esterno, e dalla « bestia uccisa e risorta », la falsa chiesa dell’uomo che mascherata l’ha infiltrata dall’interno. Ma tutto questo non servirà che a mostrare la natura divina della Chiesa e la forza del vero Dio-Uomo Gesù-Cristo, e le bestie, il dragone, i falsi profeti e tutti gli adepti delle conventicole infernali, compresa quella vaticana – che ne è la peggiore – finiranno nello stagno di fuoco preparato per il demonio ed i suoi adepti. Qui in caelis habitat irridebit eos… et IPSA conteret caput tuum.

NON MEDIOCRI


ENCICLICA DI PAPA LEONE XIII

Ai Vescovi della Spagna circa la Fondazione di un Collegio Romano per i Chierici Spagnoli.

Con non poca cura e vigilanza, come sapete, abbiamo cercato di salvaguardare e di accrescere la causa cattolica tra di voi fin dall’inizio del nostro mandato. In primo luogo ci siamo sforzati di rafforzare la concordia di idee tra di voi e di stimolare la feconda industria del clero. Ora, però, animati dallo stesso zelo, abbiamo rivolto la nostra attenzione al vostro giovane clero affinché, prendendo consiglio con voi, dedichiamo una certa cura alla loro formazione. – A questo scopo, promettiamo la Nostra benevolenza paterna. E giustamente: non ci dimentichiamo degli interessi del popolo spagnolo, né ignoriamo la vostra grande e costante fede di antica data e la vostra obbedienza alla Sede Apostolica. Per questo, come testimoniano i documenti storici, la reputazione della Spagna è salita a tale gloria e la Spagna è diventata un grande impero. La Spagna ci ha spesso aiutato nelle avversità; siamo, quindi, molto lieti di rispondere con affetto di spirito.

Gli Spagnoli sono degni di considerazione.

2. Il clero spagnolo è stato a lungo rinomato per il suo insegnamento religioso e per l’eleganza dei suoi scritti. Con queste arti, essi hanno promosso la causa cristiana e contribuito non poco alla reputazione del loro Paese. Certamente non mancarono uomini generosi che patrocinarono le arti e offrirono un aiuto adeguato ai tempi. Né mancava il talento per la coltivazione delle discipline teologiche e filosofiche e per le lettere. Per promuovere questi studi sappiamo quanto abbiano contribuito la liberalità dei Re cattolici e il lavoro e la perseveranza dei Vescovi. A sua volta la Sede Apostolica ha fornito ogni tipo di incentivo, essendosi sempre adoperata affinché la santità della morale cristiana fosse incrementata dalla luce della filosofia e dallo splendore delle lettere umane. Alcuni uomini straordinari vi hanno lasciato un’eredità gloriosa in questi campi. Citiamo Francesco Suarez, Giovanni Lugo, Francesco Toletus, e in particolare Francesco Ximenes. Quest’ultimo, per la guida e sotto la protezione dei Romani Pontefici, ha raggiunto una tale eminenza nell’insegnamento che ha illuminato non solo la Spagna, ma tutta l’Europa, soprattutto con la sua Bibbia poliglotta complutense. Da questi uomini i giovani sono stati istruiti con lo splendore della sapienza nella Chiesa di Dio. Essi brillavano come stelle del mattino e illuminavano gli altri sulla via della verità.(Alessandro VI nella bolla Inter cetera, 13 Aprile 1499) Da quella messe, così sapientemente e zelantemente coltivata, nacque una coorte di illustri dotti, dalla quale il Romano Pontefice e il Re cattolico scelsero gli uomini per il Concilio di Trento. Le aspettative di entrambi furono singolarmente soddisfatte. Ed è degno di nota che la Spagna abbia prodotto uomini così grandi. Perché oltre al talento naturale, c’erano a portata di mano gli strumenti e gli aiuti adeguati per perfezionare un corso di studi. Basta ricordare le grandi sedi di studio di Alcala de Henares e Salamanca. Sotto la vigilanza della Chiesa, furono questi, centri rinomati di saggezza cristiana. La loro memoria ricorda spontaneamente altri collegi che hanno offerto una sede adeguata ad uomini di grande talento e passione per la conoscenza.

Sradicamento dei seminari

3. Ma ora ci troviamo di fronte ad un recente disastro. Gli sconvolgimenti degli eventi pubblici che hanno sconvolto tutta l’Europa a partire dal secolo scorso, hanno rovesciato le istituzioni come per una tempesta e ne hanno fatte a pezzi la radice ed i rami; sia le autorità reali che quelle ecclesiastiche avevano eretto queste istituzioni per la crescita della fede e della dottrina. Quando le Università cattoliche scomparvero con i loro collegi, i seminari per i chierici languirono perché la pienezza dell’apprendimento, che proveniva dalle grandi scuole, andò via via appassendo. Inoltre, non potevano mantenere il loro antico patrimonio a causa delle guerre interne e delle sette, che di tanto in tanto azzeravano gli studi e la forza intellettuale dei cittadini.

Restauro dei seminari

4. Col tempo la Sede Apostolica intervenne e cercò seriamente, con il consenso del potere civile, di porre rimedio alle vicende ecclesiastiche che le tempeste precedenti avevano paralizzato. La preoccupazione principale era quella di ripristinare, nell’interesse privato e pubblico, i seminari diocesani, che erano stati luoghi di pietà e di erudizione. Ma sapete che questo non ha avuto successo secondo i piani. Infatti non c’erano risorse sufficienti; né il corso di studi poteva risorgere con la speranza della gloria, perché la distruzione dei Licei aveva causato la mancanza di insegnanti idonei. – Fu concordato tra le due massime autorità che in alcune province si fondassero seminari generali con il potere che dai loro laureati coloro che avevano studiato teologia in modo più completo potessero essere ammessi ai diplomi accademici secondo l’uso antico. Ma c’erano e ci sono oggi molti ostacoli. Senza l’aiuto degli ex Licei rimossi, mancano molte risorse; senza di esse il clero può aspirare solo con difficoltà al pieno e perfetto ripristino dell’erudizione. Quindi c’è la prudente opinione, che è necessario ampliare e riformare il corso degli studi nei seminari.

Educare gli studenti stranieri

5. Siamo quindi molto preoccupati per questo, soprattutto alla luce dello schema lasciatoci dai Nostri predecessori, che non hanno mai tralasciato l’opportunità di incoraggiare gli studi superiori. La notevole perspicacia dei Pontefici traspare soprattutto dal fatto che, proprio in questa città, prima fra tutte le comunità cattoliche, si siano reclutati giovani chierici dall’estero riunendoli in collegi. Si cercavano soprattutto studenti i cui Paesi non avevano adeguate opportunità di insegnamento o di istituzioni solide, dal momento che era stata respinta la vigilanza della Chiesa. A questo scopo furono istituiti molti seminari minori ai quali gli studenti stranieri si portavano per intraprendere gli studi sacri; essi intendevano usufruire di qualsiasi vantaggio che per la mente e lo spirito potessero acquisire a Roma a beneficio finale dei loro connazionali. Poiché da questi sforzi è scaturito molto di buono, anche noi abbiamo ritenuto opportuno aumentare il numero di tali collegi. Perciò abbiamo aperto il collegio per gli armeni a Roma ed uno per i boemi. Abbiamo anche riportato alla sua dignità di un tempo il collegio per i maroniti.

Seminari per gli spagnoli

6. Eravamo addolorati però nel constatare che non erano molti gli spagnoli in questo numero di studenti stranieri. Per questo motivo abbiamo pensato non solo che fosse fondato su solide fondamenta il collegio urbano per i chierici spagnoli, che le sagge fatiche dei sacerdoti pii avevano iniziato non molto tempo fa, ma che ne sarebbe stata possibile l’espansione. È nostro piacere, quindi, che tutti gli studenti della penisola spagnola e delle isole vicine, sotto il governo del Re cattolico, vi si riuniscano sotto la nostra tutela. Essi devono vivere insieme sotto la direzione di autorità scelte e dedicarsi allo studio di quei soggetti che sviluppano efficacemente i loro talenti e le loro menti. Pensiamo di donare un edificio a Roma adatto a quest’opera, un edificio che prende il nome dai suoi precedenti proprietari, i Duchi di Altemps. Esso ora appartiene a Noi e alla Sede Apostolica. È questo particolarmente adatto perché si distingue per il cimitero di S. Aniceto, Papa e Martire, le cui reliquie vi sono custodite. Si segnala anche per il fatto che vi abbia vissuto San Carlo Borromeo. Diamo quindi l’uso legale di questa dimora al collegio episcopale spagnolo, con la condizione che la usino per ricevere ed ospitare i chierici delle loro diocesi, qualora decidessero di mandarne qualcuno qui per i loro studi. Affinché questi progetti possano essere realizzati più rapidamente, e che ci sia tempo sufficiente per adattare gli edifici e fare gli altri preparativi, lasciamo che i chierici utilizzino una certa porzione adeguata della casa dell’illustre famiglia Alteria. Noi designiamo gli Arcivescovi di Toledo e di Siviglia perché trattino con Noi e con i Nostri successori tutte le questioni più importanti del collegio. Per lo stesso motivo decretiamo che chi presiede il collegio debba rendere conto per iscritto ogni anno della sua situazione finanziaria, insieme ad una relazione sulla disciplina e la condotta degli studenti al Nostro Sacro Consiglio degli studi e agli Arcivescovi summenzionati. – Ora è compito vostro assistere ed eseguire ciò che abbiamo iniziato. Fatelo con la stessa rapidità e lo stesso zelo che la questione richiede e che la vostra virtù episcopale promette. – Nel frattempo concediamo con amore la Nostra Benedizione Apostolica come testimonianza della Nostra speciale benevolenza a voi, Venerabili Fratelli, e anche al clero e ai fedeli affidati alla vostra vigilanza.

Dato a Roma, in San Pietro, il 25 ottobre 1893, sedicesimo anno del nostro Pontificato

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – QUOD APOSTOLICI MUNERIS

«… Quindi con empietà nuova, sconosciuta perfino agli stessi pagani, si costituirono Stati senza alcun riguardo a Dio ed all’ordine da Lui prestabilito; si andò dicendo che l’autorità pubblica non riceve da Dio né il principio, né la maestà, né la forza di comandare, ma piuttosto dalla massa popolare la quale, ritenendosi sciolta da ogni legge divina, tollera appena di restare soggetta alle leggi che essa stessa a piacere ha sancite …».  La lettera enciclica « Quod Apostolici » è l’ennesimo grido di allarme di un Pontefice Romano contro la scellerata empietà del delirio socialista, il cui vero unico scopo è quello di riportare l’umanità alla condizione di schiava del demonio liberandosi del giogo lieve, ma foriero di benefici materiali e spirituali dell’Uomo-Dio incarnato e della Chiesa suo Corpo mistico, riportare il mondo civile alla totale barbarie precristiana, ed instaurare una sorta di panteismo gnostico rivoluzionario ed infernale.  Qui ogni espressione è da valutare attentamente e da meditare ripetutamente per gustare e far proprie le verità divine e soprannaturali che la Santa Madre Chiesa, per bocca del Vicario di Cristo non cessa di applicare per il benessere materiale dei popoli e per la salvezza eterna dell’anima. Oggi poi i risultati funesti di queste ideologie insane e deliranti, un tempo limitate ad alcune Nazioni e Stati, rigidamente laici, sono evidenti in tutto l’orbe perché instaurate a livello mondiale, anche se hanno assunto il nome tetro e sinistro di “mondialismo”, nome che figura il dominio delle sette di perdizione in tutto il mondo, dominio garantito da organizzazioni apparentemente dedite al benessere dell’umanità, come l’ONU, l’O. M. S. [organizzazione mondiale della satanità], ed altre di carattere spudoratamente gnostiche, panteiste o addirittura esoteriche… ovviamente anticristiane, nemiche del soprannaturale, dell’Incarnazione di Dio in Gesù Cristo. Tra queste è da segnalare la sinanoga di satana vaticana, la setta della bestia decollata, quella che sotto il nome di Cristo, adora lucifero ivi insediato il  29 giugno del 1963, con apposita messa nera ed oggi attivamente presente – anzi in prima linea con i sepolcri imbiancati ventriloqui – nel supportare il mondialismo luciferino dell’eone cabalistico: Corona – nome in codice di Lucifero. Ecco a cosa mirava il socialismo (pseudo) democratico, il comunismo [oggi in salsa mondialista] e tutte le bestialità ad essi connesse. Il mondo intero sta già pagando e pagherà fino all’ultimo spicciolo, il non avere ascoltato le salvifiche parole di questa e di altre encicliche simili e di essersi fidato invece di lupi rapaci, i falsi profeti vestiti da agnello, ma che potevano essere smascherati facilmente ricordando gli avvertimenti del divin Redentore. Le illusioni e l’errare nei pascoli del demonio, si pagano caramente e già ne stiamo vedendo i frutti, anche se … il bello deve ancora arrivare, e là … sarà pianto e stridor di denti.

Leone XIII
Quod Apostolici muneris

Lettera Enciclica

Già dall’inizio del Nostro Pontificato, secondo quanto richiedeva la natura dell’Apostolico ministero, con Lettera enciclica a Voi indirizzata, Venerabili Fratelli, segnalammo la micidiale pestilenza che serpeggia per le intime viscere della società e la riduce all’estremo pericolo di rovina; indicammo contemporaneamente i rimedi più efficaci per richiamarla a salute e per salvarla dai gravissimi pericoli che la sovrastano. Ma nel giro di poco tempo crebbero talmente i mali che allora deplorammo, da sentirci ora costretti a rivolgervi di nuovo la parola, come se alle Nostre orecchie risuonasse la voce del Profeta: “Grida, non darti posa; alza la tua voce come una tromba” (Is LVIII, 1). Comprendete facilmente, Venerabili Fratelli, che Noi parliamo della setta di coloro che con nomi diversi e quasi barbari si chiamano Socialisti, Comunisti e Nichilisti, e che sparsi per tutto il mondo, e tra sé legati con vincoli d’iniqua cospirazione, ormai non ricercano più l’impunità dalle tenebre di occulte conventicole, ma apertamente e con sicurezza usciti alla luce del giorno si sforzano di realizzare il disegno, già da lungo tempo concepito, di scuotere le fondamenta dello stesso consorzio civile. Costoro sono quelli che, secondo le Scritture divine, “contaminano la carne, disprezzano l’autorità, bestemmiano la maestà” (Gd 8), e nulla rispettano e lasciano integro di quanto venne dalle leggi umane e divine sapientemente stabilito per l’incolumità e il decoro della vita. Ai poteri superiori (ai quali, secondo l’ammonimento dell’Apostolo, conviene che ogni anima si tenga soggetta, e che da Dio ricevono il diritto di comandare) ricusano l’obbedienza e predicano la perfetta uguaglianza di tutti nei diritti e negli uffici. Disonorano l’unione naturale dell’uomo e della donna, rispettata come sacra perfino dai barbari, e indeboliscono e anche lasciano in balìa della libidine il vincolo coniugale per il quale principalmente si mantiene unita la società domestica. Presi infine dalla cupidigia dei beni terreni, che “è radice di tutti i mali, e per amore della quale molti hanno traviato dalla fede” (1 Tm VI, 19), impugnano il diritto di proprietà stabilito per legge di natura, e con enorme scelleratezza, dandosi l’aria di provvedere e di soddisfare ai bisogni e ai desideri di tutti, si adoperano per rubare e mettere in comune quanto fu acquisito o a titolo di legittima eredità, o con l’opera del senno e della mano, o con la frugalità della vita. Rendono pubbliche queste mostruose opinioni nei loro circoli; le consigliano nei libercoli; le diffondono nel popolo con un mucchio di gazzette. Pertanto si è accumulato tanto odio della plebe sediziosa contro la veneranda maestà e l’impero dei Re, al punto che scellerati traditori, sdegnosi di ogni freno, più volte a breve intervallo di tempo, con empio ardimento rivolsero le armi contro gli stessi Sovrani. – Queste audaci macchinazioni degli empi, che ogni giorno minacciano all’umano consorzio più gravi rovine e tengono in ansiosa trepidazione l’animo di tutti, traggono principio e origine da quelle velenose dottrine che, sparse nei tempi passati quali semi malsani in mezzo ai popoli, diedero a suo tempo frutti così amari. Infatti Voi ben conoscete, Venerabili Fratelli, che la guerra implacabile mossa fin dal secolo decimosesto dai Novatori contro la fede cattolica, e che venne sempre crescendo fino ai giorni nostri, ha per scopo d’aprire la porta a quelle idee e, per dir più propriamente, ai deliri della ragione abbandonata a se stessa, eliminata ogni rivelazione e rovesciato ogni ordine soprannaturale. Tale errore, che a torto prende nome dalla ragione, siccome solletica e rende più viva l’innata bramosia d’innalzarsi, ed allenta il freno ad ogni sorta di cupidigie, senza difficoltà s’introdusse non solo nella mente di moltissimi, ma giunse anche a penetrare ampiamente nella società civile. Quindi con empietà nuova, sconosciuta perfino agli stessi pagani, si costituirono Stati senza alcun riguardo a Dio ed all’ordine da Lui prestabilito; si andò dicendo che l’autorità pubblica non riceve da Dio né il principio, né la maestà, né la forza di comandare, ma piuttosto dalla massa popolare la quale, ritenendosi sciolta da ogni legge divina, tollera appena di restare soggetta alle leggi che essa stessa a piacere ha sancite. – Combattute e rigettate come nemiche della ragione le verità soprannaturali della fede, si costringe lo stesso Autore e Redentore del genere umano ad uscire insensibilmente e a poco a poco dalle Università, dai Licei e dai Ginnasi e da ogni pubblica consuetudine della vita. Infine, messi in dimenticanza i premi e le pene della eterna vita avvenire, l’ardente desiderio della felicità è stato rinserrato entro gli angusti confini del presente. Con queste dottrine disseminate in lungo e in largo, e con tale e tanta licenza d’opinare e di fare accordata dovunque, non deve recare meraviglia che gli uomini della plebe, stanchi della casa misera e dell’officina, anelino a lanciarsi sui palazzi e sulle fortune dei più ricchi; non deve recare meraviglia che, scossa, vacilli ormai ogni pubblica e privata tranquillità, e che l’umanità sia giunta quasi alla sua estrema rovina. – Ma i supremi Pastori della Chiesa, ai quali incombe il dovere di difendere dalle insidie nemiche il gregge del Signore, si adoperarono per scongiurare tempestivamente il pericolo e per provvedere all’eterna salute dei fedeli. Infatti, non appena si cominciarono a formare le società segrete, in mezzo alle quali fin d’allora covavano i germi degli errori che abbiamo rammentato, i Romani Pontefici Clemente XII e Benedetto XIV non omisero di scoprire gli empi disegni delle sette e d’avvertire i fedeli di tutto l’universo della rovina che nell’oscurità si preparava. E quando poi coloro che si vantavano del nome di filosofi vollero concedere all’uomo una libertà sfrenata, e si prese ad inventare un nuovo diritto e a stabilirlo contro ogni legge naturale e divina, il Papa Pio VI di felice memoria mostrò immediatamente con pubblici documenti la malvagia indole e la fallacia di quei principi, e contemporaneamente con Apostolica antiveggenza vaticinò le rovine alle quali sarebbe stato tratto il popolo miseramente ingannato. Però, non essendosi in alcun modo provveduto a che quelle prave teorie non venissero instillate ogni giorno più nelle menti dei popoli e non entrassero nei pubblici decreti di governo, Pio VII e Leone XII colpirono d’anatema le sette segrete, e di nuovo ammonirono la società dei pericoli che per opera loro incombevano. Infine è noto a tutti con quali gravissime parole e con quanta fermezza d’animo e costanza il Nostro glorioso Predecessore, il Papa Pio IX di felice memoria, sia con le Allocuzioni, sia con Lettere encicliche mandate ai Vescovi di tutto il mondo, abbia combattuto contro gl’iniqui sforzi delle sette e specificatamente contro la peste del Socialismo, che da quelle sin da allora germogliava. – Ma per somma sventura, coloro ai quali venne affidata la cura di promuovere i comuni vantaggi, circonvenuti con gli artifici di perfidi uomini e spaventati dalle loro minacce, tennero sempre in sospetto la Chiesa e l’avversarono, non comprendendo che gli sforzi delle sette sarebbero andati a vuoto se la dottrina della Chiesa cattolica e l’autorità dei Romani Pontefici, sia presso i Principi, sia presso i popoli, fosse sempre rimasta nell’onore dovuto. Infatti, “la Chiesa del Dio vivente, che è colonna e fondamento di verità” (1Tm 3,15), insegna dottrine e dà precetti che largamente provvedono al benessere ed al quieto vivere della società, e per i quali l’infausto germe del Socialismo è divelto dalle radici. – Sebbene i Socialisti, abusando dello stesso Vangelo per ingannare gl’incauti, abbiano il costume di travisarlo secondo i loro intendimenti, tuttavia è tanta la discordanza delle loro perverse opinioni dalla purissima dottrina di Cristo, che non se ne può immaginare una maggiore: “Infatti, quale consorzio della giustizia con l’iniquità? o quale società della luce con le tenebre?” (2Cor VI, 14). Costoro invero non smettono di blaterare – come abbiamo già accennato – che tutti gli uomini sono per natura uguali fra loro, e quindi sostengono non doversi prestare alle autorità né onore, né riverenza, né obbedire alle leggi se non forse a quelle redatte a loro piacimento. All’opposto, secondo gl’insegnamenti del Vangelo, tutti gli uomini sono uguali in quanto avendo tutti avuto in sorte la medesima natura, tutti sono chiamati alla medesima altissima dignità di figliuoli di Dio; avendo tutti lo stesso fine da conseguire, dovranno essere giudicati a norma della stessa legge, per riceverne premi o pene secondo che avranno meritato. Tuttavia l’ineguaglianza di diritti e di potestà proviene dall’Autore medesimo della natura, “dal quale tutta la famiglia e in cielo e in terra prende il nome” (Ef 3,15). Gli animi poi dei Principi e dei sudditi, secondo la dottrina e i precetti della Chiesa cattolica, sono così legati attraverso scambievoli doveri e diritti, che ne resta temperata la passione sfrenata del comandare, e diviene facile, costante e nobilissima la ragione dell’ubbidienza. – E valga il vero: la Chiesa inculca sempre nei sudditi il precetto dell’Apostolo: “Non esiste potestà se non da Dio, e quelle che ci sono, sono ordinate da Dio. Pertanto chi si oppone alla potestà, resiste alla disposizione di Dio, e coloro che resistono si comprano la condanna”. E di nuovo comanda “di essere soggetti, come è necessario, non solo per timore dell’ira, ma anche per riguardo alla coscienza, e comanda di rendere a tutti quello che è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi la gabella, la gabella; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore” (Rm XIII,1-2.5-7). Pertanto, Colui che creò e governa ogni cosa, nella sua provvida sapienza dispose che le infime cose attraverso quelle di mezzo, e le cose di mezzo attraverso le altissime arrivino ciascuna al proprio fine. Perciò, come nello stesso regno celeste volle che vi fossero cori di Angeli distinti fra loro e gli uni agli altri soggetti; nello stesso modo stabilì anche nella Chiesa vari gradi di ordini, ed una moltitudine di ministeri, onde non tutti fossero Apostoli, non tutti Pastori, non tutti Dottori (cf. 1Cor XII, 28-30); così dispose del pari che nella società civile fossero vari ordini distinti per dignità, per diritti e per potere, onde la comunità, a somiglianza della Chiesa, rendesse l’immagine di un corpo che ha molte membra, le une più nobili delle altre, ma insieme scambievolmente necessarie e sollecite del bene comune. – In pari tempo, però, affinché i capi dei popoli si servano della potestà ad essi data ad edificazione e non a distruzione, la Chiesa di Cristo opportunamente ricorda che anche sui Principi sovrasta la severità del Giudice Supremo. Avvalendosi delle parole della divina Sapienza, essa grida a tutti nel nome di Dio: “Porgete le orecchie, voi che avete il governo dei popoli e vi gloriate di dominare molte nazioni: la potestà è stata data a voi dal Signore, e la virtù dall’Altissimo, il quale esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri pensieri… Poiché un giudizio severissimo si farà di coloro che sovrastano… Dio infatti non esonererà nessuno dal giudizio, né temerà la grandezza di chicchessia, perché Egli ha fatto il grande e il piccolo, e di tutti tiene eguale cura. Ma ai maggiori sovrasta un maggiore tormento” (Sap VI, 2-8). Tuttavia se accada talvolta che la pubblica potestà venga dai Principi esercitata a capriccio ed oltre misura, la dottrina della Chiesa Cattolica non consente ai privati d’insorgere a proprio talento contro di essi, affinché non sia vieppiù sconvolta la tranquillità dell’ordine, e non derivi perciò maggior detrimento alla società. E quando le cose siano giunte a tal punto che non sorrida alcun’altra speranza di salvezza, vuole che si raggiunga il rimedio coi meriti della pazienza cristiana e con insistenti preghiere al Signore. – Se la volontà dei legislatori e i decreti dei Principi comanderanno qualche cosa che sia contraria alla legge divina o naturale, allora la dignità e il dovere del nome cristiano, e il pensiero Apostolico esigono “doversi obbedire più a Dio che agli uomini” (At V, 29). – La stessa società domestica, che è alla base di ogni comunità e di ogni regno, sente e sperimenta necessariamente questa benefica virtù della Chiesa che influisce sull’ordinatissimo regime e sulla conservazione della società civile. Infatti, ben sapete, Venerabili Fratelli, che questa società, retta secondo l’esigenza del diritto naturale, si fonda principalmente sopra l’unione indissolubile dell’uomo e della donna, si completa negli scambievoli doveri e diritti tra i genitori e i figli, tra i padroni e i servi. Sapete ancora che essa va quasi a disciogliersi secondo le dottrine del Socialismo; in quanto, perduta la stabilità che le deriva dal matrimonio cristiano, ne consegue che venga pure ad indebolirsi in straordinaria maniera l’autorità dei padri sopra i figli, e la riverenza dei figli verso i genitori. Al contrario, la Chiesa insegna che il matrimonio, “degno di essere in tutto onorato” (Eb XIII,4), istituito da Dio fin dal principio del mondo per propagare e conservare l’umana specie e da Lui voluto indissolubile, crebbe a condizione ancora più stabile e più santa per opera di Cristo che gli conferì la dignità di Sacramento e volle che ritraesse in sé l’immagine della sua unione con la Chiesa. Pertanto, secondo quanto insegna l’Apostolo (Ef V, 22-24), come Cristo è il capo della Chiesa, così il marito è il capo della sposa; e come la Chiesa si tiene soggetta a Cristo che nutre per lei un amore castissimo ed eterno, così conviene che le spose siano soggette ai loro mariti, i quali a loro volta le debbono amare di affetto fedele e costante. – Analogamente la Chiesa tempera in tal modo la potestà dei padri e dei padroni i quali, senza trascendere la giusta misura, riescono a contenere dentro i confini del rispetto i figli ed i servi. Stando infatti agli insegnamenti cattolici, nei genitori e nei padroni si trasfonde l’autorità del Padre e del Padrone celeste; perciò essa non solo trae da Lui origine e forza, ma ne mutua anche necessariamente la natura e l’indole. Conseguentemente l’Apostolo esorta i figli “ad obbedire ai loro genitori nel nome del Signore, ad onorare il padre e la madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa” (Ef VI, 1-2). Ai genitori poi ingiunge: “E voi, padri, non provocate ad ira i vostri figli, ma allevateli nella disciplina e nell’istruzione del Signore” (Ef VI, 4). Di nuovo poi ai servi ed ai padroni dallo stesso Apostolo viene inculcato il comandamento divino: obbediscano “ai padroni carnali come alla persona di Cristo… servendo con amore come al Signore”; questi alla loro volta “mettano da parte l’asprezza, ben sapendo che il Signore di tutti è nei cieli, e che presso di Lui non v’è preferenza di persone” (Ef VI, 5-7). Se tutte queste cose fossero diligentemente compiute secondo il volere divino da tutti coloro che ne hanno il dovere, sicuramente ogni famiglia presenterebbe una certa somiglianza con la dimora celeste, e i preclari benefìci che ne seguirebbero non sarebbero solo ristretti entro i confini delle pareti domestiche, ma si riverserebbero altresì in abbondanza a vantaggio degli Stati medesimi. – Inoltre la sapienza cattolica, costruita sui precetti della legge naturale e divina, mirabilmente provvide alla pubblica e domestica tranquillità anche con le dottrine che professa ed insegna intorno al diritto di proprietà e alla divisione dei beni, che sono fatti per le necessità ed i comodi della vita. Pertanto, mentre i Socialisti rappresentano il diritto di proprietà come un ritrovato umano contrario alla naturale eguaglianza degli uomini, ed anelando alla comunanza dei beni ritengono non doversi sopportare di buon animo la povertà, e potersi impunemente violare i beni e i diritti dei più ricchi, la Chiesa molto più saggiamente ed utilmente anche nel possesso dei beni riconosce disuguaglianza tra gli uomini, naturalmente diversi per forze fisiche ed attitudine d’ingegno, e vuole intatto ed inviolabile per tutti il diritto di proprietà e di possesso che dalla stessa natura deriva. Infatti sa che Iddio, autore e vindice di ogni diritto, vietò il furto e la rapina in modo che neppure è lecito desiderare l’altrui: gli uomini ladri e rapaci, non altrimenti che gli adulteri e gli adoratori degli idoli, sono esclusi dal regno dei cieli. Tuttavia non dimentica per questo la causa dei poveri, né avviene che la pietosa Madre trascuri di provvedere alle loro indigenze: ché anzi, con materno affetto, se li stringe al seno, e ben sapendo che essi impersonano Cristo, il quale considera come fatto a se stesso il beneficio elargito anche all’ultimo dei poveri, li tiene in grande onore, con ogni mezzo possibile li solleva; si adopera con ogni sollecitudine affinché in tutte le parti del mondo s’innalzino case ed ospedali destinati a raccoglierli, a mantenerli, a curarli, e prende quegli asili sotto la propria tutela. Incalza poi i ricchi col gravissimo precetto di dare ai poveri il superfluo, e li spaventa intimando loro il giudizio divino, secondo il quale se non verranno in aiuto dell’indigenza saranno puniti con eterni supplizi. Da ultimo ricrea e conforta considerevolmente gli animi dei poveri sia proponendo l’esempio di Cristo “il quale, essendo ricco, si fece povero per noi” (2Cor VIII, 9), sia ripetendo quelle parole di Lui, con le quali chiama i poveri beati, e comanda loro di sperare i premi dell’eterna beatitudine. Ora, chi non vede come questa sia la più bella maniera di comporre l’antichissimo dissidio tra i poveri ed i ricchi? Come infatti dimostrano la natura delle cose e l’evidenza dei fatti, esclusa o accantonata quella maniera di componimento, è necessario che accada una delle due: o che la massima parte dell’umanità ricada nella turpissima condizione di schiavi che fu lungamente in uso presso i Gentili; ovvero che la società umana rimanga in balìa di continui rivolgimenti e sia contristata da rapine e da latrocini, come deploriamo essere avvenuto anche in tempi recenti. – Stando così le cose, Venerabili Fratelli, Noi a cui presentemente è affidato il governo di tutta la Chiesa, come fin dall’inizio del Nostro Pontificato mostrammo ai popoli ed ai Principi sbattuti da violenta procella il porto ove riparare, così adesso, preoccupati dall’estremo pericolo che sovrasta, di nuovo indirizziamo loro l’Apostolica voce; ed in nome della loro salvezza e di quella dello Stato di nuovo li preghiamo insistentemente e li scongiuriamo di accogliere ed ascoltare come maestra la Chiesa, tanto benemerita della pubblica prosperità dei regni, e si persuadano che le ragioni della religione e dell’impero sono così strettamente congiunte che di quanto viene quella a scadere, di altrettanto diminuiscono l’ossequio dei sudditi e la maestà del comando. Anzi, conoscendo che la Chiesa di Cristo possiede tanta virtù per combattere la peste del Socialismo, quanta non ne possono avere le leggi umane, né le repressioni dei magistrati, né le armi dei soldati, ridonino alla Chiesa quella condizione di libertà, nella quale possa efficacemente compiere la sua benefica azione a favore dell’umano consorzio. – E Voi, Venerabili Fratelli, che ben conoscete l’origine e la natura delle imminenti sciagure, rivolgete tutte le forze dell’animo Vostro a che la dottrina cattolica sia accolta negli animi di tutti e vi penetri fino in fondo. Procurate che fin dalla prima età tutti si avvezzino ad amare Dio con tenerezza filiale e a riverirne la maestà; che prestino ossequio all’autorità dei Principi e delle leggi, e che, frenate le cupidigie, custodiscano gelosamente l’ordine stabilito da Dio nella civile e nella domestica società. Inoltre ponete ogni studio affinché i figli della Chiesa Cattolica non aderiscano né diano alcun favore alla detestabile setta; anzi, con azioni egregie e con un contegno assolutamente lodevole, dimostrino quanto prospera e felice sarebbe la società, se tutte le sue membra si abbellissero dello splendore di opere compiute correttamente, e di virtù. – Infine, siccome i seguaci del Socialismo principalmente vengono cercati fra gli artigiani e gli operai, i quali, avendo per avventura preso in uggia il lavoro, si lasciano assai facilmente pigliare all’esca delle promesse di ricchezze e di beni, così torna opportuno di favorire le società artigiane ed operaie che, poste sotto la tutela della Religione, avvezzino tutti i loro soci a considerarsi contenti della loro sorte, a sopportare la fatica e a condurre sempre una vita quieta e tranquilla. – Iddio, a cui siamo tenuti a riferire il principio ed il fine di ogni santa impresa, assecondi i Nostri e i Vostri intendimenti, Venerabili Fratelli. Del resto, la stessa ricorrenza di questi giorni, nei quali si celebra solennemente il giorno natalizio del Signore, Ci solleva alla speranza di opportunissimo aiuto. Infatti Cristo fa sperare anche a noi quella salutare salvezza che Egli nascendo portò al mondo invecchiato e corrotto da tanti mali, e ci promette quella pace che allora per mezzo degli Angeli fece annunziare agli uomini. Infatti “né la mano del Signore si è accorciata così che non possa salvare, né le sue orecchie sono chiuse sicché non possa sentire” (Is LIX, 1). Pertanto, in questi faustissimi giorni, augurando a Voi, Venerabili Fratelli, ed ai fedeli delle Vostre Chiese ogni più lieto e prospero evento, insistentemente preghiamo il Datore di ogni bene affinché nuovamente “appaiano agli uomini la benignità e l’amore del Salvatore nostro Dio” (Tt III, 4), il quale, sottrattici dalla potestà dell’implacabile nostro nemico, ci sollevò alla dignità nobilissima di figli. Affinché più presto e più pienamente conseguiamo il nostro desiderio, innalzate Voi stessi, Venerabili Fratelli, insieme con Noi fervide preci a Dio ed interponete presso di Lui il patrocinio della Beata Vergine Maria, Immacolata fin dall’origine, del di Lei Sposo Giuseppe e dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, nell’intercessione dei quali poniamo la massima fiducia. – Intanto, auspice delle divine grazie, con tutto l’affetto del cuore a Voi, Venerabili Fratelli, al Vostro Clero ed a tutti i popoli fedeli impartiamo nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 28 dicembre 1878, anno primo del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – “PASTORALIS VIGLILANTIÆ”

« …Tutte le persone assennate ed oneste sono infatti concordi nel riconoscere che non esiste un rimedio più sicuro e più valido della dottrina cattolica contro i mali che affliggono il nostro tempo e i pericoli che incombono, sempreché essa sia accettata completa ed integra, e gli uomini uniformino il loro modo di vivere alle norme che la stessa propone. » Queste parole che il Santo Padre Leone XIII rivolgeva ai Vescovi ed al popolo portoghese, sono oggi di capitale importanza ancor più che allora per indicare agli uomini smarriti dei nostri tempi, la soluzione vera dei problemi che sono sempre più insolubili affidandosi a mezzi umani, politici, filosofici, scientifici, finanziari. Solo accettare e praticare integralmente la Religione Cattolica potrà essere argine al dilagare dell’empietà, della corruzione e, negli ultimi tempi, all’imbecillità ed all’idiozia panteista spacciata come [fasulla] verità scientifica o mediatica, o addirittura filosofica e spirituale. La sinagoga di satana della città dei sette colli, è parte della bestia e del dragone che sostiene il falso profeta nell’attesa dell’anticristo manifesto, per cui chi vuole trovare riparo ai mali ed alle persecuzioni terribili in atto o in arrivo, non ha che da tornare a Dio, al suo Cristo ed al suo vero ed unico Corpo mistico, che è la Chiesa Cattolica Romana, unica arca di salvezza, la nuova arca che sfuggirà all’imminente diluvio di fuoco da tempo profetizzato ed ormai inevitabile. Si tenga pronto e fermo saldamente radicato nella fede nel Cristo Redentore il “pusillus grex”, il nucleo residuo della “vera” Chiesa di Cristo, perché le prove saranno dure, ma alla fine per chi persevererà impavido, arriverà la corona della gloria eterna, che eviterà lo stagno di fuoco, pronto invece per la bestia, il falso profeta ed i suoi adepti ed il diavolo.

Leone XIII
Pastoralis vigilantiæ

Lettera Enciclica

La Lettera, oltremodo gradita, che annunciava la felice conclusione del nobile Convegno svoltosi di recente a Braga, a Noi inviata da quanti, tra voi, vi hanno presenziato, Ci ha procurato una nuova e significativa testimonianza dello zelo pastorale con il quale vi impegnate nel difendere e nel promuovere la religione.

Durante la lettura siamo stati pervasi da sentimenti di gioia, sia per lo zelo e la dedizione del Pastore della città che ha accolto i membri del Convegno e ha assunto in prima persona il compito di organizzarlo e di gestirlo in modo da poterne trarre gli auspicati frutti, sia per l’impegno e la pietà dei Vescovi che l’affiancarono, o che inviarono al loro posto uomini degni di stima che li rappresentassero al Convegno, sia infine per l’imponente affluenza di uomini tra i più rappresentativi del clero e del popolo fedele, segnalati per la dottrina, per la virtù e per il prestigio.

Codesto Convegno Ci tornò ancor più gradito, perché vi ha preso forma un mirabile accordo su decisioni particolarmente utili alla grandezza della Chiesa e al successo del Cattolicesimo. Né vogliamo passare sotto silenzio il fatto che, tra le altre cose opportunamente approvate con voto unanime, tenendo conto della condizione del tempo e del luogo, Ci hanno procurato conforto quei capitoli che attestavano la piena deferenza dei convenuti verso questa Sede Apostolica, e il loro ardente desiderio di vederla onorata come richiede la sua dignità e per nulla sminuita nel suo onore e nei suoi diritti.

Nutriamo senz’altro la lieta speranza che quanto è stato deliberato e definito in codesta sede, se sarà attuato con impegno e costanza, produrrà una grande abbondanza di frutti salutari, senza tuttavia dimenticare che resta ancora un vasto terreno che rivendica la vostra attenzione e la vostra operosità.

Per questo motivo, anche se in una lettera a voi inviata poco tempo fa vi abbiamo parlato della situazione religiosa nel regno del Portogallo e della linea di condotta da adottare per potervi opportunamente far fronte, Ci torna tuttavia gradito aggiungere al contenuto di quella lettera alcune cose che vale la pena di farvi sapere, anche perché, essendosi presentata un’occasione per scrivervi, non corriamo il rischio di essere venuti meno, per pigrizia al Nostro dovere.

Non vi sfugge certo, diletti Figli e Venerabili Fratelli, come nel Convegno di Braga sia emerso, in tutta chiarezza, che si è giunti al punto in cui la fede stessa è messa in pericolo presso molti, e s’impone quindi l’obbligo di impedire, per quanto è possibile, che l’ignoranza e la rilassatezza la estirpino dagli animi o la lascino illanguidire, ma occorre impegnarsi perché resti ben fissa nei cuori e dia vita ad una consolante quantità di opere buone e di peretta virtù, nonché alla dolcezza dei frutti più eccelsi. Ci si deve opporre ai tentativi dei nemici della verità, perché non abbia a diffondersi il malefico contagio che si sprigiona dai loro cattivi esempi e dalle loro idee disseminate per ogni dove. Ci sono da sanare molte ferite che il loro nefasto operare e la malvagità dei tempi hanno inferto nei greggi affidati alle vostre cure; molte sono le cose che giacciono inerti da far rivivere; molti sono ancora i bisogni che assillano le anime e che, se non possono essere del tutto rimossi, occorre almeno lenire. – Tutto questo che reclama, come abbiamo ricordato, le vostre cure e la vostra sollecitudine, potrà essere attuato con maggiore efficacia e con più facilità se la concordia tra i Vescovi diventerà ogni giorno più profonda e se questi, di comune intesa, opereranno per scoprire i bisogni del clero e dei fedeli, per proporre suggerimenti e prendere, con le decisioni, che tutti insieme vedranno meglio accordarsi con le situazioni delle singole diocesi, anche quelle di più ampia portata e di maggior peso per provvedere alla prosperità e alla salvezza dell’intero popolo. L’opportunità di un più stretto raccordo tra i Vescovi non sfuggì alla saggezza di chi si riunì a Braga. Trovano quindi la Nostra piena approvazione le decisioni prese in quel nobile Convegno con il proposito di favorire quest’unità di intenti, capace di garantire al popolo cristiano i più importanti e duraturi benefìci che si ripromette dai suoi Presuli, che sono le sue guide e i suoi pastori.

Ma per rendere veramente stabile questo rapporto, non vi è mezzo più efficace del ricorso alla consolidata prassi, già recepita in altre regioni, di tenere ogni anno, in aggiunta alle riunioni che prevedono la presenza anche dei laici (di tal fatta era il Convegno di Braga), speciali adunanze di Vescovi. È un’usanza che sta prendendo piede anche presso di voi; un’usanza che vi sta a cuore e che Noi auspichiamo con tutte le forze perché, come testimoniano le numerose e documentate esperienze, è possibile trarne benefìci per la religione. – Di sicuro, con la frequente convocazione di tali assemblee prende anzitutto forma, come abbiamo ricordato, il più rilevante e unanime concorso di energie che può garantire esiti positivi alle iniziative intraprese, ma ravviva anche l’entusiasmo ad agire dei Vescovi convenuti, rafforza la fiducia e illumina le menti con il confronto delle idee e con lo scambio vicendevole del frutto della saggezza. Con queste assemblee si apre come una strada sia per tenere Sinodi diocesani e provinciali, sia per riunire un Convegno nazionale, la celebrazione del quale – notiamo con grande gioia – fa parte dei vostri desideri. La ripetuta esperienza dei vantaggi derivati da Convegni similari già svolti, li consiglia con forza, e le disposizioni dei Sacri Canoni le raccomandano con sincera convinzione. Inoltre alle menzionate assemblee annuali dei Vescovi farà seguito un evento di somma importanza. I laici infatti, spinti da nuovi stimoli, si sforzeranno di proseguire con più decisione sulla strada intrapresa; si riuniranno a loro volta in assemblee; confronteranno le loro idee e, facendo leva sulle energie collegate, si adopereranno per difendere la comune causa della religione e, seguendo le indicazioni dei loro Pastori, metteranno in pratica gl’insegnamenti e gl’incoraggiamenti ricevuti. – Per la verità, nelle riunioni annuali che farete non mancheranno i problemi ai quali dedicare il vostro zelo e le vostre energie. Infatti, oltre i problemi specifici che eventualmente riguarderanno le singole diocesi e che potranno essere più adeguatamente risolti con l’apporto chiarificatore della comune esperienza, sarà oggetto del vostro prudente esame un vasto campo di decisioni e di deliberazioni relative ai mezzi maggiormente idonei per dar vigore all’impegno dei sacerdoti che già lavorano nella vigna del Signore, per educare i giovani che un giorno dovranno risplendere nella casa di Dio per la luce di una solida dottrina, per il merito di uno schietto spirito ecclesiastico e per il corredo di tutte le virtù sacerdotali. – La vostra paterna vigilanza si farà anche carico di una meticolosa ricerca su tutto ciò che è sommamente utile per trasmettere correttamente al popolo i rudimenti della fede, per correggerne i costumi, per divulgare scritti atti a seminare la sana dottrina e a inculcare i principi della virtù, per dar vita ad istituzioni che diffondano i benefìci della carità e per rendere ancor più fiorenti quelle già istituite. – Un ultimo importantissimo punto, che dovrà essere oggetto delle vostre decisioni, vi sarà offerto dall’opportunità di fondare e di accogliere nel Regno del Portogallo delle Congregazioni religiose. Al riguardo abbiamo notato con gioia quanto fosse forte l’impegno di tutti i presenti al Convegno di Braga. – Queste Congregazioni, infatti, non solo potranno offrire al clero, che nelle vostre diocesi si è votato alla sacra milizia di Cristo, delle forze per così dire, ausiliarie, ma saranno anche in grado, ed è ciò che più conta, di preparare uomini animati da spirito apostolico che si faranno carico del ministero missionario nelle regioni d’oltremare soggette al dominio portoghese. L’assolvimento di questo compito, mentre contribuirà all’ampliamento del Regno di Cristo sulla terra, darà anche lustro e onore al Portogallo. Si sono veramente procurati una gloria imperitura i vostri Principi e i vostri antenati quando, con l’aiuto e il favore della Sede Apostolica, portarono la luce della dottrina evangelica e una forma di vita più civile in tutte le vostre terre scoperte. – Occorre dunque, per mantenere vive la natura e la forza delle iniziative intraprese e per non lasciarle decadere dal primitivo stato di persistente floridezza, far leva sulla costante vigilanza e sulle virtù di uomini pienamente affidabili che, mentre si oppongono, pieni di spirito divino, agli ostili attacchi degli acattolici, indirizzino tutta la loro attenzione e la loro energia a far sì che i beni giunti dal Portogallo in quelle contrade non vadano completamente perduti, ma riprendano vita come per nuovo vigore. – Sarà compito di questi uomini che, chi già crede in Dio, sia confermato nella fede, e chi vi è ben ancorato possa anche distinguersi per l’onestà dei costumi, per la pratica della religione, per la scrupolosa osservanza dei doveri, affinché chi è ancora nelle tenebre si disponga ad accogliere la luce del Vangelo. – Le Congregazioni religiose potranno senz’altro offrire molti di questi uomini ardenti di santo zelo, poiché i loro membri, sulla scorta del giudizio di persone assennate confermato da testimonianze di tutti i tempi, seppero sempre svolgere questo compito con impegno ed efficacia. Infatti il sistema e la disciplina delle Congregazioni in cui sono inseriti, nonché la pratica costante della virtù che ognuno si impone, li rendono più adatti di ogni altro a svolgere un così importante lavoro. – Siamo pienamente convinti che il Governo del Portogallo, accogliendo con favore le vostre proposte e attribuendo grande valore a quei beni che sopravanzano gli altri, si deciderà anche a rimuovere gli ostacoli che intralciano la libertà dei Sodalizi religiosi e, con la sua autorità, favorirà i vostri propositi che mirano a restituire il pieno vigore e a far rifiorire doviziosamente, con la gloria degli antenati, la religione cattolica in Portogallo e in tutti i paesi sottoposti al suo dominio. – Questa Nostra convinzione è resa più forte dal fatto che nessuno ormai ignora, e anche voi ne avete piena coscienza, quali siano al riguardo i Nostri sentimenti e i Nostri auspici, che sono sicuramente rivolti al bene della religione, ma si propongono anche la piena prosperità del popolo portoghese. Sono questi il compito e la funzione che il Divino Fondatore ha assegnato alla Chiesa: porsi nel cuore della società umana come vincolo di pace e garanzia di salvezza. – La Chiesa non toglie nulla all’autorità di chi è posto a capo dello Stato e ne detiene il potere, anzi lo difende e lo rafforza, affiancando alle leggi emanate l’obbligo religioso dell’osservanza, riconducendo il dovere di sottostare alle pubbliche autorità nell’ambito degli obblighi voluti da Dio, esortando i cittadini a tenersi lontano dai moti sediziosi e da ogni altra forma di sovvertimento dello Stato, insegnando a tutti di coltivare la virtù e di assolvere con cura tutto ciò che richiede il proprio stato e la propria condizione. – La Chiesa è dunque il migliore censore dei costumi; la sua salutare disciplina prepara uomini retti, onesti, devoti verso la patria, fedeli e pienamente solidali con i principi, tali cioè da costituire un solido sostegno del pubblico ordinamento degli Stati, in grado di mettere a loro disposizione indomite energie per affrontare imprese ardue e gloriose. È per questo motivo che si provvede in modo saggio e accorto al bene dello Stato quando si permette alla Chiesa di avvalersi di quella libertà d’azione che essa rivendica a buon diritto, e le si apre benevolmente la strada perché possa ampiamente far valere la sua benefica influenza e mettere a disposizione del bene comune tutti i mezzi di cui è dotata. – Anche se un simile assunto riguarda tutte le genti, esso si rivela particolarmente indicato per il popolo portoghese, presso il quale la religione cattolica svolse un ruolo di primaria importanza nel plasmare, da molto tempo, i costumi e le menti degli uomini, nel promuovere gli studi delle scienze, delle lettere e delle arti, nell’infiammare gli animi a compiere ogni sorta di imprese memorabili in pace e in guerra, quasi da sembrare la madre e la nutrice, donata dal cielo, per generare e far crescere tutto ciò che di splendido prese forma, in tale popolo, nel campo della civiltà, della dignità e della gloria. – Ci siamo intrattenuti più diffusamente con voi su questo argomento nella citata Lettera enciclica che vi abbiamo recentemente indirizzata. Ora però è bene ricordare questa sola cosa: la forza e il valore della religione non possono in alcun modo venir meno, perché i principi dottrinali che essa trasmette, in quanto voluti da Dio, non sono condizionati dalle leggi del tempo e dello spazio, ma sono rivolti alla salvezza e al conforto di tutti i popoli. Per questo motivo, allo scopo di favorire il benessere e la prosperità della vostra nobilissima gente, la religione è ancora in grado di fornire quegli straordinari benefìci e quei validi aiuti che mise a disposizione in passato. Specialmente in questo tempo malvagio, nel quale la debolezza e il turbamento degli animi si sono fatti così grandi che i fondamentali principi che garantiscono l’ordine e la pace della società umana non solo vengono messi in dubbio, ma sono apertamente avversati, non vi è nessuno che non comprenda la necessità di far ricorso all’aiuto della Religione e ai suoi sacri precetti e insegnamenti. Tutte le persone assennate ed oneste sono infatti concordi nel riconoscere che non esiste un rimedio più sicuro e più valido della dottrina cattolica contro i mali che affliggono il nostro tempo e i pericoli che incombono, sempreché essa sia accettata completa ed integra, e gli uomini uniformino il loro modo di vivere alle norme che la stessa propone. – Per tutto questo, Diletti Figli Nostri, Venerabili Fratelli, non dubitiamo che, in forza dello zelo pastorale che vi distingue, vi affretterete, con animo deciso e con impegno costante, all’opera che vi abbiamo raccomandato. Sarà per voi, dediti al lavoro, un titolo di sommo onore e di meritata riconoscenza, l’aver potuto conseguire altissime benemerenze verso la religione, che assorbe tutto il vostro interesse, verso la patria e verso il vostro popolo, per il quale auspicate, con un’intensità non inferiore alla Nostra, una stabile pace e un futuro rispondente alle attese. Mentre eleviamo la Nostra supplica a Dio perché vi colmi dei suoi doni e assecondi le vostre iniziative, impartiamo, con sincero affetto nel Signore, la Benedizione Apostolica, testimonianza del Nostro paterno amore, a voi, al clero e ai fedeli affidati alle vostre cure.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 giugno 1891, quattordicesimo anno del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “DUM MULTA”

In queste breve lettera Enciclica alla Gerarchia ecclesiastica dell’Equador, il Santo Padre Leone XIII, ribadisce i capisaldi del Cristianesimo cattolico circa il Sacramento del matrimonio, che la setta infernale colà trapiantata, attraverso un empio e corrotto governo – come ancora oggi in tutto il mondo – aveva stravolta a dannazione dei singoli e dei popoli. Questa è l’azione costante e capillare delle sette infernali delle conventicole massoniche, che in nome di un folle libertinaggio, spacciato per libertà di coscienza, cioè libertà dalle leggi divine, provvede ad asservire alla schiavitù di lucifero e dei suoi adepti, umani o angelici, in vista della eterna dannazione. Qui oltretutto per tutti gli ipocriti pseudo-cristiani della sinagoga di satana vaticana, c’è materia di rivedere i concetti che dal Fondatore in poi, fino al 1958 – epoca dell’introduzione della setta infernale in Vaticano – sono stati detti e ribaditi a coloro che vogliono seguire le orme del Cristo, essere figli adottivi di Dio e partecipare delle grazie divine per santificarsi e godere dell’eterna gloria in cielo. Ora questi privilegi sono riservati solo agli appartenenti al Corpo mistico di Cristo, quel Corpo dal quale dottrinalmente sono esclusi gli apostati, gli eretici, gli scismatici seguaci di falsi Vescovi e veri antipapi – come gli attuali sepolcri imbiancati –, ed avviati quindi all’eterna dannazione. Ai veri Cattolici del pusillus grex il compito di praticare con fermezza indomita e senza cedimento alcuno e sordi agli infami richiami delle sirene moderniste, la dottrina del Figlio di Dio incarnato e della sua unica vera Chiesa – garantita dal suo Vicario in terra – fino alla fine dei tempi, quando il Signore Gesù, balenando come un fulmine dall’Oriente, verrà a giudicare quelli alla sua sinistra per l’eterna dannazione, e questi alla destra per l’eterna beatitudine.

DUM MULTA

Enciclica di Leone XIII

SULLA LEGISLAZIONE MATRIMONIALE

Ai venerati fratelli, l’Arcivescovo di Quito e gli altri Vescovi dell’Ecuador.

Mentre siamo oppressi da molta tristezza nell’apprendere a quale stato doloroso è ridotta la Chiesa in Ecuador, siamo stati molto soddisfatti delle vostre ordinanze tempestive e pubblicamente proclamate. Nella vostra cura pastorale, non avete esitato a protestare ad alta voce contro quelle leggi che si oppongono non solo ai diritti della Chiesa, ma anche al diritto divino. Le avete condannate fin dal momento in cui sono state proposte. Avete dedicato tutto il vostro zelo ed il vostro impegno prima che fosse fatto il danno, onde impedire che gli oratori pubblici realizzassero la loro rovinosa intenzione legislativa. Voi non siete inconsapevoli della costante lungimiranza che abbiamo dedicato nel ristabilire la tranquillità religiosa del vostro Paese. Questo è della massima importanza per il bene della Chiesa e dello Stato. Ma le speranze che Noi avevamo, le speranze che hanno incoraggiato quasi tutto il popolo dell’Ecuador, sono svanite miseramente. Infatti, non solo non è stata fatta alcuna riparazione per precedenti ingiustizie distruttive, ma sono state ancora aggiunte altre ingiustizie molto gravi. Vediamo infatti che una diocesi che era stata costituita secondo i santi canoni è stata abolita. Sappiamo che sono stati nominati i Vescovi in diocesi vacanti, senza alcuna autorizzazione da parte della Santa Sede. Sappiamo anche che la santità del matrimonio cristiano è stata impedita in vari modi.

La natura del matrimonio cristiano

2. Abbiamo trattato spesso questo argomento in altre lettere, specialmente nella Nostra lettera apostolica del 10 febbraio 1880. In essa abbiamo sottolineato la natura del matrimonio cristiano, la sua forza, la cura che la Chiesa ha dedicato alla protezione del suo onore e dei suoi diritti, ed il ruolo dell’autorità civile nei suoi confronti. È infatti evidente che siccome Cristo, il Figlio di Dio, Redentore e restauratore della natura umana, ha elevato il matrimonio cristiano alla dignità di Sacramento, ogni matrimonio cristiano è tal Sacramento. La questione del contratto può essere  separata in qualche modo dalla natura del Sacramento. Ciò significa che mentre l’autorità civile conserva in pieno il suo diritto di regolare i cosiddetti effetti civili, il matrimonio stesso è soggetto all’autorità della Chiesa. Inoltre, è certo che Gesù, il Redentore di ogni razza, ha abolito l’usanza del ripudio, ha rafforzato il matrimonio con il potere sacro ed ha ripristinato la legge della indissolubilità, così come era stata stabilita dalla volontà di Dio fin dall’inizio. Ne consegue che il matrimonio dei Cristiani, quando è pienamente compiuto, è santo, indivisibile e perfetto. Non può essere sciolto per nessun altro motivo che non sia la morte di uno dei due coniugi secondo le sacre parole: “Non separi l’uomo ciò che Dio ha unito”. Così facendo, Cristo ha certamente inteso conferire molti benefici al genere umano, perché questa istituzione preserva o ristabilisce nel modo più efficace la moralità, promuove l’amore di un coniuge per l’altro, conferma le famiglie con la forza divina, rinnova l’educazione e la protezione della prole, ristabilisce la dignità della donna, e infine stabilisce l’onore e la prosperità del consorzioii familiare e civile nel modo più benefico ed eccellente.

Condanna del matrimonio civile

3. Pertanto, in conformità al Nostro dovere di maestro supremo che ci rende custodi e paladini della legge divina ed ecclesiastica, Noi alziamo la voce e condanniamo totalmente le cosiddette leggi sul matrimonio civile recentemente emanate in Ecuador. Per quanto riguarda i divorzi, li respingiamo insieme ad ogni assalto alla santa disciplina della Chiesa. Il fatto che queste leggi siano state stabilite di fronte alla vostra opposizione e siano così in contrasto con lo sviluppo della prosperità civile e con gli interessi della Religione non è motivo di scoraggiamento. Dovreste piuttosto aumentare il vostro zelo per la Religione ed essere più vigili. Continuate dunque a difendere i diritti trascurati e disprezzati della Chiesa, senza cedere alla violenza. Insegnate ai fedeli affidati alle vostre cure ed educateli affinché conservino il rispetto dovuto ai loro capi; siate fedeli all’insegnamento della Religione cattolica e praticate la moralità cristiana. Con fervide e ardenti preghiere al Sacratissimo Cuore di Gesù, al quale il vostro popolo è stato solennemente consacrato al di sopra di tutte le nazioni, voi tutti dovreste chiedere che Egli si degnasse di donare tempi più felici alla Chiesa dell’Ecuador attraverso l’abbondanza delle sue misericordie. Noi rimaniamo ancora il vostro compagno e condividiamo i vostri dolori e le vostre suppliche. Nel frattempo, come segno della Nostra buona volontà e come pegno dei doni divini, impartiamo amorevolmente al Signore la Nostra benedizione apostolica a voi e ai vostri fedeli.

Dato a Roma, a San Pietro, il 24 dicembre dell’anno 1902, venticinquesimo anno del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO. “S.S. PIO X – “HÆRENT ANIMO”

Questa esortazione apostolica di SS. S. Pio X era un tentativo per portare i Sacerdoti ed il clero tutto a considerare la loro dignità, il loro dovere apostolico e la responsabilità davanti all’Altissimo nel loro ruolo fondamentale nel portare anime al cielo. Purtroppo i suoi paterni ed amorevoli solleciti a nulla sono valsi se poi quello stesso clero a cui si rivolgeva ha tradito vergognosamente la dottrina ed il compito che la Chiesa, Dio permettendo, aveva loro assegnato, sfociando nell’apostasia aperta della setta della “sinagoga di satana” costituitasi dopo il Vaticano II a perdizione delle anime salvate dai meriti e dal Sangue del Redentore. Basta rileggere questo documento per capire che gli aderenti della setta vaticano-modernista usurpante i sacri palazzi dell’urbe e dell’orbe, nulla hanno a che vedere con il clero che il Signore, tramite la sua unica Chiesa, la Cattolica Apostolica Romana, aveva desiderato costituire onde portare le anime riscattate con il Sacrificio della Croce all’eterna salvezza. – La lettera si commenta da sé, tale ne è le forza e la chiarezza dottrinale. Speriamo che possa essere finalmente attuata dal nuovo clero che il Signore personalmente verrà a ristabilire, una volta distrutto con il soffio della sua bocca, l’anticristo ed i suoi adepti indovuti, come “bestia” ingannatrice di fedeli ignoranti ed infingardi nelle cose dottrinali, nei “luna park” e nei “centri commerciali” della “spelunca latronum” vaticana. A noi “pusillus grex” il compito di resistere “fortes in fide” davanti ai falsi segni mirabolanti dei servi dell’anticristo [i falsi sacramenti e le sacrileghe benedizioni], e pregare per la salvezza delle anime riscattate dal Signore Nostro.

ESORTAZIONE APOSTOLICA

”HÆRENT ANIMO”

DI S. S. SAN PIO X

“SULLA SANTITÀ SACERDOTALE”

IN OCCASIONE DEL 50° ANNIVERSARIO DEL SUO SACERDOZIO

AL CLERO CATTOLICO

MOTIVI E INTENTI

Scopo dell’esortazione.

L’avvenire della Chiesa dipende dalla qualità degli Ecclesiastici.

Abbiamo scolpite nella mente e ci riempiono di salutare timore le parole dell’Apostolo agli Ebrei (XIII,17), che, inculcando loro il dovere dell’ubbidienza verso i superiori, affermava con tutta la sua autorità: “Essi vegliano come responsabili che dovranno render conto delle anime vostre”. Se questa sentenza riguarda tutti quelli, che hanno nella Chiesa una qualunque preminenza, principalmente riguarda noi, che, benché impari a tanto officio, abbiamo nella Chiesa la suprema autorità. Quindi notte e giorno senza posa non ci stanchiamo di meditare e di tentare tutto quanto interessa l’incolumità e la prosperità del gregge affidatoci da Dio. Fra queste preoccupazioni una più delle altre ci sta a cuore, ed è che i sacerdoti siano tali, quali li esige la dignità del loro ministero, poiché a nostro avviso, per questa via principalmente, possiamo nutrire liete speranze dell’avvenire della religione. Così, non appena saliti al Soglio pontificio, benché, volgendo uno sguardo all’universalità del clero, scorgessimo in esso molteplici titoli di lode, tuttavia non potemmo non esortare con ogni studio i nostri venerandi fratelli, i Vescovi dell’orbe cattolico, che in nulla ponessero tanta perseveranza e tanta cura, quanto nel formar Cristo in quelli che a formar Cristo negli altri sono destinati. Né ci sfugge lo zelo e l’attività, che dispiegano nell’educare il clero alla virtù, del che ci torna dolce non tanto di render loro una pubblica lode, quanto di esprimere i sensi della più viva riconoscenza.

Stimolo ai ferventi ed ai meno ferventi.

Se non che, mentre per una parte ci allieta il vedere che, per tali cure dei Vescovi, già molti ecclesiastici si mostrano accesi di un sacro fuoco, che risuscita o ravviva in essi la grazia di Dio ricevuta nell’imposizione delle mani nella sacra ordinazione, per l’altra ci resta ancora a lamentare che alcuni altri, in diverse regioni, non sono così esemplari, che i fedeli cristiani, volgendo gli occhi in loro, quasi in uno specchio, siccome a guida, possono conformare se stessi al loro esempio. A questi vogliamo aprire il nostro cuore con questa lettera, come il cuore di un padre palpitante di ansiosa carità nel cospetto del figlio infermo. Per un tale veemente amore, aggiungiamo a quelli dei Vescovi i nostri ammonimenti; i quali, benché indirizzati specialmente a ridurre a miglior consiglio i fuorviati e giacenti in letargo, tuttavia possono, come è nostro vivo desiderio, essere anche agli altri di stimolo. Noi additiamo la via, seguendo la quale, ciascuno deve sforzarsi ogni giorno più di riuscire, secondo la chiara espressione dell’Apostolo, “uomo di Dio” (1 Tm 6,11), e di corrispondere alla giusta aspettazione della Chiesa. Nulla diremo di non mai udito da Voi, o di nuovo per chicchessia, ma cose, le quali conviene che ognuno si rammenti: e Dio ci infonde la speranza che la nostra voce sia per produrre notevole buon frutto. Questo è il nostro desiderio: “che vi rinnovelliate… nello spirito della vostra mente, e vi rivestiate dell’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità” (Ef.  IV, 23-24): e sarà questo il più bello e il più gradito dono, che Ci possiate offrire nel cinquantesimo del nostro sacerdozio. E mentre noi, “contriti di anima e umiliati di spirito” (Dn III, 39), ripenseremo in Dio i passati anni del nostro sacerdozio; espieremo in certo qual modo i nostri umani mancamenti, dei quali Ci abbiamo a pentire, ammonendovi con paterna cura, “onde camminiate in maniera degna di Dio, piacendo a Lui in tutte le cose” (Col 1,10). Ed in una simile esortazione non miriamo semplicemente alla vostra utilità, ma al vantaggio generale dei fedeli cattolici, che da quella non si può separare. Poiché tale non è il sacerdote che possa essere buono o cattivo semplicemente per sé, ma l’esempio della sua vita non è a dire di quali conseguenze sia fecondo sull’indirizzo della vita dei fedeli. Ove è un sacerdote veramente buono, qual tesoro è veramente largito dal cielo!

LA SANTITÀ DEL SACERDOTE

La santità, dote prima della vita sacerdotale.

L’esempio deve precedere la parola.

Diamo principio, diletti figli, alla nostra esortazione, con l’incitarvi a quella santità, che è richiesta dalla dignità del vostro grado. Poiché chi è insignito del sacerdozio, non per sé soltanto, ma per gli altri ancora ne è insignito: “Ogni pontefice scelto tra gli uomini, è preposto a pro degli uomini a tutte quelle cose che riguardano Dio” (Eb. V, 1). Il medesimo pensiero volle esprimere Cristo, quando, a significare quale sia il fine dell’azione sacerdotale, li paragonò al sole ed alla luce del mondo, sale della terra. Ognuno sa che sale e luce Egli è principalmente per l’ufficio che ha di distribuire il pane della verità cristiana; ma chi è che ignori che un tale ammaestramento non approda a nulla, se il sacerdote non consacri con l’esempio le cose insegnate con la parola. Gli uditori con irriverenza sì, ma non a torto obietteranno: “Professano di conoscere Dio e lo rinnegano coi fatti” (Tt I, 16); e respingeranno la dottrina, né fruiranno della luce del sacerdozio. Ond’è che Cristo, forma viva del sacerdote, insegnò prima con l’esempio e poi con le parole: “Principiò Gesù a fare, e poi ad insegnare” (At 1,1). Parimenti se gli si levi la santità a nessun titolo il sacerdote sarà più sale della terra: poiché ciò che è corrotto e contaminato non può servire a conferire la purezza; e, donde esula la santità, conviene che abiti la contaminazione. Perciò Gesù, continuando la medesima figura, chiama tali sacerdoti sale insipido, “che non è più buono a nulla se non ad esser gettato via e calpestato dalle genti” (Mt V, 13).

LA SANTITÀ DEI SACRI UFFICI

L’altezza della vocazione e i Sacri Uffici per se medesimi esigono la santità.

Quanto si è fin qui detto riceve nuova luce, quando si pensa che noi esercitiamo l’ufficio sacerdotale non già a nostro nome, ma nel nome di Gesù. “Così, dice l’Apostolo, ognuno consideri noi come ministri di Cristo e dispensatori de’ misteri di Dio” (1 Cor IV, 1); “siamo davvero adunque ambasciatori di Cristo” (2 Cor V, 20). Proprio per questo motivo Cristo ci ascrisse non al numero dei suoi servi, ma degli amici: “Non vi chiamerò già più servi… Ma vi ho chiamati amici, perché tutto quello che intesi dal Padre mio, l’ho fatto sapere a voi… Io ho eletto voi, e vi ho destinati, che andiate e facciate frutto” (Gv XV, 16). È quindi nostro ufficio di rappresentare la persona di Cristo e di condurre la missione da lui affidataci in maniera che ci sia dato di raggiungere il fine, che Egli ha di mira. E poiché “il bramare e schivare le cose medesime, questo è il pegno più fermo d’amicizia”, siamo tenuti, come amici, a nutrire i medesimi sentimenti, che sono in Cristo Gesù, che è “santo, innocente, immacolato, impolluto” (Eb VII, 26): come suoi ambasciatori, dobbiamo conciliare gli uomini alla sua dottrina ed alla sua legge, non senza osservarle prima noi stessi: come partecipi della sua autorità nell’alleggerire le anime dalle catene della colpa, conviene che poniamo ogni studio nell’evitare di caricarci noi di tali catene. Ma più come suoi ministri nell’augusto sacrificio che, con perenne prodigio, si rinnova per la vita del mondo, dobbiamo avere la medesima disposizione di animo, con la quale Egli sull’ara della croce si offrì ostia immacolata a Dio. Poiché, se in antico, quando non esisteva che un’ombra e figura del vero Sacrifizio, si esigeva nei sacri ministri tanta santità, quale non è giusto che si esiga, ora che la vittima è Cristo?

Due splendidi moniti di san Giovanni Crisostomo e di san Carlo Borromeo.

“Quanto dunque non conviene che sia più puro chi fruisce di un tal Sacrifizio? Di quale raggio solare non deve essere più splendida la mano, che divide questa carne, la bocca che è saziata dal fuoco spirituale, la lingua che rosseggia di questo sacramentissimo sangue?”. Assai opportunamente san Carlo Borromeo nei discorsi al Clero così inculcava: “Se ci ricordassimo, dilettissimi fratelli, quante e quanto preziose cose abbia poste Dio nelle nostre mani, quale stimolo non sarebbe per noi questa considerazione a farci condurre una vita degna di ecclesiastici! Che cosa non pose Iddio nelle mani, quando vi pose il proprio suo Figlio unigenito, come Lui eterno ed a Lui eguale? Nella mano mia pose i tesori suoi, tutti i Sacramenti e le grazie: pose le anime che gli sono care come la pupilla e che nell’amore preferì a se stesso, che redense con il suo sangue; nelle mie mani pose il cielo che io posso aprire e chiudere agli altri… Come mai dunque potrò io essere così ingrato a tanta degnazione ed amore da peccare contro di Lui, da offenderlo nell’onore, da inquinare questo corpo che è suo, da macchiare questa dignità e questa vita al suo ossequio consacrata?”.

AVVERTIMENTI DELLA CHIESA

Avvertimenti della Chiesa nel conferire gli Ordini ai suoi Chierici.

Ad ottenere nei suoi sacerdoti questa santità di vita, la Chiesa mira con assidue e non mai interrotte cure. A tal fine furono istituiti i Seminari: dove, se coloro che costituiscono le speranze della Chiesa devono essere educati nelle lettere e nelle scienze, nello stesso tempo, tuttavia, e più ancora lo devono essere sino dai più teneri anni ad una sincera pietà verso Dio. Inoltre, nel mentre promuove i candidati ai gradi

sacri con non brevi intervalli, non pone fine mai, come madre amorosa, alle esortazioni, che impartisce intorno al conseguimento della santità. Richiamiamoci queste tappe gioconde. Non appena ci ascrisse nella sacra milizia, volle che dichiarassimo secondo il rito: “Il Signore è la porzione della mia eredità e del mio calice; tu sei quegli che a me restituirà la mia eredità” (Sal XV, 5). Con le quali parole, commenta san Girolamo, si ammonisce “il chierico, affinché egli, che è parte del Signore o ha per sua parte il Signore, si diporti così che Egli possegga il Signore e sia dal Signore posseduto”. Quanto gravi parole rivolge poi la Chiesa ai novelli suddiaconi! Dovete considerare attentamente quale obbligo oggi di vostra spontanea volontà assumete…; quando avrete ricevuto quest’Ordine, non vi sarà più possibile di volgere indietro i passi; ma dovrete servire in perpetuo a Dio, e mantenere, con la sua grazia, la castità. E infine: se finora foste tardi alla Chiesa, d’ora innanzi dovete essere assidui; se finora foste sonnolenti, d’ora innanzi vigilanti…; se finora disonesti, d’ora innanzi casti… Riflettete di chi vi si affida il servizio! E per i promuovendi al diaconato così prega la Chiesa per mezzo del Vescovo: ”Abbondi in essi la bellezza di ogni virtù, l’autorità modesta, la pudicizia costante, la ferma purità dell’innocenza e l’osservanza della spirituale disciplina. I suoi precetti risplendano nella loro vita, affinché dall’esempio della loro castità il popolo si ecciti a imitarli santamente”. Ma più commovente ancora è l’ammonizione rivolta a coloro che devono essere iniziati al sacerdozio: “Con grande timore a così alto grado si deve salire, ed allora bisogna accertarsi che una celeste sapienza, illibati costumi e lunga osservanza della legge di Dio distinguano gli eletti a tale dignità… Sia il profumo della vostra vita diletto della Chiesa di Cristo, affinché con la parola e con l’esempio edifichiate la casa della famiglia di Dio”. E più di ogni cosa ci stimola la grave sentenza, che si aggiunge: “Siate all’altezza di ciò che amministrate (imitamini quod tractatis)”; il che concorda col precetto di san Paolo: “Affine di rendere perfetto ogni uomo in Cristo Gesù” (Col 1, 28).

Padri e Dottori confermano che il Sacerdote deve essere un cielo tesissimo.

Poiché questa dunque è la mente della Chiesa riguardo alla vita sacerdotale, non potrebbe riuscire ad alcuno di meraviglia, che tale sia la consonanza delle voci dei Padri e dei Dottori intorno a questo punto così che sembrino peccare di ridondanza. Ma, se con retto giudizio li osserviamo, ci apparirà evidente come altro non dicano che il vero e il giusto. Il loro giudizio si può brevemente esporre così: tanta differenza è tra il cielo e la terra; e quindi guardi bene il sacerdote che la sua virtù non solo non sia tocca neppure dall’ombra delle più gravi colpe, ma neppure delle più lievi. A tal riguardo il Concilio di Trento fece suo il pensiero di quegli uomini venerandi, quando ammonì i chierici di fuggire anche i leggeri mancamenti, che in loro sarebbero massimi: massimi non già in sé, ma per ragione di chi li commette, al quale più ancora che all’edifizio sacro, conviene quel detto: “Alla casa tua, (o Signore), si conviene la santità” (Sal XCII. 5).

NATURA DELLA SANTITÀ SACERDOTALE

In che consiste la santità.

Il fondamento voluto da Cristo sta proprio nelle virtù “passive”.

Ed ora è da vedere in che cosa consista una tale santità, della quale il sacerdote non può esser privo senza grave vergogna; poiché se alcuno ne ignora o male ne intende l’essenza, si trova in grande pericolo. C’è chi crede, anzi chiaramente professa, che il merito del sacerdote consista semplicemente nel sacrificarsi tutto al bene degli altri; per cui neglette quasi del tutto quelle virtù, che mirano al perfezionamento individuale (le così dette virtù passive), dicono che si deve porre ogni studio per conseguire ed esercitare quelle virtù che chiamano attive. Questa è dottrina indubbiamente fallace e rovinosa. Intorno ad essa così si esprime, con la consueta sapienza, il nostro predecessore di felice memoria: “Che le cristiane virtù non siano opportune a tutti i tempi non può cadere in mente se non a chi si sia scordato delle parole dell’Apostolo: “Coloro che Egli previde, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figliol suo” (Rm VIII, 29). Cristo è maestro ed esemplare di ogni forma di santità, al cui esempio è necessario che si modellino tutti quanti vogliono essere accolti nel regno dei cieli. Ora Cristo non muta col passare dei secoli; ma è il medesimo “ieri, e oggi; ed è sempre Lui anche nei secoli” (Eb XIII, 8). Quindi agli uomini di tutti i tempi è rivolta quella parola: “Imparate da me, che son mite e umile di cuore” (Mt XI, 29); in ogni tempo Cristo ci si presenta “ubbidiente sino alla morte” (Fil II, 8); e vale per tutte le età la sentenza dell’Apostolo: “Quei che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne co’ vizi e con le concupiscenze” (Gal V, 24).

La “conditio sine qua non” è l’abnegazione di sé.

Condanna dei metodi propri nel mondo.

I quali documenti sono rivolti a ciascheduno dei fedeli, in modo tutto speciale riguardano i sacerdoti: essi, più che gli altri, devono prendere come a sé rivolte le parole, che il medesimo nostro predecessore con apostolico zelo aggiunge: “Ed oh! fossero più numerosi i cultori di tali virtù, a imitazione dei santi delle passate età: i quali con l’umiltà, l’ubbidienza, la mortificazione di sé, furono potenti in opere e in parole, con indicibile vantaggio non solo della religione, ma dello stato e della civiltà”. Dove cade opportuno osservare come il sapientissimo Pontefice fa menzione speciale della mortificazione che con evangelica parola diciamo: abnegazione di sé. Poiché, di qui specialmente, dipende, o diletti figli, la forza e la virtù e il frutto del ministero sacerdotale; al contrario dalla negligenza di questa virtù, nasce tutto quanto nei costumi e nella vita del sacerdote può offendere gli occhi e sconcertare gli animi dei fedeli. Poiché l’agire a solo scopo di turpe lucro, l’ingolfarsi negli affari mondani, l’aspirare ai primi gradi e sprezzare i più modesti, il condiscendere alla carne e al sangue col troppo affetto ai parenti, il soverchio studio di piacere agli uomini, il porre la fiducia del proprio successo nell’umana destrezza della parola: tutte queste cose derivano dalla negligenza del precetto di Cristo e dal respingere la condizione, che egli ci pose: “Chi vuol venir dietro a me rinneghi se stesso” (Mt XVI, 24).

DALLA SANTITÀ I FRUTTI DEL MINISTERO

L’abnegazione di sé e la vita interiore sono però male intese se trascurano i gravi doveri di apostolico ministero.

Nel mentre inculchiamo così vivamente questo dovere dell’ecclesiastico, non possiamo non avvertire nel medesimo tempo che il sacerdote deve vivere santo non per sé solo; poiché egli è il lavoratore, che Cristo “mandò a lavorare nella sua vigna” (Mt XX,1). È dunque suo officio di svellere le male erbe, seminare quelle buone e fruttifere, innaffiare, badar bene che l’uomo nemico non vi semini fra mezzo la zizzania. Perciò deve il sacerdote stare in guardia, affinché indotto da un malinteso desiderio della sua perfezione interiore, non trascuri alcune di quelle parti del suo ministero, che spettano al bene dei fedeli. Tali sono la predicazione della parola di Dio, l’ascoltare le confessioni, l’assistere gli infermi e specialmente i moribondi, l’istruire gli ignoranti nelle cose di fede, il consolare gli afflitti, il ricondurre i fuorviati, l’imitare in ogni cosa Cristo, “il quale passò la sua vita facendo del bene e sanando tutti coloro che erano oppressi dal diavolo” (At X, 38).

La base insostituibile: la santità e l’unione con Dio.

Certo, vi stia scolpito in mente l’insigne ammonimento di san Paolo: “Non è nulla né colui che pianta, né colui che innaffia, ma è Dio che dà il crescere” (1 Cor III, 7). Voi potete ben gettare i semi camminando e piangendo, voi potete ben coltivarli con ogni fatica; ma che germoglino e diano i desiderati frutti, è opera del solo Dio e del suo potentissimo intervento. Di più, non bisogna dimenticare che altro non sono gli uomini se non istrumenti, dei quali si serve Dio per la salute delle anime; e che per conseguenza devono essere idonei ad essere maneggiati da Dio. E ciò in qual maniera? Crediamo dunque che Dio si muova a servirsi di noi; per propagare la sua gloria, in vista di una nostra eccellenza o capacità congenita o acquisita? Non già, poiché sta scritto: “Le cose stolte del mondo elesse Dio per confondere i sapienti: e le cose deboli del mondo elesse Dio per confondere i forti; e le ignobili cose del mondo e le spregevoli elesse Dio e quelle che non sono per distruggere quelle che sono” (1 Cor 1,27-28). Una cosa sola assolutamente serve per unire l’uomo a Dio, a renderlo a Dio grato, e ministro non indegno delle sue misericordie: la santità della vita e del costume.

L’unica scienza che vale – L’esempio del Santo Curato d’Ars.

Quando manchi al sacerdote questa, che solo costituisce la sovraeminente scienza di Gesù Cristo, gli manca ogni cosa. Poiché senza questa scienza la stessa vastità di una raffinata cultura (che pure noi medesimi con ogni cura ci studiamo di promuovere per il Clero) e la stessa destrezza e solerzia negli affari, quand’anche potessero essere di qualche frutto alla Chiesa o ai singoli fedeli, non raramente tuttavia sono a loro causa deplorevole di detrimento. Ma quanto possa nel popolo di Dio intraprendere e condurre a termine chi sia ornato di santità, anche nell’infimo grado della gerarchia, ce lo dicono numerosi esempi tratti da ogni età della storia; basti ricordare tra i recenti il Curato d’Ars, Giovanni Battista Vianney, al quale siamo lieti di avere noi medesimi decretato gli onori dei Beati. La santità sola ci rende quali ci richiede la nostra vocazione divina, uomini cioè crocifissi al mondo, e ai quali il mondo è crocifisso; uomini che camminano “vivendo nuova vita” (Rm IV, 4), i quali, secondo l’avviso di san Paolo (2 Cor VI, 5-7) nelle fatiche, “nelle vigilie, nei digiuni, con la castità, con la scienza, con la mansuetudine, con la soavità, con lo Spirito Santo, con la carità non simulata; con le parole di verità”, si manifestino veri ministri di Dio: che unicamente tendano alle cose celesti e si studino con ogni zelo di rivolgere al cielo le anime degli altri.

IL SUSSIDIO DELLA PREGHIERA.

La preghiera indispensabile sussidio della santità.

Esempio e precetti di Cristo.

Ma poiché, come nessuno ignora, la santità in tanto è frutto della nostra volontà, in quanto questa è sostenuta dalla grazia di Dio, Dio provvide largamente a che non mai avessimo a patire difetto, purché lo si voglia, del dono della grazia; e questa si ottiene in primis con la preghiera. Non vi è dubbio che tra la preghiera e la santità intercorre tale relazione che l’una non può sussistere senza l’altra. Quindi corrisponde pienamente alla verità quella sentenza del Crisostomo: “Io penso senz’altro che riesca a tutti evidente, come è impossibile, senza il sussidio della preghiera, viver virtuosamente” e acutamente concluse sant’Agostino: ” Veramente sa viver bene chi sa pregar bene”. E tali insegnamenti Cristo medesimo consacrò con la sua parola e più ancora col suo esempio. Poiché, per raccogliersi nella preghiera, si ritirava solitario nei deserti o saliva sulle montagne; passava le intere notti in questo esercizio; era assiduo al tempio; che, anzi, anche se circondato dalle turbe, levati gli occhi al cielo dinanzi a tutti pregava; e infine, confitto alla croce, fra i dolori della morte, con alto grido e lacrime volse al Padre l’ultima preghiera.

Il pericolo dell’abitudine e del ridurre le preghiere.

Il continuo bisogno di preghiera per sé e per il popolo.

Teniamo quindi come cosa certa e definita che il sacerdote, per sostenere degnamente il grado e ufficio, deve essere dedito in maniera esimia alla preghiera. Troppo sovente c’è da dolersi che egli si dedichi alla preghiera più per abitudine che per zelo, che a certe ore stabilite salmeggi con sonnolenza o preferisca preghiere piuttosto brevi o pochine, né poi consacri più alcun frammento della giornata a parlar con Dio, innalzandosi piamente alle cose del cielo. Mentre invece il sacerdote più di tutti gli altri deve obbedire al precetto di Cristo: “Si deve sempre pregare” (Lc XVIII, 1); conformandosi al quale san Paolo tanto inculcava: “Siate perseveranti nell’orazione vegliando in essa, e nei rendimenti di grazie” (Col IV, 2): “Orate sine intermissione” (1 Ts V, 17). E invero quante occasioni si offrono di elevarsi a Dio ad un’anima desiderosa della propria santificazione non meno che della salute degli altri! Le angustie interiori, la forza e insistenza delle tentazioni, la povertà di virtù, la piccolezza e sterilità delle nostre fatiche, i difetti e le negligenze frequenti, infine il timore dei giudizi divini, tutti questi sono stimoli a farci piangere dinanzi a Dio, col vantaggio di arricchirci di meriti al suo cospetto, oltre che di aver impetrato la grazia, l’aiuto divino. Né solamente per noi dobbiamo piangere. Nella colluvie di colpe che ovunque si diffonde, a noi specialmente si addice di pregare e muovere la divina pietà e di insistere presso Cristo, prodigo benignissimamente di ogni grazia nel mirabile sacramento dell’altare: Perdona, Signore, perdona al tuo popolo.

NECESSITÀ DELLA MEDITAZIONE

Necessità e vantaggi provenienti dalla meditazione.

Caposaldo principalissimo del profitto della virtù è il dedicare ogni giorno una parte del nostro tempo alla meditazione delle cose eterne. Non vi è sacerdote che se ne possa esimere, senza grave nota di negligenza e detrimento dell’anima sua. San Bernardo scrivendo ad Eugenio III, suo antico discepolo ed allora divenuto Romano Pontefice, con franchezza e viva apprensione lo ammoniva a non mai lasciare la quotidiana meditazione delle cose divine, e a non ammettere, per dispensarsene, alcun pretesto di occupazioni, benché molte e gravissime ne porti con sé il supremo apostolato. E diceva di aver appunto gravi motivi di rivolgergli tali avvertimenti per i sommi vantaggi di questo esercizio quali egli così sapientemente enumerava: “La meditazione purifica la sorgente da cui nasce, cioè l’intelletto. Poi regola gli affetti, indirizza gli atti, corregge i difetti, riforma i costumi, eleva e ordina la vita: in una parola conferisce la scienza delle divine e delle umane cose. La meditazione chiarisce le cose confuse, colma le lacune della mente, rannoda le idee sparse, scruta i segreti, investiga la verità, esamina il verosimile, mette a nudo la finzione e la menzogna. Essa preordina le azioni da compiersi, essa chiama a rendiconto le già compiute affinché nulla resti nella mente di incorretto e di ambiguo. Essa fa presentire nella prosperità la sfortuna, nella sfortuna evita il troppo impressionarsi, e questo è infusione di fortezza, quello di prudenza”. Questo compendio delle grandi utilità, che la meditazione per sua natura produce, ci dice quanto sia non solamente salutare, ma pure necessaria.

La meditazione salvaguardia del fervore e contro i pericoli del mondo.

Poiché, sebbene i vari uffici del sacerdozio siano augusti e venerandi tutti, la forza dell’abitudine fa sì che i destinati ad essi non vi mettano quella religiosa attenzione come si conviene. Di qui venendo meno a poco a poco il fervore è facile il passo alla negligenza e fino al fastidio delle cose più sacre. Aggiungasi la necessità che si impone al sacerdote, di convivere “in mezzo ad una nazione prava” (Fil II, 15); così che, sovente, nello stesso esercizio della carità pastorale, egli ha da temere stiano nascoste le insidie dell’antico serpente. Quanto è facile che anche i cuori religiosi si velino di mondana polvere! Appare quindi quale e quanta necessità vi sia di tornare ogni giorno alla contemplazione delle cose del cielo, affinché la mente e la volontà si rafforzino contro le seduzioni del mondo. Di più è compito del sacerdote di conseguire una certa facilità di assurgere e di raccogliersi nelle cose celesti, lui che deve intendersi delle cose celesti, insegnarle ed inculcarle ai fedeli; lui che deve condurre un tenore di vita in una sfera superiore alla umana, così che egli compia secondo Dio con lo spirito e la guida della fede quanto esige il suo ministero. Ora nulla più che la meditazione quotidiana è efficace a produrre e mantenere questa disposizione, questa quasi naturale unione con Dio; cosa che a ognuno, che abbia discernimento, è così ovvia che non vale la pena di ragionarne di più.

DANNI DEL TRASCURARE LE MEDITAZIONI

Triste quadro dei danni che nascono in chi trascurasse la meditazione.

Una triste conferma di quanto si è detto ci esibisce la vita di questi sacerdoti, che fanno poco conto della meditazione delle cose divine o del tutto l’hanno in fastidio. Tu vedi in loro illanguidito quell’inestimabile tesoro, mondani, seguaci di mere vanità, intrattenersi in frivolezze, accostarsi alle sacre cose tiepidi, gelidi e forse indegni. Dapprima, quando era in loro recente il carisma dell’unzione sacerdotale, preparavano lo spirito diligentemente alla recita dei salmi per non essere simili a chi tenta Dio; fissavano il tempo a ciò più opportuno, e il più remoto ritiro, si industriavano di scrutare i sensi segreti delle cose divine, lodavano Dio, gemevano, esultavano, effondevano lo spirito col Salmista. E ora invece qual cambiamento! Quasi più nulla resta in essi di quell’ardente pietà, che un tempo dimostravano per i divini misteri. Quanto diletti erano allora quei tabernacoli! L’anima esultava di trovarsi intorno alla mensa del Signore e di chiamare ad essa in gran folla i devoti. Prima della celebrazione dei sacri misteri quale mondezza! quali preghiere partite dall’anima desiderosa! E quanta riverenza nel modo di trattare le cose sante: quale decoro nell’eseguire le auguste cerimonie, quale effusione di grazie dal profondo del cuore e come felicemente diffondevasi nel popolo il soave profumo di Cristo!… “Richiamate, ve ne preghiamo, o figli diletti, richiamate alla memoria quei primi giorni” (Eb X, 32), allora l’anima era fervorosa perché nutrita del cibo della santa meditazione.

Da respingersi l’eventuale scusa o vano pretesto di essere troppo assorbito nell’azione.

Non manca fra quelli che hanno a fastidio o trascurano di “riflettere in cuor loro” (Ger XII, II), non manca chi riconosca la povertà dell’anima sua, ma poi se ne scusi col pretesto di essersi dedicato interamente alle esigenze sempre più attive e dinamiche del ministero, ad utilità degli altri. Ma si ingannano miseramente. Poiché, non avvezzi a parlar con Dio, quando parlano di Dio agli uomini o impartiscono consigli intorno alla vita cristiana, sono privi di ispirazione divina; così che la parola di Dio è in essi quasi morta. La loro voce, per quanto dotta e feconda, non imita la voce del buon pastore, che le pecorelle ascoltano salutarmente; poiché strepita con inutile pompa di parole che si perde nel vuoto ed è anzi fertile talora di dannoso esempio, non senza vergogna della religione e scandalo dei buoni. Né altrimenti accade negli altri settori della vita attiva: poiché nessun vantaggio di solida utilità ne ricavano o per lo meno non dura che breve ora, mancando la rugiada celeste che scende invece copiosissima sulla orazione di colui che si umilia” (cf Sir XXXV, 21).

Gravi conseguenze per chi mostrasse disprezzo della preghiera.

E qui non possiamo non dolerci vivamente di coloro che, trascinati dal soffio di pestifere novità, non si vergognano della loro mentalità contraria alla vita interiore e reputano quasi perduta l’ora consacrata alla meditazione e alla preghiera. Funesta cecità! Volesse il cielo che raccogliendosi una buona volta in se stessi si accorgessero finalmente a quale abisso conduce questa negligenza e disprezzo della preghiera! Di qui germoglia la superbia e la caparbietà; dalle quali maturano troppo amari frutti, che il paterno cuore rifugge dal rammentare quanto desidera di recidere completamente. Ascolti Iddio i nostri voti, e, benignamente riguardando i fuorviati, effonda tanto largamente sopra di essi lo “spirito di grazia e di orazione” (Zc XII, 10), che, a comune allegrezza, piangendo il loro errore, ritornino sulla male abbandonata via e cautamente la seguano per l’avvenire. Come già l’Apostolo (Fil 1, 8), ci sia testimone Dio come li amiamo tutti nelle viscere di Gesù Cristo!

ECCITAMENTI ALLA MEDITAZIONE

La meditazione, segreto per operare con criterio e zelo.

Ad essi dunque e a voi tutti figli nostri, sia scolpita in mente la nostra esortazione, che è quella di Cristo Signore: “State attenti, vegliate e pregate” (Mc XII, 33). Principalmente nella sua meditazione ognuno ponga la sua industria: e risvegli tutta la sua fiducia in Dio, sovente pregando: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc XI, 1). Né di lieve incitamento a meditare deve esser per tutti questo speciale motivo, che dalla meditazione nasce quella particolare luce di consiglio e quella speciale energia di virtù che si esigono nella cura delle anime, opera sopra tutte difficilissima. Qui cade opportuno, ricordare la pastorale esortazione di san Carlo: “Intendete, o fratelli, che nulla è così necessario a tutti gli ecclesiastici come l’orazione mentale la quale precede tutte le nostre azioni, le accompagna e le segue: canterò, dice il profeta, e ben studierò e intenderò (cf Sal C, 2). Fratello, se amministri i Sacramenti, medita su quello che fai; se celebri la Messa, medita sul Sacrificio che offerisci; se salmeggi, medita a chi parli e di che cosa; se guidi le anime, medita da qual Sangue sono state redente”.

Mediti su Cristo chi è “alter Christus”.

Perciò con ogni ragione la Chiesa ci impone di ripetere frequentemente quelle sentenze di Davide: “Beato l’uomo che medita nella legge del Signore; vi perdura con diletto, di giorno e di notte; tutto quello che egli farà avrà prospero effetto” (Sal 1,1-3). E alla meditazione ci sia di stimolo anche il pensiero che il sacerdote è un altro Cristo; e, se è tale per partecipazione di autorità, non dovrà essere tale per imitazione delle opere sante? “Sia dunque nostra somma premura di meditare sulla vita di Gesù Cristo”.

UTILITÀ DELLE SACRE LETTURE

Utilità della lettura spirituale soprattutto delle Sacre Scritture.

Con la meditazione quotidiana delle cose divine conviene che il Sacerdote unisca la lettura di più libri, specialmente di quelli che sono divinamente ispirati. Così san Paolo prescriveva a Timoteo: “Attendi alla lettura” (1 Tm IV, 13). Così san Girolamo, ammaestrando Nepoziano intorno alla vita sacerdotale, inculcava: “Non deporre mai dalle tue mani il libro della sacra lettura”; e ne soggiungeva questo motivo: “Impara ciò che devi insegnare; ottieni quella sincera sapienza, che è nutrita di verace dottrina, affinché con essa tu possa esortare gli altri e ribattere gli avversari”. Quanto grande è il vantaggio di quei sacerdoti che hanno questa costante abitudine: con quale unzione predicano Cristo e, anziché blandire gli uditori, come li spingono al meglio e li innalzano a celesti desideri!

I santi libri sono veri amici.

Ma pure eccovi un’altra prova, e che fa proprio al caso vostro, della verità del consiglio di san Girolamo: “Sempre fra le tue mani sia la sacra lettura”. Chi non sa quanto grande sia sull’anima dell’amico la forza persuasiva dell’amico, che candidamente ammonisca, consigli, riprenda, ecciti, rimuova dall’errore? “Beato chi trova un vero amico” (Sir XXV, 12); “chi lo trova ha trovato un tesoro”! (Sir VI, 14). Ora dobbiamo avere nel numero dei nostri fedeli amici i libri di lettura spirituale. Essi ci ammoniscono gravemente intorno ai nostri doveri ed ai precetti della legittima disciplina, risuscitano nell’anima i richiami celesti prima soffocati e repressi, ci rinfacciano i propositi non mantenuti, scuotono la coscienza addormentata in un pericoloso ottimismo; mettono in luce le tendenze meno corrette che vorrebbero star dissimulate; scoprono i pericoli che sogliono sorprendere i malaccorti. E tutti questi buoni uffici prestano con una tale e tacita benevolenza, che non solo ci si mostrano amici, ma i migliori nostri amici. Poiché li abbiamo quando ci piace, quasi al nostro fianco, pronti ad ogni ora alle nostre necessità interiori; la loro voce non è mai acerba, il loro consiglio non è mai determinato da volgari interessi, la parola non mai vile o bugiarda. Sono molti ed insigni gli esempi della salutare efficacia delle devote letture; ma nessuno sovrasta a quello di sant’Agostino, i cui meriti eminenti verso la Chiesa presero da esse inizio ed auspicio: “Tolle, lege; tolle, lege… Prendi, leggi; prendi, leggi… Afferrai (le lettere di Paolo Apostolo), le apersi e lessi in silenzio… Si diffuse nel mio cuore come una luce di sicurezza, svanirono tutte le tenebre del dubbio”.

Guardarsi da letture non ben discriminate.

Invece di sovente accade ai nostri tempi che ecclesiastici si lascino a poco a poco annebbiare la mente dalle tenebre del dubbio e seguano le oblique vie del mondo, e ciò specialmente perché, negletti i sacri e divini libri, si danno ad altre letture di ogni genere di libri e giornali infetti di errori pestiferi blandamente insinuatisi. Siate guardinghi, o diletti figli, non vi fidate ciecamente della vostra provetta età, né lasciatevi illudere dal pretesto di conoscere il male e così poter meglio provvedere al bene comune. Non si passino quei limiti, che stabiliscono sia le leggi della Chiesa, sia la prudenza e la carità verso se stessi; poiché una volta imbevuti di questi veleni, non possiamo più sfuggirne le funeste conseguenze.

L’ESAME DI COSCIENZA

Non si ometta l’esame di coscienza.

Ma i vantaggi della lettura spirituale e della meditazione delle cose celesti riusciranno, senza dubbio, per il sacerdote più copiosi, quando egli abbia un mezzo con cui possa distinguere se davvero fu messo in pratica e santamente, quanto fu oggetto di lettura e meditazione. Viene a proposito un eccellente insegnamento del Crisostomo, rivolto specialmente al Sacerdote: “Ogni sera, prima di abbandonarti al sonno, fa’ un po’ di processo alla tua coscienza, esigi da essa il rendiconto, e se fra il giorno ti appigliasti a cattivi partiti… sbarbicali dalla radice e determina per essi un castigo”. Quanto ciò sia conveniente e fruttuoso per il progresso nella cristiana virtù, i più sapienti maestri di spirito luminosamente confermano coi loro ottimi ammonimenti. Ci piace di riferire quello insigne, che ho tolto dagli insegnamenti di san Bernardo: “Curioso indagatore della tua irreprensibilità, esamina la tua vita con quotidiana diligenza. Osserva attentamente di quanto progredisci o indietreggi. Studia di conoscere te… Poni davanti agli occhi tuoi tutte le tue mancanze. Costituisci te in giudizio dinanzi a te, quasi dinanzi ad un’altra persona; e così deplora e colpisci te stesso”.

PATERNI LAMENTI

Grande frutto se si usasse in questo esame la premura che pongono gli uomini nei loro affari. Anche su questo punto sarebbe veramente vergogna che si verificasse quel detto di Cristo: “I figli di questo secolo sono più prudenti dei figli della luce” (Lc XVI, 8). Ognuno vede con quanta solerzia essi attendano ai loro affari; come di sovente facciano e rifacciano i calcoli del dare e dell’avere: con quale scrupolosa meticolosità facciano i loro conti e tirino le somme, come lamentino le perdite patite ed eccitino se stessi con accaniti sforzi per risarcirle. E a noi, a cui forse arde in cuore la brama di vane onorificenze, di accrescere il patrimonio della famiglia, di acquistar solo fama e gloria di scienziati, invece languidamente e con noia trattiamo l’affare massimo e sommamente arduo, che è la nostra santificazione. Giacché appena raramente ci raccogliamo per scrutare la nostra anima, che per conseguenza si copre di sterpi al pari della vigna del pigro, della quale sta scritto: “Passai pel campo di un infingardo, e per la vigna di un uomo stolto, e vidi come tutto era pieno di ortica, e le spine l’avevano coperta quanto ella è grande, e la muraglia intorno era rovinata” (Prv. XXIV, 30-31).

L’esame costante e ben fatto rinvigorisce l’anima, trascurato la mette in pericolo.

La cosa si fa più grave per la frequenza dei mali esempi, che ne circondano, insidiosi estremamente alla virtù sacerdotale; così che è necessario camminare sempre più guardinghi e far più apertamente violenza. Ora l’esperienza ci dice che colui, il quale esercita una censura frequente e severa sopra i suoi pensieri, parole e azioni, è più energico sia nell’odio e nella fuga del male, e sia nell’amore e nello studio del bene. Né meno ci dice l’esperienza quali danni gravissimi siano d’ordinaria conseguenza per chi evita quel tribunale, ove siede giudice la giustizia e sta accusata e accusatrice la coscienza. Invano cercheresti in lui quella circospezione, dote così lodevole del buon Cristiano, di evitare anche le minori colpe e imperfezioni e quel delicatissimo scrupolo che dovrebb’essere pregio speciale del sacerdote, che si fa paventare della benché minima offesa recata a Dio.

Danni di chi trascurasse la frequente confessione.

Che anzi la negligenza e la trascuratezza di sé giunge fino all’oblio dello stesso sacramento della penitenza: del quale nulla ci diede Cristo, nella sua estrema bontà, che fosse più salutare all’umana miseria. Non si può negare ed è degno di acerbo pianto, il caso non raro di chi mentre, fulminando e terrorizzando dal pulpito, trattiene con la sfolgorante sua eloquenza gli altri dal peccare, nulla tema per sé di tutto ciò, e si indurisca nella colpa; di chi esorta e stimola gli altri, che siano solleciti a detergere col sacramento le macchie dell’anima, e lui stesso sia in ciò tanto restio e negligente e vi frapponga intervalli di più mesi; di chi sa cospargere le altrui ferite di olio e di vino, e giaccia poi egli ferito lungo la via, né si dia pensiero di invocare la mano medicatrice del fratello che gli passa vicino. Ahi! quali tristi conseguenze ne vennero e vengono tuttora, indegne al cospetto di Dio e della Chiesa, perniciose al popolo cristiano, indecorose per il ceto sacerdotale!

Nulla più lagrimevole della corruzione dei buoni.

Quando, diletti figli, mossi da dovere di coscienza, noi volgiamo la mente a questi gravi inconvenienti, ci si riempie l’anima di amarezza e ne erompe una voce di lamento: guai al sacerdote che non sa mantenersi all’altezza del suo grado, e disonora infedelmente il nome santo di Dio, che deve santificare. Nulla è più lagrimevole della corruzione dei buoni: “Grande è la dignità dei sacerdoti, ma grande è pure la loro rovina, se peccano; rallegriamoci dell’esservi saliti, ma paventiamo di caderne precipitosamente; perché più grande che la gioia di avere raggiunto le altissime vette, è l’afflizione di essere precipitato di lassù!”. – Guai dunque al sacerdote che vive dimentico di sé, lascia la preghiera, respinge il pascolo delle devote letture; che non torna mai sopra se stesso per ascoltare la voce della coscienza che lo accusa. Né le ferite sanguinanti dell’anima sua, né i pianti della madre Chiesa potranno richiamare in sé il disgraziato, affinché non lo colpiscano quelle terribili minacce: “Acceca il cuore di questo popolo, e instupidisci le sue orecchie e chiudi a lui gli occhi, affinché non avvenga che coi suoi occhi egli vegga, e oda coi suoi orecchi, e col cuore comprenda e si converta, ed io lo sani” (Is VI, 10). Questo triste augurio allontani Dio misericordioso da ciascheduno di voi, o diletti figli, Dio, che vede il nostro cuore scevro da qualsiasi amarezza verso chicchessia, ma soltanto mosso all’estremo da carità di padre e di pastore: “Qual è invero la nostra speranza, o il gaudio, o la corona di gloria? Non lo siete voi forse dinanzi al Signore nostro Gesù Cristo?” (1 Ts II, 19).

DOVERI ATTUALI

In tempi tristi il sacerdote deve splendere nella virtù.

Lo vedete del resto da voi medesimi, quanti e dovunque siate, in quali tristi tempi, per arcano consiglio di Dio, si trovi oggi la Chiesa. Osservate ancora e meditate quale sacro dovere vi incombe di assistere e soccorrere nelle sue angustie quella Chiesa, che vi insignì di una sì onorevole dignità. Quindi nel clero ora più che mai è necessaria una più che mediocre virtù, sincera così da essere un modello, viva, operosa, prontissima a fare e patire ogni cosa per Cristo. Nulla vi è che più ardentemente noi desideriamo per voi tutti e singoli, invocandolo da Dio con ferventissime preghiere. In voi dunque fiorisca la continenza con intemerato fulgore, ornamento esimio del nostro ceto; per la cui grazia il sacerdote come è fatto simile agli Angeli, così presso il popolo cristiano è reputato degno di ogni onore e coglie più copiosi i frutti del suo ministero.

Ubbidienza inconcussa ai Vescovi e alla Sede Apostolica.

Sia in voi perenne e schietta la riverenza e ubbidienza, promessa con solenne rito a coloro, che il Divino Spirito costituì reggitori della Chiesa; e soprattutto l’ossequio giustissimamente dovuto a questa Sede Apostolica congiunga a lei ogni giorno più con strettissimi vincoli le vostre menti e i vostri cuori.

Splenda la carità per tutti: ma speciale e zelante essa sia per i giovinetti.

Brilli in ognuno la carità che non cerca in nulla se stessa, così che rintuzzati gli stimoli dell’invidia e dell’ambizione propri dell’umana natura, i vostri sforzi cospirino unanimemente, con emulazione fraterna, all’incremento della gloria di Dio. “Una gran turba quanto mai numerosa e degna di pietà, di malati, di ciechi, di zoppi, di paralitici” (Gv V, 3), aspetta i soccorsi della vostra carità; e specialmente vi aspettano folte schiere di adolescenti, cara speranza della patria e della religione, circondati da ogni parte da insidie e da pericoli morali. Siate alacri nel bene, benemeriti di tutti, non solo con l’impartire la sacra catechesi che di nuovo e con maggior vigore vi raccomandiamo, ma prestando ogni altro possibile aiuto di consiglio e di interessamento. Alleviando, difendendo, medicando, pacificando: questa sia la vostra mira e quasi la vostra sete, di guadagnare e di condurre anime a Cristo. Oh! i nemici di Dio come laboriosi, come infaticabili, come impavidi agiscono e si danno attorno, per rovinare irreparabilmente le anime!

La carità della Chiesa non conosce limiti, né teme per le persecuzioni.

Specialmente per questa prerogativa della carità, la Chiesa cattolica è lieta e orgogliosa del suo clero, che annuncia il Vangelo della cristiana pace, che apporta salute e civiltà fino alle nazioni selvagge; ove per le sue apostoliche fatiche, non raramente consacrate col sangue, il regno di Cristo ogni giorno più si dilata e la santa Fede splende di sempre nuove palme. Che se, o diletti figli, all’effusione della vostra carità corrisponda l’astio, la contesa, la calunnia, come suole avvenire, non vogliate soccombere allo scoraggiamento, “non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (2 Ts III, 13). Abbiate dinanzi agli occhi le schiere di quei forti, insigni per numero e per meriti, che dietro le orme degli Apostoli fra le più scabrose torture per il nome di Cristo, “se ne andavan contenti” (At V,41), “maledetti benedicevano”. Siamo – pensate – figli e fratelli di santi, i nomi dei quali splendono nel libro della vita, le cui glorie annuncia la Chiesa: “Non si imprima questa macchia alla nostra gloria” (1 Mac IX,10).

SUSSIDI DELLA GRAZIA

Sussidi della grazia sacerdotale: gli esercizi spirituali e il ritiro mensile.

Riacceso ed accresciuto nelle file del clero lo spirito della grazia sacerdotale, avranno un valore ed una esecuzione molto più efficace con la grazia di Dio, i nostri propositi di restaurare tutte quante le altre cose in Cristo. Perciò ci piace di aggiungere a tutto quanto si è detto alcune norme sicure, ossia indicare i sussidi opportuni a custodire ed alimentare la grazia medesima. Primo fra di essi a nessuno ignoto, ma del quale non tutti stimano degnamente la efficacia, è il pio ritirarsi dell’anima a compiere gli esercizi spirituali; se è possibile fatto annualmente o per conto proprio, o piuttosto in unione con altri, il che suole recare più largo frutto, regolandosi secondo le prescrizioni dei Vescovi. Già noi medesimi lodammo convenientemente l’utilità di questa istituzione quando pubblicammo alcune regole ad essa relative per la disciplina del clero romano. Né sarà meno vantaggioso alle anime un consimile ritiro mensile di poche ore, in privato o in unione con altri, il qual pio costume siamo lieti di veder invalso in più luoghi, favorito dai Vescovi stessi che talora presiedono al ritiro.

Vantaggi delle Mutue e più ancora dei Convegni e Unioni del Clero.

Un’altra raccomandazione ancora ci sta a cuore ed è una maggiore coesione tra i sacerdoti, quale si conviene a fratelli, consolidata e regolata dall’autorità del Vescovo. È senza dubbio cosa lodevole che i Sacerdoti si uniscano in società per procurarsi uno scambievole sussidio nelle avversità, per tenere alto il prestigio e i diritti della classe e del ministero contro gli assalti degli avversari e per altri fini del genere. Ma più ancora giova che si associno a scopo di perfezionarsi nella conoscenza delle scienze sacre, e specialmente confermarsi nel santo proposito della vocazione e di promuovere la salute delle anime, con unanimità di sforzi e di iniziative.

Auspicabile e fruttuosa la vita in comune del clero.

Ci attestano gli annali della Chiesa di quali copiosi frutti fosse fecondo un tal genere di associazioni nei tempi che i sacerdoti convenivano frequentemente a vita comune. Perché non si potrebbe richiamare in vita qualcosa di simile anche in questa nostra età, sia pure avendo riguardo ai luoghi e agli uffici vari? Non si potrebbero sperare i frutti antichi a tutto gaudio della Chiesa? Né del resto mancano società di simil genere, munite dell’approvazione dei sacri pastori; tanto più utili quanto più presto i giovani preti vi si aggreghino fin dal principio del loro sacerdozio. Noi medesimi ne promuovemmo una, durante il nostro ministero vescovile, e ne sperimentammo la bontà: e quella e le altre ora facciamo oggetto di singolare benevolenza. Di questi sussidi della grazia sacerdotale e degli altri, che la prudente vigilanza dei Vescovi suggerisce a seconda della opportunità, abbiate stima e ricavatene profitto affinché ogni giorno più “camminiate in maniera conveniente alla vocazione a cui siete stati chiamati” (Ef IV, 1), onorando il vostro ministero e compiendo in voi la volontà di Dio, che è la vostra santificazione.

FAUSTI VOTI

Ardenti preghiere per il Clero.

Questi sono i principali nostri pensieri e le cose, che ci stanno maggiormente a cuore; perciò levati gli occhi al cielo, sovente ripetiamo sopra tutto al clero le parole supplichevoli di Cristo nostro Signore: “Padre Santo… santificali!” (Gv XVII, 11-17). Ed è per noi una gioia l’avere molti dei fedeli di ogni ceto, che si uniscono a noi in questa preghiera, appassionatamente solleciti del bene vostro e della Chiesa; ed è pure gradito balsamo al nostro animo che non poche sono le anime di più generosa virtù, le quali non solo nei sacri chiostri, ma altresì in mezzo al mondo per la stessa causa vanno a gara nell’offrirsi a Dio perenni vittime votive. Accolga il sommo Dio le pure e preziose loro preci in profumo di soavità, né rigetti le umilissime preci nostre, clemente e provvido, Egli, come imploriamo, ci esaudisca; e dal Cuore sacratissimo del diletto suo Figlio diffonda sopra tutto il clero tesori di grazia, di carità e di ogni virtù.

Ringraziamenti per il Giubileo sacerdotale – Ricambio per “Mariam, Reginam Cleri” –

Benedizione finale

In ultimo ci è caro rendervi grazie sincere, o diletti figli, degli auguri fausti che ci offriste in occasione del nostro Giubileo sacerdotale: e poniamo i nostri voti per voi sotto il patrocinio della Vergine Madre, Regina degli Apostoli, affinché si verifichino appieno. Ella col suo esempio insegnò alle felici primizie del sacerdozio come, coll’esempio di lei, dovessero perseverare, concordi nella preghiera, per essere rivestiti della virtù dall’alto; virtù, che assai più copiosa impetrò ad essi con le sue preghiere, e accrebbe e fortificò col consiglio, perché le loro fatiche fossero coronate dai più lieti successi. Desideriamo intanto, diletti figli, che la pace di Cristo esulti nei vostri cuori col gaudio dello Spirito Santo, auspice l’Apostolica Benedizione che con amantissimo animo vi impartiamo.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 agosto del 1908, sesto del nostro Pontificato.

PIUS PP. X