UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XI – “DIVINI REDEMPTORIS”

La Divini Redemptoris è un’Enciclica magistrale del Pontefice Pio XI che ha per tema la denuncia della perversa ideologia comunista nei confronti della dottrina sociale della Chiesa Cattolica, diametralmente opposta, che da par suo, maestra dei popoli e luce per l’umanità tutta, l’ha definita in modo infallibile sulla scorta dei principi evangelici fissati dall’irreformabile Magistero apostolico. Il comunismo, già nome di una setta protestante della prosapia degli anabattisti, è l’ennesimo travestimento della gnosi e del panteismo satanico. In realtà l’idea che soggiace all’apparente truffaldina filantropia pro poveri-operai, è che, poiché tutto l’universo è Dio stesso in espansione evolutiva, e noi tutti siamo fiammelle divine, cioè parti di Dio: … ergo, tutti abbiamo il diritto di possedere tutto, e nessuno può arrogarsi il diritto di appropriarsi di una cosa qualsiasi che invece, essendo parte immanente di Dio, appartiene a tutti (… case, campi, donne e figli compresi). Questa idea bislacca o se volete, tragicomica (.. che era già quella stessa di Platone e dei neoplatonici alessandrini, oltre che degli gnostici di ogni tempo e di ogni latitudine…), ovviamente suggerita dal serpente maledetto ai suoi adepti, tutti aderenti a logge massoniche o professanti culti magico-esoterici, è esattamente all’opposto dell’insegnamento apostolico come sottolinea il Santo Padre nella presente enciclica: « … Conseguentemente Dio l’ha dotato – l’uomo – di molteplici e svariate prerogative: diritto alla vita, all’integrità del corpo, ai mezzi necessari all’esistenza; diritto di tendere al suo ultimo fine nella via tracciata da Dio; diritto all’associazione, alla proprietà, e all’uso della proprietà ». Se pensiamo che la setta gnostico-modernista insediata in Vaticano – là dove abita satana, dice l’Apocalisse –, deponendo la sua maschera luciferina, professa oggi la stessa dottrina marxista che nega la proprietà privata in nome di un pauperismo spacciato come francescano – che è però quello dei condannati con l’anatema da Giovanni XXII, i “fraticelli” medioevali, la setta che tra i suoi eretici simpatizzanti annoverava nientemeno che lo gnostico-sodomita, il nemico giurato del primato Pontificio e del Vicario di Cristo, lo scopiazzatore di poemi arabi, ma sì, proprio lui: Dante Alighieri, mascherato – per fuggire all’inquisizione – da tomista ipocrita … ma questa è un’altra storia anche se la radice è la medesima, per appunto il panteismo anticristiano. Ed ancora il comunismo ha oggi assunto un aspetto da farsa teatrale mondialista in mano a poche vipere della razza – come li stroncava s. Giovanni Battista-, imponendosi col terrore mediatico sanitario e finanziario, a braccetto con la bestia del falso Cristianesimo degli apostati montini-conciliari che “reggono il moccolo”, in attesa di imporre la religione unica mondiale, quella noachide del Corona-lucifero e della statua della bestia dell’anticristo da porre in adorazione “controllata da chip sottopelle” nel tempio santo. – Per il resto l’Enciclica è un documento straordinario che non ha bisogno di commenti, ma solo di riflessione e – per chi ha ancora qualche neurone funzionante – di santa condivisione.

LETTERA ENCICLICA

DIVINI REDEMPTORIS

DEL SOMMO PONTEFICE

PIO XI

AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI CHE HANNO PACE E COMUNIONE CON LA SEDE APOSTOLICA,

SUL COMUNISMO ATEO

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

1. – La promessa di un divino Redentore illumina la prima pagina della storia dell’umanità; e così la fiduciosa speranza di tempi migliori lenì il rimpianto del « paradiso » perduto e accompagnò il genere umano nel suo tribolato cammino, « finché nella pienezza dei tempi » il Salvatore del mondo, venendo sulla terra, compì l’attesa e inaugurò una nuova civiltà universale, la civiltà cristiana, immensamente superiore a quella che l’uomo aveva fino allora laboriosamente raggiunto in alcune nazioni più privilegiate.

2. – Ma la lotta fra il bene e il male rimase nel mondo come triste retaggio della colpa originale; e l’antico tentatore non ha mai desistito dall’ingannare l’umanità con false promesse. Perciò nel corso dei secoli uno sconvolgimento è succeduto all’altro fino alla rivoluzione dei nostri giorni, la quale o già imperversa o seriamente minaccia, si può dire, dappertutto e supera in ampiezza e violenza quanto si ebbe a sperimentare nelle precedenti persecuzioni contro la Chiesa. Popoli interi si trovano nel pericolo di ricadere in una barbarie peggiore di quella in cui ancora giaceva la maggior parte del mondo all’apparire del Redentore.

3. – Questo pericolo tanto minaccioso, Voi l’avete già compreso, Venerabili Fratelli, è il « comunismo bolscevico » ed ateo che mira a capovolgere l’ordinamento sociale e a scalzare gli stessi fondamenti della civiltà cristiana.

I

ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA DI FRONTE AL COMUNISMO

CONDANNE ANTERIORI

4. – Di fronte a tale minaccia la Chiesa Cattolica non poteva tacere e non tacque. Non tacque specialmente questa Sede Apostolica, che sa essere sua specialissima missione la difesa della verità e della giustizia e di tutti quei beni eterni che il comunismo misconosce e combatte. Fin dai tempi in cui i circoli colti pretesero liberare la civiltà umana dai legami della morale e della religione, i Nostri Predecessori attirarono l’attenzione del mondo apertamente ed esplicitamente alle conseguenze della scristianizzazione della società umana. E quanto al comunismo, già fin dal 1846 il venerato Nostro Predecessore Pio IX di s. mem. pronunciò solenne condanna, confermata poi nel Sillabo, contro « quella nefanda dottrina del cosiddetto comunismo sommamente contraria allo stesso diritto naturale, la quale, una volta ammessa, porterebbe al radicale sovvertimento dei diritti, delle cose, delle proprietà di tutti, e della stessa società umana » . Più tardi, l’altro Nostro Predecessore d’immortale memoria, Leone XIII, nell’Enciclica Quod Apostolici muneris lo definiva « peste distruggitrice, la quale, intaccando il midollo della società umana, la condurrebbe alla rovina »; e con chiara visione indicava che i movimenti atei delle masse nell’epoca del tecnicismo traevano origine da quella filosofia, che già da secoli cercava separare la scienza e la vita dalla fede e dalla Chiesa.

ATTI DEL PRESENTE PONTIFICATO

5. – Noi pure durante il Nostro pontificato abbiamo sovente e con premurosa insistenza denunziate le correnti atee minacciosamente crescenti. Quando nel 1924 la Nostra missione di soccorso ritornava dall’Unione Sovietica, Ci siamo pronunziati contro il comunismo in apposita Allocuzione diretta al mondo intero. Nelle Nostre Encicliche Miserentissimus Redemptor, Quadragesimo anno, Caritate Christi, Acerba animi, Dilectissima Nobis, abbiamo elevato solenne protesta contro le persecuzioni scatenate ora in Russia, ora nel Messico, ora nella Spagna; né si è ancora spenta l’eco universale di quelle allocuzioni da Noi tenute l’anno scorso in occasione dell’inaugurazione della Mostra mondiale della stampa cattolica, dell’udienza ai profughi spagnoli e del Messaggio radiofonico per la festa del Santo Natale. Persino gli stessi più accaniti nemici della Chiesa, i quali da Mosca dirigono questa lotta contro la civiltà cristiana, con i loro ininterrotti attacchi a parole e a fatti rendono testimonianza che il Papato, anche ai giorni nostri, ha continuato fedelmente a tutelare il santuario della Religione Cristiana, e più frequentemente e in modo più persuasivo che qualsiasi altra pubblica autorità terrena ha richiamato l’attenzione sul pericolo comunista.

NECESSITÀ DI UN ALTRO DOCUMENTO SOLENNE

6. – Ma nonostante questi ripetuti avvertimenti paterni, che sono stati da Voi, Venerabili Fratelli, con Nostra grande soddisfazione, così fedelmente trasmessi e commentati ai fedeli con tante vostre recenti lettere pastorali anche collettive, il pericolo sotto la spinta di abili agitatori non fa che aggravarsi di giorno in giorno. Perciò Noi Ci crediamo in dovere di elevare di nuovo la Nostra voce con un documento ancora più solenne, com’è costume di questa Sede Apostolica, maestra di verità, e come lo rende naturale il fatto che un tale documento è nel desiderio di tutto il mondo cattolico. E confidiamo che l’eco della Nostra voce giunga dovunque si trovino menti scevre di pregiudizi e cuori sinceramente desiderosi del bene dell’umanità; tanto più che la Nostra parola ora viene dolorosamente avvalorata dalla vista dei frutti amari delle idee sovversive, quali Noi abbiamo previsti e preannunziati e che si vanno paurosamente moltiplicando nei paesi già dominati dal comunismo e che minacciosamente incombono agli altri paesi del mondo.

7. – Noi, quindi, vogliamo ancora una volta esporre in breve sintesi i princìpi del comunismo ateo come si manifestano principalmente nel bolscevismo, con i suoi metodi di azione, contrapponendo a questi falsi princìpi la luminosa dottrina della Chiesa ed inculcando di nuovo con insistenza i mezzi con i quali la civiltà cristiana, sola civiltà veramente umana, può essere salvata da questo satanico flagello e maggiormente sviluppata, per il vero benessere dell’umana società.

II

DOTTRINA E FRUTTI DEL COMUNISMO

DOTTRINA

Falso ideale

8. – Il comunismo di oggi, in modo più accentuato di altri simili movimenti del passato, nasconde in sé un’idea di falsa redenzione. Uno pseudo-ideale di giustizia, di uguaglianza e di fraternità nel lavoro, pervade tutta la sua dottrina, e tutta la sua attività d’un certo falso misticismo, che alle folle adescate da fallaci promesse comunica uno slancio e un entusiasmo contagioso, specialmente in un tempo come il nostro, in cui da una distribuzione difettosa delle cose di questo mondo risulta una miseria non consueta. Si vanta anzi questo pseudo-ideale come se fosse stato iniziatore di un certo progresso economico, il quale, quando è reale, si spiega con ben altre cause, come con l’intensificare la produzione industriale in paesi che ne erano quasi privi, valendosi anche di enormi ricchezze naturali, e con l’uso di metodi brutali per fare ingenti lavori con poca spesa.

Materialismo evoluzionistico di Marx

9. – La dottrina che il comunismo nasconde sotto apparenze talvolta così seducenti, in sostanza oggi si fonda sui princìpi già predicati da C. Marx del materialismo dialettico e del materialismo storico, di cui i teorici del bolscevismo pretendono possedere l’unica genuina interpretazione. Questa dottrina insegna che esiste una sola realtà, la materia, con le sue forze cieche, la quale evolvendosi diventa pianta, animale, uomo. Anche la società umana non ha altro che un’apparenza e una forma della materia che si evolve nel detto modo, e per ineluttabile necessità tende, in un perpetuo conflitto delle forze, verso la sintesi finale: una società senza classi. In tale dottrina, com’è evidente, non vi è posto per l’idea di Dio, non esiste differenza fra spirito e materia, né tra anima e corpo; non si dà sopravvivenza dell’anima dopo la morte, e quindi nessuna speranza in un’altra vita. Insistendo sull’aspetto dialettico del loro materialismo, i comunisti pretendono che il conflitto, che porta il mondo verso la sintesi finale, può essere accelerato dagli uomini. Quindi si sforzano di rendere più acuti gli antagonismi che sorgono fra le diverse classi della società; e la lotta di classe, con i suoi odi e le sue distruzioni, prende l’aspetto d’una crociata per il progresso dell’umanità. Invece, tutte le forze, quali che esse siano, che resistono a quelle violenze sistematiche, debbono essere annientate come nemiche del genere umano.

A che cosa si riducono l’uomo e la famiglia

10. – Inoltre il comunismo spoglia l’uomo della sua libertà, principio spirituale della sua condotta morale; toglie ogni dignità alla persona umana e ogni ritegno morale contro l’assalto degli stimoli ciechi. All’uomo individuo non è riconosciuto, di fronte alla collettività, alcun diritto naturale della personalità umana, essendo essa, nel comunismo, semplice ruota e ingranaggio del sistema. Nelle relazioni poi degli uomini fra loro è sostenuto il principio dell’assoluta uguaglianza, rinnegando ogni gerarchia e ogni autorità che sia stabilita da Dio, compresa quella dei genitori; ma tutto ciò che tra gli uomini esiste della cosiddetta autorità e subordinazione, tutto deriva dalla collettività come da primo e unico fonte. Né viene accordato agli individui diritto alcuno di proprietà sui beni di natura e sui mezzi di produzione, poiché, essendo essi sorgente di altri beni, il loro possesso condurrebbe al potere di un uomo sull’altro. Per questo appunto dovrà essere distrutta radicalmente questa sorta di proprietà privata, come la prima sorgente di ogni schiavitù economica.

11. – Rifiutando alla vita umana ogni carattere sacro e spirituale, una tale dottrina naturalmente fa del matrimonio e della famiglia una istituzione puramente artificiale e civile, ossia il frutto di un determinato sistema economico; viene rinnegata l’esistenza di un vincolo matrimoniale di natura giuridico-morale che sia sottratto al beneplacito dei singoli o della collettività, e, conseguentemente, l’indissolubilità di esso. In particolare per il comunismo non esiste alcun legame della donna con la famiglia e con la casa. Esso, proclamando il principio dell’emancipazione della donna, la ritira dalla vita domestica e dalla cura dei figli per trascinarla nella vita pubblica e nella produzione collettiva nella stessa misura che l’uomo, devolvendo alla collettività la cura del focolare e della prole. È negato infine ai genitori il diritto di educare, essendo questo concepito come un diritto esclusivo della comunità, nel cui nome soltanto e per suo mandato i genitori possono esercitarlo.

Che cosa diventerebbe la società

12 – Che cosa sarebbe dunque la società umana, basata su tali fondamenti materialistici? Sarebbe una collettività senz’altra gerarchia che quella del sistema economico. Essa avrebbe come unica missione la produzione dei beni per mezzo del lavoro collettivo e per fine il godimento dei beni della terra in un paradiso in cui ciascuno « darebbe secondo le sue forze, e riceverebbe secondo i suoi bisogni ». Alla collettività il comunismo riconosce il diritto, o piuttosto l’arbitrio illimitato, di aggiogare gli individui al lavoro collettivo, senza riguardo al loro benessere personale, anche contro la loro volontà e persino con la violenza. In essa tanto la morale quanto l’ordine giuridico non sarebbero se non un’emanazione del sistema economico del tempo, di origine quindi terrestre, mutevole e caduca. In breve, si pretende di introdurre una nuova epoca e una nuova civiltà, frutto soltanto di una cieca evoluzione: « una umanità senza Dio ».

13. – Quando poi le qualità collettive saranno finalmente acquisite da tutti, in quella condizione utopistica di una società senza alcuna differenza di classi, lo Stato politico, che ora si concepisce solo come lo strumento di dominazione dei capitalisti sui proletari, perderà ogni sua ragione d’essere e si « dissolverà »; però, finché questa beata condizione non sarà attuata, lo Stato e il potere statale sono per il comunismo il mezzo più efficace e più universale per conseguire il suo fine.

14. – Ecco, Venerabili Fratelli, il nuovo presunto Vangelo, che il comunismo bolscevico ed ateo annunzia all’umanità, quasi messaggio salutare e redentore! Un sistema, pieno di errori e sofismi, contrastante sia con la ragione sia con la rivelazione divina; sovvertitore dell’ordine sociale, perché equivale alla distruzione delle sue basi fondamentali, misconoscitore della vera origine della natura e del fine dello Stato, negatore dei diritti della personalità umana, della sua dignità e libertà.

DIFFUSIONE

Abbaglianti promesse

15. – Ma come mai può avvenire che un tale sistema, scientificamente da lungo tempo sorpassato, confutato dalla realtà pratica; come può avvenire, diciamo, che un tale sistema possa diffondersi così rapidamente in tutte le parti del mondo? La spiegazione sta nel fatto che assai pochi hanno potuto penetrare la vera natura del comunismo; i più invece cedono alla tentazione abilmente presentata sotto le più abbaglianti promesse. Con il pretesto che si vuole soltanto migliorare la sorte delle classi lavoratrici, togliere abusi reali prodotti dall’economia liberale e ottenere una più equa distribuzione dei beni terreni (scopi senza dubbio pienamente legittimi), e approfittando della mondiale crisi economica, si riesce ad attirare nella sfera d’influenza del comunismo anche quei ceti della popolazione che per principio rigettano ogni materialismo e ogni terrorismo. E siccome ogni errore contiene sempre una parte di vero, questo lato della verità che abbiamo accennato, messo astutamente in mostra a tempo e luogo per coprire, quando conviene, la crudezza ributtante e inumana dei princìpi e dei metodi del comunismo, seduce anche spiriti non volgari, fino a diventarne a loro volta gli apostoli presso giovani intelligenze ancora poco atte ad avvertirne gli intrinseci errori. I banditori del comunismo sanno inoltre approfittare anche degli antagonismi di razza, delle divisioni od opposizioni di diversi sistemi politici, perfino del disorientamento nel campo della scienza senza Dio, per infiltrarsi nelle Università e corroborare i princìpi della loro dottrina con argomenti pseudo-scientifici.

Il liberalismo gli ha preparato la strada

16. – Per spiegare poi come il comunismo sia riuscito a farsi accettare senza esame da tante masse di operai, conviene ricordarsi che questi vi erano già preparati dall’abbandono religioso e morale nel quale erano stati lasciati dall’economia liberale. Con i turni di lavoro anche domenicale non si dava loro tempo neppur di soddisfare ai più gravi doveri religiosi nei giorni festivi; non si pensava a costruire chiese presso le officine né a facilitare l’opera del sacerdote; anzi si continuava a promuovere positivamente il laicismo. Si raccoglie dunque ora l’eredità di errori dai Nostri Predecessori e da Noi stessi tante volte denunciati, e non è da meravigliarsi che in un mondo già largamente scristianizzato dilaghi l’errore comunista.

Propaganda astuta e vastissima

17. – Inoltre la diffusione così rapida delle idee comuniste, che si infiltrano in tutti i paesi grandi e piccoli, colti e meno sviluppati, sicché nessun angolo della terra è libero da esse, si spiega con una propaganda veramente diabolica quale forse il mondo non ha mai veduto: propaganda diretta da un solo centro e che abilissimamente si adatta alle condizioni dei diversi popoli; propaganda che dispone di grandi mezzi finanziari, di gigantesche organizzazioni, di congressi internazionali, di innumerevoli forze ben addestrate; propaganda che si fa attraverso fogli volanti e riviste, nei cinematografi, nei teatri, con la radio, nelle scuole e persino nelle Università, penetrando a poco a poco in tutti i ceti delle popolazioni anche migliori, senza che quasi si accorgano del veleno che sempre più pervade le menti e i cuori.

Congiura del silenzio nella stampa

18 – Un terzo potente aiuto al diffondersi del comunismo è una vera congiura del silenzio in grande parte della stampa mondiale non cattolica. Diciamo congiura, perché non si può altrimenti spiegare che una stampa così avida di mettere in rilievo anche i piccoli incidenti quotidiani, abbia potuto per tanto tempo tacere degli orrori commessi in Russia, nel Messico e anche in gran parte della Spagna, e parli relativamente così poco d’una tanto vasta organizzazione mondiale quale è il comunismo di Mosca. Questo silenzio è dovuto in parte a ragioni di una politica meno previdente, ed è favorito da varie forze occulte le quali da tempo cercano di distruggere l’ordine sociale cristiano.

DOLOROSI EFFETTI

Russia e Messico

19. – Intanto i dolorosi effetti di quella propaganda ci stanno dinanzi. Dove il comunismo ha potuto affermarsi e dominare — e qui Noi pensiamo con singolare affetto paterno ai popoli della Russia e del Messico —, ivi si è sforzato con ogni mezzo di distruggere (e lo proclama apertamente) fin dalle loro basi la civiltà e la religione cristiana, spegnendone nel cuore degli uomini, specie della gioventù, ogni ricordo. Vescovi e sacerdoti sono stati banditi, condannati ai lavori forzati, fucilati e messi a morte in maniera inumana; semplici laici, per aver difeso la religione, sono stati sospettati, vessati, perseguitati e trascinati nelle prigioni e davanti ai tribunali.

Orrori del comunismo nella Spagna

20. – Anche là dove, come nella Nostra carissima Spagna il flagello comunista non ha avuto ancora il tempo di far sentire tutti gli effetti delle sue teorie, vi si è, in compenso, scatenato purtroppo con una violenza più furibonda. Non si è abbattuta l’una o l’altra chiesa, questo o quel chiostro, ma quando fu possibile si distrusse ogni chiesa e ogni chiostro e qualsiasi traccia di religione cristiana, anche se legata ai più insigni monumenti d’arte e di scienza! Il furore comunista non si è limitato ad uccidere Vescovi e migliaia di sacerdoti, di religiosi e religiose, cercando in modo particolare quelli e quelle che proprio si occupavano con maggior impegno degli operai e dei poveri; ma fece un numero molto maggiore di vittime tra i laici di ogni ceto, che fino al presente vengono, si può dire ogni giorno, trucidati a schiere per il fatto di essere buoni cristiani o almeno contrari all’ateismo comunista. E una tale spaventevole distruzione viene eseguita con un odio, una barbarie e una efferatezza che non si sarebbero creduti possibili nel nostro secolo. – Non vi può essere uomo privato, che pensi saggiamente, né uomo di Stato, consapevole della sua responsabilità, che non rabbrividisca al pensiero che quanto oggi accade in Ispagna non abbia forse a ripetersi domani in altre nazioni civili. Frutti naturali del sistema

21. – Né si può dire che tali atrocità siano un fenomeno transitorio solito ad accompagnarsi a qualunque grande rivoluzione, isolati eccessi di esasperazione comuni ad ogni guerra; no, sono frutti naturali del sistema, che manca di ogni freno interno. Un freno è necessario all’uomo, sia individuo, sia in società. Anche i popoli barbari ebbero questo freno nella legge naturale scolpita da Dio nell’animo di ciascun uomo. E quando questa legge naturale venne meglio osservata, si videro antiche nazioni assurgere ad una grandezza che abbaglia ancora, più di quel che converrebbe, certi superficiali studiosi della storia umana. Ma se si strappa dal cuore degli uomini l’idea stessa di Dio, essi necessariamente sono dalle loro passioni sospinti alla più efferata barbarie.

Lotta contro tutto ciò che è divino

22. – È quello che purtroppo stiamo vedendo: per la prima volta nella storia stiamo assistendo ad una lotta freddamente voluta, e accuratamente preparata dell’uomo contro « tutto ciò che è divino ». Il comunismo è per sua natura antireligioso, e considera la religione come « l’oppio del popolo » perché i princìpi religiosi che parlano della vita d’oltre tomba, distolgono il proletario dal mirare al conseguimento del paradiso sovietico, che è di questa terra.

Il terrorismo

23. – Ma non si calpesta impunemente la legge naturale e l’Autore di essa: il comunismo non ha potuto né potrà ottenere il suo intento neppure nel campo puramente economico. È vero che nella Russia ha potuto contribuire a scuotere uomini e cose da una lunga e secolare inerzia, e ottenere con ogni sorta di mezzi, spesso senza scrupoli, qualche successo materiale; ma sappiamo per testimonianze non sospette, anche recentissime, che di fatto neppur là ha raggiunto lo scopo che aveva promesso; senza contare poi la schiavitù che il terrorismo ha imposto a milioni di uomini. Anche nel campo economico è pur necessaria qualche morale, qualche sentimento della responsabilità, che invece non trova posto in un sistema prettamente materialistico come il comunismo. Per sostituirlo non rimane che il terrorismo, quale appunto vediamo ora nella Russia, dove gli antichi compagni di congiura e di lotta si dilaniano a vicenda; un terrorismo, il quale per altro non riesce ad arginare né la corruzione dei costumi, e neppure il dissolvimento della compagine sociale.

UN PATERNO PENSIERO AI POPOLI OPPRESSI IN RUSSIA

24. – Con questo però non vogliamo in nessuna maniera condannare in massa i popoli dell’Unione Sovietica, per i quali nutriamo il più vivo affetto paterno. Sappiamo che non pochi di essi gemono sotto il duro giogo loro imposto con la forza da uomini in massima parte estranei ai veri interessi del paese, e riconosciamo che molti altri furono ingannati da fallaci speranze. Noi colpiamo il sistema e i suoi autori e fautori, i quali hanno considerato la Russia come terreno più adatto per introdurre in pratica un sistema già elaborato da decenni, e di là continuano a propagarlo in tutto il mondo.

III

OPPOSTA LUMINOSA DOTTRINA DELLA CHIESA

25. – Esposti così gli errori e i mezzi violenti e ingannevoli del comunismo bolscevico ed ateo, è tempo ormai, Venerabili Fratelli, di opporgli brevemente la vera nozione della civiltà umana, della umana Società, quale ce l’insegnano la ragione e la rivelazione per il tramite della Chiesa Magistra gentium, e quale Voi già conoscete.

SUPREMA REALTÀ: DIO!

26. – Al di sopra di ogni altra realtà sta il sommo, unico supremo Essere, Dio, Creatore onnipotente di tutte le cose, Giudice sapientissimo e giustissimo di tutti gli uomini. Questa suprema realtà, Dio, è la condanna più assoluta delle impudenti menzogne del comunismo. E in verità, non perché gli uomini credono, Dio è; ma perché Egli è, perciò lo crede e lo prega chiunque non chiuda volontariamente gli occhi di fronte alla verità.

CHE COSA SONO L’UOMO E LA FAMIGLIA SECONDO LA RAGIONE E LA FEDE

27. – Quanto a ciò che la ragione e la fede dicono dell’uomo, Noi abbiamo esposto i punti fondamentali nell’Enciclica sull’educazione cristiana. L’uomo ha un’anima spirituale e immortale; è una persona, dal Creatore ammirabilmente fornita di doni di corpo e di spirito, un vero « microcosmo » come dicevano gli antichi, un piccolo mondo, che vale di gran lunga più di tutto l’immenso mondo inanimato. Egli ha in questa e nell’altra vita solo Dio per ultimo fine; è dalla grazia santificante elevato al grado di figlio di Dio e incorporato al regno di Dio nel mistico Corpo di Cristo. Conseguentemente Dio l’ha dotato di molteplici e svariate prerogative: diritto alla vita, all’integrità del corpo, ai mezzi necessari all’esistenza; diritto di tendere al suo ultimo fine nella via tracciata da Dio; diritto all’associazione, alla proprietà, e all’uso della proprietà.

28. – Come il matrimonio e il diritto all’uso naturale di esso sono di origine divina, così anche la costituzione e le prerogative fondamentali della famiglia sono state determinate e fissate dal Creatore stesso, non dall’arbitrio umano né da fattori economici. Nell’Enciclica sul matrimonio cristiano e nell’altra Nostra, sopra accennata, sull’educazione, Ci siamo largamente diffusi su questi argomenti.

CHE COSA È LA SOCIETÀ

Mutui diritti e doveri tra l’uomo e la società

29. – Ma Dio ha in pari tempo ordinato l’uomo anche alla società civile, richiesta dalla sua stessa natura. Nel piano del Creatore la società è un mezzo naturale, di cui l’uomo può e deve servirsi per il raggiungimento del suo fine, essendo la società umana per l’uomo, e non viceversa. Ciò non è da intendersi nel senso del liberalismo individualistico, che subordina la società all’uso egoistico dell’individuo; ma solo nel senso che, mediante l’unione organica con la società, sia a tutti resa possibile per la mutua collaborazione l’attuazione della vera felicità terrena; inoltre nel senso che nella società trovano sviluppo tutte le doti individuali e sociali, inserite nella natura umana, le quali sorpassano l’immediato interesse del momento e rispecchiano nella società la perfezione divina: ciò nell’uomo isolato non potrebbe verificarsi. Ma anche quest’ultimo scopo è in ultima analisi in ordine all’uomo, perché riconosca questo riflesso della perfezione divina, e lo rimandi così in lode e adorazione al Creatore. Solo l’uomo, la persona umana, e non una qualsiasi società umana, è dotato di ragione e di volontà moralmente libera.

30. – Pertanto come l’uomo non può esimersi dai doveri voluti da Dio verso la società civile, e i rappresentanti dell’autorità hanno il diritto, quando egli si rifiutasse illegittimamente, di costringerlo al compimento del proprio dovere, così la società non può frodare l’uomo dei diritti personali, che gli sono stati concessi dal Creatore, i più importanti dei quali sono stati da Noi sopra accennati, né di rendergliene impossibile per principio l’uso. È quindi conforme alla ragione e da essa voluto che alla fin fine tutte le cose terrestri siano ordinate alla persona umana, affinché per mezzo suo esse trovino la via verso il Creatore. E si applica all’uomo, alla persona umana, ciò che l’Apostolo delle Genti scrive ai Corinti sull’economia della salvezza cristiana: «Tutto è vostro, voi siete di Cristo, Cristo è di Dio » . Mentre il comunismo impoverisce la persona umana, capovolgendo i termini della relazione dell’uomo e della società, la ragione e la rivelazione la elevano così in alto!

L’ordine economico-sociale

31. – Sull’ordine economico-sociale i princìpi direttivi sono stati esposti nell’Enciclica sociale di Leone XIII sulla questione del lavoro, e nella Nostra sulla ricostruzione dell’ordine sociale sono stati adattati alle esigenze del tempo presente. Poi, insistendo di nuovo sulla dottrina secolare della Chiesa, circa il carattere individuale e sociale della proprietà privata, Noi abbiamo precisato il diritto e la dignità del lavoro, i rapporti di vicendevole appoggio e aiuto che devono esistere tra quelli che detengono il capitale e quelli che lavorano, il salario dovuto per stretta giustizia all’operaio per sé e per la sua famiglia.

32. – Nella stessa Nostra Enciclica abbiamo mostrato che i mezzi per salvare il mondo attuale dalla triste rovina prodotta dal liberalismo amorale non consistono nella lotta di classe e nel terrore, e neppure nell’abuso autocratico del potere statale, ma nella penetrazione della giustizia sociale e del sentimento di amore cristiano nell’ordine economico e sociale. Abbiamo mostrato come una sana prosperità deve essere ricostruita secondo i veri princìpi di un sano corporativismo che rispetti la debita gerarchia sociale, e come tutte le corporazioni devono unirsi in un’armonica unità, ispirandosi al principio del bene comune della società. E la missione più genuina e principale del potere pubblico e civile consiste appunto nel promuovere efficacemente questa armonia e la coordinazione di tutte le forze sociali. Gerarchia sociale e prerogative dello Stato

33. – In vista di questa collaborazione organica per il conseguimento della tranquillità, la dottrina cattolica rivendica allo Stato la dignità e l’autorità di un vigilante e previdente difensore dei diritti divini e umani, sui quali le Sacre Scritture e i Padri della Chiesa insistono tanto spesso. Non è vero che tutti abbiamo uguali diritti nella società civile, e che non esista legittima gerarchia. Ci basti richiamarCi alle Encicliche di Leone XIII, sopra accennate, specialmente a quella sul potere dello Stato [18] e all’altra sopra la costituzione cristiana dello Stato [19]. In esse il cattolico trova esposti luminosamente i princìpi della ragione e della fede, che lo renderanno capace di proteggersi contro gli errori e i pericoli della concezione statale comunista. La spoliazione dei diritti e l’asservimento dell’uomo, il rinnegamento dell’origine prima e trascendente dello Stato e del potere statale, l’abuso orribile del potere pubblico a servizio del terrorismo collettivista sono proprio il contrario di ciò che corrisponde all’etica naturale e alla volontà del Creatore. Sia l’uomo sia la società civile traggono origine dal Creatore, e sono da Lui mutuamente ordinati l’uno all’altra; quindi nessuno dei due può esimersi dai doveri correlativi, né rinnegarne o menomarne i diritti. Il Creatore stesso ha regolato questo mutuo rapporto nelle sue linee fondamentali ed è ingiusta usurpazione quella che il comunismo si arroga, d’imporre cioè in luogo della legge divina basata sugli immutabili princìpi della verità e della carità, un programma politico di partito, che promana dall’arbitrio umano ed è pieno di odio.

BELLEZZA DI TALE DOTTRINA DELLA CHIESA

34. – La Chiesa, nell’insegnare questa luminosa dottrina, non ha altra mira che di attuare il felice annunzio cantato dagli Angeli sulla grotta di Betlemme alla nascita del Redentore: «Gloria a Dio… e… pace agli uomini… » ; pace vera e vera felicità, anche quaggiù quanto è possibile, in vista e in preparazione della felicità eterna, ma agli uomini di buona volontà. Questa dottrina è ugualmente lontana da tutti gli estremi dell’errore come da tutte le esagerazioni dei partiti o sistemi che vi aderiscono, si attiene sempre all’equilibrio della verità e della giustizia; lo rivendica nella teoria, lo applica e lo promuove nella pratica, conciliando i diritti e i doveri degli uni con quelli degli altri, come l’autorità con la libertà, la dignità dell’individuo con quella dello Stato, la personalità umana nel suddito con la rappresentanza divina nel superiore, e quindi la doverosa soggezione e l’amore ordinato di sé, della famiglia e della patria, con l’amore delle altre famiglie e degli altri popoli, fondato nell’amore di Dio, padre di tutti, primo principio ed ultimo fine. Essa non disgiunge la giusta cura dei beni temporali dalla sollecitudine degli eterni. Se quelli subordina a questi, secondo la parola del suo divino Fondatore: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato per giunta », è lungi dal disinteressarsi delle cose umane e dal nuocere ai progressi civili e ai vantaggi materiali; anzi li sostiene e li promuove nella più ragionevole ed efficace maniera. Così, anche nel campo economico-sociale, la Chiesa, benché non abbia mai offerto un determinato sistema tecnico, non essendo questo compito suo, ha però fissato chiaramente punti e linee che, pur prestandosi a diverse applicazioni concrete secondo le varie condizioni dei tempi, dei luoghi e dei popoli, indicano la via sicura per ottenere il felice progresso della società.

35. – La saggezza e la somma utilità di questa dottrina vengono ammesse da quanti veramente la conoscono. Ben a ragione insigni statisti poterono affermare che, dopo avere studiato i diversi sistemi sociali, non avevano trovato nulla di più sapiente che i princìpi esposti nelle Encicliche Rerum novarum e Quadragesimo anno. Ma anche in paesi non cattolici, anzi neppur cristiani, si riconosce quanto siano utili per la società umana le dottrine sociali della Chiesa; così, or fa appena un mese, un eminente uomo politico dell’estremo Oriente, non cristiano, non dubitò di proclamare che la Chiesa con la sua dottrina di pace e di fraternità cristiana porta un altissimo contributo allo stabilimento e al mantenimento della pace operosa tra le nazioni. Perfino gli stessi comunisti, come sappiamo dalle sicure relazioni che affluiscono da ogni parte a questo Centro della Cristianità, se non sono ancora del tutto corrotti, quando viene loro esposta la dottrina sociale della Chiesa, ne riconoscono la superiorità sulle dottrine dei loro capi e maestri. Soltanto gli accecati dalla passione e dall’odio chiudono gli occhi alla luce della verità e la combattono ostinatamente.

È VERO CHE LA CHIESA NON HA AGITO CONFORME A TALE DOTTRINA?

36. – Ma i nemici della Chiesa, pur costretti a riconoscere la sapienza della sua dottrina, rimproverano alla Chiesa di non aver saputo agire in conformità di quei princìpi, e perciò affermano di doversi cercare altre vie. Quanto questa accusa sia falsa e ingiusta lo dimostra tutta la storia del Cristianesimo. Per non accennare che a qualche punto caratteristico, fu il Cristianesimo a proclamare per primo, in una maniera e con un’ampiezza e convinzione sconosciute ai secoli precedenti, la vera e universale fratellanza di tutti gli uomini di qualunque condizione e stirpe, contribuendo così potentemente all’abolizione della schiavitù, non con sanguinose rivolte, ma per l’interna forza della sua dottrina, che alla superba patrizia romana faceva vedere nella sua schiava una sua sorella in Cristo. Fu il Cristianesimo, che adora il Figlio di Dio fattosi uomo per amor degli uomini e divenuto come « Figlio dell’Artigiano », anzi « Artigiano » Egli stesso, fu il Cristianesimo ad innalzare il lavoro manuale alla sua vera dignità; quel lavoro manuale prima tanto disprezzato, che perfino il discreto Marco Tullio Cicerone, riassumendo l’opinione generale del suo tempo, non si peritò di scrivere queste parole di cui ora si vergognerebbe ogni sociologo: «Tutti gli artigiani si occupano in mestieri spregevoli, poiché l’officina non può avere alcunché di nobile » .

37. – Fedele a questi princìpi, la Chiesa ha rigenerato la società umana; sotto il suo influsso sorsero mirabili opere di carità, potenti corporazioni di artigiani e lavoratori d’ogni categoria, derise bensì dal liberalismo del secolo scorso come cose da Medio Evo, ma ora rivendicate all’ammirazione dei nostri contemporanei che cercano in molti paesi di farne in qualche modo rivivere il concetto. E quando altre correnti intralciavano l’opera e ostacolavano l’influsso salutare della Chiesa, questa fino ai giorni nostri non desisteva dall’ammonire gli erranti. Basti ricordare con quanta fermezza, energia e costanza il Nostro Predecessore Leone XIII rivendicasse all’operaio il diritto di associazione, che il liberalismo dominante negli Stati più potenti si accaniva a negargli. E questo influsso della dottrina della Chiesa anche al presente è più grande che non sembri, perché grande e certo, benché invisibile e non facilmente mensurabile, è il predominio delle idee sui fatti.

38. – Si può ben dire con tutta verità che la Chiesa, a somiglianza di Cristo, passa attraverso i secoli « facendo del bene » a tutti. Non vi sarebbero né socialismo né comunismo se coloro che governavano i popoli non avessero disprezzato gli insegnamenti e i materni avvertimenti della Chiesa: essi invece hanno voluto, sulle basi del liberalismo e del laicismo, fabbricare altri edifici sociali, che sulle prime parevano potenti e grandiosi, ma ben presto si videro mancare di solidi fondamenti, e vanno miseramente crollando l’uno dopo l’altro, come deve crollare tutto ciò che non poggia sull’unica pietra angolare che è Gesù Cristo.

IV

RIMEDI E MEZZI

NECESSITÀ DI RICORRERE AI RIPARI

39. – Questa, Venerabili Fratelli, è la dottrina della Chiesa, l’unica che possa apportare vera luce, come in ogni altro campo, così anche nel campo sociale, e possa recare salvezza di fronte all’ideologia comunista. Ma bisogna che tale dottrina passi sempre più nella pratica della vita, secondo l’avvertimento dell’Apostolo San Giacomo: « Siate… operatori della parola e non semplici uditori, ingannando voi stessi »[24]; perciò quello che più urge al presente è adoperare con energia gli opportuni rimedi per opporsi efficacemente al minaccioso sconvolgimento che si va preparando. Nutriamo la ferma fiducia che almeno la passione con cui i figli delle tenebre giorno e notte lavorano alla loro propaganda materialistica e atea, valga a santamente stimolare i figli della luce ad uno zelo non dissimile, anzi maggiore, per l’onore della Maestà divina.

40. – Che cosa bisogna dunque fare, di quali rimedi servirsi per difendere Cristo e la civiltà cristiana contro quel pernicioso nemico? Come un padre nel cerchio della sua famiglia, Noi vorremmo intrattenerci quasi nell’intimità sui doveri che la grande lotta dei giorni nostri impone a tutti i figli della Chiesa, indirizzando il Nostro paterno avvertimento anche a quei figli che si sono allontanati da essa.

RINNOVAMENTO DELLA VITA CRISTIANA

Rimedio fondamentale

41. – Come in tutti i periodi più burrascosi della storia della Chiesa, così ancor oggi il fondamentale rimedio è un sincero rinnovamento di vita privata e pubblica secondo i princìpi del Vangelo in tutti coloro che si gloriano di appartenere all’Ovile di Cristo, affinché siano veramente il sale della terra che preservi la società umana da una tale corruzione.

42. – Con animo profondamente grato al Padre dei lumi, da cui discendono « ogni cosa ottima data e ogni dono perfetto », vediamo dappertutto consolanti segni di questo rinnovamento spirituale, non solo in tante anime singolarmente elette che in questi ultimi anni si sono innalzate al vertice della più sublime santità e in tante altre sempre più numerose che generosamente camminano verso la stessa luminosa meta, ma anche nel rifiorire di una pietà sentita e vissuta in tutti i ceti della società, anche nei più colti, come abbiamo rilevato nel Nostro recente Motu-proprio In multis solaciis del 28 ottobre scorso, in occasione del riordinamento della Pontificia Accademia delle Scienze.

43. – Non possiamo però negare che molto ancora resta da fare su questa via del rinnovamento spirituale. Anche in paesi cattolici, troppi sono coloro che sono cattolici quasi solo di nome; troppi coloro che, pur seguendo più o meno fedelmente le pratiche più essenziali della religione che si vantano di professare, non si curano di conoscerla meglio, di acquistarne una più intima e più profonda convinzione, e meno ancora di far sì che all’esterna vernice corrisponda l’interno splendore di una coscienza retta e pura, che sente e compie tutti i suoi doveri sotto lo sguardo di Dio. Sappiamo quanto il Divin Salvatore aborrisse questa vana e fallace esteriorità, Egli che voleva che tutti adorassero il Padre « in spirito e verità ». Chi non vive veramente e sinceramente secondo la fede che professa, non potrà oggi, mentre tanto gagliardo soffia il vento della lotta e della persecuzione, reggersi a lungo, ma verrà miseramente travolto da questo nuovo diluvio che minaccia il mondo, e così mentre si prepara da sé la propria rovina, esporrà al ludibrio anche il nome Cristiano.

Distacco dai beni terreni

44. – E qui vogliamo, Venerabili Fratelli, insistere più particolarmente sopra due insegnamenti del Signore, che hanno speciale connessione con le attuali condizioni del genere umano: il distacco dai beni terreni e il precetto della carità. «Beati i poveri di spirito » furono le prime parole che uscirono dalle labbra del Divino Maestro, nel suo sermone della montagna [28]. E questa lezione è più che mai necessaria in questi tempi di materialismo assetato dei beni e piaceri di questa terra. Tutti i cristiani, ricchi o poveri, devono sempre tener fisso lo sguardo al cielo, ricordandosi che « non abbiamo qui una città permanente, ma cerchiamo quella avvenire ». I ricchi non devono porre nelle cose della terra la loro felicità né indirizzare al conseguimento di quelle i loro sforzi migliori; ma, considerandosene solo come amministratori che sanno di doverne rendere conto al supremo Padrone, se ne valgano come di mezzi preziosi che Dio loro porge per fare del bene; e non lascino di distribuire ai poveri quello che loro avanza, secondo il precetto evangelico [30]. Altrimenti si verificherà di loro e delle loro ricchezze la severa sentenza di San Giacomo Apostolo: « Su via adesso, o ricchi, piangete, urlate a motivo delle miserie che verranno sopra di voi. Le vostre ricchezze si sono imputridite e le vostre vesti sono state ròse dalle tignole. L’oro e l’argento vostro sono arrugginiti; e la loro ruggine sarà una testimonianza contro di voi, e come fuoco divorerà le vostre carni. Avete accumulato tesori d’ira, per gli ultimi giorni…» .

45. – Ma anche i poveri, a loro volta, pur adoperandosi secondo le leggi della carità e della giustizia a provvedersi del necessario e anche a migliorare la loro condizione, devono sempre rimanere essi pure « poveri di spirito » , stimando più i beni spirituali che i beni e i godimenti terreni. Si ricordino poi che non si riuscirà mai a fare scomparire dal mondo le miserie, i dolori, le tribolazioni, alle quali sono soggetti anche coloro che all’apparenza sembrano più fortunati. Quindi, per tutti è necessaria la pazienza, quella pazienza cristiana che solleva il cuore alle divine promesse di una felicità eterna. « Siate dunque pazienti, o fratelli, — vi diremo ancora con San Giacomo — sino alla venuta del Signore. Ecco, l’agricoltore aspetta il prezioso frutto della terra, e l’aspetta con pazienza finché riceva le primizie e i frutti successivi. Siate anche voi pazienti, e rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina » . Solo così si adempirà la consolante promessa del Signore: «Beati i poveri! » E non è questa una consolazione e una promessa vana come sono le promesse dei comunisti; ma sono parole di vita che contengono una somma realtà e che si verificano pienamente qui in terra e poi nell’eternità. Quanti poveri, infatti, in queste parole e nell’aspettativa del regno dei cieli, che è già proclamato loro proprietà: « perché il regno di Dio è vostro »[34], trovano una felicità, che tanti ricchi non trovano nelle loro ricchezze, sempre inquieti e sempre assetati come sono di averne di più.

Carità cristiana

46. – Ancora più importante, come rimedio del male di cui trattiamo, o certo più direttamente ordinato a risanarlo, è il precetto della carità. Noi pensiamo a quella carità cristiana, « paziente e benigna », la quale evita ogni aria di avvilente protezione e ogni ostentazione; quella carità che fin dagli inizi del Cristianesimo guadagnò a Cristo i più poveri tra i poveri, gli schiavi; e ringraziamo tutti coloro che nelle opere di beneficenza, dalle conferenze di San Vincenzo de’ Paoli fino alle grandi recenti organizzazioni d’assistenza sociale, hanno esercitato ed esercitano le opere della misericordia corporale e spirituale. Quanto più gli operai e i poveri sperimenteranno in se stessi ciò che lo spirito dell’amore animato dalla virtù di Cristo fa per essi, tanto più si spoglieranno del pregiudizio che il Cristianesimo abbia perduto della sua efficacia e la Chiesa stia dalla parte di quelli che sfruttano il loro lavoro.

47. – Ma quando vediamo da un lato una folla di indigenti, che per varie ragioni indipendenti da loro sono veramente oppressi dalla miseria, e dall’altro lato, accanto ad essi, tanti che si divertono spensieratamente e spendono enormi somme in cose inutili, non possiamo non riconoscere con dolore che non solo non è ben osservata la giustizia, ma che pure il precetto della carità cristiana non è approfondito abbastanza, non è vissuto nella pratica quotidiana. Desideriamo pertanto, Venerabili Fratelli, che venga sempre più illustrato con la parola e con gli scritti questo divino precetto, preziosa tessera di riconoscimento lasciata da Cristo ai suoi veri discepoli; questo precetto, che c’insegna a vedere nei sofferenti Gesù stesso e ci impone di amare i nostri fratelli come il divin Salvatore ha amato noi, cioè fino al sacrificio di noi stessi e, se occorre, anche della propria vita. Si meditino poi da tutti e spesso quelle parole, per una parte consolanti ma per l’altra terribili, della sentenza finale, che pronuncerà il Giudice Supremo nel giorno dell’estremo Giudizio: «Venite, o benedetti dal Padre mio: … perché io ebbi fame, e voi mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere… In verità vi dico che tutte le volte che avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi tra i miei fratelli, l’avete fatta a me » . E di contro: «Andate via da me, maledetti nel fuoco eterno…: perché io ebbi fame, e voi non mi deste da mangiare; ebbi sete, e non mi deste da bere… Io vi dico in verità che tutte le volte che voi non l’avete fatto a uno di questi minimi tra i miei fratelli, non l’avete fatto a me » .

48. – Per assicurarsi dunque la vita eterna e poter efficacemente soccorrere gli indigenti, è necessario ritornare ad una vita più modesta; rinunziare ai godimenti, spesso anche peccaminosi, che il mondo oggi offre in tanta abbondanza; dimenticare se stesso per l’amore del prossimo. Una divina forza rigeneratrice si trova in questo « precetto nuovo » (come Gesù lo chiamava) di carità cristiana, la cui fedele osservanza infonderà nei cuori un’interna pace sconosciuta al mondo, e rimedierà efficacemente ai mali che travagliano l’umanità. Doveri di stretta giustizia

49. – Ma la carità non sarà mai vera carità se non terrà sempre conto della giustizia. L’Apostolo insegna che « chi ama il prossimo, ha adempiuto la legge »; e ne dà la ragione: « poiché il Non fornicare, Non uccidere, Non rubare, … e qualsiasi altro precetto, si riassume in questa formula: Amerai il tuo prossimo come te stesso » . Se dunque, secondo l’Apostolo, tutti i doveri si riducono al solo precetto della vera carità, anche quelli che sono di stretta giustizia, come il non uccidere e il non rubare; una carità che privi l’operaio del salario a cui ha stretto diritto, non è carità, ma un vano nome e una vuota apparenza di carità. Né l’operaio ha bisogno di ricevere come elemosina ciò che a lui tocca per giustizia; né si può tentare di esimersi dai grandi doveri imposti dalla giustizia con piccoli doni di misericordia. Carità e giustizia impongono dei doveri, spesso circa la stessa cosa, ma sotto diverso aspetto; e gli operai, a questi doveri altrui che li riguardano, sono giustamente sensibilissimi per ragione della loro stessa dignità.

50. – Perciò Ci rivolgiamo in modo particolare a voi, padroni e industriali cristiani, il cui compito è spesso tanto difficile perché voi portate la pesante eredità degli errori di un regime economico iniquo che ha esercitato il suo rovinoso influsso durante più generazioni; siate voi stessi memori della vostra responsabilità. È purtroppo vero che il modo di agire di certi ambienti cattolici ha contribuito a scuotere la fiducia dei lavoratori nella religione di Gesù Cristo. Essi non volevano capire che la carità cristiana esige il riconoscimento di certi diritti, che sono dovuti all’operaio e che la Chiesa gli ha esplicitamente riconosciuti. Come è da giudicarsi l’operato di quei padroni cattolici, i quali in qualche luogo sono riusciti ad impedire la lettura della Nostra Enciclica Quadragesimo anno, nelle loro chiese patronali? o di quegli industriali cattolici che si sono mostrati fino ad oggi gli avversari di un movimento operaio da Noi stessi raccomandato? E non è da deplorare che il diritto di proprietà, riconosciuto dalla Chiesa, sia stato talvolta usato per defraudare l’operaio del suo giusto salario e dei suoi diritti sociali?

Giustizia sociale

51. – Difatti, oltre la giustizia commutativa, vi è pure la giustizia sociale, che impone anch’essa dei doveri a cui non si possono sottrarre né i padroni né gli operai. Ed è appunto proprio della giustizia sociale l’esigere dai singoli tutto ciò che è necessario al bene comune. Ma come nell’organismo vivente non viene provvisto al tutto, se non si dà alle singole parti e alle singole membra tutto ciò di cui esse abbisognano per esercitare le loro funzioni; così non si può provvedere all’organismo sociale e al bene di tutta la società se non si dà alle singole parti e ai singoli membri, cioè uomini dotati della dignità di persone, tutto quello che devono avere per le loro funzioni sociali. Se si soddisferà anche alla giustizia sociale, un’intensa attività di tutta la vita economica svolta nella tranquillità e nell’ordine ne sarà il frutto e dimostrerà la sanità del corpo sociale, come la sanità del corpo umano si riconosce da una imperturbata e insieme piena e fruttuosa attività di tutto l’organismo.

52. – Ma non si può dire di aver soddisfatto alla giustizia sociale se gli operai non hanno assicurato il proprio sostentamento e quello delle proprie famiglie con un salario proporzionato a questo fine; se non si facilita loro l’occasione di acquistare qualche modesta fortuna, prevenendo così la piaga del pauperismo universale; se non si prendono provvedimenti a loro vantaggio, con assicurazioni pubbliche o private, per il tempo della loro vecchiaia, della malattia o della disoccupazione. In una parola, per ripetere quello che abbiamo detto nella Nostra Enciclica Quadragesimo anno: «Allora l’economia sociale veramente sussisterà e otterrà i suoi fini, quando a tutti e singoli i soci saranno somministrati tutti i beni che si possono apprestare con le forze e i sussidi della natura, con l’arte tecnica, con la costituzione sociale del fatto economico; i quali beni debbono essere tanti quanti sono necessari sia a soddisfare ai bisogni e alle oneste comodità, sia a promuovere gli uomini a quella più felice condizione di vita, che, quando la cosa si faccia prudentemente, non solo non è d’ostacolo alla virtù, ma grandemente la favorisce » .

53. – Se poi, come avviene sempre più frequentemente nel salariato, la giustizia non può essere osservata dai singoli, se non a patto che tutti si accordino a praticarla insieme mediante istituzioni che uniscano tra loro i datori di lavoro, per evitare tra essi una concorrenza incompatibile con la giustizia dovuta ai lavoratori, il dovere degli impresari e padroni è di sostenere e di promuovere queste istituzioni necessarie, che diventano il mezzo normale per poter adempiere i doveri di giustizia. Ma anche i lavoratori si ricordino dei loro obblighi di carità e di giustizia verso i datori di lavoro, e siano persuasi che con questo salvaguarderanno meglio anche i propri interessi.

54. – Se dunque si considera l’insieme della vita economica, — come l’abbiamo già notato nella Nostra Enciclica Quadragesimo anno, — non si potrà far regnare nelle relazioni economico-sociali la mutua collaborazione della giustizia e della carità, se non per mezzo di un corpo di istituzioni professionali e interprofessionali su basi solidamente cristiane, collegate tra loro e formanti, sotto forme diverse e adattate ai luoghi e circostanze, quello che si diceva la Corporazione.

STUDIO E DIFFUSIONE DELLA DOTTRINA SOCIALE

55. – Per dare a questa azione sociale una maggiore efficacia, è assai necessario promuovere lo studio dei problemi sociali alla luce della dottrina della Chiesa e diffonderne gli insegnamenti sotto l’egida dell’autorità da Dio costituita nella Chiesa stessa. Se il modo di agire di taluni cattolici ha lasciato a desiderare nel campo economico-sociale, ciò spesso avvenne perché essi non hanno abbastanza conosciuto e meditato gli insegnamenti dei Sommi Pontefici su questo argomento. Perciò è sommamente necessario che in tutti i ceti della società si promuova una più intensa formazione sociale corrispondente al diverso grado di cultura, intellettuale, e si procuri con ogni sollecitudine e industria la più larga diffusione degli insegnamenti della Chiesa anche tra la classe operaia. Siano illuminate le menti dalla luce sicura della dottrina cattolica e inclinate le volontà a seguirla e ad applicarla come norma del retto vivere, per l’adempimento coscienzioso dei molteplici doveri sociali. Si combatta così quella incoerenza e discontinuità nella vita cristiana da Noi varie volte lamentata, per cui taluni, mentre sono apparentemente fedeli all’adempimento dei loro doveri religiosi, nel campo poi del lavoro o dell’industria o della professione o nel commercio o nell’impiego, per un deplorevole sdoppiamento di coscienza, conducono una vita troppo difforme dalle norme così chiare della giustizia e della carità cristiana, procurando in tal modo grave scandalo ai deboli e offrendo ai cattivi facile pretesto di screditare la Chiesa stessa.

56. – Grande contributo a questo rinnovamento può rendere la stampa cattolica. Essa può e deve dapprima in vari e attraenti modi far sempre meglio conoscere la dottrina sociale, informare con esattezza ma anche con la debita ampiezza sull’attività dei nemici, riferire sui mezzi di combattere che si sono mostrati i più efficaci in varie regioni, proporre utili suggerimenti e mettere in guardia contro le astuzie e gli inganni coi quali i comunisti procurano, e sono già riusciti, ad attrarre a sé uomini in buona fede.

PREMUNIRSI CONTRO LE INSIDIE DEL COMUNISMO

57. – Su questo punto abbiamo giù insistito nella Nostra Allocuzione del 12 maggio dell’anno scorso, ma crediamo necessario, Venerabili Fratelli, di dover in modo particolare richiamarvi sopra di nuovo la vostra attenzione. Il comunismo nel principio si mostrò quale era in tutta la sua perversità, ma ben presto si accorse che in tale modo allontanava da sé i popoli, e perciò ha cambiato tattica e procura di attirare le folle con vari inganni, nascondendo i propri disegni dietro idee che in sé sono buone ed attraenti. Così, vedendo il comune desiderio di pace, i capi del comunismo fingono di essere i più zelanti fautori e propagatori del movimento per la pace mondiale; ma nello stesso tempo eccitano a una lotta di classe che fa correre fiumi di sangue, e sentendo di non avere interna garanzia di pace, ricorrono ad armamenti illimitati. Così, sotto vari nomi che neppure alludono al comunismo, fondano associazioni e periodici che servono poi unicamente a far penetrare le loro idee in ambienti altrimenti a loro non facilmente accessibili; anzi procurano con perfidia di infiltrarsi in associazioni cattoliche e religiose. Così altrove, senza punto recedere dai loro perversi princìpi, invitano i cattolici a collaborare con loro sul campo così detto umanitario e caritativo, proponendo talvolta anche cose del tutto conformi allo spirito cristiano e alla dottrina della Chiesa. Altrove poi spingono l’ipocrisia fino a far credere che il comunismo in paesi di maggior fede o di maggior cultura assumerà un altro aspetto più mite, non impedirà il culto religioso e rispetterà la libertà delle coscienze. Vi sono anzi di quelli che riferendosi a certi cambiamenti introdotti recentemente nella legislazione sovietica, ne concludono che il comunismo stia per abbandonare il suo programma di lotta contro Dio.

58. – Procurate, Venerabili Fratelli, che i fedeli non si lascino ingannare! Il comunismo è intrinsecamente perverso e non si può ammettere in nessun campo la collaborazione con esso da parte di chiunque voglia salvare la civilizzazione cristiana. E se taluni indotti in errore cooperassero alla vittoria del comunismo nel loro paese, cadranno per primi come vittime del loro errore, e quanto più le regioni dove il comunismo riesce a penetrare si distinguono per l’antichità e la grandezza della loro civiltà cristiana, tanto più devastatore vi si manifesterà l’odio dei « senza Dio ».

PREGHIERA E PENITENZA

59. – Ma « se il Signore non sarà il custode della città, indarno veglia colui che la custodisce » . Perciò, come ultimo e potentissimo rimedio, vi raccomandiamo, Venerabili Fratelli, di promuovere e intensificare nel modo più efficace nelle vostre diocesi lo spirito di preghiera congiunta con la cristiana penitenza. Quando gli Apostoli chiesero al Salvatore perché non avessero essi potuto liberare dallo spirito maligno un demoniaco, il Signore rispose: «Demoni siffatti non si scacciano, se non con la preghiera e col digiuno » . Anche il male che oggi tormenta l’umanità non potrà esser vinto se non da una universale santa crociata di preghiera e di penitenza; e raccomandiamo singolarmente agli Ordini contemplativi, maschili e femminili, di raddoppiare le loro suppliche e i loro sacrifici per impetrare dal Cielo alla Chiesa un valido soccorso nelle lotte presenti, con la possente intercessione della Vergine Immacolata, la quale, come un giorno schiacciò il capo all’antico serpente, così è sempre il sicuro presidio e l’invincibile « Aiuto dei Cristiani ».

V

MINISTRI E AUSILIARI DI QUEST’OPERA SOCIALE DELLA CHIESA

I SACERDOTI

 60. – Per l’opera mondiale di salute che siamo venuti tracciando e per l’applicazione dei rimedi che abbiamo brevemente indicati, ministri e operai evangelici designati dal divino Re Gesù Cristo sono in prima linea i Sacerdoti. Ad essi, per vocazione speciale, sotto la guida dei sacri Pastori e in unione di filiale obbedienza al Vicario di Cristo in terra, è affidato il compito di tener accesa nel mondo la fiaccola della fede e di infondere nei fedeli quella soprannaturale fiducia colla quale la Chiesa nel nome di Cristo ha combattuto e vinto tante altre battaglie: «Questa è la vittoria che vince il mondo, la fede nostra ».

61. – In modo particolare ricordiamo ai sacerdoti l’esortazione del Nostro Predecessore Leone XIII, tante volte ripetuta, di andare all’operaio; esortazione che Noi facciamo Nostra e completiamo: « Andate all’operaio, specialmente all’operaio povero, e in generale, andate ai poveri », seguendo in ciò gli ammaestramenti di Gesù e della sua Chiesa. I poveri difatti sono i più insidiati dai mestatori, che sfruttano la loro misera condizione per accenderne l’invidia contro i ricchi ed eccitarli a prendersi con la forza quello che sembra loro ingiustamente negato dalla fortuna; e se il sacerdote non va agli operai, ai poveri, per premunirli o disingannarli dai pregiudizi e dalle false teorie, essi diventeranno facile preda degli apostoli del comunismo.

62. – Non possiamo negare che molto si è fatto in questo senso, specialmente dopo le Encicliche Rerum novarum e Quadragesimo anno; e con paterna compiacenza salutiamo le industriose cure pastorali di tanti Vescovi e Sacerdoti, che vanno escogitando e provando, sia pure con le debite prudenti cautele, nuovi metodi di apostolato meglio corrispondenti alle esigenze moderne. Ma tutto questo è ancora troppo poco per il bisogno presente. Come, quando la patria è in pericolo, tutto ciò che non è strettamente necessario o non è direttamente ordinato all’urgente bisogno della difesa comune, passa in seconda linea; così anche nel caso nostro, ogni altra opera, per quanto bella e buona, deve cedere il posto alla vitale necessità di salvare le basi della fede e della civiltà cristiana. E quindi nelle parrocchie i sacerdoti, pur dando naturalmente quello che è necessario alla cura ordinaria dei fedeli, riservino il più e il meglio delle loro forze e della loro attività a riguadagnare le masse dei lavoratori a Cristo e alla Chiesa e a far penetrare lo spirito cristiano negli ambienti che ne sono più alieni. Essi poi nelle masse popolari troveranno una corrispondenza e un’abbondanza di frutti inaspettata, che li compenserà del duro lavoro del primo dissodamento; come abbiamo visto e vediamo in Roma e in molte altre metropoli, dove al sorgere di nuove chiese nei quartieri periferici si vanno raccogliendo zelanti comunità parrocchiali e si operano veri miracoli di conversioni tra popolazioni che erano ostili alla religione solo perché non la conoscevano.

63. – Ma il più efficace mezzo di apostolato tra le folle dei poveri e degli umili è l’esempio del sacerdote, l’esempio di tutte le virtù sacerdotali, quali le abbiamo descritte nella Nostra Enciclica Ad catholici sacerdotii; ma nel caso presente in modo speciale è necessario un luminoso esempio di vita umile, povera, disinteressata, copia fedele del Divino Maestro che poteva proclamare con divina franchezza: « Le volpi hanno delle tane e gli uccelli dell’aria hanno dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo » . Un sacerdote veramente ed evangelicamente povero e disinteressato fa miracoli di bene in mezzo al popolo, come un San Vincenzo de’ Paoli, un Curato d’Ars, un Cottolengo, un Don Bosco e tanti altri; mentre un sacerdote avaro e interessato, come abbiamo ricordato nella già citata Enciclica, anche se non precipita come Giuda, nel baratro del tradimento, sarà per lo meno un vano « bronzo risonante » e un inutile « cembalo squillante » , e troppo spesso un impedimento piuttosto che uno strumento di grazia in mezzo al popolo. E se il sacerdote secolare o regolare per obbligo del suo ufficio deve amministrare dei beni temporali, si ricordi che non soltanto deve scrupolosamente osservare tutto ciò che prescrivono la carità e la giustizia, ma deve mostrarsi in modo particolare veramente un padre dei poveri.

L’AZIONE CATTOLICA

64. – Dopo che al Clero, Noi rivolgiamo il Nostro paterno invito ai carissimi figli Nostri del laicato, che militano nelle file della tanto a Noi diletta Azione Cattolica, che già dichiarammo in altra occasione « un sussidio particolarmente provvidenziale » all’opera della Chiesa in queste contingenze tanto difficili. Infatti l’Azione Cattolica è pure apostolato sociale, in quanto tende a diffondere il Regno di Gesù Cristo non solo negli individui, ma anche nelle famiglie e nella società. Deve perciò anzi tutto attendere a formare con cura speciale i suoi soci e prepararli alle sante battaglie del Signore. A tale lavoro formativo, quanto mai urgente e necessario, che si deve sempre premettere all’azione diretta e fattiva, serviranno certamente i circoli di studio, le settimane sociali, corsi organici di conferenze e tutte quelle altre iniziative atte a far conoscere la soluzione dei problemi sociali in senso cristiano.

 65. – Militi dell’Azione Cattolica così ben preparati ed addestrati saranno i primi ed immediati apostoli dei loro compagni di lavoro e diventeranno i preziosi ausiliari del sacerdote per portare la luce della verità e sollevare le gravi miserie materiali e spirituali in innumerevoli zone refrattarie all’azione del ministro di Dio, o per inveterati pregiudizi contro il Clero o per deplorevole apatia religiosa. Si coopererà in tal modo, sotto la guida di sacerdoti particolarmente esperti, a quella assistenza religiosa alle classi lavoratrici, che Ci sta tanto a cuore, come il mezzo più adatto per preservare quei Nostri diletti figli dall’insidia comunista.

66. – Oltre a questo apostolato individuale, spesse volte nascosto, ma oltremodo utile ed efficace, è compito dell’Azione Cattolica fare con la propaganda orale e scritta una larga seminagione dei princìpi fondamentali che servano alla costruzione di un ordine sociale cristiano, quali risultano dai documenti Pontifici.

ORGANIZZAZIONI AUSILIARIE

67. – Attorno all’Azione Cattolica si schierano le organizzazioni che Noi abbiamo già salutato come ausiliarie della stessa. Anche queste così utili organizzazioni Noi esortiamo con paterno affetto a consacrarsi alla grande missione di cui trattiamo, che attualmente supera tutte le altre per la sua vitale importanza.

ORGANIZZAZIONI DI CLASSE

68. – Noi pensiamo altresì a quelle organizzazioni di classe: di lavoratori, di agricoltori, di ingegneri, di medici, di padroni, di studiosi, e altre simili; uomini e donne, i quali vivono nelle stesse condizioni culturali e quasi naturalmente sono stati riuniti in gruppi omogenei. Proprio questi gruppi e queste organizzazioni sono destinate ad introdurre quell’ordine nella società, che Noi abbiamo avuto di mira nella Nostra Enciclica Quadragesimo anno, e a diffondere così il riconoscimento della regalità di Cristo nei diversi campi della cultura e del lavoro.

69. – Che se, per le mutate condizioni della vita economica e sociale, lo Stato si è creduto in dovere di intervenire fino ad assistere e regolare direttamente tali istituzioni con particolari disposizioni legislative, salvo il rispetto doveroso delle libertà e delle iniziative private; anche in tali circostanze l’Azione Cattolica non può tenersi estranea alla realtà, ma deve dare con saggezza il suo contributo di pensiero, con lo studio dei nuovi problemi alla luce della dottrina cattolica, e di attività con la partecipazione leale e volonterosa dei suoi inscritti alle nuove forme ed istituzioni, portando in esse lo spirito cristiano, che è sempre principio di ordine e di mutua e fraterna collaborazione.

APPELLO AGLI OPERAI CATTOLICI

70. – Una parola particolarmente paterna vorremmo qui indirizzare ai Nostri cari operai cattolici, giovani e adulti, i quali, forse in premio della loro fedeltà, talvolta eroica in questi tempi tanto difficili, hanno ricevuto una missione molto nobile e ardua. Sotto la guida dei loro Vescovi e dei loro sacerdoti, essi devono ricondurre alla Chiesa e a Dio quelle immense moltitudini dei loro fratelli di lavoro, i quali, esacerbati per non essere stati compresi o trattati con la dignità alla quale avevano diritto, si sono allontanati da Dio. Gli operai cattolici col loro esempio, con le loro parole, dimostrino a questi loro fratelli traviati che la Chiesa è una tenera Madre per tutti quelli che lavorano e soffrono, e non ha mai mancato, né mai mancherà al suo sacro dovere materno di difendere i suoi figli. Se questa missione, che essi debbono compiere nelle miniere, nelle fabbriche, nei cantieri, dovunque si lavora, richiede alle volte dei grandi sacrifizi, si ricorderanno che il Salvatore del mondo ha dato non solo l’esempio del lavoro, ma anche quello del sacrificio.

NECESSITÀ DELLA CONCORDIA TRA I CATTOLICI

71. – A tutti i Nostri figli poi, d’ogni classe sociale, d’ogni nazione, di ogni gruppo religioso e laico nella Chiesa, vorremmo indirizzare un nuovo e più urgente appello alla concordia. Più volte il Nostro cuore paterno è stato addolorato dalle divisioni, spesso futili nelle loro cause, ma sempre tragiche nelle loro conseguenze, che mettono alle prese i figli d’una stessa Madre, la Chiesa. Così si vede che i sovversivi, che non sono tanto numerosi, approfittando di queste discordie, le rendono più acute, e finiscono per gettare gli stessi cattolici gli uni contro gli altri. Dopo gli avvenimenti di questi ultimi mesi, dovrebbe sembrare superfluo il Nostro monito. Lo ripetiamo però una volta ancora per quelli che non hanno capito, o forse non vogliono capire. Quelli che lavorano ad aumentare discordie fra cattolici prendono sopra di sé una terribile responsabilità dinanzi a Dio e alla Chiesa.

APPELLO A QUANTI CREDONO IN DIO

72. – Ma a questa lotta impegnata dal « potere delle tenebre » contro l’idea stessa della Divinità, Ci è caro sperare che, oltre tutti quelli che si gloriano del nome di Cristo, si oppongano pure validamente quanti (e sono la stragrande maggioranza dell’umanità) credono ancora in Dio e lo adorano. Rinnoviamo quindi l’appello che già lanciammo cinque anni or sono nella Nostra Enciclica Caritate Christi, affinché essi pure lealmente e cordialmente concorrano da parte loro « per allontanare dall’umanità il grande pericolo che minaccia tutti ». Poiché — come allora dicevamo, — siccome « il credere in Dio è il fondamento incrollabile di ogni ordinamento sociale e di ogni responsabilità sulla terra, perciò tutti quelli che non vogliono l’anarchia e il terrore devono energicamente adoperarsi perché i nemici della religione non raggiungano lo scopo da loro così apertamente proclamato » .

DOVERI DELLO STATO CRISTIANO

Aiutare la Chiesa

73. – Abbiamo esposto, Venerabili Fratelli, il compito positivo, d’ordine dottrinale insieme e pratico, che la Chiesa si assume, per la sua stessa missione affidatale da Cristo, di edificare la società cristiana e, ai nostri tempi, di oppugnare e infrangere gli sforzi del comunismo; e abbiamo fatto appello a tutte e singole le classi della società. A questa medesima impresa spirituale della Chiesa lo Stato cristiano deve pure positivamente concorrere, aiutando in tale compito la Chiesa coi mezzi che gli sono propri, i quali, benché siano mezzi esterni, non mirano meno, in primo luogo, al bene delle anime.

74. – Perciò gli Stati porranno ogni cura per impedire che una propaganda atea, la quale sconvolge tutti i fondamenti dell’ordine, faccia strage nei loro territori, perché non si potrà avere autorità sulla terra se non viene riconosciuta l’autorità della Maestà divina, né sarà fermo il giuramento se non si giura nel nome del Dio vivente. Noi ripetiamo ciò che spesso e così insistentemente abbiamo detto, particolarmente nella Nostra Enciclica Caritate Christi: « Come può sostenersi un contratto qualsiasi e quale valore può avere un trattato, dove manchi ogni garanzia di coscienza? E come si può parlare di garanzia di coscienza, dove è venuta meno ogni fede in Dio, ogni timor di Dio? Tolta questa base, ogni legge morale cade con essa e non vi è più nessun rimedio che possa impedire la graduale ma inevitabile rovina dei popoli, della famiglia, dello Stato, della stessa umana civiltà » .

Provvedimenti di bene comune

75. – Inoltre lo Stato deve mettere ogni cura per creare quelle condizioni materiali di vita senza cui un’ordinata società non può sussistere, e per fornire lavoro specialmente ai padri di famiglia e alla gioventù. S’inducano a questo fine le classi possidenti ad assumersi, per la urgente necessità del bene comune, quei pesi, senza i quali la società umana non può essere salvata né essi stessi potrebbero trovar salvezza. I provvedimenti però che lo Stato prende a questo fine, devono essere tali che colpiscano davvero quelli che di fatto hanno nelle loro mani i maggiori capitali e vanno continuamente aumentandoli con grave danno altrui.

Prudente e sobria amministrazione

76. – Lo Stato medesimo, memore della sua responsabilità davanti a Dio e alla società, con una prudente e sobria amministrazione sia di esempio a tutti gli altri. Oggi più che mai la gravissima crisi mondiale esige che coloro che dispongono di fondi enormi, frutto del lavoro e del sudore di milioni di cittadini, abbiano sempre davanti agli occhi unicamente il bene comune e siano intenti a promuoverlo quanto più è possibile. Anche i funzionari dello Stato e tutti gli impiegati adempiano per obbligo di coscienza i loro doveri con fedeltà e disinteresse, seguendo i luminosi esempi antichi e recenti di uomini insigni, che con indefesso lavoro sacrificarono tutta la loro vita per il bene della patria. Nel commercio poi dei popoli fra loro, si procuri sollecitamente di rimuovere quegli impedimenti artificiali della vita economica, che promanano dal sentimento della diffidenza e dall’odio, ricordandosi che tutti i popoli della terra formano un’unica famiglia di Dio.

Lasciare libertà alla Chiesa

77. – Ma nello stesso tempo lo Stato deve lasciare alla Chiesa la piena libertà di compiere la sua divina e del tutto spirituale missione per contribuire con ciò stesso potentemente a salvare i popoli dalla terribile tormenta dell’ora presente. Si fa oggi dappertutto un angoscioso appello alle forze morali e spirituali; e ben a ragione, perché il male che si deve combattere è prima di tutto, considerato nella sua prima sorgente, un male di natura spirituale, ed è da questa sorgente che sgorgano per una logica diabolica tutte le mostruosità del comunismo. Ora, tra le forze morali e religiose eccelle incontestabilmente la Chiesa Cattolica; e perciò il bene stesso dell’umanità esige che non si pongano impedimenti alla sua operosità.

78. – Se si agisce altrimenti e si pretende in pari tempo di raggiungere lo scopo con mezzi puramente economici e politici, si è in balìa di un errore pericoloso. E quando si esclude la religione dalla scuola, dall’educazione, dalla vita pubblica, e si espongono a ludibrio i rappresentanti del Cristianesimo e i suoi sacri riti, non si promuove forse quel materialismo donde germoglia il comunismo? Né la forza, neppure la meglio organizzata, né gli ideali terreni, siano pur essi i più grandi e i più nobili, possono padroneggiare un movimento, che getta le sue radici proprio nella troppa stima dei beni del mondo.

79. – Confidiamo che coloro che dirigono le sorti delle Nazioni, per poco che sentano il pericolo estremo da cui oggi sono minacciati i popoli, sentiranno sempre meglio il supremo dovere di non impedire alla Chiesa il compimento della sua missione; tanto più che nel compierla, mentre mira alla felicità eterna dell’uomo, essa lavora inseparabilmente anche per la vera felicità temporale.

APPELLO PATERNO AI TRAVIATI

80. – Ma non possiamo porre fine a questa Lettera Enciclica senza rivolgere una parola a quegli stessi figli Nostri che sono già intaccati o quasi dal male comunista. Li esortiamo vivamente ad ascoltare la voce del Padre che li ama; e preghiamo il Signore che li illumini affinché abbandonino la via sdrucciolevole che travolge tutti in una immensa catastrofica rovina e riconoscano anch’essi che l’unico Salvatore è Gesù Cristo Signor Nostro: « perché non c’è sotto il cielo alcun altro nome dato agli uomini, dal quale possiamo aspettarci d’esser salvati » .

CONCLUSIONE

S. GIUSEPPE MODELLO E PATRONO

81. – E per affrettare la tanto da tutti desiderata pace di Cristo nel regno di Cristo, poniamo la grande azione della Chiesa Cattolica contro il comunismo ateo mondiale sotto l’egida del potente Protettore della Chiesa, San Giuseppe. Egli appartiene alla classe operaia ed ha sperimentato il peso della povertà, per sé e per la Sacra Famiglia, di cui era il capo vigile ed affettuoso; a lui fu affidato il Fanciullo divino, quando Erode sguinzagliò contro di Lui i suoi sicari. Con una vita di fedelissimo adempimento del dovere quotidiano, ha lasciato un esempio a tutti quelli che devono guadagnarsi il pane col lavoro delle loro mani e meritò di essere chiamato il Giusto, esempio vivente di quella giustizia cristiana, che deve dominare nella vita sociale.

82. – Con gli occhi rivolti in alto, la nostra fede vede i « nuovi cieli » e la « nuova terra », di cui parla il primo Nostro Antecessore, San Pietro. Mentre le promesse dei falsi profeti in questa terra si spengono nel sangue e nelle lacrime, risplende di celeste bellezza la grande apocalittica profezia del Redentore del mondo: « Ecco, Io faccio nuove tutte le cose » . – Non Ci resta, Venerabili Fratelli, che alzare le mani paterne e fare scendere sopra di Voi, sopra il Vostro clero e popolo, su tutta la grande famiglia cattolica, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, festa di San Giuseppe, Patrono della Chiesa Universale, il 19 marzo 1937, anno XVI del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XI – “MIT BRENNENDER SORGE”

….. Colui quindi che con sacrilego misconoscimento delle diversità essenziali tra Dio e la creatura, tra l’Uomo-Dio e il semplice uomo, osasse di porre accanto a Cristo o, ancora peggio, sopra di Lui o contro di Lui, un semplice mortale, fosse anche il più grande di tutti i tempi, sappia che è un profeta di chimere, a cui si applica spaventosamente la parola della Scrittura: « Colui, che abita nel cielo, ride di loro » …. Questo è uno dei passaggi più significativi di questa lettera enciclica, l’unica della storia della Chiesa scritta in tedesco ed indirizzata ai Vescovi della Germania nazista: è un’espressione che risuona come condanna netta per quel regime infame liberticida ed anticristiano, ma pure per i regimi nostrani occidentali e mondialisti, diretti dai nemici dell’uomo e di Dio, che quel regime lo vogliono imporre a tutto il pianeta, simulando una emergenza sanitaria, alla quale farà seguito un’emergenza sociale, un’emergenza finanziaria, la fame, la miseria ed infine la negazione – in apparenza – di ogni religione, ma in realtà la oppressione dell’unica vera Religione, il Cristianesimo, l’unica che assicuri l’eterna beatitudine. La  lettera è piena di dottrina cattolica nella fermezze di rivendicare i diritti di Dio e della sua unica vera Religione che da Cristo, il Figlio suo unigenito, fu istituita ed affidata ai suoi Apostoli in unione con il suo Vicario, S. Pietro ed i suoi successori. Il monito per gli avversari di Cristo, suona implacabile anche e soprattutto oggi, in cui gli avversari si sono moltiplicati e si sentono dominatori assoluti in unione al corpo mistico della bestia satanica ma… stano attenti, la loro fine è già segnata ed il loro ultimo giorno si avvicina: Dominus irridebit eos, quoniam prospicit quod veniet dies ejus … (Ps. XXXVI). E stiano attenti anche i falsi profeti che fingono di appartenere alla Chiesa essendo invece la parte operante infiltrata come quinta colonna delle forze dell’anticristo. Per essi è pure aperto lo stagno di fuoco che li attende se non si ravvedono in tempo… et IPSA CONTERET CAPUT TUUM…

LETTERA ENCICLICA

MIT BRENNENDER SORGE

DEL SOMMO PONTEFICE

S. S. PIO XI

Ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi e agli altri Ordinari di Germania aventi pace e comunione con la Sede Apostolica.

Il Papa Pio XI.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Con viva ansia e con stupore sempre crescente veniamo osservando da lungo tempo la via dolorosa della Chiesa e il progressivo acuirsi dell’oppressione dei fedeli ad essa rimasti devoti nello spirito e nell’opera; e tutto ciò in quella terra e in mezzo a quel popolo, a cui S. Bonifacio portò un giorno il luminoso e lieto messaggio di Cristo e del Regno di Dio. – Tale Nostra ansia non è stata alleviata dalle relazioni che i Reverendissimi Rappresentanti dell’Episcopato, conforme al loro dovere, Ci fecero secondo verità, visitandoCi durante la Nostra infermità. Accanto a molte notizie, che Ci furono di consolazione e conforto, sulla lotta sostenuta dai loro fedeli a causa della religione, non poterono, nonostante l’amore al loro popolo e alla loro patria e la cura di esprimere un giudizio ben ponderato, passare sotto silenzio innumerevoli altri avvenimenti tristi e riprovevoli. Quando Noi udimmo le loro relazioni, con profonda gratitudine verso Dio potemmo esclamare con l’Apostolo dell’amore: «Non ho gioia più grande di quando sento che i miei figli camminano nella verità » (1). Ma la franchezza che si addice alla grave responsabilità del Nostro ministero Apostolico, e la decisione di presentare davanti a voi e all’intero mondo cristiano la realtà in tutta la sua crudezza esigono anche che aggiungiamo: Non abbiamo maggiore ansia né più crudele afflizione pastorale di quando sentiamo che molti abbandonano il cammino della verità (2).

1. IL CONCORDATO

Quando Noi, Venerabili Fratelli, nell’estate del 1933, a richiesta del governo del Reich, accettammo di riprendere le trattative per un Concordato, in base ad un progetto elaborato già vari anni prima, e addivenimmo così ad un solenne accordo, che riuscì di soddisfazione a voi tutti, fummo mossi dalla doverosa sollecitudine di tutelare la libertà della missione salvifica della Chiesa in Germania e di assicurare la salute delle anime ad essa affidate, e in pari tempo dal sincero desiderio di rendere un servizio d’interesse capitale al pacifico sviluppo e al benessere del popolo tedesco. – Nonostante molte e gravi preoccupazioni, pervenimmo allora, non senza sforzo, alla determinazione di non negare il Nostro consenso. Volevamo risparmiare ai Nostri fedeli, ai Nostri figli e alle Nostre figlie della Germania, secondo le umane possibilità, le tensioni e le tribolazioni che, in caso contrario, si sarebbero dovute con certezza aspettare, date le condizioni dei tempi. E volevamo dimostrare col fatto, a tutti, che Noi, cercando solo Cristo e ciò che appartiene a Cristo, non rifiutiamo ad alcuno, se egli stesso non la respinga, la mano pacifica della Madre Chiesa. – Se l’albero di pace, da Noi piantato in terra tedesca con puro intento, non ha prodotto i frutti, da Noi bramati nell’interesse del vostro popolo, non ci sarà alcuno al mondo intero, che abbia occhi per vedere e orecchi per sentire, il quale potrà dire ancor oggi la colpa essere della Chiesa e del suo Capo Supremo. L’esperienza degli anni trascorsi mette in luce le responsabilità, e svela macchinazioni, che già dal principio non si proposero altro scopo se non una lotta fino all’annientamento. Nei solchi, in cui Ci eravamo sforzati di gettare la semenza della vera pace, altri sparsero — come l’inimicus homo della Sacra Scrittura (3) — la zizzania della sfiducia, della discordia, dell’odio, della diffamazione, di un’avversione profonda, occulta e palese, contro Cristo e la sua Chiesa, scatenando una lotta che si alimentò in mille fonti diverse, e si servì di tutti i mezzi. Su di essi e solamente su di essi, e sui loro protettori, occulti o palesi, ricade la responsabilità se all’orizzonte della Germania apparisce, non l’arcobaleno della pace, ma il nembo minaccioso delle dissolvitrici lotte religiose. – Venerabili Fratelli, Noi non Ci siamo stancati di far presente ai reggitori, responsabili delle sorti della vostra nazione, le conseguenze che sarebbero necessariamente derivate dalla tolleranza, o peggio ancora dal favoreggiamento di quelle correnti. Abbiamo fatto di tutto per difendere la santità della parola solennemente data, la inviolabilità degli obblighi volontariamente contratti, contro teorie e pratiche, le quali, se ufficialmente ammesse, avrebbero dovuto spegnere ogni fiducia e svalutare intrinsecamente ogni parola data, anche per l’avvenire. Se verrà il momento di esporre agli occhi del mondo questi Nostri sforzi, tutti i ben pensanti sapranno dove sono da cercare i tutori della pace e dove i suoi perturbatori. Chiunque abbia conservato nel suo animo un residuo di amore per la verità, e nel suo cuore anche un’ombra del senso di giustizia, dovrà ammettere che negli anni difficili e gravi di vicende, susseguitisi al Concordato, ciascuna delle Nostre parole e delle Nostre azioni ebbe per norma la fedeltà degli accordi sanciti. Ma dovrà anche riconoscere, con stupore e con intima ripulsa, come dall’altra parte si sia eretto a norma ordinaria lo svisare arbitrariamente i patti, l’eluderli, lo svuotarli e finalmente il violarli più o meno apertamente. – La moderazione da Noi finora mostrata, nonostante tutto ciò, non Ci è stata suggerita da calcoli di interessi terreni né tanto meno da debolezza, ma semplicemente dalla volontà di non strappare, insieme con la zizzania, anche qualche buona pianta; dalla decisione di non pronunziare pubblicamente un giudizio, prima che gli animi fossero maturi per riconoscerne l’ineluttabilità; dalla determinazione di non negare definitivamente la fedeltà di altri alla parola data, prima che il duro linguaggio della realtà avesse strappato i veli, con cui si è saputo e si cerca anche adesso mascherare, secondo un piano prestabilito, l’attacco contro la Chiesa. Anche oggi, che la lotta aperta contro le scuole confessionali, tutelate dal Concordato, e l’annientamento della libertà di voto per coloro che hanno diritto all’educazione cattolica, manifestano, in un campo particolarmente vitale per la Chiesa, la tragica serietà della situazione e una non mai vista pressione spirituale dei fedeli, la sollecitudine paterna per il bene delle anime Ci consiglia di non lasciare senza considerazione le prospettive, per quanto scarse, che possano ancora sussistere, di un ritorno alla fedeltà dei patti e ad una intesa permessa dalla Nostra coscienza. – Seguendo le preghiere dei Reverendissimi Membri dell’Episcopato non Ci stancheremo anche nel futuro di difendere il diritto leso presso i reggitori del vostro popolo, incuranti del successo o dell’insuccesso del momento, ubbidienti solo alla Nostra coscienza e al Nostro ministero pastorale, e non cesseremo di opporCi ad una mentalità, che cerca, con aperta od occulta violenza, di soffocare il diritto, autenticato da documenti. – Lo scopo però della presente lettera, Venerabili Fratelli, è un altro. Come voi ci avete visitato amabilmente durante la Nostra infermità, così Noi ci rivolgiamo oggi a voi e, per mezzo vostro, ai fedeli cattolici della Germania, i quali, come tutti i figli sofferenti e perseguitati, stanno molto vicini al cuore del Padre comune. In questa ora, in cui la loro fede viene provata, come vero oro, nel fuoco della tribolazione e della persecuzione, insidiosa o aperta, ed essi sono accerchiati da mille forme di organizzata compressione della libertà religiosa, in cui l’impossibilità di aver informazioni, conformi a verità, e di difendersi con mezzi normali, molto li opprime, hanno un doppio diritto ad una parola di verità e d’incoraggiamento morale da parte di Colui, al cui primo predecessore il Salvatore diresse quella parola densa di significato: « Io ho pregato per te, affinché la tua debolezza non vacilli, e tu a tua volta corrobora i tuoi fratelli » (4).

2. GENUINA FEDE IN DIO

E anzitutto, Venerabili Fratelli, abbiate cura che la fede in Dio, primo e insostituibile fondamento di ogni religione, rimanga pura e integra nelle regioni tedesche. Non si può considerare come credente in Dio colui che usa il nome di Dio retoricamente, ma solo colui che unisce a questa venerata parola una vera e degna nozione di Dio. – Chi, con indeterminatezza panteistica, identifica Dio con l’universo, materializzando Dio nel mondo e deificando il mondo in Dio, non appartiene ai veri credenti. – Né è tale chi, seguendo una sedicente concezione precristiana dell’antico germanesimo, pone in luogo del Dio personale il fato tetro e impersonale, rinnegando la sapienza divina e la sua provvidenza, la quale « con forza e dolcezza domina da un’estremità all’altra del mondo » (5) e tutto dirige a buon fine. Un simile uomo non può pretendere di essere annoverato fra i veri credenti. – Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell’ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi e, divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica l’ordine, da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme. – Rivolgete, Venerabili Fratelli, l’attenzione all’abuso crescente, che si manifesta in parole e per iscritto, di adoperare il tre volte santo nome di Dio quale etichetta vuota di senso per un prodotto più o meno arbitrario di ricerca o aspirazione umana, e adoperatevi che tale aberrazione incontri tra i vostri fedeli la vigile ripulsa che merita. Il nostro Dio è il Dio personale, trascendente, onnipotente, infinitamente perfetto, uno nella trinità delle persone e trino nell’unità della essenza divina, creatore dell’universo, signore, re e ultimo fine della storia del mondo, il quale non ammette né può ammettere altre divinità accanto a sé. – Questo Dio ha dato i suoi comandamenti in maniera sovrana: comandamenti indipendenti da tempo e spazio, da regione e razza. Come il sole di Dio splende indistintamente su tutto il genere umano, così la sua legge non conosce privilegi né eccezioni. Governanti e governati, coronati e non coronati, grandi e piccoli, ricchi e poveri dipendono ugualmente dalla sua parola. Dalla totalità dei suoi diritti di Creatore promana essenzialmente la sua esigenza ad un’ubbidienza assoluta da parte degli individui e di qualsiasi società. E tale esigenza all’ubbidienza si estende a tutte le sfere della vita, nelle quali le questioni morali richiedono l’accordo con la legge divina e con ciò stesso l’armonizzazione dei mutevoli ordinamenti umani col complesso degli immutabili ordinamenti divini. – Solamente spiriti superficiali possono cadere nell’errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio, Creatore del mondo, re e legislatore dei popoli, davanti alla cui grandezza le nazioni sono piccole come gocce in un catino d’acqua (6). – I Vescovi della Chiesa di Cristo « preposti a quelle cose che riguardano Dio »(7) devono vigilare perché non si affermino tra i fedeli tali perniciosi errori, ai quali sogliono tener dietro pratiche ancora più perniciose. Appartiene al loro sacro ministero di fare tutto il possibile, affinché i comandamenti di Dio siano considerati e praticati quali obbligazioni inconcusse di una vita morale e ordinata, sia privata sia pubblica; i diritti della maestà divina, il nome e la parola di Dio non vengano profanati(8); le bestemmie contro Dio in parole, scritti e immagini, numerose talvolta come l’arena del mare, vengano ridotte al silenzio, e di fronte allo spirito caparbio e insidioso di coloro, che negano, oltraggiano e odiano Dio, non si illanguidisca mai la preghiera espiatrice dei fedeli, la quale sale ad ogni ora come incenso all’Altissimo, trattenendone la mano punitrice. – Noi ringraziamo, Venerabili Fratelli, voi, i vostri sacerdoti e tutti i fedeli che nella difesa dei diritti della divina Maestà contro un provocante neopaganesimo, appoggiato, purtroppo, spesso da personalità influenti, avete adempiuto e adempite il vostro dovere di cristiani. Questo ringraziamento è particolarmente intimo e unito ad una riconoscente ammirazione per coloro i quali, nel compimento di questo loro dovere, si sono resi degni di sopportare per la causa di Dio sacrifici e dolori.

3. GENUINA FEDE IN GESÙ CRISTO

La fede in Dio non si manterrà, a lungo andare, pura e incontaminata, se non si appoggerà nella fede in Gesù Cristo. «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui a cui il Figlio lo vuole rivelare » (9). «Questa è la vita eterna; che essi riconoscano te, unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » (10). A nessuno dunque è lecito dire: io credo in Dio, e ciò è sufficiente per la mia religione. La parola del Salvatore non lascia posto a scappatoie di simil genere: « Chi rinnega il Figlio non ha neanche il Padre; chi riconosce il Figlio ha anche il Padre » (11).

In Gesù Cristo, incarnato Figlio di Dio, è apparsa la pienezza della rivelazione divina: « In varie maniere e in diverse forme, Dio un giorno parlò ai padri per mezzo dei profeti. Nella pienezza dei tempi ha parlato a noi per mezzo del Figlio » (12). I libri santi dell’Antico Testamento sono tutti parola di Dio, parte organica della sua rivelazione. Conforme allo sviluppo graduale della rivelazione, su di essi si posa il crepuscolo del tempo che doveva preparare il pieno meriggio della redenzione. In alcune parti si narra dell’imperfezione umana, della sua debolezza e del peccato, come non può accadere diversamente, quando si tratta di libri di storia e di legislazione. Oltre a innumerevoli cose alte e nobili, essi parlano della tendenza superficiale e materiale, che appariva a varie riprese nel popolo dell’antico patto, depositario della rivelazione e delle promesse di Dio. Ma per ogni occhio, non accecato dal pregiudizio o dalla passione, non può che risplendere ancora più luminosamente, nonostante la debolezza umana, di cui parla la storia biblica, la luce divina del cammino della salvezza, che trionfa alla fine su tutte le debolezze e i peccati. – E proprio su questo sfondo, spesso cupo, la pedagogia della salute eterna si allarga in prospettive, le quali nello stesso tempo dirigono, ammoniscono, scuotono, sollevano e rendono felici. Solo cecità e caparbietà possono far chiudere gli occhi davanti ai tesori di salutari insegnamenti, nascosti nell’Antico Testamento. Chi quindi vuole banditi dalla Chiesa e dalla scuola la storia biblica e i saggi insegnamenti dell’Antico Testamento, bestemmia la parola di Dio, bestemmia il piano della salute dell’Onnipotente ed erige a giudice dei piani divini un angusto e ristretto pensar umano. Egli rinnega la fede in Gesù Cristo, apparso nella realtà della sua carne, il quale prese natura umana da un popolo, che doveva poi configgerlo in croce. Non comprende nulla del dramma mondiale del Figlio di Dio, il quale oppose al misfatto dei suoi crocifissori, qual sommo sacerdote, l’azione divina della morte redentrice, e fece così trovare all’Antico Testamento il suo compimento, la sua fine e la sua sublimazione nel Nuovo Testamento. – La rivelazione culminata nell’Evangelo di Gesù Cristo è definitiva e obbligatoria per sempre, non ammette appendici di origine umana e, ancora meno, succedanei o sostituzioni di « rivelazioni » arbitrarie, che alcuni banditori moderni vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue e della razza. Da che Cristo, l’Unto del Signore, ha compiuto l’opera di redenzione, infrangendo il dominio del peccato e meritandoci la grazia di diventare figli di Dio, da allora non è stato dato agli uomini alcun altro nome sotto il cielo, per diventare beati, se non il nome di Gesù (13). Anche se un uomo identifichi in sé ogni sapere, ogni potere e tutta la possanza materiale della terra, non può gettare fondamento diverso, da quello che Cristo ha gettato (14). Colui quindi che con sacrilego misconoscimento delle diversità essenziali tra Dio e la creatura, tra l’Uomo-Dio e il semplice uomo, osasse di porre accanto a Cristo o, ancora peggio, sopra di Lui o contro di Lui, un semplice mortale, fosse anche il più grande di tutti i tempi, sappia che è un profeta di chimere, a cui si applica spaventosamente la parola della Scrittura: « Colui, che abita nel cielo, ride di loro » (15).

4. GENUINA FEDE NELLA CHIESA

La fede in Gesù Cristo non resterà pura e incontaminata, se non sarà sostenuta e difesa dalla fede nella Chiesa, colonna e fondamento della verità (16). Cristo stesso, Dio benedetto in eterno, ha innalzato questa colonna della fede; il suo comandamento di ascoltare la Chiesa (17) e di sentire, attraverso le parole e i comandamenti della Chiesa, le sue parole stesse e i suoi stessi comandamenti (18), vale per gli uomini di tutti i tempi e di tutte le regioni. La Chiesa, fondata dal Salvatore, è unica per tutti i popoli e per tutte le nazioni, e sotto la sua volta, la quale si inarca come il firmamento sull’universo intero, trovano posto e asilo tutti i popoli e tutte le lingue, e possono svolgersi tutte le proprietà, qualità, missioni e compiti, che sono stati assegnati da Dio, creatore e salvatore, agli individui e alle società umane. L’amore materno della Chiesa è tanto largo da vedere nello sviluppo, conforme al volere di Dio, di tali peculiarità e compiti particolari, piuttosto la ricchezza delle varietà che il pericolo di scissioni; gode dell’elevato livello spirituale degli individui e dei popoli, scorge con gioia e alterezza materna nelle loro genuine attuazioni frutti di educazione e di progresso, che benedice e promuove, ogni qualvolta lo può secondo verità. Ma sa pure che a questa libertà son segnati limiti dal comandamento della divina maestà, che ha voluto e fondato questa Chiesa come unità inseparabile nelle sue parti essenziali. Chi attenta a questa inscindibile unità toglie alla sposa di Cristo uno dei diademi, con cui Dio stesso l’ha coronata; sottomette l’edificio divino che posa su fondamenta eterne, al riesame e alla trasformazione da parte di architetti, ai quali il Padre Celeste non ha concesso alcun potere. – La divina missione, che la Chiesa compie tra gli uomini e deve compiere per mezzo di uomini, può essere dolorosamente oscurata dall’umano, talvolta troppo umano, che, in certi tempi, ripullula quasi zizzania in mezzo al grano del regno di Dio. Chi conosce la parola del Salvatore sopra gli scandali e coloro che li danno, sa come la Chiesa e ciascun individuo deve giudicare su ciò che fu ed è peccato. Ma chi, fondandosi su questi lamentevoli contrasti tra fede e vita, tra parola e azione, tra il contegno esteriore e l’interno sentire di alcuni — e fossero anche molti — pone in oblio, o coscientemente passa sotto silenzio, l’immenso capitale di genuino sforzo verso la virtù, lo spirito di sacrificio, l’amore fraterno, l’eroismo di santità in tanti membri della Chiesa, manifesta una cecità ingiusta e riprovevole. E quando poi si vede che quella rigida misura, con cui egli giudica la odiata Chiesa, viene messa da canto se si tratta di altre società, a lui vicine per sentimento o interesse, allora riesce evidente che, ostentandosi colpito nel suo presunto senso di purezza, si appalesa simile a coloro i quali, secondo la tagliente parola del Salvatore, osservano la pagliuzza nell’occhio del fratello, ma non scorgono la trave nel proprio. Altrettanto meno pura è l’intenzione di coloro i quali pongono a scopo della loro vocazione proprio quel che vi è di umano nella Chiesa, talvolta facendone persino un losco affare, e sebbene la potestà di colui che è insignito della dignità ecclesiastica, posando in Dio, non sia dipendente dalla sua elevatezza umana e morale, non vi è epoca alcuna, né individuo, né società che non debba esaminarsi onestamente la coscienza, purificarsi inesorabilmente, rinnovarsi profondamente nel sentire e nell’operare. Nella Nostra Enciclica sopra il Sacerdozio, in quella sull’Azione Cattolica, abbiamo con implorante insistenza attirato l’attenzione di tutti gli appartenenti alla Chiesa, e soprattutto degli Ecclesiastici, dei Religiosi e dei laici, i quali collaborano nell’apostolato, al sacro dovere di mettere fede e condotta in quell’armonia richiesta dalla legge di Dio e domandata con instancabile insistenza dalla Chiesa. Anche oggi Noi ripetiamo con gravità profonda: non basta essere annoverati nella Chiesa di Cristo, bisogna essere in spirito e verità membri vivi di questa Chiesa. E tali sono solamente coloro che stanno nella grazia del Signore e continuamente camminano alla sua presenza, sia nell’innocenza sia nella penitenza sincera e operosa. Se l’Apostolo delle genti, « il vaso di elezione », teneva il suo corpo sotto la sferza della mortificazione affinché, dopo aver predicato agli altri, non venisse egli stesso riprovato, può darsi forse per quelli, nelle cui mani è posta la custodia e l’incremento del regno di Dio, via diversa da quella dell’intima unione dell’apostolato e della santificazione propria? Solo così si mostrerà agli uomini di oggi, e in prima linea agli oppositori della Chiesa, che il sale della terra e il lievito del Cristianesimo non sono diventati inefficaci, ma sono potenti e pronti a portare rinnovamento spirituale e ringiovanimento a coloro che sono nel dubbio e nell’errore, nell’indifferenza e nello smarrimento spirituale, nel rilassamento della fede e nella lontananza da Dio, di cui essi — l’ammettano o lo neghino — hanno più bisogno che mai. Una Cristianità, in cui tutti i membri vigilino su se stessi, che espella ogni tendenza a ciò che è puramente esteriore e mondano, si attenga seriamente ai comandamenti di Dio e della Chiesa, e si mantenga quindi nell’amore di Dio e nella solerte carità verso il prossimo, potrà e dovrà essere esempio e guida al mondo profondamente infermo, che cerca sostegno e direzione, se non si vuole che sopravvenga un immane disastro o un indescrivibile decadimento.

Ogni riforma genuina e duratura ha avuto propriamente origine dal santuario, da uomini infiammati e mossi dall’amore di Dio e del prossimo; i quali, per la loro grande generosità nel rispondere ad ogni appello di Dio e nel metterlo in pratica anzitutto in se stessi, cresciuti in umiltà e con la sicurezza di chi è chiamato da Dio, hanno illuminato e rinnovato i loro tempi. Dove lo zelo di riforma non scaturì dalla pura sorgente dell’integrità personale, ma fu effetto dell’esplosione di impulsi passionali, invece di illuminare ottenebrò, invece di costruire distrusse, e fu sovente punto di partenza di errori ancora più funesti dei danni, a cui si volle o si pretese portare rimedio. Certamente lo spirito di Dio spira dove vuole(19), dalle pietre può suscitare gli esecutori dei suoi disegni(20), e sceglie gli strumenti della sua volontà secondo i suoi piani, non secondo quelli degli uomini. Ma Egli, che ha fondato la Chiesa e l’ha chiamata in vita nella Pentecoste, non spezza la struttura fondamentale della salutare istituzione, da Lui stesso voluta. Chi è mosso dallo spirito di Dio ha perciò stesso un contegno esteriore ed interiore rispettoso verso la Chiesa, nobile frutto dell’albero della Croce, dono dello Spirito della Pentecoste al mondo bisognoso di guida.

Nelle vostre contrade, Venerabili Fratelli, si elevano voci in coro sempre più forte, che incitano ad uscire dalla Chiesa, e sorgono banditori, i quali, per la loro posizione ufficiale, cercano di risvegliare l’impressione che tale distacco dalla Chiesa, e conseguentemente l’infedeltà verso Cristo Re, sia una testimonianza particolarmente persuasiva e meritoria della loro fedeltà al regime presente. Con pressioni, occulte e palesi, con intimidazioni, con prospettive di vantaggi economici, professionali, civili o d’altra specie, l’attaccamento alla fede dei cattolici, e specialmente di alcune classi di funzionari cattolici, viene sottoposto ad una violenza tanto illegale quanto inumana. Con commozione paterna Noi sentiamo e soffriamo profondamente con coloro che hanno pagato a sì caro prezzo il loro attaccamento a Cristo e alla Chiesa; ma si è ormai giunti a un tal punto, che è in giuoco il fine ultimo e più alto, la salvezza o la perdizione; e quindi unico cammino di salute per il credente resta la via di un generoso eroismo. Quando il tentatore e l’oppressore gli si accosterà con le insinuazioni traditrici di uscire dalla Chiesa, allora egli non potrà che contrapporgli, anche a prezzo dei più gravi sacrifici terreni, la parola del Salvatore: «Allontànati da me, o Satana, perché sta scritto: adorerai il Signore Dio tuo e a lui solo servirai »(21). Alla Chiesa invece rivolgerà queste parole: O tu, che sei madre mia fin dai giorni della mia fanciullezza, mio conforto in vita, mia avvocata in morte, si attacchi la lingua al mio palato, se io, cedendo a terrene lusinghe o minacce, dovessi tradire il mio voto battesimale. A coloro poi, i quali si lusingassero di potere conciliare con l’esterno abbandono della Chiesa la fedeltà interiore ad essa, sia di monito severo la parola del Salvatore: « Chi mi rinnega davanti agli uomini, lo rinnegherò davanti al Padre mio, che è nei cieli »(22).

5. GENUINA FEDE NEL PRIMATO

La fede nella Chiesa non si manterrà pura e incontaminata, se non sarà appoggiata nella fede al primato del Vescovo di Roma. Nello stesso momento in cui Pietro, prevenendo agli altri apostoli e discepoli, professò la sua fede in Cristo, Figlio del Dio vivente, l’annunzio della fondazione della sua Chiesa, dell’unica Chiesa, su Pietro, la roccia(23), fu la risposta di Cristo, che lo ricompensò della sua fede e di averla professata. La fede in Cristo, nella Chiesa e nel Primato stanno perciò in un sacro legame di interdipendenza. Un’autorità genuina e legale è dappertutto un vincolo di unità e una sorgente di forza, un presidio contro lo sfaldamento e la disgregazione, una garanzia dell’avvenire. E ciò si verifica nel senso più alto e nobile, dove, come nel caso della Chiesa, a tale autorità venne promessa l’assistenza soprannaturale dello Spirito Santo e il suo appoggio invincibile. Se persone, che non sono neanche unite nella fede in Cristo, vi adescano e vi lusingano col fantasma di una « chiesa tedesca nazionale », sappiate ciò non essere altro se non un rinnegamento dell’unica Chiesa di Cristo, un apostasia manifesta dal mandato di Cristo di evangelizzare tutto il mondo, che solo una Chiesa universale può attuare. Lo sviluppo storico di altre chiese nazionali, il loro irrigidimento spirituale, il loro soffocamento e asservimento da parte dei poteri laici mostrano la desolante sterilità, che colpisce con ineluttabile sicurezza il tralcio separatosi dal ceppo vitale della Chiesa. Colui che a questi erronei sviluppi fin da principio oppone il suo vigile e irremovibile no, rende un servizio non solo alla purezza della sua fede ma anche alla sanità e forza vitale del suo popolo.

6. NESSUNA ADULTERAZIONE DI NOZIONI E TERMINI SACRI

Venerabili Fratelli, abbiate un occhio particolarmente vigile, quando nozioni religiose vengono svuotate del loro contenuto genuino e applicate a significati profani.

Rivelazione, in senso cristiano, significa la parola di Dio agli uomini. Usare questo stesso termine per suggestioni provenienti dal sangue e dalla razza, per le irradiazioni della storia di un popolo, è, in ogni caso, causare disorientamento. Tali false monete non meritano di passare nel tesoro linguistico di un fedele cristiano.

La fede consiste nel tener per vero ciò che Dio ha rivelato e mediante la Chiesa impone di credere: è « dimostrazione di cose che non si vedono »(24). La fiducia gioiosa e altera sull’avvenire del proprio popolo, cosa cara ad ognuno, significa ben altra cosa che la fede in senso religioso. L’usare l’una per l’altra, il volere sostituire l’una con l’altra e pretendere con ciò di essere riconosciuto come « credente » da un convinto cristiano, è un vuoto gioco di parole, una consapevole confusione di termini, o anche peggio.

L’immortalità, in senso cristiano, è la sopravvivenza dell’uomo dopo la morte terrena, come individuo personale, per l’eterna ricompensa o per l’eterno castigo. Chi con la parola immortale non vuole indicare altro che una sopravvivenza collettiva nella continuità del proprio popolo, per un avvenire di indeterminata durata in questo mondo, perverte e falsifica una delle verità fondamentali della fede cristiana e scuote le fondamenta di qualsiasi concezione religiosa, la quale richiede un ordinamento morale universale. Chi non vuole essere cristiano dovrebbe almeno rinunziare a volere arricchire il lessico della sua miscredenza col patrimonio linguistico cristiano.

Il peccato originale è la colpa ereditaria, propria, sebbene non personale, di ciascuno dei figli di Adamo, che in lui hanno peccato(25), è perdita della grazia, e conseguentemente della vita eterna, con la concupiscenza che ciascuno deve soffocare e domare per mezzo della grazia, della penitenza, della lotta e dello sforzo morale. La passione e morte del Figlio di Dio hanno redento il mondo dal maledetto retaggio del peccato e della morte. La fede in queste verità, fatte oggi bersaglio del basso scherno dei nemici di Cristo nella vostra patria, appartiene all’inalienabile deposito della religione cristiana.

La croce di Cristo, anche se il suo solo nome sia diventato per molti follia e scandalo(26), resta per il cristiano il segno sacrosanto della redenzione, il vessillo di grandezza e di forza morale. Nella sua ombra viviamo, nel suo bacio moriamo; sul nostro sepolcro starà come annunziatrice della nostra fede, testimonio della nostra speranza, protesa verso la vita eterna.

L’umiltà nello spirito del Vangelo e la implorazione dell’aiuto di Dio si accordano bene con la propria dignità, con la fiducia in sé e coll’eroismo. La Chiesa di Cristo, che in tutti i tempi, fino a quelli a noi vicinissimi, conta più confessori e martiri eroici di qualsiasi altra società morale, non ha certo bisogno di ricevere da tali campi insegnamento sul sentimento e l’azione eroica. Nel rappresentare stoltamente l’umiltà cristiana come avvilimento e meschinità, la ripugnante superbia di questi innovatori rende irrisoria soltanto se stessa.

Grazia, in senso largo, può chiamarsi ciò che proviene alla creatura dal Creatore. Grazia, nel senso proprio cristiano della parola, comprende però le gratificazioni soprannaturali dell’amore divino, la degnazione e l’opera per cui mezzo Dio eleva l’uomo a quella intima comunione della sua vita, che il Nuovo Testamento chiama figliolanza di Dio: «Vedete quale grande amore il Padre ci ha mostrato: noi ci chiamiamo figli di Dio, e siamo realmente tali »(27). Il ripudio di questa elevazione soprannaturale alla grazia, a causa di una pretesa peculiarità del carattere tedesco, è un errore, un’aperta dichiarazione di guerra ad una verità fondamentale del Cristianesimo. L’equiparare la grazia soprannaturale coi doni della natura significa violentare il linguaggio, creato e santificato dalla religione. I pastori e i custodi del popolo di Dio faranno bene a opporsi a questo furto sacrilego e a questo lavoro di traviamento degli spiriti.

7. DOTTRINA E ORDINE MORALE

Sulla fede in Dio genuina e pura si fonda la moralità del genere umano. Tutti i tentativi di staccare la dottrina dell’ordine morale dalla base granitica della fede, per ricostruirla sulla sabbia mobile di norme umane, portano, tosto o tardi, individui e nazioni al decadimento morale. Lo stolto, che dice nel suo cuore: « non c’è Dio », si avvierà alla corruzione morale(28). E questi stolti, che presumono di separare la morale dalla religione, sono oggi divenuti legione. Non si accorgono, o non vogliono accorgersi, che col bandire l’insegnamento confessionale, ossia chiaro e determinato, dalle scuole e dall’educazione, coll’impedirgli di contribuire alla formazione della società e della vita pubblica, si percorrono sentieri di impoverimento e di decadenza morale. Nessun potere coercitivo dello Stato, nessun ideale puramente terreno, per quanto grande e nobile, potrà sostituire a lungo andare i più profondi e decisivi stimoli, che provengono dalla fede in Dio e in Gesù Cristo. Se a chi è chiamato ai più ardui cimenti, al sacrificio del suo piccolo io in bene della comunità, si toglie il sostegno morale che gli viene dall’eterno e dal divino, dalla fede elevante e consolatrice in Colui che premia ogni bene e punisce ogni male, allora il risultato finale per innumerevoli uomini non sarà l’adesione al dovere, ma piuttosto la diserzione. L’osservanza coscienziosa dei dieci comandamenti di Dio e dei precetti della Chiesa, i quali ultimi non sono altro che regolamenti derivati dalle norme del Vangelo, è per ogni individuo una incomparabile scuola di disciplina organica, di rinvigorimento morale e di formazione di carattere. È una scuola che esige molto; ma non oltre le forze. Dio misericordioso, quando ordina come legislatore: « tu devi », dà colla sua grazia la possibilità di eseguire il suo comando. Il lasciare quindi inutilizzate energie morali di così potente efficacia, o sbarrar coscientemente ad esse il cammino nel campo dell’istruzione popolare, è opera da irresponsabili, che tende a produrre deficienza religiosa nel popolo. Il connettere la dottrina morale con opinioni umane, soggettive e mutevoli nel tempo, invece di ancorarle nella santa volontà dell’eterno Dio e nei suoi comandamenti, significa spalancare le porte alle forze dissolvitrici. Perciò il promuovere l’abbandono delle eterne direttive di una dottrina morale per la formazione delle coscienze, per la nobilitazione di tutti i campi della vita e di tutti gli ordinamenti, è attentato peccaminoso contro l’avvenire del popolo, i cui tristi frutti amareggeranno le generazioni future.

8. RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO NATURALE

È una caratteristica nefasta del tempo presente il volere distaccare, non solo la dottrina morale, ma anche le fondamenta del diritto e della sua amministrazione dalla vera fede in Dio e dalle norme della rivelazione divina. Il nostro pensiero si rivolge qui a quello che si suole chiamare diritto naturale, che il dito dello stesso Creatore impresse nelle tavole del cuore umano(29), e che la ragione umana sana e non ottenebrata da peccati e passioni può in esse leggere. Alla luce delle norme di questo diritto naturale, ogni diritto positivo, qualunque ne sia il legislatore, può essere valutato nel suo contenuto etico e conseguentemente nella legittimità del comando e nella obbligatorietà dell’adempimento. Quelle leggi umane, che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile né con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna. Secondo questo criterio va giudicato il principio: « Diritto è ciò che è utile alla nazione ». Certo a questo principio può darsi un senso giusto, se si intende che ciò che è moralmente illecito non può essere mai veramente vantaggioso al popolo. Persino l’antico paganesimo ha riconosciuto che, per essere giusta, questa frase dovrebbe essere capovolta e suonare: «Non vi è mai alcunché di vantaggioso, se in pari tempo non è moralmente buono, e non perché è vantaggioso è moralmente buono, ma perché moralmente buono è anche vantaggioso »(30). Questo principio, staccato dalla legge etica, significherebbe, per quanto riguarda la vita internazionale, un eterno stato di guerra tra le nazioni; nella vita nazionale poi misconosce, nel confondere interesse e diritto, il fatto fondamentale che l’uomo, in quanto persona, possiede diritti dati da Dio, che devono essere tutelati da ogni attentato della comunità, che avesse per scopo di negarli, di abolirli e di impedirne l’esercizio. Disprezzando questa verità, si perde di vista che il vero bene comune, in ultima analisi, viene determinato e conosciuto mediante la natura dell’uomo con il suo armonico equilibrio fra diritto personale e legame sociale, come anche dal fine della società determinato dalla stessa natura umana. La società è voluta dal Creatore come mezzo per il pieno sviluppo delle facoltà individuali e sociali, di cui l’uomo ha da valersi, ora dando ora ricevendo per il bene suo e quello degli altri. Anche quei valori più universali e più alti che possono essere realizzati, non dall’individuo, ma solo dalla società, hanno per volontà del Creatore come ultimo scopo l’uomo e il suo sviluppo e perfezionamento naturale e soprannaturale. Chi si allontana da questo ordine, scuote i pilastri su cui riposa la società, e ne pone in pericolo la tranquillità, la sicurezza e l’esistenza.

Il credente ha un diritto inalienabile di professare la sua fede e di praticarla in quella forma che ad essa conviene. Quelle leggi, che sopprimono o rendono difficile la professione e la pratica di questa fede, sono in contrasto col diritto naturale.

I genitori coscienziosi e consapevoli della loro missione educativa hanno prima di ogni altro il diritto essenziale alla educazione dei figli, loro donati da Dio, secondo lo spirito della vera fede e in accordo con i suoi princìpi e le sue prescrizioni. Leggi, o altre simili disposizioni, le quali non tengono conto nella questione scolastica della volontà dei genitori o la rendono inefficace colle minacce o colla violenza, sono in contraddizione col diritto naturale e nella loro intima essenza immorali.

La Chiesa, la cui missione è di custodire ed interpretare il diritto naturale, non può fare altro che dichiarare essere effetto di violenza, e quindi prive di ogni valore giuridico, le iscrizioni scolastiche avvenute in un recente passato in una atmosfera di notoria mancanza di libertà.

9. ALLA GIOVENTÙ

Rappresentanti di Colui che nell’Evangelo disse ad un giovane: « Se vuoi entrare nella vita eterna, osserva i comandamenti »(31), Noi indirizziamo una parola particolarmente paterna alla gioventù.

Da mille bocche viene oggi ripetuto al vostro orecchio un Evangelo che non è stato rivelato dal Padre celeste; migliaia di penne scrivono a servizio di una larva di cristianesimo, che non è il Cristianesimo di Cristo. Tipografia e radio vi inondano giornalmente con produzioni di contenuto avverso alla fede e alla Chiesa, e, senza alcun riguardo e rispetto, assaltano ciò che per voi deve essere sacro e santo. Sappiamo che moltissimi tra voi, a causa dell’attaccamento alla fede e alla Chiesa e dell’appartenenza ad associazioni religiose, tutelate dal Concordato, hanno dovuto e devono attraversare periodi tenebrosi di misconoscimento, di sospetto, di vituperio, di accusa di antipatriottismo, di molteplici danni nella loro vita professionale e sociale. E ben sappiamo come molti ignoti soldati di Cristo si trovano nelle vostre file, che con cuore affranto, ma a testa alta, sopportano la loro sorte e trovano conforto solo nel pensiero che soffrono contumelie nel nome di Gesù(32).

Ed oggi, che incombono nuovi pericoli e nuove tensioni, Noi diciamo a questa gioventù: « Se alcuno vi volesse annunziare un Evangelo diverso da quello che avete ricevuto sulle ginocchia di una pia madre, dalle labbra di un padre credente, dall’insegnamento di un educatore fedele a Dio e alla sua Chiesa, costui sia anatema »(33). Se lo Stato organizza la gioventù in associazione nazionale obbligatoria per tutti, allora, salvi sempre i diritti delle associazioni religiose, i giovani hanno il diritto ovvio e inalienabile, e con essi i genitori responsabili di loro dinanzi a Dio, di esigere che questa associazione sia mondata da ogni tendenza ostile alla fede cristiana e alla Chiesa, tendenza che sino al recentissimo passato, anzi presentemente, stringe i genitori credenti in un insolubile conflitto di coscienza, poiché essi non possono dare allo Stato ciò che viene loro richiesto in nome dello Stato, senza togliere a Dio ciò che appartiene a Dio.

Nessuno pensa di porre alla gioventù tedesca pietre di inciampo sul cammino, che dovrebbe condurre all’attuazione di una vera unità nazionale e fomentare un nobile amore per la libertà e una incrollabile devozione alla patria. Quello contro cui Noi Ci opponiamo, e Ci dobbiamo opporre, è il contrasto voluto e sistematicamente inasprito, mediante il quale si separano queste finalità educative da quelle religiose. Perciò Noi diciamo a questa gioventù: cantate i vostri inni di libertà, ma non dimenticate che la vera libertà è la libertà dei figli di Dio. Non permettete che la nobiltà di questa insostituibile libertà scompaia nei ceppi servili del peccato e della concupiscenza. A chi canta l’inno della fedeltà alla patria terrena non è lecito divenire transfuga e traditore con l’infedeltà al suo Dio, alla sua Chiesa e alla sua patria eterna. Vi parlano molto di grandezza eroica, contrapponendola volutamente e falsamente all’umiltà e alla pazienza evangelica; ma perché vi nascondono che si dà anche un eroismo nella lotta morale? e che la conservazione della purezza battesimale rappresenta un’azione eroica, che dovrebbe essere apprezzata meritevolmente nel campo sia religioso sia naturale? Vi parlano delle fragilità umane nella storia della Chiesa; ma perché vi nascondono le grandi gesta, che l’accompagnarono attraverso i secoli, i santi che essa ha prodotto, il vantaggio che provenne alla cultura occidentale dall’unione vitale tra questa Chiesa e il vostro popolo? Vi parlano molto di esercizi sportivi, i quali, usati secondo una ben intesa misura, danno una gagliardia fisica, che è un beneficio per la gioventù. Ma ad essi viene assegnata oggi spesso un’estensione, che non tiene conto né della formazione integrale e armonica del corpo e dello spirito, né della conveniente cura della vita di famiglia, né del comandamento di santificare il giorno del Signore. Con un’indifferenza, che confina col disprezzo, si toglie al giorno del Signore il suo carattere sacro e raccolto, che corrisponde alla migliore tradizione tedesca. Attendiamo fiduciosi dai giovani tedeschi cattolici che essi, nel difficile ambiente delle organizzazioni obbligatorie dello Stato, rivendichino esplicitamente il loro diritto a santificare cristianamente il giorno del Signore, che la cura di irrobustire il corpo non faccia loro dimenticare la loro anima immortale, che non si lascino sopraffare dal male e cerchino piuttosto di vincere il male col bene(34), che quale loro altissima e nobilissima meta ritengano quella di conquistare la corona della vittoria nello stadio della vita eterna(35).

10. AI SACERDOTI E AI RELIGIOSI

Una parola di particolare riconoscimento, di incoraggiamento, di esortazione rivolgiamo ai sacerdoti della Germania, ai quali, in sottomissione ai loro Vescovi, spetta il compito, in tempi difficili e circostanze dure, di mostrare al gregge di Cristo i retti sentieri con la dottrina e con l’esempio, con la dedizione quotidiana, con la pazienza apostolica. Non vi stancate, figli diletti e partecipi dei divini misteri, di seguire l’eterno sommo sacerdote Gesù Cristo nel suo amore e nel suo ufficio di buon samaritano. Camminate ognora in condotta immacolata davanti a Dio, in incessante disciplinatezza e perfezionamento, in amore misericordioso verso quanti sono a voi affidati, specialmente i pericolanti, i deboli e i vacillanti. Siate guida ai fedeli, appoggio ai titubanti, maestri ai dubbiosi, consolatori degli afflitti, disinteressati soccorritori e consiglieri per tutti. Le prove e le sofferenze, per cui il vostro popolo è passato nel periodo del dopoguerra, non sono trascorse senza lasciar tracce nella sua anima. Vi hanno lasciato tensione e amarezze, che solo lentamente potranno guarirsi ed essere superate nello spirito di un amore disinteressato e operante. Questo amore, che è l’armatura indispensabile dell’apostolo, specialmente nel mondo presente, agitato e sconvolto, Noi lo desideriamo e lo imploriamo per voi da Dio in misura copiosa. L’amore apostolico, se non vi farà dimenticare, vi farà almeno perdonare molte immeritate amarezze, che sul vostro cammino di sacerdoti e di pastori di anime sono più numerose che in qualsiasi altro tempo. Quest’amore intelligente e misericordioso verso gli erranti e gli stessi oltraggiatori non significa peraltro, né può per nulla significare, rinunzia a proclamare, a far valere e a difendere coraggiosamente la verità e ad applicarla liberamente alla realtà che vi circonda. Il primo e il più ovvio dono di amore del sacerdote al mondo è di servire la verità, tutta intera la verità, smascherare e confutare l’errore, qualunque sia la sua forma o il suo travestimento. La rinunzia a ciò sarebbe non solo un tradimento verso Dio e la vostra santa vocazione, ma un delitto nei riguardi del vero benessere del vostro popolo e della vostra patria. A tutti quelli che hanno mantenuto verso i loro Vescovi la fedeltà promessa nell’ordinazione, a quelli i quali nell’adempimento del loro ufficio pastorale hanno dovuto e devono sopportare dolori e persecuzioni — e alcuni sino ad essere incarcerati e mandati ai campi di concentramento, — vada il ringraziamento e l’encomio del Padre della Cristianità. E il Nostro ringraziamento paterno si estende ugualmente ai religiosi di ambo i sessi: un ringraziamento congiunto ad una partecipazione intima per il fatto che, in seguito a misure contro gli Ordini e le Congregazioni religiose, molti sono stati strappati dal campo di un’attività benedetta e a loro cara. Se alcuni hanno mancato e si sono mostrati indegni della loro vocazione, i loro falli, condannati anche dalla Chiesa, non diminuiscono i meriti della stragrande maggioranza di essi, che con disinteresse e povertà volontaria si sono sforzati di servire con piena dedizione il loro Dio e il loro popolo. Lo zelo, la fedeltà, lo sforzo di perfezionarsi, l’operosa carità verso il prossimo e la prontezza soccorritrice di quei religiosi, la cui attività si svolge nella cura pastorale, negli ospedali e nella scuola, sono e restano un glorioso contributo al benessere privato e pubblico, a cui un tempo futuro più tranquillo renderà giustizia più che il turbolento presente. Noi abbiamo fiducia che i superiori delle comunità religiose piglieranno argomento dalle difficoltà e prove presenti per implorare dall’Onnipotente nuovo rigoglio e nuova fertilità sul loro duro campo di lavoro, per mezzo di uno zelo raddoppiato, di una vita spirituale approfondita, di una santa serietà conforme alla loro vocazione e di una genuina disciplina regolare.

11. AI FEDELI LAICI

Davanti ai Nostri occhi sta l’immensa schiera dei Nostri diletti figli e figlie, a cui le sofferenze della Chiesa in Germania e le proprie nulla hanno tolto della loro dedizione alla causa di Dio, nulla del loro tenero affetto verso il Padre della Cristianità, nulla della loro ubbidienza verso i Vescovi e i sacerdoti, nulla della gioiosa prontezza di rimanere anche in futuro, qualunque cosa avvenga, fedeli a ciò che essi hanno creduto e che hanno ricevuto in prezioso retaggio dagli avi. Con cuore commosso inviamo loro il Nostro paterno saluto.

E in primo luogo ai membri delle associazioni cattoliche, che strenuamente e a prezzo di sacrifici spesso dolorosi si sono mantenuti fedeli a Cristo, e non sono stati mai disposti a cedere quei diritti che una solenne Convenzione aveva autenticamente garantito alla Chiesa e a loro. Un saluto particolarmente cordiale va anche ai genitori cattolici. I loro diritti e i loro doveri nell’educazione dei figli, da Dio loro donati, stanno, al momento presente, nel punto cruciale di una lotta, della quale appena si può immaginarne altra più grave. La Chiesa di Cristo non può cominciare a gemere e a deplorare solo quando gli altari vengono spogliati e mani sacrileghe mandano in fiamme i santuari. Quando si cerca di profanare il tabernacolo dell’anima del fanciullo, santificata dal battesimo, con un’educazione anticristiana, quando viene strappata da questo vivo tempio di Dio la fiaccola della fede e viene posta in suo luogo la falsa luce di un succedaneo della fede, che non ha più nulla in comune con la fede della Croce, allora la profanazione spirituale del tempio è vicina ed è dovere di ogni credente di scindere chiaramente la sua responsabilità da quella della parte contraria e la sua coscienza da qualsiasi peccaminosa collaborazione a tale nefasta distruzione. E quanto più i nemici si sforzano di negare od orpellare i loro tetri disegni, tanto più necessaria è una diffidenza oculata e una vigilanza diffidente, stimolata da un’amara esperienza. La formalistica conservazione di un’istruzione religiosa, e per di più controllata e inceppata da gente incompetente, nell’ambiente di una scuola, la quale in altri rami dell’istruzione lavora sistematicamente e astiosamente contro la stessa religione, non può mai presentare titolo giustificativo al fedele cristiano, perché liberamente acconsenta a una tal sorta di scuola, deleteria per la religione. Sappiamo, diletti genitori cattolici, che non è il caso di parlare, riguardo a voi, di un tale consenso e sappiamo che una libera votazione segreta tra voi equivarrebbe ad uno schiacciante plebiscito in favore della scuola confessionale. E perciò non Ci stancheremo neanche nell’avvenire di rinfacciare francamente alle autorità responsabili l’illegalità delle misure violente prese finora, e il dovere di permettere la libera manifestazione della volontà. Intanto non vi dimenticate di ciò: nessuna potestà terrena può sciogliervi dal vincolo di responsabilità voluto da Dio, che unisce voi con i vostri figli. Nessuno di quelli che oggi opprimono il vostro diritto all’educazione e pretendono sostituirsi a voi nei vostri doveri di educatori, potrà rispondere per voi al Giudice eterno, quando egli vi rivolgerà la domanda: « dove sono coloro che io vi ho dati ? » possa ciascuno di voi essere in grado di rispondere: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dati »(36).

* * *

Venerabili Fratelli! Siamo certi che le parole, che Noi rivolgiamo a voi, e per mezzo vostro ai cattolici del Reich germanico, in quest’ora decisiva troveranno nel cuore e nelle azioni dei Nostri fedeli figlioli un’eco corrispondente alla sollecitudine amorosa del Padre Comune. Se vi è cosa che Noi imploriamo dal Signore con particolare fervore, essa è che le Nostre parole pervengano anche all’orecchio e al cuore di quelli che hanno già cominciato a lasciarsi prendere dalle lusinghe e dalle minacce dei nemici di Cristo e del suo santo Vangelo, e li facciano riflettere.

Abbiamo pesato ogni parola di questa Enciclica sulla bilancia della verità e insieme dell’amore. Non volevamo con silenzio inopportuno esser colpevoli di non aver chiarito la situazione, né con rigore eccessivo di aver indurito il cuore di quelli che, essendo sottoposti alla Nostra responsabilità pastorale, non sono meno oggetto del Nostro amore, perché ora camminano sulle vie dell’errore e si sono allontanati dalla Chiesa. Anche se molti di questi, conformatisi alle abitudini del nuovo ambiente, non hanno se non parole di infedeltà, di ingratitudine, e persino di ingiuria, per la casa paterna abbandonata e per il padre stesso, anche se dimenticano quanto prezioso sia ciò di cui essi hanno fatto getto, verrà il giorno in cui il raccapriccio che essi sentiranno della lontananza da Dio e della loro indigenza spirituale graverà su questi figli oggi perduti, e il rimpianto nostalgico li ricondurrà a Dio, che allietò la loro giovinezza, e alla Chiesa, la cui mano materna loro insegnò il cammino verso il Padre celeste. L’affrettare quest’ora è l’oggetto delle nostre incessanti preghiere. – Come altre epoche della Chiesa, anche questa sarà preannunciatrice di nuovi progressi e di purificazione interiore, quando la fortezza della professione della fede e la prontezza nell’affrontare i sacrifici da parte dei fedeli di Cristo saranno abbastanza grandi da contrapporre alla forza materiale degli oppressori della Chiesa l’adesione incondizionata alla fede, l’inconcussa speranza ancora nell’eterno, la forza travolgente di amore operoso. Il sacro tempo della Quaresima e di Pasqua, che predica raccoglimento e penitenza e fa rivolgere lo sguardo del cristiano più che mai alla Croce, ma insieme anche allo splendore del Risorto, sia per tutti e per ciascuno di voi un’occasione che saluterete con gioia e sfrutterete con ardore, per riempire tutto l’animo dello spirito eroico paziente e vittorioso che si irradia dalla Croce di Cristo. Allora i nemici di Cristo — di ciò siamo sicuri — che vaneggiano sulla scomparsa della Chiesa, riconosceranno che troppo presto hanno giubilato e troppo presto hanno voluto seppellirla. Allora verrà il giorno, in cui, invece dei prematuri inni di trionfo dei nemici di Cristo, si eleverà al cielo dai cuori e dalle labbra dei fedeli il «Te Deum » della liberazione: un «Te Deum » di ringraziamento all’Altissimo, un «Te Deum » di giubilo, perché il popolo tedesco, anche nei suoi membri erranti, avrà ritrovato il cammino del ritorno alla religione, con una fede purificata dal dolore, piegherà di nuovo il ginocchio dinanzi al Re del tempo e dell’eternità, Gesù Cristo, e si accingerà in lotta contro i rinnegati e i distruttori dell’occidente cristiano, in armonia con tutti gli uomini ben pensanti delle altre nazioni, a compiere la missione, che gli hanno assegnato i piani dell’Eterno. – Egli, che scruta i cuori e i reni, Ci è testimonio che Noi non abbiamo aspirazione più intima che quella del ristabilimento di una vera pace tra la Chiesa e lo Stato in Germania. Ma se, senza colpa Nostra, la pace non verrà, la Chiesa di Dio difenderà i suoi diritti e le sue libertà, in nome dell’Onnipotente, il cui braccio anche oggi non si è abbreviato. Pieni di fiducia in Lui « non cessiamo di pregare e di invocare », per voi, figli della Chiesa, affinché i giorni della tribolazione vengano accorciati e voi siate trovati fedeli nel dì della prova; anche ai persecutori e agli oppressori possa il Padre di ogni luce e di ogni misericordia concedere l’ora del ravvedimento per sé e per i molti che insieme con loro hanno errato ed errano. – Con questa implorazione nel cuore e sulle labbra, Noi impartiamo, quale pegno del divino aiuto, quale appoggio nelle vostre decisioni difficili e piene di responsabilità, quale corroboramento nella lotta, quale conforto nel dolore, a Voi vescovi, pastori del vostro fedele popolo, ai sacerdoti, ai religiosi, agli apostoli laici dell’Azione Cattolica e a tutti i vostri diocesani, e non ultimi agli ammalati e ai prigionieri, con amore paterno la Benedizione Apostolica.

Dato in Vaticano, nella Domenica di Passione, 14 marzo 1937.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. Leone XII – “AD PLURIMAS”

Questa breve lettera di S. S. Leone XII, annunzia la volontà di intraprendere l’opera colossale della ricostruzione della Chiesa romana di S. Paolo fuori le mura, distrutta da un violento incendio. La Chiesa è una delle principali quattro chiese che devono visitarsi in occasione dei Giubilei della Chiesa Cattolica e le cui porte si aprono appunto in tale occasione, onde acquisire le indulgenze relative. Si chiedeva naturalmente anche un sostegno economico, visto che i mezzi finanziari della Santa Sede, erano ridotti all’epoca ai minimi storici per gli attacchi di ogni genere che le erano portati da ambienti anticlericali legati alle sette di perdizione ed ai banchieri usurai già allora in piena attività. Ci fu, come sappiamo, una gara di solidarietà e di messa a disposizione di risorse economiche private, piccole o grandi secondo la disponibilità, che resero possibile il miracolo della ricostruzione del venerabile tempio dedicato all’Apostolo delle genti che portò il Cristianesimo tra i popoli pagani ed i gentili fino a conquistare tutto l’orbe terrestre. Vedere oggi questo tempio usurpato da chierici falsi – oltre che indegni – al servizio dell’errore e dell’apocalittica « bestia uccisa risorta », che è parte del corpo del diavolo insieme ai fasi profeti modernisti del Vaticano attuale, e alle bestie del mare e della terra, è cosa che rende tristi e sbigottiti i fedeli della vera Chiesa Cattolica, la Chiesa di Cristo – l’unica che garantisca la salvezza eterna dell’anima – quella “Donna” alla quale sono state date ali per volare nel deserto onde sfuggire al dragone che vorrebbe distruggerla … si fieri potest (Apoc. XII.). Ma una speranza sostiene il pusillus grex – il resto dei fedeli a Cristo – anzi la certezza della venuta dall’Oriente come un baleno del Signore Gesù Cristo che distruggerà – secondo le parole profeticamente ispirate dallo Spirito Santo a S. Paolo – con il soffio della sua bocca, l’anticristo ed i suoi adepti … laici, politici asserviti, banchieri kazari mondialisti, falsi chierici in talari vario cromate e clargyman di alta sartoria, modernisti, apostati, scismatici, eretici … et IPSA conteret …

S. S. LEONE XII

Ad plurimas

Lettera Enciclica

Roma, 25 gennaio 1825

Ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi.

Il Papa Leone XII.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Alle molteplici e terribili calamità che hanno angustiato il memorabile Pontificato del gloriosissimo Nostro Predecessore, Noi abbiamo veduto, con il più grande dolore di questa città e di tutti i popoli cattolici, aggiungersi l’incendio per il quale una Basilica così antica, portento di valore, di solennità, d’arte, eretta ad onore dell’Apostolo dottore delle genti, monumento insigne della pietà e della magnificenza di Costantino il Grande, dal quale era stata fondata, degli imperatori Valentiniano, Teodosio, Arcadio ed Onorio dai quali era stata ampliata ed ornata con nuove opere, infine dei Pontefici Romani, dai quali era stata restaurata, bruciò in poche ore, una notte, per un improvviso incendio. Lo stesso Nostro Predecessore [Pio VII] aveva mostrato la sua pietà verso il santo Apostolo, comandando che si facessero le riparazioni necessarie alla Basilica, ma si vide che occorrevano grandi mezzi in quanto l’incredibile violenza delle fiamme aveva distrutto quasi tutto. – Pochi giorni dopo seguì per Noi e per tutta la Chiesa un altro acerbissimo dolore: la morte dello stesso Pontefice. Per volontà di Dio, Noi fummo messi al suo posto, sebbene con meriti tanto ineguali. Dolenti per quel funesto sinistro che privò Roma di un sì magnifico ornamento, venerando gli augusti misteri della divina Provvidenza, in mezzo alle altre onerose cure del Nostro ministero, Noi abbiamo rivolto il pensiero a quelle rovine, e abbiamo invocato tutti i soccorsi dell’arte e dell’industria affinché potesse rimanere in piedi quel poco che era sfuggito alle fiamme. Così, mediante il Nostro zelo, speravamo di far aprire nel prossimo Anno Santo la porta d’oro di quella Basilica, come al solito. Questa speranza Ci ha fatto nominare la Basilica Ostiense nella Nostra lettera di indizione del Giubileo universale insieme alle altre Basiliche patriarcali che si dovevano visitare per ottenere l’indulgenza. Se non che, dopo le prime rovine, se ne scopersero tante altre e così grandi che abbiamo chiaramente riconosciuto che non vi si potevano celebrare le sacre cerimonie del Giubileo, com’era Nostro desiderio, senza grave pericolo. Abbiamo pertanto dovuto abbandonare il Nostro pensiero, ed ordinare che la Chiesa venisse completamente riedificata. Ma trovammo un ostacolo nella tenuità delle Nostre rendite; il che a nessuno parrà strano dopo tante perdite sofferte da questo Stato. Ciò nondimeno, Noi non Ci siamo perduti d’animo ed abbiamo intrapreso l’opera, non dubitando punto che i fedeli non solo avrebbero lodato il Nostro proposito, ma anzi Ci avrebbero aiutato a gara con i loro mezzi per portare a compimento l’opera. – Infatti, chi sarà colui che non vorrà fare tutto quello che potrà per assecondare i Nostri voti, se soltanto considera che Noi li abbiamo formulati per la gloria e per il culto di un uomo di cui lo stesso Cristo disse: “Codesto è il mio vaso d’elezione, destinato a portare il mio nome alle nazioni ed ai Re”? Di lui, che da quell’istante, infiammato dalla forza della divina carità, “essendosi fatto tutto a tutti, per guadagnare tutti a Cristo”, percorse tanti paesi in viaggi asperrimi, si espose a tutti i pericoli di terra e di mare, sostenne con coraggio indicibile la povertà, le veglie, la fame, i naufragi, le piaghe, le lapidazioni, i tradimenti, le miserie d’ogni genere, tanto che, a dispetto della sua modestia, fu, dall’ispirazione dello Spirito Santo, costretto a dire che egli “aveva faticato più di qualunque altro discepolo di Cristo”? Di lui, infine, che, donando il suo sangue e la sua vita, confermò con un glorioso martirio quella verità che aveva insegnato con le parole e con l’esempio, e che Ci permette di affermare che, particolarmente per opera sua, i nostri padri furono chiamati da Cristo “dalle tenebre all’ammirabile sua luce”? Paolo respira e vive ancora nelle sue lettere che, quand’anche mancassero altri argomenti, basterebbero esse sole a convincere gli uomini al Vangelo, tanto è presente in esse la parola di Dio, “viva ed efficace, più penetrante di qualunque lama a due tagli, che giunge fino alla divisione del cuore e dello spirito”. E dopo che noi gli dobbiamo tanto, che di più non potremmo, ci sarà un uomo così ingrato che non si ritenga obbligato a contribuire, per quanto può, alla gloria dell’Apostolo? – L’Apostolo è stato animato da un amore tanto grande per Cristo, tanto ha sofferto per Lui e con tanto frutto, che dovremmo stimare grandissima l’efficacia della sua protezione presso Dio e grandissimi il merito e la venerazione di cui gode presso tutti. Egli ha il suo posto presso quel supremo Principe a cui sono state consegnate le chiavi del Paradiso. Ora si trova davanti a Dio, intercessore per la Chiesa; ed alla fine del mondo giudicherà con Cristo le “dodici tribù d’Israele”. E come quelle due luci della Chiesa, uguali l’una all’altra, avendo ambedue ricevuto “le primizie dello Spirito”, hanno i primi seggi nel cielo, egualmente ad ambedue sulla terra si sono sempre resi i primi onori. Dio ha concesso a ciascuno la sua ricompensa, in modo che in coloro che particolarmente si sforzarono di diffondere la gloria divina, si compie l’oracolo di Dio: “Chiunque mi glorifica, sarà da me glorificato”. Così è accaduto che per le esortazioni dei Nostri Predecessori Bonifacio IX, Martino V, Eugenio IV, molti cittadini e stranieri contribuirono abbondantemente al restauro di ambedue le Basiliche; così per i doni generosi di Giulio II e dei suoi Successori, congiunti alle spontanee offerte di altre persone, sorse la Chiesa del Vaticano, una delle più ampie e più belle di tutto l’universo. Così per gli stessi motivi Noi abbiamo fiducia che si mostreranno pii e liberali tutti quelli che sono fedeli a Cristo e a questa Santa Sede mentre, nel nome di Paolo, chiediamo loro un aiuto per le Nostre necessità. Noi dobbiamo aspettarci questo soccorso dal popolo devoto, tanto più che Ci sembra essere pervenuto a Noi, da Dio stesso, questo pensiero, questo desiderio di mantenere viva fra noi la gloria dell’Apostolo, in quanto, in mezzo all’orrore della volta crollata sulle rovine delle grandi colonne di marmo ridotte in cenere, intera si è conservata la tomba dell’Apostolo, così come, in Babilonia, i tre giovinetti restarono illesi nell’ardente fornace. – Si ergerà dunque sullo stesso suolo, non lungi dal luogo in cui ha dato la vita per Cristo; si ergerà di nuovo una Chiesa a Paolo, al compagno dei meriti e della gloria di Pietro. Se non avrà più quelle colonne e quegli altri ornamenti d’inestimabile valore che un giorno aveva, la chiesa sarà costruita con quella magnificenza che le offerte raccolte permetteranno; di nuovo si onorerà doverosamente quella tomba alla quale secondo la testimonianza del grande Crisostomo (che per essa desiderava principalmente vedere Roma) accorrevano ossequiosi gli imperatori, i consoli, i condottieri, ed a cui non cessavano di portarsi in folla, come ad una fonte perenne di celesti beneficenze, uomini d’ogni età e ordine, che a tale scopo intraprendevano lunghi pellegrinaggi. – Dio volesse, Venerabili Fratelli, che la forza e la nobiltà delle parole che uscivano dalla bocca di Crisostomo nel parlare dei meriti di San Paolo, fossero possedute anche da Noi per eccitare il cuore dei fedeli. Voi, investendovi del suo spirito, saprete trarre dai suoi meravigliosi sermoni gli argomenti più validi a far sì che i vostri fedeli si infiammino di venerazione e di amore per l’Apostolo delle genti, per il loro Apostolo, e facciano tutto il possibile per cooperare con i Nostri sforzi. Noi sappiamo ciò che San Paolo ha fatto per i fedeli; non esitiamo a farlo per lui. Egli raccolse ovunque elemosine e le portò a Gerusalemme per alleviare la povertà materiale dei fedeli. Voi raccoglierete elemosine per mezzo delle quali davanti a Dio, con l’intercessione dell’Apostolo, potrete soccorrere ai bisogni spirituali dei fedeli. In una parola, Noi vi eleggiamo Nostri coadiutori in un’impresa così religiosa. Tutto quello che avrete ricevuto dalla pietà dei fedeli, procurate che sia inviato a Noi. Noi vi scriviamo con tanta fiducia nella vostra pietà e nel vostro buon volere, che speriamo vedere persino superata la Nostra attesa. Vi sarà un numero considerevole di imitatori di quella felicissima vedova che fu degna di un particolare encomio da parte di Cristo Signore: “Ella era povera, e, malgrado la sua povertà, depose nel tesoro più di quello che vi deposero coloro che nuotavano nell’abbondanza”. Noi speriamo pertanto che la Basilica risorga dalle macerie con quella magnificenza che conviene al nome e alla memoria del Dottore delle genti. Pervasi da questa speranza, Ci sentiamo consolati nel Nostro dolore; vi auguriamo i beni più salutari, Venerabili Fratelli, e vi impartiamo con sincero affetto la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 gennaio 1825, anno secondo del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “OPTIME NOSCITIS”

Questa breve lettera Enciclica del Santo Padre S. S. Pio IX, ci presenta un documento che fotografa, se così si può dire, una situazione idilliaca scaturita da una collaborazione fruttuosa tra l’Imperatore cristiano Francesco Giuseppe, e la Sede Apostolica, cioè tra governo civile e Chiesa Cattolica, a tutto vantaggio sociale e spirituale dei cittadini – cristiani e non – dell’Impero austro-ungarico. Si tratta di uno degli ultimi esempi di questa stretta benefica collaborazione tra il potere temporale e quello spirituale di una Nazione cristiana, prima del dilagare dell’empietà delle sette di perdizione che doveva poi degenerare in rovinose guerre e rivoluzioni, e peggio ancora, nell’apostasia dal Cristianesimo e l’istituzione di una cultura massonica atea, della separazione e della morte, di cui oggi raccogliamo i marci frutti con una umanità soggetta interamente al vizio, alla corruzione ed alla morte, quella del corpo e poi quella più funesta dell’anima. La soddisfazione del Pontefice si traduce poi nelle raccomandazioni finali rivolte ai Vescovi di quell’Impero cristiano …. « sarà ora vostro compito, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, di consigliarvi fra Voi e di vigilare con molta attenzione affinché nelle vostre Diocesi sia custodito integro e inviolato il deposito della santissima Fede Cattolica, e si provveda con il più alacre e vigile zelo alla retta educazione dei chierici; sia custodita e protetta la disciplina del Clero, e sia ripristinata ove si sia allentata; si assegni l’incarico di parroci e gli altri benefici ecclesiastici soltanto ad idonei e stimati sacerdoti; si provveda alla sana educazione della gioventù; si pasca e si nutra il gregge affidato alla vostra cura con l’annuncio della divina parola, con salutari ammonimenti e con opportuni scritti; si convochino Sinodi … ». – Tutto questo passerà ovviamente totalmente inosservato nella falsa chiesa dell’uomo roncalli-montiniana, ed in quella tragicomica del conciliabolo e postconciliabolo, sostituitasi alla Chiesa Cattolica con l’intento dichiarato di  « … non custodire integro e inviolato il deposito della santissima Fede Cattolica », ma di sostituirlo con l’indefferentismo religioso pseudo-ecumenico e con un panteismo naturalista-ecologista di impianto mondialista e comunista, nel senso della setta protestante-anabattista travestita da fraticelli medievali, gli eretici difesi dal divin copione, il sodomita Dante Alighieri.

Pio IX

Optime noscitis

Voi ben sapete, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, che il carissimo Figlio Nostro in Cristo Francesco Giuseppe, Imperatore d’Austria e Re Apostolico, ha presso Noi e questa Santa Sede molti titoli di merito per l’avita sua fede religiosa e per il vivo interesse verso la realtà cattolica; fin dall’esordio del suo regno, accogliendo con la massima compiacenza i nostri più che giusti desideri, non ha avuto nulla di più caro che dedicare i suoi pensieri e le sue premure alla difesa della libertà della Chiesa Cattolica nei suoi vastissimi territori, allorché Egli mise mano ad un’opera tanto salutare quando pubblicò il decreto del 18 aprile 1850 con somma gloria del suo nome e col più grande compiacimento di tutti i buoni. Da allora lo stesso piissimo Imperatore e Sovrano, assecondando con pietà filiale ogni giorno di più le Nostre richieste e giustamente conoscendo quanto la Chiesa Cattolica e la sua salvifica dottrina assicurino la vera felicità e la pace dei popoli, Ci chiese con insistenza di stipulare con Lui una Convenzione che Ci concedesse facoltà di consultare, con la Nostra Autorità Apostolica, gli ecclesiastici di tutto il suo Impero e di affrontare tutti i problemi di tutti i territori che di esso fanno parte.

Pertanto con grande gioia del Nostro animo, accogliendo assai volentieri i desideri piissimi di quel Sovrano, ritenemmo di dover affrontare con Lui la Convenzione e fummo pervasi da profonda consolazione dal momento che in virtù della stessa Convenzione e con l’aiuto di Dio potemmo rivendicare e proteggere nel migliore dei modi la libertà della Chiesa Cattolica e i suoi venerandi diritti, e potemmo sanare non poche e gravissime questioni ecclesiastiche nei vastissimi territori di quell’Impero. Di conseguenza, mentre Ci congratuliamo dal profondo dell’animo con il carissimo in Cristo Figlio Nostro e gli rivolgiamo meritate e amplissime lodi, poiché si gloria di aver professato e venerato con tanto amore la nostra santissima Religione e, con pari devozione, Noi e questa Cattedra di Pietro, vi scriviamo questa lettera, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, con la quale vivamente sollecitiamo la insigne e provata vostra religiosità e il vostro zelo pastorale, affinché avvertiate il vantaggio di quella maggiore libertà di cui in tutte codeste regioni dell’Impero d’Austria la Chiesa cattolica deve fruire e godere, e vogliate adempiere con somma diligenza, con sommo impegno, con energia, tutti i doveri del vostro ministero per l’incremento, il decoro e la prosperità della stessa Chiesa e per la salute delle anime.

Sarà ora vostro compito, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, di consigliarvi fra Voi e di vigilare con molta attenzione affinché nelle vostre Diocesi sia custodito integro e inviolato il deposito della santissima fede cattolica, e si provveda con il più alacre e vigile zelo alla retta educazione dei chierici; sia custodita e protetta la disciplina del Clero, e sia ripristinata ove si sia allentata; si assegni l’incarico di parroci e gli altri benefici ecclesiastici soltanto ad idonei e stimati sacerdoti; si provveda alla sana educazione della gioventù; si pasca e si nutra il gregge affidato alla vostra cura con l’annuncio della divina parola, con salutari ammonimenti e con opportuni scritti; si convochino Sinodi sia provinciali, sia diocesani, in modo che possiate provvedere ogni giorno di più al maggior bene dei vostri fedeli. In verità, Diletti Figli e Venerabili Fratelli, non riteniamo di dovervi spiegare ciò che principalmente riguarda alcuni articoli della stessa Convenzione che desideriamo siate Voi stessi ad eseguire e ad applicare, in modo da favorire sempre più, tra codesto Impero cattolico, la Chiesa e la Sede Apostolica, quella graditissima concordia da cui ridondano ogni sorta di beni sulla comunità cristiana e civile.

In primo luogo vi avvertiamo che nello stesso tempo in cui diffonderete le vostre lettere pastorali e altri atti, dovrete mandare una copia di essi al Cesareo, Apostolico e Regale Governo, per lo meno a titolo d’informazione; dovrete pure segnalare allo stesso Governo la data di convocazione dei Sinodi; per la stessa ragione dovrete far pervenire al Governo un esemplare degli atti sinodali non appena essi diventino di pubblico diritto allorché saranno divulgati. Per quanto riguarda i Sinodi Diocesani, abbiamo saputo che non pochi del Vostro Ordine Episcopale desiderano vivamente di essere investiti di quella facoltà che da Noi fu concessa al Vescovo Leodiense con il rescritto edito il 4 maggio 1851. Abbiamo intenzione di assecondare i desideri di coloro che a Noi chiederanno tale facoltà e che insieme esporranno attentamente le peculiari condizioni della propria Diocesi, in modo che Noi possiamo prendere quelle decisioni che riterremo più opportune per ciascuna Diocesi. Siccome abbiamo per certo che per codesto Governo cattolico nulla vi sarà di più degno che incoraggiare e favorire lo spirito religioso e la pietà, così, se lo stesso Governo avrà espresso il voto di riservare a sé quanto riguarda la forma e il metodo con cui i libri di religione sono scritti ad uso delle Scuole, così Voi dovrete regolarvi secondo tale desiderio, salvo sempre ed incolume il vostro diritto di giudicare la dottrina contenuta in quei libri. Usate ogni cura affinché agli inizi, ossia nelle Scuole elementari, per insegnare il catechismo siano adottati quei libri dai quali la gioventù impari la sola dottrina della Chiesa Cattolica e affinché in quei libri non avvenga correzione alcuna, salvo non sopraggiunga un grave motivo, e sempre dopo esservi consultati fra Voi. E poiché vi è noto e risaputo quale grande differenza corra tra il sacro e il profano, dopo esservi consultati, proponetevi con ogni cura di formare gli adolescenti chierici, fin dagli anni più teneri, alla pietà, ad ogni virtù e allo spirito sacerdotale; di istruirli seriamente soprattutto nelle lettere e nelle sacre dottrine, del tutto aliene da ogni pericolo di qualsivoglia errore, in modo che nei vostri Seminari sia accurata l’educazione ecclesiastica e prevalga quel metodo di ottimi studi che, valutate le circostanze degli eventi, dei tempi e dei luoghi, possa procurare il maggior profitto alla Chiesa e contemporaneamente il Clero possa risplendere di salutare e solida dottrina. Pertanto nello scegliere i professori o i maestri usate particolare diligenza e vigilanza, e non vogliate in alcun caso affidare il difficile incarico d’insegnare se non a uomini che per religione, pietà, integrità di vita, severità di costumi e per merito di sana dottrina siano in tutto eccellenti. È tuttavia possibile che, per le tristissime e a tutti note vicende, tra gli Ecclesiastici si trovi chi non è gradito alla Cesarea e Apostolica Sua Maestà e perciò, per rimuovere del tutto ogni difficoltà, avrete cura nel conferire i benefici sia nelle parrocchie sia ad altri ecclesiastici, di non scegliere per essi quei sacerdoti che sono meno accetti alla Cesarea e Apostolica Sua Maestà. E ciò potrete capire sia dalla stessa indole e condizione degli ecclesiastici, sia dai precedenti atti del Governo, sia usando altri idonei accorgimenti. Inoltre, per la stessa ragione, prima di scegliere i professori e i maestri del Seminario, è necessario che indaghiate accortamente e siate certi che la stessa Cesarea e Apostolica Maestà non abbia qualche prevenzione verso di essi per ragioni politiche. Infine vi stia sommamente a cuore vigilare continuamente affinché nelle funzioni ecclesiastiche e soprattutto nel sacrosanto sacrificio della Messa, nonché nella somministrazione dei Sacramenti si usino con pia e religiosa attenzione le formule della Chiesa, nella lingua di ogni rito già approvato da questa Sede Apostolica. E cercate assiduamente di evitare che per l’avvenire i Prelati inferiori ai Vescovi, celebrino le sacre funzioni con rito pontificale, salvo che non abbiano ottenuto uno speciale privilegio dalla stessa Santa Sede e a condizione che chi ha conseguito detto privilegio dovrà osservare scrupolosamente quelle disposizioni, che sono contenute sia nel decreto di Alessandro VII, Nostro Predecessore di degna memoria, pubblicato il 27 settembre 1659, sia nella lettera Apostolica di Pio VII, parimenti Nostro Predecessore di felice ricordo, che comincia con Decet Romanos Pontifices e che è stata scritta il 4 luglio 1823. Tenete presenti, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, tutte le questioni che Vi abbiamo sottoposto; per certo non dubitiamo che, grazie alla vostra pietà e alla singolare e provata devozione verso Noi e verso questa Santa Sede, accoglierete con docili orecchie tutti i Nostri consigli e avrete cura di comprendere e di eseguire quanto vi abbiamo detto.

Frattanto non dimentichiamo di chiedere umilmente e insistentemente a Dio Ottimo Massimo che sempre effonda propizio i ricchi doni dalla sua bontà sopra di Voi, e benedica le vostre attività pastorali, le decisioni e gli affanni per cui la nostra santissima Religione e la sua Dottrina possano dilatarsi ogni giorno di più nelle vostre Diocesi e felicemente ovunque prosperino e fioriscano. E come auspicio di tutti i doni celesti e come testimonianza dell’ardente Nostro amore per Voi, impartiamo dal profondo del cuore l’Apostolica Benedizione a ciascuno di Voi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, e a tutti i Chierici di codeste Chiese e ai Laici fedeli affidati alla vostra cura.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 5 novembre 1855, anno decimo del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – RERUM NOVARUM (2)

La questione sociale, non trova soluzione né rimedio alcuno senza che si ricorra alla Religione Cattolica e alla dottrina della Chiesa … Questo è il compendio che il Pontefice indicava già in precedenza nel corso della presente Enciclica. Qui definisce i ruoli complementari ma subordinati alla Chiesa, dello Stato nei confronti dei cittadini o sudditi, e il ruolo delle associazioni. Il mondo di oggi invece ha escluso il ruolo della Chiesa e della Religione – unica vera – da ogni processo sociale, da ogni contesto produttivo, assegnando alle speculazioni finanziarie di usurai senza scrupolo, che manipolano burattini sciocchi asserviti alle logge massoniche dirette dalle forze oscure e tenebrose dedite a culti satanici e a pratiche esoteriche, il compito di regolare il mondo del lavoro e l’assetto sociale, con i risultati che tutti possiamo con orrore e raccapriccio vedere. In pratica la moderna politica finanziaria, sociale, lavorativa è gestita dai poteri infernali che per poter liberamente operare, oltre alle zecche di stato, ai mass media volutamente ignoranti ma obbedienti, hanno dovuto scardinare – almeno in apparenza – le strutture ecclesiastiche e le direttive dottrinali della Chiesa di Cristo non solo dall’esterno con le mille abominevoli teorie filosofiche, pedagogiche, economiche, tutte minate dall’immanentismo e panteismo gnostico – vedi socialismo, comunismo, liberismo sfrenato, mondialismo … – ma direttamente dall’interno introducendosi con logge del G. O., degli Illuminati e del B’nai b’rith fin nel tempio sacro, facendone una turpe conchiglia che mostra un’apparenza di Cristianesimo modernista, in sostanza sterco gnostico indorato condito da indifferentismo, soggettivismo, ecumenismo becero anticristiano che mescola un ignobile finto Cattolicesimo al protestantesimo di ogni risma ed eresia, al talmudismo-kabalistico, al maomettanesimo ebionita, taoismo, buddismo, e finanche all’animismo, a sciamanesimo e allo spiritismo. A questo punto dobbiamo solo aspettare che si compiano gli eventi profetizzati e che la bestia, i falsi profeti ed il dragone maledetto siano gettati nello stagno dell’eterno fuoco.

RERUM NOVARUM

LETTERA ENCICLICA DI

S.S. LEONE XIII -2-

1 – Il diritto d’intervento dello Stato

26. I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi in maniera generale con tutto il complesso delle leggi e delle istituzioni politiche, ordinando e amministrando lo Stato in modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità. Questo infatti è l’ufficio della civile prudenza e il dovere dei reggitori dei popoli. Ora, la prosperità delle nazioni deriva specialmente dai buoni costumi, dal buon assetto della famiglia, dall’osservanza della religione e della giustizia, dall’imposizione moderata e dall’equa distribuzione dei pubblici oneri, dal progresso delle industrie e del commercio, dal fiorire dell’agricoltura e da altre simili cose, le quali, quanto maggiormente promosse, tanto più felici rendono i popoli. Anche solo per questa via, può dunque lo Stato grandemente concorrere, come al benessere delle altre classi, così a quello dei proletari; e ciò di suo pieno diritto e senza dar sospetto d’indebite ingerenze; giacché provvedere al bene comune è ufficio e competenza dello Stato. E quanto maggiore sarà la somma dei vantaggi procurati per questa generale provvidenza, tanto minore bisogno vi sarà di tentare altre vie a salvezza degli operai.

a) per il bene comune

27. Ma bisogna inoltre considerare una cosa che tocca più da vicino la questione: che cioè lo Stato è una armoniosa unità che abbraccia del pari le infime e le alte classi. I proletari né di più né di meno dei ricchi sono cittadini per diritto naturale, membri veri e viventi onde si compone, mediante le famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne sono il maggior numero. Ora, essendo assurdo provvedere ad una parte di cittadini e trascurare l’altra, è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai; non facendolo, si offende la giustizia che vuole si renda a ciascuno il suo, Onde saggiamente avverte san Tommaso: Siccome la parte e il tutto fanno in certo modo una sola cosa, così ciò che è del tutto è in qualche maniera della parte (S. Th. II-II, q. 61, a. 1 ad 2). Perciò tra i molti e gravi doveri dei governanti solleciti del bene pubblico, primeggia quello di provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini, osservando con inviolabile imparzialità la giustizia cosiddetta distributiva.

b) per il bene degli operai

Sebbene tutti i cittadini senza eccezione alcuna, debbano cooperare al benessere comune che poi, naturalmente, ridonda a beneficio dei singoli, tuttavia la cooperazione non può essere in tutti né uguale né la stessa. Per quanto si mutino e rimutino le forme di governo, vi sarà sempre quella varietà e disparità di condizione senza la quale non può darsi e neanche concepirsi il consorzio umano. Vi saranno sempre pubblici ministri, legislatori, giudici, insomma uomini tali che governano la nazione in pace, e la difendono in guerra; ed è facile capire che, essendo costoro la causa più prossima ed efficace del bene comune, formano la parte principale della nazione. Non possono allo stesso modo e con gli stessi uffici cooperare al bene comune gli artigiani; tuttavia vi concorrono anch’essi potentemente con i loro servizi, benché in modo indiretto. Certo, il bene sociale, dovendo essere nel suo conseguimento un bene perfezionativo dei cittadini in quanto sono uomini, va principalmente riposto nella virtù. Nondimeno, in ogni società ben ordinata deve trovarsi una sufficiente abbondanza dei beni corporali, l’uso dei quali è necessario all’esercizio della virtù (S. Th., De reg, princ. I,17). Ora, a darci questi beni è di necessità ed efficacia somma l’opera e l’arte dei proletari, o si applichi all’agricoltura, o si eserciti nelle officine. Somma, diciamo, poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che forma la ricchezza nazionale. È quindi giusto che il governo s’interessi dell’operaio, facendo si che egli partecipi ín qualche misura di quella ricchezza che esso medesimo produce, cosicché abbia vitto, vestito e un genere di vita meno disagiato. Si favorisca dunque al massimo ciò che può in qualche modo migliorare la condizione di lui, sicuri che questa provvidenza, anziché nuocere a qualcuno, gioverà a tutti, essendo interesse universale che non rimangano nella miseria coloro da cui provengono vantaggi di tanto rilievo.

2 – Norme e limiti del diritto d’intervento

28. Non è giusto, come abbiamo detto, che il cittadino e la famiglia siano assorbiti dallo Stato: è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti. Tuttavia, i governanti debbono tutelare la società e le sue parti. La società, perché la tutela di questa fu da natura commessa al sommo potere, tanto che la salute pubblica non è solo legge suprema, ma unica e totale ragione della pubblica autorità; le parti, poi, perché filosofia e Vangelo si accordano a insegnare che il governo è istituito da natura non a beneficio dei governanti, bensì dei governati. E perché il potere politico viene da Dio ed è una certa quale partecipazione della divina sovranità, deve amministrarsi sull’esempio di questa, che con paterna cura provvede non meno alle particolari creature che a tutto l’universo. Se dunque alla società o a qualche sua parte è stato recato o sovrasta un danno che non si possa in altro modo riparare o impedire, si rende necessario l’intervento dello Stato.

29. Ora, interessa il privato come il pubblico bene che sia mantenuto l’ordine e la tranquillità pubblica; che la famiglia sia ordinata conforme alla legge di Dio e ai principi di natura; che sia rispettata e praticata la religione; che fioriscano i costumi pubblici e privati; che sia inviolabilmente osservata la giustizia; che una classe di cittadini non opprima l’altra; che crescano sani e robusti i cittadini, atti a onorare e a difendere, se occorre, la patria. Perciò, se a causa di ammutinamenti o di scioperi si temono disordini pubblici; se tra i proletari sono sostanzialmente turbate le naturali relazioni della famiglia; se la religione non é rispettata nell’operaio, negandogli agio e tempo sufficiente a compierne i doveri; se per la promiscuità del sesso ed altri incentivi al male l’integrità dei costumi corre pericolo nelle officine; se la classe lavoratrice viene oppressa con ingiusti pesi dai padroni o avvilita da fatti contrari alla personalità e dignità umana; se con il lavoro eccessivi o non conveniente al sesso e all’età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l’autorità delle leggi. I quali fini sono determinati dalla causa medesima che esige l’intervento dello Stato; e ciò significa che le leggi non devono andare al di là di ciò che richiede il riparo dei mali o la rimozione del pericolo. I diritti vanno debitamente protetti in chiunque li possieda e il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, con impedirne o punirne le violazioni. Se non che, nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue.

3 – Casi particolari d’intervento

a) difesa della proprietà privata

30. Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari di maggiore importanza. Principalissimo è questo: i governi devono per mezzo di sagge leggi assicurare la proprietà privata. Oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le popolazioni siano tenute a freno; perché, se la giustizia consente a loro di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la giustizia né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba, e sotto colore di non so quale eguaglianza si invada l’altrui. Certo, la massima parte degli operai vorrebbe migliorare la propria condizione onestamente, senza far torto ad alcuni; tuttavia non sono pochi coloro i quali, imbevuti di massime false e smaniosi di novità, cercano ad ogni costo di eccitare tumulti e sospingere gli altri alla violenza. Intervenga dunque l’autorità dello Stato e, posto freno ai sobillatori, preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione e i legittimi padroni da quello dello spogliamento.

b) difesa del lavoro

1) contro lo sciopero

31. Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave e frequente occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui d’ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e salutare, si é prevenire il male con l’autorità delle leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni.

2) condizioni di lavoro

32. Molte cose parimenti lo Stato deve proteggere nell’operaio, e prima di tutto i beni dell’anima. La vita di quaggiù, benché buona e desiderabile, non è il fine per cui noi siamo stati creati, ma via e mezzo a perfezionare la vita dello spirito con la cognizione del vero e con la pratica del bene. Lo spirito è quello che porta scolpita in sé l’immagine e la somiglianza divina, ed in cui risiede quella superiorità in virtù della quale fu imposto all’uomo di signoreggiare le creature inferiori, e di far servire all’utilità sua le terre tutte ed i mari. Riempite la terra e rendetela a voi soggetta: signoreggiate i pesci del mare e gli uccelli dell’aria e tutti gli animali che si muovono sopra la terra (Gen 1,28). In questo tutti gli uomini sono uguali, né esistono differenze tra ricchi e poveri, padroni e servi, monarchi e sudditi, perché lo stesso è il Signore di tutti (Rom 10,12). A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all’acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione potrebbe l’uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura, ed accettare la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti dei quali sia libero l’esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente inviolabili. Di qui segue la necessità del riposo festivo. Sotto questo nome non s’intenda uno stare in ozio più a lungo, e molto meno una totale inazione quale si desidera da molti, fomite di vizi e occasione di spreco, ma un riposo consacrato dalla religione. Unito alla religione, il riposo toglie l’uomo ai lavori e alle faccende della vita ordinaria per richiamarlo al pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla Maestà divina. Questa è principalmente la natura, questo il fine del riposo festivo, che Iddio con legge speciale, prescrisse all’uomo nel Vecchio Testamento, dicendogli: Ricordati di santificare il giorno di sabato (Es 20,8) e che egli stesso insegnò di fatto, quando nel settimo giorno, creato l’uomo, si riposò dalle opere della creazione: Riposò nel giorno settimo da tutte le opere che aveva fatte (Gen 2,2).

33. Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è dovere sottrarre il povero operaio all’inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose. Non è giusto né umano esigere dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così l’attività dell’uomo è limitata e circoscritta entro confini ben stabiliti, oltre i quali non può andare. L’esercizio e l’uso l’affina, a condizione però che di quando in quando venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei minatori che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e altre materie nascoste nel sottosuolo, essendo più grave e nocivo alla salute, va compensato con una durata più breve. Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra o del tutto insopportabile o tale che sí sopporta con difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all’uomo alto e robusto, non é ragionevole che s’imponga a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all’erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l’onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa. In generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo necessario all’operaio deve essere proporzionata alla quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le forze consumate con l’uso debbono venire riparate col riposo. In ogni convenzione stipulata tra padroni e operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa dell’uno e dell’altro riposo; un patto contrario sarebbe immorale, non essendo lecito a nessuno chiedere o permettere la violazione dei doveri che lo stringono a Dio e a sé stesso.

3) la questione del salario

34. Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché  il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga l’intera mercede o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l’intervento dello Stato. A questo ragionamento, un giusto estimatore delle cose non può consentire né facilmente né in tutto; perché esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto; vi mancano alcune considerazioni di grande importanza. Il lavoro è l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte (Gen 3,19). Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura. Ora, se si guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente sí riducono al salario del proprio lavoro. L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta. Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono l’orario di lavoro, le cautele da prendere, per garantire nelle officine la vita dell’operaio, affinché l’autorità non s’ingerisca indebitamente, specie in tanta varietà di cose, di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare la decisione ai collegi di cui parleremo più avanti, o usare altri mezzi che salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio.

c) educazione al risparmio

35. Quando l’operaio riceve un salario sufficiente a mantenere sé stesso e la sua famiglia in una certa quale agiatezza, se egli è saggio, penserà naturalmente a risparmiare e, assecondando l’impulso della stessa natura, farà in modo che sopravanzi alle spese una parte da impiegare nell’acquisto di qualche piccola proprietà. Poiché abbiamo dimostrato che l’inviolabilità del diritto di proprietà è indispensabile per la soluzione pratica ed efficace della questione operaia. Pertanto le leggi devono favorire questo diritto, e fare in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari. Da qui risulterebbero grandi vantaggi, e in primo luogo una più equa ripartizione della ricchezza nazionale. La rivoluzione ha prodotto la divisione della società come in due caste, tra le quali ha scavato un abisso. Da una parte una fazione strapotente perché straricca, la quale, avendo in mano ogni sorta di produzione e commercio, sfrutta per sé tutte le sorgenti della ricchezza, ed esercita pure nell’andamento dello Stato una grande influenza. Dall’altra una moltitudine misera e debole, dall’animo esacerbato e pronto sempre a tumulti. Ora, se in questa moltitudine s’incoraggia l’industria con la speranza di poter acquistare stabili proprietà, una classe verrà avvicinandosi poco a poco all’altra, togliendo l’immensa distanza tra la somma povertà e la somma ricchezza. Oltre a ciò, dalla terra si ricaverà abbondanza di prodotti molto maggiore. Quando gli uomini sanno di lavorare in proprio, faticano con più alacrità e ardore, anzi si affezionano al campo coltivato di propria mano, da cui attendono, per sé e per la famiglia, non solo gli alimenti ma una certa agiatezza. Ed è facile capire come questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del suolo e la ricchezza della nazione. Ne seguirà un terzo vantaggio, cioè l’attaccamento al luogo natio; infatti non si cambierebbe la patria con un paese straniero, se quella desse di che vivere agiatamente ai suoi figli. Si avverta peraltro che tali vantaggi dipendono da questa condizione, che la privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte.

C) L’opera delle associazioni

1 – Necessità della collaborazione di tutti

36. Finalmente, a dirimere la questione operaia possono contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e udire le due classi tra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private destinate a prendersi cura dell’operaio, della vedova, dei figli orfani, nei casi d’improvvisi infortuni, d’infermità, o di altro umano accidente; i patronati per i fanciulli d’ambo i sessi, per la gioventù e per gli adulti. Tengono però il primo posto le corporazioni di arti e mestieri che nel loro complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono presso i nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni, e non solo a pro degli artieri, ma come attestano documenti in gran numero, ad onore e perfezionamento delle arti medesime. I progressi della cultura, le nuove abitudini e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni attuali. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia di soli operai sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano di numero e di operosità. Sebbene ne abbiamo parlato più volte, ci piace ritornarvi sopra per mostrarne l’opportunità, la legittimità, la forma del loro ordinamento e la loro azione.

2 – Il diritto all’associazione è naturale

37. Il sentimento della propria debolezza spinge l’uomo a voler unire la sua opera all’altrui. La Scrittura dice: E’ meglio essere in due che uno solo; perché due hanno maggior vantaggio nel loro lavoro. Se uno cade, è sostenuto dall’altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi (Eccl 4,9-10). E altrove: il fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata (Prov 18,19). L’istinto di questa naturale inclinazione lo muove, come alla società civile, così ad altre particolari società, piccole certamente e non perfette, ma pur società vere. Fra queste e quella corre grandissima differenza per la diversità dei loro fini prossimi. Il fine della società civile è universale, perché è quello che riguarda il bene comune, a cui tutti e singoli i cittadini hanno diritto nella debita proporzione. Perciò è chiamata pubblica; per essa gli uomini si mettono in mutua comunicazione al fine di formare uno Stato (S, Th., Contra impugn. Dei cultum et religionem, c. II). Al contrario le altre società che sorgono in seno a quella si dicono e sono private, perché hanno per scopo l’utile privato dei loro soci. Società privata è quella che si forma per concludere affari privati, come quando due o tre si uniscono a scopo di commercio (Ivi).

38. Ora, sebbene queste private associazioni esistano dentro la Stato e ne siano come tante parti, tuttavia in generale, e assolutamente parlando, non può lo Stato proibirne la formazione. Poiché il diritto di unirsi in società l’uomo l’ha da natura, e i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, egli contraddirebbe sé stesso, perché l’origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale socialità dell’uomo. Si danno però casi che rendono legittimo e doveroso il divieto. Quando società particolari si prefiggono un fine apertamente contrario all’onestà, alla giustizia, alla sicurezza del consorzio civile, legittimamente vi si oppone lo Stato, o vietando che si formino o sciogliendole se sono formate; è necessario però procedere in ciò con somma cautela per non invadere i diritti dei cittadini, e non fare il male sotto pretesto del pubblico bene. Poiché le leggi non obbligano se non in quanto sono conformi alla retta ragione, e perciò stesso alla legge eterna di Dio (Cfr. S. Th. I-II, q. 13, a. 3).

39. E qui il nostro pensiero va ai sodalizi, collegi e ordini religiosi di tante specie a cui dà vita l’autorità della Chiesa e la pietà dei fedeli; e con quanto vantaggio del genere umano, lo attesta la storia anche ai nostri giorni. Tali società, considerate al solo lume della ragione, avendo un fine onesto, sono per diritto di natura evidentemente legittime. In quanto poi riguardano la religione, non sottostanno che all’autorità della Chiesa. Non può dunque lo Stato arrogarsi più quelle competenza alcuna, né rivendicarne a sé l’amministrazione; ha però il dovere di rispettarle, conservarle e, se occorre, difenderle. Ma quanto diversamente si agisce, soprattutto ai nostri tempi! In molti luoghi e in molti modi lo Stato ha leso i diritti di tali comunità, avendole sottoposte alle leggi civili a private di giuridica personalità, o spogliate dei loro beni. Nei quali beni la Chiesa aveva il diritto suo, come ognuno dei soci, e similmente quelli che li avevano destinati per un dato fine, e quelli al cui vantaggio e sollievo erano destinati. Non possiamo dunque astenerci dal deplorare spogliazioni sì ingiuste e dannose, tanto più che vediamo proibite società cattoliche, tranquille e utilissime, nel tempo stesso che si proclama altamente il diritto di associazione; mentre in realtà tale diritto vieni largamente concesso a uomini apertamente congiurati ai danni della religione e dello Stato.

40. Certe società diversissime, costituite specialmente di operai, vanno oggi moltiplicandosi sempre più. Di molte, tra queste, non è qui luogo di indagar l’origine, lo scopo, i procedimenti. È opinione comune però, confermata da molti indizi, che il più delle volte sono rette da capi occulti, con organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico; costoro con il monopolio delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi a loro, a pagar caro il rifiuto. In tale stato di cose gli operai cristiani non hanno che due vie: o iscriversi a società pericolose alla religione o formarne di proprie e unire così le loro forze per sottrarsi coraggiosamente a sì ingiusta e intollerabile oppressione. Ora, potrà mai esitare sulla scelta di questo secondo partito, chi non vuole mettere a repentaglio il massimo bene dell’uomo?

3 – Favorire i congressi cattolici

41. Degnissimi d’encomio sono molti tra i cattolici che, conosciute le esigenze dei tempi, fanno ogni sforzo per migliorare onestamente le condizioni degli operai. E presane in mano la causa, si studiano di accrescerne il benessere individuale e domestico; di regolare, secondo equità, le relazioni tra lavoratori e padroni; di tener viva e profondamente radicata negli uni e negli altri il senso del dovere e l’osservanza dei precetti evangelici; precetti che, allontanando l’animo da ogni sorta di eccessi, lo inducono alla moderazione e, tra la più grande diversità di persone e di cose, mantengono l’armonia nella vita civile. A tal fine vediamo che spesso si radunano dei congressi, ove uomini saggi si comunicano le idee, uniscono le forze, si consultano intorno agli espedienti migliori, Altri s’ingegnano di stringere opportunamente in società le varie classi operaie; le aiutano col consiglio e i mezzi e procurano loro un lavoro onesto e redditizio. Coraggio e protezione vi aggiungono i vescovi, e sotto la loro dipendenza molti dell’uno e dell’altro clero attendono con zelo al bene spirituale degli associati. Non mancano finalmente i cattolici benestanti che, fatta causa comune coi lavoratori, non risparmiano spese per fondare e largamente diffondere associazioni che aiutino l’operaio non solo a provvedere col suo lavoro ai bisogni presenti, ma ad assicurarsi ancora per l’avvenire un riposo onorato e tranquillo. I vantaggi che tanti e sì volenterosi sforzi hanno recato al pubblico bene, sono così noti che non occorre parlarne. Di qui attingiamo motivi a bene sperare dell’avvenire, purché tali società fioriscano sempre più, e siano saggiamente ordinate. Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini; non si intrometta però nell’intimo della loro organizzazione e disciplina, perché il movimento vitale nasce da un principio intrinseco, e gli impulsi esterni facilmente lo soffocano.

4 – Autonomia e disciplina delle associazioni

42. Questa sapiente organizzazione e disciplina è assolutamente necessaria perché vi sia unità di azione e d’indirizzo. Se hanno pertanto i cittadini, come l’hanno di fatto, libero diritto di legarsi in società, debbono avere altresì uguale diritto di scegliere per i loro consorzi quell’ordinamento che giudicano più confacente al loro fine. Quale esso debba essere nelle singole sue parti, non crediamo si possa definire con regole certe e precise, dovendosi determinare piuttosto dall’indole di ciascun popolo, dall’esperienza e abitudine, dalla quantità e produttività dei lavori, dallo sviluppo commerciale, nonché da altre circostanze, delle quali la prudenza deve tener conto. In sostanza, si può stabilire come regola generale e costante che le associazioni degli operai si devono ordinare e governare in modo da somministrare i mezzi più adatti ed efficaci al conseguimento del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale. È evidente poi, che conviene aver di mira, come scopo speciale, il perfezionamento religioso e morale, e che a questo perfezionamento si deve indirizzare tutta la disciplina sociale. Altrimenti tali associazioni degenerano facilmente in altra natura, né si mantengono superiori a quelle in cui della religione non si tiene conto alcuno. Del resto, che gioverebbe all’operaio l’aver trovato nella società di che vivere bene, se l’anima sua, per mancanza di alimento adatto, corresse pericolo di morire? Che giova all’uomo l’acquisto di tutto il mondo con pregiudizio dell’anima sua? (Mat 16,26). Questo, secondo l’insegnamento di Gesù Cristo, é il carattere che distingue il cristiano dal pagano: I pagani cercano tutte queste cose… voi cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e gli altri beni vi saranno dati per giunta (Mat 6,32-33). Prendendo adunque da Dio il principio, si dia una larga parte all’istruzione religiosa, affinché ciascuno conosca i propri doveri verso Dio; sappia bene ciò che deve credere, sperare e fare per salvarsi; e sia ben premunito contro gli errori correnti e le seduzioni corruttrici. L’operaio venga animato al culto di Dio e all’amore della pietà, e specialmente all’osservanza dei giorni festivi. Impari a venerare e amare la Chiesa, madre comune di tutti, come pure a obbedire ai precetti di lei, e a frequentare i sacramenti, mezzi divini di giustificazione e di santità.

5 – Diritti e doveri degli associati

43. Posto il fondamento degli statuti sociali nella religione, è aperta la strada a regolare le mutue relazioni dei soci per la tranquillità della loro convivenza e del loro benessere economico. Gli incarichi si distribuiscano in modo conveniente agli interessi comuni, e con tale armonia che la diversità non pregiudichi l’unità. E’ sommamente importante che codesti incarichi vengano distribuiti con intelligenza e chiaramente determinati, perché nessuno dei soci rimanga offeso. I beni comuni della società siano amministrati con integrità, così che i soccorsi vengano distribuiti a ciascuno secondo i bisogni; e i diritti e i doveri dei padroni armonizzino con i diritti e i doveri degli operai. Quando poi gli uni o gli altri si credono lesi, è desiderabile che trovino nella stessa associazione uomini retti e competenti, al cui giudizio, in forza degli statuti, si debbano sottomettere. Si dovrà ancora provvedere che all’operaio non manchi mai il lavoro, e vi siano fondi disponibili per venire in aiuto di ciascuno, non solamente nelle improvvise e inattese crisi dell’industria, ma altresì nei casi di infermità, di vecchiaia, di infortunio. Quando tali statuti sono volontariamente abbracciati, si é già sufficientemente provveduto al benessere materiale e morale delle classi inferiori; e le società cattoliche potranno esercitare non piccola influenza sulla prosperità della stessa società civile. Dal passato possiamo prudentemente prevedere l’avvenire. Le umane generazioni si succedono, ma le pagine della loro storia si rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella Provvidenza suprema la quale volge e indirizza tutte le umane vicende a quel fine che ella si prefisse nella creazione della umana famiglia. Agli inizi della Chiesa i pagani stimavano disonore il vivere di elemosine o di lavoro, come tacevano la maggior parte dei cristiani. Se non che, poveri e deboli, riuscirono a conciliarsi le simpatie dei ricchi e il patrocinio dei potenti. Era bello vederli attivi, laboriosi, pacifici, giusti, portati come esempio, e singolarmente pieni di carità. A tale spettacolo di vita e di condotta si dileguò ogni pregiudizio, ammutolì la maldicenza dei malevoli, e le menzogne di una inveterata superstizione cedettero il posto alla verità cristiana.

6 – Le questioni operaie risolte dalle loro associazioni

44. Si agita ai nostri giorni la questione operaia, la cui buona o cattiva soluzione interessa sommamente lo Stato. Gli operai cristiani la sceglieranno bene, se uniti in associazione, e saggiamente diretti, seguiranno quella medesima strada che con tanto vantaggio di loro stessi e della società, tennero i loro antenati. Poiché, sebbene così prepotente sia negli uomini la forza dei pregiudizi e delle passioni, nondimeno, se la pravità del volere non ha spento in essi il senso dell’onesto, non potranno non provare un sentimento benevolo verso gli operai quando li scorgono laboriosi, moderati, pronti a mettere l’onestà al di sopra del lucro e la coscienza del dovere innanzi a ogni altra cosa. Ne seguirà poi un altro vantaggio, quello cioè di infondere speranza e facilità di ravvedimento a quegli operai ai quali manca o la fede o la buona condotta secondo la fede. Il più delle volte questi poveretti capiscono bene di essere stati ingannati da false speranze e da vane illusioni. Sentono che da cupidi padroni vengono trattati in modo molto inumano e quasi non sono valutati più di quello che producono lavorando; nella società, in cui si trovano irretiti, invece di carità e di affetto fraterno, regnano le discordie intestine, compagne indivisibili della povertà orgogliosa e incredula. Affranti nel corpo e nello spirito, molti di loro vorrebbero scuotere il giogo di si abietta servitù; ma non osano per rispetto umano o per timore della miseria. Ora a tutti costoro potrebbero recare grande giovamento le associazioni cattoliche, se agevolando ad essi il cammino, li inviteranno, esitanti, al loro seno, e rinsaviti, porgeranno loro patrocinio e soccorso.

CONCLUSIONE

La carità, regina delle virtù sociali

45. Ecco, venerabili fratelli, da chi e in che modo si debba concorrere alla soluzione di sì arduo problema. Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più difficile la cura di un male già tanto grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e saggi provvedimenti; i capitalisti e padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; i proletari, che vi sono direttamente interessati, facciano, nei limiti del giusto, quanto possono; e poiché, come abbiamo detto da principio, il vero e radicale rimedio non può venire che dalla religione, si persuadano tutti quanti della necessità di tornare alla vita cristiana, senza la quale gli stessi argomenti stimati più efficaci, si dimostreranno scarsi al bisogno. Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l’opera sua, la quale tornerà tanto più efficace quanto più sarà libera, e di questo devono persuadersi specialmente coloro che hanno il dovere di provvedere al bene dei popoli. Vi pongano tutta la forza dell’animo e la generosità dello zelo i ministri del santuario; e guidati dall’autorità e dall’esempio vostro, venerabili fratelli, non si stanchino di inculcare a tutte le classi della società le massime del Vangelo; impegnino le loro energie a salvezza dei popoli, e soprattutto alimentino in sé e accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la carità, signora e regina di tutte le virtù. La salvezza desiderata dev’essere principalmente frutto di una effusione di carità; intendiamo dire quella carità cristiana che compendia in sé tutto il Vangelo e che, pronta sempre a sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro antidoto contro l’orgoglio e l’egoismo del secolo. Già san Paolo ne tratteggiò i lineamenti con quelle parole: La carità è longanime, è benigna; non cerca il suo tornaconto: tutto soffre, tutto sostiene (1 Cor 13,4-7). Auspice dei celesti favori e pegno della nostra benevolenza, a ciascuno di voi, venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo, con grande affetto nel Signore impartiamo l’apostolica benedizione.

Dato a Roma presso san Pietro, il giorno 15 maggio 1891, anno decimoquarto del nostro pontificato.

LEONE PP. XIII

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – RERUM NOVARUM -1-

La Rerum novarum di SS. Leone XIII è la carta magna della dottrina sociale della Chiesa che propone i dettami evangelici e della tradizione apostolica che devono regolare la vita civile dell’uomo. I principi sono talmente chiari e lampanti nella loro logica concatenazione che non hanno bisogno di particolari ermeneutiche. La visione cristiana della società esclude ogni ombra panteistica che possa anche in minima parte condividere gli aspetti satanici, perché gnostici ed immanentisti, ovvero panteistici, di sistemi che si nascondono sotto l’abito politico del socialismo o comunismo o, come oggi suol dirsi, del mondialismo totalitario, che è il comunismo applicato nell’intero pianeta. Del resto da Platone, alle scuole filosofiche neoplatoniche, dal protestantesimo apostata, alle filosofie positiviste e materialiste moderne, con i capofila Kant ed Hegel, dalle eresie manichee, degli albigesi, dei catari, fino al modernismo postconciliare, il panteismo ha sempre mostrato la coda diabolica che svelava il vero autore, cioè lucifero, di sistemi apparentemente filantropici ed abbigliati da egualitarismi giustizialisti, prendendo addirittura come riferimento il Santo poverello di Assisi, le cui scimmiottature pauperiste dei medioevali “fraticelli” furono subito bollate dalla Chiesa –Papa Giovanni XXII capì subito- che annusò il tanfo del demonio sprigionarsi dai gigli di cartone dei falsi francescani dell’epoca. Ancora oggi, nella setta modernista della sinagoga di satana vaticana, si abbiglia ipocritamente il panteismo pauperista con la veste della giustizia sociale, appellandosi senza vergogna ed oltraggiandone la santa memoria, al Santo stigmatizzato di Assisi. Questa lettera, giustamente una pietra miliare del Magistero pontificio, declama con sicura dottrina, immutabile ed infallibile, come del resto tutto il Magistero della vera Chiesa, i punti cardini sui quali si debba regolare la vita sociale ed economica dell’umana famiglia. Oggi leggiamo con orrore documenti passanti come cattolici, che in realtà sono sterco socialistoide marxista finto buonista giusto per ingannare gli ignoranti e calmare la coscienza dei cani muti che sanno, vedono e tacciono. Ma tutto il Signore permette perché si possa operare una divisione netta e precisa tra fedeli ed ipocriti, tra seguaci di Cristo e seguaci della bestia, tra chi semina grano e chi la zizzania. Tutto lascia fare fino ad un certo punto il Signore, tanto poi arriva l’Angelo con la falce che taglierà grano e zizzania, l’uno per il deposito del cielo, e l’altra per lo stagno eterno di fuoco. Ne proponiamo una prima parte onde permetterne una migliore meditazione ed un approfondimento salutare.

RERUM NOVARUM

LETTERA ENCICLICA DI S.S. LEONE XIII -1-

INTRODUZIONE

Motivo dell’enciclica: la questione operaia

1. L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è questione che maggiormente interessi il mondo. Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere encicliche sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la Costituzione cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti che ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima cosa crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla questione operaia. Trattammo già questa materia, come ce ne venne l’occasione più di una volta: ma la coscienza dell’apostolico nostro ministero ci muove a trattarla ora, di proposito e in pieno, al fine di mettere in rilievo i principi con cui, secondo giustizia ed equità, si deve risolvere la questione. Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed astuti, si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei popoli.

2. Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balda della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa., continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile.

PARTE PRIMA

IL SOCIALISMO, FALSO RIMEDIO

La soluzione socialista inaccettabile dagli operai

3. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale.

4. E infatti non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l’artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega le sue forze e la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto, non solo di esigere, ma d’investire come vuole, la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come ognuno sa, consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l’accumulare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione.

5. Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una aperta ingiustizia, giacché la proprietà prenata è diritto di natura. Poiché anche in questo passa gran differenza tra l’uomo e il bruto. Il bruto non governa sé stesso; ma due istinti lo reggono e governano, i quali da una parte ne tengono desta l’attività e ne svolgono le forze, dall’altra terminano e circoscrivono ogni suo movimento; cioè l’istinto della conservazione propria, e l’istinto della conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini, basta al bruto l’uso di quei determinati mezzi che trova intorno a sé; né potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell’uomo. Possedendo egli la vita sensitiva nella sua pienezza, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l’animalità in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio dell’uomo, ciò che lo costituisce tale o lo distingue essenzialmente dal bruto, è l’intelligenza, ossia la ragione. E appunto perché ragionevole, si deve concedere all’uomo qualche cosa di più che il semplice uso dei beni della terra, comune anche agli altri animali: e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile; né proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole, ma anche di quelle che l’uso non consuma.

La proprietà privata è di diritto naturale

6. Ciò riesce più evidente se si penetra maggiormente nell’umana natura. Per la sterminata ampiezza del suo conoscimento, che abbraccia, oltre il presente, anche l’avvenire, e per la sua libertà, l’uomo sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a sé stesso. Egli deve dunque poter scegliere i mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita, non solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò vale quanto dire che, oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all’uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo deve essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni futuri. Giacché i bisogni dell’uomo hanno, per così dire, una vicenda di perpetui ritorni e, soddisfatti oggi, rinascono domani. Pertanto la natura deve aver dato all’uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso di cui egli abbisogna, beni che può somministrargli solamente la terra, con la sua inesauribile fecondità. Non v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l’uomo è anteriore alto Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a sé stesso.

7. L’aver poi Iddio dato la terra a uso e godimento di tutto il genere umano, non si oppone per nulla al diritto della privata proprietà; poiché quel dono egli lo fece a tutti, non perché ognuno ne avesse un comune e promiscuo dominio, bensì in quanto non assegnò nessuna parte del suolo determinatamente ad alcuno, lasciando ciò all’industria degli uomini e al diritto speciale dei popoli. La terra, per altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio e beneficio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non riceva alimento da essi. Chi non ha beni propri vi supplisce con il lavoro; tanto che si può affermare con verità che il mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro, impiegato o nel coltivare un terreno proprio, o nell’esercitare un’arte, la cui mercede in ultimo si ricava dai molteplici frutti della terra e in essi viene commutata. Ed è questa un’altra prova che la proprietà privata è conforme alla natura. Il necessario al mantenimento e al perfezionamento della vita umana la terra ce lo somministra largamente, ma ce lo somministra a questa condizione, che l’uomo la coltivi e le sia largo di provvide cure. Ora, posto che a conseguire i beni della natura l’uomo impieghi l’industria della mente e le forze del corpo, con ciò stesso egli riunisce in sé quella parte della natura corporea che ridusse a cultura, e in cui lasciò come impressa una impronta della sua personalità, sicché giustamente può tenerla per sua ed imporre agli altri l’obbligo di rispettarla.

La proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine

8. Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire come abbiano potuto trovar contraddizioni presso alcuni, i quali, rinfrescando vecchie utopie, concedono bensì all’uomo l’uso del suolo e dei vari frutti dei campi, ma del suolo ove egli ha fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano la proprietà. Non si accorgono costoro che in questa maniera vengono a defraudare l’uomo degli effetti del suo lavoro. Giacché il campo dissodato dalla mano e dall’arte del coltivato non è più quello di prima, da silvestre è divenuto fruttifero, da sterile ferace. Questi miglioramenti prendono talmente corpo in quel terreno che la maggior parte di essi ne sono inseparabili. Ora, che giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato subentrasse a goderne i frutti? Come l’effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora. A ragione pertanto il genere umano, senza affatto curarsi dei pochi contraddittori e con l’occhio fisso alla legge di natura, trova in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni; e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente consona alla natura dell’uomo e alla pacifica convivenza sociale, l’ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli. E le leggi civili che, quando sono giuste, derivano la propria autorità ed efficacia dalla stessa legge naturale (Cfr. S. Th. I-I, q. 95, a. 4), confermano tale diritto e lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il suggello della legge divina, la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba altrui: Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la casa, non il podere, non la serva, non il bue, non l’asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui appartengono(Deut 5,21). 

La libertà dell’uomo

9. Questo diritto individuale cresce di valore se lo consideriamo nei riguardi del consorzio domestico. Libera all’uomo è l’elezione del proprio stato: Egli può a suo piacere seguire il consiglio evangelico della verginità o legarsi in matrimonio. Naturale e primitivo è il diritto al coniugio e nessuna legge umana può abolirlo, né può limitarne, comunque sia, lo scopo a cui Iddio l’ha ordinato quando disse: Crescete e moltiplicatevi (Gen 1,28). Ecco pertanto la famiglia, ossia la società domestica, società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società; perciò con diritti e obbligazioni indipendenti dallo Stato. Ora, quello che dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente all’individuo va applicato all’uomo come capo di famiglia: anzi tale diritto in lui è tanto più forte quanto più estesa e completa è nel consorzio domestico la sua personalità.

Famiglia e Stato

10. Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della prole: e per impulso della natura medesima, che gli fa scorgere nei figli una immagine di sé e quasi una espansione e continuazione della sua persona, egli è spinto a provvederli in modo che nel difficile corso della vita possano onestamente far fronte ai propri bisogni: cosa impossibile a ottenersi se non mediante l’acquisto dei beni fruttiferi, ch’egli poi trasmette loro in eredità. Come la convivenza civile così la famiglia, secondo quello che abbiamo detto, è una società retta da potere proprio, che è quello paterno. Entro i limiti determinati dal fine suo, la famiglia ha dunque, per la scelta e l’uso dei mezzi necessari alla sua conservazione e alla sua legittima indipendenza, diritti almeno eguali a quelli della società civile. Diciamo almeno eguali, perché essendo il consorzio domestico logicamente e storicamente anteriore al civile, anteriori altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i doveri. Che se l’uomo, se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civile convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare.

Lo Stato e il suo intervento nella famiglia

11. È dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato possa intervenire a suo talento nel santuario della famiglia. Certo, se qualche famiglia si trova per avventura in si gravi strettezze che da sé stessa non le è affatto possibile uscirne, è giusto in tali frangenti l’intervento dei pubblici poteri, giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. Similmente in caso di gravi discordie nelle relazioni scambievoli tra i membri di una famiglia intervenga lo Stato e renda a ciascuno il suo, poiché questo non è usurpare i diritti dei cittadini, ma assicurarli e tutelarli secondo la retta giustizia. Qui però deve arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare oltre. La patria potestà non può lo Stato né annientarla né assorbirla, poiché nasce dalla sorgente stessa della vita umana. I figli sono qualche cosa del padre, una espansione, per così dire, della sua personalità e, a parlare propriamente, essi entrano a far parte del civile consorzio non da sé medesimi, bensì mediante la famiglia in cui sono nati. È appunto per questa ragione che, essendo i figli naturalmente qualcosa del padre… prima dell’uso della ragione stanno sotto la cura dei genitori. (S. Th. II-II, q. 10, a. 12) Ora, i socialisti, sostituendo alla provvidenza dei genitori quella dello Stato, vanno contro la giustizia naturale e disciolgono la compagine delle famiglie.

La soluzione socialista è nociva alla stessa società

12. Ed oltre l’ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza, e quale dura e odiosa schiavitù nei cittadini. Si aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria individuale: e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria. Tutte queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata. Presupposto ciò, esporremo donde si abbia a trarre il rimedio.

PARTE SECONDA

IL VERO RIMEDIO:

L’UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI

A) L’opera della Chiesa

13. Entriamo fiduciosi in questo argomento, e di nostro pieno diritto; giacché si tratta di questione di cui non è possibile trovare una risoluzione che valga senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. E poiché la cura della religione e la dispensazione dei mezzi che sono in potere della Chiesa è affidata principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al nostro ufficio, tacendo. Certamente la soluzione di si arduo problema richiede il concorso e l’efficace cooperazione anche degli altri: vogliamo dire dei governanti, dei padroni e dei ricchi, come pure degli stessi proletari che vi sono direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna affermiamo che, se si prescinde dall’azione della Chiesa, tutti gli sforzi riusciranno vani. Difatti la Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura con gli insegnamenti suoi, non solo d’illuminare la mente, ma d’informare la vita e i costumi di ognuno: con un gran numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario; vuole e brama che i consigli e le forze di tutte le classi sociali si colleghino e vengano convogliate insieme al fine di provvedere meglio che sia possibile agli interessi degli operai; e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a questo scopo le stesse leggi e l’autorità dello Stato.

1 – Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso

14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali. 

2 – Necessità della concordia

15. Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. In vece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.

3 – Relazioni tra le classi sociali

a) giustizia

16. Innanzi tutto, l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede il lavoro non degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con l’opera propria. Quello che veramente è indegno dell’uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente comandato che nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell’anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare all’operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall’amore del risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l’età e con il sesso.

17. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. Ecco, la mercede degli operai… che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti (Giac 5,4). Da ultimo è dovere dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi dell’operaio né con violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste; questo dovere è tanto più rigoroso, quanto più debole e mal difeso è l’operaio e più sacrosanta la sua piccola sostanza. L’osservanza di questi precetti non basterà essa sola a mitigare l’asprezza e a far cessare le cagioni del dissidio?

b) carità

18. Ma la Chiesa, guidata dagli insegnamenti e dall’esempio di Cristo, mira più in alto, cioè a riavvicinare il più possibile le due classi, e a renderle amiche. Le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere, se l’animo non si eleva ad un’altra vita, ossia a quella eterna, senza la quale la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua, anzi l’intera creazione diventa un mistero inspiegabile. Quello pertanto che la natura stessa ci detta, nel cristianesimo è un dogma su cui come principale fondamento poggia tutto l’edificio della religione: cioè che la vera vita dell’uomo è quella del mondo avvenire. Poiché Iddio non ci ha creati per questi beni fragili e caduchi, ma per quelli celesti ed eterni; e la terra ci fu data da Lui come luogo di esilio, non come patria. Che tu abbia in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia privo, ciò all’eterna felicità non importa nulla; ma il buono o cattivo uso di quei beni, questo è ciò che sommamente importa. Le varie tribolazioni di cui è intessuta la vita di quaggiù, Gesù Cristo, che pur ci ha redenti con redenzione copiosa, non le ha tolte; le ha convertite in stimolo di virtù e in maniera di merito, tanto che nessun figlio di Adamo può giungere al cielo se non segue le orme sanguinose di Lui. Se persevereremo, regneremo insieme (2 Tim 2,12). Accettando volontariamente sopra di sé travagli e dolori, egli ne ha mitigato l’acerbità in modo meraviglioso, e non solo con l’esempio ma con la sua grazia e con la speranza del premio proposto, ci ha reso più facile il patire. Poiché quella che attualmente è una momentanea e leggera tribolazione nostra, opera in noi un eterno e sopra ogni misura smisurato peso di gloria (2Cor 4,17). I fortunati del secolo sono dunque avvertiti che le ricchezze non li liberano dal dolore e che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono (Cfr. Mat 19,23-24); che i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce straordinariamente severe di Gesù Cristo (Cfr. Luc 6,24-25); che dell’uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice. 

c) la vera utilità delle ricchezze

19. In ordine all’uso delle ricchezze, eccellente e importantissima è la dottrina che, se pure fu intravveduta dalla filosofia, venne però insegnata a perfezione dalla Chiesa; la quale inoltre procura che non rimanga pura speculazione, ma discenda nella pratica e informi la vita. Il fondamento di tale dottrina sta in ciò: che nella ricchezza si suole distinguere il possesso legittimo dal legittimo uso. Naturale diritto dell’uomo è, come vedemmo, la privata proprietà dei beni e l’esercitare questo diritto é, specialmente nella vita socievole, non pur lecito, ma assolutamente necessario. E’ lecito, dice san Tommaso, anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà dei beni (S. Th. III-II, q. 66, a. 2). Ma se inoltre si domandi quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa per bocca del santo Dottore non esita a rispondere che, per questo rispetto, l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi all’altrui necessità. Onde l’Apostolo dice: Comanda ai ricchi di questo secolo di dare e comunicare facilmente il proprio (Ivi). Nessuno, Certo, é tenuto a soccorrere gli altri con le cose necessarie a sé e ai suoi, anzi neppure con ciò che è necessario alla convivenza e al decoro del proprio  stato, perché nessuno deve vivere in modo non conveniente (S. Th. II-II, q. 32, a. 6). Ma soddisfatte le necessità e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi. Quello che sopravanza date in elemosina (Luc 11,41). Eccetto il caso di estrema necessità, questi, è vero, non sono obblighi di giustizia, ma di carità cristiana il cui adempimento non si può certamente esigere per via giuridica, ma sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del dono generoso e insegna: E’ più bello dare che ricevere (At 20,35), e terrà per fatta o negata a sé la carità fatta o negata ai bisognosi: Quanto faceste ad uno dei minimi di questi miei fratelli, a me lo faceste (Mat 25,40). In conclusione, chiunque ha ricevuto dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia esteriori e corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come ministro della divina provvidenza a vantaggio altrui: Chi ha dunque ingegno, badi di non tacere; chi ha abbondanza di roba, si guardi dall’essere troppo duro di mano nell’esercizio della misericordia; chi ha un’arte per vivere, ne partecipi al prossimo l’uso e l’utilità (S. Greg. M., In Evang. hom 9, n. 7).

d) vantaggi della povertà

20. Ai poveri poi, la Chiesa insegna che innanzi a Dio non è cosa che rechi vergogna né la povertà né il dover vivere di lavoro. Gesù Cristo confermò questa verità con 1’esempio suo mentre, a salute degli uomini, essendo ricco, si fece povero (2Cor 8,9) ed essendo Figlio di Dio, e Dio egli stesso, volle comparire ed essere creduto figlio di un falegname, anzi non ricusò di passare lavorando la maggior parte della sua vita: Non è costui il fabbro, il figlio di Maria? (Mar 6,3) Mirando la divinità di questo esempio, si comprende più facilmente che la vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù; che la virtù è patrimonio comune, conseguibile ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari; che solo alle opere virtuose, in chiunque si trovino, è serbato il premio dell’eterna beatitudine. Diciamo di più per gli infelici pare che Iddio abbia una particolare predilezione poiché Gesù Cristo chiama beati i poveri (Cfr. Mat 5,3); in. vita amorosamente a venire da lui per conforto, quanti sono stretti dal peso degli affanni (Mat 11,28); i deboli e i perseguitati abbraccia con atto di carità specialissima. Queste verità sono molto efficaci ad abbassar l’orgoglio dei fortunati e togliere all’avvilimento i miseri, ad ispirare indulgenza negli uni e modestia negli altri. Così le distanze, tanto care all’orgoglio, si accorciano; né riesce difficile ottenere che le due classi, stringendosi la mano, scendano ad amichevole accordo. 

e) fraternità cristiana

21. Ma esse, obbedendo alla legge evangelica, non saranno paghe di una semplice amicizia, ma vorranno darsi l’amplesso dell’amore fraterno. Poiché conosceranno e sentiranno che tutti gli uomini hanno origine da Dio, Padre comune; che tutti tendono a Dio, fine supremo, che solo può rendere perfettamente felici gli uomini e gli angeli; che tutti sono stati ugualmente redenti da Gesù Cristo e chiamati alla dignità della figliolanza divina, in modo che non solo tra loro, ma con Cristo Signore, primogenito fra molti fratelli, sono congiunti col vincolo di una santa fraternità. Conosceranno e sentiranno che i beni di natura e di grazia sono patrimonio comune del genere umano e che nessuno, senza proprio merito, verrà diseredato dal retaggio dei beni celesti: perché se tutti figli, dunque tutti eredi; eredi di Dio, e coeredi di Gesù Cristo (Rom 8,17). Ecco 1’ideale dei diritti e dei doveri contenuto nel Vangelo. Se esso prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e non tornerebbe forse la pace?

4 – Mezzi positivi

a) la diffusione della dottrina cristiana

22. Se non che la Chiesa, non contenta di additare il rimedio, l’applica ella stessa con la materna sua mano. Poiché ella é tutta intenta a educare e formare gli uomini a queste massime, procurando che le acque salutari della sua dottrina scorrano largamente e vadano per mezzo dei Vescovi e del Clero ad irrigare tutta quanta la terra. Nel tempo stesso si studia di penetrare negli animi e di piegare le volontà, perché si lascino governare dai divini precetti. E in quest’arte, che é di capitale importanza,  poiché ne dipende ogni vantaggio, la Chiesa sola ha vera efficacia. Infatti, gli strumenti che adopera a muovere gli animi le furono dati a questo fine da Gesù Cristo, ed hanno in sé virtù divina; si che essi soli possono penetrare nelle intime fibre dei cuori, e far si che gli uomini obbediscano alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino con supremo e singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano coraggiosamente tutti gli ostacoli che attraversano il cammino della virtù.

b) il rinnovamento della società

Basta su ciò accennar di passaggio agli esempi antichi. Ricordiamo fatti e cose poste fuori di ogni dubbio: cioè che per opera del cristianesimo fu trasformata da capo a fondo la società; che questa trasformazione fu un vero progresso del genere umano, anzi una risurrezione dalla morte alla vita morale, e un perfezionamento non mai visto per l’innanzi né sperabile maggiore per l’avvenire; e finalmente che Gesù Cristo è il principio e il termine di questi benefizi, i quali, scaturiti da lui, a lui vanno riferiti. Avendo il mondo mediante la luce evangelica appreso il gran mistero dell’incarnazione del Verbo e dell’umana redenzione, la vita di Gesù Cristo Dio e uomo si trasfuse nella civile società che ne fu permeata con la fede, i precetti, le leggi di lui. Perciò, se ai mali del mondo v’è un rimedio, questi non può essere altro che il ritorno alla vita e ai costumi cristiani. È un solenne principio questo, che per riformare una società in decadenza, è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’essere, la perfezione di ogni società è riposta nello sforzo di arrivare al suo scopo: in modo che il principio generatore dei moti e delle azioni sociali sia il medesimo che ha generato l’associazione. Quindi deviare dallo scopo primitivo è corruzione; tornare ad esso è salvezza. E questo è vero, come di tutto il consorzio civile, così della classe lavoratrice, che ne è la parte più numerosa.

c) la beneficenza della Chiesa

23. Né si creda che le premure della Chiesa siano così interamente e unicamente rivolte alla salvezza delle anime, da trascurare ciò che appartiene alla vita morale e terrena. Ella vuole e procura che soprattutto i proletari emergano dal loro infelice stato, e migliorino la condizione di vita. E questo essa fa innanzi tutto indirettamente, chiamando e insegnando a tutti gli uomini la virtù. I costumi cristiani, quando siano tali davvero, contribuiscono anch’essi di per sé alla prosperità terrena, perché attirano le benedizioni di Dio, principio e fonte di ogni bene; infrenano la cupidigia della roba e la sete dei piaceri (Cfr. 1Tim 6,10), veri flagelli che rendono misero l’uomo nella abbondanza stessa di ogni cosa; contenti di una vita frugale, suppliscono alla scarsezza del censo col risparmio, lontani dai vizi, che non solo consumano le piccole, ma anche le grandi sostanze, e mandano in rovina i più lauti patrimoni.

24. Ma vi è di più: la Chiesa concorre direttamente al bene dei proletari col creare e promuovere quanto può conferire al loro sollievo, e in questo tanto si è segnalata, da riscuoter l’ammirazione e gli encomi degli stessi nemici. Nel cuore dei primi cristiani la carità fraterna era così potente che i più facoltosi si privavano spessissimo del proprio per soccorrere gli altri; tanto che non vi era tra loro nessun bisognoso (At 4,34). Ai diaconi, ordine istituito appositamente per questo, era affidato dagli apostoli l’ufficio di esercitare la quotidiana beneficenza e l’apostolo Paolo, benché gravato dalla cura di tutte le Chiese, non dubitava di intraprendere faticosi viaggi, per recare di sua mano ai cristiani poveri le elemosine da lui raccolte. Tertulliano chiama depositi della pietà le offerte che si facevano spontaneamente dai fedeli di ciascuna adunanza, perché destinate a soccorrere e dar sepoltura agli indigenti, sovvenire i poveri orfani d’ambo i sessi, i vecchi e i naufraghi (Apolog, 2.39). Da lì poco a poco si formò il patrimonio, che la Chiesa guardò sempre con religiosa cura come patrimonio della povera gente. La quale anzi, con nuovi e determinati soccorsi, venne perfino liberata dalla vergogna di chiedere. Giacché, madre comune dei poveri e dei ricchi, ispirando e suscitando dappertutto l’eroismo della carità, la Chiesa creò sodalizi religiosi ed altri benefici istituti, che non lasciarono quasi alcuna specie di miseria senza aiuto e conforto. Molti oggi, come già fecero i gentili, biasimano la Chiesa perfino di questa carità squisita, e si è creduto bene di sostituire a questa la beneficenza legale. Ma non è umana industria che possa supplire la carità cristiana, tutta consacrata al bene altrui. Ed essa non può essere se non virtù della Chiesa, perché è virtù che sgorga solamente dal cuore santissimo di Gesù Cristo: e si allontana da Gesù Cristo chi si allontana dalla Chiesa.

B) L’opera dello Stato

25. A risolvere peraltro la questione operaia, non vi è dubbio che si richiedano altresì i mezzi umani. Tutti quelli che vi sono interessati debbono concorrervi ciascuno per la sua parte: e ciò ad esempio di quell’ordine provvidenziale che governa il mondo; poiché d’ordinario si vede che ogni buon effetto è prodotto dall’armoniosa cooperazione di tutte le cause da cui esso dipende. Vediamo dunque quale debba essere il concorso dello Stato. Noi parliamo dello Stato non come è sostituito o come funziona in questa o in quella nazione, ma dello Stato nel suo vero concetto, quale si desume dai principi della retta ragione, in perfetta armonia con le dottrine cattoliche, come noi medesimi esponemmo nella enciclica sulla Costituzione cristiana degli Stati (enc. Immortale Dei).

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO XII – MIRABILE ILLUD

In ogni calamità che coinvolge parte o tutta l’umanità occorre rivolgerci al Sommo Iddio per mezzo del Figlio suo Gesù-Cristo, i cui meriti rendono efficace la nostra preghiera, tutti uniti nel Corpo mistico di Cristo della “vera” Chiesa Cattolica. Questo, come ricorda opportunamente Papa Pacelli, necessità all’uman genere onde ottenere prosperità spirituale e pace sociale: « … Per raggiungere un così grande scopo, senza dubbio, nulla può essere di maggiore aiuto della Religione cristiana. La sua divina dottrina ci insegna che noi uomini come fratelli componiamo una stessa famiglia, di cui Dio è Padre, Cristo è redentore e vivificatore con la sua grazia celeste, e la cui patria immortale è il Cielo … » Breve ma toccante la lettera di un Padre che ama i suoi figli e di un BUON Pastore che pasce e protegge il gregge che Cristo gli ha affidato, senza paura, senza indugi, senza umano rispetto o « … chi sono io per giudicare » dei felloni ipocriti, che si spacciano per ciò che non sono ed usurpano ciò che più di sacro c’è sulla terra. Ma la « bestia uccisa e risorta », cioè i finti prelati che sotto pretesto di servire il Cristo, adorano il baphomet-lucifero, non prevarrà sulla vera Chiesa di Cristo anche se gode dell’appoggio delle sette di perdizione e di tutto il corpo mistico di satana, con il quale finirà nello stagno di fuoco, preparato per essi ed il diavolo fin dal principio. – Leggiamo attentamente questo prezioso scritto e facciamone tesoro proprio oggi che il nuovo mondiale flagello di Dio – sia esso, sanitario, economico, sociale, e soprattutto spirituale – si è abbattuto su di un’umanità lontana da Dio, ribelle, infingarda, dedita al peccato più vergognosi ed ai piaceri della carne, in ciò favorita da un falso culto e da falsi pastori-mercenari che nutrono il proprio ventre e sono pronti a dare le pecore al lupo vorace che ne fa strage.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

MIRABILE ILLUD

NUOVE PUBBLICHE PREGHIERE

PER LA PACE NEL MONDO

Ai venerabili Fratelli, Patriarchi, Primati,

Arcivescovi, Vescovi, e di ogni altro Ordinario

avente pace e comunione con Sede Apostolica:

Quel meraviglioso spettacolo di concordia fraterna, offerto durante l’anno santo dalle innumerevoli schiere di fedeli convenuti in pio pellegrinaggio a Roma, da quasi tutte le nazioni, a Noi sembra che possegga una voce ammonitrice e costituisca dinanzi al mondo una testimonianza solenne che tutti i popoli vogliono non la guerra, non la discordia, non l’odio, ma intensamente bramano la pace, l’unione degli animi e quell’amore cristiano, donde solamente può nascere un’età prospera e migliore. Mentre vediamo con animo trepidante i popoli agitarsi sotto paurose minacce di conflitti e già nell’infuriare in alcune regioni di orribili stragi vengono falciate fiorenti vite giovanili, Noi ardentemente desideriamo che tale ammonimento sia finalmente ascoltato da tutti. – Chi non vede con piena evidenza come le sanguinose lotte apportino immense rovine, eccidi e ogni genere di miserie? L’ingegno umano, destinato a ben altri scopi, ha escogitato oggi strumenti di guerra di tale potenza da destare orrore nell’animo di qualsiasi persona assennata, soprattutto perché essi non colpiscono soltanto gli eserciti, ma spesso travolgono ancora privati cittadini, fanciulli innocenti, donne, vecchi, malati e, insieme, edifici sacri e i monumenti delle più nobili arti! Chi non inorridirà al pensiero che nuovi cimiteri possano aggiungersi a quelli tanto numerosi del recente conflitto, e ad altri tristissimi ruderi nuove fumanti rovine di borghi e città? Chi finalmente non trema pensando come la distruzione di nuove ricchezze, conseguenza inevitabile di ogni guerra, possa aggravare sempre più quella crisi economica, da cui sono travagliati quasi tutti i popoli, e specialmente le classi più umili? – Noi, che innalziamo la Nostra mente sopra la marea delle passioni umane, che nutriamo sentimenti paterni verso popoli e nazioni di qualsiasi stirpe, e desideriamo l’incolumità e la tranquilla sicurezza e l’incremento quotidiano della prosperità; Noi, venerabili fratelli, ogni volta che vediamo il cielo sereno offuscarsi con nubi minacciose, e incombere sull’umanità nuovi pericoli di conflitti, non possiamo non elevare la Nostra parola per esortare tutti ad estinguere le discordie, a comporre i dissidi e a instaurare quella vera pace che assicuri i diritti della Religione, dei popoli, dei singoli cittadini, pubblicamente e sinceramente riconosciuti, com’è necessario. Tuttavia ben sappiamo che i mezzi umani sono inadeguati a un compito così alto; occorre innanzitutto rinnovare gli animi, reprimere le passioni, sedare gli odi, mettere veramente in pratica principi e leggi giuste, giungere a una più equa distribuzione delle ricchezze, stimolare tutti alla virtù. Per raggiungere un così grande scopo, senza dubbio, nulla può essere di maggiore aiuto della Religione cristiana. La sua divina dottrina ci insegna che noi uomini come fratelli componiamo una stessa famiglia, di cui Dio è Padre, Cristo è redentore e vivificatore con la sua grazia celeste, e la cui patria immortale è il Cielo. Se realmente questi insegnamenti venissero ben praticati, allora di certo non le guerre, né le discordie, né i disordini, né le violazioni della libertà civile e religiosa renderebbero penosa la vita pubblica e privata, ma una serena tranquillità, fondata sul retto ordine di giustizia, inonderebbe i cuori e sarebbe aperta la via al raggiungimento di una sempre maggior prosperità. – Ciò è certamente arduo, ma necessario. E se è necessario non bisogna indugiare, ma subito effettuarlo. E se è arduo e impari alle umane forze, occorre rivolgersi con preghiere e suppliche al Padre celeste, come nel corso dei secoli, in qualsiasi difficoltà fecero sempre i nostri avi, non senza felice e salutare esito. – Per questa ragione di nuovo vivamente vi esortiamo, venerabili fratelli, affinché, indette pubbliche preghiere, invitiate il gregge a voi affidato a impetrare da Dio la pace e la concordia dei popoli, in modo che sotto l’auspicio della Religione, si promuova come una crociata che si contrapponga a quella, da cui derivano tante calamità alla convivenza umana. – Certamente sapete che nella mezzanotte precedente alla festa dell’immacolato concepimento di Maria vergine, Noi celebreremo il Sacrificio eucaristico, e, attraverso la radio, tutti potranno ascoltare la Nostra voce implorante. In quella santa notte specialmente Noi desideriamo che tutti i fedeli, uniti al Vicario di Cristo, con la validissima intercessione della Santissima Vergine Immacolata, supplichino il Padre delle misericordie affinché, cessati gli odi e ordinate tutte le cose con giustizia ed equità, risplenda finalmente su ogni popolo e nazione una pace piena e sicura. È nostro desiderio ancora, che durante la novena in preparazione al santo Natale, a questo scopo si rinnovino con lo stesso fervore preghiere al divino Fanciullo per ottenere che quella pace, annunziata dagli angeli agli uomini di buona volontà (cf. Lc II, 14) sulla sua sacra culla, spunti e si stabilisca saldamente su tutta la terra. – Non dimentichiamo di pregare ardentemente il nato Redentore e la sua divina Madre perché la Religione cattolica, che è il più sicuro fondamento del vivere umano e civile, possa godere la dovuta libertà in tutte le nazioni, e coloro che «soffrono persecuzioni per la giustizia» (cf. Mt V, 10), che sono in carcere per avere strenuamente difeso i sacrosanti diritti della Chiesa, oppure sono stati banditi dalla loro sede, e quelli inoltre che vivono miseramente lontani dalla patria e dalla famiglia, o sono ancora prigionieri, possano ottenere celesti conforti, e finalmente raggiungere ciò che è l’oggetto dei loro ardentissimi voti e infiammati desideri. – Siamo sicuri, venerabili fratelli, che voi, con quello zelo e diligenza pastorale che sono nella vostra consuetudine, comunicherete queste Nostre paterne esortazioni al vostro clero e al popolo nella maniera che riterrete più opportuna; e parimenti Noi siamo certi che tutti i Nostri figli dilettissimi in Cristo, sparsi in ogni parte del mondo, risponderanno con spontanea volontà a questo Nostro invito. – Propiziatrice, intanto, delle divine grazie e testimonianza del Nostro amore paterno sia l’apostolica benedizione, che impartiamo con effusione di cuore, nel Signore, a tutti e a ciascuno di voi, venerabili fratelli, ai vostri fedeli, a quelli in particolare che pregheranno secondo questa Nostra intenzione.

Roma, presso San Pietro, 6 dicembre dell’anno 1950, XII del Nostro pontificato.

PIO PP. XII

[AAS 42 (1950), pp, 797-800.]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “CUM ILLUD SEMPER”

Il Santo Padre Benedetto XIV, uno dei più dotti in assoluto tra i Pontefici Romani di Santa Madre Chiesa, fissa i punti che devono regolare la elezione a curato parrocchiale da parte dei Vescovi diocesani e le modalità per eventuali ricorsi da parte degli esclusi. La lettera è molto articolata ed atta a risolvere i cavilli giudiziari che possono sorgere tra vari candidati all’ufficio della cura delle anime. Tanta cura e attenzione da parte del Sommo Pontefice per una questione capitale nella conduzione di anime alla vita eterna, non è stata purtroppo corrisposta come c’era da augurarsi da parte di tutti gli Ordinari, fino a giungere poi all’investire della carica soggetti assolutamente indegni, per dottrina ed esempi di vita, di pascere un gregge attaccato con sempre maggiore accanimento da parte di lupi furiosi e sciacalli famelici di ogni risma, e addirittura a permettere l’infiltrazione di aderenti alle sette di perdizione, a marrani ipocriti, a viziosi manifesti, ad apostati ed eretici, che hanno poi condotto, come sappiamo, alla formazione di un laicato totalmente scristianizzato ed ignaro delle più elementari verità di fede indispensabili per ottenere l’eterna salvezza. Ben sapevano infatti i dirigenti delle sette di perdizione, i servi della bestia infiltrati nella Chiesa affettando santità e devozione apparente, che per rovinare l’operato della Chiesa a salvezza dei fedeli, bisognava modificare lentamente ma progressivamente i costumi e la dottrina delle nuove leve sacerdotali, specie nei seminari e negli ordini religiosi più coriacei, come ad esempio è avvenuto per i Domenicani ed i Gesuiti. Corrotto il pastore, disperso il gregge, è il solito adagio, oggi ancor più vero e calzante: cacciato il Pastore vero, se ne sono insediati due falsi che ubriacano e conducono il gregge allo stagno di fuoco con loro, i falsi profeti, la bestia ed il diavolo. Così li ha descritti San Giovanni Apostolo., e così sarà.


Benedetto XIV
Cum illud semper

La Chiesa Cattolica ha sempre paventato il pericolo che la cura delle anime e la custodia del gregge del Signore fossero affidate a persone indegne e senza benemerenze sacerdotali; perché l’organismo di tutta la famiglia vacilla, se ciò che si pretende dal corpo non si trova nel capo. Perciò con sanzioni canoniche e specialmente con i Decreti del sacro Concilio di Trento si è opportunamente provveduto a che il governo delle Chiese parrocchiali si dovesse affidare a coloro, la cui vita, dalla puerizia alla maturità, fosse trascorsa nel servizio ecclesiastico in modo tale che non fosse lecito dubitare della loro promozione rispetto agli altri, né del voto favorevole dato circa la loro dottrina, i costumi e una costante attività. A poco a poco è invalsa in molti la pregiudizievole opinione che i Decreti del Concilio di Trento prescrivono non di eleggere il più degno, ma solo di non affidare Chiese parrocchiali e altri Benefici che comportano la cura delle anime a persone indegne. Innocenzo XI di santa memoria, nostro Predecessore, condannò come erronea e troppo lontana dalla vera e sincera intenzione dei Padri Conciliari tale opinione e insegnò come si debba essere prudenti e diligenti nell’assegnare un ufficio pastorale.

1. Perciò in seguito alle indicazioni del Santo Sinodo è invalso l’uso che, quando è vacante una Chiesa parrocchiale che l’Ordinario deve liberamente assegnare, si faccia il concorso, in cui si indaghi su età, costumi, dottrina e capacità di ciascun concorrente; il Vescovo poi scelga chi giudicherà più idoneo degli altri.

2. Siccome, a volte, può accadere che o per interesse o per compiacenza o per un giudizio meno equo vengano preferiti i meno degni ai più degni, perciò, affinché non ci fosse nulla di irregolare e di non chiaro in tale elezione, Pio V di santa memoria, nostro Predecessore, con la pubblicazione di una Costituzione molto valida volle che gli ingiustamente respinti nel concorso potessero appellarsi al Metropolita o al Vescovo viciniore o, a volte, alla Sede Apostolica per sottoporre a un nuovo esame il prescelto e rivendicare, se ci fosse il diritto, con un nuovo esame di meriti la Chiesa non legalmente assegnata ad altri. E perché non ci fosse appiglio per un futile appello, nella Costituzione si è opportunamente disposto che al detto appello si deve ricorrere soltanto “in condizione devolutiva“, senza sospendere o in qualche modo ritardare al prescelto dal Vescovo il possesso della Chiesa.

3. Queste giustissime leggi, promulgate al fine di impedire che, in una cosa di così grande importanza, si preferissero gli ignoranti ai maestri, i nuovi arrivati agli anziani, gli inesperti agli esperti, sono state violate dalla frode e dalla malizia degli uomini: il rimedio è divenuto un’arma per gli esasperati. Molto spesso infatti i respinti dall’Ordinario, con il pretesto della Costituzione, erano soliti precipitarsi facilmente sull’alternativa dell’appello e con una ragione anche poco legittima provocare un nuovo esame agli eletti dal Vescovo. Li costringevano, dopo che avevano abbandonato la custodia del gregge e della Chiesa, a intraprendere lunghi viaggi, a sobbarcarsi a sacrifici di fatica interminabile, di tempo e di denaro e a sostenere la causa in seconda, in terza istanza e, a volte, anche oltre.

4. In verità è comprovato anche dall’esperienza che la lite si risolve poi con grave pregiudizio della giustizia. Infatti coloro che si erano sottoposti all’esame e, non conoscendo i legittimi ordinamenti, erano stati respinti nel primo concorso, in seguito, andando la lite per le lunghe, si dedicavano di proposito e con passione alle lettere, meritandosi così di essere preferiti agli altri; si adiravano anche fortemente contro il Vescovo, giudice sì di un’attitudine acquisita, ma non da acquisire, per essere stati ingiustamente respinti.

5. Da qui lamentele a non finire da parte di persone rispettabili e garanti della giustizia. Per placarle la Congregazione Interprete del Concilio di Trento mise ogni cura e diligenza e diede a Noi, che fungevamo da Segretario, l’incarico di tentare, secondo le nostre forze, con una disquisizione, data poi alle stampe, di esaminare a fondo questa faccenda, origine del presente male, e di cercare rimedi atti ad allontanarlo. Esponendo il nostro pensiero in merito, facemmo notare che soprattutto la prassi dell’esame fatto a voce e non consegnato per iscritto era viziata, appunto perché gli eletti alla cura delle anime dall’Ordinario Collatore, convocati a un secondo esame davanti a un altro giudice, non potevano difendere il diritto di legittima collazione con l’attestato certo che avevano di idoneità già provata. Tutta la faccenda sembrava dipendere dall’esito di un nuovo esame da farsi davanti a un giudice di appello del tutto ignaro dei fatti. Di conseguenza, con grave pregiudizio della giustizia, era stata accolta nel Foro [ecclesiastico] quella opinione, secondo la quale si poteva ricorrere ad un altro giudice senza esibire nessun documento della bocciatura non meritata. Tale metodo era troppo lontano dal senso dei sacri Canoni; perciò pensammo che si poteva ovviare a questo malcostume prima di tutto stabilendo una forma sicura e ben appropriata di esame, poi mettendo per iscritto i quesiti proposti agli esaminandi e le loro rispettive risposte, nonché tutta la serie dei fatti, e in fine rimettendo al giudice di appello gli atti integrali di tutto il concorso.

6. La norma da Noi proposta trovò non solo il consenso presso la Congregazione, che la approvò nella seduta del 16 novembre 1720, ma anche il giudizio positivo del Pontefice Clemente XI, esimio garante e assertore della disciplina ecclesiastica. E perché gli Ordinari mettessero in atto tali disposizioni con quella premura e quel filiale ossequio che meritano, esse furono opportunamente scritte di nostro pugno in forma di Lettera il giorno 10 gennaio 1721 e approvate con il consenso e con il responso dello stesso Pontefice. Il loro contenuto, anche se già dato alle stampe e inserito nel Bollario del citato Clemente, nostro Predecessore, abbiamo creduto bene di riportarlo qui.

7. Reverendissimo Signore come Fratello.

Affinché il governo delle Chiese parrocchiali fosse affidato a persone più degne, il santo Concilio di Trento nella sess. 24, cap. 18 stabilì – come è noto – che si indicesse e facesse il concorso, e che tra i concorrenti, una volta esaminati e approvati dal Vescovo o dal suo Vicario Generale e da almeno tre esaminatori, il Vescovo eleggesse colui che per età, costumi, dottrina, prudenza e altre doti necessarie e opportune al governo della Chiesa vacante, giudicasse più degno e più idoneo degli altri. Pio V, santissimo Pontefice di nome e di fatto, aggiunse che, nel caso in cui il Vescovo avesse eletto uno meno adatto posponendo altri più idonei, questi potevano ricorrere contro tale pregiudizievole elezione al Metropolita o, se l’elettore fosse lo stesso Metropolita o un esente, all’Ordinario più vicino come Delegato della Sede Apostolica, o altrimenti alla stessa Sede Apostolica, e convocare il prescelto a un nuovo esame davanti allo stesso giudice di appello e ai suoi esaminatori, con la cautela, però, che l’appello doveva essere non in condizione sospensiva, ma in condizione devolutiva, come è spiegato più ampiamente nella sua trentatreesima Costituzione. E concluse che, una volta constatato e revocato l’irragionevole giudizio dell’elettore, la Chiesa parrocchiale fosse affidata al più idoneo. – Quando poi né con decreto del Concilio né con Bolla del Pontefice si riuscisse a proporre un certo e particolare sistema o metodo di fare l’esame, è difficile a dirsi quante forme diverse di esami ci sarebbero e altre ancora in altre parti, e da qui occasione di querele. – Infatti in qualche parte, non essendo stati proposti a tutti i concorrenti gli stessi quesiti e gli stessi casi, c’erano sempre di quelli che, in sede o fuori sede, si lamentavano sostenendo che a loro, respinti, erano toccati i quesiti più difficili, mentre al prescelto i più facili. Altrove, invece, sono stati sì proposti gli stessi quesiti, ma né questi né le risposte dei concorrenti venivano consegnate per iscritto o per lettera. In seguito accadeva, e non raramente, che qualcuno dei respinti, in forza della sopraccitata Bolla, convocava l’eletto a un nuovo esame davanti al giudice di appello e ai suoi esaminatori. La Sacra Congregazione considerando che l’impugnativa non si può provare se non con un nuovo esame, stabilì fin dal 1603 che la convocazione per un nuovo esame deve essere accettata, anche se l’impugnativa non è ancora provata, perché le prove sono richieste solo nel successivo giudizio. In tale giudizio, dopo che è provata con il nuovo esame dell’appellante l’impugnativa circa la dottrina, rimane da provare la sua maggior capacità sul già prescelto circa le altre doti richieste per governare la Chiesa, e ciò per poter dare un giudizio sulla maggiore idoneità dell’uno o dell’altro a governare la Chiesa parrocchiale. Non sempre infatti il più dotto è ritenuto o deve essere ritenuto il più adatto o il più idoneo al governo. Gli autori della Sacra Congregazione e i Tribunali lodarono questa sentenza. Soltanto allora in altre Diocesi è invalso l’uso che fossero proposti a tutti i concorrenti gli stessi quesiti e casi (per non dare occasione al Cancelliere di aggiungere, togliere o mutare qualcosa di sua iniziativa) e che gli stessi concorrenti scrivessero di proprio pugno domande e risposte. Inoltre gli Ordinari che ritenevano questo metodo di esaminare come il migliore, lasciavano spesso alla Congregazione di vedere se, senza prima richiedere le prove dell’impugnativa, era o no il caso di accordare la convocazione dell’eletto per un nuovo esame a coloro che così esaminati e poi respinti, in seguito sogliono ricorrere in appello: perché questi dagli atti del primo esame potevano facilmente provare l’impugnativa circa la dottrina; cosa che gli altri, esaminati con metodo diverso, naturalmente non potevano fare se non con un secondo o un nuovo esame. Né mancarono uomini insigni per onestà ed esperienza in una lunga e lodevole amministrazione delle Chiese, i quali facevano notare che era ora di mettere un freno alla licenza degli appellanti e di moderare le già troppo frequenti convocazioni a un nuovo esame, che non si fanno quasi mai senza grave danno delle Chiese. Infatti quando si deve fare un nuovo esame davanti a un giudice di appello molto lontano dalla parrocchia, l’eletto dal Vescovo, in quanto convocato, è costretto per tutto quel tempo ad abbandonare la parrocchia e a lasciarla a un Economo o a un Vicario, come una sposa a degli sconosciuti, mentre lui, lo sposo, se ne starebbe lontano non momentaneamente, ma per molto tempo; perché la lite di solito è complessa e gli esami prima circa l’eccellenza della dottrina, poi circa le altre qualità atte a integrare l’idoneità, si moltiplicano puntigliosamente gli uni sugli altri, tre o quattro alla volta, e si trascinano a lungo con comodo, per non dire con ozio, prima di decidere a chi dei concorrenti aggiudicare la parrocchia.

Per togliere di mezzo l’occasione sia di lamentele sia di disagi, la Sacra Congregazione Interprete del Concilio di Trento, dopo aver ripassato dall’inizio tutta la faccenda in due sessioni, il 1° ottobre e il 16 novembre del 1720, ha ribadito con forza (ciò che vien messo in atto per mezzo della presente Lettera Enciclica) che tutti e singoli Vescovi e gli altri Prelati che hanno il diritto e l’autorità di fare concorsi, sono esortati a non rifiutarsi a istituire tale esame, come già lo fanno molte Diocesi e la stessa Roma; così lo richiede anche la Dataria Apostolica quando, vacante la Sede, è vacante anche qualche Chiesa parrocchiale, la cui assegnazione spetta alla Sede Apostolica, o quando è vacante una qualche parrocchia “iuxta Decretum”, come si dice, o quando infine, vacante una qualche Dignità maggiore nelle Chiese Collegiali o Cattedrali, alla quale è annessa la cura delle anime, si deve fare un concorso che, come è noto, deve essere rimesso alla Dataria Apostolica, come è chiaramente prescritto nelle Lettere che per ordine del Santissimo provengono appunto dalla Dataria.Pertanto, vacante una Chiesa parrocchiale che deve essere assegnata per concorso indetto con le solite formule, per decreto della Sacra Congregazione si osservi con risoluta decisione quanto segue:

Primo: si assegnino a tutti i concorrenti gli stessi quesiti e casi e lo stesso testo del Vangelo sul quale comporre un piccolo brano di predica, per dimostrare la capacità di parlare davanti a un’assemblea.

Secondo: i casi e i quesiti da risolvere siano dettati a tutti nello stesso tempo e a tutti ugualmente sia consegnato nello stesso tempo il testo del Vangelo.

Terzo: si stabilisca per tutti lo stesso spazio di tempo entro il quale risolvere i casi, rispondere ai quesiti e comporre il discorsetto.

Quarto: tutti i concorrenti siano chiusi nella stessa stanza, da cui, finché scriveranno (si darà infatti a tutti la possibilità di scrivere), nessuno di loro possa uscire né altri entrarvi, se non dopo aver completato e consegnato lo scritto.

Quinto: tutti, ciascuno con la propria mano, scrivano e firmino le risposte e il discorso.

Sesto: le risposte si scrivano in latino, il discorso nella lingua che si suole usare con il popolo.

Settimo: ogni risposta e ogni discorso, quando verranno presentati da uno dei concorrenti, siano firmati non solo da chi ha scritto e dal Cancelliere del concorso, ma anche dagli esaminatori e dall’Ordinario o dal suo Vicario che interverranno al concorso.

Terminato il concorso secondo questa formula e assegnata la Chiesa parrocchiale a chi sarà giudicato più idoneo e più degno, non si ammetta appello o contro una inesatta relazione degli esaminatori o contro un irragionevole giudizio del Vescovo, a meno che non venga interposto entro dieci giorni dal giorno dell’assegnazione.

Se qualcuno poi ricorrerà in appello entro questo spazio di tempo e chiederà che siano mandati al giudice di appello gli atti del concorso, si mandino o gli stessi atti originali del concorso chiusi e sigillati o almeno una copia autentica preparata dal Cancelliere del concorso e da un secondo notaio e ascoltata davanti al Vicario o ad un altro costituito in dignità ecclesiastica, eletto dall’Ordinario e al quale spetterà anche l’elezione del notaio aggiunto al Cancelliere. La copia sarà firmata dagli esaminatori sinodali che furono presenti al concorso.

Chi, esaminato secondo quanto è stato detto prima, dopo aver interposto l’appello contro l’inesatta relazione degli esaminatori o contro un ingiustificato giudizio del Vescovo, non riuscirà da questi atti o dalla loro autentica copia a provare se non l’impugnativa circa la dottrina, inutilmente chiederà alla Sacra Congregazione la facoltà di procedere a un nuovo esame.

Come pure inutilmente cercherà di perseguire il proprio diritto nel giudizio d’appello chi si lamenta di essere contestato quanto alle altre doti, a meno che, dopo aver interposto a tempo opportuno, come è stato detto, l’appello contro l’irragionevole giudizio del Vescovo, non riuscirà a dimostrare dagli atti del primo concorso o almeno con testimonianze e documenti extragiudiziali, purché non futili, l’impugnativa circa le altre doti.

Così ritenne la Sacra Congregazione e il Santissimo approvò. Ma se qualche Ordinario, nonostante tutto, continuerà a istituire gli esami diversamente da come è stato detto sopra, anche la Sacra Congregazione continuerà secondo la precedente consuetudine a concedere agli appellanti che si diranno contestati la convocazione a un nuovo esame e senza dover prima provare l’impugnativa. Intanto perché il ricordo di questa Lettera non svanisca, la Sacra Congregazione vuole che essa sia sempre conservata nella Cancelleria di ciascun Ordinario. Mentre notifico a tutti la decisa volontà della Sacra Congregazione, invoco sulla tua Eccellenza ogni bene dal cielo. Roma, oggi 10 gennaio 1721.

Della tua Eccellenza

Come Fratello

P.M. Card. Corradino Prefetto

P. Lambertini Segretario

8. Quanto abbia giovato la salutare istituzione delle leggi sopraddette nell’assegnare rettamente gli uffici ecclesiastici, nell’amministrazione della giustizia, nel comporrei dissidi, nel mantenere i Chierici nel loro ministero, lo abbiamo sperimentato più che a sufficienza quando personalmente abbiamo abbracciato con paterno amore la nostra Sposa, la Chiesa di Ancona prima, e poi quella di Bologna. Appunto perché forti dell’aiuto di queste leggi, abbiamo preposto alle parrocchie e alla cura delle anime i più degni. E ciò accadde, con la benedizione del Signore, con così grande consenso delle anime, che nessuno si è mai lamentato che il premio di un posto più elevato sia stato dato a una persona meno degna o il governo di una Chiesa sia stato ingiustamente affidato ad altri.

9. Ma siccome da certi indizi sappiamo che non così è capitato ad altri Vescovi, ché anzi non mancano coloro che, sviati da privati interessi, presumono spesso di evitare e confutare il giudizio episcopale, Noi solleciti di adempiere, come si deve, da parte Nostra al Nostro ufficio, pensammo di dover aggiungere alcune cose alla sopraccitata Lettera e spiegare più chiaramente altre che vi sono poste come tra le righe e in conciso, perché tutto si svolga rettamente e con ordine.

10. Con dispiacere dunque abbiamo sentito che in molte Diocesi, benché sia stata accolta la lodevole consuetudine, che va custodita con fermezza, di redigere per iscritto l’esame dei concorrenti, tuttavia i voti degli esaminatori sono puntati solo sulla bravura letteraria e non si cerca il loro parere circa l’età, formazione, gravità, bontà di costumi, prudenza dei Chierici, circa gli uffici prima svolti e se, infine, siano in grado di aiutare con le parole e con l’esempio le proprie pecore. Quanto sia lontana questa prassi dalla via indicata dal Concilio di Trento, lo capirà chiaramente chi pondererà le seguenti parole: “Fatto l’esame, siano notificati quanti sono stati da loro giudicati idonei per costumi, dottrina, prudenza e per altre doti opportune per governare la Chiesa vacante” (Conc. Trid., sess. 18, cap. 24, De Reformatione). Essendo bene al corrente di ciò, la Sacra Congregazione Interprete dello stesso Concilio, dichiarò più volte che gli esaminatori mancano al loro dovere se sono solo giudici di dottrina e non indagano quali fra gli altri sono idonei e raccomandabili per bontà di costumi, laboriosità, ossequio verso la Chiesa e per altre doti necessarie nel loro insieme a esercitare l’ufficio di parroco.

11. Terminato l’esame, come è noto a tutti, gli esaminatori hanno soltanto la facoltà di notificare quanti hanno giudicato idonei a governare la Chiesa, perché l’elezione del più degno è riservata al solo Vescovo, come è stato sancito dal Concilio di Trento con queste parole: “Di questi il Vescovo elegga colui che giudicherà più idoneo degli altri“. Nel caso che qualcuno dei Chierici ricorra in appello contro una inesatta relazione degli esaminatori, la cui unica preoccupazione è stata di assodare la dottrina, senza aver fatto nello stesso tempo un’accurata indagine sulle altre doti necessarie all’ufficio di Pastore, l’ordine del giudizio comporterà di conseguenza che anche il giudice, a cui si è ricorso, si fermi alla sola indagine sulla dottrina; che non senza grave danno delle anime e offesa della giustizia, sia preposto alla Chiesa chi sa di lettere, anche se nel resto è meno adatto e, a volte, indegno; e che, viceversa, sia respinto chi, anche se scadente in dottrina, eccelle, però, in costumi, gravità, prudenza, nel buon nome, in un costante servizio della Chiesa e in grande stima di virtù.

12. Inoltre non sembrasi sia fatta molta strada per estirpare gli abusi, quand’anche tanto il Vescovo, come gli esaminatori, con eguale sollecitudine abbiano messo ogni sforzo nell’assegnare con parere unanime la Chiesa a una persona che, anche se inferiore ad altri per scienza e lettere, si distingue però per il complesso di tutte le altre doti. Infatti il respinto, fidandosi troppo della propria dottrina, non di rado prima ricorre in appello contro l’irragionevole giudizio del Vescovo, poi, dopo aver deferito la causa al giudice di appello, si dà tutto ad acquisire ancor più dottrina e a ribattere l’impugnativa di letterato, senza mai dar alcun peso alle altre doti che si desiderano nell’appellante. I vigilanti Pastori delle Chiese deplorano moltissimo il risultato di tale appello e soffrono nel loro intimo che il governo delle parrocchie sia affidato, come è stato detto, a pastori dotti, non a pastori adatti.

13. Ma quand’anche il giudice di appello desse (cosa che avviene raramente) tanta importanza alla scienza quanto basta, e con maggiore e più accurato esame volesse indagare sui costumi, sulla gravità, sulla prudenza delle persone, sui loro esempi di virtù e infine su tutta la loro vita precedente, se adatta a pascere il gregge, l’appellante gli presenta tante di quelle attestazioni raccolte a bella posta, che il giudice, revocando come irragionevole il giudizio del Vescovo, non teme di dare una mano all’appellante, sorretto da tanti e così ragguardevoli attestati di probità.

14. Infine spesso capita specialmente ai Vescovi che, posti come sono in alto, conoscono le trasgressioni dei sudditi, di vedere che nel concorso gli esaminatori dichiarano idoneo per scienza e per costumi chi è profondamente segnato da marchio di vizio o di crimine, ignoto a tutti eccetto che al Vescovo. Se il Vescovo, per giusto motivo, senza rivelare il crimine, elegge un altro di buona condotta, trascurando in silenzio il colpevole, questi subito con simulata impugnativa si appella a un giudice superiore ignaro del crimine; così, con il solito espediente dell’appello, viene innalzato alla dignità pastorale chi è in grado non di aver cura del popolo, ma di nuocergli, non di garantire il governo, ma di peggiorarlo.

15. Perché dunque uomini di animo cattivo non trasformino il rimedio dell’appello istituito per difendere la giustizia in un mezzo di difesa dell’iniquità, ad alcuni forse sembrerebbe ottima cosa abolire ogni appello e lasciare la cura di designare i Rettori delle anime solo ai Vescovi, che renderebbero conto del loro operato solo a Cristo giudice. In verità non possiamo assolutamente approvare questa tesi (che sarebbe contraria alla mente del Concilio di Trento) che tacitamente permette l’appello “in devolutivo” contro l’inesatta relazione degli esaminatori, come sembrano indicare quelle parole: “Nessuna devoluzione e nessun appello interposti anche alla Sede Apostolica, o ai Legati della stessa Sede, Vice Legati o Nunzi, o ai Vescovi, Metropoliti, Primati o Patriarchi, possono mai sospendere o impedire che la relazione dei predetti esaminatori abbia il suo corso“.

Con tale decisione è d’accordo anche la Costituzione Piana, che ammette l’appello “in devolutivo” contro l’irragionevole giudizio del Vescovo.

16. Perciò, affinché in questo affare tutto proceda rettamente e ordinatamente, pensammo che è proprio del Nostro Ufficio, Venerabili Fratelli, prescrivere quelle norme che per lunga esperienza abbiamo riconosciute valide a formare i Rettori delle anime, perché possano presiedere e giovare al gregge loro affidato.

I. Il Vescovo, avuta la notizia di una Chiesa vacante, vi deputi subito un Vicario idoneo secondo il prescritto del Tridentino, con una congrua assegnazione, a sua discrezione, di una parte dei proventi per il sostentamento della Chiesa finché non le si provveda un Rettore.

II. Si divulghi con bando pubblico la notizia del concorso, che deve essere celebrato in un congruo spazio di tempo, stabilito dal Vescovo. Nel bando si avvertano tutti e chiaramente di presentare, nel termine stabilito, al Cancelliere Vescovile o ad un altro da designarsi dal Vescovo prove, attestazioni giudiziali ed extragiudiziali e altri documenti del genere immuni da frode. Diversamente, trascorso il termine stabilito, tali documenti e altri del genere, non saranno in nessun modo accettati.

III. Arrivato il giorno del concorso, si mettano per iscritto e in compendio, redatti dal Cancelliere, i meriti, le doti e i requisiti (come li chiamano) dei singoli, desunti con assoluta fedeltà dai certificati presentati in tempo utile. Poi una copia del compendio sarà consegnata non solo al Vescovo o al Vicario Generale che ne fa le veci, ma singolarmente a tutti gli esaminatori invitati al concorso, perché diano il loro giudizio sia sulla scienza, sia sulla vita, costumi e altre doti necessarie a governare la Chiesa.

IV. Il concorso si tenga nel giorno stabilito dal Vescovo, osservando accuratamente e in tutto la forma descritta nella Lettera sopra riferita e pubblicata nel 1721; e si esponga minutamente e con diligenza e per iscritto tutta la serie degli atti del concorso. Poi gli esaminatori, per arrivare a un giudizio abbastanza sicuro e chiaro, valutino diligentemente la bravura dei singoli nello svolgere e spiegare a voce qualche punto della Dottrina ecclesiastica, o estratto dai SS. Padri, o dal Sacro Concilio di Trento, o dal Catechismo Romano; e con la stessa diligenza esaminino dai singoli scritti le risposte date ai quesiti proposti; si rendano conto di quanto ciascuno valga nella ponderatezza dei giudizi e nella correttezza di espressione del sermoncino messo per iscritto, e di come è stato adattato al testo evangelico e all’altro tema assegnato. Pari, se non maggiore, accortezza usino gli esaminatori nell’indagare sulle altre qualità necessarie al governo delle anime; indaghino sulla bontà dei costumi, sulla serietà, sulla prudenza, sull’ossequio fino allora prestato alla Chiesa, sul merito acquisito in altri incarichi e sul corredo di tante altre virtù che vanno strettamente congiunte con la dottrina. Dopo aver esaminato tutto in comune, respingano con il loro voto gli inadatti e notifichino al Vescovo gli idonei.

V. Terminato il concorso, il Vescovo, o se egli è impedito, il Vicario Generale insieme con gli esaminatori sinodali, in numero non meno di tre, consegni la scheda, distribuita in antecedenza, riassuntiva dei requisiti, al Cancelliere perché la bruci o la custodisca in un luogo segreto insieme con gli atti e non la mostri a nessuno senza un mandato del Vescovo o del suo Vicario Generale. Subito dopo l’Ordinario, appena gli sembrerà meglio, elegga tra gli approvati il più degno e il possesso [della Chiesa] non gli sia ritardato da nessun pretesto di appello o di divieto.

VI. Se accadrà che qualcuno dei Chierici ricorra in appello contro l’inesatta relazione degli esaminatori o contro l’irragionevole giudizio del Vescovo, produca davanti al giudice di appello gli atti integrali del concorso. E il giudice non pronunci la sentenza se non dopo averli visti e aver ravvisato l’impugnativa. Inoltre, nel dare la sentenza e nel risolvere l’impugnativa si basi solo sulle prove che risultano dagli atti, sia riguardo alla dottrina, sia riguardo ad altre doti. Siccome poi dalla pubblica indizione [del concorso] fino al giorno del concorso c’è tempo sufficiente per presentare comodamente i necessari certificati, referenze, requisiti e altri documenti in merito, perciò, per precludere ogni via di frode, vogliamo e rigorosamente ordiniamo che detti certificati, referenze, attestati giudiziali ed extragiudiziali e tutti i documenti recuperati ad arte e, come si dice, pescati dopo il concorso, non vengano in nessun modo presi in considerazione. Ciò, nonostante la Lettera ricordata sopra, pubblicata dalla Sacra Congregazione Interprete del Concilio di Trento nel 1721, alla quale deroghiamo in questa parte ad effetto di ciò che è stato premesso, e la quale nel resto e con tutto il suo contenuto rimarrà saldamente in vigore.

VII. Se poi il Vescovo, invece che a uno o ad un altro degli approvati, assegnerà la Chiesa a uno più idoneo per una ragione a lui solo nota, e che pensa di dover notificare al giudice di appello per togliere la taccia di una ingiusta preferenza, ne informi il giudice con una lettera privata, ricordando la legge del segreto inviolabile. Nessuno attribuisca questa prassi alla nostra circospezione: essa deriva da Decreti del Concilio di Trento. Infatti nella sess. 24, cap. 20, “De Reformatione” è così stabilito: “Inoltre se qualcuno, nei casi previsti dal diritto, ricorrerà in appello, o si rammaricherà per qualche impugnativa o altrimenti per la scadenza del biennio, di cui sopra, ricorrerà ad un altro giudice, è tenuto a trasferire al giudice di appello e a sue spese tutti gli atti svoltisi davanti al Vescovo, Avvertendo tuttavia prima il Vescovo che se qualcosa gli sembrerà utile per l’istruzione della causa, la possa notificare al giudice di appello” (Conc. Trid., sess. 24, cap. 20).

E benché a ragione Noi dobbiamo temere che detta prassi una volta in uso di avvertire il giudice, a cui si è appellato, sia oggi caduta in disuso e scomparsa dal Foro [ecclesiastico], tuttavia, se il Vescovo (come è stato detto) per una ragione a lui solo nota e non agli altri, ma che merita di essere accolta, avrà assegnato la Chiesa, denunci e manifesti la ragione al giudice di appello per mezzo di lettera consegnata in segreto. Sappiano poi i giudici che le cause e le ragioni deferite dal Vescovo devono essere custodite sotto garanzia di segreto inviolabile; né si deve tenere in poco conto la testimonianza di quel Pastore, al quale con parola divina si ingiunge di distinguere le proprie pecore. Infatti non si può credere facilmente che i Vescovi siano così non curanti della propria e altrui salvezza, da lasciarsi influenzare dall’avversione o dal favore, per nulla atterriti dalla minaccia del divino giudizio, e da chiamare, in sfregio ai sacri Canoni, “male il bene, bene il male, tenebre la luce e luce le tenebre.

Se poi il Vescovo avrà dei sospetti sulla coscienziosità del giudice al quale si è ricorso in appello, e penserà di non dovergli rivelare i punti riservati delle ragioni, li notifichi per mezzo di lettera segreta al Cardinale della S.R.C., Prefetto pro tempore della Congregazione del Concilio, al quale non mancheranno né saggezza né autorità per indurre il giudice a dare il dovuto posto alla giustizia.

17. Siccome è conveniente anche per l’equità portare a termine nel più breve tempo possibile le cause di appello che con grande scapito e danno della Chiesa sono a volte interminabili, perciò, quando è stata proferita dal giudice di appello una sentenza del tutto conforme alla preelezione fatta dal Vescovo, non si dia altra possibilità di un nuovo ricorso in appello, ma si intervenga d’autorità a por fine alla controversia. Se invece il giudice di appello si pronunciasse diversamente dall’Ordinario, sia lecito al preeletto dal Vescovo che perse la causa, ricorrere ad un altro giudice, mantenendo intanto il possesso della Chiesa parrocchiale. Finalmente, dopo che anche il terzo giudice avrà detto la sentenza, affinché le parti non siano gravate oltre il limite di fatiche e di spese, soprattutto perché si tratta della cura di anime, per la quale è dannoso non avere il conforto di un Pastore fisso, abbia il legittimo diritto di governare la Chiesa colui che ha a suo favore due sentenze, e non si lasci all’eliminato nessuna possibilità di un nuovo ricorso in appello.

18. In verità con queste norme, benché l’appello non sia stato abolito, pensiamo si sia sufficientemente provveduto alla disciplina ecclesiastica. Rimane una cosa sola: che cioè i mezzi fin qui proposti siano debitamente messi in atto, e che a tal fine gli Ordinari dei Luoghi non lascino desiderare la loro vigilanza. Sarebbe inammissibile che ogni giorno venissero deferite nuove querele all’udienza del nostro Ufficio Apostolico e che, per togliere gli abusi, si invocassero nuove leggi da coloro che trascurano e disprezzano quelle che già ci sono.

19. Infine, siccome e non di rado è la Sede Apostolica a conferire Chiese parrocchiali, Dignità, Canonicati e altri Benefici a cui è annessa la cura delle anime, o perché sono rimasti vacanti nei mesi riservati, o perché per altro motivo sono stati riservati alla detta Sede, Noi, sulle orme dei Nostri Predecessori, prescriviamo e ordiniamo che in un caso o nell’altro il concorso sia indetto dal Vescovo senza distinzione alcuna, e senza bisogno di alcun permesso o licenza, e i Vescovi sappiano che è loro stata data con questa nostra Lettera.

20. Terminato il concorso, se si tratta di Benefici Curati, “che sono riservati solo per ragione di mesi“, il Vescovo elegga tra gli approvati il più idoneo e lo comunichi alla Dataria senza trasmettere gli atti, a meno che la Dataria non giudichi opportuno richiederli. Se invece i detti Benefici a cui è annessa la cura delle anime sono riservati alla Santa Sede per altro motivo che non sia quello “dei mesi apostolici“, in questo caso, senza cambiare il vecchio uso, il Vescovo si astenga dal pronunciare il giudizio del più degno e presenti spontaneamente alla Dataria gli atti del concorso.

21. Sarà lecito tuttavia agli Ordinari, a loro arbitrio, con lettere indirizzate al Datario notificargli la persona che giudicano più idonea a governare la Chiesa, e avvertirlo se ci fosse qualche motivo occulto, e giustamente taciuto negli atti, che sia di impedimento a qualcuno di ottenere un Beneficio Curato. Noi stessi in seguito da questa Sede, Guida e Maestra di tutti, insegneremo con un luminoso esempio come si deve stimare il giudizio episcopale e come onorare Voi, chiamati a far parte della Nostra sollecitudine, Venerabili Fratelli, ai quali intanto impartiamo con grande affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 14 dicembre 1742, terzo anno del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO. S. S. BENEDETTO XV – HUMANI GENERIS REDEMPTIONEM

Questa lettera enciclica di Benedetto XV affronta un argomento decisivo nella propagazione e nel mantenimento della fede cattolica, e fondamentale per l’esistenza stessa della Chiesa: la predicazione della divina parola. Se i Vescovi avessero osservato alla lettera le disposizioni pratiche del Santo Padre non avremmo avuto quel clero ignorante, accidioso, infingardo che ha consentito agli avversari di Cristo e della sua Chiesa, di infiltrarsi in essa e prendere il sopravvento sui sacri palazzi e finanche sulla Cattedra di Pietro oggi occupata da Simon Mago e dai suoi epigoni. La lettera è mirabilmente articolata e congegnata onde ottenere i risultati pratici che si riprometteva secondo gli insegnamenti del divino Maestro… ma il mistero d’iniquità era già all’opera tumultuosa che doveva poi sfociare nell’apostasia manifesta del conciliabolo della sinagoga vaticana e nella orribile parodia degli antipapi che, inventando la falsa chiesa dell’uomo, falsi sacramenti, falsi riti e falsa gerarchia, hanno preparato la via all’anticristo come da profezie bibliche. Questo, come tanti altri documenti, è però la testimonianza della vera anima dottrinale della Chiesa di Cristo, Chiesa che rivivrà nella sua magnificenza alla venuta di Cristo Salvatore che, bruciando col soffio della sua bocca l’anticristo ed i suoi adepti, rivendicando la sua regalità universale, ricapitolando tutta la creazione in Sé, rimetterà il suo Regno al Padre celeste libero da impuri e reprobi. Al Pusillus grex spetta attendere con pazienza e preghiera incessante il momento glorioso del ritorno di Cristo e del Giudizio universale che separerà per sempre i capri (i falsi cristiani solo di nome, paganizzati e satanizzati: Novus ordo, eretici sedevacantisti e sedicenti tradizionalisti fallibilisti ed autoreferenziati, oltre ai già condannati infedeli, settari ed atei a vario titolo), dagli agnelli, coloro cioè che avranno sopportato per Lui sofferenze, dispregi e martirio restando fedeli alla sua eterna dottrina ed alla sua “vera” Chiesa anche se solo di desiderio.

Benedetto XV
Humani generis redemptionem

Lettera Enciclica

I. L’ANNUNCIO DELLA PAROLA

La predicazione prosegue l’opera della redenzione.

Avendo Gesù Cristo nostro Signore col morire sull’altare della Croce compiuta la Redenzione del genere umano, e volendo indurre gli uomini mercé l’osservanza de’ suoi comandamenti a guadagnarsi la vita eterna, non ricorse ad altro mezzo che alla voce de’ suoi predicatori, commettendo loro di annunziare al mondo le cose necessarie a credere o ad operare per la salute. “Piacque a Dio di salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione” (1Cor 1, 21). Elesse egli quindi gli apostoli, ed avendo loro infusi con lo Spirito Santo i doni appropriati a sì alto ufficio: “Andate – disse – per tutto il mondo e predicate l’Evangelio” (Mc XVI, 15). Ed è questa predicazione appunto che rinnovò la faccia della terra. Poiché se la Fede cristiana convertì le menti degli uomini da molteplici errori alla conoscenza della verità, e le anime loro dall’indegnità dei vizi all’eccellenza di ogni virtù, non per altra via le convertì se non per via della predicazione: “La Fede dall’udito, l’udito poi per la parola di Cristo” (Rm X,17). Laonde, siccome per divina disposizione, sogliono le cose conservarsi per quelle medesime cause che le hanno generate, egli è manifestato essere legge divina che l’opera dell’eterna salute si continui per la predicazione della cristiana sapienza; a buon diritto venir questa annoverata tra le cose di suprema importanza, e meritare perciò tutte le nostre cure e sollecitudini, massime se ci fosse ragion di credere ch’ella, perdendo in efficacia, fosse in qualche modo venuta meno alla sua nativa integrità. – Ed è questo appunto che s’aggiunge ai tanti mali, che Noi sopra ogni altro affliggono in questi miseri tempi. Se miriamo quanti sono coloro che attendono alla predicazione, li ritroviamo in sì gran numero che forse mai non fu il maggiore. Ma se al tempo stesso consideriamo a che sono ridotti i costumi pubblici e privati e le leggi onde si reggono i popoli, vediamo crescere ogni giorno il disprezzo e la dimenticanza d’ogni concetto soprannaturale; vediamo illanguidire il vigore severo della virtù cristiana, con obbrobrioso e rapido ritorno all’indegnità della vita pagana. – Di tanti mali molte certamente e varie sono le cagioni: non si può negare però che purtroppo insufficiente sia il rimedio che i ministri della divina parola vi dovrebbero apportare. Forse che la parola di Dio non è più quella che l’Apostolo chiamava viva ed efficace e penetrante più d’una spada a due tagli? Forse col tempo e coll’uso la spada s’è spuntata? Certo ella è colpa dei ministri, che non sanno maneggiarla, s’essa perde spesso della sua forza. Né davvero si può dire che gli Apostoli incontrassero tempi migliori dei nostri, come se allora il mondo fosse più docile al Vangelo o meno riottoso alla legge di Dio. Gli è perciò che conscii del dovere che l’ufficio apostolico c’impone e mossi dall’esempio dei due nostri immediati Predecessori, abbiamo creduto, in un affare di tanta importanza, di dover porre ogni diligenza per chiamare la predicazione della divina parola alla norma data da Cristo e dalle leggi ecclesiastiche.

II. CAUSE DI INEFFICACIA

Non si deve predicare senza mandato

Nel che, o Venerabili Fratelli, importa ricercare anzitutto quali siano le cagioni che fanno tralignare dalla retta via. Ora siffatte cagioni possono ridursi a tre: o perché viene commessa la predicazione a chi non si dovrebbe; o perché non ci si apporta la dovuta intenzione; o ancora non si predica nel modo che si conviene. – Infatti, secondo che insegna il Concilio di Trento, l’ufficio di predicare spetta ai Vescovi principalmente. E gli Apostoli, ai quali succedettero i Vescovi, quello soprattutto ritennero che loro appartenesse. Così Paolo: “Non mi ha mandato Cristo a battezzare, ma a predicare il Vangelo” (1Cor 1, 17). E gli altri Apostoli similmente: “Non è giusto che noi tralasciamo la parola di Dio per servire alle mense” (At VI, 2). – Però sebbene quest’ufficio appartenga ai Vescovi in proprio, tuttavia essendo essi occupati da molti altri pensieri nel governo delle loro Chiese, né potendo perciò sempre né in ogni caso adempirlo di per sé, è necessario che vi soddisfacciano anche per mezzo di altri. Laonde chiunque, oltre i Vescovi, esercita quest’ufficio, lo esercita senza dubbio come un incarico episcopale. Questo adunque rimanga anzitutto bene stabilito: a nessuno essere lecito d’intraprendere da sé l’ufficio di predicare, essere anzi a ciò necessaria la legittima missione, che nessuno può dare, dal Vescovo in fuori: “Quomodo prædicabunt nisi mittantur? – Come predicheranno se non sono mandati?” (Rm X,15). Quindi mandati furono gli Apostoli, e mandati da Colui che è Pastore supremo e Vescovo delle anime nostre (cf. 1Pt II, 25), mandati i settantadue discepoli; e lo stesso Paolo, quantunque costituito già da Cristo vaso di elezione per portare il nome di lui dinanzi alle genti ed ai re (cf. At IX, 15), non iniziò il suo apostolato fino a quando i seniori, ubbidendo al comando dello Spirito Santo: “Mettetemi da parte Saulo per l’impresa” (del Vangelo) (At XIII, 2), impostegli le mani, non lo licenziarono. La qual cosa nei primi tempi della Chiesa fu consuetudine costante. Tanto che tutti, anche i più insigni nel semplice ordine sacerdotale, come Origene, e quelli che dappoi furono innalzati alla dignità episcopale, come Cirillo di Gerusalemme e gli altri antichi Dottori della Chiesa, tutti, autorizzati ciascuno dal proprio Vescovo, intrapresero l’opera della predicazione. – Oggi all’incontro, o Venerabili Fratelli, si direbbe sia invalsa un’usanza ben differente. Non sono rari, tra i sacri oratori, tali di cui si potrebbe ripetere con verità quello onde si lagna Iddio presso Geremia: “Io non li avevo mandati quei profeti, eppure correvano da sé” (Ger XXIII, 21). Basta infatti che alcuno o per naturale inclinazione o per altro motivo qualunque s’invogli di darsi al ministero della parola, perché facilmente gli si apra l’accesso al pergamo, quasi palestra da esercitarvisi ognuno a suo talento. Tocca dunque a voi, o Venerabili Fratelli, riparare a tanto disordine; e poiché ben sapete come dovrete un giorno rendere conto a Dio ed alla Chiesa del pascolo che avrete fornito alle vostre greggi, non vogliate permettere che alcuno, senza il vostro consenso, s’introduca nell’ovile e quivi a suo piacimento pasca le pecorelle di Cristo. Nessuno pertanto nelle vostre diocesi d’ora innanzi dovrà predicare se non sia stato da voi stessi chiamato ed approvato. – Vorremmo perciò, su questo proposito, che con ogni vigilanza consideriate a quali persone affidate incarico così santo e rilevante. Il decreto del Concilio Tridentino infatti questo solo permette ai Vescovi, che scelgano uomini idonei, cioè dire che siano capaci di adempiere salutarmente il dovere della predicazione. Salutarmente, dice – notate bene la parola che esprime la norma in questo affare – non dice con eloquenza, non già con plauso degli uditori, ma con frutto delle anime, che è il fine proprio del ministero della divina parola. Che se desiderate intendere da Noi anche più precisamente quali veramente si debbano reputare idonei, diremo senz’altro che sono quelli appunto ne’ quali riscontrate i segni della vocazione divina. Imperocché quei requisiti stessi che si domandano acciocché alcuno sia ammesso al sacerdozio: “Nessuno si appropria da sé tale onore ma chi è chiamato da Dio” (Eb V, 4), sono pure necessari perché egli sia giudicato atto alla predicazione.

Chi può essere ammesso a predicare

Vocazione questa non difficile ad intendere. Poiché allorquando Cristo, Maestro e Signor nostro, stava per salire al cielo, non disse già agli Apostoli che, spargendosi pel mondo, subito principiassero a predicare, ma “trattenetevi in città sino a tanto che siate rivestiti di virtù dall’alto” (Lc XXIV,4). Sicché questo è l’indizio d’essere alcuno da Dio chiamato a tale ufficio, s’egli sia dall’alto rivestito di virtù. Il che come sia, Venerabili Fratelli, lo possiamo raccogliere dall’esempio degli Apostoli, tostoché ricevettero virtù dal cielo. Era su di loro disceso appena lo Spirito Santo, che lasciando stare i mirabili carismi loro conferiti essi, di rozzi e fiacchi uomini che erano, ad un tratto diventarono dotti e perfetti. Così se un sacerdote sia fornito di conveniente dottrina e di virtù purché egli abbia tanto in doni di natura da non tentare Iddio giustamente si potrà giudicarlo chiamato al ministero della predicazione, né vi sarà ragione che il Vescovo non lo possa ammettere. Ed è quello stesso che intende il Concilio di Trento, quando stabilisce che il Vescovo non permetta di predicare ad alcuno che non sia ben provato per costumi e per dottrina. È quindi dovere del Vescovo assicurarsi per via di lunga ed accurata esperienza quanta sia la scienza e la virtù di coloro, ch’egli pensa d’incaricare dell’ufficio di predicare. E s’egli in ciò si dimostrasse troppo facile e trascurato, mancherebbe ad un suo gravissimo dovere, e sul suo capo ricadrebbe la colpa e degli errori profferiti dal predicatore ignorante e dello scandalo e mal esempio del malvagio. – Ma per facilitarvi l’adempimento dell’obbligo vostro in questo genere, o Venerabili Fratelli, ordiniamo che d’ora innanzi tutti coloro che domandano la facoltà di predicare abbiano a sostenere un doppio e severo giudizio, dei costumi e della scienza loro, così appunto come si suole per la facoltà di ascoltare le confessioni. E chiunque o per l’uno o per l’altro conto sia ritrovato manchevole, senza nessun riguardo, come inetto venga escluso da tale ufficio. Lo esige la dignità vostra, perché, come abbiamo detto, i predicatori fanno le vostre veci: lo esige il bene della santa Chiesa, nella quale, se altri mai dev’essere sale della terra e luce del mondo, ciò spetta a colui che è occupato nel ministero della parola (Mt 5,13-14).

Il fine e le forme della predicazione

Ben considerate queste cose, può sembrare superfluo il procedere a spiegare qual debba essere il fine e il modo della sacra predicazione. Giacché ove la scelta dei sacri oratori si faccia secondo la mentovata regola, che dubbio c’è che quelli, i quali sono adorni delle richieste qualità, si proporranno nel predicare una degna causa e si atterranno a una degna maniera? Tuttavia giova lumeggiare questi due capi, affinché tanto meglio apparisca perché mai talvolta venga a mancare in alcuni l’ideale del buon predicatore. – Che cosa i predicatori nell’adempiere al loro ufficio abbiano da avere innanzi agli occhi, si rileva da questo, che essi possono e debbono dire di sé quel di San Paolo: “Facciamo le veci di ambasciatori per Cristo” (2Cor V, 20). Se dunque sono ambasciatori di Cristo, nel compiere la loro ambasceria debbono volere quello stesso che Cristo intese nel darla loro: anzi quello che Egli stesso si propose, mentre visse sulla terra. Giacché gli Apostoli, e dopo gli Apostoli i predicatori, non ebbero missione diversa da quella di Cristo: “Come mandò me il Padre, anch’io mando voi” (Gv XX, 21). E sappiamo per che cosa Cristo discese dal cielo, avendo Egli apertamente dichiarato: “Io a questo fine son venuto nel mondo, di rendere testimonianza alla verità” (Gv XVIII, 37). “Io son venuto perché abbiano vita” (Gv X, 10). Quelli dunque che esercitano la sacra predicazione debbono mirare all’una e all’altra cosa, cioè a diffondere la verità da Dio rivelata, e a destare ed alimentare la vita soprannaturale in coloro che li ascoltano; in una parola, a promuovere la gloria di Dio, coll’attendere alla salute delle anime. Laonde, come a torto si direbbe medico chi non esercitò la medicina, o maestro di un’arte qualsiasi chi quell’arte non insegni, così chi predicando non si cura di condurre gli uomini a una più piena cognizione di Dio e sulla via dell’eterna salute, potremo dirlo un vano declamatore, non un predicatore evangelico. E così non ve ne fossero di siffatti declamatori!

Intenzioni dei falsi predicatori

E che cosa è poi quello da cui si lasciano soprattutto trasportare? Alcuni dalla cupidigia della gloria umana, per soddisfare alla quale “si studiano di dir cose più alte che adatte, ingenerando nelle deboli intelligenze stupore di sé, non operando la loro salute. Si vergognano di dir cose umili e piane, per non sembrar di saper solo queste… Si vergognano di allattare i pargoli” . E mentre il Signore Gesù dall’umiltà degli uditori voleva s’intendesse essere egli colui che si aspettava: “Si annunzia ai poveri il Vangelo” (Mt II, 5), quanto non brigano costoro per acquistarsi rinomanza dalla predicazione nelle grandi città e sui pulpiti primari? E poiché nelle cose rivelate da Dio ve n’ha di quelle che spaventano la debolezza della corrotta natura umana, e che per ciò non sono adatte ad adunare moltitudini, da esse cautamente si astengono e prendono a trattare argomenti ne’ quali, salvo la natura del luogo, niente v’ha di sacro. E non raro avviene, che nel trattar di verità eterne discendono alla politica, massime se qualche cosa di questo genere occupi fortemente gli animi degli uditori. Questo solo sembra essere il loro studio, di piacere agli uditori e imitar quelli che San Paolo dice lusingatori delle orecchie (2Tm IV, 3). Di qui quel gesto non pacato e grave, ma da scena e da comizio; di qui quelle patetiche modulazioni di voci o tragiche impetuosità; di qui quel modo di parlare proprio dei giornali; di qui quella copia di sentenze attinte dagli scrittori empii ed acattolici, non dalle divine Lettere né dai Santi Padri; di qui finalmente quella vertiginosità di parola che nei più d’essi si riscontra e che serve sì a ottundere le orecchie e a far stupire gli uditori, ma che non reca ad essi niente di buono da riportare a casa. Ora è incredibile di che inganno siano vittime cotali predicatori. Conseguano pure quel plauso degli stolti che essi cercano con tanta fatica e non senza profanazione: ma vale la spesa, quando con ciò essi vanno incontro al biasimo degli uomini savi, e, quel che è peggio, al tremendo giudizio severissimo di Cristo? – Se non che, Venerabili Fratelli, non tutti i predicatori che si allontanano dalle buone regole cercano, nel predicare, unicamente gli applausi. Il più delle volte quelli che si procurano siffatte manifestazioni lo fanno per giovarsene ad altro scopo anche meno onesto. Giacché dimenticando il detto di San Gregorio: “Il sacerdote non predica per mangiare, ma perciò deve mangiare perché predichi” , non sono rari coloro i quali, sentendo di non esser fatti per altri uffici, dove vivere con decoro, si sono dati alla predicazione, non per esercitare debitamente questo santissimo ministero, ma per fare i loro interessi. Vediamo quindi tutte le sollecitudini di costoro essere volte non a cercare dove si possa sperare un maggior frutto nelle anime, ma dove predicando v’è da guadagnare di più. – Ora da uomini siffatti non potendosi aspettar altro che danno e disonore per la Chiesa, dovete, Venerabili Fratelli, vigilare con ogni diligenza affinché, scoprendo qualcuno che faccia servire la predicazione alla sua vanità o all’interesse, lo rimoviate senza indugio dall’ufficio di predicare. Giacché chi non si perita di profanare cosa sì santa, non avrà certo ritegno di discendere ad ogni bassezza, spargendo una macchia d’ignominia non solo sopra di sé, ma anche sullo stesso sacro ministero, che così indegnamente egli compie. – E dovrà usarsi la stessa severità contro coloro che non predicano come si deve, per aver trascurati i necessari requisiti a compiere bene questo ministero. E quali siano questi, lo insegna coll’esempio suo colui che dalla Chiesa fu denominato il Predicatore della verità, Paolo Apostolo; ed oh se, per beneficio di Dio, avessimo molto maggior numero di predicatori simili a lui!

III. CONDIZIONI PER PREDICARE

La scienza necessaria

La prima cosa dunque che apprendiamo da San Paolo si è con che preparazione e dottrina egli intraprese a predicare. Né qui intendiamo degli studi ai quali egli aveva diligentemente atteso sotto il magistero di Gamaliele. Giacché la scienza in lui infusa per rivelazione, oscurava e quasi sopraffaceva quella che egli da sé si era procacciata: benché anche questa non gli giovò poco, come dalle sue Lettere si ricava. La scienza è affatto necessaria al predicatore, come dicemmo; della cui luce chi è privo facilmente erra, secondo la verissima sentenza del Concilio Lateranense IV: “L’ignoranza è la madre di tutti gli errori“. Tuttavia ciò non vuole intendersi di qualsiasi scienza, ma di quella che è propria del sacerdote e che si restringe, per dir tutto in poco, alla cognizione di sé, di Dio e dei doveri: di sé, diciamo, perché ognuno metta da parte i propri vantaggi; di Dio, perché conduca tutti a conoscerlo e ad amarlo; dei doveri, perché li osservi e insegni ad osservarli. La scienze delle altre cose, se manchi questa, gonfia e nulla giova.

Disponibilità senza condizioni

Ma vediamo qual fu nell’Apostolo la preparazione interiore. Nel che tre cose debbono massimamente tenersi sotto gli occhi. La prima, che San Paolo si abbandonò tutto alla divina volontà. Non appena infatti, mentr’era in cammino verso Damasco, fu tocco dalla virtù del Signore Gesù, egli proruppe in quella esclamazione, degna d’un Apostolo: “Signore, che vuoi tu che io faccia?” (At IX, 6). Per amor di Cristo, cominciò subito ad essergli indifferente, come gli fu poi sempre in appresso, il lavorare e il riposare, la penuria e l’abbondanza, la lode e il disprezzo, il vivere e il morire. Non è da dubitare che perciò egli profittasse tanto nell’apostolato, perché si sottomise con pieno ossequio alla volontà di Dio. Al modo stesso quindi innanzi tutto serva a Dio ogni predicatore che s’affatica alla salute delle anime: in maniera che non si dia alcun pensiero degli uditori, del successo, dei frutti, che sarà per avere: che cerchi, infine, non sé, ma Dio solo. – Questo studio poi così grande di prestare ossequio a Dio richiede un animo sì disposto a patire, che non si sottragga a nessuna fatica o incommodo. La qual cosa in Paolo fu insigne. Giacché avendo il Signore detto di lui: “Io gli farò vedere quanto debba egli patire per il nome mio” (At IX, 16), egli da allora abbracciò tutti i travagli sì volenterosamente da scrivere: “Sono inondato dall’allegrezza in mezzo a tutte le nostre tribolazioni” (2Cor VII, 4). Ora questa tolleranza della fatica se nel predicatore sia segnalata, purificandolo da quel che in lui v’è di umano, e conciliandogli la grazia di Dio necessaria per far frutto, è incredibile quanto renda commendevole la sua opera agli occhi del popolo cristiano. Al contrario poco riescono a muover gli animi, quelli che dovunque vanno, cercano comodità più del giusto, e fuori delle loro prediche, non toccano quasi altro del sacro ministero; sì da apparire che essi badino più alla propria sanità, che al vantaggio delle anime. In terzo luogo finalmente dall’Apostolo s’impara che al predicatore è necessario quello che si dice lo spirito di orazione: egli infatti come prima fu chiamato all’apostolato, cominciò a pregar Dio: “Ei già fa orazione” (At IX, 11). E la ragione è perché non coll’abbondanza del dire, né col discutere sottilmente o col caldamente perorare si ottiene la salute delle anime: un predicatore che si fermi qui non è altro che “un bronzo sonante o un cembalo squillante” (1Cor XIII, 1). Ciò che dà vigore alle parole dell’uomo e le fa mirabilmente efficaci a salute, è la divina grazia: “Dio diede il crescere” (1Cor III, 6). Or la grazia di Dio non si ottiene con lo studio e coll’arte, ma s’impetra con la preghiera. Onde chi poco o niente è dedito all’orazione, indarno spende la sua opera e la sua diligenza nella predicazione, perché innanzi a Dio non caverà nessun profitto né per sé né per gli uditori.

Dottrina e pietà

Pertanto, a restringere in poco quanto siamo venuti dicendo fin qui, ci serviamo di queste parole di San Pietro Damiano: “Al predicatore due cose sono sommamente necessarie, cioè dire, che sovrabbondi di sentenze della dottrina sacra e fiammeggi dello splendore di religiosa vita. Che dove un sacerdote non riesca ad unire in sé le due cose, di guisa che sia esemplare di vita e copioso dei doni di dottrina, è meglio senza dubbio la vita che la dottrina… Più vale la chiarezza della vita per l’esempio, che l’eloquenza e l’accurata eleganza dei discorsi… È necessario che il sacerdote, che esercita l’ufficio della predicazione, versi piogge di dottrina spirituale ed irraggi lume di vita religiosa: a maniera di quell’Angelo, il quale annunziando ai pastori il nato Signore, balenò d’uno splendore di chiarezza, ed espresse con parole ciò che era venuto ad evangelizzare” .

Predicare tutta la verità e tutti i precetti

Ma per ritornare a San Paolo, se esaminiamo di quali cose fosse solito trattare predicando, egli compendia tutto così: “Non mi credetti di sapere altra cosa tra di noi, se non Gesù Cristo, e questo crocifisso” (1Cor II, 2). Fare che gli uomini conoscessero sempre più Gesù Cristo, e d’una cognizione che giovasse a vivere e non a credere soltanto, ecco quello a che egli s’affaticò con tutto il vigore del suo petto. E però predicava tutti i dommi o precetti di Cristo anche i più severi senza nessuna reticenza o temperamento, intorno all’umiltà, all’abnegazione di sé, alla castità, al disprezzo delle cose terrene, all’obbedienza, al perdono dei nemici o simili. Né mostrava alcuna timidezza nel proclamare: che si scelga tra Dio e Belial, perché non si può servire ad entrambi; che tutti, appena escono di questa vita, hanno a presentarsi a un tremendo giudizio; che con Dio non c’è luogo a transazioni; che o è da sperare la vita eterna, se si osserva tutta la legge, o, se per secondare le passioni si trascura il dovere, è da aspettarsi il fuoco eterno. Né mai il Predicatore della verità stimò di astenersi da siffatti argomenti per la ragione che, data la corruzione dei tempi, sembrassero troppo duri a coloro ai quali parlava. Apparisce chiaro dunque come non siano da approvare quei predicatori, che non osano toccare certi capi di dottrina cristiana, per non riuscir molesti all’uditorio. Forse che il medico darà rimedii inutili all’infermo, se questi per caso abborrisca dagli utili? E poi qui si parrà la virtù e l’abilità dell’oratore, se egli le cose ingrate avrà col suo dire rese grate.

Non serve la sapienza del mondo

Gli argomenti poi che aveva preso a trattare in che modo l’Apostolo li esponeva? “Non nelle persuasive dell’umana sapienza” (1Cor II, 4). Quanto importa, Venerabili Fratelli, che ciò sia da tutti sommamente ritenuto, mentre vediamo non pochi oratori sacri che predicano mettendo da parte la Sacra Scrittura, i Padri e i Dottori della Chiesa e gli argomenti della sacra teologia, e non parlano se non quasi solo il linguaggio della ragione. Ed è, senza dubbio, uno sbaglio: giacché nell’ordine soprannaturale non si riesce a nulla coi soli amminicoli umani. – Ma si oppone: al predicatore il quale si fondi troppo sulle verità rivelate, non si presta fede. – È proprio vero? Ammettiamo pure che ciò avvenga presso gli acattolici: sebbene, quando i Greci cercavano la sapienza, s’intende, di questo mondo, l’Apostolo predicava Gesù Crocifisso. Ma, se volgiamo gli occhi alle popolazioni cattoliche, in esse coloro che sono alieni da noi, ritengono per lo più la radice della Fede: le menti infatti sono accecate perché son corrotti gli animi. – Finalmente con quale spirito predicava San Paolo? Non per piacere agli uomini, ma a Cristo: “Se piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo” (Gal I,10). Con un’anima tutt’accesa della carità di Cristo, non altro cercava se non la gloria di Cristo. O se quanti s’affaticano nel ministero della parola, amassero tutti davvero Gesù Cristo, e potessero far proprie l’espressioni di San Paolo: “Per causa di cui (Gesù Cristo) ho giudicato un discapito tutte le cose” (Fil III, 8); e “Il mio vivere è Cristo” (Fil III, 8). Tanto quelli che ardono d’amore, sanno infiammare gli altri. Onde San Bernardo così ammonisce il predicatore: “Se tu bene intendi, cerca d’esser conca e non canale” ; cioè di quel che dici sii pieno tu stesso, e non ti basti solo trasfonderlo negli altri. “Ma – come lo stesso Dottore soggiunge – oggi nella Chiesa abbiamo molti canali e pochissime conche”. – Affinché ciò non accada in avvenire, dobbiamo rivolgere tutti i nostri sforzi, o Venerabili Fratelli: a noi spetta, respingendo gl’indegni, e incoraggiando, formando, guidando gl’idonei, fare che di predicatori, secondo il cuore di Dio, ne sorgano quanti più si può. – Pieghi poi lo sguardo sul suo gregge il misericordioso Pastore eterno, Gesù Cristo, anche per le preghiere della Vergine Santissima, Madre augusta dello stesso Verbo incarnato e Regina degli Apostoli; e rinfocolando lo spirito dell’apostolato nel Clero, faccia che siano numerosi quelli che cerchino “di comparir degni d’approvazione davanti a Dio, operai non mai svergognati, che rettamente maneggino la parola di verità” (2Tm II,15). – Auspice dei doni divini e in attestato della nostra benevolenza, a voi, o Venerabili Fratelli, e al vostro Clero e popolo impartiamo con ogni affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma presso San Pietro, il 15 giugno, festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, dell’anno 1917, terzo del nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: PIO XI – “QUAS PRIMAS”

In questo bel giorno glorioso, non possiamo che rileggere la Lettera Enciclica che Sua Santità Pio XI scrisse per istituire la festa di Cristo Re. Si legga al proposito la bella opera di E. Hugon O. P. che ne illustra e definisce i presupposti scritturali, patristici, magisteriali e liturgici. A noi altri pusillus grex la gioia dell’evento che ogni anno si ripresenta per ricordarci chi sia il nostro vero Re, al quale tutto dobbiamo: vita, redenzione, grazia, gloria futura, eterna felicità;  e questo specie in questo anno segnato da eventi negativamente straordinari che dimostrano ciò che in questa Enciclica si proclama con forza: Quando si abbandona la Regalità di Cristo e se ne disconosce il dolce dominio negandogli la lieve obbedienza, ci si burla della sua Autorità divina ed umana, si finisce nelle grinfie del nemico infernale, il padre della menzogna che ci affligge con castighi da Dio permessi a nostro castigo e penitenza onde svegliarci dal sonno profondo dell’anima che ha oscurato intere nazioni e popoli un tempo Cristiani. Lasciando il regno di Cristo, si finisce nella demoniocrazia dittatoriale dei corrotti, degli empi, dei ladri, dei sacrileghi sanguinari, impersonati dagli adepti di vario livello delle sette di perdizione oggi infiltrate e dominanti pure nei sacri palazzi di una volta, nella città sede del Trono del Vicario di Cristo, trono oggi occupato da impostori apostati usurpanti, che trascinano un’infinità di anime nell’eterno fuoco, in combutta con finti prelati gaudenti ed affamati di onori e prebende che esteriormente mostrano una santità ipocrita ed antidottrinale – ignoranza e malafede – evidente in ogni ambito, dalla parrocchia sperduta nella campagna, alla diocesi dell’immensa metropoli. Ci conforta il fatto che oramai gli eventi siano agli sgoccioli, e sopportando con pazienza e spirito di penitenza e di riparazione, ci poniamo in attesa del nostro Re, prossimo a venire come baleno dall’oriente, Re che brucerà col soffio della sua bocca l’anticristo operante ed i suoi lacché in talare, grembiulino e mascherina-museruola. Ma oggi è giorno di festa e di gioia grande, si festeggia il nostro Re, al cui fianco c’è naturalmente la nostra amata Regina, la Madre dei veri Cristiani ed Avvocata misericordiosa presso il Giudice che giudicherà individui, famiglie, popoli e Nazioni, soprattutto le Nazioni apostate che hanno voltato le spalle al Re che tanto le aveva beneficate, per affidarsi ai banchieri ed agli pseudo-scienziati, gli assassini ed ai terroristi mondialisti, che vorrebbero incoronare nuovamente il loro signore dell’universo, il baphomet-lucifero spodestato dalla croce di Cristo ed adorato nelle logge e nella falsa panteista chiesa-sinagoga vaticana dell’uomo … Sed qui habitat in cælis irridebit eos,  et Dominus subsannabit eos…. Ma ora silenzio; Quas primas, SS. Pio XI.

[Lettera Enciclica “Quas primas” di S. S. Pio XI]

Nella prima Enciclica che, asceso al Pontificato, dirigemmo a tutti i Vescovi dell’Orbe cattolico — mentre indagavamo le cause precipue di quelle calamità da cui vedevamo oppresso e angustiato il genere umano — ricordiamo d’aver chiaramente espresso non solo che tanta colluvie di mali imperversava nel mondo perché la maggior parte degli uomini avevano allontanato Gesù Cristo e la sua santa legge dalla pratica della loro vita, dalla famiglia e dalla società, ma altresì che mai poteva esservi speranza di pace duratura fra i popoli, finché gli individui e le nazioni avessero negato e da loro rigettato l’impero di Cristo Salvatore. – Pertanto, come ammonimmo che era necessario ricercare la pace di Cristo nel Regno di Cristo, così annunziammo che avremmo fatto a questo fine quanto Ci era possibile; nel Regno di Cristo — diciamo — poiché Ci sembrava che non si possa più efficacemente tendere al ripristino e al rafforzamento della pace, che mediante la restaurazione del Regno di Nostro Signore. – Frattanto il sorgere e il pronto ravvivarsi di un benevolo movimento dei popoli verso Cristo e la sua Chiesa, che sola può recar salute, Ci forniva non dubbia speranza di tempi migliori; movimento tal quale s’intravedeva che molti i quali avevano disprezzato il Regno di Cristo e si erano quasi resi esuli dalla Casa del Padre, si preparavano e quasi s’affrettavano a riprendere le vie dell’obbedienza.

L’Anno Santo e il Regno di Cristo

E tutto quello che accadde e si fece, nel corso di questo Anno Santo, degno certo di perpetua memoria, forse non accrebbe l’onore e la gloria al divino Fondatore della Chiesa, nostro supremo Re e Signore? – Infatti, la Mostra Missionaria Vaticana quanto non colpì la mente e il cuore degli uomini, sia facendo conoscere il diuturno lavoro della Chiesa per la maggiore dilatazione del Regno del suo Sposo nei continenti e nelle più lontane isole dell’Oceano; sia il grande numero di regioni conquistate al cattolicesimo col sudore e col sangue dai fortissimi e invitti Missionari; sia infine col far conoscere quante vaste regioni vi siano ancora da sottomettere al soave e salutare impero del nostro Re. E quelle moltitudini che, durante questo Anno giubilare, vennero da ogni parte della terra nella città santa, sotto la guida dei loro Vescovi e sacerdoti, che altro avevano in cuore, purificate le loro anime, se non proclamarsi presso il sepolcro degli Apostoli, davanti a Noi, sudditi fedeli di Cristo per il presente e per il futuro? – E questo Regno di Cristo sembrò quasi pervaso di nuova luce allorquando Noi, provata l’eroica virtù di sei Confessori e Vergini, li elevammo agli onori degli altari. E qual gioia e qual conforto provammo nell’animo quando, nello splendore della Basilica Vaticana, promulgato il decreto solenne, una moltitudine sterminata di popolo, innalzando il cantico di ringraziamento esclamò: Tu Rex gloriæ, Christe!  – Poiché, mentre gli uomini e le Nazioni, lontani da Dio, per l’odio vicendevole e per le discordie intestine si avviano alla rovina ed alla morte, la Chiesa di Dio, continuando a porgere al genere umano il cibo della vita spirituale, crea e forma generazioni di santi e di sante a Gesù Cristo, il quale non cessa di chiamare alla beatitudine del Regno celeste coloro che ebbe sudditi fedeli e obbedienti nel regno terreno. – Inoltre, ricorrendo, durante l’Anno Giubilare, il sedicesimo secolo dalla celebrazione del Concilio di Nicea, volemmo che l’avvenimento centenario fosse commemorato, e Noi stessi lo commemorammo nella Basilica Vaticana tanto più volentieri in quanto quel Sacro Sinodo definì e propose come dogma la consustanzialità dell’Unigenito col Padre, e nello stesso tempo, inserendo nel simbolo la formula «il regno del quale non avrà mai fine», proclamò la dignità regale di Cristo. – Avendo, dunque, quest’Anno Santo concorso non in uno ma in più modi ad illustrare il Regno di Cristo, Ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro ufficio apostolico, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi sia individualmente, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. – Questa cosa Ci reca tanta gioia che Ci spinge, Venerabili Fratelli, a farvene parola; voi poi, procurerete di adattare ciò che Noi diremo intorno al culto di Gesù Cristo Re, all’intelligenza del popolo e di spiegarne il senso in modo che da questa annua solennità ne derivino sempre copiosi frutti.

Gesù Cristo è Re

Gesù Cristo Re delle menti, delle volontà e dei cuori

Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re per il sommo grado di eccellenza, che ha in modo sovreminente fra tutte le cose create. In tal modo, infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è Verità ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da Lui la verità; similmente nelle volontà degli uomini, sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perché con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana (Supereminentem scientiæ caritatem) e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità: nessuno infatti degli uomini fu mai tanto amato e mai lo sarà in avvenire quanto Gesù Cristo. Ma per entrare in argomento, tutti debbono riconoscere che è necessario rivendicare a Cristo Uomo nel vero senso della parola il nome e i poteri di Re; infatti soltanto in quanto è Uomo si può dire che abbia ricevuto dal Padre la potestà, l’onore e il regno, perché come Verbo di Dio, essendo della stessa sostanza del Padre, non può non avere in comune con il Padre ciò che è proprio della divinità, e per conseguenza Egli su tutte le cose create ha il sommo e assolutissimo impero.

La Regalità di Cristo nei libri dell’Antico Testamento.

E non leggiamo infatti spesso nelle Sacre Scritture che Cristo è Re ? Egli invero è chiamato il Principe che deve sorgere da Giacobbe,, eche dal Padre è costituito Re sopra il Monte santo di Sion, che riceverà le genti in eredità e avrà in possesso i confini della terra. Il salmo nuziale, col quale sotto l’immagine di un re ricchissimo e potentissimo viene preconizzato il futuro Re d’Israele, ha queste parole: «II tuo trono, o Dio, sta per sempre, in eterno: scettro di rettitudine è il tuo scettro reale». – E per tralasciare molte altre testimonianze consimili, in un altro luogo per lumeggiare più chiaramente i caratteri del Cristo, si preannunzia che il suo Regno sarà senza confini ed arricchito coi doni della giustizia e della pace: «Fiorirà ai suoi giorni la Giustizia e somma pace… Dominerà da un mare all’altro, e dal fiume fino alla estremità della terra». A questa testimonianza si aggiungono in modo più ampio gli oracoli dei Profeti e anzitutto quello notissimo di Isaia: «Ci è nato un bimbo, ci fu dato un figlio: e il principato è stato posto sulle sue spalle e sarà chiamato col nome di Ammirabile, Consigliere, Dio forte, Padre del secolo venturo, Principe della pace. Il suo impero crescerà, e la pace non avrà più fine. Sederà sul trono di Davide e sopra il suo regno, per stabilirlo e consolidarlo nel giudizio e nella giustizia, da ora ed in perpetuo». E gli altri Profeti non discordano da Isaia: così Geremia, quando predice che nascerà dalla stirpe di Davide il “Rampollo giusto” che qual figlio di Davide «regnerà e sarà sapiente e farà valere il diritto e la giustizia sulla terra»; così Daniele che preannunzia la costituzione di un regno da parte del Re del cielo, regno che «non sarà mai in eterno distrutto… ed esso durerà in eterno» e continua: «Io stavo ancora assorto nella visione notturna, quand’ecco venire in mezzo alle nuvole del cielo uno con le sembianze del figlio dell’uomo che si avanzò fino al Vegliardo dai giorni antichi, e davanti a lui fu presentato. E questi gli conferì la potestà, l’onore e il regno; tutti i popoli, le tribù e le lingue serviranno a lui; la sua potestà sarà una potestà eterna che non gli sarà mai tolta, e il suo regno, un regno che non sarà mai distrutto». E gli scrittori dei santi Vangeli non accettano e riconoscono come avvenuto quanto è predetto da Zaccaria intorno al Re mansueto il quale «cavalcando sopra un’asina col suo piccolo asinello» era per entrare in Gerusalemme, qual giusto e salvatore fra le acclamazioni delle turbe?

Gesù Cristo si è proclamato Re

Del resto questa dottrina intorno a Cristo Re, che abbiamo sommariamente attinto dai libri del Vecchio Testamento, non solo non viene meno nelle pagine del Nuovo, ma anzi vi è confermata in modo splendido e magnifico. E qui, appena accennando all’annunzio dell’arcangelo da cui la Vergine viene avvisata che doveva partorire un figlio, al quale Iddio avrebbe dato la sede di David, suo padre, e che avrebbe regnato nella Casa di Giacobbe in eterno e che il suo Regno non avrebbe avuto fine  vediamo che Cristo stesso dà testimonianza del suo impero: infatti, sia nel suo ultimo discorso alle turbe, quando parla dei premi e delle pene, riservate in perpetuo ai giusti e ai dannati; sia quando risponde al Preside romano che pubblicamente gli chiedeva se fosse Re, sia quando risorto affida agli Apostoli l’ufficio di ammaestrare e battezzare tutte le genti, colta l’opportuna occasione, si attribuì il nome di Re, e pubblicamente confermò di essere Re  e annunziò solennemente a Lui era stato dato ogni potere in cielo e in terra. E con queste parole che altro si vuol significare se non la grandezza della potestà e l’estensione immensa del suo Regno? – Non può dunque sorprenderci se Colui che è detto da Giovanni «Principe dei Re della terra», porti, come apparve all’Apostolo nella visione apocalittica «scritto sulla sua veste e sopra il suo fianco: Re dei re e Signore dei dominanti». Da quando l’eterno Padre costituì Cristo erede universale, è necessario che Egli regni finché riduca, alla fine dei secoli, ai piedi del trono di Dio tutti i suoi nemici. – Da questa dottrina dei sacri libri venne per conseguenza che la Chiesa, regno di Cristo sulla terra, destinato naturalmente ad estendersi a tutti gli uomini e a tutte le nazioni, salutò e proclamò nel ciclo annuo della Liturgia il suo autore e fondatore quale Signore sovrano e Re dei re, moltiplicando le forme della sua affettuosa venerazione. Essa usa questi titoli di onore esprimenti nella bella varietà delle parole lo stesso concetto; come già li usò nell’antica salmodia e negli antichi Sacramentari, così oggi li usa nella pubblica ufficiatura e nell’immolazione dell’Ostia immacolata. In questa laude perenne a Cristo Re, facilmente si scorge la bella armonia fra il nostro e il rito orientale in guisa da render manifesto, anche in questo caso, che «le norme della preghiera fissano i principi della fede». Ben a proposito Cirillo Alessandrino, a mostrare il fondamento di questa dignità e di questo potere, avverte che «egli ottiene, per dirla brevemente, la potestà su tutte le creature, non carpita con la violenza né da altri ricevuta, ma la possiede per propria natura ed essenza»; cioè il principato di Cristo si fonda su quella unione mirabile che è chiamata unione ipostatica. Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell’unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature. – Eppure che cosa più soave e bella che il pensare che Cristo regna su di noi non solamente per diritto di natura, ma anche per diritto di conquista, in forza della Redenzione? Volesse Iddio che gli uomini immemori ricordassero quanto noi siamo costati al nostro Salvatore: «Non a prezzo di cose corruttibili, di oro o d’argento siete stati riscattati… ma dal Sangue prezioso di Cristo, come di agnello immacolato e incontaminato». Non siamo dunque più nostri perché Cristo ci ha ricomprati col più alto prezzo: i nostri stessi corpi sono membra di Cristo.

Natura e valore del Regno di Cristo

Volendo ora esprimere la natura e il valore di questo principato, accenniamo brevemente che esso consta di una triplice potestà, la quale se venisse a mancare, non si avrebbe più il concetto d’un vero e proprio principato. – Le testimonianze attinte dalle Sacre Lettere circa l’impero universale del nostro Redentore, provano più che a sufficienza quanto abbiamo detto; ed è dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui debbono riporre la loro fiducia, ed allo stesso tempo come legislatore a cui debbono obbedire. – I santi Evangeli non soltanto narrano come Gesù abbia promulgato delle leggi, ma lo presentano altresì nell’atto stesso di legiferare; e il divino Maestro afferma, in circostanze e con diverse espressioni, che chiunque osserverà i suoi comandamenti darà prova di amarlo e rimarrà nella sua carità . Lo stesso Gesù davanti ai Giudei, che lo accusavano di aver violato il sabato con l’aver ridonato la sanità al paralitico, afferma che a Lui fu dal Padre attribuita la potestà giudiziaria: «Il Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso al Figlio ogni giudizio». Nel che è compreso pure il diritto di premiare e punire gli uomini anche durante la loro vita, perché ciò non può disgiungersi da una propria forma di giudizio. Inoltre la potestà esecutiva si deve parimenti attribuire a Gesù Cristo, poiché è necessario che tutti obbediscano al suo comando, e nessuno può sfuggire ad esso e alle sanzioni da lui stabilite.

Regno principalmente spirituale

Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire. – In varie occasioni, infatti, quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, egli cercò di togliere e abbattere questa vana attesa e speranza; e così pure quando stava per essere proclamato Re dalla moltitudine che, presa di ammirazione, lo attorniava, Egli rifiutò questo titolo e questo onore, ritirandosi e nascondendosi nella solitudine; finalmente davanti al Preside romano annunciò che il suo Regno “non è di questo mondo”. – Questo Regno nei Vangeli viene presentato in tal modo che gli uomini debbano prepararsi ad entrarvi per mezzo della penitenza, e non possano entrarvi se non per la fede e per il Battesimo, il quale benché sia un rito esterno, significa però e produce la rigenerazione interiore. Questo Regno è opposto unicamente al regno di Satana e alla “potestà delle tenebre”, e richiede dai suoi sudditi non solo l’animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro croce. Avendo Cristo come Redentore costituita con il suo sangue la Chiesa, e come Sacerdote offrendo se stesso in perpetuo quale ostia di propiziazione per i peccati degli uomini, chi non vede che la regale dignità di Lui riveste il carattere spirituale dell’uno e dell’altro ufficio?

Regno universale e sociale

D’altra parte sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. Tuttavia, finché fu sulla terra si astenne completamente dall’esercitare tale potere, e come una volta disprezzò il possesso e la cura delle cose umane, così permise e permette che i possessori debitamente se ne servano. A questo proposito ben si adattano queste parole: «Non toglie il trono terreno Colui che dona il regno eterno dei cieli». Pertanto il dominio del nostro Redentore abbraccia tutti gli uomini, come affermano queste parole del Nostro Predecessore di immortale memoria  Leone XIII, che Noi qui facciamo Nostre: «L’impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici, o a coloro che, rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto, alla Chiesa, sebbene le errate opinioni Ce li allontanino o il dissenso li divida dalla carità; ma abbraccia anche quanti sono privi di fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo». – Né v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli. È lui solo la fonte della salute privata e pubblica: «Né in alcun altro è salute, né sotto il cielo altro nome è stato dato agli uomini, mediante il quale abbiamo da essere salvati», è lui solo l’autore della prosperità e della vera felicità sia per i singoli sia per gli Stati: «poiché il benessere della società non ha origine diversa da quello dell’uomo, la società non essendo altro che una concorde moltitudine di uomini». – Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria. Difatti sono quanto mai adatte e opportune al momento attuale quelle parole che all’inizio del Nostro pontificato Noi scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla pubblica potestà: «Allontanato, infatti — così lamentavamo — Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l’autorità appare senz’altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v’è ragione per cui uno debba comandare e l’altro obbedire. Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia più sui suoi cardini naturali».

Regno benefico

Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l’intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l’autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza. – In questo senso l’Apostolo Paolo, inculcando alle spose e ai servi di rispettare Gesù Cristo nel loro rispettivo marito e padrone, ammoniva chiaramente che non dovessero obbedire ad essi come ad uomini ma in quanto tenevano le veci di Cristo, poiché sarebbe stato sconveniente che gli uomini, redenti da Cristo, servissero ad altri uomini: «Siete stati comperati a prezzo; non diventate servi degli uomini». Che se i principi e i magistrati legittimi saranno persuasi che si comanda non tanto per diritto proprio quanto per mandato del Re divino, si comprende facilmente che uso santo e sapiente essi faranno della loro autorità, e quale interesse del bene comune e della dignità dei sudditi prenderanno nel fare le leggi e nell’esigerne l’esecuzione. – In tal modo, tolta ogni causa di sedizione, fiorirà e si consoliderà l’ordine e la tranquillità: ancorché, infatti, il cittadino riscontri nei principi e nei capi di Stato uomini simili a lui o per qualche ragione indegni e vituperevoli, non si sottrarrà tuttavia al loro comando qualora egli riconosca in essi l’immagine e l’autorità di Cristo Dio e Uomo. – Per quello poi che si riferisce alla concordia e alla pace, è manifesto che quanto più vasto è il regno e più largamente abbraccia il genere umano, tanto più gli uomini diventano consapevoli di quel vincolo di fratellanza che li unisce. E questa consapevolezza come allontana e dissipa i frequenti conflitti, così ne addolcisce e ne diminuisce le amarezze. E se il regno di Cristo, come di diritto abbraccia tutti gli uomini, cosi di fatto veramente li abbracciasse, perché dovremmo disperare di quella pace che il Re pacifico portò in terra, quel Re diciamo che venne «per riconciliare tutte le cose, che non venne per farsi servire, ma per servire gli altri”» e che, pur essendo il Signore di tutti, si fece esempio di umiltà, e questa virtù principalmente inculcò insieme con la carità e disse inoltre: «II mio giogo è soave e il mio peso leggero?». – Oh, di quale felicità potremmo godere se gli individui, le famiglie e la società si lasciassero governare da Cristo! «Allora veramente, per usare le parole che il Nostro Predecessore Leone XIII venticinque anni fa rivolgeva a tutti i Vescovi dell’orbe cattolico, si potrebbero risanare tante ferite, allora ogni diritto riacquisterebbe l’antica forza, tornerebbero i beni della pace, cadrebbero dalle mani le spade, quando tutti volentieri accettassero l’impero di Cristo, gli obbedissero, ed ogni lingua proclamasse che nostro Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre».

La Festa di Cristo Re

Scopo della festa di Cristo Re

E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun’altra cosa possa maggiormente giovare quanto l’istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re. – Infatti, più che i solenni documenti del Magistero ecclesiastico, hanno efficacia nell’informare il popolo nelle cose della fede e nel sollevarlo alle gioie interne della vita le annuali festività dei sacri misteri, poiché i documenti, il più delle volte, sono presi in considerazione da pochi ed eruditi uomini, le feste invece commuovono e ammaestrano tutti i fedeli; quelli una volta sola parlano, queste invece, per così dire, ogni anno e in perpetuo; quelli soprattutto toccano salutarmente la mente, queste invece non solo la mente ma anche il cuore, tutto l’uomo insomma. Invero, essendo l’uomo composto di anima e di corpo, ha bisogno di essere eccitato dalle esteriori solennità in modo che, attraverso la varietà e la bellezza dei sacri riti, accolga nell’animo i divini insegnamenti e, convertendoli in sostanza e sangue, faccia si che essi servano al progresso della sua vita spirituale. – D’altra parte si ricava da documenti storici che tali festività, col decorso dei secoli, vennero introdotte una dopo l’altra, secondo che la necessità o l’utilità del popolo cristiano sembrava richiederlo; come quando fu necessario che il popolo venisse rafforzato di fronte al comune pericolo, o venisse difeso dagli errori velenosi degli eretici, o incoraggiato più fortemente e infiammato a celebrare con maggiore pietà qualche mistero della fede o qualche beneficio della grazia divina. Così fino dai primi secoli dell’era cristiana, venendo i fedeli acerbamente perseguitati, si cominciò con sacri riti a commemorare i Martiri, affinché — come dice Sant’Agostino — le solennità dei Martiri fossero d’esortazione al martirio. E gli onori liturgici, che in seguito furono tributati ai Confessori, alle Vergini e alle Vedove, servirono meravigliosamente ad eccitare nei fedeli l’amore alle virtù, necessarie anche in tempi di pace. – E specialmente le festività istituite in onore della Beata Vergine fecero sì che il popolo cristiano non solo venerasse con maggior pietà la Madre di Dio, sua validissima protettrice, ma si accendesse altresì di più forte amore verso la Madre celeste, che il Redentore gli aveva lasciato quasi per testamento. Tra i benefici ottenuti dal culto pubblico e liturgico verso la Madre di Dio e i Santi del Cielo non ultimo si deve annoverare questo: che la Chiesa, in ogni tempo, poté vittoriosamente respingere la peste delle eresie e degli errori. – In tale ordine di cose dobbiamo ammirare i disegni della divina Provvidenza, la quale, come suole dal male ritrarre il bene, così permise che di quando in quando la fede e la pietà delle genti diminuissero, o che le false teorie insidiassero la verità cattolica, con questo esito però, che questa risplendesse poi di nuovo splendore, e quelle, destatesi dal letargo, tendessero a cose maggiori e più sante. – Ed invero le festività che furono accolte nel corso dell’anno liturgico in tempi a noi vicini, ebbero uguale origine e produssero identici frutti. Così, quando erano venuti meno la riverenza e il culto verso l’augusto Sacramento, fu istituita la festa del Corpus Domini, e si ordinò che venisse celebrata in modo tale che le solenni processioni e le preghiere da farsi per tutto l’ottavario richiamassero le folle a venerare pubblicamente il Signore; così la festività del Sacro Cuore di Gesù fu introdotta quando gli animi degli uomini, infiacchiti e avviliti per il freddo rigorismo dei giansenisti, erano del tutto agghiacciati e distolti dall’amore di Dio e dalla speranza della eterna salvezza. – Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società.

Il “laicismo”

La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso. – I pessimi frutti, che questo allontanamento da Cristo da parte degli individui e delle nazioni produsse tanto frequentemente e tanto a lungo, Noi lamentammo nella Enciclica Ubi arcano Dei e anche oggi lamentiamo: i semi cioè della discordia sparsi dappertutto; accesi quegli odii e quelle rivalità tra i popoli, che tanto indugio ancora frappongono al ristabilimento della pace; l’intemperanza delle passioni che così spesso si nascondono sotto le apparenze del pubblico bene e dell’amor patrio; le discordie civili che ne derivarono, insieme a quel cieco e smoderato egoismo sì largamente diffuso, il quale, tendendo solo al bene privato ed al proprio comodo, tutto misura alla stregua di questo; la pace domestica profondamente turbata dalla dimenticanza e dalla trascuratezza dei doveri familiari; l’unione e la stabilità delle famiglie infrante, infine la stessa società scossa e spinta verso la rovina. – Ci sorregge tuttavia la buona speranza che l’annuale festa di Cristo Re, che verrà in seguito celebrata, spinga la società, com’è nel desiderio di tutti, a far ritorno all’amatissimo nostro Salvatore. Accelerare e affrettare questo ritorno con l’azione e con l’opera loro sarebbe dovere dei Cattolici, dei quali, invero, molti sembra non abbiano nella civile convivenza quel posto né quell’autorità, che s’addice a coloro che portano innanzi a sé la fiaccola della verità. – Tale stato di cose va forse attribuito all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e audacia. Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso.

La preparazione storica della festa di Cristo Re

E chi non vede che fino dagli ultimi anni dello scorso secolo si preparava meravigliosamente la via alla desiderata istituzione di questo giorno festivo? Nessuno infatti ignora come, con libri divulgati nelle varie lingue di tutto il mondo, questo culto fu sostenuto e sapientemente difeso; come pure il principato e il regno di Cristo fu ben riconosciuto colla pia pratica di dedicare e consacrare tutte le famiglie al Sacratissimo Cuore di Gesù. E non soltanto famiglie furono consacrate, ma altresì nazioni e regni; anzi, per volere di Leone XIII, tutto il genere umano, durante l’Anno Santo 1900, fu felicemente consacrato al Divin Cuore. – Né si deve passar sotto silenzio che a confermare questa regale potestà di Cristo sul consorzio umano meravigliosamente giovarono i numerosissimi Congressi eucaristici, che si sogliono celebrare ai nostri tempi; essi, col convocare i fedeli delle singole diocesi, delle regioni, delle nazioni e anche tutto l’orbe cattolico, a venerare e adorare Gesù Cristo Re nascosto sotto i veli eucaristici, tendono, mediante discorsi nelle assemblee e nelle chiese, mediante le pubbliche esposizioni del Santissimo Sacramento, mediante le meravigliose processioni ad acclamare Cristo quale Re dato dal cielo. – A buon diritto si direbbe che il popolo cristiano, mosso da ispirazione divina, tratto dal silenzio e dal nascondimento dei sacri templi, e portato per le pubbliche vie a guisa di trionfatore quel medesimo Gesù che, venuto nel mondo, gli empi non vollero riconoscere, voglia ristabilirlo nei suoi diritti regali. – E per vero ad attuare il Nostro divisamento sopra accennato, l’Anno Santo che volge alla fine Ci porge la più propizia occasione, poiché Dio benedetto, avendo sollevato la mente e il cuore dei fedeli alla considerazione dei beni celesti che superano ogni gaudio, o li ristabilì in grazia e li confermò nella retta via e li avviò con nuovi incitamenti al conseguimento della perfezione. – Perciò, sia che consideriamo le numerose suppliche a Noi rivolte, sia che consideriamo gli avvenimento di questo Anno Santo, troviamo argomento a pensare che finalmente è spuntato il giorno desiderato da tutti, nel quale possiamo annunziare che si deve onorare con una festa speciale Cristo quale Re di tutto il genere umano. – In quest’anno infatti, come dicemmo sin da principio, quel Re divino veramente ammirabile nei suoi Santi, è stato magnificato in modo glorioso con la glorificazione di una nuova schiera di suoi fedeli elevati agli onori celesti; parimenti in questo anno per mezzo dell’Esposizione Missionaria tutti ammirarono i trionfi procurati a Cristo per lo zelo degli operai evangelici nell’estendere il suo Regno; finalmente in questo medesimo anno con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l’impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli.

L’istituzione della festa di Cristo Re

Pertanto, con la Nostra apostolica autorità istituiamo la festa di nostro Signore Gesù Cristo Re, stabilendo che sia celebrata in tutte le parti della terra l’ultima domenica di ottobre, cioè la domenica precedente la festa di tutti i Santi. Similmente ordiniamo che in questo medesimo giorno, ogni anno, si rinnovi la consacrazione di tutto il genere umano al Cuore santissimo di Gesù, che il Nostro Predecessore di santa memoria Pio X aveva comandato di ripetere annualmente. – In quest’anno però, vogliamo che sia rinnovata il giorno trentuno di questo mese, nel quale Noi stessi terremo solenne pontificale in onore di Cristo Re e ordineremo che la detta consacrazione si faccia alla Nostra presenza. Ci sembra che non possiamo meglio e più opportunamente chiudere e coronare 1’Anno Santo, né rendere più ampia testimonianza della Nostra gratitudine a Cristo, Re immortale dei secoli, e di quella di tutti i cattolici per i beneficî fatti a Noi, alla Chiesa e a tutto l’Orbe cattolico durante quest’Anno Santo. – E non fa bisogno, Venerabili Fratelli, che vi esponiamo a lungo i motivi per cui abbiamo istituito la solennità di Cristo Re distinta dalle altre feste, nelle quali sembrerebbe già adombrata e implicitamente solennizzata questa medesima dignità regale. – Basta infatti avvertire che mentre l’oggetto materiale delle attuali feste di nostro Signore è Cristo medesimo, l’oggetto formale, però, in esse si distingue del tutto dal nome della potestà regale di Cristo. La ragione, poi, per cui volemmo stabilire questa festa in giorno di domenica, è perché non solo il Clero con la celebrazione della Messa e la recita del divino Officio, ma anche il popolo, libero dalle consuete occupazioni, rendesse a Cristo esimia testimonianza della sua obbedienza e della sua devozione. – Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti. – Pertanto questo sia il vostro ufficio, o Venerabili Fratelli, questo il vostro compito di far sì che si premetta alla celebrazione di questa festa annuale, in giorni stabiliti, in ogni parrocchia, un corso di predicazione, in guisa che i fedeli ammaestrati intorno alla natura, al significato e all’importanza della festa stessa, intraprendano un tale tenore di vita, che sia veramente degno di coloro che vogliono essere sudditi affezionati e fedeli del Re divino.

I vantaggi della festa di Cristo Re

Giunti al termine di questa Nostra lettera Ci piace, o Venerabili Fratelli, spiegare brevemente quali vantaggi in bene sia della Chiesa e della società civile, sia dei singoli fedeli, Ci ripromettiamo da questo pubblico culto verso Cristo Re. – Col tributare questi onori alla dignità regia di nostro Signore, si richiamerà necessariamente al pensiero di tutti che la Chiesa, essendo stata stabilita da Cristo come società perfetta, richiede per proprio diritto, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero di insegnare, reggere e condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al Regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio. – Di più, la società civile deve concedere simile libertà a quegli ordini e sodalizi religiosi d’ambo i sessi, i quali, essendo di validissimo aiuto alla Chiesa e ai suoi pastori, cooperano grandemente all’estensione e all’incremento del regno di Cristo, sia perché con la professione dei tre voti combattono la triplice concupiscenza del mondo, sia perché con la pratica di una vita di maggior perfezione, fanno sì che quella santità, che il divino Fondatore volle fosse una delle note della vera Chiesa, risplenda di giorno in giorno vieppiù innanzi agli occhi di tutti. – La celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti: li richiamerà al pensiero del giudizio finale, nel quale Cristo, scacciato dalla società o anche solo ignorato e disprezzato, vendicherà acerbamente le tante ingiurie ricevute, richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi. – Inoltre non è a dire quanta forza e virtù potranno i fedeli attingere dalla meditazione di codeste cose, allo scopo di modellare il loro animo alla vera regola della vita cristiana. – Poiché se a Cristo Signore è stata data ogni potestà in cielo e in terra; se tutti gli uomini redenti con il Sangue suo prezioso sono soggetti per un nuovo titolo alla sua autorità; se, infine, questa potestà abbraccia tutta l’umana natura, chiaramente si comprende, che nessuna delle nostre facoltà si sottrae a tanto impero.

Conclusione

Cristo regni!

È necessario, dunque, che Egli regni nella mente dell’uomo, la quale con perfetta sottomissione, deve prestare fermo e costante assenso alle verità rivelate e alla dottrina di Cristo; che regni nella volontà, la quale deve obbedire alle leggi e ai precetti divini; che regni nel cuore, il quale meno apprezzando gli affetti naturali, deve amare Dio più d’ogni cosa e a Lui solo stare unito; che regni nel corpo e nelle membra, che, come strumenti, o al dire dell’Apostolo Paolo, come “armi di giustizia”  offerte a Dio devono servire all’interna santità delle anime. Se coteste cose saranno proposte alla considerazione dei fedeli, essi più facilmente saranno spinti verso la perfezione. – Faccia il Signore, Venerabili Fratelli, che quanti sono fuori del suo regno, bramino ed accolgano il soave giogo di Cristo, e tutti, quanti siamo, per sua misericordia, suoi sudditi e figli, lo portiamo non a malincuore ma con piacere, ma con amore, ma santamente, e che dalla nostra vita conformata alle leggi del Regno divino raccogliamo lieti ed abbondanti frutti, e ritenuti da Cristo quali servi buoni e fedeli diveniamo con Lui partecipi nel Regno celeste della sua eterna felicità e gloria. – Questo nostro augurio nella ricorrenza del Natale di nostro Signore Gesù Cristo sia per voi, o Venerabili Fratelli, un attestato del Nostro affetto paterno; e ricevete l’Apostolica Benedizione, che in auspicio dei divini favori impartiamo ben di cuore a voi, o Venerabili Fratelli, e a tutto il popolo vostro.

[Dato a Roma, presso S. Pietro, il giorno 11 Dicembre dell’Anno Santo 1925, quarto del Nostro Pontificato.]