UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (2)

Dom PAUL NAU

Monaco di Solesmes

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE

Saggio sull’autorità de loro insegnamento

Les Editions du Cèdre 13, Rue Mazarine PARIS

II.

Lettere di unità

È alla natura stessa delle Encicliche che vorremmo ora chiedere la soluzione dell’apparente antinomia tra i due caratteri che abbiamo appena scoperto in questi atti pontifici: le Encicliche sono lettere, sono lettere circolari indirizzate dal Papa ai Vescovi.  Sono lettere. Senza dubbio questa parola può designare documenti che appartengono solo lontanamente al genere epistolare, di cui conservano solo l’indicazione del destinatario e quella dell’Autorità di provenienza. Le Bolle di canonizzazione dei santi sono Lettere, Litterae decretales, quelle che specificano i limiti di una diocesi o conferiscono poteri a un Vescovo sono anch’esse Litteræ Apostolicæ; è questo stesso nome che portano i Brevi delle indulgenze o di altri privilegi (Sotto il loro protocollo epistolare si nascondono veri e propri atti amministrativi o sentenze dogmatiche: beatificazione di un servo di Dio, delimitazione di un distretto territoriale, condanna di un errore, conferimento di un beneficio o privilegio. In tutto questo, come nelle nostre attuali lettere di credito o di scambio, non c’è nulla di una vera corrispondenza, di uno scambio di opinioni o di pensieri personali).  Le Encicliche, invece, sono lettere in un senso molto più stretto (CICERONE specifica così l’oggetto della lettera e ci sono, come sapete, più tipi di lettere; ma tra tutte la più autentica … è quella a cui si deve l’invenzione stessa delle lettere, quella che è nata dal desiderio di informare gli assenti, quando era di interesse per loro o per noi che fossero istruiti in qualcosa”. (Lettera CLXXIII, A Curion (Fam. II, 4 ), trans. Constans. Ed. “Les Belles Lettres”, t. III, p. 170-172). Non senza dubbio in questo stile abbandonato della corrispondenza privata (Rileggiamo, se vogliamo cogliere la sfumatura, la corrispondenza così piena di verve e finezze indirizzata da Benedetto XIV al Card. del Tonchino DE HEECKEREN, Correspondance de Benoît XIV, Paris, Pion 1912, 2 vol.- Siamo lontani dalle Encicliche dello stesso Papa.). Non è più uno scambio amministrativo ma personale, una conversazione scritta, sia che assuma il tono dell’insegnamento e si rivolga alla mente, sia quello dell’esortazione per condurre all’azione. Siamo in una corrispondenza ufficiale, senza dubbio, ma sempre in una corrispondenza.  Le Encicliche sono lettere; come stupirsi che non abbiano il rigore di espressione e la precisione dei termini propri dei testi legislativi o delle decisioni giudiziarie? Ma allo stesso tempo, queste lettere possono rivendicare un’autorità sovrana: come circolari del Papa ai Vescovi, emanano dal Pastore dei pastori. « Circulari » è infatti la traduzione latina della parola greca – εν κυκλος – « in cerchio ». Le Encicliche sono circolari indirizzate all’Episcopato.  La loro formula di indirizzo è nota: “Ai nostri venerabili fratelli, i Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e altri Ordinari, in grazia e comunione con la Sede Apostolica, Pio XII, Papa… (Litteræ encyclicæ, Venerabitibus Pratribus, Patriarchis, Primatibus, Archiepiscopis, Episcopis aliisque locorum Ordinariis pacem et communionem cum Apostolica Sede habentibus. Pio Papa XII. Venerabiles Fratres Salutem et Apostolicam benedictionem. Summi Pontificatus; 20 ottobre 1939. BP. I, 198). A volte, oltre al corpo episcopale, sono indicati come destinatari il clero o anche i fedeli dell’universo. Questa estensione, tuttavia, rimane accidentale e non impedisce che le Encicliche siano soprattutto Lettere del Papa ai Vescovi. Una sola eccezione si può notare nei tempi moderni, che non fa che sottolineare ulteriormente il principio generale: quella dell’enciclica In Præclara, indirizzata da Benedetto XV, “ai professori e agli studenti di Lettere e Area del mondo cattolico”, in occasione del sesto centenario della morte di Dante (Dilectis Filiis Doctoribus et Alumnis Litterarum Artique optimarum Orbis Catholici In Præclara, 30 aprile 1921).  È ai Vescovi che il Papa si rivolge nelle Encicliche, e parla loro come loro capo. Questo carattere appare già nella prima Enciclica dei tempi moderni, Ubi Primum, scritta da Benedetto XIV, all’inizio del suo pontificato (3 dicembre 1740. Epistola Encyclica et Commonitoria ad omnes Episcopos. S. D. N. Benedicti Papæ XIV Bullarium, Venezia 1778, p. 2). Il Papa si appella esplicitamente al suo ufficio di Pastore dei Pastori: « Ai nostri Venerabili Fratelli, Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi, Benedetto XIV, Papa,  Venerabili fratelli, saluti e benedizione apostolica. Non appena piacque a Dio, ricco di misericordia, di elevare la nostra umile persona al seggio supremo di Pietro e di affidarci il potere vicario di Nostro Signore Gesù Cristo di governare tutta la sua Chiesa… Ci è sembrato di sentire questa voce divina risuonare nelle nostre orecchie: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore”. Con queste parole, il Pontefice di Roma, successore dello stesso Pietro, ha ricevuto dal Signore l’incarico di governare non solo gli agnelli del suo gregge, cioè i popoli di tutto il mondo, ma anche le pecore che sono i Vescovi, perché, come madri dei loro agnellini, generano i popoli in Cristo Gesù e li fanno rinascere. Accogliete dunque, Fratelli, in questa Lettera che vi indirizziamo, le parole del vostro Pastore; a voi che siete chiamati a partecipare all’ufficio che abbiamo ricevuto da Dio in pienezza, questi ammonimenti ed esortazioni faranno capire qual è la preoccupazione che ci spinge a non tralasciare nulla dei doveri del nostro ufficio e qual è la misura della nostra paterna carità nei vostri confronti (La lettera si conclude con un paterno invito rivolto ai Vescovi: “Con piena fiducia, venite a Noi che vi amiamo come Fratelli e aiutanti, come nostra corona nelle viscere di Gesù Cristo. Venite alla vostra Madre, che è anche la Madre, capo e padrona di tutte le chiese, la Santa Chiesa Romana, in cui la religione è nata, dove la fede poggia come su una roccia, dove l’unità del sacerdozio ha la sua fonte, dove la verità è insegnata senza corruzione. Non abbiamo desiderio più ardente, né più gradito, che unire i nostri sforzi ai vostri per procurare la gloria di Dio, la salvaguardia e la protezione della fede cattolica, e per ottenere la salvezza delle anime, per la quale siamo pronti a dare con gioia, se fosse necessario, il nostro sangue e la nostra vita. Ubi Primum. Bullarium, 1. c.). » Questa stessa enfasi si troverà in tutte le Encicliche inaugurali. All’inizio di ogni Pontificato, la prima preoccupazione di colui che è stato appena elevato alla sede di Pietro è di rafforzare i legami che lo uniscono al corpo episcopale di cui è a capo, di assicurare tra lui e i Vescovi l’unità di programma nel governo della Chiesa, l’unità di dottrina contro gli errori del giorno. E per raggiungere questo scopo, ricorre all’organo di un’Enciclica. Non possiamo passare in rassegna tutti i Pontificati, ma alcuni esempi saranno sufficienti. – Dopo la Rivoluzione Francese, fu da Venezia, dove si era svolto il Conclave, che Pio VII riprese il contatto con i Vescovi che erano stati isolati dalla Santa Sede per troppo tempo. Fu la consapevolezza del dovere affidatogli di “confermare i suoi fratelli” che lo invitò anche a prendere la sua penna: « Sono già passati due mesi… da quando Dio ha imposto alla nostra infermità il pesante fardello di guidare la sua Chiesa. Alla fine, dobbiamo obbedire, non tanto a un’usanza dei tempi più antichi, quanto a un nero affetto per voi. Formata molto tempo fa nelle relazioni di confraternita, la sentiamo oggi meravigliosamente accresciuta e giunta al suo culmine; perciò, niente è più dolce per Noi e più piacevole che conversare con voi almeno in queste Lettere. La natura del dovere particolare e principale del nostro ufficio, registrato ed espresso nelle parole: “Conferma i tuoi fratelli”, è ciò che ci impegna anche potentemente e ci determina a farlo. Perché in questi tempi – così sfortunati e così travagliati – Satana non meno che in passato “ha cercato di setacciarci tutti come il grano” (Dia Satis, 15 maggio 1800. BP. 240.). »  – È quasi negli stessi termini che Gregorio XVI si scusa per non aver potuto indirizzare prima la lettera ai Vescovi, « sollecitato più dal suo affetto per loro e dal dovere del suo ufficio, che da un’antica usanza ». Se la tempesta sorta all’inizio del suo Pontificato ha ritardato l’espressione del suo pensiero, non ha fatto altro che mettere in maggiore evidenza il pericolo di errori minacciosi, e l’Enciclica insiste più particolarmente sulla necessità dell’unione nella difesa della fede: « … Agiamo in unità di spirito per la nostra causa comune o, per meglio dire, per quella di Dio; e di fronte ai nemici comuni uniamo la nostra vigilanza, … uniamo i nostri sforzi. Agamus idcirco in unitate spiritus communem nostram seu vertus Dei causant et contra communes hostes, pro totius populi salute, una omnium sit vigilantia, una contentio. » Lo scopo dei vostri sforzi e l’oggetto della vostra continua vigilanza deve quindi essere quello di custodire il deposito della fede in mezzo a questa vasta cospirazione di uomini empi che vediamo, con il più grande dolore, formata per dissiparlo e perderlo. Si ricordi che il giudizio sulla sana dottrina di cui il popolo deve essere nutrito, e il governo e l’amministrazione di tutta la Chiesa, appartengono al Romano Pontefice…  Quanto ai Vescovi in particolare, il loro dovere è di rimanere inviolabilmente attaccati alla Cattedra di Pietro, di custodire il santo deposito con scrupolosa fedeltà, e di pascere il gregge di Dio che è loro sottoposto… » (Mirari Vos, 15 agosto 1832. BP. 205). Quest’ultima citazione ci aiuterà a capire il ruolo proprio delle Encicliche dottrinali. – Partendo da un’esortazione a conservare il deposito, Gregorio XVI mostra qui la procedura: l’unione dei vescovi intorno al Papa. Questo è infatti il principio stesso della costituzione della Chiesa, come ci ricorderà Pio IX (Per esempio Amantissimus Humani Generis dell’8 aprile 1862, Acta Pii IX, v. III, p. 425. Ut autem haec fidei, doctrinaeque unitas semper in sua servaretur Ecclesia, Petrum ex omnibus selegit unum, quem… inexpugnable Ecclesiæ suæ fundamentum et caput constitua, ut… pasceret oves et agnos confirmaret Fratres… ), e specialmente Leone XIII. Quest’ultimo Papa dedicò un’intera Enciclica a spiegare “il piano e lo scopo di Dio nella costruzione della società cristiana” (Satis Cognitum, 29 giugno 1896. BP. 5, 47.). – Questo è il piano. L’Autore divino della Chiesa, avendo decretato di darle l’unità di fede, di governo e di comunione, scelse Pietro e i suoi successori per stabilire in loro il principio e il centro dell’unità. Ecco perché San Cipriano scrive: « Il Signore si rivolge a Pietro: “Io ti dico che tu sei Pietro… Su uno solo costruisce la Chiesa… E sebbene dopo la sua risurrezione Egli dia uguale potere a tutti e dica loro: “Come il Padre mio mi ha mandato…”, tuttavia, per dare piena visibilità all’unità, Egli stabilisce in uno solo, con la sua autorità, l’origine e il punto di partenza di questa stessa unità. Nessuno, quindi, può avere una parte nell’autorità se non è unito a Pietro (Ibid.). È a Pietro, il fondamento della Chiesa, che è stata promessa l’indefettibilità. Da allora in poi, il modo per non fallire sarà quello di rimanere uniti a Pietro, di allineare il proprio insegnamento al suo. – Ma come rimanere uniti a Pietro, come conformare il proprio insegnamento a quello di Pietro? È qui che entra in gioco il ruolo delle Encicliche dottrinali. Senza dubbio in certe circostanze si può stabilire un contatto diretto tra il Papa e i Vescovi. Questo è il caso delle visite ad limina e soprattutto dei Concili Ecumenici. A volte, in caso di errore manifesto, il Papa interviene con una sentenza formale di condanna.  Ma è in ogni momento che il nemico si aggira, quærens quem devoret, che l’errore minaccia, che diventa insidioso, che, tra i pastori come tra il gregge, può sorgere l’esitazione. È allora che una lettera Enciclica indicherà ai Vescovi i punti più particolarmente minacciati, per rafforzare le loro certezze e per portare loro luci sicure per rettificare i fuorviati o per rassicurare i timidi. I capi delle diocesi dovranno solo fare propri questi insegnamenti di Roma (non sono solo portavoce del Papa, ma Pastori essi stessi, anche se subordinati), trasmetterli, spiegarli ai loro fedeli e portarli alla portata dei più umili. – La prima Enciclica di Benedetto XIV non aveva a che fare con questioni dottrinali. Sei anni dopo, nell’Italia settentrionale, sorse una discussione sulla legittimità di certi contratti. Questo era precisamente il caso dei prestiti ad interesse, la cui errata interpretazione sarebbe stata alla base degli abusi del capitalismo moderno. Il Papa ha indirizzato un’Enciclica ai Vescovi della regione dove era sorto il dibattito. Benedetto XIV non qualifica direttamente l’opinione errata, non la censura. Ma dopo aver preso il consiglio dei Cardinali e dei teologi competenti, indica ai Vescovi il principio delle decisioni che essi stessi dovranno prendere, e detta loro ciò che d’ora in poi, e senza ammettere ulteriori discussioni, dovrà servire come base del loro insegnamento: In questo modo sarete istruiti in tutto questo, Venerabili Fratelli, e quando terrete i sinodi, parlerete al popolo e lo istruirete nella dottrina cristiana, nulla di contrario ai sentimenti che abbiamo riferito sarà mai avanzato. Vi esortiamo di nuovo a usare tutta la vostra cura affinché, nelle vostre diocesi, nessuno abbia l’audacia di insegnare il contrario, né oralmente né per iscritto (Vix Pervenit, del 1° novembre 1745, trans. TIBERGHIEN, Tourcoing, 1914). – È allo stesso modo per assicurare tra i membri del corpo episcopale, del collegio docente della Chiesa, l’unità della dottrina, che saranno scritte tutte le grandi Encicliche, da Gregorio XVI a Pio XII. Abbiamo avuto modo di citare Mirari vos, e dovremmo almeno menzionare Quanta cura e tutta la serie di lettere in cui Leone XIII ricorda ai Vescovi, i principi su cui deve essere costruita la società umana e quelli che devono guidarla nelle sue relazioni con la Città di Dio. – Non fu un pensiero diverso, come abbiamo visto, quello che portò Pio X a scrivere la Pascendi, per delineare ai Vescovi le regole da seguire per arginare la marea montante del modernismo e contrastarla con la sana dottrina. Questo sembra essere ancora lo scopo di Pio XII nel trittico delle sue tre grandi Encicliche. “Nel suo messaggio inaugurale, espone i presupposti di un ordine per la ricostruzione individuale, sociale e politica dei popoli. Con Mystici Corporis, fa luce sulla vita interna della Chiesa nei suoi fondamenti dogmatici. Mediator, infine, mira alla vita intima ed esterna della Chiesa nel suo culto, mettendo in evidenza gli errori teorici e pratici che stanno proliferando negli ultimi anni (Mons. Fiorenzo ROMITA, Bollettino Ceciliano, Maggio-Giugno 1948). Conserveremo alcuni passaggi di Pio XI, più espliciti sul ruolo delle Encicliche come collegamento tra l’insegnamento del Sommo Pontefice e quello dei Vescovi.  All’inizio del suo Pontificato, il desiderio di questo Papa sarebbe stato quello di raccogliere intorno a sé il collegio dei Vescovi riprendendo le sessioni interrotte del Concilio Vaticano. In mancanza di questo contatto personale, l’Enciclica porterà il suo incoraggiamento e il suo pensiero a tutti. Ci avete dato una testimonianza impressionante del vostro zelo quando… in occasione del Congresso Eucaristico di Roma, siete venuti quasi tutti nella Città Eterna da tutte le parti del mondo.  Questa assemblea di pastori… Ci ha suggerito l’idea di convocare a tempo debito… una simile assemblea solenne per applicare i rimedi più appropriati dopo un tale sconvolgimento della società umana… Tuttavia, non osiamo risolverci a procedere senza indugio alla ripresa del Concilio Ecumenico aperto dal santissimo Papa Pio IX… che ha portato a termine solo una parte, anche se molto importante, del suo programma. In queste circostanze… la coscienza del nostro ufficio apostolico e dei nostri doveri paterni verso tutti, Ci ispira e Ci fa una specie di obbligo di aggiungere come nuove fiamme al fuoco che vi divora, nella certezza che le nostre esortazioni vi porteranno a dedicare una cura ancora più attenta alla parte di gregge che il Maestro ha affidato a ciascuno di voi… (Ubi Arcano, 23 dicembre 1922. BP. I, 165-166. ). Più tardi, quando fu istituita la festa di Cristo Re, un’altra Enciclica, Quas Primas, avrebbe portato ai Vescovi il tema del loro insegnamento pastorale: « Spetterà poi a voi rendere accessibile all’intelligenza e al sentimento del popolo tutto ciò che Noi diciamo sul culto di Cristo Re, per far sì che la celebrazione annuale di questa solennità porti frutti in molti modi, fin dall’inizio e in futuro. Vestrum erit quidquid… dicturi su mus, ad popularem intelligentiam et sensum accommodare. » (Quas Primas, 11 dicembre 1925. BP. S, 67. ). Qui vediamo in azione il processo stesso di custodire l’unità della fede nella Chiesa, come stabilito da Gregorio XVI, Pio IX e Leone XIII. Emanata dal Sovrano Pontefice, centro stesso dell’unità, l’Enciclica, rivolta ai Vescovi di tutto il mondo, spiegata e insegnata ai fedeli, sarà la sicura garanzia della comunità della dottrina e della fede. Pio XI tornerà più esplicitamente su questo punto nella Mortalium Animos, in relazione alle deviazioni dell’ecumenismo: « La coscienza del nostro Ufficio Apostolico ci proibisce di permettere che errori perniciosi conducano fuori strada il gregge del Signore. Perciò, Venerabili Fratelli, ci appelliamo al vostro zelo per impedire un tale male. Perché siamo convinti che con i vostri scritti e le vostre parole, ognuno sarà in grado di far comprendere facilmente ai suoi fedeli i principi e le ragioni che stiamo per esporre; e i Cattolici ne trarranno una regola di pensiero e di condotta per l’opera di riunire, in qualsiasi modo, in un solo corpo, tutti coloro che rivendicano il nome cristiano. Confidimus enim, per verba et scripta cujusque passe facilius et ad populum per-tingere et a populo intëlligi quæ mox principia rationes proposituri sumus, unde catholici accipiant quid sibi sentiendum agendumque » (Mortalium Animos, 6 gennaio 1928. BP. 4, 67. Vedi nello stesso senso Leone XIII, Cum Multa dell’8 dicembre 1882: « Spetterà a voi, cari Figli e Venerabili Fratelli, essere gli interpreti del nostro pensiero al popolo, e fare in modo, per quanto vi sarà possibile, che tutti conformino la loro condotta ai nostri consigli. BP. 7, 55. Vedi anche ard. SALIÈGE, 26 febbraio 1943: « È dovere del Vescovo far sentire la parola del Papa; provo gioia francese e orgoglio cristiano nel farvela sentire » citato in: Menus propos du Card. Saliège, I. Le Chrétien, ed. l’Equipe, Toulouse, p. 8). Se le Encicliche sono dunque il mezzo di unità tra il Papa e i Vescovi, i loro caratteri, che prima ci sembravano opposti, sono al contrario perfettamente armonizzati. Come stupirsi che non abbiano l’asciuttezza di un testo legislativo o giudiziario? Che ricordino la dottrina o denuncino l’errore, rimangono sempre lettere. Ma le lettere del Dottore supremo agli altri Dottori, per dare coesione all’insegnamento di tutti, procedono dalla più alta Autorità dottrinale sulla terra, sono al principio stesso del Magistero universale della Chiesa e dell’unità della fede, e la loro autorità e importanza non potrebbero quindi mai essere esagerate.

*

* *

Le Encicliche sono gli organi di coesione dottrinale tra i membri del corpo episcopale e il loro Capo, la garanzia dell’unità con l’insegnamento pontificio e quindi della fedeltà al deposito affidato da Cristo. Forse le nostre conclusioni si riveleranno affrettate. Non avremmo preso troppo alla lettera formule che sono indubbiamente molto solenni, ma che, a causa del loro carattere un po’ ieratico, siamo abituati a sorvolare rapidamente senza insistere troppo sul loro significato? Non potremmo trovare, a parte le Encicliche stesse e le loro formule stereotipate, il pensiero dei Sommi Pontefici chiaramente esposto? Nessuno di loro ha mai pensato di spiegarci, in un testo positivo, la natura e lo scopo delle Encicliche? Forse Benedetto XIV aveva previsto questo desiderio. In ogni caso, ha risposto in anticipo. Appena qualche anno dopo l’invio di Ubi Primum, il Papa pubblicò il suo Bollario o raccolta dei suoi atti pontifici, tra i quali fece inserire le sue Encicliche. L’ha preceduta con una prefazione dedicatoria, indirizzata “ai dottori e agli studenti di diritto dell’Università di Bologna“, che può essere giustamente considerata l’atto di nascita delle Encicliche moderne (Benedictus Papa XIV, Doctoribus et Scholaribus universis Bononiæ commorantibus et Juri canonico et civili studentibus. Bullarium. p. III.). È sorprendente non vedere questo documento citato più spesso, anche se è essenziale per lo studio delle Encicliche. Per comodità dei nostri lettori, riproduciamo qui i passaggi essenziali: Neque illud a Nobis prætereundum est, Romanis Pontificibus morem perpetuo fuisse, ut Episcopos universos, vel alicujus tantum Provinciæ ad Catholicam Fidem custodiendam, morumque disciplinam aut servandam, aut restaurandam Literis Encyclicis excitarent. Qua in re postremis hisce temporibus, usi sunt opera Congregationum… Divinæ targitatis beneficto ad summum Pontificatum evecti, Literas Encyclicas ad universos Episcopos, vel alicujus Provinciæ et nonullas etiam privatim ad aliquos episcopos dedimus, prout temporum ratio postulabat, quæ huic primo Volumini adjunguntur. Nel suo autem conscribendis Epistolis, veterem Prædecessorum nostrorum (si postrema tempora excipiantur) consuetudinem revocandam duximus, qua tpsi per se Literas Episcopis dabant, rati majorem vim id habiturum, cum amjyliorem Pontificiæ benevolentiæ significationem ipsius Pontificis Epistolæ testari videantur Episcopis, quibuscum Me Fraternitatis vinculo conjungitur quam quæ ab aliis, auctoritate licet Summi Pontificis, conscribuntur. p. IV). Il Papa doveva avvertire i lettori: era infatti la prima volta che documenti diversi da Costituzioni o Bolle, e da importanti Brevi, venivano inseriti in una raccolta di questo tipo (2 S) Il Papa fa qui appello ai suoi ricordi personali: Has Literas Præsules, qui erant a Secretis earum Congregationum, plerumque exorabant… Id nos diligentissime exequuti sumus, cum adhuc in minoribus munus a Secretis Congregationis Concilii per decern et amplius annos vbivimus. Typis emittimus hoc primum Volumen, quod nostras Constitutiones, videlicet Bullas, et aliqua Brevia, Literas Encyclicas, et alia hujusmodi complectitur. Ibidem, p. III. 2). Questa innovazione, inoltre, non è stata l’unica, né la principale, sulla quale il Sovrano Pontefice ha dovuto spiegarsi. Le Encicliche erano senza dubbio tradizionali nella Chiesa, e Benedetto XIV, nel riprendere il loro uso, si riferisce espressamente a questa antica usanza. Ma sotto i Pontificati precedenti, i Papi avevano cessato di usare loro stessi questo modo di insegnare e ne avevano abbandonato l’uso alle congregazioni romane (Non è stato quindi inutile, nell’inserire le Encicliche nel Bollario, ricordare la vera natura di queste Lettere, e far conoscere in ogni caso il motivo della loro ricomparsa tra gli altri testi pontifici. Questa ragione, secondo Benedetto XIV, è la stessa che in passato aveva portato i Papi a scrivere personalmente ai Vescovi: dare maggior peso alle Encicliche. Le lettere del Papa stesso non saranno forse un segno più certo di benevolenza verso i Vescovi, suoi fratelli nell’episcopato, che se fossero emesse da altri firmatari, anche su mandato del Sommo Pontefice? (lbid., p. IV, testo citato sopra). – Ma perché questo segno di benevolenza, se non per rendere più stretti i legami dei Vescovi, non solo con l’amministrazione pontificia, ma con lo stesso Capo del Collegio Apostolico, per stringere e rafforzare attorno al Pastore supremo la coesione del corpo dei pastori della Chiesa? Inoltre – e il grande canonista Benedetto XIV non aveva paura di scendere a questi umili dettagli – le Encicliche, atti personali del Sovrano, non dovranno essere rivestite di quelle formalità di cancelleria, garanzie di autenticità, che erano le pergamene speciali, le scritte complicate, i sigilli tradizionali delle Bolle e dei Brevi (Le Bolle scritte su pergamena ruvida, spessa, in una scrittura gotica molto ornata, e difficile da leggere, era sigillata con una palla di metallo (piombo o oro). Erano datate in Calende e Idi, e l’anno veniva contato non dal primo gennaio, ma dall’anniversario dell’Incarnazione, il 25 marzo. I Brevi, su membrane più sottili e in lettere latine, erano sigillati, su cera rossa, con il famoso anello del pescatore). Come garanzia contro i falsari, basterà che queste lettere siano stampate a Roma sotto gli occhi del Papa, sulla generosa e comoda carta dei torchi vaticani, e che la loro raccolta sia depositata negli archivi, in due copie firmate dallo stesso Sovrano Pontefice (Quia fortasse non deest aliquis, aut etiam non defuit, qui acceptis nostris Literis, Romæ licet impressisi nostroque Nomine inscriptis, dubius tamen incertusque haereat, utrum Ños ipsarum Auctores essemns; (quasi vero temeritas hominum eo devenire possit, ut aliquis, Nobis vitam agentibus, Literas Encyclicas nostro Nomine falso inscríbese, casque Romanis Typis commettere audeat) ad omnem dubitationem tollendam reponi jussimus duo codicis hujus exemplaria, quæ manu nostra subscripsimus, nostroque Signo obfirmavimus, unum in Archivio Castri S. Angeli, alterum in Archivio secreto Vaticano, ut hæc monumenta certa, ac perpetua faciamus, nec ulto unquam tempore Literis Encyclicis, aut alìis in hunc codicem relatis, sfides imminuatur. (Prefazione al Bullarium, p. IV.). Possiamo vedere quanto preziosi possano essere questi documenti nel rafforzare la coesione del corpo episcopale intorno al suo capo. Come atti personali del Papa, le Encicliche non possono non essere ricevute con attenzione dai Vescovi, mentre, come semplici lettere stampate, alleggerite di ogni inutile formalità, possono essere rapidamente inviate a tutte le estremità della cristianità per sbarrare la strada agli errori che rinascono continuamente. Non sosteniamo, tuttavia, che questa mancanza di solennità nella loro forma minimizzi la loro importanza: come abbiamo appena visto, questa semplicità è solo una conseguenza del loro carattere di atti personali del Sovrano Pontefice. E questi atti autentici del “Pastore dei Pastori”, indirizzati a coloro che partecipano al potere di governare e insegnare la Chiesa, hanno come oggetto proprio le questioni essenziali di questo ufficio: la vostra fede e la disciplina dei costumi. Tale era infatti, secondo Benedetto XIV, il loro contenuto nell’uso antico: Neque illud a Nobis prætereundum est Romanis Pontificibus morem perpetua fuisse, ut episcopos universos vel alicujus tantum provinciae ad catholicam fidem custodiendam, morumque disciplinam aut servandam aut restaurandam, Litteris encyclicis excitarent (Bullarium, p. IV, 1). – Questo antico uso è proprio quello che il Sovrano Pontefice vuole reintrodurre. Non possiamo quindi pesare troppo questi termini: fede e morale. Questo è precisamente l’oggetto della missione affidata dal Signore a Pietro e agli Apostoli e ai loro successori, il terreno sul quale l’assistenza divina è promessa loro nella misura in cui rimangono uniti al centro dell’unità, a Pietro, il fondamento incrollabile della Chiesa. – È necessario insistere di più sull’importanza capitale di questi documenti, grazie ai quali, dal suo stesso centro, si rafforza l’unità, si assicura la comunità di dottrina e di governo. Essi permettono ai pastori dispersi di avere un solo insegnamento e una sola azione in comune con il Pastore Supremo. Non è sorprendente, quindi, che Benedetto XIV abbia ordinato che le Encicliche fossero inserite nel Bollario e, alla fine della Lettera ai Dottori di Bologna, che questa raccolta fosse inclusa nel corpo stesso della Legge, nella raccolta “autentica” dei documenti emessi dalla Chiesa. La prefazione al Bollario di Bologna, tuttavia, è un ottimo esempio di questo. – La prefazione al Bollario di Benedetto XIV corrobora così pienamente la conclusione a cui la stessa lettura delle Encicliche ci aveva portato: queste Lettere, indirizzate dal Papa come Supremo Pastore ai Vescovi, suoi co-pastori, sono il vincolo della loro unità di dottrina e di governo, e come tali, stanno al principio dell’unità di fede e di disciplina nella Chiesa.

*

**

La Lettera ai Dottori di Bologna non solo delinea i tratti essenziali di queste Encicliche, che vengono incluse per la prima volta nel Bollario, ma le presenta anche come eredi di una tradizione antica quanto la Chiesa: Veterem Prædecessorum nostrorum… consuetudinem revocandam duximus. È a questa tradizione, dunque, che dobbiamo fare riferimento se vogliamo portare alla luce la vera natura di questi documenti. In un recente articolo sull’Unione dei Vescovi e il Vescovo di Roma nei primi due secoli della Chiesa (La Vie spirituelle, supplemento, 15 maggio 1950, pp. 181-205), M. Jean Colson ha richiamato l’attenzione sul ruolo svolto nei primi secoli dalle lettere episcopali nel mantenere l’unità nella fede. Dopo aver ricordato alcuni degli scambi epistolari di cui si è conservata traccia, M. Colson conclude: « Tale è questa unione fraterna dei Vescovi che crea e mantiene l’unità della Chiesa attraverso una corrispondenza incessante, controllando la conformità delle opinioni di ogni Vescovo con tutto l’episcopato. Tutti i Vescovi, stabiliti fino ai confini della terra, mantengono così una comunicazione reciproca nello Spirito di Gesù Cristo (s. IGNAT. D’ANT. Eph., III, 2). E così è anche, come scrive Sant’Ireneo, che questa predicazione che la Chiesa ha ricevuto… sebbene sia sparsa in tutto il mondo, la custodisce con cura come se avesse una sola anima e un solo cuore, e con perfetta armonia la predica, la insegna e la trasmette, come se avesse una sola bocca. E se le lingue sulla superficie del mondo sono diverse, la forza della Tradizione è una e identica… (Adv. Hær, I, X, 2. PG. 7, 551). – Questa unità della Tradizione, fondamento dell’unità della Chiesa, è realizzata dall’episcopato. Il Vescovo nella sua comunità non è che un portavoce di quel grande corpo episcopale in cui si incarna lo Spirito di Gesù Cristo. È quindi importante che egli sia una voce fedele secondo l’insegnamento comune e tradizionale di cui è custode, in solidarietà con i suoi colleghi. Da qui la preoccupazione di ogni Vescovo, la necessità di sentirsi in comunione di pensiero con gli altri Vescovi, di controllare le sue idee e la sua condotta secondo il consiglio e la pratica dei suoi fratelli nell’episcopato (Vie spir., 1. e , p. 185). – È proprio questo stesso ruolo di collegamento tra Vescovi che, in un’opera dotta (De Litterìs Éncyclicis Dissertatio Francisci Dominici Bencini, abbatis sancti Pontii, ad Magnum Victorium Amedeum, Sardiniæ Regem. Augustæ Taurinorum MDCCXXVIII), un contemporaneo di Benedetto XIV, François Dominique Bencini, abate di Saint Pons, si mostrava essere quello delle Encicliche. « È di essi – scrive nella sua prefazione – che i prelati della Chiesa si sono serviti per conservare la purezza dei dogmi e l’unità dei cuori. Questa, se non mi sbaglio, è la ragione per cui le prime chiese apostoliche e quelle che fondarono furono in grado di mantenere il deposito della Santa Dottrina immacolato e libero da ogni macchia, interpolazione o frode. Questa è la pietra di paragone che ci permette ancora, come ai nostri padri, di verificare la tradizione autentica di ogni dogma e che garantisce l’antichità, l’universalità e l’unità della fede contro le novità profane di tutti i tempi, e questo senza difficoltà, ma con piena sicurezza » (Prœmium operis, II). In tutta la sua opera, gli piace sottolineare questo obiettivo essenziale delle Encicliche: « mantenere pura e integra l’unità della fede e dei costumi … (Fidei et morum integritatem puritatemque, (Prooemium IV) et animarum concordiam, fidei unitatem et consonam constantemque dogmatum confessionem » (§ 20, III).  – Queste espressioni, almeno per quanto riguarda l’idea che esprimono, ricordano troppo da vicino la prefazione del Bollario perché il confronto non sia necessario. Sembra difficile, inoltre, che Benedetto XIV non conoscesse questa Dissertazione. Come poteva lo storico dei costumi della Chiesa, il Cardinale Lambertini, e l’autore del De institutionibus Ecclesiæ, la cui prima preoccupazione dopo la sua elevazione alla sede papale fu di far continuare dai fratelli Ballerini la pubblicazione delle Lettere dei Papi, iniziata da Dom Coustant. (Epistolæ romanorum pontificum… a S. Clemente I usque ad Innocentinm III …studio et labore Domni Pétri Coustant, presbyteri et monachi Ördinis S. Benedicti e Congregatione S. Mauri. Tomus 1, ab anno Christi 67 ad annum 440. Parisiis, MDCCXXL – La pubblicazione è stata prematuramente interrotta dalla morte dell’autore. Solo il primo volume è stato pubblicato).  Come, finalmente, questo avido collezionista di libri nuovi (Cf. DE HEEG. Corrispondenza di Benedetto XIV, vol. I, p. 320, lettera del 26 aprile 1747), poteva egli ignorare un’opera pubblicata a Torino su un argomento che gli stava tanto a cuore, solo quattro anni prima della sua elevazione alla sede di Bologna?  In ogni caso, i dettagli forniti da Bencini, non solo sul ruolo delle Encicliche, ma sul modo stesso della loro efficacia, gettano una luce singolare sulle linee concise del Bollario.  Per l’abate di Saint-Pons, come per Benedetto XIV, le Encicliche sono effettivamente lettere circolari. Il loro nome deriva dal fatto che i loro destinatari sono ovunque, e Bencini cita Esichio che definisce il termine: “quod ubique circumit, ubique permeat“. Erano ancora chiamate “cattoliche” da καθολος universus, nella misura in cui erano rivolte all’universalità del mondo cristiano; così le Epistole cattoliche potrebbero essere considerate le prime Encicliche.  – Tuttavia, si era soliti riservare l’espressione “lettera Enciclica” a quelle indirizzate a tutti i Vescovi, o almeno a un grande gruppo di essi, da altri Vescovi e soprattutto dal Sommo Pontefice o dai patriarchi orientali (Quelle inviati annualmente ai loro suffraganei dai Patriarchi di Alessandria sono rimaste famose. Non solo tenevano i Vescovi d’Egitto in stretta comunione, ma erano indirizzate a Costantinopoli, dove venivano lette nella festa di Pasqua, mentre allo stesso tempo la lettera del patriarca di Costantinopoli veniva letta ad Alessandria. (PREDESTINATUS, Hær. I,, 89, PL. 53, 619). Sant’Epifanio parla anche di 70 Encicliche indirizzate da Sant’Alessandro ai vescovi della Palestina riguardo ad Ario. (EPIPH. Hær, LXIX, 4. P. G. 42-210.). Queste circolari, affidate a messaggeri scelti con cura (A volte Vescovi, per lo più diaconi. Cfr. BENCINI, § IX, De Dominicis cursoribus), dovevano essere pubblicamente ricevute, se non sempre sottoscritte dai loro destinatari… come segno di comunione con le chiese da cui emanavano queste lettere (Ursazio e Valente tentarono invano di fare pressione sui Vescovi per ottenere questa firma, per la loro stessa lettera: aut subscribite, aut ab ecclesia recedite. Episodio. S. Athanasii ad Solitarios. PG. 25, 733). Così, firmare un’Enciclica scritta da un eretico significava rendersi partecipe dei suoi errori, mentre rifiutare di aderire a una lettera di Roma o di ricevere la sua approvazione significava tagliarsi fuori dalla comunione cattolica (Esigenda di Papa Liberius nei confronti degli ariani che, in caso di rifiuto, dovevano essere esclusi dalla Chiesa). Possiamo vedere quale arma facile fossero le Encicliche, sempre a portata di mano, per chiudere ogni via di fuga agli errori e denunciarli a tutta la cattolicità. Per condannare uno scisma, non c’era bisogno di convocare un Concilio di Vescovi; soprattutto in tempi di persecuzione, quando tali riunioni risultavano impossibili, le Encicliche costituivano una sorta di Concilio permanente (Aug. Ad Bonif. I, 4. PL. 44, 638: …ut vero congregatione Synodi opus erat ut aperta pernicies damnaretur; quasi nulla hæresis aliquando sine Synodi congregatione damnata sit. Cfr. BENCINI, Dissertatio, proœmium, XIII: Erat nimirum, instar synodorum ipsa præsulum constabilita inter se… (B. elenca qui le varie forme di Encicliche) communicatio dogmatum fidei imitas et recta Divinarum Traditionum intelligentia).  Infatti, una volta sottoscritte dai Patriarchi e dai loro suffraganei, e soprattutto con l’approvazione romana, se non emanavano dal Sommo Pontefice, le Encicliche diventavano in un certo senso un atto del Magistero universale della Chiesa, in ogni caso, un segno indiscutibile della fede unica e cattolica e di conseguenza dell’autenticità del dogma (Così l’Enciclica sottoscritta da Papa Vigilio e dai Patriarchi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme con la quale si condanna l’origenismo. LIBERATUS, Brev. c. 23. Acta Conc. Oec. Berlino, II, 5, p. 140. Vedi anche Cassiano, De Inc. I, c. Ult. PL. 50, 29: Sufficere ergo sotus nunc ad confutandum hæresim consensus omnium; quia indubitata veritatis manifestatio est auctoritas nniversorum; – e BENCINI, Dissertatio. § 4, ÎX: Encyclicas. communi episcoporum in suis cathedris sedentium consensu firmatas, representare Magisterium Ecclesiæ, earumque osares nota hæresis esse puniendos).Con il loro stesso rifiuto di aderire, i dissidenti si classificano tra gli eretici o scismatici.  Non dobbiamo quindi sorprenderci di sentire Sant’Alessandro di Alessandria parlare delle Encicliche come del “rimedio per eccellenza”, remedia præcipuo (Lettera I contro Arius, PG. 18, 570. 5), contro l’errore, San Gregorio di Nazianzo vedendo in essi i “segni di comunione”, communionis indices (S. GREG. DE NAZ. Epist. I ad Cledonium, PG. 37, 177), grazie al quale i Vescovi fedeli si distinguono dagli apollinaristi, e Sant’Avit assegna loro come obiettivo proprio quello che li farà riprendere da Benedetto XIV: stringere i legami di carità tra i Vescovi (Cfr. Epist. 27, 5 5 , 8 0 , 8 7 . P. L. 59, col. 243 e seguenti).  Segni di accordo tra le Chiese, le Encicliche erano considerate come testimonianze sicure della tradizione universale solo se avevano ricevuto almeno un’approvazione da Roma: Se infatti – citiamo ancora M. Côlson, che riassume Sant’Ireneo – i Vescovi di tutto il mondo sono i custodi dell’unica e identica Tradizione, la predicano, la informano, la trasmettono, con una sola anima, un solo cuore, una sola bocca, il Vescovo di Roma appare come il “sacramento” o segno efficace dell’unità della Chiesa universale, o nelle parole di Sant’Ireneo, la manifestazione più piena dell’unità e dell’identità della fede vivificante conservata nella Chiesa dagli Apostoli fino ai giorni nostri e tramandata con verità. Egli non è il custode della Tradizione. Ogni Vescovo nella sua chiesa custodisce questa Tradizione. Infatti, la Tradizione degli Apostoli è manifesta in tutto il mondo; chiunque voglia trovare la verità deve solo cercare in qualsiasi chiesa dove si possono enumerare i Vescovi istituiti dagli Apostoli e dai loro successori fino a noi. Il Vescovo in ogni chiesa è per i fedeli il sacramento dell’unità cattolica, è la bocca della Chiesa, predica, insegna, trasmette la Tradizione, la stessa cosa, in una lingua diversa. Qui e là egli incarna la Chiesa universale. Ma lo incarna solo nella misura in cui è nell’unità della cattolicità. E il ruolo del Vescovo di Roma è proprio quello di essere il sacramento di questa unità cattolica, perché è con la sua Chiesa e per l’autorità della sua origine, che ogni chiesa, cioè tutti i fedeli di ogni luogo, deve concordare, ed è in lei che, attraverso questi fedeli” (Ad. Hær. III, 2, PG. 7, 849. Il significato delle ultime parole, t ab his qui sunt undique, è molto contestato. Vedi JACQUIN, Année Thèologique, 1948, p. 95 e seguenti; e Revue des Sciences religieuses, gennaio 1950, p. 72; Christine MOHRMANN, Vigiliæ christianæ, gennaio 1949, p. 57 e seguenti), è stata conservata la Tradizione che viene dagli Apostoli (Art. citato, p. 203-294). Non ci stupiremo, quindi, di vedere i Papi affermare la necessità di questa approvazione da parte loro delle lettere episcopali. San Innocenzo si rivolge in questi termini ai Padri del Sinodo africano che avevano chiesto la conferma del decreto che volevano comunicare alle altre province:  I Padri, nei tempi passati, sotto un’ispirazione non solo umana, ma divina, decisero che qualsiasi cosa fosse fatta nelle province lontane non avrebbe avuto un valore definitivo finché non fosse stata sottoposta alla Santa Sede e avesse ricevuto dalla sua autorità tutta la sua forza (Epist. 29, 1. PL. 20, 582).  È dunque di questa sanzione del capo della cattolicità che i difensori della fede amano avvalersi nelle loro controversie con gli eretici. Il diacono Rustico, per esempio, nel basarsi sulle Encicliche di San Cirillo contro Nestorio, non manca di sottolineare che esse “sono state approvate da Roma: Epistolæ Cyrilli ad Nestorium quas et sanctissimus Cœlestinus Papa Magnæ Romæ ut proprias suscepit; e inoltre: Istas epistolas, id est suas, et orientalium de pace, transmissas, Cyrillus, Romanae ecclesiae Sedi, a sanctissimo Xisto confirman sategit (Disp. adv. Acephalos, P. L. 67, 1173 e 1176). Gli eretici, a loro volta, cercano di mettere questa autorità dalla loro parte e di sorprendere la vigilanza del Sommo Pontefice: “Se otterremo l’approvazione di Liberio“, dicono Ursatio e Valente, “non tarderemo a trionfare” (S. ATHANASUS, Ad. Solitarios, PG. 25, 733).  – L’imperatore stesso non si tirava indietro nell’offrire doni per ottenere l’adesione di Roma. Ma conosciamo la fiera risposta di Liberio: “Anche se rimango solo, la causa della fede non sarà diminuita, etiamsi solus sim, fidei tamen causa non ideo minuitur” (THEODORETO, Hist. Ecc, I, 2, c. 16. PG. 82, 1035). – Se l’approvazione romana era sufficiente a dare tanta forza alle lettere dei Vescovi provinciali o dei sinodi, quale accoglienza deve essere stata per un’Enciclica scritta dal Papa stesso. Era veramente considerato il segno per eccellenza dell’unità e della comunione di tutto il mondo cattolico “Velut prœlucens fax aderat et verae communionis tessera habebatur” (BENCINI, Dissertatio, § 6, XII).  Questo segno di unità non è mai mancato nella Chiesa. Abbiamo già visto Pio VII, nella sua Enciclica inaugurale, rivendicare una “usanza che risale ai tempi più remoti”. Ora è un’espressione quasi simile quella usata da Giovanni Diacono nella vita di San Gregorio Magno, dove riferisce che egli “secondo l’antica usanza dei suoi predecessori, secundum priscum decessornm morem, inviò la sua Enciclica di presa di possesso ai patriarchi di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme” (Gregorii Magni Vita, II, 8. PL. 75, 88.). Il Papa ricordava i doveri dei pastori, esponeva la professione di fede e denunciava gli eretici (Epis. 25. PL. 77, 468. Cfr. Enciclica inaugurale di San Gelasio, ep. II, PL. 59, 19). – Purtroppo, molte di queste Encicliche dei primi secoli sono andate perdute. Tuttavia, ci vorrebbero pagine intere solo per riassumere il ruolo svolto nella storia della Chiesa da quelle di cui abbiamo conservato le tracce. Qui possiamo solo ricordare rapidamente alcuni fatti e raccogliere alcune testimonianze.  Fu una lettera di San Vittore ai Vescovi d’Oriente che unificò la Chiesa e fissò la festa della Pasqua. Conosciamo le reazioni provocate dalle sanzioni con cui il Pontefice ha minacciato i recalcitranti. L’autorità del suo messaggio, tuttavia, non fu messa in discussione e fu riconosciuta da Vescovi come quello di Efeso, che potevano comunque rivendicare le più venerabili tradizioni apostoliche (Eusebio, H. E. V., 23, 24, PG. 20, 490-507. Un rapido riassunto si trova in COLSON, art. cit, p. 198-201).  Nel caso di quest’ultimo, saranno le Encicliche di San Cornelio ai sinodi africani a condannare gli errori di Novatiano e il suo atteggiamento nei confronti dei lapsi. La corrispondenza di San Cipriano dovrebbe essere riletta, perché è piena di indicazioni su questo argomento. Possiamo accontentarci di conservare una parola della sua lettera ad Antonianum, di cui trasmise gli scritti al Papa, affinché quest’ultimo potesse essere sicuro che Antonianum “comunico con lui, cioè con la Chiesa cattolica; ut… jam sciret te secum, id est cum catholica ecclesia communicare” (Ep. ad Antonianum, I. PL. 3, 768).  L’identificazione della comunione romana con l’appartenenza a tutta la Chiesa cattolica è rivelata anche dalla richiesta dei Vescovi riuniti in sinodo a Tiana, verso i loro fratelli orientali: aderire alle lettere di Liberio e dei Vescovi italiani, comunicare con loro e dare prova scritta della loro unione (Sozomene, Hist. Eccl., VI, 12 PG. 67, 1322-1323). Questa esigenza fu peraltro formulata dallo stesso Liberio nella sua Enciclica: “i recalcitranti daranno per scontato di essere, in compagnia di Ario, dei suoi discepoli e di altri serpenti, sabelliani, patripassiani ed eretici di ogni genere, rimossi ed esclusi dalla comunione della Chiesa che non ammette figli adulteri” (Ep. XV. PL. 8 , 1381. Diamo l’indirizzo e il saluto di questa lettera, dove troviamo, come nei suoi contemporanei, formule quasi simili a quelle delle nostre encicliche moderne. Urbis Romæ episcopus, ad universos Orientis orthodoxos episcopos. Dilectis Fratribus et comministris, …(seguendo i nomi di 64 vescovi) et omnibus Orientis orthodoxis episcopis, Liberius episcopus Italiæ, et Occidentis episcopi, in Domino sempiternam salutem). Di fronte al pelagianesimo, i Papi Innocenzo e Zosimo a loro volta alzarono la voce in Encicliche che i Padri furono d’accordo nel riconoscere come risolutive della controversia senza appello. « Perché esigere di nuovo un esame già istituito dalla Sede Apostolica? – scrive S. Agostino all’eretico Giuliano – Non si tratta più di far esaminare l’eresia dai Vescovi, ma di farla sopprimere dai poteri cristiani » (Ad.. Julianum, I, 2. c. 103, PL. 45, 1183). « Con la risposta del Papa la causa è chiusa… e grazie alle lettere di Innocenzo ogni esitazione su questo punto è rimossa » (Ad Bonif, 1, 2. c. 3. PL. 4 4 , 574).  Capræolus di Cartagine non parla diversamente dell’enciclica di San Zosimo, conosciuta sotto il nome di Tractatoria (Così chiamata da Marius Mercator, probabilmente perché scritta dopo una discussione (tractatus) in un sinodo, o indirizzata ad uno synod. Cfr. DU CANGE; BENCINI, Dissertatio, § 1, VI), a cui si aggiungevano le adesioni episcopali: « A che serve appellarsi al Concilio per cercare di difendere errori già riprovati dalla Sede Apostolica e dalla sentenza unanime dei Vescovi… Mettere in dubbio la dottrina già giudicata è entrare in dubbio contro la fede sempre professata finora » (Lettera al Sinodo di Efeso, PL. 63, 845-847). San Prospero unisce le Encicliche dei due Papi in un omaggio comune: Una volta Innocenzo con la sua spada apostolica decapitò l’errore… e papa Zosimo, di santa memoria, ratificando i Concili d’Africa, mise nelle mani dei Vescovi, per abbattere gli empi, la stessa spada di Pietro: ad impiorum detruncationem, gladio Pétri dexteras omnium armavit antistitum (Adv. Collat, c. 21. PL. 51, 271).  È necessario sottolineare questo testo che mette in evidenza il ruolo esatto della lettera pontificia indirizzata all’episcopato: dargli le armi sostenendolo sull’autorità della Pietra indefettibile. Troviamo lo stesso pensiero, ma presentato sotto l’altra faccia, quella dell’unanimità dei Vescovi intorno a Pietro, in queste parole di Papa San Celestino, alludendo a sua volta alle firme episcopali apposte alla Tractatoria: « La fede cattolica fu finalmente in pace quando Oriente e Occidente avevano colpito gli errori di Pelagio con i colpi di una sola frase: telis unitæ sententiæ » (Epist. XIII ad Nest. PL. 50, 469).  Queste righe sono state scritte nel 430. Dieci anni dopo, San Leone salì alla sede papale, le cui lettere eclisseranno quelle di tutti i suoi predecessori nella loro brillantezza. Sono spesso citati dai Papi (Per esempio, Leone XII, che nella sua enciclica inaugurale Ubi Primum, del 5 maggio 1824, si riferisce a San Leone e lo cita per sottolineare il ruolo del Papa nel mantenere l’unità: Si quis malorum omnium, quæ huc usque deploravimus, et aliorum. .., veram originem inquirere velit, intelliget profecto… semper eam fuisse et esse pertinacem contemptum auctoritatis Ecclesiæ, ejus nempe Ecclesiæ quæ docente S. Leone Magno (sermo 2 de nat. P.), ex ordinatissima caritate in Pétri Sede Petrum suscipit, In Petro ergo omnium fortitudo munitur, et divinæ gratiæ ita ordinatur auxilium, ut firmitas quæ per Chris tu m Petro tribultur, per Petrum apostolis conferatur. – Bullarii Rom. Cont., t. VIII, p. 53-57.), e colui tra loro che, per la tredicesima volta, renderà illustre il nome di Leone sulla Sede di Pietro, vi farà affidamento in quasi tutte le sue Encicliche, come per meglio sottolineare, attraverso quindici secoli, la continuità ininterrotta della stessa tradizione. Non è nostro compito qui seguirli nella storia, ma solo raccogliere alcune testimonianze dell’ineguagliabile autorità che è sempre stata riconosciuta loro. Conosciamo l’accoglienza riservata al Tomo di Leone dai Padri del Concilio di Calcedonia: “Quelli che hanno turbato il sinodo di Efeso poco tempo fa… aderiscano alla lettera di Leone, altrimenti siano condannati e considerati scomunicati” (Sed ant consentiant epistolis Leonis Papae, aut damnationem suscipiant et sciant quia excommunicati sunt. MANSI, vol. VII, 55 B). E la stessa sentenza di scomunica è pronunciata contro Dioscoro per la sola ragione che, al “brigantaggio” di Efeso, si era opposto alla lettura dell’Enciclica pontificia (Concilio di Calcedonia, atto III. HARDUIN, t. 2, p. 379).  Non è solo il Tomo a Flaviano, ma tutte le lettere di San Leone che i Papi hanno imposto come regola di fede, allo stesso modo dei decreti dei Concili. Così tra le condizioni di pace proposte all’imperatore dai legati di Ormisda, è stipulata “l’accettazione del santo Concilio di Calcedonia e le lettere del santo Papa Leone” (Corpus S.E.L. 35, 519. Questo e la maggior parte dei testi citati di seguito si trovano in: Textus et Documenta. 9, S. Leonis Magni Tomus, Romæ, 1932), e la formula di fede imposta cinque anni dopo al Patriarca di Costantinopoli recita: « Noi riceviamo e approviamo tutte le lettere del Beato Papa Leone che trattano della religione cristiana » (Corpus, 35, 521). – Ancora Papa Agapito richiederà alle autorità religiose e politiche di Costantinopoli di firmare una formula simile: probantes per omnia atque amplectentes epistulas beatæ memoriæ Leonis omnes, quas de fide conscripsit (Corpus, 35, 339.). – San Gelasio arriverà al punto di colpire con l’anatema chiunque rifiuti la Lettera di Leone a Flaviano o che osi discuterne anche solo una parte (Decretum Gelasii de Libris recipendis, Texte und U, 38, 4, 1912, p. 37), un anatema che San Gregorio non teme di rinnovare assimilando il rifiuto del Tomo a quello dei quattro concili (S. GREC. MAGN. p. VI, 2. Mon. Germano. Hist. Epis 1.1. p. 382). – Si vede che i Papi del XIX e XX secolo, invocando l’autorità apostolica per le loro lettere, non hanno innovato. Fin dall’inizio, le Encicliche furono considerate come una regola di fede; allontanarsi dalla loro dottrina significava separarsi dalla Chiesa. Forse anche questa autorità rigorosa indiscutibilmente riconosciuta alle lettere dei Papi di un tempo potrebbe fornire un pretesto per un’obiezione: questi venerabili documenti sono i primogeniti delle moderne Encicliche? Non è un grave errore equiparare le une alle altre? Senza dubbio le lettere di San Leone trattano gli articoli del simbolo in modo più diretto di quelle di Leone XIII, dove le conseguenze dei dogmi nella vita sociale sono più studiate. Tuttavia, come Benedetto XIV ha visto chiaramente, hanno tutti lo stesso oggetto: la fede e la morale. Sono anche ispirate dallo stesso pensiero: quello di rafforzare i legami di carità fraterna tra il Papa e i vescovi. Non abbiamo dimenticato i termini in cui Benedetto XIV e Pio VII hanno espresso i loro sentimenti. Non sono un’eco lontana di quelle in cui San Leone, ricevendo le risposte dei suoi fratelli nell’episcopato, lasciava traboccare la sua gioia: “Questa gioia è il frutto dell’amore fraterno del corpo episcopale, che ci permette di gustare in questo scambio epistolare tutto segnato dalla grazia, come la presenza di coloro le cui lettere leggiamo con cuore grato” (Omnium quidem litteras sacerdotum gratum nos relegere animo, fraterni collega charitas faeit, cum per spiritualem gratiam tamquam præsentes amplectimur, quibus sermone epistolis mutuo eommeantibus sociamur. Ep. VI ad Anastasium, I. PL. 54. 617). – Linee come queste non sono testi legislativi o giuridici? Non ricordano piuttosto quella semplicità di corrispondenza fraterna in cui abbiamo già riconosciuto una delle caratteristiche delle Encicliche moderne, e che crea un ultimo tratto di somiglianza tra le Lettere dei primi Papi e le loro controparti più giovani? Questo carattere di ampia e tranquilla esposizione, San Leone stesso lo rivendica per le sue Encicliche: Non è una nuova dottrina che il volume porta, ma un semplice richiamo a « ciò che la Chiesa cattolica crede e insegna universalmente sul mistero dell’incarnazione del Signore » (Epist. 29, PL. 54, 783.). « Le nostre lettere insegneranno alla vostra carità ciò che riteniamo divinamente rivelato e ciò che predichiamo senza cambiare nulla » (Epist. 34. PL. 54, 802, Ep. 33. PL. 54, 799.). E il loro scopo dichiarato è ancora lo stesso che noi, con Benedetto XIV, abbiamo riconosciuto nelle Encicliche: assicurare in tutta la Chiesa l’unità della fede: “ut abolito hoc, qui natus videbatur errore, in laudem et gloriam Dei per totum mundum una sit fides et una eademque confessio. Non dobbiamo quindi stupirci di vedere storici come Harnack e Mons. Batiffol attribuire questo stesso carattere alle lettere di San Leone. Batiffol scrive: « Non dobbiamo cercare nella lettera a Flaviano l’abbondante dottrina di Cirillo o di Teodoreto, ancor meno la scolastica di Leone di Bysanzio. Nessuna definizione della natura o della persona. Leone prende le sue prove dal simbolo battesimale, dalla Scrittura, vuole prove di fatto, concrete, elementari. Non anticipa le obiezioni. Pretende solo di dire ciò che ha imparato. Non si può dire che la sua lettera segni un progresso teologico e dogmatico in relazione all’unione ipostatica. È la cristologia media che il Papa impone come disciplina acquisita ai polemisti orientali e senza entrare nei problemi da loro sollevati (Dic. Thèol. Cat. IX, 1926). Nihil novi, niente di nuovo, disse Harnack a sua volta (Lehrbuch der Dogmengeschichte, II, 42), è portato dalla lettera di Leone. Le Encicliche dei primi secoli, come quelle dei nostri giorni, non sono infatti destinate a modificare il dogma: semplici dichiarazioni della fede romana, la loro ambizione è solo quella di unire in uno stesso insegnamento, intorno a quello di Pietro, i Vescovi di tutto il mondo, e di assicurare così la loro dottrina contro ogni possibilità di errore. Ritroviamo così, alla fine del nostro studio, queste due caratteristiche che una rapida lettura ci aveva fatto riconoscere nelle Encicliche dei tempi moderni e che ci sembravano opposte tra loro. Ma alla luce di un’indagine più precisa sulla natura di queste Lettere e sul loro ruolo proprio, questa antinomia si è risolta per rivelare, al contrario, una mirabile armonia. – Le Encicliche, lettere dei Papi ai loro fratelli nell’episcopato, non sono né decreti né leggi. Sono l’esposizione autentica della dottrina insegnata da Roma, sono situati all’articolazione stessa del Magistero pontificio e di quello della Chiesa universale, sono situati nel punto preciso in cui Pietro, fedele al suo dovere di confermare i suoi fratelli, propone loro il suo insegnamento come pietra incrollabile, fondamento e causa dell’assoluta indefettibilità della Chiesa. Qui siamo d’accordo con la conclusione di M. Colson: « Il Vescovo di Roma è il legame della fraternità episcopale che realizza l’unità di fede e di amore della Chiesa. Egli presiede, lui e la sua chiesa – perché è un tutt’uno del Vescovo con la sua Chiesa – nella carità universale, ed è da questo ruolo che derivano tutti i suoi privilegi, specialmente quello dell’infallibilità che, solo, permette alla successione episcopale di Roma di svolgere il suo ruolo e di essere, nelle parole di Sant’Ireneo, la manifestazione più piena dell’unità e dell’identità della fede vivificante che è stata conservata nella Chiesa fin dagli apostoli e trasmessa con verità » (COLSON, loc. cit. p. 205. 1).  La parola infallibilità è stata appena pronunciata. Le Encicliche avrebbero un titolo per rivendicarne il beneficio? Questa è proprio la domanda che era posta all’inizio del nostro studio. Questo studio può averci fornito alcuni degli elementi necessari per abbozzare una risposta. Sarebbe ora avventato tentare una conclusione?

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (3)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO – S. S. PIO VI “NOVÆ HÆ LITTERÆ”

Questa lettera Enciclica è un accorata condanna delle ingiurie che Vescovi  e prelati francesi, apostati ed usurpanti, perpetravano ai danni della Chiesa di Cristo, dei canoni ecclesiastici, nonché delle disposizioni della Santa Sede. « … In tutta la terra non s’è mai udito nulla di simile; ora tutta la Chiesa è stata offesa, il Santuario è trattato ignominiosamente e, quel ch’è peggio, la pietà patisce persecuzione dall’empietà… Infatti, se un solo membro soffre, tutte le altre parti si dolgono insieme con lui“, (S. Atanasio) … con quanto maggior diritto Noi, di fronte all’improvvisa occupazione di quasi tutte le Chiese di fiorentissimo Regno, siamo costretti ad esclamare che nulla mai di simile è accaduto alla Chiesa di Dio! – E cosa dobbiamo mai dire oggi, se non che ancora una volta, nulla di simile è mai accaduto nella Chiesa di Cristo, dalla quale è stato cacciato il legittimo Sommo Pontefice in un Conclave manipolato e mistificato, sostituito da burattini cabalisti i cui fili sono mossi da burattinai al servizio del demonio, autore infame di una falsa chiesa, anzi di una vera e propria antichiesa, invasa da finti prelati del c. d. novus ordo e dagli ancor più eretici e scismatici pseudotradizionalisti privi di giurisdizione mai ricevuta da nessuno, ancor meno dal vero Pontefice, anzi in antitesi netta e autori di orribili bestemmie verso il Vicario di Cristo, il Cristo stesso, e quindi verso la Maestà del Dio uno e trino. – Poi il Santo Padre continua ancora citando le parole di un antico Sinodo romano che compendiano bene il suo pensiero e che oggi ancor più sono vere nell’appropriazioni indebite di false giurisdizioni mai conferite (pensiamo alle marionette lefebvriane, ai ridicoli sedevacantisti e ai cani sciolti apolidi e senza regole canoniche, o meglio sciacalli sciolti) … « Se qualcuno avrà invaso scientemente i confini altruisarà giudicato reo di violenza. Perché si corre? Perché ci si affretta a conculcare le regole della Chiesa? Le leggi umane vengono rispettate ed i precetti divini sono disprezzati; si temono la spada presente e la pena temporale, e si trascura la punizione divina, che ha le fiamme eterne della Geenna. Vedrete a cosa avrà portato la presunzione: perciò se qualcuno avrà osato fare Ordinazioni in una Diocesi altrui e vorrà sostenerle, sappia che vacilla dal suo stato proprio colui che avrà invaso la Chiesa non sua. Qui non si tratta di affari civili; queste non sono promozioni mondane“. Attenti quindi, a tutti i ladri e briganti che non entrano dalla porta della Chiesa (cioè la giurisdizione affidata dal Pontefice e la missione canonica di un Vescovo in unione con il vero Papa Gregorio XVIII … il fuoco della geenna aspetta essi ed i loro fedeli scientemente o meno, ingannati da una falsa pietà e da un’iniqua apparenza di santità…

Pio VI

Novæ hæ litteræ

1. Questa nuova lettera che vi indirizziamo vi renderà testimonianza di quanto il Nostro animo da una parte gioisca e dall’altra sia rattristato per il diverso esito delle Nostre ammonizioni, contenute nella lettera emanata il 13 aprile dell’anno scorso; per altro, quali fossero queste ammonizioni, vi è ben noto, così come non l’ignora alcun Vescovo del mondo cattolico. Per quanto concerne la gioia, Voi per primi, diletti Figli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa, e Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, Ce ne date abbondantissimo motivo. Confermati infatti dalle Nostre paterne voci, sempre più avete fatto risplendere la lodevole vostra costanza; alcuni fra voi, tollerando con animo invitto l’esilio fuori dalle vostre chiese e fuori dallo stesso regno; altri schiavizzati nelle stesse chiese dalle ingiurie e dalle persecuzioni degli avversari; altri ancora sopportando persino lo squallore del carcere, come in particolare abbiamo capito dalla tua lettera essere toccato a Te, venerabile fratello Vescovo di Senez, degno perciò del maggiore elogio. Quasi tutti (se si eccettuano quattro infelicissimi pastori) sia presenti, sia assenti, si sono impegnati al massimo per diffondere la Nostra lettera, affinché i fedeli di tutte le Diocesi si attenessero alle nostre ammonizioni.

2. Perciò, Noi, assieme a San Leone, “ringraziamo Dio e speriamo fortemente di esultare in futuro, dacché abbiamo riscontrato che la Fraternità Cattolica è arricchita da un tale spirito di Fede che nessuna tentazione eretica potrà indebolire in alcun modo i vostri cuori… Sebbene dunque grandi spazi fisici Ci dividano, siamo tuttavia uniti con voi nella Fede…, e rendiamo grazie per la concordia della vostra professione: purché la vostra concordia perseveri, con l’aiuto di Dio, secondo le parole dell’Apostolo: “A voi è stato fatto dono della grazia in nome di Cristo, non soltanto perché crediate in Lui, ma anche perché soffriate nel Suo nome” Le vostre pene sono anche le Nostre. “Soffriamo infatti – come dicevano i Padri di Sardica al tempo della persecuzione Ariana – con i nostri fratelli che soffrono, e facciamo nostri i loro patimenti, ed abbiamo mischiato le nostre lacrime con le vostre.

3. Anche voi avete consolato il Nostro animo, diletti figli Canonici e Parroci degni di singolare lode, e voi professori universitari, in particolare della Sorbona, eminenti per sapienza e rigorosi per comportamento in questa delicata vicissitudine della Religione; voi, Rettori dei Seminari, Ecclesiastici di qualunque altro genere, Vergini consacrate ed anche Laici, che – attenendovi alle Nostre esortazioni – vi siete mantenuti costanti nella Fede ed avete fatto fronte ai vostri doveri in modo tale che, sull’esempio dei vostri Pastori, molti di voi hanno affrontato con grande virtù ingiurie, esilio, carcere ed altre vessazioni. Non pochi infatti, tra il clero dello stesso vostro secondo Ordine, deputati all’Assemblea nazionale francese, uomini egregi e famosi per la loro cultura e l’impegno in difesa della buona causa, si sono onorati di far presenti a Noi i sensi della loro costanza, del loro ossequio e della loro osservanza, a mezzo di lettere mandateci sei mesi fa; lo stesso fecero altri Ecclesiastici del secondo Ordine, insieme al venerabile fratello Francesco, Vescovo di Clairmont, con una lettera inviataci il 22 gennaio; altri ancora il 17 febbraio di quest’anno. Perciò in questa sede li ricordiamo e li lodiamo.

4. Maggior consolazione Ci avete arrecato voi, diletti figli del secondo Ordine Ecclesiastico, che – appena uditi il Nostro parere e le Nostre ammonizioni – avete imitato l’illustre esempio di alcuni antichi Vescovi della Gallia. Quelli infatti, dopo aver approvato insieme con i Vescovi orientali l’erronea formula del Concilio di Rimini, rendendosi conto che la loro semplicità era stata ingannata, ritrattarono tutto ciò che per ignoranza avevano approvato, respingendo quei sacerdoti apostati che, per ignoranza o empietà di alcuni, erano stati collocati al posto di fratelli indegnamente mandati in esilio; così anche voi solleciti disdiceste quell’empio giuramento che vi era stato estorto con la paura, con l’ignoranza, con l’inganno, detestando gli errori contenuti nel giuramento, allontanandovi da quegli intrusi e ricongiungendovi infine per vostra volontà ai legittimi pastori dai quali vi eravate allontanati. Le ritrattazioni di tal fatta furono talmente tante che ogni giorno ne recava delle nuove; di conseguenza, coloro che – completamente accecati – preferirono restare nell’errore, sono rimasti gravemente disonorati presso tutti gli Ordini e sono decaduti dalla stima anche di coloro che li avevano spinti sulla strada dell’apostasia, come Ci è stato riferito da molti Vescovi.

5. Perciò non è da stupirsi se il Nostro gaudio sarà, grazie a voi, tanto più grande e comune a tutta la Chiesa; per cui riteniamo che sia da seguire con voi la stessa benevola condotta che San Leone adottò con alcuni Vescovi orientali che avevano avuto parte nella cacciata di San Flaviano dalla sede di Costantinopoli. Così infatti egli scrisse ad Anatolio, Vescovo di Costantinopoli: “Quanto poi a quei fratelli che abbiamo saputo essere desiderosi della comunione con Noi, poiché si pentono di non essere rimasti saldi contro il potere e il terrore e di avere offerto consenso all’altrui scelleratezza; dal momento che la paura li aveva così ottenebrati da farli partecipare con trepido ossequio alla condanna di un Vescovo cattolico innocente ed all’accoglimento di orribili malvagità, vogliamo che costoro si rallegrino della comunione e della pace con Noi ogni volta che condannano in piena consapevolezza le malvage azioni e preferiscono accusarsi piuttosto che difendersi. E la Nostra benignità non può in alcun modo essere condannata, poiché accogliamo penitenti coloro che ci dispiacque veder ingannati“.

6. Ci consola ancora la notizia che l’intruso di Roven abbia lasciato la sede che aveva occupato e che altri intrusi abbiano preso la fuga. Ascoltando dunque queste notizie abbiamo considerato quel che di buono deriva dalla loro abdicazione e dalla loro fuga. Infatti, abdicazioni e fughe di questo tipo danno chiaramente ai Fedeli la misura di come gli intrusi si rendessero conto del disonore intrapreso e da quali stimoli di coscienza fossero animati allorché – sotto maschera dell’episcopato – più di tutti gli altri alimentavano e fomentavano lo scisma. D’altra parte la Nostra gioia in questa circostanza non può essere completa. Non ci sfugge infatti che l’intruso di Roven, proprio nel momento in cui abdica l’incarico, anziché ritrattare il sacramento e detestare l’errore, ha nuovamente esibito la propria pervicacia; ed anche gli altri che hanno preso la fuga hanno dato prove non equivoche della loro pertinacia, cosicché si rende necessario che tanto questi – quanto altri che imitassero il loro esempio – rendano piena soddisfazione alla Chiesa. Diversamente non potranno giovarsi della comunione né con Noi né con la Chiesa, poiché “tale grazia non deve essere né rigidamente negata né sconsideratamente elargita“, come insegna San Leone.

7. Fin qui per quanto riguarda la gioia. Ora parliamo del dolore. Ci addolora infatti profondamente che molti membri del secondo Ordine Ecclesiastico ed una gran parte dei Laici, nonostante le Nostre ammonizioni, si siano tuttavia confermati nell’errore. Ma Ci addolora ancora di più che nello stesso errore abbiano perseverato sia il Vescovo di Autun, principale causa dello scisma, sia l’Arcivescovo di Sens e i Vescovi di Viviers e d’Orléans, i quali, essendo legittimi pastori, non potevano assolutamente ignorare né i doveri né i ruoli del ministero, né la gravità delle offese che recavano a tutto il corpo della Chiesa francese, senza contare che in virtù del loro titolo erano vincolati più strettamente ad ottemperare alle Nostre disposizioni. Inoltre richiamavano su di sé e facevano proprie le colpe dei Popoli loro soggetti. In effetti, perché ai pastori siano attribuiti i peccati degli inferiori, basta soltanto la negligenza, come insegna, San Leone, “dal momento che le colpe degli ordini inferiori a nessuno sono da imputare meglio che ai Rettori trascurati e negligenti, che spesso nutrono la pestilenza che s’è insinuata, rinviando l’adozione della medicina necessaria“. Allo stesso modo, tanto più condannabili saranno quegli infelici Vescovi che, anziché porgere le mani salvifiche ai traviati dall’errore, col loro esempio hanno spinto al male anche i buoni.

8. In verità Ci duole profondissimamente la stessa espansione di questo scisma, per descrivere la quale non potranno mai essere trovate parole sufficientemente gravi. Mentre infatti, al tempo della Nostra prima lettera, non Ci risultavano che otto Vescovi sacrileghi consacrati ed empiamente intrusi in altrettante Chiese, poco dopo Ci giunse la terribile notizia che le mani erano state illecitamente imposte a così tanti che nel breve volgere di giorni quasi tutte le Chiese di codesto Regno erano state occupate da intrusi.

9. Se Sant’Atanasio per l’invasione di una sola Chiesa in Alessandria (quella che Giorgio aveva occupato sulla base dell’editto del Principe contro la disposizione dei Canoni Ecclesiastici) a buon diritto e giustamente proruppe in queste parole: “In tutta la terra non s’è mai udito nulla di simile; ora tutta la Chiesa è stata offesa, il Santuario è trattato ignominiosamente e, quel ch’è peggio, la pietà patisce persecuzione dall’empietà… Infatti, se un solo membro soffre, tutte le altre parti si dolgono insieme con lui“, con quanto maggior diritto Noi, di fronte all’improvvisa occupazione di quasi tutte le Chiese di fiorentissimo Regno, siamo costretti ad esclamare che nulla mai di simile è accaduto alla Chiesa di Dio!

10. Un antichissimo Sinodo romano, che i Vescovi francesi avevano consultato, oltre che su altri punti, anche sul fatto che parecchi Vescovi di altre Diocesi avevano precipitosamente invaso le loro, impartendovi Ordinazioni irregolari e svolgendovi altri atti contro la giurisdizione, rispose loro gravemente: “Se qualcuno avrà invaso scientemente i confini altruisarà giudicato reo di violenza. Perché si corre? Perché ci si affretta a conculcare le regole della Chiesa? Le leggi umane vengono rispettate ed i precetti divini sono disprezzati; si temono la spada presente e la pena temporale, e si trascura la punizione divina, che ha le fiamme eterne della Geenna. Vedrete a cosa avrà portato la presunzione: perciò se qualcuno avrà osato fare Ordinazioni in una Diocesi altrui e vorrà sostenerle, sappia che vacilla dal suo stato proprio colui che avrà invaso la Chiesa non sua. Qui non si tratta di affari civili; queste non sono promozioni mondane“. Se, come dicevamo, il predetto Sinodo condannò in tal modo quei Vescovi che avevano occupato soltanto parti delle Diocesi altrui, quanta maggior riprovazione meriteranno non soltanto tutti gli pseudo-vescovi (che, scelti contro le norme ed ordinati in modo sacrilego, hanno invaso – senza missione canonica – Sedi Episcopali che avevano i loro legittimi Pastori, occupando così per intero le Diocesi) ma anche quattro Pastori legittimi: tre di loro, conformandosi ai decreti dell’Assemblea Nazionale, occuparono una parte delle Diocesi altrui ed abbandonarono una parte delle loro; l’altro poi, consacrando per primo gli intrusi, con l’aiuto di due Vescovi assistenti, ha finito col diventare il “padre” degli pseudo-vescovi, dando motivo a che le altre Sedi fossero invase e, abbandonando la propria, consentendo l’avvento di un intruso.

11. Di sicuro non può accadere “che si compia con esito favorevole ciò che ha avuto un cattivo principio“. Sarebbe lungo e troppo triste riferire qui dello stato della Chiesa francese, sconvolta in ogni sua parte, e dei gravissimi danni che sono stati recati alla Religione dagli intrusi. Basti riflettere sul fatto che un regime profano e sacrilego ha sostituito quello sacro e legittimo. Infatti, costoro che si gloriano d’essere chiamati “Vescovi costituzionali” danno prova di capir bene che non sono “Vescovi cattolici“; perciò rifuggono dai sacri ministeri e ne allontanano anche coloro che, sulla base delle norme Ecclesiastiche, possono essere definiti i soli pastori legittimi, e lo sono. Quando essi si sono introdotti abusivamente nelle Sedi Episcopali, hanno inserito nel governo delle Parrocchie altri loro simili, che la Chiesa avversa e respinge, e che soltanto la Costituzione riconosce ed approva: gente che corrompe i Sacri Ordini e l’amministrazione dei Sacramenti e che, per dirla con poche parole, sottomette al potere temporale la Chiesa e la sua autorità di matrice divina; sostituisce alla verità l’errore; l’empietà alla pietà, secondo la schietta interpretazione della predetta Costituzione.

12. Poiché è sempre stato tipico degli eretici e degli scismatici servirsi della simulazione, così anche questi intrusi non hanno nulla di più tradizionale che indurre le genti in errore mediante l’inganno, mentre coprono quasi tutte le loro azioni con il manto della carità; proteggono e lodano le riforme costituzionali come se fossero su misura per la più antica e la più pura disciplina ecclesiastica; si vantano di esser in sincera comunione con la Chiesa e con questa Sede Apostolica. A questo soltanto mirano le lettere “nunciatorie” che, seguendo l’esempio dei primi intrusi, Ci hanno mandato anche altri in seguito; a questo mirano anche le “esortazioni” alle preghiere da recitare per la Nostra salute e la Nostra conservazione.

13. Ma questo stile di contestazione e di preghiera si riconosce derivato, chiaro come da un archetipo, dalle empie scuole degli scismatici e degli eretici. Infatti, leggiamo che Fozio scrisse al Santo Pontefice Niccolò, Lutero a Leone X, Pietro Paolo Vergerio il giovane a Giulio III; e tutti, mentre fingevano obbedienza e sintonia con la Sede Apostolica, si lamentavano della malvagità con la quale era giudicata la loro dottrina, insultavano contemporaneamente la Santa Sede e disseminavano i loro cattivi errori.

14. Così anche gli odierni Vescovi intrusi hanno di recente pubblicato un’opera nella quale hanno raccolto tutti i pensieri erronei, scismatici ed eretici, spesso contestati e rifiutati, dei quali sono pieni parecchie loro Lettere Pastorali ed alcuni libelli, non senza grave offesa alla storia della Chiesa. A quest’opera hanno premesso l’insidioso titolo “Accord de vrais principes de l’Eglise, de la morale et de la raison, sur la Constitution Civile du Clergé de France par les Evêques des départements membres de l’Assemblée Nationale Constituant. A Paris 1791“, aggiungendo alla fine di quest’opera iniqua, per meglio ingannare il popolo, una falsa lettera, presentata come se fosse stata a Noi spedita. Ma, per istruzione dei buoni e per consolidare la loro perseveranza, non smetteremo di render noto il pestilenziale veleno che emana da ogni parte di quell’opera indegna.

15. Frattanto non possiamo tacere il doppio inganno, uno peggiore dell’altro, che i Vescovi intrusi divulgano imperterriti per distogliere il popolo dall’obbedienza dovuta ai Nostri Ammonimenti Apostolici. Il primo inganno concerne la negata autenticità delle Nostre lettere; non c’è nessun commento più congruo se non che ciò si attaglia perfettamente alla fonte dalla quale proviene. Con quale buona fede, infatti, si può dubitare della verità delle Nostre lettere, che, firmate di Nostro pugno, sono state mandate ai Metropolitani francesi e che, per Nostro ordine, furono edite presso la Stamperia Romana e fatte circolare non soltanto nel Regno di Francia ma in tutte le parti del mondo cattolico, così come accadrà anche per questa Nostra? Come dunque può essere definito apocrifo quel documento che è Nostro, che deriva unicamente da Noi, che è stato divulgato con tanta solennità da non lasciare spazio ad alcun dubbio; che, in definitiva, è tale che con poca fatica chiunque può distinguerlo dagli altri documenti, falsi e corrotti, che i Refrattari fecero circolare fra il popolo a Nostro nome, con somma audacia e manifesta calunnia, per procurare approvazione alla Costituzione Civile del Clero, che Noi avevamo rifiutato sin dall’inizio con sommo orrore?

16. L’altro fraudolento, raggirante inganno degl’Intrusi riguarda la mancanza di una certa forma “civile” nella pubblicazione delle Nostre lettere. Infatti essi certamente non ignorano, e a nessun altro può sfuggire, che allo stato attuale delle cose in Francia una forma di questo tipo non poteva essere adottata; cosicché coloro che utilizzano tale forma null’altro hanno in mente se non facilitare la crescita impunita dello scisma e dell’intrusione. Non sfugge infatti che questa forma “civile” non è necessaria, soprattutto quando si tratta di “causa maggiore“, che compete a Noi e che è stata resa nota attraverso i Vescovi. Proprio questo tutti i Cattolici riconoscono, e Valentiniano Augusto affermò con chiare parole nella “Novella” che segue la lettera di San Leone Magno ai Vescovi della provincia viennese: “Questa stessa sentenza [di San Leone] avrebbe dovuto aver valore in Francia anche senza la sanzione imperiale. Che cosa infatti non dovrebbe essere consentito nelle Chiese all’autorità di un Pontefice tanto grande?“. Lo stesso clero francese lo riconobbe quando si trattò di divulgare le lettere encicliche del Nostro predecessore Pio VI: “Non avete alcun bisogno dell’approvazione regia per divulgare come Regola la risposta della Santa Sede Apostolica su un tema esclusivamente spirituale“.

17. Quel che abbiamo detto fin qui sul lacrimevole stato dello scisma, al quale gli Intrusi si dedicano in modo ammirevole, è percepibile da chiunque lo esamini attentamente; perciò a buon diritto possiamo esclamare con Sant’Atanasio: “Non avete ancora capito che il Cristianesimo viene distrutto e che il Demonio, cerca, con l’inganno e sotto altre fattezze, di sconfiggere la Chiesa?“.

18. In tanto grave perturbazione delle vicende della Chiesa francese ed in altrettanta gravità e notorietà del crimine, Noi avremmo potuto fin da ora procedere contro i contumaci, con la comminata pena della scomunica, dal momento che per oltre undici mesi dal giorno dei Nostri Ammonimenti, da parte loro non giunse alcun segno di pentimento. Nondimeno, poiché abbiamo visto che il Nostro Ammonimento ha avuto esito non inutile presso molti, e avendo ritenuto di dover aspettare un certo tempo perché anche altri si adeguassero; tenendo soprattutto presente la grande bontà di Dio, il quale tollera i peccatori con molta pazienza e non vuole portarli alla perdizione, ma indurli alla penitenza; dopo aver ascoltato il parere di una scelta Congregazione dei venerabili Nostri fratelli, i Cardinali di Santa Romana Chiesa, riunitasi davanti a Noi il 19 gennaio di quest’anno, abbiamo ritenuto di dover agire fin qui con benignità nei confronti dei contumaci, per vedere se ritornino in sé e si rivolgano a Dio. Infatti non ci siamo ancora spogliati della misericordia paterna nei loro confronti ed in un certo senso, “come una madre non può dimenticarsi del suo bambino, per non dover avere pietà del figlio del suo ventre“, così la Santa Romana Chiesa non può dimenticarsi dei suoi figli, per quanto ribelli ed ostinati, e nei loro confronti è mossa più da pietà che da rabbia. Per questo motivo Noi, non senza gran pianto e lamento, temendo la frammentazione delle Nostre viscere, Ci asteniamo per ora dal comminare la sentenza di scomunica, accettando anche di differire più oltre la pena, affinché possa aver luogo il pentimento. Rimane tuttavia confermata la pena di sospensione inflitta con la Nostra lettera del 13 aprile.

19. Perciò abbiamo deciso di presentare questa nuova e perentoria Ammonizione, da valere anche come seconda e come terza, in base alla quale, contando sessanta giorni dalla data di questa Lettera per la seconda, ed altri successivi sessanta per la terza, disponiamo quanto segue:

20. Per primi ammoniamo, come è giusto, sollecitandoli al doveroso pentimento, i sacrileghi consacratori dei Vescovi intrusi e gli assistenti (Carlo Maurizio Vescovo di Autun; Giovanni Battista Vescovo di Babilonia e Giovanni Giuseppe Vescovo di Lidda), i quali in certo modo sono gli autori del funestissimo scisma, poiché con le prime azioni che osarono compiere, cioè le consacrazioni degli pseudo-Vescovi, precedettero tutti gli altri nell’atrocità del crimine.

21. Ammoniamo inoltre tutti gli pseudo-Vescovi intrusi che, senza elezione, ordinazione o missione legittima, hanno invaso le Sedi Episcopali – sia quelle antiche, sia quelle di recente ed illegittima costituzione – la maggior parte delle quali era retta dai legittimi Presuli, mentre quelle che erano vacanti erano rette dai Vicari capitolari, secondo le leggi prescritte dal Concilio di Trento.

22. Ammoniamo anche l’Arcivescovo di Sens, il Vescovo di Orléans, il Vescovo di Viviers e Pier Francesco Martello, coadiutore dell’Arcivescovo di Sens. Di costoro, i primi tre, quantunque abbiano ricevuto correttamente il vescovado, hanno tuttavia osato invadere parti di altre Diocesi e rinunciare a porzioni delle proprie, attenendosi ai decreti dell’Assemblea nazionale; tutti, poi, allo stesso modo dei Vescovi consacratori, degli assistenti e di tutti i Vescovi intrusi, non si sono vergognati di sottomettersi alla Costituzione civile del clero, prestando puramente e semplicemente quel giuramento civico che Noi avevamo definito “fonte ed origine di tutti gli avvelenati errori” nella Nostra lettera del 13 aprile.

23. Ammoniamo i Parroci e coloro che con qualunque nome esercitano in titolo la cura delle anime, i quali, oltre ad imbrattarsi con quel giuramento sacrilego, hanno invaso intere Parrocchie, sia vecchie sia di recente ed illegittima istituzione, oppure ne hanno invaso delle parti, per istituzione ricevuta (per altro senza valore) dai Vescovi intrusi o dall’Arcivescovo di Sens o dai Vescovi d’Orléans e di Viviers (legittimi, in verità, ma legati col giuramento civico) che hanno operato al di fuori dei confini delle rispettive Diocesi, anche se alcuni di loro in precedenza avevano correttamente ricevuta l’investitura delle Parrocchie.

24. Infine ammoniamo anche tutti i Vicari e gli altri Preti, con qualunque nome chiamati, delegati all’esercizio della giurisdizione ed allo svolgimento degl’incarichi ecclesiastici dai Vescovi intrusi, i quali non possono trasferire ad altri un diritto che essi stessi non possiedono.

25. Avendo tutti così ammoniti, se a Noi non risulterà che, nell’arco di tempo precedentemente assegnato, ciascuno abbia fatto, in favore della Chiesa, la penitenza dovuta per i suoi peccati, allora certamente “ci addoloreremo, ci rattristeremo, piangeremo e ci sentiremo le viscere lacerate, come se fossimo spogliati delle nostre stesse membra“; tuttavia non Ci dorremo in modo da non procedere, in una vicenda così grave, secondo la gravità dei delitti, la moltitudine dei delinquenti e la pericolosità del contagio, da non comportarci come richiedono il ministero apostolico e le norme canoniche, scagliando cioè la sentenza di scomunica, notificandola pubblicamente ed indicando costoro come allontanati dalla comunione con la Chiesa, da considerarsi scismatici pervicaci e perciò da evitare.

26. Ancor oggi Noi rivolgiamo quest’ultima ammonizione canonica, piena di sollecitudine paterna e di moderazione, ai Vescovi consacratori, agli Assistenti, ai Vescovi intrusi ed ai loro Vicari, ai Vescovi che han prestato giuramento, ai Parroci parimenti intrusi; ai Vicari ed ai Sacerdoti delegati o approvati dai Vescovi intrusi; dal momento che il loro crimine è di gran lunga più grave e pericoloso, sia per la natura stessa del peccato, sia per la dignità ed autorevolezza della persona che lo compie; fattori, entrambi, che contribuiscono moltissimo a corrompere gli altri, insieme con l’esempio e l’uso della giurisdizione usurpata. Nondimeno vogliamo che si considerino ammoniti anche gli altri: gli autori e i fautori della Costituzione pubblicata, tutti quelli che hanno giurato, specialmente gli Ecclesiastici e soprattutto i Parroci, i Superiori ed i Rettori dei Seminari, i Professori ed i Presidi di Università e Collegi, perché non pensino di schivare a suo tempo analoga pena, se persisteranno ostinati e contumaci nel loro delitto.

27. Mentre diciamo queste cose, mentre Ci affidiamo a queste minacce, chiamiamo Dio a testimone di quanto non vorremmo esser costretti ad usare queste armi spirituali, se potessimo farne a meno. Con animo ben disposto abbiamo sempre dato spazio alla moderazione e alla misericordia, facendo ricorso alla severità malvolentieri e soltanto se costretti dalla necessità. Proprio per questo ancora una volta e con il massimo vigore, nel nome delle viscere di Gesù Cristo, preghiamo coloro che in qualunque modo hanno avuto parte in questo scisma, ed in particolare i sacri Ministri, e li scongiuriamo affinché riflettano su quanto sia indegno, perverso e miserrimo, per i Fedeli, specialmente Ecclesiastici, favorire ed assecondare questo scisma pestilenziale; esso è nato per l’iniquo consiglio dei filosofi innovatori che costituivano la maggior parte dell’Assemblea Nazionale, e si sarebbe quasi estinto sul nascere se i Fedeli e gli Ecclesiastici l’avessero contrastato. Inorridiscano dunque meditando quanto l’attesa d’un terribile giudizio, simile ad un fuoco, consumerà coloro per colpa dei quali lo scisma (che col loro ravvedimento potrebbe cessare) perdura ancora e si espande e cresce nelle fiorentissime regioni francesi.

28. Mancano forse famosi “eccitamenti dei francesi” per ritrattare il giuramento civico? Eppure è noto che molti fra i più illustri intellettuali francesi si dimostrarono docili nel detestare gli errori precedentemente propugnati. Infatti, già all’inizio del V secolo il monaco Leporio pubblicò la ritrattazione dei suoi errori, che fu letta nel quinto Sinodo africano e fu inviata ai Vescovi francesi; il sacerdote Lucidio ne indirizzò un’altra al Sinodo di Arles; non diversamente si comportò Giovanni Gerson, che formulò la sua ritrattazione basandosi sugli insegnamenti dei libri di San Bonaventura. A questi sono seguiti Pietro de Marca e Francesco Fénelon, Arcivescovo di Cambrai, meritevole del più elogiativo ricordo, e molti altri scrittori francesi, al cospetto dei quali chi potrà arrossire e ancora ostinatamente rifiutare di imitarli, loro che seppero trasformare il loro errore in gloria e vanto singolari? Una convinta speranza ci induce a ritenere che la mano di Dio non si arresterà sopra gli intrusi e gli scismatici; che i loro animi traviati saranno richiamati sulla via della salvezza, e, sollecitati dagli esempi di antenati così famosi, con la ritrattazione dell’empio giuramento condanneranno le consacrazioni sacrileghe, rinunceranno agli incarichi sacerdotali precedentemente occupati e riconosceranno i legittimi pastori.

29. Voi intanto, Venerabili Fratelli, che – udito l’ultimo ammonimento di questa Nostra lettera – Ci pare di vedere agitati e tremanti per la salvezza del Vostro gregge e Ci par di udire esclamare con San Paolo “Chi di voi cadrà infermo, senza che questo indebolisca anche me? Chi sarà scandalizzato senza che anch’io mi senta avvampare?“; Voi, dicevamo, mentre renderete pubblica questa Nostra lettera, aggiungete le vostre alla Nostra preoccupazione, levando preghiere più fervide a Dio Ottimo e Massimo, ripetendo le esortazioni ed i vostri consigli, affinché – in tanta crudezza dei tempi ed in tanta confusione degli animi – possiate consolidare la fermezza dei fedeli che sono rimasti tali e recare aiuto alla debolezza di coloro che sono caduti. Ma soprattutto mettete sotto gli occhi di coloro che sono caduti che niente servirà tanto alla loro salvezza eterna, niente alla loro vera gloria, niente alla gioia dell’intera Chiesa, niente sarà così gradito quanto questo sacrificio di obbedienza, al quale li invitiamo, li preghiamo, li scongiuriamo per le viscere del nostro Dio e per l’avvento del Signore Nostro Gesù Cristo. Facendo queste cose, continuerete ad essere quel che già siete, cioè “buoni ministri di Gesù Cristo, cresciuti nelle parole della Fede e della corretta dottrina che avete sempre seguito“.

30. Voi pure, diletti Figli Canonici di rispettabili Capitoli, Parroci, Sacerdoti, altri ministri del clero francese, infine, Fedeli tutti abitanti nel Regno francese, che vi siete distinti dagli altri per la costanza e l’impegno religioso, unite le vostre preghiere alle Nostre ed a quelle dei vostri Pastori, ed implorate nella cenere, nell’orazione, nel digiuno, “Perdona, o Dio, il Tuo popolo“. Poiché Dio è buono e misericordioso, quando vedrà il pianto dei Sacerdoti e dei cittadini, di certo sarà compassionevole ed avrà pietà. Perciò sopportate con pazienza gli infortuni che vi sono capitati e che forse ancora vi accadranno, “fintanto che la destra di Dio onnipotente distruggerà tutte le armi del demonio, al quale perciò si permette di tentare arditamente qualcosa, perché poi sia sconfitto con maggior gloria dei fedeli di Cristo; poiché dove la verità è maestra non vengono mai meno, fratelli carissimi, i conforti divini“.

31. Soprattutto vi raccomandiamo e v’ingiungiamo di mantenervi sempre strettamente a contatto con i vostri Pastori, affinché non comunichiate in alcun modo, e men che meno nelle cose divine, con gli intrusi ed i refrattari, con qualunque nome vengano chiamati; allo stesso modo guardatevi dallo scellerato opuscolo di cui si diceva prima, il capzioso “Accord des vrais principes“, dalle lettere pastorali e “nunciatorie“e da qualunque genere di scritto diffuso od in via di diffusione da parte di coloro che, mentre difendono la Costituzione civile del clero, in realtà danno vigore allo scisma. Allo stesso modo che nelle Nostre precedenti lettere già avevamo contestato e condannato tale Costituzione, così ancora con questa Lettera riproviamo, rigettiamo e condanniamo la predetta opera, le lettere pastorali e “nunciatorie” e tutti gli altri scritti, sulla base del supremo ufficio Apostolico del quale siamo rivestiti.

32. Nell’immensità della Sua benevolenza, Dio voglia dar forza alle Nostre cure pastorali, affinché coloro che fra voi sono rimasti fedeli si rafforzino, e coloro che sono caduti si rialzino. Questo chiediamo a Dio, implorandolo ed inginocchiandoci – per usare le parole dell’apostolo Paolo agli Efesini – davanti al Padre Signore nostro Gesù Cristo “affinché vi conceda di fortificarvi nella virtù secondo le ricchezze della sua gloria, per mezzo del suo spirito che scende nel cuore dell’uomo, e di fare abitare Gesù Cristo nei vostri cuori, radicati e consolidati nella caritàCome pegno di questi doni celesti, diletti Figli, Venerabili Fratelli e diletti Figli, Noi vi impartiamo dal più profondo del cuore, paternamente e con amore, la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 marzo 1792, anno diciottesimo del Nostro Pontificato.

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (1)

Dom PAUL NAU

Monaco di Solesmes

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE

Saggio sull’autorità del loro insegnamento

Les Editions du Cèdre 13, Rue Mazarine

PARIS

NIHIL OBSTAT Solesmis, die 24 Apr. 1952.Fr. Georgius FRENAUD, m. b. Cens. dep.

IMPRIMI POTEST Solesmis, die 25 Apr. 1952. t Fr. Germanus COZIEN, Abbas S. Petri de Solesmis.

IMPRIMATUR. die 24 Aug. 1952. t GEORGIUS Archiep. Episc. Cenomanensis.

L’enciclica Humani generis ha recentemente scoperto che il punto di partenza delle deviazioni dottrinali che essa è venuta a correggere è stata la mancanza di attenzione all’insegnamento enciclicale dei Pontefici. È stato proprio per risvegliare questa attenzione che sono stati scritti i tre articoli qui raccolti. Erano in procinto di essere pubblicati quando è apparsa la Lettera Pontificia, che confermò le loro conclusioni con la sua impareggiabile autorità. L’autore, nel rispondere alle richieste di ristamparle in forma di libretto, non ha avuto altro scopo che quello di aiutare le persone a comprendere meglio e più ampiamente la portata esatta delle encicliche, e quindi di introdurle ad una lettura più attenta di questi grandi documenti dell’insegnamento ordinario del Romano Pontefice.

I.  

I testi

Nel 1849, il Dictionnaire de Droit et de Jurisprudence civile et ecclésiastique dell’Encyclopédie Théologique, di Migne, dedica alle Encicliche solo questa infausta nota: « La parola Enciclica è nuova in Francia. Oggi questo nome viene dato alle Lettere Apostoliche che il Papa indirizza a tutti i Vescovi di un paese o a tutti i Vescovi dell’universo. La ricezione ufficiale e la pubblicazione di queste lettere è soggetta alle stesse formalità delle bolle, delle memorie o dei rescritti.  Dopo un secolo, non è solo il termine, ma le encicliche stesse che hanno acquisito il diritto di essere lette dai lettori francesi. Gli oratori e gli editori cattolici non sono i soli a contribuire alla loro pubblicità;  (Anche se ci si limita alla Francia, è impossibile citarli tutti. Conosciamo almeno i testi della Documentation catholique e la raccolta di Encicliche e Documenti Pontifici della “Lionne Presse”, così come le monografie pubblicate da “Spes” e le varie edizioni dell’Action catholique. La Cité Chrétienne, di Henri BRUN, e la sua continuazione L’Ordre et l’Amour il Catechismo di Leone XIII, di Padre CERCEAU, possono sempre essere consultati con profitto. Non è necessario richiamare l’attenzione sull’evidente importanza di questi testi e sull’importanza della fondazione all’Istituto Cattolico di Parigi di una cattedra destinata a far conoscere gli insegnamenti pontifici, compito al quale giornali come La France Catholique aprono ampiamente le loro colonne e che La Pensée Catholique ha inserito nella prima pagina del suo programma.). Esse hanno animato i dibattiti della Camera dei Deputati e persino quelli delle logge massoniche (è in seguito all’emozione suscitata al “Grande Oriente” dalla pubblicazione della Rerum Novarum che fu deciso di ridurre la quota d’iscrizione, fino ad allora molto elevata, esatta dai membri di questa obbedienza e che ne impedivano l’entrata ai meno fortunati); solo recentemente la Revue des deux Mondes ha dedicato loro un articolo (Jean DE SAINT-CHAMANT, Les Encycliques et le marxisme, Revue des deux Mondes du 1e r agosto 1948.) e sull’una o sull’altra delle loro collezioni si possono leggere nomi così indipendenti come quello di Dalloz o così insospettabili di favoritismi religiosi come quello di Rieder (Encycliques et messages sociaux, textes choisis et préface par Henri GUITTON, Dalloz, 1948 ; Les textes pontificaux sur la Démocratie et ta société moderne, les éditions Rieder, 1928.). Ma se le Encicliche sono molto discusse, la loro vera natura è generalmente meno conosciuta, e gli stessi teologi talvolta esitano sull’esatta portata della loro autorità dottrinale. Più di quindici anni prima della data in cui l’Enciclopedia del Migne descriveva questo termine come una “parola nuova, un’Enciclica, Mirari vos, aveva già condannato le dottrine de l’Avenir, e Lamennais, preludendo alla sua rottura definitiva, si rifugiò in distinzioni tendenziose: « Il nostro amico di Coriolis – scrisse a Vitrolles – aveva ragione di dirvi che non ero minimamente scosso nelle mie opinioni, che non ne abbandonavo nessuna e che, al contrario, vi ero più attaccato che mai. La lettera del Papa, che non ha carattere dogmatico, che è… solo un atto di governo, potrebbe benissimo impormi momentaneamente l’inazione ma non una fede… (Lettera del 15 novembre 1832 a Vitrolles, citata da Paul Du DON, Lamennais et le Saint-Siège, Paris, 1911, p. 220.).  – Nel 1864, la pubblicazione dell’enciclica Quanta Cura e il Sillabo ad essa allegato risvegliarono la disputa. La definizione dell’infallibilità papale da parte del Concilio Vaticano avrebbe dovuto, a quanto pare, porvi fine; ha semplicemente chiarito il punto in discussione. Il Concilio aveva affermato che il Romano Pontefice è infallibile quando, parlando ex cathedra, definisce un punto di dottrina. Era questo il caso delle Encicliche? Potrebbero essere considerati come atti pronunciati ex cathedra, come giudizi o definizioni della dottrina rivelata? Non è necessario ripetere qui i dettagli delle discussioni che si tennero sull’Ami du Clergé, sugli Etudes, sulla Revue Thomiste (Ami du Clergé, 1903, p. 801 ss., 1907, p. 91 ss, 1908, p. 193 ss e 530 ss; Revue thomiste, 1904, p. 513 ss.; Etudes religieuses, 5 agosto 1907, 5 gennaio 1908), da parte di teologi come Mons. Perriot, P. Pègues, O. P. e P. Choupin, S. J. Quest’ultimo le ha riassunte in un’opera (Lucien CHOUPIN, S. J., Valore delle decisioni dottrinali e disciplinari della Santa-Sede, terza edizione, Parigi, 1929), che è ormai un’autorità e che permetterà a chi lo desidera di riferirsi facilmente ai punti concreti del dibattito. Ci basterà qui riassumerne le conclusioni. Le due parti si accordarono facilmente per negare alle encicliche il carattere di definizioni ex cathedra. Ma mentre questi documenti perdevano per sé stesse, agli occhi dei padri Choupin e Pègues, il privilegio dell’infallibilità, l’editore dell’Ami du Clergé, basandosi su un testo del cardinale Billot, rifiutò di accettare quest’ultima conclusione e continuò a riconoscerne degli atti infallibili. La controversia da allora sembra aver fatto pochi progressi. L’articolo “Enciclica” nel Dictionnaire de Théologie catholique, firmato da M. Mangenot, coincide, almeno in gran parte (… le Encicliche “non costituiscono definizioni ex cathedra, di autorità infallibile. Il Sommo Pontefice potrebbe però, se volesse, fare definizioni solenni nelle encicliche…), con la tesi di P. Choupin, cui si può paragonare il capitolo molto meno sfumato di P. J. Villain, S.J., in Les études: du prêtre d’aujourd’hui (Lo studio delle encicliche, di R. P. J. VILLAIN S. J., in Les études du prêtre d’aujourd’hui, pubblicato dall’ “Union Apostolique“, con una prefazione del cardinale Suhard, Parigi, 1945. Si può anche leggere nello stesso senso: A. CHAVAS, SB” La vera concezione dell’infallibilità pontificale, in Eglise et Unité, Lille, 1948). D’altra parte, il P. Riquet, S.J., in Tu es Petrus (Il Papa, erede dei poteri di Pietro, di R. P. Michel RIQUET S. J., in Tu es Petrus, encyclopédie populaire sur la Papauté, Paris, 1944, p. 56.) sembra mantenere la posizione precedentemente difesa dall’Amico e che pone le Encicliche tra gli atti della Santa Sede, che, senza essere definizioni, sono tuttavia documenti infallibili. Queste divergenze, appena escono dal dominio della pura speculazione teologica, rischiano purtroppo di degenerare in liti di tendenze. J.-M. Vacant lo sottolineava dal 1895, nei suoi Studi Teologici sulle Costituzioni del Concilio Vaticano. Di fronte ad eretici, razionalisti e infedeli, i difensori della verità si sono… sempre, ma oggi più che mai, lasciati dominare da due preoccupazioni diverse, che li hanno fatti camminare in due direzioni opposte. Alcuni cercano soprattutto di proteggere i fedeli dalle seduzioni dell’errore e di salvaguardare l’integrità della fede; perciò, moltiplicherebbero volentieri i punti che la Chiesa ha condannato. Altri sono profondamente preoccupati dal desiderio di attirare alla dottrina cattolica coloro che la rifiutano; così, per una tendenza contraria, vorrebbero eliminare tutti i punti che i miscredenti trovano difficili da ammettere e ridurre i dogmi ad una sorta di minimo. (Etudes théologiques sur les Constitutions du concile du Vatican, par J. M. A. VACANT, Paris-Lyon 1895, tome II, p. 116, n° 650). Più recentemente H. P. J. Villain, nell’opera già citata, ha indicato a sua volta, come ancora attuali, di cui l’esperienza ha dimostrato non essere chimerica, quello di un rigorismo… che rende talvolta odiosa la dottrina, e quello di un laicismo che permette di vedere nelle encicliche solo documenti di nessun valore pratico, dichiarazioni platoniche, semplici dissertazioni del Sovrano Pontefice che non vi attribuirebbe lui stesso grande importanza (Loc. cit.,p. 191).  Nel corso di una discussione, si fa talvolta riferimento a un testo pontificio e la risposta, senza ulteriore qualificazione, è: “È solo un’Enciclica”. Queste discussioni possono continuare senza una soluzione, con grande danno per l’unità di vedute dei Cattolici, finché rimarranno intaccate da un difetto di metodo. Una dottrina può essere vera, anche sovranamente opportuna, senza che il documento che la richiama sia dotato del carisma dell’infallibilità. Al contrario, una verità, anche se proviene da un documento autenticamente e inequivocabilmente infallibile, è improbabile che trovi un pubblico facile tra coloro la cui mentalità è destinata a riformare. Le stesse controversie teologiche difficilmente avranno successo, se rimangono rinchiuse nel regno del “a priori” o del puro metodo deduttivo. Si potrà discutere a lungo sull’autorità delle encicliche se non ci si prenda la briga di interrogarle personalmente. È al Magistero che dobbiamo chiedere quale grado di credito dobbiamo dare ai suoi atti. Pin effetti la loro autorità divina non è una verità puramente razionale, ma appartiene al regno della rivelazione; è quindi il solo organo vivente della rivelazione che può apportarci luce. – Non è d’altronde la questione di principio che è in gioco qui; l’autorità sovrana del Magistero pontificio è una dottrina riconosciuta da tutti i Cattolici. Si tratta solo di sapere fino a che punto il Sommo Pontefice, scrivendo un’Enciclica, impegna questa autorità. È al Sommo Pontefice e alle stesse encicliche che dobbiamo innanzitutto chiedere la risposta. Pertanto, prima di qualsiasi tentativo di sistematizzazione teologica, sembra necessario esaminare attentamente i testi. Questo è precisamente lo scopo di questo documento. Dopo un rapido inventario delle Encicliche stesse, esamineremo il loro atto di nascita, e poi chiederemo alla storia di ricordarci il ruolo che hanno avuto nel preservare il deposito e l’unità della fede. Una volta completato questo esame, sarà forse possibile precisare meglio il ruolo delle Encicliche nella teologia del Magistero, determinarne il credito esatto necessario, secondo la materia che trattano, riconoscere infine se devono essere viste come semplici indicazioni pastorali rapidamente “superate“, o se al contrario, e in che misura, devono essere accolte come autentici atti del Magistero, esigendo l’adesione del pensiero dei Cattolici o addirittura della loro fede. Prima ancora di discutere il contenuto delle Encicliche, possiamo già farci un’idea dell’importanza attribuita loro dal Sommo Pontefice con un semplice sguardo ai fogli stampati che ce le riportano. Dal 1908, la Santa Sede ha un organo ufficiale, gli Acta Apostolicæ Sedis, in cui sono inseriti i principali atti del Sommo Pontefice e delle Congregazioni Romane. È in questo organo che appaiono le Encicliche. Il posto che vi occupano sarà quindi indicativo della loro importanza in relazione agli altri atti del Papa o della Curia. Le Litteræ Encyclicæ sono inserite per prime, seguite immediatamente dalle Epistolæ Encyclicæ, che sono un po’ meno solenni (Contrariamente alla recente affermazione del Dict. D. Can. art. “Encyclicæ”). Gli atti giuridici o amministrativi, come le Costituzioni Apostoliche che promulgano un giubileo o che regolano la nuova erezione di una diocesi, prendono posto solo dopo, intervallati dalle Encicliche e dalle altre Lettere pontificie. Questa è almeno la regola generale. Essa non fu infranta fino al 1944 e al 1949, quando, nell’indice degli Atti, le encicliche lasciarono il posto alle Decretali o Bolle di canonizzazione di diversi Santi, che ripresero allora il primo posto (Cfr. A. A. S., 15 marzo 1950). Questa semplice disposizione materiale è abbastanza eloquente di per sé, e potrebbe, in assenza di un testo preciso, fornirci già una preziosa indicazione. Ma non mancano le dichiarazioni esplicite dei Pontefici nelle loro encicliche. Dovremo tornare tra poco alla condanna formale delle « Parole di un credente » da parte di Gregorio XVI nell’enciclica Singulari nos. Basterà per il momento indicare il titolo invocato per la pronuncia di questa sentenza. Non è altro che la “pienezza del potere apostolico, deque apostolicæ potestatis plenitudine“; un appello che è ulteriormente sottolineato dal considerando precedente: « Chi ci proibisce di tacere, è Colui stesso che Ci ha posto come sentinella in Israele, affinché denunciamo l’errore a coloro che l’Autore e consumatore della nostra Fede, Gesù, ha affidato alle nostre cure » (Singulari Nos del 25 giugno 1834, Acta Gregorii Papæ XVI, Romæ, 1901, t. I, p. 434.). – Non appena fu elevato alla sede pontificia, Pio IX indirizzò un’enciclica all’episcopato di tutto il mondo. In esso egli indica gli errori e i pericoli che minacciano la Chiesa. Possiamo già notare l’espressione che usa per confermare le precedenti condanne contro le società segrete. È di nuovo “la pienezza del potere apostolico” che viene invocata: quas nos apostolicæ nostræ potestatis plenitudine confirmamus (Qui Pluribus del 9 novembre 1846, in Lettere apostoliche di Pio IX, Gregorio XVI, Pio VII, Parigi, 5, rue Bayard, p. 184). È a questa raccolta che di solito rimanderemo i nostri lettori, indicandola con l’abbreviazione BP., mentre le cifre successive indicano la pagina, e il volume in questione, indicando l’uno il tomo, l’altro la pagina, per i Pontificati successivi). Nel 1864 nell’enciclica Quanta cura, la formula non è meno solenne: « Perciò, in mezzo a questa perversità di opinioni depravate, penetrati dal dovere del nostro ufficio apostolico, apostolici nostri officii probe memores, e pieni di sollecitudine per la nostra santa Religione, per la sana dottrina, per la salvezza delle anime che ci è affidata dall’alto e per il bene stesso della società umana, abbiamo ritenuto nostro dovere alzare ancora una volta la voce (Quanta Cura, 8 dicembre 1864, BP. 13). È una formula simile che Leone XIII usa a sua volta, quando, fin dai primi anni del suo pontificato, ritiene necessario mettere in guardia il mondo cattolico contro il pericolo delle dottrine comuniste e socialiste: « Avendo Dio voluto affidarci il governo della Chiesa Cattolica, custode e interprete della dottrina di Gesù Cristo, Noi riteniamo, Venerabili Fratelli, che sia Nostro dovere in questa veste ricordare pubblicamente gli obblighi che la morale cattolica impone a tutti in questo ordine di doveri. Cum regendæ Ecclesiæ catholicæ, doctrinarum Christi custodi et interpreti, Dei beneficio praepositi simus, auctoritatis Nostræ esse judicamus, V. F., publice commemorare quid a quoquam in hoc genere officii catholica veritas exigat » (Diuturnum, 29 giugno 1881, BP.1.143). Ma non è necessario fermarsi ad ogni lettera di Leone XIII per precisarne i termini. Uno di essi è particolarmente significativo. In occasione del suo giubileo sacerdotale, il Papa, rivolgendosi contemporaneamente ai Vescovi, a tutti i fedeli dell’Universo, lascia per una volta il modo serio e solenne ordinario delle encicliche, per assumere un tono più familiare e paterno. Egli ritiene necessario spiegare questa derogazione, che serve solo a sottolineare più fortemente il carattere d’insieme dell’insegnamento enciclicale. « Dall’alto di questo supremo grado dell’ufficio apostolico in cui la bontà di Dio ci ha posto, Noi abbiamo spesso, secondo il nostro dovere, preso la difesa della verità, e ci siamo particolarmente sforzati di esporre quei punti della dottrina che ci sembrano di più attuale interesse per il bene pubblico… Oggi vogliamo parlare a tutti i Cristiani, come un buon padre parla ai suoi figli, e con un’esortazione familiare, esortare ciascuno di loro a regolare la propria vita in modo santo… » (Exeunti jam Anno, 30 dicembre 1888, BP.2.229.1). I successori del grande Papa hanno interpretato i suoi avvertimenti nel senso di atti vincolanti al Magistero papale. Nella sua enciclica Quadragesimo Anno, che commemora il quarantesimo anniversario della Rerum Novarum, Pio XI mostra Leone XIII, in forza del suo diritto e della missione specialissima che ha ricevuto di vigilare sulla Religione e sugli interessi ad essa connessi, jure suo plane usus tuque probe lenens religionis custodiam dispensationemque earum rerum, quæ cum illa arcto vinculo sociantur, sibi potissimum commissas fuisse… Poi continua: Basandosi unicamente sui principi immutabili della ragione e della rivelazione divina, il Pontefice definisce e proclama con autorità sicura di sé (il latino è più forte e allude chiaramente all’autorità stessa di Cristo: tamquam potestatem habens) i diritti e i doveri… (Quadragesimo Anno, 15 maggio 1931, BP.7.94). Qualche riga più sotto Pio XI descrive l’insegnamento papale come « vox apostolica », e si dà il compito di “vendicare contro le false imputazioni di cui è oggetto“, la dottrina del Papa che si identifica con la dottrina stessa della Chiesa: “visum est eam, id est catholicam de hac re doctrinam et a calumniis vindicare et a falsis interpretationibus tueri (ibid., BP.7.113). Nello stesso senso Divini Redemptoris: “Hæc est Ecctesiæ doctrina“, BP. PIE XI, 15.66). Questa autorità che riconosce chiaramente nelle parole del suo predecessore, Pio XI l’aveva rivendicata anche in un’altra Enciclica commemorativa, Casti connubii, dove l’accumulo di termini non può lasciare dubbi sull’intenzione di impegnare in questo documento tutto il potere del Magistero: « In ragione del Nostro ufficio di Vicario di Cristo in terra, del Nostro supremo pastorato e del Nostro Magistero, abbiamo giudicato che appartiene alla Nostra missione apostolica alzare la voce, per allontanare dai pascoli avvelenati le pecorelle a Noi affidate e, per quanto è in Noi, preservarle da essi. Pro Christi in terris Vicarii ac supremi Pastoris et Magistri munere, Nostrum esse duximus Apostolicam attollere vocem... » (Casti Connubii, 31 dicembre 1930, B.P.6.24.5). E come se queste parole non fossero abbastanza chiare e potessero ancora lasciare spazio a qualche esitazione, egli identifica, come aveva fatto per Leone XIII, la dottrina dell’Enciclica con quella della Chiesa stessa: « La Chiesa Cattolica, investita da Dio stesso della missione di insegnare e difendere l’integrità della morale e l’onestà, la Chiesa cattolica, in piedi in mezzo a queste rovine morali, alza forte la sua voce attraverso la nostra bocca, come segno della sua missione divina, per mantenere la castità del legame nuziale al sicuro da questa profanazione e promulga ancora: Ecclesia catholica.., in signum legationis suæ divinæ, altam per os Nostrum extollit vocem atque denuo promulgat… (Ibidem, 276). Poi il Papa, per ricordare ai sacerdoti il loro dovere di istruire i fedeli, si appella di nuovo « alla suprema autorità e alla cura di tutte le anime: pro suprema Nostra auctoritate et omnium animarum salutis cura » (Ibid.). Il tono, senza dubbio, si alza raramente a questa altezza; tuttavia, tali affermazioni non sono eccezionali. Non è solo nella dottrina pontificia sui doveri coniugali, ma anche in quella che tratta dei problemi sociali, che dobbiamo cercare il pensiero della Chiesa. All’inizio dell’Enciclica Divini Redemptoris sul comunismo ateo, il Papa spiega le sue intenzioni: « il suo primo scopo sarà quello di fare una breve sintesi del comunismo e dei suoi metodi di azione, e poi – aggiunge Pio XI – a questi falsi principi opporremo la luminosa dottrina della Chiesa » (Divini Redemptoris, 19 marzo 1937, BP.15.39. 4), la vera nozione della città umana… come ci viene insegnata dalla ragione e dalla rivelazione attraverso la Chiesa Magistra gentium (Ibidem, 15.54). – Non dobbiamo più stupirci del termine serio scelto dal Pontefice per designare l’enciclica. Paragonandolo ai suoi precedenti avvertimenti, lo chiama “un documento di maggior solennità, majoris gravitatis documentum“:  « Il pericolo sta aggravandosi ogni giorno. Perciò è Nostro dovere alzare ancora la voce in un documento più solenne, secondo l’abitudine della Sede Apostolica, maestra di verità, idque facimus per hoc majoris gravitatis documentum, quemadmodum huic Apostolicæ Sedi veritatis magistræ, moris est » (Divini Redemptoris, 19 marzo 1937, B.P.15.S9.).  È un’espressione quasi simile “pontificalis magisterii documentum” che Pio XII userà per descrivere un’altra lettera del suo predecessore, e forse sottolinea ulteriormente lo stretto legame che il Papa vedeva tra l’insegnamento delle encicliche e il Magistero affidato al Romano Pontefice. È tanto più importante notare che la parola non si applica solo alla Quadragesimo Anno, ma anche espressamente alla Rerum Novarum. « Siamo lieti di sapere che il suddetto documento del Magistero Pontificio (Quadragesimo Anno), come pure la lettera enciclica dello stesso genere, Rerum Novarum, di Papa Leone XIII, siano oggetto di attento esame da parte vostra » (Sertum Lætitiæ, 1 novembre 1939, BP.1.284.). Pio XII era anche consapevole del dovere aper il quale si sforzava di essere fedele, quando scriveva le sue encicliche. Già nella sua lettera inaugurale si era espresso così: « Come Vicario di Colui che, in un’ora decisiva, davanti al rappresentante della massima autorità terrena del tempo, pronunciò la grande parola: Sono nato e venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità, chi è della verità ascolti la mia voce, non c’è nulla di cui ci sentiamo più debitori al nostro ufficio e al nostro tempo, che rendere testimonianza alla verità con fermezza apostolica, Nihil Nos muneri Nostro Nostræque ætati magis debere profitemur quam testimonium perhibere veritati » (Summi Pontificatus, 20 ottobre 1939, BP. 1 .210. 3) ». – Questo è precisamente il compito che le Encicliche permetteranno di affrontare. Nel suo discorso all’udienza del 21 gennaio 1942, il Santo Padre rivendica come primo dovere il “ministero della Parola“, affidato agli Apostoli e ai loro successori dal Signore stesso: « Andate e insegnate a tutte le nazioni quello che Io stesso vi ho insegnato. » Questo ministero, che gli sta tanto a cuore, non rinuncia a compierlo rivolgendosi direttamente e in tutta semplicità ai fedeli, ai nuovi sposi inginocchiati ai suoi piedi, ma non dimentica di ricordare il primo e più importante modo di esercitarlo: « Senza dubbio esercitiamo un tale ministero in primo luogo quando, in occasioni solenni, ci rivolgiamo a tutta la Chiesa, ai Vescovi, ai Nostri Fratelli nell’episcopato… » (Discorso La Gradita Vostra Presenza, udienza del 21 gennaio 1943, vedi Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, Milano, 1942, t. III, p. 355. ) » in una parola, nelle Encicliche. Dopo queste ripetute affermazioni che sottolineano l’identità della parola pontificia inscritta nelle Encicliche con l’esercizio del Magistero, quella della dottrina che esse contengono con la dottrina stessa della Chiesa, non ci si può più stupire di vedere i Papi esigere dai fedeli il completo assenso ai loro insegnamenti; ma piuttosto si potrà cogliere da essi una preziosa conferma dell’autorità delle Encicliche, che abbiamo visto così fortemente affermata. Si è fatto riferimento sopra all’atteggiamento di Lamennais nei confronti della condanna di l’Avenir da parte di Mirari vos. Essendo la sottomissione totale, inizialmente promessa, lenta a venire, Gregorio XVI scrisse un Breve all’arcivescovo di Rennes il 5 ottobre 1833. In essa esprime innanzitutto il suo disappunto per non vedere la pubblicazione dell’atto di adesione all’Enciclica con la quale si renderebbe manifesto al mondo cattolico che (Lamennais) mantiene fermamente e seriamente e che professa la sana dottrina che Noi abbiamo esposto nelle Nostre Lettere a tutti i Vescovi della Chiesa, ipsum firme et graviter tenere, ac profiteri sanam Ulani doctrinam, quam nos nostris ad uni-versos Ecclesiæ Antistites Litteris proposuimus (Breve Litteras Accepimus, del 5 ottobre 1838. Ad Gregorii XVI, t. I, p. 311). Le sue prevaricazioni sono una prova che se egli riverisce l’autorità della Santa Sede, non si è ancora sottomesso al suo giudizio e alle dottrine da essa esposte, judicio, hac in re nostro, doctrinisque per nos traduis (ibid.). Per porre fine a questi dubbi il Santo Padre precisa il minimo richiesto a Lamennais: ut sciticet doctrinam nostris encyclicis Litteris traditam… se unice et absolute sequi confirmet, nihilque ab illa alienum se aut scripturum esse aut probaturum; seguire senza riserve ed esclusivamente la dottrina dell’enciclica e non scrivere o approvare nulla di estraneo ad essa (Ibidem). – Un’esigenza simile è espressa nell’Enciclica Immortale Dei di Leone XIII, ma questa volta non è più rivolta a un caso particolare ma si applica all’intero insegnamento pontificale: « Se quindi… i Cattolici ci ascoltano… sapranno esattamente quali sono i doveri di ciascuno sia in teoria che in pratica. In teoria, prima di tutto, è necessario aderire con incrollabile aderenza (judicio stabili) a tutto ciò che i Romani Pontefici hanno insegnato o insegneranno, e, ogni volta che le circostanze lo richiedono, farne pubblica professione » (Immortale Dei, 1 novembre 1885, BP.2.47).  – Poi applica questo principio generale agli errori denunciati nella presente Enciclica: « Soprattutto per quanto riguarda le libertà moderne, come vengono chiamate, ognuno deve attenersi al giudizio della Sede Apostolica e pensare come lui stesso pensa. Et in opinando qiiidem quæcnmqne Pontífices Romani tradiderint vel tradituri sunt, singula necesse est tenere judicio stabili comprehensa, et palam quoties res postulaverit, profiteri. Ac nomi natim de his, quas libértales vocant novissimo tempore qiiæsitas, oporlet Apostolicæ Sedis stare judicio, et quod ipsa senserit idem sentire singulos » (Ibid.). È inutile sottolineare l’importanza del futuro “vel tradituri sunt“, e della “judicio stabili“. Si potrebbero moltiplicare le citazioni dello stesso Papa; basterà raccogliere qualche altro testo. Rivolgendosi agli operai francesi poco dopo la pubblicazione della Rerum Novarum, un documento che definì “un atto del nostro ufficio di Pastore universale di anime“, Leone XIII chiese ai Cattolici « piena adesione e obbedienza agli insegnamenti della Chiesa e del suo Capo » (Udienza del 19 settembre 1891. Cfr. Acta Præcipua Leonis Papæ XIII, Desclée, Paris-Tournai, t. V, p. 3. ). Alcuni anni dopo, scrivendo ai vescovi d’America, indicò le sue precedenti Encicliche come la fonte dove i fedeli potevano trovare « gli insegnamenti che devono seguire e obbedire, quæ sequantur et quibus pareant catholici (Longinqua Oceani, 6 gennaio 1895, BP.4.172) ». Un anno dopo, avendo un giornalista francese osato mettere in discussione le decisioni della lettera pontificia Apostolicæ Curæ, sulle ordinazioni anglicane, il Sommo Pontefice scrisse all’Arcivescovo di Parigi per chiedergli di ricordare ai Cattolici il loro dovere di totale obbedienza alla dottrina pontificia, come definitivamente ferma, stabilita, irrevocabile: catholici omnea nummo dehent obsequio unplecti tamquam perpetua firmom, ratam, irrevocabilem (Lettera Religioni apua Anglos, 5 novembre 1896. Cfr. Acta præcipua…, vol. VI, p. 225). Pio X non parlerà con altro linguaggio. Di fronte alla dottrina esposta da Leone XIII nelle sue Encicliche, il dovere dei Cattolici ai suoi occhi è chiaro: « Noi proclamiamo altamente che il dovere di tutti i Cattolici – un dovere che deve essere adempiuto religiosamente e inviolabilmente in tutte le circostanze della vita sia privata che pubblica – è di custodire fermamente e di professare senza timidezza, tenere firmiter profiterique, i principi della verità cristiana insegnati dal Magistero della Chiesa Cattolica, quelli specialmente che il Nostro predecessore ha formulato così saggiamente nell’Enciclica Rerum Novarum” » (Singulari Quadam, 24 settembre 1912, BP.7.273). – In Ubi Arcano, Pio XI insisterà a sua volta nel definire “modernismo” l’atteggiamento di coloro che rifiutano di ammettere « gli insegnamenti o gli ordini promulgati in tante occasioni dai Pontefici, specialmente da Leone XIII, Pio X e Benedetto XV », o che “agiscono esattamente come se” questi insegnamenti “avessero perso il loro valore primario o addirittura non dovessero più essere presi in considerazione affatto (Ubi Arcano, 28 dicembre 1922, BP.1.172. ) ». – Possiamo stupirci di questa severità quando sentiamo lo stesso Papa dare le sue stesse Encicliche come regola di pensiero e di azione per i Cattolici, « aride catholici accipiant quid sibi sentiendum agendumque » (Mortalium Animos, 6 gennaio 1928, BP.4.67.). – Il carattere normativo delle Encicliche nei confronti del pensiero cristiano è ancora indirettamente evidente dalle condanne formali che questi documenti talvolta portano. Condannare una dottrina è proibirla, e quindi dirigere autorevolmente l’intelligenza. Abbiamo già avuto occasione di alludere alla condanna delle Parole di un credente da parte di Gregorio XVI nell’enciclica Singulari Nos, in cui si appellava alla « pienezza del potere apostolico ». Dobbiamo citare qui l’intero passaggio. Dopo aver esposto i fatti che motivano la condanna, il Papa si esprime così: « Perciò, avendo sentito diversi Nostri venerabili Fratelli, i Cardinali di Santa Romana Chiesa, di nostra iniziativa (Motu proprio), avendo acquisito la certezza dei fatti e usando la pienezza del potere apostolico Noi rimproveriamo, condanniamo, e vogliamo e ordiniamo che il suddetto libro sia ritenuto riproverato e condannato in perpetuo (reprobamus, damnamus ac prò reprobato et damnato in perpetuum haheri valumus atque decernimus), intitolato Parole di un credente, in cui, con un empio abuso della parola di Dio, i popoli si impegnano a rompere tutti i vincoli dell’ordine pubblico, a minare l’autorità, a suscitare sedizioni nel cuore degli imperi, a fomentare movimenti insurrezionali e ribellioni; Questo libro contiene proposizioni, rispettivamente false, calunniose, sconsiderate, favorevoli all’anarchia, contrarie alla parola divina, empie, scandalose, erronee, alle quali la Chiesa ha già mirato nelle sue condanne dei Valdesi, dei seguaci di Wicleff e Huss o di altri eretici dello stesso genere « (Librum) ideo propoitiones respective falas, calumniosas, temerarias, inducentes in anarchiam, contrarias verbo Dei, impias, scandalosas, erroneas, iam ab Ecclesia præsertim Valdensibus Viclefitis, Hussitis aliisque id generis hæreticis damnamus continentem, reprobamus, damnamus ac prò reprobato et damnato in perpétuant baberi volumus atque decernimus » ( Singulari Nos 25 giugno 1834, Acta Gregorii XVI -. 1-434-). Pio IX, a sua volta, nella sua prima Lettera all’Episcopato, ricorda, per confermarle, le precedenti condanne delle Società Bibliche: Il Pontefice di gloriosa memoria al quale succediamo… Gregorio XVI, seguendo in questo l’esempio dei suoi predecessori, ha riprovato queste società con le sue Lettere Apostoliche; anche noi le vogliamo condannate, et nos pariter damnatas esse volumus (Qui Pluribus, 9 novembre 1846, BP.186). (Quanta Cura, 8 dicembre 1864, BP.5). –  Poi, dopo aver descritto gli errori a cui l’Enciclica cerca di porre rimedio, il Papa pronuncia nuovamente il suo solenne ripudio: « Pieni del dovere del Nostro ufficio apostolico e pieni di sollecitudine per la nostra santa religione, per la santa dottrina, per la salvezza delle anime che ci è affidata dall’alto e per il bene stesso della società umana, abbiamo ritenuto nostro dovere alzare di nuovo la voce. Perciò, per la Nostra autorità apostolica, Noi rimproveriamo, Noi proscriviamo, Noi condanniamo, Noi vogliamo e ordiniamo che tutti i figli della Chiesa Cattolica tengano come riproverati, proscritti e condannati ognuna delle cattive opinioni e dottrine descritte nelle lettere precedenti, auctoritate nostra apostólica, reprobamas, proscribimus atque damnamm, easque ab omnibus catholicæ Ecclesiæ fîliis, veluti repróbatas, proscriptas, atque damnatas omnino haberi volumus atque mandanus.»– Ibid 13.). – Se i termini impiegati da Leone XIII, nell’enciclica Inscrutabili, sono meno formali, assumono un valore singolare per la loro connessione con le condanne del Concilio Vaticano che pretendono di confermare: « I Romani Pontefici, i nostri predecessori e in particolare Pio IX, di santa memoria, specialmente nel Concilio Vaticano…, non trascurarono, ogni volta che fu necessario, di rimproverare gli errori che irrompevano e di colpirli con censure apostoliche. Anche noi, seguendo le loro orme, confermiamo e rinnoviamo tutte queste condanne di questa Sede Apostolica della verità, … has condamnationes omnes, Nos, ex hac Apostolica veritatis Sede confirmamus et iteramus » (Inscrutabili, 21 aprile 1878, BP.1.19). – Allo stesso modo, nell’Enciclica Humanum Genus contro la massoneria: « Tutti i decreti emessi dai nostri predecessori… tutte le sentenze pronunciate da loro… Intendiamo ratificarli di nuovo sia in generale che in particolare » (Humanum Genus, 20 aprile 1884, BP.1.269). Le sentenze e i decreti, ai quali qui si fa riferimento, comprendevano oltre alle Costituzioni Apostoliche di Clemente XII, Pio VII e Leone XII, le encicliche di Pio VIII, Gregorio XVI e Pio IX (Ibid. 1.245). – La disapprovazione di Pio X per il principio della separazione tra Chiesa e Stato non è meno chiara: « Che sia necessario separare lo Stato dalla Chiesa è una sentenza assolutamente falsa, e in sommo grado perniciosa, profecto falsissima, maximeque perniciosa sententia est (Vehementer, 11 febbraio 1906, BP.2.126). L’Enciclica sulle associazioni di lavoratori è un altro giudizio definitivo, un divieto formale, che i Vescovi tedeschi hanno ricevuto: Poiché abbiamo sollevato questa causa e, dopo aver consultato i vescovi, spetta a Noi pronunciare la sentenza, ingiungiamo a tutti i buoni uomini di astenersi d’ora in poi da ogni controversia… (Singulari Quadam, 24 ottobre 1912, BP.7.278). – Un altro esempio di condanna formale è fornito dalla prima lettera Enciclica di un Papa il cui brevissimo Pontificato, interamente assorbito dalla sollecitudine della guerra, gli permette raramente di essere citato. Dopo aver ricordato che la Chiesa si aspetta dai suoi difensori qualcosa di diverso dalle vane dispute, ma chiede loro al contrario di lavorare con tutte le loro forze per conservare la fede nella sua integrità e per proteggerla da ogni alito di errore, seguendo principalmente Colui che Gesù Cristo ha costituito custode e interprete della verità, Benedetto XV denuncia coloro che, « preferendo il proprio giudizio all’autorità della Chiesa, sono arrivati nella loro temerarietà a giudicare i misteri divini e tutte le verità rivelate secondo la propria comprensione, non esitando ad adattarle al gusto dei tempi presenti. » Poi aggiunge: «  Così nacquero i mostruosi errori del modernismo, che il Nostro predecessore proclamò giustamente la somma di tutte le eresie e che condannò solennemente. Questa condanna, V. F., la rinnoviamo in tutta la sua estensione. Decessor Noster omnium hæreseon collectum edixit esse et solemniter condemnavit. Eam Nos igitur condemnationem… qnantacumque est, hic iteramus » (Ad Beatissimi, 1 novembre 1914, BP. 1.43,44.). – Per evitare queste condanne, il modernismo cambierà il suo metodo e assumerà una forma più capziosa. Evitando affermazioni di principio, si rifletterà solo nel campo dei fatti, dove non si terrà conto delle condanne dottrinali dei Pontefici. Pio XI lo perseguirà fino a questo punto pericoloso: denunciando coloro che  agendo esattamente come se gli insegnamenti e gli ordini promulgati tante volte dai Pontefici, in particolare da Leone XIII, Pio X e Benedetto XV, avessero perso il loro valore primario o addirittura non dovessero più essere presi in considerazione,  conclude con un giudizio formale: « Questo fatto rivela una sorta di modernismo morale, giuridico e sociale; lo condanniamo formalmente come il modernismo dogmatico. Quod quid quidem una cum modernismo illo dogmático, impense reprobamus » (Ubi Arcano, 28 dicembre 1922, BP. 1.172.). Quando, alla fine dello stesso pontificato, la sollecitudine del Papa si rivolse a un altro errore, il comunismo ateo, l’enciclica che lo denunciava iniziò con il riferimento alle precedenti riprovazioni di questo errore, sia di Pio IX che dello stesso Pio XI: “Ad communistarum errores quod attinet, jam. . decessor noster… eos solemniter reprobavit, reprobationemque suam subinde per Syllabum confirmavit  (Divini Redemptoris, 19 marzo 1937, BP.15,36 )… denuntiavimus, improbauimus… solemniter expostulando conquesti sumus » (Ibid. 37,38). – A questo dossier  già imponente a favore dell’autorità delle Encicliche, si è appena aggiunta una pagina della Humani generis, la cui importanza non si saprebbe mai abbastanza stimare:  « Né si deve pensare che ciò che viene proposto nelle Encicliche non richieda di per sé un assenso, poiché i Papi esercitano in esse il potere supremo del loro magistero. A ciò che viene insegnato dal Magistero ordinario si applica anche il detto: “Chi ascolta voi, ascolta me“; e il più delle volte ciò che viene esposto nelle Encicliche appartiene già d’altra parte alla dottrina cattolica. Se i Papi giudicano espressamente nei loro atti una questione che prima era controversa, tutti capiscono che questa questione nel pensiero e nella volontà dei Pontefici non è più da considerare come una questione libera tra i teologi (Neque putandum est, ea quæ in Encyclicis Litteris proponuntur assensum per se non postulare, cum in iis Pontífices supremam sui Magisterii potestatem non exerceant. Magisterio enim ordinario haec docentur de quo illud etiam valet:Qui vos audit, me audit”, (Luc, X, 16); ac plemmque quae in Encyclicis Litteris proponuntur et inculcantur, jam aliunde ad doctrinam catholicam pertinent. Quod si Summi Pontífices in actis suis de re hactenus controversa data opera sententiam ferunt, omnibus patet rem ìllam, secundum mentem et voluntatem eorumdem Pontificum, quæstionem liberge inter theologos disceptationis jam haberi non posse. (A. A. S. t. XLII, p. 561). Diamo nel testo la traduzione. Bonne Presse, p. 10).  Dovremo esaminare questo testo in dettaglio più avanti; ci basta qui raccogliere due affermazioni che confermano ciò che avevamo già appreso dalla nostra rapida indagine. Quando ascoltiamo l’insegnamento delle Encicliche, espressione del magistero ordinario, sentiamo Cristo stesso: Chi ascolta voi, ascolta me. Quindi, se i Papi esprimono un giudizio dottrinale in essi, la causa deve essere considerata come ascoltata.

* * *

Queste linee molto formali della Humani generis iniziano però con una formula che ci invita a completare la nostra troppo lunga spogliazione dei testi. Se non vogliamo rimanere di parte, è importante che, accanto alle affermazioni a favore dell’autorità delle Encicliche, si abbia cura di sottolineare il carattere proprio di queste lettere, che più di una volta ha confuso i teologi abituati a cercare l’espressione della Regola di fede nei Canoni dei Concili o nelle Definizioni contenute nelle solenni Costituzioni Apostoliche. In un caso, infatti, una formula volutamente concisa, almeno sempre circostanziata, della dottrina. Essa non dibatte, ma è attentamente soppesata per esprimere, con rigorosa precisione, un’affermazione dottrinale il cui rifiuto o accettazione decide tra la comunione della Chiesa o l’anatema solenne; nell’Enciclica, invece, c’è un’esposizione della dottrina a volte prolissa, ma sempre dettagliata. Non si tratta tanto, sembra, di una sfida al credente a scegliere tra accettare o rifiutare un articolo di fede, quanto di un invito all’intelletto a fare proprio il pensiero pontificale, a coglierne la validità e a farsi illuminare dalla sua luce (Se viene redatta una lista di proposizioni condannate, è spesso in un documento di accompagnamento, piuttosto che nell’Enciclica stessa. Così il Sillabo, inviato ai vescovi contemporaneamente alla Quanta Cura).  – Se si tratta di mettere in guardia contro un errore, l’Enciclica cercherà prima di tutto di scoprirne la causa, di mostrare i motivi che hanno animato i suoi autori, di denunciare le sue disastrose conseguenze. Poi arriva la condanna, ma si sforzerà di esporre i suoi motivi in modo ampio, e soprattutto vorrà opporre alle concezioni erronee, la solida sintesi della dottrina cattolica, che il documento pontificio a volte si soffermerà a spiegare in dettaglio, e spesso ne stabilirà la validità con una dimostrazione in regola. – Leone XIII, in Quod apostolici muneris, vuole bloccare la strada al socialismo. La lettera inizia con un’esposizione dell’obiettivo perseguito dai fautori dell’errore, e poi passa a cercare le cause dell’errore, senza temere di ripercorrere i secoli per riuscirci nel modo più completo. La confutazione arriva solo dopo: di fronte al socialismo, che distrugge l’ordine sociale, il Papa dipinge un quadro della dottrina sociale cristiana. Tutta la fine dell’enciclica sarà lo sviluppo di questa opposizione, che sarà perseguita fino alle sue conseguenze finali. Tra queste due concezioni della società, il popolo sarà finalmente invitato a scegliere, ed i Vescovi ad insegnare ampiamente la dottrina sociale della Chiesa. – L’enciclica Arcanum, scritta nel gennaio 1880, meno di due anni dopo quella che abbiamo appena analizzata, è un altro vero trattato, questa volta sul matrimonio cristiano. La stessa ricchezza di dottrina, la stessa abbondanza di prove. Solo l’ordine di presentazione è qui invertito: la dottrina cattolica è la prima ad essere presentata nel suo sviluppo storico e nella sua sintesi. La seconda parte della lettera è dedicata alla critica dell’errore, il cui punto di partenza il Papa prima denuncia, per poi istituire una vigorosa confutazione. Questo sarà ancora l’ordine seguito da Libertas. Inizia esaminando la nozione cristiana di libertà e la necessaria distinzione tra libertà psicologica e morale. Una volta chiarita questa nozione equivoca, il Papa passa alla critica del liberalismo e delle false libertà che ha sostenuto. La lettera si conclude con uno studio dei casi pratici che possono presentarsi per una coscienza cristiana. – Uno degli esempi più caratteristici è senza dubbio quello dell’Enciclica Pascendi, dedicata interamente a combattere le dottrine moderniste. La codificazione degli errori in formule precise era già stata fatta al momento della sua pubblicazione; il decreto Lamentabili, il 4 luglio 1907, aveva appena condannato 65 proposizioni che esprimevano il pensiero di autori modernisti. Due mesi dopo, l’8 settembre, la lettera pontificia fu a sua volta indirizzata ai Vescovi. Questa volta non si trattava più di un breve catalogo, ma di un vero e proprio trattato. L’Enciclica inizia denunciando il pericolo che i nuovi errori fanno correre alla Chiesa, e poi, in pagine che non rifuggono dalle spiegazioni più dettagliate, indica i vari aspetti, spesso complessi, della dottrina incriminata; tenta persino di penetrare la psicologia profonda di coloro che, più o meno consapevolmente, si fanno suoi propagandisti. Sappiamo come Pio X ci sia riuscito; le stesse persone di cui ha rivelato il pensiero con più precisione di quanto fossero state capaci di analizzare loro stesse, lo hanno confessato. Sembra, leggendo questa Lettera con il senno di poi che abbiamo oggi, che il Beato Pontefice abbia voluto, per allontanare il pericolo, riversare sulla Chiesa un immenso fiume di luce. In essa, coloro che si sono smarriti, possono riconoscere i loro errori e ritrovare la strada verso la verità, i Cattolici possono tenersi in guardia, e soprattutto i Vescovi avrebbero potuto agire di concerto per salvaguardare il gregge comune. Le ultime pagine dell’Enciclica indicavano loro con precisione i mezzi da adottare per un’azione efficace.  Senza formulare proposte, senza alcun apparato giuridico, questa lunga e ricca esposizione condannava il modernismo in una prospettiva diversa da quella del decreto, e allo stesso tempo offriva alla Chiesa una fonte incomparabile di dottrina. Osservazioni simili potrebbero essere fatte su quasi tutte le Encicliche. Uno delle più recenti, Mediator Dei, è un esame e un chiarimento estremamente dettagliato di tutto il problema liturgico. Il Papa si rivela un vero Pastore e Dottore universale, mettendo in guardia il suo gregge contro le insidiose apparenze dell’errore, e per ottenere questo, egli stesso distribuisce loro il pane della sana dottrina con magistrale ampiezza. Tuttavia, se le deviazioni vengono denunciate, se la verità viene richiamata con forza, coloro che “si sono allontanati dalla retta via non vengono colpiti da alcun anatema. Il Papa li esorta soltanto a “rettificare il loro modo di parlare e di agire“, affinché l’unità di fede tra tutti i membri della comunità cristiana sia assicurata senza fallo intorno al pensiero pontificio. I Pontefici hanno ripetutamente presentato questo disegno di insegnare in senso proprio, “esponendo la verità e confutando l’errore” come la ragione per scrivere le loro Encicliche. All’inizio della Rerum Novarum, per esempio, Leone XIII specifica lo scopo di questa nuova lettera, simile a quelle che abbiamo appena analizzato: “confutare le opinioni erronee e fallaci“. Quod alias consuevimus, Venerabiles Fratres, datis ad vos litteris de imperio político, de libértate humana, de civitatum constitutione christiana, aliisque non dissimili genere, quæ ad refutandas opinionum fallacias opportuna videbantur, idem nunc faciendum de conditione opificum iisdem de causis duximus (Rerum Novarum, 16 maggio 1891, BP.3.18). ” – Quod Apostolici Muneris, per stessa ammissione del Papa, si proponeva a sua volta “di avvertire pubblicamente i Cattolici dei profondi errori nascosti nelle dottrine del socialismo e dei pericoli che esse ponevano, non solo ai beni esterni, ma anche alla probità dei costumi e alla religione (Graves de Communi, 8 gennaio 1901, BP.6.205)”. Pio XI non interpretò diversamente lo scopo di Leone XIII in Arcanum, vedendolo come “quasi interamente dedicato a provare l’istituzione divina del matrimonio (Casti Connubii, 31 dicembre 1930, BP.6.246. )”. Ritornando sullo stesso argomento, amplia l’affermazione del suo predecessore: “Abbiamo quindi deciso di parlarvi… della natura del matrimonio cristiano, della sua dignità, dei vantaggi e dei benefici che esso apporta alla famiglia e alla stessa società umana, dei gravissimi errori contrari a questa parte della dottrina evangelica, dei vizi che sono contrari alla vita matrimoniale, e dei principali rimedi ai quali è necessario ricorrere” (Ibid., 244). -Abbiamo visto sopra lo stesso Papa, in una delle sue ultime Encicliche, quella diretta contro il comunismo ateo, usare per ricordare le condanne di Pio IX il termine « solemniter reprobavit » e designare i propri avvertimenti con le espressioni: denuntiavimus, improba-vimus, solemniter expostulando conquesti sumus. L’enciclica Divini Redemptoris, che si presenta come il majoris gravitatis documentum, indica chiaramente il suo scopo. In essa, il Sommo Pontefice non si propone di condannare, ma di riassumere tutti gli errori comunisti per opporsi ad essi con la forza della dottrina della Chiesa: «Volumus denuo communistarum inventa… summatim breviterque attingere atque explanare; iisdemque… perspicuam Ecclesiæ doctrinam opponere » (Divini Redemptoris, 19 marzo 1937, BP.15.39-41).  Pio XII dà così il vero carattere dell’insegnamento enciclico quando, nella sua lettera inaugurale, precisa la natura del dovere pontificio di testimoniare la verità: « Questo dovere include necessariamente l’esposto e la confutazione degli errori e delle colpe che è necessario conoscere per poterli curare e guarire. Hoc officium, cui satis Nos apostolica firmitudine opus est, id necessario postulat ut errores hominumque culpas ita exponamus ac refutemus, ut iisdem perspectis ac cognitis fas sit medicinam curationemque præbere » (Summi Pontificatus, 20 ottobre 1939, BP.1.210)”. – A questo insieme di affermazioni, la Humani generis fornisce una preziosa conferma. Non esclude la possibilità di giudizi dottrinali nelle Encicliche. È questo anche espressamente menzionato. Tuttavia, il più delle volte, plerumque, si afferma, il ruolo delle lettere pontificie è quello di un richiamo della dottrina, e abbiamo visto quanto spesso sia magistrale e dettagliato. Normalmente le Encicliche ci portano l’insegnamento nel senso usuale del termine, e sono gli strumenti del « magistero ordinario, magisterio ordinario hæc docentur », di cui appaiono come i documenti maggiori. Torneremo più tardi su questo testo, così pieno di dottrina. – Alla fine di questa prima parte del nostro studio, ci basta ritenere le due caratteristiche che il nostro esame troppo rapido delle Encicliche ci ha permesso di scoprire: prima di tutto quella della grandissima parte di esse, cioè la « pienezza dell’autorità che la Santa Sede impegna. » Più di una volta abbiamo visto i Sommi Pontefici appellarsi con le loro stesse parole alla “pienezza dell’autorità apostolica“, chiamandoli “documenti del Magistero Pontificio“. Abbiamo notato molti passaggi che, o per l’accettazione richiesta ai fedeli o per la fermezza delle condanne, portano alla stessa conclusione.  L’altro carattere scoperto nelle Encicliche sembra a prima vista un po’ opposto al primo: l’assenza in questi documenti, o almeno la scarsità di definizioni precise, censure rigorose e anatemi, così familiari nei Canoni Conciliari o anche nelle Costituzioni dogmatiche. Al contrario, il loro modo di insegnare è quello di un’esposizione ampia e completa della dottrina della Chiesa, così come degli errori che vi si oppongono, esposizione che è spesso accompagnata da tutto un apparato di prove metodiche, pronostici per il futuro, ricerca delle cause, indicazioni pratiche ed esortazioni. Ma c’è una vera opposizione tra questi due aspetti? Forse è stato creduto troppo facilmente e ammesso senza ragioni valide. Questo potrebbe spiegare le divergenze notate sopra tra i teologi sull’autorità delle Encicliche. Alcuni, attenti soprattutto al modo di espressione di questi documenti, avrebbero concluso senza un esame sufficiente che esse erano puramente indicativi. Altri, colpiti al contrario dall’appello che i Papi facevano alla loro autorità sovrana, li avrebbero trattati come definizioni ex cathedra, forse un po’ frettolosamente.  L’esame dei testi, come abbiamo appena visto, ci obbliga, al contrario, a riconoscere entrambe queste caratteristiche delle Encicliche, anche se sembra difficile mostrare il legame tra di esse. La loro coesistenza sembra essere il fatto primario davanti al quale ogni studio coscienzioso dell’autorità dottrinale delle Encicliche deve inchinarsi. È solo dopo averla registrata fedelmente che il teologo può cercare di risolvere l’apparente paradosso che essa pone. Sarebbe sbagliato, inoltre, lasciarsi scoraggiare dalla difficoltà o cercare di evitarla abbandonando l’uno o l’altro aspetto del fatto fondamentale. La soluzione richiederà senza dubbio ulteriore attenzione. Ma questo sarà un nuovo beneficio. Rileggendo ancora una volta queste Lettere Pontificie, interrogando i testi in cui i Pontefici hanno potuto chiarire il loro pensiero sull’intenzione che le ha dettate, forse potremo scoprire, contemporaneamente alla spiegazione del doppio carattere riconosciuto alle Encicliche, nuovi chiarimenti sulla loro natura e sul titolo esatto della loro autorità.

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (2)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI INFAMI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “EXULTAVIT COR NOSTRUM”

Il Sommo Pontefice Pio IX in questa breve Enciclica si felicita con i Vescovi di tutta la Cristianità, per i buoni risultati spirituali del Giubileo appena trascorso e cerca di prolungarli con un nuovo Giubileo foriero di grazia per i peccatori pentiti e lavati dal lavacro della Confessione e dal sacramento dell’Eucaristia. Ma non dimentica di elencare, almeno parzialmente, i mali che affliggono la Cristianità tutta da parte dei soliti “noti”: i nemici di Dio, della sua Chiesa e della Sede Apostolica, e quindi, di tutta l’umanità, come giustamente li definisce l’Apostolo delle geni « … infatti, nessuno fra Voi, Venerabili Fratelli, ignora con quante subdole arti, con quali mostruosi strumenti di opinione, con quali nefande macchinazioni i nemici di Dio e del genere umano cercano di pervertire le menti di tutti e si sforzano di corrompere i costumi, onde, se fosse loro possibile, distruggere ovunque la Religione e svellere i vincoli della civile società e distruggerla dalle fondamenta…». Vediamo che dopo quasi due secoli, i propositi sono ancora gli stessi, amplificati e centuplicati dall’azione di una élite mondialista cabalista che ha occupato tutte le leve mondiali di comando, finanche  (dal 1958) quelle usurpate alla Santa Chiesa Cattolica Romana ove è stato imposta una serie di ridicole marionette dedite a culti osceni o francamente satanici (si pensi al baphomet-signore dell’universo), che conducono gli sprovveduti, ma colpevolmente ignoranti pseudo-fedeli, come pecore al macello tra eresie indicibili, apostasie “ecumeniche” vergognose e culti scismatici sacrileghi, il tutto con l’ausilio di complici prelati – veri e falsi – infedeli che occupano usurpandole, tutte le sedi diocesane e l’intero cardinalato modernista. La “bestia” e tutti i suoi adepti ha riconquistato, almeno all’apparenza, il primato nel mondo, quel principato che Gesù Cristo aveva strappato al drago maledetto alla sua prima parusia, con la morte in croce e con la sua gloriosa Resurrezione. Ma non perdiamoci d’animo, una persecuzione terribile ci aspetta, Dominus irridebit eos… ma alla fine ci sarà la seconda e definitiva parusia del Signore che brucerà con il soffio della sua bocca le bestie, i suoi adepti ed il dragone infernale nell’anticristo.


S. S. Pio IX
Exultavit cor nostrum

Esultò il Nostro cuore nel Signore, Venerabili Fratelli, e abbiamo reso le più umili e grandi grazie al clementissimo Padre di tutte le misericordie e al Dio di ogni consolazione perché, fra le assidue e gravissime angustie dalle quali siamo oppressi in questa e così grande malvagità di tempi, abbiamo ricevuto notizie da molte Vostre testimonianze circa i lieti e abbondanti frutti del Sacro Giubileo da Noi concesso: frutti che, con il favore della Grazia divina, ridondarono sui popoli affidati alle Vostre cure. – Ci avete comunicato infatti che in questa occasione le popolazioni fedeli delle vostre Diocesi sono accorse ai sacri templi con somma frequenza e in ispirito di umiltà e con l’animo contrito, per assistere alla predicazione della Parola di Dio e per accedere alla Mensa Divina dopo aver purificato le loro anime dalle sozzure del peccato per mezzo del Sacramento della riconciliazione; contemporaneamente hanno elevato a Dio Ottimo Massimo fervide preghiere secondo le Nostre intenzioni. È dunque avvenuto che non pochi, con l’aiuto della Grazia divina, da una condotta viziosa hanno intrapreso un salutare cammino di vita seguendo i sentieri della verità. Tutte queste notizie Ci procurarono grande consolazione e gioia, poiché grandemente ansiosi e solleciti per la salvezza di tutti gli uomini a Noi affidati da Dio, nulla più ardentemente desideriamo e chiediamo a Dio con tutti i voti e con preghiere di giorno e di notte nell’umiltà del Nostro cuore, che tutti i popoli, le genti e le nazioni, camminando ogni giorno più nelle vie della fede, arrivino a riconoscerlo e Lo amino, e adempiano la Sua santissima legge e perseverino nella via che conduce alla vita. – Sebbene, Venerabili Fratelli, da una parte dobbiamo grandemente allietarci per il fatto che le popolazioni delle Vostre Diocesi abbiano ricevuto grandi benefici spirituali dal sacro Giubileo, d’altra parte non poco dobbiamo dolerci quando vediamo quale aspetto luttuoso e di afflizione presentano la nostra santissima Religione e la civile società in questi miserabilissimi tempi. Infatti, nessuno fra Voi, Venerabili Fratelli, ignora con quante subdole arti, con quali mostruosi strumenti di opinione, con quali nefande macchinazioni i nemici di Dio e del genere umano cercano di pervertire le menti di tutti e si sforzano di corrompere i costumi, onde, se fosse loro possibile, distruggere ovunque la religione e svellere i vincoli della civile società e distruggerla dalle fondamenta. – Di qui dobbiamo deplorare una caligine di errori diffusa nelle menti di molti; una guerra aspra contro tutta la cattolicità e contro questa Sede Apostolica; l’odio terribile contro la virtù e l’onestà; i peggiori vizi considerati onesti con nome menzognero; una sfrenata licenza di tutto opinare, di vivere e di tutto osare; l’insofferente intolleranza di qualsiasi autorità, potere o comando; il disprezzo e il ludibrio per tutte le cose sacre, per le leggi più sante e per le migliori istituzioni; una miseranda corruzione dell’improvvida gioventù; una colluvie pestifera di cattivi libri, di libelli volanti, di giornali e riviste che insegnano a peccare; il mortifero veleno dell’incredulità e dell’indifferentismo; i moti di empie cospirazioni e ogni diritto, sia umano, sia divino, disprezzato e deriso. E non Vi è ignoto, Venerabili Fratelli, quali ansietà, quali dubbi, quali esitazioni e quali timori sollecitino e angustino per conseguenza gli animi di tutti, specialmente dei benpensanti, poiché sono da temere i peggiori mali per il costume pubblico e privato allorché gli uomini, allontanandosi miseramente dalle norme della giustizia, della verità e della religione, e servendo alle malvagie e indomite passioni, tramano nel loro cuore qualsiasi nefandezza. – In così grave frangente ognuno può vedere che tutte le nostre speranze devono essere poste in Dio, nostra salvezza, e che si devono rivolgere a Lui fervide e continue preghiere, affinché, effondendo su tutti i popoli le ricchezze della sua misericordia e illuminando le menti di tutti col lume della sua celeste grazia, si degni ricondurre gli erranti sulla via della giustizia e convertire a Sé le volontà ribelli dei suoi nemici, infondendo in tutti l’amore e il timore del suo Santo Nome, e donando lo spirito di pensare e agire sempre cercando tutto ciò che è buono, tutto ciò che è vero, tutto ciò che è pudico, tutto ciò che è giusto e santo. – E poiché il Signore è soave, mite, misericordioso e generoso verso tutti coloro che Lo invocano, guarda con benevolenza all’orazione degli umili e manifesta la sua onnipotenza specialmente perdonando e usando misericordia, andiamo, o Venerabili Fratelli, con fiducia al trono della Grazia per conseguire misericordia e trovare grazia nell’aiuto opportuno. Infatti, chiunque chiede riceve, chi cerca trova, e a chi bussa viene aperto (Mt VII, 8). E prima di tutto rendiamo grazie imperiture al Signore delle misericordie e con labbro di esultanza lodiamo il suo Santo Nome, poiché si degna di compiere azioni mirabili di misericordia in molte regioni dell’orbe cattolico. Poi non desistiamo di pregare e supplicare il Signore, incessantemente e umilmente, tutti animati da ferma speranza, da sincera fede e ardente carità, affinché liberi la Sua Chiesa santa da tutte le calamità, e ampliandola l’accresca in tutto il mondo e la esalti ogni giorno più, e purifichi il mondo da tutti gli errori, e conduca tutti gli uomini alla conquista della verità e sulla via della salvezza; allontani i flagelli della sua ira, che abbiamo meritato con i nostri peccati; comandi al vento e al mare e riporti la tranquillità e conceda a tutti la tanto sospirata pace e salvi il suo popolo e benedica la sua eredità e la diriga e la conduca ai beni celesti. – Affinché poi Dio più facilmente pieghi il suo orecchio alle nostre preghiere e ascolti le nostre suppliche, alziamo i nostri occhi e le nostre supplici mani alla santissima e immacolata Madre di Dio, la Vergine Maria, che è anche Madre nostra, della quale non c’è altro più continuo e valido aiuto e patrocinio presso Dio; anzi, come Madre nostra amantissima e nostra massima speranza, è la ragione di ogni nostra fiducia, poiché quello che Ella cerca lo trova, e non può essere delusa. Cerchiamo inoltre l’aiuto sia del Principe degli Apostoli (a cui Cristo stesso ha consegnato le chiavi del Regno dei Cieli e che ha costituito come pietra e fondamento della sua Chiesa, contro la quale mai potranno prevalere le potenze dell’inferno), sia del suo coapostolo Paolo e di tutti i Santi Patroni delle singole città e regioni e di tutti gli altri Santi, affinché il Signore elargisca a tutti copiosamente i doni della sua bontà. – Pertanto, Venerabili Fratelli, mentre Noi ordiniamo che si facciano pubbliche preghiere in questa Nostra alma Città, con questa lettera richiamiamo Voi stessi e le popolazioni a Voi affidate ad unirsi a Noi nelle preghiere e suppliche, e facciamo appello alla egregia Vostra devozione e pietà affinché anche nelle Vostre Diocesi procuriate di indire pubbliche orazioni per implorare la divina clemenza. E affinché i fedeli con più ardente animo si dedichino a queste preghiere che Voi stabilirete, abbiamo decretato di offrire ancora una volta i celesti tesori della Chiesa, sotto forma di Giubileo, come potrete chiaramente comprendere dall’altra Nostra Lettera aggiunta a questa. E così Ci solleviamo a quella speranza, Venerabili Fratelli, che gli Angeli della pace, che hanno in mano le coppe d’oro e il turibolo aureo, offrano al Signore sul Suo Altare le umili nostre preghiere e quelle di tutta la Chiesa e che Egli, accettandole con volto benigno e approvando i Nostri voti, i Vostri e quelli di tutti i fedeli, voglia dissipare tutte le tenebre, disperdere le tempeste di tutti i mali, porgere la Sua destra ausiliatrice alla causa sia della cristianità, sia della società civile, e far sì che in tutti gli uomini ci sia un unico orientamento delle menti, un’unica pietà di azioni, un unico amore per la fede religiosa, per la virtù, per la verità e per la giustizia; un unico intento di pacificazione, un unico vincolo di carità; e così si amplifichi il Regno dell’Unigenito suo Figlio e Signore nostro, Gesù Cristo, in tutto il mondo e sia sempre più solido ed esaltato. – Infine, auspice di tutti i doni celesti e dell’ardentissima carità nei Vostri confronti, ricevete l’Apostolica Benedizione che impartiamo con tutto l’affetto del cuore a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutti i Chierici e ai Laici affidati alla Vostra vigilanza.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 21 novembre 1851, nell’anno sesto del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI INFAMI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII “MIRÆ CARITATIS”

La Lettera Enciclica Miræ caritatis, di S. S. Leone XIII, è una stupenda catechesi sull’importanza della Eucarestia come elemento centrale del culto cristiano e della intera vita spirituale del Cattolico, elemento di coesione sociale del popolo tutto, foriero quindi di benefici immensi non solo individuali, ma estesi a tutta la società ed all’umanità intera. Ben sapendo questo, i nemici di Dio, della Chiesa e dell’umanità tutta – infiltrati nei sacri palazzi dell’urbe che hanno subdolamente trasformato, con la connivenza di finti ed empi prelati e falsi fedeli, nella sinagoga di satana – hanno fatto in modo da alterare tutto il rito del Sacrificio eucaristico, con forma ed intenzioni blasfeme ed a-cattoliche, con sacrilega temerarietà inserendolo in una pseudo-messa, pantomima dell’offerta del culto al “signore dell’universo”, cioè il lucifero-baphomet delle logge massoniche di alto grado, così da farne una sacrilega “cena eucaristica” condotta dai falsi ed invalidi sacerdoti del “Novus ordo”, o da scismatici ed eretici non-preti tradizionalisti, per cui il Sacrificio eucaristico è stato trasformato in una ridicola e blasfema distribuzione ed accettazione di particole di pane, senza che abbiano subito alcuna transustanziazione apportatrice di grazia, bensì di “disgrazia” infernale. Indubbiamente questa è la peggior punizione o castigo che Dio potesse appioppare a nazioni in larga parte apostate ed ultra-pagane, a popoli dissoluti e privi di rispetto ed amore per Dio, loro Creatore, e di conseguenza per i loro simili che vengono trattati e considerati alla stregua di bestie da sfruttare e salassare. Questa è in effetti la disgrazia più grave che possa capitare ad un popolo indurito di cuore e cieco di intelletto, perciò avviato verso lo stagno di fuoco … mangiando, bevendo, ballando e fornicando come animali selvaggi. Fortunatamente per i pochi Cristiani della Chiesa Cattolica romana, resta la Comunione spirituale che, pur non apportando la medesima qualità di grazia, ci consente di comunicare col Corpo mistico, di assorbire linfa divinizzante – la grazia attuale dei teologi – con la debita disposizione ed il desiderio ardente, unito all’intenzione implicita di ricevere il vero Corpo e Sangue di Cristo sacramentale appena possibile da un vero Sacerdote cattolico in unione con Papa Gregorio, Vicario regnante attuale, materialmente impedito ma spiritualmente operante, se non altro per la sua sofferenza immensa, a pro della conversione dei falsi e sacrileghi Cristiani.

Leone XIII
Miræ caritatis

Lettera Enciclica

La santa eucaristia

28 maggio 1902

È nostro altissimo dovere tenere sempre presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della carità ammirabile di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini. Abbiamo cercato fino ad oggi di fare questo, col suo divino aiuto, e Ci studieremo di continuare a farlo, fino alla fine della Nostra vita, Costretti a vivere in tempi assai avversi alla verità e alla giustizia, per quanto dipendeva da Noi, con gli insegnamenti, con le ammonizioni, con gli atti, come ne fa fede anche l’ultima Lettera Apostolica a voi indirizzata, non abbiamo mai tralasciato nulla di quello che poteva servire meglio sia a dissipare il molteplice contagio degli errori, sia a rinvigorire la pratica della vita cristiana. Fra questi atti, ve ne sono due più recenti, fra loro strettamente connessi, la memoria dei quali Ci torna di opportuna consolazione, in mezzo a tante cause di amarezza. L’uno ebbe luogo quando stimammo bene che tutta la famiglia umana si consacrasse al Cuore augustissimo di Cristo redentore; l’altro quando esortammo seriamente tutti coloro che si professano Cristiani ad unirsi a Lui stesso, il quale è in modo divino “via, verità, vita” non soltanto per i singoli individui, ma anche per l’intera società. – Ora poi da questa medesima carità apostolica, che veglia sui bisogni della chiesa, Ci sentiamo mossi e come spinti ad aggiungere a quei due atti già compiuti, qualche altra cosa, come a loro coronamento: a raccomandare cioè, quanto più possiamo, al popolo cristiano la santissima eucaristia, come quel divinissimo dono uscito dal fondo del Cuore del medesimo Redentore, ardentemente bramoso di unirsi con questo mezzo agli uomini, mezzo escogitato specialmente per elargire i salutari frutti della sua redenzione. Anche in questo campo Noi abbiamo già promosse e raccomandate diverse opere. Ricordiamo con gioia specialmente di avere approvato e arricchito di privilegi molti istituti e sodalizi, che sono addetti all’adorazione perpetua della Vittima divina; di aver curato che i congressi eucaristici fossero numerosi e fruttuosi come conviene; di avere ad essi e ad altre opere simili assegnato per protettore celeste san Pasquale Baylon, che si segnalò nella devozione e nel culto verso il mistero eucaristico. – Perciò, venerabili fratelli, di questo stesso mistero – nella difesa e illustrazione del quale si adoperò costantemente sia la solerzia della chiesa, non senza preclare palme di martiri, sia lo zelo di uomini dottissimi ed eloquentissimi, sia anche il magistero delle nobili arti -, Ci piace ora rilevare alcuni aspetti, affinché in modo più vivo risplenda la sua efficacia, specialmente per recare in maniera notevolissima rimedio ai bisogni dei nostri tempi. In verità, poiché Cristo Signore, la vigilia della sua morte, ci lasciò questo attestato d’immensa carità verso gli uomini, e questo presidio massimo “per la vita del mondo” (Gv VI, 52), Noi, cui resta poco da vivere, nulla possiamo desiderare di meglio, di quello che Ci sia dato d’eccitare negli animi di tutti e coltivare il dovuto affetto di gratitudine e di devozione verso quell’ammirabile sacramento nel quale giudichiamo basarsi in modo speciale la speranza e l’efficienza di quella salvezza e di quella pace che è il sospiro di tutti i cuori. – Questo Nostro pensiero, che al mondo, da ogni parte turbato e ridotto in così misera condizione, convenga provvedere principalmente con simili aiuti e rimedi, ad alcuni certamente farà meraviglia, e da altri sarà forse accolto con superbo disprezzo. Ma ciò viene soprattutto dalla superbia, vizio che, quando alligna negli animi, vi snerva necessariamente la fede cristiana, la quale esige un ossequio religiosissimo della mente, e vi addensa più scura la caligine intorno alle cose divine, così che a molti si addice quel detto: “Bestemmiano tutto ciò che non conoscono” (Gd. 10). Noi però, invece di desistere per questo dal Nostro proposito, continuiamo, con più vivo ardore, ad illuminare i ben disposti e ad impetrare da Dio perdono, interponendovi la fraterna implorazione dei giusti, ai bestemmiatori delle cose sante. – Il conoscere con perfetta fede quale sia l’efficacia della santissima Eucaristia, vale quanto conoscere quale sia l’opera che, a beneficio del genere umano, Dio fatto uomo compì con la sua potente misericordia, come e infatti ufficio della fede retta professare e adorare Cristo quale sommo fattore della nostra salute, che, con la sapienza, con le leggi, con le istituzioni, con gli esempi, con l’effusione del sangue, restaurò ogni cosa; così ad essa appartiene professarlo e adorarlo realmente presente nell’eucaristia in modo che, verissimamente egli rimane tra gli uomini sino alla fine del mondo, e da Maestro e Pastore buono e intercessore accettissimo verso il Padre, dà personalmente agli uomini, in continua abbondanza, i benefici della redenzione operata. Fra questi benefici poi provenienti dall’Eucaristia, chi attentamente e religiosamente considera, vedrà primeggiare e risplendere quello che tutti gli altri contiene: dall’Eucaristia cioè proviene agli uomini quella vita che è la vera vita; “II pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv VI, 52). In più maniere, come abbiamo detto altra volta, Cristo è “vita”. Egli diede per motivo della sua venuta fra gli uomini il voler loro portare una sicura abbondanza di vita più che umana: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in sovrabbondanza” (Gv X, 10). E infatti appena sulla terra “apparve la benignità e l’amore del Salvatore Dio nostro” (Tt 3,4), nessuno ignora che subito eruppe una certa forza creatrice di un ordine affatto nuovo di cose, e s’infiltrò in tutte le vene della società domestica e civile. Di là nuovi vincoli tra uomo e uomo; nuovi diritti privati e pubblici; nuovi doveri; nuova direzione alle istituzioni, alle discipline, alle arti; e, ciò che più importa, gli animi e le cure degli uomini furono volti alla verità della religione e alla santità dei costumi, e anzi fu comunicata agli uomini una vita del tutto celeste e divina. A ciò infatti si riferiscono quelle espressioni così frequenti nelle divine Scritture: “legno di vita, verbo di vita, libro di vita, corona di vita“, e soprattutto “pane di vita”. Ma poiché questa medesima vita, di cui parliamo, ha una evidente somiglianza con la vita naturale dell’uomo, come l’una si alimenta e vegeta col cibo, così bisogna che anche l’altra, con cibo suo proprio, si sostenti e si accresca. E qui cade a proposito il rammentare in qual tempo e in qual modo abbia Gesù Cristo mosso e indotto gli animi degli uomini a ricevere convenientemente e degnamente il pane vivo che stava per dare. Perché quando si sparse la fama di quel prodigio che Egli aveva operato sulla spiaggia di Tiberiade, moltiplicando i pani per saziare la moltitudine, subito molti accorsero a Lui, per vedere se per avventura potesse a loro toccare un ugual beneficio. E Gesù, colta l’occasione, come quando, dall’attingere che fece la Samaritana l’acqua del pozzo, prese lo spunto per mettere in lei la sete dell’acqua “che zampillerà in vita eterna” (Gv IV,14), così allora sollevò le menti avide delle moltitudini a bramare anche più avidamente un altro pane “che dura per la vita eterna” (Gv VI, 27). Né già questo pane, insiste ammonendo Gesù, è quella manna celeste che fu apprestata ai padri vostri pellegrinanti per il deserto; e neppure è quello che voi stessi testé avete ricevuto da me con tanta meraviglia; ma io medesimo sono questo pane: “Io sono il pane di vita” (Gv VI, 48). E la stessa cosa va sempre più insinuando a tutti, ora con gli inviti, ora coi precetti: “Chi mangerà di un tal pane, vivrà eternamente; e il pane che io darò è la mia carne per la salute del mondo” (Gv VI, 52). Dimostra poi la gravità del precetto asserendo: “In verità, in verità vi dico: Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo, e non berrete il mio sangue, non avrete in voi la vita” (Gv VI,54). – Si corregga perciò quel dannosissimo errore comune, che fa credere che l’uso dell’Eucaristia si debba lasciare a quelle persone che, libere da impegni e di animo gretto, amano dedicarsi alla vita devota. Quella cosa, che fra tutte è la più eccellente e salutare, appartiene a tutti, qualunque sia il loro grado e il loro ufficio; appartiene a tutti quelli cioè che vogliono (e ognuno deve volerlo) alimentare in loro la vita della grazia divina, che conduce al conseguimento della vita beata in Dio. – E Dio volesse che della sempiterna vita rettamente pensassero e si prendessero cura principalmente coloro, i quali, o per ingegno o per industria o per autorità, tanto possono nella direzione delle cose temporali e terrene, Ma invece siamo costretti a vedere e a deplorare che molti fastosamente spacciano d’aver essi dato al mondo vita nuova e felice, perché lo spingono a correre ardentemente all’acquisto di tutte le comodità e di tutte le meraviglie. Ma intanto, ovunque si guardi, si vede la società umana, che, se è lontana da Dio, invece di godere l’agognata tranquillità, soffre e trepida come chi è agitato da smaniosa febbre; mentre cerca ansiosamente la prosperità e confida solo in essa, se la vede sfuggire dinanzi, e corre dietro ad un’ombra che si dilegua. Perché gli uomini e la società, come necessariamente provengono da Dio, così in nessun altro possono vivere, muoversi e fare qualche bene, se non in Dio, per mezzo di Gesù Cristo; dal quale derivò sempre e deriva quanto vi è di buono e di eletto. – Ma la sorgente e il coronamento di tutti questi beni è soprattutto l’augusta Eucaristia, la quale, come nutre e sostenta quella vita, che tanto ci sta a cuore, così accresce immensamente quella dignità umana, che oggi sembra tenersi in gran pregio. Qual cosa infatti, è maggiore o più desiderabile che l’essere reso, per quanto è possibile, partecipe e consorte della divina natura? Or questo ci fa Gesù Cristo specialmente nell’eucaristia, nella quale, prendendo l’uomo già innalzato dalla grazia alle cose divine, più strettamente lo unisce e stringe a sé. La differenza tra il cibo del corpo e quello dell’anima, sta in questo, che il primo in noi si converte, il secondo ci converte in lui; perciò Agostino fa dire a Cristo medesimo: “Non tu muterai me in te, come il cibo della tua carne, ma tu stesso sarai mutato in me“. – Il grande progresso, che gli uomini fanno in ogni virtù soprannaturale, deriva da questo eccellentissimo sacramento, nel quale specialmente appare come gli uomini vengono inseriti nella divina natura. E prima nella fede, in ogni tempo la fede ebbe avversari perché, sebbene con la cognizione di importantissime cose elevi le menti umane, tuttavia sembra deprimere le menti umane, perché nasconde l’intima qualità di quelle cose che mostrò essere di soprannaturale. Una volta si combatteva ora questo ora quell’articolo di fede; nei tempi moderni invece la guerra divampò in campo assai più vasto, e siamo ora al punto che assolutamente nulla si ammette di soprannaturale. Orbene a ristorare negli animi il vigore e il fervore della fede nulla è più atto che il mistero eucaristico, detto per eccellenza il “mistero di fede”; come quello nel quale tutte le cose soprannaturali, con una singolare abbondanza e varietà di miracoli, sono comprese: “Ha lasciato un ricordo delle sue meraviglie il Signore clemente e misericordioso; ha dato un cibo a quelli che lo temono” (Sal CX, 4-5). Perché, se tutto quello che Dio fece di soprannaturale, lo riferì all’incarnazione del Verbo, in virtù del quale si doveva riparare la salute del genere umano, secondo quel detto dell’apostolo: “Ha stabilito… di riunire in Cristo tutte le cose, e quelle che sono nei cieli, e quelle che sono in terra” (Ef 1, 9-10); l’Eucarestia, per testimonianza dei santi padri, deve considerarsi come una continuazione e un ampliamento dell’incarnazione. Per essa infatti, la sostanza del Verbo incarnato si unisce coi singoli uomini, e si rinnova mirabilmente il supremo sacrificio del Golgota, come preannunziò Malachia: “In ogni luogo si sacrifica e si offre al mio nome un’oblazione pura” (Mal 1,11). Questo miracolo, massimo nel suo genere, è accompagnato da innumerevoli altri, perché qui tutte le leggi della natura sono sospese; tutta la sostanza del pane e del vino si converte nel corpo e nel sangue di Cristo, le specie del pane e del vino, senza appoggio alcuno, sono sostenute dalla potenza divina; il Corpo di Cristo si trova contemporaneamente in tutti quei luoghi nei quali si compie simultaneamente il sacramento. Affinché poi si faccia più intenso l’ossequio dell’umana ragione verso così grande mistero, vengono, come in aiuto, i prodigi fatti a gloria di esso, in antico, e anche a nostra memoria; dei quali in più luoghi vi sono pubblici e insigni monumenti. In questo sacramento dunque, vediamo alimentarsi la fede, nutrirsi la mente, sfatarsi le fisime dei razionalisti, e illustrarsi grandemente l’ordine soprannaturale. – Allo snervamento della fede nelle cose divine molto contribuisce non solo la superbia, come abbiamo detto, ma anche la depravazione dell’animo. Perciò, se avviene ordinariamente che quanto più uno è morigerato, tanto più è sveglio di mente, e che i piaceri sensuali annebbiano la mente; come riconobbe la stessa prudenza pagana, e la sapienza divina ci aveva già prima ammoniti (cf. Sap I, 4); assai più ciò si verifica nelle cose divine, perché le voluttà corporali oscurano il lume della fede, ed anche, per giusto castigo di Dio, totalmente l’estinguono. Di questi piaceri oggi arde una insaziabile cupidigia, che quasi morbo contagioso infetta tutti fin dalla più tenera età. Ma un eccellente rimedio a questo gravissimo male a nostra disposizione sempre nella divina Eucaristia. Perché, prima di tutto, aumentando la carità, raffrena la libidine, secondo quanto dice Agostino: “II nutrimento di essa (della carità) è lo smorzamento della passione, e la sua perfezione è il freno della passione“. Inoltre, la carne castissima di Gesù reprime l’insolenza della nostra carne, come ammonì Cirillo di Alessandria: “Cristo venendo in noi sopisce la legge che infuria nelle nostre membra”. È anche un singolare e giocondissimo frutto dell’Eucaristia quello che è significato da quel detto profetico: “Qual è il buono di lui (Cristo), qual è il bello di lui, se non il frumento degli eletti e il vino che fa germogliare le vergini?” (Zc IX, 17), cioè il forte e costante proposito della sacra verginità, il quale, anche in mezzo a un mondo che si stempera nella mollezza, di giorno in giorno più largamente nella Chiesa Cattolica fiorisce rigoglioso: e con grande vantaggio e decoro della religione e della stessa convivenza umana, come ognuno può constatare. – Si aggiunge che con questo sacramento mirabilmente si rinforza la speranza dei beni immortali e la fiducia nei divini aiuti, Aumenta infatti sempre più il desiderio della beatitudine, che in tutti gli animi è insito e innato, constatando la fallacia dei beni terrestri, la ingiusta violenza dei malvagi, e tutte le altre molestie dell’anima e del corpo. Ora l’augusto sacramento dell’Eucaristia è causa insieme e pegno della beatitudine e della gloria, e ciò non solo per l’anima, ma anche per il corpo. Perché nel tempo stesso che arricchisce gli animi con l’abbondanza dei beni celesti, li sparge anche di soavissime gioie, che di molto sorpassano ogni umana estimazione e speranza; sostenta nelle cose avverse, fortifica nella lotta della virtù, custodisce per la vita sempiterna, e ad essa conduce quasi apprestando il viatico. Similmente nel corpo caduco e labile ingenera la futura risurrezione, perché il Corpo immortale di Cristo vi inserisce un seme d’immortalità, che un giorno dovrà germogliare. La Chiesa ha sempre insegnato che questi due beni, uno per l’anima e l’altro per il corpo, provengono dall’Eucaristia; lo ha sempre insegnato in ossequio alla parola di Cristo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna; ed Io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv VI, 55). – Torna qui opportuno e molto importa il considerare che l’Eucaristia, essendo stata da Cristo istituita quasi “memoriale perenne della sua passione”, manifesti al Cristiano la necessità della penitenza salutare. Gesù infatti a quei primi suoi sacerdoti disse: “Fate questo in memoria di me” (Lc XXII, 19), cioè fate questo per commemorare i dolori, le amarezze, le angosce mie, la mia morte di croce. Perciò questo sacramento e insieme sacrificio è per tutti i tempi un’esortazione alla penitenza e ad ogni maggiore mortificazione, e insieme è una grave e severa condanna di quei piaceri, che uomini impudentissimi vanno tanto magnificando: “Tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, nell’attesa della sua venuta” (1Cor XI, 26). – Oltre a ciò, se si cercano le cause dei mali presenti, si troverà che esse procedono dal fatto che, raffreddandosi la carità verso Dio, anche la carità fra gli uomini venne a languire. Si sono essi dimenticati di essere figli di Dio e fratelli in Gesù Cristo; non curano se non ciascuno le cose proprie; le cose altrui non solo le trascurano, ma spesso le combattono e invadono. Quindi sorgono, fra le diverse classi di cittadini, frequenti turbolenze e contese: arroganza, durezza, frodi nei potenti; miserie, odi, scioperi nei sottomessi. A questi mali si aspetta invano il rimedio dalla provvidenza delle leggi, dal timore delle pene, dai consigli dell’umana prudenza. Bisogna procurare, con ogni sforzo, ciò che più volte Noi stessi abbiamo particolarmente inculcato, che cioè le classi dei cittadini si concilino tra di loro mediante uno scambio di buone opere che, derivate da Dio, siano informate al vero spirito e alla carità di Gesù Cristo. Cristo portò la carità sulla terra, di questa volle infiammata ogni cosa, perché essa sola potrebbe fin d’ora far gustare qualche saggio della beatitudine non solo all’anima, ma anche al corpo. La carità infatti, reprime nell’uomo lo smodato amore di se stesso e frena l’avidità delle ricchezze, che “è la radice di tutti i mali” (1Tm VI, 10). Sebbene poi sia giusto che tra le classi dei cittadini tutte le parti della giustizia siano convenientemente tutelate; pure, con gli aiuti e moderazioni suggeriti dalla carità, sarà dato di ottenere che nell’umana società “si faccia quell’uguaglianza” (2Cor VIII, 14), che raccomandava san Paolo, e che, una volta realizzata, la si conservi. Ecco ciò che intese Cristo nell’istituire questo augusto sacramento: eccitando l’amor di Dio, volle fomentare il mutuo amore fra gli uomini. Perché questo da quello, com’è chiaro, naturalmente deriva e spontaneamente si effonde: né potrà mai mancare in parte alcuna, anzi sarà necessario che cresca e divampi, quando si consideri la carità di Cristo verso gli uomini, in questo sacramento; nel quale, come magnificamente spiegò la sua potenza e sapienza, cosi “effuse le ricchezze del suo amore divino verso gli uomini“. Dopo questo insigne esempio di Cristo, che ci dona tutte le cose sue, quanto dobbiamo noi amarci e soccorrerci a vicenda, ogni giorno sempre più uniti da un legame fraterno! E si noti come anche i segni esteriori di questo sacramento sono opportunissimi incitamenti all’unione. A questo proposito san Cipriano dice: “Infine anche il Sacrificio del Signore dichiara l’universale unione dei Cristiani fra di loro, e, con ferma e inseparabile carità, uniti a Lui. Perché quando il Signore chiama suo corpo il pane, fatto con l’unione di molti grani, significa che il popolo nostro da Lui condotto è un popolo riunito insieme, e quando suo sangue chiama il vino, che è spremuto da grappoli e acini moltissimi e fuso in uno, significa similmente che il nostro gregge è composto di una mista moltitudine raccolta insieme”. Così l’angelico dottore, ripetendo un pensiero di Agostino,dice: “Il Signore nostro ci lasciò rappresentato il corpo e il sangue suo in quelle cose che da più si raccolgono in uno; perché l’una di esse, cioè il pane, è un tutto formato da più grani, l’altra, cioè il vino, è un tutto composto di più acini: perciò Agostino dice altrove; O sacramento di pietà, o segno di unità, o vincolo di carità!”. Tutte queste cose si confermano con la sentenza del Concilio Tridentino, che insegna “avere Cristo lasciato alla Chiesa l’Eucaristia come simbolo di quella unità e carità, con la quale volle che i Cristiani fossero congiunti e uniti fra loro, … simbolo di quel corpo uno, di cui Egli è il capo, e al quale volle che noi, come membra, fossimo uniti con strettissimo vincolo di fede, di speranza e di carità”. E questo aveva detto Paolo: “Siccome vi è un unico pane, noi, pur essendo molti, formiamo un sol corpo, comunicandoci col medesimo pane” (1Cor X, 17). Ed è davvero un bellissimo e festosissimo spettacolo di cristiana fratellanza e uguaglianza sociale, l’accorrere che fanno assieme, ai sacri altari, il patrizio e il popolano, il ricco e il povero, il dotto e l’ignorante, partecipando ugualmente al medesimo convito celeste. – Che se giustamente nei fasti della Chiesa nascente si attribuisce a lode sua propria che “la moltitudine dei credenti formava un solo cuore e un’anima sola” (At IV, 32), certamente appare che questo gran bene essi dovevano alla frequenza della Comunione eucaristica, perché leggiamo di loro; “Erano assidui alla istruzione degli Apostoli, nell’unione, nello spezzare il pane” (At II,42), – Inoltre, la grazia della mutua carità fra i viventi, che tanta forza e incremento riceve dal sacramento eucaristico, in virtù specialmente del sacrificio, si partecipa a tutti quelli che sono nella comunione dei Santi. Poiché, come tutti sanno, la Comunione dei santi non è altro che una scambievole partecipazione di aiuto, di espiazione, di preghiere, di benefici, tra i fedeli, o trionfanti nella celeste patria, o penanti nel fuoco del purgatorio. o ancora pellegrinanti in terra, dai quali risulta una sola città, che ha Cristo per capo, e la carità per forma, Sappiamo poi dalla fede che, sebbene l’augusto Sacrificio solo a Dio possa offrirsi, si può pure celebrare in onore dei Santi che regnano in cielo con Dio, “che li ha coronati”, al fine di ottenere il loro patrocinio, e anche, come sappiamo dalla tradizione apostolica, per cancellare le macchie dei fratelli, che già morti nel Signore, non siano ancora interamente purificati. – Dunque quella sincera carità, che a salute e vantaggio di tutti, tutto suole fare e patire, scaturisce e divampa operosa dalla santissima Eucaristia, dov’è lo stesso Cristo vivente, dove allenta il freno al suo amore per noi, e spinto da un impeto di carità divina rinnova perpetuamente il suo Sacrificio. Così facilmente appare donde abbiano avuto origine le ardue fatiche degli uomini apostolici, e donde tanti e sì svariati istituti di beneficenza, insieme con l’origine, traggono le forze, la costanza e i felici successi. – Queste poche cose in materia sì ampia non dubitiamo che torneranno utilissime al gregge cristiano, se per opera vostra, venerabili fratelli, saranno opportunamente esposte e raccomandate. Ma un sacramento così grande ed efficace da ogni punto di vista non si potrà mai da nessuno né lodare, né venerare secondo il merito. Sia che esso si mediti, sia che devotamente si adori, sia ancora che con purezza e santamente si riceva, dev’essere considerato quale centro in cui tutta la vita cristiana si raccoglie: gli altri modi di pietà, quali che siano, tutti a questo conducono e in questo finiscono. E quel benigno invito e quella più benigna promessa di Cristo: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed Io vi ristorerò” (Mt XI,28), si compie specialmente in questo mistero e in esso si avvera ogni giorno. – Infine esso è ancora come l’anima della Chiesa, e ad esso la stessa ampiezza della grazia sacerdotale si dirige per i vari gradi degli ordini. La Chiesa di là attinge ed ha tutta la virtù e gloria sua, tutti gli ornamenti dei divini carismi, infine ogni bene: ed essa perciò pone ogni cura nel preparare e condurre gli animi dei fedeli ad una intima unione con Cristo mediante il sacramento del corpo e sangue suo: e, con l’ornamento di cerimonie santissime, gli accresce la venerazione. La perpetua provvidenza di santa madre Chiesa, in questa parte, emerge chiarissima, principalmente da quella esortazione, che fu fatta nel sacro Concilio di Trento, spirante una certa carità e pietà mirabile, davvero degna di essere qui da Noi tutta intera ripresentata al popolo cristiano: “Con paterno affetto, ammonisce il santo sinodo, esorta, prega e scongiura, per la bontà misericordiosa del nostro Dio, che, tutti e singoli, quelli che appartengono alla professione cristiana, in questo segno d’unità, in questo vincolo di carità, in questo simbolo di concordia finalmente una buona volta si uniscano e si accordino; e memori di tanta maestà e di tanto esimio amore di Gesù Cristo Signore nostro, che diede la diletta anima sua a prezzo della nostra salute, e la sua carne ci porse a mangiare: con tanta costanza e fermezza di fede, con tanta devozione e pietà e culto, di cuore credano e adorino questi sacri misteri del corpo e sangue di Lui, affinché possano frequentemente ricevere questo pane soprasostanziale, ed esso sia veramente la vita dell’anima loro, e la perpetua sanità della mente, e confortati dal suo vigore, possano giungere, dalla via di questo misero pellegrinaggio, alla patria celeste, dove mangeranno senza alcun velo questo medesimo Pane degli angeli, che ora ricevono velatamente”. – La storia poi ci mostra che la vita cristiana allora fiorì più rigogliosa, quando fu più in uso l’accostarsi spesso a questo divin sacramento. Invece è manifesto che quando gli uomini avevano questo pane celeste in noncuranza e come in fastidio, a poco a poco veniva languendo il vigore della professione cristiana. Il quale affinché un giorno non si estinguesse del tutto, opportunamente provvide, nel Concilio Lateranense, Innocenzo III, gravissimamente ordinando che ogni Cristiano dovesse comunicarsi almeno per Pasqua. È chiaro poi che questo precetto fu dato a malincuore, e come rimedio estremo; perché il desiderio della Chiesa fu sempre questo, che ad ogni Messa vi fossero alcuni partecipanti a questa divina mensa. “Bramerebbe il sacrosanto sinodo che, nelle singole messe, i fedeli assistenti si comunicassero non solo spiritualmente ma anche col ricevere sacramentalmente l’Eucaristia, affinché potessero percepire in maggior abbondanza il frutto di questo santissimo sacrificio”. – Certamente una ricca abbondanza di salvezza, non solo per i singoli, ma per gli uomini tutti, ha in sé questo augustissimo mistero, in quanto è sacrificio; perciò dalla Chiesa suole assiduamente offrirsi “per la salute di tutto il mondo”, del quale Sacrificio è conveniente che tutti i buoni si uniscano per diffondere la devozione e il culto, anzi questo è, ai giorni nostri, assolutamente necessario, E perciò vorremmo che le sue molteplici virtù fossero più largamente conosciute e più attentamente valutate. – Sono princìpi chiari, al solo lume naturale, che Dio creatore e conservatore ha un supremo e assoluto dominio sugli uomini, in privato e in pubblico; che quanto siamo e quanto abbiamo di bene, in privato e in pubblico, tutto ci viene dalla divina bontà; e che per conseguenza noi dobbiamo somma riverenza a Dio, come Signore, e massima gratitudine, come munifico benefattore. Ma quanti sono oggi coloro che apprezzano e osservano come e quanto dovrebbero questi doveri? Più di ogni altra, l’età nostra riottosa s’inalbera contro Dio, e fa risuonare di nuovo contro Cristo quella nefanda parola: “Non vogliamo che costui regni su di noi” (Lc XIX,14), e quel nefando proposito: “Facciamolo sparire!” (Ger XI, 19); né altro con maggior forza molti cercano, se non che Dio venga allontanato dalla società civile. E, sebbene non si giunga ovunque a tale eccesso di scellerata demenza, è però cosa lacrimevole vedere quanti vivono affatto dimentichi della divina Maestà e dei suoi benefìci, e specialmente della salvezza portataci da Gesù Cristo. Orbene questa sì grande nequizia, o infingardaggine che dir si voglia, bisogna che sia riparata con un aumento di ardore nella comune pietà del culto del Sacrificio eucaristico, del quale nulla può tornare a Dio più onorevole, nulla più gradito. Poiché la Vittima che si immola è divina, ne consegue che tanto di onore all’augusta Trinità per lei si rende, quanto l’immensa dignità di questa ne esige; offriamo altresì al Padre un dono e per prezzo e per soavità infinito, quale è il suo Unigenito; e così non solo alla sua benignità porgiamo grazie, ma veniamo ad offrirle un vero ricambio. E un altro doppio insigne frutto si può e si deve ricavare da tanto sacrificio. Si stringe il cuore al pensare quanta colluvie di peccati dappertutto dilaga, una volta trascurata, come dicemmo, e disprezzata l’autorità di Dio. Una gran parte del genere umano sembra proprio volere attirarsi sul capo l’ira celeste, sebbene i mali stessi che ci premono, ci mostrano chiaramente che il giusto castigo è già maturato. Bisogna dunque eccitare i fedeli anche a questo; che piamente gareggino nel placare Dio, giusto Giudice, e nell’implorarne gli opportuni aiuti al mondo pieno di calamità. Or queste cose, s’intenda bene, si devono ottenere principalmente per mezzo di questo Sacrificio.
Ché il soddisfare abbondantemente alla giustizia di Dio e l’impetrare largamente i doni della sua clemenza, non può altrimenti farsi dagli uomini se non in virtù della morte sofferta da Gesù Cristo. Ma questa stessa virtù, sia d’espiare sia d’impetrare, volle Cristo che tutta intera restasse nell’Eucaristia, la quale non è una vuota e semplice memoria della sua morte, ma ne è una vera e mirabile, sebbene incruenta e mistica, rinnovazione. Per altro, non poco Ci rallegra, e lo palesiamo volentieri, che in questi ultimi anni si noti nei fedeli un certo risveglio dell’amore e dell’ossequio verso il Sacramento eucaristico; donde prendiamo augurio e speranza di tempi e cose migliori, Molte infatti e varie cose di questo genere, come da principio dicemmo, furono dalla solerte pietà introdotte, specialmente sodalizi, sia per accrescere lo splendore del culto eucaristico, sia per l’adorazione perpetua dell’augustissimo sacramento, sia per la riparazione delle ingiurie e contumelie che gli si fanno. In queste cose però, venerabili fratelli, non dobbiamo fermarci, né Noi, né voi; perché troppe altre ne restano da promuovere o da intraprendere, affinché questo divinissimo dono, presso quei medesimi che adempiono i doveri della religione cristiana, sia posto m quella luce e in quell’onore che merita, e un mistero così grande sia venerato il più degnamente possibile. – Questo perché le Opere già avviate si hanno da condurre sempre più innanzi; le antiche istituzioni, se in qualche luogo andarono in disuso, si devono richiamare in vigore, come sono ad esempio i sodalizi eucaristici, le preghiere delle Quarantore, le solenni processioni, le visite al santissimo sacramento nel tabernacolo, e altre simili pratiche molto salutari; e di più s’ha da intraprendere tutto quello che la prudenza e la pietà potranno suggerire a questo proposito. Ma soprattutto bisogna adoperarsi perché rifiorisca, in ogni parte del mondo cattolico, la frequenza alla mensa eucaristica. Questo ci dicono i sopra allegati esempi della Chiesa nascente; questo i decreti dei Condii, questo l’autorità dei Padri e dei Santi di tutti i secoli: perché come il corpo, così l’anima spesso abbisogna del proprio cibo, or l’alimento più vitale è fornito appunto dal sacramento dell’Eucarestia. Perciò bisogna togliere del tutto certi pregiudizi degli avversari, certi vani timori di molti, certi pretesti per astenersene: si tratta di cosa della quale nessun’altra è più vantaggiosa ai fedeli, sia per redimere il tempo dalle troppe sollecitudini terrene, sia per risvegliare lo spirito cristiano e costantemente mantenerlo, Ad ottenere questo saranno di grande aiuto le esortazioni e gli esempi delle classi più ragguardevoli, e soprattutto la solerzia e l’industria del clero. Poiché i sacerdoti, ai quali Cristo redentore affidò l’ufficio di celebrare e dispensare i misteri del corpo e sangue suo, non possono meglio ripagarlo del sommo onore ricevuto, che col promuovere con ogni diligenza, la sua eucaristica gloria, e con l’invitare e condurre, secondando cosi i desideri del suo sacratissimo Cuore, tutte le anime alle salutari sorgenti di un cosi grande Sacramento e Sacrificio. – In tale modo avverrà, ciò che grandemente bramiamo, che gli eccellenti frutti dell’Eucaristia si percepiscano sempre più abbondanti ogni giorno, mediante il felice aumento della fede, della speranza, della carità e d’ogni cristiana virtù, Ciò tornerà pure a vantaggio dello Stato: sempre più si manifesteranno i disegni della provvidentissima carità del Signore, che un tale mistero stabilì in perpetuo “per la vita del mondo”. – Con questa speranza, venerabili fratelli, a pegno dei doni divini e a testimonianza della Nostra carità, a tutti voi, al vostro clero, e al popolo, impartiamo con grande affetto la benedizione apostolica.

Roma, presso San Pietro, il giorno 28 maggio, vigilia della solennità del Corpo di Cristo, dell’anno 1902, anno XXV del nostro pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI INFAMI USURPANTI ASPOSTATI DI TORNO: SS. PIO IX, “UBI NOS”

Une source doctrinale : les encycliques

Ubi nos, è un’ennesima lettera enciclica con la quale il Santo Padre Pio IX, deplora l’usurpazione dei territori della Chiesa, e denuncia al mondo intero l’ipocrita empietà di un regno affidato ad indegni ed apostati monarchi, e portati innanzi da turpi governanti gestiti dalle conventicole demoniache della massoneria. La fine di quelle indegna empia monarchia è nota a tutti per il vergognoso ed umiliante esilio ad essa imposta, e le vicende incredibilmente infami con le quali ha macchiato il nome di un casato pur celebre e glorioso. Quella nazione avida ed indegna di tanti privilegi divini, che ha depredato sacrilegamente luoghi e territori che l’Altissimo aveva elargito alla sua Chiesa, è pur essa stata sottoposta a castighi sanguinosi e distruttivi della sua dignità, ed ancora tuttora lo è nelle sue più elementari libertà, oppressa da poteri stranieri e dalle solite conventicole della sinagoga dell’infame cornuto, infiltrate finanche nei palazzi sacri dell’urbe e che muovono i fili di ridicole e tragiche marionette, sepolcri imbiancati già immersi nello stagno di fuoco ove sosteranno in eterno con i loro “alleati” della bestia e con il dragone maledetto.     

S. S. PIO IX:

Lettera Enciclica

UBI NOS

Quando, per arcano volere divino, fummo ridotti sotto un potere ostile, e vedemmo la triste e amara sorte di questa Nostra Urbe e il civile Principato della Sede Apostolica oppresso dall’invasione armata, proprio allora, con una lettera a Voi inviata il primo novembre dell’anno scorso, dichiarammo a Voi e, per mezzo Vostro, a tutto il mondo cattolico, quale fosse la situazione Nostra e di questa Urbe e a quali eccessi di sfrenata licenza fossimo esposti. Per dovere del Nostro supremo ufficio, al cospetto di Dio e degli uomini, abbiamo dichiarato di voler salvi ed integri i diritti della Sede Apostolica, e abbiamo incitato Voi e tutti i diletti Figli affidati alle vostre cure a placare con fervide preci la divina Maestà. Da quel momento i mali e le sventure che già erano preannunciate a Noi e a questa Urbe da quei primi nefasti tentativi d’usurpazione si rovesciarono sulla dignità e Autorità Apostolica, sulla santità della Religione e dei costumi, e perciò anche sui dilettissimi Nostri sudditi. Anzi, Venerabili Fratelli, aggravandosi ogni giorno la situazione, siamo costretti a dire, con le parole di San Bernardo: “Gli inizi delle sventure sono questi, e ne temiamo di ancor più gravi” . L’iniquità infatti persevera nel seguire la sua strada e sviluppa i suoi piani, né si affanna d’altro che di stendere un velo sulle sue nefaste imprese che non possono restare nascoste, e si sforza di sottrarre le ultime spoglie alla giustizia oppressa, alla onestà e alla religione. Tra queste angustie che colmano i nostri giorni di amarezza, soprattutto quando pensiamo a quali pericoli e a quali insidie sono sottoposti, giorno per giorno, i fedeli e la virtù del nostro popolo, non possiamo onorare o ricordare senza un profondo senso di gratitudine gli eccelsi meriti vostri, Venerabili Fratelli, e dei diletti fedeli avvinti dal vostro amore. Infatti, in ogni plaga della terra i fedeli di Cristo, rispondendo con ammirevole premura alle Nostre esortazioni, hanno seguito Voi come maestri e modelli, e da quel giorno infausto in cui fu espugnata questa Urbe, indissero assidue e ferventi preghiere e sia con pubbliche e ripetute suppliche, sia con sacri pellegrinaggi, sia con ininterrotta affluenza nelle Chiese e con la partecipazione ai Sacramenti, sia con altre opere di ispirazione cristiana, ritennero proprio dovere accostarsi assiduamente al trono della divina clemenza. Né invero queste appassionate invocazioni possono mancare di copiosissimi frutti presso Dio. Anzi, i molti beni già ottenuti da esse ne promettono altri, da Noi attesi con fiducia e speranza. Vediamo infatti la fermezza della fede e l’ardore della carità che si diffondono ogni giorno più ampiamente; scorgiamo negli animi dei fedeli, in favore di questa Sede e del supremo Pastore quella sollecitudine (risvegliata dall’offesa dell’attacco subito) che Dio solo poté ispirare, e avvertiamo tanta solidarietà di menti e di volontà che mai più, e più veracemente che in questi giorni, dai primordi della Chiesa fino a questi tempi, si potrà affermare che il cuore e l’anima di una moltitudine di credenti sono una sola realtà (At IV, 32). Di fronte a una tale prova di virtù, non possiamo tacere che nei Nostri affettuosissimi figli, cittadini di ogni ordine e grado di questa Urbe, venne in piena luce un devoto, rispettoso amore verso di Noi, e insieme la fermezza pari all’impresa, e la grandezza d’animo non solo degna ma emula dei loro antenati. Pertanto, rendiamo grazie e gloria immortale a Dio misericordioso in nome di Voi tutti, Venerabili Fratelli, e dei Nostri diletti figli, fedeli di quel Cristo che tanto ha operato e opera in Voi e nella Sua Chiesa, e ha fatto sì che, mentre sovrabbonda l’iniquità, sovrabbondi anche la grazia della fede, dell’amore e della confessione. “Quale è dunque la Nostra speranza, il Nostro gaudio e la corona di gloria? Non è forse la vostra presenza davanti a Dio? Il figlio sapiente è gloria del Padre. Vi benefichi dunque Dio, e si ricorderà del fedele servizio, della pia compassione, della consolazione e dell’onore che alla Sposa di suo Figlio in tempo avverso e nei giorni del suo dolore avete mostrato e mostrate” . – Frattanto il Governo Subalpino, mentre per un verso si affretta a raccontare al mondo fandonie sull’Urbe, per l’altro, allo scopo di gettar polvere negli occhi dei Cattolici e di sopire le loro ansie, ha studiato e sviluppato alcune inconsistenti immunità e alcuni privilegi volgarmente detti guarentigie, che intende concedere a Noi in sostituzione di quel potere temporale di cui Ci ha spogliato con una lunga serie d’inganni e con armi parricide. Su queste immunità e garanzie, Venerabili Fratelli, abbiamo già espresso il Nostro giudizio, rilevando la loro oltraggiosa doppiezza nella lettera del 2 marzo scorso, inviata al Nostro Venerabile Fratello Costantino Patrizi, Cardinale della Santa Romana Chiesa, decano del Sacro Collegio e Nostro Vicario nell’Urbe: lettera che subito fu pubblicata a stampa. – Ma poiché è tipico del Governo Subalpino coniugare l’ostinata e turpe ipocrisia con l’impudente disprezzo verso la Nostra dignità e autorità Pontificia, nei fatti dimostra di non tenere in alcun conto le Nostre proteste, richieste, censure; perciò, senza dare alcun peso al giudizio da Noi espresso circa le predette garanzie, non desiste dal sollecitare e promuovere il dibattito e l’esame di esse presso i supremi Ordini del Regno, come se si trattasse di cosa seria. In quel dibattito emerse in piena luce sia la verità del Nostro giudizio circa la natura e l’indole di quelle garanzie, sia il vano tentativo dei nemici di occultarne la malizia e la frode. Certo, Venerabili Fratelli, è incredibile che tanti errori, apertamente incompatibili con la fede cattolica e perfino con gli stessi fondamenti del diritto naturale, e tante bestemmie che in quella occasione furono pronunciate, abbiano potuto pronunciarsi in questa Italia che si è sempre gloriata e si gloria del culto della Religione Cattolica e della Sede Apostolica del Romano Pontefice. E in realtà, proteggendo Iddio la Sua Chiesa, del tutto diversi sono i sentimenti che nutre la maggior parte degli Italiani: essi con Noi lamentano e deplorano questa inaudita forma di sacrilegio e Ci hanno dimostrato, con le loro meritevoli prove e con impegni di devozione ogni giorno più evidenti, di essere solidali, in unione di spirito e di sentimenti, con gli altri Fedeli della terra. – Perciò oggi di nuovo Noi Vi rivolgiamo le Nostre parole, Venerabili Fratelli, e sebbene i Fedeli a Voi affidati o con le loro lettere o con severe proteste abbiano chiaramente significato con quanta amarezza subiscano la situazione che Ci affligge, e quanto siano lontani dal farsi ingannare da quei raggiri che si nascondono sotto il nome di garanzie; tuttavia riteniamo sia dovere del Nostro ufficio Apostolico dichiarare solennemente a tutto il mondo, per mezzo Vostro, che non solo le cosiddette garanzie malamente fabbricate dal Governo Subalpino, ma anche titoli, onori, immunità, privilegi e qualunque altra offerta fatta sotto il nome di garanzie o di guarentigie non hanno alcuna validità quando dichiarano sicuro e libero l’uso del potere a Noi affidato da Dio e di voler proteggere la necessaria libertà della Chiesa. – Stando così le cose, come più volte dichiarammo e denunciammo, Noi, per non violare la fede, non possiamo aderire con giuramento ad alcuna conciliazione forzata che in qualche modo annulli o limiti i Nostri diritti, che sono diritti di Dio e della Sede Apostolica; così ora, per dovere del Nostro ufficio, Noi dichiariamo che mai potremo in alcun modo ammettere o accettare quelle garanzie, ossia guarantigie, escogitate dal Governo Subalpino, qualunque sia il loro dispositivo, né altri patti, qualunque sia il loro contenuto e comunque siano stati ratificati, in quanto essi ci furono proposti con il pretesto di rafforzare la Nostra sacra e libera potestà in luogo e in sostituzione del Principato civile di cui la divina Provvidenza volle dotata e rafforzata la Santa Sede Apostolica, come Ci è confermato sia da titoli legittimi e indiscussi, sia dal possesso di undici secoli ed oltre. Infatti, ad ognuno deve risultare chiaro che necessariamente, qualora il Romano Pontefice fosse soggetto al potere di un altro Principe, né fosse dotato di più ampio e supremo potere nell’ordine politico, non potrebbe per ciò che riguarda la sua persona e gli atti del ministero Apostolico, sottrarsi all’arbitrio del Principe dominante, il quale potrebbe anche diventare eretico o persecutore della Chiesa, o trovarsi in guerra o in stato di guerra contro altri Principi. Certamente questa stessa concessione di garanzie di cui parliamo non è forse, di per sé, evidentissima prova che a Noi fu data una divina autorità di promulgare leggi concernenti l’ordine morale e religioso; che a Noi, designati in tutto il mondo come interpreti del diritto naturale e divino, verrebbero imposte delle leggi, e per di più leggi che si riferiscono al governo della Chiesa universale, il cui diritto di conservazione e di esecuzione non sarebbe altro che la volontà prescritta e stabilita dal potere laico? Per ciò che riguarda il rapporto tra Chiesa e Società civile, ben sapete, Venerabili Fratelli, che Noi ricevemmo direttamente da Dio, in persona del Beatissimo Pietro, tutte le prerogative e tutta la legittima autorità necessaria al governo della Chiesa universale, e che anzi quelle prerogative e quei diritti, e quindi anche la stessa libertà della Chiesa, derivano dal sangue di Gesù Cristo e devono essere stimati secondo l’infinito valore del Suo sangue divino. – Pertanto Noi saremmo immeritevoli (e ciò non accada) del divino sangue del Nostro Redentore se questi Nostri diritti, che ora soprattutto si vorrebbero così sviliti e deturpati, dipendessero dai Principi della terra. I Principi Cristiani infatti, sono figli, non padroni della Chiesa. Ad essi propriamente si rivolgeva Anselmo, quel lume di santità e di dottrina, Arcivescovo di Canterbury: “Non dovete credere che la Chiesa di Dio vi sia stata data per servire a un padrone, ma piuttosto per servire come avvocato e difensore; in questo mondo nulla Dio ama di più che la libertà della sua Chiesa” . E aggiungendo altre esortazioni per essi, in altro momento scriveva: “Non dovete pensare mai che diminuisca la dignità della vostra grandezza se amate e difendete la libertà della Chiesa, Sposa di Dio e Madre vostra; non crediate di umiliarvi se la esaltate; non temete di indebolirvi se la rafforzate. Guardatevi attorno, gli esempi sono evidenti. Abbiate presenti i Principi che la combattono e la opprimono: che giovamento ne traggono? A qual esito pervengono? È abbastanza chiaro, non c’è bisogno di dirlo. Sicuramente, coloro che la glorificano, con essa ed in essa saranno glorificati” . – Dunque, Venerabili Fratelli, dopo tutto ciò che vi abbiamo detto, a nessuno per certo può sfuggire che l’offesa recata a questa Santa Sede, in questi tempi crudeli, ricade su tutta la Comunità Cristiana. Ad ogni Cristiano dunque, come diceva San Bernardo, è rivolta l’offesa che colpisce gli Apostoli, appunto i gloriosi Principi della terra; e siccome la Chiesa Romana si dà pensiero di tutte le Chiese, come diceva il predetto Sant’Anselmo, chiunque ad essa sottrae ciò che è suo, deve essere giudicato colpevole di sacrilegio non solo verso di essa ma verso tutte le Chiese. Né certo alcuno può dubitare che la tutela dei diritti di questa Sede Apostolica non sia strettamente congiunta e collegata con le supreme ragioni e i vantaggi della Chiesa universale e con la libertà del vostro ministero Episcopale. – Nel riflettere e considerare tali questioni, come è Nostro dovere, Noi siamo costretti a confermare nuovamente e a dichiarare con insistenza ciò che più di una volta esponemmo a Voi, del tutto consenzienti con Noi, ossia che il potere temporale della Santa Sede è stato concesso al Romano Pontefice per singolare volontà della Divina Provvidenza e che esso è necessario affinché lo stesso Pontefice Romano, mai soggetto a nessun Principe o a un Potere civile, possa esercitare la suprema potestà di pascere e governare in piena libertà tutto il gregge del Signore con l’autorità conferitagli dallo stesso Cristo Signore su tutta la Chiesa e perché possa provvedere al maggior bene della stessa Chiesa ed agli indigenti. Voi certamente comprendete tutto ciò, Venerabili Fratelli, e con Voi i Fedeli a Voi affidati, e giustamente Voi tutti siete in ansia per la causa della religione, della giustizia e della pace che sono i fondamenti di tutti i beni, e date lustro alla Chiesa di Dio con un degno spettacolo di fede, di amore, di costanza, di virtù e, fedelmente intenti alla sua difesa, tramandate un nuovo e ammirevole esempio, degno dei suoi annali e della memoria delle future generazioni. Poiché il Dio della misericordia è autore di questi beni, a Lui sollevando gli occhi, i cuori e la speranza Nostra, Lo supplichiamo con insistenza perché confermi, rafforzi, accresca i sentimenti Vostri e dei Fedeli, la pietà comune, l’amore e lo zelo. Con ogni premura esortiamo Voi e i popoli affidati alla Vostra vigilanza affinché ogni giorno, con tanta più fermezza e rigoglio quanto più minacciosamente si agitano i nemici, invochiate con Noi il Signore perché si degni di maturare i giorni della sua benevolenza. Provveda Iddio perché i Principi della terra che hanno particolare interesse ad evitare che il caso di usurpazione di cui siamo vittime diventi regola a danno di ogni ordine e potere, si uniscano in un perfetto accordo di animi e di volontà e, placate le discordie, sedate le turbolenze delle ribellioni, disperse le esiziali opinioni delle sette, svolgano un’opera comune affinché siano restituiti a questa Santa Sede i suoi diritti, e con essi la piena libertà al Capo visibile della Chiesa e la desiderata pace al consorzio civile. E con altrettanto ardore, Venerabili Fratelli, con le suppliche Vostre e dei Fedeli, chiedete alla divina clemenza che converta alla penitenza i cuori degli empi, rimuovendo la cecità delle menti prima che sopraggiunga il grande e terribile giorno del Signore o, col reprimere i loro infami propositi, dimostri quanto ottusi e stolti sono coloro che tentano di rovesciare la pietra posata da Cristo e di violare i divini privilegi. In queste preghiere si fondino più saldamente le Nostre speranze in Dio. “Davvero pensate che Dio potrebbe distogliere l’orecchio dalla sua carissima Sposa quando invoca aiuto contro coloro che la fanno soffrire? Come non riconoscerebbe un osso delle sue ossa, la carne della sua carne, anzi in certo modo, in verità, lo spirito del suo spirito? È certamente giunta l’ora della malizia, il potere delle tenebre. D’altronde è l’ultima ora, e il potere presto scompare. Cristo, potenza e sapienza di Dio, è con Noi, partecipa con Noi. Abbiate fiducia, Egli vince il mondo“. Frattanto ascoltiamo con animo aperto e con salda fede la voce dell’eterna verità che dice: “Combatti per la giustizia, per la tua anima, e fino alla morte lotta per la giustizia: Dio sconfiggerà per te i tuoi nemici” (Sir IV, 28). – Infine, con tutto il cuore invocando doni fecondi di celesti grazie per Voi, Venerabili Fratelli, per tutti gli Ecclesiastici e per i fedeli Laici affidati alla cura di ciascuno di Voi, come pegno del Nostro grande e intimo affetto verso Voi e i Fedeli, amorosamente impartiamo a Voi e agli stessi diletti Figli l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 maggio 1871, nel venticinquesimo anno del Nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO XII, “HAURIETIS AQUAS” (1)

Haurietis aquas è une delle più belle ed importanti lettere Encicliche del Magistero pontificio. Una scritto meraviglioso, ben ordinato e ricco di riferimenti dottrinali miscelati sapientemente con una linearità ed una verità che illustra mirabilmente questo culto che la Chiesa ha accolto ha accolto come doveroso omaggio all’amore di Cristo per gli uomini, ed indica a tutti i Cristiani ed all’umanità intera come elemento salvifico decisivo in vista dell’eterna beatitudine.  … « di fronte alla minaccia di gravi sciagure che già da molto tempo sovrasta, è urgente che si ricorra, per scongiurarle, all’aiuto di Colui che soltanto, ha la potenza per allontanarle. E chi altri potrà essere costui, se non Gesù Cristo. l’Unigenito di Dio? Poiché non c’è sotto il cielo alcun altro nome dato agli uomini, dal quale possiamo aspettarci d’essere salvati ». « A Lui dunque si deve ricorrere, che  è via, verità e vita ». Queste parole del grande Leone XIII, qui ricordate da S. S. Pio XII, risuonano balsamo dolce per i nostri cuori in un momento storico in cui tutta l’umanità sente di aver bisogno di un’ancora di salvezza per non soccombere sotto l’azione delle forse del male, che S. Giovanni nell’Apocalisse definiva come “bestia”, “falso profeta”, e “dragone”. Quest’ancora è il Cuore di Gesù che, unito a quello Immacolato della Vergine Maria, alla fine trionferà portando tutti i fedeli resistenti alle suggestioni del male ed al marchio della bestia, alla cena delle nozze dell’Agnello. Per poter meglio gustare la profondità teologica della lettera, assaporarne le delizie spirituali e poterla meditare al meglio, ne riportiamo una prima parte, ripromettendoci di completarne poi il testo alla prossima.

HAURIETIS AQUAS

S. S. PIO XII

LETTERA ENCICLICA SULLA DEVOZIONE AL SACRO CUORE DI GESÙ

(I)

Ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e agli altri Ordinari locali che hanno pace e comunione con la Sede Apostolica.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

«Voi attingerete con gaudio le acque dalle fonti del Salvatore » . Queste parole, con le quali il profeta Isaia simbolicamente preannunziava le molteplici e abbondanti benedizioni di Dio, che l’era messianica avrebbe apportato, spontanee ritornano sulle Nostre labbra, allorché diamo uno sguardo ai cento anni che sono trascorsi da quando il Nostro Predecessore di imm. mem. Pio IX, ben lieto di assecondare i voti del mondo cattolico, si compiaceva di estendere e rendere obbligatoria per la Chiesa intera la Festa del Cuore Sacratissimo di Gesù. – Innumerevoli, infatti, sono le grazie celesti che il culto tributato al Cuore Sacratissimo di Gesù ha trasfuso nelle anime dei fedeli; grazie di purificazione, di sovrumane consolazioni, di incitamento alla conquista di ogni genere di virtù. – Noi pertanto, memori della sapientissima sentenza dell’apostolo S. Giacomo: « Ogni donazione buona e ogni dono perfetto viene dall’alto e scende dal Padre de’ lumi », a buon diritto possiamo scorgere in questo culto, divenuto ormai universale e ogni giorno sempre più fervoroso, il dono che il Verbo Incarnato, nostro Salvatore divino e unico Mediatore di grazia e di verità tra il celeste Padre e il genere umano, ha fatto alla Chiesa, sua mistica Sposa, in questi ultimi secoli della sua travagliata storia. Grazie a questo dono d’inestimabile valore, la Chiesa può agevolmente manifestare l’ardente carità che essa nutre verso il suo Divin Fondatore e corrispondere in più larga misura all’invito che l’evangelista S. Giovanni riferisce come rivolto da Gesù Cristo stesso: « Nell’ultimo gran giorno della festa, Gesù levatosi in piedi, diceva ad alta voce: “ Chi ha sete, venga da me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, dal ventre di Lui sgorgheranno torrenti d’acqua viva ”. Ciò Egli disse dello Spirito che dovevano ricevere i credenti in Lui. Agli uditori di Gesù non fu certamente difficile cogliere in quelle sue parole, che contenevano la promessa di una sorgente di «acqua viva » che sarebbe scaturita dal suo seno, una chiara allusione ai vaticini con i quali i profeti Isaia, Ezechiele e Zaccaria predicevano l’avvento del Regno Messianico, come pure alla tipica pietra che, percossa dalla verga di Mosè, versò acqua in abbondanza. – La carità divina ha in realtà la sua principale sorgente nello Spirito Santo, ch’è Amore personale sia del Padre che del Figlio in seno all’augustissima Trinità. – Ben a ragione quindi l’Apostolo, quasi facendo eco alle parole di Gesù Cristo, attribuisce allo Spirito Santo l’effusione della carità nell’animo dei credenti: « La carità di Dio si è riversata nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci fu dato ». – Questo strettissimo nesso, che secondo le parole della S. Scrittura intercorre tra la carità che deve ardere nei cuori dei Cristiani e lo Spirito Santo, ch’è Amore per essenza, ci manifesta in modo mirabile, Venerabili Fratelli, l’intima natura stessa di quel culto che è da tributarsi al Cuore Sacratissimo di Gesù. Se è vero, infatti, che questo culto, considerato nella sua propria essenza, è un atto eccellentissimo della virtù di religione, cioè un atto di assoluta e incondizionata sottomissione e consacrazione da parte nostra all’amore del Redentore Divino, di cui è indice e simbolo quanto mai espressivo il suo Cuore trafitto; è vero parimente, ed in un senso ancora più profondo, che tale culto è il ricambio dell’amore nostro all’Amore Divino. Poiché soltanto per effetto della carità si ottiene la piena e perfetta sottomissione dello spirito umano al dominio del Supremo Signore, allorché cioè gli affetti del nostro cuore in tal modo aderiscono alla divina volontà da formare con essa quasi una cosa sola, secondo che è scritto: « Chi aderisce al Signore forma un solo spirito con Lui ».

I.

Ma, mentre la Chiesa ha sempre tenuto in alta considerazione il culto al Cuore Sacratissimo di Gesù, così da favorirne in ogni modo il sorgere e il propagarsi in mezzo al popolo cristiano, non mancando altresì di difenderlo apertamente contro le accuse di Naturalismo e di Sentimentalismo; è da lamentare che non uguale onore e stima, sia nei tempi passati che ai giorni nostri, questo nobilissimo culto gode presso alcuni Cristiani e talvolta anche presso alcuni di coloro, che pur si dicono animati da sincero zelo per gli interessi della Religione Cattolica e per la propria santificazione. « Se tu conoscessi il dono di Dio ». Ecco, Venerabili Fratelli, il paterno monito che Noi, chiamati per divina disposizione ad essere custodi e dispensatori del tesoro di fede e di pietà, che il divin Redentore ha affidato alla sua Chiesa, Ci sentiamo in dovere di rivolgere a tutti quei Nostri figli; i quali, nonostante che il culto al Cuore Sacratissimo di Gesù, trionfando degli errori e della indifferenza degli uomini, abbia pervaso il Mistico Corpo del Salvatore, nutrono ancora dei pregiudizi a riguardo e giungono persino a ritenerlo meno rispondente, per non dire dannoso, alle necessità spirituali più urgenti della Chiesa e dell’umanità nell’ora presente. Taluni, infatti, confondendo o equiparando l’indole primaria di questo culto con le varie forme di devozione che la Chiesa approva e favorisce, ma non prescrive, lo stimano quasi come alcunché di superfluo, che ciascuno può praticare o no a suo arbitrio; altri, poi, stimano che questo stesso culto sia oneroso e di nessuno o ben modesto vantaggio specialmente per i militanti del Regno di Dio, preoccupati soprattutto di consacrare il meglio delle loro energie spirituali, dei loro mezzi e del loro tempo alla difesa e alla propaganda della verità cattolica, alla diffusione della dottrina sociale cristiana e all’incremento di quelle pratiche e opere di religione, che giudicano molto più necessarie per i tempi nostri; vi sono inoltre alcuni, i quali anziché riconoscere in questo culto un mezzo efficacissimo per l’opera di rinnovamento e di progresso dei costumi cristiani, sia degli individui che delle famiglie, vi vedono una forma di devozione pervasa piuttosto di sentimento che di nobili pensieri ed affetti, e perciò più confacente al femmineo sesso che alle persone colte. – Vi sono anche altri, i quali, ritenendo questo culto come troppo vincolato agli atti di penitenza, di riparazione e di quelle virtù che stimano piuttosto « passive », perché prive di appariscenti frutti esteriori, lo giudicano senz’altro meno idoneo a rinvigorire la spiritualità moderna, cui incombe il dovere dell’azione aperta e indefessa per il trionfo della fede cattolica e la strenua difesa dei costumi cristiani, in mezzo ad una società inquinata di indifferentismo religioso, incurante di ogni norma discriminatrice del vero dal falso nel pensiero e nell’azione, ligia ai princìpi del materialismo ateo e del laicismo. – Come non vedere, Venerabili Fratelli, lo stridente contrasto tra simili opinioni e le pubbliche attestazioni di stima per il culto al S. Cuore di Gesù, professate dai Nostri Predecessori su questa Cattedra di verità? Come giudicare inutile o meno adatta per l’epoca nostra quella forma di pietà, che il Nostro Predecessore di imm. mem. Leone XIII non esitò a definire: « pratica religiosa encomiabilissima »; e nella quale additava il rimedio a quegli stessi mali, individuali e sociali, che anche oggi, e indubbiamente in modo più vasto ed acuto, travagliano l’umanità? « Questa devozione, che a tutti consigliamo, asseriva Egli, sarà a tutti di giovamento ». Ed inoltre, aggiungeva questi ammonimenti ed esortazioni, che ben si addicono anche al culto verso il Cuore sacratissimo di Gesù: « Di fronte alla minaccia di gravi sciagure che già da molto tempo sovrasta, è urgente che si ricorra, per scongiurarle, all’aiuto di Colui che soltanto, ha la potenza per allontanarle. E chi altri potrà essere costui, se non Gesù Cristo. l’Unigenito di Dio? Poiché non c’è sotto il cielo alcun altro nome dato agli uomini, dal quale possiamo aspettarci d’essere salvati ». « A Lui dunque si deve ricorrere, che  è via, verità e vita».

Né meno degno di encomio e giovevole per fomentare la pietà cristiana riconosceva essere questo culto il Nostro immediato Predecessore di fel. mem. Pio XI, il quale nell’Enciclica Miserentissimus Redemptor affermava: «Non son forse racchiusi in tale forma di devozione il compendio di tutta la Religione Cattolica e quindi la norma della vita più perfetta, costituendo essa la via più spedita per giungere alla conoscenza profonda di Cristo Signore e il mezzo più efficace per piegare gli animi ad amarLo più intensamente e ad imitarLo più fedelmente? ».

A Noi poi, non certamente meno che ai Nostri Predecessori, questa sublime verità è apparsa evidente e degna di approvazione; ed allorché iniziammo il Nostro Pontificato, nel contemplare il felice e quasi trionfale incremento del Culto al Cuore Sacratissimo di Gesù in mezzo al popolo cristiano, sentimmo il Nostro animo ricolmo di gioia e Ci rallegrammo degli innumerevoli frutti di salvezza che ne erano derivati a tutta la Chiesa; e questi Nostri sentimenti Ci compiacemmo di manifestare già nella prima Nostra Lettera Enciclica. I quali frutti, in questi lunghi anni del Nostro Pontificato — pieni di calamità e di angustie, ma anche ricolmi di ineffabili consolazioni — non sono andati diminuendo né per numero né per qualità né per bellezza, ma piuttosto aumentando. Infatti, varie sono state le opere felicemente iniziate allo scopo di favorire l’incremento sempre maggiore di questo stesso culto: associazioni cioè di cultura, di pietà e di beneficenza; pubblicazioni di carattere storico, ascetico e mistico pertinenti a tale scopo; pie pratiche di riparazione; e soprattutto crediamo degne di menzione le manifestazioni di ardentissima pietà promosse dall’Associazione dell’« Apostolato della Preghiera », al cui zelo si deve principalmente se famiglie, istituti e talvolta anche Nazioni intere si sono consacrate al Cuore Sacratissimo di Gesù; per le quali manifestazioni di culto non di rado, o mediante Lettere, o per mezzo di Discorsi, o anche servendoCi di Radiomessaggi, abbiamo espresso la Nostra paterna compiacenza. – Pertanto, commossi nel veder tanta copia di acque salutari, cioè di effusione celestiale di amore superno, che scaturendo dal Sacro Cuore del nostro Redentore, non senza l’ispirazione e l’azione del Divino Spirito, si è riversata su innumerevoli figli della Chiesa Cattolica, non possiamo astenerCi, Venerabili Fratelli, dal rivolgervi un paterno invito, affinché vi uniate a Noi nello sciogliere un inno di somma lode e di fervidissime azioni di grazie a Dio, largitore di ogni bene, esclamando con l’Apostolo: « A Lui che può far tutto, ben al di là di quel che noi domandiamo, o pensiamo, secondo la virtù che opera in noi, a Lui sia la gloria nella Chiesa, e in Cristo Gesù per tutte le generazioni nei secoli dei secoli. Amen ». Ma, dopo aver reso all’Altissimo le dovute grazie, Noi desideriamo con questa Lettera Enciclica di esortar voi e tutti gli amatissimi figli della Chiesa ad una più attenta considerazione di quei princìpi dottrinali, contenuti nella S. Scrittura, nei Ss. Padri e nei teologi, sui quali, quasi su solidi fondamenti, poggia il culto al Cuore Sacratissimo di Gesù. Siamo infatti pienamente persuasi che soltanto allorché, al lume della divina rivelazione, avremo penetrato più a fondo l’intima ed essenziale natura di questo culto, saremo in grado di convenientemente e perfettamente apprezzarne l’incomparabile eccellenza e l’inesauribile fecondità di ogni sorta di celesti grazie, e per tal modo trarre, dalla pia meditazione e contemplazione dei benefici da esso derivati, motivo a una degna celebrazione del primo centenario dell’estensione della festa obbligatoria del Cuore Sacratissimo di Gesù alla Chiesa universale. – Allo scopo, dunque, di offrire alle menti dei fedeli un pascolo di salutari riflessioni, grazie alle quali essi possano più facilmente comprendere la natura di questo culto e ricavarne più copiosi frutti, Noi ci soffermeremo anzitutto su quelle pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, che contengono la rivelazione e descrizione dell’infinita carità di Dio per il genere umano, la cui sublime grandezza mai potremo sufficientemente scrutare; poi accenneremo al commento che ce ne hanno lasciato i Padri e i Dottori della Chiesa; infine, procureremo di porre in evidenza il nesso intimo che intercorre tra la forma di devozione da tributarsi al Cuore del Redentore Divino e il culto che gli uomini sono tenuti a rendere all’amore che Egli e le altre Persone della Santissima Trinità nutrono verso l’intero genere umano. Stimiamo infatti che, una volta contemplati alla luce della S. Scrittura e della Tradizione i fondamenti e gli elementi costitutivi di questo nobilissimo culto, riuscirà più agevole ai Cristiani l’attingere « con gaudio le acque dalle fonti del Salvatore », apprezzare cioè tutta l’importanza che il culto al Cuore Sacratissimo di Gesù ha assunto nella Liturgia della Chiesa, nella sua vita interna ed esterna, ed anche nelle sue opere; per tal modo, sarà più facile ad essi raccogliere quei frutti spirituali, che segnino un rinnovamento salutare nei loro costumi, conforme ai voti dei Pastori del gregge di Cristo. – Se vogliamo in primo luogo ben comprendere il valore racchiuso in alcuni testi dell’Antico e del Nuovo Testamento in ordine a questo culto, occorre tener ben presente il motivo del culto di latria che la Chiesa tributa al Cuore del Redentore divino. Orbene, come voi ben sapete, Venerabili Fratelli, tale motivo è duplice. L’uno, cioè, che è comune anche alle altre sacrosante membra del corpo di Gesù Cristo, è costituito dal fatto che il suo Cuore, essendo una parte nobilissima dell’umana natura, è unito ipostaticamente alla Persona del Verbo di Dio; pertanto, esso è meritevole dell’unico e identico culto di adorazione con cui la Chiesa onora la Persona dello stesso Figlio di Dio Incarnato. Si tratta di una verità di fede cattolica, essendo stata solennemente definita nei Concili Ecumenici di Efeso e II di Costantinopoli. L’altro motivo, che appartiene in modo speciale al Cuore del Divin Redentore, e che perciò conferisce al medesimo un titolo tutto proprio a ricevere il culto di latria, risulta dal fatto che il suo Cuore, più di ogni altro membro del suo corpo, è l’indice naturale, ovvero il simbolo della sua immensa carità per il genere umano. « È insita nel Sacro Cuore, come osservava il Nostro Predecessore Leone XIII di imm. mem., la qualità di simbolo e di espressiva immagine dell’infinita carità di Gesù Cristo, che ci stimola a ricambiarlo col nostro amore ». – È fuor di dubbio che nei Libri Sacri non si hanno mai sicuri indizi di un culto di speciale venerazione e di amore, tributato al Cuore fisico del Verbo Incarnato, per la sua prerogativa di simbolo della sua accesissima carità. Ma questo fatto, se è doveroso apertamente riconoscerlo, non ci deve recar meraviglia, né in alcun modo indurci a dubitare che la carità, la quale è la ragione principale di questo culto, sia nell’Antico, che nel Nuovo Testamento, è esaltata e inculcata con immagini tali, da commuovere potentemente gli animi. Queste immagini, poiché sono contenute nei Libri Sacri che preannunziavano la venuta del Figlio di Dio, fatto uomo, possono considerarsi come un presagio di quello che doveva essere il più nobile simbolo e indice dell’amore divino, cioè del Cuore sacratissimo e adorabile del Redentore Divino. – Per quanto riguarda lo scopo della presente Lettera non crediamo necessario addurre molte testimonianze dei libri dell’Antico Testamento, nei quali sono contenute le prime verità divinamente rivelate; ma stimiamo sia sufficiente far rilevare che l’Alleanza stipulata tra Dio e il popolo eletto e sancita con vittime pacifiche — le cui leggi fondamentali, scolpite su due tavole, furono promulgate da Mosè e interpretate dai Profeti — fu un patto oltre che fondato sui vincoli di supremo dominio da parte di Dio e di doverosa ubbidienza da parte dell’uomo, consolidato e vivificato, anche dai più nobili motivi dell’amore. Infatti, anche per il popolo d’Israele la ragione suprema della sua obbedienza doveva essere non tanto il timore dei divini castighi, che i tuoni e le folgori sprigionantisi dalla vetta del Sinai incutevano negli animi, quanto piuttosto il doveroso amore verso Dio; « Ascolta, Israele: il Signore Dio nostro è il solo Signore. Amerai il Signore Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze. Queste parole che io oggi ti bandisco, staranno nel tuo cuore ». – Non deve pertanto meravigliare se Mosè e i Profeti, che a buon diritto l’Angelico Dottore chiama i « maggiori » del popolo eletto, ben comprendendo che il fondamento di tutta la Legge era riposto in questo comandamento dell’amore, hanno descritto tutti i rapporti esistenti tra Dio e la sua Nazione ricorrendo a similitudini tratte dal reciproco amore tra padre e figli, o dall’amore dei coniugi, piuttosto che rappresentarli con immagini severe ispirate al supremo dominio di Dio, o alla dovuta e timorosa servitù di noi tutti. – Così, ad esempio, Mosè stesso, nel celeberrimo suo cantico di liberazione del popolo dalla schiavitù dell’Egitto, volendo significare che essa era avvenuta per l’intervento onnipossente di Dio, ricorre a queste espressioni ed immagini, che riempiono l’animo di commozione: « Com’aquila che addestra al volo i suoi piccoli e vola sovr’essi, stese le sue ali (il Signore), sollevò Israele, e lo portò sulle sue spalle ». – Ma forse nessun altro tra i Profeti, meglio di Osea, manifesta e descrive con accenti veementi l’amore, mai venuto meno, di Dio verso il suo popolo Nel linguaggio infatti di questo eccellentissimo tra i Profeti minori per profondità di concetti e concisione di espressioni, Dio manifesta un tale amore verso il Popolo Eletto, cioè giusto e santamente sollecito, qual è appunto l’amore di un padre misericordioso e amorevole, o di uno sposo adirato per il suo onore offeso. È un amore, che, lungi dal venir meno alla vista di mostruose infedeltà e di ignobili tradimenti, prende sì da essi motivo per infliggere ai colpevoli i meritati castighi — non già per ripudiarli e abbandonarli a se stessi — ma soltanto allo scopo di vedere la sposa resasi estranea e infedele, ed i figli ingrati, pentirsi, purificarsi e tornare a riunirsi con Lui con rinnovati e più solidi vincoli di amore. « Quando era fanciullo Israele, io l’amai e dall’Egitto ho chiamato il figlio mio… Ed io ho fatto da balia ad Efraim; ho portato essi in braccio, ma non compresero la cura ch’io avevo di loro. Li ho attirati a me con attrattive piene d’umanità e con vincoli d’amore… Io sanerò le loro piaghe, li amerò spontaneamente, perché la mia collera si è da loro allontanata. Sarò come rugiada, e Israele fiorirà come giglio e dilaterà radici come il Libano ». – Accenti simili a questi risuonano sulle labbra del profeta Isaia, allorché, impersonando gli opposti sentimenti di Dio stesso e del Popolo Eletto, esce in queste espressioni: « Sion aveva detto: “ Il Signore mi ha abbandonato, il Signore si è scordato di me! ”. Potrà forse una donna dimenticare il suo bambino, da non sentire più compassione per il figlio delle sue viscere? e se pur questa lo potrà dimenticare, io non mi dimenticherò mai di te! ». Né meno commoventi sono le espressioni, con le quali l’Autore del Cantico dei Cantici, servendosi del simbolismo dell’amore coniugale, dipinge con vividi colori i legami di vicendevole amore, che uniscono fra loro Dio e la Nazione da Lui prediletta: «Come un giglio fra gli spini, così l’amica mia tra le fanciulle!… Io sono del mio diletto, e il mio diletto è per me, egli che pascola tra i gigli… Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore, inesorabile come gli Inferi la gelosia: le sue fiaccole sono fiaccole di fuoco e di fiamme ». – Tuttavia questo tenerissimo, indulgente e longanime amore di Dio, che, pur sdegnandosi per le ripetute infedeltà del popolo di Israele, mai giunse a ripudiarlo definitivamente, benché siasi manifestato come veemente e sublime, non fu in sostanza che preludio di quell’ardentissima carità, che il Redentore promesso avrebbe riversato dal suo amantissimo Cuore su tutti, e che sarebbe dovuta divenire il modello del nostro amore e la pietra angolare della Nuova Alleanza. Solo infatti Colui che è l’Unigenito del Padre e il Verbo fatto carne « pieno di grazia e di verità », essendosi avvicinato agli uomini, oppressi da innumerevoli peccati e miserie, poté far scaturire dalla sua umana natura, unita ipostaticamente alla sua Divina Persona, « una sorgente di acqua viva », che irrigasse copiosamente l’arida terra dell’umanità e la trasformasse in giardino fiorente e fruttifero. – È nel profeta Geremia che si ha un lontano presagio di questo stupendo prodigio, che sarebbe stato l’effetto del misericordiosissimo ed eterno amore di Dio: « D’un amore eterno ti ho amato e perciò ti ho tirato a me pieno di compassione… Ecco che verranno giorni, dice il Signore, e io stringerò con la casa di Israele e con la casa di Giuda una nuova alleanza… Questa sarà l’alleanza che avrò stretta con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Io metterò la mia legge nel loro interno e la scriverò nel loro cuore, e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo…; perché farò grazia alle loro iniquità e del loro peccato non mi ricorderò più ».

II.

Ma soltanto dai Vangeli veniamo a conoscere con perfetta chiarezza che la nuova Alleanza stipulata tra Dio e l’umanità — di cui si erano avuti la prefigurazione simbolica nell’alleanza sancita tra Dio e il popolo d’Israele per mezzo di Mosè e il preannunzio nel vaticinio di Geremia — è quella stessa che è stata attuata mediante l’opera conciliatrice di grazia del Verbo Incarnato. Questa Alleanza è da stimarsi incomparabilmente più nobile e più solida, perché, a differenza della precedente, non è stata sancita nel sangue di capri e di vitelli, ma nel Sangue sacrosanto di Colui, che quegli stessi pacifici ed irrazionali animali avevano prefigurato come « l’Agnello che toglie il peccato del mondo ». – Ebbene, l’Alleanza Messianica, più ancora che l’antica, si manifesta chiaramente come un patto non ispirato da sentimenti di servitù e di timore, ma da quella specie di amicizia, che deve regnare nelle relazioni tra padre e figli, essendo essa alimentata e consolidata da una più munifica elargizione di grazia divina e di verità, conforme alla sentenza dell’Evangelista S. Giovanni: « E della pienezza di Lui tutti abbiamo ricevuto, e grazia su grazia. Perché la legge è stata data da Mosè; la grazia e la verità sono venute da Gesù Cristo ». – Introdotti con queste parole del «Discepolo prediletto da Gesù, quegli che durante la cena aveva posato il capo sul petto di Gesù »(28), nel mistero stesso dell’infinita carità del Verbo Incarnato, è cosa degna e giusta, equa e salutare, che noi ci soffermiamo alquanto, Venerabili Fratelli, nella contemplazione di così soave mistero, affinché, illuminati dalla luce che su di esso riflettono le pagine del Vangelo, possiamo anche noi esperimentare il felice adempimento del voto che l’Apostolo formulava scrivendo ai fedeli di Efeso: « Cristo dimori nei vostri cuori per mezzo della fede, e voi, radicati e fortificati in amore, siate resi capaci di comprendere con tutti i santi quali siano la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità, e intendere quest’amore di Cristo che sorpassa ogni scienza, affinché siate ripieni di tutta la pienezza di Dio ». – Il Mistero della Divina Redenzione, infatti, è propriamente e naturalmente un mistero di amore: un mistero, cioè, di amore giusto da parte di Cristo verso il Padre celeste, cui il sacrificio della Croce, offerto con animo amante ed obbediente, presenta una soddisfazione sovrabbondante ed infinita per le colpe del genere umano: «Cristo, soffrendo per carità ed ubbidienza, offrì a Dio qualche cosa di maggior valore, che non esigesse la compensazione per tutte le offese a Dio fatte dal genere umano ». Inoltre, il Mistero della Redenzione è un mistero di amore misericordioso dell’Augusta Trinità e del Redentore divino verso l’intera umanità, poiché questa, essendo del tutto incapace di offrire a Dio una soddisfazione degna per i propri delitti, Cristo, mediante le inscrutabili ricchezze di meriti, che si acquistò con l’effusione del suo preziosissimo Sangue, poté ristabilire e perfezionare quel patto di amicizia tra Dio e gli uomini, ch’era stato una prima volta violato nel Paradiso terrestre per colpa di Adamo, e poi innumerevoli volte per le infedeltà del Popolo Eletto. – Pertanto il Divin Redentore — nella sua qualità di legittimo e perfetto Mediatore nostro — avendo, sotto lo stimolo di una accesissima carità per noi, conciliato perfettamente i doveri e gli impegni del genere umano con i diritti di Dio, è stato indubbiamente l’autore di quella meravigliosa conciliazione tra la divina giustizia e la divina misericordia, che costituisce appunto l’assoluta trascendenza del mistero della nostra salvezza, così sapientemente espressa dall’Angelico Dottore in queste parole: «Giova osservare che la liberazione dell’uomo, mediante la passione di Cristo, fu conveniente sia alla sua misericordia che alla sua giustizia. Alla giustizia anzitutto, perché con la sua passione Cristo soddisfece per la colpa del genere umano: e quindi per la giustizia di Cristo l’uomo fu liberato. Alla misericordia, poi, poiché, non essendo l’uomo in grado di soddisfare per il peccato inquinante tutta l’umana natura, Dio gli donò un riparatore nella persona del Figlio suo. Ora questo fu da parte di Dio un gesto di più generosa misericordia, che se Egli avesse perdonato i peccati senza esigere alcuna soddisfazione. Perciò sta scritto: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore che ci portava pur essendo noi morti per le nostre colpe, ci richiamò a vita in Cristo” ». – Ma, affinché possiamo veramente, per quanto è consentito a uomini mortali, « comprendere con tutti i santi, quali siano la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità dell’arcana carità del Verbo Incarnato verso il suo celeste Padre e verso gli uomini macchiati di tante colpe; occorre tener ben presente che il suo amore non fu unicamente spirituale, come si addice a Dio, poiché « Iddio è spirito ». Indubbiamente d’indole puramente spirituale fu l’amore nutrito da Dio per i nostri progenitori e per il popolo ebraico; perciò, le espressioni di amore umano, sia coniugale che paterno, che si leggono nei Salmi, negli scritti dei Profeti e nel Cantico dei Cantici, sono indizi e simboli di una dilezione verissima ma del tutto spirituale, con la quale Dio amava il genere umano; al contrario, l’amore che spira dal Vangelo, dalle lettere degli Apostoli e dalle pagine dell’Apocalisse, dov’è descritto altresì l’amore del Cuore di Gesù Cristo, non comprende soltanto la carità divina, ma si estende ai sentimenti dell’affetto umano. Per chiunque fa professione di fede cattolica è questa una verità inconcussa. Il Verbo di Dio, infatti, non ha assunto un corpo illusorio e fittizio, come già nel primo secolo dell’era cristiana osarono affermare alcuni eretici, attirandosi la severa condanna dell’apostolo S. Giovanni: «Poiché sono usciti per il mondo molti seduttori, i quali non confessano che Gesù Cristo sia venuto nella carne. Questo è il seduttore e l’anticristo »; ma Egli ha unito alla sua divina Persona una natura umana individua, integra e perfetta, concepita nel seno purissimo di Maria Vergine per virtù dello Spirito Santo(36). Niente, dunque, mancò alla natura umana assunta dal Verbo di Dio; in verità, Egli la possedette senza alcuna diminuzione, senza alcuna alterazione, tanto nei suoi elementi costitutivi spirituali quanto nei corporali, vale a dire: dotata di intelligenza e di volontà, e delle altre facoltà conoscitive interne ed esterne; dotata parimenti delle potenze affettive sensitive e di tutte le loro corrispondenti passioni. È questo l’insegnamento della Chiesa Cattolica, sanzionato e solennemente confermato dai Romani Pontefici e dai Concili Ecumenici: « Integro nelle sue proprietà, integro nelle nostre »(37); « perfetto nella Divinità ed Egli stesso perfetto nell’umanità »; « tutto Dio (fatto) uomo, e tutto l’uomo (sussistente in) Dio ». Non essendovi allora alcun dubbio che Gesù Cristo abbia posseduto un vero corpo umano, dotato di tutti i sentimenti che gli sono propri, tra i quali ha chiaramente il primato l’amore, è altresì verissimo che Egli fu provvisto di un cuore fisico, in tutto simile al nostro, non essendo possibile che la vita umana, priva di questo eccellentissimo membro del corpo, abbia la sua connaturale attività affettiva. Pertanto il Cuore di Gesù Cristo, unito ipostaticamente alla Persona divina del Verbo, dovette indubbiamente palpitare d’amore e di ogni altro affetto sensibile; questi sentimenti, però, erano talmente conformi e consonanti con la volontà umana, ricolma di carità divina, e con lo stesso infinito amore, che il Figlio ha comune con il Padre e con lo Spirito Santo, che mai tra questi tre amori s’interpose alcunché di contrario e discorde. – Tuttavia, il fatto che il Verbo di Dio abbia assunto una vera e perfetta natura umana, e si sia plasmato e quasi modellato un cuore di carne, che, non meno del nostro, fosse capace di soffrire e di essere trafitto, questo fatto, diciamo, se non è visto e considerato nella luce, la quale emana non solo dall’unione ipostatica e sostanziale, ma anche dalla verità della umana Redenzione, ch’è, per così dire, il complemento di quella, potrebbe ad alcuni apparire « scandalo » e « stoltezza », come infatti tale sembrò « Cristo Crocifisso » ai Giudei e ai Gentili. Orbene, i Simboli della fede, perfettamente concordi con le Divine Scritture, ci assicurano che il Figlio Unigenito di Dio ha assunto la natura passibile e mortale in vista principalmente del Sacrificio cruento della croce, che Egli desiderava offrire allo scopo di compiere l’opera dell’umana salute. È questo del resto, l’insegnamento espresso dall’Apostolo delle genti: « Poiché sia chi santifica sia i santificati provengono tutti da uno; è per questo che non ha scrupolo di chiamarli fratelli dicendo: « Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli ». E ancora: « Eccomi, io e i figlioli che Dio mi ha dato ». Poiché dunque i figliuoli partecipano del sangue e della carne, anch’egli ugualmente ne ebbe parte… « Ond’è ch’egli doveva in tutto essere fatto simile ai suoi fratelli, per diventare misericordioso e fedele sacerdote nelle cose divine, affinché fossero espiate le colpe del popolo. Perché appunto per essere stato provato lui e avere sofferto, per questo può venire in aiuto a quelli che sono nella prova ». – I Santi Padri, veridici testimoni della divina rivelazione, ben compresero, dietro il chiaro insegnamento dell’Apostolo Paolo, che il mistero dell’amore divino è in pari tempo il fondamento e il culmine sia dell’Incarnazione, sia della Redenzione. Infatti, nei loro scritti sono frequenti e luminosi i passi, nei quali si legge che lo scopo per cui Gesù Cristo assunse una natura umana integra e un corpo caduco e fragile come il nostro, fu appunto quello di provvedere alla nostra salvezza e di manifestare a noi nel modo più evidente il suo amore infinito, compreso quello sensibile. – San Giustino, quasi facendo eco alle parole dell’Apostolo, scrive: « Noi adoriamo ed amiamo il Verbo, nato dall’ingenito e ineffabile Dio; Egli in verità si è fatto uomo per noi, affinché, resosi partecipe delle nostre umane affezioni, recasse ad esse il rimedio ». San Basilio, poi, il primo dei tre Padri Cappadoci, afferma decisamente che gli affetti sensibili di Cristo furono ad un tempo veri e santi: « Benché sia a tutti noto che il Signore ha assunto gli affetti naturali per confermare la realtà dell’Incarnazione, vera e non fantastica; tuttavia Egli respinse da sé gli affetti disordinati, che inquinano la purezza della nostra vita, perché li ritenne indegni della sua incontaminata divinità ». Anche per San Giovanni Crisostomo, il più illustre decoro della Chiesa Antiochena, le emozioni sensibili, cui andò soggetto il Redentore divino, cooperarono mirabilmente a comprovare che Egli aveva assunto una natura umana integra sotto ogni aspetto: « Infatti, se Egli non fosse stato composto della nostra natura, non avrebbe pianto per ben due volte ». – Fra i Padri Latini meritano di essere ricordati coloro, che la Chiesa onora oggi tra i principali suoi Dottori. Così Sant’Ambrogio vede nell’unione ipostatica la sorgente naturale delle affezioni e commozioni sensibili, cui andò soggetto il Verbo di Dio fatto uomo: « Pertanto, poiché Egli assunse l’anima, ne assunse parimente le passioni; in quanto Dio, infatti, com’Egli era, non avrebbe potuto né turbarsi né morire »(46). Anche San Girolamo dall’esistenza in Cristo di quelle affezioni sensibili trae l’argomento più persuasivo per asserire ch’Egli aveva realmente assunto l’umana natura: Il Signor nostro, per manifestare che aveva veramente unito alla sua Persona la natura dell’uomo, soggiacque veramente alla tristezza. – Sant’Agostino poi con particolare insistenza rileva l’intimo nesso che esiste tra le affezioni sensibili del Verbo Incarnato e il fine dell’umana redenzione: « Ora il Signore Gesù assunse questi sentimenti della fragile natura umana, come la carne stessa che fa parte dell’inferma natura dell’uomo, e la morte dell’umana carne, non spinto da bisogno della sua condizione divina, ma stimolato dalla sua libera volontà di usarci misericordia; allo scopo, cioè, di offrire in se stesso il modello da imitare al suo corpo, che è la Chiesa, di cui si degnò di farsi capo, vale a dire, alle sue membra, che sono i suoi santi e i suoi fedeli; in modo che se ad alcuno di loro, sotto l’assalto delle umane tentazioni, accadesse di rattristarsi e soffrire, non per ciò stimasse di essersi sottratto all’influsso della sua grazia; e comprendesse che tali affezioni non sono di per sé peccati, ma solo indizi dell’ umana passibilità. Così il suo Mistico Corpo, simile ad un coro di voci che s’accorda a quella di chi dà l’intonazione, avrebbe imparato dal suo proprio Capo ». – Più concisamente, ma non meno efficacemente dei precedenti, manifestano la dottrina della Chiesa i seguenti testi di San Giovanni Damasceno: «Certamente, tutto Dio ha assunto tutto ciò ch’è in me uomo, e tutto si è unito a tutto, affinché arrecasse la salvezza a tutto l’uomo. Poiché, altrimenti, non avrebbe potuto essere sanato ciò che non fosse stato assunto ». « Cristo dunque, assunse tutti gli elementi componenti l’umana natura, affinché li santificasse tutti ». – È doveroso tuttavia riconoscere che né gli Autori sacri, né i Padri della Chiesa, sia nei testi riferiti che in molti altri simili, pur affermando chiaramente la realtà delle affezioni sensibili, che commovevano l’animo di Gesù Cristo, e pur mettendo in stretto rapporto l’assunzione dell’umana natura con lo scopo della nostra eterna salvezza prefissosi da Cristo, mai pongono in esplicito rilievo il nesso esistente tra quegli stessi affetti e il cuore fisico del Salvatore, così da indicare in esso espressamente il simbolo del suo amore infinito. – Ma, se gli Evangelisti e gli altri scrittori ecclesiastici non ci rivelano direttamente gli effetti vari che nel ritmo pulsante del Cuore del Redentore nostro, non meno vivo e sensibile del nostro, dovettero indubbiamente produrre le passioni del suo animo e il ridondante amore della sua duplice volontà, divina ed umana, essi mettono però in evidenza l’amore e tutti gli altri sentimenti con esso connessi, cioè: il desiderio, la letizia, la tristezza, il timore, l’ira, secondo che si manifestavano attraverso il suo sguardo, le parole, i gesti. E principalmente il Volto adorabile del Salvatore nostro dovette apparire l’indice e quasi lo specchio fedelissimo di quelle affezioni, che, commovendo in vari modi il suo animo, a somiglianza di onde che si ripercuotono sulle opposte rive, raggiungevano il suo Cuore santissimo e ne eccitavano i battiti. In verità, anche a proposito di Cristo vale quanto l’Angelico Dottore, ammaestrato dalla comune esperienza, osserva in materia di psicologia umana e dei fenomeni ad essi connessi: «Il turbamento prodotto dall’ira raggiunge anche le membra esterne; e soprattutto si fa notare in quelle membra, nelle quali più apertamente si riflette l’influsso del cuore, come negli occhi, nel volto e nella lingua ». – A buon diritto, dunque, il Cuore del Verbo Incarnato è considerato come il principale simbolo di quel triplice amore, col quale il Divino Redentore ha amato e continuamente ama l’Eterno Padre e l’umanità. Esso, cioè, è anzitutto il simbolo dell’amore, che Egli ha comune col Padre e con lo Spirito Santo, ma che soltanto in Lui, perché Verbo fatto carne, si manifesta attraverso il fragile e caduco velo del corpo umano, « poiché in Esso abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità ». Inoltre, il Cuore di Cristo è il simbolo di quell’ardentissima carità, che, infusa nella sua anima, costituisce la preziosa dote della sua volontà umana e i cui atti sono illuminati e diretti da una duplice perfettissima scienza, la beata cioè e l’infusa. Finalmente — e ciò in modo ancor più naturale e diretto — il Cuore di Gesù è il simbolo del suo amore sensibile, giacché il corpo del Salvatore divino, plasmato nel seno castissimo della Vergine Maria per influsso prodigioso dello Spirito Santo, supera in perfezione e quindi in capacità percettiva ogni altro organismo umano. – Edotti allora dai Sacri Testi e dai simboli di fede della perfetta consonanza ed armonia regnante nell’anima santissima di Gesù Cristo, e dell’aver Egli diretto al fine della nostra Redenzione tutte le manifestazioni del suo triplice amore, noi possiamo con ogni sicurezza contemplare e venerare nel Cuore del Divin Redentore l’immagine eloquente della sua carità e il documento dell’avvenuta nostra redenzione, come pure quasi la mistica scala per salire all’amplesso di « Dio Salvatore nostro » . Perciò nelle parole, negli atti, negli insegnamenti, nei miracoli e specialmente nelle opere che più luminosamente testimoniano il suo amore per noi — come l’istituzione della divina Eucaristia, la sua dolorosa Passione e Morte, la donazione della sua Santissima Madre, la fondazione della Chiesa, la missione dello Spirito sugli Apostoli e su tutti i credenti — in tutte queste opere, ripetiamo, noi dobbiamo ammirare altrettante testimonianze del suo triplice amore; e meditare i battiti del suo Cuore, con i quali sembrò che Egli misurasse gli attimi di tempo del suo pellegrinaggio terreno, fino al supremo istante, in cui, come ci attestano gli Evangelisti: « Gesù, dopo aver di nuovo gridato con gran voce, disse: È compiuto. E chinato il capo, rese lo spirito ». Fu allora che il battito del suo Cuore si arrestò, e il suo amore sensibile rimase come sospeso fino all’istante della Risurrezione gloriosa. Unitasi quindi nuovamente l’anima del Redentore vittorioso  della morte al suo corpo glorificato, il Cuore suo Sacratissimo riprese il suo battito regolare e da allora non ha mai cessato né cesserà di significare, con ritmo ormai divenuto per sempre calmo e imperturbabile, il triplice amore che vincola il Figlio di Dio al suo celeste Padre e all’intera comunità umana, di cui è, con pieno diritto, il Mistico Capo.

[Continua …]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – “MEMINISSE JUVAT”

Era passata da poco una terribile guerra mondiale, c’era la guerra fredda, si approntavano micidiali armi atomiche, tutto il mondo era in subbuglio, la Chiesa perseguitata in Europa orientale e in estremo Oriente, i comunisti atei anticristiani imperversavano nelle America, in Occidente, un quadro allarmante, ma il Santo Padre S. S. Pio XII, invita tutti alla concordia invocando l’aiuto della Vergine Maria. Oggi la situazione è ancora peggiore, con l’inferno scatenato in tutti gli ambiti, i precursori dell’anticristo in azione con la bestia mondialista ed i falsi profeti ingannatori travestiti da sacerdoti della Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica Romana eclissata nel “deserto” delle catacombe, due zombi usurpanti vestiti di bianco, uno paravento dell’altro, il Vicario di Cristo impedito, per non dire peggio. Ma le parole della Meminisse iuvat risuonano ancora con una forza divina, forza che come sempre stroncherà le armate del male, compatte e coalizzate, ma come al solito, di corta memoria … ricordate: “non prævalebunt” e “Ipsa conteret caput tuum”? Queste parole si sono sempre avverate, e questa volta la vittoria sarà ancor più schiacciante ed eclatante, definitiva! Poveri illusi, oggi apparentemente vincenti … banchieri, governanti, capi di conventicole infami, falsi scienziati, medici assassini e dall’anima venduta per un vile bonifico, servi delle comunicazioni, affaristi, giudici e magistrati venduti, gaudenti, falsi e corrotti ministri della sinagoga di satana, tutti falsi ed infami … tutti, tutti … non ce n’è neppure uno – come recita il Salmo XIII -, filosofi e scrittori azzeccagarbugli, artisti di ogni risma, … tutti concordi contro Dio, il suo Cristo e la sua Chiesa: pensate forse che il Signore dorma e vi lasci fare per sempre, o che mai vi giudicherà? Leggete l’Apocalisse e saprete qual fine vi aspetta … le piaghe, i “guai”, la prostituta bruciata, ed infine il premio tanto da voi agognato: lo stagno di fuoco e di zolfo dove finirete con il vostro capo, lucifero, quello che chiamate pomposamente “signore dell’universo”, adorato nei riti satanici del Novus ordo, che in eterno si delizierà con voi. A quelli del pusillus grex tocca pure l’impegno di pregare per loro, oltre che pazientare, soffrire ed essere martirizzati se il Signore li rende degni di tanto onore. Ma consoliamoci con lo scritto, l’ultima Enciclica di un Papa vero liberamente operante,,,

«Meminisse iuvat»

Pubbliche preghiere nella novena dell’Assunta

Ci sembra opportuno ricordare che, quando nuovi pericoli minacciavano il popolo cristiano e la Chiesa, sposa del divino Redentore, Noi, come nei secoli scorsi già i Nostri predecessori avevano fatto; ci rivolgemmo supplichevoli alla vergine Maria, nostra amorevolissima Madre, ed invitammo tutto il gregge affidatoCi, ad abbandonarsi fiduciosamente alla sua protezione. E mentre il mondo era funestato da guerra spaventosa, abbiamo fatto di tutto per esortare alla pace città, popoli e nazioni, e per richiamare gli animi dilaniati dalle contese, al mutuo accordo nel nome della giustizia e dell’amore; né ci limitammo a questo vedendo che venivano a mancarCi i mezzi umani e le umane risorse, con diverse Lettere ammonitrici indicendo come una santa gara di preghiere, invocammo l’aiuto celeste mediante la potente intercessione della gran Madre di Dio, al cui Cuore immacolato consacrammo con Noi tutta l’umana famiglia. – Al momento presente, se finalmente si è quietato l’urto guerresco dei popoli, non regna tuttavia ancora la giusta pace, né gli uomini la vedono consolidarsi in fraterna intesa; serpeggiano infatti latenti germi di discordia, che di tratto in tratto minacciosamente erompono, e tengono gli animi in ansiosa trepidazione. tanto più che le spaventose armi, scoperte ora dall’ingegno umano, sono di sì immane potenza da travolgere e sommergere nell’universale sterminio non solo i vinti, ma altresì i vincitori e l’umanità intera.

I.

Ma se esaminiamo con animo pensoso le cause di tanti pericoli, presenti e futuri, facilmente vediamo che le decisioni, le forze e le istituzioni degli uomini sono inevitabilmente destinate a venir meno, qualora l’autorità di Dio — che illumina le menti con i suoi comandi e i suoi divieti, che è principio e garanzia, fonte della verità e fondamento delle leggi – o venga trascurata, o non collocata al suo giusto posto, o addirittura soppressa. Ogni casa, che non poggi su una base solida e sicura, crolla; ogni intelligenza, che non sia illuminata dalla luce di Dio, più o meno si allontana dalla pienezza della verità; sorgono le discordie, aumentano, si accrescono, se la carità fraterna non infervora i cittadini, i popoli e le nazioni. – Orbene, soltanto la Religione Cristiana insegna questa verità piena, questa giustizia perfetta, e questa carità divina, che elimina odi, animosità e lotte; essa sola, infatti, le ha ricevute in custodia dal divino Redentore, via verità e vita (cf. Gv XIV, 6). e con tutte le forze deve farle mettere in pratica. Non vi è dubbio allora che coloro i quali vogliono deliberatamente ignorare la Religione Cristiana e la Chiesa Cattolica, oppure si sforzano di ostacolarle, misconoscerle, sottometterle, indeboliscono di per ciò stesso le basi della società, o ve ne sostituiscono altre, che assolutamente non possono reggere l’edificio dell’umana dignità, libertà e benessere. – È necessario, pertanto, ritornare ai precetti del Cristianesimo, se si vuole formare una società solida, giusta ed equa. È dannoso, è imprudente venire a conflitto con la Religione Cristiana, la cui perenne durata è garantita da Dio e provata dalla storia. Si rifletta che uno stato, senza la Religione, non può avere dirittura morale, né ordine. Essa, infatti, fa sì che gli animi siano formati alla giustizia, alla carità, all’obbedienza delle giuste leggi; condanna e proscrive il vizio; induce i cittadini alla virtù, anzi regge e regola la loro condotta pubblica e privata; insegna che la miglior distribuzione della ricchezza non si ottiene con la violenza e la rivoluzione, ma con giuste norme, talché il proletariato, che non abbia ancora i mezzi necessari e opportuni di vita, può essere elevato a una più decorosa condizione, con felice soluzione delle contese sociali; in tal modo essa porta un validissimo contributo al buon ordine e alla giustizia benché non sia stata istituita unicamente per procurare e accrescere gli agi della vita. – Ripensando pertanto a tali cose con quella disposizione d’animo, che Ci pone al disopra degli umani contrasti, e che Ci fa paternamente amare i popoli di tutte le stirpi, due cose Ci stanno innanzi, e Ci procurano intense angustie e preoccupazioni. Vediamo, infatti, da un lato, che in non pochi paesi, i preecetti cristiani e la Religione Cattolica non sono tenuti nella necessaria considerazione. Folle di cittadini, specialmente del popolo meno istruito, sono attratte con facilità da errori ampiamente divulgati, e spesso rivestiti dall’apparenza della verità: le lusinghe e gli incentivi del vizio, che turbano con influssi nefasti gli animi, per mezzo di pubblicazioni di ogni genere, di spettacoli cinematografici e televisivi, corrompono specialmente l’incauta gioventù. Molti scrivono e diffondono le loro opere non per servire la verità e la virtù, e dare un giusto svago ai lettori, ma per eccitarne, a scopo di lucro, le torbide passioni; oppure per offendere e infangare con menzogne, calunnie e offese tutto ciò che è sacro, nobile e bello. Molto spesso — è doloroso dirlo — la verità è travisata; e si dà pubblico risalto a cose false e vergognose. Non è dunque chi non veda quanto male ne derivi alla società stessa e quanto danno alla Chiesa. D’altro lato, vediamo con sommo dolore del Nostro cuore di Padre, che la Chiesa Cattolica, di rito sia latino sia orientale, e, in non poche nazioni, oppressa da gravi vessazioni; si mettono i fedeli e i ministri del culto, se non a parole, certamente coi fatti, di fronte a questo dilemma: o astenersi dal professare e diffondere pubblicamente la loro fede, o subir danni, anche gravi. Molti Vescovi sono già stati scacciati dalle loro sedi, o immpediti dall’esercitare liberamente il ministero, o imprigionati o mandati in esilio. Si tenta, in una parola, di far temerariamente avverare il detto: «Percuoterò il pastore, e il gregge si scompiglierà» (Mt XXVI, 31; cf. Zc XIII,7). Inoltre i giornali, le riviste, le pubblicazioni cattoliche quasi del tutto sono messe al silenzio, come se la verità sia esclusivo dominio e arbitrio di chi comanda, e come se le scienze divine e umane, e le arti liberali non abbiano il diritto di essere libere, per poter fiorire a vantaggio del pubblico bene. Le scuole un tempo aperte dai Cattolici, sono vietate e abolite: al loro posto ne sono state istituite altre, che o non impartiscono affatto le nozioni di Dio e della Religione, o proclamano e diffondono le massime dell’ateismo, cosa che spessissimo avviene. – I missionari, che, abbandonata la casa e la dolce terra natia, avevano sopportato gravi e numerosi disagi per dare agli altri la luce e la forza dell’evangelo, sono stati espulsi da tanti luoghi, come individui nocivi e pericolosi; in tal modo il clero rimasto, impari di numero in confronto dell’estensione territole, e spesso inviso e perseguitato, non può provvedere alle esigenze dei fedeli. – Con dolore vediamo che talora sono calpestati i diritti della Chiesa, alla quale spetta, soltanto dietro il mandato della Santa Sede, scegliere e consacrare i Vescovi, destinati a reggere legittimamente il gregge cristiano; e questo avviene con grandissimo danno dei fedeli, come se la Chiesa cattolica sia cosa interna di una sola nazione, dipendente dall’autorità civile, e non un’istituzione divina, rivolta ad accogliere tutti i popoli. – Malgrado queste gravi e dolorose angustie, vi è tuttavia qualche cosa, che dà grande conforto al Nostro cuore di Padre. – Sappiamo infatti che la maggior parte dei fedeli di rito latino e orientale rimangono con tutte le forze attaccati alla fede avita, quantunque siano privi di quegli aiuti spirituali, che i loro pastori potrebbero loro amministrare, se non ne fossero impediti. Continuino dunque con coraggio, e ripongano la loro speranza in Colui, che conosce il pianto e le sofferenze di chi « soffre persecuzione a causa della giustizia » (Mt V,10); Egli «non fa tardare troppo la sua promessa» (2Pt III,9), ma consolerà finalmente i suoi figli col giusto premio. – Con paterno affetto esortiamo poi, in particolar modo quei venerabili fratelli e figli Nostri diletti, che sono spinti in tutti i modi, anche subdoli e insidiosi, a lasciare la ferma, salda e costante unione con la Chiesa e la strettissima fedeltà a questa Sede Apostolica, senza la quale tale unità non può avere alcun fondamento sicuro. Nessuno, infatti, ignora che in qualche luogo tale unità è insidiata e impugnata con ingannevoli opinioni e con tutte le arti. Ma ricordino tutti che il mistico Corpo di Cristo, la Chiesa, dev’essere «compaginato e connesso in tutte le giunture di comunicazioni e, secondo un’operazione proporzionata a ciascun membro» (Ef IV,16); «fino a tanto che ci riuniamo tutti, per l’unità della fede e della cognizione del Figlio di Dio, in un uomo perfetto, alla misura dell’età piena di sto» (Ef IV,13), di cui il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è, per divina disposizione, stabilito Vicario in terra. Ricordino e meditino queste sapientissime parole di san Cipriano, Vescovo e martire: «Il Signore così parla a Pietro: “Io dico che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa…” (cf. Mt XVI, 18). Su di lui solo edifica la Chiesa. Questa unità dobbiamo fermamente tenere e difendere, specie noi Vescovi, che nella chiesa governiamo… Anche la Chiesa è una, ed essa si estende ampiamente a una gran moltitudine con l’incessante accrescersi della sua fecondità; allo stesso modo che i raggi del sole sono molti, ma una è la luce; e molti i rami dell’albero, ma uno è il tronco, che affonda nel terreno con resistenti radici; e quando da una sola sorgente scaturiscono diversi corsi d’acqua, sebbene sembri che il loro numero si ramifichi per l’abbondanza dell’acqua erompente, c’è tuttavia sempre una sola fonte. Puoi strappare dal sole un raggio, ma l’unità della luce non si divide; puoi spiccare un ramo dall’albero, ma essendo rotto non potrà più germogliare; interrompi un ruscello dalla sua fonte, ed esso si inaridirà. Cosicché la Chiesa, inondata dalla luce di Dio, manda i suoi raggi a tutto l’universo: ma è tuttavia un solo splendore, quello che ovunque si diffonde; e l’unità dell’organismo non viene divisa. Essa stende i suoi rami su tutta la terra con lussureggiante ricchezza, riversa per ogni dove ruscelli ampiamente traboccanti, ma uno solo è il tronco, una la sorgente … E non può avere Dio per padre, chi non ha per madre la Chiesa… Chi non mantiene questa unità, non mantiene la legge di Dio, non mantiene la fede del Padre e del Figlio, non ha la vita e la salvezza». Queste parole del santo Vescovo martire saranno di conforto. di esortazione, di difesa specialmente a coloro i quali, non potendo in nessun modo, o solo con difficoltà, essere in rapporto con la Sede Apostolica, si trovano in grandi pericoli, e hanno da superare diversi ostacoli e insidie. Confidino tuttavia nell’aiuto di Dio, e non tralascino d’invocarlo con fervide suppliche. E ricordino che tutti i persecutori della Chiesa — la storia insegna — sono passati come un’ombra, mentre il sole della verità divina mai non tramonta, perché «la parola di Dio resta in eterno» (1Pt 1, 25). La società fondata da Cristo può essere impugnata, ma non vinta, perché attinge la sua forza non dagli uomini, bensì da Dio. Anzi, non vi è dubbio che essa dev’essere martoriata nei secoli da persecuzioni, contrasti, calunnie. come avvenne al suo divin Fondatore, secondo la parola: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Giov. XV,20); ma è ugualmente certo che essa, alla fin fine, come Cristo, nostro Redentore; trionfò, riporterà su tutti i nemici una pacifica vittoria. Confidate dunque; siate forti e costanti. Vi esortiamo ancora con le parole di sant’Ignazio; benché siamo certi che non avete bisogno di esortazioni: «Siate graditi a Colui, per il quale combattete. … Nessuno fra di voi diventi disertore. Il vostro Battesimo sia come un’arma, la fede come un elmo. la carità come una lancia, la pazienza come una completa armatura. Le vostre opere siano i vostri tesori, affinché meritiate una degna mercede». Inoltre, le bellissime parole di sant’Ambrogio Vescovo vi diano una sicura speranza e una fortezza inconcussa: «Stringi il timone della fede, affinché le tempestose procelle di questo mondo non ti turbino. È ben vero che il mare è vasto e immenso, ma non temere; poiché Egli la fondò sui mari, e la stabilì sui fiumi (Sal XXIII,2). Non senza ragione, dunque, la chiesa del Signore rimane immobile in mezzo a tanti flutti, perché fondata sulla Rocca Apostolica, e persevera sopra il suo fondamento, immobile contro le furie del mare (cf. Mt XVI, 18). È sbattuta dalle onde, ma non scossa; e sebbene i marosi di questo mondo, frangendosi rumoreggino intorno, essa ha tuttavia un porto sicurissimo, per accogliere i naviganti affaticati».

II

Come già dall’età apostolica, quando i Cristiani in qualche luogo subivano particolari persecuzioni, tutti gli altri, stretti da vincoli di carità, innalzavano suppliche e preghiere a Dio, Padre delle misericordie, con unanime fraterno consenso, perché infondesse loro forza e facesse quanto prima risplendere tempi migliori per la Chiesa; così al presente, o venerabili fratelli, desideriamo che a tutti coloro i quali nelle regioni dell’Europa e dell’Asia orientale così a lungo sono provati da una condizione di cose a loro avversa e penosa, non vengano a mancare gli aiuti e i conforti divini, implorati dai fratelli. – E poiché molto confidiamo nell’interposto patrocinio della Vergine Maria, esprimiamo ardenti voti, perché in ogni regione della terra i Cattolici, durante la novena che suole precedere la festa dell’augusta Madre di Dio Assunta al cielo, innalzino pubbliche preghiere, in modo particolare per la Chiesa che, come si è detto, in talune contrade è vessata e afflitta. Noi nutriamo speranza che la vergine Madre, durante l’anno santo 1950, non senza divino volere, da Noi proclamata Assunta al cielo con l’anima e col corpo; essa, che è stata da Noi solennemente dichiarata Regina del cielo, e come tale da venerarsi da tutti; Ella infine, alla quale, nel compiersi di un secolo, da quando apparve nella Grotta di Lourdes, benigna largitrice di doni, a una innocente fanciulla, abbiamo invitato le moltitudini dei pellegrini, perché potessero fruire delle sue materne grazie; Ella, non dubitiamo, in nessun modo vorrà allontanare e respingere questi Nostri voti, e le universali preghiere dei Cattolici. – Adoperatevi, dunque, venerabili fratelli, perché con la vostra esortazione e col vostro esempio, i fedeli a voi affidati, quanto più è possibile numerosi e supplici accorrano nei giorni stabiliti agli altari della Madre di Dio, la quale «a tutto il genere umano è fatta causa di salvezza»; e con una sola voce e con un solo cuore implorino che alfine dappertutto sia resa la libertà alla Chiesa; quella libertà che ad essa serve non soltanto per ottenere l’eterna salvezza degli uomini, ma anche per confermare le giuste leggi col dovere di coscienza, e per consolidare i fondamenti della società civile. Implorino in modo speciale dal materno patrocinio che i sacri pastori tenuti lontano dal loro gregge, che sono impediti di esercitare liberamente il loro ministero, quanto prima possano essere restituiti, com’è doveroso, al loro pristino stato; che i fedeli turbati da insidie, errori e dissidi, in piena luce della verità raggiungano completa concordia e carità; che quanti sono nell’incertezza del dubbio e deboli siano rinvigoriti dalla divina grazia di modo che siano pronti e disposti a tutto soffrire piuttosto che staccarsi dalla fede cristiana e dall’unità cattolica. Possano le singole diocesi — è questo l’oggetto dei Nostri ardenti desideri — avere il proprio legittimo pastore; possano diffondere la legge cristiana liberamente in tutte le contrade e in tutte le classi cittadine; possano i giovani nelle scuole primarie e superiori, nelle officine e sui campi, non essere irretiti nelle ideologie del materialismo, ateismo, edonismo, che debilitano il volo della mente, e tolgono il vigore alle virtù, ma illuminati invece dalla luce della Sapienza evangelica, che li sproni, sollevi e diriga verso tutto ciò che è ottimo. Dappertutto si aprano le vie alla verità; nessuno vi opponga ostacoli; tutti comprendano che nulla può resistere a lungo alla verità, e che nulla può durevolmente opporsi alla carità. Possano finalmente quanto prima i missionari ritornare tra quelle genti, che hanno guadagnato a Cristo con lo zelo apostolico e con le sudate fatiche, e che ardentemente desiderano progredire nella civiltà cristiana anche a costo di travagli, sacrifici e dolori. Tutto ciò implorino i fedeli dalla divina Madre; né omettano di chiedere perdono per gli stessi persecutori della Religione Cristiana secondando l’impulso di quella carità, per la quale l’Apostolo delle genti non dubitò di asserire: «Benedite coloro che vi perseguitano» (Rm XII.14): né desistano di invocare loro le grazie e i lumi celesti, che possano insieme dissipare le tenebre e mettere nel retto ordine le coscienze.

III

Ma a queste pubbliche suppliche, come ben sapete, venerabili fratelli, occorre sia congiunta la riforma cristiana dei costumi, senza la quale le nostre preghiere sono vane voci che non possono del tutto essere gradite a Dio. Per la carità tenera e ardente, con cui i Cristiani tutti amano la Chiesa Cattolica, non soltanto elevino al cielo pie preghiere, ma altresì offrano sentimenti di penitenza, opere virtuose, sacrifici, pene, e tutti i dolori e le asprezze, quelle necessariamente inerenti a questa vita mortale e quelle pure, a cui talvolta liberamente e con generoso animo conviene sottometterci. – Con questa auspicata rinnovazione morale congiunta alle supplici preghiere non soltanto essi rendano propizio Iddio a e stessi, ma anche alla santa Chiesa, che debbono amare quale affezionatissima madre. Riproducano tra loro, ogni qualvolta che circostanze lo esigano, quello spettacolo, che con tanto merivigliosa ed espressiva bellezza è descritto nella lettera a Diogneto: «I Cristiani … sono nella carne, ma non vivono secondo a carne. Abitano sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi sancite e col loro tenore di vita superano le leggi stesse. Amano tutti, e tutti li perseguitano. Sono  ignorati e condannati; sono messi a morte e si sentono vivificati … sono beffeggiati e fra le ignominie acquistano gloria. La loro fama è lacerata, e viene resa testimonianza alla loro giustizia. … Si comportano come gente onesta, e sono puniti come malfattori; mentre sono puniti, gioiscono come coloro e si sentono vivificati»! «Insomma per esprimere tutto questo in breve, quello che nel corpo è l’anima, sono nel mondo i Cristiani» !! – Se, com’erano all’età degli Apostoli e dei martiri, cosi rifioriranno i costumi cristiani, allora con sicura fiducia possiamo sperare nell’esaudimento benignissimo da parte della beata Vergine Maria, desiderosa com’è che quanti numera suoi figli ritraggano in sé la sua virtù; e nella sollecita impetrazione da parte di Lei invocata da tante supplici voci, possiamo altresì sperare tempi più pacati e più felici per la Chiesa del suo unigenito Figlio e per l’intero umano consorzio. – Questi Nostri voti, queste Nostre esortazioni, venerabili fratelli, desideriamo che nel modo stimato da voi migliore; a Nostro nome facciate presenti ai fedeli, affidati alle vostre cure. – Intanto in auspicio dei doni celesti e quale pegno della Nostra benevolenza, impartiamo di cuore la benedizione apostolica a voi singolarmente e al gregge a voi affidato; e in modo particolare a quelli che per rivendicare i diritti della Chiesa e per amore di essa sostengono persecuzioni.

Roma, presso S. Pietro, il giorno 14 del mese di luglio dell’anno1958, ventesimo del Nostro pontificato.

PIO PP XII

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “IN SUPREMA PETRI”

Che altro poteva fare che non abbia fatto il Santo Padre S. S. Pio IX per far tornare all’unica vera fede apostolica, i Cristiani d’Oriente, orgogliosi scismatici lontani dalla via della salvezza? Ancora una volta essi, sciocchi presuntuosi, rifiutarono la comunione apostolica, ed immemori del castigo già ricevuto nel 1453, quando Costantinopoli e tutta le Chiesa greca scismatica, furono annientate dalla furia maomettana pagando con il sangue, la deportazione e l’apostasia, il rifiuto dei patti già firmati al Concilio di Firenze. Questo nuovo rifiuto alla proposta paterna e caritatevole del Romano Pontefice, fu ovviamente pagato dalle pseudo-chiese scismatiche, e poi eretiche, con l’invasione della barbarie kazaro-comunista scoppiata in quelle nazioni e che ancora oggi tiene tanti miseri popoli sotto uno scettro di ferro. Questo è il destino che il Signore riserva a coloro che ipocritamente lo abbandonano disertando l’unica vera Chiesa ed il Governo divino del suo Vicario in terra. La stessa sorte si sta delineando oggi per gli apostati e scismatici del novus ordo e delle sette pseudo-tradizionaliste, non solo per i falsi e sacrileghi prelati che disprezzano orgogliosamente i canoni ecclesiastici e le immutabili leggi della Chiesa, ma per tutti i popoli che ciecamente li seguono avviandosi all’eterna perdizione. Ne abbiamo diversi segnali già al presente, ma il peggio deve ancora arrivare. I pochi Cattolici ancora adesi alla vera Chiesa Cattolica ed al “vero” legittimo Vicario di Cristo, restino fortes in fide, resistano agli assalti del “nemico” travestito da candido agnello e siano certi del premio e della gloria eterna promessi agli irremovibili fedeli dalla Santissima Trinità nelle Sacre Scritture.

S. S. PIO IX

«In suprema Petri»

L’unità della chiesa

Posti per volontà del Signore, nonostante i pochi meriti, sulla cattedra eccelsa dell’apostolo Pietro e assunta la cura di tutte le chiese, abbiamo rivolto l’attenzione fin dall’inizio del nostro pontificato alle diverse nazioni cristiane dell’Oriente e delle regioni limitrofe di qualunque rito che sembravano esigere da Noi un impegno particolare per più di un motivo di rilevante importanza. In Oriente infatti si manifestò l’unigenito Figlio di Dio fattosi uomo per noi uomini e attraverso la sua vita, morte e risurrezione si degnò di portare a compimento l’opera della redenzione umana. In Oriente fu diffuso inizialmente dallo stesso divino Redentore e subito dopo dai suoi discepoli l’evangelo della luce e della pace; e risplendettero numerosissime le chiese degli Apostoli che le avevano fondate, insigni per fama. Ma anche nel periodo successivo, e dopo più secoli, fiorirono nelle nazioni orientali i Vescovi, i martiri e altri uomini eccellenti per santità e dottrina, tra i quali sono celebrati con l’encomio univoco di tutto l’oriente Ignazio d’Antiochia, Policarpo di Smirne, Gregorio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, Atanasio di Alessandria, Basilio di Cesarea. Giovanni Crisostomo, i due Cirillo, di Gerusalemme e di Alessandria, Gregorio Armeno, Efrem Siro, Giovanni Damasceno, nonché gli apostoli degli slavi Cirillo e Metodio; per tacere poi di tutti gli altri pressoché innumerevoli, i quali pure affidarono il loro nome al ricordo perenne dei posteri, avendo anch’essi versato il loro sangue per Cristo o scritto cose sapienti e attuato opere di esimia virtù. Tornano anche a merito dell’Oriente i frequentissimi congressi dei Vescovi, e soprattutto gli antichi Concili ecumenici celebrati proprio in quella regione, i quali sotto la guida del Vescovo di Roma fu tutelata la fede cattolica contro quanti in quel tempo cercavano di introdurvi mutamenti, e fu fortificata con solenne giudizio. Infine anche in età successiva, benché una parte non piccola di cristiani d’Oriente si fosse staccata dalla comunione con questa santa Sede e perfino dall’unione con la Chiesa cattolica, e proprio in Oriente abbiano preso il potere genti lontane dalla religione cristiana, tuttavia non vi mancò mai un nutrito numero di uomini i quali, fidando nell’aiuto della grazia divina, confermarono la loro saldezza nella professione della vera unica fede cattolica fra molteplici calamità e lunghi pericoli propri sopratutto di quei tempi. A questo punto però non possiamo astenerci dal ricordare con un elogio particolare i loro Patriarchi, i Primati, gli Arcivescovi e i Vescovi, che custodirono con diligenza il proprio gregge nella professione della verità cattolica; e certo fu per le loro cure, unite alla benedizione di Dio, che, mitigarono  seguito la crudeltà dei tempi, si trovò ivi un così gran numero di persone rimaste nell’unità cattolica. – Pertanto, Ci rivolgiamo innanzitutto a voi, venerabili fratelli, diletti figli, Vescovi cattolici, e chierici e laici di qualsiasi ordine, che siete rimasti saldi nella fedele comunione con questa Santa Sede, o che successivamente, riconosciuto l’errore, vi siete rivolti ad essa con virtù degna di non minor elogio. Benché infatti abbiamo già scritto a molti di voi, dai quali avevamo ricevuto lettere di congratulazione per la nostra elezione al Sommo Pontificato, e poi dal 9 novembre 1846 ci siamo rivolti per mezzo di una Lettera Enciclica a tutti i Vescovi dell’intero mondo cattolico, tuttavia è nostra intenzione di farvi consapevoli con questo altro specifico discorso dell’ardentissimo amore con cui Ci prendiamo cura di voi e della vostra situazione. Veramente l’opportunità di scrivere di questi argomenti ci è stata fornita dalla missione del venerabile fratello Innocenzo Arcivescovo di Side, il quale è stato inviato da Noi a Costantinopoli presso la Sublime Porta [= nobile corte] ottomana, per incontrarsi in nostro nome col potentissimo imperatore delle popolazioni turche e per ringraziarlo vivamente per Noi, da oratore qual è, per aver inviato lui per primo ambasciatori a salutarci. Ma abbiamo altresì incaricato scrupolosamente il venerabile fratello di raccomandare con le Nostre parole, con molta cura, allo stesso imperatore voi e tutto ciò che riguarda la vostra causa e quella della Chiesa cattolica all’interno del vastissimo Impero ottomano. E non dubitiamo che l’imperatore stesso, già di per sé ben disposto nei vostri confronti, verrà incontro anche con maggior benevolenza ai vostri bisogni e non permetterà che nessuno dei suoi sudditi subisca dei torti a causa della Religione Cattolica. Poi il già ricordato Arcivescovo di Side manifesterà assai eloquentemente l’impegno del nostro amore per voi a quelli tra i sacri presuli e tra i maggiorenti delle vostre nazioni che si troveranno presenti a Costantinopoli; e successivamente, quando vorrà ritornare, si dirigerà, così come lo permetteranno le circostanze del momento, verso alcune altre località dell’Oriente per visitare in nostro nome, con le modalità del mandato avuto da Noi, le chiese dei Cattolici di qualsiasi rito che ivi si trovano e per rivolgersi con le nostre parole in modo affettuosissimo — e per confortarli — ai nostri venerandi fratelli e diletti figli che incontrerà in quei luoghi. – Egli inoltre consegnerà loro personalmente e farà trasmettere agli altri di voi questa lettera, testimone, come abbiamo detto, del nostro sollecito amore per le vostre nazioni cattoliche: con essa rendiamo noto a voi tutti, e lo garantiamo, che nulla ci sarà più caro che acquisire benemerenza ogni giorno di più da voi stessi e dalla situazione della Religione Cattolica presso di voi. Perciò, poiché tra le altre cose ci è stato riferito che nella normativa ecclesiastica delle vostre nazioni alcuni punti restano ancora incerti per la situazione sfavorevole del passato o sono stati fissati in modo non organico, ben volentieri saremo presenti con la nostra Autorità Apostolica affinché tutte le cose vengano ordinatamente composte e fissate secondo la norma dei sacri canoni e osservando le disposizioni dei santi Padri. Salvaguarderemo però integralmente le vostre proprie liturgie cattoliche; le teniamo in massimo conto, benché in alcuni punti si discostino dalla liturgia delle chiese latine. Infatti, le stesse vostre liturgie furono tenute in altrettanta considerazione dai nostri predecessori; furono invero apprezzate per la veneranda antichità della loro origine, per essere state scritte nelle lingue degli Apostoli e dei Padri, e inoltre perché i loro riti si avvalgono di celebrazioni davvero splendide e magnifiche adatte a rinvigorire la devota pietà dei fedeli per i divini misteri. – A questo criterio di comportamento della sede apostolica nei confronti delle liturgie cattoliche degli orientali fanno riferimento parecchi decreti e costituzioni dei Pontefici Romani, promulgati per la loro conservazione; fra questi documenti sarà sufficiente lodare le lettere apostoliche di Benedetto XIV nostr predecessore, in particolare quella scritta il 26 luglio 1755,  il cui inizio è Allatæ sunt. Tende al medesimo scopo il fatto che ai sacerdoti orientali che vengono in Occidente non solo è data libertà di celebrare negli edifici consacrati dei latini, ma sono disponibili chiese edificate proprio per l’utilizzo esclusivo da parte loro. Oltre a ciò non sono mancati monasteri di rito orientale, né altre dimore destinate ad accogliere gli orientali ; e neppure collegi fondati allo scopo di educare i figli degli orientali. sia da soli sia con altri giovinetti, alle Scritture e alle scienze sacre e altresì alla dottrina propria del clero, e di renderli idonei in seguito ad affrontare, ciascuno nella propria nazione, doveri ecclesiastici. E benché alcune di queste istituzioni siano andate perdute per calamità abbastanza recenti, altre tuttavia restano ancora e sono floride; e in esse, venerabili fratelli, diletti figli, avete una prova davvero evidente del particolare affetto con cui la Sede Apostolica segue voi e le vostre necessità. – D’altra parte sapete già, venerabili fratelli, diletti figli, che Noi, nella cura delle vostre attività religiose ci avvaliamo dell’opera di promozione della nostra Congregazione di cui fanno parte  parecchi cardinali della santa chiesa di Roma, detta «di propaganda fide». Ma lo sforzo per ben meritare di voi è comune anche a moltissimi altri, sia romani sia stranieri, che dimorano in questa alma città. Tra questi, alcuni presuli di rito latino e anche dei vostri riti orientali, e altri uomini pii, poco tempo fa hanno progettato di costituire una pia società per sostenere con un impegno comune — sotto l’autorità della già ricordata nostra Congregazione — il culto della religione cattolica presso di voi, e un suo più fecondo sviluppo, con pie preghiere quotidiane, raccogliendo offerte e con ogni loro risorsa e attività. Per parte nostra, quando quel pio progetto ci fu riferito, lo elogiammo e approvammo e consigliammo loro di por mano all’opera senza indugio. – Ed ora indirizziamo le nostre parole in modo particolare a voi,  venerabili fratelli presuli cattolici degli orientali, di qualsiasi grado, affinché, lodando di nuovo il vostro zelo e quello del vostro clero nel compiere i doveri sacri, accresciamo ancora con questa esortazione il vostro coraggioso slancio verso la virtù. Pertanto vi supplichiamo nel Signore Dio nostro, affinché confidando nel suo celeste aiuto attendiate con sempre maggior sollecitudine alla custodia del diletto gregge e non desistiate dal fargli luce con la parola e l’esempio, affinché si muova degnamente in modo gradito a Dio in tutto, fruttificando in ogni opera buona. Si impegnino attivamente nella medesima cura i sacerdoti, che sono sotto di voi, in primo luogo curatori di anime, accogliendo l’invito ad amare il decoro della casa di Dio, a rinvigorire la pietà del popolo, ad amministrare con santità le cose sante e, senza trascurare gli altri aspetti del loro ministero, ad avere particolare diligenza nell’indirizzare i fanciulli ai rudimenti della dottrina cristiana e nel nutrire il restante popolo dei fedeli con eloquio semplice, adatto alla sua capacità di intendere. Dai sacerdoti e da voi stessi deve essere profuso ogni sforzo affinché tutti i fedeli siano solleciti nel conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace, rendendo grazie a Dio, Padre dei lumi e delle misericordie, perché in momenti così pericolosi sono rimasti saldi, in virtù della sua grazia nella comunione cattolica dell’unica Chiesa di Cristo, o sono ritornati in seguito ad essa, mentre altri del loro popolo vagano ancora fuori dall’unico autentico ovile di Cristo, dal quale già da tempo i loro padri erano usciti miseramente. – Non possiamo ora non indirizzare parole di carità e di pace anche a quegli orientali che venerano Cristo, ma non sono nella comunione con questa Sede di Pietro. L’amore di Cristo infatti ci sprona a non lesinare sforzi nel seguire, conformemente ai suoi moniti e al suo esempio, le pecore disperse nei luoghi più impervi e aspri e a soccorrere la loro debolezza, affinché un giorno, finalmente, ritornino nei recinti del gregge del Signore. – Ascoltate perciò la nostra parola, voi tutti che nei territori d’Oriente e in quelli limitrofi vi gloriate, sì, del nome di cristiani, ma non avete comunione con la santa chiesa di Roma; e soprattutto voi, che presso di loro siete addetti ai sacri ministeri o che, insigniti di un grado ecclesiastico anche più elevato esercitate la vostra autorità sugli altri. Riflettete e richiamate alla memoria l’antica condizione delle vostre chiese, quando di comune accordo si tenevano unite tra di loro e con le altre chiese del mondo cattolico nel vincolo dell’unità: pensate, quindi se siano state per voi fonte di qualche vantaggio le divisioni che successivamente sono subentrate e a causa delle quali non siete stati in grado di conservare non solo con le chiese occidentali, ma neppure tra voi stessi l’antica unità sia della dottrina sia del sacro governo. Ricordate il simbolo della fede, nel quale insieme con noi confessate di credere « la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica »; e valutate quindi se davvero possa ritrovarsi questa unità cattolica della Chiesa santa e apostolica nella divisione così profonda delle vostre chiese, mentre proprio voi vi rifiutate di riconoscere l’unità nella comunione della Chiesa romana, sotto la quale altre numerosissime chiese in tutto il mondo sono cresciute sempre insieme in un sol corpo, e ancora crescono insieme. E per comprendere più a fondo la ragione di quella unità, per la quale deve risplendere la Chiesa cattolica, richiamate alla memoria quell’orazione scritta nel Vangelo di Giovanni, nella quale Cristo Figlio unigenito di Dio così pregò per i suoi discepoli: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi»; e subito dopo aggiunse: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e Io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv XVII, 20ss). – In verità lo stesso Artefice della salvezza degli uomini, il Cristo Signore, pose il fondamento della sua Chiesa — l’unica contro la quale le porte dell’inferno non prevarranno — in Pietro primo degli Apostoli; a lui consegnò le chiavi del regno dei cieli (Mt XVI, 18-19); per lui pregò, perché non gli venisse mai meno la fede, dandogli anche mandato di confermare in essa i fratelli (Lc XXII,31-32); a lui infine affidò i suoi agnelli e le sue score (Gv. XXI,15ss), e anzi tutta la Chiesa, che è formata dai veri agnelli e dalle vere pecore di Cristo. Queste prerogative sono state conferite anche ai Vescovi romani successori di Pietro; infatti la chiesa, che è destinata a durare fino alla fine dei secoli, non può essere privata, dopo la morte di Pietro, del fondamento sopra il quale fu edificata da Cristo. Perciò sant’Ireneo, discepolo di Policarpo — che aveva ascoltato personalmente l’Apostolo Giovanni — e poi Vescovo di Lione, considerato dagli orientali non meno che dagli occidentali uno fra i più illustri lumi dell’antichità cristiana, volendo riportare contro gli eretici del suo tempo la dottrina tramandata dagli Apostoli, ritenne inutile elencare le successioni di tutte le chiese di origine apostolica, affermando che per lui era sufficiente allegare contro quelli la dottrina della Chiesa romana, perché «è necessario che ogni chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, si volga, in forza della sua origine superiore, a questa Chiesa, nella quale è stata conservata sempre dai fedeli di ogni luogo la dottrina tramandata dagli Apostoli». – Sappiamo che voi tutti desiderate rimanere fedeli alla dottrina custodita dai vostri avi. Seguite dunque gli antichi Vescovi e gli antichi fedeli di Cristo di tutte le regioni orientali, a proposito dei quali moltissimi documenti dimostrano che essi concordarono con gli occidentali nel riconoscere l’autorità dei Pontefici romani. Tra i più significativi esempi di tale comportamento provenienti dall’Oriente stesso (oltre al passo di Ireneo che ho appena lodato) piace qui ricordare ciò che fu fatto nel IV secolo della Chiesa nella causa di Atanasio Vescovo di Alessandria, illustrissimo per santità non meno che per dottrina e zelo pastorale, il quale, condannato senza alcun fondamento da certi presuli orientali nel Concilio che si tenne prevalentemente a Tiro, e cacciato dalla sua chiesa, venne a Roma; qui giunsero anche altri Vescovi provenienti dall’Oriente, allontanati pure essi ingiustamente dalle loro sedi. «Allora il Vescono romano » (che era il nostro predecessore Giulio), «dopo aver conosciuto le cause dei singoli e averli trovati tutti credenti nella dottrina della fede nicena, li accolse nella comunione. E poiché per la dignità della sede spettava solo a lui la cura di tutti, restituì a ciascuno la sua chiesa. Scrisse anche ai Vescovi orientali, rimproverandoli perché nelle cause sopra ricordate , non avevano giudicato rettamente e turbavano lo stato delle chiese». Anche all’inizio del V secolo Giovanni Crisostomo Vescovo di Costantinopoli, di altrettanta chiarissima fama, che ne sinodo di Calcedonia [tenuto nell’agosto del 403 da alcuni Vescovi] in località La Quercia era stato condannato con sommo oltraggio, fece ricorso lui pure per mezzo di lettere e di messaggeri a questa Sede Apostolica e fu dichiarato innocente da nostro predecessore sant’Innocenzo. – Della venerazione che i vostri avi ebbero per l’autorità dei Pontefici romani resta un esempio insigne nel sinodo di Calcedonia del 451. Infatti, i Vescovi, che erano convenuti lì in numero di circa seicento, e provenivano quasi tutti (con poche eccezioni) dall’Oriente, dopo che fu letta ad alta voce nella seconda sessione del concilio la lettera del romano Pontefice s. Leone Magno, esclamarono: «Così ha parlato Pietro per bocca di Leone». Subito dopo, portato a termine quel sinodo sotto la guida dei legati pontifici, gli stessi Padri conciliari nella relazione mandata a Leone sui lavori svolti affermarono che lui tramite i legati già ricordati aveva presieduto l’assemblea dei Vescovi così come il capo presiede le membra». – D’altronde non solo dagli atti del concilio di Calcedonia, ma anche dalla storia degli altri antichi sinodi orientali sarebbe possibile produrre altri numerosi documenti, dai quali risulta che i Pontefici Romani ebbero il primo posto principalmente nei sinodi ecumenici, e che la loro autorità era invocata sia prima della celebrazione dei Concili, sia inoltre al momento della conclusione. E anche al di fuori dell’argomento dei concili, potremmo addurre moltissimi altri scritti e fatti di Padri e di antichi orientali dai quali pure si evince con chiarezza che la suprema autorità dei Romani Pontefici ebbe vigore sempre presso i vostri avi nell’intero Oriente. Ma poiché sarebbe troppo lungo considerare qui tutti quegli esempi, e quello che abbiamo già riferito è sufficiente per dimostrare la verità dell’assunto, ricorderemo soltanto, a questo punto, a guisa di coronide, come si comportarono in età antichissima, proprio al tempo stesso degli Apostoli, i fedeli di Corinto nelle discordie dalle quali la loro chiesa era stata turbata in modo molto grave. I corinzi appunto con lettere portate da Fortunato, venuto qui a questo scopo, presentarono quelle loro discordie a s. Clemente, il quale pochi anni dopo la morte di Pietro era stato fatto Pontefice della chiesa di Roma: Allora Clemente, ponderata con attenzione la cosa, rispose per mezzo dello stesso Fortunato e dei suoi addetti e messaggeri Claudio Efebo e Valerio Vitone: da loro fu portata a Corinto quella celebratissima epistola del santo Pontefice e della Chiesa Romana, che fu tenuta in tanta considerazione sia presso gli stessi corinzi sia presso gli altri orientali da essere letta pubblicamente in parecchie chiese anche in epoca successiva. –  Conformemente a questi esempi, vi esortiamo e vi supplichiamo a ritornare senza ulteriore indugio nella comunione di questa santa sede di Pietro, nella quale è il fondamento della vera Chiesa di Cristo, come dimostrano sia la tradizione dei vostri avi e degli altri antichi Padri, sia le parole di Cristo Signore riportate nei santi Vangeli, che abbiamo ricordato prima: E non potrà mai accadere che siano nella comunione della Chiesa una santa cattolica e apostolica quelli che abbiano voluto restare lontani dalla solidità della pietra, sopra la quale la Chiesa stessa fu edificata per volere di Dio. In più, non c’è davvero nessuna ragione per la quale possiate sottrarvi a questo ritorno alla vera chiesa e alla comunione con questa santa Sede. Sapete infatti, che nei doveri inerenti alla professione della fede in Dio non c’è niente di così gravoso che non debba essere sopportato per la gloria di Cristo e per il premio della vita eterna. In verità, per quanto ci riguarda, attestiamo e garantiamo che nulla Ci sta più a cuore che, lungi dall’affliggervi con qualche imposizione che possa sembrare troppo dura, accogliervi invece, secondo l’uso costante di questa Santa Sede, con molto affetto e con benevolenza davvero paterna. Pertanto, non vi imponiamo altri oneri fuorché questi necessari: che, dopo essere ritornati all’unità, consentiate con noi nella professione della vera fede custodita e insegnata dalla Chiesa Cattolica e conserviate la comunione con la Chiesa stessa e con questa suprema Sede di Pietro. – Conseguentemente, per ciò che attiene ai vostri sacri riti, sarà da respingere solo quanto vi si sia insinuato nei tempi della separazione, in contrasto con la stessa fede e unità cattolica: eccetto questo, conserverete perfettamente integre le vostre liturgie orientali; abbiamo già espresso nella prima parte di questa lettera l’apprezzamento di cui esse godettero presso i nostri predecessori e la grandissima stima che Noi ugualmente nutriamo per la loro venerabile antichità e per le cerimonie adatte ad alimentare la pietà. – Inoltre, siamo risoluti a tenere nei confronti dei sacri ministri, sacerdoti e presuli, che da queste nazioni tornino all’unità cattolica, lo stesso comportamento dei Nostri predecessori, sia quelli più vicini nel tempo, sia quelli vissuti in età più lontane: a mantenere cioè a quelli, inalterati, gradi e cariche e quindi ad avvalerci della loro opera non meno di quella del resto del clero cattolico orientale per conservare e diffondere il culto della Religione Cattolica fra i loro connazionali. – Infine, accoglieremo sia loro sia i laici che torneranno nella nostra comunione con lo stesso affetto riservato agli altri Cattolici d’Oriente; anzi Ci sarà caro adoperarci in ogni modo per renderCi benemeriti ogni giorno di più degli uni così come degli altri. – Voglia Dio clementissimo degnarsi di dare a questo Nostro discorso la voce della virtù; benedire lo zelo dei Nostri fratelli e figli, che insieme con Noi si danno pena della salvezza delle vostre anime; allietare la Nostra umiltà col conforto di vedere ripristinata l’unità cattolica fra i Cristiani d’oriente e di avere nell’unità stessa il sostegno per diffondere sempre di più la vera fede di Cristo tra i popoli che gli sono ancora lontani. Noi certanente non desistiamo dall’implorare ciò in ogni Nostra preghiera e supplica da Dio, Padre dei lumi e delle misericordie, per mezzo del suo Unigenito, il nostro Redentore; e di invocare al medesimo scopo il patrocinio della beatissima Vergine Madre di Dio, e dei santi Apostoli, Martiri, Padri dai quali con la predicazione, il sangue, le virtù e gli scritti fu diffusa ai primordi nell’Oriente, e poi conservata, la vera religione di Cristo. Mentre attendiamo con vivo desiderio di congratularci per il vostro tanto atteso ritorno nel seno della Chiesa Cattolica e di benedirvi come Nostri fratelli e figli, salutiamo frattanto tutti i Cattolici, Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi, chierici, laici che si trovano ora in Oriente e nei luoghi ad esso vicini e impartiamo di vivo cuore a tutti loro l’Apostolica Benedizione.

Roma, presso Santa Maria Maggiore, 6 gennaio 1848, anno del Nostro pontificato.

PIO PP. IX

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO – S. S. PIO IX “OMNEM SOLLICITUDINEM”

«… a nessuno è lecito, senza aver consultato questa Sede Apostolica, introdurre nella liturgia innovazioni sia pure di poco peso… » È questo il punto centrale della questione qui affrontata riguardante i riti che uomini di animo empio volevano introdurre tra i ruteni di Polonia. Le variazioni liturgiche pur minime devono essere approvate dalla Sede Apostolica e non lasciate all’arbitrio di chi potrebbe introdurre pratiche eretiche o scismatiche. Certo c’è da impallidire davanti alle “barzellette” pseudoliturgiche oggi introdotte nei falsi riti della antichiesa cattolica, la “sinagoga di satana” che ha invaso il Vaticano e gran parte dell’orbe cattolico, trascinando nell’eterna perdizione un’infinità di anime colpevolmente ignare, ed addirittura contente delle novità “moderniste” che costituiscono ipso facto sacrilegio ed anatema gravissimo. Ma gli ignoranti nella fede cattolica non si salvano in alcun modo, perché non hanno possibilità di immergersi nella corrente della grazia divina, nella linfa salvifica che da Cristo fluisce ai fedeli che aderiscono al suo Corpo mistico. Poverini, preghiamo per essi e godiamoci questa breve ma significativa Lettera Enciclica di S. S. Pio IX.

Pio IX
Omnem sollicitudinem

Fin dai primi anni del Nostro lungo Pontificato abbiamo impegnato tutta la Nostra attenzione e abbiamo operato per procurare e favorire il bene spirituale delle Chiese Orientali, dichiarando solennemente, fra le altre cose, che le peculiari liturgie di rito cattolico dovevano essere mantenute e conservate con ogni cura e diligenza, in sintonia con i Nostri Predecessori che le circondarono della massima attenzione e considerazione. – Esiste al riguardo una ricca documentazione a noi trasmessa da Clemente VIII nella sua Costituzione Magnus Dominus del 1595, da Paolo V nel suo Breve del 10 dicembre 1615, e soprattutto, per tralasciare altri documenti, da Benedetto XIV nelle sue Encicliche Demandata del 1743 e Allatæ sunt del 1755. – Esistendo uno stretto rapporto che lega le norme liturgiche alle dottrine dogmatiche, questa Sede Apostolica, maestra infallibile della Fede e accorta custode della Verità, non appena rilevava che “si era insinuato nella Chiesa Orientale qualche rito pericoloso e disdicevole, lo condannava, lo riprovava e ne interdiceva l’uso“. – La summenzionata sollecitudine a mantenere integri gli antichi riti liturgici non impedì di accogliere tra i riti orientali alcuni altri praticati presso altre Chiese e che, come scriveva Gregorio XVI di felice memoria ai Cattolici Armeni, “i vostri antenati preferirono, o perché sembravano più semplici, o perché li avevano accolti già da qualche tempo come segno di distinzione dagli eretici e dagli scismatici” . “Resta dunque ferma“, come tramanda lo stesso Sommo Pontefice, “la norma che ribadisce l’obbligo di non procedere a modifiche dei sacri riti liturgici senza aver preventivamente consultato la Sede Apostolica, sia pure con il pretesto di introdurre cerimonie ritenute più conformi alle liturgie approvate dalla stessa Sede, se non in presenza di serie motivazioni e dopo l’assenso della stessa Sede Apostolica“. – A queste norme, saggiamente disposte per tutte le Chiese di rito orientale, deve pure soggiacere, come fu più volte dichiarato, ma soprattutto nel menzionato Breve di Paolo V, la disciplina liturgica dei Ruteni, che i Romani Pontefici non cessarono mai di circondare con particolare benevolo affetto e con peculiari favori. Non appena si prospettò qualche pericolo a minacciare la loro fede, la Sede Apostolica non tralasciò di far udire immediatamente la propria voce per ovviare a un così grave male. È tuttora viva l’eco delle solenni parole pronunciate dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di felice memoria, quando la Nazione dei Ruteni, come è noto a tutti, fu coinvolta in una situazione di così estrema gravità che tre milioni di loro furono strappati dal seno della Chiesa Cattolica, e ancora oggi ne piangiamo. – Neppure mancò l’aiuto della Sede Apostolica alla Nazione dei Ruteni, quando sorsero gravi e interminabili controversie nella Provincia di Leopoli per la difformità dei riti e per i rapporti che intercorrevano fra gli ecclesiastici di rito latino e quelli di rito greco, con negativi riflessi sulla carità cristiana. Intervenne allora un accordo, o convenzione, proposto dai Vescovi di entrambi i riti che, sancito da un decreto della S. Congregazione di Propaganda Fide per gli affari delle Chiese di rito orientale in data 6 ottobre 1863, risolse e pose felicemente fine alla controversia. – Per la verità, la deplorevole situazione in cui si viene a trovare la stessa Provincia ecclesiastica [di Leopoli], e in modo particolare la confinante Diocesi di Chelm, chiama nuovamente in causa, e a buon diritto, il Nostro dovere di sollecita vigilanza. È assai recente la notizia a Noi riportata di un’accesa controversia fra codesti Cattolici di rito Greco-Ruteno temerariamente imbastita su questioni di liturgia. Alcuni individui, e tra questi anche membri del clero, attratti dalle novità e sulla scorta di un loro capriccio, vanno proponendo innovazioni dei riti liturgici, alcuni già in uso da tempo immemorabile e altri solennemente recepiti dal Sinodo di Zamos’c”, approvato dalla Sede Apostolica – Ma ciò che maggiormente Ci affligge e riempie di profonda amarezza il Nostro cuore è la gravissima situazione, a Noi recentemente riferita, in cui versa la Diocesi di Chelm. Non appena si allontanò il Vescovo, scelto da Noi stessi pochi anni orsono e ancora spiritualmente legato a quella Diocesi, uno pseudo-amministratore già da Noi ritenuto indegno della dignità episcopale, non esitò ad usurpare la giurisdizione ecclesiastica, a sovvertire ogni cosa nella suddetta Chiesa, a sconvolgere e ad alterare a proprio arbitrio le disposizioni liturgiche sancite dai canoni. – Con animo affranto scorriamo le righe della lettera circolare emanata il 20 ottobre 1873, con cui quel funesto pseudo-amministratore osa innovare l’esercizio del culto divino e la sacra liturgia, con l’evidente proposito di introdurre nella cattolica Diocesi di Chelm la liturgia degli scismatici: al fine di ingannare gli incolti e gl’ingenui per indurli più facilmente allo scisma, non si vergogna di produrre varie Costituzioni della Sede Apostolica storcendone fraudolentemente le disposizioni al proprio scopo. D’altra parte, non può esserci alcuno che non ritenga nullo e irrito quanto disposto sulla liturgia nella succitata lettera, e Noi, forti del Nostro Potere Apostolico, dichiariamo ciò nullo e irrito. Questo pseudo-amministratore risulta assolutamente privo di qualsiasi giurisdizione ecclesiastica: né il Vescovo legittimo al momento della partenza, né in seguito la Sede Apostolica giammai gliela conferirono. È dunque chiaro ed evidente che “non è entrato nell’ovile delle pecore per la porta, ma che vi è penetrato per altra via” (Gv X,1), e deve essere considerato un intruso. – I Sacri Canoni della Chiesa dispongono che gli antichi riti orientali legittimamente introdotti debbano essere scrupolosamente osservati: “I Romani Pontefici Nostri Predecessori, dopo averli esaminati con ogni cura e non avendoli trovati in contrasto con la Fede cattolica, né occasione di pericolo per le anime, né capaci di sminuire il decoro ecclesiastico, ritennero opportuno approvarli e permetterli“; sono sempre gli stessi Romani Pontefici a proclamare solennemente che a nessuno è lecito, senza aver consultato questa Sede Apostolica, introdurre nella liturgia innovazioni sia pure di poco peso. È quanto dispongono chiaramente le Costituzioni Apostoliche ricordate all’inizio della presente. – Non ha alcuna importanza il fatto che, per gettare fumo negli occhi, si presentino le innovazioni come strumento per purificare i riti orientali e restituirli all’antica forma. Non può infatti esistere alcuna altra liturgia dei Ruteni diversa da quella istituita dai Santi Padri della Chiesa, definita dai canoni dei Sinodi, invalsa per legittima consuetudine, ma sempre espressamente o tacitamente approvata dalla Sede Apostolica. Se con il trascorrere del tempo subentrarono variazioni nella Liturgia, queste non avvennero senza il consenso dei Romani Pontefici e furono introdotte con il preciso intento di preservare i riti da ogni contaminazione eretica e scismatica, perché potessero ergersi a difesa dei dogmi cattolici e della fede, e diventassero più idonei alla promozione del bene delle anime. – Con lo specioso pretesto dunque di purificare i riti e di ricondurli all’antica purezza, queste persone senza scrupoli si propongono di tendere insidie alla fede dei Ruteni di Chelm e di allontanarli dal grembo della Chiesa Cattolica con il chiaro proposito di indirizzarli all’eresia e allo scisma. – Ma in mezzo a queste amarissime avversità, che Ci assediano da ogni parte, Ci ristora e Ci solleva la visione straordinaria di un comportamento eroico e indefettibile offerto recentemente a Dio, agli Angeli e agli uomini dai Ruteni della Diocesi di Chelm. Essi, respingendo le inique disposizioni dello pseudo-amministratore, preferirono affrontare ogni male e mettere addirittura a repentaglio la propria vita piuttosto che sacrificare la fede degli avi e abbandonare i riti cattolici ricevuti dagli antenati, affermando di volerli conservare integri e senza macchia per sempre. – Per parte nostra non tralasciamo di innalzare a Dio, ricco di misericordia, suppliche incessanti perché effonda benigno la luce della sua grazia nel cuore di coloro che, contro ogni norma divina, violentano la Diocesi di Chelm e, nello stesso tempo, sovvenga con la sua onnipotenza quei miseri fedeli privi di ogni aiuto e di assistenza spirituale, e acceleri la consolazione dell’auspicata tranquillità. – A questo punto rivolgiamo a Voi, Venerabili Fratelli, che vi siete fatti carico con tanta dedizione e con zelo ammirevole della cura spirituale dei Ruteni, una pressante esortazione nel Signore perché difendiate le disposizioni liturgiche approvate dalla Sede Apostolica o introdotte con la sua consapevolezza e senza il suo divieto. E poiché non è assolutamente permesso introdurre innovazioni, vogliate affidare una meticolosa salvaguardia dei Sacri Canoni, in particolare delle decisioni del Sinodo di Zamos’c”, ai Parroci e ai Sacerdoti, persino ricorrendo a pene severissime se fosse necessario. – Si tratta infatti di un problema di primaria importanza, cioè della salvezza delle anime, dal momento che le illegittime innovazioni mettono in estremo pericolo la Fede cattolica e la santa unità dei Ruteni. Proprio per questo occorre applicarsi con tutto l’impegno, affrontare ogni fatica e non lasciare nulla di intentato per reprimere sul nascere tutto lo stravolgimento messo in opera da uomini malvagi in codesta regione in campo liturgico. Siamo certi, Venerabili Fratelli, che non verrete meno in alcun modo al preciso dovere di accollarvi, con l’aiuto della grazia di Dio, gli impegni menzionati con decisione e accortezza.

Perché ciò possa felicemente avverarsi, impartiamo con affetto a Voi, Venerabili Fratelli, e al popolo affidato a ciascuno di Voi, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 13 maggio 1874, anno ventottesimo del Nostro Pontificato.