NELLA FESTA DI SAN GIUSEPPE [2018]

– 458 –

Fac nos innocuam, Ioseph, decurrere vitam,

Sitque tuo semper tuta patrocinio.

(ex Missali Rom.).

Indulgentia trecentorum (300) dierum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, invocatione quotidie per integrum mensem pie recitata (S. C. Indulg., 18 mart. 1882; S. Pæn. Ap., 13 maii 1933).

HYMNI

– 463-

Te, Ioseph, celebrent agmina Cœlitum

Te cuncti rèsonent Christiadum chori,

Qui, clarus meritis, iunctus es inclytæ

Casto fœdere Virgini.

Almo cum tumidam germine coniugem

Admirans, dubio tangeris anxius,

Afflatu superi Flaminis, Angelus

Conceptum puerum docet.

Tu natum Dominum stringis, ad exteras

Aegypti profugum tu sequeris plagas;

Amissum Solymis quæris et invenis,

Miscens gaudia fletibus.

Post mortem reliquos sors pia consecrat,

Palmamque emeritos gloria suscipit:

Tu vivens, Superis par, frueris Deo,

Mira sorte beatior.

Nobis, summa Trias, parce precantibus,

Da Ioseph meritis sidera scandere:

Ut tandem liceat nos tibi perpetim

Gratum promere canticum. Amen.

(ex Brev. Rom.).

(Indulgentia trium (3) annorum. – Indulgentia plenaria suetis conditionibus, quotidiana hymni recitatione in integrum mensem producta (S. Pæn. Ap., 9 febr. 1922 et 13 iul. 1932). 

– 464 –

Salve, Ioseph, Custos pie

Sponse Virginis Mariae

Educator optime.

Tua prece salus data

Sit et culpa condonata

Peccatricis animae.

Per te cuncti liberemur

Omni poena quam meremur

Nostris prò criminibus.

Per te nobis impertita

Omnis gratia expetita

Sit, et salus animae.

Te precante vita functi

Simus Angelis coniuncti

In cadesti patria.

Sint et omnes tribulati

Te precante liberati

Cunctis ab angustiis.

Omnes populi laetentur,

Aegrotantes et sanentur,

Te rogante Dominum.

Ioseph, Fili David Regis,

Recordare Christi gregis

In die iudicii.

Salvatorem deprecare,

Ut nos velit liberare

Nostræ mortis tempore.

Tu nos vivos hic tuere

Inde mortuos gaudere

Fac cadesti gloria. Amen.

Indulgentia trium (3) annorum (S. Pæn. Ap., 28 apr.1934).

– 473 –  

Virginum custos et Pater, sancte Ioseph, cuius

fideli custodiæ ipsa Innocentia, Christus Iesus,

et Virgo virginum Maria commissa fuit, te per

hoc utrumque carissimum pignus Iesum et Mariam

obsecro et obtestor, ut me ab omni immunditia

præservatum, mente incontaminata, puro

corde et casto corpore Iesu et Mariæ semper

facias castissime famulari. Amen.

(Indulgentia trium (3) annorum. Indulgentia septem (7) annorum singulis mensis marti: diebus necnon qualibet anni feria quarta. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, oratione quotidie per integrum mensem pia mente iterata (S. C. Indulg., 4 febr. 1877; S. Pæn. Ap., 18 maii 1936 et 10 mart. 1941)

-475-

Memento nostri, beate Ioseph, et tuæ orationis

suffragio apud tuum putativum Filium intercede;

sed et beatissimam Virginem Sponsam

tuam nobis propitiam redde, quæ Mater est

Eius, qui cum Patre et Spiritu Sancto vivit et

regnat per infinita sæcula sæculorum. Amen.

(S. Bernardinus Senensis).

(Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem oratio devote recitata fuerit (S. C. Indulg., 14 dec. 1889; S. Pæn. Ap., 13 iun.1936).

476

Ad te, beate Ioseph, in tribulatione nostra

confugimus, atque, implorato Sponsæ tuæ

sanctissimae auxilio, patrocinium quoque tuum fidenter

exposcimus. Per eam, quæsumus, quæ

te cum immaculata Virgine Dei Genitrice coniunxit,

caritatem, perque paternum, quo Puerum

Iesum amplexus es, amorem, supplices deprecamur,

ut ad hereditatem, quam Iesus Christus

acquisivit Sanguine suo, benignius respicias,

ac necessitatibus nostris tua virtute et ope

succurras. Tuere, o Custos providentissime divinæ

Familiæ, Iesu Christi sobolem electam;

prohibe a nobis, amantissime Pater, omnem errorum

ac corruptelarum luem; propitius nobis,

sospitator noster fortissime, in hoc cum potestate

tenebrarum certamine e cœlo adesto; et

sicut olim Puerum Iesum e summo eripuisti vitae

discrimine, ita nunc Ecclesiam sanctam Dei

ab hostilibus insidiis atque ab omni adversitate

defende: nosque singulos perpetuo tege patrocinio,

ut ad tui exemplar et ope tua suffulti, sancte

vivere, pie emori, sempìternamque in cœlis

beatitudinem assequi possimus. Amen.

 (Indulgentia trium (3) annorum. Indulgentia septem (7) annorum per mensem octobrem, post recitationem sacratissimi Rosarii, necnon qualibet anni feria quarta. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidiana orationis recitatio in integrum mensem producta fueri: (Leo XIII Epist. Encycl. 15 aug. 1889; S. C. Indulg., 21 sept. 1889; S. Paen. Ap., 17 maii 1927, 13 dee. 1935 et 10 mart. 1941).

477

O Ioseph, virgo Pater Iesu, purissime Sponse

Virginis Mariæ, quotidie deprecare prò nobis

ipsum Iesum Filium Dei, ut, armis suae gratiæ

muniti, legitime certantes in vita, ab eodem coronemur

in morte.

(Indulgentia quingentorum (500) dierum (Pius X, Rescr. Manu Propr., 11 oct. 1906, exhib. 26 nov. 1906; S. Paen. Ap. 23 maii 1931).

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Nella festa di S. Giuseppe.

[G. Lardone: “Fra gli Astri della Santità Cattolica”, S.E.I. ed. Torino, 1928 – impr.]

Nei tramonti luminosi del nostro bel cielo italico si contempla a volte un fenomeno interessante. Mentre il sole declina lentamente a l’occaso e presenta in tutto il fulgore che le è proprio la sua enorme massa incandescente, è circondato attorno attorno da nuvole gigantesche, come disposte in un trionfo di gloria, le quali, dando riflessi di porpora e d’oro, sembrano risplendere di luce propria, per quanto non riflettano che la luce ricevuta dall’astro maggior dell’universo. Tale fenomeno singolare si ripete sempre nel cielo fulgido della cristiana santità. Stelle splendenti nel divin firmamento della Chiesa trionfante e della Chiesa militante i Santi danno una luce che non è terrena: a primo aspetto sembra una luce loro personale: in realtà non è che la luce loro inviata dal Santo dei Santi che è nostro Signor Gesù Cristo. E più essi si avvicinano all’Autore ed al centro della santità o per l’altezza della loro missione o per l’eroismo delle loro virtù, tanto più essi sono irradiati ed irradiano della luce che viene da Lui. – Orbene quale dei Santi, dopo la Vergine, e per l’altezza del ministero e per l’eccellenza della perfezione si è avvicinato di più al Sole divino di giustizia del glorioso San Giuseppe? Ecco perché noi lo contempliamo come un astro di prima grandezza nel cielo dell’eternità. Perché nessuno più di lui si tuffò nell’oceano di luce di Cristo, nessuno più di lui fu scelto all’onore di rifletterne, come in un’aureola incomparabile, i raggi sempiterni. Eleviamo lo sguardo a lui che la Provvidenza ha eletto a destini ineffabili e, rapiti alla contemplazione delle sue virtù perfette, delle sue grandezze ammirabili, dei suoi poteri trascendenti, lo troveremo perfettamente degno di riflettere la luce che gli viene da Gesù.

— « IPSI VIRTUS ».

Al glorioso S. Giuseppe, che gli Evangeli hanno lasciato in una discreta penombra fra tutti i personaggi della Redenzione, non può ascriversi alcuna di quelle qualità esteriori che gli uomini ammirano e che strappano gli applausi del mondo. La sua vita ordinaria, semplice, comune, intessuta di doveri e di opere in apparenza volgari, non ebbe per teatro che una povera officina di villaggio e per testimoni che gli occhi di una donna e di un fanciullo. Tuttavia le sacre carte hanno sintetizzato, con un motto unico, ma tanto comprensivo, la virtù eccelsa dell’umile fabbro di Nazareth: Joseph autem cum esset iustus (MATT., I, 19). È qui il titolo di sua nobiltà. La giustizia non ha altro principio né altra regola che la volontà divina: questa volontà che fissa i nostri doveri e determina tanto gli omaggi che dobbiamo al nostro Creatore, quanto l’amore ed i servizi che dobbiamo al nostro prossimo. D’onde segue che il fondamento ed il carattere essenziale della giustizia sono rappresentati dalla sottomissione alla volontà divina. Ora la santità di S. Giuseppe non ha altra origine che questa. La sudditanza a Dio non solamente egli la prova con la fedele osservanza delle leggi promulgate ai suoi padri per il magistero di Mose, ma ancora corrispondendo alla ispirazione celeste, abbracciando con amore il proprio stato, sottomettendosi agli avvenimenti più misteriosi e disparati ed assoggettandosi ai travagli più gravosi che Dio suscita sui suoi passi. È veramente il giusto per eccellenza. Tale è sempre il primo effetto della sottomissione alla volontà di Dio: il mantenersi nello stato in cui la Provvidenza ci ha posto. Come il Signore, sovrano ed arbitro dei nostri destini, istituendo la società ne ha fissato l’ordine e la pace sulla diversità delle condizioni e proporziona le sue grazie ai diversi uffici ai quali ci ha eletto, così è giusto, è necessario che l’uomo accetti volonterosamente la posizione voluta da Dio e cerchi di adempierne con fedeltà i doveri. – Tale fu San Giuseppe, il quale, oltre ad amare la propria oscurità, adempì con trasporto i doveri che la sua modesta condizione gli imponeva. E se ogni stato ha le sue responsabilità specifiche e le sue speciali difficoltà, tutti gli stati convengono sostanzialmente in un dovere comune, il lavoro: il lavoro imposto a tutti i figli di Adamo come retaggio della prima colpa, come mezzo di sostentamento, come strumento di elevazione. Ebbene lo stesso Evangelo ci ricorda che il buon Giuseppe traeva dal lavoro delle sue mani il cibo quotidiano e la tradizione ce lo richiama intento a formare gioghi per bovi e carri per agricoltori. Il suo mestiere oscuro lo metteva a contatto con i ceti più umili dei suoi conterranei e lo esponeva sovente al loro gratuito disprezzo. Difatti, allorché Gesù parlava alla Sinagoga di Nazareth, il popolo ascoltandone le parole nuove diceva: « Non è costui il figliuolo del fabbro? Non è fabbro egli stesso? Nonne Me est fabri filius? (MATT. XIII, 55). Nonne Me est faber filius Mariæ? (MARC, VI, 3). Oh! Perché tante volte pesano i doveri umili e rudi a quanti sono condannati a professioni che il mondo non stima? Perché molti sentono in fondo all’anima l’onta ed il peso del loro mestiere? Guardino costoro a S. Giuseppe, il Padre custode di Gesù, lo sposo eletto della Regina del Cielo. Guardino costoro a Gesù medesimo, il Re del cielo e della terra. Dal momento che l’uno e l’altro hanno maneggiato gli strumenti dell’artigiano il lavoro non dev’essere per nessuno un’umiliazione, ma un onore ed una gloria ambita. È naturale poi che la figura del buon Giuseppe si mantenga storicamente circoscritta alla povera casa di Nazareth e non partecipi punto a nessun episodio glorioso della vita terrena del Salvatore: la storia si direbbe che ricordi soltanto gli avvenimenti tristi perché meglio sia provata e più evidentemente rifulga la sua virtù. Il Salvatore era già nato a Betlemme; gli Angeli ne avevano cantato l’avvento nei cieli; i pastori, dopo averlo adorato alla grotta, avevano divulgato fra i vicini centri la venuta del Liberatore d’Israele; i Magi, guidati dall’astro misterioso, erano venuti d’oriente per offrire i loro omaggi al Figlio di Dio e deporre attorno alla sua culla i loro doni simbolici. Gerusalemme stessa sapeva oramai che il Messia annunciato dai profeti era nato. Ma Erode sospettoso e crudele, paventava che la nascita di quel fanciullo, accompagnata da tante meraviglie, rappresentasse un pericolo per il proprio potere: quindi non ascoltando che la propria gelosia, meditò il delitto di perderlo con la progettata strage degli innocenti. Fu allora che Dio parlò a S. Giuseppe per mezzo del suo Angelo: e il Padre custode di Gesù, ubbidiente alla voce del cielo, partì immediatamente con quel fanciullo la cui presenza sulla terra non causava a lui che avversità e dolori. Ma per seguire la voce dell’alto dovette tutto abbandonare, la patria, la famiglia, la stessa sua officina per avviarsi in esilio e rimanervi fino a che un nuovo ordine di Dio lo riportasse a Nazareth. In chi troveremo una sottomissione più pronta, una carità più viva, una più umile docilità alla voce della Provvidenza? E tutte queste virtù che brillano in lui con tanto splendore a che si devono attribuire se non alla unione assoluta con la volontà divina, e quindi a quella giustizia fondamentale che forma l’ornamento più prezioso del suo carattere? A buona ragione dunque noi lo chiamiamo il giusto per eccellenza, perché ci dice S. Pier Grisologo, possiede la perfezione di tutte quante le virtù: Joseph vocari iustum attendite, propter omnium virtutum perfectam possessionem (SAN PIER. GRIS. , serm. 50).

— « IPSI GLORIA ».

Quale fu la gloria con cui fu premiata l’eccellenza della virtù di S. Giuseppe? Lo possiamo dedurre dalle prerogative che la liberalità divina concentrò in lui e dalla missione cui venne dalla Provvidenza eletto, Iddio anzitutto concesse a lui la rivelazione dei suoi misteri. Il mistero dell’Incarnazione, nascosto nella mente dell’Altissimo, non era ancora uscito dal silenzio eterno. Maria SS., senza cessare di essere vergine, concepiva per opera dello Spirito Santo, il Figlio di Dio fatto Uomo. Ma questo avvenimento che doveva riempire il cuore della Vergine di una dolce emozione, fu per il cuore di Giuseppe il soggetto di una crudele perplessità. – La sua giustizia, la sua sottomissione ai divini voleri, gli faceva senza dubbio intravedere un miracolo: ma non poteva mettere fine totalmente alle sue apprensioni. Allora Iddio, per bandire le sue inquietudini gli inviò un Angelo che gli disse: « Non paventare di ritenere presso di te, Maria tua sposa: il frutto che Ella porta nelle viscere verginali è opera dell’Onnipotente ». Così per lui si compie il giorno che Abramo ha sospirato di vedere: le profezie si avverano ed il più grande mistero è svelato all’umile operaio nazareno. Perché quel Dio che nasconde i suoi segreti alle anime orgogliose, li rivela alle anime sottomesse: e rivelandoli a S. Giuseppe ricompensa con una gloria incomparabile la sua giustizia eccelsa. – Ma vi è di più: Iddio lo elevò ad un’altra grandezza associandolo, quale cooperatore, ai suoi disegni. Avendo decretato di salvare il mondo per mezzo dell’Incarnazione ha voluto celare questo mistero altissimo sotto il velo di un coniugio per nascondere il Figlio suo agli occhi del demonio, per confonderlo tra i figli di Adamo e sottometterlo a tutte le miserie della vita terrena. Però il disegno di dissimulare l’avvento del Verbo Incarnato nell’oscurità di una vita comune esigeva che si trovasse un uomo eccezionale a cui si potesse affidare; l’amministrazione degli interessi visibili del Figlio di Dio fatto uomo. Se Iddio voleva che Gesù nascesse da Maria, occorreva pure a questa Vergine benedetta uno sposo elettissimo che potesse essere il testimone della di Lei verginità, il protettore della di Lei innocenza, il garante del di Lei onore. Se Iddio voleva assoggettare Gesù a tutte le vicissitudini della nostra vita era necessario un uomo che al Verbo incarnato potesse tener le veci di padre e sapesse vegliare alla di Lui conservazione. Giuseppe fu appunto colui che Iddio giudicò degno di questi eminenti ministeri. Egli fu prescelto ad essere lo Sposo della Vergine. – Come potremo noi divinare la gloria di questa sublime prerogativa? Occorrerebbe penetrare in tutta la misteriosa profondità della maternità divina: comprendere gli eccezionali avvenimenti che, per opera dello Spirito Santo si compirono in Lei: sapere le vie ineffabili per cui il Verbo si è fatto carne per la redenzione degli uomini. Essere lo sposo di Maria, esclama San Giovanni Damasceno, vuol dire avere una dignità così eminente che la lingua umana non può assolutamente esprimere. Quando si è detto: San Giuseppe è lo sposo di Maria; non si può far altro che tacere ed adorare. Virum Mariæ: hoc est prorsus ineffabile et nihil præterea dici potest. – Eppure non è qui ancora la gloria più fulgida del nostro Santo. Egli fu altresì il Padre custode di Gesù: l’Eterno gli comunicò una partecipazione della paternità divina. Questo titolo che è proprio dell’Onnipotente, questo titolo che nessun Santo, nessun Angelo ha mai potuto possedere neppure per un istante, San Giuseppe l’ha portato. Nomine Patris neque Angelus neque Sanctus in cœlo, brevi licei spatio meruit appellari; hoc unus Joseph meruit nuncupari (S. BASILIO, Orat. 20). Quale dignità! Egli fu il padre del Figlio di Dio, non solamente per riputazione ma per l’autorità, per il potere di rappresentanza che Iddio gli elargì sul Verbo Incarnato, confidandogli realmente tutti i diritti che un padre ha per natura sulla propria prole. Quindi egli, padre vergine del Figlio di una Madre vergine, padre adottivo prescelto volontariamente con abbondanza di grazio provenienti dallo stesso suo Figlio, padre infine per la feconda verginità della sua sposa, si presenta, tra i protagonisti stessi dell’Incarnazione, come un agente necessario per lo svolgimento dei disegni divini accanto a Gesù ed a Maria, e brilla nell’empireo della santità di una gloria talmente eccelsa .che non ha sopra di sè che la gloria di Gesù e di Maria.

— « IPSI IMPERIUM ».

Non possiamo quindi dubitare che, eletto, per la sua virtù, a tanta gloria, S. Giuseppe eserciti un potere od un’autorità senza esempio: potere ed autorità che hanno avuto in lui il loro inizio primo durante la stessa sua vita terrena, e che egli ha esercitato sulla più straordinaria delle Vergini, Maria SS. e sul più eccezionale dei Figli, Gesù Cristo. Dal momento che il matrimonio suo con la Vergine fu vero e perfetto ne venne di conseguenza che esso conferì al giusto Giuseppe tutti i diritti che per legge di natura e per legge positiva-divina allo sposo si attribuiscono, ed impose alla Vergine tutti i doveri che una donna ha verso il compagno dei suoi giorni. Di qui in Giuseppe il potere di comandare e nella Vergine il dovere di ubbidire. Comando certo fatto di bontà riguardosa e di premurosa dolcezza quello del santo sposo di Nazareth: ciò non toglie che si esercitasse in forza di un vero potere e di una indiscutibile autorità, a cui la Vergine « alta più che creatura » sottostava con docilità pronta e con divozione perenne. 0 sublimitas ineffabilis, esclama qui Gersone, ut Mater Dei, Regina Cœli, domina mundi, appellare te dominum, non indignum putaverit. – Tale sublimità di potere si accresce ancora se noi la consideriamo in esercizio verso il Verbo Incarnato. Nell’Evangelo di San Luca che più di tutti illustrò i quadri dell’infanzia del Salvatore, noi troviamo una frase che involge un mistero per una parte di autorità e per l’altra di umiliazione profonda. Ritornata la Sacra Famiglia, dopo le cerimonie della prima Pasqua e lo smarrimento del dodicenne Infante nel Tempio, alla povera dimora nazaretana, Gesù se ne andò con loro et erat subditus illis (LUCA, II, 51). Il Re del Cielo e della terra, Colui il quale ventis et mari imperai et obœdiunt ei (LUCA, VIII, 25) si inchina docilmente all’operaio a cui ha conferito in antecedenza affectum, sollicitudinem ei auctoritatem patris (S. GIOVANNI DAMASCENO). Mai alcun re ottenne simile potere; mai alcuna creatura ha esercitato una sì eccezionale autorità: lo stesso S. Giuseppe anzi non si sarebbe adattato a tale altissimo ministero, se Iddio Padre di cui egli era il vero e legittimo rappresentante, non gliene avesse fatto un preciso dovere. – Forse che in cielo è venuta meno la sua autorità maritale e sono cessati i suoi diritti paterni? Tutt’altro: è in mezzo allo splendore dei Santi che egli svolge ancora il suo impero: il suo trono si eleva presso quello della Sposa Immacolata che Iddio gli ha prescelta, e la sua potenza di intercessione presso il cuore dell’Altissimo conserva sempre dell’autorità paterna. È principio teologico indiscusso, illustrato sapientemente dall’angelico, che quanto più i Santi nel cielo sono vicini a Dio, tanto più le loro orazioni sono efficaci: Quanto Sancii qui sunt in patria sunt Deo coniunctiores, tanto eorum orations sunt magis efficaces (2a , 2æ, quæst. 83, art. 11). – Ora chi più unito a Dio da vincoli di intimità, di familiarità del nostro San Giuseppe che anche in Cielo può chiamare suo Figlio lo stesso nostro Signor Gesù Cristo? All’infuori di lui e della Vergine, dice San Cipriano, non est in cælestibus agminibus qui Dominum Jesum audeat filium nominare (De Bapt. Ghrist.). Se chiama Gesù suo Figlio, non è più a stupire che la sua intercessione acquisti l’efficacia di un vero comando. Tale il pensiero di un pio dottore: Quanta vis in eo impetranti quia dum pater filium orai, imperium reputatur. Ha qui il suo naturale fondamento la fiducia che la Chiesa santa e tutti i fedeli cristiani hanno sempre riposto nel suo potente patrocinio: ma è qui ancora il premio più ambito per la santità perfettissima di cui fu adorno, il fastigio supremo ed il coronamento più bello di quella gloria che a lui si proietta da Gesù e che egli riflette in tanta copia e con tanta fulgida paradisiaca luminosità. – L’antico patriarca Giuseppe, figliuolo di Giacobbe, che del nostro era figura e promessa, essendo in tutto lo splendore della sua potenza faraonica, fece un sogno impressionante che le sacre carte ci hanno tramandato: vide mentalmente che il sole, la luna e le stelle erano intenti ad adorarlo. Quello che nella visione antica non era che il simbolo di un potere politico e la prova di una gloria transeunte, nel nostro San Giuseppe è invece una perfetta ed indubitata realtà. Attorno a lui noi troviamo il Sole di giustizia che è Gesù, la Luna candida ed Immacolata che è Maria, le stelle fulgidissime che rappresentano i Santi del Cielo, da S. Bernardo a San Francesco di Sales, da Santa Teresa alla Chantal. A ragione quindi la Chiesa ci invita considerare la di lui esaltazione e ci sprona ad onorarlo quale patrono universale, con un culto speciale di suprema dulia. Vi è un sapiente, vi è un re, un conquistatore che ottenga oggi omaggi così universali e lodi così entusiastiche? Dappertutto si elevano templi ed altari in suo onore: le arti vanno a gara nel fissare il suo nome e la sua immagine nella memoria degli uomini, e l’eloquenza deputa i suoi geni più celebrati per esaltarne la giustizia e le alte prerogative. Uniamoci dunque a questo coro di esaltazioni ed invochiamo dalla intercessione quasi onnipotente di San Giuseppe la grazia di avvicinarci in qualche modo alle sue virtù, affinché, ottenendo poi un qualche grado della sua gloria eccelsa, possiamo nel cielo testimoniare gli effetti del suo illimitato potere.

SAN TOMMASO D’AQUINO: CONOSCERE, AMARE, SERVIRE DIO.

SAN TOMMASO D’AQUINO
CONOSCERE, AMARE, SERVIRE DIO

[G. COLOMBO: “Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi” Vol. I; Soc. Ed. “Vita e pensiero”, Milano, 1939- impr.]

Aveva appena cinque anni: racchiuso in un abito nero, ricoperto di un nero scapolare, con un cappuccetto a punta che nel traversare i chiostri pieni di silenzio si tirava come uno spegnitoio sul capo, Tommaso già si crucciava dietro a questa domanda: « Chi è Dio? ». – Pronipote a Federico Barbarossa e nel sangue l’audacia e la tenacia dei Normanni suoi avi materni, il cadetto dei signori d’Aquino, come poté far senza della madre e della nutrice, era stato offerto alla badia di Monte Cassino con gran pompa: così l’abito di San Benedetto era venuto a rivestire lui giovanissimo, e la sottile tonsura a rigirargli la piccola testa. – Fosse la profonda religione materna a condurlo là, o fosse invece l’ambizione della famiglia che sognava di vederlo un giorno abate potente dell’abbazia principale delle Puglie col dominio di sette vescovati, è difficile decidere per noi ora; ma è facile invece immaginarci il monacello benedettino assillato dal suo problema: « Dio, chi è? ». – O che pregasse sperduto sotto l’ombrosa navata, o che mirasse il tramonto arrossare i colli in giro e, sopra essi, il torvo castello paterno, o che davanti all’enorme antifonario si levasse in punta di piedi nello sforzo di voltare la pagina, — che tale era il suo compito in coro, — sempre, ce lo attesta Guglielmo di Tocco suo biografo, ripeteva la terribile domanda: « Chi è Dio ? ». – Chi è Dio: non vi sembri strano che questo bambino interroghi così. Iddio, dopo d’avere stampato in lui una più vasta orma d’ingegno e di genio, quasi geloso aveva disposto che in nessun giorno quella poderosa mente avesse gli occhi distratti dal suo lume inaccessibile. Ed ecco dal primissimo uso di ragione, tutta la vita del santo fu un salire di gradino in gradino, di anelito in anelito, di spasimo in spasimo, verso la sublime risposta. E quando l’avrà toccata con la punta della sua anima, — la mattina del 6 dicembre 1273, — spezzerà la penna e dirà: « Reginaldo, ho finito: io muoio ». Chi è Dio: sotto queste parole si sprofonda l’abisso del vero. I suoi, quando lo chiamarono Tommaso, non sapevano che etimologicamente quel nome significa «abisso» e non potevano prevedere che nell’abisso della realtà nessun uomo, forse mai, si sarebbe inoltrato quanto quel loro bambino. – Chi è Dio: rispondere a tale domanda non è come rispondere a tutte le altre, poniamo a questa «che è la luna?». Poiché, dato pure che trovassimo per la luna la risposta esatta, poi lasceremmo ch’ella se ne vada per la sua strada celeste, e noi, senza badarci più, ce ne andremmo per la nostra strada terrestre. Ah no: man mano conoscere Dio vuol dire amarlo man mano ed anche man mano servirlo.

Conoscerlo!
Amarlo!
Servirlo!

Ecco tre parole che sono nel piccolo catechismo per tutti: per questo non crediatele piccola cosa. Conoscerlo, amarlo, servirlo è lo sforzo sublime della piccola trinità ch’è in noi, — intelletto, cuore, volontà, — per assomigliare all’infinita Trinità ch’è in Dio, — Padre, Figliuolo, Spirito Santo. – In queste tre parole è racchiusa la santità di tutti i santi, la quale tuttavia è sempre diversa perché ciascun santo traduce nella vita pratica quelle tre parole in una maniera sempre diversa. S. Tommaso le ha realizzate nello studio. Lo studio fu tutta la sua vita, lo studio è tutta la sua grandezza nei secoli; ma lo studio è anche tutta la sua santità. Infatti: che cos’era per lui studiare? conoscere Dio; quale forza lo spingeva, notte e giorno, a consumarsi sui libri e sulle intricate questioni? l’amore di Dio; che cosa intendeva poi fare della sua miracolosa cultura? servire Dio.
1. CONOSCERE DIO
Camminava un giorno tra i suoi condiscepoli nei querceti e negli uliveti in giro all’abbazia; guidava l’escursione un religioso anziano. La piccola truppa si ferma d’un tratto e tutti si diffondono nel bosco chiassosamente. Tommaso, no: in disparte, poggiato a un tronco è silenzioso. Guarda le gemme nuove prorompere dalla scorza come occhi verdissimi, guarda i vertici ondeggiare nel vento, guarda le foglie dell’anno passato marcire in terra. Donde vengono le gemme e dove vanno le foglie? chi sospinge il vento invisibile a correre?… « Che cerchi, qui, solo? » gli domandò il religioso scorgendolo. « Cerco, — rispose, — di conoscere Dio ». Dunque davanti agli occhi profondi di quel fanciullo si compiva la parola d’Isaia: « Tutta la terra è colma della scienza del Signore ». – La brama di questa scienza che gli svela la faccia dell’Eterno, non che sminuire, crescerà nella sua anima a dismisura. All’Università di Napoli, poi a Colonia, sotto la guida illuminata di Alberto Magno, poi a Parigi, e di nuovo a Colonia, — lui, che quand’era in fasce non smetteva di piangere se non lo lasciavano biascicare un foglio di carta, — divorerà i libri allora più famosi, senza mai placare la sua sete di conoscere Dio. In Italia, per 10 anni, dal 1259 al 1269, senza tregua studierà, scriverà, insegnerà intorno a Dio. O silenziose celle d’Anagni, d’Orvieto, di Roma, di Viterbo, ove, anche quando il convento era sommerso nel buio del sonno, ardeva la vigile lampada di S. Tommaso! voi conoscete i tormenti dell’aspra ricerca e la gioia dell’amplesso con la verità ritrovata; voi conoscete l’affannoso ascendere, passo per passo, nell’analisi del pensiero e la mistica ebbrezza della sintesi contemplata dal vertice dell’idea raggiunta!… – « Le volte che davanti al dubbio l’ho visto lasciare la cella e fuggire in chiesa ed abbracciare i l tabernacolo ed interrogarlo e singhiozzare son più di cento ». Così ha giurato frate Reginaldo che gli viveva d’accanto e dormiva nella cella attigua. Orazione e studio erano per lui una cosa sola, un tendere al medesimo oggetto: Dio. – Cristiani, la vita e la santità di Tommaso d’Aquino è tutta un rimprovero alla società moderna, a ciascuno di noi, forse. Dov’è il desiderio nostro di conoscere Dio? Che cosa facciamo per, sapere le verità eterne? Perché tanto deserto sotto i pulpiti? Di tutto siamo curiosi e informati, eccetto che delle cose necessarie per salvarci. – Ma torniamo a S. Tommaso, il gigante dell’intelligenza, che armato di osservazione di studio di preghiera, ha saputo salire su su, scalare una montagna di questioni, di articoli, di scolii, di dilemmi, in cima alla quale, — come una volta sul Sinai, — sta Iddio nella nube fulgida. E Dio discende incontro a questo mortale, ed anche a lui come a Mosè concede sulla fronte due raggi della sua luce: la Summa contra gentes e la Summa Theologica. Sono le due « Somme » come due fiumi imperiali che entrambi sgorgano da Dio, — nella loro prima parte, — attraversano tutta la creazione visibile ed invisibile, — nelle altre due parti, — e, trascinando nella loro conquista il mondo intero, fanno — nell’ultima parte — ritorno a Dio. A Dio, che si nega ai superbi e si concede ai pargoli, a Dio che si è lasciato trovare da S. Tommaso perché umile. – A lodarvi la sua umiltà non ripeterò più come, diffidando delle sue forze, solo nella preghiera confidasse; né ricorderò con quale semplicità accoglieva le ripetizioni di quel suo compagno di Colonia, il quale capiva poco e faceva da maestro a lui che capiva tutto, e più ancora; dirò soltanto come l’umiltà è la base del suo alto e complesso sistema filosofico e teologico. In quei secoli, quando Roscellino osava applicare al mistero della Trinità la sua dottrina filosofica; e Abelardo e Gilberto della Porretta pretendevano di sgrandire la propria ragione fino a spiegare i domini, quasi a commisurare la loro statura con quella di Dio; in quei secoli, quando pur di non umiliare la ragione si era trovata la teoria della doppia verità, secondo la quale alcuno poteva credere un’asserzione in quanto teologo e cristiano e poi deriderla e negarla in quanto filosofo, sorse Tommaso e sottomise la fragile nostra mente alla infallibile rivelazione di Dio, negò qualsiasi dissidio tra il credo e la scienza, proclamò la teologia regina e la filosofia ancella. In questa limpida distinzione tra i due ordini di verità, quello di fede e quello di ragione, e nella subordinazione di questa a quella, sta la novità del pensiero di S. Tommaso, che è quindi un pensiero di umiltà. « S’incontrano oggi uomini — dice — che studiano filosofia e sostengono opinioni contrarie alla fede: falsi profeti sono, sono falsi dottori ». E prosegue: « La fede vale molto di più della filosofia, perciò se la filosofia è contraria alla fede bisogna rigettarla ». Era giusto allora che da questo umile atleta, che gli prosternava ai piedi la mente d’Aristotele e la propria, Dio si lasciasse conoscere. E amare.
2. AMARE DIO
Nella vita di S. Tommaso d’Aquino, i cilici cruenti, le flagellazioni, gli aspri digiuni con cui molti santi hanno significato a Dio la veemenza del loro amore, invano li cerchereste. Se una cosa straordinaria v’è, anch’essa è soave: il dono delle lagrime. – Quaggiù in hac lacrimarum valle, le lagrime non sembrano cosa rara: lagrime d’odio, lagrime di miseria, lagrime di morte, lagrime di vanità, lagrime di gioia anche; ma le lagrime dell’amor di Dio le versano solo i santi, ed essi pure non tutti. S. Tommaso piangeva d’amore. Quest’uomo alto, grosso, bruno — magnus, grossus, brunus, come dice il suo primo biografo, — che quand’era in viaggio, i contadini dal campo segnavano a dito e stupiti lo guardavano oltrepassare poderosamente, era di una delicatezza materna: confratelli e discepoli se ne meravigliavano. In Napoli, una Domenica di Passione, tutto il popolo lo vide effondersi in pianto, mentre celebrava; ogni giorno, celebrando, piangeva. Ed appena in coro la voce dei frati, in toni melanconiosi, cantava l’antifona Media vita in morte sumus: quem quærimus adiutorem nisi te Domine?… Sancte Deus, Sancte Fortis, Sancte Misericors, Salvator, amaræ morti ne tradas nos! » sempre Tommaso, il volto tra le mani, piangeva come un bambino. – Prima di giungere a questa sublime intimità con Dio, belle prove d’amore aveva saputo dargli. Gli aveva dimostrato che l’amava più della gloria e dell’opulenza tra cui era nato; che l’amava più di suo padre e di sua madre, de’ suoi due fratelli e delle sue due sorelle; che l’amava con tutte le forze. L’amava più della gloria e dell’opulenza: la guerra tra il Papa e l’imperatore aveva fatto fuggire i monaci dalla badia di Montecassino, e Tommaso quattordicenne ritornò in famiglia, lasciando per sempre in convento gli abiti da benedettino. I suoi però, che non avevano deposto il pensiero di farlo abate, lo mandarono all’Università di Napoli: col risveglio culturale di quegli anni intuivano che un monaco non avrebbe potuto figurare dignitosamente da abate, se non fosse stato dottore. A Napoli invece l’aspettava il Signore per dirgli in occulto: « Ti voglio domenicano ». E i sette vescovati che sua madre sognava per lui? e la badia sul colle che suo padre sperava d’avere come baluardo inespugnabile? e la prelatura? « Signore non altro che Te ». – La primavera del 1244, che rivestiva le frondi di nuovo colore, vide Tommaso rivestito di bianco e di nero come le rondini immigranti in quell’aprile. Per fortuna suo padre era già morto. Ma l’imperiosa Teodora da Chieti, sua madre, non era donna d’acquietarsi a quell’umiliazione del casato. Corse a Napoli, e le fu risposto che Tommaso viaggiava per Roma; corse a Roma, e le fu risposto che Tommaso viaggiava per Bologna. Dunque c’era qualcuno che osava prendersi gioco della cugina di Federico II? Le vennero in aiuto gli altri due figliuoli, Rinaldo e Landolfo, luogotenenti entrambi nell’esercito imperiale, che era allora acquartierato nelle terre d’Acquapendente. – Sul mezzodì, quando Tommaso fuggitivo col Maestro generale ed altri frati pellegrini sedeva ad una sorgente per consumare un frugale ristoro, in una nugola di polvere comparvero numerosi cavalieri. Lo accerchiarono. Non intendevano maltrattarlo, ma solo strappargli l’abito domenicano. Tommaso balza in piedi, con la testa alta sopra le messi biondeggianti: si stringe la cappa in giro alla persona e con tutte e due le mani se la preme sul cuore come una bandiera. Tace, ma sta di contro con la sua statura e con la forza de’ suoi vent’anni. Quella veste gli era più cara del blasone colorato sul castello di Roccasecca; era per lui il simbolo di un amore più grande dell’amore per suo padre morto, per sua madre viva, per i fratelli armati, per le dolci sorelle lontane. Per quest’amore era pronto a battersi. Dovettero giurare di lasciarlo vestito com’era. Allora curvò la testa grossa e li seguì. Poi venne l’ultimo tormento. Gielo mandava suo fratello Rinaldo, poeta d’amore alla corte e soldato: giacché non lo si poteva indurre a riprendere l’abito benedettino, piuttosto che domenicano era meglio sopportarlo cadetto nel secolo. Ma quando il prigioniero udì risonare le scale sotto il passo della tentazione veniente, ghermì il tizzone e, come il turbine, si scagliò contro la disonesta faccia. Vinse. In questa vittoria d’amore per Gesù che si pasce tra i gigli, tutte le forze aveva consumate; solo gliene rimase quanto bastò a tracciare una croce sul muro e baciarla. Poi s’addormentò, o svenne. – Eppure la manifestazione più alta della fiamma che dentro gli ardeva, non penso che sia questa, ma un’altra. Una volta, in scuola, sospinto da una segreta forza a lodar Dio, confidò ai suoi scolari che in tutta la vita non aveva mai ceduto coscientemente a un moto di superbia. Il grande Maestro che l’Europa applaudiva, che vivo ancora si sentiva citato al fianco d’Aristotele e d’Agostino, non è mai disceso ad una compiacenza di sè. Quale incendio d’amore doveva avvolgerlo per controbilanciare la tirannia del demone della superbia che, anche per gli uomini mediocri, è implacabile? Dicono che la superbia è l’impudicizia dello spirito: allora S. Tommaso fu purissimo e nella carne e nello spirito, perciò era giusto che Dio si lasciasse amare da lui.
3. SERVIRE DIO
Quando, come tesi dottorale, il laureando Tommaso d’Aquino prendeva a svolgere il passo: Rigans montes de superioribus suis, de fructibus operum tuorum satiabitur terra, non immaginava come si sarebbero avverate per lui quelle parole: acqua che disseta le vette dell’intelligenza e frutto che sazia la brama del cuore riuscì la sua opera nel mondo. E sì che a Colonia, un po’ per quella carnagione pingue e floscia, — che egli credeva confacente allo studio, —- e un po’ per la sua taciturnità, i condiscepoli gli avevano affibbiato il nomignolo di bue muto. È perché parlare se si trattava soltanto di eccellere fra gli altri e accaparrarsi una qualche simpatia dai professori? Aveva un padrone solo da servire, lui; servire ogni altro è schiavitù. Oh, se anche noi lavorassimo solo e sempre per Dio, e non sperdessimo nella vanità, nella sensualità, nell’avarizia, troppe energie, che ci sono date per amare il Signore! – Con la bocca sigillata, dunque, il bue muto scavava intanto i solchi e rivoltava ad una ad una le zolle dell’umano sapere. Appena il servizio di Dio lo richiederà, ecco egli è pronto: volgesi indietro e lancia il suo muggito. – Nell’Università di Parigi s’agitava una rivolta contro i religiosi. Era uscito un trattatello livido di calunnie De novissimorum temporum periculis; gli ultimi tempi dell’anti-Cristo sono giunti, vi si diceva, e i falsi profeti sono i frati domenicani. L’infame libello, come accade per ogni satina d’attualità, clandestinamente prima e poi sfacciatamente, si leggeva da per tutto, perfino a Roma. Gli studenti ne tiravano le chiose più matte e maligne. Il Papa stesso pregava che si trovasse un rimedio per far cessare lo scandalo. Allora ad Anagni si raccolse il capitolo a cui i padri Domenicani più dotti intervennero, accasciati per quella guerra di calunnie. Davanti agli adunati, Umberto di Romans si mosse dal suo stallo, e con un bel gesto mise nelle mani di fra Tommaso il manoscritto paventato. Il giovane dottore lo raccolse come un guanto di sfida: « Padri miei, questo libro l’ho già letto: poggia sulla sabbia ». E facendolo scricchiolare nel suo pugno aggiunse: « Lo confuterò ». Il bue muto comincia a mugghiare. – Nella Chiesa si era da poco istituita la festa del Corpus Domini. Papa Urbano IV- domandò a Tommaso di comporne l’ufficiatura. Che dolce servizio ora gli chiedeva Gesù! E dal cuore del teologo e dell’aristotelico eruppe una vena di poesia prodigiosa. O strofe del Lauda Sion sonanti come angeliche fanfare! O misteriosi accenti del Tantum ergo entro cui fluirono tutte le lagrime ch’egli versava di notte davanti ai silenziosi tabernacoli! O cadenze eteree dell’Adoro te devote ove par di cogliere i respiri commossi dell’anima ! Fra tutti i carmi dei poeti, quelli di Fra Tommaso ebbero la fortuna più grande. Nelle Americhe e nell’Australia, nelle pampas e nelle tundre, sotto le guglie gotiche e sotto il bambù impastato di fango, dai re e dai pezzenti, dai dotti e dagli analfabeti, di notte e di giorno, comprese ed incomprese, ora e sempre fino alla fine del mondo, quei carmi risuoneranno. Il bue muto ha dissuggellato la bocca ed il suo muggito ha riempito la terra davvero. – Ma un altro servizio, più diuturno e scabroso, ha reso a Dio e alla Chiesa e agli uomini di studio e di buona volontà. La diffusione della filosofia aristotelica nel sec. XII e XIII presentava un forte pericolo per la verità cattolica; tanto più che questa dottrina s’avanzava avvelenata dall’interpretazione degli Arabi, e specialmente di Averroé. Per una parte la potenza della sintesi, la profondità dei principi, il rigore delle deduzioni, affascinava i giovani studenti irresistibilmente. Ma per una altra parte, quella nuova filosofia insegnava che le anime degli uomini non sono immortali, che il mondo non ha avuto principio, che la fatalità lo governa, che il premio ed il castigo eterno sono una parabola per i semplici. Per ciò i Papi moltiplicavano le condanne contro lo Staggita e chi l’insegnava, poi che pareva impossibile il mettere una mano in quell’ingranaggio senza esserne stritolati. Ora venne Tommaso, prese nella sua morsa il pensiero della Grecia, gli strappò i pungiglioni velenosi, e lo gettò come uno sgabello ai piedi del Vangelo.
CONCLUSIONE
Sta scritto: « Chi vede Dio, muore ». La mattina del 6 dicembre 1273 mentre celebrava nella cappella di S. Nicola in Napoli, fu rapito in estasi e vide Dio. Doveva morire: non di terrore, ma di amore perché gli occhi che hanno visto la faccia del Signore, trovano così brutta la terra e le sue cose che ormai non possono se non desiderare di chiudersi nella morte, per vedere la Bellezza e l’Amore infinito. Da quella mattina non fu più lui: la gran Somma attendeva le ultime pagine, ma egli non lavorava più. Il medico non ci capiva niente: ma come sono ingenui i medici a voler capir tutto, quasi che l’uomo fosse solo carne ed ossa! Alla prima tappa del viaggio verso Lione, ove il Papa lo voleva per il gran concilio, s’accasciò. Fu trasportato nell’abbazia benedettina di Fossa Nova. Con che occhi riguardava quei neri monaci dalla sottile tonsura che rigirava a loro la testa! con che cuore ascoltava dal suo giaciglio le pacate salmodie, quelle salmodie che l’avevano accompagnato bambino, nei primi passi e che ora l’accompagnavano, non vecchio, all’ultimo passo! – Piangeva di commozione e di gratitudine, vedendo i monaci premurosi che nel rigore di quel febbraio andavano nella foresta a trascegliere i ceppi più belli e più secchi, e se li caricavano sulle loro spalle, poiché stimavano sacrilegio che la legna per riscaldare quel santo dottore fosse portata dalle bestie! Qualche monaco con scaltrezza piena di carità era riuscito a strappare un piccolo segreto a Fra Tommaso: il suo piatto preferito erano le aringhe fresche. Si mandò subito al mare a pescarle. – Tutto era finito. Già il suo pollice, stanco di rivolgere pergamene e fogli s’era fermato sulle pagine di un libro che Dio ha ispirato per le ultime estasi dei suoi santi: la Cantica. Già la sua bocca parlava d’Amore con parole che non si capiscono più in questo mondo. Quando il Viatico entrò nella cella, allargò le braccia e disse una preghiera che ogni cristiano, facendo una Comunione spirituale, dovrebbe ripetere ogni sera nell’addormentarsi:

« Ti ricevo Corpo Santissimo! prezzo del riscatto dell’anima mia… viatico del mio pellegrinaggio. Per amor tuo, Gesù, ho studiato, predicato, insegnato. Per te sono state, Gesù, le mie veglie; per te, Gesù, i miei lavori. Se qualche cosa avessi fatto che ti rincresce, mi sottometto alla correzione della Chiesa ».

Al termine d’ogni nostra giornata, al termine della vita, come sarebbe profondamente consolante ripetere queste parole! Le potremo ripetere soltanto se in tutti i giorni, in tutta la vita non avremo mai trascurato di conoscere, di amare, di servire Dio.

S. SIMEONE STILITA

5 Gennaio.

S. SIMEONE STILITA

[Raccolta di vite dei Santi – I vol. Prima ed. veneta, Venezia, 1778]

Secolo V

Le azioni meravigliose di S. Simeone Stilita sono state descritte nel suo Filoteo al cap. 26. da Teodoreto, il quale viveva nel medesimo tempo, ed era Vescovo di  Ciro, città della Siria, dove il Santo dimorava ; e anche da Antonio discepolo dello stesso S. Simeone, e da altri. Il Filoteo di Teodoreto è riportato dal Rofweido nella Vite dei Padri dell’Eremo lib. 9, e la vita di Antonio, la più sincera si trova presso i Bollandisti. Si veda ancora il Tillemont nelle Memorie su la Stor. Eccl, Tom, 15.

1. Simeone, soprannominato lo stilita, a cagione di aver vissuto lungo tempo sopra una colonna, è uno di quei personaggi straordinari, che Iddio ha fatto comparire nel mondo, piuttosto come monumenti della sua onnipotenza, e dell’efficacia della sua grazia, che come modelli, ed esempi da imitarsi. Nondimeno servirà la sua storia sincerissima, ed autentica ad animare la nostra fiducia nell’aiuto divino per superare tutte le difficoltà, che s’incontrano nella via della salute: giacché il Signore si degnò di assistere questo suo Santo nell’esercizio di una vita prodigiosissima, nella quale ancora, se la considereremo bene, troveremo non poche cose, che possono servire per nostra istruzione, e per nostro profitto.

2. La patria di Simeone fu un borgo di Cilicia chiamato Sisan, in cui nacque circa lanno 391, ed i suoi genitori attendevano alla cura delle pecore, nel qual mestiere allevarono ancora quel loro figliuolo. Un giorno, in cui il gregge non poteva uscire a pasturare, a cagione delle nevi, andò Simeone alla Chiesa, dove sentì leggere quelle parole del Vangelo: Beati sono quei, che piangono: beati quelli, che hanno il cuor puro; e non intendendone bene il senso, domandò ad un buon vecchio, che cosa si doveva fare per entrare nel numero di questi beati. Bisogna digiunare, rispose il vecchio, bisogna sopportare la nudità, le ingiurie, gli obbrobri, bisogna gemere, e vegliare, e fare orazione, prendendo appena un poco di sonno ed essere paziente nelle malattie, rinunziare a quelle cose del Mondo che più si amano; essere umiliato, e perseguitato dagli uomini, senza affettare alcuna consolazione in questa vita. “Capite voi queste cose, o figliuolo? Se le capite, si degni anche il Signore di darvi per sua misericordia la volontà dì praticarle”.

3. Allora Simeone aveva solamente tredici anni; ma pure queste parole fecero in lui tale impressione, che dopo aver pregato Dio, acciocché lo guidasse per la strada della perfezione, se ne andò ad un monastero vicino, ove si trattenne due anni fotto la disciplina di un Santo Abate, chiamato Timoteo.. Passato questo tempo, il desiderio di sempre più avanzarsi nella pietà lo indusse a portarsi ad un altro monastero, governato da Eliodoro, e composto di ottanta Monaci, che si esercitavano nelle più penose opere di mortificazione. Ma il nostro Santo superava tutti gli altri nel rigore dell’attinenza; e dove gli altri digiunavano un giorno si, e un giorno no. Egli si ristorava una sola volta la settimana, e dava il resto del suo cibo segretamente ai poveri.

4. Aggiunse altresì a questo digiuno sì austero un altro supplizio per macerare il suo corpo; poiché essendosi accorto, che la corda, con cui si attingeva l’acqua del pozzo, era molto ruvida per essere composta di foglie di palma; egli si cinse il corpo con essa, e si strinse talmente i reni, che penetrò ben dentro alla carne. Questo nuovo genere di penitenza fu ignoto ai Monaci per lo spazio di dieci giorni; dopo dei quali il fetore ed il sangue, che usciva dalla piaga, lo rendé palese al monastero. L’Abate pertanto volle che si levasse quella corda, e bisognò nel cavarla fuori portar via della carne viva con grandissimo dolore dei paziente, il quale stentò due mesi a guarire; dopo i quali fu licenziato da quel luogo per timore, che l’esempio dell’eccessiva sua penitenza non pregiudicasse a qualcuno dei compagni. Per la. qual cosa Simeone si ritirò sulle montagne vicine, dove avendo ritrovato una cisterna secca, vi discese, e si pose ivi a cantare le lodi del Signore, fintantoché l’Abate Eliodoro coi principali del monastero da lui governato lo richiamarono, e cavatolo da quel luogo, lo condussero tutto languido all’antica abitazione, donde per altro egli partì poco dopo e si ritirò a Telanisse, luogo situato ai piedi di una montagna non molto discosta da Antiochia, rinchiudendosi per tre anni in un piccolo tugurio abbandonato.

5. Ivi il Santo determinò d’imitare il digiuno di Mosè, di Elia, e di Gesù Cristo, passando i quaranta giorni della Quaresima senza mangiare. Comunicò una tal risoluzione a Basso visitatore delle parrocchie di quei contorni, e lo pregò a murar la porta del suo tugurio senza lasciarvi niente da mangiare. Basso, che era un Prete virtuoso, ed illuminato, gli rappresentò le conseguenze di questa straordinaria condotta, aggiungendo ancora, che il darsi la morte da se medesimo non era già una virtù, ma anzi il più enorme di tutti i delitti. Allora Simeone disse: Mettetevi, o padre, dieci pani, e un vaso di acqua acciocché se ho bisogno di ristoro possa prevalermene. Il che fu prontamente eseguito, e poi fu murata la porta. Passati i quaranta giorni ritornò Basso, ed essendo entrato in quel tugurio, ritrovò tutto il pane, che non era stato toccato, e il vaso di acqua parimente pieno, e Simeone colcato per terra senza voce, e senza moto. – Basso inumidì coll’acqua la bocca del Santo, gli lavò il viso, ed avendolo fatto ritornare in sé, gli diede l’Eucaristia, e dopo lo fece mangiare; e questo cibo non consistè se non in lattughe, e cicoria, che egli masticò, e inghiottì a poco a poco. Essendogli così riuscita questa prova, continuò ogni anno a passare nello stesso modo la Quaresima; nei primi giorni della quale lodava Dio, stando sempre diritto in piedi: indi non potendo più reggersi in quella positura, sedeva facendo pure orazione; e negli ultimi giorni stava steso per terra tutto languido, e spossato.

6. Finiti i tre anni di dimora in quel tugurio, salì sulla cima della montagna, ove fece fare uno steccato di pietre, e vi si rinchiuse, risoluto di vivere allo scoperto, ed esposto alla inclemenza delle stagioni; portando al piede destro una catena di ferro lunga venti cubiti, attaccata ad una grossa pietra, affinché gli si rendesse impossibile 1’uscire da quel recinto. Ma Melezio, vicario pel Patriarca di Antiochia, in occasione che visitava quei luoghi della sua diocesi, avendo veduto in tale stato Simeone, gli disse, che una volontà stabile e fissa nel bene lo doveva tenere attaccato alla solitudine, e non una carena di ferro, e così lo persuase levarsela subito, come fece.

7. La fama della santità di Simeone cominciò allora a spargersi da per tutto: onde gli erano condotti dei malati, acciocché li guarisse, ed ottenendo essi il loro intento, palesavano la virtù di Simeone che era perciò visitato da un gran numero di persone, le quali venivano ad implorare il suo aiuto. Per non esser disturbato dalla orazione, egli credette a proposito di collocarsi sopra una colonna e ne fece fabbricare di varie e differenti altezze, la più alta delle quali fu quaranta palmi, o cubiti; la cima di essa aveva tre piedi di diametro, ed era circondata da un piccolo recinto simile ai nostri pulpiti. Moltissimi biasimavano un genere di vita sì st, altri lo schernivano; ed alcuni oltraggiavano il Santo, e lo trattavano da impostore, talmenteché gli altri Solitari giunsero a volersi separare dalla sua comunione. Ma i più savi fra loro stimarono, che prima di prendere alcuna risoluzione, fosse necessario di bene informarsi, da quale spirito procedesse una simile straordinaria condotta di Simeone. Mandarono  pertanto a lui in nome dei Vescovi, e dei Solitari un deputato, che gli comandasse di calar subito dalla colonna; con quello però, che se vedeva Simeone disposto ad ubbidire, lo lasciasse vivere a suo modo, ma se ricusasse di ubbidire, lo trattasse come un impostore, e ribelle. Il deputato dunque avendo dichiarato il suo ordine, ed avendo ritrovato il Santo prontissimo a scendere dalla colonna, lo confortò a perseverarvi, accorgendosi, che esso era guidato dallo Spirito Santo per una strada sì difficile, e sì impraticabile senza un particolare celeste soccorso.

8. Il Patriarca di Antiochia volle vedere uno spettacolo sì prodigioso della onnipotenza divina, e però andò a ritrovar Simeone; ed avendo veduto il suo tenore di vita, ne rimase oltre modo ammirato, ed esso stesso gli portò i sacrosanti Misteri, dandogli di sua mano l’Eucaristia. L’orazione era quasi la continua occupazione del Santo, ed ora la faceva diritto in piedi, ora col corpo chino; e nelle principali solennità passava tutta la notte in piedi con le mani stese. Ogni giorno cominciava a far orazione dopo il tramontar del Sole, e durava fino a tre ore dopo il mezzo giorno del dì seguente, e d’allora fino alla sera istruiva gli astanti, che a lui venivano da tutte le parti, rispondeva a quelli che lo interrogavano, guariva i malati, componeva le differenze, riconciliava i discordi.

9. Si mostrava Simeone mansueto, e gioviale ad ognuno, non facendo distinzione di persone, ed esercitava la sua carità ugualmente verso di tutti; e perciò non ricusava di soccorrere con i suoi consigli, e con le sue preghiere gli uomini più bassi, e più poveri, niente meno che i ricchi, ed i potenti. Venendo eziandio molti per curiosità a vedere un sì nuovo, e straordinario spettacolo, Iddio si servì di questo mezzo, per convertire molte migliaia d’infedeli di diverse nazioni, i quali se ne ritornavano penetrati, e compunti dalle parole divine, che uscivano dalla sua bocca. I Vescovi, e gli Imperatori lo consultavano sugli affari della Chiesa per i quali il Santo si interessava moltissimo, e rispondeva con gran libertà, e coraggio tanto ai Magistrati, che ai Prelati, inculcando loro i propri doveri. Ma nello stesso tempo era sì umile, e sì abietto agli occhi suoi, che si considerava, come il più vile di tutti gli uomini; e diceva agli infermi, che aveva risanati: Se qualcuno vi domanda, chi vi ha guarito, rispondete, che è stato Dio; e guardatevi dal nominar Simeone, altrimenti ricadrete nelle vostre infermità.

10. Piacque al Signore di dare occasione al Santo di esercitarsi vieppiù nell’umiltà, che è il carattere di tutti gli eletti, permettendo, che non ostante i doni, che aveva ricevuti, e di profezia, e di miracoli, fosse oltraggiato, e villanamente vilipeso da più d’uno. Si aggiungevano a ciò le sue infermità, e le sue piaghe, le quali sebbene erano cagionate dalle sue austerità, servivano però ad umiliare il Santo, e ad esercitarlo nella virtù della pazienza; né gli mancarono eziandio gagliarde e continue tentazioni, con le quali il demonio, invidioso di tanta virtù, non il lasciava di molestarlo. Una volta tra le altre, gli apparve in un carro risplendente di fuoco, e come se fosse un Angelo di luce, lo invitò a salirvi, per essere trasportato in Paradiso. Il Santo non esaminando bene in quel punto la visione, alzò un piede per accettare l’invito, e si segnò col segno della Croce. Ma in un momento, dopo fatto questo segno salutare, disparve ogni cosa; |e Simeone per punire la sua troppa credulità, si condannò a tener sospeso in aria quel piede, ch’era flato sì pronto ad alzarli. L’incomodità di tal positura, unita ai rigori dell’ inverno gli cagionò una gran piaga in una coscia, la quale egli non volle curare, come neppur faceva curare un’altra, che da gran tempo aveva in un piede. Da queste piaghe, uscivano continuamente dei vermi, dai quali si lasciava divorare: e Iddio per mostrare, quanto gradisse la mortificazione, e pazienza di Simeone, e quanta gloria tenesse preparata a quelle membra mezzo infradiciate dalle penitenze, dispose che essendo un giorno caduto dalla colonna, dove dimorava, uno di quei vermi, e preso in mano da Basilio Re de’ Saracini, ch’era venuto a visitarlo, si cangiasse in una bellissima perla preziosa, come riferisce Antonio suo discepolo, e testimonio di vista, che è uno degli Scrittori della sua Vita.

11. Visse Simeone un anno intero dopo la sofferta illusione del demonio; e trovandoli già quali interamente consumato da un sì lungo martirio, sentì avvicinarsi il suo termine: ed essendosi chinato per fare orazione, senza rialzarsi all’ora, in cui soleva far le solite istruzioni, né arrischiandosi alcuno d’interrompere la sua orazione; dopo tre giorni dall’odore soave, che tramandava il suo corpo, e dallo splendore del suo volto s’avvidero, ch’era passato all’altra vita: il che seguì l’anno 461, essendo il Santo in età d’anni sessantanove, trentasette dei quali aveva passati sopra varie colonne di diversa altezza, come di sopra si è detto, l’ultima delle quali era distante d’Antiochia circa quaranta miglia. – La vita prodigiosa di questo Santo martire della penitenza, attestata dal gran Teodoreto Vescovo di Ciro nella Siria, che più volte parlò con lui, e da altri testimoni irrefragabili, e contemporanei, oh quanto deve riempiere di confusione coloro, che professandosi seguaci di un Dio crocifisso, menano una vita molle, e deliziosa, né sanno soffrire e con pazienza e rassegnazione le malattie, o altre tribolazioni, con cui piace al Signore di visitarli per loro bene! Quanto ancora dobbiamo temere le insidie di satanasso, il quale, come avverte l’Apostolo, non di rado si trasfigura in Angelo di luce per ingannare, e sedurre: Siamo vigilanti, ed attenti sopra di noi stessi; con lo scudo della Fede, e con la spada della parla di Dio, e dell’orazione, come ci esorta lo stesso Apostolo, procuriamo di ribattere le saette infocate delle sue tentazioni, e muniamoci del segno salutare della Croce, per mettere in fuga un sì furibondo

SANTA GENOVEFFA, VERGINE PATRONA DI PARIGI

SANTA GENOVEFFA, VERGINE PATRONA DI PARIGI

[Dom Guéranger: l’ANNO LITURGICO, Ed. Paoline, Alba, 1957]

Il Martirologio della Chiesa Romana ci presenta oggi il nome d’una santa vergine la cui memoria è troppo cara alla Chiesa di Parigi e a quelle di tutta la Francia, perché possiamo passare sotto silenzio i suoi meriti gloriosi. Insieme con i Martiri e con il Confessore e Pontefice Silvestro, la vergine Genoveffa brilla d’un soave splendore accanto a sant’Anastasia, e custodisce con amore la culla del divino Bambino del quale imitò la semplicità e meritò di esser la Sposa. In mezzo ai misteri del parto verginale, è giusto rendere solenni onori alle Vergini fedeli che son venute dopo Maria. Se ci fosse possibile esaurire i Fasti della santa Chiesa, che magnifica pleiade di spose di Cristo dovremmo glorificare in questi quaranta giorni della Nascita dell’Emmanuele! Genoveffa è stata celebre nel mondo intero. Viveva ancora in questa carne mortale che già l’Oriente conosceva il suo nome e le sue virtù; dall’alto della sua colonna, Simone stilita la salutava come sorella nella perfezione del Cristianesimo. A d essa è affidata la capitale della Francia: una semplice pastorella protegge i destini di Parigi, come un povero lavoratore, sant’Isidoro, veglia sulla capitale della Spagna. – L’elezione che Cristo si era degnato di fare della fanciulla di Nanterre quale sua Sposa, fu proclamata da uno dei maggiori vescovi della Gallia nel V secolo. San Germano d’Auxerre si recava in Gran Bretagna dove il Papa san Bonifacio I lo mandava per combattere l’eresia pelagiana (verso il 430). Accompagnato da san Lupo, vescovo di Troyes, che doveva condividere la sua missione, si fermò al villaggio di Nanterre; e siccome i due prelati si dirigevano verso la chiesa in cui volevano pregare per il successo del loro viaggio, il popolo fedele li circondava con una pia curiosità. Illuminato da una luce divina, Germano distingueva tra la folla una fanciulla di sette anni, e fu avvertito interiormente che il Signore se l’era scelta. Chiese agli astanti il nome di quella fanciulla, e pregò che la conducessero alla sua presenza. Si fecero dunque avvicinare i genitori, il padre chiamato Severo e la madre di nome Geruntia. L’uno e l’altra furono commossi alla vista delle carezze di cui il santo vescovo colmava la loro figliuola. « È vostra questa fanciulla? » chiese Germano. – « Sì », risposero. – « Beati voi che siete i genitori di una simile figlia! » riprese il vescovo. « Alla nascita di questa fanciulla, sappiatelo, gli Angeli hanno fatto gran festa nel cielo. Questa fanciulla sarà grande davanti al Signore, e con la santità della sua vita sottrarrà molte anime al giogo del peccato ». – Quindi, rivolgendosi alla fanciulla: « Genoveffa, figlia mia! » disse. – « Padre santo », rispose essa, « la tua serva ti ascolta ». – E Germano: « Parlami senza timore: vorresti essere consacrata a Cristo in una purezza senza macchia, come sua Sposa? » – « Siate benedetto. Padre mio! » esclamò la fanciulla, « ciò che voi mi chiedete è il desiderio più ardente del mio cuore. È tutto quello che io voglio: degnatevi di pregare il Signore che me lo conceda ». « Abbi fiducia, figlia mia » riprese Germano; « sii ferma nella tua risoluzione; siano le tue opere conformi alla tua fede, e il Signore aggiungerà la sua forza alla tua bellezza ». – I due vescovi, accompagnati dal popolo, entrarono nella chiesa, e si cantò l’Ufficio di Nona, che fu seguito dai Vespri. Germano aveva fatto condurre Genoveffa presso di sé, e per tutta la salmodia tenne le sue mani sul capo della fanciulla. L’indomani, allo spuntar del giorno, prima di mettersi in cammino, fece condurre a sé Genoveffa dal padre. « Salve Genoveffa, figlia mia! » le disse; « ricordi la promessa di ieri? » – « O Padre santo! » rispose la fanciulla, « ricordo quanto ho promesso a Dio; il mio desiderio è quello di conservare sempre, con l’aiuto del cielo, la purezza dell’anima e del corpo ». A questo punto, Germano vide per terra una medaglia di cuoio segnata con l’immagine della Croce. La raccolse e, presentandola a Genoveffa le disse: « Prendila, mettila al collo, e conservala in ricordo di me. Non portare mai né collana né anello d’oro o d’argento, né pietra preziosa; perché se l’attrattiva delle bellezze terrene venisse a dominare il tuo cuore, perderesti subito la tua divisa celeste che deve essere eterna ». Germano disse alla fanciulla di pensare spesso a lui in Cristo, e raccomandatala a Severo come un deposito doppiamente prezioso, si mise in cammino per la Gran Bretagna con il suo pio compagno. – Abbiamo voluto riprodurre questa graziosa scena quale ci è narrata negli Atti dei Santi per mostrare la potenza del Bambino di Betlemme che agisce con tanta libertà nella scelta delle anime che ha risoluto di legare a sé con un legame più stretto. Egli si comporta da maestro, nulla gli è di ostacolo, e la sua azione non è meno visibile in questo secolo di decadenza e di tiepidezza di quanto lo fosse ai giorni di san Germano e di santa Genoveffa. Alcuni, purtroppo, ne provano dispiacere; altri stupiscono; la maggior parte non riflette affatto; gli uni e gli altri si trovano tuttavia di fronte a uno dei segni più evidenti della divinità della Chiesa.

Vita. – Genoveffa nacque a Nanterre verso il 419. A sette anni, fu consacrata vergine dal vescovo S. Germano di Auxerre. Con la sua preghiera e con i suoi miracoli protesse contro gli attacchi dei Normanni, e nutrì durante l’assedio, la città di Parigi che la invoca quale patrona. Dopo una vita trascorsa nella pratica delle più eminenti virtù, s’addormentò nel Signore il 3 gennaio del 512. La sua tomba, resa insigne da numerosi miracoli, è diventata la meta di un pellegrinaggio nazionale.

“ O Genoveffa, vergine fedele, noi vogliamo renderti gloria per i meriti che il divino Bambino si è compiaciuto di radunare in te. Tu sei apparsa sulla Francia come un Angelo tutelare; le tue preghiere sono state per lungo tempo oggetto della fiducia dei Francesi, e ti sei onorata, in cielo e in terra, di proteggere la capitale del regno di Clodoveo, di Carlo Magno e di san Luigi. Sono giunti tempi degni di esecrazione, durante i quali il tuo culto è stato sacrilegamente abrogato, i tuoi templi sono stati chiusi, e le tue preziose reliquie profanate. Tuttavia, tu non ci hai abbandonati; hai implorato per noi giorni migliori; e possiamo riprendere una certa fiducia nel vedere il tuo culto rifiorire in mezzo a noi, malgrado le profanazioni più recenti venute ad aggiungersi alle antiche. – In questo periodo dell’anno che illustra e consacra il tuo nome, benedici il popolo cristiano. Apri i nostri cuori all’intelligenza del mistero del Presepio. Ritempra quella nazione che ti è stata sempre cara alle pure sorgenti della fede, e ottieni dall’Emmanuele che la sua Nascita, rinnovantesi ogni anno, divenga un giorno di salvezza e di vera rigenerazione. Noi siamo malati, periamo, perché le verità sono scemate presso di noi, secondo le parole di David; e la verità si è oscurata perché l’orgoglio ha preso il posto della fede, l’indifferenza quello dell’amore. Solo Gesù conosciuto e amato nel mistero della sua ineffabile Incarnazione può ridarci la vita e la luce. Tu che l’ha ricevuto e l’hai amato nella tua lunga e casta vita, conduci anche noi alla sua culla. Veglia, o potente pastora, sulla città che ti è stata affidata. Guardala dagli eccessi che sembrano talora renderla simile a una grande città pagana. Dissipa le tempeste che si formano nel suo seno, e da apostola dell’errore, consenta a diventare finalmente discepola della verità. Nutri ancora il suo popolo che muore di fame, ma solleva soprattutto le sue miserie morali. Calma quelle febbri ardenti che bruciano le anime e sono ancor più terribili di quel brutto male che bruciava solo i corpi. Accanto al tuo sepolcro vuoto, dall’alto del Monte che domina il grandioso tempio che si eleva sotto il tuo nome e rimane tuo per volere della Chiesa e dei padri nostri, a dispetto dei reiterati attacchi della forza bruta, veglia su quella gioventù di Francia che si stringe attorno alla cattedra della scienza umana, gioventù così spesso tradita dagli stessi insegnamenti che dovrebbero dirigerla, e assicura alla patria generazioni cristiane. Brilli sempre la croce, a dispetto dell’inferno, sulla cupola del tuo santuario profanato, e non permettere mai che ne sia tolta. Che quella croce immortale regni di nuovo presto e pienamente su di noi, e stenda le sue braccia, dalla sommità del tuo tempio, su tutte le case della città peccatrice restituita alla sua antica fede, al tuo culto, alla tua antica protezione.

SAN GIOVANNI APOSTOLO ED EVANGELISTA

SAN GIOVANNI, APOSTOLO ED EVANGELISTA

[Dom Guèranger: l’Anno Liturgico, vol I; Ed. Paoline, Alba – 1957 impr.]

L’Apostolo- Vergine.

Dopo Stefano il Protomartire, Giovanni, l’Apostolo e l’Evangelista, è il più vicino alla mangiatoia del Signore. Era giusto che il primo posto fosse riservato a colui che ha amato l’Emmanuele fino a versare il proprio sangue per il suo servizio, poiché, come dice il Salvatore stesso, non vi è amore più grande del dare la propria vita per coloro che si amano (Gv. XV, 13). D’altronde il Martirio è stato sempre considerato dalla Chiesa come il supremo slancio della carità, ed ha perfino la virtù di giustificare il peccatore in un secondo Battesimo. Ma dopo il sacrificio del sangue, il più nobile, il più coraggioso, quello che conquista soprattutto il cuore dello Sposo delle anime è il sacrificio della verginità. Ora, allo stesso modo che santo Stefano è riconosciuto come il tipo dei Martiri, san Giovanni ci appare come il Principe dei Vergini. Il Martirio è valso a Stefano la corona e la palma; la Verginità ha meritato a Giovanni prerogative sublimi che, mentre dimostrano il pregio della castità, pongono questo discepolo fra i più nobili membri dell’umanità. – Giovanni ebbe l’onore di nascere dal sangue di David, nella famiglia stessa della purissima Maria; fu dunque parente di nostro Signore, secondo la carne. Tale onore gli fu comune con san Giacomo il Maggiore, suo fratello e figlio di Zebedeo come lui; con san Giacomo il Minore e san Giuda, figlio d’Alfeo. Nel fiore della giovinezza, Giovanni seguì il Cristo e non si volse più indietro; la tenerezza particolare del cuore di Gesù fu tutta per lui, e mentre gli altri erano Discepoli e Apostoli, egli fu l’amico del Figlio di Dio. La ragione di questa rara predilezione fu, come afferma la Chiesa, il sacrificio della verginità che Giovanni offrì all’Uomo-Dio. Ora, è giusto mettere in risalto, nel giorno della sua festa, le grazie e le prerogative che sono derivate a lui dal sublime favore di questa amicizia celeste.

Il Discepolo prediletto.

Questa sola espressione del santo Vangelo: il Discepolo che Gesù amava, dice, nella sua mirabile concisione, più di qualsiasi commento. Pietro, senza dubbio, è stato scelto per essere il Capo degli Apostoli e il fondamento della Chiesa; è stato più onorato; ma Giovanni è stato più amato. Pietro ha ricevuto l’ordine di amare più degli altri; ha potuto rispondere a Cristo, per tre volte, che era proprio così; tuttavia, Giovanni è stato più amato da Cristo dello stesso Pietro, perché era giusto che fosse onorata la Verginità. La castità dei sensi e del cuore ha la virtù di avvicinare a Dio l’uomo che la possiede, e di attirare Dio verso di lui; è per questo che nel momento solenne dell’ultima Cena, di quella Cena feconda che doveva rinnovarsi sull’altare fino alla fine dei tempi, per rianimare la vita nelle anime e guarire le loro ferite, Giovanni fu posto accanto a Gesù stesso, e non soltanto ebbe questo insigne onore, ma nelle ultime effusioni dell’amore del Redentore, questo figlio della sua tenerezza osò posare il capo sul petto dell’Uomo-Dio. Fu allora che attinse, alla divina sorgente, la luce e l’amore; e tale favore, che era già una ricompensa, divenne il principio di due grazie speciali che presentano in modo particolare san Giovanni all’ammirazione di tutta la Chiesa.

Il Dottore.

Infatti, avendo voluto la divina Sapienza manifestare il mistero del Verbo, e affidare alla Scrittura i segreti che fin allora nessuna penna umana era stata chiamata a narrare, fu scelto Giovanni per questa grande opera. Pietro era morto sulla croce, Paolo aveva piegato il capo alla spada, gli altri Apostoli avevano anch’essi sigillato la propria testimonianza con il sangue. Rimaneva in piedi solo Giovanni in mezzo alla Chiesa; e già l’eresia, profanando l’insegnamento apostolico, cercava di annientare il Verbo divino, e non voleva più riconoscerlo come Figlio di Dio, consustanziale al Padre. Giovanni fu invitato dalle Chiese a parlare e lo fece, con un linguaggio celeste. Il suo divino Maestro aveva riservato a lui, mondo da ogni bruttura, il compito di scrivere con la sua mano mortale i misteri che i suoi fratelli erano stati chiamati solo ad insegnare: il Verbo, Dio eterno, e questo stesso Verbo fatto carne per la salvezza dell’uomo. Con questo si elevò come l’Aquila fino al Sole divino; lo contemplò senza restarne abbagliato perché la purezza dell’anima e dei sensi l’aveva reso degno di entrare in rapporto con la Luce increata. Se Mosè, dopo aver conversato con il Signore nella nube, si ritirò dai divini colloqui con la fronte risplendente di raggi meravigliosi, come doveva essere radioso il volto venerabile di Giovanni, che si era posato sul Cuore stesso di Gesù, dove – come dice l’Apostolo – sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col. II, 3)! Come dovevano essere luminosi i suoi scritti, e come divino il suo insegnamento! Cosicché quell’immagine sublime dell’Aquila descritta da Ezechiele e confermata da san Giovanni stesso nella sua Rivelazione, gli è stata applicata dalla Chiesa, insieme con il bel nome di Teologo che gli dà tutta la tradizione.

L’Apostolo dell’amore.

A quella prima ricompensa, che consiste nella penetrazione dei misteri, il Salvatore aggiunse per il suo Discepolo prediletto un’effusione d’amore inusitata, perché la castità, distogliendo l’uomo dagli affetti bassi ed egoistici, lo eleva ad un amore più puro e più generoso. Giovanni aveva accolto nel cuore i discorsi di Gesù: ne fece partecipe la Chiesa, e soprattutto rivelò il divino Sermone della Cena, in cui effonde l’anima del Redentore, che, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine (Gv. XIII, 1). Scrisse delle Epistole, e lo fece per dire agli uomini che Dio è amore (Gv. IV, 8), che chi non ama non conosce Dio (Gv. IV, 8), che la carità esclude il timore (ibid. 18). Fino al termine della sua vita, fino ai giorni della sua estrema vecchiaia, insisté sull’amore che gli uomini si devono scambievolmente, sull’esempio di Dio che li ha amati; e come aveva annunciato più chiaramente degli altri la divinità e lo splendore del Verbo, così più degli altri si mostrò l’Apostolo di quella infinita carità che l’Emmanuele è venuto a portare sulla terra.

Il Figlio di Maria.

Ma il Signore gli riservava un dono veramente degno del discepolo vergine e prediletto. Morendo sulla croce, Gesù lasciava Maria sulla terra; ormai, da parecchi anni, Giuseppe aveva reso l’anima al Signore. Chi avrebbe vegliato dunque su un così sacro deposito? Chi sarebbe stato degno di riceverlo? Avrebbe Gesù mandato i suoi Angeli per custodire e consolare la Madre sua? Quale uomo sulla terra avrebbe potuto meritare tale onore? Dall’alto della croce, il Salvatore scorge il discepolo vergine: tutto è fissato. Giovanni sarà un figlio per Maria, Maria sarà una madre per Giovanni; la castità del discepolo l’ha reso degno di ricevere un legato così glorioso. Così – secondo quanto rileva eloquentemente san Pier Damiani – Pietro riceverà in deposito la Chiesa, Madre degli uomini; ma Giovanni riceverà Maria, Madre di Dio. Egli la custodirà come un suo bene, prenderà accanto a lei il posto del suo divino amico, l’amerà come la propria madre, e sarà come un suo figlio.

La gloria di S. Giovanni.

Circondato com’è di tanta luce, riscaldato da tanto amore, stupiremo che san Giovanni sia divenuto l’ornamento della terra, la gloria della Chiesa? Enumerate allora, se potete, i suoi titoli, enumerate le sue qualità. Parente di Cristo tramite Maria, Apostolo, Vergine, Amico dello Sposo, Aquila divina. Teologo santo, Dottore della Carità, figlio di Maria, è anche l’Evangelista per il racconto che ci ha lasciato della vita del suo Maestro e amico. Scrittore sacro per le sue tre Epistole, ispirato dallo Spirito Santo, Profeta per la sua misteriosa Apocalisse, che racchiude i segreti del tempo e dell’eternità. Che cosa gli è dunque mancato? La palma del martirio? Non lo si potrebbe dire, poiché se non ha consumato il suo sacrificio, ha tuttavia bevuto il calice del Maestro, quando, dopo la crudele flagellazione, fu immerso nell’olio bollente davanti a porta Latina, in Roma, nell’anno 95. Giovanni fu dunque Martire di desiderio e di intenzione, se non di fatto; e se il Signore, che lo voleva conservare nella sua Chiesa come un monumento della stima che ha per la castità e degli onori che riserba a tale virtù, arrestò miracolosamente l’effetto d’uno spaventoso supplizio, il cuore di Giovanni non aveva meno accettato il Martirio in tutta la sua estensione (morì presumibilmente ad Efeso sotto il regno di Traiano, 98-117 d. C.). – Questo è il compagno di Stefano accanto alla culla nella quale onoriamo il divino Bambino. Se il Protomartire risplende con la porpora del sangue, il candore virgineo del figlio adottivo di Maria non è forse più abbagliante di quello della neve? I gigli di Giovanni non possono sposare il loro innocente splendore allo splendore vermiglio delle rose della corona di Stefano? Cantiamo dunque gloria al neonato Re, la cui corte brilla di colori sì freschi e ridenti. Questa celeste compagnia si è formata sotto i nostri occhi. Dapprima abbiamo visto Maria e Giuseppe soli nella stalla accanto alla mangiatoia; subito dopo, l’armata degli Angeli è apparsa con le sue melodiose coorti; quindi son venuti i pastori con i loro cuori umili e semplici; poi, ecco Stefano il Coronato, Giovanni il Discepolo prediletto; e nell’attesa dei Magi, altri verranno presto ad accrescere lo splendore delle pompe, e ad allietare sempre più i nostri cuori. Quale nascita è mai quella del nostro Dio! Per quanto umile appaia, quanto è divina! Quale Re della terra, quale Imperatore ha mai avuto attorno alla sua culla onori simili a quelli del Bambino di Betlemme? Uniamo dunque i nostri omaggi a quelli che Egli riceve da tutti questi membri beati della sua corte; e se ieri abbiamo rianimato la nostra fede alla vista delle palme sanguinanti di Stefano, ridestiamo oggi in noi l’amore della castità, all’ardore dei celesti profumi che ci mandano i fiori della corona virginea dell’Amico del Cristo.

Vangelo della Messa (Gv. XXI, 19-24). – In quel tempo. Gesù disse a Pietro: Seguimi. Pietro, voltatosi, si vide vicino il discepolo prediletto da Gesù, quello che nella cena posò sul petto di lui, e disse: Signore, chi è il tuo traditore? Or vedutolo Pietro disse a Gesù: Signore e di lui che ne sarà? Gesù rispose: Se io voglio che resti finche io non torni, che te ne importa? Tu seguimi. Si sparse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non morrebbe. Gesù però non disse non morrà; ma: Se voglio che egli resti finch’io non tomi, che te ne importa ? È questo il discepolo che attesta tali cose, e le ha scritte: sappiamo che la sua testimonianza è verace. – Il brano del Vangelo di oggi ha impegnato molto i Padri e i commentatori. Si è creduto di vedervi la conferma del sentimento di coloro che hanno preteso che san Giovanni sia stato esentato dalla morte fisica, e che aspetti ancora nella carne, la venuta del Giudice dei vivi e dei morti. Non bisogna vedervi tuttavia, con la maggior parte dei santi Dottori, se non la differenza delle due vocazioni: quella di san Pietro e quella di san Giovanni. Il primo seguirà il Maestro, morendo come lui sulla croce; il secondo sarà preservato, raggiungerà una felice vecchiaia, e vedrà venire a sé il Maestro che lo toglierà a questo mondo con una morte pacifica. O diletto discepolo del Bambino che ci è nato, come è grande la tua felicità! quanto è meravigliosa la ricompensa del tuo amore e della tua verginità! In te si compiono le parole del Maestro: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. E tu non soltanto l’hai visto, ma sei stato suo amico, hai riposato sul suo cuore. Giovanni Battista ha timore di tendere le mani per immergere nel Giordano il suo capo divino; Maddalena, rassicurata da lui stesso, non osa sollevare il capo, e si ferma ai suoi piedi; Tommaso aspetta l’ordine per osar di mettere il dito nelle cicatrici delle sue piaghe: e tu, alla presenza di tutto il Collegio Apostolico, prendi accanto a lui il posto d’onore, appoggi il tuo capo mortale sul suo seno. E non soltanto godi della visione e del possesso del Figlio di Dio incarnato; ma, poiché il tuo cuore è puro, voli con la rapidità dell’aquila, e fissi con lo sguardo tranquillo il sole di Giustizia, nel seno stesso della luce inaccessibile in cui egli abita eternamente con il Padre e lo Spirito Santo. Questo è dunque il prezzo della fedeltà che tu gli hai mostrata conservando per lui, puro da ogni macchia, il prezioso tesoro della castità. Ricordati di noi, tu che sei il favorito del grande Re! Oggi, noi confessiamo la divinità del Verbo immortale che tu ci hai fatto conoscere; ma vorremmo anche avvicinarci a lui, in questi giorni in cui si mostra così accessibile, così umile, così pieno d’amore, sotto le vesti dell’infanzia e della povertà. Ma purtroppo i nostri peccati ci trattengono; il nostro cuore non è puro come il tuo; abbiamo bisogno d’un protettore che ci introduca alla mangiatoia del nostro Signore (Is. 1, 3). Per godere di questa felicità, o prediletto dell’Emmanuele, noi speriamo in te. Tu ci hai svelato la divinità del Verbo nel seno del Padre; portaci alla presenza del Verbo incarnato. Che per mezzo tuo possiamo entrare nella stalla, fermarci accanto alla mangiatoia, vedere con i nostri occhi e toccare con le nostre mani il dolce frutto della vita eterna. Ci sia concesso di contemplare i dolci lineamenti di Colui che è nostro Salvatore e nostro Amico, di sentire i battiti di quel cuore che ti ha amato e che ci ama; di quel cuore che, sotto i tuoi occhi, fu squarciato dal ferro della lancia, sulla croce. Ottienici di restare accanto alla culla, di essere partecipi dei favori del celeste Bambino, di imitare come te la sua semplicità. E infine, tu che sei il figlio e il custode di Maria, presentaci alla Madre tua che è anche la nostra. Ch’Ella si degni, per la tua preghiera, di comunicarci qualcosa di quella tenerezza con la quale veglia accanto alla culla del suo divin Figlio; ch’ella veda in noi i fratelli di Gesù che ha portato nel seno, che ci associ all’affetto materno nutrito per te, fortunato depositario dei segreti e degli affetti dell’Uomo-Dio. – Ti raccomandiamo anche la Chiesa di Dio, o santo Apostolo! Tu l’hai piantata, l’hai irrorata, l’hai adornata del celeste profumo delle tue virtù, l’hai illuminata con i divini insegnamenti; prega ora affinché tutte le grazie che tu hai arrecate, fruttifichino fino all’ultimo giorno; affinché la fede brilli di un nuovo splendore, l’amore di Cristo si riaccenda nei cuori, i costumi cristiani si purifichino e rifioriscano, e il Salvatore degli uomini, quando ci dice, con le parole del tuo Vangelo: Non siete più miei servi, ma miei amici, senta uscire dalle nostre bocche e dai nostri cuori una risposta d’amore e di coraggio la quale lo assicuri che lo seguiremo dovunque, come tu stesso l’hai seguito.

** * *

Consideriamo il sonno del Bambino Gesù in questo terzo giorno dalla sua nascita. Ammiriamo il Dio di bontà, disceso dal cielo per invitare tutti gli uomini a cercare fra le sue braccia il riposo delle loro anime, che si sottomette a prendere il proprio riposo nella loro dimora terrena, e che santifica con il sonno divino la necessità che ci impone la natura. Poco fa ci confortava vederlo offrire sul suo petto un luogo di riposo a san Giovanni e a tutte le anime che vorranno imitarlo nella purezza e nell’amore; ora vediamo Lui stesso dormire dolcemente nel suo umile giaciglio, o sul seno della Madre sua. –

Sant’Alfonso de’ Liguori, in uno dei suoi deliziosi cantici, celebra così il sonno del divino Bambino e la tenerezza della Vergine Madre:

Fermarono i cieli

La loro armonia,

Cantando Maria

La nanna a Gesù

Con voce divina

La Vergine bella,

Più vaga che stella

Diceva così:

Mio Figlio, mio Dio,

Mio caro Tesoro

Tu dormi, ed io moro

Per tanta beltà.

Dormendo, mio Bene,

Tua Madre non miri,

Ma l’aura che spiri

È fuoco per me.

O bei occhi serrati,

Voi pur mi ferite:

Or quando v’aprite,

Per me che sarà?

Le guance di rosa

Mi rubano il core;

O Dio, che si more

Quest’alma per Te!

II

Mi sforz’a baciarti

Un labbro sì raro:

Perdonami, Caro,

Non posso, più, no.

Si tacque ed al petto

Stringendo il Bambino,

Al Volto Divino

Un bacio donò.

Si desta il Diletto

E tutto amoroso

Con occhio vezzoso

La Madre guardò.

Ah Dio ch’alla Madre

Quegli occhi, quel guardo

Fu strale, fu dardo

Che l’Alma ferì.

E tu non languisci,

O dur’alma mia,

Vedendo Maria

Languir per Gesù.

Se tardi v’amai,

Bellezze Divine;

Or mai senza fine

Per voi arderò.

Figlio e la Madre,

La Madre col Figlio.

La rosa col giglio

Quest’alma vorrà.

Onoriamo dunque il sonno di Gesù Bambino; rendiamo i nostri omaggi al Neonato nello stato di volontario riposo, e pensiamo alle fatiche che l’attendono al risveglio. Crescerà questo Bambino; diventerà un uomo, e camminerà, attraverso tanti travagli, alla ricerca delle anime nostre, povere pecorelle smarrite. Che almeno, in queste prime ore della sua vita mortale, il suo sonno non sia turbato; il pensiero dei nostri peccati non agiti il suo cuore; e Maria goda in pace la gioia di contemplare il riposo di quel Bambino che deve più tardi causarle tante lacrime. Verrà presto il giorno in cui egli dirà: « Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli dell’aria i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo ». – Pietro di Celles dice eloquentemente nel suo quarto Sermone sulla Natività del Signore: « Cristo ha avuto tre posti dove posare il capo. Innanzitutto, il seno del suo eterno Padre; Egli dice: Io sono nel Padre, e il Padre è in me. Quale riposo più delizioso di questa compiacenza del Padre nel Figlio, e del Figlio nel Padre? In un mutuo e ineffabile amore, essi sono beati per l’unione. Ma, pur conservando quel luogo di riposo eterno, il Figlio di Dio ne ha cercato un secondo nel seno della Vergine. L’ha coperto dell’ombra dello Spirito Santo, e ha preso ivi un lungo sonno, mentre si formava in essa il suo corpo umano. La purissima Vergine non ha turbato il sonno del suo Figliuolo; ha tenuto tutte le forze dell’anima sua in un silenzio degno del cielo, e rapita in se stessa intendeva dei misteri che non è dato all’uomo ripetere. – Il terzo luogo di riposo del Cristo è nell’uomo; è nel cuore purificato dalla fede, dilatato dalla carità, elevato dalla contemplazione, rinnovato dallo Spirito Santo. Tale cuore offrirà al Cristo non già una dimora terrena, ma un’abitazione celeste, e il Bambino che ci è nato non rifiuterà di prendervi il suo riposo ».

 

SANTO STEFANO PROTOMARTIRE

26 DICEMBRE

SANTO STEFANO, PROTOMARTIRE

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, ed. Paoline, Alba – 1957 impr.]

Gesù e santo Stefano.

San Pier Damiani apre il suo Discorso sulla odierna solennità con le seguenti parole: « Abbiamo ancora fra le braccia il Figlio della Vergine, e onoriamo con le nostre carezze l’infanzia di un Dio. Maria ci ha condotti all’augusta culla; bella fra le figlie degli uomini, benedetta fra le donne, ci ha presentato Colui che è bello tra i figli degli uomini e più di tutti essi, colmo di benedizioni. Ella solleva per noi il velo delle profezie, e ci mostra i disegni di Dio compiuti. Chi di noi potrebbe distogliere gli occhi dalla meraviglia di questa nascita? Tuttavia, mentre il neonato ci concede i baci della sua tenerezza, e ci lascia nello stupore con sì grandi prodigi, d’improvviso Stefano, pieno di grazia e di forza opera cose meravigliose in mezzo al popolo (Atti VI, 8). Lasceremo dunque il Re per rivolgere lo sguardo su uno dei suoi soldati? No certo, eccetto che il Principe stesso ce lo ordini. Orbene, ecco che il Re, Figlio di Re, si leva egli stesso, e viene ad assistere alla battaglia del suo servo. Corriamo dunque ad uno spettacolo al quale egli stesso corre, e consideriamo questo porta-bandiera dei Martiri ». La santa Chiesa, nell’Ufficio odierno, ci fa leggere l’inizio d’un Discorso di san Fulgenzio sulla festa di santo Stefano: « Ieri, abbiamo celebrato la Nascita temporale del nostro Re eterno; oggi, celebriamo la Passione trionfale del suo soldato. Ieri il nostro Re, rivestito della carne, è uscito dal seno della Vergine e si è degnato di visitare il mondo; oggi, il combattente è uscito dalla tenda del suo corpo, ed è salito trionfante al cielo. Il primo, pur conservando la maestà della sua eterna divinità, ha assunto l’umile cintura della carne, ed è entrato nel campo di questo secolo per combattere; il secondo, deponendo l’involucro corruttibile del corpo, è salito alla magione del cielo per regnarvi per sempre. L’uno è disceso sotto il velo della carne, l’altro è salito sotto gli allori imporporati del suo sangue. L’uno è disceso da mezzo alla gioia degli Angeli, l’altro è salito da mezzo ai Giudei che lo lapidavano. Ieri, i santi Angeli, pieni di gaudio, hanno cantato: Giona a Dio nel più alto dei cieli! Oggi, hanno ricevuto giubilanti Stefano nella loro compagnia. Ieri, Cristo è stato per noi avvolto in fasce; oggi, Stefano è stato da lui rivestito della veste dell’immortalità. Ieri, una angusta mangiatoia ha ricevuto il Cristo bambino; oggi l’immensità del cielo ha ricevuto Stefano nel suo trionfo ». Così, la divina Liturgia unisce le gioie della Natività del Signore con l’allegrezza che le ispira il trionfo del primo dei suoi Martiri; e, per di più, Stefano non sarà il solo a ottenere gli onori di questa gloriosa Ottava. Dopo di lui celebriamo Giovanni, il Discepolo prediletto; gli Innocenti di Betlemme; Tommaso, il Martire della libertà della Chiesa; Silvestro, il Pontefice della Pace. Ma, in questa splendida scorta del Re neonato, il posto d’onore appartiene a Stefano, il Protomartire che, come canta la Chiesa, ha restituito per primo al Salvatore la morte che il Salvatore ha sofferto per lui. Così meritava di essere onorato il Martirio, questa sublime testimonianza che compensa pienamente Dio dei doni concessi alla nostra stirpe e sigilla con il sangue dell’uomo la verità che il Signore ha affidata alla terra.

Il martire, testimone di Cristo.

Per comprendere bene ciò, è necessario considerare il piano divino per la salvezza del mondo. Il Verbo di Dio è inviato per ammaestrare gli uomini; egli semina la sua divina parola, e le sue opere rendono testimonianza di lui. Ma, dopo il suo Sacrificio, sale nuovamente alla destra del Padre; e la sua testimonianza, per essere ricevuta dagli uomini che non hanno visto nè sentito quel Verbo di vita, ha bisogno d’una nuova testimonianza. Ora, questa nuova testimonianza, sono i Martiri che gliela renderanno; e la renderanno non già semplicemente con la confessione della bocca, ma con l’effusione del proprio sangue. La Chiesa s’innalzerà dunque per la Parola e il Sangue di Gesù Cristo; ma si sosterrà, attraverserà i tempi e trionferà di tutti gli ostacoli per il sangue dei Martiri, membra di Cristo; e questo sangue si mescolerà con quello del Capo divino, in uno stesso e identico Sacrificio. I Martiri rassomiglieranno in tutto al loro supremo Re. Saranno, come egli ha detto, « simili ad agnelli in mezzo ai lupi » (Mt. X, 16). Il mondo sarà forte contro di essi; al suo confronto, essi saranno deboli e disarmati; ma, in questa lotta impari, la vittoria dei Martiri sarà ancora più splendida e più divina. L’Apostolo ci dice che il Cristo crocifisso è la forza e la sapienza di Dio (I Cor. I, 24). I Martiri sono immolati, e tuttavia sono i conquistatori del mondo. Con una testimonianza che il mondo stesso comprenderà, attesteranno che Cristo che hanno confessato e il quale ha dato loro la costanza e la vittoria, è veramente la forza e la sapienza di Dio. È dunque giusto che siano associati a tutti i trionfi dell’Uomo-Dio, e che il ciclo liturgico li glorifichi, come la Chiesa stessa li onora ponendo sotto la pietra dell’altare le loro sante reliquie, onde il Sacrificio del loro Capo trionfatore non sia mai celebrato senza che essi siano offerti con Lui nell’unità del suo Corpo mistico. « La testimonianza » di santo Stefano. – La lista gloriosa dei Martiri del Figlio di Dio comincia da santo Stefano; vi risplende per il suo bel nome che significa l’Incoronato, divino presagio della sua vittoria. Egli dirige, sotto l’impero di Cristo, la bianca armata cantata dalla Chiesa, essendo stato chiamato per primo, prima degli stessi Apostoli, e avendo risposto degnamente all’onore dell’appello. Stefano ha reso una forte e coraggiosa testimonianza alla divinità dell’Emmanuele, davanti alla Sinagoga dei Giudei; ha urtato le loro orecchie incredule, proclamando la verità; e subito una gragnuola di pietre è stata scagliata contro di lui dai nemici di Dio divenuti anche i suoi nemici. Egli ha ricevuto quell’affronto restando dritto e senza vacillare; si sarebbe detto, secondo la bella espressione di san Gregorio Nisseno, che una neve dolce e silenziosa cadesse su di lui a falde leggere, o anche che una pioggia di rose scendesse mollemente sul suo capo. Ma, attraverso le pietre che s’incrociavano per recargli la morte, una luce divina giungeva fino a lui: Gesù, per il quale egli moriva, si manifesta al suo sguardo; e un’ultima testimonianza alla divinità dell’Emmanuele vibrava nella bocca del Martire. Quindi, sull’esempio del suo divino Maestro, per rendere il proprio sacrificio completo, il Martire pronuncia l’ultima preghiera per i suoi stessi carnefici: piega le ginocchia, e chiede che non sia loro imputato quel peccato. Così tutto è consumato; e il tipo del Martire è ormai noto alla terra per essere imitato e seguito per tutte le generazioni, sino alla fine dei secoli, fino all’ultimo compimento del numero dei Martiri. Stefano si addormenta nel Signore, e viene sepolto nella pace, in pace, fino a quando la sua sacra tomba non sarà rinvenuta, e la sua gloria si diffonderà nuovamente per tutta la Chiesa a motivo di quella miracolosa Invenzione, come per una resurrezione anticipata. Stefano ha dunque meritato di fare la guardia presso la culla del suo Re, come capo dei valenti campioni della divinità del celeste Bambino che noi adoriamo. Preghiamolo, insieme con la Chiesa, di facilitarci l’avvicinamento all’umile giaciglio in cui si trova il nostro sommo Signore. Chiediamogli di iniziarci ai misteri di quella divina Infanzia che dobbiamo tutti conoscere e imitare in Cristo. Nella semplicità della mangiatoia, egli non ha contato il numero dei suoi nemici, non ha tremato di fronte al loro furore, non si è sottratto ai loro colpi, non ha imposto il silenzio alla sua bocca. Ha perdonato al loro furore, e la sua ultima preghiera è stata per essi. O fedele imitatore del Bambino di Betlemme! Gesù non ha fulminato gli abitanti della città che rifiutò un asilo alla Vergine Maria nel momento in cui stava per dare alla luce il Figlio di David, nè arresterà il furore di Erode che presto lo cercherà per farlo morire; fuggirà piuttosto in Egitto, come un proscritto, dal cospetto del volgare tiranno. Attraverso tutte quelle apparenti debolezze mostrerà la sua divinità, e il Dio Bambino sarà il Dio Forte. Passerà Erode, e con lui la sua tirannia; Cristo invece resterà, sempre più grande nella sua mangiatoia dove fa tremare un re che è sovrano sotto la porpora tributaria dei Romani; più grande dello stesso Cesare Augusto, il cui impero colossale dovrà servire di sgabello alla Chiesa che sarà costituita da quel Bambino così umilmente iscritto nei registri della città di Betemme.-

(……) – Così, o glorioso Principe dei Martiri, fosti condotto fuori delle porte della città per essere immolato, e messo a morte con il supplizio dei bestemmiatori. Il discepolo doveva essere in tutto simile al Maestro. Ma né l’ignominia di quella morte, né la crudeltà del supplizio intimidirono la tua grande anima: tu portavi il Cristo nel Cuore, e con lui, eri più forte di tutti i tuoi nemici. Ma quale fu la tua gioia allorché, apertisi i cieli sul tuo capo, il Dio Salvatore ti apparve nella sua carne glorificata ritto alla destra del Padre, e gli occhi del divino Emmanuele incontrarono i tuoi! Quello sguardo di un Dio sulla sua creatura che deve soffrire per lui, della creatura verso il Dio per il quale si immola, ti rapì di te stesso. Invano le pietre crudeli piovevano sul tuo capo innocente: nulla poté distrarti dalla visione del Re eterno che alzandosi dal suo trono, muoveva incontro a te, con la Corona che ti aveva preparata da tutta l’eternità e che tu ricevevi in quell’ora. Chiedi dunque oggi, nella gloria in cui regni, che anche noi siamo fedeli, e fedeli fino alla morte, a quel Cristo che non si limitò a levarsi, ma è disceso fino a noi sotto le vesti dell’infanzia. – (……) – I Martiri sono offerti al mondo per continuare sulla terra il ministero di Cristo, rendendo testimonianza alla sua parola, e sigillando col proprio sangue tale testimonianza. Il mondo li ha misconosciuti; come il loro Maestro, hanno saputo risplendere nelle tenebre, e le tenebre non li hanno compresi. Tuttavia, parecchi hanno ricevuto la loro testimonianza, e sono nati alla fede da quel seme fecondo. La Sinagoga è stata respinta per aver versato il sangue di Stefano, dopo quello di Cristo; guai dunque a chiunque misconosce il merito dei Martiri! Ascoltiamo piuttosto le sublimi lezioni che ci offre il loro sacrificio; e la nostra religione verso di essi testimoni la nostra riconoscenza per il sublime ministero che essi hanno adempiuto e che adempiono ogni giorno nella Chiesa. La Chiesa infatti non è mai senza Martin come non è mai senza miracoli; è la duplice testimonianza che essa renderà sino alla fine dei secoli, e attraverso la quale si manifesta la vita divina che il suo autore ha posto in essa. – O Stefano, tu che sei il primo e il principe dei Martiri, noi ci uniamo alle lodi che ti inviano tutti i secoli cristiani! Ci felicitiamo con te per essere stato scelto dalla santa Chiesa per assiderti al posto d’onore, presso la culla del supremo Signore di tutte le cose. Come è gloriosa la confessione che tu hai resa fra i sassi mortali che laceravano le tue membra generose! Come è risplendente la porpora che ti ricopre come un trionfatore! Come son luminose le cicatrici delle ferite che ricevesti per il Cristo! Quanto è numerosa e magnifica l’armata dei Martiri che ti segue come suo capo, e che continua gloriosamente fino alla consumazione dei secoli! In questi giorni della Nascita del nostro comune Salvatore, noi ti preghiamo, o Stefano, di farci penetrare nelle profondità dei misteri del Verbo incarnato. Spetta a te, fedele custode del Presepio, introdurci presso il celeste Bambino che vi riposa. Tu hai reso testimonianza alla sua divinità e alla sua umanità; l’hai predicato, questo Uomo-Dio, fra le grida furenti della Sinagoga. Invano i Giudei si turarono le orecchie; bisognò che sentissero la tua voce risonante che denunciava il deicidio da loro commesso, condannando a morte Colui che è insieme il Figlio di Maria e il Figlio di Dio. Mostra anche a noi questo Redentore del mondo, non ancora trionfante alla destra del Padre, ma umile e dolce, nelle prime ore della sua manifestazione, avvolto in fasce e posto nella mangiatoia. Anche noi vogliamo rendergli testimonianza, annunciare la sua Nascita piena d’amore e di misericordia, far vedere con le nostre opere che è nato anche nei nostri cuori. Ottienici quella devozione al divino Bambino, che ti ha reso forte nel giorno della prova. Noi l’avremo, se siamo semplici senza timori, come sei stato tu, se abbiamo l’amore di questo Bambino; perché l’amore è più forte della morte. Non ci avvenga mai di dimenticare che ogni cristiano deve essere pronto al martirio, per il fatto stesso che è cristiano. La vita di Cristo che comincia in noi, vi si sviluppi mediante la nostra fedeltà e le nostre opere, di modo che possiamo giungere, come dice l’Apostolo, alla pienezza del Cristo (Ef. IV, 13). Ricordati, o glorioso Martire, ricordati anche della santa Chiesa, in quelle regioni in cui i disegni del Signore esigono che essa resista fino al sangue. Ottieni che il numero dei tuoi fratelli si completi con tutti quelli che sono provati, e che nessuno venga meno nella lotta. Che né  l’età né il sesso inclinino a vacillare, affinché la testimonianza sia piena, e la Chiesa colga ancora, nella sua vecchiezza, le palme e le corone immortali che hanno onorato i primi anni di cui tu fosti l’ornamento. Intercedi, affinché il sangue dei Martiri sia fecondo, come negli antichi giorni; affinché la terra ingrata non lo assorba, ma ne faccia germogliare ricche messi. Che l’infedeltà ritragga sempre più le sue tristi frontiere; che l’eresia si spenga e cessi di divorare, come lebbra, quelle membra il cui vigore costituirebbe la gloria e la consolazione della Chiesa. Che il Signore, tocco dalle tue preghiere, conceda ai nostri ultimi Martiri il compimento delle speranze che hanno fatto palpitare il loro cuore, nell’istante in cui curvavano il capo sotto la spada, o spiravano la propria anima fra i tormenti.

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (19), cap. XXXII e Conclusione

CAPITOLO XXXII.

DEVOZIONE PARTICOLARE AL BUON LADRONE .

Motivi di questa devozione nei tempi presenti. — Pratica di questa devozione.— Introduzione.— Primo privilegio del Buon Ladrone: meditazione e preghiera. — Secondo, terzo, quarto, e quinto privilegio. — Meditazione, e preghiera. — Orazione a S. Disma, gran protettore dei peccatori moribondi.— Epitaffio del Buon Ladrone.— Conclusione della storia del Buon Ladrone. — Avviso ai peccatori ed al secolo XIX. — Motivi di confidenza.— Necessità del pentimento. — Felicità del secolo XIX pentito.

Dalla vita del Buon Ladrone nascono naturalmente, come il profumo dal fiore, l’ammirazione, la confidenza, e l’amore. A fin di renderli efficaci, un antico e pio Autore ha tradotto questi nobili sentimenti in tanti esercizi di devozione ad uso di tutti i cristiani, e particolarmente dei grandi peccatori, che avessero la disgrazia di trovarsi non convertiti in punto di morte. Non ve ne è alcun altro, a parer nostro, il quale dovrebbe essere tanto popolare quanto questo, specialmente al giorno d’oggi. Non siamo noi forse, qualunque sia la nostro condizione, di fronte a quel gran peccatore che si chiama il secolo XIX, che a gran passi cammina verso l’abisso coperto di iniquità e colla bestemmia sul labbro? [… non parliamo poi del secolo XX e XXI – ndr. -] Oltre la carità, il timore di essere trascinati con lui, e la necessità di preservarci dallo spirito da cui è animato, non ci impongono forse il dovere di sollecitarne instantemente la conversione? E chi potrebbe ormai contar le anime che pel suo contatto si sono perdute? Quante pie persone nel mondo, quante religiose nelle case particolari o negli ospedali, quanti ecclesiastici nell’esercizio del loro ministero pastorale, quanti figli, spose, madri, o sorelle non si trovano nel caso di implorare la salvezza di qualche disperato? Or potremo noi trovare, dopo Maria Santissima rifugio dei peccatori, un avvocato più potente del Buon Ladrone, gran peccatore e gran Santo, convertito e canonizzato tre ore sole prima della sua morte? A queste osservazioni risponde il seguente esercizio fondato sui gloriosi privilegi del beato Disma.

INTRODUZIONE

Noi dobbiamo tutti morire. È decretato, dice s. Paolo, che tutti gli uomini debbano morire; e dopo la morte subire il giudizio. [Hebr., IX, 27.] Il male non sta nel morire, ma nel morire male. Quindi quel detto del Real Profeta: La morte del peccatore è ciò che vi ha di maggior male. [Psalm . XXXIII, 22.]. Per aiutarci a fare non solo una buona morte, ma una morte eccellente, dopo lunghe ricerche io ho trovato il grande s. Disma. Negli ultimi momenti di sua vita mortale egli divenne, grazie all’infinita misericordia, da ladro orribilmente famoso uno dei più gran santi del paradiso. Così lo insegna il santo Cardinale Pietro Damiani: «Paglia da bruciarsi, egli è divenuto un cedro del paradiso; tizzone d’inferno, egli è ora un astro brillante del firmamento.3 » [« Stipula inferni cedrus est Paradisi; turris inferni factas est splendidum sidus cœli. » [Senn. de S. Bonif.]. – Che ciascuno adunque ricorra a questo potentissimo avvocato degli agonizzanti, affinché gli ottenga in quel terribile momento un vero dolore dei suoi peccati. A questo fine, faccia spesso in di lui onore l’esercizio seguente.

Primo privilegio.

Il primo privilegio di s. Disma è la sua rassomiglianza con Gesù Cristo crocifisso. Essa consiste in ciò, che per la grazia onnipotente di Gesù, egli si convertì all’istante, divenne il prediletto del Salvatore, e fra tutti gli eletti desso è il solo che abbia sofferto il supplizio della croce insieme con Lui. Ascoltiamo il serafico s. Bernardino da Siena: « Poco importa che egli sia stato crocifisso per i suoi delitti. Dopo la sua conversione egli fu un vero membro di Gesù Cristo, e da quel momento le sue sofferenze furono simili alle mortali sofferenze del Figliuol di Dio. » Serm. in fer. v. post Dom. oliv.]

PREGHIERA .

O gran Santo! noi vi preghiamo dì ottenerci dal vostro amato Redentore la grazia di portar con allegrezza la sua croce, affinché siamo in tutto conformi a Colui che ha voluto essere crocifisso per amor nostro. « Imperciocché, dice l’Apostolo, i predestinati alla gloria devono esser sulla terra l’immagine del Figliuol di Dio. » [Rom. VII, 29]. Pater, Ave, e Gloria etc.

Secondo privilegio.

Il secondo privilegio di s. Disma è di essere stato l’avvocato del Figliuol di Dio. Questo privilegio è incomparabile. Per comprenderne la sublime grandezza, convien considerare chi era questo Gesù, che abbandonato da tutti ed inchiodato su di una croce, spargeva il suo sangue e dava la sua vita per la salvezza dell’uomo. Qual nobile cliente! Qual insigne privilegio l’essere scelto per suo difensore! Qual coraggio non ci voleva per dire innanzi a tutta la Sinagoga: Gesù è innocente! « Hic vero nihil mali gessit. » Luc., XXIII, 41.

PREGHIERA .

Gran Santo! degnatevi di ottenerci la forza di difendere in ogni occasione l’onore di Dio, la causa della Chiesa, e di confessare Gesù Cristo Uomo-Dio Redentore del mondo, fuggendo il peccato, e non trascurando cosa alcuna per farlo evitare e detestare dagli altri, affinché nel giorno del giudizio Gesù Cristo ci confessi innanzi all’eterno suo Padre ed innanzi a tutte le nazioni insieme radunate, secondo la sua promessa: « Colui che mi confesserà innanzi agli uomini, anch’Io lo confesserò innanzi al Padre mio. » [Matt. X, 32]. Pater, Ave, e Gloria etc.

Terzo privilegio.

Il terzo privilegio di s. Disma è di essere stato l’unico predicatore della divinità di Gesù Crocifisso. Se richiedevasi un coraggio eroico per proclamare 1’innocenza di Gesù in faccia ai suoi accusatori e dei suoi carnefici, si richiedeva altresì una fede d’una forza e di una vivacità incomprensibile per proclamarne la divinità. Questa fede è il privilegio esclusivo del nostro Santo. In quel Gesù moribondo in mezzo agli obbrobri, egli riconosce il Dio dell’universo, il Re immortale dei secoli, e lo proclama dicendo: « Ricordati di me quando sarai nel tuo regno. » [« Memento mei, cum veneris in regnum tuum . » Luc., XXIII, 42.]

PREGHIERA.

Gran Santo! noi vi preghiamo di ottenerci dal vostro tanto amato Gesù la grazia di ricercare avidamente non i beni perituri di questa miserabile vita, non le gioie di questo secolo corrotto, ma unicamente il regno di Dio e la sua giustizia come Egli stesso ce lo ha detto; [« Quærite primum regnum Dei et justitiam ejus. » Matth,, V, 33]; affinché « fra le vicissitudini di questo mondo i nostri cuori siano rivolti colà, ove sono i veri gaudi. » [«Ut inter mundanas varietates ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia. » Orat. in Dom. iv, post. Pasch.]. – Pater, Ave, e Gloria etc.

Quarto privilegio.

Il quarto privilegio di s. Disma è di essere stato il compagno dei dolori della Santissima Vergine. Fra tutte le creature della terra al solo Buon Ladrone fu riserbata l’insigne prerogativa di essere il compagno delle sofferenze di Maria. Solo insieme con Ella, nel momento della morte del Redentore, egli conservò intatta la sua fede in Gesù. Solo con Maria egli compatì alla sua morte come alla morte del Figlio di Dio, veramente Dio e veramente uomo. È questa la dottrina del serafico s. Bernardino: « I gemiti del solo Buon Ladrone con quelli di Maria furono pienamente graditi a Dio, perché, grazie alla fede infusa nella sua anima, solo egli riguardò come veramente Dio quell’uomo, che vedeva morire sotto gli occhi suoi in mezzo ad incredibili dolori. »

PREGHIERA.

Gran santo! degnatevi di ottenerci dal nostro Signore Gesù Cristo la grazia di accompagnare la ss. Vergine nel doloroso martirio che essa soffrì a piè della croce. Questo è il desiderio di questa santa Madre, come essa stessa lo rivelò a s. Brigida: « Figlia mia, non mi dimenticare; vedi il mio dolore, e cerca di risentirlo per quanto puoi. Considera le mie sofferenze e le mie lagrime, ed affliggiti insieme con me » [ « Filia mea, non obliviscaris mei; vide dulurem meum, el imitare quantum potes. Considera dolures meos et lacrymas, et dole. » Revel. lib. II, c. XXIV]. Pater, Ave, e Gloria etc.

Quinto privilegio.

Il quinto privilegio del Buon Ladrone è di essere stato la figura di tutti gli eletti. In lui si vedono come riunite tutte le anime beate destinate a godere l’eterna gloria in paradiso; imperocché egli solo udì dalla bocca medesima di Gesù queste parole: « Oggi sarai meco in paradiso » [« Hodie mecum eris in Paradiso. » Luc., XXIII, 42.]. Egli le udì il primo, le udì per sé e per tutta l’umanità rigenerata di cui era la figura. « Il quinto privilegio del Beato Ladrone fu di essere la figura e come il rappresentante di tutti gli eletti; il che a nessun altro fu concesso. »

PREGHIERA.

Gran santo! figura di tutti gli eletti, noi vi domandiamo umilmente di ottenerci da Gesù Crocifisso con voi, la grazia di portare pazientemente il peso della vita, le tribolazioni, la fatica, la povertà, le malattie, in una parola la croce, che in questa valle di lacrime pesa sugl’infelici figli di Adamo, affinché meritiamo di essere annoverati fra gli eletti, e di partecipare alla gloria eterna; essendo questa la condizione della salvezza secondo l’oracolo divino : « Entreranno nella casa del Padre celeste coloro i quali avranno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello Crocifìsso. » [Ap. VII, 41].  Pater, Ave, e Gloria etc.

Ad sanctum DISMAM,

agonizantium Patronum.

Antiphona.

Beati mortui qui in Domino moriuntur.

Amodo jam dicit Spirìtus

ut requiescant a laboribus –

 [Beati i morti che muoiono nel Signore.

D’ora in poi già dice lo Spirito

che riposano dalle loro fatiche.] [Ap. VII, 41]

 

Sancte Disma, qui mira Dei

Providentia ex nefario latrone

in eximium pœnitentiæ speculum

evasisti, et paucas intra

horas æterna tibi gaudia comparasti:

aspice sublimi gloriæ

tuæ throno in hanc vallem miseriæ.

Recordare o Sanctæ mirabilis,

mentis humanæ fragilitatis,

ad malum semper, magis

quam od bonum proclivis. Recordare,

et prò nobis ad Deum

appella, ut sicut per gratium

suam efficacem ad pœnitentiam

et Paradisi cœlestis gloriam te

perduxit: ita nos famulos suos

et famulas, eadem efficaci gratia,

ad dignus pœnitentiæ fructus

impellat, ut peccata tecum

abolentes pie tibi commoriamur,

ac una tandem in Dei

salutari nostro perenniter exultemus.

Amen.

[O santo Disma, che per ammirabile provvidenza di Dio da insigne Ladrone diveniste un perfetto modello di penitenza, e in poche ore acquistaste l’eterna felicità, dal trono di gloria ove siete assiso, abbassate i vostri sguardi su questa valle di lacrime. Ricordatevi, o ammirabile santo, della fragilità della natura umana sempre più inclinata al male che al bene. Ricordatevene, e domandate per noi a Dio, il quale con la sua grazia efficace vi condusse alla penitenza ed alla gloria del paradiso, di far produrre con la medesima grazia a noi suoi servi e sue serve degni frutti di penitenza, affinché cancellando i nostri peccati come li cancellaste voi, possiamo morire parimente insieme con voi, per rallegrarcene eternamente insieme in Dio nostro Salvatore. Cosi sia.]

 

Preghiera di S. Brigida.

 

Benedictio æterna sit tibi,

Domine mi Jesu Christe, qui

existens in mortis, agonia, omnibus

peccatoribus spem de venia

tribuisti, quando Latroni ad

te converso, Paradisi gloriam

misericorditer promisisti. Amen

[Benedizione eterna a Voi, o mio Signore Gesù Cristo, che essendo in agonia deste a tutti i peccatori la speranza del perdono, allorché misericordiosamente prometteste al Buon Ladrone la gloria del paradiso. Così sia].

 .- Per non tralasciare nulla di ciò che può contribuire alla gloria del Buon Ladrone, trascriviamo qui l’epitaffio che una mano pia gli compose. Nel leggerlo vi si troveranno nuovi motivi di fiducia nel gran santo, il di cui culto sarebbe desiderevole che divenisse più popolare che mai ai giorni nostri.

Boni Latronis tumulus.

Incidisti in Latrunem, viator, sistendus es.

Vitam ejus non aliunde, quam ex morte cognoscas.

Ubique vagus, ubique profugus.

Ut inveniri semel a Deo posset, fìgendus fuit.

Ne tum quidem immemor artis suæ, cum propter illam periret,

Mutavit forti materiam, furacitate retenta.

Viatori Deo non prufuit dissimulasse mutilate thesaurus.

Exeuntem de mundu in aerem usque secutus adhæsit lateri.

Et festiata noctis opportunitate usus,

Quando non poterat manu, furatus est halitu.

Clavis David cui primum esset usui quam latroni?

Agnita illa est a seminare.

Nec eam aut nox aut rubigo celavit,

oculis intentis semper ad

claves.

Turbatum cœlum est, cum jam violenti raperent illud:

Gazis suis timuit trepidum,

Cum eas cerneret furibus patuisse.

Fractis mox cruribus iter salutis ingressus,

Eo se sedibus suis se non venisse convicit,

Hausto, de Christi vicinia, amore crucis, ita eidem adhæsit,

Ut ab ea fuerit fuste pellendus.

Bonum Latronem, viator, malo conjunge ne noceat.

lnter utrumque inveniendus est Christus.

Hæc gemina pharos portum salutis quærentibus attendenda.

 

 

Epitaffio del Buon Ladrone.

[« Ecco un ladro: viandante, arrestati.

« La sua vita non è conosciuta che per la sua morte.

« Dappertutto vagabondo, dappertutto fuggitivo;

« Affinché Dio potesse finalmente trovarlo, bisognò

inchiodarlo su di una croce.

« Nemmeno allora dimenticò il suo mestiere, condannato

a morte per cagione di quello.

« Egli cangiò la materia del furto, ma fu sempre

ladro.

« Al Dio viaggiatore non servì a nulla nascondere

i suoi tesori sotto la nudità.

« Com’egli parte dal mondo, il ladro lo segue sin

nell’aria e si attiene al suo fianco:

« Profitta delle tenebre di una notte improvvisamente

sopraggiunta,

« E non potendo rubar colla mano, ruba colla parola.

« Della chiave di David chi il primo doveva far uso,

se non un ladro?

« Semivivo, egli la riconosce:

« Né la notte, né la ruggine possono nasconderla,

   essendo i suoi occhi sempre intenti alle chiavi.

« Il cielo si turba mentre i violenti lo rapiscono;

« Esso teme pei suoi tesori

« Vedendoli aperti ai ladri.

« Ma questi, rotte le gambe, entrato nella via della salute,

« Prova che non vi viene come un ladro ordinario.

« Nella vicinanza di Cristo egli attinse un tale amore per la Croce,

« Che per distaccarnelo bisognò colpirlo con un grande bastone.

« Al Buon Ladrone, o viandante, unisci il cattivo perché non ti noccia.

« Fra loro due tu troverai il Cristo.

« Guarda questo doppio faro, se vuoi tenere la via del cielo »]

Apud Raynald., c. XIII, p. 554.

CONCLUSIONE

O pentirsi, o perire: è questa l’alternativa che rimane al colpevole, qualunque sia il suo nome. La storia del Buon Ladrone, assai meglio di qualunque ragionamento, la mette in piena evidenza. Se passavano alcune ore di più senza pentirsi, Disma si sarebbe perduto. Pei popoli, non meno che per gl’individui, quest’alternativa è inevitabile; e la ragione è chiara. Non pentirsi quando si sa di esser colpevole, è un pretendere di esser colpevole impunemente. – Pretendere di esser colpevole impunemente è un negare a Dio la giustizia, e all’uomo la responsabilità delle proprie azioni; è un voler vivere violando la legge fondamentale della vita, poiché la vita sta nell’ordine. – L’ordine esiste allorché ogni cosa sta al suo posto; in alto cioè quello che secondo le leggi eterne deve stare in alto; e in basso ciò che deve stare in basso. Mettere in alto quello che secondo le leggi eterne deve stare in basso, e in basso ciò che deve stare in alto; Dio al posto dell’uomo, e l’uomo al posto di Dio, costituisce il disordine. Pretendere di vivervi, e di vivervi impunemente, è lo stesso che voler mantenere in alto ciò che dev’essere in basso, e in basso ciò che deve stare in alto, cioè Dio al posto dell’uomo, e 1’uomo al posto di Dio. Di tutte le impossibilità questa è la più grande. Per l’individuo, perire è perdere la pace di questo mondo, e la vita eterna dell’altro. – Per le nazioni, che non vanno in corpo nell’altro mondo, perire è andare di rivoluzioni in rivoluzioni, sino a che lacerandosi con le proprie mani, o cadendo sotto i colpi di qualche potente vicino, esse subiscano l’inesorabile decreto di morte pronunziato contro la ribellione ostinata. – Così finirono tutte le nazioni del mondo antico. Al contrario, pentirsi è vivere, poiché è un rientrare nell’ordine, vale a dire è un rimettere ogni cosa al suo posto, Dio in alto e l’uomo in basso. Di questo nobile pentimento, guarentigia necessaria di vita e di felicità, il Ladro del Calvario è il modello compiuto e perfetto. Ultimo capolavoro del Redentore moribondo, egli fu lasciato al mondo come un tipo immortale. Il Dio Salvatore, la cui misericordia è immutabile, può e vuole effettuarlo in tutti i peccatori per quanto disperati. Egli stesso ce ne dà la sua infallibile parola: Il Figliuol dell’uomo è venuto per salvare tutto quello che era perito. Sì, tutto senza eccezione, popoli ed individui; tutto quello che vorrà esser salvato, anche i ladri e gli assassini. – Che rimane dunque a dire ai peccatori, e soprattutto al gran Ladrone cbe si appella secolo XIX? Una sola parola: pentimento! – Rivolgendosi ai primi, la fede loro dice: ‘Eccetto l’innocenza che più non avete, in tutto il resto voi siete tanti grandi bambini che vi lasciate affascinare dal vostro implacabile nemico. Vedete quei figli di un re; nelle loro mani si trova qualche volta una pietra preziosa. Presentasi loro un mariuolo, il quale in scambio di quel tesoro offre ad essi talune ghiottonerie di cui la loro età è avida, e la perla sfugge dalle loro mani. – Così fa il demonio con voi. « L’astuto nemico delle anime, dice s. Agostino, vi presenta un frutto ingannatore, e vi ruba il paradiso: Porrigit pomum et surripit paradisum. » Figli di re, eredi d’un trono, da molto tempo avete fatto il mestiere del balordo; è tempo ormai di metter senno. Imitate il Buon Ladrone: colpevoli come lui, sappiate pentirvi com’egli sì penti. Al vedere che un veterano del delitto, già sul patibolo, ottiene in pochi istanti e la grazia di Gesù Cristo e l’eterna felicità, chi è che possa disperar di sua salvezza: Quis hic desperet Latrone sperante? – In quanto al secolo XIX, a cui abbiamo dedicato questa storia, sembrano scritte espressamente per esso le parole seguenti, venuteci da un’età molto lontana. – « Rientra finalmente in te stesso, o vecchio Adamo. Considerando il Ladro del Calvario, vedi ove ti ha cercato il novello Adamo, ed in quale stato ti ha trovato. Nelle piaghe del suo corpo egli ti ha mostrato le ignominie dell’ anima tua. Tu lo fuggivi, ed a Lui non è stato sufficiente il correrti appresso, chiamandoti e piangendo in mezzo agli schiaffi, alla flagellazione, e ad ogni sorta di strazi più atroci. Egli ti ha inseguito sin sulla croce, ove i tuoi delitti ti avevan condotto, ed ivi Egli ti ha trovato già semivivo, e ti ha salvato. Chi fu infatti questo ladro, se non Adamo? Dal giorno, in cui il padre del genere umano nel paradiso terrestre divenne omicida di se stesso e della sua discendenza, sen fuggì carico del suo delitto lontano da Dio, e si nascose, fino a che inchiodato ad una croce non gli fu più possibile di fuggire e di nascondersi. Colà afferrato da voi, o buon Gesù, e convertito, egli confessò il suo fallo, e ne accettò volentieri il castigo. Affin di incoraggiarlo a soffrire, voi vi degnaste di collocar voi stesso ai suoi fianchi per soffrire con lui. » – Ecco precisamente il secolo XIX [ma pure il XX ed ancor peggio il XXI –ndr.-]. In piena insurrezione contro il Cristianesimo e contro la Chiesa, egli pretende di vivere senza di essi, lontano da essi, e loro malgrado. Vani sforzi! Simile al cavallo che gira la mola, a cui si sono bendati gli occhi, esso consuma le sue forze nel girare perpetuamente in un cerchio, di cui non si possono oltrepassare i limiti. A tutti i pontefici del’umana sapienza esso domanda l’ordine e la pace; ma non ne riporta che errori ed inganni. Frattanto la fermentazione rivoluzionaria si estende dappertutto; i sintomi di rovesciamento dell’ordine si vanno facendo più pronunziati; gli errori si moltiplicano, la colpabilità si aggrava; la potenza delle tenebre va crescendo visibilmente; ed il secolo XIX non ancora si converte [ed il XX ha pure cacciato dal suo trono il Vicario di Cristo, costringendolo ad un doloroso esilio! –ndr.-]. Che se ne deve conchiudere? Siccome è riservato a Dio il dir l’ultima parola, così bisogna conchiuderne che l’ora della crocifissione si avvicina. Già, se il secolo XIX vuol prestare orecchio, può ascoltare il rumore della scure e del martello dei numerosi operai, che nei loro antri sotterranei gli fabbricano la croce. Su di questa, sul patibolo cioè del socialismo e della barbarie, [ed oggi, XXI secolo: della massoneria e del modernismo gnostico –ndr.- ], resi più forti come lo dicono i loro apostoli, dall’ateismo e dal materialismo, esso sta per trovarsi faccia a faccia con Dio. – Ora nelle sue mortali angoscio si ricordi egli del Calvario. Colà vi ebbero due ladroni in croce; e se non vuol perire come il cattivo ladro, dica come il Buon Ladrone: Io soffro giustamente; ma il Cristianesimo che ho tanto bestemmiato; ma la Chiesa che ho tanto perseguitata, non hanno fatto alcun male. Gesù, Redentore del mondo, divino Fondatore del Cristianesimo e della Chiesa, ricordati di me quando avrai ristabilito il tuo regno sulle rovine di tutto quello che deve perire: io mi pento. – Da alcuni anni in qua soprattutto, la Provvidenza sempre lenta nel punire, sembra raddoppiare i suoi sforzi, col moltiplicar l’uno dopo l’altro i motivi di timore e di speranza, affin di indurre il secolo XIX a pronunziar questa parola di salvezza. Appena pronunziata, questa miracolosa parola fa rientrar tutto nell’ordine, chiude l’èra delle rivoluzioni e prepara al mondo un più lieto avvenire. Le nazioni di Occidente, tornando ad essere le docili figlie della Chiesa loro madre, e mettendo al di lei servigio gli immensi tesori di genio, di forza, e di attività di cui esse dispongono, senza sforzo alcuno rovesceranno le barriere secolari che arrestano la civiltà cristiana alle frontiere dell’Oriente. Allora riprendendo il principe della pace il suo impero, si verificherà quel trionfo universale della Chiesa presentito dagli uni, annunziato dagli altri, desiderato da tutti, e a quanto sembra visibilmente preparato mediante lo svolgimento senza esempio e senza ragione apparente di tutte le opere cattoliche nel mondo intero. – Giorno benedetto in cui il Dio Redentore diverrà secondo i suoi voti, l’unico Pastore di un solo ovile, e lasciando che i farisei odierni come quelli di una volta lo accusino di esser amico dei peccatori, si mostrerà per il Secolo XIX quello che fu per Disma, per la giovane penitente di Magdalo, per il figliuol prodigo, per la pecorella smarrita e ritrovata, cioè l’incomprensibile misericordia e l’incomprensibile tenerezza. Giorno benedetto! in cui il secolo XIX gran peccatore e gran ladro [e peggio il XXI –ndr.-], ma come il Ladrone del Calvario

gran penitente e grande apostolo, ascolterà la parola che dissiperà tutti i suoi timori, placherà tutti i suoi odii, guarirà tutte le sue piaghe: Oggi tu sarai meco in paradiso: Hodie mecum eris in paradiso. Così realmente avverrà. Il pentimento è la pace; la pace è la tranquillità dell’ordine; l’ordine è il paradiso in terra.

FINE

SAN RAFFAELE

 

San RAFFAELE ARCANGELO

24 OTTOBRE.

[I santi per ogni giorno dell’anno – Pia soc. S. Paolo, Alba – 1933]

La storia di questo Principe della milizia celeste, che dalla Chiesa ci viene proposto a guida nel viaggio per l’eternità, va congiunta con quella di Tobia narrata dalla Sacra Scrittura. Iddio, che è sempre buono, mandò un consolatore ai poveri Israeliti schiavi sotto il re di Assiria. Questi fu il pietoso Tobia, uomo educato nel timor di Dio, ammirato per la sua pietà e pazienza. Condotto in schiavitù cogli altri suoi connazionali, alla vista dei suoi fratelli oppressi, attendeva a consigliare gli afflitti, a fornire di cibi e vestimenta i bisognosi ed a seppellire i morti. La virtù di Tobia fu provata da gravi tribolazioni; fu tormentato dalla cecità e da altre sventure. Il santo vecchio pregò il Signore che lo chiamasse all’altra vita. Ma Dio volle conservarlo per fargli godere dolci consolazioni a mezzo di Tobiolo suo figlio. « Figlio mio, gli disse un giorno il padre, ti avviso che ho imprestato dieci talenti d’argento a Gabelo, che abita in Rages, città della Media. Eccoti la ricevuta: presentagliela ed egli ti restituirà il denaro. Ma siccome tu ignori la strada cerca qualche fedele amico che ti guidi ». Il figlio uscito di casa, s’imbatté in un giovane pronto a far viaggio. Ignorando che quegli fosse un angelo di Dio, «buon giovane, gli disse cortesemente, chi sei? Conosci la via che conduce nella Media? » – « Io sono israelita, mi chiamo Azaria, rispose, e conosco il cammino cui accenni ed ho dimorato molto con Gabelo in Rages. – Tobiolo allora, tutto lieto, dopo aver ricevuto il consenso e la benedizione paterna, partì coll’Angelo Raffaele, che sotto umane sembianze si offrì ad accompagnarlo. – Giunti al fiume Tigri, un pesce mostruoso assalì il giovanetto, e minacciava di divorarlo. L’Arcangelo lo rassicurò ingiungendogli di afferrare quel pesce, sventrarlo e cavargli il fegato che doveva servire di medicina al padre. Un viaggio cominciato con sì buoni auspici, non poteva non riuscire prospero e felice. Infatti l’Angelo non solo fece ricuperare al giovane il denaro, che egli stesso era andato a riscuotere, ma di più procurò che sposasse una ricca e virtuosissima donzella, di nome Sara, figliuola unica di Raguele, suo parente. Quindi ripresero il viaggio di ritorno, ansiosamente attesi dai vecchi genitori. Accolti a braccia aperte, il figlio estrasse il fiele del pesce ed unse gli occhi del padre che torto si riaprirono alla luce. E non solamente il vegliardo rivide il dolce aspetto del figliuolo, ma poté contemplare la sposa, ammirarne i pregi singolari e le moltissime ricchezze che aveva portato con sé. – Sparsa la notizia di questo fatto, i parenti di Tobia si radunarono per ringraziare il Signore e fare festa. Alla loro presenza il figlio enumerò i solenni benefici ricevuti dal compagno di viaggio che ancora lo stimavano per un uomo. Volendo poi in qualche modo ricompensarlo lo pregarono di volere accettare la metà delle sostanze che aveva loro ottenuto. L’Angelo allora si diede a conoscere e voltosi al vecchio Tobia disse: « Ora è tempo che io manifesti la verità. Quando tu seppellivi i morti e ti occupavi in pie opere e in fervorose preghiere, io tutto offrivo al Signore; io sono l’Angelo Raffaele, uno dei sette spiriti che stiamo di continuo alla presenza di Dio. Lodate dunque il Signore e raccontate a tutti le sue meraviglie ». – Ciò detto disparve ed essi rimasero bocconi a terra benedicendo Iddio.

FRUTTO. — Imitiamo Tobia nell’elargire ai poveri il superfluo, e meriteremo ancor noi la protezione di San Raffaele e la liberazione da tante disgrazie.

PREGHIERA. — Dio che desti il beato Raffaele Arcangelo, come compagno di viaggio al tuo servo Tobia, concedi a noi tuoi servi d’essere sempre protetti dalla sua custodia, e difesi dal suo aiuto. Così sia.

SANTA MARGHERITA M. ALACOQUE

Santa Margherita Maria Alacoque.

La discepola del Sacro Cuore.

Si manseritis in sermone… discipuli mei eritis.

(Giov., VIII, 31).

[G. Lardone: “Fra gli astri della Santità Cattolica“; S.E.I. ediz. Torino 1928]

Il Maestro Divino, volendo che la fiamma di carità si diffondesse per tutta la terra e ardesse fino alla fine dei secoli si elesse dei cooperatori che inviò all’evangelizzazione del mondo. Ecco dapprima gli Apostoli che chiamò dal campo e dal lago, che istruì con particolari attenzioni, ed ai quali conferì i poteri di battezzare, di insegnare, di perdonare. Ed ecco ancora i discepoli che raccolse da ogni condizione sociale, che volle uditori dei suoi discorsi e testimoni dei suoi miracoli ed inviò ad evangelizzare ed operare prodigi nelle contrade cui diveniva insufficiente il ministero apostolico. Dal numero dei discepoli fu assunto il successore di Giuda… furono eletti i primi diaconi… e fu precisamente un nucleo di discepoli che ad Antiochia diede origine al nome “cristiano” (Atti, X I , 26). Attendevano al discepolato non solo uomini e giovani, ma ancora quelle sante donne, reclutate per la maggior parte in Galilea, che accorsero a Gesù, lo servirono nelle sue peregrinazioni ed ebbero la forza di salire con Lui al Calvario. Mirabile stuolo questo, che emerge con un’aureola luminosa, tra le figure della Redenzione, e ci prova fino a qual punto nel cuore muliebre può grandeggiare la fiamma dell’amore: mirabile stuolo che per fortuna non è scomparso più mai dalla Chiesa di Dio! Quante discepole hanno coadiuvato gli Apostoli! A quante San Paolo faceva pervenire le sue lodi ed i suoi saluti! Quante hanno assistito i martiri, i pontefici, i confessori, i santi! Di quante il Cuore adorabile di Gesù si servì per le più alte missioni in mezzo alla cristianità! Noi celebriamo oggi appunto la solennità di una di queste discepole… di S. Margherita Maria Alacoque, l’umile visitandina di Paray le Monial, la quale, assunta all’onore del discepolato di Cristo, ebbe una sua specifica missione, quella di dare impulso decisivo alla devozione verso il S. Cuore di Gesù. Guardiamo a questa discepola dell’amore: troveremo nella di lei vita tre fasi ben distinte che potremo definire: 1° la vocazione all’amore, 2° le rivelazioni dell’amore, 3° lo zelo per la diffusione per l’amore. Se la discepola del S. Cuore doveva svolgere nella Chiesa una missione provvidenziale era conveniente che Gesù la preparasse al grande compito come un giorno aveva preparato i discepoli del Vangelo. E la preparazione si svolse dapprima nel tepido nido d’una famiglia cristiana della media borghesia del secolo XVII. Quinta tra i figli di Claudio Alacoque, giudice ordinario di Terran e Verosvres, e di Filiberta Lamin, nacque a Lautecour in Borgogna, il 22 luglio 1647. Essendo una preordinata dalla grazia non è a stupire che i favori celesti venissero ben presto ad adornarne l’anima eletta: tanto che ella poteva esclamare più tardi: « Oh mio unico amore, quanto vi devo essere grata d’avermi prevenuta fin dalla mia infanzia, rendendovi padrone e signore del mio cuore, sebbene sapeste quanta resistenza vi avrebbe fatto. Appena seppi conoscere me stessa Voi mostraste all’anima mia la bruttezza del peccato, il che mi impresse tanto orrore da rendermi tormento insopportabile ogni minima macchia » (Vita e opere, tom. II, p. 29). – Per quanto di carattere vivace reprimeva di botto nell’infanzia ogni scatto appena le si diceva che avrebbe offeso il Signore: e, quasi divinando la bellezza della castità si sentiva continuamente spinta a dire, pur senza comprenderle appieno, queste parole: « Oh mio Dio, vi consacro la mia purità, vi fo voto di perpetua castità » (ivi, p. 30). Altra caratteristica della sua infanzia fu l’amore al patimento ed alla solitudine. Naturalmente portata al piacere trovava la forza di vincersi con l’esercizio della mortificazione, per esempio, stando nel freddo e con le ginocchia nude sul pavimento per tutta la Messa. Amava ritirarsi in un boschetto di querce posto a duecento metri dalla casa d’onde poteva scorgere la piccola chiesa di Verosvres, e subiva, senz’avvedersene, il fascino di quella placida natura che ritrovava pure al castello di Corcheval, quando vi dimorava con la madrina, Signora di Fautrières. Il dolore, questa voce provvidenziale con cui l’amante Divino scende alle predilette, venne ben presto ad abbattersi sopra di lei. Non aveva che otto anni e mezzo quando una malattia di petto le rapì, in pochi giorni, il padre integro e probo, uno di quei cristiani antichi che aveva voluto segnare con la croce tutti i suoi atti di notaio: e non potendo la madre provvedere all’educazione di tutta la famigliola, Margherita fu posta nell’istituto delle religiose Urbaniste di Charolles dove imparò ben presto a leggere e a scrivere e venne ammessa alla prima Comunione. « Questa Comunione, scrisse poi, (ivi, pag. 30) cosparse di tanta amarezza per me i piaceri ed i divertimenti, che non potevo più gustarne nessuno ». – Era già posseduta dallo Spirito divino, il quale però doveva ancora farla passare per molti crogiuoli. Appena undicenne fu colpita da una malattia non ben determinata, reuma o paralisi, che la tenne per circa quattro anni stesa su un letto di dolori: non poteva camminare né muovere le membra, ed il suo corpicciuolo smagrito pareva un scheletro. Ci volle una promessa alla Vergine per guarire da quel male: poiché appena fatto il voto di consacrarsi a Maria, Margherita ricuperò la salute. Ai dolori fisici successe in lei, quattordicenne, una crisi morale che la portò ad amare soverchiamente la libertà e la dissipazione, al punto che in tempo di carnevale, insieme con altre ragazze, si mascherò per vana compiacenza (ivi, 38): ma ritenne di poi questo fatto come una gran colpa e la pianse per tutta la vita. Anche le persecuzioni non le dovevano mancare, e tanto più dolorose in quanto le provenivano dai parenti, i Delaroches i quali avevano preso a governare i poderi ed a comandare in casa della vedova Alacoque, e contro di cui non potevano reagire, né sua madre sovente inferma, né ella stessa così giovane e di carattere così timido, né i suoi due fratelli, i quali, vivendo fuori di famiglia, non erano al corrente delle persecuzioni domestiche. Quanto penava la santa fanciulla nel non poter sollevare la madre inferma per causa dell’indifferenza e dell’avarizia dei suoi interessati tutori! Ma il buon Dio la sosteneva dandole una conformità perfetta con i suoi supremi voleri. Così questa fanciulla tra i sedici e i diciassette anni si sentiva sempre più attratta verso il suo Gesù: amava l’orazione, e nella preghiera trovava luce e conforto: domandava con incantevole semplicità al Signore di istruirla nelle sue vie, e, nei momenti di maggior dolore si rifugiava presso al Tabernacolo d’onde Gesù spargeva nel suo cuore le gioie più dolci e l’incanto più soave. Tre grandi desideri le agitavano oramai l’anima ardente: il desiderio di unirsi sempre più a Dio con l’orazione, il desiderio di soffrire, ed il desiderio di comunicarsi. Era Gesù che li aveva deposti nel cuore di lei, mentre stava per trasportare la tenera sposa nei tabernacoli santi. – Maturava difatti la vocazione religiosa, ma sempre attraverso spine dolorosissime. Per sottrarsi alla servitù dei Delaroches, sua madre, dopo la morte del fratello Giovanni (1663) rapitole a soli 23 anni, proponeva a Margherita diversi ottimi partiti di matrimonio, e la scongiurava di accettare o l’uno o l’altro. Memore della promessa fatta alla Vergine, la giovane è incerta se ascoltare la madre o seguire le chiamate dello Sposo, finché la grazia divina operava in lei e le dava il coraggio di eleggere la vita religiosa. A nulla valsero le presentazioni di nuovi pretendenti, a nulla le nuove persecuzioni dei Delaroches, a nulla le opposizioni del fratello Cristoforo divenuto per il matrimonio capo della famiglia, a nulla le incomprensioni del padrino Antonio Alacoque, curato di Verosvres. Con le moltiplicate penitenze, con l’accettare dalle mani del Signore una nuova malattia, ricevendo con fervore la S. Cresima a ventidue anni, ella sapeva sostenere la fiera lotta per la vocazione contrastata. – Finalmente un’occasione propizia spuntò: un religioso Francescano fu a Verosvres a predicare il Giubileo concesso nel 1670 da Papa Clemente X. A Lui Margherita aprì il suo cuore ed il religioso si interpose presso il fratello e le ottenne il permesso di abbracciare la vita religiosa. Elesse la Visitazione e fra i monasteri quello di Paray-le-Monial nel quale fece ingresso il 20 giugno 1671. Fu allora che una letizia soprannaturale la inondò di tale e tanta felicità, che ella appena posto piede nel chiostro esclamò: « È qui che Dio mi vuole » (ivi, pag. 54). – Nel monastero si sentì subito perfettamente a suo agio: ansiosa di possedere il segreto della scienza divina, esperimentò ben presto che lo Sposo celeste voleva riprodurre in lei l’immagine della sua vita in terra. Pertanto la purificò da ogni macchia, da ogni inclinazione per le creature e le infuse tale fervore che formava l’ammirazione delle altre religiose. – Vestita il 25 agosto 1671, non fu ammessa a pronunciare i voti che il 6 novembre 1672. Ma fin dal noviziato frequenti erano le comunicazioni dirette con cui Gesù se le manifestava, per guidarla ne le più ardue vie della perfezione. Fu anzi Gesù che le disse allo spirare dell’anno di noviziato: « Di’ alla tua Superiora che non vi è nulla a temere nell’ammetterti: che rispondo Io per te, e se lei mi reputa solvibile Io mi rendo tua cauzione (ivi, pag. 60). – Alla sera della professione, rientrata nella sua celletta e riandando le gioie della giornata, rilesse ancora una volta il foglio su cui aveva scritto le sue risoluzioni, parte delle quali vennero vergate col sangue; e che terminavano: « Io sono sempre del mio Diletto, sua schiava, sua serva, e sua creatura, poiché Egli è tutto mio: e sono la sua indegna sposa, Suor Margherita Maria, morta al mondo. – Tutto di Dio e niente mio: tutto a Dio e niente a me: tutto per Dio e niente per me » (ivi, p. 188). Come rispondeva bene alla chiamata divina e come era progredita già alla scuola del Maestro che le parlava all’anima e la predisponeva alle sublimi rivelazioni dell’amore.

— LE RIVELAZIONI DELL’AMORE.

Seguiamo la discepola nell’arca santa. Vi prova subito le pure gioie che le provengono dal contatto con lo Sposo: ma esse passano rapide per cedere anche qui il posto a dolori cocenti. Il Maestro prende possesso di tutto il suo essere, ma non lo fa che per distenderla sulla croce. Eccola deputata all’infermeria: ma posta a lato dell’infermiera ufficiale, Suor Caterina Agostina Marest, carattere impetuoso e faccendiero, Dio solo sa quanto Suor Margherita dovette soffrire. Eppure ella amò quelle sofferenze: specialmente quando Gesù sua guida perenne, le domandò se fosse contenta di soffrire tutte le pene meritate per i peccati suoi e per le consorelle. Gesù l’assicura che è ben padrone di darle i suoi doni in abbondanza ma, siccome le Superiore e le consorelle se ne allarmano, le impone di non far nulla di quanto le comanda senza il voluto consenso. Per unirsi sempre più a Lui, ella ha gran desiderio della comunione tanto che scrive: « Se pure dovessi camminare sopra il fuoco a piedi nudi, mi sembra che questa pena non mi costerebbe niente in confronto della privazione di questo bene (ivi, p. 149 e 134). – È così che va bene innanzi in quelle che i mistici chiamano “grazie di unione”. La vigilia di un giorno di comunione ella domandò a Nostro Signore di unire il proprio cuore al suo Cuore divino, senza però comprendere appieno in qual maniera quell’unione si potesse effettuare e come il niente potesse unirsi all’Essere. Allora « nella parte più sottile ed alta dell’intelletto » ella vide il Cuore di Dio fatto uomo più risplendente del sole e d’una grandezza infinita. Un piccolissimo punto nero pareva fare ogni sforzo per avvicinarsi a quella luce affascinante ed entrarvi, ma senza potervi giungere. Allora il Cuore divino lo attirava Egli stesso a sé, e, mentre quell’atomo oscuro tutto s’illuminava al contatto radioso, la Santa udiva queste parole: « Inabissati nella mia grandezza e bada a non uscirne mai, perché se ne uscirai non ne entrerai più » (ivi, pag. 129). Se questi ed altri favori, rinnovandosi ogni giorno, mettevano in apprensione le Superiore, specialmente la madre di Saumaise, disponevano la discepola del Sacro Cuore a rendersi sempre più idonea a ricevere le grandi rivelazioni che oramai stavano per incominciare. Esse non dovevano manifestarsi che a poco a poco. – Negli anni 1672 e 1673 si svolge per la santa un’alba lenta e calma: dapprima è un accenno ripetuto alla piaga del costato: « Ecco la piaga del mio costato, per farvi tua dimora attuale e perpetua » (Vita ed opere, tom. I, p. 70): poi sono alcune rappresentazioni allegoriche del Sacro Cuore di cui si accenna agli abissi, che è paragonato al libro della vita, che è detto ferito dai peccati degli uomini. – Nel 1674 e 1675 invece è il gran giorno, in cui Gesù rivela alla diletta l’amore del suo Cuore per gli uomini in generale e per lei in particolare, e gli atti determinati che richiede in riconoscenza di tanto amore. Fu nel coro delle religiose, in ginocchio dietro la grata, d’innanzi al SS. Sacramento esposto che Suor Margherita Maria vide per la prima volta (27 dicembre 1672 ovv. 1673?) N . Signore scoprire le meraviglie del suo Cuore adorabile. Lo racconta la nostra in una mirabile pagina autobiografica… « Essendo io d’innanzi al SS. Sacramento, perché avevo trovato un po’ di tempo libero… mi trovai tutta investita da quella divina presenza, ma tanto fortemente che dimenticai me stessa e il luogo ove stavo e mi abbandonai a quello spirito divino, lasciando il mio cuore in balìa alla forza del suo amore. Egli mi fece riposare a lungo sul suo petto ove mi svelò le meraviglie dell’amore e i segreti inesplicabili del cuore che mi aveva tenuti occulti fino a quel momento, in cui lo scoprii per la prima volta. Ma fu in modo così reale e sensibile da non lasciarvi luogo ad alcun dubbio per gli effetti che questa grazia produsse in me che pure temo sempre di ingannarmi circa le cose che dico avvenire in me. Ed ecco come mi sembra sia andata la cosa. Egli mi disse: Il mio cuore è così appassionato d’amore per gli uomini e per te in particolare che non potendo più contenere in sé le fiamme della sua ardente carità, è mestieri che le espanda per mezzo tuo, e si manifesti loro, per arricchirli dei preziosi tesori che Io ti scopro e che contengono le grazie santificanti e salutari necessarie per ritrarli dall’abisso di perdizione: e ti scelgo come un abisso di indegnità e di ignoranza per il compimento di così grande disegno, affinché tutto sia fatto da me ». Poi, dopo averle richiesto il cuore per deporlo nel suo Cuore adorabile, conchiuse: « E per prova che la grazia a te fatta or ora non è una immaginazione ed è fondamento di quelle che ancora devo farti, sebbene ti abbia rimarginata la piaga del costato, il dolore vi ti resterà per sempre; e, se finora tu hai preso soltanto il nome di mia schiava, ti dò ora quello di discepola diretta del mio Cuore » (ivi, tom. II, pag. 70). – Il Maestro dava in tal modo una prova autentica del proprio intervento e le forniva il mezzo per provarlo alle Superiore ed a coloro che in seguito avrebbero dovuto dare il loro giudizio autorevole. Ma non si fermò qui. – Ogni primo venerdì del mese le si mostrava a guisa di un sole splendente i cui raggi cadevano sul di lei cuore e tutto l’essere sembrava ridursele in cenere. Di due di quelle manifestazioni ella serbò particolare ricordo. « Un giorno, racconta, questo divin Cuore mi fu rappresentato in un trono di fiamme più raggiante di un sole e trasparente come il cristallo, con quella sua piaga adorabile, cinto di una corona di spine che significavan le punture fattegli dai nostri peccati; e al di sopra una croce che significava il dolore e il disprezzo che ebbe a sostenere in tutto il corso della vita e della sua santa passione. (Lett. al P. Croiset – Vita ed op., tom. II, pag. 587). – Altra volta: « Essendo esposto il SS. Sacramento dopo essermi sentita tutta concentrata nel mio interno mediante un raccoglimento straordinario dei miei sensi e delle mie potenze, Gesù Cristo, mio dolce Maestro, si presentò a me tutto folgorante di gloria, con le cinque piaghe splendenti come cinque soli, e dalla sacra umanità uscivano fiamme da ogni parte, ma sopratutto dal suo petto adorabile che pareva una fornace: e questo essendosi aperto, mi scoprì il suo tutto amante ed adorabile Cuore che era la sorgente viva di quelle fiamme (Vita ed opere, tom. II, pag. 71). La più celebre rivelazione si fissa ordinariamente al 21 giugno 1675 ( HAMON, Vita). Così la racconta la Santa nella lettera scritta per ordine del P. De la Colombière. « Trovandomi d’innanzi al SS. Sacramento in uno dei giorni dell’ottava di sua festa, ricevetti dal mio Dio straordinarie prove dell’amor suo e provai desiderio di corrispondergli in qualche modo e di rendergli amore per amore. Ed Egli mi disse: Tu non mi puoi rendere maggiore contraccambio che con fare ciò che tante volte ti ho chiesto. Poi, scoprendosi il divin Cuore: Ecco, proseguì, quel Cuore che ha amato tanto gli uomini e che nulla ha risparmiato (per convincerli del suo amore) fino a struggersi e consumarsi per loro amore: ma per ricompensa non riceve dalla maggior parte (degli uomini) che ingratitudini per le loro irriverenze e i loro sacrilegi e per le freddezze e i disprezzi che essi hanno per me in questo Sacramento d’amore. E ciò che mi è ancor più sensibile, si è che sono gli stessi cuori a me consacrati che così mi trattano… Perciò Io ti domando che il primo venerdì dopo l’ottava del SS. Sacramento sia dedicato ad una festa particolare ad onore del mio Cuore, facendo in quel giorno la Comunione ed offrendogli una riparazione d’onore con un’ammenda onorevole per riparare gli oltraggi ricevuti mentre è esposto sugli altari ». Ecco la luce piena: alla manifestazione diretta del suo Cuore carneo e al lamento delle sconoscenze degli uomini, Gesù unisce il mandato di diffondere la devozione al suo Cuore e di riparare con una festa liturgica apposita da istituirsi tra l’ottava del Corpus Domini. La discepola è perfettamente illustrata nello spirito ed ardente nel cuore per attendere alla nobile missione di far conoscere e far amare l’amore.

— ZELO PER LA DIFFUSIONE DELL’AMORE.

Di quali mezzi ella potrà disporre? È ancora il Cuore divino che li fornisce, prendendoli sempre dalla sua croce. Le rivelazioni dell’amore sono contrariate per ben quindici anni nel monastero di Paray-le-Monial, e per più di un secolo nella Chiesa di Dio: eppure Margherita Maria, può, prima di morire, avere il conforto di vedere la devozione al S. Cuore stabilita nella Visitazione e di saperla ben avviata nella cattolicità. Ma dovette passare di crogiuolo in crogiuolo. Il 16 giugno 1676 nel cuore ebbe uno schianto acerbo per la morte di sua madre che nei giorni solenni era accorsa alla Visitazione a vedervi la diletta e sempre rimpianta figliuola. Due mesi dopo il P. De la Colombière, che aveva compreso le relazioni soprannaturali tra la Visitandina e il S. Cuore, veniva inviato a Londra. Nella notte poi del 21 novembre 1677 Gesù doveva provarla col più grave sacrifìcio: ella doveva offrirsi vittima per le sue sorelle onde stornare i colpi della divina giustizia: non osa rispondere di no allo sposo, perché ben si ricorda di aver tutto accettato: indietreggia però e si trincera dietro il voto di ubbidienza… Venne la notte segnata dal 20 al 21 novembre: il domani, festa della Presentazione le monache dovevano rinnovare i voti: ma alla sera della vigilia Gesù le si manifestò con aspetto così terribile che ella ne rimase atterrita. Udì allora il divin Maestro dirle: Ti è duro ricalcitrare ai dardi della mia giustizia, ma dacché mi hai fatto tanta resistenza per evitare le umiliazioni che ti converrà sostenere per compiere quel sacrificio te le raddoppierò: prima non ti chiedevo che un sacrificio segreto, ora lo voglio pubblico e in un modo e tempo fuori d’ogni ragione umana: accompagnato da circostanze così umilianti che ti procurerà confusione per tutto il rimanente di tua vita, sia in te stessa sia d’innanzi alle creature, per farti comprendere che cosa sia resistere a Dio. (Vita, tom. II, pag. 84). – Frammischiata alle altre monache nella ricreazione della sera Margherita poté padroneggiare la sua emozione… Ma le parole udite risonavano tuttavia al suo orecchio in tutta la loro tremenda concisione: sentiva che doveva parlare proprio allora in presenza della comunità: solo la Superiora la poteva autorizzare: dunque bisognava chieder licenza: però la Madre era in camera ammalata: bisognava quindi uscir dalla sala e Suor Margherita, quasi costretta da forza superiore lasciò il luogo dell’adunanza… appena nel corridoio si fermò di botto come fuor di sé … conturbata nello spirito scoppiò in pianto… una consorella la dovette accompagnare dalla Superiora… e, finalmente, ottenuto il permesso, eccola di ritorno. Appena l’assistente chiese alle monache schierate lungo le pareti se avessero qualche osservazione da fare, Suor Margherita Maria, ancora tutta sconvolta e con gli occhi rossi di pianto, andò a inginocchiarsi in mezzo alla sala e vi compì il sacrificio lacerante. In quel silenzio solenne, terribile, ella lasciò uscire dalle sue labbra tremanti le divine minacce, soggiungendo che Dio onnipotente aveva scelto lei quale ostia pura ad espiare i falli commessi. Quale effetto produssero quelle parole? A molte suore apparirono almeno temerarie: altre le ricevettero come loro inviate dal buon Dio: ma quale dolore non causarono alla zelante Visitandina! « Non avevo mai tanto sofferto in vita mia ». D’allora fu in uno stato di annichilimento continuo: disprezzi ed umiliazioni le piovvero da ogni parte: anche la madre di Saumaise ella dovette perdere perché trasferita a Digione. La nuova superiora, madre Greyfìé udita la Santa determinò di prestare pochissima attenzione alle visioni e di non parlarne a chicchessia né in comunità né fuori: le proibì anzi l’ora di adorazione nella notte dal giovedì al venerdì. Vennero inoltre le tentazioni di spirito dolorose sopra tutte le altre; si aggiunsero quelle meno nobili ma pure angustianti di una fame e sete straordinarie. Fu allora (verso il termine del 1679) che prese la risoluzione, oltre che di attendere a grandi mortificazioni, di incidersi di nuovo sul cuore il nome di Gesù già da lei scritto un giorno a caratteri di sangue. – Quasi a compensarla di tante sofferenze, Gesù le volle offrire una prima occasione di diffondere il culto al Sacro Cuore. La madre di Saumaise era stata eletta Superiora delle Visitandine di Moulins ed appena giunta alla nuova sede, pensò di mettere alcuna delle sue figlie in relazione con Suor Margherita Maria. La Superiora antecedente, Luisa Enrichetta di Soudeilles, allora direttrice del noviziato, le scrisse poco tempo dopo: la nostra Santa rispose e la lettera fu senza dubbio il primo grido apostolico sfuggito dal suo cuore e dalla sua penna a favore della devozione al S. Cuore di Gesù. – Altre contrarietà dovevano sopraggiungere a provare ancora la grazia che era in lei: la morte del P . De la Colombière doveva nuovamente farle sanguinare il cuore: ma lo zelo attivo della discepola dell’amore non doveva più arrestarsi. Eletta nel 1684 dapprima assistente della nuova Superiora Maria Cristina Melin, e più tardi Maestra delle novizie, poté parlare liberamente al nuovo gregge della devozione al Cuore adorabile dello Sposo divino, e lo poté fare senza taccia di innovazioni, perché già gli scritti del Padre S. Francesco di Sales celebravano soavemente e magnificamente la misericordia e la tenerezza del Cuore Sacratissimo. La devozione attecchì tosto fra le novizie: per l’attitudine ostile delle anziane la Superiora proibì la Comunione del primo Venerdì: ma erano le ultime resistenze, poiché il 21 giugno 1685 poté segnare il primo trionfo del Sacro Cuore. Un altarino era eretto nel coro, proprio nel sito dove Suor Margherita Maria aveva avuto le grandi estasi del 1673 e 1674; e, circondata dai più bei fiori del giardino, una miniatura mandata da madre Greyfìé mostrava a tutti l’immagine del Cuore di Gesù chiusa in una piccola cornice dorata. Sull’altarino stesso un biglietto della Suora des Escures invitava tutte « le Spose del Signore a venire a rendere omaggio al Cuore adorabile ». Era la intronizzazione ufficiale del Cuore divino là dove Egli aveva amato svelarsi e dove tuttavia la discepola eletta aveva incontrato tante difficoltà nello svolgere la sua missione. Quale felicità per Suor Margherita Maria! Nella profonda gioia e nella sentita gratitudine pensò fosse giunto il momento di offrire allo Sposo un sacrificio che da tempo contava di fare: venne così il voto del 31 ottobre 1686 con cui si consacrò più strettamente e definitivamente al Cuore di N. S. Gesù Cristo. Tuttavia il convento di Paray era un campo troppo ristretto per lo zelo della visitandina eletta; doveva diventare il centro d’irradiazione dal quale, per le lettere della Santa la divozione doveva impiantarsi ben presto a Moulins, a Digione, a Semur, a Lione, a Parigi … Dal 1688-89 poi ella comprese appieno il mandato speciale affidato alla Visitazione per impiantare il culto del Sacro Cuore in tutta la Chiesa. È vero che una prima petizione fatta a Roma non ottenne l’esito desiderato: ma la devozione era in marcia. Il Vicario generale di Lione approva l’ufficio e la messa del S. Cuore: la discepola ha il coraggio di rivolgersi allo stesso re di Francia, il potente Luigi XIV, perché consacri al S. Cuore il suo popolo: la regina d’Inghilterra è da tempo guadagnata alla nuova devozione: e Suor Margherita Maria gioisce ad ogni passo che da il culto che le è caro e rende pubbliche le promesse che le vengono dal S. Cuore, celebre fra tutte quella che fu definita la Grande Promessa. – « È un giorno di venerdì: nella S. Comunione furono dette queste parole alla sua indegna schiava se essa non si inganna: Io ti prometto nella eccessiva misericordia del mio cuore, che il mio amore onnipotente accorderà a tutti quelli che si comunicheranno per nove primi venerdì del mese consecutivi la grazia della penitenza finale, non morendo essi in sua disgrazia, né senza ricevere i Sacramenti e rendendosi Egli sicuro asilo in quell’estremo momento (Vita ed opere, tom. II, pag. 397 e seg.). Quale consolante notizia per i devoti del S. Cuore! Ma nello stesso tempo quale gloria per la santa discepola! Decorata di tanti preziosi favori spirituali ella poteva bene al 17 ottobre 1690 chiudere la sua piena giornata. Preordinata dall’amore, guidata dall’amore, in perenne contatto con l’amore del Cuore misericordioso di Gesù, ella era divenuta il principale strumento delle divine misericordie presso la povera umanità. La massima e più dolce devozione dei tempi nostri che per oltre mille anni era stata ignota agli uomini, che dal secolo XI al secolo XVII non era stata sentita che da poche anime privilegiate, dopo le apparizioni alla discepola di Paray si è diffusa a grado a grado finché l’11 giugno 1899, allorché Leone XIII gli consacrava il genere umano, il Cuore Sacratissimo prese a regnare su tutto il mondo moderno. Gloria e adorazione a Lui nei secoli dei secoli: ma ancora venerazione all’umile Santa Visitandina che ne è stata la discepola zelante.

* * *

Perché non sappiamo anche noi entrare nell’orbita del discepolato del S. Cuore? È vero: la vita della figlia del notaio di Lautecour, della Visitandina di Paray non ha battuto un ritmo ordinario. La Santa dell’amore ha camminato nella zona delle eccezionali elevazioni della grazia ed ha rivelato ancora una volta che: Spiritus ubi vult, spirat. Ma come ha corrisposto ella alla grazia! Come ha abbracciato la sua croce e come è passata per amor dell’Amore di calvario in calvario! Se lo Sposo tanto le ha dato, ella nulla ha negato a Lui di sacrificio, di umiliazione, di rinunzia: e lo Sposo l’ha glorificata rendendola strumento idoneo per lo stabilimento della devozione del suo Cuore adorabile e cingendole la fronte dell’aureola della santità cristiana. Guardiamo dunque a lei, ricordando che se non tutti abbiamo nella Chiesa delle missioni ufficiali da compiere, tutti siamo chiamati nel numero dei discepoli dell’Amore, tutti possiamo partecipare alle rivelazioni dell’Amore, tutti dobbiamo zelare la devozione all’Amore. Varie, infinite, misteriose possono essere le vie per le quali la voce dell’alto si fa sentire al nostro cuore: innumerevoli ed insospettabili le rivelazioni che l’Amore ci riserva: ma se l’anima sarà pura, il cuore mondo, la volontà sottomessa alla volontà dello Sposo, anche noi o attraverso ad una fiorita di rose o attraverso ad una selva di spine potremo divenire, non solo candidati alla santità, ma ancora strumento delle divine misericordie e rivelatori della infinita bontà agli uomini. – Aspiriamo dunque all’onore del discepolato di Gesù. Ogni anno, il 17 ottobre, circa le ore venti, l’ora della morte della Santa, le monache del convento di Paray vanno processionalmente alla camera, ora convertita in cappella, ove Margherita Maria morì, e, dopo aver pregato, cantano una devota canzoncina che rievoca quella morte e la rende quasi attuale. Essa termina: Ah! in tal beato ostello Vanne pur, del Sacro Cuore Confidente, alma fedel! – Ogni anno, come le consorelle buone, anche noi veniamo ai piedi della discepola dell’Amore. Oh! Possiamo come lei entrare, quali colombe dal desio chiamate, nella piaga del Cuore Sacratissimo per non uscirne mai più.

 

SAN MICHELE ARCANGELO

SAN MICHELE

[J. J. Gaume: Il Catechismo di Perseveranza, vol. IV, Torino, 1881]

Il culto degli Angeli è antico al pari del mondo; vediamo infatti che erano invocati nell’antico Testamento [Vedi Bergier, art. Angeli.], ed i pagani stessi che loro prestavano omaggi superstiziosi. La Chiesa cattolica, erede di tutte le tradizioni veridiche, nobilitò, purificò e consacrò fino dalla sua origine il culto dei santi Angeli, e su questo punto sono concordi i Padri dell’Oriente e dell’Occidente. – Tuttavia essendo sorti degli eretici, che prestavano agli Angeli un culto idolatrico, la Chiesa d’Oriente credé dover usare somma cautela nel culto con che ella onorò questi Spiriti beati, per timore che i settari potessero da ciò prender cagione di confermarsi nei loro errori. Ma la Chiesa d’Occidente, che nulla aveva di simile da temere, si spiegò più francamente sopra l’invocazione degli Angeli. [Hilar. in Ps. CXXIX e c. XXXVII.] – Certo egli è che erano invocati molto tempo prima che loro fossero dedicate feste e templi. Non era loro consacrato verun giorno particolare, perché  il loro culto era come incorporato a tutte le preghiere pubbliche, a tutti i sacrifici pubblici, e per conseguenza a tutte le feste della Chiesa. – Si fa menzione degli Angeli nel prefazio e nel canone della Messa; e nel salterio che compone quasi tutto l’uffizio canonico noi ripetiamo spessissimo la commemorazione degli Angeli. Le litanie, che risalgono alla più alta antichità, e che sono quasi un compendio delle preghiere generali della Chiesa, nominano gli Angeli dopo Maria, augusta loro Regina. Nel modo stesso pertanto che si faceva una festa generale della Trinità, del Santo Sacramento e di tutti i Santi, prima che si avessero solennità speciali instituite a loro onore, per egual modo si celebrava la festa generale di tutti gli Angeli, il culto dei quali si collega a tutta la liturgia cattolica, prima che fossero state per essere instituite, come si è detto, delle feste e assegnati loro dei templi. Tuttavia la Chiesa, compresa da gratitudine per gli Spiriti beati che vegliano alla sua difesa e proteggono la salute dei suoi figli, stabilì delle feste particolari per sciogliere il debito della sua devozione. La prima è quella di san Michele, principe della milizia celeste; la seconda, quella di tutti gli Angeli e particolarmente dell’Angelo custode. Spieghiamo in poche parole l’origine di queste solennità. Nel tempo che il Creatore, per far prova della fedeltà degli Angeli, aveane sublimato un gran numero, essi inorgogliti della loro propria eccellenza si sollevarono contro l’autore di tanti doni preziosi. L’Arcangelo san Michele precipitò nell’abisso i ribelli, mercé la possanza irresistibile del nome di Dio; vittoria significata dal nome stesso dell’Arcangelo: Quis ut Deus; chi è come Dio? San Michele è stato sempre considerato come l’Angelo difensore delle nazioni fedeli. Antico protettore della Francia, ei fu scelto a patrono dell’Ordine militare instituito sotto il suo nome nel 1469 dal re Luigi XI.

Festa di san Michele. — Nel 493 il glorioso arcangelo apparve sul monte Gargano, in Italia. Nulla si conosce di più consolante e di più celebre di quella apparizione. In riconoscenza dei benefizi che l’inviato dell’Onnipotente procurò alla Chiesa, fu instituita una festa in memoria di quell’avvenimento e in onore di san Michele. Fino dal quinto secolo essa si celebra li 29 di settembre; ed era in antico solennissima in molti paesi d’Occidente. – Ecco quanto si legge negli Statuti ecclesiastici pubblicati nel 1044 da Eteiredo re d’Inghilterra: « Ogni cristiano, che ha l’età prescritta, digiuni per tre giorni a pane ed acqua, innanzi la festa di san Michele, non mangiando che radici crude, poi ciascuno si rechi a confessarsi alla chiesa a piedi nudi …. Ogni sacerdote vada per tre giorni scalzo in processione col suo popolo; ciascuno prepari i viveri necessari per tre giorni, sempre però che nulla vi sia di grasso, e che tutto il soverchio sia dato ai poveri. Ogni servo sia dispensato dal lavoro in quei tre giorni per meglio celebrare la festa, o almeno non faccia fuorché quello che è indispensabile. – Questi tre giorni sono il lunedì, il martedì e il mercoledì, innanzi la festa di san Michele ». – Quantunque san Michele sia il solo nominato nel titolo di questa festa, apparisce dalle preghiere della Chiesa, che tutti i santi Angeli sono in essa contemplati. Da ciò deriva una evidente induzione, capace di ristringere i vincoli di carità che insieme ci uniscono. La Chiesa vuole manifestamente che noi onoriamo gli angeli e i santi, e che ne celebriamo la festa in spirito di carità e di universalità, considerandoli come un solo corpo e un solo santo, ch’è il corpo di Gesù Cristo, il Santo dei santi. E ben difficile onorare un membro senza che quest’onore si comunichi a tutte le altre membra del medesimo corpo. La gloria e la gioia di ciascuno di loro è comune a tutti, e quella che è comune a tutti è propria di ciascuno in particolare. E se un membro patisce, patiscono insieme tutti questi membri, e se un membro gode, godono insieme tutte le membra, dice san Paolo [I Cor. XII, 26]. Così la festa di ciascun santo è la festa di tutti gli altri santi. Perciò in passato si faceva la festa dei santi Apostoli in uno stesso giorno, perché non si può far la festa di uno senza che tutti gli altri vi partecipino. – Queste riflessioni sono anche più necessarie nel favellare degli Angeli, che onoriamo tutti generalmente nel giorno della festa di san Michele. La Chiesa non permette che si conoscano nominatamente più di tre Angeli, i cui nomi sono stati designati dalla Scrittura, e tuttavia ella desidera che ne siano onorati parecchi milioni. Non dobbiamo dunque tributar loro l’omaggio dovuto mediante feste particolari, ma coll’esser persuasi che quando nominiamo od ossequiamo uno di loro, gli onoriamo tutti, come quelli che tutti insieme compongono una santa città, di cui ciascuno di loro rappresenta la maestà e la eccellenza.

III. Mezzi di onorare gli angeli santi. — Parleremo brevemente del culto che prestiamo agli angeli e della maniera di celebrarne la festa. Il culto supremo detto di latria, non appartiene che a Dio, e non potrebbesi prestare alla creatura senza cadere nella più mostruosa idolatria e senza farsi rei del delitto di ribellione contro la Maestà divina. Si è idolatra quando si offre sacrificio ad un ente che non è Dio, e che gli si concede, o in lui si riconosce, direttamente o indirettamente, qualche attributo della Divinità; ma esiste una venerazione di ordine inferiore che si deve a certe creature, a riguardo della loro superiorità o della loro eccellenza. – Tale è quello che la legge stessa di Dio ci ordina di prestare ai nostri genitori, ai governanti, ai magistrati e a tutte le persone costituite in dignità; tal è pure quell’ossequio misto di sentimenti di religione che, secondo i Libri santi e la legge naturale, è dovuto ai sacerdoti e ministri dell’Altissimo e che i monarchi, anche i più malvagi, prestavano sovente ai profeti, quantunque fossero uomini oscuri e negletti agli occhi del mondo. – Quest’ossequio, come ognuno ben vede, è essenzialmente diverso da quello che è dovuto a Dio; né punto può essergli ingiurioso, perché si riferisce alle creature in quanto le loro perfezioni sono doni della bontà divina. Quando noi dimostriamo il nostro rispetto ad un ambasciatore, noi onoriamo il padrone che lo fece depositario d’una parte della sua autorità; ed è il padrone quegli ch’è lo scopo principale dei sentimenti che manifestiamo. La Scrittura viene su questo punto a sostegno della legge naturale: Rendete dunque a tutti quel che è dovuto… a chi l’onore, l’onore [Rom. XIII, 7].. « Onorate , dice san Bernardo, a questo proposito, onorate ciascuno, secondo la propria dignità ». – Quanto al modo di ben celebrare le feste degli Angeli, noi dobbiamo, per entrare nello spirito della Religione: ringraziare Dio della gloria, di cui ricolma quelle sublimi creature, e rallegrarci della felicità di cui godono ; dimostrare la nostra gratitudine al Signore, perché per sua misericordia ha affidato la cura della nostra salute a quegli spiriti celesti, che ci fanno continuamente provare gli effetti del loro zelo e della loro protezione; unirci ad essi per lodare e adorare Dio. per chiedere la grazia di fare la sua volontà sulla terra, come gli Angeli la fanno nel cielo, e faticare per la nostra santificazione con l’imitare la purità di quegli spiriti beati ai quali siamo uniti si intimamente; onorarli non solo con fervore, ma implorare anche il soccorso della loro intercessione.

ALL’ARCANGELO S. MICHELE (29 sett.)

I. – Gloriosissimo arcangelo s. Michele, che pieno di fede, di umiltà, di riconoscenza, di amore, lungi dall’aderire alle suggestioni del ribelle Lucifero, o di intimidirvi alla vista degli innumerabili suoi seguaci, sorgeste anzi pel primo contro di lui ed animando alla difesa della causa di Dio tutto il restante della Corte celeste, ne riportaste la più completa vittoria, ottenetemi, vi prego, la grazia di scoprire tutte le insidie, e resistere a tutti gli assalti di questi angeli delle tenebre, affinché, trionfando a vostra imitazione dei loro sforzi, meriti di, risplendere un giorno sopra quei seggi di gloriai da cui furono essi precipitati per non risalirvi mai più. Gloria.

II. – Gloriosissimo arcangelo s. Michele, che destinato alla custodia di tutto il popolo Ebreo, lo consolaste nelle afflizioni, lo illuminaste nei dubbi, lo provvedeste in tutti i bisogni, fino a dividere i mari, a piover manna dalle nubi, a stillar acqua dai sassi, illuminate, vi prego, consolate, difendete, e sovvenite in tutti i bisogni l’anima mia, affinché, trionfando di tutti gli ostacoli che ad ogni passo s’incontrano nel pericoloso deserto di questo mondo, possa arrivare con sicurezza a quel regno di pace e di delizie, di cui la terra promessa ai discendenti di Abramo non era che una smorta figura. Gloria.

III. – Gloriosissimo arcangelo s. Michele, che, costituito capo e difensore della cattolica Chiesa, la rendeste sempre trionfatrice della cecità dei gentili con la predicazione degli Apostoli, della crudeltà dei tiranni con la fortezza dei Martiri, della malizia degli eretici con la sapienza dei Dottori, e del mal costume del secolo con la purità delle Vergini, la santità dei Pontefici e la penitenza dei confessori, difendetela continua mente dagli assalti dei suoi nemici, liberatela dagli scandali dei suoi figliuoli, affinché, mostrandosi sempre in aspetto pacifico e glorioso, ci teniamo sempre più fermi nella credenza dei suoi dogmi, e perseveriamo sino alla morte nell’osservanza de’suoi precetti. Gloria.

IV. – Gloriosissimo arcangelo s. Michele, che state alla destra dei nostri altari per portare al trono dell’Eccelso le nostre preghiere e i nostri sacrifici, assistetemi, vi prego, in tutti gli esercizi della cristiana pietà, affinché compiendoli con costanza, con raccoglimento e con fede, meritino di essere di vostra mano presentati all’Altissimo, e da lui ricevuti come l’incenso in odore di grata soavità. Gloria.

V. – Gloriosissimo arcangelo s. Michele che, dopo Gesù Cristo e Maria, siete i l più potente mediatore fra Dio e gli uomini, al cui piede s’inchinano confessando le proprie colpe le dignità le più sublimi di questa terra, riguardate, vi prego, con occhio di misericordia la miserabile anima mia dominata da tante passioni, macchiata da tante iniquità, ed ottenetemi la grazia di superare le prime, e detestar le seconde, affinché, risorto una volta, non ricada mai più in uno stato sì indegno e luttuoso. Gloria.

VI. – Gloriosissimo arcangelo s. Michele, che, come terror dei demoni, siete dalla divina bontà destinato a difenderci dai loro assalti nell’estrema battaglia, consolatemi, vi prego, in quel terribile punto con dolce vostra presenza, ajutatemi col vostro insuperbile potere a trionfare di tutti quanti i miei nemici, affinché, salvato per mezzo vostro dal peccato e dall’Inferno, possa esaltare per tutti i secoli la vostra potenza e la vostra misericordia. Gloria.

VII. – Gloriosissimo arcangelo s. Michele, che con premura più che paterna discendete pietosamente nel tormentoso regno del Purgatorio per liberarvi le anime elette, e seco voi trasportarle nella eterna felicità fate, vi prego, che, mediante una vita sempre santa e fervorosa, io meriti di andare esente da quelle pene sì atroci. Che se, per le colpe non conosciute, o non abbastanza piante e scontate, siccome già lo prevedo, mi vi andassi condannato per qualche tempo, perorate in allora presso il Signore la mia causa, movete tutti i miei prossimi a suffragarmi, affinché il più presto possibile voli al cielo a risplendere di quella luce santissima che fu promessa ad Abramo ed a tutti i suoi discendenti. Gloria.

VIII. – Gloriosissimo arcangelo s. Michele, destinato a squillare la tromba annunziatrice del gran Giudizio, ed a precedere colla croce il Figliuolo dell’uomo nella gran valle, fate che il Signore mi prevenga con un giudizio di bontà e di misericordia in questa vita, castigandomi a norma delle mie colpe, affinché il mio corpo risorga insieme coi giusti ad una immortalità beata e gloriosa, e si consoli il mio ‘spirito alla vista di quel Gesù che formerà il gaudio la consolazione di tutti quanti gli eletti. Gloria.

IX. – Gloriosissimo arcangelo s. Michele, che costituito governatore di tutta l’umana natura, siete in modo speciale il Custode della cattolica Chiesa, e del visibil suo Capo, [S. S. Gregorio XVIII], riunite al seno di questa eletta Sposa di Gesù Cristo, tutte le pecore erranti, gli infedeli, i turchi, gli ebrei, [gli scismatici sedevacantisti e FSSPX, gli apostati della setta vaticana del “novus ordo” – ndr.-], i peccatori, affinché, adunati tutti in un sol ovile, possano cantare unitamente per tutti i secoli le sovrane misericordie: sostenete nella via della santità, e difendete da tutti i nemici l’infallibile interprete dei suoi voleri, il suo Vicario sopra la terra il Romano Pontefice Gregorio XVIII, affinché obbedendo sempre alla voce di questo Pastore universale, non mai si allontanino dai pascoli della salute, ma crescano anzi ogni giorno nella giustizia così i sudditi come i magistrati, così i popoli come i Re, e compongano su questa terra quella società concorde, pacifica e indissolubile, che è l’immagine, il preludio e la caparra di quella perfetta ed eterna che comporranno con Gesù Cristo tutti i beati nel cielo. Gloria …

OREMUS.

Da nobis, omnipotens Deus, beati Michaeli Arcangelo, honore ad summa proficere; ut cujus in terris gloriam præadicamus, ejus quoque precibus adjuvemur in cœlis. Per Dominum, etc.

 

 GIACULATORIA A s. MICHELE.

O glorioso, o forte – arcangiolo s. Michele,

Siatemi in vita e in morte – proteggitor fedele.