GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (32): GNOSI ED UMANESIMO -1-

GNOSI, TEOLOGIA DI Satana -32-

Gnosi ed UMANESIMO (1)

[Elaborato da: É. Couvert: La gnose contre la foi, Ed. de Chiré, 1989]

La gnosi è l’anima dell’Umanesimo, di tutto il Rinascimento [in realtà rinascimento del paganesimo e del culto solare di Mithra, con annesso becero ed assurdo eliocentrismo], che in nome di una pretesa e falsa libertà di pensiero e di coscienza, ha guidato la ribellione a Dio – pretendendo di averne causato addirittura la morte – ed al suo Cristo, ha stravolto, in unione con la gnosi islamica e giudaico-kabbalista, le fondamenta del Cristianesimo e della sua Chiesa, demolendone prima il potere temporale [1871] e poi, si fieri potest, quello spirituale [dal 26 ottobre del 1958]. La “Rivolta” ha interessato tutta la società, tutta la cultura, le arti, il pensiero, addirittura ha imposto un falso modello astronomico, fondato sul nulla, sull’immaginario di visionari allucinati, occultisti astrologi, alchimisti e veri e propri stregoni, definiti ancor oggi “scienziati”; coinvolte sono state naturalmente la letteratura, la filosofia, la teologia, virata dal sano e lucido tomismo, alle fantasie ofidiche della nuova teologia modernista. Il nostro É. Couvert, che non sapremo mai ringraziare abbastanza per la sua opera di “talpa-segugio” anti-gnostico, ha elaborato dei capitoli veramente straordinari per farci rivivere e comprendere l’ambiente in cui è rinata, nonché l’evoluzione storico-culturale della gnosi, vero cancro del Cristianesimo, e dell’intero pensiero umano. Possiamo ringraziarlo pregando per la sua conversione alla Chiesa Cattolica, quella vera, che non è la sinagoga satanica del “novus ordo”, fogna di tutte le eresie, infestata e disfatta dalla lebbra gnostica; possa finalmente comprendere – e chi meglio di lui – che Gesù Cristo non poteva ingannarci consentendo l’errore nella sua Chiesa o l’apostasia del suo “vero” Vicario, infallibile capo visibile della sua Sposa, senza macchia e senza rughe, Corpo mistico di Cristo, e parte del vero “PLEROMA”, [non la contraffazione luciferina], cioè la pienezza di Cristo, costituita dal Capo, l’uomo-Dio, e dalla Chiesa, membra del corpo, secondo la meravigliosa definizione di San Paolo ai Colossesi ed agli Efesini.

Introduzione

Fin dalle origini del Cristianesimo, abbiamo visto che gli gnostici si sono sforzati di penetrare nella giovane Chiesa per depositarvi il germe del loro culto satanico. Ma fu all’epoca un insuccesso clamoroso. A partire dal IV secolo, essi dovettero lavorare nell’ombra, e così la loro azione continuò discreta e nell’oscurità attraverso i secoli del Medio Evo. Qui e là, la loro dottrina satanica, appariva improvvisamente per ripiombare con altrettanta velocità nelle voragini dalle quali faceva capolino. Ad esempio: gli eretici Sabelliani, spiegavano Dio come una monade in espansione. Marcello, Vescovo di Ancyra, parlava di “dilatazione del divino” e del “logos” esteriorizzantesi da se stesso attraverso una energia attiva [emanazione!], benché rimanesse sempre Dio. Gli Ariani credevano che Gesù-Cristo e lo Spirito-Santo fossero delle emanazioni di Dio Padre [eoni!], che Gesù-Cristo fosse un uomo perfetto la cui anima fosse il “Logos”, in comunicazione diretta con Dio. – Più tardi, nel XII secolo, si vede apparire, senza apparenti legami con una gnosi precedente, un monaco calabrese, che pretendeva di aver intravisto, passeggiando al sole nel giardino del suo convento, un giovane uomo che gli tendeva una coppa dalla quale bevve alcuni sorsi. Joachim de Flore aveva gustato da un calice meraviglioso la “rivelazione dell’avvenire”, la visione del “Vangelo eterno”. Egli partì per la Terra santa, al ritorno si fermò in un monastero della Sicilia, alle falde all’Etna, ove ebbe un’estasi di tre giorni, simile ad un’agonia:« … io ero ai suoi piedi, racconta un suo discepolo: io scrivevo, e due altri erano con me. Egli dettava notte e giorno. Il suo volto era pallido come una foglia secca di un albero. » Egli annunciava la fine della legge del Cristo che doveva retrocedere, nell’anno 1260, e far luogo alla legge dello Spirito. La terza età, proclamava, sarà quella del Vangelo eterno, della legge dell’amore ed il tempo della libertà. La sua dottrina fu propagata dai francescani. E Jochim stesso non fu perseguitato. Dante, gnostico occultista, lo pone tra gli eletti e gli attribuisce il titolo di profeta. Egli ebbe discepoli in Germania, nel secolo XIV, i « Fratelli del libero Spirito», Maestro Eckart, Tauler, Suso. Nei fatti egli insegnava la più classica delle gnosi. La fine dell’umanità è un fondersi in Dio per mezzo dell’opera dello Spirito ed in questa unione, l’anima dell’uomo non è che Dio stesso!  – Maestro Eckart continua l’insegnamento di Joachim de Flore. « L’anima, egli dice nei suoi sermoni, “Nisi granum frumenti”, sfugge alla sua natura, al suo essere alla sua vita e nasce nella divinità. È là che c’è il suo divenire. Essa diviene sì totalmente un solo essere al quale non resta altra distinzione che questa: «Esso resta Dio, ed essa resta anima. » Questa unione, « Einung », è nei fatti una fusione di due esseri in una sola divinità totale: è il ritorno all’ “unità primordiale” dei nostri gnostici. Il Papa Giovanni XXII, condannò in una bolla del 1329 questa tesi di maestro Eickart: « noi Ci metamorfosizziamo totalmente in Dio e ci convertiamo in Lui allo stesso modo che il pane, nel Sacramento, si cambia in Corpo di Cristo. Io sono così cambiato in Lui, perché Egli stesso mi fa essere suo. Unità, quindi, non similitudine. Con il Dio vivente è vero che non c’è alcuna distinzione. » Come questa, attraverso i secoli del Medio Evo, si può seguire una linea segreta di penetrazione, nel pensiero cristiano, di una gnosi che si nasconde sotto un linguaggio apparentemente cristiano. Ma se si vuole assistere veramente ad un ritorno in forze della gnosi nel pensiero cristiano, bisogna attendere il XV secolo, con la fioritura dell’Umanesimo nel Rinascimento. È allora che il pensiero gnostico va ad esercitare un’influenza decisiva su tutta la mentalità dell’élite coltivata nel XVI secolo, di tal sorta che dopo di allora, essa non ha mai cessato di avvelenare gli spiriti fino ad esplodere ai nostri giorni, malgrado gli sforzi energici della Chiesa per preservare la dottrina cristiana contro questa nuova invasione. Il Romanticismo degli ultimi secoli, ad esempio, non è stato che una riesumazione dell’Umanesimo gnostico. – Se si vuol definire con precisione l’Umanesimo del Rinascimento, occorre riconoscere che esso è stata il risultato di una penetrazione della gnosi cabalistica insegnata dai rabbini del XV secolo nella società cristiana del loro tempo.

LA KABBALA, FORMA GIUDAICA DELLA GNOSI.

Gli gnostici si sono sforzati, fin dai primi secoli, di penetrare nel giudaismo della diaspora in modo da indurre i rabbini, fedeli alla Rivelazione dell’Antico Testamento, a rinnegare il vero Dio, Yeowah. Essi hanno spiegato loro infatti, che Yeowah non era che un’entità demoniaca, che la legge di Mosè era stata da lui inventata per ridurre i Giudei alla schiavitù del Demiurgo, rinchiudendoli in una rete di istituzioni e principi arbitrari, manifestando la volontà determinata di un tiranno malvagio. Così essi hanno inondato la Siria e la Palestina di canti gnostici da loro composti. Vi si ritrova in essi tutto il principio dell’emanazione, le idee neoplatoniche, con uno stato di esaltazione e di entusiasmo grazie al quale si “volava nell’aria” sul “carro dell’anima”, e si compivano ogni sorta di miracoli, accompagnati da allucinazioni e da visioni. – Il risultato di questa penetrazione gnostica in Israele fu, nel corso del Medio Evo, l’apparizione della Kabbala, o “tradizione”. La sua forma definitiva si è espressa nel libro dello “Zohar”, cioè “Lo splendore”. Esso si presenta sotto la forma di un commentario del Pentateuco, insegnato da rabbi Simon Ben Jochai al suo circolo di pii uditori; la sua redazione attuale risale in gran parte a Moïse de Léon. Ne diamo un riassunto secondo Moïse Cordovero e Isaac Luria. – Ma è innanzitutto necessario sbarazzare lo Zohar di tutta una stravagante mitologia la cui lettura è veramente penosa per una intelligenza ordinaria e sana. I kabbalisti si sono ingegnati nell’avviluppare il loro insegnamento con un rivestimento fantasioso destinato in realtà a nascondere le loro vere intenzioni. In questo, per la verità, essi non hanno fatto che seguire l’esempio dei nostri primi gnostici. Era in effetti difficile far abbandonare ai rabbini il vero culto di Yeowah, e per questo bisognava fingere di seguire la Rivelazione dell’Antico Testamento, poi darne un commento rispettoso che doveva però lentamente pervenire ad invertirne completamento il vero senso. Si continuava a parlare del “Santo, il suo nome benedetto”, della “creazione”, ma queste parole si caricavano di un senso nuovo ed inaudito in precedenza in Israele, quello della gnosi, come già in precedenza esposto. Il “Gran Tutto”, il “Pleroma” dei nostri gnostici, si chiama, presso di loro l’« En-Sof », cioè il non-limitato”, il grande Essere immutabile, eterno, infinito, che racchiude in sé tutte le forme. Per spiegare l’apparizione del mondo visibile e la molteplicità degli esseri che popolano l’universo, i kabbalisti hanno ricorso come al solito, alla nozione di emanazione e contrazione. Il “gran Tutto” primitivo, esce dal “caos”, si contrae per lasciare un vuoto all’interno di sé, dal quale appaiono le forme determinate e multiple delle creature che sono il riflesso apparente dell’ « En-Sof ». In altri termini, il “gran Tutto” non è altro che la somma, la totalità delle cose finite. Per spiegare questo passaggio dall’uno al molteplice, dall’indeterminato alle forme concrete, gli gnostici avevano inventato delle potenze divine intermedie, gli Arconti, capaci di produrre gli esseri. Essi sono chiamati “Zephirot” dai kabbalisti. Il loro numero ed i loro attributi possono variare da una scrittore all’altro, ma il loro ruolo resta essenziale nella produzione delle cose finite distinte tra loro per le qualità, la gradazione, le determinazioni. – Una nozione fondamentale della kabbala è che essa rappresenta la maniera di presentare il panteismo più assoluto, è la corrispondenza di struttura tra i due mondi, quello dell’« En-Sof » ed il mondo visibile, oggetto della nostre percezioni: «Tutte le cose, ci dice lo Zohar, dipendono le une dalle altre e tutte sono collegate le une alle altre, affinché si sappia che: tutto è Uno, e tutto è l’Antico e niente è separato da Lui ». L’Antico, è il nome velato per designare la divinità originale, fonte di tutti gli esseri; lo Zohar precisa ancora: « Quando si afferma che le cose sono state create dal niente, non si vuole parlare del nulla propriamente detto, perché non può mai succedere che un essere venga da un non essere. Ma si intende con il nome di non-essere ciò che non si concepisce né dalla sua causa, né per essenza, ma è, in una parola, la causa delle cause, quello che noi chiamiamo il Non-Essere primitivo, perché è anteriore all’universo, e con questo noi intendiamo non sono gli oggetti materiali, ma anche la Saggezza sulla quale è fondato il mondo … Tutte le cose di cui questo mondo è composto, lo spirito, come il corpo, rientrano nel principio e nella radice dalla quale sono usciti. Esso è la l’inizio la fine di tutti i gradi della creazione, tutti i gradi sono marcati dal suo sigillo e non lo si può nominare se non come l’unità. Esso è l’Essere unico, malgrado le forme innumerevoli dalle quali è rivestito. » Tutto questo è perfettamente gnostico. Si riconoscono in queste considerazioni: – la filosofia di Spinoza, secondo la quale Dio è al tempo stesso causa e sostanza dell’Universo; – la filosofia di Hegel, per la quale il mondo apparente non è che la manifestazione di “Dio primordiale incosciente”; – la filosofia di tanti filosofi moderni che si son ingegnati nello sviluppare temi gnostici sotto le forme più disparate e stravaganti. – Lo Zohar studia anche l’uomo. Già Maimonide aveva distinto nell’uomo, altre al corpo ed all’anima, una intelligenza materiale, incaricata di animare il corpo, ed una intelligenza comunicata, emanazione dell’Anima universale del Mondo. Si tratta dunque di una costituzione tripartita dell’uomo, tale come si è sempre insegnato nella gnosi. Per il kabbalista, il corpo non è un rivestimento, ma il principio intermedio, cioè la Psiche dei nostri gnostici: è divisa in due anime, così da partecipare e della materia e dello spirito: questa è la nephesh, principio animale e sensitivo a contatto immediato con il corpo; la Ruach, invece, è la sede della vita morale ed il principio di animazione; “Neschama” resta l’anima spirituale, l’emanazione divina, l’intelligenza pura, lo pneuma degli gnostici. Tutte le anime preesistono nel mondo e cadono nei corpi in seguito ad una caduta; « Notate, spiega lo Zohar, che tutte le anime di questo mondo, che sono il frutto delle opere del Santo … sia esse benedetto, non formano prima della loro discesa sulla terra, che un’unità, poiché queste anime fanno parte tutte di un solo e medesimo mistero, e quando discendono giù in questo mondo, si separano in maschio e femmina; sono i maschi e le femmine che si uniscono. » Da qui, la trasmigrazione delle anime, insegnata già dagli gnostici nella metempsicosi. « Notate, dice sempre lo Zohar, che il Santo … esso sia benedetto, impianta le anime quaggiù; se esse prendono radici, è bene, altrimenti le strappa anche più volte e le trapianta fino a che mettano radici … le trasmigrazioni sono inflitte alle anime come punizione e variano secondo la colpevolezza … Ogni anima che si è resa colpevole durante il suo passaggio in questo mondo è, per punizione, obbligata a trasmigrare tante volte, quanto necessita perché essa raggiunga, con la sua perfezione, il sesto grado della regione dalla quale essa emana. » Si trova ancora nello Zohar la dottrina della Reminiscenza: « Anche prima della creazione, tutte le cose di questo mondo si trovavano presenti al pensiero divino, tutte le sue forme che gli sono proprie, così come tutte le anime umane, prima di scendere in questo mondo, esistevano davanti a Dio, nel cielo, nella forma che hanno conservato quaggiù e tutto ciò che apprendono sulla terra, esse lo conoscevano già prima di arrivarvi. » – Ecco come Adolphe Franck riassume la posizione dell’uomo, secondo lo Zohar: « L’uomo è allo stesso tempo il riepilogo ed il termine più elevato della creazione. Egli non è soltanto l’immagine del mondo, dell’universalità degli esseri, ivi compreso l’Essere assoluto, egli è anche e soprattutto l’immagine di Dio, considerato nell’insieme dei suoi attributi infiniti. Egli è la presenza divina sulla terra, è l’Adamo celeste che, uscendo dall’oscurità suprema e primitiva, ha prodotto questo Adamo terrestre … ». Rabbi Simon ben Jochaï spiega ai suoi discepoli che « la forma dell’uomo racchiude tutto ciò che è nel cielo e sulla terra, gli esseri superiori come gli esseri inferiori ». Non si poteva dir meglio che l’uomo è Dio stesso manifestato. Gli umanisti del Rinascimento non dimenticheranno affatto la lezione dei rabbini. Essi rappresenteranno l’uomo con gli arti divaricati, perfettamente descritto in un cerchio, nell’uovo primitivo dal quale sono stati estratti tutti gli esseri; i diari di Leonardo da Vinci e di Albert Dürer sono le proporzioni umane rappresentanti questa sovrapposizione della forma umana in una figura geometrica che vuol suggerire che l’uomo è la misura del mondo! – Come vediamo, la kabbala non è altro che la gnosi tradotta in ebraico. Il contenuto dottrinale è lo stesso, e gli si possono opporre gli stessi argomenti di buon senso che una ordinaria intelligenza non può mancare di trovare, se appena vuol prendersi la briga di riflettere un poco. Infine, il serpente ispiratore di tutta questa mitologia menzognera, non ha avuto remora né riguardo nel menzionare se stesso. Egli ha spiegato ai cabalisti che egli non è assolutamente il nemico del genere umano, bensì, al contrario, il suo protettore ed il suo padrino, che egli, poverino, è stato una vittima dell’ingiusta gelosia del Demiurgo, creatore della materia, che l’Arcangelo San Michele e le altre potenze celesti che lo avevano precipitato nell’abisso, erano dei veri demoni, mentre lucifero, belzebuth e astaroth erano l’innocenza e la luce stessa. Ecco che allora il regno di Michele e della sua milizia, deve ben presto finire, ed egli stesso sarà riabilitato e reintegrato nel cielo con la sua falange. Il nome del serpente velenoso è samael. Il giorno in cui ritroverà il suo nome e la sua natura di angelo, si ritaglierà la prima sillaba, che vuol dire “veleno” mentre la seconda è il termine comune designante tutti gli Angeli. Niente è cattivo, niente è maledetto: tutto ciò che si chiama il male, è in Dio stesso, l’altra faccia del bene. I mistici giudei del periodo talmudista, riflettendo sulla natura di Dio, avevano dichiarato che « Dio è il luogo in cui soggiorna l’universo »; essi avevano impiegato la parola “Ma kom” che vuol dire “piazza”, per designare Dio. Filone si esprimeva già così: « Dio è chiamato Ma kom (il luogo) perché racchiude l’Universo », nel suo trattato “De Somniis”. Come abbiano fatto dunque i rabbini, nel corso del Medio Evo, a riciclarsi aderendo in tutto alla kabbala? È cosa che sarà molto difficile da comprendere. In effetti questa nuova dottrina è la totale inversione dell’insegnamento della Bibbia, ed in particolare della Genesi. Ciò che è certo è che il giudaismo contemporaneo ha abbandonato il culto del vero Dio ed ha spinto questo abbandono alla sue estreme conseguenze. M. Th. Reinach, un’autorità in Israele, dichiara nella “Grande Enciclopedia”, che emergerà dal giudaismo « una religione superiore, conciliante la nozione della divinità, anima del mondo e sorgente del bene, con i dati della scienza, che la religione supera ma non saprebbe contraddire, accettando dal Cristianesimo il suo principio di fraternità universale già proclamata dai Profeti, ma correggendo il suo pessimismo che non vede salvezza che nell’altra vita, salvezza che scaturisce invece dal miglioramento infinito della specie umana: è questa la forma moderna della speranza messianica ».

GLI UMANISTI ALLA SCUOLA DEI RABBINI

È in Italia, nel corso del Medio Evo, che l’attività letteraria dei Giudei esercitò una influenza considerevole sul pensiero cristiano all’epoca in cui l’imperatore Federico II di Hohenstaufen aveva invitato il celebre Anatoli di Provenza a tradurre in ebraico gli scritti di Averroè, poi in latino le opere di Maimonide. Dal XIV secolo, gli scrittori giudei si avvicinarono ai principali rappresentanti della cultura italiana. Guido Romano studia la filosofia scolastica e scrive sul soggetto, dei trattati in ebraico. Suo cugino Manoello [Manuel Romano o Manoello Giudeo], divenne amico intimo di Dante, scrisse una sorta di Divina Commedia in lingua ebraica, nella quale fa l’elogio del suo amico e deplora la morte del grande (?!) poeta fiorentino in un sonetto in italiano. Dante stesso, come ben sappiamo, ha preso come modello della sua Divina Commedia, ricopiandolo in gran parte, il “Libro del viaggio notturno” del mistico arabo Ibn el Arabi, scritto ottanta anni prima. Questo trattato descrive in effetti una traversata dei tre mondi dell’aldilà: l’inferno, il purgatorio, il paradiso, con gli stessi incontri e le medesime peripezie e riportando molti personaggi simili. Ora, Ibn el Arabi era affiliato alla setta mistica degli “Assassini”, ed il suo libro era stato tradotto in ebraico. È così che da questo ambiente culturale, Dante ha tratto il suo odio per il Papato. Egli mette nell’Inferno nella “bolgia” dei simoniaci, i Papi Nicola III, Clemente V, Bonifacio VIII, con i corpi conficcati in buche, testa all’ingiù, piedi all’aria. Cotti al fuoco! Essi avevano invertito l’ordine stabilito da Dio, era giusto che fossero invertiti a loro volta; essi avevano calpestato la santa fiamma dello spirito: la Santa Fiamma brucia in compenso i loro piedi. La Chiesa subisce un affronto cruento, ricevendo uno schiaffo più violento di quello del Nogaret sul volto di Bonifacio VIII. Essa ne resterà per lungo tempo abbattuta. Gli umanisti del Rinascimento, non fecero altro che sviluppare questo odio satanico contro Roma, e Lutero non avrà difficoltà ad ammassare tutta questa spazzatura per gettarla in faccia al Papato. Elia Del Medigo insegna pubblicamente a Padova e Firenze; egli viene anche scelto un giorno, dal senato di Venezia, per arbitrare un grande incontro filosofico. Per costituirsi professori e maestri del pensiero religioso, gli scrittori giudei cominciano a produrre edizioni della loro bibbia ebraica, poi delle grammatiche e dei dizionari ebraici: il primo tipografo di Mantova è un medico giudeo che lavora con una donna. Un altro edita a Reggio Calabria. Ecco ben presto i nostri umanisti inquieti: la Chiesa non possedeva dunque la vera Bibbia. Le Pogge si chiede secondo quali principi San Girolamo avesse tradotto la Vulgata. Bruni gli risponde che leggere la Bibbia nell’originale, è mostrare una diffidenza ingiusta rispetto all’opera intrapresa da san Girolamo. Nel 1482, i Giudei furono cacciati dalla Sicilia e si rifugiarono a Firenze. È là che essi formano Pico della Mirandola (1463-1494): sotto la direzione di Elia Del Médigo e di Jonachan Alemanno, a mezza voce e porte chiuse, coi vetri oscurati, nella sua camera di Firenze, Pico studia la kabbala nelle scritture misteriose portate dall’Oriente, per passare poi ad elementi di arabo e di caldeo. Egli si approfondisce nello studio dei numeri. Pretende di ritrovare nella kabbala l’incarnazione del Verbo, la divinità del Messia, la Gerusalemme celeste. Gesù vi appare, egli crede, come colui che unisce tutte le cose nel Padre, per il quale tutto è fatto e tutto diviene, e tutto  sabbatizza. Gesù è rivelato in ogni tempo come il Pallas di Orfeo, lo spirito paterno di Zoroastro, il Figlio di Dio di Mercurio, la Saggezza di Pitagora, la sfera intelligibile di Parmenide, il Verbo di Platone. Presso di lui tutto procede per via di simboli, allegorie, immagini. Ogni rivelazione è esoterica, ermetica. Gesù non ha scritto, ma ha rivelato i suoi misteri ai suoi discepoli, come insegna Origene [passato già ai Manichei], e secondo Dionigi l’Aeropagita, questi ultimi devono impegnarsi formalmente a non confidare nulla attraverso la scrittura, ma a trasmettere tutto bocca a bocca. – In Germania altri rabbini formano e plasmano Reuchlin (1455-1522). Nel 1492, nel momento in cui i rabbini di Toledo e di Cordova, cacciati dalla Spagna, camminavano verso la Germania, un Giudeo, medico dell’imperatore Massimiliano, fece dono a Reuchlin di un manoscritto prezioso della Bibbia. Nel 1494, Reuchlin pubblica il suo libro “De Verbo mirifico”, il cui senso era: “solo i Giudei hanno conosciuto Dio”. Nel 1498, tre mesi dopo il supplizio di Savonarola, egli visita Firenze, raccoglie l’anima del martire tra i visionari che lo piangono, torna ai suoi studi e pubblica nel 1506 i suoi “Rudimenta hebraica”, e nel 1512 il suo “Lexicon Hebraicum”. La dottrina centrale della kabbala, egli dice, ha per oggetto il Messia, essa trae la sua origine immediatamente dall’illuminazione divina. Grazie a questa luce, l’uomo diviene capace di penetrare il contenuto della dottrina, interpretando simbolicamente le lettere, le parole, le frasi della Scrittura. Egli è inoltre lo zio del celebre compagno di Lutero, Melantone. In Francia il neo-platonismo circola nelle opere di Lefebvre d’Etaples. Gli scritti dello pseudo-Dionigi esercitano molte attrattive sugli umanisti che li credono autentici. Nel 1521, in una “Raccolta di allegorie e sentenze morali estratte dai due Testamenti”, noi vediamo apparire delle formule ben conosciute sull’illuminazione dell’intelligenza e la “purgazione dei sentimenti”. – La penetrazione platonica è manifesta in un erudito ebraizzante, Charadame de Seez. Sotto il titolo di “Alfabeto ebraico”, egli pubblica nel 1529, un piccolo trattato di mistica dionisiaca. Egli vede nell’ebraico, lingua sacra, tutto un simbolismo. Questa lingua è stata, egli dice, insegnata direttamente da Dio; essa è dunque eminentemente divina. Le parole hanno un senso celato. Nel triplo nome di Gerusalemme gli apparirà, ad esempio, quello della Trinità. Egli cerca nelle lettere, nella loro forma, nella loro consonanza, nella loro armonia, nel loro numero, tutto un senso nuovo. L’uno figura essere di Dio, imperituro e semplice, l’altro, il Cristo, questi gli elementi del mondo materiale o le forme multiple della creazione, queste altre l’uomo, la sua intelligenza, il suo corpo. L’alfabeto ebraico racchiude così tutta una teologia e questo non è altra cosa che la speculazione neo-platonica di Hermète Trismegisto. La gerarchia del mondo, l’armonia degli esseri “non soltanto nelle cose che sono visibili, ma anche nelle cose umane che l’occhio non percepisce.” Questo ritorno al platonismo è l’opera degli ebraizzanti. Noi potremmo continuare così la lunga lista degli scrittori e delle opere destinate a diffondere il pensiero giudaico negli ambiente intellettuali del Rinascimento, ma la lista sarebbe fastidiosa ed inutile.

UNA SETTA DI INIZIATI

Nel XV secolo gli umanisti, così formati dalla kabbala giudaica ed impregnati di neo-platonismo, hanno coperto l’Europa occidentale, salva la Spagna dalla quale i Giudei erano stati espulsi, di una rete densa di relazioni e di attive complicità. Essi hanno fatto circolare, prima sotto traccia, e poi sempre più apertamente, una moltitudine di opere di violenta polemica anticristiana, opere nelle quali viene insultato e disprezzato il Papato, si biasimano gli ordini religiosi con un odio feroce contro tutto ciò che potrebbe riferirsi all’ascesi, alla rinunzia, alla povertà volontaria … Legati tra di loro da un segreto comune, gli umanisti praticano un metodo meraviglioso ed efficace per darsi una grande autorità intellettuale sull’élite coltivata del loro tempo, schivando scrupolosamente tutti i rischi connessi al loro accanito combattimento. Essi cominciano con l’assicurarsi la protezione del potente del giorno, un cardinale, un vescovo, un principe, un re, lo stesso imperatore, finanche il Papa. Essi li lusingano di volta in volta senza vergogna, servono indifferentemente l’uno o l’altro. Fidelfo si mette a servizio dei Visconti, poi della Repubblica ambrosiana, poi degli Sforza. Fontana serve indifferentemente gli Aragonesi ed i francesi che erano venuti a cacciarli da Napoli. Appena un personaggio emerge, essi accorrono, si rendono disponibili, lusingano, “scodinzolano e leccano”. – Redigono all’inizio dei loro scritti delle grandi dichiarazioni di ortodossia onde sfuggire ai fulmini dei tribunali dell’Inquisizione o del Santo Officio. Ad esempio, Marsilio Ficino scrive al principio delle sue opere: « In tutte le cose che sono state trattate da me qui o altrove, io non voglio proporre nulla che non sia stato approvato dalla Chiesa ». (« Tantum adsertum esse volo, quantum ad Ecclesia comprobatur »). Una volta assicurati i loro “deretani”, gli umanisti sono di un’audacia incredibile; essi ingiuriano i loro avversari, si prendono gioco dei tribunali ecclesiastici, pubblicano satire incendiarie, ingaggiano violente polemiche, sversano tonnellate di spazzatura sulla Chiesa, soprattutto sugli ordini mendicanti, in tutta impunità. Se talvolta un tribunale ecclesiastico si inquieta e comincia un processo per diffamazione, è ben presto fermato nelle procedure dal potente protettore di turno che interviene discretamente. – Si riporta ad esempio, la storia di Lorenzo Valla: nato a Roma nel 1415, studia la storia, dichiara che la famosa donazione dell’imperatore Costantino alla Santa-Sede è un falso. Allora insulta il Papa, afferma che una cortigiana è più utile allo società di un religioso, pretende di non aver mai incontrato un Papa uomo onesto ed aggiunge una moltitudine di altre “gentilezze” di tal sorta. Deve egli darsi alla fuga e rifugiarsi presso Alfonso il Magnanimo, re di Napoli e protettore degli uomini di preteso talento (cioè degli umanisti), nel 1445. Ma Valla è anche un violento ed un litigioso; egli maneggia meglio la spada che la penna, e la polizia napoletana comincia ad interessarsi di lui e minaccia una tempesta, avendo egli scritto delle cose folli sulla Trinità e sul libero arbitrio. Viene così condannato ad essere bruciato vivo dall’Inquisizione. Ma il re Alfonso interviene, e Valla viene rilasciato per essere frustato nel chiostro di San Giacomo. Egli torna in seguito a Roma ove ha la fortuna di trovare il Papa Niccolò V. il quale gli accorda una pensione; diviene poi canonico, curiale e professore  vantato e celebre. – Simile avventura, ugual copione, si legge nella storia dell’Accademia di Roma ove vediamo comparire una vera società segreta. – Un giorno, il Papa Paolo II (1464-1471) destituì dal collegio degli abbreviatori  della cancelleria romana, diversi umanisti e li rimpiazzò con altri più sicuri da un punto di vista dottrinale. Nel corso di venti mesi, essi sedettero alla porte del palazzo pontificale senza riuscire a farsi ricevere. Uno di essi, Platina, scrisse allora al Papa minacciandolo di andare a visitare i re ed i principi per invitarli a convocare un Concilio davanti al quale Paolo II avrebbe dovuto poi discolparsi della condotta tenuta nei loro confronti. Questa insolenza lo fede condurre al Castel Sant’Angelo; il resto della truppa degli umanisti, si riunì presso uno di essi, Pomponio Leto. Così nacque l’Accademia romana di cui lo storico Grecorovius ci dice che essa « funzionava come una loggia di classici franco-massoni ». Per evitare di essere perseguiti, i membri di questa accademia si riuniscono in catacombe. Essi celebrano il Natale come anniversario della fondazione di Roma; il loro “papa” è Pomponio Leto, « questo oracolo delle buone lettere, ci dice Antonio di Verona, il capo singolare delle muse, il sovrano pontefice » (maximus pontifex); Platina è chiamato il “pater amatissimus”. Quest’ultimo, Callimacus, Luca Toloza ed i loro amici che « si sono appassionati alla storia di Roma, l’hanno apprezzata, e perché Roma ritorni al suo primitivo stato, hanno deliberato di sottrarre questa città all’assoggettamenti ai preti ». Papa Paolo II si inquieta e verso gli ultimi giorni del febbraio del 1468, la polizia pontificia arresta i membri dell’Accademia con l’accusa di lesa maestà pontificale e cospirazione: essi avevano progettato semplicemente di assassinare Paolo II e proclamare la repubblica. Pomponio Leto fugge a Venezia, ma ripreso viene imprigionato con gli altri nel Castel Sant’Angelo. – Il Papa successivo, Sisto IV, purtroppo, si incarica di mettere in libertà i prigionieri dalla loro prigione. Platina viene nominato addirittura bibliotecario del Vaticano, Pomponio viene ristabilito alla Sapienza. Le riunione dell’Accademia possono quindi riprendere. E qui si riprende a sacrificare a San Vittore, a San Fortunato, a San Genesio: queste sono dei nomi di “copertura” della Fortuna, della Vittoria, del “Genetliaco” della città eterna. Nel 1483 l’imperatore Federico accorda all’Accademia romana, che è definitivamente recuperata, il diritto di creare dei dottori e di incoronare poeti. Il cerchio è chiuso; i sovversivi sono padroni del terreno nella stessa Roma, qui al centro della Cristianità. – Altra società segreta … nel 1545, Sozzini, o Soccino, o Socino, nato a Siena nel 1525, fonda a Vicenza una società segreta per la distruzione del Cristianesimo che vuole rimpiazzare con il “puro razionalismo”. Nel 1546, egli organizza una conferenza a Vicenza ove arrivano delegati da tutta Europa, uniti tra loro dall’odio per tutto il Cristianesimo. Nel corso di questa conferenza si conviene come mezzo per distruggere la Religione di Gesù-Cristo, il formare una società segreta. L’apostata Ochino, vecchio generale dell’ordine dei Cappuccini, è anch’egli presente a questo incontro come uno dei più virulenti. Papa Paolo III, informato di tale conferenza di Vicenza, indirizza una lettera alla Repubblica di Venezia per segnalare questo pericoloso focolaio di corruzione. Si arresta Giulio Trevisan e Francesco de Lugo, che venono giustiziati. Gli altri, tra cui Ochino e Lelio Sozzini, riescono a fuggire. Essi divengono in Europa i propagatori di una nuova dottrina che pretende di ricostruire sulle rovine della Chiesa un tempio che avrebbe accettato tutte le credenze, dal libero pensiero fino al culto di lucifero. Ecco gli inizi della setta massonica e del blasfemo ecumenismo. Alla morte di Lelio, suo figlio Fausto Sozzini (1539-1604) fu suo zelante continuatore. Adriano Lemmi, antico Maestro del Grand’Oriente di Italia, ha presentato, durante la sua elezione, il 29 settembre 1893, Lelio Sozzini come il vero padre della franco-massoneria. – La complicità delle grandi autorità politiche e religiose è considerevole in questa diffusione delle sette anticristiane nel corso del Rinascimento. Re, imperatori, cardinali, finanche Papi, si fanno efficaci e zelanti protettori di coloro che preparavano la loro caduta … incredibile e colpevole accecamento! – Un giorno che Erasmo, sconvolto davanti alle conseguenze violente di una riforma protestante che egli aveva singolarmente contribuito a fomentare, scriveva della sua sconfitta al suo amico, il principe Alberto di Carpi; costui gli risponde sottolineando per bene le vere responsabilità: « I principi ecclesiastici ed i laici, egli scrive, raccolgono ora i frutti della semenza che hanno sparso a profusione, o di cui essi tutti hanno almeno favorito la crescita. Sono i poeti che hanno contribuito più ad eccitare in Germania la rivola contro la Chiesa e la società. Sono essi che hanno incoraggiato tutte queste violazioni del diritto di cui noi siamo tutti i giorni testimoni. Ma chi dunque ha sostenuto questi uomini? Sono i dignitari ecclesiastici, finanche quelli di rango più elevato. Essi hanno intrattenuto alle loro corti voluttuose queste persone dalle tendenze semipagane, che gettano il disprezzo su tutto ciò che sia rimasto caro al popolo e non hanno altro scopo che di ribaltare tutto ciò che esiste. » Questa lettera è estratta dai “Lucubrationes” nelle quali Erasmo, deluso dai risultati della riforma luterana, aveva raccolto i documenti nell’ultima parte della sua vita.

[1. Continua …]

GNOSI: SINAGOGA DI sATANA: LA FRAMMASSONERIA

LA FRAMMASSONERIA

SINAGOGA DI SATANA

[L. Meurin: La frammassoneria, sinagoga di satana. Vers. A. Acquarone, Siena, 1895]

« Tutti i nostri secreti massonici sono impenetrabilmente nascosti sotto dei simboli. »

(Insegnamento ufficiale del 33° grado.)

INTRODUZIONE

I. IL NUMERO MASSONICO DI TRENTATRÉ TROVATO NELLE ANTICHE RELIGIONI PAGANE.

I gradi della frammassoneria sono, tutti lo sanno, in numero di trentatré.

Ora, studiando i Veda degli Indiani, abbiamo trovato il testo seguente: « O Dio, che siete in numero di undici in cielo; che siete in numero di undici sulla terra, e che, in numero di undici, abitate con gloria in mezzo all’aere, possa il nostro sacrificio esservi accetto (Big-Véda, Adhyaya, II. Anuvaka, XX. Sukta, IV, V. 11). » – L’Atharva Veda insegna che trentatré spiriti (trayas trinschad devah) sono contenuti nel Prajapati (Brahma) come suoi membri.

Lo Zend-Avesta, libro sacro degli antichi Persiani, contiene la nota seguente: « Che i trentatré Amschaspands (Arcangeli) e Ormazd siano vittoriosi e puri (Kordah-Avesta, III.1) ! »

Noi leggiamo ancora nel Yacna I, v. 33: « Io invito e onoro tutti i signori della purità: i trentatré più prossimi intorno ad Ha vani (l’Oriente), i più puri istruiti da Ahura-Mazda (Ormazd) e annunciati da Zarathustra (Zoroastro). » Questo numero misterioso di trentatré di cui non possiamo in nessun luogo trovare una spiegazione, ci pareva indicare fra i misteri dell’antichità pagana e la frammassoneria una connessione che meritava di essere studiata, e prometteva pure la scoperta dei secreti più nascosti di quella società tenebrosa. Non ci siamo ingannati.

II. IL NUMERO TRENTATRÉ NELLA FRAMMASSONERIA

I primi undici gradi della frammassoneria, lo vedremo più tardi, sono destinati a trasformare il Profano in Uomo vero, nel senso massonico; la seconda serie, dal 12° al 22° grado, deve consacrare l’Uomo Pontefice ebreo; e la terza serie, dal 23° al 33° grado, deve costituire il Pontefice, Re ebreo o Imperatore cabalistico.

I Capi secreti della frammassoneria, gli Ebrei, furono molto circospetti nella rivelazione graduale dell’organizzazione della loro società secreta. – Per darne un esempio, citeremo la Francia, che, nel 1722, non ha conosciuto che i primi tre gradi, nei quali, diciamolo subito, è nondimeno contenuta in germe tutta la dottrina massonica. Nel 1738, si osò duplicare questo numero; nel 1758, esso fu portato à ventidue, più i tre primi gradi della terza serie, cioè, in tutto, a venticinque gradi. Gli ultimi otto gradi che mancavano ancora al sistema perfetto, furono aggiunti solamente nel 1802, dopo che i lavori tenebrosi delle logge avevano portato i frutti su’ quali si era fatto assegnamento, facendo correre a flutti il sangue umano. – Paolo Rosen, un tempo frammassone del 33° ed ultimo grado, dà la descrizione dell’apertura delle sedute del Supremo Consiglio del 33° grado (Satan et C.ie Tournai, 1888, p. 219). Egli dice: « Un Supremo Consiglio deve essere composto di nove Sovrani Grandi Ispettori Generali almeno, e di trentatré al più. Nove, perché  questo numero, essendo l’ultimo dei numeri semplici, indica la fine di tutte le cose; trentatré, perché è a Charleston, al 33° latitudine nord, che il primo Supremo Consiglio si è costituito, il 31 maggio 1801, sotto la presidenza di Isacco Long, fatto Ispettore da Mose Cohen, che teneva il suo grado da Spitzer, Hayes, Franken e Morin. Quest’ultimo lo teneva, dal 27 agosto 1762, dal principe de Rohan e da nove altri massoni del Rito di Perfezione, che lo avevano deputato a stabilire in tutte le parti del mondo la Potente e Sublime Massoneria. » – Le autorità massoniche, come Pindel (Geschichte der Freimaurerei. Leipzig-. 1870, p. 847: Die Ordensliige des schottischen Ritus der 33 grade. Histoire de la franc-maçonnerie: la Menzogna dell’Ordine riguardante il rito scozzese di 33 gradi) e Clavel (Histoire pittoresque de la franc-magonnerie, 3a ed., 1844, p. 400.), dichiarano che l’Ebreo Morin non aveva patente che per lo stabilimento di venticinque gradi, e che la pubblicazione degli ultimi otto gradi non risale oltre il 1801. Questo è detto per distrarre gli spiriti troppo curiosi: il sistema massonico esige assolutamente trenta tre gradi. – Nel Catechismo del Maestro, secondo il Rito francese, leggiamo (Leo Taxil, les Frères Trois-Points, 2 vol. p. 126): « L’Assemblea generale, riunita annualmente in sessione e investita del potere legislativo, determina la legge che ci regge e regola gli interessi comuni dell’istituzione. In sua assenza, una commissione, designata col nome di Consiglio dell’Ordine, composta di trentatré membri eletti dall’Assemblea generale, amministra gli affari correnti.  – I misteri della frammassoneria, sono, la maggior parte, nascosti sotto leggende, emblemi, decorazioni, motti sacri, ecc…. La « Camera nera, » per cui deve passare l’aspirante al grado di Rosa-Croce, è illuminata da trentatré lumi, messi su tre candelieri di undici bracci (Leo Taxil, Les mysières de la franc-maçonnerie, p. 279). – Il Rito di Misrai’m (d’Egitto) conta 33 gradi simbolici, 33 gradi filosofici, 11 gradi mistici e 13 gradi cabalistici. Pel momento, basta verificare, in questo rito, la ripetizione del numero 33, il numero 11, e, ciò che ci conduce più lungi nei misteri, la professione aperta della Cabala ebrea.

III. IL NUMERO UNDICI NELLA CABALA EBREA.

La Cabala essendo stata nominata, nostra intenzione si è portata su quella dottrina filosofica degli Ebrei eterodossi. Là, noi abbiamo ancora ritrovato il numero undici, e con esso la chiave dei misteri massonici. Ci basta per ora di verificare che l’Ensoph-l’(Infinito) è la sorgente da cui, secondo la dottrina della Cabala, deriva, d’eternità in eternità, tutto ciò che è esistito, esiste, ed esisterà. Da lui emanano, in primo luogo, una Triade: la Corona, la Sapienza e l’Intelligenza, detta i Séfiroth (numeri) superiori, e in secondo luogo sette altri Séfiroth che, con i tre superiori, costituiscono l’Uomo primordiale [AdamKadmon). L’Ensoph e i dieci Séfiroth compongono « nel ciclo » il famoso numero undici che si ripete nella sfera degli spiriti, « in mezzo all’aere », come nel mondo materiale, « sulla terra », completando così il numero di trentatré. – I Cabalisti tengono molto ai numeri, soprattutto a quello di undici. Un frammento inserito nel Zohar (Luce), loro libro principale, è intitolato Idra roba, cioè la Grande Assemblea, perché esso contiene i discorsi indirizzati da Simon-ben-Jochaì a tutti i suoi discepoli, riuniti in numero di dieci; il maestro rappresentando così l’Ensoph in mezzo a dieci Séfiroth (Frank, la Kabbale, p. 126, nota).

IV. IL NUMERO UNDICI NELLE DECORAZIONI MASSONICHE.

Per assicurarci che noi eravamo entrati nel vero cammino che guida ai più intimi misteri della frammassoneria, ci è bastato di scoprire nelle decorazioni massoniche l’Ensoph coi dieci Séfiroth e sopra la Corona. Nelle « Grandi Costituzioni » del Rito scozzese, articolo 66, trovasi la descrizione della decorazione a cui hanno diritto i membri della Grande Loggia Centrale. – « Essi portano un cordone in traverso, bianco marezzato, largo da dieci a undici centimetri, ornato con frangia d’ oro di cinque millimetri per ogni parte; a cui è attaccata una rosetta di color rosso vivo. A questo cordone è sospeso un gioiello formato di tre triangoli intrecciati, sormontati da una corona; questo gioiello è in oro o dorato. » – I tre triangoli intrecciati rappresentano i nove Séfiroth che emanano dalla Corona, la quale li sormonta e completa il numero di dieci. – Il cordone bianco largo dieci centimetri rappresenta gli stessi dieci Séfiroth. Si dice: dieci a undici centimetri, per avere di che attaccare l’ orlo. L’orlo in oro, di un mezzo centimetro in ciascuna parte, completa il numero di undici centimetri; esso rappresenta  l’Ensoph (l’Infinito) che abbraccia tutta la creazione, o, per parlare più correttamente, tutta l’emanazione per cui egli si è rivelato. – La rosetta sulla punta del cordone rappresenta il pensiero o piuttosto l’azione feconda dell’Infinito, per cui egli si è rivelato nell’universo. – Il cordone portato dai « Maestri » 3° grado, è azzurro marezzato, largo undici centimetri; quello dei « Maestri secreti », 4.° grado, è pur azzurro, ma orlato di nero, e largo undici centimetri. La differenza dei colori nel 4.° e nel 33.° grado, indica una altra idea: ciò non è che nel 33.° grado che si giunge a ottenere ciò che, nel 4,° si piange ancora come perduto. – Nel 29.° grado, vi sono 7 segni, 3 toccamenti e 1 toccamento generale, che significano i 7 Séfiroth inferiori, i 3 superiori e l’Ensoph. In tutto undici. – La Camera del Supremo Consiglio del 33° grado scozzese è illuminata da undici lumi: un candeliere da cinque bracci all’oriente, un altro da cinque bracci all’occidente, un terzo da un braccio al nord e un quarto da due bracci al mezzogiorno. Oltre il numero mistico di undici, vi si troverà la data dell’anno 5312 (èra ebrea) ossia 1312 (èra cristiana), l’anno dell’abolizione dell’Ordine dei Templari. – La batteria dello stesso 33° grado si fa con undici colpi: prima 5, poi 3, 1 e 2; il che significa le stesse cose che gli undici lumi. In questi due simboli, i lumi e la batteria, noi vediamo riuniti i tre misteri fondamentali della frammassoneria:

1. Il mistero dell’Ordine decaduto dei Templari, che si nasconde dietro i gradi inferiori della società secreta: ecco l’anno 1312 che grida vendetta;

2. Il mistero della Sinagoga decaduta, che si nasconde dietro la società secreta di tutta la frammassoneria: ecco l’èra ebrea;

3. Il mistero dell’Angelo decaduto, che si nasconde dietro i dieci Séfiroth, cioè la Trinità divina e « i sette angeli che sono sempre davanti al trono di Dio (Apocalisse, cap. 1, 4 – Tobia, cap. XIII, 15) »: ecco il numero undici.

Tre odii congiurati contro il Signore e il suo Cristo!

V. LA CABALA EBREA, BASE DOGMATICA DELLA FRAMMASSONERIA.

Le indicazioni citate ci bastano per considerare come giusta la nostra ipotesi che la Cabala ebrea è la base filosofica e la chiave della frammassoneria. – Questa scoperta ci ha ispirato l’idea di questo lavoro. Servirà esso ad aprir gli occhi a quelle migliaia di frammassoni non Ebrei che non vedono la schiavitù alla quale i Farisei, gli Ebrei della Cabala, li hanno ridotti, e nella quale li tengono schiavi per mezzo di misteri che non rivelano ad essi neppure al 33° grado? – Vi si troverà la soggezione dei popoli cristiani e delle loro autorità politiche sotto la dominazione degli Ebrei?

VI. IL PAGANESIMO INCORPORATO NELLA CABALA EBREA.

Non è la sinagoga ortodossa, né la vera dottrina di Mosè, ispirata da Dio medesimo, che i Cabalisti moderni rappresentano; è il paganesimo di cui alcuni Ebrei settarii furono imbevuti, al tempo della schiavitù di Babilonia. Non si ha che a studiare, la dottrina della Cabala ebrea e a paragonarla con le dottrine filosofiche dei più antichi popoli civilizzati, Indiani, Persi, Babilonesi, Assiriani, Egiziani, Greci e altri, per assicurarsi che dappertutto è insegnato lo stesso sistema panteistico di emanazione. Dovunque si trova un certo principio eterno da cui emanano una prima triade, e, dopo questa, tutto l’ universo, non per creazione, ma per emanazione sostanziale. Si è costretti di ammetterlo, tra la filosofia cabalistica e l’antico paganesimo, havvi una connessione intima che è difficile spiegare in un altra maniera che per l’ispirazione di uno stesso autore, cioè del nemico del genere umano, dello Spirito di menzogna.

VII. sATANA NEL PAGANESIMO.

Nel corso di questo lavoro noi faremo risaltare l’abilità con cui questo ispiratore delle antiche dottrine pagane è riuscito a separare, dapprima, l’idea delle tre divine persone, conosciute nell’antichità con più o meno precisione, dall’idea di loro sostanza comune e inseparabile, rappresentandole come emanate, in un tempo più o meno remoto, da quella essenza comune; e in seguito, a introdursi lui stesso nella Trinità, soppiantando, sia la prima, sia la terza Persona, a fine di ottenere, in una maniera o in un altra, da parte degli uomini, l’adorazione divina che cercò ardentemente, dicendo: « Io salirò al cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono; salirò sul monte del testamento al lato di settentrione, sormonterò l’altezza delle nuvole, sarò simile all’Altissimo (Isaia, XVI, 13). – È là che si trova la sorgente avvelenata degli errori e degli odi soprannaturali che riempiono il paganesimo antico e moderno, come l’anima dell’Ebreo della Cabala e dell’addetto della frammassoneria, di una rabbia indescrivibile contro Dio e contro tutti coloro che credono in Dio.

VIII. GLI EBREI NELL’ORDINE DECADUTO DEI TEMPLARI.

Usurpatore degli onori divini, presentandosi come una delle persone della Santissima Trinità, il Principe delle tenebre ha saputo nascondersi negli antichi misteri pagani, fondati sull’errore panteistico. Per essi egli mena l’uomo a disordini inauditi e ad una scelleratezza che non indietreggia davanti al terribile attentato di detronizzare la maestà divina. – Dagli antri pagani questo Spirito del male ha saputo penetrare, con la sua dottrina infame, nello spirito di una certa classe del popolo giudeo tenuto schiavo in Babilonia. Collegato con i suoi nuovi addetti, conosciuti per la tenacità straordinaria della loro razza, ha saputo sconvolgere il mondo, e lo sconvolge ancora. Se i farisei non esitarono a crocifiggere il Cristo, essi non esiteranno nemmeno a perseguitare i Cristiani la cui fede spirituale è in diretta opposizione con le loro speranze temporali. – Passiamo sotto silenzio i tempi dei Gnostici e delle grandi persecuzioni dei primi secoli, in cui gli Ebrei facevano una parte tanto importante quanto odiosa, e fermiamoci nel medio-evo. – I Templari furono corrotti in Palestina. Nelle loro riunioni secrete, essi rinunciavano a Cristo, e — la conseguenza — si abbandonavano al disordine. Noi non abbiamo più a provare qui ciò che i Deschamps, i Pachtler e tanti altri hanno perfettamente stabilito su prove irrefragabili. L’Ordine decaduto dei Templarii dapprima con le sue dottrine e sue pratiche, poi con gli avanzi dei suoi membri dispersi, ha servito di punto di partenza per ciò che chiamasi oggidì la frammassoneria. Il 30° grado, il grado di Cavaliere Templario, è, in unione con il 18° grado, il grado di Rosa Croce, l’essenza stessa della frammassoneria. Gli altri gradi non servono che a prepararli e a celarli agli occhi dei « profani » e dei fratelli inetti e indegni di confidenza.

IX. CONCATENAZIONE DEGLI ODII E DEI MISTERI DELLA FRAMMASSONERIA.

I punti indicati devono servirci d’introduzione a questo breve trattato, per mostrare di primo aspetto al lettore la concatenazione degli odii misteriosi concentrati nella frammassoneria per la continuazione e il compimento dell’opera dell’Anticristo: « perché  il mistero di iniquità già si opera (Tess. c. XI, 7) ». Se noi siamo riusciti a mettere il dito sul verme roditore dell’umanità, uomini più competenti di noi si affretteranno forse a seguirci e completeranno ciò che noi non possiamo che abbozzare. Completata, l’opera nostra diverrà, tutto insieme, un libro di storia universale, un trattato di teologia e di filosofia, e una esposizione della magia nera. – Cerchiamo, e troveremo nella storia, la frammassoneria; nella frammassoneria, l’Ordine decaduto dei Templarii; nell’insieme, la Sinagoga cabalistica; nella frammassoneria. Ordine, Sinagoga, gli antichi misteri pagani, e finalmente, nel tutto, satana medesimo. – L’angelo decaduto ha sedotto gli antichi popoli con le sue dottrine bugiarde ; il paganesimo ha sedotto il Giudeo ipocrita e ostinato, il Giudeo ha sedotto e corrotto l’Ordine religioso dei Templari, e inganna ancora oggigiorno la gran massa credenzona dei frammassoni. Avendo accaparrato i tesori e il potere civile di questo mondo, l’Ebreo fa una guerra accanita, senza pietà e senza tregua, alla Chiesa di Gesù Cristo e a tutti coloro che ricusano di piegare il ginocchio dinanzi a lui e al suo vitello d’oro. – Cingere la fronte dell’Ebreo del diadema reale e mettere sotto i suoi piedi il regno del mondo, ecco il vero scopo della frammassoneria. – Noi ci lusinghiamo nella speranza di ricondurre con questa opera qualche spirito traviato, ma non abbiamo alcuna speranza di persuadere la generazione perversa che si cela sotto le trentatré pieghe dei secreti massonici ed oltre; perché essa non potrebbe essere convinta dalla ragione; essa non ha mai ceduto che alla forza maggiore. Probabilmente essa sarà oppressa da un sollevamento dovuto all’esasperazione popolare, o forse dalla defezione e dal disgusto di quegli stessi ch’essa riuscì a soggiogare e a incatenarsi con giuramenti illeciti, creduti oggidì ancora onesti e validi. – Il potere attuale dei capi della frammassoneria pare essere alla sua fine; ma non finirà senza una tragedia inaudita. « Smascherare la frammassoneria, dice Leone XIII, è vincerla ». Messa a nudo, ogni spirito retto e ogni cuore onesto l’abbandonerà, e per ciò stesso essa cadrà annientata ed esecrata.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (31) – ERRORI IN ROSMINI (3).

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA:

Errori in ROSMINI (3)

[Dom P. Benoît: Revue du monde catholique, 1° Apr. 1889]

XI

ERRORE SULLA CADUTA ORIGINALE

54. Rosmini professa sulla caduta originale una teoria così bizzarra e lontana dal dogma cattolico. Secondo lui, satana era padrone, per un vero possesso, del frutto proibito; mangiato dall’uomo, questo frutto si cambiò nel suo corpo: da ciò, il demone possessore del frutto, divenne padrone dell’uomo. I demoni, dice Rosmini, essendo in possesso del frutto, pensarono di introdursi nell’uomo se questi ne mangiasse, perché essendo assimilato il nutrimento dal corpo animato dell’uomo, essi potessero entrare liberamente nell’animalità, cioè nella vita soggettiva di quest’essere e così disporre di lui secondo le loro intenzioni [(Cum dæmones fructum possederint, putarunt se ingressuros in hominem si de illo ederet; converso enim cibo in corpus hominis animatum, ipsi poterant libère ingredi animalitatem, id est in vitam subjectivam hujus cutis, atque ita de eo disponere sicut proposuerant, (Prop. XXXIII)]. » Rosmini fa consistere il peccato originale in una sorta di possessione demoniaca. Il primo uomo è caduto perché si è messo sotto la potenza del demonio, perché ha mangiato e convertito nella sua sostanza una mela posseduta dal demonio, di modo che il demonio ha esteso il suo dominio della mela ad Adamo. Poi siccome la semenza di tutti gli uomini è in Adamo, si è costituito padrone di tutti gli uomini: i discendenti del primo uomo nascono così nel peccato originale, perché sono formati da una semenza che il demonio possiede ed essi stessi sono l’oggetto di una possessione diabolica.

55. L’insegnamento della Chiesa è molto differente. I Dottori della Chiesa fanno consistere il peccato originale nella privazione della grazia: l’uomo, dopo la caduta, è peccatore, perché non ha la grazia che dovrebbe avere secondo il disegno di Dio nella sua creazione. Il primo uomo ha perso la grazia perché ha trasgredito il precetto del Signore con una disobbedienza volontaria, perché egli ha commesso un peccato mortale, incompatibile per sua natura con il dono soprannaturale della carità. I suoi discendenti ne sono privati, perché Dio aveva stabilito una unione morale tra padre e figlio, che la fedeltà o l’infedeltà del capo era la fedeltà o l’infedeltà nella perseveranza stessa o la perdita di questa. Tutti gli uomini nascono privi della grazia, perché Adamo l’ha persa non solo per lui, ma pure per loro. Questa privazione originale della grazia, ecco il peccato originale. Senza dubbio l’uomo decaduto è nella potenza del demonio, perché il “vinto, dive S. Paolo, è soggetto al vinvitore”. Ma la dominazione di satana sulla natura umana è l’effetto del peccato, non ne è l’essenza. – in seguito, questo dominio, almeno in generale, non dovrebbe essere chiamatouna “possessione del corpo”. Il demonio ha il potere di agire sull’immaginazione con dei fantasmi; egli possiede certe otenze sull’aria e gli altri elementi di questo mondo, sul corpo stesso dell’uomo; ma questo impero generale e molto imperfetto sull’universo deve essere scrupolosamente distinto da questa dominazione particolare e stretta che si chiama la possessione diabolica.

XII

ERRORE SULL’IMMACOLATA CONCEZIONE DI MARIA

56. Rosmini insegna sull’Immacolata Concezione della Santa Vergine un errore che deriva dalla sua falsa teoria concernente il peccato originale, secondo lui, lo vedremo appunto, il demonio ha esteso il suo dominio dal frutto all’uomo, dal corpo del primo uomo, alla semenza di tutti i suoi discendenti racchiusi nel corpo del padre: come è caduto il primo uomo, così sono caduti in lui tutti gli uomini. « Tuttavia, egli aggiunge, una particella estremamente tenue della semenza racchiusa in Adamo è stata negletta da satana; questa particella è stata trasmessa da generazione in generazione ed è arrivata, libera dal possesso demoniaco, negli ancestri immediati di Maria; lù, Dio ne ha formato il corpo della futura Madre di suo Figlio. Così Maria si è trovata esente dal peccato originale. Per preservare la Beata Vergine Maria dalla macchia del peccato originale, era sufficiente che la minima parte di semenza restasse incorruttibile nell’uomo (il primo uomo), semenza forse negletta dal demonio stesso, affinché, da questa parte intatta, trasmessa da generazione in generazione, nascesse, a suo tempo, la Beata Vergine Maria [(Ad perseservandam Beatam Virginem Mariam a labe originis, satis erat ut incorruptum maneret minimum semen in homine, neglectum forte ab ipso dæmone; e quo incorrupto semine, de generatione in generationem transfuso, suo tempore oriretur Virgo Maria. (Prop. XXXIV)].

57. Non è certamente così che la Chiesa intende l’Immacolata Concezione di Maria. Dionon ha sottratto al possesso del demonio una particella del corpo di Adamo, per formarne più tardi la Madre di suo Figlio; Egi l’ha, in vista dei meriti del Salvatore futuro, riscattata dal peccato con una giustificazione preventiva, che non ha lasciato ai flutti dell’iniquità il tempo di sommergere questa Creatura privilegiata, ma rivestendo la sua anima, nella sua stessa creazione, della pienezza della grazia. Dal lato della sua origine Maria era soggetta al peccato; ma con una operazione straordinaria della misericordia divina, Ella ne è stata liberata prima di esserne coinvolta: Ella aveva il debito del peccato, ma è stata preservata dal peccato stesso: habuit debitum peccati, non actum.

XIII

ERRORE SULLA GIUSTIFICAZIONE

58. Lutero pretendeva che l’uomo caduto in peccato sia incapace di ridiventare giusto per una giustizia propria ed intrinseca. Il peccatore, secondo lui, è sostanzialmente malvagio; il libero arbitrio è distrutto in lui; egli non è capace di un buon desiderio; più si sforza di agire bene, più pecca: perché da un albero cattivo, cosa può uscire se non un frutto cattivo? Ecco perché, secondo Lutero, la giustificazione non consiste in ciò che i peccati siano rimessi o cancellati, ma che siano coperti, e non siano più imputati. Il mantello dei meriti di Gesù-Cristo viene gettato sul peccatore e ricopre le immondizie della sua anima; ma queste immondizie sussistono in lui dopo la giustificazione, come prima.

59. La Chiesa ha condannato questa dottrina al Concilio di Trento. Ora Rosmini la rinnova in parte. A sentirlo ci sono dei peccati che sono solo coperti, mentre altri sono propriamente rimessi; ce ne sono alcuni che cessano dall’essere imputati, senza essere cancellati, altri sono effettivamente cancellati. « Più si esamina l’ordine della giustificazione nell’uomo, egli dice, più ci appare conveniente il modo di parlare delle Scritture, dicendo che Dio nasconde certi peccati o non li imputa più. Il Salmista pone una differenza tra le iniquità che sono rimesse ed i peccati che sono nascosti: i primi, come sembra, sono le colpe attuali e libere; i secondi sono i peccati non liberi di coloro che appartengono al popolo di Dio, e ai quali, solo per questo, non causano alcun danno (Quo magis attenditur ordo justifîcationis in homine, eo apitor apparet modus dicendi peripturalis quod Deus peccata quædam. tegit aut non imputat. — Juxta Psalmistam discrimen est inter iniquitates quæ remittuntur et peccata quæ teguntur: illæ ut videtur, sunt culpæ actuales et libéræ, hæc veto sunt peccata non libéra eorum qui pertinent ad populum Dei, quibus propterea nullum afteruut nocumentum. (Prop. XXXV)]. »

60. Quali sono questi “peccati non liberi”? Innanzitutto e senza dubbio, il peccato originale, poiché questo non è stato commesso dalla volontà personale, ma è stato trasmesso con la natura dlle leggi stesse della generazione. Bisogna dunque ammettere, secondo Rosmini, che il peccato originale non è rimesso, ma solo nascosto; che non è cancellato, ma cessa di nuocere. Ecco qualche conseguenza. La grazia non viene data al Battesimo, perché la grazia è incompatibile con l’esistenza del peccato originale; la giustificazione non apporta alcun cambiamento intrinseco nelle profondità dell’anima, poiché la macchia del peccato non è tolta. Noi non vediamo come Rosmini possa sfuggire a queste consiguenze. Ma ecco degli errori ancor èiù gravi: essi sono il ribaltamento di tutta l’economia soprannaturale.

XIV

ERRORI SULL’ORDINE SOPRANNATURALE

61. « Il consenso unanime della Chiesa Cattolica, dice il Concilio Vaticano, ha sempre ritenuto, e ritiene, che vi sono due ordini di conoscenza, distinte non solo dal loro principio, ma ancora dal loro oggetto; dapprima per il loro principio, perché noi conosciamo nell’uno con la luce naturale della nostra ragione, e nell’altro per la fede divina; per il loro oggetto poi, perché oltre alle cose he la ragione naturale può comprendere, vi sono proposti alla nostra credenza dei misteri nascosti in Dio, che noi non possiamo conoscere se Dio non li rivela. – Ecco perché l’Apostolo, che attesta che Dio è stato conosciuto dai gentili per le sue opere, quando disserta della grazia e della verità che ci ha portato Gesù-Cristo, esclama: « Noi predichiamo la Sapienza di Dio in mistero che è rimasto nascosto, che Dio ha predestinato, preparato prima di tutti i secoli a nostra gloria, che nessuno dei principi di questo mondo ha conosciuto, ma che Dio ci ha rivelato con il suo Spirito-Santo: perché lo Spirito penetra tutto, anche le profondità di Dio. Ed il Figlio unico di Dio rende al Padre suo questa testimonianza, che ha nascosto questi misteri ai saggi ed ai prudenti, e li ha rivelati ai piccoli ( De fide cath., cap. IV), ». Secondo questo insegnamento, l’ordine naturale consiste essenzialmente nela conoscenza mediata ed indiretta di Dio, vale a dire nella conoscena di Dio per mezzo delle sue creature. L’ordine soprannaturale consiste essenzialmente nella conoscenza immediata e diretta di Dio, cioè nella conoscena di Dio in se stesso, ossia quaggiù nella conoscenza oscura ed imperfetta di Dio attraverso le ombre della fede, sia in cielo nela conoscenza chiara ed intuitiva di Dio nello splendore della sua luce. – Rosmini, che confonde l’essere generale con l’essere divino, fa consistere l’ordine soprannaturale nella piena manifestazione dell’essere nella pienezza della sua forma reale [(Ordo supernaturalis constituitur manifestatione esse in plenitudine suæ formæ realis. [Prop. XXXIV)]. »

62. Ma se noi diventiamo soprannaturalmente beati con una piena manifestazione dell’essere, come siamo naturalmente intelligenti con una prima manifestazione di questo stesso essere, bisognerà dire che la conoscenza soprannaturale e la conoscenza naturale non differiscono quanto all’oggetto, come intende il Concilio Vaticano, ma solo per il grado, attraverso il quale l’una e l’altra raggiungono lo stesso obiettivo, ma inegualmente. Che potrebbe rispondere Rosmini?

63. Ma se l’oggetto delle due conoscenze è sostanzialmente lo stesso, può il principio differirne? «L’effetto di queste manifestazioni o comunicazioni » dell’essere nella pienezza della sua forma reale, dice Rosmini, « è un sentimento deiforme che, cominciato in questa vita, costituisce la luce della fede e della grazia e, completata nell’altra vita, costituisce la luce della gloria [(Cujus communicatumis seu manifestationis effectua est sensus (sentimento) deiformis, qui iochoatus in bac vita constituat lumen fidei et gratiæ, complétas in altéra vita construit lumen gloriæ, (Ibid.)].» La luce della fede e della grazia è la virtù naturale con la quale l’anima conosce Dio quaggiù; la luce di gloria è la virtù soprannaturale con la quale conosce Dio nella vita futura: « Ora, dice Rosmini, questo principio della conoscenza naturale o “deiforme” che produce nell’anima la manifestazione dell’essere nella pienezza della sua forma reale. » Ma l’essere, secondo Rosmini, era già conosciuto in se stesso dalla ragione naturale. Siccome la conoscenza soprannaturale non eleva che ad una conoscenza più perfetta di uno stesso oggetto, sarà sufficiente per questa nuova conoscenza di una perfezione nuova, data allo stesso principio, non avrà bisogno di un nuovo principio. In altri termini, la facoltà o il principio è proporzionato all’oggetto; poiché l’oggetto della conoscenza soprannaturale è sostanzialmente lo stesso di quello della conoscenza naturale, cioè l’intuizione dell’essere, perché ci vorrebbero per i due rdini di conoscenza, dei principi differenti? Il principio non dovrebbe essere lo stesso nella dottrina cattolica, poiché l’anima, per conoscenza naturale, conosce Dio solo nello spettacolo delle creature, mentre la conoscenza soprannaturale lo conosce in se stesso. Ma per Rosmini, che considera l’intuizione dell’essere divino come oggetto della conoscenza naturale tanto di quella soprannaturale, è impossibile la differenza tra il principio dell’una e dell’altra. Rosmini può designare con dei nomi nuovi il principio della conoscena naturale; egli può chiamarlo, come in effetti fa, luce di grazie e luce di gloria; ma poiché l’oggetto è sempre l’intuizione dell’essere divino, è sempre, anche se con nomi nuovi, uno stesso principio (L’arte di ogni gnostico di ogni epoca, è stata sempre questa: cambiare il nome alle cose, ai concetti, confondere ed intorbidire le acque del pensiero, per trarre in inganno e spacciare le insanie gnostiche come verità! – N.d.r.].

64. Tuttavia la dottrina della Chiesa sulla differenza tra gli oggetti dei due ordini di conoscenza è troppo manifesta, perché Rosmini non cerchi di distinguere l’uno dall’altro. « La prima luce che rende l’anima intelligente è l’essere ideale; l’altra prima luce è anche l’essere, non più tuttavia puramente ideale, ma sussistente e vivente: questa, velando la sua personalità, non mostra che la sua obiettività; ma chi vede l’altra, che è il Verbo, vede Dio, benché in uno specchio per riflessione ed enigma [(Primum lumen veddens animam intelligentem est esse idéale; alterum primum lumen est etiam esse, non tamen mere idéale sed subsistens ac vivens: illud abscondens suam personalitatem ostendit solum suam objectivitatem: at qui videt alterum (quod est Verbum), etiamsi per spéculum et in enigmate, videt Deum. (Prop. XXXVII)]. » Così, secondo Rosmini, la ragione natural conosce l’essere semplicemente ideale, la luce della fede e della Gloria conoscono l’essere ideale sussistente e vivente: l’essere semplicemente ideale differisce dall’essere ideale sussistente: dunque, l’oggetto della conoscenza soprannaturale differisce dall’oggetto della conoscenza naturale.

65. Ma come l’essere divino potrebbe essere visto nella sua idealità e non essere visto nella sua sussistenza? Appartiene all’essere divino, nota San Tommaso, essere subsistant prima di essere ideale, vale a dire essere una forma assoluta, prima di essere una forma rappresentativa. « Si conosce un oggetto in se stesso, dice il santo Dottore, prima di conoscerlo nelle sue relazioni con ciò che non è Lui; non si può conoscere Dio come idea, senza conoscerlo nella sua essenza assoluta [(Non est antera possibile quod aliquis videat rationes creaturarum in ipsa divina essentia, ita quod eam non videat: tum quia ipsa divina essentia est ratio omnium eorum quæ fiunt; ratio autem realis non addit supra divinam essentiam nisi respectum ad creaturam; tum quia prius est aliquid cognoscere in se, quod est cognoscere Deum ut est objectum beatitudinis, quam cognosepre illud per comparationem ad alierum, quod est cognoscere Deum secundum rationes rerum in ipso existentes. (Sum. Theol. IIa IIæ, q. CLXXIII, a. 1)]. Se dunque Dio è conosciuto dalla ragione natural nella sua oggettività o sua intellegibilità, è necessariamente conosciuto nella sua sussistenza. Ed allora sparisce questa pretesa differenza tra l’oggettività e la sussistenza dell’essere ideale, ogni intuizione dell’essere divino deve essere proclamata soprannaturale. Secondo la dottrina cattolica, in effetti, la conoscenza soprannaturale di Dio, consiste in una conoscenza diretta ed immediata dell’essere divino. Se dunque lo spirito umano percepisce l’essere divino in se stesso, con una intuizione diretta, quand’anche, per assurdo, non ne percepisce la sua sussistenza, ne ha una conoscena soprannaturale. Rosmini dice: « La prima luce che rende l’anima intelligente è l’essere ideale. » Noi gli chiediamo: « Questo essere ideale è realmente l’essere divino? » Si, risponde Rosmini. Dunque, concludiamo noi, questa conoscenza essendo immediata, è soprannaturale. Rosmini attribuisce alla natura ciò che è al di sopra delle forze della natura. Egli dice bene: « Questo essere divino vela la sua sussistenzae non mostra la sua oggettività. » Ma ancora una volta, questo essere, nascondendo la sua personalità, si scopre in se stesso? Sì, poiché mostra la sua oggettività, che è una forma dell’essere divino, che è qualcosa di Dio, che è Dio. Dunque, ancora, voi pretendete, o filosofo, che la ragione conosca immediatamente l’Essere divino: voi attribuite alla natura ciò che è della grazia! – Bisogna forse aggiungere che tutta questa teoria sia stata misconosciuta ai Padri ed ai Teologi? Qual Dottore cattolico ha dato alla ragione naturale, fin dalla vita presente, l’intuizione dell’Essere divino? Qual maestro di dottrina ha posto differenza tra la conoscenza naturale e sonoscenza soprannaturale nella percezione dell’idealità del’Essere divino nell’una e la sussistenza nell’altro? Rosmini si separa da tutti i Padri e da tutti i Teologi; dunque tutti i Padri e tutti i Teologi lo condannano.

66. Ma non abbiamo finito con gli errori di Rosmini sull’ordine naturale. Abbiamo appena visto vederlo dare al filosofo l’intuizione dell’Essere divino in se stesso. D’altro canto egli nega che l’eletto trovi la sua beatitudine nella sola visione di Dio. « Dio, egli dice, è l’oggetto della visione beatifica, come autore delle opere “ad extra” (prodorre all’esterno) [(Deus est objectum visionis beatificæ, in quantum est auctor operum ad extra. (Prop. XXXVIII.) » – « Le vestigie della saggezza e della bontà che brillano nelle creature sono necessarie ai beati, perchè queste vestigie, runite nell’esemplare eterno, ne sono la parte che può essere vista dai beati ed è loro accessibile; essi sono inoltre il motivo delle lodi che i beati cantano eternamente in onore di Dio [(Vestigia sapientiæ ac bonitatis quæ in creaturis relucent, sunt comprehensoribus necessaria; ipsa enim in æterno exemplari collecta sunt ea Ipsius pars quæ ab illis videri possit (che è loro accessibile) ipsaque argumentum eræbent laudibus, quas in æternum Deo Beati concinunt. (Prop. XXXIX.)]. Tutti I Dottori Cattolici insegnano che la beatitudine dell’eletto consiste nella visione di Dio in se stesso; Rosmini dice al contrario, che « le vestigie delle perfezioni divine, tali come brillano nelle creature, sono necessarie ai beati ». Tutti i Dottori professano che gli eletti contemplano e cantano per sempre la bellezza increata vista in se stessa; Rosmini pretende che le influenze degli attributi divini in seno all’universo siano l’oggetto proprio la cui contemplazione li rende felici e che essi celebrano con i loro inni. Tutti i Cattolici credono che la visione di Dio sazi tutti i desideri dell’uomo. Senza dubbio gli eletti vedono in Dio tutto l’insieme dell’universo; ma la loro beatitudine è essenzialmente l’effetto della visione di Dio, talmente che se, per assurdo, essi cessassero dal conoscere tutte le creature, la felicità resterebbe perfetta: « Felice, dice S. Agostino, colui che vi conosce, o Dio mio, quand’anche ignorasse tutto il resto! [(Beatus est qui te scit, etïam si illas, id est creaturas, nesciat. (Conf., lib. V, c. IV) ». – Rosmini al contrario crede che l’eletto non abbia la beatitudine se non per effetto della conoscenza delle creature.

67. Ancor più, egli giunge fino a pensare che Dio non possa farsi vedere all’eletto, faccia a faccia, nella sua essenza, al di fuori delle sue relazioni con le creature. Conoscere Dio nella sua essenza, percepita indipendentemente dai suoi rapporti con gli esseri finiti è, secondo lui, al di sopra delle forze, anche soprannaturali, di una natura creata. L’intelligenza finita, a credergli, non può donoscere Dio che nelle sue manifestazioni esteriori. « Siccome Dio non può, anche con la luce della gloria, comunicarsi totalmente agli esseri finiti, non ha potuto rivelare e comunicare la sua essenza ai beati che secondo un modo adattato alle intelligenze finite, e questo modo è il seguente: Dio si manifesta ad essi intanto che è in relazione con essi, come loro creatore, loro provvidenza, loro redentore e loro santificatore   [(Cum Deus non possit, nec per lumen glorie, totaliter se communicare entibus flnitis, non potuit essentiam suam comprehensoribus revelare et communicare nisi eo modo qui finitîs intelligentes sit accomodatus: scilicut Deus se illis manifestat quatenus cum ipsis revelationem habet ut eorum creator, provisor, redempior, sanctificator. (Prop. XL)] ». Così Rosmini, che attribuisce all’intelligenza naturale il potere di conoscere l’essere stesso del Verbo, nega all’intelligenza elevata dai doni soprannaturali, la facoltà di vedere Dio in se stesso nella sua essenza assoluta. Secondo lui, l’ordine della conoscenza naturale va fino all’Essere divino, racchiuso, è vero, nei limiti delle creature; al contrario, l’ordine della conoscenza soprannaturale non può elevarsi fino all’Essere divino preso assolutamente. Dopo aver esaltato la natura fino ad attribuirle gli effetti della grazia, egli abbassa la grazia fino a rinchiuderla nei confini della natura. Ancora uno stesso principio si nasconde sotto questi errori diversi. Rosmini resta l’entusiasta ammiratore dell’essere, di questo essere in generale che confonde con l’Essere divino. È questo essere, ai suoi occhi così grande e così universale, che è l’oggetto di ogni conoscenza, della conoscenza soprannaturale così come della conoscena naturale: il bambino che si desta alla ragione la conosce già; l’eletto arrivato alla consumazione della gloria, non conosce che se stesso.

XV

ULTIME OSSERVAZIONI

68. Tali sono i principali errori di Rosmini. Altri errori meno importanti sono conseguenza di questi citati. La Santa Sede li menziona e li riprova in generale, senza segnalarli nei particolari; essa vieta ai Cattolici però di interpretare il suo silenzio al riguardo come prova di una qualsivoglia approvazione [(Propositions quæ sequuntur in proprio Auctoris sensu reprobandas, damnandas ac proscribendas esse indicavit, prout hoc generali decreto reprobàt, damnât, proscribit; quin exinde cuiquam deducere liceat ceteras ejusdem Auctoris doctrinas quæ per hoc decretum non damnantur ullo modo adprobari. [Decretum S. Cong. )]. Non vi sono, in effetti, questioni filosofiche, e non poche questioni teologiche che il Rosmini non abbia cercato di risolvere e nelle quali non si sia ingannato in soluzioni contrarie alle dottrine della Scuola.

69. In fondo a tutti gli errori teologici di Rosmini, in fondo a tutti gli errori filosofici, si riconosce sempre uno stesso errore: la confusione tra l’essere generale e l’essere divino. Questa confusione è il fondamento del panteismo di Fichte, di Shelling e soprattutto di Hegel; la stessa confusione è il fondamento del sistema rosminiano. Rosmini, come Hegel, si persuade che le cose siano in se stesse, il modo stesso di essere che nell’intelligenza. Siccome l’essere è conosciuto sotto una forma astratta, questi due dotti realizzano nell’ordine ontologico un essere realmente esistente con i caratteri di astrazione che ha nello spirito. Rosmini, non più di Hegel, non conosce questa verità elementare della filosofia cristiana, e cioè che l’essere non è univoco, che l’Essere divino e l’essere non hanno una medesima ragione, ma sono solamente analoghi l’uno all’altro. Rosmini, come Hegel, ha confuso i trascendentali di cui parlano i filosofi con i generi supremi. Egli ha fatto del primo dei trascendentali, l’essere in generale, un genere supremo di cui la ragione conviene allo stesso modo alla sostanza divina che alla sostanza creata. Se Rosmini non professa apertamente il panteismo, anche se è guidato dagli stessi principi  nel suo sistema, è solo perché ne è allontanato dalla sua fede. Come Cristiano, egli cerca di sfuggire a conseguenze alle quali le conduce la sua filosofia: egli lotta contro di esse, lotta contro i suoi principi. Ma in questa lotta, respinge le affermazioni più grossolane del panteismo, prendendone le formule essenziali. Il suo linguaggio è molte volte smile a quello dei panteisti, e sebbene si protestasse altamente di essere figlio sottomesso della Chiesa Cattolica, poteva essere ben considerato come un filosofo rivoltato contro di essa.

70. E terminiamo con un’ultima riflessione. La diffusione presente degli errori rosminiani come, da qualche anno, quello degli errori di Lamennais, attesta uno strano indebolimento del senso filosofico, un’incredibile diminuzione delle verità filosofiche. Così non è senza una grande intelligenza delle necessità attuali della Chiesa, che il grande Papa Leone XIII, applica tutti i suoi sforzi nel resuscitare nel mondo la filosofia cristiana, ad invitare la generazione presente alle lezioni della Scuola, particolarmente di colui che ne è il Dottore principale. Possano tutti i maestri di Italia, docili alle direttive del Capo della Chiesa, abbandonare Rosmini ed attaccarsi all’Angelo della Scuola!

[Questo augurio purtroppo non si è realizzato, perchè le bislacche tesi rosminiane, … apparentemente bislacche, in realtà guidate da una precisa volontà destabilizzante, di matrice gnostico-cabalistica, sono state riesumate, come cadavere fetido, nella falsa chiesa dell’uomo, dalla setta del “novus ordo” ed addirittura esaltate dagli gnostici marrani usurpanti il Trono di S. Pietro. Per noi Cattolici Romani, è importante aver cognizioni delle tesi gnostiche rosminiane, benchè ripugnanti e fastidiose, per poterle decodificare e “scansare” accuratamente nel modernismo satanico attuale che, come tutti gli inganni gnostici da sempre perpetrati, si presenta con la maschera bonaria del lupo travestito, pronto ad azzannare e condurre al fuoco eterno, chiunque, volutamente o inconsapevolmente, si avvicini ad esso, sia pure solo sfiorandolo. Attenti quindi a questo altro lupo che, sotto l’aspetto di un sacerdote pio ed umile, come angelo vestito di (falsa) luce, spaccia veleno gnostico mortale. Che Dio ce ne guardi, e la Vergine Maria, che da sola distrugge tutte le eresie, ci protegga e ci conduca alla salvezza.

 

A. Rosmini,

… uno gnostico stroncato dalla “vera” Chiesa Cattolica, riabilitato nella chiesa universale dell’uomo, la sinagoga si satana, il satanico Novus Ordo, gestito dai modernisti-marrani infiltrati, usurpanti e sostenuti dalle sette eretiche dei “gallicani fallibilisti”, dei “gallicani tesisti”, e delle molteplici “settuncole” sedevacantiste pseudo-tradizionaliste!

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Decreto del Sant’Uffizio

POST OBITUM

[Testo latino e traduzione italiana

– Progetto Barruel- ](*)

(*) Il sito del progetto Barruel, è un sito a-cattolico paramodernista scismatico, che pubblica documenti della Chiesa Cattolica “ante-golpe” del 1958. La traduzione che riportiamo è però funzionale agli articoli ed utile nella comprensione, in lingua vernacolare, del documento citato.

Feria IV die 14 decembris 1887.

Post obitum Antonii Rosmini Serbati quædam eius nomine in lucem prodierunt scripta, quibus plura doctrinae capita, quorum germina in prioribus huius Auctoris  libris continebantur clarius evolvuntur atque explicantur. Quae res accuratiora studia non hominum tantum in theologicis ac philosophicis disciplinis præstantium, sed etiam Sacrorum in Ecclesia Antistitum excitarunt. Hi non paucas propositiones, quae catholicæ veritati haud consonæ videbantur, ex posthumis præsertim illius libris exscripserunt, et supremo S. Sedis indicio subiecerunt.

Porro SS.mus D. N. Leo divina providentia Papa XIII, cui maxime curæ est ut depositum catholicæ doctrinæ ab erroribus immune purumque servetur, delatas propositiones Sacro consilio E.morum Patrum Cardinalium in universa christiana republica Inquisitorum Generalium examinandas commisit.

Quare, uti mos est Supremæ Congregationis, instituto diligentissimo examine, factaque earum propositionum collatione cum reliquis Auctoris doctrinis prout potissimum ex posthumis libris elucescunt, propositiones quae sequuntur, in proprio Auctoris sensu reprobandas, dainnandas ac proscribendas esse iudicavit, prout hoc generali decreto reprobat, damnat, proscribit; quin exinde cuiquam deducere liceat ceteras eiusdem Auctoris doctrinas quæ per hoc decretum non damnantur ullo modo adprobari.

Facta autem de his omnibus SS. mo D. N. Leoni XIII accurata relatione, Sanctitas Sua decretum E.morum Patrum adprobavit, confirmavit, atque ab omnibus servari mandavit.

Feria 4° il dì 14 Decembre 1887.

[Dopo la morte di Antonio Rosmini Serbati uscirono alla luce, sotto il nome di lui, alcuni scritti, nei quali vengono più chiaramente svolti e spiegati parecchi capi di dottrina, i cui germi erano contenuti nei libri precedenti di questo Autore. Le quali cose mossero a fare studii più accurati non solo uomini prestanti nelle filosofiche e teologiche discipline, ma anche i Sacri Pastori della Chiesa. Questi estrassero dai libri di lui, specialmente postumi, non poche proposizioni, le quali non sembravano conformi alla verità cattolica, e le sottoposero al supremo giudizio della Santa Sede.

Quindi il SS.mo S. N. Leone per divina provvidenza Papa XIII, a cui sopra tutto è a cuore, che il deposito della dottrina cattolica si conservi immune e puro da errori, diè incarico di esaminare le denunziate proposizioni al Sacro consiglio degli E.mi Cardinali, Inquisitori Generali in tutta la Repubblica Cristiana.

Pertanto, come è costume della Suprema Congregazione, impreso un esame diligentissimo, e fatto il confronto di quelle proposizioni con le altre dottrine dell’Autore, massimamente secondo che risultano chiare dai libri postumi; giudicò doversi riprovare, condannare, nel proprio senso dell’Autore, come di fatto con questo generale decreto riprova, condanna e proscrive le seguenti proposizioni: senza che, per questo, sia lecito a chicchessia di inferire, che le altre dottrine del medesimo Autore, che non vengono condannate per questo decreto, sieno per veruna guisa approvate. Fatta dipoi di tutto ciò accurata relazione al SS.mo S. N. Leone XIII, la S. S. approvò, confermò il decreto degli E.mi Padri, ed ingiunse che fosse da tutti osservato.

Ecco le proposizioni condannate:

I. In ordine rerum creatarum immediate manifestatur humano intellectui aliquid divini in se ipso, huiusmodi nempe quod ad divinam naturam pertineat.

1. Nella sfera del creato si manifesta immediatamente allo umano intelletto qualche cosa di divino in se stesso, cioè tale che alla divina natura appartenga — (Teosof. Vol. IV. n. 2, pag. 6).

II.  Cum divinum dicimus in natura, vocabulum istud divinumnon usurpamus ad significandum effectum non divinum causae divinae; neque mens nobis est loqui de divinoquodam quod tale sit per participationem.

2. Dicendo il divino nella natura, non prendo questa parola divinoa significare un effetto non divino di una causa divina. Per la stessa ragione non è mia intenzione di parlare di un divino che sia tale per partecipazione — (Ivi).

III. In natura igitur universi, idest in intelligentiis quæ in ipso sunt, aliquid est, cui convenit denominatio divini non sensu figurato sed proprio. Est actualitas non distincta a reliquo actuelitatis divinæ.

3. Vi è dunque nella natura dell’universo, cioè nelle intelligenze che sono in esso, qualche cosa a cui conviene la denominazione di divino non in senso figurato, ma in un senso proprio — (Teosofia, vol. IV, Del divino nella natura, n. 15, p. 18.) — È una… attualità indistinta dal resto dell’attualità divina, indivisibile in sè, divisibile per astrazione mentale — (Teosofia, Vol. III, n. 1423, p. 344).

IV. Esse indeterminatum, quod procul dubio notum est omnibus intelligentiis, est divinum illud quod homini in natura manifestatur.

4. L’essere indeterminato (essere ideale), il quale è indubitatamente palese a tutte le intelligenze (è quel divino che) si manifesta all’uomo nella natura — (Teosofia, Vol. IV, nn. 5 e 6, p. 8).

V. Esse quod homo intuetur necesse est ut sit aliquid entis necessarii et æterni, causæ creantis, determinantis ac finientis omnium entium contingentium: atque hoc est Deus.

5. L’essere intuito dall’uomo deve necessariamente essere qualche cosa di un ente necessario ed eterno, causa creante, determinante e finiente di tutti gli enti contingenti; e questo è Dio (Teosof. Vol. I, n. 298, p. 241).

VI. In esse quod præscindit a creaturis et a Deo quod est esse indeterminatum, atque in Deo, esse non indeterminato sed absoluto, eadem est essentia.

6. Nell’uno (essere che prescinde dalle creature e da Dio, e che è l’essere indeterminato) e nell’altro essere (che non è più indeterminato, ma Dio stesso, essere assoluto) c’è la stessa essenza — (Teos. Vol. II, n. 848, p. 150).

VII. Esse indeterminatum intuitionis, esse initiale, est aliquid Verbi, quod mens Patris distinguit non realiter sed secundum rationem a Verbo.

7. L’essere indeterminato della intuizione… l’essere iniziale… è qualche cosa del Verbo, che ella (la mente del Padre) distingue non realmente, ma secondo la ragione, dal Verbo (Teosof. Vol. II. n. 848, p. 150; Vol. I. n. 490, p. 445).

VIII. Entia finita quibus componitur mundus resultant ex duobus elementis, idest ex termino reali finito et ex esse initiali quod eidem termino tribuit formam entis.

8. Gli enti finiti che compongono il mondo risultano da due elementi, cioè dal termine reale finito e dall’essere iniziale che dà a questo termine la forma di ente — (Teosof. Vol. I n. 454, p. 396).

IX. Esse, obiectum intuitionis, est actus initialis omnium entium. Esse initiale est initium tam cognoscibilium quam subsistentium: est pariter initium Dei, prout a nobis concipitur, et creaturarum.

9. L’essere, oggetto dell’intuito… è l’atto iniziale di tutti gli enti ( Teosof. Vol. III n.1235, p. 73). — L’essere iniziale dunque è inizio tanto dello scibile quanto del sussistente… è egualmente inizio di Dio, come da noi si concepisce, e delle creature — (Teosof. Vol. I n. 287 p. 229; n. 288, p. 230).

X. Esse virtuale et sine limitibus est prima ac simplicissima omnium entitatum, adeo ut quælibet alia entitas sit composita, et inter ipsius componentia semper et necessario sit esse virtuale. — Est pars essentialis omnium omnino entitatum, utut cogitatione dividantur.

10. L’essere virtuale e senza termini (Divino in sè stesso appartenenza di Dio) è la prima e la più semplice delle entità, per cosi fatto modo che qualunque altra entità è composta, e tra i suoi componenti c’è l’essere virtuale sempre e necessariamente. — L’essere virtuale è parte essenziale di tutte affatto le entità, per quantunque col pensiero si dividano — (Teosof. Vol. I p. 221; n. 281, p. 223).

XI. Quidditas (id quod res est) entis finiti non constituitur eo quod habet positivi, sed suis limitibus. Quidditas entis infiniti constituitur entitate, et est positiva; quidditas vero entis finiti constituitur limitibus entitatis, et est negativa.

11. La quiddità (ciò che una cosa è) dell’ente finito non è costituita da cio che egli ha di positivo, ma dai suoi limiti… La quiddità dell’ente infinito è costituita dall’entità, ed è positiva, e la quiddità dell’ente finito è costituita dal limiti dell’entità, ed è negativa — (Teos. Vol. I n. 726, p. 708-709).

XII. Finita realitas non est, sed Deus facit eam esse addendo infintitæ realitati limitationem. Esse initiale fit essentia omnis entis realis. Esse quod actuat naturas finitas, ipsis coniunctum, est recisum a Deo.

12. La realtà finita non è, ma egli (Dio) la fa essere coll’aggiungere alla realità infinita la limitazione — (Teosof. Vol. I. n. 681, p. 658). — L’essere iniziale… diventa l’essenza di ogni ente reale — (Ivi Vol. I. n. 458, p. 399). — L’essere che attua le nature finite, a questo congiunto, essendo reciso da Dio… (Ivi Vol. III. n. 1425, p. 346).

XIII. Discrimen inter esse absolutum et esse relativum non illud est quod intercedit substantiam inter et substantiam, sed aliud multo maius; unum enim est absolute ens, alterum est absolute non-ens. At hoc alterum est relativum ens. Cum autem ponitur ens relativum, non multiplicatur absolute ens; hinc absolutum et relativum absolute non sunt unica substantia, sed unicum esse; atque hoc sensu nulla est diversitas esse, imo habetur unitas esse.

13. La differenza che passa tra l’essere assoluto e il relativo non è quella di sostanza a sostanza, ma una molto maggiore…; perocchè s’ha differenza di essere in questo senso che l’uno è assolutamente ente, l’altro è assolutamente non-ente. Ma questo secondo è relativamente ente. Ora col porre un ente relativo non si moltipica assolutamente l’ente; sicchè rimane, che assolutamente l’assoluto e il relativo sia non già una sostanza sola, ma bensì un essere solo, e in questo senso non v’abbia diversità di essere anzi unità di essere — (Teosof. Vol. V. cap. IV, pag. 9).

XIV. Divina abstractione producitur esse initiale, primum finitorum entium elementum; divina vero imaginatione producitur reale finitum, seu realitates omnes quibus mundus constat.

14. Coll’astrazione divina abbiamo veduto come sia stato prodotto l’essere iniziale, primo elemento degli enti finiti; coll’imaginazione divina, abbiamo pure veduto come sia stato prodotto il reale finito — tutte le realità di cui consta l’universo — (Teosof. Vol. I. n. 463, p. 408).

XV. Tertia operatio esse absoluti mundum creantis est divina synthesis, idest unio duorum elementorum: quæ sunt esse initiale, commune omnium finitorum entium initium, atque realefinitum, seu potius diversa realia finita, termini diversi eiusdem esse initialis. Qua unione creantur entia finita.

15. La terza operazione dell’essere assoluto creante il Mondo è la sintesi divina, cioè l’unione dei due elementi, l’essere inizialeinizio comune di tutti gli enti finiti, e il realefinito, o per dir meglio i diversi reali finiti, termini diversi dello stesso essere iniziale. Colla quale unione sono creati gli enti finiti — (Ivi).

XVI. Esse initiale per divinam sythesim ab intelligentia relatum, non ut intelligibile sed mere ut essentia, ad terminos finitos reales, efficit ut existant entia finita subiective et realiter.

16. Riferito dall’intelligenza per mezzo della sintesi divina, l’essere iniziale, non come intelligibile, ma puramente come essenza, ai termini reali finiti, fa che esistano gli enti finiti subiettivamente e realmente — (Teosof. Vol. I. n. 464, p. 410).

XVII. Id unum efficit Deus creando, quod totum actum esse creaturarum integre ponit: hic igitur actus proprie non est factus, sed positus.

17. Quello che fa Iddio (creando) è unicamente di porre tutto intero l’atto dell’essere nelle creature: dunque quest’atto non è propriamente fatto, ma è posto(Teos. Vol. I. n. 412, p. 350).

XVIII. Amor quo Deus se diligit etiam in creaturis, et qui est ratio qua se determinat ad creandum, moralem necessitatem constituit, quæ in ente perfectissimo semper inducit effectum: huiusmodi enim necessitas tantummodo in pluribus entibus imperfectis integram relinquit libertatem bilateralem.

18. Vi ha una ragione in Dio stesso per la quale ei si determina a creare; e questa ragione è di novo l’amore di se stesso, il quale si ama anche nelle creature. Quindi la divina sapienza, come meglio altrove esporremo, trova esser cosa conveniente la creazione, e questa semplice convenienza basta a far sì che l’Essere perfettissimo vi si determini. Ma non si deve confondere questa necessita di convenienza con quella necessità che nasce della forma reale dell’essere, e che necessita fisica si suol chiamare. La necessità di convenienza è una necessità morale, cioè veniente dall’Essere sotto la sua forma morale; e la necessità morale non sempre induce l’effetto che ella prescrive; ma lo induce solo nell’essere perfettissimo, e non negli esseri imperfetti (a molti de’ quali rimane perciò la libertà bilaterale), perchè l’Essere perfettissimo è insieme moralissimo, cioè ha compiuta in sè ogni esigenza morale (Teosof. Vol. I n. 51, p. 49-50).

XIX. Verbum est materia illa invisa ex qua, ut dicitur Sap. XI 18, creatæ fuerunt res omnes universi.

19. Il Verbo è quella materia invisada cui dice il libro della Sapienza (XI. 18) che furono create le cose tutte dell’universo (Introd. del Vangelo seconde Giov. lez. 37, pagina 109).

XX. Non repugnat ut anima humana generatione multiplicetur, ita ut concipiatur eam ab imperfecto, nempe a gradu sensitivo, ad perfectum, nempe ad gradum intellectivum, procedere.

20. Niente ripugna che il soggetto, di cui si parla si moltiplichi per via di generazione — (Psicolog. I. 4, n. 656). — Noi abbiamo già detto che la generazione dell’anima umana si può concepire per gradi progressivi dall’imperfetto al perfetto, e pero che prima ci sia il principio sensitivo, il quale, giunto alla sua perfezione colla perfezione dell’organismo, riceva l’intuizione dell’essere, e cosi si renda intellettivo e razionale — (Teosof. Vol. I. n. 646, pag. 619).

XXI. Cum sensitivo principio intuibile fit esse, hoc solo tactu, hac sui unione, principium illud antea solum sentiens, nunc simul intelligens, ad nobiliorem statum evehitur, naturam mutat, ac fit intelligens, subsistens atque immortale.

21. Rendendosi l’essere intuibile al detto principio (sensitivo), con questo solo toccamento, con questa unione di sè, il principio prima solo senziente, ora anco intelligente, si solleva a più alto stato, cangia natura, rendesi intellettivo, sussistente, immortale — (Antropol. I. 4. c. 5, n. 819). — Quindi si offre alla mente l’espressione che il principio sensitivo sia divenuto principio razionale, che si sia convertito in un altro, avendo subito veramente una tale permutazione — (Teosof. Vol. I. n. 646, p. 619).

XXII. Non est cogitatu impossibile divina potentia fieri posse ut a corpore animato dividatur anima intellectiva, et ipsum adhuc maneat animale: maneret nempe in ipso, tanquam basis puri animalis, principium animale, quod antea in eo erat veluti appendix.

22. Quanto poi alle appendici di cui parliamo, cioè al corpo animato, non è certo impossibile il pensare, che dalla potenza divina possa esser da lui divisa l’anima intellettiva, ed egli tuttavia rimanersi nella qualità di animale, rimanendo il principio animale, che prima esisteva come appendice, siccome base del novo ente, cioè del puro animale che rimarrebbe — (Teosof. Vol. I. n. 621, pag. 591).

XXIII. In statu naturali, anima defuncti existit perinde ac non existeret: cum non possit ullam super seipsam reflexionem exercere, aut ullam habere sui conscientiam, ipsius conditio similis dici potest statui tenebrarum perpetuarum et somni sempiterni.

23. Questa (l’anima del defunto) esiste certamente, ma e come se non esistesse — (Teodicea, Appendice, art. 10, p.638). — Nel quale stato (di natura) non essendo a lei (all’anima separata) possibile alcuna riflessione su di se stessa, nè alcuna coscienza, la sua condizione si potrebbe rassomigliare ad uno stato di perpetue tenebre, e di sempiterno sonno — (Introduz. del Vangelo secondo Giov. lez. 69, p. 217).

XXIV. Forma substantialis corporis est potius effectus animæ, atque interior terminus operationis ipsius: propterea forma substantialis corporis non est ipsa anima. Unio animæ et corporis proprie consistit in immanenti perceptione, qua subiectum intuens ideam affirmat sensibile, postquam in hac eius essentiam intuitum fuerit.

24. La forma sostanziale del corpo è piuttosto un effetto dell’anima e il termine interno delle sue operazioni; e però non è l’anima stessa che sia la forma sostanziale del corpo (Psicol. Par. II, 1. I, c. II, n. 849). — L’unione dell’anima col corpo consiste propriamente in una percezione immanente, per la quale il soggetto intuente l’idea afferma il sensibile dopo averne in questa intuita l’essenza — (Teosof. Vol. V. c. LIII, art. II, § 5, V. 4°, p. 377)

XXV. Revelato mysterio SS. Trinitatis, potest ipsius existentia demonstrari argumentis mere speculativis, negativis quidem et indirectis, huiusmodi tamen ut per ipsa veritas illa ad philosophicas disciplinas revocetur, atque fiat propositio scientifica sicut ceteræ: si enim ipsa negaretur, doctrina theosophica puræ rationis non modo incompleta maneret, sed etiam omni ex parte absurditatibus scatens annihilaretur.

25. Il mistero della Triade… dopo che fu rivelato, esso rimane bensì incomprensibile nella sua propria natura… ma ben… si può conoscere quella (l’esistenza) d’una Trinità in Dio in un modo almeno congetturale con ragioni positive e dirette, e dimostrativamente con ragioni negative ed indirette; e che, mediante queste prove puramente speculative dell’esistenza di un’augustissima Triade, questa misteriosa dottrina rientra nel campo della filosofia. — Questa esistenza (della SS.ma Trinità) diventa una proposizione scientifica come le altre. — Qualora si negasse quella Trinità, ne verrebbero da tutte le parti conseguenze assurde apertamente… O conviene ammettere la divina Triade, o lasciare la dottrina teosofica di pura ragione incompleta non solo, ma pugnante d’ogni parte seco medesima, e dagli assurdi inevitabili straziata a del tutto annullata — (Teos. Vol. I, nn. 191, 193, 194, pp.155—158.)

XXVI. Tres supremæ formæ esse nempe subiectivitas, obiectivitas, sanctitas, seu realitas, idealitas, moralitas, si transferantur ad esse absolutum, non possunt aliter concipi nisi ut personæ subsistentes et viventes. Verbum, quatenus obiectum amatum, et non quatenus Verbum idest obiectum in se subsistens per se cognitum, est persona Spiritus Sancti.

26. L’essere nelle tre forme (subbiettività, obbiettività, santità,o per dirlo altramente: realità, idealità, moralità) è identico. — Le tre forme poi dell’essere, ove si trasportino nell’Essere assoluto, non si possono più concepire in altro modo, che come persone sussistenti e viventi (Vol. I, numeri 190, 196, pp. 154, 159). — Il Verbo in quantoè oggetto amato, e non in quanto è Verbo, cioè oggetto sussistente per sè cognito, è la persona dello Spirito Santo (Introduzione del Vangelo secondo Giov. Lez. 65, p. 200).

XXVII. In humanitate Christi humana voluntas fuit ita rapta a Sp. Sancto ad adhærendum Esse objectivo, idest Verbo, ut illa Ipsi integre tradiderit regimen hominis, et Verbum illud personaliter assumpserit, ita sibi uniens naturam humanam. Hinc voluntas humana desiit esse personalis in homine, et, cum sit persona in aliis hominibus, in Christo remansit natura.

27. Nella umanità di Cristo la volontà umana fu talmente rapita dallo Spirito Santo ad aderire all’essere oggettivo, cioè al Verbo, che ella cedette intieramente a lui il governo dell’uomo, e il Verbo personalmente ne prese il regime, cosi incarnandosi, rimanendo la volontà e le altre potenze subordinate alla volontà in potere del Verbo, che, come primo principio di quest’essere Teandrico, ogni cosa faceva, o si faceva dalle altre potenze col suo consenso. Onde la volontà umana cesso di essere personale nell’uomo, e da persona che è negli altri uomini rimase in Cristo natura… Il Verbo poi, incarnato cosi per opera dello Spirito Santo, estese la sua unione a tutte le potenze ed alla carne stessa — (Introduz. del Vangelo secondo Giov. lez. 85, pag. 281).

XXVIII. In christiana doctrina, Verbum, character et facies Dei, imprimitur in animo eorum qui cum fide suscipiunt baptismum Christi. – Verbum, idest character in anima impressum, in doctrina christiana est Esse reale (in finitum) per se manifestum, quod deinde novimus esse secundam personam SSmæ Trinitatis.

28. Insegno dunque il Cristianesimo che il Verbo, carattere e faccia di Dio, come viene anche sovente chiamato nelle Scritture, s’imprime nelle anime di quelli che colla fede ricevono il battesimo di Cristo (Introduz. alla Filosofia, n. 92). — Il Verbo dunque, ossia il carattere impresso nell’anima, secondo il cristiano insegnamento è l’essere reale (infinito) per sè manifesto, il quale dipoi sappiamo essere una persona, la seconda della divina Trinità. (Ivi nota).

XXIX. A catholica doctrina, quæ sola est veritas, minime alienam putamus hanc coniectu ram: In eucharistico Sacramento substantia panis et vini fit vera caro et verus sanguis Christi, quando Christus eam facit terminum sui principii sentientis, ipsamque sua vita vivificat: eo ferme modo quo panis et vinum vere transubstantiantur in nostram carnem et senguinem, quia fiunt terminus nostri principii sentientis.

29. Non crediamo aliena dalla dottrina cattolica, che solo è verità, la seguente conghiettura (cioè che nell’Eucaristico Sacramento) la sostanza del pane e del vino ha cessato intieramente d’essere sostanza del pane e del vino, ed è divenuta vera carne e vero sangue di Cristo, quando Cristo la rese termine del suo principio senziente, e così l’avvivo della sua vita, a quel modo come accade nella nutrizione, che il pane che si mangia e il vino che si beve, quando è, nella sua parte nutritiva, assimilato alla nostra carne e al nostro sangue, egli è veramente transustanziato, e non è più come prima pane o vino, ma è veramente nostra carne e nostro sangue, perché è divenuto termine del nostro principio sensitivo. — (Introduzione del Vang. secondo Giov. lez. 87, pp. 285-286).

XXX. Peracta transubstantiatione, intelligi potest, corpori Christi glorioso partem aliquam adiungi in ipso incorporatam, indivisam pariterque gloriosam.

30. Avvenuta la transustanziazione, si può intendere che al corpo glorioso (di G. Cristo) si sia aggiunta qualche parte in esso incorporata ed indivisa e del pari gloriosa. — (Ivi).

XXXI. In Sacramento eucharistiæ, vi verborum corpus et sanguis Christi est tantum ea mensura quæ respondet quantitati (a quel tanto ) substantiæ panis et vini quæ transubstantiantur: reliquum corporis Christi ibi est per concomitantiam.

31. Appunto perché il corpo di Cristo è unico ed indiviso, egli è necessario che dove si trovi una parte si trovi tutto…; ma non tutto quel corpo diviene termine del suo principio senziente, ma unicamente quella parte che corrisponde a quel tanto che v’aveva di sostanza di pane e di sostanza di vino nella transustanziazione. Ancora ne verrebbe che in virtù delle parole divine questa sostanza del pane e del vino si transustanziasse in carne e sangue del Salvatore ; ma il rimanente del corpo e del sangue vi rimanesse unito per concomitanza; il che non par contrario alla dottrina cattolica — (Ivi, p. 286, seg.).

XXXII. Quoniam qui non manducat carnem Filii hominis et bibit eius senguinem, non habet vitam in se; et nihilominus qui moriuntur cum baptismate aquæ, sanguinis aut desiderii certo consequuntur vitam æternam: dicendum est, his, qui in hac vita non comederunt corpus et sanguinem Christi subministrari hunc coelestem cibum in futura vita, ipso mortis instanti. – Hinc etiam Sanctis V. T. potuit Christus descendens ad inferos seipsum communicare sub speciebus panis et vini, ut aptos eos redderet ad visionem Dei.

32. Se dunque chi non mangia la carne del Figliolo dell’uomo, e bee il suo sangue, non ha la vita in se stesso, e tuttavia chi muore col battesimo d’acqua, o di sangue o di desiderio, è certo che acquista la vita eterna; convien dire che quella comestione della carne e del sangue di Cristo, che non fece nella vita presente, gli verrà somministrata nella futura al punto della sua morte e cosi avra la vita in sè stesso… Anche a’ Santi dell’antico Testamento, quando Cristo discese ai Limbo, potè Cristo communicare se stesso sotto la forma di pane e di vino, e così… renderli atti alla visione di Dio. — (Introd. del Vang. secondo Giovanni, lez. 74, p. 238).

XXXIII. Cum dæmones fructum possederint, putarunt se ingressuros in hominem si de illo ederet; converso enim cibo in corpus hominis animatum, ipsi poterant libere ingredi animalitatem, idest in vitam subiectivam huius entis, atque ita de eo disponere sicut proposuerant.

33. (I demonii) impossessatisi di un frutto pensarono che entrerebbero nell’uomo, quando egli, spiccatolo dall’albero, ne mangiasse; giacchè, il cibo convertendosi nel corpo animato dell’uomo, essi potevano entrare a man salva nell’animalità, ossia nella vita soggettiva di questo essere, e farne quel governo che si proponevano. — (Introduz. del Vang. secondo Giov. lez. 63, p. 191).

XXXIV. Ad præservandam B. V. Mariam a labe originis, satis erat ut incorruptum maneret minimum semen in homine, neglectum forte ab ipso dæmone; e quo incorrupto semine, de generatione in generationem transfuso, suo tempore oriretur Virgo Maria.

34. Preservò (Iddio) dal peccato originale una donzella…; alla quale preservazione dall’infezione originale bastava che rimanesse incorrotto un menomo seme nell’uomo, trascurato forse dal demonio stesso, dal quale seme incorrotto passato di generazione in generazione uscisse a suo tempo la Vergine — (Ivi, lez. 64, p. 193).

XXXV. Quo magis attenditur ordo iustifcationis in homine, eo aptior apparet modus dicendi scripturalis quod Deus peccata quædam tegit aut non imputat. — Juxta Psalmistam discrimen est inter iniquitates quæ remittuntur et peccata quæ teguntur: illæ, ut videtur, sunt culpæ actuales et liberæ, hæc vero sunt peccata non libera eorum qui pertinent ad populum Dei, quibus propterea nullum afferunt nocumentum.

35. Più che altri considera questo ordine della giustificazione dell’uomo, più troverà acconcia la maniera scritturale di dire che Dio cuopre certi peccati o non gl’imputa. Infatti col battesimo non si distrugge la mala volontà naturale, ma le se n’aggiunge una soprannaturale, che cuopre, per così dire, la naturale, e impedisce che quella perda l’uomo. Onde il Salmista dice: Beati, quelli le iniquità dei quali furono rimesse, e i peccati de’ quali furono coperti; dove si fa la differenza fra le iniquità che si rimettono, e i peccati che si cuoprono, e sembra che per quelle si vogliano intendere le colpe attuali e libere, e per questi i peccati non liberi di quelli che appartengono al popolo di Dio, e che pero non ne ricevono più danno alcuno — (Trattato della coscienza morale, l. I, c. 6. a. 2).

XXXVI. Ordo supernaturalis constituitur manifestatione esse in plenitudine suæ formæ realis; cuius communicationis seu manifestationis effectus est sensus (sentimento) deiformis qui inchoatus in hac vita constituit lumen fidei et gratiæ, completus in altera vita constituit lumen gioriæ.

36. L’essere (essenziale) si comunica a noi nella sola forma ideale per natura, e questo costituiscel’ordine naturale; l’essere stesso si manifesta a noi altresì nella pienezza della sua forma realeper grazia, e questa è comunicazione e percezione vera di Dio, e costituisce l’ordine soprannaturale…. l’effetto della comunicazione soprannaturale è un sentimento deiforme, di cui non abbiamo a principio coscienza, come non l’abbiamo di ogni sentimento nostro sostanziale e fondamentale. Or poi il sentimento deiforme, di cui parliamo, è incipiente in questa vita, nella quale costituisce il lume della fedee della grazia; compiuto nell’altra, nella quale costituisce il lume della gloria — (Filosof. del Diritto, Part. II. nn. 674, 676, 677).

XXXVII. Primum lumen reddens animam intelligentem est esse ideale; alterum primum lumen est etiam esse, non tamen mere ideale sed subsistens ac vivens: illud abscondens suam personalitatem ostendit solum suam obiectivitatem; at qui videt alterum (quod est Verbum) etiamsi per speculum et in ænigmate, videt Deum.

37. Il primo lume che rende l’anima intelligente è l’essere ideale ed indeterminato ; l’altro primo lume è ancora l’essere, ma non puramente ideale, ma ben anche sussistenze e vivente…. L’idea adunque è l’essere intuìto dall’uomo, ma non è il Verbo; chè non quella ma questo è sussistenza: quello è l’essere che occulta la sua sussistenza e lascia solo trasparire la sua oggettività indeterminata ed impersonale: nella mente che intuisce l’idea non cade la personalità dell’essere… ma chi vede il Verbo ancorchè per ispecchio ed in enimma, vede Iddio — (Introd. alla Filosofia, n. 85).

XXXVIII. Deus est obiectum visionis beatificæ, in quantum est auctor operum ad extra.

38. Sebbene Iddio senza mezzo alcuno sia oggetto della visione beatificatrice, e forma dell’intelletto dei Beati; tuttavia egli è tale in quanto è autore delle opere ad extra, le quali in un modo ineffabile sono in lui — (Teodicea, num. 672).

XXXIX. Vestigia sapientiæ ac bonitatis quæ in creaturis relucent, sunt comprehensoribus necessaria; ipsa enim in æterno exemplari collecta sunt ea Ipsius pars quæ ab illis videri possit (che è loro accessibile), ipsaque argumentum præbent laudibus, quas in æternum Deo beati concinunt.

39. I vestigii della sapienza e della bontà del creato, lungi dal divenire loro (ai comprensori) inutili, anzi riescono necessarii; perocchè questi vestigii tutti raccolti nell’esemplare eterno sono appunto quella parte di esso che è loro accessibile, onde sono tuttavia quelli che danno argomento alle lodi che a Dio eternamente tributano — (Ivi, n. 674).

XL. Cum Deus non possit, nec per lumen gloriæ, totaliter se communicare entibus finitis, non potuit essentiam suam comprehensoribus revelare et communicare nisi eo modo qui finitis intelligentiis sit accommodatus: scilicet Deus se illis manifestat quatenus cum ipsis relationem habet ut eorum creator, provisor, redemptor, sanctificator.

40. Se dunque non potea (Dio) comunicare se stesso totalmente ad esseri finiti, neppure mediante il lume di gloria, rimane a cercare in che modo Egli poteva rivelare loro e comunicare la propria essenza. Certo in quel modo che alla natura delle intelligenze create è conforme; e questo modo è quello pel quale Iddio ha con esso loro relazione, cioè come creatore loro, come provisore, come redentore, come santificatore — (Ivi, n. 677).

Ioseph Mancini S. Rom. et Univ. Inquisitionis Notarius.

Lettera con la quale l’E.mo Cardinale Segretario del S. Uffizio comunica il Decreto della. S. R. ed Universale Inquisizione e le quaranta proposizioni condannate, a ciascun membro dell’Episcopato cattolico.

Ill.me ac Rm.e Domine,

Hisce adiunctum litteris transmittitur ad Amplitudinem Tuam decretum generale quo Suprema Congregatio Em.orum Patrum una mecum Inquisitorum Generalium, adprobante et confirmante SS.mo Domino Nostro Leone XIII, plures propositiones ex operibus, quae sub nomine Antonii Rosmini Serbati edita sunt, damnantur et proscribuntur. Quapropter excitatur pastoralis cura et vigilantia Amplitudinis Tuae ut a damnatis huiusmodi doctrinis oves fidei tuae concreditas quam diligentissime custodias; ac si qui forte sint in ista dioecesi qui illis adhuc faveant, eos ad S. Sedis iudicium docili animo recipiendum inducere studeas. Præcipue vero eniteris ut mentes adolescentium, eorum praesertim qui in spem Ecclesiæ in Seminario aluntur, germana catholicae Ecclesiæ doctrina e puris fontibus Sanctorum Patrum, Ecclesiae Doctorum, probatorum auctorum, ac praecipue Angelici Doctoris S. Thomae Aquinatis, hausta imbuantur.

Tibi interim fausta omnia ac felicia precor a Domino.

Datum Romæ, die 7 Martii 1888.

Addictissimus in Domino

Card. Monaco.

 

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (30): ERRORI IN ROSMINI (2)

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (30):

Errori in ROSMINI (2)

VI

ERRORI SULLA NATURA DELL’UOMO

24. L’uomo è composto da un corpo e da un’anima. L’anima è una sostanza spirituale, cioè indipendente dal corpo nella esistenza. Essa ha diverse facoltà, le une intrinsecamente indipendenti dal corpo, come la facoltà di comprendere, quella di volere, le altre intrinsecamente dipendenti, come quella di immaginare, quella di vedere. Il corpo riceve dall’anima la vita, il movimento ed anche le attività fisiche e chimiche. L’anima ha un grado di vita che tiene in proprio; è la vista intellettuale, consistente nelle operazioni dell’intelligenza e della volontà. Essa ha due gradi di vita che comunica al corpo, è: 1° la vita vegetativa, che consiste nella nutrizione, l’accrescimento e la riproduzione; 2° la vita sensitiva, che si esercita mediante i sensi esteriori, come la vista, l’udito, etc., ed i sensi interiori, l’immaginaione, l’estimativo, etc. – E non soltanto l’anima comunica al corpo la vita, ma gli comunica anche l’essere sostanziale, di modo tale che il corpo riceve dall’anima sia la proprietà di essere una sostanza vivente, sia quella di essere semplicemente una sostanza. Ecco perché l’anima è chiamata la forma del corpo, perché essa è il principio di tutti gli atti che sono in lui, dell’atto primo, che lo rende sostanza, degli atti secondi, che sono tutte le attività e le proprietà che derivano dalla sostanza. – L’anima è una sostanza, non è un’operazione: essa è prima dell’operazione, essa può essere dopo l’operazione: l’operazione deriva dall’anima, non la costituisce. L’anima non è anche una facoltà, ma il principio dal quale le facoltà emanano, la fonte che si distribuisce in esse. Tali sono le verità che la ragione umana e la fede ci fanno conoscere sulla natura dell’uomo.

25. Rosmini contraddice quasi tutti i punti di questa dottrina. L’anima, egli presume, è costituita sensitiva dal sentimento che essa ha del corpo; essa è costituita intellettuale dall’intuizione che acquisisce dell’essere; essa è unita al corpo dal sentimento del corpo e dalla percezione dell’essere nell’essenza del corpo. Ecco i punti principali del suo sistema.

26. In primo luogo, l’anima, secondo lui, ha originariamente il sentimento del corpo. È questo sentimento che la costituisce nella sua essenza. L’anima sensitiva, egli dice, è essenzialmente un’operazione, un atto sensitivo, il primo atto sensitivo, avendo come termine il corpo; essa è nella sua essenza, il sentimento stesso del corpo. Questo sentimento primo è veramente essenziale all’anima, questo sentimento costitutivo dell’anima sensitiva, è conosciuto nella scuola rosminiana sotto il nome di senso fondamentale. Esso ben merita, nella teoria rosminiana, il qualitativo di fondamentale, poiché è il fondamento di tutta la vita dell’anima e del suo essere in se stesso.

27. In secondo luogo, come l’anima è costituita sensitiva dal sentimento del corpo, così essa è costituita intellettiva dall’intuizione dell’idea. « Quando il principio sensitivo riceve l’intuizione dell’essere, egli dice, il principio, che in precedenza non aveva che il sentire, diviene nello stesso tempo intelligente: con questo solo contatto, con questa unione, esso è elevato ad uno stato più nobile, cambia natura, diviene intelligente, sussistente, immortale [Cum sensitivo principio intuibile fit esse, hoc solo tacta, hac sui unione principium illud antea solum sentiens, nunc simul intelligens, ad nobiliorem statum evehitur, naturam mutat, ac fit intelligens, subsistens atque immortale. (Prop. XXI)]. » Prima della percezione dell’essere, l’anima è solo sensitiva, e come tale, si trova sprovvista di intelligenza, di sussistenza e di immortalità; con l’intuizione dell’idea, del principio puramente sensitivo, essa diviene principio sia sensitivo che intellettuale: principium illud antea solum sentiens, nec simul intelligens. Essa si trova elevata ad uno stato più nobile, perché risale da una vita organica alla vita spirituale: ad nobiliorem statum evehitur. Essa cambia natura: naturam mutat. Diviene ragionevole, sussistente, immortale: fit intelligens, subsistens atque immortale. Rosmini non retrocede davanti ad alcuna di queste espressioni. Così l’anima umana non è ragionevole in virtù della sua natura, ma per effetto di una illustrazione esteriore, per la manifestazione esteriore dell’essere, per manifestationem entis aforis illustrantis. Rosmini insegna espressamente questa dottrina!

28. Ma se l’anima umana non è originariamente ed essenzialmente spirituale o intellettuale, se essa ha cominciato con l’essere solamente sensitiva, essa ha potuto essere il prodotto della generazione come le anime degli animali e delle piante- Rosmini ammette questa conseguenza. « Non ripugna, egli dice, che l’anima umana si moltiplichi per generazione, in modo da poterla concepire come elevarsi gradualmente dall’imperfetto, cioè dal grado dell’essere sensitivo, al perfetto, cioè al grado dell’essere intelligente [Non répugnât ut anima humana generatione multiplicetur, ita ut concipiaiur eam ab imperfecto, nempe a gradu sensitivo, ad perfectum, nempe ad gradum intellectivum procedere. (Prop. XX). »

29. Altra conseguenza. Se l’anima umana è diventata intellettuale e spirituale con una manifestaione esteriore dell’essere, non può cessare di essere ragionevole e ridiventare puramente sensitiva, con la soppressione di questa illuminazione esteriore? Rosmini non respinge questa conclusione. « Non è impossibile pensare, egli dice, che la potenza divina potrebbe separare l’anima intellettiva dal corpo animato e questo assumerebbe il suo carattere animale; essa resterebbe nel corpo in effetti, come base di una pura animalità, un principio animale che, precedentemente, era in lui come appendice [Non est cogitatu impossible divina potentia fieri posse ut a corpore anima intellectiva separetur et ipsum adhuc maneat animale: maneret nempe in ipso, tamquam basis puri animalis, principium animale, quod antea in eo erat veluti appendix. (Prop. XXII) »

30. Altra conseguenza ancora.

Nel sistema rosminiano, l’intuizione dell’essere suppone il sentimento del corpo o il senso fondamentale, perché il principio intellettivo è il coronamento de del principio sensitivo. Così senza il senso fondamentale, ogni esercizio della vita intellettuale è impossibile. Rosmini conclude da questo principio che il defunto non ha più conoscenza attuale: « Nello stato naturale, egli dice, l’anima del defunto esiste come se non esistesse; poiché non può fare riflessione su se stessa, né aver alcuna coscienza di se stessa, si può dire che la sua condizione è simile ad uno stato di tenebre perpetue e di sonno eterno [In statu naturali, anima defuncti existit perinde ac non existeret: cum non possit ullam super seipsam reflexionem exercere, aut ullam habere sui conscientiam, ipsius conditio similis dici potest statui tenebrarum perpetuarum et somni sempiterni. (Prop. XXII)].

31. In terzo luogo Rosmini fa dipendere l’unione dell’anima e del corpo dal senso fondamentale e dalla percezione dell’essere. « L’unione dell’anima e del corpo consiste propriamente nella percezione immanente per la quale, il soggetto, contemplando l’idea, afferma il sensibile di cui ha contemplato l’essenza in questa idea [Unio animæ et corporis proprie consistit in immanenti perceptione, qua subjectum intuens ideam affirmat sensibile, postquam in hac ejus essentiam intuitum fuerit. (Prop. XXIV)]. Vale a dire, se noi comprendiamo bene il pensiero del filosofo, l’anima si unisce al corpo percependone il corpo sensitivamente, ed avendo il sentimento del corpo, ciò che Rosmini chiama il senso fondamentale, intellettivamente vedendone l’essere generale nel sensibile. L’unione dell’anima al corpo ha dunque luogo, secondo Rosmini, non per unione di sostanze, come insegna tutta la Scuola, non pure per la compenetrazione delle virtù, come hanno detto alcuni filosofi, ma per semplice percezione. L’anima sensitiva ed intellettiva si trova unita al corpo, avendo del corpo una percezione sensitiva ed intellettuale. Essa gli è unita perché la conosce! Questa dottrina scuote il buon senso. La conoscenza suppone l’oggetto, non lo fa: la percezione sensitiva o intellettuale del corpo unito, suppone l’unione del corpo, non la costituisce. Ed in effetti, o il corpo che sente l’anima e nel quale raggiunge l’essere, gli è unito, o non gli è unito affatto, l’unione non è l’effetto della percezione; se non gli è unito, l’anima si inganna percependolo come se fosse unito. Non si può uscire da questo dilemma.

32. L’errore di Rosmini sull’unione dell’anima al corpo, lo conduce ad un altro errore sulla forma del corpo. Noi abbiamo visto che l’anima si unisce al corpo percependolo con un atto sensitivo ed un atto intellettivo. Ma, se è così, il corpo ha la sua sostanza ed anche la sua vita indipendentemente dal corpo; esso ha dunque di se stesso una forma sostanziale. Di conseguenza, non è l’anima che è, secondo quanto insegna la Chiesa, la sua forma sostanziale. Chi potrebbe dire in effetti che una percezione è una forma sostanziale, un atto primo, un principio di sostanza? Il corpo ha dunque, fuori dall’anima, la sua forma sostanziale; la forma sostanziale del corpo è il termine dell’azione dell’anima, non è l’anima: « La forma sostanziale, dice Rosmini, è piuttosto un effetto dell’anima ed il termine interiore della sua operazione, ecco perché la forma sostanziale del corpo non è l’anima stessa [(Forma substantialis corporis est potius effectus animæ, atque interior terminus operationis ipsius: propterea forma substantialis corporis non est ipsa anima. (Prop. XXIV)] ».

VII

ERRORI SULLA SANTISSIMA TRINITA’

 33. Gli errori che abbiamo finora esaminati, possono essere tutti chiamati degli errori filosofici; perché essi sono opposti a delle verità che la ragione naturale può dimostrare. Quelli che, al contrario ci restano da esaminare, sono propriamente degli errori teologici: Questi sono degli errori concernenti i dogmi della fede, vale a dire quelle verità soprannaturale di cui la ragione può ammirare l’armonia con le verità naturali, ma che essa non può stabilire con i principi propri. E innanzitutto Rosmini ha insegnato due errori fondamentali sul mistero della Santissima Trinità. In primo luogo, egli ha preteso, come Hermès in Germania, che la ragione umana, con le sue forze naturali, potesse dimostrarne l’esistenza con certezza. Egli confessa che la ragione non può scoprire questo mistero, ma sostiene che essa può provarlo dopo essere stato rivelato. Egli confessa anche che non può provarlo con argomenti diretti e positivi, cioè che non può partire da un principio razionale e dedurne il dogma come una conseguenza che vi sarebbe racchiusa; ma egli pretende di poterlo dimostrare con degli argomenti negativi ed indiretti, cioè con argomenti che stabiliscono che bisogna ammettere il dogma, sotto pena di cadere nell’assurdo. Rosmini sostiene per conseguenza, che il dogma della Santissima Trinità è, propriamente parlando, una verità scientifica. « Posta la rivelazione del mistero della Santissima Trinità, egli dice, la sua esistenza può dimostrarsi con argomenti puramente speculativi, negativi, è vero, ed indiretti, ma di natura tale che per essi, questa verità è ricondotta sul terreno dell’insegnamento filosofico e diventa una verità scientifica come le altre; perché se questa verità fosse negata, la dottrina teosofica di pura ragione, non solo resterebbe incompleta, ma anche si riempirebbe di assurdità su tutti i punti: essa sarebbe annichilita [(Revelato mysterio Sanctissimæ Trinitatis, potest ipsius existentia demonstrari arguments mere speculativis, negativis quidem et indirectis, hujusmodi tamen ut per ipsa veritas illa ad philosophicas disciplinas revocetur, atque fiat propositio scientifica sicut ceteræ; si enim ipsa negaretur, doctrina theosophica puræ rationis non modo incompleta maneret, sed etiam omni ex parte absurditatibus scateus annihilaretur. (Prop. XXV)]. »

35. Questa dottrina è in contraddizione con tutta la tradizione cattolica. Pio IX ha più volte insegnato, contro gli hermèsiani germanici, che, secondo l’unanimità dei Padri e dei teologi cattolici, i dogmi dela fede sono dei misteri per la ragione umana, e che il mistero della Santissima Trinità , il più profondo di tutti, è talmente al di sopra dei lumi della ragione umana, che essa non può né scoprirlo né provarlo. Il Concilio Vaticano ha solennemente definito questo insegnamento. « I misteri divini, dice, oltrepassano talmente per loro natura l’intelligenza creata, che anche dopo essere stati trasmessi dalla rivelazione, e noi li abbiamo ricevuti per fede, essi restano tuttavia coperti dal velo della fede e come avvolti da una certa nebulosità, intanto che viaggiamo in questa vita mortale, lontano dal Signore, perché noi camminiamo verso di Lui con la fede e non con la visione chiara divina [(enim mysteria suapte natura intellectum creatum sic excedunt, nt etiam revelatione tradita et fide suscepta ipsius tamen fidei velamine contecta et quadam quasi caligine obvoluta maneant, quamdiu in hac mortali vita peregrinamur a Domino: Per fidem enim ambulamus et non per speciem. (Constit. De fide cath., cap. IV.)]. »

36. Rosmini non attribuisce alla ragione la forza di provare il mistero della Trinità, se non perché altera la nozione del dogma. La fede ci insegna che Dio sussiste in tre Persone. La sostanza divina ha tre sussistenze, in cui Dio è tre Persone, il Padre, che ha tutta la sostanza divina, ma come principio primo; il Figlio, che ha tutta la sostanza divina ancora, ma ricevuta dal Padre per generazione; lo Spirito-Santo, che ha pure tutta la sostanza divina, ma ricevuta dal Padre e dal Figlio come da un unico principio, con un processo distinto di generazione. Tutto è comune alle tre Persone, eccetto la loro opposizione di origine: Non est distinctio in divinis nisi ubi adsit relationis oppositio. Il Padre ed il Figlio hanno una medesima intelligenza, una stessa volontà, una stessa potenza, una stessa divinità; ma il Padre possiede l’Essere divino come principio; il Figlio per generazione. Lo Spirito Santo ha la stessa intelligenza, la stessa volontà, la stessa potenza, la stessa divinità del Padre e del Figlio; ma Egli possiede l’Essere divino per processione dal Padre e dal Figlio, mentre il Padre ed il Figlio lo posiedono come autori dello Spirito-Santo. Tutto ciò che è assoluto in Dio è unico, il relativo solo è moltiplicato: l’essere e le sue proprietà sono uniche in Dio; le processioni e le proprietà fondate sulle processioni possono solo dirsi al plurale. Tale è l’insegnamento della Chiesa, insegnamento unanime, eclatante, tipetuto mille e mille volte dai Padri, definito dai Concili, prodotto nelle liturgie, spiegato nei catechismi.

37. Rosmini riporta una nuova dottrina. Egli non si accontenta di moltiplicare in Dio il relativo, egli moltiplica l’assoluto. Secondo lui il Padre, il Figlio e lo Spirito-Santo sono le tre forme supreme dell’Essere, vale a dire, come si esprime: la soggettività, l’oggettività e la santità o la realtà, la idealità e la moralità. « Le tre forme suprene dell’essere, egli dice, cioè la soggettività, l’oggettività, la santità, in altri termini la realtà, l’idealità, la moralità, essendo trasferite all’essere assoluto, non possono concepirsi altrimenti che come Persone sussistenti e viventi [(Tres suprEmæ formæ esse, nempe subjectivitas, objectivitas, sanctitas, seu realitas, idealitas moralitas, si transferantur ad esse absolutum, non possunt aliter concipi nisi ut personne subsistentes et viventes. (Prop. XXVI.)] » Il Padre è Dio che è, il Figlio è Dio conosciuto; il Santo-Spirito è Dio amato. « Il Verbo, come oggetto amato, e non in tanto che Verbo, cioè oggetto sussistente in sé e per sé conosciuto, è la Persona dello Spirito-Santo. [(Verbum, quatenus objectum amatum et non quatenus Verbum id est obiectum in se subsistens per se cognitum, est persona Spiritus Sancti. (ibid.)]. »

37 bis. Spieghiamo un po’ il pensiero del filosofo. Tutto l’Essere è. Questa proprietà prima dell’essere, che fa dire di lui che è: ecco ciò che Rosmini chiama la realtà o la soggettività. In secondo luogo, l’essere è intellegibile, cioè può essere conosciuto. Questa proprietà che ha l’essere di poter essere conosciuto, è ciò che la Scuola chiama “la verità dell’essere”, ciò che Rosmini chiama l’oggettività o idealità. In terzo luogo, l’essere è buono: così come è l’oggetto dell’intelligenza, così esso è l’oggetto della volontà; ed anche oggetto dell’intelligenza, esso è intellegibile, così intanto che oggetto della volontà, eso è capace di provocare l’amore. Questa terza proprietà dell’essere è ciò che la Scuola chiama la bontà, e che Rosmini chiama meno giustamente la santità o la moralità. È manifesto che queste tre proprietà convengono essenzialmente all’essere in generale, di conseguenza a tutto l’essere. Ma, in Dio, l’essere appartiene alla natura e non alle relazioni. Le tre proprietà dell’essere non possono dunque essere in Dio qualcosa di relativo, ma solamente di assoluto. Pertanto, esse devono dirsi egualmente del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: il Padre è, il Figlio è, lo Spirito Santo è; il Padre è intellegiile, il Figlio è intellegibile, lo Spirito Santo è intellegibile; il Padre è buono e santo, il Figlio è buono e santo, lo Spirito Santo è buono e santo. Rosmini al contrario, pretende di stabilire, su queste tre proprietà dell’essere, la distinzione delle tre Persone. « Le tre forme supreme dell’essere, dice, e cioè: la soggettività, l’oggettività, la santità; in altri termini la realtà, l’idealità, la moralità, essendo trasferite all’essere assoluto, non possono concepirsi altrimenti che come Persone sussistenti e viventi (Prop. XXVI). » Vale a dire la realtà vivente, è il Padre; l’idealità sussistente, è il Figlio; la santità assoluta, è lo Spirito Santo. Che inversione del mistero!

38. Qui ancora, Rosmini è giunto a causa della sua infatuazione per l’essere in generale. Questo essere è così grande ai suoi occhi, che in precedenza lo ha identificato con l’essere divino; esso è così perfetto che vede ora nelle sue forme le sussistenze o le tre Persone divine.

39. Rosmini non ha visto che la sua teoria della Trinità lo conduce necessaramente al triteismo o al sabellianesimo? In effetti egli ben ammette una distinzione reale tra le tre forme dell’essere; in questo caso, come queste forme non esprimono un rapporto d’origine, ma qualcosa di assoluto, è nella necessità di mettere in Dio tre realtà assolute e, di conseguenza, tre sostanze. – Eppure egli confessa che queste tre forme non hanno tra loro che una differenza di ragione; in questo caso, le tre Persone sono tre concetti dell’assoluto, cioè che non c’è più in Dio che una sola Persona reale, come non c’è in Lui che una sola sostanza divina. Rosmini non è potuto sfuggire a questo dilemma. Dal momento che egli cessa di cercare la distinzione di Persone divine, nell’opposizione di relazione per metterla in una forma assoluta, occorre dunque che egli rigetti le tre Persone e che ammetta tre sostanze.

VIII

ERRORI SULL’INCARNAZIONE

40. Rosmini altera la nozione del mistero dell’Incarnazione, così come quella del dogma della Santissima Trinità. Egli pone l’unione della natura umana alla natura divina nella sottomissione della volontà umana alla volontà divina: « Nella volontà del Cristo, egli dice, la volontà umana fu talmente rapita dallo Spirito-Santo ad aderire all’essere oggettivo, cioè al Verbo, che gli abbandonò integralmente il governo dell’uomo, e che il Verbo assunse, nella sua Persona, questo governo e si unì così la natura umana. [(In humanitate Christi bumana voluntas fuit ita rapta a Spiritu Sancto ad adhærendum Esse objectivo, id est Verbo, ut illa Ipsi intègre tradiderit regimen hominis et verbum illud personaliter assumpserit, ita sibi uniens naturam humanam. (Prop. XXVII)]. Per effetto della grazia dello Spirito-Santo, la volontà umana è tutta catturata dalle attrattive del Verbo: rapta a Spiritu Sancto; Essa si attacca a Lui indissolubilmente: ad adhærendum Esse objectivo, id est Verbo; essa ne dirige la sua condotta e la condotta di tutte le facoltà che dipendono da essa: illa ipsi intègre. La natura umana si trova unita ipostaticamente al Verbo, che essa ha abbandonato alla sua direzione: Verbum illud personaliter assumpserit, ita sibi uniens naturam humanam. La volontà cessa di essere personale per l’effetto della sua unione affettiva al Verbo. « È in questa maniera, dice Rosmini, che la volontà umana, nel Cristo uomo, cessa di essere personale, come lo è negli altri uomini, e resta semplice natura [(Hinc voluntas humaria desiit esse personalis in homine, et, cum sit persona in aliis bominibus, in Christo remansit natura. (Ibid.)] » Concludiamo: l’unione della natura umana alla natura divina è puramente morale. Ne deriva la finale deduzione: Rosmini professa il Nestorianesimo.

41. Senza dubbio, l’unione della natura umana alla natura divina è morale, perché la volonà umana è pienamente sottomessa alla volontà divina. Ma essa non è semplicemente morale, essa è naturale, fisica, personale, ipostatica; i Padri hanno impiegato tutte le espressioni. Vale a dire che la natura umana diviene qualcosa del Verbo, essa è presa dalla Persona del Verbo, che la fa sua, comunicandogli la propria sussistenza. Ecco perché la natura umana non ha sussistenza propria. Ecco perché il Verbo che sussiste eternamente nella natura divina, sussiste dall’Incarnazione nella natura umana. Ecco perché la Persona stessa del Verbo « opera nella natura divina, le cose che sono di Dio ed esegue, nella natura umana, le cose che sono dell’uomo ». ecco perché Egli è uomo, così come è Dio.

IX

ERRORI SUL CARATTERE DEL CRISTIANO

42. Rosmini professa un grave errore sul carattere del Cristiano: « Secondo la dottrina cristiana, egli dice, il Verbo, carattere e faccia di Dio, è impresso nell’anima di coloro che ricevono con fede il Battesimo del Cristo [(In christiana doctrina, Verbum character et faciès Dei, imprimitur in animo eorum qui cum fide suscipiunt baptismum Christi. (Prop. XXVIII.) ». – Il carattere del Cristiano non è, secondo Rosmini, una rassomiglianza al Verbo, bensì è la sostanza stessa del Verbo impressa nell’anima; questa non è una qualità che rende l’uomo conforme a Dio, ma è il Verbo di Dio: Verbum, character et faciès Dei, imprimitur. Ma, noi lo abbiamo già visto, il Verbo è l’essere ideale in cui « l’essere infinito è per se stesso manifesto », ecc. perché, aggiunge Rosmini, « il Verbo, cioè il carattere impresso nell’anima, è, secondo la dottrina cattolica, l’essere reale o infinito, per sé manifesto, che abbiamo in seguito appreso essere la seconda Persona della Santissima Trinità [(Verbum, id est, character in anima impressum, in doctrina christiana est Esse reale (infinitum) per se manifestum, quod deinde novimus esse secundam personam Sanctissimæ Trinhatis. (Ibid.)]». – E, siccome il carattere è un proprio dell’animo, si vede costretto a sostenere che l’anima diventi il Verbo, o che il Verbo diventi l’anima. Si ricade di nuovo nel Panteismo!

43. Secondo la dottrina cattolica, l’essere soprannaturale produce in noi, con la giustificazione, la nuova creatura. Come si esprime la sacra Scrittura, è un accidente depositato nella mera sostanza, una forma che eleva la nostra anima al di sopra del suo stato naturale, una abitudine, una qualità che orna ed eleva il nostro essere e le sue potenze, le rende sì amorevolmente belle che Dio stesso trova le sue compiacenze in esso. – In questo essere soprannaturale, in questa nuova creatura, bisogna distinguere la grazia, abitudine o qualità ricevuta, secondo San Tommaso d’Aquino, nella sostanza stessa dell’anima, e che eleva questa sostanza ad una dignità simile a quella di Dio stesso; la fede, la speranza, la carità, le altre virtù soprannaturali, i doni dello Spirito-Santo, che rendono le nostre facoltà capaci di operazioni divine. – Con questa elevazione della nostra natura e delle nostre potenze, noi diventiamo « partecipi della natura divina », come dice S. Pietro. Questa partecipazione non è soltanto morale, essa è fisica; vale a dire che essa non ci dà semplicemente una disposizione ad imitare Dio, nel voler l’onestà, la giustizia come Dio, ma ci dà la potenza di produrre lo stesso oggetto di quello di Dio, un atto di conoscenza che immediatamente Dio per oggetto, come atto per il quale Dio si vede, un atto di amore che abbia immediatamente per oggetto il Bene sovrano, come l’atto con cui si ama Dio. – Ma siamo noi che vediamo Dio, non è Dio che si mette in noi per produrre l’atto della visione. Questo nome che amiamo, Dio, non è Dio che ama se stesso in noi. La nostra intelligenza, non è l’intelligenza divina, è il soggetto della conoscenza soprannaturale; la nostra volontà, non la volontà divina, diviene il soggetto ed il principio di operazioni divine, di operazioni che non appartengono naturalmente che a Dio, che ci sono misericordiosamente comunicate. Ecco perché la grazia e tutti i doni soprannaturali non sono la sostanza stessa di Dio messa in noi, diffusa in noi, agente in noi; sono degli accidenti, delle forme seconde, qualità della nostra natura e delle nostre facoltà, qualità che non possono essere naturali in nessun essere, creato e creabile, e che non possono trovarsi nella creatura che per una comunicazione tutta gratuita, essenzialmente soprannaturale, fatta alla natura. – Ora, il carattere del Cristiano è una prima qualità prodotta dal Battesimo e che è come il fondo di tutto l’essere soprannaturale formato in questo Sacramento; è una potenza data all’anima e che la rende capace di ricevere i doni divini; è una partecipazione al sacerdozio di Gesù-Cristo ed a Gesù-Cristo stesso, dando all’anima il potere di fare le azioni di questo sacerdozio nel servizio generale della Maestà divina, ma una partecipazione primordiale ed imperfetta che dà la nuda potenza e che per questo può sussistere nel dannato. – Di conseguenza, questa partecipazione, questa prima qualità, questa nuda potenza, o qualunque altro nome gli si voglia dare, non sarebbe mai il Verbo stesso, ma qualcosa di creato. – È il caso di sottolineare ancora una volta che Rosmini poggia tutta la sua tesi del carattere battesimale nella sua infatuazione per l’essere in generale? Più in alto, l’essere in generale era il Verbo stesso. Ora, questo essere diviene il “carattere del Cristiano”. Qual nuova confusione tra l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale.

X

ERRORI SULL’EUCARISTIA

44. Gli errori filosofici conducono Rosmini ai sistemi più strano sulla Santa Eucaristia. Secondo la dottrina cattolica, la transustanziazione ha luogo « per la conversione di tutta la sostanza del pane nel Corpo di Gesù-Cristo, e di tutta la sostanza del vino, nel suo sangue. » Secondo Rosmini, la transustanziazione si fa con l’estensione del sentimento fondamentale dell’anima di Gesù-Cristo alla sostanza del pane e del vino: « Noi non crediamo, opponendoci alla dottrina cattolica, che è la sola verità, egli dice, la seguente congettura: nel Sacramento dell’Eucaristia, la sostanza del pane e del vino ritorna la vera carne ed il vero sangue del Cristo, quando il Cristo fa questa sostanza termine del suo principio sensitivo e la vivifica della sua vita propria. [(A catholica doctrina, quæ sola est veritas, minime alienam putamus hanc conjecturam: In eucharistico Sacramento substantia panis et vini fit vera caro et verus sanguis Christi, quando Christus eam facit terminum sui principii sentientis, ipsamque sua vita vivificat… (Prop. XXIX)] » La sostanza del pane e del vino resta, ma essa diventa il termine di un principio sensitivo estraneo, che sentendoli, lo incorpora e l’associa alla sua vita. Noi lo abbiamo già sottolineato, il senso fondamentale lascia sussistere la natura nel suo proprio essere: perché sentire, come ogni atto di conoscenza, non cambia la sostanza, ma la percepisce così com’è. Rosmini distrugge quindi il concetto della transustanziazione.

46. Egli usa una comparazione che conferma l’errore precedente, affermandone un altro. « Questo », cioè il cambiamento del pane e del vino, nel corpo e nel sangue di Cristo, « … accade quasi alla stessa maniera, egli dice, che nell’assimilazione per la quale il pane ed il vino, divengono termini del nostro principio sensitivo, per cui sono veramente transustanziati nella nostra carne e nel nostro sangue [(Eo ferme modo quo panis et vinum vere trausubstantiantur in nostram carnem et sanguinem, quia fiunt terminus nostri principii sentientis (Ibid.)]. » Secondo la credenza di Rosmini, la nutrizione ha luogo per estensione del sentimento fondamentale del pane mangiato: questo pane diviene la mia carne, perché il mio senso fondamentale, che non lo intendeva in precedenza, comincia ad intenderlo; l’unione del pane alla mia anima, come quella del corpo intero, è l’effetto del senso fondamentale; essa si produce in me quando il mio senso lo raggiunge come mio. Ora, per Rosmini, la nutrizione ha luogo per estensione del sentimento fondamentale del pane mangiato: questo pane diviene la mia carne, perché il mio senso fondamentale, che non lo comprendeva in precedenza, comincia ad intenderlo; l’unione del pane alla mia anima, come quella del corpo intero, è l’effetto del senso fondamentale; essa si produce in me quando il mio senso lo raggiunge come mio. Ora, per Rosmini, tutto avviene nella transustanziazione come nella nutrizione. Questa ha luogo senza cambiamento intrinseco della sostanza, per un atto estrinseco del senso fondamentale; questo è il risultato della stessa estensione estrinseca del senso fondamentale, senza che sia necessario un cambiamento intrinseco.

47. Quanto esposto contiene due errori: un errore filosofico ed un errore teologico. Dapprima Rosmini si inganna sulla natura della nutrizione: essa non ha luogo per semplice cambiamento estrinseco, ma per una mutazione intrinseca. Questo pane diviene il mio corpo, non perché io lo sento, ma perché ne è traformato; esso non era la mia sotanza (ibid.), ma diviene la mia sostanza non durante il suo atto primo, sua forma sostanziale, per prendere l’atto primo del mio corpo, la forma sostanziale, che gli dà l’essere; esso diviene il mio corpo fornendo al mio corpo una materia prima che, informata dall’anima, fa oramai parte della mia sostanza. Ma soprattutto Rosmini si sbaglia confondendo la transustanziazione con la nutrizione. Se anche avesse della nutrizione un concetto veritiero, quand’anche vi vedrebbe un cambiamento sostanziale, egli dovrebbe accuratamente, con tutta la Chiesa Cattolica, distinguerla dalla transustanziazione. Qando Gesù-Cristo, nella sua vita mortale, si nutriva di pane, il pane era cambiato nel suo Corpo divino, la forma del pane spariva per far posto ad una forma nuova, l’anima stessa del Salvatore, ma la materia del pane restava. Non si può dunque dire se non allora che la sostanza del pane fosse cambiata in Corpo di Gesù-Cristo. Ora, nella transustanziazione, così come la definisce la Chiesa, tutta la sostanza del pane, non solamente la forma, ma la materia stessa, è cambiata nel Corpo di Gesù-Cristo. la transustanziazione non ha luogo semplicemente, come la nutrizione, con la sostituzione di una forma nuova ad una forma antica nella stessa materia; ma i due elementi della sostanza, la materia come la forma, spariscono essendo cambiati in Corpo. Ecco perché la transustanziazione è un cambiamento essenzialmente distinto da ogni altro, « una conversione affatto singolare e meravigliosa », come dice il Concilio di Trento, che non si può comparare alla nutrizione. Senza pericolo di errore.

48. L’errore di Rosmini sulla transustanziazione lo conduce ad una conseguenza che è pur essa stessa un grave errore. Se la transustanziazione si fa per l’estensione del senso fondamentale alla sostanza del pane, bisogna concludere che una nuova sostanza è aggiunta al Corpo di Gesù-Cristo. È ciò che in effetti insegna Rosmini. « Avvenuta la transustanziazione, egli dice, si può concepire che con essa si sia aggiunta al corpo glorioso di Cristo una certa parte, incorporata in Lui, indivisa e parimenti gloriosa [(Peracta transubstantiatione, intelligi potest corpori Christi glorioso partem aliquam adjungi in ipso incorporatam, indivisam, pariterque gtoriosam. (Prop. XXIX) ». Ma non è questo un contraddire l’insegnamento della Chiesa sulla condizione dei corpi gloriosi, il mettere nel corpo resuscitato di Gesù-Cristo un’aggiunta qualunque?. La gloria non comporta l’immutabilità? Non esclude ogni addizione così come ogni sottrazione fatta alla sostanza?

49. Ma non siamo giunti alla fine degli errori di Rosmini sull’adorabile Sacramento. Secondo la dottrina cattolica, la sostanza del pane è cambiata per la forza stessa delle parola, nella sostanza di Gesù-Cristo; la sostanza del vino è cambiata, per la virtù stessa delle parole, nella sostanza del sangue. Il sangue, l’anima, la divinità, sono nell’ostia, perché esse accompagnano il corpo, a modo di concomitanza, così come parlano i teologi, non in virtù delle parole; ma tutto il Corpo è in virtù delle parole nell’ostia. Il corpo, l’anima, la divinità sono nel calice, perché esse accompagnano il Sangue glorioso, o in modo di concomitanza, non in virtù delle parole. Di conseguenza, tutto il Corpo di Gesù-Cristo è, in virtù delle parole, nel calice. Perché il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo non sono rapportate al luogo per la loro quantità: essi sono nel luogo « per modo di sostanza », come parla la Scuola, tutti interi in ogni specie consacrata, e tutti interi in ogni parte, come la sostanza, presa fuori dalla sua quantità e nel luogo, come l’anima è nel corpo. Ecco perché le parole della consacrazione non possono transustanziare il pane in una porzione solo del corpo; esse lo transustanziano indivisibilmente in tutto il Corpo. Secondo Rosmini, al contrario, la sostanza del pane non è cambiata in virtù delle parole della consacrazione, in tutto il corpo, ma solo in una parte del corpo; la sostanza del vino non è cambiata, in virtù delle parole, in tutto il Sangue, ma solo in una parte del sangue. Il resto del Corpo è nell’ostia, come il Sangue, solo per modo di concomitanza; il resto del sangue è nel calice, come il corpo stesso, solo per modo di concomitanza. « Nel Sacramento dell’Eucaristia, dice Rosmini, per la forza stessa delle parole sacramentali, vi verborum, il Corpo ed il Sangue di Cristo non esistono che secondo la misura che corrisponde alla quantità del pane e del vino che sono transustanziati, il resto del corpo non è là se non per concomitanza [(In sacramento Eucharistiæ, vi verborum corpus et sanguis Christi est tantum ea mensura quæ respondet quantitati (a quel tanto) substantiæ panis et vini quæ transubstantiatur: reliquum corporis Christi ibi est per concomitantiam. (Prop. XXXI)].»

50. A questi errori sulla transustanziazione, Rosmini aggiunge degli errori sulla necessità del Sacramento; egli pretende, in effetti, che la ricezione del Sacramento dell’Eucaristia sia assolutamente necessarioalla salvezza, a tal punto che alcun eletto entra in cielo senza aver comunicato sacramentalmente al Corpo ed al Sangue di Gesù-Cristo. il Salvatore ha detto: « Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e se non bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi. » Bisogna distinguere nel Sacramento dell’Eucaristia ciò che la Scuola chiama la cosa del Sacramento, res sacramenti, il Sacramento stesso, sacramentum, ed ciò che è nello stesso tempo Sacramento e cosa, res et sacramentum; il sacramentum è la specie consacrata, significante il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo; res et sacramentum, la cosa ed il sacramento, è il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo, significati dalle specie e producenti la grazia; la cosa, res, è la grazia, in altri termini, l’unione a Gesù-Cristo, l’incorporazione stessa al Salvatore, prodotta nell’anima dalla degna Comunione. Si può designare, sotto il nome di Sacramento, ciò che veniamo dal chiamare la “cosa” del Sacramento. In questo caso bisogna dire che la ricezione del Sacramento è assolutamente necessaria alla salvezza, necessaria come necessità di mezzo, così come parlano i teologi; perché nessuno può ottenere la gloria nella vita futura se non riceve la grazia nella vita presente, se non è unito ed incorporato a Gesù-Cristo. È in tal senso che molti Padri hanno inteso in tutto il loro rigore le parole di Nostro-Signore: « Se non mangiare la mia carne e non berrete il mio sangue, non avrete la vita in voi. » Ma se si intende per Sacramento ciò che intende ordinariamente con questa parola, le specie sacramentali con il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo, che esse contengono, bisogna dire, secondo l’insegnamento della Chiesa, che la ricezione del Sacramento è necessaria solamente come necessità di precetto, talmente che nessun adulto può salvarsi in generale se non comunica, perché Nostro Signore ne ha fatto un comandamento. In questo senso le parole di Nostro Sigore: « se non mangiate la mia carne … » si intendono di coloro che potendo, e davanti al comunicare, hanno dimenticato di compiere questo precetto. Rosmini pretende, egli, che la Comunione sacramentale sia assolutamente necessaria, non solo di necessità di precetto, ma di necessità di mezzo; Essa è necessaria ai suoi occhi come è necessaria agli occhi della Chiesa l’effetto proprio del Sacramento: egli intende della Comunione sacramentale ciò che i Padri hanno inteso dell’incorporazione a Gesù-Cristo.

51. Rosmini nega pertanto che un bambino che muore subito dopo il suo Battesimo e non essendosi comunicato, sia salvo? No, ma egli pretende che questo bambino riceva la Comunione uscendo da questo mondo: senza questa comunione ricevuta anche dopo la morte, egli scenderebbe all’inferno. « Poiché, egli dice, colui che non mangia la carne del Figlio dell’uomo e non beve il suo sangue, non ha la vita eterna in Lui; poiché nondimeno coloro che muoiono con il Battesimo di acqua, di sangue o di desiderio ottengono certamente la vita eterna, bisogna concludere che coloro che durante questa vita non hanno mangiato la carne, e bevuto il sangue di Gesù-Cristo, ricevano questo nutrimento celeste nella vita futura, nell’istante della morte stessa. [(Quoniam qui non manducat carnem Filii hominis et bibit ejus sanguinem non habet vitam in se; et nihilominus qui moriuntur cum baptismate aquæ, sanguinis aut desiderii certo consequuntur vitam æternam, dicendum est his qui hac vita non comederunt corpus et sanguinem Christi subministrari hunc Cælestem cibum in futura vita, ipso mortis instanti. (Prop. XXXII)

52. Ma i giusti morti prima dell’istituzione della santa Eucaristia, hano potuto ricevere un Sacramento che non era stato ancora istituito? I giusti morti prima dell’Incarnazione, hanno potuto ricevere il Corpo ed il Sangue del Salvatore che non esisteva ancora? Rosmini non desiste dal suo sistema: « il Cristo scendendo nel Limbo, egli dice, ha potuto darsi in Comunione sotto le specie del pane e del vino ai santi dell’Antico Testamento, alfine di renderli capaci di gioire della visione di Dio. [(Sanctis V. T. potuit Christus descendens ad inferos seipsum communicare sub specie panis et vini, ut aptos eos redderet ad visionem Dei. (Ibid.)] ».

53. Noi ci asterremo dal considerare questi sogni. È sufficiente dire che prima di Rosmini essi sono stati sconosciuti nella Chiesa. Qual Padre, qual teologo, ha parlato mai di questa comunione amministrata da Gesù-Cristo stesso nel Limbo? Come delle anime svincolate dal corpo potevano ricevere i doni celesti sotto le specie visibili e sensibili? Spiritualia spiritualibus nude traduntur. Non si metterà in dubbio giammai la potenza dell’ammirabile Sacramento dell’altare, … ma non trasportiamo fuori dalla vita presente le istituzioni del tempo. I santi dell’antica Legge hnno vissuto tra le ombre delle realtà spirituali: Umbram enim habens lex futurorum bonorum (Hebr., X, t. 1); i santi della Legge nuova, vivendo tra queste realtà velate sotto dei simboli: ipsam imaginem rerum (Ibid.); i santi della vita futura vivono tra queste stesse realtà manifestate a nudo: facie ad faciem. Al momento della morte, non c’è più tempo per comunicarsi, con la ricezione di simboli, alla carne ed al sangue del Salvatore; è il momento di comunicare con la chiara veduta a Colui che è eternamente pane e frumento degli eletti (Una persona pia ma con uno spirito ristretto, ha preteso che l’ultima ostia consacrata sarà trasportata nel cuore della Santa Vergine per esservi eternamente adorata, come in un ostensorio celeste, dagli Angeli e dagli uomini. Noi abbiamo incontrato nelle comunità religiose, delle immagini in cui questa adorazione supposta era rappresentata da una lunga leggenda che spiegava le incisioni. Questo errore ha molta rassomiglianza con quello di Rosmini).

A. Rosmini:

prossimo gnostico “canonizzato” (per finta) dalla sinagoga di satana, la setta del “novus ordo”!

(2. Continua …)

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (29): ERRORI in ROSMINI

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (29):

Errori in ROSMINI (1)

[Dom P. Benoît: Revue du Monde Catholique, 1° Apr. 1889]

 

1. Rosmini è un sacerdote la cui grande pietà e le sante imprese sono state una delle glorie dell’Italia. Egli ha pure avuto l’onore di lasciare dietro di sé una congregazione religiosa, che si è resa raccomandabile per la devozione alla Chiesa e le opere di carità. Tuttavia, questo dimostra una volta di più come lo spirito dell’uomo abbia bisogno costantemente di essere preservato dall’errore per mezzo del Magistero della Chiesa. Infatti la Santa Sede, che già altra volta, al quarto Concilio Laterano IV non ha esitato a condannare il beato Joachim de Flore, anch’egli pio sacerdote e capo di una abbazia illustre, giunge a segnalare ai pastori del mondo intero gli errori di Rosmini, affinché mettano in guardia contro di essi i maestri della gioventù, soprattutto i professori dei seminari. Noi dobbiamo porre molta attenzione a questa condanna, perché un certo numero di questi errori si ritrovano in tutte le contrade della terra, particolarmente in Francia, se non sempre nella forma che dava loro Rosmini, ma almeno per quanto riguarda la sostanza [si ritrovano infatti tutti gli errori-orrori della solita, vecchia e stantia solfa gnostica … panteismo, emanatismo, deismo, essere infinito, e così via …:  v. in È. Couvert: “La gnosi, tumore in seno alla Chiesa” in “dalla gnosi all’Ecumenismo”, riportato negli articoli del blog exsurgatdeus.org: La gnosi, teologia di satana …-ndr-]

I

L’ERRORE FONDAMENTALE:

CONFUSIONE TRA L’ESSERE INDEFINITO E L’ESSERE INFINITO

2. L’errore fondamentale di Rosmini ci sembra essere la confusione tra l’essere in generale e l’Essere divino, in altri termini tra l’indefinito e l’infinito: «Nell’essere che fa astrazione dalle creature e da Dio, vale a dire nell’essere indeterminato, c’è la stessa essenza che in Dio, essere non indeterminato, ma assoluto. (1)»

(1) [« In esse quod præscindit a creaturis et a Deo, quod est esse indétermination, atque in Deo, esse non indeterminato sed absoluto, eadem est essentia ». -Prop. VI].

 3. L’essere in generale è l’essere considerato dall’astrazione dello spirito come se non avesse alcuna determinazione; è l’essere possibile così come l’essere reale, l’essere partecipato e ricevuto come l’essere esistente essenzialmente, l’essere che non esiste che nello spirito così come l’essere che esiste nella natura. L’Essere divino, che lo si chiama anche l’Essere semplicemente, o l’Essere infinito, è l’Essere unico, reale e sussistente, che richiude in sé tutta la pienezza dell’essere. L’essere, in generale, è qualcosa di sì vago, che lo si ritrova in tutto ciò che è inteso dallo spirito; l’Essere infinito è così preciso che non esiste che in una sola realtà, distinta non solo dall’essere generale, ma ogni altro essere reale. L’essere in generale di dice di tutto, si ritrova in tutto, perché, non avendo in sé nulla di determinato, conviene ad ogni oggetto; l’Essere divino è separato da tutto il resto da un’eccellenza che non soffre, tra esso e le altre realtà, che una lontana analogia, e di conseguenza, in luogo di dirsi di tutto ciò che è, esso non può pure dirsi di soggetti plurimi, e non si dice che di uno solo [« infinitum absolutum est ens comprehendens omnes perfectiones eujusque limitis expertes; proinde non concipitur ut in potentia ad hajusmodi perfectiones, sed ut eas actualiter nabens; et consequenter non est quid indeterminatum et determinabile, sed ens habens proprïam naturam nullis limitibus specificis aut genericis circumscriptam aut circumscribendam. At ens in génère oppositas omnino proprietates exhibet. Non enim est quid infinitum comprehensive, seu actu, sed solummodo extensive seu in potentia; est quid maxime indeterminatum ac determinabile, et reapse determinatur in generibus, speciebus et individuis. Quocirca ens in génère inspecium dici infinitum privative, vel in potentia; quod quantum différat a vero infinito nemo, nisi mente prorsus cæcus, non videt. » (Card. Zigliara, Summaphil. Ontol., lib. II, cap. m, art. 4, n. 5.)]. In una parola, l’essere in generale è un concetto astratto e vago che si dice di tutto: l’Essere divino è una realtà concreta e determinata che si dice di uno solo: « Questo Dio, dice il Concilio del Vaticano, essendo una sostanza spirituale, una, singola, interamente semplice ed incommutabile, deve essere proclamata distinta dal mondo in realtà e per essenza, ineffabilmente elevata al di sopra di tutto ciò che non è Esso, che esiste o può concepirsi. » [Qui cum sit una et singularis simplex omnino et incommutabilis substantia spiritualis, prædicandus est re et essentia a mundo distinctus in se et ex se beatissimus, et super omnia, quæ præter ipsum sunt et concipi possunt, ineffabiliter excelsus. » (Conc. Vat., de Fide catholica, I.)]

4. Ora, Rosmini confonde l’essere in generale, frutto dell’astrazione dello spirito, con l’ “Esse” divino, realtà infinita e sussistente: « L’essere indeterminato che, senza alcun dubbio è conosciuta da ogni intelligenza, e questo divino che è manifestato all’uomo nella natura [« Esse indeterminatum, quod procul dubio notum est, omnibus intelligentes, est divinum illud quod homini in natura manifestatur. » (Prop. IV) » – Dio, senza dubbio, come dice S. Paolo [Quia quod notum est Dei, manifestum est in illis; Deus enim illis manifesiavit. Invisibilia enim ipsius, a creatura mundi, per ea quæ facta sunt, iutellecta, conspiciuntur; sempiterna quoque ejus virtus, et divinitas, » (Rom., I, 19-20.)] e come ripete il Concilio Vaticano [« Apostolus qui a gentibus Deum per ea, quæ facta sunt, cognitum esse testatur. » De fide cath. (cap. IV.) può essere conosciuto dalla ragione naturale, perchè la ragione dell’uomo può, con le sue forze naturali, conoscere l’esistenza di Dio, la sua potenza, la sua saggezza, la sua bontà. Così lo hanno conosciuto i filosofi pagani, dice San Paolo, ed è per questo, aggiunge, che essi sono colpevoli per non avergli reso il culto che gli era dovuto [Ita ut sint inexcusabiles: quia cum cognovissent Deum, non sicut Deum glorificaverunt, aut gratias egerunt; sed evanueruut in cogitationibus suis et obteuratum est insipiens cor eorum. (Rom., I, 20-21.)]. – Per Rosmini, al contrario, i filosofi antichi hanno conosciuto Dio perché hanno conosciuto l’essere in generale; la ragione naturale può conoscere Dio perché essa può conoscere l’essere indeterminato. L’essere indeterminato, dice commentando, o piuttosto falsificando il testo di San Paolo, è questo essere divino che tutte le intelligenze possono conoscere, che è manifestato all’uomo nella natura (Prop. IV). – Secondo Rosmini, l’essere indeterminato o l’essere in generale è l’Essere stesso di Dio, e spirito, intentendo l’essere in generale, possiede in lui l’Essere divino: « In seno all’universo, cioè nelle ntelligenze che si incontrano, c’è qualcosa al quale conviene il nome di divino, non in senso figurato, ma nel senso proprio[« In natura igitur universi, id est in intelligentes quæ in ipso sunt, aliquid est cui convenit denominatio divini non sensu fîgurato, sed proprio. » (Prop. III)]

5. Per Rosmini, in effetti, lo spirito, dal momento che egli lo intende come essere generale, è unito a Dio perché l’essere al quale è unito dall’atto di comprensione è l’Essere stesso di Dio; e l’essere in generale, l’essere di ogni cosa, dice Rosmini, « è un’attualità che non si distingue dall’attualità divina [« Est actualitas non distincta a reliquo actualitatis dîvinæ. » (Prop. III)]; è un atto che è identico all’Atto primario; all’« atto puro ». E non è dunque, notiamolo bene, per una semplice metafora che Rosmini dà all’essere in generale il nome di Essere divino, bensì nel linguaggio più stretto. Per lui, ciò che prende il nome di essere, non può mai essere preso come un effetto di Dio, una immagine di Dio: ma è Dio stesso!!! « Affermando il divino nella natura, egli dice, noi non impieghiamo questo vocabolo, “il divino”, per sigificare un effetto non divino della causa divina, e la nostra intenzione non è quella di parlare di un certo divino che sarebbe tale per partecipazione [« Cum divinum dicimus in natura, vocabulum istud divinum non usurpamus ad significandum effectuai non dïvinum causæ divinæ; neque mens nobis est loqui de divino quodam quod tale sit per participationem. » (Prop. II)], che sarebbe divino solo per partecipazione o impropriamente; il divino che è nella natura, è l’essere stesso di Dio!

6. Rosmini si compiace specialmente di identificare l’essere in generale con il Verbo. Secondo lui, il Verbo di Dio è questo essere primitivo che è alla base di ogni conoscenza intellettuale, questo essere che intende l’intelligenza nel momento in cui intende qualcosa, in una parola, l’essere in generale. L’essere in generale è così completamente identico al Verbo che Dio, il Padre stesso non può percepire che una distinzione di ragione tra l’uno e l’altro. « L’essere indeterminato, oggetto di intuizione, dice Rosmini, è qualcosa del Vero che la comprensione del Padre distingue dal Verbo non realmente, ma logicamente [« Esse indeterminatmn intuitionis, esse initiale, est aliquid Verbi, quod mens Patris distinguit non realiter sed secundum rationem a Verbo. » (Prop, VII).]

7. Conclusioni

Rosmini pone una semplice differenza di ragione tra l’essere in generale e l’Essere divino. Questi è l’essere preso nel suo soggetto infinito; l’altro è l’essere considerato come astratto da ogni soggetto: esse quod præscindit a Deo et a creaturis (Prop. VI.). Rosmini chiama il primo l’essere indeterminato, “esse indeterminatum”, ed in secondo l’essere assoluto,esse absolutum”. Ma l’uno non differisce dall’altro che per pura astrazione di spirito; in realtà l’uno è identico all’altro: l’essere in generale è realmente l’essere stesso di Dio o del Verbo. Tale è, a nostro avviso, l’errore fondamentale del sistema rosminiano. A questo proposito, il sistema di Rosmini, non differisce per nulla dal sistema di Hegel.

II

PRIMA CONSEGUENZA: PANTEISMO

8. Ma Hegel è un incredulo di professione, e non teme di gettarsi apertamente nel panteismo. Rosmini è un pio sacerdote, e retrocede davanti all’abisso che gli si apre davanti. Ma inutile cercar di scappare; di buono o cattivo grado, egli cade nel panteismo. Egli ha posto il principio, la conclusione si impone. Le formule pantesiste compaiono in ogni istante sotto la sua penna: egli cerca bene di dissimularne il carattere, tenta anche di corregerle, ma non riesce che a mostrare imbarazzo, e non riesce a sottrarsi all’impero di questo mostruoso errore. E in effetti Rosmini mette l’essere in generale, all’origine dell’ordine ontologico così come dell’ordine logico; poiché ogni essenza, egli dice, è dell’essere, così come ogni idea è una visione dell’essere. Ecco perché gli da il nome di “essere iniziale”. « L’essere, oggetto di intuizione, dice Rosmini, è l’atto iniziale di tutti gli esseri [« Esse, objectum intuitionis, est actus initialis omnium entium. » (Prop. IX.)]. Ecco pèrchè gli dà il nome di “essere iniziale”, vale a dire che l’essere indeterminato è il fondo di ogni realtà, così come di ogni pensiero, è l’essere nel quale e per il quale comincia tutto ciò che è, in qualunque modo esso sia: « L’essere iniziale è l’inizio sia delle cose ideali che delle cose reali [« . . . Esse initiale est initium, tam cognoscibilium quam subsistentium. » (Prop. IX.)]. Questo essere, di cui lo spirito ha naturalmente l’intuizione, è dunque il fondo di tutti gli esseri finiti, che non meritano il nome di esseri se non perché possiedono questo essere primitivo ed universale: «Gli esseri finiti, dei quali si compone il mondo, sono il risultato di due elementi, cioè del termine reale finito e dell’essere iniziale che dà a questo stesso termine la forma dell’essere  [« Entia finita quibus componitur mundus résultant ex duobus elementis, id est ex termino reali finito et ex esse initiali quod eidem termino tribuit formam entis. » (Prop. V.)]. Ma questo essere è anche il fondo della natura divina; perché Dio, come la creatura, non è un essere che perché Egli è l’essere: l’essere iniziale, dice Rosmini, è parimenti l’inizio di Dio, come noi lo concepiamo, e delle creature [« Est pariter initium Dei, prout a nobis concipitur, et creaturarum. » (Prop. IX)]

9. Questo essere si estente dunque a tutto, si trova in fondo a tutto, a Dio, come al mondo, all’essere infinito come all’essere finito. In questo senso, è virtuale “virtuale”, perché ha una estensione infinita, perché non è ristretto ad una realtà, ma si trova in tutto ciò che esiste come il fondo comune di ogni sostanza: esse virtuale et sine limitibus ( Prop. X). ma benché estesa a tutto, essa resta semplice. Perché l’essere in generale esclude ogni composizione: non si possono trovare più elementi, è un elemento semplice: esso rientra nella composizione di ogni essere reale, ma egli stesso è senza componenti: « L’essere virtuale è senza limiti, dice Rosmini, è la prima e più semplice di tutte le entità; così, ogni altra entità è composta, e negli elementi che la compongono, entra sempre e necessariamente l’essere virtuale. Esso è la parte essenziale di tutte le entità, benché divise dal pensiero (3). [« Esse virtuale et sine limitibus est prima ac simplicissima omnium entitatum, àdeo ut quælibet alia entitas sit composita, et inter ipsius componentia semper et necessario sit esse virtuale.Est pars essentialis omnium omnino entitatum, utut cogitatione dividantur. » (Prop. X)]:

10. Ma se l’essere in generale è l’essere divino in se stesso, se l’essere in generale o l’essere divino, entra entra nella composizione di ogni essere reale, tutto ciò che è, si trova, come fondo stesso del suo essere, come elemento essenziale della sua sostanza, essere Dio egli stesso. È la tesi panteista. – il Concilio Vaticano pronunzia questo anatema: « Se qualcuno dice che non c’è che una sola ed unica sostanza in Dio e in tutte le cose, che sia scomunicato » [« Si quis dixerit, unam eamdemque esse Dei et rerum omnium substantiam vel essentiam, anathema sit. » (Const. DE FIDE CATH., cap. I, can. 2.). – Rosmini dice: « Nell’essere indeterminato, c’è la stessa sostanza che in Dio » [In esse quod… est esse indeterminatum, atque in Deo… eadem est essentia. » (Prop. VI)] – Egli aggiunge: « L’essere indeterminato è il fondo iniziale di Dio e delle creature » [Est pariter initium Dei… et creaturarum. » (Prop. IX.)]. Come potrebbe allora sfuggire alla conclusione: « In Dio e nelle creature, c’è lo stesso fondo iniziale, c’è la stessa essenza? » Eccolo dunque con i panteisti: la sua dottrina, come la loro, merita certamente gli anatemi della Chiesa.

III

SECONDA CONSEGUENZA: L’ONTOLOGISMO

11. Ma non siamo che all’inizio degli errori che scaturiscono dal principio fondamentale di Rosmini. Se l’essere in generale si confonde con l’essere divino, siccome l’intelligenza ha naturalmente una percezione immediata dell’essere generale, bisogna concludere che essa percepisce immediatamente l’essere divino. È ciò che professa Rosmini: « Nell’ordine delle cose create, egli dice, qualcosa di divino in sé, che sostiene l’effetto della natra ivina, è immediatamente manifestata all’intendimento umano.[« In ordine rerum creatarum immédiate manifestatur humano intellectui aliquid divini in seipso, hujusmodi nempe quod ad divinam naturam pertineat » (Prop. I.)]. »

12. Secondo la teologia cattolica, la visione immediata di Dio è essenzialmente soprannaturale; secondo Rosmini c’è una conoscenza immediata di Dio, anche nell’ordine della conoscenza naturale: in ordine rerum creatarum (Prop. I): secondo i Dottori cattolici, Dio non può essere naturalmente conosciuto se non in modo indiretto, nello specchio delle creature, attraverso i segni e gli enigmi della creazione; secondo Rosmini, invece, l’essere divino può essere compreso in se stesso: aliquid divini (Prop. I); non effectum non divinum causæ divinæ (Prop. II). – Tutta la Scuola insegna che l’uomo, con la ragione naturale, conosce immediatamente la creatura e si eleva da ella al Creatore come dall’effetto alla causa necessaria e sovraeminente, mettendo in essa tutte le perfezioni osservate negli esseri creati, per viam indentitatis, scartando da essa tutte le imperfezioni che presentano, per viam remotionis, e portando fino all’infinito ogni perfezione notata in esse per viam excellentiæ ( Theol. P. I, q. XII, a. 12.). Rosmini, al contrario, pretende che noi attingiamo immediatamente non solo « l’effetto non divino della causa divina », ma « la causa divina dall’effetto non divino ». Tutti i Padri e tutti i Dottori della Chiesa dichiarano che l’uomo non può naturalmente conoscere Dio se non elevandosi dall’essere partecipato, e conosce immediatamente l’essere divino inteso nella sua immagine; Rosmini sosiene che l’uomo può, anche naturalmente conoscere non solo l’essere partecipato, ma pure l’essere principio (Prop. II), non solo gli effetti contingenti, ma le cause necessarie ed eterne, non soltanto la creatura, ma pure il Creatore, origine e fine di tutto ciò che esiste. (Prop. I).

13. Questo errore è ciò che si è convenuto chiamare, nei tempi moderni, l’ontologismo. Esso è per Rosmini, così come detto più in alto, una conseguenza necessaria della sua confusione tra l’essere indeterminato e l’essere divino, o piuttosto esso è identico a questo primo errore. Se, in effetti, l’essere in generale è l’essere stesso di Dio, la nostra intelligenza, che naturalmente ha la chiara percezione dell’essere in generale, avrà naturalmente la visione immediata di Dio: il nostro spirito, intentendo l’essere in generale, non comprenderà solamente un effetto divino, una lontana vestigia di Dio, ma la causa suprema stessa, comprenderà questo qualcosa dell’essere necessario ed eterno se stesso, la causa che creata, determina e finisce tutti gli esseri contingenti (Prop. III).

IV

IDEALISMO

14. Rosmini, che ha identificato più in alto l’essere del finito, con l’essere stesso di Dio, identifica di contro, l’essenza del finito con il niente. Secondo la dottrina della ragione e della fede, l’essenza del finito consiste in qualche cosa di positivo e di reale. Secondo Rosmini, « la “quiddità” (Ciò che una cosa è) dell’essere finito non è costituito da ciò che essa ha di positivo, ma dai suoi limiti » [Quidditas (id quod est) entis liniti non constituitur eo quod habet positivi sed suis limitibus. (Prop,XI)]. La ragione, come la fede insegnano come nn solo l’essenza di Dio, ma anche l’essenza della creatura è una realtà positiva. Per Rosmini, « la quiddità » sola dell’essere infinito è costituita dall’entità ed è positiva, ma la quiddità dell’essere finito, essendo costituita dai limiti dell’entità, è negativa » [Quidditas entis infiniti constituitur entitate et est positiva; quidditas vero entis finiti constituitur limitibus entitatis et est negativa. (Prop. XI)]. Ed ancora: « La realtà finita non è, ma Dio la fa essere, aggiungendo un limite alla realtà infinita » [Finita realitas non est, sed Deus facit eam esse addendo infinitæ realitati limitationem. (Prop. XII)]. Ancora: La differenza che esiste tra l’essere assoluto e l’essere relativo non è quella che esiste tra una sostanza e sostanza; essa è altro e molto più grande, perché il primo è l’essere assolutamente, il secondo è il non essere assolutamente. [Discrimen înter esse absolutum et esse relativum non illud est quod intercedit substantiam inter et substantiam sed aliad multo maius; unum enim est absolute ens, alterum est relative ens. (Prop. XIII)]. Ma se l’essenza della creatura consiste in una negazione, siccome la negazione è un essere di ragione, bisognerà concludere che l’essenza della creatura non ha realtà che nello spirito di colui che la concepisce. Eccoci dunque in pieno idealismo.

15. Ci si potrebbe stupire nel vedere Rosmini passare dal panteismo all’idealismo. Egli vi passa così disinvoltamente che dopo aver detto che « La realtà finita non è: finita realitas non est (Prop. IV) », dice subito dopo che « l’essere iniziale diviene l’essenza di ogni essere reale, esse initiale fit essentia omnis entis realis (ibid.) », in modo tale da unire in una stessa proposizione queste due asserzioni contrarie, che la realtà finita non è, e che la realtà finita è l’essere stesso di Dio. In effetti, l’essere della creatura è ai suoi occhi l’essere stesso di Dio, talmente che non si può trovare nella creatura un essere proprio, ma soltanto l’essere di Dio. Di conseguenza, se guardate la creatura in ciò che ha di proprio, dovete dire che « la realtà finita non è »; e se guardate in essa l’essere divino divenuto il suo essere, bisogna dire al contrario che essa non è solamente « un effetto non divino di una causa divina (Prop. II) » ma « che essa è qualcosa del Verbo, che il Padre stesso distingue dal Verbo solamente per la ragione (Prop. VII) ».

16. Aggiungiamo altre riflessioni. Rosmini pone un limite nell’essere assoluto, vale a dire nell’essere divino stesso: è così, secondo lui, che è prodotto l’essere limitato della creatura. Ma l’essere divino non respinge, con la sua essenza stessa, ogni limite? L’essere divino è essenzialmente perfetto; dunque essenzialmente esclude ogni imperfezione e per questo un qualunque limite. Se l’Essere divino diviene limitato, non è più l’Essere divino, è distrutto. Ed è assurdo dire che l’Essere divino riceva un limite, che è come pretendere che il cerchio diventi un quadrato senza cessare di essere cerchio. – Poi Rosmini distingue tra l’essenza del finito ed il suo essere. La Scuola ha ben distinto tra l’essenza delle cose e la loro esistenza o il loro essere; essa insegna che l’essenza in Dio è il suo essere o la sua esistenza; ma che nelle creature, l’essenza è una potenza, di cui l’essere o l’esistenza, è l’atto. Ora Rosmini intende l’essenza e l’essere come la Scuola? No affatto, « l’essere è, secondo lui, una realtà che non si distingue dal resto dell’attualità divina, actualitas non distincta a reliquo actualitatis divinæ (Prop. III) »; esso è « quel qualcosa di divino che è manifestato all’uomo nella natura: divinum illud quod homini in natura manifestatur (Prop. IV) »; esso è « qualcosa dell’essere necessario ed eterno: aliquid entis necessarii et æterni (Prop. V) ». Quanto all’essenza, essa è il limite dell’essere. Rosmini dunque impiega le espressioni della Scuola per travestirne il senso.

V

ERRORI SULLA CREAZIONE

17. Creare è produrre tutta la sostanza: “creatio est eductio totius substantiæ”. In altri termini, è produrre una sostanza dal nulla “creatio est productio ex nihilo, o se si vuole ancora, è produrre una sostanza senza materia o soggetto preesistente: “creatio est productio entis ex nihilo sui et subjecti”. Dio dice: « Che luce sia », e subito la luce è. La luce non esisteva prima né in se stessa, né negli elementi; essa è fatta, non da una materia anteriore, ma dal niente. Ecco la creazione. Rosmini intende la creazione altrimenti. Secondo lui, Dio crea mettendo un limite al suo essere. Spieghiamo il suo pensiero con i termini suoi propri. « Per un’astrazione divina, egli dice, è prodotto l’essere iniziale, primo elemento degli esseri finiti; con un secondo atto, con una immaginazione divina, è prodotto il reale finito, ossia tutte le realtà che costituiscono il mondo [Divina abstractione producitur esse initiale, primum finitorum entium elementum; divina vero imaginatione producitur reale finitum, seu realitates omnes quibus mundus constat. (Prop. XIV)]. Segue una terza operazione dell’essere assoluto creante il mondo, un atto di sintesi divina, cioè di unione dei due elementi che sono: l’essere iniziale o fondamento comune di tutti gli esseri finiti [Tertia operatio esse absoluti mundum creantis est divina synthesis, idest unio duorum elementorum; quæ sunt esse initiale, commune omnium finitorum entium initium, atque reale finitum, seu potius diversa realia finita, termini diversi ejusdem esse initialis. Qua uniorie creautur entia finita (Prop. XV)] ».

18. Così tre atti divini concorrono alla creazione: una astrazione divina, una immaginazione divina ed una sintesi divina. Per astrazione, Dio concepisce l’essere iniziale; con l’immaginazione egli si rappresenta la realtà finita; con la sintesi, unisce i due elementi, cioè l’essere iniziale concepito con astrazione ed il « finito reale, o piuttosto i diversi finiti reali, limiti diversi dello stesso essere iniziale »; in altri termini, esso produce l’essere finito applicando il limite all’essere iniziale, che è secondo la verità l’essere divino stesso: la creazione consiste propriamente nell’applicazione di un limite all’essere iniziale o all’essere divino che è in Dio senza limiti. « Nell’operazione della sintesi divina, l’essere iniziale è messo in relazione con l’intelligenza, non come intelleginile, ma puramente come essenza, con dei limiti reali finiti: per questo gli esseri finiti esistono soggettivamente e realmente [Esse initiale per divinam synthesim ab intelligentia relatum non ut intelligibile sed mere ut essentia, ad terminos finitos reales, efficit ut existant entia finita subjective et realiter. (Prop. XVI.)].

19. l’Autore della Sapienza ci insegna che Dio ha creato tutte le cose « di una materia invisibile, ex materia invisa [Creavit orbem terrarum ex materia invisa. (Sap. XI, 18.)] ». I Padri ed i teologi cattolici intendono unanimamente con “questa materia invisibile” gli elementi uniformi che Dio creò all’origine e con cui formò in seguito i veri esseri. Rosmini intende con questa “materia invisibile”, l’essere iniziale, l’Essere divino, il Verbo stesso, che è il fondo comune, initium, initiale principium, di ogni essere finito: « Il Vergo, egli dice, è questa materia invisibile della quale, come è detto nella Sapienza (XI, 18), furono create tutte le cose dell’universo. [Verbum est materia illa invisa ex qua, ut dicitur (Sap. XI, 18), creatæ fuerunt res omnes universi. (Prop. XIX) ».

20. Ma, se l’essere finito risulta da un’applicazione di un limite all’Essere divino, al Verbo stesso, si può ancora dire che è propriamente prodotto? Rosmini vorrebbe conservare questa espressione; perché si può essa rigettare senza contraddire l’insegnamento manifesto della Chiesa? Tuttavia il suo sistema lo produce, malgrado lui, fino a sopprimere il termine di productione. « La sola cosa che Dio fa creando, egli dice, è che Egli pone integralmente l’atto totale dell’essere delle creature; dunque, propriamente parlando, questo atto non è fatto, ma è posto [Id unum efficit Deus creando, quod totum actum esse creaturarum intègre ponit: hic igitur actus proprie non est factus, sed positus. (Prop. VII.) »; in altri termini, non c’è nella creazione, produzione di un atto sostanziale che comincia allora, ma soltanto emission di un atto preesistente: hic igitur actus proprie non est factus, sed positus. Ma che creazione è, se il suo termine presiste, se non è prodotto?

21. Sembrava sentire Hegel o gli altri panteisti. Tuttavia questi è Rosmini, uno scrittore attaccato dal fondo delle sue viscere alla Chiesa. Ma egli è vittima di un falso principio al quale si è interamente dato. Egli ha scambiato l’essere in generale per l’essere stesso di Dio: dunque, conclude qui, l’Essere divino stesso è posto con la creazione negli esseri finiti; la creazione non è la produzione di un essere che precedentemente non c’era, ma la delimitazione di un essere preesistente, è la circoscrizione dell’Essere eterno in un limite particolare.

22. L’obiezione principale che opponiamo a questa teoria rosminiana della creazione, è quella supposta e conferma il panteismo del sistema generale. L’orrore di una conseguenza così mostruosa ci lascia appena la libertà di segnalare altri errori minori, ma tuttavia molto gravi. Rosmini mette l’immaginazione in Dio, ma l’immaginazione è una facoltà sensitiva, legata di conseguenza ad un organo e dipendente dal corpo nella sua esistenza e nel suo esercizio. Dio ha un corpo? Non è Dio puro Spirito? Come si può allora attribuire l’immaginazione a Dio? Poi Rosmini ci rappresenta Dio come concepente per astrazione l’essere iniziale, e per immaginazione il fine reale o il limite, applicando con una sintesi il limite all’essere iniziale, per farne un essere finito. Che teoria grossolana! Malgrado la questione seria, non ci si può dispensare dal pensare al fonditore leggendario che, per fare un cannone, prende del vuoto e vi mette del bronzo intorno.

23. Il Concilio Vaticano, seguendo il Concilio Laterano IV e, secondo l’insegnamento unanime dei Dottori cattolici, definisce che Dio ha creato « con un volere liberissimo “liberrimo consilio” (de fide cathol., cap. I) ». Dio, in effetti, poteva benissimo non creare ciò che ha potuto creare; perché, possedendo in se stesso un bene infinito di cui il godimento vince il suo amore, gli è impossibile trovare un accrescimento di perfezione o di felicità nelle creature (Ibid.); l’essere creato non apporta all’Essere infinito alcun profitto necessario; senza dubbio, se lo ha creato, lo ordina alla sua gloria; ma se non lo ha creato, non è meno sovranamente beato ed assolutamente perfetto: la creazione è dunque un atto interamente libero. [« Questo solo vero Dio, per la Sua bontà e per la Sua onnipotente virtù, non già per accrescere od acquistare la Sua beatitudine, ma per manifestare la Sua perfezione attraverso i beni che dona alle Sue creature, con liberissima decisione fin dal principio del tempo produsse dal nulla l’una e l’altra creatura contemporaneamente, la spirituale e la corporale, cioè l’angelica e la terrena, e quindi l’umana, costituita in comune di spirito e di corpo (CONC. LATER. IV, c. 1, Firmiter) » – Conc. Vaticano: Cost. “Dei Filius” cap. I]. Ma Rosmini professa un’altra dottrina. Per lui, l’essere della creatura è l’essere stesso di Dio: dunque, secondo lui, l’essere della creatura, come l’essere divino, è il termine necessario dell’amore che è in Dio. Dio si determina a creare solo perché egli ama nella creatura il suo proprio essere . Ma siccome ama necessariamente il suo proprio essere , non può impedirsi di amarlo nella creatura, e di conseguenza di mettervelo, e così di creare: « L’amore di cui Dio si ama anche nelle creature, ed è questa la ragione che lo determina a creare, essa costituisce una necessità morale, che nell’essere perfettissimo, produce sempre il suo effetto [Amor quo Deus se diligit etiam in creaturis, et qui est ratio qua se déterminat ad creandum, moralem necessitatem coastituit, quæ in ente perfectissimo semper inducit effectum. (Prop. XVIII)] » L’uomo, secondo Rosmini, è libero di camminare o non, di parlare o tacere; ma Dio non è libero, almeno nello stesso grado, di creare o di non creare: « Questa sorta di necessità », una necessità morale che mette in Dio, « lascia intera la libertà bilaterale ai numerosi esseri imperfetti [Hujusmodi enim nécessitas tantum modo in pluribus entibus imperfectis integram relinquit libertatem bilateralem. (Prop. XVIII)] ». (1. Continua …)

LA GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (28): GNOSI E GIANSENISMO (III)

LA GNOSI, TEOLOGIA DI SATANA (28):

GNOSI E GIANSENISMO … e il funesto PASCAL!

(III)

[Elaborato da E. COUVERT: Lecture e tradition, n. 227-228, Gen.-Feb. 1996]

In Filosofia: Platone, Sant’Agostino e Cartesio.

È a Poitiers che nel 1620 Jansenius ha incontrato Cartesio: egli aveva scritto in quell’anno al suo amico Saint-Cyran, che era deciso a “non fare l’asino per tutta la vita”, cioè a rimuginare i manuali dei maestri universitari nel momento stesso in cui Cartesio, in questa stessa città, aveva risvegliato la rivoluzione intellettuale che doveva segnare una rottura definitiva con il passato. In questa guerra accanita che i giansenisti avevano intrapreso contro gli Scolastici, ricevettero l’appoggio costante dei sacerdoti dell’Oratorio. Il Cardinale De Bérulle era uno spirito falso, impregnato di gnosi che diffondeva sotto l’apparenza di un misticismo che si voleva conformare alla fede cristiana, ma caratterizzata, ci dice L. Cognet, nei suoi “Origini della spiritualità francese del XVII secolo”, essenzialmente “ … dal desiderio di mettere l’anima in rapporto con l’essenza divina direttamente e senza intermediari, con una unione non concettuale ed in particolare oltrepassando l’umanità di Cristo per trovare Dio solo Creatore. Generalmente, essa si traduceva più o meno in una mistica di annientamento.” Bérulle impiega delle espressioni perfettamente gnostiche: “… L’uomo è sempre emanante da Dio, e non ha sostanza che in questa emanazione continua e perpetua, senza avere alcuna consistenza fuori da questa emanazione sempre presente”. “… le creature, aggiunge, possiedono una sorta di essere spirituale e divino in cui Dio le conosce da tutta l’eternità e non le ha create che per richiamarle a questo mondo divino di esistenza che hanno avuto nel proprio pensiero, vale a dire nel suo Verbo. Il mistero della nostra divinizzazione si presenta sotto forma di un ritorno a questo essere ideale e divino.” – “ … La natura divina può essere detta la nostra prima natura e come l’essenza della nostra essenza” (“Opuscoli di pietà”, passim). Si riconoscono in tutte queste espressioni platoniche, le formule classiche degli gnostici sull’emanazione, il ritorno all’unità primordiale; la natura divina della nostra essenza, etc. Bérulle era stato amico di Saint-Cyran, che lo venerava come un maestro e che partecipò alla redazione dei “Discorsi delle grandezze di Gesù”. – Questa collaborazione intellettuale e spirituale tra giansenisti e oratoriani proseguì con tenace continuità per due secoli. Saumur e Angers furono in quest’epoca un vero focolaio di agitazione giansenista. Gli Oratoriani avevano due stabili nella città; il “Collegio reale dei Cattolici”, era vicino a N. D. des Ardilliers, loro casa di teologia ove venivano i confratelli dell’Istituzione di Parigi, di fianco si trovava un’accademia protestante, una specie di facoltà di filosofia e di teologia che attirava gli studenti soprattutto dall’Olanda. La Maison des Ardilliers attirava i protestanti di  questa accademia. Il P. Thomassin vi insegnava con gran magnificenza le fonti cristiane, i Padri (… soprattutto Sant’Agostino) e mostrava un disprezzo  molto pronunciato per la Teologia Scolastica con gli incoraggiamenti del Vescovo di Angers, Henri Arnauld, fratello di Antoine, uno dei quattro Vescovi che sostenevano l’opera di Giansenio. – A Saumur, il successore, a partire dal 1670, del P. Thomassin è il P. André Martin, che sostiene sulla grazia, le tesi gianseniste. Una lettera sigillata del Re, nel 1674, gli ordina di interrompere il suo insegnamento e di lasciare la città. Il P. Lamy, che insegna al collegio cattolico deve promettere di non insegnare più Cartesio dal 1673. Nominato al Collegio di Anjou, il P. Lamy è impegnato in una viva lotta a favore del cartesianesimo. L’ordine del Re del 30 settembre 1675 gli proibisce di insegnare “i sentimenti di Cartesio”. – Il P. Lamy fa sempre riferimento a Sant’Agostino: “.. Gli scritti di Sant’Agostino saranno sempre la consolazione di tutti coloro per i quali, la conoscenza della verità, è una meta deliziosa”, scrive nei suoi “Entretiens sur les Sciences”. Queste vive luci che brillano nelle opere di Sant’Agostino, illumineranno sempre la Chiesa e dissiperanno le tenebre che il padre della menzogna tenterà di diffondere negli spiriti degli uomini. Come fece Dio con la sua Provvidenza, quando Mosè e Daniele destinati a condurre il suo popolo, furono istruiti dai più abili filosofi e dai matematici più sapienti della terra; allo stesso modo Egli conduceva Agostino di maniera che, nel tempo in cui non pensava a Dio, studiò il platonismo che lo resero capace di comprendere e gustare le cose spirituali e gli dettero questa elevazione di spirito che gli è peculiare e che lo fece considerare come l’Aquila dei teologi”. – L’espressione “Aquila dei teologi” viene da Bérulle.  – Questo stesso padre Lamy, in “Discorsi sulla filosofia” del 1694, mette in ordine le sue idee sulla filosofia: 1°) Si è convinti al presente che sia necessario essere un buon matematico per essere un buon filosofo. (… al presente, cioè dopo Cartesio). 2°) … Tra i filosofi pagani Platone deve essere messo a parte. Egli si applica alle scienze astratte, come la geometria, ciò che lo ritirerà dalle cose sensibili e lo rese capace di considerare le cose spirituali”. Ecco perché si vedono in lui “le cose che si avvicinano fortemente alla nostra religione”, che riguardano Dio, l’immortalità dell’anima, la sua spiritualità, la morale. 3° ) “… Questi meriti pertanto non appariranno con un tal rilievo se comparati con i restanti pagani, particolarmente Aristotele. I santi Padri hanno considerato Aristotele come molto dannoso per la Religione Cristiana. … essi lo hanno accusato di credere l’anima mortale. Egli non ha conosciuto la creazione del mondo … – … ignorando i rapporti dell’uomo con il suo Creatore, la sua “morale è pericolosa per non dire empia … è spiacevole che una tal filosofia sia insegnata nelle scuole cristiane”. – Si osservi qui la guerra instancabile condotta congiuntamente dagli Oratoriani ed i giansenisti contro la Scolastica che si basa essenzialmente su Aristotele. – Nel 1721, il rettore dell’Università di Angers, M. C. G. Poquet, in un rapporto sulle tesi presentate dai professori oratoriani di Angers, si stupisce di trovarvi esposte assiduamente “… opinioni di Cartesio, di Baio, e di Giansenio, benché le propongano sotto il nome dei Padri della Chiesa e degli antichi filosofi. Essi credevano di abbagliare il popolo con margini pieni di citazioni di Sant’Agostino, cosa che era l’ultima assurdità”. Il nostro buon rettore, con il suo naturale stupore, intravede bene il processo disonesto di questi professori: far passare l’eresia attraverso il canale dell’insegnamento dei Padri della Chiesa e soprattutto di Sant’Agostino. Questo ci riconduce al progetto di Bourg-Fontaine. – Noi sappiamo da Jurieu, nel 1861, che “i teologi di Port-Royal avevano tanto attaccamento sia al cartesianesimo che al Cristianesimo”. Nel 1690, nel “Viaggio del mondo di M. Descartes”, un gesuita, il p. Daniel affermava: “ … Si vedono pochi giansenisti che non siano nel contempo cartesiani”, e Richard Simon affermava nel 1682: “ … Le persone di Port-Royal che sono in ogni cosa agli antipodi dei Gesuiti, ed hanno preso fortemente le parti di Cartesio”, aggiungendo: “ … e in effetti, questa filosofia si accomoda bene meglio con i buoni sentimenti che con quelli della Scuola”. – Jean Laporte scrive: “ … Noi vediamo Arnauld, istruito o piuttosto orientato da Saint-Cyran, dedicarsi nella lettura di Sant’Agostino per diversi anni (1635-1639) prima dell’apparizione dell’Augustinus, e per la maggior parte sulle opinioni riguardanti la corruzione originale, la grazia efficace la predestinazione gratuita, la morale rilassata, l’amministrazione dei Sacramenti e la costituzione della Chiesa, per i quali lotterà in tutta la sua vita, con i Solitari ed i Religiosi. – I giansenisti diffusero ancora la loro nuova filosofia nei circoli mondani dell’Hotel Liancourt, a Parigi. Il duca di Liancourt provocò la querelle del giansenismo all’apparizione del libro “L’Augustinus”. Nel 1655, il curato di San Sulpizio, gli rifiutò l’assoluzione a causa delle sue relazioni con Port-Royal. Il duca molto adirato, si appellò alla Sorbona. Ma i teologi consultati diedero ragione al curato di San Sulpizio. Il duca di de Liancourt, organizzava, nel suo hotel particolare, delle riunioni in cui si dissertava di letteratura, di scienze, di metafisica, di teologia. Naturalmente ci si appassionava alla nuova filosofia, quella di Cartesio. Nicole ed Arnauld vi partecipavano regolarmente.  Il p. Lamy vi veniva spesso. Là, nell’abbandono di una conversazione familiare, essi si esprimevano più liberamente che nei testi scritti. Là, Antoine Arnauld vantava Cartesio, dicendo che le “… bestie non hanno l’anima”, che “… mai da un piccola risorsa si farà nascere coscienza di sé, etc. – L’alleanza del giansenismo con il cartesianesimo si trova ancora al castello di Commercy, ove il cardinale du Retz è condannato a vivere in esilio dopo le sue dimissioni da Arcivescovo di Parigi. Egli vi aveva costituito un corso per persone istruite, agostiniane e cartesiane, che avevano messo in parallelo e confuso i due sistemi. Essi avevano una predilezione per la filosofia di Platone, una volontà di interiorità che consiste nel ridurre la religione ad un contatto dell’uomo solo davanti al dramma del suo destino ed a sopprimere l’edificio ecclesiastico e gerarchico … ugualmente una concezione identica del libero arbitrio, rigettato dagli uni e dagli altri. Tutto è condizionato, dice Cartesio, dal determinismo della ragione, e tutto è condizionato, secondo i giansenisti, dalla determinazione della Grazia. – Infine, occorre ugualmente segnalare la tradizione benedettina rinnovata dalla riforma di Saint-Vanne, in cui la reazione antiscolastica fu molto violenta. Nei suoi “Pensieri cristiani”, dom Laurent Bénerd, nel 1616, raccomanda già di “non prendere delle astrazioni quintessenziate di una scolastica, delle arguzie e sofismi di una dialettica, se non quanto sia necessario per ben intendere i fondamenti e la sostanza di una teologia in filosofia”. Dom Robert Desgabets scriveva: “La nostra congregazione ha sempre un po’ di inclinazione sulle questioni di pura scolastica …”  Rientrato in Lorena nel 1650, egli proseguì il suo insegnamento sempre più nutrito di Cartesio “… che è, diceva, il dottore infallibile che Dio ha riempito dei suoi lumi, per il gran bene del mondo e della Chiesa.” Così portava il suo giansenismo al “metodo geometrico”, e nello stesso tempo alla vera ed antica teologia che si ricava dalla Scrittura e dalla Tradizione e soprattutto dalle opere di Sant’Agostino” (in “Lettera indirizzata ai religiosi della sua congregazione”). – Dom Thierry de Viaixne, monaco di Saint-Vanne, era fuggito ad Amsterdam, con P. Quesnel, oratoriano, dal 1685 ed Antoine Arnauld. Egli scriveva allora al capitolo generale dei benedettini di Saint-Vanne, riuniti a Saint-Michel, in Lorena: “Io lo dico arditamente, ed oso dirlo anche da parte di Dio che, soprattutto dopo la Bolla “Vineam Domini” e “Unigenitus”, è abiurare la Fede cattolica ed abbracciare il molinismo o piuttosto il Pelagianesimo (Si sa che è un tic comune a tutti i nemici della Scolastica tomistica denunciare quest’ultima come un ritorno al Pelagianesimo), firmare il formulario puramente e semplicemente … Se per la più grande sventura del mondo, egli dice, la bolla Unigenitus ed il formulario di Alessandro VII non fossero mai ricevuti o piuttosto non fossero sempre aborriti nella congregazione, questo corpo gangrenato, sarebbe ben presto abbandonato da Dio … i monasteri ridiverrebbero dei laghi corrotti che non darebbero che fango e putridume …”. – Questo odio della Scolastica che i giansenisti hanno diffuso in Francia è la principale ragion d’essere dei loro attacchi accaniti contri i Gesuiti nel loro insegnamento. Questi, in effetti, hanno conservato fedelmente il pensiero del loro fondatore, Sant’Ignazio, che faceva loro dovere il conformare il loro insegnamento alla filosofia di San Tommaso d’Aquino, perché  … egli aveva rinchiuso gli errori dei novatori in formule sì strette e precise, che non lasciavano spazio a sottigliezze né ad alcun mezzo per sfuggire alla cattiva fede. I novatori preferiscono ricorrere alla sola Scrittura che si presta facilmente ad interpretazioni erronee ed ai Padri della Chiesa, soprattutto a Sant’Agostino, a condizione di spiegarli alla loro maniera ed addomesticarli al loro proprio senso.

Il “FUNESTO” PASCAL

L’Università moderna ha privilegiato, nel suo insegnamento, i “Pensieri” di B. Pascal. Quest’uomo occupa da più di due secoli un posto preponderante e quasi esclusivo negli spiriti moderni, dato che lo si ritiene un “soggetto religioso”. Molti dei suoi “Pensieri” sono diventate massime ed adagi che si citano a proposito, e soprattutto a sproposito. I critici letterari si sono ingegnati a darne dei commentari pieni di ammirazione e rispettosi, ma si sono ben guardati dal rilevarne i terribile equivoci e le ambiguità che celano in seno. Alcuni tra loro hanno tuttavia rilevato certe difficoltà di interpretazione; ma anche in questo caso essi non hanno potuto trovare la chiave di interpretazione che avrebbe permesso facilmente di dimostrarne la malafede. Si può dire che questa moda di Pascal è il frutto di un accecamento colpevole da parte delle autorità morali e religiose che avrebbero dovuto energicamente condannare la loro eterodossia (i cani muti di Isaia?). – Un critico dell’ultimo secolo, M. Havet, nei suoi “Studi sui pensieri di Pascal” aveva notato: “Lo spirito di Pascal ha iniziato a produrre le rovine nello spirito del diciottesimo secolo e del nostro a seguire, rovine per eloquenza all’esterno, rovine per la filosofia all’interno. L’azione distruttiva delle sue idee si continua dopo di lui e va ben al di là delle idee stesse …”. Ora, se prendiamo la briga di osservare per bene le principali affermazioni di Pascal sulla religione, noi ci ritroveremo ancora in un “paese di nostra conoscenza”. In effetti non è possibile rigettare la Filosofia Scolastica e specialmente quella di San Tommaso d’Aquino, senza ricadere necessariamente nelle fogne gnostiche. Lo spirito umano non può sfuggire alle trappole della Gnosi se non si è assimilato il realismo della filosofia tomista. “… Umiliati, ragione impotente, taci, natura imbecille, sappi che l’uomo oltrepassa infinitamente l’uomo, che le sue miserie sono le miserie del re spodestato, che si è perso, è caduto dal suo posto, che egli cerca con inquietudine, che non può più ritrovare…” – “… Se l’uomo non fosse stato mai corrotto, non avrebbe alcuna idea della verità, né della beatitudine. Noi siamo incapaci di non desiderare la verità e la felicità e siamo incapaci di certezze, di felicità … questo desiderio ci è lasciato, tanto per punirci e per farci sentire da dove siamo caduti!” … “La natura è tale che demarca un Dio disperso dappertutto, e nell’uomo e fuori dall’uomo ed una natura corrotta.” – “… La nostra anima è gettata nel corpo, ella vi trova numero, tempo, dimensione …” – “… Far comprendere all’uomo che mostro strano egli sia…”. Sono, tutte queste, un ammasso di affermazioni categoriche, false per mancanza di misura, di precisione, e noi ritroviamo, ohibò, i grandi temi della gnosi: l’uomo era un sacerdote divino, poiché oltrepassava infinitamente l’uomo. Egli si era ridotto a perdere il suo carattere divino in seguito alla caduta e ad una corruzione, ma conserva una oscura reminiscenza di un paradiso perduto. … L’anima, gettata in un corpo è come prigioniera di un carapace materiale di cui deve sbarazzarsi.” – È nella reminiscenza platonica e nella preesistenza delle anime che, senza immagine, si può dire che l’uomo è “un dio caduto che si ricorda dei cieli”, secondo la formula conosciuta di Lamartine. … ma tutto ciò è una cascata di sofismi. Noi non abbiamo il ricordo di una passata grandezza perduta, e dunque tutte queste affermazioni di Pascal non sono che vane illusioni. Dare all’uomo queste illusioni di una caduta fuori dal mondo divino, dirgli che è un incapace sia di bene, che di verità, che di felicità, è votarlo alla disperazione ed al suicidio. Tutte queste formule si pretendono profonde e misteriose: sono al contrario perfettamente erronee ed indegne di un filosofo cristiano mentalmente sano. – Charles Maurras si è levato con forza contro questo rimuginio sprezzante della ragione umana: “ … Per il lettore dei “Pensieri” che si è fidato di Pascal, la ragione non è più una facoltà umana, che il peccato originale ha potuto colpire e ferire. Non è neanche una morte, né una cenere. È più che una morte, è un oggetto di scherno …”. La via pascaliana rappresentava per lui “… una sorta di disperazione e come un rassegnare le dimissioni, che lo spodesta sostanzialmente da ciò che egli sente di meglio nella sua ragion di vivere e di essere: l’amore del vero.” – Dopo aver reso “imbecille” la ragione, Pascal voleva sostituirla con l’autorità della testimonianza e Charles Maurras denunciava questa pessima manovra essenziale di questo spirito più passionale che profondo. E “… siccome egli sa, aggiunge, che la testimonianza non può cavarsela senza l’aiuto della ragione, Pascal l’aggiunge così, per quanto può, in grosso ed al dettaglio, alla nostra povera umanità  sprecata.” Così, quando si fa il punto morto sulla ragione umana, non resta più che un fideismo irrazionale ed assurdo: “Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù-Cristo, ma noi non conosciamo bemmeno noi stessi se non per mezzo di Gesù-Cristo”. E Pascal aggiunge: “… fuori da Gesù-Cristo noi non sappiamo né ciò che è la nostra vita, né la nostra morte, né Dio, né noi stessi. Così senza scrittura, che non ha se non Gesù-Cristo per oggetto, noi non conosciamo nulla se non vedendo oscurità e confusione nella natura di Dio e nella propria natura. Io intendo nella nostra natura propria”. Essendo la ragione annichilita, gli uomini privi della rivelazione sono dunque condannati all’infelicità eterna. E Pascal continua, nella perfetta logica del suo assurdo sistema: “… Tutto volge al bene per gli eletti, finanche le oscurità della Scrittura, perché essi la onorano a causa delle illuminazioni divine. E tutto volge al male per gli altri, finanche l’illuminazione, perché essi le blasfemizzano a causa delle oscurità che essi non intendono. Ci sono dunque delle oscurità nella Scrittura ed allora il povero umano, privo di ogni criterio razionale, è condannato a vivere nell’errore o nell’ignoranza se non ha ricevuto una illuminazione divina, e dunque, non si intende nulla delle opere di Dio, se non si prende per principio che … Egli ha voluto accecare gli uni ed illuminare gli altri.” – Conclusione necessaria;: se la rivelazione divina è proposta ad un uomo privo di intelligenza e di libero arbitrio, questi non può conformarvi la sua ragione e la sua volontà. Ecco l’uomo radicalmente inadatto ad ogni relazione intima con Dio. La fede diventa un atto assurdo, senza ragion d’essere, super imposta ad un essere passivo e diventato “un blocco di legno o di pietra”, secondo la formula di Lutero. – A questa ragione impotente, Pascal sostituisce ciò che egli chiama le ragioni del cuore. “… Alle verità della fede, bisogna aprire, ci dice, le porte della volontà, bisogna che esse entrino dal cuore nello spirito e non dallo spirito al cuore”, “ … perché, ancora dice, tutto ciò che l’uomo ha, viene sempre condotto a credere non con la prova, ma con la gradevolezza!” L’apologista dunque deve mostrarci non che queste verità siano vere, ma che siano amabili e crederemo subito: “… perché le cose sono vere o false, secondo l’angolazione dalla quale le si vedono”. La volontà, che spiace ad uno piuttosto che all’altro, allontana lo spirito dal considerare le qualità di quelle che non ama vedere e, camminando all’unisono lo spirito con la volontà, si arresta a guardare l’aspetto che gli piace e ne giudica per quel che ne vede.” Come ripetono tutti i pascalisti: “Non si crede bene, se non ciò che non si ama credere”. – Ma che cumulo di sofismi! Le cose sono vere in se stesse! Allontanare lo spirito dal considerare le qualità delle cose che non si amano, è manifestare esattamente che le si sono viste, queste qualità, e dunque che necessariamente le si conoscono. Fermarsi a guardare una faccia e non l’altra, è riconoscere che si è vista pure l’altra faccia, è un mettersi volontariamente le mani sulla faccia per far sembrare di non riconoscerle. È mentire a se stesso… ma la verità rigettata, perché importuna e fastidiosa, resta sempre là, presente allo spirito. – Il cuore ha forse le sue ragioni, ma la ragione le conosce molto bene. La prova non è dimostrativa, ci si dice, se non si è disposti a riceverla. Eh! No! La nostra intelligenza è, per natura, disposta a ricevere una prova. Se essa brilla, il nostro spirito ne sarà abbagliato. Quando si sarà deciso di non guardare più dal lato della luce, di pensare ad altra cosa, ciò facendo, resta guidato dalla ragione che ha dapprima mostrato ove conduce questa luce. “Perché, spiega il P. Mersenne, alla fine dei conti, se non seguiamo i nostri sensi e la ragione, noi siamo incapaci di religione. Ed egli insiste: “ … Infatti, perché non seguiamo piuttosto la Religione Cristiana che la maomettana, se non perché la giudichiamo più ragionevole e vera? … Occorre dunque usare la ragione per abbracciare una religione: quando la ragione ci detterà che non è più ragionevole seguire la turca, bisogna che l’abbandoniamo anche se la ragione ci dice che non c’è apparenza che Dio voglia che tutti siano salvi: bisogna che noi non seguiamo questa opinione.” Il P. Marsenne risponde così in anticipo ai sofismi di Pascal. In una lettera del 22 novembre 1642, al suo amico Rivet, egli si dichiara d’accordo con il P. Pétau che, nella sua teologia positiva in cui tratta del libero arbitrio, “rifiuto Giansenio e forse anche Sant’Agostino, perché è difficile rifiutare l’uno senza l’altro.”  – Il nostro spirito non si applica alle cose e si sforza di trovare in esse ciò che contengono di stabile, di universale e di permanente per attaccarvisi e restare fermo nella verità. Ciò che Pascal designa con il nome di “cuore” è certamente ciò che il nostro spirito incontra nelle cose, prima di penetrarne il senso profondo, la loro faccia esteriore, sensibile, cangiante, piacevole o sgradevole, dunque fluente ed incerta. Costruire la fede sul “cuore”, secondo la moda di Pascal, non è altro che costruire sulla sabbia. Esso non resisterà mai per lungo tempo alle fluttuazioni della sensibilità ed alle fantasie stravaganti dell’immaginazione. Di tal sorta che la religiosità sentimentale oscilla costantemente tra la superstizione e l’indifferenza. Sarà necessaria sempre una eccitazione esteriore destinata a rianimarne la fiamma vacillante. – Le sette sono là a proporci questo adiuvante necessario ad una religione così debole. – Effettivamente, i giansenisti si sono costituiti, come tutte le sette, come una vegetazione parassitaria della Religione Cattolica. Essi hanno annunciato: Elia sta per tornare … egli ristabilirà ogni cosa, “restituit omnia”. La loro profetessa, dal cimitero di Saint-Médard aveva designato come reincarnazione di Elia, la persona di un sacerdote, M. Vaillant, figlio di un locandiere di Troyes. Il grande oggetto delle predizioni è il ritorno prossimo dei giudei, la venuta di Elia, preceduto da un’eclisse di sole che durerà due ore e cinque minuti. Ci sarà l’apparizione di un arcobaleno, di una grande stella in pieno giorno e la venuta di Angeli intorno al sole e ala luna. Non vi ricorda nulla tutto ciò? L’ultima di tutte le sette, è la New Age, la setta ignobile dell’arcobaleno. Nella misura in cui il pensiero religioso moderno ha seguito i sofismi di Pascal, essa ha preparato generazioni dallo spirito debole ed aperte senza difesa ai guru delle sette.  – Ma il compendio e la sintesi di tutte le sette, è la setta del Novus Ordo, la “Spelunca latronis” insediata nella Sede Apostolica, evento che aveva fatto inorridire, restare muto perdendo i sensi, Papa Leone XIII, in quale, in visione estatica, poté osservare il demonio ed i suoi adepti impossessarsi della Cattedra di Pietro. Il Novus Ordo non è una semplice setta, o l’ultima setta, no! Essa è la “sintesi di tutte le sette”, direttamente guidata da lucifero tramite il suo vicario ed il sub-vicario. Il giansenismo è stato uno degli ultimi anelli di questa lunga catena di eresie e di scismi, con cui fin dall’eden, attraverso la gnosi in tutti i tempi, su tutta la superficie della terra, lucifero con i suoi adepti, ha cercato di avvolgere le anime sante riscattate da Gesù-Cristo, catturarle e condurle con sé alla eterna perdizione.  – A proposito ancora della setta del Novus Ordo, la sintesi di tutte le sette, notiamo come tutte le aberrazioni concepite ai tempi del Giansenismo, e allora faticosamente bloccate dai Gesuiti, dai Papi custodi del Deposito della Fede, e da chierici fedeli alla Chiesa Cattolica Romana, sono tutte confluite nella sacrilega liturgia modernista, che anzi è andata ben al di là delle già allucinate proposte novatrici dei giansenisti e finanche della liturgia gnostica più becera e blasfema. Basti pensare alle formule travisate della transustansazione, all’introduzione delle lingue profane in luogo del latino, al Canone storpiato e recitato a voce alta insieme agli astanti in coro, alla partecipazione delle donne al servizio liturgico, alle Particole dispensate ed afferrate da mani sacrileghe ed indegne, dalle musiche ritmate, dissonanti e dissacranti, e …  il “non plus ultra”, l’offerta del Sacrificio dell’Agnello fatta al falso “signore dell’universo”, il baphomet-lucifero adorato nelle logge massoniche, abominio della desolazione a perdizione delle anime dei battezzati. Ed a proposito degli “eletti manichei, non possiamo dimenticare l’“asso nella manica” per distruggere la Gerarchia Cattolica: la formula sacrilega e blasfema della non-consacrazione dei Vescovi del 18 giugno del 1968 che, come recita la stessa, crea degli “eletti”, nel senso gnostico, ed invalida ogni consacrazione, prima di falsi vescovi, e di conseguenza, di falsi sacerdoti non consacrati dai non-vescovi. – Anche Giansenio, Calvino, Lutero, Soncino, Weishaut e grembiulinati vari,  sarebbero restati perplessi nel constatare i “brillanti” risultati delle loro ribellioni a Dio ed alla Chiesa di Cristo (… dai frutti li riconoscerete, ci dice il divino Maestro).  Ma i loro sforzi saranno serviti solo a rendere più eclatante la potenza di Dio e la vittoria finale del suo Cristo, che si ride da tempo di loro, perché vede arrivare già il loro giorno … Dominus autem irridebit eum, quoniam prospicit quod veniet dies ejus … Gladius eorum intret in corda ipsorum, et arcus eorum confringatur! E saranno così ricompensati dal loro padrone in eterno.

LA GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (27): GNOSI E GIANSENISMO (II)

LA GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (27):

GNOSI E GIANSENISMO (II)

[Elaborato da È. COUVERT: Lecture e tradition, n. 227-228, Gen.-Feb. 1996]

La dottrina dei Giansenisti.

Rileggiamo la formula di Bourg-Fontaine: “E poiché tra tutti i dottori della Chiesa non ve n’è alcuno che non abbia uno slancio verso S. Agostino, del quale si può meglio abusare di passaggi mal spiegati e di cui neanche i calvinisti si sono serviti… si risolse così di farsi passare come difensori della dottrina di S. Agostino, la cui autorità servisse così da velo alla novità della loro dottrina e all’inganno per sorprendere i deboli di spirito.” – Ecco l’intenzione chiaramente dichiarata dei complici nel progetto di Bourg-Fontaine. Jansen (ius) era morto quando apparve il suo libro “L’AUGUSTINUS” nel 1640; si intendeva allora, con la pubblicazione di questo libro, deviare il pensiero di S. Agostino in direzione di una GNOSI riservata agli ELETTI. – Jansen aveva pure descritto, in una lettera del 5 marzo 1621, il suo progetto all’amico Sain-Cyran: “C’era, egli sosteneva, nel settimo volume dell’opera di S. Agostino; egli era perplesso circa il suo progetto e voleva conferire con il suo amico, non osando farlo con nessun altro: “Io non oso dire a nessuno al mondo ciò che penso, secondo i principi di S. Agostino, di una gran parte delle opinioni di questo tempo e particolarmente di quelle che riguardano la grazia e la predestinazione, per timore di non fare presso Roma, la fine che hanno fatto altri (… si riferiva alla condanna di Bajo), prima che ogni cosa maturi a suo tempo. Io sono disgustato da San Tommaso, dopo aver “succhiato” S. Agostino. Ve ne dirò di più se Dio farà il favore di rivederci un giorno. ..” – Problema evidentemente molto delicato. Come fare ad insegnare, a partire da S. Agostino, una dottrina che egli avrebbe certamente rigettato, se avesse letto l’“Augustinus” di Jansenius? La difficoltà viene dal fatto che S. Agostino stesso, nel suo insegnamento sulla predestinazione, ha variato il suo pensiero tentando poi, poco a poco, di ristabilire la verità cristiana in una questione fortemente spinosa. Se ne è reso conto egli stesso verso la fine della sua vita, quando ha riconosciuto gli errori passati nelle sue “Ritrattazioni”: “… Io non voglio, egli scrive, fare eccezione per le mie ritrattazioni, anche per quelle mie opere che ho scritto quando ancora ero un catecumeno. È vero che avevo già rigettato ogni speranza della terra, ma è vero anche che ero gonfio ancora dell’orgoglio che la letteratura del secolo ispira (sed adhuc sæcularium litterarum inflatus consuetudine scripsi). … Bisogna che io censuri questi libri, perché essi sono ricopiati e letti da molte persone che non ne traggono vantaggio che a condizione che si perdonino le loro colpe o, se non si vuole loro perdonare, a condizione di non attardarsi negli errori che vi si trovano (non tamen inhærætur erratis). … Io prego pertanto coloro che leggono questi libri di non imitarmi nei miei errori, ma nel progresso successivo che, si accorgeranno, facevo allora nella verità, man mano che moltiplicavo i miei scritti”. (non me imitentur erratem, sed in melius proficientem). Ecco una umiltà degna di lode, ma che rende molto difficile la conoscenza del vero pensiero definitivo di un autore. Ecco ciò che ha permesso ugualmente tutte le fantasie interpretative degli eresiarchi nel corso dei secoli. – Il pensiero di S, Agostino sulla predestinazione è stato, già al suo tempo, segno di contraddizione. Dogma fatalista, si accusava, scandaloso, che conduce alla inerzia, alla disperazione. S. Agostino ne aveva ben il sentore. Così nel suo “De corruptione Gratia”, egli tenta di giustificarsi: “… Siccome noi non sappiamo chi siano coloro che non vi appartengono, noi dobbiamo avere nel cuore molta carità nel volere che si salvino tutti”. (Sic offici debemus caritatis affectu, ut omnes velimus salvos fieri). Ecco! La salvezza dei riprovati non dipende dal nostro ben volere !!! .. – Secondo Dom Rottmaner, “… agli occhi di Agostino, in teoria pochi uomini erano predestinati, ma in pratica lo sono tutti … egli sapeva unire la teoria più severa della predestinazione, alla pratica più largamente affettuosa del ministero delle anime” (Der Augustinismus” (1949). Nel “De dono perseverantiæ”, il suo ultimo opuscolo sulla grazia, il Vescovo di Ippona si sforzava ancora di dissipare certi equivoci. Resta il fatto che la sua dottrina sulla predestinazione, è deplorevole, e come dice M. Chêne, “urta violentemente il senso umano”. Ora, attenendosi alle formule, Lutero, Calvino, Giansenio, non fanno che ripetere Sant’Agostino, ma solo a parole. Egli infatti, prima di loro aveva detto che “le virtù dei pagani non son che vizi travestiti”. Egli aveva detto che “… l’uomo usando del libero arbitrio si era perso e aveva d’un colpo perso il libero arbitrio, che “… dopo la caduta, la natura, lasciata a se stessa, era incapace di ogni bene”, tutto questo sviluppato evidentemente in formule ardenti ed appassionate, diffuse e rese classiche dall’autorità eccezionale del Santo. Si può essere sicuri che tutti i grandi eresiarchi nella Chiesa si siano sempre richiamati a S. Agostino, e Giansenio non ha fatto dunque che seguire i suoi predecessori. – Quando con la bolla “Cum occasione”, pubblicata nel 1635, Innocenzo X, condannò il libro l’Augustinus”, estraendone cinque proposizioni eretiche, Antoine Arnauld dichiarò che queste proposizioni erano sì, effettivamente eretiche, ma che esse non si trovavano nel libro incriminato, perché l’autore era stato fedele al pensiero di Sant’Agostino e precisò, “… Non si può credere, senza profferire eresia, che nei libri di Sant’Agostino vi siano errori e proposizioni che meritino di essere censurate: questo è condannare non Sant’Agostino, bensì la Sede Apostolica e tutta la Chiesa che lo ha dichiarato esente dal sospetto di aver errato”. Attaccare l’insegnamento di Giansenio, è dunque fare opera di leso-agostinismo. Sarebbe strano vedere un Papa che osasse attaccare il più grande dottore della Chiesa!” – Così, fortemente appoggiato sulla dottrina di Sant’Agostino, i Giansenisti ne sviluppano tutte le conseguenze con l’arte diabolica dell’equivoco e della messa davanti al fatto compiuto. Essi vanno ad accentuare questa predestinazione nel senso del massimo rigore: Gesù-Cristo non è morto per tutti gli uomini, ma per i soli “eletti”. Al seguito di Calvino, Saint-Cyran ci insegna che la grazia santificante, una volta ricevuta, nnon è più accettabile. “… La vita della grazia è la stessa di quella della gloria, non c’è che il solo peso ed il velo del corpo che portiamo, nonché la dimora terrestre che abitiamo che le rendono differenti … “… Una volta giustificati dal Battesimo, gli Eletti non peccano più e non hanno di conseguenza più bisogno del Sacramento della Penitenza per ricevere la grazie di Dio che non possono più perdere. Quando si è “eletto” e di conseguenza impeccabile e “Perfetto per sempre” non si ha più bisogno della Confessione e della Comunione. Ed il padre Quesnel ci precisa: “Marchio e proprietà della Chiesa cristiana, essa è cattolica poiché comprende tutti gli Angeli del cielo e tutti gli Eletti ed i giusti della terra di tutti i secoli.” – Principio mirabile di pace interiore: “… se io sono Eletto, alcun crimine può più impedirmi di essere salvo. … Se io non sono eletto, anche quando lascerò i miei disordini, non sarò avanzato di più. … Io posso, dunque, eletto o non eletto, vivere nei miei crimini con la più grande sicurezza!”. Quanto è comoda la santità giansenista! [Solo quella modernista la eguaglia, con la misericordia a buon mercato, senza pentimento e propositi … l’inganno satanico del postmodernismo del Novus ordo = spelunca latronis] –  Perseguendo la logica del sistema, un ecclesiastico della Lorena, che morì curato a Metz nel 1776, Louis Jobal, stimava che bisognasse riservare le cure pastorali al solo piccolo gruppo degli “eletti” e che fosse veramente “… inutile sforzarsi di voler convertire le anime che portavano i caratteri della riprovazione”, anime alle quali egli rifiutava i Sacramenti dell’estrema unzione e della assoluzione, “… perché, diceva, saranno salvati solo “coloro che Dio vorrà efficacemente salvare ed il nostro dovere è concorrere con Lui alla salvezza degli Eletti”. Questi ultimi si distinguono per un “fondo di religione”, segno infallibile della grazia (?), i riprovati non sono degni di interesse che nella misura in cui essi servono agli Eletti. Essi sono la paglia che porta il buon grano e che lo nutre e lo conserva. … in seguito, quando ha completato un certo ufficio, è gettata al fuoco” [… sembra quasi di rileggere passi del talmud, ove si parla dei goym paragonati a bestie da soma, ad animali al servizio dei “veri uomini”.. il solito linguaggio satanico!].. – Noi arriviamo così all’estrema conseguenza già contenuta nelle premesse; ma con tutta evidenza, siamo in piena GNOSI. Si vedono infatti qui gli estremi sviluppi del manicheismo. Tutto è puro per i puri (Omnia munda mundis), ecco il principio fondamentale degli gnostici. Il mondo è diviso in “pneumatici”, i perfetti, gli eletti, già rivestiti ed installati nella gloria e nella luce, ed in “helici”, i riprovati, spinti nella materia e votati alla dannazione, ma conservati per il servizio ai Perfetti (simile è il manicheismo gnostico-talmudico). È quanto abbiamo visto nella pratica dei monasteri manichei e buddisti dell’Asia centrale. (Vedi “Gnosi e Buddhismo” in questa stessa serie …)– Si è notata ugualmente un’altra grave conseguenza del sistema giansenista: il disprezzo del corpo e della materia, tema gnostico ben conosciuto. “Il corpo, ci dice Saint-Cyran è un peso ed un velo che ci separa ancora dalla gloria”. Bisogna dunque sbarazzarsene al più presto. Il Giusto, il “perfetto” deve gemere, sospirare, sciogliersi in lacrime, in pianti, in singhiozzi nell’attesa della morte felice e desiderata. Noi abbiamo dimostrato già precedentemente che si potevano mettere in parallelo gli scritti di Poto-Royal con gli inni manichei. (ibidem in: Gnosi e Buddhismo…). – Il mondo appare come il luogo della concupiscenza, il teatro dell’incarnazione del male e specialmente del peccato della carne. Poiché questa è cattiva, legata al nostro involucro corporeo, bisogna distaccarsene! I giansenisti si scagliano violentemente contro il matrimonio, giudicato volgare e pericoloso. Essi rifiutano ogni commercio carnale. Tutto l’ascetismo di Port-Royal esprime in realtà questa diffidenza fondamentale nei riguardi dell’atto carnale, l’atto della procreazione; questo stato spirituale ha finito per impregnare per più secoli le opere di teologia morale e di morale pratica. – Un discepolo di Antoine Arnauld, Ambroise Paccori (1649-1730) fu un autore molto fecondo di trattati di educazione morale del XVII secolo. Egli ricorda che la corruzione della carne è la fonte essenziale di ogni peccato: “Il Cristiano deve concepire un santo odio della propria carne e di quella degli altri”. Si devono usare i vestiti per la copertura della corruzione del nostro corpo, ma non per esaltarne la bellezza! Glorificarsi dei propri abiti: “… è comportarsi come un rognoso che cerca la vanità nel cappellino che nasconde la sua rogna”. Non è inutile precisare che questa attitudine morale è la fonte del malthusianesimo che avvelena la nostra società dopo di essi, teoria manichea associata ad un rifiuto della procreazione ed un ricorso alle sterili pratiche abortive, omosessuali, della prostituzione e degli ipocriti rapporti “protetti”, pratiche tutte divenute la piaga del mondo di oggi, mondo gnosticheggiante, massonizzato fino al midollo.

Una liturgia gnostica

Quella che Dom Guéranger chiama, nelle sue “Istituzioni liturgiche”, l’eresia antiliturgica, non è nient’altro che la nuova liturgia introdotta dai giansenisti nelle chiese e nelle diocesi ove essi si sono insediati per detenere il potere ecclesiastico. – Essi hanno cominciato con il tradurre il Messale in lingua volgare. Ambroise Peccori, già citato, nel 1706 aveva proposto l’uso di recitare le preghiere della Messa con il Sacerdote. L’Assemblea del clero di Francia, nel 1660, aveva vietato la traduzione del Messale sotto pena di scomunica. Il Papa Alessandro VII, l’anno seguente aveva condannato questa pratica facendo riferimento al Concilio di Trento (Sess. XXII, can. 8). Già all’epoca era un uso protestante. Tuttavia la traduzione completa di tutta la liturgia è stata perseguita dai giansenisti negli undici volumi di “L’Anno cristiano” di Letourneux. – Poi apparve l’insinuazione che la recitazione a voce bassa, del solo Sacerdote, delle preghiere della Messa e specialmente del Canone, faceva in modo da tener all’oscuro gli assistenti ed i fedeli da una partecipazione personale al Sacrificio. Alcuni curati presero l’iniziativa di proclamare ad alta voce le preghiere del Canone, Questa pratica cominciò a generalizzarsi e l’autorità ecclesiastica dovette intervenire: il capitolo di Bayeux, nel 1729, pubblicò un regolamento che vietava di recitare il Canone della Messa a voce distinta per essere percepita dagli assistenti, sotto pena di sospensione. Nel 1737 è il Vescovo di Laon, Etienne de la Fare, che promulgò un ordine simile, poi i Vescovi di Auxerre, di Sens, di Amiens, de Bayonne, etc.  – La ragione invocata dai giansenisti, è che “noi non possiamo, per implorare Dio, impiegare delle parole che gli sarebbero poco gradevoli, come quelle della Messa”. Ma la vera ragione è molto più importante. Nella “Morale cristiana sull’orazione domenicale” (Libro 3; sez. 3, art. 1), l’autore insiste sulla necessità di pronunciare ad alta voce, con il Sacerdote, tutto il Canone della Messa e specialmente le parole della Consacrazione perché “assistendo al santo Sacrificio della Messa, noi offriamo e consacriamo tutti insieme il corpo di N. S. G. C.”. Un buon gesuita del XVIII secolo, Padre Sauvage, ne da questa spiegazione: “Bisogna che il Sacerdote pronunzi le parole della Consacrazione ad alta voce ed in modo distinto, affinché se, per sfortuna colui che appare all’altare fosse spogliato dal sacerdozio per uno di questi peccati che, secondo Saint-Cyran lo annientano, qualcuno degli assistenti, più innocente del Sacerdote, possa consacrare al suo posto. È così, continua il nostro buon padre, che facendo di tutti i Cristiani tanti sacerdoti, i giansenisti lavoravano silenziosamente e senza che si percepisse, all’abolizione del Sacerdozio”. – La liturgia di Asnières, vicino a Parigi, ci dà il vero senso di questa novità. M. Petitpied, curato di questa parrocchia verso il 1730, comincia a costruire un altare a forma di tomba, chiamato altare domenicale, spogliato dei candelabri e della croce. Solo al momento di celebrare la Messa, lo si ricopriva con un semplice telo. Nello svolgimento del cerimoniale, egli si sforzò di assimilare i laici ai Sacerdoti ed il Sacerdote al Vescovo. Ogni assistente risponde ad alta voce all’Introito, poi, dopo il Confiteor, si andava a sedere sul suo trono posto di lato all’Epistola, a destra dell’altare. Restava così per tutta la prima parte della Messa, senza salire all’altare. Dal suo posto intonava il Gloria ed il Credo, senza proseguirli, perché non recitava mai per conto suo le preghiere cantate dal coro. Non leggeva né l’Epistola, né il Vangelo. Saliva all’altare per l’offertorio dopo che i fedeli vi avevano portato e disposto il pane ed il vino: vi mescolava dei frutti. Il calice era portato senza velo, dalla sacrestia. Gli assistenti recitavano ad alta voce il canone con il celebrante, le benedizioni erano fatte sulle sante Specie e sui frutti ed i legumi posti vicino al calice. Il curato di Asnières voleva che i laici si “conformassero agli ecclesiastici quanto potevano, cioè al cerimoniale che ordina agli ecclesiastici le cose tali come devono essere, secondo lo Spirito della Chiesa.” In altri termini i fedeli dovevano, secondo lo spirito della Chiesa, adottare le stesse attitudini e gli stessi gesti del celebrante. – Il p. Quesnel affermava che non si doveva mai dir Messa se non in presenza dei fedeli; egli rigettava tutte le Messe private, tutte le Messe basse, in cui i fedeli non si comunicano. Egli reclamava la soppressione delle cappelle nelle comunità religiose. Abbiamo già visto come questo fosse nei progetti di Bourg-Fontaine. È dunque la presenza del popolo fedele che dà la validità alla cerimonia. – Molto spesso si sostituiva il francese al latino. Così agiva Pierre Brayer, gran vicario del Vescovo di Metz, che usava la lingua volgare nella celebrazione del viatico, “…sebbene, dice un testimonio, si temesse che il malato  facesse venire un ministro di Ginevra o da Amsterdam”. L’Abbazia di Orval, nei Paese Bassi, aveva ugualmente praticato degli adattamenti liturgici, soppresse delle rubriche, inserite delle nuove messe manoscritte che non sono dell’ordine romano né del Cistercense, etc. etc. – Come se non bastasse: “Le donne gianseniste volevano dir Messa”; … e perché no, se esse sono le “perfette” del popolo divino? Una di esse, in Provenza, diceva pubblicamente le parole della liturgia in lingua provenzale, anche quelle della Consacrazione, mentre il curato le diceva in latino. Una certa signora Mol, nel suo “Journal historique des convulsions”, dava questa giustificazione adducendo questo strano paradosso che un semplice fedele, non solo sacrifica con il Sacerdote, ma che è sacerdote egli stesso. Non ci si può esimere dall’ammirare, aggiungeva, la maestà e la dignità con la quale Melle d’Anconi celebra i santi Misteri. I sacerdoti più autorizzati, assistono alla sua messa e rispondono come suoi ministri e, al memento gli raccomandano coloro che giudicano idonei.” –  E René Taveneaux conclude. “… è superfluo sottolineare la parentela di queste innovazioni dei giansenisti con la riforma liturgica operata in seguito al Vaticano II”. Tuttavia noi abbiamo aggiunto a tutto questo scempio, la soppressione dell’abito ecclesiastico e l’inversione degli altari, rivolti al popolo cristiano, popolo di “perfetti”, già divinizzato, illuminato, nella gloria del cielo che officiano contentandosi di adorare. Nel XVIII secolo, il Giansenismo trovò un appoggio nei discepoli di Edmond Richer, che pretendevano di mettere in luce il principio del “sacerdozio universale dei fedeli”.

[2. Continua …]

LA GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (26): GNOSI E GIANSENISMO (I)

LA GNOSI, TEOLOGIA DI SATANA (26):

GNOSI E GIANSENISMO (I)

[Elaborato da É. COUVERT: Lecture e tradition, n. 227-228, Gen.-Feb. 1996]

Il Giansenismo, al pari delle società massoniche, si presenta alla storia con un doppio volto. Esso si dà le belle apparenze di una società ideale di persone pie, austere, dedite alla devozione, in un monastero dalle rigide apparenze, ma sufficientemente aperto al bel mondo per attirarsi le lodi e la gloria del Gran Secolo. – Queste signore di Port-Royal seppero abilmente dissimulare una ostentata umiltà e pubblicizzare, attraverso la Francia tutta, le loro presunte opere di pietà. Questi “piccoli signori”, le “belle anime” di Port Royal des Champs, seppero risvegliare l’ammirazione del loro secolo mascherandosi da vignaiuoli, lavoratori, calzolai … tutto questo a maggior gloria della setta. – La famiglia Arnauld avendo ben compreso il gioco di ciò che noi oggi chiameremmo i “media”: lanciarono grandi polemiche su soggetti religiosi spinosi, infiammandoli con un linguaggio appassionato, facendosi quindi ammirare per la propria supposta ed indimostrata sincerità declamata ai quattro venti, rilanciando poi queste stesse polemiche, quando cominciavano ad affievolirsi presso il pubblico, con il ricoprirsi di una finta indignazione ogni qualvolta si subiva una condanna più che legittima dall’autorità religiosa, e protestandosi vittima innocente. È un gioco del quale i moderni settari sono divenuti maestri e che riesce sempre a meraviglia. – La storia letteraria, dopo due secoli, e soprattutto dopo il “Port Royal” di Sainte Beuve, non ha fatto che sviluppare questo schema sì bene orchestrato. I nostri critici moderni, ci hanno presentato fino alla nausea la santità e la purezza di queste dame e di questi signori, le grandi qualità letterarie degli autori della setta e soprattutto la profondità [ … nebulosa] dei “Pensieri” del loro più celebre interprete: il cripto-gnostico Pascal. – In questo studio non abbiamo l’intenzione di presentare questo volto pasticciato del Giansenismo, ma al contrario, cercheremo di penetrare all’interno della setta, cercheremo di svelare i veri pensieri sottotraccia di questi signori ed andremo a ritrovarci, stupefatti, in un paese molto ben conosciuto e che stiamo ritrovando ove mai ci saremmo aspettati. I Giansenisti non hanno inventato un bel nulla, essi hanno rispolverato e riattualizzato per il Gran Secolo le formule classiche della Gnosi manichea. – In un’opera, molto antica; “I pregiudizi, nemici della storia di Francia”, Louis Dimier si è sforzato di dimostrare come gli storici moderni hanno tentato di aizzare i loro contemporanei contro l’Antica Francia, dando di quest’ultima un volto quanto più possibile sgradevole. Nei tre capitoli intitolati “Le rivendicazioni delle sette”, egli mostra come questi storici, eredi degli albigesi, dei protestanti e dei giansenisti, si sforzino di “riabilitare i loro ancestri ergendosi in requisitorie violentissime contro l’autorità dei nostri Re e dei Papi di questa epoca”. Di passaggio hanno pure stigmatizzato naturalmente, l’Inquisizione, la Lega, San Bartolomeo, la distruzione di Port-Royal da parte di Luigi XIV, e la revoca dell’editto di Nantes. … ovviamente! Ma essi, naturalmente, si sono ben guardati dal raccontarci le rovine ed i crimini accumulati dai loro ancestri settari contro la Società Cristiana del passato. – Per tornare al Giansenismo, ci proponiamo di evidenziare il volto nascosto della setta; e cominciamo dal “complotto”.

IL COMPLOTTO

Nel 1654, apparve a Poitiers un’opera intitolata: Relazione giuridica di ciò che è successo a Port-Royal concernente la nuova dottrina dei Giansenisti”, scritta dal signor Filleau, primo avvocato del Re al presidio di Poitiers. L’opera venne stampata per ordine della Regina Madre, la madre di Luigi XIV e conteneva una lettera di felicitazione di quest’ultima datata: 19 maggio 1654. – Cosa raccontava quest’opera esser successo verso l’anno 1621, quando i primi capi del Giansenismo si erano riuniti in una certosa situata nella foresta di Villers-Cotterêts, la certosa di Bourg-Fontaine. Si trattavava di Jean du Virgier de Hauranne, già abate di Saint-Cyran, di Cornelio Jansen (o Giansenio), poi vescovo di Ypres, di Filippo Cospéan, Vescovo di Nantes, poi di Lisieux, di Pierre Camus, Vescovo di Baley ed amico di San Francesco di Sales, d’Arnauld d’Adilly, grande amico del giovane “de Saint-Cyran”, di un consigliere del Re, Simon Victor e della persona rimasta anonima e che ha stilato il resoconto seguente: “Il primo designato, dopo avere fatto intendere all’assemblea che era giunto il tempo in cui i sapienti PIENAMENTE ILLUMINATI, disingannassero i popoli e li ritraessero dalle tenebre nelle quali erano come quasi seppelliti, e che a causa di ciò, essi, che avevano le CONOSCENZE (le GNOSI!!!) necessarie ed i talenti proporzionati a questa GRANDE OPERA (la Grande Opera !!!), dovevano porre mano all’opera capace di fare apparire la potenza di Dio che non brillava nei loro giorni. E per giungere a questa grand’opera, poiché sapevano che c’era un Dio come oggetto della vera credenza, un Dio che faceva delle creature ciò che a Lui piaceva, che conosceva coloro che voleva salvare mentre dannava gli altri che non potevano lamentarsene, avendo meritato la morte eterna a causa della prevaricazione del primo uomo, giacché si trovano ingabbiati in questa MASSA CORRUTTRICE, era necessario aprir loro gli occhi ed iniziare la loro istruzione con la distruzione ed eliminazione dei misteri, la cui credenza è illusoria ed inutile e particolarmente quello dell’Incarnazione, che era come la base ed il fondamento di tutti gli altri. Perché a che serve, egli argomentava, proporre un Gesù-Cristo nato e morto per gli uomini, la cui salvezza dipende dalla sola grazia che Dio dà loro, che “sola” è efficace ed opera la loro buona o cattiva fortuna per l’eternità.” [concetto raffazzonato dai protestanti, specie i calvinisti!] – Colui che disquisì per secondo fu dello stesso avviso ed esagerò questa proposizione per le conseguenze che traeva dai fondamenti e dai principi della loro dottrina. Il terzo, che volevasi aggregare in questa “conventicola”, e che era molto versato nella lettura di S. Agostino, non disse altro, se non che era da folli fare tale proposizione e volerla proporre in un Regno che era tanto lontano da tale novità e che, quanto a lui, non voleva impegnarsi su questo piano. “I tre altri testimoniarono che la via che si voleva battere, cioè abolire dapprima il Vangelo, e combattere poi la credenza dei Misteri e tra essi la Incarnazione, era assai pericolosa e che sarebbe stata poco fruttuosa, argomentando che un albero non può essere abbattuto senza aver prima tagliato le diverse radici che lo fissano al suolo e gli danno forza e stabilità, per cui nella attuazione del disegno progettato, non era il caso di scoprirsi più di tanto, ma che occorreva usare altri mezzi più speciali e sottili, per insinuarsi negli spiriti e tentare così di aprirsi vie più plausibili, per giungere a compiere poi la GRANDE OPERA, con la quale annunciare questa grande verità, della quale tutti i popoli non erano ancora capaci, tanto che dotti ed indotti si sarebbero opposti ai primi passi ed avrebbero reputato questa dottrina come empia, denunciandola ai Magistrati, che sarebbero insorti mettendola alla berlina con pene e prigione. – “Queste ragioni politiche erano state avanzate da costoro contro gli stessi che le avevano proposte, pertanto si rimase tutti d’accordo nel tentare delle vie più morbide, attraverso le quali giungere alla rovina del Vangelo senza che ce se ne potesse accorgere, ed in luogo di attentare ai misteri, si deliberò di minare artificiosamente lr credenze che erano tenute negli spiriti dei Cattolici. – “ … Si decide di attaccare i due Sacramenti più frequenti per gli adulti, che sono quello della Penitenza e dell’Eucaristia. Il mezzo per raggiungere l’obiettivo, fu stabilito essere l’allontanamento che si procurava non attuando alcun mezzo particolare perché fossero meno frequentati, ma rendendone la pratica così difficile ed accompagnata da circostanze sì poco compatibili con la condizione degli uomini di questo tempo, in modo che diventassero inaccessibili, e che il disuso, fondato su delle belle apparenze, ne facesse perdere la fede. – “… Si propose così di elevare la grazia a tal punto da far credere che operasse tutto da sola, da negare che essa fosse sufficiente agli uomini, invertendo la libertà del libero-arbitrio, ed imponendo la necessità di piegarsi sotto la grazia vittoriosa, rendendo pubblico che Gesù-Cristo non era morto per tutti gli uomini: e tutto questo con il proposito di prevenire gli spiriti, ed avendoli così persuasi di queste falsità, trarre le conseguenze che rovinerebbero facilmente il Vangelo, i Misteri ed i Sacramenti. –  “ .. Perché, essi dicevano, se possiamo una volta imprimere questo negli spiriti di coloro che ci ascolteranno o che leggeranno le opere che produrremo su tali materie, essi non potranno più restare fermi nella loro primitiva credenza e ci sarà facile persuaderli che l’opera della Redenzione degli uomini è solo supposta, poiché il tutto non dipende che dalla sola grazia efficace, ed alla quale non si può resistere  e che, pertanto, qualunque sforzo si faccia per compiere i Comandamenti di Dio, ce ne sono alcuni che sono impossibili da osservare mancando la grazia per renderli possibili. A cosa serve dunque un Redentore, dei Sacramenti, a che pro tutti questi consigli evangelici? Si sarà salvi o dannati qualunque cosa si faccia, così come piacerà a Dio. – “… Ma intanto che non sarà facile sorprendere gli spiriti dei direttori e dei conduttori delle coscienze, così come sarà agevole agire sugli spiriti deboli e semplici di qualche Cattolico che nelle preposizioni fatte, faranno probabilmente ricorso agli stessi direttori che risolverebbero queste difficoltà, è necessario prevedere questo inconveniente, al quale uno della compagnia cercherà di portare il rimedio necessario che consiste nel discreditare o diminuire l’autorità e la chiarezza della direzione, che apparrebbe totalmente interessata.  – “ … Si prevede pure che non bisogna lasciare il Capo della Chiesa senza attaccarlo; perché siccome è a lui che si fa ricorso per i punti controversi della fede, per pronunciarsi in qualità di sovrano e fondato sull’infallibilità dall’azione e dall’assistenza dello Spirito Santo, si è risoluti in questa assemblea che si lavori contro lo stato monarchico della Chiesa per distruggerla, sforzandosi di stabilire un’aristocrazia, affinché sia più facile abbattere in seguito tutta la potenza della Chiesa. E quanto all’infallibilità del Papa, basta che si protesti contro di essa e non potendolo fare assolutamente, la si restringerebbe alle sole assemblee dei concili; e seppure, nello stato di fatto, quando il nostro Santo Padre, il Papa, avesse pronunciato qualche anatema contro le loro novità, protestando e parlando in un concilio, non si crederebbe più né al Papa né al Vangelo. – “Tutti coloro che in questa assemblea (a parte di colui che non aveva voluto scoprire i propri sentimenti e che li aveva accusati di follia, senza tuttavia impegnarsi in alcuna azione contraria alla loro e senza deferirli, come poteva, al fine di soffocare questo mostro nella sua culla) restavano d’accordo che bisognava scrivere e dare al pubblico dei libri con i quali potessero stabilire queste prime massime che non erano dei passi per giungere al loro ultimo disegno di deisti, che non osavano mostrare subito. – “E poiché tra tutti i dottori della Chiesa non ve n’è alcuno che non abbia uno slancio verso S. Agostino, del quale si può meglio abusare dei passaggi male spiegati e di cui neanche i calvinisti si sono serviti.. si risolse così di dirsi difensori della dottrina di S. Agostino, la cui autorità servisse da velo alla novità della loro dottrina e all’inganno per sorprendere i deboli di spirito. E al fine di non entrare in competizione tra di loro, distribuirono tra loro i punti e le massime che si impegnarono a stabilire con i loro scritti. Questo ha dato luogo non soltanto al libro del Jansenius, ma anche agli altri che sono stati messi in luce in questa occasione., trattando dei punti di cui si era fatta menzione più in alto. , che i dotti potevano facilmente rimarcare sena che ne faccia qui una enumerazione più particolare. L’ultimo comparso a Parigi come conseguenza della risoluzione di questa assemblea è quella dei due capi, con i quali pretendevano di rovinare lo stato monarchico della Chiesa e stabilirne uno tutto differente, che fosse poi distrutto da un’altra penna se non avessero incontrato questa stessa potenza vigorosa che ha fulminato questa opera di iniquità che voleva abolire la monarchia della Chiesa con questa molteplicità di capi. – “Ecco come è stata progettata questa cabala, poursuivit questa ecclesiastica, e che in verità questa assemblea che l’ha formata ed alla quale ho avuto la sventura di assistere e di partecipare, ma anche la fortuna di rinunciarvi quasi subito, era una conventicola contro la Persona sacra di Gesù Cristo, simile a quella che aveva predetto il Profeta: “Convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum ejus” (Ps. II) e che da questa nuova dottrina ha preso il nome di Giansenismo; questo è un nome da “corteccia” e tutto esteriore, ma la vera denominazione che le appartiene  è quella di deista, la loro segreta intenzione e la finale, essendo l’introdurre la sola credenza di un Dio, senza Vangelo  e senza Redentore e di abolire la fede del Sacramento del Battesimo che è reso inutile dalla riprovazione che stabiliscono su di una massa corrotta dal peccato originale, in conseguenza della quale corruzione Dio ha diritto di condannare coloro che ha predestinati alla morte eterna”. – Fine della citazione.

Esiste una seconda versione di questo incontro della certosa di Bourg-Fontaine. Essa è attestata dal priore dei Carmelitani nella citta di Tours, nel 1652 e 1654. Essa ci fa conoscere che l’autore della rivelazione è il signor de Rasilly, di questa stessa città, che nel corso dello scambio di vista Jansenio aveva insistito che si attaccasse dapprima e di preferenza l’ordine dei Gesuiti. Eccone il testo latino:

 

Nos Marcus a Nativite Virginis, provincialis Carmelitarum provinciæ Turonensis, hoc scripto declaramus, quod ann. 1652 et 1654, D. de Rasilly, vir nobilis Turonensis, testatus nobis sit, interfuisse se circa ann. 1620 colloquio cuidam virorum in ecclesia spectabilium, inter quos erant Dominus Duvergier, cui nomen deinde fuit abbati Sancyrano et Dominus Jansénius, dein Yprensium in Flandria episcopus, proponebat in eo colloquio D. Duvergier ut ne fideles regularium tempio adirent tam frequenter, optimum factu fore si ecclesiastici, qui administrandis sacramentis dabant operam, praxi uterentur ei opposita, quæ id temporis usurpabatur a regularibus, pænitentiæ vero sacramentum difficile redderent, eucharistiæ autem ut usus rarior esset, efficerent. Jansenio consultum non videbatur in religiosos omnes simul insurgere, sed initium, aiebat, sumendum esse a Jesuitis, neque enim difficile futurum demonstrare perversam esse eorum de grafia doctrinam et sopitas de ea re sub Clement VIII concertationes restituer. In eum finem librum se conscripturum addicebat, quo Jesuitarum doctrinam impeteret, quem suspicio est eum esse qui deinde prodiit in publicum hoc insignatus titulo: AUGUSTINUS, etc. “Priorem agebam in conventu nostro Turonensi eum Dominus de Rasilly priusquam obiret, sui etiamnum apprime compos et conscius, quæ de ilio colloquio ante commemoraverat, iterato testatus est esse vera. Sed hæc eadem narrarat patri Nicolao a Visitatione praedecessori meo eadem in munere Prioris, subjeceratque edixisse se viris estis, non placuisse sibi ea Consilia aut colloquia, quippe in quibus nihil agebatur aliud quam ut passioni suæ atque utilitati inservirent. In quorum fidem has propria manu scriptas signavi et signari curavi par assistentem nostrum, atque insuper sigillo officii nostri munivi. Actum Turonibus; 29 julii 1687. (Citato dal Padre J . M. Prat, nel suo “Essai sur la destruction des ordres religieux au dix-huitième siecle…” )

Traduzione

Noi, Marco della Natività della Vergine, provinciale dei Carmelitani della provincia di Tours, dichiariamo con questo scritto che nell’anno 1652 e 1654, il signor Rasilly, nobiluomo di Tours, ci ha attestato che circa l’anno1620 egli aveva partecipato ad un colloquio di uomini rispettabili nella Chiesa, tra i quali c’era il signor Duvergier, che fu in seguito abate di Saint-Cyran, ed il signor Jansenius, poi vescovo di Ypres nelle Fiandre. In questo colloquio il signor Duvergier sosteneva questa proposizione: che i fedeli non dovessero più frequentare le chiese dei religiosi. Bisognava fare in modo che gli ecclesiastici che avevano la carica di amministrare i Sacramenti, si opponessero all’uso che dai religiosi era stato usurpato in quest’epoca. Bisognava rendere difficile l’uso del Sacramento della Penitenza e fare in modo che il Sacramento dell’Eucarestia diventasse più raro. Jansenius non pensava che bisognasse interessarsi a tutti i religiosi del nostro tempo, ma precisava che era opportuno cominciare prima dai Gesuiti, perché non sarebbe difficile dimostrare che la loro dottrina sulla grazia fosse perniciosa e riprendere le controversie su questo soggetto, sopito sotto Clemente VIII. Egli aggiungeva che avrebbe scritto, all’uopo, un libro per attaccare la dottrina dei Gesuiti, libro che si è sospettato essere quello che è stato pubblicato sotto il titolo di: AUGUSTINUS, etc. – Io ero priore del nostro Convento di Tours, quando il signor Rasilly, prima di morire, ma ancora padrone di sé e cosciente, ci attestò di nuovo che ciò che mi aveva ricordato in precedenza su questo colloquio fosse vero. Ma egli aveva raccontato la stessa cosa al padre Nicolas della Visitazione, mio predecessore in questa funzione, ed aveva aggiunti di aver spiegato a questi uomini che egli non avrebbe più partecipato al loro progetto perché aveva compreso che volevano asservirlo alla loro passione ed alla loro utilità. – in fede, io ho firmato questo scritto di mio pugno e l’ho fatto firmare dal mio assistente e munito del sigillo della nostra carica. Fatto a Tours, il 29 luglio 1687.

UNA SETTA DI INIZIATI, GLI “ELETTI”

Intorno all’anno 1600, Duvergier de Hauranne era studente all’università di Lovanio e si legò ad un maestro illustre, Juste Lipe, filosofo ed umanista. Egli era di un Cattolicesimo incerto, molto influenzato dall’Olanda e dalla Germania protestante. È là che fece conoscenza con il giovane studente Jansen. I due giovani di legarono con un’amicizia stretta, tenace, malgrado le distanze che rendevano le relazioni rare e difficili. Nel 1620, egli si trovava a Poitiers ove fece venire il suo amico Jansen. È circa a questa data che si colloca l’incontro di Bourg-Fontaine. Jansen era tornato nei Paesi Bassi, e la loro corrispondenza si fece fitta. Bisognava mettere in opera il progetto iniziale. In una lettera datata 1620, Jansen gli precisa che non bisogna mettere a corrente del segreto un gran numero di persone amiche, perché non ci si può aggregare in Italia (cioè a Roma): Tandem aliquando desperat a via transalpina (la via transalpina, è l’ostacolo di Roma infrangibile), concessus est Solion (è lo pseudonimo di guerra di Saint Cyran) esse virum prodentem, eo quod credere incipiat negotium istud (è il progetto di Bourg-Fontain) finiri non posse nisi cospiratione multorum”. Nelle loro corrispondenze segrete il progetto di Bourg-Fontaine è chiamato Pilmot. Jansen promette a Saint-Cyran di non divulgare il piano: “Io seguirò il vostro avviso esattamente in ciò che riguarda l’affare Pilmot, cioè lo spirituale dell’affare, non dicendo nulla di questa lettera a M. l’Illustrissimo e sono contento che lo prendiate a cuore e che non ne facciate parola che in generale, perché l’affare è ancora attualmente nel suo montare”. In questo stesso anno 1620, Saint-Cyran scrive ad Arnauld d’Andilly, sua fedele amico: “Tutti gli spiriti della terra, per quanto acuti e sapienti siano, non capiscono nulla della nostra cabala, se non si fanno iniziare a questi misteri che rendono, come orge sante, gli spiriti più trasportati gli uni verso gli altri. ..” – I membri del complotto si chiamano tra loro “fratelli” e gli “amici della verità”. Essi sono gli “eletti”, i “perfetti”. Essi sono i “Santi”, già pervenuti alla perfezione celeste. Per essi, come per gli gnostici, “Omnia sunt munda mundis”. Tutte le cose sono pure per i puri. Noi ritroveremo infatti questi principi manichei nei loro insegnamenti. – In tutta la sua corrispondenza con Saint-Cyran. Jansen, fino alla sua morte, gli rende un racconto fedele del suo “Processo”, dell’ “affare spirituale”, del suo “Pilmot, tutte espressioni che ricordano il piano di Bourg-Fontaine. – Ma questa corrispondenza non è sfuggita alla vigilanza della polizia reale agli ordini del Cardinale Richelieu. Quest’ultimo comincia ad inquietarsi per una cabala di cui comprenderà subito il danno. Il 15 maggio 1638, egli fa arrestare Saint-Cyran e lo rinchiude nel castello di Vincennes. Fa portare tutte le sue carte e la corrispondenza con M. Arnauld d’Andilly, a Poitiers. Prepara poi un’informazione giudiziaria affidata ad uomo sicuro, Laubardemont. Nei confronti di questioni indiscrete del suo entourage, egli si spiega subito. Egli dice a Hardouin de Perefixe “ … che egli stava per arrestare, per ordine del Re, un uomo che cominciava a rendersi celebre, per l’opinione della sua virtù e della sua capacità, della professione che faceva di una severità di sentimento e di una austerità di costumi divenuti raccomandabili presso la maggior parte delle persone che ne faranno forse un mormorare. Ma il Cardinale aggiunse che l’aveva arrestato per il suo amore di novità e per la libertà che si dava di dogmatizzare in modo da imporre al pubblico e scandalizzare la virtù, assicurando che si sarebbe rimediato a tutti i disordini in tutta l’Europa nel secolo passato, se si fosse imprigionato Lutero e Calvino fin dal momento della loro comparsa, come aveva egli fatto con l’abate di Saint-Cyran, che il Re stava per mettere in prigione nel castello di Vincennes. Ed il Cardinale aggiungeva al Principe de Condé che si inquietava dell’arresto: “Sappiate di qual uomo mi parlate, egli è più pericoloso di sei armate …”. – Saint Cyran non è stato liberato se non dopo la morte del Cardinale, nel 1643, e rese l’anima qualche giorno dopo. È la famiglia Arnaud che riprende la fiaccola della nuova dottrina e col seminare l’agitazione religiosa ed il fuoco dell’eresia in tutta l’Europa Cattolica per due secoli.

[1. continua ...]

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (25): CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA (III)

CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA – III –

La rivoluzione cartesiana

[É. Couvert, in: “La gnosi universale”, cap. III]

Nello studio precedente abbiamo mostrato come il filosofo Cartesio abbia giocato un ruolo di “lavaggio del cervello” sulle anime cristiane. Ci resta da precisare il fatto che questo filosofo sia stato considerato, in un gran numero di casi, portatore di una illuminazione improvvisa, una nuova religione, una saggezza luminosa e divina. – Qual fervore presso i nuovi convertiti! Pierre Varignon (1654-1722), legge Cartesio e viene colpito da questa « nuova luce diffusa nel mondo pensante ». egli insegnava la Scolastica, diventerà un matematico. Tournefort (1656-1702), all’uscita dal collegio dei Gesuiti di Aix, trova Cartesio nella libreria di suo padre, lo legge di nascosto « riconosce subito la sua dottrina come quella che egli cercava », rinuncia alla teologia e diventa botanico. Louis Carré abbandona anch’egli la teologia, e diventa segretario di Malebranche; « dalla filosofia Scolastica, fu man mano trasportato alla fonte di una filosofia luminosa e brillante; là egli vede cambiar tutto, di fronte ad un nuovo universo che gli si svela ». Pierre Cally era professore all’università di Caen ove si era impiegato come professore di aristotelismo. Ecco che egli si scuote, come punto da una tarantola, per la nuova saggezza e si impegna nella controversia con gli scolastici. Secondo il suo fedele amico, Daniel Huet, viene appena dal concludere il suo corso di filosofia presso i Gesuiti. Egli è giovane, ricco, intelligente, si mette  a “divorare” Cartesio: «quale ammirazione nella mia anima giovanile alla vista di questi principi così chiari e semplici, che spiegano tutti i misteri del mondo e l’origine stessa del mondo e della natura ». Ed ecco ora il più fedele, il più logico dei figli di Cartesio, egli ha 26 anni, appartiene all’Oratorio. Trova presso un libraio il “trattato dell’uomo” di Cartesio. « Colpito come da una luce che usciva tutta nuova ai suoi occhi », sospettando « una scienza della quale non aveva idea », compra il libro, lo legge con alacrità e trasporto tale da prendergli dei batticuori che lo obbligano talvolta ad interrompere la lettura. Eccolo, è Malebranche, il più pericoloso dei cartesiani. È proprio dalla sua lettura che Bossuet comprenderà più tardi la malvagità di Cartesio. John Locke, a 27 anni, dopo aver letto Cartesio e Gassendi, rinuncia allo stato ecclesiastico al quale si destinava, per diventare medico. – Tutti hanno trovato, nella lettura di Cartesio, come una … illuminazione divina, una iniziazione ad un mondo nuovo di pensieri espressi con facilità, in uno stile limpido e brillante, facile da comprendere quasi senza sforzo, e che sembra dare del mondo una spiegazione totale e seducente. Questa lettura provoca nella loro anima come una rivoluzione immediata, potente ed irresistibile. Tutto cambia volto, è lo svelarsi di un nuovo universo … non la Scolastica pesante, lenta, ardua!. – Daniel Huet, grande ammiratore di Cartesio, diviene Vescovo di Avranches, si rivela figlio dei grandi umanisti. Nella sua persona la religione « sprofonda nell’umanesimo pagano ». Egli aveva scritto una « Dimostrazione evangelica » nella quale si sforzava di dimostrare che Mosè è un personaggio equivalente agli dei del paganesimo: Apollo, Pan, etc. Egli dimostra con la storia santa non sia che un misto di leggende ed il giorno in cui gli si mostrerà che Mosè ed i suoi misteri giudaici sono posteriori alle religioni orientali, sarà portato al suo stesso gioco. Egli riceve molti complimenti da parte dei protestanti, felici di veder conciliati Cristianesimo e paganesimo.- Il 18 maggio 1689, egli riceve una lettera da Bossuet che lo mette in guardia contro la dottrina di Cartesio: « Essa ha delle cose che io disapprovo molto, perché in effetti sono contrarie alla Religione …. Cartesio ha detto certe cose che credo essere utili contro gli atei ed i libertini, e molto simili a quelle che ho trovate in Platone e, ciò che stimo molto più, in San Agostino, san Anselmo, e qualcosa pure in S, Tommaso ed altri autori ortodossi, anche spiegate bene e meglio che in Cartesio, e non credo siano divenute cattive dal momento che se ne sia servito questo filosofo … le altre opinioni di questo autore, che sono indifferenti, come quelle sulla fisica particolare ed altre di questa natura, mi divertono  e le uso per le conversazioni divaganti; ma per non dissimularvi nulla, io credo opportuno che, per il vostro ruolo di Vescovo, prendiate parte seriamente di tali cose ». – Infine Mgr. D’Avranches riflette, e diviene così il più risoluto avversario di Cartesio. Ecco una conversione filosofica che mostra come con la riflessione ed il coraggio si possa resistere alla seduzione delle nuova filosofia. – Cartesio vien condannato da Roma nel 1643. I protestanti olandesi egualmente condannano la Logica di Cartesio al sinodo di Dordrecht nel 1656, inquietati per le conseguenze che il “dubbio metodico” potesse provocare in essi, minacciando così il rimasuglio delle credenze che restavano ancora nella Riforma. – È  un giudeo di Amsterdam, Spinoza che, nei suoi “Principi della filosofia di Cartesio”, pone il piccone e la dinamite nella struttura religiosa e morale della società cristiana. Egli applica al concetto di Dio (lo stesso del “grande abisso”, di gnostica memoria), le regole del “Discorso del Metodo”. Cartesio aveva dichiarato che l’estensione ed movimento erano l’essenza dei corpi; Spinoza ragiona di conseguenza bene a partire da questo punto. «  Si chiama finito, nel suo genere, egli dice in “Etica”, ogni cosa che può essere terminata da un’altra di uguale natura. Ad esempio, un corpo è finito perché noi ne concepiamo sempre un altro più grande ». Ora, se con una serie di numerazioni intere, noi percorriamo tutta la gamma delle grandezze, arriviamo ad un essere assolutamente infinito, cioè alla sostanza dotata di infiniti attributi, dei quali ognuno esprime una essenza eterna ed infinita. È evidente che questa sostanza sia unica, perché essendo ogni determinazione una negazione, se vi fossero due sostanze, esse si “determinerebbero”, cioè si limiterebbero l’un l’altra, e di conseguenza si negherebbero e cadrebbero nel nulla. Ora questa sostanza unica, che non può esistere che a condizione di non essere limitata nello spazio e nel tempo, “è ciò che è in sé, ciò che è concepito da sé, il cui concetto non ha bisogno del concetto d’un altro per essere formato”. Essa dunque ha gli attributi del divino. L’importante è conoscere la sua essenza. Seguiamo sempre il metodo di Cartesio … egli ci insegna che si conosce chiaramente e distintamente l’essenza di una sostanza, dato che si è identificato il suo attributo principale. Qual è dunque l’attributo principale della sostanza divina? Il nostro spirito ed i nostri sensi percepiscono senza errore possibile ciò che è l’estensione. È dunque chiaro che tutti gli esseri di questo mondo, dal più piccolo al più grande, sono, in ragione della loro estensione, parte integrante di Dio, senza cui sarebbero finiti, limitati, determinati, vale a dire, dei “niente”. Questo panteismo abbatte, e Spinoza lo dichiara senza timori, tutte le religioni. L’uomo e il mondo, essendo fin dall’eternità in Dio, non sono potuti uscire da Lui con un atto creatore … cattolici, protestanti, giudei, turchi, cinesi, … questi poveracci, si figurano che Dio sia in cielo mentre Egli vive e respira in fondo a loro stessi. C’è una vera religione che consiste “nel perseverare nel proprio essere”, nel comprenderne con gesto sacro, eterno, assoluto, infinito ed a ridare, mediante gli effetti di una volontà sempre tesa, la pienezza della divinità. Ma questa è la cabbala, è la gnosi, la teologia di satana!. La si può legittimamente estrapolare, come naturale conseguenza, dai principi di Cartesio. – « Di   modo tale, conclude Bayle, nel suo “Dizionario”, le stesse persone che hanno dissipato nel nostro secolo le tenebre della Scolastica diffusa in tutta l’Europa, hanno moltiplicato gli spiriti forti ed aperto ai più la porta all’ateismo, o al pirronismo, o alla incredulità. Eccole come conseguenza, se non proprio forzata, ma certamente naturale: 1°) lo spinozismo, 2°) la visione di Dio di Malebranche, 3°) l’Idealismo di Berkeley, 4°) l’Armonia prestabilita di Leibnitz … Tale è la debolezza dello spirito umano. Si inizia con il metodo e si finisce con le ipotesi … » (in: “Storia della filosofia moderna”). Ma gli ammiratori di Cartesio (cabalisti, massoni illuminati, novatori teologici, modernisti ecclesiastici …) trionfano: « Spirito indipendente, novatore, genio ardito di singolare potenza! Cartesio amava troppo farsi da solo delle idee, affidarsi al suo intimo sentimento, per non riconoscere l’autorità della ragione individuale ed il diritto che ha di esaminare e giudicare ogni specie di dottrina. È la gloria di Cartesio l’aver proclamato e praticato questi principi, ed essere l’autore di questa riforma intellettuale che ha portato i suoi frutti nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, ed oggi più che mai esercita la sua influenza sul mondo filosofico, morale, teologio. Oggi in effetti, grazie a Cartesio, noi siamo tutti protestanti in filosofia, come siamo tutti, grazie a Lutero, filosofi in religione. »Non si poteva dire di meglio. Queste parole, tratte dal n° 147 del giornale liberal-massonico « Le Globe », comparso sotto la restaurazione, serviranno come conclusione dello studio.  –

Il metodo cartesiano, non è altro quindi che un intruglio gnostico di bassa lega, confuso, illogico, sostenuto dalle proprie fantasie, ritenute “verità di per se stesse”, giustamente non discutibili per … la loro assurdità, imperniate sulla conoscenza dell’anima-divinità della favola platonica del “mondo delle anime” preesistenti alla creazione del corpo, [… da qui alla metempsicosi, il passo è breve], delle scintille divine, etc. . Questa gnosi, scambiata per Cristianesimo “aggiornato”, sostenuta dalle cricche rosa+croce e giudaico-massoniche, si infiltrò, secondo i piani di “coloro che odiano Dio e tutti gli uomini”, nella Chiesa Cattolica, coinvolgendo moltissime intelligenze, ingenue sì, ma sprovvedute sul piano teologico, come la vicenda di Bossuet ci informa. Il veleno è sempre più penetrato nella gerarchia, oltre che nella civile società, e a poco valsero i richiami dei Papi agli ecclesiastici, sull’obbligo dello studio della dottrina, della Scolastica e di San Tommaso in particolare. Quando il bubbone si ingrandì, Papa Pio X pensò di denunciarlo con fermezza, ma il cancro era già troppo avanzato, in metastasi generalizzata, ed il bubbone era pronto per scoppiare, come successe effettivamente nel neo-modernismo gnostico tionfante tutt’oggi nella falsa “chiesa dell’uomo”, gestita dai “burattini” circensi. Ognuno che abbia ancora un minimo di “sale nella zucca” si chiede, sbigottito, come sia stato possibile obliare totalmente i principi del Cattolicesimo, e piombare d’un tratto nella totale apostasia di popoli e ancor più della gerarchia ecclesiastica! [oramai quasi totalmente falsa e sacrilega]. Il 26 ottobre del 1958 non è stato un evento improvviso ed inatteso, non è stato un colpo di fulmine a ciel sereno, ma il lavoro “sapiente”, preparato da secoli ed ordito nelle logge, nelle retrologge, dalle conventicole al servizio del baphomet-lucifero, e nella “quinta colonna” infiltrata in tutta la Chiesa; l’apostasia è stata lungamente preparata, filosoficamente e teologicamente, dalle idee del rosa+croce Cartesio e dai suoi epigoni, i quali non hanno che semplicemente “impupazzato” la vecchia e stantia, ma mai indomita. gnosi, con abiti e chincaglieria pseudo-scientifica e teologica, per abbindolare gli incauti, gli orgogliosi, gli ignoranti, gli amanti delle novità-falsità. Ancora una volta i “figli delle tenebre” sono stati scaltri, i serpenti hanno morso ed ucciso molte colombe che, non mettendo in pratica i consigli del divino Maestro, sono state semplici ed ingenue, pensando di giocare sulla buca di lombrichi e non accorgendosi di essere su quella di aspidi mortifere, ignorando la scaltrezza e la prudenza che avrebbe potuto salvarle. L’inganno perpetrato e nel quale viviamo oggi, per lo più inconsapevoli, è stato amplissimo, pressoché totale, ed umanamente non ribaltabile. Ma il Signore Dio-Trino, incarnato in Cristo-Gesù il Salvatore, saprà certamente cosa e come fare per mantenere la sua promessa, come in altre note (dalla Sacra Scrittura) circostanze. Non è stato forse anch’Egli nel Getsemani, non è stato forse nel sepolcro picchettato da carcerieri, creduto morto anche dai suoi che erano stati istruiti lungo tre anni di paziente predicazione? Quando il nemico già gongolava trionfante, il Figlio di Dio è risorto, ha incatenato il “principe di questo mondo”, sprofondandolo negli inferi. E la Chiesa, sua Sposa e Corpo mistico non ha Egli promesso che non sarà mai sconfitta dalle porte degli inferi? E non ha preannunciato che il calcagno della Donna schiaccerà la testa del serpente infernale? “… et, Ipsa conteret caput tuum” … Quindi tranquilli, non temiamo, il Re-Profeta in più occasioni ha sentenziato che, quando i malvagi avranno pensato di avere in pugno la vittoria … qui habitat in cœlis irridebit eos, et Dominus subsannabit eos.[Ps. II, 4] … Dominus autem irridebit eum, quoniam prospicit quod veniet dies ejus.]Ps. XXXVI, 13] … Et tu, Domine, deridebis eos; ad nihilum deduces omnes gentes. [LVIII, 9] .. Tu, Signore, ti riderai di loro, ridurrai tutte le genti a niente. Deo gratias! Ed anche Cartesio, con i suoi seguaci, dal loro probabile inferno grideranno, come Giuliano …  “hai vinto Galileo!”

 

 

 

 

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (24): CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA -II-

CARTESIO CONTRO LA FEDE -II-

Le reazioni contro Cartesio.

Non bisogna credere, come si è già detto, che Cartesio abbia ricevuto la sua formazione filosofica dai Gesuiti di La Flèche; egli l’ha ricevuta dai Rosa+croce di Svevia. Il suo stesso professore di filosofia, il P. Veron, era un appassionato “ligueur” [aderente alla Lega cattolica] che aveva composto un’opera di violenta controversia contro i Protestanti, coloro che per Cartesio dovevano diventare i migliori amici [verosimilmente pure compagni di conventicola …]. – Durante tutto il Gran Secolo, i Gesuiti furono ardenti oppositori del cartesianesimo. Il padre de Valois scriveva allora: « I sentimenti di Cartesio sono opposti a quelli della Chiesa e conformi a quelli di Calvino », … cosa non malamente osservata. Per tutta la sua vita, Cartesio tenterà di sfuggire alla controversia con i Gesuiti, per paura di essere denunciato a Roma. Nel 1665, il P. Channerelle, Gesuita, scriveva: « In una sola parola, la dottrina cartesiana differisce dalla dottrina aristotelica, come la poesia dalla realtà, come l’immaginazione dall’intelligenza » … (Ricordate: cercare il principio della scienza non con la ragione dei filosofi, ma con l’ispirazione dei poeti, diceva lo stesso Cartesio). – Le opere di Cartesio furono messe all’indice nel 1663 « donec corrigatur », precisa il decreto, finché la sua filosofia non fosse stata corretta. Ahimè, non è possibile correggere ciò che è radicalmente erroneo, cioè falso sin dalla sua radice. – L’attitudine di Bossuet a questo riguardo, è molto suggestiva. Succede talvolta che le abilità del linguaggio, i travestimenti del pensiero, le mascherate verosimili, ingannino anche i più riflessivi. Bossuet, in un primo tempo, manifesterà soddisfazione, davanti alle affermazioni apparentemente spiritualiste di Cartesio e a certe pagine sulle prove dell’esistenza di Dio, pagine che sembravano riprodurre l’insegnamento tradizionale della Chiesa, così come si poteva trovare in Sant’Agostino o in San Tommaso. Noi sappiamo oggi che queste erano posizioni di prudenza destinate ad evitare le accuse di empietà o di ateismo che il nostro filosofo temeva fortemente. Quando Bossuet comprese, leggendo Malebranche, ove conducevano necessariamente le premesse del cartesianesimo [],  cioè all’inneismo gnostico, al mondo platonico delle idee, alle scintille divine, all’emanatismo, al panteismo, etc., il suo istinto di fede ed il suo robusto buon senso, presero il sopravvento. Egli scrisse questa lettera notevole ad un discepolo di padre Malebranche, che mostra a qual punto la sua chiaroveggenza fosse profetica: « Io vedo un grande combattimento preparato contro la Chiesa sotto il nome di “filosofia cartesiana”. Vedo nascere dal suo seno e dai suoi princîpi più di un’eresia, e prevedo che le conseguenze che si traggono contro i dogmi che i nostri padri hanno conservato, la rendono odiosa e faranno perdere alla Chiesa tutto il frutto che ne poteva sperare per stabilire nello spirito dei filosofi la divinità e l’immortalità dell’anima … Da questi stessi principi, un altro inconveniente terribile invade insensibilmente gli spiriti, perché, sotto pretesto che non bisogna ammettere se non ciò che si comprende chiaramente, cosa che ricondurrebbe a stretti limiti, è vero invece che ognuno si concede la libertà di dire ciò che vuole: io capisco questo, o non intendo quello, e su questo fondamento si approva o si rigetta tutto ciò che si vuole, senza addurre altro che le proprie idee “chiare e distinte”, ve ne sono di confuse e generali che non lasciano che si affermino verità sì essenziali che rivolgerebbero tutto  negandolo … Essi introducono, sotto questo pretesto, una libertà di giudizio che fa in modo che, senza riguardi per la tradizione, si proponga tutto ciò che si pensa. E giammai questo eccesso mi è sembrato più forte che nel nuovo sistema, ove io ritrovo tutti insieme gli inconvenienti di tutte le sette … Come voi, essi si sono dati un’aria di pietà  e, nominando spesso Gesù-Cristo, e parandosi con la sua Scrittura (nel doppio senso di “pararsi”: ornarsi e proteggersi), come voi, essi si sono vantati di proporre dei mezzi per ricondurre gli erranti alla fede della Chiesa (ad esempio le pretese di Cartesio di rispondere agli epicurei, agli atei ed ai libertini). Citare spesso le Scritture onde appoggiarsi su ciò che non serve nulla in tale materia, è ancora uno degli artifizi di cui l’errore si serve per attirare i pii.  … Non crediate che, comparandovi agli eretici, io voglia accusarvi di averne l’indocilità, né ciò che li ha infine portati alla rivolta contro la Chiesa, a Dio non piaccia! Ma io so che vi si giunge per gradi. Si comincia con la novità, si prosegue con l’intestardirsi. C’è da temere che la rivolta aperta non arrivi che in seguito, quando la materia sviluppata attirerà gli anatemi della Chiesa e dopo forse che essa si sarà uccisa per lungo tempo, per non darsi una reputazione di errore… » Lettera notevole in ogni suo punto, essa mostra bene il cammino dell’errore negli spiriti. Un nuovo principio (ad esempio il dubbio metodico, le idee chiare e distinte, il “cogito”, etc.) non può fare apparire tutto di seguito le conseguenze che vi sono implicate; soprattutto se l’autore, con abilità tattica, si sforza di sminuirne la portata per mezzo di restrizioni,  dichiarazioni di buona fede ed altri sotterfugi dei quali parla Bossuet. – Ma soprattutto Bossuet oppone alle idee “chiare e distinte”, quelle « confuse e generali che richiudono delle verità essenziali che non si possono negare senza ribaltare tutto ». Distinzione fondamentale. Ciò che Cartesio chiama “idee chiare e distinte” che sarebbero, secondo lui, le sole affettate del carattere dell’evidenza, non sono le forme degli oggetti conosciuti, sono gli esseri di ragione, principi o assiomi matematici, numeri, proposizioni dedotte da questi principi, composti dall’intelligenza secondo le convenzioni necessarie del nostro spirito. – Queste sono degli utensili logici, destinati a permettere la misura del reale, così com’è, “estensione e movimento”. Questi sono i concetti più universali, i più privi di contenuti, i più vuoti. Essi sono senza dubbio conosciuti immediatamente, senza il passaggio attraverso la percezione sensibile, e tuttavia il loro punto di partenza è certamente nel reale esteriore, ma nella sola misura in cui è quantificabile. Il numero due si legge nelle cose, … due niente, più due niente non fanno che quattro niente, cioè assolutamente niente. Ciò che è conosciuto dallo spirito con certezza, non è il numero, ma le cose numerate: due alberi più due alberi, fanno quattro alberi; sono gli alberi ad essere effettivamente conosciuti. – Quando il nostro spirito si applica al solo reale e non agli esseri di ragione, incontra un ostacolo  dimensionale: la materia, con ciò che in essa resta virtuale, potenziale, incompiuta, sfocata. Il nostro spirito non può tradurre fedelmente in “idee chiare e distinte” ciò che resta indeterminato, fluido, in movimento nell’essere. – Questo è il problema, ben individuato da S Tommaso e mal compreso da Cartesio, delle degradazioni continue dell’essere. Tra il “confuso” ed il “chiaro” dei passaggi insensibili, c’è il graduale. Il “chiaro” non è primo, ancor meno innato, ma è acquisito, si ottiene mediante una elaborazione, una espoliazione di un primitivo confuso pieno di ricchezze, in cui il nostro spirito deve cercare di veder  chiaro nel reale che gli viene dato globalmente. È ben evidente, come dice Bossuet, che le nostre idee “confuse e generali” siano un primo apprendimento di un reale ricco di forme che bisognerà estrapolare per astrazione: queste saranno verità certe, riproduzioni nel nostro spirito di idee già contenute nelle cose. – Così dunque, noi non potremmo mai giungere al substrato della natura intima di Dio, della nostra anima, o delle cose. Esse ci resteranno sempre nascoste sotto questa angolazione. Tuttavia, la nostra intelligenza è adatta a conoscere con certezza la forma, l’idea direttrice che è di essenza spirituale come la nostra anima. Questo è sufficiente ad affermare l’esistenza delle cose, quella di Dio con certezza. Il nostro spirito non deve fare un salto nell’ignoto, e lo scetticismo universale, che è contenuto implicitamente nella filosofia di Cartesio, e che professeranno i suoi discepoli fino al XIX secolo, non è fondato con ragione.

[] (Infatti dalla seconda metà del ‘600 il dibattito filosofico si accentra sugli aspetti problematici del pensiero di Cartesio: in particolare, la dimostrazione dell’esistenza delle idee innate, la possibilità di conoscere la realtà esterna al pensiero e gli altri uomini a partire dall’unica certezza del cogito (penso), il rapporto anima-corpo. L’occasionalismo di Malebranche (Parigi 1638-1715), nasce proprio dall’esigenza di spiegare il rapporto tra le anime e i corpi. Per Cartesio, infatti, le anime e i corpi appartengono a generi di sostanze assolutamente eterogenee e prive di comunicazione fra di loro: ma se per Cartesio l’interazione è un fatto del quale abbiamo certezza, anche se non possiamo darne una adeguata esplicazione, per gli occasionalisti il rapporto fra le due sostanze può spiegarsi unicamente con l’azione di Dio, il quale produce nell’anima una determinata sensazione o pensiero, allorché il corpo è modificato in una certa maniera: le creature forniscono dunque una causalità che è soltanto “occasionale”, ma non sono la causa né delle modificazioni corporee né degli avvenimenti materiali., che da questa impostazione trae la nozione della conoscenza come “visione delle idee in Dio”. Infatti Dio illumina le nostre menti e noi leggiamo in Lui le idee, che sono gli archetipi delle cose reali. – La dottrina occasionalista trae le sue origini dalla filosofia di Cartesio, il quale aveva teorizzato un dualismo pressoché irriducibile fra la res cogitans, ovvero la sostanza pensante, racchiusa nell’anima, e la res extensa, ovvero la materia corporea. Ben presto diversi pensatori criticarono questo dualismo cartesiano, soprattutto perché la spiegazione del collegamento fra le due sostanze, ideale e corporea, risultava piuttosto insufficiente: come può l’anima, incorporea, agire sul corpo, che invece è materiale? Sostennero dunque gli occasionalisti che non è l’anima, ad agire sul corpo, e che neppure all’interno dell’anima le idee, i pensieri, trovano la loro spiegazione e origine nell’anima stessa; l’unico Ente capace di creare e comandare, infatti, è solo Dio, mentre la volontà umana ha una sola funzione, quella, eventuale, di condurre l’uomo all’errore, quando essa si contrappone all’azione voluta da Dio. Pertanto, secondo queste teorie, sia gli atti conoscitivi – ovvero le idee, racchiuse in questo senso in un mondo superiore delle idee di stampo platonizzante – che le azioni pratiche – le quali si riducono a un mero assenso alla suprema volontà divina, che è l’unica ad essere libera – non sono che semplici occasioni per l’intervento di Dio.]

L’insegnamento di Cartesio nei collegi prima della Rivoluzione.

Fino al 1660, Cartesio è praticamente ignorato dappertutto, si insegna sempre Aristotele e San Tommaso. Nel 1661, il padre de la Chaise, insegna Cartesio al collegio della trinità, a Lione; il padre Lamy, ad Angers, nel 1674. Lo si discute, si enuncia il “cogito”, il “dubbio metodico”, l’intendimento, l’essenza dei corpi, etc.; ma è presente nell’insegnamento. A partire dal 1715, la maggioranza dei professori insegna Cartesio. A metà del XVIII secolo, l’idealismo cartesiano è utilizzato per lottare contro il materialismo, il sensualismo e l’empirismo filosofico ateo. – Nel 1690, il padre Gabriel, gesuita, scrive: « Non si stampa quasi più filosofia secondo il metodo della Scuola, e quasi tutte le opere di questa specie che compaiono oggi in Francia, sono dei trattati di fisica che presuppongono i principi della nuova filosofia … la filosofia delle classi ha cambiato volto … » Il corso di padre André, Gesuita, a la Flèche, nel 1706, è « cartesiano e malebranchista, sì chiaro e ben ordinato che si diffonde in tutti i collegi della Compagnia … » Si insegna la fisica, la meccanica alle dipendenza della metafisica. Dio è considerato come il “meccanico supremo”, il primo motore utile per dare mozione al mondo, non più fonte permanente di essere e di vita. Questo Dio “a schiocco”, come lo chiama Pascal, è l’orologiaio di Voltaire. Egli è soltanto causa efficiente, fabbricatore del mondo. Una volta lanciato nel suo movimento perpetuo, il mondo può facilmente fare a meno di Lui, come l’orologio può sopravvivere all’orologiaio e funzionare anche dopo la sua morte. Ecco Dio, diventato inutile. Ma le Congregazioni generali a Roma intervengono energicamente contro il castesianesimo, la 14° Congregazione generale dei Gesuiti a Roma nel 1696-1697, pubblica 30 proposizioni proscritte, contro la filosofia nuova, contro l’armonia prestabilita di Leibnitz, contro il dubbio universale di Cartesio. Condanne senza forza che bisognerà rinnovare, segno evidente della loro inefficacia sugli spiriti. La 16a congregazione generale, nel 1730-1731, rimette in vigore le condanne precedenti, decide che occorre restare fedeli alla filosofia di Aristotele. Nel 1732, il padre generale dei Gesuiti, proscrive 10 proposizioni da non insegnare, tutte estratte da Cartesio ed opposte alla Scolastica. Tempo perso! I professori dei collegi sono entusiasti della nuova filosofia e grandi adepti delle “idee chiare e distinte”. Nel XVIII secolo tutto l’insegnamento è cartesiano. – Due conseguenze importanti per gli spiriti: a) Il Deismo: è una forma religiosa bastarda che allontana gli piriti dal vero Dio, portandolo verso una idea vaga della divinità. Si sforza allora di allontanare Dio dal mondo, Egli è tropo grande e troppo lontano, gli uomini sono troppo piccoli ed insignificanti perché Dio possa pensare a loro: « Dio è un essere che non si occupa del bene e del male che si fanno gli uomini tra loro.  » È una blasfemia contro la Provvidenza. Si vedano “I viaggi di Gulliver” di Swift, “La pluralità dei mondi abitati” di Fontenelle, i “Micromega” di Voltaire, etc. « Il Cristianesimo, dice Fontanelle, è una favola. Non bisogna detestare le favole, bisogna sbarazzarsene dolcemente con l’efficacia della ragione. » Ecco la formula di tutti gli spiriti “illuminati” del XVIII secolo!

.b) Il Fideismo: è impossibile insegnare Dio con le idee “chiare e distinte”. È inconcepibile relegarlo nel “dubbio metodico” universale. Come dunque insegnare ciò che bisognerà continuare a chiamare delle verità, benché non rivestite dall’evidenza cartesiana? Il « Journal de Trévoux », redatto dai Gesuiti, sottolinea bene l’impotenza della nuova filosofia nell’insegnare la fede ed il passaggio insensibile al Fideismo. Esso scrive nel giugno del 1705 questo testo capitale: « Si teme di approfondire con essi (i bambini), la materie di religione. Ci si contenta di dar loro delle idee superficiali e di esigere da essi un attaccamento alla fede che li potrebbe persuadere … Siccome non si è posto alcun solido fondamento nel loro spirito, le esortazioni alla virtù le cui fatiche non fanno alcuna impressione se non quando il timore della vigilanza le rendono efficaci. Essi entrano nel mondo come in un campo di battaglia in cui la religione è attaccata da ogni parte e vi entrano senza armi, sempre battuti. Come potrebbero i giovani resistere? … » Riflessione sempre valida ancora oggi, attuale, ma vecchia di oltre tre secoli: il problema era già il medesimo. Si misura solo oggi la distesa del disastro. Nel 1706 si poteva già prevedere che il disastro sarebbe stato infinito. Ciò che effettivamente è stato esplodendo nel Modernismo e neomodernismo filosofico-teologico della falsa “chiesa dell’uomo”, la sinagoga di satana, casa comune ai rosa+croce, tugurio frequentato da Cartesio, adoratore dello stresso baphomet-lucifero, signore dell’universo del Novus ordo.

L’insegnamento di Cartesio nei seminari del XIX secolo

Dopo il tormentone rivoluzionario, dopo le macerie prodotte bisognava pur ricostruire: Napoleone aveva riorganizzato l’Università sotto il monopolio statale. La Chiesa non aveva il diritto di aprire se non i Seminari per la formazione del clero. – Ora, i primi professori furono i sopravvissuti delle ecatombi rivoluzionarie, essi stessi formati sulla nuova filosofia. M. Emery, di cui il canonico Leflon ci ha raccontato precedentemente la vita movimentata, fu il negoziatore discreto ed efficace del concordato del 1801. Egli fu incaricato di ricostruire la società dei sacerdoti di San Sulpizio destinata a formare i futuri professori dei Seminari. Egli ne fu dunque il fondatore e il primo superiore, … ma ahimè, era cartesiano! – L’Abate J. Bellamy, nella sua opera. « La Théologie catholique au XIX siècle » riassume così la situazione nei Seminari: « In Francia, il cartesianesimo era tanto potente e, quando si sa quanto questa filosofia sia refrattaria ad ogni adattamento teologico, ci si stupisce della decadenza profonda in cui fosse caduta la scienza sacra nel nostro paese. Uno dei preti più distinti e più sapienti dell’epoca, M. Emery, credette di rendere un servizio alla teologia pubblicando diversi trattati di filosofia religiosa totalmente impregnati di spirito cartesiano, in particolare: “I pensieri di Cartesio sulla Religione e sulla Morale”. In tutti i Seminari si insegnava il cartesianesimo ed il manuale più in voga, la “Filosofia di Lione”, era l’opera dell’oratoriano Valla, autore di una teologia posta all’indice dal Papa Pio VI nel 1792. Le “Lezioni elementari di Filosofia”, dell’abate Fluttes, che si leggeva  pure nei seminari, tenevano in grande stima e seguivano su tanti punti Locke, Condillac e G. G. Rousseau. Come poteva con una filosofia così difettosa, prendere il volo la Teologia? » – La Sorbona era divenuta maestra del pensiero universale nella società francese … non c’era più una università cattolica libera. I professori dei Seminari, che volevano prendere i loro gradi universitari, dovevano passare davanti ai giurì di Stato. Se ne videro le conseguenze. – Renan, che era buon testimone in materia, ci dice che « l’insegnamento filosofico nei seminari era la Scolastica in latino, non la scolastica del XIII secolo, barbara ed infantile (quale giudizio sprezzante e senza fondamento di una filosofia che egli non aveva mai neppure studiato, evidentemente incapace!), ma ciò che si può chiamare la scolastica cartesiana, cioè questo cartesianesimo mitigato che fu adottato in generale dall’insegnamento ecclesiastico del XVIII secolo e fissato nei tre volumi conosciuti sotto il nome di “Filosofia di Lione” ». – “Cartesianesimo mitigato”: questo equivale ad una presentazione di Cartesio sbarazzato da ciò che sembrava allora incompatibile con l’insegnamento della Fede ed orientato verso il rifiuto degli atei e dei libertini. Si riconosceva a Cartesio la volontà di aver difeso l’esistenza di Dio, lo spiritualismo, l’immortalità dell’anima ed altre verità della Fede cattolica. Non si comprendeva però allora che queste verità egli le aveva idealizzate, rigettate fuori dal reale, le aveva … svuotate della loro sostanza. – I professori delle università anticlericali non si fecero ingannare. Essi insegnarono Cartesio come maestro di Razionalismo, precursore del libero-pensiero (quello sbarazzato del Reale e della Tradizione), come l’avversario trionfante della Scolastica, come il demolitore dei pregiudizi (quelli della Fede cattolica, ben inteso!), come l’adoratore della ragione, divenuta infallibile. – Noi vediamo così apparire nell’insegnamento, un doppio Cartesio, l’uno in apparenza cristiano e preteso difensore della Fede, l’altro maestro e precursore della nuova filosofia, quella che demolisce, abbattendolo, tutto l’edificio della cultura cristiana. – Quanto alla Scolastica, detta barbara ed infantile da Ernest Renan, essa è ben morta e sotterrata. Un giorno Victor Cousin, gran maestro della filosofia ufficiale, percorrendo le banchine della Senna, si mise ad osservare le esposizioni dei librai. Gli occhi caddero per caso sul libro di un certo “Aquinate” e fu sorpreso, egli dice, di trovarvi molto buon senso. Discreta orazione funebre!

Il cartesianesimo contro la Fede.  

 Andiamo allora a cercare nella corrispondenza di Ernest Renan gli effetti più eclatanti della nuova filosofia. Renan era entrato in Seminario con l’entusiasmo di un’anima appassionata di verità. Ahimè! Egli dovette rapidamente disincantarsi: gli si insegnava il “dubbio metodico”. Vediamone gli effetti: « Tutto l’effetto prodotto su di me da ciò che abbiamo visto fin qui, non è stato che l’aver trovato difficoltà dappertutto, anche là dove in precedenza non vedevo ombre … Del Pirronismo, in passato, ridevo di tutto cuore, non concepivo che vi fossero uomini così assurdi da concepire simili idee; ora non rido più. Questo non vuol dire che sono scettico … bisogna confessare che saremmo ben infelici se dovessimo rigettare tutti i sistemi contro i quali si possono fare delle obiezioni. … » – In questa prima lettera, si vede apparire già un rimpianto, una inquietudine davanti ad un insegnamento così negativo. Il profondo bisogno di certezza che dirige tutta la nostra intelligenza verso il vero, si ribella. Nel 1848, Renan scrive: « È proprio della filosofia almeno il dare delle nozioni ben sicure piuttosto che sollevare una folla di pregiudizi. Si è tutti sbalorditi quando si comincia a vedere che, fin là, si era stati il giocattolo di mille errori, radicati nell’opinione, nel costume, nell’educazione: è la morte del Bello ideale. Si vedono le cose così come esse sono (???) e si resta sorpresi di vedere i giudizi più certi posti sullo stesso piano dei problemi … » . – Si sente, in questa lettera a sua madre, che segue di poco la precedente, una reazione di buon senso, ma tutta provvisoria e che non persisterà lungo tempo al cospetto di una filosofia così negativa: « Figuratevi, mia buona madre, che vi si domanda seriamente: è vero che io esisto? Non è un sogno, una illusione? Io vedo una cara madre indignarsi: certamente che il mio Ernest esiste! Vorrei ben vedere qualcuno che si azzardi a negarlo. È che, vedete, i filosofi sono le persone più divertenti del mondo: essi dubitano di tutto. Ma non abbiate paura, cara madre, io non sono ancora giunto là … » . – Ma … non era lontano … L’intelligenza umana è ordinata alla certezza del Vero, non può riposare sul dubbio. Il dubbio non è che un passaggio provvisorio dall’ignoranza alla certezza, abbiamo detto. Ogni uomo, dal principio della vita, riceve un insegnamento, dei riti, delle abitudini radicate nella propria natura sociale, dunque delle tradizioni. Egli è debitore della sua famiglia e della società in cui cresce. Egli deve sapere, prima di comprendere: egli deve agire prima di conoscere le ragioni esplicite della sua azione. Egli ha bisogno, per questo, di una autorità protettrice che prevenga i suoi possibili errori, che gli tracci il cammino da seguire, freni le sue fantasie, che gli permetta di crescere senza troppe rotture. Dalla Chiesa egli riceve, prima di comprenderla, una Tradizione che è nel contempo rivelazione dell’inconoscibile e saggezza divina. – Ecco l’ordine di natura! Dio ha preposto delle autorità alle quali l’uomo deve sottomettersi. I principi del cartesianesimo sono invece una rivolta contro questo ordine. Il ruolo del maestro di filosofia è applicare l’intelligenza del suo discepolo a questo insieme di conoscenze più o meno confuse, di mostrarne il buon fondamento, farne risaltare l’ordine, marcare i legami logici e necessari: di aiutare dunque una intelligenza ancora tutta nuova, a mettere in ordine le molteplici conoscenze già acquisite dopo numerosi anni, di raddrizzarne le deviazioni esistenti, di insegnare così, a questa ragione che si sveglia, che ha pensato e riflettuto già molto tempo prima, di mostrare che i problemi che si pongono ad essa oggi, hanno, già nel passato, ricevuto delle risposte certe e decisive e che ogni intelligenza non deve ricostruire il mondo con il pensiero, ma comprenderlo alla luce dei grandi maestri della filosofia succeduti nel corso dei tempi. – Ahimè, Cartesio ha lavorato con accanimento a dissolvere l’intelligenza, a « trovare difficoltà là ove non c’erano », a « rigettare tutti i sistemi », a « eliminare una folla di pregiudizi », a mostrare agli uomini che essi sono « il giocattolo di mille errori » a schernire i costumi e l’educazione ricevuta, ad « uccidere ogni ideale », a « mettere le certezze sullo stesso piano dei problemi », etc. – È una bella demolizione dell’anima umana. Non si vede come la grazia divina possa far germogliare la Fede su tale terreno.  [2 – continua …].

É. Couvert è un autore francese che ha trascorso la vita nello studio della “gnosi”, comprendendone i meccanismi intimi e le “maschere” di cui si è servita in passato e di cui si serve ancora, per ingannare gli uomini di ogni epoca. Le sue opere sono di una chiarezza notevole, ed hanno il pregio indiscutibile di rendere intellegibile a qualsiasi mente, anche quella non particolarmente erudita e smaliziata, argomenti che in altri, autori di opere anche più robuste, restano complessi e scarsamente comprensibili. L’unico appunto che gli si possa muovere, nasce dalla domanda legittima: “… come è possibile che non abbia capito [… speriamo che lo comprenda al più presto] che nella “vera” Chiesa Cattolica, la gnosi non sia mai entrata nonostante tutti i tentativi, e mai potrà aver parte con la Dottrina evangelica di Cristo, con la Teologia o con il Magistero pontificio? Come è possibile che non abbia ancora capito, dall’alto della sua immensa cultura e sagacia al riguardo, che quella che egli reputa Chiesa “contaminata”, “infiltrata” [eresia palese che egli ben dovrebbe comprendere!!!], è nulla più che la “sinagoga di satana” spacciatasi per Chiesa dal 26 ottobre del 1958? … mentre la VERA CHIESA CATTOLICA, la Sposa Immacolata di Cristo, unica Luce di tutti i popoli, la  Madre che dispensa il latte della pura Verità ai suoi figlioli, sia “eclissata”, come annunciato dal 1846 dalla Vergine Maria a La Salette, ma ancora robusta e rocciosa nei suoi principi, fondata com’è sulla Roccia di Pietro, garante dell’unica VERITA’ affidatagli dal Capo, il supremo Fondatore del suo Corpo mistico, GESÙ-CRISTO?”. Preghiamo perché il Signore, con l’intercessione di San Tommaso, Sant’Agostino e tutti i Santi dottori della Chiesa Cattolica, possa finalmente illuminarlo, ricompensandolo del lavoro indefesso fatto in difesa della Sua Chiesa Cattolica,  tanto amata da lui, mortificato nell’immaginarla offesa e vilipesa. Ma sii lieto e gioioso, Étienne, la Chiesa che tu rimpiangi è oggi nel sepolcro, è vero, ma c’è, ancora viva, ed è pronta al risorgere più bella e splendente che mai, … Gesù ce lo ha promesso e, se promette, lo sai … non mente: “et portæ inferi non prævalebunt“. La Gnosi non prevarrà giammai sulla Chiesa, lucifero non prevarrà giammai su Gesù Cristo!  De fide!