GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (62) – LA CITTÀ ANTICRISTIANA (2)

LA CITTA’ ANTICRISTIANA (2)

DI P. BENOIT

DOTTORE IN FILOSOFIA E TEOLOGIA

DIRETTORE EMERITO DEL SEMINARIO DI PARIGI

SOCIÉTÉ GÉNÉRALE DE LIBRAIRIE CATHOLIQUE

VICTOR PALMÉ, DIRECTEUR GÉNÉRAL

rue des Saints-Pères, 76

BRUXELLES

SOCIÉTÉ RELGE DE LIBRAIRIE

12, rue des Paroissiens.

GENEVE HENRI THEMBLEY, ÉDITEUR’

4, rue Corraterîe. -1886 –

II

LA FRANCO-MASSONERIA O LA SOCIETÀ SEGRETA

ТОМO PRIMO

SEZIONE PRIMA – PIANO IDEALE DEL TEMPIO MASSONICO

O SCOPO SUPREMO DELLE SOCIETÀ SEGRETE

10. Diciamo in primo luogo che il piano ideale del tempio massonico o il fine supremo delle società segrete è la pura anarchia, cioè la distruzione dell’ordine sociale fino alle sue ultime fondamenta. Coglieremo questo piano od obiettivo in certe formule che ricorrono ripetutamente nelle opere dei massoni, nei discorsi delle logge e persino nelle decorazioni massoniche. Confermeremo la verità della nostra presentazione con un certo numero di testi presi in prestito dalle opere di famosi massoni o presi da alcuni discorsi degli alti gradi. Non ci resta poi che fare alcune osservazioni e dedurre alcune conclusioni.

CAPITOLO I

Dichiarazione dello scopo supremo delle società segrete

11. Il mondo massonico non cessa di parlare di libertà, uguaglianza, fraternità; spesso loda lo stato di natura; celebra la verità, la virtù, la moralità; sostiene di possedere un’arte reale e pretende di trovare la pietra filosofale; spesso parla di filantropia e talvolta di una nuova religione. Queste espressioni o formule coprono, agli occhi degli iniziati, il sistema massonico in tutte le sue orrende profondità. Cerchiamo di penetrare il loro significato.

I – LIBERTÀ, UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ

12. Abbiamo già detto altrove cosa intendono i settari per libertà e uguaglianza. Riassumiamo e completiamo la nostra presentazione. La libertà, per i massoni la cui iniziazione è completa, è l’indipendenza assoluta e illimitata dell’uomo; è il rifiuto di ogni autorità e di ogni legge; in altre parole, è l’insubordinazione o la rivolta universale. Chi è soggetto ad una volontà estranea, foss’anche quella divina, non è libero; chi è soggetto a qualsiasi legge, anche quella naturale, non è libero. Il fedele non è libero; il suddito non è libero; il marito e la moglie non sono liberi; il bambino che vive sotto l’autorità dei suoi genitori non è libero; l’uomo in uno stato sociale non è libero. “Tutti gli uomini sono liberi per natura; quindi, nessuno di loro ha il diritto di comandare i suoi simili; pertanto, è una violenza agli uomini pretendere di sottometterli a qualsiasi autorità. “Sarai libero, dice la massoneria al suo seguace, se sarai sovrano, se sarai sacerdote, re e dio, se sarai venerato come l’adoratore del tempio. Questa è l’antica promessa del serpente ai nostri primi genitori: “Sarete dei: dii eritis”. “Così, nel linguaggio massonico, la libertà significa rivolta: rivolta del figlio contro il padre, dei coniugi contro il freno del matrimonio, o distruzione della famiglia; rivolta dei poveri contro i ricchi, o annientamento della proprietà; rivolta dei sudditi contro i principi, o anarchia civile; rivolta dell’uomo contro Dio, o rifiuto di ogni religione. « Se siete miei discepoli – disse Gesù Cristo agli uomini – conoscerete la verità e la verità vi libererà. » (Giov. VIII, 32). Poi ha aggiunto: « chi fa il peccato è schiavo del peccato ». Ma lo schiavo del peccato abita in una casa di schiavitù; il Figlio di Dio abita nella casa di Dio, cioè nella casa della pace e della libertà. – Se dunque vi sottomettete al Figlio di Dio, sarete veramente liberi. » (Giov. VIII, 34-36).

– I liberi massoni sopraggiungono e dicono: « No, non è chi si sottomette a Gesù Cristo, bensì chi viene da noi che è veramente libero. » Colui che si sottomette a Gesù Cristo entra nella casa di schiavitù, perché « mette la sua intelligenza in cattività » (II Cor. X, 15) sotto il giogo di una parola rivelata, e si impegna « a crocifiggere la sua carne con tutte le sue concupiscenze » (Gal V, 24) Chi viene a noi entra nel tempio della libertà, perché può seguire senza costrizioni le opinioni della sua ragione, i richiami del suo cuore e gli appetiti dei suoi sensi. La libertà al servizio di Dio e del suo Cristo: eccolo lo scopo della Religione Cattolica. Libertà con la ribellione contro Dio ed il suo Cristo: questo è il fine della massoneria. Il Cristiano è libero perché spinge l’amore di Dio fino all’odio e alla repressione di tutti i desideri della natura corrotta. Il massone è libero, se porta l’amor proprio fino al disprezzo di Dio. Continuiamo.

13. « I diritti si basano sull’essenza o sulla natura. L’uguaglianza, natura; ora la natura è la medesima in tutti gli uomini; quindi i diritti devono essere gli stessi ». Questo è il ragionamento dei settari. « Gli uomini sono uguali nei diritti: tutti, e da tutti i punti di vista, sono nella stessa condizione » (Encyc. Humanum genus). Da questo l’ammissione di tutti alle cariche pubbliche, la sottomissione di tutti alle stesse leggi ed agli stessi tribunali, la partecipazione di tutti al suffragio, … che sono solo i preliminari del sistema di uguaglianza; tutti devono partecipare a tutti i beni, e anche a tutti le persone. Finora ci sono stati ricchi e poveri, genitori e figli, mariti e mogli, re e sudditi, preti e laici, cattolici, protestanti, ebrei, musulmani, buddisti; in futuro ci saranno solo uomini. « Il tempio massonico è l’universo popolato da uomini liberi e uguali. » – « Tra i massoni (e un giorno, grazie a loro, tra tutti gli uomini), non c’è né primo né ultimo; non ci sono né forti né deboli, né grandi né piccoli; ci sono solo fratelli e sorelle, tutti uguali, tutti desiderosi di essere uguali (Précis historique de l’ordre de la franc-maç. Discours, t. II, p. 326). « Nel mondo dei profani, uno combatte per Mario, l’altro per Sylla; nel nostro mondo, non c’è né Mario né Sylla. Nel mondo dei profani, si adora qui Baal, là Geova; nella massoneria, c’è un solo culto, quello della virtù; e chi può dire che tale culto non sia quello del vero Dio? Nel mondo dei profani, ci sono fedeli e miscredenti, ci sono ebrei, pagani, maomettani, greci, protestanti, antiprotestanti, e mille altre sette le cui pretese spaventano la mente, e tutti, nemici gli uni degli altri, sono si sono massacrati per secoli in nome e per gli interessi del Cielo; nel mondo che sogniamo, la Mecca e Ginevra, Roma e Gerusalemme si confondono: Non ci sono ebrei, maomettani, papisti o protestanti: ci sono solo uomini. » (Ibid., p. 328).

14. Le sette non si accontentano solo di proclamare l’uguaglianza tra tutti gli uomini; la proclamano tra Dio e l’uomo. Secondo loro, o Dio non esiste, o, se esiste, non può intervenire nel governo degli esseri liberi, o si confonde con l’uomo e il mondo. Quest’ultima teoria è, come vedremo, la più cara alla Massoneria: è nel cuore dei suoi simboli, entra nell’essenza di tutti i suoi gradi, ricorre costantemente nei discorsi e nei libri dei fratelli. – Ma sia che le sette releghino Dio lungi dal commercio degli uomini, sia che lo neghino o lo confondano con la natura, esse investono l’uomo delle caratteristiche stesse della divinità, dell’indipendenza e della sovranità: egli entra nel tempio massonico come adoratore oltre che come cultore, e, alzando gli occhi al cielo, dice con l’arcangelo rivoltoso: “Similis ero Altissimo: sono l’uguale di Dio. « Ogni uomo è il suo prete e il suo re, il suo papa e il suo imperatore. » (F:. Potvin. A. Neut., l.1, p. 408.) « Noi rispondiamo dei nostri atti, solo a noi stessi, siamo i nostri sacerdoti e i nostri dei. » (R :.Lacroix, ïbid.). « I nostri stessi avversari non lo dicono continuamente: “Gli dei se ne vanno! Il prestigio dell’autorità” scompare? » E chi sostituirà gli dei, i re, i sacerdoti, se non l’individuo libero, fiducioso nelle sue forze (Kropotkine, Paroles d’un révolté, p. 342.), egli stesso “re, sacerdote e dio?

15. « Fraternità significa prima di tutto la comunità di natura e di diritti, o l’uguaglianza di tutti nel possesso della stessa libertà. Nel Cristianesimo, tutti gli uomini sono fratelli attraverso la comunità della stessa origine, natura e fine. Ma questa comunità non toglie le differenze di condizione e di funzione: tra questi uomini che hanno la stessa natura ci sono poveri e ricchi, sudditi e re, figli e padri, mogli e mariti. – Al contrario, nella massoneria, la comunità di natura, assorbe e fa sparire tutte le differenze. Non più famiglie particolari, ma una sola famiglia: l’umanità. Non più nazioni separate, ma una sola nazione, l’umanità. Non più Chiesa Cattolica o protestante, ma una sola chiesa, l’umanità. Le differenze di colore, di razza e di religione stanno scomparendo; i genitori, i coniugi, i re, i proprietari non hanno più diritti propri: non ci sono più dappertutto che uomini tutti uguali, perché essi tutti hanno una libertà assoluta. In questo senso, tutti gli uomini sono fratelli.

16. In secondo luogo, la fraternità serve a designare l’assistenza che tutti i massoni si devono reciprocamente in tutti gli affari della vita, specialmente in quello che riguarda la grande opera comune. Secondo l’insegnamento delle logge, infatti, un fratello deve aiutare il fratello in tutto ed ovunque. Un ministro, un prefetto, devono usare il loro credito per l’avanzamento dei fratelli. Un giudice non deve condannare un fratello, anche se colpevole. Gli alti funzionari devono usare la loro influenza per assicurarsi che i membri dell’Ordine ricevano posizioni onorevoli e vantaggiose, pensioni, bonus, favori e onori di ogni tipo.

17. Ma soprattutto quando è interessata la causa comune, i massoni devono dimenticare i legami di parentela, di amicizia, di nazionalità, i doveri stessi della giustizia, per pensare solo al bene dell’ordine. Quest’uomo è nemico delle società segrete? Sia anche tuo padre, devi combatterlo. Questa famiglia sta ostacolando   il progresso della libertà massonica: facendone parte, voi dovete lavorare per rovinare la sua influenza. Una legge è utile al paese, ma dannosa all’opera rivoluzionaria; un’altra è favorevole alle sette, ma perniciosa alla nazione: bisogna respingere la prima e acclamare la seconda. Il primo dovere di un deputato del Parlamento o di un senatore è quello di difendere la causa della libertà e dell’uguaglianza con la parola e con il voto. Il primo dovere di un diplomatico, di un generale dell’esercito, è quello di portare al successo i piani massonici. Non abbiamo visto spesso, nel secolo scorso, politici chiudere gli occhi di fronte agli interessi più evidenti del paese, e spingere a misure che si giustificavano solo dal loro lato rivoluzionario? Non ci sono tante occasioni in cui i generali hanno tradito la causa del paese per servire la causa della rivoluzione? I capi delle alte logge non hanno forse raccomandato ai massoni di intentare cause civili e politiche contro i loro avversari in tribunali in cui sedevano dei fratelli? La storia contemporanea è piena di fatti di questa natura. Nel corso di questo libro, avremo più di una volta l’opportunità di tornare su questo argomento.

18. Per i settari, il grande obiettivo, quello che ha la precedenza su tutto il resto, è il trionfo della libertà e dell’uguaglianza massonica. « I cittadini devono unirsi ai cittadini, i popoli ai popoli, per provvedere all’emancipazione comune. « Tutti, in tutti i climi e con tutti i mezzi, devono lavorare per la grande opera di emancipazione dell’umanità ». Questo è il senso della fratellanza.

19. Per alcuni iniziati c’è un significato più segreto e più odioso. La fraternità è il ritorno ai costumi dei templari, cioè il regno della dissolutezza più sfrenata. È così che gli antichi gnostici intendevano la carità (Si può vedere ià in San Epifanio quel che gli gnostici intendevano con « l’esercizio della carità »: charitatem exhibere (Hæres. advers. Gnostic, lib. I. Hæres. VI vel XXVI. Mign. Patr. Græc. 91. XLI, col. 338,86). Molte formule e cerimonie massoniche sono state improntate a questi antichi settari. « È con lo studio degli antichi gnostici e manichei, diceva uno dei più illustri settari, il famoso Weishaupt, che l’illuminato potrà fare grandi scoperte su questa vera massoneria »); così i settari moderni, i loro successori, intendono « la beneficenza », l’« umanità », la « fraternità ». La « beneficenza » consiste, in questo senso, nel procurare agli uomini la soddisfazione dei desideri più universali e potenti della natura; l’« umanità » vuole che il massone si abbassi a tutti i desideri della carne; la « fraternità » è l’associazione di mutuo soccorso per il godimento voluttuario. Per questi « puri massoni », la « fraternità » designa i liberi costumi … delle bestie. Per poterli « restaurare » tra gli uomini, si sforzano di stabilire il matrimonio civile ed il divorzio, « il primo passo verso il regime dei liberi costumi ». Allo stesso scopo, fanno professione tra di loro di una spudoratezza sconosciuta nelle relazioni sociali, rifiutando ogni segno del rispetto reciproco, e praticando in alcune logge di alto rango un’orribile confidenziale turpiloquio, che hanno preteso persino di imporre per qualche tempo ad un intero popolo.

20. Inoltre, per questi puri, la parola libertà nasconde lo stesso significato. Nell’antichità pagana, il dio e la dea che presiedevano agli atti carnali, erano chiamati Liberi (S. Aug. De Civ. Dei, lib. VII, c. II e c. III.) o dei della libertà; la soddisfazione dei sensi era chiamata sollazzamento o liberazione; c’erano già feste della libertà, nelle quali il popolo adorava solennemente le cose più vergognose (S. Agost. De Civ. Dei, VII, cap. XXI). Queste pratiche infami furono trasmesse agli gnostici e ai manichei (S. Epifanio, Minuzio Felice e tanti altri). Qual sorpresa dunque che i moderni restauratori del paganesimo, gli eredi degli gnostici e dei manichei, chiamino la licenziosità di passioni infami con il nome di libertà, e propongano essi stessi al culto degli uomini ciò che è di più ignobile sotto il nome di albero della libertà? « Qual è il nome di un cavaliere bretone massone? », chiede l’iniziatore di un alto grado. Il candidato risponde: “Il nome di un massone liberissimo (Recueil précieux de la Mac. adonhir., t. II, p. 124). « Per i veri iniziati – dice Ragon – Iside è senza veli (Ragon, Orth. maç., introd., p. III.). » Gregorio XVI dice: « Tutto ciò che c’è mai stato di più sacrilego, blasfemo e vergognoso nelle eresie e nelle sette più criminali, è stato accumulato nelle società segrete come nella fogna universale più sordida di tutte le infamie » (Encyc. Mirari Vos). »

21. Da questo momento in poi, si vede il piano del tempio prendere forma. Il tempio ideale è una rovina universale. « Il nostro principio – dice Proudhon – è la negazione di ogni dogma; il nostro dettato è il nulla. Negare, negare sempre, questo è il nostro metodo; esso ci ha condotto a spacciarci come principi: nella religione, l’ateismo; nella politica, l’anarchia; nell’economia politica, la non proprietà. » È questa negazione assoluta, questo rovesciamento universale, che esprime la formula: Libertà, Uguaglianza, Fraternità… Libertà: distruzione di ogni autorità. Uguaglianza, distruzione di ogni gerarchia.  – La fraternità, da un lato una comunità di diritti e di beni, dall’altro l’assistenza reciproca per il bene comune in generale e per i piaceri dei sensi in particolare. La libertà è il fine; l’uguaglianza è ancora il fine; la fraternità è il fine e il mezzo. – Una sola di queste parole comprende tutto il piano del tempio:

Libertà: « Non ci sono più né padroni né schiavi, ma uomini liberi. »

Uguaglianza: « Non ci sono più superiori o inferiori, ma uguali ».

Fraternità: « non ci sono più padri o figli, ma fratelli. »

Quindi:

Libertà, distruzione della Religione, della società civile, della famiglia, della proprietà.

Uguaglianza, ulteriore distruzione della Religione, della società civile, della famiglia e della proprietà. –

Fratellanza, distruzione sempre della Religione, della società civile, della famiglia e della proprietà.

La libertà è dunque inseparabile dall’uguaglianza; la libertà e l’uguaglianza dalla fraternità. In queste tre parole abbiamo il piano ideale del tempio massonico, e lo abbiamo tutto in uno. Si può anche dire che l’obiettivo della Massoneria è la costruzione del tempio della libertà, o il tempio dell’uguaglianza o il tempio della fraternità, così come il tempio della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità. Essa stessa si fregia di chiamarsi libera muratoria o massoneria.

LA CITTÀ ANTICRISTIANA (3)

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (61) – LA CITTÀ ANTICRISTIANA (1)

LA CITTÀ ANTICRISTIANA (1)

DI P. BENOIT

DOTTORE IN FILOSOFIA E TEOLOGIA DIRETTORE EMERITO DEL SEMINARIO DI PARIGI

SOCIÉTÉ GÉNÉRALE DE LIBRAIRIE CATHOLIQUE VICTOR PALMÉ, DIRECTEUR GÉNÉRAL

rue des Saints-Pères, 76

BRUXELLES

SOCIÉTÉ BELGE DE LIBRAIRIE

12, rue des Paroissiens, 12

GENEVE

HENRI THEMBLEY, ÉDITEUR’

4, rue Corraterîe, 4

-1886 –

II

LA FRANCO-MASSONERIA

O LE SOCIETÀ SEGRETE

ТОМO PRIMO

PREAMBOLO

1. Su questa terra, sono presenti due Città che si combattono l’una contro l’altra: la Città di Dio o la Città dei Cristiani, presieduta dal suo Capo Gesù Cristo, e la Città del Mondo o la Città degli Antichicristi, governata dal suo capo “il serpente antico”, “il principe di questo mondo”, “il dio di questo secolo”. La Città di Dio si oppone alla Città del mondo con una dottrina ed un esercito. Questa dottrina è “il Vangelo della salvezza”. Questo esercito è la Gerarchia Cattolica, composta dal Papa, i Vescovi ed i sacerdoti, predica in tutto l’universo “la parola della verità”, e governa con autorità divina l’umanità rigenerata.

– A sua volta, la Città del Mondo si oppone alla Città di Dio con gli errori e con le milizie. Gli errori oggi sono il Razionalismo e il Semi-razionalismo. – Le milizie sono le società segrete o la massoneria. « Lo scopo supremo della Massoneria – dice Leone XIII in un’incomparabile Enciclica, che sarà la nostra luce principale in tutta quest’opera, – è di rovinare da cima a fondo l’intera disciplina religiosa e sociale che è nata dalle istituzioni cristiane, e di sostituirla con una nuova, modellata sulle loro idee, e i cui principi e leggi fondamentali sono mutuati dal naturalismo. » Abbiamo parlato degli errori moderni. [Nella prima parte di quest’opera]. Non ci resta ora che di occuparci delle società segrete o della Franco-massoneria.

2. Divideremo questo nuovo studio in tre parti. Indagheremo prima di tutto su quale sia lo scopo della Massoneria; poi passeremo in rassegna le società massoniche stesse; e infine vedremo come le sette lavorano per raggiungere l’obiettivo proposto.

In altre parole, prenderemo in considerazione:

1° Il piano del tempio massonico;

2° I lavoratori impiegati per costruirlo;

3° Il lavoro di costruzione.

3. Si potrebbe dire che la Massoneria porti la sua definizione nello stesso suo nome; è un’associazione di franchi o liberi muratori. I muratori costruiscono un edificio: qual è l’edificio costruito da questi muratori liberi? Costruiscono – dicono – « il tempio della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità », « la chiesa della ragione e della natura », « il santuario della verità e della virtù”. Costruiscono – diciamo noi – il tempio di satana ».

4. Gesù Cristo si è paragonato ad un architetto, ed ha paragonato la sua Chiesa ad un edificio: “Tu sei Pietro”, ha detto al capo dei suoi Apostoli, “e su questa roccia edificherò la mia Chiesa”. (Matt. XVI, 18) Anche satana, il rivale ed “avversario” di Gesù Cristo, pretende di essere un architetto; anche lui vuole costruire un tempio.

5. Il tempio di Gesù Cristo è il tempio della perfetta obbedienza a Dio, il tempio della fede e della carità. Il tempio di satana è il tempio della rivolta universale contro il Signore ed il suo Cristo, il tempio dell’empietà e della diffamazione. Il primo tempio è ogni uomo soggetto a Gesù Cristo, divenuto così “primogenito” dei figli di Dio, in una parola, si è fatto Cristiano: « Non sapete – disse San Paolo ai fedeli – che voi siete i templi di Dio, e che lo Spirito Santo abita in voi? » (I Cor. III, 16) « Il tempio di Dio è santo -, diceva – e questo tempio siete voi stessi » . (ibid. 17). Ed ancora: « voi siete l’edificio di Dio, il tempio del Dio vivente: Dei ædificatio, templum Dei vivi.

Il primo tempio è anche la Chiesa considerata nel suo insieme, tutta l’umanità l’intera rigenerata, che lo Spirito anima con il suo soffio e sulla quale regna Gesù Cristo: « questo è il vero tabernacolo di Dio con gli uomini »; (Apoc. XX, 2, 3) questo è il tempio le cui vaste proporzioni sono state misurate da Ezechiele e San Giovanni, (Ez. XL.— Ap. XI.) la cui magnificenza è stata celebrata da tutti i profeti ( Ps. XXVI, 4. — Is. VI, 1. — Jer. XXX, 18. — Dan. III, 53, etc.). –  Il secondo tempio è ogni uomo che si è ribellato contro Dio ed il suo Cristo, si è reso conforme al primo dei rivoltati ed è diventato con lui e sotto di lui un anticristo. È anche l’insieme di tutti coloro che anima lo spirito di rivolta, la riunione di tutti quegli orgogliosi e libertini sui quali regna l’Arcangelo decaduto.

6. Ora Gesù Cristo, per edificare la sua Chiesa, impiega degli operai: questi sono il Papa, i Vescovi, sono i sacerdoti, è la Gerarchia cattolica. Satana, da parte sua, nella costruzione del tempio della rivolta, si avvale di operai organizzati in gerarchie: oggi questi sono i franco-massoni. – Gli operai di Gesù Cristo prendono « quelle pietre – umane – che giacciono sparse (Dispersi sunt lapides sanctuarii in capite omnium viarum. Thren. IV, 1.) dalla rovina originaria: le tagliano, le puliscono (Fabri polita malleo, Hanc saxa molem construunt. Hymn. in Dedic. Eccles.), sul modello della « pietra angolare posta da Dio stesso in Sion (I Petr. II 4-7,) », e le fanno entrare nella magnifica struttura « del tempio vivente, dove abita Dio ». I settari si impadroniscono di uomini imprudenti o perversi, li formano sul modello dell’Arcangelo della rivolta e li collocano nel tempio dell’empietà e della corruzione. La Gerarchia cattolica è la voce di Gesù Cristo nel mondo, la sua mano, il suo organo, il suo strumento per operare la salvezza delle anime: essa prega, parla ed agisce nel suo Nome; nella sua potenza e virtù essa dà “verità e grazia” a tutti gli “uomini di buona volontà”; in Lui e con Lui opera per fare entrare nel « regno di Dio, tutte le nazioni della terra ». –

La gerarchia o le gerarchie massoniche sono « la cattedra di pestilenza » dove siede l’ « avversario » di Gesù Cristo, laddove « chiama bene il male e il male bene », laddove « insegna la menzogna » e combatte contro il regno di Dio; esse sono l’organo e lo strumento che egli usa per condurre gli uomini alla sua rivolta; in essi e attraverso di essi egli conduce la guerra più grande mai vista alla Città di Dio; con il loro aiuto si illude per far sparire il soprannaturale da tutta la terra per condurre il genere umano ad un’apostasia universale. In una parola, esattamente come il sacerdozio cattolico fa l’opera di Gesù Cristo nel mondo, così la Massoneria fa l’opera di satana. Come l’uno milita con Gesù Cristo contro satana, così l’altro combatte per satana contro Gesù Cristo. Mentre il primo eleva il tempio della carità, il secondo costruisce il tempio dell’apostasia.

7. Come tutta la Gerarchia cattolica dice a Gesù Cristo con uno dei suoi membri: « Mio Signore e mio Dio, ti consacro la mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza e la mia volontà. Tutto ciò che possiedo viene da Voi; lo metto nelle vostre mani e lo pongo solo al vostro servizio. »  – Da parte sua, tutta la gerarchia massonica potrebbe dire a Satana con uno dei suoi più famosi seguaci: « Vieni, satana; vieni, calunniatore di sacerdoti e di re: lascia che ti abbracci, lascia che ti stringa al mio petto! Ti conosco da molto tempo, e anche tu mi conosci. Le tue opere, o benedetto del mio cuore, non sono sempre belle né buone: ma solo esse danno senso all’universo, impedendogli di essere assurdo ». Cosa sarebbe la giustizia senza di te? un istinto. La ragione? Una routine. Un uomo? Una bestia. Tu solo animi e fecondi il lavoro; nobiliti la ricchezza; servi come scusa all’autorità; metti il sigillo alla virtù. Ancora spera, proscritto! Io non ho che una penna almio servizio; ma essa vale milioni di bollettini. E giuro di non metterla giù finché non saranno ritornati i giorni cantati dal poeta: Ah, restituitemi i giorni della mia infanzia, o Dea della libertà (Proudhon) ! »

8. Questa è l’essenza della Massoneria. Sì, per dirla in una parola, i settari del nostro tempo sono in effetti gli operai che procedono su tutti i lati della costruzione del tempio o della città di satana. Ci convinceremo di questo nel corso di questo lavoro. D’ora in poi, ascoltiamo la solenne dichiarazione che la grande voce incaricata di indicare tutti i pericoli della Città di Dio sta facendo in faccia all’universo cristiano: « Da quando, per invidia del diavolo – dice Leone XIII nella sua famosa Enciclica sulle società segrete – il genere umano si è miseramente separato da Dio, al quale era debitore per la sua chiamata dalla inesistenza e dei doni soprannaturali, si è diviso in due campi nemici, uno dei quali combatte incessantemente per la verità e la virtù, e l’altro per tutto ciò che è contrario alla verità e alla virtù ». Il primo è il regno di Dio sulla terra, cioè la vera Chiesa di Gesù Cristo, le cui membra, se vogliono farne parte dal profondo del cuore e in modo tale da ottenere la salvezza, devono necessariamente servire Dio ed il suo Figlio Unigenito con tutta l’anima e con tutta la volontà; il secondo è il regno di satana, al quale appartengono tutti quegli sventurati che, seguendo gli esempi fatali del loro capo e dei nostri progenitori, rifiutano di sottomettersi alla legge divina e, nella loro condotta, si allontanano da Dio o addirittura si lasciano trascinare da lui. Sant’Agostino vide questi due regni e li descrisse abilmente sotto forma di due Città, governate da leggi contrarie e tendenti ad un fine contrario; e, con notevole brevità, segnò con le seguenti parole il principio costitutivo di ciascuno di essi: « DUE AMORI SONO NATI IN DUE CITTA’: L’AMOR-PROPRIO SPINTO FINO AL DISPREZZO DI DIO E’ NATO NELLA CITTA’  TERRESTRE; L’AMORE DI DIO PORTATO FINO AL DISPREZZO DI SE STESSI, E’ NATO NELLA CITTA’ CELESTE » (De Civit. Dei, lib. XIV, c. XXVII). In tutta la successione dei secoli, queste due città non hanno smesso di combattere l’una contro l’altra, con ogni sorta di tattica e con le armi più diverse, anche se non sempre con lo stesso ardore e la stessa impetuosità. Ora, nel nostro tempo, i fautori del male sembrano essersi coalizzati in uno sforzo immenso, sotto l’impulso e con l’aiuto di una società diffusa in ogni parte e fortemente costituita, la società dei franco-massoni (Hoc autem tempore, qui delerioribus favenl partibus videntur simul conspiraro vehementissimeque cuncti contendere, auctore et adjutrice ea quam Massonum appellant, longe latequo diffusa et firmilor constitula hominum societate. – Encyc. Humanum genus 20 apr. 1881.). »  – Entriamo ora nei dettagli e cominciamo a cercare lo scopo delle società segrete.

LA CITTÀ ANTICRISTIANA (2)

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (60)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (60)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V.

Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo. (4)

§ IV.

Abbiamo detto in quarto luogo, che le dottrine del Teismo e del Deismo, opinioni unicamente fondate sui dati della ragione umana, mancano di base, e che la conoscenza e la certezza sono il privilegio esclusivo del Cristianesimo.

I. Il ben credere è il fondamento del ben vivete, ha detto Bossuet, traducendo la frase di Quintiliano: Brevis est itstitutio vitæ honestæ, beatæque si credas. Questo fondamento dovendo sostenere il peso di tutta la vita umana, e sopportare un edificio di doveri, di virtù, di sacrifici, di meriti, il cui complemento è necessariamente superiore a tutti gli interessi terreni, deve essere lutto ciò che v’ha di più incrollabile e di più tenace. « È impossibile, « dice Cicerone, senza cedere a ragioni chiare, « stabili, certe, evidenti… senza credere a cose che non possono essere false, lo stimare la rettitudine e la buona fede al punto di affrontare i più orribili supplizi… Come ardirà mai la stessa sapienza formare un’impresa, od eseguirla con confidenza, se manca d’una. Guida sicura per seguirne le orme? … E dunque necessario un Principio, che la sapienza possa seguire quando comincia ad agire, ed una conoscenza del fine, a cui devono tendere le sue azioni. Senza questa sicurezza tutta la vita umana è rovesciata …

« Però, soggiunge Cicerone con un tatto squisito, tradire il domma è delitto: Scelus est dogma prodere. » – Cicerone, con tutta 1’antichità filosofica (noi lo vedremo fra poco), non poteva evitare quel delitto. Egli professava, e subiva pur troppo l’insufficienza dello spirito umano a trovare il domma, ed arrendervisi. Non è già che fosse meno sollecito della verità: « Noi adopriamo, diceva egli nel ricercarla, tutte le nostre cure e tutto il nostro zelo … ma le cose sono talmente oscure in sé stesse, ed il nostro giudizio è tanto debole, che i filosofi più sapienti dell’antichità disperarono con ragione di riuscire nelle loro investigazioni. – O Lucullo! tutti questi segreti si celano agli occhi nostri in mezzo a fitte tenebre, nè v’ha genio umano che penetrare li possa… — Tuttavia, soggiunge ancora, se mi viene indirizzato il discreto rimprovero, che non sto contento ad alcun ragionamento, allora vincerò me medesimo, e sceglierò una Guida. Ma quale? Imperocché non se ne può avere che una sola, e trovata questa, tutte le altre, per quanto siano numerose e gloriose, andranno perdute e condannate. La nostra filosofia, mi direte voi, è la sola vera; ed io vi rispondo, che essendo vera, è sola, appunto perché la verità è unica … » (Academique, I liv. II) – In mancanza di questa guida unica, di questa verità unica fornita d’un carattere determinante per lo spirito umano, ecco la conclusione di Cicerone: « Io credo che non possiamo essere assicurati di niente; che il savio può tuttavia prestar fede a cose di cui non è punto sicuro, vale a dire opinare, ma senza perdere di vista che si tratta di semplici opinioni, e che non si danno comprensioni e percezioni esatte. Quanto all’arresto filosofico (sospensione d’ogni giudizio, espressione tolta all’arte del maneggio) vi aderisco di tutto cuore; coll’ammetterlo si rigetta la certezza. — Conosco ora la vostra opinione, o Catulo, e non può spiacermi. Ma qual è Ortensio, la vostra? — Egli rispose ridendo: Io sono per la sospensione (Académique, I . liv. II, édit, Victor le Clerc,  Pag. 271.). » – Ho anticipato su questa esposizione, che avrebbe trovato il suo posto, e troverà la sua conferma in una rapida rivista dell’antichità che noi faremo fra poco. Era opportuno o dimostrare sin d’ora il bisogno naturale dello spirito umano, e la sua insufficienza rispetto a quella certezza dommatica, che è il fondamento della vita umana. – Io sono per la sospensione: ecco a qual punto si trovava l’umana sapienza dopo quaranta secoli di ricerca. Essa  era in arresto al momento, in cui compariva quella Guida unica, Verità unica, a cui faceva appello, e che venne a dirle con una celeste autorità: Ego sum via, veritas, et vita… qui sequitur me, non ambulat in tenebris.

II. Noi sappiamo ornai, a chi noi crediamo: noi abbiamo cognizione e certezza, perché abbiamo Rivelazione. Abbiamo quel domma senza del quale tutta la vita umana è rovesciata, ondeggiante a seconda di tutte le opinioni; ed è a questo punto che è un gran delitto di tradire il domma. La dottrina cattolica non è tale soltanto per la bellezza, la sublimità, la santità, la fecondità morale dei suoi dommi e della meravigliosa loro economia. Tutto ciò, per quanto sia perfetto, non costituirebbe ancora il riposo dello spirito umano ed il fondamento della sapienza, se fosse stato il semplice trovato d’un savio. Di fatti la ragione umana acquisterebbe allora un diritto sull’opera sua propria, e potrebbe disfarla quando l’avesse fatta, mentre nessun uomo può farsi schiavo dei propri pensieri, né essere lo schiavo dei pensieri altrui. Rousseau in un trasporto segreto ha vergato queste rimarchevoli parole: « Se fossi nato cattolico resterei cattolico, sapendo benissimo che la vostra Chiesa mette un freno molto salutare agli errori della ragione umana, la quale non trova né fondo né sponda, quando vuole scandagliare l’abisso delle cose; e sono talmente convinto dell’utilità di quel freno, che me ne imposi io stesso uno simile, prescrivendomi pel resto della mia vita delle regole di fede, dalle quali non mi permetto di deviare. Però vi giuro, che da quel momento soltanto mi sento tranquillo stante la mia convinzione, che senza così fatta precauzione non lo sarei stato mai… Vi parlo, signore, con effusione di cuore, e come parlerebbe un padre al suo figliuolo ». – Vana precauzione! Rousseau non fu più tranquillo dopo, che prima; e fu sempre veduto a passare dall’ateismo al battesimo delle campane, come diceva Diderot. – Gli è con ben maggior tatto, che osservava Montaigne; « Sono gli scolari che propongono e discutono le questioni, ed è il Cattedrante che le risolve. Il mio Cattedrante è l’Autorità della volontà divina, che ci regola indubbiamente al disopra di quelle umane e vane contestazioni (Essais lib. II, c. 3). » –

Allo spirito umano è dunque necessaria la Fede; e la Fede divina.

Ammettere una cosa che non si comprende, è certamente una specie di fede; ma in tutte le dottrine, che non sono il Cristianesimo, qualunque ne sia il valore, e fossero anche (cosa impossibile) altrettanto perfette quanto quella di Gesù Cristo, è sempre una fede umana, la fede in se stesso, od in un altro se stesso, che non impone, né assicura alcuna vera autorità. Il fondamento sta nella cosa medesima, che ha bisogno d’essere fondata, in quella mobilità dello spirito umano, che non può stare senza una autorità, anche per conservare le sue conquiste, e difenderle contro la propria mutabilità. D’altronde non è soltanto a questa incostanza dello spirito umano, che è affidata la dottrina, ma a tutte le burrasche delle passioni che se ne fanno giuoco, allorquando questa dottrina ha per oggetto di padroneggiarle. – Si richiedeva dunque per la fede un fondamento esteriore, e superiore all’ente umano, che ne è il soggetto. Era necessaria la Parola di Dio raccomandata ad una Istituzione che avesse la giurisdizione e l’assistenza spirituale per interpretarla. Ci volevano Gesù Cristo e la sua Chiesa.

III. Allora, solamente allora la dottrina della verità diventa per l’uomo cognizione e certezza. È cognizione, e non più congettura, né opinione; dappoiché ci viene da Dio medesimo che si rivela a noi, e ci insegna ciò che Egli è con quella scienza certa che ha di Sé stesso. È certezza per un motivo perfettamente eguale; certezza cioè permanente ed invariabile in quanto che sta sul proprio fondamento sovrannaturale e divino, vi si mantiene coll’autorità della Istituzione della Chiesa, che ne è l’emanazione, e si spiega, s’interpreta e si applica all’umanità la quale altro non fa che riceverla e aderirvi. – Gesù Cristo, autore di questa dottrina ne è in pari tempo l’oggetto, il principio e la fine, l’alfa e l’omega, la base ed il complemento. Quale dottrina più certa di quella dove si trova la Verità in persona, che insegna; la Vita in sostanza, che nutrisce; il Principio e la Fine, che sono il mezzo; il Verbo fatto carne per ritirarci dalla carne, e Dio stesso venuto a noi per ricondurci a Lui? Come perdersi, come ingannarsi, come esporsi al minimo pericolo in sì fatta dottrina? Ciò non si può immaginare.

IV. Tutto questo è ammirabile e decisivo, mi si dirà, se tutto questo è: Certo che !a dottrina insegnata da un tal maestro è di fede, ma anche il maestro è di fede; ed allora, tutto essendo di fede, quale impressione può fare sulla ragione? La dottrina si sostiene sulla fede nel maestro, ed il maestro come si sostiene? Sempre sulla fede, sulla fede nella dottrina. No, ma sulla ragione; la quale non può disconoscerne la divina autorità a fronte delle testimonianze e delle prove che ne porge. – Allora (si oppone) è la ragione, che si fa giudice della questione, che verifica i titoli, che corregge la missione ed apprezza la persona. Non si fa più luogo alla fede, ed alla certezza che in lei si affidava, e tutta la vostra tesi è smentita. Questa si aggira necessariamente tutta intera o nella fede, o nella ragione. Nel primo caso la credenza è gratuita; nel secondo la dottrina è incerta.

Niente affatto.

Distinguiamo la Dottrina ed il Maestro; e nel Maestro, la persona e l’autorità. La Dottrina è di fede; e così deve essere, Maestro è la Verità in persona. – Il Maestro è di fede nella propria persona, in quanto forma questa una arte della sua dottrina, cioè in quanto Egli è insegnato nei misteri del suo ente, della sua generazione eterna come Verbo di Dio, e della sua Incarnazione umana. – Ma in quanto Egli è insegnante, la sua autorità, che ci fa credere alla sua persona ed alla sua dottrina, entra nella sfera della ragione, e si sostiene sovra prove e testimonianze eminentemente verificabili e discutibili; né questo ufficio della ragione altera in guisa alcuna la fede dovuta alla persona ed alla dottrina, posciaché la ragione non si esercita che sovra il fatto esteriore e storico, e non guarda che il sigillo riservando il piego. Ed è qui che torna opportuna la distinzione dianzi stabilita tra il carattere, e l’esistenza d’un fatto o d’una verità. – La Dottrina, tutta di fede, è per tal modo avviluppata in una autorità, i titoli della quale sensibili ed estrinseci, sono propri della ragione, e la obbligano alla fede. Essa è fondata sulla fede all’Autorità, mentre l’Autorità è fondata sovra testimoni razionali, e sovra prove storiche. Fra queste, le profezie, i miracoli, l’autenticità ed il carattere dei Vangeli, lo stabilimento, la propagazione, la perpetuità del Cristianesimo e della Chiesa ecc. ecc., sono come baluardi dell’edificio della fede, che ne sostengono la sommità. Si appoggiano sul suolo della ragione, mentre isolano quell’edificio e quella sommità della fede. – Quest’ ultima poi non ha per sé l’Autorità dell’evidenza, né potrebbe mai averla, suo oggetto essendo il mistero; ha però l’evidenza dell’Autorità, mediante la quale è eminentemente razionale senza cessare d’essere misteriosa. – Ecco l’economia logica del Cristianesimo.

V. Aggiungiamo cosa altrettanto importante che disconosciuta, vale a dire che se la dottrina è tutta di fede, nel senso che la ragione per se medesima non avrebbe mai potuto conoscerla, né saprebbe discuterla, diventa gradatamente una dottrina di ragione, nel senso che essendo vera, la ragione finisce per riconoscervisi, ammirarla ed arricchirsene. È questo un altro campo per la ragione, campo immenso, o piuttosto infinito, che vuol essere accuratamente distinto da quello che le appartiene in proprio, quando s’incontra nella fede. Qui la ragione va in cerca della fede, ed agisce da sola per apprezzarne i titoli; è la ragione quærens fidem. Là seguita la fede, agisce al di fuori, e sotto l’autorità della fede: è la fede medesima che cerca di appropriarsi l’intelligenza della dottrina, fìdes quærens intellectum. – È dunque un errore il credere che la ragione nulla abbia da vedere nella fede. Vi deve anzi tutto vedere i titoli, e sotto questo rapporto si trova nel proprio dominio, ed agisce da sola. Riconosciuti poi quei titoli, la fede si deve loro sottomettere, in questo senso, che qualunque cosa avvenga, comprenda o non comprenda, più o meno, deve sempre credere, certa qual è, a fronte di quei medesimi titoli che la determinarono una volta per tutte, di non correre alcun pericolo d’errore, e che laddove qualche credenza la molesti, non è quella credenza, ma essa stessa che si trova in fallo, essendo che Dio non può ingannare, né ingannarsi, e la Chiesa fa scomparire agli orchi di colui che ne vuole ascoltare l’alto ammaestramento, qualsiasi contraddizione per non lasciar sussistere che il mistero.  — Ora questa sommessione razionale della ragione, essendo ben definita e ben riconosciuta, la ragione non è punto colpita d’interdetto in quel dominio della fede. Essa può, anzi deve continuare ad esercitarsi in altre condizioni. Essa non diventa soggetta alla fede per esserne acciecata, ma illuminata. Non è già lo schiavo, ma l’allievo della fede, e questo allievo diventa un Sant’Agostino, un Sant’Anselmo, un S. Tommaso d’Aquino, un Bossuet, ed in ogni Cristiano un vero filosofo. Pensare altramente gli è avere per la fede un rispetto ingiurioso, un calunniarla, e privarla della più bella gemma della sua corona, di quel privilegio, che la costituisce, sola in mezzo a tutte le sue rivali, regina e madre dello spirito umano, che forma di noi altrettanti figli della luce. Sulla base di quel sentimento invochiamo una altissima autorità, ed uno stupendo esempio: Sant’Agostino, nella sua lettera CXX a Cosenzio; quel gran Dottore così si esprime: « La Chiesa esige la fede: ed è appunto perché noi abbiamo tante ragioni di credere, e tutte di sì grande valore ed urgenza, che richiede la fede, e l’umile sommessione a tutti i suoi divini insegnamenti. Non la si accusi pertanto di riehiedere una fede assolutamente cieca e senza ragione. Non le si imputi nemmeno di pretendere che coloro i quali credettero, ovvero che per credere hanno fatto quell’uso salutare della loro ragione, che noi abbiamo notato, non possano più continuare nell’uso della loro ragione per rendere la loro fede sempre più umile, e nello stesso tempo sempre più illuminata. Anche questa è una obiezione, o meglio una calunnia contro la Chiesa medesima, che rimane a distruggersi. Noi dunque crediamo, e siamo obbligati di credere; ma non ci è vietato di voler intendere ciò che crediamo; ed a chi ci dicesse: Credete, e non curatevi di voler intendere ciò che credete, noi risponderemo: Correggete il vostro principio, non già fino al punto di rigettare la via della fede, ma almeno fino al punto di riconoscere, che quanto la fede ci fa credere, può essere, in certa grado, compreso dal lume della ragione. Perocché Dio ci proibisce di pensare, che detesti in noi quella prerogativa, per la quale ci elevò al di sopra degli altri animali! A Dio non piaccia, che la sommersione nostra riguardo a tutto ciò che partecipa della fede, ci impedisca di cercare e domandare ragione di tutto ciò che crediamo, posciaché noi non potremmo manco credere, se non fossimo capaci di ragione! — Colui che giunse al punto di acquistare dalla vera ragione l’intelligenza di ciò che credeva dapprima senza intenderlo, è sinceramente in una miglior condizione di colui che è ancora nel desiderio di intendere ciò che crede. Che se non avesse questo desiderio, e s’immaginasse che bisogna affidarsi alla fede invece che noi dobbiamo aspirare all’intelligenza, sarebbe un ignorare qual è il fine e l’utilità della fede. Imperocché, siccome la Fede santa e salutare non sussiste senza senza la Speranza e senza la Carità, bisogna che l’uomo fedele non creda ciò che ancora non vede, ma che ami di vederlo, s’adopri, e speri di raggiungerlo. – Tutto questo è ammirabile, purché ben si comprenda. Ora, credo di doverlo ripetere, sarebbe non comprenderlo qualora se ne traesse la conclusione, che la fede, oltre alle ragioni di credere che la precedono, debba essere in ragione dell’intelligenza che la seguita; è invece l’intelligenza, che sarà in ragione della fede. Ma se la fede non deve essere in ragione dell’intelligenza, non deve quanto meno essere in ragione dell’accecamento! Essa deve, mantenendo pur sempre il suo carattere, adoprarsi nella calma e nella sicurezza del suo possesso, a fecondare il campo della dottrina, ed a convertirlo in intelligenza non meno che in sapienza, in ragione non meno che in virtù. – Tali sono i nobili e savi caratteri del Cristianesimo, del Cattolicismo. Tale è il cemento meraviglioso, ed impastato, se così posso esprimermi, di ragione e di fede in una ammirabile mistura, che lega i fondamenti, e costituisce la sede dommatica e morale della nostra credenza. Questa sola credenza può reggere alla prova della teoria e della esperienza, delle esigenze dello spirito e dei bisogni del cuore, delle agitazioni della vita e della catastrofe della morte, degli interessi del tempo e dei destini della eternità. Nessun’altra dottrina colma per tal modo tutte le condizioni di resistenza e d’impulso che reclamano in pari tempo la debolezza e ls forza, i doveri ed i diritti dello spirito umano. Nessun’altra presenta delle gaurentigie di certezza e di verità così esclusive d’ogni elemento di dubbio, d’ogni pericolo di errore; e la verità manifestandosi qui in Dio medesimo, la ragione di aderire non è che la ragione di credere, la ragione di adorare.

FINE DEL CAPITOLO

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (59)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (59)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V. (3)

§. III.

Ho detto, in terzo luogo: all’incomprensibile il Teismo ed il Deismo aggiungono l’inconcepibile, al vero il falso; e la lotta che ferve tra il vero ed il falso, tra l’incomprensibile e l’inconcepibile non permette di arrestarvisi; bisogna retrocedere all’Ateismo, od inoltrarsi fino al Cristianesimo.

I . Il Teismo accoppia due cose, che si escludono: Dio presente nella natura, ed assente nell’ umanità: Dio Provvidenza infinita nel meccanismo dell’universo a principiare dai mondi fino all’ ultimo insetto, e formante delle creature per tormentarle nell’ordine umano, il solo che abbia la coscienza di Lui, e che lo glorifichi. Questo concetto è orribile ed assurdo, dice Voltaire, ma cosa volete? « Se vi si porge la prova d’una verità, forse che queste vien meno, perché trae dopo di sé delle conseguenze inquietanti »? La massima è buona, ma non se ne deve abusare; sarebbe un oltrepassare i limiti della fede, e mai noi Cristiani immetteremmo dei dommi, che riuscissero a ributtanti conseguenze. Ce lo vieta la nostra fede medesima. Osservate infatti, dove si giunge per quella via. La stessa ragione, che afferra la prova d’ una verità, disgustata dall’assurdità delle conseguenze, non ha maggiori cause di credere a queste, che non ne abbia per credere a quella. Voi credete in Dio, perché l’universo vi imbarazza; ma l’idea di questo stesso Dio carnefice dell’umanità vi rivolta; il che equivale a dire, che voi siete posti fra un’assurdità da evitarsi, ed un’assurdità da accogliersi. Diciamolo schiettamente, l’alternativa è difficile; qualunque partito voi prendiate non può che essere falso, e temo assai che non sia guari durevole. Il Teista si decide per assurdità dell’umanità senza Provvidenza, o piuttosto vittima della Provvidenza. che regge l’universo. – Almeno Voltaire, che qui considero siccome capo di si fatta dottrina, avesse lottato contro tale mostruosità Ma no: egli invece se ne diletta e se ne fa il campione. Sotto ogni aspetto, romanzo, teatro, storia, poesia, dizionario, corrispondenza, scritti anonimi, egli fu il detrattore ostinato della Provvidenza. Egli si compiacque di rappresentare, raccontare, cantare, fischiare, schernire l’umanità giuoco d’ogni follia e d’ogni delitto, in un orribile e satanico miscuglio di disordine e d’impunità. Certo che la sua immoralità giustifica il suo giudizio, ma non si può negare che questo era proprio il servitore di quella. Figuratevi un tale, che assista ad una rappresentazione di Rodoguna o di Andromaca, e che non vi distingua altro che portici, palagi, appartamenti, lumiere, i mobili insomma che servono alla decorazione, e riguardo all’azione altro non veda che gente intenta ad entrare, ad uscire, ad ingiuriarsi, a battersi, e ad uccidersi senza ragione e senza scopo. Così suole il Teista ravvisare le cose umane. Dio non è per lui che il meccanico decoratore del teatro di questo mondo. Quanto alla rappresentazione che vi si dà, siccome non ne afferra l’intreccio, egli ne contesta il disegno; non vedendo che l’orribile e l’assurdo se ne accontenta. Quello stesso buon senso, che lo fa concludere dall’oriuolo meccanico all’oriuolajo, dovrebbe pure farlo concludere dall’oriuolajo all’ oriuolo morale, c farlo passare dal Teismo al Deismo. Dovrebbe pure comprendere la divina ragione, e la bellezza di questa parola: Avvisate, come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; e pure io vi dico che Salomone stesso, con tutta la sua gloria, non fu vestito al pari dell’un di loro. Or se Dio riveste in questa maniera l’erba dei campi, non vestirà egli molto più voi, o uomini di poca fede? (Matt. VI, (28, 29) » — « Cinque passeri non si vendono elle due quattrini? e pur niuna di esse è dimenticata appo Iddio. Anzi eziandio i capelli del vostro capo sono tutti annoverati. Non temiate adunque: Voi siete da più di molte passere (Luc. XII, 6, 7). »

Ma no. Il Teista non si solleva fino a questa fede, fino a quest’altra ragione. Egli resta nell’assurdo del Dio-Carnefice; e così io dico che ricade nell’Ateismo, anzi al dissotto dell’Ateismo, dappoiché nega Dio nella più bella parte dell’opera sua. È l’Ateismo nel secondo grado; ancora più inconcepibile in un certo senso dell’Ateismo nel primo. Né può sfuggire a questa conseguenza salvo passando al Deismo, che è la fede in Dio-Provvidenza.

II. Assicuriamo questo secondo passo verso il Cristianesimo. Ogni uomo porta con sé un testimonio vivente della Divinità: la coscienza: anche questo è un oriuolo che rivela ma oriuolajo; tanto poi che, in uomini, ond’è che esiste una coscienza generale ed universale nell’umanità. Essa parla cosi altamente, che lo stesso Voltaire fu costretto a darle retta:

La morale uniforme en tout temps; en lout lieu,

A des sìècles sans fin parle au nom de ce Dieu.

C est la loi de Trojan, de Socrate, et la vótre,

De ce culte éternel la nature est l’apòtre.

Le bon sens la recoit: et les remords vengeurs,

Nés de la conscience, en sont les défenseurs;

Leur redoutable voix partout se fait entendre. (1)  

(1) Voltaire, Poema sulla Legge naturale;

L’uniforme moral, per tutto, sempre,

Agl’infiniti secoli favella

D’Iddio nel nome. È di Trajan la legge.

Di Socrate, di voi. Eterno culto,

A cui natura è apostolo, s’accoglie

Dal retto senso; e i vindici rimorsi

Da coscienza nati, in sua difesa

Alzan dovunque la terribil voce.

Questo oriuolo, è vero, si guasta sovente, e pochi uomini si danno, nei quali sia ben regolato. Ma donde ciò? Da due distinte cagioni: l’una delle quali basta a confondere il Teista, mentre mi riservo di adoprar l’altra contro il Deista. La prima, che trovo qui sufficiente, consiste nella apparizione nella sfera umana d’un elemento superiore, totalmente estraneo al meccanismo dell’ universo: la libertà, o piuttosto il libero arbitrio, che nel suo esempio può avere per conseguenza il disordine nel generare un ordine sovreminente. Quindi è che il disordine stesso nell’umanità si riferisce a un principio di superiorità nell’universo: alla moralità. Se d’altronde quel disordine, in ogni uomo, non impedisce di sentire il testimonio della coscienza, come non vedremo noi lo stesso testimonio nell’umanità, che altro non è se non l’uomo collettivo? Come non ci eleveremo noi da quel testimonio al suo oggetto: Dio, Provvidenza dell’umanità? – Quindi è che in ogni tempo l’umanità ne fu profondamente penetrata. Udite quei religiosi accenti, che rimbombavano nel teatro d’Atene! — « Dentro di me si trova un gran Santuario, dove la legge della giustizia pronuncia i suoi oracoli (Euripide, Elettra) ». — « Su via, coraggio, mia figlia, nel cielo vi è quel Dio supremo, che considera tutte le cose, e le governa; affidati in Lui per ciò che infiamma la tua collera (Id. Elettra) ». — « Non ne dubitate, la Divinità ha degli occhi sull’uomo pio; quindi gli empi non si sottraggono al suo sguardo, e niuno di loro potrà scampare al celeste castigo (Sofocle). » — « Le prosperità non hanno la loro sorgente in noi; Dio le ripartisce, qui elevando gli uni, là riconducendo gli altri sotto la misura delle sue mani sovrane (Pindaro, Pitiche; ode 8) ».

III. Lo stesso disordine che si produce quaggiù deve riportarci all’idea della Provvidenza. Partendo infatti dalla coscienza, che si direbbe il freno dell’anima, c’è luogo a vedere, nelle leggi della giustizia e della verità, che vi si acconciano così bene, e vi si fanno sentire certe redini, che risalgono ad una mano sovrana, che le sostiene e le modera a suo grado. A suo grado no, perché sono fluttuanti, e la nostra libertà ci permette di scuoterle, così che ne deriva poi quel disordine apparente, ed in un dato senso anche reale. Ma se in quel disordine vi sono dei delitti, vi sono pure delle virtù, le quali non sussisterebbero senza la libertà che quei delitti permette. In secondo luogo il delitto, anche quaggiù, non va interamente impunito. La pena lo seguita, in distanza è vero, e con pie’ zoppicante; ma finisce per raggiungerlo tosto o tardi, o dentro o fuori: non è che una questione di indugio; e se il delitto è disordine a suo riguardo, la pena è ordine rispetto al delitto. Oltracciò Dio si serve dei delitti sia per mettere alla prova la virtù, sia per punire i delitti medesimi. Egli fa il suo ordine col nostro disordine; e chi avesse lo sguardo vasto abbastanza e penetrante, per seguitare e comprendere tra mezzo alle innumerevoli implicazioni dell’azione umana, quell’azione divina che opera nella nostra e per mezzo della nostra, sarebbe compreso da grata meraviglia per l’ordine profondo ed immenso che ricupera e produce lo stesso disordine. Quel soldato che si perde nella mischia, e lotta nello stretto limite d’un lembo di terra, altro non vede che confusione nella battaglia, mentre il generale dall’altura dove domina e dirige tutti i movimenti, li scioglie da quella confusione apparente, li combina, e li riferisce ad un piano di campagna, che la vittoria finale non tarda a giustificare.

IV. Queste spiegazioni sono tuttavia incomplete, ed il Deista deve elevarsi più in alto. Dato infatti, che il disordine sia soltanto apparente, questa medesima apparenza diventa un disordine, il quale, almeno in parte, è realmente tale. L’ordine, considerato

come giustizia completa, in relazione al merito od al demerito, è sospeso dall’azione della libertà che li produce. L’ultima parola delle cose non può dunque proferirsi quaggiù. Lo scioglimento dell’intrigo di questo mondo deve esistere altrove. Anche tutte quante le spiegazioni da noi emesse svanirebbero in quel caos di disordine, che provoca tanto lo scandalo dell’empio, se non spuntasse anche il giorno della Giustizia sovrana ed assoluta dopo quello della nostra libertà. L’ordine temporario non esiste anzi che relativamente a quel giorno, il quale nella voce della coscienza trova soltanto dei preludj e delle dilazioni; quel gran giorno, in cui la Giustizia raccorciando le redini della nostra libertà, e restituendo definitivamente il mondo alle sue leggi, si convertirà in giudizio. La fede in questo giudizio, e nella vita futura, dove si compirà, è il corollario obbligato della fede nella Provvidenza, e nella Giustizia medesima. Cosi si chiarisce per mezzo della fede l’inevitabile mistero della natura delle cose. Questo mistero, abisso di tenebre e di contraddizioni per l’Ateo, si chiarisce di già per opera della fede in Dio, intelligenza ordinatrice dell’universo; ma si chiarisce più ancora per opera della fede in quello stesso Dio Provvidenza degli uomini, e Giudice delle opere nostre in un ordine superiore. Progredendo nella fede noi progrediamo pure nella luce.

V. Facciamo un passo ancora, un passo che è necessario, se non vogliamo ricadere nelle tenebre; ed allora invece di essere deisti diventeremo Cristiani sotto pena di tornare atei, e di esclamare col più fervente deista: « L’Ente incomprensibile non è né visibile ai nostri occhi, né palpabile a alle nostre mani; opera si manifesta, ma l’artefice si nasconde: Non è un piccolo affare di conoscere finalmente che esiste (G. G. Rousseau, Emilio, lib. III). » – Imprigionato nella natura, Dio lo è parimente nella umanità, dove maggiormente si rivela per quella Provvidenza che lo mette in relazione col nostro destino, ma in altro senso è più oscurato dal disordine risultante dalla stessa libertà, che è l’anima di quella relazione, di guisa che ne deriva un’accusa contro di lui, che non si trova al suo posto. Il Deista crede in Lui, ma credendovi agisce come se non vi credesse. Non gli rende un culto effettivo, capitale, assoluto, e quale conviensi ad un Ente cosi grande; il perché Egli è più inconseguente del Teista, che è più inconseguente dell’Ateo. Ci va dell’Ateismo al terzo grado. – Ed invero che cosa è mai un Dio, che non si riconosce che speculativamente; che si calcola per niente nella nostra vita mentre dovrebbe costituirne l’essenza? Un Dio, verso del quale noi non proviamo né riconoscenza, né rispetto, né amore, né timore? Un Dio, lungi dal quale i nostri pensieri, i nostri desideri, i nostri affetti, le nostre volontà corrono alla ventura, senza che Egli le ispiri, le diriga e le accolga; un Dio, che non occupando il primo posto non può averne alcuno nel nostri spiriti e nei nostri cuori? Questo Dio non è che un sole, cui si tolsero i raggi, lo splendore, il calore, ed ogni influenza, sicché non manda nelle alte sfere del cielo che uno spettro di luce, il quale meglio della presenza dell’astro, ne dimostra l’inanità. Nello stato normale delle cose noi dovremmo amar Dio, come amiamo le creature, i beni, i piaceri, noi stessi; e se non transigessi, direi anzi, che noi dovremmo amarlo sopra tutto, sino al dispregio di noi medesimi e di tutte le cose. L’umanità dovrebbe offrire lo stesso spettacolo dell’universo, conformandosi alla ispirazione divina altrettanto perfetta di quella che lega la natura all’azione del suo Autore, il quale non è meno Padrone di noi, che della natura. Dio dovrebbe stare nel centro del mondo morale come il Sole d’un sistema, dove le nostre volontà, ottemperando all’attrazione del suo amore, girerebbero nell’orbita della sua giustizia, siccome gli astri in quella della loro gravitazione; ma con una libertà di allontanarsene, che non hanno gli astri, e che sarebbe una armoniosa fedeltà quando vi soggiacesse. Tale era lo stato dell’uomo primitivo. A fronte di questo ideale, che la ragione concepisce logicamente, che debba essere il vero dell’ordine delle cose, bisogna convenire che il mondo umano presenta un disordine orribile, una assenza di Dio spaventevole, una diminuzione di libertà pericolosa, una impotenza di riabilitazione disperata; e ciò che è più lamentevole, una ignoranza ed una insensibilità, riguardo a questo stato, che ne svela tutta la profondità. – Ciò solo dovrebbe farci supporre una grande deviazione originale, e farci concepire il bisogno d’una grande riparazione; da una parte l’invasione del male, possibile in ragione dell’imperfezione della nostra natura creata, e permessa come conseguenza eventuale della nostra libertà; dall’altra un intervento di Dio interessato dalla sua giustizia alla ripartizione dell’ordine, e disposto per la sua bontà a soccorrere la sua creatura caduta nel disordine. Questa soluzione si presterebbe per liberare l’anima da quel tremendo enimma del male, che Voltaire qualificava come orribile ed assurdo, e del quale si faceva scudo contro il domma della Provvidenza, che lo risolve soltanto in modo imperfetto. Quel gran domma. per sostenersi, chiama a sé  qual corollario un intervento di quella stessa Provvidenza più adattato al nostro stato presente. La Provvidenza infatti ha potuto togliere il disordine, ma non potendo mai agire senza la nostra libertà, non ha impedito, che alla fin fine prevalesse a) punto di indiarsi da sé. – A fronte di tale rovescio, due partiti s’offrono dunque all’anima umana: o quello di accusare la Provvidenza, e per conseguenza Iddio, di cui è dessa l’attributo essenziale; oppure quello di credere al suo intervento sovrannaturale, ad una religione riparatrice del disordine umano. Da una parte si indietreggia nell’assurdo: dall’altra si avanza nella tace. Il primo partito ci piomba ancora nel caos d’impossibilità tenebrose e desolanti; il secondo ci disvela il piano raggiante e consolatore del nostro destino.

VI . E come si fa a non abbracciare questa credenza, allorquando, indipendentemente dalle prove innumerevoli che la giustificano, si regge da sola sulla base universale del genere umano! infatti il genere amano ha sempre portato nel suo sena i peso ereditario d’una caduta primitiva, derivante dall’uso funesto di quella grande libertà di merito e di demerito, che ogni giorno fa ancora cadere ognuno di noi. Ma in pari tempo ne ha sempre trovato il contrappeso nella espettazione d’un Redentore divino, che sarebbe venuto a sollevarlo, e sarebbe disceso nell’arena della nostra libertà per ripararne il disordine, e per dedicarsi alla nostra aalvezza con un amore infinito, al pari della sapienza che si rivela nell’ ordine generale dell’universo. – Siffatta credenza s’incontra dovunque nel mondo, e risale alla culla del genere umano. Noi ne abbiamo prodotto delle imponenti testimonianze nei nostri Studi. Eccone una affatto nuova, né mai stata dianzi enunciata. È la storia, è la profezia della credenza cristiana tracciate non da Mosè, ma da Platone. Raccomando questa pagina all’intera attenzione del lettore.

« Nella prima età tutto nasceva da sé per gli uomini. Dio medesimo posto a capo dell’umanità la guidava. Quando questa prima età ebbe a finire, colui che regge questo universo lo abbandonò alla sua libertà, e si ritrasse come in un luogo d’osservazione. Ma il mondo secondando una inclinazione innata, traviò sempre più, e fino al punto di esporsi al pericolo d’una intera distruzione. Allora colui che lo ha formato vedendolo in quella estremità, e non volendo, che assalito e disciolto dal disordine s’inabissasse nello spazio infinito della dissimiglianza (Espressione ammirabile, dappoiché l’umanità venne creata ad immagine e rassomiglianza di Dio. Dio tornando al timone, ripara ciò che si alterò e si distrusse, imprimendo di bel nuovo quel movimento, che si era dapprima compiuto sotto la sua direzione, ordina il mondo, e lo salva dalla morte. — È questa, soggiunge Platone, una delle antiche tradizioni (La Politica o Regalità,  t. XI. p. 337). » – Certo che questa tradizione è incompleta e logora, anche per causa di quel disordine al quale si riferisce; e lo stesso Platone lo confessa ingenuamente. « Quei prodigi, egli aggiunge, si riferiscono ad uno stato identico di cose, e sono con mille altri ancora più sorprendenti. Ma a cagione del lungo trascorso del tempo gli uni caddero nell’oblio, e gli altri staccati dal nesso che formavano si raccontano separatamente; » come sarebbe il ricordo della caduta originale sotto l’allegoria di Pandora e di Prometeo. Sta sempre in fatto, che noi abbiamo in quel passo di Platone un prezioso testimonio della credenza del genere umano in una prima ed in una seconda rivelazione, in un intervento sovrannaturale di Dio per riformare, ordinare il mondo, ed affrancarlo dalla morte.

VII. Tutto il genere umano visse di questa credenza senza sapere nel suo traviamento dove collocarne l’oggetto, e se ne figurò mille immagini fantastiche sino al giorno, in cui correndo verso la fine il pericolo di una intera distruzione, il mondo vide comparire al tempo prefisso il suo Salvatore. Nella sua corruzione, e nella sua follia lo disconobbe, e si sollevò anzi contro di Lui in ragione della sublimità dei caratteri, che dovevano ben tosto rivelare in Lui il Principio d’una perfezione morale paragonabile a quella che rivela Dio nella natura; perfezione questa tanto prodigiosamente mantenuta, che introdotta nel disordine di questo mondo per restarvi sempre quale fonte inesausta di risorgimenti morali, qual tipo inalterabile del Bene, qual regolatore infallibile di Giustizia, qual centro d’ispirazioni eroiche, qual punto immutabile di verità, e finalmente qual Principio d’ordine, che non solamente vieta al disordine di prevalere, ma non permette mai che si produca senza stimmatizzarlo in fronte. – Il Cristianesimo ha precisamente avverato, nella nostra condizione scaduta, quell’ideale d’ordine che noi tracciammo poc’anzi. Gesù Cristo nel mondo è il Sole di giustizia e di verità, i raggi del quale già sparsi e rotti in mille pezzi e mille riflessi, derivando oramai dal loro unico centro, illuminano e vivificano tutta la natura spirituale. Esiste un centro d’azione rigeneratrice per mezzo d’una forza sovrannaturale, la quale non agisce sulla nostra libertà che per attrattiva: la Grazia. Bilanciando esso colla sua forza centrale le forze centrifughe delle nostre volontà trascinate dalla concupiscenza, ne fa gravitare un gran numero nella sfera della sua santità, con una fedeltà ed un progresso ammirabili; le fa ravvedere dei più lontani traviamenti; ravvicina, o trattiene una moltitudine d’anime sollecitate dalle lusinghe del male; agita con un salutare turbamento quelle medesime che non gli obbediscono; obbliga il disordine a rovinarsi da sé per mezzo d’un odio disastroso del bene, che ne provoca la reazione; finalmente trionfando del male nelle sue più scatenate rivolte, ed esercitando la sua azione sulla massa intera dell’umanità sino alle sue estremità le più remote, non le permette più di ritornare indietro, e la spinge innanzi nelle vie della vera civiltà. Esso giustifica per tal modo quei titoli, pei quali si è Egli stesso posto nel mondo nello entrarvi:

« Io sono il Principio; Io sono la Luce del Mondo; Io sono la Via; Io sono la Verità; Io sono la VITA ».

VII. Ecco il Cristianesimo, effezione sovreminente della relazione dell’uomo con Dio: Religione unica nella sua verità. – Ripigliamo la via ascendente, che là ci conduce. La Natura sensibile non stabilisce tra l’uomo e Dio che una relazione muta, cieca, fatale, indistinta, dove l’uomo è parificato a tutti gli altri esseri, sui quali si stende la Provvidenza universale, la sola che agisce. Se da questa Provvidenza della natura, alla quale si limita il Teista, si ascende a quella Provvidenza morale che regge l’umanità, si entra in una relazione più distinta con Dio, relazione di coscienza e di condotta, dove comparisce un nuovo elemento: la libertà umana, che viene a combinarsi coll’azione divina; relazione che costituisce il Deismo. Ma questa seconda relazione, per quanto superi la prima, è ancora insufficiente. Essa racchiude anzi un vizio di soluzione, dove il Teismo rifiuta di impegnarsi preferendo lo stesso enimma. È questo il gran disordine, dove Dio scompare dietro l’azione umana, e sembra esserne assorbito, nella stessa guisa che nell’ordine immutabile della natura l’uomo sparisce, ed è assorbito dall’azione divina: disordine che non spiega punto la libertà umana da sola; che accusa una grande deviazione in quella libertà; e fa appello ad una Restaurazione. – Il solo Cristianesimo intervenendo con un nuovo elemento, la Grazia, realizza completamente la relazione dell’anima con Dio. Accorda a quella relazione un punto d’appoggio, che senza assorbire l’uomo per mezzo di Dio come nella natura, senza assorbire Dio per mezzo dell’uomo come nell’azione divina e l’azione umana, una giusta proporzione di grazia costituisce la vera Religione nel suo tipo assoluto: l’Uomo-Dio. – In Lui unicamente tutte le verità del Teismo e del Deismo si risolvono, vanno al loro fine, e si giustificano completandosi. Il mistero che le copriva, e che metteva l’anima alle prese coll’inconcepibile, si chiarisce, socchiude i suoi veli, si spoglia di tutte le sue contraddizioni, e non conserva altro che l’incomprensibile. Questa nube medesima dell’incomprensibile dietro la quale Dio si mostra e si nasconde, tenta la ragione senza disanimarla, cede alla fede, rapisce l’anima colle celesti prospettive che essa vi scopre, la illumina coi raggi che ne derivano, e la rigenera coi tratti di grazia e cogli effetti di virtù che ne riceve. – Coroniamo questa rapida esposizione delle armonie razionali della nostra fede con un ultimo pensiero che basterebbe da sé solo ad esimerla da qualsiasi paragone con ogni altra dottrina, e con ogni altro concetto religioso. Mediante quella fede Dio riceve il solo omaggio, che sia a rigore degno di Lui per essere a Lui adeguato; un omaggio che non gli è reso né dai mondi, né dagli stessi Spiriti celesti, e che ogni adorazione umana sarebbe perciò impotente di rendergli, dappoiché tutto ciò è finito, e tale omaggio è infinito al pari di Lui, perché gli è reso da suo Figlio, e suo Eguale, da Gesù Cristo capo di tutto il culto, Pontefice – Dio di tutta la creazione. Il quale concetto è tanto sublime, che porta in sé l’impronta della propria divinità, e realizzato nella Chiesa giustifica questo detto già citato d’ un gran empio: « La Chiesa crede in Dio meglio d’ogni altra setta: essa è la più pura, la più completa, la più splendida manifestazione dell’Essenza divina; ed è la sola che la sappia adorare. »

Per colui che non è ateo, né panteista, per colui che crede in Dio non havvi dunque altro partito da prendere, come diceva ancora Proudhon, tranne quello d’essere Cristiano, e Cristiano Cattolico.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (60)

LA GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (58)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (58)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V.

Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo. (2)

§2

Ho detto in secondo luogo, che l’argomento, di cui la ragione s’accontenta per credere al Teismo ed al Deismo s’applica con egual forza al Cristianesimo, senza accennare ad altri argomenti che ne sono propri.

I. Conviene rendere giustizia a Voltaire; esiste una verità, sulla quale non ha mai piatito, ed è quella dell’ esistenza di Dio. Egli la stabilisce e la difende in molti passi dei suoi scritti con quel suo buon senso quanto raro, altrettanto ristretto e superficiale. Il suo argomento, se non è profondo, è per altro sufficiente:

L’Univers m’embarrasse, et je ne puis songer

Que cette horloge existe, et n’ait point d’horloger

(L’idea dell’universo m’impaccia, al pensier solo

Che senza oriolajo sussista l’oriolo).

È l’argomento delle cause finali che determinava Socrate, ed al quale non si saprebbe rispondere. Voltaire lo fa spiccare sovente con un grande sfoggio di stile, e con una specie d’entusiasmo di ragione, Egli va fino al punto di prendersela colla parola natura, e fa osservare, che invece di questa parola bisognerebbe adoprare quella di arte; dappoiché tutto, assolutamente tutto è arte in ciò che si chiama natura « l’arte di non saprei quale grand’Essere ben polente, e ben industrioso, che si nasconde, e la fa comparire. – Bisogna dunque, egli conclude, che vi sia un Artefice infinitamente abile, e che sia appunto quello, che i savi chiamano Dio (Dict. philosophique, t. XXXI. p. 166, édit. Benchot — Dialogues d’Evhémère t. L, p. 156).

II. Non è già questa verità che gli sembri scevra di difficoltà. Senza esaminarla a fondo, sente tutto ciò che racchiude d’incomprensibile. Tuttavia non si ritrae dallo acconciarvisi, e la difende anzi sovra quel terreno dell’incomprensibile contro un Ateo, che vi attinge le sue obiezioni. Brevi sono le risposte di lui, quasi che temesse di compromettersi oltre misura, e di offerire delle armi contro la sua incredulità per gli altri misteri. Però si possono proporre come un manuale dell’arte di’ credere. Il seguente dialogo è fittizio. É Voltaire, che risponde al barone d’Holbach.

L’Ateo. « Conviene avere qualche concetto della natura divina ».

Voltaire. » E della nostra? »

L’ateo. « La nozione di Dio non entrerà mai nello spirito umano ».

Voltaire. « Interamente ».

L’Ateo. « Come mai si giunse a persuadere, che la cosa più impossibile a comprendersi fosse la più essenziale? »

Voltaire. « Una cosa si può dimostrare, ed essere ad un tempo incomprensibile: 1’eternità, gli incommensurabili, le assintoti, lo spazio …»

L’Ateo. « Come è possibile la sincera convinzione d’un ente, di cui si ignora la natura? »

Voltaire. « Eppure è così. Se qualche cosa esiste, dunque qualche cosa esiste da tutta 1’eternità. Questo mondo è fatto con intelligenza, dunque per mezzo d’una intelligenza. E quindi  rigorosamente provato, che esiste un Ente necessario da tutta 1’eternità. È parimente stabilito, esservi nel mondo una intelligenza. Mi attengo a questo (Rémarques sur le bon sens, t. L , p. 568). »

D’ Holbach muoveva a Voltaire delle obiezioni di altra natura, che non trovano scioglimento salvo nel Cristianesimo. Esse erano tolte non più dall’incomprensibile, ma dall’inconcepibile e dall’assurdo. Egli gli diceva: « Vedete il male fisico, vedete il male morale, che affliggono il mondo, e dopo ciò credete ancora in Dio »! Voltaire non si disanima per quella obiezione: fa sua fede resiste ad ogni prova, ed è rimarchevole la ragione, che ne adduce: « L’idea d’un Dio carnefice, che forma delle creature per tormentarle è orribile ed assurda… Ma se viene a darsi la prova a una verità, forse che questa verità tralascia di esistere, perché trae con sé delle consequenze inquietanti? Esiste un Ente necessario, eterno, fonte di tutti gli altri. Esisterà forse meno, perché noi soffriamo? Esisterà meno, perché io sono incapace di spiegare la ragione, per cui noi soffriamo (Dialogues d’Euhemère, p. 1S9.)? »

Una simile fede è più che sufficiente pel Cristianesimo: io la chiamerei anzi scandalosa per la sua rassegnazione a difficoltà, che farebbero ribrezzo ad un umile fedele, e che lo stesso Voltaire qualifica, come orribili e scandalose, mentre le divora. A parte questo eccesso, il suo ragionare è eccellente. Per completare questo manuale ad uso dei credenti, aggiungiamo una professione di fede di Gian Giacomo Rousseau, la quale non è meno esemplare:

« . . . Ho un bel dirmi: Dio è così; io lo sento, e me lo provo. Non giungo meglio a concepire,  come Dio possa essere così. Insomma più mi sforzo a contemplare la sua essenza infinita, meno la concepisco: ma desta è, E ciò mi basta; memo la concepisco, e più l’adoro. Mi umilio, e gli dico: Ente degli enti, io sono perché tu sei, ed è un sollevarmi alla tua sorgente questo meditarti senza posa. L’uso più degno della mia ragione è quello d’annientarsi dinanzi a te; è quello che rapisce il mio spirito, ed inebria la mia debolezza; è quello di sentirmi vinto dalla tua grandezza (Emilio)…. » – Anche questa è una fede eccessiva, che noi altri Cristiani, cui si dà la colpa di far troppo buon mercato della ragione, potremmo anche giudicare riprensibile. Di fatti noi non diremo mai d’alcun nostro mistero, meno lo concepisco, più lo adoro; ma meno lo comprendo. Noi adoriamo l’incomprensibile, ma non l’inintelligibile. Tutti i dommi della nostra fede sono al contrario ciò che v’ha di più intelligibile, e di più definito. Così noi non croderemmo al mistero della Trinità, se 1’unità e la trinità si riferissero allo stesso soggetto; se Dio fosse in pari tempo uno e tre in essenza, ovvero uno e tre in persona. Noi non comprendiamo sicuramente in qual modo uno in essenza sia in tre persone, ma in grazia dell’addotta distinzione noi lo concepiamo nella stessa guisa che concepiamo un’anima sola in parecchie facoltà ed in parecchie potenze.

III. Comunque sia, e salva quella riserva in favore della ragione, l’argomentare di Rousseau e di Voltaire non è dissimile da quello della fede cristiana, e però possiamo rivolgerlo contro gli increduli. Che cosa si oppone infatti alla fede, se non è quella triviale pretesa, che si debba soltanto ammettere ciò che si comprende; e che nulla siavi di vero, tranne ciò che è evidente, ecc. ecc.? — Lo stesso Rousseau non viene forse a dirci, quando si tratta dei misteri del Cristianesimo:

« Il Dio. che io adoro, non è già un Dio di tenebre, né mi dotò d’un intelletto per interdirmene l’uso: se dicessi a me stesso di sottomettere la mia ragione (si noti che aveva detto poc’anzi che il miglior modo di usarne era quello di annientarsi), crederei di oltraggiarne l’autore, Egli non tiranneggia la mia ragione, ma la illumina, ecc. (Emilio). » Rispondiamo a tutte quelle declamazioni con queste sentenze del buon senso rivolte contro l’Incredulo: Noi non sapremmo comprendere la natura divina, noi che non comprendiamo punto la nostra — la nozione di Dio non può entrare nello spirito umano completamente, ma proporzionamente, e ciò basta per la credenza —• una cosa può dimostrarsi, ed essere ad un tempo incomprensibile: l’eternità, gli incommensurabili, le assintoti, lo spazio, ecc. — se si fornisce la prova d’una verità, come sarebbe quella dei nostri misteri per mezzo della parola rivelatrice di Gesù Cristo provata a sua volta dai suoi miracoli, ecc. questa verità esiste forse meno perché trae con sé delle conseguenze inquietanti? massima questa che noi non spingiamo tant’oltre come voi. — Finalmente lungi che l’incomprensibile debba arrestarci, ne deve determinare: perché il più degno uso della mia ragione è quello di annientarsi dinanzi a Dio; è quello che rapisce il mio spirito ed inebria la mia debolezza, per cui mi sento oppresso dalla grandezza di lui, e soprattutto dal suo amore e dalla sua misericordia. – In una parola, qualunque sia la credenza, il mistero non deve mai fermare; deve in un certo senso determinare. – Dico in un certo senso, perché lo spirito umano non può e non deve mai determinarsi, tranne per mezzo della ragione. Bisogna dunque che vi sia ragione di credere, e che la verità, oggetto della credenza, sia provata non dalla sua evidenza intrinseca, cosa che non potrebbe darsi, ma dalla forza dell’autorità, e dallo splendore del testimonio. Se non che, dove trovare maggiori prove, e ragioni di tal genere se non nel Cristianesimo? ragioni e prove che diciotto secoli di critica e di discussione non riuscirono ad iniziare, e che l’Incredulità oggi ci abbandona per ritrarsi nella negazione non solamente di Gesù Cristo, ma di Dio medesimo; in tal modo essa proclama, e professa anzi apertamente, come già l’abbiamo veduto, che si può essere teista senza essere cattolico.

IV. Facendo astrazione da tutte quelle ragioni e da tutte quelle prove cento volte potrei stabilire la divinità di Gesù Cristo sovra il solo argomento, di cui si serve Voltaire per dimostrare l’esistenza di Dio: quello delle cause finali. Nello stesse modo, che questo argomento prova Dio nell’ordine fisico, così prova Gesù Cristo nell’ordine morale e storico. « Dio – dice Bossuet – ha fatto un’opera in mezzo a noi, che, indipendente da ogni altra causa, e venuta solo da lui, riempie tutti i tempi e tutti i luoghi, e spande su tutta la terra colla impressione della sua mano il carattere della sua autorità; e sono Gesù Cristo, e la sua Chiesa (Orazione funebre à Anna di Gonzaga). » – Ora non possiamo noi dire di quell’opera ciò che Voltaire ha detto della natura?

Celle oeuvre m’embarasse, et je ne puis songer que celle horloge existe, et n’ait point d’horloger (L’idea dell’universo m’impaccia, al pensier solo Clic senza oriolajo sussìsta l’oriolo). Ed invero per chi l’osserva profondamente, la cosa non può essere diversa, in quanto che la natura non è altro che arte, e per la stessa cagione l’opera di cui parlo non è che grazia, virtù divina, azione sovranaturale « di qualche grande Artefice, che si nasconde, e la fa comparire. — Questo mondo è fatto con intelligenza, dice Voltaire, a dunque per mezzo d’ una Intelligenza. »

— L’ Opera di Gesù Cristo è fatta da mano divina, dirò io a mia posta, e spande sovra tutta la terra colla impressione di quella mano il carattere della sua autorità, come si esprime Bossuet: « Gli è, afferma l’empietà medesima, il più bel codice della vita perfetta, la Religione assoluta, non solamente per questa terra, ma per gli altri pianeti, se hanno degli abitanti dotati di ragione e di moralità (Renan precitato);» — « la più pura, la più completa, la più splendida manifestazione dell’Essenza divina (Proudhon precitato). » Dunque essa emana da Dio al pari della natura, però con questa superiorità, che i suoi elementi, cioè le nostre volontà e le nostre passioni, essendo libere e refrattarie, anzi scatenate e ribelli, quando Gesù Cristo vi mette la mano, attestano nell’azione che esercitano, maggior potere degli elementi inerti e servili nell’ordine fisico della creazione. È quindi rigorosamente dimostrato, per parlare ancora con Voltaire, esservi un’azione divina nel Cristianesimo e nella Chiesa, come è dimostrato esservi una intelligenza nel mondo. Mi attengo a questo (La presenza invisibile, e l’azione divina di Gesù Cristo nella Chiesa, in conformità della sua parola, cominciarono a svelarsi quando Egli disparve. Solo dopo la sua morte il Cristianesimo si manifestò; il perché non è più Gesù Cristo vivente, ma Gesù Cristo morto che cambiò il mondo. È questa una prova della sua divinità. Ciò che la fa risaltare, ed obbliga a credere nella Resurrezione del Crocifisso, e nella sua azione sovranaturale nella Chiesa si è, che dopo la sua morte niuno gli succede umanamente nella sua Autorità, ed influenza personale, per continuarne ostensibilmente l’impresa. Noi non veggiamo un capo, e direttore degli Apostoli, giacché Pietro non lo era che spiritualmente, e la sua inferiorità umana, considerando sempre le cose naturalmente, gli toglie ogni iniziativa atta a spiegare l’unità. Era un esercito senza generale, e quale impresa! Era, rimarcatelo bene, un esercito che non aveva obbedito al suo generale, quand’era vivo. Come si spiegherà questo, se non coll’assistenza soprannaturale di Gesù Cristo, generale invisibile dell’esercito apostolico, secondo quel detto: quando sarò sollevato dalla terra trarrò tutto a me! e secondo quest’ altro: Sarò con voi sino alla fine dei tempi. Questa meraviglia si sparsa in tutto l’universo, sussiste da diciotto scoli. Ne deriva per noi una prova forse maggiore di quella che fu per gli Apostoli la vista stessa di Gesù Cristo, perché di tutti i miracoli quello è il più grande. Essi videro l’Artefice, o credettero all’opera. Noi vediamo l’opera, e non crediamo all’Artefice) dopo la morte di Gesù Cristo, il progredire della Religione dall’origine del mondo fino a quella data; il popolo ebreo, le profezie, le rivoluzioni degli imperi tendenti all’unità dell’impero romano, che si sfascia; l’espettazione universale d’un Riparatore divino in quell’epoca; l’apparizione di Gesù Cristo in un tempo ed in un luogo determinati; la sua persona, la sua dottrina, i suoi miracoli; il trionfo della sua croce; la rapida conversione dell’universo alla voce di dodici navicellai; lo stabilimento del Cristianesimo sulle rovine del paganesimo per mezzo del sangue dei martiri; la Chiesa che mantiene e spiega l’unità della sua dottrina in mezzo a tutte le sottigliezze e le violenze delle eresie: i Santi di tutti gli ordini adattati ai bisogni dei tempi: il Papato sempre osteggiate e sempre stabile sovra le rovine di tutte le altre istituzioni; la civiltà moderna, i costumi, le leggi, le lettere, le arti spiccanti dal Cristianesimo, come i frutti dall’albero; questi frutti, che vivificano tutte le generazioni che se ne nutriscono, e la morte che diviene la sorte di quelle che li ripudiano; tutto ciò in esecuzione letterale di quanto fu predetto nel Vangelo da quella Parola, che risale al primo giorno del mondo per mezzo della promessa, e procede fino all’ultimo per mezzo del suo complemento; e per dirla in una sola frase, il mondo cristiano; ecco ciò che Gesù Cristo soltanto ci spiega; ecco quindi ciò che Gesù Cristo ci prova. – I Deisti, che non si piegano a sì fatta conclusione, sono, rispetto ai Cristiani, ciò che sono gli Atei rispetto ai Deisti. Spiegateci il mondo fisico senza Dio, dicono costoro ai primi: spiegateci, diciamo noi ai richiedenti, il mondo morale senza Gesù Cristo Dio; spiegateci ciascuna di quelle meraviglie, che vi ho testé indicato, e l’accordo di esse senza un intervento sovrannaturale di Dio. Voi vi provaste, e soccombeste all’impresa; e l’ultimo tentativo provocò sovra di voi l’universale riprovazione. Per confutarvi e confondervi, non abbiamo bisogno che di voi medesimi. Voi non fate che urtarvi contro gli altri, come gli uomini usciti dai denti del dragone di Cadmo: Paulus è confutato da Strauss, Strauss da Salvador, Salvador da Cohen, Cohen da Renan, e Renan da sé medesimo.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (57)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (57)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V.

Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo. (1)

I. L’uomo è un ente pensante; senza spogliarsi della sua qualità d’uomo egli non può non rendersi conto delle cose per mezzo del pensiero e della riflessione: e noi misureremo più tardi tutto ciò che questa noncuranza animale avrebbe d’inutile e di pericoloso. – Ora, dal punto che l’uomo pensa, si trova alle prese col mistero. La sua propria essenza, ed il mondo, in mezzo al quale è affondato, sollecitano e sconcertano ad un tempo il suo pensiero. Egli è obbligato, anche suo malgrado, dalla forza e dalla debolezza della sua ragione, di avere delle credenze, di ammettere delle cose che punto non comprende. I1 mistero è come un oceano, nel quale egli naufragò, e donde bisogna che si tolga cogli avanzi e coi soccorsi che qualunque siano non esimono mai da quell’abisso, sul quale conviene necessariamente navigare colla credenza; credenza naturale che si forma, o credenza sovrannaturale che si riceve; ma credenza inevitabile e soccorribile, la quale figura come un apparecchio di salvamento che ci è necessario come sostegno, e dobbiamo quindi abbracciare. – Laonde, se per scegliere fra tutte quelle credenze che non si oppongono alla nostra scelta, ci lasciamo guidare dal desiderio naturale di sottrarci il più possibilmente al mistero, non v’ha luogo ad esitare; gli è al Cristianesimo che bisogna affidarsi. Ciò essendo, si deve ammettere, che l’obiezione che si fa alla religione, in opposto alle dottrine umane, di obbligarci al mistero, è molto infelice. Ora non è cosa da rivocarsi in dubbio. I sistemi umani espongono ad un maggior mistero, obbligano a maggiori credenze della religione, anzi, a misteri più gravosi ed a credenze più occulte. – Più ci allontaniamo dalla religione, più ci affondiamo nel mistero della natura, e più ci anneghiamo dentro e vi ci perdiamo. Né havvi un solo degli argomenti, che si fanno valere a fine di rassegnazione, che non sia della stessa natura di quelli che si respingono, quando si tratta di religione; con questo divario, che i primi sono assai meno giustificati, e ben più gratuitamente la ragione li accetta. – Quindi è che la rivendicazione della ragione, la quale ci fa respingere la religione, è precisamente quella che dovrebbe ad essa guidarci; che è perciò più difficile di non credere che di credere, e che con molto senso un gran spirito, Antonio di Fussal, dopo aver bene esaminato tutte le sette filosofiche, diceva: « Nulla trovai di meglio, che credere « in Gesù Cristo: » e finalmente che la rivendicazione piuttosto della nostra debolezza, anzi che della nostra ragione, è quella che ci tiene lontani dalla fede rivelata. Riconosciamo almeno la verità del nostro affanno; e confessiamo, che la nostra posizione non ci permette d’essere superbi, e che ogni partito sul quale ci arrestiamo sarà sempre, e cento volte più pericoloso per la ragione e pel nostro destino di quel gran partito della fede cristiana, cui opponiamo tante difficoltà. – Ecco ciò che mi propongo di dimostrare in questa conferenza.

II. Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo, tali sono i quattro grandi partiti di dottrina, che si offrono allo spirito umano. Ed ecco il significato, che intendo di dare a siffatte designazioni.

Ateo è colui che non ammette Dio, e crede in un mondo senza autore, in un capo d’arte meraviglioso senza l’artefice, in un effetto immenso e continuato senza causa.

Teista è colui che ammette un Dio ordinatore della natura, macchinista dell’universo: ma che crede lo stesso Dio senza provvidenza per l’umanità da lui abbandonata a tutti i mali, a tutti i delitti, a tutti i disordini, a tutte le aspirazioni confuse, a tutti gli istinti buoni o malvagi a cui è esposta; e nulla curantesi di questo caos morale, mentre fa brillare la più alta sapienza e la più divina morale nell’ordine fisico.

Deista è colui che riconosce un Dio ordinatore della natura, provvidenza dell’umanità; ma crede che questa provvidenza si limiti alle manifestazioni della coscienza, ed alle ricompense della virtù senza castigo pel delitto, in un ordine ulteriore; che il disordine umano sia naturale senza che provochi perciò l’intervento di Dio, al quale risalirebbe per la sua origine; che Dio violerebbe anzi le proprie leggi se ne facesse cessare la violazione; che noi abbiamo maggior libertà di rovesciarle che Egli di ristabilirle; che noi possiamo perderei senza che Egli possa salvarci; che del resto Egli è troppo grande per commuoversi delle nostre miserie, e noi siamo troppo piccoli per interessarlo alle nostre religioni; che è meno sollecito di ricevere i nostri omaggi, che noi di fargliene l’offerta; insomma che è meno religioso di noi.

(Le definizioni del Deismo e del Teismo, in ciò che hanno di distinto, sono ben difficili a precisare. Però il Teismo è generalmente inteso come una semplice affermazione di Dio contro l’Ateismo, mentre il Deismo involve ama professione più ricca di Dio in apparenza, ma più direttamente negativa del Cristianesimo). –

Il Cristianesimo è la dottrina di Dio Creatore dell’universo, Provvidenza dell’umanità, e Grazia di questa medesima umanità colpevole — il quale, Onnipotente, ha tratto tutte le cose dal nulla; Giustissimo, ha creato l’uomo nella probità; Sapientissimo, lo abbandonò al proprio consiglio; Buono per eccellenza, non lo dimenticò, né lo abbandonò nei suoi traviamenti; Misericordiosissimo, ebbe pietà della sua degradazione e della sua caduta; Santissimo, ha posto il nostro riscatto al prezzo d’una grande espiazione; Amorosissimo, ebbe ad amare a tal segno il mondo da dargli l’unico suo Figlio: non disdegnò di salvare ciò che erasi degnato di creare; per rispetto ed amore verso la dignità di un’anima fatta a sua immagine e rassomiglianza, non volle forzarla col terrore, ma guadagnarla colla persuasione: ne sopportò tutti i rifiuti e tutti gli oltraggi; in questa lotta tra la sua luce e le nostre tenebre, tra il suo amore e le nostre ribellioni ci donò il più grande di tutti i testimoni, la più grande di tutte le lezioni, il suo Sacrificio nella nostra umana natura, che Egli aveva rivestito per immolarla, e per far brillare in questa immolazione tutti i caratteri della sua natura divina: e vincitore finalmente in quel gran combattimento ci riapri le porte del cielo, dove riascese per prepararci dei troni, non senza lasciare sulla terra una Chiesa depositaria della sua dottrina, dispensatrice delle sue grazie, e madre feconda delle anime generose che si sdegnano del male, ed aspirano al bene. – Ecco ciò che si dispregia e non si vuol credere, per abbracciare il Deismo, il Teismo o l’Ateismo. Poniamo in evidenza tutta la sragionevolezza di tale condotta.

III. Valendomi delle distinzioni già stabilite nel capo precedente, non considerando quelle dottrine che in sé medesime, e facendo astrazione dalle prove estrinseche che imprimono sul solo Cristianesimo un sigillo divino, dirò essere tutte incomprensibili, né esservene alcuna fra quelle, e fra quante immaginare si possano, che non porti confusione nella ragione. Mi propongo di assegnare subito a ciascuna la parte sua.

Nulla dirò dell’Ateismo, salvo che gli ritolgo interamente il carattere d’incomprensibile per sostituirvi il solo, che realmente gli spetti, d”inconcepibile. L’Ateismo è puramente inconcepibile. Non sorpassa la ragione, ma la urta. Sarebbe rendergli un onore, a cui non ha diritto, se si dicesse che è misterioso: è evidentemente falso. E nell’Ateismo mi permetto di comprendere ogni diversa specie di Panteismo, che tenta prodursi ai dì nostri, e vorrebbe, se fosse possibile, predominare sulla semplice falsità dell’Ateismo con una falsità maggiore, quella cioè che il mondo sia senza una causa intelligente, senza Dio, e sia esso stesso la causa d’un effetto, che sarebbe… Dio, il quale sarebbe a sua volta… l’uomo, l’umanità. Lo si vede chiaramente. L’Ateismo, per quanto sia falso, non è tale che per metà: è il falso negativo, il Panteismo compisce il circolo, e ci rappresenta il falso, se così mi posso esprimere, in tutta la sua rotondità, il falso positivo. E dire, che vi sono degli spiriti, che superbi anzi tutto di trovarsi Dio, non sanno guari cosa pensarne, e stanno sul punto di lasciarsi accalappiare! Spiriti di tal fatta devono respingere i misteri del Cristianesimo, perfetto contrapposto dell’Ateismo e del Panteismo.

Quanto al Teismo ed al Deismo hanno alcun che di più serio, ed hanno dritto alla discussione. Questa discussione la divido in quattro parti.

1. ° Sì fatte dottrine confondono la ragione con sì opprimente mistero, che quelli del Cristianesimo diventano un conforto ed una liberazione.

2. ° L’argomento di cui si mostra paga la ragione per credere a quelle dottrine, si applica con eguale valore al Cristianesimo, e non giova alla ragione, se non giova pure alla fede.

3. ° All’incomprensibile il Teismo ed il Deismo aggiungono l’inconcepibile, al vero il falso; e la lotta che vi si combatte tra il vero ed il falso, tra l’incomprensibile e l’inconcepibile, non permette di fcrmarvisi e di riposarvisi: conviene retrogradare all’Ateismo, od avanzare fino al Cristianesimo.

4.° Finalmente quelle dottrine non possono essere che opinioni, in quanto che non hanno altra base  che i dati della ragione umana, e mancano di conoscenza e di certezza, privilegi esclusivi e decisivi del Cristianesimo. – Nel tenore di queste proposizioni comprendo pure il Teismo ed i1 Deismo, ma avrò l’occasione di assegnar loro un posto distinto in alcune parti della discussione.

§I .

Anzitutto il Teismo ed il Deismo impongono alla ragione un mistero che la opprime: il mistero dei misteri, il mistero che in certo modo è unico: Dio. Lo spirito che tanto s’adopra per credergli (e vi è costretto dalle proprie leggi sotto pena di cader nell’assurdo) divora maggiori difficoltà di quanto ne offrano dappoi tutti i misteri della Rivelazione, rigettando i quali altro anzi non fa che accrescere il mistero di Dio, ed annientarvi sempre più la propria ragione.

Ed invero:

I. Dire che un Ente esiste per sé stesso, e che non ebbe mai un principio! … gli è avanzare una proposizione vuota di senso ed assurda. Lo spirito s’impenna, l’immaginazione divaga, la ragione s’arretra dinanzi a questo abisso . . . E ciò nulla ostante vi è ricondotta dalla forza delle cose, dal peso, per così dire, dell’Universo, che reclama e proclama un Autore, il quale non saprebbe averne un altro, oppure avendolo (cosa che si potrebbe indarno immaginare) non avrebbe che sé medesimo per averne ancora un altro, e così di seguito sino all’infinito, ciò che stordisce assai più dello arrestarsi ad un primo Ente senza autore, senza principio, senza età … Che se per evitare tale vertigine si sopprime Dio, il mistero non cessa per ciò di esistere; perocché se esiste qualche cosa, ne consegue che qualche cosa ha sempre esistito; ed allora se non si vuole che Dio, è dunque la materia che è eterna; e si cade dall’abisso dell’incomprensibile in quello dell’inconcepibile. Di fatto, non solamente abbiamo allora dinanzi a noi l’arte infinita dell’universo senza un artefice; ma attribuiamo alla materia, inferiore a quella intelligenza, che noi concepiamo come causa operatrice dell’universo, anzi inferiore alla nostra propria intelligenza; noi attribuiamo alla materia perpetuamente mutabile, la quale si direbbe che non è quella spaventevole prerogativa (che non abbiamo noi medesimi, e che torremmo ad una Suprema Intelligenza) d’essere sempre stata… — Il mistero del senza principio, dell’Infinito è dunque inevitabile, e non ci resta che a scegliere tra l’inconcepibile, se ne dotiamo la materia, e l’incomprensibile, se lo riferiamo a Dio.

II. Nè qui sta il tutto. Quell’Ente che noi imprigioniamo in quella parola: Dio, ma che è indefinibile salvo mercè la designazione, che la fede rivelata gli attribuisce, e che è degna di lui: Sum qui sum: « Colui che è », per qual motivo egli è? … Ecco la terribile questione, che altre parecchie ne contiene della stessa tempra; cioè come disponeva Egli del proprio ente nella sua eternità, prima che gli piacesse di creare 1’universo, in quella solitudine infinita, ed in quell’eterno silenzio dello spazio vuoto d’ogni altra esistenza che non era la sua? A che attendeva egli mai? Come poteva bastare a sé medesimo?… Misteri, ed abissi sempre. L’anima resta soffocata, per cosi dire, da questa idea, senza fondo, della Vita di Dio, durante quella eternità d’esistenza, priva di fondo essa pure.

III. Poscia, e per qual cagione è Egli uscito da quel riposo, ossia da quella vita sua propria? Chi lo lodasse a creare l’universo, e questo universo a preferenza d’un altro, e nel tempo in cui lo ha creato, piuttosto che in un altro? Il suo Ente solitario, l’idea del quale è così gravosa relativamente a questo universo prima che fosse creato, rende a sua volta gravosa sì fatta creazione rispetto a quella esistenza solitaria, che se ne era dispensata da tutta 1’eternità. Perocché io non concepisco alcun cambiamento, né successione in un Ente di tal fatta, né so come riferire 1’idea del tempo a quella dell’eternità; non so, né dove né come fissare la creazione nel suo atto, o nel suo decreto rispetto a lui. Che cosa ne avviene dunque, se considero quella creazione in se stessa? Tutto ciò che esiste tratto dal nulla! … Ecco un altro mistero, che non posso evitare senza cadere nella inconcepibile idea di qualche materia prima, eterna e fin d’allora indipendente, della quale Dio avrebbe disposto a suo grado.

IV. Finalmente perché Egli mi ha creato con questa mente così audace per fare tali questioni, e così miseramente impotente a risolverle; con questa curiosità tanto invincibile, che mi pare d’avere un dritto ai suoi segreti, ed una voce nei suoi consigli; con questa fiera pretesa d’interrogarlo, e chiedergli conto del suo Ente, e tutto ciò senza ottenere altra risposta che il terribile silenzio, nel quale si compiace di rimanere?  Se fossi almeno felice, mi consolerei forse d’ignorare il segreto del suo Ente, e gli perdonerei quella sua indipendenza ed onnipotenza in ragione della felicità di cui gli sarei debitore, e che reputerei ampiamente compensata dalla mia sommessione; tanto è vivo in me quel sentimento della proprietà del mio ente, per misero che sia ! tanto è potente quell’orrore dell’arbitrario, anche nel benefizio d’una esistenza che non ho invocato, e che non mi fu possibile di rifiutare! Ma come! l’umanità cui appartengo, è la preda di mille mali e di mille disordini; da ogni parte il dolore, da ogni parte il delitto concorrono ad accoppiare al mistero dell’esistenza il mistero del destino; non so donde vengo, dove sono, dove vado; si dispone di me senza di me: tutto ciò che so si è di nulla sapere, di soffrire e d’inclinare al male: e so infine, che una mano misteriosa ed inesorabile mi spinge dal nulla alla morte, nel tragitto d’una vita miserabile: e con questa strana complicazione d’un invincibile istinto di felicità, d’un indistruttibile ideale di giustizia, d’ ordine, di grandezza, di bellezza, di perfezione e di durata, che mi rendono superiore a ciò che sono, e migliore, parmi, del disegno di cui sono pure fattura. Tali sono in parte le difficoltà del Teismo. Esse sono formidabili, a tal che per accettarle si richiede una fede robusta. Chi le divorasse si troverebbe in mal punto per addentrarsi nei misteri del Cristianesimo. – Si risolvono questi ultimi in un mistero solo: Dio; di modo che si potrebbe dire che sono fatti da Lui. Tutto si può credere, quando si giunge al punto di credere a quello.

V. Se non che i misteri cristiani sono ben più credibili, e più facili a comportare per molte ragioni, fra le quali primeggia quella, che ci scaricano e ci liberano da quell’orribile incubo del mistero di Dio nella natura e nella umanità, sciogliendolo dalle sue oscurità le più affliggenti, soddisfacendo alle nostre più legittime curiosità ed ai nostri più imperiosi bisogni, e rispondendo alle nostre grida di abbandono. Che cosa si prova infatti sotto il peso di quel mistero? Che cosa si chiede? Che cosa si invoca? — Una spiegazione! uno schiarimento! Una Rivelazione! … O Dio, fatevi conoscere! O Essere incomprensibile, eppur necessario, uscite dalla vostra eternità, dalla vostra notte, e dal vostro silenzio! O Voi, che siete il mio supplizio, per questa sete di curiosità e di aspirazione che avete posto in me per trarmi a Voi, e pel fatale ostacolo d’ignoranza, e d’ impotenza, che mi respinge e mi fa ricadere in me medesimo, spiegate Voi a me! spiegate me stesso a me! Ah! se i Cieli potessero aprirsi! Se voi degnaste di discenderne!

(Utinam dirumperes cælos, et descenderes! Esclamava tutta l’antichità consecrata dalla voce d’Isaia, « Ch’ei si venga » gridava l’antichità profana per bocca di Platone.

« Spezza la vòlta, o Dio, che tue grand’opre

Arcanamente copre;

Squarcia del mondo i veli;

Mostrati, o buono, o giusto autor de’ cieli!

E questo il grido universale della natura umana. – Alfred de Musset Espoir en Dieu.).

Se fosse in voi di non schiacciarmi con quella comunicazione, che imploro e pavènto, piegandovi alla mia debolezza sotto tale aspetto, che non l’annientasse! O sogno d’un desiderio, che non ardisco d’esprimere: se voi veniste a me sotto una forma umana, semplice, adatta a me, dolce, pacifica, ma pure improntata da una divinità, che non potessi disconoscere ai segni ed alle opere, che nessun uomo saprebbe eguagliare! Se voi veniste a trattare per tal modo con me intorno al mistero del vostro Ente, della vostra eternità, della vostra vita divina, dei vostri disegni a mio riguardo, dell’enimma di miseria e di grandezza di cui sono l’abisso, del mio futuro destino, e della vita che devo seguire per raggiungerlo, e avverare tutti i bisogni della mia natura, e tutte le celesti tendenze, che sento dentro di me! Se voi mi precedeste in questa via, come mio modello e mio capo, come mia luce e mia forza! Avrò alfine il coraggio di dirlo? Se voi mi donaste tale un pegno del vostro amore, che non potessi mai più dubitarne, e che mi giovasse in qualche modo come un’arme contro di Voi, che eccitando la mia confidenza non esaltasse la mia presunzione; e dove mi si affacciassero come riassunti, conciliati in una meravigliosa economia, tutti gli attributi della vostra natura nelle loro attinenze colla mia, la vostra Giustizia, la vostra Santità, la vostra Potenza, la vostra Sapienza, la vostra Maestà, e soprattutto la vostra Misericordia ed il vostro Amore; o Dio! o Ente infinito! Se mai cosi operaste! Se vi faceste mio Liberatore, mio Salvatore, mio Redentore; come vi benedirei, come vi riconoscerei, come vi crederei sotto i veli così chiariti del vostro mistero impenetrabile, veli luminosi, misteri trasparenti, che ecciterebbero la mia fede per ciò appunto che confonderebbero la mia ragione, poscia che non la confonderebbero mai nelle tenebre, nel terrore, negli enimmi, nella fatalità muta e disperante come il Dio del Teista; ma nella luce, nella dolcezza, nella sapienza, nella grazia, nella ricchezza di condiscendenza e d’amore; né la sorpasserebbero che entusiasmandola!

VI. Ecco i misteri cristiani. Misteri che non possono non essere misteri, per ciò solo che hanno per oggetto l’Ente infinito; misteri che sono più numerosi, perché più numerose e più alte sono le verità che rivelano; misteri perciò, che acquistano la loro profondità dall’intera luce che mandano, mentre sono a loro volta rischiarati dal riflesso di quella luce che li circonda. –

« Una ignoranza assoluta vi avrebbe liberato da ogni mistero — dice un Magistrato filosofo —ma l’ignoranza assoluta, in ciò che si riferisce a Dio, non è propria dell’uomo, ma del bruto. L’uomo è una creatura ragionevole chiamata a mettersi in relazione col suo Creatore; è un essere intelligente capace di elevarsi fino alla contemplazione dell’Infinito: solo questa capacità risiedendo in un soggetto limitato non ha mai potuto diventare lei medesima infinita; ond’è che nel contemplare la Maestà divina, e nello studiarne la natura e le perfezioni, l’uomo non ha potuto elevarsi fino all’altezza del suo oggetto. Oltracciò l’uomo avendo avuto la disgrazia di decadere, la luce lo abbandonò, e sarebbe rimasto nella ignoranza e nell’errore, se Dio pure lo avesse abbandonato. Ma Dio non perdette interamente di vista la sua creatura; la seguitò di lontano in mezzo ai suoi falli, e quando venne il tempo fissato scese a trarla dall’abisso in cui era caduta. Per tal modo Dio, che era il Creatore dell’uomo, ne divenne anche il Redentore. Allora le oscurità, che nascondevano l’uomo a sé medesimo, si dissiparono; allora le grandi verità che formano il merito della Religione si disvelarono. L’uomo conobbe la sua natura, i suoi doveri, la sua fine: conobbe l’origine delle sue miserie, e la causa delle sue contrarietà; conobbe il bisogno che aveva d’ un Mediatore; la nascita, i patimenti, la morte, la risurrezione e l’ascensione del Verbo incarnato; il dono dello Spirito Santo; la Trinità delle persone in Dio; in una parola tutto quel corpo ammirabile delle verità, che costituiscono, i grandi misteri della Religione. Gli è perché vede più da vicino la verità, e perché è ammesso ad una conoscenza più intima della propria natura e di quella di Dio, che il Cristiano ha un maggior numero di misteri. Se Dio non si fosse avvicinato all’uomo colpevole, questi andrebbe ancora vagando nelle tenebre dell’idolatria; ignorerebbe  ciò che è egli stesso; non avrebbe che delle idee false sulla Divinità, e non sospetterebbe forse l’esistenza d’una sola fra quelle verità sublimi, che comprende l’Infinito. Se Dio, nello avvicinarsi all’uomo, non si fosse a lui mostrato che sotto le apparenze d’un Dio creatore e conservatore, tutti quei segreti meravigliosi, che hanno tratto alla conoscenza della natura umana e della Redenzione, sarebbero sepolti. Anche l’uomo stupefatto nella incertezza del suo essere s’adoprerebbe in ogni modo per conciliare le contraddizioni che sono in lui; cercherebbe di indovinare il posto che gli viene riservato nel mondo morale, e farebbe degli inutili sforzi per mettersi in armonia con tutto ciò che lo circonda. Ma essendosi manifestato Iddio all’uomo come Creatore e come Redentore, ne derivò che l’uomo conobbe non solo i misteri, che si riferiscono all’idea d’un Dio onnipotente, creatore ed ordinatore di tutte le cose, ma anche quelli che si riferiscono all’idea d’un Dio tutto misericordia, che prende la forma e la natura dell’uomo, e muore per riscattarlo (Le Président. de Riambourg, Oevres publiées par M. Foisset, édit. de Migne p. 150). »

VII. Si mena scandalo di questo mistero, perché Dio ai nostri occhi troppo s’abbassa. Ma non si vede dunque che appunto per tale motivo Egli acquista maggior pregio, perché controbilancia il primo mistero del Dio dell’universo, che ai nostri occhi troppo s’innalza? il perché non si contesterebbero (se non è troppo ardita 1’espressione), a quell’Ente indiscutibile, né l’onnipotenza di sua natura mercé 1’uso che ne fa, né l’infinità della sua altezza mediante l’infinità del suo abbassamento? Il quale abbassamento è poi sublime, posciaché è l’abbassamento dell’amore, che si svolge nella Redenzione, come si svolge la potenza nella Creazione, che compie l’abisso scavato tra Dio e noi per la nostra caduta, e l’abisso inoltre che esiste naturalmente tra l’Infinito ed il finito, tra Dio ed il mondo, uniti e rappattumati per sempre dalla grazia del Verbo incarnato. – Noi resistiamo alla seduzione d’un soggetto così interessante. Lo studio dei misteri cristiani, che fu il frutto de’ precedenti nostri lavori (Etudes philasophiques sur le Christianisme, 5″ volume — le Pian divin.), offre una occasione inesauribile d’ammirazione. Questi misteri,ai quali dovremmo prestar fede a fronte delle sole prove della divinità di Gesù Cristo, guarentigia infallibile della verità loro, lasciano travedere tante bellezze, che avrebbero dritto alla nostra credenza anche senza quella guarentigia, mentre nel reagire sovr’essa le restituiscono in certo modo quel divino testimonio che ne ricevono. Mercé quello studio i misteri non si ricordano più, tante sono le chiarezze, tante le relazioni con cui si manifestano,così che non restano misteri che per la sublimita’ loro. Sono abissi di sapienza e di scienza, che provocano ad ogni istante l’esclamazione di San Paolo:

O altitudo divitiarum sapientiæ, et scientiæ Dei! – Queste riflessioni fecondate da quelle del lettore basteranno intanto per giustificare la nostra prima proposizione, cioè che il Teismo in quanto ha di vero, confonde la ragione col mistero dei misteri,rispetto al quale quelli del Cristianesimo sono il conforto e l’incanto dello spirito umano.

(Non eccettuo manco il terribile domma della Eternità delle pene, che da sé solo indispone però molti spiriti a credere tutto il resto che si riferisce alla Religione: quasi che un domma così strettamente legato a tutti gli altri potesse essere falso, veri essendo gli altri! Noi gli abbiamo dedicato uno studio speciale, che riuscì ad una prova, se non affatto comprensibile (né ciò poteva essere), scevra per altro da ogni contraddizione, e piena di razionale convenienza. La pretesa di misurarlo alla debole bilancia del nostro debole ingegno dovrebbe arrestarsi dinanzi a questa semplice riflessione di Platone, che  « l’uomo non potendo mai vedere altro, che gli accidenti dell’individuo e del tempo, vale a dire ciò che è parziale e passeggero, non potrebbe essere giudice dei disegni di Dio, che deve necessariamente subordinare il particolare al generale, ed il tempo alla Eternità ». Sotto questa giudiziosa riserva, noi abbiamo svelato il vizio di tutte le obiezioni che si fanno a quel mistero Qual meraviglia! Esse sano ispirate dal senso cristiano, vale a dire da quelle nozioni della Giustizia e della Bontà di Dio, che il Cristianesimo ci ha portato, e che noi rivolgiamo a suo danno! Ciò dovrebbe bastare per mostrarne l’impotenza, dappoiché non sono basate che sopra gli elementi d’una fede che le esclude! Tuttavia opporremo loro alcuni cenni di risposta in aggiunta allo studio più ampio che abbiamo fatto altrove. La giustizia si rivolta, si dice, contro la sproporzione tra il peccato d’un momento, ed una eternità di pena; e la Bontà non è meno incompatibile con una severità tanto inesorabile.

Rispondo, che l’Inferno risulta assai meno da un decreto di Dio imputabile alla sua condotta verso l’uomo, che dalla condotta dell’uomo verso sé medesimo, e verso Dio: il che non solamente disimpegna la Giustizia e la Bontà divine, ma non potrebbe impegnarle senza contraddizione. Diffatti, ed in primo luogo, l’uomo è di sua natura inesterminabile, immortale; egli esisterà sempre; l’eternità gli appartiene. In secondo luogo è libero: non c’è potenza che valga a forzarlo al bene, se vuole il male, in terzo luogo il male porta inevitabilmente seco la sventura; è la pena di sé medesimo. Da ciò ne deriva, che l’uomo è l’artefice del proprio destino, il quale essendo eterno, fa sì che egli è eternamente cattivo, se tale vuol essere, epperò eternamente sventurato. La natura delle cose produce da sé questa conseguenza, e bisognerebbe distruggerla perché fosse diversamente. Queste conseguenze tuttavia sono diverse in questo mondo e nell’altro; la qual differenza dipende tutta dalla bontà di Dio. Naturalmente, quando l’anima commette un delitto, questo delitto, momentaneo quanto all’atto, è eterno quanto allo stato. Gli anni sì numerosi che si succedono sovra l’anima una volta delittuosa, una volta morta, a nulla valgono. La macchia dell’anima, dice Cicerone, non può scomparire col tempo, e tutti i fiumi del mondo non basterebbero a lavarla. « Animi labes nec diuturnitate evanescere, nec omnibus ullis elui potest! De Legibus II. 10): ciò che equivale a dire con San Tommaso, che il peccatore  è mortale di sua natura, e che la morte, per sé sola, non ha un potere di risorgimento. Tuttavia questa potenza di risurrezione morale venne introdotta sovranaturalmente nel mondo, ed è la Grazia. La morte spirituale fu vinta dalla virtù espiatrice del sangue di Cristo, una sola goccia del quale basterebbe a lavare tutti i delitti dell’Universo. I delitti inespiabili non si danno più, perché vi concorre una condizione, che deriva parimente dalla natura medesima delle cose, vale a dire, che l’anima colpevole si appropri la grazia mediante il pentimento. Diversamente lo spregio, il rifiuto, di questa grazia prodigiosa, ne aggrava lo stato. Ora questo mondo le è conceduto per pronunciarsi a tale riguardo. Essa può passare e ripassare dal male al bene: vi è invitata, sollecitata sino all’importunità. Due cose per altro impongono un termine a sì fatto sperimento, a quella tregua: l’ordine, il quale non permette mai che l’uomo, per quanto sia libero, sia indipendente, o piuttosto che l’Ente sovrano sia dipendente e trastullo dell’uomo; l’interesse dell’uomo, il quale non farebbe che accrescere il suo delitto, e quindi anche la sua sventura, collo spregio continuato della grazia di Dio. È Dio, che lo scarica del peso crescente di questa grazia, e le conseguenze funeste del mal volere dell’uomo, sospese dalla misericordia di Dio, riprendono per sempre il corso loro. L’anima passa nell’ordine immutabile ed assoluto della sua eternità, tal quale lo trova colla scelta sua propria. Ed allora donde pensate voi che gli provenga il suo inferno? Dai colpi, con cui Dio lo percuote? No certamente. Da lei medesima. La giustizia di Dio consiste nell’abbandonarlo al suo senso riprovato, al disordine del suo antagonismo col Bene, la serena vista del quale, libera da tutte le illusioni di questa vita di prova, forma il castigo dei cattivi, e la felicità dei buoni. — Virtutem vìdeant, intabescantque relicta! — dice un poeta pagano: » Veggano costoro la virtù, e si consumino dall’affanno per averla abbandonata! L’Inferno non è che il peccato stesso, dice Bossuet. Lo stato involontario, inveteralo ed eterno del peccato; l’odio del bene, di Dio, che l’anima ha contratto, e di cui forma il supplizio. Tanto basta. Dio c’entra per nulla; ed è appunto per ciò che quello stato è spaventevole. Lo dirò io? L’Inferno è l’impunità! Si, l’impunità, e secondo Platone l’inviolabilità nel delitto, per cui niun castigo salva il reo, ed è per se stessa il più terribile dei castighi; il castigo di Caino, sol quale Dio stampò mm segno, onde niuno lo avesse ad uccidere (Genesi c. IV, 15). Ah! se Dio potesse colpire i reprobi! Li solleverebbe cogli stessi colpi, come solleva le anime del purgatorio, e li esonererebbe di tutto ciò che soddisfarebbe la sua giustizia. Ma la paterna sua mano non trova dove colpire sovr’essi. Inguaribili per la condizione volontaria che si fecero, e nella quale si rinserrano, non offrono i mezzi per risanare, e poiché non ne ricevono alcuno dalla mano di Dio, quindi si rendono carnefici di sé medesimi, e sono così spaventosamente ed irremissibilmente infelici. Perché non sono dessi in grado di esclamare con quel fanciullo, che noi abbiamo inteso dire a sua madre: « Castigatemi, ma perdonatemi! » No. Più del supplizio nuocerebbe loro il perdono, e preferiscono l’Inferno: « Prova terribile della degradazione originale » ha detto in qualche tratto lo sfortunato sig. di Lammenais, — e queste parole parole mi fanno tremare la mano, che le scrive — quando il Cielo non domanda in certo modo, che di schiudersi per accogliere il colpevole, se costui ha la facoltà coll’obbedire di assicurarsene il possesso, v’è qualche cosa in lui che sceglie, e vuole l’Inferno. » Ora ho io bisogno di dire, che la Bontà di Dio non è meno sciolta della sua giustizia in quel terribile domma? Quella bontà consiste infatti nel renderci felici: felici della sua propria felicità, che non può essere che la felicità dell’ordine. Una bontà, che fosse in opposizione coll’ordine andrebbe contro l’oggetto suo proprio: la felicità. Essa non formerebbe la felicità dei cattivi; e distrurrebbe quella dei buoni. L’odio volontario del Bene nei reprobi, essendo dato come una condizione del mistero, non si concepisce la bontà d’un perdono, che non solamente sarebbe respinto, ma diventerebbe, qualora potesse essere imposto, un supplizio più grande della pena medesima, il Cielo sarà peggiore dell’Inferno pei dannati, e tale essi lo renderebbero per gli stessi Eletti. La Bontà di Dio, tanto riguardo agli uni, come riguardo agli altri, reclamerebbe per conseguente, al pari della Giustizia, contro un disordine tanto inconcepibile. In una parola la libertà del male nella eternità della sorte, e la sventura inerente al male che se lo infligge a sé stesso, tali sono gli elementi logici di quel formidabile mistero, che la ragione appena distingue, inchinandosi dinanzi alle solenni affermazioni della fede, e gettandosi in seno della divina misericordia.).

LA GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (58)

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (56) LA VERA E LA FALSA FEDE -XI. –

LA VERA E LA FALSA FEDE – XI.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

PARTE SECONDA.

SI CONFERMA ULTERIORMENTE LA VERITÀ DELLE ESPOSTE DOTTRINE

§ XIX. – Si tratta in fine degli effetti funesti del sistema dell’INQUISIZIONE PRIVATA in materia di religione per rispetto alla pace dell’intelligenza. Come il cattolico che non ama il SOMMO BENE, ma sé stesso, non ha pace del Cuore, così non ha pace nell’intelligenza l’eretico che non crede al SOMMO VERO, ma solo a se stesso. Condizione degli eretici INQUISITORI. Quadro spaventevole della miseria e dell’infelicità di una intelligenza priva della fede divina comparata alla miseria ed alla infelicità del cuore privo della divina carità. Quest’infelicità è la causa più possente della demenza e del suicidio sì frequenti presso gli eretici. Conclusione delle due precedenti letture.

Dal sistema però di vita epicurea che abbiamo descritto, e che vedesi posto in azione per lo più presso dei grandi e dei ricchi protestanti, bisogna fare moltissime eccezioni in favor di coloro che, non avendo abjurato siffattamente all’essere di uomini che non si ricordino a quando a quando. di essere immortali, consacrano una parte della loro vita a ritrovare, a forza d’inquisizioni e d’indagini, un sistema. certo, un’opinione sicura in materia di religione, che, contentando. la loro ragione, metta in calma il loro cuore sulle apprensioni del loro eterno avvenire. Ma l’uomo, creato da Dio per Iddio, non può trovare che in Dio la tranquillità e la pace: Creatis nos, Domine, ad te,diceva S. Agostino, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te (Confess.). Accade perciò all’intelligenza ciò che accade al cuore: poiché la fede è l’amor dell’intelligenza, come l’amore è la fede del cuore. Come dunque non vi è calma pel cuore se non nel partecipare al sommo BENE per mezzo della divina carità; così non vi è tranquillità per la intelligenza, se non nel partecipare al sommo VERO per mezzo della fede divina. Nessuno che non ha la fede divina può in materia di religione, dire con sicurezza: sono istruito;come nessuno che non ha la divina carità può dire senza mentire a sé stesso: sono felice. Ora, noi lo abbiamo di già dimostrato (§ 45), l’eretico, l’incredulo che si prende pel guida i proprj pensieri e non crede che a sé stesso, non ha. fede divina; come non ha la divina carità il peccatore che si abbandona alle proprie passioni e non ama che se stesso!Ogni bene creato che non si è ancora goduto si presenta al cuore come un non so che d’infinitamente buono, capace di tenergli luogo del bene increato; e quindi la smania, il. furore del cuore che non ama Dio a variare i piaceri e diletti, a cercarne sempre dei nuovi, sulla lusinga di trovarvi  quella sicurezza, quella felicità che non gli hanno apprestata gli antichi. Così ogni opinione umana, in materia di religione, che non si è ancora apprezzata si presenta all’intelligenza come un non so che d’infinitamente vero, capace di tenerle luogo della verità infinita; e quindi l’impegno, lo sforzo di chi non crede alla parola di Dio di variare opinioni e sistemi, di cercarsene dei nuovi a forza di letture, di dispute, di confronti, sulla lusinga di trovarvi quella sicurezza, quella certezza che negli antichi non ha trovata giammai. – Oh di quanto siam noi obbligati all’insegnamento della cattolica fede! Possediamo le verità divine come certissimi dommi, non come incerte opinioni. Il cattolico adunque, con un accento di sicurezza dice: io credo: e la sua intelligenza è perfettamente tranquilla e soddisfatta della sua fede. Il catechismo che la Chiesa, depositaria della parola divina, gli ha messo nelle mani gli basta. Non cerea di più perché di più non ha bisogno. Quindi quando mai noi Cattolici ci mettiamo a studiare, a disputare, a far ricerche sulla religione, se non è per conoscerne sempre meglio la grandezza, la bellezza e le obbligazioni, onde edificare noi stessi e le fondamenta e le prove per farla conoscere od amare dagli altri? Ma non è Io stesso dei protestanti, degli eretici che pur non sono ancora caduti nel baratro dell’indifferenza per ogni religiosa verità. Come colla loro lettura della Bibbia non han potuto formarsi sopra alcuna cosa un convincimento profondo e non hanno raccolte ed accozzate meschinamente insieme che opinioni più o meno probabili, altre opinioni ben presto distruggono, o scoperte provvisorie, che nuove scoperte rendono vane ed insussistenti: così non possono esser certi di nulla, appagarci di nulla, in nulla appagarsi di nulla, in nulla riposarsi. E quindi studj, dispute e ricerche continue e sempre nuove sulla religione. Simili agli antichi filosofi inquisitori, non istudiano, non leggono e non viaggiano che per discoprire una religione certa e sicura; e, come ho avuto occasione di osservarlo io stesso, tutti i loro discorsi si raggirano sempre sulla religione. Felici quelli fra loro che in queste ricerche hanno veramente la buona fede per principio, e la verità per iscopo, l’umiltà per compagna! Questi sinceri della vera religione finiscono sempre per conoscerla ed abbracciarla. Negli stati protestanti d’America, come testimonj oculari ci han riferito, frequentissimo si è il vedere di questi inquisitori, che fanno il giro di tutte le sette religiose, onde è lacerata la religione in quelle contrade, ma senza arrestarsi che mesi o giorni in ciascuna; perché mutar setta non è che mutare opinione, e ciascuna opinione non vai più dell’altra per produrre certezza. E come mai opinioni umane, che sono di ogni setta la base, possono contentare chi cerca una fede divina? Sicché, malcontenti di tutte, perché nessuna li appaga, finiscono col farsi Cattolici, ed in seno alla fede cattolica confessano di aver trovata solamente quella certezza, quella tranquillità di mente e di cuore, che fuori di essa, per anni molti e con stenti e studj immensi, cercarono invano. Ma coloro che non hanno né il cuore così sincero e così generoso da abbracciare la verità dovunque si ritrova, e che, dominati dai pregiudizi anticattolici e da un odio cieco e irragionevole contro il Cattolicismo, lo mettono fuori di legge, lo escludono dalle loro vedute, e ristringono le loro ricerche nel circolo delle sette fuori della vera Chiesa, invano mutano opinioni e sistemi: poiché chiedono essi sempre alla ragione la certezza e la fede che la ragion non può dare; ed i nuovi sistemi e le opinioni novelle, nulla delle antiche più solide e più efficaci, lungi dall’appagare la loro intelligenze non fanno che svegliare più viva la brama e il bisogno di credere. Come invano, dice S. Bernardo, l’anima che non ha la carità divina varia i piaceri e i diletti: poiché chiedendo sempre alla passione la felicità e il bene che la passione non può dare, i nuovi piaceri e i diletti novelli, lungi dal confortare il cuore, vi eccitano sempre più violenta la fame ed il bisogno che esso ha di godere e di amare: Famem magis excitant quam extinguunt. – Ma a forza di ragionarvi sopra a siffatti sistemi, a siffatte opinioni, se ne conosce infine l’incoerenza, la contradizione, la bizzarria, e si finisce per riguardarle con indifferenza e con disprezzo; come appunto il cuore, a forza di gustare nuovi beni e nuovi diletti, scoprendone il vuoto, la fralezza, il nulla, li prende a vile: Possessa vilescunt. Ah! S. Paolo lo ha detto: l’inquisizione umana non trova che stoltezza e follia, invece di certe e solide verità: Sapientiam quærunt, et stulti facti sunt. E mentre l’orgogliosa scienza si applaude di avere raggiunta la verità e di averla già conquistata, la verità si è scostata in modo da non farsi trovare giammai: Semper dicentes et nunquam ad scientiam veritatis pervenientes, come Salomone ha detto di coloro che cercano il riposo e la pace fuori di Dio che non trovano nel loro penoso cammino che l’infelicità e l’amarezza: Contritio et infelicitas in viis eorum; e la pace,che si credevano di avere già stretta in pugno, è ita lungi da loro, ed essi ne hanno smarrita per sempre persinla via: Pax pax, et non erat paxj et viam pacis non cognoverunt!Or quali colori, quali espressioni possono mai rappresentare e al vivo l’alta miseria di queste intelligenze che cercandola verità nelle tenebre dell’intelletto, come i viziosi cercano. nella corruzione del cuore la felicità, cioè fuori del solo paese che la possiede, non incontrano che il dubbio e l’errore? Come il vizio nel cuore, così l’errore e il dubbio porta il disordine e lo scompiglio nella mente e la rende profondamente infelice; giacché ogni intelligenza, come ogni cuore in disordine, dice S. Agostino, è pena e carnefice di sé stessa: Pœna sua sibi est omnis animus inordinatus. Se non che i rimorsi della mente sono più angosciosi di quelli del cuore, le agitazioni della ragione più tormentose di quelle della coscienza; e se è insopportabile la pena interiore di chi non ama Iddio, più insopportabile si è quella di chi non lo conosce e non gli. crede come egli vuol essere conosciuto e. creduto: e se sta scritto che non vi è pace per colui che gli resiste, Quii resistit ei et pacem habuit? (Job. IX) siccome più resiste a Dio chi oppone il suo giudizio alla parola di Dio e ne ripudia la fede che chi oppone la sua passione alla volontà di Dio e ne viola la legge, cosi una ribellione più colpevole deve aspettarsi un più grande castigo; e se non vi è pace pel peccatore, molto meno ve ne sarà per l’eretico, per l’incredulo, per l’empio: Non est pax impiis.Grande perciò è senza dubbio l’infelicità di un cuore in preda al vizio: e chi può mai contarne le interne noje, le amarezze, i disgusti, i rimorsi, i palpiti secreti in cui passa giorni e notti peggiori? Ma quando si ha il vantaggio di essere nella vera fede, questa infelicità non è separata dalla speranza, e perciò non è senza conforto. Il peccatore, che ha la vera fede, spera un giorno di riconciliarsi col suo Dio e di trovare in seno al pentimento la pace della vita,la tranquillità della morte e l’eterna salute, di cui la vera fede lo rende sicuro: e benché questa speranza spesso sia renduta vana da una morte prematura, improvvisa, che previene il momento di una penitenza sincera, pure non è lieve compenso per un cuore che il peccato ha separato da Dio il sapere che nella vera fede ha sicuro il mezzo di riunirsi con Dio. Il rimorso stesso che lo cruccia, lo consola: perché sa che il rimorso è una delle voci onde Iddio chiama; è una delle industrie della divina misericordia, che amareggia le vie del disordine per obbligar l’uomo ad abbandonarle, e che dal peccato stesso fa nascere le spine che uccidono il peccato e salvano il peccatore. Perciò il rimorso stesso lo avvalora nella speranza del ritorno e della sicurezza del perdono.Ma non si può però dire altrettanto dell’eretico, che è privo allo stesso tempo dei tranquilli splendori della fede divina e degli incanti soavi della divina carità; che, non redendo nulla come parola di Dio, né nulla amando in ordine a Dio, non può appagarsi né di quello che ama, né di quello che crede; e le cui pene, pene del cuore che non trova la felicità nei beni creati, sono accresciute dalle agitazioni della mente che nelle opinioni umane non trova certezza. Quindi un continuo flusso e riflusso di desiderj sempre sterili, di tentativi sempre infruttuosi, d’idee sempre strane, di sentimenti sempre molesti, di opinioni sempre vaghe, di noje sempre fastidiose, di giudizj sempre incerti di illusioni sempre funeste, di trasporti sempre ciechi, sistemi sempre incoerenti, di dubbj sempre angosciosa, di rimorsi sempre pungenti, che nascono e muojono per rinascere di nuovo, e s’urtano e si mescolano e si confondono e finiscono per creare in questa intelligenza senza lume, in questo cuore senza dilezione, una notte profonda ed una profonda infelicità.  – Ora questo stato dell’anima è troppo penoso, questo aculeo è troppo crudele, perché possa sostenersi a lungo, dissimularsi in silenzio, soffrire con tranquillità. L’umana debolezza non può reggere a sì gran peso, e vi rimane schiacciata e oppressa. Che accadrà adunque a queste anime doppiamente infelici? La ragione e l’esperienza abbastanza ce lo dicono.Una gran parte di queste intelligenze, così scompigliate dall’incredulità o dall’eresia, cadono in demenza: poiché è impossibile che alla lunga il cerebro non si risenta dall’orrendo disordine dell’intelletto di cui è l’organo. Per poco adunque che quest’organo vi è disposto, lo sconcerto, il contrasto delle idee, di una mente vedova di fede, alterandone le disposizioni fisiologiche, vi produce di necessità la pazzia. E perché non resti alcun dubbio che questa orribile malattia della nostra specie è in moltissimi l’effetto funesto dell’assenza della fede, le statistiche di questa degradante infermità e attestano che il numero dei mentecatti nei paesi  dominati dall’eresia, rispetto al numero dei mentecatti delle contrade cattoliche, è nella proporzione di cento a dieci; e nelle stesse contrade il numero dei matti è ito crescendo a misura che vi si è introdotto lo spirito d’incredulità e vi si è indebolita la fede. Oltreché non è giusto e corrispondente castigo che nella ragione sia punito chi più peccò colla ragione, e che la perdita della religione faccia discendere sino al bruto colui che colla ragione osò di farsi giudice della. parola di Dio?Nulla perciò di più naturale quanto che, a misura che cresce il numero degli increduli, si slarghino, come oggi si fa. gli ospedali de’ matti: e lo zelo dei moderni filantropia migliorare il trattamento di siffatti infermi non è puro da ogni calcolo egoista. E interesse loro il rendere più confortativa una condizione in cui essi pure possono facilmente trovarsi, giacché dal delirio delle religiose opinioni al delirio degli organi corporei non vi è che un passo, e questo molto sdruccioloso. – In altri moltissimi però la situazione che abbiamo descritta,nata dalla licenza di opinare e dall’incertezza di credere produce effetti ben differenti. Vedonsi ogni giorno, anche fra noi, uomini i quali (poiché il vizio è in essi passato in natura, e le ree abitudini son divenute troppo forti e troppo debole il coraggio e la volontà di trionfarne) si riducono ad una morale impossibilità di correggersi, e che, spinti perciò alla disperazione di salvarsi, ne depongono ogni pensiero dicendo: « Per me è finita. Andrà come deve andare; seppure alla morte un qualche santo non ajuterà. »Intanto però, per sottrarsi ai latrati della coscienza, evitano di trovarsi un solo istante da solo a solo con se stessi; ne escon fuori e vanno negli oggetti esteriori vagando sempre lungi dal proprio cuore, come un marito intollerante, dice S. Agostino, se la passa sempre fuori di casa per sottrarsi alle furie di una consorte inquieta: Mulier rixosa, conscientia mala. Ora se ciò accade al cattolico, che dalla licenza de’ suoi vizj è stato condotto alla disperazione di amare, molto più accade agli eretici, condotti ancora dalla licenza delle loro opinioni alla disperazione di credere. Ad esempio adunque di Lutero che orrendamente straziato dalla memoria delle sue turpitudini e delle sue bestemmie, s’involava allo sguardo minaccioso della sua anima, avvolgendo nel fango della lascivia e seppelliva i rimorsi nell’ubriachezza,degni figliuoli di sì egregio padre, gli eretici inquisitori cercano essi pure di dissipare le agitazioni della loro mente coll’abbandonarsi a tutte le delizie dei sensi, e di obbliare le apprensioni funeste della vita avvenire coll’uscire fuori di se stessi e spandersi o perdersi nel più turpe epicureismo della vita presente. Quindi lo studio di fuggire tutto ciò che può richiamare alla loro mente ogni idea di religione, di virtù, dell’anima, di Dio, della morte, dell’eternità; ed al contrario la smania di trastullarsi coi bruti, colle scimmie, coi pappagalli, coi cani, coi cavalli; di prenderli a compagni, di preferirli agli uomini nelle loro affezioni, sino a procurar loro, a costo di grandi spese,ogni specie di comodità e di delizie, e farli eredi della propria fortuna; sicché direbbesi che ne invidiano la condizione, tanto procurano d’imitarne la natura! Ma questa smania orribile, in uomini sì orgogliosi della ragione, di degradarsi fin sotto agli esseri irragionevoli e di far vita comune con loro, questo studio funesto di appagare l’intelligenza, creato pel sommo bene e per la somma verità, coi miseri avanzi della felicità dei bruti, non sempre riesce. L’invincibile natura ripiglia a quando a quando il suo impero, e dall’abisso tenebroso del vizio in cui si è chiuso il cuore, e da sotto alle orribili rovine degli errori in cui l’intelligenza si è sepolta, escono voci tremende, minaccevoli grida, che gli strepiti di tutte le passioni in delirio non possono estinguere. Allora l’uomo si sveglia adirato, perché gli si rompe il sonno di una vita tutta corporea; perché l’ebbrezza del piacere non dura: perché il mondo esteriore si. dilegua, perché, abbassandosi un istante il velo delle volontarie illusioni, si trova a viso scoperto in faccia all’orrendo spettro della sua anima senza fede, senza speranza, senza amore. Allora, simili a quegli umori bizzarri che, oppressi dalla malinconia, negli spettacoli malinconici cercali conforto, povere d’ogni bene, cerca di farsi un vanto della sua povertà; avvilito agli occhi propri, si sprofonda sempre più nel suo avvilimento e nella sua ignominia; addolorato e infelice,si pasce della sua infelicità e del suo dolore: finché,divenendo odioso a sé stesso ed impotente al peso della vita,corre a cercare nel suicidio la fine di una esistenza che dispera di rendere migliore e che non ha coraggio di sopportare. E difatti presso gli antichi filosofi di Atene e di Roma i veri eretici del genere umano) il suicidio, il più orribile attentato contro la natura, era riputato un dovere ed una virtù per l’uomo saggio nelle ambasce che gli rendevano la vita più amara della morte. E nei tempi moderni questo stesso delitto, quasi ignoto affatto in Europa nei secoli di fede, ed anche oggi, che la fede si è illanguidita, rarissimo nei paesi cattolici, è rinato col rinascer dell’antica scienza del dubbio, che l’eresia luterana ha sostituito alla fede.Quindi nei paesi protestanti e presso gli allievi dell’orgoglio,che altra religione non hanno che quella di un vago ed assurdo filosofismo, sono frequentissimi gli esempi, non solo di uomini ma ancora di donne e di fanciulli che attentano alla loro vita con un orribile sangue freddo, e quest’atto di disperazione e di folli  a si reputa eroismo o una cosa affatto indifferente. Deh che la fredda ragione non apporta alcun solido conforto contro le noje della vita, i dolori delle infermità,le perdite della fortuna, le miserie della famiglia, i dispetti della gelosia, il peso del disonore, e molto meno contro i rimorsi del cuore e le angosce dell’intelligenza dubbio! L’uomo abbandonato alle sole sue forze e senza appoggio per parte della fede che non ha, della grazia che non implora, della provvidenza che non crede, della vita futura che non attende, è troppo debole per rassegnarsi a prolungare un’esistenza che per qualcuna delle indicate cause gli è divenuta pesante ed amara, ed il suicidio diviene per lui una specie di necessità fatale ed una conseguenza, funesta sì ma naturale, della sua morale indigenza e del suo desolamento. Oh profonda miseria! oh condizione orribiledell’uomo ribelle alla Chiesa ed alla vera fede! Tutto è perlui tenebre, dubbio, incertezza, rimorso, affanno, dolore,disperazione, delitto: e la sua profonda infelicità nel tempo non è che il funesto preludio di quella dell’eternità.Concludiamo adunque l’importantissima e per noi Cattolici consolantissima discussione che ci ha occupati in queste due ultime lunghe letture. Noi abbiamo veduto che l’insegnamento della Cattolica Chiesa é facile, accessibile a tutti, veridico, certo, uniforme, immutabile: che solo contiene tutte le verità, solo ispira tutte le virtù, solo appresta tutte le consolazioni. solo fornisce tutte le speranze, solo solleva l’uomo e Io santifica e Io perfeziona e Io salva: e però che esso è il solo insegnamento sincero, legittimo, santo, celeste, divino. Abbiamo pure veduto, al contrario, che il metodo inquisitorio ossia della ragione privata che, disprezzando l’autorità della Chiesa, pretende di formarsi da sé la religione, consultando, come essa dice, la natura e la Scrittura, in verità però non seguendo che il proprio orgoglio ed il proprio capriccio; che questo metodo, dico, che è il fondamento comune di tutte le false religioni, di tutti gli scismi e di tutte le eresie, oltre che domanda molto tempo, molti studi e molti sforzi, non conduce in fine che all’errore, al dubbio assoluto, alla indifferenza, al disprezzo, alla distruzione completa di ogni religione, cioè alla degradazione dell’intelligenza, alla depravazione dei cuori, alla disperazione dell’individuo, alla ruina della società; e perciò è un metodo vizioso, erroneo, detestabile, diabolico, infernale. – Oh se, con un occhio all’orribile quadro di miserie, di devastazioni, di rovine di tutti i dommi e dì tutte le leggi, di tutte le verità e di tutte le virtù, di tutte le credenze e di tutti i sentimenti, di tutte le speranze e di tutte le consolazioni del Cristianesimo, miserie, devastazioni, rovine  cui vanno di necessità a terminare tutti i sistemi di errore; oh se con un occhio, dico, a  quest’orribile quadro che noi abbiam tracciato, il miscredente e l’eretico volessero coll’altro occhio contemplare i grandi e giocondi prodigi che pur hanno di continuo presenti, e che la grazia della fede opera nelle coscienze cattoliche; oh come apprezzerebbero la condizione dei figli della vera Chiesa, che, dispensati dall’ingrato e sterile lavoro di ricercare, di esaminare, di disputare, di discutere, trovano nell’insegnamento della cattolica fede una dottrina pura, santa, uniforme, costante, bella, preparata e ridotta a formole chiare, precise, certe, immutabili, ed accessibili a tutti! Oh come rimarrebbero sorpresi e incantati dal bello spettacolo delle virtù solide, dei sentimenti sublimi della vera santità, che questa dottrina divinamente feconda fa germogliare nel cuore che le è fedele! Oh come non si sazierebbero mai di ammirare la perfetta tranquillità con cui la cattolica intelligenza si riposa in seno alla sua fede, l’adesione fermissima con cui ne ritiene le verità sante, il gaudio segreto, l’immensa gioja con cui ne vagheggia la chiara luce! Oh come invidierebbero la sorte avventurosa dell’anima veramente cattolica che, confermando la sua condotta con la sua credenza e senza tema alcuna d’ingannarsi nella sua fede presente, né di essere delusa nelle sue speranze dell’avvenire, tenendo fedelmente dietro alla vera stella miracolosa della fede che, come la stella dei Magi, la precede e l’accompagna, la guida e la sostiene, la illumina e la conforta, la istruisce e la colma di gioja; traversa questa terra d’esilio, colla sicurezza di giungere alla patria dell’eterno riposo e dell’eterna felicità! Ma se i miscredenti e gli eretici non vogliono e non possono conoscere questa condizione felice, invidiabile di noi cattolici, procuriamo di sempre meglio conoscerla noi stessi che, per un tratto della divina misericordia, ne siamo in possesso; affine di conservare in noi con maggior gelosia il prezioso deposito della vera fede, di riconoscerne con sensi di gratitudine sempre maggiore dalla bontà di Dio l’immenso beneficio, di amarne con maggiori trasporti le bellezze, di compierne con maggior diligenza le opere sante; unica condizione per goderne più copioso qui in terra il fruito ed ottenerne più ricco il guiderdone nei cieli.

FINE DELLA LETTURA VI.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (55) LA VERA E LA FALSA FEDE -X.-

LA VERA E LA FALSA FEDE –IX.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

PARTE SECONDA.

S I CONFERMA ULTERIORMENTE LA VERITÀ DELLE ESPOSTE DOTTRINE

§ XVII. – I protestanti sono pure obbligati dai loro principj a riguardare, come riguardano difatti, ogni religione buona per salvarsi. Quanto questa opinione è empia ed assurda. Devono altresì essere, come sono, indifferenti per la pretesa loro religione. Questa loro indifferenza è manifesta dal loro sistema di educazione, di predicazione e d’insegnamento: più che mai però apparisce chiara dal loro culto pubblico e dal disprezzo in che lo tengono. 1 protestanti di Amburgo.

Parto mostruoso di questa tolleranza dottrinale e teologica degli eretici sono le due orribili massime uscite dall’abisso del protestantismo cioè: 1.° Ogni uomo si può salvarsi nella sua religione. 2.° Un uomo onesto non cambia mai religione; quanto dire che, a giudizio dei protestanti, tutte le religioni sono egualmente buone. Ed in verità che l’eretico infatti non può pensare altrimenti. Subito che non vi è, né per lui né per gli altri, alcuna certezza di essere nel vero, subito che parte egli dalla dottrina che fa dipendere dalla privata ragione di ognuno l’esame e la decisione della bontà di una setta o di una religione; è di tutta necessità obbligato a riconoscere per buona ogni religione che ognuno sulla testimonianza della propria ragione tiene per buona, come egli stesso sulla stessa testimonianza tiene per buona la propria. Né ha il diritto di dire che nella propria religione si trova la salute e la dannazione in quella degli altri. Forse dirà che gli altri per mancanza d’ingegno non ragionano bene? ma la mancanza d’ingegno è una disgrazia e non già una colpa; non può dunque egli ragionevolmente escludere dall’eterna salute colui che si è arrestato ad una religione che la scarsezza del suo ingegno non gli ha permesso di conoscere che è cattiva. Quindi l’eresia sotto pena di contradizione e d’ingiustizia, è obbligata ad allargare le vie della salute agli uomini di tutte le religioni, di tutte le sette; è obbligata a proclamare che ogni religione è buona per andar salvo. E poiché in quantunque religione in cui l’uomo si trova si può salvare, e non vi è alcuna necessità di cambiar religione per assicurare l’eterna salute, ha dovuto altresì proclamare quest’altra massima, di cui abbiamo di già notata e l’empietà e la follia, cioè che un uomo onesto non cambia mai religione. E di fatti i libri dei protestanti inglesi sono ripieni di queste massime; né fanno un mistero di questa loro opinione, che discende come una conseguenza necessaria dei loro principi: Che non solo gli eretici di tutte le comunioni e di tulle le sette, ma anche i maomettani e gl’idolatri si salvano, restando nelle rispettive loro religioni. E mirate generosità di questi eretici: spingono essi la loro carità, onde abbracciano i popoli e le nazioni, sino a noi Cattolici; e concedono pure a noi, di potere, nella nostra religione, conseguir la salute!!! – Ma se queste strane massime non sono contrarie alla logica degli eretici, lo sono però al senso comune degli uomini; e di più sono tanto orribilmente empie quanto manifestamente assurde. Imperciocché dire che ogni uomo si può salvare nella propria religione è lo stesso che dire che ogni religione è egualmente buona. Dire che ogni religione è egualmente buona è lo stesso che dire che ogni religione è egualmente vera; giacché non può essere buona una religione che non è vera. Ma la maggior parte delle religioni sono non solo diverse, ma ancora contradittorie fra loro. Il giudaismo è contrario dell’idolatria, il Cristianesimo del giudaismo e del maomettanismo; lo scisma greco del protestantismo; il Cattolicismo, di tutte l’eresie. Dire adunque che tutte queste religioni sono egualmente vero è lo stesso che dire che è vero che vi è un Dio, è vero che vi sono più dei; che è vero che Gesù Cristo è Dio, e vero che non è se non  uomo; che è vero che il Cristianesimo è una religione divina, e vero che è una religione umana; che è vero che l’autorità legittima di spiegar la Scrittura appartiene alla Chiesa, e vero che quest’autorità appartiene solo alla ragione. È insomma lo stesso che ammettere che una stessa cosa è allo stesso tempo vera e non vera: è un ammettere la più manifesta assurdità. – Che se si dice che, senza esser tutte vere le religioni, sono però tutte egualmente buone per la salute, non si sfugge l’assurdità che per cadere nella bestemmia. Perché, ciò vuol dire che Dio, avendo fatta una rivelazione, avendo pubblicata una legge, avendo compiuta una redenzione, è poi indifferente  che l’uomo creda a questa rivelazione, o la impugni: abbia fede a questa redenzione, o lametta in ridicolo; adempia a questa legge, o la calpesti; che Dio riceve un culto degno di Lui tanto dalle superstizioni idolatre, dalle turpitudini maomettane, dalla perfidia giudaica, e dall’orgoglio dell’eresia, quanto dalla fede santa e pura della Chiesa Cattolica; in una parola, che Dio apre le porte del suo paradiso egualmente alla santità e al delitto, e ricompensa egualmente la virtù e il vizio, chi l’onora e chi lo bestemmia. – Ora non è più ragionevole il non ammettere alcuna rivelazione celeste di quello che ammetterne una che non è affatto necessaria il credere? Non è più ragionevole il non ammettere alcuna legge, alcuna religione divina, di quello che ammetterne una che non è necessario affatto il praticare, ed a cui senza alcun inconveniente, senza alcun pericolo per l’eterna salute si può sostituirne un’altra ispirata dal capriccio e dalle passioni umane? Non è più ragionevole il non ammettere alcun paradiso di quello che ammetterne uno aperto egualmente all’errore e alla verità, al vizio ed alla virtù? Finalmente, lo dirò io?… Non è più ragionevole il non ammettere alcun Dio di quello che ammetterne uno, alla foggia di quello di Epicuro, che non si cura affatto degli uomini: che né gradisce i loro omaggi sinceri, né si offende dei loro oltraggi; e che guarda collo stesso occhio d’indifferenza ogni specie di sacrificio ed ogni specie di delitto, e l’anima generosa che per Lui s’immola e l’anima idolatra di se stessa che si ride di Lui? Perciò tollerare teologicamente come fanno i protestanti, tutte le religioni, ammetterne indistintamente tutti i seguaci a partecipare all’eterna salute è lo stesso che negare l’esistenza di ogni rivelazione divina di ogni religione vera, di ogni legge, di ogni culto, di ogni ricompensa, di ogni divinità. Avea dunque ben ragione Fénélon di dire che « tra la Religione Cattolica, unica, vera, e l’ateismo puro, non vi è alcun mezzo ragionevole. « Imperciocché, disprezzando l’autorità divina, su cui la vera Religione è fondata, e riportandosi alla sola ragion privata in materia di religione, uno spirito veramente logico di conseguenza in conseguenza si vedrà trascinato a negar tutto fino Dio stesso. Quindi ancora la fredda indifferenza in cui sono caduti i protestanti di Germania e d’Inghilterra intorno al protestantismo considerato come dottrina religiosa, mentre che sono tenaci sino all’ostinazione, zelanti sino al fanatismo del protestantismo in quanto è istituzione politica e religione dello stato. La ragione di ciò si è che, in quanto è religione dello stato, l’eresia assicura a quelli che ne hanno il monopolio grandi dignità, grandi ricchezze e grandi privilegi. Il clero ammogliato dell’Inghilterra non è infatti esso solo più riccamente retribuito del clero cattolico, preso insieme, di tutto l’universo? Ma in quanto è dottrina teologica, non essendo l’eresia che un affare di pura opinione, che non apporta nulla di utile per la vita presente e non promette nulla di sicuro per la futura, non può destare e non desta che indifferenza. – Perciò, eccettuato il popolo , che anche nei paesi protestanti o scismatici è sempre più o meno religioso, giacché non può e non sa formarsi un’opinione sulla religione, ma la riceve dagli egregi apostoli della ragione che gliela pongono per le vie della forza e dell’autorità; i grandi poi, i ricchi, gli scienziati non hanno per lo più altra religione fuorché la indifferenza sulla religione, che non è in sostanza che un ateismo mascherato. E sebbene questo spirito di ateismo pratico, che si trova nel fondo di tutti i sistemi di errore, per un avanzo ben piccolo di verecondia, non osa che tremando di prodursi alla luce del giorno colle parole, si manifesta abbastanza però nel linguaggio ancora più eloquente dei fatti e della condotta. – Penetrate nell’interno delle famiglie protestanti, e vedrete la poca e nessuna importanza che vi si attacca alla religione cristiana. Lo zelo e la premura che le madri veramente cristiane hanno fra noi che i loro figliuoletti consacrino a Dio che li ha creati, le primizie della loro intelligenza, del loro cuore, della loro lingua; e perciò additano loro Iddio nel cielo, li avvezzano a pronunziare pria di tutto i nomi dolcissimi di Gesù e di Maria, ed insegnano loro l’Ave Maria, il Pater, il Credo e gli atti cristiani; queste sante industrie della vera fede sono ignote affatto nel seno delle famiglie protestanti. Le prime lezioni che vi si danno ai fanciulli riguardano il corpo, la terra, il tempo: nulla desta nella 1oro mente di bambina idee di Dio, dell’anima, del ciclo, dell’eternità. Tutta l’istruzione morale che si dà alle fanciulle in particolare si riduce al precetto di essere sagge, colla glossa che essere sagge significa non mentire, non nominare la coscia, e dire gamba di pollo e non mai coscia di pollo, e sapersi tener ritte colla vita e mantenersi pulite nella persona… I pagani insegnano qualche cosa di più alle loro figliuole. Quando poi il fanciullo è giunto all’età della ragione e sa sufficientemente leggere, gli si dà in mano la Bibbia tradotta in volgare e si lascia che la intenda come gli pare, che ne creda quanto e come gli pare; onde più tardi, tra le tante sette da cui si vedrà circondato al metter piede fuori di casa o nella casa sua propria, si determini per quella che più gli pare confacente ai suoi gusti e ai suoi capricci, o non si determini per nessuna, salvo il giurare o più presto spergiurare la confessione di Augusta, o i trentanove articoli, e il dirsi protestante o anglicano. Oh educazione che non è se non indifferenza assoluta ed il più profondo disprezzo del Cristianesimo! Ora siffatti uomini chiamateli. se vi dà l’animo, cristiani. – Ma qual meraviglia che i laici siano indifferenti quando e molto più lo sono i sacerdoti, i pontefici dell’eresia? Considerate la predicazione protestante. I dommi ne sono sbanditi. Ed a che parlarne, subito che essi non sono più che semplici opinioni per chi parla non meno che per chi ascolta? ed opinioni intorno alle quali chi parla non è d’accordo con chi ascolta, e sulle quali, tra quei due che ascoltano, non si trovano nemmen due soli che opinino allo stesso modo? Le prediche protestanti non sono adunque sermoni cristiani, ma dissertazioni accademiche, fredde e fastidiose dicerie sopra un qualche punto di morale evangelica, esposto colla stessa indifferenza, colla stessa freddezza, come se si trattasse di una morale puramente filosofica ed umana, e che non distruggono alcun vizio, non persuadono alcuna virtù e non migliorano alcuno. Né è raro l’udire dalla bocca di questi egregi cristiani lo stesso Gesù Cristo messo a confronto e trattato collo stesso rispetto o piuttosto collo stesso disprezzo di Socrate e di Marco Aurelio. Lo stesso sintomo d’indifferenza si manifesta nell’insegnamento teologico delle università. A questo insegnamento si concorre da prima per ispirito di mero interesse, per acquistarvi un requisito, un titolo onde fare il ministro o il pastore evangelico, come si studia la medicina per fare il medico, e la legge per fare l’avvocato: giacché in questi paesi il ministro ecclesiastico non è altrimenti una vocazione, ma una professione, un mestiere come ogni altro, e men nobile di ogni altro. In quanto poi alla scienza teologica, vi si attacca minore importanza che alla scienza della chimica o della medicina. Simili agli antichi accademici che, formati alla dottrina di Socrate e di Platone, proponevano ai loro uditori il prò ed il contra sopra ciascuna delle grandi tesi della religione primitiva, i professori della teologia protestante non fanno per lo più altro che mettere sotto gli occhi dei loro uditori il prò ed il contra sulle grandi tesi della religione cristiana, lasciando ad ognuno la libertà di ritenere ciò che gli è sembrato, ragionevole. Non insegnano a credere, ma a dubitare. Non spiegano misteri, ma propongono enimmi. Maestri senza convincimento formano discepoli senza scienza. Ed è singolare il contrasto che offrono, l’indifferenza che traspira da tutte le parole del maestro e la noja che si manifesta da tutti i movimenti de’ suoi discepoli. – Quest’indifferenza si manifesta più chiaramente ancora nel culto protestante. Il culto religioso è l’espressione o la manifestazione pubblica e solenne delle credenze di un popolo. Ora dove non vi sono credenze comuni, ma tante opinioni religiose quanti sono individui, non vi può esser un culto comune: e volendolo assolutamente stabilire, per dare ad intendere alla moltitudine che un culto comune sussiste, deve essere un culto negativo, non già che esprima l’orribile anarchia di tutte le opinioni, ma che tutte le tolleri, le approvi, le sanzioni, e che non ne offenda veruna: cioè a dire un culto che non è culto; un culto che annunzj la distruzione di ogni culto, come la opinione indica la distruzione di ogni fede. Ora tale appunto si è il culto protestante. – Nessuna cerimonia vi è in esso, nessun segno che esprima un domma qualunque. Ma tutto vi si riduce ad un freddo sermone, pronunciato senza convincimento ed ascoltato con indifferenza, o alla lettura di un qualche capitolo della Bibbia, che ognuno intende a suo modo, ed alla recita di preghiere e di cantici senza unzione, senza sentimento, in cui nulla si chiede, e con cui non si spera di ottener nulla. – I luterani ammettono è vero la presenza reale; siccome però chi l’ammette col pane, chi nel pane e chi sotto il pane, e le opinioni anche su questo punto variano all’infinito: così hanno esse lo stesso valore dell’opinione dei calvinisti e degli anglicani, che presenza reale non ammettono affatto: e l’affermazione degli uni e la negazione degli altri, non essendo un domina, ma un’opinione, e questa, a giudizio comune, né fondamentale né importante: la verità si è che è spenta egualmente tra tutti ogni credenza effettiva, ogni fede formale teologica nella presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Or senza l’Eucaristia non vi è sacrificio, senza sacrificio non vi è culto, senza culto non vi è religione. Difatti ciò che colpisce di più il Cristiano che crede e che sente, si è l’assenza assolata di ogni segno di religione nei templi dei protestanti e nelle loro cerimonie religiose. Poiché un magazzino non è una chiesa: un tavolino non è un altare; il mangiare un pezzetto di azimo insieme non è un sacrificio; un discorso accademico non è una predica; un pover uomo togato non è un sacerdote. Qual differenza tra questo culto, freddo come la ragione di cui è l’espressione, e la maestà e il sentimento sublime del culto cattolico, espressione della vera fede, che parla sì altamente all’intelligenza, che commuove profondamente il cuore e lo solleva e lo innalza e lo divinizza? Perciò gli stessi protestanti, in cui il filosofismo e il raziocinio non hanno estinto ogni sentimento religioso, assistono con piacere e con meraviglia alle nostre feste, e moltissimi ogni giorno ritornano alla nostra fede soggiogati dalla grandezza del nostro culto. In quanto al culto loro, non vi attaccano la minima importanza. – Perciò nessuno di quelli cui ciò incomberebbe si dà il minimo pensiero per promuoverne la frequenza. In molte citta dell’Inghilterra di nuova data, per una popolazione di sessanta o ottantamila anime, non vi è che uno o due templi incapaci tutti e due di contenere più di tremila posti; e questi tremila posti sono affittati alle ricche famiglie, e nessuno può occuparli. Or siccome il così detto servizio religioso non si fa che una volta sola nelle domeniche, così è chiaro che la totalità dei cittadini è fisicamente esclusa dall’assistere al culto della sua religione: e le autorità protestanti, ecclesiastiche e civili, vedono con indifferenza questo disordine che allontana la massa del popolo da ogni pratica religiosa. È l’eresia, che si è arricchita delle opime spoglie del Cattolicesimo, e che retribuisce i suoi ministri sì strabocchevolmente che ce ne hanno per mantenere palazzi spiranti lusso e mollezza profana, copiosa servitù, ricche carrozze, cacce clamorose, deliziose campagne, non solo per sé ma per le loro mogli e per i loro figliuoli, per le loro nuore, per i loro generi, per le loro sorelle, pei loro nipoti: l’eresia, dico, che profonde tante ricchezze a ricompensare la servitù abbietta de’ suoi ministri, non trova poi un obolo per edificare templi dove il popolo possa raccogliersi e ricordarsi almeno una volta la settimana che vi è Iddio. Ah! questi bravi uomini rendono essi stessi giustizia al loro culto e alla loro fede. Sanno pur troppo che un sì povero culto, figlio di una sì povera fede, non è né grato a Dio, né necessario, né utile agli uomini. Il denaro che s’impiegasse a dilatarlo, a promuoverlo, sarebbe buttato; ed è meglio adoperarlo a fabbricare officine mercantili che almeno rendono, o teatri che almeno divertono. Intervengono, è vero, i protestanti a questo culto sì meschino, vi assistono: ma più come ad una cerimonia umana che come ad una funzione divina; la riguardano più come un affare di mera convenienza sociale che come un obbligo morale di religione. – Questo sentimento di noncuranza e di disprezzo del culto protestante, i protestanti di Amburgo Io manifestano in una maniera pubblica e solenne, e che sarebbe ridicola, se non fosse sacrilega. Un testimonio oculare ci ha riferito che, di passaggio nell’indicata città, in giorno di domenica, vide ingombra di carrozze tutta la gran piazza dirimpetto all’antica cattedrale cattolica, cambiata dall’eresia in tempio protestante. Credendo adunque che i padroni di quelle carrozze fossero in Chiesa ad assistere il servizio divino, qual fu perciò la sua sorpresa allorché, entrato nel tempio, lo trovò affatto deserto? ed avendo ricercato « che stavano dunque a fare sulla piazza quelle carrozze? » ne ebbe in risposta: « Che i ricchi ed i signori protestanti, non usando più di andare in chiesa nei dì festivi, vi mandavano le loro carrozze ad onorarne la piazza. « Oh uomini veramente religiosi e pii! che, non potendo andare di persona in chiesa a render culto al Signore, ed essendo troppo lusso di religione il farsi rappresentare in chiesa dai loro domestici, si fanno rappresentare sulla piazza dai loro cavalli! Ora può mai immaginarsi, dalla parte dei protestanti medesimi, atto non dico di maggiore indifferenza, ma di maggior insulto e di maggior disprezzo pel culto protestante? Ecco frattanto a che miseria, a che degradazione il protestantismo ha fatto discendere la religione!

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (54) LA VERA E LA FALSA FEDE -IX.-

LA VERA E LA FALSA FEDE – X-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

PARTE SECONDA.

S I CONFERMA ULTERIORMENTE LA VERITÀ DELLE ESPOSTE DOTTRINE

§ XVIII. – Applicazione delle esposte dottrine alla morale cristiana. Che cosa sono i SANTI; essi nella Chiesa cattolica solo si trovano. I principi del protestantismo diruttori di ogni virtù. Orribile corruzione di costumi ch’essi hanno prodotta. L’abolizione del celibato ecclesiastico vi ha potentemente contribuito. Necessità ed importanza di questa sublime istituzione pel sacramento della confessione. Che cosa è divenuto questo sacramento presso gli scismatici? 1 vizj che regnano fra i cattolici! Effetto della secreta influenza dell’eresie, come un avanzo di probità che si trova presso gli eretici è dovuto all’influenza segreta della cattolica verità, che sola genera la virtù.

Colla fede però e col culto l’eresia ha distrutto ancora e renduta impossibile la santità e la virtù. Uomo veracemente santo vuol dire uomo che quasi più non ritien nulla delle debolezze della corrotta umanità; che per la pratica dell’annegazione continua di tutto sé stesso ha soggiogata interamente la concupiscenza corporea, i sintomi della cupidigia e la febbre dell’orgoglio: che ha dato, dirò così, un nuovo corso, una nuova direzione alle sue inclinazioni carnali e terrestri per non averne altre che celesti e spirituali; ha rifuso interamente se stesso, e per mezzo della carità più disinteressata, più generosa, più pura e più perfetta non vive che in Dio, di Dio e con Dio. Ora questo prodigio, più grande, piò splendido di quello della risurrezione di un morto, giacche è più difficile, è più al disopra di tutte le leggi naturali che un uomo corrotto e terrestre viva una vita tutta spirituale, angelica, celeste e divina, di quello che un cadavere umano ritorni alla vita dell’umanità; questo prodigio, dico. non può essere l’opera delle fredde teoriche della ragione, ma dei sublimi sentimenti della fede; non può essere l’opera del fanatismo, ma della grazia; non può essere l’opera degli sforzi dell’uomo, ma dell’onnipotenza di Dio; giacché solamente il Dio che formò l’uomo può riformarlo, e sulle rovine dell’uomo, vecchio, che si confonde con Adamo peccatore, ristabilir l’uomo nuovo, che si confonde, si identifica e diventa una cosa sola con Gesù Cristo. Ora Iddio non può contraddire a se stesso; non opera perciò e non può operare miracoli se non in conferma della sua religione, della sua parola, né far servire la sua onnipotenza se non in difesa della sua verità. Perciò nella sola Chiesa cattolica si sono perpetuati i miracoli, non solo nell’ordine della natura, ma ancora nell’ordine della grazia, ed in essa sola coi taumaturghi si trovano i santi. Dimodoché, quando anche ogni altro argomento mancasse, dal vedere ch’essa sola forma i veri santi, che i santi in essa sola s trovano, e perciò dal vedere ch’essa sola è santa non pure nel suo capo invisibile e nelle sue leggi, ma ancora in moltissime delle sue membra, questa unica testimonianza basterebbe a dimostrare invincibilmente ch’essa sola è vera. Al contrario dove sono i santi che ha formati il protestantismo? Ci si nominino, ci si mostrino. Sul principio della riforma, turpi discepoli di maestri peggiori non arrossirono! (e di che mai arrossì l’eresia?) d’inserire nelle litanie dei santi i nomi di mostri di libidine, di orgoglio e di crudeltà! e i templi profanati echeggiarono dell’invocazione sacrilega di S. Lutero, S. Calvino, S. Swinglio, S. Arrigo VIII, Santa Elisabetta! Ma non è dato lungamente all’orgoglio d’insultare sì sfacciatamente al pudor pubblico e prendersi, questo segno, scherno del senso comune; oltredichè la commedia era non solo empia, ma ancora ridicola. Si rinunziò dunque a questa invocazione, e non mai più gli eretici delle diverse sette hanno avuta la stolida pretensione di vantarci dei SANTI, contentandosi solo d’indicarci degli ONESTI UOMINI. Noi al contrario mostriamo agli eretici con confidenza l’immenso catalogo de’ santi che fino ai dì nostri ha formati la grazia della vera fede. Noi ne abbandoniamo con .sicurezza la vita all’esame il più rigoroso dei nostri nemici. La considerino pure coll’attenzione di un occhio anatomico, che spiando i più reconditi recessi, le fibre più sottili del corpo umano.  Ci additino, se loro riesce, in questi eroi della vera virtù, in questi prodigi della grazia, una sola azione, un sol sentimento, un solo pensiero, un solo affetto che non sia in armonia perfetta colla sublime perfezione del Vangelo. Ma gli eretici si guarderebbero bene di farci la stessa esibizione e la stessa disfida intorno ai loro onesti uomini. Se noi ci mettiamo col Vangelo alla mano, ad esaminarne la vita, troveremo che molti di questi santi della ragione sarebbero stati men degni dell’altare che del capestro. Sono sepolcri imbiancati che, scoperti all’occhio puro della vera fede, non esibiscono che tutta la miseria, l’egoismo, l’orgoglio dell’uomo corrotto, sotto il velo ben trasparente per altro di una probità bugiarda. – Del rimanente. mirate bene come in questa materia l’errore è conseguente, e come dalla sua bocca esce la verità. Citandoci solo onesti uomini, gli eretici si danno per vinti e confessano di non poterci esibire dei santi. Deh! che la santità cristiana non si ritrova che nel terreno della cristiana verità. Essa è un fiore che non germoglia che dalla vera fede; non spunta che colla rugiada della grazia dei sacramenti; non viene a perfezione che all’ombra della cattedra di S. Pietro; non ispiega l’incanto della sua bellezza che sotto il clima del Cattolicismo; non si raccoglie che nell’orto chiuso della vera Chiesa. In quanto poi alle persone notabili dell’eresia, S. Giuda apostolo le ha ben dipinte dicendole « alberi infruttuosi, senza radice, morti due volte, alla verità del credere ed alla santità dell’operare; stelle fatue che non hanno né luce durevole né vivificante calore: Arbores infruttuosæ, bis mortuæ, eradicatæ, sidera errantia (Jud. 12). » Non può fare un intero sacrifizio del cuore alla pratica del bene chi non comincia dal sacrificar l’intelletto alla credenza del vero. La matta indipendenza, l’orgoglio insensato della ragione è un mezzo efficace, come insegna S. Paolo, da corrompere tutto l’uomo anziché santificarlo. La santità non può adunque nascere nel terreno dell’errore che non produce che spine. Umane opinioni non possono produrre virtù divine. Come le credenze degli eretici non si sollevano alla dignità di domini, così non mai all’eroismo della santità s’innalzano le loro azioni. Il filosofismo e l’eresia sono egualmente impotenti a formare un vero credente ed un uomo veramente virtuoso. Essi han formato una volta tutto al più dei savj in apparenza secondo il mondo; non vi è che la vera fede che forma i s|anti secondo Dio. – Ma che dico io mai? La santità? Anche la virtù cristiana la più volgare si è diseccata ed è quasi interamente scomparsa sotto l’aura pestilenziale dello scisma e dell’ eresia. Quando si è scosso il giogo della fede, quello della legge diviene affatto insopportabile ed odioso. Perciò Lutero, mentre con una mano abbatteva i dommi più sacri, fu visto distruggere coll’altra i più gravi precetti, autorizzando il langravio di Assia a sposare altra moglie, vivente ancora la  prima, e concedendo licenze ad ogni marito di servirsi ancor dell’ancella; accordando in una parola, non solo il divorzio ma l’adulterio ancora, ma la pluralità delle donne ed introducendo in Europa i costumi dell’Asia. E tutto ciò non ostante che l’unità e l’indissolubilità delle nozze sia  stabilita, e l’adulterio chiaramente condannato nella Scrittura, che pure, per Lutero, è l’unica regola di morale e di fede che bisogna seguire. Ma la muta Bibbia, senza un’autorità che la interpreti, come dà luogo a diverse interpretazioni dommatiche,  così dà luogo a diverse interpretazioni morali, e rende la regola dei costumi cosi arbitraria ed incerta come quella della fede. Subito che si è ammesso che ognuno deve formarsi da sé il suo simbolo, leggendo la Scrittura; si è dovuto pure ammettere che ognuno, leggendo pure la Scrittura, deve formarsi il suo decalogo, e tutti i nuovi decaloghi devono essere tollerati, come tutti i simboli novelli. La tolleranza di tutti gli errori rende necessaria quella di tutti i vizj. Non si può negar la licenza di tutto fare a chi si è conceduta quella di tutto credere. – Ma siccome ogni principio morale deve in un principio il suo appoggio, così i capi della riforma, come se avessero temuto che la logica delle passioni non sarebbe stata abbastanza forte per dedurre la più intemperante licenza del vivere dalla più sfrenata licenza dell’opinione, vollero dare una garanzia dommatica al vizio. Calvino coll’avere insegnato che la grazia del Battesimo, per qualunque eccesso che si commetta, non si perde giammai, eresse in domma l’indifferenza di tutti i vizj; e Lutero avendo insegnato che la sola fede è più che bastevole, che le opere buone, lungi dall’essere necessarie, sono anzi un ostacolo per conseguire l’eterna salute, fece un articolo di fede che tutti i vizj sona virtù. Val però senza dirlo che i buoni discepoli di sì buoni maestri si affrettarono di levare tatti gli ostacoli dalle opere buone che potevano contrastar loro l’acquisto dell’eterna salate; e si cominciarono a fare scrupolo di viver bene per non indebolire il merito e l’efficacia della fede. Perciò alla voce dell’eresia un torrente di vizj videsi venire appresso ad un torrente di errori. La vera probità cristiana scomparve colla vera fede, e ad eccezione del popolo particolarmente delle campagne, in cui le tradizioni cattoliche, con un avanzo di verità cristiana, mantennero tuttavia un’ombra di cristiana virtù, in generale però, nei paesi tiranneggiati dall’eresie e dallo scisma, la depravazione dei costumi divenne sì profonda e sì universale che in alcuni luoghi parve che la morale di Epicuro e di Petronio fosse sottentrata alla morale di Gesù Cristo. Ma qual meraviglia di ciò? la morale cristiana si mantiene tra i popoli per l’azione, e l’ascendente del clero. Ora quale azione, qual ascendente può mai avere sui popoli il clero eterodosso, i cui membri, prima di prendere una chiesa ossia di avere una sposa spirituale, ne prendono una carnale, e non si fan sacerdoti se non dopo esser divenuti mariti? La consacrazione, di cui si è conservato l’uso in Russia ed in Inghilterra, non obbligando alla continenza, non dà al sacerdote alcun carattere esteriore e visibile che gli concilii la venerazione e il rispetto. Non vi è che la castità, virtù sublime, caratteristica augusta dei cattolico clero, che, sollevando l’uomo al di sopra dell’umanità, lo fa riguardare come un essere angelico e divino, e gli dà quella superiorità di grado, quella forza morale sui cuori, di che gode il sacerdote cattolico. Tolto il celibato, è difficilissimo l’ottenere che il popolo riguardi come divina la parola di colui di cui lo stato del matrimonio rende umana e simile a quella degli altri la persona e la vita. Una toga nera ed un berretto rotondo forma, fuori della vera Chiesa, tutto il distintivo esteriore tra il laico ed il sacerdote. Ma il proverbio dice: Abito non fa il monaco. Ci vuole qualche cosa di più del semplice abito per dare all’uomo l’impero sul cuore umano. Oltre a che, quali sollecitudini può avere per gl’interessi della religione chi pria di tutto è obbligato a fare gl’interessi della sua famiglia? Quale affezione, qual zelo pastorale può avere pel suo gregge chi è posseduto dall’affezioni della consorte e dei figli? – Che diremo poi di quei prebendati ricchissimi dell’eresia che si dicono vescovi anglicani, che, affittando, per mezzo dei pubblici avvisi, al miglior offerente le cure subalterne, consumano immense rendite ecclesiastiche ad ingrassare figli e nipoti, cani e cavalli, e menano nel lusso e nella mollezza. nella dissipazione, nel libertinaggio del mondo, sotto un titolo ecclesiastico, una vita tutta profana? che diremo del popolo greco e del ministro protestante? quegli che dall’altare e dal confessionale, dove ha venduta a tanto a testa l’assoluzione, passa alla bottega o alla bettola ad esercitare per vivere esso e la famiglia, i più vili mestieri, i traffici più vergognosi; questi che. come ha osservato il conte de Maistre, avendo spesso in casa visite di nobili lordi, mentre forse parla in chiesa contro l’adulterio, non arrossisce l’indomani, alla fine di una vergognosa querela, di ricevere per decisione del magistrato il prezzo del suo disonore. Nulla perciò eguaglia la disistima, il disprezzo che circonda un siffatto clero. Nulla l’impotenza e la nullità della sua azione sui costumi dei popoli. Lord Fitz Williams, scrittore  protestante, in un’opera famosa pubblicata al principio di questo secolo (Lettere ad Attico) e che fu come un tardo omaggio solenne del protestantismo ai dommi consolatori della Chiesa, che esso ha tentato di distruggere ha dimostrato che è impossibile di stabilire la virtù, la giustizia, la morale fra gli uomini sopra una base alquanto solida, senza il tribunale della Penitenza, come è impossibile lo stabilire il tribunale della Penitenza senza la fede della presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Ora la confessione, dice benissimo il citato de Maistre, la confessione domanda il celibato. Non mai un marito, e molto meno una moglie aprirà tutto intero il suo cuore ad un sacerdote ammogliato. O venerabili colleghi nel grande ministero della riconciliazione e del perdono dei peccatori, quando voi con tanta vostra edificazione udite l’uomo, e molto più la donna, svelati profondi austeri di un cuore corrotto, falli che la coscienza appena osò di affidar palpitando alle tenebre, cadute le più umilianti, disegni, intrighi i più tenebrosi, affetti, pensieri i più turpi; quando insomma voi vedete un’anima che si dà a voi ad essere giudicata come Dio la giudicherà, e che perciò, scasa nasconder nulla, senza nulla scusare, si scopre a voi in tutto l’aspetto della sua turpitudine com’è innanzi agli occhi di Dio che tutto penetra e tutto conosce; ricordatevi che ciò che ispira ai penitenti una siffatta sincerità, una siffatta fiducia, cotanto al disopra delle abitudini umane, si è principalmente perché il celibato vi fa riguardare uomini al disopra degli altri uomini. O castità, o virtù sublime, o ornamento magnifico, o giojello prezioso della Chiesa Cattolica, sci tu che ci sollevi, che ci divinizzi, che ci rendi venerabili agli occhi dei popoli, che c’imprimi sulla fronte un segno divino e ci dai quella superiorità in faccia a cui tremano umiliate e si arrendono vinte le passioni. – Per la ragione contraria però la confessione, tra gli scismatici, si riduce ad un affare di pura cerimonia: Ho bestemmiato, ho rubalo, ho fornicato; ed il prete risponde: ego te absolvo; ed ecco tutto. Perciò in poche ore un solo prete greco ascolta la confessione di un intero reggimento. E se qualche centinajo di uomini rimangono non confessati nel tempo che è al sacerdote dalla ordinanza prescritto sotto pena della bastonata, il buon uomo li fa confessare ad alta voce tutti insieme, e tutti insieme li assolve. Ora dov’è in questi confessori il giudice che decide con una perfetta cognizione di causa, il maestro che insegna, il direttore che guida, il medico che suggerisce gli opportuni rimedj a sanare le piaghe del cuore, uffici di cui Gesù Cristo stesso ha incaricato il ministro del sacramento, e che solo si esercitano dai sacerdoti della vera Chiesa? Essi soli perciò riescono a distruggere i peccati, a riformare i peccatori, a guidare le anime nelle vie della più sincera pietà e della più alta perfezione: cose tutte ignote ed, oso dirlo, impossibili ad ottenersi nello scisma e nell’eresia, in cui la più profonda ignoranza delle cose dell’anima, unita alla privazione assoluta dei costumi ecclesiastici, degrada il ministro ed annulla l’azione del ministero. E che sa e che può dire agli altri uomini un uomo che non ha nulla che lo sollevi al di sopra sopra dell’umano? Immerso in tutte le cure della terra, come parlerà il linguaggio dei cieli! Il sacerdote scismatico è dunque una specie di macchina animata dal vapore dell’interesse, destinata ad assolvere, come la macchina di Pascal era stata inventata per fare le quattro operazioni aritmetiche; incapace di correggere i passati eccessi e di garantire l’anima dai nuovi. Nulla perciò vi si richiede di quella scienza della teologia morale, di quella cognizione profonda del cuore umano, di quella prudenza, di quel discernimento, di quel vanto spirituale che nella Chiesa Cattolica si domandano ad un idoneo ministro di sì gran sacramento. Il confessare fuori della vera Chiesa, è un mestiere come tutti gli altri, e che si può esercitare con minori talenti che si ricercano per gli altri: è un’usanza di convenienza, una conferenza puramente umana, che ha perduto ogni carattere, ogni azione ogni effetto divino. Oh amara derisione, oh profanazione sacrilega del più importante dei sacramenti dopo il Battesimo. Quindi fra questi cristiani il cui ministero ecclesiastico è sì impotente, in cui perciò esercita un’azione sì meschina il Cristianesimo, i costumi particolarmente nelle città, sono detestabili. Lo spirito di avarizia, di traffico e di furto nei privati; il libertinaggio nei grandi, la inverecondie e la facilità del divorzio nelle donne, ed i più turpi delitti che, per sentenza di S. Paolo, escludono dal regno di Dio sono divenuti cose affatto indifferenti presso questi popoli, che lo scisma ha sottratti alla vigilanza, all’autorità del supremo gerarca della vera Chiesa, il custode efficace della vera morale, come l’interprete infallibile della vera fede. – Che se tali sono i costumi degli scismatici, dove pure una larva dì confessione e molte pratiche religiose, benché grossolane, sono pur buone a qualche cosa presso popoli naturalmente buoni: quali saranno presso i protestanti, dove Lutero e Calvino, per facilitare la propagazione della loro teologia per meno del rilassamento della morale, abiurarono la sola base solida della virtù della giustizia, la confessione, disapprovati perciò dallo stesso Melantone; che da questa abolizione previde la rovina intera dei costumi? La lettura di un qualche capitolo della Bibbia, che ognuno spiega a suo modo, e la presenza ad un qualche insipido discorso di morale vaga ed inconcludente in cui pochissimi credono, a cui nessuno fa attenzione: ecco i soli soccorsi che il protestante ha lasciato all’uomo per correggere per le sue abitudini, per riformare i suoi vizi, per domare l’impeto delle passioni, per acquistare la giustizia che forma il Cristiano in terra e il candidato dei cieli. Perciò, eccettuate le campagne, dove un avanzo di religione conserva un avanzo di moralità, nelle grandi citta, particolarmente dedite all’industria ed alle manifatture, la plebaglia in materia di morale sembra discesa alla dissolutezza, al cinismo, alla degradazione, alla brutalità dei costumi pagani. I grandi, i ricchi, gl’industriali, intenti a moltiplicare i vantaggi del traffico e tutte le delizie della vita, pare che altro Dio non abbiano che l’oro e il piacere. Li diresti uomini che, avendo perduta l’intelligenza, coltivano ciò che loro rimane, la carne. Il materialismo più abbietto e più inverecondo traspira dalle loro maniere e dalla loro condotta. Hanno diviso il giorno in modo che una terza parte ne danno agli affari, ed il rimanente alla crapula, al sonno, ai giuochi, agli spettacoli, al libertinaggio. Queste cose si avvicendano e si succedono in modo che non lasciano il più piccolo spazio da pensare alla religione, all’anima, all’eternità. Tutto l’essere morale ed intelligente di questi Cristiani degradati rimane interamente assorbito dalle cure temporali e dalle delizie corporee. Così essi riescono ad evitare le noje della vita, a reprimere il rimorso, ad istupidirsi, ad assonnarsi intorno al loro eterno destino, cui vanno intrepidamente incontro dopo una vita che poco ha dell’uomo, nulla del cristiano. O cieche vittime di tutti i vizj e di tutti gli errori, coronate dal demonio di fiori, e che per un sentiero di delizie siete strascinate all’altare della eterna giustizia per esservi in eterno sacrificate! – Ma che? forse che le contrade cattoliche sono incorrotte? forse che l’oblio sistematico abituale di ogni pensiero e di ogni sentimento, non che di ogni pratica religiosa; forse che lo studio di accrescere i godimenti della vita e di procacciarsi l’oro anche per le vie più turpi, perché coll’oro ogni cosa si compra; forse con la smania di tormentare la natura corporea per obbligarla a fornire ai sensi nuove lusinghe e nuove delizie; forse che il furore per gli spettacoli voluttuosi, per li piaceri sensuali, per le oscene letture, pel lusso il più immoderato e il più inverecondo; in una parola, forse che il materialismo, ultima conseguenza dell’errore e primo preludio infallibile della ruina degli stati e delle nazioni, non regna ancora in qualche paese cattolico coll’infame corteggio di tutti i vizj? non vi ha quasi distrutto ogni traccia esteriore di Cattolicismo? non vi si gonfia ogni dì più, non vi si dilata siccome un torrente, minacciando di assorbire nelle fangose sue acque ogni principio di onore, di probità, di fede, e di far retrocedere il popolo cristiano sino alla corruzione idolatra? Tutto ciò è vero pur troppo. Se Africa piange, Roma non ride. I disordini di Gerusalemme eguagliano qualche volta quelli di Samaria; e il fedele Giuda sembra divenuto tanto colpevole! quanto lo scismatico Israello! Si osservi però che questa corruzione di costumi, che si ha pur troppo a deplorare anche in molte contrade cattoliche, vi è venuta da fuori. Essa è cresciuta all’ombra e sotto l’alito dell’eresia, come l’eresia ne prese i germi funesti dalle contrade idolatre; e dai paesi degli eretici, coi loro libri, coi loro costumi. Coi loro usi, colle lor mode, col loro linguaggio si è ita filtrando e si è segretamente propagata in varie cattoliche nazioni. – l.a civiltà è cosa sacra; giacché la civiltà vera è una pianta che non germoglia, non fruttifica che nel terreno della vera religione. Oggi però il sacro vocabolo di civiltà si è profanato e si fa servir di velo al materialismo più abbietto, come si è fatto servire di velo alla più matta anarchia e al dispotismo più crudele il vocabolo di libertà. E non è egli vero che nell’idea, nel linguaggio di certi stupidi economisti, di certi politici da collegio e da caffè, una città passa per incivilita se ha profumieri e modiste, sale di ballo e sale di giuoco, accademie e teatri, romanzi e giornali, la borsa mercantile ed un luogo di prostituzione? Cioè a dire che la civiltà, che consiste nella verità della religione, nella giustizia delle leggi, nella probità e nella mansuetudine dei costumi, si fa oggi consistere in tutto ciò che può depravare i costumi, rendere inique le leggi e nulla la religione; in tutto ciò che serve ad ingentilire e variare il vizio, a procurargli nuovi incentivi ed un’ampia impunità; in tutto ciò, insomma, che tende a ristabilire sulle rovine delle dottrine dello spirito il regno della materia, e l’idolatria del corpo e la religione del piacere sulla speranza del nulla. – Ora questo abuso detestabile di idee e di vocaboli, che ben presto si è riprodotto nei costumi, è venuto esso pure dalle contrade ereticali; ed ecco, fra tante altre, la bella merce di che l’Europa cristiana va debitrice all’eresia! Non dico io già che, prima della riforma luterana, non vi fossero scandali in Europa. Sì, ve ne erano e ben grandi e in quella parte onde si aveva meno motivo d’aspettarli. Fu anzi la depravazione dei costumi di Germania e d’Inghilterra che apri le vie e formò il letto al torrente dell’errore. Ma il vizio allora era vizio; l’eresia luterana ne ha fatto un dovere e lo ha eretto in virtù. Quindi, ove in quei secoli di fede con una lunga penitenza espiava per lo più l’età matura i disordini della gioventù, ed a questo spirito di penitenza si devono i grandi monumenti consacrati alla gloria della religione ed al sollievo dell’umanità che abbelliscono la superficie dell’Europa: oggi poi si vedono uomini che si dicono Cristiani prolungare sino nel gelo della vecchiaja la licenza di corrotti costumi, e lungi dal fondare nuovi stabilimenti di religione e di carità, la civiltà moderna non fa che distruggere gli antichi. Neppure intendo dire che tutti gli eretici siano viziosi e che tutti i Cattolici son santi. Vi hanno fra i protestanti uomini da bene, a ciascuno dei quali potrebbe dirsi: Talis cum sis utinam noster esses! come si trovan dei pessimi uomini fra i Cattolici, di cui siamo obbligati ad arrossire. Vi è però anche qui questa immensa differenza, che l’eresia conducendo per una necessità logica alla estinzione di ogni virtù perché distrugge ogni fede, l’eretico per operar bene bisogna che dimentichi se stesso, che si sollevi al di sopra e si metta in opposizione de’ suoi stessi principj di errore. – Al contrario, la fede cattolica conducendo, pure per una necessità logica, alla vera virtù, il Cattolico, per operar male, bisogna che dimentichi sé medesimo, che si metta al di sotto ed in opposizione della sua religione di verità: e l’una e l’altra cosa accade di frequente; giacché l’uomo non è sempre conseguente a sé stesso. Ma come il Cattolico che conforma esattamente la sua condotta colla sua fede è santo, giacché la santità non è che la verità della fede posta in azione col soccorso della divina carità, così l’eretico che conformasse esattamente la sua vita alla sua dottrina, per esempio luterana o calvinista, diventerebbe un mostro: giacche la perversità non è che l’errore ereticale realizzato nelle opere coll’ajuto dell’ispirazione diabolica. Di più. coloro fra gli eretici che conservano alcun che di cristiana probità lo devono alle tradizioni cattoliche che in molte contrade, in molte famiglie sono rimaste superstiti alle cattoliche istituzioni che vi sono state distrutte. Lo devono al nostro esempio, al nostro tratto, ai nostri scrittori; giacché sappiamo che in molte famiglie protestanti in Inghilterra non si leggono che Bourdaloue e Massillon e i grandi ascetici ed i grandi maestri della morale cattolica. Al contrario, il rilassamento nei costumi, l’indifferenza per la fede, che si scorge in molte contrade cattoliche, vi sono stati trasportati dai lidi protestanti; e tutto questo è il risultato funesto dei loro esempj, del loro tratto, dei loro libri, come accade al presente in Ispagna. Perciò come non si è virtuoso fra gli eretici se non per una partecipazione segreta dello spirito cattolico, e non si è pessimo fra i cattolici se non per l’influenza segreta dello spirito ereticale: così le stesse virtù degli eretici, come gli stessi vizj dei Cattolici servono a provare che è sempre l’errore che fa germogliare il vizio, che la virtù nasce dalla verità, e che la sola Chiesa Cattolica, colla vera luce che forma i credenti, conserva e porge la grazia che forma i santi.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (55) LA VERA E LA FALSA FEDE -X.-

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (53) – LA VERA E LA FALSA FEDE (VIII.)

LA VERA E LA FALSA FEDE –VIII.

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

PARTE SECONDA.

SI CONFERMA ULTERIORMENTE LA VERITÀ DELLE ESPOSTE DOTTRINE

§ XV. – L’effetto che deve necessariamente produrre la discordia delle opinioni si è di renderle tutte incerte. Osservazione sopra di ciò di Cicerone applicabile a lutti gli eretici. Quale è il loro più ordinario modo di avere una opinione. Senza l’autorità o il consenso non si può esser certo della verità dei proprj raziocinj. Testimonianze di Cicerone sopra questa materia. Col leggere solo la Scrittura, l’eretico si forma opinioni e non credenze intorno alla religione. Perciò tra i protestanti non vi sono dommi, ma sterili e vane opinioni.

Or qual sarà mai l’effetto di questa infinita discrepanza di opinioni, onde fra gli eretici le sette sono ostili alle sette, e gl’individui in guerra cogl’individui? L’incertezza e il dubbio. S. Tomaso lo ha detto: « Quando si vede che diversi fra coloro che si stimano sapienti opinano diversamente fra loro sopra di una cosa stessa, per altro dimostrata come verissima, e diversamente la insegnano, questa stessa cosa diviene dubbiosa ed incerta: Apud multos in dubitatone permanent ea quæ sunt verissime demonstrata, cum videant a diversis, qui sapientes dicuntur, diversa doceri. Cicerone aveva fatto di già tanti secoli prima la stessa osservazione, e citava l’esempio dei filosofi per prova della sua verità. Imperciocché, nel secondo degli accademici, dopo di avere enumerate le diverse opinioni dei filosofi intorno a Dio, e messi in contraddizione fra loro Zenone e Cleante, il maestro e il discepolo; dei quali il primo sosteneva che l’etere è il sommo Dio, e l’altro che il Dio supremo regolatore dell’universo si è il sole: Tullio conchiude appunto così: « Questa dissensione che vediamo regnare tra i capiscuola della filosofia intorno a Dio ci obbliga ad ignorare il Signor nostro; ed ormai non possiamo più saper con certezza se dobbiamo prestare l’omaggio della nostra servitù all’etere, ovvero al sole: ltaque cogimur, dissensione sapientum, dominum nostrum ignorare: quippe qui nesciamus, soli an etheri serviamus. Così pure, dopo aver fatto il quadro delle sentenze contraddittorie dei filosofi, sull’anima umana, dice: « Di queste contrarie sentenze, presentate tutte come vere, quale però sia la vera in realtà, ormai non può altri saperlo fuorché un Dio. In quanto a noi uomini, i filosofi colle loro dissensioni ci lasciano nell’incertezza: e nemmeno ci permettono  di decidere quale sia la vera: Harum sententiarum qua vera sit, Deus aliquis viderit: qua verosimilis, magna quæstio est. » – Ora allo stesso modo è obbligato a discorrerla 1’eretico intorno alle verità cristiane. Le opinioni diverse, i contrari sistemi, che tante migliaia di sette professano intorno a queste medesime verità, devono rendergliele necessariamente dubbiose ed incerte. Ed incerto pure diverrà per lui se il vero Cristianesimo sia fra i ruteni o fra i Greci, fra i luterani o fra i calvinisti, fra i metodisti o fra i quaccheri, fra presbiteriani o fra gli anglicani, fra i sociniani o fra gli anabattisti. Né là testimonianza della sacra Scrittura, in cui queste sette si vantano di aver trovata la loro fede, può rassicurarlo: perché è impossibile che la stessa Scrittura contenga, sopra uno stesso articolo, opinioni cosi contraddittorie come sono quelle onde una setta dall’altra discorda. Immaginate ancora che le sette nate dalla ribellione alla vera Chiesa non siano più di cento (quando si contano per migliaja). L’individuo di una di queste sette, per poco che ragioni, come potrà mai essere certo che la dottrina della sua setta sia la vera quando vede che le altre novantanove la condannano come eretica e come falsa? Con qual dritto dirà che tutte queste sette (che pur assicurano di aver seguite le stesse guide, la Scrittura e la ragione) sono nel falso, e la sua sola setta è nel vero? Sopra qual titolo accorderà il privilegio dell’infallibilità alla setta propria, e lo negherà a tutte le altre? Che sarà poi se, come si è notato, consideri l’infelice settario che anche nella setta propria degl’individui che la compongono non intendono poi allo stesso modo le dottrine che vi si processano? Non può dunque l’eretico appoggiarsi fuori di sé, sopra una fede comune, dove comun fede non vi è. Non può prendere almeno come in imprestito la certezza degli altri, se gli manca la propria; e lungi dal ritrovare fuori sé quell’appoggio possente alla sua credenza che i Cattolici, per sempre meglio confermarsi nella loro, ritrovan nella perfetta conformità del credere di tutta la Chiesa; non trova nella varietà delle opinioni di tante sette contrarie alla sua e degli stessi individui della sua medesima setta che motivi di dubbio e d’incertezza. Privo adunque ad un tempo e del sostegno dell’ autorità della Chiesa, che non riconosce, e del soccorso della grazia della fede, che non implora, e dell’appoggio della conformità delle altrui credenze colle sue, che non ritrova, rimane l’eretico perfettamente isolato dal cielo e dalla terra, dagli uomini e da Dio. Rimane abbandonato unicamente ai suoi lumi individuali e privati, in mano del suo consiglio e del suo giudizio, e non può contare che sopra sé stesso per indovinare la vera religione. Ora è egli facile che un viandante, lasciato solo in un immenso deserto, dove non vi è né sentiero né guida, ritrovi la sua strada per arrivare alla patria? Perciò la maggior parte degli eretici che ragionano, evitano di ragionare per accertarsi della vera religione. Non han coraggio d’intraprendere un lavoro, di cui l’immensa difficoltà è certa, incertissimo il risultato. – Accade dei settarj della religione ciò che Cicerone dice dei settarj della filosofia: nella età ancor tenera, o per compiacenza verso di un parente e di un amico, o abbagliati dall’eloquenza di un maestro da cui hanno ricevute le prime lezioni, pronunziano giudizio di cose che ancora non intendono, e si attaccano tenacemente al primo sistema che loro si è offerto, come chi ha fatto naufragio ed è sbattuto dalla tempesta si afferra al primo sasso che gli viene incontro: firmissimo tempore ætatis, aut obsecuti amico cuidam, aut una alicuius, quam primum audierint, oratione capti de rebus incognitis judicant; et ad quamcumque sunt disciplinam, tamquam tempestate delati, ad eam tamquam ad saxum adhærescunt. Hanno poi un bel dire che hanno  dato a tal sistema la preferenza perché insegnato da un uomo di maggior sapienza e di maggiore dottrina degli altri. Essi  mentiscono a se stessi. E come mai uomini ancora rozzi ed ignoranti potevano da per se stessi sopra ciò formare giudizio? E non si ricerca di fatti una consumata sapienza per decidere chi è più sapiente? Nam quod dicunt, se credere ei quem  indicant fuisse sapientem, probarem si idipsum rudes et indocti indicare potuissent. Statuere enim quis sit sapiens, vel maxime videtur esse sapientis. I più dei filosofi adunque non è già che credan vere le loro dottrine, ne conoscono anzi la falsità e l’errore. Ma siccome, per una incomprensibile frenesia, quest’errore, adottato da essi una volta, è loro amabile e caro; così ostinatamente lo diffondono, amando meglio di errare di quello che ricercare con animo imparziale la verità, che consiste in quello che SEMPRE E DA TUTTI si crede, e sì dice: Sed nescio quomodo plerique errare malunt, eamque sententiam, quam adamaverunt, pugnacissime defendere quam sine pertinacia quid COMSTANTISSIME dicatur exquirere (Àcad., lib. 1). –  Or ecco la storia altresì di quasi tutti gli eretici; sono pure essi pure lontanissimi dal credere, in faccia a tante contrarie testimonianze, che la loro setta o la loro dottrina è certamente la vera. Ma, o perché l’adottarono una volta nell’interesse di qualche passione, o perché vi sono natie cresciuti, vi si ostinano; e preferiscono le stravaganze e le turpitudini di un eresiarca privato alle credenze della Chiesa universale. – Molto più dopo che l’eresia, rivoltasi ad arrestare, per le vie del rispetto umano, le continue conversioni alla fede cattolica. che non può più arrestare per le vie della discussione o della tirannia, è giunta ad accreditare in Europa la massima che un uomo onesto non cambia mai religione: massima orribile., infernale, perché significa o che tutte le religioni sono egualmente buone per salvarsi, ciò che, come qui appresso vedrassi, è un’assurdità ed una bestemmia: o che, non essendovene se non una sola che conduca alla salute, l’uomo onesto che se ne trova fuori non deve abbracciarla, ma sacrificare ad un misero puntiglio Dio. l’anima, l’eternità, ciò che è il cumulo del delirio. Non sono però mancati, né mancano pur tuttavia degli eretici che, colla Scrittura alla mano, che leggono e rileggono di continuo, cercano di formarsi una religione. Infelici però! essi coi privati loro sforzi non arrivano, né possono mai arrivare a nulla di certo e di sicuro. Imperciocché egli è fuor di dubbio che l’uomo isolato e ridotto ai mezzi individuali di conoscere non è certo se non delle verità per sé note e immediatamente evidenti, cioè delle verità di semplice percezione; sia che le conosca immediatamente coll’intelletto (lnlellectus simpliciter percipiens semper est verus, S. Thomas); sia che le riceva per mezzo dei sensi, il cui giudizio, circa le cose di loro particolar competenza, è certo e sicuro (Sensus circa sensibile proprium sempre est vena, idem). E la ragione di ciò si è che, fino a tanto che si tratta di semplici percezioni, sì l’intelletto come il senso è sempre passivo, e quindi, dice lo stesso S. Tomaso, riporta fedelmente l’impronta della verità da cui è stato informato, come la cera riceve e ritiene l’impronta del sigillo che vi si è impresso. Ma quando trattasi di verità, di deduzione e di raziocinio, in cui l’intelletto divide e compone e diviene attivo e vi mette qualche cosa del proprio, nulla di più facile che l’ingannarsi (Error est in intellectu componente rei dividente, idem). E perciò ha detto pure S. Tomaso:« Troppo sovente accade che la ragione umana, camminandoper la via dell’inquisizione privata, incontri l’errore mentre crede di abbracciare la verità; attesa la debolezza del nostro intelletto nel ben giudicar delle cose, e la facilità che vi è da prendere per una verità un’illusione della fantasia (lnvestigationi rationis humanæ plerumque falsitas admiscetur, propter debilitatem intellectus nostri et phantasmatum admixtionem). » E perciò accade che anche le cose di cui la privata ragione è riuscita a persuaderai sulla testimonianza di una dimostrazione ben fatta rimangono incerte per l’uomo isolato; perché non può mai, finché è solo:  assicurarsi di avere tutti evitati i tredici scogli delle fallacie; un solo dei quali in cui s’intoppi basta a distruggere la rettitudine della dimostrazione: Et ideo apud multos indubitazione permanent ea quæ sunt verissime demonstrata dum vim demonstrationis ignorant. Inter multa etiam vera quæ demonstratur, immiscetur aliquando aliquid falsum, quod non demonstratur, sed aliqua probabili vel sophistica ratione asseritur. Se dunque l’autorità di persona che non può e non vuole ingannarlo, o il senso comune dei periti o dei dotti nella materia di che si tratta, non viene ad assicurar l’uomo che ha ragionato della rettitudine dei suoi raziocinj, egli è obbligato a diffidarne, a temer sempre che l’opposto di ciò che gli sembra vero sia falso; e la propria esperienza e quella dei più grandi ingegni che, ingannati da false evidenze, sono caduti in turpissimi errori, non può che confermarlo in questo timore. Quanto dire che l’uomo che conta solo, che solo ragiona, discute, dimostra, e che si fonda sul terreno vacillante della sua privata ragione,non può formarsi che opinioni più o meno probabili, più o meno vaghe, ma non già dommi certi ed immutabili; può giungere ad una certezza provvisoria, che altro non è se non la probabilità; ma non già ad una certezza assoluta,che comandi un’adesione dell’intelletto ferma, intera, costante, immutabile. – La storia della filosofia antica e moderna conferma la verità di questa dottrina. Gli antichi filosofi, con tutti i loro studi, con tutti i loro sforzi, con tutte le loro dispute sulle più importanti verità, sopra Dio e l’anima, non arrivarono a formarsi, come si è veduto, che opinioni più o meno incomplete, incerte, assurde, turpi, inette e ridicole; ma non poterono mai stabilire nulla come assolutamente certo e sicuro.Udiamo per tutti Cicerone idoneo testimonio di tutta la pagana antichità. Nei tre libri Sulla natura degli dei, introducendo egli Vellejo a sostenere la dottrina epicurea, Balbo la stoica, Cotta l’accademica intorno a Dio; nell’esame profondo che fa di queste tre dottrine delle tre scuole o sette principali della filosofia, passa in rivista, mette a fronte e pesa con pari eloquenza ed erudizione tutte le opinioni. dei filosofi sopra Dio. Or ecco come conchiude egli questo lungo ed interessante trattato sopra la prima e la più importante di tutte le verità: «Dopo questa discussione ci separammo, ritenendo presso a poco ciascuno la sua antica opinione, giacché a Vellejo parve più vera l’argomentazione di Cotta; a me poi parve più verosimile quella diBalbo: Hac cum essent dicta, ita discessimus ut Vellejo Cottæ disputatio verior, mihi Balbi, ad veritatis similitudinem, videretur esse propinquior. »Oh parole! oh confessione! Chi non si sente stringere il cuore?chi non arrossisce della debolezza della ragione umana al vedere un ingegno sì grande, anzi i più grandi ingegni dell’antichità altro frutto non ritrarre da sì lunghe discussioni che quello di concetti vaghi, di opinioni più o meno probabili, più o meno incerte intorno a Dio? oh miseria! disputare tanto per ottenere sì poco! Né meno debole, vacillante ed incerta era l’opinione di Tullio sull’immortalità dell’anima: verità la più importante dopo quella dell’esistenza di Dio, colla quale è legata e dalla quale discende. È vero che in diversi luoghi delle sue opere dichiara di ammetterla e volerla sempre ritenere, ma senza esserne né certo né sicuro; e il suo linguaggio problematico sopra questa materia indica più la sua inclinazione e il suo gusto di quello che il suo convincimento di essere immortale. Poiché dice: « Se erro nel credere all’immortalità dell’anima, erro volentieri; e finché vivo, non soffro che nessuno mi levi dalla mente questo errore che tanto mi piace. Se poi, come poveri e meschini filosofi opinano, la mia anima morrà col corpo, non ho a temere che le anime di questi filosofi, che periranno come la mia, mi befferanno per questo mio errore: Quod si in hoc erro, libenter erro, nec mihi hunc errorem, quo delector, extorqueri volo. Sin mortuus, ut quidam minuti philosophi censent, nihil sentiam; non rereor ne hunc errorem meum philosophi mortui irrideant. » Altrove poi, avendo esortato il suo uditore a leggere il celebre libro di Platone, in cui Tullio dice trovarsi ciò che può desiderarsi di più eloquente e di più solido in favore dell’immortalità, introduce lo stesso uditore a fare una dolentissima confessione intorno all’insufficienza dei raziocinj degli uomini più grandi per far credere con ferma certezza una qualunque verità. Poiché gli fa dire: « ho fatto più volte, tel giuro, ciò che mi suggerisci (di leggere il citato libro di Platone): ma, non so come, mentre leggo un tal libro mi pare di rimanere convinto; quando poi lo chiudo e comincio a ripensar meco stesso sull’immortalità, tutta la mia persuasione svanisce, e mi trovo incerto siccome pria: MARC. Num eloquentia Platonem superare possumus? Evolve diligentur ejus librum de animo. Amplius quod desideres nihil erit. AUDIT. Feci mehercule sæpius; sed nescio quomodo, dum lego, assentior: cum posui librum et mecum ipse de immortalitate cœpi cogitare, assentio omnis illa dilabitur. » – Or, se ciò accade delle verità primitive, cui pur la ragione può giungere; che sarà mai delle verità cristiane, che di sì gran lunga superano la ragione? Se l’uomo isolato non può generalmente elevarsi che a concetti più o meno probabili nelle cose che può a sé stesso dimostrare ed intendere; come può mai innalzarsi a dommi certi ed indubitabili di cose che non può né intendere né dimostrare? Il  simbolo adunque che l’eretico, usando del principio del libero esame e del giudizio privato, è ito accozzandosi con sommo stento leggendo  la Scrittura, non sarà che una faragine rozza e sconnessa d’incerte nozioni, di vaghe congetture, dì mal fondati giudizj sulla religione cristiana: parto mostruoso sovente più che della ragione, dell’immaginazione, della passione, del capriccio, e che non avendo infatti altra autorità, altra forza che quella della ragione che se li ha formati. Non potranno trasformarsi in verità certe che riscuotano un’adesione completa dell’intelletto e comandin la fede. Potrà opinare più o meno leggermente, ma non già credere nel senso che noi Cattolici attribuiamo a questa parola. – Egli è perciò che questi infelici. Che l’eresia ha trascinati si lungi dalle vie della certezza della fede, non si odono mai parlar di dommi, ma di opinioni. E di opinioni religiose, e non già di domini parlano i genitori nelle famiglie, i maestri nelle scuole, e perfino i teologi nelle cattedre e i predicanti nei templi. Ora il linguaggio è l’interprete fedele dei giudizj e delle idee di un popolo. Come dunque noi Cattolici colle parole dommi sacri, articoli di fede, che abbiamo sempre in bocca nel nostro linguaggio religioso, diamo chiaramente a conoscere che per la conoscenza cattolica, il Cristianesimo è un affare di damma e di certezza; così gli eretici colle parole opinione propria, opinione religiosa, che pare ripetano ad ogni istante nei loro discorsi e nei loro scritti quando trattasi di religione, danno evidentemente a vedere, loro malgrado  che nelle loro menti il Cristianesimo è un affare di probabilità e di opinione. – Badino perciò certi Cattolici che, come ho avuto occasione di notarlo io stesso, chiamano la religione l’opinione religiosa. Sebbene questa espressione, che ripetono con aria di grande pretensione e di grande importanza, come per farsi credere all’altezza del linguaggio del tempo, l’abbiano imparata da qualche libro anticristiano e la ripetano senza intenderla: badino però, io lo ripeto, che potrebbero farsi prendere, così parlando, per empj, quando i poverini non sono più che leggieri, stolidi e ridicoli. Poiché questa espressione, « opinione religiosa,» che, trattandosi del Cristianesimo quale il protestantismo lo ha ridotto, e sotto una penna ed in una bocca protestante, ha un senso rigorosamente filosofico e vero, nella bocca però di un Cattolico, trattandosi della cattolica Religione dommaticamente ed immutabilmente certa e sicura, è insieme un’assurdità ed una bestemmia. – Ritornando però al proposito, osserviamo che solamente il domma (parola greca che vuol dire decreto) può riscuotere l’assenso della mente e imporre e comandare alle affezioni del cuore: poiché esso solo si annunzia come necessario e circondato della forza, della certezza e dell’autorità. Ma in quanto all’opinione, non essendo nulla più che un concepimento vago, indeterminato, ed incerto della privata ragione, non può ottenere alcun assenso fermo ed immutabile, molto meno può esigere il menomo sacrificio dalle passioni. L’individuo perciò, come la società, si dirige co’ dommi e non già colle opinioni; e le opinioni allora comandano l’azione quando sono passati in dommi, o in certe ed importanti credenze. Ogni religione che non può presentarsi come dommatica, ma sol come opinabile, non può riscuotere che un’adesione momentanea, incostante, interessata, ovvero una completa indifferenza. E le opinioni religiose, appunto perché opinioni, non giovano per la vita presente e non presentano alcuna sicurezza per la vita presente, e non presentano alcuna sicurezza per la vita avvenire, non hanno maggiore importanza di quello che le opinioni di filosofia, di politica e di letteratura. Quando perciò nello scorso secolo il protestante Neker, ministro dell’infelice Luigi XVI, intitolò un suo libro: dell’importanza delle opinioni religiose, fu come se avesse detto: dell’ importanza delle cose che non importano né all’individuo ne alla società; perciò il libro sull’Importanza delle opinioni religiose non fece il minimo senso nella opinione e non produsse il menomo vantaggio alla religione. – Lo stesso è accaduto di tutti i libri apologetici del Cristianesimo scritti contro gli increduli da penne protestanti. Simili a chi per combattere non ha che armi logore, senza punta e senza taglio nelle mani, ed un terreno vacillante sotto dei piedi, e che, lungi dall’offendere il suo avversario, non deve sudar poco per difendersi e tenersi fermo in piedi esso stesso; simil, dico, a questo misero guerriero, gli eretici apologisti del Cristianesimo, incertissimi essi stessi di ciò che difendono, non potendo opporre che opinioni ad opinioni, non fanno il minimo timore ai loro avversarj, non recano il minimo danno al vizio o all’errore; e il più sovente non ne riscuotono che risa, disprezzo ed urti terribili che li fanno vacillare nella trista posizione in cui si trovano collocati. Il dottor protestante Beatty combattè il materialismo di Lokio. I grandi atei inglesi Hume, Bollinbroke, Collins, Gibbon trovarono dei confutatori in molti devoti dottori dello scisma anglicano. Ma chi fece mai attenzione a siffatte confutazioni? Gli scrittori contro di cui erano dirette se ne fecero beffe; il pubblico vi rimase così indifferente come se si fosse trattato di una controversia grammaticale: ed esse non impedirono che la storia di Hume in particolare, che contiene una chiara confessione di ateismo, non fosse dedicata al re d’Inghilterra, che pure porta ancora il titolo di difensor della fede. Perciò è un pezzo che questi inermi combattenti han deposto ogni pensiero di combattere l’incredulità ed han preso il saggio partito di lasciare in pace il deismo, l’idealismo, il materialismo, l’ateismo stesso che rompe ai loro fiaschi da tutte le parti: affinché queste opinioni filosofiche li lascino in pace nelle loro opinioni cristiane si comode e sopra tatto sì lucrose! – Deh che non è dato all’eresia il combattere l’incredulità con successo. I ribelli del senso comune della Chiesa universale non faranno mai paura ai ribelli del senso comune degli uomini, ma. rei del medesimo delitto, sono obbligati a perdonarselo a vicenda. Quindi la sì vantata tolleranza degli eretici per tutti gli errori non è se non l’effetto e l’indizio insieme della perdita intera di ogni fede e di ogni verità. Non è adunque fuori del nostro proposito che ne diciamo qui due parole.

§ XVI. – Digressione sulla tolleranza. Nessuno eretico ha diritto di accusare gli altri di eresia. La sola Chiesa cattolica può e deve condannare tutti gli errori, perché essa è verità; e compatisce gli erranti, perché  è carità. La tolleranza che gli eretici vantano di avere per tutte le altrui opinioni è una conseguenza necessaria dell’incertezza in cui sono della verità delle proprie. Questa tolleranza sono costretti ad estenderla persino all’ateismo. Uniti tutti coloro che sono fuori della Chiesa, qualunque religione professino, sono figli dello stesso padre, il demonio; formano una stessa famiglia; e l’istinto che hanno di ciò, li porla a tollerarsi a vicenda e ad essere intolleranti pei soli Cattolici. Questa coalizione di tutti gli erranti contro la Chiesa Cattolica è una bella prova che essa sola è vera e divina.

Ammesso una volta il principio del libero esame e del giudizio privato in materia di religione, ognuno rimane affatto indipendente in faccia all’altro nella sua religiosa opinione. Nessuno ha il diritto di dire all’altro: « La vostra opinione è falsa: la mia è la vera. » Nessuno ha autorità di obbligar l’altro ad opinare come esso opina, ad operare come esso opera. Chi osasse di arrogarsi una tale autorità e un  tale diritto, sarebbe giustamente reo in faccia alla ragione protestante, di usurpazione e di tirannia; sarebbe anzi il più iniquo degli usurpatori, il più odioso dei tiranni, poiché di tutte le usurpazioni e di tutte le tirannie la più ingiusta e la più oppressiva è quella che si esercita sulle coscienze e che dispone a capriccio della religione. Perciò il protestante è dai suoi stessi principj condotto a rispettare in tutti gli altri non solo il diritto di formarsi ciascuno la propria opinione, ma ancora l’opinione stessa che si è formata. E per quanto questa opinione sia evidentemente sconcia ed assurda, nessuno può farne ragionevolmente un rimprovero, subito che a questi così ne pare; ed ognuno ha egual diritto di ammettere ciò che gli pare e come gli pare. Perciò se un protestante dicesse all’altro: «Voi errate; voi siete eretico ammettendo tal e tal altra opinione, negando per esempio, la divinità di Gesù Cristo, questi potrà benissimo rispondere, come presso Cicerone Cotta rispondeva a Balbo che lo accusava di negare Dio : « Amico mio, ricordatevi che voi, al par di me, avete rigettata ogni specie di autorità, e che avete fissato per principio che ognuno deve appoggiarsi sulla propria ragione. Non abbiate dunque a male ch’io opponga la mia ragione alla vostra, e che usi dello stesso diritto che reclamate per voi stesso, di ritenere per vero ciò che alla mia ragione sembra vero: Tu auctoritate omnes contemnis, ratione pugnas. Patere igitur rationem meam cum tua conferre (De nat. Deor.). Non vi è che il domma o decreto che, supponendo un’autorità legittima che lo pubblica è obbligatorio. In quanto all’opinione privata di uno, esso non ha diritto che all’esame e non si può imporre alla credenza degli altri. Ora dovunque non vi è un’autorità comune, che ha diritto all’udienza comune, e perciò non vi sono dommi comuni, ma private opinioni; ognuno come ha diritto di tenere e di aver perdonata la propria, così ha un dovere di perdonare, di rispettare quella degli altri. – Da ciò si scorge quanto è assurdo ed ingiusto il rimprovero che gli eretici fanno a noi Cattolici di essere intolleranti verso di loro. Ingiusto, perché i Cattolici, generalmente parlando, compiangendo la miseria e la cecità degli eretici e degli infedeli non hanno alcun odio contro le loro persone. E difatti ove i Cattolici, soggetti politicamente ai protestanti o agli scismatici, sono più o meno palesemente tiranneggiati ed oppressi; al contrario gli eretici e gl’infedeli, soggetti politicamente pure ai Cattolici, godono di tutte le libertà che loro assicura la legge politica degli stati, e non soffrono alcuna oppressione. Di più la Chiesa cattolica, lungi dal nutrire odio per le vittime infelici dell’errore, spedisce ogni giorno i più generosi dei suoi figli, perché a costo ancora della propria vita del corpo, assicurino loro la vita dell’anima, portando loro la grazia colla verità. – Aggiungo che il rimprovero d’intolleranza che si fa alla Chiesa Cattolica è assurdo: perché l’errore può e deve essere tollerante per l’errore, ma non può e non deve essere tollerante la verità. Ora la Religione Cattolica è verità, è sola verità. è certa di essere tutta la verità. Come dunque la luce non può accomunarsi colle tenebre, né Gesù Cristo con Belial, non può la Cattolica Religione e non deve affratellarsi coll’errore, né vederne con occhio freddamente tranquillo gli orribili guasti che cagiona fra i popoli, e le tante anime che acceca nel tempo e perde per l’eternità. Se essa imitasse in ciò la condotta dell’eresia e si mostrasse indifferente per le dottrine che le son contrarie, darebbe a credere che errore è essa pure e che non è certa della sua verità. Tutta compassione per gli eretici e per gli infedeli, non può aver che odio e orrore per le dottrine dell’eresia e dell’infedeltà. E come l’odio infinito di Dio verso il peccato è una necessaria conseguenza ed una prova insieme che esso è santità, così quest’odio implacabile, quest’orrore costante della Chiesa Cattolica verso ogni sorta di errore, è una conseguenza necessaria ed insieme uno de’ più splendidi argomenti estrinseci che essa è verità, e che la verità in essa sola si ritrova, mentre è la sola che condanna tutti gli errori. La divisa dunque della Chiesa Cattolica è in queste belle parole di S. Agostino: «Guerra a morte all’errore, e perdono e carità verso gli erranti: Diligite homines, interficite errores. » Cioè a dire che la Chiesa Cattolica è e deve essere teologicamente intollerante verso le false dottrine; ma è tollerantissima verso gl’infelici che ne sono le vittime. Non così però l’eresia. Siccome la diversità delle opinioni religiose nuoce agl’interessi della sua politica; quando ne ha il potere, perseguita ed opprime politicamente gli uomini che le professano. Ma siccome non può decidere con certezza quale sia la vera religione, teologicamente è obbligata a scusarle e tollerarle tutte: cioè a dire che, intollerante per le persone, è, e deve essere tollerantissima per tutti gli errori; e questa tolleranza teologica di tutti gli errori è una legge, dalla quale l’eresia, non può sottrarsi senza smentirsi, senza contraddirsi, senza distruggersi. – Ecco dunque il fondamento, la ragione, la necessità logica della tolleranza reciproca dei protestanti, della quale essi menano sì gran vanto, e di cui invece dovrebbero arrossire e confondersi: giacché essa è la conseguenza e la prova insieme dell’assenza di ogni certezza, di ogni fede, di ogni religione fra loro. Siccome però il principio protestante, Che non bisogna riconoscere altra autorità che la Scrittura interpretata dalla ragione, non ammette restrizione e non può ammetterne alcuna, così non solo questa tolleranza si deve estendere e si estende difatti a tutti gli eretici, ma a quelli ancora fra gli eretici che negano la Trinità, la divinità di Gesù Cristo, l’eternità delle pene; perché essi ancora appoggiano queste negazioni sulla Scrittura, Si deve estendere e si estende difatti a tutti i maomettani, a tutti gl’idolatri fra i quali si è dai protestanti disseminata la Scrittura perché ognuno se la spieghi a suo modo, ed ai quali però non si può fare alcun rimprovero, se non vi trovano nemmeno un solo dei dommi cristiani che l’eretico dice loro di avervi trovati. Si deve estendere e si estende difatti a tutti i deisti, i quali, affermando che la ragione non ha loro dimostrata con bastevole chiarezza l’ispirazione divina delle Scritture si credono in diritto di negarla, e con essa di negare tutto il Cristianesimo. – Si deve estendere infine anche agli atei; giacché anche l’ateo dice di usare della sua ragione per negare Dio, che la sua ragione non comprende. E poiché la ragione, stabilita come unico giudice della Scrittura, diviene, come si è veduto, l’ultimo fondamento della credenza religiosa; sarebbe, dice un autore tristamente celebre non meno pe’ suoi talenti che per la sua caduta. sarebbe assurdo, contraddittorio, empio, l’obbligarlo a credere ciò che ripugna alla sua ragione. L’ateo ha in comune coll’eretico il principio di non riconoscere alcuna autorità, di non ammettere che ciò che sembra ammissibile alla propria ragione, rigettando tutto il rimanente. Or con lo stesso diritto onde il luterano rigetta le buone opere, il zwingliano la presenza reale, il calvinista il purgatorio, il sociniano la Trinità, il deista la rivelazione tutta intera, perché questi misteri sembrano inammissibili alla loro ragione, l’ateo potrà in faccia al protestante negare Dio stesso, affermando che l’esistenza di un Dio, puro spirito, immenso, eterno, immutabile, Creatore del tutto, è il più impenetrabile dei misteri, è il più inammissibile alla sua ragione. Si dirà che esso abusa della sua ragione? Verissimo: ma non è l’eretico che ha diritto di fargli un tal rimprovero. Subito che per esso pure tutto si riduce alla ragione, si deve ammettere come egualmente legittimo ogni parto della ragione. – Non può dunque l’eretico negare all’ateo la tolleranza. Sicché la tolleranza degli eretici non è che la confessione, il riconoscimento di tutti gli errori, fondato sopra la distruzione di tutte le verità. – Una sola eccezione iniqua fanno gli eretici dalla legge della tolleranza che estendono a tutti gli uomini di tutte le sette e di tutte le religioni, e questa eccezione è contro i figli della Chiesa Cattolica. In oriente i greci scismatici, i nestoriani, gli eutichiani tollerano e la perfidia giudaica e il sensualismo maomettano, e la superstizione idolatra. In occidente i luterani, i calvinisti, gli anglicani, tollerano anch’essi il socinianismo che non riconosce la Trinità, il deismo che rigetta ogni rivelazione, e perfino l’ateismo che nega ogni divinità. Chi mai oggi più tra gli eretici alza una voce, muove un dito, per impugnare questi errori che perdono le anime e degradano l’umana società? Solo contro i Cattolici si armano di uno zelo diabolico, invocano una crociata infernale, riuniscono i loro sforzi, il loro odio, il loro furore: e declamano e scrivono ed intrigano. Solo contro i Cattolici l’impostura e la calunnia, l’ingiustizia e l’oppressione, l’anarchia e il dispotismo, tutte le vie insomma sono buone, tutti i mezzi sono legittimi, tutti i delitti sono permessi. Che anzi non arrossiscono di far causa comune coi più dichiarati nemici del Cristianesimo per abbattere e distruggere dappertutto il Cattolicismo. Così questi generosi filantropi, che si perdonano fra loro e perdonano a tutti gli altri settari le opinioni le più empie, le più assurde e più scandalose, non perdonano al Cattolico la sua fede sì costante, sì ragionevole, sì santa e sì pia. Mentre riconoscono in ognuno il diritto funesto di delirare, seguendo le dottrine di qualunque impostore o le stravaganze della propria ragione ispirata dalle passioni: puniscono, come un delitto, il diritto che il Cattolico crede d’avere e d’esercitare, di umiliare, cioè, la propria ragione e di credere al Cristianesimo come lo intende e lo insegna la Chiesa; segno manifesto che la verità nella sola Chiesa Cattolica si trova, e che fuori di essa, sotto forme variate all’infinito, vi è l’errore più o meno esplicito, più o meno esteso, più o meno assurdo: giacché la religione contro la quale si coalizzano in una fratellanza, in un odio comune tutti gli errori, non può essere che verità.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (54) LA VERA E LA FALSA FEDE -IX.-