LO SCUDO DELLA FEDE (262)

LO SCUDO DELLA FEDE (262)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (5)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

-CAPO V.

RELIGIONE (2)

I. I Cattolici sono intolleranti. II. Mancano di carità.

Quel che abbiano discorso nel capo antecedente somministra ad alcuni l’occasione di tacciare i Cattolici d’intolleranza: e siccome quest’accusa ai nostri giorni, in cui sono di moda la discrezione, la prudenza e l’umanità, riesce pungentissima, così tutti cercano di declinarla. Tuttavia, non vi commovete di soverchio, piuttosto cercate di comprendere quel che sia l’intolleranza dei Cattolici, che forse potreste trovare in essa piuttosto materia di vanto e di onore, che di torto e di confusione.

A. I Cattolici sono intolleranti, dicono in primo luogo, quando si tratta di religione. Ora avvertite che quei che muovono questa accusa sono i protestanti, o grandi ammiratori della tolleranza protestantica, che vorrebbero vedere trapiantata fra di noi. Epperò prima di ogni altra cosa interrogateli con tutto segreto e tutta confidenza, come stiano a casa loro in fatto di tolleranza; che vi dicano, per esempio, come l’intesero i tollerantissimi Inglesi per lo spazio di tre secoli coi Cattolici dell’Inghilterra, della Scozia e soprattutto dell’Irlanda; come l’hanno mantenuta nelle parole, nelle leggi, nella libertà. Sentite un poco da loro, se per caso non abbiano mai fatta nessuna legge che riguardi i medesimi. Dite pur loro che per la nostra edificazione vi parlino a fidanza… Ipocriti (Hanno coraggio di parlare di tolleranza con un codice che spira oppressioni, taglie, multe, soprusi, carneficine d’ogni fatta contro un popolo che ebbe la gran colpa di volersi mantener fedele alla Religione dei suoi padrine di tutto il mondo incivilito; con una storia che ricorda i fatti di Arrigo VIII, di Edoardo VI, di Lisabetta, di Cromwello di Inox, ecc. ecc. Vi dicano come abbiano inteso la tolleranza gli Svizzeri di Berna e dei Cantoni protestanti con i Cantoni cattolici fino a questi ultimi anni. Vi dicano come la intendano in questi giorni i luterani nella Svezia, nella Danimarca, nella Norvegia.- Se dopo d’aver isterminata la religione cattolica col ferro e col fuoco, non hanno poi stabilito il loro culto con leggi affatto draconiane contro il Cattolicismo, allora levino pure la testa e parlino di intolleranza, che ascolteremo le loro accuse. Ma se la cosa va tuttonì altrimenti, ed essi non riescono a cancellare tre secoli intieri di storia ed a nasconderci tutti i giornali, allora hanno mal garbo a parlare d’intolleranza. – Ma venendo a rispondere direttamente, osservate che in due maniere si può intendere che altri sia intollerante in fatto di religione: o che perseguiti chi non pensa come lui, o che disapprovi con la voce e colla voce si opponga a chi insegna diversamente da lui. Quanto al primo modo d’intolleranza ne dirò più sotto ed a luogo opportuno qualche cosa, quanto al secondo ne dirò qui una parola. – I Cattolici non possono patire che altri si opponga alla loro Religione e disapprovano tutte le sètte che sono da lor divise. Evoi, lettore, sareste così soro da farne le maraviglie? Comprendereste ben poco, non dico l’indole della Religione Cattolica, ma neppure la natura dell’uomo, se poteste credere o possibile o doveroso il contrario. Niuno v’ha al mondo che non sia intollerante, quando creda di possedere una qualche verità, e se voi volete convincervene io mi impegno a farvene fare la confessione solenne di bocca del più fervente patrocinatore dell’universale tolleranza. Io lo interrogherò pertanto alla vostra presenza. Di grazia, signore, se alcuno venisse ad impiantare nella vostra città un nuovo culto, che richiedesse il sacrifizio di vittime umane, lo tollerereste voi? risponderà: No certo. E perché? Perché è un delitto, ed un delitto non si può tollerare. Ma dunque voi siete intollerante, voi fate violenza alla coscienza altrui, proscrivendo come delitto quello che è un ossequio degno della divinità, secondoché ne pensarono tanti popoli dell’antichità e secondoché ne pensano anche tanti popoli ai dì nostri. Con qual diritto volete dunque che la vostra coscienza prevalga sopra la loro? La risposta unica che potrebbe dare è, che la sua intolleranza sarebbe per bene dell’umanità. Sia pure, ma non negate più adunque che possa darsi tal caso, in cui l’intolleranza, rispetto ad un culto, vi paia un dovere ed un diritto. Che se proscrivete questo culto atroce, permettereste almeno che si proclamasse nell’insegnamento come santa e salutare la pratica de’ sacrifici di umane vittime? Tolgalo Iddio, poiché sarebbe un insegnare l’assassinio. Ebbene eccovi di bel nuovo una dottrina che voi non potete tollerare. Andiamo oltre, voi conoscete senza dubbio i sacrifici che offrivansi un tempo alla Dea di amore, e l’infame culto che le si offriva in Babilonia ed a Corinto: ora se un culto simile rinascesse fra di noi, parrebbevi da tollerare? No certo, poiché sarebbe contrario alle leggi del pudore. Ma permettereste almeno che s’insegnasse la dottrina sopra cui quel culto è fondato? Neppure, e per la stessa ragione. Eccovi dunque un altro caso, in cui voi vi credete in diritto ed in dovere di essere intollerante, di far violenza alla coscienza altrui, e ciò perché così ve lo impone la vostra coscienza. Più ancora: immaginate che qualche testa fervida, riscaldata anche più dalla lettura della Bibbia, volesse fondare un nuovo Cristianesimo, sulla foggia di quello già vagheggiato da Mattia Harlem o Giovanni di Leyden, e già cominciasse a spargere la sua dottrina, fare attruppamenti e si trascinasse dietro una parte del popolo, parrebbevi da tollerare questa nuova religione? No certo, poiché questi infelici potrebbero rinnovare le tragedie del secolo XVI, quando in Allemagna gli anabattisti, conculcata ogni proprietà, per ordine dell’Altissimo abbattevano le podestà costituite, trucidavano i signori e spargevano dappertutto la desolazione e la morte. Benissimo, e l’infrenarli sarebbe giustizia non meno che carità e prudenza. Ma adunque che cosa diventa quel principio sì chiaro, sì evidente, sì giusto nell’universale tolleranza, se ad ogni tratto siete costretto dalla forza delle cose a rinnegarlo? Direste per ventura che la sicurezza dello Stato, il buon ordine della società, la pubblica morale vi ci costringono? Ma allora, io ripeto, che sorta di principio è quello che si trova sì spesso in lotta colla morale, coll’ordine, colla pubblica sicurezza? (Balmes).È dunque evidentissimo che quel principio è una assurdità, checché si dica e si ripeta in contrario da gran baccalari. – Applichiamolo adesso al nostro caso. Che cosa crediamo noi Cattolici? Noi crediamo di possedere in fatto di religione la verità; crediamo che siano per sovrastarci mali gravissimi nel tempo ed ancora più nell’eternità, dove lasciamo corrompere in noi questo vero; noi crediamo che tutti gli altri culti tanto più si distinguano dal vero, quanto più si allontanano dalle nostre credenze: e crediamo tutto ciò appoggiati ai fondamenti più incontrastabili di ragione, di autorità, di fede: sicché siamo disposti a dare tutto il sangue delle nostre vene in mezzo a tormenti più spietati, piuttostoché rinunziare ad una sola delle nostre credenze: e con questa persuasione nel cuore, protremmo mai tollerare che altri assalisse od in noi o ne’ nostri prossimi o nella nostra patria la verità cattolica? Per tollerare tranquillamente l’errore, bisogna non esser uomo, od esser la feccia più vile degli uomini; ma per tollerarlo in materia così rilevante come la Religione, bisogna esser caduto sotto la condizione dei bruti ed accostarsi a quella dei demoni. – La natura d’uomo, anche sola, esige che chiunque possiede la Verità non la lasci oscurar dall’errore. Niun matematico consentirà mai ad alcuno che non sia vera quella proposizione, di cui la sua scienza ha fornita la dimostrazione: niun naturalista consentirà che sia negabile quella sperienza, che egli ha fatta e ripetuta le mille volte: niun legale consentirà che si rechi in dubbio l’esistenza d’una legge, la quale è registrata nel codice. Anzi niun artigiano accorderà anche all’uomo più dotto del mondo che non siano vere quelle regole, che egli esercita tuttodì nella sua officina. Ed il Cattolicismo, che possiede verità che ha ricevute da Dio stesso, le prostituirà ad ogni umana fantasia, come si fa d’una favola o d’una finzione? – All’assurdità si aggiungerebbe l’empietà: perocché sapendo di certo il Cattolico che quelle credenze sono anche mezzo, ed unico mezzo per la salvezza sua e dei suoi prossimi, col rinunziarvi, col lasciarle recare in dubbio, farebbe non solo un danno a sé, ma un tradimento nerissimo a’ suoi prossimi. Che direste di chi si lagnasse e strepitasse perchè non si lasciano impunemente spacciare pugnali, pistole, veleni, e gridasse che è violata l’umana libertà, e che è una tirannia, e che ornai nol si può più sopportare? Voi cadreste dalle nuvole per la maraviglia. Ebbene, e non vi meravigliate di chi strepita perché non si tollera che si rubino alle anime le verità della fede, i mezzi della salute, gli eccitamenti al ben vivere, i conforti al ben morire, gli aiuti della grazia, le speranze del paradiso e l’eternità? Se chi chiama i Cattolici intolleranti, dicesse chiaro che non crede né a Dio, né alla religione, né a vita avvenire, né a Paradiso, né ad inferno, si potrebbe comprendere quel che dice; ma che il faccia un Cristiano, un Cattolico, che professa di credere alla rivelazione di Gesù Cristo, è al tutto inesplicabile.

II. Ma la carità almeno non esigerebbe un poco di tolleranza? Orsù adunque che cosa è la carità? Carità è senza dubbio voler bene al prossimo, qualunque sia il motivo per cui si vuole un tal bene, poiché non è qui il luogo d’investigarlo. Ora se la Religione è il massimo bene dell’uomo, e per converso l’irreligione è il più grave suo male, in qual modo si chiama carità il tollerare che l’uomo sia spogliato della Religione e traboccato nel baratro dell’irreligione? Bisogna aver perduto il senno sino a scambiare la luce colle tenebre, la verità coll’errore per portare siffatti giudizi. Disapproviamo l’errore, lo allontaniamo: dunque non abbiamo carità. Gli è anzi tutto l’opposto. Disapproviamo l’errore: dunque abbiamo la maggior carità che possiamo avere. Abbiamo carità verso gli erranti, poiché essendo avvertiti in tempo del loro inganno, possano ritrarsene. Chi avverte un cieco che sta per traboccare in un fosso, con quell’avviso, quanto è da sé, lo salva; così il Cattolico che avvisa chi dà in errore, quanto è da sé, lo mette in salvo. – Abbiamo carità eziandio verso quelli che ancora sono sulla strada della verità; conciossiaché chi grida in tempo al fuoco, fa che tutti se ne preservino i vicini. La carità non deve aversi soltanto verso i disseminatori di false massime, la carità non ci obbliga, per non contristare essi, a soffrire noi qualunque danno; vuole anzi la carità ben ordinata dimostrarsi non con parole soltanto, ma coi fatti, preservandoli, quanto è da noi, dal male orribile, che sarebbe l’irreligione; male più Spaventoso d’ogni male, perché male eterno. – Aggiungete. a ciò, che quando si tratta d’errori in Religione, tutti ad una voce i Santi, i Dottori, i Padri della Chiesa raccomandano, che non si dissimuli né punto né poco la verità. E la ragione di ciò è molteplice. Abbiamo obbligo stretto di professare la fede e professarla pura quale ce la rappresenta la santa Chiesa. Il tollerare che dinanzi a noi tacenti, si parli contro di essa, è una specie di apostasia. Abbiamo obbligo di onorare Iddio con tutto il cuore, e dove sarebbe l’onor suo, se sopportassimo con pazienza chi dinanzi a noi lo bestemmiasse, rinnegando la sua fede? Abbiamo obbligo di amare il prossimo come noi stessi, e dove sarebbe il nostro amore, se soffrissimo che gli fosse propinato il veleno micidiale della infedeltà, senza pure una nostra protesta in contrario? – Che se per ottenere questo bene del prossimo è necessario contristare con l’opposizione i nostri fratelli perversi, di chi è la colpa? Perché essi vi ci obbligano e vi ci conducono? Finalmente, postoché tanto predicano la carità e la tolleranza, non farebbero male a darcene un poco d’esempio. Perché invece si cacciano tra di noi per fas et nefas, mentre noi non li cerchiamo? Perché spargono nelle nostre città e nelle nostre famiglie la discordia religiosa? Gridano all’intolleranza, al mancamento di carità, e poi diffondono libri e fascicoli che ci rubano la pace e la quiete dello spirito, declamano giorno e notte contro tutte le nostre istituzioni, spirano veleno contro il Capo della nostra Chiesa, sputano fiele contro il corpo venerando de’ nostri Sacerdoti, bestemmiano tutto il giorno i nostri Sacramenti, beffeggiano i nostri Santi avvocati e protettori, motteggiano tutte le nostre pratiche di pietà e divozione: fanno tutto ciò con un dispetto, una rabbia, un livore che paiono invasati da mille demoni; e poi, se qualcuno vuol rispondere e difendere le sue credenze, se il fa con qualche ardore e risentimento, allora torcono il collo, giungono le mani, e, compostisi a divozione, gridano all’intolleranza, e rammentano la carità. Pur cari cotesti nuovi apostoli della tolleranza e dell’amore! Se noi dicessimo. di loro che cantan bene e razzolano male, non ne avremmo qualche ragione? Eh via! se ne stiano a casa loro una volta e vadano a predicare altrove queste generose virtù. E voi, o lettore, non siate mai così dolce di sale di ammetterle e da riconoscerle; e l’iniqua massima che ogni religione è buona, rigettatela prontamente, ancorché vi si presenti dinanzi camuffata sotto la maschera della carità.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (45): “INDICE DEGLI ARGOMENTI -IV-“

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (45)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -IV-

C. — DIO CREATORE ED ELEVANTE

1. Origine del mondo

C1a a. — PRINCIPIO EFFICIENTE DEL MONDO.

1aa. Dio creatore di ogni cosa, sia del cielo che della terra, delle cose visibili ed invisibili, dei secoli 19 21s 27-30 36 40/151 55 60 125 150 188 191 287 800 3001s 3004 3025 3538 3955; tranne che la SS. Trinità non c’è nulla che non sia creato 285.

1ab. Dio Creatore unico. Non esiste un doppio principio efficiente del mondo, ovvero due dii, a un dio visibile, l’altro invisibile, b l’uno della Vecchia, l’altro della nuova Legge b198 a199 b325 (b685) b790 b854 b1334 a1336 (b1501): anche il diavolo è una creatura di Dio, non quindi un principio increato (del male) 286 457s 800 (1078); al diavolo non va a. attribuita alcuna forza creatrice a2170s 458.

Atto della creazione (ossia dell’onnipotenza) non è comunicabile ad alcuna creatura a2170s 3624.

b. — MODO DI PRODURRE IL MONDO.

C 1b Produzione dal nulla: le cose (a cioè ogni sostanza) sono prodotte dal nulla 285 790 800 1333 a3025; si riprova asserto contrario del panteismo e dell’ontologismo 2846s 3024 3214-3219.

Creazione libera da ogni necessità 1333 2828 3002 3025 3218 93890.

Creazione non dall’eternità, ma quando Dio volle a similmente dall’inizio del tempo (b ctr. gli asserenti il mondo eterno senza inizio) b410 (b565) b951-953 1333 a3202 b3890.

Concetto del “creare” : si riprova la suo riforma postulata dal modernismo 3464; uso insolito (a il Padre “creò” il Figlio; b Gesù “creato” da Maria) a114 b536.

2. Constituzione del mondo.

C 2a a. – DIFFERENZA TRA CREATORE E CREATURA.

Dio è eccelso sopra ogni cosa creata 3001; è trascendente la natura umana e niente esiste tra le cose fatte della stessa natura di Dio 285.

Dio è distinto dal mondo (a come cosa ed essenza) 2901 a3001.

Tra Creatore e creatura vi è maggior dissomiglianza che similitudine 806; tesi tomistiche circa l’essenza metafisica e la composizione dell’ente creato, differenza dal Creatore, analogia dell’ente potenz ed atto p3601- 3604 3608 3622 3624; l’uomo dipende totalmente da Dio Creatore 3008.

Riprov. gli errori del panteismo e dell’ontologismo circa la discriminazione tra Dio e la creatura e285 e722 f976e9771043d2843 a2901a.3023 3221-3216.

C 2b b. – AMBITO E DIVERSITÀ DELLE CREATURE.

Ambito: Riprov.: [Dio fece quanto poté comprendere] 410.

Diversità: si distinguono due generi principali (a entrambe “creatura”) di creatura, cioè: spirituali (invisibili, cielo) e corporali

(visibili, terra) 19 27-30 36 40//51 4.25 150 a800 a3002 3021; tra materia e spirito vi è differenza essenziale (non a identità) a2901 3891.

C2c. c- BONTÀ DELLE CREATURE ED ORIGINE DEL MALE.

2ca. Bontà delle creature. Tutte le creature sono formate buone da Dio 285 287 470 685 1333 1350; si riprova tuttavia l’asserzione ottimistica 1044s 1047.

L’origine del male. Il male di per sé è la privazione del bene 3251; il male non è altra sostanza o natura, ma a penuria di sostanza a286 1333.

Si riprov. gli errori (dei Manichei e Priscill.) circa l’origine del male [principio e sostanza del male è il diavolo] 286 457 874; add. C 1ab; il diavolo (demonio) da Dio fu creato buono (angelo) 286 457 800 1078; il diavolo non per condizione ma per suo arbitrio divenne male 325 797 800, nè tuttavia passò nella sostanza contraria 286.

Le opere del male falsamente sono attribuite al diavolo: – la formazione del corpo 462s; – l’opera coniugale 461 718 802 1012; di cui si nega l’onestà 206 321 461-463 761 794; – : il cibarsi di carni 464; se ne difende la liceità 207 325 795 1350.

C3. 3. Causa esemplare del mondo.

Il Figlio di Dio, immagine di Dio, è la causa esemplare, per cui tutte le cose imitano la forma, la bellezza, l’ordine 3326; anche l’uomo nelle azioni sociali deve conoscere l’immagine della perfezione divina 3772 (3978): le impronte della potenza e della sapienza divina appaiono pure nell’uomo reprobo, le impronte della carità nel giusto. 3331.

4. Causa finale del mondo.

Dio è il fine di ogni cosa. 3004 3538.

Il mondo è fatto per la gloria di Dio. 3025; le opere ad i meriti degli uomini (dei Santi) sono da riferire alla gloria di Dio 243 (675 1824s.) 3325 3743; si riprova: [la gloria di Dio si manifesta egualmente nell’opera buona e nell’opera cattiva, anche nella bestemmia] 954-956. Dio creò il mondo non per aumentare la sua beatitudine o per acquisire perfezione, ma per manifestare la sua perfezione 3002.

C 5. Governo del mondo.

Dio è il dominatore, ossia il governatore dell’universo 1790 3003 3875 è il re dei secoli 21s; governa il mondo con la sua provvidenza 629 290 3003 3251 3875.

Si riprova il deismo che nega ogni azione di Dio presso l’uomo ed il mondo 2902; è riprov. l’affermazione fatalistica [l’anima ed i corpi degli uomini, anche di a Cristo sono guidati dal b fato ossia c dalle stelle, da d necessità assoluta] c283 bc459s d1177 ac1364.

Dio permette il male nel mondo 3251; Dio conosce in anticipo, ma non per questo predestina al male 685; riprov.: [Dio propriamente e per sé opera il male nell’uomo] 1556; [Dio non può impedire il male] 727.

Interpretazioni del male riprovate: [Da Dio è concesso al diavolo fare il male come obbedienza od obbligo] 1156 1223; [le afflizioni degli uomini sono sempre punizioni del peccato, a anche in B. Maria Vg. e nei martiri: oppure sono b purificazioni del peccatore] a1972s b2470.

C6. Angeli.

Natura: gli Angeli sono creati da Dio 800 (1078); non sono da sostanza di Dio 455; sono creature personali 3891; godono di una naturale eccellenza 286; sono dotati di intelligenza (a superiore all’uomo) 475 a2856; tesi tomistiche circa la creatura spirituale 3607 3611; errore circa la propagazione degli Angeli 1007.

Elevazione all’ordine soprannaturale: Gli Angeli in quanto creature razionali godono dell grazia, dei carismi celesti, dell’inabitazione di Dio (633 2800 3815); i loro meriti rettamente sono chiamati grazia 1901 //1905; sono mediatori tra Dio e gli uomini. 3320. Culto degli Angeli: vd. in K 2dd.

7. Uomo

C7a. a. – ORIGINE DEL GENERE UMANO.

Dio creò l’uomo 800 3002 3008 3955; riprov.: [la natura umana non differisce dalla natura del Creatore] 285.

Adamo ed Eva sono i primi uomini, né prima di essi il mondo fu abitato da uomini 443 1363; si riprova il poligenismo: [l’esistenza di uomini, non traenti naturalmente origine da Adamo] 3897.

C 7b. b. – NATURA INDIVIDUALE DELL’UOMO.

7ba. Composto sostanziale dell’uomo. La creatura umana è costituita da un composto a comune di spirito ossia b anima razionale e e dal corpo 250 b272 a80o b900 a3002; add.: Costituzione umana di Cristo: E lb; l’uomo è homo un microcosmo 3771.

C7b. L’Anima umana. Costituzione: c’è un principio vitale dell’uomo 2833: la sostanza dell’anima a razionale è veramente di per sé e b essenzialmente ed c immediatamente la forma del corpo umana b900 a902 abl440 ac2828.

L’anima è a spirituale (b razionale, intellettuale) b657 b902 b1440 b2828 a3771; add.: l’Anima razionale di Cristo: E 1b: l’anima è immortale 1440 2766 3771 3998; è più preziosa del corpo 815.

Nell’uomo c’è solo un’anima, non due 657s; l’anima per la moltitudine dei corpi nei quali è infusa è singolarmente moltiplicabile: errore riprovato: [l’Anima è unica in tutti gli uomini] 1440.

Tesi tomistiche circa l’anima e le sue facoltà 3613-3622; si riprovano gli

errori circa la sua costituzione 977 3220-3224.

Origine dell’anima: è da Dio creata a immediatamente b dal nulla (190 360)

b685 a3896; l’anima non è generata materialmente dai genitori 360s 1007 3220; non si forma da un principio meramente sensitivo 3220; a non è costituita da sostanza divina o b parte di Dio ab190 ab 201 a285 a455 b685;

si riprova: [le anime umane preesistono in cielo e sono precipitate nei corpi perché siano puniti i peccati] 403 456.

7bc. Corpo umano. Su può liberamente disputare circa l’origine dalla materia vivente gia presistente 3896; si riprova l’errore dei Manichei: [La formazione del corpo è opera del diavolo. ] 462s

7bd. Persona umana. Ogni uomo indossa la proprietà della persona.: è di natura impacciato nell’intelligenza e libertà di volontà (3709)

La dignità della persona che possiede la ragione si trova nelle varie sezioni della vita sociale: cf. K 2ad 4ce 4fc 5a 5c; per proteggere tale dignità giova -: la legge di venerare Dio liberamente secondo la propria coscienza 3250.

C7c. c. – NATURA SOCIALE DELL’UOMO.

Destinazione dell’uomo alla vita sociale. L’uomo per natura, a per ordine di Dio, b non per la ibera volontà o c consenso degli uomini deve vivere in comunità ac3151 ab3165 (3168) a3170-3173 3743.

L’uomo fin dalla nascita partecipa alla società domestica, civile, a Ecclesiale 3165 a3685;

Dio provvede alla divisione del genere umano tra potestà ecclesiastica e civile 3168.

7cb. Il fine della società civile è -: suppeditare procurare una vita sufficientemente perfetta che l’uomo da solo non potrebbe ottenere 3165; -: provvedere alla naturale perfezione dell’uomo 3772 3782; -: provvedere al bene comune (a dirigendo le opere private dei singoli) 3772 a3782.

7cc. Bene comune: consiste nei doveri e debiti: vd. K 5ca.

7cd. Natura della società civile. La società civile è perfetta quanto al genere ed al diritto 3168 3170 3685; tuttavia l’uomo è più antico della repubblica, per cui esiste non l’uomo della città, ma la città dell’uomo (rigettata anche l’interpretazione più liberale nei principii) 3265 3728 a3772.

Tutti gli uomini sono uguali per dignità di natura 3130. Tuttavia gli uomini sono uguali per la vocazione alla dignità di figli di Dio, per la medesima legge di vita, e lo stesso giudizio di Dio 3130.

Disparità di diritti e potestà nella società procedono da Dio 3131; facoltà ed uffici civili vd. K 5a 5cb.

Il diritto delle genti è il diritto naturale delle origini divine 3783-3785; le genti possono chiedere per sé l’indipendenza politica 3255;

È necessaria un’Autorità imperante su ogni società 3150 3165; essa deriva a. non dalla volontà del popolo ma b. dalla natura stessa e quindi c. da Dio a3150s bc3165 ac3170. Qualsiasi forma di governo è indifferente alla Chiesa purché non sia di pregiudizio alcuno alla Chiesa. 2769 3150 3165 31733 3254 3982.

C7d. d. – FINE DELL’UOMO.

Fine naturale: perfezionare ed evolvere le facoltà dell’anima e del corpo, e con la sua vocazione donare fedelmente adempiendo al raggiungimento della felicità temporale 3743.

Fine soprannaturale: Supremo fine dell’uomo è unicamente Dio. 3771; Dio ha subordinato l’uomo ad un fine soprannaturale 3005; il cui fine consiste nella partecipazione ai beni divini 3005; cf.: Beatitudine e vita eterna: L 3 e 7e.

Questo ordine di Dio è libero e gratuito: riprov.: [Dio non può istituire nessuna entità razionale se non ordinandola ad una visione beatifica] 3891.

C7e. e. – STATO DELLA NATURA DELL’UOMO INTEGRO.

7ea. Doni naturali. Dio costituisce l’uomo integro, senza peccato 239 389 621; ad Adamo per bene era data una fede chiarissima di natura 396 (400);

Adamo godeva di libero arbitrio 239 (398) 621 (1521 1555).

7eb. Doni soprannaturali. L’uomo è costituito in santità di giustizia 621 (633) 1511; giustizia originale, santità giovanile, era per Adamo un beneficio gratuito (389) 2616 3891; riprov.. l’affermazione ass. contro la gratuità dello stato di integra natura: [la. le opere buone di Adamo furono per loro natura meritorie della vita eterna; b. i suoi meriti e la felicità non rettamente si chiamano grazia c. Dio non si propose all’inizio di creare l’uomo quale nasce ora, senza giustizia naturale] ab1901//1926 a1955 a1979 2434-2437.

7ec. Doni preternaturali. Adamo godeva di immortalità 222 (1511); questa fu per Adamo un beneficio gratuito, non una condizione naturale 1978 2617.

C8. 8. Mondo materiale

Dio ha costituito la creatura mondana 800 3002; non la creò il diavolo cf. C lab 2cb; tesi tomistiche circa la creatura corporale 3608-3613. Riprov. L’affermazione: [il Cielo e le stelle hanno l’anima e le virtù sono ostacolate dalla ragione] 408; [Essere corruttibile implica contraddizione] 1047.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (46): “INDICE DEGLI ARGOMENTI – V”

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (6)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (6)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo terzo (1)

LA LEGGE DELL’AMORE

È stato osservato che se è bene cogliere qualche rosa e deliziarsi della sua bellezza e del suo profumo, è meglio, però rivolgere le proprie cure al rosaio completo: le rose si moltiplicheranno ad ogni primavera e ci procureranno sorriso e fragranza. Avviene lo stesso nella morale: è tutt’altro che inutile esaminare le singole virtù, le singole norme, i singoli punti dell’etica cristiana; ma ciò che più importa è il rosaio dell’Amore, perché chi lo coltiva ha tutte le altre virtù. Quando noi possiamo dire con sincerità a noi stessi di amare Dio, possiamo soggiungere con sant’Agostino: « Ama e fa quello che vuoi ». L’amore è la perfezione della legge, avverte san Paolo; è la fonte di ogni precetto; dev’essere il soffio ispiratore di ogni atto; ed in esso sta tutta la morale cristiana. Lo ha insegnato Gesù nel Vangelo: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze: ecco il primo ed il massimo dei comandamenti… Il secondo è simile al primo: Ama il tuo prossimo come te stesso ». Per comprendere il significato di queste parole, dobbiamo esaminare l’amore che dobbiamo a Dio, al prossimo, a noi stessi.

I. – L’AMORE DI DIO

Vi è un grave errore, quanto mai diffuso, che giova subito liquidare. Si crede che l’amore di Dio, voluto da Gesù, consista in questo: l’individuo, con tutte le energie della sua anima umana, col suo affetto, con la sua intelligenza e con la sua azione, protesta a Dio il suo amore. Si tratterebbe, quindi, d’un amore individuale ed umano. È uno sbaglio. Se l’amore nostro per Dio dovesse consistere solo in questo, non erano necessari il Cristianesimo, l’ordine soprannaturale e la rivelazione. Bastava la ragione o la coscienza del puro uomo, che, risalendo mediante un semplice ragionamento dalle cose create al Creatore, doveva sentire il dovere di amar Dio sopra ogni cosa. Ogni filosofo pagano, come un Platone o un Epitteto, anzi ogni anima naturalmente onesta, poteva giungere a questo atto di amore naturale.

1. – L’amore soprannaturale di Dio

L’amore a Dio, del quale parla Gesù, è qualcosa di più grande. È bensì anche tutto ciò che abbiamo detto or ora, poichè l’ordine soprannaturale non distrugge mai l’ordine naturale, ma è un atto di amore fatto da noi in unione con Cristo. Incorporati a Lui, divinizzati dalla sua grazia, uniti al suo corpo mistico, noi siamo vivificati dall’Amore sostanziale che unisce il Padre al Figlio ed il Figlio al Padre. Noi, dunque, siamo figli di Dio, ed il nostro amore a Diobnon è il semplice amore d’una creatura, ma è l’atto d’amore soprannaturale, il cui principio ci è infuso dallo Spirito Santo, col quale amiamo Dio, come i figli amano il Padre. Non per nulla la prima parola della grande preghiera, insegnata da Gesù, è un atto di amore: « Padre nostro »; insieme con Gesù noi salutiamo ed amiamo il Padre, che in noi non vede solo i singoli individui (come nella pagina d’un libro io non vedo solo le singole lettere), ma in noi contempla il suo Gesù che ci unisce, ci eleva, ci divinizza (come io nella pagina, attraverso le singole lettere, vedo il pensiero), e da noi viene amato con un amore umano sì, perché libero, ma trasformato e sublimato dalla grazia soprannaturale del Paradiso. – Cos’è il piccolo nostro cuore di fronte a Dio? cos’è il palpito d’amor umano per l’Infinito? È nulla, se per la carità il nostro cuore non è unito al Cuore di Cristo. Se noi insieme con Lui amiamo il Padre, allora i due palpiti — l’umano ed il divino — divengono simili, pur nella loro infinita differenza, a due grani d’incenso, gettati in un unico turibolo. La nube che s’alza al Padre allora è gradita ed è fragranza degna di Lui. L’amore soprannaturale di Dio, base ed anima della morale cristiana, presuppone, quindi, la fede. Con la fede noi crediamo ai misteri della nostra divinizzazione ed a tutte le verità, che in rapporto ad essa ci furono rivelate; — in una parola crediamo all’amore di Dio per noi: nos credidimus Charitati! Ancora: l’amore soprannaturale per Dio implica la speranza, poiché, come vedremo, cos’è questa se non il protendersi dell’anima verso l’amore di Dio, che sarà un giorno la nostra gioia eterna? Ed è con questa nozione di un amore non puramente individuale, ma in unione con Cristo — e non semplicemente umano, ma elevato dalla grazia, che bisogna leggere il Vangelo ed il Nuovo Testamento. Quando san Giovanni dice: « Colui che rimane nell’Amore, rimane in Dio e Dio in Lui », dobbiamo scorgere in tale espressione l’unione nostra con Dio nell’abito e nell’atto di carità. Quando san Paolo parla del nostro « amore per Dio che è in Cristo Gesù., la sua frase non dev’essere più un enigma incompreso. E quando soggiunge che in cielo non vi sarà più la fede né la speranza, perché Dio lo vedremo e lo possederemo, ma solo la carità, dobbiamo capire come il paradiso è la visione ed il possesso di Dio, conquistato con la carità di quaggiù, la quale non vien meno, ma in cielo si continua e si perfeziona in un eterno atto di amore dei figli verso la Trinità sacrosanta.

2. – I « surrogati » dell’amore di Dio

Se si partisse sempre da un simile concetto esatto dell’amore di Dio, non si correrebbe il rischio di confonderlo con i surrogati pericolosi, che si trovano in commercio.

a) Il primo surrogato, quanto mai ingannatore, è quello che sostituisce l’amore soprannaturale di Dio con l’amore sensibile, con quel sentimentalismo che ha origine nel nostro organismo fisiologico, con una serie di oh e di ah, che somigliano — direbbe il padre Aubry — a sospiri colombini. Vi sono delle anime che temono di non amare il Signore e son persuase d’aver pregato male, se non hanno avuto il fervore sensibile, quasi che l’amore di Dio, che risiede nella volontà nostra, non dovesse essere spirituale, ma fisiologico!

b) Il secondo surrogato, contro il quale ci ha messo in guardia lo stesso Gesù, fa consistere l’amore a Dio in pure parole, in dolci proteste verbali. « Non chi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio ». – Nella storia del Cristianesimo noi sappiamo come la Chiesa abbia condannato il quietismo, con non minore energia di quello che abbia riprovato il naturalismo-. Se il naturalismo riduceva la vita all’attività umana soltanto, senza amor di Dio, il quietismo avrebbe voluto togliere il nostro contributo e ridurre tutto all’azione divina. Sono due punti di vista unilaterali: sono il vero amore soprannaturale di Dio tagliato a metà, di modo che da un lato si ha l’attività dell’uomo e dall’altro la grazia di Dio, due cose che debbono essere ben unite insieme. – Perciò, chi crede d’amare Dio, perché frequenta la Chiesa, assiste alle funzioni, recita preghiere, e poi non pratica la legge morale nella sua vita, s’inganna grossolanamente: è un Cristiano di nome e d’apparenza, non un Cristiano vero e di fatto. Non si ama Dio, se non facendo la sua volontà. E non si fa la volontà del Padre senza la carità, che è forma d’ogni azione soprannaturale meritoria.

3. – Il vero amore di Dio.

Il vero amore di Dio l’abbiamo quando, uniti a Cristo e vivificati dallo Spirito Santo, noi amiamo il Padre « con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze ».

a) Con tutto il cuore, — vale a dire quando tutti gli affetti del cuore tendono a Lui come a fine e in Lui si riuniscono come a centro. Bisogna — commenta il padre Grou nelle sue Meditazioni sull’amor di Dio — che non vi sia divisione alcuna nel cuore nostro, ma che tutto sia per Dio; « bisogna, cioè, che Dio sia la sola cosa che io ami per se stessa, e che tutte le altre cose… io ami in rapporto a Dio ». – « Non è amare Te a sufficienza, esclamava sant’Agostino, l’amare con Te altra cosa che non si ami per Te ». In questo senso san Bernardo proseguiva: « La misura dell’amore che dobbiamo a Dio, è di amarlo senza misura ». Vedremo in seguito come in tal modo non è distrutto nè diminuito nessun valore umano, l’amore, ad es., a noi, agli altri simili, alle ricchezze, alla gloria e così via, ma tutto è unificato e subordinato all’amore di Dio.

b) Con tutta la mente, — ossia sempre l’intelligenza nostra deve contemplare la realtà alla luce di Dio e del suo Amore. Siccome tutto ciò che esiste è creazione di Dio e da Lui dipende, la mia mente non raggiungerà la vera cultura, se non coglierà il nesso fra le singole cose e Dio. Studino pure la natura il fisico, il chimico, il biologo, il naturalista; ma si ricordino che, se anche per le necessità dell’analisi occorre prescindere da Dio, non è però mai possibile la sintesi del sapere senza l’amore Suo per noi e nostro per Lui. Il biologo scruterà le leggi della vita; l’astronomo ammirerà l’armonia e l’ordine degli astri; il filosofo indagherà l’universo per giungere ai supremi principi dell’essere; ma tutte le scienze debbono ricondurmi al centro della realtà. Per continuare il paragone di prima, io potrò prescindere per un istante dal pensiero che ha originato una pagina e che da essa è espresso; potrò limitarmi ora a ricercare l’alfabeto usato, ora a studiare il metodo della punteggiatura, ora a fare un elenco di vocaboli, ora a scoprire le regole grammaticali e sintattiche di quella lingua, ma tutto questo è un mezzo per risalire al pensiero e per comprenderlo. Così nel gran libro dell’universo la mia mente, mediante gli innumerevoli rami delle scienze, condurrà indagini parziali, che non debbono essere fine a se stesse, ma debbono avere come principio e come termine quel Dio che, nella natura e nella storia, ci dà una delle manifestazioni del suo Amore. Ama Dio con tutta la mente colui, che dovunque lo sguardo gira, qualunque scienza coltivi, cerca Dio.

c) Con tutte le forze, — ossia con tutta la volontà e con l’azione nostra. L’amore per Dio esige che si viva per Lui, che si operi secondo la sua volontà, che Gli si sia praticamente fedeli, anche nelle piccole cose. – « Le piccole cose, ammoniva sant’Ambrogio, sono piccole cose; ma esser fedele nelle piccole cose, è una gran cosa ». E il Tissot commenta genialmente: « Nostro Signore non è forse tutt’intero, tanto grande, tanto vivo, tanto adorabile, in una piccola Ostia come in una grande, in una particella come in un’Ostia intera? Non ne raccolgo io forse i frammenti con la medesima adorazione che ho per l’Ostia grande? Così è della volontà di Dio »: essa è identica nel minimo dei precetti e nel massimo dei comandamenti. Ogni norma della legge morale è dettata dall’Amore e dev’essere eseguita per amore; perciò nelle piccole e nelle grandi imprese, nell’umile e nascosto adempimento del dovere quotidiano e nell’atto eventuale dell’eroismo, sempre v’è lo stesso amore.. Ogni nostra azione deve, quindi, essere un atto di amore per Dio. Per dirla col Rodriguez, nel Sancta Sanctorum, là nel tempio di Salomone, ogni cosa era oro e coperta d’oro; così in noi, ogni cosa ha da essere o amor di Dio, o fatta per amor di Dio. La preghiera, il lavoro, il dolore, il sacrificio, la vita, la morte, tutto deve tramutarsi in un cantico d’amore. Solo una distinzione è da farsi, secondo ciò che ci avverte Gesù nel Vangelo. Infatti:

a) C’è un amore comandato, ed è il campo del dovere, dei comandamenti, dei precetti. A questo amore nessuno può sottrarsi, senza rendersi ribelle. Qui abbiamo la volontà di Dio che impone.

b) E c’è un amore consigliato, ossia il campo dei consigli « Se vuoi essere perfetto, dice Gesù, posando il suo occhio di predilezione sopra un’anima, consacrati a Me col voto di castità, di povertà, di obbedienza ». Qui abbiamo la volontà di Dio, che non comanda, ma solo invita dolcemente. Ed ecco la duplice schiera dei Cristiani: vi sono coloronche viaggiano sulla strada comune della legge morale, ed altri che ascendono l’alta montagna. I primi ed i secondi amano Dio: la differenza consiste nel modo più diretto della pratica dell’amore, anche se non sta sempre nell’intensità di esso, la quale, in chi vive nel mondo, può anche pareggiare e superare quella di chi si trova nel chiostro.

4. – La rassegnazione cristiana e la « santa indifferenza di sant’Ignazio.

Siamo ora in grado di afferrare il vero senso della dottrina morale cristiana a proposito della rassegnazione nel dolore e del programma ignaziano circa la « santa indifferenza ». Abbiamo visto come l’amor di Dio implica essenzialmente che si faccia la sua volontà, ossia che si voglia ciò che vuole Lui. Se Egli ci vuole nella gioia, dobbiamo benedirlo con l’autore dell’Imitazione di Cristo; se ci vuole nel dolore, dobbiamo parimenti benedirlo. Cos’è la rassegnazione? Forse l’insensibilità o l’indifferenza? No, mille volte no! Anzi, quanto più si sente e si soffre, tanto più dobbiamo amare Dio, conformandoci ed uniformandoci al suo volere. Noi sappiamo che Egli è Padre e che, se permette il dolore, lo fa per il bene nostro; anche se non comprendiamo le sue segrete intenzioni, siamo certi di questo: che è il Padre Colui che ci manda la sofferenza. Perciò non ci ribelliamo, non ci disperiamo mai, ma proseguiamo sicuri il nostro cammino, con un grande atto di amore per Lui, anche se non riusciamo né possiamo ridurre la sofferenza ad una gioia. – « Dobbiamo farci indifferenti riguardo a tutte le cose create », continua sant’Ignazio, suscitando il coro delle recriminazioni di chi, in nome del « perinde ac cadaver », lo accusa d’esser fautore di apatia, di fatalismo musulmano, di inerzia buddhistica, di insensibilità stoica, e chi più ne ha più ne metta. Sciocchezze! Noi, secondo sant’Ignazio, dobbiamo amare Dio ed in questo non possiamo essere indifferenti. È il fine nostro, sul quale non si discute. Ma in qual modo dobbiamo amare Dio? E l’autore immortale degli Esercizi risponde: facendo ciò che Dio vuole, non ciò che voglio io. C’è qualcosa di più evidente? No. Ed allora ne consegue che noi non dobbiamo valutare le cose in se stesse, quasi fossero l’Assoluto, ma solo in rapporto alla volontà di Dio: le cose non hanno mai valore di fine, ma sono solo mezzi, variabili all’infinito, che possono condurre al fine. Se Dio mi vuole professore, lo amo facendo bene il professore; se Dio mi vuole contadino, lo amo coltivando bene i campi; se Dio mi vuole ammalato in un letto, lo amo soffrendo; se mi vuole soldato, lo amo combattendo e così via. Io debbo farmi indifferente di fronte alle cose umane: il che è tutt’altro che inerzia o insensibilità! È il contrario: è il massimo grado di attivismo a cui io posso aspirare e gli Esercizi ignaziani sono tutti pervasi di questo spirito di energico attivismo. Il facere nos indifferentes esige una lotta formidabile contro noi stessi, da affrontare per amore di Dio. La rassegnazione inerte del fatalista è negazione di attività ed è egoismo bell’e buono; egli dice: — Non voglio angustiarmi, e prendo le cose come vengono; tanto « che giova nelle fata dar di cozzo? ». — L’accettazione cristiana del beneplacito divino è la prova più bella di amore che possiamo dare a Dio, perché se è facile gridargli il nostro affetto nelle ore ridenti di felicità; non è così facile ripetergli l’attestazione del nostro amore quando Egli ci domanda il sacrificio, la lagrima, il martirio.

5. – Vita attiva e contemplativa.

Ecco, dunque, risolto anche l’altro problema se sia migliore la vita attiva o la contemplativa. Non basta discutere una simile questione in astratto, perché allora è evidente che la vita contemplativa è l’optima pars, in quanto l’anima si volge direttamente a Dio, mentre la vita attiva, volgendosi alle cose, sale a Dio solo indirettamente; ma bisogna discuterla in concreto. La vita migliore per ognuno di noi è quella che è voluta da Dio. Se una operaia dovesse ragionare così: « Io sono stanca di fare da Marta; voglio imitare Maria, che ha scelto l’ottima parte, e starò quindi in chiesa tutto il giorno, pregando dinanzi al Tabernacolo), la morale cristiana la riproverebbe, perché esser Cristiani vuol dire amare Dio, ossia fare la sua volontà; se Dio vuole che una persona lavori in un’officina, essa non ama Dio, ribellandosi al volere divino, stando cioè lunghe ore in chiesa. Se Dio vuole un figlio suo fra il febbrile agitarsi del commercio, è là che il figlio buono deve restare, senza sognare le estasi della contemplazione. Di modo che il Cristiano più perfetto, in linea pratica, è colui che compie meglio la volontà di Dio nello stato in cui la Provvidenza lo vuole. Il bene non è bene, se non è fatto quando conviene, come conviene, da chi conviene, secondo, cioè, tutte quelle circostanze concrete, che ci indicano il volere divino.

6. – Conclusione.

Non saprei come meglio chiudere questo paragrafo che col riferire alcuni versetti dell’Imitazione di Cristo (libro III, 5). « Io ti benedico, o Padre celeste, o Padre del mio Signor Gesù Cristo, perché ti sei degnato di ricordarti di me meschino. – « O Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione… sempre ti benedico e ti rendo gloria con l’Unigenito tuo e con lo Spirito Santo, ne’ secoli de’ secoli. « O Signore Iddio, divino oggetto del mio amore.., tu sei la gloria e la delizia del mio cuore… « Gran cosa è l’amore ed il maggiore di tutti i beni! L’amore rende leggero ogni peso ed i pesi differenti porta tutti con animo eguale. Porta il peso senza sentirlo; e cangia in dolce sapore ogni amarezza… Nulla vi è in cielo e sulla terra che sia più dolce, più forte, più sublime, più espansivo, più giocondo, più perfetto, più eccellente dell’amore; perché l’amore è nato da Dio e non può trovar pace e quiete, se non al di sopra di ogni cosa creata, in Dio. « Colui che ama corre, vola, esulta; è libero e nulla può trattenerlo. Dà tutto per tutto e trova il tutto in tutte le cose, perché si riposa nel sommo unico Bene, da cui ogni bene fluisce e procede… « Per l’amore l’impossibile non esiste… Stanco, non perde lena; avvinto dai lacci, si serba disciolto; minacciato, non si sgomenta; ma come viva fiamma e come fiaccola ardente si slancia in alto e procede oltre, sicuro… « Un altro grido è all’orecchio di Dio questo stesso fervido affetto dell’anima, che dice: — Mio Dio, amor mio, tu sei tutto mio ed io sono tutto tuo. Apri il mio cuore all’amore, perché io possa nell’intimo dell’animo pregustare quanto sia dolce amare, struggersi, nuotar nell’amore… Deh! che io canti il cantico dell’amore; che io ti segua, o mio Diletto, fino al cielo; che languisca l’anima mia nelle tue lodi, giubilando d’amore… « Senza dolore, però, non si vive nell’amore. « Chi non è preparato a soffrire tutto ed a conformarsi alla volontà del Diletto, non è degno del nome di amante di Dio. Chi ama, per amore dell’amato deve abbracciare volentieri tutto ciò che v’ha di duro e d’amaro, nè per qualsiasi contrarietà deve separarsi da lui ». – Dal Cantico dei Cantici a questa pagina, forse scritta in estasi, l’inno tante volte si è elevato. E forse il nostro povero cuore, ne ha percepito così raramente, o così debolmente, una eco…

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (7)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (44): “INDICE DEGLI ARGOMENTI -III-“

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (44)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

B. – DIO SUSSISTENTE UNO E TRINO

1. DIO “uno” secondo natura.

B1. a. – ESSENZA DIVINA

Si definisce l’Essenza metafisica di Dio (sec. i Tomisti), Essere sussistente, 3623; si spiega 3601-3604 3623s. Identità (reale) tra essenza e perfezioni di Dio. ogni perfezione di Dio ne è l’essenza: Dio è verità, sapienza etc., non una sola è participe 285; di Dio infatti è essere quanto volere, similmente volere quanto sapere 566; cf. e la semplicità di Dio, sotto B lbb. Riprov. asserzioni che peccano per eccesso 973s.

B 1b. b. – ATTRIBUTI DIVINI

1ba. AttributI trascendentali. Unità di Dio: Fedes in un solo Dio (per quanto in alcuni simboli, l’ “unum” omesso si riferisce a singole Persone divine) 3-5 42//50 71 108 125 150 800 3001 3021 3875; Dio è una sostanza singolare 3001; è similmente uno del Vecchio e del Nuovo Testamento 198 325 790 854 1334 1336.

Verità (ontologica) di Dio: Fede nel “vero” Dio 3 42/150 60 125 1800 1862 3001 3021 3026; Dio è la fonte di ogni verità 2811;

Bontà (ontologica) di Dio: Dio è il bene infinito, o il sommo bene (62) 240 285 .287 470 621 1333 (3002) 3004s .3251; ripov. l’asserzione che concepisce Dio come bene extra ragione 978.

1bb. Attributi quiescenti. Dio è: increato, incomposto 75 501; -: infinitamente perfetto (in ogni perfezione) 2751 3001 3623; add. infinitamente buono: B lba; in Lui niente è imperfetto 569; non abbisogna di nessuna partecipazione 285 358; non si lascia vincere nel numero dalla ragione della sostanza 530 -: eccelso sopra ogni cosa 3001; Maestà 73 75 293 529 1331; add. C 2a.

– incomprensibile ed ineffabile 294501 525 800 804 3001

– semplice (non composto, indiviso) 297 800 b805 ab1880 3001

-: personale 3542 3875 3890; sussistente in tre persone: vd. B 2.

– immutabile 285 294 297 501 569 683 800 853 1330 2901 3001

inconvertibile 197 358 416; in Dio non c’è emanazione o evoluzione 3024; nulla aumenta o sminuuisce 285 569.

– sostanza spirituale 3001; infatti Dio (Padre: Dio) è invisibile a16 a21 a39 b293s 683 853 3001; non può esprimersi con colori o figure 1825.

— : immenso 75 800 1330 3001; non circoscritto ed incontenibile 504:

nulla si estende fuori da Dio 204; pertanto Dio è dappertutto ed onnipresente (per potenza, presenza, essenza) 2185 a3330.

– eterno (sempiterno) 27 71 74s 147 173 284s 291 293 441 683 800 853 1330 1337 2828 3001; è senza inizio 501: Deus (aPater; bFiglio di Dio) è immortale a21s b294 b297 b358 b681 b801 b852 b1337; Dio (Padre) è il re dei secoli 21s; errore dei Teopaschitari: [Dio Figlio che soffre sec. divinità mortale] 359; vd. et E la.

1bc. Attributi operativi. Vita di Dio in genere 40 (173) 3001.

Vita intellettiva: Dio è (infinitamente) sapiente 2901 3001 3004 3009 3781; onnisciente 164 169 3009 3646;

In specie: ha la scienza dei cuori e dei segreti 670 2866; conosce in anticipo (scienza della visione) le future libere scelte delle creature (333 419) 621 625-629 646 685 3003 a3646 3890; queste quindi hanno verità determinata 1391-1395;

Dio non può fallire 3008.

Vita volitiva: Dio è —: volontà infinita 3001;

— libero da necessità 526 3890;

— volontà razionale, non preveniente la sapienza 526;

— giusto 285 621 1547 1549 1672 2216 3781:

— buono e misericordioso verso gli uomini 62 236 248 309 1534 1548s 1562 1576 1668 1696;

— verace: non può fallire 3008; Dio è la fonte di ogni verità 2811:

— onnipotente (referendosi solo ai luoghi più importanti di Dio in quanto uno. 680 683 685 800 851 1330 1880 3001; le singole Persone si dicono “onnipotente” 29 75 164 169 173 441 490; massimamente nei simboli l’onnipotenza si attribuisce al Padre 2//64 71 115 125 150 191 290 297 441; alla volontà di Dio niente può resistere 647; si riprov. l’asserzione che restringe la potenza di Dio 410 721 726s.

Vita affettiva : Dio è (in e fuori da Sè) beato 415 441s a3001.

Dio è impassibile ed inviolabile (soprattutto affermato contro i Theopaschiti la passione del Figlio incarnato che ripugna all’essenza della stessa Trinità)

16 166 0196s 284 293s 297 0300 318 358 0359 0367 504 635s 681 801 852 2529; si può pure dire “Dio che soffre nella carne”: vd. E 2ba.

2. Dio trino secondo le Persone.

B 2a a. — ESISTENZA DELLA TRINITÀ DELLE PERSONE IN DIO.

2aa. Testimonianze della fede. Fede nelle singole Persone divine, nel Padre, Figlio, Spirito Santo 1//30 36 40//51 55 60-64 71 73 75 105 125 144s 150 188 300 325 367 421 441 451 470 485 490 501 525 542 546 680 790 851 1330; add. forma Battesimo: J 3a.

Fede nella Trinità divina come tale: 3s 6 71 73 75 112 115 177 188 325 367 421 525 528s 546 568s 680 790 800 851 1330 1880.

Sono esclusivamente le tre Persone: al di fuori di Esse nessun altro possiede la divina natura 188 851; si riprovano i Priscilliani introducenti altri nomi della divinità fuori dalla Trinità 452; questa Trinità non moltiplica di numero 367; queste tre Persone in sé non si ridimensionano o diminuiscono, permangono 144;

Il Verbo di Dio, pertanto non ha mai fine 160.

2ab. Applicazione della ragione umana alla rivelazione della Trinità divina: è mistero incomprensibile all’intelletto, ineffabile, inenarrabile 167 367 525 616 619 2669; nella Trinità è inesplicabile la generazione 114; riprov. dell’assunto circa la dimostrabilita’ della Ss. Trinità e della sua identificazione con la realtà, l’idealita’, la moralità 3225s.

B 2b. b. — PROCESSIONI DIVINE

Pater. Sue proprietà: è senza principio 1331; da nessun altro è fatto o creato o generato c60 abc075 e441 ac485 bc490 be525 bc527 569 c572 c683 800 1330s; ciò che ha lo ha da sé 1331.

È principio generante 71 284; è fonte ed origine o principio di ogni divinità a490 a525 a568 b3326; il Padre genera il Figlio non per volontà, non per necessità, ma per natura a71 526; il Padre genera da Sè, dalla sua sostanza 470 485 525s 571 617 805 1330; senza sua diminuzione trasferisce la sua sostanza al Figlio 805; pertanto non è solo che per il Padre (sec. Ario) che si debba dire “Dio” 176 1332.

Attributi (appropriati al Padre): onnipotente 21/64 71 115 125 150 191 290 297 441; riprov.: [al Padre propriamente appartiene l’onnipotenza, non anche la sapienza e la bonta] 734.

Il Creatore ossia il fondatore di ogni cosa 27-30 36 40//51 60 125 150; “dal quale viene ogni cosa” 60 421 680 (851) 3326; ogni cosa fece per mezzo del F. e dello Sp. Sancto 171; è il dominatore dell’universo 1 5.

Re dei secoli immortale 21s.

Invisibile 16 21s 29.

Riprov. del predicato: [Croce del Figlio è la passione del Padre] 284; [Al Padre si può attribuire l’avvento alla fine del mondo] 737.

2bb. Figlio. Sue Proprietà: è principio dal principio 1331; è (veramente e propriamente) generato o nato dal Padre 40//51 71 75 113 125 144 150 163 a168 188s 272 284 485 490 503 526s 547 554 564 568s 572 681 851 1830 1337 2526.

È della sostanza o natura del Padre (non da altra sostanza) c43 a44 c45 a48 c49 a76 a125 c126 c144 a163 ab441 c526 c900 a2526; ciò che il Figlio ha, lo ha dal Padre 1331; il Padre da al Figlio tutto il suo “essere Padre” (900) 01301 01986 3675; è al Padre consustanziale: vd. B 2cba.

Non è parte (particola) del Padre 526 805; non è estensione o continuazione del Padre 160.

Non è fatto o creato dal nulla 042//50 60 75 113s 125 a126 a130 150 155 209 485 490 a526 536 1332 a2526; nel senso sec. Prov. 8,22, Figlio si dice “creato” 114; non è sostantivo 160.

È unico (unus) Figlio (oltre il quale non ce n’è altro) 4s 12/130 36 62s 0105 502; pertanto unigenito 2s I I 25 27 40//51 60 125 150 178 258 266 272 291 300 302 318 357 538 683 900 2526 3350 3352; solo Figlio da solo Padre 75 800 1330.

È generato dal Padre non per volontà o necessità, ma per natura 71 526.

È generato senza inizio o principio 357 470 526 536 572 617 1331; eternamente (atemporalmente) a490 504 (611) a617 681 852 900 1300s 1331 (3274); è dal principio con il Patre 61; sussiste dall’eterno in eterno

(126) 147; fu prima di ogni secolo (prima di ogni principio, ab aeterno) 40-42 48 50s 60 76 b126 b147 150 a189 272 294 a297 301 357 427 a441

485 0490 503s 526 538 547 554 568 571 (611) 617 681; è primogenito di ogni creaturae 40 50s 60 (490); riprov. l’asserzione ctr. l’eternità del Figlio [avrà fine; è mortale] e futura mutazione 43 45 47 49 113 126 130 a160 b359 2526.

Appellativi (oltre al nome “Figlio Dei” il più frequente): “Verbo di Dio” (Logos) 40 55 113 144 147 178 250/1263 427 502s 852 3326; Che invero non è da concepire come Verbum parlato 144 147; disapprovato come termine principale il titolo “Verbum” 2698; “Sapientia” (113) 148 476; “Sermo” 148; “Virtus” 113.

Predicati (appropriati al Figlio): Figlio rapportato alla creazione come “per il quale tutte le cose” 40//51 60 125 150 421 680 3326; “per il quale sono compaginati i secoli” 50s; si dice “creator di ogni cosa” 485.

2bc Spirito Sancto. Sue Proprietà: non è né ingenito né generato ab71 ab75 b485 b490 b527 b617 ab683; procede d Padre e dal Figlio [“Filioque”] 42 44 a48° 51 64 (a64) 71 (a71°) a75 (147) 150 (gr.) a150 (lat.) 178 (188) a284 441 a470 a485 a490 a527 546 a568s a617 a682s a800 a850 a853 a1072 a1300 a1330 a1986 a3807; lo Spirito è del Padre e del Figlio 178 527s 441 490; “Filioque” razionalmente è aggiunto al simbolo (perché si può provare) 1302 1986 a3553.

Sp. S. Procede come da un tanto principio o spirazione, non da due principii a850 a1300 ab1331 1986; si può dire: Sp. S. Procede dal Padre per mezzo del Patre Figlio 1300; lo Sp. S. è concepito dal Figlio sec. i Greci per causa, sec. i Latini come principio di sussistenza 1301 1986; lo stesso procede in quanto Spirito S. dal Figlio, il Figlio stesso lo ha dal Padre 1301.

Un solo tanto Spirito, che solo procede 40s 51 71 108 a1330. Sp. S. è fin dall’inizio 568 800 1331; procede eternamente (atemporalmente) 441 617 850 1300 1331 1986; è sempre e senza fine 800.

È di sostanza divina 168; riprov.: [non è della sostanza del Padre] 722; si rivendica la sua divinità increata ctr. errori: [Sp. S. è servo, creatura fatta per mezzo del Figlio] 44-49 71 75 145 a152 155 a170 485 490 527 617 1332 2527.

Appellativi: Paraclito 1 41 44 46 60 64 188; Dono 570 1522 1529s 1561 1690 3330.

Predicati (appropriazione allo Spirito S.): Sp. S. riferito alla creazione come, “in quo tutte le cose” 421 680 3326; riprov.: [Sp. S. è l’anima del mondo] 722.

Amore, in particolare tra Padre e Figlio 3326 3331; volontà 573 nella storia della salvezza allo Spirito S. si attribuisce— : l’ispirazione o locuzione per mezzo della Legge, i Profeti, gli Apostoli 41//48 150 682 790; —: incarnazione del Verbo: vd. E 5ba; non veramente è da credere Padre del Figlio 533; —: disceso al battesimo di Cristo 44 46 48 – — : sacrificio di Cristi 3327; —: riposare in Cristo 178; in modo peculiare si dice “Spirito di Cristo” 3807.

Nella vita della Chiesa lo Sp. S. è concepito come —: anima della Chiesa 3328; abitante in essa 600; congiungente le membra 3808; —: assistente ai concili e nelle preghiere nelle decisioni circa la fede e gli ordini 102 265 444 631 1500s 1600 1635 1667 1726 1738 1820.

Nella vita della grazia dei fedeli è concepito come —: fonte della grazia creata 3807; per i suoi doni si dice Sp. settiforme, Sp. di sapienza etc. 178 183 1726; ad Esso si appropriano i carismi 3328 3342; —: vivificante 3s 42 51 62 150 62 150 546; —: purificante 62s; — cooperante alla giustificazione illuminando e muovendo 374-378 387 1525 1552 1678 3009s; è lo stesso dono (altissimo) delle giustificazioni 1527 1529s 1561 1690 a3330; agisce nei Santi dell’eternità 60; inabita nei Santi e giusti 44 46 48 1962 3329-3331 3814s; i loro corpi sono tempio dello Sp. S. 1822; —: cooperante ai sacramenti 123 183 320 793 1774; —: alla perfezione delle virtù 3343.

Il peccato contro lo Spirito Santo è facente parte della potestà della Chiesa di rimettere qualsiasi peccato 349.

B2c. c. — LE PERSONE DIVINE TRA DI LORO COMPARATE.

2ca. Distinzione delle Persone tra loro. Esistenza della distinzione (ctr. la posizione del modalismo): Dio è uno, ma tuttavia, no è solitario 71 451 490; la Trinità divina non è sussistente in tre nomi 284-546; le Persone non sono da identificare, pertanto come Dio si nomina in egual modo il Filio, lo Sp. S. 73 75 112 154 188 192-194 284 451 530 569 1330; non il Padre incarnato è morto 105; uno è il Padre, non tre, etc. 75 421.

Ragione della distinzione: Padre, Figlio, Sp. S. sono nomi relativi 528 532 570; per quanto attiene al relativo, discretamente sono da predicare le proprietà delle tre Persone 570 573 800; altro è il Padre, altro il F. etc., non tuttavia altro è il P., altro F. etc. 573 80; nel Nome relativo sono designate anche le altre Persone 532 570; al nome “Spirito S.” Per questa relatività non si può sostituire pienamente il nome “Dono” 570.

Proprietà delle Persone tra loro comparate: il Padre è dall’eternità senza nascita, il Figlio è dell’eternità con la natività, lo Sp. Santo e procedente senza natività con l’eternità 532; oppure: il Padre è generante, il Figlio è generato o nascente, lo Sp. S. procedente 71 188 284 367 470 (526) 800.

Conseguenze logiche della distinzione delle Persone: Non è trasferibile all’essenza divina, quello che è proprio delle Persone 367; non pertanto “la cosa ” (sostanza divina) è generante, generata, procedente, ma il Padre è generante, il Figlio generato etc. 803s.

2cb. Eguaglianza delle Persone tra loro. Comparazione del Figlio con il Padre: il Padre non è generato da nessuno, è da se stesso 525; al Figlio da tutto ciò che è suo (senza diminuzione) tranne l’ “essere Padre” a470 b526 a805 1301 1986; il Figlio pertanto è (co)eguale al Padre per tutto, in nulla dissimile 74(76) ab144 164 b290 441 470 485 a490 491 a526 536s 572 617 a681 a852 1337; è della stessa natura 144 297 470; è consustanziale al Padre 42/151 55 125 138 150 272 301 357 430 441s 504 526 547 554 617 619 681 852 1337 (1880) 2526 2529 3350 3675.

In particolare si predica di questa eguaglianza per la — divinità 74 144 149 168 295 318 357; il Figlio è infatti Dio da Dio 40/151 125 144 150 490 (525); luce da luce 40//48 125 144 150 525; vita de vita 40; —: onore, gloria, maestà 74 290 318; —: eternità (coeterno) 27 74 290s 297 357 441 526 (611) 617 1337; —: sapienza o scienza 164 169 566 573; —: volontà ed (onni)potentia 144 164 169 290 566 573 681n852; add.: Gesù Cristo perfetto Dio: E la.

Comparazione dello Spirito Santo col Padre e col Figlio: lo Sp.S. è veramente dal Padre come dal Figlio 168; è al Padre e al Figlio — : consustanziale 29 46 55 (152) 441 853; —: (co)eguale 71 175 441 527 569 853; e lo stesso in onore e maestà, quindi a da coadorare, b da conglorificare ab42 147 ab150 a174 ab546; —: coeterno (sempiterno) 71 441;

—: eguale in potenza e virtù (29) 145 147 152; è in ogni luogo come il P. ed il F. 169.

Comparizione simultanea delle tre Persone: P., F., Sp. S. sono di una medesima natura 297; quindi a consustanziale o b coessenziale a3 ab325 a415 421 a442 a501 502 a516 a542 b547 554 a616-618 ab680 b682 ab790 a800 a805 ab851; in sè coeguali 4 75 169 173 415 441 537 616-618 682 800; pertanto nella Trinità nulla è inferiore, superiore, maggiore, minore 75 569 618.

In particolare si equiparano P., F., Sp. S. —: in divinità (sono Dio a pieno, b perfetto) 4 73 75 176 a325 b441 a529 a790 ab851; —: in gloria, maestà 73 75 501 529 1331; — in eternità (nella Tr. nulla è primo o posteriore) a75 a144 162 173 284 a618 1331; sono tra sè coeterni 75 147 325 546 616-618 680 682 790 800s 853; nessuna esiste prima o dopo l’altra o senza l’altra 531; — immensità (sono ovunque, contengono ogni cosa) 75 169 173; —: potenza 75 173 325 529 680 790 800 853; non sono di diverso grado di diverso grado di potenza nella Tr. 144 721 1331.

Riprov. errori ctr. l’eguaglianza delle Persone e dello Sp. S. sono creature] a155 721s 734 a1332.

2cc. Esistenza mutua (circumincessione) della Persone. Il Figlio sempre è nel Padre (e viceversa) 113 115; il Verbo necessariamente è unito a Dio 112 115; lo Sp. S. rimane in Dio ed inabita 112; il Padre tutto è nel Figlio, tutto nello Sp. Santo, etc. 1331; questo stesso procede dal Figlio, lo stesso Figlio lo ha dal Padre 1301.

B 2d d. — PERSONE DIVINE COMPARATE CON L’ESSENZA DIVINA.

2da. Identità reale dell’essenza divina nelle tre Persone. Principi: le tre Persone sono un solo Dio 71 73 75 112 325 530 546 680 683 853 1330; il numero in Dio concerne solo la ragione delle Persone 530; unica divinità è il nome delle tre Persone 188 441; trina Unità— una Trinità 441 501 546.

Nelle tre Persone è una (a medesima, b comune, c singolare) la divina sostanza (o essenza, natura) 3 71 73 75 144s 147 153 172 177 188 a284 c367 415 421 441 451 b470 485 490 501 525 527-529 535 542 546 616 683 800 804s 806 1330 2527; lo stesso è il Padre come il Figlio, lo stesso il Padre ed il Figlio come lo Spiruto S., id est: di natura è uno Dio 573 805; Dio non solo in senso ablativo si dice di essenza divina, ma pure in senso nominativo 745.

La forza dell’essenza divina esclude in Dio una quaternità 804.

L’unità della sostanza nella Trinità è così forte, che non è minore nella singola quanto in tutte le Persone. (441) 490 529.

Nelle tre Persone c’è —: una gloria 73 172 542 546; —: una maestà 144s 172 177 490 525 542 618 680 851; —: una verità 172; —: una volontà.; 172 501 542 545s 572s 680 851; —: una virtù 73 144s 415 421 441 451 490 501 525 542; —: una potestà (potenza) 3 71 73 (144) 153 172 177 415 421 441 451 490 501 546 680 851; —: una operazione 415 441 501 531 542 545s; —: una dominazione, un regno 172 501 542 548 3350; —: una beatitudine 415 441.

Tutte le cose in Dio sono uno, ove non si trova opposizione di relazione 1330; la sola natura divina è principio dell’universo 804.

La Trinità è la divinità consustanziale 284s 415.

Nelle tre Persone divine c’è la a individuale, b indivisa (indivisibile) c inseparabile, d indistinta (indiscreta) essenza divina bc73 c144s b188 b284 b290 d318 d367 bd415 d490 c505 b529 c531s c538 c542 c545s c561 c571 c569 c616

a683 a800 d805 d2697 bc3326 b3815.

Sequele logiche dell’essenza identica una indivisibile in qualunque Persona divina: “Dio” non è un nome relativo o di proprietà, ma nome di potestà che si applica in modo speciale 71 528;

Quanto si dice essenzialmente della natura della Trinità, si può dire per il singolo numero che per le tre Persone 542; infatti per il singolare numero si dice:

Deus Pater, Deus Filius etc. 529; non “tre Dii” 71 73 75 176 529 546 683 853 1330; non: “tre onnipotenti, increati, immensi etc.” 75 529 (pecca ctr. questa regola 173: “omnipotenti”); non: Dio (deitas) è triplice, ma: trino (trina) 528; non: Dio distinto in tre Persone, ma: distinti (2696) 2697 2830; non: battezzato nei nomi del Padre etc., ma: nel nome del Padre etc. 415 441.

Conseguenze cultuali: la Sostanza della Trinità indistinta è distintamente adorabile 367; non conviene riferire il culto ad una singola Persona trinitaria, ma offrire un culto comune alla Trinità 3325; infatti non esiste una festa propria delle singole Persone 3325.

2db. Distinzione della ragione tra essenza divina e le Persone. Non è da stabilire la divisione tra la natura divina e le Persone 745 803; il Trideismo è riprovato il trideismo che separa la natura unica delle Persone, introducendo tre dii, volontà ed operazioni personali 112 115 367 545 1880 3325; tuttavia non è da negare ogni distinzione in Dio 973s.

e. — OPERAZIONE DI DIO TRINO AD EXTRA.

2ea. Unità delle operazioni delle Persone all’esterno. Pater. F. et Spirito S. sono di operazione unica (171 325) 415 441 501 531 542 545s; per forza di principio: tutto in Dio sono un unico, ove non lo contrasti opposizione di relazione 1330.

Le opere della Trinità sono inseparabilmente indivise, comuni 491 531 535 538 571 618 3326; nessuna Persona opera prima o dopo l’altra o senza l’altra 531; le Persone divine a non sono tre principi di creatura, ma uno solo, cioè. b una sola natura divina 800 b804 a1331.

Pertanto l’Incarnazione è operata in comune da tutta la Trinità 491 535 57 I 801 3327; Sp. Sanctus si inserisce nell’operazione e remissione dei peccati col Padre ed il F. 145; l’inabitazione e l’opera di salvezza nelle anime dei giusti, per quanto attribuita allo Spirito S. sono comuni alla Trinità 3331 3814.

2eb. Appropriazioni fatte alla singole Persone. Fondamento: una certa similitudine ed affinità tra l’opera e la proprietà della Persona divina 573 3326.

Quindi la creazione è riferita alle singole Persone sec. la formula: Padre, dal quale tutte le cose, Figlio per cui tutte le cose, lo Sp. S., in cui tutte le cose 421 680 (851) 3326; oppure: P. ha fatto tutte le cose per mezzo del Figlio e dello Sp. S. 171.

Facoltà dell’anima riferite alla Trinità: al Padre la memoria, al Figlio l’intelligenza, allo Sp. S. la volontà 573.

Al Padre sono appropriate le opere nelle quali eccelle la potenza 3326; creazione dell’universo. 171 3326; cf. Il predicato “onnipotente” è attribuito solo al Padre”: vd. B 2ba. Al Figlio sono appropriate le opere nelle quali eccelle la sapienza (causa esemplare delle cose) 3326; la riconciliazione degli uomini con Dio 3326; vd. anche B 2bb.

Allo Spirito Santo sono appropriate le opere nelle quali eccelle l’amore e la bontà divina 3326; l’incarnazione del Verbo: vd. E 5ba; le opere completanti la santificazione dell’anima, inabitazione nel giusto: vd. B 2bc.

2ec Missioni delle Persone divine. Missione di Gesù Cristo Figlio di Dio 101 145 527 538 1522 3806.

Missione dello Spirito Santo: è mandato dal Padre e dal Figlio 60 145 527 681 3325 3327s: la sua missione è doppia: manifesta nella Chiesa, segreta nell’anima del giusto. 3327; la festa della sua missione è il giorno di Pentecoste 3325.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (45): “INDICE DEGLI ARGOMENTI -IV-“

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (5)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (5)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo secondo (2)

L’ATTIVITA’ MORALE

II. L’AZIONE BUONA

Si narra che, sulla tomba di un povero sciagurato, i parenti volevano porre una lapide con questa iscrizione: « Il male lo fece bene: ed il bene lo fece male ». Almeno la seconda parte di una iscrizione tanto feroce potremmo dedicarla spesso a noi ed alle azioni che reputiamo « buone ». Non basta che un atto nel suo oggetto e nelle sue circostanze sia secondo ragione; occorre anche che sia compiuto con un fine buono. È certo secondo la ragione partecipare generosamente ad una sottoscrizione in occasione d’un terremoto o d’una sciagura; ma se il donatore compie il suo gesto solo per poter ottenere una onorificenza da tanto tempo agognata e mai raggiunta, non fa un’azione buona: la sua non è generosità; è dell’egoismo puro e ributtante. Cosi ancora: è buona cosa in sè la preghiera; ma se essa si riducesse ad un puro movimento delle labbra, senza nessuno sforzo d’attenzione, non sarebbe preghiera se non di nome. In altre parole: dopo d’aver visto l’atto morale dal punto di vista oggettivo, dobbiamo ora analizzarlo dal punto di vista soggettivo, secondo l’intenzione e l’animo che ispira l’azione; ossia, come usano dire i filosofi, dopo la materia occorre scrutare la forma dell’atto, che costituisce insieme con la prima un unico tutto, come il corpo e l’anima in noi. Evidentemente, ciò che più importa nell’atto è l’anima, o l’intenzione del fine, che, come proprio oggetto della volontà, dà la forma all’azione morale; cosicchè, se l’atto fosse in sè materialmente cattivo, ma chi lo compie, in buona fede, lo ritenesse buono, non vi sarebbe colpa. Quando, ad esempio, san Crispino, se è vero ciò che di lui si narra, rubava il cuoio ai ricchi per far scarpe per i poveri, la sua azione era oggettivamente cattiva, ma soggettivamente buona, supposto che egli incolpevolmente ritenesse lecito il suo modo di procedere: e se una persona giudicasse erroneamente che un atto buono è peccato e lo facesse, sarebbe colpevole dinanzi a Dio. – Diciamo, dunque, una parola sull’anima dell’azione, ossia sul fine. In questo sta la nostra grandezza, ma anche la nostra responsabilità. È la libertà di scegliere fra il bene ed il male, è l’intenzione che è in nostro potere, ciò che conferisce un valore morale alla nostra attività. Un orologio che si guasta, una tegola che cade, un’inondazione non sono un bene o un male morale, né li definiamo con l’appellativo di cosa buona e di cattiva. Noi, invece, siamo buoni o cattivi, perché siamo i padroni dei nostri atti. Dio ci ha creati liberi, perché vuole che con la nostra volontaria adesione decidiamo di amarlo. Per questo, se è bello il canto degli uccelli, più bello è il canto delle anime virtuose che amano Dio. Lo sappiamo: dopo il peccato originale, una tale volontà buona è spesso ardua e difficile. Il primo disordine fu la fonte degli altri disordini, come avviene a colui al quale si abbuia la ragione e che continua a pronunciare parole sconnesse. Tale, purtroppo, è la storia dell’umanità: invece della subordinazione a Dio, al « Bene dei beni », come dice sant’Agostino, alla Ragione suprema, in una parola all’Amore divino, abbiamo il disordine, la irrazionalità, la ribellione all’Amore infinito. E non solo si sbaglia facendo il male, ma possiamo in due modi sciupare ciò che è bene in sè e non arrivare all’altezza dell’atto morale; o compiendo il bene con un’intenzione non buona, che lo guasta, oppure limitandoci a porre un’azione buona materialmente, meccanicamente, per pura abitudine, senza darle un fremito di vita.

1. – Il bene per il bene.

Innanzi tutto, perché si abbia un’azione normalmente buona, occorre voler fare il bene per il bene. E’ questa l’espressione precisa di san Tommaso, il quale non esita a dichiarare che « affinché la volontà sia buona, si richiede che voglia il bene e lo voglia per il bene. — Ad hoc quod voluntas sit bona, requiritur quod velit bonum et propter bonum (I, II, q. 19, a. 7 ad 3) ». Non basta, cioè, ad esempio, sfamare un povero o fare il proprio dovere, ma è necessario fare questo con un fine buono. Se aiutassi l’indigente per un motivo volgare, o se osservassi il mio dovere solo per farmi vedere dal superiore o dal padrone, io avrei compiuto un’azione che in sè è buona, ma ha un’anima ispiratrice che la guasta. E’ per questa ragione inoltre che il Vangelo ci intima di non giudicare mai gli altri: per giudicare un’azione non basta limitarsi alla superficie di essa, alle apparenze esteriori, ma bisogna scendere nella coscienza di chi la compie; e siccome solo Dio intuisce i cuori, soltanto Lui può valutare il valore morale di un atto. In altri termini, il bene perfetto — come abbiamo mostrato — è ciò che è voluto dall’Amore di Dio, è ciò che è richiesto dalla sua volontà d’amore; e noi, per fare una azione buona, dobbiamo non solo volere e fare ciò che Dio vuole ed ama, ma volerlo e farlo per amore di Dio, ossia per amore del Bene sommo. L’ascetica cristiana inculca caldamente il pensiero della presenza di Dio e la preghiera, appunto perché in tal modo riesce più facile il bene fatto per amor suo. Quando non le labbra, ma la vita intera d’un Francesco d’Assisi grida: Deus meus et omnia, o quando un Ignazio di Loyola ad ogni momento si propone di tutto fare alla maggior gloria di Dio, si evita il pericolo di sciupare il bene con un’intenzione ispiratrice non nobile ed alta. -:Nulla di più opposto al Cristianesimo di un’attività materialmente buona, ma viziata da un’anima malvagia. Il fariseismo è ciò che più dispiaceva a Gesù e quando noi scorriamo il Vangelo di san Matteo e leggiamo le fiere ed inesorabili condanne dei « sepolcri imbiancati », comprendiamo come il Maestro divino non può gradire un’azione che in apparenza sia bella come il marmo bianco d’un monumento, ma intimamente racchiuda il cadavere e la putrefazione di mire egoistiche. Si può digiunare e distribuire elemosine; si possono moltiplicare abluzioni e purificazioni; si può osservare un rigorismo esteriore perfetto; ma se tutte queste pratiche non sono vivificate dall’amore di Dio, ma da un fine ignobile, Cristo condanna con una terribile ed espressiva parola; « Ipocrita ». È la sincerità che Egli vuole. La morale dell’amore non può appagarsi di una bugiarda manifestazione esteriore, ma chiede ed esige il cuore, ossia la rettitudine d’intenzione.

2. spiritualizziamoci

In secondo luogo, c’è un altro pericolo da evitare. Composti di spirito e di materia, noi dobbiamo continuamente vincere l’accidia e sforzarci di volare in alto. La materia ci trascina al basso, come zavorra pesante. Ed è facile la stanchezza, è facile cadere nel precipizio del meccanismo e della materializzazione. La vita morale implica l’attivismo dello spirito e non già passività comoda ed inerte. Non è un vero ammiratore di Dante colui che si accontenta di imparare a memoria tutta la Divina Commedia senza approfondirne le bellezze; così pure, il bene è fatto male da chi lo compie meccanicamente, senza rinnovarsi ad ogni istante, senza suscitare in sé le energie che gli dànno un soffio di vita spirituale. Questo sforzo vigile dello spirito nostro è più che mai necessario per frenare le nostre passioni. Se esse non fossero dominate, ci trascinerebbero al precipizio, simili all’acqua impetuosa, che, invece d’essere incanalata nel letto d’un torrente, dilaga nei campi e tutto sommerge. Ma come quell’acqua, sapientemente utilizzata, può essere sorgente di forza elettrica, di luce e di calore per intere città, così le passioni nostre, ben indirizzate, costituiscono un potente aiuto. Anche un focoso destriero, esclama il Cathrein, guidato a dovere, serve a farci percorrere, nel più breve tempo possibile, il massimo spazio; non frenato, ci conduce a perdizione. « Un uomo apatico non è atto a nulla di grande e non riuscirà ad elevarsi al di sopra di una ben calcolata mediocrità. Anche nel puro lavoro intellettuale l’uomo dev’essere sostenuto da una certa misura di passione, se vuol compiere qualcosa di bello. Chi si dà allo studio con entusiasmo, lavora più energicamente e con maggiore costanza, e la sua intelligenza si fa più pronta ed acuta. Questo si verifica in ogni campo. Quante volte l’uomo apparisce, tutt’ad un tratto, quasi trasformato, se lo dominano potenti passioni! Allora diviene più geniale, più ricco d’idee, più eloquente ». Infelice colui che procede per moto d’inerzia e per mera abitudine! Certo: dobbiamo distinguere due generi d’abitudine. C’è un’abitudine che dice ripetizione amorfa e senza vita; e c’è l’abitudine che è prontezza, facilità, e agilità. Quest’ultima viene dall’abito acquisito di fare il bene. Sulla tomba di san Paolo, a Roma, si leggono le parole di una sua lettera ai fedeli di Filippi: « La mia vita è Cristo. Mihi vivere Christus est ». Non era Paolo che viveva; era il Cristo che viveva in Paolo: Io vivo, scriveva egli un giorno ai Galati, ma non sono io che vivo; è Cristo che vive in me ». Da questo programma bisogna prendere le mosse, se si vuol abbracciare con un’occhiata la differenza tra l’azione morale umana e l’azione morale cristiana, tra l’attività naturale e l’attività soprannaturale, tra l’uomo onesto e il discepolo di Gesù. Come già vedemmo nel Sillabario del Cristianesimo, noi possiamo vivere la vita in tre modi: da bruti, da uomini, da Cristiani. Possiamo, cioè, orientarci o verso la materializzazione e l’abbrutimento, calpestando la legge morale; o verso la spiritualizzazione, ispirata da un sistema filosofico e da un’etica puramente umana: ovvero verso la elevazione soprannaturale della vita umana. È quest’ultimo punto che occorre approfondire, alla luce del dogma, che ci insegna il mistero della nostra divinizzazione e dell’incorporazione nostra a Cristo. – Sarò elementarmente chiaro in questo capitolo, perché so benissimo che esso rivelerà un’idea sconosciuta a moltissimi lettori, che pur si ritengono credenti e non conoscono le basi del Cristianesimo. Mi si segua con attento raccoglimento, perché è un’enormità che il Cristiano non sappia qual è la caratteristica propria della sua attività e la fisionomia speciale della sua vita. La ignoranza religiosa dei nostri tempi è qualcosa, non dico di spaventoso, ma di mostruoso.

1. – L’incorporazione a Cristo.

Era la sera dell’Amore divino. Poche ore prima di una acerbissima passione, quale solo l’eccesso dell’amore per gli uomini poteva suggerire, Gesù istituì il Sacramento dell’Eucaristia,nvale a dire il Sacramento dell’amore. Poi, in termini espliciti, riprendendo un pensiero già altre volte insegnato nella sua predicazione, manifestò ai dodici la verità consolante della nostra incorporazione in Lui. « Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può da sè dar frutto, se non rimane nella vite, così nemmeno voi, se non rimanete in me. Io sono la vite; voi i tralci. Se uno rimane in me, ed io in lui, questo porta molto frutto, perchè senza di me non potete far niente. Chi non rimarrà innme, sarà gettato via, a guisa di tralcio che si secca, si raccoglie e si butta sul fuoco ove brucia ». Il Cristiano, dunque, non deve considerarsi come una persona avulsa o separata da Cristo e dagli altri credenti. Comeni vari tralci sono uniti fra loro e con la vite, così i discepoli di Cristo costituiscono un unico tutto tra di loro e col loro Capo adorato. Tale unione tra i fratelli e con Dio, Gesù proseguì a spiegarla, soggiungendo: « Il comandamento mio è questo, che vi amiate scambievolmente, come io ho amato voi »; e poi si rivolse con una ineffabile preghiera al Padre, chiedendo che i suoi seguaci fossero tutti una cosa sola, come Egli ed il Padre erano un solo Dio nell’unità dell’Amore sostanziale, vale a dire dello Spirito Santo: « Padre, custodisci nel Nome tuo quelli che mi hai dato, acciò siano uno, come noi… Né soltanto prego per questi (Apostoli), ma anche per quelli i quali per la loro parola crederanno in me; che siano tutti uno, come tu sei in me, Padre, ed Io in te: siano anch’essi uno in noi ». San Paolo non fece altro, se non commentare simili parole rivelatrici e spiegarle con molteplicità di paragoni. Nella lettera ai Cristiani di Roma enunciò il dogma della nostra unione a Cristo, con la similitudine dell’innesto: « Noi siamo stati innestati in Cristo » e partecipiamo perciò della sua linfa, della sua vita divina; e con Cristo formiamo l’unica grande pianta della Chiesa, che si svolgerà sino alla fine del mondo e durerà immortale. Nella lettera ai fedeli di Corinto volle ricorrere al paragone del corpo umano: a Pur essendo molti, noi siamo un sol corpo ». 《 Come il corpo è uno ed ha molte membra, e come tutte le membra del corpo, benché siano molte, non formano che un unico corpo, così è anche di Cristo ». Noi tutti abbiamo ricevuto il Battesimo per formare un corpo unico… Voi siete il corpo di Cristo e membra di questo corpo ». Ognuno di noi, continuava l’Apostolo, non deve mai profanare se stesso, perché profanerebbe Cristo. E tutto l’intento della sua predicazione era di infondere negli animi questa idea dominante (che oggi esula dalla mente di moltissimi Cristiani); noi dobbiamo sentirci uniti a Cristo; siamo incorporati a Lui: non viviamo la vita nostra, ma la Sua. Il braccio è bensì braccio ed ha la sua attività, ma non dev’essere riguardato come avulso dall’organismo, poiché vive della vita dell’organismo; così noi: abbiamo, sì, la nostra attività umana, ma essa è elevata, potenziata, soprannaturalizzata da Cristo, il Capo del grande organismo che è la sua Chiesa. – Nella lettera ai credenti di Efeso san Paolo ha insistito su quest’ultimo concetto: Dio ha dato Cristo come capo alla Chiesa, la quale è il suo corpo ed il suo compimento, e tutti sono uniti in Cristo, in un corpo unico. Non contento di questo, prese l’altra immagine, dell’edificio, e soggiunse che Cristo è la pietra angolare: « In Lui sorge un edificio bene ordinato per formare un tempio santo nel Signore ». Se noi non giungiamo a questa convinzione, se ci riguardiamo come individui egoisticamente divisi, come atomi separati da Cristo, se la nostra attività è considerata solo come nostra e non come la vita di Cristo in noi, che cooperiamo con Lui, come il braccio coopera alla vita unica dell’organismo, noi potremo arrivare alla morale umana, ma non concepiremo mai cos’è la morale cristiana. È un errore del protestantesimo — essenzialmente individualistico e, di conseguenza, negazione assoluta del Cristianesimo, che è organismo sociale — quello di immaginare la giustificazione nostra come una attribuzione giuridica dei meriti di Cristo a noi. No, osserva egregiamente il P. Plus nel suo aureo volumetto: In Cristo Gesù: « Per salvarci, nostro Signore non si è sostituito a noi, lasciandoci separati da Lui. Egli ci ha fatti solidali con Lui, unendosi intimamente e vitalmente a noi, tanto che, ormai, quando il Padre guarda un redento, lo vede come qualche cosa di Gesù e quando guarda Gesù, lo scorge, con tutti i redenti innestati in Lui », incorporati a Lui, congiunti con Lui. È vero: non si tratta d’una unione fisica, come avviene fra le parti d’un corpo; e nemmeno d’un’unione puramente morale, come fra i membri d’una famiglia; ma non si tratta neppure d’una unione esclusivamente giuridica e di una attribuzione esterna di meriti. Con Cristo noi siamo realmente e misticamente uniti. – La vera realtà non è solo il Cristo storico che è nato a Betlemme ed è morto sul Calvario; è anche il Cristo mistico, ossia il Gesù che si è incarnato, che è nato, ha vissuto a questo mondo e via dicendo, e che ci unisce tutti a sé nel grande corpo che è la Chiesa militante, purgante e trionfante, — che non è lontano da ognuno di noi, ma vive in noi con la sua grazia divinizzante, con la sua vita divina. Noi conosciamo per rivelazione questo fatto; non sappiamo oggi — perché in ciò sta il mistero — spiegare come si verifica il fatto, a somiglianza di molti fenomeni naturali, che sappiamo essere reali, ma non riusciamo a scorgere la intima spiegazione. Ma non dobbiamo mai dimenticare una simile dolce e consolante verità, come non la scordavano mai i Padri nei primi secoli del Cristianesimo. Tutti i loro discorsi si ispiravano a questo supremo concetto, che mirava ad infondere in tutti la persuasione che il Cristiano è un altro Gesù Cristo: Christianus alter Christus; che i credenti sono piccoli Gesù in fiore, per dirla con sant’Ambrogio: Christi florentes; che noi non solo siamo di Cristo, ma siamo Cristo, come inculcava Agostino: Christi sumus et Christus sumus; Cristo ci ha incorporati a sé, perché in Lui fossimo Cristo: corporans nos sibi, ut in illo Christus essemus. Non sgraniamo, dunque, più gli occhi, quando negli Atti dei martiri ad ogni passo leggiamo frasi come queste: « Il corpo intero era tutto una piaga: ma Cristo che soffriva in lui dimostrava che nulla può incutere timore, quando v’è l’amore del Padre ». Finiamola una buona volta di celebrare, ad esempio, un centenario di Bossuet, con articolucci e con pubblicazioni vuote, che lasciano sfuggire questa grande idea, presente come soffio possente in ogni opera o discorso di quel grande oratore. Non stupiamoci se « l’Apostolo del Verbo Incarnato », il cardinale De Bérulle, quando incontrava un fanciullo che col suo stesso candore lo assicurava della vita di Cristo nell’anima innocente, gli prendeva la piccola mano, e accompagnandola, si faceva dare una benedizione, che egli riteneva non benedizione d’un bimbo,nma quella di Gesù vivente in lui. Non stupiamoci se nelle Mémoirs dell’Olier noi leggiamo che il padre de Condren —il grande e santo Oratoriano — « non era che un’apparenza ed una scorza di ciò che realmente era, perché « era piuttosto Gesù Cristo che viveva nel padre de Condren, che non il padre de Condren che vivesse in se stesso. Egli era come un’Ostia dei nostri altari; al di fuori, si vedono le apparenze del pane, ma, di dentro, è Gesù Cristo. Così avveniva anche per questo gran servo di nostro Signore tanto amato da Dio ». – Con tale idea tutto capiremo. Comprenderemo cosa significa la nostra elevazione allo stato soprannaturale e la grazia santificante, perchè, uniti a Cristo, la nostra vita è elevata, santificata e divinizzata. Comprenderemo il dogma della Chiesa e della Comunione dei Santi, ossia l’unione di tutti i fedeli con Cristo e fra di loro, in uno scambio mutuo ed in un mutuo influsso di vita soprannaturale. Comprenderemo il perchè della rivelazione del mistero della Trinità, in quanto diveniamo figli adottivi di Dio per la nostra unione a Cristo, figlio naturale del Padre: ed allora il Figlio, che è non solo se stesso, ma l’unione di tutti i figli, ci unisce al Padre nell’amore dello Spirito Santo. Comprenderemo l’importanza del Battesimo, il sacramento che ci incorpora a Cristo e ci innesta in Lui, per esprimerci con san Paolo, e non stimeremo più pazzo il missionario, che reputa compensati tutti i suoi sacrifici anche per un semplice battesimo, amministrato ad un bimbo pagano morente. Comprenderemo la Confessione, che, quando il peccato ci rende membra morte nel corpo di Cristo, ci ritorna la vita e la partecipazione ai meriti del Salvatore. Capiremo il vero culto alla Vergine e ai Santi, e lo concepiremo come un omaggio allo stesso Gesù, poiché i grappoli ed i pampini li lodiamo e li ammiriamo in relazione alla vite: chi onora il frutto, dà lode alla pianta, che l’ha prodotta: ben lungi dall’essere la nostra devozione alla Madonna od ai Santi un atto di idolatria, è un atto di amore a Gesù Cristo Dio. Ameremo soprattutto l’Eucaristia, mediante la quale Gesù Cristo si unisce sacramentalmente a noi, per intensificare sempre più in noi la sua vita divina, in quanto nell’ora soave della Comunione, noi e Lui, come dice Cirillo di Gerusalemme, siamo due cere fuse, gettate l’una sull’altra e compenetrantisi totalmente. E, quando assisteremo alla Messa, non ci lascerà più indifferente il gesto del Sacerdote, che nel calice infonde col vino da consacrarsi alcune gocce d’acqua: quelle gocce rappresentano noi stessi, che, uniti a Gesù, siamo da Gesù trasformati e diventiamo consorti della divinità di Colui che della nostra povera umanità si è degnato divenire partecipe. Com’è bello il Cristianesimo, quando è conosciuto e vissuto! Perché mai saremo così stolti, da dedicare tutto il nostro tempo alle verità umane e trascureremo la verità e la vita divina?

2. – L’azione cristianamente buona.

Vediamo ora l’applicazione pratica, le conseguenze necessarie del dogma nella vita morale. « Noi, scrive il card. De Bérulle, facciamo dunque parte di Gesù ed Egli è il nostro tutto. Il nostro bene è di essere in Lui, d’essere suoi, d’essere, di vivere e d’agire per mezzo suo, come il tralcio è e attinge vita e frutti dalla vite ». Il nostro io si sente incompleto ed imperfetto; ma non deve volgersi alle piccole cose o ai piccoli uomini per avere il suo complemento e la sua perfezione, ma a Cristo. Egli dev’essere « lo spirito del nostro spirito, la vita della nostra vita, la pienezza della nostra capacità… Di conseguenza, noi non dobbiamo agire se non come uniti a Lui, da Lui diretti, attingendo forza da Lui, per pensare, parlare, operare. Come meravigliosamente descrive san Giovanni Eudes nel suo libro: Le Royaume de Jésus, la vita cristiana non è altro se non la continuazione ed il compimento in ciascuno di noi della vita di Gesù, di modo che Gesù viva nelle sue membra. Ecco, del resto, la grande idea madre del sublime volumetto: De imitatione Christi: noi dobbiamo imitare Gesù Cristo divino; far nostri i suoi pensieri, le sue vedute, i suoi affetti, la sua volontà. Egli è l’esemplare che dobbiamo ricopiare; e, si noti bene, non è un modello fuori di noi, che dobbiamo guardare da lungi, per ritrarlo; per null’affatto; è unito a noi, ed è per questo che i « Cristiani », soggiunge san Giovanni Eudes, essendo suoi membri, fanno le sue veci sulla terra, rappresentano la sua persona e quindi debbono fare tutto quello che fanno… come Egli lo farebbe ». Agire cristianamente è agire con Gesù Cristo e secondo Gesù Cristo, con le medesime sue disposizioni, con le stesse sue intenzioni, col suo « spirito ». Dobbiamo armonizzare la nostra vita con la sua; i giudizi su noi, sulle cose e sugli avvenimenti coi suoi giudizi; i nostri sentimenti, i nostri discorsi, i nostri atti coi suoi. – Perchè, quindi, un’azione sia cristianamente buona, si richiede: che sia un atto morale, perchè altrimenti non sarebbe compiuto secondo lo spirito di Cristo e di conseguenza, che sia secondo la retta ragione, nel suo oggetto, nelle circostanze, nella intenzione e nel fine. Nulla v’è nell’atto naturalmente onesto che venga ripudiato dal Cristiano o che non occorra al Cristiano. Il soprannaturale non distrugge la natura, ma la suppone sempre; altrimenti che cosa verrebbe elevato e divinizzato?

2° che colui che agisce sia unito a Cristo con la grazia, sia, quindi, battezzato, almeno col battesimo di desiderio, e sia senza peccati mortali, perché altrimenti l’attività buona, pur restando umanamente buona, non sarebbe divinamente elevata e potenziata. Una grande differenza, dunque, esiste tra il galantuomo e il Cristiano, tra la virtù filosofica e la virtù cristiana, nella quale, essenzialmente, consiste la santità, perché — osserviamolo subito — la santità non sta nel far miracoli o nell’aver delle visioni, bensì nel santificare la nostra attività con la grazia di Cristo:

I) Per l’atto umanamente buono basta la luce e la guida della ragione; per l’atto cristianamente buono occorre anche la rivelazione, che ci porti la dolce novella dell’elevazione nostra allo stato soprannaturale. Nel primo caso potrebbe bastare la filosofia; nel secondo caso si richiede anche la fede, perché come mai si potrebbe concepire la morale cristiana, prescindendo dal dogma e dalla cognizione del fine soprannaturale, al quale dirigiamo le nostre azioni?

II) L’atto umanamente buono ha come principio il nostro io, le forze morali della nostra natura, sia pure confortate dall’assistenza e dall’aiuto del Creatore. L’azione cristianamente buona, invece, ha come principio il nostro io, divinizzato, per così dire, dalla grazia santificante; sono io che agisco, ma non sono solo; col mio piccolo io umano è Gesù Cristo che agisce in me, in quanto, unito a Lui, io agisco con Lui e per Lui.

III) L’atto che è solo umanamente buono è fatto per il bene, e non per un bene astratto, ma per amore naturale, almeno implicito, di Colui che è il « Bene dei beni », Dio. – L’atto cristianamente buono è fatto per Dio, nostro fine soprannaturale e per Gesù Cristo: uniti per la grazia con Lui, agiamo per amore del Padre, nel soffio vivificante dello Spirito Santo.

IV) L’atto onesto non può avere ricompense se non di ordine naturale. L’atto cristiano, compiuto in grazia, diventa meritorio di vita eterna ed ha come premio una felicità soprannaturale, della quale in seguito parleremo. Se ogni atto cristianamente buono è anche onesto, non ogni atto onesto è anche cristiano. E si capisce anche come tutte le virtù umane si possano e si debbano trovare nel credente; ma come altresì vi siano virtù cristiane, che non sarebbe possibile trovare in un ipotetico uomo puramente onesto. Ad esempio, la fede, la speranza e la carità soprannaturale, le virtù infuse ed i doni dello Spirito Santo solo li possiamo avere in chi crede a Cristo, alla unione con Lui, alla sua rivelazione.

3. – L’azione cristiana e l’amore

Svilupperemo in seguito il concetto che la morale cristiana è la morale dell’Amore. Ma già fin da questo momento possiamo intravvedere la profondità dell’insegnamento di san Paolo, quando nella lettera a quelli di Colossi raccomandava: « Sopra ogni cosa abbiate l’Amore, che è il vincolo della perfezione ». Nel Cristianesimo, infatti, la morale consiste essenzialmente nell’amore dei figli, uniti in Cristo, al Padre ed ai fratelli. È la grazia, è il dono dell’amore infinito di Dio per noi che ci divinizza; è il nostro amore per il Padre, in Cristo Gesù, che ci spinge ad agire moralmente. Amore di Dio per noi, da un lato, e amore nostro per Dio, dall’altro, sono i due elementi che concorrono nell’attività cristianamente buona. Il divino e l’umano si uniscono a formare un unico tutto, quantunque, per i bisogni dell’analisi, noi possiamo scrutare distintamente i due elementi della sintesi. – Quando, perciò, si parla di scuola ignaziana, di scuola oratoriana, e via dicendo, non si deve ritenere che si tratti di correnti opposte; finiamola di creare opposizioni inesistenti fra il cosiddetto Seneca cristiano, il p. Rodriguez, e un san Francesco di Sales! Secondo le necessità dei tempi, i pensatori sacri lumeggiano l’uno o l’altro dei due elementi dell’azione cristiana. Quando Pelagio tende al naturalismo o nega il soprannaturale, sant’Agostino svolge l’idea della grazia. Quando Lutero e Calvino negano il libero arbitrio e riducono l’atto morale alla sola imputazione estrinseca della grazia di Cristo, Ignazio di Loyola, seguito dal grande autore della Perfezione cristiana e da un teologo come il Molina, insiste sulla formazione della nostra volontà e sulla cooperazione nostra con l’aiuto divino. Quando, in seguito all’Umanesimo, il naturalismo cerca di prevalere, avremo la splendida fioritura dovuta al card. de Bérulle, a san Giovanni Eudes, al de Condren, all’Olier, a Grignion de Montfort, a Bossuet, a san Francesco di Sales, a san Vincenzo de’ Paoli, che sottolineeranno la vita di Gesù nelle anime cristiane, l’influsso divino nelle nostre azioni, il dovere che « Gesù sia tutto in ogni cosa », nelle parole, nei pensieri e nelle opere. Ma intendiamoci: il benedettino, che col vivo senso liturgico ci ricorda ad ogni istante l’incorporazione nostra a Cristo, col quale preghiamo e viviamo; — l’oratoriano, che con opere immortali insiste sul fatto che il soprannaturale ci bagna da ogni lato e ci penetra sino alle più profonde intimità dell’anima; — il gesuita, che con la meditazione, gli esami di coscienza e gli « Esercizi Spirituali », diventa maestro di energia, non sono in contrasto fra loro. Sant’Ignazio, che negli Esercitia spiritualia esamina in modo speciale l’elemento umano dell’atto morale, non trascura l’altro e nelle Costituzioni insisterà perché l’uomo non dimentichi mai di essere « uno strumento congiunto a Cristo, instrumentum Deo cojunctum »; come, d’altra parte, sant’Agostino e san Giovanni Eudes sono lontani mille miglia dal fare poco conto dell’umana attività, quantunque insistano sulla necessità del soprannaturale. Alcuni illustrano di preferenza l’amor di Dio per noi, gli altri l’amore nostro per Dio; la concretezza dell’atto morale è la sintesi di questi due elementi costitutivi di esso.

4. – Conclusioni

Dice Gesù nel Vangelo di san Giovanni: « Io non sono solo; è con me il Padre ». Ogni Cristiano che combatte le battaglie della vita può ripetere a sé: io non sono solo; è con me Gesù Cristo e con Lui sono con me il Padre e lo Spirito Santo. Alcuni filosofi hanno creduto che Dio e la sua grazia annientassero i valori umani, la volontà nostra, la nostra dignità. Follie! Non solo nulla dev’essere distrutto, eccetto le imperfezioni e le deficienze nostre: ma tutto è innalzato e potenziato. Nella concezione cristiana non abbiamo mai la debolezza dell’isolamento; uniti ai fratelli tutti, alla Chiesa di ieri e di oggi, alla storia passata e presente, uniti soprattutto a Cristo con la grazia santificante e coi suoi doni, sentiamo la forza divinamente grande che ci sospinge, ci sorregge, ci incoraggia; ed è per questo che i Santi hanno compiuto opere, le quali, anche dal punto di vista umano, sono gigantesche: essi agivano forti della potenza di Cristo. Vivere con Lui significa non l’annientamento, non la morte, ma la risurrezione e la vita. « Voi, filosofi, diremo anche noi con Auguste Cochin nel suo volume Espérances chrétiennes, voi non potete comprendere come noi amiamo Cristo e ciò che Egli è per noi. Egli è sempre là dinanzi ai nostri occhi, con la mano in qualche modo sulla nostra spalla, mentre lavoriamo e mentre riposiamo, alla tribuna ed all’ufficio, a tavola o al nostro capezzale. Ogni Cristiano, il quale sappia cosa crede, vive in presenza ed in compagnia di Gesù Cristo. Dopo questo, via via, o visioni di poeti, o divinità ispiratrici, o bellezze affascinanti della vita! Via anche voi, o santi affetti! Né poesia, né passione, né fascino potranno mai eguagliare l’amore reale e tenero, che ci ispira la persona di Cristo Gesù ». Cosa sono in confronto a Lui, tutti i personaggi della storia? Egli solo è il vero Vivente, che vive con noi, in noi, per noi, perché noi possiamo vivere con Lui, in Lui, per Lui.

Riepilogo.

L’attività morale cristiana può essere riguardata:

1) dal punto di vista oggettivo, ossia nella sua materialità esteriore;

2) dal punto di vista soggettivo, ossia nella forma, nel fine dell’azione;

3) nell’elemento soprannaturale che la divinizza.

Occorre, perciò, studiare:

1° il bene in se stesso;

2° l’azione buona;

3° l’azione cristiana.

I. – IL BENE. — Per poter giudicare ciò che in sè è bene e ciò che è male, ossia per conoscere qual è la norma della moralità, giova elaborare tre concetti:

a) Il concetto di essere. Dio è l’Essere supremo e da Lui sgorgano tutti quanti gli esseri, fra loro coordinati e tendenti a Dio, come a un ultimo fine. Questo grande principio della centralità divina è il punto di partenza anche in morale.

b) Il concetto di verità o dell’essere in quanto è conosciuto.

Quando noi, con la vostra ragione, cogliamo l’essere e le relazioni fra gli esseri, abbiamo la verità.

c) Il concetto di bene o dell’essere in quanto è voluto. Quando noi, con la nostra libera attività, agiamo rispettando praticamente la natura degli esseri, come sono da noi conosciuti, ed il loro ordine, abbiamo il bene.

La forma della moralità, di conseguenza, è questa: « Agisci in modo che il tuo atto sia secondo la retta ragione »; rispetta cioè l’Essere ed i rapporti fra gli esseri che la ragione ti manifesta. E’ buona l’azione che segue una tal regola e cattiva l’azione che la calpesta. – Ripensando questi concetti alla luce dell’Amore, si vede che ogni essere creato è un palpito dell’amore di Dio per noi; e così si dica dei rapporti che esistono fra gli esseri e dell’obbligo che abbiamo di agire moralmente. Se Dio è Amore, l’Essere e il Bene coincidono; e l’obbligazione morale è un frutto dell’Amore divino. Dio non amerebbe, se fosse indifferente all’ordine o al disordine, al bene o al male; anzi, non sarebbe più Dio, dato che l’ordine rispecchia la sua volontà.

II. – L’AZIONE BUONA. — Non basta, per avere l’atto morale, che l’azione in sè, oggettivamente considerata, sia un bene; è necessario altresì:

a) che sia compiuta con un fine od un’intenzione buona, ossia occorre che il bene sia fatto per il bene; e siccome il bene, in ultima analisi, è la volontà di Dio ed il suo Amore, per agire moralmente bisogna che noi facciamo il bene per amore di Dio, per amore cioè del Bene supremo;

b) che sia compiuta non meccanicamente, per pura abitudine, per moto d’inerzia. Per l’atto morale occorre l’attivismo dello spirito. Dobbiamo spiritualizzarci continuamente, servendoci dei meccanismi, che sono in sè utilissimi, quando sono mossi e ravvivati da un soffio di vita spirituale.

III. – L’AZIONE CRISTIANA. — L’atto onesto non è ancora l’atto cristiano, il quale implica bensì la nostra attività morale umana, ma la divinizza con la grazia divina. Innestati in Cristo, incorporati a Lui, vivendo una vita soprannaturale che ci permette di dire con san Paolo che Cristo vive in noi, le nostre energie umane sono divinamente sublimate e potenziate. Agire cristianamente è agire secondo la norma del Bene, ma in unione con Cristo, santificati dalla sua grazia, forti della sua forza divina, animati dal suo Spirito, che è lo Spirito Santo, Spirito d’amore.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (6)

LO SCUDO DELLA FEDE (261)

LO SCUDO DELLA FEDE (261)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (4)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO IV.

I. Ogni religione è buona. II. Io rispetto ogni religione. III. Volete voi che vadano all’Inferno tutti quelli che non pensano come noi?

Che ci voglia una religione qualunque, sono pochi al mondo che osino negarlo: poiché solo che si riconosca un Dio, ognun vede che non può rifiutarglisi un qualche culto; ma pur troppo non songo pochi quelli che gli ricusano il culto, che Egli avrebbe diritto di riportare. E per potere disobbedire a Dio a man salva hanno dato credito a certi assiomi, i quali, ammessi per veri una volta, mettono in piedi mille disordini. Cominciamo dal principale. Ogni religione è buona, dicono, a che dunque affannarsi in tante ricerche ed in tante dispute di religione? Solo gl’intolleranti disconoscono questa gran verità, e pretendono che tutti pensino secondo il loro modo di vedere. – Questi bei principii li sentirete ripetere così spesso in mezzo al mondo, e talvolta perfino da persone di tal reputazione, che sarà un miracolo se li apprenderete per quelle gravissime iniquità che pare sono. Esaminiamoli un poco.

I. Ogni religione è buona. Questa proposizione racchiude la licenza di commettere il maggior delitto che si possa effettuare sulla terra. Perocché, che cosa vuol essa significare? Che qualunque atto d’idolatria, qualunque errore, in cui possa cadere un uomo rispetto alla divinità, è tanto buono quanto il possa essere l’atto più puro d’ossequio che si faccia alla medesima. Sono religioni quelle dei Giudei, dei Musulmani, dei Bramani, degl’irochesi, dei popoli di Sandwich, i quali rinnegano Gesù Cristo e si prostrano davanti a Maometto, a Buda, a Sciacca o ad un altro idolo qualunque. Se è buono ogni culto, bisogna dire che l’errore è la verità, l’onore di Dio ed il suo biasimo, il conoscerlo o l’ignorarlo, l’adorare Lui o l’onorare il demonio negl’idoli, è la stessa cosa. Quale mostruosità più portentosa di questa? Perché adunque nell’antica legge Iddio vietò con tanti comandi l’idolatria? Perché minacciò tante pene a chi v’incorresse? Perché punì con tanti castighi gl’idolatri, perché sterminò tante nazioni che la praticavano? Perché munì con tante cautele il suo popolo, acciocché non cadesse in quell’eccesso? Si è scoperto ora che è buona ogni religione, e che tutto è istessa cosa! Il popolo giudaico aveva pure una religione, prima che Gesù Cristo venisse sopra la terra; e religione vera, poiché riconosceva l’unico vero Iddio; e religione buona, perché l’onorava con pratiche sante e manifestate e volute dallo stesso Dio. Se ogni religione è buona, perché è venuto Egli a cambiarla e ad abrogarla? Se a Dio fa lo stesso qualunque culto, non vi era ragione di questo cambiamento. – Ma forse vorranno dire che ogni religione, almeno di quelle che in qualche modo riconoscono Gesù Cristo, è buona: se anche limitassero così la loro proposizione, non sarebbe essa meno empia, meno assurda. Contiossiaché chi non sa che le sètte protestanti sono divise in mille differenti partiti? Quelle dottrine, che hanno difeso con tanto ardore da principio, quasi universalmente le rigettano al presente. Quello che tengono i luterani, lo negano i calvinisti: quello che ammettono i calvinisti, lo ricusano gli scozzesi: quello che ammettono gli scozzesi, lo impugnano gli anglicani: quello che difendono gli anglicani, lo rigettano i dissidenti, e così via via. Ogni setta ha quest’oggi il suo simbolo, che invecchiando domani, domani sarà cambiato. Di che avviene, che mentre gli uni stimano rivelata una verità, gli altri non la credono rivelata né punto né poco. Tutto ciò è indubitato. Ora che cosa è il dire che tutte queste religioni sono buone ugualmente? È lo stesso che dire che è buono e vero ugualmente il sì ed il no: che è buono, a cagion d’esempio, adorare il SS. Sacramento nell’altare coi Cattolici, ed è buono, adorandolo, commettere un atto d’idolatria, come pensano i calvinisti: che è buono ricevere l’assoluzione dei peccati nel Sacramento di Penitenza, come vogliono i Cattolici ed è buono il farsene beffe, come usano gli anglicani: che è buono adorare Gesù qual vivo e vero Figliuolo di Dio, come colla Chiesa Cattolica fanno molte sètte, ed è buono lo stimarlo una semplice creatura, come fanno i sociniani e gli unitari. Ma che cosa è mai tutto ciò? È un chiaro beffarsi di Gesù Cristo, perché si viene a dire col fatto o che Gesù Cristo non ha manifestato colla sua rivelazione quello che voleva che si credesse e si praticasse, o che manifestandolo non ha saputo farsi intendere dagli uomini, o che finalmente non gl’importa punto né poco di quel che facciano o credano i suoi seguaci. Il che quanto sia ingiurioso a Gesù Cristo, quanto in sé stesso empio, si può intendere dall’importanza estrema che Gesù Cristo pose nell’istruirci della verità. – L’unigenito Figliuolo di Dio, travalicando una distanza infinita che da noi lo separava, si fa uomo: nella nostra umanità fattosi visibile, predica, insegna, inculca la verità, stabilisce una Chiesa, la fa depositaria della sua dottrina, le dona il suo Spirito, le promette la sua assistenza fino alla consumazione dei secoli, perché mai non cada in errore. Il Figliuolo di Dio manda a tutta la terra i suoi Apostoli, perché annunzino le verità che Egli ha predicate, le stabilisce con ogni maniera di prodigi, miracoli, grazie e virtù: le conferma col sangue più puro dei suoi fedeli: e dopo tanto aver fatto perché tutti gli uomini arrivino al possesso della sua dottrina, traggono avanti questi nuovi maestri e ci fanno sapere, come ci svelassero un gran segreto di perfezione, che a Gesù Cristo non importa nulla quello che altri creda o pratichi di religione: ma se questo non è un farsi gabbo degli insegnamenti divini, che sarà mai? E dopo di essersi beffati di Gesù Cristo, passano a beffarsi eziandio di tutta la Chiesa. Imperocché ergono cattedra contro la Cattedra che Egli ha eretto, insegnano direttamente il contrario di quello che essa insegna. E come no? se è buona ogni religione, non vi ha più eresia di alcuna sorta: eppure l’Apostolo colloca l’eresia insieme all’omicidio ed all’adulterio, vuole ehe l’eretico sia rigettato dai fedeli, afferma che gli eretici non saranno eredi del regno di Dio. Se è buona ogni religione, ebbe torto l’Apostolo san Giovanni, sia nell’ aver prescritto che non si ricevesse in casa l’eretico, sia nel non aver voluto porre il piede in un pubblico bagno, dove trovavasi l’eresiarca Cerinto, come testifica S. Ireneo. – Se è buona ogni religione, son ridicole tutte le raccomandazioni dell’Apostolo di conservare intatto il deposito della fede, e l’esattezza nel modo di favellarne, e son vane tutte le sollecitudini della Chiesa nel premunire i fedeli contro ogni novità nelle credenze. Se è buona ogni religione, furono inutili tanti Concilii e tante lotte sostenute contro gli eretici dai primi secoli della Chiesa infino a noi. Se è buona ogni religione, furono stolidi tanti Vescovi, tanti Sacerdoti e tanti fedeli, i quali sopportarono carceri e spietatissime morti per sostenere o contro gli ariani, o contro i nestoriani, o contro gli scismatici, o contro altri eretici la cattolica verità. Credereste? Se è buona ogni religione, non solo è inutile la vigilanza dei Sacerdoti nell’ammaestrare, nell’istruire; ma è inutile la fondazione della Chiesa, l’assistenza dello Spirito Santo e tutta l’opera di Gesù; poiché, anche prima della sua venuta in terra, vi erano delle religioni. Finalmente se è buona ogni religione, è inutile la predicazione dei ministri protestanti; sono inutili le declamazioni degl’increduli. Imperocché che accade che essi tanto brighino o per far diventar protestanti i Cattolici, o per farli deisti, atei, naturalisti e che so io? Se ogni religione è buona, essi nulla guadagnano ad averli dalla loro, e questi nulla perdono ad essere Cattolici; poiché anche il Cattolicismo è una religione, ed ogni religione è buona. – Di che vede ognuno come quella massima sì assurda è poi finalmente un insulto gravissimo anche alla ragione ed al buon senso degli uomini; poiché è cosa da frenetico e da dissennato l’immaginare che siansi ingannate tutte quante le generazioni degli uomini, perché tutte col loro zelo, col loro operare e perfino colle guerre di religione, mostrarono la persuasione in che erano, del non poter esser buona ogni religione. E per fermo, se altro che una non può essere in sè stessa la verità, se Gesù Cristo non ha fatto altro che una rivelazione, se solo quello, che Egli ha rivelato è vero, bisognerà pur dire che una sola sia la verità, una sola la Religione buona.

II. Che cosa vorrà dire adunque quella parola: io rispetto ogni religione? Vuol dire praticamente io non ne credo nessuna vera, o le stimo tutte dubbiose, o penso che sia questione cui non importi gran fatto il risolvere. Il primo è la negazione di tutta la rivelazione, è un dichiarare sofismi tutte quelle prove che hanno mosse sin qui i popoli ed i principi, i semplici ed i sapienti ad abbracciare il Cristianesimo; il secondo è un atto formale di apostasia, poiché chi dubita della sua fede è già infedele, siccome è noto; il terzo finalmente equivale a dire che è di poco rilievo che l’uomo colga la verità rispetto a Dio, che non importa quello che un Dio ha creduto importante a segno di venire dal cielo per insegnarlo, e finalmente che non monta nulla che l’uomo raggiunga il suo ultimo fine, al quale è rivolta tutta la religione.. Quello che a taluni fa gabbo in quel modo di dire, è una certa apparenza di filosofica sublimità e di tolleranza umanitaria, che i libertini amano grandemente sfoggiare: ma gli è appunto un’apparenza e nulla più, poiché non v’ha cosa più contraria ad ogni buona filosofia e ad ogni vera umanità, che un rispetto sì sciocco a qualunque culto. La filosofia è la prima che se ne risente, poiché chi ha mai udito un vero filosofo insegnare che egli rispetta ugualmente le sentenze contraddittorie? Se la filosofia è l’indagine della verità, l’acquetarsi nell’errore, e peggio giungere sino a rispettarlo, è l’atto meno filosofico che si possa concepire. Ma molto più è contrario ad ogni umanità vera. lmperocché, se l’umanità vera insegna a non disprezzare gli erranti, a compatirli, ad amarli, mai non ha insegnato a sopportare tranquillamente l’errore. Eppure, questo è che importa quel famoso detto. Io rispetto ogni religione: vuol dire io rispetto anche quello che so certamente non poter esser vero, poiché la verità non può trovarsi nelle proposizioni contraddittorie. Se voi diceste: invece io compatisco tutti gli erranti, io li amo, nè, perché sono nelle tenebre, voglio lor male, voi parlereste non solo da uomo ma ancor da Cattolico, di cui è proprietà, come dice S. Agostino, detestare i traviarnenti e compatire i traviati; ma il dire io riguardo i loro errori, le loro follie, le toro aberrazionine le rispetto, è tutt’insieme una balordaggine ed un’empietà. Una balordaggine, perchè è un dire che voi rispettate quello che al mondo merita meno rispetto, cioè la falsità: è un’empietà, perché venite a dichiarare di portare rispetto a quello cui Dio odia infinitamente, e che vorrebbe vedere sterminato dal mondo. Laonde quando d’ora innanzi vi si presenti il caso di udire alcuno di quelli, che affermano con gran presunzione che è buona ogni religione, che egli rispetta ogni religione, e voi osservatelo da capo a piè. Se vi avvedete che sia uno di quei fanciulloni, che, per darsi aria d’uomo spregiudicato, si lascia uscir dalla chiostra dei denti quella sentenza che neppure comprende, e voi, dopo d’averlo compatito sino nel fondo del cuore, se potete, fategli un poco di correzione; se vi avvedete invece che sia uno di quelli più profondamente iniqui, che mettono in campo quella proposizione conoscendone tutto il veleno, allora voltatevegli contro come una vipera, e smascheratelo e svergognatelo per guisa, che non osi più alla vostra presenza fare il filosofo, con disonore di Gesù Cristo ed a spese delle anime da Lui redente.

III. Volete voi che vadano all’inferno, soggiungono poi, tutti quelli che non pensano come noi? Lettore mio, io ho già risposto sopra a questa difficoltà, facendo vedere che non va all’inferno se non chi il vuole, poiché Iddio non manca di provvidenza né coi gentili né cogli eretici. Qui mi contenterò di opporre alla vostra interrogazione un’altra interrogazione. Voi mi domandate, volete voi che vadano all’inferno tutti quelli che non pensano come noi; ed io vi domando a rincontro, volete voi che entrino in paradiso gli uomini qualunque sia il modo in cui pensano? Ma allora perché il Figliuolo di Dio è venuto sulla terra a stabilite una Religione, perché ha abrogate le altre, perché ha dichiarato con solennità che chi non avesse creduto a Lui sarebbe stato condannato? Oh, che? Avrebbe mai Egli fatto tante leggi, minacciate tante pene, e, che più è, incontrate e sopportate tante umiliazioni nel farsi nosiro maestro, per lasciare poi ad ognuno il diritto di fare quel che gli piace? Che cosa ne dite? La fede cattolica insegna ad ognuno che Dio vuole la salute di tutti sinceramente, ma vuole che l’acquistino per quella via che Egli ha tracciata, e dove noi facciano quando il possono, infallibilmente li condannerà. Il solo caso, che, può sottrarli ai fulmini della divina giustizia, è quell’ignoranza che non si può vincere perché non sospettata; ma in questo caso (secondoché abbiamo detto) essi saranno aiutati da Dio, prima perché comincino a fare quello che possono nello stato in cui sono, e poi perché abbiano il potere di fare quello che non possono ora: ma Iddio non salverà il Turco lasciandolo Turco, né l’idolatra lasciandolo idolatra; sebbene colla sua grazia il trarrà fino alla verità che è necessaria alla salute, e chi si arrenderà alla grazia divina, giungerà a salvamento, chi resisterà e si rimarrà infedele, perirà miseramente. – Quindi è che quei che si perdono, non vanno all’inferno perché non pensano come noi, ma perché sono infedeli alle grazie che ricevono, perché per loro colpa non pervengono a pensare rettamente siccome debbono. Né si vuole recare in dubbio questa dottrina per una compassione sciocca, né per un sentimentalismo romantico, né per un umor fantastico di filantropia. Il Signore che ha creato gli uomini e che li ha redenti li ama alcun poco più di noi; e se Egli ha così determinato, non tocca a noi a rifargli i disegni, ed a sostituire le nostre corte vedute alla sua provvidenza. Del resto volete voi vedere dove andrebbe a parare in ultimo questa teoria sentimentale? A distruggere tutta l’opera di Gesù Cristo sopra la terra, ed a fare il passaporto a tutti gli errori. Infatti voi affermate che Dio non può condannare quelli che non pensano come noi, ed applicate questo detto ai protestanti, agli eretici, a quelli che hanno almeno qualche conoscenza di Gesù Cristo: ma chi impedisce ad un altro più compassionevole di applicare quel detto medesimo ai musulmani, agli idolatri? Oh perché non dovranno andar salvi anche loro? Ma stabilito questo principio ed allargato il cuore alla compassione, non si vede perché non si debba stendere la salute anche al razionalista, al panteista, al deista, i quali finalmente non hanno altro torto che di onorare Dio a loro modo. I libertini certo non dovrebbero essere condannati, poiché ancor essi non sono rei di altro che di non pensar come noi. Dirò di più. Nerone, Giuda, gli stessi demonii dell’inferno che cosa hanno fatto? Hanno pensato a loro modo e nulla più. Se la compassione ha da far la legge, è evidente che il Cristianesimo si rende inutile, poiché ognuno che pensi a suo modo ha ugual salute. Lettor mio caro, questo è il colmo dell’assurdità. Iddio è verità, è giustizia, è santità, non è solo misericordia. Gesù Cristo ha pronunziato che chi crederà in lui e sarà battezzalo sarà salvo, e che chi non crederà, sarà condannato, e bisogna che sia così. L’Apostolo ha detto che senza fede è impossibile piacere a Dio: dunque ci vuole la fede. Conformemente a questa dottrina, lo stesso Apostolo collocò l’eresia tra gli omicidii e gli adulterii, ed affermò che chi si nude colpevole di essa non erediterà il regno dei cieli; dunque è chiaro che ne rimarrà escluso. Queste ed altre infinite sentenze delle Scritture, l’autorità della santa Chiesa, la tradizione di tutti i Padri ci assicurano che non vi è salvezza fuori della vera fede di Gesù Cristo: non basta adunque pensare di essere nel vero, quando vi è obbligo e mezzo di non pensare in tal guisa. Che se questo ha luogo per tutti gli uomini, e se anche gl’infedeli, anche gli eretici hanno d’uopo di fare quello che possono per giungere a mano a mano fino alla verità, come saranno scusabili i volteriani, i libertini, i quali vivono in mezzo a noi? Questi rigettano il Cristianesimo dopo d’averlo conosciuto; il rigettano per seguire la corruzione del loro cuore, il rigettano malgrado i rimorsi che provano nella coscienza, e con un affronto indicibile a quel Signore che, per sua pura misericordia, avevali illuminati, e poi pretendono che ad ogni modo li abbia a salvare la divina bontà. – Affè sì che Dio muterà i suoi disegni, renderà fallaci le sue parole, ritirerà le sue minacce, e spalancherà loro le porte del cielo per non privarsi della loro compagnia! Ah presunzione impudentissima di vermi schifosi, i quali poco meno che non credono di essere necessarii alla divinità! Ah si persuada bene ognuno, che non gioverà ad un reo la compassione di un altro reo, dove il giudice protesti di non usar compassione.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (4)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (4)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo secondo (1)

L’ATTIVITA’ MORALE

Dopo d’aver contemplato dalla riva l’oceano dell’Amore nella sua divina bellezza, dobbiamo sfidare le acque. Anche noi col poeta esclamiamo: Necesse est navigare. E per non esser travolti dalle onde, cominciamo ad esaminare la piccola nave, con cui potremo solcare con sicura tranquillità il grande mare della vita. Essa si chiama “l’attività morale”, risultante dalle singole azioni buone, le quali, pur essendo diversissime, concordano tutte nella loro caratteristica essenziale. Se analizziamo accuratamente uno di questi atti morali, in modo da non confonderlo con altri nostri gesti, noi vi distinguiamo con precisione tre aspetti:

1. L’azione morale può essere riguardata in ciò che appare esternamente, nella sua materialità oggettiva, in quanto atto esteriore.

2. Inoltre, la possiamo cogliere nei principi interiori, dai quali procede, in quanto le nostre intime energie spirituali, intellettive e volontarie la producono.

3. Finalmente, possiamo considerare l’elemento soprannaturale, che divinizza il nostro atto morale e lo rende cristianamente buono e soprannaturalmente meritorio. Il bene in sè, l’atto buono, l’atto cristiano: ecco tre problemi, che s’impongono alla attenzione e dalla cui soluzione dipenderà poi la navigazione nostra, ossia la nostra condotta.

I. – IL BENE

Ricordo un episodio, ricco per me di insegnamenti. Tenevo un corso di morale cattolica in un istituto superiore, frequentato da numerosi studenti, che possedevano una cultura generale non del tutto disprezzabile. In una delle prime lezioni, entrato in classe, pregai gli uditori di prendere un foglio di carta, che non doveva portare la firma dello scrivente, e di voler rispondere al seguente problema: « Tutti ammettono che assassinare un amico per derubarlo, bestemmiare Dio, disubbidire ai genitori e così via, sia un male; come, parimenti, tutti riconoscono che è un bene aiutare e soccorrere il povero, ubbidire all’autorità legittima, e via dicendo. Perché mai — secondo il Cristianesimo — alcune azioni sono definite in sé come cattive e poste nella categoria del male, ed altre considerate buone e messe nella categoria del bene?». Raccolsi i fogli, che dovevano rivelarmi in qual modo quel gruppo di studenti mi risolveva la questione. E subito cominciai a leggere ad alta voce ed a commentare le soluzioni proposte. – Uno diceva: « Un’azione è buona in sé o cattiva, perché così la qualifica il Vangelo ». Oh! e perché mai il Vangelo la qualifica in tal modo? forse senza nessun motivo?… E prima che fosse scritto il Vangelo, non si poteva forse distinguere un’azione buona da una cattiva? Un’altra risposta era redatta in questi termini: « Io chiamo buono un atto che la Chiesa mi propone; cattivo un atto che la Chiesa mi proibisce ». Ma, ancora una volta: perché la Chiesa mi comanda o mi consiglia certi atti? e perché me ne vieta altri? Potrebbe forse la Chiesa dichiarare lecito l’omicidio e il furto? Evidentemente no; e perché?… Ed anche quando vieta cose in sé lecite, come il mangiar carne al venerdì, di modo che esse non sono proibite perché cattive, ma son cattive solo perché proibite, per quale motivo la Chiesa fa questo? – Una terza risposta cercava la soluzione nella voce della coscienza: « È la mia coscienza, che mi avverte intorno a ciò che è bene o è male. Ecco la vera norma della moralità. Ed è vero che la voce intima della coscienza mi sussurra: « Assassinare l’amico è un delitto; beneficare questo povero è un bene »; ma perché la coscienza mi dichiara la prima cosa un delitto e la seconda una buona azione? Forse per un istinto cieco ed ingiustificato? O non piuttosto per un’altra ragione? Altri osservava: « Un’azione è in sé buona, se è premiata col paradiso; è cattiva, se è punita con l’inferno ». No, — io esclamai — la verità è semplicemente l’opposto di quanto mi si asserisce: un’azione non è buona, perché è premiata col paradiso; ma è compensata col paradiso, perché in sé è buona; un’azione non è cattiva, perché è punita con l’inferno; ma è punita con l’inferno, perché in sé cattiva. – E frattanto il problema resta. Qualcuno si appellava al consenso universale dei popoli: “Il bene è il bene, e il male è il male, perché tutti ammettono questo ». Oh! e se tutti, domani, con un plebiscito mondiale, dichiarassero lecite la calunnia e la rapina, queste azioni diverrebbero buone? E poi: perché tutti proclamano l’immoralità del calunniatore e del furfante? Qualche altro si rivolgeva al concetto di utilità: « Una leggenda cosa è buona, se è utile a me », oppure « se è utile alla patria e alla società »; in caso contrario è cattiva. Io obbiettavo: che supponete che potessi rubare un milione, senza incappare nelle reti della giustizia; possedere una simile somma, mi sarebbe certo utile; con ciò dichiarerò io il mio furto un bene? Ancora: se una nazione forte e ben agguerrita si trova dinanzi ad una nazione debole, può esser utilissimo alla prima invadere e annettere a sé l’altra terra; battezzeremo noi una tale prepotenza col nome di bene? Per tacere di altre curiosissime risposte, una ve n’era che ricorreva a Dio. « È bene ciò che Dio ha voluto comandarci di fare! È male ciò che Dio ci proibisce’. Chi scriveva questo, quantunque fosse nel vero affermando che Dio è il padrone supremo degli esseri ed in qualche caso può mutare l’ordine delle cose, tuttavia, senza saperlo, aderiva al volontarismo cartesiano, perché, secondo Descartes, la verità degli stessi primi principi e la moralità degli atti dipende dalla volontà divina, la quale avrebbe potuto stabilire che il principio di contraddizione è falso ed il matricidio è una virtù. Ahimè! Tutto ciò ripugna alla nostra ragione ed alla nostra coscienza morale: il matricidio è un male, non perché è stato proibito; ma è stato proibito, perché è un male. Ed il rispetto alla madre è un bene, non solo perché è stato comandato da Dio; bensì è stato comandato, perché è un bene, il quale bene, in ultima analisi, si fonda sull’ordine inteso e voluto da Dio. – Qual è, dunque, la « norma della moralità »? Come si risolve questo problema, che è stato da alcuni chiamato « il Rubicone dell’etica »? Dobbiamo forse dinanzi ad esso ripetere ciò che sant’Agostino confessava a proposito del tempo: « Se non mi chiedi cos’è il tempo, lo so benissimo; ma se me lo chiedi e cerco di spiegarlo, mi confondo »? Per null’affatto. Cerchiamo di elaborare, in modo elementarissimo, tre concetti:

l’Essere, l’essere in quanto è conosciuto e l’essere in quanto è voluto; ed allora vedremo perché un atto è in sé buono o cattivo.

1. – L’Essere e gli esseri.

Nella concezione cristiana, Dio è il centro dell’universo. Da Dio, Essere per essenza, Essere perfettissimo, che è la pienezza dell’essere ed ha in se stesso la ragione della sua esistenza, sgorgano per una libera azione creatrice tutti gli altri esseri. Come da una sorgente zampilla l’acqua, così da quest’unica fonte — Iddio — deriva tutto ciò che esiste. Come da un unico sole discendono innumerevoli raggi, così da Dio provengono tutte le creature. Come in un’unica mente sorgono mille e mille pensieri, così dalla mente divina vengono ideate tutte le cose e la sua volontà decreta il loro passaggio all’esistenza. L’origine di tutti gli esseri dipende quindi dall’Essere; la loro possibilità, la loro esistenza, la loro natura, la loro conversazione, il loro sviluppo ha riferimento all’Essere; il loro fine ultimo è ancora l’Essere, Dio. E si noti. Tutti gli esseri creati non sono ammassati gli uni accanto agli altri in un caotico disordine. Dio è la suprema Ragione e perciò l’ordine è intrinseco a ciò che Egli produce. Gli esseri sono fra loro da concepirsi come le lettere e le parole di un libro, o, se si vuole, come le note in un’opera musicale. La verità delle lettere e delle note, la loro individualità, la loro disposizione, debbono essere riguardate dal punto di vista dell’unico pensiero che le ispira e le vivifica. Quelle lettere, quelle note hanno fra di loro dei rapporti e guai se io turbo l’ordine di essi! Rovino il senso della pagina, o l’armonia della musica. Così anche si dica degli esseri creati: ci si presentano in una splendida coordinazione, che tutti li unifica in Dio. Non c’è nulla al mondo che meriti disprezzo; ogni cosa ha la sua funzione da compiere; ma ogni cosa deve conservare il suo posto. C’è in altre parole, una serie di rapporti fra gli esseri; c’è una gerarchia, derivante dalla loro natura e dal compito che debbono soddisfare; e nessuno ha diritto di turbare e di calpestare questo ordine: nessuno ha diritto di rovesciare ; apporti, perché l’Assoluto, il Necessario, la Causa delle cause, è Dio; noi non siamo se non esseri dipendenti, contingenti, causati, relativi, che veniamo da Lui, esistiamo in Lui, andiamo a Lui. – Questo grande principio della centralità di Dio fu da tutti i secoli cristiani riconosciuto, proclamato ed inculcato.

Paolo di Tarso — come ho rilevato nel mio volume sull’Anima dell’Umanesimo e del Rinascimento — insegnava il suo “nihil sine voce” ed in ogni essere coglieva una parola che orientava l’animo suo a Dio; Agostino d’Ippona concepiva l’universo come una armonia, di cui ogni cosa era una nota osannante alla divinità; Benedetto da Norcia, discorrendo con la sorella Scolastica, si estasiava all’idea di Dio; Francesco d’Assisi, fra il verde della sua Umbria e il gorgheggio degli uccelli, innalzava al cielo il Cantico di Frate Sole; nelle Somme medievali ogni articolo era una pietra di questa stupenda basilica. Poemi quali la Divina Commedia e poemi di marmo come il San Marco di Venezia, il Duomo di Pisa, la chiesa di Amiens, di Chartres e di Strasburgo, il Duomo di Milano e di Colonia; gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio col grido programmatico: Ad maiorem Dei gloriam; tutta la dottrina, insomma, e la vita e le opere grandi del Cristianesimo inculcano ed esprimono la stessa idea: Dio è il centro di tutto e come tale deve essere riconosciuto dagli individui e dalla società.

2. – L’essere in quanto è conosciuto

Se questo è l’essere, cos’è la verità? Noi sappiamo che è il pensiero ciò che distingue l’uomo dal bruto. Anche il bruto è un essere, e vive e si muove fra gli esseri. Ma non conosce ciò che è l’essere. Solo il pensiero può scrutare la realtà, studiare le varie categorie degli esseri, cogliere i loro rapporti, la loro subordinazione, la loro relazione con Dio. In questa indagine paziente, mediante la quale si formano le varie scienze e si giunge poi alla loro sintesi ed alla sapienza, noi possiamo cadere nell’errore, quando la nostra intelligenza non coglie la realtà come essa è ed i rapporti che in essa esistono; siamo nella verità, quando la nostra ragione conosce l’essere come realmente è. La verità, quindi, ci dà l’essere in quanto è conosciuto. E tutta la storia della cultura umana, gli sforzi dei filosofi e dei pensatori e le ricerche degli scienziati ci raccontano la splendida battaglia dell’uomo per strappare all’universo il velo oscuro che lo ricopre e per assurgere da esso a Dio. Come lo studioso che vuol decifrare un’iscrizione comincia a ricostruire i caratteri che la compongono e poi risale al pensiero che vi si nasconde e la spiega, così la ragione nostra, con le sue forze e alla luce della rivelazione, dopo di aver esaminati i diversi caratteri nei quali è scritto il volume del mondo (varie scienze), cerca di interpretarli e di leggere in essi l’idea che Dio vi ha espresso (filosofia e religione). Per il Cristiano, di conseguenza, è ridicola una scienza negatrice di Dio. Ed ogni disciplina scientifica, ogni scoperta, ogni progresso culturale è da benedirsi, perché, in una o in altra forma, ci serve a farci penetrare nell’intimo cuore degli esseri ed a farci risalire all’Essere degli esseri.

3. – L’essere in quanto è voluto Ma noi non siamo solo pensiero; siamo anche volontà e libertà. Conosciamo gli esseri ed i loro rapporti; ed, in seguito, la nostra libera attività si svolge. Quand’è allora che la nostra azione è buona? La risposta è semplicissima: quando noi rispettiamo la natura degli esseri ed i loro rapporti. Quando, dopo di aver conosciuto col pensiero tale natura e tali gerarchie, agiamo praticamente secondo tale ordine, noi facciamo il bene. Se al contrario, conoscendo gli esseri e la loro concatenazione, calpestiamo, rovesciamo, infrangiamo l’ordine, noi commettiamo il male.

Ad esempio: perché il furto è un male? Per questo motivo: la nostra ragione conosce noi e gli altri uomini; vede come vi son fra gli uomini rapporti di giustizia, che non debbono essere violati; chi praticamente disconosce tali rapporti e ruba, è reo d’una cattiva azione. Perché la bestemmia è un male? Per questo motivo: la ragione conosce Dio e l’uomo; vede qual è la natura di Dio, l’Essere perfettissimo, nostro principio, nostro fine e nostro aiuto; vede qual è la natura umana, che dipende da Dio e deve amare il suo Creatore e benefattore. Siccome la bestemmia non riconosce praticamente quest’ordine, ma anzi lo capovolge, è in sè un male. La preghiera, al contrario, è in sè un bene, perché è il riconoscimento dell’Essere e dell’ordine. Così si ripeta di ogni qualsiasi legge etica. La regola, il criterio, la norma con cui giudichiamo la moralità o l’immoralità d’un’azione, il metodo pratico per discernere il giusto dall’ingiusto, il lecito dall’illecito, l’onesto dal disonesto, è sempre quella che san Tommaso in parole limpide e profonde sintetizzava così: « Agisci in modo che il tuo atto sia secondo la retta ragione’, la quale è un riflesso, un’immagine della Ragione divina. « Sic age ut actus tuus sit secundum rectam rationem ».

Perciò un desiderio cattivo acconsentito è un male, perché è contro la retta ragione. E si vada dicendo per ogni qualsiasi atto, che si debba o si voglia compiere. – Si noti: per giudicare se un atto è buono, non basta guardarlo nella sua oggettività astratta, ma occorre altresì considerarlo nelle sue circostanze concrete. Ottima cosa è, ad esempio, pregare tenendo le braccia alzate verso il cielo; e se questo lo si fa nella propria stanza, dove solo il Padre divino vede, può servire ad eccitare maggiore devozione; ma che direste voi di chi nella chiesa parrocchiale del suo paese dovesse fare un simile gesto? È un bene che lo studente abbia a… studiare; ma se, mentre è a pranzo, volesse sfogliare un libro, voi glielo togliereste di mano e gli dareste un cucchiaio o una forchetta. È un atto di carità dar da mangiare agli affamati; ma se si tratta d’un convalescente, che non ha ancora del tutto superato il tifo ed al quale il medico ordina una dieta rigorosa, sarebbe un atto di stoltezza offrirgli del pane o dei dolci, poiché vi sarebbe il pericolo immediato d’una ricaduta. Insomma, non si può prescindere dalle circostanze, per valutare una azione morale, quest’ultima non dev’essere riguardata solo astrattamente, bensì nella sua concretezza. – Ancora. Si capisce perché alcuni popoli barbari o pagani, ed alcuni individui, sbagliano certe volte nel ritenere buona un’azione che in sè è cattiva. La verità è la base della morale; e siccome la loro mente erra nel cogliere la natura dei rapporti fra gli esseri, cosicché non si proporziona alla verità, da Dio stampata nell’ordine delle cose, abbiamo i loro spropositi in fatto di etica. Le passioni e l’ignoranza possono oscurare l’intelligenza umana: l’uomo, in tal caso, agisce non secondo la retta ragione, ma secondo un errore. – Gli antropofagi, perciò, non meritano le difese di Benedetto Croce; non giudichiamo della loro coscienza e della loro responsabilità; diciamo solo che, se anche fossero in perfetta buona fede, l’antropofagia sarebbe un male, derivante da una perversione di giudizio. – La risposta al problema, posto all’inizio di questo capitolo, è, quindi, limpidissima: un’azione è in sé buona, quando risponde all’ordine della retta ragione; è in sè cattiva, quando praticamente non riconosce questo ordine stesso. Dire bene è dire razionalità; dire male è dire irrazionalità. Il bene è il rispetto dell’ordine; il male è il disordine. E si noti: non è la Chiesa, non è lo Stato, non è l’individuo che creano la morale ed i suoi principi; tutti li debbono riconoscere e praticare; solo in tal modo si ammette davvero — e non solo a chiacchiere — l’esistenza di Dio e la sua centralità nell’universo, come ordinatore dei singoli esseri. Dinanzi alla evidenza di simili deduzioni, è superfluo insistere sull’obbligo morale che l’uomo ha di fare il bene e di evitare il male. Noi siamo liberi, è vero, e possiamo scegliere fra il bene ed il male; ma il primo principio morale ci grida nella nostra coscienza che il bene è da fare ed il male è da evitare e noi abbiamo il dovere di praticare il primo e di fuggire il secondo. Questo obbligo, questo dovere proviene dalla stessa natura delle cose. Non siamo noi l’Assoluto, come già avvertimmo, né abbiamo il diritto di rovinare l’ordine e la razionalità del reale. Quando stoltamente agiamo in modo diverso, è un’ingiuria che facciamo non solo a Dio, ma altresì alla ragione nostra che viene da Lui; ed è la rovina nostra ed altrui che procuriamo. Chi batte la via dell’ordine e delfa ragione, è sulla strada della moralità ed anche della felicità; chi batte la via del male, si trova sulla strada opposta.

4. – Il bene e l’amore.

Ripensiamo ora un istante questi supremi principi della filosofia perenne in funzione del concetto cristiano di Amore. Dio è Amore, è bontà infinita; e noi, memori sempre della bella parola di san Tommaso che il bene tende a diffondersi: « Bonum est diffusivum sui », non salutiamo Dio soltanto come centro di ogni essere, ma piuttosto come centro d’irradiazione dell’Amore. Prima che le creature siano, Egli le conosce e le ama. E questo solo vero Dio, mi si permetta di usare le espressioni dei Concili, soprattutto del Concilio Vaticano, per sua bontà e con la sua onnipotente virtù, non per acquistare od aumentare la sua beatitudine, ma solo per manifestare la sua perfezione mediante i beni che conferisce alle creature, liberissimamente ha creato. Ogni essere, ognuno di noi è opera del divino Amore. Dovunque c’è un essere, là palpita l’Amore di Dio. L’Esssere e il Bene coincidono, notavano gli antichi sapienti; e noi Cristiani possiamo soggiungere: coincidono l’Essere e l’Amore. Siccome, poi, gli esseri non vivono isolati, separati, ma fra loro si coordinano; siccome ognuno con grido vibrante di amore, tutto il loro complesso è una sinfonia sublime, dove la voce di ciascuno si fonde con la voce di tutti, in un solo canto di gloria, che non solo nulla fa perdere ai singoli, ma fa sì che ognuno si arricchisca delle vibrazioni del tutto. Dio è il vero Bene, l’Essere supremo, il supremo Amore. Ed appunto perché ci ama non può trascurarci, non può disinteressarsi di noi (come sospettava una ridicola obbiezione di alcuni sofisti), come altresì non può non volere la nostra felicità. Egli quindi, anche per l’amore che porta a noi, vuole che osserviamo l’ordine, che rispettiamo le leggi della ragione, che seguiamo la norma del bene. Se c’impone i comandi categorici della morale, è perché ci ama. Se ci permettesse di trasgredirli, non ci amerebbe, perché ci consentirebbe di cadere in un precipizio. Può un padre, un Dio concederci questo? Siccome il suo divino Amore vuole il bene delle sue creature, deve volere inflessibilmente che noi ci conformiamo alla sua volontà. Insomma, la legge morale e la sua obbligatorietà sono un frutto dell’Amore. – Non dobbiamo, dunque, esitare a definire la norma della moralità in termini di amore. La nostra azione è in sè buona, quando noi seguiamo la retta ragione, quando rispettiamo l’ordine, quando cioè la nostra volontà si conforma alla volontà di Dio. E siccome la volontà di Dio è volontà di amore, la nostra azione è buona, quando all’Amore rispondiamo con l’amore. Il bene è la libera rispondenza umana all’amore divino. Il male è il contrario, ossia è la negazione dell’Amore, anche se non giunge ad essere odio. Cominciamo già fin d’ora a spiegarci il fatto dell’immoralità dilagante. L’uomo dovrebbe tendere al divino Amore, centro dell’universo; Dio dovrebbe essere il centro dell’amore delle creature. Allora avremmo ovunque il bene che trionferebbe ed insieme avremmo la vera gioia. Invece, a centro dell’universo, noi praticamente poniamo il nostro piccolo io, l’amore sregolato per noi stessi e per le cose. – Io non so sottrarmi alla tentazione di riportare un altro brano del Tissot, che tolgo ancora dalla sua opera su La vita interiore semplificata. Mi sembra una pagina degna di meditazione:

« La vita naturale, la vita spirituale, press’a poco tutto in me è ispirato, regolato, diretto, dominato dalla mia soddisfazione… Qual terribile esame di coscienza, s’io volessi penetrare i particolari intimi de’ miei pensieri, de’ miei affetti e delle mie azioni… Come in tutto, dappertutto, sempre, vedrei il maledetto istinto della mia soddisfazione egoista soppiantare più o meno la gloria di Dio!… In tutto! Oh! non saprò mai sino a qual segno la mia vita sia un disordine!… L’io dappertutto il primo… Dio continuamente messo al secondo posto o scartato. In ciò che faccio, in ciò che mi succede, in ciò che ricevo od evito, è l’io che vedo in prima linea. Amo per me: detesto per me…

« Questo è anche il gran male della società. Tutto in essa è organizzato per l’uomo, non per Dio; l’interesse umano domina tutto, ispira tutto, dirige tutto, riassume tutto. Che posto tiene la gloria di Dio nelle famiglie, nelle associazioni, nei corpi costituiti? Dov’è l’idea di Dio nell’industria, nel commercio, nelle scienze, nella politica, nella storia, ecc.? Nelle relazioni umane è l’interesse umano che assorbe universalmente le idee, gli affetti, gli sforzi; tutto converge là. L’idea di Dio e della sua gloria va indebolendosi e dileguandosi. L’uomo scaccia Dio.

« Prendo l’esempio della storia, che è forse il più sorprendente. Essa non dovrebbe essere che il quadro della gloria di Dio attraverso le vicissitudini umane, dell’azione divina in mezzo alle agitazioni umane; eppure, non è più che il quadro scolorito delle convulsioni dell’umanità. Così tutto mentisce alle sue origini e al suo fine. Ecco la grande eresia rivoluzionaria; l’uomo al posto di Dio. – Quale contrasto con ciò che mi mostra la Bibbia! Nella vita dei Patriarchi si sente Dio; il loro Dio è tutto per loro. Egli domina, ispira, dirige efficacemente la loro vita; nella loro storia si sente ad ogni istante passare il soffio di Dio. Lo stesso si verifica in tutta la storia del popolo eletto; è Dio il centro di tutto. Se le passioni umane fanno dimenticare il suo ricordo, i castighi lo richiamano; e, sotto la verga, il grido che sfugge e domanda la vittoria sui nemici è sempre in primo luogo l’onore di Dio: « Per la gloria del Nome vostro, liberateci, o Signore! ». E quando la vittoria è ottenuta, si fa festa dovunque, perché Dio è glorificato. Quando Mosè, Giuditta, Ester vogliono ottenere la salute del loro popolo, lo fanno invocando la gloria del Nome di Dio, e per motivo della sua gloria Dio salva il suo popolo. Nei salmi, poi, qual posto occupa la gloria di Dio! Essa è lo scopo supremo e costante di questi canti sublimi.

« Nelle età e nei paesi di fede, quale posto più pratico e più vivente aveva Dio nelle abitudini dei popoli fedeli! Nulla. Lo esprimeva così vivamente come il linguaggio popolare. È nell’intonazione della conversazione familiare che meglio si riflette lo stato dell’anima. E come si parlava di Dio, nei tempi e nei luoghi in cui le idee della fede avevano il loro impero dominante! Il Nome divino si udiva ad ogni istante con opportunità e verità ammirabili. Con quanta semplicità e profondità si diceva: grazie a Dio, Dio sia benedetto, a Dio mercé, a Dio piacendo, con l’aiuto di Dio, ecc. Gli atti privati erano cominciati col segno della croce, gli atti pubblici stessi in nome della SS. Trinità, le leggi decretate in nome di Dio. L’uso delle primizie, retaggio dell’antica legge, che gli consacrava i primogeniti di tutte le cose; l’autorità paterna, giudiziaria, civile, che agiva come per delegazione divina; il rispetto delle persone, delle solennità e delle cose sante; l’orrore e la punizione della bestemmia, e tanti altri usi, purtroppo da noi lontani, dimostrano praticamente come l’idea divina teneva in tutto il primo posto. Dio era vivo nelle idee e nei costumi, negli usi e nelle istituzioni. La miseria umana s’affermava senza dubbio, perché essa si afferma sempre: ma anche Dio si affermava al di sopra della miseria dell’uomo. Si sentiva che Egli era il re degli animi e dei corpi, degli individui e dei popoli, del tempo e dell’eternità, e la sua regalità restava al di sopra di tutto ». – Perché il bene ritorni a fiorire sulla terra, è necessario che il Sole di Dio risplenda e tutto ancora riscaldi coi suoi raggi d’amore.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (5)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (43): “INDICE DEGLI ARGOMENTI” -II-

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (43): INNDICE DEGLI ARGOMENTI-II

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

A. — DIO CHE SI RIVELA

1. Attitudine del naturale intelletto umano.

A 1a a. — ATTITUDINE ALLA  CONOSCENZA IN GENERE

L’ordine della conoscenza umana è duplice: cognizione della ragione naturale e dalla fede 2856 3015.

Scienza naturale: sua libertà di conoscere 3019 (3457); ma  non è da escludere la ragione della rivelazione. 2859 2914 (3405).

La sola ragione — : può acquisire ogni scienza distinta dalla scienza suprannaturale rivelata, e la verità puramente naturale, razionale, morale. 2766; modo in cui essa si acquisisce (sec. Tomismo) 3618-3620.

— si può difendere il valore della cognizione naturale umana in genere e dei principii metafisici 2767 3892; in specie dei principii della ragione sufficiente, della causalità, finalità 3892; peccano per difetto le asserzioni 1028-1042 1048.

— si può dimostrare la aspiritualità dell’anima umana, l’immortalità, la libertà a-b 2766 a-e. 2812.

Nella scienza dei libri dell’occulto e del futuro nulla è da sperare dall’astrologia, dagli auguri, dai sortilegi e simili: cf. K 2de; libri vietati delle cose proibite 1859; sono riprovati il magnetismo e lo spiritismo in qualunque senso applicati. 2825 3642.

A lb.  b. — ATTITUDINE ALLA CONOSCENZA DELLE VERITA’ RELIGIOSE.

1ba. L’Esistenza di Dio si può conoscere con certezza in modo naturale, perfino dimostrarla astraendo dalla rivelazione e pure dall’ausilio della grazia 2441 .2751 2756 ab 2765 ab2812 a2853 2855 3004 3538 3875 abc. 3890 3892; si riprova l’ateismo, l’agnosticismo, gli avversari della teologia naturale.3021s b3026 a3475.

Via di dimostrazione: non a priori 3622; non si può attaccare la fede ctr. atei (2754) 2812; è da arguire a posteriori: dagli effetti alla causa 3538 3622 (qui i vari modi)

Non si può provocare la cognizione immediata o l’intuizione di Dio col lume intellettuale del viatore 2841s 3201 3205.

1bb. L’Essenza di Dio può essere conosciuta secondo alcuni attributi già dalla sola ragione umana (2441) 2853 3875; tra questi la personalità di Dio 3890 3892;

L’infinita perfezione di Dio 2751; Dio principio e fine di ogni cosa 3004.

lbc si può conoscere con certezza l’Efficienza di Dio dalla ragione naturale, per quanto possibile —: creazione come tale 3004 3875; —: legge naturale morale 2866 3875 3892; —: divinità della rivelazione mosaica e cristiana 2752 2756; —: esistenza di Gesù Cristo ctr. asserzione [Chr. è una finzione mitica] 2907 (3540); —: miracoli e profezie a2753 ab2768 ab2907 ab3009 a 3034 a3428 a3436s; a favore del miracolo della Resurrezione di Cristo, si può arguire dalla tradizione 2754 (2768).

A 2 2. Nozione della rivelazi0ne.

Rivelazione (in senso stretto): è la locuzione di Dio agli uomini 2778 3004; determina il corpo della dottrina applicato alla salute per tutti gli uomini di ogni tempo. (800) 3459.

Si riprova: [Riv. Che sia opera meramente umana, invenzione filosofica] 2777 2781 2904 2907 3541; [riv. è se non in relazione con la coscienza dell’uomo rivolta a Dio] 3420 3464 3541.

3. Possibilità e fatto della rivelazione.

Possibilità della rivelatzone in senso stretto. 3027s.

Fatto storico di tale rivelazione (asserto implicito in tutta la dottrina) edtto più solenne solenne 800 3004s; in questo senso si negano: a .Rationalisti e b. Modernisti (2904) b3475 b3477s.

Questa rivelazione fu finita e completata con gli Apostoli (1501 3070) 3421.

4. Fine ed utilità della rivelazione.

L’intenzione di Dio rivelante è, che l’uomo finalizzi la sua elevazione al commercio soprannaturale con Dio. 2854s.

Necessità della rivelazione: è per intuito il fine assoluto soprannaturale dell’uomo (378) 3005; è per intuito morale della presente condizione dell’uomo la via più spedita per conoscere le verità religiose, che di per sé non sono impervie alla ragion 3005 3876.

Utilità: la fede libera la ragione dagli errori ed istruisce in molteplici cognizioni 2776 3019; rev. è stella direttrice per la scienza naturale. Reprob.: [riv. è inutile, di ostacolo alla r agione, nociva] 2903 2906. 3028.

5. Proprietà delle rivelazioni.

a. — SUPRANNATURALITA’

La rivelazione (in senso stretto d.) è suprannaturale (2854) 3004ss (3547); e non può essere desiderata da meri uomini naturali 2618; fede nella rivelazione, è distinta dalla mera fede naturale 3032; la fede è sopra la ragione

b. — IMMUTABILITÀ

La. Rivelazione (e la fede in essa) è immutabile 2802 2829 3020 3043 . (3626 3893); alla comparsa di nuove dottrine, non è assucurata l’assistenza dello Spirito Santo 3070; reprob. le accommodazioni dei dogmi con odiose mutazioni 3340-3342,• 3458-3465; si riprova: [rivelazione di pari passo con la ragione umana deve progredire da uno stato imperfetto 2905. L’immutabilità della dottrina rivelata non esclude l’evoluzione omogenea dei dogmi: vd. A 9bb.

6. Ambito della rivelazione.

a. — MISTERI IN SENSO LATO

Lee rivelazioni sono dovute anche a delle cognizioni delle cose divine che di per sé non sono impervieall’umana ragione 3005 3876, sunt dogmi che la ragione naturale ha in comune con.la fede. 2851 2853 3136.

b. — MISTERI IN SENSO STRETTO

Sono misteri in senso stretto quelli che si possono percepire dalla sola rivelazione (oppure dalla fede) 2853s 3015 3041.

Transcendono l’intelletto umano 824 2851s 2856 3016 3041; restano oscuri e caliginosi anche dopo la rivelazionem 2856 3016; trascendono anche l’intelligenza naturale degli Angeli. 2856.

Non tuttavia ripugnano alla ragione: numquam per quanto potrebbe esservi vero dissenso tra -:fede e ragione 2776 2811 3017-3019 (3287); —: fede e storia 3544s; —: teologo e fisico, rimanendo nel proprio ambito 3287; pertanto ogni asserzione contraria alla fede è falsa 1441 3017 (3895); causa di apparente contraddizione 3017 (3287).

7. Tradizione della revelatione.

A7a. a.— TRADIZIONE DELLA RIVELAZIONE IN GENERE.

7aa Origine. La tradizione delle rivelazioni si deve a:— Cristo revelante agli Apostoli 1501 3006; Spirito Santo veramente inabitante nella Chiesa e dettante agli Apostolis a600 b1501 b3006; reprob.: [la tradizione non contiene nulla di divino] 3548.

7ab. Il modo di comunicare la rivelazione. La Rivelazione è contenuta in libri scritti ed in tradizioni senza scritti 609 1501 3006 CdIC 1323, § 1.

7ac Riconoscimento della tradizione — : richiesta dalla Chiesa 1100 110 186° 1501 1504 1863 2537 2738s 2771 2784 2879 (3012 3540) 3626.

—: conservatata 542 548 600 602s 609 650-652 654 657 705 1510 1600 1637 1648 1750 1764 1766 1800 1820s 3069.

Criteri della tradizione: Consenso universale della Chiesa 1637: Consenso dei Padri: tradizione dei Padri invocata ed introdotta 271 370 396 399 485 501//520 548 550 575 635 710 824 850 1510 1542 1600 1692 1750 1766 1800 1820s 2090 2830 2855s 3284 3541; in particolar come regola per interpretare la S. Scrittura 1507 1863 2771 2784.

Consenso dei teologi: rappresenta la tradizione 824; pertanto si deve guardare indietro 1407 2879.

A 7b   b. TRADIZIONE DELLA RIVELAZIONE MEDIANTE LA S. SCRITTURA.

Esistenza dei libri inspiratori. Esiste il canone dei libri sacri dallo statuto della Chiesa 179s 186 213 (350°) 1335 1502s; si deve accettare quel canone esclusivo e con ogni parte (come contenuto nella Vulgata) a202 a213 a354 b1504 1863 2538 b3006 b3029.

Ragione della interna canonicità non consiste nell’approvazione di un’opera meramente umana né nella inerranza, ma nell’indole ispirata. 3006 3409 3412s 3415 3490.

Fatto dell’inspirazione. I libri canonici hanno Dio come autore. (800) 3006 3293; in particolare inculcato contro i Manichei che l’Autore del Vecchio e del Nuovo Testamento è il medesimo Dio 198 325 685 790 854 1334 1336 1501.

L’inspirazione è appropriazione dello Spirito Santo dettante 1334 1501 3292 3593; Lo Spirito S. parla nella Legge Mosaica, per mezzo dei Profeti (o nei Profeti), mediante gli Apostoli, o gli Evangelisti (s. nei Vangeli) b41s be 46 abed 48 c60 b150 b682.

Modo descritto per l’inspirazione 3293 3650s; riprov. delle spiegazioni dei Modernismi 3409-3411 3413 3491.

Estensione della inspirazione: da tutti i libri recepiti dalla Chiesa con ogni parte. (1504 3006 3029) 3291s.

Questioni circa la canonicità, l’autore, composizione dei vari libri de delle parti: Citazioni implicite 3372 3654; Pentateuco 3394-3397 3862-3864; Genesi 3512-3519; Psalmi 3521-3528; Isaia 3505-3509; Questione sinottica 3577s: Ev. Mt. 3561-3567; Ev. Mc. Et Lc. 3568-3576; Ev. Jo. 3398-3400; Atti degli Apost. 3581-3586; Lettere Pastorali 3587-3590; Lett. agli Ebr. 3591-3593; Lett. di Giov. 180 1811; Comma Giovanneo 3681s; Apocal. 486 1501°; altri libri 1501°.

7bb  Inerranza della S. Scritture. Tutti i libri contengono indubbia 1065: l’inerranza proviene da questo: dall’inspirazione a3292s 3652-3654; non è lecito concedere che l’autore abbia errato 3291.

Riprov. asserto che detrae l’inerranza e professa il mitologismo a2907 a3034 3414 3887.

La S. Scrittura non vuole insegnare la costituzione delle cose naturali. Che descrivono solo sec. La sensibile apparenza 3288; da ciò nessun vero dissenso tra teologo e fisico 3287.

Interpretazione delle S. Scritture deve seguire la regola — : giudizio del Magistero della Chiesa 1507 1863 2538 3007 3281 3401-3408;

— tradizione unanime dei Padri e dei teologi 1507 1863 2771 2784 3007 3284 3546 3887; non è una vera opera se scaturisce da tutte le opinioni dei singoli 3289;

— analogia della fede 3283 3515 3546 3887.

Scienze ausiliari dell’esegeta sperimentato sono cose elevate di critica letteraria e cognizione di cose naturali 3286s.

La libera investigazione ed interpretazione di dottori privati rimane un campo ampio nonostante le regole suddette 3282 3289 3831; così che possa farsi (eccetto le cose che riguardino la fede ed i costumi) un miglioramento ed un’emendazione dell’interpretazione 3294.

Questioni circa l’interpretazione: Generi letterari nella S. Scr. 3829s; Fonti mitologiche 3899; Applicazione del metodo storico alla S. Scrittura 3290; Parti specialmente storiche 3373; Senso letterale e spirituale 325 3792s 3826-3828 3888s; Genesi cap. 1-11: 3898; Ps. 15,10s: 3750; Vangeli: Mt. 16,26 et Lc. 9,25: 3751; Ev. Io. 3416-3418; Altro avvento di Cristo nelle Lett. Paoline 3628-3630; indole della vera profezia (2907) 3505s 3528 3563 3573; rigettata la discrepanza tra Vecchio e Nuovo Testamento pretesa dai Manichei 198 790 854 1334 1336. Si riprova il metodo di interpretare (in genere) dei Razionalisti, Modernisti e delle Società bibliche acattol.. 2784 3546s; pericolo di errare soprattutto dei laici 770s.

Testi originali e versioni della S. Scrittura. Gli esegeti usino massimamente i codici originali 3280.

Traduzioni in altre lingue comportano il pericolo di errori ed abusi 770s 1853s 2710s; per questo motivo la versione della Vulgata è dichiarata autentica 1506 1853 2710 3280; questa autenticità è solo giuridica, in quanto non esclude difetti di versione b3280 3794s 3825; l’esegeta usi altre versioni 3280; ai fedeli tuttavia non sono permesse versioni senza note ed approvazione eccl. 1508 1863 2772 CdIC 1391; si proibiscono le versioni delle Società bibliche acattoliche. 2771 2784.

Lettura della S. Scrittura raccomandata in genere 770s; non invero è utile a tutti 1853s 2712 2771s; infatti non è per tutti obbligatoria 2479-2485. 2667; la lettura presuppone l’uso di edizioni approvate: vd. A 7bd

8. Accettazione della rivelazione per mezzo della fede

a. — NATURA DELLA FEDE

la fede è la virtù soprannaturale per cui si credono le cose da Deo rivelate sull’autorità di Dio rivelante 3008 3542; l’assenso è libero (obediente per grazia, non è necessaria la forza prodotta dalle argomentazioni) 3010 3035; né tuttavia l’assenso è cieco 3010 3542.

Riprov. del concetto di fede dei Modernisti 3484-3486 3542.

Fede in quanto dono di grazia: vd. F 4; come disposizione alla giustificazione: F 3c

b. — PREREQUISITI PER LA FEDE.

Da parte di Dio si richiede l’ausilio della grazia (illuminazione dello Sp. Sancto) 378 396-400 1553 2813 3010 3014 3035.

Da parte dell’intelletto umano si richiede il giudizio di possibilità e l’obbligo di credere: (che è da chiedere) perché si possa acquisire vera certa nozione dei fondamenti della fede (come del fatto della rivelazione) 2121 2752-2754 2756 2768 a2778 2853 3009 3019 3539 3892; fede (Supposto l’ossequio della ragione consentaneo) deve precedere la ragione (che argomenta di essa) 2751 (2754) 2755 2765s 2812s .3009 (3019).

Si deve conoscere la credibilità dell’esistenza dei segni esterni 3033s 3475 3477 3539; quali motivi di credibilità valgono: vaticini, miracoli (tra i quali la resurrezione di Cristo), l’eroismo dei martiri, la mirabile propagazione della religione crist. La Chiesa in sé stimata (segno elevato) 4772 b2753 be2754 abc2768 . abcde 2779 (°2907) ab3009 et3012-3014 b3034 b3539; non vale la sola ispirazione privata o l’interna esperienza 3033.

Si può infirmare il giudizio di credibilità per gli influssi provenienti dall’esterno  3876; l’uomo può faticare anche per l’errore invincibile della vera religione. 2865° 2866. Da parte della volontà si richiede la libertà della coazione nell’accettare la fede: vd. K 4cc. Obbligo di credere: vd. K 2a.

9. Applicazione della ragione umana alle cose rivelate.

A  9a  a. – UTILITÀ DELLA  RAGIONE E SUOI LIMITI.

La ragione dimostra e difende la fede 2776 3019 3135-3138; prepara in parte all’intelligenza dei misteri 2853 3016 3137 3892.

I limiti della ragione nascono dall’indole sovrannaturali e dalla misteriosa rivelazione degli oggetti: cf. A 6b; infatti non si possono trattare i misteri allo stesso modo degli oggetti della scienza naturale 2854 2856s; né la filosofia è immune da errore 2829; esistono anche questioni più profonde della ragioni quasi insolubili 249.

Ragione umana (filosofia) quindi non deve dominare nelle verità rivelate (o in teologia) 824 2829.

Si riprende l’eccessiva stima della ragione umana (razionalismo) 2732 2775-2777 2828s 2850s 2858-2861 2878 2901-2914; riprov. dei principii dell’autonomia della ragione e della piena indipendenza dalla religione 2860 2903s 2911 2914 3031s; riprov. della tendenza a risolvere (ex toto) gli oggetti della fede ad opera della ragione 824 2732 (2738) 2851s 2908s; con tale pretesa si perde il merito della fede 824.

A 8b  b. – TRATTAZIONE SCIENTIFICA DELLE COSE RIVELATE.

9ba Dono della teologia. La ragione considera la teologia come la trattazione scientifica degli oggetti rivelati. 3135-3138.

L’indole del progresso scientifico è l’evoluzione delle dottrine nel medesimo senso (s. evolutio homogenea) 2802 3020 3043 3541 (3626) 3886; si riprova la concezione (massimamemte del modernismo) circa il progresso teologico e dei dogmi 2905 3020 3043 3422-3424 3426 3458-3465 3483 3488 3541; si respinge l’accusa, che il Magistero ecclesiastici impedisca il progresso della scienza teol. 2912 3457; si nega l’oscurazione delle verità nella Chiesa 2495 2601.

9bb Metodo della teologia. La norma principale per conoscere le verità soprannaturali non è la ragione umana 2738; al teologo non è lecito astrarre dall’indole soprannaturale delle cose rivelate (2854 2856s) 3547. Metodo scolastico (s. “vecchia scuola”) si raccomanda (ma con restrizione). E si difende ctr. il fideismo ed il modernismo 2814 2876 2913 3139 3140 3894. Si difende il metodo apologetico 3499s 3879s. Si rigetta il dubbio positivo come principio di inchiesta teologíca 2738. Si comanda di conservare la terminologia coltivata nella tradizione 824 2831 3881-3883.

Preminenza della teologia sulle altre scienze 824 (2829); ordine dei dottori nella Chiesa è del tutto particolare 771.

Dipendenza della teologia dal Magistero eccl. Subordinazione al Magistero in genere; vd. H 1; conformazione alla tradizione: vd. A 7a; La libertà di insegnare al teologo è legata al Magistero: vd. H lbb.

Si spinge al riconoscimento della singolare autorità dei teologi in genere 1328 2871 Gli autori moderni per quanto preferiscano al Magistero le cose più antiche,  904; non tuttavia sono indipendenti dalla Sede Apostolica e devono essere approvati. 2047 3154s.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (44): “INDICE DEGLI ARGOMENTI -III-“

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (3)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (3)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo primo

IL CRISTIANESIMO E L’AMORE

Senza esitazione io applicherei al Cristianesimo ciò che Goethe scriveva delle poesie: Sono simili a finestre istoriate le Poesie: finestre che, guardate dalla piazza alla chiesa, apron sui muri una fila di buchi nudi e scuri. E le guarda così la buona gente, e dice poi che non ci vede niente. Ma su, una volta alfine, penetrate per la porta del tempio, e là guardate! Ecco, figure e scene, e cielo e mare, tutto nei vetri luminoso appare.

Creature di Dio, semplici e liete, gli occhi allegrate e l’animo pascete!

(Trad. CROCE)

Chi vuol comprendere il Cristianesimo, deve entrare nella nostra cattedrale, ed allora i dogmi ed i precetti morali che, stando al di fuori, gli restavano incomprensibili e gli parevano ciò che di più strano e di più oscuro si potesse immaginare, gli sembreranno luminosamente belli e veri. Solo vivendo in questa divina cattedrale, eretta da Dio, è possibile intuire il principio di unità che, come riduce le varie scene d’un vetro istoriato ad un tutto unico e mirabile e quasi prisma che ricompone i vari raggi colorati nell’unico raggio solare, così collega insieme armonicamente i dati della rivelazione e le norme della condotta, e tutto vivifica con unico soffio, con un’identica anima. Tale principio di unità ha formato l’estasi soprattutto dei santi. I filosofi ed i teologi nostri l’hanno descritto; e mentre alcuni volgevano lo sguardo indagatore specialmente ai singoli elementi molteplici, altri abbracciavano con una occhiata comprensiva lo spettacolo sublime, ad imitazione di san Francesco di Sales, che nella prefazione del suo celebre Tratté de ramour de Dieu esclama: « Tout est l’amour, en l’amour, pour l’amour et d’amour en la sainte Eglise. – Nella Chiesa di Dio tutto appartiene all’Amore, tutto è fondato sull’Amore, tutto si riferisce all’Amore, tutto parla d’Amore ».

Una mistica moderna, la madre Maria Luisa Margherita Claret de la Touche, nel suo Libro dell’amore infinito, ha egregiamente commentato le parole del Vescovo di Ginevra. Non si tratta — ella scrive — di « un amore snervante, senza vigore, che si appoggia sulla sensibilità ed è incapace di fortificare i cuori e di far loro produrre azioni magnanime e forti virtù »; si tratta dell’Amore di Dio, considerato in Dio stesso… Si è parlato molto d’amore, si è scritto molto sull’amore, da secoli. Ma di quale amore? Sovente della corruzione dell’amore carnale; — qualche volta di quel riflesso del vero Amore, che risplende ancora nel cuore della creatura; — raramente del grande e gratuito Amore, che Iddio versa in benefici sopra la medesima creatura; — ben più raramente ancora dell’Amore eterno ed infinito che è la sostanza di Dio e la Divinità stessa. Dall’Amore di Dio, invece, bisogna partire, perchè il Cristianesimo ci appaia in tutta la sua luce piena e per potere in tal modo cogliere l’anima vera anche della morale cattolica. Bisogna, cioè, ben convincersi che tutto nel Cristianesimo è Amore; che l’Amore è la causa universale della creazione, della redenzione e della santificazione; che l’Amore, per dirla con Dante, « muove il cielo e l’altre stelle »; che il Credo, per usare una felice espressione di mons. Baunard, articolo per articolo è la successione della nostra ascesa continua verso Dio sulle ali dell’Amore, che Dio infonde in noi; che ogni colpa non è se non una volontaria ribellione all’Amore. Con questa chiave d’oro — l’Amore divino — si apre la porta di ogni verità rivelata e di ogni precetto dell’etica.cristiana.

1. – Il dogma e l’amore

Un soave Dottore della Chiesa, san Francesco di Sales, nell’opera ora rammentata, richiama gli insegnamenti sull’amore di Dio di san Paolo, « che li aveva appresi dal cielo stesso., e degli altri grandi scrittori nostri che hanno svolto questo soggetto. Gli antichi Padri, egli ricorda, « servendo amorosamente Dio, parlavano anche divinamente del suo amore… San Tommaso ne ha fatto un trattato degno di san Tommaso ». San Bonaventura, Giovanni Gersone, cancelliere dell’Università di Parigi, il cardinal Bellarmino, santa Caterina da.Genova ed Angela da Foligno, santa Caterina da Siena e santa Matilde, santa Teresa e mille altri hanno dedicato a questo argomento pagine ineffabilmente belle. Non è qui possibile riassumere i grandi principi, che mostrano come nel campo dogmatico l’Amore « è l’anima della dottrina cattolica, il suo centro, è la spiegazione di tutti i misteri di nostra fede ». Solo ci appagheremo di rapidi accenni.

Innanzi tutto, chi è Dio?

« Dio è Amore! Egli vuol essere conosciuto così e vuole che questa conoscenza si diffonda nel mondo, lo infiammi e lo rinnovi… Il suo Amore è Lui stesso. – « Mosè, — prosegue la madre Claret de la Touche — il grande legislatore degli Ebrei, il privilegiato, che con la sua dolcezza e forza aveva attirato gli sguardi di Dio, riconoscendo nel roveto ardente del deserto la presenza della Divinità, Gli aveva domandato il suo nome; e Dio aveva risposto dalle fiamme ardenti: « Io sono Colui che sono! ». Risposta profonda, che rivelava Iddio come l’Essere supremo, essenziale, unico, causa e principio degli esseri, di una stabilità e unità assoluta, senza possibilità di mutamento, di diminuzione o accrescimento. Ma risposta misteriosa, come tutte le manifestazioni divine dell’Antico Testamento, che non rivelava il segreto di Dio e teneva l’anima umana sospesa davanti a questo Essere incomprensibile ». Si camminava ancora in mezzo alle ombre; la luce piena della rivelazione era riservata per più tardi. « Spuntarono finalmente i giorni della Redenzione; la seconda Persona della Santissima Trinità s’incarnò, il Verbo divino si fece uomo, soffrì e morì per noi; poi, asceso al cielo, inviò lo Spirito Santo. È allora che sentiamo sgorgare dal cuore infiammato e dalle labbra verginali dell’Apostolo prediletto le parole rivelatrici: « Deus charitas est! », Dio è Amore! – « Iddio vedendo l’uomo purificato dal grande sacrificio del Calvario, rientrato in grazia, ritornato suo Figliuolo sottomesso e l’erede della sua gloria, non ha più segreti per Lui. « Rivelandogli il suo Nome: « l’Amore », si fa da lui conoscere per intero. Nel medesimo tempo gli svela tutti i suoi misteri, il segreto delle sue divine operazioni e la ragione de’ suoi atti ».

I grandi pensatori cristiani, da sant’Agostino a Bossuet, hanno indicato in questo Amore di Dio il perchè di tutti i misteri. Essi hanno inneggiato all’Amore infinito, che passa e ripassa in un flusso e riflusso divino fra le tre Persone della Santissima Trinità; e, come riassume il loro pensiero mons. Baunard, ci hanno dato questa sintesi degli altri dogmi cristiani: « Dio ama: amare è donarsi; e Dio ha tutto donato a noi e si è dato Lui stesso, cominciando dall’esistenza nostra e di tutti gli esseri: ecco la Creazione. «Dio ama: amare è parlare, è farsi comprendere da quelli che si ama, ed ecco la Rivelazione, la Sacra Scrittura e la sua Legge.

« Dio ama: amare è salvare, a qualunque costo, chi si ama, è morire per chi si ama: ecco la Redenzione. « Amare è voler essere continuamente con chi si ama: ecco l’Eucaristia, la presenza reale, l’altare. « Amare è donarsi a ciascuno di coloro che si amano: ed ecco la divina Comunione, la Cena. « Infine, amare è voler rendere felici, con sè e per sempre tutti coloro che si amano, ed ecco l’eterna beatitudine e il Cielo. – « Vasta sintesi dell’amore, che è pure quella di tutta la nostra fede! ».

Non per nulla l’aquila di Meaux, nella sua Oraison funèbre d’Anne de Gonzague, riferiva e commentava da pari suo un’espressione dell’illustre defunta, la quale aveva detto: « Dal giorno che piacque a Dio di mettermi in cuore che il suo amore è la ragione di tutto quello che crediamo, la risposta mi persuade più di tutti i libri ». Non per nulla i Santi e tutte le anime sentitamente cristiane trovano ovunque una delle strofe dell’Amore eterno, che li lancia in un impeto di riconoscenza verso Dio. Cos’è la natura, per il credente? Cosa dicono al suo cuore e alla sua intelligenza le montagne belle, gli oceani immensi ed il sorriso dei fiori? Risponde la mistica citata: « L’Autore Infinito aveva deciso la creazione dell’uomo per potersi effondere in lui. E come una giovane madre prepara con amore, di propria mano, la culla del bimbo che sta per dare alla luce, e si sforza di renderla, non solo dolce e comoda, ma graziosa e lieta, così Dio, che doveva essere padre e madre, preparò con amore la culla dell’uomo, l’universo, e si compiacque di onorarlo ed arricchirlo di tutto ciò che poteva servire all’utilità, al bene e alla gioia della sua creatura prediletta ». Per questo Gesù le diceva: « Dà il tuo cuore alle creature, affinchè esse amino per mezzo tuo e tu ami in loro, fa che esse glorifichino, esaltino, amino il loro Creatore. Ama con l’uccello che canta, con la nube che va vagando nello spazio, con la foglia che freme alla brezza. Dà a tutti questi esseri creati dall’Amore un’anima che conosca, un cuore che palpiti ». Per questo ella soggiungeva: « Mi pare che la creazione sia come uno strumento musicale, un’arpa; se nessuno la tocca, l’arpa non vibra: ma se il cuore dell’uomo, come un abile artista, tocca le corde di quest’arpa d’oro, allora s’innalza un suono armonioso: è un inno di amore, cantato dall’amore in onore dell’Amore infinito,. Cos’è la nostra elevazione alla stato soprannaturale? I Padri, ad una voce, con mille figure rispondono spiegando la parola dell’Apostolo della carità: « Vedete quale amore ci ha dimostrato il Padre, nel far sì che potessimo avere il nome, e fossimo in realtà figli di Dio ». Com’è stato, in ogni tempo, annunciato nella Chiesa il mistero dell’Incarnazione e della Renzione, se non come il mistero di quell’Amore, del quale san Paolo osservava che sorpassa ogni scienza? Dio ha così amato il mondo, ha esclamato il veggente di Patmos, da dargli il suo Figlio unigenito ». E la mistica di Siena, santa Caterina, ispirandosi a questa nota, eleverà la sua voce: « Da qualunque lato mi volgo, trovo ineffabile amore… L’amore fece discendere l’altezza della Deità a tanta bassezza quanta è la nostra umanità… L’amore lo fece abitare nella stalla in mezzo agli animali. L’amore lo fece satollare di obbrobri. E, per amore, il dolce Gesù sommamente si dilettò di portare la croce di molte tribolazioni… L’amore lo fece correre con pronta obbedienza fino all’obbrobriosa morte della croce… Chi l’ha tenuto fermo in croce? Non chiodi, nè pietra, nè terra tenne ritta la croce, perchè non erano sufficienti a tener ritto l’Uomo-Dio; ma l’amore ». E non aveva detto già Gesù Cristo: « Nessuno ha amore piu grande di chi dà la vita per i suoi amici? ». – Anche Dante, discorrendo nel canto VII del Paradiso del decreto della Redenzione, ha magnificamente scritto:

Questo decreto, frate, sta sepulto

Agli occhi di ciascuno, il cui ingegno

Nella fiamma d’amor non è adulto.

Tutto ciò è evidente. E non solo Betlemme e Nazaret, ma anche le parole cadute dal labbro divino di Gesù sotto gli olivi della Giudea e fra le rose di Gerico, i suoi miracoli ed i suoi esempi, ed il Cenacolo, ed il Calvario, e l’Altare, e la Pentecoste, e tutta la storia della Chiesa sono verità chiuse in sepolcro, per chi trascura la « fiamma d’Amor ». Costui non capirà mai che la Chiesa è il regno dell’Amore; non capirà il Sacerdozio, ossia la schiera dei ministri dell’Amore; non capirà la Comunione frequente e quotidiana, alimento ogni giorno dell’Amore; non capirà Paray e la devozione al sacro Cuore e riterrà quest’ultima come una semplice devozione sentimentale, mentre è la sintesi di tutto il Cristianesimo. In breve: qual è il più bell’atto di fede che il dogma rivelato esige da noi? Non io, non un teologo, neppure un santo lo ha recitato la prima volta. Fu il discepolo che Gesù prediligeva e che posò il capo sopra il suo Cuore nell’ultima Cena, che ci insegnò a dire: « Nos credidimus Charitati!… Noi abbiamo creduto, noi crediamo all’Amore! ».

2. – La morale dell’amore

Su un simile stelo, poteva forse sbocciare il fiore di una morale che non fosse la morale dell’Amore? La rivelazione all’uomo dell’Amore infinito di Dio implica come conseguenza la necessità, il dovere, il bisogno di ricondurre a Dio l’amore dell’uomo, perchè — è sempre san Giovanni che lo proclama — « chi non ama, rimane nella morte ». E sempre nei secoli echeggerà il grido delle Confessioni di sant’Agostino: « Ci hai fatto per Te, o mio Dio, ed il nostro cuore non ha pace, finchè in Te non si riposi! ». – Come l’aquila reale, per usare il paragone del Bauthier nel suo volume su il sacrificio nel dogma cattolico e nella vita cristiana, quando è prigioniera, insanguina le ali alle inferriate della sua gabbia, così il cuore, chiuso nell’egoismo, senza i voli dell’Amore, si sente necessariamente tormentato dal rimorso. – Dalla dogmatica cristiana non poteva sorgere se non la morale della carità. Gesù Cristo, come vedremo, riassumerà la sua etica in un comando: « Diliges! Amerai!.». Nè poteva esser diversamente. Ogni precetto, ogni comandamento, ogni norma dell’etica doveva essere nel Cristianesimo ispirata dall’Amore, perchè ogni dogma della fede aveva lo stesso spirito. Gesù Cristo non è venuto al mondo per sciogliere la legge data sul Sinai ed impressa, prima ancora, nella umana coscienza; è venuto per compierla, per perfezionarla, per vivificarla con l’Amore. Come nel dogma, così anche nella morale, questa è la ragione di tutto, il principio vitale che tutto ci spiegherà. Perché dovremo adorare Dio e Dio solo? perchè non dovremo bestemmiarne il Nome e non pronunciarlo invano? Perché Gli dovremo consacrare un giorno della settimana, e si vada dicendo? Per amore, perché dobbiamo amarlo sopra ogni cosa. Perché, ancora, dobbiamo compiere il nostro dovere, non mentire, non ammazzare, non dire il falso, non profanare con l’impurità la nostra mente ed il nostro corpo, non rubare, e così via? — Perché, risponde l’Apostolo san Giovanni, dobbiamo amare il Signore non con le parale e con la lingua, ma con la realtà dei fatti. Perchè negli altri, anche nei nemici, dobbiamo vedere dei fratelli? E perchè ancora, non contenti dei comandi, ci sentiremo spinti ad attuare i grandi consigli della perfezione? Sempre per amore.

Nella casa di Miriam, Sienkiewicz, nel suo Quo vadis?, ha ritratto artisticamente la figura del tribuno romano Vinicio. Stanco delle orge, del vino, del canto, delle cetre, delle ghirlande di fiori, del palazzo di Cesare, col cuore acceso da un puro affetto, Vinicio, attratto sulla via della conversione, si rivolge a Pietro ed a Paolo di Tarso e con accento rapito e commosso implora la luce:

— Vedete! Mi torturo nell’incertezza: Mi dissero che la vostra dottrina distrugge la vita, la felicità, le leggi, la potenza dell’impero. È vero? Mi dissero che siete dissennati. Istruitemi… Mi fu anche detto: la Grecia creò la sapienza e la bellezza, e Roma la forza; che cosa dunque arrecate voi? Se in voi è la luce, fate che un raggio brilli su di me. — Noi rechiamo l’Amore, disse Pietro. E Paolo di Tarso soggiunse: — Conoscessi pure la lingua degli Angeli, senza la carità io non so più parlare e divengo rame sonoro tintinnante. Così è. La sintesi del dogma è l’Amore di Dio in sè e per l’uomo. La sintesi della morale cristiana, e tutto questo Sillabario ne sarà una dimostrazione, non è altro se non l’amore dell’uomo per Dio.

Riepilogo

Prima di esporre la morale cristiana, occorre affermare il principio di unità che la vivifica e che si può esprimere con una parola: L’Amore.

1. – Tutto nel Cristianesimo è amore. Il dogma ci rivela l’Amore infinito di Dio in sè e l’amore suo per noi.

2. – E’ chiaro che la morale cristiana non poteva, di conseguenza, essere altro se non la morale dell’amore, ossia dell’amore dell’uomo per Dio. Per non confondere l’etica di Cristo con altre dottrine, non bisogna mai perdere di vista quest’anima ispiratrice dell’Amore.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (4)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (1)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (1)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

PREFAZIONE

Alcuni anni or sono, io ponevo nelle mani del popolo italiano un primo Sillabario. Il titolo era birichino. Qualche amico ebbe un fremito di spavento e mi consigliò di mutarlo. Non lo feci, perché ero troppo convinto che nella patria nostra non la copertina dei libri, né tanto meno una stupida e menzognera réclame sono un invito a leggere, ma la sostanza ed il pensiero. Il Sillabario del Cristianesimo ebbe fortuna. Dio lo benedisse. Uomini piccoli e uomini grandi lo approvarono. In poco tempo si susseguirono molte copiosissime edizioni. Nessun romanzaccio moderno o contemporaneo ha raggiunto la tiratura del minuscolo volume sul soprannaturale. Anche questo è un segno dei tempi. Oggi le stelle interessano le coscienze, più che non il fango. Sono lieto di constatare un simile fatto, perché non si tratta d’un mio lavoro. Di mio in quel volumetto c’era solo il nome e la stesura materiale. Ma il contenuto non mi apparteneva. Quelle pagine offrivano l’esposizione semplice, nuda, elementare della vecchia ed eterna idea cristiana. E mille e mille ottime persone guardarono; forse alcuni compresero per la prima volta cos’era il Cristianesimo; e tutti si convinsero che per l’insegnamento della Religione occorrono oggi in« sillabari » in questa terra nostra, che pur fu madre di Tommaso e di Bonaventura e l’ispiratrice delle Somme medievali. A quel Sillabario del dogma succede ora logicamente l’altro sulla morale, che suppone il primo e lo sviluppa. Il che è quanto dire che è assurdo comprendere il significato esatto dell’etica di Cristo, se non si è già appreso cosa siano la grazia, l’ordine soprannaturale e le varie verità dogmatiche della rivelazione. Solo Bertoldo poteva illudersi di erigere il secondo piano d’una casa, senz’aver costruito il primo; ed è da augurarsi che, almeno, quando si tratta d’affrontare il problema della vita, Bertoldo non abbia imitatori. – Anche il nuovo Sillabario, che vede ora la sua decima quarta edizione, non è stato di facile compilazione. Nato — non a tavolino, fra dotti volumi — ma nella vita e nella scuola, tra palpiti di cuori e le serene battaglie dell’Azione Cattolica; cresciuto in mezzo alle esperienze quotidiane dello sforzo educativo; elaborato finalmente — dopo quattro anni di tentativi ripetuti con ostinazione — in una Settimana Sociale indetta dalla Gioventù Cattolica Femminile, per iniziare una serie di Corsi per la morale nelle varie regioni d’Italia (La Settimana fu tenuta a Castelnuovo Fogliani, alla fine del luglio 1929. Erano presenti S. E. mons. Ugo Giubbi, Vescovo di San Miniato, mons. Alfredo Cavagna, Assistente Generale della G. F. di A. C., 14 altri sacerdoti e 200 dirigenti della floridissima Associazione, guidate dalla loro presidente, la compianta signorina Armida Barelli), questo piccolo libro ha conosciuto l’oscuro, lento e paziente lavoro delle radici. A me purtroppo torna difficile esporre con semplicità i veri profondi del Cristianesimo, in modo da presentarli all’occhio di tutti, perché lo sguardo colga l’intima natura di essi e non si fermi alla superficie esteriore. – Bisogna arrivare ad un’esposizione limpidissima, che non degeneri nel semplicismo; ad una enunciazione, sostanzialmente completa, dei primi principi della morale nostra, che eviti il linguaggio tecnico della filosofia e della teologia — pane di primo ordine, ma troppo duro per i denti di latte della nostra generazione —; ad una trattazione, la quale non insista tanto sulla morale umana, quanto sulla morale cristiana. Umilmente e fervidamente ho chiesto aiuto per quest’opera, che non aveva nulla di personale, ma aspirava unicamente a far partecipare tutti ai tesori dei misteri di Cristo. E — come già aveva fatto per la prima edizione del Sillabario del Cristianesimo — un dotto gesuita della « Civiltà Cattolica il P. Giovanni Busnelli, volle assumersi il faticoso impegno di revisione e di correzione. Non mi è possibile insistere sulla preziosità di una così alta ed efficace assistenza, non so se più degna di gratitudine o di ammirazione. All’illustre scrittore, che onorò col suo sapere il clero italiano e che oggi ci sorride dal Cielo, va il mio pensiero riconoscente (Anche all’amico carissimo mons. Carlo Figini, professore nel Seminario teologico di Milano, ed a mons. Giuseppe Borghino, un ringraziamento cordiale per la loro collaborazione.). Da quanti, poi, scorreranno le pagine seguenti imploro una preghiera, perché  la nuova crociata, per diffondere sempre più la conoscenza della dottrina morale cristiana, sia ricca di pratici risultati.

Don Olgiati.

INTRODUZIONE (1)

Un celebre romanziere inglese contemporaneo, il Chesterton, in una delle scene suggestive del suo volume La sfera e la croce, si soffermava sul dialogo curioso, svoltosi fra il professor Lucifero ed il monaco Michele. I due noti personaggi si trovavano su d’un vascello volante,.che solcava il cielo di Londra e passava sopra la cattedrale di San Paolo. La croce, ergentesi sul tempio quasi preghiera verso il grande azzurro e come programma per i piccoli mortali, provocò la bestemmia e la parola di disprezzo di Lucifero. E Michele subito gli rispose: — Io ho conosciuto in altri tempi un uomo come te, Lucifero… Anche quell’uomo aveva adottato l’opinione che ilnsegno del Cristianesimo fosse un simbolo di barbarie e di irragionevolezza. Cominciò, naturalmente, col bandire il crocifisso da casa sua, dal collo della sua donna, perfino dai quadri. Diceva, come tu dici, che era una forma arbitraria e fantastica, una mostruosità; e che la si amava soltanto perché era paradossale. Poi diventò ancora più furioso, ancora più eccentrico; e avrebbe voluto abbattere le croci che si innalzavano lungo le strade del suo paese, che era un paese cattolico romano. Finalmente, s’arrampicò sopra il campanile di una chiesa, ne strappò la croce e l’agitò nell’aria, in un tragico soliloquio sotto le stelle. Una sera d’estate, mentre ritornava lungo un viale, a casa sua, il demone della sua follia lo ghermì di botto, agitandolo in quel delirio che trasfigura il mondo agli occhi dell’insensato. S’era fermato un momento, fumando la sua pipa di fronte a una lunghissima palizzata e fu allora che i suoi occhi si spalancarono improvvisamente. Non brillava una luce; non si moveva una foglia; ma egli credette di vedere, come in un fulmineo cambiamento di scena, la lunga palizzata tramutata in un esercito di croci legate l’una all’altra, su per la collina, giù per la valle. Allora, facendo volteggiare nell’aria il suo pesante bastone, egli mosse contro una schiera di nemici. E per quanto era lunga la strada, spezzò, strappò, sradicò tutte quelle che incontrava sul suo cammino. Egli odiava la croce: ed ogni palo era per lui una croce. Quando arrivò a casa, era pazzo da legare. Si lasciò cadere sopra una sedia, ma ribalzò subito in piedi, perché sul pavimento scorgeva l’intollerabile immagine. Si buttò sopra un letto; ma tutte le cose che lo circondavano avevano ormai l’aspetto del simbolo maledetto. Distrusse tutti i suoi mobili, appiccò il fuoco alla casa, perché  anche questa era ormai fatta di croci; e l’indomani lo trovarono nel fiume. – Lucifero guardò il vecchio monaco, mordendosi le labbra — È vera questa storia? — No! disse Michele. È una parabola: la parabola di tutti voi razionalisti e di te stesso. Cominciate con lo spezzare la croce; ma finite col distruggere il mondo abitabile. Quest’ultima frase di Chesterton sintetizza la storia di parecchi secoli. La morale cristiana, simboleggiata dalla croce, fu derisa, combattuta, spezzata, distrutta. Una lotta sistematica, un assalto irrompente, un succedersi di battaglie dirette dai condottieri più diversi, un moltiplicarsi di tentativi concepiti dai più svariati punti di vista e di tattiche spesso in contraddizione fra loro, ma cospiranti al medesimo fine, hanno voluto abolire nel mondo la morale di Cristo, per dichiarare il suo regno finito per sempre. Le conseguenze d’un simile stolto conato sono da tutti conosciute. Non è esagerazione da letterato, o geremiade da predicatore additare il cumulo di rovine nel mondo degli spiriti, che affliggono l’epoca moderna. Individui, famiglie, nazioni, umanità soffrono e potrebbero confessare con Giovanni Papini, che « gli uomini, allontanandosi dall’Evangelo, hanno trovato la desolazione e la morte » – Io mi rivolgo a coloro che scorreranno queste prime linee e li prego di soffermarsi un istante, per rispondere a se stessi, nel silenzio della loro coscienza; — Voi siete proprio contenti della vita vostra, degli anni che avete trascorso, dei giorni che ora passate? Non avete forse la sensazione chiara, netta, precisa d’aver sciupato gran parte della giovinezza, d’esservi pasciuti di illusioni e d’aver invano rincorso la vera gioia, la intima tranquillità, la pace? Il deficiente, che, in ogni epoca, è sempre stato soddisfatto di sé, oggi non si trova con molta facilità. Troppi, invece, sentono l’ « angoscia » d’un animo nauseato, gli spasimi atroci del disinganno, il bisogno d’una vita nuova. Ed è per questo che molti ritornano a Cristo. La morale cristiana suscita nei cuori fremiti nuovi, aspirazioni ed aneliti ardenti. L’etica dell’Amore costituisce una speranza anche per chi non la conosce a perfezione, e che, fra le morse di una esistenza inquieta ed insoddisfatta, la ricerca soltanto col gesto del naufrago che afferra la tavola della salvezza. I credenti, poi, provano la necessità di approfondirla maggiormente e di praticarla con coerenza, con intensità, con fervore. Dopo un’epoca di criminose leggerezze, di superficialità insulsa e di disastri, il problema morale s’impone alla vigile coscienza di tutti, e specialmente delle giovani generazioni, che si affacciano alla vita, decise a creare un avvenire bello e radioso. – Il mio Sillabario vuol essere puramente il piccolo libro per l’una e per l’altra schiera, per coloro che ancora non sono giunti, ma già s’avviano al Cuore di un Dio che li attende e fa sentire ogni giorno più il dolce suo appello imperioso, e per coloro che già respirano, forse con polmoni molto deboli, l’atmosfera buona nella casa del Padre. Perché la lettura riesca proficua, è opportuno accennare ai motivi che rendono oggi ardua l’esposizione dell’etica nostra, ed in pari tempo è necessario sottolineare i criteri che mi hanno ispirato. Difficoltà attuali nello studio della morale cristiana e metodo da seguirsi per poterla comprendere nella sua divina efficacia: ecco ciò che si propongono di mostrare queste pagine introduttive.

I. – Difficoltà attuali nello studia della morale cristiana.

Per tre ragioni ai giorni nostri è ardua impresa enunciare e far capire i principi essenziali dell’etica cristiana. Innanzi tutto, una morale si intuisce meglio, quando ci è insegnata dal libro della vita quotidiana, che non quando si medita su un freddo volume. E, purtroppo, oggi la morale cristiana vissuta si incontra poco di frequente nelle strade, nelle piazze, nelle case, nell’economia, nella letteratura ed in tutte le varie esplicazioni dell’attività umana. Se prescindiamo dalle definizioni filosofiche astratte (le quali con questo Sillabario nulla hanno a che fare, non già perché siano superflue, ma perché non potranno essere apprezzate se non al termine di questo lavoro), possiamo dire subito che la morale del Cristianesimo esige che noi, superando i difetti e le cattive nostre inclinazioni, viviamo come vivrebbe Gesù Cristo. Noi siamo veri seguaci della morale cristiana, quando, in ogni determinata circostanza, pensiamo come vuole Gesù Cristo, quando abbiamo in noi i sentimenti di Gesù Cristo, quando agiamo secondo lo spirito di Gesù Cristo. Un maestro è Cristiano, ad esempio, se nella sua scuola cerca di trattare i fanciulli ed i giovani a lui affidati, come li tratterebbe Cristo. Un padre ed una madre sono Cristiani, se educano i loro figli comenli educherebbe Cristo. Un operaio od un contadino sono Cristiani, quando lavorano come lavorerebbe Gesù, con lo stesso animo, con lo stesso atteggiamento spirituale, chiedendo a sé, ad imitazione di S. Vincenzo de’ Paoli: “Che farebbe Gesù, se Egli fosse al mio posto?”. E subito, a questa prima riflessione tanto naturale e tanto semplice da sembrare lapalissiana, qualcuno, ben consapevole del male a cui si lascia trascinare dalle passioni, avrà un sussulto di spavento e dovrà esclamare: « Allora io non sono Cristiano! Le parole che io pronuncio, soprattuttonnei momenti di rabbia, i discorsi che tengo con gli amici, i metodi che uso nei miei affari, la condotta abituale della mia giornata sono parole che Gesù non avrebbe MAI pronunciato, son discorsi che Egli non avrebbe MAI tenuto, è un metodo di agire che Egli non avrebbe MAI seguìto… ». – Ma non spaventiamoci tanto presto. È certo che il catechismo del card. Bellarmino cominciava con una domanda ed una risposta terribile, anche se per tanti secoli venne dai fanciulli pappagallescamente ripetuta:

— Siete voi Cristiano?

— Sì, sono Cristiano per grazia di Dio.

Ahimè! Se liberiamo il nostro orecchio dal tono monotono della cantilena infantile, e ridiciamo a noi stessi l’interrogazione del Bellarmino, vi scopriamo un significato non sospettato ed insospettabile. Voi siete un mercante, ad esempio. Per realizzare, per caso, un guadagno ragguardevole, imbrogliate il prossimo. E la coscienza vi chiede: « Siete voi Cristiano? ». La cantilena vi muore sul labbro. Il bel « sì, sono Cristiano » dei vostri anni innocenti si è cambiato in una condanna. Voi siete un giovane, un uomo. Non un animale immondo. Ma la passione rugge, insiste, comanda. Vilmente voi cedete. « Siete voi Cristiano ?». La formuletta catechistica è là. Essa vi assolve, o vi rimprovera; vi dà un senso di gioia, o l’assillo d’un fecondo rimorso. Ma, in nome del cielo, nell’anno di grazia che stiamo percorrendo, quanti sono nel mondo che ad ogni istante potrebbero gridare a fronte alta: « Sì, io sono Cristiano »? – Uno scrittore inglese, che col titolo d’un suo romanzo si domandava: « Cosa farebbe il Cristo? » ed immaginava Gesù che, sceso in terra un’altra volta, entrava negli uffici di amministrazione di un giornale di Londra e poi nelle stanze di redazione, ed in nome della sua morale rescindeva contratti di pubblicità, cestinava articoli, mandando al fallimento il giornale, e così press’a poco faceva, portando dovunque la rivoluzione, in altre aziende ed iniziative della attività moderna, poneva un problema che forse sarebbe interessante esaminare. Nella vita dei popoli, delle famiglie e degli individui, possiamo distinguere tre casi a proposito dell’etica nostra.

1. — Spesso la morale di Cristo è simile ad antiche navi, affondate un giorno con preziosi tesori. Occorrono palombari esperti, miracoli di energia e spese ingenti, per riportare sulla terra le vecchie triremi. E se nelle acque di certe coscienze voi doveste frugare e scandagliare il fondo, forse di morale cristiana non trovereste nulla, o quasi, ad eccezione dei resti di un pallido e lontano ricordo, giacenti laggiù come un rimprovero, la cui voce si tenta di soffocare sotto il peso delle colpe quotidiane, sotto le onde delle quotidiane vicende.

2. — Altre volte, frequentissimamente, vedete in pratica una morale, che vi richiama alla memoria il romanzo russo, non certo lodevole nella sua ispirazione, di Demetrio Mereshkowsky: La risurrezione degli Dei. L’umanista paganeggiante Giorgio Merula passava cautamente una spugna umida sui fogli d’una vecchia pergamena sottilissima e delicata; di tratto in tratto raspava con la pomice, lisciava con la lama d’un coltello e col lisciatoio, indi, alzando il foglio contro la luce, lo guardava. Qualche monaco medievale, volendo utilizzare la preziosa pergamena, aveva cancellato le antiche righe pagane e a quelle aveva sovrapposto la sua scrittura, le parole del salterio, le note del canto che accompagnavano i salmi penitenziali. Sopra, si leggeva: « Ascolta, o Signore, le mie preci: ascolta ed esaudiscimi, o Signore. Immerso nel mio dolore, io gemo e sospiro. Il mio cuore freme; ed i terrori della morte invadono l’anima mia ». Sotto, man mano che i caratteri ecclesiastici venivan raspati, comparivano altri caratteri, ombre di antiche lettere, pallide tracce delicate e scolorite, rimaste impresse sulla pergamena: era un inno agli Dei dell’Olimpo ed a Venere: « Gloria al gentil Dionisio, riccamente di pampini cinto… Gloria a te, madre Afrodite, dall’aurato piede, — degli uomini gioia e degli Dei… ». « Vedi? osservava malignamente l’umanista paganeggiante ad un amico Cristiano. Anche tu sei come questa pergamena nella superficie i salmi penitenziali, dentro l’inno ad Afrodite ». – Oh, non è forse questa la storia di molti? Al di fuori una patina di morale cristiana; ma sotto di essa un diavoletto in cuore. E non occorre neppure raspare troppo: i caratteri della superficie di quando in quando scompaiono; la morale pagana appare con tutta la sua fisionomia precisa, fin che un nuovo velo la ricopre ancora… La vita morale di moltissimi è oggi una tale miscela di paganesimo e di Cristianesimo, che vi rammenta la figura del Moro nel romanzo citato, quando, per invocare gli aiuti del Gran Turco, pregò a lungo e con fervore davanti all’immagine d’una Madonna, quell’immagine nella quale la mano di Leonardo da Vinci aveva ritratto le sembianze della contessa Cecilia Bergamini. Oppure, se volete un altro paragone anch’esso di Mereshkowsky, potete pensare a Leonardo, che ideò una colossale statua equestre, il “Cavallo”, in onore di Francesco Sforza, scrivendo sul basamento: « Ecce Deus », e che poi, nel silenzioso refettorio di Santa Maria delle Grazie, aveva dipinto il « Cenacolo ».

— Maestro, balbettò tremando un discepolo, Maestro, perdonate… Io non riesco a capire come avete potuto creare il « Cavallo » ed il « Cenacolo » nello stesso tempo… — Ebbene, che cosa non riesci a capire? — Oh, messer Leonardo! Ma voi, dunque, non lo vedete che è impossibile concepirli insieme?… Insieme! Cristo e un tal uomo, insieme! No, no… — e non trovava parole per esprimere il suo pensiero, si sentiva turbato l’animo all’idea dell’accozzamento di due cose inconciliabili, e non sapeva a chi dei due Leonardo avesse detto con sincerità: « Ecco il Dio! ». – Anche noi non sappiamo a chi tante persone rivolgono il loro « Ecce Deus ». Talvolta ci sembra che lo dicano a Cristo, talvolta all’oro, al piacere, o a qualche altro idoletto, che non riusciamo davvero a conciliare con Dio.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (2)