LO SCUDO DELLA FEDE (134)

LO SCUDO DELLA FEDE (134)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccuno Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (1)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

A’ MIEI FRATELLI ITALIANI.

Italiani Fratelli! una grande insidia vi è tesa! Già da parecchi anni una moltitudine di scaltri emissarii del Protestantismo vanno di continuo aggirandosi intorno a voi per cogliervi nei loro lacci. Italiani Fratelli! non si tratta di meno che di strappare dai vostri cuori la Santa Cristiana Fede, di stirpare dalla nostra deliziosa Italia la sua gloria più bella, il suo più magnifico e prezioso tesoro, la Cattolica Religione, e a lei sostituire le sinagoghe dei loro errori. Italiani Fratelli! non solo i nostri più avveduti, ma persino alcuni dei loro correligionari di retto cuore e sincero, non lasciano di seriamente avvertirci che il loro scopo primario è tutt’altro che l’aumento della falsa lor religione; che questa non è che un pretesto, un mezzo di cui voglion servirsi per acquistar partitanti tra noi, e quindi aver modo di attaccar brighe co’ nostri,… sotto pretesto di protezione, finché arrivino a farsi nostri duri padroni, a dominar da dispotici il nostro ameno paese! – Infatti, il vedere che tanto tra noi si affaticano, e spendono tanto per acquistar de’ proseliti: che tanta carità ostentano pei nostri poveri, mentre nei loro paesi sono indifferentissimi, e non pochi chi tutto increduli in fatto di religione, ed hanno pei loro poveri un cuore di tigre: il vedere che arruolano per proseliti, e con tanto dispendio, ogni sorta di ribaldaglia, increduli, discoli, oziosi. falliti, le donnacce di mondo, gli avanzi di galera e simili, nulla loro importando che diventino buoni cristiani, né tampoco onestuomini, ma solo contentandosi di far gente; il veder finalmente la smania grande che hanno…. certuni di fermare il piede sulla nostra terra, le brutte mene che a tale oggetto non cessano di adoperare, il grande impegno di proteggere ad ogni costo questi loro emissarii; ci induce necessariamente e credere che qui gatta ci cova, che non senza fondamento sono i nostri sospetti. – Essendo poi questi garbati propagatori di Protestantismo ben consapevoli che non è dalla parte loro la verità, per ottenere l’iniquo intento evitano scaltramente le dimissioni colle persone illuminate e capaci di turar loro la bocca, e presentano agli altri la loro corretta Bibbia allettandoli pur col denaro a prenderla e leggerla: inondino in pari tempo ogni luogo con un diluvio di libercolacci, che posson dirsi compendii dell’errore, dell’impudenza, della malignità e della menzogna; né cessano di spargere per ogni dove, e far gridare ai loro complici ogni sorta di vituperii contro il Vicario di Gesù-Cristo ed il Clero cattolico, onde alienare per tal modo i semplici e i deboli dalla Cattolica Fede. Quanto essi spacciano a voce e in iscritto fu già le mille volte dai Cattolici vittoriosamente confidato: ma tutti ciò non conoscono, e molti essendo incapaci di discernere il vero dal falso, restano colti nelle tramate insidie. Affine pertanto di turar la bocca a questi emissarii e illuminare gli incauti, ho composto la presente Operetta, la quale sarà nelle mani di questi un’arma potente contro le dicerie ed imposture di quelli. Imperocché nella sua prima parte discusse restano quelle materie di dogma e disciplina della Cattolica Chiesa, le quali singolarmente sono da essi prese di mira, e giudicata è la nostra e la loro credenza con la sola autorità della Bibbia, a cui con  tanto sussiego sempre si appettano, e dei primari autori, i protestanti antichi e moderni, compresi i loro medesimi Fondatori. La seconda parte presenta un genuino prospetto del Cattolicismo e del Protestantesimo: chi sia il Papa: presso di chi sia la vera santa Scrittura: chi ne siano i corruttori: chi gli ingannatori de’ popoli: qual delle due sia la Chiesa bottega: qual sia la vera Chiesa di Gesù-Cristo, e quale quella dell’Anticristo, con altre cose di sommo rilievo. – Avrei potuto addurre in prova della nostra causa e a condanna del Protestantismo molte altre sentenze e della Santa Scrittura e di stimatissimi autori protestanti: ma per non rendere questa Operetta troppo voluminosa, ho dovuto ristringermi (non senza mio dispiacere) a citarne quelle soltanto che bastar potevano abbondantemente al mio scopo. – Dispiacerà forse a taluno in questa Operetta la lunghezza dei periodi o degli argomenti come poco conveniente al metodo dialogico; ma spero sapranno perdonarmi, quando avvertiranno: 1.” Che, sebbene qui si proceda a forma di dialogo, non è rigorosamente parlando vero dialogo, ma piuttosto controversia, dibattimento, in cui ciascuna delle parti è in diritto di esaurire le proprie ragioni senza esserne interrotta, come praticar si vede nel sistema giudiziario e parlamentare: 2.” Che far non potevo diversamente senza grave danno della verità, perché attenendomi alla brevità dialogica, dopo aver recata in ciascun luogo una o al più due sentenze della Santa Scrittura, o dei protestanti, avrei dovuto (come ognun vede) omettere assolutamente tutte le altre, le quali, non riguardando che la medesima cosa e sotto il medesimo aspetto, non mi restava più luogo a citarle. – Del resto, qualunque sia il merito di questa Operetta, sono certo almeno che riunite vi sono tali e tante incontrastabili prove della verità della Cattolica Fede e della falsità del Protestantismo, che molto giovar potranno non solo a confermare in quella i vacillanti Cattolici, ma a renderne ancora convinti que’ moltissimi protestanti che con puro cuore e retta intenzione vanno in traccia della verità.

PRIMA PARTE.

L’Appello del Protestantismo alla Bibbia contro la Cattolica Chiesa.

DISCUSSIONE I.

L’ indefettibilità della Cristiana Chiesa.

.- 1. Protestantismo. OSanta Bibbia! Io sono il Protestantismo, vostro fedele seguace, poiché fo professione di non riconoscere altra Norma, altro Maestro che voi. A voi dunque mi appello contro li errori, contro le inique sentenze del Papismo, detto con altro nome, Cattolicismo e Chiesa Romano-Cattolica, il quale mi condanna come setta eretica, etc. etc. perché riprovo i suoi diabolici errori! Sì li riprovo e detesto; e primieramente riprovo in ogni modo e detesto che egli si dica l’antica vera Chiesa di Gesù-Cristo: essendo fuor d’ogni dubbio che questa, sino dal tempo della Passione del Redentore, perdé la fede e cessò quindi di esistere, né tornò a vivere che colla mia Santa Riforma.1 Onde « sotto il Papato il Cielo era chiuso, né mai uomo alcuno vi si è salvato; imperocché chiunque approva la religione dei Papisti è necessariamente e per sempre perduto nell’altra vita. » Lutero, Op. ediz. Vulch. T. X, p. 2541).

Bibbia. È scritto: « Stava vicino alla croce di Gesù la sua » Madre e la sorella di sua Madre. Maria di Cleofa, e Maria Maddalena. E avendo Gesù veduto la Madre, e il discepolo da lui amato, etc… Dopo di ciò Giuseppe d’Arimatea (discepolo di Gesù …. ) pregò Pilato per prendere il Corpo di Gesù…. Venne anche Nicodemo ‘quegli che la prima volta andò da Gesù di notte)! portando di una mistura di mirra e di aloe quasi cento libbre etc. » (Giov. XIX, v. 25, 26, 38, 39) E Gesù…. spirò…. E tutti i conoscenti di Gesù stavano alla lontana, come anche le donne che lo avevan seguito dalla Galilea, osservando tali cose. » « Partì dunque Pietro e quell’altro discepolo, e andarono al monumento. » (Luc. XXIII 46, 49). Hai bene inteso? Dir non potrai certamente che tutte queste persone avessero perduta la fede nel tempo della Passione, e che non formassero in quell’epoca la più eletta parte della Chiesa Cristiana; né dir potrai che perduta l’avessero gli altri credenti; poiché di essi non si fa parola.

Protestantismo. È scritto: « E allora disse loro Gesù (agli Apòstoli): tutti voi patirete scandalo per me in questa notte…. Gesù gli disse (a Pietro): in verità ti dico che in questa notte,prima che il gallo canti, mi negherai tre volte…. Ma (Pietro) negò dinanzi a tutti…. Egli negò di nuovo, etc. »« Apparve (Gesù) agli undici mentre erano a mensa, e rinfacciò ad essi la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano. prestato fede a quelli che l’avevan veduto risuscitato (Marc. XVI14).Tutti questi non avevan forse perduta la fede?

Bibbia. No certamente, perché per la loro fede, e singolarmente per quella di Pietro, già pregato aveva il Redentore, le cui preghiere restar non potevano senza effetto. « Cosi parlò Gesù: e alzati gli occhi al cielo, disse: Padre, è giunto il tempo, glorifica il tuo Figliuolo…. Per essi io prego…. Padre santo, custodisci nel nome tuo quelli che a me hai consegnati, affinché siano una sola cosa con noi. » (Giov. XVII. 1, 9, 11) Disse di più il Signore: Simone, Simone…. Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno. » (Luc. XXII 31, 32). – È scritto ancora: « E allora i suoi discepoli abbandonatolo, tutti fuggirono…. Pietro però lo seguitò da lungi sino dentro il cortile del Sommo Sacerdote. » (Marc. XIV50) « Ma egli (Pietro) negò, dicendo, etc… E il Signore voltatosi mirò Pietro, e Pietro si ricordò della parola dettagli dal Signore: Prima che il gallo canti mi negherai tre volte. E Pietro usci fuori e pianse amaramente » (Luc. XXII, 57, 61, 62) – Da tutto questo è chiaro che lo scandalo patito dagli Apostoli sia la loro fuga, come anche la triplice negazione di Pietro non furono in modo alcuno un effetto di mancanza di fede, ma solo timore, di umana fragilità. Gli riprese poi tutti d’incredulità ma unicamente per rapporto alla sua risurrezione; per la qual cosa non può dirsi che peccato avessero contro la fede, poiché tale articolo non lo avevano ancor conosciuto, siccome è scritto: « Allora pertanto entrò anche l’altro discepolo, che era arrivato il primo al monumento, e vide e credette: imperocché non avevano per anco compreso dalla Scrittura com’Egli doveva risuscitare  da morte » (Giov. XX, 8, 9) Quindi gli riprese non perché non avessero creduto in lui, ma bensì a quelli che lo avevan veduto risuscitato. Finalmente supposto ancora che tutti questi avessero perduta la fede, non ne seguirebbe per questo che perita fosse tutta la Chiesa: poiché essi né erano tutta la Chiesa, né tampoco la maggior parte di essa.

2. Protestantismo. Se non perì la Chiesa in quel tempo certo almeno che ella perì assolutamente nel secolo secondo (Priestley), oppure nel terzo, (Gibbon) oppure nel quarto, (Blondel presso Moore) oppure nel quinto, (Gibbon, D’Aubigne) oppure nel sesto, (Ospiniano) oppure nel settimo (Newman, Palmer) oppure nell’ottavo ( Pastor Claudio verso Bossuet), oppure nel nono (Newman, Palmer).

Bibbia: Questi tuoi tanti oppure, oppure sono una prova più forte per convincerti di turpe contradizione, e di mala fede, il peggio si è che in ciò tu sostieni una grande eresia, contraddicendo al Divin Redentore, il quale ha solennemente promesso chela sua Chiesa non sarebbe mai venuta a mancare. Ecco le sue parole …« E io dico a te che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei » (Matt. XVI, 18); « Ecco che io sono con voi per tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli » (Matt. XXVIII, 20) E S. Paolo dice : «  Chiesa di Dio vivo (è) colonna e sostegno della verità. » ( I Tim. III, 15; Ps. XLVII; Isa. IX, 7; LXI, 1,8; Mich. IV 7; Luc. I, 13; IV, 18)

3. Prot. È scritto: « Quando verrà il Figliuolo dell’ uomo, credete voi che troverà fede sopra la terra? » (Luc. XVIII, 8). « Non vi lasciate sì presto smuovere…. quasi imminente sia il dì del Signore …  imperocché (ciò non sarà) se prima non sia/seguita la ribellione, e non sia manifestato l’uomo del peccato (II Tess. II, 12). Qui è chiaramente predetto, che verso la fine del mondo perirà totalmente la Chiesa. Onde ben vedete che quella divina promessa ha sicuramente le sue buone eccezioni.

Bibbia. Parlando del medesimo tempo, dice ancora il Redentore che « Falsi Cristi e falsi profeti faranno miracoli grandi e grandi prodigi, da far che sieno ingannati, se fosse possibile, anche gli stessi eletti. Ma saranno accorciati que’ giorni in grazia degli eletti. » (Matt. XXIV, 22, 24). Oltre a ciò, riguardo al medesimo tempo, sta scritto: Vidi un Angelo che…. gridò ad alta voce ai quattro Angeli, ai quali fu data commissione di far del male alla terra e al mare, dicendo: Non fate male alla terra e al mare, né alle piante sino a tanto che abbiamo segnati nella fronte i servi del nostro Dio. E udii il numero dei segnati, cento quaranta quattro mila segnati di tutte le tribù dei figliuoli d’Israele…. Dopo di questo vidi una turba grande, che nessuno poteva numerare di tutte le genti e tribù, etc. » (Apoc. VII, 2 e segg.) Dunque neppure allora sì perderà la fede, non perirà la Chiesa; giacché un’immensa moltitudine si manterrà costantemente fedele. Pertanto il primo testo da te citato non deve intendersi che tutti perderanno la fede, ma che molti non avranno una fede viva pel raffreddamento della carità; ed il secondo, che la ribellione sarà di molti, non già di tutti. Ciò dichiara lo stesso Divin Redentore, dicendo: « Sorgeranno molti falsi profeti e sedurranno molta gente…. E poiché sarà abbondata l’iniquità, raffredderassi la carità di molti » (Matt. XXIV, 11, 12).

4. Prot. Stringenti sono le vostre ragioni, nè vi è da opporsi, imperocché: «Avendo Gesù-Cristo detto a S. Pietro, ed io dico a te che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa;facilmente si vede che Cristo con queste parole promette alla sua Chiesa la forza di non perire. » (Rosenmuller) « Il senso pertanto di queste parole di Gesù-Cristo è che niuna forza nemica, anche potentissima e massima, mai potrà rovesciare, o distruggere la sua Chiesa. (Kuinoel) « Se da noi s’immagina che tutti i Pastori della Chiesa abbiano potuto errare ed ingannare tutti i fedeli; come si potrebbe difendere la parola di Gesù Cristo, il quale ha promesso a’ suoi Apostoli, ed in persona diessi ai lor successori, di esser sempre con loro? Promessa che in tal caso non sarebbe verìdica: poiché gli Apostoli viver non potevano sì lungo tempo (sino alla consumazione de’ secoli), se in esse non  fossero alati compresi i successori dei medesimi Apostoli. » (Dr. Bull angl.). « Secondo il sentimento dei Padri, non vi ha dubbio che insieme ai segni ci vengano poste innanzi eziandio le cose stesse, ma in una guisa tatto oltre natura, o soprumana. Coloro che aderiscono ai protestanti (ed è questa l’opinione mia), come fuori d’intelletto pel furore di disputare, pure conoscono troppo bene gli insegnamenti dell’antica Chiesa, e come in oggi continui la Chiesa Cattolica. Se non che fanno le viste di non intender nulla, per aver agio di ordire a loro posta e mettere in ordine le fila di qualche cosa per coloro che si addanno e si acconciano più facilmente co’ sensi del corpo che con quelli dell’anima. » (Grozio). Concludo confessando che « Nel Papato vi hanno verità di salute. anzi tutte le verità di salute che abbiamo ereditate: poiché egli è nel Papato che noi troveremo le vere Scritture, il vero Battesimo, il vero Sacramento dell’altare, le vere chiavi che rimettono  i peccati, la vera predicazione, il vero catechismo, che contiene l’orazione Domenicale, gli articoli della fede, ed aggiungo, il vero Cristianesimo » (Lutero, Op. Germ.) Ecco quanto vi confesso di credere, né perciò punto mi contradico sostenendo le mie prime asserzioni.

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (10)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (10)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO. IV.

Del Decalogo

SEZIONE 2A. — Dei rimanenti comandamenti del Decalogo, che si riferiscono a noi stessi e al prossimo.

Art. 4. — DEL QUARTO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D. 207. Che cosa comanda Iddio nel quarto comandamento del Decalogo: Onora tuo padre e tua madre?

R . Nel quarto comandamento del Decalogo: Onora tuo padre e tua madre, Dio comanda che ai genitori e a coloro che ne fanno le veci venga reso l’onore dovuto; dal quale onore sono poi inseparabili, l’amore, l’obbedienza e l’ossequio (Esod, XX, 12; Deut, V, 16; XXVIII, 16; Eccli.,  VII, 29-30; Paolo: ad Eph., VI, 1-3; ad Coloss., III, 20. — Il Catechismo dei parroci, p. III, c. V, n. 7: « Onorare vuol dire aver di qualcuno onorevole concetto, e far grandissimo conto di tutto quanto possa riguardarlo. Da tale onore sono inseparabili questi altri doveri: l’amore, il rispetto, l’obbedienza e l’ossequio »).

D. 208 . Ai nostri genitori dobbiamo noi soltanto rendere onore?

R . Ai nostri genitori noi non dobbiamo soltanto rendere onore, ma dobbiamo ancora aiutarli, specie nelle loro necessità spirituali e temporali.

D. 209. Che sorta di premio promette Iddio ai figli che rendono onore ai genitori?

R . Ai figli che rendono onore ai genitori Dio promette la sua benedizione, e, qualora lo giudichi espediente all’anima, una lunga vita (Deut., V, 16; Eccli, III, 2-18; Paolo: ad Eph., VI, 1-3; Cat. p. parr, p. III, c. V, n. 17-19).

D. 210. Questo comandamento si limita forse a tracciare i doveri dei figli verso i genitori?

R. Questo comandamento non si limita a tracciare i doveri dei figli verso i genitori, ma traccia indirettamente anche quelli dei coniugi, sia mutui che verso i figli, come pure i mutui diritti e doveri tanto dei sudditi e dei superiori, quanto degli operai e dei padroni (Solo la Chiesa di Cristo può mantenere pace e concordia fra le diverse classi in cui gli uomini si dividono; la diversità, infatti, delle classi sociali non mira a renderle nemiche nell’odio, ma strette invece dal vincolo di un mutuo amore e soccorso, come si conviene a fratelli in Cristo. Questi e molti altri principi insegna ed inculca Leone XIII nella sua Encicl. Rerum Novarum, del 15 maggio 1891).

D. 211. Quali sono i doveri dei coniugi fra loro?

R . I doveri dei coniugi fra loro sono: l’amore, l’aiuto, la fedeltà vicendevoli; dovere della moglie verso il marito: l’ubbidienza (Paolo: I. ad Cor., XI, 3; ad Eph., V, 23-33; ad Coloss., III, 18-19; ad Tit., II, 4-5;» di Pietro, III, 1; Cod. Dir. Can., can. 1033, § 28).

D. 212 . Quali sono i doveri dei genitori verso i figli?

R . In forza dello stesso diritto naturale i doveri dei genitori verso i figli sono: prender cura della loro retta educazione, soprattutto religiosa e morale, e similmente provvedere secondo le proprie forze al loro bene temporale (Eccli., VII, 25-27; XXX, 1-3; Paolo: ad Eph., VI, 4; ad Coloss., III, 21; Cod. Dir. Can., can. 1131; Catech. p. parr, p. III, c. V, n. 21. — La disciplina religiosa e morale, venendo per lo più a basarsi sull’istruzione catechistica, ne consegue che strettissimo dovere dei genitori è quello di far debitamente istruire i propri figli nel Catechismo. Più che a tutti ciò spetta alla madre, la quale, fin dai primi passi, deve man mano insegnare ai suoi bambini i primi rudimenti del Catechismo. Che se le circostanze costringessero i genitori a delegare ad altri l’educazione dei figli, ricordino essi il loro dovere santissimo e l’obbligo di scegliere tali istituti e precettori che siano idonei a far le loro veci nell’espletare così nobile missione. Né trascurino di esercitare un diligente controllo sull’educazione religiosa e morale impartita ai loro figli; e qualora la riscontrino manchevole, ne colmino le lacune, e qualora positivamente difettosa, non esitino ad affidare i figli a migliori educatori.).

D . 213. Oltre che ai genitori, a chi compete il diritto e il dovere di prender cura della retta educazione della gioventù?

R . Il diritto e il dovere di prender cura della retta educazione della gioventù, compete, oltre che ai genitori, anche allo Stato, in quanto supplisce per il bene della comunità dove non bastino i genitori; a un titolo ben più alto compete alla Chiesa, in quanto l’incarico affidato dallo stesso Nostro Signore Gesù Cristo le impone di ammaestrare tutte le genti e di guidarle alla santificazione soprannaturale fino alla vita eterna. (Pio XI: Encicl. Divini illius Magistri, 31 dic. 1929).

D. 214 . Quali sono i doveri dei sudditi verso i loro legittimi superiori?

R . Ai loro legittimi superiori, sia ecclesiastici, sia civili, i sudditi debbono riverenza ed ubbidienza con un sentimento analogo a quella pietà che i figli debbono ai genitori (Paolo: ad Rom., XIII, 1-7; I. a ad Tim., II, 1-3; ad Hebr., XIII, 17; 1.» di Pietro, II, 13-18; Leone XIII: Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885).

D. 215 . Quali sono i superiori ecclesiastici cui è dovuta non solo riverenza, ma anche ubbidienza?

R . I superiori ecclesiastici cui è dovuta non solo riverenza, ma anche ubbidienza a norma dei sacri canoni, sono: il Romano Pontefice, il proprio Vescovo od altro Prelato investito di ecclesiastica giurisdizione, e il proprio parroco nell’esercizio del ministero parrocchiale.

D. 216 . Perché all’autorità civile è dovuta riverenza e ubbidienza?

R . Alla legittima autorità civile, qualunque sia la persona che ne risulti investita, è dovuta riverenza ed ubbidienza, perché, non meno della società, essa si origina dalla natura e, quindi, dallo stesso Dio, autore della natura (Sap, VI, 4; Prov, VIII, 15; Paolo: ad Rom., XIII, 1, 2.: « Non vi è potere se non da Dio : orbene, quei poteri che sono, sono stati ordinati da Dio. Chi dunque resiste al potere, resiste all’ordine di Dio; e quelli che resistono cagionano a se stessi la dannazione ». Leone XIII: cit. Encicl. Immortale Dei, n. 6, 7, 11; S. Giov., Cris, In Epist. ad Rom., XXXIII, 1).

D. 217. A che cosa son tenuti i superiori riguardo ai propri sudditi?

R. I superiori, ognuno secondo la natura delle proprie funzioni, debbono aver cura dei propri sudditi e dar loro in tutto il buon esempio, atteso che ne dovranno render ragione non agli uomini soltanto, ma a Dio medesimo (Paolo: ad Hebr., XIII, 11; ad Tim., I V , 12).

D. 218. A che cosa son tenuti gli operai verso i loro padroni?

R. Verso i loro padroni gli operai son tenuti: a integralmente e fedelmente rendere quanto liberamente ed equamente venne pattuito, a non arrecar danni alle cose, a non offendere la persona dei padroni, ad astenersi dalla violenza quand’anche si trattasse di difendere le proprie ragioni, a non suscitar mai sedizioni e a non immischiarsi con criminali mestatori (Paolo: ad Eph., VI, 5-8; ad Coloss., III, 22-25; ad Tit., II, 9-10; la di Pietro II, 18; Leone XIII: Encicl. Rerum Novarum, 15 mag. 1891; Cat. p. parr, p. III, c. VIII, n. 9).

D. 219. Quali sono i doveri dei padroni verso i loro operai?

R. I padroni debbono cordialmente amare i loro operai, come fratelli in Cristo, debbono retribuirli con la dovuta mercede, aver cura di farli attendere alle pratiche di pietà durante un idoneo spazio di tempo, a nessun patto frastornarli dalla vita domestica e dall’amore dell’economia, infine non imporre loro fatiche che, o nuocciano alla salute o superino le forze, o non si confacciano all’età e al sesso (Paolo: ad Eph., VI, 9; ad Coloss., IV, 1; Giac, V, 4; Cod. D. C , can. 1524. — « Più di un elemento va considerato prima di poter stabilire su basi di equità la misura della mercede; ma in linea generale ricordino i ricchi e padroni che né divino né umano diritto li autorizzano a schiacciare bisognosi e miserabili al fine di procurare il proprio utile, né a realizzar guadagni sfruttando l’altrui povertà. Defraudare, poi, un uomo, chiunque esso sia, della mercede dovutagli, costituisce un delitto gravissimo che chiama a gran voce l’ira e la vendetta del Cielo: La mercede degli operai…. da voi defraudata, ecco che grida; e il grido loro ha colpito l’orecchio del Signore degli eserciti. (Giac, V, 4). I ricchi infine si guardino religiosamente dal danneggiare in checché sia i risparmi dei proletari, insidiandoli con la violenza, l’inganno o le arti usuraie: e tanto più se ne guardino che quei meschini poco e male valgono a difendersi contro le ingiustizie altrui e la propria impotenza, e che la loro sostanza quanto più piccola, tanto più va rispettata »; Leone XIII: cit. Encicl. Rerum novarum).

D. 220. Quand’è che dobbiamo non ubbidire ai genitori e agli altri superiori?

R. Dobbiamo non ubbidire ai genitori e agli altri superiori, quando s’imponga il precetto di un’autorità maggiore della loro, se, per esempio, venissero ad esigere alcunché di contrario ai comandamenti di Dio o della Chiesa (Matt, X, 37; Luca, XIV, 26; Atti, V, 29: «Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini » ; Leone XIII: Enc. Quod apostolici muneris, 28 dic. 1878; S. Tom, 2a 2æ, q. 104, a. 5).

D. 221. Quand’è che agli stessi possiamo non ubbidire?

R. Agli stessi possiamo non ubbidire quando il loro ordine abbia per oggetto cosa in cui non siamo sudditi, per esempio: un ordine circa la scelta di uno stato nella vita. (Nella scelta del genere di vita è indubbio che sia in potere ed arbitrio dei singoli di scegliere l’una o l’altra di queste due cose: o abbracciare il consiglio di Cristo circa la verginità, o legarsi col vincolo matrimoniale ». Leone XIII: cit. Enc. Rerum Novarum).

Art. 2, — DEL QUINTO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 222 . Che cosa proibisce Dio nel quinto comandamento del Decalogo: Non ammazzare?

R . Nel quinto comandamento del Decalogo: Non ammazzare, Dio proibisce di arrecare al prossimo la morte o altro danno del corpo o dell’anima, come pure di cooperarvi (Esod, XX, 13; Deut, V, 17; Matt, V, 21, 22, 43-47; XVIII, 6-9. — Ne consegue che anche l’aborto procurato vien proibito da questo stesso Comandamento. — Ma tutte le leggi e tutti i codici consentono di respingere la forza con la forza contro un ingiusto aggressore, salva però quella moderazione che deve accompagnare ogni giusta difesa).

D . 223. In qual modo si arreca un danno all’anima?

R. Si arreca un danno all’anima con lo scandalo, vale a dire con parole od azioni meno rette, tali da offrire al prossimo occasione di rovina spirituale (S. Tom, 2a 2æ, q. 43, a. 1.).

D. 224. A che cosa è tenuto chi arrecò un danno alla persona del prossimo?

R. Chi arrecò un danno alla persona del prossimo è tenuto, per quanto può, a riparare il danno arrecato.

D. 225. Con questo comandamento proibisce Dio anche il suicidio?

R. Con questo comandamento Dio proibisce anche il suicidio, atteso che, non meno dell’omicidio, esso va contro la giustizia col ledere i diritti di Dio sulla vita umana, e contro la carità che dobbiamo a noi stessi come agli altri, e toglie al colpevole il tempo stesso di pentirsi (Cod. Dir. Can., can. 1240, § 1, n. 3, e can. 2350, § 2; S. Tom., 2a 2æ, q. 64, a. 5).

D. 226 . Questo comandamento vieta pure il duello?

R. Questo comandamento vieta pure i l duello, per qualunque ragione venga deliberato di privata autorità, perché il duello riveste la malizia e dell’omicidio e del suicidio (Aless. VII: Prop. 2 Inter damnatas, 24 sett. 1665; Leone XIII: Epist. Pastoralis officii, 22 sett. 1891; Cod. Dir. Can., can. 1240, § 1, n. 4, e can.. 2351).

D. 227. Solo queste azioni vengono proibite dal presente comandamento?

R. Dal presente comandamento vengono proibite non solo queste azioni, ma anche le vendette private, le ire, gli odi, le invidie, gli alterchi, gli oltraggi, tutte cose che facilmente provocano le sopradette azioni (Matt., V, 21, 22; la di Giov, III, 15).

Art. 3. — DEL SESTO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D. 228. Che cosa proibisce Dio nel sesto comandamento del Decalogo: Non fornicare?

R. Nel sesto comandamento del Decalogo: Non fornicare, Dio proibisce, non solo l’infedeltà nel matrimonio, ma anche qualsiasi altro peccato esterno contro la castità, e quanto può indurre al peccato d’impurità (Esod, XX, 14; Deut, V, 18; Matt,, V, 27, 28; Paolo: ad Rom., I , 26, 27; I.a ad Cor., V, 9 e segg.; VI, 9, 10, 13 e segg, ad Eph., V, 3-7; l. a ad Thess., IV, 4; I. a ad Tim., I, 9,10; ad Hebr., XIII, 4. Il peccato contro la castità deriva dall’incontinenza o lussuria, che così si definisce: il disordinato desiderio od uso di una soddisfazione venerea; e direttamente voluta, espressamente cercata e compiuta con piena deliberazione, è sempre peccato mortale. Col sesto comandamento del Decalogo è proibito l’esterno peccato di lussuria; col nono, il peccato interno. H Prov, VII, 5 e segg.; Eccli, IX, 1,13; XIX, 2; XLII, 12; Paolo: I. ad Cor., XV, 33; ad Eph., V, 3, 4, 18; ad Coloss., III, 8; Pio XI: Encicl. Divini illius Magistri, 31 die. 1929. — Dovendo custodire la bellissima virtù della castità, ti è d’uopo, o cristiano, una vigilanza assai maggiore che non per difendere le altre virtù; e la ragione si è che ad insidiare continuamente quel prezioso tesoro non sono soltanto gli esterni allettamenti, ma anche i moti dell’animo e gli appetiti della voluttà, quali nascono e si destano dalla nostra carne medesima. Ma, quanta diligenza possa usarsi, sarà questa priva di qualsiasi effetto se non vien sorretta dall’aiuto divino; aiuto che Dio non rifiuta a nessuno che debitamente lo richieda. Perciò, o cristiano, se non parola per parola, almeno a senso ripeti spesso quella piccola preghiera che il sacerdote recita nel prepararsi alla Messa : « Brucia, o Signore, col fuoco dello Spirito Santo i nostri reni e il nostro cuore, onde possiamo con casto corpo servirti e con mondo cuore piacerti ».

D. 229. Quali sono le cause precipue che inducono al peccato contro la castità e che sono da evitarsi accuratamente?

R. Oltre le suggestioni diaboliche e i moti della concupiscenza, le cause precipue che inducono al peccato contro la castità e che sono da evitarsi accuratamente, sono: l’ozio, l’intemperanza nel mangiar e nel bere, la cattiva società, i discorsi osceni, le cattive letture, i turpi spettacoli, le danze immodeste, le vesti indecenti, le familiarità e le occasioni pericolose ( 1 ).

D. 230. Quali sono per lo più le principali conseguenze del peccato d’incontinenza?

R. Oltre i danni che spesso ne vengono alla salute, le principali conseguenze del peccato d’incontinenza sogliono essere: l’oscurarsi della mente, il dileguarsi dell’amor di Dio, il tedio delle cose divine e della virtù, la durezza del cuore, la perdita della fede, e non di rado l’impenitenza finale (Giobbe, XXXI, 9-12; Prov, XXIII, 27; XXIX, 3; Os, IV, 11, 12; V, 4; Paolo: ad Rom., I , 24 e segg.; L» ad Cor., II, 14; V, 1-5; ad Eph., V, 3, 4; ad Coloss., III, 5-8; l a di Pietro, IV, 3, 4. — S. Tommaso, 2a 2ae, q. 153, a. 5, ove vengono enumerate e spiegate le conseguenze (figlie) della lussuria: la cecità della mente, l’inconsideratezza, la precipitazione, l’incostanza, l’amore di se stesso, l’odio di Dio, l’affetto al mondo presente e l’orrore di quello futuro.

D. 231. Quali sono i mezzi principali per conservare la castità?

R. I mezzi principali per conservare la castità sono: la custodia e la mortificazione dei sensi, la fuga delle cattive occasioni, la temperanza nel mangiare e nel bere, l’orazione, e una tenera pietà verso la beata Vergine Maria, e soprattutto la Confessione e Comunione frequente.

Art. 4. — DEL SETTIMO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 232. Che cosa proibisce Iddio nel settimo comandamento del Decalogo: Non rubare?

R. Nel settimo comandamento del Decalogo: Non rubare, Dio proibisce qualsiasi ingiusta usurpazione o danneggiamento della roba altrui, come qualsiasi cooperazione all’una o all’altra. (Esodo, XX, 15; Deut, V, 19; Paolo: I. ad Cor., VI, 10; Apoc, IX, 21.

D. 233. A che cosa è tenuto chiunque viola questo comandamento?

R. Chiunque viola questo comandamento è tenuto per giustizia e secondo le sue forze a restituire la roba altrui e a riparare il danno.

D. 234. Quand’è che l’obbligo della restituzione e della riparazione è grave?

R. L’obbligo della restituzione e della riparazione è grave quando grave ne sia stata la materia, a giudizio dei più, o in base alla gravità del danno patito dal padrone della roba.

Art. 5. — DELL’OTTAVO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 235. Che cosa proibisce Iddio nell’ottavo comandamento del Decalogo: Non dire falsa testimonianza?

R. Nell’ottavo comandamento del Decalogo: Non dire falsa testimonianza, Dio ci proibisce di proferir menzogne, di giurare il falso, e di arrecare comunque danno al prossimo con le nostre parole (Esodo, XX, 16; Deut, V, 20; Prov, VI, 19; XII, 22; Sap, I, 11; Eccli., VII, 13; XX, 26-28; Paolo: ad Eph., IV, 25; ad Coloss., III, 9).

D. 236. In qual maniera si arreca danno al prossimo con le parole?

R. Si arreca danno al prossimo con le parole, principalmente con la calunnia, la detrazione, la contumelia,

il giudizio temerario espresso, la violazione del segreto (La menzogna, strettamente parlando, è una proposizione scientemente contraria alla verità e atta per sè stessa a indurre il prossimo in errore. La calunnia è la lesione del buon nome altrui mediante la narrazione di un qualche falso crimine; chi, per contro, venisse a ledere senza giusto motivo l’altrui fama col racconto di un crimine vero sì, ma ignorato, commetterebbe una detrazione. La contumelia, per sé stessa, è la lesione dell’onore, arrecata a persona o fisicamente o moralmente presente: in un senso più largo comprende ugualmente la lesione dell’onore arrecata a persona assente, o a voce o per iscritto. Il giudizio temerario vien definito come un giudizio fermamente concepito, senza ragione sufficiente, circa un peccato altrui. La violazione del segreto è la ricerca o la manifestazione ingiusta di una cosa occulta o da occultarsi, come pure l’uso del segreto ingiustamente raggiunto. « Maledetto il sussurrone e l’uomo di lingua doppia; molti infatti ne verranno turbati che ora godono pace », Eccli., XXVIII, 15; Prov, VIII, 13; San Tom, 2a, 2æ, q. 73, a. 2 : « Togliere la fama a qualcuno è grave peccato, in quanto la fama vien considerata fra tutte le cose temporali come la più preziosa; l’esserne infatti privato significa per l’uomo aver preclusa la via a molte buone attività ». Indi è che l’Eccli., XLI dice: « Abbi cura del tuo buon nome: imperocché questo ti rimarrà più che non mille grandi e preziosi tesori. »

D. 237. A che cosa è tenuto chi ha leso con le sue parole la buona riputazione del prossimo?

R. Chi ha leso con le sue parole la buona riputazione del prossimo è tenuto per obbligo di giustizia a risarcirla per quanto è in lui e a compensare il danno arrecato: e tale obbligo è grave, se grave è stato il danno arrecato.

Art. 6. — DEGLI ULTIMI DUE COMANDAMENTI DEL DECALOGO.

D. 238. Che cosa proibisce Iddio nel nono comandamento del Decalogo: Non desiderare la donna d’altri?

R. Nel nono comandamento del Decalogo: Non desiderare la donna d’altri, Dio proibisce non solo questo malvagio desiderio, ma eziandio qualunque peccato interno contro la castità, mentre quello esterno lo proibisce nel sesto comandamento (Esod., XX, 17; Deut, V, 21).

D. 239. Che cosa proibisce Iddio nel decimo comandamento del Decalogo: Non desiderare la roba d’altri?

R. Nel decimo Comandamento del Decalogo: Non desiderare la roba d’altri, Dio proibisce di bramare ingiustamente e disordinatamente i beni degli altri (Esod, XX, 17; Deut, V, 21; Paolo: la ad Tim., VI, 10).

D. 240. Qual’è il riassunto di tutti i comandamenti del Decalogo?

R. Il riassunto di tutti i comandamenti del Decalogo è questo: Amerai i l Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze, e il prossimo tuo come te stesso ((3) Lev, XIX, 18; Deut, VI, 5; Matt, XXII, 37-40; Marc, XII, 30-31; Luc., X, 27; Paolo: ad Rom., XIII, 10; ad Gal. V, 14; Giac, II, 8; S. Leone M.: Serm. IX De jejunio septimis mensis: « Amare il prossimo è amare Dio, il quale, proprio nell’unità di questo duplice amore, ha costituito la pienezza della legge e dei profeti » ; S. Tom, la, 2æ, q. 100, a. 3° ad l.um; Cat. p. parr., p. III, c. I, n. 1).

D. 241. Sono tutti tenuti anche ad osservare i doveri del proprio stato?

R. Tutti sono tenuti anche a diligentemente osservare i doveri del proprio stato, quelli, cioè, cui ognuno è astretto, a ragione della propria condizione e del proprio ufficio.

CAPO V.

Dei Precetti della Chiesa.

D. 242. Quanti sono i precetti della Chiesa?

R. I precetti della Chiesa, tutti da osservarsi dal Cattolico, sono parecchi; per esempio: non leggere né tenere libri proibiti, non ascriversi a setta massonica o ad altre sette del genere, astenersi dalla solenne benedizione delle nozze in tempo chiuso, non cremare i cadaveri dei fedeli, ed altri ancora; ma all’inizio del presente catechismo cattolico, ne sono enumerati cinque soltanto, che hanno maggiore attinenza all’ordinaria vita spirituale di tutti i fedeli.

Art. 1. DEL PRIMO PRECETTO DELLA CHIESA.

D. 243. Che cosa prescrive la Chiesa nel primo precetto: Nelle domeniche ed altre feste di precetto ascoltare la Messa e astenersi dalle opere servili?

R. Nel primo precetto: Nelle domeniche, ecc., la Chiesa prescrive il modo di santificare la domenica e le altre feste di precetto: e ciò si fa innanzi tutto ascoltando la Messa e estenendosi dalle opere servili (Cod. D . C , can. 1248).

D. 244. Non esige forse lo stesso diritto naturale che l’uomo consacri un dato tempo al culto divino?

 R. Lo stesso diritto naturale esige che l’uomo consacri un dato tempo al culto divino, astenendosi dagli affari e lavori corporali, onde possa col corpo e con l’anima piamente onorare e venerare quel Dio creatore, dal quale ha ricevuto sommi ed innumerevoli benefici (Cat. p. parr, p. III, c. IV, n. 11).

D. 245. Quali sono le feste di precetto nella Chiesa universale?

R. Sono feste di precetto nella Chiesa universale, all’infuori delle domeniche: la Natività, la Circoncisione, l’Epifania, l’Ascensione e il Corpus Domini, l’Immacolata Concezione e l’Assunzione della beata Vergine Maria, S. Giuseppe suo sposo, i SS. Pietro e Paolo Apostoli e tutti i Santi (Cod. D . C , can. 1247 e segg.).

D. 246. Oltre che ad ascoltare la Messa, a quali opere conviene che il cristiano si applichi le domeniche e le altre feste di precetto?

R. Oltre che ad ascoltare la Messa conviene che le domeniche e le altre feste di precetto il Cristiano si applichi, per quanto sta in lui, ad opere di pietà e di religione, soprattutto assistendo alle sacre funzioni, ascoltando le sacre predicazioni e la spiegazione del catechismo.

D. 247. Quali opere vengati chiamate servili?

R. Vengon chiamate servili le opere compiute per lo più da servi e mercenari, e sono quelle che richiedono uno sforzo prevalentemente fisico, e che hanno per fine precipuo l’utilità corporale.

D. 248. Vi sono alcune opere servili permesse nella domenica e nelle altre feste di precetto?

R. Nelle domeniche ed altre feste di precetto vengon permesse le opere servili che abbiano diretta attinenza sia col culto di Dio, sia con le consuete necessità del servizio pubblico o domestico, quelle richieste dalla carità, e quelle infine che, o non si possono omettere senza grave incomodo, o che sono autorizzate da provata consuetudine.

D. 249. Nelle domeniche ed altre feste di precetto bisogna astenersi soltanto dalle opere servili?

R. Nelle domeniche ed altre feste di precetto bisogna astenersi non soltanto dalle opere servili, ma anche dalle azioni forensi e, salvo che legittime consuetudini o particolari indulti altrimenti permettano, dal pubblico mercato, dalle fiere ed altre pubbliche compere e vendite.

D . 250. Peccano coloro che non osservano le domeniche ed altre feste di precetto, oppure impediscono agli altri di osservarle?

R . Gravemente peccano coloro che senza giusto motivo non osservano le domeniche ed altre feste di precetto, oppure impediscono gli altri di osservarle.

Art. 2. — DEL SECONDO PRECETTO DELLA CHIESA.

D. 251. Che cosa è prescritto nel secondo precetto: Astenersi dal mangiar carne ed osservare il digiuno nei giorni fissati dalla Chiesa?

R. Nel secondo precetto: Astenersi, etc, è prescritto che nei giorni fissati dalla Chiesa noi osserviamo o il solo digiuno, o la sola astinenza, o il digiuno e l’astinenza assieme (Cod. D. C , can. 1250 e segg.).

D. 252. Che cosa ordina la legge del solo digiuno?

R. La legge del solo digiuno ordina che si faccia in giornata un pasto soltanto, ma non vieta di prendere qualche po’ di cibo la mattina e la sera, attenendosi, riguardo alla quantità e qualità di cibi, alla comune consuetudine locale.

D. 253. Che cosa vieta la legge della sola astinenza dalla carne?

R. La legge della sola astinenza dalla carne vieta di mangiar carne e sugo di carne; non vieta, invece, le uova, i latticini e i condimenti di qualsiasi genere anche se c’entri il grasso di animale.

D. 254. In quali giorni obbligano le suddette leggi?

R. A meno che la legittima autorità altrimenti disponga per indulto:

1° la legge della sola astinenza obbliga tutti e singoli i venerdì;

2° la legge dell’astinenza e del digiuno assieme, il mercoledì delle Ceneri, i venerdì e sabbati di Quaresima, i giorni di Quattro Tempora, le vigilie della Pentecoste, dell’Assunta (poi sostituita dall’Immacolata), di tutti i Santi e della Natività del Signore;

3° la legge del solo digiuno, obbliga nei rimanenti giorni di Quaresima, salvo le domeniche.

D. 255. Vi sono certi giorni in cui le leggi suddette non hanno applicazione?

R. Nelle domeniche ed altre feste di precetto, e nel Sabbato Santo dopo mezzogiorno, la legge dell’astinenza, o della astinenza e digiuno, o del digiuno soltanto, non hanno applicazione, salvo che la festa di precetto cada in Quaresima; le vigilie poi non si anticipano (Can. D. C , can. 1252, § 4).

D. 256. Quali persone debbono osservare l’astinenza e il digiuno?

R. A meno di avere una legittima scusa o una dispensa, deve osservare l’astinenza chiunque, in sufficiente possesso della ragione, ha compiuto il settimo anno; tutti poi indistintamente, son tenuti alla legge del digiuno, da vent’anni compiuti a sessanta iniziati.

257. Per qual ragione la Chiesa prescrive l’astinenza e il digiuno?

R. La Chiesa prescrive l’astinenza e il digiuno onde i fedeli facciano penitenza dei peccati commessi, si guardino dai futuri, e così attendano più efficacemente alla preghiera (Tob, XII, 8; Gioel, II, 12, 15; Matt., VI, 16; IX, 15; XVII, 20; Marco, II, 20; Luca, II, 37; V, 35; Paolo: ad Rom., XIII, 13; 2a ad Cor., V I , 5; X I , 27; ad Eph., V, 18; la ad Thess., V,6; ad Tit., II, 2).

Art. 3. — DEL TERZO E QUARTO PRECETTO DELLA CHIESA.

D . 258. Che cosa prescrive la Chiesa nel terzo precetto: Confessare i propri peccati almeno una volta all’anno?

R. Nel terzo precetto: Confessare i propri peccati almeno una volta all’anno, la Chiesa prescrive ai fedeli pervenuti all’età di discrezione di fare almeno una volta nell’anno la confessione dei peccati mortali, non direttamente rimessi nelle confessioni precedenti (Conc. Lat. IV, cap. 21; Conc. di Tr., sess. XIV, de Pœnitentia, c. 5. — Se vuoi custodir l’anima tua immune dai peccati, se vuoi condurre una vita degna di un cristiano, avvicinati di frequente al sacramento della Penitenza, sempre, ben inteso, con una diligente preparazione; prendi, poi, la buona abitudine di confessarti come se dovessi immediatamente e dopo morire. Ricevuta l’assoluzione, rendi grazie a Dio d’essersi mostrato tanto misericordioso verso di te; poscia, se lo puoi, fa subito la tua penitenza.).

D . 259. Che cosa prescrive la Chiesa nel quarto precetto: Ricevere il Sacramento dell’Eucaristia almeno a Pasqua?

R. Nel quarto precetto: Ricevere il Sacramento dell’Eucaristia almeno a Pasqua, la Chiesa prescrive ad ogni fedele che abbia raggiunto l’età di discrezione, di ricevere l’Eucaristia, almeno entro il tempo pasquale (Conc. Lat, IV, 1. e; Conc. di Tr., sess. XIII De Eucaristia, can. 9; Cod. D. C , can. 859, § 1).

D. 260. Debbono i fedeli soddisfare a questo precetto, ognuno nel proprio rito e nella propria parrocchia?

R. Per quanto i fedeli non abbiano al riguardo alcun obbligo stretto, vanno tuttavia consigliati di soddisfare a tale precetto, ognuno nel proprio rito e nella propria parrocchia; chi poi avesse soddisfatto in un rito diverso dal suo o in una parrocchia estranea, abbia cura d’informare il proprio parroco del compiuto precetto (Cod. D. C., 1. c, § 3, e can. 866, § 2. — Nella Chiesa latina la Santa Comunione vien somministrata sotto l’unica specie del pane ; sotto le due specie nella maggior parte delle Chiese orientali).

D. 261. Perché nel terzo e quarto precetto la Chiesa ha aggiunto quella parola: Almeno?

R . Nel terzo e quarto precetto la Chiesa ha aggiunto quella parola: almeno, per insegnarci essere assai utile e conforme ai suoi desideri che i fedeli — pure quelli che hanno soli peccati veniali, ovvero mortali già direttamente rimessi — si confessino spesso e si accostino di frequente, anzi ogni giorno, con pietà alla mensa Eucaristica (S. Congr. d. Conc: Decr. Sacra Trid. Synodus, 20 dic. 1905; S. Congr. d. disc, dei Sacr. : Decr. Quam singulari, 8 ag. 1910, n. VI. — Accostati di frequente alla Santa Comunione, con purezza d’animo e ardor di desiderio. Non v’è tempo più prezioso di quello in cui ti stringi intimamente a te unito l’amantissimo tuo Salvatore. Non ti sia di peso il prolungare alquanto il tempo che trascorri con Lui nel ringraziamento).

D. 262. Qual è l’età di discrezione in cui cominciano ad obbligare ì due precetti della Confessione e della Comunione?

R . L’età di discrezione in cui cominciano ad obbligare i due precetti della Confessione e della Comunione, è quella in cui il bambino comincia a ragionare, ossia verso il settimo anno d’età, sia sopra sia anche sotto (S. Congr. d. discipl. dei Sacr., 1. e, n. I).

D. 263. Quest’obbligo che grava sui bambini, ricade pure su altri?

R . Quest’obbligo che grava sui bambini, ricade pure e principalmente sulle persone che debbono aver cura di essi, quindi sui genitori, sui tutori, sui maestri, sul confessore e sul parroco (S. Congr. d. discipl. dei Sacr, 1. c, n. IV; Cod. D. C., can. 860, 1340).

D. 264. Quale conoscenza della dottrina cristiana è richiesta perchè un bambino possa e debba venir ammesso alla prima comunione?

R. Perché un bambino possa e debba venir ammesso alla prima comunione:

1° in pericolo di morte, basta ch’egli sappia discernere il corpo di Cristo dal cibo comune e riverentemente adorarlo;

2° fuori del pericolo di morte, si esige inoltre ch’egli comprenda, secondo la sua capacità, almeno quei misteri della fede necessari di necessità di mezzo, e distingua il pane Eucaristico da quello comune e corporale, e ciò affinché possa accostarsi all’Eucaristia con tutta la devozione consentita dalla sua età.

 (S. Congreg. d. discipl. d. Sacr, 1. c, n. II, III D. C, can. 854; Cat. p. parr, p. II, c. IV, n. 62, 63, e c. V, n. 44. — Le condizioni requisite per degnamente e devotamente ricevere la Santa Comunione vengono esposte nelle DD. 339 e segg.).

D. 265. Fatta la prima comunione, a che cosa son tenuti i bambini?

R . Fatta la prima comunione, i bambini son tenuti ad imparare per intero a grado a grado e nella misura della loro intelligenza, il catechismo espressamente composto per essi. (S. C. d. disc. d. Sacr., 1. e, n. II).

D. 266. Qual è, in materia, il dovere dei genitori e di quanti hanno cura dei bambini?

R. Il dovere dei genitori e di quanti hanno cura dei bambini è, in materia, quello gravissimo di provvedere a che i bambini medesimi vadano ad assistere alle pubbliche lezioni di catechismo; in caso contrario, di supplire in altro modo alla loro istruzione religiosa (S. C. d. disc. d. Sacr., 1. e, n. VI).

D. 267. Da quando decorre il tempo pasquale in ordine alla Comunione da riceversi?

R. Il tempo Pasquale in ordine alla Comunione da riceversi decorre dalla Domenica delle Palme alla Domenica in Albis, salvo che la legittima autorità della Chiesa abbia altrimenti disposto (Cod. D. C , can. 859, § 2).

D . 268. Cessa il precetto della Comunione non soddisfatto durante il tempo pasquale?

R . Il precetto della Comunione non soddisfatto durante il tempo pasquale, non cessa affatto per questo, anzi bisogna compierlo subito appena sia possibile, entro lo stesso anno.

D. 269. Si ottempera al precetto dell’annua Confessione o della Comunione pasquale mediante una Confessione o Comunione sacrilega, oppure una Confessione volontariamente invalida?

R. Né mediante una Confessione o Comunione sacrilega, né mediante una Confessione volontariamente nulla si ottempera al precetto dell’annua Confessione o della Comunione pasquale, anzi in seguito al nuovo peccato il precetto stringe maggiormente (Cod. D. C , can. 97; S. C. del S. Ufficio: Decr. 24 sett. 1665, prop. 14 damn.).

Art. 4. — DEL QUINTO PRECETTO DELLA CHIESA.

D. 270. Che cosa comanda la Chiesa nel quinto precetto: Sovvenire alle necessità della Chiesa e del clero?

R. Nel quinto precetto: Sovvenire alle necessità della Chiesa e del Clero, la Chiesa inculca ai fedeli il divino comandamento di sovvenire alle necessità temporali della Chiesa e del clero, a norma di particolari decisioni

e di lodevoli consuetudini (Deut., XVIII, 1-8; Matt, X, 10; Luca, X, 7; Paolo, 1a ad Cor., IX, 9-14; la ad Tim., V, 18; Cod. D. C., can. 1502; S. Tom, 2a, 2æ, q. 87, a. 1).

D. 271. Perché vien ciò comandato?

R. Ciò vien comandalo perché è giusto che ai ministri del culto che si affaticano per la loro salvezza i fedeli somministrino quanto è necessario a coprire le spese del culto divino e ad un onesto loro sostentamento.

CAPO VI.

Dei consigli evangelici.

D. 272. Oltre i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa vi sono pure dei consigli?

R. Oltre i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa vi sono pure dei consigli, dati per la prima volta nel Vangelo da Nostro Signor Gesù Cristo, e perciò chiamati Consigli evangelici.

D. 273. Che cosa sono i consigli evangelici?

R. I consigli evangelici sono dei mezzi proposti da Gesù Cristo per conseguire con maggior facilità e pienezza la perfezione spirituale.

D. 274. Quali sono i principali consigli evangelici?

R . I principali consigli evangelici sono: la povertà volontaria, la perfetta castità e una speciale obbedienza da prestarsi per amore di Gesù Cristo (Della povertà: Matt, XIX, 21; Marco, X, 21; Luca, XVIII, 22. Della castità: Matt, XIX, 12; Paolo, 1a ad Cor., VII, 25, 32, 34. Dell’obbedienza: Luca, X, 16; Giov., XIII, 20; S. Tom, 2a, 2æ, q. 86, a. q. ad l.um).

D. 275. In qual modo con la pratica di questi consigli acquistasi con maggior facilità e pienezza la perfezione spirituale?

R. Con la pratica di questi consigli si acquista con maggior facilità e pienezza la perfezione spirituale in quanto, col dedicare a Dio la volontà mediante l’ubbidienza, il corpo mediante la castità e i beni esterni mediante la povertà, noi veniamo disposti alla carità perfetta (Pio XI, Encicl. Quas primas, 11 dic. 1925, verso la fine; S. Tom, la, 2æ, q. 108, a. 4).

D. 276. Chi è che deve seguire i consigli evangelici?

R. Deve seguire i consigli evangelici chi ad essi si è liberamente astretto; per esempio i Religiosi, i quali per voto son tenuti ad osservare i tre consigli evangelici secondo la regola del proprio Istituto.

(Coloro tutti che, rispondendo all’appello divino, abbracciano un qualsiasi Istituto di vita religiosa approvato dalla Chiesa, mentre si applicano, come ne hanno il diritto, alla cristiana perfezione secondo i consigli evangelici, nel medesimo tempo si rendono utilissimi alla salvezza del prossimo come alla stessa civile società; e ciò o con l’assidua orazione, o con l’esempio delle virtù, o curando gl’infermi e gl’infelici di ogni sorta, o educando la gioventù, o approfondendosi nelle cose divine e nelle lettere. È quindi giusto che tanto gl’individui, quanto le famiglie e la società li facciano segno di particolari espressioni di riverenza, di ammirazione e di gratitudine. — Leone XIII, Lett. al Card. Gibbons, 22 genn. 1889; e la Lett. al Card. Richard, 23 dic. 1900; Pio XI, Lett. Unigenitus Dei Filius, 19 mar. 1924 ; Cod. D. C., can. 487).

D. 277. Per poter credere, come dobbiamo, quanto è da credersi, per poter osservare i comandamenti di Dio

e i precetti della Chiesa e seguire i consigli evangelici, abbiamo noi bisogno di un qualche aiuto?

R. Per poter credere, come dobbiamo, quanto è da credere, per potere osservare i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa e seguire i consigli evangelici noi abbiamo bisogno della grazia di Dio. (Giov, XV, 5; Paolo, Ia ad Cor., III, 6; IV, 7; 2a ad Cor., III, 5; ad Eph., II, 8-10).

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (11)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (12)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [12]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXVII.

D’altre ragioni che vi sono per consolarci e per conformarci alla volontà di Dio nelle aridità, tristezze e abbandonamenti nell’orazione.

Ancorché sia bene il pensare noi altri, che un tal travaglio ci viene per le nostre colpe, acciocché, così facendo, andiamo sempre più confondendoci e umiliandoci; nondimeno è ancor necessario, che sappiamo, che non tutte le volte è castigo delle nostre colpe, ma disposizione e provvidenza altissima del Signore, il quale distribuisce i suoi doni come gli piace, e non conviene, che tutto il corpo sia occhi, né piedi, né mani, né capo, ma che nella sua Chiesa vi siano membri differenti: e così non conviene che sia conceduta a tutti quell’orazione specialissima e sublime della quale dicemmo trattando dell’orazione (Sapra tract. 5, c, 4 et 5):  e questo non è sempre necessario che avvenga per cagione de’ nostri demeriti; perché  ancorché ci siano alcuni che meritino grazie e favori nell’orazione, ciò non ostante potranno presso Dio acquistare merito maggiore con qualche altra cosa; e così sarà maggior grazia di Dio il dar loro quella anzi che questa. Vi sono stati molti Santi grandi i quali non sappiamo che avessero questi segnalati favori di orazione; e se gli ebbero, dissero con S. Paolo, che non si pregiavano né si gloriavano di questo, ma del portar la croce di Cristo: Mihi autem absit gloriavi, nisi in cruce Domini nostri Jesu Christi (Ad Gal. VI, 14). – Il P. M. Avila dice intorno a questo una cosa di molta consolazione, ed è, che Dio lascia alcuni sconsolati per molti anni e alle volte per tutta la vita: e la parte e sorte di questi credo, dice egli, che sia la migliore, se essi hanno fede, per non prendere ciò in mala parte, e pazienza e fortezza per tollerare un sì grande desolamento (M. Avil. tom 2, ep. fol. 22; supra tract 5, c. 20). Se uno si persuadesse affatto, che questa sorte è la migliore per lui, facilmente si conformerebbe alla volontà di Dio. I Santi e maestri della vita spirituale adducono molte ragioni per dichiarare e provare, che per questi tali è migliore e più conveniente questa sorte: ma per ora ne diremo solamente una delle principali, che apportano S. Agostino, S. Girolamo, S. Gregorio, e comunemente tutti quei che trattano di questa materia (D. Aug. lib. de orando Deum, quæ est ep. 121 ; D. Hier. Supra illud Thrén. in: Sed et cum clamavero, et rogavero, exclusit orationem meam; D. Greg. lib. 20 mor. c. 21, 24): ed è che non ècosa da tutti il conservar l’umiltà fra l’altezza della contemplazione: perciocché appena abbiamo buttata una lagrimuccia, che ci pare d’esser già spirituali e uomini d’orazione, e ci vogliamo uguagliare, e forse anche preferire ad altri. Insino l’apostolo S. Paolo pare che avesse bisogno di qualche contrappeso, acciocché queste cose non lo facessero invanire: Et ne magnitudo revelationum exlollat, me; datus est mihi stimulus carnis mece, angelus satanæ, qui me colaphizet (II. ad Cor. XII, 7). Acciocché l’essere stato egli rapito sino al terzo cielo e le grandi rivelazioni che aveva avute non lo facessero insuperbire, permise Iddio, che gli venisse una tentazione la quale l’umiliasse e gli facesse conoscere la sua debolezza: or perciò, benché quella strada paia più alta, quest’altra è più sicura. E così il sapientissimo Dio, il quale ci guida tutti ad un medesimo fine, ch’è Egli stesso, conduce ciascuno per la strada che sa essergli più espediente. Forse che se tu avessi avuta grande introduzione nell’orazione, in cambio di riuscir umile e con gran profitto, saresti riuscito superbo e gonfio; e in quest’altro modo stai sempre umiliato e confuso, riputandoti inferiore a tutti: onde questa è migliore e più sicura strada per te, sebbene non la conosci: Nescitis quid petatis (Matto XX, 22): Non sapete quello che domandate, né quello che desiderate. – S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Si venerit ad me, non videbo eum; si abierit, non intelligam (Greg. lib. 9 Mor. c. 7 in Job ix, 11): Se il Signore verrà a trovarmi, non lo vedrò; e se andrà via e s’allontanerà da me, non l’intenderò, insegna una dottrina molto buona a questo proposito. Restò l’uomo, dic’egli, tanto cieco per lo peccato, che non conosce quando si vada avvicinando a Dio, né quando si vada allontanando da Lui: anzi molte volte quel ch’egli si pensa che sia grazia di Dio e che per quel mezzo si vada avvicinando più a lui, se gli converte in castigo e gli è occasione di più allontanarsene: e molte volte quello che egli si pensa che sia castigo e che Dio si vada allontanando e dimenticandosi di lui, è grazia e motivo, perché non se ne scosti. Perciocché chi sarà quegli che veggendosi in un’orazione e contemplazione molto alta e molto accarezzato e favorito da Dio, non si dia a credere di andarsi avvicinando e accostando più al medesimo Dio? e pur molte volte con questi favori viene uno ad insuperbirsi ed assicurarsi e fidarsi di se stesso’, e il demonio lo fa cadere per quell’istessa via per la quale egli pensava di salire e di avvicinarsi più a Dio. Per lo contrario molte volte vedendosi uno sconsolato, afflitto, e con gravi tentazioni, e molto combattuto da pensieri disonesti, e di bestemmie, e contra la fede, si pensa, che Dio stia adirato seco, e che lo vada abbandonando e ritirandosi da lui, e allora gli è più vicino: perché con questo si umilia più, conosce la debolezza e fragilità sua, sconfida di sé, ricorre a Dio con maggior calore e fortezza, mette in esso ogni sua fiducia, e procura di non separarsi mai da Lui. Di maniera che il meglio non è quello che tu pensi; ma il meglio è la strada per la quale il Signore ti vuol condurre; questa t’hai da persuadere che sia la migliore e quella che a te più conviene. Di più cotesta medesima afflizione e fastidio e dolore che tu senti per parerti che non fai l’orazione così bene come dovresti, può esser un altro motivo di consolazione; perché tutto questo è una particolar grazia e favore del Signore, ed è segno che l’ami: poiché non vi è dolore senza qualche amore: nè può essere in me dispiacere di non servir bene, senza proponimento e volontà di servir bene: e così cotesto dispiacere e dolore nasce da amor di Dio, e da desiderio di servirlo meglio. Se non ti curassi niente di servirlo male, né di far male l’orazione, né di far altre cose mal fatte, sarebbe cattivo segno: ma il sentir dispiacere e dolore del parerti di far questa cosa male, è buon segno. Perciò acquieta il tuo dispiacere e dolore col ben intendere, che in quanto l’aridità precisamente è pena, è anche volontà positiva di Dio; e quindi conformati ad essa con rendergli grazie, che ti lasci concepire questo buon desiderio di dargli maggior gusto nelle tue operazioni, ancorché ti paia, che queste siano molto deboli ed imperfette. Di più quantunque nell’orazione tu non faccia altro che assistere e star ivi presente ai piedi di quella reale e Divina Maestà, servi in ciò assai Dio. Come veggiamo di qua nel secolo, che è maestà grande dei Re e Principi della terra che i Grandi della lor Corte vadano ogni giorno a palazzo, e ivi assistano e colla loro presenza formino ad essi corteggio; Beatus homo, qui audit me, et vigilat ad fores meas quotidie, et observut ad postes ostii mei (Prov. VIII, 34). Alla gloria della maestà di Dio, alla bassezza della nostra condizione, e alla grandezza del negozio che trattiamo, appartiene lo star noi molte volte aspettando e come facendo ala alle porte del suo palazzo celeste: e quando Egli te le aprirà, rendigliene grazie; quando no, umiliati, conoscendo, che non lo meriti: e in questa maniera sempre sarà molto buona e molto utile la tua orazione. Di tutte queste cose e d’altre simili ci dobbiamo valere per conformarci alla volontà di Dio in questa amarezza e in questo abbandonamento spirituale, accettando il tutto con rendimento di grazie, è dicendo: Salve, amaritudo amatissima, omnis gratiæ piena: Io ti saluto, o amarezza amara e amarissima, ma piena di grazie e di beni (Barth, de Mart. Archiep. Brachar. in suo compendio c. 26).

CAPO XXVIII.

Che è grande inganno e grane tentazione il lasciar l’orazione per ritrovarsi l’uomo in essa nel modo che s’è detto.

Da quel che si è detto ne viene in conseguenza che è grand’inganno e grave tentazione quando uno per vedersi in questo stato si risolve di lasciar l’orazione, o non persevera tanto in essa, parendogli di non farci niente, anzi di perderci più tosto il  tempo. Questa è una tentazione colla quale il demonio ha fatto lasciar l’esercizio dell’orazione non solamente a molti secolari, ma ancora a molti Religiosi, e quando non può toglier loro affatto l’orazione, fa che non si diano tanto ad essa, nè vi spendano tanto tempo quanto potrebbero. Cominciano molti a darsi all’orazione, e fin tanto che vi è bonaccia e devozione, la proseguiscono e continuano molto bene; ma giunto il tempo dell’aridità e della distrazione, par loro che quella non sia orazione, ma più tosto nuova colpa; poiché stanno ivi dinanzi a Dio con tanta distrazione e con sì poca riverenza: e così vanno a poco a poco lasciando l’orazione, per parer loro, che faranno maggior servizio a Dio con attendere ad altri esercizi e occupazioni, che collo star ivi in quella maniera. E come il demonio ben s’avvede di questa loro fragilità, così si vale dell’occasione e si sollecita tanto a molestarli con vari pensieri e tentazioni nell’orazione; acciocché tengano per male speso quel tempo; e quindi pian piano fa, che lascino totalmente l’orazione e con essa la virtù, e che anche alle volte passino più oltre a qualche altra cosa di peggio: e così sappiamo, che di qui ha avuto principio la rovina di molti. Est amicus socius mensa?, et non permanebit in die necessitatis, dice il Savio (Eccli. VI, 10). Ilgoder Dio è cosa che non v’è chi non lavoglia; ma il travagliare, l’affaticarsi e ilpatir per Lui, quest’è il segno del vero amore. Quando nell’orazione v’è consolazione e devozione, non è gran cosa che tu perseveri e ti trattenga in essa molte ore; perché può essere, che tu lo faccia per tuo gusto: ed è segno, che lo fai per questo, quando mancandoti la consolazione e la devozione, non perseveri più. Quando Dio manda inquietudini, tristezze, aridità e distrazioni, allora si provano i veri amici e si conoscono i servi fedeli che non cercano l’interesse loro, ma puramente la volontà e il gusto di Dio: e così allora abbiamo da perseverare con umiltà e pazienza, stando ivi tutto il tempo assegnato, ed anche un poco di più, siccome ce lo consiglia il nostro S. Padre (D. Ign. lib. Exerc. spir. annot. 13), per vincer con questo la tentazione, e mostrarci forti e gagliardi contro il demonio. Narra Palladio (2•8) Pallad, in Hist. Lausiac.,), che esercitandosi egli nella considerazione delle cose divine, rinchiuso in una cella, aveva gran tentazione d’aridità e gran molestia di vari pensieri che gli andavano suggerendo, che lasciasse quell’esercizio, perchè gli era inutile. Andò egli a trovare il santissimo Macario Alessandrino, e gli raccontò questa tentazione, dimandandogli consiglio e rimedio. E il Santo gli rispose: Quando cotesti pensieri ti diranno, che te ne vada via, e che non fai niente: Dic ipsis cogitationibus tuis: Propter Christum parietes cellæ istius custodio: Di’ a’ tuoi pensieri, voglio star qui a custodire per amore di Cristo le mura di questa cella: che fu quanto dirgli, che perseverasse nell’orazione, contentandosi di far quella santa azione per amor di Cristo, ancorché non ne cavasse altro frutto che questo. Questa è molto buona risposta, per quando ci venga questa tentazione: perché il fine principale che abbiamo da avere in questo santo esercizio, e l’intenzione colla quale dobbiamo andarvi e occuparci in esso, non ha da essere il nostro gusto, ma il far un’azione buona e santa colla quale piacciamo a Dio, e diamo gusto a Lui, e soddisfacciamo e paghiamo qualche particella del molto di cui gli siamo debitori, per essere quegli ch’Egli è, per gl’innumerabili beneficii che dalle sue mani abbiamo ricevuti; e poiché Egli vuole e si compiace, ch’io stia adesso qui, con tutto che mi paia di non far cosa alcuna, mi contento di questo. – Si narra di S. Caterina da Siena, che per molti giorni fu priva delle consolazioni spirituali, e che non sentiva il solito fervore di divozione, e che di più era molto molestata da pensieri cattivi, brutti e disonesti, i quali non poteva scacciar da sè; ma che non lasciava per questo la sua orazione; anzi al meglio che poteva perseverava in essa con gran diligenza, e parlava seco stessa in questa maniera: Tu vilissima peccatrice non meriti consolazione alcuna. Come? Non ti contenteresti tu, per non essere condannata in eterno, di avere per tutta la tua vita a patire queste tenebre e tormenti? È cosa certa, che tu non ti eleggesti di servir Dio per ricever da Lui consolazioni in questa vita, ma per goderlo in cielo per tutta l’eternità. Alzati dunque su, e proseguisi i tuoi esercizi, perseverando nell’esser fedele al tuo Signore (Blos. c. 4, mon. spir.). Imitiamo dunque questi esempi e restiamocene colle parole di quel Santo: Questa sia, o Signore, la tua consolazione, il voler di buon grado rimaner privo d’ogni umana consolazione; e se mi mancherà la tua consolazione, servami di somma consolazione e conforto la tua volontà, e quella prova che ben giustamente vuoi Tu fare di me (Thom a Kempis lib. 3, c. 16, n.  2). Se arriveremo a questo, che la volontà e il gusto di Dio sia ogni nostro gusto, di tal maniera che l’istessa privazione d’ogni nostra consolazione sia gusto nostro, per essere volontà e gusto di Dio; allora sarà vero il nostro gusto, e tale, che nessuna cosa ce lo potrà torre.

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (9)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (9)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO. IV.

Del Decalogo (*).

(*) Questi Comandamenti del Decalogo, da Dio stesso solennemente promulgati sul monte Sinai e da Gesù Cristo confermati e spiegati nella nuova Legge, devono da tutti essere imparati e con massima cura custoditi ed osservati. Questi divini Comandamenti, infatti, non solo tracciano ai singoli la via dell’eterna salvezza, ma sono nello stesso tempo il fondamento di ogni civile consorzio.

D. 187. Che cosa vuol dire: Decalogo?

R. Decalogo vuol dire dieci parole, ossia i dieci comandamenti che Dio diede a Mosè sul monte Sinai e che Gesù Cristo confermò nella legge nuova.

(Esod., XX, 2, 6; Matt., V, 17, 18; XIX, 17-20. — Questi comandamenti furono consegnati da Dio in mano a Mosè, scritti su due tavole. I tre primi comandamenti vengono chiamati comandamenti della prima Tavola; gli altri, comandamenti della seconda Tavola).

D. 188. Come si dividono i dieci comandamenti del Decalogo?

R. I dieci Comandamenti del Decalogo si dividono in modo che i tre primi riguardano Dio, mentre gli altri sette si riferiscono a noi stessi e al prossimo.

D. 189. Perché Dio ha premesso al Decalogo queste parole: Io sono il Signore Dio tuo?

R. Dio ha premesso al Decalogo queste parole: Io sono il Signore Dio tuo, per ammonirci ch’Egli, comeDio e Signore, ha il diritto d’imporre comandamenti, allacui osservanza siamo tenuti (Esod, XX, 2-6; Lev., XXVI, I; Deut., V, 6 e segg.; Cat. p. parr, p. III, c. II, n. 3).

SEZIONE la. — Dei tre primi comandamenti del Decalogo che si riferiscono a Dio.

Art. 1. — DEL PRIMO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 190. Che cosa vieta Iddio nel primo comandamento del Decalogo: Non avrai altro Dio fuori che me?

R . Nel primo comandamento del Decalogo: Non avrai altro Dio fuori che me, Dio vieta che ad altri venga reso il culto a Lui solo dovuto (Esod, XX, 2-6; Lev., XXVI, 1; Deut, X, 6 e segg.; Cat. p. parr, p. I l i , c. I I , n. 3).

D . 191. Qual culto dobbiamo rendere a Dio?

R . A Dio, e soltanto a Dio, noi dobbiamo rendere il culto supremo, cioè il culto di adorazione.

D . 192. Perché dobbiamo rendere a Dio il nostro culto e adorarlo?

R . Dobbiamo rendere a Dio il nostro culto e adorarlo perch’Egli è il nostro creatore, il nostro provvido conservatore e il nostro ultimo fine.

D . 193. In qual modo dobbiamo noi rendere a Dio il nostro culto e adorarlo?

R . Noi dobbiamo rendere a Dio il nostro culto e adorarlo in quanto Creatore di tutte le cose, provvido conservatore, primo principio ed ultimo fine, e ciò — come la natura stessa, e più ancora la rivelazione ci suggerisce — mediante atti di religione tanto interni quanto esterni, il principale dei quali è il sacrificio, che a nessuna creatura può venir offerto.

D . 194. In qual modo si pecca contro il primo comandamento del Decalogo?

R . Si pecca contro i l primo comandamento del Decalogo:

1° con la superstizione, ossia l’idolatria, la divinazione, la vana osservanza, lo spiritismo, il quale ultimo si riduce in fondo, alla vana osservanza e alla divinazione;

2° con l’irreligione, cioè, con l’omettere Fatto di culto a cui siamo tenuti, col sacrilegio e con la simonia.

(L’idolatria è quella superstizione per cui il culto divino vien reso a una divinità immaginaria, alla creatura o al demonio. La divinazione, quella superstizione per cui, con l’aiuto del demonio, espressamente o tacitamente invocato, si cerca di scoprire il futuro o l’occulto. La vana osservanza, quella superstizione per cui, nell’intento di conseguire un dato effetto, si mettono in opera mezzi inefficaci, con espressa o tacita invocazione del demonio. Lo spiritismo, quella superstizione, per cui si comunica cogli spiriti malvagi, e si tenta, mediante il loro aiuto, di conoscere occulte cose. Il sacrilegio consiste nel trattare indegnamente una cosa o una persona sacra, oppure un luogo consacrato a Dio o al culto divino. La simonia implica un contratto, il cui oggetto consistendo in cose spirituali, o con queste connesse, ovvero in cose temporali con iscopo religioso, è proibito dal diritto naturale e divino, oppure da quello canonico).

D . 195. Dobbiamo noi rendere il culto anche ai Santi?

R . Anche ai Santi, e massimamente alla beata Vergine Maria, noi dobbiamo rendere un culto inteso ad onorarli e a propiziarci il loro patrocinio; questo culto però è d’ordine diverso ed inferiore, ossia è culto di venerazione (Cat. p. parr, p. III, c. II, n. 7 e segg.).

D . 196. Come si chiama il culto reso a Dio, ai Santi, alla beata Vergine Maria?

R . Il culto reso a Dio si chiama culto di latria, ossia di adorazione; quello reso ai Santi, culto di dulia, ossia di venerazione; quello reso alla beata Vergine Maria, culto di iperdulia, ossia di assai superiore venerazione.

(Il culto di latria è il culto dovuto soltanto a Dio, culto col quale l’uomo professa la propria sudditanza a Dio che ha il pieno e sommo dominio su tutte le creature. Il culto di dulia è il culto col quale veneriamo e onoriamo i Santi come creature care a Dio, figli e amici suoi, come membri di Gesù Cristo, e nostri intercessori presso Dio. La beata Vergine Maria poi, la quale è pur semplice creatura, ma come vera genitrice di Dio, è, al di sopra di ogni altra creatura, congiunta a Dio con ispecialissimo vincolo, viene anche onorata con culto speciale, che chiamasi di iperdulia. — S. Giov. Dam.: De imaginibus, oratio II, 5; III, 41).

D . 197. Dobbiamo noi inoltre venerare le reliquie dei Martiri e degli altri Santi che vivono con Cristo?

R . Noi dobbiamo inoltre venerare le reliquie dei Martiri e degli altri Santi che vivono con Cristo, perché i loro corpi, oltre ad essere stati vive membra di Cristo e tempio dello Spirito Santo, da Cristo aspettano di essere risuscitati e glorificati nella vita eterna; e perché a mezzo delle loro reliquie Dio elargisce agli uomini non pochi benefici. 0) (IV dei Re, 14; XIII, 21; Matt., IX, 20-22; XIV, 36; Atti, V, 15; XIX, 12; Conc. Niceno, II: De sacris imaginibus, actio VII; Conc. di Tr., sess. XXV, De invocatione…. Sanctorum.)

D . 198. Anche alle sacre immagini van dati l’onore e la venerazione che meritano?

R . Anche alle sacre immagini van dati l’onore e la venerazione che meritano, perché l’onore ad esse rivolto si rivolge ai prototipi da esse rappresentati: onde con quei segni di riverenza che ad esse indirizziamo, noi adoriamo Cristo stesso, e veneriamo i santi, di cui esse riproducono le sembianze (Conc. Nic. II, 1. c.; Conc. di Tr. 1. c , S. Cir. Aless.: In Psalm CXIII, 16).

D . 199. Ma allora in qual senso vietò Dio nell’Antico Testamento le immagine e le sculture?

R . Nell’Antico Testamento Dio non vietò in modo assoluto le immagini e le sculture; vietò soltanto che fossero proposte all’adorazione secondo l’uso dei gentili, e ciò per evitare che, onorandosi quasi come divinità quei simulacri, il vero culto di Dio venisse a soffrirne detrimento (Esod, XX, 4, 5; Deut, IV, 15-19; S. Tom, p. III, q. 25,

a. 3, ad I.um).

Art. 2. — DEL SECONDO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 200. Che cosa proibisce Dio nel secondo comandamento del Decalogo: Non nominare il nome di Dio invano?

R . Nel secondo comandamento del Decalogo: Non nominare il nome di Dio invano, Dio proibisce qualsiasi

irriverenza nei riguardi del suo nome (Esod, XX, 7; Lev , XIX, 12; Deut, V, 11).

D . 201. Chi si rende colpevole di tale irriverenza?

R. Si rende colpevole di tale irriverenza chi pronunzia il nome di Dio senza giusto motivo e senza la debita venerazione, chi viola i voti emessi, chi presta giuramenti falsi, temerari ed ingiusti, e più di tutto chi proferisce bestemmie (Lev, XIX, 12; XXIV, 11-16; I V d. Re, XIX, 6 e segg. —

Il voto è una promessa deliberata fatta a Dio e il cui oggetto è un bene migliore. Il giuramento è l’invocazione del nome di Dio chiamato a riprova della nostra credibilità o a conferma di una nostra promessa; il giuramento è falso se quel che si asserisce non è conforme all’interno pensiero; temerario, se emesso in modo assoluto quando manchi invece ogni certezza soggettiva del patto; ingiusto, se nel giuramento assertorio è malvagia l’asserzione, o malvagia la promessa in quello promissorio. La bestemmia è un’espressione ingiuriosa verso Dio. Pio XI, nella Lettera al Vescovo di Verona, del 3 dic. 1924, così descrive la gravità della bestemmia deliberata: « La bestemmia sprezza in maniera oltremodo ingiuriosa la bontà di Dio, poiché, mentre va contro la fede che si professa, non solo contiene in sé la malizia dell’apostasia, ma ne spinge al massimo la gravità, sia con la detestazione del cuore, che con l’imprecazione della bocca. Qualora dunque la bestemmia venga scagliata in piena scienza e coscienza, appunto per quel suo contenuto, che è oltraggio perverso contro Dio stesso autore delle leggi, e implicita abiura della fede, essa è fra tutti i peccati il più grave, anche se ciò non apparisca esternamente dalla gravità degli effetti dannosi ».

D . 202 . Ci è pur vietato di prendere invano il nome dei Santi?

R . Ci è pur vietato di prendere invano il nome dei Santi, e specialmente della beata Vergine Maria, per la stessa ragione che ci obbliga ad onorarli.

Art. 3. — DEL TERZO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D. 203 . Che cosa comanda Iddio nel terzo comandamento del Decalogo: Ricordati di santificare le feste?

R . Nel terzo comandamento del Decalogo: Ricordati di santificare le feste, Dio comanda che i giorni di festa, cioè quelli a Lui sacri, vengano celebrati col culto divino, tralasciandosi gli affari e i lavori corporali (Esod, XX, 8; XXXI, 13; Deut, V, 12-15).

D . 204. Quali erano i giorni di festa nell’Antico Testamento?

R . Nell’Antico Testamento vi erano non pochi giorni di festa, ma il più importante era il giorno del sabbato, chiamato sabbato precisamente perché quello stesso suo nome dava a significare il riposo necessario al culto divino.

D . 205. Perché nel Nuovo Testamento il giorno del sabbato non viene osservato?

R . Nel Nuovo Testamento il giorno del sabbato non viene osservato perché la Chiesa l’ha sostituito con quello della domenica, in onore della Risurrezione di Gesù Cristo e della discesa dello Spirito Santo nella Pentecoste; alla domenica la Chiesa ha aggiunto altre feste ( 2).

 (2) I l comandamento concernente l’osservanza del sabbato, qualora si guardi al tempo assegnato, non fu nè fisso nè costante, bensì mutevole, né aveva carattere morale, ma solo cerimoniale; qualora, invece, si guardi alla sostanza stessa, quel comandamento ha in sé qualcosa d’attinente alla morale e al diritto di natura. Quanto poi all’epoca in cui andava tolta l’osservanza del sabbato, quella fu in cui sarebbero state abolite tutte le altre osservanze e cerimonie del culto ebraico, cioè la morte di Cristo. — Cat. p. parr, p. III, c. IV , n. 4 e segg.)

D. 206 . A che cosa dunque siamo tenuti presentemente riguardo alla santificazione dei giorni di festa?

R. Riguardo alla santificazione dei giorni di festa, siamo tenuti presentemente a santificare, a quel modo che la Chiesa comanda, le domeniche e gli altri giorni di festa da essa prescritti (Più oltre, alle DD. 243 e segg., verrà esposto quanto riguarda i giorni di festa da santificarsi a norma del comandamento della Chiesa).

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (11)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [11]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXV.

Si soddisfa al lamento di coloro che sentono aridità e tristezza nell’orazione.

Primieramente io non dico, che quando Dio visita alcuno, egli non se ne abbia a rallegrare; perché è cosa chiara, che non si può a meno di non sentir allegrezza alla presenza della cosa amata: nè dico, che non abbia a sentir dispiacere della sua assenza quando Egli il castiga con aridità e con tentazioni; che ben veggo io, che non è possibile non sentir di ciò dispiacere: e Cristo medesimo Egli pure sentì l’abbandonamento del suo Padre eterno, quando stando pendente dalla croce disse: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me (Ps. XXI – Matt, XVII, 43. )? Dio mio, Dio mio, perché m’hai abbandonato? Ma quel che si desidera è che sappiamo cavar frutto da questo travaglio e da questa prova colla quale suole il Signore molte volte provare i suoi eletti, e che ci rivolgiamo con fortezza di spirito a conformarci alla volontà di Dio, dicendo: Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu (Ibid. XXVI, 39): Non si faccia, Signore, quello che io voglio, ma quello che volete voi; specialmente non consistendo la santità e la perfezione nelle consolazioni e nel far alta ed elevata orazione, né misurandosi con questo il nostro profitto e la nostra perfezione; ma col vero amor di Dio, il quale non consiste in queste cose, ma in una vera unione e intera conformità alla volontà di Dio sì nelle cose amare come nelle dolci; sì nelle avverse come nelle prospere. Sicché abbiamo da pigliar ugualmente dalla mano di Dio la croce e l’abbandonamento spirituale, il favore e la consolazione, ringraziandolo tanto dell’uno, quanto dell’altro. Se volete, o Signore, diceva quel santo Uomo, che io stia in tenebre; siate benedetto: e se volete, che io stia in luce; siate parimente benedetto. Se mi volete consolare, siate benedetto: e se mi volete tribolare, siate ugualmente sempre benedetto (Thomas a Kempis lib. 3, c. 17, n. 2): e così ci consiglia l’apostolo san Paolo che diciamo noi ancora e facciamo :In omnibus  gratias agite; hæc est enim voluntas Dei in Christo Jesu, in omnibus vobis (I. ad Thess. V, 18): In tutte le cose che vi avverranno, rendete grazie a Dio, perché questa è la volontà sua. Se dunque questa è la volontà di Dio, che altro abbiamo noi da desiderare? Se egli vuole indirizzar la mia vita per questo sentiero tenebroso ed oscuro, io non ho da sospirare per alcun altro che sia più luminoso ed agiato. Dio vuole, che colui vada per una strada per cui non gli manchi né luce né gusti; e che io vada per questo deserto arido e secco, senza provarvi una minima consolazione; non cambierei la sterilità mia colla fecondità di quell’altro. Questo è quello che dicono quelli che hanno aperti gli occhi alla verità, e con questo si consolano. Dice molto bene il padre maestro Avila (M. Avil. Audi filia, cap. 26): Oh se il Signore ci aprisse gli occhi, come ci si renderebbe più chiaro che la luce del sole, che tutte le cose della terra e del cielo sono molto basse per desiderarsi e godersi, se si toglie da esse la volontà del Signore, e che non v’è cosa, per piccola e amara che ella sia, che se si congiunge con essa la sua divina volontà, non sia di gran valore. È meglio senza comparazione lo stare in travagli e afflizioni, in aridità e tentazioni, se così Dio vuole, che quanti gusti, consolazioni e contemplazioni si trovano, se vada da essi disgiunta la divina sua volontà. Ma dirà qualcuno: Se io sapessi, che questa è la volontà del Signore, e che Egli si compiacesse e si contentasse più di questo, facilmente mi ci conformerei e starei molto contento, ancorché io passassi tutta la mia vita in questa maniera; perché ben veggo, che non v’è altra cosa da desiderare, che piacere e dar gusto a Dio, né la vita è fatta per altro: ma mi pare, che Dio vorrebbe pure, che io facessi miglior orazione e con maggiore raccoglimento e attenzione, se io mi ci disponessi: e quel che mi dà fastidio è il credere, che per colpa e tiepidità mia, e per non far io quanto è dal mio canto, me ne sto distratto e arido, senza potermi introdurre nell’orazione: che se credessi e restassi persuaso di fare quanto posso per la mia parte, e che non vi fosse colpa per me, non ne sentirei rammarico alcuno. È molto ben appoggiata questa querela: e su questo punto non vi resta a dir altro che possa avere più forza; poiché a questo si vengono a restringere tutte le ragioni di quelli che hanno simili doglianze: onde se soddisfaremo bene a questo, faremo un gran fare, per essere tanto comune e ordinario questo lamento; non essendovi alcuno, per santo e perfetto che siasi, che in alcuni tempi non senta queste aridità e abbandonamento spirituali. Lo leggiamo del beato S. Francesco e di S. Caterina da Siena, con tutto che siano stati tanto accarezzati e favoriti da Dio  e S. Antonio abbate, con tutto che fosse uomo di così alte orazione, che le notti gli parevano un soffio, e si lamentava del sole che si levasse troppo presto, pure alle volte era tanto travagliato e agitato da pensieri cattivi e importuni che gridava e alzava le voci a Dio, dicendo: Signore, io vorrei pur esser buono, e i miei pensieri non mi lasciano esserlo: e S. Bernardo si lamentava di questo stesso, e diceva: Exaruit cor meum, coagulatum est sicut lac, factum est sicut terra sine aqua; nec compungi ad lacrymas queo, tanta est duritia cordis: non sapit Psalmus; non legere libet; non orare deleclat; meditationes solitas non invento. Ubi illa inebriatio spiritus? Ubi mentis serenitas. et pax, gaudium in Spiritu sancto (D. Bern. Serm. 54 sup. Caut.)? 0 Signore, che mi s’è inaridito il cuore, mi s’è ristretto e rappreso come latte; sta come terra senz’acqua, né mi posso compungere né muover a lagrime, tanta è la durezza del mio cuore: non istò bene nel Coro; non gusto della lezione spirituale; non mi piace la meditazione. O Signore, che io non trovo nell’orazione quel che soleva; ove è quei l’inebriarsi l’anima del vostro amore? ove è quella serenità, quella pace e quel gaudio nello Spirito santo? Di maniera che per tutti è necessaria questa dottrina, e confido nel Signore che soddisfaremo a tutti. Cominciamo dunque di qui. Io vi concedo, che la vostra colpa è la cagione della vostra distrazione e aridità, e del non potervi internare nell’orazione: e così è bene che crediate e ne stiate persuasi, e che diciate, che per i vostri peccati passati e per le vostre colpe e negligenze presenti il Signore vi vuol castigare col non ammettervi ad intrinsichezza con lui nell’orazione, col non potere provare raccoglimento, né  quiete, né attenzione in essa, perché non lo meritate, anzi più tosto lo demeritate. Ma non cammina perciò la conseguenza, che ve n’abbiate da lamentare; anzi ne ha da seguire una conformità molto grande alla volontà di Dio in questo. Volete vederlo chiaramente? De ore tuo te judico (Luc. XIX, 25). Dalla vostra medesima bocca e dall’istesso vostro detto vi voglio giudicare. Non conoscete voi e non dite, che per i vostri peccati passati e per le vostre colpe e negligenze presenti meritate gran castigo da Dio? sì al certo: l’inferno ho io meritato molte volte, e così nessun castigo sarà grande per me; ma ogni cosa sarà misericordia e singolare favore al confronto di quello ch’io merito; e il volermi Dio mandare qualche castigo in questa vita sarà preso da me per particolar beneficio; perché lo terrò come per pegno dell’avermi Egli perdonato i miei peccati e di non volermi castigare nell’altra vita, poiché mi castiga in questa. Basta, non fa bisogno d’altro: io mi contento di questo; ma non se ne vada ogni cosa in parole; veniamo ai fatti. Questo è il castigo che Dio vuole che patiate adesso per i vostri peccati: queste tristezze, questi desolamenti, queste distrazioni, queste aridità, quest’abbandonamento spirituale, questo diventarvi il cielo di ferro e la terra di bronzo, questo rinchiudervisi e nascondervisi Dio, e che non troviate introduzione nell’orazione; con questo vuol Dio castigarvi adesso e purgare le vostre colpe. Non vi pare, che i vostri peccati passati e le vostre colpe e negligenze presenti meritino bene questo castigo? Sì certamente: e ora dico, che è molto piccolo rispetto a quello che io merito, e che è molto pieno di giustizia e di misericordia: di giustizia, perché avendo io tante volte serrata a Dio la porta del mio cuore e fattomi sordo quando Egli mi batteva ad esso colle sante sue inspirazioni, ed io tante volte andava loro resistendo; giusta cosa è, che adesso, ancorché io lo chiami, si faccia sordo e non mi risponda, né voglia aprirmi la porta, ma me la serri in faccia. Giustissimo è questo castigo, ma molto piccolo per me, e così è molto pieno di misericordia, perché lo meritava molto maggiore. Conformatevi dunque alla volontà di Dio in questo castigo, e ricevetelo con rendimento di grazie, poiché vi castiga con tanta misericordia, e non proporzionatamente a quello che meritate. Non dite voi, che meritavate l’inferno? come dunque avete ardire di chieder a Dio consolazioni e gusti nell’orazione? ed avere intrinsichezza e famigliarità con Lui in essa, e una pace, quiete e riposo di figliuoli molto amati e accarezzati? Come avete ardire di formar doglianza del contrario? non vedete, che questa è gran presunzione e gran superbia? Contentatevi che Dio vi tenga in casa sua, e vi consenta lo stare alla sua presenza, e stimate, e riconoscete questo per grazia e beneficio molto grande. Se avessimo umiltà nel cuore, non avremmo lingua né bocca per lamentarci, comunque ci trattasse il Signore; e così cesserebbe facilmente questa tentazione.

CAPO XXVI.

Come convertiremo l’aridità e le tristezze e desolazioni interne in molto buona ed utile orazione.

Non solo deve cessar in noi altri questo lamento, ma abbiamo anche da procurare di cavar frutto dalle aridità, dalle tristezze e desolazioni interne, e di convertirle in molto buona orazione. E a quest’effetto aiuterà per la prima cosa quel che dicevamo trattando dell’orazione (Tract. V, c. 19); cioè quando ci vedremo a questo termine, dire: Signore, in quanto questa cosa procede da mia colpa, certo mi dispiace grandemente e mi dolgo della colpa che io ne ho; ma in quanto è volontà vostra, e pena e castigo da me giustamente meritato per i miei peccati, io l’accetto, Signore, di molto buona voglia: e non solamente adesso, o per poco tempo, ma per tutta la vita, ancorché avesse da essere molto lunga, mi offro a questa croce, e sto molto disposto a portarla, anche con rendimento di grazie. Questa pazienza e umiltà, e questa rassegnazione e conformità alla volontà di Dio in questo travaglio, piacciono più alla Divina Maestà Sua, che i lamenti e le soverchie angosce, per non trovare introduzione nell’orazione, o perché si sta ivi con tanti pensieri e con tanta distrazione. Ditemi un poco: chi vi pare, che piacerà più al padre e alla madre, quel figliuolo che si contenta di qualsivoglia cosa che gli diano, o pure quell altro che non si contenta mai di cosa alcuna, ma sempre va borbottando e lamentandosi, per parergli esser poco tutto quello che gli danno, e che gli dovrebbero dare di più, o qualche cosa di meglio? È chiaro, che sarà il primo. Or cosi passa la cosa con Dio. Il figliuolo paziente e muto il quale si contenta e si conforma alla volontà del suo Padre celeste in qualsivoglia cosa che gli mandi, benché aspra ed avversa, e benché sia un osso duro e spolpato, questi è quel desso che piace e dà più gusto a Dio che l’altro il quale è di fastidiosa contentatura, e sempre si va lamentando e borbottando, perché non ha e perché non gli danno. Ma dimmi, chi fa meglio, e chi muoverà più a compassione e misericordia di sé, e a fargli limosina, il povero che si lamenta, perché non gli rispondono presto e perché non gli è dato niente, o pur il povero che continua a stare alla porta del ricco con pazienza e silenzio, e senza alcun lamento; ma dopo aver battuto alla porta, sapendo, che lo hanno inteso, se ne sta aspettando al freddo e all’acqua, senza tornar a battere, e senza sapersi lamentare, e sa il padrone di casa, che sta aspettando con quell’umiltà e pazienza? Chiara cosa è, che questi muove assai; e che quell’altro povero superbo più tosto dà noia e muove a sdegno. Or così passa anche la cosa con Dio. E acciocché si vegga meglio il valore e frutto di questa orazione, e quanto è grata a Dio, domando io: che miglior orazione può far uno, e che maggior frutto può cavar da essa, che molta pazienza ne’ travagli, molta conformità alla volontà di Dio e molto amore verso di Lui? Che altra cosa andiamo a fare nell’orazione, che questa? Or quando il Signore ti manda aridità e tentazioni nell’orazione, conformati alla volontà sua in quel travaglio e abbandonamento spirituale, e farai uno de’ maggiori atti di pazienza e d’amor di Dio che tu possa fare (Supra cap. 3). Dicono, e molto bene, che l’amore si mostra nel soffrire e nel patire travagli per la cosa amata; e che quanto maggiori sono i travagli, tanto maggiormente si mostra l’amore. Or questi sono de’ maggiori travagli e delle maggiori croci e mortificazioni de’ Servi di Dio, e quelle che maggiormente sentono gli uomini spirituali; poiché presso loro i travagli corporali toccanti roba, sanità e beni temporali, non sono di considerazione in paragone di questi. L’arrivar dunque uno ad esser molto conforme alla volontà di Dio in simili travagli, imitando Cristo nostro Redentore in quell’abbandonamento spirituale che patì sulla croce, e l’accettar questa croce spirituale per tutta la vita, quando mai piacesse al Signore di dargliela, solo per dar gusto a Dio, è molto alta e molto utile orazione, e cosa di gran perfezione, dico tanta, che alcuni chiamano questi tali eccellenti Martiri (Lud. Blos, specul. spir. cap. 6). – Domando io inoltre: che cosa vai a fare nell’orazione, se non a cavarne umiltà e cognizione di te stesso? quante volte hai chiesto a Dio, che ti dia a conoscere chi tu sei? Ecco che Dio ha esaudita la tua orazione, e te lo vuol far conoscere in questo modo. Alcuni fondano il conoscimento di sé medesimi nell’avere un gran sentimento de’ propri peccati e in ispargere molte lagrime per essi: e s’ingannano, perché questo è Dio, e non tu. L’esser come un sasso, questo sei tu: e se Dio non percuote il sasso, non uscirà da esso acqua né miele. In questo sta il conoscer se medesimo, che è principio di mille beni: e di questo ne hai un’assai abbondante materia per le mani quando stai nel termine che s’è detto: e se caverai questo dall’orazione, avrai cavato da essa molto gran frutto.

LO SCUDO DELLA FEDE (133)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO XII.

I martiri più moderni mostrano la verità della Chiesa Romana.

I. Quei ladri cui non riesce l’arte di fabbricare monete false, si riducono in fine a rubar le vere. Di tale schiatta appariscono i novatori. Questi, dappoi di avere tentato in vano d’incoronar come martiri uomini di vita infamissima, che per l’ostinazione mostrata in morte son degni di supplizio, non di trionfo; tentano di togliere alla Chiesa cattolica i veri martiri, con asserir bestemmiando, che quel sangue sì bello, sparso ne’ primi secoli in tanta copia, conferma la loro pretesa riformazione. – In udir ciò, mi sovviene di quella pazza bestialità di Caligola, che mandò a troncare il capo di Giove Olimpico, e collocarlo sul busto di una sua statua, per apparire un nume in terra chi folle non arrivava ad esservi neppur uomo. Anche i novatori, per dare alla loro perfidia qualche ombra di religione, osano di affermare, sé, e non i Cattolici, essere i successori di quegli antichi Cristiani i quali fiorirono ai primi secoli della Chiesa nascente con tanta gloria; e così ancora, sé essere i veri eredi del loro spirito e della loro santità. Parvi, che un capo d’oro di tanta carità, qual fu quella de’ sacri martiri, uomini per lo più sì mortificati, prima che morti, stia bene ad un tronco di vita epicurea, qual è quella dei novatori, uomini sì nemici della castità, dell’astinenza, dell’austerità, della penitenza cristiana, che per larva han la croce, e il ventre per idolo? Inimicos crucis Christi, quorum Deus venter est (Philip. III. 18).

II. Ma poniam da banda i rimproveri, a niuno discari più, che a chi più li merita; e se i traviati non vogliono lasciarsi ridur da noi sulla buona via, non ci lasciamo almanco noi deviare dai traviati. Avranno questi forse animo di affermare, che loro siano i martiri più moderni? E come dunque volersi arrogar gli antichi, se tra gli uni e gli altri non solamente non v’è differenza alcuna, ma v’è anzi una somma conformità? (Io non ho mai potuto comprendere il perché i novatori ed i riformati ci parlino di martirio essi, che hanno pronunciato bastare la fede essa sola senza lo opere. Se a salvarmi occorre sol questo, che io creda interiormente alla parola di Dio, non è egli un dar calci alla logica il sostenere, che il martirio è una virtù cristiana, che argomenta la divinità della Religione cristiana? 0 forsechè il martirio non è un atto religioso esteriore, anzi il più sublime tra gli atti Cristiani?).

III. Chi si ponesse a sostenere, che in Roma l’antica architettura sì sia perduta, non si potrebbe convincere in miglior guisa che con alzare le piante delle moderne fabbriche, e confrontarle alle regole dell’antiche: perché, mentre sì nell’une, sì nell’altre apparissero espressamente i medesimi ornamenti, le medesime proporzioni, converrebbe di necessità confessar, che regna oggi in Roma la medesima arte di piantar fabbriche che vi regnò anticamente. All’istessa forma, mentre quelle moli eccelsissime di virtù, quali sono i martiri, si veggono alzate con una simmetria somigliante, sì negli andati secoli, sì ne’ nostri, converrà dire, che nella Chiesa Cattolica v’è un artefice stesso che le lavora, cioè lo Spirito Santo; e v’è un’arte stessa di lavorarle, che è la sua grazia. Però a restrignerci discorriamo così.

IV. Due cose si richieggono a un vero martire: la pena da lui sopportata, e le virtù praticate nel sopportarla (S. Th. 2. 2. q. 123. a. 1). Ora, a cominciar dalla pena: se andiamo in quel teatro di crudeltà che a’ nostri giorni ha tenuto aperto il Giappone, e lo tiene ancora; troveremo che i martiri di quella chiesa cedono, è vero, in questo ai martiri antichi, che non tutti sono ancora riconosciuti autenticamente per tali dalla santa Chiesa Romana, a cui tocca ammetterli: onde sol si chiamano martiri per usanza, cioè secondo il modo comune di favellare che hanno i Cattolici, avvezzi, fino da’ primi tempi, a conferire l’onore di si gran titolo a tutti coloro, cui, se fu levata la vita, fu verisimilmente levata in odio della fede di Cristo da lor protetta: che sarà il senso qui ancor seguito da noi. Del rimanente, nell’acerbità de’ tormenti la novella cristianità giapponese, più che verun’altra nazione, è ita d’appresso a’ primi eroi della cristianità già nascente: senonchè, se della giapponese mi piace di ragionare, ancora più e delle altre, è perché di questa son testimoni in buona parte gli olandesi medesimi, cioè gli eretici odierni, ne’ diari di là trasmessi in Europa: onde non si potrà sospettare d’una verità che è confermata fin dagli stessi avversari su’ loro fogli volanti.

I .

V. Dirò pertanto che il pestare la vita con le mazze ai nuovi Cristiani, il viso co’ piedi, il decapitare, il dimembrare, l’immergere nelle carni ferri roventi, lo stirare sulle cataste, il sospendere sulle croci, come tormenti volgari furono quivi disusati ben tosto da quei crudeli, affin di sostituirne dei più tremendi, quali poi furono l’ardere a fuoco lento in più ore quei generosi confessori di Cristo, affinché si consumassero a poco a poco; strappare loro con tenaglie la pelle, le membrane, i muscoli, i nervi, e dipoi così spolpati reciderli a pezzo a pezzo con coltellacci male affilati; tenerli appesi per più giorni dai piedi legati in alto, e col capo pendente dentro una fossa; segare ogni dì loro il collo interrottamente con una canna, per lo spazio talor di una settimana; sommergerli a parte a parte nell’acque bollentissime del monte TJngen, e poi levarli, perché marcissero vivi, e poi tornare a sommergerli già marciti. E perché la morte, quantunque così stentata, parca pur troppo veloce all’insaziabile crudeltà di quei fieri persecutori, scacciarli alla campagna su ‘l cuor del verno, che là stride orrendissimo, in dì nevosi, e scacciarveli ignudi, o al più coperti di alcune lacere stuoie che loro talor lasciavano per decenza, senza altro cibo che di quelle radiche amare le quali si raccogliessero in tanto ghiaccio; senza fuoco, senza tetto, senza tugurio, mercé le guardie d’intorno, che loro divietavano ogni riparo; sicché le povere madri eran ridotte ad ammassare i lor teneri figliuoletti sopra il terreno, e coprirli d’ erbe, mentre bene spesso erano tanti, che non potevano stringerli tutti al seno. E v’ha chi rimembrasi di aver mai lette in altre istorie maniere di tormentare più ree di queste?

VI. Ecco però, che nella pena non sono i moderni eroi del Giappone inferiori agli eroi degli antichi secoli. Passiamo ora alle virtù, o cagioni, o compagne di tanta pena. La corona magnifica del martirio è composta di quattro gioie del paradiso, cioè di quattro segnalate virtù, di fortezza e di pazienza nell’atto che si chiama imperato, di carità e di fede nell’imperante (S. Th. 2. 2. q. 124. a.2. ad 2). Ora per conoscer più chiara la fortezza e la pazienza di simili giapponesi, sarà buon consiglio lasciare da parte gli uomini, e favellare sol delle femmine e de’ fanciulli, in cui tali virtù appariranno tanto più prodigiose, quanto più superiori alla lor natura. La fortezza naturale richiede in prima una robustezza di membra proporzionate, e così ancor la pazienza: onde il corpo ben formato in sé, e risentito ne’ muscoli; l’età di mezzo tra la gioventù e la vecchiaia; il temperamento misto di bile e di flemma, sogliono darsi per contrassegni di prode e di poderoso. Molto alla natura anche aggiunge l’educazione; molto anche l’abito; onde riescono più forti i soldati veterani, che i nuovi: e più pazienti quei che sono allevati sulle montagne ai rigori della stagione, di quei che al piano vissero lungamente tra gli agi e tra l’abbondanza delle loro coltivazioni domestiche.

VII. Pertanto chi più lontano dalla fortezza nell’incontrare i pericoli, che una debole femminella, la quale per nessuno di questi capi può mai sperare un’indole superiore al sesso donnesco? Mulierem fortem quis inveniet? E chi ancor più lontano dalla pazienza nel sostenerli  L’istesso dicasi a proporzione dei teneri pargoletti che per l’età appena sono abili a divisare altro bene che il dilettevole, non che a preferire l’onesto (che è un bene riposto di là da’ sensi) a qualunque bene sensibile, e a preferirvelo in faccia a mille spietate carneficine. E tuttavia, perché scorgasi, che la virtù de’ Cristiani perseguitati non nasce nelle miniere della natura, ma della grazia, le femmine ed i fanciulli hanno dati, come ne’ secoli primi, cosi anche in questi, esempi di costanza i più segnalati che mai si udissero al mondo. Non mi permette la brevità di far che accennare in poche parole fatti sì ampli, che soli meriterebbonsi un gran volume: e ben anche l’hanno, mentre v’è chi con pari e pietà di spirito e perizia di stile gli trasse a luce.

VIII. Vi ha memoria di una Tecla arsa viva, con cinque suoi fìgliuolini intorno di lei, ed uno dentro di lei, mentre ne era incinta (Bart. p. 2): v’è dico memoria, che giunta al luogo del supplizio, trasse fuori un bell’abito tutto nuovo, e se ne vesti in segno di festa, e acceso il fuoco, mentre cosi struggevasi lentamente, rasciugava le lagrime ad una sua bambina di tre anni che agonizzante tenevasi in sulle braccia, e la confortava con la speranza della gloria celeste già già vicina. Una povera donna vendé una cintola, per potere col prezzo d’essa comperarsi un palo, a cui legata ardesse viva per Cristo (P. 1). Un’altra si addestrava a star forte, col prendere spesso in mano ferri roventi, con che giunse in fine ad ottenerlo, morendo anch’ella lentamente nel fuoco (P. 2). Una madre scoperse a’ persecutori una piccola sua figliuolina, perché morisse seco qual cristiana ed un’altra avvisata della sentenza già data contro di lei, fe’ coi suoi di casa una piccola processione, cantando intorno intorno inni di lode al Signore per ringraziarlo (P. 2). Una scrisse frettolosamente al marito da sé lontano invitandolo a morir seco (P. 1). Un’ altra diede al tiranno una supplica, e in essa le ragioni del non dover venire esclusa sola lei dalla morte, che in fine ella consegui (P. 1): ed una, veggendosi ucciso a un tratto il marito, corse dietro ai carnefici, addimandando una simil grazia per sé che gli era consorte, come nel talamo, cosi, e ancora più, nella fede (P. 2. p. 59).

IX. Non differente dalla generosità delle madri fu quella dei pargoletti. Un fanciullo di nove anni, corse dove poteva essere decollato, e si levò da sé le vesti dal collo, per porgerlo nudo al taglio (P. 1). Una fanciulletta d’otto anni, non potendo andare da sé, come cieca affatto, si afferrò stretta alla madre, e con essa pervenne a morir bruciata (P. 2). Uno di anni tredici finse di averne quindici per entrare nel ruolo dei condannati (P. 2. p. 503). Due fanciulli, sentenziati a morire, si misero dolcemente a consolare la vecchia zia, che essi credevano piangere di tristezza, mentre piangeva d’invidia da lei portata a chi moriva per Cristo (P. 1). Un altro di dodici anni brillò di giubilo in sulla croce, né sol brillò, ma si commosse più che poté con le gambe, come se bramasse ballarvi (P. 1). E perché il coraggio più che mai si riconosce ai pericoli repentini, chiudiamo con questo solo quello che rimarrebbemi ancora a dir di meraviglioso. Uno di cinque anni svegliato (mentre egli più soavemente dormiva) perché venisse al supplizio; senza smarrirsi chiese di subito i suoi panni di festa, e vestitosi prestamente, fu sulle braccia del carnefice stesso portato al luogo della decollazione a lui destinata: dove inginocchiatosi vicino al padre, poco fa tagliato in più pezzi, con le mani giunte, e con gli occhi levati al cielo, aspettò il colpo con un atto si generoso che il manigoldo, vinto dalla pietà, rimise in fine la scimitarra nel fodero; e perché il figliuolo, che s’era da se stesso spogliato dal mezzo in su, stava pur tuttora aspettando chi il decollasse, ottenne al fine la grazia da uno, che mal esperto non seppe né anche farlo in un colpo solo, forse perché si ammirasse più la costanza di quel bambino che seppe quivi stare imperterrito fino al terzo che lo fini (P. 1).

X. Come poi ir fuoco interiore d’una fornace comprendesi agevolmente dalle vampe accese che l’escono dalla bocca; così dalla intrepidezza del volto, dalla generosità delle parole, dalla grandezza de’ portamenti, con cui furon usi di accompagnare il loro trionfo questi che abbiam rammentati, ed altri lor simili, agevol cosa ci sarà di comprendere ancora quello che lor bolliva nel profondo del seno, cioè la fede e la carità che servivan loro di anima ad una morte sì coraggiosa; onde non resti neppur minimo luogo da dubitare, se nella cristianità giapponese abbiano i suoi fedeli imitata assai da vicino la virtù di quei grandi martiri primitivi che diedero loro norma.

II.

XI. Che diran pertanto gli eretici a queste cose? Negheran forse qualunque credito ai fatti da me narrati? Ma come, se in parte ne furon essi medesimi spettatori? Ed oltre a ciò, sono tali fatti riferiti da altri uomini di virtù tanto singolari, che per tutto quell’oro che è mai venuto sulle flotte di Olanda non s’idurrebbono a mentir lievissimamente, non che a mentire sacrilegamente in materia di religione, con rendersi però degni del fuoco eterno. Diranno, che questa intrepidezza era per verità da natura indomita, qual da noi fu notata ne’ donatisti? Ma come, se tale intrepidezza trovavasi in donne, in donzellette, e in garzoncelli, tutti innocenti, né si era trovata mai prima che tra lor s’inoltrasse la fede romana? Se questi eroi giapponesi fossero stati di quella tempra, di cui era formato quel Fermo imperadore di Roma (Vopiscus in Firmo), che prosteso sopra il terreno poteva sostenere sul petto ignudo un’incudine martellata con braccia robustissime da due fabbri, confesserei, che la tara avrebbe qualche apparenza di verità. Ma qual apparenza può averne, dove sappiam che le femmine e che i fanciulli son si cascanti, che crollano a qualunque urto, e svengono alla vista dell’altrui sangue, non che del proprio? Quei cuori dunque che non sostengono di mirare senza orrore le piaghe di un ferito, benché trattate delicatissimamente da mano medica, avran poi potuto naturalmente esultare in faccia ai tiranni, e vincere con la fermezza della loro tolleranza, la ferocità de’ loro tormentatori?

XII. Diranno, che non tutti riuscirono di costanza sì prodigiosa: ma che, se molti ressero al furore di tante persecuzioni, molti anche caddero. Sì: ma questo parimente addivenne nei tempi antichi: tanto che il numero de’ caduti costrinse i concili a formare più canoni intorno ad essi, come specialmente apparisce da s. Cipriano (L. 1. ep. 2. et 1. 3. ep. 14. 15. 16. 17. 19). Senzachè ci viene ciò di vantaggio a manifestare, che la costanza ne’ martiri è dalla grazia: onde chi manchi alla medesima grazia, rimane in fine spogliato di tal costanza, data dall’alto a guisa di vestimento che si pone a un tratto e si leva: Donec induamini virtute ex alto (Luc. XXIV, 49). E a questo fine permette Iddio le cadute, perché non attribuiscasi alla natura ciò che appartiene alla grazia, qual suo favore. Se la luna fosse piena sempre ad un modo, potrebbe credersi, che ella avesse in sé la sorgente della sua luce: ma mentre mirasi ad ora ad ora mancante, si fa palese, che quel bellissimo argento di cui si veste, non è dalle miniere a lei nate in casa; è dono del sole, o è piuttosto un imprestito fatto a tempo.

XIII. Finalmente, come un vero prodigio, quantunque solo, basterebbe a provare la verità della Religione romana; così basterebbe a provarla anche un vero martire, come quegli che non è per certo un prodigio minor degli altri, anzi di gran lunga è maggiore (Potrebbe dirsi della divinità di nostra religione ciò stesso, che della verità in generale. In quella guisa che un Vero anche solo sarebbe sufficiente a dimostrare l’insussistenza dello scetticismo, così un martire, fosse pur solo, varrebbe contro l’incredulo, o l’eretico, che impugnano la divinità del Cattolicismo.). Ora chi si avviserà, che fra tanti, di cui la Chiesa medesima ne ha modernamente colmi i suoi fasti, non se ne trovi neppur uno di vero? Sarà dunque possibile che ai Cattolici solamente riesca di fingerne innumerabili, mentre alle sette non è riuscito di fingerne mai veruno che non soggiaccia alla sua eccezione evidente? Non accade però, per non confessare l’indubitato, concedere l’impossibile. Ma questo appunto è ciò che tanto vien da me detestato in questi protervi increduli; voler i miseri faticar più per mantenere la loro incredulità, di quel che faticherebbero per deporla.

XIV. Rendansi dunque tutti alla verità conosciuta, da che più glorioso è il cederle prontamente, che il contrariarla; e si concluda, che come la vera Chiesa è stata in tutti i secoli adorna di nuovi prodigi, così in tutti i secoli è stata parimente arricchita di nuovi martiri (V. Boz. 1. 7. sig. 27): la continuazione de’ quali è tanto illustre argomento di verità, che siccome non è mai restata interrotta fino a quest’ora, così né  anche dovrà restare interrotta d’ora innanzi, ma piuttosto accresciuta ove ciò fia d’uopo, conforme appunto si è veduto seguir questi ultimi tempi, quando avendo più che mai l’eresia procurato di porre a fondo la navicella di Pietro, è accorsa la provvidenza a sostenerla anche più, con possente braccio. Nel resto fra tanti i quali si leggono ne’ moderni annali aver data la loro vita animosamente per la fede cristiana, chi sono più? I Cattolici, o riformati? Che dissi più? Neppur uno de’ riformati potrà contarvisi. Vengano pur essi dunque, e si arroghino, se si può, quello che è sì chiaro esser nostro.

FINE DEL SECONDO VOLUME.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (10)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [10]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXIII.

D’un mezzo che ci aiuterà grandemente a sopportar bene e con molta conformità alla volontà di Dio i travagli che il Signore ci manda sì particolari, come universali, che è l’avere una vera cognizione e dolore de’ nostri peccati.

È comune dottrina de’ Santi, che Dio S. N. suol mandare questi travagli e gastighi generali ordinariamente per i peccati commessi, come consta dalla sacra Scrittura che di ciò è piena: Induxisti omnia hæc propter peccata nostra; peccavimus enim, et inique egìmus… Et præcepta tua non audivimus… Omnia ergo, quos induxisti super nos, et universa, quee fecisti nobis, in vero judicio fecisti (Dan. III, 28 et seq.). E così veggiamo che Dio castigava il popol suo e lo dava in potere de’ suoi nemici quando l’offendeva; e lo liberava quando pentito de’ suoi peccati faceva penitenza e si convertiva a lui. E per questo Alchiore, capitano e principe de’ figliuoli di Amon, avendo dichiarato ad Oloferne, come Dio teneva sotto della sua protezione il popolo d’Israele, e che lo castigava quando si scostava dalla sua ubbidienza; dopo di ciò gli soggiunse, che prima però di assalirlo procurasse di sapere, se per allora si trovava in istato di aver offeso il suo Dio; perché essendo così, poteva esser certo della vittoria: quando no, che lasciasse quell’impresa, perché non gli sarebbe riuscita, né da essa avrebbe riportato altro che vituperio e confusione: perché Iddio avrebbe combattuto pel suo popolo, contra il quale nessuno avrebbe potuto prevalere (Judith v, 5). E notano particolarmente questa cosa i Santi sopra quelle parole che Cristo nostro Redentore disse a quell’infermo di trentotto anni che stava a canto alla probatìca Piscina, dopo d’averlo risanato: Ecce sanus factus es: jam noli peccare, ne deterius tibi aliquid contingat (Jo. v, 14): Guardati dal più peccare per l’avvenire; acciocché non t’avvenga qualche cosa di peggio. Secondo questo dunque uno de’ mezzi che ne’ travagli e nelle calamità sì generali come particolari ci aiuterà grandemente a conformarci alla volontà di Dio e a sopportarli con molta pazienza, sarà l’entrar subito dentro di noi stessi, e il considerare i nostri peccati, e quanto abbiamo meritato quel castigo: perché in questo modo qualsivoglia cosa avversa che accada sarà da noi sopportata bene, e la giudicheremo per minore di quello che dovrebbe essere in riguardo alle nostre colpe. S. Bernardo e S. Gregorio trattano molto bene questo punto. S. Bernardo dice: Culpa vero ipsa, si intus sentitur perfecte, utique exterior pæna parum, aut nihil sentitur: Se la colpa interiormente si sente come dev’esser sentita, poco o niente sentirassi la pena esteriore: Sicut sanctus David non sentit injuriam servi conviciantis, memor fìlii persequentis (D. Bern. serm, de altit. et bassit. cordis): Siccome il santo re David non sentiva le maledicenze di Semei, veggendo la guerra che gli faceva il proprio figliuolo: Ecce fllius meus, qui egressus est de utero meo, quærit animam meam; quanto magis nunc filius Jemini (1(1) II. Reg. XVI, 11)? Mi sta perseguitando, diceva, il mio proprio figliuolo; che gran cosa è, che faccia questo uno straniero? S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Et intelligens, quod multo minora exigaris ab eo, quam meretur iniquitas tua (Greg. lib. 10 mor. o. 8 in Job XI, 6), dichiara questo con una buona similitudine: Siccome quando l’infermo sente la postema malignatasi e la carne infracidita, si mette di buona voglia nelle mani del chirurgo, acciocché apra e tagli ove e come gli pare; e quanto più malignata e infracidita è la piaga, di tanto miglior voglia comporta il ferro e il bottone di fuoco; così quando uno sente da vero la piaga e l’infermità che il peccato ha cagionata nella sua anima, riceve di buona voglia il cauterio del travaglio e della mortificazione e umiliazione con che Dio vuol medicar quella piaga e cavarne la marcia. Dolor quippe flagelli temperatur, cum culpa cognoscitur: Si mitiga, dice S. Gregorio, il dolor del flagello quando si conosce la colpa. E se tu non pigli di buona voglia la mortificazione e il travaglio che ti si porge, è perché non conosci l’infermità delle tue colpe; non senti il marciume che è dentro, e così non puoi tollerar il fuoco e il rasoio. Gli uomini santi e i veri servi di Dio non solamente accettavano queste cose di buona voglia, ma le desideravano e le domandavano ben da vero a Dio. E così il santo Giob diceva: Quis det, ut veniat petilio mea… Et qui cæpit, ipse me conterat: solvat manum suam, et succidat me? Et hæc mihi sit consolatio, ut affligens me dolore, non parcat (Job VI, 8,9, 10). E il profeta David: Proba me, Domine, et tenta me: — Quoniam ego in flagella paratus sum: — Bonum mihi, quia umiliasti me (Psal. XXV, 2; Ibid. XXXVII, 18; Ibid. CXVIII, 71). Talmente desiderano i servi di Dio, che la Maestà Sua li castighi e umilii in questa vita, dice il citato Santo (D. Greg. lib. 7 mor. c. 7, 8.), che più tosto s’attristano, quando da un canto considerano le loro colpe e dall’altro veggono che Dio non gli ha castigati per esse: perché sospettano e temono, che ciò sia per voler differir loro il castigo nell’altra vita ove sarà tanto più rigoroso. E questo è quello che soggiunge Giob: Et hæc mihi sit consolatio, ut affligens me dolore, non parcat (Job VI, 10.): come se avesse detto: Dappoiché ad alcuni Dio perdona in questa vita, per gastigarli poi eternamente nell’altra; non perdoni Dio a me in questa maniera nella presente vita, acciocché mi perdoni dipoi in eterno: castighimi qui Dio, come pietoso padre, acciocché non mi castighi poi eternamente come giudice rigoroso; che non mi lamenterò né mormorerò de’ suoi flagelli: Nec contradicum sermonibus Sancti (Jo. VI, 19): che anzi questa sarà la mia consolazione. Questo ancora è quello che diceva S. Agostino: Hic ure, hic seca, Me nihil mihi parcas; ut in æternum parcas: Signore, abbruciate e tagliate di qua, e non mi perdonate cosa alcuna in questa vita; acciocché poi mi abbiate a perdonare per sempre nell’altra. E grande ignoranza e cecità nostra il sentir tanto amaramente i travagli corporali e tanto poco gli spirituali. Non debbono essere sentiti tanto i travagli quanto i peccati. Se conoscessimo e ponderassimo bene la gravezza delle nostre colpe, ogni castigo ci parrebbe piccolo: e diremmo quello che diceva Giob : Peccavi, et vere deliqui, et, ut eram dignus, non recepì (Job XXXIII, 27); parole che avremmo da portar sempre scritte nel cuore e da spesso averle su la lingua. Ho peccato, Signore, e veramente ho delinquito ed ho offesa la Divina Maestà Vostra, e non m’avete castigato come io meritava. Tutto ciò che possiamo patire in questa vita è un niente in comparazione di quello che merita un solo peccato: Intelligeres, quod multo minora exigaris ab eo, quam meretur iniquitas tua (Job XI, 6). Chi considererà, che ha offesa la Maestà di Dio, e che perciò ha meritato di star nell’inferno eternamente, che affronti, che ingiurie, che dispregi non riceverà di buona voglia, in ricompensa e soddisfazione di tante e tali offese? Si forte respiciat Dominus afflictionem meam, et reddat mihi Dominus bonum prò malediction hac hodierna, diceva David quando Semei lo ingiuriava con tante maldicenze (II. Reg. XVI, 12). Lasciatelo stare, dicami pur quanto male mi può dire, mi vituperi, e mi carichi d’ingiurie e d’improperi quanto sa e può; che forse con questo il Signore si terrà per contento, pagato e soddisfatto per i miei peccati, ed avrà misericordia di me; il che sarà grande felicità mia. In questa maniera abbiamo noi altri da abbracciare i disonori e i travagli che ci verranno. Vengano pur alla buon’ ora, che forse il Signore si degnerà di ricever questo per compenso e soddisfazione de’ nostri peccati: e questa sarebbe gran felicità nostra. Se quel che spendiamo in lamentarci e in sentir con dispiacere i travagli, lo spendessimo in rivoltarci a questo modo contro di noi stessi, faremmo cosa più grata a Dio e rimedieremmo meglio a’ casi nostri. Si valevano tanto i Santi di questo mezzo in simili occasioni, e vi si esercitavano talmente, che leggiamo di alcuni di essi, come di S. Caterina da Siena e di altri, che i travagli e flagelli che Dio mandava alla Chiesa gli attribuivano essi ai peccati e difetti lor propri; e dicevano: Io son la cagione di queste guerre; i miei peccati sono la cagione di questa peste e di questi travagli che Dio manda; parendo loro, che i lor peccati meritassero quello, e più. In confermazione di ciò s’aggiunge, che molte volte per lo peccato d’un solo castiga Dio tutto il popolo: siccome per lo peccato di David mandò Dio la peste in tutto il popolo d’Israele; e dice la Scrittura, che ne morirono settanta mila uomini in tre giorni (II. Reg. XXIV, 15). Ma mi dirai: David era Re, e per i peccati del capo Dio castiga il popolo. Per lo peccato d’Acan, ch’era uomo privato, il quale aveva rubate in Jerico certe coserelle, Dio castigò tutto il popolo in questo modo, che tre mila soldati de’ più valorosi dell’esercito voltaron le spalle al nemico, essendo per quel peccato costretti a fuggire (Jos. VII, 6.). Non solamente per lo peccato del capo, ma anche per lo peccato d’un particolare suole Iddio gastigar altri. E in questa maniera dichiarano i Santi quello che tante volte replica la sacra Scrittura, che Dio Castiga i peccati de’ padri ne’ figliuoli sino alla terza e quarta generazione (2 (Exod. XX, 5, et c. XXXIV, 7; Num. XIV, 18). La colpa del padre sì, che dice, che non sarà trasferita nel figliuolo, né quella del figliuolo nel padre: Anima, quæ peccaverit, ipsa morietur: Filius non portabìt iniquitatem patris, et pater non portabit iniquitatem filli (Ezech, XVIII, 20): ma quanto alla pena, è solito Dio castigar alle volte uno per i peccati d’un altro: e così forse per i miei peccati a per i tuoi Castigherà Dio tutta la Casa e tutta la Religione. Abbiamo dunque sempre avanti gli occhi da una banda questa considerazione, e dall’altra il beneplacito di Dio; e così ci conformeremo facilmente alla volontà sua ne’ travagli che ci manderà, e diremo col sacerdote Eli: Dominus est; quod bonum est in oculis suis, faciat (I . Reg. III, 18); e con quei santi Maccabei: Sicut fuerit voluntas in cœlo, sic fiat (I . Mach, III, 60). Egli è il Signore, il padrone e il governatore di ogni cosa: come piacerà a lui, e come egli l’ordinerà, così si faccia: e col profeta David: Obmutui, et non aperui os meum, quoniam tu fecisti (Psal. XXXVIII, 10.): Non mi son lamentato, Signore, de’ travagli che m’hai mandato; anzi, come s’io fossi stato muto, ho taciuto, e gli ho sopportati con molta pazienza e con molta conformità alla volontà tua, perché so che tu li mandi. Questa ha da essere sempre la nostra consolazione in tutte le cose, Dio lo vuole, Dio lo comanda, Dio è quegli che lo manda; venga in buon’ora. Non vi bisogna altra ragione per sopportare di buona voglia tutte le cose. Sopra quelle parole del Salmo 28: Et ditecius, quemadmodum fllius unicornium (Psal. XXVIII), notano i Santi, che Dio si va paragonando all’alicorno, perché quest’animale ha il corno più giù degli occhi, di maniera che vede molto bene ove percuote, a differenza del toro che gli ha sopra gli occhi e non vede ove dà. E di più l’alicorno col medesimo corno col quale percuote guarisce; così fa Dio, con quella istessa cosa colla quale percuote risana. E piace tanto a Dio questa conformità ed umile sommessione al Castigo, che alle volte ella è mezzo per lo quale il Signore si plachi e lasci di castigarci. Nelle Istorie Ecclesiastiche si racconta di Attila, re degli Unni, il quale rovinò tante provincie e si chiamò Metus orbis, et flagellum Dei, spavento del mondo, e flagello di Dio; si racconta, dico, di lui, che avvicinandosi alla città di Troia di Sciampagna in Francia, S. Lupo vescovo di essa gli uscì incontro vestito pontificalmente, con tutto il suo Clero, e gli disse: Chi sei tu, che turbi la terra, e la distruggi? rispose egli: Io sono il flagello di Dio. Allora il santo Vescovo gli fece aprir le porte, e disse: Sia molto bene venuto il flagello di Dio. Entrati poi i soldati nella città, il Signore li accecò talmente, che passarono per essa senza far danno alcuno: perché sebbene Attila era flagello di Dio, non volle però Dio che fosse flagello per quelli che lo ricevevano come flagello suo con tanta sommessione (Naucl. 2 vol.).

CAPO XXIV.

Della conformità alla volontà di Dio che dobbiamo avere nelle aridità e nelle tristezze dell’orazione; e che cosa intendiamo qui sotto nome di aridità e di tristezza.

Non solo abbiamo da conformarci alla volontà di Dio nelle cose esteriori, naturali ed umane; ma ancora in quel che a molti pare che sia santità il sommamente desiderarle, cioè nei beni spirituali e soprannaturali, come nelle consolazioni divine, nelle virtù istesse, nell’istesso dono d’orazione, nella pace, nella quiete e tranquillità interiore dell’anima nostra, e nelle altre prerogative spirituali. Ma mi domanderà alcuno: Può forse cadere in queste cose propria volontà e amore disordinato di se stesso, sicché sia necessario il moderarlo ancora in queste cose? Dico di sì. E qui si vedrà quanta sia la malizia dell’amor proprio; poiché in cose tanto buone non teme d’introdurvi la sua malvagità. Sono buone le consolazioni e i gusti spirituali, perché con essi facilmente l’anima ributta e ha in odio tutti i piaceri e gusti  delle cose terrene, che sono l’esca e il nutrimento de’ vizi, e con essi pure si anima e si rinvigorisce per camminare a gran passi nella via del divino servigio, secondo quello che dice il Profeta: Viam mandatorum tuorum cucurri, cum dilatasti cor meum (Psal. CXVIII, 32): Io correva e camminava molto speditamente per la via de’ vostri comandamenti, o Signore, quando voi slargavate il mio cuore. Coll’allegrezza e consolazione spirituale si distende e si slarga il cuore siccome colla tristezza si rinserra e si strigne. Ora il profeta David dice, che quando Dio gli mandava delle consolazioni spirituali queste gli servivano come d’ale che lo facevano correre e volare per la via della virtù e dei comandamenti suoi. Aiutano anche assai l’uomo queste spirituali consolazioni a sprezzare la propria volontà, a vincere i propri appetiti, a mortificare la propria carne e a portare con forze maggiori la croce e i travagli che gli avvengano. E così suol Iddio comunicare consolazioni e gusti a quegli a’ quali ha da mandare travagli e tribolazioni, acciocché con essi si preparino e dispongano a sopportarli bene e con frutto. Siccome veggiamo, cheCristo nostro Redentore volle prima consolare i suoi discepoli nel monte Tabor con la sua gloriosa Trasfigurazione, acciocché di poi non si turbassero veggendolo patire e morire su una croce: e così ancora veggiamo, che ai principianti suol Iddio molto ordinariamente comunicare queste consolazioni spirituali per indurli con efficacia a lasciare i gusti della terra per quei del cielo, e dopo averli legati col suo amore, veduto, che hanno gittate salde radici nella virtù, li suole provare con certe aridità, acciocché quindi facciano maggior acquisto delle più sode virtù dell’umiltà e della pazienza, e meritino maggior aumento di grazia e di gloria, servendo Dio puramente senza consolazioni. Questa è la cagione per la quale alcuni nel principio, quando entrarono nella Religione, e anche forse fuori, quando stavano co’ desideri d’entrarvi, sentivano più consolazioni e gusti spirituali che dipoi. Ciò era, perché Dio li trattava allora proporzionatamente all’età loro, nutrendoli da bambini con latte, per staccarli e slattarli dal mondo, e far che l’odiassero e abbonassero le cose di esso: ma perché posson di poi mangiar pane con crosta, Dio dà loro cibo da grandi. Per questi e altri simili fini suole il Signore dar loro consolazioni e gusti spirituali: e cosi i Santi comunemente ci consigliano di prepararci nel tempo della consolazione per quello della tribolazione: siccome nel tempo della pace si sogliono fare le preparazioni e provvisioni per la guerra; perché le consolazioni sogliono essere le vigilie delle tentazioni e delle tribolazioni. Di maniera che i gusti spirituali sono molto buoni e di gran giovamento; se ce ne sappiamo servir bene; e perciò quando il Signore ce li dà, si hanno da ricevere con rendimento di grazie. Ma se la persona si fermasse in queste consolazioni, e le desiderasse solamente per contentezza sua, e per lo gusto e diletto che l’anima sente in esse, questo sarebbe vizio e amor proprio disordinato. Siccome quando nelle cose necessarie per la vita, come sono il mangiare, il bere, il dormire ele altre, se l’uomo avesse per fine di queste azioni il diletto, sarebbe colpa; così quando nell’orazione uno avesse per fine questi gusti e consolazioni sarebbe vizio di gola spirituale. Non si hanno da desiderare né da ricevere queste cose per contentezza e gusto nostro; ma come mezzo che ci aiuta per i fini che abbiamo detti. Siccome l’infermo che abborrisce il cibo del quale ha necessità, si rallegra di trovar in esso qualche sapore, non per lo sapore, che niente lo cura, ma perché gli eccita l’appetito per poter mangiare e quindi conservare la vita; così il servo di Dio non ha da volere la consolazione spirituale per fermarsi in essa, ma perché con questo celeste conforto l’anima sua viene rinvigorita è animata a faticare nella via della virtù e ad avere stabilità in essa. In questo modo non si desiderano i diletti per i diletti, ma per la maggior gloria di Dio, e in quanto ridondano a maggior onore e gloria sua. Ma dico di più, che quantunque uno desideri queste consolazioni spirituali in questo modo e per i fini che si sono detti, i quali sono santi e buoni; può nondimeno accadere, che con tutto questo in tali desiderii vi sia qualche eccesso e mescolanza d’amor proprio disordinato, come se le desidera smoderatamente e con soverchia brama ed affanno; di maniera tale che se gli mancano, non rimane tanto contento, né tanto conforme alla volontà di Dio, ma più tosto inquieto, querulo e con dispiacere. Questa è affezione e cupidigia spirituale disordinata; perché non dee la persona stare attaccata con tanta ansia e disordine ai gusti ealle consolazioni spirituali, che questo le impedisca la pace e quiete dell’anima, ela conformità alla volontà di Dio, quando a lui non piaccia di dargliele: perché è molto migliore la volontà di Dio che tutto questo; e importa molto più che si contenti e si conformi a quel che vuole il Signore. Quel che dico dei gusti e delle consolazioni spirituali, intendo anche del dono d’orazione e dell’introduzione che desideriamo d’aver in essa, edella pace e quiete interiore dell’anima nostra, e delle altre prerogative spirituali. Perché nel desiderio di tutte queste cose può esser che vi sia ancora affezione e cupidità disordinata, quando si desiderano con tanta ansia ed angoscia, che se uno non conseguisce quel che desidera, si lamenta, sta disgustato, e non conforme alla volontà di Dio. Onde per gusti e consolazioni spirituali intenderemo ora non solo la divozione e i gusti e le consolazioni sensibili, ma anche l’istessa sostanza eil dono dell’orazione, e l’introdursi elo stare in essa con quella quiete e riposo che vorremmo. Anzi di questo tratteremo adesso principalmente, dimostrando some dobbiamo conformarci in questo alla volontà di Dio, e non lasciarci spingere né muovere in ciò da soverchia brama ed angoscia. Che quel che tocca i gusti, le consolazioni e le divozioni sensibili, lo rinunzierebbe chi che siasi, se gli dessero quello che è sostanziale dell’orazione, e mentisse in sé il frutto di essa: perché tutti sanno, che l’orazione non consiste in questi gusti, né in queste divozioni e tenerezze; onde per questo poca virtù fa di bisogno. Ma quando uno va all’orazione, e sta in essa come un sasso, con una aridità tanto grande, che gli pare di non trovare introduzione ad essa, ma che se gli sia chiuso affatto il cielo, e nascosto Iddio, e che sia venuta sopra di lui quella maledizione medesima con cui lo stesso Dio minacciava già il suo popolo, ove diceva: Daboque vobis cœlum desuper sicut ferrum, et terram œneam (Lev. XXVI, 19; Deut. XVIII, 23): per questo sì, che fa di bisogno maggior virtù e maggiore fortezza. Pare a costoro, che il cielo sia divenuto loro di ferro e la terra di bronzo; perché non piove sopra di essi gocciola d’acqua che mollifichi loro il cuore e dia loro frutto con che si mantengano; ma hanno una sterilità e aridità continua: e anche non solo hanno aridità, ma alle volte ancora una tanto gran distrazione e varietà di pensieri, e questi pure talvolta tanto cattivi e brutti, che pare, che non vadano là, se non ad essere tentati e molestati da ogni sorta di tentazioni. Or va tu a dire a costoro, che allora pensino alla morte, o a Cristo crocifisso, il che suole esser molto buon rimedio; ti diranno: Questo lo so ancor io: se potessi far questo, che cosa mi mancherebbe? Alcune volte è uno ridotto a tal termine nell’orazione, che né  anche può pensare a questo; ovvero, quantunque vi pensi e procuri di ridurselo alla memoria, questo non lo muove, né lo raccoglie punto, né fa in esso impressione veruna. Questo è quello che qui chiamiamo tristezze, aridità e abbandonamento spirituale. E in questo è necessario che ci conformiamo similmente alla volontà di Dio. Questo è un punto di grande importanza; perché è uno dei maggiori lamenti ed uno dei maggiori contrasti che abbiano quelli che attendono all’orazione; essendo che tutti gemono e piangono quando si trovano in questo termine. Come sentono dire da una banda tanto bene dell’orazione, e lodarla tanto, eche all’istesso passo che cammina essa cammina anche l’uomo tutto il giorno e tutta la vita, e che questo è uno dei principali mezzi che abbiamo, sì pel profittoproprio come per quello dei prossimi; e dall’altra banda si veggono, al parer loro, tanto lontani dal far vera orazione; sentono di ciò gran fastidio, e par loro, che Dio gli abbia abbandonati e che si sia dimenticato affatto di loro, e concepiscono timore l’aver perduta l’amicizia sua e di stare in sua disgrazia, parendo loro di non trovare in lui accoglienza. E accresce a questi tali la tentazione il vedere, che altre persone in pochi giorni fanno tanto progresso nell’orazione, quasi senza fatica; e che essi, affaticandosi e struggendosi, non fanno acquisto alcuno. Dal che nascono in essDELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (11)i altre tentazioni peggiori, com’è il lamentarsi alle volte del Signore che li tratti in quel modo; il voler lasciare l’esercizio dell’orazione, parendo loro, che non sia cosa per essi, poiché non ci fanno bene. E a tutto ciò dà aumento grande, e ad essi gran rammarico, quando il demonio riduce loro a memoria, che di tutto ciò sono cagione essi stessi, e che per colpa loro Dio li tratta così: e con questo vivono alcuni molto sconsolati, ed escono dall’orazione come da un tormento, afflitti, malinconici e insopportabili a se medesimi e a quei che trattano con essi. Andremo dunque rispondendo e soddisfacendo a questa tentazione e a questo lamento colla grazia del Signore.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (11)

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (8)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (8)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO III.

SEZIONE 3a. — Degli altri cinque articoli del Simbolo che contengono la dottrina circa la terza Persona della Santissima Trinità e l’opera della nostra santificazione, iniziata sulla terra mediante la grazia, da consumarsi in cielo mediante la gloria.

Art. 1. — DELLO SPIRITO SANTO E DEI SUOI DONI LARGITI AI FEDELI E ALLA CHIESA.

D. 117. Che cosa crediamo nell’ottavo articolo del Simbolo: Credo nello Spirito Santo?

R. Nell’ottavo articolo del Simbolo: Credo nello Spirito Santo noi crediamo che lo Spirito Santo è la terza Persona della Santissima Trinità, procedente dal Padree dal Figliuolo (Matt., XXVII, 19; 1 di Giov., XV, 26; XVI, 13-15).

D. 118. Perché crediamo nello Spirito Santo, come nel Padre e nel Figliuolo?

R. Noi crediamo nello Spirito Santo come nel Padre e nel Figliuolo, perché lo Spirito Santo è vero Dio come il Padre e il Figliuolo, e assieme al Padre e al Figliuolo un unico Dio (Matt., XXVIII, 19; 1.» di Giov., V, 7).

D. 119. Perchè l’appellativo di Spirito Santo suol essere riservato nelle sacre Lettere alla terza Persona della santissima Trinità?

R. L’appellativo di Spirito Santo suol essere riservato nelle sacre Lettere alla terza Persona della santissima Trinità, perché essa, con unica spirazione, procede per modo di amore dal Padre mediante il Figliuolo, ed è il primo e sommo Amore per cui vengon mosse e condotte le anime a quella santità che in ultima analisi consiste nell’amore verso Dio (Conc. di Lione, II, 1. c; Leone XIII: Encicl. Divinum illud munus, 9 maggio 1897; S. Agost.: De civ. Dei, II, 24; S.Tom., p. l. a, q. 36, a. I).

D. 120. Quando fu che lo Spirito Santo discese visibilmente sugli Apostoli e che cosa operò in essi?

R. Lo Spirito Santo discese visibilmente sugli Apostoli il giorno della Pentecoste, li confermò nella fede e li riempì dell’abbondanza di tutti i doni, affinché predicassero il Vangelo e propagassero la Chiesa nel mondo intero (Atti, 1-4).

D. 121. Che cosa opera lo Spirito Santo nei fedeli?

R. Lo Spirito Santo, mediante la grazia santificante, le virtù infuse, i suoi doni e le sue grazie attuali di ogni genere, santifica i fedeli, li illumina e li muove affinché essi, corrispondendo alla grazia, raggiungano il possesso della vita eterna (Giov., XIV, 16, 17; Paolo: ad Rom., VIII, 26; Ia ad Cor., III, 16; S. Basilio: Epist., 38, 4. — Si tratta della grazia alla domanda 278 e segg.; delle virtù e degli altri doni dello Spirito Santo alla dom. 507 e segg.).

D. 122. Che cosa è e che cosa opera lo Spirito Santo nella Chiesa?

R. Lo Spirito Santo è della stessa Chiesa quasi l’anima, in quanto col suo aiuto ognor presente perennemente la vivifica, a sé l’unisce e per mezzo dei suoi doni infallibilmente la guida nelle vie della verità e della santità. (Giov., XIV, 16, 26; XVI, 13; Leone XIII, 1. e; S. Tom., p. III q. 9, a. I, ad 3um).

Art. 2. — DELLA VERA CHIESA DI GESÙ CRISTO.

D. 123. Che cosa crediamo nella prima parte del nono articolo del Simbolo: La Santa Chiesa Cattolica?

R. Nella prima parte del nono articolo: La Santa Chiesa Cattolica, noi crediamo esservi una società soprannaturale,visibile, santa ed universale, istituita da Gesù Cristo mentre viveva la sua vita terrestre e da Lui chiamata la sua Chiesa.

Il Catechismo pei Parroci, p. I, c. X, n. 22, nota con precisione: « Ora, con mutata forma di espressione, professiamo di credere la Santa e non nella Santa Chiesa, onde ancora una volta, con questa formula diversa, Dio, creatore dell’universo, venga distinto dalle cose create, e noi stessi riteniamo quali benefici ricevuti dalla divina bontà tutte quelle meraviglie di cui la Chiesa fu arricchita. Per una maggiore comprensione di questo articolo gioverà ricordare come i teologi distinguano nella Chiesa tre parti: la trionfante, la militante e la purgante, le quali tuttavia costituiscono un’unica Chiesa di Cristo, poiché uno è il capo Gesù Cristo, uno lo Spirito che le vivifica e le cementa, uno il fine, cioè la vita eterna di cui gli uni già godono, e gli altri sperano di godere. Nel Simbolo si tratta della Chiesa militante.

D. 124. In qual modo la prima parte dell’articolo nono dipende dall’articolo ottavo?

R. La prima parte dell’articolo nono dipende dall’articolo ottavo, perché la Chiesa, pur avendo perennemente presente in se stessa Gesù Cristo suo fondatore, tuttavia, dallo Spirito Santo, come dal fonte elargitore di ogni santità, ricevette il dono di esser santa.(Cat. p. parr., p. I, c. X, n. 1).

A Dell’istituzione e costituzione della Chiesa.

D. 125. Perché Gesù Cristo istituì la Chiesa?

R. Gesù Cristo istituì la Chiesa per continuare sulla terra la sua missione, al fine cioè che in essa e mediante essa, il frutto della Redenzione, consumata sulla Croce, venisse applicato agli uomini sino alla fine dei secoli (Matt., XXVIII, 18-20; Conc. Vat.: Const. Pastor Æternus, dal principio.).

D. 126. In qual modo Gesù Cristo volle che fosse retta la Chiesa?

R. Gesù Cristo volle che la Chiesa fosse retta dall’autorità degli Apostoli, con a capo Pietro e i suoi legittimi successori.

Conc. di Efeso: Ex actibus Concilii, Act. III; Conc. Vat., 1. c. cap. I; Innocenzo X, Ex decrelis S. Officii, 24 genn. 1647; S. Efrem: In Hebdomadam sanctam, IV, 1. — Gesù Cristo (Matt., XVI, 18, 19) prima della sua passione aveva promesso al beato Pietro il primato nella sua Chiesa: « Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. E a te darò le chiavi del regno dei cieli. E quanto avrai legato sulla terra, sarà legato anche nei cieli; e quanto avrai disciolto sulla terra, sarà disciolto anche nei cieli ». Parole che Egli confermò dopo la risurrezione (Giov., XXI, 15, 17) nel conferire al beato Pietro il primato: « Pasci i miei agnelli,…. pasci le « mie » pecore », vale a dire: reggi l’universo mio gregge, tutta la mia Chiesa. Ora, coll’istituire la Chiesa, perennemente duratura nel suo capo (Matt., XXVIII, 19, 20), il primato del beato Pietro dové passare ai suoi legittimi successori. Quanto alla missione degli Apostoli con Pietro a capo, la S. Scrittura ce la fa conoscere; per es.: Matt., XXVIII, 19, 20; Marco, XVI, 14, 15; Atti, I, 8; XV, 6, 7; XX, 28; Paolo, ad Tit., I, 5; I ad Cor., XII, 28.

D. 127. Chi è il legittimo successor di Pietro nel reggimento della Chiesa universale?

R. Il legittimo successore di Pietro nel reggimento della Chiesa universale è il Vescovo della città di Roma, ossia il Romano Pontefice e, in altri termini, il Papa, poiché nel primato di giurisdizione il Papa succede a Pietro, il quale fu e morì Vescovo della Città di Roma.

Conc. Efes., 1. e; Conc. Vat., 1. c. cap. 2°. — Non v’è sulla terra autorità più grande, non più santo magistero, non più alta ed estesa paternità di quella del Romano Pontefice, il quale, in nome e in vece di Cristo, governa gli uomini per condurli all’eterna salvezza, e con infallibile certezza insegna loro ciò che divinamente fu rilevato. Memori del suo santissimo ufficio, ci stia dunque a cuore di prestargli ubbidienza, riverenza ed amore; di ottemperare non solo ai suoi ordini, ma d’inchinarci persino ai suoi consigli e ai suoi desideri; e infine di rivolgere a Dio frequenti le nostre preghiere per lui secondo le sue intenzioni.

D. 128. Chi è il vero capo della Chiesa?

R. Il vero capo della Chiesa è Gesù Cristo in persona, che invisibilmente in essa dimora e la regge e riunisce intorno a sé i suoi membri (Matt., XXVIII, 18 e segg.; Giov., I , 33; Paolo, l. a ad Cor., IV, 1; ad Eph., I, 22; ad Coloss., I , 18: « Egli stesso è ilcapo del corpo della Chiesa »; Cat. p. parr., p. I c. X, n. 13).

D. 129. Perché il Romano Pontefice vien detto ed è il capo visibile della Chiesa e il Vicario di Gesù Cristo sulla terra?

R. Il Romano Pontefice vien detto ed è il capo visibile della Chiesa e il Vicario di Gesù Cristo sulla terra, perché, una società visibile abbisognando di un capo visibile, Gesù Cristo costituì Pietro e il suo successore sino alla fine del mondo, capo visibile di essa e vicario della sua potestà (Matt., XVI, 18; Luca, XXII, 32; Giov., XXI, 15, 17; Paolo, ad Eph., I , 22; Cat. p. parr., p. I c. X, n. 13).

D. 130. Di qual natura è dunque la potestà del Romano Pontefice nella Chiesa?

R. Il Romano Pontefice ha nella Chiesa, di diritto divino, non solo il primato di onore, ma anche quello di giurisdizione, tanto nel campo della fede e dei costumi, quanto in quello della disciplina e del governo.

D. 131. Qual è la potestà del Romano Pontefice?

R. La potestà del Romano Pontefice è suprema. piena, ordinaria e immediata, tanto su tutte e singole le Chiese, quanto su tutti e singoli i pastori e i fedeli.

(Conc. II di Lione; Prof, fidei Mich. Palæologi; Conc. di Firenze: Decret. prò Græcis; Conc. Vat.: Const. Pastor æternus, c. 3; S. Leone IX: Epist. In terra pax, 2 sett. 1053; Bonifacio VIII: Bulla Unam sanctam, 18 nov. 1302. — La potestà del Romano Pontefice vien detta ordinaria, perché non delegata da altri, ma inerente al suo stesso primato, e perché sempre e dovunque esercitabile; essa viene così ad opporsi alla potestà straordinaria, esercitata solo in certi casi, p. es. quando un qualsiasi pastore inferiore manca al suo ufficio).

D. 132. Chi sono i legittimi successori degli Apostoli?

R. I legittimi successori degli Apostoli sono per divina istituzione i Vescovi, i quali, preposti dal Romano Pontefice alle Chiese particolari, le reggono con ordinaria potestà sotto l’autorità di Lui (Atti, XX, 28; S. Ign. Mart.: Epist. ad Smyrnæos, VIII, 1; S. Ireneo, Adv. hæreses, III, I, 1. — I Patriarchi, invece, gli Arcivescovi e gli altri Prelati sono d’istituzione ecclesiastica.).

D. 133. Che cos’è dunque la Chiesa istituita da Gesù Cristo?

R. La Chiesa istituita da Gesù Cristo èla società visibile degli uomini battezzati, i quali, congiunti tra loro mediante la professione della medesima fede e il vincolo della mutua comunione, perseguono lo stesso fine spirituale, sotto l’autorità del Romano Pontefice e quella dei Vescovi aventi comunione con lui (Pio XI: Encicl. Mortalium animos, 6 genn. 1928).

D. 134. Che cosa s’intende per corpo della Chiesa?

R. Per corpo della Chiesas’intende l’elemento che è in essa visibile e rende visibile la stessa Chiesa, vale a dire gli stessi fedeli in quanto sono aggregati, il regime esterno, l’esterno magistero, la professione esterna della fede, l’amministrazione dei Sacramenti, il rito, ecc.

D. 135. Che cosa s’intende per anima della Chiesa?

R. Per anima della Chiesa s’intende ciò che è il principio invisibile della vita spirituale e soprannaturale della Chiesa, cioè il perenne aiuto dello Spirito Santo, il principio di autorità, l’interna obbedienza al governo, la grazia abituale con le virtù infuse, ecc. (Paolo: ad Rom., X I I , 4, 5; ad Eph., IV, 16).

R. La Chiesa di Gesù Cristo vien detta ed è la via, oppure il mezzo necessario per la salvezza perché Gesù Cristo istituì la Chiesa affinché in essa e per essa venissero applicati agli uomini i frutti della Redenzione; perciò nessuno di quelli che ne stanno fuori può raggiungere l’eterna salvezza, secondo l’assioma: «Fuor della Chiesa non c’è salvezza »

(Marco, XVI, 15, 16; Conc. Lat., IV: Contra Albigenses, 1. c. ; Conc. di Fir.: Decretum prò Jacobitis; Inn. III: Epist. ad Archiep. Tarracon, 18 die. 1208; Bonif. VIII: Bulla Unam Sanctam, 18 nov. 1302; Pio IX: Alloc. Singulari quadam, 9 dic. 1854; Leone XIII: Encicl. Satis cognitum, 29 giugno1896; S. Cipriano: De unitate Ecclesiæ, 6; S. Gerol., Epist., 15, 2; S. Agost. : Sermo ad Cæsar Eccl. plebeem, 6. —Quell’assiona vien meglio illustrato alla dom. 162 e segg.).

D. 137. In qual maniera la Chiesa da Gesù Cristo istituita si distingue dalle altre Chiese che pur si vantano del nome Cristiano?

R. La Chiesa istituita da Gesù Cristo si distingue dalle altre Chiese che si vantano del nome cristiano a mezzo di note — cioè l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità — note che assegnate da Gesù Cristo alla sua Chiesa, trovansi esclusivamente nella Chiesa Cattolica, cui sta a capo il Romano Pontefice.

(Sotto questo nome di Note della Chiesa vanno intese le visibili e stabili proprietà della Chiesa istituita da Gesù Cristo; parecchie ve ne sono, ma il Simbolo di Costantinopoli enumera solo le quattro citate. Così dunque la Chiesa di Cristo, per volontà del suo divin Fondatore, deve essere una, d’unità di fede, di regime e di comunione, per cui tutti i suoi membri formano un corpo sociale, vale a dire il corpo mistico di Gesù Cristo, senza che a ciò si opponga benché minimamente la differenza dei riti (Giov., X, 16; Paolo: ad Rom., XII, 5, 6; 1a ad Cor., I, 10; XII, 12, 13; ad Eph., IV, 2-16); santa, per santità di fine (la salvezza delle anime) e di dottrina sia teoretica che pratica; donde consegue la santità di molti suoi membri, spesso anche eroica, comprovata dai miracoli, (Giov., XVII, 17-19; Paolo: ad Eph., V, 25-27; ad Tit., II, 14); cattolica, ossia universale, per la sua destinazione o missione, estendentesi a tutti gli uomini in tutti i luoghi della terra, missione integrata dall’attuale mirabile diffusione, che, iniziatasi sin dai tempi apostolici, non cessò mai a traverso difficoltà d’ogni genere; per quanto la diffusione attuale dipenda, sempre sotto l’assistenza di Dio, dai mezzi umani della propaganda e quindi ammetta un incremento successivo (Matt., XXVIII, 19; Luca, XXIV, 47; Atti, I, 8; Pio XI: Encicl. Rerum Ecclesiæ, 28 febb. 1926); apostolica, per la sua origine, in quanto, fondata sul fondamento degli Apostoli, e innanzi tutto di Pietro, con perenne continuità vien retta e governata dai loro legittimi successori (Paolo: ad Eph., II, 20; Apoc, XXI, 14). Ora, una cosa è certa: che mentre tali proprietà convengono alla Chiesa Cattolica cui sta a capo il Romano Pontefice, mancano invece a tutte le false religioni che si vantano del nome Cristiano (S. Agost.: Contra epist. Manichæi, 5, e De Symbolo, sermo ad Cathech., 14; Cat. p. parr., p. I, n. 11 e segg).

D. 138. C’è un’altra via più breve e più semplice per distinguere la vera Chiesa di Cristo dalle altre Chiese?

R. Per distinguere la vera Chiesa di Cristo dalle altre Chiese c’è una via più breve e più semplice, riferendosi cioè all’essenziale e visibile capo di quella stessa Chiesa, secondo l’antico principio dei Padri: Dov’è Pietro ivi è la Chiesa (1 S. Cipriano: Epist. 40, 5; S. Abr.: In Psalm. XI, 30.)

D. 139. In qual modo ciò si può dedurre dal detto principio?

R. Facilmente ciò si può dedurre dal detto principio, perché, avendo Gesù Cristo edificato su Pietro la sua Chiesa perennemente duratura, ne consegue necessariamente che la vera Chiesa di Gesù Cristo è quella soltanto che vien retta e governata dal legittimo successore di Pietro: e questi è il Romano Pontefice.

B) – Della podestà della Chiesa.

D. 140. Di qual potestà Nostro Signor Gesù Cristo investì la sua Chiesa per farle raggiungere il fine per cui venne istituita?

R. Nostro Signor Gesù Cristo, per far raggiungere alla sua Chiesa il fine per cui venne istituita, la investì della potestà di giurisdizione e della potestà di ordine; nella potestà di giurisdizione viene inclusa la potestà d’insegnare.

(Di  insegnare: Matt., XXVIII, 19, 20; Marco, XVI, 15, 16; — di giurisdizione: Matt., XVI, 19; XXVIII, 18, 19; Giov., XXI, 15, 17; Atti, XX, 28; — d’ordine: Giov., XX, 22, 23; Matt., VIII, 18; Marco, XVI, 16; Atti, VIII, 15, 17. — Da ciò consegue che la Chiesa è una società non omogenea.).

D. 141. Che cos’è la potestà d’insegnare?

R. La potestà d’insegnare è il diritto e il dovere della Chiesa di custodire la dottrina di Gesù Cristo, di tramandarla, di difenderla e di predicarla infine ad ogni creatura, indipendentemente da qualsiasi umano potere. (Matt., 1. c.; Marc, 1. c. ; Codice D. C, can. 1322).

D. 142. Nell’esercizio della potestà d’insegnare c’è una differenza fra battezzati e non battezzati?

R. Nell’esercizio della potestà d’insegnare c’è una differenza tra battezzati e non battezzati:

1° ai battezzati la Chiesa propone ed impone la sua dottrina; essi quindi devono ammetterla, non solo in forza dalla legge divina, ma anche in forza dalla potestà che la Chiesa ha su di essi in quanto sudditi;

2° ai non battezzati, invece, questa sua dottrina la Chiesa la propone, in nome dì Dio; e costoro son tenuti ad apprenderla e ad abbracciarla non per ordine della Chiesa ma in forza della legge divina.

D. 143. Chi sono quelli che nella Chiesa hanno la potestà d’insegnare?

R. Hanno nella Chiesa la potestà d’insegnare, il Romano Pontefice e i vescovi aventi comunione con lui; perciò si dice che essi costituiscono la Chiesa docente.

(Diritto e dovere dei Pastori della Chiesa è quello di predicare il Vangelo ad ogni creatura: ai figli devoti della Chiesa il compito di aiutarli nell’esercizio di una missione così santa e salutare. Contribuisci, quindi o Cristiano, secondo le tue forze, all’azione missionaria cattolica, offrendo le tue preghiere, le tue elemosine, la tua operosa energia. Così facendo, compirai un’opera lodevolissima di misericordia tanto corporale quanto spirituale a vantaggio di tuoi fratelli che sono ancora nelle tenebre e nell’ombra della morte, servirai alla gloria di Dio e farai cosa assai raccomandata dalla Chiesa e dai Romani Pontefici.)

D. 144. E’ infallibile la Chiesa nella sua funzione d’insegnare?

R. Nella sua funzione d’insegnare e grazie alla perenne assistenza dello Spirito Santo promessa da Gesù Cristo, la Chiesa è infallibile, ogni qual volta, con ordinario ed universale magistero, oppure con solenne giudizio della suprema autorità, propone doversi da tutti ritenere le verità concernenti la fede o i costumi, siano esse in sé rivelate o connesse con le rivelate (Matt., XVI, 18; XXVIII, 19, 20; Luca, XXII, 32; Giov., XIV, 16, 26; XVI, 13; Atti, XV, 28; Adamantio, Dialog., V, 28: S. Cipr., Inter S. Cornelii Epist., Ep. 12, 14; S. Pietro Crisol.: Epist. ad Eutychen, 2.).

D. 145. A chi appartiene di pronunciare questo solenne giudizio?

R. Il pronunciare questo solenne giudizio appartiene, tanto al Romano Pontefice, quanto ai Vescovi radunati col Romano Pontefice, soprattutto nel Concilio ecumenico.

D. 146. Che cos’è il Concilio ecumenico?

R. Il Concilio ecumenico, ossia universale, è la riunione dei Vescovi di tutta la Chiesa Cattolica convocati e presieduti — direttamente o a mezzo dei suoi Legati — dal Romano Pontefice, cui spetta con la sua autorità di confermare i decreti del Concilio (Codice Dir. Can., Can. 222.).

D. 147. Quand’è che il Romano Pontefice usa della prerogativa dell’infallibilità personale?

R. Il Romano Pontefice usa della prerogativa dell’infallibilità personale quando parla ex cathedra, quando cioè, esercitando le sue funzioni di pastore e dottore di tutti i Cristiani, definisce che una data dottrina in materia di fede e di costumi deve essere ritenuta dalla Chiesa intera (Conc. Vat., Const. Pastor aeternus, cap. 4. — Questo carisma dell’infallibilità Gesù Cristo lo promise apertamente a Pietro e ai suoi successori nel primato (Luca, XXII, 32), dicendo a Simon Pietro: « Io ho pregato per te perché la tua fede non venga meno, e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli ».).

D. 148. Qual è il nostro obbligo circa le verità in materia di fede e di costumi che la Chiesa a tutti propone da credersi come divinamente rivelate?

R. Quelle verità in materia di fede e di costumi che, o per ordinario ed universale magistero o per solenne giudizio, la Chiesa a tutti propone da credersi come divinamente rivelate, noi le dobbiamo credere di fede divina e Cattolica (Conc. Vat., Const. Dei Filius, cap. 3 ).

D. 149. Come si chiama una verità così definita?

R. Una verità così definita chiamasi dogma di fede, cui direttamente viene ad opporsi l’eresia.

D. 150. Quali sono le verità in sé non rivelate, ma connesse con le rivelate?

R. Le verità in sé non rivelate, ma connesse con le rivelate, sono in primo luogo i fatti dogmatici, e le censure di quelle proposizioni che la Chiesa ha proscritte e proibite.

(Sotto questo nome di fatti dogmatici vanno intesi quei fatti definiti dalla Chiesa, i quali in sé non rivelati, pure hanno qualche nesso col dogma, ove trattisi di custodirlo, di applicarlo o di rettamente proporlo. I più importanti tra i fatti dogmatici sono: il contenere o non contenere un dato libro, proposizioni opposte al deposito della fede; l’essere veramente santi e in possesso dell’eterna gloria quegl’individui che la Chiesa canonizza con sentenza definitiva; l’essere o non essere legittimo un dato Concilio; l’essere o non essere una data edizione o versione conforme al testo della Sacra Scrittura, ecc.).

D. 151. Dobbiamo noi ammettere anche quelle verità in sé non rivelate, ma connesse con le rivelate, che la Chiesa, similmente, a tutti propone da credersi?

R. Noi dobbiamo ammettere con la bocca e col cuore anche quelle verità in sé non rivelate, ma connesse con le rivelate, che la Chiesa, similmente, a tutti propone da credersi; e ciò a causa dell’infallibilità della Chiesa, che si estende anche a queste verità (Conv. Vat., 1. c. , cap. 4°, in fine; Aless. VII: Const. Regiminis Apostolici, 15 Febbr. 1664; Clem. XI: Const. Vineam Domini Sabaoth, 16 Lug. 1705; Pio X: Decr. Lamartabili, 3Lugl. 1907, prop. 7 inter damnatas. — Ne consegue che la Chiesaha il diritto di proibire i libri, cioè d’interdire ai fedeli dileggerli o tenerli presso di loro.).

D. 152. Come dobbiamo comportarci di fronte agli altri decreti dottrinali che la Sede Apostolica, sia direttamente, sia per mezzo delle Romane Congregazioni, pubblica in materia di fede e di costumi?

R. Gli altri decreti dottrinali che la Sede Apostolica, sia direttamente, sia per mezzo delle Congregazioni Romane, pubblica in materia di fede e di costumi, noi dobbiamo accoglierli per dovere di coscienza e in ossequio alla Sede Apostolica, la quale anche in questo modo esercita il magistero commessole da Cristo Signore (Pio IX: Epist. ad Archiep. Monacen-Frisingen, 21 Die. 1863 ; Pio X, 1. c. : prop. 8 inter damnatas.).

D. 153. Che cosa possono e debbono i Vescovi, ciascuno nella propria diocesi, in forza della potestà d’insegnare?

R. Ciascuno nella propria diocesi e in forza della potestà d’insegnare, i Vescovi possono e debbono, per sé o per mezzo di altri, proporre ed inculcare ai loro sudditi, secondo i bisogni, le verità concernenti la fede e i costumi ricevute dalla Chiesa, reprimere le pericolose novità nel campo della dottrina e, se sia il caso, deferirle alla suprema autorità della Chiesa (Cod. Dir. Can., can. 336, 343).

D. 154. Che cosa significa nella Chiesa la potestà di giurisdizione?

R. Potestà di giurisdizione nella Chiesa significa che il Romano Pontefice e i Vescovi, il primo nella Chiesa intera, i secondi nelle rispettive diocesi, posseggono la potestà di reggere, vale a dire la potestà legislativa, giudiziaria, coattiva e amministrativa, e questo per poter raggiungere il fine stesso della Chiesa (Cod. Dir. Can., can. 335).

D. 155. Che cos’è la potestà di ordine?

R. La potestà di ordine è quella di compiere le sacre funzioni, soprattutto nel ministero dell’altare, potestà che commessa alla Sacra Gerarchia, e massime ai Vescovi col sacramento dell’Ordine, tende direttamente a procurare la santificazione delle anime mediante l’esercizio del culto divino e l’amministrazione dei sacramenti e dei sacramentali; il che chiamasi cura delle anime(La potestà di ordine, rispetto al suo lecito esercizio, è subordinata alla potestà di giurisdizione.)

D. 156. Quali sono i coadiutori dei Vescovi nella cura delle anime?

R. I coadiutori dei Vescovi nella cura delle anime sono i sacerdoti, e massime i parroci soggetti ai Vescovi a norma dei sacri canoni (Gli stessi fedeli cristiani d’ambo i sessi possono efficacemente coadiuvare il ministero della Chiesa, sia con la loro azione personale intesa al bene spirituale del prossimo, sia per mezzo dell’azione Cattolica propriamente detta, tanto caldamente raccomandata dal Sommo Pontefice e alla quale lo stesso S. Paolo apertamente allude nella Lettera ai Filippesi. I fedeli Cristiani s’iscrivano quindi a quest’azione Cattolica ogni qualvolta lo possano; in tal modo, col prestare ai Vescovi la loro obbedienza, coll’osservare religiosamente le superiori norme emanate dall’Apostolica Sede, essi contribuiranno efficacemente al raggiungimento del fine della Chiesa, cioè al trionfo di Gesù Cristo sulla terra per la salvezza del genere umano.).

C) – Dei membri della Chiesa.

D. 157. Quali sono i membri della Chiesa istituita da Gesù Cristo?

R. I membri della Chiesa istituita da Gesù Cristo sono i battezzati, fra loro congiunti mediante il vincolo dell’unità della fede e della comunione cattolica.

D. 158. Chi sta fuori della Chiesa istituita da Gesù Cristo?

R. Stanno fuori della Chiesa istituita da Gesù Cristo:

i non battezzati;

gli apostati dichiarati, gli eretici, gli scismatici e gli scomunicati vitandi (S. Agost.: De fide et symbolo, 21; Cod. Dir. Can., can. 87; Cat. p. parr., p. I, c. IX, n. 9. — Il non battezzato è semplicemente fuori della Chiesa, per quanto, mercé l’aiuto della grazia, e per mezzo della carità, possa appartenere all’anima di essa. Il battezzato, invece, per il fatto di aver ricevuto validamente il Battesimo, viene aggregato al corpo mistico di Cristo, cioè alla Chiesa. Tale aggregazione è perpetua, e l’indelebile Carattere del Battesimo lo indica; da ciò segue che il battezzato appartiene sempre alla Chiesa in qualche modo. Ma egli può da sé separarsi dalla Chiesa, spezzando l’unione di fede e di comunione, con l’apostasia, l’eresia, lo scisma: può d’altra parte la suprema autorità ecclesiastica privarlo per gravissimo peccato di tutti i diritti dei fedeli ed escluderlo in tal modo dalla loro comunione. Costui allora vien realmente posto fuori della Chiesa, ma sempre con l’obbligo stretto di tornarvi, ottenendone la riconciliazione, quando abbia rinunziato alla sua contumacia e rimanendo intanto sottoposto alla Chiesa; così. come il transfuga o disertore, il quale, pur essendo realmente fuori dall’esercito, deve rientrare nei ranghi, e, pur privato dei privilegi degli altri soldati, rimane tuttavia soggetto ai capi della milizia, e passibile delle loro punizioni.)

D. 159. Chi sono gli apostati, gli eretici, gli scismatici, gli scomunicati vitandi?

R. Gli apostati sono quei battezzati che si sono del tutto allontanati dalla fede cristiana; gli eretici, coloro che pertinacemente negano qualche dogma della fede, o di esso dubitano; gli scismaticicoloro che ricusano di sottostare al Romano Pontefice, o di comunicare coi membri della Chiesa a Lui soggetti; gli scomunicati vitandi, coloro che a norma dei sacri canoni sono colpiti da questa censura (Cod. Dir. Can.: can. 2257 e segg.; can. 1325, § 2).

D. 160. Tutti costoro rimangono tenuti alle leggi della Chiesa?

R. Tutti costoro rimangono tenuti alle leggi della Chiesa in qualità di suoi sudditi, anche se ribelli, a meno che la Chiesa, espressamente o tacitamente, li ritenga esenti dalla sua legge.

D. 161. Gli scomunicati tollerati sono essi membri della Chiesa?

R. Gli scomunicati tollerati sono membri della Chiesa; vengono però esclusi da quegli effetti della comunione dei fedeli che i sacri canoni enumerano, né possono ricuperarli a meno di recedere dalla loro ostinazione e di essere assolti da tale gravissima pena.

D. 162. L’adulto che muore senza il sacramento del Battésimo, può esso salvarsi?

R. L’adulto che muore senza il sacramento del Battesimo può salvarsi, non solo se abbia la fede nelle verità che sono necessariamente da credersi di necessità di mezzo e la carità che supplisce al Battesimo stesso, ma anche se, per l’operante virtù della luce e della grazia divina, nell’ignoranza invincibile della vera religione e pronto ad obbedire a Dio, avrà fedelmente osservato la legge naturale.

(S. Tom.: De verit., q. 14, a. II, ad I.um, così insegna trattando il caso di coloro che cresciuti, ad esempio, in mezzo alle foreste, mai giunsero a conoscere la vera Chiesa, esclusa naturalmente ogni colpa da parte loro: « Spetta alla divina « Provvidenza di fornire a ciascun uomo i mezzi necessari per « salvarsi, purché ciò stesso non venga dall’uomo impedito. Se « infatti un uomo cresciuto in mezzo alle foreste, seguisse, nel « desiderio del bene e nella fuga dal male, la guida della ragione naturale, è da ritenersi con assoluta certezza che Dio, o « gli rivelerebbe mediante un’ispirazione interna le cose necessarie da credersi, o metterebbe sul suo cammino un predicatore della fede, come fece per Cornelio spedendogli Pietro » — Inn. II: Epist. Apostolicam Sedem, ad Episc. Cremon,; Pio IX: Epist. Quando conficiamur, ad Episcopos Italiæ, 10 ag. 1863.).

D. 163. Un adulto validamente battezzato, ascritto senza sua colpa ad una setta eretica o scismatica, può salvarsi?

R. Un adulto validamente battezzato, ascritto senza sua colpa ad una setta eretica o scismatica, può ugualmente salvarsi, qualora non abbia perduto la grazia ricevute nel Battesimo, o, perdutala peccando, la recuperi mediante la debita penitenza.(Pio IX, 1. c. -— Tale penitenza sarà, o la contrizione perfetta, assieme al voto — in questa contenuto — di venir alla Chiesa di Cristo e di ricevere il Sacramento della Penitenza, oppure la contrizione imperfetta e quello stesso Sacramento realmente ricevuto.)

D. 164. Che dire di coloro che, pur avendo conosciuta la verità della Chiesa di Gesù Cristo, volontariamente ne stanno fuori?

R. Coloro che, pur avendo conosciuta la verità della Chiesa di Gesù Cristo, volontariamente ne stanno fuori, peccano gravemente e non possono quindi salvarsi qualora perseverino in questo loro stato.

D. 165. Coloro che stanno fuori della Chiesa di Gesù Cristo, e ne hanno però qualche conoscenza, a che cosa sono tenuti?

R. Coloro che stanno fuori della Chiesa di Gesù Cristo, e ne hanno però qualche conoscenza, sono tenuti a cercare sinceramente la verità nel Signore, ad ammaestrarsi secondo le loro possibilità nella dottrina di Cristo quale gli vien proposta, e ad entrare nella Chiesa di Cristo quando l’abbiano riconosciuta per vera.

D) – Della distinzione che passa fra la Chiesa e lo Stato e della competenza dell’una e dell’altra società.

D. 166. La Chiesa istituita da Gesù Cristo è distinta dallo Stato?

R. La Chiesa istituita da Gesù Cristo è distinta dallo Stato; non può tuttavia lo Stato né essere, né venir costituito separato di diritto dalla Chiesa, benché, in speciali e gravi circostanze, possa tale separazione venir talvolta tollerata od anche preferita. – (Spieghiamo qui brevemente la dottrina circa le mutue relazioni fra Chiesa e Stato in base ai numerosi documenti pontifici, soprattutto di Leone XIII, Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885; Encicl. Au milieu, 16 febb. 1892; Epist. Longiqua oceani, 1895. Mentre la Chiesa si prefigge come suo prossimo fine la santificazione soprannaturale delle anime, condizione necessaria e misura dell’eterna felicità da raggiungersi in cielo, lo Stato invece ha per fine prossimo il comune bene temporale, anche d’ordine morale, coll’osservanza dell’ordine giuridico e supplendo all’insufficienza dei singoli uomini e delle famiglie.Ora, per quanto il compito diretto ed essenziale della Chiesa sia quello di curare la santificazione soprannaturale delle anime, pur tuttavia essa promuove anche il bene comune sia pubblico che privato, e in maniera così reale, così efficace che più non potrebbe se quello fosse il suo compito diretto, per esempio quando ai singoli potentemente inculca l’obbligo di compiere il proprio dovere qualunque esso sia; così pure lo Stato il quale, mentre direttamente procura il bene comune temporale, nello stesso tempo indirettamente coopera alla soprannaturale santificazione delle anime. Atteso dunque che le società si distinguono per il loro fine prossimo, e che il fine della Chiesa è distinto da quello dello Stato, ne viene di conseguenza che sono società fra sé distinte: la prima è una società spirituale e soprannaturale; la seconda una società naturale e temporale; ciascuna nel suo genere è una società perfetta col massimo della potestà correlativa, poiché tanto l’una quanto l’altra possiede in sé e per sé i mezzi necessari a conseguire il rispettivo fine. Questa distinzione tuttavia non va intesa nel senso che lo Stato possa comportarsi quasi fosse del tutto separato dalla Chiesa, come se Dio non esistesse, e trascurare la religione come cosa del tutto estranea e senza interesse alcuno, oppure tra le varie religioni sceglierne una a piacere; deve infatti anche lo Stato, non meno dei singoli cittadini, onorare Dio a mezzo di quella religione che, voluta da Lui, offre certi indubitabili indizi di essere fra tutte l’unica e sola vera; e questa è esclusivamente la vera Chiesa di Gesù Cristo. Una separazione giuridica fra Chiesa e Stato può tollerarsi solo in speciali e gravi contingenze, quando cioè tale separazione serva ad evitare mali maggiori, sempre che alla Chiesa venga assicurata la libertà di vivere e di agire. Pertanto, poiché la società spirituale e soprannaturale, per ragionedel fine superiore a cui tende, sorpassa in eccellenza e nobiltà la società temporale, lo Stato, nato per l’utile comune, deve procurare il bene temporale dei cittadini non creando mai impedimenti al fine della Chiesa, anzi facilitandone in ogni modo il conseguimento.)

D. 167. Quali sono i principi che definiscono la competenza delle due Società?

R. I principi che definiscono la competenza delle due Società sono i seguenti:

1° quanto spetta alla salute delle anime e al culto di Dio appartiene alla potestà della Chiesa.

2° Tutto il resto, nel campo civile e politico, appartiene alla potestà dello Stato.

3° Ove i due diritti s’incontrano, natura vuole, ed esige il divino volere, che fra l’una e l’altra potestà regni la concordia, mercé la quale vengono evitate contese funeste ad ambedue. (Leone XIII: Encicl. Diuturnum illud, 29 giug. 1881, e Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885 Pio X: Encicl. Vehementer, 16 feb. 1906).

D. 168. E’ la Chiesa competente anche negli affari di natura civile e politica?

R. Anche negli affari di natura civile e politica la Chiesa è competente, qualora tali affari presentino qualche nesso con la regola della fede e dei costumi e quindi con la salute delle anime.

D. 169. A chi appartiene di giudicare se esiste o no il detto nesso?

R. Il giudicare se esiste o no il detto nesso appartiene alla Chiesa, al cui magistero e governo non è lecito ai Cattolici di rifiutare ossequio (Pio IX: Epist. Gravissimas inter, 11 dic. 1862; Leone XIII: Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885).

Art. 3. — DELLA COMUNIONE DEI SANTI.

D. 170. In qual modo la seconda parte dell’articolo nono: la Comunione dei Santi si riconnette alla prima?

R. La seconda parte dell’articolo nono: la Comunione dei Santisi riconnette alla prima in quanto ne è unaspiegazione: vi s’insegna infatti quali vantaggi ricavanoi membri della Chiesa dalla santificazione in essa e a mezzodi essa ottenuta (Cat. p. parr., p. I, a. IX, n. 23, 24).

D. 171. Che cosa crediamo in questa seconda parte dell’articolo nono?

R. In questa seconda parte dell’articolo nono noi crediamo che fra i membri della Chiesa e in forza dell’intima unione che li congiunge fra loro sotto l’unico Capo Cristo, esiste una comunicazione di beni spirituali (Paolo: ad Rom., XII, 4, 5; I.a ad Cor., XII, 11-31; ad Eph., IV, 4-13; Cat. p. parr., p. I, c. X , n. 24, 25. — I comunibeni spirituali della Chiesa sono: gl’infiniti meriti di Gesù Cristo,i meriti sovrabbondanti della beata Vergine Maria e deiSanti, le indulgenze, le preghiere e le opere buone che si fannonella Chiesa, i Sacramenti, il sacrificio della Messa, le pubblichepreci e i riti esterni: tutte cose che stabiliscono come unsacro vincolo di unione tra i fedeli e Cristo e i fedeli tra loro.).

D. 172. Tutti i membri della Chiesa godono di questa comunione?

R. Non tutti i membri della Chiesa godono pienamente di questa comunione ma quelli soli che trovansi in istato di grazia: ecco perché la detta comunione si chiama Comunione dei Santi.

D. 173. Chi è in peccato mortale è privato di detta comunione?

R. Chi è in peccato mortale non è del tutto privato di detta comunione, in quanto può essere aiutato a ricuperare la grazia e dalle pubbliche preci della Chiesa e dalle preci e opere buone di chi sta in grazia di Dio.

D. 174. V’è comunione con quelli che sono in possesso della gloria del Paradiso?

R. V’è comunione con quelli che sono in possesso della gloria del Paradiso in quanto, mentre noi li onoriamo e li invochiamo con supplice cuore, essi intercedono per noi presso Dio (Tob., XII, 12; Eccl., XLIV, 1; Dan., III, 35; II Macc, XV, 14; Apoc, V, 8; VIII, 3; Conc. di Tr., sess. XXV: De invoc. Vener… Sanctorum; S. Gerol.: Contra Vigilantium, 6).

D. 175. V’è comunione anche con le anime trattenute in Purgatorio?

R. V’è comunione anche con le anime trattenute in Purgatorio, in quanto noi possiamo aiutarle coi nostri suffragi, cioè con il sacrificio della Santa Messa, indulgenze, orazioni, elemosine ed altre opere di pietà e di penitenza; esse ci aiutano presso Dio con le proprie orazioni (S. Cirill. Geros.: Cathecheses, V, 8; S. Agost.: De Civitate Dei, XX, 9, 2. )

D. 176. Quali sono le orazioni che i fedeli sogliono più di frequente recitare per le anime trattenute in Purgatorio?

R. Le orazioni che i fedeli sogliono più di frequente recitare per le anime trattenute in Purgatorio sono il salmo De profundise quest’altra breve orazione: « L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Così sia ». (« Santo…. e salutare è il pensiero di pregare per i defunti »; II Machab., XII, 46. — Santissimo ufficio di carità quello di aiutare coi nostri suffragi le anime del Purgatorio, specie quando si tratti di coloro cui ci unì qualche vincolo di parentela o l’obbligo della gratitudine. E oltre che santissimo, saluberrimo, in quanto con questa nostra carità verso anime a Dio tanto care, ci conciliamo la benevolenza di Dio e l’attiva riconoscenza di quelle stesse anime sante.).

Art. 4. — DELLA REMISSIONE DEI PECCATI.

D. 177. Che cosa crediamo nel decimo articolo del Simbolo: La remissione dei peccati?

R. Nel decimo articolo del Simbolo: La remissione dei peccati, noi crediamo esservi nella Chiesa la verapotestà di rimettere i peccati in virtù dei meriti di GesùCristo (Matt., XVI, 19; XVIII, 18; Giov., XX, 23; Conc. Lat. IV, c. I ; Conc. di Tr., sess. XIV, c. 1 e can; S. Leone IX: Symbolum fidei.).

D. 178. Con quali mezzi otteniamo noi nella Chiesa la remissione dei peccati?

R. Noi otteniamo nella Chiesa la remissione dei peccati mortali a mezzo dei Sacramenti a questo scopo istituiti da Nostro Signor Gesù Cristo, oppure mediante un atto di contrizione perfetta unitamente al proposito di ricevere i detti Sacramenti; possiamo poi ottenere la remissione dei peccati veniali anche a mezzo di altri atti di religione, sempre rimanendo il debito della pena temporale da saldarsi da ognuno in questa vita o nell’altra, vale a dire in Purgatorio (Ad ottenere la remissione dei peccati veniali basta nell’uomo giusto un atto qualsiasi compiuto col soccorso della divina grazia, purché in tale atto sia contenuta, per lo meno implicita, la detestazione della colpa. Il perdono quindi dei peccati leggeri può venir impetrato non solo a mezzo dei Sacramenti che conferiscono la grazia, ma anche a mezzo di atti cui vada congiunta una qualche detestazione della colpa, quale, per esempio: il recitare il Pater Noster o il Confiteor, il percuotersi il petto, ecc.; o ancora a mezzo di atti con cui si esprima la riverenza verso Dio e le cose divine: per esempio: la benedizione del sacerdote, l’aspersione dell’acqua benedetta, una qualsiasi unzione sacramentale, un’orazione in una Chiesa dedicata…. (S. Tom., Suppl., p. III q. 87, a. 3).

Art. 5. — DELLA RISURREZIONE DEI MORTI E DELLA VITA ETERNA.

D. 179. Che cosa crediamo nell’undecimo articolo del Simbolo: la risurrezione della carne?

R. Nell’undecimo articolo del Simbolo: la risurrezione della carne, noi crediamo che alla fine del mondotuti i morti verranno richiamati alla vita e risorgerannoper il giudizio universale, ogni anima venendo a riprendere,per non più separarsene, quel corpo stesso cui erastata congiunta nella vita presente (Giobbe, XIX, 25-27; Matt., X III, 40-43; Giov., V, 28,29; VI, 39, 40; Atti, XXIV, 15; Paolo, J . a ad Cor., XV, 12 e segg.; Conc. Lat., IV, cap. I; S. Leone IX, 1. e ; Inn. III: Profess. fidei Waldensibus præscripta; S. Cirillo Aless., In Joan, VIII, 51; S. Giov. Cris.: De resurect. mortuorum, 8; Cat. p. parr., p. I, c. XII, n. 6 e segg.).

D. 180. Per qual virtù avverrà la risurrezione della carne?

R. La risurrezione della carne avverrà per la divina virtù di Gesù Cristo, il quale, come suscitò dai morti il proprio corpo, così pure susciterà alla fine del mondo i corpi di coloro che dovrà giudicare (Giov., V , 28, 29; S. Giov. Cris., 1. c, 7; S. Tom., p. 3, q. 56, a. I.)

D. 181. Per qual ragione Iddio ha voluto che i corpi dei morti risuscitassero?

R. Dio ha voluto che i corpi dei morti risuscitassero affinché tutto l’uomo raggiungesse eternamente, a seconda dei suoi meriti, o il premio in Paradiso o la pena nell’Inferno.

D. 182. I corpi dei morti risorgeranno tutti allo stesso modo?

R. I corpi dei morti risorgeranno tutti immortali, ma solo i corpi degli eletti, a somiglianza di quello di Cristo, risorgeranno muniti delle doti del corpo glorioso (Paolo, I ad Cor., XV, 52; ad Philipp., III, 21; Apoc, XX, 12, 13; S. Cirillo Ger.: Cathecheses, XVIII, 18-19).

D. 183. Quali sono le doti del corpo glorioso?

R. Quattro doti si enumerano di solito del corpo glorioso: l’impassibilità, la chiarezza, l’agilità e la sottigliezza.

(Paolo, I ad Cor., XV, 42-44. — Il Catechismo dei parroci, p. I, c. XII, n. 13, chiarisce l’argomento come segue: « La impassibilità farà sì che il corpo glorioso non potrà più assolutamente patire, né essere afflitto dal benché minimo dolore o disagio. All’impassibilità segue la chiarezza, che è un fulgore ridondante nel corpo come conseguenza della somma felicità dell’anima, così che può dirsi che la chiarezza sia un comunicarsi al corpo della beatitudine di cui l’anima gode. Alla chiarezza va congiunta l’agilità, grazie alla quale il corpo potrà muoversi con la massima facilità in qualunque senso l’anima vorrà. Aggiungesi infine la sottigliezza, in virtù della quale il corpo verrà assoggettato all’impero dell’anima, pronto a servirla, ad ogni suo comando ». S. Tom.: Suppl., q. 82 e segg.)

D. 184. Che cosa crediamo nell’ultimo articolo del Simbolo: La vita eterna?

R. Nell’ultimo articolo del Simbolo: la vita eterna, noi crediamo che dopo la morte è preparato agli elettiin Paradiso una felicità perfetta e senza mai fine, mentreinvece le pene eterne dell’Inferno attendono i reprobi.

(Matt., XXV, 46; S. Pietro Canisio, De fide et symbolo fidei, n. XXI: « Quando trattisi di raggiungere quella vita, nessun’operadi pietà è troppo ardua per il vero credente, nessuntravaglio troppo grave, nessun dolore troppo acerbo, nessuntempo troppo lungo e molesto all’agire e al patire. Che se nullariteniamo di più dolce, di più desiderabile della vita presente,piena d’altronde di calamità, che cosa dunque dovremopensare di quell’altra donde è bandito il più lontano timore ol’eco più lontana del male, ove senza fine celesti ed ineffabiligioie, delizie e godimenti d’ogni sorta per sempre abbonderanno?»).

D. 185. Che cosa significa la parola Amen alla fine del Simbolo?

R. La porla Amen alla fine del Simbolo significa che ogni e singola cosa contenuta nel Simbolo, è vera, e che noi la crediamo e professiamo senza il benché minimo dubbio.

D. 186. Per conseguire la vita eterna basta credere quel che è da credersi?

R. Per conseguire la vita eterna non basta credere quel che è da credersi; ma bisogna inoltre osservare quanto Dio stesso e la Chiesa hanno comandato di operare (Matt., V, 16; VII, 26, 27; IX, 15; XXV, 35 e segg.; Giac, II, 14 e segg.).

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (9)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (9)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [9]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXI.

Si conferma quel che s’è detto con alcuni esempi.

Racconta Simone Metafraste nella Vita di S. Giovanni Limosiniero, Arcivescovo d’Alessandria, che un uomo ricco aveva un figliuolo da lui grandemente amato: e per impetrare da Dio, che gli conservasse la vita e la sanità pregò il Santo, che facesse orazione per lui, dandogli gran quantità d’oro da distribuire per limosina ai poveri secondo questa intenzione. Il Santo lo fece, e a capo di trenta giorni quel figliuolo morì. Il padre ne restò afflittissimo, parendogli, che l’orazione e la limosina fatta per esso fossero state fatte in vano. E avendo notizia il Patriarca della sua afflizione, fece orazione per lui, chiedendo a Dio che lo consolasse. Esaudì il Signore la sua orazione, e una notte mandò un Angelo santo dal cielo, il quale apparve a quell’uomo, gli disse, che dovesse sapere, che l’orazione che s’era fatta pel suo figliuolo era stata esaudita, e che per essa il fanciullo era in cielo vivo e salvo, e che era stato per lui espediente il morire in quel tempo in cui era morto, per salvarsi; perché se fosse vissuto, sarebbe stato cattivo, e si sarebbe renduto indegno della gloria di Dio: e gli disse di più, che sapesse, che nessuna cosa, di quante ne accadono in questa vita, accade senza giusto giudizio di Dio, sebbene le ragioni de’ suoi giudizi sono occulte agli uomini; e che perciò non dee l’uomo lasciarsi prendere da tristezza disordinata, ma ricevere con animo paziente e grato le cose che Dio ordina. Con questo celeste avviso il padre del morto fanciullo rimase consolato e ben inanimato a servir Dio. – Nell’Istoria Tebea (Hist. Theo. lib. 2, c. 10) si narra una grazia singolare che S. Maurizio, capitano che fu della Legione Tebea, fece ad una gentildonna molto sua devota. Aveva costei un solo figliuolino, e acciocché s’allevasse a buon’ora in religiosi costumi, nel fine della sua tenera età la madre lo consacrò nel monastero di S. Maurizio, sotto la cura e il governo de’ Monaci, come in quei tempi si costumava di fare; e come lo fecero il padre e la madre con Mauro e Placido, e alcuni altri nobilissimi Romani in tempo di S. Benedetto, e molti anni dopo lo fecero con S. Tommaso d’Aquino nel monastero di Monte Cassino la sua madre Teodora e i Conti d’Aquino suoi fratelli. S’allevò in quel monastero l’unico figliuolo di detta gentildonna in lettere, e costumi, e nella disciplina monastica, molto bene; e già aveva cominciato a cantare soavissimamente in Coro in compagnia de’ Monaci, quando sopraggiuntagli una febbretta se ne morì. Andò la sconsolata madre alla chiesa, e con infinite lagrime accompagnò il morto sino alla sepoltura: ma non bastarono le tante lagrime per temperare il dolore della madre, né per ritenerla dall’andar ogni giorno a quella sepoltura a piangerlo senza misura; il che molto più faceva, quando mentre si dicevano gli Uffici divini si ricordava di esser priva d’udir la voce del figliuolo. Perseverando la gentildonna in questo sì mesto esercizio, non solo di giorno in chiesa, ma anche di notte in casa, senza potere pigliar riposo, vinta una volta dalla stanchezza se ne restò addormentata, e in quel sonno le apparve il santo capitano Maurizio, che disse: Perché, o donna, stai continuamente piangendo la morte del tuo figliuolo, senza poter dar fine a tante lagrime? Rispose ella: Non potranno mai tutti i giorni della mia vita por fine a questo mio pianto: e perciò fin che vivrò piangerò sempre il mio unico figliuolo, né cesseranno questi miei occhi di spargere continue lagrime, fin a tanto che la morte non li chiuda, e separi da questo corpo questa sconsolata anima. E il Santo replicò: Ti dico, donna, che non t’affligga, né stii più a piangere il tuo figliuolo per morto, perché in realtà non è egli morto, ma vivo, e se ne sta in gaudio con noi altri nell’eterna vita: e per contrassegno di questa verità che io ti dico, levati su di mattina al Mattutino, e udrai la voce del tuo figliuolo fra quelle dei Monaci che canteranno l’Ufficio divino; e non solamente lo godrai domattina, ma anche tutte le altre volte che ti troverai presente alle divine Lodi in cotesta chiesa: cessa dunque e metti fine alle tue lagrime, poiché hai più tosto occasione di grande allegrezza che di tristezza. Svegliata la donna, aspettava con desiderio l’ora del Mattutino, per chiarirsi affatto della verità, restando tuttavia con .qualche dubbio, che questo fosse stato un mero sogno. Giunta l’ora, ed entrata ella in chiesa, riconobbe nel canto dell’Antifona la soavissima voce del beato suo figliuolo; e assicurata già della sua gloria in cielo, scacciato da sé tutto il dolore, rendette infinite grazie a Dio, godendo ella ogni giorno quella gratissima voce negli Uffici divini di quella chiesa, consolandola Dio in questa occasione e facendola ricca con questo dono. – Racconta un Autore (Flor, de Enriq. Gran. lib. 4, c. 63. ), che andando un giorno un cavaliere a caccia gli sbucò davanti una fiera, e la seguitò egli solo, senza alcun servidore, perché gli altri erano occupati intorno ad altre fiere: e seguitandola con grande ansietà si allontanò assai, e arrivò ad una selva ove udì una voce umana assai soave. Maravigliossi egli di udir in un deserto una voce tale, parendogli, che non potesse essere de’ suoi servidori, né meno d’altra persona di quel paese; e desiderando pur di sapere che cosa fosse quella voce, entrò più dentro nella selva, e vi trovò un lebbroso spaventevole in vista e molto stomachevole, il quale aveva talmente maltrattata la sua carne, che s’andava consumando in ciascuna parte e in ciascun membro del suo corpo. Il cavaliere a quella vista restò perplesso e come spaventato; nondimeno, sforzandosi e facendosi animo, se gli accostò, lo salutò con parole molto dolci, e gli domandò, se era quegli che cantava e donde gli era venuta voce sì dolce. Rispose il lebbroso: Io, signore, sono quel desso che cantava e questa è voce mia propria. Come ti puoi rallegrare, disse il cavaliere, avendo tanti dolori? Rispose il povero: Fra Dio Signor mio, e me, non v’è altra cosa di mezzo che questo muro di fango che è questo mio corpo: fracassato questo, e tolto via questo impedimento, andrò a godere la visione della sua eterna maestà: e vedendo io, che ogni giorno mi si va disfacendo a pezzi a pezzi, mi rallegro e canto con una incredibile allegrezza del mio cuore, aspettando, come aspetto la separazione da questo corpo, dappoiché per fin a tanto che io non lo lascio, non posso andare a goder Dio, fonte viva ove si trovano quelle inesauste vene di vero gaudio che dureranno per sempre. – S. Cipriano racconta d’un Vescovo (D. Cypr. lib. de mort.) il quale trovandosi per una grave infermità molto vicino a morte, affannato e sollecito per la presenza di essa, supplicò il Signore che gli allungasse la vita. Gli apparve un Angelo in forma di un giovine molto bello e risplendente, il quale con voce grave e severa gli disse: Pati timetis, exire non vultis, quid faciam vobis? Da un canto temete il patire in questa vita, e dall’altro non volete uscir da essa; che cosa volete che io vi faccia? dimostrandogli, che non piaceva a Dio questa ripugnanza nell’uscire da questa vita. E dice S. Cipriano, che l’Angelo gli disse queste parole, acciocché nella sua agonia le dicesse e le insegnasse agli altri. – Narra Simeone Metafraste, e l’apporta il Surio (Sarius tom. 1, fol. 237), del santo abbate Teodosio, che sapendo il Santo quanto utile sia la memoria della morte, e volendo con questo dar occasione a’ suoi discepoli di far profitto, fece aprir una sepoltura, e aperta che fu, si pose co’ suoi discepoli intorno a quella, e disse loro: Già è aperta la sepoltura; ma chi di voi sarà il primo a cui abbiamo da celebrar qui i funerali? Allora uno di que’ discepoli, chiamato Basilio, il quale era Sacerdote euomo di gran virtù, e così era molto disposto e preparato ad eleggersi la morte con molta allegrezza, lo prese per la mano, e inginocchiatosi gli disse: Benedicimi, o Padre, che io sarò il primo a cui s’hanno qui afare gli Uffici de’ defunti. Egli lo chiede, eil Santo glielo concedette. Comanda il santo abbate Teodosio, che se gli facciano subito in vita tutti gli Uffici soliti a farsi per i morti, il primo giorno, il terzo, il nono, e indi gli altri, che si fanno a capo di quaranta giorni. Cosa meravigliosa! finite le esequie e l’ufficio a capo de’ quaranta giorni, stando il monaco Basilio sano e salvo senza febbre, senza doglia di capo, e senza alcun altro male, come chi è preso da un dolce e soave sonno, se ne passa al Signore a ricever il premio della sua virtù e della prontezza e allegrezza colla quale aveva desiderato di vedersi con Cristo. E acciocché si vedesse quanto era piaciuta a Dio questa Prontezza e allegrezza colla quale il santo Monaco desidero uscire di questa vita, dietro aquesto miracolo ne succede un altro. Dice Simeone Metafraste, che per quaranta altri giorni dopo la sua morte lo vide l’abbate Teodosio venir ogni giorno al Vespro e cantar in Coro cogli altri discepoli: sebbene gli altri non lo vedevano né lo sentivano cantare, se non un solo che fra gli altri era insigne in virtù, chiamato Aecio, il quale lo sentiva cantare, ma non lo vedeva. Questi andò a trovare l’abbate Teodosio, e gli disse: Padre, non senti cantar con noi altri il nostro fratello Basilio? E l’Abbate rispose: Lo sento e lo veggo; e se vuoi, farò, che tu ancora lo vegga. E radunandosi il giorno seguente in Coro pel consueto Ufficio, vide l’abbate Teodosio, come soleva, il santo monaco Basilio che cantava cogli altri al solito, e lo mostrò col dito ad Aecio, facendo insieme orazione, e pregando Dio, che aprisse gli occhi di quell’altro Monaco, acciocché ancor esso lo potesse vedere. E avendolo veduto e riconosciuto, andò subito correndo da lui con grand’allegrezza per abbracciarlo; ma non lo potè prendere, che sparì subito, dicendo con voce che da tutti fu udito: Restatevene con Dio, Padri e Fratelli miei, restatevene con Dio, che da qui avanti non mi vedrete più. – Nella Cronaca dell’ Ordine di S. Agostino (Chron. Ord. S. Aug. cent. 3) si narra di Colombano il giovine, nipote e discepolo del santo abbate Colombano, che avendo grandissime febbri e trovandosi vicino a morte, è come pieno di grande speranza desiderando di morire, gli apparve un giovine risplendente il quale gli disse: Sappi, che le orazioni del tuo Abbate e le lagrime ch’egli sparge per la  tua salute impediscono la tua uscita da questa vita. Allora il Santo si lamentò amorevolmente col suo Abbate, e piangendo gli disse: Perché mi violenti tu a vivere una vita tanto piena di tristezza, quanto è questa, e m’impedisci l’andare all’eterna? Con questo l’Abbate cessò dal piangere e dal fare orazione per lui; e così radunatisi i Religiosi, e presi egli i santi Sacramenti, abbracciandolo tutti, morì nel Signore. – S. Ambrogio riferisce de’ popoli della Tracia (D. Ambr. de fide resurr.), che quando nascevano gli uomini, piangevano; e quando morivano, facevano gran festa. Piangevano il nascimento, e celebravano e festeggiavano il giorno della morte, parendo loro, e con molta ragione, dice S. Ambrogio, che quei che venivano in questo mondo miserabile, pieno di tanti travagli, erano degni d’esser compianti, eche quando uscivano da quest’esilio, era ragionevole far festa e allegrezza, perché si liberavano da tante miserie. Or se coloro essendo Gentili e Pagani, e non avendo cognizione della gloria che noi speriamo e aspettiamo, facevan questo; che cosa vorrà la ragione che sentiamo e facciamo noi altri i quali illuminati col lume della Fede abbiamo notizia de’ beni che vanno a godere quei che muoiono nel Signore? E così con molto maggior ragione disse il Savio, che è migliore il giorno della morte che quello della nascita: Melior est dies mortis die nativitatis (Eccle. VII, 2). S. Girolamo dice (D. Hieron. ep. ad Tir.), che per questo Cristo nostro Redentore, volendo partirsi da questo mondo per andare al Padre, disse a’ suoi discepoli i quali se n’attristavano: Si diligeretis me, gauderetis utique, quia vado ad Patrem (Jo. XIV, 23): Non sapete quel che fate: se m’amaste, più tosto vi dovreste rallegrare, perché vo al mio Padre: e per lo contrario, quando si risolvette di risuscitar Lazzaro, pianse. Non pianse, dice S. Girolamo, perché Lazzaro fosse morto (Ibid. XI, 35), poiché subito l’aveva da risuscitare; ma pianse, perché aveva da ritornare a questa vita miserabile: piangeva, perché quegli che Egli aveva amato e amava tanto, doveva ritornare a’ travagli di quest’esilio.

CAPO XXII.

Della conformità alla volontà di Dio che dobbiamo avere ne’ travagli e nelle calamità universali ch’Egli manda.

Non solo abbiamo d’avere conformità alla volontà di Dio ne’ travagli e avvenimenti nostri propri e particolari; ma anche dobbiamo averla ne’ travagli e nelle calamità pubbliche e universali, di carestie, di guerre, d’infermità, di morti, di peste e altre simili, che il Signore manda alla sua Chiesa. Per quest’effetto bisogna supporre, che quantunque da un canto sentiamo queste calamità e Castighi, e ci dispiaccia il male e il travaglio de’ nostri prossimi, come la ragion vuole; nondimeno dall’altro canto, considerandoli in quanto sono volontà di Dio, e ordinati dai suoi giusti giudizi, per cavare da quegli i beni e frutti di sua maggior gloria ch’Egli sa, ci possiamo conformare in essi alla sua santissima e divina volontà; in quella maniera che lo veggiamo in un Giudice che sentenzia uno a morte, al quale sebbene da una parte dispiace che quell’uomo muoia, e di ciò ne provi gran pena per la compassion naturale, o per essere colui suo amico; nondimeno dall’altra parte dà la sentenza, e vuole che muoia, perché così conviene al ben comune della Repubblica. E ancorché sia vero, che Dio non volle obbligarci a conformarci alla volontà sua in tutte queste cose in tal modo, onde giungessimo a volerle ed amarle positivamente, ma si contentò, che le sopportassimo con pazienza, non contraddicendo né ripugnando alla sua divina giustizia, né mormorando di essa; dicono nondimeno i Teologi e i Santi (D. Bonav. 1 sent. d. 48, r. 2, et alii.), che sarà opera di maggior perfezione e merito, e più perfetta ed intera rassegnazione, se l’uomo non solo sopporterà con pazienza queste cose, ma anche le amerà e le vorrà in quanto sono volontà e beneplacito di Dio, e ordinazioni della sua divina giustizia, e servono per maggior sua gloria. Così fanno i Beati in cielo, i quali in tutte le cose si conformano alla volontà di Dio, siccome lo dice S. Tommaso (D. Thom. 2. 2, q. 9, art. 10 ad 1) e lo dichiara S. Anselmo (D. Ans. lib. similitudinum, c. 63) con questa similitudine, che nella gloria la nostra volontà e quella di Dio saranno così concordi, come sono di qua i due occhi di un medesimo corpo, che non può l’uno di essi guardare una cosa senza che la guardi l’altro ancora: e perciò benché la cosa si vegga con due occhi, sempre pare una medesima. Siccome dunque tutti i Santi colà in cielo si formano alla volontà di Dio in tutte le cose, perché in tutte esse veggono l’ordinazione della sua giustizia e il fine della sua maggior gloria a cui vanno indirizzate; così sarà gran perfezione, che noi altri imitiamo in questo i Beati, volendo che si faccia la volontà di Dio qui in terra come si fa in cielo. Il voler quello che Dio vuole, per la medesima ragione e fine per cui Dio lo vuole, non può non essere cosa molto buona. Possidonio riferisce di S. Agostino nella sua Vita, che essendo la città d’Ippona, ov’egli risedeva, assediata da’ Vandali, e veggendo esso tanta rovina e mortalità, si consolava con quella sentenza d’un Savio: Non erit magnus magnum putans, quod cadunt ligna et lapides, et moriuntur mortales: Non sarà grand’uomo quegli che penserà, che sia una gran cosa che le pietre e gli edifici cadano, e che muoiano i mortali. Con maggior ragione dobbiamo noi altri consolarci, considerando, che tutte queste cose vengono dalla mano di Dio, e che questa è la volontà sua, e che quantunque la cagione per la quale Egli manda questi travagli e calamità sia occulta, non può essere che sia ingiusta. I giudicii di Dio sono molto profondi ed occulti; sono un abisso senza fondo, come dice il Profeta: Judicia tua abyssus multa (Psal. XXXV, 7): e non dobbiamo noi altri andargli investigando col nostro basso, corto e difettoso intelletto; che questa sarebbe gran temerità. Quis enim cognovit sensum Domini? aut quis consiliarius ejus fuit ((2) Ad Rom. XI, 34, et Isa. XI. Ì3)? Chi t’ha fatto del consiglio di Dio, per volerti intromettere in questo? Abbiamo però da venerare con umiltà i suoi profondi giudizi, e credere, che da Sapienza infinita non viene né può venire se non cosa molto buona, e tanto buona, che il fine di essa sia il nostro maggior bene e utilità (Supra c. 9). Abbiamo da camminare sempre con questo fondamento, credendo di quella infinita bontà e misericordia di Dio, che non manderebbe né proietterebbe simili mali e travagli, se non fosse per cavarne da essi beni maggiori. Vuole Iddio per questa strada guidare molti al cielo, i quali d’altra maniera andrebbero in perdizione. Quanti sono quelli che con questi travagli ritornano di cuore a Dio e morendo con vero pentimento de’ loro peccati si salvano, e altrimenti si sarebbero dannati? E cosi quel che pare castigo e flagello, è misericordia e beneficio grande. Nel secondo Libro de’ Maccabei dopo di aver l’Autore raccontata quell’orribile e crudelissima persecuzione dell’empio re Antioco, e il sangue che sparse senza perdonare a fanciullo né a vecchio, né a donna maritata né a vergine, e come spogliò e profanò il Tempio, e le abominazioni che in esso si commettevano per comandamento suo; aggiunge e dice: Obsecro autem eos, qui hunc librum lecturi sunt, ne abhorrescant propter adversos casus, sed reputent ea, quæ acciderunt, non ad interitum, sed ad correptionem esse generis nostri (II. Mach, VI, 12): Io prego tutti quelli che leggeranno questo libro, che non si perdano d’animo per questi sinistri avvenimenti; ma si persuadano, che Dio ha permessi e mandati tutti questi travagli non per distruzione, ma per emendazione e correzione della nostra gente. S. Gregorio (D. Greg. lib. 2 mor. c. 32) a questo proposito dice molto bene: La sanguisuga succhia il sangue dell’infermo, e quel che pretende, è saziarsi di esso e beverselo tutto se potesse; ma il medico pretende cavar con essa il sangue cattivo edar sanità all’infermo. Or questo è quello che pretende Dio per mezzo del travaglio e della tribolazione che ci manda: e siccome l’infermo sarebbe imprudente, se non si lasciasse cavare il sangue cattivo, avendo più riguardo a quel che pretende la sanguisuga, che a quello che pretende il medico; così noi altri in qualsivoglia travaglio che ci venga, sia per mezzo degli uomini, o sia per mezzo di qualsivoglia altra creatura, non abbiamo da riguardare ad esse, ma al sapientissimo medico Iddio, perciocché tutte esse servono a Lui di sanguisughe e di mezzi per evacuar il sangue cattivo e per darci intera sanità. E così abbiamo da persuaderci e credere, che ogni cosa Egli ci manda per maggior bene e utilità nostra. E ancorché non vi fosse altro che volerci il Signore gastigare in questa vita come figliuoli, e non differirci il castigo nell’altra; sarà questa una grazia e un beneficio molto grande. Si narra di S. Caterina da Siena (lu Vita S. Cath. de Sen. p. 2, e. 4), che trovandosi molto afflitta per una falsa accusa data contro di lei, toccante la sua onestà, le apparve Cristo nostro Redentore il quale teneva nella sua man dritta una corona d’oro, ornata di molte gioie e pietre preziose, e nella mano manca teneva un’altra corona, ma di spine, e le disse: Figliuola mia diletta, sappi, che è necessario che sii coronata con queste due corone in diverse volte e tempi; però eleggi tu quel che vuoi più tosto: o esser coronata in questa vita presente con questa corona di spine, e che quest’altra preziosa ti sia riservata per la vita che ti ha da durar in eterno, ovvero che ti sia data in questa vita questa corona preziosa, e per l’altra ti sia riservata questa di spine: e la santa vergine rispose: Signore, è già molto tempo ch’io rinunziai la mia volontà per seguir la vostra; perciò non tocca a me l’eleggere: tuttavia se voi, Signore, volete ch’io risponda, dico, che io sempre in questa vita eleggo l’esser conforme alla vostra santissima passione, e per amor vostro voglio abbracciar sempre pene per mio refrigerio: e detto questo prese la corona di spine colle proprie mani dalla sinistra del Salvatore, e se la pose sul capo con quanto poté di forza e con tanta violenza, che le spine glielo forarono tutto all’intorno talmente, che da quell’ora innanzi sentì per molti giorni un grave dolore nel capo per esservi entrate le spine.

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (7)

IL CATECHISMO CATTOLICO

A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (7)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO III.

SEZIONE 2a . — Degli altri sei articoli del Simbolo, che contengono la dottrina circa la seconda Persona della Santissima Trinità e l’opera della Redenzione.

Art. 1. — Dì GESÙ CRISTO E DELLA SUA DIVINITÀ.

D. 79. Che cosa crediamo nel secondo articolo del Simbolo: E in Gesù Cristo, suo unico Figliuolo, Signore nostro?

R. Nel secondo articolo del Simbolo: E in Gesù Cristo, suo unico Figliuolo, Signore nostro, noi crediamo che il Figliuol di Dio, quello stesso che fattosi uomo chiamasi Gesù Cristo, è l’unico Figliuolo del Padre, Signor nostro,vero Dio da vero Dio, nel quale noi crediamo come nel Padre. (Giov., I, 1, 14; Paolo: ad Eph., I , 20-23; ad Coloss., I, 13-20; la ad Tim., VI, 15, 16.)

D. 80. Perché crediamo in Gesù Cristo come in Dio Padre?

R. Crediamo in Gesù Cristo come in Dio Padre, perché Gesù Cristo è vero Dio come il Padre, unico Dio col Padre (Giov., I, 1; X, 30).

D. 81. In qual modo si prova che Gesù Cristo è il Messia, cioè il Redentore del genere umano, promesso da Dio nell’Antico Testamento?

R. Si prova che Gesù Cristo è il Messia, cioè il Redentore del genere umano, promesso da Dio nell’Antico Testamento, principalmente dalle profezie riguardanti il Redentore, che si compirono esattamente in Gesù Cristo; nonché dalla testimonianza di Gesù Cristo medesimo

(I profeti avevano predetto che il Messia sarebbe nato nella città di Betleem (Mich., V , 2), da una vergine (Is., VII, 14), dalla stirpe di Davide (Is., XI, 1); che sarebbe stato un gran dottore (Is., LXI, 1), avrebbe operato miracoli (Is. XXXV, 5-6), avrebbe sofferto i più atroci dolori (Is., L, 6; LIII, 11-12), sarebbe morto (Sal., XXI, 1 e segg.), risuscitato (Salm., XV, 10, LXVIII, 22), asceso in cielo (Sal., CIX, 1; Att., II, 24). Queste e tante altre cose ancora, predette dai profeti del Messia, si compirono perfettamente in Gesù Cristo. Inoltre ci sono le testimonianze dello stesso Gesù Cristo: ad esempio: Matt., XI, 3-6; XVI, 13-19; XXVI, 63, 64; Marco, XXIV, 26; Giov., IV, 25, 26; XI, 25; XIV, 9, 10; XVI, 15).

D. 82. Quali sono i principali argomenti che ci muovono ad ammettere la divinità di Gesù Cristo?

R. I principali argomenti che ci muovono ad ammettere la divinità di Gesù Cristo sono:

il costante magistero della Chiesa Cattolica;

le profezie dell’Antico Testamento, nelle quali viene preannunziato il promesso Redentore come vero Dio (Salmo II, 7; XLIV, 7; CIX, 3; Is., IX, 6, 7; XL, 3 11.);

3° la testimonianza di Dio Padre quando dice: « Questo è il mio Figliuolo diletto nel quale mi sono compiaciuto: ascoltatelo!» (Matt., III, 17; XVII, 5; Marco, I, 11);

la testimonianza di Gesù Cristo medesimo comprovata dalla santità della sua risurrezione (Matt., XI, 25-27; XVI, 13-19; XXVI, 63-65; Luca, XXII, 66-71; Giov., V, 18, 19, 23; X, 30);

5 ° la dottrina degli Apostoli confermata dai miracoli. (4 Giov., XX, 31; la di Giov., I V , 15; V, 20; Paolo, ad Rom., IX, 5 ; ad Philipp., II, 6-7 ; ad Hebr., I, 2)

6 ° la confessione d’innumerevoli martiri;

la mirabile propagazione e conservazione della Chiesa di Cristo.

D. 83. Perché il Figliuolo di Dio, fattosi uomo, fu chiamato Gesù?

R. Il Figliuolo di Dio, fattosi uomo, per espressa volontà di Dio, fu chiamato Gesù, vale a dire Salvatore, perché con la sua passione e morte ci salvò dal peccato e dall’eterna dannazione (Matt., I, 21; Paolo: ad Philipp., II, 8-11; Catech. p. parr., p. I, c. III, n. 6).

D. 84. Perché Gesù è detto anche Cristo?

R. Gesù è detto in greco Cristo, in ebraico Messia, in latino Unctus, perché in antico, re, sacerdoti e profeti venivano unti; e Gesù è difatti re, sacerdote e profeta (Esodo, XXX, 30; 1.° dei Re, IX, 16; XVI, 3; 3.° dei Re,XIX, 16; Atti, X, 38; Paolo: ad Hebr., I, 9; Catech. p. parr., p. I, c. III, n. 7.

D. 85. Perché Gesù Cristo è detto Signore nostro?

R. Gesù è detto Signore nostro, perché, in quanto Dio, Egli è il creatore e il conservatore di tutte le creature, con assoluta potestà su di esse; in quanto Uomo-Dio, Egli è il Redentore di tutti gli uomini, sicché giustamente Lo si chiama e venera come: « Re dei re e Dominatore dei dominanti »

(Matt., XXV, 34; XXVIII, 18; Giov., XVIII, 37; Paolo: ad Philipp., II, 6 – 11; ad Coloss., I, 12 – 20; Ia ad Tim., VI, 15; Apoc, I, 5; XLX, 16; Pio XI: Encicl. Quas Primas, 11 dic. 1925; Cat. p. parr., p. I, c. III, n. 11).

D. 86. Perché la seconda Persona della santissima Trinità è chiamata Verbo del Padre?

R. La seconda Persona della santissima Trinità è chiamata Verbo del Padre, perché procede dal Padre come atto d’intelletto, quale concetto della mente, così come in noi l’interno concetto della mente chiamasi verbo(Giov., I , 1 e segg.; l a di Giov., I , 1; Apoc, XIX, 13; S. Tom., p. la, q. 34, a. I, 2).

Art. 2. — DELL’INCARNAZIONE E DELLA NATIVITÀ DEL FIGLIUOLO DI DIO.

D. 87. Che cosa crediamo nel terzo articolo del Simbolo: Il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine?

R. Nel terzo Articolo del Simbolo: II quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, noi crediamo che il Figliuolo di Dio, al disopra di qualsiasi ordine naturale e per virtù dello Spirito Santo, assunse l’umana natura, vale a dire corpo e anima, nel purissimo grembo della beata Vergine Maria e che da essa nacque.

 (Matt., I, 20, 21; Luca, I, 31, 35. — Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, volle nascere in Betlemme di Giuda; e poiché non vi era luogo per lui all’albergo, dalla beata Vergine Maria fu posto a giacere in una mangiatoia d’animali, per insegnare agli uomini con questo suo esempio, dato sin dalla nascita, l’umiltà e la fuga degli onori e dei piaceri di questo mondo.).

88. Come si chiama il mistero per cui il Figliuolo di Dio fecesi uomo?

R. Il mistero per cui il Figliuolo di Dio fecesi uomo si chiama la divina Incarnazione del Verbo.

D. 89. Il Figliuolo di Dio, fattosi uomo, cessò di essere Dio?

R. Il Figliuolo di Dio, fattosi uomo, non cessò di essere Dio, ma, pur rimanendo vero Dio, cominciò a essere anche vero uomo (S. Efrem: In Hebdom. sanctam, VI, 9).

D. 90. Quante Nature e quante Persone vi sono in Gesù Cristo?

R. In Gesù Cristo due sono le Nature: la divina e l’umana, ma una sola Persona, cioè la Persona del Figlio di Dio (Conc. di Calcedonia: Definitio de duabus naturis Christi; Conc. III di Costant.: De duabus voluntatibus Christi; Conc. Later., IV, c. I; S. Leo IX, Symbolum fidei. « Poiché, dice il Simbolo Atanasiano, allo stesso modo che anima razionale e carne come sono un sol uomo, così Dio ed uomo sono un sol Cristo».).

D. 91. Per qual ragione il Figliuolo di Dio si degnò di assumere l’umana natura?

R. Il Figliuolo di Dio si degnò di assumere l’umana natura « per noi uomini e per la nostra salvezza »; in altri termini: per offrire a Dio una degna soddisfazione dei peccati, per ammaestrare gli uomini nella via della salvezza mediante la predicazione e gli esempi, per riscattarli dalla schiavitù del peccato mediante la sua passione e morte, per ricostituirli nella grazia di Dio e così ricondurli alla gloria del Paradiso (Gesù Cristo, Redentore dell’uman genere, per merito 0della sua passione e morte, volle bensì che fosse restituita quella giustizia e santità in cui il primo uomo era stato costituito, non però l’integrità di natura. Per il Battesimo, dunque, vien distrutto quanto può aver carattere di peccato, ma rimane il fomite della concupiscenza, perché questa, rimasta per la lotta, non ha forza di nuocere a chi, non acconsentendovi, virilmente la respinge con la grazia di Gesù Cristo; non solo, ma chi giustamente avrà combattuto, verrà coronato (Conc. di Trento, Sess. V). Ancora: la Redenzione non restituì all’umana natura l’immunità dalla morte e dagli altri dolori della vita, cui vollero soggiacere lo stesso divin Redentore e la stessa sua Madre. (S. Epif., Ancoratus, 93).

D. 92, Fu necessaria l’incarnazione del Verbo per la condegna soddisfazione dei peccati?

R. Per la condegna soddisfazione dei peccati fu necessaria l’incarnazione del Verbo, perché non poteva una semplice creatura fornire una condegna, ossia adeguata, soddisfazione dei peccati.

D. 93. Perché una semplice creatura non poteva fornire condegna, ossia adeguata soddisfazione dei peccati?

R. Una semplice creatura non poteva fornire condegna, ossia adeguata, soddisfazione dei peccati, perché il peccato mortale è di una gravità in un certo senso infinita, se si guarda l’infinita Maestà da esso offesa.

(S. Tommaso, p. IIIa q. I , a. 2, ad 2um: « Il peccato commesso contro Dio ha certo carattere d’infinità per l’infinità stessa della maestà divina: l’offesa infatti tanto più è grave quanto più è grande Colui contro il quale si manca: per aver quindi una condegna soddisfazione fu necessario che l’atto di chi sodisfaceva avesse un valore infinito…. »).

D. 94. Perché l’opera dell’Incarnazione viene attribuita allo Spirito Santo?

R. Per quanto solo il Figliuolo di Dio abbia assunta l’umana natura e l’opera dell’Incarnazione — come d’altronde qualsiasi opera ad extra — sia di tutta la Trinità, tuttavia l’opera dell’Incarnazione viene, per titolo speciale, attribuita allo Spirito Santo, in quanto lo Spirito Santo è l’Amore del Padre e del Figliuolo; e l’opera dell’Incarnazione manifesta precisamente l’immenso e singolare amore di Dio verso di noi (Paolo, I. ad Tim., III, 16; Leone XIII, Encicl. Divinum illud munus, 9 maggio 1897; Cat. p. parr., p. I. a, c. IV, n. 3.)

D. 95. La beata Vergine Maria è vera Madre di Dio?

R. La beata Vergine Maria è vera Madre di Dio, perché concepì e partorì, secondo l’umana natura, Gesù Cristo Signor nostro, il quale è vero Dio e vero uomo.

 (Luca, I, 31, 35; II, 7; Conc. di Ef.: Anathematismi Cyrilli, can. I; Conc. II di Costant.: Tria capitala, can. 6; Conc.III di Costant.: Definitio de duabus voluntatibus Christi; S.Gregorio Naz.: Epist. 101; S. Giov. Dam.: Oratio prima de Virginis Mariæ nativitate. – I misteri della divina Incarnazione di Gesù Cristo e della divina Maternità della beata Vergine Maria vengono così esposti brevemente nel Catechismo per i parroci, p. I, c. IV, n. 4: Non appena la beata Vergine Maria, nel dare il suo assenso alle parole dell’Angelo, disse: Ecco l’ancella del Signore, sia fatto a me secondo la tua parola, immediatamente, cioè in quello stesso primissimo istante, per virtù dello Spirito Santo, dal purissimo seno della beata Maria Vergine, venne formato il santissimo Corpo di Cristo, congiunta al corpo la sua anima umana (creata dal nulla) e unita al corpo e all’anima la divinità. Perciò nel medesimo istante di tempo si ebbe un Dio perfetto e un uomo perfetto, e la beata Vergine Maria fu veracemente e propriamente chiamata Madre di Dio e dell’uomo, per aver concepito in quello stesso momento un uomo che era Dio.).

D. 96. S. Giuseppe fu padre di Gesù Cristo?

R. S. Giuseppe non fu, a titolo di generazione, padre di Gesù Cristo; tuttavia così vien chiamato, perché, vero sposo della beata Vergine Maria, esercitò ne’ riguardi di Lui i diritti e i doveri di un padre, come capo di quella società coniugale ch’era stata direttamente preordinata allo scopo di accogliere, difendere e nutrire Gesù Cristo (Luca, III, 23. — Andate a Giuseppe, dice la Chiesa ai fedeli bisognosi di grazie, come altre volte diceva il Faraone agli affamati Egiziani, quando li rimandava a quell’antico Giuseppe. Né è da dubitarsi che il santissimo Patriarca accolga ognora propizio le preghiere de’ suoi devoti, soprattutto nell’ora della loro morte; né è possibile che a lui rifiuti nulla la beatissima Vergine di cui fu l’amantissimo sposo, o Gesù Cristo di cui egli fu il fedele e provvido custode. Leone XIII: Encicl. Quanquam pluries, 10 ag. 1885.).

D. 97. La beata Vergine Maria fu sempre Vergine?

R. La beata Vergine Maria fu sempre vergine, e in modo altrettanto mirabile quanto singolare, la perpetua verginità andò in lei congiunta alla divina maternità (Is., VII, 14; Matt., I , 23; Luca, I , 27; S. Leone M.: Epist. ad Flavianum, Const. Episcopum; S. Efrem: Oratio ad SS. Dei Matrem; Didimo Aless.: De Trinitate, III, 4; S. Epif.: Adv. hæreses, 78, 6; S. Gerolamo: Adv. Helvidium, 19)

Art. 3. — DELL’OPERA DELLA REDENZIONE DEL GENERE UMANO.

D. 98. Che cosa crediamo nel quarto articolo del Simbolo: Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, mortoe seppellito?

R. Nel quarto articolo del Simbolo : Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morto e seppellito, noi crediamoche Gesù Cristo, al fine di redimere il genere umano col suo sangue prezioso, patì sotto Ponzio Pilato, Procuratoredella Giudea, fu inchiodato sulla croce, morì sopra di essa, indi, deposto dalla croce, venne sepolto.

D. 99. In che cosa consiste l’opera della redenzione compiuta da Gesù Cristo?

R. L’opera della redenzione compiuta da Gesù Cristo consiste in ciò ch’Egli, « mosso dalla sovrabbondante carità con la quale ci amò, mediante la sua santissima passione sul legno della Croce, ci meritò la giustificazione, sodisfacendo per noi al Padre ». (Conc. di Trento, Sess. VI, c. 7).

D. 100. Gesù Cristo patì e morì in quanto Dio o in quanto uomo?

R. Gesù Cristo patì e morì in quanto uomo, perché in quanto Dio non poteva né patire né morire; però la sua stessa incarnazione ed ogni suo ancorché minimo patimento per noi, fu di un prezzo infinito a causa della sua Persona divina (S. Atanasio: Epist. ad Epictetum, 6. — Il Catechismo pei parroci, p. I, c. IV, n. 6, aggiunge qui ben a proposito: « L’uomo muore quando l’anima si separa dal corpo; per cui, quando diciamo che Gesù morì, intendiamo dire che la sua anima si divise dal corpo; con ciò non diciamo che la sua divinità sia stata disgiunta dal corpo. Anzi costantemente crediamo e professiamo che, divisa che fu l’anima dal corpo, la sua divinità rimase sempre congiunta tanto al corpo nel sepolcro, quanto all’anima negl’inferi ».).

D. 101. Perché dunque Gesù Cristo volle subire una passione e una morte così acerba e obbrobriosa?

R. Gesù Cristo volle subire una passione e una morte così acerba e obbrobriosa per abbondantemente soddisfare alla divina giustizia, per dimostrarci più manifestamente il suo amore, per eccitare in noi un odio ancor più grande del peccato e per darci maggior forza nel sopportare i travagli e le asprezze della vita.

D. 102. Per chi patì e morì Gesù Cristo?

R. Gesù Cristo patì e morì indistintamente per tutti gli uomini.

(Is., LIII, 4-6; Paolo, 2a ai Cor., V, 15; la ad Tim., II, 6; IV, 10; Innocenzo X, 31 mag. 1653, Contro le propos. Di Giansenio, n. 5; S. Ambrogio: Epist. XLI, 7. — Una tal prova d’incomparabile amore non deve mai cancellarsi dalla memoria degli uomini; con tutto il cuore dobbiamo amare Colui che, né suo malgrado, né a ciò costretto, subì una morte amarissima, ma sol perché indottovi dall’amore che ci portava. Dice S. Agostino: De cathechìz. rudibus, 7: « Se l’amare poteva esserci di peso, almeno ora non ci sia di peso il riamare; non c’è infatti più potente invito all’amore, che prevenire amando, e troppo duro sarebbe l’animo di chi non volendo per il primo amare, si rifiuti anche di riamare ».).

D. 103. Allora tutti gli uomini vengono salvati?

R. Non tutti gli uomini vengono salvati, ma quelli solo, che mettono in opera i mezzi stabiliti dalla stesso Redentore per partecipare al merito della sua passione e morte (Conc. di Trento: Sess. V I , c. 3. — Vedasi l’enumerazione di tali mezzi alla domanda 178.).

D. 104. Gesù Cristo, morendo sulla croce, offrì se stesso a Dio in vero e proprio sacrificio?

R. Gesù Cristo, morendo sulla croce, offri se stesso a Dio in vero e proprio sacrificio di valore infinito per la redenzione degli uomini, offrendo in loro favore alla divina giustizia una soddisfazione d’infinito valore (Paolo: ad Hebr., IX, 11-28; Conc. di Trento, 1. c, cap. 7; Leone XIII: Encicl. Tametsi futura, 1 nov. 1900; S. Ignazio Mort.: Epist. ad Smyrnæos, 2; S. Giov. Cris. : In Epist. Ad Hebr., XVII, 2; Cat. p. parr., p. I, c. V, n. 9.).

D. 105. Che cosa crediamo nelle parole del quinto articolo del Simbolo: discese all’inferno?

R. Nelle parole del quinto articolo del Simbolo: Discese all’inferno, noi crediamo che l’anima di Gesù Cristo, separata dal corpo, sempre però congiunta con la divinità, discese all’inferno (1a di Pietro, III, 19; Cat. p. parr., p. I, c. VI, n. 2 e segg.).

D. 106. Che cosa s’intende quando si dice: all’inferno?

R. Quando si dice: all’inferno, s’intende non l’Inferno propriamente detto, non il Purgatorio, ma il Limbo dei Santi Padri, ove le anime dei giusti aspettavano la promessa e bramatissima redenzione (S. Ciril. Geros.: Catechesis, IV, 11).

D. 107. Perché Gesù Cristo discese nel Limbo?

R. Gesù Cristo discese nel Limbo per annunziare l’avvenuta redenzione alle anime dei giusti e colmarle quindi d’immensa gioia, nel mentre le faceva partecipi, prima ancora di condurle con sé in Cielo, della visione beatifica di Dio (Cat. p. parr., 1. c. n. 6. — Il Limbo dei Santi Padri, compiuta la redenzione, cessò.).

D. 108. Che cosa crediamo con le altre parole del quinto articolo del Simbolo: Il terzo giorno risuscitò da morte?

R. Con le altre parole del quinto articolo: Il terzo giorno risuscitò da morte, noi crediamo che Gesù Cristo, il terzo giorno dopo la sua morte, per virtù propria e secondo aveva predetto, ricongiunse di bel nuovo l’anima sua al suo corpo, venendo così a rivivere immortale e glorioso (Cat. p. parr., p. I, c. VI, n. 8.).

D. 109. Per quanto tempo e per qual ragione Gesù Cristo rimase sulla terra dopo la sua risurrezione?

R. Gesù Cristo rimase sulla terra dopo la sua risurrezione lo spazio di quaranta giorni al fine di confermare gli Apostoli nella fede della risurrezione stessa e dar compimento alla sua divina predicazione e all’istituzione della Chiesa. (Atti, I, 3.)

Art. 4. — DELL’ASCENSIONE IN CIELO DI GESÙ CRISTO E DEL SUO RITORNO ALLA FINE DEL MONDO PER L’UNIVERSALE GIUDIZIO.

D. 110. Che cosa crediamo con le parole del sesto articolo del Simbolo: salì al cielo?

R. Con le parole del sesto articolo del Simbolo: salì al cielo, noi crediamo che Gesù Cristo, dopo compiutaormai ed assolta l’opera della Redenzione, quarantagiorni dopo la sua risurrezione, per virtù propria, asceseal cielo, in anima e corpo (Conc. Lat. IV, c. I; S. Leone IX: Symbolum fidei; S. Leone Magno: Sermones 73 et 74 De Ascensione Domini; S. Ireneo: Adv. hæreses, I, 10, I.).

D. 111. Che cosa significano quelle altre parole del medesimo articolo: Siede alla destra di Dio Padre Onnipotente?

R. Quelle altre parole del medesimo articolo: Siede alla destra di Dio Padre Onnipotente, significano la gloria perpetua del Redentore in cielo, dove Gesù Cristo trovasi, in quanto Dio uguale al Padre, e in quanto uomo, nel possesso più alto, fra tutte le creature, dei beni divini.

(Dan., VII, 13, 14; Marco, XVII, 19; Giov., V, 27; Paolo: ad Rom., VIII, 34; ad Hebr., VIII, 1; S. Greg. Nazian.: Oratio 45; S. Tom., p. 3, q. 58, a. 4. — Il Catechismo pei Parroci, p. I, c. VII, n. 3 : « La parola sedere non significa qui sito o figura corporale, bensì chiarisce quel fermo e stabile possesso della regia e somma potestà e della gloria, che Gesù Cristo ha ricevuto dal Padre ».

D. 112. Che cosa crediamo nel settimo articolo del Simbolo: Di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti?

R. Nel settimo articolo del Simbolo : Di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti, noi crediamo che alla fine del mondo Gesù Cristo verrà dal Cielo assieme ai suoi angeli per giudicare gli uomini tutti, tanto quelli che il giorno del giudizio troverà vivi ancora, quanto quelli morti anteriormente, « e allora renderà a ciascuno secondo le sue opere » (Matt., XVI, 27; XXIV, 30; XXV, 31-46; Atti, X, 42; Paolo: ad Hebr., IX, 28; Conc. Lat. I V , S. Leone I X e Benedetto XII, 1. c.; S. Giov. Cris.: In Epist. Ia ad Cor., XLII, 3; S. Pietro Canisio: De fide et symbolo, n. 15; Cat. p. parr., p. I).

D. 113. Quale sarà la sentenza nell’universale giudizio?

R. Nell’universale giudizio la sentenza sarà, per gli eletti: « Venite, benedetti del Padre mio, possedete il regno a voi preparato sin dalla costituzione del mondo » ; per i reprobi invece: « Andate lungi da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato al diavolo ed ai suoi angeli » (Matt., XXV, 34, 41; San Bonav.: Soliloq., III, 5: « Anima mia, non si cancelli mai dalla tua memoria quell’« Andate, maledetti, nel fuoco eterno; venite, benedetti, possedete il regno ». Può pensarsi una cosa più lamentevole, più paurosa di quell’andate? Una più gradevole di questo « Venite! »? Due parole, di cui nessuna suona all’orecchio più orribile della prima, nessuna più dolce della seconda ».).

D. 114. Oltre l’universale giudizio alla fine del mondo, ve ne sarà un altro?

R. Oltre l’universale giudizio alla fine del mondo, vi sarà un giudizio particolare per ciascuno di noi, immediatamente dopo la morte (Paolo: ad Hebr., IX, 27. — Il catechista faccia notare che del giudizio particolare come degli altri Novissimi si tratterà nella dom. 583 e segg.).

D. 115. A quale intento ha voluto Iddio il giudizio universale dopo quello particolare?

R. Dio ha voluto il giudizio universale dopo quello particolare, per la propria gloria e per quella di Cristo e degli eletti, per la confusione dei reprobi e perché l’uomo ricevesse in anima e corpo e in presenza di tutti la sentenza che lo premia o lo condanna (Sap., V, 1 e segg.; Matt., XXV, 31-46; Il Catechismo pei parroci, p. I, c. VIII, n. 4. —

Dio è, invero, infinitamente giusto, ma non sempre durante questa vita temporale rende a ciascuno quel che gli spetta, bensì dopo la morte, nel giudizio tanto particolare, quanto universale. È quindi evidente quanto sia grossolano l’errore di coloro che nel constatare come di frequente i malvagi godono la prosperità e i buoni soffrono l’avversità, non arrossiscono di trattar Dio d’ingiusto. A dire il vero, come non è perfetta la felicità dei malvagi cui rimorde la coscienza del peccato e turba il terrore della divina vendetta, così non è priva di consolazioni l’afflitta condizione dei buoni, cui conforta la tranquillità della coscienza e la speranza delle eterne ricompense. Ma quando sarà sopravvenuta la morte, allora sì che nessun merito sarà lasciato senza mercede, come nessun peccato senza punizione.).

D. 116. Perché viene attribuita a Gesù Cristo la potestà di giudicare il genere umano?

R. Per quanto la potestà di giudicare sia comune a tutte le Persone della Santissima Trinità, viene a titolo speciale attribuita a Gesù Cristo, come Dio e come uomo, per la ragione ch’Egli è « Re dei re e Dominatore dei dominanti » ; infatti tra le potestà regali si annovera quella giudiziaria, tra le cui funzioni vien compresa anche quella di premiare o di punire ciascuno secondo i suoi meriti.