SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (3)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (3)

Trad. M. T. Garutti

Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa Catania, 7 Marzo 1957

P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur

Catanæ die 11 Martii 1957

Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO III

I PADRI, ORGANI QUALIFICATI DELLO SPIRITO NEL CORPO MISTICO

Chiesa, tempio del Dio vivente

È chiaro che la denominazione « Uomini di Chiesa » è la prima da far valere parlando di coloro che vengono comunemente chiamati « Padri della Chiesa ». Deve anzitutto intendersi in senso spirituale, non perché  escluda l’aspetto dottrinale, ma perché lo oltrepassa, almeno nei primi testimoni che dobbiamo qui presentare. Sant’Ignazio di Antiochia, che morì verso il 107, dopo un lungo episcopato in quella città, dove San Pietro aveva risieduto per qualche anno, non ci è noto che per sette lettere scritte a varie chiese nel corso del suo viaggio verso Roma, dove subì il martirio ardentemente desiderato. Esse non sono capolavori classici, ma il fervore religioso che le ispirò al Santo è così nobile e ardente che esse raggiungono in molte pagine, la più alta eloquenza, sia che egli esalti il Cristo e la Chiesa, sia che attacchi gli eretici, sia che esorti i fedeli ad una vita spirituale più pura. Il cuore, l’idea centrale di tale dottrina, è chiaramente la Chiesa, ma considerata specialmente come tempio del Dio vivente. La comunità cristiana si mostra già bene organizzata, con l’essenziale della sua gerarchia (vescovi, preti, diaconi), ivi compresa l’autorità della Sede centrale, situata nella « nobile e santa Chiesa, che ha la presidenza », che viene apertamente indicata: Roma. Il Santo infatti ha già un chiaro senso dell’universalità, e usa per primom la parola « cattolica » per esprimerlo. Ma per quanto ricco sia un tale messaggio dal punto di vista istituzionale, per usare un termine tecnico, sono il fervore e la potenza dell’eloquenza del grande martire siriano che più ci colpiscono. La generazione di cui S. Ignazio è il più illustre rappresentante è meno preoccupata dell’attesa della Parusia di quanto non lo fosse quella della Didachè; essa si richiama di preferenza alla presenza spirituale e mistica del Salvatore. Da ciò una bella serie di formule suggestive. « Facciamo tutte le nostre azioni con il pensiero che Dio abita in noi: saremo così i suoi templi e lui stesso sarà il nostro Dio che risiede in noi » (Et. XV, 3). Chiama anche i cristiani teofori, naofori, cristofori, agiofori (Et. IX), ed è per questo, senza dubbio, che gli piace ricordare all’inizio di ogni lettera il suo secondo nome di Teoforo. La sua presenza in noi, Dio la manifesta a coloro che l’amano (Et. XV); essa è il frutto della fede e della carità; « la fede e la carità, dice, sono il principio e il fine della vita; la fede ne è il principio, la carità ne è la perfezione, l’unione delle due è Dio stesso » (Et. XIV). – Questa vita interiore si appoggia su una profonda conoscenza del Cristo, non soltanto come uomo, ma come Dio, conoscenza talmente viva e penetrante che assomiglia alla visione. È questa conoscenza, perfezione della fede, che i mistici chiameranno contemplazione. Sant’Ignazio non ne ha fatto la teoria, come faranno Clemente d’Alessandria o Sant’Agostino, ma l’ha vissuta, ed è questo che importa anzitutto, essendo tali conoscenze spirituali destinate a favorire lo sbocciare della perfetta vita cristiana. Questa si espande in zelo apostolico: a tutti, nelle sue lettere alle Chiese orientali, dà delle direttive di una potenza e di una fecondità sorprendenti. Nessuna sufficienza del resto in quest’uomo; egli usa, parlando di se stesso, formule umilianti, che non possono ingannare sull’intimo dell’anima: in tutta verità si giudica un aborto indegno di essere contato fra i membri di Cristo. Queste espressioni sono frequenti dovunque; il suo ardore vibra tuttavia potentemente soprattutto nell’Epistola ai Romani, ai quali Sant’Ignazio domanda con forza di non sbarrargli la via del martirio: «morire», per «andare al Cristo», ecco il suo unico desiderio. – Davanti a questa foga, l’Epistola ai Corinti di San Clemente di Roma (+verso il 100) appare scialba. Ci si ingannerebbe tuttavia se si accentuasse troppo questo contrasto. Quel documento del vescovo di Roma è stato scritto in tutt’altre condizioni e con uno scopo del tutto speciale. Si trattava di porre le basi per la riorganizzazione interna di una Chiesa turbata da fazioni; da qui il largo richiamo dei principi in una lunga esposizione quasi didattica, ma che non manca di calore; poi un netto richiamo dell’ordine stabilito da Dio sulla comunità cristiana, seguito da un fermo invito a rinunciare ai partiti che hanno smembrato Cristo. Questo aspetto dottrinale è abbondantemente esposto lungo tutta l’Epistola. La pratica delle virtù è fondata sull’esempio del Salvatore che ci ha riscattati con la sofferenza (c. 16), sulla missione del Cristo prete e redentore (c. 36), sull’istituzione stessa, per suo mezzo, di una gerarchia (c. 42), precisamente quella che è stata violata a Corinto e che bisogna ristabilire (c. 45-40). San Clemente parla qui, come vero capo, che ordina e minaccia (c. 51-53); ma più ancora come prete che fa appello ai più alti sentimenti religiosi, in una preghiera che è un’evocazione della liturgia primitiva e mostra l’alta coscienza che aveva il santo della presenza viva del Cristo nella Chiesa. Non vi è traccia, come del resto in Sant’Ignazio, della credenza in una prossima Parusia (ritorno imminente di Cristo). Cenni invece a questa credenza si possono trovare nella Didaché (c. 16) o nell’Epistola detta di S. Barnaba (c. 21), scritti da riportare a un’epoca un po’ anteriore (fine del I secolo), Si può d’altronde scorgervi un’impressione, una speranza o un desiderio o un’aspirazione, più che una salda dottrina. Questa sarà formulata nettamente verso la fine del II sec., ma avrà allora una fonte diversa dalla parola del Cristo: la dottrina montanista che si appoggerà su una pretesa rivelazione, quella dello Spirito, parlante in un nuovo profeta, Montano. Un neo-convertito come Tertulliano ne sarà anch’egli affetto, dopo qualche anno di feconda e pura attività nel senso classico tradizionale. Fin nel suo errore, egli testimonia del posto importante che aveva, nella concezione primitiva della Chiesa, la dottrina e il senso della presenza di Dio, vivente in essa attraverso il Cristo e lo Spirito. – San Cipriano (+ 258), compatriota di Tertulliano suo discepolo, non lo  segue nel suo errore su questo punto. Vescovo di Cartagine, egli insistette, al contrario, contro i lapsi, quei Cristiani che si erano piegati nella persecuzione di Decio (nel 250) e che pretendevano di farsi assolvere dai soli « spirituali ». Tuttavia lui stesso, per quanto concerneva l’unità dell’intera Chiesa, non sembra aver chiaramente capito le esigenze della dottrina tradizionale. Egli riconosce l’importanza unica della Sede di Roma ed ha persino trovato, per esprimerla, le più belle formule della tradizione. Tuttavia, in modo inconscio, senza dubbio, contava troppo esclusivamente sullo Spirito Santo, per fare questa unità, quando la tradizione, già molto precisa al suo tempo, aggiungeva, a questa azione dello Spirito, quella di una sede particolarmente designata per assicurarne la salvaguardia. –

La Sede apostolica, centro della Chiesa

 Fin dall’inizio del II sec., la Sede di Roma ha una funzione eminente nella Chiesa, testimoni Sant’Ignazio e San Clemente. Alla fine di quello stesso secolo, le attività del papa Vittore I (189-199) la mettono in grandissimo rilievo. Ma il principio stesso viene formulato in termini esatti in un testo di una chiarezza incomparabile. È di Sant’Ireneo, vescovo di Lione alla fine del II sec. (+ verso il 201). Questo testo è dato all’inizio del libro III, in un trattato Contro le eresie che comprende cinque libri. È dunque centrale, e di fatto pone una regola di portata universale. Eccone la sostanza: « Noi esponiamo la fede della grandissima e antichissima chiesa fondata a Roma dai due gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo, per confondere tutti coloro che prendono posizione contro il diritto. A questa Chiesa, in effetti, a causa del suo eminente principato, bisogna che si ricolleghi ogni Chiesa in cui è stata conservata la tradizione che viene dagli Apostoli ». Questa regola è di una luce abbagliante per gli spiriti non prevenuti. Non bisogna intenderla in modo da sopprimere la Scrittura: il legame con gli Apostoli afferma esattamente il contrario. Ma essa mira a semplificare ed a generalizzare il richiamo alla Scrittura con un mezzo tradizionale sicuro e universale: l’unione dottrinale con la Sede Apostolica. Questo aspetto teologale non è tutto, e non viene esclusa la disciplina; ma il pensiero che domina nell’opera del vescovo di Lione è palesemente dogmatico. Precisamente San Cipriano, nell’Africa latina, cinquant’anni più tardi, faceva eco a Sant’Ireneo, in termini quasi altrettanto netti per quanto riguarda i principi. Nel trattato sull’Unità della Chiesa (251) il vescovo di Cartagine pone dei principi che fanno eco a quelli di Sant’Ireneo, ma applicati qui alla disciplina oltre che al dogma: ricorda che la Chiesa universale è fondata su Pietro, secondo l’ordine stesso di Cristo, il quale « stabilisce la Chiesa su un solo » Apostolo (super unum ædificat Ecclesiam); questa formula gli ha valso il titolo di « primo teorico della cattolicità ». Più importante ancora forse è quest’altra formula dello stesso scritto: « Non si può avere Dio per Padre se non si ha la Chiesa per Madre ». In un’epistola quasi contemporanea (Ep. 59) parla della « cattedra di Pietro » come della « Chiesa principale », almeno nel senso che « l’unità sacerdotale deriva da essa ». Non sembra, è vero, che il Santo abbia compreso esattamente tutto ciò che tale principio comportava in fatto di esigenze; da cui certi conflitti penosi con i Vescovi stessi di Roma. Ma il principio non fu mai rinnegato: egli stesso del resto non era stato il primo a proclamarlo, ma faceva eco a Sant’Ireneo e alla tradizione. Nello stesso periodo, in Oriente, San Dionigi, Vescovo di Alessandria, grande avversario degli eretici del paese, usava per combattere il modalismo di Sabellio formule pericolose quanto le sue da un altro punto di vista, perché esse arrivavano, a dispetto delle intenzioni dell’autore, attraverso una vera subordinazione del Figlio, alla negazione della sua divinità. Il vescovo di Roma, San Dionigi, ne fu avvertito e impose una messa a punto al grande Vescovo alessandrino. Questi gli diede piena soddisfazione, senza mettere in campo l’apostolicità della sua Chiesa, una delle più grandi della cristianità dopo Roma. È evidente che l’apostolicità della Sede di Pietro comportava una proporzionata autorità effettiva. Nel secolo successivo un altro grande Vescovo di Alessandria, Sant’Atanasio, si trovò in difficoltà con gli ariani; esiliato, ricorse a Roma, dove il Papa lavorò efficacemente e di autorità per farlo rientrare nella sua città episcopale. Per tutta la vita rimase attaccato alla Sede Apostolica, nella quale vedeva un prolungamento del Verbo incarnato, poiché è questo l’aspetto che lo colpiva maggiormente nel Cristianesimo. Questo grande avversario degli ariani, ferrato in filosofia, non seguì quegli eretici sul loro terreno preferito: non aveva contro di loro che un’arma, l’Incarnazione del Verbo, di cui considerava gli effetti nella persona del Cristo e in ciascuno dei Cristiani. Di qui l’interesse che egli ebbe sempre per la Chiesa, opera del Cristo, e suo Corpo stesso. Quest’ultimo carattere è centrale nella dottrina di Atanasio. Ne aveva poste le basi fin dai suoi primi scritti e le lotte contro l’arianesimo lo condussero a importanti approfondimenti. Egli associò strettamente, in maniera fisica, si è detto, l’incarnazione del Verbo e la divinizzazione dell’uomo. In Gesù, il Verbo penetra la sua umanità e anche, in qualche modo, la nostra. Gli uomini gli sono dunque strettamente legati. In lui, il Verbo ci ha « verbificato », in modo che la nostra divinizzazione è associata alla sua incarnazione. Tale è la trama generale di una dottrina che associa strettamente il dogma e la vita, come associa la sapienza eterna e la sapienza creata. A tali altezze, la teologia vivente di Atanasio sfuggiva alle arguzie dei filosofi battezzati e faceva trionfare la dottrina cattolica della divinità del Verbo incarnato (Cfr. L. Bouyer, « L’Incarnation et l’Église, corps du Christ »). La sua azione provvidenziale fu decisiva. La Cattolicità della Chiesa antica Il messaggio di Cristo, che invia i suoi Apostoli a predicare al mondo intero, in universum mundum (Mc. XVI, 15), è stato condensato dai Padri nella parola « cattolico ». Sant’Ignazio la usa già all’inizio del II secolo, per designare sia la Chiesa universale, sia una Chiesa particolare in relazione di anima e di spirito con il mondo intero, per mezzo della fede comune a tutti. L’uso della parola « cattolico » si generalizza nel IV sec.; entra nei simboli, quello di Nicea, di Gerusalemme o di Costantinopoli in Oriente, o quello di Roma; San Cirillo di Gerusalemme la usa nelle sue Catechesi (XVIII, 25). In Occidente, Sant’Ireneo, nel testo citato (Cfr. L. Bouyer, 1943 ibidem, p. 29), aveva ricollegato la cattolicità all’unione con Roma, senza usare la parola. In compenso, Sant’Agostino vi ricorse con forza, dopo Sant’Ottato: egli grida trionfalmente contro i donatisti: « Noi, cattolici, siamo nel mondo intero, poiché comunichiamo con tutta la terra, ovunque la gloria del Cristo è penetrata » (In Ps. 56, n. 13). Sant’Epifanio associava le due formule, « Chiesa cattolica ed apostolica », nel simbolo che termina la sua grande opera sulla fede (Anchoratus, p. 119) e difatti esse sono su per giù sinonime, secondo la regola di fede ben conosciuta dall’antichità. Forse la vera sfumatura della parola cattolico deve esser ricercata meno nella sua reale portata che nell’attitudine ad abbracciare il mondo intero. Con ciò la parola completa la nota di apostolicità, rivolta verso il punto di partenza del movimento cristiano. La cattolicità esclude i legami locali esagerati, che si oppongono alla reale universalità del messaggio evangelico. – Gli scismatici donatisti si vantavano di essere africani, e Sant’Agostino mostra il ridicolo delle loro pretese. Altrove, egli costata con nobile fermezza quale forza sia, per il Cattolico, questa coscienza di aver con sé il mondo intero: « È per questa ragione che, con sicurezza, il mondo intero non giudica buoni quelli che si separano dal mondo intero, in qualsiasi regione del mondo ». Il tono grave di questa semplice frase fece un’impressione salutare su Newman, e finì per deciderlo agli ultimi sacrifici del ritorno alla fede integrale. Anch’egli, come molti altri, era stato bloccato dagli eccessivi legami locali, che appesantiscono l’anima rendendola incapace di innalzarsi fino a quegli orizzonti universali che il puro Cattolicismo apre. Sono questi alti orizzonti che contemplavano generalmente le anime al tempo dei Padri; fu questa convinzione che sostenne i Padri stessi nella dura lotta contro scismi ed eresie. Bisogna citare soprattutto Sant’Agostino, il cui zelo ebbe alfine ragione del donatismo che flagellò l’Africa latina per un secolo intero. – La nota cattolica in un Sant’Ambrogio presenta una sfumatura tutta particolare. Prima consigliere degli imperatori d’Occidente, poi di Teodosio il Grande, ottiene il riconoscimento della totale indipendenza della Chiesa sul piano religioso, d’altronde senza detrimento per il potere imperiale, che resta solo giudice nel suo campo. Il grande Vescovo, ex-alto funzionario dello Stato, ottiene per la Chiesa dei privilegi che sono un omaggio del temporale allo spirituale, senza usurpazione e senza abuso di potere, poiché, scomparendo il paganesimo, gli antichi privilegi della religione di Stato vanno logicamente alla Chiesa; la vera religione si trova ora ad essere, di fatto, quella dei più alti funzionari dello Stato, fino all’apice della gerarchia imperiale. Questo aspetto del cattolicesimo di Sant’Ambrogio non deve, del resto, farci dimenticare l’essenza della sua anima profondamente religiosa, preoccupata dell’apostolato morale e spirituale, pia fino al misticismo, come testimoniano i suoi scritti sulla verginità, che hanno stimolato e sostenuto durante secoli il fervore delle giovani cristiane consacrate a Dio. La nota di pietà mariale è tradizionalmente ricollegata al nome di San Cirillo di Alessandria, a causa della difesa della maternità divina di Maria contro Nestorio, che a Costantinopoli la negava. La formula Teotokos, Madre di Dio, era popolare a Bisanzio, e quando questo nuovo Vescovo, venuto da Antiochia, la lasciò pubblicamente biasimare e la biasimò lui stesso, vi fu un vero conflitto che mise di fronte i due grandi prelati e, per la seconda volta, un vescovo di Costantinopoli venuto da Antiochia, venne deposto da un Vescovo alessandrino, o almeno con il suo attivo intervento. È chiaramente imprudente voler vedere in tutto ciò solo dei conflitti di influenza e di amor proprio regionale. È sul piano cristiano che si svolge questa partita: la si vede ben presto montarsi e snodarsi rapidamente come un dramma, a Efeso nel 431. San Cirillo, vero teologo, uno degli spiriti più profondi della tradizione alessandrina, vede, fin dall’inizio, tutta l’importanza del conflitto. Rifiutare a Maria il titolo di Madre di Dio (Teotokos) significa negare l’Incarnazione, poiché, se il Verbo si è veramente incarnato, è Dio Uomo (o Uomo-Dio in una sola persona; ma non Dio e uomo, come se vi fossero due persone). Maria è madre dell’Uomo-Dio, e non solo dell’uomo. Tutta una teologia dell’Incarnazione viene così iniziata, e San Cirillo ne incatena una ad una tutte le maglie. Fa approvare le sue tesi dal Papa San Celestino I e si fa dare mandato per ottenere l’adesione dell’Africa orientale alle sue formule. Essendosi riunito ad Efeso un Concilio, sotto il suo impulso e sotto quello del Papa, egli vi si reca con un rilevante gruppo di suffraganti, che gli assicurano una solida maggioranza. Maneggiando abilmente, farà approvare il suo operato dagli inviati del Papa e condannare Nestorio. Maria è proclamata « Madre di Dio », e San Cirillo, trionfante, parla di unione « fisica » di Dio e dell’uomo nel Cristo. – Ma il monofisismo di Eutiche è la maldestra e grossolana espressione di un semplicistico realismo, che tende a trascurare nel Cristo la natura umana per meglio esaltare la natura divina, identificata con la persona. I veri teologi di questo gruppo non evitano le confusioni se non attraverso sottili sottintesi. Il papa interviene ancora una volta: San Leone contribuì direttamente lui stesso alla scelta della formula definitiva: « Un solo e medesimo Cristo… in due nature », così la Chiesa finì con l’esprimere, con il minimo di parole, la sostanza del mistero dell’Incarnazione. La espressione era felice nella sua brevità; finì con l’imporsi ma non senza difficoltà. Intere popolazioni cristiane dovevano resistere, meno preoccupate dell’ortodossia che della politica. Esse uscirono dalla cattolicità per attaccamento a formule locali o a punti di vista personali, a detrimento della fede cattolica, che San Leone rappresentava con un prestigio incomparabile e un’autorità senza uguali. Egli incarnò veramente l’intera Chiesa Cattolica in questa circostanza e nell’insieme del suo Pontificato. Per la sua azione dottrinale come per quella pastorale, meritò veramente il nome di Grande. – L’Impero d’Occidente cadde poco tempo dopo la sua morte, ma il Papato, che egli aveva tanto onorato, beneficiò ancora per lungo tempo del suo prestigio, e questa forza fu una benedizione per i popoli nuovi che dovevano a poco a poco entrare nel Cattolicesimo. – I Papi conservavano un’alta autorità spirituale nell’universale disordine causato dall’arrivo dei barbari. Un altro Papa, San Gregorio, chiamato anche lui Grande, doveva lavorare con successo a introdurli, ad uno ad uno, in seno alla cattolicità, e questa trovava nella sua fedeltà alla fede tradizionale una forza capace di trasformare i costumi di invasori senza cultura. La grandezza dei Vescovi di quel tempo e specialmente degli scrittori chiamati Padri, per quanto modesta potesse essere la loro cultura letteraria, fu proprio nel loro attaccamento a questa profonda tradizione religiosa che noi chiamiamo cattolica: essa ebbe la forza di trarre fuori un certo ordine dal caos occidentale. L’Impero di Oriente resistette provvidenzialmente nel suo centro, a forza di coraggio e di senso politico, alla pressione persiana, poi a quella degli Arabi, non senza abbandonare importanti provincie. Allo scopo di difendere il loro dominio, vero bastione della cristianità, gli imperatori attrassero a volte i Vescovi verso predominanti preoccupazioni terrene, a detrimento dell’universalità, specialmente nel VII e nell’VIII secolo, ma il senso cattolico non fu mai soffocato nei migliori, e i Padri di quel periodo ne furono ancora, a Bisanzio, eminenti difensori, particolarmente nel campo della teologia mariana, di cui restano i migliori testimoni, e nella difesa del culto delle immagini, con San Germano, San Giovanni Damasceno e San Teodoro Studita.

La Chiesa e la Città di Dio

I diversi aspetti della Chiesa che abbiamo richiamato evocando i loro migliori testimoni sono, tutti e tre, eminentemente spirituali. Ma ve n’è uno ancora più elevato e più vasto, che li sintetizza, arricchendoli, su un piano tutto particolare: è il tema della Città di Dio, cui Sant’Agostino ha consacrato la più grande e la più celebre delle sue opere, dopo le Confessioni e il De Trinitate. In queste, il Santo mostra Dio, il Dio in tre Persone, che prende possesso della sua anima, a dispetto delle sue resistenze: poiché, se il peccato ha abbondato in lui, la grazia ha sovrabbondato. Ciò che aveva costatato lui stesso e potentemente descritto in lunghe meditazioni, preghiere e ricerche, all’inizio del suo episcopato, Agostino lo ritrovò, su un piano più vasto, quindici anni più tardi, dopo il 410, quando meditò sulla sorte dell’impero e dell’umanità intera, dopo la presa di Roma da parte dei Visigoti, poiché la Città di Dio è anzitutto una prolungata riflessione sul posto dell’uomo nell’universo e il profondo orientamento verso una vita eterna che sola merita veramente il nome di « Città di Dio ». Questa città è caratterizzata da uno spirito, che trae la sua vera forza dall’amore di Dio, predominante al punto di abbracciare tutte le aspirazioni dell’uomo e di guidare tutte le sue attività. Egli vi riesce, nella misura in cui contiene l’egoismo o la ricerca dei piaceri inferiori. Per meglio fissare i caratteri di questa città « celeste », egli l’oppone ad una forza, senza dubbio meno costruttiva, ma capace anch’essa di orientare le attività umane: è la città «terrestre», considerata nei suoi principi, in particolar modo l’amore di sé. Di qui l’affermazione fondamentale, che costituisce la tesi dell’opera: «Due amori hanno dunque costruito due città: una terrestre, frutto dell’amore di sé fino al disprezzo di Dio; l’altra celeste, frutto dell’amore di Dio fino al disprezzo di sé » (Città di Dio, 1. XIV, e. 28). Già fin dalle prime parole dell’opera, la Città di Dio è chiamata da Agostino « gloriosissima ». Per lui, l’essenziale di questa città è nella vita futura, « in questa stabilità della sua condizione eterna ch’ella aspetta con pazienza (Rom., VIII, 25). Tuttavia, egli dovrà considerarla anzitutto e a lungo « nell’attuale corso del tempo in cui essa cammina vivendo della fede fra gli empi » (Città di Dio, 1. I, c. 1). E nei primi libri, in modo particolare nei cinque che formano un lungo portico del vasto monumento in costruzione, egli segnalerà le tendenze delle città terrestri, il cui spirito è così diverso dall’altro, poiché in esse trionfano l’orgoglio ed il desiderio di dominare (ibid). Il primo libro è una risposta generale destinata a far risaltare la fede dei Cristiani che sono stati turbati, da una parte, dagli orrori commessi dai Visigoti nella città da loto conquistata, e dall’altra, dai lamenti dei pagani che rimpiangono i loro dei. Agostino mostra loro che nulla di definitivo è stato compiuto, agli occhi della fede, fino a che non vi è una vera debolezza morale, e che le lagnanze degli idolatri sono ancor meno fondate di quelle dei Cristiani, poiché il paganesimo non ha prevenuto in passato alcun disordine. Questo tema è sviluppato nei tre libri seguenti, in cui i vizi degli antichi romani sono descritti con un’abbondanza eloquente e troppo giustificata. Nel libro V, Agostino passa da questa argomentazione ad hominem a questioni generali sulle cause della grandezza romana, indiscutibile, ma che bisogna giudicare alla luce di Dio. Arriva così a stimolare i Cristiani con il ricordo delle virtù sulle quali si è stabilita la forza imperiale capp. XV-XVI). Se Dio ha così ricompensato virtù umane radicalmente viziate dall’amor proprio, a ben maggior ragione terrà conto delle virtù soprannaturali nella misura in cui saranno pure. L’impero romano è stato opera della Provvidenza (e. XXI). E il libro si chiude nell’elogio dei due grandi imperatori cristiani lel IV secolo, Costantino e Teodosio (capp. XXV-XXVI). – In questa complessa apologetica, Sant’Agostino ha simultaneamente di vista i due ordini, e più ancora le due epoche, se così si può dire: quella del tempo che passa, in cui viviamo, quella dell’eternità che si prepara e verso cui noi andiamo. Questa magistrale esposizione prosegue nei libri VI – X, con un’altra sintesi che nasce da una apologetica superiore, soprattutto d’ordine dottrinale. Agostino vi fa una critica delle antiche speculazioni filosofiche e della religione greco-romana. Ma non dimentica di farvi notare molti elementi superiori di cui la rivelazione cristiana ha saputo felicemente trar partito. La filosofia platonica ha tutta la simpatia dell’autore, che vi indugia nel libro VIII. Egli attribuisce persino a Platone, il suo maestro preferito, molte precisazioni personali che il suo genio, illuminato dalla fede, reca alle vedute del pensatore ateniese, ritrovato attraverso Plotino. – I dodici seguenti libri, che, in effetti, espongono, in tre parti, l’origine (XI-XIV), lo sviluppo (XV-XVIII), e la fine (XIX-XXII) della città di Dio, sono consacrati in modo particolare a descrivere l’ordine soprannaturale voluto da Dio nel seno dell’umanità. Gli aspetti naturali o filosofici dell’argomento non vi sono trascurati, soprattutto nello studio delle origini; ma il divino vi domina in tutto ed ha la sua preponderanza, fino alla famosa nozione delle due città, che è la conclusione della prima tappa (l. XV, c. 28). La storia ha la prevalenza nella seconda fase, e di nuovo la dottrina riprende i suoi diritti nella terza. Per quanto il pensiero del Santo si libri così in alto, si ammirano in modo particolare, nel XIX libro, le sue penetranti vedute circa la collaborazione di due città, in vista di una pace ch’egli considera non solo sopra un piano metafisico universale (tranquillitas ordinis), ma sopra un piano umano e sociale (ordinata concordia). Quest’ultima formula contiene tutto un programma di azione cristiana in questo mondo. Ma tale punto di vista, per quanto importante, resta secondario, paragonato alle supreme realtà verso le quali la fede orienta invincibilmente l’umanità e di cui trattano i tre ultimi libri: fine del mondo e giudizio universale, castigo dei dannati in inferno, beatitudine degli eletti in un Cielo che è la vera città di Dio (l. XX-XXII); solo questi alti e vasti orizzonti rispondono alle preoccupazioni religiose e umane del grande dottore. – La Chiesa ha appunto la responsabilità diretta e esclusiva dell’ordine soprannaturale che abbiamo ora descritto. La sua stessa costituzione, stabilita da Cristo, l’adatta perfettamente ad esso. Non è una società angelica ma una società umana, corporea sotto certi riguardi, ma spirituale sotto altri, e questo punto di vista predomina sempre. Essa è apostolica, fidando di una tradizione che risale alle origini cristiane; è cattolica, cioè universale, per il campo nel quale agisce, che trascende gli interessi nazionali; e infine supera persino gli Stati, sul piano soprannaturale che è il suo oggetto proprio, senza d’altronde mirare a dominarli, anche se esige da essi il riconoscimento cui le dà diritto la sua missione. La Chiesa ha potuto, nel Medio Evo, accettare o esigere una autorità di ordine umano, permettendoglielo o anche imponendoglielo le condizioni sociali del tempo, per rassicurarsi l’indipendenza necessaria. A torto, senza dubbio, si appoggiarono queste esigenze sulla Città di Dio, poiché il punto di vista agostiniano si tiene ad un livello molto superiore, ma i motivi invocati e le condizioni sociali potevano, a quel tempo, giustificare questo richiamo a dottrine d’un altro ordine: « l’agostinianesimo politico » non è agostiniano se non in un senso molto largo, più spirituale che politico.

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (4)

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (26)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (26)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 413a.

Concilio di Trento, sess. XIV, Sul Sacramento della Penitenza, cap. 1:

« Se c’era in tutti i rigenerati tal gratitudine a Dio, da custodire costantemente la giustificazione ricevuta nel Battesimo per suo benefizio e favore, non c’era bisogno d’istituire proprio dopo il Battesimo un altro Sacramento per la remissione de’ peccati. Ma, poiché Dio, ricco di compassione (Agli Efes., II, 4), conobbe la nostra fragilità (Salm. CII, 14), ecco ha disposto un rimedio vitale anche per coloro, che poi sarebbero caduti nella schiavitù del peccato e in poter del demonio, vale a dire, il Sacramento della Penitenza, col quale ai peccatori, dopo il Battesimo, è applicato il beneficio della morte di Cristo. A dir vero, la penitenza fu in ogni tempo necessaria per ottener grazia e giustificazione a tutti quanti gli uomini, che si fossero macchiati di qualche colpa mortale, anche a coloro, che avesser chiesto d’essere purificati col sacramento del Battesimo; sicché, rinnegata e corretta la loro cattiveria, detestassero coll’odio del peccato e con pio dolore dell’anima la grave offesa di Dio. Perciò il Profeta disse: Convertitevi e fate penitenza di tutte le vostre iniquità e non vi sarà di rovina la vostra iniquità (Ezech., XVIII, 30). Anche disse il Signore: Se non farete penitenza, tutti del pari perirete (Luc., XIII, 3). E Pietro, il capo degli Apostoli, raccomandando ai peccatori ammessi al Battesimo la penitenza, diceva: Fate penitenza, poi ciascuno di voi sia battezzato (Atti, II, 38). Orbene la penitenza nè era un Sacramento prima della venuta di Cristo, nè è, dopo la sua venuta, per nessuno prima del Battesimo. Ma il Signore istituì il Sacramento della Penitenza, specialmente nell’occasione che, risuscitato da morte, alitò su’ suoi discepoli, dichiarando: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saran rimessi; a chi li riterrete, saran ritenuti (Gio., XX, 22). E con quest’atto così augusto e con tali parole così chiare l’unanime consenso de’ Padri sempre intese che fu comunicata agli Apostoli e ai lor successori legittimi la facoltà di rimettere e ritenere i peccati per riconciliare i fedeli caduti dopo il Battesimo. Con buona ragione la Chiesa cattolica colpì e condannò d’eresia i Novaziani, che negavan ostinatamente una volta la facoltà di rimettere. Perciò questo sacro Sinodo, approvando e accogliendo tal verissimo significato di quelle parole del Signore, condanna le false interpretazioni di coloro che stortamente piegan quelle parole a indicare la facoltà di predicar la parola di Dio e di bandire il Vangelo di Cristo, contro l’istituzione di questo Sacramento.

« Chi afferma che, nella Chiesa Cattolica, la Penitenza non è vero e proprio Sacramento, istituito da Cristo nostro Signore per riconciliare con Dio i fedeli, ogni volta che, dopo il Battesimo, cadono in peccato, sia scomunicato ».

DOMANDA 414a.

Concilio di Trento : Vedi D . 413.

Pio X, Decr. Lamentabili, 3 luglio 1907, prop. 47 tra le condannate :

« Le parole del Signore: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi li riterrete saranno ritenuti (Gio., XX, 22 s.) non si riferiscono affatto al Sacramento della Penitenza, checché sia piaciuto d’affermare ai Padri del Concilio di Trento ».

(Acta Apostolicæ Sedis XL, 473).

S. Giovanni Crisostomo, De Sacerdotio, III, 5:

« Difatti essi, che abitano la terra e v i dimorano, sono incaricati di dispensar le cose del cielo e hanno ricevuto un potere che Dio non diede nè agli angeli nè agii arcangeli. Difatti a questi non fu detto: Qualunque cosa legherete sulla terra sarà legata anche in cielo e qualunque cosa scioglierete in terra sarà sciolta anche in cielo. A dir vero, i principi della terra hanno pure il potere di legare, ma soltanto i corpi; mentre quest’altro vincolo tocca l’anima e trascende i cieli; e tutto quel che i sacerdoti fanno quaggiù, Iddio ratifica lassù e il Signore stesso conferma la sentenza de’ servi suoi. Poiché, che altro diede loro se non giurisdizione delle cose celesti? Difatti disse: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti. Qual potere più grande di questo? Il Padre al Figlio diede ogni potere giudiziario e io osservo che tutto fu trasmesso ad essi dal Figlio ».

(P. G., 48, 643).

DOMANDA 417a.

Concilio di Trento, Sess. XIV, Sul Sacramento della Penitenza, cap. 3:

« Inoltre il santo Sinodo insegna che la forma del Sacramento della Penitenza, nella quale principalmente ne consiste la validità, è compresa in quelle parole del ministro: Io ti assolvo ecc. A esse, in verità, s’aggiungono, secondo consuetudine della santa Chiesa, alcune preghiere e lodevolmente; però non fanno parte affatto dell’essenza della forma nè son necessarie per l’amministrazione del Sacramento stesso.. Poi sono quasi materia del Sacramento stesso gli atti del penitente, cioè Contrizione, Confessione e Sodisfazione. Essi son detti parti della Penitenza, in quanto, secondo l’istituzione di Dio, si richiedono nel penitente per l’integrità del Sacramento e per la piena e perfetta remissione dei peccati. Orbene è sostanza ed effetto di questo Sacramento, per quel che concerne la sua virtù ed efficacia, la riconciliazione con Dio, che talvolta, negli uomini pii e che ricevono con divozione questo Sacramento, s’accompagna colla pace e serenità di coscienza e forte commozione del cuore. Il Santo Sinodo, insegnando così circa le parti e l’effetto del Sacramento, condanna insieme la sentenza di quelli, che sostengono, come parti della Penitenza il terrore della coscienza e la fede.

« Can. 4. Sia scomunicato chi nega che per la remissione integra e perfetta dei peccati si richiedono tre atti nel penitente, quasi materia del sacramento della Penitenza, cioè Contrizione, Confessione e Sodisfazione, che son dette le tre parti della Penitenza; oppure afferma che le parti della Penitenza sono solamente due, vale a dire i terrori eccitati nella coscienza, in seguito al riconoscimento della colpa, e la fede concepita dal Vangelo, oppure l’assoluzione, in forza della quale uno creda che per merito di Cristo gli sieno stati rimessi i peccati ».

DOMANDA 422a.

Concilio di Trento, Sess. XIV, cap. 3: Vedi D. 417.

« Can. 7. Sia scomunicato chi afferma che nel Sacramento della Penitenza non è necessario di diritto divino per la remissione de’ peccati il confessare tutti e singoli i peccati mortali, di cui si abbia memoria dopo la dovuta e diligente ricerca; anche quelli occulti e che si oppongono ai due ultimi precetti del decalogo, e le circostanze che mutano la specie del peccato; ma che tal confessione è semplicemente utile per istruzione e consolazione del penitente e che anticamente si osservava soltanto per imporre una penitenza canonica: oppure afferma che chi si dà pena di confessare tutti i peccati non vuol lasciar nulla alla divina misericordia da perdonare; o, finalmente, che non è lecito confessare peccati veniali ».

DOMANDA 428a

Concilio di Trento, Sess. XIV, Del Sacramento della Penitenza, cap. 4:

« La contrizione, cui spetta il primo posto tra gli atti ricordati del penitente, è un dolore dell’anima e la detestazione del peccato commesso col proposito di non peccare più. Ora questo atto di contrizione fu sempre necessario per impetrare il perdono de’ peccati e, nell’uomo caduto in colpa dopo il Battesimo, prepara finalmente alla remissione dei peccati purché sia congiunto colla fiducia nella divina misericordia e col desiderio di eseguire tutto quello che esige per ricevere degnamente questo Sacramento. Dunque il santo Sinodo dichiara che questa contrizione comprende non soltanto il proposito di non peccare più e d’incominciare una vita nuova, ma include pure l’odio di quella trascorsa, secondo il detto: Respingete da voi tutte le vostre iniquità, colle quali avete prevaricato, e fatevi un cuor nuovo e un’anima nuova (Ez., XVIII, 31). E davvero chi medita quelle grida de’ santi: Contro te solo ho peccato e fatto male nel tuo cospetto (Salm., L, 6); Fui pieno d’affanno nel mio gemere, ogni notte inonderò di lacrime il mio giaciglio (Salm. VI, 7); Ricorderò dinanzi a te la mia vita, in amarezza di spirito (Isa., XXXVIII, 15) e altre siffatte, capisce subito che sono sgorgate da un odio potente contro la vita trascorsa e da una profonda detestazione de’ peccati. Inoltre insegna che, sebbene questa Contrizione talvolta sia carità perfetta e riconcilii l’uomo con Dio prima di ricever questo Sacramento, la riconciliazione stessa però non deve attribuirsi alla Contrizione senza il desiderio del Sacramento, che è in essa implicito. Ancora dichiara che la Contrizione imperfetta, chiamata Attrizione, poiché comunemente si concepisce o per la riflessione sulla bruttezza del peccato, o pel timore dell’inferno e de’ castighi, qualora escluda la volontà di peccare e vi sia la speranza del perdono, non soltanto non fa ipocrita e più colpevole l’uomo, ma è invece un dono di Dio e un impulso dello Spirito Santo, che in verità non ancora abita nell’anima, ma soltanto la eccita e col quale, il penitente si prepara l’adito alla giustificazione. Essa non può per se stessa, senza il sacramento della Penitenza, condurre a giustificazione il peccatore; però lo dispone a ottener la grazia divina nel sacramento della Penitenza. Difatti, salutarmente scossi da questo timore, i Niniviti, grazie alla predicazione di Giona piena di spaventi, fecero una penitenza e ottennero da Dio misericordia. (Cfr. Giona, III). Perciò son calunniati a torto gli scrittori cattolici, da certuni, come se avessero insegnato che il sacramento della Penitenza conferisca la grazia senza la buona disposizione di chi lo riceve — ciò che non fu mai insegnato nè pensato dalla Chiesa cattolica — ed insegnano falsamente che la Contrizione è estorta e imposta, non libera e volontaria ».

S. Gregorio Magno, In Evangelia, II, 34, 15:

« Noi non possiamo far degna penitenza, se non ne conosciamo anche il modo. In realtà, far penitenza è un piangere le colpe commesse e un non commetter ciò ch’è da piangere. Infatti chi le deplora con l’intenzione di commetterne delle altre ancora, o finge o ignora di far penitenza ».

(P. L., 76, 1256).

S. Agostino, Sermo, 351, 12:

« Non basta cambiar in meglio i costumi e romperla colle cattive azioni, se non si sodisfa a Dio per quelle già commesse col dolore del pentimento, col gemito dell’umiltà, col sacrificio d’un cuore contrito, col sussidio di elemosine ».

(P. L . , 29, 1549).

DOMANDA 436a.

Concilio di Trento : Vedi D. 428.

DOMANDA 438a.

Concilio di Trento: Vedi D. 428.

S. Pier Crisologo, Sermo 94:

« Bada, uomo, di non disperare; ti è rimasto di che sodisfare a un creditore pietosissimo. Vuoi il perdono? Ama. La carità coprirà un cumulo di colpe (I di Piet., IV, 8). Qual peggior colpa del rinnegamento? Eppure Pietro soltanto coll’amore fu in grado di distruggerla, coll’approvazione del Signore, là dove dice: Pietro, mi ami? (Gio., XXI, 15). Tra tutti i precetti di Dio ha il primo posto l’amore ».

(P. L., 52, 466).

DOMANDA 439a.

Concilio di Trento: Vedi D. 428.

Leone X, Bolla Exurge Domine, 15 giug. 1520, contro gli errori di Lutero, prop. 6 tra le condannate:

« La contrizione, che si acquista coll’esame, col confronto e colla detestazione de’ peccati, mediante la quale uno ricorda la sua vita in amarezza di spirito, misurando la gravità, il numero, la bruttezza de’ peccati, la perdita dell’eterna felicità e l’eterna dannazione meritata, questa contrizione fa diventar ipocrita anzi più colpevole ».

Pio VI, Costit. Auctorem fìdei, 28 ag. 1794, prop. 23, 25, 36 tra le condannate, contro gli errori del Sinodo di Pistoia:

« 23. La dottrina del Sinodo, concernente il duplice amore della passione dominante e della carità dominante, quando dichiara che l’uomo, senza la grazia, è in dominio del peccato e che il medesimo, in quello stato, contamina e guasta tutti i suoi atti per il generale influsso della passione dominante; in  quanto vuol insinuare che nell’uomo, finché si trova, nella schiavitù o stato di colpa, privo della grazia per esser liberato da tal servitù e rifatto figlio di Dio, la passione ha tale dominio da contaminare e guastare in sè stessi, per questo suo generale influsso, tutti gli atti di lui, ovvero da esser peccati tutte le opere, per qualunque motivo sien fatte, compiute prima della giustificazione, quasicchè in tutti i suoi atti il peccatore sia schiavo della passione dominante, è dottrina falsa, dannosa, che conduce all’errore già condannato dal Concilio di Trento come eretico e di nuovo condannato in Baio, all’art. 40.

« 25. La dottrina, la quale sostiene genericamente che il timore delle pene unicamente non può esser detto un male, se almeno riesce a frenar la mano; come se il timor dell’inferno, che è, secondo fede, castigo del peccato, non sia per se stesso buono e utile, qual dono soprannaturale e impulso proveniente da Dio, che prepara all’amore della giustificazione: è falsa, temeraria, dannosa, ingiuriosa alla munificenza divina, altre volte condannata, contraria alla dottrina del Concilio di Trento e insieme al pensiero comune de’ Padri: che occorre, conforme all’ordine solito di prepararsi alla giustificazione, che prima entri il timore per aprir la strada all’amore: un timor medicina, un amore salute….

«36. La dottrina del Sinodo, premesso che : «l’uomo potrà esser giudicato degno d’esser ammesso a partecipare il sangue di Cristo, ne’ Sacramenti, quando s’avranno segni non dubbii che l’amor di Dio domina nel suo cuore » soggiunge che « le conversioni fittizie, per via di attrizione, non soglion esser né efficaci, nè durevoli » sicché « deve il pastor d’anime esigere segni non dubbii della carità dominante, prima di ammettere ai Sacramenti i suoi penitenti »; e questi segni, come segue a insegnare « potrà il pastore desumerli da una stabile astensione dal peccato e dal fervore nelle buone opere »; e di più considera questo « fervore di carità » come una disposizione che « deve andar innanzi all’assoluzione »; tal dottrina, intesa nel senso che, per ammettere l’uomo ai Sacramenti e in particolare i penitenti al beneficio dell’assoluzione « si richiede assolutamente » e generalmente non soltanto la contrizione imperfetta, talora indicata col nome di attrizione, anche se congiunta coll’amore per il quale l’uomo comincia ad amar Dio come sorgente d’ogni giustificazione, nè soltanto la contrizione informata dalla carità, ma pure « il fervore della carità dominante » e per di più messo a prova di lunga esperienza col fervore nelle buone opere — è falsa, temeraria, atta a turbare la tranquillità delle anime, contraria alla prassi sicura e approvata nella Chiesa, dannosa all’efficacia del Sacramento e ingiuriosa ».

(Bullarii Romani continuatìo, 1. e, 2711, 2714).

S. Gregorio da Nissa, In Cantica Canticorum, homilia I:

« Difatti chi vuol che tutti sien salvi e vengano alla conoscenza della verità (la Tim., II, 4) indica qui un mezzo perfettissimo e felice di salvezza, dico quello della carità. Perché a taluni salvezza è fatta anche per via di timore, quando ci stacchiamo dal male, considerando le pene dell’inferno. Ci sono anche di quelli che, per la speranza del premio riservato a chi avrà piamente vissuto, si diportano con rettitudine e conforme a virtù, praticando il bene non per amore, ma per l’aspettativa della ricompensa ».

(P. G., 44, 766).

DOMANDA 442a.

S. Giovanni Crisostomo, De Lazaro, IV, 4:

« Se siamo stati fin qui negligenti, uccidiamo subito la malizia che è trascesa ad azione, colla confessione, col pianto, coll’accusa de’ proprii peccati. Niente infatti è così nemico del peccato quanto l’accusa e la condanna del peccato, congiunta col pentimento e col pianto. Hai condannato il tuo peccato? Ti sei liberato da un fardello. Chi dice così? Lo stesso giudice, Dio: Di’ tu per primo i tuoi peccati, se vuoi esser giustificato (Isa., XLIII, 26). Perché dunque — rispondi — hai vergogna e arrossisci di confessare i tuoi peccati? Forse dunque li dici a un uomo perché ti svergogni? Forse li confessi a un compagno perché li sciorini al pubblico? No, ma scopri le piaghe a chi è Signore e ha cura di te ed è pietoso ed è medico…. Se non dichiarerai l’enormità del debito, non sperimenterai la sublimità della grazia. Dice: non ti costringo a presentarti in mezzo a un teatro nè a raccogliere molti testimonii; di’ a me soltanto e a tu per tu la tua colpa, affinché guarisca la piaga e ti liberi dal dolore ».

Il medesimo, Homilia: Quod frequenter sit conveniendum, 2:

« Dunque, perchè hai peccato, non ti vergognare di accostarti: anzi accostati appunto perciò. Nessuno infatti dice: Poiché ho una piaga, non chiamo il medico, nè voglio medicine; anzi appunto per questo si devono chiamare i medici e bisogna ricorrere all’efficacia delle medicine. Sappiamo perdonare anche noi, perchè proprio noi siam soggetti ad altre mancanze ».

(P. G., 63, 463).

DOMANDA 445a.

Concilio di Trento, Sess. XIV, Sul Sacramento della Penitenza, cap. 5:

« Secondo l’istituzione, già spiegata, del Sacramento, la Chiesa sempre ha pensato che dal Signore fu anche istituita integra la confessione de’ peccati e ch’essa è necessaria di diritto divino per tutti i peccatori dopo il Battesimo; perchè il Signor nostro Gesù Cristo (Gio., XX; Matt. XVIII) prima di salire al cielo, lasciò per suoi vicarii i sacerdoti, come direttori e giudici ai quali accusare ogni colpa mortale, in cui cascano i fedeli di Cristo; affinché essi, usando della potestà delle chiavi, pronuncino sentenza di ritenere o perdonare le colpe. È chiaro infatti che i sacerdoti non avrebbero mai potuto esercitare questa funzione di giudici, senza cognizione di causa, nè potuto nemmeno osservare l’equità nell’imporre la penitenza, se i penitenti avessero essi stessi messo in chiaro i loro peccati soltanto genericamente e non piuttosto nella specie e a uno a uno. Di qui si desume che i penitenti debbono manifestare nella confessione tutti i peccati mortali, di cui, dopo una diligente indagine, hanno ricordo, per quanto siano occulti e commessi, per es., unicamente contro gli ultimi due precetti del decalogo: questi anzi, talora, fanno più grave piaga nell’anima e son più pericolosi di quelli che si commettono in pubblico. Quanto a’ veniali, che non ci privano della grazia di Dio e in cui si cade più frequentemente, possono senza colpa esser taciuti ed espiati con molti altri mezzi, benché se ne può far la confessione saggiamente e salutarmente e senza alcuna sorta di presunzione, come dimostra la pratica di uomini pii. Ma poiché tutti i peccati mortali, anche di semplice pensiero, rendono gli uomini figli dell’ira a Dio nemici, sì deve pure chieder perdono di essi a Dio, con aperta e compunta confessione. E così, se i fedeli di Cristo stanno attenti a confessare tutte le colpe, che ricorrono alla memoria, evidentemente le manifestano per essere perdonati in tutto dalla divina misericordia. Chi fa al contrario e, consapevole, ne tace alcuni, non presenta nulla a Dio, per mezzo del sacerdote, da esser perdonato, Difatti se l’ammalato arrossisce di scoprire al medico la sua piaga, non può la medicina guarire quel che ignora. Inoltre si conclude che si devono confessare anche le circostanze, che mutano la specie del peccato; senza di esse nè il penitente fa integra la confessione de’ peccati, né questi vengono a cognizione del giudice, il quale non potrà nè giudicar rettamente la gravità delle colpe, nè imporre congrua penitenza al penitente. È dunque irragionevole insegnare che tali circostanze furono escogitate da persone oziose; o che un’unica circostanza si sia in obbligo di confessare, poniamo, d’aver peccato contro il fratello. Di più è un’empietà sostenere che una confessione, qual è comandata con questo metodo, sia impossibile oppure una carneficina delle coscienze. Si sa bene che la Chiesa dal penitente nient’altro esige tranne che dopo essersi ben esaminato e aver esplorato ogni piega e nascondiglio della sua coscienza, confessi que’ peccati, co’ quali ricorda d’aver offeso mortalmente il suo Signore e Dio: quanto poi agli altri peccati, che dopo esame diligente non tornano alla mente, s’intendono compresi, in generale, nella medesima confessione; per essi noi diciamo, con sentimento di fede, insieme al Profeta: Signore, liberami dalle colpe nascoste (Salm. XVIII). A dir vero, la stessa riluttanza di confessarsi così e la vergogna di rivelar le colpe potrebbe sembrar molesta, se non fosse alleggerita da tanti vantaggi e consolazioni, che con ogni certezza consegue, per mezzo dell’assoluzione, chi s’accosta degnamente a questo Sacramento.

« E ora del costume di confessarsi, in segreto, ad un solo sacerdote. Cristo non proibì che, per castigar sè stesso e umiliarsi, uno possa confessare in pubblico le sue colpe, o a esempio altrui, o ad edificazione della Chiesa contristata: ma esso non è stato comandato per precetto divino; nè verrebbe saggiamente comandato da una qualsiasi legge umana che si dovessero manifestare in pubblica confessione le colpe, specialmente quelle segrete. Ora, siccome dai più santi e antichi Padri, con cordiale e unanime consenso, fu sempre raccomandata la confessione sacramentale segreta, venuta in uso fin da principio e tuttora usata nella santa Chiesa, risulta chiaramente vana la calunnia di coloro, i quali non si vergognano d’insegnare ch’essa è contraria al comando di Dio e ch’è un’invenzione umana e che precisamente fu introdotta dai Padri riuniti nel Concilio di Laterano. Difatti col Concilio di Laterano la Chiesa non determinò che i fedeli di Cristo si confessassero: essa sapeva bene che quest’è obbligo e istituzione di diritto divino; determinò invece che il precetto di confessarsi fosse adempiuto almeno una volta l’anno da tutti e da ciascuno, dopo raggiunti gli anni della discrezione; di qui, con immenso frutto per le anime de’ fedeli, quell’usanza salutare universalmente osservata nella Chiesa, di confessarsi nel sacro e più accettevole tempo della quaresima. Quest’usanza il sacro Sinodo l’approva di tutto cuore e l’accoglie perchè conforme a pietà e degna d’essere conservata ».

Il medesimo, ib., can. 7:

« Sia scomunicato chi afferma che nel Sacramento della Penitenza non è necessario di diritto divino, per la remissione dei peccati, confessar tutte e singole le colpe mortali, di cui s’ha ricordo in seguito a doverosa e accurata riflessione, anche quelle occulte e che offendono gli ultimi due precetti del Decalogo e le circostanze, che mutano la specie del peccato: che invece tal confessione è puramente utile per istruzione e consolazione del penitente e che fu anticamente osservata soltanto per imporre una sodisfazione canonica: oppure afferma che chi si studia di confessare i peccati non vuol lasciar nulla da perdonare alla divina misericordia, o finalmente che non è lecito confessare i peccati veniali ».

S. Gregorio Magno, In Evangelia, II, 26, 4-6:

« (I discepoli) hanno il primato del giudizio dall’alto, sicché a taluni ritengono, ad altri perdonano i peccati, facendo le veci di Dio. Era conveniente che fossero da Dio tanto inalzati coloro, che per amor di Dio avevan consentito di esser tanto abbassati. Ecco, quelli che temono il rigoroso giudizio di Dio diventano i giudici delle anime e quelli, che

temevano d’andar dannati, o condannano o liberano gli altri. Proprio di essi ora tengono il posto nella Chiesa i vescovi, i quali, giunti a questo gradino di giurisdizione, rivestono l’autorità di legare e di sciogliere. Grande onore! ma grande anche il peso di quest’onore…. Bisogna conoscere assai bene le cause e allora solo ha da esercitarsi la potestà di sciogliere e di legare. Convien considerare quale colpa abbia preceduto, o qual pentimento è seguito alla colpa, affinché sieno assolti dalla sentenza del pastore quelli, che Dio onnipotente visita colla grazia della compunzione ».

(P. L., 76, 199 s.).

S. Cipriano, De lapsis, 28-29:

« Finalmente, quanto son più fermi per la fede e migliori pel timore coloro, che, pur non contaminati di sacrilegio, se però n’ebbero anche solo il pensiero, lo confessino con dolore e semplicità al sacerdote di Dio, aprano la loro coscienza, depongano il peso dell’anima loro, chiedano salutare rimedio anche per le piccole piaghe, pensando che sta scritto: con Dio non si scherza! (Ai Gal., VI, 7). Non si può schernire e raggirar Dio nè ingannarlo con qualsiasi astuzia…. Ognuno, dunque, vi prego, o fratelli, confessi le sue mancanze, mentre si è ancor vivi, mentre è ancor concesso di confessarsi, mentre la sodisfazione e il perdono impartiti dal sacerdote sono ancor accetti dinanzi a Dio ».

(P. L., 4, 503).

S. Girolamo, In Matthæum, III, al XVI, 19:

« Leggiamo nel Levitico (XIII, 2 ss.) de’ lebbrosi, che si comanda loro di presentarsi a’ sacerdoti e, se hanno avuto la lebbra, devono dal sacerdote esser fatti immondi: non perché i sacerdoti sian destinati a fare lebbrosi e immondi, ma perchè abbian conoscenza di lebbroso e non lebbroso e possano distinguere il mondo dall’immondo. Dunque, come lì un sacerdote fa mondo o immondo un lebbroso, così anche qui un sacerdote o un vescovo lega o scioglie non quelli, che sono innocenti o peccatori; ma, conforme all’ufficio suo, dopo aver udito le varie colpe, sa chi legare e chi sciogliere ».

(P. L., 26, 122).

DOMANDA 447a.

Alessandro VII, Decret. del 24 sett. 1665, prop. 11 tra le condannate:

« Non siamo in obbligo di manifestare nella seguente confessione i peccati tralasciati o dimenticati in una confessione per imminente pericolo di vita o per altra causa ».

(Du Plessis, III, 11, 321).

DOMANDA 452a.

Concilio di Trento, sess. XIV, Sul sacramento della Penitenza, cap. 8-9:

« Eccoci alla Sodisfazione. Di tutte le parti della Penitenza essa, che fu sempre raccomandata da’ nostri Padri al popolo cristiano, massimamente poi al nostro tempo, è combattuta, sotto colore di gran pietà, da gente che sembra aver la pietà, ma ne ha rinnegato il valore. Orbene il santo Sinodo dichiara che è del tutto falso e contrario alla parola di Dio che dal Signore non siano mai rimessi peccati, senza che ne sia pure condonata tutta la pena: nelle sacre Scritture si incontrano evidenti e notissimi esempii, da’ quali, oltre che dalla tradizione divina, è chiarissimamente refutato questo errore. In verità anche il criterio della giustizia divina sembra esigere che diversamente siano accolti da lui in grazia quelli, che peccarono prima del Battesimo per ignoranza, da quelli che, una volta liberati dalla schiavitù del peccato e del demonio, e ricevuto il dono dello Spirito Santo, non temettero di violare il tempio di Dio (I ai Cor. III, 17) e di contristare lo Spirito Santo (Agli Efes., IV, 30) consapevolmente. E s’addice proprio alla divina clemenza che noi non siamo così assolti da’ peccati senza una sodisfazione, affinchè, abusando dell’occasione e pigliando alla leggiera i peccati, non cadiamo da ingiusti oltraggiatori dello Spirito Santo (Agli Ebr., X, 29), in peccati più gravi, accumulandoci ira pel giorno dell’ira (Ai Rom., II, 5). Senza dubbio queste opere di sodisfazione penale distolgono energicamente dal peccato e servono come di freno; esse rendono i penitenti più cauti e vigilanti per l’avvenire; portano un rimedio pure ai rimasugli del peccato e cogli atti delle virtù opposte distruggono gli abiti cattivi contratti col viver male. E davvero nessuna via più sicura fu giudicata nella Chiesa di Dio, per allontanare il castigo imminente di Dio quanto la pratica frequente tra gli uomini di queste opere di penitenza unite a vero dolore dell’anima. Inoltre, mentre si soffre col render sodisfazione, ci conformiamo a Cristo Gesù, il quale sodisfece per i nostri peccati e dal quale proviene tutto il nostro bene (II ai Cor., III, 5): e ci conquistiamo anche la più sicura caparra, perché se soffriamo insieme a Lui, insieme a Lui saremo anche glorificati (Ai Rom., VIII, 17). D’altra parte questa nostra sodisfazione, data per i nostri peccati, non è nostra in guisa che non sia per mezzo di Cristo Gesù: difatti se niente possiamo noi, per quel che riguarda le nostre forze, possiamo tutto con la cooperazione di Lui, che ci conforta (Ai Philipp., IV, 13); così l’uomo non ha di che vantarsi, bensì ogni nostra gloria è in Cristo, nel quale viviamo e meritiamo e diamo sodisfazione; quelli che, operano degni frutti di penitenza, ne derivano da lui la forza, e da lui sono offerti que’ frutti al Padre e, per suo riguardo, dal Padre accettati. I sacerdoti dunque del Signore devono, a seconda che lo spirito e la prudenza suggerisce, ingiungere salutari e opportune riparazioni, a norma delle colpe e della possibilità de’ penitenti, per non rendersi partecipi dell’altrui peccato, col chiudere un occhio sulla colpa e trattare con troppa indulgenza i penitenti, imponendo per gravissimi peccati certe pene leggerissime. Tengano presente che la sodisfazione da imporre non serva soltanto di presidio alla nuova vita e di sostegno alla fragilità, ma pure di punizione e di mortificazione de’ peccati commessi; perché le chiavi furono concedute ai sacerdoti non soltanto per liberare, ma anche per vincolare, come credono e insegnano gli antichi Padri; non per questo però considerarono il sacramento della Penitenza come un tribunale d’ira e di vendetta; e, non fu mai pensiero di nessun cattolico, che per tali nostre riparazioni si offuschi e si diminuisca la virtù meritoria e sodisfattoria del Signor Nostro Gesù Cristo; e i Riformatori novelli, perché così non vogliono capirla, insegnano che la miglior penitenza è la vita nuova per eliminare così ogni valore e pratica della sodisfazione.

« Inoltre insegna che la divina misericordia è larghissima; tanto da metterci in grado di sodisfare al Padre, per merito di Gesù Cristo, non soltanto colle penitenze, spontaneamente praticate da noi per castigarci, oppure imposte a giudizio del sacerdote in proporzione della colpa, ma pure (oh, prova suprema d’amore!) colle sventure temporali da Dio inflitte e da noi pazientemente sopportate ».

DOMANDA 457a.

Concilio IV di Laterano (1215), cap. 21, Sull’obbligo di confessarsi e sul segreto confessionale, e sull’obbligo di comunicarsi almeno alla Pasqua:

« Si guardi bene dal tradire il penitente con parole, con segni o con altro mezzo qualsiasi e per qualsiasi riguardo; ma, se avesse bisogno di un consiglio migliore, lo domandi con cautela, escluso ogni accenno a persona; perchè chi presumerà di manifestare un peccato rivelatogli nel tribunale di confessione, non soltanto sia sospeso dal ministero sacerdotale, ma di più rinchiuso in un monastero di clausura a far perpetua penitenza ».

(Mansi, XXII, 1007).

DOMANDA 461a.

Concilio di Trento, Sess. VI, Decretum de justifìcatione, cap. 14:

« Chi, per il peccato, è decaduto dalla grazia della giùstificazione, si può ancora riabilitare se, coll’aiuto di Dio, procurerà, di riacquistare la grazia perduta, mediante il Sacramento della Penitenza. Questo mezzo di giustificazione difatti è una riabilitazione dei caduti, che i santi Padri chiamarono giustamente la seconda tavola dopo il naufragio della grazia perduta. Difatti per quelli, che cadono in peccato dopo il Battesimo, Gesù Cristo istituì il sacramento della Penitenza allorché disse: Ricevete lo Spirito Santo : a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi li riterrete saranno ritenuti (Gio., XX, 23 – 23). Perciò bisogna insegnare che, dopo la caduta, la riparazione dell’uomo cristiano è ben differente da quella battesimale; e che vi si comprende non soltanto la cessazione dei peccati e la loro detestazione, cioè la contrizione e l’umiliazione del cuore, ma in più la sacramentale confessione di essi, almeno col desiderio di farla a suo tempo, e l’assoluzione del sacerdote; inoltre la sodisfazione con digiuni, elemosine, preghiere ed altre pie pratiche di pietà, non proprio in compenso della pena eterna, rimessa insieme colla colpa dal Sacramento o dal desiderio del Sacramento, ma della pena temporale. Questa infatti, secondo l’insegnamento della sacra Scrittura, non sempre, come nel Battesimo, è condonata totalmente a coloro che, ingrati alla grazia da Dio ricevuta, hanno contristato lo Spirito Santo e non si sono peritati di violare il tempio di Dio. Sta scritto di questa Penitenza: Ricordati donde sei caduto e fa penitenza e ritorna alle opere di prima (Apoc. II, 5). E altrove: Difatti la tristezza che è secondo Dio produce una penitenza stabile per la salvezza (II ai Cor., VII, 10). E ancora: Fate penitenza e producete degni frutti di penitenza (Matt. III, 2, 8).

« Can. 30. Sia scomunicato chi afferma che, dopo ricevuta la grazia della giustificazione, viene rimessa la colpa a qualunque peccatore pentito e cancellato il reato di pena eterna in tal misura che non rimanga nessuna responsabilità di scontar pena temporale, o a questo mondo o in avvenire nel Purgatorio, prima di poter entrare nel regno de’ Cieli ».

Il medesimo, sess. XIV, Dottrina del sacramento della Penitenza: Vedi D . 452 e:

« Can. 12. Sia scomunicato chi afferma che tutta quanta la pena vien rimessa insieme colla colpa e che la sodisfazione del penitente non è diversa dalla fede, colla quale apprende che Cristo ha sodisfatto per lui ».

DOMANDA 462a.

Concilio di Trento, sess. XXV, Decreto sulle Indulgenze:

« Poiché la facoltà di elargire indulgenze fu conferita da Cristo alla Chiesa ed essa fin dai primi tempi ne ha usato come potere divinamente conferitogli, il santo Sinodo insegna e prescrive che dev’essere conservato e approvato dall’autorità de’ sacri Concilii, l’uso delle indulgenze; e scomunica chi sostiene che esse siano inutili, o nega alla Chiesa la facoltà di concederle. Però desidera che nel concederle sia usata, conforme all’antica e saggia pratica della Chiesa, moderazione, affinchè non si snervi per troppa facilità, la disciplina ecclesiastica. E, volendo emendare e correggere gli abusi in proposito, col pretesto de’ quali gli eretici strapazzano questo nome d’indulgenze, col decreto presente stabilisce in linea generale che devon esser tolte tutte le questue di cattivo genere per conseguirle, perché di lì ebbero origine gli abusi tra il popolo cristiano. Non è agevole poi vietar in particolare gli altri abusi che son derivati da superstizione, da ignoranza, da irriverenza o da altra qualsiasi causa, che tante sono le degenerazioni da paese a paese, da provincia a provincia: per ciò incarica i vescovi di raccogliere insieme, ciascuno con ogni cura, siffatti abusi della propria Chiesa e di riferirne al prossimo Sinodo provinciale, affinché, udito il parere anche degli altri vescovi, siano denunciati al Romano Pontefice: così coll’autorità e prudenza, che a lui compete, sia ordinato ciò che giova alla Chiesa universale affinché sia dispensato a tutti i fedeli piamente, santamente e incorrottamente il tesoro delle sacre Indulgenze ».

Clemente VI, Costit. Unigenitus Dei Filius, 25 genn, 1343:

« L’Unigenito Figlio di Dio…. fatto da Dio sapienza, giustizia, santificazione, redenzione per noi (I ai Cor., I, 30); operata l’eterna redenzione, entrò una volta per sempre nel Santuario non per merito del sangue di capro o di vitello, ma in virtù del proprio sangue. (Agli Ebr., IX, 12). Difatti ci ha redento col suo stesso prezioso sangue di agnello intatto e immacolato, non a prezzo d’oro o d’argento corruttibile (I di Piet., I, 18 ss.); e sappiam bene che, sull’altar della croce, vittima innocente, versò egli non una stilla di sangue (che, grazie all’unione col Verbo, bastava per redimere tutto il genere umano) ma senza risparmio tutto un fiume, per così dire, sicché dalla pianta de’ piedi fino al vertice de’ capelli parte sana (Isa., I, 6) in lui non si poteva trovare. Il Padre pietoso volle tesoreggiare pe’ suoi figli tutto quanto il tesoro immenso che conquistò così per la Chiesa Cattolica, affinchè la misericordia di tanto sacrificio non si rendesse inutile, vana o superflua: perciò rimase per gli uomini un tesoro infinito, giovandosi del quale si è fatti partecipi dell’amicizia di Dio ». « E questo tesoro…. l’affidò da dispensare per salvezza de’ fedeli al beato Pietro, custòde del paradiso, e a’ suoi successori e vicarii sulla terra, per motivi degni e ragionevoli, ora in remissione parziale della pena temporale dovuta per i peccati, ora totale; coll’applicazione sia generale sia speciale; conforme credessero conveniente dinanzi a Dio, ai veramente petiti e confessati. « Inoltre si ammette che accrescono il cumulo di questo tesoro, come un’aggiunta, i meriti della beata Madre di Dio e di tutti gli eletti dal primo all’ultimo santo: nè c’è da temere che si esauriscano nè, in qualsiasi misura, scemino, sia per gli infiniti meriti di Cristo, come s’è già detto, sia perchè col crescere della santità, per l’applicazione di essi a un maggior numero di fedeli, cresce pure il cumulo de’ meriti stessi ».

(Extr. comm., V, 9, 2).

Leone X, Bolla Exsurge Domine, 15 giug. 1520, propp.

17-22 tra le condannate, contro gli errori di Martin Lutero:

« 17. I tesori della Chiesa, donde il Papa elargisce le Indulgenze, non sono i meriti di Cristo e de’ Santi.

« 18. Le indulgenze son pie frodi ai fedeli e rilassamento delle buone opere; e si annoverano tra le cose lecite, non tra le giovevoli.

« 19. Le indulgenze non giovano, a chi davvero le ottiene, per rimettere la pena de’ peccati attuali dovuta alla giustizia divina.

« 20. Chi crede che le Indulgenze siano salutari e utili al profitto dello spirito, è un illuso.

« 21. Le indulgenze son necessarie soltanto per le colpe pubbliche e si concedono propriamente soltanto agl’induriti e intolleranti.

« 22. Le Indulgenze non sono necessarie nè utili a sei sorta di persone: cioè ai morti o moribondi, agl’infermi, a chi è legittimamente impedito, a chi non ha commesso colpa, a chi ha commesso colpe, ma non pubbliche, a chi opera il meglio ».

(Bullarium Romanum, 1. c., 751).

Pio VI, Costit. Auctorem fidei, 28 ag. 1794, prop. 40 tra le condannate, contro gli errori del Sinodo di Pistoia:

« La tesi, che l’Indulgenza, secondo la sua precisa definizione, sia nient’altro che remissione d’una parte della penitenza, qual’era stabilita da’ canoni per il peccatore, nel senso che l’Indulgenza, oltre alla semplice remissione della penitenza canonica, non giovi anche a rimetter la pena temporale dovuta per i peccati attuali alla giustizia divina, è falsa, temeraria, ingiuriosa ai meriti di Cristo, testé condannata nell’art. 19 di Lutero ».

(Bullarii Romani continuatio, 1. c. 2715).

Pio XI, Bolla Infinita Dei misericordia, 29 mag. 1924,

Proclamazione del Giubileo universale dell’Anno Santo 1925:

« …. Difatti chiunque per sentimento di penitenza adempie, durante questo gran Giubileo, le prescrizioni della Sede Apostolica, come rimedia e ricupera interamente il tesoro di meriti e doni, che col peccato avea perduto, così si sottrae alla schiavitù durissima di Satana per riprender la libertà di cui Cristo ci fece liberi; finalmente si proscioglie affatto da ogni pena, che per le colpe e i vizi suoi avrebbe dovuto scontare, grazie ai meriti abbondantissimi di Gesù Cristo, della B. Vergine Maria e de’ Santi ».

(Acta Apostolicæ Sedis, XVI, 210).

LO SCUDO DELLA FEDE (142)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (9)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE IX

Titoli e ossequii tributati al Papa.

35. Prot. Ecco dunque terminata anche la questione, la causa sul regno temporale del Papa. Si appelli pure e sia il Papa Re, io più non mi oppongo. Ma come potranno mai tollerarsi certi altri titoli, certi ossequi che i Cattolici con tanto trasporto e attenzione gli tributano, né egli si degna punto di ricusarli? Lo appellano SANTO PADRE, e BEATISSIMO, SANTISSIMO PADRE! e persino il VICE DIO !!!… Egli pure non manca talvolta di appellarsi IL VESCOVO DE’ VESCOVI!… Gli ossequi poi corrispondono a’ titoli, poiché non solo la plebe, non solo la nobiltà, etc, ma persino i regnatiti Principi, Re, Imperatori, Regine si prostrano dinanzi a lui, hanno per grazia speciale il baciargli il piede o il ginocchio; e se in necessità lo vedono, obbligati si credono a sovvenirlo in ogni maniera, ed anche senza necessità gli presentano talvolta doni, regali di sommo pregio e valore, quasi fossero suoi umilissimi tributari! Dove mai trovasi nella parola di Dio una sentenza, o un fatto, un esempio che tali cose autorizzi, o almeno coonesti? Non ledono anzi tali cose quell’onore ed ossequio che a Dio solo è dovuto?

Bibbia. È scritto: « Eleazaro figliuolo di Aronne sacerdote, principe de’ principi de’ Leviti? » (Num. III, 32). Ora se il figlio del Gran Sacerdote Israelita, poté avere senza inconveniente il titolo di principe de’ principi de’ Leviti; quale inconveniente vi è mai che il Papa si dia il titolo assai più modesto di Vescovo de’ Vescovi, titolo assolutamente dovutogli come a Capo Supremo dì tutta la Chiesa? – Il titolo di Vice Dio è un sinonimo di quello di Vicario di Gesù Cristo; e che tale sia, tu medesimo ne hai già convenuto. Di più, avendo detto i Giudei al Redentore che volevano lapidarlo: « perché che essendo tu uomo, fai te stesso Dio: 3 » ( Giov. X, 34, 35) rispose loro che se anche non fosse stato tale, avrebbe potuto ciò asserire in senso affatto innocente irreprensibile, così dicendo: « Non è egli scritto nella vostra Legge: Io dissi: siete dii? Se dii chiamò quelli a’ quali Dio parlò, e la Scrittura non può essere abolita, etc. » (Giov. X, 34, 35), non può riprendersi di errore. Da ciò è chiaro non esservi colpa di sorta, se anche (nel debito senso, in onore di colui che rappresenta) appellassero il Papa – il Dio in terra; – e quindi molto meno vi è colpa appellandolo – Santissimo, Beatissimo Padre. Anzi quest’ultimo titolo l’ha espressamente avuto da Gesù Cristo nella persona di S. Pietro, quando a questo Egli disse, nell’atto di eleggerlo Capo Supremo di tutta la Chiesa: « BEATO SEI TU SIMONE BAR IONA. » (Matt. XVI, 17).

54. Riguardo poi agli ossequi, parimente sta scritto: « Queste cose dice il Signore Dio: Ecco che io…. alzerò a’ popoli il mio vessillo (la Croce), e tuoi nutricatori saranno i re, e tue o nutrici le regine: COLLA FACCIA PER TERRA TI ADORERANNO, E BACERANNO LA POLVERE DE’ TUOI PIEDI. » (Isa. XLIX. 22, 23) Se riscontri adesso tutto il contesto evidentemente vedrai che Dio in questo luogo non parla che alla Chiesa Cristiana, e che tali onori ed ossequi a lei promette, nella persona sicuramente de’ suoi primari rappresentanti. Onde i Cattolici prestando tali onori di ussequi al Vicario di Gesù Cristo, altro non fanno che la volontà di Dio, il loro preciso dovere.

Prot. Ciò posso accordarvi rapporto ai buoni Papi: ma ì Cattolici li onorano tutti nel modo stesso indistintamente buoni e cattivi.

55. Bibbia. È scritto: « E mirato fissamente il sinedrio, disse Paolo etc,… Ma il Principe de’ sacerdoti, Anania, ordinò ai circostanti che lo percotessero nella bocca. Allora Paolo gli disse: Percuoterà te Iddio, muraglia imbiancata…. Ma i circostanti dissero: Tu oltraggi il Sommo Sacerdote di Dio? E Paolo disse: Fratelli, io non sapeva che egli è il Principe de’ sacerdoti. Imperocché sta scritto: Non oltraggerai il principe del popol tuo. » (Act. XXIII, 1 e segg.). Ora dir non potrai che questo Anania fosse uomo dabbene; eppure S. Paolo, domanda scusa per avergli mancato di rispetto, e con ciò t’insegna che tali onori ed ossequi non sono annessi ai costumi, ma al grado, alla dignità della persona.

Prot. Giustissime sono le vostre ragioni, ed io medesimo anche per lo innanzi ne era talmente persuaso che scrivendo a lui così espresso mi sono: « AL BEATISSIMO PADRE LEONE PONTEFICE MASSIMO: « Martin Lutero: Prostratomi a’ piedi della tua Beatitudine, etc. » (Lutero, Epist. ad Leonem Pap. Præf. Thesium, edict. 1519) Ed infatti, «Che cosa è il Papa?… Esso è un Vescovo, IL PADRE SANTO, IL SOMMO SACERDOTE…. Egli benefica e benedice…. Esso è il beneaccetto a milioni di cuori da lui santificati: esso si manifesta grande nella più alta maestà sino alle menti de’ potenti, i quali onorano il Papato; esso è il possessore di una potestà; dinanzi a cui nello spazio di 1700 anni ora 1860), a cominciare dalla Casa di Cesare insino alla stirpe di Asburgo, son passate e cadute molte grandi nazioni. » (Giov. Muller, Opp. Tom. 8, p. 56).

DISCUSSIONE X

I Precetti della Chiesa.

56. Prot. Sì: antica e grande è la potestà del Papa, ma più grande ancora è 1’abuso che egli ne fa. Ed invero: chi mai gli ha dato il potere di aggiungere ai divini Comandamenti i propri disciplinari precetti, e di obbligare gravemente i fedeli alla osservanza di essi? Eppure ha egli ciò fatto sino a comandar digiuni, a proibire in certi giorni e tempi dell’ anno i cibi di grasso! Non è egli questo un arrogarsi l’inaudito potere di correggere la legge santa di Dio, e violare in pari tempo i diritti più sacri dell’uomo?

Bibbia. Sta scritto: «Gli Apostoli e i seniori…. ai fratelli…. È parso allo Spirito Santo ed a noi…. che vi asteniate dalle cose immolato agli idoli, e dal sangue, e dal soffocato. – E Paolo elettosi Sila,… fece il giro della Siria e della Galilea, confermando le Chiese: comandando che si osservassero i precetti degli Apostoli. » (Act. XV, 28, 29, 40, 41). « E passando di città in città raccomandavano di osservare i regolamenti decretati dagli Apostoli. » (ivi, XVI, 4). Potrai adesso negare che non possa fare il Papa ciò che poteron fare gli Apostoli? Che se domandi quando il Papa, e da chi abbia ricevuto tal potestà: ti dico che l’ha ricevuta da Gesù Cristo, quando disse al primo Papa S. Pietro: « Tuttociò che avrai legato sopra la terra, sarà legato anche in cielo. » (Matt. XVI, 19) Dipoi disse ancora, per far conoscere di quanta forza siano tali precetti, di quanta reità si aggravano i trasgressori di essi: «Se non ascolta la Chiesa, abbilo come per un pagano e pubblicano. » (Matt. XVIII, 17) Hai ben capito?

Prot. Ho capito benissimo: Sono ancor io del medesimo sentimento.

57. « Senza la disciplina non può sussistere famiglia, né Chiesa, la dottrina di Cristo è l’anima della Chiesa, la disciplina tiene il luogo dei nervi che saldano tra loro i membri. Infrangere la disciplina è un uccider la Chiesa. La disciplina è il freno che doma l’anima ribelle, il pungolo che eccita la volontà infingarda, la sferza paterna che mite punisce l’indocile fanciullo. Gesù ha detto – Matt. XVIII – colui che dopo due rimproveri, fattigli dinanzi a tre testimoni, non si sarà emendato, verrà tradotto dinanzi al tribunale della Chiesa, da cui verrà pubblicamente rimproverato. Se il rimprovero rimane senza effetto, egli sarà espulso e scacciato dalla società de’ fedeli. » (Calvino: lib. 4, Instit. cap. 3). « Noi crediamo che i digiuni e le mortificazioni della carne, alle quali l’uomo volontariamente si sottopone, sono utilissime cose per avanzare nella pietà; e che dobbiamo esortarvi i Cristiani come fecero gli Apostoli. » (Melantone: Professione di fede mandata, anche a nome della Germania, a Francesco I, re di Francia: Art. 3). (Gli Apostoli non solo esortarono, ma comandarono.)

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (2)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (2)

Trad. M. T. Garutti

Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa – Catania, 7 Marzo 1957

P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur

Catanæ die 11 Martii 1957 – Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO II.

I PADRI UOMINI DI CHIESA PER ECCELLENZA

Significato della parola « Padri ».

Chiamiamo « Padri della Chiesa » tutti gli scrittori cattolici dei primi secoli, quelli la cui opera è rimasta, nel suo insieme, conforme all’ortodossia tradizionale. Il fatto di aver scritto non ha in sé valore particolare: le loro composizioni non sono assimilate ai Libri canonici del Vecchio e Nuovo Testamento ai quali è riconosciuta una ispirazione divina specialissima. Non è affatto sicuro né probabile che gli scritti dei Padri rappresentino la totalità della loro azione personale, né, a maggior ragione, la totalità dell’azione apostolica del loro tempo, tutt’altro. Nondimeno, proprio per questi scritti, essi hanno acquisito, per i secoli posteriori, una autorità eccezionale; essi sono per noi i testimoni diretti della vita cristiana durante tutto il periodo degli inizi. Senza dubbio, le comunità si sviluppavano per effetto di una spinta interna, di una linfa che sale e alimenta dal di dentro, segno evidente d’una autentica vitalità. Ma noi non conosceremmo che superficialmente questa vitalità senza gli scritti rimastici di quell’epoca. Da ciò l’interesse fondamentale di queste opere. – In realtà, bisogna aspettare il V secolo perché la parola « Padre » esprima pienamente quel valore dottrinale che gli si attribuisce oggi. San Basilio o San Gregorio Nazianzeno furono gli iniziatori di questa tendenza, che si impose al momento delle controversie cristologiche, in modo particolare nei Concili di Efeso e di Calcedonia (451). La fama dei Vescovi che avevano respinto vittoriosamente le grandi eresie trinitarie del IV secolo, nella loro azione conciliare o fuori dei concili, ma con un vero accordo di pensiero e di atteggiamento religioso, dette allora a quel nome di « Padri » un contenuto dottrinale che in seguito è andato sempre più estendendosi. Questa denominazione deve il suo prestigio non solamente ai grandi concili del IV secolo, i cui membri furono da allora chiamati «Padri », ma anche ai Vescovi anteriori e agli altri scrittori cristiani approvati dai Vescovi fin dai tempi apostolici. – San Vincenzo di Lérins, verso il 430, nel suo celebre « Commonitorium », fa appello all’autorità speciale di quelli che, essendo entrati m comunione con l’intera Chiesa, sono i soli « maestri da approvare » (magistri probabiles). Sono questi maestri i veri « Padri », ben diversi dai semplici scrittori ecclesiastici, la cui autorità non è così autenticamente garantita. Un documento importante della fine dello stesso secolo, opera parziale del Papa San Gelasio, al quale fu poi attribuito per intero (Decreto gelasiano), precisa ancora questi dati e li illustra con un elenco di nomi famosi. Ne manca uno, importantissimo, quello di Santo Ireneo, colui che aveva posto la regola capitale in questo campo: la necessaria conformità con una Sede capace di garantire da sola il legame diretto con gli Apostoli, la sede di Roma. – La santità di vita richiesta per l’attribuzione del nome di Padri, non è così rigorosa come la canonizzazione in vista del culto liturgico; esige una autentica vita cristiana ma senza quel grado eroico di cui a poco a poco la Chiesa ha fatto una condizione essenziale per l’onore degli Altari. Nel titolo di Padre, è l’ortodossia dottrinale che ha la prevalenza. – L’antichità che s’impone egualmente in questo campo, risale dal punto di vista delle fonti fino agli Apostoli esclusi: questi, infatti, continuano in qualche modo la Rivelazione propriamente detta, di cui furono i testimoni diretti ed immediati nella persona del Cristo. Questo contatto con gli Apostoli dà ai primi Padri, anche se non sono vescovi, e ai primi scritti, anche se sono anonimi, una autorità tutta particolare che non bisogna né esagerare né diminuire. Il punto di partenza della Patristica è dunque molto netto: la fine del I secolo, benché le opere cristiane vi siano rare: ce n’è almeno una e di grande portata, l’epistola di San Clemente di Roma, e forse anche la Didachè il cui autore è ignoto. All’altra estremità, l’epoca detta dei Padri è stata naturalmente più fluttuante. Ha superato da molto tempo il V secolo; fin dal medioevo, si dava particolare importanza a San Gregorio Magno (+ 604) in Occidente, e in Oriente a San Giovanni Damasceno, semplice monaco e grande difensore del culto delle immagini (+ 749). Generalmente si sta a queste due date; non crediamo però che le ragioni invocate per restare fissi ad esse siano decisive. Si lasciano così fuori della Patristica alcuni santi che hanno manifesti contatti con l’antichità cristiana e che è ingiusto porre in qualche modo fuori della serie, poiché i loro scritti non risentono affatto dell’ispirazione medievale. Pensiamo, per l’Oriente, a San Teodoro Studita, che incarna la lotta contro l’iconoclastia, agli inizi del sec. IX. Prima di lui in Occidente troviamo San Beda il Venerabile, posteriore di più di un secolo a Gregorio Magno, e forse bisognerebbe aggiungervi anche i grandi monaci anglo-sassoni degli inizi del sec. IX, che furono più dei testimoni del passato che dei veri iniziatori. La data dell’842, che segna la fine della lotta iconoclasta, con l’ascesa al potere dell’imperatrice Teodora, vedova dell’imperatore Teofilo e reggente in nome del figlio Michele, ancora minorenne, è una data capitale, sul piano religioso come su quello politico, data sottolineata ancora dalla festa dell’Ortodossia istituita fin dall’843 e tuttora in onore nella Chiesa bizantina. L’iconoclastia non era stata battuta se non grazie all’appoggio dell’Occidente, dei Papi in particolare, e la nuova solennità avrebbe potuto chiamarsi festa dell’Ortodossia cattolica: ragione di più per ricollegarvi l’antichità cristiana. Con la fine del IX sec. un nuovo periodo storico si apre in Oriente come in Occidente. L’epoca patristica è definitivamente chiusa.

Spirituali e mistici, più che speculativi.

Il lettore moderno affronta, generalmente i Padri con preoccupazioni che sono spesso molto lontane dalle loro e gli impediscono di capirli esattamente, a dispetto di una cultura letteraria e storica assai profonda. Egli chiede loro lumi su punti che essi hanno affrontato solo incidentalmente, trattando di questioni ben più importanti per essi di quelle che appassionano i moderni. Esiste un vero « campo » patristico, che occorre conoscere, almeno nelle sue grandi linee, prima di abbordare i Padri, se si vuol fare uno studio serio ed obiettivo. I teologi stessi si sbagliano spesso in proposito. A maggior ragione i laici rischiano di restare fuori da questo campo così particolare, se non si sono informati con cura sull’argomento. Il titolo stesso di questo libro — « spirituali e mistici » — non basta a orientare il lettore; queste due parole, per quanto giuste e utili siano, hanno preso ai giorni nostri dei significati ben determinati che non rispondono, se non lontanamente, alla realtà antica. Esse scartano già molte concezioni false ed hanno quindi un valore almeno indicativo. Bisogna tuttavia precisarle ancora, senza però rinchiuderci in quadri troppo angusti, che impediscano di andare al nocciolo delle opere. I Padri hanno meno la preoccupazione della scienza che della realtà vivente conosciuta per mezzo della fede. Ora questa solo nutre l’anima del Cristiano quando è illuminata dallo Spinto, e lo scopo che noi perseguiamo in questo lavoro fondamentale è mostrarne la funzione vitale. Nell’analisi di tale realtà vivente, abbiamo immediatamente posto in risalto un elemento essenziale, determinato da Cristo stesso, la Chiesa, di cui i primi documenti cristiani ci fanno toccare e afferrare l’azione diretta, prolungata attraverso i secoli. Certo vi è una bella distanza da un San Clemente di Roma e un Sant’Ignazio di Antiochia a un Sant’Agostino e a un San Gregorio Magno, ma un legame potente li unisce: il Coipo Mistico. – Questo Corpo, la Chiesa, è prima di tutto, nel mondo, una incarnazione continua del soprannaturale propriamente detto: è una vita divina nel senso letterale della parola. La lotta delle due città, di cui Sant’Agostino detterà le leggi nel V secolo, è già impegnata sin dai primi tempi, e gli apologisti, alla fine del secondo, ne mettono in luce la posta, o, se non altro, ne intravedono la grandezza e il mistero. Essi non sono tanto polemisti quanto apostoli a modo loro. Questa caratteristica è ancor più marcata nei Dottori propriamente detti, quelli che ebbero il dono di penetrare nel cuore dei misteri, non certo per comprenderli a fondo, ma per attingervi le luci provvidenzialmente necessarie contro le grandi eresie. Essi furono eminentemente dei contemplatori di questi misteri, nel senso profondo della parola, e vi trovarono luce e forza per realizzare l’alta missione dottrinale che la Provvidenza divina aveva loro affidato. – I « Dottori » ebbero sempre cura, nella Chiesa, di unire alla più rigorosa ortodossia la più intensa vita cristiana, ed i più illustri fra di essi furono anche i più ardenti promotori della fede «viva». Su questo punto c’è una comunanza di vedute, una unanimità di vita e di pensiero evidenti: essi furono « buoni pastori » nel senso evangelico della parola. Tutti, salvo rare eccezioni, si dedicarono alla preghiera con un fervore esemplare, e molti raggiunsero le vette della più pura contemplazione. La loro mistica è generalmente dottrinale nella sua base, ma la loro fede era così strettamente associata alla carità che oggigiorno si è creduto talvolta di potere e dover ritenere solo questo aspetto del Cristianesimo; ciò che porta ad una grave deformazione. Non è esclusa l’esperienza religiosa, ma essa trova il suo apogeo in una pura contemplazione del vero Dio, e persino della Trinità. Le Tre Persone, senza uscire dalla loro trascendenza, si comunicano in modo reale alle anime di preghiera e i Dottori antichi sembrano averne spesso beneficiato, talmente le loro opere testimoniano una certa intimità con esse. Questo misticismo è inseparabile da una vera ascesi che serve loro di base e che non si potrebbe dimenticare qui, anche se i principi dottrinali di una via ascetica completa, se non autonoma, non siano stati formulati e sistematizzati che più tardi. Sintesi del genere non sono spesso possibili che dopo lunghe esperienze, e talvolta in reazione contro gli abusi, così come, sul piano dottrinale, le definizioni dogmatiche e le costruzioni di sistemi non hanno potuto essere realizzati che in risposta a degli errori. Alcuni tentativi di sistematizzazione teologica si sono verificati al tempo dei Padri: ma essi sono eccezionali. Gli antichi non si preoccupavano tanto della scienza e delle sue esigenze rigorose, per ciò che riguarda il metodo, quanto della vita sotto le varie forme che sono state ora evocate. Vi fu qualche tentativo, in Oriente, prima di Sant’Agostino, il quale, verso il V secolo o al principio di questo, tentò parecchi abbozzi, d’altronde magistrali; e, quattro secoli più tardi, la Patristica si onora della piccola sintesi dottrinale di San Giovanni Damasceno. Tutto ciò annuncia da lontano un vasto campo da esplorare. Sarà l’impegno del Medioevo che affronterà i temi con un metodo, che non sarà più quello dei Padri, ma che non deve far dimenticare il loro. – Nelle opere dei Padri viene spesso trascurata la filosofia; ed è una lacuna, almeno per quanto riguarda i più grandi. Anche per quest’ultimi, e soprattutto in Oriente, la filosofia ha un ruolo secondario. Tuttavia non è inutile accennarvi, non fosse altro che per ricordare quella funzione ausiliaria che si ha spesso tendenza ad esagerare. Anche per Sant’Agostino, particolarmente subito dopo la sua conversione, la filosofia non sarà mai la preoccupazione predominante; tuttavia il suo apporto in questo campo non può essere trascurato senza recare un grave pregiudizio alla sua memoria, e a tutta la storia del pensiero Occidentale e cristiano. Sant’Agostino fu un pensatore nel senso letterale della parola, ma un pensatore religioso, un santo che si diede interamente, anima e corpo, alla grazia, dopo la sua conversione, e che, da secoli, rimane la guida spirituale più autorevole dell’Occidente. – Questa analisi metodica, di cui i capitoli seguenti saranno la giustificazione dettagliata, conferma la nozione di « Padri », data all’inizio di questo lavoro: organi qualificati dello Spirito Santo in quell’epoca privilegiata che è l’antichità cristiana, età che Cristo colmò dei suoi doni per farne guida per eccellenza dei tempi nuovi.

La nota dominante della Patristica: sapienza cristiana.

Il quadro che precede rischia, nella sua sommaria formulazione, di inaridire la storia di una dottrina che fu soprattutto una vita cristiana, eminente nelle istituzioni come nelle persone. Se la si vuole caratterizzare con una sola parola, forse bisognerebbe ricondurre tutto alla sapienza cristiana, considerando questa stessa come una realizzazione interiore della fede viva che agisce per la carità, secondo la parola di San Paolo (Gal. V, 6). Si tratta qui veramente di una realizzazione perfetta nell’insieme; la Chiesa aveva il dovere di giungere a questa pienezza di vita per imporsi, come ha fatto, in quei primi secoli cristiani: poiché tutto era da creare allora, sul piano spirituale, in un mondo materializzato dal paganesimo, o da una amministrazione potente ma implacabile. Bisognava, al di là del corpo, far vivere lo spirito volgendolo verso un Dio puro spirito, assolutamente trascendente e tuttavia capace di realizzare una vita superiore nell’uomo; anzitutto nella sua anima e poi, come per ridondanza, in quella degli altri. Tale è la grande legge evangelica. Cristo ha colmato gli Apostoli del suo Spirito al fine di intraprendere la conquista del mondo. Egli aveva agito e predicato davanti a loro per degli anni; era riapparso loro risuscitato ed essi ancora titubavano, come stupefatti, quasi schiacciati sotto il peso di un compito sovrumano. Lo Spirito Santo, nella Pentecoste, li trasformò interiormente, ne fece degli altri uomini; e sarà in forza di questo rinnovamento interiore che agirà in seguito sull’umanità, come il lievito nella pasta, secondo la formula stessa del Salvatore. Questa azione dello Spirito di Dio sull’uomo si presenta sotto molte forme. Tutte però hanno come risultato una sapienza universale, che è come la sintesi delle virtù teologali e dei doni superiori dello Spirito Santo. Ecco l’essenza dello spirito evangelico che animava i Padri e che doveva essere il vero sostegno della loro azione. Stiamo attenti a non vedere in essi soprattutto e soltanto dei filosofi; vi fu, in alcuni di essi, un vero sforzo razionale, ma fu accessorio, non essenziale, come certuni vorrebbero farci credere al giorno d’oggi. La ragione non ha che una funzione ausiliaria nella loro teologia. Questa stessa è per loro meno una scienza, nel senso tecnico della parola, che una vita di fede cosciente e organizzata per l’utilità personale e per quella del prossimo; i Padri, che ebbero generalmente l’alta responsabilità di anime affidate alla loro vigilanza, sentirono vivamente il dovere di istruirle e formarle. Essi posero in tal modo le basi di una vera teologia cristiana. Nondimeno, non è questa l’essenza dell’anima patristica. – I Padri sono innanzi tutto i testimoni di un Dio trascendente, ma che ama le creature al punto di abitare nell’umanità e persino in ogni uomo per mezzo di Cristo e del Suo Spirito. Per poter dire tutto in una parola, Dio si degna, per amore verso di noi, di vivere nella Chiesa, questa parte dell’umanità che Cristo ha raggruppato nella persona degli Apostoli e che Egli anima col suo Spirito. Ecco l’ambiente spirituale autentico dei Padri, la nota fondamentale della loro dottrina e della loro azione. I Padri sono gli uomini dello Spirito ed i testimoni della sua presenza attiva nel seno dell’umanità. Essi non sono degli allucinati, giocattoli fragili della loro immaginazione o dei loro sensi smarriti. Essi sono uomini sani di spirito, come testimonia la continuità, la potenza e la fecondità della loro azione: in realtà, essi hanno lanciato ai quattro angoli della terra, senza alcun mezzo umano, questa forza incomparabile che è il Cristianesimo stesso. Esso ha trasformato spiritualmente l’umanità: è la sola forza che conta ancor oggi di fronte al materialismo organizzato per lo sfruttamento del mondo nella negazione delle vere attività dell’uomo. Lo Spirito, nel senso letterale della parola, ci pone di primo acchito su un piano superiore, ed integra perfettamente vari aspetti di una attività umana assai intensa nell’ordine cristiano. – Bisogna tuttavia prevenire qui pericolosi equivoci, fissando a larghi tratti i valori diversi che si nascondono nella parola Spirito. Correntemente, essa indica l’anima umana, considerata nella sua attività soprasensibile: alte visioni intuitive e vita razionale. Si può, senza compromettere l’unità sostanziale dell’uomo, corpo ed anima ad un tempo, insistere nella necessaria sottomissione del corpo all’anima. Le attività sensibili son ben differenti dalle operazioni superiori, dette spirituali, senza che vi sia dualità. Alcuni Padri le hanno talvolta troppo distinte; ma altri, come Sant’Agostino, salvaguardano bene l’unità dell’anima, sia pure ordinando le sue operazioni interiori verso un Essere spirituale eminente che è Dio, e che d’altronde rimane nella sua alta trascendenza. Dio è, in pienezza, Spirito, puro Spirito, benché Egli sia dovunque e in ogni essere, con la sua essenza e con la sua azione. È lo Spirito Santo che è il principio dell’attività divina sull’anima. Tale azione si esercita specialmente nell’ordine soprannaturale. La formula spirito cristiano indica, in modo felice, una vera collaborazione spirituale dell’uomo con Dio, secondo i principi posti da Cristo e realizzati con l’aiuto dello Spirito Santo. Limitiamoci a questi significati fondamentali. – Nell’ordine dell’azione, forse si potrebbe riportare tutto alla sapienza, presa in un senso pieno che ci ponga di colpo su di un piano in cui si raggiungono precisamente il divino e l’umano, nel campo del pensiero come in quello dell’apostolato. Si tratta di una sapienza viva, sapienza teologale, vera sintesi delle tre grandi virtù che sono l’essenza del cristianesimo, secondo San Paolo (I Cor., XIII, 1-13). La sapienza scientifica dei teologi venuti dopo, metterà ancor più accento sui principi speculativi, i quali, del resto, si impongono ai ricercatori, anche nel campo del rivelato, con gli adattamenti indispensabili allo studio del soprannaturale. Essa non esclude nulla dei dati posti dai Padri sopra un altro piano: l’esercizio vivo della fede, della speranza e della carità sotto l’azione dello Spirito Santo.

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (25)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (25)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 371a.

Concilio II° di Laterano (1139), can. 23:

« Scacciamo dalla Chiesa di Dio e condanniamo per eretici e ingiungiamo che siano puniti dalla potestà secolare coloro che, fingendo zelo religioso, condannano il sacramento del corpo e del sangue del Signore, il Battesimo de’ fanciulli, il sacerdozio e tutti gli altri Ordini ecclesiastici e i contratti di legittime nozze. Intendiamo compresi nella stessa condanna anche i loro difensori » .

(Mansi, XXI, 532).

Concilio di Trento, sess. XIII, Decreto sulla santissima Eucaristia, cap. I:

« Anzitutto il sacro Sinodo insegna e professa con schiettezza e semplicità che nell’augusto Sacramento della santa Eucaristia si contiene, dopo la consacrazione del pane e del vino, il Signor nostro Gesù Cristo, vero Dio e uomo, veramente, realmente e sostanzialmente sotto l’apparenza di quegli elementi sensibili. Nè del resto c’è contraddizione che proprio il Salvatore nostro, secondo il modo naturale di esistere, segga in cielo per sempre alla destra del Padre e che nondimeno stia con noi in molti altri luoghi, colla presenza sacramentale della sua sostanza. È questo un modo d’esistere possibile a Dio, per quanto a parole noi non possiamo se non a malapena esprimere: ma col pensiero illuminato dalla fede possiamo giungervi e dobbiamo credervi con perfetta costanza. Difatti anzi gli antenati nostri, quanti vissero nella Chiesa vera di Cristo, ragionando a proposito di questo santissimo Sacramento, professarono apertissimamente che questo mirabile Sacramento fu istituito dal nostro Redentore nell’ultima cena, quando, benedetto il pane e il vino, con eloquenti e chiarissime parole solennemente disse di porgere a coloro proprio il suo corpo e il suo sangue. E siccome queste parole, conservate dai santi Evangelisti e ripetute poi da san Paolo, offrono precisamente e propriamente quel significato, secondo il quale furono intese dai Padri, è davvero un’indegnità vergognosa che da taluni nomini cavillosi e cattivi siano stravolte, contro il pensiero universale della Chiesa, a sensi metaforici fittizi e immaginari, che rinnegano la verità della carne e del sangue di Cristo. Certo è che la Chiesa, quale colonna e fondamento della verità, ha detestato come ispirazione del demonio queste fandonie escogitate da uomini empii, riconoscendo sempre con animo grato e ricordevole questo eccellentissimo beneficio di Cristo ».

Leone XIII, Encicl. Miræ caritatis, 28 maggio 1902:

« Ebbene, siamo mossi e quasi sospinti precisamente dala medesima carità apostolica, la quale vigila sulle vicende della Chiesa ad aggiungere, a quelle già compiute proposte, alche altra cosa, come un perfezionamento loro, vale a dire che si raccomandi vivissimamente al popolo cristiano la santissima Eucaristia, quale dono divinissimo ricercato proprio dall’intimo Cuore del medesimo Redentore, che desiderò ardentemente questa singolare unione cogli uomini: dono fatto apposta per elargire i frutti sanitarissimi della sua redenzione…. « Ora, per rinvigorire e rinfervorar la fede negli animi è opportuno, che niente più, il mistero Eucaristico, detto con esattezza mistero di fede, in quanto che in esso solo si contiene, per un’abbondanza e varietà in certo modo unica di miracoli, tutto il soprannaturale: il Signore pietoso e compassionevole lasciò, come ricordo delle sue meraviglie, un cibo a quelli che lo temono (Salmo CX, 4-5). Difatti Dio volle riferito tutto il soprannaturale all’Incarnazione del Verbo, in grazia della quale il genere umano potesse riacquistare la salvezza, come dice l’Apostolo: Si propose di restaurare in Cristo, proprio in lui, le cose tutte del cielo e della terra (Agli Efes., I , 9-10); ora l’Eucaristia, secondo il pensiero de’ santi Padri, deve considerarsi come una certa quale continuazione e un’amplificazione dell’Incarnazione, dacché in virtù di essa la sostanza del Verbo incarnato s’unisce a ciascun uomo e si rinnova miracolosamente il supremo sacrificio del Calvario. Così profetò Malachia: Dappertutto è sacrificata e offerta in mio onore una vittima pura (I, 11) ».

(Acta Leonis XIII, XXII, 116, 122).

DOMANDA 372a

Concilio di Trento: Vedi D. 371.

DOMANDA 373a.

Concilio di Trento, sess. XIII, Decreto sulla santissima Eucaristia, cap. 4:

« Poiché Cristo redentor nostro dichiarò che è davvero suo corpo ciò che offriva sotto apparenza di pane, fu persuasione sempre della Chiesa di Dio, che ora di nuovo questo santo Sinodo ribadisce, che, per la consacrazione del pane e del vino, avviene la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo Signor nostro e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del sangue di lui; e questa conversione fu convenientemente e con esattezza chiamata Transustanziazione dalla santa Chiesa cattolica ».

S. Giustino, Apologia I , 66:

« E questo cibo si chiama da noi Eucaristia e a nessuno è lecito parteciparvi, se non crede alla verità de’ nostri insegnamenti e non è stato purificato dal lavacro istituito per la remission de’ peccati e la rigenerazione, e non viva come Cristo insegnò. Perché non prendiamo questi come un comun pane o una comune bevanda; ma come Gesù Cristo salvator nostro, fatto carne per il Verbo di Dio, rivestì carne e sangue per amor della nostra salvezza, così siamo ammaestrati che è carne e sangue appunto di Gesù incarnato quel cibo, sul quale furono rese grazie con la preghiera contenente proprio le parole di lui: cibo, in grazia del quale il nostro sangue e le nostre carni sono per trasmutazione alimentate. Difatti gli Apostoli nelle loro memorie, che sono i Vangeli, insegnarono che così fu comandato da Gesù; quando, cioè, preso il pane, dopo aver reso grazie, dichiarò: Fate ciò in memoria di me; questo è il mio corpo; e similmente, preso il calice e rese grazie: Questo — disse — è il sangue mio. E ad essi soli lo affidò ».

(P. G., 6, 427 s.).

S. Efrem, In Hebdomadam Sanctam, IV, 4. 6:

« Gesù Signor nostro prese nelle mani un pane, dapprima puro e semplice e lo benedisse, lo segnò e santificò nel nome del Padre e dello Spirito, lo spezzò e distribuì a’ suoi discepoli a bocconi, nella sua benignità; dichiarò corpo suo vivo il pane e lo riempì di sè stesso e dello Spirito; poi, porgendo colla mano, diede ad essi il pane, che la sua destra aveva santificato: Ricevete, mangiate tutti di questo, che è stato santificato dalla mia parola. Non giudicate pane quel che ora vi ho dato; prendete, mangiate questo pane, non lasciatene disperder le briciole; quest’è davvero quel che ho chiamato corpo mio. Un frammento duna sua briciola ha potenza di santificare migliaia di migliaia e basta per dar vita a ognuno che ne mangia. Prendete, mangiate con fede, senza il minimo dubbio che quest’è il mio corpo; e chi lo mangia con fede, mangia, in esso, fuoco e spirito. Ma chi lo mangia dubitoso, diventa per lui semplice pane; invece chi mangia con fede il pane consacrato nel mio nome, se è puro, puro si conserva, se peccatore, vien perdonato. Chi poi lo trascura o disprezza od offende, stia pur certo che offende il Figlio, il quale lo dichiarò ed effettivamente lo rese corpo suo.

« Dopo che i discepoli ebbero mangiato il pane nuovo e santo e capirono per fede d’aver mangiato, con esso, il corpo di Cristo, Cristo continuò a spiegare e a consegnare tutto il Sacramento. Prese e versò vino nel calice, poi lo benedisse, lo segnò e santificò, dichiarando ch’era sangue suo, destinato ad essere sparso…. Cristo li invitò a bere e spiegò loro ch’era suo sangue ciò che nel calice bevevano: Quest’è il vero mio sangue, eh’è sparso per tutti voi; prendete, bevetene tutti, perché il testamento nuovo è nel mio sangue. Come avete visto far me, così voi farete in mia memoria. Quando, in qualsiasi luogo, vi radunerete nella Chiesa in mio nome, fate in mia memoria quel che ho fatto io; mangiate il mio corpo e bevete il mio sangue, testamento nuovo e antico ».

(Lamy, 1. c., I , 416, 422).

S. Atanasio, Fragmenta sermonis cuiusdam ad Baptizatos:

« Vedrai le viti portar i pani e il calice del vino e deporli sulla mensa. E fino a che non sono state fatte ancora le preghiere e le invocazioni, non c’è altro che pane e calice. Ma, dopo fatte le grandi e mirabili preghiere, allora il pane diventa corpo e il calice sangue del Signor nostro Gesù Cristo…. « Veniamo al compimento de’ misteri. Questo pane e questo calice prima delle preghiere e delle suppliche non hai nulla fuor della propria natura, ma, pronunciate le grandi preghiere e le sante suppliche, il Verbo discende nel pane e nel calice e si fa suo corpo ».

(P. G., 26, 1326).

S. Cirillo di Gerusalemme, Cathecheses, XXII (mist. IV), 2-3. 6. 9; XXIII (mist. V), 7:

« Anche da sola questa istituzione del beato Paolo (I Cor., XI, 23) è più che sufficiente per assicurare la vostra fede circa i divini misteri, de’ quali voi fatti degni, siete diventati

concorporei e consanguinei di Cristo. Difatti egli proclamava testé: Ciò che in quella notte nella quale era consegnato, ecc. Orbene, dopo ch’egli in persona ha detto e dichiarato del pane: Quest’è il mio corpo, chi mai oserà d’or innanzi dubitare? E, dopo ch’egli ha affermato e dichiarato: Quest’è il mio sangue, chi mai avanzerà dubbii per dire che non è suo sangue? « Una volta cangiò, a Cana di Galilea, l’acqua in vino, che è affine al sangue; e lo giudicheremo non degno di fede, quando cangiò il vino in sangue? Invitato a nozze materiali, compì questo miracolo stupendo; e non ammetteremo anche più volentieri che abbia voluto donare il corpo e il sangue suo in godimento ai figli del talamo nuziale? « Perciò con piena persuasione riceviamo (quelli) come il corpo e il sangue di Cristo. Difatti sotto l’apparenza di pane ti è dato il corpo e sotto l’apparenza di vino il sangue nell’intento che, ricevuto il corpo e il sangue di Cristo, diventi proprio a lui concorporeo e consanguineo. Difatti diventiamo così, dopo comunicato il corpo e il sangue di lui alle nostre membra, i portatori di Cristo. Così diventiamo, al dir del beato Pietro, partecipi della natura divina (II di Piet., I, 4). « E perciò non considerarli semplice pane e vino; son davvero corpo e sangue di Cristo, secondo l’affermazione del Signore; e, benché il senso t’insinui quel pensiero, ti faccia fermamente certo la fede. Non giudicar dal gusto, ma sii certo per fede senza esitazione che sei stato fatto degno di questo dono: il corpo e il sangue di Cristo. « Così istruito e radicato nella fede certissima, che non è pane quel che sembra pane, benché sia tale al gusto del senso, ma corpo di Cristo, e che non è vino quel che par vino, benché così sembri al gusto, ma sangue di Cristo, e che a questo proposito sin dai tempi antichi Davide cantava nei salmi: e il pane sostenti il cuor dell’uomo, affinchè risplenda la faccia con l’olio (Ps. CIII, 15), conferma il tuo cuore, ricevendo come spirituale quel pane e rischiara di gioia il volto della tua anima. « Poi, santificati da queste lodi spirituali, preghiamo Dio benigno che piova lo Spirito Santo sulle offerte, di modo che renda proprio corpo di Cristo il pane e sangue di Cristo il vino. Perchè tutto quanto lo Spirito Santo ha toccato, è stato consacrato e tramutato ».

( P . G., 33, 1098 ss., 1114).

S. Giovanni Crisostomo, In Matthæum, LXXXII, 4:

« Rendiamo dappertutto l’ossequio nostro a Dio e non erigiamoci a lui in contraddizione, anche se par contrario alla nostra ragione e al nostro pensiero ciò ch’egli dice, ma sulla nostra ragione e sul nostro pensiero prevalga la parola di lui. Facciamo così anche ne’ misteri, non badando soltanto a quel che cade sotto il senso, ma tenendo fede alle sue parole; difatti la sua parola non può ingannare, mentre s’inganna facilmente il nostro senso; la sua parola non cade mai in fallo, spesso invece il nostro senso. E poiché egli ha detto: Questo è il mio corpo, siamo docili a credere e guardiamo a lui con occhi spirituali. Difatti Cristo non ci ha dato nulla di sensibile, ma nelle cose anche sensibili tutto è spirituale. Così appunto anche nel Battesimo il dono dell’acqua ci è dato pel tramite di cosa sensibile : quello poi che si compie è spirituale, generazione e rinnovamento. Perchè egli t’avrebbe dato schietti e senza corpo que’ doni, se tu fossi incorporeo; ma, perchè l’anima è congiunta col corpo, te li regala spirituali in forma sensibile. Quanti sono quelli che ora direbbero: Avrei voluto vederne la figura, la fisionomia, la veste, i calzari? Ecco: tu lo vedi, lo tocchi, mangi di lui in persona ».

(P. G, 58, 743).

S. Giovanni Damasceno, De fide ortodoxa, IV, 13 :

« È davvero unito alla divinità il corpo, ch’ebbe nascita dalla santa Vergine; non in guisa che ridiscenda il corpo, ch’è stato accolto ne’ cieli, ma perchè proprio il pane e il vino si tramutano in corpo e sangue di Dio. Se chiedi come avvenga ciò, ti basti sapere che avviene in virtù dello Spirito Santo; al modo stesso che il Signore si prese dalla santa Madre di Dio la carne, affinchè in lui precisamente avesse sussistenza, nè altro è a noi chiaro e conosciuto, salvo che la parola di Dio è verace ed efficace e può tutto, ma non possiamo affatto noi scrutarne il modo. Però assurdo non è dire: come con processo naturale il pane mangiato e il vino e l’acqua bevuti si tramutano in corpo e sangue di chi mangia e di chi beve, sicché non diventano altro corpo differente dal corpo suo, che prima esisteva; così, per l’invocazione e l’intervento dello Spirito Santo, si convertono in corpo e sangue di Cristo, con un processo troppo più alto delle forze e della condizione di natura, il pane, che fu preparato nella offerta, e similmente il vino e l’acqua: in modo che non sono affatto due, ma una cosa unica e identica…. Pane e vino poi non sono figura del corpo e sangue di Cristo — si badi bene! — ma proprio il corpo del Signore, congiunto colla divinità, poiché appunto il Signore ha detto: Questo è non figura del corpo, ma il corpo mio, e non figura del sangue, ma il sangue mio…. Che se taluni, come il divin Basilio, chiamarono il pane ed il vino gli antitipi del corpo e del sangue del Signore, così si espressero non dopo la consacrazione, ma prima che l’offerta stessa fosse consacrata. Orbene antitipi son detti di cose che han da essere, non perchè non siano davvero corpo e sangue di Cristo, bensì perchè ora siam fatti partecipi, pel loro tramite, della divinità di Cristo, allora invece coll’intelligeuza, attraverso la pura apparenza ».

(P. G., 94, 1143 ss.).

DOMANDA 374a.

Concilio IV di Laterano (1215), c. I, De fide catholica, contra Albigenses:

« Ebbene, unica è la Chiesa universale de’ fedeli, fuor della quale nessuno si salva affatto, nella quale l’identico sacerdote è anche sacrificio, Gesù Cristo; e il corpo e il sangue di lui son davvero contenuti sotto le apparenze di pane e di vino nel Sacramento dell’Altare, dopo la transustanziazione del pane in corpo e del vino in sangue, per divina potenza; sicché, a compire il mistero di unità, proprio noi riceviamo di suo tutto ciò ch’egli ebbe di nostro ».

(Mansi, XXII, 982).

II Concilio di Lione (1274), Professio fidei Michælis Paleologi.

« La medesima Chiesa Romana forma il Sacramento dell’Eucaristia con pane azimo, credendo e insegnando che nel Sacramento stesso il pane si transustanzia davvero in corpo e il vino in sangue del Signor nostro Gesù Cristo ».

(Mansi, XXIV, 71).

Concilio di Costanza (1414-1418), sess. VIII, prop. 1-3, tra gli errori di Giovanni Wicleff:

« 1. Rimangono nel Sacramento dell’altare la sostanza del pane materiale e similmente la sostanza del vino materiale.

« 2. Nel medesimo Sacramento gli accidenti del pane non rimangono senza soggetto.

« 3. Nel medesimo Sacramento Cristo non c’è identico e reale (nella) propria presenza corporale».

(Mansi, XXVII, 1207).

Concilio di Trento: Vedi D. 371.

Il medesimo, sess. XIII, Decreto sulla Ss. Eucaristia, can. 2:

« Sia scomunicato chi afferma che nel sacrosanto sacramento dell’Eucaristia rimane la sostanza del pane e del vino insieme col corpo e il sangue del Signor nostro Gesù Cristo; e chi nega quella mirabile e singolare conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di tutta la sostanza del vino nel sangue, rimanendo soltanto le specie del pane e del vino: conversione, che la Chiesa Cattolica chiama esattamente Transustanziazione ».

Benedetto XII, Dal libricino Jamdudum, an. 1341:

« Similmente che gli Armeni non affermano che, dopo Transudette le parole della consacrazione del pane e del vino, si sia compiuta la transustanziazione del pane e del vino nel vero corpo e sangue di Cristo, quale nacque dalla Vergine, patì e risuscitò; ma credono che quel Sacramento sia un esemplare, od un’immagine o figura del vero corpo e sangue del Signor e: . . . perciò essi non chiamano il Sacramento dell’altare corpo e sangue del Signore, ma vittima o sacrificio, o comunione ».

(Mansi, XXV, 1189).

Pio VI, Cost. Auctorem fidei, 28 ag. 1794, 29 prop. tra le condannate, contro gli errori del Sinodo di Pistoia:

« La dottrina del Sinodo, in quel luogo dove, proponendosi d’insegnare la dottrina di fede circa il rito della consacrazione, si sbriga delle questioni scolastiche concernenti la maniera che Cristo è nella Eucaristia, dalle quali esorta i parroci, che hanno incarico d’insegnare, ad astenersi, ed, esposti questi due soli punti: 1° che Cristo è davvero, realmente e sostanzialmente sotto le specie, dopo la consacrazione; 2° che allora cessa tutta la sostanza del pane e del vino, rimanendo soltanto le apparenze —, tralascia addirittura qualsiasi cenno alla transustanziazione o conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di tutta la sostanza del vino nel sangue, che il Concilio di Trento definì come un articolo di fede e ch’è contenuta nella solenne profession di fede; in quanto, per via di siffatta inconsulta e sospetta omissione, vien tolta la cognizione così d’un articolo, che riguarda la fede, come anche del vocabolo consacrato dalla Chiesa per proteggerne la professione contro l’eresie; e in quanto perciò mira a farla dimenticare, come si trattasse d’una questione puramente scolastica, la dottrina del Sinodo è perniciosa, si sottrae all’esposizione della verità cattolica, circa il dogma della transustanziazione, è favorevole agli eretici » .

(Bullarii Romani continuatio, ed. di Prato, VI, III, 2712).

DOMANDA 376a

Concilio di Trento, sess. XXII, Sul sacrificio della Messa, cap. 1:

« Poiché sotto il vecchio Testamento, come attesta S. Paolo Apostolo, non c’era perfezione, per impotenza del sacerdozio levitico, convenne che sorgesse, per disegno di Dio padre di misericordia, un altro sacerdote dell’ordine di Melchisedecco, il Signor nostro Gesù Cristo, che fosse in grado di sollevare e perfezionare quanti dovevano essere santificati. Egli dunque, Dio e Signore nostro, si sarebbe un giorno sulla Croce, morendovi, immolato al Padre, per operare la redenzione eterna; ma, perchè il suo sacerdozio non doveva estinguersi per la morte, nell’ultima cena, nella notte del suo tradimento, per lasciare alla sua sposa diletta, la Chiesa, un visibile sacrificio, come la natura umana esige, dal quale fosse riprodotto quello di sangue che stava per consumarsi una volta soltanto sulla Croce; inoltre perchè ne restasse memoria sino alla fine del mondo e la sua salutare efficacia fosse applicata in remissione de’ peccati, che noi ogni giorno commettiamo, dichiarando d’essere stato costituito in eterno secondo l’ordine di Melchisedecco, offerì a Dio Padre, sotto le specie del pane e del vino, il corpo e sangue suo, e sotto le apparenze di essi, ne fece dono, perchè lo ricevessero, agli Apostoli che costituì da quell’istante sacerdoti del nuovo Testamento; e fece loro precetto, e ai loro successori nel sacerdozio, di offrirlo con queste parole: Fate questo in memoria di me ecc., come intese e insegnò sempre la Chiesa Cattolica. Difatti, compiuta la vecchia Pasqua, che gl’Israeliti celebravano per memoria della liberazione dall’Egitto, istituì una Pasqua novella, cioè l’immolazione di sè stesso nella Chiesa, per mano de’ sacerdoti, sotto segni visibili, per memoria del suo passaggio da questo mondo al Padre, allorché ci redense con lo spargimento del suo sangue, ci strappò al dominio delle tenebre e ci trasferì nel suo regno. « Ed è questa la famosa vittima immacolata, che non può esser contaminata da qualsiasi indegnità o malizia di chi offre; quale il Signore predisse per bocca di Malachia che pura sarebbe stata offerta in ogni luogo al nome suo, ch’era per diventar grande fra le Genti; e quale chiaramente indicò l’Apostolo Paolo, scrivendo a’ Corinzii, quando dichiarava che chi è contaminato dalla partecipazione alla mensa de’ demonii non può farsi partecipe alla mensa del Signore (cfr. I ai Cor., X, 21); intendendo in entrambi i vocaboli, per mensa, l’Altare. Questa è finalmente la vittima prefigurata per via dei vari simboli di sacrifizi, al tempo della natura e della Legge; in quanto comprende tutti i benefici da quelli significati, come compimento e consumazione di essi tutti ».

Il medesimo, ib., can. 2:

« Sia scomunicato chi afferma che Cristo con quelle parole: Fate questo in memoria di me, non istituì sacerdoti gli Apostoli, oppure che non ordinò ad essi e agli altri sacerdoti che offrissero il corpo e sangue suo ».

DOMANDA 379a.

Concilio di Trento, sess. XIII, Decreto sulla santissima Eucaristia, c. 3:

« La santissima Eucaristia questo ha in comune con gli altri Sacramenti, d’essere un simbolo di cosa sacra e un segno visibile della grazia invisibile; ma in essa è eccellente e singolare che, mentre gli altri Sacramenti hanno virtù di santificare solamente quando uno se ne giova, invece nella Eucaristia, anche prima di riceverla, c’è l’autore in persona della santità: difatti gli Apostoli ancora non avevan ricevuto dalla mano del Signore l’Eucaristia ed Esso appunto affermava in verità ch’era suo corpo quel che offriva; e sempre rimase nella Chiesa questa fede che, subito dopo la consacrazione, sotto l’apparenza del pane e del vino, esiste il vero corpo di nostro Signore e il suo vero sangue insieme coll’anima e divinità di lui stesso; però il corpo, in forza della significazione delle parole, sotto l’apparenza del pane e il sangue sotto l’apparenza del vino: ma lo stesso corpo sotto l’apparenza del vino, e il sangue sotto l’apparenza del pane e l’anima sotto l’una e l’altra in forza della naturale connessione e concomitanza, per cui sono congiunte tra loro le parti di Cristo Signore, ormai risorto da morte per non più morire; inoltre la divinità per la mirabile unione ipostatica col corpo e coll’anima. È perciò verissimo che sotto l’una o l’altra o sotto ambedue le specie c’è l’identico contenuto, perchè tutto e intero è Cristo sotto la specie del pane, come sotto qualsiasi frammento di essa; e tutto similmente sotto la specie del vino e le parti di essa.

« Can. 3. Sia scomunicato chi nega che tutto Cristo sia contenuto nel venerabile Sacramento dell’Eucaristia, sotto ciascuna specie e sotto le singole parti di ciascuna specie, se è avvenuta separazione ».

DOMANDA 382a.

Concilio di Firenze, Decretum prò Græcis:

« Che, parimenti, si consacra veracemente il corpo di Cristo con azimo, o pane fermentato di frumento; e che i sacerdoti devono consacrare nell’uno o nell’altro lo stesso

corpo del Signore, ciascuno conforme alla consuetudine della sua Chiesa, sia occidentale, sia orientale ».

(Mansi, XXXI, 1031).

Il medesimo, Decretum prò Armenis:

« Terzo è il Sacramento dell’Eucaristia e sua materia è il pane di frumento e il vino di vite, al quale dev’essere mescolato, prima della consacrazione, un pochino d’acqua. E l’acqua vi si mescola perchè, secondo le attestazioni de’ santi Padri e Dottori della Chiesa, riferite prima durante la discussione, si crede che il Signore stesso abbia istituito questo Sacramento col vino mescolato con acqua. Poi perchè conferisce alla rappresentazione della passion del Signore. Difatti il beato Alessandro, quinto papa dopo il beato Pietro, dice: « Nell’offerta, fatta a Dio durante la Messa, del Sacramento si offra soltanto pane e vino mescolato con acqua. Non si deve infatti infondere nel calice o solo vino o sola acqua, ma l’uno e l’altra mescolati, perchè si legge che l’uno e l’altra, cioè sangue e acqua, stillò dal fianco di Cristo » . Inoltre anche perché conferisca a significar l’effetto di questo Sacramento, cioè l’unione del popolo cristiano a Cristo. Infatti l’acqua significa il popolo, come dice l’Apocalisse: Acque molte…. molti popoli (Apoc, XVII, 15). E Papa Giulio II dopo il beato Silvestro dice: « Si deve offrire il calice del Signore, stando alla prescrizion de’ canoni, con vino mescolato di acqua, perchè intendiamo essere indicato nell’acqua il popolo e nel vino il sangue di Cristo. Dunque, quando nel calice si mescola l’acqua col vino, si riunisce il popolo a Cristo e si congiunge e stringe a colui, nel quale crede, la turba de’ fedeli » . Dunque poiché sia la S. Romana Chiesa, istruita dai Ss. Apostoli Pietro e Paolo, sia le altre Chiese de’ Latini e de’ Greci, nelle quali s’illustrarono i luminari d’ogni santità e dottrina, così osservarono fin dalla nascita della Chiesa e così osservano tuttora, sembra davvero sconveniente che qualunque altra regione si stacchi da questa universale e ragionevole osservanza. Perciò decretiamo che anche gli Armeni si conformino con tutto quanto il mondo cristiano: che i loro sacerdoti mescolino al vino, come s’è detto, un pochino d’acqua nell’offerta del calice ».

(Ib., 1056).

Concilio di Trento, sess. XXII, Sul sacrificio della Messa, cap. 7:

« Inoltre il santo Sinodo ammonisce che fu prescritto dalla Chiesa ai sacerdoti di mescolare, all’offertorio, acqua col vino, sia perchè si crede che Cristo Signore così abbia fatto, sia perchè dal suo fianco uscì acqua insieme col sangue, sacro ricordo che con questa mistura viene richiamato; e poiché nell’Apocalisse del beato Giovanni acque son detti i popoli, si raffigura l’unione del popolo stesso fedele col capo Cristo ».

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis :

« Forma di questo Sacramento son le parole del Salvatore, colle quali istituì questo Sacramento: difatti il sacerdote compie questo Sacramento, in quanto parla nella persona di Cristo. Perchè, in virtù appunto delle parole, la sostanza del pane si converte in corpo di Cristo e la sostanza del vino in sangue; però in tal guisa che tutto Cristo esiste contenuto sotto la specie del pane e tutto sotto la specie del vino. E anche sotto qualsiasi parte dell’ostia consacrata e del vino consacrato, dopo la separazione, c’è Cristo intero. Effetto di questo Sacramento, ch’esso opera nell’anima di chi lo riceve degnamente, è l’unione dell’uomo a Cristo. E siccome per la grazia l’uomo s’incorpora a Cristo e si unisce alle sue membra, ne consegue che, in chi lo riceve degnamente, la grazia per opera di questo Sacramento s’accresce; e, rispetto alla vita spirituale, opera questo Sacramento ogni effetto del cibo e della bevanda materiale rispetto alla vita del corpo, col sostentarla, accrescerla, guarirla, riempirla di diletto. Difatti, come dice Papa Urbano, in esso noi rinnoviamo grato ricordo del nostro Salvatore, per esso siam preservati dal male, confortati al bene, aiutati efficacemente ad accrescere le virtù e la grazia » .

(Mansi, 1. c.).

DOMANDA 385a

Concilio IV di Laterano (1215), c. I, De fide catholica, contra Albigenses:

« Ora, unica è la Chiesa universale de’ fedeli; e in essa il sacerdote in persona è anche il sacrificio, Cristo Gesù, del quale nel Sacramento dell’altare si contengono sotto le specie

del pane e del vino il corpo e il sangue, dopo la transustanziazione del pane in corpo e del vino in sangue, per potenza divina ».

(Mansi, XXII, 982).

Concilio di Trento: Vedi D. 376.

S. Ireneo, Adversus hæreses, IV, 17, 5:

« Pertanto, volendo dare anche un consiglio a’ suoi discepoli, di offrire a Dio le primizie delle sue creature, non come n’avesse bisogno, ma perchè non siano, a suo riguardo, né indifferenti nè ingrati, prese quello che nella creazione è il pane e rese grazie, dicendo: Questo è il mio corpo (Matt., XXVI, 26). E similmente dichiarò suo sangue il vino, qual è nella creazione comune anche a noi; e insegnò il nuovo sacrificio del nuovo Testamento. E la Chiesa, ricevutolo dagli Apostoli, ne fa offerta a Dio in tutto il mondo, a Dio che fornisce gli alimenti, come primizia de’ suoi doni nel nuovo Testamento, del quale Malachia, tra i dodici profeti, aveva profetato così: Non sono ben disposto, dice il Signore onnipotente, verso di voi e non accetterò sacrificio dalle vostre mani; perchè dall’oriente all’occidente il mio nome tra i popoli è glorificato e dappertutto si offre incenso al mio nome e un sacrificio puro, perchè grande è il mio nome tra le Genti, dice il Signore onnipotente (Mal., X, 11); è chiarissimo da queste parole che il primo popolo cesserà le sue offerte a Dio e dappertutto invece si offrirà una vittima pura a Lui, e il nome di Lui è glorificato fra le Genti » .

( P . G., 7, 1023).

DOMANDA 386a.

Concilio di Trento: Vedi D. 376.

S. Gregorio Magno, Dialogus, IV, 58:

« Specialmente questa vittima salva l’anima dalla morte eterna, perchè essa misteriosamente rinnova per noi la morte dell’Unigenito, il quale sebbene risorgendo da morte più non muore e la morte non ne avrà dominio (Ai Romani VI, 9), pure, vivendo in se stesso immortale e incorruttibile, s’immola di nuovo per noi in questo mistero del santo sarrMcio. Infatti lì si riceve il suo corpo, la sua carne si distribuisce per la salvezza del popolo, il suo sangue vien versato non tra le mani degl’infedeli, ma nella bocca de’ fedeli. Perciò riflettiamo qual è per noi questo sacrificio, che per nostra assoluzione riproduce perpetuamente la passione del Figlio unigenito.

(P. L. 77, 425)

DOMANDA 387a

Concilio di Trento: Vedi D . 379.

DOMANDA 388°

Concilio di Trento, sess. XXII, Sul sacrificio della Messa, cap. 2:

« E poiché in questo divin Sacrificio, che si compie nella Messa, è contenuto e s’immola incruento quel Cristo medesimo, che una volta s’immolò cruento sull’ara della Croce, il santo Sinodo insegna che questo Sacrificio è veramente propiziatorio; e per sua virtù avviene che, se ci accostiamo a Dio con cuore sincero e retta fede, con timore e riverenza, contriti e pentiti, otteniamo misericordia e la grazia di un aiuto opportuno. Il Signore infatti, placato da quest’offerta, col concedere la grazia e il dono del pentimento, perdona colpe e peccati anche enormi; difatti unica è la vittima e la medesima e chi offre ora pel ministero de’ sacerdoti è il medesimo, che allora si sacrificò sulla Croce, diversificando soltanto il modo della offerta. E i frutti di quel cruento sacrificio si ricevono abbondantissimamente per mezzo di questo incruento, tant’è vero che questo non deroga in qualsiasi modo a quello. Perciò è offerto legittimamente, conforme alla tradizione degli Apostoli, non soltanto per i peccati, le pene, le sodisfazioni e le altre necessità de’ fedeli viventi, ma per i morti nel Cristo, ancora non interamente purificati ».

DOMANDA 389a.

Concilio di Trento: Vedi D . 388.

DOMANDA 390a.

S. Cirillo di Gerusalemme, Catecheses XXIII, (mist. V), 10:

« Se un re relegasse in esilio gente da cui è stato offeso e poi quelli, a’ quali questa gente appartiene, composta una corona, l’offrissero al re per i proprii disgraziati da lui puniti, non condonerebbe forse il re a loro que’ supplizio? Così pure noi per i defunti, anche se son peccatori, offrendo preghiere a Dio, non intrecciamo una corona, ma offriamo Cristo immolato per i nostri peccati, intendendo soddisfare e propiziare per noi come per loro Dio clemente ».

(P. G., 33, 1118).

DOMANDA 392a.

Concilio di Trento, sess. 22, Del sacrificio della Messa, can. 5:

« Sia scomunicato chi dirà che è un’impostura celebrare la Messa in onore de’ Santi e per ottenere la loro intercessione presso Dio, come intende la Chiesa ».

DOMANDA 393a.

Concilio di Trento, sess. 22, Del sacrificio della Messa, cap. 6:

« A dir vero il sacrosanto Sinodo desidererebbe che a ciascuna Messa i fedeli, che assistono, partecipassero con amore di spirito non soltanto, ma anche col ricevere l’Eucaristia sacramentalmente, affinchè così provenisse a loro più abbondante il frutto di questo santissimo Sacrificio: tuttavia, se ciò non avviene sempre, non perciò condanna quelle Messe nelle quali soltanto il sacerdote comunica sacramentalmente, come private e illecite, ma le approva, anzi le raccomanda: inquantochè anche quelle Messe hanno da esser considerate pubbliche, parte perchè il popolo vi partecipa spiritualmente, parte perchè son celebrate da un pubblico ministro della Chiesa, non solamente per sè, ma per tutti i fedeli che appartengono al corpo di Cristo ».

DOMANDA 394a.

Pio VI, Costit. Auctorem fidei, 28 ag. 1794, prop. 30 tra le condannate, contro gli errori del Sinodo di Pistoia:

« Una dottrina del Sinodo dichiara di « credere che l’offerta del sacrificio s’estende a tutti, però in guisa che nella liturgia può essere fatta speciale memoria di alcuni tanto vivi quanto morti, supplicando Dio in modo particolare per essi »; poi subito soggiunge: « però non crediamo che sia ad arbitrio del sacerdote l’applicare i frutti del sacrificio a chi gli pare; anzi condanniamo quest’errore come assai lesivo de’ diritti di Dio, il quale solo distribuisce a chi vuole i frutti del sacrificio e secondo quella misura che proprio a lui piace »; sicché logicamente gabella per « falsa l’opinione invalsa tra il popolo che chi offre un’elemosina al sacerdote, col patto di dirgli una Messa, ne ricava un frutto speciale ». Tal dottrina, intesa nel senso che, oltre alla speciale commemorazione e orazione, quell’offerta particolare, ossia applicazione del sacrificio, fatta dal sacerdote, non giovi di più, a pari condizioni, per coloro, in favore de’ quali è applicato, che per altri qualsiasi, come se dalla speciale applicazione non derivasse nessun frutto speciale, che la Chiesa raccomanda e prescrive di fare per determinate persone o classi di persone, specialmente ai pastori per i loro greggi: conseguenza logica d’un precetto divino, espressamente formulata dal sacro Concilio di Trento (sess. XXIII, cap. II, sulla riforma; Bened. XIV, Costit. Cum semper oblatas, § 2): è falsa, temeraria, dannosa, ingiuriosa verso la Chiesa, e conduce all’errore altra volta condannato in Wicleff ».

(Bullarii Romani continuatio, 1. e, 2712 s.).

DOMANDA 397a.

Concilio di Trento, sess. XIII, Decreto sulla Santissima Eucaristia, cap. 2:

« Dunque il nostro Salvatore, prima di ritornare da questo mondo al Padre, istituì questo Sacramento, nel quale per così dire die fondo alle ricchezze del suo divino amore verso gli uomini, lasciando un memoriale de’ suoi miracoli. (Salm. CX, 4); e, nel riceverlo, comandò che richiamassimo il ricordo di lui e ne annunciassimo la morte, fino a che verrà egli stesso a giudicare il mondo (I. Ai Cor., XI, 26). E volle che questo Sacramento fosse ricevuto come un cibo spirituale dell’anima, col quale si nutrono e confortano coloro che vivono la vita di lui, il quale proclamò: Chi mangia di me quello vivrà per amor mio (Gio., VI, 58), e come un contravveleno, col quule ci liberiamo dalle colpe d’ogni giorno e ci preserviamo dalle mortali. Inoltre volle che fosse un pegno della gloria avvenire dell’eterna felicità: e perciò simbolo di quel corpo, del quale è capo Egli stesso e al quale ci volle congiunti quali membra: con vincolo strettissimo di fede speranza e carità, sicché tutti fossimo concordi e non ci fossero tra noi divisioni (I ai Cor. I, 10) ».

S. Ignazio Martire, Epist. ad Magnesios, 20:

« …. Voi tutti quanti siete uniti, per la grazia, nell’unica fede e nell’unico Gesù Cristo (figlio dell’uomo, secondo la carne, dalla stirpe di Davide e figlio di Dio) per obbedire al vescovo e ai sacerdoti con animo concorde, spezzando l’unico pane, ch’è farmaco d’immortalità e contravveleno per non morire, anzi per viver sempre in Gesù Cristo ».

(P. G., 5, 662).

S. Ireneo, Adv. hæreses, V, 2, 3:

« E come la pianta di vite, deposta nel tempo fruttifica e il grano di frumento, cascando al suolo e dopo marcito, sboccia molteplice per virtù di Dio, la quale siili estende a tutte le cose, che poi vengono utili all’uomo grazie alla sapienza, e, ricevuta la parola di Dio, diventano l’Eucaristia, corpo e sangue di Cristo; così anche i nostri corpi, da, essa nutriti, dopo la deposizione e la dissoluzione sottoterra risorgeranno a suo tempo nella gloria di Dio Padre, perchè il verbo di Dio dà loro la risurrezione».

(P. G., VII, 1127).

S. Giovanni Crisostomo, In Joann., XLVI, 3:

« Poi, allo scopo di congiungerci a sè non soltanto per via d’amore, ma realmente colla sua carne, effetto del cibo ch’egli donò per dimostrare di quanto grande amore ci ama, si mescolò a noi e si costituì tutto in un sol corpo, cosicché noi fossimo come un corpo unico, congiunto al suo capo ».

(P. G., 59, 260).

Il medesimo, In I Corinth., XXIV, 2:

« Poiché noi, moltitudine, siamo un sol pane e un sol corpo. Cos’è infatti, dico, la comunione? Noi siamo appunto quel corpo. Infatti cos’è il pane? Corpo di Cristo. E che cosa diventano quelli che comunicano? Corpo di Cristo; non una moltitudine di corpi, ma un corpo solo. Come infatti, benché consti di molti granelli, il pane forma una unità dove i granelli non più compariscono, eppure esistono, ma per l’unione non se ne vede la distinzione; così noi siam congiunti reciprocamente e con Cristo. Difatti non è l’uno nutrito d’un corpo e l’altro d’un altro, ma tutti da un medesimo ».

(P. G., 61, 200).

DOMANDA 399a.

S. Giovanni Crisostomo, In Matthaeum, LXXXII, 5:

« Pensa quanto ti sdegni contro il traditore e contro quelli che crocifissero Cristo: bada dunque di non renderti colpevole tu stesso del corpo e del sangue di Cristo. Quelli trucidarono un corpo sacro, tu lo ricevi con anima sporca dopo tanti beneficii. Difatti non gli bastò di farsi uomo, d’essere schiaffeggiato e immolato, ma volle accomunarsi a noi; ci costituì suo corpo non soltanto per via di fede, ma nella realtà. Quanta dunque dovrebb’essere la purezza di colui, che si giova di questo Sacrificio! »

(P. G., 58, 743).

DOMANDA 400a.

Concilio di Trento, sess. XIII, Decreto sulla santissima Eucaristia, cap. 7:

« Se a chicchessia è sconveniente accostarsi non devotamente a qualsiasi sacra funzione, senza dubbio quanto più è conosciuta all’uomo cristiano la santità e la divinità di questo Sacramento, tanto più attentamente gli convien evitare di accostarsi a riceverlo senza grande riverenza e pietà, specie se ricordiamo le parole dell’Apostolo, piene di terribilità: Chi mangia e beve da indegno, mangia e beve la sua condanna, non distinguendo il corpo del Signore (I ai Cor., XI, 29). Perciò a chi vuol comunicarsi è bene ricordare quel precetto di lui: L’uomo si renda degno (ibid.). Ora il costume della Chiesa mette in chiaro che è necessaria tal degnità nel senso di non accostarsi alla sacra Eucaristia colla coscienza del peccato mortale, per quanto il fedele creda di esser pentito, tralasciando di premettere la Confessione sacramentale: tal dovere questo sacro Sinodo ha deciso che debba esser osservato, come da tutti i Cristiani, così pure da que’ sacerdoti ai quali per ministero incombe di celebrare, salvo che non ci sia un confessore; che se, per urgente necessità, il sacerdote celebra senza prima confessarsi, è tenuto a confessarsi quanto prima ».

DOMANDA 405a.

S. Congregazione del Concilio, Decret. Sacra Tridentina Synodus, 20 dic. 1905, Sulla Comunione quotidiana:

« Si procuri che alla santa Comunione vada innanzi una accurata preparazione e segua poi un conveniente ringraziamento, secondo le forze, la condizione, gli uffici di ciascuno ».

( Acta Apost. Sedis, I I , 896).

DOMANDA 406a.

S. Basilio, Regolæ brevius tractatæ:

«Domanda 172: Con qual trepidazione o persuasione di animo o affetto abbiamo da ricevere il corpo e il sangue di Cristo?

« Risposta: La trepidazione ce l’insegna l’Apostolo, quando dichiara: Chi mangia e beve da indegno, mangia e beve la sua condanna (I ai Cor., XI, 29); e la perfetta persuasione risulta dalla fede nelle parole del Signore, che disse: Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi; fate ciò in memoria di me (Luc., XXII, 19).»

(P. G., 31, 1195).

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (26)

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (1)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (1)

Trad. M. T. Garutti Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa Catania, 7 Marzo 1957

P. Ambrogio Gullo O. P. – Rev. Eccl.

Imprimatur

Catanæ die 11 Martii 1957

Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO I

I PRIMI TESTIMONI DELLO SPIRITO NELLA CHIESA

I veri testimoni dello Spirito Santo

Con tale espressione designiamo in modo particolare i Padri della Chiesa. Distinguiamoli bene dagli Apostoli, senza dimenticare i punti di contatto, numerosi e importanti, che a questi li collegano. – Gli Apostoli sono essenzialmente i testimoni del Dio vivente. S. Pietro, nel Cenacolo, desiderando completare il numero simbolico di dodici col rimpiazzare il traditore Giuda, mette anzitutto come condizione l’eventuale candidato al titolo di Apostolo abbia conosciuto personalmente Gesù Cristo. – Che egli sia, dice il capo dei Dodici, « di questi uomini che sono stati insieme con noi per tutto quel tempo in cui il Signore Gesù è vissuto, è andato e venuto con noi, a cominciare dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui di mezzo a noi fu assunto » (Act. I, 21-22). Titolo incomparabile! I Dodici ebbero l’insigne privilegio di vivere nell’intimità dell’Uomo-Dio come nessuno al mondo vi è vissuto, all’infuori di Maria. In un certo senso la loro condizione ha persino  superato quella della Vergine, perché essi hanno ascoltato discorsi che non sono stati pronunciati davanti a lei, anche se Gesù gliene aveva trasmesso in precedenza la sostanza attraverso una sublime via spirituale. Egli ha compiuto davanti ai Dodici degli atti per mezzo dei quali i grandi misteri della Trinità, dell’Incarnazione e della Redenzione dovevano essere rivelati e trasmessi all’intera umanità. Dio non si è rivelato al mondo che attraverso i Dodici ed è la loro testimonianza che ha valore ufficiale. – S. Paolo non ha certamente visto il Cristo sulla terra ma ha il titolo di Apostolo per eccellenza, associato persino a S. Pietro, nel culto che la Chiesa gli rende da secoli. E questo perché anche lui testimone dell’Uomo-Dio, prima nell’atto stesso della sua conversione, in cui il Cristo, abbattendolo, gli si rivelò in persona: « Sono Gesù Cristo che tu perseguiti » (Act., 1, 5); e più tardi nelle rivelazioni che ebbe, poiché molte ne riferisce nelle sue Epistole, e gli Atti menzionano vari favori soprannaturali che fanno del convertito di Damasco un vero testimone di Dio. Se non ha visto il Cristo nella sua condizione terrena, lo ha visto spiritualmente nella sua gloria ed è a questo titolo che egli è Apostolo. Altri discepoli, fuori dei « Dodici » sono stati talvolta chiamati Apostoli, per il fatto che generalmente anch’essi, avevano conosciuto il Salvatore e potevano rendere testimonianza della sua azione, ma l’uso è piuttosto ristretto. La Didaché parla anche di missionari itineranti, chiamati Apostoli, che pare non siano stati necessariamente testimoni oculari del Cristo; ma la loro importanza è minima ed essi non contano nella gerarchia apostolica. Solo i testimoni ufficiali, raggruppati dal Cristo durante la sua vita o poco dopo la sua resurrezione, sono veramente Apostoli, e la loro influenza diretta continua fino alla fine dello stesso secolo, nella persona di S. Giovanni. – L’epoca patristica comincia con i primi scrittori cristiani, molti dei quali hanno conosciuto S. Giovanni, se non addirittura S. Pietro: essi ci si presentano con un’altra caratteristica essenziale: quella di testimoni dello Spirito Santo nella Chiesa. Il Cristo, salendo al Cielo aveva promesso agli Apostoli di realizzare ben presto la promessa che aveva loro fatta di un altro se stesso, un consolatore, una guida, un avvocato. La promessa fu mantenuta e il giorno di Pentecoste, dell’anno 30, inaugurò una nuova fase nella storia del Testamento Divino: la fondazione della Chiesa per mezzo dell’azione dello Spirito Santo. Gli Apostoli non ne furono soltanto gli Spettatori, ma gli organi. Cosicché, dopo essere stati i testimoni del Dio Incarnato, divennero da quel momento « I testimoni dello Spirito » che agiva nella Chiesa. Privilegiati della grazia, adempirono a questa duplice missione fino alla morte, che, secondo la tradizione, aggiunse alla testimonianza il sigillo del sangue. – È quésta seconda testimonianza degli Apostoli che doveva essere più tardi riservata più particolarmente  ai Padri, poiché nessuno, fra essi, aveva visto il Cristo in persona. Tuttavia, sul punto particolare dell’azione esercitata dallo Spirito nella Chiesa, gli scritti dei primi discepoli del Salvatore hanno essi stessi fornito una ricca documentazione, che occorre ricordare per sommi capi, perché sarà la sorgente principale alla quale attingerà largamente la pietà cristiana fin dall’antichità. – Tutti gli scritti apostolici hanno certamente evocato questa azione, ma quelli di S. Paolo e di S. Giovanni sono particolarmente ricchi in questo campo, se si è potuto parlare della mistica di questi due Apostoli, raggruppando soprattutto i testi delle loro opere che ne sono la sorgente o la manifestazione (J. Huby: Mystiques paulinienne et johannique Parii, 1946). Non è qui del resto la sostanza del messaggio cristiano?

Gli Apostoli, precursori dei Padri

Il Cristianesimo è essenzialmente un mutuo dono di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio, attraverso l’azione dello Spirito Santo. È la vita stessa di Dio portata all’umanità del Verbo fatto carne: « A quanti lo accolsero, ai credenti nel suo nome, diede il diritto di diventare figli di Dio; i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomini ma da Dio sono nati ». S. Giovanni scriveva queste cose verso la fine del primo secolo; condensava in queste parole « nati da Dio », non soltanto i ricordi della sua intimità personale con Gesù Cristo durante tre anni, ma quelli delle esperienze di tre quarti di secolo in quegli ambienti cristiani d’Oriente, in Siria e in Asia Minore, così profondamente imbevuti del pensiero di S. Paolo. Quel pensiero che egli stesso in qualche modo personificava e che i Padri ricevettero dalle sue mani come una eredità sacra. – I primi scritti del Cristianesimo mostrano i loro autori preoccupati di fare un larghissimo posto all’azione dello Spirito Santo. Nemmeno i Vangeli sinottici, la cui funzione era solo di evocare, davanti ai Cristiani che vivevano ancora in un ambiente pentecostale, la vita terrestre del Salvatore, e soprattutto la sua attività pubblica, hanno omesso questo aspetto superiore. Esso domina dall’alto, in due di questi Vangeli, il sermone della montagna attraverso le beatitudini: i Padri ne faranno una realizzazione propria dello Spirito Santo. San Giovanni vi insisterà ancor di più, soprattutto nel discorso dopo la cena: lì, tutto è ordinato alla promessa dello Spirito Santo, la cui venuta esige il sacrificio di Cristo e la sua dipartita per il Cielo: la Pentecoste esige un tal prezzo. – Le Epistole riecheggiano largamente la dottrina del Vangeli. San Pietro è, secondo gli Atti, il primo testimone ufficiale di questa azione dello Spirito, nel momento stesso in cui essa comincia a manifestarsi in pubblico, con la Pentecoste. Egli cita la profezia di Gioele, ma le sue parole ne evocano altre, che diverranno famose. S. Pietro stesso sarà, fra i ministri dello Spirito Santo, quello posto più in alto, nelle prime cristianità, e non è senza emozione che di ciò si trova menzione sobria ma decisa sia nelle sue Epistole che nei discorsi. Nella II Epistola, egli collega questa azione dello Spirito Santo al commovente ricordo della Trasfigurazione e questa evocazione ne dimostra l’importanza che assumeva ai suoi occhi; « perché non furono pronunziate per umano volere le profezie, ma ispirati dallo Spirito Santo parlavano i santi uomini di Dio ». – San Paolo metterà, più di ogni altro, l’accento su queste dottrine. Egli ha, senza dubbio, insistito molto sui danni del peccato originale, in modo particolare nell’Epistola ai Romani, (c. V e VII). Ma generalmente si separano troppo questi testi da quelli del capitolo VIII, splendido omaggio all’azione dello Spirito nel bazzettato: non solo, egli dichiara che il peccato è distrutto, ma che una vita nuova si stabilisce nel Cristiano (VIII, 1-11): essa gode di favori celesti fino all’intimità in questa vita (12-27) e garantisce una vita eterna di felicità (28-39). Queste pagine sulle virtù teologali sono un’eco del magnifico elogio che ne aveva fatto l’Apostolo, l’anno precedente, nella sua prima lettera ai Corinti (XIII, 1-13). – Il Cristiano dovrebbe avere sempre presenti alla memoria questi testi; essi erano l’anima delle direttive date dall’Apostolo a proposito dell’azione dello Spirito Santo nelle comunità. È lo Spirito che dà al battezzato la forza necessaria per lottare contro la carne ed i suoi appetiti; è mediante lo Spirito che, a poco a poco, l’amore diventa una forza che trasforma la Legge, nella misura in cui l’uomo sa conformarvisi. Allora, l’ubbidienza al comandamento non viene tanto dal di fuori quanto dal di dentro, grazie allo Spirito Santo che ci è stato donato. E questa espansione dello Spirito è, essa pure, una larga partecipazione alla vita divina stessa, a quella vita posseduta pienamente dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. Tale è la dottrina che costituirà per secoli la sostanza dell’insegnamento patristico. – Le Epistole di San Giovanni, e in particolare la prima, danno tutto il loro significato ai testi del suo Vangelo sullo Spirito Santo designato qui col nome di Unzione, per fissare i suoi legami con colui che è egli stesso « l’Unto » per eccellenza, il Cristo. Per tre volte, San Giovanni gli dà qui questo titolo (I, 11, 20 e 22). Tale insistenza è in funzione sia della verità che viene dal Cristo, sia della carità che è la caratteristica propria dell’Apostolo, carità verso il prossimo e verso Dio. Ma l’accento è messo con maggior decisione sull’origine divina della dottrina che penetra con forza nello spirito e nel cuore: « Quanto a voi, dimori in voi l’Unzione che da lui avete ricevuta e così non avete bisogno che alcuno vi ammaestri perché l’Unzione di lui vi insegna tutte le cose, ed è verace e non ha menzogna (11, 27).

Il tema centrale della patristica

Ecco infatti, precisamente, la nota patristica per eccellenza: i primi scritti cristiani ci introducono in un ambiente saturo di vita divina, frutto del battesimo e animato dall’azione dello Spirito Santo, nel quale Cristo continua a governare la Chiesa. In realtà, i Padri sono i primi spirituali della cristianità. Troppo spesso oggi vien dimenticato questo aspetto della loro personalità. Si vede anzitutto in loro dei testimoni della fede, ardenti apologisti, polemisti, creatori persino di scuole nel senso moderno della parola, col rischio di falsare la loro vera personalità, se si trascura quanto è essenziale, cioè la vita soprannaturale. È questa che nelle loro opere è veramente fondamentale e che bisogna mettere in primo piano. Non si tratta di trascurare la fede, ma non bisogna separarla dalla carità che ne è l’anima, secondo, la parola di San Paolo, che ricordava ai Galati: «In Cristo Gesù, ha valore né la circoncisione né l’incirconcisione ma la fede operante per la carità » (Gal. V, 6). – Questa verità elementare è ammessa da tutti nella Chiesa sul piano dei principi. In realtà, tuttavia, è raro che le si dia tutta l’importanza che merita quando descrivono i tempi antichi e, ancora di più quando si arriva ai periodi più recenti. Troppo spesso la Chiesa viene considerata sotto aspetti multipli, ma dispersi, che impediscono ogni visione profonda dell’insieme in coloro che non vi sono attratti da una forza speciale. È questo, precisamente, un punto debole al quale vorremmo rimediare con la presentazione di testi antichi essenziali in questo campo. ‘ – I doni dello Spirito Santo possono esserne il centro, poiché i Padri stessi ne hanno dato moltissime descrizioni. Essi li presentano come una forza divina superiore, che anima il Cristianesimo autentico e gli infonde un’intensa vitalità, sotto ogni punto di vista, sul piano della dottrina come sul piano dell’azione. D’altronde i due aspetti sono, in essi, generalmente uniti in modo indissolubile: questo è uno dei caratteri salienti della Chiesa primitiva e rimarrà dominante per dei secoli. È forse qui che il periodo patristico trova il suo carattere specifico più marcato. È quindi d’immenso interesse mettere in luce questa dottrina, non solo considerandola da un punto di vista teorico o letterario, ma ponendola nell’antico quadro vitale, sia della cristianità in genere, sia della anima cristiana singola, la quale risponde con generosità ai richiami della grazia. – D’altronde, i centri di intenso fervore sono numerosi nell’antichità, anche al di fuori dei chiostri, ed è possibile trovare su questa strada preziose indicazioni riguardanti la vita profonda delle cristianità primitive. Le stesse opere dottrinali hanno una nota spirituale che è un’eco dell’ambiente; più ancora, evidentemente, i sermoni o i trattati religiosi. Possono scaturirne vere illuminazioni, purché si badi un poco a rilevarle. Ci limitiamo qui a indicare le sorgenti più abbondanti sul tema speciale dei doni dello Spirito Santo, schematizzati nell’elenco compilato da Isaia a proposito dell’annunciato Messia. Non che tutto si riduca a questo piccolo documento, ma esso può servire a raggruppare molti testi patristici che toccano le vette più alte della vita spirituale. Per questo l’elenco ha un grande interesse. Molto tempo prima di Cristo, si parla nel Vecchio Testamento dello Spirito di Dio come principio di illuminazione morale o intellettuale, profetica o artistica. Con i Salmi ed i Libri Sapienziali, la nota religiosa e morale passa al primo piano, e diventa preponderante negli ambienti ferventi, poco prima della venuta di Cristo. – Il testo d’Isaia ha un ruolo importantissimo, ma non esclusivo. Verso l’anno 50 a. C., uno dei Salmi detti di Salomone, il XVII al v. 37, riproduce presso a poco l’elenco d’Isaia il cui testo è ben conosciuto: « Un germoglio spunterà dalla radice di Jesse, Un fiore verrà su da questa radice; E sopra di lui riposerà Io Spirito del Signore Spirito di Sapienza e di intelletto, Spirito di consiglio e di fortezza; Spirito di scienza e di pietà. Lo riempirà lo spirito del timor di Dio (Is., XI, 12). – Anche se la parola timore, che nella Scrittura traduce tante sfumature, non esprime nulla di nuovo, il fatto di esser ripetuto nella conclusione indica che si suol completare il numero « sette », che risponde ad una pienezza; è un elemento questo che bisogna tener presente soprattutto qui. Tutta la tradizione cristiana, fondata sui molteplici settenari dell’Apocalisse (I e V), lo interpreterà in questo senso, con una unanimità che fa legge (V. A. Gardeil, « Dons du Saint-Esprit », i n D. T. coll. 1749-1751).

Fonti delle dottrine sullo Spirito Santo

Questi testi dell’antico Testamento furono messi pienamente in luce dai Padri, grazie a S. Paolo e a S. Giovanni, la cui influenza fu assolutamente decisiva fin dai primi secoli. Questi due Apostoli rappresentano d’altronde, nonostante il loro fondamentale accordo, numerose sfumature che è bene mettere in rilievo, perché si ritroveranno nei Padri, secondo i doni accordati ad ognuno e secondo la loro missione nella Chiesa. L’insistenza su Cristo, sia in San Paolo che in San Giovanni, non deve farci dimenticare il posto che entrambi fanno allo Spirito Santo nelle esortazioni che rivolgono ai fedeli nelle loro Epistole. – Come San Paolo, San Giovanni ha proclamato la dottrina dell’azione universale dello Spirito nei Cristiani, e ha preparato remotamente la sua diffusione tra i Padri. Questa dottrina divenne così comune, in quella forma settenaria che ne è l’espressione corrente. San Giovanni non ha parlato dei sette doni, ma ha moltiplicato i richiami al numero sette nell’Apocalisse, parlandò delle sette Chiese, dei sette candelabri, delle sette stelle, dei sette spiriti divini, e più tardi collegherà le sue misteriose profezie a sette sigilli, sette trombe, sette segni e sette coppe, altrettante occasioni per evocare i sette doni enumerati da Isaia: ben presto si stabilirono dei legami fra gli uni e gli altri. Assumendo il numero sette per le attività dello Spirito Santo, Agostino non farà che fissare una regola cui si ispirava la letteratura religiosa già da molti secoli e la cui origine divina sembrava ormai indiscutibile.

« Spirituali e mistici dei primi tempi »: questo titolo potrebbe essere preso in senso stretto come criterio di scelta fra gli antichi scrittori ecclesiastici. Ma, così facendo, introdurremmo nell’antichità cristiana una categoria mentale che essa ignorava. Rischieremmo di restringere troppo l’argomento, e, forse, di tagliarlo fuori dalle sue vere fonti di ispirazione. In realtà, tutti gli antichi scrittori ecclesiastici, durante gli ottocento anni che vanno dalle ultime decadi del I secolo alla metà del IX, possono essere considerati come « spirituali » e « mistici », se si prendono queste parole in senso largo, e questa accezione risponde bene alla denominazione di Padri che diede loro l’antichità a partire dal secolo V e che è loro rimasta. La si è progressivamente estesa fino al VII sec, poi all’VIII e anche alla prima parte del IX; ma l’estremo limite è là. Infatti, questa denominazione di Padri, presa in se stessa, risponde bene a una preoccupazione spirituale e designa gli organi qualificati dello Spirito Santo nel Corpo Mistico di Cristo. La parola risale alle origini della Chiesa, benché sia divenuta corrente solo in seguito ai Grandi Concili, che provarono il bisogno di affermare l’adattamento delle nuove formule di fede al contenuto delle esposizioni tradizionali, specialmente sulla divinità del Cristo e sulla sua umanità. Designava pure, poiché allora non si separavano questi due aspetti di una realtà vivente, l’autorità degli stessi uomini in quanto concerne le regole della vita cristiana e particolarmente le più alte. – Fra queste regole, legate al dogma, ma di alta portata vitale, quelle che toccano l’unione personale delle anime con Dio presero un rilievo straordinario fin dal II secolo, e più ancora nel III e IV. La sapienza ne è l’aspetto più saliente, ed essa implicava già una vera intimità con Dio, frutto di una altissima conoscenza e di un ardente amore, attribuiti, l’uno e l’altro, ad una azione superiore della grazia. Tutti i grandi Dottori ne beneficiarono, ma il più eminente di essi, in questo come in molti altri campi, è Sant’Agostino; e in lui noi ascoltiamo non soltanto la voce dell’antica Chiesa di Occidente, ma anche di quella d’Oriente di cui il grande Dottore conobbe certamente le grandi tendenze spirituali attraverso Sant’Ambrogio, fervente discepolo dei mistici alessandrini. Egli stesso poi fu maestro incomparabile della vita interiore. – Questo misticismo non era mai isolato, negli antichi, da altre attività interiori della vita cristiana; ne era piuttosto l’anima e il sostegno. Bisogna discernerlo con cura fra le molteplici attività cui essi si dedicavano, per seguire le indicazioni della Provvidenza nei fatti che richiedevano il loro intervento, o nelle vaste  meditazioni che la pietà ispirava loro. La teologia, la filosofia stessa vi trovavano spesso il loro alimento, e non lo si deve dimenticare studiandole. Non bisogna né attaccarsi a queste discipline al punto di trascurare la profonda ispirazione religiosa che ne era spesso il principio animatore, né disdegnarle, col pretesto di andare più in profondità fino al midollo divino che ne è la forza animatrice. – È questa forza interiore che deve essere tenuta maggiormente in considerazione da ogni vero Cristiano che affronta i Padri, ed è ad essa soprattutto che vogliamo rivolgere la nostra attenzione in quest’opera, breve riassunto di studi generali sul pensiero dei Padri. Tuttavia l’insistenza sullo Spirito non è possibile e non può essere utile se non si ha una visione abbastanza precisa dell’insieme di quest’opera letteraria che forma la Patristica. Ne daremo qui un quadro molto sommario, ma indispensabile per classificare bene i diversissimi dati dottrinali di cui dobbiamo fare la sintesi. Potremo distinguervi senza sforzo tre gruppi abbastanza distinti: gli iniziatori, nei tre primi secoli; i grandi pensatori, dei sec. IV e V, da Sant’Atanasio a San Leone Magno (+ 461); i continuatori, dal 461 all’843. – I tre primi secoli sembrano essere un periodo preparatorio, quando li si paragona al prestigio di cui dovevano godere i grandi Dottori del IV sec. Esso è infatti fondamentale, perché fissa le basi sulle quali si eleverà l’imponente edificio spirituale ulteriore. Indubbiamente, anche su questo punto, questo o quel Padre del gran secolo avrà la preminenza; però malgrado alcune lacune, che non bisogna del resto esagerare, i primi Padri hanno, generalmente, un sapore evangelico molto marcato che proviene, senza dubbio, dal contatto più diretto coi tempi apostolici, o da un’azione provvidenziale più accentuata in favore della Chiesa nascente e perseguitata. – I grandi pensatori dell’antichità cristiana si trovano nel periodo che va dalla pace di Milano, 313, alla morte di San Leone, 461, tosto seguita dalla caduta definitiva dell’Impero d’Occidente. Questi centoquaranta anni, che formano, per noi. il gran secolo patristico, non sono, come spesso si crede, un periodo di riposo e di facile trionfo. Invece di essere esteriore, il combattimento per la fede si svolge ora dentro la Chiesa stessa ed è quindi ancora più grave. La Provvidenza divina vi provvede appunto suscitando un maggior numero di uomini superiori che faranno trionfare l’ortodossia tradizionale e cattolica. Alcuni di questi Dottori ebbero una certa funzione pubblica, come San Basilio di Cesarea, San Cirillo d’Alessandria in Oriente, Sant’Ambrogio in Occidente, ma sarebbe ingiusto vedere in essi delle personalità politiche; essi sono anzitutto uomini di Chiesa, così come lo furono San Giovanni Crisostomo e Sant’Agostino, il cui carattere eminentemente soprannaturale è indiscusso. Tutti, malgrado le modalità di azione imposte dalle circostanze, furono uomini di Chiesa e organi dello Spirito Santo. I loro continuatori, dal V al IX secolo, hanno avuto evidentemente meno splendore: le grandi indagini dottrinarie si chiudono con il papa San Leone. Gli scrittori degli ultimi secoli patristici hanno avuto provvidenzialmente il merito di serbare il deposito sacro, ricevuto dagli Apostoli attraverso la Chiesa. Il Papato, in Occidente, deve maggiormente prendere in mano la direzione della Chiesa e San Gregorio il Grande è il modello più perfetto di questa sublime azione della Chiesa e dello Spirito Santo, per mezzo di lei, nel mondo. In Oriente, la Chiesa bizantina, ridotta sempre più dalle conquiste persiane e arabe, si lega strettamente all’impero, senza rompere i legami con Roma soprattutto grazie ai monaci, grandi difensori del culto integrale di Cristo, della Madonna e delle immagini, tre veri centri del loro trionfante misticismo.

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (2)

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (24)

CATECHISMO CATTOLICO

A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (25)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 291a.

S. Giovanni Crisostomo, In Genesim, XXX, 5:

« Gran bene è la preghiera. Difatti, se uno parlando ad un uomo fornito di virtù, ne percepisce non piccolo vantaggio, di quanto gran beni non godrà colui, il quale parlerà con Dio? Difatti la preghiera è un colloquio con Dio…. A dir vero, non può egli esaudirci prima che lo preghiamo? Eppure, per questo egli differisce di esaudirci e aspetta, per cogliere l’occasione di renderci degni giustamente della sua provvidenza ».

(P. G., 53, 280).

DOMANDA 298a

S. Agostino, In Joann., CVII, I:

« Dobbiamo ora trattare di questa parola del Signore: In verità, in verità vi dico: se chiederete al Padre qualche cosa in mio nome, ve la darà. (Gio., XVI, 23). È già stato detto nei punti precedenti di questo discorso del Signore — in considerazione di chi chiede qualche cosa al Padre in nome di Cristo, ma non riceve — che non si chiede nel nome del Salvatore quel che non si chiede in ordine alla salvezza. Difatti quando dice In nome mio s’ha da intendere che dica non una serie di lettere o di sillabe, ma ciò che è significato precisamente dal suono delle parole e che con quel suono si comprende rettamente e veracemente, Di conseguenza chi sente di Cristo ciò, che non si deve sentire dell’unico Figlio di Dio, non chiede in nome di lui, anche se pronuncia materialmente, con lettere e sillabe, la parola Cristo: dal momento che chiede in nome di colui, a cui pensa, quando chiede. Ma chi pensa quel che ha da pensarsi di lui, chiede proprio in nome di lui: e riceve quel che chiede, e non chiede in contrasto colla sua eterna salute. Ma riceve quando deve ricevere. Certe cose ifatti non sono ricusate, ma si differiscono per concederle a tempo opportuno. Così appunto s’ha da intendere ciò che dice: Darà a voi: perchè con queste parole si vedano significati que’ beneficii, che spettano propriamente a quelli che chiedono. In verità tutti i Santi sono per se stessi esauditi, ma non per tutti gli amici o nemici loro o altri qualsiasi: non indifferentemente fu detto Darà, ma Darà a voi ».

(P. L., 35, 1896).

DOMANDA 313a.

Concilio di Trento: Vedi D. 189.

DOMANDA 322a.

Leone XIII, Encicl. Adiutricem populi, 5 sett. 1895:

« Si palesa splendidamente il mistero della singolare carità di Cristo verso di noi, anche dal fatto che morendo egli volle lasciare la Madre sua per madre al discepolo Giovanni col memorabile testamento: Ecco il tuo figlio. Ora Cristo designò in Giovanni, come fu sempre pensiero della Chiesa, la persona del genere umano, specialmente di coloro che per la fede aderirebbero a lui. Su questo pensiero dice S. Anselmo di Canterbury: « Che cosa di più degno può immaginarsi che tu, Vergine, sii madre di coloro, di cui Cristo volle essere padre e fratello? » (Preghiera 47). Ella dunque di questo compito singolare e laborioso si assunse il carico e morì da magnanima, dopo i sacri auspicii del Cenacolo ».

(Acta Leonis XIII, XV, 302).

Pio X, Encicl. Ad diem illum, 2 febbr. 1904:

« Non è forse madre di Cristo Maria? dunque è anche madre nostra. Difatti ognuno deve ritenere che Gesù, Verbo fatto carne, è anche il salvatore dell’uman genere. Ora, in quanto Dio-Uomo, ebbe un corpo materiale, come tutti gli altri uomini; in quanto poi restauratore dell’uman genere, una specie di corpo spirituale e, come si dice, mistico, ed è la società di coloro, che credono in Cristo. Siamo molti in un unico corpo di Cristo (Ai Rom., XII, 5). Ma la Vergine non concepì il Figlio eterno di Dio soltanto allo scopo che diventasse uomo, assumendo da lei la natura umana; ma anche allo scopo che diventasse, per mezzo della natura assunta da lei, il salvatore degli uomini. Perciò disse l’Angelo ai pastori: È nato a voi oggi il Salvatore, che è Cristo Signore (Luc., II, 11). Nell’unico e medesimo grembo dunque della Madre purissima Cristo, come assunse la carne, così s’aggiunse una specie di corpo spirituale, costituito cioè da coloro ch’eran per credere in lui. Sicché Maria, in quanto ha in grembo il Salvatore, può dire d’avervi portato anche quelli, la vita de’ quali era contenuta nella vita del Salvatore. Tutti dunque, quanti siamo congiunti con Cristo, e che, al dir dell’Apostolo, siamo membra del corpo di lui, della carne e delle ossa di lui (Agli Efes., V, 30), siamo usciti dal grembo di Maria, a modo di corpo intimamente aderente al capo. Onde, per una ragione a dir vero spirituale e mistica, siamo noi chiamati figli di Maria, ed ella è madre di noi tutti. Madre, a dir vero, spirituale… ma davvero madre delle membra di Cristo, che siamo noi. (S. Agost., De sancta virginitate, 6). Se dunque la beatissima Vergine è madre insieme di Dio e degli uomini, chi mai potrebbe dubitare ch’ella non faccia ogni sforzo affinchè Cristo, capo del corpo della Chiesa (Ai Coloss., I , 18), diffonda su noi, sue membra, i suoi doni, specie quello di riconoscerlo e di vivere per lui? (I. di Giov., IV, 9) ».

(Acta Pii X, I, 152).

Benedetto XV, Lett. al Sodalizio di N. Signora della Buona Morte, 22 marzo 1918:

« …. Similmente è chiaro che la Vergine Dolorosa, in quanto che, costituita da Gesù Cristo Madre di tutti quanti gli uomini, li accolse in virtù del testamento d’un amor infinito lasciato a lei e compie con materna bontà il suo ufficio per la loro vita spirituale, non può far a meno di venire in soccorso ai carissimi figli di adozione più sollecitamente in quel momento, nel quale si tratta della loro salvezza e santificazione da confermarsi per l’eternità ».

(Acta Apost. Sedis, X , 182).

Pio XI, Encicl. Rerum Ecclesiæ, 28 febb. 1926:

« Orbene arrida benigna e soccorra ai comuni propositi la Santissima Regina degli Apostoli Maria, che, avendo avuto raccomandati al suo cuore materno tutti quanti gli uomini sul Calvario, aiuta e ama coloro, che ignorano d’essere stati redenti da Cristo Gesù, non meno di coloro, che godono fortunatamente dei beneficii della di lui redenzione ».

(Acta Apost. Sedis, XVIII, 83).

DOMANDA 325A.

Concilio di Firenze, Decretimi prò Armenis:

« Sono sette i Sacramenti della nuova legge: cioè Battesimo, Cresima, Eucaristia, Penitenza, Estrema Unzione, Ordine e Matrimonio, che differiscono assai dai Sacramenti dell’antica legge. Quelli difatti non conferivano la grazia, ma solamente la raffiguravano come un dono della passione di Cristo: mentre questi nostri come contengono la grazia così la conferiscono a chi li riceve degnamente. Di questi i primi cinque sono ordinati alla spiritual perfezione di ciascun uomo in se stesso, i due ultimi al reggimento e moltiplicazione di tutta la Chiesa. Difatti per mezzo del Battesimo rinasciamo spiritualmente: per mezzo della Cresima cresciamo in grazia e siamo rafforzati nella fede. Rinati poi e rafforzati ci nutriamo del cibo divino dell’Eucaristia. Che se per causa del peccato incorriamo nell’infermità dell’anima, ne siamo risanati spiritualmente per mezzo della Penitenza: spiritualmente e anche corporalmente, in quanto giova all’anima, per mezzo della Estrema Unzione; per mezzo dell’Ordine poi la Chiesa è governata e moltiplicata spiritualmente, per mezzo del Matrimonio è aumentata corporalmente. Tutti questi Sacramenti sono costituiti di tre elementi, vale a dire di oggetti come materia, di parole come forma e della persona del ministro, che conferisce il Sacramento, coll’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa; e, se manca uno di essi, il Sacramento non si compie ».

(Mansi, XXXI, 1054).

Concilio di Trento, sess. VII, Dei Sacramenti in generale, can. 1 e 6:

« Sia scomunicato chi afferma che i Sacramenti della nuova legge non sono stati tutti istituiti da Gesù Cristo, o che sono più o meno di sette, vale a dire: Battesimo, Cresima, Eucaristia, Penitenza, Estrema Unzione, Ordine e Matrimonio, oppure che qualcuno di questi sette non è davvero e propriamente un Sacramento. – « Sia scomunicato chi afferma che i Sacramenti della nuova legge non contengono la grazia che significano, oppure che non conferiscono la grazia stessa a coloro che non vi mettono ostacolo; quasi che fossero segni soltanto esteriori della grazia o della giustizia ricevuta per mezzo della fede e una specie di contrassegno della professione cristiana, per mezzo del quale dinanzi agli uomini si distinguono i fedeli dagli infedeli ».

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 luglio 1907, prop. 39-41 tra le condannate:

« 39. Le opinioni di cui erano imbevuti i Padri del Concilio di Trento, circa L’origine dei Sacramenti, e che ebbero senza dubbio influenza sui loro canoni dogmatici, sono ben differenti da quelle che ora hanno credito meritamente presso gli storici critici del fatto cristiano.

« 40. I Sacramenti ebbero origine dal fatto che gli Apostoli e i loro successori interpretarono, per la spinta delle circostanze e degli avvenimenti, una semplice idea e intenzione di Cristo.

« 41. I Sacramenti mirano soltanto allo scopo di richiamare in mente all’uomo la presenza sempre benefica del Creatore ».

(Acta Apost. Sedis, XL, 472).

DOMANDA 326a.

Concilio di Firenze, Vedi D. 325.

Concilio di Trento, Sess. VII, Dei sacramenti in generale, can. 11:

« Sia scomunicato chi affermerà che nei ministri, mentre formano e conferiscono i Sacramenti, non si richiede almeno l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa ».

DOMANDA 329a.

Concilio di Firenze: Vedi D . 325.

DOMANDA 331a

Concilio di Trento, sess. VII , Dei Sacramenti in generale, can. 7, 8:

« Sia scomunicato chi dirà che non sempre nè a tutti, ma qualche volta e a qualcuno, per mezzo di questi Sacramenti è data la grazia, per quanto dipende da Dio, anche se li ricevono convenientemente. « Sia scomunicato chi afferma che, per mezzo dei Sacramenti della nuova legge, non è conferita la grazia ex opere operato, ma che basta la sola fede nella divina promessa, a conseguire la grazia ».

S. Agostino, Epist. 98, 2:

« L’unico Spirito, dal quale il presentato viene rigenerato, opera in modo che…. chi ha da essere santificato possa rigenerarsi quand’è presentato, per l’intervento dell’altrui volontà. Difatti non sta scritto: Se uno non sarà rinato dalla volontà dei genitori o dalla fede dei presentatori o dei ministri, ma: Se uno non sarà rinato di acqua e Spirito Santo (Gio., III, 5). Dunque l’acqua conferendo all’esterno il Sacramento della grazia e lo Spirito operando all’interno il beneficio della grazia…. rigenerano nell’unico Cristo l’uomo generato dall’unico Adamo ».

(P. L., 33, 360).

Il medesimo, In Ioann., LXXX, 3:

« Ormai voi siete mondi per la parola che io ho detto a voi » (Gio., XV, 3). Perché non sarà: Voi siete mondi per il Battesimo, nel quale siete stati lavati, ma dice: Per la parola che ho detta a voi, se non perché la parola purifica anche nell’acqua? Togli la parola e che cos’è l’acqua, se non acqua? S’aggiunge la parola all’elemento e si compie il Sacramento, anch’esso come una parola visibile ».

(P. L., 35, 1840).

DOMANDA 337a.

Concilio di Trento, sess. XIV, Del Sacramento della Penitenza, cap. 4:

« Inoltre insegna che, quantunque questa contrizione talvolta accade che sia carità perfetta e che riconcilii l’uomo a Dio, prima che questo Sacramento sia attualmente ricevuto, nondimeno la riconciliazione non dev’essere attribuita precisamente alla contrizione, senza il desiderio del Sacramento, che in essa è compreso ».

DOMANDA 339a.

S. Agostino, Contra Epistolam Parmeniani, I I , 28:

« L’uno e l’altro (Battesimo e Ordine) è un Sacramento ed è conferito all’uomo con una specie di consacrazione, quello quando si battezza, questo quando si ordina, e perciò nella Chiesa Cattolica l’uno e l’altro non è lecito che sia ripetuto. Difatti se talvolta anche prelati, che vengono dalla stessa parte, corretto per amor di pace l’errore scismatico, furono accolti, benché parve conveniente che sostenessero i medesimi uffici di prima, non furono di nuovo ordinati, ma, come il Battesimo, così l’Ordinazione rimase intatta in loro, perchè ciò che fu corretto nella pace dell’unità era vizio nella separazione, non nei Sacramenti, che dappertutto sono quel che sono ».

(P. L., 43, 70).

DOMANDA 341a.

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

« Tra questi Sacramenti, il Battesimo la Cresima e l’Ordine sono i tre che imprimono nell’anima il Carattere, cioè una specie di contrassegno spirituale, indelebile, distintivo da tutti gli altri. Onde non si ripetono nella medesima persona. Invece gli altri quattro non imprimono il Carattere e possono ripetersi ».

(Mansi, XXXI, 1054).

Concilio di Trento, sess. VII, Dei Sacramenti in generale, can. 9:

« Sia scomunicato chi afferma che coi tre Sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Ordine non s’imprime nell’anima il Carattere, vale a dire una specie di contrassegno spirituale e indelebile, sicché non posson esser ripetuti » .

Innocenzo III, Epist. Majores Ecclesiae Causas (1201) a Umberto arcivescovo di Arles:

« Altri non senza ragione distinguono tra involontario e involontario, tra costretto e costretto, perchè chi è piegato violentemente dal terrore e dai supplizii e riceve il Battesimo per non incontrar danno, colui a dir vero, come chi s’accosta al Battesimo per finzione, riceve impresso il carattere di cristianità ed egli, come volente sotto condizione, benché in assoluto non voglia, è da costringersi alla osservanza della fede cristiana…. Chi poi non mai è consenziente, ma affatto contrario, non riceve né la realtà né il carattere del Sacramento, perché conta di più contraddire espressamente che non consentire…. A lor volta i dormienti e i dementi se, prima di entrare in demenza o nel sonno, persistevano a contraddire, non ricevono il carattere del Sacramento, perché s’intende che in essi perduri il proposito del rifiuto, anche se sono stati così immersi; non invece, se prima erano stati catecumeni e avevano avuto il proposito di essere battezzati; perciò la Chiesa in caso di necessità è solita battezzarli. Dunque il rito sacramentale imprime il carattere, quando non trova in contrasto l’opposizione della volontà ».

(Decretales Gregorii IX, 1. III, tit. 42, cap. 3).

DOMANDA 348a.

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 luglio 1907, prop. 42 tra le condannate:

« La comunità cristiana introdusse la necessità del Battesimo, adottandolo come un rito necessario e annettendogli i doveri della professione cristiana » .

(Acta Apost. Sedis, XL, 472).

S. Basilio Magno, Homilia 13, 5:

« Il Battesimo è il prezzo del riscatto per i prigionieri, il condono dei debiti, la morte del peccato, la rigenerazione dell’anima, l’abito della luce, il sigillo che non può essere infranto con nessuno sforzo, guida al cielo, pegno del regno, dono di adozione ».

(P. G., 31, 434).

DOMANDA 349a.

Concilio di Vienna (1311-1312), Constitutio de Trinitate et fide, cantra errores Petri Olivi:

« Da tutti i fedeli dev’essere professato un unico Battesimo, che rigenera tutti i battezzati in Cristo, come unico è Dio e unica la fede (agli Efes., IV, 5). Ed esso, celebrato coll’acqua nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, crediamo che sia perfetto rimedio di salvezza tanto per gli adulti, quanto pei bambini, senza distinzione ».

(Mansi, XXV, 411).

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

« Occupa il primo luogo fra tutti i Sacramenti il santo Battesimo, che è porta della vita spirituale; difatti per mezzo di esso noi diventiamo membra di Cristo e del corpo della Chiesa. E siccome per causa del primo uomo la morte entrò in tutti quanti, non possiamo, come dice la Verità, entrare nel regno de’ cieli, se non rinasciamo dall’acqua e dallo Spirito (Gio., III, 5). Materia di questo Sacramento è l’acqua vera e naturale; non importa se calda o fredda. La forma è poi: Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Tuttavia non neghiamo che vero battesimo si compia anche con quelle parole: È battezzato il tal servo di Cristo nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, oppure: È battezzato dalle mie mani il tale nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo; dacché, essendo la Santa Trinità la causa principale onde il Battesimo ha forza, e strumentale invece il ministro che conferisce all’esterno il Sacramento, se si effettua l’atto, coll’invocazione della Santa Trinità, il Sacramento è compiuto. Ministro di questo Sacramento è il sacerdote, al quale compete battezzare d’ufficio. In caso poi di necessità non soltanto il sacerdote o il diacono, ma anche un laico o una donna, anzi pure un pagano o un eretico può battezzare, purché osservi la forma della Chiesa e intenda fare ciò che fa la Chiesa. L’effetto di questo Sacramento è la remissione d’ogni colpa originale e attuale, anche di ogni pena dovuta per la colpa stessa. Perciò nessuna soddisfazione si deve imporre ai battezzati per i peccati del passato: ma essi morendo prima di commettere qualche colpa, ottengono subito il regno de’ cieli e la visione di Dio ».

(Mansi, XXXI, 1059).

Concilio di Trento, sess. VII, Sui Sacramenti in generale, can. 2:

« Sia scomunicato chi afferma che l’acqua vera e naturale non è necessaria per il Battesimo, e perciò stravolge a senso metaforico quelle parole del Signor Nostro Gesù Cristo : Se uno non sarà rinato di acqua e di Spirito Santo ( Giov., III, 5) ».

Innocenzo III, Epist. Non ut apponeres, 1 marzo 1206, a Toria arcivescovo di Nidrosia. ‘

« Hai domandato se si devono considerar cristiani i bambini, qualora, in punto di morte, per mancanza d’acqua e per assenza del sacerdote, qualcuno per semplicità li ha bagnati di saliva sul capo sul petto e tra le scapole, in luogo di Battesimo. Rispondiamo che, siccome nel Battesimo si richiedon sempre due cose, cioè la parola e l’elemento, necessariamente, secondo dice la Verità a proposito della parola: Andate nel mondo ecc. (Marc, XVI, 15; Matt., XXVIII, 19) e, parimenti, riguardo all’elemento: Se alcuno non ecc. (Gio., III, 5), non devi nemmeno aver dubbio che non abbiano un vero Battesimo coloro per i quali è stato omesso non solo l’uno e l’altro requisito, ma uno di essi ».

(Decretales Gregorii IX, III, 42, 5).

Didaché, VII, 1:

« Quanto poi al Battesimo, battezzate così: e dopo aver detto tutto ciò, battezzate nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, con acqua viva ».

(Patres Apostolici, ed. Funk, I, 17 s.).

DOMANDA 352a

Concilio IV di Laterano (1215), c. I , De fide catholica contra Albigenses:

« Il Sacramento del Battesimo (che si compie coll’acqua, invocando Dio e l’individua Trinità, vale a dire il Padre e il Figliuolo e lo Spirito Santo), conferito legittimamente nella forma della Chiesa da chicchessia, tanto ai bambini quanto agli adulti giova alla salvezza » .

(Mansi, XXII, 982).

Concilio di Firenze, Vedi D. 349.

S. Agostino, Contra Epistolam Parmeniani, II, 29:

« Del resto, anche se darà (il Battesimo) un qualsiasi laico, spinto dalla necessità del morente, sapendo, da quando lo riceveva lui stesso, come si dovesse dare, non so chi mai vorrebbe piamente sostenere che debba essere ripetuto. Difatti, quando non vi sia un’urgente necessità, a conferirlo si usurpa un compito altrui; se poi c’è necessità urgente, o non è peccato o è veniale. Ma anche se è arbitrario, non essendoci urgenza, e sia dato a chicchessia da chicchessia, ciò che è stato dato non può dirsi non dato; al più si può dire giusto che fu dato illecitamente » .

(P. L., 43, 71).

DOMANDA 354a

Concilio di Firenze, Decretum prò Jacobitis:

« Impone a tutti quelli…. che si gloriano del nome cristiano, che bisogna metter da parte addirittura la circoncisione, in qualunque tempo, sia prima, sia dopo il Battesimo, poi che nessuno affatto la può praticare, tanto se riponga, quanto se non riponga speranza in essa, senza pregiudizio della salute eterna. Quanto poi a’ fanciulli, a cagion del pericolo di morte, che può accadere spesso, insegna che, siccome ad essi non si può venir in aiuto con altro rimedio se non col Sacramento del Battesimo, per mezzo del quale vengono sottratti alla schiavitù del demonio e adottati come figli di Dio, il sacro Battesimo non dev’essere differito, secondo la pratica di certuni, per quaranta oppure ottanta giorni o altro tempo, ma si deve conferire al più presto che è comodamente possibile; a condizione però che, se incombe il pericolo di morte, siano battezzati subito, senza differimento, anche da un laico o da una donna, nella forma della Chiesa, se manca il sacerdote, com’è contemplato più distesamente nel decreto per gli Armeni ».

(Mansi, XXXI, 1738 ss.).

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 luglio 1907, prop. 43 tra le condannate :

« L’usanza di conferire il Battesimo ai bambini derivò da un’evoluzione della disciplina, e fu una delle cause per le quali il Sacramento si sdoppia, cioè in Battesimo e Penitenza ».

(Acta Apost. Sedis, X L , 472).

DOMANDA 357a.

Concilio di Trento, Sess. V I I , De’ Sacramenti in generale, can. 7:

« Sia scomunicato chi afferma che i battezzati appunto per il Battesimo hanno l’obbligo unicamente della fede, ma non di osservare tutta quanta la legge di Cristo ».

DOMANDA 358a

Concilio di Cartagine: V. D. 74; Concilio di Firenze: V. D. 341.

Concilio di Trento, Sess. VII, Sul Battesimo, can. 5:

« Sia scomunicato chi afferma facoltativo il Battesimo, cioè non necessario per la salvezza ».

S. Cirillo di Gerusalemme, Catecheses, III, 10:

« Uno, se non riceve il Battesimo, non può aver salute, eccetto i soli martiri, che ricevono il regno anche senza l’acqua » .

(P. G., 33, 439).

DOMANDA 359a.

Innocenzo III, Epist. Majores Ecclesiae Causas (fine del 1201) a Umberto arcivescovo di Arles:

« La pena del peccato originale è la mancanza della vision di Dio, quella dell’attuale è il tormento della geenna perpetua…. » .

(Decretales Gregorii IX, 1. III, tit. 42, cap. 3).

Pio VI, Costit. Auctorem fìdei, 28 ag. 1794, prop. 26 tra le condannate, contro gli errori del Sinodo di Pistoia:

« È falsa, temeraria, ingiuriosa contro le scuole cattoliche la dottrina, la quale ci gabella, alla pari d’una storiella Pelagiana, quel luogo d’oltretomba (designato talvolta dai fedeli col nome di limbo de’ bambini) nel quale son punite colla pena del danno, senza quella del fuoco; le anime de’ morti con la sola colpa originale; come se per ciò stesso, che alcuni escludono la pena del fuoco, dimostrassero l’esistenza di quel luogo e stato scevro di colpa e pena tra mezzo al regno di Dio e alla dannazione eterna, come favoleggiavano i Pelagiani » .

(Bullarii Romani continuatio, 1. c. , 2711 ss.).

Pio IX: V. D. 162.

DOMANDA 360a.

Innocenzo II: V. D. 162.

S. Fulgenzio, De fide, 41:

« Da quando il Salvatore disse: Se uno non rinascerà dall’acqua e dallo Spirito Santo, non può entrar nel regno di Dio (Gio., III, 5). Non può alcuno ricevere il regno de’ cieli né la vita eterna, senza il Sacramento del Battesimo, tranne quelli che versano per Cristo il sangue nella Chiesa Cattolica. Perché sia nella Chiesa Cattolica, sia in qualunque eresia o scisma, chi riceve il Sacramento del Battesimo nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, riceve perfetto il Sacramento; ma non avrà la salvezza, che è virtù del Sacramento, se riceverà il Sacramento stesso fuori della Chiesa cattolica. Dunque ha da far ritorno alla Chiesa, non precisamente per ricever di nuovo il Sacramento del Battesimo, che nessuno deve rinnovare in un uomo battezzato, ma per ricevere nella società cattolica la vita eterna, perchè non può esser mai in grado di ottenerla, chi col Sacramento del Battesimo sia rimasto estraneo alla Chiesa cattolica ».

(P. L., 65, 692).

DOMANDA 363a.

Concilio II di Lione (1274), Professione di fede di Michele Paleologo:

« La medesima santa Romana Chiesa crede anche e insegna che son sette i Sacramenti ecclesiastici, vale a dire un solo Battesimo, e di esso s’è detto sopra; altro Sacramento è quello della Confermazione, che è conferito dai vescovi colla imposizion delle mani, cresimando i battezzati; un altro è la Penitenza, un altro l’Eucaristia, un altro il Sacramento dell’Ordine, un altro il Matrimonio, un altro l’Estrema Unzione, che, secondo la dottrina del beato Giacomo, s’adopera per gli infermi. Il Sacramento dell’Eucaristia la medesima Romana Chiesa lo forma col pane azimo, credendo e insegnando che nel Sacramento appunto il pane si transustanzia davvero nel corpo e il vino nel sangue del Signor nostro Gesù Cristo. Quanto poi al Matrimonio crede che non si permette che un solo marito abbia più mogli contemporaneamente, né una donna più mariti. Ma, sciolto il legittimo matrimonio per la morte dell’uno de’ coniugi, afferma che sono lecite successivamente le seconde e poi le terze nozze: purché non s’opponga per qualche ragione un altro impedimento canonico ».

(Mansi, XXIV, 71).

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

Il secondo sacramento è la Confermazione; e di esso materia è il crisma composto di olio, che significa la purezza di coscienza, e del balsamo, che significa il profumo della buona fama, benedetto dal vescovo. La forma poi è: Io ti segno della croce e ti confermo col crisma della salute nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Ordinario ministro è il vescovo. E, mentre un semplice sacerdote può compiere tutte l’altre unzioni, quest’altra non la deve conferire se non il vescovo: perchè si legge de’ soli Apostoli, de’ quali tengono le veci i vescovi, che davano lo Spirito Santo per mezzo dell’imposizione della mano, come fa chiaro il passo degli Atti degli Apostoli: Ora, avendo udito gli Apostoli, che erano in Gerusalemme, che Samaria aveva ricevuto la parola di Dio, mandarono là Pietro e Giovanni. E, com’essi vi giunsero, pregarono per loro perchè ricevessero lo Spirito Santo; non ancora infatti era sceso su alcuno di essi, ma soltanto eran stati battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano su di essi le mani e ricevevano lo Spirito Santo (Atti, VIII, 14 ss.). Orbene nella Chiesa si conferisce la Confermazione i n luogo di quella imposizion delle mani. Si legge tuttavia che qualche volta, con dispensa della Sede Apostolica, per causa ragionevole e assai urgente, un semplice sacerdote, consacrato il crisma dal Vescovo, amministrò con esso il Sacramento della Confermazione. L’effetto poi di questo Sacramento è che in esso è conferito lo Spirito Santo per rinvigorire, come fu dato agli Apostoli nel giorno della Pentecoste, affinchè il cristiano confessi coraggiosamente il nome di Cristo. E perciò il cresimando è unto sulla fronte, sede della timidezza, affinchè non arrossisca di professare il nome di Cristo e specialmente la Croce di lui, la quale è scandalo per i Giudei e per le Genti una stoltezza (ai Cor., I , 23), come dice l’Apostolo; perciò è segnato col segno della croce ».

(Mansi, XXXI, 1055 s.).

Concilio di Trento, sess. VII, Del Sacramento della Confermazione:

« Can. 1. Sia scomunicato chi afferma che la Confermazione dei battezzati è una cerimonia oziosa e non piuttosto un vero e proprio Sacramento, oppure che una volta fu nient’altro che un insegnamento catechistico, col quale i fanciulli vicini all’adolescenza esponevano in cospetto alla Chiesa la ragione della loro fede ».

« Can. 2. Sia scomunicato chi afferma che fanno ingiuria allo Spirito Santo coloro i quali attribuiscono qualche virtù al sacro crisma della Confermazione ».

« Can. 3. Sia scomunicato chi afferma che l’ordinario ministro della santa Confermazione non è solamente il Vescovo, ma qualsiasi semplice sacerdote ».

Innocenzo III, Epist. Cum venisset, 25 febbr. 1204, ad Basili um archiep. Trinovitanum:

« L’imposizione della mano, che con altro nome si chiama Confermazione, è designata per mezzo dell’unzione della fronte, perché per mezzo di essa è dato lo Spirito Santo ad aumento e irrobustimento. Onde, mentre un semplice sacerdote o presbitero può compiere tutte l’altre unzioni, questa non la può conferire se non il sommo sacerdote cioè il vescovo, perché dei soli Apostoli, di cui i vescovi son vicari, si legge che comunicavano lo Spirito Santo per l’imposizione della mano

(Atti, VIII, 14 ss.) ».

(P. L., 215, 285).

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 luglio 1907, prop. 44 tra le condannate:

« Niente dimostra che il rito del Sacramento della Cresima sia stato introdotto dagli Apostoli; ma la formale distinzione tra i due Sacramenti, cioè Battesimo e Confermazione, non entra nella storia del cristianesimo primitivo ».

(Acta Apost. Sedis, XL, 473).

S. Cirillo di Gerusalemme, Catecheses, XXI, (mist. III), 3:

« Guardati dal sospettare che questo sia unguento nudo e crudo. Difatti come il pane dell’Eucaristia, dopo l’invocazione dello Spirito Santo, non è più pane ordinario, ma corpo di Cristo, così anche codesto santo unguento non è più unguento puro, o, se piace meglio dir così, comune, dopo l’invocazione, ma donativo di Cristo e dello Spirito Santo, divenuto efficace per presenza della sua divinità. Ed esso viene simbolicamente spalmato sulla fronte e sugli altri tuoi sensi. E, mentre il corpo è unto coll’unguento visibile, l’anima è santificata dal santo Spirito vivificatore ».

(P. G., 33, 1090 ss.).

S. Cirillo d’Alessandria, In Joel, 32:

« Ci è stata data, come pioggia, l’acqua vivace del sacro Battesimo e, come frumento, un pane vivo e, come vino, un sangue. S’è aggiunto similmente l’uso dell’olio, affinchè conferisse perfezione ai giustificati in Cristo per mezzo del santo Battesimo » .

(P. G., 71, 374).

LO SCUDO DELLA FEDE (141)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (8)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE VIII

Il Regno temporale de’ Papi.

46. Prot. Accordo dunque che al Papa veramente appartengono tutte quello sublimissime prerogative che egli si attribuisce come Capo Supremo visibile di tutta la Chiesa; ma egli non è di tutto questo contento: vuol’esser per di più anche Re temporale! Con ciò fa conoscere non esser più egli il degno vicario di Gesù Cristo, il quale non era al certo Re temporale, avendo chiaramente detto: « Il mio regno non è di questo mondo. » (Giov. XVIII, 36)

Bibbia. È scritto: « Quando (Gesù) fu vicino alla scesa del monte Oliveto, tutta la turba de’ discepoli cominciò lietamente a lodare il Signore,… dicendo: Benedetto il Re che viene nel nome del Signore. Ed alcuni de’ Farisei mescolati col popolo gli dissero: Maestro sgrida i tuoi discepoli. Ma egli rispose loro: « Vi dico che se questi taceranno grideranno le pietre. » (Luc. IX, 37 e segg.) E quelli che andavano innanzi, e quelli che venivano dietro sclamavano dicendo: Osanna: Benedetto colui che viene nel nome del Signore: benedetto il regno che viene del padre nostro Davide.3» (Marc. XI, 9-10). E una gran turba di gente…. gridavano: Osanna: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il Re d’Israele.» (Giov. XII. l2. 13.). – « Avendo i Principi de’ sacerdoti, e gli Scribi veduti i fanciulli che gridavano nel tempio: Osanna al figliuolo di David, arsero di sdegno, e dissero a lui: Senti tu quel che dicon costoro? E Gesù disse loro: Si certamente. Non avete mai letto: dalla bocca dei fanciulli, e dei bambini di latte hai renduta perfetta laude? » (Matt. XXI, 10, 13, 16). – Ora è certo che gli Ebrei aspettavano il Messia come restauratore del trono di Davidde, del regno d’Israele: cosicché i medesimi Apostoli, anche dopo la risurrezione del Redentore, erano persuasi che Egli ciò far dovesse per compimento della sua divina missione. «Unitisi insieme gli domandavano dicendo: Signore, renderai tu, adesso il regno ad Israele? » (Att. I. 6.) Quindi è certo, che qual Re temporale fu acclamato dai discepoli, dalle turbe, e dai bambini nel tempio. 2.° Che in questo senso reclamarono i Scribi e i Principi dei sacerdoti. 3.° Che Gesù nel senso Medesimo approvò quelle acclamazioni (non avendo fatto dichiarazione in contrario), e rintuzzò le grida de’ suoi nemici. Tutto questo chiaramente apparisce dai testi citati. Come poteva dunque Gesù diportarsi in tal modo, se non fosse stato realmente quale era da tanti acclamato? Poteva mai egli approvare, ratificare una falsita? No certamente. Ma egli ha detto: « Il mio regno non è di questo mondo. » Ciò avrebbe forza se lo avesse detto quando fu acclamato Re d’Israele; ma l’averlo detto davanti a Pilato, rende il caso molto diverso. Quindi per conoscere il vero senso di queste parole, è d’uopo riandare il fatto colle sue circostanze.

47. « Lo condussero a Pilato, e. cominciarono ad accusarlo dicendo: Abbiamo trovato costui che seduce la nostra gente, e proibisce di pagare il tributo a Cesare, e dice di esser egli il Cristo Re. » (Luc. XXIII, 1, 2, 3) « Entrò dunque di nuovo Pilato nel pretorio, e chiamò Gesù e gli disse: Sei tu dunque il Re dei Giudei? » (Giov. XVIII, 33 e segg.).

Ognuno vede dalla qualità dell’accusa, che la domanda fatta da Pilato non riguardava il diritto di Gesù, tanto più che era noto a tutti, né l’ignorava Pilato, esser egli il discendente di Davide, ma riguardava unicamente il fatto di cui era accusato, cioè se fosse vero che avesse tramato di togliere a’ Romani il regno dei Giudei, per mettersi Egli stesso in trono come loro Re. Questo e non altro dichiara Gesù non esser vero, essere una pretta calunnia dei suoi nemici, dicendo a Pilato: « Dici tu questo da te stesso, ovvero altri te lo hanno detto di me? » Vedendo Pilato la falsità dell’accusa, ne rovescia tutta la responsabilità sopra li accusatori, dicendogli: « Son’io forse Giudeo? La tua nazione, e i Pontefici ti hanno messo nelle mie mani: che hai tu fatto? » Sventata cosi la calunnia, Gesù risponde: « Il mio regno non è di questo mondo: se fosse di questo mondo il mio regno, i miei ministri certamente contrasterebbero, affinché non fossi dato in poter dei Giudei: ora poi il mio regno non è di qua. » Con tal dichiarazione primieramente Gesù torna a negare il fatto di cui era accusato, adducendo la forte ragione che, se ciò fosse vero; avrebbe avuto ministri in sua difesa contro i Giudei. Secondariamente conferma di nuovo il suo diritto, di esser cioè vero Re temporale; poiché non dice: Il mio regno non è in questo mondo, non è qui – ma dice – non è dì questo mondo, non è di qua: il che vuol dire che non appartiene al mondo, non lo ha, non lo riconosce dal mondo: nel modo stesso che se uno ti dicesse, questo libro, per esempio, non è di te, da te, verrebbe a dire che non è tuo, non lo riconosce da te, non te ne ha obbligo alcuno. Ed infatti, Gesù Cristo considerato come Dio è il Signore assoluto dell’universo, tutto è suo: e considerato come uomo il suo regno lo ha come discendente di Davide, il quale non lo ebbe dagli uomini, ma unicamente immediatamente da Dio; onde non ne ha verun obbligo al mondo. Che Gesù in questo senso parlasse è tanto vero, che Pilato medesimo così precisamente l’intese, e perciò tornò a dirgli: « Tu dunque sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici che io sono re. La qual risposta nella parola di Dio è affermativa, ed equivale a questa: Tu hai colto nel segno, è così. – Oltre a ciò è scritto : « Si accostarono a Pietro quelli che riscuotevano le due dramme, e gli dissero: Il vostro Maestro non paga egli le due dramme?… Ed entrato (Pietro) in casa, Gesù lo prevenne, e gli disse: Che te ne pare, o Simone? Da chi ricevono il tributo, o il censo i re della terra? Da’ propri figliuoli. o dagli estranei? Dagli estranei, rispose Pietro: E Gesù soggiunsegli: Dunque esenti sono i figliuoli. Con tutto ciò, per non recare ad essi scandalo, va’…. e paga per me e per te.1 » ( Matt. XVII, 23 e segg.). Ecco dunque che Gesù dichiara nel modo più preciso e formale di non essere obbligato a pagare il tributo, appoggiandosi alla ragione che a ciò obbligati non sono i figliuoli dei re non estranei, ossia i figliuoli dei re esistenti nel proprio regno; e per tal modo formalmente dichiara che Egli è figlio di re, e quindi che è vero Re temporale, e che ivi era nel proprio suo regno. Che poi col fatto non abbia voluto esser Re, ciò non impedisce che possa esserlo il suo Vicario; poiché non solo non ne ha fatto proibizione di sorta, che anzi volle a questo regno espressamente alludere, allorché dopo l’ultima Cena, comandò agli Apostoli di prender seco loro due spade, (Luc. XXII, 51), le quali, se ben rifletti, non poterono avere altro oggetto, altro significato che il doppio regno della sua Chiesa, spirituale, cioè, temporale. ,,

48. Prot. Ad ogni modo, se Gesù Cristo non volle esser Re, il Papa non può esserlo, se deve rappresentar Gesù Cristo.

Bibbia. Questa ragione a nulla vale; perché il Papa non rappresenta Gesù Cristo mortale, paziente, ma lo rappresenta già glorioso, trionfante, che « ha scritto sulla veste e sopra il suo fianco: Re de’ Re e padrone di coloro che imperano: » (Apoc. XIX, 16) Quindi non vi è inconvenienza di sorta, e molto meno peccato, anzi è del tutto conveniente che il suo Rappresentante sottoposto non sia agli umani capricci, che abbia un piccolo regno per la necessaria sua indipendenza. Di più, se questo regno è di vantaggio per la Religione, non solamente può averlo, ma avendolo non lo può rinunziare, perché è obbligato a profittare pel vantaggio della fede di tutti quei mezzi che la Divina Provvidenza gli somministra.

49. Prot. In verun modo può dirsi somministrato dalla Provvidenza Divina un mezzo indecente al sacerdozio, incompatibile col sacro Ministro, e del quale, perciò, mai si è dato esempio.

Bibbia. Davvero? Melchisedech, rappresentante in figura Gesù Cristo, era Gran Sacerdote e Re temporale.2 (Gen. XIV, 18). Noè, Giobbe. Abramo, Isacco, Giacobbe presiedevano ai loro sottoposti nello spirituale e nel temporale. Mosè fu sovrano temporale e Sommo Pontefice. (Esod. XVIII, 13 – XX. 11. e seg. – Levit. VIII. 1. e seg). Heli Sommo Pontefice « fu giudice d’Israele per quarant’anni » (I. Re, IV, 18) cioè fin che visse. Lo stesso dicasi di Giuda Maccabeo, e di tutti i suoi successori sino ad Erode, e di moltissimi altri prima di essi. Nel principio della Cristiana Chiesa, quando i fedeli mettevano i loro beni in comune, portandone il prezzo a’ piedi degli Apostoli. S. Pietro, che certamente ben conosceva gli insegnamenti e le intenzioni del Redentore, ne era il supremo depositario e dispensatore, governava i fedeli anche nel temporale, e con tale un’autorità, che col soffio potente di sua parola colpì di morte Anania e Saffira, perché convinti di menzogna circa il prezzo di un loro podere venduto. (Act. IV, V) Sicché, sebben S. Pietro non fosse in rigor di termine re temporale,, stando però al fatto, alla sostanza, è certo che sopra i fedeli temporalmente regnava, e quindi in qualche modo può dirsi che il primo Papa dei Cristiani ne fu anche il primo Re.

50. Prot. Io mi ritratto: la penso come voi: eccovi adesso i veri miei sentimenti. « Qualunque sia l’opinione che si possa avere sul governo ecclesiastico nello Stato della Chiesa, non si può tuttavia negare il fatto che da oltre mille anni tutti gli sforzi, e tutte le lotte de’ Bisantini e dei Longobardi, degli Imperatori di Germania e dei Re di Francia, dei Crescenzi e de’ Cola di Renzo; tutte le occupazioni di Roma fatte da eserciti stranieri, tutte le rivoluzioni aristocratiche e democratiche succedute in quella città, e gli esilii, e gli imprigionamenti, e le uccisioni de’ Papi, non hanno recato mutamento radicale nello Stato del Patrimonio di S. Pietro: lo hanno aumentato, non già diminuito. » Ferrara, per esempio, è un acquisto piuttosto recente dello Stato Pontificio. Questo cotanto mirabil carattere di durazione dello Stato della Chiesa, si spiega molto facilmente mercé il carattere storico e universale della Chiesa Romana. Questa Chiesa non può esser dipendente da un Monarca laico, come lo è la Chiesa Bizantina. Accadde da ciò, che durante il medio evo, fino a tanto che non vi era che aa solo Imperatore, essa si trovava in opposizione con lui. Ma dacché accanto dell’Impero Germanico la Francia, e più tardi la Spagna si elevarono al grado di grandi potenze Cattoliche indipendenti, egli divenne affatto impossibile di secolarizzare lo Stato della Chiesa, e dì far del Papa un suddito di un principe laico, perché se l’uno avesse tentato di renderlo suo suddito, li altri non lo avrebbero permesso. – Né lo Stato Pontificio può essere essenzialmente diminuito e circoscritto alla città di Roma e contorni, perché allora sarebbe assolutamente troppo debole riguardo ai suoi vicini. Ora siccome lo Stato della Chiesa è una condizione dell’esistenza dell’UNITÀ CATTOLICA, e poiché alcune grandi potenze e popoli latini quasi senza eccezione, i tedeschi in gran parte, e gli slavi, sebbene in minor numero, sono Cattolici ed appartengono a quella UNITÀ INCROLLABILE, perciò lo Stato della Chiesa continuerà ad esistere ad onta delle idee … ad onta di tutti i congressi, ad onta di tutti i MAZZINI e i GARIBALDI…. e ad onta di tutte le LAGNANZE degli ACATTOLICI TEDESCHI e INGLESI. » (Il protestante signor Volfango Menzel, nel sao Giornale di Letteratura: n. 90. Vedi il Cattolico (giornale) di Genova. 8 Genn. 1860. n. 3038). « Se tutti gli imperatori, re, principi e cavalieri della cristianità dovessero far valere i titoli, per cui giunsero al potere, il gran Pontefice di Roma ornato della sua triplice corona potrebbe benedirli tutti, e dir loro: Senza di me voi non sareste divenuti ciò che siete. I Papi hanno salvato l’antichità, e Roma merita di restare il Santuario pacifico, dove si conservano tutti i preziosi tesori del Papato. » (Herder, Filosofia della Storia). – « Gli avvenimenti dello Stato Pontificio…. toccano gli interessi ecclesiastici di tutto il mondo. La Chiesa Cattolica non è Chiesa provinciale, né nazionale: più antica di qualsiasi, formazione di Stati  dell’antico e del nuovo mondo, le sue istituzioni si sentono superiori ai confini ed ai poteri degli Stati, ed onorano nel Vescovo di Roma il loro Capo Supremo. La dipendenza di questo Vescovo da qualsiasi potenza temporale, porrebbe in pericolo la stessa indipendenza della Chiesa Cattolica. Le più importanti cose da essa operate, qual potenza religiosa e incivilitrice, sono dovute alla sua indipendenza dal poter temporale. La Chiesa non può abbandonare tale indipendenza, se non vuol esser tratta in mezzo a’ mutabili avvenimenti, principii ed aspetti politici, e risentire danni incalcolabili. La residenza del Capo Supremo della Cristianità in paese che non è unitario, ed il potere temporale del Papa sono le guarantigie dell’indipendenza di questo Capo Supremo, e di tutta la Chiesa Cattolica. » (Cosi il giornale protestante La Spener’sehe zeit: 1830. Ved, La Civiltà Cattolica: 19 Novemb. 1839. nella nota.).

61. Bibbia. Mi hanno fatto non buona impressione quelle tue prime parole: – Qualunque sia l’opinione che si possa avere sul governo ecclesiastico, etc. Forse il Papa governa male i suoi sudditi?… Che ne dice il mondo? Tu che ne pensi?

Prot. « Ho letto la settimana passata’ ne’ pubblici fogli che gli Stati del Papa sono i peggio amministrati di tutta l’Europa. Questa proposizione l’aveva letta già per lo innanzi moltissime volte, ma in che consista precisamente questa cattiva amministrazione, o come si dice – questo dispotismo papale, – e sin dove si estenda, ecco, vel confesso, ciò che non riesco a ben capire. – I nostri editori di giornali, e i nostri pubblicisti che si danno pena d’illuminarci, non si degnano poi di scendere alle particolarità che chiamano volgari. Tuttavia dee esser permesso ad un uomo del volgo d’indirizzar loro qualche domanda. – Domanderò adunque, in che consista definitivamente questo dispotismo del governo papale? Si è forse perché gli ecclesiastici vi compiono funzioni pubbliche? Ma durante parecchi anni vi ebbero in Roma assai meno ecclesiastici in funzione che in alcuni Stati della nostra Unione Americana, e i loro stipendi erano di molto inferiori a quelli dei secolari. – Si è forse perché il governo spende troppo? Ma il governo Pontificio è uno dei più economici di Europa. Gli stipendi degli alti funzionari non oltrepassano i 3mila dollari per anno, e tutta la lista civile ascende a circa 600mila dollari. – Il popolo vi e forse aggravato d’imposte? A Roma le imposte sono molto inferiori a quelle d’Inghilterra, di Francia e di Nuova York. – I Romani sono privi de’ benefizi dell’educazione? Gli Stati del Papa, con una popolazione minore di tre milioni, possiedono parecchie università, e fatta la proporzione col numero degli abitanti, la città di Roma ha essa sola più scuole libere che quelle di Nuova York. E d’altra parte, ciò che più importa, queste scuole frequentate sono da un numero ben più grande e considerabile di fanciulli. – Forse in Roma non si ha cura del povero, e non si bada ad alleviarne le pene e le miserie? A Roma, fatta sempre la proporzione colla popolazione, gli ospedali pubblici per gli ammalati, per gli indigenti, pei vecchi, per gli infelici di ogni specie, sono più numerosi e meglio tenuti che in qualunque altra città del mondo. Per ospitare le persone in queste case non si chiede loro né la patria a cui appartengono, né la religione che professano. – Ma forse questo detestabile governo papale ha ridotto il popolo alla povertà? A questo io rispondo che l’Olanda, la Francia e qualche altra nazione libera e illuminata racchiudono da tre a dieci volte più poveri che Roma. – Dove è dunque questo detestabile dispotismo? Il governo è una monarchia elettiva: vi si trova un regime dolce, pesi leggieri, pochissimi poveri, un’amministrazione economica, un’istruzione libera e a buon mercato per tutte le classi della società; infine gran numero d’istituzioni caritatevoli destinate ai bisognosi ed ai sofferenti. – Ardisco affermare che la sola città di Nuova York paga più imposte, prova maggiori perdite per l’infedeltà dei suoi funzionari, ha più di poveri da soccorrere, racchiude più figli senza istruzione, dee subire il triste spettacolo di più persone che si danno all’ubriachezza, al vizio, ad ogni maniera di depravazione, che noi chiamiamo rowdyism, in una parola, più di delitti che non ve ne siano in mezzo a tre milioni incirca degli abitanti degli Stati della Chiesa. » (Lettera del protestante sig. Taylor, stampata teste nel giornale americano il New York Mercuri. Vedi l’Armonia, etc. di Torino, 2 Agosto 1860. n. 179)

52. Bibbia. Se così è, perché mai tante grida, tante insidie, tante rivoluzioni, calunnie e persecuzioni contro il governo temporale del Papa?

Prot. « La persecuzione ordita contro la Chiesa per mano di apostati, tra cui ve ne ha di tali che si vorrebbero eziandio spacciare per credenti! va pigliando tuttora incrementi novelli, e se nulla veggiamo negli indizi che ci porgono i tempi, questa persecuzione riuscirà tosto o tardi ad un macello spaventevole. La rivoluzione non è mai che pigli di mira le cose temporali soltanto, ma tiene inteso l’occhio perpetuamente all’ordine divino. Inoltre ella dirige da principio li suoi assalti contro la Chiesa, e solo più tardi fulmina colle sue batterie i re, i principi, i ricchi e le classi dei possidenti.  

« Ma in genere i possenti della terra sono ciechi in quel che si attiene a questi primi cominciamenti della rivoluzione, e tale accecamento spingono tant’oltre da favorire la rivolta, scavandosi così una tomba che tranghiottirà i loro propri diritti. Si direbbe talvolta, vedendoli tenere una simile condotta, che per mezzo di cotali favori intendono rifarsi presso la rivoluzione della perdita dei loro diritti medesimi. I più furiosi assalti dei rivoluzionari han sempre per segno quel potere tra i poteri temporali che invoca, mentre pur vi si appoggia, il diritto del Dio vivente che ammette i diritti della Chiesa del Cristo.

« Volgiamo primieramente gli sguardi all’Italia. La persecuzione quivi, già son molti anni, organata dal governo Piemontese contro la Chiesa, ha soprattutto, io nol niego, per iscopo la forma esteriore di essa Chiesa, cioè, i beni ecclesiastici, il dominio temporale del Papa; ma in verità l’assalto è mosso contro il potere spirituale nascosto sotto quella estrinseca forma. Ora pelle genti cattoliche il potere spirituale dimora in questo segnatamente, che il Papa è Vicario del Cristo. E contro appunto il dominio del Cristo si scatenano i nostri cattolici (?) nell’irrompere che essi fanno contro la dominazione del Papa, eziandio temporale. Chiunque ripudia il Papa, ripudia il Cristo: adunque nessun’altra alternativa più rimane ai Cattolici, se non l’ammettere il Papa e il Cristo, o il non ammettere né Papa, né Cristo.

« Chi pigli la norma dalle condizioni presenti, quali lo han partorite, i capi politici dappoi mille anni, non che indotto, si trova irresistibilmente necessitato a non riconoscere come depositario della piena autorità apostolica un Papa, che dipendesse politicamente da un altro Monarca.

« …. E collo scopo medesimo di tutelare il dominio temporale del Papa, vediamo levarsi come un sol uomo non l’alto Clero soltanto, ossia l’Episcopato, ma pur anco (fatte pochissime eccezioni) il Clero in universale, armato del soccorso delle lettere pastorali e della preghiera; per questo medesimo fine il popolo dico prende così a petto l’opera del Danaro di S. Pietro; e per questo ancora drappelli di guerrieri magnanimi, con a capo il valoroso Lamoricier, tolgono in mano la spada della difesa.

« La Chiesa Cattolica, e nessuno lo disconosce, geme per ora in una profonda costernazione. Se nondimeno il Papa esce da strette così difficili, aiutatovi dai propri suoi mezzi, e da quelli che il mondo cattolico gli ha spontaneamente fornito, gioverà questo a dare all’elemento rivoluzionario una tale disfatta, quale non ha egli sofferto mai da tutte le violenti repressioni adoperate dopo il 1848, e d’altra parte un simile evento sarà per la Chiesa un mezzo di consolazione sì viva che altrettanta ella non ne ha più sentito da cinquecento anni al dì d’oggi.

« Quanto a noi troppo saremmo lontani dall’esultare per la decadenza del Papa e del suo poter temporale, perché non è già la Chiesa protestante quella in cui prò tornerebbe una tal caduta, ma unicamente la sua caricatura, la negazione, la mogia incredulità, e la folla stupida di coloro, che nel voler essere in voce di uomini di fede, si precipitano nelle braccia della crassa empietà e del suicidio morale, nelle braccia degli insensati protestanti dell’Inghilterra, dell’alleanza evangelica, degli iscritti al partito della Gazzetta Ecclesiastica, e di tutta la borra e il pattume della stessa specie. – Se anche qui e colà, alcuni membri della Chiesa protestante, benché animati dal vero spirito clericale, han manifestato la speranza che il decadimento del Papa recherà il trionfo della Chiesa protestante (nel che ci muovono a pietà del fatto loro), essi ci porgono in questo una prova d’imbecillità politica e religiosa, la quale è tutt’altro che convenevole per la nostra Chiesa. » (Cosi il celebre protestante prof. Leo d’Halle, nel suo giornale intitolato: Volh’shlat zur stadt und land, 1860. Vedi l’Armonia suddetta, 6 Ottobre 1860. n. 233.). « L’integrità degli Stati Romani deve essere considerata come l’elemento essenziale dell’indipendenza politica della penisola italiana. Nessuna invasione del territorio di questi Stati potrebbe avvenire, senza condurre a risultati di grande gravità e di’ grande importanza. » (Lord Palmerston Ministro Inglese; Nota a Lord Ponsomoby ambasciatore a Vienna – 11 sett.1847). « Qualunque cosa avvenga, il Papa ci sarà sempre imposto dall’Europa, sotto qualunque titolo si sia. Gli uomini di stato d’Inghilterra non accetteranno mai l’esautorazione del Papa. (Il medesimo, Risposta alla repubblica romana nel 1849, che domandava l’intervento dell’Inghilterra per distruggere il regno temporale del Papa. Vedi il Cattolico di Genova, 3 dic. 1859).

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (23)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (23)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 189a.

Concilio di Trento, sess. VI, Decretum de justificatione, cap. II:

« Ma nessuno, per quanto giustificato si deve credere dispensato dall’osservanza de’ comandamenti; nessuno deve servirsi di quella parola temeraria e proibita sotto scomunica dai Padri: che l’osservanza dei comandamenti di Dio è impossibile per un uomo giustificato. Difatti Dio non comanda cose impossibili, ma quando comanda ammonisce di far ciò che puoi e di domandare quel che non puoi e aiuta affinché tu possa, perché i suoi comandi non sono pesanti (Gio. V, 3) e il suo giogo è soave e leggero il peso (Matt. XI, 30). « Infatti quelli che son figli di Dio amano Cristo; ora quelli che lo amano, come attesta Egli stesso, osservano la sua parola (Gio. XIV, 23), cosa che senza dubbio possono praticare coll’aiuto divino ».

DOMANDA 196a.

S. Giovanni Damasceno, De imaginibus, II, 5:

« Saremmo davvero in errore se di Dio, pur invisibile, ci formassimo una immagine, poiché ciò che non è corporeo, né visibile, né circoscritto, né limitato da contorni, non può essere affatto dipinto. Così pure agiremmo empiamente se giudicassimo che sieno dei le immagini degli uomini da noi formate e ad esse attribuissimo onori divini come a divinità. Ma noi non ammettiamo niente di tutto ciò ».

( P . G., 94, 1287).

I l medesimo, ibid., I l i , 4 1 :

« Adoriamo un solo creatore e artefice delle cose, Dio, al quale dobbiamo culto di l a t r i a , come a Dio che dev’essere adorato per sua natura. Veneriamo anche la SS.ma Madre di Dio, non come Dio, ma come madre di Dio secondo la carne. Inoltre veneriamo i Santi come eletti e amici di Dio, ai quali è agevole l’intercessione presso di Lui » .

( P . G., 94, 1358).

DOMANDA 197a.

Concilio II. di Nicea (787), De sacris imaginibus, …. seduta VII:

« Sulla traccia, per così dire, d’un regal sentiero e seguendo il magistero divinamente ispirato dei santi nostri Padri e la tradizione della Chiesa cattolica (difatti sappiamo che essa è dello Spirito Santo, il quale certamente abita in essa) definiamo con ogni certezza e sollecitudine che devono in modo conveniente proporsi al culto, sia la figura della Croce preziosa e salutare, sia le iMmagini venerabili e sante, tanto quelle dipinte e a mosaico, quanto quelle di altra materia nelle sante chiese di Dio e sui sacri vasi e vesti e sulle pareti e le tavolette e nelle case e nelle vie; vale a dire tanto l’immagine di nostro Signore Dio e Salvatore Gesù Cristo, quanto dell’Immacolata Madre di Dio signora nostra e dei venerabili Angeli e di tutti i Santi insieme e degli uomini virtuosi. Difatti, quanto più frequentemente si contemplano attraverso l’immagine, tanto più alacremente ci si sente elevati al ricordo e al desiderio di essi, a baciarli e tributar loro l’adorazione d’onore, non tuttavia la vera latria, che secondo la fede spetta e conviene soltanto alla natura divina: di maniera che ad esse, come alla figura della preziosa Croce salvatrice, e ai santi vangeli e agli altri sacri monumenti si faccia pure offerta d’incenso e di lumi per omaggio d’onore. Tal’era il pio costume anche degli antichi. L’onore tributato all’immagine risale infatti al raffigurato; e chi venera un’immagine, venera in essa la persona del rappresentato…. Quelli dunque, che osano pensare o insegnare diversamente, o disprezzare da veri ed empii eretici le tradizioni ecclesiastiche ed escogitare ogni genere di novità, oppure rifiutare le cose destinate al culto in Chiesa, per esempio il Vangelo, la rappresentazione della Croce, una immagine dipinta, le sacre reliquie d’un martire, oppure escogitare con malizia o astuzia di abolire qualcuna delle legittime tradizioni della Chiesa Cattolica; oppure servirsi profanamente de’ sacri vasi o de’ venerandi monasteri, se sono Vescovi o chierici, ordiniamo che siano deposti; se monaci o laici, che siano separati dalla comunità ».

(Mansi, XIII, 378).

Concilio di Trento: Vedi D. 174.

DOMANDA 198a.

Concilio di Nicea. Vedi D. 197; Concilio di Trento, D.174.

S. Cirillo d’Alessandria, In Psalm., CXIII, 16:

« Facciamo pure le immagini degli uomini santi, ma non per adorarle come divinità, bensì per sentirci spinti dalla loro contemplazione alla imitazione di essi; ora noi ci rappresentiamo l’immagine di Cristo allo scopo di eccitare l’anima nostra all’amore di lui ».

DOMANDA 213a.

Pio XI, Encicl. Divini illius Magistri, 31 dic. 1929:

« Il compito di educare non è proprio dei singoli uomini, ma necessariamente della società. Ora si contano tre sorta di società necessarie, distinte tra di loro, ma, per volere di Dio, armonicamente unite, alle quali l’uomo viene inscritto dalla sua nascita: due di esse di ordine naturale cioè la domestica e la civile; e una terza, cioè la Chiesa, di ordine soprannaturale. Viene in primo luogo la famiglia la quale, poiché è stata stabilita e preparata da Dio stesso allo scopo preciso di procrear la prole e di curarne l’educazione, ‘precede, di natura sua, e perciò con propri diritti, la società civile. Però la famiglia è società imperfetta per il fatto che non ha tutti i mezzi per raggiungere con perfezione il suo nobilissimo fine; invece la società civile possedendo tutti i mezzi necessari pel suo fine, vale a dire per il comune benessere di questa vita, è società in tutto completa e perfetta e quindi, per questo rispetto, superiore alla famiglia, che solamente nel consorzio civile può adempiere convenientemente e sicuramente il suo compito. La terza società finalmente, nella quale gli uomini, per via del Battesimo, fanno ingresso alla vita della divina grazia, è la Chiesa: società precisamente soprannaturale, che abbraccia tutto quanto il genere umano, in sè perfetta, perchè possiede ogni mezzo pel suo fine, cioè l’eterna salvezza degli uomini; perciò, nel suo ordine, suprema. « Ne consegue che l’educazione, la quale investe intero l’uomo, considerato sia come individuo sia come partecipe della società umana, sia nell’ordine di natura sia nell’ordine della grazia divina, appartiene, in proporzioni rispettive a norma del presente stato costituito da Dio, a queste tre società necessarie, conformemente al fine proprio di ciascuna. « E in primo luogo essa spetta alla Chiesa in linea di preferenza, per il duplice titolo di ordine soprannaturale, a lei soltanto da Dio conferito e quindi più eccellente e più valido affatto di qualsiasi altro titolo d’ordine naturale. « La prima ragione di tal diritto risiede nella suprema autorità e missione d’insegnamento, alla medesima conferita dal divin Fondatore deUa Chiesa con queste precise parole: A me fu dato ogni potere nel cielo e sulla terra. Andate dunque e istruite tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre del Figliolo e dello Spirito Santo: insegnando loro a osservare tutti i miei comandamenti. Ed ecco io sono con voi ogni giorno fino alla fine del mondo. (Matth. XXVIII, 18-20). A questo magistero Cristo Signore assicurò l’immunità dall’errore insieme coll’incarico d’insegnare a tutti la sua dottrina; perciò la Chiesa « fu costituita dal suo divin Fondatore come colonna e fondamento della verità, affinchè insegni a tutti gli uomini la fede divina e custodisca integro e inviolato il deposito suo, a lei affidato, e guidi e informi gli uomini e le loro associazioni e azioni all’onestà de’ costumi e all’integrità della vita, secondo la norma della dottrina rivelata. (Pio IX, Encicl. Cum non sine, 14 luglio 1864). – « L’altra ragione del diritto sgorga da quel mandato soprannaturale di madre, in forza del quale la Chiesa, purissima sposa di Cristo, largisce agli uomini la vita della divina grazia e l’alimenta e accresce co’ suoi sacramenti e precetti. Giustamente dice S. Agostino: « Non avrà Dio per padre chi non vorrà per madre la Chiesa » . {De Symbolo ad cathech., XIII). – « Orbene « Dio stesso fece partecipe la Chiesa del divin magistero e inoltre infallibile, per divin suo dono » in tutte le cose, che cadono sotto il suo mandato di educare, cioè « nella fede e nella formazione de’ costumi; perciò essa è la più grande e sicura maestra degli uomini e possiede diritto inviolabile alla libertà del magistero » (Leone XIII, Encicl. Libertas, 20 giugno 1888). Conseguenza necessaria è che la Chiesa non sia soggetta ad alcuna potestà terrena, come nell’origine, così nell’esercizio della sua missione di educare, tanto in materia spettante al suo proprio ufficio quanto nelle cose necessarie o consentanee ad adempirlo. Quindi, rispetto ad ogni altra disciplina e insegnamento umano, per sè stesso di diritto comune a tutti, cioè de’ singoli cittadini e della società stessa, la Chiesa ha facoltà, non soggetta per nulla a qualsiasi potestà, di giovarsene e soprattutto di giudicarne, in quanto sembrano proprio conferire od opporsi alla cristiana educazione. Tanto può la Chiesa sia perchè, essendo società perfetta, è indipendente nella scelta e nell’applicazione delle difese e de’ sussidii, che giovano al suo fine; sia perchè ogni dottrina e istituzione, come ogni azione umana, dipende necessariamente dal fine ultimo e perciò non può non andar soggetta alle prescrizioni della legge divina, di cui la Chiesa è proprio l’infallibile custode, interprete e maestra ».

(Acta Apost. Sedis, XXII, 52 ss.).

DOMANDA 214.a

Leone XIII, Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885:

« Così davvero il rispetto de’ cittadini circonderà con onore e volentieri la dignità del potere. Se infatti si saranno una buona volta persuasi che i governanti godono d’un’autorità conferita da Dio, capiranno davvero che son giusti doveri quelli di ottemperare ai reggitori e di tributare ossequio e fedeltà con una specie di riverenza, qual’è quella de’ figliuoli verso i genitori. Ogni spirito stia soggetto alle alte potestà (Ai Rom., XIII, 1). Sprezzare la legittima autorità, in qualunque persona sia costituita, davvero non è lecito più che resistere alla volontà divina; e chi vi resiste precipita a rovina volontaria. Chi resiste all’autorità resiste a una disposizione di Dio; ma chi resiste si cagiona da sè la dannazione. (Ai Rom., XIII, 2). Perciò negar obbedienza e provocare colla forza a sommossa il popolo è delitto di lesa maestà non soltanto umana, ma anche divina ».

(Acta Leonis XIII, V, 121-22).

DOMANDA 216a.

Leone X III, Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885 :

« Da ciò consegue che il pubblico potere per se stesso non è che da Dio. Infatti soltanto Dio è il più vero e il più grande padrone d’ogni cosa, al quale bisogna che si sottomettano e servano tutte le cose qualunque siano; di modo che chiunque ha diritto di comandare non lo riceve altronde se non dal supremo principe di tutto, Dio: Non c’è potere se non da Dio. (Ad Rom., XIII, 1) ».

(Ibid., 120).

S. Giovanni Crisostomo, In Epist. ad Romanos, XXIII, 1:

« E dimostrando che ciò è comandato a tutti anche ai sacerdoti e ai monaci e non soltanto ai secolari, fin da principio dichiara dicendo: Ogni anima sia soggetta alle alte potestà; anche se è un apostolo, un evangelista e un profeta o qualsiasi altro; e difatti questa soggezione non scalza la pietà. E non disse semplicemente: Obbedisca, ma stia soggetta. Ebbene la prima difesa di tale ordinamento, che s’accorda anche coi ragionamenti di fede, è che questi precetti provennero da Dio: Non c’è infatti potere, disse, se non da Dio. Che dici? Dunque ogni principe è ordinato da Dio? Non dico questo, risponde: e difatti, io non parlo ora dei singoli principi, ma dell’autorità in se stessa. Affermo che è disposizione della divina sapienza che ci siano principati e che gli uni comandino, gli altri stiano soggetti, e che ogni cosa non sia governata dal caso e senza disegno, come se i popoli fossero flutti sbattuti di qua e di là. Perciò non disse: Infatti non c’è principe se non da Dio; ma parla dell’autorità stessa dicendo: Infatti non c’è potere se non da Dio; quelli che veramente sono poteri, sono ordinati da Dio ».

(P. G., 60, 615).

DOMANDA 218a.

Leone XIII, Encicl. Rerum novarum, 15 maggio 1891:

« E primieramente tutto l’insegnamento religioso, di cui è interprete e custode la Chiesa, molto può giovare a metter d’accordo ricchi e proletari tra loro e unirli, vale a dire richiamando l’una e l’altra classe ai reciproci doveri e innanzi tutto quelli che derivano da giustizia. Obblighi di giustizia quanto al proletario e all’operaio sono questi: prestare integralmente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno in alcun modo alla roba, nè offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da fatti violenti, nè mai far sommossa; non far comunella coi delinquenti, che agitano ingannevolmente speranze esagerate e grosse promesse, cosa che cagiona di solito inutile pentimento e rovina dei beni. — Questi altri invece riguardano i ricchi e i padroni: non tenere gli operai alla stregua di schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana nobilitata per di più da quello che si chiama carattere cristiano. L’arte di guadagnare, se si segue l a ragione naturale e la filosofia cristiana, non è vergogna per un uomo, ma onore, perché fornisce una onesta possibilità di sostentamento. Davvero turpe e disumano è l’usar degli uomini come di cose per un guadagno, nè stimarli più di quanto valgano i loro nervi e le loro forze. Similmente si comanda di tener conto a riguardo dei proletari della religione e dei beni spirituali. Perciò entra nei doveri dei padroni di consentire che l’operaio abbia tempo sufficiente per la pietà: non esporlo ai lenocini delle corruttele e alla attrattive del male, nè distoglierlo per qualsiasi motivo dalla cura della famiglia e dall’amore del risparmio. Similmente non imporre opera superiore alle forze o di tal sorta che non convenga all’età e al sesso. Principalissimo tra i doveri dei padroni è dare a ciascuno la giusta mercede ».

(Acta Leonis XIII, XI, 110, 111).

DOMANDA 220a.

Leone XIII, Encicl. Quoad apostolici muneris, 28 dic. 1878:

« Se però talvolta accade che i capi esercitino a capriccio e oltre misura il potere pubblico, la dottrina della Chiesa cattolica non permette d’insorgere a proprio talento contro di essi, affinchè non si turbi sempre più la tranquillità dell’ordine e la società non ne subisca maggior danno. E se si arriverà a tal punto che non sorrida alcun’altra speranza di salvezza, essa insegna ad affrettare il rimedio coi meriti della cristiana pazienza e con incessanti preghiere a Dio. Che se la volontà dei legislatori e dei capi sanzionerà e comanderà cosa che ripugni alla legge divina o naturale, la dignità e il dovere del nome cristiano e inoltre la sentenza apostolica esigono che si debba obbedire prima a Dio che agli uomini ». (Atti, V, 29).

(Ibid., I, 177).

DOMANDA 226a.

Alessandro VII, Decr. 24 sett. 1665, prop. 2a , tra le condannate:

« Un cavaliere, provocato a duello, lo può accettare per non incorrere presso gli altri nel biasimo di viltà ».

(Du Plessis, 1. c., III, 11, 321).

Leone XIII, Lett. Pastoralis officii, 12 sett. 1891 ai Vescovi di Germania e d’Austria:

« L’una e l’altra legge divina, tanto quella eh’è stata promulgata col lume della ragione naturale, quanto quella promulgata nei libri sacri scritti sotto divina ispirazione, vieta rigorosamente che alcuno, tranne per ragione pubblica, uccida o ferisca un uomo, se non costretto dalla necessità per provvedere alla propria salvezza. Ma ehi provoca a duello o l’accetta, questo mira, e a ciò convergono le forze dell’animo suo, senza esser affatto costretto, a strappare la vita o almeno infligger ferite all’avversario. Inoltre, l’una e l’altra legge divina proibisce che nessuno faccia getto spensierato della sua vita, esponendola a rischio grave e manifesto, quando nessuna ragione di dovere o di carità magnanima lo consiglia; ma questa cieca temerità, disprezzatrice della vita, è nella natura appunto del duello. Perciò non è possibile che sia dubbio per chicchessia o cosa oscura che sopra coloro, i quali fanno duello, ricade il duplice delitto dell’altrui uccisione e del rischio volontario della propria vita. Finalmente, non c’è peste più avversa alla disciplina del vivere civile e che rovini il retto ordinamento della nazione quanto permettere ai cittadini che si eriga ciascuno rivendicatore, privatamente e colla violenza, del diritto e dell’onore, che reputi violato».

(Acta Leonis XIII, XI, 284).

DOMANDA 229a.

Pio XI, Encicl. Divini illius Magistri, 31 dic. 1929:

« Ma molto più disastrose son le dottrine ed opinioni intorno al seguire in tutto, per guida, la natura: esse s’intrufolano in una parte scabrosa dell’educazione umana, cioè in quella che concerne l’integrità de’ costumi e la castità. Molti infatti di tanto in tanto tengono e promuovono con stoltezza e con rischio un metodo di educazione, ch’è detta sfacciatamente sessuale, stimando falsamente di potere, con mezzi puramente naturali e con un qualsiasi presidio di religione e di devozione soltanto, preservare i giovani dei piacere e dalla lussuria vale a dire iniziando e istruendo, anche in pubblico, tutti costoro, senza distinzione di sesso, con insegnamenti lubrici, o peggio esponendoli per tempo alle occasioni, affinchè l’animo loro, assuefatto — com’essi cianciano — a siffatti incontri, incallisca, per così dire, contro i pericoli della pubertà ».

(Acta Apost. Sedis, XXII, 71).

DOMANDA 258a

Concilio IV di Laterano (1215), cap. 21: Del dovere della Confessione…. e di comunicarsi almeno alla Pasqua.

« Ogni fedele dell’uno e dell’altro sesso, giunto agli anni della discrezione, confessi lealmente al proprio sacerdote almeno una volta all’anno tutti i suoi peccati da solo a solo e cerchi di adempiere secondo le proprie forze la imposta penitenza, ricevendo con pietà il sacramento dell’Eucaristia almeno alla Pasqua, a meno che dietro consiglio del proprio sacerdote giudichi per qualche ragionevole motivo di astenersene per qualche tempo: altrimenti da vivo gli sia impedito di entrare alla Chiesa e in morte sia privato della sepoltura cristiana. Perciò questa norma salutare sia spesso annunciata nelle chiese, affinchè nessuno possa mettere innanzi la scusa dell’ignoranza. Ma se qualcuno vorrà, per giusto motivo, confessare i suoi peccati a un sacerdote forestiero prima chieda e ottenga licenza dal proprio sacerdote, altrimenti questi non lo potrebbe assolvere o legare. Ma il sacerdote sia discreto e cauto, sicché, da buon medico, infonda vino e olio sopra le piaghe del ferito, richiedendo con diligenza le circostanze tanto del peccatore quanto del peccato, per mezzo delle quali possa prudentemente capire qual consiglio gli debba dare e qual rimedio applicare, giovandosi di varii esperimenti per salvare il malato ».

(Mansi, XXII, 1007)

Concilio Tridentino, sess. XIV, cap. 5, De Pœnitentia:

« La Chiesa ha stabilito per mezzo del Concilio di Laterano…. che il precetto della Confessione sia adempito almeno ima volta all’anno da tutti e singoli, quando sono arrivati agli anni della discrezione. Sicché ormai si osserva in tutta quanta la Chiesa, con immenso vantaggio per le anime dei fedeli, quella salutare usanza di confessarsi nel tempo sacro e opportuno della quaresima; usanza che il santo Sinodo approva e accetta assai volentieri come pia e veramente degna da praticarsi ».

DOMANDA 259a.

Concilio IV di Laterano, vedi D. 258.

Concilio di Trento, sess. XIII, De Eucharistia, can. 9:

« Sia scomunicato chi nega che tutti e singoli i fedeli di Cristo d’ambo i sessi sono tenuti, giunti che siano all’età della discrezione, a comunicarsi ogni anno almeno alla Pasqua, secondo il precetto della santa Madre Chiesa ».

DOMANDA 261a.

Sacra Congregazione del Concilio, Decreto Sacra Tridentina Synodus, 2 dic. 1905:

« L’accesso alla Comunione frequente e quotidiana, desideratissima com’è da Cristo Signore e dalla Chiesa cattolica, sia lasciato aperto a tutti i fedeli di Cristo di qualunque classe o condizione; sicché nessuno, che sia in istato di grazia e voglia accostarsi alla Sacra Mensa con animo retto e pio, possa esserne tenuto lontano ».

(Acta Apost. Sedis, II, 296).

Sacra Congregazione dei Sacramenti, Decreto Quam singulari, 8 ag. 1910:

« VI. Chi ha cura de’ fanciulli deve procurare con ogni mezzo che essi, dopo la prima comunione, si accostino spesso alla sacra Mensa e, se è possibile, anche ogni giorno come desiderano Gesù Cristo e la madre Chiesa; e che ciò facciano con quella divozione dell’anima, che comporta l’età ».

(Ibid., II, 582).

DOMANDA 262a.

S. Congreg. dei Sacramenti, 1. c.:

« I. L’età della discrezione tanto per la Confessione quanto per la Comunione è quella, nella quale il fanciullo comincia a ragionare, cioè verso il settimo anno approssimativamente. Da questo tempo comincia l’obbligo di sodisfare all’uno e all’altro precetto della Confessione e della Comunione ».

(Ibid.).

DOMANDA 263a.

S. Congregazione dei Sacramenti, 1. c.:

« IV. L’obbligo del precetto della Confessione e della Comunione, al quale è tenuto il fanciullo, ricade specialmente sopra coloro, che devono averne cura, cioè sui genitori, sul confessore, sugl’istitutori e sul parroco. Spetta poi al padre, o a chi ne fa le veci, e al confessore, secondo il Catechismo Romano, ammettere il fanciullo alla prima Comunione ».

(Ibid.).

DOMANDA 264a.

S. Congreg. dei Sacramenti, 1. e. :

« II. Per la prima Confessione e Comunione non è necessaria la piena e perfetta conoscenza della dottrina cristiana. Tuttavia il fanciullo dovrà poi a mano a mano imparare tutto intero il catechismo, secondo la sua capacità ».

« III. La conoscenza della religione, che si richiede nel fanciullo perchè si prepari convenientemente alla prima Comunione, è quella che gli permette di comprendere, secondo la sua capacità, i misteri della fede, necessari di necessità di mezzo, e di distinguere il pane Eucaristico dal pane comune e materiale, di modo che s’accosti alla SS. Eucaristia con la devozione che l’età stessa comporta ».

(Ibid.).

DOMANDA 265a.

S. Congreg. dei Sacramenti: V. D. 263.

DOMANDA 266a.

S. Congreg. dei Sacramenti, 1. c.:

« VI. Rammentino coloro cui spetta la cura (de’ fanciulli) l’obbligo gravissimo di provvedere che i fanciulli stessi intervengano alle pubbliche lezioni di catechismo; altrimenti, suppliscano in altro modo alla loro religiosa istruzione » .

(Ibid.).

DOMANDA 269a.

S. Congreg. del S. Ufficio, Decreto 24 sett. 1665, 4 a prop. condannata :

« Chi fa una confessione nulla di proposito, adempie il precetto della Chiesa ».

(Du Plessis, III, II, 321).

DOMANDA 275a.

Pio XI, Enc. Quas primas, 11 dic. 1925:

 Ordini religiosi d’ambo i sessi e sodalizi che, prestando validissimo aiuto ai Pastori della Chiesa, s’adoperano con tutto zelo a promuovere o a costituire il regno di Cristo tanto col combattere, in grazia de’ sacri voti, la triplice concupiscenza del mondo, quanto col contribuire, per mezzo d’una professione di vita più perfetta, a far rifulgere sempre più al cospetto di tutti con splendore perenne, quella santità, che il divin Fondatore volle fosse della Chiesa una nota insigne».

(Acta Apost. Sedis, XVII, 609).

DOMANDA 276a.

Leone XIII, Lett. Testem benevolentiæ, 22 genn. 1899 all’È.mo Card. Gibbons:

« Da questo disprezzo, per così dire, delle virtù evangeliche, che erroneamente son chiamate passive, era inevitabile conseguenza che penetrasse a poco a poco negli animi anche il disprezzo della vita religiosa stessa. E desumiamo che quest’errore sia comune ai fautori delle nuove opinioni, da certe loro sentenze a proposito dei voti che fanno gli Ordini religiosi. Dicono infatti che quelli sono in contrasto assoluto coll’indole del nostro tempo in quanto restringono i confini della libertà umana; e che sono buoni per gli spiriti deboli piuttosto che per i forti; e che non giovano alla perfezione cristiana e al bene dell’umano consorzio, che anzi piuttosto s’oppongono e nuociono all’una e all’altro. Orbene quanta falsità ci sia in queste affermazioni apparisce facilmente dalla pratica e dalla dottrina della Chiesa, che sempre approvò altamente la vita religiosa…. Aggiungono che il sistema di vita religiosa non giova punto o ben poco alla Chiesa. È un’ingiuria per gli Ordini religiosi, e del resto chi ha svolto gli annali della Chiesa non vi potrà mai consentire ».

(Acta Leonis XIII, XIX, 15-16).

Il medesimo, Lett. Au milieu des consolations, 23 ag. 1900, all’E.mo Card. Richard:

« Gli Ordini religiosi, come ognun sa, ebbero l’origine e la loro ragione d’esistere dai sublimi consigli evangelici che il nostro divin Redentore suggerì, pel corso di tutte le generazioni, a coloro che intendono raggiunger la perfezione cristiana: anime forti e generose che per mezzo della preghiera e della contemplazione, di sante austerità, della pratica di certe regole, tendono alle più alte vette della vita spirituale. Nati sotto l’azione della Chiesa, che ne conferma colla sua autorità il reggimento e la disciplina, gli Ordini religiosi sono scelta porzione del gregge di Gesù Cristo; sono, secondo S. Cipriano, « l’onore e l’avvenenza della grazia spirituale » (De discipl. et habitu virginum, c. 77), e nel tempo stesso fanno testimonianza della santa fecondità della Chiesa. Le loro promesse, spontanee e libere, dopo matura riflessione durante il noviziato, furono considerate e rispettate sempre come cosa sacra, sorgente delle più nobili virtù. Lo scopo di questi impegni è doppio: anzitutto sollevare le persone, che se li assumono, a un più alto grado di perfezione; poi prepararle, purificandone e fortificandone l’anima, al ministero esteriore, che si esercita per la salvezza eterna del prossimo e al sollievo delle numerose miserie dell’umanità. Così, lavorando sotto la direzione suprema della Sede Apostolica per attuare l’ideale perfezione additata da Nostro Signore, vivendo con regole niente affatto in contrasto con qualsiasi forma di governo civile, gli Istituti religiosi contribuiscono assai alla missione della Chiesa, riposta essenzialmente nel santificar le anime e beneficare l’umanità. Perciò dovunque fu rispettato il diritto naturale d’ogni cittadino di scegliere il genere di vita ch’egli crede più conforme al suo genio e al suo perfezionamento morale, anche gli Ordini religiosi sbocciarono come un prodotto spontaneo del suolo cattolico e i Vescovi li considerarono ben a ragione preziosi ausiliarii del santo ministero e della carità cristiana » .

(Acta Leonis XIII, XX, 340-41).

Pio XI, Lett. Unigenitus Dei Filius, 19 marzo 1924 :

« Il Figlio Unigenito di Dio, venuto nel mondo per redimere l’uman genere, dopo aver dato norme di vita spirituale per guida di tutti al raggiungimento del fine stabilito, insegnò di più che a chi vuol seguire più dappresso le sue vestigia, conviene abbracciare e osservare i consigli evangelici. Ora chiunque, fatto voto a Dio, promette di osservare siffatti consigli, non soltanto si libera da tutti gli ostacoli, che di solito ritardano gli uomini dal santificarsi, per es. i beni di fortuna, le cure e le brighe del matrimonio, la smodata libertà in tutte le cose; ma anche cammina alla vita perfetta per una via così diritta e spedita da sembrar che abbia gettato l’ancora ormai nel porto di salvezza ».

(Acta Apost. Sedis, XVI, 133).

DOMANDA 280a.

Concilio di Trento, sess. VI, De justificatione, can. 11:

« Sia scomunicato chi afferma che l’uomo è giustificato unicamente coll’accreditamento della santità di Cristo, o colla sola remissione de’ peccati, senza la grazia e la carità diffusa dallo Spirito Santo ne’ lor cuori e ad essi inerente; ovvero che la grazia, per cui siamo giustificati, è soltanto un favore di Dio ».

S. Cirillo d’Alessandria, In Joann., I , 9:

« Divenuti partecipi di lui (Dio) per virtù dello Spirito, ci è stato impresso il sigillo della sua somiglianza, e ci siamo elevati alla forma esemplare della sua immagine, per la quale la divina Scrittura afferma che noi siamo stati creati. E così, ricuperata finalmente l’antica bellezza di natura e rinnovellati sul modello di quella divina natura, supereremo i danni che ci toccarono in conseguenza della prevaricazione. Per merito dunque di Cristo siamo saliti alla dignità soprannaturale; anche noi, (non però come lui, senz’alcuna differenza) diventeremo figli di Dio, ma a somiglianza di lui, vale a dire in virtù della grazia, per la quale, a lui conformandoci, lo riproduciamo. Difatti egli è il vero Figlio di Dio, generato dal Padre, mentre noi siamo per sua benignità figli adottivi, per via della grazia che ce ne fa degni: Io ho detto: siete dei e figli tutti dell’Eccelso (Salm. LXXXI, 6). Perchè appunto la natura creata e schiava è chiamata all’ordine soprannaturale soltanto al cenno e per volontà del Padre; invece il Figlio, Dio e Signore, è Dio non per cenno di Dio e del Padre, nè per sola volontà di lui, ma, per esser lo splendore della sostanza stessa del Padre, rivendica a sè il bene proprio di lui, secondo natura ».

(P. G., 13, 154).

DOMANDA 282a.

Concilio II d’Orange, (529), can. 18:

« Per le buone opere compiute è dovuta ricompensa senza che alcun merito prevenga la grazia; ma, per essere compiute, precede una grazia, che non è dovuta ».

(Mansi, VIII, 715).

Concilio di Trento, Sess. VI, Decretum de justificatione, can. 32:

« Sia scomunicato chi afferma che le buone opere dell’uomo giustificato sono soltanto dono di Dio, e non anche meriti buoni dell’uomo stesso giustificato, oppure che l’uomo giustificato non merita veramente colle buone opere, da lui compiute per grazia di Dio e per merito di Gesù Cristo, di cui è membro vivo, l’aumento della grazia, la vita eterna e il raggiungimento della stessa vita eterna (se muore in grazia) e inoltre l’aumento della gloria ».

DOMANDA 283a

Concilio di Trento, Sess. V I , Decretum de justificatione, can. 27:

« Chi sostiene che non v’è peccato mortale se non quello di mancanza di fede, oppure che la grazia, una volta ricevuta, non si perde per altro peccato, sia pur grave ed enorme, tranne che pel peccato di mancanza di fede, sia scomunicato ».

S. Basilio: Vedi D. 66.

DOMANDA 285a.

Concilio di Trento, Sess. VI, Decretum de justificatione:

« Vengono poi disposti alla stessa giustificazione, mentre mossi ed aiutati dalla grazia divina e acquistando la fede dalla predicazione, sono mossi liberamente verso Iddio, credendo vere le cose che furono da Dio rivelate e promesse; e anzitutto, che l’empio è da Dio giustificato per la grazia di Lui, in virtù della redenzione che è in Cristo Gesù; inoltre coll’elevarsi alla speranza, volgendosi dal timore della divina giustizia, onde sono utilmente scossi nella consapevolezza d’esser peccatori, a considerare la misericordia di Dio, nella fiducia che Dio sarà loro propizio per amor di Cristo; col cominciare ad amarlo come fonte d’ogni giustificazione; col ribellarsi quindi contro i peccati per una specie di odio e per detestazione, cioè per quel pentimento che dev’esser concepito prima del Battesimo; finalmente col proposito di ricevere il Battesimo, d’incominciare una nuova vita e di osservare i divini comandamenti. Di questa disposizione sta scritto: Chi a Dio s’accosta deve credere che c’è e ch’è rimuneratore di chi lo cerca (Agli Ebr., XI, 6) e : O figlio, abbi fiducia, ti son rimessi i tuoi peccati (Marc, II, 5; Matt., I X , 2) e; il timore del Signore scaccia il peccato (Eccli., I, 27) e: Fate penitenza e ognuno di voi sia battezzato in nome di Gesù Cristo per la remissione de vostri peccati e riceverete il dono dello Spirito Santo (Atti, II, 38) e: Andate dunque e ammaestrate tutte le genti battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare i miei comandamenti (Matt., XXVIII, 19, 20). Finalmente: Preparate i vostri cuori al Signore ». (I Re, VII, 3).

S. Agostino, De spiritu et littera, 48:

« Se però quelli che vivendo secondo natura adempiono la legge (Ai Rom,, II, 14) non ancora si devono considerare nel numero dei giustificati dalla grazia di Cristo, ma piuttosto di coloro, di cui, benché infedeli e lontani dall’adorare il vero Dio in verità e giustizia, leggiamo tuttavia o conosciamo, o sentiamo dire fatti che a norma di giustizia non solo non possiamo biasimare, ma anzi dobbiamo meritatamente e legittimamente lodare; tuttavia, se si esaminan bene per qual fine siano compiute, a stento se ne troverà che meritino la dovuta lode di giustizia o l’apologia. Però, siccome nell’anima umana l’imagine di Dio non fu proprio distrutta dalla contaminazione degli affetti terreni sicché non vi sieno rimaste le fattezze fondamentali, per cui meritamente si può dire che nello stesso stato d’infedeltà compia o sappia in parte la legge; se, ciò ch’è stato detto, è fermo, vale a dire che le genti, le quali non hanno legge, cioè la legge di Dio, compiono naturalmente i precetti della legge…. non n’è turbata la differenza, per cui il Nuovo Testamento si differenzia dal Vecchio…. Infatti come certi peccati veniali non tolgono al giusto la vita eterna, peccati senza cui non trascorre la vita, così per la eterna salvezza niente giovano all’empio alcune buone opere, senza le quali è ben difficile che trascorra la vita di qualsiasi anche pessimo uomo ».

(P. L., 44, 229 s.).

DOMANDA 286a.

S. Efrem, De Epiphania, X, 14:

« Il buon Signore mira a questi due fini: non vuol costringere la nostra libertà, nè permette che siamo rilassati. Se infatti usa la costrizione, toglie il libero arbitrio; se invece usa indulgenza, priva l’anima dell’aiuto suo. Sapendo il Signore che, se costringe, ci toglie la libertà; se ci toglie l’aiuto, ci rovina; se insegna, ci acquista: non ci costringe, nè toglie l’aiuto, come fa il maligno, ma insegna, ammaestra e conquista, perchè è buono ».

(Lamy, 1. c., I , 102).

S. Cirillo d’Alessandria, De adoratione in spiritu et veritate, I:

« Poiché la natura dell’uomo non è molto salda, nè abbastanza robusta per svincolarsi dai vizi, Dio le viene in aiuto. Pertanto conferisce duplice grazia; come infatti persuade cogli ammonimenti, così trova i modi d’aiutare e li rende più efficaci di fronte al male presente che vuol farci violenza ».

(P. G., 68, 174).

DOMANDA 287a.

Concilio II d’Orange (529) contro i Semipelagiani:

« Can. 3. Chi afferma che la grazia di Dio può essere conferita Conferita alla preghiera dell’uomo, ma non che la grazia stessa opera in modo che sia da nói invocata, contraddice al Profeta Isaia, o all’Apostolo che dice lo stesso: Fui ritrovato da chi non mi cercava, apparvi palesemente a chi non mi domandava (Ai Rom., X, 20; Isaia LXV, 1) ».

« Can. 4. Chi sostiene che, per purificarci dal peccato, Iddio aspetta la nostra volontà, ma non ammette che per infusione e operazione in noi dello Spirito Santo avviene che anche vogliamo esser purificati, resiste proprio allo Spirito Santo, che dice per bocca di Salomone: La volontà è preparata dal Signore (Prov., VIII, 36) e all’Apostolo che salutarmente proclama: ionm. È Dio che opera in voi e il volere e il fare secondo la buona volontà (Ai Fil., II, 13) ».

« Can. 5. Chi afferma che, tanto l’aumento, come pure il principio della fede e persino il desiderio del credere, grazie al quale crediamo in colui, che giustifica l’empio, e giungiamo alla (ri)generazione del sacro Battesimo, nasce in noi non per un dono della grazia, cioè per ispirazione dello Spirito Santo, che volge la nostra volontà dallo stato d’infedeltà alla fede, dall’empietà alla pietà, ma per via naturale, si dimostra contrario alla dottrina degli Apostoli, perchè dice il beato Paolo: Noi confidiamo perchè chi ha incominciato in noi l’opera buona la condurrà a termine pel giorno del Signor nostro Gesù Cristo (Ai Fil., I, 6); e ancora: Per merito di Cristo a voi fu concesso non soltanto di credere in lui, ma anche di patire per lui (Ai Fil., I, 29) e: Gratuitamente siete stati fatti salvi per la fede e non da voi; perocché essa è dono di Dio (Agli Efes., II, 8). Infatti coloro, che affermano cosa naturale la fede, per la quale crediamo in Dio, vengono in certo senso a concludere che sono fedeli tutti coloro, i quali sono estranei alla Chiesa di Cristo ». « Can. 6. Si oppone all’Apostolo, che dice : Che cos’hai, che non hai ricevuto? (I ai Cor., IV, X) e: Per la grazia di Dio son ciò che sono (I ai Cor., XV, 10) chi afferma che la misericordia è da Dio conferita alla nostra fede, volontà, desiderio, sforzo, attività, vigilanza, diligenza, richiesta, preghiera, insistenza, ma non ammette che avvenga in noi per infusione ed ispirazione dello Spirito Santo il fatto che crediamo, vogliamo e siamo in grado di far tutte queste cose, come si conviene; e all’umiltà, o all’obbedienza umana vuol sì congiunto l’aiuto della grazia, ma non consente che della grazia stessa è dono se noi siamo obbedienti e umili ».

(Mansi, VIII, 713 s.).

Concilio di Trento, Sess. VI, Sulla giustificazione:

« Can. 1. Chi sostiene che l’uomo colle opere sue, che sono compiute colle forze della natura umana, oppure con la conoscenza della legge, senza la grazia divina derivante da Gesù Cristo, possa giustificarsi al cospetto di Dio, sia scomunicato ».

« Can. 2. Chi sostiene che la grazia divina è data per mezzo di Gesù Cristo a questo scopo soltanto che l’uomo possa più falcilmente vivere da giusto e meritarsi la vita eterna, quasiché per mezzo del libero arbitrio, senza la grazia, possa in qualsiasi modo vivere e meritare, a stento però e con difficoltà, sia scomunicato ».

« Can. 3. Chi sostiene che l’uomo possa credere, sperare, amare o pentirsi senza l’ispirazione proveniente dallo Spirito Santo e senza il suo aiuto, com’è necessario affinchè gli sia conferita la grazia della giustificazione, sia scomunicato ».

S. Gregorio di Nazianzo, Oratio, 37, 13:

« Poiché infatti ci sono taluni i quali per le buone azioni insuperbiscono talmente che l’attribuiscono in tutto a se stessi, nè riconoscono d’aver ricevuto affatto qualche cosa dal Creatore e dall’autore della loro sapienza e datore d’ogni bene, li ammaestra la parola (Non è di chi vuole, nè di chi corre, ma di Dio che ha compassione) che persino lo stesso retto volere ha bisogno dell’aiuto divino; anzi per parlare più giustamente, anche la volontà stessa e la scelta delle azioni rette e congiunte col dovere è un beneficio divino e un dono che deriva dalla benignità di Dio. Se infatti ci salviamo, dipende e da noi e da Dio. Perciò dice: Non di chi vuole, cioè non soltanto di chi vuole, nè di chi corre soltanto, ma anche di Dio che ha pietà. Così, siccome lo stesso volere è da Dio, ben a ragione attribuì tutto a Dio. Per quanto tu corra, per quanto tu lotti, tu hai bisogno di chi dà la corona ».

(P. G., 36, 298 s.).

S. Giovanni Crisostomo, In Genesim, XXV, 7:

« E difatti non è possibile che noi compiamo qualche cosa di buono se non siamo aiutati dalla grazia superna ».

(P. G., 53, 228).

DOMANDA 288a.

Concilio di Trento, Vedi D. 289.

Innocenzo X, Costit. Cum occasione, 31 mag. 1653, contro di errori di Giansenio, prop. I tra le condannate:

« Taluni precetti di Dio sono impossibili per gli uomini giusti, anche se vogliono e si sforzano, in proporzione delle forze che possiedono presentemente; a essi manca pure l a grazia, per mezzo della quale si rendano possibili » .

(Du Plessis, 1. c., III, II, 261).

S. Giovanni Crisostomo, In Epist. ad Hebraeos, XVI, 4:

« Non è lecito affermare: Non posso; sarebbe un accusar il Creatore. Difatti se ci avesse fatto incapaci e comandasse, contro di lui sarebbe l’accusa. Come dunque, disse, molti non possono? Perchè non vogliono. Come mai non vogliono? Per indolenza; difatti se vorranno potranno benissimo…. Infatti abbiamo Dio che dà l’aiuto e la forza; resta che facciamo la scelta, che ci disponiamo agli atti da compiere come a un dovere, che abbiamo premura, che facciamo attenzione; e tutto verrà da sè ».

(P. G., 63, 127 s.).

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (24)

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (22)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (22)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 85a.

Pio XI, Encicl. Quas primas, 11 dic. 1925:

« Orbene, su qual base riposi questa dignità e potere del Signor nostro, ce n’avverte opportunamente S. Cirillo Alessandrino: « Per dirla in breve, possiede di tutte le creature il dominio, non usurpato, né con altro mezzo procurato, ma per sua essenza e natura » (S. Luca, X). Ossia la sua regalità poggia su quell’unione mirabile, che denominano ipostatica. Ne segue che non soltanto Cristo dev’essere adorato come Dio dagli angeli e dagli uomini, ma pure che al suo dominio come Uomo obbediscano e stiano soggetti angeli e uomini, vale a dire che Cristo ha dominio di tutte quante le creature anche solo a titolo dell’unione ipostatica. Però niente di più gradito, niente di più dolce per noi a pensare che Cristo è nostro Signore non soltanto per diritto di natura, ma anche di conquista, cioè di redenzione. Voglia il Cielo che gli uomini tutti, facili a dimenticare, rammentino quanto siamo costati al nostro Salvatore: Siete stati redenti non a prezzo d’oro o d’argento, cose corruttibili;…. ma col sangue prezioso di Cristo, come di agnello immacolato e incontaminato (I di Pietro, 1, 18-19). Ormai non apparteniamo più a noi stessi, poiché Cristo ci ha comperati a gran prezzo (I ai Cor., VI, 20); i nostri stessi corpi son membra di Cristo » (ib., 15).

(Acta Apostolicae Sedis, XVII, 598).

DOMANDA 89°

S. Efrem, In Hebdom. sanctam, VI, 9 :

« Ebbene, Cristo, unico Verbo di Dio, nel corpo assunto nacque e crebbe, prese forma visibile e nutrimento e, pel fatto della generazione, fu soggetto al tempo e ai limiti. Egli, Figlio di Dio, che s’è fatto uomo, rimane unico e individuo nella divinità e umanità ipostaticamente congiunte, nell’umanità di cui si servì divinamente e umanamente, nel dominio e nella obbedienza, negli atti e nei fatti » .

(Lamy, 1. c., I , 476-8).

DOMANDA 90°

Concilio di Calcedonia (451) contro i Monofisiti, Definizione delle due nature di Cristo:

« Insegniamo unanimi, sulla guida de’ Santi Padri, a professare l’unico e identico Figlio e Signor nostro Gesù Cristo, perfetto nella divinità, perfetto nell’umanità, come Dio vero e vero uomo, in corpo ed anima razionale, consostanziale al Padre secondo la divinità, consostanziale a noi, secondo l’umanità, in tutto simile a noi, tranne il peccato (Agli Ebr., IV, 15); generato dal Padre avanti ogni tempo secondo la divinità, e, generato ne’ tempi recentissimi da Maria vergine Madre di Dio secondo l’umanità, per amor nostro e della nostra salvezza: l’unico e identico Cristo Figlio Signore unigenito, da riconoscersi senza confusione, mutazione, divisione, separazione nelle due nature, senza venir mai meno, per il fatto dell’unione, la differenza delle nature e anzi salva la proprietà dell’una e dell’altra natura nell’unica persona e sussistenza; non ripartito o diviso in due persone, ma unico e identico Figlio e unigenito Dio Verbo Signore Gesù Cristo: come già i Profeti e Gesù Cristo in persona c’insegnarono e ci trasmise il Simbolo de’ Padri ».

(Mansi, VII, 115).

Concilio III di Costantinopoli (680-681) contro i Monoteliti: Definizione circa le due volontà di Cristo:

« Similmente proclamiamo in lui due volontà naturali e due operazioni naturali, senza divisione, o commutazione, o separazione, o confusione, giusta l’insegnamento de’ santi Padri; e le due volontà integrali non opposte, ohibò! come sostennero certi empii eretici, ma docile la sua umana volontà e non resistente o ribelle, anzi sottomessa alla divina e onnipotente volontà di lui. Difatti, dice il sapientissimo Atanasio, bisognava che fosse attiva la volontà umana, ma soggetta alla divina. Poiché alla stessa stregua che la sua carne si dice ed è carne del Verbo di Dio, così la natural volontà della sua carne si dice ed è propria volontà del Verbo di Dio come egli stesso disse: Perché son disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato, cioè del Padre (Gio., VI, 38): ossia indica come volontà sua propria quella che era l a volontà della sua carne. Difatti anche la carne divenne propria di lui. Orbene, come non andò perduta, divenendo divina, la sua umanità santissima e immacolata, ma perseverò nella sua individua costituzione e ragione, così anche l’umana volontà di lui, fatta divina, non andò perduta, ma piuttosto fu salvata, come dice il teologo Gregorio: « Difatti la volontà di lui, quale s’intende nel Salvatore, non è a Dio contraria, fatta com’è tutta divina ».

(Mansi, XI, 638).

IV Concilio di Laterano (1215), Cap. I , De fide catholica:

« E finalmente l’unigenito Figlio di Dio, Gesù Cristo, incarnato, per concorso di tutta la Trinità; concepito da Maria sempre Vergine, cooperando lo Spirito Santo, divenuto vero uomo, composto d’anima razionale e d’umana carne, unica persona in due nature, additò più apertamente la via della vita. Egli difatti ch’era immortale e impassibile secondo la divinità divenne, secondo l’umanità, mortale e soggetto a soffrire; Egli ancora patì e morì sul legno della croce per la salvezza del genere umano, discese all’inferno, risuscitò dai morti e salì al cielo…. per venire alla fine del tempo a giudicare i vivi e i morti e rendere a ciascuno secondo le proprie azioni, tanto ai reprobi quanto agli eletti; i quali tutti risorgeranno coi loro propri corpi, che ora hanno, per ricevere secondo le proprie opere, buone o cattive, gli uni l’eterno castigo col diavolo, gli altri l’eterna gloria con Cristo ».

(Mansi, XXII, 982).

S. Leone IX (1049-1054), Symbolum fidei:

« Credo anche nello stesso Figlio di Dio Padre, Verbo di Dio nato nella eternità prima d’ogni tempo dal Padre, pari al Padre di sostanza, di onnipotenza e in ogni attributo della divinità; nato nel tempo, per opera dello Spirito Santo, da Maria sempre vergine, con un’anima razionale; che ha due natività: l’una dal Padre, eterna, l’altra dalla madre, temporale; che ha due volontà e due operazioni; Dio vero e vero uomo; proprio e perfetto nell’una e nell’altra natura; non soggetto né a mescolanza né a divisione, non adottivo né fantasma; unico e solo Dio, Figlio di Dio in due nature, ma in unicità di persona; impassibile e immortale in grazia della divinità, ma assoggettatosi nell’umanità a vera sofferenza e seppellito per noi e per la nostra salvezza; e credo ch’è risorto dai morti al terzo giorno di vera risurrezione della carne; e per darne ai discepoli conferma mangiò non per un qualsiasi bisogno di cibo, ma per sua volontà e potestà; che quaranta giorni dopo la risurrezione salì al cielo colla carne, nella quale risuscitò, e coll’anima; che siede alla destra del Padre; che dieci giorni dopo mandò lo Spirito Santo e che di là è per venire, come vi salì, a giudicare vivi e morti e per rendere a ciascuno secondo le opere sue ».

(Mansi, XIX, 662).

DOMANDA 91a

Concilio di Trento : V. D. 74.

S. Epifanio, Ancoratus, 93:

« Difatti la speranza della nostra salvezza non è riposta in un uomo, dal momento che nessuno di tutti gli uomini, discendenti da Adamo, avrebbe potuto recarci la salvezza, ma

Dio soltanto e il Verbo incarnato…. Perciò il Signore prese carne dalla nostra carne e volle esser uomo come noi —. Egli Dio e Verbo — per liberare dal patire col patire e distrugger la morte colla morte ».

(P. G., 43, 186 s.).

DOMANDA 94a.

Leone XIII, Encicl. Divinimi illud munus, maggio 1897:

« Assai bene la Chiesa suol attribuire al Padre quelle opere divine ove rifulge la potenza, al Figlio quelle ove rifulge la sapienza, allo Spirito Santo quelle ove rifulge l’amore…. E anzitutto occorre rivolger lo sguardo a Cristo, fondatore della Chiesa e Redentore del genere umano. Davvero che tra le opere ad extra di Dio primeggia il mistero del Verbo incarnato, perché in esso talmente risplende la luce delle divine perfezioni che non si può pensare qualche cosa di più grande e nient’altro più di esso avrebbe potuto giovare alla salvezza dell’umana natura. Ebbene questa sublime opera fu sì opera di tutta la Trinità, ma come propria è ascritta allo Spirito Santo; sicché i Vangeli proclamano della Vergine: Fu trovata incinta di Spirito Santo e: Il nato di essa è dallo Spirito Santo (Matt., I , 18-20). E giustamente s’attribuisce a colui ch’è l’amore del Padre e del Figlio, perché questo gran sacramento d’amore (I Tim., III, 16) provenne dalla suprema carità di Dio verso gli uomini, come avverte Giovanni: Dio amò il mondo al punto da sacrificare il suo Figlio unigenito (Gio., III,  16)».

 (Acta Leonis XIII, XVII, 130-32).

DOMANDA 95a.

Concilio d’Efeso (431), Anatemi di Cirillo, can. I :

« Chi non professa che Dio è davvero l’Emanuele e perciò la Santa Vergine Madre di Dio — generò infatti, secondo la carne, il Verbo di Dio fatto carne — sia scomunicato.

(Mansi, IX, 327).

Concilio II di Costantinopoli (553) I tre Capitoli can. 6:

« Chiunque dichiara la santa gloriosa sempre Vergine Maria impropriamente e non veramente Madre di Dio, oppure in senso relativo, cioè nel senso che da lei sia nato un puro uomo e non incarnatosi e nato il Verbo di Dio, quindi, come dicono gli eretici, da mettersi in relazione la nascita dell’uomo al Dio Verbo perché questi era coll’uomo all’atto del nascere; e chiunque con calunnia fa dire al santo Sinodo di Calcedonia che la Vergine fu madre di Dio in questo empio senso, inventato dal miserabile Teodoro; o chiunque la dichiara madre d’un uomo, o Cristotoca, vale a dire madre di Cristo, come se

Cristo non fosse Dio e quindi non la confessa vera e propria Madre di Dio perché recentemente s’incarnò e nacque da essa il Dio Verbo che prima d’ogni tempo era nato dal Padre; negando che così devotamente l’abbia confessata e proclamata anche il santo Sinodo di Calcedonia: sia scomunicato».

(Mansi, IX, 379).

III. Concilio di Costantinopoli (680-81) contro i Monoteliti

Definizione delle due volontà di Cristo :

« Inoltre anche secondo le lettere sinodali, scritte contro l’empio Nestorio e ai vescovi orientali dal beato Cirillo; anche sulle orme dei santi cinque Concilii universali e de’ santi e autorevoli Padri, determinando unanimi di affermare il Signor nostro Gesù Cristo vero Dio nostro, uno della Trinità santa e consostanziale e fonte di vita, perfetto nella divinità e parimenti nella umanità, veramente Dio e veramente uomo, fornito di anima razionale e di corpo; consostanziale al Padre secondo la divinità e consostanziale a noi secondo l’umanità, a noi simile in tutto, salvo il peccato (Agli Ebr., IV, 15) e, come generato dal Padre, secondo la divinità, prima del tempo, così generato nella pienezza de’ giorni per amor nostro e della nostra salvezza dallo Spirito Santo e da Maria Vergine propriamente e veracemente Madre di Dio secondo l’umanità, unico e identico Cristo Figlio unigenito di Dio da riconoscersi nelle due nature senza confusione, né commutazione, né separazione, né divisione, non venendo meno in nessun punto per il fatto dell’unione la differenza di queste nature e anzi salva la proprietà dell’una e dell’altra natura nell’unica persona e sussistenza; non ripartito o diviso in due persone, ma unico e identico unigenito Figlio di Dio Verbo Signore Gesù Cristo: come già i Profeti e Gesù Cristo in persona c’insegnarono e il Simbolo de’ Padri ci trasmise » .

(Mansi, XI, 635).

S. Gregorio Nazianzeno, Epist. 101:

« Fuori della divina verità è chiunque non crede madre di Dio santa Maria. Ateo del pari chiunque dica che (Cristo) passo per la Vergine come acqua per un canale, ma non fu rinato in essa in modo divino insieme ed umano, divino perché non vi concorse l’uomo; umano perché concepito umanamente. È soggetto a dannazione chiunque afferma che, formato l’uomo, subentrò poi Dio ».

P. G., 37, 178 ss.).

S. Giovanni Damasceno, Orario prima de Virg. Mariæ nativitate, 4:

« Si vergogni Nestorio e si turi la bocca. Questo fanciullo è Dio. Come dunque non sarebbe Madre di Dio quella che generò? Si allontana da Dio chiunque non confessa la madre di Dio. Non sono parole mie; sebbene, sono anche mie: ricevetti questa eredità divinissima dal teologo Padre Gregorio ».

( P . G., 96, 667).

DOMANDA 96a.

Leone XIII, Encicl. Quamquam pluries, 15 ag. 1889:

« Ecco le cause e le ragioni singolari per cui il beato Giuseppe va nominatamente salutato patrono della Chiesa e, dal canto suo, la Chiesa moltissimo si ripromette dalla sua valida protezione: egli fu sposo di Maria e padre putativo di Gesù Cristo. Di qui tutta la sua dignità, grazia, santità, gloria. Certamente la dignità della madre di Dio è tanto in alto che nulla può darsi di più grande. Tuttavia, per quel vincolo coniugale stretto fra Giuseppe e la beatissima Vergine, non c’è dubbio che s’avvicinò egli più d’ogni altro a quell’eccellente dignità, in grazia della quale la Madre di Dio supera di gran lunga tutte le nature create…. Perciò se Dio diede come sposo alla Vergine Giuseppe, certamente glielo diede non soltanto per compagno della vita, testimonio della verginità, custode dell’onore, ma pure come partecipe dell’altissima dignità di Lei, per virtù del contratto matrimoniale. Parimenti unico si distingue per augustissima dignità fra tutti, perché fu custode del Figlio di Dio per divina disposizione, creduto padre nell’opinione degli uomini ».

(Acta Leonis XIII, IX, 177-78).

DOMANDA 97a.

S. Leone Magno, Lettera a Flaviano, Vescovo di Costantinopoli:

« Il medesimo eterno unigenito dell’eterno Padre nacque dallo Spirito Santo e da Maria Vergine…. Infatti fu concepito di Spirito Santo nell’utero della madre vergine, la quale come lo concepì, salva la verginità, così pure, salva la verginità, lo partorì ».

(P. L., 54, 759).

S. Efrem, Preghiera alla Ss. Madre di Dio:

« Ma, o Vergine Signora, immacolata Madre di Dio, Signora mia gloriosissima, mia gran benefattrice, più eccelsa dei cieli, molto più pura degli splendori, de’ raggi, de’ fulgori

solari…. verga germogliarne d’Aronne; tu davvero apparisti verga e fiore fu il Figlio tuo vero Cristo nostro, Dio e mio Creatore; tu generasti, secondo la carne, Dio e il Verbo, conservando la verginità prima del parto, vergine dopo il parto; e siamo stati riconciliati con Dio Cristo tuo figlio ».

(Opera omnia, ed. Romana, III – greco e latino – 545).

Didimo Alessandrino, De Trinitate, III, 4:

« Riguardo alle denominazioni di primogenito e di unigenito, ci viene in testimonio l’Evangelista che narra come Maria rimase vergine finche partorì il suo figliuolo primogenito (Matt., I, 25); difatti, quella sovrana Vergine degna d’onore e gloriosa sopra tutti, a nessuno si sposò né di altri divenne poi madre; ma, dopo il parto, rimase sempre e in ogni tempo vergine immacolata ».

(P. G., 39, 831).

S. Epifanio: Adversus hæreses, Hær. 78, 6:

« In qual tempo ci fu mai uno, il quale osasse fare il nome di Maria Santissima e non aggiungere subito, interrogato, l’epiteto di Vergine?

« In tali collocazioni di vocaboli splendono indizi di virtù…. Maria Santissima è chiamata Vergine e questo appellativo non sarà mai cambiato : Ella rimase infatti perpetuamente incorrotta ».

(P. G., 42, 706 s.).

S. Girolamo, Della perpetua verginità della Beata Maria, contro Elvidio, 19:

« Crediamo che Dio nacque dalla Vergine, perché sta scritto; non crediamo che Maria abbia sposato dopo il parto, perché non sta scritto. E non diciamo questo quasi per condannare il matrimonio, dacché un frutto delle nozze è appunto la verginità…. Tu affermi che Maria non continuò a esser vergine: io invece affermo di più che anche Giuseppe fu vergine in grazia di Maria, affinché dal verginale matrimonio nascesse vergine il figlio ».

(P. L., 23, 213).

DOMANDA 100.

S. Atanasio, Epist. ad Epitteto, 6:

« Colei stessa, che portava il corpo umano del Verbo, rivendicava a sé il Verbo, ch’era congiunto al corpo, perché noi potessimo diventar partecipi della divinità del Verbo. Cosa davvero meravigliosa che il medesimo individuo fosse insieme sofferente e non sofferente: sofferente in quanto sopportava il suo proprio corpo e in quanto nel corpo sofferente esisteva; ma non sofferente, perché il Verbo, essendo Dio per sua natura, non può patire. E proprio l’incorporeo esisteva nel corpo passibile; e il corpo a sua volta possedette l’impassibile Verbo, destinato appunto a distruggere le deficienze del corpo ».

(P. G., 26, 1059 ss.).

DOMANDA 102a.

Innocenzo X, Costit. Cum occasione, del 31 maggio 1653, dove condannò la 5a proposizione di Giansenio:

« È da semipelagiani il dire che Cristo sia morto oppure abbia sparso il sangue proprio per tutti quanti gli uomini ».

(Bullarium Romanum, ed. Torin., XV, 721).

S. Ambrogio, Epist. 41, 7:

« (Il diavolo) aveva ridotto l’uman genere in una perpetua schiavitù col grave carico d’una disastrosa eredità, perché, divenuto debitore, il primo uomo fece trasmissione a’ posteri d’una onerosa successione. Venne il Signore Gesù, offrì la sua morte in luogo della morte di tutti, versò in luogo del sangue di tutti il suo sangue ».

(P. L., 16, 1162).

DOMANDA 103a.

Concilio di Trento, sess. V I , Decretum de justifìcatione,

« Però, benché sia morto egli per tutti, non tutti ricevono il beneficio della sua morte, ma solamente quelli, ai quali è comunicato il merito della di lui passione ».

DOMANDA 104a.

Concilio di Trento, sess. VI, Decretum de fustificatione, cap. 7:

« Meritoria (causa della giustificazione è) il dilettissimo Unigenito suo, Signor nostro, Gesù Cristo, il quale, per l’eccesso del suo amore verso di noi, meritò a noi, che gli eravamo nemici, la giustificazione per mezzo del suo patire sul legno della croce e diede soddisfazione per noi a Dio Padre ».

Leone XIII, Encicl. Tametsi futura, 1 Novembre 1900:

« Davvero, maturato il consiglio divino, l’unigenito Figlio di Dio, fatto uomo, diede soddisfazione sovrabbondante per gli uomini all’offesa maestà del Padre col proprio sangue e fece suo a così gran prezzo il redento genere umano…. Siete stati ricomperati non a prezzo di vile oro od argento, ma col prezioso sangue di Cristo, agnello immacolato e incontaminato

(Ia di Piet., I, 18-19). E così fece suoi una seconda volta, colla redenzione vera e propria, tutti gli uomini già universalmente soggetti alla sua suprema sovranità, perché di tutti quanti Egli è il Creatore e il Conservatore. Non appartenete a voi; poiché a caro prezzo siete stati comprati (I Cor., VI, 19- 20) ».

(Acta Leonis XIII, XX, 298).

S. Ignazio martire, Epist. ad Smyrnæos, 2:

« E patì tutto questo per noi, affinché avessimo salute; e patì realmente come realmente risuscitò; non che abbia patito in apparenza, come affermano certi infedeli che vivono appunto secondo apparenza; e, secondo la bontà o meno della loro dottrina, così saranno premiati o puniti perché seguono le apparenze e le suggestioni diaboliche ».

(P. G., 5, 710).

S. Giovanni Crisostomo, In Epist. ad Hebræos, XVII, 2:

« Così anche Cristo una volta fu offerto in olocausto. Offerto da chi? da se stesso. Qui l’Apostolo lo dice non soltanto sacerdote, ma anche vittima e sacrificio. Poi passa a dire della causa per cui f u offerto: Una volta offerto per distruggere i peccati di molti. Perché di molti e non di tutti? Perché non tutti hanno creduto. Di fatto egli morì per tutti, per salvar tutti, quanto a sé; quella sua morte equivaleva bene alla morte di tutti: ma non distrusse nè tolse i peccati di tutti, perché gli uomini stessi non vollero…. Tolse agli uomini i peccati e fece offerta al Padre non per stabilire contro essi una condanna, ma anzi per rimetterli » .

(P. G., 63, 129).

DOMANDA 106a.

S. Cirillo di Gerusalemme, Catecheses, IV, 11:

« Fu deposto davvero in un sepolcro di roccia come un uomo (Matt., XVII, 60), ma proprio per terrore di lui le pietre si spaccarono (ibid., 51). Discese agl’inferi per cavarne i giusti redenti. Forseché tu vorresti ora, di grazia, che di tal grazia godano sì i viventi, anche se i più tra essi non sono santi; ma coloro, che fin da Adamo per sì lungo tempo erano stati relegati, non ottengano finalmente la libertà? Il profeta Isaia con voce sublime annunziò di Lui moltissime cose: e tu vorresti che il Re, scendendo, non liberasse l’araldo suo? Là erano Davide e Samuele e tutti i profeti; Giovanni stesso, che chiedeva per mezzo de’ suoi messi: Sei tu il Messia, o aspettiamo un altro? (Matt., XI, 3). E tu non vorresti che, scendendo, liberasse que’ santi uomini?

DOMANDA 110a.

IV Concilio di Laterano e S. Leone IX: Vedi D. 90.

S. Leone Magno, Sermo, 73, 4:

« E davvero qual grande e indicibile motivo di gioia quando in vista della sacra turba saliva la natura del genere umano, al di sopra di tutte le gloriose creature celesti, più in alto de’ cori angelici, per essere esaltata più degli arcangeli, con una elevazione senza limiti fino a quando, accolta per sedere alla destra dell’eterno Padre, fu associata in trono alla gloria di Lui, alla natura del quale era congiunta nel Figlio! ».

(P. L., 54, 396).

Il medesimo, Sermo 74, 3-4:

« (Gli Apostoli) avevano infatti rivolta tutta l’attenzione contemplatrice dell’anima alla divinità di Colui che siede a destra del Padre e ormai nessun oggetto di veduta corporea li tratteneva dallo sprofondarsi nella contemplazione di colui che, scendendo, non s’era allontanato dal Padre, né s’era allontanato da’ discepoli ascendendo. Dunque, o carissimi, il Figliuol dell’uomo, Figlio di Dio, apparve in modo eccelso e più sacro quando si raccolse nella gloria della maestà paterna e in misura misteriosa cominciò ad esser tanto più presente nella divinità quanto più lontano si fece nell’umanità ».

(P. L., 54, 398).

S. Ireneo, Adv. hæreses, I , 10, 1 :

« Difatti la Chiesa propagata per tutto il mondo sino ai confini della terra, ricevette sia dagli Apostoli sia dai loro discepoli la fede nella passione e risurrezione dai morti e nella corporea ascensione al Cielo del diletto Gesù Cristo Signor nostro… ».

(P. G., 7, 550).

DOMANDA l l l a .

S. Gregorio di Nazianzo, Oratio, 45:

« Credi…. che tornerà glorioso e luminoso a giudicare i vivi e i morti, non però corporeo e nemmeno scevro di corpo, ma con un corpo più augusto e divino, ch’ei solo sa ».

(P. G., 36, 423).

DOMANDA 112a.

Concilio IV di Laterano e Leone IX: Vedi D . 90;

Benedetto XII: D . 62.

S. Giovanni Crisostomo: In Epist. I ad Corinthios, XLII, 3:

« Perciò vi prego e scongiuro e supplico di tutto cuore che ci lasciamo compungere da quant’ho detto e convertire e render migliori, finché vivremo questa breve vita affinché quando moriremo, non ci accada come a quel ricco, di lamentarci e piangere; che il pianto non ci gioverà. Difatti, anche se avrai un padre, o un figlio, o qualsiasi altra persona in grazia di Dio, nessuno ti salverà, dacché t’accuseranno le tue proprie opere. Tal’è infatti quel giudizio: prende norma solo dalle opere e in nessun altro modo si può allora esser salvi. E dico questo non per sospingere alla disperazione, ma perché non trascuriamo la nostra santificazione, nutrendo vana e insulsa speranza, o fidando in questo e quello. Infatti, se saremo infingardi e negligenti, nessuno né giusto né profeta né apostolo, ci difenderà ».

(P. G., 6 1 , 367 s.).

DOMANDA 116a.

Pio XI, Encicl. Quas primas, lì Dicembre 1925:

« Gesù stesso poi rivendica a sé, come attribuitagli dal Padre, la podestà giudiziaria, contro i Giudei che lo accusavano d’aver violato colla guarigione del paralitico il riposo del sabato: E difatti il Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figliuolo (Gio., V, 22). E in ciò è pur compreso — perché il fatto non può disgiungersi dal giudizio — ch’Egli assegni agli uomini ancor viventi il premio e la pena, di sua autorità. E s’ha pure da aggiudicare a Cristo quel potere ch’è detto esecutivo, perché al suo dominio bisogna che tutti obbediscano; sotto minaccia d’infliggere ai contumaci quelle pene, che nessuno può sfuggire ».

(Acta Apostol. Sedis, XVII, 599).

DOMANDA 119a.

II Concilio di Lione: Vedi D. 39; Leone XIII: D. 94.

S. Agostino, De civitate Dei, XI, 24:

« Essendo spirito tanto il Padre quanto il Figlio e santo il Padre quanto il Figlio, non meno in senso proprio, Egli è detto Spirito Santo, come santità sostanziale e consostanziale d’ambedue ».

(P. L., 41, 338).

DOMANDA 121a.

S. Basilio, Epist. 38, 4:

« Dallo Spirito Santo scaturisce ogni largizione di beni nel creato ».

(P. G., 32, 330).

DOMANDA 122a.

Leone XIII, Encicl. Divinum illud munus, 9 Maggio 1897:

« E basti l’affermazione che, come Cristo è capo della Chiesa, lo Spirito Santo n’è l’anima: Quel ch’è l’anima nel corpo nostro, è lo Spirito Santo nel Corpo di Cristo, che è la Chiesa » (S. Agostino, Sermo, 187, De temp.).

(Acta Leonis XIII, XVII, 135).

DOMANDA 125a.

Concilio Vaticano, Costit. Pastor Æternus, a principio :

« L’eterno pastore e vescovo delle anime nostre, a perpetuare l’opera salutare della redenzione, decretò di edificare la santa Chiesa, per raccogliervi, come nella casa di Dio vivente, i fedeli tutti stretti da un’unica fede e dalla carità. Perciò, prima di esser glorificato, pregò il Padre non per gli Apostoli soltanto, ma pure per quelli che in virtù della loro parola Gli avrebbero creduto, affinché tutti fossero una cosa sola, come lo stesso Figlio e il Padre sono una cosa sola. (Gio., XVII, 20). E come mandò, al modo stesso ch’Egli era stato mandato dal Padre, gli Apostoli, che si era scelti dal mondo, così volle che fino alla consumazione del mondo vi fossero nella sua Chiesa i pastori e i maestri ».

DOMANDA 126a.

Concilio d’Efeso (431), In actione, III:

« Nessuno dubita, anzi è noto a tutte le generazioni, che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli Apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa cattolica, ricevette dal Signor nostro Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano, le chiavi del regno e la podestà di assolvere o di ritenere i peccati: egli vive e giudica fino ad ora e per sempre ne’ suoi successori ».

(Mansi, IV, 1295).

Concilio Vaticano, 1. c., cap. I, De apostolici primatus in beato Petro institutione:

« Pertanto insegniamo e dichiariamo, sulla scorta delle testimonianze evangeliche, che al beato Pietro Apostolo fu promesso e conferito da Cristo Signore il primato immediato e diretto su tutta la Chiesa di Dio. Difatti soltanto a Simone, al quale aveva già detto: Tu sarai chiamato Cefa (Gio., I, 42), dopo la di lui esplicita confessione: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo, parlò il Signore con queste solenni parole: Felice te, Simone figlio di Giona: perché né sangue né carne li ha rivelato, ma il Padre mio, ch’è nei cieli. E io dico a te che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno contro di essa non prevarranno: e darò a te le chiavi del regno de’ cieli. E qualunque cosa

avrai sciolto sulla terra, sarà sciolta anche in cielo (Matt., XVI, 16 ss.). Inoltre soltanto a Simon Pietro Gesù, dopo la sua risurrezione, conferì l’autorità di Sommo Pastore e reggitore su tutto il suo ovile, dicendo: Pasci gli agnelli miei…. pasci le pecore mie (Gio. XXI, 15 s.).

« Chi dunque affermerà che il beato Pietro Apostolo non fu costituito da Cristo Signore principe di tutti gli Apostoli e capo visibile della Chiesa militante; oppure ch’egli ricevette dal medesimo Signor nostro Gesù Cristo direttamente e immediatamente un primato solamente d’onore, ma non di vera e propria giurisdizione: sia scomunicato ».

Innocenzo X , Decretum S. Officii, De primatu Romani Pontifìcis, 24 Gennaio 1647:

« Sua Santità… ha riferito e dichiarato eretica questa proposizione: « S. Pietro e S. Paolo son due capi della Chiesa, che ne formano un solo » oppure « son due corifei e supreme guide della Chiesa cattolica, stretti fra loro di suprema unità » oppure « sono il duplice fastigio della Chiesa universale, che perfettamente si fusero in uno » oppure « sono i due sommi pastori e presidi della Chiesa, che formano un capo solo » , spiegata in modo da porre tra S. Paolo e S. Pietro una perfetta uguaglianza, senza subordinazione e soggezione di S. Paolo a S. Pietro nel supremo potere e governo della Chiesa universale».

(Du Plessy, 1. c, III, 11, 248).

S. Efrem, In Hebdomadam Sanctam, IV, 1:

« Simone, discepolo mio, io t’ho costituito fondamento della santa Chiesa. Già t’ho chiamato pietra, perché tu sosterrai tutti gli edifici; tu sarai soprintendente di coloro, che mi edificheranno in terra la Chiesa: se vorranno edificar qualche cosa riprovevole, tu, fondamento, raffrenali: tu sei polla della fonte, donde s’attinge la mia dottrina, tu sei capo de’ miei discepoli; per mezzo tuo disseterò tutte le genti; tua è quella soavità vivificatrice, di cui fo dono; ti ho eletto a essere, per così dire, il primogenito nella mia istituzione, per farti erede de’ miei tesori; t’ho dato le chiavi del mio regno. Ecco, t’ho costituito principe di tutti i miei tesori ».

(Lamy, 1. c. I, 412).

DOMANDA 127a.

Concilio d’Efeso: Vedi D. 126.

Concilio Vaticano, 1. C., cap. 2, De perpetuitate primatus beati Petri in Romanis Pontificibus:

« Orbene, ciò che Cristo Signore, capo de’ pastori e gran pastore del gregge, istituì nella persona del beato Apostolo Pietro per la salvezza perpetua e a beneficio perenne della Chiesa, deve durar per sempre, grazie al medesimo istitutore, nella Chiesa, che, per esser fondata su ferma pietra, ferma starà sino alla fine de’ secoli. Davvero « nessuno dubita, anzi è noto a tutte le generazioni che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli Apostoli e colonna della fede e fondamento della Chiesa Cattolica, ricevette dal Signor nostro Gesù Cristo, Salvatore del genere umano e Redentore, le chiavi del regno: ed Egli « vive » ed è a capo e « giudica » fino ad ora e sempre ne’ suoi successori, i Vescovi della santa Romana Sede, fondata da lui stesso e consacrata col sangue (Conc. d’Efeso, an. 431). Perciò qualsiasi successore di Pietro su questa cattedra ottiene, secondo l’istituzione di Cristo in persona, il primato su tutta la Chiesa. « Sta ferma dunque la disposizione di verità e il beato Pietro, persistendo nella ricevuta fortezza di roccia, non abbandona le assunte redini della Chiesa » . (S. Leone Magno, Discorso III). Per questa ragione fu sempre « necessario che ogni Chiesa, vale a dire quelli che sono i fedeli d’ogni parte si raccogliesse « alla Chiesa Romana » in grazia d’una più alta primazia » (S. Ireneo, Adversus hæreses, III, 3), per fondersi, membra unite al capo, come unica compagine di corpo, nella Sede, dalla quale irradiano a tutti « i vincoli legittimi d’una santa comunione » (Concil. d’Aquileja, an. 381).

« Pertanto chi afferma che non è per istituzione di Cristo Signore in persona, ossia di diritto divino, che il beato Pietro abbia perpetui successori nel primato su tutta la Chiesa,

oppure che il Romano Pontefice non sia il successore del beato Pietro nel medesimo primato: sia scomunicato ».

DOMANDA 131a.

II. Concilio di Lione (1274), Professio fidei Michaelis Palæologi:

« La stessa santa Romana Chiesa occupa anche il supremo e pieno primato e principato su tutta quanta la Chiesa cattolica; e con verità e umiltà riconosce di averlo ricevuto colla pienezza del potere dal Signore stesso nella persona del beato Pietro principe ossia capo degli Apostoli, perché  di lui il Pontefice Romano è il successore. E come, più d’ogni altro, ha il dovere di difender la verità, così anche se sorgessero questioni di fede devono esser definite dal suo giudizio. Ad essa può appellarsi chiunque sia chiamato a rispondere dinanzi al foro ecclesiastico: e in tutte le cause, spettanti all’esame ecclesiastico, si può aver ricorso al giudizio di essa; e alla medesima sono soggette tutte le chiese, i capi delle quali le prestano obbedienza e riverenza. Ma tal pienezza di potere va intesa in modo da ammettere a partecipare nel governo tutte l’altre chiese, molte delle quali -— e specie le patriarcali — la medesima Romana Chiesa onorò di parecchi privilegi; salva però sempre la sua prerogativa osservata così ne’ Concili generali come in qualche altro » .

(Mansi, XXIV, 71).

Concilio Fiorentino, Decretum prò Græcis:

« Similmente definiamo che la santa Sede Apostolica e il Romano Pontefice occupano il primato in tutto il mondo e che lo stesso Romano Pontefice è il successore del beato Pietro principe degli Apostoli e vero vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa e padre e maestro di tutti i Cristiani: e che a lui proprio fu comunicata, nella persona del beato Pietro, dal Signor nostro Gesù Cristo piena autorità di pascere, reggere e governare la Chiesa universale; come sta scritto anche negli atti de’ Concilii ecumenici e ne’ sacri canoni ».

(Mansi, XXXI, 1031).

Concilio Vaticano, Costit. Pastor Æternus, cap. 3: De vi et ratione primatus Romani Pontifìcis:

«Perciò, appoggiati alle manifeste testimonianze delle sacre Carte e osservando gli eloquenti ed evidenti decreti tanto de’ nostri predecessori, i Romani Pontefici, quanto de’ Concilii generali, rinnoviamo la definizione del Concilio ecumenico fiorentino, in forza della quale tutti i fedeli di Cristo devono credere l a Santa Apostolica Sede… (Cfr. sopra, Concilio Fiorent., Decretum prò Græcis…) sta scritto ne’ sacri canoni ».

« Perciò insegniamo e dichiariamo che la Chiesa Romana, per disposizione del Signore, possiede sopra tutte l’altre il primato d’ordinaria potestà, e che questa potestà di giurisdizione del Romano Pontefice, davvero episcopale, è immediata; e ad essa i pastori e i fedeli, di qualsiasi rito e dignità, tanto singoli e separatamente quanto insieme tutti, sono stretti per dovere di gerarchica subordinazione e vera obbedienza per quanto riguarda non solamente fede e costumi, ma pure la disciplina e il governo della Chiesa diffusa in tutto il mondo; sicché, serbata l’unità sia di comunione sia di professione della medesima fede col Romano Pontefice, la Chiesa di Cristo sia un unico gregge sotto un unico sommo pastore. Quest’è l’insegnamento della verità cattolica: deviar da esso nessuno può, salva la fede e la salute. – « Tanto poi questa potestà del Sommo Pontefice è lontana dal nuocere all’ordinaria e immediata potestà di giurisdizione episcopale, per cui i Vescovi, che posti dallo Spirito Santo (Atti, XX, 28) succedettero agli Apostoli, pascono e reggono singolarmente i singoli greggi a lor affidati, come veri pastori; che anzi essa è dal supremo e universale Pastore asserita, rafforzata, rivendicata, come dice S. Gregorio Magno: « L’onor mio è l’onore della Chiesa universale. L’onore mio è il saldo vigore de’ fratelli miei. Io son davvero onorato allorché a ognuno non è ricusato il dovuto onore » . (Epist. ad Eulogium; P. L.; 77, 933). – Orbene, da quella suprema autorità del Romano Pontefice gli consegue pure il diritto di comunicare liberamente, in questo suo ufficio, con pastori e greggi di tutta la Chiesa, affinché possano proprio da lui essere ammaestrati e guidati sul cammino della salvezza. Perciò condanniamo e riproviamo la sentenza di chi afferma che può essere lecitamente impedita questa comunicazione tra Capo supremo, pastori e greggi, oppure la dichiarano in balìa del poter secolare; sostenendo che, senza beneplacito e conferma del potere secolare, non hanno forza né valore le disposizioni prese dalla Sede Apostolica di Sua autorità nel governo della Chiesa. « E, poiché il Romano Pontefice presiede a tutta la Chiesa per il divin diritto del primato Apostolico, insegniamo pure e dichiariamo ch’Egli è giudice supremo de’ fedeli e che al giudizio di lui si può ricorrere in ogni causa; e che inoltre il giudizio della Sede Apostolica, il più autorevole su tutti, non deve essere ricusato da nessuno, né ad alcuno esser lecito giudicare di quel giudizio. Perciò erra dal retto sentiero di verità chi afferma che dai giudizi dei Romani Pontefici sia lecito appellarsi al Concilio ecumenico, come ad autorità superiore al Romano Pontefice. « Pertanto chi affermerà che il Romano Pontefice ha soltanto incarico di ispezione o di direzione, ma non piena e suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, né soltanto nelle cose che riguardano la fede e i costumi, ma pure nelle cose di disciplina e di governo della Chiesa sparsa per tutto il mondo: oppure ch’egli ha soltanto le parti più importanti, ma non tutta la pienezza di questo supremo potere; oppure che questo suo potere non è ordinario e immediato, tanto su tutte e singole le Chiese quanto su tutti e singoli i pastori e i fedeli: sia scomunicato».

S. Leone IX, Epist. In terra pax hominibus, 2 Settembre 1053, a Michele Cerulario e a Leone d’Acrida, sul primato del R. Pontefice:

Cap. 7. La Santa Chiesa fu edificata sopra la pietra, cioè Cristo, e sopra Pietro, ossia Cefa, figlio di Giovanni, che prima era detto Simone, perché non doveva in nessun modo essere vinta dalle porte dell’inferno, vale a dire dalle dispute degli eretici, che sospingono a morte la gente vana, così promette la Verità in persona, grazie alla quale è vera ogni cosa che è vera: le porte dell’inferno non prevarranno contro essa (Matt., XVI, 18). Il Figlio medesimo attesta di aver implorato dal Padre l’efficacia di questa promessa, quando dice a Pietro: Simone, ecco satana, ecc. (Luc., XXII, 31). C i sarà dunque qualcuno così fuor di senno da osar di considerare in qualche punto inefficace la preghiera di colui di cui il volere è potere? Forse che dalla Sede del principe degli Apostoli, vale a dire dalla Chiesa Romana, sia per mezzo del medesimo Pietro, sia per mezzo de’ suoi successori, non furon riprovati e messi in causa e confutati gli errori di tutti gli eretici e confermato l’animo de’ fratelli nella fede di Pietro, che fin qui non venne meno, né verrà meno sino alla fine?

Cap. 11. Voi, col cagionare danno alla Sede suprema, della quale a nessun uomo è lecito giudicare, avete meritato l’anatema da tutti quanti i Padri di tutti i Santi Concilii.

Cap. 31. Come il cardine, rimanendo immobile, volge e rivolge la porta, così Pietro e i successori di lui possiedono libera giurisdizione di ogni Chiesa; e nessuno deve attentare alla loro stabilità perché la Sede suprema non è giudicata da alcuno ».

(P. L., 143, 748, 751, 765).

Bonifacio VIII, Bolla Unam sanctam, 18 nov. 1302:

« Mossi dalla fede, siamo tenuti a credere ed esser fedeli alla santa Chiesa Cattolica, e apostolica per di più; e noi con fermezza la crediamo e con semplicità la professiamo, e fuor di essa non c’è né salvezza, né remissione de’ peccati… Unico dunque il corpo della sola e unica Chiesa, unico il Capo, non due come in un mostro, vale a dire Cristo e Pietro, il vicario di Cristo e il successor di Pietro, perché il Signore disse a Pietro in persona: pasci le mie pecore (Giov. XXI, 17). Disse mie in generale, non singolarmente queste o quelle; e s’intende perciò che gliele affidò tutte quante. Dunque se i Greci o altri negano di essere stati affidati a Pietro e a’ suoi successori, conviene confessino di non essere del gregge di Cristo, perché nel Vangelo di Giovanni dice il Signore che uno solo è l’ovile e unico il pastore (Giov. X, 46). « Il Vangelo ci insegna che in questa potestà che è potestà Sua stanno due spade, cioè la spirituale e la temporale…. L’una e l’altra dunque sta in poter della Chiesa, vale a dire la spada spirituale e la materiale. Questa dev’essere adoperata in prò’ della Chiesa, l’altra invece dalla Chiesa; l’una in mano del sacerdote, l’altra dei re e de’ soldati, però secondo il cenno e la discrezione del sacerdote. Inoltre bisogna che spada stia sotto spada e la potestà temporale sia soggetta all’autorità spirituale… È necessario che noi tanto più nettamente riconosciamo che la spirituale autorità è superiore a qualsiasi terrena sia per dignità sia per nobiltà, quanto le cose spirituali sono superiori alle temporali… Difatti, per attestazione della Verità, l’autorità spirituale è incaricata di istruire e giudicare quella terrena, se non sarà buona… Dunque se l’autorità terrena erra, sarà giudicata dall’autorità spirituale; se erra invece un’autorità spirituale inferiore, sarà giudicata da quella superiore; se poi la suprema, potrà essere giudicata da Dio soltanto, non da un uomo, come afferma l’Apostolo: l’uomo spirituale giudica tutto, lui stesso però non è giudicato da nessuno (I. ai Cor., II, 15). Orbene questa autorità, quantunque concessa all’uomo ed esercitata dall’uomo, non è umana, ma piuttosto divina, conferita per bocca di Dio a Pietro e confermata tanto per lui quanto pe’

suoi successori nella persona di colui stesso, che pietra sarà stato proclamato, giusta le parole del Signore a Pietro: tutto ciò che avrai legato ecc. (Matt. XVI, 19). Chiunque perciò resiste a quest’autorità così ordinata da Dio, si oppone alla disposizione di Dio… Inoltre dichiariamo affermiamo definiamo e pronunciamo che per ogni creatura umana lo star soggetta al Romano Pontefice è assolutamente necessario per la salvezza » .

(Extr. comm., I , 8, 1).

DOMANDA 132a.

S. Ignazio d’Antiochia, Epist. ad Smyrnæos, VIII, 1:

« Obbedite tutti al Vescovo, come Gesù Cristo al Padre…. Nessuno osi far nulla di ciò che spetta alla Chiesa separatamente dal Vescovo. Sia ritenuta valida l’Eucaristia, che si fa sotto il Vescovo o sotto chi ne è autorizzato da lui. Dov’è il Vescovo ci sia il popolo, come dov’è Cristo c’è la Chiesa cattolica. Non si può né battezzare né celebrar l’agape senza vescovo; ma tutto ciò che è approvato da lui è approvato anche da Dio, dimodoché tutto ciò che si fa è sicuro e valido ».

(Patres Apostolici, ed. Funck, I , 282).

S. Ireneo, Adv. hæreses, III, 1, 1:

« A chiunque desidera conoscer la verità è dato di osservare in ciascuna chiesa la tradizione apostolica chiara in tutto il mondo; e possiamo contare quelli che furono creati Vescovi dagli Apostoli e loro successori fino a noi; orbene questi niente insegnarono e conobbero di ciò che costoro pazzamente dicono ».

(P. G., 7, 848).

DOMANDA 133a

Pio XI, Encicl. Mortalium animos, 6 genn. 1928:

« Cristo Signore poi costituì la sua Chiesa come una società perfetta, per natura esteriore e sensibile, allo scopo di proseguir nel futuro l’opera di restaurare l’uman genere sotto la guida d’un sol capo (Mtt. XVI, 18 s.; Luc. XXII, 32; Gio. XXI, 15-17) col magistero della parola viva (Marc. XVI, 15) e coll’amministrazione de’ Sacramenti, sorgenti della grazia celeste (Gio. III, 5; VI, 48-59; XX, 22 s.; cfr. Mtt. XVI, 18 etc.); per questo, con paragoni, la disse somigliante a un regno (Mtt. XXIII), a una casa (cfr. Mtt. XVI, 18), a un ovile (Gio. X, 16), a un gregge (Gio. XXI, 15-17). Orbene questa Chiesa, così mirabilmente costituita, non poteva, dopo la morte del suo Fondatore e degli Apostoli, condottieri della sua diffusione, non poteva certamente né cessare né spegnersi, dacché aveva incarico di condurre gli uomini tutti all’eterna salute, senza distinzione di tempo e di spazio: dunque andate e insegnate a tutte le genti, (Mtt. XXVIII, 19) …. Ebbene nessuno vive, nessuno continua a vivere in questa Chiesa unica di Cristo, se non riconosce e accoglie, coll’obbedienza, l’autorità e la potestà di Pietro e de’ suoi legittimi successori ».

(Acta Apost. Sedis, XX, 8, 15).

DOMANDA 136a

Concilio IV. di Laterano (1215) Contra Albigenses, C. I,

De fide catholica:

« Unica invero è la Chiesa universale de’ fedeli; e fuor di essa nessuno affatto può salvarsi ».

(Mansi, XXII, 982).

Concilio di Firenze, Decretum prò Jacobitis, e Bolla Cantate Domino, 4 febbr. 1441 :

« La Santa Chiesa Romana fermamente crede, professa e proclama che nessuno può divenir partecipe della vita eterna, se non vive dentro la Chiesa Cattolica, non solo i pagani, ma neanche i giudei, gli eretici e gli scismatici; anzi cadrà nel fuoco eterno, che è stato preparato pel diavolo e i suoi angeli (Mt. XXV, 41) se non sarà, prima di morire, unito alla medesima; che tanto ha valore l’unità del corpo della Chiesa che i Sacramenti di essa profittano a salute soltanto per chi rimane in essa e solo per lui meritano premio eterno tanto i digiuni quanto le elemosine e gli altri esercizi e compiti della pietà cristiana; e che nessuno può salvarsi, se non rimane in seno e nell’unità della Chiesa cattolica, per quante elemosine faccia e anche se, per gloria di Cristo, versa il suo sangue

».

(Mansi, XXXI, 1739).

Innocenzo III, Epist. Ejus exemplo, 18 dic. 1208 all’Arcivescovo di Tarragona, Professione di fede proposta a Durando di Osea e a’ suoi compagni Valdesi:

« Crediamo col cuore e professiamo colla parola un’unica Chiesa, non l’eretica, ma la santa Romana cattolica e apostolica, fuor della quale crediamo che nessuno si salva ».

( P. L., 215, 1511).

Bonifacio VIII: Vedi D. 131.

Pio IX, Allocuz. Singulari quadam, 9 dic. 1854:

« Sappiamo con dolore che un secondo errore, non meno esiziale, ha invaso talune parti del mondo cattolico e si è insediato generalmente nell’animo de’ cattolici, che pensano d’aver bene a sperare per la salvezza di tutti coloro, i quali non vivono affatto nella vera Chiesa di Cristo. Perciò spesso spesso è loro abitudine insistere a chiedere quale mai sarà dopo morte la sorte e lo stato di coloro, che non appartennero mai alla fede cattolica, aspettando alle loro vanissime pretese una risposta, che a tal sentenza sbagliata porga sostegno. Non osiamo per carità! venerabili Fratelli, metter limiti alla misericordia divina, che è infinita, né scrutare gli arcani disegni e giudizi di Dio, che sono un abisso profondo (Salm. XXXV, 7) e impenetrabile all’umano pensiero. Vogliamo invece, com’è del nostro compito apostolico, destare la vostra episcopale premura e, vigilanza nell’intento che con ogni vostro sforzo scacciate dalla mente degli uomini quell’empia quanto funesta opinione, che si possa cioè in qualsiasi religione trovar la via dell’eterna salute. Con quella sollecitudine e dottrina che vi distingue, istruite i popoli affidati alla vostra cura, mostrando che i dogmi della fede cattolica non sono contrari alla misericordia e alla giustizia divina. « Bisogna credere che nessuno può salvarsi, fuori della Chiesa Apostolica Romana, che questa è l’arca unica di salvezza, che morirà nel diluvio chi non vi entra; ma parimenti bisogna tener per certo che davanti a Dio non hanno colpa di sorta quelli che ignorano la vera religione, se l’ignoranza è davvero invincibile. « Orbene chi presumerà designare i limiti di siffatta ignoranza, secondo le varie differenze di popolo, di regione, di ingegno e di molte altre circostanze? Infatti, quando, sciolti da questi vincoli del corpo, vedremo Dio com’è, capiremo di certo quanto siano strettamente e bellamente intrecciate la misericordia e la giustizia divina; però, fino a che viviamo in questo mondo gravati dal peso mortale che inebetisce l’anima, dobbiamo tener per fermo, secondo la dottrina cattolica, che vi è un solo Dio, una sola fede, un solo battesimo (agli Ef., IV, 5 ); andar più innanzi coll’indagine non è lecito».

(Acta Pii IX, I, 1, 625).

Leone XIII, Encicl. Satis cognitum, 29 giugno 1896:

« Orbene, se si guarda al fatto storico, Gesù Cristo fondò e formò la Chiesa non di natura tale che comprendesse più comunità di genere simili, ma distinte, né tra loro collegate da vincoli tali da formare una Chiesa individua e unica; proprio nel modo che noi professiamo nel Simbolo della fede Credo in una sola…. Chiesa…. Davvero Gesù Cristo, parlando di siffatto edificio mistico, non fa menzione se non di un’unica Chiesa, che chiama la sua: edificherò la mia Chiesa (Matt. XVI, 18). Qualunque altra fuor di questa si pensi, non può essere la vera Chiesa di Cristo, perché non fondata da Gesù Cristo…. Sicché deve la Chiesa profondere largamente su tutti gli uomini e propagare a tutte le generazioni la salvezza conquistata da Gesù Cristo e insieme tutti i benefici che ne provengono. Perciò, secondo la volontà del Fondatore, è necessario che sia unica in tutto il mondo, perennemente… È dunque la Chiesa di Cristo unica e perpetua: chiunque se ne stacca abbandona la volontà e il precetto di Cristo Signore e, lasciato il sentiero di salvezza, scivola verso la morte ».

(Acta Leonis XIII, XVI, 163, 165, 168).

S. Cipriano, De unitate Ecclesiæ, 6:

« La sposa di Cristo non può esser adulterata; è incorrotta e pudica. Conosce una sola casa, custodisce con casto pudore la santità di un sol talamo. Essa ci conserva a Dio, essa destina al regno i figli che ha generato. Chiunque, staccatosi dalla Chiesa, si congiunge all’adultera, si separa pure dalle promesse della Chiesa; e non giungerà alla ricompensa di Cristo chi abbandona la Chiesa di Cristo. È uno straniero, è un profano, è un nemico. Non può più avere per padre Dio, chi non ha per madre la Chiesa. Se poté evadere chiunque rimase fuor dall’Arca di Noè, anche chi rimarrà fuor dalla Chiesa consuma un’evasione ».

(P. L., 4, 518 s.).

S. Girolamo, Epist. 15 (Ad Damasum), 2:

« Io, non seguendo altri per primo se non Cristo, sono intimamente unito in comunione alla tua Beatitudine, cioè alla cattedra di Pietro. So che su quella pietra fu edificata la Chiesa. Chiunque mangerà l’agnello fuor di questa casa è un profano. Chi non sarà nell’arca di Noè andrà perduto nella furia del diluvio ».

(P. L., 22, 355).

S. Agostino, Sermo ad Cæsariensis ecclesiæ populum, 6:

« (Salvezza l’uomo) non può trovare se non nella Chiesa cattolica. Fuor della Cattolica Chiesa può trovar tutto, tranne la salvezza. Può aver onori, può aver Sacramenti, può cantare l’Alleluja, può rispondere l’Amen, può tener il Vangelo, può nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo avere e proclamare la fede, mai però fuori della Chiesa cattolica, potrà trovare la salvezza ».

(P. L. 43, 695).

DOMANDA 137a.

Pio XI, Encicl. Rerum Ecclesiæ, 28 febbr. 1926:

« Quelli, che con attenzione studiano i fasti della Chiesa, non possono non rilevare che, fin dai primi tempi della ricuperata salvezza, le sollecitudini e i pensieri de’ Romani Pontefici furono soprattutto rivolti a spargere, senza mai lasciarsi distogliere da difficoltà e ostacoli, la luce della dottrina evangelica e i benefici della civiltà cristiana tra i popoli che sedevano « nelle tenebre e nell’ombra di morte » . E difatti la Chiesa non è destinata ad altro che a rendere partecipi tutti quanti gli uomini della salutare redenzione, col dilatare il regno di Cristo in tutto il mondo; ma chiunque sia, che, per volere di Dio, fa le veci in terra di Gesù Principe de’ pastori, non può contentarsi solamente di proteggere e salvare il gregge del Signore, che ricevette da governare, ma verrebbe meno al suo principale compito se non cercasse con ogni sforzo di guadagnare e congiungere a Cristo gli stranieri e gli estranei ».

(Acta Apost. Sedis, XVIII, 65).

S. Agostino, Contra Epist. Manichæi, 5:

« Nella Chiesa…. cattolica…. molti motivi mi tengono attaccato al suo grembo con piena ragione: il consenso de’ popoli e delle genti; il prestigio, cominciato co’ miracoli, nutrito di speranza, accresciuto dalla carità, confermato dall’antichità; la successione sacerdotale da Pietro Apostolo stesso, cui dopo la risurrezione il Signore affidò da pascere le sue pecore, fino al presente episcopato; finalmente il nome stesso di Cattolica, non senza una ragione riservato, in mezzo a tante eresie, a questa Chiesa soltanto, sicché, mentre gli eretici pretendono tutti d’esser detti cattolici, nessun eretico oserebbe d’indicare la sua basilica o la sua casa, se un forestiero domandasse dove si trova la Chiesa Cattolica ».

(P. L., 42, 175).

Il medesimo, De Symbolo, sermo ad cathecumenos, 14:

« Essa è la Chiesa santa, la Chiesa unica, la Chiesa vera, la Chiesa cattolica, in lotta contro tutte le eresie; può combattere, ma non esser vinta. Uscirono da essa, come sarmenti vani staccati dalla vite, tutte l’eresie; ma essa rimane nella sua radice, nella sua vite, nella sua carità ».

(P. L., 40, 635).

DOMANDA 138a.

S. Cipriano, Epist. V, 40, 5 :

« C’è un Dio solo e un solo Cristo e una sola Chiesa e una sola cattedra fondata per volere di Dio su Pietro. Oltre l’unico altare e l’unico sacerdozio non se ne può costituire un altro nuovo. Chi raccoglierà altrove, disperde ».

(P. L., 4, 345).

S. Ambrogio, In Psalm., 40, 30:

« È proprio Pietro, al quale disse  Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa (Mtt. XVI, 18). Dunque ov’è Pietro, ivi non c’è morte, ma vita eterna ».

(P. L., 14, 1134).

DOMANDA 144a.

Adamanzio, Dìalogus de recta in Deum fide, V. 28:

« Proprio della sola verità vive giustamente e santamente e piamente la Chiesa cattolica, e chi ha cambiato strada e s’è allontanato da essa sta lungi dalla verità; e se, a parole, afferma di conoscere la verità, di fatto n’è assai lontano ».

(P. C, 11, 1883).

S. Cipriano, Inter S. Cornelii Epistolas, Epist. 12, 14:

« Osano (gli erètici) venir per mare alla cattedra di Pietro e alla Chiesa principale, dond’ebbe origine l’unità del sacerdozio, e portar lettere da parte degli scismatici e degli estranei; e non riflettono che son Romani quelli, la fede de’ quali fu celebrata dalla parola dell’Apostolo, ai quali non può aver accesso la perfidia? »

(P. L., 3, 844, 3).

S. Pier Crisologo, Epist. ad Eutychen, 2:

« Ti esortiamo con ogni premura, o venerabile fratello, di osservare attentamente le cose che ha scritto il beatissimo Papa di Roma; perché il beato Pietro, che vive e governa nella propria sede, fornisce a chi la cerca la verità della fede. E noi non possiamo, per desiderio di pace e di fede, trattar questioni di fede fuor dal consenso del Vescovo di Roma ».

(P. L., 54, 741 s.).

DOMANDA 147a.

Concilio Vaticano, Costit. Pastor Æternus, cap. 4, De Romani Pontificis infallibili magisterio:

dal principio della fede cristiana, a gloria del Salvatore nostro Dio, per l’esaltazione della religione cattolica e la salvezza de’ popoli cristiani, insegniamo, col consenso del sacro Concilio, e definiamo come rivelato da Dio il dogma che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando definisce, colla suprema sua autorità Apostolica come pastore e maestro di tutti i Cristiani, che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ricevuta da tutta la Chiesa, gode, in virtù dell’assistenza divina promessagli nella persona del beato Pietro, di quell’infallibilità, di cui volle il divin Redentore fornire la sua Chiesa nel determinare l’insegnamento circa la fede o i costumi; e che perciò tali definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili di per se stesse, non per consenso della Chiesa.

« Sia scomunicato chiunque (Dio non permetta) presumerà contraddire a questa Nostra definizione ».

DOMANDA 148a.

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, cap. 3 :

« Orbene bisogna credere con fede divina e cattolica tutto ciò ch’è contenuto nella parola di Dio scritta o tramandata e che viene proposto, come divinamente rivelato, dalla Chiesa, sia con giudizio solenne sia col magistero ordinario e universale ».

DOMANDA 150a.

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, cap. 4, De fide et ratione :

« Ora la Chiesa, che insieme coll’incarico apostolico di insegnare ricevette il mandato di custodire il deposito della fede, ha da Dio anche il diritto e il dovere di proscrivere la falsa scienza affinché nessuno sia tratto in inganno da una filosofia vana e fallace (Ai Coloss. II, 8). E perciò non soltanto è proibito a tutti i fedeli Cristiani di difendere come legittime conclusioni della scienza le opinioni, che si conoscono contrarie all’insegnamento della fede, specialmente se sono state riprovate dalla Chiesa, ma è fatto obbligo assoluto di considerarle piuttosto come errori, che presentano un’apparenza ingannevole di verità ».

DOMANDA 151a.

Concilio Vaticano: Vedi D. 150.

Alessandro VII, Costit. Regiminis Apostolici, 15 febbr. 1664:

« Io N. mi sottometto alla Costituzione Apostolica del papa Innocenzo X, pubblicata il 31 maggio 1653, e alla Costituzione del papa Alessandro VII, pubblicata il 16 ottobre 1656 e con animo sincero respingo e condanno le cinque proposizioni estratte dal libro, intitolato Augustinus, di Cornelio Giansenio e nel senso inteso dal medesimo autore, come le ha condannate la Sede Apostolica con le predette Costituzioni; e giuro così: m’aiuti Dio e questi Santi vangeli di Dio ».

(Du Plessis, 1. C., III, 11, 315).

Clemente XI, Costit. Vineam Domini Sabaoth, 16 lugl. 1705:

« Affinché in avvenire sia tolta affatto ogni occasion d’errore e tutti i figli della Chiesa cattolica imparino ad ascoltar la Chiesa stessa non solo in silenzio (anche gli empii tacciono nelle tenebre) ma pure con esteriore ossequio, ch’è la vera obbedienza di chi sta nell’ortodossia, decretiamo, dichiariamo, stabiliamo e ordiniamo, per mezzo di questa nostra Costituzione valevole in perpetuo e coll’autorità stessa degli Apostoli, che non si soddisfa per niente affatto con quell’ossequio tacito all’obbedienza ch’è dovuta alle precitate Costituzioni apostoliche; ma che il senso, quale offrono le parole di esse, del libro di Giansenio, condannato nelle cinque predette proposizioni, dev’essere da tutti i fedeli di Cristo rifiutato e condannato come eretico non soltanto colla bocca, ma anche col cuore; e che non si può sottoscrivere lecitamente a detta formola con intenzione, animo o credenza differente, sicché coloro i quali penseranno, riterranno, predicheranno, insegneranno a voce o per iscritto, affermeranno diversamente o contrariamente riguardo a questi punti tutti i singoli, soggiaceranno, come trasgressori delle predette Costituzioni apostoliche, a tutte e singole le censure e pene di esse ».

(Idem, ib. III, 11, 448).

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 luglio 1907, 7a delle proposizioni condannate:

« La Chiesa, quando proscrive gli errori, non può esigere dai fedeli assenso interiore di sorta, che accolga i giudizii da essa pronunciati ».

(Acta Apost. Sedis, XL, 471).

DOMANDA 152a.

Pio IX, Epist. Tuas libenter, 22 die. 1863 all’arcivescovo di Monaco e Frisinga :

« Ma quando si tratta della sottomissione, alla quale son obbligati in coscienza tutti quei cattolici, che si dedicano alle scienze speculative per portare coi loro scritti nuovi vantaggi alla Chiesa, in questo caso devono riconoscere i membri della medesima Assemblea che per gli studiosi cattolici non basta che accolgano e rispettino i predetti dogmi della Chiesa, ma occorre anche sottomettersi sia alle decisioni, che in riferimento alla dottrina son pubblicate dalle Congregazioni pontificie, sia a quei punti della dottrina che, per comune e costante consenso de’ Cattolici, son ritenuti come verità teologiche e conclusioni di tal certezza che le opinioni ad essi contrarie, benché non possano dichiararsi eretiche, tuttavia meritino un’altra censura teologica ».

(Acta Pii IX, I, III, 642-43).

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 luglio 1907, 8a prop. tra le condannate:

« Son da ritenere esenti da ogni colpa quelli che non tengono alcun conto delle riprovazioni espresse dalla Sacra Congregazione dell’Indice o da altre Sacre Congregazioni Romane ».

(Acta Apost. Sedis, 1. c.).

DOMANDA 158a.

S. Agostino, De fide et Symbolo, 21 :

« Crediamo anche nella santa Chiesa, s’intende, cattolica. Perché anche gli eretici e i scismatici chiaman chiese le loro congregazioni. Ma gli eretici, pensando falsamente di Dio, violano proprio la fede; a lor volta i scismatici con le ingiuste divisioni si staccano dalla carità fraterna, pur credendo a quel che crediamo noi. Perciò né gli eretici appartengono alla Chiesa Cattolica, in quanto essa ama Dio, né i scismatici, in quanto ama il prossimo ».

(P. L., 40, 193).

DOMANDA 162a.

Innocenzo II (1130-1143), Epist. Apostolicam Sedem, al vescovo di Cremona:

« Alla tua domanda rispondiamo così: Affermiamo senza esitazione (sulla scorta de’ santi Padri Agostino e Ambrogio) che il prete, di cui c’informi che morì senza battesimo, fu libero dal peccato originale e raggiunse il gaudio della patria celeste, perché fu perseverante a credere nella Chiesa Cattolica e a professare il nome di Cristo. Leggi l’ottavo libro di Agostino De Civitate Dei, dove tra l’altro si trova: « S’amministra invisibilmente il battesimo, se viene escluso non per disprezzo della religione, ma per forza maggiore ». Sfoglia anche il libro del beato Ambrogio De obitu Valentiniani, che afferma la stessa cosa. Dunque, messe da parte le discussioni, tienti alla sentenza de’ dotti Padri e raccomanda di offrire a Dio nella tua Chiesa perenni preghiere pel nominato prete ».

(P. L., 179, 624).

Pio IX, Encicl. Quanto conficiamur, 10 ag. 1863 ai Vescovi d’Italia:

« E qui, o diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, conviene di nuovo ricordare e riprovare un errore gravissimo, nel quale sono miseramente irretiti taluni cattolici, secondo i quali possono giungere alla vita eterna gli uomini che vivono negli errori e lontani dalla vera fede e dall’unità cattolica. Ciò è affatto contrario alla dottrina cattolica. È noto a Noi e a Voi che chi per disgrazia si trova nell’ignoranza invincibile riguardo alla nostra santissima religione e, osserva diligentemente la legge naturale co’ suoi precetti scolpiti da Dio nel cuore di tutti ed è pronto a obbedire a Dio, conducendo una vita onesta e giusta, può conseguire la vita eterna, in virtù della luce e grazia divina, perché Dio, il quale vede perfettamente, scruta e conosce la mente, l’animo, i pensieri, le abitudini di tutti, non permette, nella sua somma bontà e clemenza, che sia punito colle eterne pene chiunque non abbia commesso colpa volontaria. Ma è notissimo pure il dogma cattolico che nessuno può salvarsi fuor della Chiesa cattolica e che non possono conseguir l’eterna salvezza i ribelli all’autorità e alle definizioni della Chiesa medesima e gli ostinati nella separazione dall’unità della Chiesa stessa e dal successore di Pietro, il Romano Pontefice, al quale fu affidata dal Salvatore la custodia della vigna ».

(Acta Pii IX, I, III, 613).

DOMANDA 163a.

Pio IX: Vedi D. 162.

DOMANDA 166a.

Leone X III, Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885:

« …. 16. Il Figlio di Dio Unigenito stabilì sopra la terra una società, che si chiama Chiesa, alla quale affidò di proseguire per tutte le generazioni l’alto e divino mandato, che Egli stesso aveva ricevuto dal Padre…. 18. Questa società, benché sia composta di uomini non altrimenti che la società civile, tuttavia per il fine a lei assegnato e per i mezzi di cui si giova al fine, è soprannaturale e spirituale: e perciò si distingue e differenzia dalla società civile : e, ciò che più importa, è una società perfetta per origine e per diritto, dacché possiede in sé e per se stessa, per volontà e benefizio del suo Fondatore, tutti gli ammennicoli necessari alla sua integrità e attività. Come il fine, al quale mira la Chiesa, è di gran lunga il più nobile, così la sua potestà è di tutte la più eccellente, né può ritenersi inferiore al potere civile o ad esso in qualsiasi maniera soggetta. 24 Pertanto Dio divise tra due poteri la cura dell’uman genere, cioè tra l’ecclesiastico e il civile, l’uno preposto alle cose divine, l’altro alle umane. L’uno e l’altro è nel suo genere massimo: l’uno e l’altro ha determinati limiti, entro ai quali è contenuto, e segnati con precisione dalla natura e dalla ragione di ciascuno: sicché si determina per così dire un circolo, dentro al quale con proprio diritto si esercita l’azione di ciascuno. 25 Ma perché il dominio dell’uno e dell’altro è in rapporto ai medesimi sudditi, potendo accadere che una causa unica e medesima, benché per diversi riguardi, ma tuttavia la medesima causa, cada sotto la giurisdizione e il giudizio di entrambi, Dio provvidentissimo deve avere coordinato rettamente il cammino di entrambi, Egli dal quale ambedue furono costituiti. Orbene le cose che son da Dio ordinate (ai Rom. XIII, 1) 26. Pertanto bisogna che tra l’uno e l’altro potere passi un vincolo ordinato, che davvero può essere paragonato giustamente al vincolo, col quale sono uniti nell’uomo anima e corpo. Ma quale e quanto grande sia esso non si può giudicare altrimenti se non riguardando, come abbiam detto, alla natura dell’uno e dell’altro e col tener calcolo della importanza e nobiltà delle cause: difatti all’uno è assegnato più propriamente e soprattutto procurare il vantaggio negli interessi terreni, all’altro procurare i beni celesti ed eterni. Dunque tutto ciò ch’è sacro in qualche modo nel vivere umano, tutto ciò che ha rapporto alla salvezza delle anime e al culto di Dio, tanto se è tale di natura sua, quanto se s’intenda in grazia della causa cui si riferisce, è totalmente in potere ed arbitrio della Chiesa; il resto, che ha carattere civile e politico, è giusto che rimanga soggetto all’autorità civile, secondo il comando di Gesù Cristo che sia dato a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio. 54 In realtà se la Chiesa giudica illecito che godano dello stesso diritto, di cui gode la vera religione, le varie specie di culto divino, non pertanto condanna que’ capi di Stato, i quali o per conseguire qualche gran bene o scansar qualche gran male, tollerano che in forza dell’abitudine in ciascuno Stato abbiano posto ».

(Acta Leonis XIII, V, 124, 125, 127, 128).

Il medesimo, Encicl. Au milieu, 16 febb. 1892:

« Questo stato di cose nasce…. in certi paesi. Ed è uno stato che cagiona sì parecchi inconvenienti, però anche qualche vantaggio, soprattutto quando il legislatore, per una felice incoerenza, si lascia ispirare dai principii cristiani; e que’ vantaggi, quantunque non valgano a giustificare il falso principio della separazione, né a permetterne la difesa, rendono però meritevole di tolleranza uno stato di cose che, praticamente, non è il peggiore di tutti ».

(Acta Leonis XIII, XII, 39).

Il medesimo, Epist. Longinque Oceani, 6 genn. 1895:

« Da voi, senza opposizione del potere civile, fu concesso alla Chiesa sicura facoltà di vivere e di operare indisturbata, fuor d’ogni vincolo di leggi, difesa contro la violenza dal diritto comune e dalla rettitudine de’ giudizi. È vero: tuttavia bisogna distruggere l’errore che dall’America sia da prendere il modello della miglior situazione della Chiesa: o che, in generale, sia lecito o conveniente che, secondo il costume d’America, siano estranee e staccate le ragioni della vita civile e della vita religiosa ».

(Acta Leonis XIII, XV, 7).

DOMANDA 167a.

Leone XIII, Encicl. Diuturnum illud, 29 giugno 1881 :

« Senza dubbio la Chiesa di Cristo non può essere né sospetta ai principi né invisa ai popoli. Da un lato essa avverte i principi di seguir la giustizia e di non trascurare il loro dovere in nessuna circostanza; ma insieme ne rafforza e conferma con molte ragioni l’autorità. Riconosce e dichiara in loro potere e supremo dominio le mansioni di carattere civile; e nelle questioni che spettano, sia pure per differente rapporto, tanto alla sacra quanto alla civile potestà, vuole che tra le due corra un’intesa, in virtù della quale si evitano contrasti dannosi a entrambe ».

(Acta Leonis XIII, II, 285).

Il medesimo, Encicl. Immortale Dei. Vedi D. 166.

Pio X, Encicl. Vehementer, 11 febb. 1906:

« È certamente falsissima e quanto mai disastrosa sentenza quella che sia conveniente tener separato il vivere civile dal vivere ecclesiastico. Anzitutto fa grave ingiuria a Dio, perché si fonda sul principio che allo Stato non debba star a cuore per niente la religione, e Dio è proprio fondatore e conservatore dell’umana società non meno che de’ singoli uomini, sicché dev’essere onorato non solamente in privato, ma anche ufficialmente. Poi chiaramente afferma che non esiste il soprannaturale. Infatti riduce l’attività civile alla stregua della pura prosperità temporale, ragione particolare questa della civile società; trascura affatto il fine ultimo de’ cittadini, cioè l’eterna felicità assegnata fuor di questa breve vita agli uomini, come estraneo alla vita civile. Al contrario, come quaggiù è in tutto fissato l’ordine delle cose passeggere, così è verissimo che il governo civile, anziché nuocere, deve contribuire al raggiungimento di quel supremo e assoluto bene. Inoltre stravolge l’ordine della vita umana stabilito sapientissimamente da Dio e che senza dubbio esige la concordia delle due società, la religiosa e la civile. Siccome tutt’e due, ciascuna nel suo campo, esercitano sui medesimi sudditi il rispettivo governo, avviene di necessità che si dieno spesse volte questioni, di cui spetta ad entrambe la cognizione e la soluzione. – Ora, se lo Stato non s’accorda colla Chiesa, con facilità nasceranno precisamente da quelle questioni germi di contrasti, perniciosi a entrambe, con rischio di turbare, insieme con gli animi, anche il giudizio della verità. Finalmente cagiona gravissimo danno alla società stessa civile; questa infatti non può fiorire e nemmeno reggersi a lungo, trascurando la religione, suprema guida e maestra per l’uomo nell’osservanza scrupolosa de’ diritti e de’ doveri ».

(Acta Pii X, III, 26 – 27).

DOMANDA 169A.

Pio IX  Epist. Gravissimas inter acerbitates, 11 dic. 1864, all’arcivescovo di Monaco e Frisinga:

« Perciò la Chiesa, in virtù dell’autorità conferitagli dal suo divin Fondatore, ha non soltanto diritto, ma dovere di non tollerare, anzi di proscrivere e condannare tutti gli errori, se ciò lo esige l’integrità della fede e la salvezza dell’anime; e ogni filosofo, che vuol esser figlio della Chiesa, anzi la filosofia è obbligata di non contraddire mai all’insegnamento della Chiesa e di ritrattare tutto quanto la Chiesa ne li avverte. Affermiamo e dichiariamo affatto erronea e quanto mai ingiuriosa alla fede stessa e alla Chiesa e alla sua autorità la sentenza che insegna il contrario ».

(Acta Pii IX, I, III, 554-55).

Leone X III, Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885:

« Però, se si discute di argomenti puramente politici, della migliore forma di governo, di amministrare uno Stato così o colà, si può onestamente aver pareri differenti. Dunque giustizia non tollera di considerar colpa un parere differente circa gli accennati argomenti in coloro, de’ quali è nota del resto la onestà e la disposizione pronta ad accogliere con obbedienza i decreti della Sede Apostolica e peggiore ingiustizia assai è l’incriminarli, come non una volta sola ci duole che sia accaduto, di guasta o sospetta fede cattolica. E insomma i pubblcisti, specialmente se giornalisti, s’attengano a codesto precetto. In questa discussione su argomenti d’importanza gravissima non s’ha da far posto a liti o parzialità, ma tutti quanti devono accordarsi e contribuire a ciò ch’è bene comune per tutti, vale a dire di conservare la religione e lo Stato. I dissidi passati, se ce ne furono, bisogna volonterosamente dimenticarli; avventatezze o torti fatti, di chiunque ne sia la colpa, vanno compensati con reciproco amore e, per così dire, riscattati con profondo unanime omaggio alla Sede Apostolica. – « Su questa strada i Cattolici conseguiranno un duplice importantissimo vantaggio: di prestar aiuto alla Chiesa nel conservare e propagare la sapienza cristiana e di procurare un eccellente beneficio alla società civile, di cui pericola la salvezza per causa delle malvagie dottrine e ambizioni ».

(Acta Leonis XIII, V, 149-50).

DOMANDA 174a.

Concilio di Trento, sess. XXV, Sull’invocazione, la venerazione e le reliquie de’ Santi e sulle sacre immagini:

« Il santo Sinodo incarica tutti i Vescovi e gli altri, che hanno dovere e cura d’insegnare, affinché istruiscano con ogni premura i fedeli circa l’intercessione de’ Santi, l’invocazione, il culto delle reliquie e l’uso legittimo delle immagini, secondo la consuetudine della Chiesa cattolica e Apostolica, già invalsa fin dai primi tempi della religione cristiana, e l’approvazione de’ santi Padri e i decreti de’ sacri Concilii. E insegnino che i Santi, trionfanti ora insieme con Cristo, offrono le loro preghiere a Dio per gli uomini; ch’è cosa buona e utile invocarli supplichevolmente e ricorrere alle loro preghiere, alla loro potenza, al loro patrocinio per ottenere le grazie da Dio in nome del suo Figliuolo Gesù Cristo Signor nostro, ch’è l’unico nostro Redentore e Salvatore…. che son degni di venerazione da parte de’ fedeli anche i corpi santi de’ santi Martiri e degli altri che vivono in Cristo, già membra vive di Cristo e tempio dello Spirito Santo, destinati ad esser risuscitati da lui stesso a vita eterna e glorificati. Per mezzo di essi appunto Dio largisce agli uomini molti beneficii ».

S. Girolamo, Contra Vigilantium, 6:

« Affermi nel tuo libercolo che, mentre siam vivi, possiamo vicendevolmente pregare per noi, ma che, dopo morti, nessuna preghiera dell’uno per l’altro può esser esaudita, specialmente se nemmeno i martiri han potuto ottenere, pregando, la vendetta del loro sangue. Se gli Apostoli e i martiri possono pregare per tutti gli altri, da vivi, cioè quando ancora devono pensare per sé, tanto più non potranno dopo la corona, la vittoria e il trionfo? »

(P. L., 23, 344).

DOMANDA 175a.

S. Cirillo di Gerusalemme, Catecheses, V, 8:

« Poi ricordiamoci anche di quelli che s’addormentarono nel Signore; anzitutto de’ Patriarchi, Profeti, Apostoli, Martiri, affinché Dio accolga la nostra preghiera per le preghiere e l’intercessione loro; poi anche per i defunti santi Padri e Vescovi e in generale per tutti quelli che vissero tra noi, avendo fede che grandissimo aiuto sarà per quell’anime, per le quali è fatta la preghiera, mentre qui giace la vittima santa e terribile » .

(P. G., 33, 1115).

S. Agostino, De Civitate Dei, XX, 9, 2:

« Infatti non si separano le anime pie de’ morti dalla Chiesa, la quale anche ora è il regno di Cristo. Altrimenti non si farebbe memoria di essi all’altare di Dio nella comunione del corpo di Cristo » .

(P. L., 41, 674).

DOMANDA 177a.

Concilio IV d i Laterano (1215) c. I . , De fide catholica, Contra Albigenses:

« E se, dopo ricevuto il battesimo, uno cadrà in peccato, può riabilitarsi sempre per mezzo di una sincera penitenza » .

(Mansi, XXII, 982).

Concilio di Trento; vedi D. 143.

S. Leone IX, Epist. Congratulamur vehementer, 16 apr. 1053, Symbolum fidei:

« Credo che la vera Chiesa è santa, cattolica e apostolica e unica, nella quale si dà un solo battesimo e la vera remissione di tutti i peccati ».

(P. L., 143, 772).

DOMANDA 179a.

Concilio IV di Laterano (1215), c. I , De fide catholica contra Albigenses :

« E finalmente il figlio di Dio Unigenito Gesù Cristo…. che verrà alla fine del mondo per giudicare i vivi e i morti e retribuire a ciascuno secondo le opere sue, tanto ai reprobi quanto agli eletti: ed essi tutti risorgeranno coi propri corpi che ora possiedono, per ricevere secondo le opere loro, tanto se buone quanto se cattive: quelli la pena perpetua col diavolo e questi la gloria eterna con Cristo ».

(Mansi, 1. c.).

S. Leone IX , Epist. Congratulamur vehementer, 16 apr. 1053, Symbolum fidei:

« Credo anche la vera risurrezione della medesima carne, che ora porto, e la vita eterna ».

(P. L., 143, 772).

Innocenzo III, Epist. Eius exemplo, 18 dic. 1208: Professione di fede stabilita ai Valdesi:

« Crediamo col cuore e confessiamo colle labbra la risurrezione di questa carne, che portiamo, e non d’un’altra » .

(P. L., 215, 1512).

S. Cirillo di Alessandria: In Ioann., VIII, 51:

« Tutti rivivranno e ritorneranno ancora in vita, tanto i fedeli quanto gl’infedeli. Difatti la risurrezione non è personale affatto, ma uguale per tutti, in quanto tutti devono rivivere ».

(P. G., 73, 918).

S. Giovanni Crisostomo, Sermones panegyrici, De resurrectìone mortuorum, 8:

« Poiché dunque la risurrezione è comune a tutti, tanto ai pii che agli empi, tanto ai cattivi che ai buoni, non devi per questo credere che si faccia un giudizio ingiusto, né dire tra te stesso: Come mai? Anche l’empio e l’idolatra e chi non conosce Cristo, anch’esso risorge e gode con me di uguale onore?…. Anche i corpi dei peccatori risorgono incorruttibili e immortali; ma questo onore sarà per loro fomite e viatico di pene e di vendetta; difatti risorgono incorruttibili per bruciare in eterno ».

(P. G., 50, 430).

DOMANDA 180a.

S. Giovanni Crisostomo, De resurrectione mortuorum, 7:

« E non obiettarmi in qual modo possa un corpo risorgere e diventar immune da corruzione. Infatti quando agisce la potenza di Dio, quella parola come non c’entra più…. Di grazia, come ha creato le potenze immense, le schiere degli Angeli e degli Arcangeli e i cori più alti di questi? Dimmi, ti prego, come fece Qui non potrei dire altro se non che bastò la sola volontà. Dunque chi formò tanti eserciti incorporei, non potrà rinnovare il corpo corrotto d’un uomo e innalzarlo a più grande dignità? »

(P. G., 50, 429 s.).

DOMANDA 182a.

S. Cirillo di Gerusalemme, Catecheses, XVIII, 18-19:

« Difatti proprio questo corpo risorgerà, non rimanendo, qual è, infermo, ma risorgerà esso medesimo. E rivestito d’incorruttibilità sarà trasformato, come il ferro messo al fuoco si f a fuoco, o piuttosto come sa il Signore, che lo risuscita. Risorgerà dunque proprio questo corpo, ma non rimarrà come ora, bensì durerà in eterno; non avrà più bisogno di cibi quali mangiamo noi per vivere, né di scale per salire; perché diventerà spirituale, una vera meraviglia, quale non siamo in grado d’esprimere per la sua alta dignità…. Dunque risorgeremo, avendo tutti corpi eterni, ma non tutti simili: perché, se uno è giusto, riceverà un corpo celeste per poter vivere degnamente in compagnia degli angeli; se invece uno è peccatore, riceverà un corpo eterno, adatto a patire la pena de’ peccati, per non essere distrutto nel fuoco, pur bruciando eternamente ».

(P. G., 33, 1039).