LO SCUDO DELLA FEDE (171)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (VII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

1 MISTERI

1. — La nozione del mistero.

D. Che cosa è questa idea di mistero, che sembra ostruire le vie della religione e farle rischiare l’assurdo?

R. Il mistero è così poco l’assurdo che è quasi esattamente il contrario. L’assurdo ê l’evidenza del falso; il mistero nasconde il vero sotto la grandezza stessa del vero. Di modo che, nel primo caso, l’obbligo di cedere s’impone all’assurdo, nel secondo all’intelligenza. « La fede dice bensì quello che i sensi non dicono, spiega Pascal; ma non il contrario di quello che essi vedono. Essa è sopra, non contro. »

D. Donde trai codesto obbligo di abdicare che attribuisci all’intelligenza?

R. Limito per ora la portata di questa parola; ma nella misura che la mantengo, dico: Noi abdichiamo in favore dell’autorità divina. « lo credo arditamente dove non vedo niente, dice Bossuet, perché credo Colui che vede tutto ». Tu certo non mi domandi di ricominciare a fondare — per quanto brevemente e incompletamente io l’abbia fatto — questa stessa autorità.

D. Io mi attengo alla questione presente, ma temo che la religione abusi qui di una certa propensione dell’anima umana.

R. L’abuso sarebbe di proporre dei misteri senza garanzia offrendo la garanzia col mistero, la religione utilizza solamente 1a tendenza naturale dell’anima verso l’infinito.

D. Mi stupisco che in un sistema di lumi, tu trovi un posto naturale per l’oscurità.

R. Il mistero non è affatto oscuro in se stesso; se la nostra vista si potesse estendere fino ad esso, non lo chiameremmo più mistero, ma evidenza. Le stelle invisibili non sono forse, nel loro posto, dei globi abbaglianti? Non il mistero ê oscuro, ma noi; è la nostra condizione attuale che ci intercetta la comunicazione diretta con esso.

D. Le dottrine religiose che scartano il mistero son tuttavia più facili a credere.

B. In simile materia ciò che è facile a credere non merita di essere creduto.

D. I1 mistero sarebbe dunque a’ tuoi occhi una necessità?

R. « L’ultimo passo della ragione ê di riconoscere che c’è un’infinita di cose che la sorpassano; essa è fiacca se non arriva a conoscere questo? » (PASCAL).

D. Ma quello che ci sorpassa oggi ci può essere noto domani.

R. « I principii delle cose son nascosti in un segreto impenetrabile » (PASCAL).

D. Pascal dice: I principii; ma le cose?

R. Le cose dipendono dai loro principii e non sono conosciute di una conoscenza decisiva se non per mezzo di essi, di modo che tutte le scienze poggiano, come la religione, sopra l’incomprensibile. “Percorri la cerchia delle scienze, dice Giuseppe de Maistre, e vedrai che cominciano tutte da un mistero”. Del resto il mistero vi persiste e vi si ritrova a ogni nuovo passo, perché ogni passo della scienza dipende da’ suoi principii.

D. Il mistero maturale e il mistero religioso sono dello stesso ordine e dello stesso grado?

R. Non sono dello stesso ordine; ma praticamente non vi sono gradi nella piena notte. Teoricamente, guardando le cose in sé, il mistero religioso è più profondo, per la ragione che esso si avanza di più in Dio. Così Pascal aggiungeva alla prima frase ora citata: « Che se le cose naturali ci sorpassano, che si deve dire delle soprannaturali? »

D. Eppure ho letto questo, che mi ha recato meraviglia: « I misteri della Chiesa, paragonati ai misteri della natura, non sono che giochi da bambini. »

R. Chi parla così è Le Dantec, un ateo convinto, e il raffronto m’interessa; ma anche questo ê un errore per rovesciamento, per invertimento di valori. La Trinità è più nascosta che le leggi di costituzione della materia; l’ordine supremo è più oscuro che la gravitazione dei corpi. In questo senso, è vero il dire con Giulio Soury: « La scuola primaria dello spirito è la scienza. » Per conseguenza il mistero ci avvolge da ogni parte, ed è assai strano il vedere che una ragione cosi radicalmente impotente riguardo alle più semplici cose elimini con alterezza i dati religiosi che essa non capisce. Noi respiriamo nell’ineomprensibile; siamo noi stessi qualcosa d’incomprensibile, e l’incomprensibile è anche il nostro pane. Io ti propongo questa doppia definizione sommaria: Dio è un mistero che si nasconde, l’universo un mistero che non si nasconde.

D. Ammetteresti dunque la dottrina dell’Inconoscibile?

R. Niente affatto. Ciò che si chiama l’Inconoscibile, con una maiuscola, ê una specie di mistero infinito, in tutti modi inaccessibile, un  “oceano per il quale noi non abbiamo né barca né vela (Litteé) e in seno al quale tutto il reale non è che un’isola sperduta”. Il mistero cristiano è finito, circoscritto è incluso in un sistema di spiegazioni di tal natura da soddisfare la nostra intelligenza. Non è un grande abisso nero, ma un seminato di macchie oscure circondate da luce, e dietro alle quali si annunzia una luce più viva che in nessun’altra parte.

D. Definiresti dunque il mistero

R. Un viottolo d’ombra che si apre sopra chiarezza.

D. Quali conseguenze di contegno ne trarresti?

R. Dove che l’Inconoseibile ê una zona interdetta per definizione, il mistero è un invito a tentare le ricerche, come si cammina verso un fuoco lontano. I genii cristiani mai non si manifestarono meglio che su questa via; vi si sono arricchiti in tutto il percorso, e se non hanno rischiarato niente di ciò che deve restare oscuro, l’hanno però ricamato di chiarezze preziose, l’hanno mostrato in rapporto con tante cose, che alla fine queste tenebre si mostrano le sole plausibili spiegazioni.

D. Ecco un bel paradosso.

R. Non è affatto un paradosso. Un punto d’ombra è rischiarante quanto un punto luminoso, quanto si tratta di stabilire delle convergenze e di costruire uno schema completo della nostra vita e del nostro universo. In se stesso, il mistero è misterioso: è la sua natura; messo in concordanza con tutto il resto, é una fonte di chiarezza: è il suo compito.  “Salve, grande notte della fede, scrive Paolo Claudel. Ecco la notte, meglio del giorno, che ci documenta sulla via.

D. Il mistero dunque non é una vessasione delle religione, una “prova” inflitta allo spirito?

R. É così poco una vessazione che or ora l’ho chiamata una provocazione a pensare, per la speranza di sempre nuove conquiste. Una prova la è in un certo senso, perché si amerebbe di vedere tutto; ma è assai più una liberazione, perché senza di esso, non ê più solamente l’oscurità che ei spia, ma la stravaganza.

D. Spieghi enigmi con altri enigmi?

R. Esattamente come per Dio, il caso del quale fa qui ritorno. Non bisogna forse che le chiavi abbiano la complessità delle serrature? Altrimenti non aprirebbero.

D. Ma allora in che consiste la spiegazione?

R. In ciò che il mistero, per quanto inesplicato sia in se stesso, apre la via ai nostri sguardi, e un giorno si aprirà esso stesso. Senza, di esso, i fatti della nostra esperienza sono incomprensibili; esso ce li fa comprendere attirando a sé le loro oscurità, che allora sono al loro posto e prendono un carattere provvisorio. Esso rischiara localizzando la notte.

D. Per conseguenza il mistero oltrepassa la ragione, e una ragione oltrepassata non potrebbe essere una ragione soddisfatta.

R. Una ragione oltrepassata è meravigliosamente soddisfatta, quando in ciò che la oltrepassa le si fa vedere il mezzo di rassicurarsi e di comprendere, là dove essa stessa non si soddisfaceva. Il sistema cristiano risolve i suoi propri misteri, in grazia di una convergenza, e risolve il mistero del reale, riunendo tutte le linee della mostra esperienza e del nostro pensiero.

D. È certamente per questo che esso provoca la tua ammirazione.

R. Certo. 1 nostri misteri hanno un bell’essere oscuri, ma sono costrutti dentro, sono rilegati di fuori, sono architettonici e danno un’impressione d’armonia, sono come una cattedrale nell’ombra.

D. A questo titolo essi devono prestarsi a saggi di spiegazione relativa?

R. Si spiega sempre appunto quello che non si comprende (BARBEY DAUREVILLY)-

D. Ma in questo caso le spiegazioni devono essere sovente erronee.

R. Sovente. Lo spirito umano si vendica delle sue ignoranze e dei suoi errori (Id.).

D. Non sarebbe anche fatale?

R. No. La notte dei misteri ha questa strana proprietà di far produrre alla mente retta che li scruta il suo massimo di luce; essi sono la pietra di paragone del genio come quella della fede.

D. Dove si trova a loro proposito la più alta teologia?

R. In S. Paolo. Ma bisogna intenderlo. $. Paolo ê il teologo del Vangelo; $. Tommaso d’Aquino è il teologo di S. Paolo

LO SCUDO DELLA FEDE (172)

LA SUMMA PER TUTTI (17)

LA SUMMA PER TUTTI (17)

R. P. TOMMASO PÈGUES

LA SOMMA TEOLOGICA DI S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE TERZA

GESÙ CRISTO

OSSIA LA VIA DEL RITORNO DELL’UOMO VERSO DIO

Capo VI.

La grazia capitale propria del Figliuolo di Dio Incarnato, nella sua natura umana.

1449. Oltre la grazia di cui si è parlato secondo la sua duplice specie di grazia abituale o santificante con tutto quello che l’accompagna e di grazie gratis date, derivanti nella natura umana unita alla Persona del Figliuolo di Dio in mezzo a noi – grazia che conveniva al Figliuolo di Dio Incarnato in quanto Egli era personalmente tale uomo determinato, distinto da tutti gli altri uomini — non resta ancora da parlare, a proposito del Figliuolo di Die Incarnato, di quella che è stata chiamata la grazia capitale, che gli è propria in quanto Egli è il capo del suo Corpo mistico cioè della Chiesa?

Sì; noi dobbiamo ancora parlare della grazia capitale a proposito del Figliuolo di Dio Incarnato; grazia che a Lui conviene come Capo del suo Corpo mistico, cioè della Chiesa (VIII).

1450. Che cosa intendete significare dicendo che il Figliuolo di Dio Incarnato è il Capo del suo Corpo mistico, cioè della Chiesa?

Intendo significare che il Figliuolo di Dio, vivendo nella natura umana unita alla propria Persona, occupa il primo posto nell’ordine della prossimità di Dio; possiede la perfezione assoluta e la pienezza di tutto quanto ha attinenza con l’ordine della grazia; ed ha la virtù di comunicare tutto quanto appartiene a tale ordine, a tutti coloro che a qualunque titolo partecipano dei beni di questo stesso ordine (VIII, 1).

1451. Soltanto riguardo all’anima, o anche riguardo al corpo, il Figliuolo di Dio Incarnato è chiamato il Capo degli uomini facenti parte della sua Chiesa?

Anche riguardo al corpo i1 Figliuolo di Dio Incarnato è chiamato il Capo degli uomini facenti parte della sua Chiesa. E ciò vuol dire che la umanita del Figliuolo di Dio Incarnato, non soltanto nell’anima ma anche nel corpo, ê lo strumento della divinità per dare i beni di ordine soprannaturale, principalmente nell’anima degli uomini, ma anche nel corpo, è lo strumento della divinità per diffondere i beni di ordine soprannaturale, principalmente nell’anima degli uomini, ma anche nel loro corpo: quaggiù affinché il corpo aiuti l’anima nella pratica delle opere della giustizia; e più tardi, nella a gloriosa resurrezione, affinché il corpo dalla sovrabbondanza dell’anima glorificata riceva la sua parte di immortalità e di gloria (VIII, 2).

1452. Il Figliuolo di Dio deve essere chiamato Capo di tutti gli uomini, nel senso ora definito?

Sì; prendendo gli uomini nella universalità  del corso della loro storia. Ma coloro che dopo essere vissuti su questa terra sono morti nella impenitenza finale, non Gli appartengono più e sono da Lui separati per sempre. Coloro invece che dopo essere vissuti su questa terra della vita di grazia, sono ora nella gloria, Gli appartengono eccellentemente ed Egli è il loro Capo ad un titolo affatto speciale. Egli è inoltre il Capo di tatti coloro che Gli sono uniti per mezzo della grazia e si trovano nel  Purgatorio o su questa terra; di tutti coloro che Gli sono uniti attualmente anche per mezzo della sola fede senza la carità; di tutti color che non Gli sono ancora uniti neppure pel mezzo della fede, ma che dovranno esserlo un giorno secondo i decreti della predestinazione divina; finalmente anche di tutti coloro che vivendo ancora su questa terra, Sono nella possibilità di essergli uniti, quantunque non  debbano essergli mai uniti di fatto (VII, 8).

1453. Si può dire che il Figliulo di Dio Incarnato sia anche il Capo degli Angeli?

Sì; il Figliuolo di Dio Incarnato è anche il Capo degli Angeli. Perché appunto in rapporto a tutta la moltitudine di coloro che sono ordinati allo stesso fine della fruizione della gloria, il Figliuolo di Dio occupa il primo posto e possiede in tutta la loro pienezza i beni di questo ordine soprannaturale, e comunica a tutti la sovrabbondanza di cui trabocca (VIII, 4).

1454. La grazia capitale che conviene al Figliuolo di Dio Incarnato in quantoché vivendo nella natura umana unita alla Sua Persona Egli ê Capo della Chiesa nella universalità che abbiamo detto, è la stessa grazia di quella che a Lui conviene e che è in Lui in quanto è personalmente tale uomo determinato, distinto da tutti gli altri uomini e con più forte ragione dagli Angeli?

Sì; è la stessa grazia nella sua sostanza od essenza; ma si chiama con questi due nomi, grazia capitale e grazia personale, in ordine alla duplice missione che essa rappresenta e secondo la quale si considera: in quanto cioè adorna la natura umana propria del Figliuolo di Dio Incarnato, ed in quanto si comunica a tutti quelli che dipendono da Lui (VI, 5).

1455. Il fatto di essere Capo della Chiesa, è assolutamente proprio del Figliuolo di Die Incarnato?

Sì; in ciò che riguarda 1a comunicazione dei beni interiori dell’ordine della grazia, perché la sola umanità del Figliuolo di Dio Incarnato ha la virtù di giustificare l’uomo interiormente, in forza della sua unione con la divinità nella Persona del Verbo. Ma se si tratta del governo esteriore della Chiesa, altri uomini possono essere chiamati e sono di fatto chiamati, in diversi gradi ed a titoli differenti, capi sia di una data porzione della Chiesa, come i Vescovi nelle loro Diocesi, sia della Chiesa in generale per coloro che sono ancora nello stato di viatori sulla terra come il Sovrano Pontefice per la durata del suo Pontificato. Con questo però che tali capi non fanno che tenere il luogo del solo vero Capo da cui tutto dipende, cioè di Gesù Cristo stesso, di cui non sono, a titoli ed a gradi diversi, che i vicari, non agendo mai che nel nome di Lui (VIII, 6)

1456. Dunque nell’azione salutare che ha attinenza col bene soprannaturale di tutti quelli che, a qualunque titolo partecipano di questo bene, tutto si riferisce e tutto in ultima analisi ritorna a Gesù Cristo solo, ossia al Figliuolo di Dio Incarnato?

Precisamente; nell’azione salutare che ha attinenza col bene soprannaturale di tutti quelli che a qualunque titolo partecipano di questo bene, tutto si riferisce ed in ultima analisi tutto ritorna a Gesù Cristo solo, ossia al Figliuolo di Dio Incarnato.

1457. Vi è anche, nel senso opposto e per quanto rignarda l’azione nefasta che allontana gli uomini da Dio e li conduce alla rovina, un capo che nell’ordine del male ê ciò che Gesù Cristo, ossia il Figliuolo di Dio Incarnato, è nell’ordine del bene?

Sì; questo capo dei malvagi non è altri che satana, il capo dei demoni ribelli (VIII, 7).

1458. In quale maniera ed in che senso il capo dei demoni ribelli, satana, è nell’ordine del male capo dei malvagi, come Gesù Cristo è il Capo di tutti coloro che fanno parte della sua Chiesa?

Non lo è nel senso che egli possa comunicare interiormente il male come Gesù Cristo comunica il bene; ma lo è nel senso che nell’ordine del governo esteriore tende ad allontanare gli uomini da Dio, come Gesù Cristo tende ad indirizzarli a Lui. Tutti quelli poi che peccano imitano la sua ribellione ed il suo orgoglio, come i buoni imitano la sottomissione e la obbedienza di Gesù Cristo (VIII, 7)

1459. Sarebbe dunque in forza di questa opposizione radicale e profonda, esistente come una specie di lotta personale fra Gesù Cristo Capo dei buoni e satana capo dei cattivi, che si spiegherebbe in ultima istanza ciò che vi è di continuo e di irriducibile nella lotta tra i buoni ed i cattivi, attraverso gli avvenimenti della storia?

Sicuramente; e non si avrà mai l’ultima parola su questa 1otta, finché non ci si riporterà alla lotta personale ed irriducibile per sempre fra satana e Gesù Cristo.

1460. Questa lotta dovrà un giorno rivestire un particolare carattere di accanimento, da sembrare che satana abbia concentrato tutta la sua malizia e la sua potenza di nuocere nella persona di un individuo umano, come il Figliuolo di Dio ha posto la Sua virtù salutare nella natura umana che ha unito alla propria Persona?

Sì: ed avverrà al tempo dell’anticristo.

1461. L’anticristo sarà dunque a titolo speciale il capo dei malvagi?

Sì; l’antieristo sarà a titolo speciale il capo dei malvagi, perché avrà più malizia di quella avuta da ogni uomo prima di lui. Sarà al sommo grado il ministro di satana, sforzandosi di perdere gli uomini e di rovesciare il Regno di Gesù Cristo con una malvagità e tali mezzi di azione, che saranno degni del capo dei demoni (VIII, 8).

1462. Qual dovere si impone ad ogni uomo in presenza di questa lotta profonda ed irriducibile tra i due capi opposti della umanità?

Quello di non patteggiare mai in chechessia con ciò che appartiene a satana ed ai suoi satelliti, e di arruolarsi, per rimanervi sempre e combattere valorosamente, sotto la bandiera di Gesù Cristo.

Capo VII.

La scienza presa dal Figliuolo di Dio Incarnato nella natura umana che ha unito a Sé. – Scienza beatifica, scienza infusa, scienza sperimentale.

1463. Oltre alla grazia di cui abbiamo parlato, e che è propria della natura umana che il Figliuolo di Dio ha unito alla Sua Persona, vi sono ancora altre prerogative quale appannaggio di questa natura?

Sì; e vi sono anzitutto le prerogative che si riferiscono alla scienza (IX – XII).

1464. Che genere di scienza fu presa dal Figliuolo di Dio Incarnato nella natura umana che univa a sé nella unione ipostatica?

Tre generi di Scienza furono presi dal Figliuolo di Dio Incarnato nella natura   che univa ipostaticamente a sé, cioè: la Scienza che forma i beati nel cielo per mezzo della visione della essenza divina; la Scienza infusa o innata che da all’anima in un solo tratto e per una effusione diretta del Verbo, tutte le nozioni e tutte le idee capaci di metterla in grado di tutto conoscere per modo di scienza connaturale; finalmente la scienza Sperimentale acquisita, dovuta all’azione normale ed ordinaria delle nostre facoltà mane, attinta nel mondo esterno per mezzo dei sensi ES; 28 4).

1465. La Scienza che forma i beati nel cielo per mezzo della visione della essenza divina fu presa dal Figliuolo di Dio Incarnato, nella natura umana unita ipostaticamente a sé, in un grado particolare di perfezione?

Si; essa fu presa in un grado di perfezione che supera senza proporzione alcuna, quella di tutti gli altri spiriti beati, Angeli ed uomini, a qualunque grado di perfezione siano essi innalzati in questa scienza; e fin dal primo istante il Figliuolo di Dio Incarnato poté scorgere, colla sua natura umana, nel Verbo divino che era Egli stesso, interamente tutto; dimodoché non vi è niente, sia in qualsivoglia modo nel presente che nel passato come nell’avvenire, si tratti di azioni, di parole, di pensieri, che si riferisca a chiunque ed in qualunque tempo, che il Figliuolo di Dio Incarnato non abbia conosciuto fin dal primo istante della Sua Incarnazione, colla natura umana che aveva unito ipostaticamente a sé, nel Verbo divino che era Egli stesso (X, 2-4).

1466. E la scienza infusa od innata, fu presa essa pure in un grado particolare di perfezione dal Figliuolo di Dio, nella natura mana unita ipostaticamente a Sé?

Si; perché Egli conosceva, colla sua natura umana, tutto quello che nell’ordine di tale scienza può arrivare a conoscere la intelligenza umana, per mezzo del lume naturale che in essa si trova, e tutto quanto la divina rivelazione può far conoscere ad una intelligenza umana o creata; sia che si tratti di ciò che riguarda il dono della Sapienza o della profezia, come di qualsiasi altro dono dello Spirito Santo, in un grado di perfezione e di abbondanza assolutamente trascendente, non soltanto. in relazione a tutti gli altri uomini, ma anche in relazione alla scienza degli spiriti angelici (XI, 1, 3, 4).

1467. E la scienza acquisita che si trova nell’anima umana del Figliuolo di Dio Incarnato, in quali condizioni vi si trovò?

Vi si trovò in mode tale che per essa il Figliuolo di Die conobbe tutto quello a cui può arrivare la intelligenza umana, esercitandosi sui dati dei sensi. A misura che il giudizio umano aveva occasione di esercitarsi operando su nuovi dati dei sensi, fu possibile per Lui un certo progresso nella Scienza; ma intanto non ebbe mai bisogno d’imparare da nessun maestro umano, avendo sempre acquistato già da sé stesso al contatto delle opere di Dio, ciò che un maestro umano sarebbe stato in grado di insegnare, man mano che la sua vita progrediva (XI, 1-8).

1468. Si deve dire ancora che il Figliuolo di Dio nella sua natura umana non ricevé mai niente in nessuna maniera dagli Angeli, in fatto di scienza?

No; mai in nessuna maniera il Figliuolo di Dio Incarnato ricevé niente dagli Angeli in fatto di scienza, nella sua natura umana. Tutto quanto Egli ebbe come scienza gli venne, nella sua natura umana, o immediatamente dal Verbo che Egli era personalmente, o dal lume naturale del giudizio proprio della natura umana, esercitandosi, come ê stato detto, sui dati immediati dei sensi; perché ogni altro modo di ricevere sarebbe stato indegno di Lu i (XIT, 4).

Capo VIIL

La potenza presa dal Figliuolo di Dio nella natura umana unita ipostaticamente a Sé.

1469. Oltre alle prerogative della scienza, il Figliuolo di Dio Incarnato prese anche altre prerogative nella natura umana che univa ipostaticamente a Sé?

Sì; prese ancora ciò che ha relazione con la potenza (XIII).

1470. Quale fu la potenza dell’anima umana del Figliuolo di Dio Incarnato?

Fu tutta la Potenza connaturale all’anima umana, forma sostanziale di un Corpo che volle assumere mortale come vedremo; e di più la potenza propria a questa anima umana nell’ordine della grazia, in quanto essa doveva comunicare la sua pienezza a tutti coloro che sarebbero sotto la sua dipendenza. Vi fu ancora, nella natura umana del Figliuolo di Dio Incarnato, a titolo unico, quella partecipazione strumentale della virtù divina, per la quale il Verbo di Dio doveva ormai compiere tutte le meraviglie di trasformazione in armonia col fine della Incarnazione, vale a dire la restaurazione di tutte le Cose in cielo ed in terra, secondo il piano di rinnovamento stabilito da Dio (XI, 1-4).

Capo IX,

Difetti presi dal Figliuolo di Dio nella natura umana unita a Sé ipostaticamente: da parte del corpo: da parte dell’anima.

1471. Era conveniente che accanto alle prerogative di grazia, di scienza e di potenza il Figliuolo di Dio assumesse anche certi difetti di corpo e di anima, nella natura umana che unì ipostaticamente a Sé?

Sì; ciò era necessario in ordine al fine dell’Incarnazione, che era che con essa jl Figliuolo di Dio potesse soddisfare per i nostri peccati, apparire su questa terra come uno di noi lasciando così alla fede tutto il suo merito, ed infine servire a noi di esempio nella pratica delle più sublimi virtù di pazienza e di immolazione (XIV, XV).

1472. Quali furono i difetti del corpo che il Figliuolo di Dio Incarnato prese nella natura umana che univa ipostaticamente a Sé?

Furono i difetti, ossia le miserie e le infermità, che in tutta la natura umana sono conseguenza ed effetto del primo peccato del primo uomo; quali la fame, la sete, la morte ed altre cose di questo genere. Ma non le infermità ed i difetti che sono conseguenza di peccati personali o ereditari o anche effetto di cattivo concepimento (XIV, 1).

1473. Dunque il corpo del Figliuolo di Dio Incarnato, tranne i difetti che abbiamo detto, fu di una somma perfezione e di una somma bellezza?

Sì; il corpo del Figliuolo di Dio Incarnato, tranne i difetti che abbiamo detto, fu di una somma perfezione e di una somma bel1ezza. Perché ciò conveniva alla dignità del Verbo di Dio unito ipostaticamente a questo corpo, nonché all’azione dello Spirito Santo, per cui questo stesso corpo fu direttamente formato nel seno della Santissima Vergine, come presto diremo.

1474. E da parte dell’anima quali furono i difetti presi dal Figliuolo di Dio Incarnato, nella natura umana che Egli univa ipostaticamente a Sé?

Prima di tutto la possibilità di sentire il dolore cagionato da ciò che tocca penosamente il corpo, specialmente per le lesioni corporali che doveva soffrire nel corso della sua Passione; in secondo luogo i moti interni di ordine affettivo sensibile, ed ancora i moti interni di ordine affettivo intellettuale che suppongono un male presente o che minaccia, quali i moti di tristezza, di timore, di collera; con  questo per altro che in tali moti nell’anima umana del Figliuolo di Dio Incarnato, non vi era niente che non fosse perfettamente in piena armonia con la ragione, alla quale essi rimasero in tutto completamente soggetti (XV, 1-9)

1475. Si può dire del Figliuolo di Dio Incarnato che in forza della natura umana unita ipostaticamente a Sé, Egli fu insieme, mentre viveva sulla terra, al termine ed in via verso la beatitudine?

Sì; perché riguardo a ciò che è proprio dell’anima nella beatitudine, Egli godeva pienamente di questa beatitudine per mezzo della visione della essenza divina; e per ciò che riguarda il riverbero della beatitudine dell’anima nella parte sensibile e nel corpo, per una pecie di sospensione miracolosa in ordine alla nostra Redenzione, Egli non doveva goderne che dopo la sua Resurrezione ed Ascensione attendendola nel corso della sua vita mortale come una ricompensa che Egli doveva meritare ed acquistare (XV, 10).

Capo X.

Delle conseguenze della Incarnazione, del Figliuolo di Dio considerato in Sé stesso sotto la ragione di Verbo Incarnato. – Come noi possiamo e dobbiamo esprimerci a suo riguardo.

1476. Che cosa ne consegue per il Figliuolo di Dio Incarnato, considerato in Sé stesso ed in quanto noi possiamo e dobbiamo parlare di Lui in ragione della sua Incarnazione?

Ne consegue che noi possiamo e dobbiamo dire con tutta verità che « Dio è uomo  » perché una Persona che è Dio è anche uomo; che « l’uomo è Dio » perché una Persona che è veramente uomo è una Persona che è Dio; che tutto quanto appartiene alla natura umana e le conviene, può esser detto di Dio, perché tutto questo conviene ad una Persona che è Dio; e tutto quanto appartiene alla natura divina pub dirsi dell’uomo che è il Figliuolo di Dio Incarnato, perché questo uomo è una Persona che è Dio. Ma non possiamo dire della divinità ciò che si dice della umanità o viceversa, nella Persona del Figliuolo di Dio Incarnato, perché le due nature rimangono distinte e conservano ciascuna le loro proprietà (XVL 1, 2).

1477. Si può dire che « Dio si ê fatto nomo » ?

Sì; si può dire che « Dio si è fatto uomo ». Perché una Persona che ê Dio ha cominciato ad essere veramente uomo nel tempo, mentre prima non lo era (XVI,6).

1478. Si può dire ugualmente che « l’uomo è stato fatto Dio »?

No, non si può dire che « l’uomo è stato fatto Dio » . Perché ciò supporrebbe che una persona, essendo prima uomo senza essere Dio, è in seguito divenuta Dio (XVI, 7)

1479. Si può dire che il Figliuolo di Dio Incarnato « è una creatura »?

Non si può dire in modo puro e semplice, ma bisogna aggiungere « in ragione della natura umana che Egli ha unito a Sé ipostaticamente »; perché è vero che di fatto questa natura umana è qualche cosa di creato (XVI, 8).

1480. Si può dire mostrando Gesù Cristo, ossia il Figliuolo di Dio Incarnato: « Questo uomo ha cominciato ad essere »?  

No,; non si può dire mostrando Gesù Cristo, Figliuolo di Dio Incarnato: « Questo uomo ha cominciato ad essere ». perché ciò si intenderebbe della Persona del Figliuolo di Dio che non ha affatto cominciato ad essere; si potrebbe dirlo aggiungendo: « in quanto Egli è uomo », oppure: in forza della sua natura umana (XVI, 9).

Caro XI.

Della unità e della molteplicità che è nel Figliuolo di Dio, riguardo alla suo essere: riguardo alla sua: riguardo alle sue opere.

1481. Il Figliuolo di Dio Incarnato Gesù Cristo costituisce un solo essere o ne costituisce di più?

Ne costituisce uno solo, Dio ed uomo insieme, in forza della sua unità di Persona che sussiste in ambedue le nature, divina ed umana (XV, 1, 2).

1482. Possiamo parlare di molteplicita di volontà in Gesù Cristo, Figliuolo di Dio Incarnato?

Sì; perché in Lui si trova la volontà divina, in quanto è Dio; e la  volontà umana in quanto è uomo (XVIII, 1).

1483. Vi è in Lui anche molteplicità di volontà come uomo?

Sì; prendendo la parola volontà in senso lato, ed in quanto designa la facoltà effettiva intellettuale; ed anche in quanto talvolta designa diversi atti di queste stesse facoltà (XVIII, 2, 3).

1484. Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato ebbe ed ha iol libero arbitrio nella sua natura umana?

Sicuramente, ed in maniera sommamente perfetta; quantunque d’altra parte fosse nella impossibilità assoluta di peccare, perché la sua volontà deliberata era sempre ed in tutto conforme alla volontà divina, anche quando la parte affettiva sensibile ed il moto naturale della sua volontà, in quello che era di loro proprio dominio, potevano volgersi altrove contrariamente a ciò che voleva la sua volontà deliberata, in conformità del volere positivo divino (XV, 4).

1485. Possiamo anche dire e dobbiamo parlare di molteplicità di operazioni in Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato?

Sì; dobbiamo parlare di molteplicità di operazioni in Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato; perché se da parte della Persona o del principio a cui sono attribuite le operazioni si trovava in Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato unità perfetta ed assoluta, da parte dei principi propri di operazioni vi erano tante operazioni diverse, quante diversità di principi o di facoltà di agire erano nella sua natura umana. E di più, la grande diversità delle operazioni proprie della natura divina, distintamente dalle operazioni proprie della natura umana (XIX, 1, 8).

1486. Ma allora in che senso si parla di operazioni teandriche in Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato; e che cosa significa questa espressione?

Questa espressione significa che essendo Gesù Cristo Dio ed uomo insieme, in Lui esisteva una specie di subordinazione tra tutti i suoi principi di operazioni, specialmente fra i principi di operazioni proprie della natura umana e la natura divina, principio della operazione formalmente divina. Dimodoché la operazione umana in Lui si trovava divinamente perfezionata ed innalzata per la vicinanza e la influenza della natura divina, e la operazione propria della natura divina si umanizzava in qualche modo comunicandosi al di fuori, per l’intermezzo e col concorso della operazione umana (XIX, 1 ad 1).

1487. Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato, ha potuto meritare gualche cosa per Se stesso, per mezzo della sua operazione umana?

S1; ha potuto meritare e conveniva che meritasse per Se stesso tutto quello di cui la temporanea assenza non era contraria alla sua eccellenza ed alla sua dignità, come la gloria del corpo e tutto quanto si riferiva alla sua esaltazione esteriore in cielo e sulla terra (XIX, 8).

1488. Ha Egli potuto meritare per gli altri?

Sì; e con merito perfetto e condegno, in forza della mistica unita che formano con Lui tutti i membri della Chiesa di cui Egli è il Capo. Dimodoché tutte le sue azioni valevano non soltanto per Lui personalmente, ma anche per tutti coloro che fra gli uomini fanno parte della sua Chiesa, nel senso della universalità notata più indietro, quando si ê trattato della grazia capitale del Figliuolo di Dio Incarnato, nella natura umana che Egli ha unito ipostaticamente a Sé (XIX, 4).

1489. Che cosa occorre perché il merita delle azioni del Figliuolo di Dio Incarnato si estenda agli altri uomini?

Bisogna che essi siano a Lui uniti per mezzo della grazia del Battesimo, che ê grazia di incorporazione in Gesù Cristo, co avremo a dire in seguito (XIX, 4 ad 8).

Capo XII.

Delle conseguenze dell’incarnazione del Figlio di Dio nelle sue relazioni col Padre.- La sua soggezione al Padre.- La sua preghiera. – Il suo sacerdozio.

1490. Che cosa è seguito dalla Incarnazione del Figliuolo di Die nei suoi rapporti col Padre e nei rapporti del Padre con Lui?

Ne è seguito che il Figliuolo. di Dio Incarnato è stato soggetto al Padre; che Egli lo ha pregato; che lo ha servito mediante il suo sacerdozio, e rimanendo Egli Figlio di Dio per natura e non per adozione, ha potuto e dovuto essere predestinato dal Padre (XX -XXIV).

1491. Che cosa intendete dire, dicendo che Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato ê soggetto al Padre?

Intendo dire che in ragione della natura umana il Figliuolo di Dio Incarnato non aveva che una bontà partecipata, mentre il Padre è la bontà per essenza. Perciò tutto quello che riguardava la sua vita umana era regolato, disposto ed ordinato dal Padre; ed infine, nella sua natura umana si è in tutte le cose dimostrato di una obbedienza perfetta ed assoluta di fronte al Padre (XX, 1)

1492. Questi stessi titoli non facevano sì che il Figliuolo di Dio Incarnato fosse ugualmente soggetto a Se stesso in quanto Dio, ossia in ragione della sua natura divina?

Sicuramente; perché la natura divina, in forza della quale il Padre era superiore al Figliuolo nella sua Incarnazione, è comune al Padre ed al Figliuolo (XX, 2).

1493. In qual senso si può dire che Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato poteva e può tuttora, pregare?

Nel senso che la sua volontà umana, non avendo affatto da se stessa ed indipendentemente dalla volontà divina di potere effettuare quello che desidera, in forza di questa volontà il Figliuolo di Dio Incarnato si può rivolgere al Padre, affinché Egli con la sua volontà onnipotente che come Dio è anche la sua, compia ciò che la sua volontà umana non potrebbe compiere da se stessa (XXI, 1).

1494. Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato poteva pregare per Sé stesso?

Sì; anche nel senso che Egli poteva domandare al Padre i beni del corpo e la sua glorificazione esterna, che non possedeva ancora finché viveva sulla terra; ma, se non altro, almeno per ringraziare il Padre di tutti i doni e privilegi a Lui accordati nella sua natura umana; e sotto questa forma la sua preghiera durerà eternamente (XXI, 3)

1495. Si può dire che la preghiera di Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato sia stata sempre esaudita, mentre viveva su questa terra?

Sì; prendendo la preghiera nel suo senso perfetto, che è la ferma domanda di cosa che si vuole di volontà deliberata: perché il Figliuolo di Dio Incarnato che conosceva a perfezione la volontà del Padre. Non ha mai voluto con volontà deliberata se non ciò che sapeva in tutto conforme alla volontà del Padre, che come Dio era anche la sua (XXI, 4).

1496. Quando si parla del sacerdozio di Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato, che cosa si vuol dire?

Si vuol dire che a Lui ê appartenuto ed appartiene per eccellenza di apportare agli uomini i doni di Dio, e di presentarsi davanti a Dio in nome di tutti gli uomini, per offrire a Dio le loro preghiere e pacificare Dio verso di loro, riconciliandoli tutti con Lui (XXII, 1)

1497. Si Può dire che Gesù Cristo fu insieme sacerdote e vittima?

Si; perché accettando di essere mandato a morte per noi, Egli effettuò nella propria Persona, in forza della sua natura umana immolata, la triplice ragione del sacrifizio imposto nella legge antica, cioè: la vittima per il peccato, la vittima pacifica e l’olocausto. Infatti, Egli ha soddisfatto per i nostri peccati e li ha cancellati; ci ha fruttato la grazia di Dio che ê la nostra pace e la nostra salute; e ci ha aperto la porta della gloria, ove dobbiamo essere uniti a Dio totalmente e definitivamente nella eternità (XXII, 2).

1498. Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato è stato sacerdote anche per se stesso , nella sua natura umana?

No; niente affatto per Se stesso. Perché Egli poteva immediatamente avvicinarsi a Dio senza bisogno di un mediatore; e di più, non avendo in Sé che la somiglianza del peccato e non il peccato. non doveva offrire per sé la vittima espiatrice, ma soltanto per noi (XXII, 4).

1499. Si deve dire che il sacerdozio di Gesù Cristo rimane in eterno?

Sì; nel senso che l’effetto del suo Sacerdozio, vale a dire 1a consumazione, nella gloria, dei santi, purificati mediante la virtù del suo saerifizio, sarà in eterno la sua opera in cielo. (XXII, 5).

1500. Perché si dice che Gesù Cristo è Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedecco?

Per affermare la superiorità del sacerdozio di Gesù Cristo sul sacerdozio levitico della legge antica, che non era Se non la figura di esso (XXII, 6).

CAPO XIII.

La sua filiazione divina. – La sua predestinazione

1501. Quando si parla di adozione di Dio, che cosa si vuol dire?

Si vuol dire che Dio nella Trinità delle Persone si è degnato, per un senso di infinita bontà, di ammettere le sue creature ragionevoli a partecipare alla sua eredità ed alle sue ricchezze, che non sono altro che la gloria della propria beatitudine. Dimodochê non potendo essere suoi figliuoli per natura – perché questo non appartiene che al solo Figliuolo unico – gli Angeli e gli uomini ammessi a questa gloria, divengono suoi figliuoli di adozione (XXIII, 1)

1502. Il Figliuolo di Dio Incarnato, in forza della sua natura umana, può esser chiamato Figliuolo di Dio per adozione?

No: non lo può essere in nessuna maniera perché la filiazione essendo una proprietà personale, dove ha luogo la filiazione naturale no si dà più filiazione di adozione, che non è altro che una somiglianza della prima (XXIII, 4).

1503. Si può parlare di predestinazione rispetto a Gesù Cristo Figliuolo di Dio Incarnato?

Sì; perché la predestinazione non ê altro che la preordinazione stabilita da Dio da tutta la eternità, di ciò che Gesù Cristo doveva compiere nel tempo nell’ordine della grazia. Ora, il fatto di un essere umano che è Dio in persona e di un Dio che è uomo, si è avverato nel tempo per opera di Dio stesso, ed appartiene al più alto grado nell’ordine della grazia di cui costituisce il culmine; quindi ne consegue che rispetto al Figliuolo di Dio Incarnato, con tutta verità si può e si deve parlare di predestinazione (XXIV, 1)

1504. Tale predestinazione, basata sul fatto che in forza della natura umana che verrebbe ad essere unita nel tempo con unione ipostatica al Figliuolo unico di Dio, un giorno esisterebbe un essere umano che sarebbe Figliuolo di Die stesso e Dio sarebbe uomo; è essa il modello ossia l’esemplare e la causa della nostra propria predestinazione?

Sì; perché la predestinazione a nostro riguardo doveva ordinare che noi saremmo per adozione ciò che il Figliuolo di Dio Incarnato è per natura; e doveva pure ordinare che la nostra salute si operasse per mezzo di Gesù ,Cristo che ne sarebbe l’autore (XXIV, 3, 4)

Capo XIV.

Delle conseguenze dell’Incarnazione del Figliuolo di Dio nei suoi rapporti con noi. – Noi dobbiamo adorarlo. – Egli è il mediatore di Dio e degli uomini.

1503. Che cosa è conseguito dalla Incarnazione del Figliuolo di Dio nei suoi rapporti con noi?

Ne ê conseguito che noi dobbiamo adorarlo e che Egli ê il nostro mediatore (XXV, XXVI).

1506. Che cosa vuol dire che noi dobbiamo adorare Gest Cristo Figliuolo di Dio Incarnato?

Ciò vuol dire che noi dobbiamo rendere alla Persona del Figliuolo di Dio, dovunque si trovi e sotto qualunque forma ci apparisca, sia come Dio che come uomo, il culto di latria che è il culto proprio di Dio; quantunque se considerassimo la natura umana di Gesù Cristo come ragione o motivo del culto che gli tributiamo, essa non motiverebbe che il solo culto di dulia (XXV, 1, 2).

1507. Per la stessa ragione noi tributiamo al Sacro Cuore di Gesù, cioè del Verbo Incarnato, il culto di latria?

Sì; perché il Cuore di Gesù fa parte della sua adorabile Persona: di tutto quello che appartiene alla Persona adorabile di Gesù Cristo nella sua natura umana, il Cuore ê per natura più specialmente atto a ricevere il culto di latria, essendo il simbolo per eccellenza dell’opera di amore infinito compiuta per 1a nostra salute dal Verbo fatto carne, nei misteri della Incarnazione e della Redenzione. Onde il culto del Sacro Cuore non è niente di meno che il culto stesso di Gesù Cristo nel suo amore.

1508. Bisogna adorare ossia onorare col culto di latria la immagine di Gesù Cristo?

Sì; perché il moto con cui ci si porta verso la immagine di una cosa, in quanto immagine di questa cosa, ë il medesimo di quello con cui ci si porta verso questa cosa stessa (XXV, 3).

1509. E la croce di Gesù Cristo deve essere adorata ossia onorata col culto di latria?

Sì: perché ci rappresenta Gesù Cristo disteso su di essa e morente per noi. E se si tratta si tratta della Croce alla quale Gesù Cristo fu appeso, noi l’adoriamo ancora per questa ragione che essa ha toccato le membra di Gesù Cristo ed ê stata imbevuta del suo Sangue (XXV, 4).

1510. Dobbiamo tributare il culto di adorazione o di latria anche alla Santissima Vergine, Madre di Gesù Cristo?

No; perché non è soltanto in ragione di Gesù Cristo che noi rendiamo un culto alla Madre Sua, ma anche in ragione di Lei stessa: è Poiché Essa non è che una pura creatura, non la onoriamo col culto di latria che è proprio esclusivamente di Dio. Noi però rendiamo a Lei un culto supereminente, nell’ordine del culto di dulia appartenente alle creature unite a Dio; perché nessuna creatura ê stata unita a Dio come Lei: e per questo appunto la onoriamo col culto di iperdulia OOXV, 5).

1511. In ragione di Gesù Cristo, dobbiamo rendere un culto anche alle reliquie dei santi, specialmente ai loro corpi?

Sì; perché i santi sono stati e rimangono le membra di Gesù Cristo, gli amici di Dio e nostri intercessori Presso di Lui. Perciò tutto quello che ê stato in rapporto con essi merita di essere da noi onorato in ordine a loro stessi; ma soprattutto i loro corpi che sono stati templi dello Spirito Santo, e debbono essere configurati al corpo di Gesù Cristo mediante la gloriosa resurrezione (XXV, 6).

1512. Quando diciamo che il Figliuolo di Dio Incarnato ê il mediatore di Dio e degli uomini, che cosa vogliamo dire?

Vogliamo dire che in forza della natura umana che ha unito a Sé ipostaticamente, il Figliuolo di Dio Incarnato sta in mezzo tra Dio. da cui è lontano per la natura umana, e gli uomini dai quali ê lontano per la eccellenza della sua dignità e dei doni di grazia e di gloria che possiede in questa stessa natura umana. Ed essendo in mezzo tra Dio e gli uomini, a Lui appartiene in proprio di comunicare agli uomini i precetti ed i doni di Dio, e di presentarsi dinanzi a Dio a nome degli uomini, soddisfacendo ed intercedendo per essi (XXVI, 1, 2).

Capo XV.

Come s’è svolto fra noi il mistero del Verbo Incarnato.

1518. Questo fatto sì misterioso e meraviglioso del Figliuolo unico di Dio, che si riveste della nostra natura umana e diviene uomo come noi, come noi, nel senso e con tutte le conseguenze che abbiamo notato, come si è effettuato e svolto sulla terra e nel dominio della storia?

Risponderemo a tale questione considerando quattro cose: prima di tutto la venuta del Figliuolo di Dio Incarnato in questo mondo; poi il processo della sua vita nel mondo; in terzo luogo la partenza dal mondo; ed in ultimo la sua esaltazione dopo questa vita, durante la quale era vissuto tra noi (XXVII, Prologo).

LA SUMMA PER TUTTI (16)

LA SUMMA PER TUTTI (16)

R. P. TOMMASO PÈGUES

LA SOMMA TEOLOGICA DI S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE TERZA

GESÙ CRISTO OSSIA LA VIA DEL RITORNO DELL’UOMO VERSO DIO

Capo I.

Il mistero di Gesù Cristo, ossia del Verbo fatto carne per ricondurre l’uomo a Dio.

1414. Che cosa intendete per il mistero di Gesù Cristo, ossia del Verbo fatto carne?

Intendo il fatto assolutamente incomprensibile per noi su questa terra, della seconda Persona della Ss.ma Trinita, cio il Vero, ossia il Figliuolo unico di Dio, che essendo da tutta la eternità col Padre e con lo Spirito Santo, lo stesso solo ed unico vero Dio da cui sono state create tutte le cose che governa da Sovrano Signore, è venuto nel tempo sulla terra mediante la sua Incarnazione nel seno della Maria Vergine dalla quale è nato. Ha vissuto della nostra vita mortale; ha evangelizzato il popolo giudeo della Palestina al quale era personalmente inviato dal Padre; è stato da questo popolo disconosciuto, tradito e consegnato al governatore romano Ponzio Pilato, condannato e messo a morte sopra una croce. È stato seppellito; discese all’inferno, il terzo giorno è risuscitato dalla morte. Quaranta giorni dopo è salito al cielo e siede alla destra di Dio Padre, di dove governa la Chiesa da Lui fondata sulla terra, ed alla quale ha mandato il suo Spirito che è pure lo Spirito del Padre, a santificare la Chiesa stessa per mezzo dei Sacramenti della sua grazia, e prepararla alla sua seconda venuta alla fine dei tempi, allorché Egli giudicherà i vivi ed i morti, facendo uscire questi ultimi dai loro sepolcri, per fare la separazione definitiva dei buoni che prenderà con Sé nel regno del Padre — dove assicurerà loro la vita eterna — dai cattivi che caccerà lontani da Se, maledetti e condannati ai supplizi del fuoco eterno.

Capo II.

Convenienza, necessità ed armonia della Incarnazione.

1415. La venuta del Figliuolo di Dio su questa terra mediante la sua Incarnazione, è in armonia con quello che noi sappiamo di Dio?

Si: niente poteva essere più in armonia con quello che noi sappiamo di Dio, di questa venuta del Figliuolo di Dio sulla terra mediante la sua Incarnazione. Noi sappiamo infatti di Dio che Egli è la stessa bonta, ossia il Bene supremo; e d’altra parte la caratteristica del bene, ossia della bontà, è quella di comunicarsi. E Dio non poteva comunicarsi alla creatura in una maniera più meravigliosa, che mediante il mistero della sua Incarnazione (I, 1).

1416. Era necessaria la Incarnazione del Figliuolo di Dio?

No; considerata in se stessa la Incarnazione del Figliuolo di Dio non era affatto necessaria. Ma data la caduta del genere umano per il peccato del primo uomo, se Dio voleva rialzare il genere umano nella maniera più perfetta e più armoniosa, e soprattutto se voleva che soddisfazione piena ed intera fosse data per questo peccato, bisognava necessariamente che un Dio-Uomo si caricasse del peccato e ne facesse riparazione (I, 2).

1417. Dunque il Figliuolo di Dio si è incarnato appunto per causa del peccato dell’uomo e per ripararlo?

Si; il Figliuolo di Dio si è incarnato per causa del peccato dell’uomo e per ripararlo (1, 3, 4).

1418. Ma allora perché il Figliuolo di Dio non si è incarnato subito dopo la caduta di primo uomo?

Perché bisognava che il genere umano acquistasse coscienza della propria miseria del bisogno che aveva di un Dio Salvatore, ed anche perché questo Dio Salvatore potesse essere preceduto da una lunga serie di profeti, che ne annunziassero e ne preparassero la venuta (I, 5, 6).

1419. In che cosa consiste la Incarnazione del Figliuolo di Dio, considerata in se stessa?

Consiste in questo, che la natura divine e la natura umana, conservando ciascuna tutto ciò che le appartiene in proprio, sono state sostanzialmente ed indissolubilmente unite nella unità di una sola e medesima Persona divina, cioè nella Persona del Figliuolo di Dio (I, 1-6)

1420. Perché questa unione della Incarnazione si è compiuta nella Persona del Figliuolo, anziché in quella del Padre o dello Spirito Santo?

Perché le proprietà del Figliuolo di Dio, che ha la ragione di Verbo ed a cui conviene per appropriazione tutto quello che si riferisce alla Sapienza con la quale Dio aveva creato tutte le cose, facevano sì che il Verbo fosse in particolare armonia col mistero della restaurazione del genere umano decaduto. Anche perché procedendo dal Padre, Egli poteva essere inviato da Lui; e dopo, alla sua volta, Egli stesso poteva inviare a noi il suo Spirito, come frutto della Redenzione (III, 8).

Caro III.

Ciò che il Figliuolo di Dio ha assunto e  si è unito di nostro nella Su Incarnazione.

1421. Quando diciamo che il Figliuolo di Dio si è incarnato, oppure che il Verbo si è fatto carne o si è fatto uomo, che cosa significano questi diversi termini per quanto riguarda ciò che il Verbo, ossia il Figliuolo di Dio, ha assunto di nostro per unirlo alla sua Persona?

Tutte queste espressioni significano che il Verbo, ossia il Figliuolo di Dio, ha assunta la nostra natura umana, quale risulta nel suo essere individuale tra i discendenti del primo uomo dopo il peccato, per unirla alla sua Persona (1V, 1-6).

1.422. Ne consegue forse che nel Verbo incarnato, ossia nel Figliuolo di Dio fatto-uomo, si abbia un individuo umano?

Niente affatto. Nel Verbo si ha una natura umana individuata, ma non un individuo umano o una persona umana; perché questa natura è individuata nella sola ed unica Persona del Verbo, ossia del Figliuolo di Dio (IV, 3).

1423. La natura umana, che il Figliuolo di Dio ha unito alla propria Persona, è precisamente nelle sue due parti essenziali ciò che è la natura umana in ciascuno di noi?

Si; la natura umana che il Figliuolo di Dio ha unito alla propria Persona, è precisamente, nelle sue due parti essenziali, ciò che è la natura umana in ciascuno di noi (V, 1-4).

1424. Il Figliuolo di Dio incarnato ha dunque un corpo simile al nostro, di carne e di ossa come il nostro, con le stesse membra, gli stessi sensi e gli stessi organi?

Si; il Figliuolo di Dio incarnato ha un corpo simile al nostro, di carne e di ossa come il nostro, con le stesse membra, gli stessi sensi e gli stessi organi (V, 1, 2)

1425. Ha anche un’anima come la nostra, con le sue stesse parti, le sue stesse facoltà, compresa la nostra intelligenza e la nostra volontà?

Si; Egli ha anche un’anima come la nostra, con le sue stesse parti, le sue stesse facoltà, compresa la nostra intelligenza e la nostra volontà; quale, in una parola, l’abbiam descritta studiando la nostra natura, opera di Dio (V, 3, 4).

1426. Il Figliuolo di Dio ha unito a Sé nello stesso tempo tutte le parti costitutive della natura umana individuata, nella sua essenza e nella sua integrità?

Si; nello stesso tempo il Figliuolo di Dio ha unito a Sè tutte le parti costitutive della natura umana individuata, nella sua essenza e nella sua integrità; ma se le è unite secondo un certo ordine (VI, 1-6).

1427. Quale è questo ordine, secondo il quale il Figliuolo di Dio si è unita la natura umana e le sue parti?

Tale ordine consiste in questo, che il Figliuolo di Dio ha preso il corpo e tutte le parti di esso in ragione dell’anima; l’anima e tutte le altre potenze in ragione dell’intelletto; ed il corpo, l’anima e l’intelletto in ragione della natura umana costituita da tutto questo nella sua essenza e nella sua integrità (VI, 1-5).

1428. La unione della natura umana e di tutte le sue parti alla Persona del Figliuolo di Dio, è avvenuta direttamente ed immediatamente, senza interposizione di alcuna realtà creata fra questa natura e le sue parti, e la Persona del Figliuolo di Dio?

Si; la unione della natura umana e di tutte le sue parti alla Persona del Figliuolo di Dio è avvenuta direttamente ed immediatamente, senza alcuna interposizione di realtà create neppure di ordine gratuito, tra questa natura e le sue parti e la Persona del Figliuolo di Dio, precisamente perché tale unione ha per termine l’essere stesso della Persona del Figliuolo di Dio, comunicato alla natura umana ed a tutte le sue parti (VI, 6).

Capo IV.

Dei privilegi e delle prerogative di cui il Figliuolo di Dio ha voluto che fosse insignita la natura umana che ha unito a Sé nella Sua Incarnazione. – Grazia abituale o santificante; virtù e doni dello Spirito Santo. – Grazie gratis date.

1429. Non vi sono però, nella natura umana unita alla Persona del Figliuolo di Dio e nelle facoltà della Sua anima, delle realtà create di ordine gratuito che la uniscono a Dio?

Si; queste realtà create di ordine gratuito si trovano nella natura umana unita alla Persona del Figliuolo di Dio e nelle facoltà dell’anima Sua; ma non per unirla alla Persona del Figliuolo di Dio, sebbene come conseguenza di tale unione e come richieste dalla sua eccellenza assolutamente trascendente (VI, 6).

1430. Quali sono le realtà create di ordine gratuito che si trovano o si sono trovate nella natura umana unita alla Persona del Figliuolo di Dio, e che sono una conseguenza di tale unione e come richieste dalla sua eccellenza assolutamente trascendente?

Anzitutto la grazia abituale, nella essenza della Sua anima; poi, nelle Sue facoltà, tutte le virtù fuorché la fede e la speranza; tutti i doni dello Spirito Santo; tutte le grazie gratis date aventi per iscopo o per oggetto la manifestazione della verità divina al mondo, non esclusa la profezia per ciò che implica di stato profetico propriamente detto (VII, 1-8).

1431. Quale era e qual é l’ufficio della grazia abituale che si trova nella essenza dell’anima unita al Figliuolo di Dio nella Sua Persona?

Tale ufficio era, e continuerà ad esserlo per tutta la eternità, di rendere quest’anima per partecipazione ciò che è in se stessa la natura divina per essenza; ed inoltre di permettere a questa stessa anima di possedere, riversandoli nelle sue facoltà, quei principi di azione divina che sono le virtù ed i doni (VII, 1).

1432. Perché dite che l’anima umana unita al Figliuolo di Dio nella Sua Persona dovette avere tutte le virtù, fuorché la fede e la speranza?

Perché queste due virtù hanno qualche cosa di imperfetto, che sarebbe stato incompatibile con la perfezione dell’anima umana unita al Figliuolo di Dio nella Sua Persona (VII, art. 3, 4).

1433. In che cosa consiste tale imperfezione?

Nel fatto che la fede suppone che non si veda quello che si crede, e la speranza riguarda Dio non ancora posseduto per mezzo della chiara visione beatifica (Ibid.).

1434. Che cosa intendete per grazie gratis date aventi per iscopo o per oggetto la manifestazione della divina verità al mondo, e che dovettero trovarsi nella natura umana unita al Figliuolo di Dio nella Sua persona?

Intendo quei privilegi enunciati da S. Paolo nella prima lettera ai Corinti, c. XII, vers. 8 e seguenti, che sono: la fede, la sapienza, la scienza, la grazia delle guarigioni, il compimento dei prodigi, la profezia, la penetrazione dei cuori, la diversità delle lingue e la interpretazione dei discorsi (VII, 7).

1435. La fede, grazia gratis data, è cosa diversa dalla virtù della fede?

Si; perché quivi si tratta di una tal quale certezza sovreminente per ciò che concerne le verità divine, che rende qualcuno atto ad istruire gli altri in queste verità (a – 2æ CXI, 4 ad 2).

1436. E la sapienza e la scienza enunciate nel numero delle grazie gratis date, sono cosa diversa dalle virtù intellettuali, ossia dai doni dello Spirito Santo dello stesso nome?

Si; esse designano una tale abbondanza di scienza e di sapienza, che il soggetto che le riceve non soltanto può avere per se stesso delle idee giuste sulle cose divine, ma anche istruirne gli altri e confutare gli avversari (1a-2æ, CXI, 4 ad 4).

1437. Il Figliuolo di Dio, vivendo su questa terra, ha usato della grazia gratis data che si chiama diversità delle lingue?

Il Figliuolo di Dio vivendo su questa terra non ebbe bisogno di servirsi di tale grazia, non avendo esercitato: il suo ministero di apostolato che fra i Giudei o fra coloro che avevano la stessa lingua; ma la possedeva eccellentemente come tutte le altre grazie, ed avrebbe potuto usarne se avesse avuto occasione di farlo (VII, 7 ad 3).

1438. Che cosa intendete dire dicendo che il Figliuolo di Dio incarnato ebbe nella sua natura umana anche la grazia della profezia, per ciò che implica di stato profetico propriamente detto?

Intendo significare con ciò che il Figliuolo di Dio, durante la sua vita terrena, viveva della nostra vita tra noi; ed a questo titolo era lontano dalle cose del cielo di cui ci parlava, benché con la parte superiore dell’anima sua vivesse addentro ai misteri di Dio, di cui godeva la piena visione ed il possesso attuale. Infatti, la caratteristica del profeta è di parlare di cose lontane, che non sono alla portata di coloro ai quali le annunzia, ed in mezzo ai quali egli vive (VIl, 8).

1439. In quali rapporti si trovano le grazie gratis date con la grazia abituale santificante, e le virtù ed i doni che l’accompagnano?

La grazia abituale o santificante e le virtù ed i doni che l’accompagnano hanno per iscopo di santificare il soggetto in cui si trovano; mentre le grazie gratis date sono in ordine all’ apostolato da esercitarsi presso gli altri (1a – 2æ, CXI, 1, 4).

1440. Queste due specie di grazie possono essere separate?

Si; poiché tutte le anime giuste o sante possiedono la grazia abituale o santificante, con le virtù ed i doni che l’accompagnano; e le grazie gratis date non sono invece che la porzione di coloro che hanno un ministero da compiere presso gli altri. Di più: benché per questi ultimi le due specie di grazie siano ordinariamente congiunte, possono anche essere separate, come avvenne nel caso di Giuda, che era un demonio e possedeva intanto le grazie gratis date conferite agli Apostoli.

1441. Nella natura umana che il Figliuolo di Dio aveva unito alla sua Persona, tutte queste specie di grazie erano unite e insieme ed innalzate al loro più alto grado di perfezione?

Si; nella natura umana che il Figliuolo di Dio aveva unito alla sua Persona, tutte queste grazie erano unite insieme ed innalzate al più alto grado di perfezione (VII, 1 8).

i442. Perché avvenne cosi in Lui?

Perché Egli era di una dignità personale infinita, e perché doveva essere il Dottore per eccellenza nelle cose di fede (VII,7)

Capo V.

La pienezza della grazia che fu nella natura umana del Figliuolo di Dio Incarnato.

1443. Dobbiamo dire che nella natura umana che il Figliolo di Dio ha unito alla propria Persona, la grazia si è trovata in tutta la sua pienezza?

Sì; nella natura umana che il Figliuolo di Dio ha unito alla propria Persona, la grazia si è trovata in tutta la sua pienezza. In questo senso, che non vi è niente che si riferisca all’ordine della grazia che non vi si sia trovato, e che tutto ciò vi si è trovato nel suo più alto grado possibile, nell’ordine attuale della grazia (VII, 9).

1444. Questa pienezza di grazia è affatto propria della natura umana nella Persona del Figliuolo di Dio?

Sì; essa le è del tutto propria, perché deriva dalla prossimità di questa natura con la natura divina sorgente della grazia, nella medesima Persona del Figliuolo di Dio; nonché dalla missione che doveva avere il Figliuolo di Dio vivendo su questa terra, missione che consisteva nel diffondere Se stesso in tutti gli uomini, trovandosi in Lui la sovrabbondanza della grazia (VII, 10).

1445. Possiamo dire che la grazia conferita alla natura umana unita alla Persona del Figliuolo di Dio, fu una grazia infinita?

Sì: in un certo senso si può dire. Perché se si tratta della grazia di unione, essa è infinita in senso puro e semplice, non essendo altro che la unione della natura umana con la natura divina nella unica Persona del Figliuolo di Dio. E se si tratta della grazia abituale con tutto quello che l’accompagna, essa non ha limite di sorta nell’ordine attuale della grazia, ossia in rapporto a tutti gli altri che ne partecipano, quantunque in se stessa sia qualche cosa di creato e per conseguenza di finito (VII, 11).

1446. Questa grazia così intesa, può essere aumentata nella natura umana che il Figliuolo di Dio ha unito alla propria Persona?

Questa grazia potrebbe essere aumentata, non considerando che la infinita potenza di Dio; ma considerando l’attuale ordine della grazia quale è stato stabilito da Dio, questa grazia stessa non può essere aumentata (VII, 12).

1447. Quali sono i rapporti di questa grazia con la grazia di unione?

Questa grazia, nella natura umana che il Figliuolo di Dio ha unito alla propria Persona, è una conseguenza della grazia di unione alla quale è proporzionata (VII, 13).

1448. Come si chiama la grazia di unione, causa e principio d’ogni altra grazia nella natura umana che il Figliuolo di Dio ha unito alla propria Persona?

Si chiama grazia di unione «ipostatica» da una parola greca che significa « persona »; perché essa è, come abbiamo detto, il fatto unico e per noi incomprensibile, dovuto all’azione gratuita della Persona del Figliuolo di Dio in unione con il Padre e con lo Spirito Santo, che costituisce per la natura umana che il Figliuolo di Dio ha unito a sé, quell’eccesso di dignità e di onore per il quale essa è unita immediatamente alla natura divina, nella stessa ed unica Persona del Figliuolo di Dio.

LA SUMMA PER TUTTI (15)

LA SUMMA PER TUTTI (15)

R. P. TOMMASO PÈGUES: LA SOMMA TEOLOGICA DI S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE SECONDA

SEZIONE SECONDA

Idea particolareggiata del ritorno dell’uomo verso Dio.

 Capo XLIX  

La temperanza. – L’astinenza. – Il digiuno. – Vizio opposto: la gola.

1283. Quale è l’ultima delle grandi virtù morali che devono assicurare la perfezione della vita dell’uomo nel suo viaggio di ritorno verso Dio?

È la virtù della temperanza (CXLICLXX).

1284. Che cosa intendete per virtù della temperanza?

Intendo quella virtù che mantiene in tutte le cose la parte affettiva sensibile nell’ordine della ragione, affinché non si lasci andare illecitamente ai piaceri riguardanti più particolarmente il senso del tatto, negli atti necessari alla conservazione della vita corporale (CXLI, 1-5).

1285. Quali sono queste specie di piaceri?

Sono i piaceri della mensa e del matrimonio.

1286. Che nome prende la virtù della temperanza in materia di piaceri della mensa?

Si chiama astinenza o sobrietà (CXLVICXLIX).

1287. In che consiste l’astinenza?

Consiste nel regolare la parte affettiva sensibile rispetto al bere ed al mangiare, perché vi si comporti conforme a ciò che detta la ragione (CXLVI, 1).

1288. Quale è la forma speciale che può rivestire la pratica della virtù dell’astinenza?

È la forma del digiuno (CXLVII).

1289. Che cosa intendete per digiuno?

Intendo la rinunzia ad una parte di ciò che normalmente è richiesto per la propria alimentazione quotidiana (CXLVII, 1, 2).

1290. Ma non è cosa illecita questa?

No; al contrario il digiuno può essere cosa eccellente, perché serve a reprimere la concupiscenza, rende lo spirito più libero di attendere alle cose di Dio, e permette di soddisfare per il peccato (CXLVII, 1).

1291. Che cosa occorre perché il digiuno sia cosa buona ed eccellente?

Occorre che sia sempre regolato dalla prudenza e dalla discrezione, e non abbia mai a compromettere la salute o riuscire un ostacolo per i doveri del proprio stato (CXLVII, art. 1 ad 2).

1292. Ogni uomo che abbia l’uso di ragione è tenuto al digiuno?

Ogni uomo che abbia l’uso di ragione è tenuto ad una certa forma di digiuno o di

privazione proporzionata al bisogno della virtù nella vita morale; ma non al digiuno prescritto dalla Chiesa (CXLVII, 3-4).

1293. Che cosa intendete per digiuno prescritto dalla Chiesa?

Intendo una forma speciale di digiuno determinata dalla Chiesa, e prescritta a partire

da una certa età per certi giorni dell’anno (CXLVII, 5-8).

1294. In che cosa consiste questa forma speciale di digiuno?

Consiste nel fare un solo pasto propriamente detto nella giornata (CXLVII, 6).

1295. L’ora ed il momento di questo pasto sono cosa assolutamente fissa ed immutabile?

No; perché si può fare a mezzogiorno o la sera.

1296. Si può prendere qualche cosa fuori di questo pasto propriamente detto?

Sì; si può prendere qualche cosa la mattina sotto forma di leggerissimo anticipo,

e la sera sotto forma di colazione (Codice, can, 1251).

1297. Chi è tenuto al digiuno prescritto dalla Chiesa?

Tutti i Cristiani battezzati che hanno compiuto il loro ventunesimo anno, fino alla età di cinquantanove anni parimente compiuti (Codice, can. 1254).

1298. Che cosa occorre per non digiunare quando si è in queste condizioni?

Bisogna essere impediti da una manifesta ragione di salute o di lavoro; e nel dubbio occorre la dispensa della legittima autorità (CLXVII, 4).

1299. Chi può dare questa dispensa?

Praticamente basta chiederla al proprio superiore ecclesiastico immediato.

1300. Quali sono i giorni in cui si è obbligati al digiuno ecclesiastico?

Tutti i giorni di Quaresima, eccetto la domenica; il mercoledì, venerdì e sabato dei Quattro Tempi dell’anno; e le vigilie della Pentecoste, dell’Assunzione [commutata alla vigilia dell’Immacolata -ndr.-], di Tutti i Santi e del Natale. Se queste vigilie cadono in domenica non si è obbligati ad anticiparle (Codice, can. 1252).

1301. Non vi è una legge ecclesiastica per l’astinenza, distinta dalla legge del digiuno?

Sì; e questa legge consiste nell’obbligo di astenersi dalla carne e dal brodo di carne in tutti i venerdì dell’anno; e durante la Quaresima, il mercoledì delle Ceneri ed ogni sabato fino al mezzogiorno del Sabato Santo. Finalmente il mercoledì ed il Sabato dei Quattro Tempi (Codice, can. 1250-1252).

1302. Chi è tenuto alla legge dell’astinenza?

Tutti i fedeli che hanno compiuto il settimo anno di età (Codice, can. 1254).

1303. Qual è il vizio opposto alla virtù dell’astinenza?

È il vizio della gola (CXLVIII

1304. Che cosa intende per vizio di gola?

Intendo una propensione disordinata verso il bere ed il mangiare (CXLVTIII, 1:

1305. Questo vizio ha diverse specie?

Sì; perché questa tendenza disordinata al bere ed al mangiare può riferirsi alla natura dei cibi, alla loro qualità, alla loro quantità, alla loro preparazione, o anche al fatto stesso di prenderli senza attendere l’ora voluta, o mangiando con troppa avidità (CXLVIII, 4).

1306. La gola è un vizio capitale?

Sì; la gola è un vizio capitale, perché inclina ad uno di quei piaceri che sono di natura tale da provocare maggiormente il desiderio dell’uomo e farlo agire secondo essi (CXLVII, 5).

1307. Quali sono gli effetti della gola?

Sono la ebetudine dello spirito riguardo alle cose della intelligenza; la gioia insensata: la intemperanza di linguaggio, la scurrilità e la impurità (CXLVIII, 6).

1308. Sono vizi questi particolarmente lascivi; e perché provengono specialmente dalla gola?

Questi vizi sono particolarmente lascivi perché implicano maggiormente una diminuzione o una quasi assenza della ragione; e provengono dalla gola perché la ragione, quasi assopita e addormentata sotto l’azione delle smoderatezze di essa, non tenendo più il governo di una mano ferma, tutto nell’uomo declina (Ibid).

Capo L.

La sobrietà. – Vizio opposto: la ebrietà.

1309. Oltre l’astinenza, vi è un’altra virtù che aiuta l’uomo a prevenire tali effetti?

Sì; vi è la virtù della sobrietà (CXLIX)

1310. Che cosa intendete per virtù della sobrietà?

Intendo una virtù speciale, che ha per proprio oggetto di fare sì che l’uomo non usi se non come conviene, di ogni bevanda capace di inebriare (CXLIX, 1-2),

1311. Qual è il vizio opposto a questa virtù?

È il vizio di passare la misura nell’uso di tali bevande, fino a cadere in istato di ebrietà od ubriachezza (CL).

1312. Che cosa intendete per istato di ebrietà od ubriachezza?

Intendo uno stato fisico nel quale le bevande eccessive hanno fatto perdere l’uso della ragione (CL, 1).

1313. Tale stato di ebrietà od ubriachezza è sempre peccato?

Tale stato è sempre peccato quando uno vi è caduto per propria colpa, non cessando di bere eccessivamente allorché poteva e doveva diffidare della natura inebriante della bevanda (CL, 1).

1314. Che cosa si richiede perché questo stato sia peccato mortale?

Si chiede che sia stato previsto che sia stato previsto che l’eccesso della bevanda poteva cagionare la ubbriachezza, e si sia accettata questa. Possibile conseguenza, piuttosto che rinunziare al piacere trovato nella bevanda stessa (CI 2)

1315. Quando questo peccato diventa abitudine, come si chiama?

Si chiama vinolenza.

1316. La vinolenza è un vizio particolarmente lascivo e degradante?

Sì; la vinolenza è un vizio particolarmente degradante; perché priva scientemente l’uomo della ragione, mettendolo in modo più o meno ripetuto e frequente in uno stato inferiore anche a quello del bruto, che mantiene almeno sempre il suo istinto per regolarsi (CL, 3).

Capo LI.

La castità, – La verginità. – Vizio opposto: la lussuria.

1317. Accanto alla virtù dell’astinenza e della sobrietà, quale è altra grande virtù che forma una Specie a parte della temperanza?

È la virtù della castità (CLI).

1318. Che cosa intendete per virtù della castità?

Intendo quella perfezione della facoltà affettiva sensibile, che rende l’uomo padrone di tutti i moti che portano alle cose del matrimonio (CLI, 1).

1319. Nell’ordine della castità vi è una virtù speciale che ne è il coronamento e la più alta perfezione?

Sì; la verginità (CLIL),

1320. Che cosa intendete per verginità?

Intendo il fermo ed assoluto proposito santificato da un voto, di rinunziare per sempre ai piaceri del matrimonio (CLII, 1-3).

1321. Qual è il vizio opposto alla virtù della castità?

È la lussuria (CLII).

1322. In che consiste la lussuria?

La lussuria consiste nell’usare con azioni, con desideri o con pensieri voluti e compiacenti, delle cose che la natura ha ordinato alla conservazione della specie umana, contrariamente all’ordine naturale ed alla onestà che regola l’uso delle cose stesse, per il godimento che vi è annesso (CLIII, 1-3).

1323. Il vizio della lussuria ha varie specie?

Sì; questo vizio ha tante specie, quanti possono essere i disordini distinti nelle cose della lussuria (CLIV).

1324. Quali sono queste specie di disordine nelle cose della lussuria?

Sono la semplice fornicazione, direttamente opposta al retto ordine delle cose del matrimonio in ciò che riguarda il loro fine, cioè la procreazione e la educazione dei figli che verranno: il vizio contro natura, cosa più grave di tutte in questo ordine, che si oppone direttamente e totalmente al fine principale ed essenziale del matrimonio, cioè alla venuta stessa dei figli; l’incesto, l’adulterio, lo stupro ed il ratto, che si basano sull’abuso di persone prossime parenti, o maritate, o sotto la tutela del padre che si inganna o a cui si fa violenza; e finalmente il sacrilegio, che è l’abuso di persone consacrate a Dio (CLIV, 1-12).

1325. Il vizio della lussuria, in ciò che costituisce la sua base essenziale che si trova in ciascuna delle sue specie, e che non è altro che il godimento illecito dei piaceri annessi alle cose del matrimonio, è un vizio capitale?

Sì; la lussuria è un vizio capitale in causa di quello appunto che ha di particolarmente veemente nel proprio oggetto, per cui gli uomini vi si sentono estremamente inclinati (CLIII, 4).

1326. Quali sono le conseguenze della lussuria?

Sono l’accecamento dello spirito, la precipitazione, la inconsideratezza, la incostanza, l’amore di sé, l’odio a Dio, l’attaccamento alla vita presente, l’orrore della vita futura (CLIII, 5).

1327. Queste conseguenze della lussuria hanno tutte un carattere comune e particolarmente grave?

Sì; esse hanno tutte benché in diversi gradi questo di comune, che implicano l’assorbimento dello spirito da parte della carne; e ciò che forma la gravità speciale di ciascuna di esse e della lussuria che ne è la madre, è appunto questo, che l’uomo precipita dalla sua sovranità, per cadere al di sotto dei bruti animali privi di ragione (CLVIII, 5, 6).

Capo LII.

Virtù annesse alla temperanza: la continenza. – Vizio opposto: la incontinenza.

1328. Oltre alle virtù che hanno natura di specie rispetto alla temperanza, vi sono altre virtù che in relazione ad essa hanno natura di virtù annesse?

Sì; vi sono le virtù che imitano il suo atto, ossia il suo modo di agire, cioè la modeazione di ciò che per natura tende a trascinare, ma in materie meno difficili a padroneggiarsi; oppure che non toccano la perfezione del suo atto (CLV).

1329. Quali sono queste altre virtù?

Sono la continenza, la clemenza, la mansuetudine e la modestia (CLV -CLXX).

1330. Che cosa intendete per continenza?

Intendo quella virtù, imperfetta del resto nella sua ragione di virtù, che consiste nel preferire di non seguire i moti violenti della passione che trascinerebbe, ma che non si segue per un motivo di ragione (CLV, 1).

1331. Perché dite che è cosa imperfetta nell’ordine della virtù?

Perché la virtù perfetta suppone e tiene sottomessi i moti della passione, mentre la continenza non fa che resistere loro (Ibid.).

1332. Questa virtù imperfetta ha un vizio che le si oppone?

Sì: la incontinenza (CLVI).

1333. In che consiste la incontinenza?

Consiste in questo, che l’uomo cede alla violenza della passione ed in qualche modo se ne lascia guidare (CLVI, 1).

1334. Tra l’intemperante e l’incontinente chi pecca più gravemente?

L’intemperante; perché per la stessa ragione che la continenza è meno perfetta della temperanza nell’ordine della virtù, nell’ordine del vizio la incontinenza è meno perfetta, ossia meno malvagia, della intemperanza (CLVI, 3).

Capo LIII.

La clemenza e la mansuetudine. Vizi opposti: la collera, la crudeltà o ferocia.

1385. Che cosa intendete per clemenza e mansuetudine?

La clemenza e la mansuetudine sono due virtù, delle quali l’una modera e regola la punizione esterna perché non passi i limiti della ragione; e l’altra, il moto interno della passione che è la collera (CLVII, 1).

1336. La clemenza e la severità sono opposte tra loro, come pure la mansuetudine e la vendetta?

Niente affatto; perché non hanno lo stesso motivo, ed in certi casi e per motivi differenti tendono tutte a ciò che è secondo ragione (CLVII, 2 ad 1) x

1337. Quali sono i vizi opposti alla clemenza ed alla mansuetudine?

Sono la collera nel senso peccaminoso della parola; e la crudeltà, ossia ferocia (CLVIII, CLIX).

1338. Che cosa intendete per collera nel senso peccaminoso della parola?

Intendo un moto dell’appetito irascibile, diretto ad una vendetta ingiusta, oppure anche giusta ma con troppa eccitazione (CLVIII, 2).

1339. Vi sono diverse specie di collera?

Sì; ve ne sono tre specie: la collera degli «irritabili», che vanno in collera per un nonnulla; la collera degli «aspri», che conservano lungamente la memoria delle ingiurie; e la collera degli «intrattabili», che perseguono senza a indugio la esecuzione della vendetta (CLVIII, 5).

1340. La collera è un peccato capitale?

Si la collera è un peccato capitale, perché il suo oggetto è cosa alla quale gli uomini sono specialmente inclinati, cioè la vendetta ed il male, sotto la ragione di un bene giusto ed onesto (CLVIII, 6).

1341. 1341. Quali sono le conseguenze della collera?

Sono la indignazione, il gonfiamento del cuore, il clamore, la bestemmia; l’ingiuria e le risse (CLVII, 7).

1342. Può esservi un vizio opposto alla collera?

Sì; consiste nella mancanza del moto di collera quando la ragione lo comanda, e che deve essere effetto della giusta volontà di punire (CLVII, 8).

1343. Che cosa intendete per crudeltà, vizio che si oppone alla clemenza?

Intendo quella specie di « crudezza » d’animo, per la quale si è inclinati ad aumentare la pena oltre i giusti limiti stabiliti dalla ragione (CLXI, 1).

1344. E la ferocia che cosa sarà?

La ferocia è quel qualche cosa di selvaggio, di assolutamente inumano, per cui uno si diletta della pena o vi trova piacere sotto la sola ragione di male; è un compiacersi della sofferenza altrui, non sotto l’aspetto di giusto castigo, ma sotto il solo aspetto di pena e di sofferenza. La ferocia si oppone al dono della pietà (CLIX, 2).

1345. È cosa possibile questa?

Per quanto possa sembrare impossibile, la natura umana depravata può arrivare a tale eccesso; e si sono vedute nazioni intere, anche apparentemente le più civili, , trovare il loro supremo piacere in ciò che di più feroce avevano gli spettacoli dell’anfiteatro.

Capo LIV.

La modestia. – La umiltà. – Vizio opposto: l’orgoglio, il peccato di Adamo e di Eva, il naturalismo ed il laicismo.

1346. Quale è l’ultima delle virtù annesse alla temperanza?

È la modestia (CLX-CLXX).

1347. Che cosa intendete per modestia?

Intendo la virtù che consiste nel raffrenare e regolare la parte affettiva in cose meno difficili di quelle che sono oggetto della temperanza ed anche della continenza, della clemenza e della mansuetudine (CLX,1, 2)

1348. Quali sono le altre cose meno difficili a dominarsi, a moderarsi e regolarsi, quanto ai moti della parte affettiva che portano ad esse?

In ordine di decrescenza sono il desiderio della propria eccellenza, il desiderio di conoscere, i moti o le azioni esterne del corpo, e finalmente la divisa esteriore riguardo al modo di vestirsi (CLX, 2).

1349. Quali sono le virtù che regolano la parte affettiva in relazione a queste diverse cose?

Sono la umiltà, la studiosità e la diligenza nello studio, la modestia in senso stretto (CLX, 2).

1350. Che cosa intendete per umiltà?

Intendo quella virtù per la quale l’uomo, avuto riguardo al sovrano dominio di Dio, reprime in sè e regola l’aspirazione ad eccellere, in modo da non tendere a più di quello che gli appartiene o gli conviene, secondo il grado od il posto che Dio gli ha assegnato (CLXI, art. 1, 2).

1351. Che cosa segue da ciò nei rapporti dell’uomo con gli altri?

Ne segue che l’uomo non giudica essere dovuto a sè qualche cosa, considerato in se stesso ed in quanto si sottrae all’azione ed al dominio di Dio, perché da se stesso non ha niente se non il peccato. Al contrario giudica che tutto sia dovuto agli altri, nella misura stessa del bene che essi ricevono da Dio e che li fa sottostare al dominio di Lui. Che se si tratta di ciò che egli stesso ha da Dio, per cui esso pure sta sottomesso al dominio di Lui, non vorrà altro che ciò che gli compete, al suo posto e nel suo ordine, fra tutti gli altri esseri che parimente dipendono dal dominio di Dio (CLXI, 3).

1352. Dunque l’umiltà è una questione di stretta verità, ed è secondo verità che per essa l’uomo può e deve tenersi al di sotto di tutti gli altri?

Sì: l’umiltà è una questione di stretta verità; ed è secondo verità che per essa l’uomo può e deve tenersi al di sotto di tutti gli altri, nel senso che abbiamo precisato (Ibid.).

1353. Come si chiama il vizio opposto all’umiltà?

Si chiama orgoglio (CLXII).

1354. Che cosa intendete per orgoglio?

Intendo quel vizio speciale ed in certo modo generale, che in onta a Dio ed alla regola di subordinazione stabilita da Lui nell’opera sua e nel suo dominio, intende di dominare su tutti e di preferirsi a tutti, considerandosi a tutti superiore in eccellenza (CLXII, 1, 2).

1355. Perché dite che questo vizio è speciale ed in certo modo anche generale?

Perché ha un oggetto proprio e distinto che è la propria eccellenza; e l’amore e la ricerca della propria eccellenza, in onta a Dio ed alla regola da Lui stabilita, conduce l’uomo a commettere tutti gli altri peccati (Ibid.).

1356. È un gran peccato questo?

È il maggiore di tutti i peccati per il disprezzo di Dio che implica direttamente; e da questo lato costituisce la maggiore gravità di tutti gli altri peccati, per quanto gravi possano essere già di per se stessi (CLXII

1357. L’orgoglio è il primo di tutti i peccati?

Sì; l’orgoglio è il primo di tutti i peccati, perché, sempre in ragione del disprezzo di Dio che esso implica, perfeziona e completa la natura di peccato in tutti gli altri per cui l’uomo si allontana da Dio: dimodochè non può darsi alcun peccato grave che non implichi o non presupponga l’orgoglio, benché non sia sempre in se stesso, o rispetto al motivo che lo specifica, un peccato di orgoglio (CLXII, 7).

1358. L’orgoglio è un peccato capitale?

L’orgoglio è più che un peccato capitale; perché è il capo e come il sovrano di tutti gli altri vizi e peccati (CUXII, 8).

1359. I nostri primi genitori, nel loro primopeccato, peccarono di orgoglio?

Sì; nel loro primo peccato i nostri primi genitori peccarono di orgoglio, come in cielo avevano peccato di orgoglio gli angeli malvagi (CLXII, 1).

1360. Ma Adamo ed Eva, nel loro primo peccato, non peccarono piuttosto di gola o di disobbedienza o di vana curiosità di fronte alla scienza di Dio, e di mancanza di fede alla parola di Lui?

Tutti questi peccati che infatti possono trovarsi nel peccato dei nostri primi padri, non furono che una conseguenza del peccato di orgoglio, senza il quale nessun altro peccato poteva da essi commettersi (CLXIII, 1).

1361. Perché dite che senza il peccato di orgoglio nessun altro peccato poteva commettersi dai nostri primi padri?

Perché il loro stato di integrità faceva sì che in essi tutto fosse perfettamente sottomesso e subordinato, fintantoché il loro spirito fosse rimasto soggetto a Dio; ed il loro spirito stesso non poté sottrarsi a Dio che per un motivo di orgoglio, volendo attribuirsi una eccellenza. che non era affatto loro dovuta. (CLXII, 1, 2).

1362. Il peccato di naturalismo e di laicismo che oggi regna un poco dappertutto, specialmente dopo la Riforma protestante, la Rinascenza pagana, l’empia Rivoluzione del secolo decimottavo, non è esso pure specialmente un peccato di orgoglio?

Sì; ed è ciò che ne forma la eccezionale gravità; perché è una imitazione del disprezzo e della ribellione che furono prima il peccato di satana  degli angeli malvagi, e poi il peccato dei nostri primi padri.

Capo LV.

La studiosità. – Vizio opposto: la curiosità.

1363. Che cosa intendete per studiosità, che la seconda delle virtù annesse alla temperanza sotto il nome e la influenza della modestia?

Intendo quella virtù che modera nell’uomo conforme alla retta ragione, il desiderio di conoscere e di imparare (CLXVI, 1).

1364. E come si chiama il vizio opposto?

Si chiama curiosità (CLXVII).

1365. Che cosa è dunque la curiosità?

La curiosità è il desiderio disordinato di conoscere e di sapere ciò che non è di propria competenza, o che può essere pericoloso a sapersi, data la propria fragilità (CLXVII, 1, 2).

1366. Si può peccare facilmente di curiosità?

Sì; il peccato di curiosità si può commettere e si commette frequentissimamente nell’ordine di ogni cognizione in generale, come nell’ordine più speciale delle cognizioni che possono interessare i sensi e le passioni (CLXVII, art. 1, 2).

1367. Appartiene a questo peccato il desiderio smoderato di leggere soprattutto appendici e romanzi, e di assistere a feste profane e spettacoli, come teatri, cinematografi e cose simili?

Sì; tutto questo appartiene al peccato di curiosità, al tempo stesso che appartiene anche al peccato di sensualità e di lussuria; e non sarebbe mai troppo l’impegno messo a porvi rimedio.

Capo LVI.

La modestia esteriore.

1368. Quale è l’ultima delle virtù annesse alla temperanza, sotto il nome generale di modestia?

È la virtù speciale della modestia, che va sotto questo nome nel suo stretto senso (CLXVII – CLXX).

1369. Che cosa intendete per questa virtù?

Intendo quella finitezza di perfezione nelle disposizioni affettive del soggetto, per cui tutto nel suo esterno, si tratti dei suoi gesti e dei suoi movimenti, delle sue parole, del tono della voce, del vestito, del portamento, delle sue maniere ecc., è ciò che deve essere secondoché conviene alla persona, all’ambiente, allo stato, all’azione che si fa; cosicché niente stona e niente contrasta; e tutto, nell’esterno stesso del soggetto, apparisce in una somma e perfetta armonia. A questo titolo la virtù della modestia si collega con l’affabilità, l’amicizia e con la verità (CLXVIII, 1).

1370. Si deve attribuire alla virtù della modestia ciò che può avere attinenza col giuoco col divertimento e con la ricreazione, nella economia della vita umana?

Sì; e questa virtù prende allora un nome speciale, quello di « eutrapelia », virtù per la quale si scherza, ci si diverte e ci si ricrea come si conviene, evitando da un lato l’eccesso, e dall’altro il difetto contrario (CLXVIII, 2-4).

1371. La modestia comprende anche ciò che ha attinenza con la divisa esterna, cioè col vestito?

Sì; la modestia si estende anche a ciò che riguarda il vestito, cioè la divisa esterna, ed allora appunto prende in senso affatto stretto il nome di modestia (CLXIX).

1372. E che cosa fa la modestia a questo proposito?

Fa che il moto affettivo interno sia quello che deve essere rispetto alla divisa esterna, ossia al vestire; e per essa si conserva quella misura perfetta che esclude insieme troppa ricercatezza e la negligenza sconveniente (CLXIX, 1).

1373. Peccano specialmente contro la modestia le persone mondane che non osservano alcuna misura negli eccessi della moda, e possono divenire per questo occasione di peccato per gli altri?

Sì; queste specie di persone peccano specialmente contro la virtù della modestia, al tempo stesso che peccano anche contro la castità; e non sarebbe mai troppo il biasimo contro gli eccessi che in questo senso si commettono (CLXIX, 2).

Capo LVII.

Del dono corrispondente alla virtù della temperanza.

1374. Fra i doni dello Spirito Santo, ve ne è qualcuno che corrisponda alla virtù della temperanza?

Sì; vi è il dono del timore (CXLI, 1ad 3).

1375. Ma non si è detto prima che il dono del timore corrisponde alla virtù teologale della speranza?

Il dono del timore infatti corrisponde simultaneamente alla virtù teologale della speranza ed alla virtù cardinale della temperanza; ma non sotto il medesimo aspetto ed allo stesso titolo (Ibid.).

1576. In che consiste questa differenza?

Consiste in questo, che il dono del timore corrisponde alla virtù teologale della speranza in quanto ché l’uomo rispetta Dio direttamente per la sua infinita grandezza ed evita per questo di offenderlo. Corrisponde poi alla virtù cardinale della temperanza, inquantoché la riverenza ed il rispetto che ispira verso la grandezza di Dio, fa che si rifugga da ciò che inclina di più ad offendere Dio, vale a dire dai piaceri dei sensi (Ibid.).

1377. Ma la virtù della temperanza non porta già ad evitare tutto questo?

Sì; ma in misura incomparabilmente meno perfetta. Essa infatti non porta ad evitare ciò se non in una misura e secondo un modo che è frutto dell’uomo operante da sé alla luce della ragione o della fede; mentre il dono del timore lo fa evitare nella misura e secondo il modo che è frutto dello Spirito Santo stesso, movente personalmente l’uomo con la sua azione onnipotente, e conducendolo, in ordine al rispetto ed alla riverenza che gli ispira la Maestà divina, a riguardare come fango i piaceri sensuali e quanto con essi ha attinenza.

Caro LVIII.

Precetti relativi alla temperanza ed alle sue parti.

1378. Nella legge divina abbiamo qualche precetto che ha attinenza con la temperanza?

Sì; abbiamo nello stesso Decalogo due precetti che hanno attinenza con la virtù della temperanza (CLXX).

1379. Quali sono questi due precetti?

Sono il sesto ed il nono: «Non commetterai adulterio»; e «Non desidererai la donna del prossimo tuo ».

1380. Perché non si parla che di adulterio; e perché in materia di adulterio vi sono nel Decalogo due precetti distinti?

Perché di quanto ha attinenza con la temperanza l’adulterio è ciò che più interessa le relazioni dell’uomo col prossimo, specialmente dal punto di vista della giustizia, che è quello dei precetti del Decalogo. E se a questo proposito si danno due precetti distinti, si è per la importanza che vi è di frenare fino nella sua prima origine il gran male dell’adulterio (CLXX, 1).

1381. Fra i precetti del Decalogo ve ne è qualcuno che abbia attinenza con le parti della temperanza?

No; non esistono precetti che abbiano direttamente questa attinenza, perché dette parti non interessano affatto da se stesse i rapporti dell’uomo con Dio o col prossimo. Tuttavia le diverse parti della temperanza ne sono riguardate indirettamente a motivo dei loro effetti, sia nei precetti della prima tavola che in quelli della seconda. Infatti, a motivo dell’orgoglio, l’uomo non rende a Dio né al prossimo gli omaggi ed il culto che loro è dovuto; ed a motivo della collera, opposta alla mansuetudine, l’uomo se la prende con la persona del prossimo fino ad attentarne alla vita nell’omicidio (CLXX, 2).

1382. Per ciò che riguarda il lato positivo dei precetti relativi sia alla temperanza che alle sue divisioni, non sarebbe stato a proposito che fosse indicato nel Decalogo?

No; perché il Decalogo doveva contenere soltanto i primi precetti della legge divina applicabili a tutti gli uomini ed in tutti i tempi; e ciò che si riferisce al lato positivo di queste virtù, come l’astinenza, il modo esterno di parlare, di agire, di comportarsi etc., può variare assai secondo i diversi uomini, nei diversi tempi e nei diversi luoghi (CLXX, 1 ad 3).

1383. A chi appartiene determinare queste cose con speciale autorità, nella nuova legge?

Appartiene alla Chiesa di determinare su ciò, con opportuni precetti, la condotta dei fedeli.

1384. Nella spiegazione della divina legge contenuta nella Santa Scrittura si fa un invito speciale sotto forma di preghiera, di appoggiarsi al dono del timore in quanto corrisponde alla temperanza?

Sì; è il bellissimo testo del salmo CXVIII, vers. 120: « Confige timore tuo carnes meas: Il tuo timore, o Signore, reprima le ribellioni della mia carne».

Capo LIX.

Sufficienza delle virtù e loro compito. – Duplice vita: attiva e contemplativa; lo stato di perfezione. – La vita religiosa: le famiglie religiose nella Chiesa.

1385. Abbiamo ora la conoscenza sufficiente di tutte le virtù che l’uomo può essere chiamato a praticare per guadagnare il cielo, e dei vizi che deve fuggire per non esporsi a. perdere il paradiso e cadere nell’inferno?

Sì; noi abbiamo ora tale sufficiente conoscenza. Conosciamo infatti le tre grandi virtù della fede, della speranza e della carità, che permettono all’uomo di conseguire il suo ultimo fine soprannaturale come deve raggiungerlo su questa terra, affinché il fine stesso diriga e domini la sua vita morale. Conosciamo pure le altre quattro grandi virtù morali cardinali, che sono la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza con tutte le virtù annesse, considerate non soltanto nell’ordine naturale e sotto la ragione di virtù acquisite, ma più ancora nell’ordine soprannaturale e sotto la loro ragione di virtù infuse proporzionate alle virtù teologali, che permettono all’uomo di ordinare tutto come deve nella sua vita morale, sia riguardo agli altri sia riguardo a se stesso, per essere in tutte le cose in armonia col suo fine soprannaturale. Cosicché basta all’uomo di praticare tutte queste virtù in unione coi doni corrispondenti, per essere sicuro di conseguire la visione di Dio, che noi sappiamo dovere essere la sua felicità nel cielo per tutta la eternità: con questo solamente che se pecca contro una qualunque di queste virtù, bisognerà che con una nuova virtù di cui parleremo nella Terza Parte e che sarà la penitenza, soddisfaccia per il suo peccato, in unione con la soddisfazione di Gesù Cristo.

1386. La pratica di questo insieme di virtù e di doni che costituisce veramente la vita dell’uomo sulla terra, non può presentarsi sotto due forme distinte ed in qualche modo separate?

Sì: e queste due forme sono la vita contemplativa e la vita attiva (CLXXIX-CLXXXII).

1387. Che cosa intendete per vita contemplativa?

Intendo quella forma di vita in cui l’uomo, con l’anima libera dalle passioni viziose e dal tumulto delle azioni esteriori, sotto l’impulso dell’amore di Dio, passa il suo  tempo, nella misura del possibile su questa terra nella contemplazione di Dio in Se stesso e nelle opere sue, godendo della visione di Dio che egli ama, e trovando in tale fruizione di Dio la sua più alta perfezione, che lo fa vivere separato da qualsiasi altra cosa fuori di Dio (CLXXX, 1-8).

1388. Questa vita contemplativa suppone tutte le virtù? Sì; questa vita contemplativa suppone tutte le virtù e concorre a perfezionarle; ma essa stessa consiste in una certa azione propria ove intervengono tutte le virtù intellettuali e teologali, rimanendo sempre nel più alto grado alla mercè dell’azione personale dello Spirito Santo per mezzo dei doni (CLXXX, 2).

1389. E la vita attiva che cosa comprende?

La vita attiva comprende propriamente tutti gli atti delle virtù morali, e specialmente gli atti della virtù della prudenza; perché suo proprio oggetto è la disposizione in quelle stesse ed in quanto conviene all’ordine della vita presente, nelle necessità della vita terrestre, di tutte le cose che hanno attinenza con questa vita stessa (CLXXXI, 1-4).

1390. Di queste due vite quale è la più perfetta?

La più perfetta è incontestabilmente la vita contemplativa, perché è quella che dà su questa terra come una anticipazione del paradiso (CLXXXII, 1).

1391. Ciascuna di queste due vite, ossia la pratica delle virtù e dei doni che esse implicano, non possono trovarsi come in una duplice condizione tra gli uomini?

Sì; esse possono trovarsi secondo la condizione comune, oppure come poste in uno stato di perfezione.

1392. Che cosa intendete per istato di perfezione?

Intendo una certa condizione di vita per cui l’uomo si trova posto in modo stabile, permanente ed immutabile, fuori dei legami che lo rendono schiavo delle necessità della vita presente, e libero di attendere esclusivamente e con tutto se stesso alle cose di Dio e della divina carità (CLXXXIII, 1, 4).

1393. Questo stato di perfezione è la stessa cosa che la perfezione stessa?

No; perché la perfezione consiste in qualche cosa di interiore; mentre lo stato di perfezione di cui si parla consiste in una condizione di vita, considerata piuttosto in ordine ad un insieme di atti esteriori (CLXXXIV, 1).

1394. Si può avere la perfezione delle virtù e dei doni, ossia della vita della divina carità senza essere nello stato di perfezione; e viceversa, si può essere nello stato di perfezione senza avere la perfezione della carità?

Sì; queste due cose sono possibili (CLXXXIV, 4).

1395. Perché dunque ricorrere allo stato di perfezione?

Perché di per sé lo stato di perfezione facilita mirabilmente l’acquisto della perfezione stessa. Generalmente, infatti, la perfezione si trova nello stato di perfezione.

1396. Che cosa è dunque che costituisce lo stato di perfezione?

È il fatto di obbligarsi perpetuamente, sotto una certa forma solenne, alle cose che appartengono alla perfezione, in quanto riguardano l’ordinamento esteriore della propria vita (CLXXXIV, 4).

1397. Chi si trova dunque in questo stato di perfezione?

I Vescovi ed i Religiosi (CLXXXIV, 5).

1398. Perché i Vescovi sono nello stato di perfezione?

Perché essi dal momento che assumono l’ufficio ed il dovere pastorale, si obbligano a dare la propria vita per le pecorelle, e ciò avviene mediante la solennità della consacrazione (CLXXXIV, 6).

1399. Ed in quanto ai Religiosi, per che cosa si trovano nello stato di perfezione?

Perché essi si astringono, sotto forma di voto perpetuo, ad abbandonare le cose del secolo di cui potrebbero usare lecitamente, per attendere più liberamente alle cose di Dio. E ciò essi fanno con una certa solennità di professione o di benedizione (CLXXXIV, 5).

1400. Di questi due stati di perfezione quale è il più perfetto?

Quello dei Vescovi (CLXX.XIV, 7).

1401. Perché lo stato di perfezione dei Vescovi è più perfetto di quello dei religiosi?

Perché sta a questo ultimo, come chi dà, sta a chi riceve. I Vescovi infatti debbono per lo stato loro possedere la perfezione che i religiosi per lo stato loro tendono ad acquistare (CLXXXIV, 7).

1402. In qual modo i religiosi tendono per lo stato loro ad acquistare la perfezione?

I religiosi tendono per lo stato loro ad acquistare la perfezione, inquantoché essi per i tre voti di povertà, di castità e di obbedienza, si trovano nella felice impossibilità di peccare, e nella felice necessità di bene agire in tutte le cose (CLXXXVI, 1-10).

1403. Questi tre voti sono essenziali per lo stato di perfezione dei religiosi?

Sì; questi tre voti sono essenziali per lo stato di perfezione dei religiosi; cosicché senza di essi lo stato religioso non potrebbe esistere (CLXXXVI, 2-7).

1404. Può esservi diversità tra le famiglie religiose aventi tutte le condizioni essenziali dello stato religioso?

Sì; può esservi diversità tra le famiglie religiose aventi tutte le condizioni essenziali dello stato religioso (CLXXXVII).

1405. In che cosa consisterà la diversità delle famiglie religiose, quando tutte convengano nelle condizioni essenziali dello stato religioso?

Consisterà in questo, che essendovi diverse cose nelle quali l’uomo può votarsi totalmente al servizio di Dio, l’uomo può disporsi a questo in diverse maniere e secondo esercizi diversi (CLXXXVII, 1).

1406. Quali sono le due grandi forme di famiglie religiose?

Le due grandi forme di famiglie religiose sono quelle derivanti dalle due grandi condizioni di vita di cui abbiamo parlato: la vita contemplativa e la vita attiva (CLXXXVIII, art. 2-6).

1407. Vi sono dunque famiglie religiose di vita attiva ed altre di vita contemplativa?

Sì; vi sono famiglie religiose di vita attiva ed altre di vita contemplativa.

1408. Che cosa intendete per famiglie religiose di vita attiva?

Intendo quelle famiglie religiose dove la maggior parte delle azioni dei membri che le compongono, è ordinata a servire il prossimo per amor di Dio (CLXXXVII, 2). i

1409. E che cosa intendete per famiglie religiose di vita contemplativa?

È Intendo quelle famiglie religiose dove la totalità delle azioni dei membri che le compongono, è ordinata al servizio di Dio stesso (CLXXXVIII, 2 ad 2).

1410. Di queste due specie di famiglie religiose quali sono le più perfette?

Sono quelle di vita contemplativa; con questo nondimeno che le più perfette di tutte sono quelle di cui la parte principale è votata alla contemplazione delle cose divine, al culto ed al servizio di Dio in Se stesso, ma per riversare poi sul prossimo la soprammisura della loro contemplazione, ed attirare il prossimo stesso al culto ed al servizio di Dio (CLXXXVII, art. 6).

1411. La esistenza delle diverse famiglie religiose nella Chiesa ed in mezzo al mondo è un bene molto grande?

Niente di più prezioso che la esistenza delle diverse famiglie religiose nella Chiesa ed in mezzo al mondo. Perché oltre a formare i focolari scelti dove si praticano nella loro massima perfezione tutte le virtù, esse hanno per effetto di contribuire al più gran bene della umanità con le loro opere di carità e di apostolato, e con la loro vita di immolazione a Dio.

1412. Donde viene alle famiglie religiose nella Chiesa la loro eccellenza in ciò che riguarda la pratica di tutte le virtù. fino alla più alta perfezione?

Tale eccellenza viene loro dall’applicarsi ostensibilmente e per vocazione o di ufficio a camminare nella via dove ogni uomo deve camminare per praticare queste stesse virtù e conseguire la felicità del cielo.

Quale è la via fuori della quale non è possibile nessun cammino verso Dio con la pratica delle virtù?

Questa via non è altri che Gesù Cristo mistero stesso del Verbo fatto carne. Ora  ci resta di occuparci di Lui; e questo formerà la materia della nostra « Terza Parte ».

LA SUMMA PER TUTTI (16)

LO SCUDO DELLA FEDE (170)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (VI)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

IV. — Il Cristianesimo cattolico.

c) Schizzo di un’apologia esterna.

D. Mi dicevi che la coerenza interna della dottrina cattolica e il suo adattamento alla vita non erano che una delle ragioni in suo favore. Che cosa avevano di sottinteso queste parole?

R. Io non ti faccio un trattato di apologetica; mi sono già, allontanato molto dal lavoro catechistico che mi sono proposto. Non ti posso tuttavia rifiutare alcune indicazioni sommarie. Per cominciare, citerò quel giudizio del Lacordaire che io noto in ogni coscienza: «Ogni uomo di buona fede si può convincere, con pochissima fatica, che il concatenamento dei fatti cristiani è al di sopra delle forze umane se si suppongono falsi, e ancora al di sopra delle forze umane se sono veri». In questa sola frase, il grande apologista dà la prova essenziale sulla quale s’innestano tutte le altre,

D. Che cosa intende il tuo autore per «il concatenamento dei fatti cristiani? ».

R. Si tratta di quell’immensa serie di avvenimenti, che, in passato, si estende da Abramo a Pio XI, e si mostra in grado di realizzare la sua pretensione di durare sino alla fine dei tempi.

D. Questa serie di fatti è continua e omogenea?

R. È continua, ma non omogenea; essa importa tre fasi: una fase di preparazione, che è il giudaismo; una fase di effettuazione, che è l’insieme dei fatti evangelici, e una fase di utilizzazione che è la nostra, cioè l’éra cristiana. Il giudaismo è un Vangelo nascosto; il Vangelo è un giudaismo spiegato; i tempi cristiani sono un Vangelo in azione, o per lo meno un saggio di applicazione laboriosa.

D. Tutta questa evoluzione ha dunque un centro?

R. Il centro o il perno di questa evoluzione è Cristo.

D. E che cosa deduci da questa constatazione?

R. Non sei tu colpito, prima di tutto, da un fenomeno storico di questa ampiezza: una forza all’opera dalle origini della storia fino a oggi; che sviluppa gli annali di Dio e la filosofia di Dio senza interruzione, senza lacuna e senza contradizione; che attraversa tutti i fatti umani senza intralciarli come senza confondervisi; che si crea una tradizione propria nel corso delle nostre tradizioni, una società a sé, una società perfetta e indipendente nel cuore delle nostre società; che suscita una vita la quale abbraccia l’altra e ne sposa tutte le forme, con la mira di elevarla al di sopra di se stessa e di portarla più avanti? È questa una cosa così ordinaria che non valga la pena di fermarci per domandare a noi stessi: Quale è questa forza? Il giudaismo, in quanto storia, sembra più prodigioso di tutti i prodigi particolari che vi si rilevano, e la fondazione del cristianesimo, la sua conservazione, il suo modo di evoluzione un prodigio più grande di tutti i miracoli di Gesù Cristo. Un tal movimento ha il carattere d’una vera creazione, d’una creazione dinamica. È un mondo che attraversa un mondo.

D. Gli storici non ne menzionano le cause?

R. Tutto ha delle cause; ma si dimentica di dire quello che ha causato codeste cause, organizzato il loro concorso e assicurata la loro efficacia, ad onta di tante cause contrarie. Vi sono anche cause che assicurano la grandezza degli imperi umani, delle imprese umane: mostrami un caso che a questo si possa paragonare, fosse pure lontanissimamente.

D. È una questione di grado.

R. Quando le cose arrivano a un certo grado, ti presentano un problema, come se alla bisca tu sbancassi tutti i giorni il tuo compagno di giuoco. Nel caso di cui parlo, tutte le leggi dell’equilibrio storico sono spiegate; il « ricominciamento eterno », senza perdere i suoi diritti sopra una materia che rimane materia umana, è al servizio di una continuità che lo domina. – Ascolta uno storico (Ernesto Lavisse): « Io storico, non so quello che avvenne il mattino di Pasqua; ma quello che ben so, è che, quel giorno, nacque un’umanità che non muore. Christus resurgens non moritur . Ascolta Ernesto Renan, poco sospetto: «L’avvenimento capitale della storia del mondo è quella rivoluzione per la quale le più nobili parti dell’umanità passarono dalle antiche religioni a una Religione fondata sull’unità, la Trinità, l’incarnazione del Figliuolo di Dio ». E se vuoi il commento, ecco Rémusat: «I casi fortuiti delle faccende umane non portano affatto tali risultati » E Bossuet: «È un’opera così grande, che se Dio non l’avesse fatta, Lui stesso la invidierebbe al suo autore ».

D. Ciò mi colpisce, ma non mi convince.

R. Godo di vederti difficile. Ma vi è altro. Questo immenso spiegamento offre, nel suo decorso, un carattere profetico; la sua continuazione è annunziata fino dal principio e ciascuna delle sue tappe è annunziata nella tappa precedente, diciamo meglio, per mezzo della tappa precedente, che non ha senso se non in essa.

D. I primi Cristiani annunziarono la fine prossima dei tempi, e credevano veramente di appoggiarsi in ciò sopra le parole di Gesù stesso; ebbene era un errore.

R. Era di fatto un errore; ma non era un errore religioso, e a proposito delle parole di Gesù, che avevano formalmente scartato questo problema, era una pura interpretazione. L’errore veniva precisamente da una persuasione religiosa dominante, unita a una mancanza di prospettiva riguardo al temporale. Gesù aveva predicato l’essenziale; i suoi discepoli, imbevuti dell’essenziale, lo schematizzavano così: ieri Adamo; ora Cristo; domani la reintegrazione del mondo in Dio. Che importa che questo domani fosse stato compreso in un modo più o meno stretto? Il fatto sta che lo schema è esatto. Il giudaismo è un lungo messianismo; il Vangelo è un annunzio formale dei tempi cristiani; alla sua volta il Cristianesimo profetizza gli ultimi tempi, e l’avvenire darà la risposta.

D. Chi può giudicarne prima?

R. Già ne abbiamo molti segni; ad ogni modo, oggi è certo che il fatto della Chiesa giustifica Cristo e il fatto di Cristo giustifica il giudaismo. Renan fu molto colpito da questi fatti, che altri « critici » preferiscono passare sotto silenzio.

D. Le profezie di cui parli sono veramente chiare?

R. Puoi leggere dovunque, nella più antica Bibbia, le visioni che riguardano l’avvenire, i testi sorprendenti dei profeti che annunziano per minuto la vita, la morte e l’opera di Gesù Cristo, come pure i suoi effetti, e trovi nel Vangelo l’annunzio della Chiesa, delle sue traversie e dell’opera sua sino alla fine dei tempi.

D. Si è preteso che i testi antichi relativi a Cristo s’incontrino con Lui per questa buona ragione che da essi si sono presi gli elementi della sua storia.

R. Ecco delle baie che non reggono all’esame. È certo che gli evangelisti hanno cercato i raffronti e forse hanno un po’ raffinato nella materia; certi loro raffronti sono forzati, altri discutibili. Ma ciò stesso prova la loro sincerità. Quando s’inventa, non si ha bisogno di raffinare così e di esaurire tutte le proprie risorse; si può lasciar correre; la fantasia è ubbidiente.

D. Secondo ciò sembrerebbe che il giudaismo e il Cristianesimo non siano che una sola e identica religione; tuttavia si oppongono l’una all’altra.

R. Si oppongono e si confondono con ragione, sotto diversi rapporti. Il giudaismo letterale e carnale si oppone al Cristianesimo, Religione spirituale; ma il giudaismo vero gli è identico, tenuto conto della differenza dei tempi. Il vero giudeo non era colui che si faceva circoncidere e compiva a Gerusalemme dei saorifizi materiali, ma colui che amava Dio con tutto il suo cuore e, coscientemente o no, per mezzo dei simboli della legge mosaica, si univa a Colui che è la salvezza degli uomini. Il vero Cristiano non è colui che va alla messa nei giorni festivi e scioglie i suoi voti; ma sì colui che ama Dio con tutto il suo cuore e, per mezzo dei simboli questa volta vivificanti della legge evangelica, si unisce a Colui che è il Salvatore degli nomini. Agli uni e agli altri, e per essi a tutti, Cristo può rivolgere le solenni parole del Deuteronomio: Prendo oggi come testimonio il cielo e la terra: ho posto davanti a voi la morte e la vita, affinché scegliate la vita, e amiate Dio, e gli ubbidiate; perché Dio è la vostra vita (Deut., XXX, 19).

D. Quale compito attribuisci tu a’ Giudei riguardo al Cristianesimo?

R. Essi ne son i testimoni. Attestano la continuità di cui io parlo. Accoliti involontari, essi presentano il Libro, e la luce dei fatti antichi, e l’incenso dei salmi. Vi recano un bello zelo; sono incomparabili conservatori dei nostri testi e delle nostre tradizioni; sono degli antichi che si vedono e fanno vedere degli antenati contemporanei, se posso dire così, dei morti che vivono. Sono dispersi da per tutto e sono una sola cosa; hanno altre patrie senza potere né voler rinnegare quella che ai divini disegni importa di conservare sussistente. Una tale testimonianza permanente, senza pari, senza sospetto, poiché depone contro di sé; questa testimonianza delle cose predette delle quali il testimonio rifiuta di vedere il compimento, ma conserva con amore i testi in cui i suoi profeti annunziano ciò stesso, cioè che egli sarà il nemico del compimento, benché amico della promessa, è un fenomeno provvidenziale sorprendente all’ultimo segno; esso, dicevo, commosse Renan, e strappa a Pascal la sua grande esclamazione: « È cosa ammirabile! ».

D. Ma perché i Giudei non credettero, perché non credono, dopo avere atteso quello che rifiutano?

R. Non è esatto che tutti non abbiano creduto. Le prime Chiese cristiane sono dei gruppi giudaici. In quel momento la divisione si fa tra i veri Giudei, che comprendono lo spirito della loro religione e lo riconoscono in Cristo, e i Giudei carnali, che disconoscono Cristo perché Egli non è carnale. Il seguito si spiega mediante la tradizione, e mediante la permanenza, in molti, di questo spirito carnale.

D. Dunque, secondo te, vi è qualche cosa di miracoloso nelle profezie successive di cui parli?

R. Una profezia è necessariamente un miracolo; nessuno sa naturalmente l’avvenire. Del resto a questo miracolo psicologico delle profezie si aggiunge il miracolo propriamente detto, il miracolo esterno, dei quali io non ritengo che il numero meglio attestato, il più impressionante, quello che forma attorno a Cristo una costellazione di fatti dolcemente luminosa come le nostre stelle.

D. L’idea dei miracoli mi urta.

R. Perché?

D. Per la sua stranezza, per la parte arbitraria che vi si insinua, per il disordine evidente che introdurrebbe nella trama delle cose, in opposizione con le leggi che studia la scienza e a scapito di tutte le nostre certezze.

R. Il miracolo non può apparire strano se non a una mente ancora lontana da Dio. Colui che vive abitualmente in presenza di Dio non si meraviglia di vedere che Dio fa qualche miracolo dal momento che Egli ha fatto tutto e tutto conserva. Nell’Enciclopedia, di solito antireligiosa, si trova questa lucida osservazione: « Supponi il nulla, e ti renderai conto che i fatti naturali e i fatti soprannaturali non tengono all’essere più gli uni che gli altri, non son più facili o più difficili a compiere gli uni che gli altri. Il rendere la vita a un morto è a Dio altrettanto facile quanto il conservarla a un Vivo ».

D. Ecco la facilità di ciò che è arbitrario.

R. È forse arbitrario che le leggi d’un ordine inferiore cedano alle leggi d’un ordine superiore? Ciò non si produce forse in tutta la natura, e la libertà umana non si oppone forse al determinismo nel nome dello spirito? Perché l’ordine soprannaturale non s’imporrebbe alle leggi naturali nel nome di fini superiori? Il funzionamento della natura è forse fatto per se stesso, e non deve se stesso allo spirito? Io direi volentieri con Hello che, turbando un ordine di fatti che ci opprime o che si oppone ai nostri fini spirituali, Dio non fa altro che «turbare il disordine »; difatti l’ordine è nella subordinazione della natura alla vita e della vita alle leggi morali che la regolano.

D. La mia impressione d’un ordine alla rovescia non è dissipata.

R. Aggiungo questo. Secondo nessun punto di vista vi è qui un «ordine alla rovescia », o disordine. Vi è solo un ordine nuovo, in ragione di un’inversione che orienta altrimenti i fenomeni e così fa capo ad altri risultati. Nessun agente naturale è per questo violentato né strappato alle sue proprie tendenze. Il miracolo scaturisce da Dio, ma è nella natura; «la sua trascendenza opera secondo modi immanenti » (MARCELLO SCHWOB).

D. Il determinismo nondimeno viene spezzato.

R. Niente affatto, se tu intendi di quel determinismo che è una legge della mente e una condizione di ogni scienza; perché il determinismo così inteso vuole soltanto che in date condizioni si produca un dato effetto. Aggiungi una condizione — qui l’intervento divino — lo stesso determinismo vuole che il risultato sia diverso. In quanto al determinismo naturale lasciato a se stesso, non ha niente d’intangibile; è un’abitudine dei fatti materiali; dunque, è inferiore allo spirito, del quale, per Enrico Bergson, esso rappresenta una meccanizzazione, una caduta; esso cede già davanti allo spirito umano: donde la libertà; cede anche davanti a Dio: donde il miracolo,

D. Ma che cosa diventa la certezza della scienza?

R. Sei tu certo di ciò che io farò domani? e perché saresti tu certo di ciò che farà o non farà Dio? Le certezze della scienza non hanno questo oggetto; esse hanno di mira ciò che io chiamavo or ora le abitudini dei fatti, i loro collegamenti spontanei, rivelatori d’una natura delle cose. Ma la natura delle cose si estende fino a Dio stesso; essa si dispone in gradi in tal modo che ciò che è natura per sé è soprannatura per rapporto a quello che esso domina e regge. Dio è soprannatura in modo assoluto; la sua volontà è la legge suprema, come la volontà dell’architetto è la legge della sua opera, come la volontà dell’acqua, se posso dire così, è la legge d’una turbina insieme immobile e che gira romoreggiando. Qui non c’è difficoltà se non per coloro a cui preme che la natura sia sola, senza che Dio la penetri. Ma questi partigiani non hanno più nulla a vedere coi diritti della scienza o con quelli del cosmo. Il miracolo non violenta affatto la natura; esso concorre con lei, e con ciò consacra le sue leggi.

R. E a che serve il miracolo?

R. A fare del bene e a fare della luce. I miracoli di Cristo sono tutti benefici, tutti rischiaranti.

D. Non dànno alla sua vita un’aria di leggenda atta a diminuire la sua azione, invece d’ingrandirla?

R. I miracoli di Cristo non hanno l’aria di leggenda; nessuno elemento di curiosità, di ostentazione o di puerilità ci si trova; essi si connettono strettamente al compito redentore. Gesù guarisce i corpi con quella stessa bontà che guarisce le anime; per il corpo Egli vuole arrivare all’anima, rendere autorevole la missione col suggello di Dio, rendere inescusabili i suoi negatori, e i suoi fedeli sicuri della loro prudenza, supplire per la durata della sua vita alle profezie non ancora compiute (come la sua sopravvivenza e quella dell’opera sua), combattere l’evidenza opprimente della sua umanità con uno splendore della sua divinità, allontanare lo scandalo dalle sue affermazioni trascendenti circa la sua Persona, prendendo il diritto di domandare, davanti a un paralitico: « Che cosa è più facile, dire: I tuoi peccati ti sono rimessi, o dire: Alzati e cammina? (Matteo, IX, 6).

D. I miracoli di Gesù Cristo non si spiegherebbero con la magia di una personalità meravigliosa?

R. La personalità di Gesù fu potente; ma ogni influenza ha dei limiti che ad ogni istante il Vangelo supera, e nessuno ha influsso sopra la morte. Del resto nella vita di Gesù vi sono dei miracoli ai quali la sua personalità è estranea.

D. Fai, dunque, allusione ai racconti dell’Infanzia. Ma queste storie di pastori e di magi non sono forse assai infantili?

R. Non vorrai giudicare infantile quella divina semplicità che tante grandezze compensano. È la sublimità propria del Vangelo l’aver messo insieme queste cose: le narrazioni di Betlemme, e il Discorso del Monte, il Gloria în excelsis e l’anatema contro i Farisei, l’officina di Nazaret e il Tabor; il presepio e la croce.

D. Ma queste narrazioni di miracoli non sarebbero state inserite dopo dai discepoli ingenui e zelanti?

R. Ciò si potrebbe supporre di qualche miracolo isolato; ma in generale essi fanno corpo con la Persona, con la dottrina e con la trama storica della vita; è impossibile ritirarli senza distruggere tutto.

D. Ma ancora, che cosa valgono questi testi e qual è la loro autorità?

R. Sotto l’aspetto della loro trasmissione, è riconosciuto che nessuno scritto dell’antichità offre tali garanzie critiche; e ciò, in grazia del gran numero di manoscritti prossimi agli originali, delle versioni primitive diverse, delle citazioni sparse e quasi immediate, delle edizioni scrupolose, ecc. In quanto agli stessi autografi, possono portare la data in media di una quarantina d’anni dopo la morte di Gesù; ma nota che lì non si tratta che della scrittura; prima vi è la testimonianza orale; vi sono quelli che hanno veduto e udito, e che attestano a costo della loro vita l’oggetto del loro messaggio. « Io mi fido di testimoni che si fanno sgozzare » (PASCAL).

D. Molti si sono fatti sgozzare per le loro credenze.

R. Non si tratta di credenze, ma di fatti, di tutta una vita di fatti.

D. Non vi sono nel Vangelo molte oscurità e contradizioni?

R. Esse sono minime, e provano la sincerità, l’indipendenza scambievole degli scrittori, fino a qual punto essi hanno «la passione del vero », come dice Origene. Con ciò, se lasciano del dubbio là dove i racconti non concordano, cioè in quanto all’accessorio, esse rinforzano la certezza là dove tutto concorda, cioè in quanto al principale. Sarebbe stato così facile, fuori del profondo rispetto del vero e delle fonti, il mettere d’accordo gli scritti!

D. Sai che si è arrivato a mettere in dubbio perfino la vita reale di Gesù Cristo.

R. È un eccesso estremamente oltraggioso di critici dilettanti. Ma se ve ne sono dei sinceri, coloro che qui dubitano hanno davvero perduto il senso del reale. Negli Evangelisti, la vita splende altrettanto e più che il misticismo; in essi tutto è profondamente umano, preso sul vivo dell’azione quotidiana, in connessione evidente con un ambiente e tempi storici determinatissimi, con uomini di carne ed ossa e con istituzioni positive che ogni sorta di minute particolarità fanno riconoscere. E tratti di realtà locale confermati dalla storia, dalla topografia, dalla psicologia e dall’esperienza si contano nel Vangelo a migliaia. Qui non si tratta di immaginazioni disparate. Le lacune dei racconti, le loro contraddizioni superficiali, l’opposizione apparente di certi tratti con lo scopo dei narratori, il carattere delle sconnessioni che nessun ritocco letterario corregge, la corsa allo spogliamento registrata nei fatti, ma non preparata, una moltitudine di affermazioni sconcertanti per il senso umano, ambigue, insospettabili, ingenuamente proposte tuttavia, come venienti da relatori che ti dicono: Ecco, noi non ne possiamo niente: mi sembra che sia già abbastanza per invalidare la supposizione d’una vita di Gesù tutta fabbricata di pezzi, e specialmente di pezzi, come si suppone, fuori di ogni realtà. Una tale supposizione è propriamente insensata. Ma c’è molto di più ancora. Ed è che la personalità di Gesù si rifiuta a ogni composizione letteraria o mistica, a ogni creazione spontanea e concertata all’infuori di un fatto storico, e di un fatto trascendente. Infatti, queste due cose sono legate insieme. Al Gesù del Vangelo è tanto impossibile l’essere solamente un uomo quanto il dileguarsi in fantasma.

D. Non sono sicuro di capire.

R. Mi spiegherò con gioia; perché il mio rispetto e il mio amore di questa sacra personalità mi rende dolcissimo il presentarla, se posso dire così, a chi mi può intendere. Domando solo che non dimentichiamo di raccoglierci.

D. Dici che la persona di Gesù non potrebbe essere una creazione della mente, che è necessariamente reale, e aggiungi: divinamente reale?

R. È così. Tu conosci questa brusca interrogazione di Pascal: «Chi ha insegnato agli Evangelisti le qualità di un’anima perfettamente eroica, per dipingerle così perfettamente in Gesù Cristo? ». Prendendo un esempio aggiunge: « Perché lo fanno debole nella sua agonia? Non sanno essi dipingere una morte costante? Sì; perché lo stesso S. Luca dipinge quella di S. Stefano più forte che quella di Gesù Cristo ». È un particolare; ma ve ne sono mille simili. Il carattere di Gesù nel Vangelo è elevato quanto lo può essere ideale d’uomo; la sua qualità morale permette di vedervi, se posso dire così, una forma umana degli attributi di Dio; ma, con ciò, questo carattere non ha niente di astratto; offre delle disparità che in una composizione o in un sogno collettivo sarebbero incomprensibili; in lui l’inatteso è un segno certo di autenticità, perché ce lo mostra radicato in realtà vive, che Egli stesso non esaurisce.

D. Bisognerebbe vedere questo.

R. Qui non posso far altro che fornire l’indicazione; ma tu verifica, e sarai colpito dall’evidenza. Nello stesso modo che la dottrina di Gesù non è una teoria, ma l’espressione della sua propria vita e della sua propria Persona, così la sua vita e la sua Persona, quali si presentano nei racconti evangelici, non sono costruzioni astratte, ma l’espressione di un ambiente in cui si manifesta un’anima, in cui si manifesta Iddio. Gesù è « una specie di giustizia animata », dice S. Tommaso d’Aquino; ma animato, alla base, significa corporale, misto alla natura, versato nella storia, come un prodotto di questo suolo così come del cielo. Ciò non si fabbrica punto in un gabinetto di lavoro, né scaldandosi in riunioni mistiche. Nessun vapore d’immaginazione ha questa densità cristallina, questi contorni spiccati, queste faccette in cui scherza una doppia chiarezza: quella di un’anima individuale infinitamente larga, ma tanto più consistente, e quella d’un ambiente di vita troppo complesso e obbiettivo da poterlo sognare. Qui, il concreto splende da per tutto ed è il miracolo! Trova tu altrove la perfezione dell’ideale nella realtà storica! « La grandezza emanata dalla persona di Cristo, scrive Goethe, è d’un genere divino tale, che mai il divino apparve così sopra la terra ».

D. Questo gran pagano non vuol forse dire che Gesù è divinamente uomo?

R. Lo credo; ma non mi basta. Perché ciò suppone contro i nostri sognatori una piena realtà storica, e offre una salda base per una prova di divinità.

D. Quest’ultimo punto mi tocca.

R. Ecco. Che Gesù sia « divinamente uomo », cioè più semplicemente, uomo perfetto, ciò suppone che in Lui nulla sia difettoso, né sotto l’aspetto dell’intellettualità, né in quanto alla condotta. Bisogna che i suoi nemici siano confusi, quando l’accusano sia di follia, sia di ambizione esasperata e satanica, proprio come quando lo dicono un beone o un seduttore. Ora confronta questa esigenza coi fatti, nella supposizione che Gesù sia semplicemente uomo. Ecco un riformatore che ti dice: « Ogni potere mi è stato dato in cielo e sopra la terra »; «il cielo e la terra passeranno, ma non passeranno le mie parole »; «Io sono la luce del mondo »; un Giudeo che, in un paese di teocrazia, si arroga il diritto di abrogare in qualche modo la legge del suo popolo e di fondare un avvenire sopra di se solo; un uomo che parla con autorità di ciò che ignorano gli uomini; che esige la credenza e il culto; che, mortale, pretende di risuscitare se stesso e di risuscitare gli altri; che crede di poter fissare, nel giorno del giudizio e già sopra la croce, la sorte eterna di chi lo confessa e ubbidisce a’ suoi precetti; in una parola, che in ciò e in mille altre cose si diporta come una personalità trascendente, e tu dici: È un uomo ideale? Ma io dico: Se non è che un uomo, egli è l’ideale della superbia o della divagazione, dell’esaltazione morbosa o dell’oltracotanza. Nei due casi bisogna voltargli le spalle, sia con ironia o con ira. Se questo non si fa, io stimo che non si possono scusare le sue parole e i suoi atti se non con l’adorazione.

D. Eppure Gesù non si disse Dio.

E. Questa parola cruda: «Io sono Dio », non rispondeva alle circostanze e non avrebbe procacciate le transizioni necessarie. Gesù dice quello che bisogna, giorno per giorno, per una progressiva educazione de’ suoi figli. Quando i suoi discepoli o i suoi miracolati vogliono precipitare le dichiarazioni, Egli li riprende; loro impone silenzio; alle volte pare che Egli stesso escluda perfino quello che rivendica, perché non è ancora venuto il momento e vi sono dodici ore nel giorno ». Riserva i misteri; ma pone nondimeno le premesse. Quello che non dice in termini propri, lo afferma equivalentemente, Dice se stesso figliuolo di Dio in un senso speciale ed unico; «Il Padre e io non formiamo che una sola cosa»; « Chi vede me, vede mio Padre ». Ha le creature spirituali al suo servizio. Giudica i vivi e i morti. Domanda che gli si sacrifichi tutto. Rimette i peccati e delega Egli stesso questo potere. Annunzia che manderà a’ suoi lo Spirito di Dio. Riceve senza rinviarli a Dio degli omaggi dovuti a Dio solo. Venne dal Padre sopra la terra. Si dice Signore di Davide, sedente alla destra del Signore Iddio. Lui solo conosce il Padre come il Padre conosce se Stesso, e tutti gli altri non conoscono il Padre se non per mezzo di lui. Tutto gli è stato rimesso nelle mani. Relativamente alla vigna umana, di cui Dio è il vignaiolo, è lui il Figlio, l’Erede per opposizione agli inviati apostoli o profeti. Davanti all’autorità suprema del suo paese e della sua religione, Egli pone quell’affermazione solenne, che porta seco la sua morte, cioè che Egli è il Cristo, Figliuolo di Dio vivo, e che verrà sopra le nubi del cielo alla destra della potenza di Dio.

D. Ma ha Egli veramente detto tutto questo, preteso tutto questo?

R. Ancora una volta, si potrebbe discutere sopra una data parola, come si potrebbe cavillare su un dato miracolo, e, secondo l’uso, distinguere tra i « sinottici » e « Giovanni », Ma se si prendono le cose nell’insieme, lealmente, tali quali si presentano, è impossibile negare che Gesù non si sia presentato come un personaggio sovrumano. E ciò non ci basta? Vorremmo noi, come certi gnostici, domandarci se Egli non fosse un eone? – La questione è questa: È Egli realmente sovrumano, o è il pazzo? È Egli sovrumano, o è il « seduttore » che denunziarono i pontefici chiedendo la sua morte? Perché bisogna ben confessarlo, se Gesù non è sovrumano, quindi avente autorità in tutto quello che disse, in tutto quello che fece, allora sono i farisei che hanno ragione; ed Egli meritò la sua sorte; gli fecero espiare con giustizia le sue sacrileghe impertinenze.

D. Eppure, Renan

R. Sostenne una scommessa, e non vi riuscì. Volle collocare «al sommo dell’umanità » un essere che Egli stesso descrive — in frasi graziose — come un allucinato e un mentitore. Lo incensa e lo beffeggia. Lo dichiara « divino » dolendosi amaramente della sua divinità e del suo onore nello stesso tempo. «Un essere miracoloso in un universo senza miracolo », dice Bernanos; un prodigio di umiltà e di orgoglio; un predicatore di Dio che « attira tutto a sé »; un dottore della rinunzia, tutta la dottrina del quale si fonda sullo spogliamento dell’io; e che spinge Lui stesso la sua ambizione fino a brigare — e ottenere — un culto universale. Ciò non regge.

D. Non sarebbe possibile un’altra interpretazione di questa vita e di questa personalità?

R. Vi è quella di Giulio Soury: Gesù figlio di alcoolico o di degenerato; quella di Binet-Sanglé: Gesù pazzo.

D. Parliamo seriamente.

R. Seriamente, tutte le interpretazioni naturali del fatto di Gesù Cristo sono state distrutte una dopo l’altra, distrutte l’una dall’altra; collettivamente si annullano, e il fatto di Gesù rimane.

D. Che impressione diretta ne avresti tu, facendo astrazione da’ tuoi dogmi?

R. Una tale astrazione è assai difficile; non si può garantire che la propria sincerità. Col benefizio di questa riserva, ecco quel che io penso.

D. Ti ascolto ardentemente.

R. Gesù si presenta come trascendente al primo sguardo. Si può credere al migliore Napoleone; «io m’intendo di uomini, e e ti dico che Gesù Cristo non era un uomo ». Questo equilibrio, quest’armonia di una condotta tanto eminente quanto semplice e di una parola tanto naturale quanto sublime; questo dono di essere in casa sua nei due mondi, di parlare delle cose terrene e delle cose celesti come ugualmente familiari, dei grandi oggetti e dei piccoli come dello stesso valore, come un uomo opulento parla di milioni, un generale di piazze forti, un capo di Stato di province; questa facoltà di non mai stupirsi, di essere all’altezza di tutto, di sciogliere ogni difficoltà e di dirimere ogni questione con un solo sprazzo di luce: ecco di che trasportarci in una sfera a parte; questo non è umanità corrente, e la parola eccezionale non mi basta. Gesù parla positivamente delle cose dell’altro mondo come un viaggiatore parla al forestiero delle istituzioni del suo paese; Egli dice quello che sa, quello che ha veduto, e che è per lui cosa di famiglia, quello che è Lui stesso, ed opera in conformità.

D. È qualcosa di sublime al modo di Socrate.

R. Che differenza! «La vita e la morte di Socrate sono di un uomo, dice Gian Giacomo Rousseau; la vita e la morte di Gesù Cristo sono di un Dio ». Per me è l’evidenza che parla. Leggi il Vangelo ingenuamente, fedelmente, non con quella fedeltà che consiste nel credere prima questo o quello, ma con la fedeltà anticipata che si deve alla verità quando la si cerca; leggilo con spirito religioso, cioè ponendoti internamente le questioni eterne e pronto ad ascoltare la risposta; leggi così, e di sé non senti la presenza di Dio.

D. Allora è una visione, non più storia.

R. Dico presenza di Dio, e dico anche realtà umana la più autentica. Ciò non è mitologia; non è teologia abbigliata di fatti; il reale spunta fuori; è il reale positivo che è « caduto dal cielo » (ALESSANDRO DUMAS figlio); la spiritualità più trascendente e il fatto più concreto sono qui inseparabilmente legati e si provano l’un l’altro; il loro incontro è più miracoloso dei miracoli che si vedono. Tutti i nostri quadri di realtà sono spezzati; la nostra mente è sorpassata; il nostro cuore è anelante, eppure questo ha l’accento del vero; è il suono del reale umano e il suono d’una voce divina.

D. Insomma, a’ tuoi occhi, Vangelo prova se stesso.

R. Esattamente, e oso dire che ci vuole una specie di cecità spirituale per non vedere.

D. Questa cecità è assai diffusa.

E. Ahimè! ci sono tante cose accecanti che noi non vediamo!

D. Almeno si sospettano, e questo sospetto si fa riconoscere.

R. È questo veramente il caso. Anche quando non si crede alla divinità di Cristo, la si sente, la si prova sotto la forma di una venerazione unica, alla quale nessuna personalità della storia potrebbe pretendere anche lontanamente. Dimmi, vi è un uomo del quale non si stimerebbe ridicolo il dire: Egli è Dio? Ma non si trova ridicolo dicendolo di Cristo. Coloro che negano la sua dottrina, ed anche, cosa strana, coloro che negano Dio, lo riconoscono di un ordine divino, gli attribuiscono, come Augusto Sabatier, « una specie di natura divina ».

D. Che significa questo?

R. Chiedilo al suo autore. Per conto mio, dico che una virtù esce da Cristo, come diceva egli stesso, ed essa guarisce le cecità del bestemmiatore.

D. Che cosa pensi della risurrezione di Gesù?

R. È il più grande de’ suoi miracoli, e il meglio attestato di tutti; perché gli altri hanno per sé la testimonianza degli uomini: questo invece vi aggiunge la testimonianza de’ suoi effetti.

D. Quali effetti?

R. Quelli che lo stabilimento della fede suppone. Ricorda quello che disse Ernesto Lavisse: «Io, storico, non so ciò che avvenne il mattino di Pasqua; ma quello che ben so è che quel giorno nacque un’umanità che non muore più». Una umanità perpetua, sorta da quella tomba, è qualche cosa! È un’attestazione del prodigio segreto. Infatti, se Gesù soccombette al suo compito, donde è partito quell’immenso movimento di cui viviamo ancora? Come si spiega che Gesù sia per noi diventato ogni cosa ed occupi tutto lo spazio, con la sua presenza o con la sua assenza; che la sua causa si confonda oramai con quella della Divinità sopra la terra, e che tutta un’umanità viva con questo morto, se la tomba non ce lo ha restituito?

D. Chi parla di vivere intimamente con lui!

R. Si vive intimamente con Gesù Cristo; Egli è per noi più che uno vivo, più che un uomo presente e che ci parla.

D. Come ciò?

R. È il miracolo della Chiesa, della grazia e dell’Eucaristia. Per la Chiesa, Cristo ci avvolge; per la grazia, abita nei nostri cuori; per l’Eucaristia, rende sensibile esternamente come internamente la sua divina presenza. Or tutto questo non è niente senza la risurrezione.

D. È possibile nutrirsi di ciò che, in sé, non è niente, quando dei secoli di tradizione lo consacrano.

R. Ma io parlo del punto di partenza; domando che cosa ha inaugurato il primo impulso e quale ne fu la molla. Che cosa è che ha messo in moto gli Apostoli e li fece riuscire? « Bisognava che qualche cosa fosse successo », dice Claudel, « Mentre Gesù era con essi, dice Pascal, Egli li poteva sostenere; ma dopo, se non è apparso loro, chi li ha fatti agire? ». Si erano veduti così deboli! fuori di ogni avvenimento sovrumano, come hanno fatto per trascinare tutta la terra nei loro movimenti?

D. I discepoli di Maometto sono diventati un grande popolo.

R. Sono diventati un grande popolo per la forza della scimitarra; il Cristianesimo si stabilì per l’idea e per il fatto. L’idea era la dottrina di Cristo, che convertì e trasformò in umanità nuova tutto il mondo civile d’allora; il fatto, garante della dottrina e che ne era inseparabile, era, in primo luogo, la risurrezione.

D. Pure sì dice comunemente, tra coloro che non credono, che la risurrezione fu supposta dopo, per il fatto d’un entusiasmo religioso.

R. Essa all’opposto è alla base di tutto. Senza di essa non si spiega niente. Non è un effetto della fede, ma la causa. La Chiesa poggia sulla pietra della tomba vuota.

D. Per te il Cristianesimo è dunque dimostrato?

R. È dimostrato quanto si possono dimostrare le cose morali.

D. È una restrizione?

R. Con ciò io intendo di eliminare delle esigenze assurde. Ogni ordine di conoscenza ha le sue prove, che corrispondono alla sua natura; i teoremi si provano matematicamente, le leggi scientifiche scientificamente, i fatti morali moralmente, e i fatti religiosi religiosamente.

D. Che cosa significa quest’ultima parola?

R. Essa sottintende un triplice concorso: quello di una saggia indagine, quello di una volontà retta, quello della grazia, senza le quali Dio non si può raggiungere.

D. Che cosa fare, con questo spirito?

R. Te lo dirò in generale, e te lo dirò per te stesso, se lo permetti, pronunziando le mie ultime parole.

— Attendo.

LO SCUDO DELLA FEDE (171)

LA SUMMA PER TUTTI (14)

LA SUMMA PER TUTTI (14)

R. P. TOMMASO PÈGUES

LA SOMMA TEOLOGICA DI S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE SECONDA

SEZIONE SECONDA

Idea particolareggiata del ritorno dell’uomo verso Dio.

Capo XXXVII.

L’amicizia. – Vizi opposti: disdegno, adulazione.

1220. Vi è ancora un obbligo morale richiesto nella società degli uomini per il bene perfetto della società stessa, quantunque non richiesto col medesimo rigore di quello della riconoscenza, della vendetta e della verità?

Sì; è il dovere dell’amicizia (CXIV, 2).

1221. Che cosa intendete per amicizia?

Intendo una virtù per la quale l’uomo nei suoi rapporti con gli altri, si ingegna in tutto ciò che riguarda il suo esterno, si tratti delle sue parole come dei suoi atti, a comportarsi con essi come si conviene, per dare alla loro vita comune il più perfetto ornamento (CXIV, 1).

1222. È questa una virtù di gran pregio nei rapporti degli uomini tra loro?

Sì; è la virtù sociale per eccellenza, e si potrebbe chiamare come il fiore ed il profumo più squisito tanto della virtù della giustizia che di quella della carità.

1223. In che modo si può peccare contro questa virtù?

Si può peccare in due modi contro questa virtù: per difetto, preoccupandosi poco o non preoccupandosi affatto di ciò che può far piacere o dispiacere agli altri; per eccesso, abbandonandosi al vizio della adulazione o non sapendo mostrare esternamente quando occorre, la disapprovazione che possono meritare gli atti o le parole di coloro coi quali si vive (CXV, CXVI).

Capo XXXVIII.

La liberalità. – Vizi opposti: avarizia e prodigalità.

1224. Quale è finalmente la virtù che si riferisce alla giustizia particolare, destinata ad adempiere l’ultimo aspetto dell’obbligo morale annesso alle relazioni degli uomini tra loro?

È la virtù della liberalità (CXVII, 5).

1225. Che cosa intendete per tale virtù?

Intendo una disposizione dell’anima per la quale l’uomo non è attaccato alle cose esterne che concorrono alla utilità della vita degli nomini tra loro, se non in una misura così perfettamente ordinata, da essere sempre pronto a rinunziare a tali cose e specialmente al denaro che le rappresenta, per il meglio della vita sociale tra gli uomini (CXVII, 1-4),

1226. Questa virtù è molto grande?

Presa nel suo oggetto immediato che è il bene delle ricchezze è la infima tra le virtù: ma nelle sue conseguenze essa si nobilita con la dignità di tutte le altre virtù, perché può concorrere al bene di ciascuna di esse (CXVII, 6).

1227. Quali sono i vizi opposti a questa virtù?

Sono l’avarizia e la prodigalità (CXVIII, CXIX).

1228. Che cosa intendete per avarizia?

Intendo un peccato speciale costituito dall’amore smoderato delle ricchezze (CXVIII, art. 1, 2)

1229. È molto grave questo peccato?

Considerandolo in ordine al bene umano che esso guasta è l’infimo dei peccati, perché non snatura che l’amore dell’uomo per i beni esterni che sono le ricchezze; ma considerando la sproporzione dell’anima e delle ricchezze alle quali questo peccato fa che l’uomo si attacchi indebitamente, diviene il più vergognoso e più spregevole dei vizi; perché fa che l’anima si assoggetti a ciò che è più al di sotto di sé (CXVIII, 4, 5).

1230. Questo vizio è particolarmente pericoloso?

Sì; questo vizio è particolarmente pericoloso, perché l’amore delle ricchezze non termina in se stesso; e per accumularle si può arrivare a commettere ogni delitto contro Dio, contro il prossimo e contro se stesso (CXVIII, 5).

1231. L’avarizia è un peccato capitale?

Sì; l’avarizia è un peccato capitale, perché racchiude in sé o nel proprio oggetto una delle condizioni annesse alla felicità che ciascuno desidera, cioè l’abbondanza dei beni ai quali ognuno obbedisce (CXVIII, 7).

1232. Quali sono gli effetti dell’avarizia?

Sono la durezza del cuore che non sente più misericordia, la inquietudine, la violenza, l’inganno, lo spergiuro, la frode, il tradimento. Perché l’amore disordinato delle ricchezze può eccedere nel ritenerle, nell’acquistarle, nel desiderio di possederle, nel prenderle con violenza ed usando astuzia, nel discorso ordinario ed accompagnato dal giuramento; ed in via di fatto, riguardo alle cose e riguardo alle persone (CXVIII, 8).

1233. La prodigalità, che è l’altro vizio opposto alla liberalità, si oppone anche all’avarizia?

Sì: perché mentre l’avarizia eccede nell’amore e nella preoccupazione delle ricchezze, e non è abbastanza disposta ad utilizzarle donandole, la prodigalità al contrario non si preoccupa abbastanza di ciò che riguarda la custodia delle ricchezze stesse, ed ha troppa inclinazione a prodigarle (CXIX, 1, 2).

1234. Di questi due vizi qual è il più grave?

È l’avarizia; perché essa si oppone maggiormente al bene della virtù della liberalità, di cui la caratteristica è piuttosto il dare che il ritenere (CXIX, 3).

1235. Potreste, sotto forma di ricapitolazione, dirmi come sono ordinate e graduate le virtù annesse alla giustizia particolare, in ordine a coloro che ne sono l’oggetto?

Sì; ecco tutto in poche parole: In primo luogo viene la religione che riguarda Dio nel servizio e nel culto che gli si deve, per la ragione che Egli è il Creatore ed il Sovrano Signore e Padrone di tutte le cose. Quindi la pietà verso i genitori e verso la patria, per il grande benefizio della vita che dobbiamo loro; poi la osservanza, rispetto ai superiori in autorità, in dignità od in eccellenza, in qualunque ordine ciò possa essere. Poi la gratitudine o riconoscenza, riguardo ai nostri benefattori particolari; la vendetta, quando si tratta di malfattori o di coloro che hanno potuto nuocere in modo tale da reclamare la repressione del male. Finalmente la verità, la amicizia e la liberalità che dobbiamo usare con ogni essere umano, in ragione di noi stessi.

Capo XXXIX.

L’equità naturale o epicheia.

1236. Non avete detto che esiste anche una virtù annessa alla giustizia generale o legale?

Sì; ed è la virtù che possiamo chiamare col nome generale di equità naturale, e che si

chiama anche epicheia (CXX).

1237. Qual è il compito, ossia l’ufficio proprio di questa virtù?

Essa ha per proprio compito ed ufficio di rivolgere la volontà a cercare la giustizia in tutte le cose ed in tutti gli ordini al di fuori ed al di sopra di ogni testo di leggi e costumi esistenti tra gli uomini, quando la ragione naturale, in virtù dei suoi primi principi, dimostra che in un dato caso tal testi di leggi o tali costumi non possono né debbono applicarsi (CXX, 1).

1238. Questa virtù è molto preziosa?

Nell’ordine della giustizia e di tutte le virtù che regolano l’uomo nei suoi rapporti con gli altri, è la più importante e la più preziosa di tutte le virtù; perché in qualche modo le domina tutte e tutte le mantiene nell’ordine del bene sociale, in ciò che vi è di più profondo e di più essenziale (CXX, 2).

Capo XL

Del dono della pietà corrispondente alla giustizia e alle sue parti.

1239. Fra i doni dello Spirito Santo quale corrisponde alla virtù della giustizia?

Il dono della pietà (CXXI).

1240. In che cosa consiste precisamente il dono della pietà?

Consiste in una disposizione abituale della volontà, per la quale l’uomo è atto a ricevere l’azione diretta e personale dello Spirito Santo che lo innalza a trattare con Dio, considerato nei più alti misteri della sua vita divina, come con un Padre teneramente e filialmente onorato, servito ed obbedito; ed a trattare con tutti gli altri uomini e con tutte le altre creature ragionevoli, nei suoi rapporti con essi, in quanto lo richiede il bene divino e soprannaturale che li unisce tutti a Dio, come al Padre della grande famiglia divina (CXXI, 1).

1241. Si deve dire che il dono della pietà è quello che mette il suggello più perfetto ai rapporti esterni che gli uomini possono e debbono avere sia tra loro stessi che con Dio?

Sì: il dono della pietà è quello che mette il suggello più perfetto ai rapporti esterni che gli uomini possono o debbono avere sia tra loro stessi che con Dio. Esso è il coronamento della virtù della giustizia e di tutte le virtù annesse: e se ciascuno con questo dono mettesse in opera, corrispondendovi perfettamente, i moti e l’azione dello Spirito Santo, la vita degli uomini su questa terra sarebbe la vita di una grande famiglia divina, e come il pregustamento della vita degli eletti nel cielo.

Caro XLI.

Dei precetti del Decalogo relativi alla giustizia: i primi tre e gli ultimi quattro.

1242. La virtù della giustizia e le virtù annesse, col dono della pietà che le suggella, hanno dei precetti che vi si riferiscono?

Sì: sono tutti i precetti del Decalogo (CXXII, 1).

1243. Non si riferiscono che a queste virtù i precetti del Decalogo?

Sì; i precetti del Decalogo non si riferiscono che a queste virtù; e quelli che si riferiscono alle altre virtù son venuti dopo, come determinazioni o spiegazioni dei primi (CXXII, 1).

1244. Perché è avvenuto così?

Perché i precetti del Decalogo, essendo i primi precetti della legge morale dovevano riferirsi a ciò che immediatamente e per tutti ha manifestamente ragione di cosa dovuta od obbligatoria; e questo comprende i rapporti con gli altri, in quanto sono regolati dalla virtù della giustizia con le virtù annesse (CXXTI, 1).

1245. Come si dividono i precetti del Decalogo?

Si dividono in due parti chiamate le due tavole della legge.

1246. Che cosa comprendono i precetti della prima tavola?

Comprendono i primi tre precetti relativi alla virtù della religione, che regola i rapporti dell’uomo con Dio,

1247. Come sono ordinati questi tre precetti della prima tavola?

Sono ordinati in modo che i primi due escludono i due principali ostacoli che si oppongono al culto di Dio, vale a dire la superstizione, ossia culto dei falsi dei, e la irreligione, ossia mancanza di rispetto al vero Dio; il terzo poi stabilisce la parte positiva del culto del vero Dio (CXXII, 2, 8).

1248. Che cosa comprende questo terzo precetto del Decalogo?

Comprende due cose: astensione dalle opere servili, e la sollecitudine di attendere alle cose di Dio (CXXII, 4 ad 2).

1249. Che cosa si intende per astensione dalle opere servili?

Per astensione dalle opere servili si intende l’obbligo di sospendere un giorno per settimana, che attualmente è la domenica, e nei giorni di festa di precetto che sono per tutta la Chiesa il Natale, la Circoncisione, la Epifania, l’Ascensione, il Corpus Domini, la Immacolata Concezione, l’Assunzione, la festa di San Giuseppe, la festa dei Ss. Pietro e Paolo e la festa di Tutti i Santi, i lavori manuali che non sono necessari al mantenimento ed al buon ordine della vita materiale, o non richiesti da una urgente necessità (CXXII, 8 ad 3. – Codice, can. 1247).

1250. E la sollecitudine di attendere alle cose di Dio che cosa comprende?

Comprende in modo totalmente esplicito e sotto pena di colpa grave, l’assistenza al santo Sacrificio della Messa, nelle domeniche e nei giorni di festa sopra notati (CXXII, 3ad 4).

1251. Se in tali giorni non si può assistere alla Messa, siamo obbligati a qualche altro esercizio di pietà?

Non siamo obbligati in maniera determinata ad alcun esercizio di pietà; ma certissimamente sarebbe un mancare all’obbligo positivo di santificare tali giorni, lasciandoli passare senza dedicarsi ad alcun atto di religione,

1252. Che cosa comprendono i precetti della seconda tavola?

Comprendono i precetti relativi alla virtù della pietà verso i genitori, ed alla virtù della stretta giustizia verso il prossimo chiunque esso sia (CXXII, 5, 6).

Capo XLII

La fortezza: virtù e atto: il martirio. – Vizi opposti: la paura, l’insensibilità, la temerità.

1253. Quale è la terza virtù appartenente alle virtù cardinali, che segue la giustizia?

È la virtù della fortezza (CXXII-CXL).

1254. Che cosa intendete per virtù della fortezza?

Intendo quella perfezione di ordine morale della parte affettiva sensibile, avente per oggetto di resistere contro i più grandi timori e di moderare i moti più arditi di audacia, sfidando anche i pericoli di morte nel corso di una guerra giusta, affinchè l’uomo al loro sopraggiungere, non tradisca mai il proprio dovere (CXXIII, 1-6).

1255. Questa virtù ha un atto più speciale in cui manifesta tutta la sua eccellenza e tutta la perfezione?

Sì; l’atto del martirio (CXXIV).

1256. Che cosa intendete per atto del martirio?

Intendo quell’atto della virtù della fortezza per il quale, nella guerra particolare che si ha da sostenere contro i persecutori del nome cristiano e di tutto ciò che vi si riferisce, non si teme di accettare la morte per rendere testimonianza alla verità (CXXIV, art. 1-5).

1257. Quali sono i vizi opposti alla virtù della fortezza?

Sono: da un lato la paura che non resiste abbastanza davanti ai pericoli della morte, e la insensibilità di fronte al pericolo che trascura di evitare quando si deve evitare: dall’altro la temerità per la quale si va incontro al pericolo, contrariamente ad una giusta prudenza (CXXV-CXXVII).

1258. Dunque si può peccare per eccesso di valore?

Non si pecca mai per eccesso di valore: ma si può, sotto la pressione di una troppo forte arditezza non moderata dalla ragione, lasciarsi andare a degli atti che, non essendo di vero coraggio, del valore hanno la sola apparenza (CXXVII, 1 ad 2).

Capo XLIII.

Virtù annesse: la magnanimità. – Vizi opposti: la presunzione, l’ambizione, la vanagloria, la pusillanimità.

1259. Vi sono delle virtù che si collegano con la fortezza imitandone l’atto, ossia il modo di agire, ma in materia meno difficile?

Sì; da una parte vi sono la magnanimità e la magnificenza; dall’altra la pazienza, e la perseveranza (CXXVIII).

1260. In che cosa si distinguono queste due specie di virtù?

Le prime due si collegano con la fortezza in ragione di quello tra i suoi atti che affronta ciò che vi è di più difficile e di più arduo; mentre le altre due le si collegano in ragione dell’atto che resiste contro i più gravi timori (CXXVIII).

1261. Qual è l’oggetto proprio della – magnanimità?

È quello di rafforzare il moto della speranza per il compimento di grandi azioni, in quanto ne risultano grandi onori o grande gloria (CXXIX, 1, 2).

1262. Dunque nella magnanimità tutto è grande?

Sì: tutto è grande in questa virtù, ed essa è propria dei grandi cuori.

1263. Può esservi qualche vizio che le si oppone?

Sì; vi sono numerosi vizi che le si oppongono, sia per eccesso che per difetto.

1264. Quali sono i vizi che le si oppongono per eccesso?

Sono la presunzione, l’ambizione e la vanagloria (CXXX – CXXXII).

1265. Come si distinguono tra loro questi diversi vizi?

Si distinguono in questo,  che la presunzione induce a fare a fare delle azioni troppo grandi per le proprie forze e per il proprio valore; l’ambizione mira ad onori più grandi di quanto lo comportano il proprio stato ed i propri meriti;  la vanagloria cerca una gloria che non ha valore, o non è ordinata al suo vero fine, che è la gloria di Dio ed il bene degli uomini (Ibid.)

1266. La vanagloria è un vizio capitale?

Sì; la vanagloria è un vizio capitale, perché implica la manifestazione della propria eccellenza, che gli uomini cercano in tutto e che può condurli a molti errori (CXX.XII, 4).

1267. Quali sono gli effetti della vanagloria?

sono la iattanza, l’ipocrisia, la pertinacia, la contenzione e la disobbedienza (CXXXII,5)

1268. Qual è il vizio che si oppone alla magnanimità per difetto?

È la pusillanimità (CKXXIII).

1269. Perché la pusillanimità è un peccato?

Perché è contraria alla legge naturale che sprona ogni essere ad agire, in quanto la sua virtù ed i suoi mezzi lo rendono capace (CXXXIII, 1)

1270. È cosa dunque realmente biasimevole mettere in opera le virtù ed i mezzi di azione ricevuti da Dio, per diffidenza di se stesso o per non conveniente disposizione  verso gli onori e la gloria?

Si; è una cosa realmente biasimevole e bisogna ben guardarsi dal confonderla con la vera umiltà di cui presto parleremo (Ibid.)

Capo XLIV.

La magnificenza. – Vizi opposti: la grettezza e le spese eccessive.

1271. In cosa consiste la virtù della magnificenza?

Consiste in una disposizione della parte affettiva, che rafforza e regola il moto della speranza verso ciò che è arduo, nel dispendio richiesto per il compimento di grandi opere (CXXXIV, 1, 2).

1272. Questa virtù suppone grandi ricchezze e grandi occasioni di spese in vista del bene pubblico?

Sì; questa virtù suppone grandi ricchezze, che si ha occasione di spendere per tutto ciò che riguarda specialmente il culto divino ed il bene pubblico della città o dello Stato (CXXXIV, 3).

1273. Essa è dunque propriamente la virtù dei ricchi e dei grandi?

Sì; essa è propriamente la virtù dei ricchi e dei grandi.

1274. Quali sono i vizi opposti a questa virtù?

Vi è il vizio della grettezza in ciò che si fa, che porta l’uomo a restare al di sotto delle spese necessarie all’intrapresa dell’opera; ed il vizio della spesa eccessiva che porta a spendere senza ragione oltre la misura voluta dalla grandezza dell’opera stessa (CXXXV, 1, 2)

Capo XLV.

La pazienza. – La longanimità. – La costanza.

1275. Qual è la caratteristica della virtù della pazienza?

La caratteristica della virtù della pazienza è di sopportare in ordine al bene della vita futura, oggetto della carità, tutte le afflizioni che possono in ogni istante della nostra vita presente, esserci cagionate dalle contrarietà inerenti a questa vita stessa, e più specialmente dalle azioni degli altri uomini nelle loro relazioni con noi (CXXXVI), 1-3).

1276. La pazienza è la stessa cosa che la longanimità e la costanza?

No; perché se tutte e tre aiutano a  resistere contro le afflizioni di questa vita, la pazienza resiste soprattutto contro quelle cagionate a noi dalle contrarietà provenienti dai nostri rapporti quotidiani con gli altri nomini; mentre la longanimità resiste contro le afflizioni

causate dal ritardo nel conseguimento del bene che aspettiamo, e la costanza contro i disgusti che ci cagionano le diverse noie che possono sopraggiungere nel corso della pratica del bene (CXXXVI, 5).

Capo XLVI.

La perseveranza. – Vizi opposti: la mollezza e la pertinacia.

1277. Quali rapporti ha la perseveranza con le virtù di cui abbiamo parlato?

La perseveranza non riguarda le afflizioni, ma piuttosto il timore della fatica che

ci cagiona la sola durata prolungata della pratica del bene (CXXXVII, 1-3).

1278. La virtù della perseveranza ha dei vizi che le si oppongono?

Sì; sono la mancanza di resistenza, ossia la mollezza, per la quale si cede alla minima pena ed alla minima fatica; e la pertinacia per la quale ci si ostina a non cedere, quando invece sarebbe ragionevole farlo (CXXXVIII, 1, 2),

Capo XLVII.

Del dono della fortezza corrispondente alla virtù della fortezza.

1279. Vi è un dono dello Spirito Santo che corrisponde alla virtù della fortezza?

Si; è il dono che porta lo stesso nome, e si chiama appuntodono della fortezza (CXXXIX)

1280. Potreste spiegarmi in che cosa differisce il dono della fortezza dalla virtù dello stesso nome?

Sì; eccolo spiegato in brevi parole:  Come la virtù corrispondente, questo dono riguarda il timore ed in qualche modo l’audacia. Ma mentre il timore e l’audacia moderati dalla virtù della fortezza non riguardano che i pericoli che è in potere dell’uomo superare o subire, il timore e la confidenza dominati ed eccitati dal dono della fortezza riguardano i  pericoli ed i mali ed i mali che l’uomo non può assolutamente sormontare: quale è la stessa separazione che opera la morte da tutti i beni della vita presente, senza dare da sé il solo bene superiore che li compensa e li supplisce all’infinito, apportando ogni bene ed escludendo ogni male, cioè il conseguimento effettivo della vita eterna. Questa sostituzione effettiva della vita eterna a tutte le miserie della vita presente, malgrado tutte le difficoltà e tutti i pericoli che possono ostacolare il bene dell’uomo, compresa la morte che tutti li compendia, è opera esclusiva dell’azione propria dello Spirito Santo. Perciò soltanto a Lui appartiene di avviare effettivamente l’anima dell’uomo verso tale sostituzione, in modo che l’uomo abbia in Lui la fiducia ferma e positiva che gli fa sfidare il più grave di tutti i timori ed in qualche modo correre incontro alla morte stessa, non per soccombere ma per trionfarne. Ed è appunto per il dono della fortezza che l’uomo è così mosso dallo Spirito Santo; tantoché si potrebbe assegnare come oggetto proprio di questo dono, la vittoria sulla morte (CXXXIX,1).

Capo XLVIII

Dei precetti relativi alla fortezza.

1281. Vi sono dei precetti aventi relazione con la virtù della fortezza nelle legge divina?

Sì; e tali precetti sono dati come conviene. Perché specialmente nella legge nuova ove tutto è ordinato a fissare lo spirito dell’uomo a Dio, l’uomo è invitato sotto forma di precetto negativo a non temere i mali temporali, e sotto forma di precetto positivo a combattere senza posa il più mortale nemico che è il demonio (CXL, 1).

1282. Ed i precetti relativi alle altre virtù collegate con la fortezza, sono dati egualmente nella legge divina?

Sì; perché non si danno precetti affermativi, cioè primitivi, se non in riguardo della pazienza e della perseveranza, come appartenenti alle cose ordinarie della vita; in riguardo invece della magnificenza e della magnanimità, come rivolte a cose piuttosto all’ordine della perfezione, non si danno affatto precetti, ma semplici consigli (CXL, 2).

LA SUMMA PER TUTTI (13)

LA SUMMA PER TUTTI (13)

R. P. TOMMASO PÈGUES O. P.

LA SOMMA TEOLOGICA DI S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE SECONDA

SEZIONE SECONDA

Idea particolareggiata del ritorno dell’uomo verso Dio.

Capo XXVII.

Virtù annesse alla giustizia: la religione, la pietà, l’osservanza, la gratitudine, la punizione, la verità, l’amicizia, la liberalità e l’equità naturale.

1116. La virtù della giustizia ha essa pure alla sua dipendenza altre virtù che le si riferiscono, e sono per essa come altrettante parti annesse?

Sì; la virtù della giustizia ha queste specie di parti (LXXX, 1).

1117. Ma come ed in che cosa queste altre virtù si distinguono dalla giustizia propriamente detta?

Si distinguono in questo, che la giustizia propriamente detta ha per oggetto di rendere ad altri con perfetta uguaglianza ciò che è rigorosamente dovuto; mentre le altre virtù, benché si riferiscano agli altri come la giustizia, in ciò che hanno di comune con essa, hanno tuttavia il loro atto che tende a concedere una cosa non dovuta ad altri se non in senso largo, e non già a così stretto rigore che si possa richiedere in nome del diritto stabilito dalla legge davanti ai tribunali; oppure a non concedere se non in maniera necessariamente imperfetta ed al di sotto della uguaglianza assoluta, ciò che sarebbe rigorosamente dovuto (LXXX, 1).

1118. Quante sono le virtù che si riferiscono alla giustizia e quali sono?

Sono nove: la religione, la pietà, la osservanza, la gratitudine, la punizione, la verità, l’amicizia, la liberalità e la equità naturale (LXXX, 1).

1119. Potreste render ragione dell’ordine di queste virtù?

Sì; eccola in poche parole: Le prime otto si riferiscono alla giustizia particolare; la nona alla giustizia generale o legale. E delle prime otto ve ne sono tre — la religione, la pietà e la osservanza — che restano al di sotto della giustizia in senso stretto, non per mancanza di rigore in fatto di dovere, ma per impossibilità di raggiungere la ragione di uguaglianza nel compimento di questo dovere: la religione rispetto a Dio: la pietà rispetto ai parenti ed alla patria; la osservanza rispetto agli uomini virtuosi od agli elevati in dignità. Le altre cinque difettano da parte del dovere; perché esse non si basano affatto su qualche cosa di legalmente dovuto e che possa essere richiesto in giudizio davanti ai tribunali umani come determinato dalla legge, ma soltanto su ciò che è dovuto moralmente, e di cui la determinazione o il compimento è lasciato all’impulso virtuoso di ciascuno: cosa tuttavia richiesta per la onestà della vita umana è la buona armonia dei rapporti degli uomini tra loro, sia in maniera necessaria come l’oggetto della verità, della gratitudine e della vendetta; sia a titolo di perfezione e di miglioramento, come l’oggetto dell’amicizia e della liberalità (LXXX, 1).

Capo XXVIII.

La religione: sua natura.

1120, Che cosa è la virtù della religione?

La virtù della religione, così chiamata perché costituisce il legame per eccellenza che unisce l’uomo a Dio come a Colui che è per l’uomo la sorgente di ogni bene, è una perfezione della volontà che porta a riconoscere come si conviene la dipendenza dell’uomo da Dio, primo principio ed ultimo fine di tutto, sommamente perfetto in Se stesso e dal quale dipende ogni altra perfezione (LXXXI, 1-5).

1121. Quali saranno gli atti appartenenti a tale virtù?

Tutti quelli che di per sé tendono ad affermare la dipendenza dell’uomo da Dio rientrano nell’oggetto proprio della virtù della religione. Ma essa può anche ordinare a questo stesso fine gli atti di tutte le altre virtù; ed in questo caso essa fa di tutta la vita dell’uomo un atto di culto verso Dio (LXXXL, art. 7, 8).

1122. Come si chiamerà allora?

Si chiamerà santità, perché l’uomo Santo è precisamente colui, tutta la vita del quale è trasformata in un atto di religione (LXXXI. 8)

1123. La virtù della religione è particolarmente eccellente?

La virtù della religione è la più eccellente di tutte le virtù, fuorché delle virtù teologali (LXXXI, 6).

1124. Donde proviene questa eccellenza alla virtù della religione?

Le viene da questo, che tra tutte le virtù morali il cui proprio oggetto è di perfezionare l’uomo in tutti gli ordini della sua cosciente attività, in ordine al raggiungimento di Dio, quale la fede, la speranza e la carità ce lo fanno riguardare, nessun’altra virtù ha oggetto più prossimo a questo fine. Mentre, infatti, le altre virtù regolano l’uomo sia in se stesso che con le altre creature, la religione lo regola con Dio; essa fa sì che egli sia in relazione a Dio quello che deve essere, riconoscendo come deve la sua sovrana maestà, servendolo ed onorandolo con i suoi atti, come richiede di essere servito ed onorato Colui, la eccellenza del quale supera all’infinito ogni cosa ed in ogni ordine (LXXXI, 6).

Capo XXIX.

La religione: suoi atti interni: la divozione. – La preghiera: natura, necessità e formula. – Il PATER NOSTER, ossia l’Orazione Domenicale; efficacia.

1125. Qual è il primo atto della religione?

Il primo atto della religione è l’atto interno che si chiama devozione (LXXXII, 1, 2).

1126. Che cosa intendete per divozione?

Per divozione intendo un certo moto della volontà, per il quale questa si dona e dona tutto quello che nell’uomo da essa dipende, al servizio di Dio, riferendosi a Lui sempre ed in tutto con santa prontezza (LXXXII, 1, 2).

1127. Dopo la divozione qual è nell’uomo il primo atto applicato al servizio di Dio?

È l’atto della preghiera.

1128. Che cosa è l’atto della preghiera?

L’atto della preghiera, inteso nel senso più alto ed in quanto si rivolge a Dio, è un atto della ragione pratica per il quale, sotto forma di supplica, vogliamo indurre Dio a fare ciò che noi desideriamo (LXXXIII, E):

1129. Ma è cosa ragionevole e possibile questa?

Certamente; e niente sulla terra è più ragionevole o più in armonia con la nostra natura (LXXXIII, 2).

1130. Come dimostrate che è così?

Con queste considerazioni: Essendo noi esseri ragionevoli e coscienti, abbiamo altamente bisogno di acquistare coscienza di ciò che è Dio e di ciò che siamo noi. Ora, noi non siamo che miseria, ed Egli è la sorgente di ogni bene. Più noi dunque avremo coscienza della nostra miseria fino ai minimi particolari dei suoi bisogni, e che soltanto da Dio come dalla prima sorgente ci vengono i beni atti a rimediarvi, più saremo ciò che dobbiamo essere, vale. a dire ciò che la nostra. Natura richiede. E l’atto della preghiera è precisamente questo: tanto più è perfetto quanto più ci fa acquistare coscienza della nostra miseria e della bontà di Dio nel rimediarvi. Ancora, proprio per questo Dio nella sua misericordia ha voluto che pregassimo, determinando che certe cose non ci verrebbero concesse, se non per mezzo della domanda che gliene faremmo (LXXXII, 2).

1131. Dunque noi facciamo la volontà di Dio nella sua più alta perfezione, quando vogliamo indurlo con la preghiera a fare ciò che desideriamo?

Sì: noi facciamo nella sua più alta perfezione la volontà stessa di Dio, quando ci sforziamo di indurlo con la nostra preghiera a compiere quello che desideriamo, ogni volta che quello che desideriamo è per il nostro vero bene.

1132. Dio ci esaudisce sempre allora?

Sì: Dio ci esaudisce sempre, quando Gli domandiamo sotto l’impulso dello Spirito Santo ciò che è per il nostro vero bene (LXXXITI, 15).

1133. Vi è una formula di preghiera che ci assicura che noi domandiamo sempre il nostro vero bene?

Sì, è la formula della preghiera per eccellenza che si chiama il « Pater Noster », ossia Orazione Domenicale (LXXXIII, 9).

1134. Che cosa intendete con queste parole: «Orazione Domenicale? ».

Intendo la preghiera che ci ha insegnata Nostro Signore Gesù Cristo nel Vangelo.

1135. Potete dirmi questa preghiera?

Si: eccola: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano; e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori; e non ci indurre in tentazione; ma liberaci dal male. Così sia.

1136. Questa preghiera contiene da sé sola tutte le preghiere, ossia tutte le domande che possiamo e dobbiamo rivolgere a Dio?

Sì; questa preghiera contiene da sé  sola tutte le preghiere, ossia tutte le domande che possiamo e dobbiamo rivolgere a Dio; e tutto quello che domanderemo a Dio si riferirà sempre, se domandiamo ciò che bisogna, ad una di queste domande del « Pater Noster » (LXXXII, 9).

1137. Ha ancora un altro pregio questa preghiera totalmente proprio?

Sì; e questo pregio consiste in ciò, che essa mette sulle nostre labbra, nello stesso ordine che debbono essere nel nostro cuore, tutti i desideri che dobbiamo avere (LXXXIII, 9).

1138. Potreste mostrarmi l’ordine delle domande dell’Orazione Domenicale?

Eccolo in breve: Di tutti i nostri desideri il primo deve essere che Dio sia glorificato, poiché la gloria di Dio è il fine di tutte le cose; ma subito e per cooperare noi stessi il più perfettamente possibile a questa gloria, dobbiamo desiderare di essere ammessi a parteciparne un giorno eternamente nel cielo, E tale è il senso delle prime due domande

del «Pater Noster» quando diciamo: « Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno ». Questa glorificazione di Dio in Se stesso e nostra in Lui, sarà un giorno il termine finale della nostra vita. Su questa terra e durante la nostra vita presente noi dobbiamo lavorare per meritare di esservi ammessi. Perciò noi non abbiamo che una sola cosa da fare: compiere in tutto, il più perfettamente possibile, la volontà di Dio; ed è ciò che domandiamo dicendo: « Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra ». Ma per compiere questa volontà in modo perfetto abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio che sostenga la nostra debolezza, sia in ordine alle necessità temporali sia in ordine a quelle spirituali. Noi domandiamo questo aiuto quando diciamo: « Dacci oggi il nostro pane quotidiano ». E ciò basterebbe se non avessimo da liberarci dal male che può essere un ostacolo, sia all’acquisto del Regno di Dio, sia al compimento della Sua volontà, sia alla sufficienza delle cose di cui abbiamo bisogno nella vita presente. Contro questo triplice male noi diciamo a Dio: Rimetti a noi i nostri debiti,  come noi li rimettiamo ai nostri debitori; e non ci indurre in tentazione; ma liberaci dal male (LXXXII, 9).

1139. Perché al principio di questa preghiera, noi diciamo: « Padre nostro che sei nei cieli » ?

Per eccitarci ad una confidenza senza limiti, poiché quegli a cui ci rivolgiamo è un Padre che regna nei cieli, ed ha tutto in Suo potere (LXXXII, 9 ad 5).

1140. Si deve recitare spesso questa preghiera del «Pater noster» ?

Si deve vivere continuamente del suo spirito e recitare poi di tempo in tempo, ed anche più spesso, secondo che le condizioni della nostra vita ce lo permettono (LXXXIII,

1141. Il meno che convenientemente si possa fare, in qualsiasi condizione ci si trovi è di non passare un giorno solo senza a dire questa preghiera?

Si, in qualsiasi condizione ci si trovi, il meno che convenientemente si possa fare è di non lasciar passare un giorno solo senza dire questa preghiera.

1142. Dobbiamo rivolgere a Dio solo le nostre preghiere?

Sì; dobbiamo rivolgere le nostre preghiere a Dio solo, come a Colui dal quale attendiamo ogni nostro bene; ma possiano rivolgerci a certe creature, per pregarle ad intercedere in nostro favore dinanzi a Dio (LXXXIII. 4).

1143. Quali sono le creature alle quali possiamo rivolgerci, per pregarle ad intercedere in nostro favore dinanzi a Dio?

Sono gli Angeli ed i Santi del cielo, ed i giusti che vivono ancora sulla terra (LXXXIII, 11)

1144. È cosa buona raccomandarsi anche alle anime sante e sollecitare le loro preghiere?

Sì; è cosa eccellente raccomandarsi alla pia intercessione delle anime sante e sollecitare le loro preghiere presso Dio.

1145. Fra tutte le creature ve n’è qualcuna che deve essere da noi invocata nelle nostre preghiere, a titolo del tutto speciale?

Sì; è la gloriosa Vergine Maria, Madre del Figluolo di Dio incarnato, Nostro Signore Gesù Cristo.

1146. Con qual nome è stata chiamata la Ss.ma Vergine Maria, in ragione di questa speciale missione che ha di intercedere per noi?

È stata chiamata la Onnipotente per intercessione.

1147. E che cosa si è voluto significare con queste parole?

Si è voluto significare che tutti coloro che per i quali Ella intercede presso Dio sono da Lui esauditi nelle loro preghiere.

1148, Vi è una formula di preghiera più particolarmente eccellente per domandare intercessione della Ss.ma Vergine Maria presso Dio?

Sì: è la preghiera dell’ « Ave Marta ».

1149. Potreste dirmi questa preghiera?

Si: eccola: Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è teco: tu sei benedetta tra le donne, e benedetto è il frutto del ventre tuo Gesù. Santa Maia, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Così sia.

1150. Quando è bene recitare questa preghiera?

È bene recitarla il più spesso possibile, e specialmente dopo il «Pater noster » quando si recita in privato.

1151. Vi è un modo particolarmente bello di unire insieme queste due preghiere per assicurarne la efficacia?

Sì; è il santo Rosario.

1152. Che cosa intendete per il Rosario?

Intendo un modo di preghiera che consiste nel ricordare i quindici principali misteri della nostra Redenzione, e nel recitare, dinanzi al ricordo di ciascuno di essi, una volta il « Pater noster » seguito dall’« Ave Maria» ripetuta dieci volte, dopo di che si aggiunge: Gloria al Padre e al Figliuolo ed allo Spirito Santo, come era nel principio, e ora, e sempre, e mei secoli dei secoli. Così sia.

Capo XXX.

Atti esterni: l’adorazione, il sacrificio, i doni, le offerte per il culto, il voto, il giuramento, la invocazione del S, Nome di Dio.

1153. Dopo gli atti interni della divozione e della preghiera, quali sono gli altri atti della virtù della religione?

Sono tutti gli atti esterni ordinati di per sé ad onorare Dio (LXXXIV-XCI).

1154. Quali sono questi atti?

Vi sono anzitutto i gesti o movimenti del corpo, come le inclinazioni della testa, le genuflessioni, le prostrazioni e tutti gli altri atti che si comprendono sotto il nome generale di adorazione (LXXXIV).

1155. In che cosa consiste il pregio di tali atti?

Consiste in questo, che essi fanno contribuire il corpo stesso ad onorare Dio e possono, quando siano compiuti come si deve, costituire un grandissimo aiuto per meglio compiere gli atti interni (LXXXIV; 2).

1156. Soltanto il nostro corpo noi dobbiamo far servire ad onorare Dio nella virtù della religione?

Vi sono anche le cose esterne che possiamo offrire in omaggio a Dio sotto forma di sacrificio o di pio contributo (LXXXV – LXXXVII).

1157. Nella legge nuova vi è una sola forma di sacrificio nel senso stretto della parola, ed in quanto implica la immolazione della vittima?

Sì; è il santo sacrificio della Messa nel quale si immola, sotto le specie sacramentali del pane e del vino, Colui che dopo il sacrificio cruento della croce, è l’unica Vittima offerta ed accetta a Dio (LXXXV, 4).

1158. E un atto di religione accetto a Dio il contribuire secondo le proprie risorse ad assicurare ed accrescere il culto esterno, facendo offerte per il culto stesso e per il sostentamento dei suoi ministri?

Sì: tutto questo è un atto di religione e Dio lo riguarda con con gradimento speciale. (LXXXVI-LXXXVII). sad

1159 Si fa atto di religione soltanto donando a Dio per il suo culto od a vantaggio dei suoi ministri?

Si può fare anche atto di religione promettendo a Dio qualche cosa di natura accetta a Lui (LXXXVII).

1160. Come si chiama questa promessa?

Si chiama voto (LXXXVII, 1, 2).

1161. Quando si fa un voto si è obbligati a mantenerlo?

Sì; quando fa un voto si è obbligati a mantenerlo, salvo la impossibilità o la dispensa. (LXXXVIII, 3, 10).

1162. Vi è un’ultima specie di atti di religione?

Si; sono gli atti nei quali per onorare Dio si usa qualche cosa spettante a Dio stesso – (LXXXTX).

1163. Che cosa è che può riguardare Dio, e che noi possiamo utilizzare per onorarlo e rendergli omaggio?

Sono le cose sante ed il suo S. Nome.

1164. Che cosa intendete per cose sante?

Intendo tutto quello che ha ricevute da Dio, per mezzo della sua Chiesa, una consacrazione a o una benedizione particolare, come le persone consacrate a Dio, i sacramenti ed i sacramentali, quali sono l’acqua benedetta, gli oggetti di pietà ed anche i luoghi di culto (LXXXIX, Prologo).

1165. Come si può usare il S. Nome di Dio sotto forma di omaggio reso a Lui?

Si può usare il S. Nome di Dio sotto forma di omaggio reso a Dio stesso, chiamandolo in testimone di ciò che si afferma od invocandolo a modo di lode (LXXXIX-XCI).

1166. Con qual nome si indica l’atto di chiamare Dio in testimone di ciò che si afferma o si promette?

Si indica col nome di giuramento (LXXXIX, 1).

1167. Il giuramento è cosa buona e da raccomandarsi di per se stessa?

Il giuramento non è cosa buona se non in forza di una grande necessità, e non se ne deve usare che con la più estrema riserva (LXXXIX, 2).

1168. E l’adiurazione che cosa è?

L’adiurazione o scongiuro è un atto che consiste nell’appellare al s. Nome di Dio od a qualche cosa santa, per indurre qualcuno ad agire o non agire nel senso che vogliamo (XC, 1).

1169. È un atto permesso ?

Sì; quando è fatto con rispetto ed in quanto lo richiede la condizione degli esseri che scongiuriamo (Ibid.).

1170. È bene invocare spesso il S. Nome di Dio?

Sì; purché si faccia col più grande rispetto e sotto forma di lode (XCI, 1).

Capo XXXI.

Vizi opposti alla religione: la superstizione, la divinazione. – La irreligione: la tentazione di Dio, lo spergiuro, il sacrilegio.

1171. Quali sono i vizi opposti alla virtù della religione?

Vi sono due specie di vizi opposti alla virtù della religione: gli uni per eccesso, e vanno sotto il nome di superstizione; gli altri per difetto e si chiamano irreligione (XCII, Prologo).

1172. Che cosa intendete per superstizione?

Intendo quel complesso di vizi che consiste nel rendere a Dio un culto che non può essergli gradito, oppure nel rendere ad altri il culto che appartiene a Lui solo (XCII, XCIII, XCIV).

1173. Vi è un modo più specialmente frequente di questa ultima specie di vizi?

Sì; è il desiderio smoderato di conoscere il futuro o le cose occulte, per il quale ci si abbandona alle molteplici pratiche della divinazione e delle vane osservanze (XCV, XCVI).

1174. E la irreligione che cosa comprende?

La irreligione comprende due cose: il non trattare col conveniente rispetto le cose riguardanti il servizio ed il culto di Dio, e l’astenersi interamente da ogni atto di religione.

1175. Questo ultimo vizio è particolarmente grave?

Questo ultimo vizio è di una gravità estrema; perché implica il disprezzo e la dimenticanza sdegnosa di Colui al quale siamo più obbligati, e che ogni uomo ha il più stretto dovere di onorare e servire.

1176. Sotto quale forma speciale si presenta oggigiorno questo vizio?

Si presenta sotto la forma del laicismo.

1177. Che cosa intendete per laicismo?

Intendo quel sistema di vita consistente nel mettere Dio completamente da parte: sia in maniera positiva, cacciandolo dappertutto e perseguitando Lui o tuttociò che a Lui appartiene dovunque si trovi; sia in maniera negativa, non tenendo alcun conto di Lui nell’ordinamento della vita umana individuale, familiare e sociale.

1178. Donde proviene questo gran vizio del laicismo nella sua doppia forma positiva e negativa?

La forma positiva proviene dall’odio e dal fanatismo settario; la forma negativa da una specie di stupidità intellettuale e morale, nell’ordine metafisico e soprannaturale.

1179. Ci si deve opporre con tutte le forze al laicismo?

Non esiste dovere più grande che quello di opporsi con tutte le proprie forze al laicismo, e di combatterlo con ogni mezzo che sia in nostro potere.

1180. Quali sono gli altri vizi della irreligione?

Sono la tentazione di Dio e lo spergiuro, che vanno contro Dio stesso ed il Suo S. Nome; il sacrilegio e la simonia, che vanno contro le cose sante (XCVII-XCIX).

1181. Che cosa intendete per tentazione di Dio?

Intendo quel peccato contro la religione che consiste nel mancare di rispetto a Dio, facendo appello al suo intervento come per assicurarci della sua potenza, o in tali circostanze che non gli permettano di intervenire senza andare contro ciò che Egli deve a Se stesso (XCVII, 1).

1182. È un tentare Dio, quasi contando sopra un soccorso speciale da parte sua, quando non si fa da parte nostra ciò che è possibile fare?

Sì: è un tentare Dio il fare così, e si deve evitare con grande cura (XCVII, 1,2).

1183. Che cosa intendete per spergiuro?

Intendo quel peccato contro la virtù della religione, che consiste nell’appellarsi alla testimonianza di Dio per una cosa falsa, nel mancare di mantenerla dopo averla promessa (XCVII, 1).

1184. È un peccato che si collega con lo spergiuro l’appellare a Dio con la evocazione del suo S. Nome, per qualunque motivo ed in modo inconsiderato?

Sì; senza essere propriamente uno spergiuro, è una mancanza di rispetto verso il S. Nome di Dio, che si collega con lo spergiuro, e non sarà mai troppa la cura per evitarla.

1185. Che cosa intendete per sacrilegio?

Intendo la violazione delle persone, delle cose o dei luoghi rivestiti di una consacrazione o santificazione speciale, che li vota al culto ed al servizio di Dio (XCIX, 1).

1186. Il sacrilegio è un peccato grave?

Sì; il sacrilegio è un peccato grave, perché attentare alle cose di Dio è in qualche modo attentare a Dio stesso; e Dio riserva a questo peccato, anche su questa terra, i più grandi gastighi (XCIX, 2-4).

1187. Che cosa intendete per simonia?

Intendo quel peccato speciale di irreligione che consiste, imitando in ciò la empietà di Simon Mago, nel fare ingiuria alle cose sante trattandole come vili cose materiali, di cui gli uomini dispongono da padroni, vendendole e comprandole a prezzo di denaro (C, 1).

1188. La simonia è un grave peccato?

Sì; la simonia è un peccato grave che la Chiesa punisce con pene severissime (C, 6).

Capo XXXII.

La pietà verso i genitori e verso la patria.

1189. Dopo la virtù della religione, quale è la più grande delle virtù annesse alla giustizia?

È la virtù della pietà (CI).

1190. Che cosa intendete per virtù della pietà?

Intendo quella virtù che ha per oggetto di rendere ai genitori ed alla patria l’onore ed il culto loro dovuti per il grande benefizio dell’essere che ci hanno dato, con tutti i beni che lo seguono, lo conservano e lo completano (CI, 1-2).

1191. I doveri della pietà verso i genitori e verso la patria sono particolarmente santi?

Sì; dopo i doveri verso Dio non ve ne sono altri di più santi o più sacri (CI, 1).

1192. Quali sono i doveri della virtù della pietà verso i genitori?

Sono: il rispetto e la deferenza, sempre; la obbedienza quando si vive sotto la loro autorità; e l’assistenza in caso di bisogno (CI,2),

1193. Ed i doveri della pietà verso la patria quali sono?

Sono: il rispetto e la riverenza verso coloro che la personificano e la rappresentano; l’obbedienza alle leggi; ed il dono di sé fino al sacrifizio della propria vita, in caso di guerra giusta contro i suoi nemici.

Caro XXXIII.

L’osservanza verso i superiori.

1194. Vi è ancora una virtù oltre quella della religione e della pietà, che può richiedere la nostra obbedienza?

Sì; è la virtù della osservanza (CII).

1195. Che cosa intendete per la virtù della osservanza?

Intendo una virtù avente per oggetto di regolare i rapporti degli inferiori verso i superiori, fuori della superiorità e del dominio proprio di Dio, dei genitori e delle autorità che personificano e rappresentano la patria (CII, CIII).

1196. È la virtù della osservanza che regola i rapporti degli alunni verso i maestri, degli apprendisti verso i padroni e di tutti gli altri inferiori verso i loro superiori?

È la virtù della osservanza che regola i rapporti degli alunni verso: i maestri, degli apprendisti verso i padroni e di tutti gli altri inferiori verso i loro superiori (CIII, 3).

1197. La virtù della osservanza implica sempre la virtù di obbedienza?

No: la virtù di obbedienza non è richiesta dalla osservanza se non si tratta di superiori aventi autorità sui loro inferiori.

1198. Vi sono altri ordini di superiorità oltre a quelli che implicano autorità sugli inferiori?

Sì; per esempio la superiorità di talento, di genio, di ricchezze, di età, di virtù ed altre simili (CIII, 2).

1199. In tutti questi ordini ha luogo la pratica della virtù della osservanza?

Sì; la virtù della osservanza fa sì che l’uomo renda ad ogni dignità superiore, qualunque essa sia, gli onori dovuti; con questo però che essa rende tali onori prima ai superiori in autorità, a cui rende al tempo stesso il rispetto ed il servizio loro dovuto (Ibid.).

1200. È cosa importante questa per il bene della società?

Sì; è cosa importantissima per il bene della società; perché ogni società implica molteplicità ed in qualche maniera subordinazione; ed ogni subalterno deve praticare la virtù della osservanza, sotto pena di turbare la bellezza ed armonia che formano il pregio della vita degli uomini tra loro.

1201. Ogni uomo può avere da praticare la virtù della osservanza?

Sì; perché non vi è alcuno, sia pur superiore in un dato ordine, che non sia in ordine diverso inferiore ad altri (CIII, 2 ad 3).

Capo XXXIV.

La gratitudine o riconoscenza.

1202. Quale è la prima delle altre virtù annesse alla giustizia, avente per oggetto non uno stretto dovere impossibile a soddisfarsi pienamente, ma un certo dovere morale, ordinato tuttavia in modo necessario al bene della società?

È la virtù della gratitudine, ossia della riconoscenza (CVI).

1203. Qual è il compito di questa virtù?

Il compito di questa virtù è di farci riconoscere come conviene e contraccambiare tutti i benefizi di ordine particolare che possiamo aver ricevuto da qualcuno (CVI, 1).

1204. È una grande virtù questa?

Sì; perché il vizio contrario, la ingratitudine è cosa estremamente odiosa e riprovata da tutti gli uomini (CVII).

1205. Ci si deve impegnare nella virtù della gratitudine o riconoscenza, a rendere più di quello che si è ricevuto?

Sì: ci si deve impegnare a rendere più di quanto si è ricevuto, per imitare l’atto del proprio benefattore (CVI, 6).

Capo XXXV.

La vendetta o castigo.

1206. Vi è qualcosa da fare, dal punto Vista della virtù, contro i malfattori e tutti quelli che nuocciono, nella sfera della nostra vigilanza?

 Sì; una virtù speciale che è la premura della vendetta, deve guidarci a far sì che un dato male non rimanga affatto impunito, quando il bene di cui noi abbiamo la difesa richiede che il male stesso venga effettivamente punito (CVIII).

Capo XXXVI.

La verità. – Vizi opposti: la menzogna, la simulazione e l’ipocrisia.

1207. Qual è l’altra virtù del medesimo ordine richiesta non precisamente per riguardo agli altri, ma per riguardo a quegli stessi che agisce, per il bene della società tra gli uomini?

È la virtù della verità (CIX)

1208. Che cosa intendete per virtù della verità?

Intendo quella virtù che ci porta a mostrarci in tutte le cose per quelli che veramente siamo nelle parole e negli atti (CIX, 1-4).

1209. Quali sono i vizi opposti a questa virtù?

Sono la menzogna a e la simulazione, ossia l’ipocrisia (CX- CXII)

1210. Che cosa intendetete per menzogna?

Intendo il parlare od agire scientemente in modo tale da esprimere o significare ciò che non è (CX, 1).

1211. È cosa cattiva questa?

È cosa essenzialmente cattiva, che non può mai divenir buona per qualsivoglia fine

o pretesto (CX, 3).

1212. Ma si è sempre tenuti a dire o significare con le parole e con gli atti tutto ciò  che è?

No: non si è affatto tenuti a dir sempre o a significare tutto ciò che è; ma non si deve mai dire o significare quello che non è (CX, 3)

1213. Quante specie di menzogna vi sono?

Vi sono tre specie di menzogna: la menzogna giocosa; la menzogna officiosa; e la menzogna dannosa (CX, 2).

1214. In che cosa si distinguono queste tre specie di menzogna?

Queste tre specie di menzogna si distinguono in questo, che la menzogna giocosa, ha per iscopo di ricreare il prossimo; la menzogna officiosa quello di essergli utile, e la menzogna dannosa quello di nuocergli (CX, 2)

1215. Questa ultima menzogna è la più cattiva di tutte?

Sì: di tutte le specie della menzogna, la più cattiva è la menzogna dannosa: mentre infatti le altre due possono essere soltanto peccati veniali, questa è sempre di peccato mortale, non potendo essere veniale se non in ragione della leggerezza del danno che intende (CX, 4).

1216. Che cosa intendete per simulazione ed ipocrisia?

La simulazione consiste nel mostrarsi all’esterno della propria vita quello che non si è;

internamente; e la ipocrisia è una simulazione che tende a far passare per giusto e santo chi internamente non è tale (CXI, 1, 2)

1217. È obbligato uno, per non cadere in questi difetti, a manifestare esternamente ciò che in lui può esservi di cattivo o di meno buono?

Niente affatto; ed è anzi un dovere non lasciarlo apparire di fuori, sia per non nuocere a se stesso nella opinione degli altri, sia per non male edificarli o scandalizzarli. Ciò che la virtù della verità richiede è che non si tenda a dimostrare all’esterno della propria vita qualche cosa, sia in bene che in male, che non corrispondente alla realtà (CXI, 3,4).

1218. Si è tenuti per la virtù della verità ad astenersi da ogni segno di parole o di atti che si presterebbe ad una falsa interpretazione, oppure a prevenire questa falsa interpretazione?

No; non vi saremmo tenuti se non nel caso che la falsa interpretazione fosse di natura tale da cagionare un male che dovremmo evitare (CXI, 1).

1219. Si può peccare di menzogna, di simulazione o di ipocrisia in più maniere da costituire peccati significativamente distinti?

Sì; si può peccare andando oltre quello che è, ed abbiamo il peccato di iattanza; restando al di sotto di ciò che è, dando a pensare di non avere quello che si ha quando si tratta di bene, ed abbiamo il peccato di indebito occultamento (CXII, CXIII).

LA SUMMA PER TUTTI (12)

LA SUMMA PER TUTTI (12)

R. P. TOMMASO PÈGUES

LA SOMMA TEOLOGICA DI S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE SECONDA

SEZIONE SECONDA

Idea particolareggiata del ritorno dell’uomo verso Dio.

Capo XVII

La giustizia: sua natura, – Il diritto: diritto naturale e positivo; privato e pubblico; nazionale ed internazionale; civile ed ecclesiastico, – Giustizia legale; giustizia particolare. – Vizio opposto.

1008. La virtù della giustizia che avete no minata, è la più importante fra le altre virtù dopo la virtù della prudenza ed in armonia con essa, come del resto debbono esserlo ancora tutte le altre virtù morali?

Sì; dopo la virtù della prudenza che occupa un posto a parte nell’ordine delle virtù morali, nessuna delle quali può esistere Senza di essa, la più importante fra tutte le altre

è la virtù della giustizia (LVII – CXXI).

1009. Che cosa intendete per virtù della giustizia?

Intendo quella virtù che ha per oggetto il giusto ed il diritto (LVII, 1).

1010. Che cosa volete dire dicendo che la giustizia ha per oggetto il diritto ed il giusto?

Voglio dire che essa ha per oggetto di far regnare tra gli uomini l’armonia dei rapporti, fondati sul rispetto dell’essere e dell’avere, che sono legittimamente propri di ciascuno (LVII, 1).

1011. E come si sa che l’essere e l’avere di ciascuno fra gli uomini è tale, e deve essere tale legittimamente?

Si sa da ciò che detta la ragione naturale di ogni uomo e da ciò che di comune accordo ha potuto determinare la ragione dei diversi uomini, o la ragione di coloro che hanno autorità di regolare i rapporti degli uomini stessi tra loro (LVII, 2-4).

1012. Come si chiama il diritto ed il giusto, fondato su ciò che detta la ragione naturale di ogni uomo? Si chiama diritto naturale (LVII, 2).

Si chiama diritto naturale.

1013. E come si chiama il diritto ed il giusto costituito da ciò che di comune accordo è stato determinato dalla ragione dei diversi uomini, o dalla ragione di coloro che hanno autorità per regolare i rapporti degli uomini tra loro?

Si chiama diritto positivo, che si divide in diritto privato e diritto pubblico, che alla sua volta può essere nazionale ed internazionale, secondoché si tratta di convenzioni private o di leggi del paese, o di leggi convenute e stabilite fra diverse nazioni (LVII, 2).

1014. Non si parla anche di diritto civile e di diritto ecclesiastico?

Sì; e questi diritti si distinguono secondoché si tratta di rapporti degli uomini tra loro, determinati dall’autorità civile o dall’autorità ecclesiastica.

1015. Il diritto che è oggetto della virtù della giustizia, riguarda soltanto i rapporti degli individui fra loro nella società, o riguarda anche i rapporti degli individui con la collettività?

Riguarda l’una e l’altra di queste due specie di rapporti (LVIII, 5-7).

1016. Come si chiama la virtù della giustizia che ha per oggetto il secondo diritto?

Si chiama giustizia legale (LVII, 5).

1017. E come si chiama la virtù della giustizia che riguarda il primo diritto?

Si chiama giustizia particolare (LVIII, 7).

1018. Vorreste dirmi ora, con una definizionemprecisa, che cosa è la virtù della giustizia?

La virtù della giustizia è quella perfezione della volontà dell’uomo, che lo porta a volere ed a procurare in tutto, spontaneamente, e senza mai desistere, il bene della società di cui fa parte su questa terra; e tutto ciò ancora a cui può aver diritto ciascuno degli esseri umani in rapporto con lui (LVII, 1).

1019. Come si chiama il vizio opposto a questa virtù?

Si chiama ingiustizia: ingiustizia che ora si oppone alla giustizia legale, non tenendo conto del bene comune che la giustizia legale richiede; ed ora alla giustizia particolare, attentando alla uguaglianza che la giustizia particolare ha per oggetto di mantenere tra i diversi uomini (LIX).

1020. In che cosa consiste propriamente questo ultimo peccato di ingiustizia?

Consiste nell’attentare scientemente e volontariamente al diritto altrui, vale a dire a ciò che la propria volontà ragionevole deve naturalmente volere, andando invece contro a questa volontà (LIX, 3).

Capo XVIII.

Atto della giustizia particolare: il giudizio.

1021. La virtù della giustizia ha un atto che le appartiene a titolo speciale, soprattutto come giustizia particolare?

Sì; è latto del giudizio che consiste precisamente nel determinare con esattezza e secondo equità ciò che conviene a ciascuno, sia che si faccia di ufficio nel rendere giustizia a parti in litigio, come conviene al giudice; sia anche che si faccia in ogni tempo e per tutti nell’apprezzare anche interamente l’essere l’avere di ciascuno conforme al diritto, in omaggio al diritto in se stesso (LX).

1022. Il giudizio, atto della virtù di giustizia, deve interpretare piuttosto in bene le cose dubbie?

Sì; quando si tratta del prossimo e dei suoi atti, giustizia vuole che mai ci si pronunzi sia internamente che esternamente, a modo di sentenza stabile e definitiva, in senso contrario, se rimane qualche dubbio a questo proposito (LX, 4).

1023. Quando, tuttavia, si dubita di cose che potrebbero nuocere a noi od agli altri, si può diffidare e mettersi in guardia?

Sì; la giustizia legale, la prudenza e la carità vogliono che se si tratta di un male da prevenire per noi o per gli altri, sappiamo difenderci o difendere gli altri, supponendo talora il male come possibile da parte di certi uomini, anche dietro semplici congetture e senza averne una certezza assoluta (LX, 4 ad 3).

1024. Vi sono però anche allora delle riserve da fare?

Sì: anche nel caso in cui può essere necessario di prendere le volute precauzioni, bisogna guardarci accuratamente, nel prenderle per sé o per gli altri, di concepire o di esprimere sulle persone un giudizio che sia loro sfavorevole (Ibid.).

1025. Potreste darmi un esempio?

Se per esempio io vedo un uomo dalla faccia sospetta, non ho il diritto di ritenerlo per un malfattore ed ancor meno di darlo come tale; ma se si aggira intorno alla mia casa o alla casa di miei amici, ho il diritto ed un po’ anche il dovere di vigilare, acciocché presso di me o presso di loro tutto sia perfettamente guardato e tenuto al sicuro.

Caro XIX.

Giustizia particolare; sue specie: giustizia distributiva; giustizia commutativa.

1026. La virtù della giustizia, considerata come giustizia particolare, comprende varie specie?

Sì; comprende due specie: la giustizia distributiva e la giustizia commutativa (LXI, 1).

1027. Che cosa intendete per giustizia distributiva?

Intendo quella specie di giustizia particolare che provvede al bene della equità nei rapporti degli uomini tra loro, considerati nell’ordine che ad essi dice come a sue parti la società che essi compongono (LXI, 1).

1028. E per giustizia commutativa che così intendete?

Intendo quella specie di giustizia particolare che provvede al bene della equità nei rapporti degli uomini tra loro, considerati da pari a pari in questa stessa società (UXI, 1).

1029. E se si considerassero gli uomini come parti ordinate al tutto nella società, quale sarebbe la giustizia che provvederebbe al bene della equità nei rapporti degli uomini di fronte al tutto?

Sarebbe la grande virtù della giustizia legale (LXI, 1 ad 4).

Capo XX.

Atto della giustizia commutativa: la restituzione.

1030. La giustizia commutativa ha un atto che le appartiene propriamente?

Sì; la restituzione (LXII, 1).

1031. Che cosa intendete per restituzione:

Intendo quell’atto per il quale si ristabilisce o si ricostituisce la eguaglianza esterna di un uomo ad un altro, nel caso che questa eguaglianza sia stata alterata per il fatto che uno dei due non ha ciò che gli appartiene (LXI, 1).

1032. Dunque la restituzione non implica sempre la riparazione di una ingiustizia?

No; perché essa è anche l’atto dell’uomo giusto che restituisce prontamente e con fedeltà scrupolosa ciò che appartiene ad altri, quando deve essere restituito.

1033. Potreste darmi in poche parole le regole essenziali della restituzione?

Sì, eccole quali le impone la equità naturale. Con la restituzione, ciò che ad alcuno manca o mancherebbe ingiustamente, gli è dato, o meglio gli è di nuovo reso. Ciò che deve essere restituito è la cosa stessa o il suo esatto equivalente,  niente di più e niente di meno, secondoché alcuno la possedeva già, sia in modo attuale che virtuale, anteriormente all’atto che ha modificato il possesso di quella cosa; con questa differenza che bisognerà tener conto di tutte le conseguenze che potranno essere derivate dall’atto stesso, continuando a modificare a pregiudizio del legittimo possessore la integrità di ciò che avrebbe posseduto senza la posizione di detto atto. La cosa deve essere restituita al suo possessore e non ad altri, a men che nella persona di altri si renda al primo. Colui che deve restituire è chiunque sia detentore della cosa, o chiunque si trovi essere stato causa responsabile dell’atto che ha alterata l’eguaglianza della giustizia. Nell’atto della restituzione non si deve apportare nessuna dilazione, escluso il solo caso di impossibilità (LXII, 2-8).

Capo XXI.

Vizi opposti alla giustizia distributiva: preferenza di persone. Alla giustizia commutativa: l’omicidio, la pena di morte, la mutilazione la verberazione, l’incarcerazione.

1034. Fra i vizi opposti alla virtù della giustizia, ve ne è qualcuno che si oppone al giustizia distributiva?

Sì; la preferenza delle persone (LXII]

1035. Che cosa intendete per preferenza persone?

Intendo il fatto di dare o rifiutare qualche cosa a qualcuno quando si tratta di bene, o di imporre qualche cosa a qualcuno se si tratta di cosa gravosa od onerosa nella società, considerando non ciò che può renderlo degno o meritevole di un tal trattamento, ma solamente perché egli è tale individuo o tale persona (LXIII, 1).

1036. Potreste dirmi quali sono i vizi Opposti alla virtù della giustizia, considerata come giustizia commutativa?

Tali vizi sono numerosi, e si dividono in due categorie (LXIV-LXX VII).

1037. Quali sono quelli della prima categoria?

Sono quelli che toccano il prossimo senza che la sua volontà vi abbia alcuna parte (LXIV-LXXVI).

1038. Qual è il primo di questi peccati?

È l’omicidio che tocca il prossimo per vie di fatto nel principale dei suoi beni, togliendogli la vita (LXIV).

1039. L’omicidio è un peccato grave?

L’omicidio è il più grave peccato contro il prossimo.

1040. Non è mai permesso attentare alla vita del prossimo?

Non è mai permesso attentare alla vita del prossimo.

1041. La vita dell’uomo è un bene che non è mai permesso di togliergli?

La vita dell’uomo è un bene che non è mai permesso di togliergli, salvoché non abbia meritato per qualche delitto di esserne privato (LXIV, 2, 6).

1042. E chi ha il diritto di togliere la vita a colui che per un delitto ha meritato di esserne privato?

La sola autorità pubblica nella società ha il diritto di togliere la vita a colui che per un delitto ha meritato di esserne privato (LXIV, art. 2).

108. Donde proviene questo diritto alla pubblica autorità?

Proviene dal dovere che ha di vegliare al bene comune nella società (LXIV, 2).

1044. Il bene comune della società fra gli uomini, può richiedere che qualcuno sia mandato a morte?

3 Sì; il bene comune della società fra gli uomini può richiedere che qualcuno sia mandato a morte: sia perché può non esservi altro mezzo pienamente efficace per frenare i delitti nel seno di una società; sia perché la coscienza pubblica può esigere questa giusta soddisfazione per certi delitti più particolarmente odiosi ed esecrandi (LXIV, 2).

1045 Soltanto per ragione di delitto un nomo può essere mandato a morte dall’autorità pubblica nella società?

Sì; soltanto per una ragione di delitto un uomo può essere mandato a morte dall’autorità pubblica nella società (LXIV, 6).

1046. Il bene o l’interesse pubblico non potrebbe qualche volta giustificare o legittimare la morte stessa di un innocente?

No; il bene o l’interesse pubblico non può mai giustificare o legittimare la morte di un innocente; perché il bene supremo nella società degli uomini è sempre il bene della virtù (LXIV, 6).

1047. Ed un privato che si difende o difende il proprio bene, non ha il diritto di uccidere colui che attenta a lui stesso od al suo bene?

No: un privato non ha mai il diritto di uccidere un altro che attenta a lui od al suo bene; salvo che si tratti della propria vita o della vita dei suoi, e che non vi sia assolutamente alcun altro mezzo di difenderla fuori di quello che cagiona la morte dell’assalitore. Bisogna però che anche allora quegli che si difende non abbia minimamente intenzione di uccidere l’altro, ma solamente di difendere la propria vita o quella dei suoi (LXIV, 7).

1048. Quali sono gli altri peccati contro il prossimo nella sua persona?

Sono la mutilazione che attenta alla sua integrità; la verberazione che ne turba la pace ed il benessere normale; e la incarcerazione che lo priva del libero uso della sua persona (LXV, 1-3).

1049. Quando sono peccati questi atti?

Tutte le volte che sono compiuti da chi non ha autorità sul paziente; oppure avendo autorità su di lui, non osserva la misura voluta nell’uso che ne fa (Ibid.).

Capo X.XII.

Del diritto di proprietà: doveri che porta seco. – Violazione di questo diritto: il furto e la rapina.

1050. Dopo i peccati che attentano al prossimo nella persona, qual è il più grave degli altri peccati che si commettono contro di lui per vie di fatto?

È il peccato che attenta ai suoi beni, ossia a ciò che possiede (LXVI).

1051. Un uomo ha diritto di possedere in proprio qualche cosa?

Sì: l’uomo può aver diritto di possedere qualche cosa in proprio e di amministrarlo come vuole, senza che gli altri abbiano ad intromettervisi contrariamente alla sua volontà (LXVI, art. 2).

1052. Donde proviene all’uomo questo diritto?

Gli deriva dalla sua stessa natura. Perché essendo un essere ragionevole e fatto per vivere in società, il suo stesso bene, il bene della sua famiglia ed il bene della società tutta intiera reclamano che questo diritto di proprietà esista fra gli uomini (LXVI, 1, 2).

1053. Come dimostrate che questi diversi beni reclamano la esistenza fra gli nomini del diritto di proprietà?

Si dimostra con questo, che la proprietà dei beni posseduti dall’uomo è una condizione di libertà per lui, come è per la famiglia il modo per eccellenza di costituirsi perfetta e di conservarsi attraverso i tempi nel seno della società. Nella società stessa la proprietà fa sì che le cose siano amministrate con maggior cura, in maniera più ordinata, con meno contrasti e meno controversie (LXVI, 2).

1054. Vi sono però dei doveri uniti al diritto di proprietà?

Sì; al diritto di proprietà sono uniti gravissimi doveri,

1055. Potreste dirmi quali sono i doveri inerenti al diritto di proprietà?

Sì; eccoli in poche parole: Vi è anzitutto il dovere di far fruttificare e migliorare i beni che si posseggono. Poi, nella misura che i beni si accresceranno nelle mani dei possessori, quando questi vi abbiano una volta prelevato ciò che fa loro personalmente bisogno per se stessi e per la loro casa, non è più loro permesso di considerarli come beni propri, escludendo dalla loro partecipazione la società degli uomini in mezzo ai quali essi vivono. È per essi un dovere di giustizia sociale di ripartire il meglio possibile il superfluo dei loro beni, o di facilitare intorno ad essi il lavoro degli altri, affinché le necessità dei privati siano sollevate ed il bene pubblico ne sia accresciuto. La ragione del bene pubblico autorizzerà lo Stato a prelevare sui beni dei privati tutto quello che giudicherà necessario od utile al bene della società. In questo caso i privati sono tenuti a conformarsi alle leggi emanate dallo Stato; ciò è per essi un obbligo di stretta giustizia. La ragione del bene dei privati o delle loro necessità non obbliga con lo stesso rigore riguardo alla sua determinazione. Non esiste a questo proposito una legge che obblighi sotto forma di legge positiva umana, determinando la possibilità di coazione per via giudiziaria. Ma la legge naturale conserva tutto il suo rigore; è un andare direttamente contro di essa in ciò che ha di più imprescrittibile, cioè nell’obbligo di volere il bene dei propri simili, a disinteressarsi dei loro bisogni quando si possiede il superfluo. Tale obbligo già rigoroso in forza della sola legge naturale, riveste un carattere del tutto sacro in forza della legge divino-positiva, soprattutto della legge evangelica. Dio stesso è intervenuto personalmente per corroborare e rendere più urgente, con le sanzioni di cui la avvalora, la prescrizione già da Lui scolpita nel fondo del cuore umano (LXVI, art. 2-7; XXXI, 5, 6).

1056. Se tali sono i doveri di coloro che posseggono verso gli altri uomini, quali sono i doveri di questi ultimi verso i primi?

I doveri degli altri uomini verso coloro che posseggono sono di rispettare i loro beni, e di non manometterli mai contrariamente alla loro volontà (LXVI, 5, 8).

1057. Come si chiama l’atto di manomissione dei beni di coloro che posseggono, contrariamente alla loro volontà?

Si chiama furto o rapina (LXVI, 3, 4).

1058. Che cosa intendete per furto?

Intendo il fatto di impadronirsi occultamente di un bene altrui (LXVI, 3).

1059. E per rapina che cosa intendete?

Intendo quell’atto che in luogo di procedere all’insaputa di colui che viene derubato, come nel furto, lo assale invece di fronte, togliendogli visibilmente e violentemente il bene che gli appartiene (LXVI, 4).

1060. Qual è il più grave di questi due atti?

La rapina è cosa più grave del furto; ma anche il furto, come la rapina, costituisce sempre di per sé peccato mortale; salvo che la cosa rubata non ne valga la pena (LXVI, 9).

1061. Bisogna astenersi quanto più è possi bile fra gli uomini, da tutto ciò che anche lontanissimamente avesse apparenza di furto?

Sì: è cosa sommamente importante per il bene della società, che gli uomini si astengano quanto più è possibile da tutto ciò che anche lontanissimamente avesse apparenza di furto in mezzo ad essi.

Caro XXIII.

Peccati contro la giustizia per mezzo di parole: nell’atto del giudizio: da parte del giudice; da parte dell’accusa; da parte dell’accusato; da parte del testimone; da parte dell’avvocato.

1062. Oltre ai peccati che si commettono contro la giustizia rispetto al prossimo per mezzo di atti, ve ne sono altri che si commettono rispetto a lui con parole?

Sì; e si dividono in due categorie: quelli che si commettono nell’atto solenne del giudizio, ossia in tribunale; e quelli che si commettono nell’ordinario della vita (LXVII-LXXVI).

1062. Qual è il primo peccato che si può commettere nell’atto solenne del giudizio?

È il peccato del giudice che non giudica secondo la giustizia (LXVII).

1064. E che cosa si richiede da parte del giudice perché giudichi secondo la giustizia?

Si richiede che egli consideri se stesso come una specie di giustizia vivente, che ha per ufficio nella società di rendere a ciascuno che ricorra alla sua autorità il diritto leso, nel nome stesso della società che rappresenta (LXVII, 1).

1065. Che cosa consegue da ciò per il giudice nell’adempimento del suo ufficio?

Ne consegue che un giudice non può giudicare se non coloro che sono di sua giurisdizione: e che nel libello della sentenza non può basarsi che sui dati del processo quali le parti espongono e stabiliscono giuridicamente davanti a lui: non potendo altrimenti intervenire se una delle parti non muove querela e domanda giustizia. Ma in questo caso deve sempre rendere integralmente questa giustizia, senza falsa misericordia verso il colpevole, qualunque sia la pena che debba pronunziare contro di lui, nel nome del diritto stabilito da Dio o dagli nomini (LXVII, 2-4).

1066. Qual è il secondo peccato contro la giustizia nell’atto solenne del giudizio, o in riferimento ad esso?

È il peccato di coloro che mancano al dovere di accusare, oppure accusano ingiustamente (LXVIII).

1067. Che cose intendete per dovere di accusare?

Intendo il dovere che incombe ad ogni uomo, che vivendo in una società e trovandosi

dinanzi ad un male che funesta questa stessa società, è obbligato a deferire al giudice l’autore di questo male perché ne sia fatta giustizia. Egli non è dispensato da tale obbligo, se non trovandosi nella impossibilità di stabilire giuridicamente la verità del fatto (LXVILI, 1).

1068. Quando è ingiusta l’accusa?

L’accusa è ingiusta quando la pura malizia fa imputare ad alcuno delitti falsi; Oppure se una volta impegnata non si prosegue come la giustizia richiede: sia che si tratti fraudolentemente con la parte avversaria, sia che senza motivo si desista dall’accusa (LXVII, art. 3).

1069. Quel è il terzo peccato contro la giustizia nell’atto del giudizio?

È il peccato dell’accusato che non si conforma alle regole del diritto.

1070. Quali sono le regole del diritto alle quali deve conformarsi l’accusato, sotto pena di peccato contro la giustizia?

Deve dire la verità al giudice, quando questi lo interroga in virtù della sua autorità; e non può mai difendersi usando modi fraudolenti (LXIX, 1, 2).

1071. Può un accusato, in caso di condanna, declinare il giudizio appellandosene?

Dal momento che un accusato non può difendersi in modo fraudolento non ha diritto di fare appello contro un giudizio giusto al solo scopo di ritardarne la esecuzione. Non può appellare se non trattandosi di ingiustizia manifesta; e bisognerà pure che usi del suo diritto nei limiti stabiliti dalla legge (LXIX, 3).

1072. Un condannato a morte ha diritto di resistere alla sentenza che condanna?

Un condannato a morte ingiustamente può resistere anche con la violenza, con la sola eccezione che si debba evitare lo scandalo. Ma se è stato condannato giustamente, deve subire il supplizio senza resistenza di sorta; potrebbe tuttavia fuggire se ne avesse il mezzo, perché nessuno è tenuto a cooperare al proprio supplizio (LXIX, 4).

1073. Qual è il quarto peccato che si può commettere contro la giustizia nell’atto del giudizio?

Si il peccato del testimone che manca al suo dovere (LXX).

1074. Come può mancare al proprio dovere un testimone nell’atto del giudizio?

Un testimone può mancare al proprio dovere nell’atto del giudizio, sia rifiutandosi di testimoniare quando è richiesto dall’autorità del superiore a cui è tenuto ad obbedire nelle cose appartenenti alla giustizia, oppure quando la sua testimonianza può impedire un danno ad alcuno; sia, con più forte ragione, facendo una falsa testimonianza (LXX, 1, 4).

1075. La falsa testimonianza resa in giudizio è sempre un peccato mortale?

La falsa testimonianza resa in giudizio è sempre un peccato mortale, se non sempre per la menzogna che qualche volta può essere veniale, sempre almeno per lo spergiuro ed anche per la ingiustizia, se va contro ad una causa giusta (LXX, 4).

1076. Qual è l’ultimo peccato che si può commettere

contro la giustizia nell’atto del giudizio?

È quello dell’avvocato che rifiuta il suo patrocinio in una causa giusta che non può essere difesa se non da lui, oppure che difende una causa ingiusta specialmente nell’ordine delle cause civili, o che esige una ingiusta retribuzione per il suo patrocinio (LXXI, :1, 3, 4):

Caoo XXIV.

Peccati di parole nell’ordinario della vita: l’ingiuria, la detrazione (maldicenza e calunnia), la sussurrazione, la derisione, l’imprecazione.

1077. Potreste dirmi quali sono i peccati di ingiustizia che si commettono contro il prossimo con le parole nell’ordinario della vita?

Sono la ingiuria, la detrazione, la sussurrazione, la derisione e la imprecazione (LXXII-LXXVI).

1078. Che cosa intendete per ingiuria?

L’ingiuria o insulto od oltraggio, detta anche rimprovero, biasimo e rabbuffo, prendendo queste ultime tre cose nel senso di un intervento indebito o ingiustamente offensivo; indica un intervento oltraggioso per il quale si offende nel suo onore e nel dovuto rispetto un individuo preso di mira, con i gesti che si fanno o con le parole che si dicono (LXXII, 1).

1079. È un peccato mortale questo?

Sì; quando si fanno dei gesti o si proferiscono parole di natura tale da: attentare gravemente all’onore di chi ne è l’oggetto, con la formale intenzione di attentare realmente a questo onore. La colpa non sarà leggera se non nel caso in cui di fatto l’onore del soggetto non ne sia seriamente menomato, oppure non vi sia la intenzione di attentarvi in maniera grave (LXXII, 2

1080. Esiste per ogni nomo uno stretto dovere nell’ordine della giustizia, di trattare gli altri, chiunque essi siano, con la riverenza ed il rispetto loro dovuti?

Sì; è questo per ogni uomo uno stretto dovere nell’ordine della giustizia, ed è della più grande importanza per la buona armonia delle relazioni che gli nomini devono avere tra loro (LXXII, 1-3).

1081. Su: che cosa si basa questo dovere, e quale è la sua importanza?

Si basa sul fatto che l’onore è uno dei beni ai quali gli uomini tengono di più. Anche il più meschino di loro, in quanto lo comporta la sua condizione; vuole e deve essere trattato con rispetto. Mancargli di riguardo con gesti o con parole è un offenderlo in ciò che ha di più caro (Ibid.).

1082. Bisogna dunque evitare con la più grande cura di dire o fare alcunché in presenza di qualcuno, che sia di natura tale da contristarlo o umiliarlo, oppure da essergli di fastidio in qualunque maniera sia?

Sì: bisogna evitare ciò con la più grande cura (Ibid.).

1083. Non è mai permesso agire diversamente?

Non è mai permesso Se non trattandosi di un superiore riguardo ad un inferiore, al solo fine di correggerlo quando veramente lo merita, ed a condizione di non farlo mai sotto l’impeto della passione e in modo eccessivo ed indiscreto (LXXJI, 2 ad 2).

1084. Ed a riguardo di quelli che mancano essi stessi di rispetto che cosa bisogna fare?

A riguardo di coloro che si rendessero colpevoli del peccato di ingiuria contro di noi, o di coloro il cui onore possa esserci affidato sia direttamente che indirettamente, la carità ed anche la giustizia possono richiederci di non lasciare impunita la loro audacia. Ma in questo caso bisogna osservare nella repressione tutte le forme che l’ordine del diritto richiede, e guardarci premurosamente di non fare noi stessi alcun torto (LXXII, 3).

1085 Che cosa si deve intendere per detrazione?

La detrazione, nel suo senso formale e preciso, implica la intenzione di attentare con parole alla reputazione del prossimo o di togliergli in tutto od in parte la stima di cui gode presso gli altri, quando non è alcuna giusta ragione di farlo (LXXIII, 1).

1086. È un peccato molto grave questo?

Sì; perché è un togliere ingiustamente al prossimo un bene più prezioso delle ricchezze   che gli si tolgono col furto (LXXIII, 2, 3).

1087 . In quante maniere si commette il peccato di detrazione?

Si commette direttamente in quattro maniere: imputando al prossimo cose false; esagerando ciò che può esservi in lui di difettoso; manifestando cose ignorate ed a lui sfarorevoli; attribuendogli intenzioni dubbie se non anche malvagie, che snaturano ciò che opera di bene (LXXII, 1 ad 3).

1088. Non si può nuocere al prossimo anche in altra maniera nel peccato di detrazione?

Sì; in maniera indiretta, negando il suo bene, tacendolo maliziosamente ed attenuandolo (LXXIII, 1 ad 3)

1089. Che cosa intendete per peccato di sussurrazione?

Intendo quel peccato che consiste nell’attentare al bene degli amici, proponendosi direttamente con parole equivoche e sleali di seminare la discordia tra coloro che sono uniti in una mutua confidenza dai legami dell’amicizia (LXXIV, 1).

1090 È molto grave questo peccato?

Di tutti i peccati di parole contro il prossimo questo è il più odioso, il più grave ed il più degno di riprovazione davanti a Dio e davanti agli uomini (LXXIV, 2).

1091. Che cosa si deve intendere per derisione?

La derisione o motteggio ingiurioso è un peccato di parola contro la giustizia, consistente nello schernire il prossimo rinfacciandogli qualità malvagie o difettose che lo inducano a perdere la confidenza in se stesso, nei suoi rapporti con gli altri (LXXV, 1).

1092.  È un peccato molto grave?

Certissimamente; perché implica un disprezzo di persone, che è disprezzo di persone, che è una delle cose più detestabili e più meritevoli di riprovazione (LXXV, 2).

1093. L’ironia verso gli altri è sempre derisione con la gravità che si è detto?

L’ironia può essere cosa leggera se si tratta di difetti leggeri e di leggeri mancamenti che si scherniscono per riderne, senza che lo scherno implichi disprezzo alcuno per le persone. Può anche non esservi nessun peccato, quando la cosa avviene per modo di innocente ricreazione e non si corre alcun rischio di mortificare chi ne è l’oggetto. Tuttavia si tratta di un modo delicatissimo di ricreazione, di cui non si deve usare che con somma prudenza (LXXV, 1 ad 1).

1094. L’ironia può essere qualche volta un atto di virtù?

Si; se è adoperata come si conviene e per modo di correzione da parte di un superiore verso un inferiore, oppure anche da uguale ad uguale per modo di caritatevole correzione fraterna.

1095. Che cosa richiede in simili casi l’uso dell’ironia?

Richiede sempre grandissima discrezione. Perché se può essere cosa buona che coloro i quali sono portati ad avere troppa confidenza in se stessi, siano ricondotti ad un più giusto sentimento del proprio valore, bisogna guardarsi bene di sopprimere tale confidenza in ciò che può avere di legittimo; senza di che ci si esporrebbe a Paralizzare ogni slancio ed ogni spontaneità, annientando oppure avvilendo con la eccessiva diffidenza che gli si ispira di se stesso, il soggetto della ironia, che ne diviene la vittima.

1096. In quali rapporti si trovano col vizio della imprecazione i quattro vizi della ingiuria, della detrazione, della sussurrazione e della derisione?

Tutti questi convengono nell’attentare con parole al bene del prossimo; ma mentre gli altri lo fanno per modo di proposizione o di male che si enuncia e di bene che si nega, la imprecazione lo fa per modo di male che si augura (LXXVI, 1, 4).

1097. È cosa essenzialmente cattiva questa?

Sì; è cosa essenzialmente cattiva ogni volta che si augura ad alcuno il male per il male; e di per sé un tale atto è sempre colpa grave (LXXVI, 3).

Capo XXV.

Peccati coi quali si inganna il prossimo e si abusa di lui: la frode e l’usura.

1098. Qual è l’ultima specie di peccati che si commettono contro la giustizia commutativa?

Sono i peccati con cui indebitamente si attira il prossimo consentire a cose di suo pregiudizio (LXXVII, Prologo).

1099. Come si chiamano questi peccati?

Si chiamano frode ed usura (LXXVII, LXXVIII).

1100. Che cosa intendete per frode?

Intendo quell’atto di ingiustizia che si commette nei contratti di compra o di vendita, per il quale ingannando il prossimo lo si induce a volere ciò che è un danno per lui (LXXVII).

1101. In quanti modi può avvenire il peccato di frode?

Questo peccato si può commettere in ragione del prezzo, inquantoché si compra una cosa per meno di quello che vale o si vende per più del suo valore; in ragione della cosa venduta, inquantoché essa non è ciò che sembrava, lo sappia o lo ignori il venditore; in ragione del venditore stesso che tace un difetto che conosce; ed in ragione del fine che

è la ricerca del guadagno (LXXVII, 1-4).

1102. Non si può mai, sapendolo, comprare una cosa a meno di quello che vale, o venderla per più del suo valore?

No; perché il prezzo della cosa che si vende o si compra deve sempre, nei contratti di compra o di vendita, corrispondere al giusto valore della cosa stessa; domandare di più o dare di meno sapendolo, è di per sé cosa essenzialmente ingiusta e che obbliga alla restituzione (LXXVII, 1).

1103. È contro la giustizia vendere una cosa per quello che non è, o comprarla diversa da quella che si crede?

Sì: vendere o comprare una cosa diversa da quella che sembrava, si tratti della sua specie, della sua quantità o della sua qualità, è contrario alla giustizia; ed è peccato e vi è obbligo di restituzione se si fa scientemente. Molto più tale obbligo di restituzione esiste, anche quando non vi è stato peccato, dal momento che ci si accorge di ciò che è veramente la cosa comprata o venduta (LXXVII. art. 2).

1104. Il venditore è sempre obbligato a manifestare i difetti della cosa che vende, in quanto li conosce?

Sì: il venditore è sempre tenuto a manifestare i difetti della cosa che vende, quando tali difetti da lui conosciuti sono occulti e possono essere per il compratore una causa di pericolo o di danno (LXXVII, 3).

1105. È permesso dedicarsi a compre e vendite sotto forma di negozio, soltanto a scopo di guadagno?

Il negozio per il negozio ha qualche cosa di ignobile e di contrario alla onestà della virtù; perché in quanto è da esso favorisce la sete del lucro che non conosce limiti, ma tende ad acquistare senza fine (LXXVII, 4).

1106. Che cosa ci vorrà dunque perché la mercatura divenga cosa permessa ed onesta?

Bisogna che il guadagno non sia inteso per se stesso, ma per un fine onesto. Così avviene quando il guadagno moderato che si cerca nella mercatura è diretto a sostenere la propria famiglia o ad aiutare gli indigenti; oppure si attende alla mercatura per una ragione di utilità pubblica affinché le cose necessarie alla vita non vengano a mancare alla propria patria o fra gli uomini, e si cerca il guadagno non come fine, ma come prezzo del proprio lavoro (LXXVII, 4).

1107. Che cosa intendete per peccato di usura?

Intendo quell’atto di ingiustizia consistente nell’abusare del bisogno in cui uno si trova, e nel prestargli del denaro, od altra cosa computabile a prezzo di denaro, ma che non ha altro uso che il consumo ordinato alle necessità del momento, obbligandolo a restituire questo denaro e questa cosa a data fissa con un soprappiù, a titolo di usura o prezzo dell’uso (LXXVII, 1, 2, 83).

1108. L’usura è la stessa cosa che il prestito ad interesse?

No; perché se ogni usura è un prestito ad interesse, ogni prestito ad interesse non è usura.

1109. In che cosa si distingue il prestito ad interesse dall’usura?

Il prestito ad interesse si distingue dall’’usura in questo, che vi si considera il denaro come capace di essere fruttifero, in ragione delle circostanze sociali ed economiche in cui oggigiorno vivono gli uomini.

1110. Che cosa occorre perché il prestito ad interesse sia permesso e non rischi di degenerare in usura?

Occorrono due cose: 1° che il tasso dell’interesse non superi il tasso legale o il tasso stabilito da una consuetudine ragionevole; 2° che i ricchi che abbondano del superfluo sappiano non mostrarsi esigenti verso i poveri che prendono in prestito non per fare un commercio di denaro, ma per il solo consumo e per far fronte alle necessità della vita.

Capo XXVI.

Degli elementi della virtù di giustizia: fare il bene ed evitare il male. – Vizi opposti: l’omissione e la trasgressione.

1111. Quando si tratta della virtù della giustizia, oltre alle sue diverse specie possiamo considerare ancora certi elementi che la costituiscono, come si è detto per la prudenza?

Sì; e questi elementi non sono altro che il fare il bene ed evitare il male (LXXIX, 1).

1112. Perché questi due elementi sono: propri della virtù della giustizia?

Perché nelle altre virtù morali, come la fortezza e la temperanza, non vi è da distinguerli, perché in esse il non fare il male si identifica col fare il bene; mentre nella virtù della giustizia, fare il bene consiste nel procurare che coi nostri atti regni la uguaglianza tra noi ed il prossimo; e non fare il male consiste nel non far niente che possa andar contro alla uguaglianza stessa tra noi ed il prossimo nostro (LXXIX, 1).

1113. Come si chiama il peccato contro il primo modo?

Si chiama omissione (LXXIX, 3).

1114. Ed il peccato contro il secondo modo come si chiama?

Si chiama trasgressione (LXXIX, 2).

1115. Di questi due peccati qual è il più grave?

In sè è più grave il peccato di trasgressione, benché una determinata omissione possa essere più grave di una trasgressione. Per esempio è più grave ingiuriare qualcuno che il non usargli il dovuto rispetto; ma se si tratta di un alto superiore, sarà più grave mancare al rispetto che gli è dovuto non rendendogli la testimonianza esterna che il rispetto richiede specialmente in pubblico, che non sarà un leggero segno di dispregio o una parola leggermente offensiva all’indirizzo di una infima persona nella società (LXXIX, 4).

LO SCUDO DELLA FEDE (169)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (V)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

IV. — Il Cristianesimo cattolico.

b) Schizzo di un’apologia interna.

D. Questo carattere integrale e organico della tua religione ti apparisce senza dubbio una seria presunzione in suo favore, voglio dire in favore di quella origine divina che tu le attribuisci.

R. Una tale presunzione, appunto, ai miei occhi è una prova formale. E io le riconosco una doppia forma: 1° il Cristianesimo cattolico è divino perché presenta una coerenza meravigliosa di tutti i suoi elementi tra loro, coerenza umanamente inesplicabile, e 2°, il Cristianesimo cattolico è divino perché offre, in tutte le sue parti, una capacità di adattamento alla natura e ai fatti, una capacità di reggere la natura e i fatti umanamente inesplicabili.

D. Sono tutte lì le tue prove?

R. Ce ne sono altre in gran quantità; ma in mancanza di altro, io stimo che queste potrebbero e dovrebbero convincere.

D. In che consiste la loro forza di convinzione?

R. Secondo Platone, il carattere delle idee vere è di maritarsi tra loro, e, per le stesse ragioni, il carattere delle idee vere in materia pratica è di adattarsi esattamente a ciò che esse devono reggere. Se dunque l’enunziato della rivelazione, che contiene una così grande somma di nozioni d’ogni specie, e va incontro a una massa anche più grande di fatti esteriori, si mostra a un tempo di una impeccabile unità sintetica e di una perfetta concordanza con tutto l’insieme dei fatti umani, io dico che questo è un segno di verità manifesta.

D. Questa perfetta convenienza, interna ed esterna, supposto che esista, non è forse semplicemente il segno di una notevole sapienza organizzatrice, ma affatto umana?

R. La tua obiezione è naturale; tuttavia, tu stesso sarai meravigliato di vedere quanto poco valore essa abbia. Pesa accuratamente, di grazia, quello che sto per dire.

D. Ascolto.

R. In nessuna parte, nell’universo religioso, si vede all’opera la sapienza organizzatrice « notevole, ma affatto umana » che tu supponi. Nessuno ha concepito i dogmi a titolo d’insieme; nessuno li ha proposti in blocco organicamente, come Sieyès la sua costituzione o Bonaparte il Codice. Il Credo non è un sistema di idee a priori che si sarebbe cercato di rendere coerente e ragionevole prima di consegnarlo ai fedeli, e che si sarebbe poi accuratamente conservato. Le nostre credenze sono agli antipodi di questo, esse poggiano su fatti, e su fatti che si ripartiscono sopra migliaia d’anni, nei dominii più disparati, comparendo, si crederebbe, a piacimento del caso, isolatamente, senza vincoli tra loro, salvo quell’inesplicabile finalità la quale fa sì che si trovino da per tutto dove è necessario, a guisa di quegli eroi da romanzi, disseminati per rapimenti, guerre o tempeste, e che si ritrovano in vista d’un matrimonio.

D. Che cosa intendi per fatti cristiani?

R. Intendo, non solo avvenimenti, ma anche parole, dichiarazioni di principii, enunziati di dottrine, precetti o suggerimenti pratici. E questi fatti, dico, appartengono a tutti i mondi, al mondo giudaico, al mondo evangelico e all’era cristiana tutta quanta; sono fatti grandiosi, come la risurrezione di Cristo o il Discorso del Monte, e umilissimi fatti, come quei che avvengono tra le nostre pareti domestiche o nei nostri cuori; fatti che riguardano tutte le razze e tutte le latitudini come pure tutti i tempi, e hanno il dovere di accomodarvisi. Questi fatti impegnano Dio, la natura e l’nomo; la morale, la storia, l’etnografia, la geografia umana e fisica, la linguistica, l’archeologia, la psicologia vi sono strettamente implicate. In questo gruppo incalcolabile di fatti, ce n’è una folla di arbitrari, di liberi e per conseguenza d’imprevedibili prima dell’avvenimento, ed anche questi saranno tenuti a concordare. Supponiamo che nel corso di tanti secoli di applicazione del regime della grazia, per esempio, l’idea della grazia si fosse modificata nelle teste come al tempo dei Pelagiani, o la nozione della penitenza si fosse modificata come sotto S. Clemente, o la teologia di Cristo stesso, come sotto Ario ed Eutiche, senza che una ferma autorità pensasse di interporsi per ristabilire la dottrina: da quale immenso perturbamento interno il dogma non sarebbe stato assalito! La religione oggi non sarebbe più la stessa; non sarebbe più atta vivere; non si reggerebbe più; quello che sarebbe allora la sua incoerenza, lo possono misurare solo quelli che hanno seguito con uno sguardo chiaro gli avanzamenti del pensiero cattolico. Supponi che un giorno un Papa, per errore o per passione, per pressione d’un partito o per capriccio, sotto l’influsso di un genio, di un principe o di una scuola particolare, si lasci andare a definire un dogma senza vincolo di necessità o di convenienza con gli altri: ecco la nostra unità dogmatica spezzata per sempre. Io cito questi casi tra centomila appartenenti all’ordine del tempo; se ne potrebbe citare altresì un gran numero a proposito delle razze, degli ambienti, delle circostanze, delle idee, delle persone. Qui le difficoltà possono sorgere da tutte le parti. Ebbene si è evitato tutto; si sono vinte tutte le antinomie e si è circolato tra tutte le insidie senza ricorrere ad alcun sistema di precauzioni, che del resto erano per lo più impossibili a prendere ed anche a conoscere. Tutto è stato inquadrato; ogni fatto nuovo risponde come a un appello, ogni dogma particolare corrobora l’insieme e vi si aggiunge per mille legami. E il tutto si adatta all’umanità individuale e sociale, ai suoi caratteri, ai suoi bisogni, alle sue evoluzioni, alla sua coscienza morale soprattutto e al suo senso religioso, con una evidenza di rigore tanto maggiore quanto più profondamente si studia e la nostra umanità da una parte e il dogma dall’altra. Infatti, come osserva Pascal, «la religione non fa che conoscere a fondo ciò che si riconosce tanto più quanto si hanno maggiori lumi ».

D. La fede, in tutto questo, non trova quello che essa cerca?

R. Essa trova quello che cerca e meglio ancora, sembra, quello che non cerca. Essa è una relazione universale. La sua profondità nativa la fa coincidere dovunque con l’esperienza. Essa non è sorpresa da niente, in bene o in male. Non è stata inventata, e sarebbe stato necessario inventarla perché la vita si spiegasse, perché la vita avesse i suoi soccorsi innumerevoli; perché avesse soddisfazione ne’ suoi istinti d’integrità, di giustizia, di sociabilità, d’ideale; perché non mancasse punto di consolazioni e di speranze; perché potesse essere preparata agli accidenti che l’attraversano, alle inquietudini che la turbano, e, in mancanza del resto, al suo vuoto. Ma ciò che non ha inventato l’uomo, esiste per un miracolo permanente il quale è giocoforza che sia constatato. Un filosofo poco credente, liberissimo di spirito, Novalis, scrisse: «Si potrà studiare il Cristianesimo ancora per delle eternità, ma esso apparirà sempre più alto, più molteplice e più magnifico ». Il più grande miracolo di Gesù Cristo non è di aver risuscitato dei morti, ma di avere rigenerato a fondo la vita e la coscienza dell’uomo; non è d’avere compiute le profezie giudaiche, ma d’aver realizzato quelle del nostro cuore.

D. Tu presti così al Cristianesimo una specie di necessità ideale.

R. Non è una necessità, ma una straordinaria convenienza che permette di dire: il Cristianesimo era in noi in qualche maniera, prima di essere in se stesso; vi era come una chiamata: Gesù Cristo ha portato come una risposta. E non c’è da dire, questa risposta è perfetta; è «un getto su natura » (AGOSTINO COCHIN). Nell’immensa estensione della vita e delle verità naturali che la esprimono, vi possono essere dei punti di attrito provenienti dalla nostra ignoranza o dalla nostra inesperienza, provenienti anche dalle inevitabili imperfezioni di un sistema che congloba i difetti umani; ma è impossibile rilevare una contradizione. C’è lì un mistero.

D. Non è forse misteriosa ogni nascita?

R. Tant’è che ogni nascita dimostra una causa proporzionata a ciò che nasce, e questo vale in favore del Cristianesimo ugualmente che per una nascita d’uomo. Chi, dunque, in seno alla madre, ha distribuito alle membra, agli organi, ai tessuti, alle cellule innumerevoli del corpo che ella ha generato gli elementi della sua propria nutrizione, in tal modo che questo corpo viva, sia un corpo, e il tipo così realizzato risponda a un pensiero ereditario, a un pensiero eterno? Forse che qualcuno ha disposto gli atomi con la mano? Parimenti nessun uomo o gruppo d’uomini ha organizzato industriosamente e adattato il nostro dogma. Esso è apparso allo stato frammentario, senza piano umanamente preconcetto; l’anima sua, simile all’idea direttrice dell’embrione umano, non è di questo mondo. E allora di qual mondo è?

D. Il sistema cattolico è fondato per pretendere a così alte meraviglie?

R. Il sistema cattolico, nel suo insieme, è l’organizzamento dell’infinito, Ecco un’impresa assai pericolosa per uomini! Vi si devono necessariamente introdurre delle cose che ci stupiscono, delle cose incredibili in se stesse, assurde, si oserebbe dire, se si prendessero a parte, come la presenza reale di un corpo organico, in un’apparenza di pane, come la Risurrezione, quel Ritorno dalle ceneri dell’altro mondo. Chi penserebbe a inventare tutto questo? chi potrebbe poi sperare di metterlo d’accordo, e di mettere d’accordo noi con esso, e ottenere in suo favore la compiacenza infinita del tempo e degli uomini? Ad ogni svolta si può produrre uno squarcio mortale, un fatto che ricalcitra, un agente di esecuzione che fallisce, una dottrina che trionfa e può farsi vedere caduca, uno scioglimento profondo come quelli dei ghiacci che l’inverno aveva ammucchiato e che il sole di primavera disgrega. Nessuno interviene per impedire qualche cosa; una turba di gente è lì per compromettere tutto e tutto cammina a seconda; il sistema funziona, per la grazia d’una potenza immanente che la Chiesa rappresenta, ma che essa non conosce.

D. La Chiesa cattolica può forse ignorare il suo proprio funzionamento?

E. Lo ignora nella sua sintesi completa, nella sua legge misteriosa, che è una grazia di vita, non di cognizione lucida. Gli uomini organizzano con perspicacia degli insieme ristretti; Dio organizza con chiara visione l’insieme totale delle cose; la Chiesa, che organizza da parte sua, entra nell’organizzazione di Dio che conosce la sua portata, che sa dov’essa conduce; per una ispirazione interiore, essa s’adatta all’insieme e lo serve; ma quest’insieme e tutta la somma di provvidenza che vi si dispensa, la Chiesa non ha la grazia di discernerlo.

D. Donde viene a questo gran corpo di dottrine, di fatti e di esseri, il suo « sublime » discernimento?

R. È quello che io domando. Non vi è convergenza del caso; non vi è concorso di illusioni disperse. Una concordanza non ideologica, ancora una volta, ma sperimentale, che la pratica individuale e sociale conferma, che ha la firma dei fatti, questa concordanza estesa in tutte le direzioni e in tutti gli ordini, magnifica per altezza e per profondità, oltre le sue dimensioni temporali e spaziali, vuole una spiegazione.

D. La falsità non ha essa pure le sue riuscite?

R. La falsità è come i bugiardi, si contradice sempre; solamente la verità piena non si prende mai in fallo. «Tu credi alla scienza perché aduna molti fatti, scrive Giacomo Rivière: tanto più devi credere alla religione, perché essa li raccoglie tutti ».

D. Divina istituzione, insomma?

R. Non è forse proprio di una istituzione divina, lo sposare in tutti i suoi contorni e in tutti i suoi annali l’umana e universale realtà? Se il Cattolicismo comprende tutto, non è forse perché esso è al di sopra di tutto, perché il suo Dio è al di sopra di tutto, perché il suo Cristo è il riformatore di tutto, perché lo Spirito che lo governa è la guida suprema di tutto? Nessuna rivelazione riesce bene e neppure ha valore se non è una confermazione; ma ancora una confermazione integrale, e sotto questo aspetto precisa, non si dimostra forse come un’autentica rivelazione? Chi avesse potuto inventarlo avrebbe potuto concepire un universo, e concepire un universo non appartiene se non a chi lo può creare: questa è opera divina.

D. Ciò mi sembra importante, e vorrei penetrare meglio il tuo pensiero.

R. Bisognerebbe esplorare i particolari, e ciascuno di essi porterebbe seco la conclusione con una certezza crescente. Preciserò solo qualche caso. – Tutto quanto il dogma dipende dal quadruplice fatto della Trinità, dell’incarnazione, della redenzione e della grazia. La Trinità è un’espansione di Dio in se stesso. L’incarnazione è una manifestazione della Trinità in missione umana. La redenzione è il lavoro del Dio incarnato, della Trinità manifestata e data, lavoro che include tutta la storia, dalle origini fino «all’ultimo avvenimento », nel quale tutto si deve concludere. La grazia è il dono stesso secondo che egli è nell’uomo in virtù dell’incarnazione redentrice e delle missioni trinitarie, e la grazia prende tutte le forme della vita, anzitutto la forma individuale e la forma sociale, con tutti gli aspetti che, nell’ora stessa e nel corso di tutti i tempi riveleranno la vita fisica, la vita morale, la vita professionale, la vita domestica, la vita politica, la vita ecclesiastica, la vita sacramentale e la vita mistica. Tutto questo forma un insieme infrangibile, di una coerenza meravigliosa, che dà soddisfazione alla mente sempre più in proporzione che vi penetra, rispondendo ai più alti pensieri e alle più intime aspirazioni dell’uomo riguardo al divino: infatti è questo il divino eretto, se così posso dire, dalla Trinità, al di sopra di ciò che la ragione ne poteva conoscere, ma è soddisfazione della ragione, come dovremo poi far vedere, ed è poscia il divino ridiscendente in fascio nel creato, per il canale di Cristo, in forme che sposano tutte quelle del creato, riproducono i suoi caratteri, sopraelevano i suoi poteri e li utilizzano senza sforzo né mutilazione.

D. È questa la tua sintesi dogmatica?

E. Ne è uno schema. La Trinità, vita di Dio in se stesso; l’incarnazione, prima tappa delle comunicazioni; la grazia, seconda tappa che utilizza la nostra unità solidale nell’Uomo Dio; la Chiesa, mezzo sociale di un’ampiezza e di un’organizzazione ammirabile, mai interamente penetrata, mai uguagliata; i sacramenti, mezzi della Chiesa e di Cristo che comprendono tutta la vita per rigenerarla, nutrirla, purificarla, fortificarla, reggerla e perpetuarla fino alla vita eterna: si ha il diritto di dire che questo solo risponde pienamente, a fondo, nello stesso tempo trascendentalmente ed esattamente, al senso religioso che l’analisi constata in tutti gli uomini, e gli dà una sovrabbondante soddisfazione.

D. Ad ogni modo io registro il fatto.

R. È tutto quello che io domando. Ma ecco! quest’insieme, espresso schematicamente, ma i cui aspetti sono innumerevoli, conglobando direttamente o indirettamente tutto ciò che è, non può mancare di essere eccessivamente delicato, I teologi lo sanno; alcuni lo sanno anche troppo. Entrandovi, la mente si trova in un terribile ingranaggio; sbagliato il minimo pezzo, è tutto il sistema che non funziona più e non può più servire. Oltreché la complessità è estrema, i legami sono rigidi; niente caucciù lì dentro, niente batuffoli di ovatta; metallo, sempre. Lo stesso Renan, per esperienza, disse: « La teologia cattolica è formata di blocchi di granito legati insieme da ramponi di ferro ». Ora tutto ciò, com’è ben manifesto, non è stato elaborato, umanamente, da nessuno.

D. Non vi sono delle fonti?

R. Se si cercano fonti per ciascuno enunziato di fatto o di dottrina, se ne trovano; ma questa necessità di laboriose ricerche prova già quello che io affermo. Queste fonti si presentano allo stato frammentario e senza nessi visibili. Non si sa ben determinatamente donde ciò esca fuori, La Bibbia è una selva dottrinale. Lo stesso Gesù Cristo si è espresso senza alcuna cura di segnare la coerenza de’ suoi discorsi, a seconda dell’insegnamento. Egli gettò la sua parola alle turbe, e nessun Platone e nessun Senofonte era presente per stabilirvi un ordine, per interpretarla sapientemente o anche per raccoglierla stendendola accuratamente per iscritto.

D. Gesù ebbe dei discepoli.

R. I suoi discepoli fecero come Lui; vissero religiosamente e fecero vivere; insegnarono, ma non costruirono nessuna teologia sistematica; spiegarono dei fatti e ne trassero delle regole pratiche; i loro scritti sono scritti di circostanza, concepiti in vista di un’utilità immediata; i principali, dopo le quattro raccolte di note chiamate Vangeli, sono le Epistole, vale a dire delle lettere. I fatti, le parole e i precetti sacri passarono di là in una tradizione in cui dominavano uomini senza cultura, e la cui mente era orientata in tutti i sensi. Ciò non si è elaborato se non più tardi, e l’elaborazione, notalo bene, consistette nel mostrare l’accordo, non nel crearlo.

D. La Teologia non è una fattrice d’ordine?

R. La teologia mette in luce l’ordine; ma non lo crea punto. La teologia non crea nulla; getta dei ponti d’idee tra certi fatti, tra certi dati che non le appartengono in alcun modo; essa si deve servire di ciò che è, senza modificarlo mai, quand’anche lo potesse, e per lo più, presa la posizione immutabile, essa non lo potrebbe. L’astronomia che inventa un sistema del mondo non crea gli astri.

D. L’accordo così manifestato, secondo te, era dunque nelle cose stesse?

R. Esattamente, e per conseguenza in qualche mente collocata al di sopra delle cose: ecco quello a cui io voglio venire.

D. Quale mente?

R. Lo domando a te stesso. Quale mente assegnare, per un insieme a un tempo disperso e organico di tanti elementi, di tante dottrine delicate ed astruse, di tante asserzioni nuove e generalmente sorprendenti, di tanti fatti gli uni passati o presenti, gli altri futuri, che avvolgono tutte le cose umane? Quale mente, se non una mente sovrumana?

D. Perché parlare di cose future?

R. Perché se l’accordo intimo dei dogmi poté essere messo in luce abbastanza presto, avviene affatto diversamente dell’adattamento del dogma, di ciascun dogma, all’insieme e ai particolari di tutti i fatti ai quali una religione universale e permanente si dovrebbe un giorno applicare. Un tale adattamento, per essere così anticipatamente assicurato, non suppone forse una cognizione antecedente o un’intuizione superiore di tutto il contenuto e di tutto lo sviluppo della natura umana, di tutte le sorprese della storia, di tutte le richieste future della civiltà? Chi ha potuto far prevedere ai primi apostoli, quando predicavano la dottrina dell’Uomo Dio, lo sfolgorante successo di questa dottrina straordinaria, incredibile per i pagani, scandalosa per i Giudei; i suoi frutti incomparabili di santificazione; la sua riuscita per Dio stesso, se così posso dire, per il fatto dell’avvicinamento insperato del Creatore e della creatura sopra questo terreno vivente; la potenza con la quale questa dottrina ha attratto le anime, le ha strappate a se stesse, le ha sollevate, le ha lanciate in tutte le imprese, le ha sottomesse a tutti gli sforzi, piegate a tutte le discipline, pacificate in tutte le loro sofferenze, esaltate nei loro sentimenti più generosi, più larghi e più intimamente beatificanti, le ha avvinte a sé con una tenerezza che non si ha per un padre, per un fratello, per un amico, neppure per uno sposo o una sposa, poiché per Lui si è rinunziato alla sposa, allo sposo ed è stato dato a Lui stesso questo nome?

D. Ammetto che ciò sia prodigioso.

R. Pensa al culto della croce, a quello del tabernacolo, a quelle messe che fanno il giro del mondo col sole, a quelle comunioni che inondano i cuori di calorose gioie, e a quelle liturgie che le accompagnano con un decoro non solo spirituale, ma estetico, infatti di lì procede tutta l’arte cristiana. E pensa che si trattava di milioni di esseri, d’una folla d’istituzioni, d’una costellazione di popoli, e di quanti secoli, dopo che il ventesimo è sorto?

D. Ragioni questa volta a proposito dell’ordine sociale?

R. Di fatti! Nell’ordine sociale, chi ha detto a Pietro il barcaiolo e a Paolo di Tarso, a Gesù stesso, che ci sarebbero un giorno dei barbari da incivilire, una situazione imperiale da liquidare, dei re da domare, delle terre immense da dissodare, delle turbe da istruire e da educare, dei comuni da organizzare, delle corporazioni da formare, delle guerre da ridurre o da temperare, una Cristianità da mantenere coerente in un tempo di turbolenta anarchia? ecc., ecc.

D. La religione non ha fatto tutto questo da sola.

R. Io non lo pretendo affatto. Vi ha però collaborato in un modo che si può chiamare materno, nel senso proprio della parola. E per collaborarvi così, non bisognava forse che essa fosse a ciò adatta di sua natura stessa, che il suo principio concordasse con ciò che si può chiamare il principio o lo spirito incivilitore?

D. Tutto ciò è molto lontano da noi.

R. Ma per più tardi, negli stessi tempi nostri, chi ha detto al pescatore d’uomini che vi sarebbe una democrazia da moralizzare, un regime del lavoro da rinnovare, una società internazionale da creare, un capitalismo, un sindacalismo, immensi corpi sociali che offrono dei problemi come nessuno ne conosceva né poteva sospettarne una volta? Chi disse loro che in questi giorni, le soluzioni sarebbero tanto più difficili in quanto che il sentimento della personalità umana e del valore individuale si svilupperebbero nei gruppi sociali come mai si erano sviluppati; che le distinzioni artificiali tra gli uomini sarebbero sempre più ripudiate e cancellate dalle costituzioni politiche; che la vita pubblica sarebbe obbligata a piegarsi a principii di uguaglianza a volte eccessivi, ma in fondo umanissimi e nobilissimi, e che questo non andrebbe scompagnato da furiosi dibattiti e da terribili scosse? Chi, dunque, chi ha potuto far presagire tutto questo agli organizzatori della fede,

D. Io non ne vedo la necessità.

R. Io la vedo in ciò che, in questo nuovo campo, l’adattamento non è meno perfetto di quello che fosse al principio dell’era cristiana; anzi lo è infinitamente di più. Quanto più l’umanità progredisce, tanto più il Vangelo le conviene e le è necessario.

D. Il Vangelo non entra in causa.

R. Io parlo del Vangelo vivente, della Chiesa, e della dottrina precisa della Chiesa. Metti in presenza tutti i fatti contemporanei e il dogma cattolico; fa la critica dei loro rapporti mediante un’analisi comparativa ben condotta, e io ti prometto una meraviglia. I nostri sociologi moderni non sospettano ciò che essi trascurano, Io scrivo freddamente, pronto a provarlo, che questi sapienti «avanzati» sono dei retrogradi; che essi hanno fatto indietreggiare, per cecità spirituale e per presunzione la scienza reale, la scienza profonda degli assettamenti umani, che si trova appunto nel dogma, ad ogni modo importata da esso, concordante con esso e dipendente dal suo aiuto. Lo stesso avviene dell’economia domestica moderna, del regime individuale moderno, che più ancora che i regimi antichi trovano nel dogma cattolico e in esso solo la loro consistenza morale e le loro garanzie di progresso.

D. La tua Chiesa avrebbe dunque risposto a tutto?

R. In nessun modo, e mi preme anche di protestare, come ho fatto molte volte, contro quei che domandano alla religione delle soluzioni che non dipendono se non dalla tecnica e dall’umana esperienza. A ciascuno il suo compito. Ma se tu vi rifletti seriamente, vedrai che alla radice di tutte le difficoltà umane, si trova una o più difficoltà morali, e sono quelle che la Chiesa risolve. In certo modo, nulla di questo mondo la riguarda, poiché essa non è di questo mondo, e tutto la riguarda, perché questo mondo ha tutte le sue radici nell’altro, come la pianta nella terra e nel cielo. La Chiesa, se vuoi, non apre alcuna porta; ma fornisce tutte le chiavi-

D. Non tutti la pensano così.

R. È possibile; eppure, io pretendo di dimostrarne a chi vorrà la verità smagliante. E del resto, in mancanza di una confessione di verità, non è forse sufficiente che una tale pretensione si possa anche solo enunziare; che essa non sia ridicola; che, in una discussione serrata, abbia per sé la minima probabilità seria? Riguardo a una dottrina che risale a venti secoli e predicata da pescatori, tu mi confesserai che questo è già un bel miracolo.

D. Si trattava di una prova.

E. Se si può dire che per il nostro tempo la prova non è fatta, non lo si può dire per il passato, che è acquisito, e che dimostra la coincidenza perfetta del dogma cattolico con la vita, col movimento storico, con la civiltà. Un’altra sola dottrina, religiosa o filosofica, oserebbe qui presentarsi in concorrenza con la dottrina di Cristo? La si attende nella lizza.

D. Ma tu non hai detto come la Chiesa conserva e svolge il deposito che le fu affidato; sta forse lì il segreto de’ tuoi «miracolosi» adattamenti tra il dogma una volta acquisito e î fatti umani.

R. Aspetta! La Chiesa è lei stessa un dogma; sarebbe troppo facile riguardarla come piovuta dal cielo senza farne onore al cielo. La Chiesa è un dogma che ne contiene molti altri, come quell’ammirabile comunione dei santi, sopra la quale bisognerà ritornare, e come l’infallibilità la cui importanza è qui visibilissima. Ora il dogma della Chiesa, della Chiesa infallibile, ci fornisce uno di questi segni di coerenza che io rilevo; perché  esso è legato con un vincolo così necessario ai dogmi della Trinità, dell’incarnazione, della redenzione, e della grazia, che non è possibile separarnelo.

D. Sotto quali rapporti tu ve lo annetti?

R. Sotto il rapporto della loro manifestazione, della loro conservazione e della loro utilizzazione. Il dogma della Chiesa è indispensabile alla manifestazione degli altri; perché la vita interiore della Chiesa è fatta del commercio della Trinità, se mi è lecita l’espressione, con gli uomini invitati alla sua intima dimestichezza. Essa stessa, la Chiesa, è come un’incarnazione e una redenzione continuata, una grazia sociale, pegno e mezzo di tutte le altre, conforme alla nostra natura, che è altresì sociale, e temporale, e sensibile. Il dogma della Chiesa è necessario inoltre all’utilizzazione degli altri dogmi, per gli stessi motivi tratti dalla nostra natura, donde risultano i nostri bisogni individuali e sociali. Ed è non meno necessario alla loro conservazione; perché senza la Chiesa insegnante, e infallibilmente insegnante, tutti i dogmi, compreso quello della Chiesa madre delle anime, sono abbondonati a tutte le variazioni e dati alle bestie.

D. Lo spirito conservatore della Chiesa non è sufficiente garanzia?

E. Lo spirito conservatore della Chiesa appartiene a ciò che io asserisco; del resto esso non potrebbe impedire lente derivazioni. Appunto a questo proposito, un illustre protestante, Augusto Sabatier, dopo ampia discussione, conclude con questo dilemma: o accettare la Chiesa infallibile, o rinunziare a ogni dogma. Egli per conto suo, rinunzia a ogni dogma; ma la sua testimonianza è giusta. Si ha il diritto di dire: Senza la Chiesa sparisce tutto quello che è cattolicismo, e senza le prerogative essenziali che la Chiesa a sé attribuisce, sparirebbe lei stessa. Questa, credo io, è coerenza.

D. Ma come si è stabilito questo dogma della Chiesa?

R. Tanto poco artificiosamente quanto gli altri, per il proprio gioco dei fatti, in virtù di parole, di gesti e d’interventi sporadici. Alcune dichiarazioni semplicissime di Gesù ne sono il punto di partenza, e si crede di metterci nell’imbarazzo dicendo che vi è sproporzione tra queste dichiarazioni e l’immensa macchina attuale, o anche con i suoi abbozzi primitivi, le Chiese di Barnaba o di Paolo. Ma questa sproporzione è per noi un trionfo; io ne concludo che questo ha germogliato affatto da solo, come la pianta quando si è gettato il grano. Il grano germoglia e subito vede tutta la vita della natura collaborare seco, perché? Perché anch’esso è vita, perché vi è in esso uno spirito di vita. Io chiedo qual è, per la Chiesa, lo spirito di vita. Le scosse dei primi giorni, e poi i venti della storia avevano tutto quello che ci voleva in fatto di violenza e di capriccio per sradicare un germoglio senza vita ardente, senza vita miracolosamente salda: a più forte ragione non avrebbero fecondato un germe senza vita.

D. Anzitutto io parlavo della conservazione del dogma.

R. Infatti, vengo ora alla tua domanda: come la Chiesa, così stabilita, ha conservato tutto il resto? Coi medesimi procedimenti tanto poco artificiosi quanto era possibile; coi procedimenti della vita. Un’autorità decide, proprio, come nel vivente, un ordine parte dal cervello per mettere in azione gli organi. Ma nello stesso modo che il cervello non fa altro che servire l’idea vitale inclusa in tutto il corpo e da cui procede esso stesso: così l’autorità dottrinale non fa altro che prestare una voce al dogma immanente nella turba cristiana. Essa non pretende di innovare niente; ma consacra. Essa s’informa precedentemente; ma non in aria, astrattamente; consulta la massa vivente per sapere che cosa essa porta seco. Assistono dei teologi per secondarla; essa riapre i suoi grandi libri: la Bibbia, gli scritti dei Padri, quelli dei dottori illustri, la Somma di S.Tommaso D’Aquino, e i teologi viventi si sforzano d’interpretare questo insieme. Ma i teologi, come ho detto, si son guardati bene dal creare qualche cosa; essi riducono a sistema, ecco tutto il loro compito personale; quanto al resto, raccolgono ed adunano.

D. E dove attingono essi?

R. Te lo dico: nella vita, nella pratica corrente, nelle forme della preghiera, che rivelano loro il «senso della Chiesa », il suo contenuto spirituale, l’anima sua. La tradizione e l’applicazione spontanea, l’unica attestazione del che se ne fa sono così l’unica attestazione del « deposito ». Se l’autorità insegnante riflette, e molto, prima di decidere qualche cosa, la sua riflessione non ha che questo oggetto: quale è il deposito? che cosa contiene il germe? Proclamando tale dottrina, restiamo noi nella specie umano-divina che è il frutto della nostra istituzione, oppure creiamo un ibrido in cui la vita autentica non continuerebbe.

D. E chi finalmente deve dire l’ultima parola per decidere?

R. Tu penseresti che sia il più sapiente, il più influente, il più esperimentato, il più religioso, il più santo, o comunque colui che, nella stima altrui, aduna in sé tutti questi vantaggi! Niente affatto. È un uomo che generalmente è dotato e competente in una sufficiente misura, ma che può anche non esserlo e che a volte non lo fu punto; egli è l’eletto di una maggioranza del caso, un giudice che non offre alcuna garanzia speciale, salvo che egli è regolarmente investito come successore di Pietro e con ciò diventa l’erede della promessa.

D. Questo veramente ti basta?

R. Con questo tutto Va bene; la vita continua; nessuna alterazione si produce; nessuna perdita minaccia, la coerenza dogmatica non si smentisce mai; si evitano delle difficoltà alle quali soccombono le più grandi menti, quando speculano per loro conto; l’adattamento all’umanità e alle sue miriadi di condizioni si manifesta sempre più ricco, come lo accertano oltre i risultati della vita, gl’immensi lavorio di confrontazione e di approfondimento a cui si dedicano i teologi, storici e i sociologi di tutti i tempi. Pascal direbbe: ciò supera l’uomo.

D. L’adattamento di cui parli è solamente sociale, o anche individuale?

R. Bisogna che sia individuale per essere sociale; perché, ad onta dei sociologi inesperti, la società prende i suoi caratteri appunto nel cuore dell’individuo e nel quadro della famiglia, individuo completo. Una dottrina di vita ha dunque il dovere di adattarsi a tutte le particolarità individuali legittime, a tutte le attitudini, a tutti i temperamenti morali, a tutti gli stati di vita, a tutte le professioni; altrimenti la sua nozione stessa e specialmente i suoi mezzi non avrebbero niente di concreto; non sarebbe che uno schema senza utilità realmente pratica. Ogni cristiano dovrà indubbiamente sentirsi figlio di Cristo, partecipe della sua salute, stimolato da Lui a vivere conforme alla legge di amore e a tutte le sue conseguenze comuni; ma nello stesso tempo egli si sentirà una « vocazione », delle «chiamate», un ideale proprio, un « dovere di stato », delle «grazie di stato », e anche delle «grazie attuali», vale a dire grazie di atto, grazie per ciascun atto e che ne prenderanno la forma; a tal segno che egli saprà di essere stato preso di mira nella singolarità del suo caso e della sua persona.

D. Di ciò vi sono tracce antiche?

R. È quello che fa vedere la dottrina cattolica prima ancora della sua nascita effettiva, nella persona del Precursore. Giovanni Battista non raccomanda a tutti quello che fa egli stesso; parla ai soldati dei doveri del soldato, al pubblicano, al doganiere dei doveri dell’esattore delle imposte. Gesù alla sua volta, pur lodando il Battista come il più grande degli uomini, ha cura di notare che non farà come lui; Egli proclama la varietà; la consacra con la sua azione, che parte sempre dal fatto personale, dal caso e dalla disposizione presente; e ne dà questa ragione sublime: Così la Sapienza sarà giustificata da tutti i suoi figliuoli, cioè dall’insieme de’ suoi figliuoli.

D. Ciò è continuato indubbiamente?

R. Più tardi, i santi, quelli che tra i fedeli incarnano meglio la dottrina, non si dànno alcun pensiero di rassomigliarsi; sono dei potenti originali, a volte fino all’eccentricità, come lo Stilita, Benedetto Labre o Filippo Neri. Non hanno neppure la cura di rassomigliare a se stessi nelle varie fasi della loro vita; essi seguono lo Spirito; ma lo Spirito è uno; tutti vivono del medesimo succo, che si mostra così conveniente alle piante umane e alle più disparate forme di evoluzione umana.

D. Vi sono altri segni di questa verità?

R. Eccone uno: tra le persone che vivono attorno a noi, se ne vedono di quelle che aderiscono o ritornano alla Religione Cattolica per le ragioni più diverse: ragioni propriamente religiose, ragioni sociali, ragioni politiche, ragioni estetiche, ragioni sentimentali, delle quali ben si vede il lavoro, nel corso di una procedura che si sforza di oltrepassarle. Ciascuno ha cercato il suo adattamento personale, l’ha trovato e si figurerebbe volentieri che la Chiesa sia fatta specialmente per offrirgli quello che a lui importa. Ma un altro ha raggiunto la verità da un altro lato, un terzo da un altro ancora, e tutti insieme ne provano l’integrità, il carattere compito, come una statua ben riuscita è dimostrata conforme alle leggi dell’equilibrio delle masse e della giustezza dei profili, dove si svela la forma perfetta. «In fondo, è il Cattolicismo che noi oggi cerchiamo tutti », scriveva recentemente un giovane Ebreo convertito (MARCELLO SCHWOB).

D. Donde viene la tua fiducia in un simile adattamento per l’avvenire?

R. Dal fatto che l’avvenire di cui tu parli è un avvenire di uomini, e che s’incontra necessariamente quest’avvenire incontrando l’uomo. Per il Cattolicismo, essere un risultato autentico del passato, una sintesi perfetta del presente e un’esatta previsione dell’avvenire, è la stessa cosa.

D. Ma l’uomo aspira al progresso.

R. Se queste speranze di progresso si effettuano, io dico che la ricchezza dell’adattamento andrà sempre crescendo; perché la nostra fede rappresenta un ideale. Essa si offre ad un’umanità imperfetta con tutto quel che ci vuole per trarre partito dalle sue imperfezioni; ma spinge di sua natura al perfezionamento e in seguito vi si accorda. Di tappa in tappa, può condurci, e seguirci, e condurci ancora, fino all’impossibile ideale di Cristo: Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto.

D. Una tale dottrina della vita non sembra un po’ fuori della vita?

R. Essa è la vita stessa. La vita non è altro che uno sforzo più o meno riuscito verso l’ideale, un eroismo, come dice William James. Ciò non si oppone per nulla alla semplicità e al senso pratico. La fede cattolica è tanto pratica quanto ideale, tanto semplice quanto profonda e ricca. Ce n’è per i pastori e per i magi, per i passeri e per gli elefanti. Chiunque, grande o piccolo, ritorna in sé e si trova collocato in faccia ad essa, la riconosce.

D. Allora, perché discutere?

R. Si discute con l’ineredulo, per forza; egli non si vorrebbe arrendere senza argomenti; gli argomenti sono la sua difesa istintiva, le sue armi. Ma in fondo, lo slancio decisivo non viene dalla disputa, ma dalla connaturalità ben manifestata, poi riconosciuta, del Vangelo e dell’anima, del dogma e della vita. La verità è una cosa « tanto naturale quanto il sole e l’acqua fresca, scrive Paolo Claudel, tanto facile all’anima quanto il pane e il vino ». Per questo il povero incredulo, una volta fatto il passo, è di solito stupefatto del tempo è degli sforzi che gli occorsero per varcare un abisso che non esiste.

D. Tuttavia, nel dogma, si rilevano apparenti contradizioni.

R. Non vedi che queste contradizioni dipendono appunto dalla sua pienezza e dalla sua integrità? Quando si tiene tutta la strada, si tengono i due fossati, e si trova sempre qualcuno che ti dice: tu sei troppo a destra; tu sei troppo a sinistra; oppure: tu raccomandi nello stesso tempo la destra e la sinistra. Al che il Cattolicismo risponderebbe: È vero, ma io armonizzo tutto. Il dogma è il maestro della giustezza; esso raduna in sé tutto e spinge tutto alla sua pienezza, senza che vi sia nulla di discorde. Ma abbracciando tutta la vita, deve sembrare che esso si contraddica; perché le circostanze della vita sono infinitamente diverse, e quello che conviene oggi o qui, domani o là, si fa vedere contrario. Onde, per questo solo che abbiamo definito la dottrina cattolica una relazione universale, potremmo definirla, per il fatto delle sue opposizioni apparenti: un paradosso universale; ma ciò sarebbe una suprema lode.

D. Ti farebbe dunque piacere l’opposizione degli estremisti e nello stesso tempo quella del « giusto mezzo »?

R. Esattamente per la stessa ragione, Le persone estreme sono estreme non perché raccomandano un estremo; ma perché non ne raccomandano che uno solo. Quelli che tu chiami del «giusto mezzo» si tengono in un posto intermedio donde non si sprigiona nessun orizzonte. La dottrina cattolica tiene tutto lo spazio, ed è lontana dalla mediocrità quanto dalla parzialità di questo o di quel dato estremo. È quello che aveva profondamente colpito Pascal in ciò che riguarda l’eminente dignità e la miseria dell’uomo, con tutte le loro conseguenze. La fede cristiana è al confluente di questi contrari e ammette diversamente l’uno e l’altro. Essa è ottimista e pessimista a fondo, secondo il punto di vista da cui uno si colloca. Esalta a un tempo il misticismo e la positività, l’austerità e la gioia, la verginità e l’amore, la sollecitudine di se Stesso e il generoso sacrifizio, il dolore e la felicità, la libertà e la subordinazione, l’uguaglianza e la gerarchia, la pace e la giusta guerra, la dolcezza e la fermezza, la prudenza e la facile confidenza, l’abbandono alla Provvidenza e il lavoro, la fede e le opere, il libero arbitrio e la grazia, il distacco e l’ardore di vivere, la misericordia e la giustizia, la pietà e la bontà paziente in tutte le tappe della prova terrestre, e la necessaria implacabilità del supremo giudizio.

D. Lì, ce n’è per tutti!

R. Sì, ce n’è per tutti al positivo; ma ce n’è anche per tutti al negativo, cioè, vi è di che suscitare delle opposizioni da tutte le parti, e dei rimproveri e delle contese che si distruggono a vicenda quando si mira la totalità, ma che, lasciate ciascuna a se stessa, sembrano giustificate e turbano le teste. È la luce totale del Vangelo che, offendendo tutti per una ragione o per un’altra, accumula attorno a sé le nubi. Così il sole è offuscato dagli effetti del suo proprio irradiamento.

D. Non è così delle altre dottrine?

R. Le altre dottrine mi offrono precisamente la controprova di ciò che io affermo. Non ce n’è nessuna che non risponda a qualche punto di vista del pensiero e a qualche esigenza della vita. Ciò che non corrispondesse a niente non si potrebbe far riconoscere, poiché il bisogno che si crede di averne è quello stesso che lo crea. Ma la concordanza col bisogno umano non è mai se non parziale; si afferma una verità, se ne dimentica un’altra complementare, come noi lo davamo a giudicare un po’ più sopra. « La loro colpa, dice Pascal, non è di seguire una falsità, ma di non seguire un’altra verità ». « Perciò, aggiunge egli, il mezzo più spedito per impedire le eresie (0 tutti gli errori di qualsiasi genere) è istruire su tutte le verità, e il più sicuro mezzo di confutarli è dichiararle tutte », sapere tutte le verità.

D. Queste dottrine che tu dici insufficienti possono essere coerenti in se stesse?

R. Ciò non è possibile. Da questo difetto di adattamento alla realtà, che si chiama errore, risulta necessariamente, in materia religiosa, un’incoerenza interna. Ciò che ha rapporto a tutto e non si adatta a tutto non si può adattare a se stesso. Una chiave universale che non apre certe porte dimostra un difetto che si dovrebbe riconoscere anche prima di tentare di aprire.

D. È tale il caso di tutte le dottrine di cui parlo io?

R, Tal è il caso di tutte le dottrine tranne la sola dottrina cattolica. Tutte offrono un carattere di parzialità facile a svelarsi, delle dimenticanze che nel Cristianesimo cattolico fanno brillare la sua trascendente esperienza, delle mutilazioni che, per trovare il rimedio invitano a ricorrere a Colui « che sapeva quello che è nell’uomo » e alla sua rappresentanza autentica, la Chiesa.

D. Così tu rifiuti ogni parità!

R. Di tutte le dottrine ce n’è una sola che sia sensata, ed è quella che si dice soprannaturale; ce n’è una sola che sia umana, ed è quella che si presenta come divina. Tutto il vasto movimento di riflessione e di indagini al quale si dedicano gli nomini, checché ne sia di passeggere fluttuazioni e di fuggitive esperienze, non è diretto che a una cosa: rovesciare le dottrine avversarie della fede e confermare la fede; convincere d’insufficienza e d’inumanità parziale tutto ciò che non è la pura e semplice verità cattolica, e giustificare la Chiesa Cattolica.

D. Certi dicono tuttavia che la religione va morendo; si dice perfino che sia morta.

R. È forse per questo che la questione religiosa, la quale, nel mondo civile, si è sempre confusa con la questione cristiana, e si confonde sempre più con la questione cattolica, è quella che domina apertamente o sordamente tutte le altre? Strana morte, quella che riempie il nemico d’inquietudine e il cimitero di rumore!

D. Quello che tu chiami il nemico, appartiene indubbiamente prima di tutto al mondo politico?

R. Difatti. Ora la società politica riconosce la Chiesa poiché si difende da essa. La società politica riconosce il pregio della Chiesa, poiché gareggia d’influenza con essa, poiché applica sotto altri nomi i suoi principii civilizzatori.

D. Si sente dire che l’istituzione cristiana ha fallito al suo compito e che la sua ricerca d’un ideale di umanità è finito in una sconfitta.

R. Il mondo non è finito. La « sconfitta » del Cristianesimo è la nostra civiltà! Vi è una sconfitta relativa in ragione delle nostre infedeltù e delle nostre resistenze; vi è però un trionfo, trionfo parziale che un’altra éra ha per missione di completare.

D. Attribuisci dunque ad onore del Cristianesimo tutta la civiltà?

R. In questo io non faccio altro che ispirarmi ai più grandi annalisti e ai pensatori meno cattolici: Renan, Taine, Harnack, Guizot, Agostino Thierry, Disraeli, Strauss stesso, che, dopo avere tentato di scoronare Cristo, scriveva a suo dispetto: « La morale di Cristo è il fondamento della civiltà umana ».

D. Vedi bene! si tratta della morale, e non del dogma.

R. Conosci tu una morale di Cristo che “operi storicamente” e che sia indipendente dal dogma? Invano si pretende che il Vangelo in se stesso sia una pura morale e che il dogma sia una creazione ecclesiastica. Ma questo non ci interessa. La morale di cui si parla così non consiste che in belle sentenze. Si fa parlare Gesù « come un libro  »; ma non è un libro e neppure il suo, che ha rinnovato il mondo; è un’istituzione vivente, operante, senza la quale il libro chiamato Vangelo non avrebbe maggiore importanza umana e influenza incivilitrice che il Manuale di Epitteto o il Baghava-Gita. Ora l’istituzione vivente e operante uscita da Cristo non ha morale che non sia dogmatica. La sua morale è una parte della sua teologia, e la sua teologia è dogmatica alla base: la parte morale non è che una conclusione, come già in S. Paolo. Te lo spiega Bossuet, con una grandiosa immagine: « Non ci vogliono punto due soli, nella religione del pari che nella natura, e chiunque ci è mandato per illuminarci nei costumi, il medesimo ci dà la conoscenza delle cose divine, che sono il fondamento necessario della buona vita ».

D. La religione non insegna i costumi per mezzo di massime pratiche?

R. La Religione rende costumata la società con l’applicazione effettiva e con l’azione concreta del suo insegnamento riflettente la natura dell’uomo soprannaturalizzato dalla grazia, unito per mezzo di Cristo al Padre, nell’unità dello Spirito, e orientato, in comunione coi suoi fratelli, nella Chiesa, verso la vita eterna. Tal è il principio civilizzatore; non ce n’è altro. Coloro che parlano di morale cristiana separata si attaccano a un’astrazione, oppure si lasciano prendere dalle puerilità a volte eloquenti, ma sempre ingannatrici e spesso nefaste. Il Gran Rabbino Lyon scriveva sapientemente: « Per apprezzare l’influenza del carattere e dell’opera di Gesù sul progresso dell’umanità, ci vorrebbe la scienza universale ». Un Gran Rabbino si onora di parlare in tal modo. Ma lui parla, con ragione dell’opera di Gesù, e non delle sue parole. Ora l’opera di Gesù è la Chiesa, la Chiesa dogmatica, o non è niente: sopravvive a Lui realmente nella storia; solo questo opera nel suo Nome. E se per apprezzare il risultato ci vuole «la scienza universale », è dunque perché il risultato è universale, perché esso si estende a tutto, perché niente di umano, di vivente, di moderno gli è estraneo.

D. Per me l’opera di Gesù è soprattutto spirituale

R. Difatti, noi dimenticavamo qui l’essenziale, voglio dire quella corrente di santità che, attraverso alla civiltà esterna e nel più profondo de’ suoi immensi veli, si espande come un Gulf-Stream spirituale, attestante il fuoco divino sorto dal Vangelo. Si può contestare questo fatto quando ci si lascia ipnotizzare dai mille difetti che l’umanità presenterà sempre; ma questa stessa severità dei nostri giudizi, donde viene se non dalla santità introdotta nel mondo da Cristo e che suscita la critica, quando non può suscitare la virtù? Prima di Cristo, la perfezione morale era una rarità, quasi un’anomalia; in seno alla Chiesa, essa è combattuta, ma comune e non ci stupisce se non per la sua grandezza.

D. Tu fai così allusione agli eroi di santità; ma non ce ne sono forse in tutti i gruppi religiosi?

R. Trovami un S. Vincenzo de’ Paoli mussulmano; una Giovanna d’Arco buddista, un curato d’Ars pastore protestante, un S. Vincenzo Ferreri o un S. Francesco Saverio salutista. E dico questo, credimi, non per disconoscere delle grandi anime, né per sdegnare il bene sparso dovunque. Asserisco soltanto che la spiritualità vera, il succo evangelico sbocciato nelle profondità, l’eroismo spirituale che fa capo a quella pienezza di donazione, a quel calore di sacro entusiasmo, a quella carità nel grande senso in cui consiste la santità, questo non si vede manifestamente, e al completo, se non nella nostra Chiesa.

D. Vi sono delle santità nascoste.

R. Ve ne sono anche presso di noi; spero molte; saranno queste le nostre scoperte del cielo. Ma perché non ve ne sono di splendide, e di pubbliche, e che si completano, se non in un solo gruppo? Un tal caso fortuito sarebbe assai meraviglioso. La risposta naturale non è forse piuttosto che là dove sorgono gli eroi religiosi, ivi appunto si formano, normalmente, gli uomini religiosi, e che se la religione si estende a tutto, è condizione di tutto, si fa vedere preziosa per ogni cosa, è lì, normalmente, che si dovrebbero formare gli uomini?

D. Da ciò si dovrebbe concludere che per essere uomo, bisogna farsi Cattolico Romano.

R. È veramente quello che io ne concludo. Se ciò ti sembra offensivo, è perché ti collochi dal punto di vista delle persone. Io rispetto le persone, e so fare le loro parti. Ma parlando di dottrina, dico: Sì, per essere pienamente uomo secondo il punto di vista dell’ideale adottato, del programma e dei mezzi, bisogna essere Cattolico Romano. Ciò non significa affatto che questi o quei Cattolici Romani valgano più di questi o quegli altri; ma significa che essi hanno la verità e che gli altri non l’hanno. Chiunque non sia esplicitamente o implicitamente Cattolico non è uomo al completo. È indubbiamente per questo che il convertito ha sempre l’impressione di ritrovare se stesso e di reintegrarsi in se stesso. E viceversa, come dice finemente Giacomo Rivière, l’incredulo « ha sempre l’aria di uno al quale si nasconde qualche cosa, e che non se lo immagina ».

LA SUMMA PER TUTTI (11)

LA SUMMA PER TUTTI (11)

R. P. TOMMASO PÈGUES O. P.

LA SOMMA TEOLOGICA DI S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE SECONDA

SEZIONE SECONDA

Idea particolareggiata del ritorno dell’uomo verso Dio.

Capo XIII.

Delle virtù morali. – La prudenza: natura ed elementi; virtù annesse; specie: prudenza individuale, familiare, regia, militare.

946. Che cosa deve fare l’uomo per rendersi un giorno degno di possedere nel cielo a titolo di ricompensa Dio stesso, quale la fede, la speranza e la carità gli permettono di raggiungere anche sulla terra?

Nello stesso tempo che deve vivere continuamente di queste grandi virtù e dei doni che loro corrispondono, deve anche mettere in opera tutte le virtù morali ed i doni corrispondenti.

947. Quale è la prima di queste virtù morali?

È la virtù della prudenza (XLVII).

948. Che cosa intendete per questa virtù?

Intendo un principio di azione morale che perfeziona la ragione pratica dell’uomo, affinché in ciascuna delle sue azioni disponga ed ordini tutte le cose come si conviene, imponendo a se stesso ed a tutti quelli l’azione dei quali è subordinata alla propria e da essa dipende, ciò che bisogna fare ad ogni istante per il perfetto adempimento di. ciascuna virtù (XLVII, 1-9).

949. Questa virtù ha una grande importanza nella vita morale dell’uomo?

Questa virtù ha una somma importanza nella vita morale dell’uomo; perché senza di essa è impossibile nella vita morale dell’uomo ogni atto virtuoso (XLVII, 13).

950. Questa virtù, quando esiste e compie eccellentemente il proprio atto, basta ad assicurare il lato virtuoso di tutta la vita del uomo?

Sì; quando esiste e compie eccellentemente il proprio atto, questa virtù basta ad assicurare il lato virtuoso di tutta la vita dell’uomo (XLVII, 14).

951. Perché questo privilegio è attribuito alla prudenza?

Perché in essa sono riunite tutte le virtù, non potendone esistere alcuna senza di essa, e non potendo essa stessa esistere senza il concorso di tutte le altre.

952. Questa virtù, per essere perfetta, esige numerose condizioni preliminari per ciò che riguarda il suo atto?

Sì; questa virtù, per essere perfetta, esige ed implica numerose condizioni preliminari per ciò che appartiene al suo atto.

953. Quali sono le condizioni preliminari che la virtù della prudenza esige ed implica per la perfezione del suo atto?

Anzitutto occorrono certi elementi che la costituiscano e senza dei quali non potrebbe esistere; quindi, nello stesso tempo, anche altre virtù che le sono ordinate e preparano il suo atto; infine la divisione di essa medesima secondo la natura dei soggetti da governare e da reggere (XLVHI-LI).

954. Quali sono gli elementi che la costituiscono e senza dei quali non potrebbe esistere?

Sono il ricordo delle cose passate; la intelligenza e la chiara visione dei principi dell’azione sia in generale che in particolare; la docilità ed il rispetto per quello che è stato determinato dai più saggi predecessori; la sagacità nel trovare essa medesima ciò che le sarebbe impossibile domandare ad altri in una circostanza improvvisa; il sano esercizio della ragione, applicando come si conviene i principi dell’azione alle varie condizioni particolari così diverse ed incerte dell’azione stessa: la previdenza e la determinazione voluta nel momento dell’azione per ogni atto particolare, riguardo alla sostanza di tale atto; la circospezione in ordine a tutto ciò che circonda questo atto; la precauzione contro tutto quello che potrebbe porvi ostacolo o comprometterne il frutto (XLIX, 1-8).

955. Quali sono le altre virtù che le sono ordinate e ne preparano l’atto?

Sono la virtù del buon consiglio e le due virtù che assicurano il buon giudizio: l’una nei casi ordinari della vita, tenendo conto delle leggi stabilite; l’altra nei casi straordinari, ed allorché si deve ricorrere ai lumi superiori di solo diritto naturale (LI, 1-4).

956. Come si chiama l’atto proprio che deve regolare la prudenza, quando si compie in seguito ai due atti del buon consiglio e del buon giudizio?

È l’atto stesso del comando che provoca l’azione (XLVII, 8).

957. Dunque la prudenza è propriamente la virtù del comando?

Sì: la prudenza è propriamente la virtù del comando.

958. Ma non sembra al contrario che sia la virtù del consiglio, dal momento che si sogliono chiamare «prudenti» gli uomini che si assicurano prima di agire?

Gli uomini non si chiamano « prudenti » che in ragione del consiglio che infatti precede il comando; ma la virtù propria della prudenza sta nell’atto stesso di comandare con energia e risolutezza nel momento voluto in cui bisogna agire (XLVII, 8 ad 2).

959. Vi sono diverse specie della virtù della prudenza?

Sì: vi sono tante specie della virtù della prudenza, quante sono le specie degli atti di comando che rivestono una speciale difficoltà nell’ordine della virtù.

960. Quante sono le specie di questi atti di comando?

Sono quattro: l’atto di comandare a se stesso; l’atto di comandare nella famiglia; l’atto di comandare nella società; e l’atto di comandare nell’esercito, (L, 1-4).

961. Come si chiamano le diverse specie della virtù della prudenza, corrispondenti a questi diversi atti di comando?

Si chiamano: prudenza individuale; prudenza familiare; prudenza regia, e prudenza militare (L, 1-4).

962. Che cosa intendete per prudenza individuale?

Intendo quella specie di prudenza richiesta in ogni individuo per il governo della sua vita morale, in ordine al proprio bene personale.

963. Che cosa intendete per prudenza familiare?

Intendo quella specie di prudenza necessaria a tutti i membri della famiglia, perché ciascuno nella parte che a lui conviene e sotto la direzione del capo, concorra al bene della famiglia medesima (L, 3).

964. Che cosa intendete per prudenza regia?

Intendo quella specie di prudenza necessaria al capo della società perfetta, che è la città indipendente o la nazione ed il regno, per governare come si conviene questa società (L. 1).

965. Basta per il bene della città e della nazione che questa prudenza si trovi in colui o in coloro che governano?

No: bisogna che anche che anche nei governati si trovi una specie di prudenza, proporzionata a quella del capo o del governo (L;,-2).

966. In che cosa consiste la prudenza dei governati?

Consiste in questo, che ogni membro della società, in ciascuno dei propri atti di ordine sociale, faciliti il conseguimento del bene comune, con la perfetta corrispondenza agli ordini del capo o del governo (L, 2).

967. Anche la prudenza militare è ugualmente ordinata al conseguimento del bene comune nella società?

Sì: e tale prudenza è di estrema importanza per il bene della società, perché essa deve assicurare col retto comando dei capi e la disciplina corrispondente dei subordinati fino all’ultimo soldato, la difesa della patria contro gli attacchi o le ingiustizie dei nemici esterni (L. 4).

Capo XIV.

Del dono del consiglio corrispondente alla prudenza.

968. La virtù della prudenza ha un dono speciale dello Spirito Santo che le corrisponde?

Sì; il dono del consiglio (LII).

969. Che cosa intendete per dono del consiglio?

Intendo quella disposizione soprannaturale o trascendente che perfeziona la ragione pratica dell’uomo, rendendola pronta e docile a ricevere dallo Spirito Santo, nella ricerca o investigazione e nel consiglio che si riferisce all’azione in tutto l’ordine della vita umana, tutto ciò che è necessario alla salute; venendo così in aiuto alla ragione dell’uomo, che sebbene fornita di tutte le virtù acquisite o infuse in ordine al retto consiglio che deve disporre al perfetto giudizio ed al perfetto atto del comando, resta sempre soggetta all’errore ed alle sorprese, nella complessità quasi infinita delle circostanze che possono interessare il suo atto, sia per se stessa che per gli altri, in ordine all’acquisto del cielo (LII, 1, 2).

970. Il dono del consiglio potrà continuare ad esistere dopo questa vita?

Sì: ma in maniera particolarmente trascendentale (LII, 3).

971. Quale sarà questo modo speciale, secondo il quale il dono del consiglio continuerà ad esistere nel cielo?

Consisterà in questo, che tutte le intelligenze saranno meravigliosamente illuminate da Dio sopra tutto ciò che nel dominio dell’azione armonizza per esse col conseguimento del loro fine già ottenuto; sia che si tratti di atti derivanti eternamente dal conseguimento stesso del fine, sia che si tratti dell’aiuto che esse sono destinate a portare fino all’ultimo giorno a coloro che devono ancora lavorare alla conquista od al conseguimento di questo fine (LII, 3).

Capo XV

Dei vizi opposti alla prudenza: l’imprudenza, la precipitazione, l’inconsideratezza, l’incostanza, la negligenza, la falsa prudenza, la prudenza della carne, l’astuzia, l’inganno, la frode, la falsa sollecitudine.

972. Vi sono dei vizi opposti alla virtù della prudenza?

Sì; vi sono dei vizi che le sono opposti per difetto, ed altri che le sono opposti per eccesso.

973. Come si chiama la categoria dei vizi opposti per difetto alla virtù della prudenza?

Si chiamano col nome generico di imprudenza (LIII).

974. Potreste dirmi che cosa è la imprudenza considerata in generale?

Si dice imprudenza in generale ogni atto della ragione pratica compiuto dall’uomo fuori delle regole che assicurano la retta ragione della prudenza (LI, 1).

975. Può esservi peccato mortale nell’atto di imprudenza?

Sì: e ciò avviene quando la ragione dell’uomo ordina la propria azione contrariamente alle regole divine; come colui che disprezzando e ripudiando i divini ammonimenti, agisce con precipitazione (LIII, 1).

976. E quando non vi sarebbe che peccato veniale?

Quando l’uomo agisce fuori delle regole divine, ma senza che vi sia da parte sua

disprezzo, e senza compromettere ciò che è di necessità di salute (LII, 1).

977. Il peccato di imprudenza si trova unito ad ogni altro peccato?

Sì; il peccato di imprudenza si trova unito ad ogni altro peccato, perché non vi sarebbe alcun peccato se non vi fosse qualche atto di imprudenza: tuttavia questo peccato può esistere anche da sé solo distinto dagli altri peccati (LII, 2).

978. Quando è che il peccato di imprudenza esiste da sé solo distinto dagli altri peccati?

Tutte le volte che senza fare alcun cosa di male, o anche facendo qualche cosa di bene in se stesso, si agisce con precipitazione o senza riflessione, in maniera incostante o con negligenza (LIII, 2).

979. Che cosa intendete per precipitazione? La precipitazione è quel peccato contro la prudenza che consiste nel tralasciare di investigare prima di agire, quando e come bisognerebbe (LIII, 137).

980. E la inconsideratezza che cosa è?

È un peccato contro la rettitudine del giudizio, e consiste nel disprezzare o nel trascurare ciò che assicura il retto giudizio in ciò che riguarda l’azione (LIII, 4).

981. Perché la incostanza è un vizio opposto alla prudenza?

Perché è un difetto nell’atto stesso del comando che è l’atto proprio. della prudenza: infatti, incostante è colui che per mancanza di fermezza nel comando, non ottiene nell’ azione ciò che era stato stabilito dopo la investigazione ed il consiglio (LII   I, 5).

982. Soltanto questo difetto può interessare l’atto principale della prudenza?

Ve ne è anche un altro che gli è opposto da parte della sollecitudine che esso implica, ed è la negligenza (LIV).

983. Che cosa è dunque la negligenza?

La negligenza è una mancanza di prontezza o di rapidità nel mettere immediatamente in opera, per via di precetto o di comando, le risoluzioni del giudizio preparato dalla investigazione e dal consiglio, in ordine all’azione che deve conseguire il fine della virtù (LIV, 1).

984. È un grave peccato la negligenza?

Sì; può dirsi che questo peccato sia gravissimo, nel senso che paralizza tutto nel dominio dell’azione virtuosa; perché  o impedisce che questa azione si compia, o fa sì che si compia fiaccamente ed in maniera così stentata da perdere la maggior parte del proprio merito e del proprio valore (LIV, 3).

985. Come si chiama questa negligenza quando si estende all’atto esterno per ritardarlo o rallentarlo ed indebolirlo?

Si chiama accidia e torpore (LIV, 2 ad 1).

986. Questi altri due vizi si distinguono dalla negligenza propriamente detta e considerata in se stessa?

Sì; perché il peccato della negligenza in senso stretto consiste propriamente nella assenza o mancanza di prontezza e di vigore nell’atto del comando, in quanto questo difetto proviene da una rilassatezza interna della volontà (LIV, 2).

987. È importante vigilare sul vizio della negligenza e non lasciarsene invadere?

Si: ciò è di somma importanza perché il peccato di negligenza si trova alla origine stessa dell’azione, e riguarda l’atto principale della ragione pratica, dalla quale tutto dipende nell’esercizio di ogni atto di virtù; donde consegue che si estende a tutto nel dominio di questa vita, e può tutto infettare del suo veleno.

988. Questo vizio può essere qualche volta mortale?

Sì; ed è sempre tale quando è causa del non risolversi a volere e ad agire nelle cose necessarie di precetto alla salute; ma anche quando non lo è, se non ci si impegna a sorvegliarlo per combatterlo senza tregua, costituisce di per se stesso una malattia di languore, che conduce fatalmente al deperimento ed alla morte (LIV, 3).

989. Come si chiamano i vizi opposti alla prudenza per eccesso?

Si chiamano falsa prudenza e falsa sollecitudine (LV).

990. Che cosa intendete per falsa prudenza?

Intendo quel complesso di vizi che snaturano il vero carattere della prudenza, favorendo un cattivo fine o eccedendo da parte dei mezzi (LV, 1-5).

991. Qual è il vizio che snatura il vero carattere della prudenza favorendo un fine cattivo?

E la prudenza della carne (LV, 1).

992. In che cosa consiste la prudenza della carne?

Consiste nel disporre le cose della vita umana in ordine agli interessi materiali considerati come fine (LV, 1).

993. La prudenza della carne è peccato mortale?

Sì: quando considera gli interessi materiali come ultimo fine; se li considera come fine particolare non ordinato attualmente al vero ultimo fine che rimane sempre il fine abituale, non è che peccato veniale (LV, 2).

994. Ed i vizi che eccedono da parte dei mezzi quali sono?

Questi vizi sono l’astuzia ed i suoi annessi: l’inganno e la frode (LV, 3-5).

995. Che cosa intendete per astuzia?

Intendo quella falsa prudenza consistente nell’usare mezzi falsi ed ingannevoli, si tratti pure di un fine buono o cattivo per cui vengono usati (LV, 3).

996. E l’inganno che cosa è?

L’inganno è un vizio che consiste nel mandare ad effetto, con la parola o con gli atti, i disegni interiormente stabiliti dall’astuzia (LV, 4).

997. Potreste dirmi la differenza che passa tra l’inganno e la frode?

Tra l’inganno e la frode passa questa differenza, che pure essendo ambedue diretti alla esecuzione dell’astuzia, l’inganno è diretto a tale esecuzione sia per via di parole che di fatti indistintamente; la frode invece non è diretta alla stessa esecuzione che per via di atti, ossia di fatti (LV, 5).

998. L’astuzia, l’inganno e la frode sono la stessa cosa che la menzogna?

No; perché la menzogna si propone il falso come fine; invece, l’astuzia, inganno e la frode se lo propongono come mezzo. Se ingannano, lo fanno per conseguire un certo fine che si propongono:

999. Che cosa si deduce da questa differenza?

Si deduce che la menzogna è un peccato speciale nell’ordine delle virtù morali, che si trova in opposizione soltanto con la virtù della verità;  invece l’astuzia, l’inganno e la frode possono trovarsi in diverse specie di vizi e di peccati senza costituirne distintamente alcuno nell’ordine delle virtù morali, ma solamente nell’ordine della prudenza, la cui caratteristica è di entrare in tutte le altre virtù.

1000. Che cosa intendete per peccato di falsa sollecitudine?

Intendo quella sollecitudine per la quale si pone ogni cura nella ricerca delle cose temporali, ossia una cura superflua ed un timore esagerato di mancare di queste cose (LV, 6)

1001. Esiste una sollecitudine delle cose temporali che può anche essere buona?

Si, la sollecitudine che in tali cose una cura moderata, ordinandola al fine della carità ed affidandosi alla Divina Provvidenza (LV, 6).

1002. Che cosa si deve pensare della sollecitudine che riguarda l’avvenire?

Questa sollecitudine è sempre cattiva quando si estende a ciò che dovrà essere proprio di altro tempo (LV, 7)

1003. Dunque quando sarà buona la sollecitudine che riguarda l’avvenire?

Quando si contenta di provvedere alle cose avvenire, in quanto che esse dipendono da quelle che debbono occuparci nel momento in cui siamo; lasciando al tempo che verrà poi ciò che ci dovrà occupare allora (LV, 7).

Capo XVI.

Dei precetti relativi alla prudenza.

1004. La virtù della prudenza ha qualche precetto che le corrisponde fra i precetti del Decalogo?

No; la virtù della prudenza non ha precetti che le corrispondano fra i precetti del Decalogo; perché i precetti del Decalogo, formulando ciò che appartiene alla ragione naturale, dovevano riferirsi ai fini della vita umana che sono la caratteristica delle altre virtù, e non a ciò che è ordinato al fine, intorno a cui si esercita propriamente la virtù della prudenza. Ma alla prudenza si riferiscono tutti i precetti del Decalogo, inquantoché essa deve dirigere tutti gli atti delle virtù (LVI, 1).

1005. I precetti aventi direttamente rapporto con la virtù della prudenza, sono dunque precetti complementari venuti più tardi?

Sì: e si trovano sia negli altri testi dei libri ispirati anche nell’Antico Testamento, sia più perfettamente nel Nuovo (LVI, 1).

1006. Non vi sono anche nell’Antico Testamento dei precetti particolarmente urgenti per condannare vizi opposti alla virtù della prudenza?

Sì; sono i precetti relativi all’astuzia, all’inganno ed alla frode (LVI, 2).

1007. Perché questi vizi sono stati particolarmente proibiti?

Perché essi hanno soprattutto la loro applicazione esterna nelle cose di giustizia, che è la virtù direttamente intesa da tutti i precetti del Decalogo (LVI, 2).

LA SUMMA PER TUTTI (12)