LO SCUDO DELLA FEDE (195)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXX)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

VI. — La Risurrezione della carne.

D. Il tuo Credo parla anche della risurrezione dei corpi?

R. «Ogni anima che si salva, salva anche il suo corpo » (C. PÉGUY).

D. Donde viene questa credenza?

R. Come quella dell’immortalità, quella del cielo e dell’inferno, anche la dottrina della risurrezione dei corpi è nel Vangelo, come ti dicevo, e assai presuntuosi sono quei che prendono dal Vangelo una « morale » a loro modo rigettando lezioni così fondamentali!

D. In quali termini si presenta la dottrina?

E. « Viene l’ora in cui quelli che sono nei sepolcri udiranno la sua voce (del Figliuolo dell’Uomo), e ne usciranno: quelli che avranno fatto il bene per una risurrezione di vita, quelli che avranno fatto il male per una risurrezione di giudizio » (Vang. di S. GIOVANNI).

D. Si credette subito a queste parole?

R. I primi Cristiani credettero ad esse a tal segno che questa credenza offuscò in molti di loro la nozione della sopravvivenza delle anime, quella del giudizio individuale, e, come ho ricordato e spiegato sopra, fece credere a una brevissima durata del mondo.

D. Devi confessare che, nella credulità iniziale che menava a queste conclusioni, vi era molta ignoranza.

R. Vi era della semplicità, e bisognerebbe vedere se questa facilità a credere dei misteri, là dove interviene l’onnipotenza divina e dove i destini ultimi sono in gioco, non sarebbe più filosofica, più assennata di tanti bei sorrisi.

D. Ancora bisogna rispettare la ragione e tenersi nei limiti del possibile.

R. Pascal conosce un poco questo genere di regole, ed ecco quello che egli osserva: « Quale ragione hanno essi di dire che non si può risuscitare? Che cosa è più difficile, nascere o risuscitare? Che quello che non è mai stato sia o che quello che è stato sia ancora? È più difficile venire in essere che il ritornarvi? La consuetudine rende l’uno facile e la mancanza di consuetudine rende l’altro impossibile. Popolare modo di giudicare! ».

D. Non capisco guari la somiglianza dei due casi.

R. Bisogna tuttavia che essa sia impressionante, poiché, quattordici secoli prima di Pascal, Tertulliano scriveva: « Tu cerchi di sapere come rivivrai? Sappi prima, se ti è possibile, come sei arrivato alla vita ».

D. Dove sta esattamente la somiglianza?

R. I nostri genitori sono gli autori della nostra vita; ma Dio ne è maggiormente l’autore, e quello che essi poterono, Dio lo può benissimo senza di loro. Per mezzo dei nostri genitori e in essi, è l’anima il principio di vita, e quest’anima, che importa con sé la vita, può benissimo rendercela. Che una materia che è stata una volta impastata da formare un uomo ,sia impastata una seconda non è più difficile di quello che è vedere un’argilla modellata e rimodellata secondo un medesimo ideale.

D. Ma dove ritrovare, qui l’« argilla »?

R. So assai! vi sono le polveri gettate al vento e disseminate nelle piante, che gli animali mangiano, che un uomo può rimangiare. Vi è l’antropofago, e tante altre puerilità di « spiriti forti ».

D. Perché puerilità?

R. Perché con ciò si sfoggia una leggerezza di argomentazione ridicola; perché si sottintende una scienza certa di ciò che nessuno sa, ciò che è veramente il più « popolare modo di giudicare », se pure non si fa così ingiuria al popolo.

D. Che cosa rimproveri tu all’argomentazione?

R. Di procedere come se la materia necessaria alla ricostituzione di un corpo in una vita eterna fosse identica agli atomi materiali che vi si succedono come l’acqua in un torrente. E questo è una stoltezza notoria.

D. E di quali sottintesi pretensiosi vuoi tu parlare?

R. Si argomenta con fierezza relativamente alla materia: ci si figura dunque di sapere che cosa essa è. E vedo ridere Pascal. Sento i dotti e i filosofi moderni disputare con sempre minore speranza a proposito di questo Proteo, domandarsi se esso esista altrimenti che come forza, parlare della sua « smaterializzazione », della sua fuga all’infinito a misura che la si analizza. Il tuo obiettante ignora deplorevolmente queste cose.

D. Ma quale necessità, per l’anima immortale assorbita in Dio, di ridarsi una materia?

R. Come se tu domandassi: Che necessità, per l’uomo, di esistere? L’anima immortale non è l’uomo. S. Tommaso osserva che non le appartiene più nemmeno il nome di uomo. Non si può dire, parlando con precisione: Un tale è presso Dio. « Un Tale » è semplicemente distrutto; sussiste solo una parte della sua persona, la parte principale, è vero, talmente principale che l’altra a buon diritto è giudicata insignificante per la felicità essenziale. Ma l’essenziale richiede l’accessorio, dicevi tu. Se non vi è risurrezione della carne, l’anima umana è salva; ma l’uomo non è salvo; l’umanità è estinta; l’universo di Dio è impoverito di una specie che noi amiamo di credere la prima, che ad ogni modo è d’un pregio immenso, grazie all’unione dello spirito; quel posto unico al quale si arresta indubbiamente l’attenzione degli Angeli, dove si fissa con terrore e fascino quella delle bestie, ai confini della materia e dello spirito quel posto non è più occupato, e la morte, che Cristo doveva abbattere, ha conservato il suo impero; non si può più esclamare con S. Paolo « O morte, dov’è la tua vittoria; o morte; dov’è il tuo stimolo? ».

D. Sia pure! L’uomo non esiste più, e ciò può impoverire l’universo; ma ciò che importa all’anima? Non è forse essa, come spirito, in una piena integrità, e per conseguenza in una piena indifferenza riguardo al suo corpo?

R. L’integrità dell’anima è nell’integrità e nell’armonia di tutte le sue funzioni, un gran numero delle quali esigono uno strumento materiale. Mancando di queste funzioni, l’anima è mutilata, e per quanto alta sia la sua vita per la sua unione col suo principio, questa vita non è interamente normale. Un sublime moncherino è sempre un moncherino. La vita dell’anima separata è quella di un amputato che prova in tutte le sue estremità nervose l’impressione del membro perduto; non si può dire che ciò sia una condizione felice, benché incomparabili compensi ne annullino praticamente il peso. Lo stato naturale dell’anima comporta un coscienza corrispondente al nostro essere intero: Or nella sopravvivenza dell’anima sola, non vi è più coscienza corporale, non vi è più sensibilità, né impressione dell’universo e di se stesso al completo, né immaginazione, né, propriamente, memoria, poiché il tempo fisico non corre più. Però di tutto questo sussiste il principio, poiché l’anima è una e non può vedersi dividere le funzioni fino alla loro radice. Come supporre che questo principio d’ampie operazioni, ridotto a una sola, cioè il pensiero, non abbia una tendenza naturale verso tutto quello che esso non ha più? Come immaginarlo soddisfatto di vedere eternata questa amputazione? Il pensiero è la quintessenza dell’anima, ma non è tutta l’anima, neppure aggiungendovi il suo correlativo di tendenza che è l’amore.

D. Tu parli da naturalista; ma il punto di vista soprannaturale non t’’invita ad eliminare queste osservazioni?

R. Esattamente l’opposto. Il principio della sopravvivenza del corpo è stato posto col soprannaturale stesso, poiché la giustizia originale, al punto di partenza, implicava l’immortalità. In seguito alla caduta interviene la morte; ma la riparazione per mezzo di Cristo, che, prendendo carne, viene in soccorso della carne come in soccorso dell’anima, ci rende il diritto dell’immortalità corporale. La Risurrezione dopo tre giorni ne è il pegno. Perciò S. Paolo, apostrofando taluni de’ suoi Corinzi, esclama: « Se si predica che Cristo è risorto da morte, come mai certuni tra voi dicono che non vi è risurrezione da morte? Se non vi è risurrezione da morte, neppure Cristo è risuscitato ».

D. Una religione spirituale non dovrebbe disinteressarsi di un avvenire corporale?

R. La nostra Religione non è una religione « spirituale », ma una religione umana. Essa è integralmente umana appunto perché è divina, e non è forse cosa più umana che l’anima, un giorno purificata, possa riprendere il suo ufficio, associando alla sua estasi il corpo che ella invano cercava, quaggiù, di trascinare alla felicità? La nostra Religione è fondata sopra l’incarnazione, come ti dicevo, e non sopra la disincarnazione. – La visibilità della Chiesa, il suo carattere sociale, i suoi mezzi sacramentali, la sua pratica tutta quanta attestano questo carattere. La risurrezione dei morti è un corollario richiesto dalla coerenza dottrinale come dalla natura delle cose. Uniti, nella Chiesa, allo Spirito di Cristo, facendo corpo con Cristo, noi, alla nostra ora, abbiamo diritto di prender parte alla risurrezione di Cristo e al trionfo della sua carne mortale. « Se lo Spirito che ha risuscitato Gesù abita in voi, esso vivificherà anche i vostri corpi mortali » (S. PAOLO).

D. Possiamo allora domandarci perché questo ritardo sino alla fine dei tempi, quando Cristo risuscita dopo tre giorni. Possiamo anche domandarci perché la morte, poiché Cristo la vinse.

R. Abbiamo veduto sopra che la morte e gli altri effetti del peccato furono mantenuti per la nostra utilità spirituale, e non come sevizie, per la continuità e l’armonia dell’opera provvidenziale, per il benefizio della nostra unione con Cristo e della nostra cooperazione al suo sforzo redentore, ecc. Anche per i nostri peccati attuali, la morte è una purificazione. La morte parziale chiamata mortificazione comincia il compito; il verme sepolcrale lo compie, e, col suo sottile taglio, spezza gli attacchi della carne a questa fondamentale concupiscenza che è in noi. La morte individuale è dunque in tal modo giustificata non come carnefice, ma come incaricata di una missione, come ancella.

D. Ciò non spiega l’attesa sino alla fine del mondo.

R. Ciò la spiega mediante un’osservazione supplementare. Un corpo individuale è un insieme momentaneo di atomi e di forze che si adoperano a servire un’anima, ma che poi l’abbandonano per rientrare nel mare donde altre anime a migliaia, attingeranno. Tal è la provvidenza generale. La vita è come una serie di onde su un mare; l’ondulazione non s’interrompe se non alla fine, quando, trovandosi compiuto il lavoro delle forze e delle anime, potrà venire la gran calma. Ora è di regola che la provvidenza generale limiti, all’uopo, la provvidenza particolare di questo o di quell’essere, per unirsela e per servire i fini comuni. La materia compie presentemente il suo ufficio universale; lavora alla nascita di nuovi eletti, alla loro prova terrestre, al loro progresso mediante lo sforzo, al compimento sociale di Cristo, capo dell’umanità di tutti i tempi. Quando il numero degli eletti sarà completo come la predestinazione eterna vuole; quando lo sforzo collettivo degli uomini sarà compiuto, l’incarnazione pienamente utilizzata, il livello di civiltà che Dio attende ottenuto, il perfetto potrà venire per tutti e conseguentemente per ciascuno; le anime si potranno ridare il loro corpo, organizzarlo a perfezione come ne avranno il potere, unite al Capo dell’ordine, e cominciare veramente la loro eternità.

D. È un disegno che si compie a lunga scadenza.

R. Così dev’essere; ma il capolavoro è indifferente alla durata. Quando si tratta di una vita eterna, « mille anni sono come un giorno e un giorno come mille anni ».

D. Di quale « perfezione » parli tu, riguardo alla vita corporale futura?

R. Quando l’anima riprende il suo lavoro di fabbricazione, di organizzazione, di animazione e tutto l’insieme delle sue funzioni riguardo al corpo, lo riprende in condizioni talmente nuove, che la vita così rilanciata, il corpo così ricostituito non possono mancare di provarne gli effetti. L’anima è intimamente unita al suo principio, che è il principio di tutto. Principio essa stessa, ma nella dipendenza dal Primo, trova nella sua intimità beata di che infondere nel corpo delle energie che non possiamo neppure sospettare, in questa pesante esistenza. Una calamita applicata a limatura l’organizza: l’anima calamitata in Dio non organizzerà essa il suo corpo in vista di funzioni più alte, più perfette, meglio adatte a un ambiente rinnovato del quale parleremo, meno lontane dall’anima stessa e da’ suoi soprannaturali poteri? Ecco quello che ci fa chiamare il corpo risuscitato un corpo spirituale, per rapporto al corpo animale di cui abbiamo l’esperienza. Queste espressioni sono di S. Paolo, e sono profonde.

D. Qual è il loro senso preciso?

R. Il corpo animale è quello che vive nel senso fisiologico della parola, e cioè che muore; infatti la vita è una morte perpetua che perpetuamente si redime, fino al declinare e all’arrestarsi finale. L’assimilazione o nutrizione è il suo fenomeno fondamentale. Nutrirsi è morire e rinascere a ciascuna pulsazione della carne. In uno stato immortale, la carne non potrà più essere così palpitante e fluente; la sua organizzazione sarà necessariamente stabile, com’è stabile lo spirito, unito a Dio-Spirito, ed è per questo che il corpo risuscitato si chiama un corpo spirituale. Questa parola non significa un cambiamento di natura, ma un cambiamento di stato.

D. Come un tale stato di fissità è possibile, per quello che vive?

R. «Vi sono in cielo e sopra la terra più cose che non ne conosca la tua filosofia » (HAMLET). Ti si concede che la parola vita, qui e là, non ha esattamente lo stesso senso; solo una analogia la fa rassomigliare. Del resto, le teorie attuali della materia, ti dico io, ci preparano a tutto. La nostra esperienza banale relativamente all’universo è dovunque in rotta. Noi cominciamo a sospettare il segreto degli esseri e i loro poteri infiniti di metamorfosi. Presto il « corpo spirituale » o qualsiasi altra cosa non ci stupirà più.

D. In qual forma risusciteremo noi?

R. Nella nostra, tal quale la vuole il principio di vita sciolto dagl’impedimenti del corpo animale.

D. Che cosa vuol dire questo?

R. Vuol dire un’integrità, una bellezza, un’assenza di difetti e di particolarità accidentali che non fanno nessun torto al carattere individuale, come neppure al tipo della razza. Precisare di più non sarebbe in nostro potere.

D. Tuttavia si è parlato di « doni » particolari che si attribuiscono al corpo spirituale.

R. Due di essi si riferiscono a ciò che ora ho detto. Il corpo risorto sarà al sicuro dalla dissoluzione interna alla quale l’alimentazione reca un rimedio provvisorio, al sicuro dalla morte, al sicuro dall’accidente vitale, ed è quello che si chiama la sua impassibilità. Esso si troverà esente da vizi deformanti, e sarà se stesso a fondo, tipo e carattere, ed è quello che si chiama la sua chiarezza, per allusione alla luce immanente che è l’idea creatrice nel composto morfologico, o vivente. Inoltre il vivente immortale dovendo adattarsi a un ambiente indefinitamente largo, cittadino dell’opera di Dio e non più della minuscola terra, viene dotato dell’agilità, che lo mette in proporzione col suo mondo nuovo. Finalmente gli ostacoli di altri tempi, dipendenti dalla pesante opacità e dalla resistenza degli ambienti saranno vinti dalla sottigliezza, qualità che si manifesta in Cristo quando, pure essendo le porte chiuse, dopo la sua risurrezione, apparisce in mezzo a’ suoi.

D. Quali fenomeni di sensibilità puoi supporre in tali corpi?

R. Qui, evidentemente, ogni scienza è sconcertata e ogni psicologia incompetente. Noi crediamo nondimeno a una vita sensitiva non solo rispettata, ma anche accresciuta, purificata, resa più delicata, più vicina allo spirito e alle sue forme d’azione, e, naturalmente, cessando di essere esauriente per i suoi organi, così come diciamo della vita generale del corpo.

D. Asserisci dunque che vi sono dei piaceri?

R. Certamente. Quello che è la gioia per l’anima, lo è il piacere per il corpo. Una beatitudine umana senza piaceri del corpo non sarebbe armonica. Il tutto sta nel concepire questi piaceri corporali in concordanza con lo stato che viene descritto, nel non prenderne da Maometto il pensiero grossolano, nel non attribuire dei piaceri di nutrizione a ciò che non si nutre, di generazione a ciò che non genera più, ecc. Ma gli organi dei sensi hanno altri usi, e se ora è impossibile descrivere il loro funzionamento quanto il loro oggetto, tutto induce a dire che essi rimangono, in testimonianza e per l’autentica espansione, nel perfetto, della nostra essenza umana.

D. La felicità corporale così compresa aggiunge qualcosa a ciò che hai chiamato beatitudine essenziale?

R. Non potrebbe aggiungere alcun che, dal momento che procede da essa. Ma procura la sua estensione, e si può dire che l’estensione di una felicità, anche senza valore che propriamente vi si aggiunga, è una felicità nuova.

D. Una felicità nuova per l’anima?

R. Una felicità nuova per l’anima, che, nel beatificare il suo congiunto, trova la soddisfazione della sua propria tendenza, la testimonianza dell’unità umana di cui essa è il principio, la gioia di questa unità, di quest’armonia interiore che accelera in tutti i sensi, nel nostro essere, le onde della vita.

D. Dici tuttavia che la felicità dell’anima non è aumentata e che per conseguenza, tutto considerato, la risurrezione non le è necessaria?

R. La felicità dell’anima non è aumentata; quella che viene al corpo l’attraversa essa stessa e le appartiene prima di estendersi al corpo. E di fatto, per quanto alta convenienza presenti la risurrezione del corpo, per quanto armonica in grazia di essa sia la dottrina e generosa si mostri la Provvidenza, ne segue tuttavia che la felicità dell’anima sarebbe, fuori della felicità del corpo, una felicità un po’ compressa in se stessa, ma pure una felicità piena. « Assai avara è un’anima a cui Dio non basta ».

LA VITA INTERIORE (6)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (6)

Sac. Dott. GIOVANNI NATTISTA CALVI,

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna – Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione Riveduta.

GLI ESERCIZI DI PIETÀ

LA LETTURA SPIRITUALE

RICCA SORGENTE...

Dopo la preghiera vocale e la meditazione, dopo l’esame di coscienza, la lettura spirituale è la sorgente più ricca di vita interiore. L’anima che sente vivo vivo il desiderio del raccoglimento, dell’intimità, della conversazione con Dio, non ha che da praticare l’esercizio della lettura santa. Quanto più progredirà nella lettura attenta e raccolta, tanto più s’accorgerà del suo distacco dal mondo esteriore, dalle creature. Crescerà in lei quasi prepotente il desiderio di vedere, di sentire Gesù, di essere unita con lui nella mente, nella volontà, nel cuore. S’avvedrà che la lettura santa è la parola di Gesù!

È LA SORELLA DELL’ORAZIONE.

L’autore dell’Imitazione di Cristo (Libro III, c. iv, 16) parlando delle prove e delle tentazioni con cui il demonio suole vessare le anime desiderose di amare il Signore, esce in questa constatazione: « Egli (cioè il demonio) ti soffia molti cattivi pensieri per cagionarti tedio e paura, per ritrarti dall’orazione e dalla lettura santa ». Rileviamo subito il felice accostamento di orazione e lettura. Chi suole essere sempre con Dio deve spesso orare e spesso leggere. Perocché quando noi oriamo, favelliamo con Dio; e quando noi leggiamo, Iddio favella con noi (Corona, cap. III). È proprio così. Lo confermano i Santi: « Quando preghiamo, noi parliamo con Dio; quando leggiamo i divini oracoli, ascoltiamo Dio che ci parla» (S. Ambrogio, Off., 1, 20). « La S. Scrittura è come una lettera venutaci dalla patria nostra » (S. AGOSTINO, serm. 56 ad Fr.). E ancora: « Chi suole essere sempre con Dio, deve frequentemente attendere alla preghiera e alla lettura spirituale» (SANT’AGOSTINO, Quæst., 120). Così molti altri Santi e maestri di vita spirituale raccomandano tanto insistentemente questa santa lettura e dicono, d’essa, quasi le stesse lodi della preghiera… San Bernardo soleva ripetere — e come lui, S. Alfonso Maria de’ Liguori ai suoi religiosi — che non si può trarre vero profitto nella vita della perfezione senza la pratica della meditazione e della lettura spirituale. Per questo motivo tutti i fondatori di Ordini e di Congregazioni religiose stabilirono tra le pratiche di pietà proprie dell’Ordine o della Congregazione, anche l’esercizio quotidiano della lettura spirituale.

ECCELLENZA ED EFFICACIA.

Non sempre ci è data la comodità di avvicinare e di consultare il Padre spirituale per essere consigliati sul modo di operare, particolarmente nei dubbi. Non sempre possiamo avere la gioia di udire un santo e dotto predicatore che c’illumini, ci attragga, ci persuada. Non tutti i predicatori poi, dicono cose appropriate per noi, individualmente. Talora qualche predica potrà, persino, disturbare il nostro spirito se noi non saremo pronti a pensare a giudicare con spirito di fede. Invece, è sempre possibile trovare e leggere un buon libro. La lettura spirituale supplirà a tutto, suggerendoci essa i lumi necessari e la guida per combattere e vincere il demonio, sopprimere il nostro amor proprio e far trionfare la volontà di Dio. Quando poi la predica ci fosse piaciuta e ci fosse stata di grande giovamento, non abbiamo la possibilità di invitare il predicatore a ripetercela pel nostro maggior profitto… Al contrario, si può leggere e rileggere un libro e rifletterci sopra con tutta la nostra comodità e tranquillità. – Il libro, dice S. Gregorio Magno (Moral., 2, 1), « è come uno specchio postoci innanzi agli occhi dell’anima ». – La lettura spirituale, asserisce S. Alfonso, riempie la mente di pensieri santi e di buoni desideri. Così, l’anima permeata dai consigli e dai virtuosi esempi dei santi, « sente come un bisogno di vivere alla presenza di Dio, di stare quasi sempre unita a Lui, di fare spesso atti di amore verso Dio, e di praticare tanti atti di virtù ». Soprattutto nella lettura spirituale l’anima sente l’invito dolce e fascinante di Gesù che vuole la nostra dedizione al suo santo servizio, e perciò ci fa splendere chiaramente l’obbligo che abbiamo di imitare Lui, re di ogni perfezione, di secondare e praticare i suoi esempi, già secondati e praticati dai santi. – Quante anime furono, si può dire, trasformate e fatte sante dopo la lettura di qualche libro spirituale che le indusse a lasciare il mondo e a darsi generosamente a Dio! Il colpo di grazia che convertì Agostino, come abbiamo già accennato, fu la lettura di poche righe dell’epistola di S. Paolo ai Romani (XIII, 13-14) alla quale era stato indotto dalla voce d’un fanciullo invisibile che ripeteva: Tolle et lege, tolle et lege.Dopo tanta e sì lunga lotta tra lo spiritoe la carne, finalmente risolvette di troncareogni ulteriore indugio.Così pure, per mezzo della lettura d’unlibro buono di Vite dei santi, al gloriosoS. Ignazio di Loyola Gesù fece sentireil suo dolce invito. Questo meraviglioso invito, gradito, accettato, seguito, indusse Ignazio ad abbandonare il brutto mestiere dell’uso delle armi per gli uomini, e a indossare le armi per la difesa di Gesù e dei suoi interessi. Come sarebbe possibile non vedere, con questo, la cura amorosa della Provvidenza divina che giunge, così dolcemente, al cuore e all’anima di questi suoi grandi figli e tanto efficacemente li attrae nella via e nella pratica della santità?

COME DOBBIAMO LEGGERE.

Perché la lettura spirituale, sorgente tanto ricca e fresca di vita interiore, possa essere efficace, dobbiamo, prima d’iniziare la lettura:

a) metterci alla presenza di Dio e raccomandarci a lui, affinché c’illumini la mente e riscaldi il cuore;

5) leggere, non solo con attenzione e raccoglimento per una più ampia conoscenza del Signore e delle verità eterne, ma altresì per attingere nuovi rinforzi per la nostra volontà;

c) aver cura di leggere non molte cose, o cose troppo difficili, ma sempre attentamente, e con ordine quel poco che possiamo, adattato alla nostra intelligenza e alle nostre esigenze spirituali;

d) cercar di leggere con ordine, pausa, ponderazione, e fermandoci su quei passi che ci fanno maggior impressione;

e) cercare di scegliere qualche buon pensiero per ricordarlo durante il giorno, affinché ci serva di ammaestramento e di guida.

Mi sembra utile, qui, ricordare un suggerimento che S. Giovanni Bosco diede ai suoi giovanetti e che può essere utile a tutte le anime. « Oltre le consuete preghiere del mattino e della sera, vi esorto a spendere eziandio un po’ di tempo a leggere qualche libro che tratti di cose Spirituali… Dalla lettura di questi libri riporterete grandissimo vantaggio per l’anima vostra » (Il Giovane provveduto). Poiché molte anime si crucciano perché loro sembra di non trovare nessun vantaggio nel leggere, o nel sentire e leggere tante cose veramente belle e buone, riteniamo conveniente riferire le parole che ha, proprio per esse, S. Francesco di Sales: « …non bisogna pretendere di mettere in pratica tutto ciò che vi troverete di bello. Andate avanti dolcemente, aspirando dopo cotesti belli insegnamenti; e ammirando; e ricordatevi che non si tratta che uno mangi da solo tutto un festino preparato per molti ». – Avvertimenti chiari e sereni che non abbisognano di commento. S’intende che dobbiamo, sempre, scegliere quei libri nei quali l’anima può sentirsi meglio attratta al servizio di Dio e alla pratica della virtù. Dopo il S. Vangelo, l’Imitazione di Cristo e altri libri fondamentali ben noti alle anime, le vite dei santi sembrano indicatissime per la loro utilità pratica. Infatti, nei libri di istruzione sulla virtù noi leggiamo ciò che si deve fare; ma nelle biografie dei santi si legge ciò che fecero, tra mille ostacoli, tanti uomini ch’erano, come noi, di carne e di ossa, soggetti a tutte le tentazioni. – Un antico re dell’Egitto scrisse sulla sua biblioteca: Alimenti dell’anima. Infatti, chi legge mangia. Buone letture, buon cibo spirituale che nutre, riscalda, e fa crescere… la nostra unione con Dio.

LE VIRTÙ CRISTIANE (17)

LE VIRTÙ CRISTIANE (17)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO VI.

LA QUINTA BEATITUDINE.

La virtù della misericordia

La misericordia che è uno dei più soavi attributi di Dio, procede in Lui, a nostro modo d’intendere, da infinita bontà e da infinito amore, o piuttosto è la stessa bontà, e lo stesso amore infinito, in quanto si volgono ai miseri. Da ciò segue che la bontà e l’amore di Dio rifulgano particolarmente nella creazione; intanto che la misericordia, frutto dell’una e dell’altro, riluce soprattutto nella redenzione, che illumina i ciechi, rialza i caduti, libera gli schiavi, consola tutt’i miserabili, e restituisce un regno di eterno godimento ai figliuoli del pianto e del dolore. Così si comprende perché la misericordia di Dio sia celebrata ad ogni tratto nella Bibbia, e Iddio stesso prenda diletto di essere chiamato Padre delle misericordie; così è chiaro perché San Tommaso insegni, che il Signore provi una cotal gioja nell’usare misericordia alla famiglia dei suoi figliuoli. (Deus voluptuose familia suæ miserebitur. – Sum. I, 21, 43; III, 112, 34).. – Che dire poi della misericordia infinita e dolcissima, usataci da Gesù, durante la sua vita terrena? Misericordiosissimo fu il nostro Gesù verso di Matteo gabelliere, della Maddalena famosa peccatrice, di Zaccheo pubblicano, dell’adultera, del buon ladro, di Pietro che lo negò, di Paolo persecutore e di tutti i peccatori. Miracolo di misericordia Gesù nel redimere il genere umano con la morte di Croce, Egli effigiò dolcissimamente questa virtù della misericordia nelle parabole del re, che rilascia diecimila talenti al debitore, del Samaritano, del buon pastore e del figliuol prodigo. Infine in uno dei suoi più commoventi miracoli, avvenuto allorché risuscitò il figliuolo unico d’una vedova, il quale era portato al sepolcro; l’Evangelista nota che lo fece per misericordia inverso la madre, alla quale, accostatosi, amorevolmente disse : “Non piangere,” (Luc. V, 13)  tosto le restituì vivo il figliuolo. Quanta pietà, quanta compassione, quanta misericordia in questo fatto! Ora il medesimo Gesù, dopo che sul monte delle beatitudini, ci ebbe parlato della giustizia, uscì a discorrere della misericordia, che tempera e raddolcisce la virtù particolare della giustizia, e prende un nobilissimo posto in quell’insieme di virtù, che pur chiamiamo giustizia. Gesù dunque disse così: Beati i misericordiosi, perciocché essi conseguiranno misericordia. – La misericordia cristiana è un affetto santo, che si desta nel cuor dell’uomo alla vista delle altrui miserie, e lo muove a sentirne pietà e a soccorrerle. Da questa definizione si vede che la misericordia nostra non solo rassomiglia alla divina misericordia e la specchia, ma mette capo in essa, come il tralcio nella vite. Noi siamo misericordiosi verso i nostri fratelli, perché Iddio è stato ed è infinitamente misericordioso verso di noi, e anche perché nei nostri fratelli la miseria, il dolore, l’infortunio, non che cancellino o adombrino la divina immagine, piuttosto la perfezionano, e ce la rendono più cara. Infatti, i miserabili e i pazienti non somigliano forse a Cristo, molto più che i ricchi e i gaudenti? E poiché qui avanti mi accadde di dire che, a nostro modo d’intendere, la misericordia in Dio è frutto di bontà e di amore: è giusto considerare, che, anche in noi, la misericordia deriva da bontà e da amore. Perché Iddio ci ha fatto naturalmente buoni e propensi ad amare; noi ci sentiamo spontaneamente inchinati alla misericordia verso i miserabili. Però accade che anche il miscredente o il paganeggiante, seguendo la naturale propensione, usi talvolta misericordia al suo prossimo. Quando poi la naturale bontà e la naturale capacità d’amore sono eccitate e nobilitate dalla grazia, allora queste due naturali capacità non solo fruttificano largamente, ma si centuplicano, si nobilitano e si perfezionano. La storia del Cristianesimo, messa a confronto della storia pagana, ci mostra evidentemente come la misericordia dei tempi antichi non fosse neanche il millesimo di questa dei tempi cristiani. Quella era come un piccolo ruscelletto, che trovava intoppi continui nelle umane passioni vigoreggianti: questa è come un ricco e limpido fiume, che vince gli ostacoli, e corre a rallegrare tutte le genti. Non per ciò dico che di misericordia ce ne sia oggidì tanto che basti. Mai no. Quella che c’è, non basta; riesce anzi assai scarsa al bisogno; perché il Cristianesimo non è diffuso quanto è desiderabile, né è compreso e praticato come e quanto si dovrebbe. Grande è il bisogno che il genere umano ha di questa virtù della misericordia; tanto grande, quanto è grande il numero delle umane miserie. Che mesta parola è mai questa, umana miseria, la quale talvolta ci oscura l’animo anche nei momenti più belli e soavi della vita! E intanto di coteste umane miserie, chi potrebbe mai dirmi quante ve ne siano nel mondo, in un sol giorno o anche in una sola ora della vita? Chi ha mai ingegno o capacità bastante a numerarle? Quante mai ve ne ha tra i barbari e i semibarbari! Quante anche nel mondo civile! Mi piange il cuore al pensarvi; e se il pensiero vi si ferma un po’ a lungo, un’ombra di tristezza vela il mio animo, e o mi raccolgo taciturno in me stesso o, adorando i divini misteri, prego. I maestri in divinità indicano sei differenti gradi di misericordia, i quali sono, come sei diversi scalini, per i quali l’uomo ascende verso il monte della perfezione. E beato veramente chi li ascende tutti, e ha tanto di forza da arrivare all’ultimo, che è proprio solo dei perfetti, e che solo dai perfetti è compreso e desiderato. Il primo grado della cristiana misericordia è compatire ai miserabili, i quali talvolta anche dal solo compatimento purché sia sincero e cordiale, traggono un qualche bene; e chi anche solo compatisce, in ciò imita Cristo, del quale insegna S. Paolo che, sebbene grandissimo e vero Dio, pure, in quanto uomo, compatisce alle nostre infermità. (HEBR. IV, 14). – Poi si sale un po’ più in alto: ed ecco che il Cristiano misericordioso viene largamente in ajuto, per quanto è in suo potere, a tutte le miserie corporali, che pur son molte e, talvolta, egualmente gravi o più gravi delle spirituali. Da qui facilmente sorge un vivo desiderio di portare rimedio anche alle miserie dello spirito, di lor natura peggiori di quelle del corpo, e assai più degne di compassione; perciocché lo spirito è molto più nobile del corpo, e le miserie tanto più sono gravi, quanto è più alta la natura del paziente. Però il Cristiano misericordioso soccorre, secondo il poter suo, alle anime ignoranti con l’istruzione dei veri religiosi e morali, alle anime afflitte con le consolazioni della pietà e della carità, alle anime peccatrici, sforzandosi di ritrarle dal loto delle colpe loro. Il misericordioso secondo Gesù Cristo non si appaga ancora. Ascende più in alto, e sale un altro scalino nella scala della misericordia. Imitando Gesù Cristo, va Egli stesso in cerca della miseria corporale e spirituale per compatirle e soccorrerle; e fa bene, perciocché molte e gravissime miserie del corpo e dello spirito sono occulte, e non si conoscerebbero mai, se la cristiana misericordia non s’ingegnasse di scovarle dove sono celate, e di sanarle col suo balsamo. Né basta. Evvi ancora una perfezione maggiore di misericordia, e si ha, quando taluno sottrae a sé ciò che gli è comodo, utile o necessario, per soccorrere gli altri. Infine l’ultimo scalino in questa via fiorita della misericordia è il dare tutte le cose proprie e anche tutto se stesso per venire in ajuto del prossimo. Così fece, tra gli altri, il grande san Paolino da Nola; il quale, da ricchissimo che era, volle, per amore dei poveri, diventar povero lui. Onde egli e la sua diletta moglie Terasia ebbero grazia da Dio di desiderare di vivere l’uno accanto dell’altro castissimamente; monaco Paolino, monaca Terasia. Così vissero molti anni come fratello e sorella, uniti soltanto nella pietà, nella virtù e in una carità, che celestialmente si confondeva in essi con l’amore di sposi. – Di queste varie parti della misericordia cristiana non tutte appartengono all’essenza della virtù stessa. Alcune, e massimamente l’ultima, sono proprie soltanto dei Santi e dei perfetti. Nondimeno tutt’i Cristiani è bene che le conoscano, le stimino, secondo il dovere, e si sforzino almeno di desiderarle. Certo, sono tutte lucenti e bellissime, e tutte si trovano in piena armonia con i sentimenti più nobili, più gentili e più delicati del cuore umano, Se il cuore umano, tra i figliuoli della Città del mondo, a poco a poco questi sentimenti li ha smarriti o quasi, gli è perché le stesse cupidità, che, come spine, lo pungono, e lo eccitano ai piaceri, attutiscono nell’uomo quanto vi ha di più nobile e generoso. In qualche caso anzi le passioni non solo spengono nell’animo ogni luce di misericordia, ma lo rendono ferino; sicché le storie ci narrano di uomini, che, diventati più crudeli delle belve, han preso diletto delle miserie altrui. Chi il crederebbe? Gli uomini, che pur son tutti figliuoli d’un Padre infinitamente misericordiosissimo, son giunti sino a banchettare, a gavazzare a danzare oscenamente tra gli orrori delle stragi e delle morti barbaramente inflitte a creature innocenti! Ma questi cotali uomini pajon mostri piuttosto che uomini; mostri, i quali ci possono insegnare quanto sia terribilmente infocata la fiamma delle passioni, allorché non s’abbia cura di spegnerla a tempo. – L’Apostolo san Paolo, in tutta la sua vita e nelle sue lettere, ci dà esempj stupendi della cristiana misericordia. Ma nella seconda sua lettera ai Corinti si trova una misericordia così nobile, affettuosa, tenera e gentile, che mi par bene di ricordarla a chi legge. San Paolo dunque, non pago di usar misericordia a tutti, afferma che, se qualcuno soffre, ed egli per compassione e misericordia del dolore altrui, soffre egualmente: se alcuno è infermo, la malattia dell’altro quasi par che gli si infiltri e penetri nel sangue suo: se alcuno inciampa o è in pericolo di cadere in peccato, egli si sente ardere di zelo; o per sollevarlo caduto, o per sorreggerlo pericolante o per togliere di mezzo lo scandalo. (Quis infirmatur, et ego non infirmor, quis scandalizatur, et ego non uror?) (2 ad Corinz. XI, 29). – Ma, ritorniamo alle parole, con cui il divino Maestro ci annunzia la beatitudine dei misericordiosi, per chiarirne l’ultima parte. Egli disse: Beati i misericordiosi, perciocché conseguiranno misericordia. Qual è mai la misericordia che essi conseguiranno? È la vita eterna. Quel medesimo premio, che Gesù aveva promesso prima ai poveri di spirito, ai mansueti, agli afflitti, agli affamati di giustizia, ora lo promette ai misericordiosi, e lo chiama non più regno o terra o consolazione o satollamento; ma misericordia, e con ottima ragione. – Il premio eterno della visione beatifica di Dio è detto nelle Scritture, a volte giustizia, a volte misericordia. In verità esso è l’uno e l’altra cosa, secondo che si consideri in uno o in un altro aspetto. San Paolo, per darci animo ad operare il bene, insegna che il premio di esso ci è dovuto, ed è giustizia. “A me è riserbata una corona di giustizia, che mi darà il Signore giusto giudice”. Ed è giustizia; perché, avendo Iddio promesso il premio a chi crede in Lui e lo ama; il tenere la promessa è in Dio vera e propria giustizia. Nonpertanto, quasi sempre, questo medesimo premio è detto nella Bibbia e presso i Padri misericordia. Anzi il regno eterno del Paradiso non è solo una misericordia di Dio verso degli uomini, ma è come un tesoro di molte misericordie. sue verso di noi. Fu misericordia il redimerci, misericordia il farci nascere nel seno della Chiesa, misericordia il farci bere le prime aure della grazia celeste, misericordia il darci tutte le altre grazie abituali e attuali, misericordia il perdonarci tante e tante volte dopo le nostre colpe, misericordia il farci perseverare nel bene sino alla morte. Qual cosa abbiamo noi che non ci sia stata data da Dio o per bontà o piuttosto per misericordia sua? – Il frutto dunque dolcissimo ed eterno di tutte queste misericordie non può essere che un’infinita ed inenarrabile e dolcissima misericordia, che ci rallegrerà in eterno. Perciò giustamente nei Salmi è detto che il beato in cielo canterà in eterno le misericordie del Signore. – Da ultimo in questa beatitudine, meglio forse che in tutte le altre, possiamo affermare che un saggio del premio eterno lo sentiamo pure durante la vita terrena. Invero anche nella vita presente le misericordie divine e le umane si diffondono assai largamente sui misericordiosi. Vive forse un solo uomo al mondo che non abbia bisogno della misericordia divina, di quella misericordia, dico, che perdona, soccorre la povertà, lenisce i dolori e consola l’anima? E della misericordia umana non sentiamo noi parimente bisogno? O dobbiamo assolutamente negare la terribile e angosciosa realtà del dolore, o ci è forza di ammettere che sentiamo tutti un grandissimo bisogno della misericordia altrui. Forse che vanno esenti da questo bisogno o i ricchi o i potenti o gli scienziati o i giovani o i forti o gli ingegnosi? Certo no; perciocché non uno di questi è scevro sempre dalle miserie dell’ anima e del corpo: e dovunque è miseria, ivi è bisogno di misericordia, a quel modo che dovunque evvi terreno arido e bruciato, ivi è necessità di pioggia benefica. Or l’una e l’altra misericordia, cioè la divina e l’umana, il Signore ce le promette, a condizione che siamo misericordiosi anche noi verso del prossimo. Ed è giusto; perché Iddio e gli uomini non hanno alcuna ragione di aver misericordia di coloro che chiusero il cuore ai sentimenti di misericordia verso i proprj fratelli. D’altra parte è altresì giusto che il Signore versi particolarmente i tesori delle sue misericordie sopra coloro che sono misericordiosi, e che gli uomini facciano il medesimo. – Se alcuno di quei che leggono in questo libro, ora non sente bisogno della misericordia (non dico di Dio, perché ciò è impossibile) ma di quella del prossimo, non lasci di usare misericordia agli infelici suoi fratelli. Anzi se volesse ascoltare un mio consiglio, questo è proprio il tempo di raddoppiarla. Verrà anche per lui l’ora in cui avrà bisogno della misericordia altrui; verrà anche per lui l’ora oscura del dolore. Se non fosse altro, è mai possibile che non venga per lui l’ora terribilmente paurosa e difficile della morte? E allora, se egli sarà stato largo in misericordia verso i suoi fratelli, facilmente gli occorreranno alla memoria le parole onde Gesù, come è detto nei Vangeli, giudicherà le anime uscenti dai proprj corpi: “Ebbi fame, e mi deste mangiare, ebbi sete e mi deste bere, fui pellegrino e mi ricettaste, ignudo e mi rivestiste, infermo e mi visitaste, carcerato e veniste a me… Ogni volta che avete fatto (ciò) o qualche cosa di bene per uno dei più piccoli miei fratelli, l’avete fatto a me.

LA VITA INTERIORE (5)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (5)

Sac. Dott. GIOVANNI NATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna – Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione Riveduta.

GLI ESERCIZI DI PIETÀ

L’ESAME DI COSCIENZA

ESAME DI PREVIDENZA.

Quest’esame si fa, per solito, di mattina,e consiste nel prevedere col pensiero, o,meglio, nel costruirci la nostra giornata eciò che ci potrà accadere, come la dovremoe come la vorremo trascorrere. Nel santoEvangelo si parla di un costruttore il quale,avendo stabilito d’innalzare una torre, pensae riflette se ha tutto quello che è necessario per condurla a compimento. Similmente si accenna ad un tale il quale, prima di dichiarare la guerra ad un altro re, riflette seriamente su la possibilità e la probabilità di riuscire vittorioso. Questi sono insegnamenti preziosi per le nostre anime. Ogni giorno noi abbiamo occasione di fare il bene e di fuggire il male. Nello stesso ordinario compimento dei nostri obblighi quotidiani possiamo essere, più, o meno, diligenti, delicati, precisi… – Ecco la necessità di prevedere ciò che ci potrà succedere, per disporre con prudenza il modo e i mezzi perché tutto riesca di nostro maggior profitto spirituale. Maestro, anche in questo, il grande San Francesco di Sales. Egli, con la sua dolcezza, così ci istruisce: « Prevedete quali affari, quali commerci e quali occasioni potete incontrare in un dato giorno per servire Dio, e quali tentazioni vi potranno sopravvenire di offenderlo o per collera o per vanità o per qualche altro disordine: e con una santa risoluzione preparatevi a usare bene dei mezzi che vi si offriranno per servire Dio e per aumentare la vostra divozione; e al contrario, apparecchiatevi a bene evitare, a combattere e a vincere ciò che può presentarsi di contrario alla vostra salute (spirituale) e alla gloria di Dio. E non basta fare questa risoluzione: bisogna altresì preparare i mezzi per eseguirla ». – I mezzi vengono suggeriti da Dio stesso. Basta, per questo, l’umile supplica che sgorga spontanea dal cuore; essi sono, perciò, tanti e diversi quante sono le anime che, per questo fine, e secondo le loro speciali occupazioni e particolari attitudini, si rivolgono a Dio. – Con certezza, possiamo ritenere che l’esame di previdenza darà anche una direzione e un impulso alla nostra volontà, e perciò alle nostre azioni e, quindi, anche alla giornata. Tutto questo esercizio genererà anche la virtù della fortezza nel combattere durante il giorno, gli ostacoli preveduti fin dal mattino.

ESAME PARTICOLARE.

L’esame particolare, ci conduce, direttamente e rapidamente, al raccoglimento, alla vita: interiore, alla cura e alla preferenza degli interessi di Dio, alla sottomissione e all’adorazione della sua santa volontà. – Ricordiamo, qui, come ognuno ha stretto obbligo di attendere al proprio miglioramento, di cercare la santificazione di se stesso. Per questo il Signore ci comanda d’essere santi, di essere perfetti: sancti estote, perfecti estote. – Nel percorso di questo cammino, non si può mai dire: basta. Perciò l’Apostolo Paolo scrivendo ai Filippesi così loro dice: « Benché da tanto tempo io serva il Signore, tuttavia non mi credo ancora giunto a quel grado di perfezione a cui pure aspiro; perciò non penso a quello che ho fatto e sofferto nel passato, penso invece a quel che mi resta da far». – Ancora: il non cercare di progredire, il desiderare di fermarsi, il dire basta, è lo stesso che tornare indietro. Tutti i maestri della vita dello spirito concordano nella massima: Non progredi, regredi est. L’esame particolare è uno dei mezzi più efficaci per la nostra perfezione e santificazione: “Esso consiste, dice il Tronson, nell’esaminarsi più d’una volta e minutamente sopra un oggetto particolare, come sarebbe un vizio, una virtù, uno dei nostri esercizi; per scoprire non solo i nostri peccati, come si fa nell’esame generale, ma anche i più piccoli nostri difetti e le nostre più leggere imperfezioni. Questo lavorio tutto spirituale ha il fine, adunque, di ricercare l’acquisto. — a una a una — di tutte le virtù, e di sopprimere — uno per volta — tutti i nostri difetti. – Esaminandoci su gli sforzi fatti per l’acquisto d’una virtù, p. e., la pazienza, noi, automaticamente, e immediatamente, veniamo a conoscere quante volte abbiamo praticato in un dato tempo, la virtù della pazienza, e quante volte, nello stesso tempo, siamo caduti nella impazienza. – La tattica esperta della riunione delle forze nell’attacco frontale del nemico, non è meno efficace nel concentramento di tutte le forze per un assalto vigoroso contro un nostro difetto, per sopprimerlo, e all’acquisto d’una particolare virtù per praticarla. – È nota la favola del vecchio che invitò molti giovani a spezzare i rami ammassati e legati d’una sua fascina. Nessuno, dopo molte prove riuscì ad accontentare il vecchio. Questi, invece, sciolse la fascina spezzò i rami a uno a uno. Ecco, chiaro, il significato della favola: così, noi pure dobbiamo fare coi nostri difetti per mezzo dell’esame particolare. Eliminato, tra i difetti, quello che dicesi predominante, perché in noi è più attivo, più sviluppato, e, quasi, la cellula iniziale di tutti gli altri questi cadranno di per sé, e lasceranno di svilupparsi per mancanza di sostegno e di naturale nutrizione. Infatti, ucciso, Golia; i Filistei, in un momento, furono tutti sbaragliati e messi in fuga. « Se noi sradicassimo un difetto ogni anno, dice l’autore dell’Imitazione di Cristo, saremmo ben presto perfetti ». Quale grande conforto per noi! Perché, perché tardiamo a praticare questo esame? No. Esso non è cosa nuova, né, tanto meno difficile. Richiede, da parte nostra, un po di costanza e di vigilanza. – Gli antichi Savi, esortavano i loro discepoli a rivedere di continuo, giorno per giorno, i loro pensieri, le parole, le azioni e di annotarne il loro valore, buono o non buono, con palline bianche e nere. – Nella nostra santa religione però, ha preso, quest’esame, una forma nuova e importantissima. Fu nel secolo XVI che il grande S. Ignazio di Loyola perfezionò e diffuse questa efficacissima pratica di pietà. Egli suggeriva di tenere a disposizione un quadernetto apposito e di segni giorno per giorno, il numero delle mancanze e quello dei successi nell’acquisto della virtù proposta o la soppressione del difetto preso di mira. Di più. Consigliava d’imporsi una penitenza per ogni mancanza. S. Ignazio, può dirsi, giustamente, il grande santo dell’esame particolare. Egli lo praticò anche nel giorno in cui morì. Fu, infatti, trovato sotto il guanciale, il suo quadernetto bene aggiornato sino a poche ore prima della morte. – Una possibile obbiezione può venire da chi credesse questa pratica un impaccio troppo pesante e ingombrante. No. Non è così. Basta incominciare per sentire di amarla e, perciò, volerla continuare. Giosuè Borsi, Guido Negri detto il capitano santo, Loreto Starace, tre valorosi che diedero la vita in olocausto per la patria, praticarono anche in guerra questo santo esercizio. Se, pure, noi, ne faremo uso con serietà e con perseveranza, troveremo in esso un coefficiente molto pratico del nostro raccoglimento. – Terminiamo con le parole di un santo religioso: « Mio Dio, poiché è vostro grande desiderio che io lavori alla mia perfezione, poiché questo lavoro è, per me un obbligo rigoroso e voi me lo facilitate sommamente colla pratica dell’esame particolare, non sarebbe un disordine inescusabile se mi vi rendessi infedele? Non permettetelo, o mio Dio! ».

ESAME GENERALE.

Come abbiamo già detto, l’esame generale, si fa, ordinariamente, al termine della giornata, o di un periodo di tempo determinato. – S. Giovanni Crisostomo così ce lo presenta in una sua omelia: Quando viene la sera, egli dice, e s’avvicina il tempo del sonno, giudicatevi, esaminate la vostra coscienza sulle azioni della giornata. Se siete fedeli a questa pratica, sarete pieni di fiducia, quando arriverà il momento di comparire al tremendo tribunale di Dio. Chi segue la pratica di questo santo esercizio, col dare quotidianamente uno sguardo allo stato della sua coscienza contrarrà facilmente l’abito del vigilare su di se stesso. – Quest’abito, poi, conduce fortunatamente l’anima alla pratica di una vita sempre più cristiana.

MODO DI ESAMINARSI.

Vi sono, anche in questo esame, tanti modi quanti sono i gusti. Tuttavia due modi possono essere indicati: 1) Il primo consiste nell’interrogare la nostra anima seguendo l’ordine dei comandamenti di Dio e della Chiesa. Questo modo ha, però, necessità di essere integrato da molte altre cognizioni. Richiede, perciò, una certa preparazione accompagnata dall’attenzione e dalla memoria.

2) Il secondo modo, invece, consiste nella ricerca che l’anima fa:

a) riguardo al come ha compiuto i suoi doveri verso Dio, verso il prossimo, verso se stesso;

b) e riguardo agli obblighi del proprio stato. Tutto questo poi, nei pensieri, nelle parole, nelle azioni, nelle omissioni.

Ognuno così potrebbe chiedersi: Quest’oggi, sono vissuto da Cristiano, cioè da uomo dell’eternità, conforme a Gesù Cristo nella mia intelligenza, ne’ miei confronti e ne’ miei giudizi? Gli sono stato conforme nel mio cuore, ne’ miei affetti, nelle mie antipatie, nelle mie inclinazioni, nelle mie parole in tutto il mio esteriore? Ho cercato la gloria di Dio? (De Ségur).  – Per questo autointerrogatorio, l’ora più propizia sembra proprio la sera. L’ora cioè, nella quale gli uomini d’affari, i banchieri, i capi di famiglia mettono in ordine i loro conti, fanno il confronto tra le uscite e le entrate, definiscono le questioni, decidono sul da farsi all’indomani, deliberano sulle spese, stabiliscono il saldo delle partite. Questo modo di agire salva, tante volte, certe Imprese che in nessun altro modo potrebbero essere sostenute. Se questo si fa, se tutto questo si ottiene nella cura degli affari materiali che hanno la breve durata d’un giorno, una maggior attenzione dovremmo porre nella cura degli affari spirituali! Quest’attenzione, questa cura possiamo darla, e dobbiamo, anzi, darla, all’anima nostra per mezzo dell’esame generale. Con dolore, però, dobbiamo sovente constatare, come, anche in questo i figli delle tenebre sono più saggi dei figli della luce.

LA PREGHIERA.

Affinché l’esame possa dare i suoi frutti, conviene elevare fiduciosa supplica al Signore perché ci dia la luce necessaria a ben conoscere noi stessi e a rilevare, con precisione, le condizioni del nostro spirito. La luce di Dio ci farà conoscere le colpe gravi, per le quali è necessario, anche, ricercarne il numero e le circostanze che cambiano la specie del peccato. Ci farà conoscere le colpe veniali, di ogni genere, nelle quali con troppa facilità, forse, siamo soliti a sdrucciolare. Comunque: e delle colpe gravi e di quelle veniali è bene cercare l’origine, la causa; enumerare gli effetti disastrosi per detestarle maggiormente. Da ricordare, a questo punto, le parole di Gesù agli Apostoli: Vigilate e pregate per non cadere in tentazione. Soprattutto poi, pregheremo Gesù perché ci dia il dono delle lagrime; ci conceda, cioè, di piangere i nostri peccati, di sentirne vivissimo il dolore per averne da Dio stesso il perdono. Il dolore ecciterà il proposito: il proposito ci persuaderà della necessaria penitenza, della doverosa espiazione delle nostre colpe – Espiazione e penitenza proprio necessarie prima di entrare in Paradiso. Disponiamo lo spirito a farne delle penitenze quando e quanto ci sia possibile, ricordando le parole dell’Apostolo: Se ci condanniamo nella vita presente, non saremo condannati nella vita futura. – Il grande San Bernardo raccomandava caldamente ai suoi religiosi molta severità nell’esame e nella penitenza. Esaminatevi, diceva, e giudicatevi con lo stesso rigore col quale esaminereste e giudichereste un altro! Da quest’esercizio dell’esame generale vedremo scaturire, ben presto, un vantaggio spirituale notevolissimo. Questo progresso nella via del bene, ci avvicinerà, con maggior confidenza, a Gesù. La vicinanza a Gesù ci farà conoscere l’immensa grazia della sua intimità: allora desidereremo veramente l’unione con Lui e con Lui vivremo la sua vita interiore.

CONSIDERAZIONI.

Ancora alcune parole sui vantaggi speciali dell’esame di coscienza. Tra le diverse virtù, quelle che più ne ricevono alimento, sono: l’umiltà e la carità. Non si può non essere umili di mente e cuore, controllando ogni giorno il male ch’è in noi, nonostante i propositi fatti per emendarci! Come, poi, non essere caritatevoli e indulgenti col prossimo, mentre abbiamo in noi, sovente, l’occasione di constatare le medesime miserie? Fu affermato con verità da un maestro di spirito: Senza esame di coscienza sarete fra dieci o vent’anni quello che siete ora; non cercate un difetto di meno e una virtù di più. – In qualche Ordine religioso, la malattia può dispensare da tutte le pratiche di pietà. Si fa eccezione per l’esame di coscienza. Anche ammalato, il religioso è obbligato, da sé, o con l’aiuto di qualche confratello, a esaminarsi ogni giorno. – È logico e chiaro di per sé, il grande vantaggio che ne deriva per la Confessione sacramentale. Come, pure, e viceversa, è palese il danno che ne deriva all’anima non preparata che si presenta al santo tribunale di penitenza. Né solo… prepara al sacramento della penitenza, ma può anche supplirlo in caso di morte improvvisa, mentre la fuga di noi stessi, dopo di aver abbassato la nostra vita di uomo e di Cristiano, avrebbe per ultimo risultato quello di condurci tremanti e già condannati al tribunale di Dio. Si teme il tu per tu con la propria coscienza, eppure si avrà un giorno il tu per tu con Dio. Sapete che cosa sarà il giudizio di Dio? Sarà la coscienza di se stessi divenuta inevitabile. L’esame di coscienza è una delle principali fonti di quello che viene detto lo spirito di iniziativa. Dice un pio autore che dalla mancanza di questo spirito d’iniziativa si arguisce, quasi con certezza, la mancanza di un serio e continuato esame. Il conoscere se stesso è, però, solo un mezzo. Dobbiamo arrivare a conoscere Dio; a conoscerlo bene per amarlo molto, per amarlo infinitamente. Occorre, per questo, incominciare dall’esame di noi stessi. – Ci sembra opportuna, in questo punto, la seguente osservazione di Pascal: È certo che l’uomo più è illuminato e meglio conosce di essere miserabile. È dunque miserabile perché si conosce, ma è grande perché si conosce miserabile. – Concludiamo con un pensiero del caro San Francesco di Sales: I frequenti esami di coscienza sono ottimi alla sera, al mattino e al mezzodì. Ogni Cristiano amante della sua salvezza deve aver cura di ricaricare l’orologio del suo cuore: e nel corso della giornata è bene che consideri in quale stato si trovi.

« Noverim Te, noverim me! »: ch’io conosca Te, o mio Dio, e che conosca me.

(S. AGOSTINO).

LE VIRTÙ CRISTIANE (16)

LE VIRTÙ CRISTIANE (16)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO V.

Desiderio e amore grande di giustizia.

Quel medesimo divino Maestro, il quale, quando ci annunzia i dommi che si riferiscono a Dio, parla con una precisione di parola, che direi geometrica; adopera quasi sempre un’altra forma di linguaggio nell’insegnarci la sua morale. In questo caso egli, facendosi piccolo con i piccoli, non disdegna di parlare con molta semplicità, in parabole, o di usare il linguaggio immaginoso e colorito, in uso presso gli Orientali, e particolarmente presso il popolo d’Israele. E cotesto linguaggio Gesù l’usa, sia perché il popolo I’intende e l’imprime meglio anche nella fantasia e nella memoria, sia perché  in tutta la natura esteriore Iddio sapientissimo impresse l’immagine dello spirito umano, il quale è esso stesso immagine di Dio. Or, l’insegnamento della quarta beatitudine che è questo: Beati coloro che han fame e sete di giustizia, riesce sovranamente poetico e immaginoso nella forma, mentre che è altissimo e nobilissimo nella sustanza. Infatti, il moralista pagano si contentava di dire ama la giustizia; ma Gesù non si tenne pago a voler che amassimo la giustizia: comandò che la amassimo, avendone sempre sete e fame: lo che è molto più. – Per intendere il significato di questa beatitudine, sarebbe necessario di ben dichiarare che valga la parola giustizia nel linguaggio biblico. Ma il lettore non avrà dimenticato, io spero, ciò che fu detto di essa, nel luogo dove mi accadde di trattare delle virtù cardinali: e però basta qui farne una brevissima ricordanza. La parola giustizia nel senso biblico, e anche nel cristiano nato in gran parte dal primo, indica egualmente la virtù particolare, che ha questo nome, e altresì l’insieme di tutte le virtù genericamente prese. Or, anche in questa beatitudine, secondo l’insegnamento comune dei Padri della Chiesa, Gesù mirò all’uno e all’altro significato; e volle che il fedele avesse fame e sete della virtù particolare della giustizia, non meno che dell’insieme di tutte le virtù cristiane forse intese più specialmente a questo secondo significato, che è più comprensivo, e che, quando non ha altra aggiunta, meglio corrisponde al senso cui la Bibbia dà alla parola giustizia. L’immagine, scelta da Gesù, per esprimerci il proprio concetto è non solo vera, ma di una singolare efficacia. La fame e la sete sono due grandi e intensi stimoli della natura corporea; e sono stimoli che, mentre appagati, riescono principio di vita, si rinnovellano sempre, e non si chetano mai interamente, insino a che l’uomo resti nella vita presente. Infatti, non spunta mai il nuovo sole sull’orizzonte a indorare le cime dei monti ea rallegrare la natura, senza che l’uomo sano, il quale pure s’era sfamato e dissetato il dì avanti, non senta intenso il desiderio di nuovo cibo e di nuova bevanda. Parimente l’esser giusto non vale a spegner nell’animo del Cristiano la fame e la sete della giustizia. Egli, se è buono, e conosce e ama Iddio, desidera sempre, con intenso desiderio, nuova giustizia, o che è il medesimo, l’accrescimento della giustizia, onde si sente rallegrato. Anche per il giusto non deve mai sorgere un nuovo giorno, senza che egli non senta nuova fame e nuova sete di giustizia. Però colui, che, diventato giusto una volta, non ha nuovi desiderj di virtù, è Cristiano tiepido, e rassomiglia a quell’uomo infermo del corpo, che per effetto del morbo, da cui è travagliato, . non desidera punto un nuovo cibo e una nuova bevanda, che ne rinfranchino e ne accrescano le forze, – Ma ripieghiamoci un tratto su noi medesimi, e studiamo la natura del desiderare nell’uomo, Il desiderio, che, preso nel senso suo più stretto, è una voglia accesa di bene non presente e non posseduto, riesce cosa piena di misteri. Nei fatti umani spesso il possedimento del bene desiderato o spegne il desiderio precedente, o si muta nella voglia accesa di seguitare a possedere ciò che già si possiede. Nella vita beata ed eterna il possedere Iddio, e il desiderio accesissimo di seguitare a possederlo costituiscono, come sarà più lungamente dichiarato appresso, la felicità dell’Angelo e del comprensore. Nella vita presente poi, quando si tratti della virtù, accade questo, che l’uomo, prima di possedere il bene della virtù, lo desidera; e dopo, poiché la virtù acquistata è finita, imperfetta e iniziale, non se ne appaga del tutto. Allora si sente spinto dalla stessa natura, e molto più dalla grazia, a desiderarne l’accrescimento. Per questo rispetto il Cristiano si trova nelle condizioni di chi, avendo una gran fame e una gran sete, riceve un cibo e una bevanda scarsa; sicché né l’uno arriva a sfamarlo, né l’altra a dissetarlo del tutto. Naturalmente ei desidera nuovo cibo e nuova bevanda; proprio a quel modo che il Cristiano giusto desidera nuova giustizia. La sola differenza, sta in ciò, che l’accrescimento del cibo e della bevanda umana finiscono per appagare il corpo nostro, intanto che l’accrescimento della giustizia non appagherà mai lo spirito umano, prima di quell’ora beata, in cui, essendo arrivato nell’eterno regno, tutta la sua grandissima capacità umana verso il Bene sarà effettivamente riempita. Questo in vero è il grande e alto mistero dell’anima nostra, che, mentre essa è finita, ha avuto da Dio il dono di desiderare un Bene infinito, di tendervi, e di non acquetarsi mai insino a che non lo consegua. Però sant’Agostino insegna che tutta la vita del Cristiano è un continuo e santo desiderare. (Tract. IV, in Epist. S. Joan). Or questo insegnamento, oltre ad essere supremamente filosofico e profondo, riesce un commento alle cose già dette, e mi apre la via a una nuova considerazione, intorno a quella fame e sete di giustizia, che Gesù nella quarta beatitudine ci fece precetto di avere. Nella vita morale accade quel medesimo, che vediamo ogni giorno accadere nella vita intellettuale. Nella vita intellettuale della scienza, delle lettere, delle arti belle, o di qualsiasi altra coltura, è impossibile restare a lungo fermi in un punto. Chi non vuole imparare nuove cose, a costui incontra di disimparare quelle che già conosceva; e chi non si sforza di ricordare spesso le cose imparate, le dimentica o tutte o in parte. Insomma l’intelletto nostro, è di per sé attivo e operante. Quando si ferma a lungo in un punto, tosto si assonna e si addormenta; di che non solo nessun raggio di nuova luce lo ravviva e rallegra, ma, a poco a poco, perde l’antica, e si trova, quasi direi, al bujo. Non vediamo forse accadere ciò quasi sempre negli studi della gioventù, dei nostri tempi particolarmente? I quali studj, ancorché fatti bene e premurosamente, non lasciano traccia nella mente e nella memoria dei giovanetti, se, col crescer degli anni, i giovani si lascino andare ai passatempi o ai negozj o ai commerci della vita materiale. Ora proprio la stessa cosa avviene nella nostra giustizia, o, che è il medesimo nella nostra vita morale. Chi si ferma in essa e non vuol progredire, va indietro. Restare fissi in una certa mediocrità morale, che è pur tanto corrispondente alla fiacchezza dei nostri tempi, è impossibile. Di qui sorge la necessità di non appagarsi della giustizia posseduta; ma di esser sempre famelico e sitibondo di giustizia nuova. Fate che manchino questa fame e questa sete, tanto nobili e benefiche; e il giusto corre grave pericolo di andar con tanta retrogradazione indietro, da perdere proprio la giustizia, abbandonandosi alla vita delle basse cupidità e delle passioni. Né questo che io dico è teorica astratta. La quotidiana esperienza lo conferma, pur troppo, ad ogni passo. – Infine, come Gesù promette nella prima beatitudine un regno, nella seconda una terra, e nella terza una consolazione, così in questa quarta promette un satollamento: beati, dice, voi che avete fame e sete di giustizia, perciocché sarete satollati. È sempre lo stesso pensiero, espresso variamente. E il pensiero è questo, che la virtù ci fa beati nella vita eterna, e che altresì dalla virtù distillano alcune gocce di soavità e di dolcezza, anche nella vita presente. Sono queste gocce della nostra beatitudine terrena, come quei piccoli ruscelletti d’acqua, che scorrono lentamente tra le rocce, i quali in alcuni tempi scorrono e in altri si disseccano. Le gocce di quei ruscelletti disperse tra le rocce non bastano a dissetare chi ha gran sete, ma nondimeno se alcuno vi accosti le labbra, rinfrescano alquanto la persona, le fanno bene, e le arrecano sollievo. – Però l’insegnamento di questa quarta beatitudine non sta tanto nel raccomandare a ciascuno quell’insieme di tutte le virtù che è detto giustizia, o anche la virtù particolare della giustizia, quanto nel comandarci il progresso morale. È un progresso che, come ciascun altro viene alimentato dal continuo desiderio del bene, desiderio qui espresso sotto il simbolo della fame e della sete. È un progresso, nel quale mettono radice tutti gli altri; perché sta in una regione più alta e più comprensiva di ciascun’altra.

LO SCUDO DELLA FEDE (194)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXIX)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

V. — Il Cielo.

D. Come comprendi tu il cielo?

R. «L’occhio dell’uomo non vide, né l’orecchio udì, né il cuore ha compreso quello che Dio riserva a quelli che lo amano » (S. PAOLO).

D. Tuttavia?…

R. Tu conoscerai un giorno il cielo, come spero, possedendolo.

D. Ma in attesa del compimento di questo voto benevolo

R. Il cielo, come S. Paolo c’insegna, non ci vien descritto se non per mezzo di misteri; quello che se ne attesta, è la sua incomprensibilità. Ad ogni modo, noi vi dobbiamo vedere un tesoro di gioia.

D. È questo un dato di moralità veramente pura? Dobbiamo guardare alla gioia, e soprattutto collocare in essa il nostro ultimo fine?

R. Ascolta la risposta di Bergson: «I filosofi, che hanno speculato sopra il significato della vita e sopra l’ultimo fine dell’uomo, non han notato abbastanza che la natura si è data la pena d’informarci appunto intorno a se stessa. Essa ci avverte con un segno preciso che la nostra destinazione è raggiunta, e questo segno è la gioia ».

D. Come giustificheresti questa dottrina?

R. Si giustifica appena si pensa a quello che sono a nostro riguardo le intenzioni della Provvidenza, così come la natura delle cose, la ragione e la fede ce le manifestano. Noi non siamo sopra la terra se non per spiegarvi la nostra vita, finirla in perfezione umana e  soprannaturale, e ciò mediante un’attività retta, felice, feconda per noi e per tutti. Coloro che, secondo Kant, vollero stabilire la moralità sopra altre basi in realtà la camparono in aria, senza darle nessuna radice nella realtà naturale e umana.

D. Ma ciò non è propriamente la gioia.

R. Ne è la condizione, e la gioia ne è la testimonianza. Secondo Spinoza, Leibniz, Aristotile, ai quali aderisce San Tommaso d’Aquino, la gioia è l’espressione di un’espansione, come la tristezza è un restringimento e un regresso della vita.

D. Che cosa ne concludi?

Che lo scopo di tutta la vita è di essere in gioia, e che la virtù non è altro che il mezzo autentico di arrivarci.

D. Ciò fa la figura di paradosso epicureo.

R. Quando si comprende male. Ma ricordati di quegli altri paradossi che si chiamano le Beatitudini evangeliche; esse commentano la dottrina confermandola. Beati quelli che… Ecco posta la questione della felicità, la quale dunque è ammessa e anche proposta come fine. Al termine di ogni formula così cominciata, si trova: Perché il regno dei cieli è di loro; perché saranno consolati; perché saranno saziati, ecc., ed ecco il risultato ottenuto. Finalmente fra i due si trova il mezzo virtuoso: l’amore del prossimo, la purezza del cuore, la fame e la sete della giustizia, l’accettazione dei dolori provvisori, ecc.

D. Dunque il cielo non sarebbe altro che un compimento armonico di noi stessi, nella gioia, dopo una vita di virtù?

R. Esattamente, aggiungendo con maggior precisione che il compimento armonico di se stesso, per il Cristiano, importa un innalzamento. Ma questo innalzamento soprannaturale essendo ab æterno nell’intenzione creatrice, è per noi normale. Aristotile non diceva già che l’uomo non può giungere a capo di se stesso che oltrepassandosi?

D. Essere virtuosi non è dunque solamente meritare il cielo, ma salirvi effettivamente.

R. L’uomo che fa il bene si dedica effettivamente, benché misteriosamente, alla vita eterna; entra progressivamente in un mondo di gioia; fa se stesso gioia; diventando perfezione, diventa cielo; difatti «l’uomo nella sua forma perfetta è cielo » (SWENDENBORG).

D. Il cielo sarebbe dunque un effetto, un prodotto autentico della stessa attività virtuosa?

R. Sì. Il prodotto superiore dell’anima è il cielo. Il regno di Dio è dentro di voi, disse il divin Maestro.

D. Tuttavia il cielo significa altro.

R. Quest’altro è accessorio. Il cielo, nella sua sostanza, è uno stato dell’anima, e questo stato ha il carattere di compimento felice, di un’espansione nella pienezza, il cui segno naturale è la gioia. Perciò Gesù nel suo tenero discorso di addio, si esprime così: Io vi ho detto queste cose (i suoi comandamenti, e specialmente la sua legge d’amore), affinché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia perfetta.

D. E ciò è fatto per tutti? È alla portata di tutti?

R. Sì, perché Dio è alla portata di tutti; Dio supplisce, là dove l’uomo manca; Dio compie, quando l’uomo ha cominciato. Perciò la beatitudine cristiana non è più la meta del dilettante greco che, lontano dalla folla, si esercita ad effettuare l’uomo « bello e buono » in cui egli vedeva l’immagine di una felicità principalmente astratta; ma è una beatitudine essenzialmente e universalmente umana, proposta a tutti, che tutti possono conseguire appena lo vogliano, quand’anche, come dicevo, a cagione delle circostanze delle quali essi non sono responsabili, non lo sapessero.

D. Dunque, rispetto alle insufficienze di questa vita, il cielo sarebbe un ammirabile compenso?

R. Il più diseredato dei figli di Dio non può disperare della sua fortuna: « gli resta un regno intero » (BOSSUET).

D. E rispetto ai dolori è una piena consolazione?

R. Gli eletti lo proclameranno, « quando riconosceranno i giorni della loro angustia più profondi e più belli che i giorni di felicità » (C. PÉGUY).

D. È anche un progresso? Il cielo comporta una evoluzione di felicità, un accrescimento?

R. Il cielo è il compimento infinito della speranza, con la speranza ancora.

D. Come il « perfetto » può crescere?

R. Per la sua propria espansione. Un grano perfetto genera un albero perfetto; un albero perfetto ne genera un altro. La semenza dei beni eterni è di una virtualità infinita, poiché è Dio stesso.

D. Ma tu rinunzi a descrivere questo cielo?

R. La nostra povera esistenza offre troppo poche gioie per fornirci qui delle immagini efficaci, e il soprannaturale non ha equivalenti umani. Tuttavia, ciò che non si può descrivere, si può tentare di precisare.

D. Che ne dici dunque?

R. Già ho distinto il principale e l’accessorio, che, in teologia, si chiama la gloria essenziale e la gloria accidentale. Di questa parleremo fra poco; ma l’essenziale della « gloria » celeste, quello che effettua questo compimento perfetto e felice di cui parlavamo, è l’entrata dell’anima in Dio, è la sua unione intima con Dio, la sua partecipazione alla vita stessa di Dio, come abbiamo notato quando parlavamo del soprannaturale nella sua essenza e nelle sue mire ultime.

D. Il Cristiano non pretende forse già di essere unito a Dio, di vivere già in Dio?

R. Sì, perciò la vita eterna non consiste nell’incontrare Dio, ma nel « rivederlo », come diceva Leone Bloy, cioè nel contrarre con Lui una società di vita più doviziosa, un’amicizia se non più intima, almeno più « sensibile al cuore », come direbbe Pascal.

D. Come sì stabilisce questo legame?

R. Dio è tutto spirito; noi siamo principalmente spiriti: questo vincolo, nel primo stadio, non può essere che un vincolo di spirito.

D. È uno stato dell’intelletto, oppure del cuore?

R. L’intelletto comincia sempre. È l’intelletto che esercita la presa; il cuore si riposa poi nell’oggetto conquistato.

D. In che consiste questa presa di Dio mediante un umano intelletto?

R. Qui noi non possiamo fare altro che balbettare. In mancanza di spiegazione reale, noi chiamiamo ciò una cognizione intuitiva, una visione, volendo significare che l’intelletto prende coscienza di Dio, a modo suo, con la stessa evidenza che l’occhio di carne prende coscienza dell’oggetto che esso vede.

D. Si può chiarire un po’ meglio questa nozione?

R. Descartes lo tenta. « La conoscenza intuitiva, dice egli, è un’illustrazione dello spirito per la quale esso vede nel lume di Dio le cose che a lui piace scoprirgli (e prima di tutto Dio stesso) mediante un’impressione diretta della chiarezza divina sul nostro intelletto, che in questo non è considerato come agente, ma solo come ricevente i raggi della Divinità ».

D. Questi «raggi » cartesiani non rischiarano gran fatto.

R. Qui nulla ci può illuminare. Ma S. Tommaso d’Aquino fa uno sforzo di spiegazione dicendo che a differenza di ciò che avviene quaggiù, dove la conoscenza delle cose ci è fornita dalla loro rappresentazione in noi, nella visione beatifica, Dio, che nessuna immagine può autenticamente rappresentare, diventa la sua propria immagine nell’eletto, la sua propria rappresentazione. Ed ecco dunque quest’essere che pensa Dio mediante Dio, come noi adesso pensiamo l’uomo mediante l’immagine dell’uomo e vediamo la pianta mediante la sua figurazione nel nostro occhio.

D. Non è un introdurre Dio nella stessa contestura dell’anima, e come un divinizzare questa?

R. Perciò noi abbiamo detto che il soprannaturale è una specie di divinizzazione, un’introduzione oscura quaggiù, chiara lassù, nell’ineffabile.

D. Come è ciò possibile?

È. Non si può esprimere la possibilità come non si può supporre il fatto, fuori di una dichiarazione divina. Ma noi abbiamo udito: « Carissimi, noì siamo ora figliuoli di Dio; e non è ancora manifesto quello che noi saremo; ma sappiamo che quando si manifesterà saremo simili a lui, perché lo vedremo come Egli è» (S. GIOVANNI).

D. Tu mi parli di tempo! Ma è possibile essere uniti all’Eterno altrimenti che per un atto eterno?

R. Tu dici bene. Dio, quando entra nell’anima per esercitarvi la parte di idea immanente, deve portarvi le sue proprie condizioni. L’atto di visione divina si misura dall’eternità, che è una durata non solo continua e senza pausa, non solo infinita, ma tutta simultanea, tutta insieme (tota simul), come dice Boezio. È davvero un nirvana, dove l’individualità, a dire il vero, si esalta in vece di perdersi, ma dove si concentra a tal segno che tutta la sua estensione di conoscenza si assorbisce nell’invisibile essenza divina, e la durata totale di questa conoscenza non è che un punto.

D. Come rappresentarci un tale stato?

R. Non cerchiamo rappresentazione; ma Alberto Magno ne vede una vaga immagine e un’anticipazione nel caso di quei contemplatori, di quegli « uomini divini », i genii, i santi, che anche in questa vita « sfuggono al tempo e non scorgono più cambiamenti che il tempo misura ».

D. Quest’ultimo caso si capisce; se ne vedono î limiti; ma « conoscere Dio come Egli conosce se stesso » è un atto infinito.

R. Si dice: come conosce se stesso, e si tratta del modo, cioè per contatto immediato. Non si tratta della misura, del grado. La prova è che gli stati di beatitudine sono, da un eletto all’altro profondamente differenti. Vi sono molte mansioni nella casa di mio Padre, disse Cristo. In altri termini, si tratta di « toccare Dio con lo spirito » (S. AGOSTINO) e non di « comprenderlo », cioè di esaurirlo.

D. Ne segue che questo è un attribuirci una capacità sovrumana, una capacità di Dio.

R. Bisognerà evidentemente « aprire le entrate » (BOSSUET). Dio non dovrà più guardare a quello che Egli ha fatto dell’anima nostra costituendo la sua natura, ma a quello che ne può fare. Egli « non baderà alla nostra disposizione naturale se non in quanto sarà necessario per non farci violenza » (Idem).

D. Che cosa può significare per noi conoscere Dio?

R. La sola idea che possiamo farci, quando si tratta di Dio, è quella di una fonte dell’essere, ove ogni valore di essere è contenuto nell’unità e secondo un modo ineffabile. Ciò non dice niente all’immaginazione, ma fa supporre all’intelligenza un inesprimibile splendore.

D. In Dio, si vedrà dunque tutto quello che quaggiù è disseminato lontano dalla Fonte dell’essere?

R. Si vedrà tutto nella proporzione che si vedrà Dio, con la stessa estensione o la stessa profondità di visione, che sarà determinata dalla nostra elezione stessa, vale a dire dal nostro merito coronato, dalla nostra grazia sbocciata in gloria. In tale proporzione, Dio farà conoscere all’eletto tutto ciò che il reale offre per lui di arricchimento ideale e di spirituale beatitudine.

D. Questo modo di conoscenza è per la mente un completo capovolgimento.

R. I poli della conoscenza umana si trovano infatti rivoltati. Qui, noi conosciamo il creato per esperienza sensibile e Dio per riflesso. Lassù, conosceremo Dio per esperienza soprasensibile, intuitiva, e il creato per riflesso in Lui. Nell’Assioma eterno si vedono tutte le proposizioni del reale; nel Decreto eterno, tutti gli esseri.

D. E sarà questa una felicità?

R. Se la felicità, come la conoscenza, consistono l’una e l’altra in una estensione e come in una moltiplicazione del nostro essere, tutte due si devono ricongiungere.

D. Una felicità puramente ideale, puramente intellettuale, potrà bastarci? Vorrai tu proporla, con qualche speranza di sedurli, agli uomini assetati di vita?

R. S. Paolo ti risponde con una parola che ha l’aria affatto innocente, che tra i Cristiani è diventata volgare, ma nella quale si rivela alla riflessione un’ammirabile profondità. « Dio sarà tutto in tutti».

D. Che cosa significa questa parola?

R. Dio sarà tutto per gli eletti, perché la diffusione dell’essere e dei beni che Egli operò con la creazione non ha impoverito Iddio di ciò stesso che Egli dona, Dio comunica; dà in partecipazione; non aliena. La Fonte dell’essere ha questo di speciale e d’incomprensibile per noi, che essa getta con un’indicibile abbondanza e non vede ridursi la pienezza delle sue acque. Perciò si trova, in essa, più che in nessuna cosa e più che in se stesso quello che è proprio di questa cosa e proprio di se stesso. Di modo che, possedendo Dio, nella proporzione che lo si possiede, si possiede se stesso nella propria pienezza e si possiede tutto il resto. Ecco quello che si vuol significare dicendo: Dio è tutto In tutti.

D. Ma tu lasci da parte l’ordine di cognizione, del quale avevi detto che impegna tutto, e che appunto per quest’ordine noi aderiamo alla Fonte dei beni.

R. Niente affatto, ed ecco la connessione. Ciò che si chiama una felicità reale, una felicità effettiva, per opposizione a un puro conoscimento, di che cosa è fatto se non ancora di conoscimento, dopo che gli oggetti conoscibili, assimilandosi ai nostri corpi, ci hanno anzitutto aiutato ad essere? Per noi, tutto consiste nel vedere, nel toccare, nel gustare, odorare, nel prendere conoscenza di noi e degli altri, nel reagire di fronte a una verità, a una bellezza, a un’amicizia riconosciuta, a una stima manifestata, ad una sottomissione degli avvenimenti o delle persone che certi fatti di conoscimento ci dànno.

D. Ma questi fatti di conoscimento non sono tutti dell’ordine intellettuale; i più dipendono dai sensi.

R. Pensi tu che ciò sia meglio, in quanto alla loro capacità di felicità?

D. L’immensa maggioranza degli uomini così crederebbe.

R. In un certo modo avrebbero ragione; ma nell’assoluto, dove ci riporta la vita eterna, essi avrebbero torto.

D. Desidererei di comprendere.

R. Tutto dipende dal genere d’intellettualità di cui si parla, quando si oppone la cognizione intellettuale a una cognizione sensibile atta a rallegrare i viventi.

D. Vi sono dunque più specie d’intellettualità?

R. Ve ne sono qui due da prendere in considerazione: l’intellettualità astratta, e quella che noi abbiamo chiamata intuitiva, che ci lega a Dio spirito.

D. Come si nota la differenza?

È. L’intellettualità astratta non ci dà se non dei concetti, cioè dei fantasmi di nostra creazione, che a dire il vero rappresentano il reale, ma non lo fanno entrare in nostro possesso. Questi concetti sono della nostra sostanza; sono noi modificati; non possono dunque procurarci del reale se non una figura e come uno schema vuoto. Al contrario, per l’intuizione di Dio, noi attingiamo in Dio spirito quello che vi si trova, e ciò non è più uno schema delle cose. Dio non è una forma vuota, come quella che noi concepiamo quando pronunziamo questa parola: Dio. Tutta l’idealità che contiene è sostanziale, essendo il suo essere stesso. Creatrice, essa è ricca di tutto il reale. Per conseguenza, tutto quello che, nel reale, è l’oggetto delle nostre intuizioni sensibili e dei nostri « possessi », qualunque ne sia la forma, si deve trovare in questa Sorgente prima allo stato ideale. Perché allora non ve l’attingeremmo?

D. Potrebbe ciò farsi per mezzo del solo spirito?

R. Per mezzo dello spirito — se esso esercita la sua funzione di spirito in luogo di quella funzione d’anima che anima una materia, di cui abbiamo qui l’esperienza, — perché non afferreremo noi quello che, in Dio, è spirito, per quanto sia pieno

di ricchezza di essere?

D. Ecco quello che di fatto sfugge a ogni esperienza!

R. Come Dio stesso; ma questo è tuttavia incluso nella nozione di Dio. « Dio è virtualmente ogni essere », abbiamo detto con S. Tommaso d’Aquino: se noi possiamo afferrare Dio con un’intuizione ricca del suo essere stesso, poiché di questa stessa intuizione Lui stesso è il principio immanente, noi saremo in possesso dell’essere, e non del suo contorno astratto. La nostra intuizione intellettuale, elevata dal lume della gloria al livello del divino in sé, potrebbe essa, in questa presa dell’essere, mostrarsi inferiore ai nostri occhi, alle nostre mani, alle nostre papille boccali, a tutto l’attrezzamento sensoriale? No, certo. Dunque, noi possiamo trovare lì più felicità che in quel supposto reale in cui già Platone non vedeva altro che un’ombra.

D. Come ammettere che per mezzo dello spirito si possa percepire e conquistare, per viverne, quello che dipende dalle qualità della materia, oggetto dei sensi e non dello spirito?

R. Quelli che Bergson ed altri ancora hanno istruito sanno che la materia non è che il limite inferiore dello spirito, un residuo grossolano, una cenere di questo fuoco, un arresto relativo e come una paralisi di questa attività sublime. Vorremmo noi rimpiangere la cenere, abbagliati e riscaldati dal fuoco?

D. Questa dottrina è ammessa in filosofia cristiana?

R. S. Tommaso ne offre l’equivalente quando riunisce materia e spirito in una sintesi ideale della quale la sostanza divina, tutta ideale essa stessa, è il centro di emanazione. Per S. Tommaso, tutto quello che vi è di proprio della materia e dei composti di materia si trova in Dio eminentemente, come nella sua sorgente prima, e quindi si può ivi ritrovare, se per l’intelligenza sopraelevata e come divinizzata nella sua potenza, si afferra Dio in sé.

D. Dunque, secondo te, un eletto non può rimpiangere questo mondo.

R. È possibile il rimpianto del miraggio, quando la sorgente ti abbevera? Una giovane madre rimpiange forse la sua bambola, quando ha il bimbo in braccio?

D. Ma è là tutto il cielo?

R. È l’essenziale, dicevo, a tal segno che, se anche tutto il resto fosse assente, non si potrebbe dire che mancasse. Chiunque ha il sentimento di ciò che è Dio sottoscriverà questa sentenza di S. Agostino: « Assai avara è un’anima a cui Dio non basta ».

D. L’essenziale suppone però l’accessorio.

R. L’eternità di fatto dev’essere presa com’è. Il nostro essere al contatto di Dio, non rinunzia a se stesso, non perde il contatto con le altre creature, e la sua beatitudine si deve allargare, se non elevarsi, con tutto ciò che gli può venire dal suo proprio funzionamento naturale e dalle sue molteplici relazioni.

D. Tutto questo non è forse offuscato dalla chiarezza divina, annegato in quel nirvana cristiano che hai descritto?

R. Noi accettiamo come una legge che Dio, fondatore delle nature, attirando a sé le sue creature, non fa mai altro che darle maggiormente a se stesse. Ne segue che nell’anima separata dal suo corpo, l’attività relativa a se stessa e a tutte le altre creature dev’essere più intensa e più ricca, anziché essere abolita.

D. Tutti i suoi pensieri di questo mondo seguono dunque l’anima nell’altro mondo?

R. Questo si crede generalmente, quantunque non sia un’assoluta certezza. Ciò dipende da una teoria psicologica un tempo contestata.

D. Che cosa intendi con questo?

R. Si può pensare che le nostre idee nascano e rinascano nell’anima all’occasione dell’esperienza sensibile e del ricordo, ma senza imprimervisi in modo durevole. Si può pensare invece che vi persistano tanto più in quanto l’anima è immateriale e non subisce, come la sostanza cerebrale, il consumo del tempo. In quest’ultimo caso, di gran lunga più probabile, le nostre idee acquistate durante la vita ci rimangono; nell’altro caso, no.

D. Le conseguenze di quest’ultima supposizione devono essere molto gravi.

R. Sono anzi insignificanti; perché ciò che non sarebbe ottenuto per questa via sarebbe ottenuto sovrabbondantemente per la precedente. Non è necessario vedere gli astri nel mare, quando si vedono nel cielo.

D. Dunque tu sostieni che Dio solo basta?

R. Dio solo basta; ma Dio ci dà con se stesso tutta l’opera sua. Si potrebbe attribuire questo senso nuovo alla formula evangelica: « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato per giunta ».

D. In questo soprappiù, comprendi tu una vita comune degli esseri salvati, e specialmente di quei che si conobbero sopra la terra, che furono legati dalle collaborazioni, dai servigi e dai vincoli dell’amore?

R. È naturale, benché, su questo punto, non abbiamo rivelazione precisa. Ammesso che il destino, in Dio, è principalmente individuale, perché, rispetto all’eternità, ogni anima vale una specie, così come un puro spirito, si deve pensare che i nostri legami della terra hanno la loro sanzione in cielo, come ogni fatto provvidenziale avente i suoi fondamenti nella nostra natura.

D. Ma la natura, in questo caso, non è, finalmente, assorbita nel soprannaturale?

È. No; come la visione creata non è assorbita dalla visione divina, come la creatura non è assorbita in Dio, conservatore e cooperatore della sua opera. « La grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona », è presso di noi un adagio comune. Poiché la nostra natura è sociale con tutto quello che questa parola astratta comporta di vincoli effettivi, il compimento finale deve importare una società degli spiriti, benché i vincoli spettanti alla carne o nati dagl’interessi materiali non Vi possono manifestamente ritrovare tranne i loro effetti spirituali, ma in nessun modo la loro propria sopravvivenza.

D. Non vi sono dunque famiglie in cielo? Non vi sono patrie?

RF. Nella Risurrezione, disse il Salvatore, gli uomini non hanno mogli, né le donne mariti; essi sono come gli Angeli di Dio nel cielo, ed è lo stesso dei gruppi di famiglie legati dagli avvenimenti del tempo che si chiamano patrie. Ma ciò che non sussiste punto in sé conserva i suoi effetti. Una famiglia, come ce lo ha detto abbastanza il sacramento del matrimonio, è un’organizzazione della salute, un elemento della Chiesa; una patria non è che un gruppo di famiglie: dunque nello stesso modo che rimane la Chiesa, anche la famiglia, in tutto ciò che essa ha di Spirituale, deve rimanere, insieme coi vincoli spirituali nati nelle patrie e che, fin di quaggiù, ne sono la parte eterna.

D. Non vi è qui, tuttavia, un particolarismo nemico della carità universale, e questa grandiosa carità non è forse quella che tu difendevi sotto il nome della comunione dei santi?

R. La comunione dei santi estende un amplesso immenso a tutti gli altri; non li distrugge affatto. La carità ha i suoi oggetti ordinati a scaglione, e perché Dio ne è l’oggetto primo, motivo essenziale d’amore verso tutti gli altri, noi diciamo che l’essenziale della carità in questo mondo è l’amore di Dio, e l’essenziale della beatitudine celeste l’unione con Dio. Ma siccome l’amore di Dio non abolisce l’amore del prossimo, ed anzi lo fonda: così la beatitudine in Dio non assorbe affatto la felicità affettuosa che possiamo trovare nelle creature: « La carità rimane », dice S. Paolo: dunque anche i suoi oggetti, che determinano il suo valore e le sue forme. Del rimanente non acclamiamo noi con gioia e tenerezza l’Incoronamento della Vergine nel cielo? Se Cristo corona sua Madre, non è per toglierci la nostra.

D. Dunque noi, figli di Dio, non ci lasciamo se non per ritrovarci?

R. « La vita non è che un’occasione d’incontro, solo dopo la vita avviene il congiungimento » (Vicror HUGO).

D. Ma la nostra ampia unità, attraverso a ogni frontiera, unità che ha tanta difficoltà a rendersi conscia di se stessa, tu l’aspetti indubbiamente per l’altra vita?

E. Noi attendiamo l’assemblea universale degli uomini, ora dispersi nello spazio e nel tempo, come ciascuno di noi attende la coscienza piena del suo essere, oggi sbriciolato in fenomeni successivi e incoscienti. Ciascuna creatura pensante deve un giorno ritrovarsi in tutti gli altri, in una stretta comunità di gioia. La nostra unità divinizzata sarà il coronamento dell’opera umana nel soprannaturale, come una vera e intima società delle nazioni sarebbe il coronamento della civiltà sopra la terra. Comunicare insieme e nella loro Sorgente è la felicità eterna degli spiriti.

LE VIRTÙ CRISTIANE (15)

LE VIRTÙ CRISTIANE (15)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO IV.

LA TERZA BEATITUDINE.

La virtù della pazienza.

Se alcuno dei miei lettori fu preso da stupore nell’udire le prime parole di Cristo: Beati i poveri in ispirito; lo stupore di lui crescerà di mille tanti, sentendo queste altre parole di Gesù: Beati coloro che piangono. Come mai la beatitudine si potrebbe accordare col pianto, il quale, secondo bellamente dice l’Alighieri, non è altro se non dolore, che si distilla in lacrime?» Certo, il dolore e la beatitudine non possono stare insieme; ché la beatitudine è godimento, e il dolore è non solo negazione, ma contradizione di godimento. Pertanto, a voler ben intendere le parole di Cristo, innanzi tutto ricordiamoci che le otto beatitudini, piuttosto che beatitudini della vita presente, sono virtù promettitrici di una eterna e inenarrabile beatitudine avvenire. Ancora, prima di parlare della virtù, che io credo particolarmente insegnata in questa terza beatitudine, la quale virtù è la pazienza; volgiamo la mente a qualche considerazione generale intorno a coloro che piangono, per trarre dalle parole di Cristo un primo significato, anche esso utile alla nostra vita morale. Dopo che il pianto è malauguratamente entrato nel mondo, e lo vediamo spuntare sino su gli occhi del bambinello appena nato, è certo che l’uomo trova nella vita molte cagioni virtuose, nobili e sante di piangere; e intanto trova pur molti incentivi viziosi, ignobili e rei al godere. Or bene, dove mai s’incontra,la beatitudine della virtù vera? Tra coloro, che piangono, sacrificando sé stessi al bene, o tra coloro che godono e ridono prostituendosi al male? I sentimenti più nobili e santi sovente ci spingono, quasi inconsciamente al pianto, o quando, per esempio, ci addoloriamo dei peccati nostri e di quelli del prossimo, o quando abbiamo compassione dei nostri fratelli miseri e abbandonati, o quando perdiamo i nostri cari, o se vediamo oppressa la giustizia e trionfante l’iniquità. Diremo noi dunque che il pianto in questi casi non sia commendevole e bello? Non preferiremo noi mille volte le lacrime sante e spesso soavi dei figliuoli di Dio, al riso dei gaudenti del mondo e di tutti coloro che, pur di godere, s’infangano in ogni sorta di brutture e di viltà? Non diremo noi, per esempio, bello il pianto e belle le lagrime di una madre, che, vegliando sul figliuolo suo prediletto, teme di perderlo, e mescola il pianto con le sue preghiere a Dio? Allorché adunque il nostro divino Maestro disse beati coloro che piangono, e poi aggiunse, guai a coloro che ridono; l’universo gli si affacciò alla mente come diviso in due grandi schiere: quella dei figliuoli della Città di Dio, i quali spesso hanno il volto bagnato di lagrime, sebbene ad essi non manchino le dolcezze di interne consolazioni; e quella dei figliuoli della Città del mondo, che gavazzano, ridono, banchettano, amoreggiano, e non di altro si dànno pensiero, se non del molto e sempre godere. Se non che ravvicinando queste parole di Gesù, beati coloro che piangono, con le altre dette da lui: in pazienza possederete le anime vostre; noi possiamo bene intender le prime come ordinate ad insegnarci la nobilissima e cristiana virtù della pazienza. Guardiamo un tratto l’uman genere con animo sereno e riflessivo. Innumerevoli sono i dolori della vita nostra; e tutti, mercè la pazienza cristiana, diventano germi di bene, e ci fanno talvolta anche provare intimamente le dolcezze che il Signore diffonde nelle anime alle quali è bello il soffrire per amore di lui. Or, a ben intendere la virtù della pazienza, che nel Cristiano è la compagna indivisibile del dolore, sarà utile di studiare alquanto la natura del dolore stesso, e l’alta sua missione nel Cristianesimo. Il dolore, come insegna la dottrina di Cristo, è effetto del peccato; e poiché il peccato è separazione da Dio, anche il dolore in un altro modo è una separazione da Dio sommo Bene, o da qualsiasi altro bene vero o apparente, in cui risiede l’immagine del primo Bene. Non è volontaria questa seconda separazione del dolore, come volontaria fu quella del peccato; ma è pena dell’altra, e, dopo la redenzione di Cristo, quando sia pazientemente accettata, è una pena che conferisce molto a distruggere quello stesso peccato, da cui nacque. Chi non pone mente a questo che ho detto, del dolore, e non cerca di penetrarne addentro la natura, non saprà mai spiegare l’infinita ripugnanza che l’uomo, anche se santo, ha verso il dolore, e il gran bene, che esso è riuscito a noi, dopo il peccato, per effetto della Redenzione di Cristo. –  In vero il dolore è o morale o fisico. Il dolore morale è un sentimento, che turba e affligge l’animo, per un bene qualsiasi, o perduto se si possedeva, o desiderato e non potuto possedere. Così invero l’uomo soffre per la perdita dell’amico, delle ricchezze e del piacere che possedeva, ed egualmente soffre del non poter godere questi beni desiderati. Che se egli conosca e ami Iddio, e l’offende; l’animo suo ha pur dolore di aver perduto pel peccato il sommo Bene: o se è ostinato nel male, soffre di non poter riacquistare il sommo Bene perduto. Insomma non vi ha mai dolore morale, che non metta la sua radice in una qualsiasi separazione da un bene. Che se talvolta il bene, che ci fa soffrire è apparente o colpevole; ciò non significa che nella cosa rea desiderata non vi sia una qualche particella di bene, la quale ce la fa desiderabile, e quando si perda, o non si possa conseguire, ci arreca dolore. – Non molto differente dal dolore morale è il dolore fisico, che deriva dalle medesime cagioni; e benché riguardi il corpo, è l’anima che principalmente lo sente. Il dolore fisico in vero è una sensazione molesta e afflittiva, cagionata da un male, che tormenta qualche parte del corpo umano. Ora il bene del corpo umano è che, quantunque consti di moltissime parti, cioè della carne, delle ossa, dei nervi, dei muscoli, del sangue, delle arterie, delle vene e di tanti membri o membricciuoli diversi; nondimeno sia uno, per effetto della proporzione e armonia ammirabile di tutte le sue parti. Senza il peccato l’uomo, che, unito con Dio, non sarebbe stato soggetto a dolori morali, non avrebbe neanche avuto dolori fisici. Ma dopo che egli ebbe peccato, avvenne il contrario; ché effetto del peccato fu anche lo spezzamento e la dilacerazione del corpo umano; preludio e avviamento a quell’ultimo spezzamento e finale dilacerazione, che dicesi morte. Dalla prima ora, in cui nasce e vagisce un bambinello, insino al dì della morte sua, molte cagioni intrinseche ed estrinseche turbano cotesta armonia e unità del corpo, che è il suo bene proprio. Onde avviene, che esso corpo, scisso dal proprio bene, sente, dolore. Innumerevoli motivi, il troppo e il poco di ciascuno degli elementi, onde il corpo si costituisce; le percosse, il fuoco, il gelo, la fame, la sete, e mille altre cagioni, intanto che producono dolore, non sono altro, che separazioni e dilacerazioni di quella unità armoniosa, che costituisce il vero bene del nostro corpo. Se non che, come mai si governerà l’uomo, a petto di questo nemico della sua natura che è il dolore? Non è agevole il dirlo, se si pensi, che niente gli ripugna più del dolore. Oh dunque misera, cento volte misera condizione dell’uomo, creato da Dio per godere, e costretto, non volente, anzi fortissimamente ripugnante, a vivere quasi sempre tra il dolore! Il più delle volte anzi, l’uomo come chi si aggira in uno spineto, per troppo desiderio di evitare una spina, sentesi dilacerato da un’altra! Che farà dunque egli mai, circondato, com’è, tutto da spine, che lo pungono ora nel cuore e ora nel corpo? Avanti a lui non si aprono che due vie opposte: l’una di esacerbarsi sino alla disperazione e superbamente affermare, con lo sventurato Giacomo Leopardi l’infinita vanità del tutto: l’altra di esser paziente, quanto più è possibile paziente. Questa seconda via è la via del Cristiano, non facile a percorrere, ma nondimeno piena di luce, di bellezza e di gloria. – Pazienza è virtù che ci fa soffrire con rassegnazione e animo sereno le avversità, i dolori, le ingiurie e ogni cosa molesta. Non fu virtù ignorata dai Pagani; tanto più che essa ha intima parentela con la fortezza, la quale ei tennero in onore, dichiarandola virtù cardinale. Nondimeno nella Paganità la pazienza fu guastata spesso dall’orgoglio, che è il verme roditore di tutte le virtù gentilesche. L’uomo forte e paziente quasi sempre si gloriava della forza e della pazienza sua, e ne prendeva motivo per elevarsi sopra il più degli uomini, e talvolta anche per tenerli a vile. Tra il popolo di Dio, questa virtù fu avuta in gran conto, e, secondo la dottrina israelitica, che fa derivare la virtù da Dio nell’uomo, non riuscì incentivo d’orgoglio. Non ne mancarono esempj tra i Patriarchi, e basterebbe quello di Giobbe, che è tanto bello e parlante, e che giustamente fu dato al popolo Giudeo, per apparecchiarlo a comprendere la incommensurabile ed eroica pazienza di Gesù Cristo. Nondimeno la virtù della pazienza è giusto che la diciamo virtù cristiana, sia perchè Cristo fu l’Uomo dei dolori, e il divino Paziente; sia perché il Cristianesimo con i suoi nobilissimi principj modificò grandemente l’idea del dolore, e anche della pazienza, che ce lo fa sopportare. Chiunque soffre nell’anima o nel corpo, la prima idea che gli si affaccia alla mente è, certo, questa; Perché mai io soffro? Non è questa una domanda curiosa, o un effetto della tendenza naturale dell’intelletto a scovrire le cagioni delle cose. È invece un possente bisogno, che rampolla spontaneamente nell’animo umano dal desiderio del godere e dalla ripugnanza al patire. Ora nessuna filosofia, e molto meno la miscredenza sa rispondere a questa interrogazione. E pure il rispondervi gioverebbe non poco a vincere i foschi e disperati propositi di molti, e ad alimentare la virtù della pazienza. Solo il Cristianesimo risponde con dottrina assolutamente ferma e certa: che ogni dolore dell’animo e del corpo deriva dal peccato d’origine, e dagli altri peccati. Né qui si ferma. Insegna che, mentre il dolore è frutto del peccato, è altresì pena del peccato. Or questo pensiero, che mette nel dolore la pena del male, è al tutto conforme alla nostra ragione; la quale, fuori del dolore, non sa neanche concepire l’idea di pena, come ne fa fede il giure antico e moderno. – Il Cristianesimo fa ancora un altro passo avanti. La pena del male può essere o soltanto punitiva, o anche talvolta punitiva ed espiativa insieme. Quando la pena espia il peccato, ci fa un gran bene, e riesce anche a consolarci, liberandoci dal fardello del male. Che se il male, cristianamente lo consideriamo a guisa di una macchia, la pena ci monda, e, se come una bruttura, la pena ci abbellisce. Ora il dolore, che è pena, diventa, per i meriti di Cristo e per la nostra pazienza, una perfetta e completa espiazione del male. Il dolore dunque, e la pazienza che gli sta a lato, sono diventati per tal guisa, cose nobilissime, sante e consolatrici. Anzi, a guardar il fatto più addentro, questo nobilissimo mutamento, avvenuto nel dolore, procede tutto dalla virtù della pazienza, che Cristo, divino Paziente, ci comunica. Togliete al dolore umano la pazienza, e che resta esso mai? Una pena, niente altro che una dura pena, poco diversa da quella dei malfattori, che mordono il freno sconsolatamente. Anzi il dolore, senza il balsamo della pazienza, non è una pena soltanto: essendo assai ripugnante alla nostra natura, diventa pure uno stimolo possente di peccati nuovi. – Oltre alle cose dette, la pazienza cristiana trasforma e trasfigura al tutto il dolore in un altro modo. Di pena che esso è, lo rende anche principio di merito, e anzi merito esso stesso. La grazia celestiale, che è la rugiada benefica di tutta la nostra vita cristiana, spesso ci è meritata dal dolore paziente. Ancora, intorno all’albero della pazienza nostra pullulano, e vigoreggiano e crescono la fede, la pietà, l’umiltà, la carità, la mansuetudine e tutte le virtù del credente. Le quali, poiché ci furono meritate da Cristo paziente, sono facilmente date e accresciute nel nostro animo per effetto di pazienza. Infine il dolore, nato dal peccato, il dolore dico, che ci ha possentemente allontanati dal gaudio, pel quale Iddio ci aveva creati, esso stesso, trasfigurato dalla pazienza cristiana, ci conduce a un gaudio incommensurabile ed eterno. Ciò che di Cristo Redentore è detto, essere stato necessario ch’ei patisse per entrare nella gloria, è verissimo di ciascun uomo, che, dopo il peccato, non arriva agli eterni gaudi, se non per l’aspra e oscura via del dolore. Il dolore pazientemente sopportato ha acquistato nella dottrina del Cristianesimo una tale nobiltà e grandezza, che il Cristiano, quantunque senta la sua natura infinitamente ripugnante al soffrire, talvolta liberamente cerca il dolore, e liberamente lo infligge a se stesso. Il nobilissimo principio della mortificazione cristiana, così poco e malamente compreso dal mondo, non ha altro fondamento se non questo che sono per dire: poiché il dolore pazientemente sopportato, espia il male, ed è fonte di merito e di gaudio eterno; noi dunque andiamo liberamente incontro a dolori volontari, affine di rendere più facile e completa la nostra espiazione, più ricca e vivace la sorgente dei nostri meriti. Con questo intendimento il Cristiano digiuna, si flagella, mortifica i sensi; con questo intendimento talvolta ricusa a se stesso anche gl’innocenti piaceri dello spirito. Tutta questa teorica del dolore, della pazienza, delle pene, del merito cristiano, intanto che è un volo altissimo e nobilissimo della teologia cattolica, riesce il balsamo consolatore della nostra vita morale. Quante sanguinanti ferite ha guarito questo balsamo! Quante titubanze ha vinte! Quante anime ha consolate, tra i dolori più acerbi! Chi potrebbe noverarlo! Oh! Se i mondani che vedono sì agevolmente dappertutto mali e dolori, potessero penetrare un po’ addentro nell’anima di coloro, i quali, uniti a Cristo col cuore, piangono; oh! quanti misteri di luce, di carità e di dolcezze arcane si rivelerebbero ad essi. Vedono la superficie del mare fremente e in tempesta, e non s’accorgono che nel fondo di esso le acque appena si muovono leggermente o restano affatto tranquille. I Santi, poiché vollero non solo vivere nella pazienza cristiana, ma toccarne l’eroismo, non s’appagarono di soffrire rassegnati e talvolta lieti tutte le tribolazioni della vita, ma andarono molto avanti nel procurarsi liberamente frequenti e gravi dolori. Però furono talvolta giudicati come persone, che si mettessero contro la natura, data loro da Dio. Si potrebbe provare con buone ragioni che ciò non è punto vero; ma poniamo che qualche Santo avesse in ciò oltrepassato il segno; chi oserebbe mai fargliene una colpa, quando si pensi che lo fece soltanto per avere una signoria di sé medesimo così piena, che lo rendesse eroe di coraggio e di fortezza contro tutto quanto vi ha di male o di vile nel mondo? – Ma poiché siam venuti a parlare dei perfetti o Santi che siano, consideriamo un tratto con più accurato studio la beatitudine di coloro, che piangono, in relazione con la santità cristiana. I Santi crearono nel linguaggio cristiano una frase assolutamente nuova, e ignota prima del Cristianesimo, e che, come è giusto, corrisponde ad un pensiero nuovo. Essa è il gaudio del soffrire. A prima giunta pare che contenga in sé una contraddizione, ma non è il primo Santo in vero, che, per quanto io sappia, adoperò questa espressione fu l’Apostolo Paolo; ed è da notare, che, nella bocca di lui, non fu un insegnamento o una teorica astratta; sì bene un sentimento, provato da lui medesimo, e manifestato con queste parole: Io sovrabbondo in gaudio in ogni nostra tribolazione” (2 Cor. VII, 4). Or il gaudio della tribolazione, pieno com’è di mistero, non è un gaudio, che annienta il dolore; perciocché allora la tribolazione non vi sarebbe più, ma un gaudio che sta insieme col dolore; proprio a quel modo che vediamo talora nel cielo i bellissimi colori dell’iride stare in mezzo a nubi dense e oscure. Quante volte in vero noi soffriamo e godiamo nel medesimo tempo? soffriamo, per esempio nel corpo, e godiamo nello spirito; soffriamo del presente e godiamo del futuro? Quante volte una medesima cosa, guardata in un aspetto, genera dolore, e guardata in un altro, genera gaudio? Dite a una madre, che un suo dolore corporale conserverà certamente la vita del suo dilettissimo figliuolo; e non credete voi che in lei, mentre il corpo soffre pel dolore, l’animo gode per la vita salvata al figliuolo? Questo medesimo avviene nei Santi. Mentre si trafiggono talvolta con spine di dolore volontario, il cuor loro gioisce nel compiacimento dell’espiazione, del merito e del gaudio futuro. Qui avanti vi accennai che san Paolo Apostolo sentiva il gaudio della tribolazione. Ora credo che, dopo di lui, nessun altro abbia più efficacemente espresso questo pensiero di quel che fece una vergine claustrale, una pazientissima vergine, santa Teresa di Cepeda. Date un’occhiata alla Vita di lei, e alle sue Opere, e ci troverete sempre questo pensiero, che il vivere senza patire era per Teresa pena maggiore d’ogni pena. Onde pregava il Signore dicendo: O che io patisca o che io muoja. Da queste ultime cose dette si rileva assai bene che le dolci parole di Gesù Cristo: beati coloro che piangono, acquistano nei Santi un significato più letterale e più evidente, che non abbiano negli altri Cristiani anche buoni e pazienti. I Santi letteralmente e strettamente, almeno in alcuni casi, si sentono beati e allegri del loro pianto. Il pianger per amore di Cristo e del bene che egli assomma in sé e diffonde, ecco in sustanza il nuovo fonte di gaudio, al quale essi soltanto hanno potere di attingere. Però san Paolo scrive: “A me è stato donato per Cristo, non solo il credere in Lui, ma il patire per lui” (Ad. Philpp. I, 20). È un dono dunque il patire. E negli Atti è più chiaramente espresso il medesimo pensiero, quando di tutti gli Apostoli si dice: “Chiamati gli Apostoli, e battuti che gli ebbero, intimarono loro di non parlare né punto né poco nel Nome di Gesù, e li rilasciarono. Ed essi se ne andarono pieni di gaudio dal cospetto del concilio, per essere stati fatti degni di patir contumelie pel Nome di Gesù ” (Act. V, 41, 42). Se questo avviene nei Santi, coloro che sono soltanto pazienti, aspettano serenamente la consolazione e il gaudio nella vita futura, secondo le parole di Gesù: Beati coloro che piangono, perciocché saranno consolati. La consolazione eterna sarà il premiò eterno della pazienza. Quel medesimo premio, che nella prima beatitudine è detto regno, e nella seconda terra, in questa terza Gesù lo dice consolazione. E certo, se prendiamo la consolazione nel senso di letizia, il paradiso sarà ai pazienti e a tutti i virtuosi consolazione eterna, inenarrabile e dolcissima. Ma, se prendiamo la parola consolazione in un significato, che forse gli è più proprio, cioè nel significato di quel sentimento soave da noi provato, allorché ci sentiamo alleggerire o dileguare un dolore, allora anche nella vita presente sarà vero che i pazienti sono consolati. Il sapere perché soffriamo; il credere che il proprio dolore è espiazione del male; il pensare che nel dolore è il germe della virtù e del merito; lo sperare che il dolore pazientemente sofferto ci apra la via ai gaudj infinitamente superiori a ogni nostro patimento: tutto ciò diffonde indubbiamente nell’anima del paziente cristiano un’aura di soavità, di pace e di conforto, che forse parecchi di coloro che mi leggono, avranno sperimentato in sé stessi. –  E se non lo sperimentarono mai, deh! si provino almeno talvolta, a esser pazienti secondo Cristo; e forse il Signore lor farà grazia d’intendere e di sentire dentro di sé medesimi l’efficacia di questa parola sua: Beati coloro che piangono, perché saranno consolati.

LE VIRTÙ CRISTIANE (16)

LE VIRTÙ CRISTIANE (14)

LE VIRTÙ CRISTIANE (14)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO III.

LA SECONDA BEATITUDINE.

La virtù della mansuetudine.

Le prime parole, dette da Gesù sul monte delle beatitudini, già ci hanno aperta la mente a considerare giustamente il valore delle ricchezze, e anche i pregi e i difetti dell’umana natura, È questo retto giudizio delle ricchezze e della natura umana è il primo seme, onde nascono nell’animo le due virtù, delle quali più avanti s’è parlato, la povertà in ispirito e l’umiltà. Esse sono indubbiamente due nobili virtù ed eminentemente cristiane; ma non bastano, né vivono mai lietamente, se non siano accompagnate dalle altre virtù, con le quali, come le varie note della musica, fanno armonia. Ecco però che il divino Maestro, accostandosi di nuovo all’intimo dell’uomo, mira, con pietosa bontà, un’altra propensione di lui, corrotta dal peccato, e le si oppone dicendo: Beati i mansueti; perciocché essi erediteranno la terra. La propensione, a cui accenno, è quella, che dicesi irascibilità. Or l’irascibilità, considerata nella sua natura, è la facoltà di eccitarsi contro il male o gli ostacoli, che le persone o talvolta anche le cose ci oppongono. Questa facoltà, come tutte le facoltà umane, ci fu data da Dio, ed è di per sé buona e ordinata al bene, Vi ha dunque nell’uomo un’ira, o, è meglio detto, uno sdegno lodevole; ma d’ordinario l’ira trascende, s’infiamma e bolle nell’animo umano contro l’ordine della ragione; e però nel comune linguaggio basta dire ira per intendere l’ira peccaminosa. In vero lo sdegno lodevole si ha quando l’animo ordintamente e con giusta misura, allontanati gli ostacoli, si commuove per difesa e vendetta dell’onesto o per punizione di malvagità o di malvagi. In questo senso è detto nella Bibbia che Iddio si adira contro gli uomini peccatori, o anche contro le nazioni peccatrici; e in questo medesimo senso si adirano anche i buoni figliuoli di Dio, e molto più i Santi, secondo che accade di leggere nelle loro vite. Lo zelo del bene e l’odio del male, l’amore della giustizia, e il desiderio che il male sia punito e le punizioni riescano in vantaggio degli stessi rei, alimentano questo santo sdegno, e non che avvilire, nobilitano il cuore umano. A chi mai non parrebbe lodevole e nobile lo sdegno, onde s’infiamma l’animo di colui, che vede crudelmente opprimere l’innocenza ed esaltare e premiare la malvagità? Questo santo sdegno è anzi indizio di profondi convincimenti, di una chiara comprensione del bene e del male, e soprattutto di animo forte e magnanimo. Che se oggidì riesce tanto raro, gli è perché, in generale, gli animi sono fiacchi e servili; e però intendono bene lo sdegnarsi per passione, ma stimano lo sdegnarsi per la giustizia e la verità una pinzoccheria di pusilli. Sicché è bene avvertire che lo sdegno, per amore di giustizia, ha certe forme tutte sue proprie, dignitose, serene, nobili e tali, che da esse traspare un grande amore del bene e una grande e caritatevole compassione dei proprj fratelli. Colui, sia pure zelantissimo della giustizia e del bene, che nello sdegnarsi non sa far trasparire di fuori nobili sentimenti, resti piuttosto cheto, e preghi il Signore. Se lo sdegno suo sembrerà passionato, torbido e violento, avvelenerà, come tossico, le sue parole, e non gioverà. L’ira peccaminosa, o come la chiama Dante, l’ira mala, è un movimento disordinato dell’animo, onde siamo violentemente eccitati contro le persone, che c’ingiuriano o comunque ci si oppongono, e talvolta anche contro le cose che ci fanno ostacolo. Chi potrebbe mai dire quanto sia possente nella nostra corrotta natura questa malaugurata passione dell’ira? Allorché l’uomo s’accende in fuoco d’ira, l’ira acceca la mente, sconvolge e talvolta attutisce il libero arbitrio, rimescola il sangue, arde nel sembiante e lo deturpa, infiamma lo sguardo, insomma imbestia tutto l’uomo. Or questo stato terribilmente violento degl’irosi, ci pàr di vederlo nel legger Dante, che nel VII del l’Inferno, scorge gl’iracondi che si percuotono. … non pur con mano, / Ma con la testa, col petto e co’ piedi, / Troncandosi co’ denti a brano a brano. – Gli effetti poi, che procedono dall’ira, sono veramente degni di pianto. Quasi sempre le bestemmie, le risse, le ingiurie, le vendette, le violenti uccisioni, e sino le stragi delle guerre derivano dall’ira. Contro questa pessima e bestiale passione Gesù benedetto, nel suo sermone della montagna, pose la virtù della mansuetudine cristiana. La quale ben si può definire una disposizione abituale dell’animo contro gl’impeti dell’ira. Non è già che nel mansueto si spegna assolutamente quella irascibilità naturale, da cui, per accecamento d’’intelletto e per disordinate passioni, rampolla l’ira. Ciò non è; e, quando fosse, non sarebbe punto un bene; perché l’irascibilità ci fu data da Dio per eccitare in noi, secondo ragione e temperatamente, i santi sdegni della giustizia. Ed oltre a ciò è da notare che la redenzione di Cristo, come non distrusse la concupiscenza, che è la corruzione di un inchinamento onesto; così non distrusse la irascibilità, anch’essa pel peccato d’origine disordinata e propensa a trascendere. L’una e l’altra Gesù Cristo poteva ben distruggere o mutare; ma le ha rimaste in noi affinché ci riescano occasione di merito, come è più ampiamente detto nelle Teologie dommatiche, ed anche nella mia Dottrina Cattolica. – La virtù della mansuetudine non fu ignota ai Pagani, ma fu assai rara tra loro, opponendosi soprattutto ad essa l’orgoglio, che faceva agevolmente confondere la nobilissima virtù della mansuetudine con la viltà e la fiacchezza dell’animo. Però questo medesimo pregiudizio, onde l’uomo mansueto si confonde e s’immedesima col fiacco e dappoco, lo abbiam veduto ripullulare anche tra noi, ora che i tempi sono in gran parte paganeggianti. Tra il popolo di Dio la mansuetudine fu in onore, come si vede nei Libri dell’antico Testamento, e particolarmente nei Salmi e nei Libri sapienziali. Esempio poi ammirabile di questa virtù fu, tra gli antichi, Mosè, detto nei Numeri il mansuetissimo sopra tutti gli uomini. Nondimeno la legge giudaica dura e assai meno perfetta, che non fosse l’evangelica, e anche i costumi meno civili del tempo, in cui visse il popolo Israelitico, non permisero alla virtù della mansuetudine di diffondersi molto e universalmente tra i Giudei. La mansuetudine, nel modo ampio e perfetto, onde la intendiamo noi Cattolici, è una virtù assolutamente cristiana, piena di dolcezze, e raggiante di quella luce che le comunicò Gesù benedetto. Ci fu insegnata da Gesù sul monte delle beatitudini, e parecchie altre volte, massimamente poi il dì che disse: “Imparate da me che sono mansueto e umile nel cuore.” Ebbe poi un simbolo assai parlante nell’ agnello, che fu figura di Cristo; e il simbolo dell’agnello lo vediamo annunziato dai profeti, che pietosamente chiedevano al Signore: Mandasse l’ Agnello dominatore della terra. (Isai. XVI, 1). Indi questo medesimo simbolo, suggellato dal Battista, che salutò il Redentore dicendo: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che toglie i peccati del mondo, (Joann. 1, 23, 36), fu reso immortale ed eterno dal medesimo san Giovanni nell’Apocalisse, nella quale il divino Agnello ei lo vide incoronato e seduto sul trono, che riceve le adorazioni dagli Angeli e dai santi. (Apoc. VII, 17. — Nell’Apocalisse Gesù Cristo è chiamato moltissime volte Agnello). – Infine la mansuetudine, annunziata da Gesù sul monte delle beatitudini, è una virtù eminentemente cristiana, sia perché la si vede in piena armonia con la soavità della legge evangelica, e con moltissimi altri precetti datici da Cristo, sia perché la Passione del Signore, dall’orazione ch’ei fece sul monte degli Ulivi, sino al perdono che dalla Croce accordò ai suoi crocifissori, è tutta un miracolo di mansuetudine. – La virtù della mansuetudine, annunziataci da Gesù sul monte, dopo le due virtù della povertà in ispirito e dell’umiltà, non è senza intimi rapporti con esse. Non solo vivono amichevolmente l’una con le altre, ma si ajutano a vicenda: anzi la povertà in ispirito e l’umiltà è giusto stimarle quasi un avviamento e un seme della mansuetudine. In vero, come il mare non posa mai tranquillo, sino a che vi soffi sopra il vento; e come pure nessun fuoco si estingue, prima che si allontani la materia combustibile; così l’ira nell’anima umana non si accheta e non si smorza mai, prima che siano vinti l’amore delle ricchezze e l’orgoglio. Quando  poi la mansuetudine cristiana, per effetto della grazia celeste, sia entrata in un’anima, allora dipende da noi, che essa cresca di grado in grado, e ci conduca alla perfezione. A ciò si richiede un possente sforzo di volontà; ma l’uomo fece mai al mondo nulla di veramente nobile e grande e bello e virtuoso, senza una fortissima e indomabile volontà, che atterri tutti gli ostacoli, e vinca tutte le esitazioni? Consideriamo un tratto i diversi passi che l’uomo fa in questa nobile virtù della mansuetudine, i quali sono quasi come i gradini d’una scala che ci conduce in alto. Mettiamoci dunque avanti allo sguardo un Cristiano, a cui il Signore fece grazia d’intendere la sentenza di Gesù: beati i mansueti. Poniamo che costui non si appaghi di conoscere intellettualmente la bellezza della mansuetudine, ma che voglia muover, sempre che può, il passo avanti per far suo questo tesoro. Il primo passo che naturalmente ei moverà, sarà questo, di sedare le tempeste e i bollori dell’animo; e, fatta nascere la mansuetudine nel proprio cuore, ei converserà benignamente e mansuetamente con tutti, siano eguali o inferiori, buoni o malvagi, gentili o rozzi, piacenti o nojosi. Onde nell’Imitazione di Cristo è detto: “Non ci vuol tanto a conversare co’ buoni e co’ mansueti, ché questo naturalmente piace a tutti; ma il saper vivere co’ duri e i perversi, con gl’indisciplinati e con quelli che ci contrariano, è grazia grande, e maschia virtù degna di lode infinita.” (Imit. II, 2). In vero la parola del Cristiano mansueto ha attraimenti invincibili, e spesso con la sua soavità dispone l’anima al bene. Quante volte una parola mansueta seda le non vedute tempeste del cuore altrui, e vince i più invecchiati pregiudizj della mente! Il mansueto muove ancora un altro passo avanti. Con l’efficacia della sua virtù e con da dolcezza della sua parola, si fa incontro all’ira altrui, e la smorza e la seda: talora fa sino arrossire l’iroso della propria ira. Non pago di ciò il mansueto si accorge di dover fare ancora un altro passo avanti, e questo non facile. Ma nondimeno, ajutato dalla grazia di Dio, e dal buon volere proprio, lo fa. Mentre che l’iroso sbuffa, s’infiamma e trascende per ogni leggera ferita al suo amor proprio; il mansueto, che è sempre veramente forte di animo, soffre con quiete interna ed esterna le ingiurie che altri gli faccia, e sino le rapine altrui, senza scomporsi o dar segni d’ira, Che se il mansueto non contento di essere un Cristiano buono e mite, avesse anche vaghezza di salire alle cime del monte della cristiana perfezione; ed egli allora deve procurare di rallegrarsi nell’intimo dell’animo suo dell’ingiuria altrui, e altresì di vincere il malvolere dell’iracondo col beneficarlo, e con l’adoperarsi, se sia possibile, di amarlo come suo amico. Né questi due sforzi dell’animo umano si possono reputare poco ragionevoli, allorché si pensi che nel Cristiano essi sono ordinati ad imitar Gesù Cristo, e ad acquistare la piena e nobilissima signoria del volere e dell’arbitrio nostro su tutti quegli inchinamenti umani che, dopo il peccato d’origine, facilmente trascendono, e ripullulano, anche quando apparentemente pajono morti e sepolti. – A Gesù non bastò di dire: beati è mansuett; ma aggiunse la ragione che li fa beati, la quale è questa: perché erediteranno la terra. A prima giunta questa ragione pare oscura. Di qual terra si parla qui? Non certo della terra che noi calchiamo, e che è così bella a vedere pe’ suoi piani, pe’ suoi monti, e per gli alberi, i fiori e i frutti che la arricchiscono. Questa terra in vero alimenta buoni e cattivi, e buoni e cattivi egualmente la possiedono. Se volessimo notare qualche differenza, tra i possessori buoni o i cattivi, il vantaggio sarebbe tutto dei secondi. Ma leviamo la mente più in alto. La verità è che per i mansueti, e in generale per tutti gli uomini virtuosi, il Signore ha riserbato un luogo, che il più delle volte è detto cielo, e talvolta è anche detto terra; ma che in sustanza non è né questo cielo che vediamo, come ricco padiglione, sul nostro capo, né questa terra che calpestiamo co’ piedi e che ci dà il nutrimento. Esso è un luogo ineffabile, che nessun occhio umano mai vide, e nessun intelletto comprese appieno. Lo si chiama cielo; perché il cielo che apparentemente ci sta sul capo, è alto, è bello, è splendido, è ricco, è pieno di misteri, e ci dà facilmente immagine dell’infinito. A volte poi è detto nella Bibbia anche terra dei viventi. Però David in un Salmo canta così: “Io credo che vedrò i beni del Signore nella terra dei viventi,” e in un altro anche più poeticamente dice. Tu, o Signore, sei la mia speranza e la mia porzione nella terra dei viventi. (Psalm. XXVII: CXLI). Nella visione poi dell’Apocalisse san Giovanni vede il Paradiso come una città celestiale, fondata sopra pietre preziose, perfettamente ordinata, e la vede bella, come una sposa leggiadrissima, la quale si è abbigliata per il suo sposo. (Apoc. XXI, XXII). Paradiso  è dunque anche una terra. Ma non creda alcuno che si tratti di una terra crassa, opaca, e dirò così terrestre, come la nostra. Il Signore aveva promesso, sin dai tempi d’Isaia, che avrebbe creato una terra nuova; (Isai. LXV, 17) e la promessa fu confermata nell’Apocalisse, nella seconda Lettera di san Pietro, e in quella di san Paolo agli Ebrei. La terra che sarà ereditata dai mansueti, è invece una terra sottile, lucida e celestiale; è un paradiso di rose, di gigli, di infinitamente diverse dalle nostre rose, dai nostri gigli e dalle nostre gemme, un paradiso olezzante di fragranza nuova, e splendente di luce soavissima. Insomma il paradiso promesso ai mansueti è un luogo spirituale e corporeo insieme, da cui zampilla un fiume d’infinita allegrezza per lo Spirito e per il corpo loro. – Da queste parole di Gesù, erediteranno la terra, si rileva che quel medesimo premio, il quale nella prima beatitudine è detto regno dei cieli, in questa seconda è chiamato terra. Come vedremo, nelle altre beatitudini, è sempre mutato il nome del premio, non perché  quello di una virtù sia diverso da quello dell’altra, ma perché nessuna favella umana ha la parola per esprimere adeguatamente un premio che è di per sé infinito. L’umano intelletto lo mira, come può, ora da un lato e ora dall’altro, ed esprime imperfettamente e con successione di pensieri e di parole diverse, i diversi pregi, secondo che si affacciano alla sua mente, ma non proprio come sono in sé stessi. Intanto benché il significato principale delle parole di Gesù, erediteranno la ferra, sia quello che ho detto, non s’ ha da omettere che, secondo molti Padri Chiesa, Gesù Cristo intese allora anche alla vita presente. Volle dire che i mansueti hanno pur presente una certa signoria morale sopra gli uomini che abitano la terra, la quale perciò sembra quasi che sia una loro eredità. E la cosa è vera, e basterebbe a provarlo l’esperienza. Piuttosto qualche difficoltà o dubbiezza potrebbe sorgere nell’indicare il motivo di questa signoria. Forse il principale è che il mansueto, caro agli uomini, moralmente li domina, perché la natura umana, per quanto rifugga dell’assoggettarsi a coloro che fiaccamente servono alle loro passioni, altrettanto inclina ad assoggettarsi a chi maschiamente le domina, e mostra piena signoria di sé stesso. Poiché nell’animo umano l’irascibilità bolle così facilmente, e prorompe spesso in fuoco d’ira; ne segue che l’uomo mansueto apparisca ai non mansueti quasi come persona di una natura superiore, una persona dotata di una forza morale molto rara; e la forza morale (oh! quanto sarebbe bene che non ci sfuggisse mai dalla mente) è la sola che liberamente comanda, e a cui liberamente si obbedisce. È qui in fine del capitolo si dia pure un’occhiata ai tempi che viviamo, per venire a qualche utile conclusione. Come è detto avanti, ci ha un’ira buona e soggetta alla ragione, la quale ira ci commuove contro il reo, ed è compagna e amica della mansuetudine cristiana: e ci ha altresì un’ira mala, che ci commuove violentemente per passione, e che tiene per suo contrario la mansuetudine cristiana. Ora queste due ire hanno pure qualche rapporto tra loro. Quanto più l’uomo è disposto ad adirarsi passionatamente, tanto meno è capace dell’ira santa contro il male. E noi lo vediamo ai nostri giorni assai chiaramente. Il fuoco dell’ira passionata arde da per ogni dove, particolarmente nella parola parlata o scritta; ma in pari tempo è raro che alcuno nobilmente si adiri contro del male; e se taluno lo fa, ne è deriso e spesso ingiuriato. Oltre a ciò, poiché ci è anche il pericolo che le due ire, la buona e la mala, si confondano talvolta tra loro, e si scambino l’una con l’altra; ricordo qui alcune parole di san Gregorio Magno, che mi pajono belle, e che ci possono ajutare a non confondere la virtù dello sdegno buono con la passione dell’ira, siccome vediamo accadere agevolmente nell’età nostra. “La vera giustizia, ei dice, compatisce; la falsa si sdegna, benché anche i giusti sogliono sdegnarsi contro i peccatori. Ma altro è ciò, che si fa per effetto di superbia, altro ciò che proviene da zelo del bene. … Si ha da aver somma cura che l’ira, la quale taluno adopera come strumento di virtù, non domini l’animo. Invece l’ira buona sia come ancella, pronta all’ ossequio della ragione, e non si allontani mai dal suo fianco. Allora soltanto si eleverà robusta contro i vizj, quando sarà più completamente soggetta e più veramente ancella della ragione.” Quanti mai degl’irosi dei nostri tempi potrebbero in sicura coscienza applicare a sé medesimi queste nobilissime parole?

LA VITA INTERIORE (4)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (4)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna – Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione Riveduta.

GLI ESERCIZI DI PIETÀ

L’ORAZIONE MENTALE (1)

(1) [Intendiamo, qui, indicare, precisamente la meditazione discorsiva, ch’è necessaria, come tutti sappiamo, per acquistare, o fortificare, le convinzioni. Nell’occasione, ricordiamo che la meditazione discorsiva verrà, in seguito, e a poco a poco, sostituita dall’orazione affettiva. Per quest’ultima poi, non potendo trattarne espressamente, raccomandiamo i tre metodi che S. Ignazio suggerisce, e cioè: – 1) la contemplazione; – 2) l’applicazione dei sensi; – 3) la seconda maniera di pregare.

Ci permettiamo anche di suggerire una formula d’esame della meditazione fatta.

1° Se mi sono messo alla presenza di Dio.

2° Se ho chiesto al Signore che tutte le mie intenzioni, azioni e operazioni siano puramente ordinate a servizio e lode di Sua Divina Maestà.

3° Se ho fatto il preludio detto « composizione di luogo ».

4° Se ho chiesto a Dio la grazia di ricavare dalla meditazione il frutto proprio.

5° Se ho preso la positura più conveniente.

6° Se ho esercitato la memoria riducendomi in mente la materia da meditare.

7° Se ho esercitato l’intelletto discorrendo posatamente intorno alla medesima.

8° Se ho applicato a me stesso quanto poteva fare per me.

9° Se mi sono tenuta in colloquii ed affetti proporzionati.

10° Se ho patito distrazioni e ne cercai la causa.

11° Se ho ricevuto consolazioni o cognizioni più chiare e quali.

12° Se ho speso tutto il tempo segnato.]

I MEZZI

Per riuscire a vivere in Gesù, per Gesù e con Gesù, cioè per vivere la vita interiore, è necessario rimuovere alcuni ostacoli che l’impediscono, e scegliere ed adoperare alcuni mezzi, senza de’ quali nulla si può fare. E, anzitutto, ricercare i mezzi adatti. Tra di essi, il più importante, il più efficace, è la preghiera. Essa, come abbiamo detto, può essere vocale o mentale. Quest’ultima prende il nome di meditazione. – Pochi anni or sono, si riteneva, comunemente, che la meditazione fosse cosa riserbata ai frati e alle monache. Si pensava fosse cosa molto difficile, che non avesse a che fare coi dieci comandamenti… Oggi, invece, grazie alla più estesa cultura religiosa e, in modo tutto particolare, all’Azione Cattolica che tra la gioventù femminile e tra quella maschile s’è rapidamente propagata, la meditazione è diventata una delle migliori soddisfazioni dello spirito, uno de’ nutrimenti più sostanziosi per moltissime anime in quell’età così esposta ai pericoli e così facile preda del nemico delle anime.

CHE COS’È?

Semplicemente, più che sia possibile, diremo ch’è una conversazione fra la nostra anima e Dio. Una conversazione intima. Così era solita a esprimersi santa Teresa: « La meditazione, è una cristiana relazione di amicizia nella quale l’anima s’intrattiene da sola a sola con Dio, senza stancarsi d’esprimere il suo amore a Colui dal quale sa di essere amata ». Parlandone ai giovani si può dire ch’è una sintesi, mentale, non scritta, di quelle righe, di quella pagina che si è letto. Come nelle scuole primarie s’impara a fare sui testi elementari, cioè a sintetizzare così si può fare e tanto più, in seguito, sui libri di pietà. Ai giovani, e a tutti, si potrà ricordare con vantaggio gli esempi di San Tommaso d’Aquino, di San Luigi Gonzaga, del ven. Domenico Savio. Si può aggiungere, pei giovani e pei non giovani, che, come si parla cogli uomini, così nella meditazione possiamo — e dobbiamo — parlare con Dio. In questa conversazione, Dio è il maestro e noi siamo gli scolari. Perciò noi saremo istruiti da Gesù e impareremo… a vivere solo con Gesù, poiché Egli è il vero amore, l’unica felicità, l’unica realtà.

È UTILISSIMA… ANZI, NECESSARIA.

Non si medita, forse, dappertutto e riguardo a tutto, in questa povera vita? Dagli scolari che nelle scuole si lambiccano — è la verità — il cervello, per stillate poche righe di componimento o risolvere il problema che li fa andare matti, ai banchieri, ai borsisti, che cercano di sfruttare le occasioni…, agli avvocati che combinano le linee della difesa e dell’accusa; agli architetti che triangolano il terreno per costruirvi un palazzo; ai ladri che preparano il… colpo e… via dicendo; tutti riflettono sul modo e sui mezzi migliori per riuscire ne’ propri intenti. Nessuna meraviglia, quindi, se noi vogliamo suggerire: essere necessario per la nostra anima che facciamo, almeno, quanto da tutti si fa per il felice esito degli affari materiali. – Si afferma, e non fa meraviglia; che i saggi del paganesimo meditassero. « Pitagora, infatti, aveva diviso la giornata de’ suoi discepoli di filosofia in tre parti: la prima per Dio nella preghiera; la seconda per Dio nella preghiera e nella meditazione; la terza per gli affari ». Se non che, noi abbiamo degli insegnamenti assai migliori. Anzitutto la parola dello Spirito Santo: « Un’orribile desolazione ha invaso la terra, perché non vi è chi rifletta nel suo cuore » (GER., 12-11). Ancora: l’esempio e l’insegnamento dei Santi. Santa Teresa così lasciò scritto: « L’anima che trascura la meditazione delle cose divine non ha bisogno di demonio per dannarsi… ella da se stessa si mette nell’inferno ». Ed era egualmente solita a ripetere: « Promettetemi di fare ogni giorno un quarto d’ora di orazione mentale, ed io, in nome di Gesù Cristo, vi prometto il Paradiso ». – S. Filippo Neri aggiunge per conto suo: « Un religioso o un  Sacerdote senza meditazione, è un religioso o un Sacerdote senza ragione; e così anche per i semplici fedeli ». – S. Alfonso, poi, dice con insistenza: « Il peccato può stare assieme alle altre opere di pietà, ma non con la meditazione. Tutti i Santi divennero tali per l’orazione mentale ». – Dunque, il timore e la fuga del peccato vengono spontanei in noi per mezzo della meditazione. Fuggendo e temendo il peccato, ci avviciniamo a Dio, lo invochiamo, ci abbandoniamo in Lui… e viviamo di Lui e del suo amore. Come, adunque, non imitare il ven. Contardo Ferrini che, studente nelle prime classi del ginnasio, già procurava di non lasciar passare giorno senza la meditazione? Come non ricordare con grande ammirazione il valoroso Giosuè Borsi che scrisse i suoi Colloqui, o meditazioni, proprio nel tempo che meno può sembrare propizio, e cioè durante la guerra?

METODO PER FARE LA MEDITAZIONE.

Non v’è metodo, ma vi sono moltissimi metodi. Vorrei dire che sono tanti e tutti diversi, quante sono diverse le anime che desiderano parlare con Dio, trattenersi intimamente con Lui. Ciascuno ha i suoi gusti, il suo grado di istruzione, il suo carattere. Tuttavia, c’è ugualmente modo di dare qualche suggerimento in proposito. Prima di tutto, per il buon esito della meditazione, è necessaria una preparazione. Essa si fa con un po’ di raccoglimento, lasciando ogni altro pensiero e ogni divagazione; con il ricordo che noi siamo alla presenza di Dio col quale vogliamo parlare; invocando la luce o l’aiuto dello Spirito Santo e raccomandandoci a Maria Ausiliatrice. Tutto questo è più presto fatto che detto. Fatta la preparazione, presentiamo all’anima l’argomento della meditazione. Questo, ordinariamente, trovasi su libri preparati apposta. Ma può anche consistere in un ricordo spirituale, in un consiglio ascetico che ci venne dato, in un passo, o versetto, del Vangelo, e, a secondo dei casi, occorre leggere adagio e attentamente il punto che ci siamo scelti per meditare. Se qualche pensiero, o ispirazione, ci si presenta spontaneamente, fermiamoci a gustarla. Altrimenti, leggiamo sino al termine, punto per punto, e procuriamo di ripetere con la mente quanto abbiamo letto, immaginandoci di doverlo ripetere a qualche altra anima. – In una parola: attingiamo idee nel libro, o dall’argomento scelto, e facciamo scaturire sentimenti dal cuore. La durata di questo esercizio è varia: a seconda del tempo, della volontà nostra, delle nostre condizioni. Fin qui abbiamo occupato la mente, l’intelligenza cioè, e il cuore; ora occorrerà occupare la volontà nel trarre le conclusioni e nel fermare i buoni propositi, o, almeno, un buon proposito, mentre ringrazieremo il Signore per la luce spirituale avuta, la Madonna per la sua assistenza, e chiederemo a Gesù e a Maria l’aiuto per mettere in pratica il proposito scelto che cercheremo di ricordare durante il giorno.

GRANDI VANTAGGI.

1) Anzitutto una maggiore destrezza ed energia nel nostro spirito, che si abitua ad osservare e a riflettere.

2) Poi una maggiore stima della virtù e, quindi, uno sforzo più intenso per praticarla; un maggior odio al peccato e perciò un impegno più vigile nel fuggirlo. La conversione di S. Agostino si deve, precisamente, alla lettura meditata d’un brano delle epistole di S. Paolo.

3) La meditazione procura all’anima una grande gioia. Per questo San Francesco di Sales poté dire: «La meditazione è ciò che mi è più utile e più dolce: con questa comunicazione del cuore io imparo ogni volta qualche cosa di buono da applicare a me stesso). – Facendo eco a queste parole, la Chantal diceva: « Tutta la felicità di questo mondo consiste nel meditare ».

4) Infine, il vantaggio per eccellenza, è una maggiore, più ampia, più ricca conoscenza di Gesù, di Dio, della vita eterna e, perciò, un più intenso amore per questo nostro Dio, amore che ci deve portare al desiderio dell’unione completa in Lui e con Lui.

L’ESEMPIO DI S. GIOVANNI BOSCO.

Ci limiteremo a ricordare un proposito che don Bosco fece appena undicenne alla scuola di don Calosso, e lo diremo con le parole del Ceria (Don Bosco con Dio, cap. I, 21): « Fanciullo undicenne, Giovannino ebbe uno di quei lampi rivelatori. Per arcane inclinazioni del cuore affezionatosi a un degno sacerdote e messosi con filiale confidenza nelle sue mani, da quella scuola di corta durata riportò un prezioso insegnamento: capì essere buono per l’anima fare ogni giorno una breve meditazione. Due frutti colse all’istante da questa chiara visione: gustare che cosa sia vita spirituale e non agire più «come macchina che fa una cosa senza saperne la ragione ».

L’ESEMPIO DEL SERVO DI DIO DON MICHELE RUA.

Il servo di Dio don Michele Rua, successore di don Bosco, la mattina del 5 aprile 1910, poche. ore prima di entrare in agonia, volle che gli si leggesse la meditazione del giorno. L’infermiere fece ragionevolmente osservare che non era il caso, poiché la sua mente era nell’impossibilità di fare uno sforzo. « Allora, supplicò egli, leggetemi almeno il sommario dei due punti ». E così, fino all’ultimo giorno di sua vita, (morì la mattina del 6 aprile) si mantenne fedele a questa pratica di pietà ch’è il mezzo più efficace per sentire Dio e vivere con Lui. Pratica che, di per sé sola, comprende e rende vitali tutte le altre. Bene fu detto di essa in una lettera dell’episcopato lombardo per la Pentecoste del 1927: « La meditazione è la pratica fondamentale della vita spirituale, poiché è quella che suggerisce e rende attive tutte le altre: l’esame di coscienza, la lettura spirituale, la visita al SS. Sacramento, il santo Rosario, la confessione frequente, i ritiri spirituali ». Più preciso ancora il Padre Chautard: «Se faccio meditazione, sono come rivestito d’un’armatura d’acciaio e invulnerabile ai dardi del nemico. Ma senza la meditazione essi mi coglieranno certamente… O meditazione, o grandissimo rischio di dannazione… ».

DUE COLONNE: LA MEDITAZIONE E L’ESAME DI COSCIENZA.

Dovrebbe, adunque, essere sufficiente questo primo efficacissimo mezzo. Tuttavia, poiché alla meditazione occorre la materia da elaborare, per questo rifornimento è necessario l’esame di coscienza. L’uno serve all’altra, e tutti e due sono come due colonne della vita cristiana. La meditazione accende il fuoco santo; l’esame di coscienza secerne, divide, sviscera; rivela noi a noi stessi, e ci suggerisce il modo e i mezzi per correggerci. Scopo dell’esame non è quello di riaprir delle ferite per inasprirle, non è quello di avvilirsi, ma di rialzarsi, col pentimento delle male opere e col proposito di farne delle migliori per il dì seguente. Per le anime cristiane l’esame è un diletto, un conforto. Dice I. Pindemonte: “La notte bruna – stilla il diletto – del meditar”. Seneca, pagano, scrisse: La mattina ti devi dare al pensiero delle cose che son da fare, la sera all’esame delle fatte. Lo stesso Seneca dice che il filosofo Sessio ogni sera interrogava la sua anima: Di qual difetto ti sei oggi guarita? Qual passione hai combattuta? In che divenisti migliore? Bellissima abitudine questa, segue Seneca, di riandar la giornata! Bel sonno quel che succede a questa rivista di sé medesimo! Come è calmo, profondo e libero, quando l’anima ha ricevuto la sua parte di lode o di biasimo, e che, sottoposta al proprio scrutinio, proceda segretamente contro se stessa! Così faccio io, e da testimonio e da giudice mi cito al mio tribunale. Spento il lume… comincio un’investigazione su tutta la mia giornata, rincorro tutte le azioni e parole mie; nulla mi dissimulo, nulla mi taccio. O perché temerei di riconoscere un solo de’ miei peccati, quando posso dirmi: Guardati dal ricominciare; per oggi ti perdono? (Seneca, De ira, 1. II, 36 – Confr. CANTÙ, Attenzione, XXXII). – « Questo scendere nell’intimità del cuore (Bossuet) è il conosci te stesso ch’era scritto sul tempio di Delfo. La coscienza è come uno specchio; facilmente s’impolvera e offusca, onde bisogna spesso ripulirlo, o si corre il rischio di non riconoscersi più » (CANTÙ, L. c.). – Se dei filosofi pagani hanno giudicato tanto utile l’esame di coscienza e lo praticarono con tanta diligenza, non dovranno apprezzarlo anche i Cristiani, che hanno della vita presente e della futura, per divina rivelazione, un concetto assai più reale e profondo? – Tutti i santi e tutti i maestri della vita spirituale sono unanimi nel dire che l’esame quotidiano della propria coscienza, (non intendiamo, qui, accennare all’esame che si deve fare prima della confessione sacramentale) è un mezzo efficacissimo per correggerci dei nostri difetti e per avanzare nella virtù. Avviene, infatti, in noi, nel nostro spirito, quanto suole accadere negli affari materiali, nella cura degli interessi, nella coltivazione di un appezzato di terreno. Ve ne prendete pensiero? Ecco: essi progrediscono e moltiplicano il capitale impegnato. Li trascurate? Sono poco redditizi, anzi, sono passivi e in breve costringono alla rovina, alla miseria. Così è delle nostre anime. Abbandonate a sé, sono presto un semenzaio di rovi e spine. Accudite per mezzo degli esami di coscienza, vengono a conoscere e ad amare l’umiltà; allontanano la protervia e la presunzione, accettano le mortificazioni anche se loro inferte ingiustamente, chiedono perdono a Dio, formulano seri e forti propositi di vita migliore, crescono di fiducia e di abbandono in Dio, ed ecco, di conseguenza, l’unione con Dio e la pratica della vita cristiana. Dobbiamo però dire, gli esami, e non esame, soltanto, di coscienza. Noi infatti diremo, nel capitolo seguente: 1) dell’esame di previdenza; 2) dell’esame particolare; 3) dell’esame generale.

LA VITA INTERIORE (5)

22 FEBBRAIO (2022) FESTA DELLA CATTEDRA DI SAN PIETRO

A. CAPECELATRO:

LA DOTTRINA CATTOLICA

De Angelis e figli ed. e tip., NAPOLI, 1877

Vol. II. LIBRO III, CAP. XIII

Per potere esporre con chiarezza gl’insegnamenti della Chiesa intorno al primato dottrinale del Romano Pontefice, ei c’è bisogno di volgere un po’ lo sguardo addietro, e di rifare una parte del cammino già fatto. La Chiesa, come fu detto, non vive d’una dottrina propria, sì bene della dottrina rivelata da Cristo. E Cristo, come capo della Chiesa, essendo in una comunione perennemente vivificatrice con tutt’i membri di essa, a tutti la comunica amorevolmente. Di qui deriva, che la Chiesa ha nel suo seno il tesoro inestimabile di una dottrina ferma, sicura, anzi infallibile. Non pertanto, poiché i membri della Chiesa hanno diversi uffizj, ciascuno riceve l’infallibile dottrina secondo la capacità l’uffizio suo proprio. Quei membri che costituiscono la Chiesa insegnata, hanno l’infallibilità che i teologi chiamano passiva; perciocché, ascoltando umilmente i pastori uniti col Papa, ascoltano Cristo (chi ascolta voi ascolta me, disse Gesù), e professano così una fede infallibile. Quei membri che costituiscono la Chiesa insegnante, ossia i Vescovi e il Papa, hanno la infallibilità attiva, in quanto che non solo professano, ma insegnano infallibilmente le dottrine di Gesù Cristo. Così il principio vero dell’infallibilità della dottrina nella Chiesa è sempre Gesù Cristo, infinito conoscitore ed amatore di verità, anzi Verità infinita Egli stesso. In effetti non ci sono varj maestri della dottrina celeste qui in terra, ma un solo è il Maestro, Gesù Cristo; il quale, luce vera che illumina tutto il mondo, tiene chiusi in sé tutt’i tesori della scienza e della sapienza del Padre; ed anzi è la sustanziale Parola del Padre. – Poiché, dunque, nella Chiesa ci ha un insegnamento infallibile, due cose principalmente importano sapere: quale sia la materia di esso insegnamento, e per quali organi questo insegnamento, comune a tutta la Chiesa, si manifesti senza pericolo di errore. Della materia di esso insegnamento fu discorso nei capitoli antecedenti, e qui appena se ne farà un altro cenno. Ora rimane che esponiamo quali siano nel corpo della Chiesa gli organi visibili e certi, pei quali Gesù Cristo infallibilmente ci comunica la sua dottrina. – In prima la Chiesa insegnata non può essere l’organo dell’insegnamento infallibile; perciocché ove il fosse, per ciò stesso smetterebbe la sua natura di Chiesa insegnata, e diverrebbe insegnante. Organo dunque di questa infallibilità dev’essere naturalmente la gerarchia ecclesiastica; non quella parte della gerarchia che ha per uffizio principale il culto e l’amministrazione lei sacramenti, com’è il sacerdozio; ma quella parte della gerarchia che costituisce propriamente e nel senso più stretto la Chiesa insegnante, cioè l’Episcopato congiunto col Papato. I Vescovi però, comunque li vogliamo considerare uniti, sono parecchi; e Gesù Cristo, benché li costituisse ciascuno maestro nella sua diocesi, pure sapientissimamente. non li costituì ciascuno maestro infallibile della dottrina. Oso anzi dire che se l’avesse fatto, sarebbero mancati i vincoli veri della gerarchia, e i membri si sarebbero agevolmente sciolti dalla vitale comunione che debbono avere col loro capo. Avremmo avuto diversi corpi e non un sol corpo, parecchie Chiese e non una sola Chiesa. Il Signore volle invece sapientissimamente che nella dottrina, come in tutto il governo della Chiesa, i molti si dovessero ridurre all’uno, per la strettissima congiunzione di ciascuno col capo. Così l’unità e l’infallibilità della dottrina derivano nella Chiesa insegnante dall’uno, che è Capo visibile della Chiesa, in quella stessa guisa che derivano dall’Uno che n’è il Capo invisibile. Così l’Uno Gesù Cristo è il principio infallibile della dottrina; e l’uno Papa è l’organo infallibile della stessa dottrina. – Ma chi guardi al mirabile e saldo congegno della Chiesa, non basta dichiarare che il Papa sia nel corpo della Chiesa l’organo infallibile della dottrina di Cristo: bisogna chiarire per quali vie ciò accada. Come non ci ha nella Chiesa un solo pastore, ma parecchi pastori sottoposti al primo; così non ci ha nella Chiesa un solo maestro che tiene il luogo di Cristo, ma parecchi maestri pur sottoposti al primo. Il Papa, ponete ben mente a questo, come capo della Chiesa, è in un’intima, perenne e vitale congiunzione con l’Episcopato, che essendo corpo insegnante, riesce esso stesso nel corpo della Chiesa strumento dell’infallibilità di Cristo. Di qui segue che ad aver questa infallibilità, non deve mancare mai l’Uno che Cristo fece infallibile, e nel quale si appunta e si personifica tutto l’Episcopato; e ci deve pur sempre Chiesa la visibile o la invisibile congiunzione dell’Uno coi Vescovi, i quali senza di ciò sarebbero essi stessi ingnati e non insegnanti. – Pertanto questa vitale congiunzione dell’Episcopato col romano Pontefice, quando si tratti della dottrina, si può manifestare per tre modi; cioè pel Concilio ecumenico, per un giudizio esterno e visibile del Papa con la Chiesa dispersa, e per la definizione del solo Papa, invisibilmente congiunto con l’Episcopato. Nel Concilio ecumenico il Papa e tutt’i Vescovi raccolti attorno a lui con un solo giudizio esterno, giudicano della vera. Nella dottrina, e definiscono infallibilmente i dommi della fede e della morale. Ciascun Vescovo ivi giudica, e il giudizio di ciascuno e di tutti è infallibile per la congiunzione che tiene col Capo. Fuori del C oncilio, quando il Papa interroga esplicitamente o implicitamente tutto l’Episcopato intorno alla dottrina cattolica, e giudica con essi, si ha per un altro modo lo stesso giudizio unico ed esternamente visibile dei dommi cattolici. Infine il Papa può altresì, quando lo stimi opportuno pel bene della Chiesa, giudicare e definire da sé solo i dommi di fede; e siffatto giudizio è di per sé infallibile, né ha bisogno per esser tale che l’Episcopato lo esamini, lo discuta e lo accetti. Nonpertanto ciò non significa che in tal caso il Papa sia separato dai Vescovi. Invece anche allora ei definisce la verità in virtù della promessa ad esso congiunto, d’inerranza fattagli da Cristo, e pure in virtù di quella vitale e strettissima comunione che c’è sempre tra il Capo e il corpo della Chiesa insegnante, tra il Papa e l’Episcopato. Che questa vitale comunione, da cui sorge l’unità della dottrina, non si manifesti con un giudizio esterno e col suono materiale della voce, che importa? Non deriva essa forse dalla volontà stessa di Cristo, e dalla promessa ch’Egli fece di tener sempre congiunti nella Chiesa il capo coi suoi membri, e particolarmente con l’Episcopato, il quale senza di ciò né sarebbe uno, né anzi si potrebbe mai ridurre ad unità vera? Che importa che la vitale comunione tra il Papa e i Vescovi non si vegga dagli occhi nostri corporei, come nel Concilio? Deriva essa forse la dottrina della fede dal numero maggiore o minore dei giudici, dalla sapienza umana, dalle dispute, dalla dialettica, dall’acume dell’umano intelletto? No certo; ma deriva tutta e sola dallo Spirito del Signore, che congiunge il Capo col corpo episcopale, ed assiste la Chiesa e particolarmente il suo Capo, perché nella dottrina della fede e della morale non erri. Né vale il dire che alcuni dei Vescovi, poiché non sono interrogati, possono opinare contro alle dottrine definite dal Papa, ed infermarne il valore; perciocché l’Episcopato cattolico si costituisce dai Vescovi che hanno la vitale congiunzione col loro capo: ond’è che quei Vescovi i quali, dopo che il domma sia definito, ricusano di averla, sono membri scissi dalla vita vera della Chiesa, sono tralci secchi e buoni al fuoco soltanto. Però, siccome nel Concilio alcuni Vescovi che dissentono, non impediscono l’infallibilità del giudizio del Papa e dell’Episcopato; così fuori del Concilio alcuni Vescovi che non accettino la definizione papale, non impediscono che essa esprima la dottrina di tutta la Chiesa insegnante, che è quanto dire del Capo e dell’Episcopato strettissimamente ad esso congiunto. – Da tutte le cose dette dunque si conchiude che il Papa, quando definisce dommi di fede, è come la bocca che parla ai fedeli infallibilmente la dottrina la quale è la dottrina di Cristo. La dottrina ch’ei l’attinge dalla Chiesa; perciocché egli non ha ispirazioni di dottrina nuova, ma deve cercarla diligentemente e con tutt’i mezzi umani nel deposito della Scrittura, della tradizione, affidato alla Chiesa. Il poterla poi parlare infallibilmente, quando, come maestro della Chiesa universale, definisce ex cathedra, dipende dall’assistenza dello Spirito Santo, che gli fu promessa da Gesù Cristo, la quale è comune a lui ed alla Chiesa insegnante sempre che è unita con lui. – Posti dunque siffatti principj, la via rimane sgombra da parecchi  impedimenti, e ci sarà agevole considerare infallibilità della Chiesa in tutte le sue manifestazioni, voglio dire nei concilj ecumenici, nel consenso generale dell’Episcopato disperso; e nelle definizioni che il Pontefice fa ex cathedra, senza Concilio e senza interrogare l’Episcopato. In prima alcuni si rivoltano e prendono scandalo di questo triplice modo di manifestarr che ha l’infallibilità di Cristo e della Chiesa. Ma costoro mi assomigliano a colui che prendesse scandalo vedendo che il Signore non illumina sempre la terra col sole; ma nel giorno col sole; e nella notte con la luna o con le stelle. Non c’è punto da stupire che l’infallibilità della dottrina si esterni dalla Chiesa per tre differenti modi: bastando il pensare che, secondo le diverse condizioni di tempo, di luogo, di opportunità, ciascuno dei tre modi può riuscire a sua volta utilissimo. Il Concilio e l’adesione estrinseca dell’Episcopato non riunito hanno il vantaggio di far conoscere assai agevolmente la tradizione di tutta la Chiesa, di unire anche esteriormente quei Vescovi che sono intimamente uniti tra loro, di alimentare lo spirito di carità e di umiltà in tutti, di dare alle definizioni dommatiche il prestigio delle grandi assemblee o del numero, ed infine di fare assai più agevolmente accettare e spiegare dai singoli Vescovi nelle loro diocesi le verità intorno a cui disputarono insieme. Le definizioni poi papali hanno d’altra parte il vantaggio di supplire alle conciliari ed a quelle della Chiesa dispersa, allorché esse riescono o impossibili o difficili; di troncare più presto le dispute, ed impedire che l’errore s’alimenti; di rinvigorire l’autorità di quel Primato romano che è tanto efficace a mantenere l’unità della Chiesa. E che tutti tre questi modi siano utili ed efficaci, secondo le diverse condizioni dei tempi e dei luoghi, si argomenta dal fatto che tutti tre sono stati in uso nella Chiesa sino dai primi tempi, e principalmente i due, delle definizioni conciliari e delle definizioni papali. Noi incontriamo spesso nella storia ecclesiastica le une e le altre; e pur veggiamo chiaramente che se sempre si fosse dovuto attendere la riunione d’un Concilio ecumenico per definire le verità di fede, sovente la Chiesa avrebbe dovuto restare nelle tenebre dell’incertezza molti e molti anni, e le eresie si sarebbero assai più ingigantite di quel che non fecero. D’altra parte, o che le definizioni siano conciliari o papali, mai non è consentito ai Vescovi o al Papa di definire le verità, senza adoperare tutt’i possibili sforzi per conoscere, anche umanamente, quale sia la vera tradizione scritta o orale lasciataci da Gesù Cristo, e procedere alla definizione solo quando sono rimossi intorno ad essa tutt’i dubbj possibili. Questa obbligazione sì nel Papa solo e sì nel Concilio nasce dalla natura stessa di un insegnamento che s’ha da attingere ai fonti della Bibbia e della tradizione; ed è raffermata dall’esempio costante della Chiesa pìù antica; anzi dallo stesso esempio degli Apostoli, i quali si raccolsero insieme a Gerusalemme, e diligentemente cercarono la verità, bene e trattasse di concilio, benché si trattasse di cosa nè molto grave né difficile a definire. – La infallibilità della Chiesa si manifesta in prima, come si è detto, quando l’Episcopato è congiunto con il Papa, nel Concilio ecumenico, il quale definisce le verità della fede. Intorno a ciò non può nascere il più lontano dubbio. Nel Concilio gerosolimitano la decisione fu data, con esempio nuovo negli annali del mondo, come sentenza dello Spirito Santo: È sembrato allo Spirito Santo ed a noi. – I Padri antichi consideravano le definizioni dei concilj come parola di Dio; onde basta per tuttì il detto di S. Gregorio Magno: che cioè egli accettava e venerava i quattro concilj ecumenici tenuti sino allora, ossia il Niceno, il Costantinopolitano, l’Efesino ed il Calcedonese come i quattro Evangeli (Epist. 24). Pertanto dalla stessa dottrina del Concilio ecumenico si deduce, che ad avere un vero e legittimo Concilio ecumenico si richiede in prima che ci sia l’intero Episcopato; la quale cosa s’intende che tutt’i Vescovi ci debbano essere invitati, benché forse alcuni vi manchino. Per ottenere poi che l’Episcopato sia nel Concilio ecumenico sempre congiunto col Papa ch’è suo capo, naturalmente si richiede che il Papa lo convochi, lo presieda e lo confermi. Quando una di queste condizioni mancasse, mancherebbe l’unione vitale del corpo episcopale col Capo, s’ avrebbero molti membri del corpo insegnante, non il corpo insegnante che senza il capo non può sussistere. Posto ciò, si potrebbe a maggior chiarimento chiedere: Poiché il Papa è, anche fuori il Concilio, infallibile, nel definire le dottrine della fede, sono poi nel Concilio veri giudici delle dottrine i Vescovi, o tutta la giudicatura. Della fede nel concilio appartiene al Papa? E bisogna rispondere che i Vescovi sono veri giudici della fede nel Concilio, benché il loro giudizio diventi solo infallibile per la strettissima congiunzione che esso ha col giudizio del Papa; in quella stessa guisa che nel corpo umano l’occhio ha, per esempio, l’ufficio proprio di vedere, la bocca di parlare e il piede di camminare; ma nè l’occhio vede, né la bocca parla, né il piede cammina se siano divelti dal capo nel quale vivono e sussistono. E che sieno veri giudici i Vescovi nel Concilio, si prova sì dal fatto del concilio di Gerusalemme, nel quale S. Jacopo disse la sua sentenza con queste parole: « Io giudico », sì dalla formola adoperata sempre da ciascun Vescovo nel sottoscrivere i Concilj: «Io definendo (ossia facendo giudizio) sottoscrissi »; sì infine dalla costante tradizione,  che non lascia scorgere ombra di dubbio intorno a siffatta dottrina. –  Poco ci rimane a dire dell’altro organo dell’infallibilità della Chiesa che si trova nel consenso espresso o tacito di tutta La Chiesa non riunita in Concilio. Basterà ricordare che non solo il consenso espresso della Chiesa insegnante fu avuto dagli antichi Padri come indizio sicuro della vera dottrina, ma anche il tacito: ond’è che quando non si potevano agevolmente unire i Concilj per la persecuzione che infieriva, S. Ignazio Martire, Tertulliano, Origene, S. Cipriano e molti altri spessissimo si appellavano al consenso unanime delle diverse Chiese per combattere gli eretici e dichiararli fuori della via della salute. (Vedi specialmente S. Ignat. adversus Haeres. 1. 3; Tertul. de Praescrip. 21). – Rimane ora a parlare dell’infallibilità del Papa quando definisce le dottrine della fede e dei costumi ex cathedra. Questa infallibilità, mentre è veramente la parte più importante dell’argomento, è quella che meglio rivela il Primato del Romano Pontefice in fatto di dottrina: è quella pure che eccita l’ira o il beffardo riso dei miscredenti, e per di più riesce occasione di false e maligne interpretazioni. Or bene veggiamo in prima su quali autorità di Scrittura e di tradizione si fondi il domma dell’Infallibilità papale quando definisce ex cathedra. Diremo appresso dei limiti nei quali si contiene, e di alcune delle difficoltà che le si oppongono. Gesù Cristo insegnò apertamente, come fu detto, che il romano Pontefice successore di S. Pietro è il fondamento della Chiesa cattolica: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Ora nella Chiesa ciò che più importa è la dottrina della fede; la quale fa nel mondo spirituale quel medesimo ufficio benefico e vivificatore che fa il sole nel mondo corporeo. Dalla vita della fede nasce nella Chiesa la vita della carità e quella del culto. Chi corrompe la fede, avvelena ed uccide 1’albero della vita morale e religiosa nella sua radice; il quale perciò presto o tardi non è buono ad altro che ad ardere. Ebbene, se il Romano Pontefice, insegnando, come Capo e maestro universale, la fede di tutta la Chiesa, potesse errare; dite, come mai egli maestro d’errore sarebbe fondamento d’una Chiesa colonna di verità? La Chiesa, per vivere eternamente, deve avere una fede stabile, ferma, non mai indebolita dall’errore. Ora se il fondamento della Chiesa si muove, tentenna, barcheggia e muta per errore; sarà mai fermo ed immutabile l’edifizio che su di esso si eleva? In somma una Chiesa indefettibile ed infallibile non può stare sopra un fondamento defettibile e soggetto all’errore. –  Ancora, Gesù disse a S. Pietro: « Simone, Simone, ecco che satana è andato in cerca di voi (degli Apostoli) per vagliarvi, come si fa del frumento. Ma io ho pregato per te affinché la tua fede non venga mai meno: e tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli » (Luc. XXII, 31, 33). Benché i protestanti si sforzino di tirare queste parole ai loro sensi strani; tutta la tradizione sì in Oriente che in Occidente ha trovato in esse non già un fatto particolare di S. Pietro, ma una delle più evidenti prerogative del primato di lui. Qui Gesù Cristo parla, come si vede dal contesto, del regno della sua Chiesa. Vede che gli Apostoli saranno soggetti alle tentazioni grandi di satana, e per rassicurarli tutti, si volge al solo Pietro, e come gli avea detto una volta: Tu sei Pietro; gli dice ora: Ho pregato per TE affinché la tua fede non venga mai meno: e Tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli. Non prega il Signore per tutti gli Apostoli, ma per Pietro; non dice che la fede di ciascuno di loro non verrà mai meno, ma che non verrà mai meno quella di Pietro; non dice agli Apostoli che si raffermino gli uni gli altri nella fede; ma al solo Pietro che raffermi nella fede i suoi fratelli. Evidentemente anche qui Gesù Cristo attende sapientissimamente all’unità della sua dottrina. E come prima ha fondato la Chiesa sopra una sola pietra, ora prega per la fede di un solo, affinché questo solo la confermi in tutti i suoi fratelli. – Infine Gesù Signore, come anche fu detto avanti, provvide efficacissimamente all’unità della Chiesa quando costituì il Romano Pontefice successore di S. Pietro, pastore universale, dicendogli: « Pasci è miei agnelli, pasci le mie pecorelle » (Joann. XXI, 15 e seg.). Ora che è mai pascere o reggere la Chiesa? È innanzi tutto e soprattutto pascere le menti dei fedeli d’una sana dottrina da cui deriva in essi la vita dell’amore e del culto; è dare ai loro intelletti quella luce sicura di verità soprannaturale che a poco a poco s’incalora nell’anima, e diviene carità. Ogni più piccolo errore nell’insegnamento della fede, la muta in rovina delle anime dei fedeli. Il nutrimento allora, anzi che vivificare; a poco a poco uccide; perciocché la sola verità dà vita, e l’errore presto o tardi uccide; anzi esso stesso è morte. Ora se il Pontefice Romano è Pastore universale, egli è maestro universale; poiché qui appunto del pascolo della dottrina principalmente si tratta, E se è maestro universale di una società che deve restare immobile nella verità; come mai errerebbe egli ed errerebbe proprio quando si costituisce maestro di tutta la Chiesa, e in nome suo e di tutt’i pastori insegna la fede a tutt’i credenti? In somma, o guardiamo il Pontefice come pietra fondamentale della Chiesa, o come confermatore nella fede dei Vescovi suoi fratelli, o come pastore dei Vescovi e dei credenti, sempre s’ha da tener l’occhio particolarmente alle dottrine della fede. Però meritamente si conchiude che un Papa il quale fosse al tutto fallibile, si accorderebbe solo con una pietra che vacilla, con un confermatore della fede che erra, con un pastore infermo che alimenta tutto il gregge di errori. Questi dunque sono i principali tratti della Bibbia, dai quali la Chiesa cattolica imparò la Infallibilità papale. Questi stessi però ci mostrano il principale limite che s’ha da porre a questa infallibilità, che sta nella distinzione nel Papa tra l’uomo privato e il Maestro universale della Chiesa; perciocchè in tutti questi testi si considera non l’uomo, ma l’uffizio, o che è il medesimo, non l’uomo maestro particolare, ma l’uomo maestro in rapporto con tutta la Chiesa, sì come pietra, sì come confermatore del collegio apostolico, sì come pastore universale. Ma di ciò appresso. –  A questo punto, se io scrivessi intorno al papato anche un semplice trattatello di teologia, mi sarebbe bisogno di esaminare la tradizione che parla di questa verità assai diffusamente. I soli testi dei Padri addotti dal Bellarmino sono tanti, ed esprimono questa papale infallibilità in tanti modi, che a volerli addurre ed esaminare, ci sarebbe da farne un libro. Io però non uscirò dal sistema che ho seguìto in tutti gli altri argomenti; e solo perché questa materia dell’inerranza papale è oggi più delle altre oppugnata, farò un cenno della tradizione intorno ad esso. S. Francesco di Sales (Controverses, disc. XL pag. 247) raccoglie dai Padri varj dei titoli che essi danno al Papa, i quali alcuni si riferiscono più particolarmente al suo primato, ed altri al suo uffizio di dottore universale. Io ne adduco taluni qui appresso, e prego i miei lettori di considerare che quando mai il Papa, nel definire la fede insegnando a tutta la Chiesa, potesse errare, egli in ciò che più importa poco o punto differirebbe dagli altri Vescovi. E allora perché magnificarlo ed esaltarlo tanto? Capace di errare come ciascun Vescovo, il suo uffizio nel Concilio ecumenico assomiglierebbe a quello d’un presidente di assemblee che numera i voti, e riconosce le verità religiose dov’è il maggior numero. Fuori del Concilio, e quando il Concilio non si potesse riunire, le sue decisioni dommatiche si potrebbero sempre infermare dal sospetto dell’errore, e dal dubbio che alcuno, e forse parecchi dei Vescovi non accettano la definizione fatta, o non l’approvano secondo il loro dritto. In somma o fuori o dentro il Concilio il Papa fallibile, nel magistero della fede non potrebbe avere alcuna superiorità vera e sustanziale sopra gli altri Vescovi. Ma ecco i titoli che il Santo di Sales raccoglie dai Concilj e dai Padri. Il Papa è successore di Pietro (Iren. adv. Haeres. III, 3.), santissimo vescovo della Chiesa cattolica (Concil. di Soissons), santissimo e beato patriarca (Ibid.), beatissimo signore (Augustin. Epjst. 95), patriarca universale (Leon. Epist. 95), Vescovo elevato al culmine dell’apostolato (S. Cyprian. Epist. III. 12), capo della Chiesa qui in terra (Innocent. ad Con. Milevit.), sovrano pontefice dei vescovi (Concil. Chalced. in Praef.), sommo sacerdote (Idem. Sess. XVI), principe dei preti (Stephan. Ep. Cartag.), prefetto delle cose di Dio (Conc. Cartag. Ep. ad Damas.), guardiano della vigna del Signore (Ibid.), principe dei vescovi (Conc. Chalced. Epist. ad Theod.), erede degli Apostoli (S. Bernard. De Consider.), confermatore della fede dei Cristiani (Hieron. Praef. in Ev. ad Dam.), Sovrano pontefice (Concil. Calced. ad Theod.), bocca di Gesù Cristo (S. Joann. Chrys: Homil; 2 in Div. Serm.), bocca dell’apostolato (Orig. Homil. 55, in Matth.), giudice supremo della fede (S. Leo in Apost.); sorgente apostolica (S. Ignat. Ep. ad Rom.), Cristo per l’unzione (S Bern. De Consid.), Vescovo dei Vescovi (Concil. Chalced. în Praef.), padre dei padri (Idem. — Molti altri titoli si omettono per brevità). – Ma non potendo io qui estendermi ad addurre le testimonianze della tradizione, non vo’ lasciare di riferire tre definizioni di Concilj ecumenici, nei quali si trova implicitamente sì ma pur chiaramente quel medesimo domma che fu poi definito nel concilio Vaticano. Le tre definizioni sono la prima del concilio IV di Costantinopoli nell’851, e questa stessa si deve dire più propriamente del 519, perché allora fu proposta da S. Ormisda Pontefice a tutti i vescovi d’Oriente che la sottoscrissero: concilio di Firenze nel 1439. Così abbiamo tre definizioni di Concilj, l’una che si può far risalire sino al sesto secolo, la seconda del decimoterzo e l’altra del decimoquinto. La prima si dilunga da noi di oltre mille e trecento anni, l’ultima di quattro secoli e più. E nondimeno oggidì si spaccia da moltissimi che l’nfallibilità papale è una invenzione nuovissima del concilio Vaticano. Sennonchè le parole dei tre Concilj affermano la papale infallibilità? Negli stessi termini e con la precisione, onde fu fatto nella definizione vaticana, no; ma che la includano a me pare chiaro; però lascio giudicarne chi legge. La formula del Papa Ormisda è questa: « La prima condizione di salvezza è il custodire le regole della vera fede, e il non allontanarsi in nulla dalla tradizione dei Padri, perché non si può lasciare da parte la sentenza di Gesù Cristo nostro Signore, il quale ha detto: Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa. Queste parole sono state provate dai fatti; perciocché la Religione cattolica è stata sempre conservata immacolata nella Sede Apostolica, cioè romana, e la sua dottrina è stata sempre ritenuta come santa…. Desiderando noi dunque di non essere separati dalla fede e dalla dottrina di questa Sede, speriamo di meritare di essere nella sola comunione che viene proclamata dalla stessa Apostolica Sede, nella quale risiede l’intera e vera solidità della Religione cristiana ». Il Concilio di Lione definisce così: « La santa Chiesa romana possiede la sovranità e il pieno primato e principato sulla Chiesa Cattolica intera, ed essa riconosce con verità ed umiltà che l’ebbe ricevuto con la pienezza del potere dallo stesso Signore nel Beato Pietro principe cioè Capo degli Apostoli, del quale il romano Pontefice è successore. – E siccome questa Chiesa è obbligata più di tutte le altre a difendere le verità della fede; « … così allorché si elevano questioni sulla fede, esse debbono essere mediante il suo giudizio definite ». – Infine nel Concilio di Firenze è detto: « Definiamo che la S. Sede Apostolica ed il Pontefice sommo hanno il primato sul mondo intero; e lo stesso Pontefice romano è il successore del Beato Pietro principe degli Apostoli, e vero Vicario di Gesù Cristo, Capo di tutta la Chiesa, PADRE e Dottore di tutt’i Cristiani, ed a lui nella persona del Beato Pietro fu affidata da Gesù Cristo nostro Signore la piena potestà di pascere, reggere e governare la Chiesa universale ». – Intorno a queste tre testimonianze di Concilj ecumenici sarebbero da fare molte e sottili considerazioni: ma io me ne passo, lasciando a ciascuno di studiarle a suo bell’agio. Soltanto vorrei che niuno cercasse d’infermarne il valore, dicendo che la parola infallibile non ci si trova. Perciocché è chiaro che se proprio la parola ci fosse stata, la definizione vaticana sarebbe riuscita al tutto inutile. Ma la questione con gli avversarj, si badi bene, non è già di sapere se nella Bibbia, nella tradizione e nelle definizioni più antiche vi sia la verità espressa proprio in quella forma e con quelle parole in cui si definisce; ma se vi sia la verità stessa, considerata vuoi nella sua sostanza vuoi almeno nel suo germe. La stessa verità cambia, dirò così, di luce e di posto, secondo che il nostro occhio con attenta riflessione la guardi da un punto più tosto che dall’altro; e da ciò nasce, come fu detto, il bisogno dei nuovi dommi, o, che è il medesimo, delle nuove parole e più appropriate per mantenere sempre la non nuova dottrina che si applica, si spiega, si determina meglio. Da ciò nasce altresì l’indefinito progresso della teologia cattolica, che di grado in grado trae e perfeziona le cose talvolta appena abbozzate nella dottrina antica. Ai tempi di Ormisda la parola d’infallibilità papale non ci poteva essere; o, sé vi era, non aveva importanza; perciocché la riflessione umana non s’era fissata punto sull’idea del Papa fallibile o infallibile. Allora era necessario sapere dove fosse la religione immacolata; con quale Sede importasse aver comunione; quale Chiesa serbasse intera la fede. E a queste interrogazioni si rispondeva che la Religione era immacolata nella Sede romana; che la comunione con essa Sede era ciò che più rilevava; e che infine la vera solidità della Religione intera si trovava nella stessa Sede pontificia. Ora, quale di queste tre cose si potrebbe unire con un Vescovo della Chiesa romana che insegnasse a tutta la Chiesa una fede falsa? Niuna. In quelle parole dunque è compresa l’infallibilità del Pontefice romano, benché allora niuno facesse a se stesso questa interrogazione: — Il Pontefice romano è egli fallibile o infallibile nel definire la fede? — Pertanto le medesime cose si possono dire intorno alle altre due testimonianze del Concilio di Lione e di Firenze. Ma anche qui è necessario che io tronchi il discorso e passi oltre. –  Guardiamo un altro aspetto della infallibilità del romano Pontefice. Una delle prove più gravi e più concludenti della papale infallibilità sta nella storia della Chiesa: in quella storia, di cui a gran torto gli avversarj fanno un’arma di guerra contro di noi; perché la leggono infoscata sconvolta dalle loro passioni, e soprattutto perché la leggono volendoci trovare idee e giudizj preconcetti. Nella storia della Chiesa, a cominciare dai primi suoi tempi, s’incontra una serie di fatti che provano la fede comune della cristianità nell’Infallibilità della Sede e del Pontefice romano. Moltissime questioni che direttamente o indirettamente appartengono alla fede, le decide di per sé il sommo Pontefice; e quella decisione, non che sia mai contrastata dalle altre Chiese è anzi ardentemente invocata. Papa S. Clemente, per detto di S. Epifanio, condanna Ebione come eresiarca; Papa S. Igino (lo attestano S. Ireneo e Tertulliano) esclude dalla Chiesa Cerdone e Valentino eretici; San Aniceto Papa scomunica Marcione; S. Eleuterio Papa anch’egli proscrive gli errori di Montano. Chi condanna le eresie dei Catafrigi e dei Quartodecimani? Il Papa S. Vittore. Chi fulmina l’eresie dei Novaziani? S. Cornelio Papa. Chi proscrive gli errori di Sabellio? Il Papa S. Dionigi successore di S. Sisto. Dopo data la pace alla Chiesa, Papa Liberio indirizza una lettera solenne ai Vescovi d’Oriente, affinché confessino con gli Occidentali la Trinità consustanziale delle divine persone; e dopo questo giudizio del romano Pontefice, la lite s’ha come terminata. Nel 378 S. Damaso Pontefice pubblica la sua lettera Tractatoria contro le eresie di Apollinare e di Macedonio; S. Siricio condanna l’eresia di Gioviniano; e infine S. Innocenzo conferma i due Concilj Africani contro il pelagianesimo; ed è che S. Agostino dica che per quella conferma la causa è finita. Che più? Nel 494 un Pontefice romano, S. Gelasio,in un Concilio particolare di Roma, giunse sino a determinare il canone delle Sante Scritture. Fatti diquesto genere se ne potrebbero addurre moltissimi. Maio mi fermo qui, e chiedo a me stesso: Per quale ragione mai le dispute più gravi della fede si risolvevano spesso dal Pontefice romano? Perché mai il Pontefice romano egli e non altri dichiarava chi fosse eretico, lo fulminava d’anatemi, e lo metteva fuori del seno della Chiesa? Non avea ciascuna diocesi il suo Vescovo maestro della sana dottrina; e sopra i Vescovi non c’erano i metropolitani; e sopra i metropolitani i primati, e sopra i primati i Patriarchi? Perché le dispute di religione, quasi sempre nei primi tempi nate in Oriente, si de finivano in Occidente ed in Roma? — certo perché i Pontefici romani avessero fama singolare di dottrina. Il primo dei Papi veramente grande per questo rispetto fu S. Leone, che fiorì nel 440: Laonde S. Girolamo, noverando nella Chiesa sino ai suoi tempi centotrentasei uomini illustri per dottrina, appena ricorda quattro Pontefici Romani, Clemente, Vittore, Cornelio e Damaso; i quali ancora scrissero soltanto qualche lettera intorno alle dottrine della fede. Molto meno le dispute di religione si finivano in Roma, perché i Pontefici romani fossero al caso di esaminare la tradizione meglio degli altri Vescovi; trattandosi anzi d’una Religione che ebbe la culla e la primitiva tradizione piuttosto in Oriente che in Occidente. E poi si sarebbero contentati i primi fedeli di una fede fondata sulla scienza storica, o sulla erudizione di qualche Pontefice? Chi lo dicesse, mostrerebbe di non aver capito un jota dello spirito dei Primi Cristiani. La scienza, l’erudizione, la storia, l’ingegno, il vigore dialettico, tutto cedeva per essi a Gesù Cristo. Una sola cosa volevano conoscere, ed era dove fosse mai loSpirito del Signore, quello Spirito che dovea insegnare alla Chiesa ogni verità. Se dunque si chiedeva dal Pontefice Romano la decisione della dottrina della fede; se si chiedeva da lui qual cosa avesse insegnato Gesù Signore,ciò sì faceva perché tutti sapevano che il Beato Pietro avea ricevute promesse singolari intorno al Magistero della fede, e che a lui bisognava far capo per isciogliere senza appello tutti i. dubbj di religione.Questa è la dottrina dell’Infallibilità definita nel Concilio Vaticano, e che qui appresso mi studierò di chiarire anche meglio. Contro di essa, certo, si sono mosse difficoltà in gran numero. Ma non ci fu mai definizione dommatica che non ne suscitasse forse più assai. E qui ben si potrebbe provare, se ne fosse il luogo, che ciò deriva dalla natura stessa delle verità religiose, dai fonti a cui attingono, e dal lavoro che fa intorno ad esse la ragione umana. Ma di questo argomento mi è forza tacere per amore di brevità. Neppure posso lungamente discorrere delle obbjezioni fatte contro l’Infallibilità papale, e non sose sia bene che io ne dica qualche cosa. Scelgo le due principali e più conosciute, ed eccone appena un cenno.Chi di voi nel tempo del Concilio non ha udito parlare di Papa Onorio, che evidentemente errò contro la fede,e poi della Chiesa gallicana, la quale sostenne sempre che il Pontefice non fosse infallibile? Ora il fatto di Papa Onorio, chi voglia restringerlo in poche parole, è questo.Dopo che fu definito in Cristo esservi due nature, l’umana cioè e la divina, si cominciò a discutere se in Cristo vi fossero due volontà e due operazioni, ovvero una volontà ed una operazione. Sergio, Patriarca di Costantinopoli, scrive a Papa Onorio, pregandolo di troncare questa nuova questione con imporre silenzio. Il Papa rispose una celebre lettera a Sergio, nella quale alcuni han voluto trovare la definizione erronea ed ereticale che in Cristo fosse la sola volontà; e cotesta obbjezione si avvalora tanto più, che nel sesto Concilio ecumenico Papa Onorio fu condannato appunto per siffatta disputa. Ma il fatto è che la lettera di Papa Onorio non si può avere come una definizione ex cathedra; che essa non si definisce nulla, ma solo si cede alle istanze di Sergio, dicendosi che intorno a questa nuova controversia non si ha da decidere allora cosa alcuna; e che infine il Concilio ecumenico condannando Onorio, lo condannò come negligente nel difendere la fede, ma non mai come Pontefice, che in una definizione dommatica insegna errori a tutta la Chiesa (Chi vuole le prove di tutto ciò, legga i molti libri scritti su questo argomento, e particolarmente il dottissimo volume scritto da Monsig. Hefele in occasione del Concilio). – L’altro fatto della opinione contrari: della Chiesa gallicana fu anch’esso una sorgente di molti equivoci. Non si può provare né punto né poco che la Chiesa gallicana abbia sempre sostenuto ciò che sostenne nella celebre dichiarazione dell’assemblea del 1682, nella quale fu detto, che nelle questioni della fede il Papa ha la principale parte; che i suoi decreti riguardano tutta la Chiesa e ciascuno in particolare; ma che ciò non pertanto il suo giudizio « non è irreformabile se non allorché la Chiesa gli ha dato il suo consentimento ». Si prova anzi il contrario: che cioè la Chiesa di Francia, da S. Ireneo sino ai nostri tempi, moltissime volte professò nei suoi Concilj la papale infallibilità. Basti citare alcune parole dell’assemblea dei vescovi del 1625, confermate da altri trentuno Vescovi francesi che scrissero a papa Innocenzo X nel 1653. Ecco le une e le altre. « La Chiesa di Francia insegna che nelle questioni intorno alla fede i giudizj dei sommi Pontefici godono di una divina e sovrana autorità nella Chiesa universale, e che tutti si debbono ad essi sottomettere con l’intelletto e col cuore, sia che l’Episcopato esprima il suo assentimento, sia che ometta di farlo….. Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa sopra di Pietro, dandogli le chiavi del cielo con l’infallibilità della fede, che si è veduta prodigiosamente restare immutabile nei suoi successori sino ai nostri giorni». Ma v’è ancora altro. Il fatto dell’assemblea dei ventidue Vescovi del 1682, nella quale si negò la papale infallibilità, bisogna ben ponderarlo e guardarlo con tutte le sue particolarità. L’assemblea del 1682, com’è evidentemente provato da molti storici di polso, non rispose alla fede comune della Chiesa di Francia: non fu al tutto libera, ma guasta dalle eccessive ingerenze e del re e dei cortigiani: il Papa poi e le altre Chiese non l’accettarono, protestando anzi contro. Infine, poco dopo, molti dei Vescovi che, per timore di peggio o per debolezza di animo, sottoscrissero la celebre dichiarazione, la ritrattarono (Vedi intorno a ciò le ventinove lettere del Cardinale Litta). Quanto al dottissimo Bossuet, egli almeno nell’assemblea del 1682 cercò di temperare le pretese esorbitanti di alcuni Vescovi, ed appresso le temperò anche più, distinguendo, sebbene contro il vero, tra l’Infallibilità della Sede papale e quella del Papa. (le Recherches historiques sur l’Assemblée du clergé de France de 1682 per M. Gerin). – Io spero che dalle cose dette sin qui l’idea della papale Infallibilità si sia di Grado in grado affacciata più limpida alle nostre menti. Ora ci rimane a fare un ultimo passo, adducendo le parole della definizione del Concilio Vaticano e facendovi sopra poche riflessioni che giovino a farcela intendere. Il Papa col Concilio Vaticano nella quarta sessione fece una Costituzione dommatica intorno alla Chiesa; e al capo IV definì la papale Infallibilità con queste parole: « Noi aderendo fedelmente alla tradizione ricevuta fin dai primi tempi della fede cristiana, a gloria di Dio nostro Salvatore, ad esaltazione della Cattolica Religione, ed a salute dei popoli cristiani, coll’approvazione del sacro Concilio insegniamo e definiamo esser domma da Dio rivelato che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando, esercitando l’ufficio di Pastore e di Dottore di tutt’i Cristiani, definisce in virtù della suprema sua apostolica autorità una dottrina intorno alla fede o ai costumi da tenersi da tutta la Chiesa, gode, mercè l’assistenza divina nella persona del B. Pietro a lui promessa, di quell’infallibilità, di cui. il divin Redentore volle fosse fornita la sua Chiesa nel definire le dottrine appartenenti alla fede e ai costumi; e che perciò tali definizioni del Romano Pontefice per sé stesse, e non già pel consenso della Chiesa sono irreformabili. Se alcuno, che Dio nol voglia, presumerà di contraddire a questa nostra definizione, sia anatema ». Solenni parole coteste, lungamente ponderate e discusse al lume della fede e con l’assistenza di quello Spirito Santo, che fu promesso alla Chiesa come maestro e rammemoratore d’ogni verità! Posta siffatta definizione, e guardando pure a ciò che insegnano comunemente i teologi, consideriamo dunque quali precipue condizioni si richiedono ad avere una definizione infallibile del Papa. In prima, poiché si parla di definizione delle verità religiose è chiaro che non si accenna neanche da lontano l’impeccabilità pontificia; come è piaciuto di dire ad alcuni, non si sa se più goffi o ignoranti. Ancora, poiché si parla del Papa quando definisce e non quando istruisce i fedeli, e si richiedono parecchie altre condizioni ad aver Papa che parla ex cathedra; è evidente che nel Papa si può considerare il dottore privato ed il maestro dei dommi della fede a tutta la Chiesa. Come dottore privato il Papa può, certo, errare; ed il Bellarmino dà come probabile, quantunque molti altri il neghino, ch’ei possa essere sino eretico, e in questo caso deposto dalla Chiesa. Come dottore universale della Chiesa e quando definisce intorno alla fede, è infallibile. Ma si esamini anche più addentro la Costituzione vaticana. Pietro fu stabilito da Gesù Cristo capo infallibile della Chiesa per mantenere l’unità della fede: il Concilio dice che il Papa è infallibile nelle dottrine della fede e della morale. Dunque il Papa è infallibile quando definisce i dommi della fede e della morale. In quali casi questa infallibilità, secondo i più dei teologi, si possa estendere oltre la divina rivelazione e solo per custodire il deposito della divina rivelazione, fu dichiarato parlandosi dell’infallibilità della Chiesa, che è una stessa ed unica infallibilità con quella del Papa. Ma è certo pure che l’infallibilità sì della Chiesa e sì del Papa non si ha da estendere al di là di quelle cose che sono tanto intimamente ed evidentemente congiunte con le verità rivelate; che, negando quelle, si nega anche queste. Dippiù, il Papa, com’è detto nella Costituzione vaticana, è infallibile nel definire le verità religiose. Ora definire una verità, non è soltanto affermarla; ma affermarla solennemente, e imporla come obbligatoria a tutti i fedeli; affermarla ed imporla come verità rivelata, o così intimamente congiunta con essa, che non se ne può separare. Di qui segue che molte affermazioni anche dottrinali del Papa alla intera Chiesa possono assolutamente parlando essere erronee, come può accadere in tutti quei preamboli che precedono sì nelle Bolle e sì nei Concilj la definizione stessa del domma. Ancora, il Papa, secondo la definizione vaticana, deve parlare come Dottore e Pastore universale; quindi deve parlare a tutta la Chiesa e imporre a tutta la Chiesa l’obbligo di credere ciò che egli insegna. Infine il Papa per essere infallibile deve adoperare certe forme estrinseche, dalle quali apparisca che egli intenda di affermare un domma di fede e di obbligare ad esso tutt’i fedeli. La più consueta di queste forme è il fulminare l’anatema, dichiarando eretico chi nega le verità definite. Questa forma non è essenziale ad avere vera e propria definizione dommatica; ma se il Papa (insegna così il dottissimo teologo Mauro Cappellari, poi Papa Gregorio XVI) « non dichiara che a malgrado l’omissione di questa o di altra forma simile, egli intende di definire e di obbligare, non si deve credere ch’egli abbia assolutamente definito, facendo uso dell’infallibilità promessa a Pietro e ai suoi successori » (Trionfo della Santa Sede. Terza Ediz. rivista dal Cappellari già Papa). – Queste ed altre simili regole si possono addurre per conoscere quali sieno le definizioni dommatiche ed infallibili del Papa. Il parlare di esse più minutamente e l’entrare in certe dispute che oggidì si muovono intorno a siffatto argomento, non mi pare che sia cosa del mio libro. Espongo, ma non fo uno scritto di polemica. Io conchiudo dunque questo tema della papale Infallibilità, notando che una delle più belle glorie del Cattolicismo è la stima grande e l’amore grandissimo ch’esso ispira alla verità. L’Infallibilità papale, che il mondo o deride o oppugna o adultera, è un testimonio perenne del conto in che noi teniamo la verità. La verità per noi è tal bene, che avanza tutti gli altri. Per essa morì il Verbo. di Dio incarnato: per essa il Signore rinnova ogni giorno nella Chiesa e nel suo capo il miracolo dell’infallibilità. Un uomo infallibile di per sé è certo cosa incredibile; ma un uomo in certe solenni occasioni strumento dell’infallibilità di Dio, è cosa che s’armonizza pienamente con tutte le teoriche del Cristianesimo. Coloro che non intendono l’inerranza papale, senza avvedersene rimpiccioliscono il Cristianesimo, e non comprendono: la strettissima unione di Gesù Cristo con la sua Chiesa e col suo Vicario. Quanto a me, l’infallibilità papale mi pare come un raggio dell’infinita luce di Cristo, e come un nuovo miracolo dell’infinito suo amore: onde essa m’innamora sempre più di Gesù Cristo, e mi spinge ad amarlo, a magnificarlo è a benedirlo sempre più vivamente. Quali degnissimi frutti poi coglierà la Chiesa da questa solenne definizione, che parve ad alcuni soltanto inopportuna, lo vedranno, meglio di quel che si possa fare oggi, coloro che verranno dopo di noi; quando l’azione diretta di Dio sopra la Chiesa sarà resa manifesta dai fatti nei quali si troveranno involti i nipoti nostri. La divina Provvidenza apparecchia per tempo le vie dell’avvenire!

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In questa festa della “vera” Chiesa Cattolica, il pusillus grex cattolico, augura al Santo Padre Gregorio XVIII lunga vita e Pontificato glorioso, benché impedito. Anche N. S. Gesù Cristo è stato rinchiuso nel sepolcro, ma dopo 3 giorni è risorto glorioso vincendo il mondo e la morte. Così sarà anche per lei, ne siamo certi, mentre lo stagno di fuoco eterno aspetta gli usurpanti vicari di satana e dell’anticristo, i falsi profeti del novus ordo con i loro apostati adepti. Auguri santità, le stiamo vicino con la preghiera e la fede viva in Cristo, nella sua Chiesa, oggi eclissata ma sempre viva, e nel suo Vicario, successore del Principe degli Apostoli. Preghi per noi, ostinati Cattolici, uniti nel Corpo mistico di Cristo !!!

LUNGA VITA AL PAPA!