LO SCUDO DELLA FEDE (198)

DIO CI LIBERI, CHE SAPIENTI!. CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! (1)

PER Monsig. BELASIO

TORINO, 1878 – TIPOGRAFIA E LIBRERIA SALESIANA

San Pier d’Arena – Nizza Marittima.

Tip. E libr. Salesiana, Torino 1878

AI NOSTRI LETTORI

La lotta che la Chiesa Cattolica sostiene da diciotto secoli contro la irreligione e l’incredulità, sebbene sotto varie forme, è sempre la stessa. Nei primi secoli del Cristianesimo venne attaccata e messa in dubbio la Divinità del nostro Signor Gesù Cristo, e così quei primi oppositori rifuggendo dalla sua dottrina, non volevano accettare i precetti del suo Vangelo. Più tardi, dagli Eretici tutti si diressero i più vivi assalti contrò l’autorità della Chiesa, e messi in non cale i suoi insegnamenti, si volle scosso ogni giogo di dipendenza dalla sua materna autorità. – In questi ultimi tempi, gli sforzi dell’incredulità mirano ancor più alto, giacché colle moderne dottrine si fa ogni conato per distruggere ogni idea d’esistenza di un Dio Creatore, Conservatore e Padrone di tutte le cose. Per tal guisa, infranto ogni legame di sudditanza, si misconoscono tutte le leggi d’ordine morale, unico valido freno delle umane passioni. Questo genere di attacco riesce tanto più pernicioso in quanto che fondandosi sopra argomenti, che si fanno derivare da un empirico apparato di scienze fisico-geologiche, appoggiate a nuove scoperte e fatti che sì danno per veri a tutta prova, accortamente nascondono con maligno inganno la propria falsità, massime a quelli che digiuni di tali scienze non sono sempre al caso di discoprirne il tradimento. Quando un professore di scienze naturali ti si fa innanzi snocciolando astratti sistemi di forze fisiche, di materia eterna modificantesi in mille guise, di produzioni e riproduzioni spontanee, di uomini preistorici ed altri simili trovati, ed all’appoggio di madornali spropositi viene citando, quali indiscutibili verità, fatti e scoperte, il più delle volte adulterate e false; quando sopra tali dati edificando nuove teorie di origine spontanea delle cose, di leggi fisiche che esistono senza un legislatore che le abbia pria dettate, ma sussistenti per la natura stessa della materia, quindi lo sviluppo di ogni essere l’uno dagli altri derivante fino alla formazione dell’uomo stesso, colle sue facoltà intellettuali e ragionevoli, per poi dedurne la superfluità di una Causa prima, e farsi strada a togliere di mezzo ogni idea dell’esistenza di un Dio Creatore; la maggioranza dei meno istruiti facendo di berretto all’ingarbugliato profluvio di tanta scienza, accoglie come vere le più strane teorie, che poggiano sopra dati onninamente erronei e sopra fatti male interpretati o assolutamente falsi. Quindi pur troppo s’ingenera nelle menti dei più il dubbio sulle principali verità di nostra S. Fede; dal dubbio si passa all’indifferenza, e da questa, secondata dalle passioni di un cuore corrotto, si arriva ad una totale deplorabile incredulità. – A combattere siffatti sistemi venne in buon punto la dotta penna del chiarissimo Mons. Antonio Maria Belasio, il quale in un suo libro intitolato: Le verità cattoliche esposte, al popolo ed ai dotti, nella spiegazione del Credo e la moderna incredulità confusa dalle scienze moderne, mise in piena luce le principali fallacie dei moderni sedicenti Scienziati, e smascherando i molti errori che e nei libri e dalle cattedre, anche nelle piccole scuole si ammanniscono alla gioventù ed al popolo, mette in piena evidenza la necessità di ammettere un Dio Creatore. (*) – Ne deduce quindi il dovere di venerarlo e di obbedirlo ne’ suoi precetti, e come corollario dimostra il dovere di riconoscere e di credere le principali verità della Religione Cattolica, quali ci vengono insegnate dalla buona Madre nostra la S. Chiesa. A rendere più facile l’intelligenza delle questioni che vi sì discutono, vi aggiunse un piccolo trattato di Geologia, che alla portata pur anco dei meno eruditi, presenta una netta idea delle più importanti scoperte della scienza moderna; e con questo poté conchiudere che la nostra S. Religione non solo non paventa gli attacchi che le possono essere diretti all’appoggio di tali scoperte, che anzi le invoca, e facendosi forte della vera scienza, viemmaggiormente si consolida, e più gloriosa e più pura risorge da tali combattimenti. Sicché si deve conchiudere che le moderne scienze colle loro scoperte lavorano al trionfo della Verità cattolica. – Questo prezioso lavoro dovrebbe essere alla mano di tutti, e se ne raccomanda la lettura ad ogni genere di persone; siccome però la sua mole eccede la portata delle nostre mensili distribuzioni, si è pregato il chiarissimo Autore a restringerne la sostanza in un riassunto di minori proporzioni, che possa bastare ai meno capaci di lunghe letture, e che valga pure ad animare i più a procurarsi l’opera di maggior mole, quale arma di prima necessità contro gli odierni attacchi, che si muovono alle credenze di tutti i fedeli”. – Gli errori in voga pur troppo si sono resi popolari, ed in questo nostro fascicolo contenente il riassunto dell’Opera, compilato dallo stesso Autore, questi errori vengono confutati in modo anche popolare, con un brio da allettare ogni classe di lettori, divertendo ed istruendo allegramente ed alla buona. – Questo è quanto offriamo ai lettori delle Letture Cattoliche nel presente fascicolo col titolo: DIO CI LIBERI! CHE SAPIENTI !… CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! – L’amenità dello scritto ridotto a piacevole conversazione, l’importanza degli argomenti che vi sì svolgono, l’abbondanza di utili e dilettevoli scientifiche nozioni trattate con quella amorevolezza che è propria del chiaro Autore; ci sono garanti che la presente distribuzione riuscirà accetta ai nostri lettori, quale più prezioso regalo, mentre sarà sorgente di utilissimi ammaestramenti per smascherare vittoriosamente le insulse dottrine che a danno della Fede si vanno maliziosamente spargendo fra il popolo e nelle scuole, e in tanti libercoli e giornali, e nelle famigliari domestiche conversazioni. –  Il Signore benedica gli sforzi dell’illustre Autore, e ne lo compensi colla salvezza di qualche illuso.

Per la Direzione: Conte C. CAYS Salesiano.

(*) Purtroppo, Monsignor Belasio, benché sostenuto dall’ottimo intento di smascherare le falsità pseudo scientifiche divulgate giù ai suoi tempi, ed oggi dominanti nella cosiddetta cultura moderna monolitica del pensiero unico (in gran parte falsa ed artificiosa nel suo ridicolo proposito di contraddire alle verità bibliche e alle rivelazioni cristiane), faceva suo il principale inganno sul quale è costruito tutto il “castello fatato” delle teorie astronomiche  e geologiche edificato maldestramente dalle Accademie dal XVII secolo in poi: il Sistema eliocentrico, cioè il novello culto del dio Mitra, fatto proprio e propagandato in tutte le sette massoniche dalla élite mondialista luciferina, fino al punto da giungere alle ricostruzioni cinematografiche di comici sbarchi sulla luna o improbabili fiabesche esplorazioni di pianeti lontani. Ricordiamo, per inciso, che aderire a queste ridicole teorie indimostrate dai fatti, significa oltretutto – per chi crede di essere Cristiano – cadere nell’anatema ipso facto pronunciato dal Concilio di Trento, ribadito pure da diversi documenti magisteriali, ad es. nel decreto Lamentabili sane exitu di S. Pio X, per chi rifiuti il dogma dell’Inerranza biblica …. anatema sit!!!(n.d.r.)

LA VITA INTERIORE (14)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (14)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione, Riveduta.

SOLE CHE ARDE

IL RITORNO ALL’AMORE

NON SIAMO PIÙ SCHIAVI DEL PECCATO.

Spiegando l’Apostolo Paolo ai Romani e il simbolismo del S. Battesimo pel quale l’anima rimane purificata dalle colpe e unita con Gesù, suggerisce loro di non far più morire, per mezzo del peccato, la vita divina che hanno ricevuto, e conclude: Ultra non serviamus peccato, cioè: non siamo più, per nessun motivo, schiavi del peccato. Sarebbe davvero una grave iattura. Riflettiamo un istante. – Il Cristiano nel Battesimo è incorporato a Gesù Cristo, in modo da diventare parte del suo Corpo mistico, un altro Gesù Cristo. Siamo morti al peccato ed apparteniamo interamente a Gesù. « Infatti, dice ottimamente il P. Prat (V, 1, 266), noi siamo uniti a lui (Gesù) e diventiamo suoi membri proprio nel momento in cui egli diventa salvatore. Ora, questo momento coincide per Gesù Cristo con quello della morte, raffigurata ed effettuata misticamente per noi nel Battesimo. D’allora tutto ci è comune con Gesù Cristo; noi siamo crocifissi, sepolti con Lui, risuscitiamo con Lui, noi partecipiamo alla sua morte e alla sua nuova vita, alla sua gloria, al suo regno, alla sua eredità ». Sì. Partecipiamo. Ma, purtroppo, non vi partecipiamo per sempre. Perché? Ecco: il Concilio di Trento dice che « se la nostra riconoscenza verso Dio, che col Battesimo ci ha reso suoi figli, fosse all’altezza di questo dono ineffabile, noi serberemmo intatta ed immacolata la grazia ricevuta in questo primo sacramento » (Sess. XIV, cap. I). Per quanto vi siano, anche, anime privilegiate che sanno conservare questa vita divina ricevuta nel Battesimo, Gesù volle pure provvedere per quelle altre anime che, purtroppo, non sanno conservarla, questa grazia… E provvide realmente, istituendo il santo sacramento della Penitenza, il quale « è un monumento ammirabile della sapienza e della misericordia divina, nel quale Dio ha saputo armonizzare queste due cose: trovare la propria gloria, dandoci il suo perdono » (D. COLUMBA MARMION, Cristo, vita dell’anima. Milano, 1935).

COME DIO MANIFESTA LA SUA POTENZA.

Non co’ tuoni e le folgori, non per mezzo dei terremoti e delle inondazioni, non con la carestia, la peste, la fame, la guerra, ma con la… misericordia. La storia delle relazioni fra Dio e l’uomo è una continua manifestazione della bontà e misericordia di Dio. Sembra, per una parte, che gli uomini abbiano fatto tutti, e sempre, generalmente parlando, quanto potevano per offendere il Signore, e, d’altra parte, sembra che Dio abbia gareggiato, sempre, nel dar loro il suo perdono paterno. Conosciamo tutti la bellissima preghiera che i Sacerdoti leggono nella S. Messa della decima domenica dopo Pentecoste: « Deus qui omnipotentiam tuam parcendo maxime, et miserando manifestas… multiplica super nos misericordiam tuam ». E cioè: « O Dio, che fai soprattutto risplendere la tua potenza perdonandoci e avendo pietà di noi, moltiplica su di noi questa tua misericordia ». Questa meravigliosa rivelazione dataci dalla Chiesa che Dio, perdonandoci e avendo pietà, manifesta soprattutto la sua potenza, è ripetuta in tante altre preghiere. Ne ricorderemo ancora una, perché molto espressiva, ed è un’orazione delle Litanie delle Rogazioni: « Deus, cui proprium est misereri semper et parcere... 0 Dio, Tu che hai la caratteristica di usare sempre misericordia, e perdonare… ». Essere misericordioso, dice S. Tommaso, vuol dire prendere, in certo qual modo, nel proprio cuore la miseria altrui. Questa miseria è costituita dai nostri peccati, dalle nostre offese, dai nostri debiti verso Dio. Poiché Dio è bontà, è amore, davanti alla nostra miseria, la bontà e l’amore di Dio divengono misericordia. Non essendo a noi possibile vivere senza peccato veniale, le nostre miserie aumentano. Per questo: l’abisso delle nostre miserie, delle nostre colpe, dei nostri peccati, chiama l’abisso della misericordia divina.

ISTITUZIONE DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

Perduti, per causa del peccato, la grazia e i doni del Battesimo, non vi sarebbe più per noi nessun mezzo di salvezza, se Dio nella sua misericordiosa e previdentissima bontà non avesse pensato e provveduto a noi coll’istituzione del santo sacramento della Confessione. — Dopo il Battesimo,  dichiarò il Concilio di Trento (Sess. XVI, cap. 2 e 8), dopo che siamo innestati in Cristo, dopo che «liberati dalla servitù del peccato e del demonio, divenuti i templi dello Spirito Santo, noi ricadiamo volontariamente nel peccato, non possiamo ritrovare la grazia e la vita se non a condizione di far penitenza; così ha stabilito e non senza convenienza, la divina giustizia ». – La penitenza può essere considerata come sacramento e come virtù. Diciamo, ora, soltanto, della penitenza come sacramento. — Sappiamo che Gesù Cristo istituì questo sacramento quando disse agli Apostoli e nella persona di essi, ai loro successori: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; e saranno ritenuti a chi li riterrete (Giov., XX, 23) E ancora: Tutto quanto voi legherete sulla terra sarà legato anche in cielo; e tutto quanto voi scioglierete sulla terra, sarà sciolto anche in cielo (Matt., XVIII, 18). – Per mezzo della confessione ben fatta rifluisce o aumenta la grazia nella vita dell’anima… e il desiderio dell’unione con Dio rinvigorisce, la pietà rimane alimentata e fortificata.

PER FARE UNA BUONA CONFESSIONE.

Dopa aver pregato, com’è evidentemente necessario, occorre fare un buon esame di coscienza (comandamenti di Dio e della Chiesa; gli obblighi del nostro stato; oppure i doveri nostri verso Dio, il prossimo, noi stessi); avere il dolore (interno, sovrannaturale sommo, universale) dei peccati che si devono confessare, e, col dolore, il proposito fermo, stabile ed efficace di non peccare. Dopo di questo, la confessione o manifestazione delle colpe, o accusa, dev’essere umile, semplice, sincera, integra, prudente, obbediente, frequente, seguita dalla penitenza sacramentale o soddisfazione. L’obbligo della confessione riguarda soltanto le colpe mortali. – Ma ogni anima deve procurare, anzitutto e soprattutto, confessandosi, di avere il dolore o contrizione. Anche se l’accusa fosse resa materialmente impossibile, resta la necessità del dolore. Questo dicesi perfetto quando l’anima si rattrista per aver offeso l’amore, cioè Dio, unico e vero amore, sovrano bene, bontà infinita. L’atto di dolore o di contrizione perfetta, per il suo motivo, cancella il peccato mortale nell’istante stesso nel quale l’anima lo produce. Dicesi, invece, dolore imperfetto (contrizione imperfetta, attrizione) quello che deriva dalla vergogna provata in causa del peccato, per il castigo meritato, come la perdita del Paradiso e la condanna all’inferno, e non ha, di per se stesso, l’effetto di cancellare il peccato mortale, ma è sufficiente con l’assoluzione data dal Sacerdote.

COME GESÙ CI RIMETTE I PECCATI…

Da quanto già sappiamo, Gesù ci rimette i peccati per mezzo del Sacerdote al quale ci confessiamo. È appena necessario rilevare che il sacerdote è, per l’anima nostra il medico, l’amico, il padre, l’avvocato è tutto questo, ed è, anche, il giudice. Ma perché? Perché non ci perdona direttamente Gesù stesso? Non è Egli sempre il nostro Dio rimuneratore? Basterebbe ricordare che questo potere fu proprio dato da Gesù ai suoi sacerdoti; tuttavia, aggiungiamo che Dio vuole, nell’economia ordinaria della sua provvidenza, servirsi di cause seconde, guidarci, cioè, per mezzo degli uomini che tengono le veci sue. – Riassumiamo. La confessione, fatta come si deve, libera l’anima dal peccato in forza dell’assoluzione; diminuisce la pena temporale che, dopo l’assoluzione, rimanesse ancora da scontarsi in questo mondo o nel Purgatorio, e la diminuisce per il merito del rossore che proviamo nell’accusarci e per l’umiliazione che abbracciamo volontariamente; ci apre il Paradiso, ci rende più umili e più cauti contro le ricadute; ridona la speranza della vita eterna. Ma v’è di più: mentre non sempre il Signore, negli altri sacramenti, ci fa sentire la soavità delle consolazioni spirituali, nella Confessione dispone sempre che l’anima sia inondata di santa gioia. Perché? Perché la Confessione ci libera dal rimorso della coscienza che ci tormentava di continuo, notte e giorno. Tutto questo è bene sintetizzato da S. Bernardo (Med. 37): “Nella confessione tutto si lava, si monda la coscienza, si mette in fuga il peccato, ritorna la tranquillità, rinverdisce la speranza, l’animo si allieta ». Le parole del confessore: io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, sono pronunciate in nome di Dio… ed è come se Gesù ripetesse a noi quelle parole dette al paralitico: « Coraggio, o figliuolo, ti sono rimessi i tuoi peccati » (MATT., IX, 2), o come alla Maddalena: « Ti sono perdonati i tuoi peccati…, la tua fede ti ha fatta salva: va in pace » (Luca, VII, 48). Tutto, nel sacramento del ritorno all’amore di Gesù, ci richiama il buon pastore e la pecorella smarrita, il figliuol prodigo che ritorna alla casa paterna e ritrova l’abbraccio dell’amore… Oh! Gioia inconfondibile dell’anima ritornata ai verdi pascoli della speranza, dell’amore e dell’unione col Dio della vita, con Gesù luce, verità e amore perfetto ed eterno!

CONFESSIONI MECCANICHE – IL DIRETTORE SPIRITUALE.

Qualche anima suole lamentarsi dopo la sua confessione, per due motivi. Primo: per l’assoluta mancanza dei divini conforti. Secondo: per la constatazione del mancato progresso nella via dello spirito. Le cause di questi due lamenti possono essere parecchie e diverse. L’esame particolare sul nostro difetto predominante dovrebbe sempre orientarci con precisione…! A parte, però, la mancanza della preghiera, del raccoglimento, dell’adempimento delle condizioni prescritte, molte confessioni diventano meccaniche, perché sono ripetute come i dischi di un grammofono. Per evitare i danni lamentati occorre, anzitutto, la scelta di un padre spirituale, col proposito di seguirlo fedelmente. Può essere direttore spirituale il nostro confessore stesso, e questa è la migliore soluzione. Necessità della direzione spirituale per tutte le anime, ma, vorremmo insistere, specialmente per quelle giovanili su la necessità della direzione spirituale. Come per il corpo è necessaria l’assistenza e la cura del medico, altrettanto è necessaria l’assistenza e la cura del medico spirituale per l’anima. Pieno di luce e opportunissimo a questo fine è il suggerimento dello Spirito Santo: Non operare senza prendere consiglio. Il perché è evidentissimo: nessuno può essere giudice imparziale di sé. Chi è il medico spirituale dal quale prenderemo consiglio? Il miglior consiglio è sempre quello di Dio. Egli, però,ha disposto che le anime fossero santificate, nella via interna, con la sottomissione e l’obbedienza ai confessori e ai direttori spirituali. Esempio tipico è l’ordine dato da Gesù a Saulo convertito da Lui direttamente, ma inviato ad Anania perché gl’insegnasse quello che avrebbe dovuto fare. Come Gesù dispose per Saulo, similmente dispose ed operò la Chiesa. Al direttore spirituale le anime debbono: a) rispetto; b) filiale confidenza; c) docilità umile.

DUE PENSIERI DI S. GIOVANNI BOSCO.

Il primo riguarda la convenienza e l’utilità d’avere un confessore stabile. Nella Vita del giovinetto Besucco Francesco così si è espresso il Santo: « Raccomando coi più vivi affetti del cuore a tutti, ma in special modo alla gioventù di voler fare per tempo la scelta d’un confessore stabile, né  mai cangiarlo senza necessità ». Il secondo è un suggerimento proprio paterno… T’rovandosi un giorno attorniato da un gruppo di giovinetti, il Santo de’ giovani, così loro disse con paterna bontà: « Volete farvi santi? Ecco! La confessione è la serratura; la chiave è la confidenza nel confessore. Questo è il mezzo per entrare per le porte del Paradiso ». – La confessione è, davvero, e le parole del santo don Bosco lo confermano, una fonte inesauribile di santità: ci ridona la grazia e l’amore di Gesù; fa vivere noi in Lui e Lui in noi!

LA VIA DEL RITORNO ALL’AMORE

LE RADICI DEL PECCATO.

Abbiamo già detto che la penitenza può essere considerata come sacramento e come virtù. L’una e l’altra sono vivide, fresche e copiose sorgenti di vita interiore. Ora diremo della ricca fontana di acqua limpida e saliente ch’è la virtù della penitenza. – Nonostante il frutto salutare ed efficacissimo del santo Battesimo; nonostante il perdono reale e completo de’ peccati nel sacramento della penitenza, rimangono sempre in noi le radici amare della colpa, pronte a rinverdire e a rigermogliare; durano sempre in noi certe conseguenze del peccato tenute sotto la cenere, come le assopite, e non mai atrofizzate, ramificazioni della concupiscenza, delle perverse inclinazioni de’ sensi. Se, in queste condizioni noi vogliamo assolutamente raggiungere il possesso della vita interiore e un grado elevato di unione con Dio in modo che la vita divina si sviluppi nelle nostre anime fortemente e, perciò, efficacemente, dobbiamo lavorare continuamente per neutralizzare e distruggere coteste rimanenze e tracce di peccato, dobbiamo essere sempre impegnati per impedire che queste amare radici possano rinverdire, rigermogliare, fortificarsi e dare frutti avvelenati.

LA VIRTÙ DELLA PENITENZA.

Oltre e all’infuori del sacramento della penitenza, il mezzo più efficace per cancellare le cicatrici e le conseguenze del peccato, per soffocare i nuovi germogli, è la pratica della virtù della penitenza. Questa È un’abitudine che quando «è ben radicata e vivace ci spinge continuamente all’espiazione del peccato e alla distruzione dei suoi residui». Meglio ancora: la penitenza è quella virtù «per la quale noi con tutto l’animo ci convertiamo a Dio, detestiamo e odiamo tutti i peccati commessi, e insieme proponiamo e deliberiamo d’emendare al tutto la nostra mala vita e correggere i nostri cattivi costumi, con la speranza di conseguire il perdono dalla divina misericordia » (Catech. Trid.). Giova all’anima ricordare altre precisazioni. Ecco: « … penitenza è piangere i peccati commessi e non commettere più peccati da piangere » (S. GREGORIO, hom. 34 in Ev.). — « Penitenza è contrizione nel cuore, confessione sulle labbra, umiltà nelle opere » (S. Giov. CRIS., Serm. de poen., 1). « Penitenza è una specie di vendetta compiuta da chi si duole, castigando in se stesso ciò che gli duole d’aver commesso » (Sant’Agostino, De vera et falsa poenit., 8). Se l’anima riesce ad avere queste buone disposizioni, allora vede il peccato attraverso alla fede, per mezzo degli occhi di Dio. « Se ho peccato, dirà, ho commesso un atto di cui non posso misurare la malizia, ma che è terribile, che viola talmente i diritti di Dio, della sua giustizia, della sua santità, del suo amore, che soltanto la morte di un Uomo-Dio ha potuto espiarlo.». – Pensandovi sopra, l’anima commossa così rivolgerà a Dio la sua supplica: « O mio Dio, io detesto il mio peccato, voglio vendicare i vostri diritti per mezzo della penitenza, preferirei morire piuttosto che offendervi ancora ». Questo è il solo spirito di penitenza che spinge l’anima a compiere atti di espiazione che debbono dare la morte al peccato, a quello che, nella nostra natura, è sorgente di disordini e di peccati: gl’istinti sregolati dei sensi, le scorribande dell’immaginazione, le inclinazioni corrotte, e, per conseguenza, tenere desta, rendere vigorosa e florida la vita dell’anima!

NECESSITÀ DELLA PENITENZA.

Due sono le vie che conducono al premio: la via dell’innocenza e la via della penitenza. Nessuno di noi può dirsi innocente, perché anche un solo peccato veniale basta per farci peccatori, e obbligarci alla penitenza. La prima necessità della penitenza ci è data dall’obbligo che abbiamo di ristabilire in noi l’ordine, di rendere alla ragione, sottomessa al Signore, l’impero sulle potenze inferiori, per concedere alla volontà di darsi interamente a Dio. Quando l’anima adempie questo obbligo, sente rifluire in sé la grazia, e, con essa sente potentemente e vivamente il desiderio di imitare Gesù, di avvicinarsi di più a Lui, di vivere unita con Lui. – Un’altra necessità della penitenza è, a noi presentata dalla lotta, che tutti dobbiamo sostenere, contro i difetti speciali predominanti che raffreddano e indeboliscono la vita divina in noi. La terza necessità ci è data dalle rinunce che Gesù richiede per tutto il tempo della nostra vita, come le sofferenze morali, le malattie, la scomparsa di esseri che ci sono cari, i rovesci, le avversità, le contrarietà e le contraddizioni che inceppano il raggiungimento dei nostri progetti, l’insuccesso delle nostre imprese, le nostre disillusioni, i momenti di fastidio, le ore di tristezza, il «peso del giorno» che accasciava già così gravemente S. Paolo (Rom., IX, 2) al punto che la vita — dice egli stesso — gli era di peso: Ut etiam tæderet vivere (II Cor., I, 8). Sono tutte miserie, che ci distaccano da noi stessi e dalle creature, soltanto mortificando la nostra natura e «facendoci morire » a poco a poco: Quotidie morior (I Cor., XV, ZI).

È UN COMANDO DEL SIGNORE.

La prima predicazione di Gesù fu la seguente, sulla penitenza: Fate penitenza, perché il regno dei Cieli è vicino (MATT.; IV, 17). In seguito insistette più energicamente: Se non farete frutti di penitenza, perirete tutti allo stesso modo (Luca, XIII, 3). Gesù, però, non volle accontentarsi di predicare. Infatti, tutta la vita di Gesù fu croce e martirio; tutta la sua passione dolorosa sofferta per la nostra redenzione ci mostra in modo mirabile com’Egli abbia unito la predicazione alla pratica. Gesù, però, non avrebbe dovuto soffrire. Soffrì tanto, indicibilmente, solo pei nostri peccati. Possiamo noi, forse, rimanere indifferenti di fronte alla dolorosa passione di Gesù? Noi che portiamo una polveriera nel nostro corpo sempre pronta a scoppiare; come ben disse B. Eymard, noi dobbiamo fare nostro, ripetere e praticare il proposito di San Paolo: Castigo il mio corpo e lo riduco in servitù (I Cor., IX, 27). Questa penitenza ch’è fonte di purificazione e, perciò, di elevazione, dobbiamo volerla ed abbracciarla in unione con la volontà di Gesù per mezzo della fede. Tale unione diventerà una fonte di sollievo, poiché Gesù, avendo sofferto e meritato per noi, si piegherà verso di noi, mosso da misericordia (Luca, XIII, 13) e ci conforterà.  Allora, e giustamente, come Apostolo San Paolo, potremo dire, in mezzo alle tribolazioni: sovrabbondo di gioia in ogni mia tribolazione (II Cor., VII, 4).

[Le incertezze, le angosce, i disgusti, sono rimedi molto amari, ma necessari alla salute dell’anima… Non c’è che una strada che meni a Gesù, quella del Calvario; e l’anima che non vuol seguire Gesù su quella via deve rinunziare alla divina unione.]

C. MARMION.

LA VITA INTERIORE (15)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 6

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (6)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR, In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO V.

L’umiltà

IV.

Pratica della vera umiltà.

1° Evitare qualsiasi onore, anzi essere oltremodo dispiacenti se ci vediamo onorati, convinti che per noi essere trattati a questo modo è cosa contraria ad ogni giustizia e ad ogni ragione.

2° Stimare noi stessi così vili e abbietti che tutto ci sorprenda fuorché di vederci disprezzati.

3° Rifuggire dall’essere conosciuti e applauditi, perciò tener nascosto tutto quanto potrebbe attirare la stima, e vivere nel silenzio per quanto lo permette la carità.

4° Ambire l’ultimo posto, non solo nelle cariche e negli uffici, ma pure nella stima degli uomini, desiderando di passare nel loro spirito come il più vile di tutti, giusto queste parole di Nostro Signore: Scegliete l’ultimo posto. Recumbe in novissimo loco (Luc. XIV, 10).

5° Desiderare di essere annientati in noi stessi secondo la carne, o di esserlo pure universalmente nel pensiero di tutti gli uomini, rimanendo dappertutto completamente dimenticati. Dobbiamo desiderare che la nostra memoria perisca completamente sulla terra, essendo noj abbominevoli secondo la carne che è cosa esecrabile e da condannarsi ad un perpetuo oblìo (Ob ulit in anathema oblivionis. Judith., XVI, 283).

6° Vivere in pace nel disprezzo; se siamo lodati, rimanerne confusi nell’intimo del cuore; anzi condannare noi stessi di ipocrisia e dì orgoglio per esserci attirata una lode immeritata.

7° Nelle lodi, umiliarci e confonderci alla vista del nostro niente, e con gioia riferire a Dio tutto l’onore che si vuole rendere a noi, protestando che Lui solo merita di essere onorato. – Vivere in tal modo in queste pratiche, inabissati nel proprio nulla senza uscirne e trovarvi il proprio centro e le proprie delizie; è questo un segno di vera umiltà.

Perché la vera umiltà produce il desiderio di vivere nascosti, ritirati e sconosciuti, in una parola, di non comparire perché Gesù solo comparisca in tutto; essa ci fa distruggere il nostro essere proprio, per essere tutti rivestiti di Gesù Cristo, e comparire unicamente sotto di Lui e in Lui.

V.

Segni della vera umiltà.

Il vero umile non crede mai di essere umiliato, — si guarda bene dall’offendere nessuno, — tutto sopporta, completamente abbandonato a Dio, — nella purezza d’intenzione.

L’anima veramente umile è convinta che non può essere stimata meno di quanto vale, perché vede se stessa al disotto di tutto quanto si potrebbe dire. Coloro che sono grandi possono essere abbassati, ma quelli che sono vili e abbietti non possono venire abbassati al disotto del posto in cui si trovano. – L’anima umile si guarda bene dal recar dispiacere a qualsiasi persona, e preferirebbe soffrire qualsiasi pena piuttosto che mortificare il suo prossimo: se talora vi è costretta quando lo richiede il bene del prossimo, anche allora dimentica se stessa e si abbandona allo Spirito di Dio che si serve della sua parola e della sua lingua, purificata che sia da ogni interesse proprio come di uno strumento per operare gli effetti di quella spada a due tagli, che penetra sino al fondo del cuore, divide lo spirito dall’anima e purifica l’uomo sino al midollo. (Hebr. IV, 12). E allora le Spirito di Dio che risiede in quell’anima annientata in sé medesima, la consuma sino all’intimo, e rendendola partecipe della propria santità, fa che sia capace di vedere i difetti altrui, provarne gran dispiacere e correggerli secondo l’ordine di Dio e nella propria di Lui divina dipendenza; quindi essa di ciò che quel divino Spirito le suggerisce e sempre con grande efficacia e benedizione. – L’anima umile, vedendosi al disotto di tutto e indegna di tutto, è sempre animata da tali sentimenti di disprezzo di sé medesima che non sopporta senza affliggersi le minime cose che si fanno in suo favore e dimostrano che si ha qualche stima per essa. Se, per esempio, le si porge qualche cibo più delicato del solito, ne sarà tutta desolata, nel vedere il caso che si fa della propria persona, mentre ritiene di essere un niente. – L’anima umile deve essere in tal modo morta agli affronti e al disprezzo, da rimanere insensibile a tutto, non pensando che a soffrire per amor di Dio, come una pecora che si lascia sgozzare senza lamentarsi. Deve essere in tal modo morta a tutti i suoi sensi, che consideri il suo corpo come un cadavere, e aspetti incessantemente lo si seppellisca, per volarsene liberamente al cielo, onde amarvi ed adorarvi Dio, con tutto il suo cuore. Essa deve vivere in questo spirito di piccolezza e mantenervisi incessantemente. Ché se talvolta essa si trovi con persone eminenti, per interessi concernenti la gloria di Dio, essa deve subito ritornare nel suo fango e nella sua viltà, ritirandosi in sé medesima, occultandosi nella povertà in cui Dio la vuole, e rimanendo sempre nascosta nella propria bassezza. – L’anima umile deve stare nelle mani di Dio, come una piuma in balìa del vento, la quale dopo essere stata trasportata dovunque sia piaciuto alla divina Maestà, deve ricadere nella polvere. Così l’anima deve fare le opere sue in pieno abbandono allo Spirito Santo; perché allora esse verranno compiute in una purezza ammirabile e tutte in Dio. Essa deve fare come un servitore che se ne va portando i messaggi del suo padrone senza sapere se si tratti di cosa che gli sia di vantaggio e serva alla di lui gloria, operando sempre secondo le intenzioni del padrone e senza nessun altro intento. Così, il servo fedele di Dio deve essere in tal modo disinteressato da non sapere a qual fine lavori e sia impiegato, se sia per la più grande gloria di Dio o mene. Basta faccia ciò che Dio intende: dimentica se stesso e non ha in mente altro che Dio, lavora unicamente per Dio, in Dio, e sotto l’azione di Dio. – L’anima che non ha superbia è di una tale purezza che nulla desidera e nulla vuole, crede di non esser nulla, né mai opera da se stessa. Non deve neppure occuparsi di Dio secondo la propria volontà e di propria iniziativa. Che cosa ci vuole dunque? Bisogna che Dio stesso possegga l’anima secondo il proprio beneplacito, e non già che l’anima voglia possedere Dio per disporne secondo la propria volontà.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 5

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (5)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR . In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO V.

L’umiltà

II.

Motivi dell’umiltà.

-1. La nostra qualità di creature, di peccatori, di Cristiani, di figliuoli, di Sacerdoti. – 2. Tutte le virtù richiedono umiltà.

Il primo motivo deriva dalle nostre qualità e dai titoli che portiamo, qualità e titoli che ci impongono di annientarci in una vera umiltà. Come creature, siamo in obbligo di essere contenti del nostro nulla.  Come peccatori, siamo in obbligo di vederci sotto i piedi dei demoni; di essere respinti da ogni creatura, avendone abusato per il peccato; le creature, infatti, si infiammano giustamente di zelo a favore di Dio contro di noi: il peccato merita bene un tal trattamento. –  Come Cristiani, siamo in obbligo di amare la piccolezza, la viltà e l’abiezione, perché questo amore è una delle inclinazioni di Gesù Cristo Nostro Signore, di cui abbiamo ricevuto lo Spirito nel santo Battesimo. Questo sacramento imprime in noi, se vi corrispondiamo, le inclinazioni e tutti ì sentimenti di Gesù Cristo, particolarmente l’amore che Egli ebbe per l’annientamento. Abbiate in voi – dice S. Paolo – gli stessi sentimenti che (furono) in Gesù Cristo, il quale annientò se stesso (Philipp. II 4,7). Come figliuoli di Dio, siamo in obbligo di essere umili e di rifuggire da ogni lode, onde lasciare ogni onore a Dio nostro Padre: « Soli Deo honor et gloria —- A Dio solo onore e gloria » (I. Tim. I, 17). – Siamo Sacerdoti? dobbiamo distruggere, sacrificare, annientare in tutti, ma soprattutto in noi medesimi, la superbia e tutti gli istinti della superbia. Come vittime per i peccati del mondo dobbiamo essere animati da un profondo sentimento di grande confusione, sentendoci coperti dei delitti di tutto il mondo, in unione con Gesù Cristo, con cui non siamo che una sola vittima. Come Servi della Chiesa, dobbiamo stare ai piedi di ogni fedele, considerandoli tutti come nostri padroni; quindi dedicarci affettuosamente agli uffici più bassi giudicandoli come ancora superiori al nostro merito e stimandoci onorati di esservi impiegati, mentre siamo indegni di una grazia così pregiata. « Superiores sibi iuricem arbitrantes (Phil. II, 3). Nos servos vestros per Jesum (II Cor. IV, 5).

***

Il secondo motivo è che tutte le virtù richiedono l’umiltà. La Fede, ci obbliga ad essere umili; perché dobbiamo vivere secondo i suoi insegnamenti. Orbene, la fede ci insegna che da noi non siamo che niente e peccato; dobbiamo dunque considerare noi stessi come niente e peccato, e compiacerci che tutti ci stimino e ci trattino come tali. La fede ci svela chi siamo noi e chi è Dio. Dio vale tutto e noi niente. A Dio ogni onore ed ogni gloria, a noi confusione e disprezzo. In tal modo, la fede ci porta all’umiltà ed esige che siamo umili se non vogliamo rinnegare le sue massime, ma inoltre ci vuole grande umiltà per aver la fede. per assoggettare il nostro spirito alle verità ch’essa ci propone, e così annientare la nostra ragione col sottometterla a credere ciò che essa non vede (II Cor. X, 5). Perciò i filosofi e gli eretici, essendo pieni di superbia, hanno posto tanti ostacoli alla fede. L’umile, al contrario, è deferente al giudizio altrui, si sottomette alla verità, né mai si ostina nel proprio sentimento; in una parola l’umile è disposto a credere tutto. La speranza ci porta all’umiltà. Il Cristiano animato dalla vera speranza non si appoggia sopra se stesso, né confida nelle proprie forze, ma unicamente in Dio, e nei meriti del nostro Salvatore. La carità demanda umiltà perché l’anima che ama Dio vuole che a Lui sia diretto ogni onore, mentre dimentica e annienta se stessa. L’amore del prossimo esige umiltà, perché respinge ogni asprezza ed ogni irritazione anche di fronte alla calunnia. Animata dalla carità cristiana, l’anima deve sopportare la debolezza del suo fratello, persino la superbia e l’arroganza altrui che è la molestia la più insopportabile per chi non è veramente umile. Due anime orgogliose che vogliono innalzarsi l’una al di sopra dell’altra, non conserveranno giammai quella virtù che S. Paolo raccomandava con tanta forza con queste parole: « Supportantes invicem in charitare. – Sopportatevi gli uni e gli altri nella carità » (Ephes. IV, 2)… La compassione verso il prossimo esige umiltà, perché ci porta a prendere sopra di noi la riparazione per la superbia degli uomini; dobbiamo quindi abbracciare l’umiltà, perché essi si sono esaltati, e così con le nostre umiliazioni offrire a Dio una soddisfazione per il loro orgoglio e la loro ingiusta e disordinata arroganza. La religione impone l’umiltà, perché essa vuole che tutto si annienti e si sacrifichi per la gloria di Dio, al quale tributa ogni lode e riferisce ogni onore. La prudenza cristiana ci porta all’umiltà, poiché vuole che non abbiamo pretese, se non per quelle cose che possiamo avere o conservare senza contese. La giustizia, esige che si dia a ciascuno ciò che gli spetta, quindi, al nulla l’oblio, al peccato il disprezzo, la stima invece e la gloria al Tutto e alla Santità (Tibi, Domine, justitia, nobis autem confusio faciei – Dan. VII). La fortezza del Cristiano ha per sostegno l’umiltà, perché, conoscendo il proprio nulla e la propria incapacità, egli si rifugia in Dio, affinché la virtù di Gesù Cristo che è la forza dei deboli, venga ad abitare in Lui (II. Cor., XX, 9). – La temperanza trova valido aiuto nell’umiltà, poiché l’umile si astiene dalle cose mondane e sensibili, nella persuasione di esserne indegno. La penitenza esige l’umiltà, perché richiede che il superbo sia umiliato e che la confusione cada sopra colui che ha voluto rubare a Dio l’onore e la gloria. La dolcezza desidera l’umiltà, perché l’anima non sia turbata per nessuna umiliazione che possa incontrare. La pazienza vuole l’umiltà, perché l’anima non perda mai la pace per nessuna contrarietà. – In conclusione, l’umiltà è il condimento di ogni virtù, la virtù fondamentale che deve essere presupposta ad ogni esercizio di cristiana pietà.

III.

Fondamenti dell’umiltà.

1. La verità: nullità della creatura, grandezza di Dio. — 2. La giustizia: a Dio solo è dovuta ogni gloria. – Umiltà nella Madonna; — in Gesù Cristo. – il nulla in qualsiasi creatura, — anche nella persona del Confessore.

L’umiltà poggia sopra due fondamenti: il primo è la verità, il secondo, la giustizia; verità e giustizia, due attributi divini, sui quali deve regolarsi la nostra vita. La verità ci dà la conoscenza di noi medesimi, che è il grande e solido fondamento dell’umiltà; perché qualsiasi sentimento di umiltà che non abbia per fondamento una seria convinzione di ciò che siamo, non è che apparenza ed illusione; e chi credesse di acquistare l’umiltà senza una tale conoscenza, si ingannerebbe e non riuscirebbe a nulla. La ragione sta in questo, che tutto quanto vediamo in noi e tutto quanto facciamo, tutto ci serve di motivo e d’occasione per la propria stima, principalmente quando si tratta di qualche bene, se prima non abbiamo bene stabilito qual è il principio del bene come del male che vediamo in noi. Non già, come abbiamo detto sopra, che questa conoscenza sia l’umiltà; molti, infatti, per quanto siano presuntuosi, sono pure costretti a confessare che non sono nulla e non valgono nulla. I demoni sono costretti ad una tale confessione, ma non hanno neppure un principio di santa umiltà. La conoscenza di se stesso deve solamente venire presupposta come un principio, dal quale si traggono poi le conseguenze onde comportarsi secondo lo spirito dell’umiltà. Orbene, la verità insegna all’uomo a conoscere ciò che è in se stesso, e ad aver di sé la stima che si merita e non di più: così pure la giustizia esige che tratti sé medesimo per quello che è, e non sopporti altro trattamento differente di quello che si merita. – La verità insegna all’uomo che esso non è altro che niente; che da sé non è oggi dappiù da quello che fosse cento anni fa, e che sarebbe ancora se Dio ritirasse da lui quell’essere che ne circonda il nulla, Questo essere è una partecipazione dell’essere medesimo di Dio, è l’essere di Dio reso sensibile in qualche modo nell’uomo. Tutte le creature, infatti, non sono altro, per così dire, che Dio medesimo reso visibile; sono come sacramenti o come visibili involucri dell’essere invisibile di Dio, il quale è nascosto sotto di essi; sono segni di Dio che esprimono in modo svariato ciò che Egli è in se stesso. In una parola, tutto quanto vi è al mondo è come una dilatazione e una espressione di Dio fuori di Lui medesimo, come un effluvio di Dio, il quale esprime esternamente ciò che Dio è in sé medesimo. – Ma d’altra parte la creatura considerata in se stessa e nel suo fondo, fuori dello stato di Dio di cui essa è partecipe, rimane un semplice niente che implica la privazione di ogni essere, come Dio contiene il possesso di tutto l’essere: Dio è un abisso di perfezione, il nulla invece un abisso d’imperfezioni. Quando pure vi si starebbe occupati sino alla fine dei secoli, non si saprebbe esporre in particolare le privazioni e i difetti che si contengono nel niente, né  i disprezzi che gli sono dovuti; parimenti quando pure sino al dì del giudizio vi si impiegassero le creature tutte, non riuscirebbero a numerare tutte le grandezze e le perfezioni di Dio. Il niente merita oblio, disprezzo e noncuranza, come Dio merita ogni ammirazione, ogni adorazione, ogni lode da parte di tutto il mondo (-G. Olier si compiace di porre nel dogma della creazione il fondamento delle virtù: dobbiamo essere umili perché siamo creature, così anche pazienti (pag. 201) ed ubbidienti (pag. 267). Dal fatto della nostra creazione da Dio, risultano due grandi verità che facilmente dimentichiamo e che devono essere il nostro pane quotidiano nella vita spirituale: il nostro nulla e la suprema padronanza di Dio).

***

La giustizia adunque, poiché vuole che si dia a ciascuno ciò che gli appartiene, insegna alla creatura a tributare a se stessa ciò che si merita nel suo fondo e a subire quel trattamento che è dovuto a così grande viltà, come pure a rendere a Dio ciò che gli è dovuto, ossia ogni onore e ogni lode. Se guardo me stesso, nel mio fondo, ossia nel mio nulla, veggo che non merito che confusione e disprezzo; se invece contemplo Dio, sia in sé medesimo come fuori di sé, nella sua essenza come nella sua diffusione nei suoi effetti, in me come fuori di me; trovo che Egli merita ogni lode e ogni onore. A Dio, dice S. Paolo, siano rese benedizioni, lodi, onori e azioni di grazie da ogni creatura, (I Timot ., I, 12; Apoc., VII, 12) per quello che Egli è in sé, e per tutto ciò che Egli ha operato fuori di sé medesimo. Vedo adunque e riconosco che a Dio deve essere reso ogni onore come all’Autore e possessore di ogni perfezione, e al contrario il niente, che in se stesso è privo di tutto, deve essere disprezzato abbandonato, trascurato e dimenticato. – Il niente è così miserabile che non si saprebbe neppure pensare a lui, e se ne diciamo qualche cosa o ne abbiamo qualche idea, è sotto qualche forma presa a prestito e che non gli conviene, tanto è incapace di produrre qualche stima di sé. Se si pensa a lui, non sarà che per deplorare il suo stato, per riconoscere ciò che gli manca e ciò che non ha. Nulla può essere vile e abbietto come il niente, né si saprebbe esprimere tutta la sua abbiezione. E questa è la condizione vera della creatura nella sua sostanza, in ciò che era da sé medesima prima che Dio la rivestisse di se stesso; né cessa di essere tale anche dopo la comunicazione che Dio le fa del suo essere. – Dio merita ogni onore per la sua perfezione, il niente non merita che disprezzo per la sua imperfezione. Benché nascosto sotto l’essere più perfetto, il niente non lascia mai di meritare per se stesso tale trattamento; all’operaio bisogna lasciare l’onore dell’opera sua, come al pittore la gloria del suo quadro. Al pittore è dovuto l’onore e non alla tela che porta il suo dipinto; la tela non merita che disprezzo; se potesse parlare e fosse sensibile al sentimento della giustizia, essa direbbe: « Onorate colui che mi ha scelta per farne il soggetto dell’opera sua, onorate colui che merita di essere onorato, che mi ha tratta dallo stato in cui mi trovavo, per fare su di me tali meraviglie. Guardate il rovescio del quadro e vedrete che non sono adatta che a fare un cencio qualunque; non ero buona a nulla, ora invece sono posta sugli altari e si adora ciò che porto e rappresento; ma questo non è mio, né vi ho parte alcuna; non dimentico la mia primiera condizione, so bene qual sia il mio fondo e non l’ho ancor perduto di vista. Più, l’amore che nutro per il mio padrone e per l’operaio che mi ha scelta ad onta della mia viltà perché fossi l’oggetto della sua opera ed ha operato in me una sì grande meraviglia, mi obbliga ad onorarlo ed a procurargli la gloria che egli si merita e ad avvertire tutti coloro che vedendomi, nella loro illusione si attaccano a me, di rivolgere i loro occhi e i loro omaggi a colui che ha compito quest’opera preziosa ».

***

Così la Madonna, sempre convinta del suo nulla, sempre convinta della sua bassezza, esclamava ad alta voce: « Fecit mihi magna qui potens est. Colui che è potenteha fatto in me grandi cose ». Egli ha sceltoquesta povera sua serva, ha scelto la miapovertà e la mia viltà per imprimervi l’operadel suo amore, della sua sapienza edella sua onnipotenza. Ha compiuto in meil suo capolavoro e la sua meraviglia; hafatto in me il suo ritratto col rendere sensibileil suo Verbo. Ha scelto questo poveropiccolo niente, per imprimere sopra diesso i più perfetti e più splendidi lineamenti della sua grandezza e della sua maestà. Lui medesimo in me fa rendere a sé medesimo, onori ch’io non merito e non mi appartengono. State bene attenti a rendere a Dio la sua gloria e in me adorate la sua opera e le sue meraviglie ».Per questo motivo la santa Chiesa, tanto per la propria edificazione come per quella di tutti i fedeli che ricevono grazie da Dio, si prende cura di far cantare ad alta voce e anche in piedi per obbligarci ad un’attenzione particolare, il bel cantico del Magnificat: così vuole insegnarci ad onorare il Signore come la Madonna lo esaltava in sé stessa e in tutte le opere Di Dio, perché tutto quanto è fuori di Dio, viene da Dio; tutto è derivazione (Al termine emanazione, che suona male per le nostre orecchie moderne, abbiamo sostituito derivazione. Tutte queste espressioni del Servo di Dio, evidentemente, vanno intese nel senso che l’essere naturale delle creature non è che una partecipazione virtuale ed analoga dell’essere di Dio.), effusione e come dilatazione di Dio, il quale diffonde il suo essere in modo visibile sopra la creatura. È questo lo Spirito che copriva le acque, (Gen. I, 2) il mantello che copre ed avvolge il niente; il niente rimane sempre spregevolissimo in se stesso, il mantello che lo copre, merita solo di essere onorato, Dio adunque sia glorificato e il niente sia dimenticato e disprezzato! – Quel sentimento di umiltà che risplendeva così santamente nella Vergine Santissima, per il quale essa voleva che non si facesse nessuna attenzione alla sua persona per quante grazie vi si scorgessero, ma si guardasse unicamente a Dio che ne era l’Autore, era molto più perfetto ancora in Nostro Signore, perché Egli era pieno di verità, plenum veritatis (Joan. I, 14), e voleva adempiere ogni giustizia (Matt. III, 15). Questo sentimento lo portava a correggere colui che lo aveva chiamato buono (Luc. XVIII, 9); Egli, come uomo, rifiutava questo titolo perché, in quanto era uomo, non gli apparteneva. Come uomo, infatti, anche Gesù Cristo era una creatura, e quindi in tale qualità, era niente; ciò che vi era in Gesù, tutto gli veniva da Dio, fonte universale di ogni bene, che l’aveva tratto dal nulla e gli aveva comunicato i suoi tesori. Ma solo ciò che è, merita il titolo di buono; orbene. Dio solo è; tutto il resto non è niente all’infuori di ciò che esso da Dio ha ricevuto: perciò Nostro Signore, come uomo, vedendosi indegno di questo titolo di buono, non poteva sopportare che venisse attribuito ad altri che a Dio. –  Ecco la fonte dell’umiltà nel Figlio di Dio: ecco perché Egli era umile e più umile di tutti eli uomini assieme. Perché meglio di tutti gli uomini, con vivissima luce, conosceva il niente della creatura, Gesù incomparabilmente più di tutti stava dimesso, umiliato e abbassato ai propri occhi e davanti alla maestà del Padre suo di cui tanto perfettamente conosceva la grandezza. Egli vedeva chiaramente che, in quanto creatura, al pari degli altri uomini, da sé medesimo non era niente, e che il Padre suo l’aveva tratto dal nulla onde renderlo depositario di tutti i suoi beni. Per questo, Egli stava continuamente annientato davanti a Lui, nel riconoscimento del proprio nulla, sempre pieno di stupore per tanti favori e di gratitudine per tanti benefizi. Egli stava senza posa inabissato in una lode altissima e in un amore ardentissimo verso Colui che l’aveva tanto amato da tutta l’eternità, preparandogli doni così grandi, senza neppur possibilità di nessun merito da parte sua. – La riconoscenza per una tale bontà lo portò a mettere nelle mani degli uomini il sacrificio dell’azione di grazie, l’adorabile sacrificio dell’altare. Nel medesimo sentimento di gratitudine, Egli scelse pure una Chiesa numerosa, perché con le lodi ed i sacrifizi Egli potesse in essa offrire al Padre suo degni ringraziamenti per il beneficio inconcepibile di averlo tratto dal nulla onde elevarlo alla dignità della filiazione divina. Così faceva Gesù Cristo per un sentimento di verità e di giustizia. Nella verità riconosceva ciò che era Egli stesso come uomo, cioè un niente, e ciò che era suo Padre, cioè tutto l’Essere; nel sentimento della giustizia, profondamente si annientava davanti alla santa Maestà del Padre, e si effondeva in amore e adorazione, in lodi e azioni di grazie.

***

Tali sono i veri fondamenti dell’umiltà, che sono oltremodo stabili e fermi quando Nostro Signore si compiaccia di stabilirli solidamente in un’anima. Ma è da sapersi che per operare secondo tutta l’estensione della luce divina che ci discopre il nostro pulla, è necessario ancora di vedere il nulla in tutte le creature. Noi dobbiamo essere ben convinti che all’infuori di Dio, tutto non è che niente, vanità, ombra, figura, e come un involucro e un sacramento sotto il quale, come abbiamo detto sopra, Dio si nasconde per rendersi sensibile a noi. – Questa proposizione, che all’infuori di Dio tutto è niente, deve essere così universale che nulla ne venga eccettuato, né i più gran Santi, né la Vergine Santissima, e neppure l’adorabilissima Umanità di Gesù Cristo Nostro Signore. Ogni cosa, eccettuato ciò che di Dio vi è in essa, è niente e null’altro: è questa la condizione essenziale ed indispensabile di qualsiasi creatura. In ogni creatura adunque, non bisogna mai considerare che Dio, puramente e semplicemente Dio solo. Come è santo questo modo di operare! Come ci allontana da mille illusioni, nelle quali i più spirituali si lasciano prendere ed impacciare, quando non vi siano ben fissati! Inoltre, come ci porta a Dio e ci riempie li Lui! Se saremo sempre animati da questo sentimento, dappertutto noi troveremo e vedremo Dio; ed è questo uno dei mezzi più semplici e più utili per tenerci sempre alla sua divina presenza. Diversamente, si ha la mente tutta occupata delle creature; e le cose esterne che non dovevano servire che a portar Dio nel nostro cuore, diventano esse stesse il Dio del nostro cuore, l’idolo infame che così viene onorato nel Tempio di Dio.

***

È un difetto questo che s’incontra ordinariamente nella direzione delle anime, quando il confessore, o perché non conosce questo pericolo, o perché non si prende cura di aprire gli cechi a quelle anime che il Signore gli ha affidate perché le conduca a Lui. Così egli lascia che si fermino alla sua persona per il lustro delle apparenze che notano in lui, invece di far loro considerare che per quanti doni possa avere in sé medesimo egli non è niente, e quindi non merita nessun onore perché a Dio solo appartiene ogni gloria. Si deve aver gran cura di fare intendere bene alle anime, che il direttore o confessore in se stesso è un niente, e che lo debbono considerare come un puro niente che, come tale, deve essere dimenticato: ma pure, perché Dio si nasconde in lui per manifestare i suoi ordini e le sue volontà sante, bisogna portargli un gran rispetto, come a chi rappresenta Dio e ne tiene il posto. Dal confessore bisogna andare con purezza d’intenzione e non cercar che Dio in lui, senza pensare alla scorza e al velo con cui Dio si copre. Bisogna, con la fede, andar oltre ciò che attira, ferma e illude i nostri sensi, trascurando e disprezzando ciò che appare agli occhi della carne, e tutto quanto agli occhi ingannati del mondo è grande e degno di considerazione.

***

Siamo dunque fedeli, come Dio lo vuole, a mantenerci nella verità, e guardiamoci dal cadere nel peccato del demonio, il quale, secondo la parola di S. Giovanni: In veritate non stetit. Non è rimasto nella verità (Giov. VIII, 44). Riconosciuta così la verità e, per la luce della fede essendocene ben convinti, osserviamo la giustizia; quindi rendiamo a noi e ad ogni creatura ciò che è dovuto alla creatura; a Dio che è tutto, tributiamo la riverenza, la religione, l’amore e le lodi che le sue grandezze si meritano. Ecco i due fondamenti dell’umiltà in ogni creatura: verità e giustizia; ma queste, in noi, si applicano a molti altri soggetti di umiliazione, perché, come abbiamo visto, siamo in noi medesimi ogni miseria, ogni corruzione, ogni peccato. Ma perché la verità e la giustizia richiedono che, nella nostra qualità di peccatori, non solamente trattiamo noi stessi con disprezzo, ma ancora ci dedichiamo alla penitenza, alla mortificazione e all’odio di noi medesimi, di questi punti parleremo più a lungo quando tratteremo di queste virtù.

LO SCUDO DELLA FEDE (197)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXXII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

VIII. — Il Giudizio finale.

D. La trasformazione di tutte le cose è anteriore o posteriore all’ultimo giudizio?

R. Quello è un solo grande cataclisma, a un tempo materiale e morale; noi non abbiamo da notarvi dei punti. Tuttavia, sotto certi aspetti, la logica delle cose pone il giudizio a capo, poiché l’ordine supremo è una sanzione; sotto altri aspetti, il cataclisma materiale precede, poiché la risurrezione dei morti e il loro collocamento in un nuovo essere ne è una parte.

D. L’aspetto morale del cataclisma ha per te il carattere d’una seconda venuta di Cristo?

R. Lui stesso l’ha presentato così. Dopo « la sua venuta di mansuetudine » (Pascal), Egli ha annunziato la sua venuta come giudice. La prima era stata umile e nascosta; la seconda dev’essere fulgida e gloriosa, perché è la consumazione dell’opera e la piena evidenza de’ suoi frutti.

D. Hai segnalato l’errore dei primi cristiani che credevano prossimo il giudizio: non vi contribuì in qualche modo Gesù?

R. Su questo punto Gesù si rifiutò a ogni precisione. Egli giunse fino ad assicurare che anche il Figliuolo dell’Uomo — come Figliuolo dell’Uomo — non sapeva « né il tempo né l’ora », e cioè che questo non faceva parte del suo messaggio. Egli si attiene a questo consiglio impellente: Vegliate! il Figliuolo dell’Uomo viene come un ladro. Ciò si verifica eminentemente per ciascuno, perché la morte è segreta, e ogni giudizio particolare è una parte del giudizio generale. Ma ciò si verifica altresì, nel suo piano, per tutta quanta l’umanità, e non vi è ragione di precisare di più, perché questo non ha conseguenza morale, e per noi vale assai meglio l’incertezza. Appunto per questo, nel suo Discorso della fine, Gesù prende per simbolo e sostegno de’ suoi annunzi sopra la fine dei tempi la rovina prossima di Gerusalemme, indicando soltanto che al di là, le prospettive si prolungano, senza che nessuna cronologia precisi la forma o l’estensione di tale prolungamento.

D. Qual è la ragione d’essere d’un giudizio collettivo, dopo il giudizio particolare?

R. La dottrina è sempre la stessa. La nostra Religione non è individualista, ma sociale; è una comunione. Dal momento che l’opera di Cristo è una vita comune, comune dev’essere lo sforzo e comune la mèta. Si vive gli uni accanto agli altri e sovente lontani gli uni dagli altri, ma uniti dallo Spirito di Cristo. Si parte gli uni dopo gli altri, ma per ricongiungersi attorno a Cristo, e in modo visibile, perché la società è cosa visibile, e all’ultimo termine di ogni vita, perché solo allora saranno prodotte alla luce le conseguenze totali delle opere umane.

D. Nel giudizio di ciascun’anima, le conseguenze de’ suoì atti non sono già state pesate?

R. Dio ha tenuto conto, nel nome della sua prescienza, di tutte quelle conseguenze che le nostre opere porterebbero dopo di noi; ma ciò dev’essere alla fine pubblicamente stabilito.

D. Che necessità di fare questa manifestazione formidabile, specialmente se deve estendersi a tutto il contenuto dei cuori?

R. ll contenuto dei cuori è tutto l’ordine morale, del quale i fatti esterni non sono che la testimonianza. Se l’ordine morale deve rifulgere un giorno, bisogna che si compia la profezia di Cristo: Nulla vi è di nascosto che non sia palesato, nulla di segreto che non debba finire con essere conosciuto.

D. Riguarda forse gli altri quello che ho pensato o voluto io nel segreto della coscienza?

R. Tutto quel che siamo noi riguarda tutti, poiché noi siamo in società spirituale. Come abbiamo detto a proposito del sacramento della penitenza, nulla di ciò che fa ciascuno, nulla di ciò che egli pensa, nulla di ciò che desidera o progetta è estraneo alla Chiesa universale né senza effetto sopra il suo funzionamento. La solidarietà fra noi è stretta fino all’unità, poiché in Gesù Cristo e nel suo Spirito noi siamo una sola cosa. – Chiamati insieme, retti da un unico potere, ma in stato di reagire immensamente gli uni sopra gli altri, sia consciamente, sia senza saperlo e senza volerlo, ma con la certezza precedente e imprescrittibile che ciò avviene, noi abbiamo un diritto scambievole alla verità, sotto lo sguardo del grande Giudice. Ragioni di sapienza mantengono dei segreti nel corso dei tempi; ma il tempo, alla fine, deve versare il suo tesoro agli occhi dell’universale assemblea. Quello che è stato fatto nella notte dev’essere esaminato nel giorno.

D. Tu dài a ciascun essere un universo per testimonio?

R. È il diritto di questo universo, che è un universo morale. È il diritto altresì di ciascun essere, e, se egli è stato buono, la sua suprema gloria.

D. Ma se non è stato buono?

R. In vece di una gloria, è una giustizia che si farà alla luce, quando tanti fariseismi felici avranno la loro sanzione di vergogna, « e quando apparirà in una età assoluta l’eterna laidezza delle temporali lebbre » (C. Péguy).

D. Viceversa, tu fai di ciascun essere il testimonio di tutto l’universo e di tutte le età?

R. Sì, « quando tutto si rischiarerà delle fiamme della memoria, quando ogni uomo sarà come un grande spettatore» (Péguy).

D. Ma i buoni che tu vuoi così glorificare, non avranno da arrossire di molte cose?

R. La loro vergogna sarà coperta dalla divina misericordia, della quale avranno più gioia che affanno del male. Il rossore d’una fronte non apparisce più quando vi brilla il sangue di Cristo.

D. Come comprendi tu questa manifestazione universale di tutti a tutti? Come è possibile?

R. S. Tommaso ci vede un fatto soggettivo, una « illuminazione interna », come nel giudizio particolare, ma questa volta collettiva. Dio che sa tutto, apre la sua scienza agli spiriti.

D. Che cosa ne viene a questo Dio?

R. La manifestazione dell’opera sua, e la giustificazione della sua condotta in tutto l’universo.

D. Qui non si tratta che dell’ordine morale.

R. L’ordine morale dipende dall’altro. O piuttosto non ve ne sono due; ma è la Realtà, che è morale, perché Dio è l’organizzatore, il legislatore supremo e il fine. Nel Giudizio, ciò brillerà, a confusione dei nostri dubbi, delle nostre sconoscenze cieche, dei nostri rimproveri colpevoli e insensati alla Provvidenza, delle nostre bestemmie.

D. Anche l’inferno sarà giustificato?

R. L’inferno fornirà le sue ragioni; i dannati, digrignando i denti, sottoscriveranno all’Amen apocalittico; la giustizia farà vedere il suo posto nell’ordine, e il velo di bellezza si estenderà.

D. E il purgatorio?

R. Esso non sarà più. Il definitivo annulla il provvisorio. Non si attende né si sospira, quando tutto è concluso.

D. Dunque due gruppi solamente?

R. I due gruppi evangelici: le pecorelle e i capri, la destra e la sinistra, che segnano la doppia fine d’una esistenza sublime e tragica, « quando si avanzeranno verso un’ultima morte, e  verso il primo giorno d’una beatitudine » (C. Péguy).

D. Formidabile visione!

R. Formidabile per chi lo vuole, esaltante per chi si dà al compito umano; ad ogni modo, grandiosa, e tale che il senso estetico più potente non avrebbe potuto concepire, ma che la coscienza morale più esigente ha il dovere di approvare.

D. E dopo questo?

R. Dopo questo, comincia il regno definitivo. Il regno è la consumazione di tutta l’opera, e perciò è lì quello che si può vedere finalmente, benché non unicamente, né certo principalmente, in questa invocazione del Pater: Venga il tuo regno!

D. È questo dunque îl fine che Gesù ebbe di mira?

E. Lo ebbe di mira ad ogni modo nella sua profezia solenne, all’uscire dal tempio, salendo lentamente il Monte degli Ulivi. E quale audacia, in quella predizione del « piccolo Giudeo » di Renan, se noi dovessimo veramente ridurre Gesù a questa statura! Eccolo che incatena la sorte della sua dottrina, quella della sua opera, quella della sua persona al ciclo intero dell’umanità sopra la terra e al suo eterno incoronamento! Una tale affermazione è grave! Essa implica la trascendenza assoluta della religione nata da Cristo e il suo spiegamento preminente nella storia, il carattere affatto eccezionale del Fondatore e la sua dominazione sopra il tempo. Ora la prova di queste pretensioni è stata cominciata; essa prosegue ogni giorno; non è ancora compiuta e l’avvenimento terminale è senza dubbio lontano; ma manifestamente la via è presa, la posizione è segnata e sfolgoreggiante. Si può attendere l’avvenire.

EPILOGO

Consigli all’ineredulo.

Non pensare, caro incredulo, che io voglia prendere sopra di te la minima autorità personale. Chiunque tu sia, in qualsiasi stato ti trovi, io mi sento semplicemente tuo fratello, e se ho qualche vantaggio come primo arrivato, non è che un motivo per me di venirti in soccorso. Io sono nel porto di pace; tu vi tendi ancora. Forse non vi tendevi, e forse ciò che precede, per industria della Verità vivente, ti ha indotto un po’ ad orientarviti. In questo caso la mia audacia fraterna non ti urterà più; io posso tenderti la mano e dirti affettuosamente, con un profondo rispetto della tua libertà della quale Dio solo è padrone: Ecco quello che io credo che tu possa oramai tentare. – Dopo ciò che abbiamo detto del punto di partenza della Religione, tu devi comprendere che la prima cosa è di metterti di fronte a te stesso, alla tua condizione in questo mondo, al tuo stato di coscienza rispetto al bene che conosci, e a’ tuoi doveri verso Colui che non conosci, forse per negligenza, o per un segreto timore. – Qui, io oso farti una domanda stringente. Non sei battezzato? Non hai fatto la prima comunione? Non hai praticato, liberamente, la Religione de’ tuoi padri? E credi tu che ciò non abbia alcun peso, per dirigere o per giudicare la tua condotta religiosa ulteriore? — Qui vi era dell’incoscienza, mi dirai. Mi hanno battezzato senza di me; mi hanno poi suggerito la fede e la pratica. Più tardi, venne la riflessione. — Sia pure. Io ti ho concesso che ciò è possibile, benché le persone di esperienza sorridano, a volte, di ciò che la pubertà o l’età delle ambizioni giovanili chiama sue « riflessioni ». Ma io domando a te, nel segreto, non aspettando altra risposta che quella che raccoglierà liberamente la tua propria coscienza: Sei tu sicuro che il problema risolto in quel momento contro Dio, tal quale ti era fino allora apparso, sia stato legittimamente risolto, voglio dire con tutta la serietà che esigeva la questione, con tutta l’indipendenza che ci voleva riguardo a quei sentimenti segreti che ci invitano a respingere i costringimenti? Se sì, io ti comprendo. Ogni Cattolico dirà senza dubbio che tu ti sei ingannato; ma poiché, per ipotesi, il tuo errore non è rimproverevole, ti devono prendere come sei, e tu sei in diritto di domandare alla Religione i suoi titoli. Mi sono collocato in questa ipotesi scrivendo le pagine che precedono; io l’ammetterò ancora in ciò che segue. Solo così per modo di dire io mi permetto di fare appello alla tua lealtà e di additarti le conseguenze di una dichiarazione possibile. Se fosse vero che questo problema di abbandono religioso non fosse stato saggiamente risolto, che neppure fosse stato proposto, che tu avessi fatto come tanti altri, dei quali il capriccio, la passione, le ambizioni, i comodi, o un ambiente anonimo formano tutta la convinzione, tu avresti il dovere di ritornare a questo esame, di riprendere la questione dove l’hai lasciata, e di chiedere a te stesso non se la Religione ha dei titoli alla tua adesione, ma se tu, battezzato, comunicato, praticante di ieri, hai anche dei motivi sufficienti per disertarla. Non bisogna rovesciare le parti. Qui interviene il principio di possesso. La tua eredità, la tua educazione, i tuoi impegni giovanili, la tua pratica anteriore non sono tutto; ma sono qualche cosa, sono anzi molto, e se tu li rigetti, se tu ti « converti» a rovescio e decidi di cambiare rotta, devi dire il perché. Dov’è questo perché!?… Se esso esiste, se è serio, se, lealmente parlando, è di necessità assoluta per la tua coscienza, io ne prendo atto e ripigliamo la conversazione di questo libro. Se esso fosse vago o inesistente, io ti direi: Il tuo dovere — un dovere stretto — è di rimetterti nella condizione in cui eri alla vigilia di questo mancamento, cioè di rientrare nel retto sentiero e di riprendere la tua vita cristiana, salvo a fare ora quello che avresti dovuto fare allora, per rischiarare i tuoi dubbi. Quando si è fuori, non c’è bisogno di ragioni per entrare. Quando si è dentro, si ha bisogno di ragioni per uscire. E quando uno è uscito senza ragione, deve rientrare, in attesa delle ragioni per riuscire, se ce ne sono. – La situazione allora sarà forse un po’ difficile; ma con un po’ di buon volere, si esce d’impaccio. Poiché nel cattolicismo tu sei in casa tua, frequenta la tua Religione, imparala di nuovo, unisciti a’ suoi riti nella proporzione che permettono le tue disposizioni attuali, parla a Dio tutti i giorni, non fosse che per dirgli che tu non sei sicuro di credere in Lui e « ch’Egli ti annoia » (PAOLO CLAUDEL). Sorveglia la tua vita morale; all’uopo purificala, e fa’ il bene, affinché in te il bene si traduca in luce. Che se inoltre tu avessi anime a carico, come sposo, padre, capo, educatore, io ti direi con una insistenza fraterna assai più calorosa: Dammi retta, pensa al peso di responsabilità che porti; rifletti alle care anime, alle anime fiduciose sulle quali tu influisci con la tua noncuranza, a quelle che rattristi, a quelle che immobilizzi, quando un buon esempio opportuno le farebbe decidere. Tutto ciò è di una gravità eterna, e grave altresì per questa povera vita, così miserabile fuori del conforto della fede. – A te spetta di concludere, caro incredulo che forse usurpi questo titolo, che io dovrei allora chiamare caro negligente, caro smemorato, caro infedele, che il cuore di un fratello invita all’ovile. – Ora suppongo che tu sia in regola. Tu non sai; tu non hai impegni; tu cerchi. Ecco allora quel che ti suggerisco. Posto il problema della fede, non l’abbandonare più finché esso non sia risolto in modo certo. Se anche, per impossibile, non dovesse esser risolto, tu avresti almeno il benefizio di queste nobili parole di Pascal: « Vi sono due sorta di persone che si possono chiamare ragionevoli: o quei che servono Dio con tutto il loro cuore perché lo conoscono, o quei che lo cercano con tutto il loro cuore perché non lo conoscono ». Studia seriamente; medita: ecco l’uomo interiore che vede; l’uomo sparso al di fuori è la vittima di allucinazioni successive, che lo attaccano al supposto reale, diametralmente opposto al vero. – Non ti dico: sii sincero: penso che tu lo sia nel senso corrente della parola; io ti dico: non credere facile la sincerità, noi siamo abilissimi a ingannare noi stessi! Chi è veramente sincero con se stesso? Eppure il nostro dovere è di accettare le affermazioni dell’anima nostra, e anzitutto di scoprirle. Fuggirsi, o rifiutarsi è il primo peccato dell’anima irreligiosa. Fatti dunque un cuore semplice, un cuore di bambino; noi siamo tutti bambini di fronte alla verità eterna; non ci conviene, prendendo un atteggiamento d’orgoglio, collocarci in qualche modo al di sopra di essa, oppure, con segrete resistenze o con gravi desideri, collocarci al di sotto. Rimaniamo a livello, per quanto possiamo, ma inclinati davanti a ciò che da tutte le parti ci oltrepassa. – Bisogna studiare la Religione con spirito religioso, come ci si applica alla scienza con uno spirito di sapiente, o alla poesia con uno spirito poetico. Lo spirito di sofisticheria non le conviene. Esigenze smoderate in materia di dimostrazione darebbero prova di un falso metodo. Qui non siamo nel campo delle matematiche, e Aristotile osservò profondamente che a ciascun ordine di cognizione non bisogna chiedere che il genere di certezza che esso comporta. Tu non stringi un’amicizia, non entri in una carriera, non prendi moglie, su dimostrazioni perentorie. « Ciò è ridicolo », ti direbbe Pascal. Anche la Religione è cosa morale; essa invoca le ragioni del cuore; così dev’essere, se essa dev’essere la verità di tutte le anime. Pensar religiosamente è adottare le forme del pensiero più prossime all’amore. Non ti lasciare imbrogliare da troppe questioni particolari. Non ti fermare a tutti i grovigli. Vi sono difficoltà da per tutto; se t’indugi a risolverle una dopo l’altra, non arrivi mai. Attieniti all’essenziale, al fatto. « La vera forza dell’intendimento consiste nel non lasciare offuscare ciò che sappiamo da ciò che non sappiamo » (EMERSON). Ricordati che ogni difficoltà particolare del Cristianesimo trova la sua soluzione nell’insieme; che la coerenza e l’adattamento sono il segno del vero. Procura dunque di vedere ciascun problema, se esso si presenta veramente e se è importante, come nel centro d’una sfera di verità, che allora lo rischiara da ogni parte. – L’opinione agisce sopra di te come sopra tutti: concedile la sua parte d’azione legittima; nessuno può pensare solo. Guardati dalle correnti di pensiero, che non rappresentano se non una moda passeggera. Ciò che è passeggero del resto può essere lunghissimo, per rapporto alla nostra breve vita. Non badare al numero, che si lascia così presto sorprendere e così facilmente trascinare, in questo tempo di pubblicità e di confusione di mente. L’ignoranza di quasi tutti questi individui in materia religiosa è così piena e allegra che essa disarmerebbe, se essi stessi non pretendessero di armarsi di essa. Ma di fatto, bada bene, vi è lì nello stesso tempo che un pericolo per la più pura buona fede, una tentazione sottile. « Coloro che non amano la verità prendono il pretesto della contestazione della moltitudine di quei che la negano… Essi si nascondono nella stampa e chiamano il numero in loro soccorso » (PASCAL). – Diffida dei sapienti e dei pensatori che si volgono contro la fede per abuso della loro specialità, affermazioni affrettate, ignoranza a volte stupefacente di ciò che pretendono di giudicare. E d’altra parte diffida dei credenti che mettono scioccamente la loro fede in contraddizione con la scienza o l’esperienza, per ignorare il tutto e per confondere ogni cosa. Disgraziatamente sono essi troppo numerosi. Ve ne sono pure tra i professionisti. Ne faresti le meraviglie? Esigi forse che in Religione più che altrove una marca dia competenza universale? Non tutto quello che dice un soldato ha il peso di una dottrina di Foch; non tutto quello che dirà un sacerdote è parola di Vangelo. Fa, quando bisogna, le tue riserve, e « non credere a ogni parola » (S. PAOLO), Se nonostante i tuoi sforzi sinceri la luce tarda a venire, non te ne stupire e non ti scoraggiare. Consentire alle tappe fa parte della virtù del camminatore. Si parte, si fa una lunga strada sinuosa e molto spesso coperta; alla fine si arriva. Chi sa dove sei veramente? I più grandi avvenimenti dell’anima hanno luogo in noi molto prima che l’anima se ne accorga; essi sfolgoreggiano un giorno, ma nacquero in segreto, come la fiamma in un ceppo lentamente riscaldato. Attendiamo; lasciamo che le cose si rischiarino da se stesse, lasciamo maturare l’anima, attenta, sotto il sole di Dio. – Quando un’impressione di verità comincerà a colpirti, e la tua mente sarà inclinata, potrà accaderti di trovare in te altre resistenze, come ripugnanze invincibili, certe pieghe della sensibilità, certi abiti mentali, e più di tutto quella certa immobilità che non ha nome, né forma, né causa visibile; inerzia dell’anima, o piuttosto un intoppo che non trovi modo di superare. In tal caso non si tratta più direttamente di uno sforzo intellettuale, ma di un atteggiamento pratico. Poiché la verità è anche bellezza e utilità, la si può raggiungere da questo lato; il giro non è illegittimo. Ora il bello e l’utile ci muovono, là dove la luce ci lascia fissi al suolo. Puoi dunque compenetrarti delle bellezze della Religione; piaccia alla tua immaginazione e alla tua sensibilità per le sue armonie, per il suo culto, per gli scritti de’ suoi grandi uomini, per la sua arte, per i suoi monumenti, e anche per le sue ideali promesse. Bisogna « eccitare gran bramosia », diceva Pascal; bisogna eccitarla anche per conto proprio. « Non potendo il cuore dell’uomo agire senza qualche attrattiva, in un certo senso si può dire che quello che non gli piace gli è impossibile » (BOSSUET). – Parimenti non devi dimenticare la « macchina », l’« automa » e l’«imbestiamento » pascaliani, che sono stati così male capiti forse perchè l’incomprensione era più confortevole. Tu sei convinto astrattamente; ma lo spirito non ha scattato, l’adesione effettiva non vuol venire: cammina, affinché il movimento ti trascini. La bestia, in noi, vuol essere « trattata da bestia », l’automa messo in moto. Pratica tutto quello che sai, è un dovere. Pratica anche, nei limiti della saggezza e delle possibilità morali, quello che speri di sapere, a fine di arrivare: saperlo, in forza di questo adagio: « Non conosciamo le cose se non praticandole » (MAURIZIO BARRÈS). E tutto ciò vuol dire: Convertiti prima, cioè volgiti nel senso che bisogna, e allora la Verità stessa, la Verità vivente ti convertirà. Non si trova Dio se non mettendosi sulla sua strada. – Eccomi all’ultimo consiglio. Il centro della Religione è Cristo: non esitare; va diritto a Lui. L’intermedio della critica non è necessario. Questa può venire alla sua ora; essa ha il suo posto, ma il contatto diretto ha ben altra efficacia! Gesù è prova a se stesso, ti dicevo. Ascolta queste parole solenni: Io sono nato e sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità; chiunque è figlio della verità ascolta la mia voce. Ciò non inganna. Entra dunque nel Vangelo senza sforzo; entravi ingenuamente; lascia che il tuo spirito avvicini quello di Gesù, il tuo cuore apprezzi questa ineffabile Persona, e il senso tuo del reale gusti la realtà vivente di questi fatti, che gravi critici inaridiscono e dissipano al soffio delle parole. Non invano ti attaccherai al vero Maestro. Egli è il « Ponte »; è la « Porta »; chi va a lui « non cammina nelle tenebre; ma avrà il lume della vita » (S. GIOVANNI). – Io non ti faccio l’ingiuria di credere che una volta sufficientemente convinto e invitato internamente, tu esiti a dichiararti a cagione di vane considerazioni estranee. Quello che si chiama rispetto umano è un meschino rispetto di se stesso. Fu detto della conversione: « Fuori, è un uomo che si smentisce; dentro, è un uomo che si compie » (ABELE BONNARD): sapendo compierti saprai riportare la stima. L’essenziale è di deciderti e di spiegare per questo il coraggio necessario. « Per la fede come per l’amore, ci vuole del coraggio, del valore; bisogna dire a se stesso: Io credo » (TOLSTOI). E bisogna finalmente che confidi nel tuo Dio, senza il quale tutto quello che ho potuto dire, tutto quello che potrei dire sarebbe vano. La fede, come tutto l’insieme della vita cristiana, è una collaborazione; è noi con Dio, è Dio con noi, per il suo Cristo, nel centro e sino ai confini dell’anima, sino ai confini della vita. – Per conseguenza prega. Fino dal principio siamo convenuti che tu lo potevi fare, che lo dovevi fare. Poste tutte le altre condizioni, ascolta Cristo che ti dice: «La tua conversione è affare mio; non temere, e prega con confidenza, come per me » (PASCAL). Se fai così, fratello mio, io ti oso promettere da parte di Dio la certezza nella fede, la pace nella certezza, quella pace « che supera ogni sentimento umano » ed apre una via larga alle opere e alle ricompense dell’amore.

Visto, nihil obstat:

Torino, 20 luglio 1937 d. Luigi Carnino

Imprimatur: Torino, 20 luglio 1937

Can. Gio. Dalpozzo Prov. Gen,

LA VITA INTERIORE (12)

LA VITA INTERIORE

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (12)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna, Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione Riveduta.

LUCI DI STELLE

SOLE CHE ARDE!

LA SANTA MESSA

IL SOLE DEGLI ESERCIZI DI PIETÀ.

«Io non vi ho ancora parlato del sole degli esercizi spirituali (e che maggiormente e più efficacemente può dare all’anima nostra l’unione con Dio) che è il santissimo e sacratissimo e sovrano sacrificio e sacramento della Messa, centro della religione cristiana, cuore della devozione, anima della pietà, mistero ineffabile, il quale abbraccia l’abisso della infinita carità e pel quale Dio, donandosi realmente a noi, ci comunica magnificamente le sue grazie e i suoi favori » (S. Francesco di Sales). – Davanti a Dio e per gli uomini che hanno fede viva, la santa Messa, è l’azione più degna, e l’azione più meritoria, è quanto di più eccellente noi abbiamo ricevuto da Gesù Redentore. « Tutte le opere buone riunite insieme, diceva. il Santo Curato d’Ars, non equivalgono al santo Sacrificio della Messa, perché esse sono le opere dell’uomo, e la Messa è l’opera di Dio. Il martirio è nulla in suo confronto. È il sacrificio che Dio fa all’uomo del proprio corpo e del proprio sangue ». Nulla può rendere maggiore vantaggio agli uomini della santa Messa. Di questo erano talmente persuasi i primi Cristiani che, quotidianamente, sfidando i pericoli delle persecuzioni, si recavano nelle Catacombe per presenziare ai divini Misteri Tutte le anime pie, in ogni tempo, (i Santi in modo particolare; sentirono intensamente il bisogno di vivere la santa Messa. Quando il sacerdote celebra la santa Messa fa quattro cose principali:

1) cambia il pane e il vino nella sostanza del Corpo e del Sangue di nostro Signore;

2) offre e sacrifica, Gesù al Padre celeste;

3) si nutre di Gesù nella santa Comunione;

4) distribuisce… Gesù nella santa Comunione ai fedeli che lo desiderano.

È UN RICORDO VIVENTE DEL SIGNORE.

I.- Anzitutto fa assolutamente la stessa cosa che Gesù fece nell’ultima Cena, muta, cioè, il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Lui. La celebrazione della Messa, è, quindi, ricordo di quanto noi possiamo avere di più caro: di Gesù Cristo. Gesù stesso, lo disse agli Apostoli: «Fate questo in memoria di. me) (Luca, XXI, 19). E in che modo, se ne dovranno ricordare? Ascoltiamo San Paolo (I Cor.,., XI, 20); « Ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo calice, voi, annunziate la morte del Signore ». Nell’assistere alla santa Messa dobbiamo dunque, in ispirito, recarci sul Calvario e raffigurarci Gesù Cristo crocefisso, agonizzante e, morente in croce per noi. – La Messa, però, non è un ricordo morto: è un ricordo vivente del Signore, è una commemorazione vivente di Gesù. Poiché nel momento della consacrazione, il Signore discende realmente in mezzo a noi, sebbene velato sotto le specie del pane e del vino.

È LA RINNOVAZIONE DEL SANTO SACRIFICIO DELLA CROCE.

II. – La santa Messa non è solo un ricordo vivente di Gesù Crocefisso: essa è anche un sacrificio; e, precisamente, è la rinnovazione del santo Sacrificio della croce. « Il grande Sacrificio che Gesù Cristo nella sua qualità di Sommo Sacerdote ha offerto per l’umanità sul Golgota, Egli lo ha anticipato, lo stesso identico Sacrificio, all’ultima Cena. Sono parole sue: “ Questo è il mio Corpo immolato per voi, questo è il mio Sangue versato per voi” (P. Parsch. Op. c. 20)). Questo stesso Sacrificio offerto sulla croce e che fu anticipato nell’ultima Cena, viene rinnovato realmente, nella santa Messa. Non è, adunque, la Messa solo un ricordo vivente di Gesù, ma anche un sacrificio, è la rinnovazione vera, reale del Sacrificio di Gesù in Croce. Quando andiamo alla Messa, andiamo al Calvario e in compagnia di Maria SS. e di Giovanni assistiamo al divino Sacrificio di Gesù. – Fermiamoci a considerare: La santa Messa è l’offerta del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo che, sotto le specie del pane e del vino, si offre a Dio dal sacerdote sull’altare in memoria e rinnovazione del Sacrificio della Croce.

L’OFFERTA È GESÙ.

Riflettiamo: Che cosa si offre nel sacrificio della Messa? — Si offre il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo. — Gesù Cristo è Dio. Quale altra vittima può paragonarsi a questa Vittima divina? – Dio è eterno, immenso, onnipotente, infinito: per questo appunto, in ragione della Vittima offerta il sacrificio della Messa ha un valore infinito. Gesù si offre al Padre per suo amore, per la sua gloria. Nel discorso dopo l’ultima Cena Gesù disse: Padre, è giunta l’ora (della mia morte), glorifica il tuo Figliuolo, affinché il tuo Figliuolo. glorifichi te (Giov, XVII, 1). Glorificare il Padre; ecco l’intenzione di Gesù. nell’offrirsi, sul Calvario e sugli altari. –  Ma Gesù si offre a Dio anche per salvare gli uomini. La salvezza eterna degli uomini dà gloria a Dio. L’offerta di Gesù è, dunque,ispirata da due amori. che. si riuniscono in uno solo: l’amore infinito pel Padre e per gli uomini. – Quale sacrificio costò a Gesù l’offertach’Egli fece di sé al Padre? — Il massimo sacrificio, cioè la vita.Alla vita tutti si sentono intensamente attaccati. Nessuno. vorrebbe mai privarsene.Tutti desiderano di continuare a vivere. Donare la propria vita, è, quindi, il sacrificio che più costa all’uomo… Gesù diede la sua vita, permettendo che gli venisse tolta violentemente ed ignominiosamente,per la gloria di Dio e per la salvezza degli uomini: Per questi due fini versò in croce, sul Calvario, tutto il suo sangue. Nessuno ha un amore più grande di chi offre la sua vita per i suoi amici (Giov., XV, 13).« Ecco il motivo per cui la Chiesa onora e santifica tutte le sue annue solennità descritte nel ciclo liturgico col sacrificio Della Messa. Come la manna nel deserto si adattava a tutti i gusti, così questo Sacramento,il quale rinnova sui nostri altari il mistero di nostra redenzione — opus nostræ Redemptionis exercetur — ne commemora altresì i vari episodi e le circostanze. Ecco il motivo per cui nella Messa natalizia, di mezzanotte, noi adoriamo il Cristo Verbo Incarnato; il giorno della Epifania, invece di presentare a Dio oro, incenso e mirra,gli offriamo nell’Ostia quel medesimo Divin Pargoletto Re, Pontefice e Mortale, che veniva simboleggiato dai doni dei Magi;nel giorno di Pasqua, sotto i veli Eucaristico, noi adoriamo Gesù sfavillante di gloria, e con Lui inauguriamo il regno di Dio,sorbendo quel vino Eucaristico nuovo e generoso, del quale il giovedì santo Egli D discorreva appunto nel Cenacolo: non bibam amodo de hoc genimine vitis, usque in diem illum, cum illud bibam vobiscum novum in regno Patris mei (MATTEO, XXVI, 29). » Il giorno di Pentecoste poi, a conseguirei settemplici doni del Divino Paracleto, noi gliene presentiamo il prezzo: il Sacrificio del Signore, implorando dallo Spirito Santo— teste della Passione di Gesù Cristo, come lo chiama bellamente Serapione di Thmuis— la grazia di associarci a Lui nel Glorificare Gesù.

» Del pari, sia che la Chiesa celebri le varie solennità Mariane, gli anniversari dei Martiri, le consacrazioni dei suoi sacerdoti, le benedizioni nuziali sugli sposi novelli, la Liturgia costituisce l’offerta dell’Eucaristico Sacrificio siccome vero rito centrale della solennità, giacché per i meriti della croce e della pienezza di grazia che è nel Cristo Capo, affluisce ogni carisma nell’intero organismo della Chiesa, che è precisamente il suo mistico Corpo, il suo pleroma, come lo chiama l’Apostolo ». (Schuster, De Mysteriis, 12-13).

LA SANTA COMUNIONE. – IL CONVITO.

La santa Messa è anche il Convito, il banchetto delle anime dei sacerdoti e delle nostre anime. Il giorno successivo al miracolo della moltiplicazione del pane e dei pesci (MATT., XVI, 19), Gesù tenne, nella sinagoga di Cafarnao, dinanzi ai testimoni del miracolo, agli Apostoli e a vari discepoli, un discorso importantissimo. – Ricordando la moltiplicazione dei pani, e da questa prendendo occasione, promise un pane celeste, un pane di vita ch’Egli avrebbe lasciato in eredità alle anime e tra la generale meraviglia, così recisamente affermò: Il pane che io darò a voi è la mia Carne per la vita del mondo (Giov., VI, 52). – Poiché i giudei sono riluttanti a prestare fede alle sue parole, Egli ripete la promessa in sei espressioni d’immenso significato: In verità vi dico, se non mangerete la Carne del Figlio dell’Uomo e non berrete il suo Sangue, non avrete vita in voi. Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue, ha la vita eterna e Io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Poiché la mia Carne è realmente cibo e il mio Sangue è realmente bevanda. Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue rimane in me ed Io in lui… Chi mangia questo pane, vivrà in eterno… (Giov., VI, 54-59)A queste parole dette con forza e con precisione, gli ascoltatori si dividono. Alcuni di essi, i giudei, dopo avere con molta irriverenza giudicato Gesù, si allontanano. Presso il Maestro Divino restano gli Apostoli.Questi, per le parole di Pietro, testimoniano la vivezza della loro fede negli accenti di Gesù.Ma che cosa aveva realmente voluto dire Gesù, con quelle sue parole tanto rimarcato? Come le parole stesse chiaramente suonano, Gesù ha promesso la vita della grazia (vita eterna), la partecipazione alla vita di Gesù stesso. Gesù ha promesso il nutrimento dell’anima, la vitalità dell’anima,e l’unione di queste anime, da lui vivificate con la sua Carne e il suo Sangue, con se stesso e col Padre. Dunque, secondo le promesse di Gesù:

LA VERA UNIONE con GESÙ!

1) La santa Comunione ci incorpora con Gesù. È questa la ragione per cui Gesù nell’ultima cena la istituì sotto le specie del pane e del vino: « Prendete e mangiate; questo è il mio corpo, prendete e bevete, questo è il mio sangue ». – Uniti con Gesù per mezzo della santa Comunione, facciamo con Gesù una vita unica, un cuor solo ed un’anima sola. I suoi sentimenti e i suoi interessi sono nostri, e i nostri sono suoi.  Quanto quest’unione sia stretta, intima, con Gesù, viene molto ben detto dal Padre Grou (Per la vita intima dell anima, 278):« Questa dimora reciproca, di noi in Gesù e di Gesù in noi, è qualche cosa di così grande e di così divino che non ci è possibile comprenderla perfettamente.

» Questo effetto meraviglioso della Comunione avviene nelle anime in proporzione delle loro disposizioni, e siccome le disposizioni possono migliorare sempre, l’effetto corrispondente a queste diviene ognor più eccellente, in proporzione…

» È una dimora intima, una unione di Gesù con noi, in doppio modo, e tale che non se ne trova esempio nella natura. Corpo ed anima Egli s’unisce a noi; le sue facoltà si uniscono alle nostre, in modo soprannaturale e trascendentale, di modo che Gesù Cristo vive in noi, e noi viviamo il Lui »… Ma non basta. Questa stretta unione con Gesù, è, pure, nei desideri di Gesù, una unione permanente delle nostre anime con Lui. Perché avvenga una rottura, una separazione, è necessario che l’anima pecchi gravemente… Quanto cara sia la presenza di Gesù vivente in noi con la sua grazia, solo le nostre anime possono dire: « Gesù rimane in noi col divino suo Spirito che opera, nelle anime nostre, disposizioni simili alle sue ». Di più. L’unione nostra con Gesù è una unione santificante. Gesù santissimo, ci santifica trasformandoci in Lui. Questa trasformazione avviene tanto più celermente, quanto più avidamente cerchiamo Gesù e quanto più decisamente e realmente ci stanchiamo del mondo e delle creature. « I nostri pensieri e i nostri giudizi si vengono a mano a mano modificando: in cambio di giudicare le cose secondo le massime del mondo, ne giudichiamo secondo le massime del Vangelo. La nostra volontà si conforma a quella del divino Maestro: persuasi ch’Egli solo è nel vero perché Sapienza eterna, non vogliamo se non ciò che vuole Lui e con Lui ripetiamo: Padre, sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra! Il nostro Cuore sgombera, a poco a poco, da sé gli affetti egoistici e troppo sensibili, per amare generosamente, ardentemente, supremamente colui che solo merita d’essere amato » (TANQUEREY, Le grandi verità cristiane, 239). –

2) La santa Comunione ci unisce non solo con Gesù, ma ci unisce pure con Dio, con le tre persone della Santissima Trinità. In Gesù, infatti, figlio di Dio, vi sono le altre due persone divine, perché esse vivono l’una nelle altre. Il Verbo incarnato non in noi da solo, ma col Padre celeste che lo genera di continuo; e collo Spirito Santo che, per via di amore, procede dal Padre e dal Figliuolo. –  Uniti con Gesù siamo, per questo stesso, figli adottivi di Dio e apparteniamo alla sua famiglia. Onore e gioia inestimabile, ch’è irraggiungibile per qualunque altra via. Solo in questo modo si effettua il fine voluto da Dio da tutta l’eternità, la nostra unione intima con Lui.

I DONI EUCARISTICI DI GESÙ.

Mentre Gesù a noi si dà senza riserve, se noi a Lui egualmente ci accostiamo, non tarda l’effluvio del suo profumo e del suo sapore a ristorare le nostre forze. Infatti,  come il cibo materiale non solo conserva e sviluppa il nostro organismo, ma col suo gusto lo allieta insieme e lo diletta, così la Divina Eucaristia nutre l’anima, la sostiene, la consola e le infonde un celeste gusto per le cose spirituali (Schuster, De Mysteris, 18). – Di più: per la santa Comunione, noi veniamo perdonati dei peccati veniali, e preservati da eventuali future cadute. Benissimo Sant’Ambrogio: Questo pane quotidiano si riceve in rimedio della quotidiana debolezza (De Sacr., lib. IV, c. 6). Quanta grazia insinuante, commenta il Card. Schuster, in quel doppio aggettivo: quotidiano, a raccomandare ai suoi figli spirituali la quotidiana frequenza alla santa Comunione! Ancora. Gesù aumenta in noi l’ardore della carità, diminuisce il fuoco delle tentazioni, ci conserva nell’integrità e nella purezza. Per questo motivo, nei primi tempi della Chiesa, veniva portata la santissima Eucaristia ai Martiri nelle prigioni, perché confortati dal Pane celeste, non cadessero per lo spavento e per il dolore delle prove cui erano sottoposti. – Concludendo: la santa Messa, l’atto più elevato e più santo del Cristianesimo, il centro vitale per eccellenza della nostra santa Religione, la fonte più vivida e più intensa della grazia santificante:

1) Come memoriale della Passione di Gesù.

2) Come rappresentazione vera e vivente del sacrificio di Gesù nel Calvario.

3) Come vera incorporazione con Gesù e con Dio, ci unisce intimamente, ci trasforma, realmente, in Gesù stesso, tanto da poter propriamente e realmente ripetere le parole dell’Apostolo: Signore non sono più io che vivo, sei Tu che vivi in me.

Dio ha messo ogni cosa sotto i piedi di Cristo e l’ha dato per capo a tutta la Chiesa, ch’è il suo corpo e il suo compimento.

S. Paolo, Efes., I, 22-23.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 4

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (4)

GIOVANNI OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO V.

L’umiltà

L’umiltà è virtù che serve di fondamento a tutte le altre e deve presupporsi ad ogni esercizio di pietà; senza di essa l’anima non farà mai nessun progresso. La superbia, che è opposta a questa virtù, è il vizio che più dispiace a Dio. A questo orribile ed infelice peccato Dio suole resistere, come dichiara così spesso nella Scrittura: Dio resiste ai superbi (Deus superbis resistit. Jac., IV,1). Il fondamento di questa resistenza di Dio alla superbia proviene dall’ingiuria speciale che essa gli fa, perché lo deruba di ciò che gli è più caro, dell’onore, cioè, della gloria a Lui dovuta ed esclusivamente riservata, per attribuirla ad un niente, ad un verme della terra. Dio non è di nulla geloso come della sua gloria; ci comunica il suo essere divino, la sua propria natura, e tutti i suoi doni, ma con la condizione che noi non lo deruberemo di ciò che Egli non intende punto cedere a nessuna creatura, vale a dire della sua gloria (Gloriam meam alteri non dabo. Isai., XLII, 8.). In conseguenza dell’avversione e dell’odio che Dio prova contro la superbia, non appena l’anima è così miserabile da abbandonarsi ad un tale eccesso. Dio sull’istante si ritira e l’abbandona a sé medesima, privandola della sua grazia e del suo aiuto; per lo stesso motivo, non se ne avvicina che in quanto essa è vuota di ogni superbia e di ogni propria stima. Perciò diciamo che la santa umiltà è fondamento di tutte le virtù, perché queste non si possono acquistare senza la grazia e l’aiuto divino, favori questi che Dio dà solamente agli umili: Agli umili Dio dà la sua grazia. (Jac.IV, 6). Incominciamo dunque dall’umiltà e vediamo innanzi, tutto in che consista.

I.

Natura dell’umiltà.

1° grado dell’umiltà: riconoscere la propria abiezione e compiacersene. Umiltà in Dio e in Gesù Cristo. Amore di Gesù Cristo per le umiliazioni anche nel suo Corpo mistico La vera umiltà è interiore e consiste nella sottomissione alla volontà di Dio. 2.° grado: amare la propria abiezione. 3.° grado: godere che Umiltà nelle. aridità spirituali. Schiarimenti sulla nostra abiezione sia riconosciuta anche dagli altri. — Amore dell’abiezione. Non ambire la grandezza neppure in Paradiso.

L’umiltà ha tre parti. La prima è di compiacerci nella conoscenza di noi stessi. Vi sono anime alle quali Dio fa conoscere la loro miseria ed i loro difetti, anzi ne porge loro l’esperienza, facendo risaltare ai loro propri occhi la loro stolidezza, leggerezza, inutilità e assoluta incapacità; ma esse a tale vista si rattristano e non potendola sopportare, cercano in se stesse qualche cosa che le lusinghi, si studiano di scoprire in sé medesime qualche perfezione o qualche virtù che le metta al coperto della convinzione della loro miseria: questo è effetto di superbia. Bene spesso ci troviamo in tale stato che sentiamo grande abbattimento nel vederci quali siamo, cioè: niente nella grazia e niente nella natura, inutili ad ogni bene, insopportabili a noi stessi e a tutti: se questo sentimento produce scoraggiamento interiore, è segno che la nostra è umiltà falsa. – Nostro Signore dà, al contrario, la stessa visione ad anime sante che gli sono care e predilette e sono stabilite nella vera umiltà, affine di rendere più profonda in esse questa virtù e prepararvi un fondo più ampio per ricevere la sua grazia e il suo amore. Ma queste anime, perché più umili, godono di conoscere ciò che sono: basta non aderiscano alla malizia della loro carne sono contente; talvolta non conoscono punto questa loro buona volontà, Dio permettendo che non distinguano tra gli assalti della carne e il consenso: e ciò è causa per esse di molta pena. Ora sentiranno ripugnanza verso i poveri e riluttanza a praticare la carità: ora sentiranno disgusto di Dio e della sua santa parola. Altre volte proveranno altre molestie che partono da quel fondo maligno della carne che si chiama comunemente la natura corrotta; e, nell’incertezza se abbiamo acconsentito a simili tentazioni, si affliggono e si trovano molto umiliate, come pure al pensiero di non aver lavorato abbastanza a vincere sé medesime. Orbene, tutte queste prove, per le anime sante, non sono motivo di pena e di abbattimento quanto di confusione e di umiliazione. Anzi, ciò serve loro a non dimenticare ciò che sono in sé stesse, a ricordarsi che portiamo il peso della carne e siamo composti di una natura di peccato che è fondo inesauribile di malizia; perciò si riconoscono operai di iniquità. Infatti, avendo acconsentito al peccato in Adamo, e inoltre avendo contratto, per i loro peccati personali, abitudini viziose, esse hanno alterato la loro propria natura, e l’hanno talmente viziata che non vi rimane più nulla che abbia pregio alcuno. È  necessario un nuovo principio; è necessaria una nuova generazione, che ci dia una seconda vita e un nuovo spirito per conservare questa vita nuova. Lo Spirito Santo medesimo è quello che opera in noi ì movimenti al bene e ci sollecita alle opere buone, come la carne ci inclina alle opere cattive. Così lo spirito e la carne sono in continua e perpetua lotta. La carne, dice S. Paolo, combatte contro lo spirito e lo spirito contro la carne (Gal. V., 17). – Perciò i Santi, essendo veramente umili, riconoscono perfettamente ciò che sono da sé stessi, e ciò che in sé medesimi appartiene a Dio: riconoscono donde viene il bene e chi ne è la causa; rendono incessantemente lode e gloria a Dio per il bene che Egli opera nelle loro anime; si umiliano pure incessantemente per il male che fanno e che sentono in sé, riconoscendo la propria povertà, miseria e viltà, e condannano sé stessi come causa dei mali che risentono. Ma una tal vista, per quanto ne provino tristezza, li umilia senza avvilirli né scoraggiarli. Ecco il primo grado della virtù di umiltà; compiacersi nella propria viltà e miseria. Conoscere questa viltà e miseria, non è parte di questa virtù; ne è soltanto una condizione e un fondamento. Perciò anche i pagani praticavano la conoscenza di sé medesimi, eppure essi non avevano nulla della virtù cristiana di umiltà, perché il primo passo di questa è la soddisfazione e la gioia che si prova nel conoscere se stesso. Che cosa è dunque l’umiltà? — È l’amore dalla propria abiezione, per il quale a poco a poco si diventa così amanti della nullità, della piccolezza e della bassezza da prediligerle in tutto e per tutto.

(Sarebbe irragionevole amare l’abiezione precisamente per l’abiezione stessa, quasiché sia meglio essere peccatori che santi, ignoranti che sapienti, scemi che di talento; ciò sarebbe, come dice S. Francesco di Sales, viltà di animo e di cuore ». Dobbiamo compiacerci del fatto della nostra abiezione in quanto è per noi una umiliazione; perché ne risulta maggiormente la gloria di Dio e anche, in certi casi, perché Dio vuole così; perché ne saremo meno considerati e stimati dalla gente o perché il prossimo verrà stimato più di noi; né tralasceremo di fare quanto sta da noi, come dice ancora San Francesco di Sales, per togliere il male che è causa della nostra abiezione (Cfr. Filotea, IIIa VI e infra pag. 65-66). –

Prendiamo un esempio: un’anima riconosce in sé il proprio nulla che la rende vile e abietta, riconosce la sua debolezza, i suoi difetti e persino i suoi peccati; bisogna si compiaccia nella viltà, nell’abiezione e nel disprezzo che gliene provengono; deve compiacersi in ciò che v’è in sé stessa di vile, di abietto e di umiliante. La viltà e l’abiezione che sono le conseguenze del peccato sono cosa affatto diversa dall’opposizione a Dio: l’anima che è umile deve amare la viltà alla quale essa è ridotta dal peccato, ma insieme deve detestare sommamente il suo peccato in quanto è contrario a Dic. Essa deve essere talmente amante della viltà e della bassezza di amarla dovunque la incontri: deve trovare nell’abiezione vaghezze così deliziose, che non trovi nulla di così amabile, e la consideri come la sua regina, la sua amica, la sua diletta. Amore di piccolezza, amore di bassezza, amore di abiezione, di umiliazione: ecco la nostra felicità, ecco l’unica nostra pace. Intesa così, l’umiltà ha la sua sorgente in Dio medesimo; Dio, infatti, benché a motivo delle sue perfezioni non sia capace di vero abbassamento, tuttavia ha in sé come un peso che lo porta verso le cose piccole, perché da sé medesimo è amante delle cose basse. Dio guarda alle cose vili, (Ps. CXII, 6); Ha rivolto lo sguardo alla bassezza della sua serva, dice la Madonna, nel Magnificat (Luc. I, 48), vale a dire che si compiace nella bassezza e vi prende la sua compiacenza. – Questo peso immenso della Divinità verso la bassezza, riempiva in modo eminente, delle sue inclinazioni l’anima di Gesù Cristo, e le infondeva una tendenza infinita verso la umiliazione, tendenza continuamente operosa, che mai poteva essere spenta né saziata. Tutto quanto vi è di disprezzo, di annientamento e di abiezione, tutto, per l’anima di Lui, è nulla in confronto di quella sete immensa di umiliazione che lo divora. In ciò consiste l’umiltà di Dio e di Gesù Cristo, di cui dobbiamo renderci partecipi, umiltà che Gesù diffonde nel cuore dei Cristiani nei quali ha infuso lo stesso peso e la stessa inclinazione verso ciò che è basso. Ed è questa la vera umiltà cristiana. – È da  considerarsi come il profeta diceva del Cuore di Gesù Cristo, che sarebbe saziato d’obbrobri (Thren. III, 30); era questo un effetto che l’immensità di Dio operava nel fondo dell’anima di Lui con l’infinità della sua potenza. – Non dobbiamo considerare soltanto le umiliazioni che Gesù Cristo ha subito nella propria persona e alle quali si riferisce quella sua parola sulla croce: SITIO, Ho sete; ma ancora gli obbrobri e i disprezzi che Egli desiderava soffrire nel suo corpo mistico e nei suoi membri; anche riguardo a questi Egli diceva: SITIO, Ho sete, muoio di languore nel desiderio di nuove pene e di nuovi disprezzi: bisogna che mi estenda e mi dilati in tutta la mia Chiesa e che in essa Io soddisfi la mia sete: quanto più soffrirò in essa disprezzi e umiliazioni, tanto più proverò gioia e consolazione e soddisferò il desiderio immenso che ho di scendere al basso. « Il Padre mio, infinito nei suoi desideri, mi comunica questo languore e questa immensa volontà, in confronto della quale Io non sono nulla, né sono capace di soddisfarla; per questo cerco sempre sulla terra qualche anima che soddisfi la mia pena e il desiderio che provo di bere a lunghi sorsi, in ogni tempo e in ogni luogo, al calice dell’onta e dell’umiliazione.. Dimodoché quando qualcuno soffre disprezzi e li riceve con gioia ed amore, altrettanto soddisfa la mia sete ». – Sarebbe ben giusto dare in noi questa gioia a Gesù Cristo e procurare di soddisfarlo ed accontentarlo su questo punto. – E poiché abbiamo tanta ripugnanza ad essere umiliati, dobbiamo almeno raccogliere con cura quel poco di umiliazione che possiamo, per dar luogo alla potenza e all’efficacia dell’operazione divina nel nostro cuore. – Dio in sé medesimo è immenso, la sua infinita grandezza che lo inclina verso la bassezza deve tutto umiliare sotto di Lui e portarci tutti all’amore del disprezzo e dell’abbassamento. Tuttavia, è un fatto che il nostro cuore gli resiste tanto fortemente e la vince in tal modo sopra di Lui che invece di tendere ad abbassarci, noi non tendiamo che ad elevarci, né cerchiamo altro che la lode, la stima e gli applausi. Dio così potente in tutto e particolarmente nell’anima del Figlio suo, trovasi come impotente in noi. – Studiamoci dunque di rinunciare al nostro fondo intimo, di condannarlo e sottometterlo a Dio, affinché Egli possa imprimere in noi ciò che desidera e investirci delle sue inclinazioni, dei suoi sentimenti e delle sue medesime disposizioni. Dobbiamo pregare molto la maestà di Dio che compia in noi le operazioni della sua potenza e della sua virtù immensa, affinché ci umiliamo in Lui e ci investiamo delle sue inclinazioni e dei suoi desideri.

***

La principale umiltà è l’umiltà interiore; questa riguarda dapprima lo spirito e consiste nel tener sempre la facoltà dell’anima in una grande soggezione e dipendenza verso Dio; di modo che il nostro spirito non sia mai né insolente né superbo, al punto d’innalzarsi al cospetto del nostro Re e nostro Dio, ma invece si tenga sempre davanti a Lui in atto di perfetta sottomissione e di profonda riverenza, aspettando con pazienza la sua luce e i suoi ordini. Guardiamoci sempre dall’essere così presuntuosi da voler, in qualunque cosa, ragionare ed agire da noi e in noi; stiamo sempre sottomessi a Dio, aspettando con fede la sua direzione e la sua regola. – Lo stesso è da dirsi della nostra volontà; benché si trovi in questa carne di peccato e in questo stato di sregolatezza. Essa è sempre come una regina che domina e comanda, perciò, meglio ancora dell’intelligenza essa deve stare dipendente dallo Spirito divino, che vuol essere in noi Re e padrone. La nostra volontà, più guasta dal peccato che tutte le nostre altre facoltà. E quindi più imperiosa e arrogante, è sempre pronta a comandare e pochissimo disposta ad obbedire: ci vogliono grandi sforzi ed assidue applicazioni per tenerla soggetta e sottomessa, Essa ordina ogni cosa senza aspettare gli ordini, la mozione e la direzione né dello Spirito Santo, né della carità che sola deve dominare in noi e muoverci soavemente ad assecondare i desideri di Dio. – La vera e perfetta umiltà interiore consiste dunque nel sottomettere a Dio la nostra volontà non meno che la nostra intelligenza, la quale deve tenersi come morta, in un’attesa fedelissima e docile delle divine impressioni ed illuminazioni che Dio promette ai suoi figli. (Qui sequitur me non ambulat in tenebris, sed habebit lumen vitæ, Joan., VIII 12). In tal modo, ]’anima sarà veramente umile, e sarà tale in ispirito e verità, perché sarà umile effettivamente e con perfetto sacrificio. In questo stato, l’anima riconoscerà di non essere nulla che valga qualche cosa, di non essere capace di operare nella giustizia e nella santità, protestando che tutto viene da Dio, tutto dipende da Dio, tutto in noi deve essere operato da Dio. Conoscere che siamo un niente senza valore, che non sappiamo nulla, che non siamo capaci di nulla e compiacersi in questa vista e in questa conoscenza, ecco il primo grado dell’umiltà.

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Il secondo grado è di amare la propria viltà, la propria abiezione, il proprio nulla, anche nello spirito degli altri tanto come in noi medesimi, vale a dire, compiacersi di essere riconosciuti come vili, come abietti, come cosa da nulla, come peccato e di essere stimati tali nello spirito degli altri. Infatti, è proprio dell’umiltà di far sì che abbiamo amore, gioia. e piacere ad essere conosciuti e stimati da tutti per quel che siamo in realtà: se desideriamo di comparire migliori di ciò che siamo, se cerchiamo di scusare i nostri difetti, siamo ipocriti e impostori. – Dal difetto di umiltà nascono la pena, il dispetto e l’affanno che proviamo quando vengono scoperte le nostre imperfezioni.     Da qui quell’agitarci e inquietarci penosamente a riguardo della buona riuscita delle nostre opere, volendo acquistarci presso gli altri, fama, considerazione e stima. Non saremo dunque mai capaci di soffrire ciò che Gesù Cristo vuole operare in noi col suo Spirito di umiltà? Non sapremo sopportare di essere conosciuti quali siamo in realtà, ossia come niente e peccato, poiché non siamo altro in noi e da noi medesimi? Fuorché il nulla e il peccato, tutto in noi è cosa di Dio; se pretendiamo attribuircene anche la minima parte, commettiamo un furto a danno di Dio medesimo. – Noi siamo in tal modo un vero niente, che se Dio ad ogni istante non ci comunicasse l’essere, non vi sarebbe più nulla in noi, non vi rimarrebbe che il niente che è il nostro fondo e che unicamente ci è proprio. Anzi, se v’è in noi qualche cosa nelle nostre facoltà che non sia corrotta dal peccato, ne dobbiamo rendere grazie a Dio che lo ha operato in noi per sua bontà: a Lui ne appartiene tutta la gloria. Si può dire che noi medesimi abbiamo peccato in Adamo perché abbiamo in certo qual modo consentito con lui al peccato: siamo stati coinvolti nella sua colpa. Adamo, infatti, era il nostro procuratore e teneva come nelle sue mani tutte le volontà dei suoi discendenti. Dio con grande bontà l’aveva scelto per essere il nostro rappresentante, come l’uomo più perfetto al quale potevamo con la massima ragione affidare l’incarico di trattare con Dio in nostra vece ed in nome nostro. Adamo trattava dunque con Dio a nome di tutto il genere umano; in tal modo la nostra volontà era unita alla sua e consenziente con la sua. – Oltre questa prima colpa che in questo senso può dirsi opera delle nostre mani, colpa che è la causa di tutto quel semenzaio di mali che pullulano in noi ad ogni giorno e ad ogni  ora, come pure di quella corruzione che portiamo in noi, che S. Paolo chiama peccato perché nasce dal peccato, ci porta al peccato e per la quale quindi siamo peccato; oltre quel primo peccato cui abbiamo consentito in Adamo, oltre questa perversità che ci porta continuamente al peccato, noi abbiamo pure commesso moltissime colpe che ci rendono orribilmente deformi. – Donde avviene che, in tutta verità, tutto in noi medesimi è peccato e non siamo che peccato: questo fondo di malizia, di cui siamo impastati, è oggetto di orrore per il Signore; tantoché da questa parte siamo figli di maledizione e non possiamo nascondere che siamo tali agli occhi del cielo e della terra: dobbiamo dunque compiacerci di essere, nella mente di tutti, riconosciuti come tali. – Orbene, l’umiltà è quella virtù che ci fa sentire questo piacere e questa soddisfazione di comparire quali siamo in realtà, di essere considerati agli occhi di tutti come gente da nulla e come peccatori maledetti, poiché non siamo null’altro che questo. Ché se in noi vi sono grazie, virtù e doni, tutto questo è cosa di Dio e non cosa nostra; quindi se vogliamo essere considerati e stimati per queste grazie e virtù, noi ingiustamente derubiamo Dio di ciò che è suo ed a Lui unicamente appartiene. Bisogna che l’umiltà ci faccia ben considerare ciò che siamo noi e ciò che appartiene a noi, onde lasciare a Dio e rinviare fedelmente a Lui tutto quanto è suo e viene da Lui. Il demonio concentra qui tutti i suoi sforzi e lavora in modo particolare a confondere queste due viste distinte, che ci rivelano con tanta chiarezza ciò che è nostro e ciò che è di Dio. Lavora a farci credere che ciò che vi è in noi è nostro, e ne possiamo usare per concepire stima di noi stessi e farci stimare dagli altri. Ma l’anima veramente umile e attenta a premunirsi contro le astuzie dello spirito maligno mette tutto il suo impegno a riconoscere sempre ciò che è in sé stessa e ciò che da sé medesima proviene; tutta la sua cura è di considerarsi come niente e peccato, e di essere soddisfatta che anche gli altri la considerino come tale; se le capita di ricevere onori e lodi, nel suo cuore ne ride e si burla di coloro che le dimostrano stima, considerandoli come ciechi e come gente che parla senza ragione: essa prova talora disgusto ed orrore di simili cose, a segno che preferirebbe mille affronti piuttosto che una lode, perché le umiliazioni sarebbero fondate su la verità, mentre le ledi sono fondate sulla menzogna: essa insomma si meraviglia con istupore nel vedersi stimata ben altra di quanto continuamente riconosce di essere in sé medesima. – Secondo S. Bernardo, il secondo grado dell’umiltà non consiste solamente nel riconoscere che noi non siamo niente, ma ancora che ciò che compare negli altri è pure un niente. Ogni essere, ogni bontà, ogni verità è in Dio; e ciò che se ne trova nella creatura viene per effusione da Dio, mentre il fondo della creatura è il nulla. È oltre che siamo niente come creature, abbiamo una tendenza naturale al niente: è proprio del niente tendere sempre verso il niente. Ecco ciò che è l’uomo, e il suo desiderio deve essere di comparire tale; diversamente è un ladro verso l’Essere sovrano, perché vorrebbe appropriarsi di ciò che appartiene a Dio e mettersi al posto di Dio.

***

Il terzo grado dell’umiltà è di voler che gli altri non soltanto ci riconoscano, ma pure ci trattino come vili, abietti e spregevoli: di ricevere quindi con gioia tutti i disprezzi e tutte le umiliazioni possibili; di non essere mai sazi di obbrobri, ma al contrario desiderarli sempre con insaziabilità; in una parola, è desiderare di essere trattati secondo il proprio merito. Ora, siccome l’anima veramente umile considera sé stessa come un misero niente e una peccatrice maledetta, né dagli altri vuole essere considerata diversamente, essa per la virtù dell’umiltà desidera pure di essere trattata come un niente, come creatura maledetta e miserabile peccatrice, due titoli meritevoli del disprezzo più profondo che si possa concepire. Si abbia pure di noi tutto il disprezzo immaginabile, non sarà nulla ancora in confronto di ciò che meritiamo; donde avviene che l’anima veramente umile non può sentirsi, disprezzata. Qualunque cosa si dica, o si faccia contro di essa, non ne arrossisce; tanto meno se ne offende, perché ogni disprezzo è un nulla in con confronto di ciò che essa sente di meritare. Il niente non non ha nessun pregio, non ha nulla che possa essere oggetto dei nostri pensieri e delle nostre affezioni, quindi non merita neppure il disprezzo. Perché chi dice niente, dice assenza di ogni essere e di ogni perfezione, mentre soltanto l’essere e la perfezione meritano stima e compiacenza. Inoltre, qual disprezzo non è dovuto al peccato? Esso non ha nulla che sia gradevole e sopportabile, ma al contrario, è l’avversione da Dio che è l’unico vero bene, e quindi il peccato è la privazione di ogni bene. – È certo che per un’anima veramente umile un’ingiuria è un onore: essendo essa un niente, non merita né di essere considerata né che si pensi ad essa; non è degna neppure che uomo al mondo se ne occupi sia pur per disprezzarla. Chi mai si rivolgerebbe al niente, anche per schernirlo? Non si ingiuria un fantasma; non ne vale la pena, poiché è niente. Colui che dunque che sa di non essere da sé medesimo che un niente e quindi molto meno di un fantasma, si ritiene molto onorato che si pensi a lui anche per ingiuriarlo. Così, se viene dimenticato e disprezzato,  non se ne meraviglia, e crede non si possa fare diversamente: lungi dall’essere sorpreso che lo si ingiuri, si stupirebbe se venisse trattato diversamente, Se anche nel suo interno, da Dio viene trattata con diprezzo ed abbandono l’anima sinceramente umile non ne resterà meravigliata perché sa di non meritare altro. È questo il segno al quale si può riconoscere la vera umiltà; quando l’anima trovasi nelle aridità e si sente interiormente come abbandonata e respinta da Dio. se è veramente umile si mette dalla parte di Dio e ne approva il modo di fare contro se stessa, si abbassa e si annienta nella preghiera, condannando sé medesima e riconoscendo di non meritare un trattamento migliore. Dobbiamo riconoscere che Dio con tutta ragione respinge le opere nostre e le nostre persone; e quando sentiamo che ci tratta in questo modo, se ne restiamo afflitti, è segno che non siamo umili, è segno che non siamo ben convinti della nostra incapacità per qualsiasi bene. – Il nostro niente rivestito di un essere corrotto dal peccato, da se stesso in quanto tale, non può far altro che il peccato, non può che fallire in tutte le opere sue. È questo un gran motivo di confusione, che deve farci riconoscere che Dio, il quale è l’equità, la rettitudine medesima e la vera giustizia, ha pur diritto di respingerci noi e tutto ciò che viene da noi, (Dicite; Servi inutiles sumus. Luc. XVII, 10) perché tutto quanto può esservi nelle opere nostre di santo e a Lui gradito, tutto proviene dal Figlio suo, nel quale Egli per l’operazione dello Spirito Santo, prende tutte le sue compiacenze. Essere dunque così disprezzati e respinti anche da Dio, e inoltre maltrattati dai nostri superiori, dai nostri eguali e persino dai nostri inferiori, in una parola, da ogni creatura, ecco ciò che ci è dovuto e dobbiamo rallegrarcene come della cosa più giusta, della cosa migliore e più vantaggiosa per noi, più conforme al desiderio di Gesù Cristo, e che perciò dobbiamo preferire (Bonum mihi, quia humiliasti me. Ps. CXVIII, 71).

***

Dobbiamo dunque amare lo stare al basso da qualunque parte venga la bassezza, dovunque la troviamo, non soltanto in questo mondo ma pure per l’altro, non soltanto su la terra ma pure in Cielo. Dobbiamo compiacerci di stare nel posto più infimo, come raccomanda Nostro Signore, (Recumbe in novissimo loco. Luc., XIV, 10.) e amare l’ultimo posto in tal modo che lo desideriamo anche in Paradiso. Non già che dobbiamo desiderare di essere gli ultimi nell’amore di Dio, o i più negligenti nel progredire nella perfezione; né che dobbiamo dire come certe anime vili: « Purché mettiamo il piede in Paradiso, questo ci basta », né si curano di essere più sante; questo sarebbe metterci in pericolo di non essere mai santi e di stare anche fuori del Paradiso. Al contrario, bisogna sospirare di amare Dio quanto Egli lo desidera, con ardore e fedeltà, e tendere con tutte le nostre forze a quel grado di gloria e di felicità che Egli ci tiene preparato. Colui che commettesse la minima colpa per umiliarsi, farebbe una sciocchezza; così pure, colui che tralasciasse il minimo bene per essere piccolo in Paradiso, avrebbe grave torto. Intendo parlare soltanto di ciò che concerne la piccolezza in sé stessa, essa deve sempre essere così amabile per noi che l’apprezziamo dovunque la troviamo, né dobbiamo fare nessuna azione col proposito di essere grandi e di emergere dalla piccolezza. – La nostra superbia è più sottile che quando trova una porta chiusa, se ne apre qualcuna da un’altra parte; quando si è soffocato il desiderio della grandezza in questo mondo, la desidera nell’altro; quando si ha rinunciato alla grandezza delle cosegrossolane della terra, la superbia la cerca nelle cose dello Spirito e della grazia. Appena ci siamo liberati dalla brama di essere grandi e pregiati negli onori e nelle ricchezze del secolo, la superbia subito ci porta a ricercare di essere grandi e pregiati nella grazia e nelle cose dello spirito. Essa ricerca e desidera i doni superiori e le illuminazioni più eccellenti, le grazie appariscenti e i talenti straordinari, così la superbia sempre ricerca la grandezza. Se noi riusciamo a riconoscere, in questo desiderio dei pregi spirituali della grazia, un fine contrario all’umiltà e lo superiamo, allora la superbia ricerca un’altra eccellenza, vale a dire quella della gloria, e aspira ad un posto elevato in Paradiso. Ottima cosa per verità, quando non sì desideri per ispirito di superbia; ma troppo spesso avviene che noi amiamo la piccolezza su la terra, per segreto desiderio di superbia, sperando con questo mezzo di esser grandi in Paradiso. In tal caso, poiché l’umiltà su la terra è la semente dell’esaltazione in Cielo, noi facciamo ancora le nostre opere buone allo scopo di essere grandi, e ci consoliamo nelle nostre umiliazioni con una tale prospettiva; strano e stupendo spirito quello della superbia, che sempre e in tutto cerca la grandezza, o in un tempo o in un altro, o in un modo o in un altro. – L’anima veramente umile, invece, desidera di non essere niente, tanto ai propri occhi come nello Spirito degli altri; non si cura di comparire in nulla, ama di rimanere nascosta e sconosciuta, si compiace di essere considerata come un niente (Ama nesciri, et pro nihilo reputari. De Imit. Christi.). Gesù Cristo solo deve comparire, e noi restar nell’ombra; bisogna distruggere il nostro essere proprio e rivestirci di Gesù Cristo per non comparire che sotto di Lui e in Lui. Questo sentimento ci darà un desiderio ed una santa affezione di non Operar nulla da noi medesimi; ci renderà fedeli a rinunziare interiormente a noi stessi, studiandoci di mortificare in ogni occasione il nostro spirito proprio e la nostra volontà In tal modo dobbiamo arrivare sino a vivere in questo spirito di morte interiore. dimodoché non operiamo più secondo la nostra volontà propria, e non facciamo altro che cooperare semplicemente allo Spirito Santo, che animerà il nostro interiore e vivificherà le nostre facoltà. Allora vivremo in uno spirito di vero annientamento di noi medesimi: Dio solo vivrà e regnerà in noi; è questo il motivo per cui Dio ama così tanto le anime umili e in esse stabilisce così assolutamente il suo trono e il suo dominio. Dio, infatti, nell’anima annientata trova piena libertà di fare quanto gli piace e si prende una sovrana compiacenza nel sacrificio di tutto quell’essere creato, il quale, nell’umiltà immola se stesso ed è divinamente consumato.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 5

LA VITA INTERIORE (11)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (11)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI,

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna, Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione Riveduta.

LUCI DI STELLE

LO SPIRITO DI FEDE

NECESSITÀ.

Quante volte. abbiamo letto, oppure, udito, ch’è necessario, oggi più che mai, vivere di fede; di una fede luminosa, di fede intelligente, di fede attiva: non di fede ordinaria. Il primo passo per la via della fede è, precisamente, lo spirito di fede. Lo spirito di fede ci conduce direttamente a Dio, e ci persuade della necessità di dover vivere la vita di unione con Lui. Gesù, disse propriamente che ci è dato conoscere Dio per mezzo di questo spirito di fede: Nessuno conosce il Padre fuori del Figlio e fuori di colui, cui il Figlio lo avrà voluto rivelare (MATT., XI, 27). « C’è bisogno di questa grande fede per penetrare nel Cuore di Gesù, nell’intimità  di questo Cuore, per trovare non un Gesù rimpicciolito, ridotto, permettetemi la parola — un Gesù caricatura, — ma per trovarlo nella pienezza dell’amor suo, nella magnificenza del suo amore. Bisogna penetrare più addentro della lancia di Longino, per comprendere questa luce misconosciuta. Che il mondo accetti o no: Dio è il maestro e il padrone! Il nostro dovere è di seguirlo. Servire Deo regnare est… Ma io dico che servire il Signore è più che regnare. Che vuol dire regnare? Governare delle creature, vuol dire fare opera che ci lasci con tutte le nostre miserie. Ma servire il Signore è diventare padroni del suo Cuore, è possederlo con la fede. Si riceve questa grazia nella misura in cui si progredisce nello spirito di fede, nel desiderio di veder Dio, di non vedere che Lui solo! Chi è penetrato da questa luce non ha bisogno di niente. Viene un momento in cui riposa in Dio, vedendolo, per così dire; e allora il resto, sofferenze, immolazioni, persecuzioni, non sono che minuzie. – Ma dove e come Gesù Cristo c’insegna a conoscere Dio? Nella vita intima con Lui, nella preghiera: ecco perché anime ignoranti secondo il mondo, sanno di questo soggetto più dei sapienti» (P. MATTEO CRAWLEY, Incontro al Re d’Amore). La citazione è un po’ lunga. Ma l’abbiamo fatta di proposito, e per la competenza del pio autore e per la cristallina trasparenza delle affermazioni. Vivere di spirito di fede, adunque, è vivere vedendo Dio in tutto, e in ciò ch’è gradito come in ciò che ripugna. Vedere Dio in tutto è vivere guidati da Dio, illuminati dalla sua luce, confortati dal suo amore, attratti dalla sua potenza, sostenuti e ritemprati dalle sue sofferenze sopportate per noi, desiderosi soltanto di vedere, di conoscere, e perciò di amare, e perciò d’essere sempre uniti con Gesù dolce, con Gesù amore.

CHE COSA VUOL DIRE.

Possiamo, perciò, così dedurre: Avere spirito di fede vuol dire:

1) Meditare sovente le verità della fede, e ritornare spesso, e con piacere, alla meditazione di tali verità.

2) Giudicare tutti gli avvenimenti in conformità delle viste della fede; e, invece di fermarsi sulle cause seconde, vedere in esse la causa prima ch’è Dio, il quale le dirige tutte per la sua gloria, per la nostra salute facendole servire a castigare gli uni o a purificare e santificare gli altri.

3) Non desiderare se non le cose che la fede c’insegna essere buone, cioè essere tali che possano condurci al nostro fine. Quid hoc ad æternitatem? che giova questo per l’eternità?

4) Non temere se non quello che la fede ci fa riguardare come pericoloso, vale a dire tale da poterci facilmente allontanare dal nostro ultimo fine; p. es. tutto quello che ci espone a qualche tentazione.

5) Parlare sempre conforme al linguaggio di Gesù Cristo nel santo Vangelo: biasimando ciò ch’Egli biasima e approvando ciò ch’Egli approva.

6) Risolversi abitualmente per quel partito che la fede ci fa riguardare: come il migliore, cioè come quello che ci espone meno alla tentazione e occasione di peccare.

7) Operare e agire in tutto, in conformità agli insegnamenti della fede, per motivi che essa ci fornisce, e santificare così le azioni che sarebbero in se stesse indifferenti e materiali come il cibo, il riposo, la ricreazione; offrendole a Dio procurando di nobilitarle e di animarle con qualche pia considerazione e soprannaturalizzando ciò che sarebbe puramente naturale… – Diamo il bando alla superficialità, alla leggerezza della vita. Non per noi, non per noi le vane apparenze! Solo Gesù sempre, ch’è l’unica realtà. Sentirla, dobbiamo, questa unica realtà. Lo sappiamo: vi sono difficoltà molte. E con questo? Marcescit sine adversario virtus… Latino di facile intelligenza che induce alla saggia e matura conclusione dell’amore alle sofferenze, della rassegnazione gioiosa nei dolori inevitabili di questa vita … alla serietà e fortezza nel Nome di Cristo Gesù.

L’INSEGNAMENTO DI S. FRANCESCO DI SALES.

San Francesco di Sales esortando le anime a vivere di spirito di fede, enumera tre specie di verità di fede. Vi sono, dice il Santo, alcune verità molto gradite al nostro spirito, non solo perché Dio ce le ha rivelate e la santa Chiesa ce le propone a credere, ma anche perché incontrano i nostri gusti, perché le possiamo ben penetrare, intendere facilmente e perché sono conformi alle nostre inclinazioni. Tali, sono in genere, tutte le vertà consolanti e, in modo tutto particolare, la certezza della misericordia infinita di Dio, e l’ambitissimo i premio eterno del Paradiso. – Non tutte le verità di fede, però, sono consolanti. Anzi: alcune sono terrificanti. Come vi sia, per esempio, un inferno eterno, per il castigo dei peccatori ostinati, è una verità amara, dolorosa, terribile, alla quale non vorremmo credere, e vi crediamo niente volentieri, ma solo in forza della parola di Dio. – Lo Spirito di fede ci deve persuadere a credere sempre le verità rivelate indipendentemente dai nostri sentimenti di gusto o disgusto … Dobbiamo credere le verità amabili e quelle terribili per l’autorità della parola di Dio: quest’è la vera fede, lo spirito di fede. – In secondo luogo, S. Francesco di Sales osserva che vi sono verità di fede facilmente apprezzabili e comprensibili; sia dalla nostra immaginazione che dalla nostra intelligenza; e ve ne sono delle altre interamente opposte e in nessun modo afferrabili. Tra le prime, per esempio, noi intendiamo bene come Gesù sia nato nel presepio di Betlemme, come abbia dovuto fuggire in Egitto, come sia stato crocefisso; tra le seconde noi non intendiamo la verità della SS. Trinità, l’eternità, la presenza reale di Gesù nel SS. Sacramento dell’Eucaristia. Queste ultime verità sono certamente reali, « ma così fatte che la nostra immaginazione non le può concepire, perché noi non possiamo in nessun modo immaginare come tali verità esistano; non di meno il nostro intelletto le crede fermamente e semplicemente, sulla sola sicurità che gli dà la parola di Dio ». Questo è lo spirito di fede che i santi hanno avuto, praticato, insegnato, anche tra le sterilità spirituali, le aridità e le tenebre dell’anima. – Osserva infine S. Francesco di Sales che si può avere e conservare lo spirito di fede, vivendo la verità e nella verità non già la menzogna e nella menzogna. Si vive la verità e nella verità vivendo la grazia, e nella grazia divina; e seguendone gli impulsi. Viceversa, vive nella menzogna chi vive nella natura secondo le operazioni della natura. La nostra immaginazione; dice precisamente il santo, i nostri sensi,  il nostro sentimento, il nostro gusto; le nostre consolazioni, i nostri discorsi possono essere ingannati ed ingannatori; vivere secondo queste cose, gli è vivere di menzogne; o per lo meno in pericolo continuò di menzogna, ma vivere nella verità è vivere nello spirito di fede. – I modelli più perfetti e più ricchi di spirito di fede che le nostre anime possono ricopiare sono, senza dubbio, Maria Santissima e San Giuseppe. Tutto quello che essi operarono nella loro vita è luminosissimo trionfo della loro fede, del loro vedere Dio e la sua santa volontà in tutto. – Qui ‘facciamo punto. Prima, però ancora due semplici osservazioni. Perché la fede è poca, debole, deficiente, anche in anime che pretendono di vivere proprio cristranamente? Perché non pregano o non pregano bene! Nutrimento della fede è la preghiera umile, fiduciosa, perseverante. – Ancora. In molti la fede è poca, debole, fiacca; o nulla per la grande ignoranza. « Che cosa credere » domanda Lacordaire, quando non si sa? Che cosa amare, quando non si è visto? Le letture di ogni giorno alimentano lo spirito, lo disgustano dalle cose vane, gli formano una linfa interiore che scorrerà per lo spirito e lo animerà tutto ».

(Chi fa le sue azioni materialmente senza riflessione, egli opera a guisa di una macchina; chi fa le sue azioni per piacere a se stesso e contentare i suoi sensi, egli opera a guisa dei bruti; chi fa le sue azioni solo per motivi umani, egli opera a guisa dei filosofi pagani; ma chi fa le sue azioni con spirito di fede, per piacere a Dio, egli opera da Cristiano, da religioso. Solo chi opera in tal modo piace a Dio, e si fa meriti pel Cielo. Chi fa un’opera di carità, un’elemosina solo per compassione naturale; chi fa un piacere al prossimo solo per convenienza o per esserne contraccambiato; chi tiene un contegno modesto solo per attirarsi la stima altrui, o si raffrena in qualche circostanza. solo per non dar ad altri cattiva opinione di sé, tutto perde, perché tutto ciò non è che vanità, non è che un perdere il tempo e la fatica, per trovarsi in punto di morte con le mani vuote di meriti. Chi invece, vive con spirito di fede e tutto opera con fede, tutto guadagna: la sua Vita è soprannaturale, e tutte le sue azioni sono meritorie per il Paradiso. Beato il Cristiano, il religioso che vive ed opera con spirito di fede; infelice invece chi vive ed opera senza di esso. (Morino, Tesoro evangelico, IV, 130).

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 3

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (3)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935 Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO IV.

Della pratica delle virtù

Dobbiamo contemplare Gesù Cristo non soltanto in modo generale, ma nelle sue virtù particolari secondo le occasioni. – Via che segue il Signore per far progredire l’anima nella virtù. Modo di meditare sulle virtù  contemplando Gesù Cristo. Gesù davanti agli occhi. Gesù nel cuore, Gesù nelle mani. Applicazione pratica di questo metodo alla virtù di penitenza.

Per riuscire nella pratica delle virtù di Nostro Signore, possiamo contentarci talora di applicarci, in genere soltanto a senza particolari distinzioni, alle Spirito di Gesù Cristo che è il principio di ogni di Gesù Cristo che il principio di ogni virtù, e così in Lui attingerle tutte. Ma Gesù Cristo ci fa una grazia maggiore quando ci dà delle sue virtù una vista distinta e ce ne discorre, nei particolari, la natura e le inclinazioni, facendoci entrare in tal modo nello spirito di quelle che bisogna praticare nelle varie occasioni che si presentano. Benché una tal vista sembri meno semplice, tuttavia, essendo più estesa, dà maggior intelligenza delle virtù, le quali sono in Lui in eminenza e in semplicità, e ci porge una grazia più generale per acquistarle; è questo un grande aiuto per la perfezione e per la somiglianza con Gesù Cristo.

***

Per far progredire l’anima cristiana Dio segue questa via: dapprima le dà la vista delle colpe contrarie alle virtù, e dell’incapacità di evitarle senza l’aiuto di Gesù Cristo. – In secondo luogo, le mette davanti agli occhi l’esempio delle anime perfette che si dànno allo studio e alla pratica della purezza delle virtù, come esemplari che suppliscano alla presenza visibile di Gesù Cristo; e in pari tempo le dà il desiderio di imitarle. – Inoltre, quel buon Maestro delle anime fa loro la grazia di frenare col suo Spirito la resistenza della carne, ed anzi, ad onta di tale resistenza, le porta all’esercizio interiore delle virtù. Infine, Egli dà all’anima la vista della purezza delle virtù e della maniera santa e perfetta con cui Nostro Signor le praticava, e la stabilisce nelle disposizioni proprie di ciascuna virtù, per mezzo di Gesù Cristo che ne è l’unico maestro; e l’anima, stabilita così in tali disposizioni, ne è investita così naturalmente da non aver più né gioia né libertà se non in tale divino esercizio. – Orbene, la migliore disposizione con la quale possiamo essere preparati a lasciare che lo Spirito prenda possesso di noi e a stabilirci per mezzo suo nelle virtù, è l’annientamento interiore di noi medesimi (Questa espressione annientamento indica « uno stato in cui l’anima con la pratica dell’amore di Dio e col distacco da ogni cosa, non segue più le inclinazioni della natura, ma le ispirazioni e le mozioni della grazia. La vita naturale è come annientata per lasciare il posto alla vita soprannaturale ». – Icard. Doctrine de M. Olier. Pag. 40-41). In tal modo, non appena avremo lasciato che quel divino Spirito totalmente ci annienti, noi ci vedremo da Lui confermati nella disposizione di tutte le virtù, inclinati e pronti a praticarle tutte, in ogni occasione, e vivremo costantemente in tale disposizione. – Prego Gesù Cristo, il nostro Amore, che si degni darci la grazia, se tale è la gloria del Padre, di conservarci sempre in questo sentimento di annientamento di noi medesimi, onde riconosciamo che siamo piccoli, più piccoli di tutti, poveri piccoli schiavi e servi di tutti, benché oltremodo indegni, ed inferiori a tutti molto più ancora di quanto sapremmo dire e pensare. – Orbene: per mantenerci in questo spirito di annientamento di noi medesimi, e così attirare in noi lo Spirito Santo che vi stabilisca la virtù, il mezzo più spedito è di presentarci spesso a Nostro Signore come poveri mendicanti, meschini, annientati e spogli di tutto, ma animati dal fervente desiderio della nostra perfezione. E siccome ciò non si può far meglio che con la meditazione, crediamo bene di dar qui un metodo che ci renderà molto facile questo esercizio.

Metodo di meditare su le virtù contemplando Gesù Cristo.

Il metodo che Nostro Signore insegna ai suoi discepoli, non si applica che in mancanza delle cure particolarissime con le quali lo Spirito dirige nella preghiera i suoi figli (Questa frase, noi crediamo, vada intesa in questo modo: qualsiasi metodo ispirato dall’insegnamento di Nostro Signore, serve soltanto quando lo Spirito Santo non conduce Egli stesso l’anima nella via della preghiera, con grazie particolari.). Quando questi da Lui sono lasciati nell’abbandono e nell’aridità, né sanno qual via tenere, si trovano molto impacciati ed hanno bisogno della direzione di qualche santo modello. – Ne proponiamo qui uno molto facile, che è conforme al disegno di Dio Padre, già espresso nella Legge antica. Esso consiste nell’aver Nostro Signore davanti agli occhi, nel cuore, e nelle mani. In tal modo gli Ebrei dovevano portar le leggi: « Queste parole saranno nel tuo cuore; le legherai come segnale alla tua mano e saranno come frontali per i tuoi occhi ». (Deuter. VI. VIII.). – Il Cristianesimo consiste in questi tre punti, nei quali è pure compreso tutto questo metodo di meditazione: guardare a Gesù, unirci a Gesù, operare in Gesù. Il primo porta alla riverenza e alla religione; il secondo all’unione o unità con Lui; il terzo all’azione, non più isolata, ma congiunta con la virtù di Gesù Cristo che abbiamo attirato in noi con la preghiera (In queste poche linee abbiamo, si può dire, il riassunto di tutta la dottrina spirituale di G. Olier e della scuola del Cardinale De Berulle. Gesù davanti agli occhi, con la meditazione abituale dei suoi misteri; Gesù nel cuore con l’amore che a Lui ci unisce e ci penetra dei suoi sentimenti: Gesù nelle mani, per compiere le nostre azioni sotto la direzione del suo Spirito, e rendere la nostra vita perfettamente conforme alla sua. Non è altro che la dottrina di San Paolo. Cosa ci insegna infatti l’Apostolo se non che Dio vuole imprimere l’immagine del Figlio suo in quelli che ha predestinati alla sua gloria? Rom. VIII, 24). Il primo chiamasi adorazione; il secondo comunione, il terzo cooperazione. (Conoscere, amare, fare). – Affinché possiamo facilmente applicare a tutte le virtù questo esercizio, ne daremo qui un modello per la virtù di penitenza.

PRIMO PUNTO.

Mettiamoci Nostro Signore davanti agli occhi. Consideriamo col massimo rispetto Nostro Signore in quanto è penitente per i nostri peccati. Onoriamo in Lui il santo Spirito di penitenza che lo anima in tutto il corso della sua vita, e che in seguito ha riempito il cuore di tutti i penitenti nella Chiesa. Animiamoci di riverenza e di rispetto per un mistero sì divino e sì santo, e dopo che il nostro cuore si sarà effuso in amore, in lode e in altri sentimenti, ci fermeremo alcun tempo in silenzio davanti a Gesù, onde penetrarci, sino al fondo dell’anima nostra. Di tali sentimenti e disposizioni.

SECONDO PUNTO.

Mettiamoci Nostro Signore nel cuore. Dopo aver così adorato Gesù Cristo e ilsuo santo Spirito di penitenza, passeremoun po’ di tempo a sospirare verso questo divino Spirito. Pregheremo questi Spiritoal quale soltanto spetta di darci un cuor nuovo e formarci un’anima penitente, chesi degni di scendere in noi. Lo supplicheremo in tutti i modi che ci verranno suggeriti dall’amore, che si degni di venirenell’anima nostra per renderci conformi a Gesù penitente, affinché possiamo continuarein noi quella penitenza che Egli ha cominciatain sé medesimo, e accettare quella parte e quella misura di pena dovuta adun corpo, come il nostro, pieno di peccati.Ci offriremo a Lui con la donazionedi noi stessi onde prenda possesso dinoi e siamo animati dalla sua virtù; poistaremo ancora un po’ di tempo in silenziocon Lui, per lasciarci penetrare interiormente dalla sua unzione divina, affinché ciporti, secondo le occasioni, a quell’esercizio di mortificazione che gli piacerà.

TERZO PUNTO.

Mettiamoci Nostro Signore nelle mani. Il terzo punto della meditazione è di portareNostro Signore nelle mani, ossia divolere che la sua divina volontà si compiain noi; siamo i suoi membri, dobbiamodunque stare sottoposti al nostro Capo enon aver altra attività che quella che ci viene da Gesù Cristo che è la nostra vita e ilnostro tutto. Gesù Cristo deve riempire l’animanostra del suo Spirito, della sua virtù, dellasua forza. e Perciò operare, in noi e per mezzo di noi, tutto quanto desidera.Gesù Cristo è Pastore, nei Pastori; Sacerdote, nei Sacerdoti: Religioso, nei Religiosi; Penitente nel penitenti; e, permezzo di essi, deve Egli medesimo compierele opere della loro vocazione. Deve dunqueoperare in noi effetti di penitenza:e noi dobbiamo sempre, in questo Spirito,cooperare fedelmente a tutto quanto Eglivuole fare in noi ed operare per mezzo nostro.

Così, in questo terzo esercizio, ci daremo a quello Spirito che nel secondo punto abbiamo attirato in noi, onde compiere in Lui, nel corso della giornata, le opere di penitenza; col desiderio di vivere in Lui senza posa, poiché a questo fine l’abbiamo chiamato nella meditazione. E non solamente ci daremo a questo divino Spirito per fare in Lui le opere di penitenza, perché fuori dell’unione con Lui non può esservi penitenza vera, ma ci abbandoneremo interamente a Lui, perché faccia in noi tutto quanto vorrà per dare soddisfazione a Dio.

***

Per maggiore intelligenza di questo metodo e per applicarlo più facilmente anche alle altre virtù, delle quali si deve dire quanto della penitenza, osserviamo che non si può essere penitenti se non in Nostro Signore. Gesù Cristo, infatti, è l’unico Penitente di tutta la Chiesa, ma diffuso nell’anima e nel cuore di tutti i penitenti, i quali devono gemere e soffrire in questo mondo per dare soddisfazione al Padre. – In tal modo, bisogna far passare nel nostro cuore lo Spirito di Gesù Cristo penitente, onde essere penitenti ancor noi nella sua persona e per la sua  virtù. Bisogna domandargli lo Spirito che ci metta in una disposizione interiore di penitenza verso Dio, come di umiliazione, contrizione efficace, condanna del peccato, orrore del mondo e delle sue massime; che ci dia une zelo perfetto di soddisfare in noi e sopra di noi medesimi per la pena dovuta al peccato; dimodoché non ci contentiamo di ammirare la penitenza negli altri, o di sentirla nel nostro cuore, ma inoltre desideriamo e domandiamo la forza di praticarla anche nel nostro corpo, poiché tutto in noi avendo peccato, tutto deve soddisfare a Dio. – Bisogna dunque domandare a Dio la sua virtù per compiere quella soddisfazione che Egli desidera da noi con un perfetto abbandono riguardo a tutto quanto si compiacerà d’imporci, sia direttamente, sia per mezzo dei suoi ministri. Bisogna investirci della penitenza interiore di Gesù Cristo, la quale è immensa in Lui e nei suoi membri; col proposito di sopportare, per quanto piacerà a Dio, tutto quanto Gesù ha sopportato nella sua carne e tutto quanto i suoi membri hanno sopportato, essi pure, nella loro carne, non volendo altri limiti se non quelli che c’imporrà la sua sapienza, e che Egli ci indicherà per mezzo dei superiori che tengono il suo posto. – Bisogna così immergerci nello Spirito di contrizione di Gesù Cristo, inabissarci in questo oceano di penitenza; e così renderci presenti in ispirito a tutto quanto Egli fece in sé stesso e a quanto fanno tutti i santi penitenti nella Chiesa; questi non fanno altro che esprimere ciò che Egli tiene rinchiuso nel suo interiore, e che Egli avrebbe voluto subire nel proprio corpo, se fosse stato capace di sopportare nell’infermità della sua carne tutto ciò che essi hanno sofferto. – Nostro Signore, dilatando il corpo della sua Chiesa, ha dilatato se stesso; Egli stesso porta la pena che viene sofferta dai suoi membri, poiché Egli mediante il suo Spirito, sì è inserito ed insinuato in essi. Egli anima la loro anima  la sua presenza e la sua virtù, dà forza al loro spirito ed al loro cuore, e così in essi Egli è penitente più di quanto lo siano essi medesimi: lo Spirito di Gesù Cristo penitente nelle loro anime, è quello che li rende penitenti. – Ed è questo il secondo effetto della meditazione; è questa pure la seconda intenzione di Dio e di Gesù Cristo riguardo alla preghiera. La prima è di ottenere che sia santificato il nome di Dio: sanctificetur nomen tuum; perciò il primo atto è di onorare, riverire ed adorare lo spirito di Dio in Gesù. La seconda è di procurare l’avvento del suo regno in noi, adveniat regnum tuum; ora il regno di Dio viene innoi quando, nella preghiera, attiriamo sopradi noi il suo Spirito, il quale con lasua virtù ci assoggetta interamente a Lui.La terza e di infonderci la volontà chei divini voleri si compiono in noi: Fiat voluntas tua; e ciò si verifica con la nostrafedele cooperazione alle mozioni di queldivino Spirito.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 2

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (2)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935 Nihil obstat quominus imprimetur. – Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 – F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO II

Della prima conformità che dobbiamo avere con Gesù Cristo

Dobbiamo avere conformità e somiglianza con Gesù Cristo, — somiglianza interiore eoi suoi misteri esterni. — Vari Santi furono destinati ad esprimerli anche esternamente. — Lo spirito dei misteri di Gesù Cristo ci viene dato nel Battesimo. — Il Cristiano deve soprattutto imitare la vita di Gesù risorto, col distacco da ogni cosa creata, con la vita nascosta in Dio.

Tutti abbiamo l’obbligo di essere conformi a Gesù Cristo: S. Paolo ce lo insegna chiaramente, dicendo che Dio, ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo (Rom. VIII, 28). – Orbene, questa conformità consiste nella somiglianza. Dobbiamo rassomigliare a Gesù Cristo, dapprima nei suoi misteri esterni, che furono come sacramenti e segni esterni dei misteri interiori che Egli veniva ad operare nelle anime. Dimodoché come Nostro Signore è stato crocifisso esternamente, dobbiamo pure essere crocifissi interiormente. Come Egli è morto esternamente, dobbiamo morire interiormente. Come venne sepolto esternamente. Dobbiamo esserlo interiormente. Una tal vita interiore che viene espressa dai misteri esterni, tutti la dobbiamo possedere; anche le grazie che ci furono acquistate per questi misteri, tutte le dobbiamo avere, poiché Gesù Cristo tutto ha meritato per tutti. Perciò S. Paolo, parlando a tutti i Cristiani diceva: « Voi siete morti » (Mortui estis. Colos. III 3.). Per altro, Dio ha particolarmente destinate certe anime per esprimere in sé medesime, anche esternamente, questi santi misteri. Così ha fatto in parecchi santi religiosi da Lui mandati sulla terra onde rinnovare la vita di Gesù Cristo; essi furono riempiti dello spirito di Gesù Cristo; e della grazia dei suoi misteri. con tale abbondanza da esprimere anche esternamente il suo stato esterno medesimo. Tale fu S. Francesco, il quale ricevette un’effusione dello spirito di Nostro Signore Gesù Cristo crocifisso, così piena che si rifletteva persino su la carne di Lui; e quel santo patriarca con le piaghe del suo corpo esprimeva all’esterno il mistero del crocifisso. – Egli ha pure lasciato il compito di continuare questa espressione del crocifisso ai suoi figli, i quali esercitano sulla loro carne una continua mortificazione. Tale fu S. Benedetto, che esprimeva la sepoltura di Gesù Cristo col tenersi nascosto in una caverna e lasciare i suoi figli come nelle tombe. Tali furono ancora nella santa Chiesa altri Santi che portarono altri esempi esterni dei misteri; lasciando così grande esempio della loro divozione con l’esprimere sensibilmente i misteri agli occhi dei Cristiani, insegnano a tutti che hanno sempre l’obbligo di possedere le grazie e lo spirito dei misteri, benché non tutti siano obbligati ad averne la conformità esterna.

***

Lo spirito dei santi misteri ci viene dato nel Battesimo e opera in noi grazie e sentimenti che hanno relazione e conformità con i sentimenti di Gesù Cristo. Il nostro compito deve essere quello di lasciare che questo spirito, in virtù delle grazie e dei suoi lumi, operi in noi e negli altri in conformità con quei santi misteri. Abbiamo in noi, per esempio, lo spirito di Gesù Cristo crocifisso; esso dà lume e grazie per crocifiggere noi stessi interiormente, per mortificarci nelle occasioni in cui la nostra carne domanda i propri piaceri e le proprie soddisfazioni; in tal modo ci renderemo interiormente conformi a Gesù Cristo crocifisso. – Così pure quel medesimo spirito ci dà grazia per renderci partecipi di Gesù Cristo risorto e a Lui somiglianti, con una vita interiore nascosta in Dio, a somiglianza della sua vita esterna dopo la risurrezione. Nostro Signore risorto, in primo luogo, era esternamente separato dal consorzio degli uomini; ritirato nel Padre suo, in Lui pregava e viveva, senza esporsi agli sguardi degli uomini, senza conversare con essi: parimenti, bisogna che l’anima nostra sia interiormente ritirata dalle relazioni e dalle conversazioni con le creature; bisogna che essa sia distaccata da ogni vano godimento delle cose della terra, non se ne preoccupi nel suo cuore, non abbia più per esse né  pensiero né affezione; separandosene così in ispirito e tutta occupata in Dio, essa abbandonerà le affezioni con le quali si effondeva nel mondo e nelle creature visibili, incomincerà ad unirsi a Dio, per vivere con Lui nella solitudine del ritiro interiore, e con questo mezzo si renderà partecipe dello stato medesimo della risurrezione. In secondo luogo, Nostro Signore, per la sua santa risurrezione era nascosto in Dio, dimodoché la sua vita, la vita della sua carne, la sua vita umana e di infermità. era tutta assorta in Dio; Egli era consumato in Dio, come la legna nel fuoco, quindi nulla più appariva in Lui fuorché Dio, in cui Egli era immerso, seppellito ed interiormente inabissato. – Orbene, una tal vita di risurrezione, una tal vita di Dio in Dio, è appunto la vita nascosta che si addice ai Cristianì. A questa vita tutti devono partecipare ed aspirare, per causa dell’unione intima che fin da questa vita devono avere con Dio, il quale, come un fuoco divoratore ed una fornace ardentissima, investe l’anima, assorbe, l’inabissa. e così la nasconde in sé medesimo. È questa la partecipazione al mistero della risurrezione; è questa la vita di risurrezione che il Battesimo dà a tutti i Cristiani secondo la parola di S. Paolo: « Come Cristo è risorto da morte per la vita del Padre, così noi viamo una vita nuova ». (Rom. VI, 4). – Gesù Cristo risuscitando passava nella vita di Dio, dimodoché non viveva più della vita della carne; l’anima di Lui non animava più il corpo nel modo spregevole di prima, ossia per servire alle necessità e all’uso della vita terrestre; ma quell’anima era tutta inabissata, perduta ed assorta in Dio; tutto quanto vi era nella sua carne di terrestre e di vile, tutto era interamente consumato dalla gloria. In tal modo, la vita cristiana importa interiormente un passaggio di tutta l’anima nostra in Dio, dimodoché essa non pensi più che ad amarlo, a vederlo, a ricordarsi di Lui e servirlo con tutte le sue forze, non usando più della propria vita e non esercitando la propria attività se non per Dio e per servirlo. – Così, l’anima, in questo stato di vita risorta, di vita divina, non si sente più attaccata alla carne per servirla e seguirne le inclinazioni ed i movimenti; ma sospira talmente verso Dio che non vi è più in essa nessuna parte che ami la propria carne. L’anima allora è meno che mai occupata nel dare la vita al corpo, e questo rimane mezzo morto e senza vigore, perché l’anima è trasformata in Dio e non vive più che in Dio. Essa riceve in cambio le qualità di Dio e dell’essere divino. Ora Dio è ben più adatto a consumarci ed animarci, perché è tutto fuoco in se medesimo; Egli è l’Essere per il quale tutte le cose sono fatte e che non è fatto per nessuna: ne consegue che l’anima, in tale stato, è ben più dedicata a Lui che non al corpo, e così essa si perde in Lui più che non sia capace di attirare Dio nel corpo onde animarlo e dargli la sua forma. L’anima essendo dunque in Dio, essendo come perduta in Dio, inabissata nell’amore e unita a Lui, diventa partecipe della vita di Dio medesimo, e così risorge in ispirito. Essa partecipa interiormente alla risurrezione del Figlio di Dio. il quale dopo la risurrezione era esternamente nascosto in Dio, in virtù di quella vita divina che lo assorbiva e ne consumava tutto l’essere inferiore insieme con la primitiva vita della carne. È questa la prima conformità cui ci chiama lo spirito di Gesù Cristo, quando ci dice di seguirlo per essere simili a Lui. (Et sequatur me. Matth. XVI, 241).

CAPITOLO III.

Della seconda conformità che dobbiamo avere con Gesù Cristo

Conformità e somiglianza coi sentimenti intimi di Gesù Cristo nei suoi misteri esterni, — essenza della vita cristiana. — Lo spirito di Gesù Cristo diffuso nei fedeli ne forma un medesimo corpo. — Gesù Cristo vuole continuare nei Cristiani la sua santità intima. — Ciò si compie gradatamente. Prima la morte, poi la gloria. Spirito di Dio e Spirito di Gesù Cristo. — Bisogna partecipare allo stato di morte di Gesù, per aver parte al suo stato di gloria.

La seconda conformità con Gesù Cristo è quella che debbiamo avere coi suoi sentimenti interiori nei suoi misteri, dimodoché le anime nostre nei loro sentimenti e nelle loro disposizioni interiori, si rendano conformi non solamente all’esterno dei misteri come abbiamo visto, ma ancora alle disposizioni e ai sentimenti interiori che Gesù aveva in quei medesimi misteri. La vita cristiana consiste propriamente in questo, che il Cristiano, per l’operazione dello, spirito, viva interiormente nella maniera in cui viveva Gesù Cristo. Senza di questo non v’è quell’unità né quella perfetta conformità cui tuttavia ci chiama Nostro Signore il quale vuole che viviamo con Lui, per l’azione dello Spirito, di una vita così veramente unita a Lui come il Padre e il Figliuolo vivono fra di loro; ora il Padre e il Figlio non hanno che una vita, un sentimento, un desiderio, un amore, una luce, perché sono un solo e medesimo Dio vivente in due persone.

***

A questo fine, lo spirito di Dio è diffuso nei Cristiani come nelle membra di un medesimo corpo, per animarli ad una medesima vita e compiere in essi le medesime operazioni che esercitava in Gesù Cristo, dilatando così e diffondendo nelle anime dei fedeli le intenzioni, le disposizioni, gli affetti, i pensieri e desiderii di Gesù Cristo. – Una goccia d’olio su di una pezzuola Bianca, prima non occupa che un piccolo cantuccio della stoffa. ma in poco tempo si dilata. si estende e la invade tutta: così lo spirito di Dio che viveva nel cuore di Gesù Cristo, a misura che i fedeli sono a Lui uniti, si dilata in tutti e li rende tutti partecipi dei medesimi gusti come dei medesimi sensi, infine degli stessi sentimenti. In tutti v’è il medesimo spirito che in tutti opera gli stessi effetti, dimodoché essendo così riformati, sino al fondo dell’anima. e trasformati in Gesù Cristo, non differiscono più tra loro per i sentimenti particolari della carne e dell’amor proprio che ordinariamente regnano in modo diverso negli individui, secondo la varietà dei loro temperamenti e dei loro capricci: ma sono tutti, invece, una sola cosa nell’intimità di un medesimo spirito che regna in essi e penetra i loro cuori. Non sono più divisi, come dice san Paolo, né dalla diversità di religione, né dalla distinzione dei climi o dalle nazionalità, né per l’opposizione dei temperamenti e dei costumi barbari, né per la differenza delle condizioni o la diversità dei sessi, perché sono tutti una medesima eosa in Gesù Cristo (Colos., III, 11; Galat., III, 28).

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Gesù Cristo li riempie non solamente delle disposizioni generali del suo Cuore, ossia dei suoi sentimenti di orrore al peccato, di annientamento di sé medesimo, di adorazione profonda e di rispetto verso il Padre, di amore perfetto verso il prossimo: ma ancora delle disposizioni particolari che Egli aveva in ciascuno dei suoi misteri. Perché, siccome tutte queste disposizioni sante dell’anima di Gesù Cristo erano oggetto di compiacenza e di gioia per il Padre, ne consegue che lo Spirito Santo, il quale non cerca dappertutto che questa compiacenza del Padre, si compiace di diffondersi così in operazioni sante nell’anima disposta a ricevere la sua azione. – Tali sono le operazioni che quel divino Spirito compie, per la gloria di Dio, particolarmente nelle anime tranquille e vuote di ogni cosa, che gliene porgono l’agio: ed è ciò che Egli desidera soprattutto di operare in quelle che sono elette per rappresentare Gesù Cristo su la terra e continuare la vita di Lui nelle sue qualità di Capo e Pastore degli uomini, la vita di Lui quale sostituto per supplire agli uomini. È questa, infatti, la vita del Sacerdote, il quale tiene il posto di Gesù Cristo per supplire alla religione di tutti gli uomini, ed essere così il Religioso ossia l’incaricato universale della Chiesa, onde pregare, lodare, amare in nome di tutti, adempiere i doveri di tutti e ripararne le omissioni.

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Ecco il disegno del Figlio di Dio nella sua venuta su la terra; continuare e perpetuare nei Cristiani la santità dei suoi misteri esterni e interiori, e stabilire nelle anime fedeli quelle due conformità; in ciò consiste la perfetta somiglianza dei membri col loro Capo. La via che Dio tiene per compiere un’opera così sublime è in rapporto con la sua condotta nell’ordine della natura. Nell’ordine naturale nulla si compie d’un colpo, ma ogni cosa va crescendo a poco a poco ed acquista insensibilmente la perfezione cui la santa Provvidenza di Dio la vuole elevare. Così, l’uomo prima di essere uomo perfetto, deve passare per la fanciullezza; gli alberi prima dei frutti, devono portare gemme, foglie e fiori. Parimenti, nella vita spirituale: prima di arrivare alla perfezione bisogna incominciare, poi progredire. Perché come la sublimità dello stato cristiano consiste nella partecipazione e nella comunione santa dello stato di Gesù Cristo Nostro Signore risorto, salito al Cielo e consumato in Dio suo Padre; così, prima di poter giungere a quella sublimità, bisogna passare per il primo stato di Gesù Cristo, quelle, cioè, della mortificazione, della sofferenza e della croce, dell’umiliazione e della morte ad ogni cosa. I Cristiani sono chiamati a riprodurre e rappresentare nella loro vita Gesù Cristo medesimo; per adempiere una tal vocazione, essi devono nella propria vita esprimere tutti gli stati santissimi di Lui, nel medesimo ordine in cui questi stati si sono trovati in Lui. Perciò, siccome Gesù Cristo, il nostro sacro esemplare, dapprima soffrì ogni possibile ignominia, i flagelli ed il patibolo, e prima di risuscitare onde entrare nella sua gloria, morì e fu seppellito: « Cristo ha dovuto patire e così entrare nella sua gloria» (Luc. XIV, 26); così è necessario che prima di partecipare alla gloria della grandezza di Lui, il Cristiano provi in sè stesso, come Lui, tutti quegli stati di umiliazione. – La vita cristiana ha due lati: la morte e la vita. La prima serve di fondamento alla seconda; questo è ripetutamente affermato negli scritti di S. Paolo e in modo articolare nel sesto Capitolo dell’Epistola ai Romani: « Non sapete che essendo stati battezzati in Gesù Cristo, noi siamo stati battezzati nella sua morte? Perché siamo stati sepolti con Lui nella morte col Battesimo; affinché con Gesù risorto noi pure camminiamo in una vita nuova ». E soggiunge: « Consideratevi come morti al peccato e viventi a Dio in Gesù Cristo ». In molti altri chi S. Paolo esprime ripetutamente ancora questo contrasto dei due elementi dello stato del cristiano; ma sempre, come abbiamo detto, la morte deve precedere la vita. E questa morte non altro che la rovina completa di noi stessi e di tutto in noi stessi, affinché essendo distrutto quanto vi è in noi di contrario Dio il suo divino Spirito possa stabilirsi in noi nella purezza e nella santità delle sue vie. Per la morte adunque bisogna entrare nella vita cristiana. Ma è necessario sapere in qual modo avviene questa morte, e in qual modo lo Spirito Santo la opera in noi. Bisogna perciò notare la differenza che passa tra lo Spirito di Dio e lo Spirito di Gesù Cristo: benché infatti sia un solo Spirito, tuttavia a motivo della diversità delle operazioni che produce, talvolta prende il nome di Spirito di Dio, e talora quello di Spirito di Gesù Cristo. Quando lo Spirito Santo, operando in noi, c’infonde virtù di forza, di vigore, di potenza, e ci rende partecipi delle perfezioni e degli attributi di Dio, che non includono abbassamento, allora si chiama Spirito di Dio, perché Dio in quanto tale non ha in sé che grandezza e maestà: quando invece quel medesimo Spirito opera in noi le virtù di Gesù Cristo, ossia le virtù cristiane che portano con sé abbassamento e umiliazione, quali sono l’amore della croce, dell’umiltà, della povertà, del disprezzo, allora si chiama Spirito di Gesù Cristo. Abbiamo accennato a questa differenza, perché si possano intendere tali modi di parlare. Orbene lo Spirito di Gesù Cristo è quello che ci fa morire al peccato. Per questa parola peccato, intendo tutta la vita della carne che S. Paolo ordinariamente chiama peccato. Lo Spirito di Gesù Cristo opera in noi questa morte col formare nel fondo dell’anima nostra le virtù di Gesù Cristo, ossia quelle che Egli ha operate in Gesù Cristo considerato nel suo primo stato. nel suo stato di abbassamento e di umiliazione. –  Così, con quelle virtù sante lo Spirito Gesù Cristo crocifigge la nostra carne fa morire a sé medesima: poiché se qualcuno pretende d’innalzare l’edificio spirituale sopra altro fondamento, vive certamente nell’illusione e nell’inganno, sarà un edificio che non avrà mai nessuna solidità. sarà sempre instabile e cadrà al primo urtarsi contro il vento delle tentazioni e delle contraddizioni. La santa mortificazione che deriva unicamente dalla pratica solida delle virtù è la pietra stabile sopra la quale bisogna edificare sempre, e senza la quale non v’è sicurezza. –  Vediamo dunque di fare ogni sforzo per uniformarci al primo stato di Gesù Cristo, affinché possiamo essere degni di aver parte al secondo, conformarci cioè al suo stato di morte per aver poi parte alla sua gloria. A questo fine tratteremo di alcune virtù cristiane che sono le più necessarie onde stabilirci in questo stato di morte.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 3