LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (27)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (26)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Ultimo ritiro di “Laudem Gloria,, (II.)

Sesto Giorno

Quelle anime sono vergini…

« E vidi: ed ecco l’Agnello eretto sulla montagna di Sion, e con lui centoquarantaquattromila che avevano scritto in fronte il nome di Lui e il nome del Padre di Lui; e udii una voce dal Cielo come rumore di molte acque e come di parecchi suonatori di arpa, ed essi cantavano un nuovo cantico innanzi al trono… e nessuno poteva ripetere il cantico se non quei centoquarantaquattromila… perché sono vergini. Quelli seguono P Agnello ovunque Ei vada » (Ap. XIV, 4). Vi sono degli esseri che, fin dalla vita terrena, fanno parte di questa generazione pura come la luce, e portano Già sulle loro fronti il nome « dell’Agnello e quello del Padre »: il nome dell’Agnello, per la loro somiglianza e conformità con Colui che san Giovanni chiama « il Fedele, il Verace » (Apoc. III, 14), e ci mostra rivestito di una tunica tinta di sangue; anche questi esseri, infatti, sono i fedeli, i veraci, e la loro veste è tinta nel sangue della loro continua immolazione. Portano in fronte anche il nome del Padre perché Egli irradia in essi la bellezza delle sue perfezioni, riflettendovi i suoi divini attributi; e le anime loro sono come altrettante corde che vibrano e cantano il cantico nuovo. Seguono l’Agnello ovunque Egli vada; e non solo nelle via larghe e facili, ma nei sentieri spinosi, fra i rovi pungenti; e tutto ciò perché queste anime sono vergini, cioè libere, distaccate, spoglie…: libere di tutto, meno che del loro amore; distaccate da tutto, specialmente da se stesse, spoglie di ogni cosa, tanto nell’ordine naturale che in quello soprannaturale. Ma tutto questo, quale separazione dal proprio io non suppone! Quale morte! Ripetiamo con san Paolo: « Quotidie morior! » (1 Cor. XV, 31). Il grande santo scriveva ai Colossesi: « Voi siete morti e la vostra vita è nascosta in Dio con Gesù Cristo» (Col. III, 3). Ecco la condizione: bisogna essere morti; altrimenti, si potrà essere nascosti in Dio, ogni tanto, ma non si vivrà abitualmente nell’Essere divino, perché la sensibilità, le pretese dell’io e tutto il resto, verranno a farcene uscire. L’anima che fissa il suo Signore con quell’occhio semplice che rende luminoso tutto il corpo, è protetta dal « fondo di iniquità » (Salmo XVII, 24) che è in lei, e del quale si lamentava il Profeta; e il suo Dio la introduce in quel luogo spazioso (Salmo XVII, 20) che è poi Lui stesso, ove tutto è puro, tutto è santo. O morte in Dio, morte beata! O soave e gioconda perdita di sé nell’Essere amato, che permette alla creatura di esclamare:« Vivo, ma non più io; il Cristo vive in me; per cui la vita che ho adesso in questo corpo di morte, la vivo nella fede che ho nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso alla morte per me!» (Gal. II, 19-20).

Settimo Giorno

Niente altro che la gloria dell’Eterno

« Cœli enarrant gloriam Dei » (Salmo XVIII, 1): ecco che cosa narrano i cieli: la gloria di Dio. Poiché la mia anima è un cielo dove vivo nell’attesa della celeste Gerusalemme, bisogna che anche questo cielo canti la gloria dell’Eterno, niente altro che la gloria dell’Eterno. « Il giorno trasmette al giorno questo messaggio » (Salmo XVIII, 2). Tutti i lumi interiori, tutte le comunicazioni di Dio all’anima mia, sono questo giorno che trasmette al giorno il messaggio della Sua gloria. « Il precetto di Jahveh è puro », canta il Salmista, « ed illumina lo sguardo » (Salmo XVIII, 9). Per conseguenza, la mia fedeltà nel corrispondere ad ogni suo precetto, ad ogni suo interno comando, mi fa vivere nella luce sua; anche essa è un messaggio che annunzia la sua gloria. Ma, ecco la dolce meraviglia: « Jahveh, chi ti guarda, risplende  » (Salmo xviii, 6), esclama il Profeta. L’anima che, con la profondità del suo sguardo interiore, nella semplicità che la distacca da ogni altra cosa, contempla attraverso a tutto il suo Dio, quest’anima è risplendente: essa è un giorno che annunzia al giorno il messaggio della sua gloria. « La notte l’annuncia alla notte » (Salmo XVIII, 3): ecco una cosa davvero consolante: le mie impotenze, i miei disgusti, le mie oscurità, persino le mie colpe, narrano la gloria dell’Eterno; e le mie sofferenze fisiche e morali celebrano anch’esse la gloria del mio Signore. Davide cantava: « Che cosa renderò a Dio per tutti i benefici che mi ha fatti? Prenderò il calice della salute » (Salmo CXV, 12-13). Se io lo prendo, questo calice imporporato dal sangue del mio Maestro e se, nel mio ringraziamento pieno di gioia unisco il sangue mio a quello della Vittima santa che lo rende partecipe in qualche modo del suo infinito, esso può dare al Padre una lode magnifica; allora, il mio dolore è un messaggio che annunzia la gloria dell’Eterno. «Là, (nell’anima che narra la sua gloria), Egli ha posto una tenda per il sole ». Il sole è il Verbo, è lo Sposo. Se Egli trova l’anima mia vuota di tutto ciò che non rientra in queste due parole: « il suo amore, la sua gloria », allora la sceglie per sua camera nuziale; « vi si slancia come un gigante che si precipita trionfatore nella corsa… ed io non posso sottrarmi al suo calore » (Salmo XVIII, 6-7). Questo « fuoco consumante » opererà la felice trasformazione di cui parla san Giovanni della Croce: « Ciascuno, egli dice, sembra essere l’altro, e tutti e due non sono che uno », per essere lode di gloria del Padre.

Ottavo Giorno

Si prostrano, adorano… depongono le loro corone

« Essi non hanno riposo né giorno né notte, e ripetono: Santo, santo, santo è il Signore, Dio onnipotente che era, che è, che sarà nei secoli dei secoli. … Si prostrano, adorano, depongono le loro corone dinanzi al trono, dicendo: Degno Tu sei, o Signore, di ricevere la gloria e l’onore e la potenza… » (Apoc, IV, 8-11). Come imitare nel cielo dell’anima mia questa occupazione incessante dei Beati nel cielo della gloria? Come attuare questa lode, questa adorazione ininterrotta? San Paolo mi illumina in proposito quando scrive ai suoi: « Che il Padre vi fortifichi in virtù, per mezzo del suo Spirito, nell’anima vostra; affinché il Cristo abiti nei vostri cuori mediante la fede e voi siate radicati e fondati nell’amore » (Ephes. III., 16-17): « Essere radicati e fondati nell’amore »: è questa, mi sembra, la condizione per assolvere degnamente il proprio compito di «laudem gloriæ ». L’anima che penetra e dimora nella « profondità di Dio» (I Cor. II, 10) e che fa tutto in Lui, con Lui e per Lui, con quella limpidezza di sguardo che le conferisce una certa somiglianza con l’Essere semplicissimo, quest’anima con ogni suo movimento, ogni sua aspirazione, ogni suo atto — per quanto comune sia — si radica sempre più profondamente in Colui che ama. Tutto, in lei. rende omaggio al Dio tre volte Santo; essa è, per così dire, un « Sanctus » perenne, una incessante lode di gloria. « Si prostrano, adorano, depongono le loro corone ». Prima di tutto, l’anima deve prostrarsi, immergersi nell’abisso del suo nulla, penetrarvi così a fondo, da trovare — secondo l’ineffabile espressione di un mistico — la pace vera e perfetta che nulla può turbare, perché si è sprofondata così in basso, che nessuno andrà a cercarla, laggiù. Allora potrà adorare. L’adorazione! ah, è una parola di cielo: mi sembra che possa definirsi: l’estasi dell’amore. È l’amore annientato dalla bellezza, dalla forza, dall’immensa grandezza dell’oggetto amato; l’amore che cade in una specie di deliquio, in un silenzio pieno, profondo, quel silenzio di cui parlava Davide quando esclamava: « Il silenzio è la tua lode » (Salmo LXIV, 2). Sì, ed è la lode più bella, perché è quella che cantasi eternamente nel seno dell’immutabile Trinità: ed è anche « l’ultimo sforzo dell’anima che trabocca e non può esprimersi più » (Lacordaire). « Adorate il Signore, perché Egli è santo» (Salmo XCVIII, 9), dice il Salmista; ed ancora: « Sempre Lo adoreremo a motivo di Lui stesso » (Salmo LXXI, 15). L’anima che si raccoglie in questi pensieri, che li penetra con quel « senso di Dio » (Rom. XI, 34) di cui parla san Paolo, vive in un cielo anticipato, al di sopra di tutto ciò che passa, al di sopra di se stessa. Sa che Colui che essa adora in sé possiede in sé ogni gloria ed ogni felicità e, gettando la sua corona dinanzi a Lui come i beati, si disprezza, non bada più a sé e, in mezzo a qualunque sofferenza e dolore, trova la sua felicità in quella dell’Essere adorato, perché ha lasciato se stessa ed è passata in un altro. Mi sembra che, in questo atteggiamento di adorazione, l’anima assomigli a quei pozzi di cui parla san Giovanni della Croce, in cui si raccolgono le acque che scendono dal Libano; vedendola, si può dire: « La città di Dio è rallegrata dal corso di impetuosa fiumana » (Salmo XLV, 5).

Nono Giorno

« Siate santi, perché io sono santo »

« Siate santi, perché io sono santo » (Lev. XIX, 2). Chi mai può dare un simile comando? Egli stesso rivelò il suo nome, quel nome che gli è proprio, che Egli solo può avere. « Sono — egli dice a Mosè — Colui che è » (ES. III, 14), il solo vivo, il principio di tutti gli esseri. « In Lui abbiamo l’essere, il moto, la vita » (Act. XVII, 28). « Siate santi, perché io sono santo »: mi sembra che questa sia la stessa volontà che venne espressa il giorno della creazione dalle parole divine: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza » (Gen. I, 26). E il desiderio del Creatore non muta: sempre Egli vuole unirsi alla sua creatura, renderla simile a Sé. San Pietro dice che « siamo stati fatti partecipi della natura divina » (S. Piet. I, 4) e san Paolo ci raccomanda di « conservare salda questa base, questo inizio del suo Essere » che Egli ci ha dato (Ebr. III, 14); il discepolo dell’amore poi ci dice: « Già fin d’ora siamo figli di Dio, ma non si è ancora manifestato a noi quello che saremo. Sappiamo che … quando si mostrerà, saremo simili a Lui, perché lo vedremo quale Egli è, e chiunque ha questa speranza in Lui, si santifica, come Egli pure è santo (1 S. Giov. III, 2, 3). – Essere santi come Dio è Santo: questa, mi sembra è la misura dei figli del suo amore; non ha detto, infatti il Maestro: « Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto »? (S. Matt. V, 48). Parlando ad Abramo, Dio gli diceva: « Cammina alla mia presenza e sii perfetto » (Gen. XVII, 1). Dunque, camminare alla sua presenza è il grande mezzo per aggiungere quella perfezione che il nostro Padre dei Cieli richiede da noi. San Paolo, dopo essersi immerso nei divini consigli, rivelava la stessa cosa alle anime nostre, quando scriveva: « Dio ci ha eletti in Lui prima della creazione, affinché siamo immacolati e santi alla sua presenza, nell’amore » (Ephes. I, 4-5). – Ricorrerò ancora alla luce di questo santo, onde essere illuminata nel percorrere, senza deviarne mai, questa via magnifica della presenza di Dio dove l’anima procede « sola col Solo », sostenuta dalla « forza della sua destra » (Salmo XIX, 7) protetta dalle sue ali, senza paventare le insidie della notte, « né la freccia lanciata in pieno giorno, né il male che s’insinua nelle tenebre, né gli assalti del demone meridiano » (Salmo XC, 4-6).  –  « Spogliatevi dell’uomo vecchio secondo il quale siete vissuti nella vostra vita prima — mi dice — e rivestitevi dell’uomo nuovo che è stato creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità » (Ephes. IV, 4-5). Ecco tracciata la via: basta spogliarsi, per percorrerla secondo i desideri di Dio; e sì, morire a se stessi, perdersi di vista, credo che volesse intendere anche il Maestro quando diceva: « Chi vuol Seguirmi, rinunci a se stesso, e prenda la sua croce » (Matt. XVI, 24). – « Se vivrete secondo la carne — dice ancora l’Apostolo —— morrete; ma se, con lo spirito, darete morte alle opere della carne, vivrete » (Rom. VIII, 13). Questa è la morte che il Signore ci chiede e della quale è scritto: « La morte è stata assorbita dalla vittoria » (1 Cor. XV, 54). « O morte — dice il Signore — io sarò la tua morte » (Osea, XIII, 14); è come se dicesse: O anima, mia figlia adottiva, guarda me e allora non baderai più a te; dileguati interamente nell’Essere mio, vieni a morire in me, perché Io viva in te.

Decimo Giorno

In un eterno presente

« Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto » (S. Matt.). Quando il mio Signore mi fa sentire queste parole nel profondo dell’anima, mi pare di capire che Egli mi chiede di vivere, come il Padre, in un eterno presente, senza prima, senza poi, ma tutta nell’unità del mio essere in questo adesso eterno. E in che cosa consiste questo presente? Davide mi risponde: « Sarà adorato sempre a causa di Se stesso » (S. Matt. V, 48). Ecco l’eterno presente in cui « laudem gloriæ » si deve stabilire. Ma perché essa sia verace nella sua adorazione, perché possa cantare: « Io sveglio l’aurora » (Salmo LXVI, 15), bisogna che possa dire con san Paolo: « Per suo amore, ho perduto tutto » (Fil. III, 8), cioè: per Lui, per adorarlo sempre, mi sono isolata, separata, spogliata di me stessa e di ogni cosa, sia nell’ordine naturale che nell’ordine soprannaturale riguardo ai doni di Dio; perché un’anima che non sia così morta a se stessa e libera del proprio io, sarà per forza, in certi momenti, banale e naturale, e ciò è indegno di una figlia di Dio, di una sposa del Cristo, di un tempio dello Spirito Santo, Per premunirsi contro questa vita naturale, bisogna che l’anima sia tutta desta nella sua fede, col limpido guardo rivolto sempre al suo Maestro. Allora « camminerà — come cantava il Re-profeta — nell’innocenza del cuore, nell’interno della sua casa » adorerà sempre il suo Dio per Lui stesso, e vivrà ad immagine sua nell’eterno presente in cui Egli vive. –  « Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre dei cieli » (S. Matt. V, 48). E Dio, ci dice san Dionigi, è il « grande Solitario ». Il mio Maestro mi chiede di imitare questa perfezione, di rendergli o essendo io pure una grande solitaria. L’Esser diino vive in un’eterna. sconfinata solitudine, da cui non esce mai, pur interessandosi ai bisogni delle sue creature. perché non esce mai da se stesso; e questa solitudine non è che la sua divinità. Affinché nulla mi distolga da questo bel silenzio interiore, devo porre le stesse condizioni, sempre: lo stesso isolamento, lo stesso distacco, lo stesso spogliamento. Se i miei desideri, i miei timori, i miei dolori, le mie gioie, se tutti i moti che derivano da queste quattro passioni, non saranno perfettamente ordinati a Dio, io non sarò solitaria; vi sarà del tumulto in me; occorre dunque la quiete, il sonno delle potenze, l’unità dell’essere, « Ascolta, figliola mia, porgi l’orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre, e il Re si innamorerà della tua belle sembra che sia un invito al silenzio; « Ascolta, tendi l’orecchio… ». Ma, per udire, bisogna dimenticare la casa paterna, cioè tutto quanto appartiene alla vita naturale, quella vita di cui intende parlare l’Apostolo quando dice: « Se vivrete secondo la carne, morrete » (Rom. VIII, 13). « Dimentica il tuo popolo »: è più difficilmente, perché questo popolo è tutto quel mondo che fa parte, per così dire, di noi stessi: la sensibilità, i granuli, i ricordi, le impressioni, ecc…, l’io, in una parola. Bisogna dimenticarlo, abbandonarlo; e quando l’anima ha fatto questo strappo, quando è libera da tutto ciò, il Re si innamora della sua bellezza, perché la bellezza, soprattutto quella di Dio, è unità.

LA GRAZIA E LA GLORIA (31)

LA GRAZIA E LA GLORIA (31)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO V

Conseguenze delle proprietà personali. Lo Spirito Santo è il principio di tutti i doni creati nell’ordine soprannaturale. È quindi l’anima del Corpo mistico di Gesù Cristo.

1. È lo Spirito Santo che ci rende figli di adozione e che trasforma i cuori degli uomini in santuari dove il Padre e il Figlio suo, Gesù Cristo, Nostro Signore, vengono ad abitare con Lui e attraverso di Lui. Noi abbiamo meditato su queste verità, così consolanti per noi e così gloriose per questo Spirito divino, e sappiamo in che senso debbano essere intese. – In virtù degli stessi principi, è a Lui che dobbiamo necessariamente attribuire tutti i doni di grazia creati, tutto ciò che da vicino o da lontano conduce alla santificazione degli uomini, al nostro complemento spirituale; in una parola, tutto ciò che fa sì che Dio si avvicini a noi e noi a Dio. I titoli personali che abbiamo considerato in Lui lo richiedono, e la legge di appropriazione non avrebbe la sua naturale applicazione se non se ne traesse questa conseguenza. Apriamo le Sacre Scritture e i monumenti dogmatici della Chiesa e vedremo quanto sia ampia la prassi, se possiamo esprimerci in questo modo, corrispondente alla teoria. – Ma per procedere in maniera più ordinata, consideriamo in successione: Gesù Cristo nostro Capo, i fedeli che ne sono le membra e la Chiesa che è il suo Corpo. – È ammirevole vedere con quale cura meticolosa il Vangelo ci mostri l’influenza dello Spirito divino nella missione del Salvatore degli uomini. È Lui che lo ha formato nel grembo immacolato della Vergine; che lo annuncia come il Re, tanto atteso da Elisabetta, Anna e Simeone (Luca,  1, 35, 41, 67, 68; II, 25 e segg.); che, scendendo visibilmente nel battesimo, gli rende una testimonianza ufficiale davanti al Precursore e al popolo (Matteo, III, 16; Giovannino, I, 33); che lo conduce nel deserto per prepararsi alla grande opera del suo Apostolato, nella solitudine, nella preghiera e nella penitenza, e che lo riporta indietro (Luca, V1, ecc.); Colui nel quale Dio fatto l’uomo opera i suoi miracoli, cosicché chiudere ostinatamente le orecchie alla loro testimonianza è un peccato contro lo Spirito Santo (Matt., XII, 28; Luca, XI, 20); Colui che lo fa sussultare di gioia al pensiero delle luci riversate sulle anime semplici (Luca, X, 21). – Cosa dobbiamo dire di nuovo? Se Gesù Cristo si offre per noi come ostia sanguinante, è per opera dello Spirito Santo (Ebr., IX, 146); se continua la sua opera di redenzione nel mondo attraverso la testimonianza degli Apostoli, questa testimonianza è opera dello Spirito Santo (Joan., XV, 26.7); infine, se lascia una Chiesa che perpetuerà la sua missione fino alla fine dei secoli, è ancora per mezzo del suo Spirito che la fonda, la forma, la conserva e la rende perennemente feconda. Così, dall’inizio alla fine, lo Spirito Santo presiede in Gesù Cristo al compimento della sua opera di grazia, amore, restaurazione e salvezza.

2. – Questo è ciò che Egli ha fatto nel Capo; non farà altrimenti con le membra? La stessa voce e la stessa autorità ci vietano di pensarlo. Ancor prima che Dio abbia preso possesso di un’anima, spetta allo Spirito Santo prepararne l’ingresso: questo è lo scopo di quelle illuminazioni ed ispirazioni interiori con cui lo Spirito Santo tocca il cuore dell’uomo (Conc. Trid, sess. VI, c. 5.), e che si chiamano grazie prevenienti. La sua azione e i suoi benefici non finiscono qui. In questa infinita varietà di grazie che ci vengono elargite con tanta liberalità dalla bontà divina, non ce n’è nessuna che non provenga da Lui (I Cor. XII; Ebr., II, 4). Quando, diventati figli di Dio, siamo trasformati di illuminazione in illuminazione, è Lui che compie questa meraviglia (I Cor. III, 18).  I gemiti ineffabili con cui attiriamo la misericordia e tocchiamo il cuore di Dio (Rom., VIII, 26); tutti gli atti salutari che sono i nostri meriti (Rom., VIII, 14); la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità; tutta la santità, la pietà, la mitezza (Gal. V, 22-23): tanti effetti e frutti della sua presenza nel profondo delle anime. Egli è lì a rinnovare la stessa novità (Tt. III, 5), ad attivare la nostra vita spirituale, a soccorrere le nostre infermità, a consolarci nelle nostre pene; rattristato, Egli stesso addolorato dalle nostre infedeltà; principio e pegno della nostra futura beatitudine (Rom. VIII, 14, 26; Atti IX, 31; Efes. IV, 30; II Cor. I, 22, ecc.). Bisogna pertanto sottolineare qui che i beni che ci vengono da Dio, non sono attribuiti allo stesso titolo a questo Spirito divino. Tutti, è vero, devono essere attribuiti a Lui senza eccezioni, se li consideriamo o come doni o come effetti che contribuiscono all’opera della nostra santificazione, anche se da altri punti di vista possano essere attribuiti o al Padre o al Figlio stesso. Ma ce ne sono alcuni che, per la loro natura intima, richiedono più necessariamente la loro appropriazione da parte dello Spirito Santo. Tale è la carità tra tutte, perché la carità, non solo considerata come grazia, ma ancora inquadrata come carità, si riferisce soprattutto allo Spirito Santo. Non è forse di per sé una partecipazione creata di ciò che costituisce il suo carattere proprio, cioè dell’Amore infinito? – San Tommaso, nella magistrale spiegazione che dà degli effetti della grazia, appropriati allo Spirito Santo dalla Scrittura, pone il principio che lo Spirito Santo, diffondendo la carità in noi, ci rende amici di Dio (S. Thom., Gent., L. IV, c. 21 e 22). Vediamo ora le conseguenze che egli trae da questa verità capitale. Dunque, è allo Spirito Santo che dobbiamo attribuire la rivelazione dei misteri divini, secondo le parole del grande Apostolo. « L’occhio non ha visto, né l’orecchio ha udito, né il cuore dell’uomo ha compreso ciò che Dio ha in serbo per coloro che lo amano. Ma per noi, Dio ce lo ha rivelato per mezzo del suo Spirito » (1 Cor., II. 9,10.). Perché? Perché è nella natura dell’amicizia riversare i propri segreti nel cuore di un amico. « Non vi chiamerò più servi, ma amici”, disse Nostro Signore ai suoi discepoli, “perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi » (Gv. XV, 5). L’amicizia fa di due cuori un cuore solo. Ecco perché, dice Bossuet, ciò che un amico rivela al suo amico non gli sembra che lo produca al di fuori del proprio cuore. E siccome l’insieme delle rivelazioni divine è, fin dai primi giorni del mondo, o la manifestazione di segreti nascosti nelle profondità di Dio, o la loro promulgazione attraverso i secoli, da ciò deriva che lo Spirito Santo, in quanto autore di questa amicizia divina, è l’ispiratore dei Profeti, e che ha la missione di completare l’insegnamento di Gesù Cristo e di insegnarci ogni verità. (I Cor., XIV, 2; II Pt. I, 21; Joan. XIV, 5-18; XVI, 13). – Un amico non si accontenta di rivelare i suoi pensieri più intimi; ha bisogno di comunicare i suoi beni a colui che l’amore gli fa considerare come un altro sé. (I Joan. III, 17). Se questo si vede tra gli uomini, poveri e miserabili come sono, quanto più liberale deve essere Dio, Lui che è la stessa abbondanza e bontà? Ecco perché, secondo le Sacre Scritture, tutti i doni di Dio ci giungono attraverso lo Spirito Santo (II Cor. XII, 8). Spetta a Lui anche perdonare i peccati, secondo le parole del Signore: « Ricevete lo Spirito Santo; a coloro ai quali avrete rimesso i peccati, saranno perdonati i peccati » (Gv. XX, 22); poiché accettare qualcuno come amico, significa dimenticare la sua offesa. Nel libro dei Proverbi leggiamo anche che la carità copre molti peccati (Prov. X, 12). – Ancora, è lo Spirito Santo che, rendendoci amici di Dio, ci conduce a Dio attraverso la contemplazione e la libera osservanza dei suoi precetti divini. Per la contemplazione, perché l’amicizia, di cui Egli è fonte e modello, induce per sua natura a conversare familiarmente con Dio. Pertanto, spetta allo Spirito divino mettere nei nostri cuori affetti santi, farci contemplare la gloria del Signore ad occhi aperti e trasformarci a sua somiglianza. (II Cor, III,18). Con l’osservanza dei comandamenti divini, perché l’amicizia è l’unione delle volontà tra coloro che si amano. Ora, poiché la volontà di Dio ci viene manifestata dai suoi precetti, quanto più profondamente questo amore si radica in noi, tanto meglio conformeremo i nostri atti e tutta la nostra vita alla volontà divina; ed è questo che intende l’Apostolo quando scrive ai Romani: « Questi sono guidati e mossi dallo Spirito di Dio, coloro che sono figli di Dio. » – Ma dove lo Spirito Santo conduce con amore, non c’è più servitù: né la servitù delle passioni e del peccato, poiché la volontà tende con tutto il suo peso al vero bene; né la schiavitù della paura, poiché la carità la esclude dai cuori; né la schiavitù della legge, ché si osserva non con spirito da schiavo, ma da amico. Per questo lo stesso Apostolo ha potuto dire: Dove c’è lo Spirito del Signore, là c’è libertà (II Cor. III, 17); e ancora: Se siete guidati dallo Spirito, non siete più sotto la sua legge (Gal. V, 18). – Infine, la consolazione di cui abbiamo bisogno nei nostri dolori e nelle nostre prove viene dallo Spirito Santo (Salmo L. 18), da quello Spirito che porta il nome di Consolatore, perché fa abitare in noi Dio, l’Amico per eccellenza. Chi non sa che la più grande consolazione nel dolore è la presenza di un amico che lo attenua e spesso, se è tanto potente quanto buono, lo fa addirittura sparire? Ecco, almeno in sintesi, come il Dottore Angelico, partendo dall’idea che lo Spirito Santo sia l’Amore infinito di cui la carità, riversata nelle anime, è una partecipazione beata, dà conto delle funzioni speciali che gli sono attribuite dalle Scritture (S. Thom., c. Gent., L. IV, c.21, 22).

3. – Dopo aver parlato del Capo e delle membra, è giunto il momento di esaminare il ruolo dello Spirito Santo nel Corpo di Cristo che è la Chiesa di Dio. La santa Chiesa ha come missione la santificazione degli uomini e tutto in essa è legato alla perfezione soprannaturale dei figli di Dio. Essa è il dono del suo amore e il suo scopo è quello di ricondurci all’Amore eterno. È quindi evidente, secondo la legge dell’appropriazione, che è allo Spirito Santo che dobbiamo attribuire le sue istituzioni, i suoi ministeri, le sue ricchezze spirituali e i suoi mezzi di santificazione; Egli è, in una parola, l’Autore di tutto ciò che Essa è, di tutto ciò che ha, di tutto ciò che fa nell’ordine della salvezza. E poiché lo Spirito Santo è nei suoi doni, nulla è più vero delle parole di Sant’Ireneo: « Dove c’è la Chiesa, c’è anche lo Spirito di Dio; e dove c’è lo Spirito di Dio, c’è anche la Chiesa ed ogni grazia » (Sant’Ireneo, c. Hæres, L. III, c. 24, n. 1: P. Gr. t. 7, p. 966). – Scorrete i libri del Nuovo Testamento e vi stupirete nel vedere a quanti titoli e in quanti modi la Chiesa dipenda da questo Spirito divino. Se i quattro Vangeli sono la storia del Salvatore, potremmo dire degli Atti degli Apostoli che sono il Vangelo dello Spirito, tanto spesso vi si trovano il suo Nome, la sua presenza e le sue operazioni. E come per aggiungere una conferma dottrinale a ciò che ci appare dai fatti nella Chiesa nascente, gli Apostoli, e specialmente S. Paolo, nelle sue epistole, ci parla in ogni pagina di questo Spirito divino. È da Lui che proviene la gerarchia della Chiesa con il suo Magistero e la sua Autorità pastorale, il Sacerdozio con tutte le sue funzioni. I Pastori che governano la Chiesa sono stabiliti dallo Spirito Santo, consacrati, formati e diretti da Lui (S. Joan. XX, 21, ecc.). Essi insegnano come suoi organi; è Lui che, parlando per bocca loro (Atti, XX: 22, 28; VIII, 2.), rende infallibile la loro testimonianza (Atti, XV. 28; Joan., XV, 26); e l’arma con cui colpiscono l’errore è la spada dello Spirito (Efes., VI, 17). Che cos’è infine il Sacerdozio? Un ministero dello Spirito (II Cor., III, 8), ministratio Spiritus. Come abbiamo visto, è nello Spirito che il Fratello sovrano, Gesù Cristo Nostro Signore, ha offerto se stesso come vittima sull’altare della croce. Non era forse necessario che i Suoi rappresentanti, coloro che Egli ha nominato depositari del suo Sacerdozio, agissero con il medesimo Spirito quando celebrano i misteri divini in suo Nome? È per questo che la Chiesa, nel consacrarli, invoca su di loro la pienezza dello Spirito: è anche per questo che trovo questo stesso Spirito in tutti i Sacramenti della nuova alleanza: nel Battesimo, per fecondare le acque; nella Cresima, per essere l’unzione del Cristiano; nell’Eucaristia, per effettuare il misterioso cambiamento che fa del pane, il Corpo del Signore (Da qui le magnifiche invocazioni dello Spirito Santo sull’Offerta che si leggono nelle liturgie orientali); nella Penitenza, per rimettere i peccati (Joan, XX, 22, 23); nei Sacramenti dei fedeli morenti, affinché « la sua grazia guarisca i malati dai loro languori e dalle loro colpe »; negli Ordini, per far scendere sui ministri del santuario la pienezza dei suoi doni; nel Matrimonio, per formare l’unione degli sposi cristiani ad immagine di quella che Egli ha stabilito tra Cristo e la sua Chiesa; in tutti infine, per santificare coloro che li ricevono. Vedete l’infinita varietà di grazie con cui Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse adornata, affinché fosse chiaramente riconosciuta come sua: la grazia dei miracoli, il dono della profezia, il dono delle lingue ed altri ancora. Quale ne è la fonte? È lo Spirito Santo che li distribuisce, come vuole, a beneficio della Chiesa e dei suoi membri (1 Cor. XI tot.). Rom, XII 6, sq. Si vedano queste idee sviluppate a lungo e con grande maestria in R.P. Meschler S. J. “Le don de la Pentecôte“, c. 13-23. Parigi, P. Lethielleux, editore). – Queste poche indicazioni sono sufficienti per capire con quale verità si possa dire che lo Spirito Santo sia l’anima della Chiesa. « Lo Spirito Santo è per il Corpo di Gesù Cristo, cioè per la Chiesa, ciò che l’anima è per il corpo dell’uomo: ciò che quest’ultima fa in tutte le membra dello stesso corpo, Egli lo fa in tutta la Chiesa » (« Quod est anima sorpori hominis, hoc est Spiritus sanctus corpori Christi quod est Ecclesia; hoc agit Spiritus sanctus in tota Ecclesia quod agit anima in omnibus membris unius corporis ». S., Agost., serm. 967 in Pent, c. 4). Qual è il primo principio di unità, di vita e salute del corpo umano? L’anima, si potrebbe rispondere. Ma chi dà al Corpo mistico di Cristo la sua unità, la sua vita soprannaturale, la salute perfetta che è la santità, se non lo Spirito Santo? « Un solo corpo, un solo Spirito », ci grida S. Paolo. (Efesini, IV, 4); e come possiamo stupircene? Questo Spirito divino non è forse il legame del Padre e del Figlio, il loro bacio comune, la fonte da cui scaturisce la carità divina e unificante? – La storia della creazione ci mostra che Dio prende nelle sue mani l’argilla della terra e plasma amorevolmente per l’uomo un corpo che corrisponde alla sua dignità; ma perché questo corpo viva e abbia un’anima, ha bisogno del soffio della bocca divina. Così, tutto sommato, Gesù Cristo Nostro Signore formò faticosamente il Corpo mistico che doveva essere la sua Chiesa. Ma questo corpo, per essere vivo, agire e parlare, doveva ricevere da Cristo un doppio soffio: quello che trasse dal suo costato prima di lasciare la terra e l’altro, più potente, che inviò dal cielo nel giorno della Pentecoste. Questo è il principio immutabile della sua vita. Ho detto: il principio immutabile di questa unione dello Spirito Santo con la Chiesa non dipende dalla volontà degli uomini, come l’unione che Egli contrae con ciascuno dei membri in particolare. Lo Spirito di Dio può ritirarsi dall’anima più santa, non perché la abbandona Egli per primo, ma perché essa lo abbandona; così Egli non si ritirerà mai dalla Chiesa. Il soffio di Gesù Cristo gli ha consentito di abitare in Essa per sempre, ut maneat in æternum.

4. – Facciamo un’ulteriore duplice osservazione. La prima è che tutte queste considerazioni sulla dimora dello Spirito Santo in Gesù Cristo e nella Chiesa non ci hanno allontanato dal nostro tema principale. Infatti, come figli di Dio, noi siamo ad immagine di Gesù Cristo e figli della santa Chiesa. Quindi, mostrare la presenza e le operazioni dello Spirito Santo nell’uno e nell’altra, è dire cosa debba essere lo Spirito Santo e cosa sia realmente per noi. Saremmo una copia di Dio fatto uomo, se lo Spirito che ha penetrato tutta la sua vita diventasse estraneo alla nostra? E la Chiesa potrebbe riconoscere come figli degli uomini che non abbiano il suo Spirito come principio, motore ed ospite? – Una seconda osservazione è che ora possiamo sapere quale significato preciso dare a questa formula « appartenente all’anima della Chiesa ». Poiché lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa, appartenere alla sua anima significa avere lo Spirito Santo in sé attraverso la grazia e la carità. Ne consegue che i peccatori, anche se sono esteriormente membri della Chiesa, non sono uniti ad Essa nell’anima; o se lo sono, lo sono solo in modo molto incompleto, in quanto partecipano ancora alla sua influenza attraverso la fede, la speranza e gli altri atti in cui si rivela un residuo di vita soprannaturale. Ce ne sono degli altri, invece, che, senza essere mai stati uniti da alcun vincolo visibile alla Chiesa di Dio, sono tuttavia vivificati dalla sua anima, e per questa stessa anima appartengono all’unità invisibile del Corpo mistico di Cristo. Intendo dire quelle anime rette che nell’eresia, nello scisma o infedeltà, rispondendo fedelmente alla grazia, giungono alla giustificazione al di fuori delle vie ordinarie e senza l’aiuto dei mezzi esterni che sono stati predisposti per noi nella Chiesa che esse (incolpevolmente) ignorano. Questa è l’aggiunta alla dottrina che ho promesso quando ho parlato di Gesù Cristo, il nostro Capo (L. V, c. 4); ed è anche ciò che ci mostra la perfetta analogia tra il corpo naturale e il Corpo mistico di Gesù Cristo. – Come nel corpo naturale l’influenza del capo sulle membra non esclude l’influenza superiore da cui dipende la vita di tutto l’organismo, così in questo Corpo più spirituale e più divino l’azione vivificante del Dio fatto uomo, lungi dal rendere inutile l’assistenza dello Spirito Santo, la presuppone e lo richiede. Lo presuppone: se Gesù Cristo possiede questo triplice primato che lo rende Capo dell’umanità rigenerata, è perché è l’Unto dello Spirito Santo. Lo richiede: se lo stesso Gesù Cristo ci infonde, come Dio, questa stessa vita di grazia, è attraverso lo Spirito Santo, questo dono sostanziale del Padre e del Figlio, che lo riversa nelle anime donandocelo Lui stesso. È questo che ci fa capire la famosa formula con cui diversi Dottori antichi, e in particolare sant’Ireneo, riassumevano tutti gli elementi che costituiscono il Cristiano, figlio adottivo di Dio: un corpo, un’anima e lo Spirito (Lc 1,4), (L’uomo spirituale, l’uomo perfetto, l’uomo che porta nella fede non solo l’immagine, ma la somiglianza di Dio, racchiude lo Spirito Santo. « La carne, di per sé, non è l’uomo perfetto, ma il corpo dell’uomo, una parte dell’uomo. L’anima non è nemmeno l’uomo, ma è la sua anima, una parte dell’uomo. Lo Spirito non è l’uomo: non si chiama uomo, ma Spirito. La mescolanza e l’unione di questi tre principi è ciò che costituisce l’uomo spirituale e perfetto: commixtio autem et unitio horam omnium perfectum hominem efficit. – S. Iren. c. Hæres, L. V. c. 6, n.1; col. c. 9, n.1: P. Gr., t. 7, p. 1138 e 1144): i primi due uniti insieme nell’unità di una stessa natura; e questa natura anche realmente unita, ma accidentalmente, allo Spirito Santo. Poiché questo Spirito divino è tutto per noi, la nostra unità, la nostra vita, il principio da cui scaturiscono tutte le grazie che sono la nostra gloria e la nostra forza; …  Cristiani, non spegniamo lo Spirito Santo nelle nostre anime (I. Tess., V, 15). Lo spegne chiunque si sottragga alla sua dolce e benefica luce, chiunque lo costringa con gravi offese a ritirarsi da un cuore infedele. Non estinguiamolo, ma non irritiamolo nemmeno (Efes. IV, 30). Lo si contrista quando, per colpe pur solo relativamente lievi, stendiamo sulla superficie dell’anima una nube che la sottrae, almeno in parte, all’influenza salutare dei suoi raggi. Lo si contrista ancora anche quando, senza opporre resistenza alla sua volontà divina, non ci abbandoniamo così completamente all’impulso dello Spirito che può fare in noi e di noi ciò che vuole per la sua gloria e la nostra santificazione. E poiché ogni grazia viene da Lui, si degni di aggiungere a tante altre la grazia che ci impedirà di spegnerlo e contristarlo, Lui, sole e consolatore delle anime.

LA GRAZIA E LA GLORIA (32)

LO SCUDO DELLA FEDE (222)

LO SCUDO DELLA FEDE (222)

MEDITAZIONI AI POPOLI (IX)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

Del Rosario

PARTE PRIMA,

CHE COSA È IL ROSARIO.

Siamo stati creati per servire Dio e per essere con Lui beati in paradiso. Ma troppo alto è il cielo e santissimo è Dio, e noi troppo in basso qui da potere a quell’altezza elevarci, e rendere a Dio l’omaggio che gli è dovuto. Gesù Dio col Padre, Uomo con noi, Mediatore tra il cielo e la terra, e Redentore pietoso resta qui con noi nel Sacramento a fine di attirarci con Lui a dargli gloria tra i beati in paradiso. Eterno Figliuol di Dio fa causa comune con noi, fino a dividere con noi le persecuzioni e i nostri dolori: compagno indivisibile del nostro pellegrinaggio ha tutto il suo interesse a salvarci, perché siamo del suo Sangue. Gesù è il Padre e noi siamo i suoi figliuoli, che lo circondiamo adunati nel bacio santo della fraternità. Egli il Pastore, e noi le agnelle nel pascolo a lui d’intorno: Egli la vite, e noi i tralci che da Lui tiriamo l’alimento. Egli la via; e bisogna a Lui venire per poter giungere alla patria. Egli la verità, la luce delle anime nostre nel cammino dal tempo all’eternità: Egli la vita, e al tutto è d’uopo farci dappresso a Gesù e camminare insieme con Lui, e così con Lui, e per Lui solo trovare la salute a vita eterna. Centro della vita cristiana è dunque Gesù in mezzo di noi nel Santissimo Sacramento; e noi dobbiamo cercare la più facile maniera per raccoglierci intorno a Gesù, per fermare sopra Gesù i fugaci nostri pensieri, e quasi camminar di conserva con Lui, a fine di giungere dove sono riposti gli eterni nostri destini, in paradiso. Ma chi potrà unirci a Gesù in tanta confidenza, anzi intimità di vita? Chi sarà da tanto, e così vicino a Lui, e con noi tanto buono da volerci pigliar per mano? Il nostro cuore sente che ha in cielo un tesoro di bontà tutto per noi: il cuore nostro sa per prova, che là ha una Madre che ci può tutto ottenere; il cuore nostro quindi si lancia in seno a Maria nella confidenza che Ella voglia fare tutto per noi, perché a Lei ed al suo Gesù costiamo troppi dolori; e là sul Calvario ben se l’intesero fra loro di salvarci. Ci si voleva dunque una pratica di pietà facile, popolare alla mano di tutti, la quale, per unirci a Gesù, ci facesse pigliare per mano Maria così vivamente da non lasciarla mai più, finché non ci abbia con Lei salvi in Gesù Cristo. E questa così utile, così santa e cara pratica di pietà è il santo Rosario, che noi pigliamo a spiegarvi, riserbandoci di esporvi la maniera di recitarlo in altre MEDITAZIONI. – Benedetto Gesù, quest’oggi ci mettiamo sotto il manto della vostra Madre Santissima, perché la ci conduca in seno a Voi a trattare col suo cuore; e Voi, o Maria Santissima, raccogliete la famiglia dei vostri figli intorno a Gesù a contemplarlo, ad amarlo, a seguirlo nella via del Paradiso, come impareremo a farlo nel santo Rosario. Dobbiamo dunque spiegarvi che cosa voglia dire recitare il santo Rosario. Recitare il santo Rosario vuol dire metterci da prima con cuore in Gesù nel santissimo Sacramento, contemplarlo in mezzo di noi, come è realmente in Persona; ed uniti con Gesù alzare le nostre preghiere a Dio Padre in cielo. Vuol dire, poi rivolgerci a Maria, e baciarle e ribaciarle la mano, e dirle tutto il cuore nostro, e pregar tanto la Madre nostra, finché non ci abbia menato seco con Gesù in paradiso. Noi studiamo di farlo col Rosario, in cui contempliamo la vita di Gesù e di Maria nei misteri: ivi con Gesù preghiamo il Padre divino nel Pater noster, e diamo la mano a Maria nell’Ave Maria. Perciò il Rosario è una preghiera la quale si compone della meditazione dei misteri, e del ripetere che facciamo il Pater noster e l’Ave Maria. Miei fratelli, a quest’ora, come un padre che vi ama tanto, mi abbandono del cuore a voi; ed io, e voi meditando che cosa sia il santo Rosario, vogliamo insieme far del Rosario la scuola delle cristiane virtù, ed imparare a pregare facilmente riflettendo sopra i misteri più augusti e più consolanti sul cuor di Gesù e tra le braccia di Maria. – Cominceremo dal considerare perché si recitano i Misteri.

LA MEDITAZIONE DEI MISTERI.

Al principio d’ ogni decina si recita il mistero per metterci dinanzi a contemplare Gesù e Maria, come li vedessimo in un quadro. Con questo immaginarli dinanzi a noi, fermiamo l’inquieto nostro pensiero intorno a Gesù e Maria: li seguiamo passo passo negli avvenimenti principali della loro vita, e pigliamo parte alle consolazioni, ai dolori, ai trionfi loro così cari ai nostri cuori. Vediamo bene, come li possiamo imitare nella povera vita nostra. Anzi ci pare di vederli stendere la mano a noi, per aiutarci a seguirli; e per poco ci sembra di udire Gesù, che con quel suo fare da Uomo-Dio, ci dica: Pregate, pregate; sono ancor Io qui a pregare con voi il Padre mio, che pure è vostro Padre. Date la mano alla Madre mia, che quando Io moriva vi diedi per vostra. Venite appresso a noi: mettete i piedi sulle orme dei nostri passi; patite con noi ancora un poco, e poi di certo sarete con noi in paradiso. Dove son io e la Madre mia, voglio pure insieme voi, miei figliuoli. Per tal modo col raccoglierci di tutta l’anima nei misteri a contemplare Gesù e Maria, e col tenere appresso col cuore a loro negli andamenti della loro vita, camminiamo di conserva con Gesù e Maria, cioè corriamo la via che ci mena al paradiso. Ve lo accenno in breve ora; ma questo vedremo poi estesamente nelle tre MEDITAZIONI seguenti. Eccoci ai misteri gaudiosi. Nel primo ci contempliamo dinanzi quel fiore di paradiso che è la verginella Maria salutata dall’Angelo. Nel secondo le corriamo appresso per la montagna, a fine di fare con esso lei opera di carità. Nel terzo consideriamo, anzi pigliamo tra le braccia il Salvatore divenuto ancor più amabile in quanto è bambinello piccino; e l’offriamo nel quarto sul petto a Maria, per metterci con Essi in mano a Dio. Lo cerchiamo nel quinto con Maria, e lo troviamo nel tempio; e quinci innanzi no, no, non lo vogliamo abbandonare più mai, ma vivere e fare tutte le nostre azioni della vita nostra uniti con Gesù sotto gli occhi di Maria. Passando al primo dei dolorosi misteri gemiamo con Gesù tutto bagnato di sudore di Sangue boccheggiante nell’agonia, e chiediamo al Padre perdono dei nostri peccati. Nel secondo a lui lo mostriamo tutto lacerato di piaghe in quella tempesta di battiture. Cadiamo nel terzo ai piedi del re dei dolori, il quale dal suo Capo coronato di spine piove Sangue sulla nostra testa. Pigliamo con Gesù nel quarto sulle spalle le nostre croci, e con Maria l’accompagniamo al Calvario. Ah nel quinto, tacciamo, tacciamo; ché gli strazi e la morte di Dio vogliono lacrime, e non parole. Al vederlo inchiodato in croce nascondiamo il volto in seno a Maria tutta cospersa di Sangue divino; e lasciamo che dica Ella tutto per noi con quel suo Cuore, in questa santissima, ma tremenda contemplazione. Ora poi nel primo mistero glorioso giubiliamo con Gesù risuscitato; ci infervoriamo a combattere, perché Egli è risorto, e noi risorgeremo con Lui a vita eterna. Nel secondo su, su leviamo il cuor nostro con Gesù a speranza di paradiso. Egli cel conquistò, ce lo ha aperto, e ci stende la mano a salire anche noi. Nel terzo contempliamo coll’anima in cielo in seno al Padre ed al Figlio l’eterno Amore, Spirito consolatore; e gli mettiamo innanzi Maria a pregarlo che discenda nei nostri cuori, e conforti la Madre nostra la povera Chiesa in tante tribolazioni. Nel quarto elevati al Cielo presso il trono di Maria, Le piangiamo appresso gridando: anche noi, anche noi con voi…. o Gesù…. o Maria. Nell’ultimo: al paradiso! al paradiso! Concittadini del Cielo gustiamo già fin d’ora colla speranza un sorso della beatitudine nostra in Dio, in Gesù, con Maria, e coi beati ingolfandoci nel gaudio dell’eterna gloria. Per così soavi contemplazioni dopo esserci elevati dell’anima in paradiso ricadiamo a terra, e consolati ripetiamo tante volte: Gloria al Padre che mandò, per salvarci, il suo Figlio: gloria al Figlio che, fatto Uomo, sì è dato tutto per noi: gloria allo Spirito Santo, che ci santifica mediante i meriti di Gesù, per averci beati in seno a Dio… Ma il cuor nostro mette ancora un sospiro…. Oh gran Dio delle misericordie, traete anche le anime del Purgatorio ad amarvi in Paradiso! Eccoci adunque come nel santo Rosario noi scorgiamo il Cielo che ci aspetta, Gesù qui con noi in persona, per aiutarci a salire, Maria di là che ci stende la mano; ed in così santi pensieri, in tanta piena d’inesprimibili affetti abbiamo bisogno d’una parola la quale dica tutto; poiché si vorrebbe, ma non si può dire, con umana parola. E Gesù che non manca a nessuno dei nostri bisogni, mette sul nostro labbro di terra la sua divina parola. Questa parola è il Pater noster, per mezzo della quale noi col tremito della tenerezza potremo sfogarci col Padre nostro in cielo. Questa è la ragione, per cui recitiamo in tutti i misteri il Pater noster.

Il Pater Noster.

Noi diciamo con fiducia Pater Noster, perché  quando siamo uniti con Gesù, che qui con noi preghi nel Sacramento, Egli pare che ci dica: pigliate coraggio, poveri miei figliuoli, giacché in cielo abbiamo il Padre della bontà, il quale è nostro, e di là ci guarda con compiacenza; ed oh! vel dico Io, se vi ama! Egli è desso che mi mandò, che volle venissi pur a morire per salvarvi! E questo ancora: se non vi perdeva di vista quando gli eravate nemici, pensate, che vi potrà mai negare il Padre di tutti beni, ora che gli siete buoni figliuoli. Noi qui fermandoci a contemplar (quasi per renderci più teneramente consapevoli della nostra fortuna), inteneriti alle lacrime gli diremo in risposta: Oh Figliuol di Dio santissimo, voi siete proprio qui colle vostre Piaghe aperte, con questo vostro Cuore che dà del suo Sangue….. Sì, sì! ardiremo dire con voi: O Padre nostra siete nei cieli! Grande Iddio! avete un bell’essere grande, ma noi pur tra la gloria della vostra maestà vi conosciamo che ci siete Padre. Ah vi siete lasciato conoscere per Padre quando mandaste il vostro Figlio a farsi uomo con noi. Deh, Signore, dagli altissimi cieli abbassate lo sguardo sopra questa terra: essa è bene la poca cosa davanti la vostra Divinità; ma sopra questa povera terra abita qui con noi l’eterno vostro Figliuol Divino, di cui tutto vi compiacete, il quale fa causa comune con noi, e con noi grida: o Padre nostro. « È dunque, dice s. Cipriano, il Pater noster la più bella delle preghiere, la quale si innalza diritta al gran Padre dell’universo sotto la forma della figliale affezione; dessa è il grido del Figlio di Dio e di noi figli del suo Figlio al cuor del Padre che abbiamo in cielo. Deve dunque esser per noi la cara cosa ripetere sempre: o Padre, o Padre nostro! » Pigliamo coraggio. – E che? Il buon Pastore, se sente la pecorina belare tra i precipizii, la sia pur scappata la cattivella, corre subito a strapparla via di bocca al lupo, sulle spalle se la porta a seno. E che? Dice ancora Gesù, se vi venisse un amico pure in sulla mezzanotte a bussare alla porta, e gridasse sotto la finestra: — amico, sorgi su; ve” mi giunge or ora da lunga via un amico, ed io non ho neppur un pane da mettergli innanzi; deh imprestamene qualcuno da apporgli, — voi gli potreste dire: ma la è mala creanza disturbarmi a quest’ora! Vedi, io, i miei figliuoli, i miei servitori siam già coricati? e se l’amico non si parte per questo, e batte ancora alla porta: Amico, non negarmi un po’ di pane per carità! Voi non foss’altro, almeno per levarvi quell’importuno, vi alzereste dal letto, e non pur del poco pane, ma lo vorreste fornire di tutto. Voi che non siete poi tanto buoni vorreste fare così coll’amico che vi disturba. Pensate ora che non farà il Padre della bontà divina quando sentirà le nostre voci con quella del Figlio suo gridare tante volte: O Padre nostro, che siete ne’ cieli liberateci dal male. — Il Padre mio, continua Gesù, vel dico io, vi ascolterà. — Si, sì, stiamo pure alla parola di Gesù, che se lo conosce bene il Padre suo. Egli ce l’assicura le tante volte col dirci: « domandate e riceverete; battete e vi sarà aperto, cercate e sì che troverete..» Adunque non ci resta, che pigliarci sul cuore di Gesù, e con lui mettere gemiti verso del cielo : egli è certo che con Gesù tra le braccia, ci faremo ascoltare. Difatti, se una poverina di madre sta col bambinello delle viscere sue, morente di fame alla porta di un ricco buono in una brezza d’inverno che taglia la vita, e il bambino vagisce, egli apre subito la porta, ed ah! le vede sul petto quel bimbo colle braccioline che cadon giù, cogli occhietti annebbiati, gemente, consunto in quei cenci. Non pure il buon ricco, ma chiunque che non avesse che un sol boccone di pane, se lo toglierebbe di bocca per far carità al meschinello. Pensiamo adesso che non vorrà fare con noi la bontà di Dio, quando sente noi poverini, o meglio, sente il Figliuol suo colla nostra, che è sua parola gemere alla porta del cielo, anzi battere al suo cuore paterno! – Su, su dunque; pigliamoci sul cuore Gesù nel Sacramento, e nel Rosario quì presso la porta del cielo, mostriamolo che vagisce Bambino ancora fasciato tra le angustie delle nostre miserie. Su, su; nel Rosario presentiamolo. tutto bagnato di Sangue con ansioso lamento in passione tra le braccia a Maria colle Piaghe sue e le piaghe nostre, che par che senta in se stesso: su, su; nel Rosario leviamo al cielo le braccia, additandolo al Padre che lo tien alla destra in gloria, mentre è pur qui tra noi tutto nostro: battiamo alla porta del cielo: torniamo a battere ancora, dice s. Cipriano; gridiamo, e torniam a gridare: o Padre, o Padre nostro! Oh! se la conosce il Padre la voce del Figlio, che grida di fuori! È la voce del Verbo che gli esce di seno! Il Padre divino, Egli ci par di vederlo tra lo splendore dell’eterna gloria dissipare colla paterna mano i raggianti baleni della sua inaccessibile luce, e guardare giù. Scorgendo il Figliuolo della sua sostanza a supplicare con noi poverini….. ah! ah! il Padre Divino anche a noi risponde col sorriso di Padre…. Sì veramente: noi vorremmo giurarvi che possiamo tutto con Gesù, tutto ottenere da Dio. Ma chi vorrà darci tal confidenza da metterci sul cuore nostro Gesù? Chi?… La sua Madre la quale ce lo portò in terra. Salve dunque, salve o Maria, o gran Madre di Dio, prega Tu per noi peccatori!

Ave Maria.

Né qui è mestieri di molte parole, per far intendere perché ci rivolgiamo a Maria. Sollevati col cuore in paradiso noi così miserabili, in terra abbiamo bisogno d’un cuore che ci voglia il maggior bene senza guardar tanto alle nostre miserie: abbiamo bisogno di un cuore che interpreti tutto quanto il cuor nostro, e che pigli a far tutto per noi. Eh sì: ci si vuole il cuor di una madre, ma che sia da tanto da far rispettare il suo amore, e farsi ascoltare da Dio. Ebbene la fede nostra ce l’addita in cielo sì fatta Madre, e il nostro cuore sa per prova di avere là Maria SS., la Madre di Gesù che Egli ci diede per Madre nostra; e Maria ci ama dell’amore di vera Madre. Ma poveri noi che siam così meschinelli!… Oh! ma appunto, appunto per questo con Maria è da pigliar maggior confidenza. La madre quanto più è deforme il suo figliuolo con tanta maggior compassione lo piglia ad amare: non vi è storpiatello e brutto di bimbo il quale non abbia goduto in seno alla madre le più care tenerezze; ed il rifiuto di tutti è il più caro amore della madre. Ella lascia talvolta andare in festa i suoi figliuoli ben portanti sì, ma, la buona, rimane in casa tutta cura nel melanconico suo amore a tener consolato il figliuol più meschino. –  Che mistero è mai l’amore! egli si pascola volentieri di patimenti per l’oggetto che prende ad amare; e, quando più ha da patire per chi gli è caro, diventa tanto più vivo l’amore e più generoso. Ecco perché le madri amano più vivamente; gli è perché i figli costano loro troppi dolori. Sicché vi ha talvolta una madre che è ad un fil di vita ridotta a morirsi a fine di dare la vita al bimbo suo; ma quando la buona sel vede per dinanzi ricordando gli spasimi per lui sofferti, se lo stringe al seno con tenerezza più viva; e per vendicarsi, gli stampa in volto un caldo bacio. Con questo pensiero noi ci poniamo sul Calvario appiè della croce, quando Gesù moriva per salvare gli uomini perduti a morte in Adamo, e col suo sangue ricreava gli uomini alla vita eterna, facendoli diventare figliuoli di Dio. Contempliamo il mistero della misericordia divina. Come il primo Adamo, negando ubbidienza a Dio, ci perdette tutti, così Gesù, quale secondo Adamo riparatore, si offriva alla volontà di Dio per salvar tutti, col morire per noi. Allora sotto l’albero della colpa stava Eva con Lui d’accordo a nostra rovina. Ancora sotto la croce di Gesù correva pure Maria, e con Lui offriva del suo Sangue nel Sangue del suo Figlio. Quando Gesù agonizzava in croce, il Sangue pioveva giù dalla testa, grondava giù dalle mani, scorreva giù dai piedi, e Maria stava sotto la croce; e il Sangue di Gesù cadeva sul capo, sul volto, sulle mani, sulle vesti a Maria. Gesù, quando si vide lì sotto la sua Madre tutta bagnata di Sangue, ce la diede per nostra Madre. Appunto appunto allora quando Gesù stava per morire e lasciarsi squarciare il petto a fine di mandare dal Cuore il Sangue più vitale, e dare alla Chiesa sua sposa nei sacramenti la virtù di ricreare i figliuoli del Sangue suo alla vita eterna, a somiglianza del Creatore il quale prepara una madre, quando sta per nascere il bimbo, così Egli a noi che dovevamo rinascere figliuoli di Dio, preparava la madre, e per madre nostra ci dava la sua. Maria è pertanto Madre, perché cooperò a ricrearci col Sangue del suo Figlio; e noi siamo figliuoli del suo dolore. Le madri poi sono sempre madri, eziandio coi figlioli che siano stati cattivi. Provati (vorremmo dir qui, se mai si potesse supporre un figliuolo snaturato così da maltrattare la madre) provati, dopo i maltrattamenti di correre piangendo a baciarle la mano, per domandarle perdono, e noi ti assicuriamo, che questa povera madre ti perdonerà col pianto. Così, costandole noi troppi dolori, Maria troppo più vivamente ci deve amare. Ma vi è ben altra cara ragione per cui Maria è Madre nostra. – Qui giova penetrare nel mistero per comprendere bene e gustare come Maria è proprio la nostra Madre. Ed invero le madri sono madri, perché i figliuoli sono del loro sangue; ed a quel modo che una madre può dire al figliuolo delle viscere sue: cara la vita mia! tu sei il mio sangue, così Maria può dire al suo Gesù, perché il sangue di Gesù viene dal cuore di Maria: vita mia! siete voi Sangue mio! Ora il Sangue di Gesù viene con noi in comunione di vita; e Maria vede in noi il Sangue di Gesù suo Sangue. Ah! noi l’intendiamo questo col cuore; e se ci si permettesse un’espressione ardita come l’amor che sentiamo, noi vorremmo dire, che Maria ci guarda più che figliuoli adottivi, ma siccome figliuoli di Sangue. Ora pensiamo qui: se mai vi fosse una madre così fortunata nel mondo, la quale avesse il figlio suo primogenito diventato per avventura il più gran re dell’universo, e poi avesse altri figliuoli dispersi per la terra in abbietta miseria; e il figliuolo suo buono la volesse in reggia onorata regina alla sua destra in trono, dite chi mai vorrebbe al figlio suo in tanta gloria raccomandare in prima se non i poverini suoi figliuoli? Racconteremo un fatto. Di Napoleone, che da umile stato era diventato il più gran re dell’Europa, si racconta, come ad ogni sua nuova conquista volesse egli stesso portare la novella alla propria madre Letizia, a fine di godere della materna consolazione; e come la madre gli rispondesse ogni volta: ne godo assai; ma e i vostri fratelli? e che pur finalmente gli dicesse l’imperatore figliuolo: Mamma, per compiacervi uno de’miei fratelli farò re di Spagna; l’altro re di Portogallo, poi l’altro re di Vestfalia; e quanto alla sorella farolla regina d’Etruria. Vuolsi che a questo la madre con un lungo sospiro gli rispondesse: la vostra madre è felice. –  Deh! fate coraggio e consolatevi, o poveri figliuoli di Maria: la nostra madre è coronata in cielo in trono col Figliuol suo divino. Maria contempla in Paradiso tra lo splendore della divinità il Figlio suo in seno al Padre, e guarda in terra a noi poverini suoi figliuoli in tante miserie; e lì lì scorgendoci per perderci ad ora ad ora: Oh! Figliuol mio, gli dice: gli è Sangue nostro in quei meschinelli! Essa contempla in cielo nel Figlio le gloriose Piaghe e: Figliuol mio, gli soggiunge, queste piaghe nostre le soffrii di riverbero nel mio cuore; e quel Sangue che voi spargeste, venne dal mio seno: poi contemplando in terra le piaghe nostre, e gli ripete: mi par di sentirle nella mia persona quelle loro miserie, perché sono madre vostra, e madre anche di loro! Maria si fissa in cielo nel Costato aperto; e: Mio Gesù, esclama, questa ferita poi la sentii tutta io sola nel mio cuore; deh salvatemi i figli di tanto dolore! Su dunque, da questa povera terra alziamo le grida e il cuore alla gran Madre di Dio, e salutiamola, che è madre nostra. Fortunati noi i quali abbiamo tali parole da dirle, che nessuna creatura si è mai sentito a dire più belle. Queste sono le parole dell’Ave Maria. E da chi le abbiamo imparate? dall’Angelo Gabriele, da santa Elisabetta e dalla santa Chiesa. – Allorché 1’Arcangelo Gabriele fu mandato da Dio a Lei verginella Immacolata in terra per annunciarle che nel suo casto seno dovea nascere il Figliuolo, quel principe del cielo la salutò con tali parole: « Dio vi salvi, o piena di grazia; il Signore è con esso voi; benedetta Voi siete in fra tutte le donne. » I fedeli dell’universo unanimi raccolsero questo saluto e lo ripeterono d’età in età in ogni angolo della terra; e dal fondo di questa valle di lacrime, si vanno consolando tutti a vicenda in ripetendo alla madre del Salvatore « Dio ti salvi, o Maria. » Queste parole debbono commuovere le viscere della Madre di Dio in cielo. Esse ricordano e la predilezione mai più udita di Dio per Lei, e l’istante in cui Ella cominciò ad esser Madre divina, e la sua virtù con cui si metteva nelle mani di Dio, pronta al tremendo martirio di offrire alla morte il Figliuol dell’Eterno, le viscere sue. Poi, a fine di intenerirla più vivamente noi le ricordiamo le consolazioni della carità nell’umana famiglia; e le benediciamo in | seno con l’ispirata Elisabetta il Figliuol del suo Sangue. Infine, acciocché la sia tutta per noi questa Madre divina, colle parole della Chiesa da ogni angolo del mondo le raccomandiamo i bisogni nostri ed il massimo di tutti, quello di spirarle tra le braccia nell’agonia, conchiudendo: « Prega per noi adesso e nell’ora della nostra morte! » Avvi adunque nell’Ave Maria il saluto del cielo, le benedizioni di un ispirato da Dio; e inoltre le grida de’ poveri figliuoli del Sangue del Figlio suo divino. Ora si domanderà di nuovo il perché si ripeta tante volte Ave Maria? per rispondere bisognerebbe saper dire il perché i veri amanti si compiacciano di ripetere le loro più calde espressioni: bisognerebbe sapere spiegare il perché nella vivezza dell’affetto il cuore non si sazi mai di palpitare; anzi come i palpiti medesimi formino il pascolo dell’istesso amore. – Noi però possiamo qui osservare, come eziandio la poesia e il canto, che sono il linguaggio dell’amore, hanno le loro cadenze e posate a misura: ed hanno gl’intercalari, i quali sì ripetono sempre gli stessi. In questi pare che l’anima si fermi a riposo, quasi per pascolarsi a bell’agio di ogni fior di bellezza che le ride d’intorno. Osserviamo anche come nei Salmi quasi di ogni verso la prima parte esprime un pensiero, e la seconda ne ripete il concetto con una cotal simetria: e come allora che si fa più vivo l’affetto, persino proprio le istesse parole tante volte ripetute rendono l’espressione più forte. – La musica poi questa bellissima espressione del sentimento, la quale solleva l’anima nostra e quasi le ali d’angelo le impenna, incominciar suole con un motivo, e tutta vivacità e movimento ed affetto colle onde dell’armonia ci trasporta ne’ campi dell’immaginazione. Quindi quasi a riposare del vagare incerto si raccoglie tratto tratto, e ci rimette in quiete. Poscia ricominciando coll’istesso motivo primiero, ritorna più vivace, e brilla ne” trilli, e s’insegue nelle fughe, e mobilissima al paro dei pensieri dinanzi le varie tinte de’ tuoi affetti ti colora. Aspettiamo un’istante: essa si calma e ritorna ancora sull’istesso motivo. Si direbbe che in quei ritorni l’ispirazione piglia forza a nuovi slanci: e noi ci troviamo come contenti che il tempo del ritmo moderi gli slanci, raccolga i voli e misuri i passi, e così nell’armonia ci ritenga soavemente. Non altrimenti avviene a noi nel Rosario. Noi riposiamo in seno a Maria e le diciamo tutti i nostri segreti: e per questo che le confidiamo noi stessi, pigliamo cuore a confidenze sempre più intime. Colle istesse parole sono diverse assai le cose che le vogliamo dire; è ponendole dinanzi tutti ì nostri bisogni nella piena del cuore ritorniamo a ripetere: Ave Maria, Ave Maria! –  Ma noi vogliamo far intendere fino ai bambini, il perché del ripetere continuo che facciamo: « Ave Maria ». Signori, degnatevi di abbassarvi alla cara semplicità dei bimbi, a cui ci vuol ridotti il Vangelo, ed ascoltate. Immaginate una tenera madre, la quale, di ogni più fine cura circondato il bambino suo, sì lo compone a sedersi sul preparatogli guancialetto. Affinché nulla gli manchi ella gli cerca e pone tra mano i ninnoli a giuocherellare; e quindi, credendolo quieto a trastullarsi, dassi tosto alle faccende domestiche. Il bambolo giuoca per poco, ma poi lasciandosi i ninnoli andar dalle manine, dice: Mamma! con voce amorosa. La mamma è subito a lui, e gli dà un bocconcino; ma il bambino lo lascia tosto cader di bocca, e torna ad esclamare: Mamma!… e la mamma gli porge un po’ d’acqua; ma il bimbo torce dal nappo la testolina, e col riderle negli occhi par che le dica: « E del cuore vostro che voglio io, o mamma, » e ripete ancora: « mamma, e mamma ancora ! » Insomma né il bambino, crediamo, si stanca mai di chiamar la madre, né la madre è mai che si annoj di sentirsi chiamar mamma; né certo principessa o regina sarebbe mai tanto pretendente in orgoglio da sgridare il bimbo, e dirgli: Finiscila una volta con quella tua voce sempre l’istessa: chiamami o principessa, o regina! No, no: né bimbo, né madre non si sazian mai delle ripetute carezze, e dei cari vezzi amorosi. Parimenti noi non ci troviamo mai così bene come quando siamo tra le braccia di Maria a trattar con Dio. Quindi noi non rifiniamo di dirle le tenerezze nostre infinite, di baciarle e ribaciarle le mani, e « di farla interprete con Dio delle nostre parole piene di pianto!… Sî, sì noi la pregheremo continuamente per ora, e per l’istante della nostra agonia, in cui le vogliamo volare in seno… Ave Maria, ora pro nobis nunc et in hora mortis nostræ. Ora se vi è chi non intenda perché noi replichiamo tante volte Ave Maria, povero a lui, egli è senza cuore, oppure non conosce le vie del cuore. Noi godiamo invero di immaginarci nelle case cristiane le famigliole raccolte appiè dell’immaginetta di Maria. Al lume della lampadella tremolante come i nostri cuori innanzi al tabernacoletto, stanno e giovani e più attempati in belli gruppi graziosi; ci par di vedere gli angioli confusi con esso loro a gara fornire ghirlande di rose in recitando il Rosario, ed intrecciare in mezzo ai misteri gaudiosi, come dir perle di candor che innamora: metter dentro, quasi rubini rosseggianti del Sangue di Gesù, ai dolorosi misteri: e diamanti lucentissimi di celeste splendore insertare nei misteri gloriosi, e tutti insieme facendo corona a Maria. Godiamo, godiamo che le nostre famiglie riposino dai travagli della povera vita la sera aspirando i profumi di una vita migliore nel santo Rosario. Noi vogliam con essi ripetere in questo gaudio: « Gloria a Dio, e requie, e luce eterna ai vivi ed ai morti con Gesù, con Maria in Paradiso. » – Ma ahi! che in questa povera valle innaffiata di lagrime strisciano dei rettili a cui fanno noia persin le rose; ed un brutal uomo ebbe l’audacia di stampare sopra una gazzettaccia che fa schifo, il Rosario essere una preghiera stupida !…. Oh!…. oh!…. stupida preghiera il Rosario? Fratelli, trattenete lo sdegno…. perché quel miserabile non poteva che dire così. S. Paolo ci avvisa, che certe bestie di uomini…. animalis homo, non gustano punto le cose di Dio. A questi uomini bestie avviene come ai ciacchi indegni che si avvoltolano in fango. Se mai nel grufolar le immondezze accadesse lor davanti una corona di gioie, l’accefferebbero i brutti col grugno affine di succhiarvi il sudiciume; ma poi rigetterebbero stupidamente le pietre preziose troppo dure alle loro zanne, perché non hanno sapor di schifezza. Così questi miserabili chiamano stupida pratica il santo Rosario, abbandonati che sono da Dio al reprobo senso: abbietti in vita bestiale, quando trattano le immondezze sono nella lor beva allora, e tuffati perdutamente a gola guazzano in brago…. Noi via via torciamo lo sguardo, noi figliuoli di Maria, perché costoro danno in feccia e scolatura d’ogni ribalderia. Ma se i rospi gracidan nella melma e si rituffano nel fango, non ci curiamo di loro altrimenti, e passiamo, senza neppur guardarli, a salutare nel Rosario Maria. – Quando poi vediamo questa pratica del Rosario, usata dai Cristiani nei maggiori loro bisogni, attraversare tanti secoli e conservarsi con sentimento così vivo, così tenero ed universale, noi allora conchiudiamo che questo sentimento deve essere l’effetto di quell’istinto meraviglioso il quale guida divinamente i fedeli nelle pratiche della pietà, anima ed espressione della fede e della vita cristiana. $i, il Rosario deve essere in armonia coi bisogni del cuore dell’umanità cristiana, perché essa tutta comunemente lo adottò e pratica sempre; ed ottenne con esso da Maria i più belli favori e le più care grazie. Ma per dare ai fedeli questa maniera di conversare beatamente con Dio colla forma del santo Rosario, Egli ci voleva un’anima la quale sentisse ben addentro nelle cose del Signore. Ebbene san Domenico fu l’uom fatto secondo il cuore di Dio, per farsi interprete della Chiesa e dei suoi figliuoli. Egli insegnò la formola del santo Rosario: e se ne fece un’arma per abbattere gli Albigesi i quali con mostruosa eresia volevano fare gli uomini un branco di bestie matte e furiose, rotte ad ogni libidine. Tutti i fedeli contenti di averlo da lui imparato se lo insegnarono l’un l’altro, e nol dimenticarono mai più. Non vi è madre cristiana, la quale non l’abbia coi figliuoli recitato. In ogni magnifico tempio, come in ogni chiesuola, nei palagi dorati, come nelle più povere casette dinanzi ad una preziosa immagine come ai piedi di una madonnina di gesso, pontefici, re, regine, artigiani e contadinelle tutti dicono i loro bisogni alla gran madre di Dio nel santo Rosario. Vengono in esso i sacerdoti a dar mano a Maria, e ad offrirsele ad accompagnare Gesù, come Ella, fin sotto la croce, nel sacrificio, il quale sull’altare si ripete. Le sacre vergini sposate a Dio, le giovanette e i fanciulli mettono in salvo i loro gigli in seno all’Immacolata in ripetendo a coro come gli Angioli: Ave Maria. Le monache offertesi al martirio della carità e le povere madri martiri delle famiglie pigliano piangendo in grembo a Maria il balsamo da medicare le piaghe umane ripetendo a gemiti: Ave Maria: le Sacramentine poi gementi d’amore davanti a Gesù nel Sacramento, esclamano tutto il dì e tutta la notte: o Maria, o Maria la benedetta, benedite voi a questo Amor nostro, Gesù, a cui non sappiam meglio parlare che col vostro Cuore!… Ed il povero popolo, quando si trova intorno all’altare e sa che Gesù tratta i suoi interessi col Padre in cielo, va ripetendo ave, ave, Maria, dite voi tutto a Gesù per nol peccatori. Sol che egli si fermi in Chiesa a trattare con Dio, si mette col Rosario tra le braccia a Maria; e quando gli muore sul labbro la parola della preghiera almen si consola, e devoto, come già s. Stanislao Kostka, di tenersi legato alle mani convulse il santo Rosario, come la più bella cosa da presentar alla Regina Madre della misericordia arrivato in Paradiso. Al Rosario sì, al Rosario non altrimenti che i popolani stendono la mano e il cuore anche gli uomini grandi. Il fiero connestabile Anna di Montmorency col Rosario in mano alla testa del cattolico esercito francese contra gli Ugonotti protestanti arrabbiati, mentre dava l’attacco della battaglia si segnava di croce alto gridando: Padre nostro, del cielo… liberaci dal male! Poi: Ave Maria! e tuonava il suo comando: battaglioni, avanti, attaccate alla destra. — Appendeva all’arcion della sella la corona, balenava come un fulmine innanzi a loro nella mischia; e, fugato il nemico, ripigliava in mano il Rosario dicendo: Santa Maria, prega per noi peccatori. Poi: Ave Maria… Battaglioni, attaccate alla sinistra, al centro; e sfondato l’inimico, ripigliava dalla sella in mano la corona dicendo: Santa Maria, prega per noi! — Ah fratelli, se si recitasse ancor da tutti noi il Rosario, non ci colpirebbero tanti insuccessi. Anche Enrico IV confessava altamente che sul trono recitava il Rosario almeno al sabato e alla domenica. Ricorderemo una gloria del Piemonte. Emanuele Filiberto di cui fu detto che non ebbe mai paura in tutta vita, fugati i francesi a S. Quintino, e così fermati i piemontesi sulle Alpi della Savoia, come nelle tende dei forti alla difesa d’Italia e formavale una sicura barriera. Ritornato trionfalmente in Torino il bravo duca alla testa di quella truppa d’eroi, e circondato dai cavalieri dell’Annunziata, fissati per legge in numero di Quindici ad onore dei Quindici Misteri, andava processionalmente recitando coi prodi la Corona a ringraziare della vittoria riportata, Maria santissima nella chiesa del Rosario. Nell’assedio di Torino, mentre cadevano le bombe ad incenerire la città, il beato Sebastiano Valfrè per salvarla, raccoglieva gli inermi innanzi alla cittadella a recitare il Rosario. Ma era riserbato a s. Pio V l’onore di francar col Rosario l’Europa dalla Turchia che la minacciava di schiavitù, giurato avendo il Sultano di voler tagliar la testa a tutti i Cristiani. Pio raccoglie dall’Italia, dalla Spagna e da altre nazioni quel po’ di navi che poté…. Era l’Europa nel più terribile frangente; ma il Papa ordina di recitare il Rosario dappertutto. Nell’ora del cimento Giovanni d’Austria colla bandiera di Gesù in passione dal santo Pontefice a lui affidata, stava nel golfo di Lepanto alla presenza della spaventosa flotta turchesca. Tremendo istante! Le due armate si guardano in solenne silenzio: Giovanni ritto in alto sulla capitana si segna di croce, mette un grido al Padre nostro in cielo, e poi: Ave Maria! e le flotte son nell’attacco. Si alza un vento e spinge le navi cristiane contro la flotta dei turchi: l’Europa è salva, perché la salvò Maria nel Rosario invocata. Pio era in Roma le cento e cento miglia lontano circondato dai cardinali; aprendo in quell’istante la finestra esclamava il Pontefice del Rosario: Ringraziamo Dio, che per Maria siamo salvati. La Chiesa consacrò la vittoria della libertà europea con una festa solenne, che Gregorio XIII volle si chiamasse solennità del santo Rosario, la prima domenica di Ottobre. Conchiuderemo con le approvazioni dei sommi Pontefici le quali per noi cattolici valgono più di tutte altre ragioni a raccomandarlo. Nicolò V, Urbano IV, Innocenzo VIII, Leone X, Adriano VI, Clemente VII, Paolo III, Pio V, Urbano VIII lodarono ed approvarono sommamente il Rosario, e concessero tante indulgenze, per cui guadagnare debbono i fedeli farsi ascrivere alla Compagnia del santo Rosario. Madre di Dio e Madre nostra onnipotente, voi scorgete come freme orrenda e universale la guerra contro i fedeli: un altro Pio ricorre a Voi egli che vi proclamò Immacolata, forse perché nella maggior vostra gloria schiaccerete col piede immacolato la testa alla massima delle eresie!… al panteismo truce il quale si traduce praticamente in latrocinio universale, ed in delitto legale!… Noi non ardiremo più in là; ma pure inabissati nel nostro nulla, mentre nello scuro e pauroso orizzonte muggisce tant’orribile burrasca, nello splendore del vostro trionfo noi vogliamo gridare: Oh vedi l’arcobaleno annunziator della pace all’universo cristiano. È Maria proclamata da Pio IX Immacolata: Maria aiuto al tempo opportuno che noi invochiamo col Rosario. Il quale vi mostreremo a recitare nelle seguenti MEDITAZIONI.

LA GRAZIA E LA GLORIA (30)

LA GRAZIA E LA GLORIA (30)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VI

TOMOPRIMOLIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO IV

Conseguenze delle proprietà personali dello Spirito Santo. – Come in Lui e attraverso di Lui abbiamo la Grazia increata. La sua missione nelle anime.

Abbiamo parlato di due elementi costitutivi del nostro essere soprannaturale: la Grazia increata e la grazia creata; quest’ultima inerente all’anima e figurante ad immagine del Figlio unigenito; la prima dimora nell’anima attraverso la sua sostanza, per essere allo stesso tempo il principio ed il termine dei doni soprannaturali che la trasformano. Si tratta di studiare ciò che lo Spirito Santo sia in questa doppia grazia. Cominciamo con la Grazia increata.

1. – Quando le Scritture e la Tradizione ricordano la venuta della Trinità nei figli di adozione, non basta attribuire questa misteriosa dimora allo Spirito di Dio; esse ci insegnano anche che è attraverso lo Spirito Santo e nello Spirito Santo che il Padre e il Figlio si uniscono alle anime per farvi la loro dimora permanente. L’Oriente e l’Occidente hanno una sola voce per affermarlo. « Attraverso lo Spirito Santo tutta la Trinità abita in noi », scrive il grande Vescovo di Ippona (S. Augustus, de Trinit., L. XV, c. 18, n. 32). S. Basilio ripete con lui: « L’unione con Dio è fatta per mezzo dello Spirito: Dio infatti ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei nostri cuori perché gridassimo: Abba, Padre » (San Basilio, de Spir. S., c. 19. P. Gr 6-2, p. 155). « È nello Spirito che la creatura diventa partecipe del Verbo, e tutti noi entriamo in comunione con Dio solo attraverso di Lui … Poiché, dunque, siamo partecipi di Cristo e di Dio (il Padre), è evidente che l’unzione ed il sigillo che è in noi non appartenga alla natura delle cose create, ma alla natura del Figlio, poiché Egli ci unisce al Padre per mezzo dello Spirito che è in Lui » (Sant’Athan, ep. ad Serap: 4, n. 23; 24, l. cit.). Così parla S. Atanasio; e tale è anche la dottrina che San Cirillo esprime quasi negli stessi termini e contro gli stessi avversari: « Come può lo Spirito essere una cosa creata, Egli mediante il Quale diventiamo partecipi del Padre e del Figlio? Sì, Dio è in noi attraverso lo Spirito Santo » (S. Cirillo. Alex, appendice al Dial, VII de Trinit, P. Gr, L. 75, p. 1124, etc.). Riascoltiamo S. Basilio: « Vedo Dio (il Padre) e lo Spirito abitare inseparabilmente insieme nelle creature. Quanto a te, Eunomio, poiché non puoi negare che nelle testimonianze che ci rivelano questa presenza si tratti dello Spirito increato, affermi che è Dio (il Padre) a portare il nome di Spirito. Ma non sai che Dio non abita da solo nella creatura e che a nessuno è permesso di ascoltare Dio (il Padre), se non dove si parla dello Spirito di Dio? L’Apostolo, appunto, distingue apertamente l’uno dall’altro quando scrive: Dio ce lo ha rivelato per mezzo del suo Spirito. Non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che è di Dio. » Sembra proprio che le due Persone stiano aspettando l’intervento della terza per scendere in noi, così che, volendo abitare in un cuore, la mandano davanti a loro per aprirne le porte e trasformarlo in un tempio degno della loro suprema maestà. Ora, non pensiamo che si tratti di espressioni arbitrarie, senza conseguenze e senza cause, uno di quei giochi di parole in cui si dilettano oratori e poeti. No: perché non si ripresenterebbero così frequentemente negli scritti i più dogmatici dei Padri; ancor meno li sosterrebbero con tanta insistenza sulla parola stessa dello Spirito Santo registrata nelle nostre Scritture. S. Cirillo di Alessandria commenta questo passo della I Lettera ai Corinzi: « Non sapete che le vostre membra sono il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio » (1 Cor., VI, 19: col. II Cor. VI, 16-17). Il santo Dottore esclama: « Perciò noi siamo i templi del Dio vivente. E come mai? Perché Cristo abita in noi per mezzo dello Spirito Santo, e ha nella sua stessa natura colui dal quale sostanzialmente emana, Dio suo Padre » (S. Cirillo. Alex. in h. 1. P. Gr., t 74, p. 371). Ma in nessun luogo essi insistono maggiormente su questa idea che nell’interpretazione di questo bellissimo testo di San Giovanni: « Ciò che ci fa conoscere che noi rimaniamo in Dio e che Dio rimane in noi, è che Egli ci ha resi partecipi del suo Spirito » (I Joan., IV, 13). « Pertanto – conclude S. Atanasio – in virtù della grazia dello Spirito Santo che ci è stata data, noi siamo in Dio e Lui in noi. Di conseguenza, poiché Esso è lo Spirito di Dio, quando è in noi, noi che possediamo questo Spirito siamo veramente in Dio, e Dio per lo stesso motivo abita in noi » (S. Atanasio Or. 3, c. Ariano, n. 23; P. Gr. 26, p. 373). – E S. Agostino: « In questo sappiamo che noi rimaniamo in Dio e Dio in noi, perché Egli ci ha dato il suo Spirito. Molto bene; sia benedetto Dio! Noi sappiamo che Dio abita in noi. Ma chi ce lo ha fatto sapere? Perché Egli ci ha donato il suo Spirito? E come si fa a sapere che ci ha dato il suo Spirito? Chiedete al vostro cuore: se è pieno d’amore, avete lo Spirito di Dio in voi. Ma chi ci insegna questo necessario legame tra la dimora dello Spirito Santo e la carità? È Paolo quando dice: L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (S. Aug. in ep. Joan ad Parth. tr. VIII, n. 12). Continuiamo ad ascoltare lo stesso Agostino. Egli cerca se vi sia un testo nelle Scritture in cui lo Spirito Santo sia esplicitamente menzionato con il termine di carità. Questo testo, egli ritiene, forse a torto, di averlo trovato in queste parole di San Giovanni: Dio è carità (I Joan. IV, 8). Non esaminerò tutte le prove che egli adduce, anche se contengono insegnamenti utili. Ci accontentiamo di notare la seconda parte della sua argomentazione. « Noi troviamo – egli dice, – che la Scrittura chiama chiaramente l’Unico, la sapienza di Dio (1 Cor. I, 24). Troviamo anche che lo Spirito Santo porti da qualche parte il nome di carità? Sì, se meditiamo diligentemente le parole dell’Evangelista. Miei cari – egli dice – amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio. E aggiunge: Chi ama è nato da Dio; e chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è carità (I Joan, IV, 7-8). La carità è Dio, la carità è da Dio. Quindi la carità è Dio da Dio. Ma se lo Spirito Santo è Dio da Dio, perché procede da Dio Padre e da Dio Figlio, il Figlio stesso è nato da Dio Padre e, di conseguenza, è anch’egli Dio da Dio. Quale dei due sarà la carità? Mettiamo da parte il Padre, perché non è da Dio. È il Figlio, è lo Spirito Santo? Quello che segue ci illuminerà… « In questo – dice l’Evangelista (Id., Ibid. 13), sappiamo che noi dimoriamo in Lui (Dio) e Lui in noi, perché Egli ci ha donato il suo Spirito. Perciò è lo Spirito che Egli ci ha dato che ci fa dimorare in Dio e Lui in noi. Ora, questa mutua immanenza è opera della carità, lo Spirito Santo è quindi il Dio carità… ed è di Lui che parla singolarmente la Scrittura, quando essa dice: Dio è carità. Perciò lo Spirito Santo, Dio che procede da Dio, accende nell’anima a cui è stato dato la carità per Dio e per il prossimo, ed è Lui stesso Carità, perché è solo da Dio che viene nel suo cuore dell’uomo, l’amore che egli ha per Dio…. Perciò la Carità che è da Dio e che è Dio, è propriamente lo Spirito Santo che riversa nei nostri cuori la carità, cioè quell’amore di Dio per il quale tutta la Trinità abita in noi. Dilectio igitur quæ ex Deo est et Deus est, proprio Spiritus sanctus est, per quem diffunditur in cordibus nostris Dei charitas, per quam nos tota inhabitat Trinitas. Per questo lo Spirito Santo, pur essendo Dio, è giustamente chiamato Dono di Dio – Atti VIII, 20 – Questo dono divino va inteso come carità, quella carità che conduce a Dio e senza la quale nessun altro dono può condurci a Dio » (S. Aug., de Trin. XV, c. 17e18; n.31 e 32).

2. – Questo testo del grande Vescovo è prezioso. Infatti, dopo averci insegnato che lo Spirito Santo è personalmente Amore; e che attraverso questo Amore tutta la Trinità abiti in noi, ci spiega ancora, almeno in parte, il vero significato del ruolo attribuito in modo così costante allo Spirito Santo.  Lo Spirito Santo, inviato dal Padre e dal Figlio, dono comune del loro amore per gli uomini, attira Dio verso di noi ed attira noi stessi a Dio: questa è la sua funzione. Come si spiega questo? Questa spiegazione può essere data in diverse forme, tutte riconducibili alle caratteristiche ipostatiche dello Spirito Santo, come conseguenze del loro principio. Cominciamo con quella che ci offre l’Angelo della Scuola. È fondamentalmente la stessa che il grande Agostino ci ha appena suggerito. Il Dottore Angelico suppone due principi che abbiamo ampiamente dimostrato: il primo è che Dio non può essere separato né dai suoi effetti né dai suoi doni; il secondo è che le opere d’amore e soprattutto la carità, devono essere l’attributo dell’Amore personale, cioè dello Spirito Santo. Posto questo, ecco come egli ragiona: È necessario che dove c’è l’effetto di Dio, si trovi anche Dio, la causa efficiente. Pertanto, poiché la carità che ci fa amare Dio è in noi attraverso lo Spirito Santo, lo stesso Spirito Santo deve rimanere in noi finché manteniamo in noi la carità. Per questo l’Apostolo ha detto: Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in voi? (1 Cor. III. 16) Egli è in noi, io dico, per fare di noi, mediante la carità, gli amici (gli amanti, amatores) di Dio. Pertanto, poiché è legge dell’amore che l’oggetto amato sia in colui che lo ama, in quanto lo ama, è necessario che attraverso lo Spirito Santo abitino in noi sia il Figlio che il Padre. Per questo il Signore ha detto nel suo Vangelo: Noi verremo a lui, cioè a colui che ama Dio, e prenderemo dimora in lui (Gv. XIV, 23)… « Inoltre, è evidente che Dio ha un amore speciale per coloro che ha reso suoi amici per mezzo del suo Spirito, perché è solo amando che ha donato loro un bene così prezioso. Così leggiamo di Dio che ha detto: Io amo coloro che mi amano (Prov., VII, 8). Infatti, non siamo stati noi ad amare Dio per primi, ma è Lui che ci ha prevenuto con il suo amore (Gv. IV, 10). Ora, come abbiamo detto, ogni oggetto amato è in colui che lo ama. È quindi necessario che attraverso lo Spirito Santo non solo Dio sia in noi, ma che noi stessi siamo in Dio. Per questo è detto in S. Giovanni (I Giovanni IV, 13 e 16): « Colui che rimane nella carità, dimora in Dio e Dio in lui. » E ancora: « Questo è ciò che ci fa conoscere che noi rimaniamo in Lui e che Lui rimane in noi, è che Egli ci ha dato il suo Spirito » (San Thom., c. Gent., c. 21). Come abbiamo visto, tra tutti gli effetti della generosità divina, San Tommaso ha scelto in modo particolare la carità per farne il fondamento della sua interpretazione. Ma tutte le altre operazioni di Dio che si riferiscono all’ordine della grazia possono servire come punto di partenza per la spiegazione che è lo scopo delle nostre ricerche. È che tutti questi effetti, di qualunque natura e in qualunque forma, sono doni di Dio, che emanano dal suo amore, che tendono a perfezionare l’opera della nostra santificazione, che hanno come fine più o meno prossimo quello di unirci a Dio, che contribuiscono alla perfezione soprannaturale della natura intelligente e, di conseguenza, che sono di quelli che la legge di appropriazione ci obbliga a riferire allo Spirito Santo, poiché è l’Amore personale, la Virtù santificante, il Dono di Dio Altissimo, il Complemento della Trinità, l’unione eterna tra il Padre e il Verbo, il suo unico Figlio. Ora, ancora una volta, Dio non può essere separato né dai doni, né dai suoi effetti. Se, dunque, le operazioni che appartengono all’ordine della grazia sono l’attributo speciale dello Spirito Santo, è Lui che deve apparirci per primo in questa venuta di Dio che si conclude con l’inabitazione permanente. Un Padre del IV secolo, Didimo di Alessandria, che forse è meno conosciuto di quanto meriti, ha messo in grande luce questa verità. Anche lui, come tutti i Padri greci del tempo, si batte per la divinità dello Spirito Santo. « Non è – egli dice – una delle sostanze corporee, questo Spirito che abita nelle anime e nei corpi, l’Autore della sapienza e della conoscenza. Non lo classificheremo nemmeno tra le creature invisibili. Tutti questi esseri sono in grado di ricevere la saggezza, le virtù e la santità; ma Egli ne è la causa efficiente e produttiva. Sì, lo Spirito Santo è il santificatore immutabile: è Lui che dà la scienza divina ed ogni bene; diciamo meglio: Egli sussiste nei doni che la munificenza del nostro Dio ci concede. Perché là dove S. Luca e S. Matteo riferiscono lo stesso fatto evangelico, l’uno scrive: Quanto più il Padre celeste farà del bene a coloro che lo pregano (Mt. VII, 11), mentre l’altro dice: Quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che lo implorano (Lc. XI, 13): da questo è evidente che lo Spirito Santo è la pienezza dei doni di Dio: tanto che i doni non esistono senza di Lui, in quanto tutti i vantaggi che i doni liberalmente elargiti da Dio ci procurano, derivano da questa fonte. È evidente, dunque, che lo Spirito Santo sia distinto dalle creature corporee e anche da quelle spirituali, poiché le altre sostanze lo ricevono come una sostanza che le santifica; mentre Egli non riceve alcuna santità dall’esterno, essendo il dispensatore ed il Creatore di ogni santità » (Didyim., de Spirit. S., n. 4, P. Gr., t. 39, p. 1136). Così lo Spirito Santo è nelle grazie di santificazione e, attraverso di esse, nelle anime in cui Dio le riversa, perché ne è il primo Autore. Ma, poiché l’operazione di santificazione è comune alle tre Persone, così comune deve essere anche la presenza nelle anime santificate, benché l’una e l’altra siano particolarmente appropriate allo Spirito Santo. Comprendiamo ora come il Padre e il Figlio siano in noi per mezzo del loro Spirito divino. È la grazia che le fa ivi dimorare; è per mezzo delle operazioni santificanti che Essi vi giungono. (Suppl. L. III, c. 3 e 4). Ma poiché la grazia e tutto l’ordine di effetti ad essa collegati sono per appropriazione dello Spirito Santo, è anche necessario che affermiamo dallo stesso Spirito ciò che è inseparabilmente collegato a questa grazia. Così le altre due Persone sono in noi attraverso lo Spirito Santo, e questo Spirito divino, comunicandosi a noi, ci fa entrare nella partecipazione del Figlio e del Padre (Ci si può chiedere cosa dobbiamo concepire prima, se lo Spirito Santo presente nell’anima o il dono di grazia che Egli comunica. Ecco la soluzione data da San Tommaso: « L’ordine della natura tra diverse cose può essere considerato da diversi punti di vista. In primo luogo, dal punto di vista della materia o del soggetto che riceve; da questo punto di vista la disposizione precede ciò che si prepara a ricevere e, di conseguenza, noi riceviamo i doni dello Spirito Santo prima dello Spirito Santo stesso, poiché è attraverso la ricezione dei doni che noi gli siamo assimilati (e che Lui si unisce a noi). In secondo luogo, dal lato dell’agente e del fine: sotto questo aspetto la priorità appartiene allo Spirito Santo, perché il Figlio ci ha dato gli altri doni attraverso il suo amore (il primo dono). » – S. Thon, D. 14, q. 2, a ad ult. quæsit). – Un’ultima interpretazione, meno completa delle precedenti e tuttavia sufficiente a spiegare più di un testo dei Padri, emerge dall’ordine delle processioni divine. È noto che diversi Dottori d’Oriente, nella loro contemplazione di questo movimento immobile di vita divina da cui deriva la santa e indivisibile Trinità, amano considerare il Padre come una fonte infinitamente piena, che si riversa interamente nel Figlio, senza impoverirsi, e attraverso il Figlio nello Spirito Santo. Lì termina il flusso divino. Ma se la legge delle processioni richiede che la divinità non venga comunicata nella sua identità sostanziale ad altre persone, in modo da appartenere a loro a pieno titolo; perché ella è amore e bontà, l’amore infinito, la bontà sovrana, conserva per così dire un’inclinazione pressante a riversarsi ancora, non più in Dio, ma al fuori da Dio. Cosa farà il flusso divino per soddisfare questo bisogno di espansione? Si frammenterà, come un fiume la cui massa è fermata dalle dighe, almeno per gettare qualche getto delle sue acque schiumose. Dio non voglia che abbiamo questo pensiero della semplicissima e unica Essenza divina. Ma nella sua beata impotenza a diventare la natura di qualcuno che non sia né il Padre, né il Figlio, né lo Spirito Santo, può comunicare alle creature privilegiate una partecipazione di sé stessa; ed è quel che Essa fa quando ci dona la sua grazia e si unisce accidentalmente a noi con questa stessa grazia. Ora, poiché questa comunicazione divina proviene dall’amore e dalla bontà; essendo ancora una naturale ma libera continuazione del movimento eterno che porta l’Oceano della divinità dal Padre al Figlio e dal Figlio allo Spirito Santo, è giusto appropriarne la gloria a questo Spirito, l’Amore personale e l’ultimo termine delle processioni nel seno di Dio. Ho detto: appropriarne; perché, ancora una volta, si tratta di una comunicazione necessariamente comune a tutta la Trinità. – Parliamo delle cose divine in base alle nostre deboli concezioni e secondo il nostro linguaggio ancora più imperfetto. Al punto di partenza, vedo la prima fonte che riversa la sua pienezza in una seconda Persona, e il Padre solo produce il suo Verbo: e il Verbo è nel Padre e il Padre è nel suo Verbo. Nuovo movimento e nuova comunicazione; la pienezza, essendo passata in qualche modo dal Padre al Figlio senza lasciare il Padre, appartiene ora a due Persone divine. Di conseguenza, lo Spirito Santo, la terza Persona, procede allo stesso tempo dal Padre e dal Figlio come da un unico e medesimo principio; e il Padre e il Figlio sono nello Spirito Santo e lo Spirito è in loro, come essi sono in Lui. Poiché l’inclinazione della bontà sovrana la spinge a diffondersi di nuovo, ma al di fuori di Dio, sulla creatura ragionevole, per divinizzarla, non è forse vero che, poiché la pienezza appartiene per la legge stessa della vita divina alle tre Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, sono ora le tre Persone che, con un cuore comune e con un beneficio comune, fanno partecipare questa creatura alla loro pienezza e a se stesse? Tuttavia, la Persona dello Spirito Santo, essendo non solo per sua natura, ma in virtù della sua stessa proprietà, la bontà amorosa che si riversa sulla creatura divinizzata, è Lui che ci tocca per primo in queste comunicazioni ineffabili: è Lui in cui le altre due Persone sono unite e si donano a noi. « Il Padre è la fonte, il Figlio è il fiume e lo Spirito è ciò che noi beviamo. Ma bevendo lo Spirito beviamo Cristo e, attraverso Cristo, suo Padre » (S. Atanasio, ep. ad Serap. 1, n. 19, P. Gr. 26, p. 573).

3. – Ma se il Padre e il Figlio sono in noi attraverso lo Spirito Santo, Egli stesso viene a noi, perché è mandato da loro. … il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre mio manderà nel mio Nome, vi insegnerà ogni cosa, disse di Lui Nostro Signore ai suoi Apostoli (Joan, XIV, 26). E ancora: « Quando verrà il Paraclito (cioè il Consolatore), lo Spirito di verità che procede dal Padre e che io vi manderò dal Padre mio, testimonierà di me » (Gv. XV, 26). E più avanti ancora: « Ora vado da Colui che mi ha mandato. Ed è bene per voi che io me ne vada; perché se non me ne vado, il Consolatore non verrà a voi; ma se me ne vado, ve lo manderò… e quando lo Spirito di verità sarà venuto, vi insegnerà tutta la verità… » (Joan. XVI, 7, 13). Lo Spirito Santo viene in noi; è mandato dal Padre nel Nome del Figlio, e dal Figlio e dal Padre. Cosa significano queste espressioni e qual è la missione dello Spirito Santo? – La missione dello Spirito Santo è l’eterna processione di questo stesso Spirito che si manifesta con un effetto o un’operazione, in virtù del quale è presente in modo nuovo nella sua creatura ed inabita in essa. Noi sappiamo già perché lo Spirito Santo venga in noi e come vi dimori. Ma questa venuta dello Spirito è una missione: perché nel venire procede, esce, per così dire, dal Padre e dal Figlio, e per questo Essi lo mandano, quando viene. Come si può notare, due cose contribuiscono essenzialmente alla missione propriamente detta: la Persona inviata deve venire ad abitare in modo nuovo nella creatura ragionevole ed inoltre, deve trarre la sua origine da un’altra Persona. Pertanto, poiché il Figlio e lo Spirito Santo abitano in noi per grazia e procedono l’uno dal Padre, l’altro dal Padre e dal Figlio, entrambi hanno la loro missione invisibile. D’altra parte, il Padre, che non procede da nessuno, non può essere inviato, anche se viene con il Figlio e lo Spirito Santo a prendere dimora in noi, come nel suo tempio. – Ora, sebbene queste due missioni santificanti, la missione del Figlio e quella dello Spirito Santo, siano inseparabili, sono tuttavia distinte l’una dall’altra, « non nella radice della grazia, ma negli effetti della grazia », secondo l’osservazione del Dottore Angelico (S. Thom, I p., q. 43, a. 5, præsert., ad 3 e 2). Succede che gli effetti non manifestano allo stesso modo le proprietà ipostatiche dell’una e dell’altra Persona. L’effetto è un fuoco che si accende nel cuore e lo incendia con la carità divina? È lo Spirito Santo che si rivela come presente e come inviato. È uno di quei pensieri che vi coinvolgono, vi elevano, il seme e il principio del santo amore? Riconoscere la venuta del Verbo e la sua missione dal Padre: perché dal Verbo di Dio procede l’Amore eterno. Sebbene lo Spirito Santo non entri mai nelle anime senza che il Figlio vi sia stato inviato così come tale, la natura dell’appropriazione ci impone di vedere, nella produzione della grazia e negli incrementi che essa prende nel profondo dei cuori, una missione dello Spirito Santo, piuttosto che la discesa e l’invio del Figlio di Dio. Questo perché tali effetti, come abbiamo dimostrato attraverso la Sacra Scrittura ed i Padri, sono di attribuzione speciale dello Spirito divino; anche perché la nostra vita di grazia è rivelata incomparabilmente più dalla carità che dalla conoscenza, nella volontà più che nella ragione. È per questo che quando, nei primi tempi della Chiesa, a Dio piaceva mostrare visibilmente ciò che faceva invisibilmente nelle anime, i simboli esterni, strumenti di questa manifestazione che, pur essendo opera di tutta la Trinità, significavano direttamente solo la missione del suo Spirito divino (Atti II, VIII, X, ecc.).

LA GRAZIA E LA GLORIA (31)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (26)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (26)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Ultimo ritiro di “Laudem Gloria,, (I.) (*)

« Il mio sogno è di essere

la lode della

sua gloria ».

Giovedì, 16 agosto 1906.

(*) Se si vuol conoscere il pensiero più profondo di suor Elisabetta della Trinità, bisogna ricorrere al suo « Ultimo ritiro ». Essa stessa lo intitolò: « L’ultimo ritiro di Laudem gloriæ », ed è, per così dire, la sua piccola somma mistica, la quintessenza della sua dottrina spirituale nel momento più elevato della sua esperienza mistica. È un vero trattato dell’unione trasformante, quale la concepiva nella linea della sua vocazione suprema di « lode di gloria », e quale interiormente la viveva. E, in esso, lascia un programma di vita a tutte le « lodi di gloria » che più tardi vorranno seguirla nella via di una santità interamente dimentica di sé e tutta orientata verso la gloria purissima della Trinità.

Primo Giorno

« Nescivi »

« Nescivi. Non seppi più nulla » (Cntica; VI, 2): ecco ciò che canta la sposa dei sacri cantici dopo essere stata introdotta nella cella interiore; e questo, mi sembra, dovrebbe essere il ritornello del canto di una « lode di gloria » in questo primo giorno di ritiro in cui il Maestro la fa penetrare sino in fondo all’abisso insondabile, per insegnarle a compiere quell’ufficio che sarà suo per l’eternità, e nel quale già deve esercitarsi nel tempo, che è l’eternità incominciata, ma in continuo progresso. « Nescivi »: non so più nulla, non voglio sapere più nulla, fuorché « la cognizione di Lui, la partecipazione ai suoi dolori, la conformità alla sua morte » (Fil. III, 10). « Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del suo divin Figlio » (Rom. VIII, 29), il Crocifisso per amore. Quando sarò perfettamente conforme a questo divino Esemplare, quando sarò tutta in Lui ed Egli in me, allora adempirò la mia vocazione eterna, quella per la quale Dio in Lui mi elesse « in principio », quella che proseguirò « in æternum » quando, inabissata nel seno della Trinità, sarò l’incessante lode della sua gloria: « laudem gloriæ eius » (Efes. I, 12). « Nessuno ha veduto il Padre, ci dice san Giovanni, se non il Figlio e coloro ai quali è piaciuto al Padre di rivelarlo » (San Giov. VI, 46); e mi pare che si possa soggiungere: Nessuno ha saputo capire il mistero di Cristo nella sua profondità, se non la Vergine santa. Giovanni e la Maddalena sono penetrati molto addentro in questo mistero; san Paolo parla spesso dell’« intelligenza » (Efes. III, 4) che gliene è stata data; eppure, come rimangono nell’ombra tutti i Santi, quando si pensa alla chiarezza interiore della Vergine!… Essa è inenarrabile. Il segreto che « Maria custodiva e meditava nel suo cuore » (San Luca, II, 19) nessuna lingua ha potuto mai rivelarlo, nessuna penna esprimerlo. Questa Madre di grazia formerà l’anima mia, farà sì che la sua figliolina sia un’immagine vivente, « eloquente », del suo « Primogenito » (San Matteo, I, 25), il Figlio dell’Eterno, Colui che fu la perfetta lode di gloria del Padre suo.

Secondo Giorno

« Nel silenzio delle potenze »

« L’anima mia è sempre nelle mie mani» (Salmo CXVIII, 109): è l’intimo canto dell’anima del mio Maestro; ed ecco perché in mezzo a tutte le angosce, Egli rimaneva sempre il Calmo, il Forte. « Porto sempre l’anima mia fra le mie Mani »: che cosa significano queste parole, se non il pieno dominio di sé, in presenza del Pacifico? Vi è un altro canto di Cristo che vorrei incessantemente ripetere: « Per te custodirò la mia fortezza » (Salmo LVIII, 10). E la mia Regola mi dice: « La tua fortezza sarà nel silenzio » (Isaia, XXX, 15). Dunque, serbare la propria fortezza per il Signore mi pare che significhi fare l’unità del nostro essere per mezzo del silenzio interiore; raccogliere tutte le proprie potenze per applicarle al solo esercizio dell’amore, avere quell’occhio semplice che permette alla luce di irradiarci. – Un’anima che scende a patti col proprio io, che si occupa delle sue sensibilità, che va dietro a un pensiero inutile, a un desiderio qualsiasi quest’anima disperde le proprie forze; non è concentrata in Dio. La sua lira non vibra all’unisono; e quando il divin Maestro la tocca, non può trarne armonie divine. Vi è ancora troppo di umano, e si produce una dissonanza. L’anima che si riserba ancora qualche cosa nel suo regno interiore, e le cui potenze non sono « tutte raccolte » in Dio, non può essere una perfetta lode di gloria; essa non è in grado di cantare ininterrottamente il « canticum magnum » di cui parla san Paolo, perché in lei non regna l’unità. E, invece di proseguire la sua lode attraverso tutte le cose, in semplicità, bisogna che si affanni continuamente a radunare le corde del suo strumento. Nel silenzio delle potenze  a disperse un po’ da per tutto. – Come è indispensabile questa bella unità interiore all’anima che vuol vivere quaggiù la vita dei beati, cioè degli esseri semplici, degli spiriti! Mi pare che proprio a questa unità mirava il Maestro divino quando parlava alla Maddalena dell’ « unum necessarium » (San Luca, X, 42). E come lo aveva compreso bene la grande santa! L’occhio dell’anima sua illuminato dalla fede aveva riconosciuto il suo Dio sotto il velo dell’umanità e, silenzio, nell’unità delle potenze, ascoltava la ch’Egli le diceva. Poteva veramente cantare: « Porto sempre l’anima mia nelle mie mani »; e soggiungere la breve parola: « Nescivi ». Sì, ella non sapeva più niente altro che Lui. Potevano far rumore, potevano agitarsi intorno a lei: « Nescivi! ». Potevano accusarla: « Nescivi! ». Nemmeno le ferite recate al suo onore erano capaci, più delle cose esteriori, di farla uscire dal suo sacro silenzio. – Così è dell’anima entrata nella fortezza del santo raccoglimento. Con l’occhio aperto alle chiarezze della fede, scopre il suo Dio presente, vivente in lei; ed ella a sua volta, si tiene così fedelmente presente a Lui nella sua bella semplicità, che Egli la custodisce con cura gelosa. Possono sopraggiungere le agitazioni esterne, le interne tempeste; può venire intaccato il suo onore: « Nescivi! ». Dio può celarsi, può sottrarle la Sua grazia sensibile: « Nescivi! ». E, con san Paolo, esclama: « Per suo amore, ho tutto perduto » (Fil. III, 8). Allora il Signore è libero, libero di effondersi, di donarsi, « a suo beneplacito » (Efes.IV, 7); e l’anima, così semplificata e unificata, diviene il trono dell’Immutabile. Perché l’unità è il trono della Trinità santa.

Terzo Giorno

Alla presenza di Dio

« Stiamo stati predestinati, per disposizione di Colui che compie ogni cosa secondo il consiglio della sua volontà, affinché siamo la lode della sua gloria » (Efes, I, 11-12). San Paolo ci partecipa questa divina elezione, egli che tanto profondamente penetrò nel « segreto celato nel cuore di Dio dall’eternità » (Efes. III, 9). Ed ora egli stesso ci illumina su questa vocazione alla quale siamo stati chiamati: « Dio — egli dice — ci ha eletti in Sé prima della creazione, affinché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nella carità » (Efes. I, 4). Se accosto fra loro queste due enunciazioni del piano divino, « eternamente immutabile », posso concludere che, per compiere degnamente il mio ufficio di « laudem gloriæ », devo tenermi in mezzo a tutto e nonostante tutto, « alla presenza di Dio »; l’Apostolo ci dice: « in caritate », cioè in Dio; « Deus caritas est » (San Giovanni, IV, 8): e il contatto con l’Essere divino mi renderà « immacolata e santa » ai suoi sguardi. Tutto questo lo riferisco alla bella virtù della semplicità, della quale un pio autore ha scritto che « dà all’anima il riposo dell’abisso », cioè il riposo in Dio, abisso insondabile, preludio ed eco di quel sabato eterno di cui parla san Paolo: « Noi che abbiamo creduto saremo introdotti in questo riposo » (Ebrei, IV-3). I beati godono questo riposo dell’abisso, perché contemplano Dio nella semplicità della sua Essenza. « Essi lo conoscono come sono conosciuti » da Lui, cioè con lo sguardo semplice della visione intuitiva, ed ecco perché, continua il grande Santo, « sono trasformati di luce in luce, dalla potenza del suo Spirito, nella immagine di Lui » (         II Corinti, III, 18), divenendo così incessante lode di gloria dell’Essere divino che contempla in essi il proprio splendore. – Mi pare che daremmo una gioia immensa al cuore di Dio, se ci esercitassimo, nel cielo dell’anima nostra, in questa occupazione dei beati, e a Lui aderissimo mediante quella contemplazione semplice che riavvicina la creatura a quello stato d’innocenza nel quale Dio l’aveva creata. « A sua immagine e somiglianza » (Gen. I, 26); tale fu il sogno del Creatore: potersi contemplare nella sua creatura, vedere irradiate in essa tutte le sue perfezioni, tutta la sua bellezza, come attraverso un cristallo limpido e terso; non è questa una specie di estensione della sua propria gloria? Per la semplicità dello sguardo col quale fissa il suo Oggetto divino, l’anima si trova separata da tutto quanto la circonda, separata anche e soprattutto da se stessa; allora essa risplende della « cognizione della chiarezza di Dio» (II Cor. III, 18), perché permette all’Essere divino di riflettersi in lei, e tutti i Suoi attributi le sono comunicati. Quest’anima è veramente la lode di gloria di tutti i suoi doni; e in ogni occupazione, anche le più ordinarie, canta il canticum magnum, il canticum novum che fa trasalire il cuore di Dio fin nelle sue profondità. Possiamo ripetere con Isaia: « La tua luce si leverà nelle tenebre, e le tenebre diverranno come il pieno giorno; il Signore ti farà godere un perenne riposo, inonderà la tua anima dei suoi splendori, fortificherà le tue ossa, e tu sarai come un giardino sempre irrigato, come una fontana le cui acque non si esauriscono mai… Ti eleverò al sopra di quanto c’è di più elevato in questo mondo » (Isaia, LVIII, 10 – 14).

Quarto Giorno

Ecco la fede

Ieri Paolo, sollevando un poco il velo, mi permetteva di spingere lo sguardo « nell’eternità dei santi, nella luce » (Col. I, 12), perché io vedessi  la loro occupazione e procurassi, quanto è possibile, di conformare la mia vita alla loro, per adempiere il mio ullicio di « laudem gloriæ ». Oggi san Giovanni, il discepolo che amava, mi schiude le « porte dell’eternità » (Salmo XXIII, 7) perché l’animamia possa nella santa « Gerusalemme, dolce visione di pace (Ufficio della Dedicazione). E, prima di tutto, mi dice che « nonha bisogno di luci, la città,perché lo splendore di Dio la illumina e sua luce è l’Agnello » (Apoc. XXI, 23). Ora, se voglio che la mia città interiore abbia qualche tratto di conformità e di somiglianza con quella del Re immortale dei secoli e riceva la grande irradiazione di Dio, bisogna che io estingua ogni altra luce e che l’Agnello ne sia l’unica face. Ed ecco, mi appare la fede, la bella luce della fede; questa sola deve illuminarmi per andare incontro alle Sposo. Il Salmista canta che « Egli si occulta nelle tenebre » (Salmo XVII, 12); poi, in un altro punto, sembra contraddirsi dicendo: « la luce lo avvolge come una veste » (Salmo CIII, 2). L’insegnamento che per me risulta da questa contraddizione apparente è che devo immergermi nella «sacra tenebra », facendo la notte e il vuoto in tutte le mie potenze. Allora incontrerò il mio Signore, e la luce che lo avvolge come una veste avvolgerà me pure, perché Egli vuole che la sposa sia luminosa della Sua luce, della sola Sua Luce, « ed abbia la chiarezza di Dio » (Apoc. XXI, 11). – Si dice di Mosè che « era incrollabile nella sua fede come se avesse veduto l’Invisibile » (Ebr. XI, 27). Mi pare che tale debba essere la disposizione di una lode di gloria che vuol proseguire, malgrado tutto, il suo inno di ringraziamento: « incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile », incrollabile nel credere all’« eccessivo amore ». .. « Abbiamo conosciuto la carità di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I S. Giovanni, IV, 16). « La fede, dice san Paolo, è sostanza delle cose che speriamo e convinzione di quelle che non ci è dato vedere » (Ebr. XI, 27). Raccolta nella luce che accende in lei questa parola, che cosa importa ormai all’anima sentire o non sentire, essere nella notte o nella luce, godere o non godere? Ella si vergogna, quasi, di fare tali distinzioni; e quando sente di non saper rimanere nell’indifferenza, si disprezza profondamente per il suo poco amore, e rivolge subito lo sguardo al suo Maestro divino per farsi liberare da Lui. « Essa lo esalta — secondo l’espressione di un grande mistico — sulla cima più elevata della montagna del suo cuore », al di sopra, cioè, delle dolcezze e delle consolazioni che da Lui emanano, perché è risoluta a tutto superare per unirsi a Colui che ama. Mi sembra che a quest’anima che possiede una sì grande fede nel Dio-Amore, si possano rivolgere le parole del Principe degli Apostoli: «Voî, che credete, sarete ripieni di un gaudio immutabile e sarete glorificati » (I S. Pietro, IV, 16).

Quinto Giorno

Sulla via del Calvario

« Vidi una grande moltitudine che nessuno poteva enumerare ». Chi sono mai? « Sono coloro che vengono dalla grande tribolazione, che hanno lavato e reso candide le loro stole nel Sangue dell’Agnello; per questo, stanno dinanzi al trono di Dio e Lo servono dì e notte nel suo tempio; e Colui che è assiso sul trono abiterà in essi. Non avran più fame né sete, non li colpirà il sole né ardore alcuno, perché l’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti dell’acqua viva; e Dio asciugherà ogni lacrima dei loro occhi » (Apoc. VII, 9-17). Tutti questi eletti che hanno in mano la palma e che sono bagnati dalla grande luce di Dio, hanno dovuto passare prima per la grande tribolazione, conoscere il dolore « immenso come il mare » (Lam. II, 13) cantato dal Profeta. Prima di « contemplare svelatamente la gloria del Signore » (II Cor. III, 18), essi hanno partecipato agli annientamenti del suo Cristo; prima « di essere trasformati di chiarezza in chiarezza nell’immagine dell’Essere divino » (Ibid.), sono stati conformi all’immagine del Verbo Incarnato, Crocifisso per amore. L’anima che vuol servir Dio notte e giorno nel suo tempio, cioè in quel santuario interiore del quale parla san Paolo quando dice: « Il tempio di Dio è santo, e questo tempio siete voi » (I Cor. III, 18), quest’anima deve essere risoluta di partecipare realmente alla passione del suo Signore. Essa è una riscattata che deve a sua volta riscattare altre anime; e canterà perciò sulla sua lira: « Io mi glorio della croce di Gesù Cristo (Gal. VI, 14) …Con Cristo, sono confitta alla croce…» (GA. II, 19) ed ancora: «Do compimento, nella mia carne, a ciò che manca alla passione di Cristo, per il corpo di Lui, che è la Chiesa » (Col. I, 24). « Alla tua destra sta la Regina» (Salmo XLIV, 19): tale è l’atteggiamento di quest’anima. Essa procede sulla via del Calvario alla destra del suo Re crocifisso che, annientato, umiliato, eppure così forte, calmo e pieno di maestà, va alla sua passione, per far risplendere « la gloria della sua grazia » (Efes. I, 6), secondo l’espressione così forte di san Paolo. Ed Egli vuole associare la sua sposa all’opera di redenzione; ma la via dolorosa in cui la fa camminare sembra alla sposa la via della beatitudine, non solo perché alla beatitudine conduce, ma ancora perché il Maestro santo le fa comprendere che deve superare quello che vi è di amaro nel dolore, per trovarvi, come Lui, il suo riposo. Allora, può veramente servire Dio « notte e giorno nel Suo tempio »; le prove interne ed esterne non possono farla uscire dalla santa fortezza in cui Egli l’ha rinchiusa; non ha più « né fame né sete » perché, malgrado il suo struggente desiderio che fu quello del suo Maestro divino: la volontà del Padre; non sente più « il sole che su lei dardeggia », cioè non soffre più di soffrire; « e l’Agnello può condurla, ora, alle sorgenti della vita », come Egli vuole, come gli pare, perché lei non guarda per quali sentieri passa, ma tiene fisso lo sguardo semplicemente sul Pastore che la guida. Dio, chinandosi su quest’anima, sua figlia adottiva, così conforme all’immagine del suo « Figlio primogenito fra tutte le creature » (Col. I, 15), la riconosce per una di quelle da Lui « predestinate, chiamate, giustificate »; ed esulta nelle sue viscere di Padre, pensando di consumare la opera sua, cioè di glorificarla, trasferendola nel suo regno, perché vi canti, nei secoli senza fine, la « lode della sua gloria ».

LA GRAZIA E LA GLORIA (29)

LA GRAZIA E LA GLORIA (29)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO III

Conseguenze dei caratteri personali. – Lo Spirito Santo è la causa della nostra adozione.

I. – All’adozione dei figli di Dio contribuiscono essenzialmente due elementi: la grazia creata e la Grazia increata; in altre parole, la partecipazione finita alla natura divina con i privilegi che ne derivano e la sostanziale dimora di Dio nell’anima santificata. Ora, se c’è una verità evidente, è che il beneficio dell’adozione, considerato sia in se stesso, sia nei suoi principi costitutivi, è singolarmente attribuito allo Spirito Santo dalle Scritture e dagli interpreti della rivelazione. Quando io interrogo i nostri santi Libri per domandare loro chi ci abbia formato ad immagine del Figlio eterno, chi ci abbia costituiti figli per adozione del Padre, essi hanno una sola risposta: lo Spirito Santo! È lo Spirito Santo che grida in noi, cioè che ci dà il potere di dirci in tutta verità, figli e non più schiavi: Abbà, Padre (Gal, IV, 6-7; Rm VIII, 15); Colui che si unisce alla nostra anima ci fa agire come figli di Dio; Colui la cui intima presenza e operatività testimonia al nostro spirito che non portiamo invano questo titolo glorioso (Rm VIII, 14, 16); Colui il cui possesso ci fa conoscere che abitiamo in Dio e che Dio abita in noi (Joan. V, 13). Tutta la Tradizione fa eco ai Libri Sacri su questo punto. I testi si presenterebbero in abbondanza, se fosse necessario portarli a sostegno di una verità così evidente. Chi non sa, ad esempio, quante volte, parlando del Battesimo, si rappresenta lo Spirito di Dio portato sulle acque, come nei primi giorni del mondo, per fecondarle e infondere loro la virtù di produrre i figli di Dio? È per uno scopo simile che ci mostra lo Spirito Santo che scende sotto forma di colomba al battesimo di Gesù Cristo, non ovviamente per santificarlo, ma per rappresentare ciò che farà nelle membra di Cristo nel Sacramento della loro rinascita e adozione. È impossibile non riconoscere in tutti questi testi e in altri simili un meraviglioso parallelo tra la generazione temporale del Figlio per natura e la nascita spirituale dei figli adottivi. « Come potrà avvenire ciò? Come potrò io, la cui verginità non conosce uomo, diventare la madre del mio Dio? » Questa fu la domanda che la divina Maria pose all’Angelo. E Gabriele le rispose: « lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra » (Lc 1, 34-35). Come può rinascere un uomo già vecchio – si chiede Nicodemo, il fariseo a cui Gesù Cristo predica la rigenerazione spirituale dei figli adottivi? E Gesù gli risponde: « In verità, in verità nessuno può entrare nel regno di Dio se non nasce da acqua e da Spirito Santo » (Gv., III. 4-5. Cfr. L. I, c. 2.): dall’acqua, come causa strumentale e secondaria; dallo Spirito Santo, come causa principale e sovrana. – Ho letto in alcuni antichi Dottori, e in particolare in Sant’Ireneo, che lo Spirito di Dio è « il seme vivo e vivificante del Padre » (Sant’Ireneo, de Hæres, L. IV, c. 31, n. 2 P. Gr. t. 7, p. 1069). Una figura audace, di fronte alla quale quasi tutti i Padri che sono venuti dopo di lui sembrano aver indietreggiato, forse per paura dell’abuso che se ne potesse fare. In ogni caso, purché depurato da tutto ciò che potrebbe essere materiale, esso rende felicemente il duplice ruolo dello Spirito di Dio nella concezione del Verbo fatto uomo e nella formazione degli altri figli adottivi, le sue copie e i suoi fratelli (S. Jean Damasc., de F. Orthod., L. III, c. 2: P. Gr. t. 7, p. 985, col. S. Thom. P., q. 32, a. 2, ad 3; S. Thom, 3. p:, q. 32, a. 2, ad 2). In entrambi i casi, è la virtù fecondante dello Spirito di Dio che opera, là nel grembo della Vergine, qui nel grembo delle acque, secondo un paragone più volte usato dalla Chiesa. – Non mi dilungherò oltre su questo parallelo. Quanto ho detto è più che sufficiente, non solo per mostrarci nello Spirito Santo l’autore e la fonte della nostra adozione, ma anche per insegnarci il significato di questa formula. L’analogia, direi quasi l’identità delle espressioni, ci avverte a sufficienza che definire l’analogia, direi quasi l’identità delle espressioni, ci avverte abbastanza che definire il ruolo dello Spirito Santo nel concepimento del Dio-Uomo significa anche dare una comprensione di ciò che Egli sia nella nostra nascita soprannaturale.

2. – Ora, cosa ci insegna la teologia sul significato di questa formula del simbolo o di altre equivalenti: « Concepito di Spirito Santo? » Lo Spirito Santo è il principio che, unendosi all’umanità del Salvatore, costituirebbe formalmente il Dio fatto uomo? – Sarebbe un’eresia crederlo, e non c’è nulla nei testi che permetta una simile interpretazione. Vogliamo dire, almeno, che l’operazione che Nostro Signore formò nel sacro grembo della Vergine, fosse l’operazione propria e personale dello Spirito Santo? No ancora: perché la fede ci insegna che le operazioni esterne di Dio, di qualunque natura, e qualunque effetto producano, sono comuni alle tre Persone divine. « Il Padre mio – rispondeva Gesù ai farisei ipocriti e invidiosi che gli rimproveravano di violare il sabato con le sue opere miracolose – il Padre mio opera sempre e anch’io opero. Tutto ciò che il Padre fa, il Figlio lo fa come lui. » (Joan. V, 17-19). Uno stesso Dio può avere una sola natura, una sola volontà, una sola potenza e, di conseguenza, una sola azione indivisibile. – E allora perché attribuiamo così costantemente allo Spirito Santo ciò che non è affatto suo come principio formale, né di Lui solo come causa efficiente? È qui che dobbiamo fare riferimento alle leggi di appropriazione. Senza dubbio, l’operazione misteriosa che formerà l’umanità del Salvatore e lo unirà sostanzialmente al Verbo eterno, non è di una Persona a sé stante. Ma questa operazione, per quanto comune, presenta una particolare affinità e speciali analogie con le proprietà di questo Spirito divino; ed è questo il fondamento dell’appropriazione. Diamo ancora una volta la parola al dottore Angelico. Dopo aver dichiarato che il concepimento del corpo di Nostro Signore è opera di tutta la Trinità, considera tre ragioni principali che ci obbligano ad attribuirlo singolarmente allo Spirito Santo (S. Thom., 3 p., q. 32, a. 1. Cfr. Leon. XIII, Encycl. Divinum, 1897). È necessario tradurli quasi per intero, poiché, riportandoli, daremo così ciò che rende il mistero dell’adozione appropriato allo stesso Spirito. – « Ciò che richiede questa appropriazione, dice, è innanzitutto la causa dell’Incarnazione, considerata dal lato di Dio. Perché lo Spirito Santo è personalmente l’amore del Padre e del Figlio. Ora, l’incarnazione del Figlio di Dio, nel grembo purissimo della Vergine, è eccellentemente un’opera d’amore, perché il Salvatore stesso ha detto nel suo Vangelo: Dio ha tanto amato il mondo da dargli il suo unico Figlio (Joan. III, 16). Ciò che ancora la richiede è la causa dell’Incarnazione, considerata dal lato della natura che il Verbo ha fatto sua. Infatti, da questo impariamo che, se l’umanità del Salvatore è entrata nell’unità della sua Persona, non è stato per merito suo, come alcuni eretici hanno sognato, ma per semplice liberalità, per pura bontà. Non è forse allo Spirito Santo, il Dono sostanziale di Dio, che la Scrittura attribuisce tutta la grazia, secondo le parole dell’Apostolo: c’è grande diversità di grazie, ma non c’è che uno stesso Spirito. (I Cor., XII, 4). Infine, ciò che la richiede è l’Incarnazione, considerata dal punto di vista del suo fine: perché si stava facendo l’uomo, concepito dalla Vergine Maria, il Santo per eccellenza e il Figlio eterno del Padre. Ora, la terza Persona della Trinità non è forse lo Spirito Santo, lo Spirito di santificazione (Rom. I, 4; Luca, I, 35)? Vediamo che è attraverso i tre caratteri personali che abbiamo studiato nello Spirito Santo, e per la triplice relazione del mistero con questi stessi caratteri, che il Dottore Angelico dà conto dell’appropriazione allo Spirito Santo di un’opera essenzialmente comune alle tre Persone. – Cosa serve perché le stesse considerazioni ci facciano intendere come e perché l’opera di adozione sia singolarmente affermata dallo Spirito Santo? Basta cambiare semplicemente i termini. Anch’essa è opera dell’amore (Bossuet, Meditazione sul Vangelo, Serm. Sulla montagna, 22° giorno); anch’essa previene ogni merito; anch’essa conduce direttamente alla vita soprannaturale dell’adottato, cioè alla santità, Aggiungiamo che è il più alto complemento della natura razionale e che, di conseguenza, anche da questo punto di vista, ha la sua speciale affinità con Colui che ci è apparso come l’ultima perfezione della Trinità, il sigillo delle processioni divine. – Ci sono forse alcuni per i quali questa idea di appropriazione è poco più di una parola, vuota di significato, incapace di fornire una spiegazione dei fatti e dei testi che si vogliono interpretare a suo aiuto. Ma immagino che lo giudicherebbero in modo molto diverso, se avessero meditato a sufficienza su ciò che essa implichi e su ciò che essa contenga. Non è dunque nulla dire dello Spirito Santo che abbia, nella sua proprietà personale, delle ragioni particolari per essere considerato l’autore della nostra adozione; titoli che le altre Persone non possiedono in virtù del loro carattere ipostatico e, di conseguenza, un diritto singolare di rivendicare per sé tutto ciò che contribuisce a renderci figli adottivi di Dio? Ed ecco ciò che è per gli Scolastici e per noi, l’appropriazione. – È quindi facile comprendere perché le Sacre Scritture, e la Chiesa dopo di esse, volendo darci una qualche comprensione delle misteriose proprietà dello Spirito divino affermano specialmente di Esso ciò che di sua natura è opera comune di tutta la Trinità. Possiamo anche intravvedere quale significato dobbiamo dare sia a queste espressioni, sia ad altre dello stesso tipo, che citiamo nel primo libro: « Ogni creatura (santificata) diventa partecipe del Verbo nello Spirito Santo: è attraverso lo Spirito che partecipiamo alla natura divina… è attraverso di Lui  che siamo rinnovati. (S. Atanasio, ad Serap., cp. 1, n. 22-24, P. Gr., t. 26, p. 582, ss.); attraverso di lui il Cristo è formato in noi (S. Cirillo, de Trinit, Dial. VIII, t. cit. Papa S. Leone ha riassunto molto felicemente le idee contenute in questo capitolo: « Cujus spiritalem originem in regeneratione quisquis consequitur; et omni homini renascenti aqua baptismatis instar est uteri virginalis, codem Spiritu replente fontem qui replevit et Virginem ». S. Leo M. sermo in Nativ. Dom. 4. Ibid. p. 211, P. L. t. 54, p. 206. E ancora: « Factus est (Unigenitus) homo nostri generis, ut nos divinæ naturæ possimus esse consortes. Originem quam sumpsit in utero Virginis, posuit in fonte baptismatis; dedit aquæ quod dedit matri: virtus enim Altissimi et obumbratio Spiritus sancti quæ fecit ut Maria pareret Salvatorem, ædem facit ut regeneret unda credentem. Idem Serm. in Nativ. Dom s. Ibid. p. 211. Non sarà inutile, alla fine di questo capitolo, osservare che Leone XIII, nella sua Enciclica Divinum illud munus, ha confermato con la sua autorità la dottrina comune dell’appropriazione. « Non quod perfectiones cunctæ (divinitatis) atque ope a extrinsecus edita Personis Divinis communia non sint :… verum quod ex comparatione quadam et propemodum affinitate quæ inter opera ipsa et personarum proprietates intercedit, ea alteri potius quam alteri addicuntur, sive ut aiunt, appropriantur ». Da ciò consegue che le opere di santificazione sono generalmente attribuiti allo Spirito Santo). Pertanto, tutti questi favori divini non sono altro, nella sostanza, che la grazia dell’adozione.

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (25)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (25)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Il Paradiso sulla terra

«Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia.

«Il giorno in cui l’ho compreso, tutto si è illuminato in me; ed io vorrei confidare questo segreto a tutti quelli che amo ».

Come si può trovare il Paradiso sulla terra (*).

(*) Suor Elisabetta della Trinità compose questo ritiro nell’estate 1906, qualche mese prima della sua morte, per rispondere al desiderio di un’anima che le era tanto cara — sua sorella — e che l’aveva pregata di iniziarla al segreto della sua vita interiore. Quì, come nell’« Ultimo ritiro », i sottotitoli sono nostri.

Orazione Prima

La Trinità: ecco la nostra dimora

« Padre, voglio che là dove sono io, siano anche coloro che tu mi hai dati, affinché vedano la gloria che tu mi desti, avendomi amato prima che il mondo fosse » (San Giovanni, XVII-24.). Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema prima di ritornare al Padre. Egli vuole che, là dove è Lui, siamo anche noi, non solo durante l’eternità, ma anche ora, nel tempo, che è l’eternità incominciata e in continuo progresso. È necessario dunque sapere dove dobbiamo vivere con Lui, per realizzare il suo sogno divino. –  « Il luogo dove sta nascosto il Figlio di Dio è il seno del Padre, ossia l’Essenza divina, invisibile ad ogni occhio mortale, inaccessibile a ad ogni intelligenza umana; il che faceva esclamare ad Isaia: «Tu sei veramente un Dio nascosto » (Is. XLV, 15). Eppure, ci vuole stabili in Lui, vuole che dimoriamo dove Egli dimora, nell’unità dell’amore; vuole che siamo, per così dire, quasi la sua ombra. « Il Battesimo — dice san Paolo — ci ha innestati in Gesù Cristo (Rom. VI, 5). E ancora: « Dio ci fece sedere nei Cieli con Cristo, per dimostrare ai secoli futuri le immense ricchezze della sua grazia » (Ephes. II, 6-7). E aggiunge poi: « Non siete adunque più ospiti e stranieri, ma siete concittadini dei Santi ed appartenete alla famiglia di Dio » (Ephes. II, 19) . La Trinità: ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna dalla quale non dobbiamo uscire mai.

Orazione Seconda

« Rimanete in me »

« Rimanete in me» (S. Giov. XV, 4). È il Verbo di Dio che ci dà questo comando, che esprime questa volontà. « Rimanete in me », non per qualche minuto soltanto, per qualche ora che passa, ma « rimanete » in modo permanente, abituale. Rimanete in me, pregate in me, adorate in me, soffrite in me, lavorate, agite. Rimanete in me quando vi incontrate in qualsiasi persona o cosa; penetrate sempre più addentro in questa profondità, poiché essa è veramente « la solitudine in cui Dio vuole attirare l’anima per parlarle » (Osea, II, 14). Ma, per capire questa parola misteriosa, non bisogna fermarsi alla superficie; bisogna entrare sempre di più, col raccoglimento, nell’Essere divino. – « Continuo la mia corsa » (Fil. III, 12), esclamava san Paolo; così noi dobbiamo scendere ogni giorno nel sentiero dell’abisso che è Dio; lasciamoci scivolare su questa china con una fiducia piena d’amore. «Un abisso chiama un altro abisso » (Ps. XLI). Lì appunto, nella profondità inscrutabile, avverrà l’urto divino; l’abisso della nostra miseria, del nostro nulla, si troverà di fronte all’abisso della misericordia, dell’immensità, del tutto di Dio; lì troveremo la forza di morire a noi stessi, e perdendo la traccia del nostro io, saremo trasformati nell’amore. « Beati quelli che muoiono nel Signore » (Ap. XIII, 12).

Orazione Terza

« Il regno di Dio è dentro di voi »

« Il regno di Dio è dentro di voi» (S, Luc. XVII, 21). Poco fa, Dio ci invitava a rimanere in Lui, a vivere con l’anima nell’eredità della sua gloria, ed ora ci rivela, che, per trovarlo, non è necessario uscire da noi stessi, perché « il regno di Dio è dentro di noi ». San Giovanni della Croce dice che Dio si dà all’anima proprio nella sostanza stessa dell’anima, inaccessibile al mondo e al demonio; allora tutti i suoi movimenti divengono divini, e quantunque siano di Dio, sono anche suoi, perché il Signore li produce in lei e con lei. – Lo stesso santo dice ancora che « Dio è il centro dell’anima »; quando, dunque, essa Lo conoscerà perfettamente, secondo tutta la sua capacità, quando Lo amerà e ne gioirà pienamente, allora sarà arrivata nel centro più profondo che in Lui possa raggiungere. È vero che l’anima, anche prima di essere giunta a questo punto, già si trova in Dio che è suo centro; ma non è nel suo centro più profondo potendo inoltrarsi ancora di più. Poiché è l’amore che unisce l’anima a Dio, quanto più intenso è questo amore, tanto più profondamente essa entra in Dio e in Lui si concentra. Possedendo anche un sol grado di amore, è già nel suo centro; ma quando questo amore avrà raggiunto la perfezione, l’anima sarà penetrata nel suo centro più profondo, e lì sarà trasformata a tal punto, da diventare molto simile a Dio. A quest’anima che vive « interiormente » possono essere rivolte le parole del Padre Lacordaire a santa Maria Maddalena: « Non chiedere più il Maestro a nessuno sulla terra, a nessuno nel cielo, poiché Egli è l’anima tua, e l’anima tua è Lui ».

Orazione Quarta

« Se qualcuno mi ama »

« Se alcuno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a Lui, e in Lui porremo la nostra dimora» (San Giovanni, XIV-23). – Ecco, il Maestro ci esprime ancora il suo desiderio di abitare « in noi »: « Se qualcuno mi ama… ». L’amore!… È l’amore che attira, che abbassa Dio fino alla sua creatura; non un amore di sensibilità, ma quell’amore « forte come la morte… che le grandi acque non possono estinguere » (Cant. VIII, 6-7). – « Perché amo il Padre, faccio sempre ciò che a Lui piace » (S. Giov. VIII, 29): così parlava il Maestro divino, ed ogni anima che vuole vivere unita a Lui, deve vivere anche di questa massima, deve fare del beneplacito divino il suo cibo, il suo pane quotidiano, deve, ad esempio del suo Cristo adorato, lasciarsi immolare da tutte le volontà del Padre: ogni incidente, o evento, ogni pena come ogni gioia è un sacramento che le dona Dio; quindi, non fa più alcuna differenza fra l’una o l’altra di queste cose; le oltrepassa, le supera, per riposarsi, al di sopra di tutte, nel suo Dio. E Lo eleva ben alto sulla montagna del suo cuore; sì, più in alto dei Suoi doni e delle Sue consolazioni, più in alto della dolcezza che da Lui discende. La caratteristica dell’amore è di non ricercare mai sé, di non riservarsi nulla, di donare tutto all’oggetto amato. Beata l’anima che ama in verità! Il Signore è divenuto suo prigioniero d’amore.

Orazione Quinta

« Voi siete morti »

«Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio » (Col- III. 3). Ecco che san Paolo viene a farci luce sul sentiero «Voi siete morti »: che cosa vuol dire se non che l’anima la quale aspira a vivere unita a Dio nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento, deve essere distaccata, spogliata e separata da tutto, almeno in ispirito? « Quotidie morior » (I Cor. XV, 31). Quest’anima trova in se stessa un dolce pendio di amore che va a Dio semplicemente; qualunque cosa facciano le creature, essa rimane invincibile; perché passa al di là di tutte le cose, mirando sempre a Dio solo. « Quotidie morior »: muoio ogni giorno; ogni giorno diminuisco, ogni giorno di più rinunzio a me stessa, affinché Cristo cresca e venga esaltato in me. « Quotidie morior »: la gioia dell’anima mia, (quanto alla volontàe non alla sensibilità), la ripongo in tutto ciò che puòimmolarmi, umiliarmi, annientarmi, perché voglio far postoal mio divino Maestro. « Non son più io che vivo; è Luiche vive in me» (Gal. II, 20): non voglio più vivere della miavita, ma essere trasformata in Gesù Cristo, affinché la miavita sia più divina che umana e il Padre, chinandosi sudi me, possa riconoscere l’immagine del « Figlio diletto nelquale ha posto tutte le sue compiacenze ».

Orazione Sesta

« Il nostro Dio è un fuoco consumante »

« Deus ignis consumens » (Ebr. XII, 20). « Il nostro Dio, scriveva san Paolo, è un fuoco consumante, cioè un fuoco d’amore che distrugge e trasforma in se stesso ciò che tocca ». Per le anime che, nel loro intimo, si sono pienamente abbandonate alla sua azione, la morte mistica di cui parla san Paolo diviene tanto semplice, tanto soave! Esse pensano molto meno al lavoro di spogliamento e di distruzione che rimane loro da compiere, che non ad immergersi nel fuoco d’amore che arde in loro, e che è lo Spirito Santo, quello stesso Amore che, nella Trinità, è il vincolo di unione fra il Padre e il suo Verbo. La fede ve le introduce; e là, semplici e quiete, sono da Lui stesso trasportate in alto, più in alto di tutte le cose, al di sopra dei gusti sensibili, fino alla « tenebra sacra », e trasformate nell’immagine divina. Esse vivono, secondo la espressione di san Giovanni, « in società » (I. S, Giovanni, I, 3) con le Tre adorabili Persone; la loro vita è in comune: è la vita contemplativa.

Orazione Settima

« Sono venuto a portare fuoco sulla terra »

« Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e che cosa desidero se non che si accenda?» (San Luca, XII-49.). Il Maestro stesso ci esprime il suo desiderio di veder bruciare il fuoco dell’amore. Infatti, le nostre opere tutte quante, le nostre fatiche sono un nulla al suo cospetto; niente poi possiamo dargli, e nemmeno appagare l’unico suo desiderio che è di accrescere la dignità dell’anima nostra. Vederla aumentare è ciò che più gli piace; ora, nulla può innalzarci tanto, quanto il divenire, in certo senso, uguali a Dio: ecco perché esige da noi il tributo del nostro amore, essendo proprio dell’amore uguagliare, nei limiti del possibile, l’amante all’amato. L’anima che possiede questo amore appare con Gesù Cristo allo stesso livello di uguaglianza, perché il loro reciproco affetto rende ciò che è dell’uno, comune anche all’altro. «Vi ho chiamati amici, perché a voi ho manifestato tutto quello che ho udito dal Padre mio » (San Giovanni, XV-15.). Ma per giungere a questo amore, l’anima deve prima essersi data interamente; la sua volontà deve essersi dolcemente perduta nella volontà di Dio, così che le sue inclinazioni, le sue facoltà, non si muovano più che in questo amore e per questo amore. Faccio tutto con amore, soffro tutto per amore: tale è il senso di ciò che cantava Davide: « Per te custodirò la mia forza » (Salmo LVIII-10.). L’amore, allora, la riempie, l’assorbe, la protegge così bene, che essa trova ovunque il segreto per crescere nell’amore; anche tra le relazioni che deve avere col mondo, tra le preoccupazioni della vita, ha il diritto di dire: mia sola occupazione è amare.

Orazione Ottava

« Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere »

« Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere » (Ebrei, XI-16.). ci dice san Paolo; e soggiunge: « La fede è sostanza delle cose che dobbiamo sperare e convinzione di quelle che non ci è dato vedere » (Ebrei, XI-1.). Cioè, la fede ci rende talmente certi e presenti i beni futuri, che, per essa, prendono quasi essenza nell’anima nostra e vi sussistono prima che ci sia dato fruirne. San Giovanni della Croce dice che la fede « è per noi il piede che ci porta a Dio », che è « il possesso allo stato di oscurità ». Soltanto la fede può darci lumi sicuri su Colui che amiamo, può versare a fiotti nel nostro cuore tutti i beni spirituali; e noi dobbiamo eleggerla come il mezzo sicuro per giungere all’unione beatifica. È la fede quella « sorgente d’acqua viva zampillante fino alla vita eterna » (San Giovanni, IV-14.) che Gesù, parlando alla Samaritana, prometteva a tutti quelli che crederebbero in Lui. La fede, dunque, ci dona Iddio fino da questa vita; ce lo dà ascoso nel velo di cui l’avvolge, ma è tuttavia Lui, Lui realmente. « Quando verrà ciò che è perfetto, (ossia la chiara visione) ciò che è imperfetto (ossia la conoscenza dataci dalla fede) avrà fine » (I Corinti, XIII-10.). « Sì, abbiamo conosciuto l’amore di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I san Giovanni, IV-16.). Questo è il grande atto della nostra fede, il modo di rendere al nostro Dio amore per amore; è il « segreto nascosto è (Col. I, 26) nel cuore del Padre, che riusciamo finalmente a penetrare; e tutto l’essere nostro esulta. Quando l’anima sa credere a questo « eccessivo amore » che su lei si posa, si può dire di lei, come già di Mosè, che essa « è incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile » (Ebrei, XI-27.). Non si arresta più al gusto, al sentimento; poco le importa sentire Dio o non sentirlo, avere da Lui la gioia o la sofferenza: crede al suo amore, e basta, perché, forte di tutti gli ostacoli superati, va a riposarsi nel seno dell’Amore infinito il quale non può compiere che opera d’amore. A quest’anima, tutta desta e attiva nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo la parola che rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: « Va” in pace; la tua fede ti ha salvata » (San Luca, VII-50.)

Orazione Nona

« Conformi all’immagine del Figlio »

« Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del suo divin Figlio; e quelli che ha predestinati, li ha pure chiamati; quelli che ha chiamati li ha giustificati; e quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati. Che diremo noi, dopo tutto ciò? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… Chi mi separerà dalla carità di Gesù Cristo? » (Romani, VIII, 29-30… 35). – Tale si presenta allo sguardo dell’Apostolo il mistero della predestinazione, mistero della elezione divina. « Quelli che Egli ha conosciuti ». Non siamo noi pure di questo numero? Non può forse Iddio dire all’anima nostra ciò che disse un giorno con la voce del Profeta: «Ti sono passato accanto, e ti ho guardata; ed ecco, era giunto per te il tempo di essere amata; e sopra di te, ho spiegato il mio manto; ti ho giurato fede, ho stretto con te un patto, e tu sei divenuta mia » (Ezechiele, XVI-8.). Sì, noi siamo divenuti suoi col Battesimo: questo appunto vuol dire san Paolo con le parole « li ha chiamati », li ha chiamati a ricevere il sigillo della Trinità santa; mentre ci dice san Pietro che « siamo stati fatti partecipi della natura divina» (II san Pietro, I-4.), che abbiamo ricevuto quasi un « inizio del suo Essere » (Ebrei, III-14.). – Poi, «ci ha giustificati » coi suoi sacramenti, coi suoi tocchi, diretti nelle intime profondità dell’anima raccolta; « ci ha giustificati anche mediante la fede » (Romani, V-1.) e secondo la misura della nostra fede nella redenzione acquistataci da Gesù Cristo. Finalmente, vuole glorificarci; e perciò dice san Paolo, « ci ha resi degni di aver parte all’eredità dei santi, nella luce » (Colossesi, I-12.), ma noi saremo glorificati nella misura in cui saremo trovati conformi all’immagine del suo divin Figlio. Contempliamo dunque questa immagine adorata; restiamo sempre nella luce che da essa irradia, affinché si imprima in noi; poi accostiamoci alle persone, alle cose tutte, con le stesse disposizioni di animo con cui vi si recava il nostro Maestro santo; allora realizzeremo la grande volontà per la quale Dio ha in sé prestabilito di « instaurare tutte le cose in Cristo » (Efesini, 1-9).

Orazione Decima

« Il Cristo è la mia vita »

« Stimo tutte le cose una perdita, rispetto alla eminente cognizione di Cristo Gesù, mio Signore; per amor suo mi sono spogliato di tutto, e tutto tengo in conto di immondizia per possedere Cristo… Ciò che io voglio, è conoscere Lui, voglio la partecipazione ai suoi patimenti, la conformità alla sua morte… lo proseguo la mia corsa, cercando di giungere a quella méta alla quale Egli mi ha destinato, raggiungendomi quando lo fuggivo… Ad una sola cosa miro: dimenticando quello che ho dietro le spalle e protendendomi verso ciò che mi sta davanti, corro diritto alla mèta, alla vocazione alla quale Dio mi ha chiamato, in Cristo Gesù » (Filippesi, III-8…). È come dire: io non voglio più nulla, se non essere immedesimato con Lui. « Mihi vivere Christus est » (Fil. I, 21): Cristo è la mia vita!… Da queste frasi, traspare tutta l’anima ardente di san Paolo. Durante questo ritiro — il cui scopo è di renderci più conformi al nostro adorato Maestro, anzi di fonderci talmente in Lui da poter dire: « Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me, e la sua vita che ora vivo in questo corpo di morte la vivo nella fede che ho nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso alla morte per me » (Gal. II, 20): studiamo questo divino modello. La cognizione di Lui, ci dice l’Apostolo, « è così eminente ». Entrando nel mondo, Egli disse: « Gli olocausti non ti sono più graditi; allora ho preso un corpo; ed eccomi, o mio Dio, per fare la tua volontà » (PS. XXXIX, 7-9). E durante i trentatré anni della sua vita, questa volontà fu così perfettamente il suo pane quotidiano, che nel momento di rendere l’anima sua nelle mani del Padre, poteva dirgli: « Consummatum est » (San Giovanni, XIX, 30); sì, la tua volontà, tutta la tua volontà, io l’ho adempiuta; per questo « ti ho glorificato sulla terra» (San Giovanni, XVII, 4.). – Infatti, Gesù parlando ai suoi Apostoli di questo nutrimento che essi non conoscevano, spiegava loro che « consisteva nel far la volontà di Colui che l’aveva inviato sulla terra » (San Giovanni, IV-34.). . E poteva dire: « Io non sono mai solo (San Giovanni, VIII, 16); « Colui che mi ha mandato è sempre con me, perché io faccio sempre ciò che a Lui piace» (Idem, VIII, 29).  Mangiamo con amore questo pane della volontà di Dio; se talvolta la sua volontà sarà più crocifiggente, potremo dire anche noi col nostro adorato Maestro: « Padre, se è possibile, allontana da me questo calice »; ma aggiungeremo subito: «« Non come voglio io, ma come vuoi tu »(S. Matteo, XXVI, 39); quindi, calme e forti, saliremo noi pure il nostro Calvario col divino Condannato; cantando nel profondo dell’anima, ed elevando al Padre un inno di ringraziamento, perché coloro che camminano in questa via dolorosa sono « gli eletti ed i predestinati ad essere conformi all’imamagine del suo divino Figlio » (Rom. VIII, 29), il Crocifisso per amore!

Orazione Undicesima

L’adozione dei figli di Dio

« Dio ci ha predestinati all’adozione di figli per mezzo di Gesù Cristo, in unione con Lui, secondo il decreto della sua volontà, per far risplendere la gloria della sua grazia mediante la quale ci ha giustificati nel Figlio suo di letto, nel quale noi abbiamo la redenzione per il sangue di Lui, la remissione dei peccati secondo le ricchezze della grazia la quale ha sovrabbondato in noi, in ogni sapienza e prudenza (Ephes. I, 5-8). L’anima, divenuta realmente figlia di Dio è, secondo la parola dell’Apostolo, mossa dallo Spianto stesso: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio… ». « Noi non abbiamo ricevuto lo spirito di servitù per guidarci ancora nel timore, ma lo spirito di adozione a figli, nel quale esclamiamo: — Abba! Padre! — Infatti, lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figlioli di Dio; ma, se siamo figli, siamo anche eredi; dico eredi di Dio e coeredi di Cristo, se però soffriamo con Lui per essere con Lui glorificati » (Rom. VIII, 14-17). E proprio per farci raggiungere questo abisso di gloria, Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza. – « Osservate — dice san Giovanni — quale carità ci ha usata il Padre, concedendoci di essere chiamati figli di Dio, e di esserlo realmente. Adesso, noi siamo figli di Dio; ma non si è ancora manifestato quel che saremo. Sappiamo che, quando si svelerà, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo quale Egli è; e chiunque ha questa speranza in Lui, si santifica, come Egli stesso è santo » (I San Giovanni, III, 1-3). Ecco la misura della santità per i figli di Dio: essere santi come Dio, essere santi della santità di Dio, vivendo in contatto intimo con Lui, « di dentro », nel fondo dell’abisso senza fondo. L’anima sembra avere allora una certa somiglianza con Dio il quale, pur trovando in ogni cosa le sue delizie, mai non ne trova quanto in se stesso, possedendo in sé un bene sovraeminente dinanzi al quale tutti gli altri beni scompaiono. Così, tutte le gioie che all’anima sono concesse, sono per lei come altrettanti inviti a gustare il Bene che possiede, preferendolo a tutto, perché nessun altro bene può essergli paragonato. « Padre nostro che sei nei cieli » (San Matteo. VI, 9). Nel piccolo cielo che Egli si è  fatto nel centro della nostra anima dobbiamo cercarlo e qui, soprattutto, dobbiamo dimorare. Cristo diceva un giorno alla Samaritana che « il Padre cerca veri adoratori in spirito e verità » (San Giovanni, IV-23); ebbene, per dare gioia al suo cuore, siamo noi questi adoratori. Adoriamolo in spirito, cioè avendo il cuore e il pensiero fissi in Lui e lo spirito pieno della cognizione di Lui, mediante il lume della fede. Adoriamolo in verità cioè con le opere, perché con queste soprattutto mostriamo se siamo veraci e sinceri, facendo sempre ciò che piace al Padre di cui siamo figli. Adoriamolo in spirito e verità cioè per mezzo di Gesù Cristo e con Gesù Cristo, perché Lui solo è il vero adoratore in spirito e verità. Allora saremo figli di Dio, ed esperimenteremo la verità di queste parole di Isaia: « Sarete portati sul seno, e sulle ginocchia sarete accarezzati » (Isaia, XLVI-12.). Infatti, sembra che Dio sia tutto e unicamente occupato nel colmare l’anima di carezze e di segni di affetto, come fa una mamma che alleva la sua creaturina e la nutre del suo latte. Oh, siamo attente alla voce misteriosa del Padre che ci dice: « Figliola mia, dammi il tuo cuore » (Prov., XXIII-26.).

Orazione Dodicesima

La Vergine dell’Incarnazione

« Si scires donum Dei! Se tu conoscessi il dono di Dio » (San Giovanni, IV-10.), diceva una sera il Cristo alla Samaritana. Ma che è mai questo dono di Dio, se non Lui medesimo? Il discepolo prediletto ci dice: « Egli è venuto nella sua casa, ma i suoi non l’hanno ricevuto » (San Giovanni, I-11.). E san Giovanni Battista potrebbe ripetere ancora a molti quel suo rimprovero: « C’è, in mezzo a voi — in voi — uno che voi non conoscete » (San Giovanni, 1-26.). « Se tu conoscessi il dono di Dio!». Ma una creatura che ha conosciuto questo. dono di Dio, che non ne ha lasciato disperdere la minima particella; una creatura così pura, così luminosa, da sembrare, lei, la stessa Luce: « Speculum iustitiæ »; una creatura la cui vita fu tanto semplice, tanto nascosta in Dio, che quasi nulla se ne può dire. Virgo fidelis: è la Vergine fedele, colei che « custodiva tutto nel suo cuore (San Luca, I, II, 51). Se ne stava così umile, così raccolta dinanzi a Dio nel segreto del Tempio, che attirò le compiacenze della Trinità santa. « Perché Egli ha rivolto lo sguardo alla piccolezza della sua ancella, ormai tutte le generazioni mi chiameranno beata» (San Luca, I, 48). Il Padre, chinandosi verso questa creatura così bella, così ignara della sua bellezza, volle che fosse, nel tempo, la Madre di Colui di cui Egli è Padre nell’eternità. Intervenne allora lo Spirito d’Amore che presiede a tutte le opere divine; la Vergine disse il suo « fiat »: « Ecco l’ancella del Signore; si faccia di me seconde la tua  parola » (62), e il massimo dei misteri si compì. Con la discesa del Verbo in lei, Maria fu per sempre la preda di Dio. – La condotta della Vergine nei mesi che passarono tra l’Annunciazione e la Natività mi pare debba essere di modello alle anime interiori, a quelle anime che Dio ha elette a vivere raccolte « nel loro intimo », nel fondo dell’abisso senza fondo. Con quanta pace, in quale raccoglimento, Maria agiva e si prestava ad ogni cosa! Anche le azioni più ordinarie erano da Lei divinizzate perché, in tutto ciò che faceva, la Vergine restava pur sempre l’adoratrice del dono di Dio; né questo le impediva di donarsi attivamente anche pella vita esteriore, quando cera da esercitare la carità: il Vangelo ci dice che « Maria percorse con grande sollecitudine le montagne della Giudea, per recarsi dalla cugina Elisabetta » (San Luca, I, 39). La visione ineffabile che contemplava dentro di sé non diminuì mai la sua attività esteriore, perché se la contemplazione si volge alla lode e all’eternità del suo Signore, ha in sé l’unità e non potrà perderla mai.

Orazione Tredicesima

Una lode di gloria

«In Lui siamo stati predestinati per decreto di Colui che tutto opera secondo il consiglio della sua volontà, ad essere la lode della sua gloria » (Ephes. I, 11-12): è san Paolo che ce lo dice, san Paolo istruito da Dio stesso. Come attuare questo grande ideale del cuore del nostro Dio, questa sua volontà immutabile riguardo alle anime nostre? Come, in una parola, rispondere alla nostra vocazione e divenire lodi perfette di gloria alla santissima Trinità? In cielo, ogni anima è una lode di gloria al Padre, al Verbo ed allo Spirito Santo, perché ognuna è stabilita nel puro amore e non vive più della propria vita, ma di quella di Dio. Allora essa Lo conosce, dice san Paolo, come è conosciuta da Lui. In altri termini: Una lode di gloria: è un’anima che ha posto la sua dimora in Dio, che Lo ama con amore puro e disinteressato, senza cercare se stessa nella dolcezza di questo amore; un’anima che Lo ama al di sopra di tutti i Suoi doni, anche se non le avesse dato nulla, e che desidera il bene dell’oggetto a tal punto amato. Ora, come desiderare e volere effettivamente del bene a Dio, se non compiendo la Sua volontà? Poiché questa volontà dispone tutte le cose per la Sua maggior gloria. Quest’anima deve dunque abbandorvisi pienamente, perdutamente, fino a non poter voler altra cosa se non ciò che Dio vuole. – Una lode di gloria: è un’anima di silenzio che se ne sta come un’arpa sotto il tocco misterioso dello Spirito Santo, perché Egli ne tragga armonie divine. Sa che il dolore è la corda che produce i suoni più belli; perciò è contenta che vi sia questa corda nel suo strumento, per commuovere più deliziosamente il cuore del suo Dio. –  Una lode di gloria: è un’anima che contempla Dio nella fede e nella semplicità; è un riflesso di tutto ciò che Egli è: è come un abisso senza fondo nel quale Egli può riversarsi ed espandersi; è come un cristallo attraverso il quale può irradiare contemplare le proprie perfezioni ed il proprio splendore. Un’anima che permette in tal guisa all’Essere divino di saziare in lei il bisogno che Egli ha di comunicare tutto ciò che è, tutto ciò che possiede, è veramente la lode di gloria di tutti i suoi doni. Finalmente una lode di gloria è un’anima immersa in un incessante ringraziamento; tutti i suoi atti, i suoi movimenti, i suoi pensieri, le sue ispirazioni, mentre la fissano sempre più profondamente nell’amore, sono come una eco del Sanctus eterno. Nel cielo della gloria, i beati non hanno riposo né giorno né notte, ma sempre ripetono: «Santo, santo, santo il Signore onnipotente …; prostrandosi adorano Colui che vive nei secoli dei secoli »(Apoc. IV, 8). Nel cielo della sua anima, la lode di gloria inizia già l’ufficio che sarà suo in eterno; il suo cantico è ininterrotto e, benché non ne abbia sempre coscienza perché la debolezza della natura non le consente di fissarsi in Dio senza distrazioni, pure rimane sempre sotto l’azione dello Spirito Santo che tutto opera in lei. Canta sempre, adora sempre, è, per così dire, interamente trasformata nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio. Nel cielo dell’anima nostra, siamo lodi di gloria della Trinità santa, lodi di amore della nostra Madre Immacolata. Un giorno, il velo cadrà, e saremo introdotte negli atrî eterni; ivi canteremo nel seno stesso dell’Amore infinito, e Dio ci darà il nome nuovo promesso al vincitore. E quale sarà questo nome?: « Laudem gloriæ ».

LA GRAZIA E LA GLORIA (28)

LA GRAZIA E LA GLORIA (28)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO II.

Cos’è lo Spirito Santo in se stesso. Come Esso sia la Santità santificante, il Dono del Padre e del Figlio, e come un complemento della Trinità.

1. – Se lo Spirito di Dio, la terza Persona dell’adorabile Trinità, è l’amore sostanziale e personale, Esso deve essere lo Spirito Santo, lo Spirito di santità, la Santità Santificante. La conseguenza è evidente. Perché cos’è la santità se non il perfetto amore di Dio, la carità? Un compagno inseparabile in noi della grazia santificante! Questo è il motivo per cui S. Paolo chiama la carità il vincolo della perfezione (Col. V., 14) e il fine della fede (1 Tim., I, 5); per questo è chiamata da San Giacomo il comandamento reale. Amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le proprie forze, è essere santi, tanto più santi quanto più profondamente l’amore di Dio affonda le sue radici nell’anima e più completamente si impadronisce del governo della sua vita. – Interroghiamo la Teologia per imparare da essa ciò che costituisce precisamente la santità. Essa risponde che la santità consiste, prima di tutto, nell’unione dell’anima con Dio come suo principio e fine ultimo; o, per usare altri termini ugualmente consacrati dalla Scuola, nella conversione dell’anima a Dio. Parlo di un’unione, una conversione, non semplicemente transitoria e fugace, ma abituale e permanente per sua natura. Questo significa che il principio fondamentale della santità debba essere l’amore di Dio: perché è l’amore che ci volge verso Dio, come verso il nostro fine ultimo, e ci fa aderire pienamente alla sua suprema bontà; ma è l’amore, come l’abbiamo studiato nel terzo libro di quest’opera, l’amore radicato nella grazia abituale, e che esce da questa grazia interiore come suo principio naturale. – A questo elemento costitutivo della santità ne sono legati altri due che sono solo sue conseguenze: la purezza e la fermezza. La  Purezza: « La santità in sé – dice l’autore dei Nomi Divini – è una purezza libera da ogni crimine, pienamente perfetta, senza la minima macchia » (S. Dion., de div. Nomin., c. 12). Tutto ciò che contamina l’anima, tutto ciò che tende a renderla meno pura, è una deviazione dall’amore, e quindi interrompe o almeno indebolisce e ritarda il suo movimento verso Dio. La Fermezza: perché l’unione del cuore con il Bene Sovrano non è come la tendenza ai beni finiti e contingenti. Questi, essendo solo mezzi con cui dobbiamo aiutarci per tendere all’acquisizione del nostro fine ultimo, devono quindi essere perseguiti solo con misura; ma quello, essendo il nostro fine supremo, richiede una costanza incrollabile nella tendenza. Ho cercato di riassumere fedelmente la dottrina sviluppata più a lungo dal Dottore Angelico (S. Thom. 2. 2. Q. 181, a. 8; Comp. Theol., c. 46-47, ecc.). Questo è sufficiente per farci capire come questi due caratteri dello Spirito Santo, l’amore e la santità, siano legati l’uno all’altro, e di fatto formino una sola e medesima proprietà personale (A sostegno di questa dottrina, citiamo un passo della lettera Enciclica di Leone XIII, Divinum – 9 maggio 1897 -: « Lo Spirito Santo è chiamato Santo, perché, essendo il primo e supremo Amore, dirige le anime verso la santità, che consiste giustamente nell’amore per Dio »). – Lo Spirito di Dio è amore, quindi è unione con la Bontà suprema; un’unione così intima e perfetta che arriva fino all’unità. Lo Spirito di Dio è amore, e questo amore è il termine infinito delle compiacenze divine del Padre e del Figlio nella loro infinita bellezza; quindi, esclude ogni affezione che sarebbe un disordine dell’amore. Lo Spirito di Dio è amore e questo amore è Dio: quindi Esso partecipa alla stabilità eterna ed immutabile di Dio. Non è la Santità sovrana, perfetta? E questa Santità è per eccellenza una virtù santificante. Perché è così? Perché è l’esemplare ed il prototipo di tutta la carità nella creatura; perché la natura propria dell’amore è quella di comunicarsi, di diffondersi, di donare e donarsi; perché il fiume, effuso dal Cuore di Dio, tende con tutto il suo peso a riversarsi nei ruscelli di benefici sulle creature di Dio per santificarle a sua immagine. – È dunque vero che è un tutt’uno, sia che si dica dello Spirito Santo che è Amore, sia che lo si chiami Virtù santificante o santità. Inoltre, questi stessi termini sono dati come equivalenti nei monumenti autorizzati della Tradizione. Così l’undicesimo Concilio di Toledo, nella sua magnifica professione di fede, dice dello Spirito Santo che procede sia dal Padre che dal Figlio: « poiché Esso è la carità o santità dell’uno e dell’altro ». S. Agostino, di cui esso seguiva la dottrina e di cui adottò persino le espressioni, aveva già scritto: « Lo Spirito Santo, essendo uno in essenza con  il Padre ed il suo Verbo, può essere considerato o come la loro comune unità, o come la carità o la santità: unità perché è carità: carità perché è santità » (Sant’Agostino, De Trinit., L. VI, c. 4, n. 7). Trovo le stesse idee in un notevole testo di San Basilio. « La via per la conoscenza di Dio va da un solo Spirito attraverso un solo Figlio a un solo Padre ». E, in un ordine inverso, la bontà naturale e la santità essenziale fluiscono dal Padre attraverso l’unico Figlio allo Spirito Santo » (Basilio, de Spir. S., n. 41. P. Gr, t. 32, p. 153.). Lo stesso pensiero è espresso da Gregorio di Nazianzo: « Voi date conto della nostra fede se insegnate che il Padre è veramente Padre … il Figlio veramente Figlio… lo Spirito Santo veramente Santo, perché non c’è nessun altro Santo come Lui, poiché Egli è la santità medesima » (Greg. Nazianzus, Orat. 25, n. 16: P. Gr. 35, p. 1221).  – E S. Cirillo di Alessandria: « Coloro che affermano che lo Spirito è santo per partecipazione e non per natura, ci dicano cosa è in se stesso e nella sua stessa ipostasi. La Scrittura lo chiama solo Santo… Questo, dunque, è l’appellativo che rende ciò che Egli è nella sua essenza: poiché lo si chiama Santo » (Cyrill Aless., Thesaur., P. Gr., vol. 75, p. 596). Vediamo che lo Spirito Santo riceve dal Figlio e dal Padre attraverso il Figlio. E cosa riceve? La natura divina, senza dubbio; ma, in virtù del suo modo di procedere, è come bontà, cioè come carità e santità, che la riceve. – Gli orientali si dilettano nelle metafore; e se le prodigano quando trattano i nostri più alti misteri, non rimproveriamoli. Infatti, oltre al fatto che Dio stesso ci ha dato un tale esempio nelle Sacre Scritture, niente è spesso più adatto a fare nei nostri misteri ciò che è meglio fare per far capire in essi ciò che ci è dato di capire. Ora, sotto quali immagini ci offrono lo Spirito divino? Abbiamo già visto che: è il profumo delizioso che si sprigiona dal balsamo; è l’olio che penetra nel corpo e nel cuore per santificarli; è il buon odore che emana il fiore nel suo mattino, la dolcezza che si gusta nel miele, il calore che si irradia da un focolare. Sono tutti simboli e figure che ci rappresentano lo Spirito di Dio nella sua relazione con il Padre e il suo Figlio unico. (Cfr. Franzel., de Deo trino, thes. 26; Petav, de Trinit., L. VII, c. 12, n. 11; c. 13, n. 21-22; ecc.) Bisognerebbe non aver mai letto i nostri Libri santi per non sapere che con queste metafore essi sono soliti esprimere l’eccellenza dell’amore puro e santo e i suoi frutti che sono le virtù (II Cor., II, 45, Cant. I, 4, 12, ecc.). – Gli stessi Padri non cessano di presentare la santità santificante come un carattere proprio dello Spirito di Dio. Qui il grande S. Basilio afferma che « lo Spirito Santo, poiché è santo per essenza, è la fonte di ogni santità » (S. Basilio, ep. 8, n. 10; ep. 159, n. 2. P. Gr. t. 32, p. 261 e 621), « Che si tratti di Angeli, di Arcangeli o di tutte le potenze celesti, tutti sono santificati dallo Spirito: perché lo Spirito ha la santità per natura e non per grazia; e per questo porta il nome di Santo in modo singolare. Qui, San Cirillo di Alessandria la chiama « la virtù santificante che, procedendo naturalmente dal Padre, dà agli imperfetti, la perfezione » (S. Cirillo Al., Thesaurus P. Gr., vol. 75, p. 597). – Aggiungiamo un’ultima osservazione che serve come risposta a questa domanda: Il nome Spirito Santo è proprio della terza Persona? Si potrebbe dubitarne: perché Dio per natura è spirito; è santo per essenza, e di conseguenza queste due parole « Spirito Santo », non soltanto separate, ma anche unite tra loro, non esprimono nulla che non si adatti alle tre Persone divine. Bisogna confessare che non è se non per questo nome, somma dei nomi di Padre e del Figlio, che rivelano con il suo significato nativo il carattere distintivo dei primi due. Tuttavia, non è senza motivo che la terza Persona l’abbia ricevuto dalla Scrittura e dalla Tradizione come suo nome distintivo. Infatti, dire che è Spirito è designarlo come il soffio o il movimento d’amore che, provenendo dal cuore di Dio, lo muove verso la sovrana bontà. Dire che è Santo significa implicare che questo stesso amore sia essenzialmente santo, poiché la santità perfetta è l’unione attraverso l’amore con la bontà sovranamente amabile. « Ed è da lì che viene la regola della fede cattolica che chiama la terza Persona lo Spirito Santo, quando ci fa dire: Io credo nello Spirito Santo » (S. Thom., Comp. Theol., c. 47).

2. – Essere il Dono del Padre e del Figlio è il terzo carattere che distingue lo Spirito Santo dalle altre due Persone; e non so se non sia anche frequentemente ricordato nelle Scritture e dai Padri più che quella dell’Amore personale e della virtù santa e santificante. All’inizio del secondo secolo, un grande Vescovo la cui nascita illustrò l’Asia e il cui martirio la nostra Gallia, Sant’Ireneo di Lione, scriveva:  « Dio nella sua bontà ci ha fatto un Dono, e questo Dono, è al di sopra di tutti gli altri doni, perché li comprende tutti in sé: è lo Spirito Santo » (S. Ireneo, c. Hæres, L. IV c. 33, n. 8; n. 4; L.III, c. 17, n. 2). Era d’altronde abitudine in quei tempi remoti, quando si enumeravano le Persone della Santa Trinità, designare la terza Persone con la parola Dono, come dal suo nome proprio (Petav., de Trinit., L. VIII c. 3.). – Sant’Agostino, così ben versato nella lettura dei Padri e dei Dottori antichi, testimonia espressamente che, « per i dotti e grandi interpreti delle divine Scritture, il carattere distintivo dello Spirito Santo è di essere il Dono di Dio » (Sant’Agostino, de Fid. et Symbol., n. 19). Egli stesso nelle sue meditazioni sulla Trinità, cercando con umile e rispettosa curiosità ciò che distingua le processioni in Dio; perché l’una essendo generazione, l’altra non ha come termine un Figlio, si arresta a questa soluzione, come la più certa: « Exiit non quomodo natus, sed quomodo datus; et ideo non dicitur Filius. » La sua origine non è una nascita, ma un dono; in altre parole, Esso è per la sua origine un dono; ed è per questo che non lo chiamiamo Figlio.  (S. August. de Trinit., L. V, c. 14). Questa è la dottrina che la Chiesa riassume mirabilmente quando chiama lo Spirito Santo, nei suoi inni, « Il dono dell’Altissimo, Donum Dei altissimi ». Ora, tutta questa dottrina dei Padri e della santa Chiesa, poggia manifestamente sulle Scritture, come Sant’Agostino ha sottolineato in più di un luogo (Id. ibid. L. XV, c. 19). Gli Atti ci dicono che Simone, quel mago di Samaria, quando vide che « lo Spirito Santo veniva dato ai battezzati con l’imposizione delle mani degli Apostoli, offrì loro del denaro. Disse loro: « Datemi questo potere che coloro sui quali impongo le mani ricevano lo Spirito Santo. » Pietro rispose: « Perisca con te il tuo denaro, tu che hai pensato che il dono di Dio potesse essere comprato con denaro » (Atti VIII, 17-21). Il Signore stesso aveva detto ai suoi discepoli: « Riceverete il dono dello Spirito Santo », cioè il Dono che è lo Spirito, poiché è questo Spirito divino che prometteva loro. (Act. II, 38) – Alla donna samaritana, alla quale chiedeva da bere, Gesù Cristo aveva già risposto: « Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è che ti dice: “Dammi da bere”, avresti potuto chiederglielo, ed Egli ti avrebbe dato il dono dell’acqua viva, che diventa in colui che la beve una sorgente che scorre verso la vita eterna (Joan. IV, 10, 14). E quest’acqua, Dono di Dio, non è altro che lo Spirito Santo. Infatti, dopo aver raccontato come Gesù gridò nel tempio: « Se qualcuno ha sete, venga a me e beva; chi crede in me, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno », l’Evangelista aggiunge subito: « Egli disse questo a causa dello Spirito che avrebbero ricevuto coloro che credevano in lui » (Gv. VII, 37-39). Quest’acqua viva e vivificante è dunque lo Spirito Santo, ed è questo che Gesù chiama il Dono di Dio. Ecco perché San Paolo, parlando dei fedeli, non teme di affermare che tutti « noi siamo abbeverati in uno stesso Spirito » (Cor. XII, 13); oppure, come leggeva Sant’Agostino, « noi tutti abbiamo bevuto dello stesso Spirito ». (S. Agostino, de Trinit., L. XV, c. 19). Questo stesso santo Dottore, avendo riportato questi testi e altri dello stesso genere, conclude in questi termini: « Ci sono molte altre testimonianze nelle Scritture per attestarci di concerto che il Dono di Dio è lo Spirito Santo, in quanto è dato a coloro che amano Dio attraverso di Lui. Tuttavia, sarebbe troppo lungo raccoglierli tutti… Ma, poiché sappiamo che lo Spirito Santo è chiamato Dono di Dio, non turbiamoci quando qualcuno ci parla del dono dello Spirito Santo; ma riconosciamo qui lo stesso tipo di locuzione che fa parlare S. Paolo della spogliazione del corpo. Paolo parla della spogliazione del corpo di carne, in éxpoliatione corporis carnis (Col. II, 11). Il corpo di carne non è altro che la carne; così il Dono dello Spirito Santo è lo stesso Spirito Santo (S. Aug. de Trinit., L. XV, n. 35-37 cum antec.; col. L. V, c. 16, 17). Dunque ,il titolo di dono è in tutta verità singolarmente proprio della terza Persona.

3. – Ma, per quanto solidamente stabilita possa sembrare, questa dottrina offre serie difficoltà che dobbiamo chiarire. Infatti, se la Scrittura ci insegna che lo Spirito Santo è dato a noi da Dio, ci assicura anche che il Padre ci abbia dato il suo unico Figlio, e non vediamo cosa potrebbe impedire al Padre di darsi Egli stesso a tutti. Di conseguenza, la qualità di Dono non è così propria dello Spirito Santo da non appartenere anche alle altre due Persone. Come può allora essere il suo carattere distintivo? Per risolvere questa questione, sono necessarie alcune osservazioni. Il dono, preso nel senso più generale della parola, si dice di tutto ciò che si presti ad essere dato gratuitamente e liberalmente, a qualunque titolo appartenga al donatore, sia per identità che in qualsiasi altro modo. In questo senso, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono anche per loro natura un Dono « Donum Dei ». Perché è così? Perché tutto ciò che caratterizza l’essenza del dono si trova in Dio, qualunque sia la Persona che consideriamo. In effetti Dio, considerato in se stesso, è sovranamente atto ad essere dato: perché il Bene supremo, la fonte di ogni bene, tende per sua natura a comunicarsi; ed è per questo che, senza subire alcun cambiamento o perdita in se stesso, eleva la sua creatura e la porta al più alto grado di perfezione. Non abbiamo visto che il dono creato della grazia ci è dato da Dio come mezzo necessario per possedere e godere il Dono increato?  Inoltre, la donazione che Dio fa di se stesso è sovranamente gratuita e liberale: perché Lui solo riversa la sua generosità, senza che nulla possa obbligarlo a dare, né nell’ordine della natura né nell’ordine della grazia; solo Lui può dare infinitamente. Solo Egli può dare all’infinito, poiché dona se stesso; solo Lui dà senza trarre per sé alcun profitto o utilità dai doni che fa, poiché è tutto il Bene. Perciò si può dire di Dio che Egli solo « è assolutamente liberale, perché non agisce per la propria utilità, ma solo per sua bontà » (S. Thom., 1 p., q. 44, a. 1, ad 1; col. 2. 2, q. 132, a. 1, ad 1).  Sarebbe ozioso cercare di dimostrare che la terza delle condizioni contenute nella nostra definizione sia soddisfatta in Dio, che sia Padre, Figlio o Spirito Santo. Potrebbe non appartenere a se stesso, il cui essere è la sua Essenza, tanto che supporgli qualche dipendenza è distruggere l’idea stessa di Dio? Così, in Dio, la qualità del “dono” è essenziale e quindi comune. – In un senso più stretto, il dono è detto di una cosa liberalmente data, ma distinta dal donatore. Ed è così che solo il Figlio e lo Spirito Santo possono essere dati: il Figlio da suo Padre, lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Se mi chiedete perché il Padre stesso non possa essere il dono increato delle altre Persone, Egli che da un lato è il Bene sovrano, e dall’altro è distinto da loro come loro lo sono da Lui, la risposta è facile: se può essere un donatore, Egli stesso non può essere dato che da se stesso: perché una Persona divina, per essere data, deve in qualche modo appartenere a chi la dona. Ora, solo due modi di appartenenza possono essere concepiti in Dio: uno basato sull’identità della Persona con se stessa, l’altro sulla processione d’origine. Così la santa Scrittura, che ci parla del dono della seconda e della terza Persona (Joan III, 16; XIV, 16), tace costantemente sulla prima. Infine, in un significato ancora più ristretto, il dono può essere preso per quello che, per sua natura, è il primo dono che un donatore fa, quello che precede gli altri in qualità di principio. In questo senso, lo Spirito Santo è singolarmente il Dono di Dio. Questo perché per il suo modo di origine è l’Amore personale, procedendo come Amore dal Padre e dal Figlio, e, di conseguenza, come il primo dei doni, il Dono per eccellenza. Infatti, dice San Tommaso, dal quale ho derivato tutta questa dottrina (S. Thom:, 1p., q. 38, at. 1 e 2), il primo dono non può essere che l’amore: perché il Dono propriamente detto non va senza gratuità. Ora, la gratuità nei doni ha come causa l’amore. Se do gratuitamente, è perché voglio il bene di chi lo riceve; in altre parole, è perché amo. Cos’altro è l’amore se non il dare amore? Quindi, procedere dal Padre e del Figlio come amore, è quindi essere il loro Dono, il Dono infinito, il Dono increato. Ed è in questo senso che Sant’Agostino dice che « per il Dono che è lo Spirito Santo, le membra di Gesù Cristo ricevono i doni propri a ciascuna di esse »  (S. Aug., de Trin., L. XV, 32. 34). Il dono, considerato nel suo senso proprio, si presenta con un doppio rapporto. Un rapporto al donatore, cioè alla Persona che lo possiede e lo fa: e questo rapporto non è altro che il rapporto originario in Dio. In rapporto con il donatario, cioè con la creatura ragionevole che sola è capace di ricevere lo Spirito Santo e di goderne. Come, infatti, possiamo concepire un dono senza pensare a chi può darlo e riceverlo? Tuttavia, non crediamo che, per essere un dono, lo Spirito Santo debba essere attualmente posseduto dalla creatura. Farlo sarebbe negargli questa proprietà personale, poiché, dato solo nel tempo, sarebbe esistito da tutta l’eternità senza essere il Dono di Dio. Perché lo Spirito Santo abbia questo carattere distintivo, è sufficiente che abbia dalla sua processione eterna la capacità e la tendenza ad essere dato, secondo il buon volere di Dio, il Padrone di tutti i doni perfetti. « Perché non è la stessa cosa essere un dono ed essere dato; poiché il dono può esistere prima di essere dato, ma esso non è dato se nessuno lo ha ricevuto. » – Ciò che ho detto sulla doppia relazione che l’idea del dono presenta allo spirito, deve essere inteso anche in relazione alla Santità santificante, questo altro carattere ipostatico dello Spirito divino. Infatti, quando chiamo lo Spirito Santo la santità del Padre e del Figlio, io affermo, non che Egli sia  formalmente ciò che li rende entrambi santi, ma che Egli procede da loro come il soffio, l’irradiazione, l’eterno profumo della loro santità comune; e quando la chiamo santità santificante o virtù santificante, la rappresento come la fonte di ogni santità per le creature, e con questo stesso fatto dichiaro la sua relazione, il suo rapporto con queste stesse creature, considerate come essere  o capaci di diventare giuste e sante attraverso di Lui. Allo stesso modo, affermando dello stesso Spirito che è l’Amore del Padre e del Figlio, l’Amore personale, esprimo di nuovo, almeno in modo confuso, questa doppia relazione. Egli non può meritare questo titolo se non alla sola condizione che sia il frutto della loro comune dilezione. Ora, l’amore con cui Dio ci ama è lo stesso amore con cui il Padre ama il Figlio e il Figlio ama suo Padre. Si può dunque dire in tutta verità che il Padre e il Figlio ci amino come amano se stessi attraverso lo Spirito Santo, perché questi termini, se correttamente intesi, significano una sola cosa, cioè che amando se stessi e noi con lo stesso infinito atto d’amore, producono un termine sostanziale che si riferisce a tutti gli oggetti dell’amore divino: in primo luogo alla Bontà sovrana, e secondariamente al bene delle creature. (S, Thom., 1 p., q. 37, a. 2). Si può aggiungere che senza lo Spirito Santo, l’Amore personale, né il Padre né il suo unico Figlio potrebbero amarci, perché togliere il termine del loro amore reciproco equivarrebbe a distruggere questo amore. È nello stesso senso che i santi Dottori, come ho già osservato, rimproveravano agli ariani di aver tolto al Padre sia l’intelligenza, sia la sapienza in Lui rifiutando un Verbo immanente e consustanziale. Nessuna intelligenza né volontà in atto senza un termine prodotto interiormente che è dove si trova il Verbo o l’amore (Cfr. Petav., de Trinit., L. VI, c. 9: S. Thom, de Potent:, q.10, a. 1; cont. Gent., L. IV, c. 14).  Tutto quello che abbiamo appena scritto sulle caratteristiche personali dello Spirito Santo, si trova in forma breve in un testo di Sant’Agostino. « L’amore che è di Dio e che è Dio, è lo Spirito Santo; questo Spirito per mezzo del quale la carità di Dio è riversata nei nostri cuori, che ci rende  ostie e tempio della Trinità. Ecco perché lo Spirito Santo è anche giustamente chiamato il Dono di Dio. E cos’è questo Dono, se non la Carità che conduce a Dio, e senza la quale nessun altro dono possa condurre a Dio » (S. Agostino, de Trinit., L. XV, n. 32). – Portare a Dio, condurre a Dio, cos’altro è se non la santificazione? Di conseguenza, queste tre caratteristiche dello Spirito Santo, il carattere dell’Amore, il carattere del Dono e il carattere della Santità, sono così essenzialmente unite che ciascuna di esse richiama le altre; o piuttosto, esse formano una sola e medesima proprietà, quella che rende lo Spirito Santo l’Amore personale: poiché questo Amore è la santità sussistente e santificante, e il Dono primordiale su cui si basano tutti i doni e da cui essi procedono. Se, quindi, la concatenazione tra le caratteristiche dello Spirito Santo è così stretta che non si possa affermare o negare l’una senza affermare o negare le altre; benché i Padri dell’Oriente si fossero soffermati di più su questa, e i Padri dell’Occidente sull’altra, non se ne potrebbe concludere nessuna diversità di dottrina: perché, ancora una volta, questi caratteri sono compatibili, e non sono che una stessa proprietà considerata da punti di vista diversi.

4. – Lo Spirito Santo ha ancora un altro nome nei Padri: essi lo chiamano « la pienezza, il complemento della Trinità » (S. Cirillo. Ales. L.-X., in c. XV Joan. P. Gr., L. 74, p. 417; col. Thesaur. Assert. 34. P. Gr., t. 75, p. 607). Egli è il termine supremo della vitalità divina. Poiché se il Padre è nel seno di Dio un Principio senza principio, se il Figlio, nato dal Padre come suo principio, è a sua volta con Lui il principio dello Spirito Santo, lo Spirito Santo non riversa la sua infinita perfezione in nessun’altra Persona. Il torrente della vita divina, che scorre dal Padre come da una sorgente eternamente piena, si ferma nel suo corso a questo Spirito divino. E anche la ragione stessa si rende conto che debba essere così. In uno spirito della massima purezza, qual è il nostro Dio, ogni processione immanente deve essere o per via di conoscenza o per via di amore, e da una parte e dell’altra il termine è essenzialmente uno, perché è essenzialmente infinito. Se si toglie lo Spirito Santo, non si ha l’effusione d’amore che segue naturalmente la contemplazione della bellezza suprema: Dio sarebbe dunque imperfetto. Mettete al contrario una quarta Persona dopo lo Spirito Santo, e questo sarebbe ancora un’alterazione dell’Essere divino, poiché dovreste avere una processione che la natura stessa di uno spirito sovranamente spirituale e sovranamente perfetto respinge. Quindi, lungi dal vedere, in questa apparente sterilità dello Spirito Santo, non so quale inferiorità che lo abbasserebbe al di sotto delle altre due Persone, è suo eterno onore essere così pienamente Dio, così grande, così amabile e così buono che qualsiasi altra Persona, venendo dopo di Lui, rovescerebbe l’intera economia dell’Essenza divina, e offuscherebbe la sua stessa gloria: perché non apparirebbe più come il completo compimento di quella vita per eccellenza, che è la divinità stessa. – Queste considerazioni potrebbero sembrare troppo lunghe, almeno in un’opera in cui il grande mistero della Trinità non sia il tema principale. Spero, tuttavia, che la loro utilità, e persino la loro necessità, sarà compresa quando avremo visto quanto siano importanti per la comprensione del ruolo attribuito dalla Scrittura e dai documenti ecclesiastici allo Spirito Santo nelle opere della grazia e della gloria.

LO SCUDO DELLA FEDE (221)

LO SCUDO DELLA FEDE (221)

MEDITAZIONI AI POPOLI (IX)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE IX

Appello ad arruolarsi senza rispetto umano sotto lo stendardo di Gesù Cristo

Che momento solenne è mai questo! Siamo qui per stringere un patto nuovo di fedeltà col Signore Dio nostro. Benedetti voi, o giovani, che correte coll’ardore della vostra età sotto lo stendardo di Gesù Cristo! Quale arringo vi si apre per la vostra età ventura! quanto bel tempo di far del bene e campo a conquistare vittorie, che vi faranno consolata tutta la vita! Bravi voi, che combattete sempre fedeli sotto la scorta e la guardia del divin Salvatore, e che riposando sopra tante palme raccolte nei passati combattimenti, pigliate conforto a nuove battaglie pel trionfo della eterna gloria! Coraggio a voi convertiti, i quali rimpiangendo un tempo perduto, lo potrete riguadagnare col fervore nel servire a Dio. Pace anche a voi, i quali finalmente, stancati dalle vostre passioni, cercate e troverete riposo tra le braccia del perdono di Dio. Formiamo adunque un popolo di fervorosi che vogliamo essere un esercito di bravi e fedeli soldati di Dio, fino alla morte: tutti insieme siamo la crociata guidata da Gesù Cristo al conquisto del regno eterno. In questa missione io ho fatto come il profeta Samuele. Egli, radunato in massa tutto il popolo di Dio, gli rinfacciò le colpe; per cui aveva meritato tanti castighi; e quel popolo rispondendogli colle strida del più acuto dolore, giurarono insieme nuova fedeltà al Signore: così formossi consolidato il regno d’Israele. Anch’io nella presente missione vi gridai: ritornate al Signore, e voi correste tutti a gittarvi tra le braccia della sua bontà. Oh siamo adunque qui tutti, proprio ancor tutti salvi!… Anche quei nostri amati fratelli, che ci facevano tanto spavento, perché erano già, meschinetti! sopra l’abisso dell’inferno che minacciava d’ingoiarli!… Dio della misericordia! abbracciamoci scampati, come chi per miracolo fuor di naufragio si volta e guata il mare, da cui scappa atterrito. Corriamo tutti al Salvatore nostro Gesù, e serriamoci intorno a Lui, decisi di combattere sotto il suo stendardo fino alla morte. Ecco una società di empii che pretendono di cacciar Dio dal suo regno in terra, e regnarvi essi come fossero déi. Ferve la guerra tutta contro a Gesù accanitissima, perché Egli è Figliuolo di Dio. Se in altri tempi fingevano almeno d’inchinarsi davanti a Lui, acclamandolo il benefattore più grande dell’umanità, e se volevano, ipocriti! Comparire Cristiani, era per loro la religione un affare di convenienza, e la moderazione di quei mondani onorati era la maschera di un vile egoismo. Ora l’attacco è smascherato. Giù giù la maschera, oprudenti del secolo: o con noi e con Gesù; se no, noi contro di voi. Noi combatteremo a visiera alzata: noi colla irrevocabile decisione del martire; noi colla fiducia del trionfatore sulla fronte; noi col grido, terror dei nemici di Dio: Emanuele Gesù è Dio con noi: noi seguendo Gesù fino al paradiso avremo fino all’ultimo nostro sospiro la parola d’ordine: Adveniat regnum tuum! O Gesù Cristo, eterno trionfatore de’ vostri e dei nostri nemici, toglieteci questa vita, se mai tentassimo disertare. O Maria, ausiliatrice al tempo opportuno, terribile come mille schiere ordinate, proteggeteci voi in mezzo a tutte prove, e raccoglieteci in seno a voi fino a quando vi spireremo in seno, coll’anelito del cuore e col labbro in sorriso ripetendo i cari nomi « Gesù e Maria! » Bravi voi, miei cari, che udiste l’appello: siete qui adunque tutti per arruolarvi nell’esercito dei santi combattenti con Gesù Cristo in terra per la conquista del suo regno. Ora ci ordineremo in drappelli. Il primo drappello è dei giovani, e fin dei fanciulli: il secondo drappello è delle persone di una certa età che son già bravi, distinti per l’esperienza nelle prove della vita; ai quali stanno congiunti tutti convertiti d’ogni condizione, ma tutti rinati a vita nuova. Cominceremo adunque col riordinarci e comunicarci, come si dice, l’ordine del giorno per le battaglie. – Ora il primo drappello siete voi, o giovani, fiore delle nostre speranze: Dio benedetto vi vuole proprio salvi; Egli vi elesse con tanto amore. Per non lasciarvi perdere neppure un poco della vostra vita tanto preziosa, vi affidò alle più tenere cure dei genitori cattolici. Vi fece nascere tra le braccia di una madre cristiana; e la madre cristiana per istinto d’amore materno si fece subito interprete del disegno che ha per voi la bontà divina. Ella, dimentica fino di se stessa, vi avrebbe versato il cuore suo nella vostra personcina: vi vegliava alla culla; e quando vi svegliavate, la vedeste cogli occhi allargati negli occhietti di voi, collo sguardo al cielo, che la vi accennava subito una qualche cosa in alto di più del soffitto della vostra stanzetta. Colla materna parola vi svegliava l’anima a ragionare, vi rivelava un mondo invisibile; vi parlava insomma di Dio. Per farvelo conoscere nella sua bontà questo Dio, che ci ama come figliuoli del suo Sangue, ella vi faceva guardare appeso al muro al di sopra della culla il Crocifisso suo Figliuolo; e sotto al Crocifisso sempre la Madonnina, per cagion di dirvi: figliuolo delle viscere mie, ecco chi ti ha da condurre salvo in paradiso: vedi, è Gesù Cristo; e la sua Madre, che è pur Madre nostra, ti tirerà per mano appresso a Lui. Su di’ adunque con me: Gesù e Maria! e di’ con Gesù, che fu anch’egli Bambino, a Dio in cielo: O Padre nostro, vi voglio tanto bene; e voletemi anche Voi tanto bene col Figliuol vostro Gesù. Così la madre vostra vi faceva dire le orazioni sul petto suo. Oh figliuoli, quanto sarete contenti di aver sempre continuata la vita, come l’avete cominciata insieme colla madre vostra cristiana! Colla vostra madre terrena si accordò la madre Chiesa subito subito. Per noi appena nati mandò il Sacerdote sulla porta della parrocchia, in cui risiede sempre Gesù nostro in persona, come sul campo delle battaglie sta nella tenda il capitano. E il prete, avutici tra le braccia, da noi cacciò via il demonio che già ci rondava d’intorno: ci mise al coperto sotto le sue benedizioni; e, portatici alla fonte battesimale, ci aprì sul capo la porta del paradiso. Egli ci disse: io ti battezzo nel Nome del Padre, e volle dirci: bimbo mio, Dio Creatore onnipotente ti adotta in suo figlio, e ti ha per figliuolo del Sangue del suo Gesù: chiamalo pur col nome di Padre, ché Egli ti prepara l’eredità del paradiso in cielo. Nel Nome del Figlio. Dio te lo mandò il Figliuolo suo dal suo proprio seno; ed il Figliuol suo ti salvò: su con Lui a meritarti di qui il paradiso. Nel Nome dello Spirito Santo. Si, a Lui, a Lui bontà di Dio il confortarti nelle prove della vita: Egli ti infonderà il valore a combattere, ti ravvolgerà nel seno della sua bontà per portarti a beatitudine nell’eterno amore in cielo. Poi il buon prete ci scrisse nel libro dei battezzati, vogliam dire nel libro degli eletti pel cielo, come nel registro dei coscritti i quali debbono diventare soldati di Gesù Cristo. Spiegherò qui il pensiero con un fatto. Udite. Quando le nazioni Cristiane per l’unità della fede si erano collegate nel Sacro Impero a fine di combattere contra la Turchia che minacciava la Religione e la civiltà in Europa, esse avevano stabiliti sul lembo dell’Austria i così detti confini militari. In quei paesi, appena nasceva un bambino, veniva subito fatto iscrivere nei registri della Comunità, e restava arruolato come soldatello. Da quell’istante correva per lui il soldo dello stipendio, e gli si passava la razione da mantenerlo, a cui partecipavano i genitori in famiglia. Ma i genitori si facevano un dovere di coscienza di allevarlo, mano mano che cresceva, agli esercizi della soldatesca disciplina; e poi lo menavano tratto tratto al municipio a render conto del profitto fatto nella militare scuola domestica. Affinché poi niente andasse perduto di quella vita sacra alla difesa della Religione e della patria (come avviene nei fanciulli nabissi svagati), la madre, appena il bimbo le giocherellava alle ginocchia, a mostrargli la spada del padre ucciso nel battersi nella conquista del santo Sepolcro, e a ripetergli: vedi! tu hai da combattere sempre per Gesù e pel nostro paese. In simil modo la Chiesa fa cresimare i fanciulli, collo intendimento di farne subito dei soldatelli per Gesù Cristo. Quando li vede frequentare assidui il catechismo, e pendere la bocca aperta alla parola della dottrina cristiana, come i fiori al tepore di primavera si aprono a bere la rugiada del cielo; e in quei vispatelli s’accorge che già il demonio con certi sussulti li stimola a gittarsi coi monelli disgraziati che si avvoltolano nel fango dei vizi, la Chiesa li chiama fuori della compagnia dei tristanzuoli, e tiratisili in seno, fa loro intendere come gl’inviti Gesù: fa loro conoscere il dover di combattere; ed essi tutti in festa ad offrirsi de miglior cuore. Allora li cresima, cioè gli arruola come soldatelli per le battaglie del Signore; e per vestirli dell’uniforme, stampa loro in fronte il segno della santa croce. Ora dunque, o bravi giovanetti, voi siete già arruolati, e formate il bel drappello da mandare come i più arditi, e, come si direbbe adesso, i piccoli bersaglieri da scorrere innanzi a tutti. Senza paura voi siete, e spensieratelli, inesperti di tutte cose del mondo, senza conoscere affatto il rispetto umano, arditi e franchi vi fate in faccia a tutti. Ecco in qual maniera si formavano nei primi secoli del Cristianesimo quei miracoli di giovanetti, e fin di bambini. Parlo dei fanciulli martiri. No no, nessuna nazione del mondo pagano, tuttoché si vanti di aver avuto uomini del più grande valore, non può mostrare un esercito di giovincelli capaci di versar il sangue da grandi eroi, come i martiri fanciulli della Chiesa primitiva. Essi la gloria più bella, e più attraente della Chiesa Cattolica. Essa sola, battezzati e cresciuti ì giovanetti, li raccoglieva a maniera di soldatelli tutte notti nei sotterranei: nella santa Comunione in tutte le Messe loro distribuiva il santissimo Pane dei forti, e faceva loro girare attorno il calice del Sangue di Gesù Cristo, che ingenera l’eroismo santo. E mandava poi fuori talvolta quei vispatelli affidati alla guardia di Gesù Cristo, cui portavano sul petto, a portare il Santissimo Sacramento in conforto dei fratelli che erano lontani durante il tempo delle persecuzioni. Eglino inosservati scivolavano dentro in mezzo alle guardie vestite di ferro nelle prigioni. In tal maniera uscivano fuori da quelle caverne fieri come leoncelli, colla lor croce in sulla fronte, colla decisione e col desiderio di morir martiri in cuore. Piccoli, ma invincibili questi eroi alle prove di inauditi tormenti, facevano restar storditi i Romani vincitori del mondo. Allor Giusto e Pastore, che venivano dalle scuolette, veduto sulla piazza tagliar la testa ai Cristiani, dimenticano scuola e lezione, casa e parenti, e buttati via i libri, che avevan sotto l’ascella, si dan la mano e gridan, correndo in mezzo ai carnefici: Viva Gesù! anche noi siamo Cristiani, noi! Ed i manigoldi: dunque anche a voi taglieremo la testa; e caddero decapitati sui martiri ammucchiati. Allora s. Cirillo, d’undici anni appena, agli sgherri che gli mostravano in aria i bastoni armati di piombo se non rinunciava a Gesù Cristo: giù giù, gridava, battete pure…. Oh Gesù mio! Cadeva cogli ossicini infranti sotto dei colpi. Agapito, in sui quattordici anni guardava la scure in aria, gridando: evviva Gesù; e la sua testa ricciutella trabalzava sul palco. Venanzio, alla stessa età stendeva prontamente il piede, a fine di esser legato alla coda d’un cavallo, per dire agli sgherri: via via, battete pure questo furioso puledro, ché io, lasciate le membricciole tra gli steppi de’ campi, volerò più presto al paradiso. Pancrazio di pie’fermo aspetta la pantera che lo acceffa nel petto; e stringendole l’orrida testa, grida: grazie a Dio, oh! la mi manda al cielo… Agata, Lucia, Blandina, e fino Agnese ancor fanciulletta, con cento e cento altre vergini, le braccioline in croce sul petto, gli occhi al cielo, sporgono la gola a dire: Taglia pure, o carnefice, la gola; noi saliamo in cielo, pregando per te. Correvano quasi a festa sulle piazze in mezzo ai patiboli, e cadevano sotto le mannaie di quei manigoldi le lor bionde testoline, come cadono i fiori sotto la falce del mietitore ridenti di rugiada verso del cielo, e morivano in ripetendo col sorriso sul labbro il nome di Gesù. No no, lo predicherò ad alta voce, per gloria vostra, o fanciulli, o giovani che mi udite: il mondo intiero di tutte le nazioni pagane non ebbe in nessun tempo un esercito dì bimbi, di fanciulli e di giovani; laddove i giovanetti cristiani non mancarono mai di darci un gran contingente di soldatelli ancor piccoli della personcina, ma di grandi eroi in coraggio e santità. Vedemmo ancor nel Giappone, molti secoli dopo, il bambino Carlo nascosto sotto il manto della dama sua madre, che si voleva menar al patibolo, sporgere in fuori la testolina, e mettere un grido son anch’io Cristiano, e voglio morire per Gesù Cristo! Fanciulli e fanciullette in quella carneficina universale dei Cristiani per tutto quel regno, quando udivano la sbirraglia chiamar al martirio questo o quest’altro per nome, rispondevano essi all’appello per andare a morire: eh, son qui io, mi chiamo io con tal nome. Via via, faceva ribrezzo fino a quei mostri il vedere fanciulletti alle fiamme dei roghi, in cui abbruciavano legati ai pali le loro madri, vederli dico colle vampe alle testoline, battendo la manina a gioia col vivace Aleluia, correre a gettarsi sulle ginocchia a quelle, e restare carboncini anche essi insieme a lor abbruciate. – No, no, lo predicherò ad alta voce per consolazione a gloria nostra, e massime di voi, o fanciulletti; quelli della vostra età, anche pei primi, non mancarono mai di rispondere all’appello nei maggiori pericoli a tutte prove. Quando si faceva appello ai Cristiani per le crociate, e i Cristiani correvano a mille a mille generosi appiè de’ Vescovi a fine di pigliare la croce sul petto, ed ire a combattere contro i turchi e liberare la Terra Santa, tra quella folla in ginocchio si vedevano saltar fuori di sotto le testoline dei giovinetti, per farsi mettere la croce dei combattenti sul piccol petto anch’ essi. Poiché, dicevano essi fino piangenti: anche noi, anche noi vigliamo andare a scacciare quei brutti figlioli dei turchi dalla grotta di Betlemme, dalla casa di Nazaret dove stava fanciullo Gesù. – Eh, i giovanetti sono sempre gli stessi, sempre pronti a correre i primi. Lì avete veduti in questa missione. Gli invitai venissero alle predichine, e dissi loro ciò che aveva nel cuore. Essi corsero allegri e bevvero fino cogli occhietti negli occhi miei le mie parole; e se le portarono via vive vive, più che scolpite nel petto. Eh, quando loro gridai: chi vuol seguire Gesù, ma sempre, ma fino alla morte? Essi tutti colle braccia innalzate a prometterlo. Stesero tutti alla fonte battesimale le loro manine gridando la loro promessa. Noi, tanti quanti siamo, abbiamo pianto, forse perché non eravamo più fanciulli con essi a ricominciare una vita tutta santa. – Adunque il primo drappello è formato. Padri e madri, ora li consegniamo in guardia a voi. Le vostre case debbono essere le tende, dove incominciar subito ad esercitarli alla vita cristiana. A voi si addice vegliare alla loro custodia, e, come l’Angelo colla spada di fuoco sulla porta, voi dovete tener lontano i perfidi che vorrebbero tirarseli al diavolo. Voi tutti i dì far dire ad essi le orazioni, raccoglieteli a piè della croce sotto Gesù tutti i dì, e far loro promettere di ricordarsi che Dio li porta in braccio sempre; e dovete ammonirli che sotto gli occhi suoi benedetti non si lascino andare mai coi cattivi. Loro mostrando inchiodato in croce pei nostri peccati Gesù, fatevi promettere che essi non peccheranno mai, n’andasse la vita. La Regina Bianca di Francia quotidianamente questo si faceva promettere dal suo Luigino; e il suo Luigino, giurandole tutte mattine che non peccherebbe mai, sempre innocente pur in mezzo a tante battaglie, per tanto tempo, fino in mezzo ai Turchi conservossi sempre il gran Re s. Luigi. Padri e madri, intanto pensate come, più presto che io non vel dica, vi cresceranno in gioventù i figliuoli Allora, padri, in modo particolare a voi è imposto sostenere i giovincelli colla potenza del vostro autorevole esempio: voi, i quali colla forse dolorosa esperienza del mondo ne conoscete i pericoli, dovete far della famiglia come il quartiere in cui renderli agguerriti: dovete farne l’arringo, dove esercitarli mano mano. Mettendoli a parte dei lavori in cui vi adoperate per loro, avete campo da dare buone lezioni di vita in pratica. Mostrate in voi stessi come si possano con disinvoltura trattare i negozi coi mondani, e con franca lealtà uno abbia a diportarsi da fedel seguace di Gesù Cristo; e come noi che siamo Cristiani in casa ed in chiesa, dobbiamo porgerci Cristiani in piazza, nelle botteghe, nelle adunanze, in faccia a tutti mostrando sempre il più deciso carattere di Cattolico fedele al Papa. Menateli poi con esso voi alle prove; con voi usino alla parrocchia, alle prediche, ai Sacramenti, e presentinsi in vostra compagnia alla Comunione a pieno popolo. Così questi onorati giovani, a tutti in rispetto, lontani sempre dai malvagi, cresceranno siccome angioli che ignorano il male; ma pronti sempre come angioli delle battaglie a difender l’onore di Dio. Qual consolazione sarà la vostra, quando li distinguerete in coro colle brillanti loro voci fare eco ai beati in cielo; quando li vedrete nelle compagnie in processioni far da guardia nobile a Gesù in Sacramento! Noti a tutti, come i più buoni, anche i mondani in veggendoli si diranno in cuore: fossero anche i nostri, come sono questi! Così si forma il drappello della bella gioventù. Ora a voi, o giovani nel più bel fior della vita, ecco l’appello e l’ordine del giorno per la battaglia sotto lo stendardo di Gesù contra gli abbietti che sono la sequela del diavolo. Ben formati nelle pratiche della divozione alla militare santa disciplina per il conquisto del regno celeste, voi uscirete dalle case vostre e dalle chiese, che son le tende del Signore, a fine di combattere nella milizia della vita umana. Franchi della vostra risoluzione di porgervi sempre buoni Cristiani in tutte le occasioni, fieri del giovanile coraggio, colla irrevocabile decisione dell’eroe in cuore, voi iscorgete la ciurmaglia degli schiavi del demonio incatenati nei vizi diventare vile al vostro cospetto; e gli uomini più onorati del mondo, il quale pur non si degna di questi suoi, avere per voi sempre un rispettoso saluto col sorriso dell’amore sul labbro. Gli è perché vi traspira sul volto il fervore della vita che cresce bollendo in petto, e vi spinge a far bene; è perché l’onestà del vostro costume a voi splende sui volti aperti; è perché fin dagli occhi vi si spandono i palpiti del vostro buon cuore; è perchè l’aureola della pietà fa brillare in voi tutti un bellezza attraente, come una bella armatura d’argento nel drappello dei più prodi soldati della guardia d’onore, che sì eleggono i sovrani a difesa e a decoro della lor maestà. Però vi debbo porre in sull’avviso che al primo presentarvi nel mondo vi verrà intorno una marmaglia di giovinastri cresciuti nelle tane dei peccatori sulla rovina totale dell’onestà, corrotti fino al midollo, per farvi, come cagnuzzi, moine schifose; per volgervi brutti discorsi e fino adoperare stomachevoli tratti, coll’intendimento di attirarvi fra l’accozzaglia dei peccatori. Che volete! Vedete anche bene voi come fino presso all’usignolo il mattino, quando scende dal nido in sul cespuglio, gracidan sotto dal fosso ranocchi da schifo. Ma l’usignolo che imparò dalla madre a cantare e a volare, fa la svolta, e via battendo l’aletta nell’atmosfera colore di rosa, sospira e trilla in faccia al sol d’oriente; mentre quei bavosi nel fango ad ingozzare si stanno la melma e ad essere dalle serpi divorati. Adunque, o giovani, la vostra casa debbe sempre essere il caro nido paterno, dove ripararvi a riposare in seno ai vostri buoni; e la chiesa sempre la tenda e il campo, dove respirare un’atmosfera più pura a rinfrancarvi di valore sempre nuovo. Quindi per tutto il ben che vi voglio, giovani, non lasciatevi dalla bordaglia staccar dalla famiglia e dalla chiesa. Se il soldatello non ancor provato nelle pugne va all’abbandonata solo verso il campo nemico, gl’irrompe alla vita la turma dei nemici che l’aspettavano nell’imboscata, e resta così fatto prigioniere. Guai se, abbandonata fa casa, tutte le lunghe sere ai caffè, vi fermate ai gabinetti di lettura a legger cattive gazzette; guai se nelle feste, più che alle funzioni, andate a zonzo coi compagnoni da buon tempo; guai se, più che alle prediche, sarete assidui alle partite di giuochi; guai se, più che ai Sacramenti, interverrete ai conviti, e fino ai bagordi, ai balli, poi ai godimenti! Voi sareste sorpresi da perfidi, arreticati da gente che han l’anima venduta al diavolo per far reclute di nemici da combattere contro di Dio. Fanno costoro come quel gran malvagio, chiamato il vecchio della Montagna. Udite, udite. Quel tristo Turco faceva rapinare tutti i giovani che trovava sguinzagliati nei vizi, e li gittava ubbriachi in un giardino di piaceri, dove sviatisi nel delirio della voluttà venivano incatenati con ghirlande di rose da sozze maghe, e tradotti appiè del tiranno per legarsi a lui coi più terribili giuramenti di restare schiavi ai suoi voleri. Così quel ribaldo si faceva l’esercito dei venduti a’ suoi delitti. Anch’io tremo per che nelle amicizie cogli empi non restiate legati in quelle società d’Internazionali, di… Che Dio ve ne scampi! Ah fratelli, io grido forte, per avvisarvi che il demonio manda uomini con lui perduti a fare le sue reclute! E sapete dove i perfidi arruolano i coscritti? Essi appostano i poveri popolani nelle osterie tenute aperte all’ora delle funzioni, li attendono nelle compagnie dei panciardi in goderia, e alla notte negli antri di tutti i vizi. I giovani più eleganti poi sono aspettati là nei ridotti dei giuochi, in certi caffè, dove gli arruolatori si danno l’aria di saputi politici, e colle gazzette in mano van calunniando il Papa, vantandosi maestri di moralità di moderazione politica; laddove sono astutissimi maestri di perdizione. In quei luoghi, gettati via gli avanzi di religione delle loro famiglie, spogliati d’ogni ben di Dio, vestono l’uniforme dell’empietà. Arruolati che li abbiano così, le istruzioni di strategica infernale vengono date agli adepti nei libri dell’empietà, e nei romanzi, dove è disegnata la via di correre a tutti i delitti. Il resto poi lo faranno le generose lupe, quando i melanconici sentimentalisti cadranno tra i diabolici loro artigli, e le rinfocate passioni che li consumano avranno in essi spento ogni buon lume di ragione. Ecco pur troppo come va perduto un povero giovane che ha abbandonata la famiglia e la Chiesa. – Alla casa torna egli ancora (alla chiesa no; non vi torna più, perché ora guarda come un nemico il prete, in cui trovò per tutti i suoi anni più belli l’amico del conforto e del buon consiglio; e per poterlo odiare, ha già imparato a calunniarlo!): sì, torna ancora alla casa, nella quale a notte inoltrata la madre coi sospiri lo aspetta. Ahi la buona madre con melanconica tenerezza ben gli porge tutto con tanto amor preparato pei suoi bisogni; ma collo sguardo indagatore ella scorge pur troppo che non è più egli il figliuol suo; e nasconde una lacrima!… Il padre mormora tristo, chè il grande suo fastidio è il figlio; e sta sempre trepidante, in paura incerta che non abbia da udire un qualche suo delitto. Poveri papà, povere mamme! Si assottigliarono la vita col sudore e col sangue per mantenerlo agli studi: e’ speravano di tirarsi su un figliuolo fortunato; in quella vece si allevarono un tristo, terrore di loro e nemico di Dio… Entra il disgraziato cupo cupo la notte nella sua stanza, e stanco della grama vita, si butta sul letto: guarda malcontento il crocifisso appeso al muro; ma egli non l’ha più nel cuore!… Oh povero giovane! Senza amor di famiglia, scontento di sé, e nemico a Dio; dove andrà a finire?… Mi manca il cuore solo a pensarlo. Cari miei giovanetti, vi voglio dare ancora un avviso. Giacché sono i cattivi compagni che incamminano quei della vostra età alla perdizione, per difendervi da loro, cercatevi un buon compagno; entrate, dichiarandovi senza rispetto umano, nelle congregazioni, nelle compagnie dei buoni…. Un buon compagno di pietà resta un grande sostegno per istar fermo in mezzo ai cattivi. Non so se ricorderete un fatto celebre, che deve dare tanto coraggio ai giovani, i quali vivono in santa amicizia e si confortano nei cimenti contra i cattivi. Frequentavano la famosa scuola d’Atene quei due bravi giovani studenti forniti di belle doti di ingegno e di gran fortuna nel mondo, i quali riuscirono poi due grandi uomini, luminari del loro secolo: io dico s. Basilio il Grande e s. Gregorio. Per sostenersi insieme contra le sfacciate angherie ed i vili insulti di Giuliano, cristiano apostata, crudele tiranno, quando quello sciagurato tentava schernirli svergognatamente in faccia a tutta la gioventù, eglino per tutta risposta gli domandarono: E che mai tu pretendi da noi? che diventiamo, quale tu prepari ad essere, un gran mostro cioè d’infamia dell’umanità? Anche voi potreste franchi domandare alla ribaldaglia dei giovani che crescono pur troppo a tutti i delitti: e che pretendete da noi in nome della vostra libertà? Che noi diventiamo vostri cagnotti da corrervi appresso a fine di render infame la nostra gioventù? Che noi, come voi fate, un giorno facciamo morire di crepacuore le povere madri? Che, imitandovi, veniamo a disonorare la famiglia, facciamo vegliare i padri di notte trepidanti pei pericoli? Voi ci vorreste ai ridotti, ai bagordi, a consumare la vita, dentro i teatri per applaudire delitti esecrati? Ai giuochi che gettano tanti a disperazione? Noi no; vogliam consolarci nelle nostre case coi buoni delle nostre famiglie i quali si confortano delle nostre speranze. Voi in compagnia degli empi e sfaccendati tutto il di a berle giù grosse in quelle gazzette scritte dai giornalisti quotidiani al soldo di chi più paga per farvi ingannare? Ebbene, noi no: noi in chiesa tutte le domeniche ad ascoltare la parola immutabile come la verità eterna dell’Evangelo che liberò gli schiavi, francò dalla barbarie la civiltà. Noi andare, come alcuni, a prostituirsi in mali costumi? Noi piuttosto nelle società dei caritatevoli a visitare i poveri, a consolare i disgraziati, a salvar gl’innocenti. Ditecelo chiaro: voi vorreste dunque strascinarci nelle tane a farci divorare dalle lupe la vita?… Ah no no! Noi, come spaventati dalle lupe, vi rispondiamo chiaro che vogliamo andare nelle chiese a comunicare con Dio. Vel diciamo altamente, vorremmo salvi anche voi con Gesù Cristo Salvator del mondo. Però, miei cari giovanetti, voi dovete pigliare animo, lasciatemi dire, fino dalla loro debolezza. Poiché giova osservare, o buoni, che i figliuoli così perdutamente guasti sono pochi; e che i molti compaiono tristi solo perché sono paurosi. Ai pochi così profondamente malvagi, col solo mostrarvi fieri del giovanile coraggio, voi agevolmente potrete fare il viso dell’armi, ed isgagliardire i vili; e ad un tempo nei molti ridestare quel resto di bontà che conservano tuttavia ì giovani nascosta in cuore per la paura dei tristi. Questo mondo è sempre di chi se lo piglia, voi lo sapete; e alle prese la vincono i più arditi, perchè l’accozzaglia dei molti è timida e mogia sempre. Un bravo giovane, deciso come un eroe, fa ognora grande impressione nel cuor dei compagni, ed io qui ve lo voglio mostrare con un esempio tolto dall’antichissima poesia. Ascoltate. Era nato, dice il mitologico racconto, un bambino tutto fuoco ad una timida madre; e la paurosa, a fine di toglierlo a tutti i guerreschi cimenti se l’ebbe nascosto tra le donne da allevare in femminile costume. Veniva su il bel giovanetto azzimato di narciso come una damigella: aveva sulla profumata testa spartiti i capelli, e le bionde chiome già sulle spalle inanellate, intanto che sotto i nonnulla donneschi restava soffocata l’indole sua generosa. Quand’ecco! un valoroso che lo cercava per la guerra, l’ebbe scoperto. Questi per dirgli tutto, gli presenta in faccia, quasi specchio, lo scudo di forbito acciaio, e: Achille!; Achille!… guardati qui… Achille guarda in ispecchio se stesso… guarda il guerriero a tutto punto armato di ferro; e stracciando le chiome, le pugna per vergogna si morde. Slanciasi al guerriero, e urlando: anche a me, anche a me un brando; e; diventò il più terribil campione dei Greci. Con questo io voglio dire, che può tanto per suo ascendente: il coraggioso esempio di un bravo giovane sul cuore; dei compagni. Su su dunque da bravi tutti a vincere il rispetto umano… Oh che dico io mai? Con voi, o bravi, non si debbe usare la parola rispetto umano, quasi meritasse rispetto la bordaglia in vilume. No no: tra voi e quèi vigliacchi la timidità non sarebbe rispetto a persone umane, ma si è pecorile paura di grami indegna di voi. Sol che vi dichiariate apertamente, il drappello è formato, il drappello s’ingrossa tutti i dì alla battaglia, anzi alla vittoria del Signore, il quale è con voi. Ora a voi tutti, a voi, buon popolo cristiano, che siete la gran massa, di cui poi è formato il grosso dell’esercito. A voi dunque è affidata |a rivista e l’ordine del giorno. Fatevi innanzi a tutti, voi brava gente, uomini e donne che siete sempre costanti nel far il bene. Ah quante derisioni e calunnie! È vero; ma passarono come il villano insulto di un soffio d’aria di cattivo odore sul volto abbronzito di un fiero soldato. Quanti patimenti, e forse quanti danni a voi, ed anche alle vostre famiglie fecero soffrire tiranni malvagi nell’ora della lor prepotenza. Povere donne! quante lacrime sprezzate dal mondo avete versate sul Cuor di Gesù! quante virtù esercitate a Dio solo note! Ve lo voglio dire altamente: soventi volte in quelle povere donnicciole batte un cuor grande, e sono nascoste vere anime sante. Quelle prove passarono, come da qui un momento tutto è passato. Oh valorose, noi vi salutiamo con un evviva! Un evviva eziandio a voi che vi siete sempre mantenuti buoni Cristiani anche nei tempi più cattivi. Vorrei mostrarvi ad uno ad uno in faccia al popolo come veterani, i quali non deste mai indietro in nessun combattimento. Voi fermi sul campo come rocca che non crolla al soffiar dei venti mostrate i vostri splendidi esempi delle virtù combattute, siccome le antiche torri guerriere mostravano pendenti gli scudi d’argento ad ornamento e difesa. Voi siete come quei bravi valorosi, che si guardano sul petto le medaglie guadagnate in tante vittorie, e rivivono della bella vita passata; e vi consolate. Bene sta; e noi con voi ringraziamo il Signore che prepara la corona alla vostra perseveranza. Diciamo tutti gloria a Gesù, perché coloro che combattono per Lui, guadagnano sempre. E mentre aspettiamo di vederceli tutti innanzi, come ce lo promette lo Spirito Santo, alla destra del Salvatore nostro Gesù nel secondo finale giudizio, essi perseveranti sono già giudicati nel primo giudizio di Dio. Poiché il primo giudizio di Dio è la voce di tutto il popolo che riconosce coloro i quali furono sempre buoni, e li proclama, come le persone più degne, di onore. Così resta a voi aggiudicata la prima corona. Intanto voi fate a guisa del guerriero invecchiato nelle battaglie che riposa sulle palme conquistate. Esso, quando ode lo squillo della tromba chiamare i prodi alla guerra, rimbalza ringiovanito col brando in mano, cui non depose dal fianco mai; e corre alla testa delle nuove reclute che lo salutano col lampo delle loro spade. Non altrimenti voi freschi di forze, rinfervorati nella pietà, confortati dal Pane dei forti nelle ripetute Comunioni, voi mettetevi alla testa di tutto il popolo cristiano; e per dirigere ed incoraggiare le file il migliore ordine del giorno sia la Vostra esperienza. Adunque ad incoraggiare tutto il popolo cristiano, lo primamente a voi faccio appello. Dite, dite se non siete contenti di essere sempre stati fedeli a Dio col testimonio della vostra coscienza, senza rimorsi, nella serenità della mente vostra che guarda a speranze eterne in un avvenire che ha termine in Dio. È vero o no, che sentite compassione dei poveri peccatori, i quali lacerati da rimorsi, cercano folleggiando di coronarsi di rose, di godere, arrabbiati di brame, piaceri che loro sfuggono colla rapidità del baleno? Su su, anche voi che foste sempre costanti a Dio, anche voi i più tribolati tra gli uomini, anche voi le più meschine delle donne che nascondete le vostre lacrime sprezzate dai mondani in seno solo di Gesù Cristo, fatemi testimonianza. Voi potete dire: anni di disgrazie, di malattie che consumaron la nostra vita, siete pure passati. Vedete: alla morte anche Filippo re di Spagna confessava piangendo che sarebbe stato contento di aver passata la vita deriso e sofferente anzi che d’esser vissuto nello splendore del trono. Intanto fino da quest’ora voi vi trovate contenti di aver fatto del bene. Di aver fatto del male tutti alla fin fine si pentono, e n’han da piangere assai; laddove chi è sempre vissuto da fervoroso Cristiano non vorrebbe, no certo, cambiar la vita coi godimondi, fossero pure godimenti di re e di regine. –  Ma fatevi appresso, coraggio, anche voi che vi siete convertiti in questa missione. Perocché, che cosa vuol dire insomma fare, come abbiam fatto, una missione? Vuol dire: che io venni mandato da Dio per richiamarvi tutti a Gesù a conquistare il paradiso. Io trovai in voi le persone del più buon cuore che mai esser possano nel mondo. Colla più semplice parola di Dio io non feci altro che correre ad abbracciarvi; colla confidenza di un padre vi strinsi, per dir così, la vostra testa fra le mie mani, e vi dissi coi palpiti: Cari miei, siam creati da Dio, abbiam da andare in paradiso; gettiamoci in braccio a Gesù qui con noi che ci conduce sicuramente. Subito ci siamo trovati quasi amici d’antica data, d’accordo tutti in queste grandi verità che ci tengono uniti nella cristiana famiglia. Oh! se siete buoni: alcune ore sole lontani dagli strepiti del mondo, e la nostra ragione in voi fece tosto sentire i suoi diritti, la vostra coscienza vi fece sentire i suoi lamenti, e voi come probe persone che siete, avete detto: provvediamo subito: e che? non aspettiamo l’incerto dimani. Ora il primo nostro dovere è di giurare nuova fedeltà al Re del cielo, risoluti di seguir il Salvatore nostro Dio combattendo fino alla morte. –  Finalmente eccoci qui anche noi che ad una certa età siam già forse per entrar presto nella gloria, nel gaudio del Signore. Vecchi, per noi il mondo non ha più attrattive, eh no! Lo guardiamo anzi con ribrezzo e con isdegno come un perfido che ci fece tradire i nostri doveri. Là via! Che un giovane nel fuoco della bollente sua età sia stato travolto nel vortice delle passioni; che i tristi che lo volevano al servizio del loro egoismo, lo abbiano tradito fingendosi innamorati della cara patria e fino della Religione, è da piangere nel compatirli: ma ora noi lo conosciamo per esperienza propria che quelle sirene erano maghe le quali cambiavano gli amatori in ciacchi!… Viva Gesù, siamo qui anche noi convertiti: tardi, è vero, ma pur in tempo ancora siamo incorporati anche poi coi prodi nell’esercito della crociata per il conquisto del regno del cielo. – Eh, sarebbe troppa vergogna, che noi dai mondani, i quali ci vogliono al servizio del diavolo, ci fossimo lasciati ancor ingannare. Che un uomo serio e di giudizio, così prudente in trattare affari, attento ai doveri dell’uom onorato e del fedele Cristiano preferisse ancora le baie degli spensierati, e avesse continuato a fare ciò che non vorrebbe che facessero i suoi figli: che una testa calva avesse voluto mettersi sul cranio nudo le corone di rose e folleggiare coi vani del mondo, sarebbe stato cosa da vergogna e da scherno. Via; noi rispettiamo la nostra età. Però se mai fossimo tentati di dare indietro, guardiamoci innanzi, ché già ci aspetta la tomba. Sentite i colpi della zappa che scava la nostra fossa vicino agli amici, la cui memoria forse manda un fetore orribile come i loro cadaveri nel sepolcro imputriditi… Ah fortunati anche noi vecchi i quali ci troviamo convertiti in braccio alla madre Chiesa, la quale sola medica senza ribrezzo le piaghe nostre, anche le più incancrenite, e le guarisce col balsamo del Sangue di Gesù Cristo nei Sacramenti. – Certamente noi siamo ritornati a Dio un po’ troppo tardi; ma, coraggio, abbiam da fare con Gesù Cristo, col gran Padrone dell’Evangelo, il quale per la sola sua bontà dà intiera la ricompensa anche a chi venne a Lui l’ultima ora del giorno. Coraggio adunque, lo ripeto. Voi vi ricorderete del più gran capitano dei tempi moderni il quale, dopo di aver perduto quasi in tutta la giornata, stavasi colle braccia incrociate sul petto guardando tristo il mucchio di cadaveri menati da lui alla morte sul campo. Quando ecco gli giunse un corpo fresco di armati. Guardò l’orologio, e mise un grido cui ascoltarono anche i fuggenti in rotta: prodi miei, ecco qui, ecco qui forze ancora fresche; abbiamo un’ora di giorno ancora, prodi e cari miei: abbiam perduto una battaglia in questo giorno, su, su, ne vinceremo un’altra. Voi vi commovete? Aveva dunque ragione di dirvi fino dal principio, che sol per vedervi ricevere tutti Gesù mi trovava già consolato. Egli è perché vi amo d’amor di madre, sapete. Figliuoli del nostro Sangue di Gesù, che in tutti scalda la nostra vita, stendete le mani a Maria; tra le sue braccia ponetevi al sicuro, riparandovi nel Cuor di Gesù. Vita vestra abscondita cum Christo (Col. III, 3): voi vi troverete franchi non altrimenti che il bimbo in grembo alla mamma. E siccome quando il bambino balzato dalle sue ginocchia si allontana per poco e sente rumor che lo spaventi, egli corre subito ancor alla mamma; così voi ad ogni vento di tentazione, ad ogni pensiero che vi spaventi. Su adunque fanciulli bravini e giovani ardenti, su o prodi sempre fedeli; su buoni convertiti, su venerandi vecchi: tutti abbiamo ancora un’ora di tempo; stringiamoci intorno a Gesù, e giuriamo di volere seguirlo fino alla morte. Su adunque fanciulle, donne, tutti stringiamoci intorno a Gesù, giuriamo tutti di esser fermi nel seguirlo fino alla morte. Abbiamo ancora un’ora di tempo a conseguir la vittoria, a guadagnarci il paradiso; e chi combatte con Gesù trionfa sicuramente. Vedrete una turma di vigliacchi che abbandonarono Gesù per paura dei mondani. Disgraziati! una volta si dicevano anch’essi Cristiani, ma erano soldati da marmitte; erano del grosso partito del pan da mangiare. I vili che andavano in chiesa, e ricevevano i sacramenti quando conveniva al loro interesse. A noi, a noi in mezzo a questi vili si addice mostrare il viso dell’armi. Essi hanno vergogna a far la Pasqua, e noi, sì faremo pubblicamente a chiesa piena la Comunione frequentemente. Miserabili che sono, essi van colla bordaglia dei cattivi uomini, la festa a tuffarsi nei vizi; e noi colle nostre famiglie onorate alle funzioni della Chiesa: essi a sentire a bocca aperta o a leggere le gazzette stampate da quei miserabili che hanno un tanto al giorno per studiare di darla ad intendere: dessi beversele su, e credere a’ malvagi onorati, e noi a sentir la parola di Dio. Ma padre, mi direte, il numero dei nemici di Dio va crescendo tutti i dì; molti, che erano con noi, disertano come grami soldati. Coraggio! è l’ora questa della prova più grande, è l’ora di mostrarci più buoni fedeli. Quando al crescere dei nemici i vili disertano e fuggono dalla battaglia, eglino, i buoni, si serrano intorno alla bandiera, e se vedessero mancare e perire tutto, quel sol che resta si ravvolge dentro la cara bandiera, si tien l’asta stretta sul petto e si muor combattendo con la spada nell’altra mano. Moriremo! Che dico? non moriremo, ma voleremo a ricevere in paradiso la corona dalla mano di Gesù Cristo.

LA GRAZIA E LA GLORIA (27)

LA GRAZIA E LA GLORIA (27)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO PRIMO

Cosa sia lo Spirito Santo in se stesso. Come Esso sia in proprio l’Amore personale.

È impossibile formarsi delle idee chiare e precise sulla relazione che abbiamo, come figli adottivi, con lo Spirito Santo, la terza Persona dell’adorabile Trinità, se non sappiamo prima che cosa sia in sé e che cosa gli sia proprio; in una parola, che cosa lo distingua dalle altre Persone. Ora, sia che io interroghi le nostre Sacre Lettere, sia che studi i Padri ed i maestri della scienza, trovo tre caratteri principali propri a questo Spirito divino: Esso è l’Amore personale, il Dono per eccellenza, la Santità ipostatica e santificante; e tutti questi nomi si riassumono in quello di Spirito Santo. Questo sarà il tema delle nostre meditazioni.

1. – Cominciamo con l’Amore: è dunque in questo titolo che gli altri due hanno le loro radici e la loro ragion d’essere. « Dio è amore, Deus charitas est » (I Giovan, IV, 8). Esso è l’amore perfetto, l’amore tutto in atto, l’amore infinito: perché l’atto con cui ama se stesso non è, come nella creatura intelligente, un’operazione distinta da se stesso, così come la sua potenza di amare non è una proprietà distinta dalla sua sostanza. Esso è il suo amare, come è il suo conoscere, la sua essenza e il suo essere. Di conseguenza, lo Spirito Santo, pur essendo Dio, deve essere Amore, così come il Padre e il Figlio sono amore; uno stesso amore eterno e sostanziale, che è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ma se è necessariamente comune alle altre due Persone l’essere l’amore essenziale, Esso ha questo di particolare, che è anche l’amore personale. Entriamo con trepidazione nel più intimo Santuario dell’insondabile Trinità per cercare qualche idea di questo mistero. Dio, spirito puro e sovranamente immateriale, è per sua natura l’archetipo e il Supremo di tutti gli spiriti. Quindi, studiando me stesso in questa parte del mio essere attraverso la quale mi avvicino a Dio, devo trovare in me l’immagine, un’immagine indebolita senza dubbio, ma comunque reale, di ciò che sia in Lui. Ma cosa succede quando mi ripiego su me stesso e mi faccio io stesso l’oggetto del mio pensiero? È che io mi esprimo e riproduco me stesso in un concetto, parola interiore, immagine intelligibile in cui contemplo e mi dico ciò che penso di me stesso (« Habet igitur mens rationalis, cum se cogitando intelligit, secum imaginem suam ex se natam, id est, cogitationen Sui ad suam similitudinem, quasi sua impressione formatam… quæ imago ejus verbum ejus est ». S. Anselmo, Monol. c. 33). Questo concetto, figlio del mio pensiero (proles mentis intelligentis), è ciò che la mia parola articolata dovrà significare, se parlo di me stesso; ed è per questo che la si è chiamata il Verbo, la parola del cuore resa sensibile dalla parola uscita dalla bocca: « Verbum cordis, Significatum verbo oris » (S. Thom. I p. a. 27, à, 1). – Dio, dunque, che è spirito, Dio che si conosce eternamente, deve anche pronunciare in se stesso una parola misteriosa in cui si dice tutto ciò che sa della sua infinita bellezza. Questa parola interiore, che procede da Dio per via di intelligenza, è la Verbo di Dio. Verbo unico: perché Dio, avendo un solo pensiero che non è altro che Egli stesso, può avere un solo Verbo, termine adeguato di questo pensiero. Verbo eterno, perché un Dio senza Verbo sarebbe quella mostruosità che faceva orrore ai Padri, un Dio senza intelligenza e senza pensiero. (Agli ariani che negavano il Verbo eterno e consustanziale e non credevano che la Parola fosse eterna e consustanziale al Padre, essi rispondevano: se il Padre non ha concepito da tutta l’eternità un Verbo uguale a se stesso, è senza intelletto: perché una intelligenza divina deve essere in atto, e questo atto non può procedere senza un Verbo.  – Petav. de Trinit., L. VI, c. 9). Verbo infinito: perché l’abisso di verità che rappresenta adeguatamente e il pensiero di cui è il termine perfetto, sono entrambi ugualmente infiniti. Verbo infine, consustanziale a Dio, suo principio: perché ha queste due cose che fanno la consustanzialità, l’unità quanto alla sostanza e la distinzione quanto all’ipostasi. È che questo Verbo non è, come in noi, una qualità puramente accidentale e distinta dalla natura; e che, d’altra parte, è distinto da Dio suo principio, poiché procede da esso. E questo Verbo, Dio da Dio, è anche Figlio di Dio: infatti, in virtù del suo modo di procedere per via d’intelligenza, è l’immagine sostanziale e perfetta del Padre, lo splendore della sua gloria e il carattere della sua sostanza (II Cor. IV, 4; Hebr., 1, 3), primo e ultimo nato di Dio, nel quale il Padre ha posto le sue indulgenze eterne (S. Thom., c. Gent., I, IV, c. 11). – Ma non si arresta là il ciclo della fecondità divina, né l’evoluzione della nostra vita spirituale si limita al pensiero. L’oggetto che brilla nella parola interiore, è amabile, o almeno è rappresentato come tale, la volontà si sente attratta verso di Lui. Il movimento che ci porta verso questo oggetto, per unirlo a noi e noi stessi unirci a Lui, è l’amore; amore che emana sia dallo spirito che ama, sia dal verbo in cui lo spirito possiede in sé, presente e conosciuto, l’oggetto che ama; l’amore, dunque, distingue tra spirito e verbo. Riconosciamo ancora, in questo specchio della creatura intelligente un’immagine imperfetta del mistero che è in Dio. Lo spirito increato e il suo Verbo, il Padre e il Figlio, nell’infinita compiacenza che hanno per la loro comune bellezza, producono per via della volontà come un impulso d’amore, il termine e il frutto della loro reciproca dilezione; e questo movimento dell’amore divino è uno, senza limiti, eterno, consustanziale al suo principio, allo stesso modo in cui il Verbo è con il Padre. È lo Spirito Santo, lo Spirito d’amore, Amore ipostatizzato o Personale (S. Thom, De Potent., q. 9, s. 9; c. Gent, L. IV, c. 19). Perciò l’Angelo della Scuola, dovendo parlare del Verbo di Dio, ci insegna, seguendo Sant’Agostino, « che non è un verbo qualsiasi, ma un Verbo il cui soffio è amore ». Filius autem est Verbum non qualecunque; sed spirans amorem (S. Thom. 1 p., q. 43, a. 5, ad 2.). Da ciò segue che questa Verbo è, in tutta verità, la Sapienza generata. Generato perché procede dal Padre; sapienza, perché è una conoscenza, un Verbo principio e fonte di amore. – Tuttavia, non immaginiamo nello Spirito Santo un doppio amore: l’amore essenziale che Esso è in ragione della sua divinità, e l’amore personale che sarebbe in virtù della sua processione. Questa sarebbe un’illusione pericolosa, che non farebbe altro che distruggere l’intera economia del mistero. Lo Spirito Santo è amore, perché è il fine dell’infinita compiacenza del Figlio per il Padre e del Padre per il Figlio: e c’è un solo amore, infinitamente uno, infinitamente unico. Tuttavia, lo Spirito Santo rimane l’Amore perenne, perché solo Lui possiede la divinità a tal punto da riceverla formalmente, per il suo particolare modo di Processione, in quanto è amore. In altre parole, il Padre e il Figlio gli comunicano tutta la loro essenza, ed è per questo che Esso è Dio; ma questa ineffabile comunicazione si opera a titolo di dilezione, ed è per questo che diciamo che è, in modo singolare, amore, l’Amore personale. – Una bella pagina di San Francesco di Sales ci aiuterà, spero, ad afferrare meglio un così alto insegnamento. « L’eterno Padre – dice il santo Dottore – vedendo l’infinita bellezza e bontà della sua essenza così vividamente, essenzialmente e sostanzialmente espressa nel Figlio suo, e il Figlio vedendo reciprocamente che la sua stessa essenza, bontà e bellezza è originariamente in suo Padre, come nella sua fonte e fontana; eh! Poteva essere mai che questo Padre divino e suo Figlio non si amassero con amore infinito, dato che la loro volontà con cui si amano e la loro bontà per cui si amano sono infinite in entrambi? – L’amore non trovandoci uguali, ci uguaglia; non trovandoci uniti, ci unisce. Ora, essendo il Padre e il Figlio non solo uguali e uniti, ma uno stesso Dio, una stessa essenza e una stessa unità, quale amore non debbano avere l’uno per l’altro! Ma questo amore non è come l’amore che le creature intelligenti hanno tra loro o per il Creatore. Poiché l’amore creato è fatto da molti e vari slanci, sospiri, unioni e legami, che si susseguono e producono la continuazione dell’amore con una dolce vicissitudine di movimenti spirituali. Ma l’amore divino del Padre eterno verso il Figlio suo, si esercita in un solo Sospiro reciprocamente emesso dal Padre e dal Figlio, che in questo modo rimangono uniti e legati insieme. Sì, mio Teotimo: Poiché la bontà del Padre e del Figlio non è che una bontà unicissima, comune ad entrambi, l’amore di questa bontà non può essere che un solo amore, perché anche se ci sono due amanti, cioè il Padre e il Figlio, tuttavia non c’è che la loro unica bontà unicissima che è amata, e la loro unicissima volontà che ama. .. – E siccome il Padre e il Figlio che sospirano (questo amore comune), hanno un’essenza ed una volontà infinita con cui sospirano, e la bontà per cui sospirano è infinita, è impossibile che il sospiro non sia infinito. E siccome non può essere infinito se non è Dio, allora questo Spirito, sospirato dal Padre e dal Figlio, è vero Dio. E poiché non ci può essere che un solo Dio, Esso è un solo vero Dio con il Padre e il Figlio. Ma ancor più, poiché questo amore è un atto reciproco del Padre e del Figlio, non può essere né il Padre né il Figlio da cui procede, anche se ha la stessa bontà e sostanza del Padre e del Figlio: piuttosto, deve essere una terza Persona divina, che con il Padre e il Figlio non è che un solo Dio. E nella misura in cui questo amore si produce per modo di sospiro o ispirazione, si chiama Spirito Santo » (S. Franç. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. III, c. 13). – Altrove aveva detto più brevemente, ma con un linguaggio altrettanto gradevole e profondo: « Il Padre e il Figlio gettando da una sola e medesima volontà, da una sola e medesima amicizia, da un solo e medesimo coraggio, gettando, dico, da una sola e medesima bocca, un sospiro, un soffio, uno spirito d’amore, hanno prodotto, hanno emesso un soffio che è lo Spirito Santo » (S. Franc. de Sales: Sermon. per la Pentecoste) – Misteri grandi e sublimi che la ragione da sola non potrebbe mai raggiungere. Infatti, sebbene le sue stesse luci le mostrino in Dio la conoscenza e l’amore della sua eterna bellezza, esse non la conducono al punto in cui questa conoscenza e questo amore si realizzino. Ne darò solo questa ragione principale: è che la produzione di questi due termini è necessaria allo spirito creato, perché non è un atto da se stesso. Altra è la sua natura, altre le operazioni in cui Esso dispiega la sua attività vitale, così come altro è l’albero, altri i fiori e i frutti di cui l’albero si corona. Ma Dio, cioè l’Essere a cui nulla manca e che per la sua essenza è l’atto puro, l’atto infinito, che bisogno può avere di perfezionamento per conoscere e amare se stesso? Pertanto, ciò che rende questi termini necessari per noi tenderebbe ad escluderli da Dio, se non procedessero in Lui da una incomprensibile sovrabbondanza. Così tutti i nostri ragionamenti sarebbero vani, se la Rivelazione non fosse lì per servire da fondamento e da guida.

2. – È infatti essa che, attraverso le Scritture e la Tradizione, ci mostra nello Spirito Santo l’effusione naturale e l’amore infinito di Dio Padre per suo Figlio e di Dio Figlio per suo Padre. Il nome stesso di Spirito Santo, Spirito del Figlio, che porta nelle nostre Lettere Sante, ne è la prova. Questa è l’osservazione fatta dai teologi ed abilmente sviluppata dall’illustre Petau (Petav. De Trinit., l. VII, c. 12, n. 7). Infatti, nulla è più frequente, soprattutto nel linguaggio poetico, dell’uso delle parole respiro, respirazione, sospiro (πνεῦμα [= pneuma], Spiritus), per esprimere l’amore che scaturisce dal cuore e ciò che si riferisce all’amore. L’amore sacro, non meno dell’amore profano, non parla che di sospiri ardenti. Non voglio ricordare qui né la parola “sospirante”, perché è troppo banale, né l’espressione « respirare l’amore », perché è troppo conosciuta. Ma non è forse nel soffio della nostra bocca che si trattano gli affetti più intimi del cuore? Greci e Latini facevano lo stesso uso di questa nostra metafora. L’amore, l’amante e l’amato sono espressi nella poesia greca da sostantivi presi in prestito dai verbi respirare, esalare un respiro (είσπνεῖν [= eispnein], άῆναι [= aenai]). Come noi, i latini dicevano di respirare l’amore, e come noi rendevano con le parole sospiro e sospiri i più teneri movimenti del cuore. – Se dunque è piaciuto allo stesso Spirito Santo, autore dei Libri Sacri, di manifestarsi sotto il nome di Spirito, è perché ha voluto rivelarsi a noi come un soffio proveniente dal cuore di Dio, come l’effusione e il fine dell’amore con cui il Figlio arde eternamente per suo Padre, e il Padre per il Figlio della sua dilezione. Non dimentichiamo che lo Spirito Santo non è solo Spirito, ma che è lo Spirito del Padre, lo Spirito di verità, vale a dire del Figlio: e queste espressioni non sono scritte o ripetute senza motivo. Questo per dire che è un procedere dell’uno e dell’altro, quindi, che Esso è distinto da loro, e che non può essere amore in qualità di spirito senza essere l’Amore personale (Lc. III, 22; Matth. III, 16). – Oltre alla parola che lo afferma, il Vangelo ci ha dato il simbolo che lo rende sensibile. Infatti, non è stato senza mistero che San Giovanni vide, al battesimo di Gesù Cristo, lo Spirito Santo scendere e posarsi su di Lui sotto forma di colomba. « Ecco la Trinità che rivela il suo mistero, Cristo è in piedi nell’acqua, la voce del Padre tuona dal cielo, e lo Spirito Santo scende attraverso la colomba » (San Paolino, Nol., ep. 83, n. 10). – La colomba è per eccellenza, nell’opinione comune, il simbolo dell’amore ideale, fecondo, semplice e puro. L’arte cristiana non ha immaginato nessun’altra figura per rappresentare visibilmente questo Spirito divino agli occhi dei fedeli. Si trova fin dai primi giorni del Cristianesimo. È soprattutto nei battisteri che questa immagine è invariabilmente riprodotta in pittura, scultura e in mosaico (vedi Martigny, Dict. des antiq, chrét. alle parole Colomba e Spirito Santo). La più bella di queste rappresentazioni iconografiche è, senza dubbio, quella che mostra lo Spirito di Dio sotto la figura della colomba, che si libra sopra il Padre e il Figlio, ad ali spiegate, in un movimento immobile, ed esprime con i suoi sospiri ardenti le ineffabili delizie e la santità del loro amore. E ciò che corona la perfezione del simbolo è che sembra emanare dal loro eterno e reciproco bacio. La storia e la leggenda ci ricordano costantemente questo grazioso simbolismo. Quante volte si sono viste anime pure, tutte consumate dal santo amore, liberarsi dal loro involucro terreno e sfrecciare verso la patria della carità divina, sotto l’emblema vivente di una colomba! Questo prodigio è stato raccontato dal grande martire S. Policarpo e da una moltitudine di servi e serve di Dio. Prudenzio la cantò in versi dedicati a Santa Eulalia di Merida. « Quando il fuoco le salì alla testa e le bruciò i capelli, la martire aprì la bocca come per bere la fiamma, e una colomba bianca come la neve fu vista scivolare tra le sue labbra e librarsi in cielo. Era l’anima di Eulalia » (Pruden., Hymn. in honor. S. Eulaliæ, P. Lat. t. 60, p. 352). Se pur tra tanti esempi, registrati nelle vite dei Santi, molti non hanno un carattere sufficientemente storico, questo prova ancora di più quanto profondamente il simbolismo di cui parliamo fosse penetrato nell’anima cristiana e popolare (P. Cahier, S. J., Les caractéristiques des saints, art. Colomba).

3. – Sopra ho parlato di una rappresentazione simbolica in cui lo Spirito Santo ci appare librandosi sopra il Padre e il Figlio in forma di colomba. È necessario ritornare su di essa per considerarla più dettagliatamente: perché è di grande importanza nella presente questione. Qui la colomba ci si mostra come il bacio e il legame del Padre e del suo amato Figlio. colomba, bacio, legame: tre parole e tre figure che vanno a mostrarci nello Spirito Santo l’amore che procede dalle altre due Persone, l’Amore ipostatico. Ho già detto che la colomba è l’emblema dell’amore puro; non è forse per questo che lo Sposo del Cantico chiama l’amata, la mia colomba, « columba mea »; come se dicesse: « amore mio »? Cos’è il bacio? Mettiamo ancora una volta da parte tutti i pensieri bassi, e vedremo in esso solo l’espressione sensibile del santo amore, il pegno e il frutto della carità divina. Fu per questo che il Salvatore Gesù lo ricevette e lo diede in mezzo ai suoi discepoli; per questo che Pietro e Paolo lo raccomandano alla fine delle loro lettere e che la santa Chiesa lo ha consacrato nella sua Liturgia. (« Paolo – scrive Origene – in osculo sancto » – Rom. XVI, 16), rivolge un doppio avvertimento ai fedeli: primo, che i baci dati nelle chiese siano casti; secondo, che siano liberi dalla simulazione. – « Dopo la preghiera domenicale – continua  Sant’Agostino – noi diciamo: “La pace sia con voi“, e i Cristiani si danno il santo bacio, simbolo della pace. Che ciò che è significato dall’unione delle labbra abbia luogo nella coscienza. Come le tue labbra si posano sulle labbra del tuo fratello, così il tuo cuore non si allontani dal suo cuore » – Sermone 227, al. 83, de div. – Nessuno ignora che nel Medioevo il pegno più sacro di una riconciliazione, cioè dell’unione dei cuori dopo la disunione, era il bacio dato e ricevuto. Ne troviamo un esempio molto singolare nella vita di San Tommaso di Canterbury (R. P. Dom. À. L’Huillier, t. 2. cap. 16). Il re d’Inghilterra, Enrico II, che aveva costretto il santo a fuggire dal suo paese, sollecitato dal Sovrano Pontefice a restituirlo alla sua sede, voleva ingannare il grande Vescovo con vane promesse e concedergli solo una pace mendace. Ci fu in un colloquio che ebbe luogo a Ghanmont, tra Blois e Amboise. Il re, con questa intenzione, diede al Primate il benvenuto più affabile; ma voleva a tutti i costi evitare di dargli il bacio della pace. Non era una cosa facile da fare, perché essi dovevano assistere insieme al Santo Sacrificio. Un amico del re, per salvarlo dall’imbarazzo, gli consigliò di far celebrare una Messa da Requiem, nella quale si esclude il bacio di pace. Ma il santo prelato sapeva essere operoso e trovare l’occasione per reclamare dal re ciò che quest’ultimo non voleva concedere in alcun modo. « Sire – gli disse – secondo le vostre promesse, concedetemi il bacio della pace ». « Non in questo momento – rispose il re – ma un’altra volta, quando voi vorrete ». L’Arcivescovo non rispose, ma capì che la rottura era senza rimedio. – Sul significato del bacio, vedi Martigny: Dict. des Antiquités chrét. alla parola bacio; de Maistre, Soirées de St Pétersb. 10 colloquio; – S. Frans. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. I c. 9; 8. Giovanni Crisostomo, in Romani, XVI, 16; 8. Sant’Ambrogio, Esæm, L. VI, c.. 9, n. 68, ecc.) – Ecco perché San Bernardo vede nel bacio un’immagine dello Spirito Santo. « Alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo. Certamente è stato un bacio del Signore. Un bacio, il respiro corporeo? No, ma lo Spirito invisibile, dato dal Signore sotto il simbolo esterno di un soffio, affinché si possa comprendere che lo Spirito procede dal Figlio e dal Padre come un vero bacio che è loro comune » (S. Bernardo, in Cant., serm. 8, n. 2) Lo Spirito Santo, essendo il bacio comune del Padre e del Figlio, è dunque il loro amore espresso, il termine, il frutto perfetto della loro eterna e perfetta dilezione. – S. Bernardo, nel testo appena citato, lo chiama ancora « la pace indisturbata del Padre e del Figlio, il loro amore, il legame che li incolla in un’unità indivisibile ». E questa dottrina l’aveva appresa dagli antichi Padri, e specialmente da Sant’Agostino. Perché nulla è più frequente in quest’ultimo che i titoli di « comunione, carità sostanziale, unità del Padre e del Figlio » dati allo Spirito di Dio. Questo è ciò che ci dice la colomba che si libra su queste due Persone divine, immobile tra il Padre e il Figlio; ed è anche ciò che ci assicura che questo Spirito divino sia la loro carità sostanziale, e come abbiamo detto, il termine immanente e il pegno della loro reciproca compiacenza, poiché la natura propria della carità è quella di unire (S. August. de Trinit., L. V, c. 15 et alibi passim; Petav, de Trinit, L. VII, c. 12, n. 7, segg.). – Qui, alcune spiegazioni sono necessarie per evitare una falsa interpretazione di questi testi e di altri simili. S. Atanasio ha scritto: « Non spetta allo Spirito Santo unire il Verbo al Padre, poiché Egli stesso riceve dal Figlio » (S. Atanasio, Orat. 4, c. Arian. P. Gr., t. 26). Niente è più vero di queste parole del grande patriarca di Alessandria. Lo Spirito Santo, nell’ordine delle processioni divine, non sta nel mezzo, se è permesso usare questo termine, tra il Padre, primo principio, e il suo Verbo. Non è nel nome del Padre, dello Spirito Santo e del Figlio che il Salvatore ha voluto che il Battesimo fosse conferito dagli Apostoli e dai loro successori. Ma Dio non voglia che i Padri occidentali abbiano insegnato qualcosa di contrario a questo ordine necessario delle Persone divine. Non abbiamo forse sentito il più illustre di loro, Sant’Agostino, rappresentare la Sapienza, immediatamente generata dal Padre e dal suo Verbo, come il principio dell’Amore, cioè dello Spirito Santo? Ciò che essi intendono è che questo stesso Spirito che, come Dio, è uno con il Padre e il Figlio, e che, come Persona distinta, fa il glorioso coronamento delle Processioni eterne: è, dico, che questo stesso Spirito, poiché è il termine immanente e l’espressione perfetta del loro Amore, basterebbe a fare di loro un solo cuore, una sola anima, anche se queste Persone divine fossero distinte, come noi, dalla loro essenza individuale. « Immaginate – dice San Bonaventura – due sposi così uniti nell’affetto che dal loro unico amore nasce un figlio che è amore » (San Bonaventura, In 1, D. 10, a 1, q. 1 e 2). Quanto crescerebbe la loro unione, e non si potrebbe dire di questo bambino che egli è la loro unità, la loro comunione, la mille volte amata catena che li lega inseparabilmente l’uno all’altro? Questa è un’immagine del ruolo che assegniamo allo Spirito Santo nella Trinità. « Non è dunque vano che in questa Trinità ci sia solo il Figlio da chiamare Verbo di Dio, e lo Spirito Santo da chiamare Dono di Dio… Come l’unico Verbo di Dio porta il nome di sapienza, anche se il Padre e il Figlio sono anch’essi sapienza, così lo Spirito Santo conserva il nome di carità, anche se il Padre e il Figlio sono per essenza carità » (S. August, de Trin., LXV, n. 39, segg.).

4. – I Padri orientali ignoravano forse questa dottrina, o almeno la tenevano in minor considerazione di quelli dell’Occidente?  Ci sono alcuni che sembrano averlo pensato; ammetterò, se si vuole, con Petau (Petav., de Trinit., L. VII, c. 12, n. 1), che questi Padri più raramente usano le parole amore e carità per indicare lo Spirito Santo con nomi propri ad Esso. Ma, in mancanza di queste espressioni, essi hanno altre formule che le sono pienamente equivalenti, come vedremo tra poco, sul tema della santità. – La causa principale del loro relativo silenzio si trova, se non mi sbaglio, nella natura stessa dei loro scritti. Se hanno trattato esplicitamente dello Spirito Santo, è quasi sempre per rivendicare la sua divinità contro gli attacchi dell’errore. Era dunque necessario che mettessero in evidenza, in questo Spirito divino, le caratteristiche con cui si rivela più chiaramente come Dio. E poiché questi nomi di amore e carità non sembrano a prima vista essere così direttamente diretti allo scopo come altri, anche se esprimono le stesse idee nella sostanza, è per questo che sono stati usati meno spesso da questi Dottori. – Vi si trovano tuttavia; testimonia questa invocazione di S. Teodoro Studita allo Spirito Santo: « O tu, vita, amore, luce » (Apud Petav., l. c., n. 2). Ne è testimone ancora questo passo di S. Ireneo: « È la Dilettazione di Dio che attraverso il Verbo ci conduce alla conoscenza del Padre » (S. Iren….. cont. Hæres., L. IV, c. 20, n.4 e 5. P. Gr.: t. 7, p. 1054.). Il Diletto di Dio, cioè lo Spirito Santo, come egli spiega in un altro testo, quando dice che « attraverso lo Spirito noi risaliamo al Figlio e per mezzo del Figlio al Padre » (Id. L. V, c. 36, n. 2, P. Gr. t. 7, p. 1223). Riconosciamo la stessa idea quando questi Padri rappresentano lo Spirito Santo come un fiume di fuoco che, partendo dal Padre e passando per il Figlio, tende ad attraversare le frontiere della divinità per diffondersi sulle creature e trasformarle. Ricordavano le lingue di fuoco che simboleggiavano la discesa dello Spirito Santo sui discepoli nel grande giorno di Pentecoste. Ricordarono anche che il Signore aveva detto: « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che risplendesse » (Luca, XII, 49). Ora, cos’è il fuoco in queste ed altre formule simili, se non l’amore, di cui è scritto: « L’amore è forte come la morte… le sue lampade sono lampade di fuoco e fiamma » (Cant, VIII, 6). L’ebraico dice: « Il suo ardore è come il fuoco; è una fiamma di Jehovah ». Sembra essere un’anticipazione della grande parola di San Giovanni: Dio è carità. Perciò, se i Greci attribuiscono allo Spirito Santo il simbolo del fuoco, è perché Esso è per loro, come per i loro fratelli latini, l’Amore personale e sostanziale, e cantano con loro con lo stesso cuore ed una voce comune. « Vieni, Spirito Creatore… Fuoco, carità, Ignis, charitas! » Inoltre, cos’altro possono significare i nomi di bontà, di benignità, di soavità del Padre e del Figlio, così spesso usati da essi per designare lo Spirito Santo? Posso aggiungere che per loro Esso è un olio aromatico che sgorga dalla sostanza del Padre e del Figlio; un soffio che esala dal cuore di Dio; il buon odore della divinità; un calore divino che emana dal focolare eterno: tutte figure che non hanno un significato preciso, se non esprimessero una processione di amore (Petav. de Trinit., L. VI, c. 5, n. 6, sq 4.: Frazelin, de Deo trino, th. XXI. Simeon, Jun., Divin. Amor. P. G.. t. 120 p: 592). Non voglio qui negare che, tra i Padri più antichi, ce ne sono diversi che designano espressamente lo Spirito Santo col nome di Sapienza (S. Iren., L. III c. 8, n.3; Theoph. Ant., ad Autolyc. L. II, c. 10: Clem. Alex. Strom., L. VII, ecc.), e sembrano con ciò contraddire in anticipo la dottrina contenuta in questo capitolo. Si potrebbe innanzitutto rispondere che questi Padri sono molto pochi, e che hanno contro di loro l’uso comune di tutti gli altri e quello della Chiesa stessa: perché soprattutto il nome di sapienza è per appropriazione il Nome del Figlio e quello di Sapienza generata, il Nome proprio dello stesso Figlio. Ma, alla fine, questi antichi Padri non sono, per quanto sembri, in disaccordo con la Dottrina comune; perché c’è un significato per la parola saggezza che la riporta all’amore. In effetti, la saggezza appartiene in gran parte alla volontà. Se, tra i doni dello Spirito Santo, quello dell’intelletto nasce immediatamente dalla fede, il dono della sapienza ha come principio la carità. La sapienza giudica tutte le cose per mezzo della carità divina e nella carità (S.Thom. 2, 2, q. 45, a. 2); non tanto con la ragione, anche se illuminata dai lumi della fede, quanto dal cuore infiammato dall’amore divino. Senza dubbio, presuppone l’intelligenza, ma è soprattutto l’amore che si rivela nelle sue operazioni. Così lo Spirito di Dio, che per la sua natura ed intelligenza infinita, e per la sua modalità di processione, l’Amore ipostatico, può essere chiamato come minimo Sapienza, senza che questo titolo escluda la proprietà che lo rende Amore personale (Petav. de Trinit., L. VII, c. 12).

LA GRAZIA E LA GLORIA (28)