LA GRAZIA E LA GLORIA (37)

LA GRAZIA E LA GLORIA (37)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO V

Alcuni chiarimenti sulla necessità della grazia per il merito.

1. La dottrina cattolica ci insegna che non c’è merito se non attraverso la grazia. Questo è ciò che abbiamo sufficientemente dimostrato quando abbiamo ricordato le condizioni universalmente richieste in tutte le scuole e da tutti i Dottori (Suppl. T. VII). Ma questo crea anche una difficoltà. Infatti, quale potrebbe essere l’influenza della grazia divina su un’azione comune e semplice come un atto di cortesia, una moderata ricreazione, in un figlio di Dio? È necessario che lo Spirito Santo sia presente per illuminare la sua mente e muovere il suo cuore, e non è sufficiente la volontà naturale diretta dalla retta ragione? E qui, sembrerebbe ci sia un’azione meritoria secondo noi, fatta senza la grazia. – A queste domande più di un illustre teologo ha risposto che in realtà alcuna influenza attuale della grazia sia assolutamente richiesta perché gli atti di questo genere rientrino tra i meriti di un uomo giustificato (Domin. Soto qui Conc. Trid. interfuit. De natura et gratia, L. III, c. 4). Ma pur mantenendo la loro dottrina, respingono ben lungi l’accusa di pelagianesimo che viene loro rivolta. E certamente, tra le idee di Pelagio e il loro sentire ci sono degli abissi. Cosa sosteneva Pelagio? Che le forze della natura siano pienamente sufficienti a dare ai nostri atti il premio di cui la gloria è la ricompensa. E questi teologi, invece, cosa dicono? Le nostre azioni moralmente buone acquistano questa incomparabile dignità solo a due condizioni: la prima è che chi le compie sia figlio di Dio per partecipazione della sua natura, e di conseguenza porti in sé la Trinità, come in un santuario vivente; la seconda, che l’azione presupponga la grazia santificante, attraverso la quale la carità divina siede come padrona al vertice delle facoltà umane. È questa, chiedo, l’eresia di Pelagio, o non è forse la solenne affermazione della necessità della grazia più eccellente per ogni azione meritoria davanti a Dio? – Inoltre, quando negano la necessità di un soccorso esterno che debba prevenire ogni singolo atto perché sia meritorio, questi teologi non sostengono affatto che la sola grazia santificante sia sufficiente al giusto. Ciò significherebbe andare troppo direttamente contro gli insegnamenti più evidenti della nostra fede. Affinché il peccatore, una volta giustificato, possa resistere ai pressanti attacchi del nemico, per l’adempimento di tutti i comandamenti divini, in una parola, perché egli perseveri e si conservi nell’amicizia divina. ha bisogno, oltre che della cooperazione generalmente richiesta per tutti gli atti della creatura, di un’assistenza speciale da parte di Dio. Tali sono, dopo la caduta originaria, le tenebre diffuse sulla nostra intelligenza, la debolezza e l’incostanza della nostra volontà; tale anche gli assalti frequentissimamente rinnovati della concupiscenza, del mondo o del demonio, che se lo Spirito di Dio non venisse a illuminare la nostra ignoranza, a rafforzare la nostra infermità, a scuoterci dal nostro torpore, la vita soprannaturale si indebolirebbe presto e si spegnerebbe in noi (cfr. L. III, c. 5). « Per questo motivo – dice San Tommaso, trattando questo argomento – è opportuno non solo per i peccatori, ma anche per coloro che la grazia ha reso figli di Dio, ripetere la preghiera del Signore: « Non lasciateci soccombere alla tentazione, etc. … sia fatta la vostra volontà sulla terra come in cielo » (S. Thom., 1. 2, q. 109, a. 9 e 10; Sum. c. Gent, L. III, c, 156).  Ma si guarda bene dal rivendicare queste luci ed ispirazioni dall’alto per ogni singola nostra operazione meritoria, senza escludere le più facili e semplici. L’aiuto particolare che egli chiede oltre alla grazia santificante con le virtù, i suoi annessi, e il moto generale senza il quale nessuna causa creata può compiere il suo atto, non è tanto una grazia elevante quanto una grazia medicinale. Non è, infatti, uguale il caso dell’uomo giustificato a quello del peccatore. e l’errore di molti teologi è quello di applicare al primo ciò che si dice solo dell’ultimo. Leggo nei Concili che, « senza l’ispirazione preveniente e l’assistenza dello Spirito Santo, l’uomo non può credere, sperare, amare, pentirsi »; … far nulla, in una parola, che lo disponga alla salvezza (Concilio Tridentino, sess. VI, can. 3; capp. 5 e 6). Ma, come si vede, tutti i testi in cui si richiedono queste eccitazioni e questi tocchi dello Spirito Santo per ciascuno degli atti in particolare, parlano del peccatore che si prepara alla giustificazione, cioè di colui che non porta ancora in sé né l’essere né i principi soprannaturali. – Non ignoro neppure il canone del Concilio di Trento, che anatematizza chiunque dica che un uomo giustificato possa, senza uno speciale aiuto di Dio, perseverare nella giustizia che ha ricevuto, o che non lo possa con Lui (Conc, Trid., sess. VI, can. 22; col, cap. 13). Ma l’aiuto speciale è qui richiesto solo per la perseveranza. È come se il Concilio avesse detto: Né la grazia né le virtù infuse che costituiscono lo stato di giustizia sono sufficienti all’uomo per evitare ogni caduta e per rimanere saldo nell’osservanza dei precetti divini e nella carità. Cosa si intende per aiuto speciale di cui si parla nel canone conciliare?  Per chi conosce la terminologia teologica in uso all’epoca, non ci sono dubbi: si tratta di un’illuminazione della mente, di un’eccitazione della volontà, di un’ispirazione dello Spirito Santo che ci risveglia e ci aiuta a superare una tentazione o a compiere un dovere più difficile; perché la perseveranza si ottiene a questo prezzo. Ma notiamo ancora una volta, il santo Concilio non dice affatto che l’assistenza indispensabile per la perseveranza, lo sia anche per ogni atto meritorio singolarmente considerato. Domenico Soto (De nat. et gratia, L. III, c. 4) sottolinea felicemente la stretta analogia che lega due opinioni apparentemente molto diverse. « Gregorio da Rimini – egli dice – e Capreolo, hanno immaginato che, secondo San Tommaso, un uomo che non abbia la grazia (santificante) non possa, senza un aiuto speciale da parte di Dio, fare alcuna azione moralmente buona; da qui la conclusione logica che, secondo lo stesso santo Dottore, sia necessaria anche un’assistenza speciale per ogni opera meritoria, anche quando si è in grazia. Ma noi, che teniamo (e molto giustamente) il sentimento contrario, per quanto riguarda gli atti moralmente buoni, lo riteniamo anche (de peritorum censura) per quanto riguarda gli atti meritori, cioè che non sia richiesta, oltre alla grazia, un aiuto speciale per ciascuno di essi, e questa è l’opinione che sembra di gran lunga preferibile a Cajetano, nel suo commento a S. Tommaso – 1. 2, q. 109, a. 10″).

2. – Certamente la soluzione, così come l’ho appena presentata, ha un valore. Ma diventa molto più chiara se ci riferiamo a ciò che abbiamo stabilito quando abbiamo parlato delle virtù morali. Dio Nostro Signore non potrebbe essere meno liberale nei confronti della vita soprannaturale di quanto lo sia nei confronti della vita razionale. Se, dunque, non c’è alcun tipo di atto moralmente buono a cui non corrisponda una qualsiasi delle virtù acquisite, non ce ne devono essere altri che non rientrino nelle virtù infuse soprannaturalmente. Se negate questo, rimpicciolite il cuore di Dio: perché non è forse un rimpicciolimento fargli rifiutare nell’ordine della grazia ciò che concede così largamente alla natura? (cfr. L. III, c. 3) Pertanto, le parole del Dottore Angelico con cui abbiamo concluso il capitolo precedente: « … le virtù abbracciano tutto ciò che può essere il bene dell’uomo », valgono per le virtù infuse ancor più che per quelle naturali. – Da qui questa bella dottrina che trovo altrove nelle opere di San Tommaso. Egli doveva dimostrare l’esistenza delle virtù infuse e poneva l’obiezione che « l’atto di virtù acquisita può essere meritorio della vita eterna per il fatto stesso che è informato dalla grazia ». Ascoltiamo la risposta: « Poiché non ci può essere merito senza la carità, l’atto di una virtù acquisita (per esempio il pagamento di un debito di giustizia) non può essere meritorio senza la stessa carità. Ora, con la carità tutte le altre virtù sono infuse; quindi, l’atto di virtù acquisita è meritorio solo per mezzo della virtù infusa. Infatti, affinché una virtù ordinata per sua natura a un fine inferiore possa produrre un atto ordinato a un fine superiore, ha bisogno di una virtù superiore che la nobiliti e la elevi » (De virtut. in comm:, q. un., a. 10, ad 4). La grazia non distrugge la natura e la virtù divinamente infusa non sopprime quella naturalmente acquisita. Se si aggiunge la grazia alla natura, si ottiene un essere soprannaturale e divino: unite in uno stesso principio prossimo, la volontà, la virtù naturale e la virtù infusa, e potete avere l’atto soprannaturale e meritorio, senza bisogno di un ricorso perpetuo alle grazie prevenienti e speciali. – Ciò che, temo, fa esitare di fronte ad una dottrina così chiara è che, stabilita l’esistenza delle virtù infuse, si dimentichi che esse siano una grazia superiore agli aiuti transitori, e soprattutto che costituiscano dei principi superiori di azione. Tutto ciò che le Sacre Scritture, i Padri e i Concili hanno insegnato sulla necessità della grazia per le opere sante, è inteso come grazia attuale; come se, nell’uomo giusto, le abitudini infuse non integrassero in modo sovrabbondante gli aiuti transitori concessi al peccatore in vista delle azioni salutari. Leggiamo che le virtù sono date all’uomo per agire in modo connaturale nell’ordine divino; e questa espressione, di per sé molto corretta, sembra aver perso la sua vera interpretazione. Con la virtù io agisco in modo connaturale, perché porto immanentemente e permanentemente dentro di me il principio integrale del mio atto; con la grazia puramente attuale non agisco più in modo connaturale, perché il principio che rende salutare la mia azione, mi giunge da un’influenza esterna e transitoria. – Per riassumere in poche parole: le opere dei giusti, non solo quelle che vanno più dritte a Dio, ma anche le più umili, che dipendono dalla grazia e sono in tutta verità « dona Dei, doni di Dio », sono tali, dico, perché partono da un’anima divinizzata dalla grazia e dalla dimora in permanenza dello Spirito Santo; da una volontà in cui la carità risiede come regina e che le opera con delle forze soprannaturali: le virtù divinamente infuse. Cos’altro servirebbe per verificare tutti i requisiti della dottrina cattolica? Confesso che non lo so, e molti altri non lo sapevano prima di me (vedi l’Appendice 10).

LA GRAZIA E LA GLORIA (38)

LA GRAZIA E LA GLORIA (36)

LA GRAZIA E LA GLORIA (36)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO IV

Il ruolo della carità nel merito e la sua compatibilità con la dottrina esposta in precedenza.

1. Se c’è una cosa che stupisce è vedere teologi che, come il Dottore Angelico, estendono così ampiamente la portata del merito, con poche eccezioni, da reclamare per gli atti meritori una condizione che altri non considerano necessaria per il merito ristretto che essi insegnano. Chiedete a questi ultimi quali siano le condizioni sufficienti per un’opera meritoria. Vi rimanderanno a quelle che abbiamo elencato nel secondo capitolo di questo libro, e non ne vogliono altri. Interrogate ora S. Tommaso e la maggior parte di coloro che lo hanno seguito; li sentirete affermare la necessità della carità per qualsiasi atto di merito. La carità è la forma che conferisce alle virtù il loro carattere meritorio e la loro perfezione: se essa non è là ad ordinare le nostre azioni più sante verso lo scopo finale della nostra vita, queste azioni possono anche essere buone, ma non hanno alcun valore per il cielo. A volte sembra che essi non attribuiscano che alla sola carità il potere e il diritto di acquisire la sostanziale ricompensa che ci è stata promessa: tanto essi esagerano il suo ruolo, e sembrano sminuire nei suoi confronti il ruolo delle altre virtù. – Io non propongo nulla che non possa essere facilmente provato da cento testimonianze; e queste testimonianze sono supportate da ragioni che sono convincenti per questi stessi autori. « Il primo principio del merito è la grazia santificante, ma la carità è il principio prossimo. Ecco perché le opere dei giusti sono meritorie di un merito di condignità (ex condigno) solo nella misura in cui la carità le rapporti a Dio. » È in questi termini che Gregorio di Valencia, spiegando il proprio pensiero, riassume anche la teoria dell’Angelo della Scuola (Gr. a Valentia, l. jam cit.). – E di certo non si sbagliava nell’apprezzare questo insegnamento magistrale. Una prova inattaccabile è la risposta del grande Dottore ad una domanda capitale in questa materia. È vero che la grazia sia un principio di merito per la carità, molto molto più (principalius) che per le altre virtù? – Sì – dice San Tommaso – il primato del merito deve essere attribuito alla carità. La grande ragione che egli adduce è che la vita eterna consiste nel godimento di Dio; ora, il movimento e come il volo dell’anima umana verso il godimento del Bene sovrano è l’atto proprio della carità. Ad essa sola appartiene il tendere direttamente verso l’ultimo fine, perché essa sola lo raggiunge per riposare in esso. Se gli atti delle altre virtù sono orientati dai loro fini particolari verso questo fine supremo, è sotto il suo impero e grazie alla sua direzione (per andare a Dio e condurci a Lui, i nostri atti devono essere fatti per Dio “propter Deum“: ora, essi hanno questo non per loro natura, ma per la carità. S. Thom, de Carit, q. un., a. 5). In ogni ordine in cui diverse operazioni concorrono in qualche modo allo stesso fine, spetta alla potenza che mira direttamente all’ultimo fine coordinare tutto in vista di questo fine. Così, in ogni essere ragionevole l’appetito inferiore deve sottomettersi al governo della ragione, pena l’insorgere di gravi disturbi nella vita morale; così, in un esercito che va in battaglia, ci deve essere un Comando Superiore che riunisca tutte le energie individuali e tutti gli elementi che lo compongono, verso la meta suprema che è la vittoria. Qualunque sia la bravura dei soldati, la devozione e l’abilità dei capi subalterni, dove questa direzione manca, ci possono essere battaglie parziali più o meno vittoriose, ma nessun trionfo finale. – L’uomo, soprannaturalizzato dalla grazia, è fatto per marciare alla conquista di Dio. Il suo esercito è composto dalle facoltà e dalle virtù di cui la munificenza divina lo ha ampiamente dotato. Se non volete che questo esercito lavori invano, essendo ciascuna delle sue forze vitali confinata, per così dire, al perseguimento del suo oggetto particolare, dategli come sovrano la carità: perché, ancora una volta, è la carità che persegue immediatamente il fine supremo verso il quale tutta la nostra vita deve convergere (S. Thom, 1. 2, q. 114, a. 4; Col. 2, 2, q. 23, a. 7; de Carit, q. un., a. 5, ecc.). – È in questo senso che l’Apostolo, nel suo mirabile panegirico fatto della carità, l’ha raffigurata con la scorta di tutte le virtù: così incorporata, per così dire, con ciascuna di esse, che i loro atti diventano come le sue opere (I Cor. XIII, 4-8). Tutti i nemici di essa, non sono gli avversari di ciascuna delle altre virtù; ma queste non hanno nulla che non sia suo, diventando loro. E, per dirla di sfuggita, questo è il motivo per cui ogni colpa grave, qualunque sia la virtù particolare che attacca, colpisce la carità nel cuore. In quanto regina, prende come proprie sia le opere che le offese di coloro che la seguono (S. Thom, De Carit., q. un., a. 5, ad 7 e 8); ed è questo che fa sì che le prime portino a un aumento della vita spirituale, e le seconde ad un fallimento o alla morte. La dottrina che ho appena riassunto, secondo i nostri grandi teologi scolastici, questi l’avevano appresa dalle Scritture e dai Padri. A sostegno di ciò, l’Angelo della Scuola cita queste parole del Maestro: « Se uno mi ama, sarà amato dal Padre mio e Io lo amerò e mi manifesterò Io stesso a lui » (Gv. XIV, 21): per questa manifestazione, la ricompensa della carità è la vita eterna. Così eccellente è la carità tra tutte le virtù, che essa è la prima, se non l’unica, a trionfare (1 Cor., XIII, 8-10, 43). La fede, questa virtù eccelsa, merita, senza dubbio, ma a condizione che operi attraverso la carità (Galati, V, 6). Perciò, se non avete in voi la carità, tutti i vostri atti più virtuosi, dal punto di vista del merito, non sono nulla (1 Cor., XIII, 1-4.). « Quale verzura – si chiede San Gregorio – potrà avere il ramo di un’opera buona se non ha come radice la carità? » (San Gregorio M., hom. 7, in Evang.). «Tutte le virtù senza la carità sono nulle; e per quanto perfetta possa essere una virtù morale, essa è infeconda se il suo frutto non ha per madre la carità », dice il grande San Leone. (S. Leo. M., serm. 47, de quadrag. 10, c. 3.). Invocherei l’autorità di S. Agostino, se tutti non conoscessero il ruolo preponderante che egli attribuisce alla carità nell’ordine del merito, al punto da aver fatto credere ad alcuni teologi, a torto è vero, che la sola carità sia per lui tutto il nostro merito.

2. – Dopo quanto abbiamo appena detto, possiamo comprendere perché i teologi e gli autori ascetici abbiano chiamato virtù quelle che non siano unite nell’anima alla carità, virtù informi; o, il che equivale alla stessa cosa, come la carità divina sia la forma delle virtù. Queste parole hanno un significato perfettamente determinato. La virtù formata è la virtù nella sua perfezione finale, mentre la virtù è informe quando manca della stessa perfezione: perché la forma è ciò che dà ad ogni cosa il complemento che le è appropriato. Da qui le espressioni teoria informe, blocco informe e mille altre dello stesso tipo. Ora, quando si tratta di atti considerati dal punto di vista morale, è dall’ordinarsi verso il fine che dipende in gran parte la loro perfezione. Fate l’elemosina per aiutare un fratello e per l’amore di Dio, Padre comune dei bisognosi e dei ricchi: nulla di più lodevole. Ma la stessa elemosina sarebbe cattiva se fosse data con l’intenzione perversa di spingere un disgraziato al crimine. Da qui il principio: « Nelle cose morali, ordinare un atto verso il fine significa dargli la sua forma. In moralibus id quod dat actui ordinem in finem dat ei formam » (S. Thom., 2. 2, q. 25, 2. 8). Pertanto, poiché appartiene alla carità l’ordinare non solo i propri atti, ma anche quelli di tutte le virtù, al fine generale e finale di ogni uomo e di tutto il genere umano, cioè a Dio, bontà suprema, è manifesto che essa sia la forma delle virtù. Infatti, le virtù sono formate in sé stesse da ciò che le rende capaci di produrre degli atti formati (Id., ibid.). Ma non fraintendiamo il significato della nostra formula, immaginando la carità come un elemento intrinseco e costitutivo delle virtù che informa. No, la distinzione rimane intera. Ognuna di esse conserva la propria natura specifica e il proprio fine. Ciò che deriva dalla carità è, come detto, un orientamento più alto e più perfetto, e l’efficacia che rende l’atto delle virtù inferiori un merito nel senso proprio. Pertanto, per virtù formate intendiamo quelle virtù che sono strumento di merito, e per virtù non formate quelle che, data l’assenza della grazia e della carità, sono radicalmente impotenti a produrre atti meritori davanti a Dio (Possono esistere vere virtù senza carità? Sì e no. Sì, se è sufficiente che una virtù sia vera per tendere a un oggetto che sia un vero bene, come sarebbe un atto di giustizia; no, se intendiamo per vera virtù quella che non si ferma al bene particolare, ma si spinge fino al Bene supremo dell’uomo. Quindi la scienza perfetta è tale solo quando si basi sulla conoscenza sicura dei principi primi – S. Thom., 2. 2, q. 23, a. 7).  Così, in ciascuna delle virtù meritorie c’è una doppia forma: una forma particolare che le costituisce nel loro essere specifico; una forma più generale, ma esterna, che le completa e le perfeziona: quella venendo loro dal proprio oggetto e fine speciale, e questa dall’ultimo fine attraverso la carità. – Per questo, dice l’Angelo della Scuola, « la carità entra nella definizione di ogni virtù, non in quanto tale, ma in quanto meritoria » (S. Thom, de Carit., q. un., a. 3, ad 1, 3, ecc.). Ma se la carità non è una forma informante, cos’è dunque? Essa è per analogia la forma esemplare e la forma efficiente delle altre virtù: efficiente, in quanto le rende meritorie e perfette; esemplare, perché, impadronendosi delle loro operazioni per ordinarle al fine che esse perseguono in proprio, dà loro con questa non so quale somiglianza e quale aria familiare (1d., ibid., ad 15; 2, 2, q. 23, a.8, ad 1.). – Pertanto, questo non impedisce che la carità sia formata a sua volta dalla grazia. Consultiamo nuovamente il nostro Dottore su questo punto. Egli ci dirà « che la grazia e la carità sono la forma delle virtù, ma in modo diverso. La carità è la forma delle virtù dal punto di vista operativo, perché le convoca, per così dire, con tutti i loro atti, al perseguimento del suo fine. E la grazia è la loro forma dal punto di vista dell’origine: perché è dalla grazia che emanano con la carità come dal loro principio comune. Ora, ciò che scaturisce da un principio riceve la sua forma e la sua natura da esso, e conserva la sua vitalità nativa solo nella misura in cui aderisce a questo stesso principio » (S. Thom, II D. 26, q. 1, a. 4, ad 5; col. di Virtut. in communi, q. 2, a. 3, ad 2.). Queste considerazioni ci portano a comprendere anche come la grazia e la carità siano, ciascuna in modo diverso, madre e radice delle virtù. La grazia è madre, poiché è essa che, sotto l’influsso dello Spirito Santo, concepisce le virtù e ne conserva l’essere; radice, poiché queste stesse virtù devono continuamente attingere da essa. La carità, da parte sua, è anche madre e radice: infatti, sebbene gli atti delle altre virtù non provengano fisicamente da essa, è tuttavia attraverso di essa che la grazia stimola queste virtù a produrle e conferisce loro questa direzione verso il fine ultimo, che è il carattere indispensabile di ogni merito propriamente detto. Si ricordi che Rachele diede figli a Giacobbe da Balam, sua serva (Gen. XXX, 1-7). – Cfr. S. F. de Sales, Trattato dell’amor di Dio L. XI c. 11), e si potrà concepire, se non mi sbaglio, un’idea più esatta di questa maternità generale: della carità che fa i propri atti che non escono da essa.

3. – Cerchiamo ora di conciliare questa dottrina con quanto detto nel capitolo precedente sul merito universale delle opere moralmente buone, quando però l’agente che le compie è un figlio adottivo di Dio per grazia. Sarà necessario che ogni azione compiuta dal giusto sia accompagnata da un atto di carità che la comandi e la coordini con il fine ultimo; sarà necessario, almeno, che gli atti d’amore di Dio siano ripetuti abbastanza frequentemente perché rimanga in essi un “non so che” di cui l’anima, al momento dell’azione, sperimenta l’influenza reale e positiva influenza? Diciamolo forte e chiaro: tali richieste, anche se si trovano in alcuni autori generalmente inclini al rigorismo, non sono fondate. Inoltre, l’Angelo della Scuola ed i molti illustri teologi che lo hanno seguito, pur mantenendo il privilegio della carità, sono lontani da tali esagerazioni. Cosa chiedono essi in effetti? Un orientamento di tutte le nostre opere moralmente buone che, secondo loro, si trova ovunque regni la grazia santificante. La grazia che ci rende figli di Dio ci orienta verso di Lui nel nostro essere; spetta alla carità operare la stessa conversione nella nostra attività vitale. In che modo lo farà? Impariamo questo da un bellissimo commento di San Tommaso d’Aquino su queste parole dell’Apostolo: « Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio » (1 Cor. X, 31). Agire per la gloria di Dio, riferire a Lui le sue opere, è la funzione propria della virtù della carità. « Ora, non è più possibile in questa vita rapportare tutto attualmente a Dio, più di quanto sia in nostro potere il pensare sempre a Dio: questa è la perfezione della patria. Ma riferire virtualmente tutto a Dio è la perfezione della carità, che è strettamente obbligatoria per tutti. – « Per comprendere questa dottrina, dobbiamo considerare che se la virtù della causa prima rimane nelle cause subordinate, l’intenzione del fine principale rimane virtualmente anche in tutti i fini secondari; ed è per questo che chi persegue un fine secondario, per il fatto stesso di dirigere virtualmente la sua intenzione verso il fine principale…  Quando, dunque, l’uomo si è ordinato egli stesso a Dio, per quanto riguarda il suo ultimo fine, l’intenzione di questo fine, che è Dio, bontà sovrana, rimane virtualmente in tutto ciò che egli fa per se stesso; e, quindi, può meritare in tutte le cose, se ha la carità. Ed è in questo senso che l’Apostolo ci impone di rapportare tutto alla gloria di Dio » (S. Thom, De Carit, q. un., a. 1, ad. 2). – Citiamo un altro passo dello stesso Dottore. Perché un atto sia meritorio in chi possiede la carità non è necessario che lo si riporti attualmente a Dio, ma è sufficiente che si riporti attualmente ad un fine adeguato e che questo fine sia legato a Dio in modo abituale (habitu). – (Come si può notare da questo passaggio, i termini ordinazione, relazione virtuale, non hanno in San Tommaso il significato attribuito loro dai teologi più moderni. Per questi ultimi, l’atto praticamente rapportato alla gloria di Dio, fine della carità, deve dipendere, almeno mediatamente, da un atto anteriore di carità, talmente che non lo potrebbe, se l’influenza di questo atto anteriore fosse totalmente assente. Per San Tommaso, è sufficiente per la relazione virtuale che il fine particolare, oggetto dell’atto, si armonizzi con il fine ultimo, e che l’agente rimanga abitualmente ordinato verso questo fine della carità). « Per esempio, consideriamo un Cristiano che voglia fare un pellegrinaggio in onore di Dio.  Se, a questo scopo, compra un cavallo, senza pensare a Dio, ma preoccupandosi solo del viaggio che ha preordinato in anticipo per la gloria di Dio, l’acquisto è meritorio. Ora, chi ha la carità nel cuore, ha ordinato la sua persona e tutto ciò che dipende da lui verso Dio (omnia sua); infatti si è legato a Dio come fine ultimo. Pertanto, qualsiasi cosa faccia per sé o per gli altri, nel proprio interesse o a beneficio di coloro che ama, la fa con merito, anche se non ha Dio in vista in quel momento, a meno che non ci sia un disordine nel suo atto che gli impedisca di essere riferito a Dio. E poiché questo disordine non può stare senza un peccato almeno veniale, ne consegue che ogni atto, una volta che si abbia la carità, è o merito o peccato » (S. Thom., de Malo, q. 2, 5, obi. 1l cum. Sol.). Non mi dite che si tratti di testi isolati, che non rappresentino l’intero pensiero dell’Angelo della Scuola. Oltre al fatto che egli non ha l’abitudine di parlare con leggerezza e di contraddirsi, insiste in mille punti sulle stesse idee, tanto sono chiare e certe per lui (Vid. ad es.: II. D. 40, q. 4, a. 5, ad 7; coll. 2. 2; q 24, a 8; 1, 2, q. 88, a. 2, ad 2). – Quindi, per riassumere tutto in due parole, se volete che tutte le vostre opere libere, tutte, dico, senza eccezione, siano meritorie davanti a Dio, diventate o restate figlio di Dio per grazia; e per la carità, ordinatevi con tutto ciò che siete, con tutto ciò che avete e con tutto ciò che fate, alla gloria di Dio, il vostro fine ultimo; poi, non ammettete nessun atto che sia ribelle a questo ordinamento universale di voi stessi, cioè nessun fine particolare che non possa essere coordinato con la vostra intenzione generale: questo basta a far rientrare tutta la vostra vita morale nel dominio della carità e a renderla meritoria davanti a Dio.

4. – È giunto il momento di chiarire alcuni dubbi che presenterò sotto forma di domande. Come può questa relazione virtuale dei nostri atti essere in grado di renderli meritori, dal momento che è fondamentalmente una relazione puramente abituale, e dal momento che, inoltre, quest’ultima è agli occhi del nostro santo Dottore assolutamente insufficiente per il merito? Per avere una soluzione chiara e definita, dobbiamo innanzitutto dare ai termini il loro significato preciso: perché essi abbiano in San Tommaso il significato attribuito loro dalla maggior parte degli autori più moderni. Per lui, c’è un’intenzione abituale dell’ultimo fine per il fatto stesso che si porta la grazia nell’anima e la carità nel cuore. Ecco, ad esempio, un uomo giusto che dorme, o che è colpevole di una colpa lieve; questo uomo giusto è di solito ordinato verso Dio (S. Thom., de Carit., q. un., to. 11, ad 3). Cosa deve fare perché questa conversione diventi virtuale ed un principio di merito? Un atto di carità? No: è sufficiente che agisca e che la sua operazione sia buona, cioè in grado di relazionarsi con il fine abituale dell’agente, in altre parole, col fine ultimo, alla gloria di Dio. « Capita spesso che un uomo non riesca a mettere in relazione l’atto che compie con Dio al momento attuale, anche se questo atto non contiene alcun disordine che possa impedire questa relazione; e non è detto che l’atto non sia buono. In questo caso, poiché l’anima è abitualmente ordinata verso Dio, come verso il suo ultimo fine, questo atto non solo non è colpevole, ma è anche meritorio » (S. Thom… de Malo, – q. 9 a. 2). Accade che la relazione che rimane puramente abituale, finché l’anima sia inattiva, diventa virtuale, per il fatto stesso che la volontà si determini all’operazione se, tuttavia, nell’agire, essa non vada contro l’ordine divino. Ora, poiché lo stato di grazia non si trova mai senza questa conversione abituale dell’anima verso Dio, che si consuma nella carità, da questo ne consegue che il santo Dottore a volte richieda solo la presenza della grazia per rendere meritorie le nostre opere. – È necessario ripetere spesso questa generale offerta di sé all’onore di Dio? Ecco la risposta, unita nella stessa sequenza con la soluzione del dubbio precedente. « Non è sufficiente per il merito avere un ordinamento abituale di tutto il nostro essere verso Dio: perché ciò che è puramente abituale non può essere meritorio ». (Il santo Dottore vuol dire che non è sufficiente avere in sé la grazia e la carità per il merito, benché siamo abitualmente orientati a Dio: perché in questo stato si può o non agire, o anche peccare venialmente, come notato in altra parte; cosa che ovviamente non è un merito).  D’altra parte, non è necessario che un’intenzione attuale, che rapporti al fine ultimo, debba sempre accompagnare i nostri atti di tendenza verso un fine prossimo. Che cosa è necessario fare dunque? Che tutti i fini secondari siano a volte rapportati attualmente al fine ultimo della nostra vita, come accade quando noi ci consacriamo all’Amore divino. Infatti, una volta supposta questa consacrazione di sé, tutto ciò che l’uomo ordina al proprio bene viene ordinato verso Dio. Ora, se mi chiedete quando sia necessario mettere in relazione le proprie opere con l’ultimo fine, è come se cercaste di capire quando l’abitudine alla carità debba passare all’atto; poiché questo stesso è ordinare tutto l’uomo al suo ultimo fine, e di conseguenza rapportare alla gloria di Dio tutto ciò che l’uomo ordina a se stesso come suo proprio bene » (S. Thom, in II, D. 40, q: 1, a.5, ad 6). – Concludiamo anche da questo che non tutte le azioni del peccatore siano peccati, anche se non ha nel cuore la carità che lo ordini a Dio, suo fine ultimo. Il peccato per lui sarà non adempiere, nel tempo voluto da Dio, al precetto positivo della carità perfetta (Id., 1-2, q. 100,8. 10.). – Ultimo dubbio e ultimo chiarimento.  Abbiamo detto che l’oblazione generale di tutti noi, contenuta nell’atto di carità, è dovuta al merito delle nostre opere buone, a condizione che questa offerta non venga ritratta da una delle colpe che uccidono la carità nel cuore, cioè da un peccato mortale. Ma cosa accadrebbe se il peccatore che torna a Dio portasse al sacramento della penitenza solo un pentimento imperfetto, cioè un’attrizione? Sarebbe stato giustificato, perché questo pentimento è una disposizione alla grazia, quando è unita alla virtù del sacramento. Ma nell’attrizione non c’è la carità perfetta, e di conseguenza non c’è l’oblazione generale di tutto l’uomo alla gloria di Dio, poiché questa offerta è la natura propria della carità. Dobbiamo ammettere per questo uomo giusto degli atti di virtù che non abbiano valore meritorio, almeno finché non ha infangato il comandamento positivo della carità? Né il Dottore Angelico, né i molti teologi che fanno causa comune con lui, si sono occupati esplicitamente di questo caso singolare. Forse perché lo considerano puramente accidentale. Infatti, l’ordine naturale della giustificazione prevede, al vertice degli atti che la preparano, un atto di perfetto amore (Concil. Trid. sess. VI, cap. 6; col. S. Thom. 1- 2, q. 113, a, 3-6); anche se la virtù del sacramento può supplire alla sua mancanza, e giustificare l’uomo, il peccatore non ha che l’attrizione che ha solo il logorio. Quindi nulla è più facile del passaggio dall’attrizione, che è sufficiente con il sacramento della Penitenza, alla contrizione perfetta, che può giustificare con la semplice volontà di ricevere lo stesso sacramento. E questo non è uno degli errori minori, propagato da teologi più o meno contaminati dal giansenismo, quella di aver reso questa contrizione perfetta un tesoro quasi inaccessibile alla massa dei Cristiani. Posso capire che un uomo il cui cuore è attaccato ad affetti disordinati, un uomo che né le minacce di Dio né le sue promesse siano riuscite a convincere a rompere con i suoi vizi, non ami sovranamente questa bontà onnipotente che egli offende, perché vedo gli ostacoli che gli sbarrano la strada e gli impediscono di gettarsi nelle braccia del suo Dio. Ma perché un peccatore che, attraverso un serio pentimento, quale è l’attrizione, rinunci al peccato per vivere una vita cristiana, dovrebbe esitare ad amare Dio sopra ogni cosa? I suoi rimpianti per il passato, il suo proposito per il futuro, hanno abbattuto tutte le barriere che lo separavano dall’amore. Lo stesso timore del tormento eterno e la speranza dei beni celesti, cioè i due motivi più forti della sua conversione, lo spingono verso l’Amore divino, nulla essendo efficace come questo Amore per evitare l’uno e meritare l’altro. Questo non è l’amore che distacca tutte le anime penitenti dal peccato; ma, a mio avviso, una volta effettuato questo necessario distacco, l’amore in atto si fa strada nei cuori. – Inoltre, in ogni virtù, come in ogni facoltà dell’anima umana, c’è la tendenza ad affermarsi con gli atti. Come possiamo credere che la carità, penetrando in un cuore con la grazia santificante, sia molto lenta a rivelarsi lì con qualche operazione? La immaginate come una regina distratta e pigra, che si impossessa del trono dell’anima e non si degni di fare un solo atto di sovranità per riprenderselo? – Ma l’ipotesi, per quanto strana possa sembrare, non è chimerica. Supponiamolo, allora, e chiediamoci cosa accadrebbe alle opere moralmente buone. Sarebbero meritorie, o dovremmo vedere in esse, come accade nello stato di peccato, azioni che sono lodevoli, senza dubbio, ma prive di vero merito? Accettare quest’ultima ipotesi significherebbe, nella fattispecie, andare oltre coloro che ritengono che la tesi dell’Angelo della Scuola apra un campo troppo ampio al merito delle nostre opere: questi, infatti, almeno non negano il valore meritorio di un atto di fede, di speranza o di qualsiasi altra virtù soprannaturale, compiuto in tali circostanze. Cosa fare allora per risolvere questa difficoltà? – Diremo ciò che i teologi dicono dell’atto di attrizione unito alla ricezione del sacramento: sebbene non contenga il movimento perfetto dell’amore, ha la virtù di introdurre la grazia e la carità nell’anima del peccatore. Inoltre, contiene, se c’è una prossima disposizione al loro ingresso, l’intenzione assoluta di adempiere a tutti i comandamenti e, di conseguenza, al più grande e primo di tutti, quello dell’amore di Dio. Di conseguenza, l’oblazione di se stessi, fatta a causa di questo atto, è un equivalente di quella che sarebbe contenuta in un atto esplicito di carità. Di conseguenza, ogni azione contraria alle virtù morali sarà, allo stesso tempo e nella stessa misura, in contrasto con la carità, così come è nell’anima. Pertanto, in virtù dello stesso principio, le opere emanate da queste virtù saranno in necessaria armonia con esso. Cosa occorre ancora perché la carità riconosca queste opere buone come proprie e le porti al suo fine, alla gloria di Dio? Perché voler essere più esigenti da una parte che dall’altra, e chiedere per il bene ciò che non è richiesto per il male? – Non so se sto spiegando il mio pensiero in modo sufficientemente chiaro. Un esempio, preso in prestito nella sostanza da San Francesco di Sales, lo renderà più chiaro. Supponiamo che una banda armata invada una provincia; gli abitanti si alzano prima di ricevere qualsiasi ordine, sicuri di fare cosa gradita al loro principe, e inseguendo l’aggressore lo ricacciano oltre la frontiera. Direte che questi sudditi fedeli non hanno seguito le intenzioni del loro re? Lo stesso vale per le virtù morali. Le loro azioni partono da un cuore in cui regna la carità, anche se la carità non le ha mai espressamente ordinate; appartengono ad essa e compiono la sua opera, e di conseguenza non le sono estranee.  « Se infine – dice a questo proposito il nostro Santo amabile – alcune virtù compiono le loro operazioni senza il suo comando, purché servano alla sua intenzione, che è l’onore di Dio, Egli (il sacro amore) non manca di riconoscerle come sue » (San Francesco di Sales, Trattato sull’amore di Dio, L, XI, c. 4). Ed è per questo che tra tutti gli autori, asceti o teologi, di cui ho invocato la testimonianza dopo quella del Dottore Angelico, non ce n’è uno solo che neghi il valore meritorio di tutte le azioni moralmente buone di un figlio di Dio; tutti, dico, senza alcuna eccezione. Infatti, San Tommaso stesso ci mostra a sufficienza che la nostra soluzione sarebbe anche la sua, quando scrive: « Non è il solo atto di carità ad essere meritorio, ma anche l’atto delle altre virtù, nella misura in cui esse siano informate dalla grazia, sebbene questi atti, per essere meritori, debbano riferirsi al fine della carità. Tuttavia, non è affatto necessario che siano sempre esplicitamente collegate a questo fine; per il merito è sufficiente che siano effettivamente riferite ai fini particolari delle altre virtù. Per esempio, chi desidera essere casto, anche se non ha alcun pensiero di carità, è degno, purché sia in stato di grazia. – Ora, ogni atto che tende ad un oggetto moralmente buono, a meno che la tendenza non sia essa stessa disordinata, ha per fine il bene di qualche virtù, perché le virtù abbracciano assolutamente tutto ciò che può essere il bene dell’uomo » (Thom, II, D. 40, q. 1, a. 5, ad. 3 Altrove il Santo, riferendosi al testo di San Paolo, omne quod non est ex fide, peccatum est, obietta che tutta la vita degli infedeli dovrebbe essere peccaminosa, come tutta la vita dei fedeli è meritoria: « Sed dicendum est quod aliter se habet fidelis ab bonuun, et infidelis ad malum. Nam in homine qui habet fidem formatam nihil est damnationis, ut dictum est, sed in homine infideli cum infidelitate est bonum naturæ. Et ideo cum aliquis infidelis ex dictamine rationis aliquod bonum facit, non referendo ad malum finem; non peccat.  Non tamen opus ejus est meritorium, quia non est gratia informatum ». – S. Thom, in Romani, c. XIV, lett. 3, dove vediamo che secondo lui lo stato di grazia non va senza il merito delle opere, perché l’influsso della carità che esso richiede è assolutamente inseparabile da esso). – Il linguaggio cristiano usa un’espressione molto significativa per caratterizzare il cambiamento che avviene in un’anima quando passa dallo stato di peccato a quello di grazia; lo chiama conversione, perché quest’anima si volge verso Dio, come verso il suo ultimo fine e il suo bene supremo. Così parlano i fedeli, e la teologia ci insegna che la conversione dell’uomo a Dio (conversio hominis ad Deum) che segue l’avversione, ha il suo complemento nella virtù della carità. Così la carità abituale è sufficiente con la grazia per il merito, poiché l’una rivolge il nostro essere verso Dio e l’altra il nostro principio di attività, cioè la nostra volontà. Pertanto, possiamo applicare qui la parola di San Paolo: « Tutte le cose concorrono al bene di coloro che amano Dio. Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum ». In altre parole: amate Dio, abbiate la carità in voi, e tutto sarà profitto e merito.

LO SCUDO DELLA FEDE (224)

LO SCUDO DELLA FEDE (224)

MEDITAZINI AI POPOLI (XII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE XII

Il Rosario meditato e recitato col popolo.

PARTE SECONDA

MANIERA DI RECITARE IL ROSARIO.

MISTERI DOLOROSI.

PRIMO MISTERO. — Gesù suda sangue.

Nel primo mistero doloroso si contempla come Nostro Signore Gesù Cristo facendo orazione nell’Orto sudò sangue.

CONSIDERAZIONE.

Come abbiamo da fare per recitare il Rosario? Per recitare il Rosario ci dobbiamo mettere col cuore nel Santissimo Sacramento, ed immaginarci di vedere Gesù lì a quel modo che dice il mistero. Ora il primo mistero doloroso ci dice, che Gesù Cristo, contento di restare sempre qui con noi nel Santissimo Sacramento, andò nell’orto di Getsemani a fine di offerirsi per noi alla morte. Eccolo in ginocchio, che grida al Padre, che Egli si carica dei peccati di tutti. Ma ne sente tanto l’enorme peso da non ne potere più; e cade per terra, e sotto la pressura dello smisuato dolore suda sangue!… – Ahi, Egli ci guarda in volto col volto che piove sangue, boccheggiante nell’agonia pel terrore dei nostri peccati! Poi, ecco che si dà in mano a’ Giudei e va a morire!… Ah noi con parole piene di pianto in contemplando quel Sangue di Gesù in agonia alziamo un gemito che il Padre in cielo dovrà ascoltare per compassione:

Pater noster. O Padre nostro che siete nei cieli, guardateci in volto: noi siamo bagnati del Sangue del vostro figlio, e con Lui piangiamo i nostri peccati. Sia santificato il vostro Nome; siate sempre adorato, amato, glorificato da tutti. Venga, venga il vostro regno; e pel dolore di Gesù sino a sudar sangue sia distrutto il regno del peccato. Pigliateci in braccio, come fa una madre il suo bambino: sia fatta per sempre la vostra volontà, come là in cielo, così in terra. (Si reciti la prima parte del Pater noster). Dateci oggi il nostro pane cotidiano (qui si fa la Comunione spirituale). Buon Gesù, venite nel nostro cuore, offerite per noi i vostri dolori al Padre; e per Gesù nostro, o Padre della bontà, voi dateci tutti i beni. Rimettete a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori: dateci la carità verso tutti. Ah liberateci dalle tentazioni e da tutti i mali; ma dal mal più grande che è il peccato e la dannazione. Così sia.

1. Ave Maria. Ecco Gesù che, dato Se stesso nel Sacramento dopo l’ultima cena, par che ci dica: Ora io sono contento…, ho trovato modo di restare sempre con voi. E voi mi verrete ben sempre d’intorno nella Messa al mio altare: mi bacerete, non è vero? le piaghe che tengo aperte per voi, e ricorderete sempre tra voi i miei dolori: Hoc facite in meam commemorationem… Quoliescumque feceritis, in mei memoriam facietis… Mortem Domini annuntiabitis: Noi rispondiamogli di cuore: Gesù nostro, siamo qui appunto per piangere sulle vostre piaghe le miserie nostre. Oh Madre nostra Maria, metteteci sul Cuore a Gesù, e fateci intendere i cari misteri della sua passione. Dio ti salvi, o Maria.

2. Gesù per terra prostrato: O Padre, esclama, mi avete dato un corpo: eccomi sono uomo anch’io con questi meschinelli miei; io sono della loro famiglia, e vengo a pagare i debiti dei miei fratelli… Padre, essi vi hanno offeso in carne e sangue da uomo; ma io vi darò soddisfazione in Carne e Sangue da Dio. Guardate a me: mi piglio sopra di me i peccati di tutti, e pago Io per tutti! — E noi pigliamo per mano la Madonna e gridiamole: o Maria Santissima, stringeteci a Gesù che ci ama tanto… Voi che l’amate divinamente, aiutateci ad amarlo col vostro cuore… Deh che non l’offendiamo mai più. Dio ti salvi, o Maria. Gesù colla sua mente divina misura quanto orrendo male si è il peccato, e ne è atterrito. Gli vien meno la vita…. cade per terra… il cuor trabalza in sussulti… e sotto la pressura di quello spavento oh!…. suda Sangue!…. e agonizza!… Ahi! ahi! alza il volto tutto insanguinato, e boccheggiante nello spasimo dell’agonia; e par che dica cogli occhi allargati: comprendete che cosa sia peccato… mi fa sudar Sangue… Oh il peccato!… e giù una pioggia di Sangue!.. oh il peccato!… e piove Sangue ancora!…. Oh Madre nostra, fateci piangere inorriditi sul seno a Voi con atti di contrizione tutti quanti i nostri peccati. Dio tv salvi, o Maria.

4. Oh e che fa mai Gesù?…. Sorge…. e. tutto tremante par che voglia fuggire!… No, cade ancora in ginocchio e mette un gemito: Padre, mio buon Padre! questo calice è troppo amaro! Oh nostro caro Gesù, forse siamo noi che ve lo facciamo trangugiare… Questo calice per voi troppo amaro non è forse perché pensate che noi avremmo tuttavia peccato, pur sapendo che il peccato vi ha ridotto a sudar sangue in agonia! Oh Maria noi corriamo tra le vostre braccia: strappateci via da ogni occasione di peccato. Dio vi salvi, o Maria.

5. Ecco Gesù tutto grondante Sangue… col tremito grondante sangue … col tremito dell’agonia, con ansio lamento cercarsi intorno gli Apostoli e dire a gemiti: o Pietro, o Giovanni, o Giacomo, cari miei, venite qui con me!… statemi appresso!… io non ne posso più!… E gli Apostoli dormono!… Anima mia, e tu dormi tranquilla nel tuo peccato, in mezzo a tanti peccati di altri, e non fai niente mai per impedirli… Oh Maria! Oh Maria, svegliateci per carità, e dateci mano Voi ad impedire, come per noi si possa, tutti i peccati. Dio vi salvi, o Maria…

6. In quell’abbandono di cuore Gesù si getta in braccio agli Apostoli, e coll’anelito dell’agonia: Deh pregate, esclama, pregate sempre, sempre, per non peccare più mai!…; e salda, suggella questo suo avviso di pregar sempre col lasciarci bagnati del suo Sangue…. Ah poveri noi! Da noi soli ci perdiamo….; laonde noi ci getteremo sul Cuore a Gesù nel Sacramento: alzeremo la mano a Voi o Maria, e grideremo sempre: Gesù e Maria salvate l’anima mia. Dio vi salvi, o Maria.

7. Gesù sente tutto il peso della nostra debolezza… non ne può più!… Allora scende un Angelo a confortarlo in quel tremendo abbattimento… Anche noi poveri tribolati, allora quando non abbiamo forza di reggere oltre nelle angosce più paurose, gettiamoci in braccio a Gesù: Egli ha provato …, e ci darà un conforto. Egli ci diede Voi, o Maria, consolatrice degli afflitti, rifugio dei peccatori, speranza  fino dei disperati, confortateci voi a soffrire con pazienza in seno a Gesù Cristo. Dio vi salvi, o Maria.

8. Ma ascoltiamo… Oh è il grande grido che val tutti i conforti: O Padre, non la mia, ma sia fatta la vostra volontà; e abbandonandosi al volere del Padre, si dà in mano ai Giudei perché di Lui facciano ogni strazio. Oh Maria, Gesù tutto insanguinato va a morire per noi… Oh Maria, tirateci appresso a Gesù: metteteci voi nelle mani di Dio a fare il suo volere, volesse pure la nostra morte. Dio vi salvi, o Maria.

9. Ve’ quei ribaldi addosso a Gesù!…. e pugni e schiaffi; e gli gittano una catena alla vita…: con una corda al collo lo trascinano, come agnel da macello, e gareggiano a chi gliene fa di più villane… E perché tanta rabbia di tanti contra l’innocente Gesù? Gli è perché hanno in odio la sua santità… O Maria, noi l’intendiamo: dovessimo anche essere perseguitati perciò che vogliamo servire Dio, lasceremo dirci e farci come fecero i Giudei al Salvator nostro. Aiutateci a continuare nella divozione senza rispetto umano. Dio vi salvi, o Maria.

10. Ecco Gesù tutto grondante Sangue colle mani legate, con una corda al collo che s’incammina a morire per noi… Oh Maria, ma noi siamo così deboli e di poco cuore a patire per Gesù…. Madre nostra, deh pigliateci Voi per mano, e tirateci appresso di Gesù. Noi lo vogliamo accompagnare in tutta la vita, non negargli mai niente e seguirlo fino alla morte. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Dio santissimo, gli uomini, è vero, vi offesero troppo; ma un Uomo vi placa e vi dà gloria per tutti e quest’Uomo e Dio è il Figlio vostro! Gloria a Voi, o gran Padre della bontà che ci mandaste il vostro Figlio a salvarci. Buon Gesù, gloria a Voi, che vi offeriste per salvare tutti. Spirito Santo, gloria a Voi, che ci darete per Gesù Cristo la sincera contrizione delle nostre colpe. Requiem æternam. O buon Gesù, Salvatore di tutti, in quell’agonia tremenda Voi aveste un gemito anche per le anime del Purgatorio: deh! piovete a loro suffragio del vostro sudore di Sangue. Requiem æternam.

SECONDO MISTERO. — Gesù è flagellato.

Nel secondo mistero doloroso si contempla come il nostro Signore Gesù Cristo, legato ad una colonna, fu flagellato crudelissimamente da’ manigoldi.

CONSIDERAZIONE.

Che cosa vuol dire recitare il Rosario? Giova ripeterlo. Recitare il Rosario vuol dire metterci col cuore in Gesù nel Sacramento, e contemplare Gesù qual se si vedesse lì come ci dice il mistero. Ora il secondo mistero doloroso ci dice che Gesù vien menato dall’un all’altro tribunale davanti a quei giudici ingiusti. E riconosciuto innocente da loro; ma Pilato per accontentare la rabbia dei Giudei, ciò nondimeno lo condanna a esser flagellato. Ah ci par di vederlo sotto quella tempesta di battiture tra quegli indemoniati i quali non conoscono misura al lor furore. Gesù è tutto straziato dai colpi, e ci guarda in volto, mentre offre al divin Padre quell’orrido strazio per ottenerci misericordia. Cadiamogli ai piedi mostrandolo al Padre tutto lacero della Persona. Si, si, gridano con esso noi potentemente le sue membra in quegli strazii.

Pater noster. O Padre nostro che siete ne’ cieli, guardate il vostro Figlio che si piglia sulla sua Persona i colpi per risparmiare a noi i castighi della vostra giustizia. Sia santificato il vostro Nome, tanto che vi rispettino, vi diano gloria tutti gli uomini. Venga il vostro regno. Regnate nel cuore di tutti; e se lo meritiamo, castigateci pure, ma come una madre tenendoci tra le braccia della vostra misericordia a fare sempre la vostra volontà come in cielo, così in terra. (Qui si reciti la prima parte del Pater noster, poi si faccia la comunione spirituale). O Gesù, dateci il vostro Corpo; e per Gesù, Voi o Padre, dateci tutti i beni. Perdonateci, dateci la carità verso tutti, e liberateci dalle tentazioni. Noi vorremmo tutto soffrire con Gesù; ma per Lui liberateci dal più tremendo dei mali, ciò sono il peccato e la dannazione. Così sia.

1. Ave Maria. Contempliamo Gesù in quell’orrida notte condotto in mezzo a quei ribaldi. Ma perché mai soldati e popolani, perché tutto quel gentame a gara in tanta rabbia contra Gesù?…. Perché i farisei soffiavan dentro alle ire di quella bordaglia. Poveri a noi! ché in questo tempo i tristi, come i farisei d’allora, scaldano la testa alla povera gente a rivoltarsi contra Gesù e la sua Chiesa. O Maria guardate noi e i poveri popoli da siffatta gente, la quale con false dottrine e con calunnie contro la Religione e i suoi ministri ci istigano a fare guerra a Gesù nella sua sposa la Chiesa, e nel Papa che

di Gesù è Vicario in terra. Dio vi salvi, o Maria.

2. Lo strascinano pei tribunali di Caifasso, Pilato ed Erode i quali rappresentano tre qualità di gente che dà sempre la sua sentenza contro Gesù Cristo. Caifasso rappresenta gl’ipocriti, mostrandosi religioso e tutto amor del popolo, come i liberali alla moda, egli mira al proprio interesse: è bene, dice, che muoia costui pel popol di Dio. O Maria Santissima, guardateci Voi nel cuor nostro, perché non facciamo il bene né per interesse, né per amor proprio, no, ma solo per servire Dio, per amor di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

3. Caifasso lo manda a Pilato il quale troppo bene lo trova innocente; ma il popolaccio urla di fuori, ed egli, vile che è, non ha coraggio di liberarlo. Anche ai nostri dì sonvi tanti Pilati che contra la loro coscienza tradiscono la Religione e fan guerra a Gesù. O Maria madre nostra pietosa, aiutate tanti deboli di questi miseri tempi; e fate sì che tutti abbiamo il coraggio di mostrarci fedeli a Dio e fervorosi nelle pratiche di pietà senza rispetto umano. Dio vi salvi, o Maria.

4. Pilato lo manda ad Erode, il quale menando la mala vita con un’indegna persona, non curante di tutto, solo pensava a fare il godente. Contento di vedersi in mano Gesù, pretendeva che facesse un miracolo per divertirsi; ma Gesù non lo degna di parola. Erode lo giudica pazzo, lo rimanda a Pilato ed ambedue si accordano nel trattar male Gesù. Ah! per chi vive nella bruttura dei vizi non ha una parola Gesù; e la sua dottrina è giudicata una vera pazzia da godenti del mondo. Ma ecco che, come Pilato ed Erode, i godimondo e i vili politici dell’interesse adoratori del dio quattrino si accordano a tener legato Gesù. O Maria, liberate la Chiesa da questo gentame di vili che pretendono tutto serva alle loro passioni e massime ai loro interessi. Dio vi salvi, o Maria.

5. Pilato proclama solennemente che è innocente Gesù Nazareno. Ma dunque perché lo condanna ad esser flagellato? Da buon moderato sì sarà scusato in cuor suo dicendo a se stesso: io così accontento questi arrabbiati fanatici, e lo salvo dalla morte almeno. Senonché quegli indemoniati s’accorgevano di vincere, e s’inferocivano sempre più a volerlo morto. Miseri a noi, se ci lasciamo andare a peccare ancor un poco per acquietare le nostre passioni….. Le passioni sono lupe ingorde che non dicono mai basta. Sono come i rivoluzionari che quando divorano a doppio palmento sentono ognora più arrabbiata la fame, più roba, più fame. O Maria, aiutateci Voi a finirla col peccato e a dichiarare solennemente di voler essere buoni Cattolici e tutti di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

6. Ahi! che irrompono quei furenti addosso a Gesù; lo urtano ad una colonna, non lo sveston no, gli strappan d’addosso le vesti, gettan via i farsetti, snudano le braccia, stringono corde, abbrancan bastoni, fan risuonar catene… piomban sopra Gesù!… O buon Gesù Voi trattato a questo modo siete qui con noi?… Ah ora ci par di vedervi le mani legate, inclinato giù sotto a quella tempesta di battiture… O carni immacolate, più delicate di ogni più delicata pupilla!… O Maria, siccome quegli indemoniati….. anche ora tutti i dì vi hanno persone, a cui par che la virtù faccia rabbia; di ché, senza riguardo alcuno e con un far da demonio pur ridendo feriscono gli innocenti coi brutti discorsi….. cogli atti sguaiati….. O Maria, salvate Voi e fate rispettare gli innocenti che sono le più care membra del vostro Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

7. Ed ahi! per l’aria guizzano corde, catene e verghe; i colpi coi colpi si urtano e cadono alla dirotta sopra del buon Gesù….. Non cade colpo mai che appien non colga; non coglie appien che piaga anche non faccia… Le membra tremano illividite, la pelle stracciasi, il Sangue piove tutto d’intorno sotto quei colpi, che lo tempestano, e Gesù barcolla… Ah cadrà morto!… Ristanno; guatano come tra lor le tigri ferocemente, e poi tempestano con maggior rabbia e piagano le piaghe, e squarciano gli squarci… O Madre, o Madre, noi nascondiamo il volto in seno a Voi! Perché è appunto pei peccati di carne che hanno lacerate così le carni santissime del nostro Gesù. Gettiamoci inorriditi ai piedi di Gesù flagellato; e Voi, o Maria, Quardateci dai vituperosi falli! Dio vi salvi, o Maria.

8. Caro Gesù tutto flagellato e stracciato, anche noi tribolati, infermi e martoriati d’ogni maniera vogliamo soffrire con esso Voi di buon grado, aspettando il gaudio in cielo che ci meritano i patimenti vostri. O Maria, in braccio a Gesù flagellato, noi vogliamo patire rassegnati. Dio ci salvi, o Maria.

9. Ecco, per invidia, ecco per rispetto umano, ecco per rabbia, e poi pei brutti peccati di carne flagellato Gesù! O Maria santissima, dateci la mano Voi, acciocché quando sentiamo le tentazioni verso queste passioni gridiamo subito: Gesù e Maria! e ci teniamo stretti a Gesù flagellato. Dio vi salvi, o Maria.

10. Se Gesù è flagellato e porta la pena delle nostre colpe, e noi che siamo i colpevoli, mettiamoci nelle mani di Dio. O Maria, aiutateci a ricevere i colpi dei castighi con cui la bontà divina ci vuol salvare. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Gloria a Voi, Padre santo, che ci mandaste a patire per noi il divin Figlio. Gloria a Voi, o Figliuol di Dio qui con noi con queste sante membra per noi lacerate. Gloria a Voi, o Spirito Santo; santificate Voi le nostre persone, sì che possiamo unirci in purità con Gesù Cristo.

Requiem æternam. O Maria, quella tempesta di battiture risparmi i tormenti alle anime martoriate nel purgatorio. Requiem æternam.

TERZO MISTERO. — Gesù viene coronato di spine.

Nel terzo mistero doloroso si contempla come Gesù fu coronato di pungentissime spine.

CONSIDERAZIONE.

Che cosa vuol dire recitare il Rosario? Recitare il Rosario vuol dire metterci col cuore in Gesù nel Sacramento, e contemplarlo quasi si vedesse lì, come dice il mistero. Il mistero ci ricorda Gesù sbattuto per terra, tutto lacero dai flagelli, e grondante Sangue dalla cara e santa Persona. Quei crudi a battergli le mani beffardi d’intorno e gridare: L’abbiam servito il Re dei Giudei. — Ah è Re dei Giudei? grida uno: lascia, lascia che lo vestiamo a festa!… E gli gitta uno straccio di porpora, e con sogghigno da demonio grida: è il tuo manto reale; — poi: piglia lo scettro d’oro, il baston da comando; — e gli pone nelle mani legate una canna rotta. — E la corona? (grida un altro) gli manca la corona. — L’ho io, — risponde un demonio più che un uomo, il quale entra portando tra le mani un fascio di spine, e le compone a mo’ di orribile corona. Tutti battere le mani, e godere dello strazio non mai pensato… Ahi! gliela mettono sull’adorabile Capo: la stirano giù d’intorno colle mani guernite di ferro, e gliela battono in testa conficcandovi le spine… O Gesù, o Gesù grondante Sangue tutto d’intorno! Cadiamogli a’ piedi, stringiamo le ginocchia a Gesù coronato di spine, e gridiamo:

Pater noster. O Padre nostro, guardateci dal cielo; noi siamo qui coronati di crucci intorno al vostro Figlio coronato di spine: egli è il Re nostro; e noi con Lui rassegnati a seguirlo, a fare la Vostra volontà. Sia santificato il vostro nome, venga il regno vostro, sia fatta la volontà vostra, come in cielo, e così in terra. (Qui si reciti la prima parte del Pater noster). Dateci oggi il nostro pane (qui facciamo la Comunione spirituale). Gesù nostro Signore benedetto, uniteci con voi; e per Gesù dateci, o Padre, tutti i beni; il perdono a noi, e la carità verso tutti. Ah! liberateci dalle tentazioni sosteneteci nei combattimenti, e liberateci dal male; per tal modo verremo a regnare con voi in cielo. Così sia.

1. Ave Maria. Ve’ Gesù affranto per terra in mezzo a quelle belve, che godono ferocemente d’intorno! Qualunque colpevole, quando è in mano alla giustizia, merita riguardo, e non si vorrebbe fargli patire di più con crudel giuoco; e noi siamo sensibili per chiunque vediamo per poco soffrire. Solo per Gesù siamo senza cuore! O Maria, otteneteci la compassione pei patimenti di Gesù Cristo, e stampateci voi le sue piaghe sante nel nostro cuore. Dio vi salvi, o Maria.

2. Ecco quella bordaglia in ridda infernale che urla: Il bel Re dei Giudei che abbiamo! Su, su vestiamolo a festa per bene. In così dire gli gittano sulle spalle uno straccio di porpora a maniera di manto, e gli dan per iscettro una canna rotta..— Ah, ah, la corona adesso! — La corona l’ho io! grida un demonio di uomo, il quale entrando compone un fascio di spine e gliene pone sul capo. Ecco ancora a’ giorni nostri e scribi e farisei e popoli spogliare la Chiesa: batterla da ogni lato, legarle le mani in ischiavitù, e fin nel capo del Pontefice incoronarla di spine, e ridurla a essere una autorità da burla. (Quando si stampava questo libretto era in prigione il Papa, e gli si diceva con beffa eguale al sacrilegio: « Sovrano spirituale!»). Maria, voi sempre pronta in aiuto opportuno, è tempo, crediamo, che si dia gloria a Dio, si sperdano i nemici di Gesù Cristo, e venga il regno di Dio e della sua pace in questo povero mondo. Dio vi salvi, o Maria.

3. Caro Gesù, ah quei feroci vi ribattono sul capo l’orribile corona: le spine si ficcan dentro le tempia… e voi grondate il Sangue tutto d’intorno. O Maria, fateci posare la testa sulle ginocchia di Gesù, e il suo caldo Sangue ci piova sopra….. così staremo volentieri con Gesù incoronato di spine. Dio vi salvi, o Maria.

4. Anche Pilato sente indignazione di vederlo maltrattare così. Lo piglia loro di mezzo, e lo mena sul balcone, dicendo in cuor suo: questa canaglia arrabbiata vorrà almeno ora avergli compassione. « Ecco l’uomo, » grida; e, demoni, dice in cuore, siete soddisfatti! — Ma quei furenti: « Morte, morte: al Calvario, alla croce Gesù!… » Ecco Gesù, grida la Chiesa: ecco Gesù che è qui con noi nel Sacramento. Che vi fece Egli di male?… Tutti quelli che gli si avvicinano, anche dei vostri, diventano buoni… Ma i mondani senza cuore rispondono: Costui non lo vogliamo! — Maria Santissima, ci stringeremo a Lui d’intorno più vivamente mentre tanti gli fanno guerra; ci studieremo di servirlo ed amarlo, fino a morire per Lui, che è nostro Re e Salvatore. Madre santa, aiutateci a mostrargli la nostra divozione. Dio vi salvi, o Maria.

5. Ecco: Gesù, Re dei dolori, è lacerato di piaghe, è coronato di spine, è deriso, perseguitato da tutti. Tribolati, infermi, tortunati, perseguitati, infelici di ogni maniera, coraggio: portate le divise del Trionfatore del mondo, e seguitelo alla vittoria. Maria, accompagnateci incoronati di fastidii, pigliandoci per mano fino alla croce. Dio vi salvi, o Maria.

6. Pensiamoci sopra….. Tra le urla di quella bordaglia sentite una parola che ricrea il cuore. E la buona moglie di Pilato, la quale rivolta al marito: O consorte, Gesù è innocente, me lo disse il cuore. Salvalo da quei ribaldi… ne avrai tanto bene. Se Pilato l’avesse ascoltata, non si avrebbe avanzato di darsi una coltellata nel petto e morire disperatamente; sarebbe in paradiso colla sua consorte venerata da noi per Santa. Ah ricordiamoci che una madre, una sposa, una sorella, una persona devota parlano spessissimo da Angeli pel nostro bene. E quando parlano da Angeli per nostro bene? Quando parlano in nome di Dio. E voi, o Maria, benedite alle nostre famiglie; e fateci inchinevoli a ricevere con buon cuore i soavi avvisi delle persone che ci ragionano con amore di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

7. Ma Pilato ha paura dei malvagi e vuole tentar modo di farseli amici; di che grida al popolo: « Ho un tal Barabba in carcere; è un rivoluzionarlo, e, perché rivoluzionario, già, è un ladrone e uomo di sangue. Volete questo Barabba, o volete Gesù? I farisei sparsi in mezzo a quei furenti davano la parola d’ordine, e facevan rispondere: « Salva Barabba. » Ma quel gioiello? faceasi ad osservare Pilato. Ed eglino: « Barabba, Barabba!! » Non facciamo le meraviglie adunque se il popolo faccia festa per la Chiesa spogliata, pel Papa imprigionato, gridi: evviva a Barabba; sono i farisei di tutti i tempi che ci guastano il popolo. O Maria, guardate noi e i nostri poveri figli dalle perverse massime, dagli inganni dei tristi, i quali pervertono i popoli. Dio vi salvi, o Maria.

8. Ma Gesù intanto è tra quei feroci. Ma oh…. e che fa quel manigoldo?… Ve’ che gli benda gli occhi, gli s’inginocchia davanti… Ahi! gli scarica uno schiaffo sul volto benedetto… e gli grida: « Indovina, o profeta da burla, chi t’ha percosso! » Oh cielo, e che ne fai dei fulmini, se non incenerisci quest’empio? Piangiamo inteneriti; è Gesù che vuole soffrire anche quest’orrido scherno, perché vuole guadagnare il perdono anche per quelli che gli danno schiaffi nei sacrilegi. Maria, pregate voi perché si salvino tutti. Dio vi salvi, o Maria.

9. Pilato intanto grida al popolo: Ma Gesù è innocente; ed io non voglio il suo Sangue sopra di me: qui me ne lavo le mani. Se non che quegli indemoniati urlano: Il Sangue di Gesù cada sopra di noi e dei figli nostri… Tristi quei disgraziati! Dopo mille e mille anni, ancora oggi i giudei portano il marchio di quella imprecazione… Poveri noi! quanti castighi, coi nostri peccati prepariamo a noi stessi ed alle nostre famiglie!… Ah! ah! Massime le scomuniche contro chi tocca la Chiesa sono tremende: esse sono, che sradicano le famiglie… o Maria, fate piovere voi il Sangue di Gesù sopra di noi nei Sacramenti in benedizione; e così avremo eredità di benedizione per noi e per le famiglie nostre. Dio vi salvi, o Maria.

10. I giudei, veggendo Gesù battuto in ogni parte, battevano le mani con infernali sogghigni. L’abbiamo spuntata, dicevano: Gesù è perduto! Infelici i giudei di tutti i tempi! Havvi in Roma nella più bella piazza dell’universo un magnifico obelisco che torreggiante alza una croce verso del cielo. Su di quell’obelisco si leggono scolpite in bronzo queste parole, da non si dimenticare mai in ogni tribolazione: Cristo vince, Cristo trionfa, Cristo regna ora e per tutti î secoli… Esso, il popolo Giudaico, alcuni anni dopo il deicidio fu colpito con tal orrore di castighi, che non fu mai popolo; ed anche oggi tuttavia si mantiene disperso per tutto il mondo a rendere testimonio della verità che Cristo vince, trionfa e regna. Uomini di poca fede, se abbiamo paura, pensiamo che le rivoluzioni sono burrasche che passano; ma Cristo trionfa sempre, e noi con Lui costanti sempre sino alla morte. Maria, vi raccomandiamo i timidi, i pusillanimi; aiutateci tutti a Seguire Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Gloria al Padre, Re dell’eterna gloria: gloria al Figlio che coronato di spine lo glorifica nei patimenti: gloria allo Spirito Santo, che volge in consolazioni le nostre angustie. Passeranno i secoli, e sarà eterna la gloria di Dio e di coloro che cercano glorificarlo. Gloria Patri. Requiem æternam. O Gesù coronato di Spine, affrettatevi deh! per questo vostro strazio, a tirare in gloria le povere anime del purgatorio, le quali gemono in tanto patire. Requiem aeternam.

QUARTO MISTERO — Condanna di Gesù.

Nel quarto mistero doloroso si contempla come Gesù fu condannato a morte, e come per sua maggiore vergogna e dolore gli fu dato a portare in ispalla al Calvario il pesante legno della croce, sulla quale doveva essere inchiodato.

CONSIDERAZIONE.

Che cosa vuol dire recitare il Rosario? Recitare il Rosario significa mettersi col cuore in Gesù nel Sacramento, e contemplare Gesù istesso il quasi si vedesse cogli occhi, come dice il mistero. Il mistero ci insegna che Gesù è condannato a morte. Sentite le urla: « la croce, la croce! » Ed ecco strascinano nel cortile una trave in forma di croce. Gesù la vede, la abbraccia: la croce gli cade addosso, ed Egli portandola sugli omeri esce tra quella marmaglia che si pigia d’intorno. Contempliamolo ora che va barcollante al Calvario; ed abbracciando nel petto Gesù sotto la croce, alziamo le grida al Padre in cielo:

Pater noster. O Padre nostro che siete nei cieli, noi siamo qui con Gesù sotto la croce: Voi ce lo avete dato il vostro Figlio, il quale va a morire per salvarci: siate benedetto. E Voi, o Gesù, tirateci appresso Voi a formare il regno del Padre; e sia qui in terra il principio del regno eterno in paradiso: sia fatta la vostra volontà come in cielo così in terra. (Si recita la prima parte del Pater noster). Dateci oggi il nostro pane quotidiano. (Si fa la Comunione spirituale). O buon Gesù, uniteci con Voi sotto la croce. Dateci, o Padre, ogni bene per Gesù: rimetteteci i nostri debiti come noi facciamo ai nostri debitori. Liberateci dalle tentazioni per Gesù che va a morire per noi: liberateci dal male del peccato, dall’inferno, e tirateci appresso a Gesù in paradiso. Così sia. (Si recita la seconda parte del Pater noster).

.1. Ave Maria. Il buon Gesù è lì per terra, intorniato da quei feroci che lo maltrattano; tutto immerso nel proprio sangue, mentre i manigoldi tra i fischi di tutti gli strascinano la croce innanzi. Alza il volto grondante vi posa sangue, abbraccia la croce, il capo contra, e pare riavergi per port a morirvi sopra. Caro Gesù, quando ‘oi saremo già tanto aflitti, e si aggiungerà all’afflizione nostra una disgrazia maggiore, l’abbraccieremo ancora noi volontieri » Come Voi la croce. Verrete ben Voi, o Maria, ad accompagnarci sin al Calvario? Dio vi salvi, o Maria.

2. Ma il nostro Gesù porta quella trave della croce sulle sue spalle e va al Calvario. O Maria, o Maria, non abbiam più niente a dire: siam pure afflitti, e in tante miserie vogliam pigliare la croce e seguire Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

3. In quest’ora tremenda, quando Gesù va al Calvario, la Maddalena, le pie Marie e Giovanni a non disperarsi si stringono presso di Voi, o Maria. E Voi che dite a quei tribolati? Buona Madre! Ve li tirate con Voi sin sotto la croce. Deh, Madre anche nostra! in questo mondo così sconvolto non ne possiamo proprio più: ahi abbiamo paura di perderci! Salvateci Voi sul petto insanguinato di Gesù Cristo. Dio vi salvi, o Maria.

4. E Pietro? Il povero Pietro guarda da lontano Gesù che va a morire. Si trova solo col suo rimorso… Gli Apostoli son fuggiti, Giuda si é strozzato; ed egli cogli irti capelli, cogli occhi sbarrati… par che la terra gli traballi sotto dei passi… è tentato di perdersi anch’esso… Ma chi mai, chi lo può salvare dalla disperazione?… Pietro è fortunato: in tanta sventura vi è chi lo può aiutare ancora; gliel dice il cuore; e corre a Maria….. E Maria: O Pietro… E del mio Gesù? — E Pietro a Lei: O Maria, io l’ho negato!… chi mi perdonerà?… Egli va alla morte! E in ciò dire si gitta per terra a piè di Maria. Maria lo solleva, gli stringe il volto tra le mani materne; e: povero Pietro, gli dice piangendogli sul volto! fa coraggio: il mio Figliuolo è buono, sai; io lo conosco: il mio Figliuolo ti perdonerà, gli parlerò io, Pietro! E Pietro dalla disperazione è salvo. Maria, voi siete il rifugio alla opportunità anche dei più poveri peccatori, anche dei più tentati di disperazione! Dio vi salvi, o Maria.

5. D’intorno a Maria piangono le pie donne. Entrano Maddalena Giovanni. E Maria a loro: O Maddalena, o Giovanni, lo avete veduto il mio Gesù? E Maddalena le si butta ai piedi; con un braccio le stringe le ginocchia, e coll’altra mano ne’ capelli che getta in aria, cogli occhi sbarrati e la bocca aperta pare che dica convulsa: Madre, non posso parlare. Giovanni la sorregge alle spalle, si abbassa a Lei e le dice a singhiozzi: O Madre, rassegnatevi… Va al Calvario! E Maria: Al Calvario? O mio Gesù, ed io non vi vengo appresso? — Sorge e s’avvia per quella strada che ancora adesso fino i turchi chiamano la via di tutti i dolori. Oh Maria, che vedete Voi mai su quella strada?… Ella vede le strisce del caldo Sangue che perde Gesù!… Oh che fitta di spasimo al vostro cuore nel montare su quel caldo Sangue… Maria! Maria! tirateci appresso: bagnateci del Sangue di Gesù Cristo: accompagnateci sino alla morte. Dio vi salvi, o Maria.

6. Sulla via al Calvario che scorge Maria? Ah… ah sotto quella trave con quel fascio di spine in testa… tutto rigato di Sangue… lì li per cadere ad ogni passo Gesù… Maria si slancia innanzi; i soldati le appuntano le picche al petto… ma a quel tanto dolore in volto a Maria abbassano le lance a terra… tutti ristanno a quel tormento di Madre; e Maria è al collo di Gesù…. Oh Figliuol mio!… e Gesù: mamma! ma Voi qui adesso!… no; Voi qui adesso… Maria sviene sul petto a Gesù!… Gesù con un braccio tenendo la trave, coll’altro sorregge la vita alla Madre e posa il volto insanguinato sul capo a Maria, e la bagna del suo Sangue… Oh Cuor di Gesù posato sul Cuor di Maria che avete provato in quell’istante?! Gesù e Maria pigliatemi tra Voi due come vostro Figlio: miserere di me, mi manca il cuore! ma voi non lasciatemi indietro sulla via del Calvario. Patire con voi è la più grande grazia di Dio! Dio vi salvi, o Maria.

7. Intanto gli scribi, i farisei, il popolaccio, tutti gli uomini d’ogni maniera fremono di gioia infernale in vedere avviarsi alla morte Gesù. Tutti? no; gli uomini non son tutti perduti: vi sono sempre almeno pochi buoni, i quali salvano l’onore dell’umanità e protestano contro tutti i malvagi. Ah si, il drappello dei forti, dei costanti vi è sempre in ogni tempo. Alcune pie donne piangono sopra Gesù: alcune pietose persone sono con Maria sulla montagna del Crocifisso. Oh Maria, salvate anche noi da quell’orda di gente perduta, la quale vorrebbe trascinare tutti a perdizione; tirateci di vostra mano a seguire Gesù, a meditare i suoi patimenti, a piangere i peccati che ne son l’infausta cagione, mentre il gentame del mondo gavazza. Dio vi salvi, o Maria.

8. Quei manigoldi obbligano il Cireneo a portare la croce per Gesù, il quale non ne potendo più della vita vi cade sotto. O Maria, sorreggetemi nella mia debolezza; e se per disgrazia mai cadessi in peccato, datemi mano voi, santa Madre, a rialzarmi. Dio vi salvi, o Maria.

9. Ah! no, noi non potremmo soffrire di vedere una povera madre correre dietro al suo figlio fin sotto al patibolo, dove lo strozzano; eppure noi contempliamo Maria che corre appresso a Gesù fin sotto la croce per vederlo morire squarciato!… Questo troppo orribile patimento è riserbato a Gesù ed a Maria affinché noi pigliamo conforto nelle più strazianti tribolazioni delle nostre più care persone. O Gesù, o Maria, l’avete provato l’uno per l’altra quest’orribile strazio… Consolateci col salvare le anime dei nostri più cari. Dio vi salvi, o Maria.

10. Sì, sì l’abbiamo compreso il mistero! Egli non ci resta, per essere dei più fidi a Gesù, che dare la mano a voi, o Maria addolorata, e metterci tutti dentro del Cuore di Gesù paziente. Mondo non sei più per me: voglio essere crocifisso con Gesù mio. Maria, unitemi voi cuore a Cuore, sangue a Sangue con Gesù nel Sacramento: chi mi ha ancora a separare dal mio Gesù?… O Maria, con voi esser debbo a compiere interamente e santamente la volontà di Dio; deh, fate che io viva e muoia in braccio a voi sulla croce di Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Padre santo, gloria a Voi, grideremo sotto le nostre croci: gloria a Voi, Gesù Cristo, che ce le rendeste care da portare in compagnia di Voi. Spirito Santo, gloria a Voi, che se ci infondete la necessaria forza, noi le porteremo fino alla gloria eterna del paradiso, (Si reciti il Gloria Patri). Requiem æternam. Deh, Gesù, deh, Maria, ricordandovi della strada di tutti i vostri dolori, mandate la requie alle povere anime del purgatorio. (Sé reciti il Requiem æternam).

QUINTO MISTERO. — La crocifissione.

Nel quinto mistero doloroso si contempla come Gesù, giunto sul Calvario, fu spogliato e confitto sopra la croce, essendo presente la sua afflittissima Madre; e si contempla come morì in croce dopo tre ore di penosissima agonia.

CONSIDERAZIONE.

O buon Gesù, o buon Gesù; ci pare di vedervi sopra il cruento altare. Quivi v’immaginiamo come in mezzo a quei feroci, i quali strappanvi d’indosso gli abiti, e vi stramazzano di un colpo sui sassi; ai polsi, ai piedi vi stringono corde, e tra i ciottoli e le spine vi strascinano fino sulla croce. Deh, deh, lasciateci qui cadervi sopra a piangere per quell’amore con cui vi adattate a questa croce!… Ecché? vi stendete sopra del legno, voi?… E la benedetta mano, oh allargate? Che vi aspettate?… Un chiodo appuntasi in mezzo alla palma! Ahi! Ahi che battono atroci i colpi! E questi colpi battono sul cuore a Maria!… Povera Madre! Le manca il cuore, e tramortisce per lo terrore quando lo vede distendersi sopra il patibolo!… ma il martellare dei colpi la ridesta all’orrore tremendo di vedersi crocifiggere sugli occhi il Figliuolo suo divino!… O Madre…. povera Madre, fuggiamo via!… Ma no; anzi ella cerca coll’occhio annebbiato e tutto pieno d’immagini di morte in quell’orrore dov’è, dov’è il suo Gesù..: e se lo vede davanti in croce! Figlio, v’hanno già inchiodato in croce! — dice slanciandosi ad abbracciarlo; e Gesù: O Madre, ho tanta sete! — Ma la vostra Madre, o buon Gesù, non ha un gocciol d’acqua da rinfrescarvi le labbra nell’agonia!… Deh, noi potessimo consolare la vostra sete che vi arde di salvare le anime! Il Sangue intanto gronda dalla croce, e piove sul capo, sul volto, sulle vesti di Maria Santissima. Gesù si vede lì sotto la Madre tutta bagnata del suo Sangue; e in quel punto proprio la dà per Madre a noi. Maria, sentendosi che il Figliuol suo muore, lascia cadersi giù le braccia che teneva sollevate alla croce; e le mani cadono sul capo a Giovanni e Maddalena che le gemono ai piedi… Oh Dio che grido: « Tutto è consumato » sclama Gesù! Madre, salvateci che Gesù agonizza, e fateci spirare con Lui!… La Madre sta ancora sott’esso la croce, e nel vedere squarciar al Figliuolo anche il Cuore, quel colpo di lancia passa il Cuore suo: non ne può più… e cade sui sassi insanguinati. Qui a piè del patibolo riceve il Corpo di Gesù tra le braccia, e ce lo mostra tutto squarciato per noi!… Gesù e Maria, che possiamo dirvi noi in questo momento di compunzione che ci opprime il cuore? Qui gettatici ai vostri piedi, non possiamo che gridare: Padre, guardate in faccia al Figlio vostro, guardate le piaghe al Figlio vostro! guardate alla Madre addolorata, bagnata del Sangue del Redentore: guardate a noi in fronte il Sangue suo! Noi vi siam figli del suo Sangue. Padre, ecc… Pater noster. O Padre santo, dal cielo non guardate in faccia a noi, i quali ci nascondiamo in seno a nostra Madre tutta bagnata del Sangue del vostro Figlio; guardate in faccia a Gesù che ci nasconde sotto la sua croce, che ci copre colle sue piaghe. Siamo figli del suo Sangue, e vogliamo vivere insieme con Gesù: regnate voi nella famiglia formata nel Cuore squarciato di Lui: Egli ci accoglie tra le braccia allargate nella croce. (Si reciti la prima parte del Pater noster, e poi si faccia la Comunione spirituale). Gesù, nascondeteci nel vostro cuore; noi vi ameremo tutti insieme colla vostra Madre. Oh tra le sue braccia, e sotto la croce non ci perderemo! (Si reciti la seconda parte del Pater noster).

1. Ave Maria. Ora tremenda! Maria è giunta sul Calvario con Gesù… Ahi vede i chiodi… i martelli… gli strumenti da configgerlo alla croce… e il suo Gesù buttato colla trave per terra. Ahi vede che vi si stende sopra colle braccia larghe… Un demonio di uomo dà mano ai chiodi, al martello… A Maria si oscura la vista; le manca la vita, e cade tramortita tra le braccia a Giovanni. Giù colpi di martello sulle mani, sui piedi a Gesù! Quei colpi battono sul cuore a Maria e la destano dal suo tramortimento. — 0 Figliuol mio, mio Figliuolo!… vi inchiodano in croce! — O Maria, noi non abbiamo più il diritto di lamentarci di qualunque colpo; ci gitteremo sulla croce; e sì finisca pure di crocifiggerci con Gesù appiè di voi, Madre nostra! Dio vi salvi, o Maria.

2. Madre addolorata, gettateci appresso a Gesù, il quale dalle mani e dai piedi inchiodati spiccia Sangue… O Sangue di Gesù, piovete sulle nostre persone crocifisse con Lui……: e Voi, santa Madre, questo fate che le piaghe del Signore sieno impresse nel nostro cuore! Dio vi salvi, o Maria.

3. Maria ismarrita nella tetraggine del dolore, collo sguardo annebbiato e pieno d’immagini di morte cerca del suo Gesù, e sel vede alzato in croce… — Mio Gesù, geme con ansioso lamento: mio Gesù, e che può farvi la vostra Madre?… E Gesù con un gemito: — Oh mamma, ho tanta sete… — Figliuol mio, la vostra Madre… vi darebbe il sangue… ma non ha una goccia d’acqua da refrigerarvi le labbra nell’agonia. — O Maria, ben lo sapete che Gesù ha sete delle anime nostre e dei nostri figli. Maria, noi vogliamo consolargli questa sete delle anime nostre e dei nostri figli! Maria, vogliamo consolare nella sete Gesù, e consolare Voi, o Madre. Vi giuriamo che ci vogliamo salvare. Dio vi salvi, o Maria.

4. Madre mia, fatevi appresso, le dice Gesù, ché io voglio fare il mio testamento. — Maria a farsi più sotto la croce; intanto che il Sangue, il quale gli pioveva dalla divina testa, gli grondava dalle mani e scorreva lungo la croce dai piedi, gocciava sulla testa, sul volto, sulle mani di Maria e le intingeva le vesti. Gesù quando se la vide lì sotto tutta bagnata del suo Sangue, ce l’ha lasciata per Madre. O Maria, o Maria, fateci da Madre ora dunque e sempre, sino alla morte. Deh! non lasciateci perdere; Vi costiamo troppi dolori. Sì che ci salveremo: Maria, siamo vostri figli, salvateci. Quando corpus morietur fac ut animæ donetur paradisi gloria. Dio vi salvi, o Maria.

5. Quando Gesù ci ebbe data per madre la Madre sotto la croce, Egli parlò col ladro. Consolante mistero! Appresso a Gesù vi è Maria, e trovasi eziandio con Lei il ladro: l’innocenza e la santità in Maria, l’uomo pentito nel ladro. Gesù parla con Maria, ma parla pure col ladro; ma al ladro, perché più disgraziato, parla con maggiore misericordia. A Maria, tutta forte nel sacrificio per salvare i figliuoli, dice: — Madre, voi perdete il Figlio, ma vi lascio per madre ai nostri figliuoli! — Al ladro dice: oggi sarai meco in paradiso. — Ah dunque sotto la croce per mezzo di Maria nessuno si bada perdere, sia pur troppo grande peccatore. Vi ci raccomandiamo tutti, o Maria. Dio vi salvi, o Maria.

6. Gesù gronda le ultime gocce delle sue vene. Maria tutta intrisa di Sangue guarda esterrefatta Gesù che agonizza. Gesù e Maria, voi avete presi i concerti per salvare le anime nostre in quell’angoscioso istante! O Gesù, tirateci sotto la croce, noi ci vogliamo stare colla vostra Madre a contemplarvi: Stabat Mater dolorosa, inxta crucem lacrymosa dum pendebat Filius. Dio vi salvi, oMaria.

7. Ma trema la terra, è scuro il cielo, l’aére negro, e l’universo par che pianga anch’esso sopra Gesù. Gesù mette un alto grido: « Tutto è consumato… » Anche i Giudei si battono il petto, ed i morti si ridestano nei sepolcri: tutto è consumato in Gesù. Il peccato dovette esser pagato colla morte di un Dio. Misericordia!… Maria, metteteci sul petto a Gesù nel Sacramento: gli spireremo sul Cuore. Gesù, Maria, vi raccomandiamo l’anima nostra, i peccatori, i giusti, i moribondi: aiutateci nella nostra per la divina agonia. Dio vi salvi, o Maria.

8. Maria quando moriva Gesù lasciò cadere giù le braccia tremanti sopra Maddalena e Giovanni, che rappresentano i giusti e i peccatori convertiti; e stavasi cogli occhi in Gesù morto. Ah! Le balena ad un tratto dinanzi un lampo di lancia, che dà dentro nel petto a Gesù!… Maria manda uno strido.. ahi! ma Gesù non lo sentiva più quel colpo. Senti però Maria ben addentro il conficcarsi di quella lancia; e per questo la ferita del Costato di Gesù è ferita al Cuor di Maria. Per questo il Cuore immacolato di Maria è tutto fatto per la conversione dei peccatori. O Cuore di Maria, dopo il Cuor di Gesù, sarai la speranza nostra e dei poveri peccatori. Dio vi salvi, o Maria.

9. Maria si gitta sotto la croce tra i sassi tutti bagnati del Sangue di Gesù, e lo riceve morto fra le braccia… e in mostrandoci le piaghe di Lui, ci prega di mettere sopra a ciascuna un buon proponimento, e di chiuderci dentro al Cuore divino nei Sacramenti. O Maria, Madre nostra, sì che lo faremo! Dio vi salvi, o Maria.

10. Oh Maria, abbiamo noi Gesù Cristo qui in mezzo di noi colle sue santissime Piaghe, cui vuole sempre tenere aperte per nostro vantaggio. Deh! almeno quando vegnamo in chiesa gliele vorremmo baciare! Metterci in cuore a Lui, acciocché possiamo fare tutto il bene in Lui, e in Lui spirare l’anima nostra all’agonia. Dio vi salvi, o Muria.

Gloria Patri. Gloria a Voi, Padre santo, vi grideremo col Cuor santissimo di Gesù Cristo; gloria a Voi, o Gesù benedetto, che ci salvaste colla vostra morte; gloria a Voi, Spirito Santo. Il mistero della salvezza del genere umano è compiuto nella morte di Gesù: Voi portateci a vivere beati per Lui Ne in paradiso. (Sì reciti il Gloria Patri).  Requiem æternarm. Gesù, Maria, il crocifisso si innalza anche sul purgatorio. Pace eterna per le piaghe santissime alle anime del purgatorio (si reciti il Requiem).

LA GRAZIA E LA GLORIA (35)

LA GRAZIA E LA GLORIA (35)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO III

Tutte le azioni del figlio di Dio, purché moralmente buone, meritano un aumento di grazia e di gloria.

1. – Sappiamo quali condizioni siano assolutamente necessarie per il merito della crescita spirituale: condizioni da parte dell’opera, condizioni da parte dell’agente, condizioni da parte di Dio, il remuneratore del merito. Ci resta da scoprire concretamente, nella vita dei figli adottivi di Dio, le opere in cui troveremo soddisfatte queste condizioni; in altre parole, e per dirla in modo più semplice, quali dei loro atti meritino un aumento di grazia e di gloria. – Ora, questa è la dottrina che mi propongo di dimostrare prima e di spiegare poi. L’ho ricevuta dal Dottore Angelico, che la formula in queste poche parole: « Nell’uomo in possesso della grazia e della carità, ogni atto libero è o merito o demerito »; e di  conseguenza, non c’è azione moralmente buona che, secondo lui, non sia meritoria agli occhi di Dio (Habentibus Charitatem omnis actus est meritorius vel demeritoriusde Malo, q. 2, a 5, ad 1 -. È impossibile dubitare che San Tommaso non intenda un qualsiasi tipo di merito, ma il merito in senso stretto, quello che Dio remunera con i suoi doni soprannaturali. In nessun punto, nei numerosi testi in cui afferma la sua dottrina, dice una sola parola che possa far sospettare un’altra idea. Per lui, l’actus meritorius è ogni atto buono dell’uomo giustificato. Non sarebbe un prendersi gioco del lettore se questa parola meritorius nascondesse un equivoco e significasse sia meriti naturali sia meriti soprannaturali? Inoltre, se il santo Dottore intenda solo un qualsiasi tipo di merito, qualcuno sa dirmi perché la grazia santificante e la carità siano assolutamente richieste? Non c’è dunque alcun tipo di merito per i peccatori?). – Come nell’ordine dei fatti non esiste e non può esistere un’azione deliberata che sia indifferente, cioè che non sia né buona né cattiva dal punto di vista morale, così quando si tratta dei giusti, figli di Dio, ogni opera libera è o merito o peccato. Non è possibile una via di mezzo. Percorrendo il variegato ciclo delle azioni umane: studiare, lavorare con le mani, pregare, ricrearsi, conversare, salutare un amico di passaggio, dire una parola educata … che ne so? Tutte queste azioni e cento altre dello stesso tipo, per quanto indifferenti possano sembrare e per quanto poco importanti si possano ritenere, o sono il prezzo di un aumento proporzionale della grazia o sono colpe che la giustizia punirà. Anche in questo caso, non ci sono vie di mezzo per i figli di adozione. Ho detto: per i figli di adozione; perché l’uomo che non porta la grazia nel suo cuore può fare, e spesso fa, opere che non hanno questo carattere di merito. Per questo San Tommaso dice: « Ogni atto di chi ha la carità è meritorio o peccaminoso, e per lui non c’è atto indifferente » (« Omnis actus habentis charitatem vel est meritorius, vel est peccatum, et nullus est indifferens » – S. Thom, ibidem, obj. 11 cum. resp.), non solo dal punto di vista morale, ma anche da quello del merito o del demerito. So che questa dottrina non è accettata da tutti i teologi (ci sono due modi per contraddirla: alcuni ammettono che non esistano atti indifferenti nella pratica; ma sostengono, allo stesso tempo, che gli atti moralmente buoni dei giusti possono mancare, e spesso mancano, di alcune condizioni necessarie per il merito soprannaturale. È questa l’opinione che teniamo particolarmente in considerazione in questo e nei capitoli seguenti, per opporci ad una dottrina che ci sembra più consolante e meglio sostenuta dalla ragione teologica. Altri sarebbero prontamente d’accordo con noi: ogni atto moralmente buono di una persona giusta è un merito; ma ci sono atti deliberati che non sono né buoni né cattivi; e, di conseguenza, il dilemma del Dottore Angelico non è ammissibile. È soprattutto nella famiglia francescana che troviamo questa teoria degli atti indifferenti. -S. Tommaso, che si batte contro di essa, seguito dalla maggioranza dei filosofi e dei teologi della Scuola, risolve la questione con la sua ordinaria profondità. Se consideriamo gli atti deliberati in sé e nella loro natura specifica, ce ne sono alcuni che non hanno carattere morale, come ad esempio il camminare, poiché la moralità di un atto si misura in base al suo rapporto con la regola dei nostri atti liberi, cioè con la ragione. Ora la ragione non approva né disapprova l’azione di fare una passeggiata. È quindi un atto indifferente, se lo consideriamo solo nella sua essenza specifica. Ma un atto individuale assume necessariamente delle circostanze che lo fanno uscire in qualche modo da questa indeterminatezza e gli conferiscono una moralità che non ha nella sua natura. Così, sebbene l’uomo non sia, in quanto tale, né bianco, né giallo, né nero, è necessario che ogni individuo abbia un colore determinato dalle cause accidentali del temperamento, della nascita o del clima. Ora, tra tutte le circostanze che influenzano le nostre azioni, la principale è quella del fine per cui agiamo. Infatti, la funzione propria della ragione è quella di ordinare la nostra libera attività. Se dunque non ordino la mia azione verso un fine conforme alla ragione, o se la dirigo verso un fine che la ragione disapprova, c’è disordine e di conseguenza un male morale; al contrario, se la ordino verso un fine adeguato, l’ordine razionale è preservato e l’azione, per quanto sia indifferente in sé, diventa buona da un punto di vista morale. Per quanto riguarda gli atti che impediscono ogni nostra deliberazione, come sarebbe un movimento istintivo della mano o del piede, non ci può essere alcun dubbio, poiché non sono nostri. Cfr. S. Thom, 1. 2, q. 18, a. e 9 : de malo, q. 2, a. 5. – (S. Gregorio Magno parla come S. Tommaso su questo argomento. Infatti, egli classifica tra le parole oziose, e di conseguenza riprovevoli, di cui si dovrà rendere conto nel giorno del giudizio, qualsiasi parola che « manchi o della ragione di una giusta necessità, o dell’intenzione di una pia utilità: Otiosum quippe verbum est quod aut ratione justæ necessitatis, aut intentione piæ utilitatis caret ». – Moralia, 1, VIII, c. 17, n. 58. P. L., t. 75. Se, per non essere difettosi, i nostri discorsi e le nostre parole debbano soddisfare questa condizione o qualche altra equivalente, è chiaro che non ce ne sono di indifferenti: perché, suscitati da questi motivi di utilità o di necessità, sono moralmente buoni. – Comunque sia, l’affermazione che si trova in testa a questo capitolo rimarrebbe assolutamente vera anche se si ammettessero gli atti indifferenti, perché attribuisce il merito solo agli atti moralmente buoni. Ciò che sarebbe falso, in questa ipotesi, è il dilemma posto da San Tommaso: in un uomo giusto non c’è atto deliberato che non sia meritorio o demeritorio. Inoltre, le autorità e le ragioni esposte nel presente capitolo sono sufficienti per riconoscere come meritoria qualsiasi azione fatta liberamente, purché non sia un peccato); ma spero di poter mostrare in questo capitolo che questo può essere sostenuto dal suffragio della Sacra Scrittura, dei Padri e degli Autori in cui sia la teologia dogmatica che quella ascetica salutano come i loro più illustri maestri. Cominciamo con i nostri libri Sacri. Non voglio insistere su un’argomentazione di Vasquez e altri, quando sottolineano che la Scrittura promette la ricompensa eterna per le opere più umili e meno esaltanti: dare un bicchiere d’acqua, per esempio. Questa discussione ci porterebbe troppo lontano. Ma come dimenticare l’osservazione così giustamente fatta da Sant’Agostino che, nel loro attuale stato di imperfezione, ci sono due uomini in ciascuno dei figli di adozione: l’uomo vecchio e l’uomo nuovo? Né il Vangelo né gli scritti apostolici ci parlano di un terzo (Si potrebbe dire: se in noi ci sono solo i due uomini di cui hai parlato, allora tutte le azioni sono cattive nel peccatore, poiché l’uomo nuovo non è ancora in lui. Risposta: l’uomo nuovo è in preparazione nella rettitudine della natura, quindi capace di atti buoni, capace anche di ricevere le grazie attuali e di arrivare, se vuole cooperare, alla giustificazione. Pertanto, non tutto in lui è vetustà. Ma non è nemmeno la novità che rende figli adottivi, e serve come base per il merito rigorosamente detto). Ora, l’agire corrisponde all’essere. Quindi, per restare alle azioni che ci competono, ogni opera proviene o dall’uno o dall’altro. Pretenderete che un’azione il cui principio sia la vetustà, possa essere buona, o direte che è possibile agire come figlio di Dio senza meriti davanti al Padre? E se nessuna delle due affermazioni è possibile, cosa vi resta da fare se non confessare con noi ciò che San Tommaso d’Aquino ha appena detto: « Ogni opera di un uomo giusto è o meritoria o demeritoria; oppure, il che equivale alla stessa cosa, non c’è azione moralmente buona dei figli adottivi che non abbia in sé il carattere del vero merito. ». Mi obietterete che gli atti, come quello di dire una parola amabile, di giocare per rilassarsi ed  altre cose simili, non siano di quelle che noi consideriamo come qualità di uomo nuovo; io vorrei chiedervi perché tali atti non dovrebbero essere degni della dignità di figli adottivi, o perché, se questa dignità li approva, l’uomo nuovo non dovrebbe esserne il principio e riconoscerli come propri? Inoltre, dovremo mostrare in seguito come queste opere realizzino in sé le condizioni del merito. Per il momento, si tratta solo di provare il fatto con testimonianze autorizzate.

2. – Ascoltiamo ora i Teologi. Torno innanzitutto a San Tommaso, se non altro per mostrare quanto questa dottrina gli stesse a cuore, visto che la ripropone costantemente nelle sue opere. Le questioni sul Male (de Malo), da cui ho preso in prestito i testi già citati, appartengono alla piena maturità del grande Dottore e sono più o meno contemporanee alla Summa Theologica. Ecco come egli si esprimeva nelle opere precedenti: « Nessun atto di virtù politica o civile (Virtus civilis dirigit in omnibus quæ sunt corporis et etiam propter corpus quæruntur. S. Thom, initio huj. art.) non è indifferente; di per sé ha la sua bontà morale, e se è informata dalla grazia, sarà meritoria. Pertanto, non esiste un’azione deliberata della volontà che non sia né buona né cattiva, non solo secondo il teologo, ma anche secondo il filosofo moralista. Inoltre, quando si ha la grazia, ogni opera buona, purché libera, è meritoria. Inoltre, nessuno degli atti che procedono con la deliberazione della volontà è indifferente; ma è necessariamente o buono o cattivo per una malizia o per una bontà civile. Tuttavia, l’atto di bontà naturale può avere la virtù del merito solo in coloro che sono in grazia di Dio. Pertanto, in colui che ne è privo, l’opera è indifferente dal punto di vista del merito e del demerito. Ma per coloro che possiedono la grazia in sé, è necessario che essa sia meritoria o demeritoria: perché se è moralmente buona, è meritoria; se, al contrario, è cattiva, è demerito (S. Thom. in II, D. 40, q. 1, a. 5. ) ». È impossibile, dopo queste affermazioni così categoriche ripetute fino a sazietà, fraintendere il pensiero del Dottore Angelico. Vediamolo in alcune applicazioni. Chiedetevi cosa pensi del piacere che traiamo dal mangiare o dal bere. San Tommaso risponderà che cercarlo senza la giusta moderazione è disordinato e peccaminoso, perché il godimento smodato esclude dalla sua natura il bene della sobrietà ed è quindi un male. Ma un piacere che non arrivi a questo eccesso può essere preso senza colpa, e persino con merito, se si è nell’amicizia di Dio (Id., ibid. – Ecco come, in un altro luogo delle sue opere, lo stesso Santo parli del gioco delle danze: « Il gioco in sé non è cattivo: altrimenti non sarebbe oggetto di quella virtù morale che si chiama Eutrapelia…  Può quindi essere un atto virtuoso o vizioso, a seconda del fine perseguito e delle circostanze in cui viene praticato. Perseverare, senza alcun rallentamento negli atti della vita, sia attiva che contemplativa, è una cosa impossibile; da qui la necessità di interrompere di tanto in tanto il lavoro con la ricreazione, affinché la mente non soccomba sotto il peso di una gravità troppo costante e possa dedicarsi con più slancio alle opere delle virtù. Giocare con questa intenzione, a patto che non comporti circostanze negative, è fare un atto di virtù; è anche meritare, se il divertimento è informato dalla grazia (santificante). – « Ora, quando si tratta di danze, queste sono le circostanze che sembrano essere richieste: che la persona non sia una persona per la quale tale svago sarebbe improprio, ad esempio un chierico o un religioso; che il momento sia di gioia, come quello di una vittoria, di un matrimonio o di una festa simile; e infine, che ci siano solo persone oneste, canti adatti, e nessun gesto o azione troppo libera. Perché l’atto sarebbe vizioso se favorisse le cattive passioni… ». S. Thom. in cap. III Isaiæ, ad fin. Stessa dottrina e stessi principi sull’ornamento delle donne, come si può vedere nello stesso commento al capitolo di Isaia). – Anche gli atti che per loro natura sembrerebbero i più ribelli al merito, come i rapporti più intimi tra coniugi, sono ricondotti dal Dottore angelico alla legge comune (S. Thom. IV, D. 24, q. 1, a. 4; Suppl. q. 41, a. 4). – Dopo questi testi così formali, ci si stupirebbe se non si trovassero gli stessi pensieri nei teologi che, nell’ordine del grande teologo o al di fuori di esso, sono più strettamente legati alla sua dottrina. Nulla è più frequente che trovarli nei loro scritti. E, per citare solo i principali: questo è il sentimento esplicito di Capréolus, Cajetan, Medina, Domenico Soto, Déza, dei Carmelitani di Salamanca, di Gabriel Vasquez, di Gregorio di Valencia e di Bécan, a cui si potrebbero aggiungere molti altri nomi, come quelli di Ripalda, Gonet, Gregorio Martinez, Zumel, ecc, (II, D. 40, q. 4, a. 4; Cajet. in 1, 2, q. 8, a. 8; Medina in 1.2, q. 18, a. 9: Dom. Solo, de nat. et grat, I. III, c. 4; Deza, II, D. 40; Salmant, Tract. XVI, D. 4, dub. 5; Greg. a Valent. in 1, 2. D. 8, q. 6, p. 3: Becan, 2′ p. Summaæ, Tr. V, c. 4, q. 1. n. 13; Vasquez tn 1, 2. D. 217, c. 2 e 3. È la tesi sostenuta da quest’ultimo teologo: « Omnia bona opera justorum meritoria esse vitæ æternæ, ex Scripturis et Patribus probatur. ». Ciò che impedisce che sia identico a quello di San Tommaso è che Vasquez, in questo concordando con San Bonaventura, ammette come più probabile che ci siano nell’uomo alcuni atti, anche deliberati, che di fatto siano indifferenti o possano esserlo, come mangiare, bere, camminare. Per il resto, egli ritiene che ogni atto moralmente buono sia meritorio per un uomo giusto. Vasq. In I, II, D. 52, c. 3; col. D. 217, c. 2. n. 9). Non basterebbero le pagine se si tentasse di riportare tutte le loro testimonianze. Eccone due, che vi illustrerò a titolo di esempio. Il primo è Domenico Soto che, come tutti gli altri, formula il grande principio di San Tommaso d’Aquino, e che aggiunge queste notevoli parole: « L’ipotesi immaginata da alcuni, secondo la quale un’opera potrebbe procedere da un uomo in uno stato emanante di grazia, è per me inverosimile, a meno che, tuttavia, non si parli di peccati veniali; perché se l’opera è moralmente buona, e procede da uno che abbia la grazia, per questo stesso fatto emana virtualmente dalla grazia » (Dom. Soto, l. c.). – Prendo in prestito l’altra testimonianza di Gregorio di Valencia. Dopo aver stabilito alcuni principi e confutato le opinioni contrarie, conclude in questi termini: « Ne consegue che nessuna opera di un Cristiano giustificato sia indifferente rispetto al merito o al demerito. Moralmente buono, è meritorio: per il fatto stesso di essere l’atto di un uomo giusto, esso è virtualmente legato a Dio. Se cattivo, è ovviamente demeritevole. Perciò i sostenitori del sentimento opposto si sbagliano quando insegnano, secondo i loro principi, che in un uomo giusto possano esserci azioni né meritorie né demeritorie; tanto più che non forniscono alcun argomento di un qualche valore » (Greg. De. Valent. L. c.).

3. – Tutti questi teologi si appellano all’autorità del Dottore Angelico; ma quelli della Compagnia di Gesù possono anche invocare quella del loro Santo fondatore. Si conosce questo libro immortale degli Esercizi Spirituali di un’ortodossia così pura, così meravigliosamente efficace per la santificazione delle anime, esaltato dai più grandi Santi e formalmente approvato dalla Chiesa. Ora questo libro contiene nel modo più chiaro e inequivocabile la dottrina che abbiamo appena esposto. Infatti, se lo apro alla pagina in cui il Santo patriarca tratta dell’esame generale di coscienza, ecco cosa leggo a proposito dei peccati di parola: « Non si deve pronunciare nessuna parola oziosa. Per parola oziosa intendo quella che non sia utile né a noi stessi né agli altri, o che non sia finalizzata a questo fine. Quando, quindi, tutte le volte che le nostre parole risultino, o almeno lo intendiamo, utili per la nostra anima o per quella del nostro prossimo, per il nostro corpo o per i nostri beni temporali, esse non sono parole oziose, anche se parliamo di cose estranee alla nostra professione, come se i religiosi parlassero di guerra o di commercio. Ma, in generale, ogni parola ben ordinata è meritoria; e ogni parola vana o mal diretta è peccato » (Exercitia spirit., S. P. Ignatii de Loyola, I hebdom. Exam. Consc. Gen.). Ascoltiamo e comprendiamo. Si entra in una conversazione: se il discorso tende ad un fine ragionevole, è merito; se, al contrario, non ha un fine riconoscibile dalla ragione o dalla fede, è peccato. Non esiste quindi una via di mezzo tra discorsi oziosi e non, tra discorsi meritori e discorsi più o meno peccaminosi. Sant’Ignazio presuppone evidentemente che l’uomo di cui regola il linguaggio sia un amico di Dio; così come è evidente che la sua dottrina, mirando esplicitamente alle parole, vada oltre e si riferisca in generale ad ogni azione deliberata. – Non avevo forse ragione nell’appellarmi agli autori ascetici? Il venerabile Luigi di Granada, che nel XVI secolo fu uno dei maestri più affidabili nella scienza dei santi e gloria dell’Ordine di San Domenico, sosteneva in modo assoluto la stessa dottrina. In uno dei suoi trattati spirituali enumera gli incomparabili vantaggi della grazia santificante: « Un altro effetto di questa grazia –  scrive – è quello di rendere l’uomo così caro a Dio e di così alta dignità ai suoi occhi, che ogni azione deliberata che compie, a meno che non sia peccaminosa, gli sia gradita e meriti la vita eterna. Perciò non solo le virtù, ma anche le opere naturali, come il mangiare, il bere, il dormire, ecc. sono gradite a Dio e sono meritorie del bene sovrano, perché il soggetto non sarebbe gradito a Dio, senza che tutto ciò egli che fa non sia oggetto di piacere e di merito davanti a Dio, purché non sia un male » (L. de Granada, La guida dei peccatori, L. I, c. 14; Obras, t. 1, p. 66 Barcelona, 1584). – Mi rimprovererei se dovessi omettere un’altra testimonianza molto preziosa, quella di un grande dottore e di un grande maestro di vita spirituale: San Francesco di Sales. Il suo trattato sull’Amore di Dio contiene intere pagine destinate a far luce su questa consolante dottrina. In attesa di trovare l’opportunità di entrare più a fondo nel suo pensiero, riporto almeno alcuni passaggi che ce lo rivelano in modo piuttosto evidente. « Tutto ciò che fate, qualsiasi cosa facciate in parole e opere, fatelo nel nome di Gesù Cristo. Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto a gloria di Dio » (Col. III, 17; 1 Cor. X, 31). Queste sono le parole del divino Apostolo che, come dice il grande San Tommaso spiegandole, sono sufficientemente praticate quando siamo abituati alla santissima carità, con cui, pur non avendo un’intenzione espressa ed attenta, è comunque contenuta nell’unione e nella comunione che abbiamo con Dio, per cui tutto ciò che possiamo fare di buono è dedicato con noi alla sua divina bontà. Non c’è bisogno che un figlio, che viva nella casa e nel potere del padre, dichiari che ciò che acquista sia di suo padre: poiché la sua persona appartenendo al padre, anche tutto ciò che dipende da essa gli appartiene. Basta così che noi siamo figli di Dio per dilezione, perché tutto ciò che facciamo sia interamente destinato alla sua gloria… ». (S. Franc. de Sales, Trattato dell’amore di Dio, L. XII, c. 8). Quindi, secondo la testimonianza del Santo, per il fatto stesso che la carità regni in un’anima, cioè che quest’anima possieda la grazia da cui scaturisce la carità, come un ramo dal tronco, le nostre buone opere, andando alla gloria di Dio, sono meritorie. Il Santo riconosce che nessuna azione virtuosa possa diventare un vero merito, se non è vivificata dalla carità. Ma, aggiunge, « le azioni virtuose (noi sappiamo cosa intenda San Francesco di Sales per azioni virtuose. Ce lo ha detto più in alto: è « tutto ciò che possiamo fare di buono », cioè ogni opera moralmente buona. Non ce n’è una sola, infatti, che non si riferisca a qualche virtù, per quanto piccola e insignificante possa sembrare), dei figli di Dio appartengono tutte alla dilezione sacra: le une, perché le produce per sua natura; le altre, in quanto le santifica con la sua presenza vitale; altre, infine, per l’autorità ed il comando che esercita sulle altre virtù, da cui essa le fa nascere. E queste, non essendo in verità così eminenti in dignità come le azioni propriamente e immediatamente derivate dalla dilezione, eccellono anche incomparabilmente al di sopra delle azioni che hanno tutta la loro santità dalla sola presenza e società della carità » . Poche righe più avanti, dopo un paragone che mette in ottima luce il suo pensiero, il Santo Dottore continua: « Se infine alcune virtù compiono le loro operazioni senza il suo comandamento (il comandamento della carità), purché servano alla sua intenzione, che è l’onore di Dio, essa non manca di riconoscerle come proprie » (S. Franc. De Sales, Trattato dell’Amore di Dio, L, XI, c. 4; col. C. 2).

4. – Ho detto che questo era anche il sentimento dei Padri. Non ne riporterò che una prova: questa è di S, Agostino. Egli spiegava familiarmente l’ultimo versetto del Salmo XXXIV al suo popolo: « Allora, Signore, la mia lingua mediterà la tua giustizia e tutto il giorno proclamerà la tua lode. » – « E quale lingua – egli si chiede – può dichiarare la lode di Dio tutto il giorno? Ora sto andando un po’ oltre i limiti ordinari del mio discorso, e vedo che siete già stanchi. Chi dunque, vi chiedo ancora, può meditare e celebrare la lode di Dio tutto il giorno? Ascoltatemi; io vi dirò come lodare Dio, tutto il giorno, se lo desiderate. Qualsiasi cosa facciate, fatela bene e avrete lodato Dio. Se cantate un inno, voi lodate Dio: perché, suppongo, c’è accordo tra il vostro cuore e la vostra lingua. Interrompete il canto per consumare il vostro pasto; evitate l’intemperanza (dice: non ubriacatevi) e voi avrete lodato Dio. Voi vi ritirate per godervi il riposo del sonno; guardatevi dal fare il male, e voi avrete lodato Dio. Se voi commerciate, sena frode e senza inganno, voi lodate Dio. Se siete un contadino, non litigate con i vostri vicini né con i vostri domestici, vivete in pace e avrete comunque lodato Dio. Ecco come, per tutto il giorno, l’innocenza delle vostre opere sarà la lode di Dio » (S. August. Enarr. 2, in Ps. XXXIV, v, 16). Nessuno negherà, credo, che la lode di Dio sia meritoria per un uomo giusto. Pertanto, poiché ogni azione moralmente buona è una lode a Dio, il Dottore della grazia la considera meritoria. – E così la teologia dogmatica, ascetica e morale, gli studiosi, i Dottori e i Santi, si riuniscono attraverso lo spazio ed il tempo in una dottrina comune, e affermano che laddove il figlio di Dio, nell’esercizio della sua libertà, non offende suo Padre, acquista da Lui nuovi meriti; in altri termini, egli crede per il presente nella grazia, e per il futuro, nella gloria.

LA GRAZIA E LA GLORIA (36)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (1)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (1)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

Brescia, 19 marzo 1935, Can. Ernesto Pasini, Cens. Eccl-

Brescia, 23 marzo 1935 IMPRIMATUR Aem. Bongiorni, Vic. Gen.

PREFAZIONE

 Se a questo libro è necessaria una giustificazione, l’unica plausibile è che l’autore fu invitato a scriverlo. Furono amici non cattolici a chiedergli di rivelar loro, per quanto possibile, lo spirito intimo, la vita interiore della Chiesa Cattolica. Essi conoscono, più o meno, la sua storia, e soprattutto da un determinato punto di vista; sono, inoltre, al corrente di tutte quelle manifestazioni di vita attiva della Chiesa medesima che, quasi ovunque, cadono sotto il loro controllo quotidiano. Conoscono pure buona parte del suo insegnamento che in alcuni punti coincide con quello accettato da loro stessi, mentre altri punti, quali essi li intendono, sono loro estranei o ripugnanti addirittura. Eppure essi sentono, anzi son persuasi, che l’idea della Chiesa Cattolica contiene qualche cosa di più, qualche cosa che va oltre la sua storia e il suo insegnamento, che a quella ha dato origine in passato e questo tuttora vivifica, e che è perciò superiore in importanza ad entrambi per una esatta valutazione della Chiesa stessa. Se riuscissero ad afferrare questo “quid” segreto, se potessero al pari dei Cattolici, rendersi conto del suo operare, solo allora forse si farebbe luce su tante divergenze di giudizio. Quanto appare alla superficie non può che essere manifestazione di ciò che arde dentro. Perché si diano questi segni esteriori di vita cattolica, è necessario vi sia uno spirito interiore ad animare e a permeare tutto il Cattolicesimo, a dargli quella unità, consistenza e solidarietà che innegabilmente possiede. E lo spirito che si manifesta non senza entusiasmo nella vita di ogni vero Cattolico praticante, lo spirito al qual  sono da attribuirsi i frutti prodotti dalla Chiesa Cattolica in ogni luogo e in ogni tempo. Ecco perché, secondo l’autore, spiriti avidi di conoscere questa vita interiore si sono rivolti precisamente a chi di essa già partecipa, in essa respira e di essa, come umilmente e sinceramente spera, già vive. È questo senza dubbio l’unico mezzo per poter afferrare anche un semplice barlume della verità. Nessuno che voglia veramente penetrare l’anima dell’Inghilterra si rivolgerà per ciò ad un Soviet russo; allo stesso modo, nessuno che sinceramente desideri di conoscere la Chiesa Cattolica nella sua realtà andrà ad informarsene presso uno la cui penna sia intinta nel fiele, le cui labbra stillin veleno, e che abbia in mente una gran confusione a questo riguardo. Uno scrittore siffatto non potrà mai dire la verità, di qualunque argomento si occupi. Poiché una comprensione giusta richiede la simpatia; e l’odio acceca sempre. E se pure manchi l’odio, nel significato peggiore della parola, il pregiudizio suo fratellastro riesce sempre ad alterare la verità e a farla servire al proprio scopo, finché il quadro finale che ne risulta si riduce ad una caricatura e nulla più. E ciò è particolarmente vero nel trattare di questioni religiose.  “Colui che conserva la carità nei costumi può comprendere tanto ciò ch’è evidente quanto ciò ch’è latente nelle questioni religiose — dice S. Agostino. — L’amore lo induce allo studio, l’amore lo guida nella ricerca, l’amore lo spinge a bussare alla porta; l’amore fa che in lui permanga quanto gli fu rivelato. » (Serm. 189, de Temp.). È dunque in risposta a una domanda di questo genere che l’autore ha compiuto il tentativo racchiuso nel presente volume, ed egli desidera che lo si legga nello spirito medesimo con cui fu scritto. Quella che noi chiamiamo teologia si affaccia talvolta inevitabilmente nelle sue pagine; eppure non è un’opera di teologia né di apologetica questa che l’autore offre. Egli non ha nessun mandato ufficiale e non ne accetta alcuno, né per difendere la sua Chiesa né per dimostrare la verità del suo insegnamento. Il suo compito è semplicemente quello di definire la posizione della Chiesa, di scoprire quasi l’anima propria o almeno di spiegare a chi desidera ascoltarlo le proprie convinzioni intime nei riguardi di Dio e dell’uomo. Egli perciò spera, anzi crede, che non sarà deluso e che i suoi lettori vorranno almeno riconoscergli il merito di una sincera fede in ciò che asserisce ed accettare poi quanto egli ha da dire, non solo come sua conclusione personale e come veduta propria particolare, ma come esponente di quella stessa fede ch’egli ha comune con i fratelli cattolici, sia esplicitamente nella forma o implicitamente nella pratica, fede basata su di una evidenza tale che, per lui almeno, è secondo ragione e quindi convincente. Se queste pagine non fossero tutto ciò, e si riducessero a una semplice esposizione del credo dello scrittore, non potrebbero essere espressione attendibile del pensiero cattolico. – Per lui che non è un convertito, la Chiesa in cui crede con fermezza e che ama di cuore, deriva direttamente dalla Chiesa del tempo in cui tutta l’Inghilterra era cattolica. Egli ringrazia Dio ogni giorno per il dono della fede goduto sin dall’infanzia, e nulla maggiormente lo addolora del fatto che tanti fra i suoi compatrioti han perduto l’eredità goduta dai loro antenati. Sa che molti, la maggior parte forse, dei suoi lettori non condividono la sua fede e il suo amore, né il suo rimpianto per la perduta eredità. Eppure, non per ciò li condanna, né si sente ad essi completamente estraneo. Ha vissuto abbastanza, e sotto le circostanze più varie, per sapere che differenze fondamentali di pensiero, specie in questioni di religione, sono dovute a cause molteplici, parecchie delle quali sfuggono al controllo dell’individuo. “Lo spirito soffia dove vuole”; “ il regno dei cieli è simile al lievito » l’azione del quale è segreta. Il metodo usato da Nostro Signore Gesù Cristo non fu mai un metodo di coercizione; ma allorché qualcuno a Lui si rivolgeva, Egli “lo guardava e lo amava” e ad uno, il quale non altro fece che mostrar di apprezzare la sua parola, Egli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio.” – Allo stesso modo e, l’autore lo spera, nello stesso spirito, egli ha avuto ed ha tuttora molti amici, protestanti e pagani, maomettani, indù e parsi, e ha potuto personalmente constatare fra loro tutti l’opera prodigiosa della grazia di Dio. Varie volte egli ha dovuto rammentare a se stesso, dinanzi all’evidenza dei fatti, che Nostro Signore venne sulla terra « non per giudicare il mondo, ma perché il mondo fosse da Lui salvato », e che morì, versando fino all’ultima goccia del suo sangue, non per i soli Cattolici, né per i soli Cristiani, ma per gli uomini tutti, indistintamente, come bene disse S. Agostino in tempi non troppo dissimili dai nostri e con una visione che, come sempre, abbraccia il. mondo intero, “Il Redentore venne e pagò il prezzo, diede il suo sangue e con esso riscattò il mondo. Chiedete che cosa acquistò? Guardate il prezzo versato e vedrete che cosa acquistò. Il prezzo è il sangue stesso di Cristo. Che cosa è adeguato a un tal prezzo? Che cosa, se non il mondo tutto? Che cosa, se non le nazioni tutte della terra? “In verità, o svalutano il prezzo che è stato versato o sono molto orgogliosi coloro che dicono essere quel prezzo tanto piccolo da aver riscattato solo gli abitanti dell’Africa, oppure avere essi soli tanta importanza che soltanto per loro sia stato versato un tal prezzo. Che costoro non si esaltino, non insuperbiscano. Quanto Egli diede lo diede per tutti.» (in Ps 95, n. 8). In considerazione di ciò, l’autore scrive non per controbattere alcuno, ma con la sola speranza che le sue pagine servano a riavvicinare gli uomini fra loro, “affinché possiamo conoscerli ed esser da loro conosciuti”, — ut cognoscamus et cognoscamur —, com’ebbe a dirgli or non è molto l’attuale Pontefice. Egli, dunque, di proposito si astiene da ogni parola che voglia essere di controversia o influire sulle convinzioni, le vere, le genuine convinzioni, altrui; e se una frase di questo genere gli sfugge non avrà altro scopo che quello di illustrare il suo pensiero per via di contrasto. Egli non scrive che la verità positiva, quale essa gli consta, per amici che lo hanno pregato di far ciò, e desidera che le sue parole vengano lette e interpretate come si leggono e s’ interpretano le parole di un amico. Alcuni non cattolici troveranno forse che l’interpretazione data dall’autore all’anima della Chiesa Cattolica non le appartiene esclusivamente ma è in gran parte comune a tutta la Cristianità, e condivisa anche dalla chiesa particolare della quale essi son membri. A questi l’autore non può che rispondere: “Dio sia ringraziato! Vuol dire che non siamo poi così fondamentalmente separati come credevamo.” Potessero davvero le affermazioni di questo volume riferirsi a tutti e a ciascuno di noi, a come un tempo si poteva riferirle ai nostri antenati senza distinzione! Allora la riunione della Cristianità non sarebbe più tanto lontana. Se la scoperta di un vasto campo comune sarà l’unico frutto di questo libro, esso non sarà stato scritto invano.

INTRODUZIONE

Nel rileggere quanto abbiamo esposto nei capitoli seguenti ci rendiamo conto della barriera che divide oggi gli uomini in due campi sempre più distinti. Da una parte, coloro che, senza distinzione di credo, accettano il soprannaturale come una realtà; dall’altra, tutti i negatori del soprannaturale. Per questi ultimi non esiste un aldilà o, se esiste, è cosa che non li riguarda, come non li preoccupa né minimamente li interessa il problema dell’esistenza di Dio. Ne viene di conseguenza che ogni principio fondamentale di vita deve, per loro, trovare la sua spiegazione e la sua definizione indipendentemente da Dio. La vita stessa e il suo fine, il dovere e le sue obbligazioni, la libertà e le responsabilità che ne derivano, l’amore dato e ricambiato, il sacrificio e il suo premio; il male, il suo significato, la sua responsabilità, il suo castigo e il suo rimedio; il bene, il suo valore, la sua nobiltà, la sua ricompensa, i suoi frutti; le relazioni dell’uomo con se stesso, coi fratelli, con la patria, con gli amici e coi nemici, infine con tutta l’umanità; il possesso, la potenza, il piacere, il diritto e la giustizia, la verità e il vizio, tutte queste cose esigono per coloro che non riconoscono al soprannaturale alcun diritto di cittadinanza definizioni affatto diverse da quelle che i credenti accettano. Anzi, definizioni vere e proprie non possono darsi: quando l’uomo si è fatto ideale e misura di se stesso, proprio giudice e proprio fine, tutte le realtà sopra elencate debbono servire a lui solo, e, per quanto si voglia dissimularlo, debbono ridursi a strumenti per la sua personale soddisfazione. Chi abbia questa mentalità troverà il nostro libro privo di ogni significato. Se ne sentirà anzi irritato e spinto forse a disprezzarlo. Lo giudicherà empirico (termine questo che non è proprio soltanto della generazione presente) e antiquato, un insieme di illusioni, un sogno vuoto di senso comune, non confermato dall’esperienza, forse addirittura una invenzione dei preti per adescare e asservire le anime libere. Chi non sapesse vedere altro in questo libro sarebbe pregato di metterlo da parte: esso non è fatto per lui. Ma noi vorremmo almeno dirgli che la vita e gli ideali ch’esso ha cercato di descrivere sono stati per ben quindici secoli ideali indiscussi, e che, per quanto antichi, hanno ancora la novità e la freschezza dei fanciulli e dei giovani che ogni anno, a milioni, continuano ad assorbirli e ad edificare, su quelli, la loro vita. E non basta: oltre ai trecentocinquanta milioni di credenti Cristiani ve ne sono altre centinaia di milioni, che noi talvolta chiamiamo pagani, pei quali il soprannaturale è una grande realtà e pei quali l’ideale descritto in queste pagine ha un significato pieno ed accettabile. La miscredenza moderna è un fenomeno molto isolato; tende a diffondersi, ma, in confronto della estensione della razza umana e dello stesso Cristianesimo nel cui seno sorge, è ancora poca cosa, ristretta in un alveo tutto suo. Le danno il nome di nuovo paganesimo; in realtà, per render giustizia ai veri pagani, dovremmo chiamarla in altro modo, ché i pagani autentici la condannano ancor più dei Cristiani. Ma nell’altro campo sono coloro pei quali Iddio e il soprannaturale sono una grande realtà, coloro che sanno in chi hanno riposto fede e che hanno la certezza di non essersi ingannati. Essi credono, e la loro non è una semplice opinione, di appartenere a Dio, e sanno ch’Egli si prende cura dei suoi. Credono che Dio ha parlato e ci ha detto cose che mai avremmo potuto scoprire da soli, e ch’Egli ci ha dato delle leggi e dei precetti per la regola della nostra vita. Per essi quindi, dal momento che Dio ha parlato, la vita e il dovere, l’amore e il sacrificio, il male e il bene, il diritto e la giustizia hanno significati e definizioni assai più chiari e sicuri di quelli che l’uomo avrebbe mai potuto da sé immaginare; hanno delle sanzioni che rendono quei principî, come la civiltà su di essi imperniata, molto più saldi di qualunque cosa l’uomo possa da sé solo costruire. È per costoro in primo luogo che fu scritto questo libro, possano essi, o no, convenire in tutto ciò che contiene; il loro consenso, per lo meno, riposerà sui principî primi intorno ai quali autore e lettori sono d’accordo. Senza questa intesa iniziale diverrebbe impossibile ogni ulteriore comprensione reciproca.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (2)

LA GRAZIA E LA GLORIA (34)

LA GRAZIA E LA GLORIA (34)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO II.

Il merito, sua natura e sue condizioni.

1. – Non è mia intenzione trattare a lungo della natura del merito. Diremo solo ciò che è necessario sapere al riguardo per l’intelligenza della nostra crescita spirituale, cioè l’aumento della grazia santificante e delle virtù dell’anima dei figli adottivi. Prima di tutto, rivolgiamoci al Santo Concilio di Trento su questo grave argomento. Ecco come ne parla nell’esposizione autentica della dottrina: i peccatori, « una volta giustificati e resi amici di Dio e membri della sua casa (domestici), si rinnovano, come dice l’Apostolo, di giorno in giorno, camminando di virtù in virtù…; essi crescono con l’osservanza dei comandamenti di Dio e della Chiesa, nella giustizia che hanno ricevuto per grazia di Gesù Cristo, con la fede cooperante nelle loro buone opere e sono sempre più giustificati. Perché sta scritto: Il giusto diventa sempre più giusto. E ancora: Non abbiate paura di avanzare nella giustizia fino alla morte… È questo aumento della giustizia che la Chiesa chiede a Dio, quando gli dice: Donaci, o Signore, un aumento della fede, della speranza e della carità » (Conc. Trid., sess. VI, cap. 14). – I canoni fulminati contro l’eresia non sono meno espliciti dell’esposizione dottrinale. Testimone è il canone 24° della stessa sessione: « Se qualcuno dirà che la giustizia non si conservi e nemmeno si accresca davanti a Dio con le opere buone, ma che queste opere siano solo i frutti e i segni della giustizia acquisita, e non una causa di incremento per essa, sia anatema ». Anatema anche a chi dirà « … che le opere buone dei giusti sono talmente un dono di Dio e che esse non sono, nello stesso tempo, meriti per il giustificato; o chi sosterrà che il giustificato dalle buone opere che compie per grazia di Dio e per i meriti di Gesù Cristo di cui è membro vivente, non meriti in verità l’aumento della grazia e l’aumento della gloria. » Notiamo queste ultime parole del 32° canone: esse ci mostrano che questi due termini, grazia e gloria, sono associati in un merito comune; così che meritare l’aumento dell’una è per questo stesso fatto acquisire il diritto all’aumento dell’altra. E non c’è niente di più naturale, perché la gloria corrisponde alla grazia e quest’ultima è il seme della prima. – Ho voluto citare a lungo questi vari passi del Santo Concilio, sia perché ci dispenseranno dal riportarne altri, sia perché contengono in sostanza tutto ciò che dovremo dire sulle condizioni del vero merito. Ora, su questa questione capitale, se ci sono punti di dottrina indiscutibili, ce ne sono però altri in cui regna una certa divergenza di opinioni tra i nostri Dottori. Diciamo innanzitutto ciò che non può essere messo in dubbio; poi affronteremo i punti controversi per far emergere, se piace a Dio, il più probabile e il più consolante.

2. Per iniziare con ciò che riguarda il merito delle opere, considerate in sé stesse, sono indispensabili tre cose. Per essere meritoria, l’opera deve essere moralmente buona, deve essere libera e deve essere compiuta sotto l’influenza della grazia. – Dell’opera meritoria, ho detto che deve essere moralmente buona. Il merito è il diritto a una ricompensa; è un atto per il quale la grazia è il premio. Come può un’azione malvagia, che, lungi dal procurare gloria a Dio, costituirebbe una disobbedienza e un’offesa alla Maestà divina, dare diritto a qualcos’altro da parte di Dio se non a una punizione giustamente meritata? – Non parlerò qui di azioni che si chiamano indifferenti e che non avrebbero per loro natura né malizia né bontà morale. Secondo il sentire comune dei più grandi teologi, tali azioni non si verificano nella realtà, almeno quando si tratta di atti liberi. Infatti, ci sono due possibilità: o l’agente da cui promanano si propone un fine secondo la regola della ragione, e, in questa ipotesi, il suo atto o agisce senza un fine ragionevole, e quindi l’azione diventa cattiva, è un disordine, poiché è in flagrante disaccordo con la dignità della natura. In ogni caso, nessuno vedrebbe alcun merito in un atto privo di moralità. – Moralmente buona, l’opera per diventare meritoria deve comunque essere gratuita. È l’universalità dei Padri e l’intera teologia cattolica a gridarci per bocca di San Bernardo: « Dove non c’è libertà, non c’è merito”. Ubi non est libertas, nec meritum » (S. Bern, Serm. 81 in Cant.). E questo è ciò che risulta chiaramente dalla natura stessa del merito. In effetti, « meritare è acquisire per se stessi un qualche bene a titolo di salario. Ma questo richiede che si dia qualcosa il cui valore sia proporzionale (aliquid condignum) a ciò che è oggetto del merito. Ma noi non diamo se non ciò che sia nostro, ciò che possediamo e controlliamo. Inoltre, abbiamo il dominio dei nostri atti solo grazie alla libera volontà » (S. Thom. de Verit. q. 26, a. 6.). Questo è ciò che lo Spirito Santo ci fa ascoltare nel libro dell’Ecclesiastico: « Dio, fin dal principio, creò l’uomo e lo lasciò nelle mani del proprio consiglio… Davanti all’uomo ci sono la morte e la vita, il bene e il male; ciò che sceglierà gli sarà dato » (Eccl. XV, 14-18). Osserviamo, tuttavia, che la libertà, presupposta per merito, non è necessariamente quella libertà imperfetta che può essere indifferente al male o al bene, al vizio o alla virtù. Dio, l’esemplare infinitamente perfetto della vera libertà, come di tutte le perfezioni, non ha questa scelta. In virtù della sua natura, Egli è essenzialmente fissato nell’amore del bene e nell’orrore del male. Per Lui cessare di volere l’uno o odiare l’altro è cessare di essere Dio, esse sarebbero la stessa cosa. La sua libertà è la scelta tra beni finiti, perché la volontà divina conosce assolutamente una sola necessità, quella di amare il bene sovranamente perfetto. Amare il bene sovranamente perfetto, cioè Dio stesso. Pertanto, il potere che è in noi di scegliere tra il bene morale e il suo contrario, lungi dall’essere l’essenza del nostro libero arbitrio, è solo una sua triste imperfezione. (S. Thom. 3 p., q. 62, a.8, ad 3). E la gloria dei figli di adozione sarà quella di essere un giorno, come il loro Padre, liberi e legati per sempre all’amore della vera bontà. – Ma non è meno vero che toglierci la libertà significa toglierci tutti i nostri meriti. Il Concilio di Trento e i Pontefici hanno quindi condannato con anatema la negazione del libero arbitrio predicata dagli innovatori del XVI secolo (Concilio di Trento, sess. VI, can. 4 e 5) e le proposizioni in cui Giansenio insegnava che, nello stato di natura decaduta, l’assenza di coazione, anche quando prevalga la necessità, è sufficiente per il merito e il demerito (3° delle proposizioni, tratte dall’Augustinus di Cornelio Giansenio e condannate da Innocenzo X, etc.). – Un’ultima condizione finale dell’atto meritorio è che esso proceda dalla grazia. Supponete che la natura con le sue facoltà proprie ne sia l’unico principio, forse ne risulterà un titolo a qualche bene dell’ordine naturale; ma non aspettatevi che Dio doni la grazia o la gloria come ricompensa, perché non ci sarebbe quella giusta proporzione tra servizio e ricompensa che è essenziale per il merito propriamente detto. È questa assoluta impotenza della natura a meritare, in qualsiasi misura, i doni soprannaturali, che la Chiesa ha così spesso affermato contro i Pelagiani del V secolo, e gli eretici che li hanno più o meno seguiti nel corso dei secoli. Da queste lotte non potremo che trarre una doppia sentenza. Una è del famoso Concilio di Orange: « Sì, la ricompensa è dovuta alle opere buone, quando se ne fanno; ma la grazia che non è dovuta, precede affinché esse si facciano » (« Debetur merces bonis operibus si fiant; sed gratia quæ non debetur, præcedit ut fiant » Con. Araus, II can. 18). L’altra è di Sant’Agostino, l’immortale campione della grazia di Cristo: « Dio, quando incorona i nostri meriti, incorona solo i suoi doni », perché questi meriti devono avere le loro radici nella grazia per essere meritori (« Cum Deus coronat merita nostra, nihil aliud eoronat quam munera sua ». S. Agostino, ep. 194, n. 19). Ecco, dunque, le tre condizioni assolutamente indispensabili nei nostri atti, perché ci sia un merito davanti a Dio.

3. – Oltre a queste condizioni richieste nell’opera stessa, per il merito propriamente detto, quello che non è più di pura convenienza ma di condegnazione, che non è più rivolto alla sola misericordia, ma alla giustizia, ce n’è un’altra che deve riguardare la persona stessa dell’agente. Una cosa ammirevole che ci mostra la grandezza della grazia santificante e dei doni che l’accompagnano, quando un uomo, secondo il pensiero del grande Apostolo, « benché abbia una fede capace di spostare le montagne; quand’anche abbia distribuito tutti i suoi beni ai poveri e abbia dato il suo corpo per essere consumato dal fuoco, se non ha la carità, tutto questo non gli servirà a nulla » (1 Cor. XIII, 2, 3). – Si tratterebbe, ne convengo, e la fede me lo insegna, di disposizioni che mi preparano a ricevere la grazia, di meriti in senso lato, se volete; ma Dio non deve loro né la grazia né la gloria, né l’aumento di entrambe. Perché? Perché la condizione assolutamente essenziale del merito propriamente detto è lo stato di grazia; diciamo meglio ancora: Perché la dignità di essere figli di Dio deve essere considerata come la ragione primaria delle nostre opere meritorie (« E l’aumento della grazia e la sua infusione sono da Dio. Ma, per quanto ci riguarda, altra è l’influenza dei nostri atti su questa prima infusione, altra è sull’accrescimento della grazia. Questo perché, finché l’uomo non ha la grazia santificante, non partecipa ancora all’essere divino e, di conseguenza, le opere che compie non hanno alcuna proporzione con il bene soprannaturale che dovrebbe meritare. Ma una volta che per grazia gli è stato dato questo essere divino, questi stessi atti acquistano una dignità sufficiente per meritare l’aumento o la perfezione della stessa grazia » S. Thom., II D. 27, q. 1, a. 5, ad 3). La Santa Chiesa lo insegna espressamente attraverso il Concilio di Trento: infatti, se Dio promette un aumento della giustizia e la vita eterna come ricompensa per le buone opere, è ai giustificati, agli amici di Dio, alle membra vive di Gesù Cristo, ai rami che aderiscono alla vigna e che ricevono pienamente la sua influenza, ai membri della Chiesa e al popolo. La promessa è fatta ai giustificati, agli amici di Dio, alle membra vive di Gesù Cristo, ai tralci che aderiscono alla vite e ne ricevono pienamente l’influenza, è a coloro che vivono per grazia e si muovono nella carità, che è fatta la promessa. – Per quanto questa dottrina sia evidente nell’insegnamento del grande Concilio, ha ricevuto, se possibile, una manifestazione ancora più eclatante nella condanna del Bäjanismo. Ascoltiamo piuttosto le proposizioni proscritte dai supremi giudici della fede, S. Pio V, Gregorio XIII e Urbano VII. « È essere del sentimento di Pelagio il quale sostiene che un atto buono, fatto senza la grazia d’adozione, non sia meritorio della vita eterna (Prop. 12). Pensa come Pelagio chi dice che per meritare sia necessario essere elevato dalla grazia di adozione, ad uno stato deiforme » (Prop. 17). Ma perché non si sospetti che queste condanne siano rivolte esclusivamente al paragone ingiurioso fatto tra la dottrina di Pelagio e quella che sostiene la grazia santificante come primo principio del merito, ci sono altre proposizioni altrettanto riprovevoli che non contengono nulla di simile; questa, ad esempio: « La ragione del merito non deriva dal fatto che chi compie opere buone abbia come ospite la grazia e lo Spirito Santo, ma solo dal fatto che obbedisce alla legge divina » (Prop. 15; col. prop. 15). Ancora, la Proposizione 17 così recita: « Le opere di giustizia e di temperanza, compiute da Gesù Cristo, non hanno ricevuto un valore maggiore dalla dignità della persona che le ha compiute, persona che le eseguiva ». – Queste condanne sono piuttosto notevoli, perché ci rappresentano la grazia dell’adozione, non solo come condizione necessaria, ma anche e soprattutto come fattore essenziale e principale del merito della condignità. E la natura stessa delle cose è lì a confermare ciò che l’autorità ci ha appena insegnato. Come può crescere nella grazia colui che non esiste ancora, e come può meritare un aumento di gloria colui che non è ancora figlio, quando l’eredità è solo per i figli? – Entriamo ancora più nel merito e consideriamo il rapporto tra le opere e il premio che è loro destinato. Se si tratta di una questione di stretto merito e di giustizia, non deve esistere una giustizia, che ci sia una vera proporzione tra questo e quelli? Se l’omaggio viene da un amico di Dio, da un figlio amato, da un cuore pieno di Spirito Santo, capisco che può essere così degno di stima agli occhi della giustizia divina. Perché Dio vede in essa non tanto il suo valore, che a volte è molto piccolo, ma la persona stessa che la offre. La più semplice carezza di un caro bambino non ha spesso più potere sul cuore di una madre di tutti i segni di deferenza di un estraneo o di un nemico? Da quando la dignità della persona deve essere trascurata quando si tratta di stimare il prezzo degli omaggi resi o ricevuti? – Il più piccolo degli atti d’amore o di obbedienza offerti a Dio dal Verbo fatto uomo aveva un valore incomparabile ed un peso infinito. Questi atti di bontà finita, se considerati in sé, appaiono come informati dall’incommensurabile grandezza della Persona che li ha prodotti. Da qui la dottrina certa che per pagare tutti i debiti del mondo e per meritare tutte le grazie che sono state o saranno mai distribuite in cielo e in terra, bastava che il cuore salisse dal Dio incarnato verso il Padre. Ora, non dimentichiamo che chiunque sia in stato di grazia non è più solo un uomo: è un dio deificato.

4. – Una condizione finale richiesta per il merito in senso stretto, cioè solo per quello di cui ci occupiamo qui, deve essere presa dal lato di Dio. Affinché abbiamo diritto alla ricompensa agli occhi della giustizia eterna, Dio deve essersi impegnato liberamente a darcela. Invano offrirei a questo artista un prezzo equivalente, o addirittura superiore, al valore della sua opera. La giustizia non lo obbligherebbe a consegnarmelo, se non fosse contento di accettare il mio denaro come pagamento per il suo lavoro. « Dio – dice Sant’Agostino – è diventato nostro debitore, non perché abbia ricevuto qualcosa da noi, ma perché ci ha fatto le sue promesse ». (Debitorem ipse fecit se, non accipiendo sed promittendo. Non ei dicitur: redde quod accepisti, sed, redde quod promisisti. S. Agosto. Ep. 194). Non esamineremo se questa promessa non sia sufficientemente contenuta nella capacità soprannaturale che Dio ci ha dato di compiere degli atti, il cui valore è proporzionale o all’aumento della grazia santificante o alla beatitudine finale. Molti l’hanno pensato e io considero la loro opinione molto probabile. In ogni caso, ci basta vedere le promesse divine registrate nelle Scritture e manifestamente promulgate dalla loro infallibile interprete, la santa Chiesa (Conc. Trident. Ss. VI, c. 16). – Non esaminerò nemmeno un’altra questione molto controversa, anche se la divergenza delle soluzioni è forse più nelle parole che nelle cose. I nostri meriti ci conferiscono davanti a Dio uno stretto diritto alla giustizia, tanto da diventare Egli in verità nostro debitore? Sì, dicono gli uni; no, dicono altri in modo più preciso. Qualunque sia la formula, poiché Dio è la regola suprema e la fonte di ogni obbligo e dovere, non può essere vincolato, come lo siamo noi. Il suo obbligo nei suoi confronti, non è altro che la necessità di non abdicare a se stesso; e questa stessa eminenza dell’obbligo divino a favore della creatura, lungi dal diminuire la certezza delle nostre speranze, le innalza infinitamente: è infatti manifestamente impossibile che Dio sia contrario a Dio. A chi parla del nostro diritto e del debito di Dio, come se fossero diritti e debiti tra creature, vorrei chiedere che cosa diamo a Dio che non sia innanzitutto un dono della sua liberale munificenza? L’assioma: “Do ut des“, io do a te affinché tu dia a me, quando si tratta di Dio, ha un significato così particolare che non si applica a nessun altro se non a Lui. Se gli diamo le nostre opere buone per riceverne il prezzo di un tesoro che sia esclusivamente nostro, lo otteniamo. Guardate e vedete come, prima di essere nostre, queste opere sono ancora più di Dio, poiché Egli ci ha dato la facoltà di farle, la dignità soprannaturale che le nobilita e l’operazione stessa che le costituisce; da Dio che si è liberamente impegnato a ricompensarle oltre ogni misura. – C’è bisogno di aggiungere che in questo ammirevole commercio, tutto il profitto sia per noi? Dio sarà meno felice, meno ricco, meno perfetto, se gli rifiutate la vostra benedizione, o il vostro amore sarà in grado di aggiungere la minima parte alle sue infinite perfezioni? È partendo da questo pensiero che il Dottore Angelico, seguendo Sant’Agostino, risolve una singolare difficoltà. La ricerca della propria gloria, si diceva, non può essere un peccato, poiché Dio, il modello che dobbiamo imitare come figli diletti (Efesini V, 1), ci ha creati per procurarci la sua. Sì, risponde il grande teologo, Dio cerca la sua propria gloria; ma, oltre al fatto che non si eleverà mai al di sopra di se stesso, per quanto lo si possa lodare, perché è al di sopra di tutte le cose; è a noi che conviene conoscere la sua grandezza e sapere che è al di sopra di tutte le cose. è opportuno conoscere la sua grandezza, e non Lui. E poiché non lo conosceremmo se non lodasse se stesso, è evidente che non cerca la sua gloria per sé, ma per noi. Da qui la conclusione che l’uomo possa anche desiderare la buona fama, ma a beneficio dei fratelli, secondo le parole del Maestro: « Che vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli » (Thom., 2. 2 q.132, a. 1). – Infine, è necessario aggiungere che l’infinita sovranità di Dio ripugna ad ogni dipendenza esterna? Chi è dunque al di sopra di Lui per imporgli leggi o per mantenerlo nella regola della giustizia, Lui che è la stessa regola e la giustizia per essenza? Affrettiamoci a concludere con San Tommaso: « Poiché tutte le nostre azioni hanno merito solo presupponendo l’ordinazione divina, da cui traggono tutto il loro essere e tutto il loro valore, ne consegue che Dio non è semplicemente debitore nei nostri confronti, ma lo è per il suo proprio » (Id. t. 2, q. 114, a. 1 ad 3), sia che ci conceda l’aumento di grazia per le nostre opere di figli, sia che ci prepari quello della gloria.

LA GRAZIA E LA GLORIA (35)

LA GRAZIA E LA GLORIA (33)

  LA GRAZIA E LA GLORIA

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

Opera depositata conformemente alle leggi, nel maggio, 1901

LA GRAZIA E LA GLORIA

O

La filiazione adottiva dei figli di Dio studiata nella sua realtà, nei suoi principi, il suo perfezionamento e il suo finale coronamento.

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

Nuove edizione riveduta e corretta

TOMO SECONDO

PARIS – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR; 10, RUE CASSETTE, 10

LA GRAZIA E LA GLORIA (33)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO PRIMO

Nozioni preliminari. La possibilità della crescita spirituale, sua misura e sua durata.

1. – Crescere è la legge dei figli di Dio, finché non abbiano raggiunto lo stato di uomo perfetto, fino alla misura dell’età della pienezza del Cristo (Ef. IV, 14). Nell’ordine spirituale siamo figli, cioè uomini in formazione nel Cristo. Generati nel Battesimo, dobbiamo continuare a nascere, per così dire, finché Cristo non sia completamente formato nella nostra anima (Galati IV, 19). – Per questo la Chiesa è sempre una Madre per noi: Madre perché ci ha dato la vita della grazia nel Battesimo; Madre anche perché è incaricata da Gesù Cristo, suo Sposo divino, di presiedere alla nostra crescita, di aiutarla e dirigerla. È ciò che avviene, fatta la debita proporzione, della nostra vita soprannaturale come della vita puramente naturale; nell’una come nell’altra i principii che compongono un essere vivente sono infusi fin dall’inizio, ma hanno bisogno di tempo per svilupparsi. Aristotele ha detto una bella parola in qualche luogo. Tra gli esseri ordinati verso la perfezione, alcuni la ottengono senza movimento; altri, mediante un movimento; altri infine, con una successione più o meno lunga di movimenti (Arist., de Cœlo, L. I, c. 2, n. 9; col, S, Thom, 1, 2., q. 5, a. 7). Possedere la perfezione senza movimento è proprio di Dio, poiché Egli è per natura la perfezione sussistente, sovrana, immutabile, infinita. Raggiungere la perfezione in un unico movimento è ciò che si addice agli Spiriti angelici, poiché Dio, loro Creatore e santificatore, ha richiesto solo un atto di amorevole e libera adorazione davanti alla sua suprema Maestà per ammetterli alla beatitudine eterna. E questo ordine della provvidenza si combinava armoniosamente con la loro natura. Perfetti fin dall’inizio nelle loro facoltà naturali, era giusto che potessero pervenire tutto d’un tratto anche al terminale. – Non esaminerò se gli Angeli avrebbero potuto tornare indietro sulla decisione presa, da questo primo uso della loro libertà, gli uni per sottomettersi alla volontà di Dio, gli altri per ribellarsi ai suoi ordini sovrani. È una questione dibattuta nella Scuola e tra i teologi. Se dovessi scegliere tra le opinioni opposte, propenderei, mi sembra, per il sentimento del Dottore Angelico, quando insegna la naturale e necessaria immobilità degli Spiriti nelle loro libere determinazioni. È con questo che attestano la perfezione suprema della loro natura. Comprendendo a colpo d’occhio tutte le ragioni e tutte le conseguenze dei loro atti, in pieno possesso della loro intelligenza e della loro volontà, liberati dal loro essere spirituale da tutte le influenze che impediscono in noi il regolare svolgimento delle nostre deliberazioni, perché dovrebbero tornare sulle decisioni prese? – Qualunque sia il caso di questa impossibilità, sia che la si ritenga assoluta o solo relativa, è certo che la condizione degli Spiriti puri è molto diversa dalla nostra. Ecco perché l’uomo raggiunge la sua suprema perfezione solo attraverso una successione di movimenti, cioè di operazioni. Infatti, ci vogliono anni perché la sua natura raggiunga la piena maturità fisica, intellettuale e morale. L’infermità della nostra ragione è tale che di solito non riesce a fare una scelta adeguata senza una più o meno lunga riflessione: si brancola, si esita, si avanza e si ritorna; perché ci sono delle oscurità, dei lumi e delle attrazioni in direzioni opposte, lotte tra l’elemento inferiore del nostro essere e la parte superiore che dovrebbe avere il controllo; in una parola, perché spesso non abbiamo piena luce e pieno possesso di noi stessi, spesso falliamo. – Io ho già mostrato nel terzo libro di quest’opera (L. III, c. 2) fino a che punto si estenda questa legge di perfezionamento successivo, nell’ordine della natura e in quello della rivelazione. È applicabile anche all’ordine della grazia? Chi può dubitarne, visto che tutto lo afferma e ci obbliga a crederlo? Innanzitutto la Scrittura: « Crescete sempre più nella grazia e nella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo » (II Pt., III, 18). Queste sono le parole che San Pietro lascia ai fedeli come ultimo saluto, alla fine della sua seconda lettera. Nella prima aveva già scritto loro: « Come bambini appena nati, desiderate il latte spirituale e puro, perché vi faccia crescere per la salvezza » (I. S. Piet., II, 2). S. Paolo ci parla spesso di questa crescita: crescita nella scienza di Dio (Col. III, 10), crescita nella carità, crescita fino alla pienezza di Cristo (Efes. IV, 14, 15). Gesù Cristo ha voluto darcene il modello nella sua santa umanità: « E Gesù – leggiamo in San Luca – cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio e agli uomini » (S. Luca II, 52). Non certo che si faccia interiormente in Lui lo stesso progresso che debba essere fatto in noi. Nostro Signore, fin dal primo momento della sua esistenza umana, era pieno di grazia e di verità. Pertanto, dal lato della grazia abituale e della sapienza divina che l’accompagna, non c’è stata alcuna crescita soprannaturale. Ma se i doni infusi non ammettono accrescimento in Lui, gli atti di cui essi sono il principio potrebbero essere di per sé di una perfezione più o meno sublime. Altra fu in Gesù Cristo la saggezza che manifestò nella sua infanzia, altra la saggezza che faceva dire alle folle: « Nessun uomo ha mai parlato come quest’uomo! ». È vero che Gesù ha mostrato obbedienza, pazienza e umiltà a Nazareth, ma quanto più eclatanti sono stati gli atti di queste virtù nel Cenacolo, nel Pretorio e sul Calvario! Così il sole, pur essendo sempre la stessa fonte di calore e di luce, non emette i suoi raggi e il suo calore allo stesso modo all’alba e a mezzodì. Una parola che Gesù disse una volta ai suoi discepoli ci farà capire meglio cosa sia questa crescita per i figli di adozione. « Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli » (Mt. V. 44-45). Erano essi già figli del Padre; e con l’amore per i loro nemici occorreva che lo diventassero. Cosa significa questo, se non che un figlio di Dio può sempre diventarlo ancor di più, e man mano che compie opere più degne del Padre, diventare più simile alla bontà divina? La Chiesa, impregnata di questi insegnamenti divini, non ha mai smesso di chiedere la crescita spirituale a cui sono chiamati i suoi figli. « O Dio eterno e onnipotente – dice in una delle sue preghiere – donaci un aumento della fede, della speranza e della carità » (Or. per la 13ª Domenica dopo Pentecoste).

2. – Vedremo presto in dettaglio come avviene la nostra crescita e dimostreremo che non possa essere negata senza una manifesta eresia. Ma la ragione stessa, illuminata dalla fede, ci mostra, una volta supposta l’ordine della grazia per gli uomini, non solo che nulla si opponga a questa crescita spirituale, ma anche che essa possa andare indefinitamente oltre ogni limite determinato. Infatti, se ci fosse un’impossibilità di crescita, o almeno un limite alla crescita possibile, dovremmo cercarlo o nella natura stessa della grazia, o nell’infermità del soggetto che potrebbe riceverla solo secondo una certa misura, o infine nella causa stessa della grazia, cioè in Dio, che non potrebbe o non vorrebbe darla oltre una quantità fissata dalla natura delle cose e da Lui stesso. Ora, nulla di tutto ciò ostacola l’aumento indefinito della grazia santificante e, di conseguenza, la dimora sempre più intima di Dio nelle anime, l’unione sempre più stretta del Padre con i suoi figli adottivi (cfr. S. Thom., 2. 2, q. 24, a. 7). Non è la natura della grazia a impedire questo sviluppo. Che cos’è, infatti, la grazia? Una partecipazione alla natura divina, l’immagine e la somiglianza di Dio nell’anima santificata. Aggiungete grado a grado, perfezioni a perfezioni; forgiate una somiglianza finita, completa quanto volete, l’immagine di Dio, cioè la grazia, forma e principio di questa immagine, sarà sempre infinitamente distante dall’Archetipo sovrano, e nulla impedirà quindi di supporne indefinitamente un’altra più perfetta. Un’unica immagine di suprema bellezza esclude ogni idea di incremento e ogni perfettibilità. È l’immagine adeguata del Padre, il Figlio unigenito, il carattere infinito della sostanza infinita. Ora, poiché la perfezione creata potrebbe avvicinarsi eternamente ad essa senza mai riuscire ad eguagliarla, ne consegue che la perfettibilità della nostra grazia è di per sé indefinita. Non cercate quindi il limite preciso in cui la perfezione, in virtù della natura stessa delle cose, dovrà un giorno fermarsi: questo limite non esiste. Dio stesso, che conosce chiaramente tutti i possibili gradi di accrescimento per le grazie, non può dire quale sia il punto supremo oltre il quale la grazia creata non possa più salire, perché Dio non conosce il chimerico e l’impossibile. Così, anche nell’ordine della natura, non ci sono limiti alla perfezione delle specie che l’onnipotenza può trarre dal nulla. Nessun essere creato, per quanto grande sia la sua intelligenza e di qualunque splendore possa brillare nel firmamento degli spiriti, non può, se Dio vuole, non vedere al di sopra di sé altri esseri creati più belli nella loro natura e più perfetti nelle loro facoltà, perché rimarrebbero sempre infinitamente al di sotto della perfezione del modello. Se l’impossibilità di crescere non ha fondamento nella natura della grazia, non lo ha forse nella condizione stessa del soggetto che la riceve? La risposta è negativa. In altre parole, bisogna notare che ci sono due stati ben distinti per il figlio di Dio: lo stato di via e quello di fine, status viæ e status termini. Questi sono coloro che, avendo raggiunto la visione di Dio, sono entrati nel pieno possesso del loro fine ultimo e nel godimento del Bene sovrano. È qui che li ha condotti il desiderio della felicità, motivo e ragione di tutti i nostri passi in questa vita mortale; è qui che, soprattutto, intendeva condurli quella provvidenza ugualmente potente e soave con cui Dio si compiace di dirigere e muovere i suoi figli adottivi. – È evidente che per coloro che hanno raggiunto questo stato beato non sia possibile un’ulteriore crescita, poiché la loro grazia è consumata nella gloria. So bene cosa si potrebbe obiettare. Per quanto perfetta possa essere questa grazia, essa non è infinita; la stessa disuguaglianza che regna tra i beati ne è una palese dimostrazione. Sì, certo, se guardiamo questa grazia in sé, materialmente, come dicono i teologi, possiamo, anzi dobbiamo considerarla capace di una crescita illimitata. Ma per coloro che la considerano come una grazia formale del termine, come grazia consumata nella visione, essa non può ricevere alcun nuovo grado di perfezione. San Tommaso (S, Thom. 1 p. , q. 62, a. 9) ne dà una ragione molto convincente, che riassumo in poche parole. Dio, che muove sovranamente l’uomo verso la beatitudine, deve necessariamente aver fissato il termine a cui piace alla sua provvidenza condurlo, come al suo fine ultimo: poiché è della saggezza di un motore intelligente e libero il non agire su un mobile per muoverlo all’infinito, ma per farlo arrivare ad una meta. Ora – aggiunge il nostro grande dottore – vedere Dio, godere di Dio, non è questo un termine definito, poiché questo godimento e questa visione comprendono gradi senza numero. Quindi, per concludere, l’intenzione di Dio non è solo che la creatura raggiunga la beatitudine, ma un determinato grado di questa beatitudine, come fine ultimo. Ed è per questo che lo stato del termine è incompatibile con qualsiasi aumento della grazia santificante: perché se la gloria è nel grado voluto da Dio, la grazia proporzionata alla gloria è anche per ciascuno nella misura che Egli ha stabilito. Se volessimo qui usare termini scolastici, diremmo che, una volta raggiunto questo termine, la grazia e la gloria potrebbero, per lo meno, ancora aumentare secondo la potenza assoluta, de potentia absoluta; ma che questo aumento sia impossibile secondo la potenza ordinata, de potentia ordinata: perché ciò è possibile solo da quest’ultima potenza che, infatti, rientra nell’ordine della sapienza e della volontà di Dio (S. Thom. III, d. 1, q. 2, ad 3; col. 1 p., q. 25, a. 5, ad 1; Alex. Halens, 1 p., q. 20, m. 5). – Ma finché siamo lungo la via, non c’è nulla da parte del soggetto che rappresenti un ostacolo invincibile al perfezionamento della grazia. Non ditemi che la capacità della mia natura sia finita! Questo dimostra, è vero, che una grazia infinita ripugna alla mia essenza, poiché non posso diventare Dio; ma il progresso nella grazia non toglie l’infinità di questa stessa grazia. Se la natura può ricevere la grazia in sé, può più propriamente riceverne nuovi gradi. Perché i favori che ha già ricevuto, lungi dall’ostacolare o restringere la capacità di ricezione, la dilatano ulteriormente e la aprono a nuove e più abbondanti effusioni. Di due uomini, uno di intelligenza incolta, l’altro di mente già molto coltivata, sarebbe il primo a sembrarvi più capace di fare ulteriori progressi nelle scienze: come se le conoscenze acquisite fossero un ostacolo e non un aiuto? Quindi, più si ama Dio, più si partecipa alle sue grazie, più si è in grado di ricevere gli effetti della bontà divina. Grazia e carità sono legate: l’aumento dell’una è la perfezione dell’altra. Non sappiamo che amando acquistiamo nuova forza per amare? Il cuore che ama si anima e si entusiasma e lo Spirito Santo, che lo possiede, lo ispira con nuova forza ad amare sempre di più. Dare dei limiti al proprio amore significa ignorare la natura e la legge dell’amore, perché più si ama e più si vuole amare. – Chi ha amato come San Paolo, che sfidava il cielo e la terra dal separarlo dall’amore di Cristo Gesù? S. Paolo che si reputava egli stesso nel numero classificato dei perfetti (Fil. III, 15). E questo grande Apostolo non si crede ancora giunto al termine del punto ove vuole andare. « Mi resta – dice – una cosa da fare: dimenticando ciò che è dietro di me, rivolgermi a ciò che è davanti a me ». (Ibid., 13). E perché questa corsa ed i tanti sforzi a cui invita i suoi fratelli? È perché la meta a cui tende è sempre infinitamente lontana da lui, poiché la vocazione divina ci spinge all’imitazione di Gesù Cristo (Ibid. 17). Così, la grazia chiama la grazia. A Dio non piace che l’anima umana voglia che l’anima umana sia come un piccolo vaso in cui si versa un liquido. Se volete un paragone materiale, guardate piuttosto il mare dove scorrono i fiumi e che non deborda mai. (Eccl. I, 7). – Per trovare qualche ostacolo a questa perfezione indefinita della grazia, dovrà risalirsi alla causa da cui essa deriva? Ma questa causa, nell’ordine fisico, è Dio, la cui potenza non è fermata da alcun limite. Ma questa causa, nell’ordine morale, sono i meriti di Gesù Cristo Nostro Signore; meriti di valore infinito, come la dignità della Persona stessa; capaci, quindi, di ripagare con sovrabbondanza tutti i doni della grazia, scorressero anche a torrenti, senza misura e senza tregua, dal cuore di Dio sulle anime. – Ma, si dirà, se questo è il caso della crescita spirituale, chi può impedirci di ammettere che una creatura pura, attraverso un meraviglioso progresso di santità, possa arrivare alla pienezza di grazia che ammiriamo in Nostro Signore? Nulla, se non la sovreminenza della grazia del Salvatore Gesù. Questa grazia, infatti, considerata in tutto ciò che comporta, è di ordine superiore alla nostra; essa è alla grazia di una creatura pura, nel rapporto di una causa universale con una causa particolare, poiché è dalla sua pienezza che tutti abbiamo ricevuto. Mai la luce di un focolare, di qualsiasi materia comunque attivata, ha eguagliato lo splendore del sole (S. Thom., 3 p., q. 7, a, 11 in corp. e ad 3,1). Non sarebbe né meno temerario, né meno insensato per una semplice creatura aspirare alla santità della Vergine che l’Angelo ha salutato piena di grazia. La dignità di Madre di Dio esigeva da Maria, fin dal primo momento della sua esistenza, una pienezza inferiore, senza dubbio, a quella del suo Figlio, Dio fatto uomo, ma incomparabilmente superiore alla grazia conferita dal Battesimo ai figli adottivi. E poiché la crescita nella Vergine divina ha risposto costantemente e perfettamente a questa pienezza iniziale, chi non vede che la distanza che separa la sua grazia dalla nostra, lungi dal diminuire col tempo, cresceva al contrario come all’infinito? Per questo la Chiesa ci insegna su Maria, osservata ogni proporzione, ciò che crediamo su suo Figlio. La sua grazia è come una sorgente molto abbondante da cui sgorga la nostra stessa sorgente in relazione a noi, anche se è solo un ruscello alimentato dalla grazia di Gesù Cristo, nostro e suo santificatore.

3. – Ho detto che l’aumento della grazia e delle virtù, la crescita spirituale quindi, appartiene allo stato della Via. Ma qual è il confine estremo per noi di questo stato della via? La morte. Non esiste uno iato tra il tempo e l’eternità, tra la durata della crescita e la perfetta maturità che respinge il cambiamento. Finché l’anima non è separata dal corpo, siamo lontani dal Signore, pellegrini in cammino verso la dimora del Padre nei cieli. È per questo che i Santi desiderano ardentemente lasciare questo corpo per arrivare al termine e godere della presenza del Signore (II Cor. V, 6-8). Pertanto, lo stato di fine, quando cesserà per noi la crescita nella grazia, ha come primo momento l’ultimo della nostra vita mortale. Che i Santi, per un favore infinitamente raro, abbiano intravisto il volto di Dio prima di morire, come di sfuggita, non lo affermo né lo nego; in ogni caso, non si trattava della visione permanente riservata alla fine. La tenda che ci vela la gloria di Dio può essere stata aperta per un momento, ma il sipario non era stato ancora alzato: è necessario per questo la mano della morte. – Potrebbe sembrare che quelle anime che lasciano la vita presente, sante davanti a Dio, ma incompletamente purificate, e di conseguenza allontanate per un tempo più o meno lungo dalla beata contemplazione di Dio, possano ancora crescere nella grazia, poiché non sono giunte alla fine. No, non è possibile alcuna crescita per loro, perché non sono più sulla strada. Se la morte non li porta in possesso di Dio, è in un certo senso per accidente. D’ora in poi sono immobilizzati nel bene e il loro diritto all’eredità è inamovibile. La sala banchetti è lì ad attenderli. Per entrare nella porta è necessaria una purificazione finale, ma nulla può impedirne irrevocabilmente l’ingresso. Sono figli arrivati alla casa del Padre, ai quali il Padre ordina di togliere le macchie della strada, prima di ammetterli al bacio del suo amore, e di questo bacio hanno l’assoluta certezza che ne godranno per l’eternità. Di principio queste anime sono al termine (« Dicendum quod, quamvis animæ (purgantes) post mortem non sint simpliciter in statu viæ, tamen quantum ad aliquid adhuc sunt in via, in quantum scilicet earum progressus adhuc retardatur ab ultima retributioné: et ideo simpliciter earum via est circumsepta, ut non possint ulterius per aliqua opera transmutari secundum statum felicitatis et miseriæ: sed quantum ad hoc non est circumsepta quin, quantum ad hoc quod detinentur ab ultima retributione, possint ab aliis juvari, quia secundum hoc adhuc sunt in via ». S. Thom., Supplem. Q. 71, a 2 ad 3; col.2-2, q. 13, a. 4 ad 2 ; q. 182, a. 2; ad 2, 3p., q. 19, a. 3, ad 1).

LO SCUDO DELLA FEDE (223)

LO SCUDO DELLA FEDE (223)

MEDITAZIONI AI POPOLI (IX)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE XI

Il Rosario meditato e recitato col popolo.

PARTE SECONDA

MANIERA DI RECITARE IL ROSARIO.

Siamo qui ora, o fratelli, come in famiglia raccolti nella santa unione di carità a recitare il Rosario. Riducetevi a mente che, come abbiamo detto, recitare il Rosario vuol dire mettersi col cuore in Gesù Cristo qui con noi in terra nel santissimo Sacramento, e contemplarlo in mezzo di noi, siccome è realmente presente, siccome viveva con Maria santissima qui in terra; e con Gesù alzare le nostre preghiere a Dio Padre in cielo; poi rivolgerci a Maria e dire tutto il nostro cuore alla nostra Madre santissima. Raccogliamoci sotto il manto a Maria intorno a Gesù nel Sacramento; segniamo colla sua Croce le nostre povere persone; e copertici colle sue piaghe col farci il segno della santa Croce, diciamo: Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Di sotto le piaghe di Gesù gridiamo: o Padre, non guardate in faccia a noi che siamo poveri peccatori, ma guardate in faccia al vostro divin Figliuolo, che col Cuore squarciato, nel Sacramento dice per noi tutti i nostri bisogni: mandateci il vostro Santo Spirito, mentre noi devotamente contempleremo i:

MISTERI GAUDIOSI

PRIMO MISTERO. – L’Annunciazione

Nel primo mistero gaudioso si contempla come la santissima Vergine fu annunziata dall’Arcangelo Gabriele che doveva diventare Madre del Figlio di Dio.

CONSIDERAZIONE.

Raccogliamoci in Gesù, e pensiamo a quell’ora, in cui il Figliuol di Dio santissimo volle nascere Uomo per salvarci… O Beati, dividete con noi le nostre consolazioni! Oh quanto è buono Iddio!… Il cielo si abbassa alla terra. Dio Padre manda il suo Figlio, che da quell’istante resta poi sempre qui con noi: Egli è il nostro Salvatore Gesù; e noi gridiamo con Lui al Padre in cielo:

Pater noster, etc. Padre nostro che siete nei cieli, ecc. —

Gran Dio dei cieli, avete un bello essere grande: ma ci siete Padre. Voi vi siete lasciato conoscere per tale, quando mandaste il vostro Figlio a farsi uomo con noi, e a farci diventare vostri figli. Noi vi domandiamo la vostra gloria in terra da buoni figli: voi regnate con noi come Padre nella vostra famiglia; pigliateci anzi come una madre piglia il suo bambino in braccio, e fateci fare sempre la vostra volontà. (St reciti la prima parte del Pater noster). (L’Oratore qui incominci pel Pater noster e poche Ave Maria ad avviare il popolo a rispondere: presto poi il popolo risponde da sé). Dateci oggi il nostro pane. Tutte volte che diciamo: panem nostrum quotidianum: dateci oggi il nostro pane quotidiano, procuriamo di fare la comunione spirituale; indi diciamo: dateci Gesù in cuore, e per Gesù dateci tutti i beni: perdonateci e fateci amare tutti come fratelli. Deh non lasciateci perdere. (Si reciti la seconda parte del Pater noster).

1. Ave Maria. Quando il Signore volle nascesse bambino in terra il suo Figliuolo, a fine di preparargli una ben degna Madre, vi fece nascere, o Maria, senza peccato, come un fibre di paradiso in terra per posarvi sopra il suo santo Spirito: Noi vi contempliamo tra le braccia di s. Gioachino e di sant’Anna genitori vostri che vi coltivano tutta per Dio. Deh, Santa Bambina! voi conservate buone le nostre famiglie, e fate che i nostri figli, senza perdere un minuzzolo di tempo, siano tutti di Dio. Dio vi salvi, o Maria. (Si reciti l’Ave Maria).

2. La colomba al tempo del diluvio universale, uscita fuori dell’arca per volare sulla terra, voleva fermarsi qui; ma eran cadaveri in corruzione: voleva fermarsi là; ma erano ributti dall’acque in marciume. Dappertutto non trovava che fango ed immondezze. Colomba immacolata, non sapendo dove posare il piede color di rosa, senza lordarlo, batteva l’ale irrequieta; volava, volava e da ultimo faceva ritorno all’arca, piangendo e pigolando. Noé apri la finestra e l’accolse in seno. Anche voi, Bambina immacolata Maria, nata su questa povera terra, senza perdere un minuzzol di tempo di così cara vita e preziosa, vi raccoglieste in Dio nel tempio. – Fiore di paradiso spuntato in terra, voi colse lo Spirito Santo e vi pose in serbo in seno a Dio. Deh, Maria, pigliate voi i nostri poveri cuori che hanno bisogno di ritornare a Dio. Ave Maria.

3. Erano ben tante le figliuole a quei di’ e chi sa quanto ricche d’ogni fortuna, in isplendore di bellezza, principesse e regine; ma lo Spirito del Signore va a discendere sopra questa verginella  ignota al mondo, raccolta ed umiliata innanzi a Dio. O Maria, raccoglieteci a vivere in umiltà nascosti al mondo e santi innanzi a Dio. Ave Maria.

4. O Maria piena di grazie, perché foste la più pura e la più umile, il Figlio di Dio volle nascere da Voi. O benedetta fra tutte le donne, conservateci puri ed umili innanzi a Dio, affinché possa il vostro Figlio venirci in cuore in Comunione. Ave Maria.

5. L’Angelo vi annunzia che il Signore vuol discendere in terra… Fatevi innanzi, o piena di grazie, voi siete la sola degna di festeggiarlo, di amarlo, di portarlo in seno Bambinello. Deh, aiutateci sì che ci prepariamo in tutta la vita ad unirci a Gesù Cristo.

Ave Maria.

6. Quando l’Angelo vi annunciava che Dio vi eleggeva ad essere Madre del Suo Figlio, voi rispondeste: sono l’ancella sua, pronta a fare la sua volontà; volesse pure che io l’accompagnassi fino alla morte. O Maria, conduceteci con confidenza nelle mani di Dio a fare sempre la sua santa volontà, che è per noi il maggior dei beni. Ave Maria.

7. O santissima delle creature! Dio è con Voi; e Voi siete un cuor solo col vostro Figlio. Tocca a Voi fargli sentire cuore a cuore tutti i bisogni e le miserie di noi che siamo pure vostri figli. Ave Maria.

8. Benedetto il Figliuol di Dio e vostro, cui vi adoriamo in seno. Egli pigliò la vita umana per morire per noi, e dalla sua venuta in terra non ci volle abbondonare mai più per tirarci in paradiso. Tocca a Voi, o Madre santa, di aiutarci a trattarlo bene nel Sacramento; ché qui vi avete tutto il vostro interesse di vedere trattar bene Gesù. Ave Maria.

9. Dal vostro Cuore immacolato scende il Sangue nel Salvatore; e quel Sangue Gesù trasfonde col suo Corpo in noi nel Sacramento. O Maria, siamo dunque figli vostri, perché in noi è il Sangue del vostro Figlio; e noi confidiamo tutto in Voi, o Madre. Ave Maria.

10. O Maria, noi vi baciamo e ribaciamo tante volte la mano; e dove siete voi, o Madre, vogliono venire con Gesù i vostri figli. Ave Maria.

Gloria Patri. Gloria a Voi, grande Iddio, che ci siete Padre: gloria a Voi, Figliuolo eterno del divin Padre, che vi siete fatto nostro fratello e salvatore, fatto uomo per morire a nostra salute: gloria a Voi, Spirito Santo, Amor di Dio, che faceste di Gesù un fratel nostro, con noi carne della nostra carne per tirarci con Lui beati in paradiso. (Si reciti il Gloria Patri).

Requiem æternam. Non dimentichiamo mai le Anime sante del purgatorio nella recita del Rosario. O Gesù, o Maria, le anime del purgatorio sono figliuole anch’esse del vostro Sangue. Deh, fate parte ad esse della redenzione abbondante che comincia in questo mistero. (Si reciti il Requiem æternam).

SECONDO MISTERO. — La Visitazione.

Nel secondo mistero gaudioso si contempla come la santissima Vergine Maria, avendo inteso che santa Elisabetta doveva diventare madre di san Giovanni Battista, si parti subito di Nazarette, e andata a visitarla nella montagna della Giudea, stette con essa tre mesi.

CONSIDERAZIONE:

Facciamoci dentro nella celletta del santo amor di Dio, vogliamo dire nel Tabernacolo, dove dimora Gesù, come già nella casa di santa Elisabetta, nella quale entrando Maria, entrava pure Gesù nel seno di Lei racchiuso. Allora Giovanni in grembo ad Elisabetta

esultava santificato in quell’istante. Allora su quei benedetti piovevano celesti consolazioni, perché erano del cuore uniti con Gesù in seno a Maria. Anche noi siamo fortunati – ogni casa di fedeli è come una chiesuola; ché Gesù promise di abitare con noi, se siamo adunati nel suo nome in carità; e con Gesù qui noi abbiamo un Padre in cielo. Ora via a Lui manifestiamo tutti i nostri bisogni col cuore del Figlio suo, che palpita nei nostri cuori.

Pater noster, etc. Gran Dio che siete nei cieli, Voi siete il Padre nostro, e noi vogliamo la gloria del Padre nostro. Deh regnate in mezzo di noi, e di tutti gli uomini fate una sola vostra famiglia nella Chiesa cattolica. Deh pigliateci tra le braccia come figli vostri. (Sé reciti la prima parte del Pater noster). Dateci oggi il nostro pane cotidiano. (Facciamo qui la Comuniune spirituale tutte le volte che diciamo il Panem nostrum). O Padre nostro, Gesù è  qui con noi; fermatelo nel nostro cuore; e per Gesù dateci tutti i beni. Dateci la carità verso tutti i nostri fratelli: liberate dai pericoli i vostri figli; e guardateci dal mal più grande, che è quello d’uscire dalle braccia del vostro Amore. (Si reciti la seconda parte).

1. Ave Maria. Ci par di vedervi, o Verginella divina, uscir della vostra casetta, e con tanto incomodo attraversare la montagna a fine di portare le sante consolazioni della vostra carità agli amati vostri congiunti; e noi tutti amanti delle nostre comodità non possiam soffrire niente per gli altri. Maria, tirateci appresso di Voi a consolare i poveri, gli ammalati, ed a volerci un po’ di bene nelle nostre famiglie. Dio vi salvi, o Maria.

2. Ah sì, vogliamo venire anche noi; vi piangiamo appresso, 0 Maria; deh! pigliateci per vostri servi. Noi vogliamo fare sotto i vostri comandi tutto il bene che possiamo, e farlo tutto passare per vostra mano a gloria di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

3. Elisabetta nel vedervi entrare in casa esclama: Oh! quale grazia per me!….. E chi mi vedo? La madre che mi porta il Figliuol di Dio nella mia famiglia!… O Maria, o Maria, date anche a noi di vostra mano il divin Figliuolo in Comunione; ce lo terremo caro nelle nostre case. Dio vi salvi, o Maria.

4. Rapita in estasi Elisabetta non fa altro che esclamare: Benedetta Voi, benedetto il Figlio del vostro seno! O benedetta Maria, voi benedite il buon Signore Gesù, voi amatelo anche per noi; voi dateci mano a trattarlo in terra col vostro amore. Dio vi salvi, o Maria.

5. Cara e santa Famiglia! tutta la sua fortuna era di avere in mezzo a sé Gesù e Maria. O Maria, fate che noi siamo tutti d’accordo in amare e servire Gesù nelle nostre famiglie: Maria, le nostre case le mettiamo sotto la vostra custodia; guardatele come vostre. Dio vi salvi, o Maria.

6. Quando voi, o Maria, quando quei benedetti di quella buona famiglia erano tutti del cuore con Gesù, che importava mai loro della gente del mondo di fuori? O Maria, fateci desiderare di fare i nostri doveri ritirati nelle nostre famiglie; perché, quanto più ci dissipiamo nel mondo, tanto più ci lontaniamo da Dio, e perdiamo del bene delle anime nostre. Dio vi salvi, o Maria.

7. Vi contempliamo, o Maria! Voi fate da umile serva in quella casa, ma tutta gentilezza di carità; e noi pretendiamo di essere trattati con tanti riguardi e trattiamo gli altri senza carità? Maria, aiutateci a risparmiare agli altri i dispiaceri e ad essere buoni con ogni persona. Dio vi salvi, o Maria. Tutta in Gesù assorta Maria esclama: Magnificat anima mea Dominum etc. L’anima mia esalta il Signore, perché guardò l’umiltà della sua ancella: ecco che mi chiameranno beata tutte le generazioni. Oh quanto è consolante per noi vostri figli, dopo mille e mille anni vedervi dai Pontefici e dai Re, come dai popoli e da tutta umanità cristiana salutare beata! Avvenne appunto come avete predetto colla vostra cara parola. e terra Ah! passeranno e cieli, ma starà ferma la parola di Gesù Cristo. E voi teneteci costanti col vostro Gesù; ché saremo beati, se non ci distaccheremo da Lui. Dio vi salvi, o Maria.

9. Benedetto Giuseppe, e voi Santi della beata famiglia benedetti, eravate tutti del cuore con Gesù e Maria. Anche noi, anche noi vogliamo sempre Stare col cuore con Gesù insieme con voi, o Maria, e con voi, o Giuseppe protettore delle nostre famiglie. Dio vi salvi, o Maria.

10. Quei fortunati nella santa famiglia si santificarono intorno a Maria; e Giovanni s’era santificato prima ancora di nascere. Maria, portate nelle nostre case Gesù, sicché ci aiutiamo tutti a farci santi a lui intorno; e guardate la innocenza dei nostri figli. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri etc. Gloria a Voi, grande Iddio della bontà, che vi voleste far conoscere per Padre a noi meschinelli; gloria a Voi, Figliuol di Dio, che vi voleste fare capo della nostra famiglia; gloria a Voi, Santo Spirito di carità; tirate i figli del vostro amore al nostro Padre in paradiso. Requiem aeternam etc. O Maria, sentite, sentite i gemiti delle povere anime del purgatorio. È sono i gemiti dei vostri figli caduti in quei tormenti: ti- rateli su con esso voi al paradiso!

Requien Aeternam etc. O Maria, sentite, sentite, sentite i gemiti delle povere anime del purgatorio. E’ sono i gemiti dei vostri figli caduti in quei tormenti: tirateli su con esso voi al Paradiso!  

TERZO MISTERO. — La Natività di Gesù Cristo.

Nel terzo mistero gaudioso si contempla come, essendo venuto il tempo sospirato della nascita del Redentore, nacque da Maria Vergine il Bambino Gesù Figliuol di Dio nelle vicinanze di Betlemme in sulla mezza notte, e fu collocato fra due animali nel presepio.

CONSIDERAZIONE.

All’altare, all’altare veniamo con tutto il cuor nostro…! è qui sull’altare, proprio come là nel presepio, il Bambino Gesù…;. Ecco il Dio dei cieli ci ha dato per nostro il Figlio suo Unigenito… Angeli e giusti tutti, venite ad adorarlo! Figuriamoci di vedere qui, come in quella cara notte del Natale, in fondo a quella povera grotta nel presepio tra il bue e l’asinello su un po’ di paglia il Bambino Gesù. È una tenerezza il contemplarlo… Maria lo bacia, l’adora, lo mostra a noi; S. Giuseppe piange intenerito; e il Bambino con quella grazia, con quegli occhietti, con quelle braccioline, pare che ci ciegga una carezza per consolarlo. O Maria, ditegli voi, che l’amiamo. Sì, Bambinello divino, per mezzo delle vostre lagrimette, dei vostri vagiti noi vogliamo dire le più care cose al Padre nostro: gli vogliam dire, che gli vogliam bene anche noi, e che vogliam essere con lui in paradiso.

Pater noster etc. O Padre, o Padre, sentite il Bambino che vagisce qui in basso in questa povera terra. Con lui vogliamo benedirvi teneramente: apriteci il cielo; ché con Lui in braccio veniamo nel vostro regno. Siamo fratellini del vostro Bambino Gesù; pigliateci con lui in seno; noi staremo sempre buoni, e faremo il vostro volere. (Si reciti la prima parte del Pater noster). Metteteci nel cuore il Bambino (facciamo la Comunione spirituale): noi ci terremo stretti a lui sempre; e per esso lui concedeteci tutti i beni. Sentite ancora il Bambino che piange e dimanda per noi perdono; anche noi lo consoleremo col dare il perdono a tutti. Padre, tirateci con Gesù fuori dai pericoli, e dai mali presenti levatici su fino al paradiso. (Si reciti la seconda parte del Pater noster).

1. Ave Maria. O buon Dio, nostro Bambino, voi dunque siete qui con noi, come là nel presepio! O Maria, anche noi l’adoriamo coi pastori, l’adoriamo coi Magi. Ricchi e poveri, ignoranti e dotti, Gesù ci vuol al presepio; Egli è il Salvatore di tutti. Voi, Maria, parlate Voi per noi col vostro cuore al nostro al troppo caro Bambino Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

2. Bambino nostro, e nostro Dio, siete così buono con noi… Quanto più vi contempliamo piccino, tanto più ci rapite il cuore! O Madre santa, aitateci, affinché cel teniamo sempre sul cuore, come Voi, il Bambino Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

3. Madre benedetta, avete ben tutto il vostro interesse a preparare di vostra mano il cuor nostro, a fine di riporvi dentro il Bambino Gesù; e noi per riceverlo bene, lo vogliamo ricevere dalle vostre mani. Deh mettetecelo in cuore voi; ma levatevi prima ciò che gli possa mai dispiacere; S. Giuseppe, mostrateci a portarlo, come voi nel vergine petto. Dio vi salvi, o Maria.

4. Adorabile Bambino! Noi vi contempliamo nato lungo una strada, in una greppia, su quella paglia… Padre Santo, al vostro Figlio preparaste tanta povertà; e noi siamo tutta cura affannata a cercare ricchezze qui…? L’intendiamo! Gesù vuol dirci che non è luogo qui da posare domicilio, che siamo in cammino nella vita, e che la patria è il paradiso. O Maria, se ci vediamo così poverino Gesù, non dobbiamo menar lamento alcuno, ma guardare la povertà come la ricchezza del Figliuol di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

5. Noi ci ricordiamo che nel giorno del furor di Dio scorreva il fuoco tra le tende del popolo di Israele, e spalancavasi una voragine ad ingoiarli. Mosè allora, a salvare quei miseri, presentava nel turibolo d’oro il fuoco sacro all’Eterno. Ah noi siamo ben più fortunati; e Se meritiamo lo sdegno di Dio, Maria, voi gli presentate sulle ginocchia il vostro Figlio, il quale con quel Cuoricino in fiamme per noi dice tutti i nostri bisogni. Dio vi salvi, o Maria.

6. Questo Bambino è nostro; è nato per noi, non è vero, o Maria? Ebbene, ve l’offriamo, o padre, ma vogliamo che ci salviate le anime nostre. O Maria, col Bambino in braccio, voi potete tutto ottenere. Dio vi salvi, o Maria.

7. Bambino Gesù, vi abbiamo qui nel Sacramento; siamo contenti come i pastori che vi trovarono là nel presepio; ma noi siamo più fortunati; ché vi mettiamo nel nostro cuore per non lasciarvi più mai. Vanità, onori, pazze gioie del mondo, siete troppo meschine cose per rubarci dal cuore il nostro bene amato Gesù. O Maria, teneteci sempre fra le braccia voi, perché non perdiamo siffatto tesoro. Dio vi salvi, o Maria.

8. Bambinello dolcissimo, lasciateci dire piangendo il nostro cuore. I tempi in voi sono come un solo momento. Voi meritavate sempre di essere amato sopra ogni cosa quando eravate in seno a Maria, e vi pigliavano in braccio i pastori. Ora poi come essi, vi abbracciamo del cuore; ma ahi che vediamo qui nelle vostre manine e nei vostri piccoli piedi le piaghe che vi fecero i chiodi, quando voleste morire per noi! Queste membroline portano i segni delle battiture, e in questa cara testina sono ancora i fori delle spine… Oh! oh! Bambino Santissimo, il vostro Cuoricino geme Sangue ancora ancora!….. Oh Padre nostro, sentite il Bambino che ci piange in braccio qui in mezzo alle miserie nostre, ed esauditeci. Maria, mostrateglielo Voi. Dio vi salvi, o Maria.

9. Bambino nostro, ah non piangete: noi staremo sempre sempre con voi. In tutte le tentazioni vi stringeremo al cuore nel Sacramento, e grideremo: Gesù! Grideremo a voi, o Maria, e voi non ci lascerete perdere, non è vero? Dio vi salvi, o Maria.

10. State sicura, o Maria, che lo tratteremo bene qui il nostro Bambino Gesù….. Oh sì, che l’amiamo, e ve lo vogliamo accontentare! Tratteremo bene per lui tutti, anche i più peccatori, a cui stende Egli le sue manine; e Voi ci aiuterete, o Madre nostra. Dio vi salvi, o Maria. Gloria Patri etc. Cantiamo cogli Angeli gloria a Dio nel più alto dei cieli, perché egli mostrò di esserci Padre quando ci diede il Bambino suo Figliuolo; gloria al Figlio, che nato Bambino resta qui nel Sacramento, e non ci abbandona più; gloria allo Spirito Santo, Amore del Padre e del Figliuolo, procedente dal Padre e dal Figlio ora Bambino nostro, e col Padre e col Figlio Salvator nostro intento a volerci beati in paradiso. Gloria Patri etc.

Requiem æternam. Bambino Gesù, tra le nostre braccia guardate le anime del purgatorio; guardate come abbruciano le poverine in quelle fiamme! Noi vi piangiamo sul cuore per loro. Requiem æternam etc.

QUARTO MISTERO. — La presentazione al tempio.

Nel quarto mistero gaudioso si contempla come la Santissima Vergine nel giorno della Purificazione presentò Gesù Bambino, quaranta giorni dopo la sua nascita, nel Tempio, dove l’accolse fra le sue braccia il santo vecchio Simeone.

CONSIDERAZIONE.

Bambino Gesù, noi vi contempliamo quale eravate in braccio alla Madre vostra Santissima quando vi offeriva nel tempio, e con voi sì offeriva Ella stessa mettendovi sul suo proprio cuore in mano del Padre vostro, siccome cosa da farne ogni volontà. – Da questa santa offerta ne venne la salvezza nostra. O Gesù, o Maria, metteteci sul santo altare con esso voi; ché vogliamo essere tutti di Dio per servirlo in tutta la vita. Noi grideremo con voi, nostro Salvatore benedetto, e colla vostra parola invocheremo il Padre nostro nei cieli.

Pater noster. O Padre Santo che siete nei cieli, abbassate lo sguardo sopra questa povera terra, dove noi siamo con Gesù a darvi gloria. Fate di noi tutti il regno dei vostri fedeli; pigliateci con Gesù vostro a lui uniti a fare la vostra volontà. (Si reciti la prima parte del Pater noster). Dateci oggi il nostro pane (si faccia la comunione spirituale). Buon Gesù, state sempre nel nostro povero cuore. Per vostro amore noi ci offriamo a far del bene ai prossimi nostri; salvateci dai pericoli del mondo, e dall’altare con voi tirateci a beatitudine in paradiso.

1. Ave Maria. Madre santissima, con qual cuore offeriste il vostro Bambino divino, e con Lui offeriste tutta Voi stessa alla volontà di Dio! Deh non lasciateci andare perduti nel servire questo miserabile mondo; e metteteci nelle mani di Dio a fare la sua volontà in tutta la vita. Dio vi salvi, o Maria.

2. O Maria, che diceva mai il Cuor vostro, quando sentiva il palpito del Cuore vicino del Bambino Gesù? noi vorremmo palpitare del palpito del vostro amore, quando ce lo stringiamo dentro del cuore nella sacra Comunione. Dio vi salvi, o Maria.

3. O Maria, Dio solo sa quanto vi costasse l’offerire il Figliuol di Dio e delle vostre viscere a morire per noi, pronta ad accompagnarlo fino alla morte ed a morire con Lui. O Madre, noi siamo così poveri di cuore: aiutateci ad offerirei pel prossimo, a farci pronti a patire per Dio e per salvare le anime. Dio vi salvi, o Maria.

4. Ecché? Voi, Maria, col vostro vergine sposo Giuseppe confusa colle povere donne quasi foste peccatrice come esse per purificarvi; e noi pretendiamo di essere distinti cogli onori dagli altri, come se fossimo qualche cosa di meglio? Aiutateci per la vostra umiltà a mortificare l’amor proprio che sentiamo dentro così vivo. Dio vi salvi, o Maria.

5. Voi vi deponeste sull’altare col vostro Gesù consacrandovi tutta in servizio della gloria di Dio. Anche noi siamo tutti di Dio; e se volessimo operare per nostra soddisfazione, sarebbe lo stesso che se rubassimo la gloria a Dio per darla a un idolo di fango quale siamo noi. Maria, non lasciateci portar via il cuore lontano da Dio. Dio vi salvi, o Maria.

6. Voi generosa vi offeriste col vostro Gesù; e da quella offerta ne venne la salute del mondo. Maria, mettete anche noi nelle mani di Dio; pigliate nel vostro seno i nostri poveri figli, che Egli ci diede; affinché si offrano a Dio, e lo servano in quello stato a cui li ha destinati. Dio vi salvi, o Maria.

7. Questo Bambino, esclamò il santo vecchio Simeone inspirato, quando vel vide tra le vostre braccia, sarà la luce del mondo, il Salvatore, delle genti. Una tal profezia si verifica tutti i dì. E Gesù solo nella Chiesa Cattolica che salva e fa il bene del mondo; e questi pretendenti, i quali vogliono fare il bene dell’umanità senza Gesù tirandola a voltare le spalle alla Chiesa, riducono i popoli alla disperazione. O Maria, teneteci Voi tra le braccia della Chiesa insieme col Papa a salvarci con Gesù Cristo. Dio vi salvi, o Maria.

8. Quando Simeone vi predisse la passione e la morte del vostro Figlio, la spada del dolore vi trafisse nel Cuore; e voi vi nascondeste nella vostra casetta, e vi preparaste stringendo sul cuore il Bambino ad accompagnarlo fino sotto la croce. Maria addolorata, anche noi, anche noi quando nei travagli e nelle ansietà della povera nostra vita non ne potremo più, aiutateci a fare la Comunione spirituale e a metterci dentro del Cuore di Gesù a pigliar conforto. Dio vi salvi, o Maria.

9. Madre addolorata, quante volte stringendovi sul Cuore il Bambino Gesù dicevate colle lagrime: Bimbo mio, questa cara testolina ve la incoroneranno di spine!… e queste manine e questi piccoli piedi sono da inchiodare là sulla trave… Cara la Vita mia, voi crescete per morire sulla croce… Oh, ma sapete? o mio Gesù, la vostra Madre verrà anch’essa lassù al Calvario con voi… Sì si, mi farò inchiodare per la prima… sì, vi riscalderò col mio cuore… Oh mi morirete sul petto! Deh, Madre nostra Maria, vogliamo anche noi baciarvi il santo Bambino che mori per noi! deh, non lasciateci staccare da Gesù e da Voi; grideremo sempre: Gesù: e Maria, salvate l’anima mia. Dio vi salvi, o Maria.

10. Maria Santissima, Voi col vostro sposo Giuseppe eravate cogli occhi e col cuore sempre sopra Gesù nel fare le cose vostre. Anche noi, come Voi, vogliamo con Gesù dividerci nostri dolori e le nostre consolazioni; tutto vogliamo fare insieme con Gesù divino compagno del nostro pellegrinaggio. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Gloria al Padre che ci ha dato il Figlio suo per Salvatore; gloria al Figlio che tra le braccia di Maria si offerì a morire per noi; gloria allo Spirito Santo, che cooperò al sacrificio dell’amor divino. Gloria Patri etc.

Requiem æternam. Bambino Gesù, Voi v’offriste anche per le anime del purgatorio: per la memoria di quell’offerta coglietevi in seno le poverine che tanto soffrono. Requiem æternam, etc.

QUINTO MISTERO. — Il ritrovamento nel tempio.

Nel quinto mistero si contempla come Maria Santissima, avendo smarrito il suo divin Figliuolo e cercatolo per tre di, lo ritrovò in fine nel Tempio che disputava coi dottori, essendo d’anni dodici.

CONSIDERAZIONE.

Noi crediamo perduta la vita nascosta; ma quanto sono diversi dai nostri i giudizi di Dio! Della santissima vita sua così preziosa, la quale fu di trentatré anni, Gesù Cristo trenta volle passarli nella vita nascosta a lavorare in quella povera casetta; e questo fece a fine di dare l’esempio alla più gran parte degli uomini che si hanno da salvare lavorando ignoti al mondo per la gloria di Dio. Ci dimostra dunque Gesù, che la vita comune tutta pesa a gloria del Signore negli umili doveri del nostro stato gli è tanto cara. Signore Gesù, noi ci uniamo a Voi nel Sacramento; e non vogliamo che piacere con Voi al Padre vostro. Daremo la mano a Maria in compagnia di S. Giuseppe; e col cuore tutto in Voi faremo di adempiere ai nostri doveri, sia pur umile e povero il nostro stato. Siamo pur fortunati che abbiamo Voi in compagnia, e in tutti i momenti, in tutte le più minute azioni possiamo farci tanti meriti pel paradiso. Ah col cuore in Voi vogliamo esclamare: Pater noster.

O Padre nostro, di cielo. ci guardate con amore nelle nostre case; ché noi vogliamo fare tutto, tutto per compiacervi in tutta la nostra vita. Fate di noi tutti il vostro regno in terra, e che vi serviamo qui, come gli angioli in cielo. O Padre, (facciamo la Comunione spirituale) dateci ogni bene con Gesù nel cui seno ci mettiamo: dateci la carità tra noi da perdonarci l’un l’altro, come Voi perdonate a noi poverini. Liberateci dalle tentazioni, liberateci da ogni male in cui l’amor proprio ci può precipitare.

1. Ave Maria. O Maria, quanto spavento quando smarriste il vostro Figlio!… Oh ma, beata Voi, che non l’avete perduto per vostra colpa! Miseri a noi che per ì nostri peccati abbiam perduto Dio e il paradiso! Vi corriamo appresso piangendo, o Maria, per ritrovarlo col vostro aiuto. Dio vi salvi, o Maria.

2. Vi contemplo, o Maria, col vostro Giuseppe in quelle ansie affannose cercare il giovinetto Gesù per tre giorni. O Maria, per quella vostra ansietà, fate che, se mai in questa povera vita meritassi di essere abbandonato da Dio, nelle mie desolazioni, nell’abbandono del cuore mi getti in braccio di Voi, e non mi distacchi più da Voi, finché non me lo abbiate fatto trovare tutto il mio Bene, il mio Dio. Maria, Giuseppe, mi aiuterete a cercarlo, non è vero? Dio vi salvi, o Maria.

3. Per tanta cura in cercarlo l’avete in fine trovato nel tempio. Dateci mano, o Maria, lo cercheremo anche noi nelle chiese, nelle preghiere; lo chiameremo nelle meditazioni… Oh sì, sì, noi vi troveremo, o Gesù, nel Sacramento; Voi ascolterete vostra Mamma, per mano della quale vi cerchiamo. Dio vi salvi, o Maria.

4. Trovatolo nel tempio, Voi vi fermaste ad ascoltare la sua parola e la conservaste nel vostro Cuore. O Maria, fate che ci raccogliamo in ispirito con Dio, e che conserviamo le sue parole nel nostro cuore. Dio vi salvi, o Maria.

5. Maria, quando Gesù vi disse che era andato nel tempio per obbedire al suo Padre celeste, Voi col vostro sposo Giuseppe adoraste in silenzio le disposizioni di Dio. O Maria, aiutateci a rassegnarci al volere divino, a staccarci fin dai parenti più cari, per fare ciò che Dio vorrà disporre di noi. Dio vi salvi, o Maria.

6. D’allora in pei non voleste mai più distaccarvi da Gesù: con Lui divideste le preghiere, le fatiche, le persecuzioni, e persino gli orrori della morte sua. O Maria, anche noi abbiamo qui nascosto il nostro Gesù, caro compagno del pellegrinaggio di questa nostra povera vita. Deh accompagnateci colla vostra assistenza; lavoreremo con Lui, con Lui porteremo la nostra croce col cuore in Lui nel Sacramento sino alla morte. Dio vi salvi, o Maria.

7. Contempliamo nella santa casa il Bambinello Gesù girare intorno a Maria. Essa non ha ancor parlato che il Bambinello obbedisce, e le presta con grazia di paradiso i suoi piccoli servigi, e lavora con S. Giuseppe. Eh! ci par di vedere Gesù garzoncino tirare la sega, far scorrere la pialla, portar sulle spalline i toppetti di legno a fine di risparmiare fatiche al vecchiotto; e passare trenta anni di vita così, quanti ne aveva voluto il Padre celeste. Oh la nostra fortuna grande! Noi lo possiamo imitare tutti contenti di servire il Signore nello stato in cui ci vuole, tutti occupati in far bene i doveri nostri, e tanto più simili a Gesù, quanto più siam poverini e disprezzati. Dio vi salvi, o Maria.

8. Maria e Giuseppe furono cogli occhi, coi pensieri e col cuore tutto in Gesù; né un minuzzolo solo di quelle vite così preziose andò perduto in questo nulla delle cose del mondo… Deh! che noi non perdiamo più il tempo che ci è dato a servir Dio e a salvar l’anima! Se nella vita ordinaria faremo tutte le più minute cose così, lavorando sempre con Gesù, come Voi, o Maria, in tutti i momenti della nostra esistenza, oh i meriti, oh i guadagni grossi che metteremo assieme pel paradiso! Dio vi salvi, o Maria.

9. 0 buon Gesù, mentre voleste vivere da uomo qui sulla terra solo trentatré anni, trenta di questi li passaste là sepolti in quel tugurio in umiltà, in patimenti; tanto che il mondo direbbeli perduti in cose da nulla! Ah voi voleste farci capire che tutte le cose del mondo e la vita sfumano in niente, quando si pensa a Dio, e che solo hanno un qualche valore, quando sono offerte a servirlo come Egli vuole. Ci pare, o Gesù, di vedervi come tutto contento di avere avuto il corpo e l’anima da gittare a nulla dinanzi al Padre e riconoscere che tutta la gloria si deve solo a Dio. O Maria, consacrate a Gesù tutta la vita nostra; che noi non vogliamo per poco cercare le nostre soddisfazioni, la nostra gloria, non di formarci una posizione nel mondo che val niente innanzi a Dio. Siamo contenti di aver una vita; ma per poterla sacrificare tutta per la sola gloria di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

10. Uscite fuori da questo tugurio, o Gesù, gli dicevano quei che sapevano delle sue virtù; fatevi conoscere; ché Voi potete operar grandi cose. Andate a Gerusalemme; Vi tirerete appresso ì popoli meravigliati. Perché perdere il tempo sepolto in questa vita da niente? Ma Gesù faceva loro intendere non essere perduto quell’incenso che si brucia per l’onore di Dio; e tanto glorificarlo la brillante stella quanto l’umile lucciolina. No, tutto quel tempo non era perduto; era anzi il più bene speso, perché voleva il Padre suo lo spendesse così. O Gesù, a vostra imitazione farò tacere l’amor proprio, e non mi lusingherò di farmi conoscere per volere fare cosa di più grande importanza: quello è lo stato migliore, la più santa cosa e la più grande è quella che Dio vuole da noi: il più gran merito è fare la volontà divina. E meglio guadagnare il paradiso nella vita più comune, ignorata dal mondo che non andare all’inferno applaudito da tutti. Salviamoci in paradiso vivendo con Voi, o Maria, con Gesù qui nascosto. Dio vi salvi, o Maria. Gloria Patri. Gloria al Padre in quello stato in cui Egli ci vuole; gloria a Gesù che sta qui e sempre nascosto nel Sacramento pei secreti fini del suo amore per noi: gloria allo Spirito Santo che lavora in silenzio la nostra santificazione. Gloria Patri.

Requiem æternam. O Maria, per quel gaudio che provaste nel trovare e nel tenervi sempre con Voi il vostro Gesù, deh tirate con Lui in paradiso le anime sante che sospirano in purgatorio.

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (28)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (28)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Ultimo ritiro di “Laudem Gloria,, (III.)

Undicesimo Giorno

Tutta la Trinità abita nell’anima

« Il Signore mi ha fatto entrare in un luogo spazioso:  mi ha salvato perché mi voleva bene » (Salmo XVII, 20). Il Creatore, vedendo il silenzio bellissimo che regna nella sua creatura, considerandola tutta raccolta nella sua solitudine interiore, si innamora della sua bellezza e se la porta in quella solitudine immensa, infinita. in quel luogo « spazioso » cantato dal Profeta, che altro non è se non Lui stesso. « Entrerò nella profondità delle potenze delle potenze di Dio » (Salmo LXX, 16). Il Signore per bocca del suo Profeta, ha detto: « La condurrò nella solitudine e le parlerò al cuore » (Osea, II, 14). Ed ecco l’anima entrata nella vasta solitudine in cui Dio le si farà sentire. – « La parola di Dio — dice san Paolo è viva ed efficace, e più penetrante di una spada a doppio taglio essa giunge fino alla divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e al midollo » (Ebr. IV, 12). Essa, dunque, la parola di Dio direttamente, perfezionerà il lavoro di spogliamento nell’anima, perché ha questa caratteristica tutta propria e singolare: che Opera e crea ciò che fa udire, purché l’anima acconsenta e si lasci alla sua azione. – Ma sentire questa parola non basta, bisogna custodirla; custodendola, l’anima sarà santificata nella verità secondo il desiderio del Maestro divino: « Padre, santificali nella verità; la tua parola è verità » (S, Giov. XVII, 17). E a chi custodisce la sua parola, Egli ha promesso: « Il Padre mio lo amerà, e verremo a Lui e in Lui porremo la nostra dimora » (S. Giov. XIV, 23). Tutta la Trinità, dunque, abita nell’anima che ama in verità, cioè che custodisce la divina parola; e quando quest’anima ha compreso la sua ricchezza, tutte le gioie naturali o soprannaturali che possono venirle dalle creature o anche da Dio, altro non fanno che invitarla a rientrare in se stessa per fruire del Bene sostanziale che possiede: il suo Dio. Così, dice san Giovanni della Croce, essa ha una certa somiglianza con l’Essere divino. « Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre dei cieli ». San Paolo mi dice che « Egli compie ogni cosa secondo il consiglio della sua volontà (Ephes. I, 11), e il mio Maestro vuole che io gli renda omaggio anche in questo: fare ogni cosa secondo il consiglio della mia volontà; non lasciarmi mai guidare dalle impressioni, dai moti primi della natura, ma possedermi per mezzo della volontà; e perché questa volontà sia libera, bisogna, secondo la visione di un pio autore, « chiuderla » in quella di Dio. Allora sarò mossa dal suo Spirito, come dice san Paolo, tutto ciò che farò sarà divino ed eterno, e fin d’ora vivrò, ad imitazione del mio Immutabile in un eterno presente.

Dodicesimo Giorno

« Per Lui, io posso accostarmi al Padre »

«Verbum caro factum est, et habitavit in nobis » (S. Giov. II, 4). Dio aveva detto: « Siate santi, perché io sono santo; ma rimaneva nascosto nella sua « luce inaccessibile  », la creatura aveva bisogno che Egli scendesse fino a lei, che vivesse della sua vita, per potere, camminando sulle sue orme, risalire fino a Lui e farsi santa della Sua santità. « Io mi santifico per essi, affinché siano santificati, nella verità» (S. Giov. XVII, 19). Eccomi di fronte al « segreto nascosto ai secoli ed alle generazioni », di fronte al mistero di Cristo, di Lui che « è per noi — dice san Paolo — speranza di gloria » (Col. I, 26 ); e soggiunge che « gli è stata data l’intelligenza di questo mistero » (Ephes. III, 4). Andrò dunque dal grande Apostolo ad istruirmi, affine di possedere « quella scienza che secondo la sua espressione — supera ogni altra: la scienza della carità di Cristo Gesù » (Ephes. III. 19). – Prima di tutto, san Paolo mi dice che « Gesù è la mia pace », che « per Lui, io posso accostarmi al Padre » (Ephes, II, 14-18), perché il Padre dei lumi ha voluto che fosse in Lui ogni pienezza, che per Lui fossero riconciliate tutte le cose, pacificandole tutte, sia in terra, sia in cielo, nel sangue della croce di Lui » (Col. I, 19-20). « In Lui, avrete la pienezza — prosegue l’Apostolo —. Siete stati seppelliti con Lui nel Battesimo, e risuscitati con Lui mediante la fede nell’opera di Dio… ..Vi ha fatto rivivere con Lui, perdonandovi tutti i vostri peccati, cancellando il decreto di condanna che pesava su di noi; l’ha annullato appendendolo alla croce; e, spogliando i principati e le potestà, li ha vittoriosamente condotti in schiavitù, trionfando di essi in se stesso » (Col. II, 10 … 15) … rendervi santi, puri, irreprensibili al suo cospetto » (Col. I, 22). Ecco l’opera di Cristo in ogni anima di buona volontà: ecco il lavoro che il suo immenso amore, il suo «troppo grande amore » lo spinge a compiere in me. Egli vuole essere la mia pace, affinché nulla possa più distrarmi o farmi uscire dalla fortezza inespugnabile del santo raccoglimento; là, Egli mi avvicinerà al Padre, e mi custodirà immobile e quieta alla sua presenza come se la mia anima già fosse nell’eternità », « Col sangue della croce », pacificherà tutto nel mio piccolo cielo, perché esso sia veramente il riposo dei « Tre ». Mi riempirà di sé, mi seppellirà: sé nella sua vita: « Mihi vivere Christus est » (Fil. I, 21). – Se cado ad ogni istante, mi farò rialzare da Lui con fede piena di fiducia; so che mi perdonerà, che cancellerà tutto con cura gelosa; più ancora, mi spoglierà, mi libererà dalle mie miserie, da tutto ciò che ostacola l’azione divina; trascinerà le mie potenze e le farà sue schiave, trionfando di esse in sé medesimo. Allora sarò passata tutta in Lui; potrò dire: « Non vivo più io; il mio Signore vive in me » (Gal. II, 20); e sarò « santa, pura, irreprensibile » agli occhi del Padre.

Tredicesimo Giorno

Camminare in Gesù Cristo

« Instaurare omnia in Christo » (Ephes. I, 10). È ancora san Paolo che mi istruisce, san Paolo che si è inabissato nel grande consiglio di Dio e mi dice che « Egli ha stabilito di instaurare tutte le cose in Cristo ». Perché io, personalmente, possa realizzare questo piano divino, l’Apostolo viene ancora in mio aiuto e mi traccia un regolamento di vita: « Camminate in Gesù Cristo — mi dice — radicati in Lui, edificati in Lui, corroborati nella fede… e crescendo sempre più in Lui con l’azione di grazie » (II, 6, 7, 8). « Camminare in Gesù Cristo », mi pare che significhi uscire da se stessi, perdersi di vista, abbandonarsi per entrare più profondamente, da radicarvisi e da poter sfidare ogni avvenimento, ogni creatura, con le parole bellissime dell’Apostolo: «Chi potrà separarmi dalla carità di Gesù Cristo? » (Rom. VIII, 35). Quando l’anima è fissata in Lui a tale profondità che le sue radici vi affondano, la linfa divina fluisce, sì riversa in lei abbondante, e tutto ciò che è imperfetto, banale, naturale, viene distrutto; « ciò che è mortale viene assorbito dalla vita » (Cor. V, 4). Allora, così spogliata di se stessa e rivestita di Gesù Cristo, l’anima non ha più da temere né i contatti esterni né le interne difficoltà, perché queste cose, anziché esserle di ostacolo, non fanno che « radicarla più profondamente nell’amore » del suo Maestro. – Qualunque cosa avvenga, favorevole o contraria, anzi servendosi di tutto, « sempre lo adora per Lui stesso », perché è libera, affrancata da sé e da ogni cosa, e può cantare col Salmista: « Mi assedî un esercito; non freme il mio cuore; insorga contro di me la battaglia, io spero ugualmente, perché Jahveh mi nasconde nel segreto della sua tenda » (Salmo XXVI, 3-5) e questa tenda è Lui,  – Tutto ciò mi sembra voglia dire san Paolo quando ci esorta ad essere « radicati in Gesù Cristo ». E che cosa significa essere « edificati in Lui? ». Il Profeta canta: «Mi ha innalzato sopra una rupe e la mia testa si erge al di sopra dei nemici che mi circondano » (Salmo XXVI, 5-6). Non è forse questa la figura dell’anima « edificata su Gesù Cristo? ». È Lui la rupe sulla quale essa è stata elevata al di sopra di se stessa, dei sensi, della natura, al di sopra delle consolazioni e dei dolori, al di sopra di tutto ciò che non è unicamente Lui! E là, nel pieno possesso di sé, è dominatrice del suo « io » e, superando se stessa, supera anche tutte le cose. Ma san Paolo mi raccomanda ancora di essere « fortificata nella fede », quella fede che non permette mai all’anima di sonnecchiare, ma che la tiene tutta vigilante sotto lo sguardo del Maestro, tutta intenta alla sua parola creatrice; in quella fede nell’« eccessivo amore » che permette a Dio — mi dice san Paolo — di colmare l’anima « secondo la Sua pienezza » (Ephes. III, 19). Infi e, vuole che io « cresca in Gesù Cristo con l’azione di grazie », perché tutto deve compiersi nel ringraziamento. « Padre, io ti rendo grazie » (S. Giov. XI, 41) cantava l’anima del mio Maestro; ed Egli vuol sentirne l’eco nell’anima mia. – Ma mi sembra che il « cantico nuovo » che più di ogni altro può attirare e conquidere il mio Dio, sia quello di un’anima spoglia, svincolata da se stessa, nella quale Egli possa rispecchiare tutto ciò che è, e possa compiere tutto ciò che gli pare. Quest’anima sta come un’arpa sotto il tocco divino, e tutti i suoi doni sono come altrettante corde che vibrano per cantare giorno e notte «la lode della sua gloria ».

Quattordicesimo Giorno

Conoscere Lui

« Stimo tutte le cose una perdita, di fronte alla superiorità trascendente della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore. Per amore di Lui, ho tutto perduto…, e le cose tutte stimo come immondizia per possedere Cristo, e per poter essere trovato in Lui non avente una giustizia mia, ma la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Ciò che io voglio, è conoscere Lui, aver parte alle sue sofferenze, essere conforme alla sua morte… Continuo la mia corsa, studiandomi di arrivare là dove Cristo mi ha destinato chiamandomi. Mi preoccupo di una cosa sola: dimenticando tutto ciò che lascio indietro e slanciandomi costantemente verso ciò che mi sta dinanzi, correre diritto alla mèta, al premio della sfuprema vocazione alla quale Dio mi ha chiamato in Gesù Cristo » (Fil. III, 8). Di tale vocazione, l’Apostolo ha spesso rivelato la grandezza. « Dio — egli dice — ci ha eletti in Lui prima della creazione, perché fossimo immacolati e santi al suo cospetto, nell’amore » (Ephes. III, 8). « Siamo stati predestinati, per decreto di Colui che tutto opera secondo il consiglio della sua volontà, affinché siamo la lode della sua gloria » (Ephes. I, 21). Ma come rispondere alla dignità di questa vocazione? – Ecco il segreto: « Mihi vivere Christus est » (Fil. I, 21). …  « Vivo enim, jam non ego, vivit vero in me Christus » (Gal. II, 20) Bisogna essere trasformati in Gesù Cristo, mi insegna sanPaolo: « Coloro che Dio ha conosciuti nella sua prescienza,li ha anche predestinati ad essere conformi all’immaginedel Figlio suo ». È necessario dunque che io studiquesto divino Modello per imitarlo e immedesimarmitanto in Lui, da poter esprimerlo agli occhi del Padre. E, primadi tutti che cosa dice Egli, entrando nel mondp? « Eccomi; vengo, o mio Dio, per fare la tua volontà» (Ebr. X, 9). Mi pare che questa preghiera dovrebbe essere ilpalpito del cuore della sposa. Il Maestro divino fu sì veracein questa prima oblazione! E tutto il resto della suavita non ne fu per così dire, che la conseguenza. « Miocibo — si compiaceva di ripetere — è fare la volontà diColui che mi ha mandato » (S, Giov. IV, 34). E cibo anche per la sposadovrebbe essere la volontà di Dio, pur essendo al tempostesso spada che la immola. « Padre, se è possibile, allontanada me questo calice; ma si faccia la tua volontà e non la mia » (S, Marco, XIV). E, insieme al suo Maestro, in pace, con gioia, va ad ogni immolazione, rallegrandosi di essere stata conosciuta dal Padre, poiché la crocifigge insieme al Figlio suo. « Ho preso le tue leggi per mia eredità in eterno, perché esse sono la delizia del mio cuore » (Salmo CXVIII, 111). Ecco il canto dell’anima del mio Maestro, canto che deve avere una larga eco in quella della sposa; con la sua fedeltà in ogni istante a queste leggi esterne ed interne, essa renderà testimonianza alla verità, e potrà dire: « Colui che mi ha mandata non mi ha lasciata sola; Egli è sempre con me, perché io faccia sempre ciò che a Lui piace » (San Giov. VIII, 29). Non lasciandolo mai, mettendosi fortemente a contatto con Lui, ella potrà irradiare quella virtù segreta che salva e redime le anime. Spoglia, libera di se stessa e di tutte le cose, potrà seguire il Maestro sul monte per elevare dalla sua anima, con Lui, « una orazione a Dio » (San Luca, VI, 12). Poi, sempre per mezzo del divino Adorante, di Colui che fu la grande lode di gloria del Padre, «offrirà ininterrottamente a Dio un’ostia di lode, cioè il frutto delle labbra che rendono gloria al suo Nome » (Ebr. XIII, 5). « E Lo loderà nella espansione della Sua potenza, secondo l’immensità della Sua grandezza » (CXLV, 6). Quando suonerà l’ora dell’umiliazione, dell’annientamento, ricorderà questa breve parola: « Jesus autem tacebat » (S. Matt. XXVI, 63), e tacerà custodendo tutta la sua forza al Signore, quella forza che si attinge dal silenzio. Quando verrà l’abbandono, la desolazione, l’angoscia che strapparono a Cristo quel grande grido: « Perché mi hai abbandonato? » (S. Matt. XXVII, 46), si ricorderà di questa preghiera: « Siano essi ripieni del mio gaudio » (S. Giov. XVII, 13); e, bevendo fino in fondo il calice preparatole dal Padre, saprà trovare in quella stessa amarezza una soavità divina. F infine, dopo aver ripetuto tante volte: « Ho sete », (S. Giov. XIX, 29), sete di possederti nella gloria, spirerà dicendo: «Tutt0o è consumato… (S. Giov. XIX, 30). Nelle tue mani raccomando l’anima mia » (S. Luc. XXIII, 46). E il Padre verrà a prenderla per portarla nella Sua eredità dove « nella luce, vedrà la Sua luce » (Salmo XXXV, 10). « Sappiate — cantava Davide — che Dio ha glorificato meravigliosamente il suo Santo » (Salmo IV, 4). Sì, il Santo di Dio sarà stato glorificato in quest’anima, perché vi avrà tutto distrutto per rivestirla di Sé, e perché essa avrà praticamente vissuto la parola del Precursore: « Bisogna che Egli cresca e che io diminuisca » (S. Giov. II, 30).

Quindicesimo Giorno

Janua Coeli

Dopo Gesù Cristo e, s’intende, a quella distanza che passa tra l’infinito e il finito, vi è una creatura che fu tra l’infinito ed il finito, vi è una creatura che fu anch’essa la grande lode di gloria della Trinità santa! Ella corrispose pienamente alla elezione divina di cui parla l’Apostolo: fu sempre pura, immacolata, irreprensibile agli occhi del Dio tre volte Santo. – La sua anima è così semplice, i movimenti ne sono così profondi, che non si possono scorgere. Sembra riprodurre sulla terra la vita dell’Essere divino, l’Essere semplicissimo; quindi, è così trasparente, così luminosa, che si potrebbe crederla la stessa luce; eppure non è che lo « specchio del Sole di giustizia, Speculum justitiæ ». – « La Vergine custodiva queste cose nel suo cuore » (S. Luca, II, 51): tutta la sua storia può essere compendiata in queste parole; visse nel proprio cuore e a tali profondità, che lo sguardo umano non può seguirla. Quando leggo nel Vangelo che « Maria percorse con tutta sollecitudine le montagne della Giudea », per andare a compiere un’opera di carità presso la cugina Elisabetta, io la vedo passare, bella, calma, maestosa, intimamente raccolta col Verbo di Dio. La sua preghiera, come quella di Lui, fu sempre: « Ecce: eccomi! ». Chi? L’ancella del Signore (S, Luca, I, 38), l’ultima tra le sue creature, Lei, sua Madre! – Fra così sincera nella sua umiltà! perché fu sempre dimentica, ignara, libera di se stessa; sicché poteva cantare: « L’Onnipotente ha fatto in me grandi cose; tutte le generazioni mi chiameranno beata » (S. Luca, I, 48-49). Questa Regina dei Vergini è anche Regina dei martiri; ma la spada la trafigge nel cuore perché tutto, in lei, si svolge nell’intimo. – La contemplo. Oh, come è bella nel suo lungo martirio, circonfusa da una specie di maestà da cui emana e forza e dolcezza! Perché ha imparato dal Verbo stesso come devono soffrire quelli che il Padre ha scelti come vittime, quelli che ha deciso di associare alla grande opera della redenzione, « quelli che ha conosciuti e predestinati ad essere conformi al suo Cristo » crocifisso per amore. È lì, ai piedi della Croce, dritta e forte nel suo coraggio sublime; e Gesù mi dice: « Ecce Mater tua » (S. Giov. XIX, 27). Me la dà per Madre. Ed ora che è ritornato al Padre, che ha messo me al suo posto sulla croce affinché « io soffra in me quello che manca alla sua passione per il suo mistico corpo che è la Chiesa », la Vergine è qui ancora, vicina a me, per insegnarmi a soffrire come Lui, per farmi sentire gli ultimi canti dell’anima di Gesù, quei canti che soltanto lei, sua Madre, ha potuto intendere. E quando avrò pronunciato il mio « consummatum est » sarà ancora lei, Janua coeli, che mi introdurrà negli atri divini, sussurrandomi la misteriosa parola: « Lætatus sum in his quæ dicta sunt mihi: in domum Domini ibimus » (Salmo CXXI, 1).

Sedicesimo Giorno

In seno alla tranquilla Trinità

« Come il cervo assetato sospira la fonte di acqua viva, così l’anima mia sospira a te, mio Dio! L’anima mia ha sete del Dio vivente. Quando verrò e comparirò dinanzi al suo Volto? » (Salmo XLI, 2-3). Eppure, « come il passero che ha trovato un rifugio, come la tortorella che ha trovato un nido per deporvi i suoi piccoli » (Salmo LXXXIII, 4), così Laudem gloriæ, in attesa di essere trasferita nella santa Gerusalemme, « beata pacis visio » (Inno alla Dedicazione), ha trovato il suo ritiro, la sua beatitudine, il suo cielo anticipato, ove inizia la sua vita di eternità. « In Dio la mia anima è silenziosa; da Lui aspetto la mia liberazione. Sì, Egli è la rocca dove trovo la salvezza; è la fortezza, e non sarò vinta » (Salmo LXI, 2-3). Ecco il mistero che canta oggi la mia lira. Come a Zaccheo, il Maestro ha detto a me: « Affrettati a discendere, perché voglio alloggiare in casa tua » (S. Luca, XIX, 5). Discendere?!… Ma dove?… Nelle profondità della mia anima, dopo essermi separata, alienata da me stessa, dopo essermi spogliata di me stessa; in una parola: senza di me. « Bisogna che io alloggi in casa tua ». È il Maestro che mi esprime questo desiderio, il mio Maestro che vuole abitare in me col Padre e col suo Spirito di amore perché, come si esprime il discepolo prediletto, io abbia « società » (II Giov. I, 3) con Essi. « Non siete più ospiti o stranieri, ma siete già della casa di Dio » (Ephes. II, 19), dice san Paolo. E questo « essere della casa di Dio », io intendo vivere in seno alla tranquilla Trinità, nel mio abisso interiore, nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento di cui parla san Giovanni della Croce. – Davide cantava: « L’anima mia vien meno, entrando negli atri del Signore » (Salmo LXXXIII, 3). Mi sembra che tale debba essere l’attitudine di ogni anima che si ritira nei suoi atri interiori, per contemplarvi il suo Dio, per prendervi con Lui strettissimo contatto. Essa vien meno, in un’estasi divina, trovandosi dinanzi a questo amore Onnipossente, a questa Maestà infinita che abita in lei. Non è la vita che l’abbandona, ma è lei stessa che, disprezzando questa vita naturale, se ne ritrae perché sente che non è degna del suo essere così ricco: e vuol farla morire, per dileguarsi nel suo Dio. Come è bella questa creatura così libera, spoglia di sé! È ormai in grado di « disporre ascensioni nel suo cuore, per salire, dalla valle delle lacrime, (cioè da tutto quello che è meno di Dio), al luogo che è sua meta » (Salmo LXXXIII, 6-7), quel « luogo spazioso (Salmo XXX, 9) cantato dal Salmista, che è — mi sembra — l’insondabile Trinità: Immensus Pater, immensus Filius; immensus Spiritus Sanctus (Simbolo Atanasiano).Sale, si innalza al di sopra dei sensi, della natura;supera se stessa, supera ogni gioia come ogni dolore,sorpassa tutte le cose, per non più riposarsi fino a chesia penetrata nell’intimo di Colui che ama e che le daràEgli stesso « il riposo dell’immenso abisso » cantato dalSalmista: l’insondabile Trinità. E tutto questo, senza chesia uscita dalla « santa fortezza ».« Il Maestro le ha detto: « Affrettati a discendere ».E ancora senza uscirne, vivrà, a somiglianza dellaTrinità immutabile, in un eterno presente, adorando Iddioper Lui stesso, e diventando, mediante uno sguardo semprepiù semplice, più unitivo, « lo splendore della suagloria » (Ebr. I, 3), o in altre parole, l’incessante lode di gloriadelle sue perfezioni adorabili.

Elevazione alla SS. Trinità

Sintesi della sua vita interiore.

— O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per fissarmi in Te, immobile e quieta come se la mia anima fosse già nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace né farmi uscire da Te, o mio Immutabile; ma che, ad ogni istante, io mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero! Pacifica l’anima mia; rendila tuo cielo, tua prediletta dimora e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia, vigile e attiva nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice.

O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne!… Ma sento tutta la mia impotenza; e Ti prego di rivestirmi di Te, di identificare tutti i movimenti della mia anima a quelli dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che un riflesso della Tua Vita. Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima ad ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da Te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione.

O fuoco consumante, Spirito d’amore, discendi in me, perché si faccia nell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io Gli sia un prolungamento di umanità, in cui Egli possa rinnovare tutto il Suo mistero. E Tu, o Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto le tue compiacenze. O miei « Tre », mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a Voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra Luce l’abisso delle vostre grandezze.

21 novembre 1904

F I N E

LA GRAZIA E LA GLORIA (32)

LA GRAZIA E LA GLORIA (32)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO VI

Inesistenza si una modalità di unione santificante con le anime per lo Spirito Santo che sia esclusivamente propria a Lui solo.

.1. – Questo lavoro non sarebbe completo, e certamente tradirebbe la legittima curiosità di più di un lettore, se dovessimo passare sotto silenzio opinioni più o meno contrastanti con alcune delle spiegazioni sopra riferite. Di coloro che ritengono che diamo troppo peso alla grazia increata, non dirò altro: le autorità su cui abbiamo basato la dottrina esposta sono di natura tale da sfidare ogni seria contraddizione. Ma ce ne sono altri che ci rimproverano di aver attenuato il ruolo della stessa Grazia increata nell’opera della nostra adozione. Il disaccordo riguarda due punti principali. Considerando con quanta enfasi, sia la Sacra Scrittura che gli antichi Dottori, attribuiscano allo Spirito di Dio la nostra adozione soprannaturale, l’unione di Dio con le anime, l’intero mistero della nostra santità, hanno concluso che lo stesso Spirito debba avere un posto speciale in questa grande opera; una modalità di unione che Egli riserva a se stesso come suo personale privilegio, un ruolo che gli sia esclusivamente proprio. Ma, poiché è evidente che la Trinità tutta intera abiti in tutte le anime giuste come nel suo tempio, e che tutti i doni creati, questa bellezza soprannaturale dell’anima santificata, siano un’opera comune alle tre Persone, essi hanno voluto trovare nello Spirito Santo un’influenza più profonda, un’autocomunicazione più stretta, qualcosa, in una parola, di così alto e così proprio dello Spirito Santo, da non rientrare nell’interpretazione del mistero finora accreditata dalla tradizione della Scuola. – Sarebbe difficile dare un resoconto chiaro e preciso di ciò che essi dicono; essi stessi ammettono francamente che le loro idee su queste gravi questioni non abbiano tutta la chiarezza desiderabile. Per costoro, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo abitano nei figli di adozione; ma allo Spirito Santo appartiene propriamente l’unione più intima che li trasforma e li porta al vertice della perfezione soprannaturale. È Lui che si unisce direttamente all’anima; le due altre Persone entrerebbero in contatto con essa solo attraverso di Lui. – Per spiegarsi in modo meno oscuro, ci sono teologi che ricorrono ad analogie tratte da altri misteri. Vedete – dicono – Gesù Cristo, il Verbo incarnato. La fede ci mostra in Lui tutta la Trinità presente, come non lo è in nessuna creatura. Ma che differenza nella modalità di unione! Il Verbo c’è perché è sostanzialmente unito all’umanità che ha fatto sua; anche il Padre e lo Spirito Santo ci sono, ma solo in virtù della circuminsessione, cioè della loro immanenza nel Figlio, e quindi senza essere uniti ipostaticamente alla natura umana di Cristo. Nella Santa Eucaristia – ancora essi dicono – è il Corpo di Cristo che la virtù delle parole sacramentali pone sotto la specie del pane. Se l’anima e il sangue, tutto il Cristo intero, sono lì con questo sacro Corpo, è perché non sono più separabili da esso, poiché Cristo è vivo per non morire mai, in una parola, è per concomitanza. Quindi, fatta ogni debita proporzione, il Padre e il Figlio sono in questo tempio dello Spirito Santo che è l’anima santificata. Ed è così che questi teologi intendono i testi in cui lo Spirito Santo ci appare come introduttore degli Ospiti divini, che sono una sola natura con Lui, ma distinti quanto all’ipostasi. Chiedete a questi stessi teologi qual sia di per sé il carattere dell’unione speciale che essi rivendicano per lo Spirito Santo come sua proprietà personale e incomunicabile. È soprattutto qui che le spiegazioni sono imbarazzanti. Le formule più ardite sono seguite da restrizioni e attenuazioni tali che è difficile capire in che cosa le teorie così fortemente sostenute differiscano dalla dottrina degli Scolastici (così, per fare un esempio, il dotto Thomassin, nel suo grande trattato sull’Incarnazione del Verbo, scrive interi capitoli, accumulando testi su testi, per dimostrare che sia lo Spirito Santo che con la sua sostanza vivifichi, formi e santifichi le anime dei giusti. Ma quando si spiega chiaramente, ci sembra di ascoltare San Tommaso o S. Bonaventura. « Inhabitat enim in nobis ipsa quidem justitia subtantiva, sed actibus habitibusque, velut accidentariis vinculis, devincta ». L. VII, c. 19, n. 5 E ancora: « Ubi forma significatur esse sanctitudinis nostræ seu Filius seu Spiritus, forma hæc efficiens magis quam informans, qua agamur non qua agamus, (a Patribus) videtur describi. » Ibid. c. 20, n. 1. E più avanti, nello stesso capitolo, n. 4: « Deum habere, Deum possidere, de Deo vivere, Deo formari et vegetari, perinde est ac Deum contemplari et amare. » Infine, leggo nel titolo stesso del capitolo 17: « Non tam ut forma, quam ut hospes, sanctificare Deitas sua templa demonstratur ». Si noti, inoltre, che, secondo questi testi, Thomassin non sembra sostenga un’unione che sarebbe singolare allo Spirito Santo). – Mi sarebbe impossibile riportare in dettaglio tutte le spiegazioni fornite dai vari autori che si sono ispirati più o meno a queste idee che definirei nuove, se questo termine non avesse un significato troppo sfavorevole. Lasciamo che Petau, il più noto e il più grande di loro, il più profondo conoscitore dello studio e della lettura dei Padri, ci spieghi lui stesso il suo pensiero. (Visto che se ne presenta l’occasione, notiamo di sfuggita l’equivoco che spesso si nasconde sotto le brillanti formule dell’unione sostanziale o dell’unione personale dello Spirito Santo con i giusti. Se si vuole dire che lo Spirito Santo non sia solo nelle facoltà dell’anima e con i loro effetti, ma che sia nella sostanza stessa, in Persona e con la sua stessa sostanza, nulla è più vero dell’idea espressa, anche se l’espressione debba essere sostenuta da qualche correttivo. Ma se con questo si volesse intendere che si tratti di un’unione veramente sostanziale e personale, non vedo più come non possa esistere un’unione di due sostanze in un’unica sostanza, cioè o l’unione venerata dagli Eutichiani in Gesù Cristo, o l’unione ipostatica: infatti, quando due sostanze non sono unite in modo da formare un’unica sostanza, l’unione non è e non può essere che accidentale). Egli osserva innanzitutto che, secondo il comune sentire dei teologi, la speciale dimora di Dio nelle anime giuste e l’unione che Egli contrae con esse non sono patrimonio di una Persona in particolare. È per appropriazione che sono singolarmente attribuiti allo Spirito Santo. A suo avviso, i testi delle Scritture e dei Padri sembrano avere un significato più profondo e rigoroso. – Quale sia la particolare modalità di unione che questi testi rivendicano per lo Spirito Santo, è ciò che non ci hanno spiegato chiaramente. In mezzo a queste ombre e incertezze, quindi, è necessario procedere più per congetture che per affermazioni categoriche, con prudenza e circospezione, per evitare una duplice insidia, quella di esaltare troppo e quella di sminuire un beneficio così grande. Per quanto riguarda il nostro sentimento particolare – egli aggiunge – non lo dirò, perché non è ancora abbastanza chiaro nella mia mente, o non lo dirò qui » (Petav., de Trinit., L. VII, c. 6, n. 6). – Tuttavia, egli decide di proporre un’opinione che ritiene possa essere dedotta dai testi sacri e dall’insegnamento dei Padri. Eccone la sostanza: « L’unione dei giusti con lo Spirito Santo comporta per loro una doppia relazione: una relazione con l’essenza divina, una relazione con la Persona. Sotto il primo aspetto, non c’è nulla di singolarmente peculiare dello Spirito Santo. Ma non è lo stesso per la seconda: oltre all’unione comune, c’è un’applicazione speciale della Persona stessa dello Spirito Santo sulle anime dei giusti; un’applicazione che è propria soltanto di Lui nella Trinità.

2. – Per quanto riguarda le prove del sistema, è importante valutarle con attenzione. L’esame che ci accingiamo a fare sarà di grande aiuto per approfondire l’argomento, la comprensione dei testi e del mistero stesso. Ecco la prima prova (Idem, ibid.). È la caratteristica dello Spirito Santo quella di essere “donabile” alle creature intelligenti. Pertanto, è necessario che sia unito a loro in un modo che non possa essere adatto al Figlio. Infatti, supponendo da una parte e dall’altra lo stesso tipo di unione, perché il Figlio non dovrebbe essere dato come lo Spirito stesso, e come il carattere di dono dovrebbe rimanere proprietà personale dello Spirito Santo? – Ragionamento pretestuoso, ma che cade da solo, se ricordiamo in che senso lo Spirito Santo sia per eccellenza il Dono di Dio. Ditemi, lo Spirito Santo cesserà di essere l’Amore personale del Padre e del Figlio, il soffio sostanziale in cui si esala la loro comune dilezione, se non ha con le anime un’unione diversa da quella che la fede ci mostra nel Figlio? No, senza dubbio. Io vi concederò, come ho già fatto, che c’è per lo Spirito Santo, nel suo carattere personale, una singolare attitudine, un titolo particolare che lo predispone a questa unione amorosa; aggiungerò che in virtù della stessa proprietà, Egli ha, nella relazione comune, una somiglianza che gli si addice personalmente. Ma questo non determina la diversità di unione che si afferma. Ora, se lo Spirito Santo, pur essendo l’Amore personale del Padre e del Figlio, può comunicarsi alle anime nella stessa misura e secondo la stessa modalità del Verbo di Dio, perché il carattere di Dono richiederebbe un’unione diversa, dal momento che è tutt’uno essere il Dono del Padre e del Figlio ed il loro Amore personale? Sarà necessario, secondo lo stesso principio, fare differenza tra l’unione del Padre e quella del Figlio, quando vengono ad abitare in noi; sia perché il Figlio è il dono del Padre, sia perché la venuta del Figlio, a differenza di quella del Padre, ha, come la venuta dello Spirito Santo, un carattere di missione? – Agli argomenti basati sulla natura del dono, Petau ne aggiunge un altro tratto dai numerosi testi, tra cui i più famosi tra i Padri greci, Basilio, Cirillo, Atanasio, Eulogio e Giovanni Damasceno, considerano « la proprietà della virtù santificante come personale dello Spirito Santo, così  come la filiazione lo è per il Figlio e la paternità per il Padre » (Petav. L. c., n. 7). Inoltre, Cirillo di Alessandria dice espressamente e più volte che lo Spirito Santo è l’autore della nostra santificazione (αύτουργός = autourgos), Colui che la opera da se stesso. « È dunque evidente – conclude Petau – che l’unione di cui parlavano gli antichi Padri non sia solo l’unione della natura divina dello Spirito Santo, ma anche e soprattutto quella della sua Persona. o, se si preferisce, della natura considerata sotto la proprietà personale dello Spirito Santo (Idem. ibid.). – Sì, risponderei, lo Spirito Santo è la Santità santificante; sì, è con la sua stessa virtù che perfeziona le anime e le porta al vertice della santità; sì, la sua stessa Persona è unita a noi per la grazia. Chi potrebbe negarlo? Non lo abbiamo forse ampiamente dimostrato noi stessi? Ma se trovate in questo carattere personale un motivo per imputare allo Spirito un particolare tipo di unione, perché lo stesso carattere non dovrebbe autorizzarvi ad attribuirgli un’operazione di santificazione che gli sia personale? Del resto, gli stessi Dottori, e spesso gli stessi testi, parlano delle operazioni come hanno parlato dell’unione santificante, e non mi risulta che affermino più sovente del Santo Spirito la seconda più che la prima. Se poi, per non dividere l’operazione indivisibile della Trinità, si professa che le operazioni siano assolutamente comuni, che diritto si ha di negare l’operazione della Trinità? (Lo stesso Petau ha riconosciuto che si tratta di una semplice appropriazione: « ogni operazione della bontà divina che tende alla comunicazione della carità e della santità è solitamente attribuita allo Spirito Santo: a causa del suo particolare modo di procedere, Egli merita il nome di carità e santità; e questa è anche la ragione per cui è chiamato olio e profumo. – De Incarn., L. XI, c. 8, n. 5). Rileggete tutti questi testi dei Padri, e mille altri che potrebbero essere aggiunti ad essi, e vedrete che, nell’intenzione dei loro autori, tutti o quasi tendono a dimostrare che lo Spirito di Dio sia la santità per essenza; che, se santifica gli Angeli e gli uomini, non è alla maniera di uno strumento, di un ministro, in una parola, di un inferiore e per una virtù presa in prestito, come sostenevano gli eretici, ma in Dio che, procedendo da Dio, riceve con la sua singolare modalità di processione la Santità, fonte primordiale e principio di ogni santità. – Sarebbe dunque disconoscere queste forti argomentazioni dei nostri santi Dottori, il ricercare in essi una modalità di unione propria esclusivamente dello Spirito di Dio, quando perseguono solo questo unico scopo: dimostrare che, essendo la santità dello Spirito la santità stessa di Dio, lo Spirito è con il Padre e il Figlio un unico e medesimo Dio. Concludiamo, dunque, senza pretendere di condannare le idee di un così grande teologo, che le leggi di appropriazione sono pienamente sufficienti a spiegarci in che senso ogni santità, ogni virtù, ogni operazione santificante sia legata non al Padre, non al Figlio eterno, ma al loro comune Spirito, poiché queste grazie hanno una singolare analogia con i suoi caratteri ipostatici, e di conseguenza Egli ne è a titolo speciale l’autore, l’esemplare e l’archetipo. Concludiamo anche che l’unione personale con le anime dei giusti, o, se preferite, la dimora permanente di Dio nel cuore dei suoi figli, non è proprietà di una Persona in particolare, né quanto al fatto né quanto al modo. « Quando Cristo ha detto: “Noi verremo, Io e il Padre mio”, lo Spirito entra con loro per abitare allo stesso modo, e non in altro » (S. Athan, ep. ad Serap., 1, n. 31. P. Gr., t. 26, p. 601). Questo è il pensiero di Sant’Atanasio; e questo è anche il senso espresso da queste parole di San Cirillo, suo glorioso successore: « In virtù dell’unità della natura, tutto è di tutte (le Persone, eccetto le loro proprietà distintive): la presenza, le rivelazioni, la partecipazione (μεθέζις = metezis), l’operazione, la gloria; in una parola, tutto ciò che costituisce lo splendore della divinità » (San Cirillo, Alex. Dial. VII di Trinit. P. Gr., vol. 75, p. 1096). Anche in questo caso, nulla di proprio allo Spirito Santo, se non l’affinità speciale fondata sulle proprietà personali (Torneremo su questa controversia in una delle appendici, per interpretare più dettagliatamente tutti i testi dei Padri su cui si vedrebbe fondata la nuova teoria). E questo è ancora una volta ciò che Leone XIII ci chiarisce nella sua Enciclica sullo Spirito Santo, già citata più volte. « Questa mirabile unione (di Dio e dell’anima giusta), che è stata chiamata inabitazione, si distingue solo per la condizione o lo stato dell’abbraccio amoroso con cui Dio beatifica gli eletti in cielo. Ora, sebbene sia veramente prodotta dalla presenza di tutta la Trinità, secondo questa parola del Signore: … Noi verremo a lui e prenderemo dimora in lui (Joan. XIV, 23), tuttavia è affermata soprattutto dello Spirito Santo. In effetti, anche nell’uomo perverso appaiono vestigia della potenza e della sapienza divina; ma per quanto riguarda la carità, che è come il carattere proprio dello Spirito Santo, solo l’uomo giusto ne partecipa. A ciò si aggiunga che lo stesso Spirito porta il nome di Santo, perché essendo il primo e supremo Amore, conduce le anime alla santità che, in ultima analisi, consiste nell’amore di Dio » (Encicl. Divinum illud munus). – Il pensiero del Santo Pontefice è tanto più chiaro, in quanto è manifestamente collegato alla dottrina dell’appropriazione da lui precedentemente esposta. Senza dubbio, qui non c’è una definizione dogmatica, ma il Maestro dei Cristiani non avrebbe detto una cosa simile, e senza ombra di esitazione, se non avesse considerato come indubbio il sentimento comune dei teologi che abbiamo difeso. Concludiamo quindi con l’Angelo della Scuola: « L’unione che si realizza con la grazia dell’adozione… è comune alle tre Persone (divine) e dal lato del principio e dal lato del termine » (S. Thom, III, D. 34, q.l. a. 3; col, 1, p. 19, 43, a. 4.).

FINE VOLUME PRIMO

LA GRAZIA E LA GLORIA (33)