LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (15)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (15)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO V

CONCLUSIONE (2)

2. – Il dono dell’uomo a Dio.

Abbiamo considerato la vita spirituale come dono gratuito dell’immenso amore di Dio per l’uomo. Sta all’uomo accettarlo liberamente. Poiché in questa libera accettazione si compie la felice consumazione del dono, e, una volta accettato, coltivarlo nella fede, nella speranza, nella carità. E sarà un degno contraccambio d’amore se la dedizione di sé a Dio saprà esser completa, secondo l’esempio di Colui che tutto si è dato. Egli mi ha amato fino a darsi per me: io debbo riamarlo e darmi per Lui. Riconosco che la mia vita di quaggiù, in confronto a quella ch’Egli mi offre, è cosa meschina, di ben poco valore intrinseco attuale, per quanto grande potrebbe sembrare se non mi fosse stato svelato nessun altro orizzonte, ma resa grande effettivamente fin d’ora dalla sua identità con qualche cosa ch’è molto più grande di lei. Se desidero esser quale Egli mi vuole debbo darmi tutto a Lui, com’Egli si è dato a me, perché mi plasmi come più gli piace; e la mia vita spirituale tanto maggiormente si svilupperà quanto più completo sarà il dono di me

(“Chi avrà perduto la vita per causa mia la ritroverà ”. (Matt. X, 39).

“Perché chi vorrà salvare la sua vita la perderà, e chi avrà perduto la vita per amor mio la salverà. Che giova mai all’uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde e danneggia se stesso?” (Luca IX, 24, 25),

“Chi ama la propria vita la perderà, e chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna”. – Giov. XIII, 25).

E ciò si farà in tre modi. Innanzi tutto, per chi accetta il soprannaturale, per ogni cattolico, per ogni credente nel Figlio di Dio fatto Uomo, primo dovere è quello di sottomettere a sé l’uomo naturale e particolarmente quella parte dell’uomo naturale che lo fa schiavo di bassi appetiti: “la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita” (I Giov. II, 16). Lo stesso uomo naturale deve combattere contro queste forze dominanti, se uomo vuol rimanere e non abbassarsi al livello del bruto; molto più poi, se vuol sottomettere a sé tutto ciò ch’è naturale in lui e diventarne padrone assoluto.

(“La notte è inoltrata e il giorno si avvicina; gettiamo via dunque l’opera delle tenebre, rivestiamo le armi della luce. Come in pieno giorno, camminiamo onestamente, non in crapule e ubbriacature, non in alcove e in licenza, non in contese e invidia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non abbiate cura della carne sì da destarne le concupiscenze” (Rom. XIII, 12, 14).

“To dico invece, conducetevi secondo lo spirito e non soddisfate ai desideri della carne. La carne ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito li ha contrari alla carne; son cose opposte fra loro, sì che voi non dovete fare tutto quel che vorreste… I seguaci di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue concupiscenze. Se viviamo collo spirito, procediamo anche con lo spirito. (Gal. V, 16, 25).

“Carissimi, io vi scongiuro che come forestieri e pellegrini vi asteniate dai desideri carnali che fan guerra all’anima”. – I Piet. II, 11).

Questa necessaria sottomissione interiore sarà la prima cosa da intraprendere per il vero seguace di Gesù Cristo, e la grazia di Dio sarà con lui, È la via tracciata alla preghiera da ogni maestro di spirito, è la chiave di quel sereno ascetismo che ha sempre accompagnato la Chiesa Cattolica nella sua storia, nei suoi Santi, nei suoi eremiti e reclusi e in tutti i suoi ordini religiosi, nel cilicio di un Thomas More e nella povertà volontaria di tanti principi e re. Non è cosa contraria, alla natura, ché anzi i veri Santi furono gli uomini più naturali, non è che un conquistar la natura, un sottometterla, un assoggettarla affinché possa servire, un ribellarsi energicamente alla sua tirannia che vorrebbe dare alla nostra capitolazione la pietosa illusione della libertà. Poi, nel campo positivo, il seguace di Cristo si sforzerà non solo di vincere il male, ma anche tenderà a coltivare tutto il bene che ha in sé.

(“Poiché chi vuol amare la vita e vedere giorni beati raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra non parlino inganno. Schivi il male e faccia il bene, cerchi la pace e le vada dietro; perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie attente alle loro orazioni, ma la faccia del Signore sta contro coloro che fanno il Male”. – I Piet. III, 10-12).

E il maggiore di tutti i beni è l’amore: amore di Dio, in primo luogo, di Dio che “è amore”, “che ci ha amati per primo”, e tanto “da dare il suo Unigenito”, che ci ama “di un amore eterno”, amore che sospinge l’uomo il quale desideri veramente ricambiarlo almeno in parte. Ora, secondo gli stessi criteri del mondo, la maggior prova d’amore è la dedizione di sè. “Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per l’amico” e perciò nessuno avrà un più grande amore verso Dio di chi per Lui dà la vita. Ma dare la propria vita non significa necessariamente quello che s’intende di solito per “morire”: è la dedizione di sé all’essere amato, in assoluta e completa devozione al suo servizio. Così è dell’amore dell’uomo per Iddio. Stimar la vita e tutte le cose di quaggiù non secondo le proprie vedute, ma secondo quelle di Dio, sforzarsi per amor suo di renderci quali Egli ci vuole, anche quando la sua volontà contrasta con la nostra e malgrado tutte le ribellioni della natura, vivere non secondo le nostre ambizioni, ma facendo della nostra esistenza tutto ciò che Dio vuole, ecco l’ideale cattolico. È questo davvero un “dar la vita per l’amico”, è l’adempimento perfetto della legge: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”. Ed è cosa che porta con sé la sua abbondante ricompensa, secondo ch’Egli ha promesso, il centuplo, misura piena, pigiata e traboccante, Poiché morire a se stessi con Cristo è risuscitare con Lui, dar la propria vita per amor suo è ricevere in cambio la sua vita. Né questa è metafora o pura allegoria. Cristo vive misticamente e non per questo meno realmente in ognuno che sia disposto ad accoglierlo, e gli conferisce il potere di diventare e di essere veramente figlio di Dio. Viviamo, non più noi, ma Egli vive in noi. Ecco perché noi offriamo le nostre preghiere “per Gesù Cristo Signor nostro”, unendo il nostro nulla ai suoi meriti infiniti. Ecco perché anche il più insignificante dei nostri atti può acquistar valore e riuscire accetto a Dio nostro Padre. Per questa unione, creature deboli quali siamo, ci soprannaturalizziamo e tutte le nostre azioni partecipano del soprannaturale: siamo fatti “ partecipi” della divina natura di Colui che si è “degnato di partecipare alla nostra natura umana’; ejus divinitatis participes, qui humanitatis nostræ fieri dignatus est particeps. E inoltre, a motivo di questa unione, essendo il vero amore attivo e fattivo in tutti, in ogni altra anima come nella mia, siamo fatti uno tra noi in un senso assai più reale ed effettivo di quello che potrebbe conseguire la sola natura umana. Unificati e affratellati così, desideriamo che anche il resto dell’umanità, ancora escluso dall’abbraccio divino, vi giunga finalmente e sia fatto uno con noie partecipi alla stessa ineffabile eredità, “affinché Cristo dimori nei vostri cuori per mezzo della fede e voi radicati e fortificati in amore siate resi capaci di comprendere con tutti i Santi qual sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità e intendere quest’amore di Cristo che sorpassa ogni scienza, affinché siate ripieni di tutta la pienezza di Dio… Con tutta umiltà e mansuetudine e con longanimità, tollerandovi a vicenda con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un corpo solo, un solo spirito come in unica speranza siete stati chiamati. Uno è il Signore, una la fede, uno il Battesimo, uno Iddio e Padre di tutti, che è sopra di tutti e per tutti e in tutti”. (Efes. III, 17-19; IV, 2-6).

A questa unione con Dio la natura umana  tende spontaneamente, anche se spesso inconsciamente. Quella sete di perfezione, quella brama di una più completa realizzazione di sé, innata in ogni essere umano normale, non è che lo sforzo dell’anima ansiosa di corrispondere all’invito dell’amore di Dio. Per quanto cerchi di completarsi e di appagarsi altrove, l’uomo non è mai soddisfatto; c’è sempre da raggiungere qualche cosa di più, anzi tanto di più che i beni ormai raggiunti sembrano un nulla e gli sfuggono come acqua fra le dita. Poiché “per primo Egli ci ha amato” e ha radicato il suo amore in noi; ci ha amato “di un amore eterno”, e il nostro è parimenti amore per l’eterno; ci ama di un amore infinito personale e fedele che non vien mai meno; e, purché vogliamo accoglierlo, quell’amore agisce su noi, e quasi senza rendercene conto noi bramiamo di ricambiarlo. È questo il segreto del desiderio dell’uomo, e del suo malcontento di sé e di ogni sua conquista. Consapevoli o no, noi tendiamo a Dio, e la fame di Lui è diventata inerente al nostro essere. “Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore non ha pace finché in Te non riposa”. – Ne deriva che nessuna conoscenza al mondo può confrontarsi con la conoscenza di Dio. Poiché non possiamo amare ciò che non conosciamo, e poiché l’amore di Dio è l’appagamento unico dell’uomo, per esser logico e coerente, questi dovrebbe fare della conoscenza di Dio la sua principale occupazione. Anzi, siccome Dio stesso è amore, la conoscenza di Lui è conoscenza dell’amore nel suo grado più sublime, nel suo oggetto più degno. Fu l’amore che ispirò e diede il precetto unico rendendolo sufficiente a tutto: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”. Questa conoscenza di Dio e dell’amore di Dio in se stesso e nella sua effusione in noi, necessariamente dovrà modificarci. Sappiamo bene che da noi siamo un nulla e affatto indegni di quell’amore, mentre per le nostre colpe e infedeltà ce ne siamo resi ancor più indegni. Eppure vi aspiriamo ardentemente, e ciò basta a farcene sentire il bisogno e a indurci ad ogni sforzo per diminuire la nostra indegnità, a farci ricorrere a Colui che ancora ci ama di un amore immutato, a farci implorare la sua misericordia e il suo perdono, la sua compassione e la sua benevolenza, a buttarci ai suoi piedi affinché Egli ci riammetta al suo amplesso. E cercheremo di fare in ogni cosa la volontà di Colui che tanto ci ha amato e che noi vorremmo tanto riamare, poiché far la volontà di chi amiamo è già di per sé una prova d’amore feconda di gioia; accetteremo le sue leggi e le ubbidiremo, cercheremo i suoi consigli e li seguiremo, coglieremo le occasioni di dargli gloria e le promuoveremo noi stessi, saremo pronti a riconoscere in tutti gli avvenimenti lieti o tristi della vita la manifestazione del suo beneplacito e quindi altrettante occasioni di dargli nuove testimonianze d’amore. E saremo inoltre portati alla preghiera, poiché per essa entriamo in comunione con Lui, e — come insegna la nota definizione — la mente e il cuore a Lui si sollevano. Se questo è l’orientamento interiore dell’anima consapevole delle sue relazioni con Dio, inevitabilmente esso troverà modo di riflettersi sulla vita esteriore. Poiché le cose della vita sono non meno di noi creature del. Dio vivente, che tutte le ama nella loro condizione e in tutte vive, mentre esse, pel semplice fatto di esistere, manifestano Lui e la sua gloria. “I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annunzia le opere delle sue mani” (Sal. XVIII, 1). “Del Signore è la terra e ciò che la riempie, il mondo e tutti i suoi abitanti » (Sal. XXIII, 1). “Le perfezioni invisibili di Lui fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” (Rom. I, 20). – Nelle cose della terra, dunque, possiamo se vogliamo riconoscere l’opera di Dio, anzi riconosciamo Lui stesso, perché esse pure sono sua immagine, tengono imprigionato un tenue raggio della sua infinita bellezza e amabilità e riflettono in qualche modo quel fulgido sole centrale che è Dio stesso. Così tutto l’ordinamento della vita viene ad essere il disegno di Colui che “governa sapientemente da un capo all’altro del mondo e tutte le cose dispone soavemente”. Sebbene a noi le sue intenzioni sembrino spesso misteri, e le sue vie, troppo dissimili dalle nostre, addirittura inesplicabili, pure sappiamo che dietro a tutto quanto appare alla superficie sempre risplende la sua volontà e quell’amore ineffabile che è il motivo della sua azione, allo stesso modo che il sole continua a splendere dietro alle nuvole più cupe e che ancor quelle sono effetto della stessa azione solare e, in definitiva, ordinate a uno scopo di bene. – La conformità alla volontà di Dio non è sottomissione cieca, forzata, fatalistica, è gioiosa accettazione di una guida che ci conosce assai meglio di quanto non ci conosciamo noi stessi, è servizio leale prestato ad un Sovrano, servire il quale è l’onore massimo riserbato all’uomo. È un contraccambio d’amore che brama di ripagare nella debole misura consentitagli tutto quanto gli è stato donato, è il raggiungimento del fine pel quale fummo creati, e perciò l’unico mezzo col quale possiamo anche in questa vita trovare vera soddisfazione.

(“Ho corso la via dei tuoi comandamenti quando tu hai allargato il mio cuore.

“Insegnami, o Signore la via dei tuoi statuti e io la ricercherò sempre.

“Dammi intelletto e scruterò la tua legge e l’osserverò con tutto il mio cuore.

« Guidami per il sentiero dei tuoi comandamenti poiché in esso io mi diletto”. – Sal. CXVIII, 32-35). – E se ritroviamo Dio e la sua volontà nelle cose materiali e negli avvenimenti della vita, quanto più lo troveremo negli esseri umani dai quali siamo circondati! Come noi, essi pure, Ebrei e Gentili, schiavi e liberi, chiunque essi siano, tutti sono fatti a sua immagine e somiglianza, anche se i nostri occhi miopi stentano a riconoscerlo. La grazia non distrugge la natura, il soprannaturale non cancella ciò che è veramente naturale; se quindi la stessa natura ci inclina ad amare il nostro simile, l’amor di Dio ci spinge ad amarlo più e meglio ancora. L’amore e la reverenza verso Dio stringono maggiormente i legami familiari, il vincolo fra marito e moglie, fra genitori e figliuoli.

“E voi, o mariti, amate le vostre mogli, così come Cristo amò la Chiesa e diede se stesso per lei… Così anche i mariti devono amare le loro mogli come i propri corpi” (Efes. V, 25, 28).

Ecco l’ideale cattolico dello stato coniugale, un amore quale fu quello di Cristo per i suoi, dimostrato con la morte. A ideale della paternità, poi, è proposta la paternità di Dio stesso: “il Padre del nostro Signore Gesù Cristo da cui ogni famiglia e nei cieli e sulla terra prende nome” (Efes. III 14, 15). Ai figli pure è dato per modello Colui che per trent’anni fu “soggetto” ai suoi genitori. (Luca II, 51); essi imparano ad obbedire a quelli che alla loro volta obbediscono a Colui dal quale deriva ogni autorità. E così è dei nostri rapporti con tutti coloro che amiamo. L’amicizia non è affatto condannata da Colui che amò così teneramente i suoi amici. S. Giovanni ne è buon testimone, e S. Paolo pure, seguace del suo esempio, è una splendida fiamma di puro amore per gli amici. Così è ancora dei nostri rapporti col prossimo in genere. Per amor di Dio noi amiamo il destino, il dovere, la condizione sociale, la professione che la sua Provvidenza ci ha assegnato, precisamente perché da Lui ci vengono e perché sono espressioni della sua volontà. E per amor suo ancora amiamo i fratelli tutti, perché Egli li ama; e questo è per noi motivo assai più forte e sicuro di qualunque nostra inclinazione affettiva, e vorremmo prodigar loro tenerezza e cure: perché Gesù Cristo si sacrificò per gli uomini, vorremmo anche noi, nel nostro piccolo, spender per loro tutto ciò che abbiamo e che siamo. Far questo alla maniera di Lui, amare i fratelli perché Cristo li ama, per i motivi medesimi per cui Egli li ama e nello stesso modo, non è che dimostrare maggiormente a Dio medesimo l’amor nostro e dimostrarglielo nella maniera che a Lui più ci avvicina e che ci fa vivere una vita più nobile e più eroica di quella che la natura umana da sola possa mai sperar di attuare. “Noi dunque amiamo Dio, poiché Egli per il primo ci ha amati. Ma se uno dirà: “Io amo Dio” e odierà il suo fratello, è mentitore. Infatti chi non ama il suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede? E questo comandamento lo abbiamo da Dio: che chi ama Dio ami anche il proprio fratello”. (I Giov. IV, 19, 21). Così l’amore verso Dio ci impegna all’amore verso i fratelli, amore per i singoli e per l’umanità nel suo insieme, tutti membri di un solo corpo che è il Corpo di Gesù Cristo, ispirati tutti dallo stesso amore che è l’amor suo, acceso e ardente in ciascuno di noi. E reciprocamente, l’amore per i fratelli ci riporta all’amore per Iddio che è il principio e insieme l’oggetto di ogni amore; noi siamo il suo Corpo, siamo membri l’uno dell’altro, così vicini a Lui e fra noi che il suo spirito è il nostro spirito, la sua Verità è la nostra, infallibile e sicura, la sua Vita una cosa sola con la nostra. – Questo amore nato da Dio che è fedele e nel quale crediamo, profuso su ogni cosa esistente a somiglianza del suo, uno, santo, universale, apostolico, è l’ideale vissuto della fede cattolica. È l’attuazione del pensiero cattolico: “Da questo conosceranno tutti gli uomini che siete miei discepoli se vi amerete gli uni con gli altri”. – È questo il suo Verbo fatto carne, la meta alla quale tendono i Cattolici, e, per quanto possano in pratica rimanerne lontani, pure essi sperano, ad onta di qualunque sconfitta, di riuscire ad accostarvisi sempre più “per Cristo Gesù Signor nostro”.

F I N E

LA GRAZIA E LA GLORIA (55)

LA GRAZIA E LA GLORIA (55)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO X

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO CONSIDERATA DAL LATO DEL CORPO

CAPITOLO V

Sulla glorificazione finale della natura. La nuova terra e i nuovi cieli.

.1 – L’uomo, questo composto di spirito e corpo, ha bisogno di una dimora materiale che corrisponda all’elemento visibile della sua natura: palazzo o prigione, a seconda che sia degno di amore o di odio, amico del Re dei secoli o suo eterno nemico. Ai tempi della prova, questa dimora materiale era la terra su cui camminiamo: un luogo di delizie, finché l’uomo ha conservato la giustizia e l’innocenza; un esilio ed una valle di lacrime, quando le ha perse per sé e per la sua posterità. Sant’Agostino, dovendo trattare del paradiso biblico, esordisce con questa osservazione: « So bene che si sia parlato molto del paradiso dell’Eden, e che se ne sia parlato in modo molto diverso. Tuttavia, ci sono solo tre opinioni principali su questo argomento. Alcuni interpretano ciò che dice la Scrittura in senso puramente materiale; altri lo vedono come un paradiso puramente spirituale; altri ancora lo ritengono un paradiso sia spirituale che materiale; ed è, aggiunge, questa terza opinione che io condivido » (S. August. De Gen. Ad litt. L. VIII, c. 1). – Mi sembra che queste parole del grande Dottore riassumano abbastanza chiaramente l’idea che gli uomini hanno ancora del paradiso a cui il Padre celeste ha invitato i suoi figli. Alcuni, per eccesso di semplicità, prendono alla lettera tutto ciò che leggono nelle Scritture ed in particolare nell’Apocalisse. Non parlate loro di metafore o simboli. Arriverebbero a persuadere che questi animali, contemplati da San Giovanni nelle sue visioni profetiche, sono e fanno davvero ciò che l’Apostolo scrive di loro. Può essere un’innocente illusione, ma è priva di qualsiasi fondamento serio. Ci sono altri che sono di parere diametralmente opposto. Il paradiso è per loro la visione di Dio, è l’anima beata di cui la Trinità divina ha fatto il suo trono; e questa gloriosa città degli eletti, la nuova Gerusalemme, è solo una magnifica figura che rappresenta le ricchezze spirituali e gli splendori della Chiesa santa, ora velati. – Tra questi due modi di vedere, c’è il sentimento comune del popolo fedele che recita il Pater, quello che la Chiesa, per bocca dei suoi Dottori e Padri, ha manifestamente approvato: Dio, che nei primi giorni del mondo ha posto l’uomo in un luogo di delizie, prepara anche per gli uomini divinizzati e risorti una dimora conforme alla gloria di cui li incorona (S. Agostino: de Hæres., hær. 50 – enumera tra gli errori dei Seleucidi la negazione di un “paradiso visibile“). È lì che raccoglierà i suoi figli; per questo deve fare una nuova terra e nuovi cieli (Ap. XXI, 1). Certo, non nego che il nome di Paradiso sia molto vago e si presti a diverse interpretazioni; ammetto che si possa essere in paradiso con l’anima, quando il corpo giace sulla terra, perché il Signore disse al ladrone: « Oggi sarai con me in paradiso ». Dio non voglia che io voglia sposare la causa di tante descrizioni fantasiose in cui l’immaginazione ha dato libero sfogo. Quello che sostengo è che ci sarà certamente per i figli di Dio una dimora materiale in cui risplenderanno la loro gloria e la maestà di Dio; una dimora che supererà come all’infinito tutte le bellezze e le magnificenze dell’universo in cui viviamo. – In mancanza di testi positivi, mi basterebbe convincermi di questo considerando il mondo attuale nel suo rapporto con la nostra natura umana. Non dimentichiamo che la creazione materiale ha la sua ragione finale non in se stessa, né nei puri spiriti, ma nella creatura che è insieme ragionevole e corporea, nell’uomo. L’universo, fatto per l’uomo, è in un certo senso parte di Lui stesso; è come il grande corpo dell’umanità. Se Dio, nei suoi eterni consigli, non avesse decretato altra creazione che quella delle nature angeliche, il mondo dei corpi non sarebbe mai esistito, tanto i suoi destini dipendono intimamente da quelli della creatura intelligente e sensibile. – Questo legame è stato evidente sulla terra fin dall’inizio dei tempi ed è diventato sempre più chiaro nel corso dei secoli. All’uomo creato da Dio in tutto lo splendore della giustizia, una terra che la Scrittura chiama « un paradiso di delizie ». Ma ecco che l’uomo si allontana dal suo Dio. Subito la maledizione di Dio cade sulla terra, essa perde la bellezza della sua giovinezza, la sua prima giovinezza si esaurisce e l’uomo dovrà nutrirsi di essa con il sudore della sua fronte (Gen. III, 17). Più tardi, dopo che tutta la carne si è corrotta, l’ira di Dio si abbatte con onde vendicative sulla superficie del nostro pianeta, distruggendo con l’uomo le piante e gli animali creati per servirlo. Quante volte nella vita del popolo di Dio abbiamo visto gli elementi schierarsi a favore o contro di esso, a seconda che esso fosse docile o ribelle alla legge del Dio che lo aveva fatto appositamente suo! – Ma è dall’avvento del Salvatore che l’alleanza tra il mondo della natura e l’umanità, considerata nel suo Capo e nelle sue membra, sarà rivelata da segni più manifesti. La nuova Legge è senza dubbio un codice in cui il distacco dai beni e dai godimenti materiali ricorre quasi in ogni riga. Ma se ci è vietato abbandonare il nostro cuore alle attrattive della creatura corporea, se dobbiamo elevarlo al di sopra del mondo sensibile, vediamo tuttavia quanto l’ordine della natura fisica si mescoli alla nostra vita, intendo dire anche e soprattutto alla nostra vita di figli di Dio. – Ricorderò cosa abbia fatto la natura per il Figlio unigenito quando si è degnato di rivestirsi della nostra carne e di diventare il capo dei predestinati? È presente alla sua nascita, manifestandolo con fenomeni luminosi che conducono i pastori e i magi alla sua mangiatoia. È al Calvario, in lutto a modo suo per il suo Re: la terra trema, le rocce si spaccano, il sole si copre di tenebre. Quante volte, durante i tre anni di vita pubblica del Salvatore, non si è allontanata spontaneamente dalle leggi che la governano, per contribuire ai suoi disegni di misericordia? Ciò che è stato per Gesù Cristo, sarà per i figli dell’adozione; non basterebbero dei volumi per raccontare i fatti miracolosi in cui vediamo ciascuno degli ordini della creazione materiale venire uno dopo l’altro ad abbassarsi davanti agli uomini di Dio, come umili servitori davanti al rappresentante del loro Padrone. È la natura sensibile che sarà, attraverso i Sacramenti, lo strumento ordinario della santificazione degli uomini; è la natura che fornirà il materiale per le loro contemplazioni, i loro sacrifici, le loro immolazioni volontarie. – Così dappertutto e sempre, nell’ordine della grazia come in quello della natura, trovo la creazione materiale unita da legami indissolubili agli esseri umani. Non mi sorprende quindi leggere in San Paolo che « la creatura attende con ansia la manifestazione dei figli di Dio. Soggetto com’è alla vanità, essa nutre la speranza di essere un giorno liberata anch’essa dall’assoggettamento alla corruzione presente e di passare alla libertà dei figli di Dio; infatti – aggiunge l’Apostolo – sappiamo che finora tutte le creature gemono e sono nel travaglio » (Rm VIII, 19-22). Quindi non è solo il corpo dell’uomo, ma il mondo degli esseri sensibili in cui viviamo, che un giorno dovrà essere purificato, trasfigurato come lui. I cieli passeranno attraverso il fuoco, gli elementi si scioglieranno nell’incendio della terra con tutto ciò che contiene (2 Pt. III, 12). Ma questa catastrofe finale sarà per loro ciò che la fornace è per l’oro ed i metalli di gran valore. Non ci sarà né annichilimento né distruzione totale, ma una trasformazione completa: « perché noi aspettiamo, secondo la promessa del Signore, nuovi cieli e una nuova terra, ove abiterà solo la giustizia » (Id. ib. 13). – Un momento davvero sublime in cui Dio, rinnovando tutte le cose, farà risplendere le anime, i corpi e la natura stessa di una bellezza incomparabile ed immortale: « E vidi un cielo nuovo e una terra nuova. Perché il primo cielo e la prima terra erano passati e non c’era più il mare. E vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, che scendeva da Dio dal cielo, preparata come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal trono che diceva: Questo è il tabernacolo di Dio con gli uomini, ed egli abiterà con loro.  Essi saranno il suo popolo ed egli, Dio in mezzo a loro, sarà il loro Dio. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e la morte non ci sarà più. E non ci sarà più lutto, né lamento, né dolore, perché il primo era sarà passato. E colui che sedeva sul trono disse: Ecco, io rinnovo tutte le cose. Ed egli mi disse: Scrivi, perché queste parole sono molto sicure e vere » (Apoc. XXI I, 5). Se volete dire che questa visione di San Giovanni si riferisca alla Chiesa di Dio, non lo nego; ma bisogna anche ammettere che l’Apostolo contemplava questa Chiesa così come la vedremo nella dimora del suo eterno trionfo. Il contesto non ci permette di dubitarne: questa descrizione della nuova Gerusalemme segue immediatamente quella della risurrezione dei morti, del giudizio finale e del lago di fuoco e di zolfo dove saranno gettati satana ed i suoi complici. – Ripetiamo che questi testi di San Giovanni sono pieni di espressioni figurative sulle quali sarebbe sbagliato insistere troppo. Sono d’accordo; ed ho già sottolineato che sarebbe eccessivo prenderli troppo alla lettera. Ciò che l’Apostolo vide non era che un’immagine brillante, ma debole, della magnificenza a cui Dio invita i suoi figli. Ma queste, pur superando tutto ciò che l’immaginazione possa concepire e il nostro linguaggio esprimere, non sono né meno reali né meno palpabili. Non credo certo che questa Gerusalemme abbia mura e porte, né che il suo pavimento sia d’oro purissimo, né che nelle sue fondamenta siano ammassati tutti i tipi di pietre preziose, con compiacenza enumerati dall’Apostolo (Apoc. XXI, 11, ss.; col. Tob, XIII, 29, ss.; Is, LXV, 17,18). Ma so bene che, per darci un’idea degli splendori sconosciuti alla terra, era necessario prendere come simbolo tutto ciò che la terra offre di più ricco, seducente e piacevole ai nostri occhi. – Questo mondo corporeo così trasformato dalla magnificenza del nostro grande Dio è il Paradiso dei Cristiani; è la sala del banchetto dove il Padre celebra eternamente le nozze del Figlio con la Chiesa trionfante; è la nostra casa familiare con le sue dipendenze; è il Paradiso finale di cui quello dell’Eden era solo una figura. Si realizza così ognuno dei significati che possiamo dare alla parola « cielo »: il significato spirituale, poiché la beatitudine che ci viene promessa è soprattutto la gloria dell’anima, cioè Dio posseduto, Dio che regna sugli spiriti beati come nel suo tempio; il significato materiale, poiché la glorificazione del nostro corpo porta con sé la trasformazione del nostro universo, che è diventato per sempre la terra dei viventi. – È per queste ed altre ragioni simili che il Dottore Angelico dimostra il fatto del rinnovamento del mondo, dopo l’ultimo giudizio. « Una volta completato  il giudizio finale – egli dice – la natura umana sarà pienamente costituita nel suo termine. Ora, poiché tutte le cose corporee sono state create per l’uomo, sarà opportuno che esse passino in uno stato che sia in armonia con la nuova condizione realizzata per gli uomini. Essendo gli uomini diventati incorruttibili, la stessa creatura materiale non sarà più soggetta alla corruzione. Non ci saranno più cataclismi da temere, non ci saranno più quelle rivoluzioni che disturbano o sconvolgono l’ordine del pianeta; e questo è ciò che ci annuncia l’Apostolo, quando dice che la creatura stessa sarà liberata dalla corruzione per la gloriosa libertà dei figli di Dio » (S. Thom., c. Gent. L. IV, c. 97). – È vero che l’organismo umano, spiritualizzato dall’anima, non avrà più bisogno, come oggi, di mendicare da esseri inferiori il nutrimento per la sua vita corporea. L’intelletto non dovrà nemmeno chiedere alla creazione visibile una conoscenza delle cose divine che riceverà in modo più eccellente dall’intuizione faccia a faccia; ma l’occhio della carne, che non può raggiungere Dio, troverà la sua felicità nel contemplarlo nelle sue opere materiali. E questo è uno dei motivi per cui sarà necessario che la natura corporea riceva più ampiamente gli influssi della bontà divina (S. Thom. Suppl., q. 91, a. 1). « È ancora vero, a rigore, che gli esseri insensibili non hanno meritato un eccesso di gloria. Ma non c’è motivo per cui debba essere loro negato: perché l’uomo stesso ha meritato che fosse elargito a tutto l’universo, in quanto è un suo coronamento; così come un uomo merita di avere ricami più ricchi sulla sua veste, anche se la veste stessa non lo abbia in alcun modo meritato » (Id. ibid. . ad 5).

2. – Dopo questo, non chiedetemi dove sarà la dimora abituale ed il luogo di incontro comune dei figli di Dio risorti. Sarà con la terra uno di quei corpi celesti che vediamo brillare sopra le nostre teste; o saranno tutti insieme? Posso io saperlo, visto che Dio non l’ha detto? Mi ha rivelato che ci saranno un nuovo cielo e una nuova terra; e so che ciò che è stato creato per l’uomo sarà glorificato con l’uomo e per l’uomo, e quindi farà parte della grande città degli eletti. Non potrei dire di più senza entrare nel campo delle congetture, delle ipotesi e forse dei sogni. Non chiedetemi quali siano le nuove condizioni ed i cambiamenti che la trasformazione finale dovrà apportare allo stato fisico del nostro pianeta, né se l’intero sistema solare vi parteciperà, né se le migliaia di mondi che oscillano in profondità sconosciute nel seno dello spazio saranno inclusi nel dominio dell’umanità totalmente rigenerata; non lo so. In ogni caso, non posso essere d’accordo con coloro che vorrebbero che la dimora degli eletti fosse circoscritta dai confini della stretta dimora che ci circonda. Non è questo il significato del popolo fedele, né l’idea che ci viene quando lo Spirito Santo ci parla non solo di una nuova terra, ma anche di un nuovo cielo. Quando il mio Salvatore ci ha lasciato per il cielo, si è alzato in volo ed è andato lontano da questa terra dove viviamo. Che l’uomo, durante il suo noviziato dell’eternità, sia confinato in un piccolo pianeta, posso facilmente concepirlo; ma che la razza umana immutabilmente divinizzata non abbia un palazzo più degno della sua grandezza, mi sembra impossibile da ammettere. – Ci addentriamo ancora di più nel campo delle congetture. Perché l’intera creazione di Dio, con le sue migliaia di mondi, non dovrebbe costituire questo palazzo? La sua immensità sembra troppo per la creatura ragionevole, una volta glorificata in tutto il suo essere? Mi sembra che questo significhi conoscere molto poco dell’eccellenza e della maestosità contenute nel titolo di figlio adottivo di Dio. Che cos’è, infatti, l’intero corpo degli esseri materiali in confronto non solo ad una creatura intelligente e libera, ma ad un essere che porta in sé così perfettamente la somiglianza con Dio? E poi, chi mi impedisce di considerare mio tutto questo dominio, dal momento che è proprietà di mio Padre e io ne sono un erede? Ma se è mio, non deve condividere la mia nuova condizione? Inoltre, tra le ragioni che più fortemente sostengono che la trasformazione dell’ordine corporeo accompagni e completi in qualche modo quella dell’uomo, ce n’è più di una che militi a favore di questa ipotesi. – In primo luogo, tutte queste creature, per quanto nascoste nelle profondità del cielo, contribuiscono a loro modo alla perfezione morale dell’uomo, perché di loro è scritto: « I cieli annunziano la gloria del loro autore » (Sal. XVIII, 2). Importa poco che esse sfuggano agli sguardi della moltitudine e che, durante lunghi secoli non se ne abbia intravisto l’esistenza. Ciò che è fatto per l’uomo non deve, allo stesso modo, essere utile a tutti gli uomini. Chi mi vieta di pensare che dopo di noi verranno altri che, grazie al progresso della scienza, sapranno ciò che noi non sappiamo, come noi stessi sappiamo ciò che i nostri padri non sapevano? La terra cessa di essere interamente dominio dell’uomo, perché contiene nelle sue viscere un numero infinito di tesori al di fuori della nostra portata? Per me, trovo proprio in questo mistero, che sappiamo coprire tante meraviglie, la più sublime predicazione della grandezza, della bontà e della potenza del nostro Dio. « Tutte le cose sono vostre – scrive l’Apostolo – e voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio » (I Cor. III, 22, 23). Se tutto è per gli eletti, perché mai vorremmo staccare dalla loro corona una parte dell’universo creato? – Si potrebbe dire che stia spingendo troppo in là le conclusioni da trarre da queste parole. Così sia, ma « non è agli Angeli che Dio ha sottoposto il mondo futuro ». Gesù Cristo fatto uomo è il suo Re universale. Perché, o Dio, « Voi avete messo tutte le cose sotto i suoi piedi. E quando Dio gli sottomise tutte le cose, non lasciò nulla che non gli fosse assoggettato » (Ebr. II, 5, 8). Ammassate mondo su mondo e moltiplicate all’infinito i soli e le stelle, non ne troverete nessuno che non appartenga a Cristo Gesù. – Sarebbe forse avventato pensare che il Dio fatto Uomo, giunto, come dice l’Apostolo, alla pienezza della sua età e del suo sviluppo, li comprenderà nella gloriosa restaurazione che coronerà la perfezione finale del suo Corpo mistico? Dio, che glorificherà il Verbo incarnato con il rinnovamento del nostro pianeta, rifiuterà di imprimere alle migliaia di mondi, sconosciuti ai mortali, il sigillo della potenza e della gloria di suo Figlio, quando questi mondi non sono meno del suo impero che il più umile dei corpi celesti? È una questione di fede che l’Incarnazione ristabilisca l’uomo. Il sangue che è sgorgato sul Calvario è stato versato su tutta la creazione per pacificare e restaurare tutto ciò che è in cielo e in terra (« Instaurare omnia in Christo, quæ in cœlis, quæ in terra sunt, ipsoPacificans per sanguinem crucis ejus, sive quæ in terris, sive quæ in cœlis sunt ». Ef., I, 10; col. 1, 20): Egli ha bagnato non solo il nostro mondo, ma tutti i mondi che rotolano nello spazio e l’universo che li comprende tutti, come canta la Chiesa: « Terra, pontus, astra, mundus hoc lavantur flumine ». Pertanto, tutti gli esseri materiali, purificati, restaurati e glorificati, saranno il palazzo reale di Cristo. Cristo, infatti, si è degnato di unirci alla sua Persona, non solo come suoi amici, ma come suoi coeredi, o meglio, come sue membra. Più di una volta, mentre scrivevo queste righe, ho percepito l’obiezione che mi sarebbe stata mossa. Si ragiona come se non ci fosse altra natura ragionevole nella creazione se non quella dell’uomo. Ora, secondo un’opinione che è lecito sostenere, altre stelle, forse nel nostro sistema solare e più probabilmente al di fuori di esso, hanno i loro abitanti proprio come la nostra terra. Pertanto, è il destino di questi esseri intelligenti, e non il nostro, che questi mondi debbano condividere: e, di conseguenza, il cielo umano, per quanto si possa spingere indietro i suoi limiti, dovrà fermarsi ai loro confini. Se si accetta questa ipotesi, il rinnovamento cosmico che ci aspettiamo avvenga dopo l’ultimo giudizio dovrebbe rimanere parziale, almeno fino a quando le creature ragionevoli, distinte e separate dall’uomo, non avranno esse stesse completato la loro carriera di prova. Innanzitutto, osserviamo che in nessun punto ho posto la negazione dell’ipotesi in questione, ma piuttosto il destino dell’uomo e delle creature e le affermazioni dei nostri Libri sacri. Confessiamo, inoltre, che se l’ipotesi fosse vera, la glorificazione dell’uomo non includerebbe più la glorificazione dell’intera creazione materiale. Ma questa ipotesi è, a quanto pare, meno solida di quanto molti immaginino. – Se la terra fosse la dimora eternamente permanente dell’uomo, potremmo trarre dalla sua piccolezza una ragione plausibile per affermare che altri mondi, che la sorpassano per volume, debbano essere abitati da creature intelligenti come noi; ma poiché è una dimora temporanea, un’osteria in cui entriamo solo per andare, al termine di una breve sosta, alla dimora della sua eternità, la conclusione non è più la stessa. L’argomentazione avrebbe più forza se si dimostrasse che questi pianeti, che ci stupiscono per il loro numero e le loro dimensioni, non servissero al genere umano: perché allora sarebbe necessario, per spiegare la loro esistenza, porre altri esseri, simili a noi, che possano volgere alla gloria del Creatore; ma abbiamo già visto come essi ci insegnino a conoscere meglio le infinite perfezioni del nostro Dio. Non è, inoltre, la più bella testimonianza da rendere ai grandi e limitati destini della nostra natura, mostrarle una creazione così maestosa fatta solo per essa? – Qualunque siano queste considerazioni, una cosa è certa: la nostra terra e il nostro cielo parteciperanno alla rigenerazione dei figli di Dio. Ciò che il corpo risorto è per il corpo di corruzione, gli elementi restaurati e rinnovati saranno per ciò che ora appare ai nostri occhi. Nella sua descrizione della vita futura, lo Spirito di Dio ha tracciato, per così dire, tanti sacri geroglifici. Essi ci permettono di intravedere come sarà per noi la terra della patria; ma farsi un’idea esatta di questo fortunato paese è impossibile come per un cieco immaginare gli splendori di una bella giornata. Il regno dei cieli ci è stato rappresentato solo per immagini. Ma è anche vero che queste immagini sono il ritratto di cose molto grandi e vere, il commento eloquente di questa parola dei nostri Libri santi: « L’occhio dell’uomo non ha visto ciò che Dio prepara per coloro che lo amano » (cfr. Hettinger, Apol. del Cristian., vol. III, c. 16). Tacciamo dunque su queste meraviglie, o piuttosto ripetiamo con gli esuli di Babilonia: « Se ti dimentico, o Gerusalemme, sia dimenticata la mia stessa mano destra. Che la mia lingua si attacchi al mi palato, se perdo il ricordo di te e tu cessi di essere la mia prima gioia » (Salmo, CXXXVI, 5-7).

LA GRAZIA E LA GLORIA (56)

LO SCUDO DELLA FEDE (231)

LO SCUDO DELLA FEDE (231)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (5)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

PARTE I

LA PREPARAZIONE

CAPO II

ART. II

L’Altare.

L’Altare fu il primo monumento, che gli uomini proscritti dal paradiso terrestre, ricoverati alla meglio in questa valle di lagrime, s’affrettarono ad innalzare a memoria della perduta grandezza, e per implorare la pietà di Dio (Ben. XIV, ap. Cic. lib. 2, cap. 11, n.1). D’ allora in poi pel mondo universo l’erezione degli altari fu sempre come uno slancio dell’umana natura verso del cielo, dove sente ancora, che debbono essere collocati i suoi destini. L’erezione degli altari adunque dagli uomini fatta è come un’eco alla primitiva rivelazione, di cui si trova una parola, un argomento, un segno in tutte le religioni dell’universo (Cantù, St. Univ. v. Religione. Dei Sacrifizi religiosi del Card. Tadini; Plutarc.). Coll’ erigere in tutti i tempi, in ogni angolo della terra, dov’è un gruppo d’uomini uniti in società, altari in onore di qualunque divinità, gli uomini confessano solennemente di riconoscere il primo e l’universale loro dovere; anzi esprimono il maggiore, il sommo loro bisogno; manifestano il più naturale sentimento, il dovere cioè d’onorare Dio, il bisogno d’una felicità. senza fine, e il sentimento di demeritarla per propria colpa. Queste verità le ha rivelate Dio; e le nazioni infedeli le hanno malamente offuscate e confuse, bruttando la religione primitiva e rivelata di superstizioni miserande, che la sfigurarono. Eppure come, distrutta la civiltà, i popoli barbari rizzano le loro catapecchie sulle rovine delle città devastate, ma non ne distruggono affatto i nobili avanzi, sicché i ruderi di quelle macerie accennano alle antiche glorie, e fanno indovinare la grandezza guastata, così in mezzo alle superstizioni, di che le nazioni guastarono la religione primitiva, restano ancora alcuni avanzi di verità, quasi frantumi di antico edifizio e monumenti della sua grandezza; e le loro favolose leggende sono quasi archivi di antichissime tradizioni. Difatti in tutte le religioni vediamo confessato il dovere e il bisogno che hanno gli uomini di offrir sacrifici al loro Creatore. Ora sull’Altare di Lui, che potevano mai deporre gli uomini, che degno fosse di venire accolto da Dio? Che far potevano, se non presentargli quelle vittime, che per loro si credevano le migliori, e poi distruggerle innanzi a Lui, per protestargli di riconoscere di dovergli il tutto; ma niente potere offrirgli, che si meritasse di stare al suo cospetto? Veramente gli antichi sacrifici, più che offerte erano voti, erano come suppliche: desse agli uomini da offrirgli tale un dono che gli fosse gradito. Dio lo dà a noi questo dono, il più grande della sua misericordia, sul nostro altare. Per noi l’altare è il più bel monumento della bontà del Signore, è il fondamento di tutte le speranze, è il centro della devozione, è il focolare della carità, è il santuario delle nostre consolazioni veramente divine, è la rupe benedetta, da cui zampilla l’acqua saliente a vita eterna: sì, l’altare è come il campo, in cui si dà lo spettacolo di qual misericordia è Dio potente! – Quando gli antichi Patriarchi ricevevano la grazia di un’apparizione celeste, si affrettavano d’innalzare almeno un cumulo di pietre a monumento, che stesse a memoria del favore divino, e confortasse i posteri a sperare tutto da Dio. Ecco ora la Chiesa, che nel mezzo del tempio sotto le cupole, che si slanciano arditamente verso il cielo sublimi come il pensiero della fede che le ha inspirate, sull’eretto altare, pianta il Crocifisso, quasi dicesse: « guardate, o figliuoli, che cosa ha saputo fare Iddio per voi; poi dubitate, se potete della sua bontà!… e mostra attaccata al patibolo l’immagine del Figliuolo di Dio Crocifisso!…. Contempliamola questa adorata immagine.

Il Crocifisso.

Che bella posizione, sclameremo col gran Bossuet, ha fatto pigliare al figliuol di Dio la croce! Eccolo Crocifisso innalzato ira il cielo e la terra, e par che dica: « Figliuoli, al cielo, al cielo…; è là tutto il vostro bene che sospirate. » Il Crocifisso tien le braccia allargate, e vuol dire: « venitemi tutti in braccio; menatemi i figli; cercatemi tutti i peccatori; vi voglio portar tutti in paradiso. » Il crocifisso mostra al cielo le mani piene di sangue, e par che gridi: « Padre! pago io per li peccati di tutti. » Il Crocifisso stende le braccia sopra di noi, e vuol dire: « Padre, li amo come vita mia questi figliuoli del mio sangue: me li piglio sotto di me, come la madre stringe il bimbo al seno che lo alimenta, come la gallina copre coll’ali i suoi pulcini e se li scalda nel proprio petto. » Il Crocifisso lascia cader giù la testa, e con questo dice: « Poverini miei; tribolati, crocifissi in tanti mali con me, guardatemi come sono tutto piagato anche io! ancora un poco, e poi meco a vita eterna… » Il Crocifisso manda il sangue dal cuor squarciato; e vuol farci intendere che sta sempre pronto a pioverci il sangue sull’anima nei Sacramenti, e pigliarci in quel cuore in Comunione, e portarci in paradiso. Sì, contempliamo ancora e poi sempre Gesù benedetto crocifisso! Ve?!… tiene le braccia alzate verso il cielo; ma il peso del corpo lo strascina giù verso la terra: e vuol dire tutta la Religione cattolica. Con quelle braccia al cielo ci dice: « O figliuoli, io son Dio col Padre eternamente beato; ma fattomi Uomo con voi, là pur nel ciclo qualche cosa mi manca! ; » par che dica quasi li per cader sull’altare: « mi mancate voi altri carne della mia carne, sangue del mio sangue; il cuor mio mi tira giù, mi lega a voi in Sacramento, mi sacrifico con voi su questo altare per salvarvi meco. » Oh Crocifisso! Oh monumento della bontà di Dio, fatto nostro in sacrifizio! Oh! quando entriamo nella chiesa, contempliamo quella cara adorata immagine del Crocifisso Gesù, e, mentre quella benedetta figura ci mette sotto gli occhi visibili ed insanguinate le piaghe, che misticamente ma realmente, benché invisibili offre Gesù sull’altare nella santa Messa (C. Bona, Rerum lit. lib. 1, cap. 23, v.$, et Ben. XIV, De sac. Miss.), deh! corriamo coll’anima sotto la croce, pregando che le vive gocce del sangue divino piovano sul nostro cuore, e lo fecondino di santi affetti. Oh! per chi comprende i segreti divini nelle cerimonie della Chiesa, e vede nel Crocifisso l’immagine del Figliuol di Dio morto pei nostri peccati, basterà bene contemplarlo per guarire dalle piaghe, di che hanno i peccati avvelenato il cuore (Ecco un bel fatterello che fa comprendere quanto è caro oggetto al cuor cristiano l’adorabile immagine del Crocifisso. Predicando il Card li Cheverus, accorrevano molti protestanti attirati dall’amabile sua parola, e, vedendolo in tanta bontà, gli fecero sentire come verrebbero ben più volentieri, se non tenesse al fianco quell’idolo, dicevano, del Crocifisso: e si narra, che Cheverus il dì appresso di dal pergamo: Signori, sento che ad alcuni offende la vista il Crocifisso: io vorrei compiacerli, e per ora lo levo; e così dicendo abbassasse la croce, e la mettesse come al coperto…:. poi, rivolto a loro che restavano sorpresi, soggiunse Io ho da raccontarvi il fatto seguente: — Un dì un signore usciva di casa, e sopra via gl’interruppe addosso un assassino, che lo riversa per terra, e con un ginocchio sul petto gli drizza al cuore un pugnale. In quel frangente un buon uomo si getta sopra a difesa dell’assalito, e lo copre colla propria persona: il sicario giù un colpo cuore al buon uomo che cade trafitto sul signore protetto! Un pittore per caso quivi presente, colpito a quello spettacolo, corre a casa e dipinge al vivo, come l’aveva nell’immaginazione, il ritratto del signore caduto e del buon uomo, che morendo, lo salva: e porta il dipinto coperto al signore, dicendo: vi presento un regalo che vi gradirà: e glielo scopre in parte. « Ah! il mio ritratto, esclama, in quell’orribile istante!… » Ma il pittore alza il restante del velo… ed il signore a quel punto balza in piedi, gridando: « Ah! il buon uomo che mi ha salvato! Vi ringrazio, vi ringrazio di avermelo così al vivo dipinto!» E si getta sopra, e lo bacia, e ribacia a calde lagrime, sclamando: « Cara immagine, ti terrò sempre con me! » — Signori, dice Cheverus, alzando allora il Crocifisso: io vi presento un ritratto: guardatelo; vedete di chi è. E scopre il Salvatore, e continua: « Voi andavate tutti perduti; Egli vi coprì colla sua persona, e ricevette questo colpo nel petto!… Lascio la fredda discussione: m’indirizzo al vostro cuore, io vi dirò; Non volete l’immagine del Salvatore?… io me la porto con me …   Allora sì alza un grido da tutti, e Cattolici e protestanti esclamarono a gara: « Vogliamo il Crocifisso: Vogliamo il Crocifisso! » Cheverus l’abbassò dal pulpito, e quelli si strinsero intorno disputandosi di coprirlo di baci e di lacrime.).

I ceri e i gradi dell’altare,

Stanno sui gradi dell’altare i ceri ardenti. I gradini significano i vari gradi di virtù e di santità, per cui le anime staccandosi da questa povera terra s’innalzano a Dio per l’amor del Crocifisso. I candelieri ardenti ed il Crocifisso in mezzo mostrano i popoli credenti uniti dalle due parti opposte, giudaica e gentile a Colui, che, elevato in alto trae ogni cosa (Innoc. III, Rosm. Dell’educ. Crist.): e i ceri significano le anime che s’incamminano su per quei gradi. Ecco la nostra destinazione. Su via, colla mente illuminata dai raggi della santa fede, coi cuori ardenti di carità, giubilanti per le più care speranze, palpitando di tenerezza intorno all’altare, nel vedervi Gesù sacrificare se stesso per nostra salute, corriamogli in seno. – I ceri adunque, che spandono nelle sacre ombre del santuario, come le stelle nel firmamento, una mite luce d’intorno, e col tremolio delle loro fiammelle danno movimento, pare che spirino fra la quiete maestà dei sacri riti quasi un’anima misteriosa, e sembrano qualche cosa di più che un semplice simbolo privo di vita; i ceri, io dico, vivi e scintillanti popolano, se così lice esprimerci, di tanti esseri vivificati il santo altare. Mentre andranno a posarsi fra loro quegli angelici spiriti, che, adorando continuamente Gesù, vivono della vita della sua Divinità, anche noi mandiamo a frammischiarsi con essi, e palpitare d’amore in mezzo al tremolio dei lumi, i nostri cuori ardenti di divozione. Sembra a noi poi, che le candele intorno al Crocifisso rendendo la più bella immagine della vita cristiana, suggeriscano queste tre osservazioni: I. Le candele stanno diritte al cielo rivolte; II. Sono candidissime; III. Si consumano spandendo luce nel Santuario in mezzo al popolo. Ora, come la candela è ritta, così la vita nostra deve essere al cielo indirizzata, e noi, camminando innanzi a Dio, dobbiamo tendere alla patria nostra tenendo al Paradiso rivolto i pensieri, mentre siamo pellegrini in terra. La candela è bianca, e significa che la religione è pura, ci conserva mondi dalle brutture di questo povero secolo: perché l’oblazione di un’anima pura, quasi vittima immolata sull’altare del Dio vivente, insieme con Gesù è il culto accettevole che Dio dimanda, e rende onore alla divina Maestà, dinanzi a cui viviamo. – La bianca candela poi si consuma a gloria di Dio spargendo luce; e ci insegna che dobbiamo, come olocausto tutto a Dio devoto, consumarci in opere di carità, spargendo intanto luce di buon esempio, sicché veda il popolo le opere nostre, e renda gloria al Padre nostro, che è nel cielo. Questi ceri che ardono in pieno giorno fra le ombre del Santuario, ricordano ancora quei tempi di fervore, e di persecuzione, in cui i santi nostri misteri venivano celebrati di notte nelle oscure viscere della terra, cioè nelle (Ben. XIV, lec. cit.):

Catacombe

Eisistono ancora, in Roma specialmente, in Napoli, e altrove le catacombe; e sono escavazioni sotterraner, spesso a due o più piani, con corridoi tortuosi, che girano, e s’attraversano in ogni senso, e formano sotto la terra il più intricato labirinto di tetri viottoli, molti dei quali mettono, e s’incontrano in una camera o grotta quasi ad un centro, in cui trovi avanzi di altari o mense, con altri argomenti, che indicano aver servito alla celebrazione dei santi riti cristiani. In alcuni s’addita il luogo, ove si riponevano le lampade; anche qualche traccia di pulpito, da cui il Vescovo parlava a’ suoi fedeli raccolti; anche sedili, in cui pare si ascoltassero le confessioni. Tutto è scavato nel tufo; e sono estesi così quei sotterranei, che le catacombe sole, dette di S. Sebastiano in Roma, si credono tenere ben dodici miglia, e più di duecento miglia tutte le altre catacombe insieme. – Non si può esprimere a parole ciò che si sente in cuore nel visitarle! Immaginatevi per una scaletta, o per ripida scesa, di scendere giù nelle viscere della terra, e di trovarvi in mezzo a centomila sepolcri scavati nel tufo, a tre piani orizzontali, nei due fianchi di quegli anditi. In quel tenebrore, in mezzo a quei morti di benedetta memoria, a cui dà vita la fede nostra, che è la medesima di quei prodi, che la difesero col sangue, voi colla vostra fiaccola in mano cercate ansiosi di visitarli. Ben vi pare di parlare con ciascun di loro, d’interrogarli dei patimenti e dei tempi loro, ed in quelle lapidi leggere la risposta; e quasi vi compiacete di stender loro la vostra mano, di baciare quei cari fratelli di eterna speranza. Mettete la candeletta fra le fessure dei lastroni scassinati di tufo o di terra cotta, e vedete dentro le ossa dei martiri con al fianco l’ampolletta del sangue raccolto, e talvolta lo strumento del martirio. Qui un pontefice, poi un vergine illustre, od un soldato; colà un fanciullo, poi una matrona romana; poi un padre, una madre, e intorno tutti i figli sepolti l’un all’altro vicini, e tutti martiri: e sopra il tufo rozzamente graffiato con un saluto il nome del martire, e un simbolo della vittoria e della vita eterna, e più sovente la semplice scritta: è morto per Cristo: il che significa l’anagramma figurato in questo modo XP. –  Convien pur dire che quei nascondigli fossero cari alla pietà dei fedeli, che, adornandoli di pitture, mosaici, e talvolta anche di graziose sculture per esprimere con divozione i santi misteri, ne fecero la culla dell’arte cristiana. Là nelle viscere della terra, in quelle figure del Redentore, di Maria e dei Santi, rozze, se vuoi, e di duro contorno, ma altrettanto devote e care, tu scorgi l’arte cristiana ancora bambina; ma traspira dentro un casto sorriso di bellezza più pura della terrena, che accenna già allo splendore della celeste bellezza che si sarebbe rivelata pei sommi Raffaello o Michelangelo e nel grazioso e melanconico Gaudenzio Ferrari e nell’Angelico pittore Beato! che rapito in estasi coglieva in cielo quei tipi di bellezze di paradiso, e le traduceva in quelle sante amabilissime sue Madonnine, in quelli angioletti vestiti di corpicciuoli, diresti spiritualizzati, che ti rubano il cuore ad amore divino. Così le arti sorelle, appena comparve la religione cattolica, si affrettarono ad offrirle l’umile tributo di loro servitù; ed essa in contraccambio spirò in quelle la propria divinità. Le ha ben ricompensate! Fino dalle prime persecuzioni ordinò la Chiesa con sapiente disposizione. Notai, che tenessero registro degli atti dei martiri, del dì del martirio, e del luogo di loro sepoltura. Meritano pure di essere ricordati quei generosi, a cui era affidata la cura delle preziose reliquie dei Santi scannati. Essi si chiamavano Fossori o Fossari; e trovasi talvolta nelle catacombe dipinto il Fossore in atto di scavare la fossa; mentre un altro gli fa lume colla lucerna. Questi Fossori vanno contati fra i maggiori eroi del Cristianesimo: perché, e si esponevano ai persecutori, affine di raccogliere gli avanzi dei Martiri trucidati, e passavano la vita in quei tetri sotterranei nel preparare depositi ancora in bell’ordine, e talvolta lavorati con amore e buon gusto, ai santi cadaveri dalla persecuzione mandati giù loro in abbondanza (Ognora si vanno trovando sempre nuovi monumenti che provano essere stati  moltissimi i martiri, vedi la Civiltà Cattolica. fasc. del 1 luglio 1854. Fra tanti monumenti che provano il numero dei martiri, piace qui presentar due sole iscrizioni fra le moltissime raccolte dai Visconti. (Memorie Romane d’ntichità, Roma 1825).

I

MARCELLA ET CHRISTI MARTIRES CCCCC L.

II

HIC REQUIESCIT MEDICUS CUM PLURIBUS

CL MARTIRES CHRISTI

Sovente poi si mettevano solamente numeri, che forse indicavano i martiri colle corone e palme.). Il Sacerdote poi, i discepoli, le anime fervorose, massime le donne dedicate alla pietà, come si facevano un santo impegno di mandare pei diaconi i loro soccorsi di carità nelle prigioni ai confessori; così, quando venivano uccisi, era per loro un dovere di tenera religione raccogliere ì cadaveri, ed anche nasconderli nelle proprie case, e sovente spedire le reliquie alle diverse chiese (Oltre alle catacombe, che sono piene di monumenti, che parlano della devozione, con cui si raccomandavano ai Santi i primi fedeli, non possiamo trattenerci di riportare questi due fatti. Quando si era per tagliare la testa a s. Cipriano, ì fedeli corsero in quel pericolo a stender d’intorno a lui i pannolini, per raccogliere il sangue prezioso. Poi non si può leggere niente di più tenero e di più devoto di ciò che scrive s. Giovanni Grisostomo della venerazione, con cui furono ricevute le reliquie di s. Ignazio che soffrì il martirio a Roma, 100 anni dopo Cristo. Egli era vescovo d’Antiochia, e vediamo che il suo corpo fu traslocato di città in città alla sue sede, come un tesoro inestimabile. Di questa traslazione ecco come parla eloquentemente S. Giovanni Grisostomo: « Quando egli dunque soggiacque in questa città (di Roma), o piuttosto, quando salì al cielo, rivenne per essere coronato, perché la volontà di Dio volle ch’Ei ritornasse fra noi, e il martire fosse diviso tra le nostre città. – Quella città vide colare il suo sangue, ma voi avete onorato le sue reliquie e vi siete rallegrati del suo vescovato. A Roma si sue reliquie, e vi si vide lottare, vincere e trionfare; voi lo possedete ognora: Dio ve lo tolse per poco tempo, e ve lo rendette con molto più di gloria. E siccome coloro, che prendono a prestito del danaro, danno poi con usura ciò che ricevono, così Dio, avendo preso per un istante questo prezioso tesoro, ed avendolo mostrato a quella città, ve lo ritorna sfolgoreggiante di nuovo splendore. Avete spedito un Vescovo, ed avete ricevuto un Martire; lo avete mandato con preghiere, e lo avete ricevuto con corone, e non solo voi, ma tutte le città, che si sono trovate sul suo passaggio; poiché da quali sentimenti non sono state comprese, quando videro traslocare queste reliquie? Quali frutti d’una santa gioia non hanno esse raccolto? Con quali acclamazioni non hanno salutato il coronato vincitore? In quella guisa che gli spettatori si slanciano nell’arena si impadroniscono del nobile combattente, che, superati i suoi avversari, si avanza nella sua gloria, non permettendogli toccar terra, e portandolo seco in trionfo; nella stessa guisa tutte le città, ricevendo alla loro volta da Roma questo santo uomo, hanno recato ed accompagnato il Martire vincitore fino a quella città, celebrando con inni la sua gloria, e trionfando del demonio, i cui artifizi ricaddero in suo proprio disdoro, e il quale, adoperandosi contro il Martire, non ha adoperato che contra se stesso. » (Hom. in s. Ign. mart.). Impertanto scorgiamo che le reliquie dei Santi sono onorate da coloro che gli hanno rate dai discepoli immediati degli Apostoli, da coloro che li hanno conosciuti, e che dalla venerazione di quelle si cavarono col più gran rispetto sublimi lezioni, tenendole le chiese, che le possedevano, come un pegno per ottenere grazie da Dio per l’intercessione dei Santi.). – Le catacombe, massime in Roma, diramansi intorno, e sotto gli edifizi della città. Alcune eran in principio scavate per estrarre la pozzolana, specie di calcina per fabbricare; le più erano scavate per servire alle sepolture: e quindi guardate come luoghi sacri, in cui era quasi pei pagani una profanazione il penetrarvi. Restavano adunque come un rifugio dove nascondersi i fedeli cerchi a morte. Qualche volta dall’interno delle case si passava in quei sotterranei. Di qui avveniva che le case dei più ragguardevoli fedeli servivano di chiese, cioè luoghi di adunanze o di collette; e i sotterranei di cimiteri. Illustri sono i Cimiteri o Cripte o Catacombe di S. Lucia, Priscilla e Lucina, ecc. Così di quei nascondigli presero pratica i Cristiani perseguitati, e li scelsero per convegno ai vivi, e per sepoltura ai morti. Succedeva adunque un martirio? I coraggiosi fedeli, col pericolo della propria vita, raccoglievano gli estinti, il sangue sparso, i ferri, i sassi, e tutto che fosse del loro sangue prezioso consacrato; componevano quelle membra lacerate nelle nicchie scavate, dove ora le troviamo, Chiamavano poi quei santi asili della morte col soave nome di Cimiteri, cioè dormitori: espressione di una coscienza pura e tranquilla consolantesi nella certezza di svegliarsi all’altra vita, dopo il sonno della beata morte cristiana. – A chi visita Roma con cuore ben disposto alle inspirazioni della fede cristiana, tutto parla di pietà e di fervore, e lo fa vivere e conversare coi Santi in quell’alma città, centro della Religione, e come casa propria della Madre universale della cristiana famiglia, singolar medo di comunione cattolica! Ad ogni passo egli trova una casa, un monumento, una pietra, che lo mette in relazione con un eroe del Cristianesimo. Là può sedersi e meditare sopra a cento e mille tombe che stanno intorno a quella di s. Pietro, monumenti eloquenti della religione Divina da lui predicata. Quando s’entra, per esempio, nella chiesa di S. Prassede, eretta sull’area della casa di questa ricca Verginella, e si vede la statua della vergine in atto di spremere le spugne inzuppate del sangue dei Martiri, per nasconderlo in un pozzo che ancora è là scavato; a quella vista, in quel luogo dinanzi a Dio nel santo ciborio, che nella sua eternità ravvicina tutti i tempi nell’istante presente, pare allora di veder qualche cosa di più di una morta immagine, e sì veramente sì sente, si gode la comunione dei Santi. – Nelle catacombe adunque, che s. Girolamo chiama vere basiliche della morte, si raccoglievano dì e notte i fedeli a celebrare i santi misteri; e mentre Roma incestuosa e micidiale, spalancante le porte al vitupero, era invasa da prostituzioni e da suicidi, ed i Romani erano vili così da adorare sull’altare il delitto, incensando al dio Nerone: anime, che quel mondo era indegno di possedere, nelle viscere della terra si apparecchiavano a fecondar col sangue la rigenerazione dell’umanità, col rinnovare sulle tombe dei sacrificati il sacrificio del Dio-Uomo morto per tutti in croce, pregando per quelli, che lo crocifiggevano. Intorno a quelle tombe si raccoglievano nascostamente sbucati dalle città e dagli ergastoli degli atroci padroni. e venivano a trovarsi liberi e schiavi con Pontefici miracolosamente scampati al martirio e filosofi mutati in apostoli, che in quella dottrina trovavano la soluzione di quelle interminabili questioni (Cantù, Storia universale). Quivi ricevevano col vero il Pane Celeste, giravano il calice del Sangue Divino, e celebravano insieme l’agape, cioè facevano carità mangiando insieme ricchi e poveri i cibi a gloria di Lui, che li dà, e rallegravano la sacra accolta nella fratellanza dell’affetto e nella gioia del perdono per l’amor di Dio, così consolante in pure coscienze. Seduti all’ombra di morte giuravano su quelle tombe la fede, e si confortavano colla Comunione a confermarla in faccia alle genti nelle tremende prove sul patibolo, sopra il fuoco, ed in mezzo alle fiere dell’anfiteatro forse dimani; se pure non venivano là in quegl’istanti scoperti e scannati sull’altare, così mischiando il proprio sangue col Sangue di Gesù Cristo in Sacrificio, come avvenne al Pontefice s. Stefano, trafitto nelle catacombe di S. Sebastiano sull’altare, e dai fedeli quivi sepolto, quale era vestito, insieme colla cattedra su cui fu scannato.

La pietra Sacra.

Data pace alla Chiesa dall’imperator Costantino, fu una santa letizia per tutta la cristianità: allora sbucavano i Sacerdoti dallo squallido silenzio delle catacombe a celebrare i riti della nuova alleanza, e a spiegare al cospetto del mondo lo splendor maestoso del puro culto divino. Allora Pontefici e Vescovi dedicare chiese a pieno sole, specialmente sopra quei sotterranei, e a celebrare la memoria dei Martiri, che là eran sepolti. Quivi tutti i fedeli sicuri, riconoscendosi fra loro, si abbracciavano, e saldavano la fratellanza col Sacrificio della perpetua commemorazione; e cantavano inni a Dio, che aveva sedate le tempeste, sui gloriosi sepolcri, che restavano nell’interno delle chiese sotto le mense, e che, a ricordo del loro coraggio, chiamavano confessioni. E perché sotto ma chiesa sola spesso erano molto tombe di Martiri illustri, che meritavano un particolare monumento, moltiplicossi fino d’allora il numero delle cappelle al modo appunto che si vede nelle chiese moderne, e si mandò poi a raccogliere reliquie di santi Martiri, e se ne deposero frammenti in tutti gli altari; e dei Martiri più chiari per meriti e per singolare gloria di combattimenti, o per opere, o per miracoli, si collocavano i corpi in urne preziose. Di qui l’uso di foggiare a modo di urna sepolcrale il cippo, Su cui posano le mense degli altari anche ai dì nostri. Religiosamente osservando questo costume, scriveva S. Ambrogio a Marcellina sua sorella, che la basilica di Milano egli non voleva consacrare, come si usava in Roma, se non trovasse reliquie di Martiri (Epist. 51 ad Marcellinam sor.), come poi consacrò di fatto, trovati ch’ebbe i corpi de’ ss. Gervasio e Protasio. Quindi poi le pietre consacrate, per servire di mensa per celebrare, hanno tutte nel mezzo un sepolcreto, entro il quale sono sigillate le reliquie dei santi Martiri (Conc. Alric. vulgo dictura cap. 56, Bon 1, Celert. 1, ex Conc. Carth. 7, et Ben XIV loc. cit, S. August. 113 sermo.), ed anche di altri Santi (Maasi, Del vero Focl. Vol. 2, Lib. 5, cap. I). Così sull’altare cattolico a’ piedi del Crocifisso sono deposte le spoglie di quegli eroi, che resero il più grande onore che uomo potesse a Dio, sacrificandogli tutto se stessi. Questi uomini sentivano di non aver la vita per altro che per darla a gloria di Dio; caddero a piè della Croce, e vi lasciarono i loro corpi, trofei della vittoria, che sopra del mondo riporta la croce piantata sulle gloriose spoglie di più milioni di martiri. Questi milioni di Martiri sono il più grande olocausto e il più degno del cielo, che sulla terra potevano offrire gli uomini rigenerati dal sangue di Dio fatto Uomo. Così si può dire veramente che la terra ha dato tal frutto, che il cielo non poteva aspettare migliore; né poteva essere altare più santo delle tombe dei martiri, sopra cui offrire a Dio il gran sacrificio, che i corpi dei suoi fedeli sacrificati. Come nel tempo della persecuzione la santa Messa si celebrava sulle tombe dei Martiri, così anche a’ dì nostri sopra le loro ossa si sacrifica il sacratissimo Corpo di Gesù, che in loro trasfuse tanto eroismo di virtù, che seppero morire per Dio, e che fu per loro, ed è per noi, arra e pegno di risurrezione alla vita dell’immortalità. Qui intanto accompagnano dall’altare il gran sacrifizio coi profumi dei loro sacrifici particolari (S. Paulin. Ep. Nol. in 6 feb. nar. 9 post medium in epist. Ad Severum.).

Il Pallio, e il vario colore dei drappi sacri.

L’altare si para a festa, e si addobba del ricco Pallio, che è un drappo, che lo fregia con decoro, e pende dinanzi sotto la mensa di color corrispondente a quello delle sante vesti, di che si parano i ministri. Anche nelle famiglie il dì delle gioie più care va distinto di vesti più gaie, come hanno le loro vesti i giorni di corruccio e di duolo. Tutto è armonia nella Chiesa, e col variar dei colori mostra la varietà delle celesti attrattive (Ps. XLIV), che rende questa sposa terrestre si bella agli occhi dello Sposo divino. Co’ diversi colori, giusta la diversità dei tempi e delle feste, si esprimono i diversi affetti dei fedeli, or di letizia per la gloria di Dio, ora di gratitudine pei suoi benefizi, or di fortezza nelle avversità, ora di afflizione per i propri o gli altrui peccati (Bona. Trac. ant. Loc. cit.). Nel bianco colore risplendente d’oro, ora tu intendi i gigli di purità, che adornano le vergini sposate a Dio eternamente in Paradiso; ora l’illibato costume di quegli austeri penitenti, la cui vita è così caro spettacolo agli uomini ed agli Angioli: ora la carità di quei Pontefici, e Sacerdoti, che, consumandosi nei travagli del loro ministero, generarono tanti figli pel paradiso. Nel color rosso contempli il sangue sparso , e le rose eterne, di che risplendono i Martiri in gloria. Poi nel color della melanconica viola intendi il gemito della Chiesa, che in mesto ammanto si presenta al grande Sposo signore dei cuori, e lo prega, che converta i figli suoi peccatori: ora invita noi, vestiti a lutto, ad accompagnare colla nostra preghiera il gran sacrificio, per espiare le colpe dei confratelli che gemono nel purgatorio: mentre appiè delle tombe rallegra l’orror della morte colla speranza del paradiso (Ben. XIV, lib. I, cap. 8, n. 16 et Ugo Op. cit.). Finalmente nel color verde usato in tutte le feste dell’anno, in cui non si faccia festa particolare, e non sia tempo di duolo e penitenza, la Chiesa fa intendere, che questo è il tempo di seminare in opere buone, affine di raccogliere in vita eterna, essendo questo non il tempo di godere, ma di sperare e di preparar l’eternità. Il bianco pannolino che si stende purissimo sopra la sacra mensa, ricorda il lenzuolo in cui fu involto dopo morte la santissima salma del Redentore, e la purezza, che deve aver l’anima e il cuore, in cui ha da discendere Gesù Cristo (Isidorus Pelusiota lib, I, ep. 123. Beda Hom. Rabanus lib. L de rit. Cler.).

LA GRAZIA E LA GLORIA (54)

LA GRAZIA E LA GLORIA (54)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO X

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO CONSIDERATA DAL LATO DEL CORPO

CAPITOLO IV

Sulla condizione dei risorti dal punto di vista dell’attività vitale.

1. – Non abbiamo detto tutto sulla parte che sarà fatta ai corpi dei figli di Dio nella beatitudine eterna. La beatitudine non è tanto nell’essere e nel potere, quanto nell’atto. Glorificato dall’anima, il corpo avrà tutte le operazioni dei sensi che gli sono proprie? La risposta affermativa, per quanto certa, non manca di presentare alcune difficoltà. I nostri teologi, che le hanno riportate solo per risolverle, le riducono a due principali. Si veda, innanzitutto, come si producono le percezioni sensibili, siano esse della vista, dell’udito, del gusto, dell’olfatto o del tatto. Ovunque e sempre, l’organo deve subire l’azione di un agente esterno, cioè deve patire. Da qui l’assioma del principe dei filosofi: “sentire è soffrire: sentire est quoddam pati” (Arist., de Anima, t. II, testo 118). È possibile conciliare questa condizione necessaria con l’impassibilità? – Inoltre, è un fatto di esperienza che se l’intelligenza è fortemente presa da un pensiero, il corpo diventa come insensibile a tutti gli stimoli esterni; non si può vedere o sentire più che se si fosse ciechi o sordi. Mille fatti naturali lo testimoniano, e i fenomeni soprannaturali di estasi e rapimento, raccontati nelle vite dei Santi, non possono lasciare dubbi nella mente dei credenti.  Se l’esercizio delle facoltà sensitive è incompatibile con le alte contemplazioni di questa vita, come potrebbe non esserlo quando Dio si mostra faccia a faccia in tutto lo splendore della sua luce? – Vedremo presto come queste ed altre difficoltà simili possano essere risolte. Ma anche se fossero cento volte più imbarazzanti, il fatto sarebbe innegabile: perché rifiutandolo, dovremmo affermare che la risurrezione di Gesù Cristo non è il modello della nostra, diciamo di più, che non ci sarà alcuna risurrezione per gli eletti di Dio. Infatti, se Gesù Cristo è il modello divino su cui Dio riformerà i loro corpi, è ovvio che essi dovranno godere del perfetto esercizio delle facoltà sensitive: perché Gesù Cristo, risorto dai morti, lo ha dimostrato nella sua Persona, come attestano sia i Vangeli che gli Atti. – Ho aggiunto che sarebbe necessario negare la resurrezione stessa. Perché dovrebbe essere così? Perché le facoltà organiche eternamente inattive e senza atti sarebbero una contraddizione in un corpo posseduto da un’anima glorificata: a cosa servirebbero le potenze, quando le si tolgono le operazioni proprie, cosa che è ragione della loro esistenza: lungi dal partecipare alla beatitudine dell’anima, questa massa insensibile ne sarebbe un ostacolo. Come gli idoli delle nazioni pagani, essa avrebbe occhi per non vedere e orecchie per non sentire; mille volte più imperfetto, nello stato di perfezione finale, di quanto non fosse nello stato di imperfezione originaria. – Monumento eterno di un’opera incompiuta, darebbe inoltre una smentita formale alle promesse del Salvatore: è la vita eterna che Egli ha promesso all’uomo intero, nel suo spirito e nel suo corpo. « I vostri padri – Egli diceva ai Giudei – mangiarono la manna e morirono. Chi mangia questo pane vivrà eternamente » (Gv., VI, 49). È quindi evidente che i nostri sensi avranno la loro attività. E se il cielo si differenzia dalla terra, è perché lì questa attività si dispiegherà in operazioni incomparabilmente più eccellenti di quelle che potrà mai esercitare durante la prova.

2. Inoltre, la Scrittura non si accontenta di affermare in generale queste operazioni della vita sensibile; ci descrive in molti punti le loro diverse manifestazioni. « Io so – dice Giobbe – che il mio Redentore vive… e io stesso lo vedrò, i miei occhi lo vedranno, io stesso e non un altro, e questa speranza riposa nel mio seno » (Giobbe XIX, 27). Sì, i nostri occhi di carne vedranno il Re Gesù, il più bello di tutti i figli degli uomini, e quella grazia incomparabile diffusa sul suo volto; lo vedranno, e nella sua santa umanità, mille volte più trasparente del cristallo, ammireranno il cuore ardente e radioso che ci ha tanto amati: e questa sola vista basterebbe a gettarci nell’estasi eterna. E anche Voi, o Maria, mia Regina e mia Madre, Vi contemplerò sul trono della vostra gloria, la più bella delle creature dopo vostro Figlio, vestita di sole e con il capo coronato di stelle (Apoc. XII, 1); e il vostro sguardo incontrerà il mio sguardo, e sentirò il mio cuore sciogliersi d’amore alla vostra presenza. Tutti questi benedetti abitanti del cielo, figli di Dio, li vedrò nella loro carne e con gli occhi della mia carne, una moltitudine immensa che nessuno potrebbe contare, in piedi davanti al trono, alla presenza dell’Agnello, vestiti di vesti bianche e con le palme nelle mani (Ap. VII, 9). In questa folla di volti amici riconoscerò quelli che ho conosciuto sulla terra, e chi può dire la gioia di questo incontro? Chi può dire la delizia in cui ci getterà la contemplazione di questa nuova terra e dei nuovi cieli, brillanti davanti a noi per magnificenza ed uno splendore rispetto ai quali tutto ciò che il nostro mondo offre di più ricco e bello non è nulla. – Vedremo con gli occhi ed ascolteremo con le orecchie; e cosa ascolteremo? Delle armonie ineffabili: l’inno di quei beati che « gettando le loro corone davanti al trono del Signore, ripetono in coro: Tu sei degno, Signore nostro Dio, di ricevere gloria, onore e potenza » (Apoc. IV, 10, 11); il cantico nuovo che i soli Vergini possono cantare seguendo l’Agnello, lo Sposo sacro delle Vergini (Apoc. XIV, 3, 4); l’Alleluia senza fine che risuonerà in tutte le strade e le piazze della Gerusalemme celeste (Tob. XIII, 22): i canti dei vittoriosi nel giorno del loro trionfo, i canti dei commensali seduti allo stesso inebriante banchetto, canti d’amore che riposa nel godimento dopo lunghi sospiri e amari dolori, canti di lode che non si stancano di benedire ed esaltare Colui la cui gloria e i cui benefici superano ogni concezione. Che dire poi delle parole, così dolci e così affettuose, che gli eletti di Dio si scambieranno tra loro nella misteriosa lingua del paradiso: infatti, molto meglio che nei tempi passati, questo popolo, che avrà un solo cuore ed una sola anima, avrà una sola pronuncia ed una sola lingua (Gen. XI, 1). Inoltre, poiché tutti saranno ascoltati e compresi da tutti, il dono delle lingue cesserà per sempre: « linguæ cessabunt », dice San Paolo (I Cor. XIII, 8). – Ecco un passo originale di Sant’Agostino, che si riferisce al nostro argomento. L’ho tratto da un sermone che tenne al suo popolo ad Ippona sulla risurrezione dei morti. « Che cosa faremo in cielo? Quello che so, fratelli miei, è che lì non dormiremo in un triste ozio, perché il sonno ci è stato dato per riparare le nostre forze, che una costrizione troppo prolungata finirebbe per spezzare. Quindi non c’è sonno. Dove non c’è la morte, non ci deve essere l’immagine della morte. Nessuno, però, deve temere la noia, quando gli si parla di una veglia perpetua in assenza di qualsiasi lavoro. Posso dire che non ci sarà noia; come questo avverrà non posso dirlo, perché non lo vedo ancora. Ma posso dire senza temerarietà, perché lo dico secondo le Scritture, quale sarà la nostra azione. Sarà tutta nell’Amen e nell’Alleluia. Che ne dite, fratelli? Vedo che avete inteso, e questo vi rende felici. Ma non continuate a fare pensieri carnali e a rattristarvi al pensiero che se uno di voi dovesse stare in piedi e ripetere continuamente Amen e Alleluia, si addormenterebbe alle parole e chiederebbe solo di tacere. No, non continuate a disprezzare questa vita in cielo e a dire a voi stessi: Cosa! dire sempre Amen e Alleluia; chi potrà mai stare al passo con questo? – Quindi parlerò, se posso e come posso. Non diremo Amen o Alleluia per mezzo di suoni passeggeri, ma con l’affetto dell’anima. Perché cos’è l’Amen? Che cos’è l’Alleluia? Amen, è vero; Alleluia, lode a Dio. Perché Dio è la verità immutabile, senza difetti, senza progresso, senza diminuzione, senza alcuna mescolanza di falsità; la verità perpetua, stabile e sempre incorruttibile; perché, invece, ciò che facciamo nella creazione visibile, nel corso della nostra vita mortale, non è che una figura delle realtà a venire, e non camminiamo in piena luce, ma nella fede. Quando vedremo faccia a faccia ciò che vediamo in enigma e come in uno specchio, allora con un sentimento molto diverso, ineffabilmente diverso, diremo: è vero; e dire che è vero è dire Amen, ma con insaziabile sazietà. Poiché non ci mancherà nulla, ci sarà sazietà, e poiché ciò che non ci mancherà mai, ci rallegrerà sempre, sarà, se così si può dire, una sazietà insaziabile. Insaziabilmente soddisfatti della verità, ripeterete con non meno insaziabile sazietà: Amen. – « Ma chi potrà leggere ciò che è vero, ciò che l’occhio non ha visto, né l’orecchio ha udito, ciò che non è salito al cuore dell’uomo? Perciò, mentre contempliamo il vero con evidenza e certezza, senza smentite, con una fedeltà sempre nuova, infiammati dall’amore della verità stessa, incollati per così dire alla stessa verità da un abbraccio delizioso, casto e tutto spirituale, con la stessa voce esalteremo il nostro Dio e diremo Alleluja! Animati gli uni gli altri a cantare una lode uguale e comune, uniti nel più ardente amore per Dio e per i fratelli, tutti gli abitanti della città del cielo diranno Alleuja, perché diranno Amen. » – S. Agost., Serm 362, n. 29; col. N. 31.]. – Avendo letto nella storia dei Santi quali deliziosi profumi emanassero talvolta i loro corpi, anche e soprattutto quando la morte aveva fatto il suo lavoro in loro, non posso persuadermi che questi stessi corpi non esaleranno profumi meravigliosamente più dolci, una volta che Dio li avrà glorificati.  Poiché questi odori non erano più della terra e non avevano un equivalente tra le cose conosciute. Se talvolta coloro che li hanno annusati, volendo darne un’idea, ce li rappresentano come una miscela in cui si combinano in modo ineffabile i più squisiti profumi della terra, il più delle volte hanno una sola espressione per caratterizzarli: è un odore celestiale, un odore soprannaturale, un odore di santità, un odore di paradiso (cfr. a questo proposito M. J. Ribet, La mystique divine, t, IT. 2° p., 27). Non è quindi in cielo che dobbiamo vedere una semplice figura in questa apostrofe dello Sposo alla sposa, cioè dire a ogni anima fedele: « O sorella mia, sposa mia, l’odore dei tuoi profumi è al di sopra di tutte le spezie, e l’odore delle tue vesti come l’odore dell’incenso. Ella è il giardino chiuso, mia sorella, mia sposa… Là ci sono cipro col nardo, croco e zafferano, canna e cinnamomo, mirra e aloe con tutti i profumi più preziosi » (Cant. IV, 10-15). Quali saranno dunque le ineffabili fragranze esalate dalla carne del Salvatore, che profumeranno tutto il cielo e porteranno nelle anime quelle che sono le dolcezze celesti? – Dolcemente inebriato di profumi dall’olfatto, l’eletto avrà ancora i piaceri del gusto. Non è forse a questo che potremmo adattare queste parole dell’Apocalisse: « Al vincitore darò una manna nascosta » (Apoc. II, 17). È certo che questa misteriosa soddisfazione del gusto non viene dal mangiare o dal bere, perché un corpo spiritualizzato non usa il cibo. Ma, a parte questa fonte grossolana, Dio saprà trovare altri mezzi per compensare l’organo del gusto per le privazioni imposte dalla penitenza. Si dice che San Felice da Cantalice provasse un incomparabile piacere nel pronunciare il nome di Gesù, come se avesse assaporato il miele più delizioso. “Mel in ore“, dice il devoto San Bernardo, parlando dello stesso Nome. Chi può dubitare che il nome di Maria non provochi un piacere simile a chi lo ripete per benedirlo? Il tatto non sarà meno perfetto, né meno adatto degli altri sensi nel suscitare in noi le impressioni più delicate. Ma allontaniamo da noi tutte le immagini e i pensieri di gioie disordinate e di piaceri grossolani: dove la carità regna sovrana, dove la concupiscenza è spenta, dove la legge delle membra ha lasciato il posto al dominio trionfante dello spirito, tutto è puro e tutto è santo. Puri e santi sono i baci posati sulle sacre piaghe del Salvatore e sulle mani benedette della sua divina Madre; puri e santi sono anche i casti abbracci dati sotto lo sguardo di Dio, e tanto più dolci al cuore perché il primo motivo è l’amore divino. – Questo è ciò che dobbiamo sempre ricordare quando parliamo delle operazioni sensibili dell’età futura e del piacere che le accompagna. Tutti vanno a Dio. Un piacere che non si potrebbe gustare se non per amore, sarebbe un orrore e diventerebbe il più intollerabile dei tormenti. « Il mio cuore ha sussultato di gioia, la mia carne ha trasalito per l’eccitazione – dice il Profeta reale – ma è per il Dio vivente » (Sal. LXXXII, 3). È ispirata dallo stesso sentimento, la moltitudine di cui San Giovanni, l’Apostolo del cielo, ha sentito la grande voce che diceva: « Alleluia, perché il Signore nostro Dio, l’Onnipotente regna. Rallegriamoci, esultiamo e rendiamo gloria a Lui, perché è giunto il tempo delle nozze dell’Agnello » (Ap. XIII, 6-7). Certamente ella accetta la gioia: perché questa gioia è un dono di Dio, in cui ella lo ama. Non solo lo accetta, ma è entusiasta di gioire con tutte le sue forze, perché la gioia degli invitati è la gloria del Re che li ha radunati per il banchetto di nozze eterno dello Sposo, suo Figlio. – Non immaginiamo quindi lo stato del cielo come un’estasi immobile, dove tutte le forze del corpo sono sospese. No, il paradiso sarà per l’uomo esteriore, così come per l’uomo interiore, una vita pura, libera, piena: l’esercizio senza fatica, senza ostacoli, senza affanni, sovranamente perfetto e sovranamente delizioso, delle nostre facoltà spirituali e corporee. Bisogna essere ignoranti delle cose della fede, come lo sono i nostri moderni increduli, per mettere la beatitudine dei Cristiani nel sonno inerte e totale che essi perseguono con le loro beffe.

3. – Potrei passare oltre e dire, come fece una volta la venerabile Giovanna d’Arco ai suoi giudici, “Confido in Dio”. Ma a questa soluzione generale se ne possono aggiungere alcune particolari. Innanzitutto, è un fraintendimento della dottrina aristotelica prendere la sofferenza che essa rivendica nelle percezioni sensibili per la sofferenza esclusa dal dono dell’impassibilità. Non nego che questo doppio patire non sia unito nel nostro attuale stato di imperfezione. Troppo spesso la luce, la cui impressione sull’organo ha determinato la visione, stanca l’occhio e lo danneggia. Quindi, a parità di condizioni, le stesse cose accadono agli altri sensi. È soprattutto l’immaginazione che, applicata troppo fortemente e troppo costantemente agli stessi oggetti, finisce per alterare il suo organo; ed è per questo che il lavoro del pensiero, quando è perseguito senza prudenza, provoca una stanchezza che può portare persino all’esaurimento. – Ma questi due fenomeni, l’impressione che determina la percezione sensibile e l’alterazione più o meno notevole dell’organo che essa provoca, quando è troppo vivace o troppo continua, sono distinti e separabili; altrimenti si dovrebbe dire che nessuna operazione dei sensi si svolge senza fatica e senza lesioni organiche, il che è manifestamente contrario all’esperienza. Non confondiamo quindi la passività delle facoltà organiche con la patibilità e, poiché quest’ultima scompare nella gloria, pretendiamo che la prima scompaia con essa. Ora, se la passività permane, cioè se l’organo animato rimane sensibile alle influenze esterne degli oggetti della conoscenza, la prima difficoltà che ci è stata imposta si dissolve con l’equivoco che le faceva da supporto. – La seconda difficoltà è tutt’altro che facilmente risolvibile. Ciò che lo rende ancora più grande è la sensazione comunemente ricevuta da San Tommaso riguardo al rapimento sperimentato da San Paolo, e raccontato dalla stesso nel capitolo XII della seconda epistola ai Corinzi. L’Angelo della Scuola suppone, al seguito di Sant’Agostino, che San Paolo sia stato allora ammesso alla visione transitoria dell’essenza divina; inoltre suppone e dimostra, in base al testo dell’Apostolo, che questa visione fosse accompagnata da una cessazione della percezione sensibile. È impossibile, infatti, che l’attenzione dell’anima, condizione necessaria per l’intero atto cosciente di conoscere, si frammenti tra oggetti diversi, a meno che non ci sia un legame tra di essi che li riporti all’unità. Ora, non è il caso dell’essenza divina come degli altri oggetti della conoscenza umana, che raggiungiamo per mezzo di rappresentazioni tratte dalla percezione dei sensi; ma nessuna immagine proveniente dai sensi può conoscere la visione di quella. Perciò l’attenzione dell’anima sarà tanto più assolutamente allontanata da ogni oggetto sensibile quanto più la verità suprema, rivelandosi in tutta la sua gloria, assorbirà tutte le forze dell’anima. Questa, in breve, è la dottrina dei maestri: con essa vediamo che il ragionamento conferma l’obiezione tratta dall’esperienza, invece di indebolirla (S. Thom., 2. 2, q. 175, a. 4; de Verit., q. 13, a. 3 e 4). – Tuttavia, la dottrina cattolica ci presenta un fatto innegabile in cui si dimostra che l’intuizione di Dio è alleata, non per un momento fugace, ma per tutta la vita, interamente all’esercizio più perfetto di tutte le facoltà sensitive. È nel Verbo incarnato che questo strano fenomeno ci viene rivelato. Da un lato, è assolutamente certo che Gesù Cristo, nella regione superiore della sua anima, fosse costantemente illuminato dagli splendori della visione divina. Se alcuni teologi, per spiegare i dolori della Passione, hanno ritenuto possibile ammettere un’eclissi momentanea, è sempre prevalso il sentimento contrario. D’altra parte, sarebbe una negazione del Vangelo ed un capovolgimento dell’intera economia della nostra fede negare a Gesù Cristo le funzioni della vita sensibile. Pertanto, l’esperienza garantisce che non c’è alcuna incompatibilità radicale tra il libero uso dei sensi e l’intuizione di Dio. – Ciò che rende illusoria la questione è che non sappiamo distinguere tra due stati così diversi tra loro: lo stato di beatitudine e quello di mortalità attuale. In quest’ultima, l’anima dipende in larga misura dal corpo e dai sensi; nella prima, l’intero impero appartiene all’anima divinizzata dalla luce della gloria. Abbiamo già visto quali conseguenze opposte derivino da questo stato di dolcezza: come, nell’uno, l’infermità del corpo si rifletta, per così dire, sull’Anima e la appesantisca; e come, nell’altro, la glorificazione dell’Anima si traduca in una correlativa perfezione di tutto l’essere organico. È in virtù della stessa legge che, nella condizione attuale della nostra natura, l’anima, per elevarsi alla vita superiore dello spirito, debba astrarsi dalle operazioni inferiori; e che sarà in grado, nella beatitudine, non solo di contemplare Dio senza ostacoli, ma anche di far scendere dall’alto di questa contemplazione un nuovo vigore sulle sue facoltà di sentire (S. Thom., 2. 2, q. 173, a. 4 ad 1.). – Ma allora, si potrebbe dire, perché San Paolo, momentaneamente elevato al cospetto di Dio, perse l’uso delle facoltà sensitive e perché Nostro Signore lo conservò, dal momento che entrambi erano in uno stato di mortalità? È perché, rispondono i nostri Dottori, il principio successivo della visione non era lo stesso nel Maestro e nel discepolo. Gesù Cristo aveva in sé, sotto forma di perfezione permanente, la luce della gloria: tanto da richiedere un intervento della sua potenza divina per salvaguardare nel suo corpo le debolezze della mortalità, rivendicate dal suo ruolo di Redentore. In Paolo, invece, l’atto della visione divina, essendo come un lampo fugace, non procedeva da un principio intimo e stabile nell’anima. L’Apostolo non ha ricevuto la luce della gloria, come la possiedono i Santi in cielo e come l’ha ricevuta Gesù Cristo, conversando con noi. L’illuminazione che gli rivelò, per un istante, le profondità di Dio, era analoga alle grazie passeggere che riceve un peccatore (S. Thom., de Verit., q. 13, a. 3, ad 3; q. 10, a. 11, ad 3; cf. 2-2, q. 175, a. 3, ad 2). E questo è il motivo per cui, riguardo alla visione divina, c’era una differenza tra San Paolo e ogni Beato abitante del cielo che è analoga a quella che si riscontra, riguardo allo stesso atto soprannaturale, tra due Cristiani, l’uno privo della grazia e delle virtù infuse, e l’altro giustificato. Quindi, per concludere, se l’esempio di San Paolo dimostra che la visione immediata di Dio ha come conseguenza in questa vita la cessazione della percezione sensibile, nulla ci obbliga a dare lo stesso giudizio sulla stessa visione, come quella che ammiriamo in Nostro Signore e nelle sue membra glorificate. – Bisogna ammettere che tutte queste spiegazioni, anche se mille volte più luminose e profonde, sono solo concezioni infantili rispetto alle realtà che il Signore ha preparato per coloro che lo amano. E non è l’ultima delle nostre consolazioni, in mezzo all’angoscia in cui ci troviamo, sapere che questa futura beatitudine dei nostri corpi superi in modo eccellente tutte le gioie di questo mondo, essendo essa stessa superata dalla beatitudine sostanziale dell’anima, cioè dalla vista, dall’amore e dal godimento di Dio?

LA GRAZIA E LA GLORIA (55)

LA GRAZIE E LA GLORIA (53)

LA GRAZIA E LA GLORIA (53)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO X

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO CONSIDERATA DAL LATO DEL CORPO

CAPITOLO III

La condizione dei risorti dal punto di vista dell’essere. Le qualità esclusive dei corpi degli eletti; la loro relazione con l’anima glorificata.

1. – Quali saranno le gloriose prerogative di cui il Padre doterà i corpi dei suoi figli nel giorno della risurrezione? L’Apostolo si è assunto l’onere di risponderci: Cristo è il primogenito dai morti; come Egli è il nostro capo e il nostro esemplare nell’ordine della grazia e della santità, così lo è nell’ordine della gloria e della beatitudine (Rm, VIlI, 29: 1 Cor XV, 20, 23: Apoc, I, 5). La sua Risurrezione, pegno della nostra, sarà quindi il modello. Tale è il Capo, tali saranno i membri. Egli stesso, risuscitando i nostri corpi dalle ceneri dei sepolcri, li renderà conformi alla gloria del suo corpo (Fil. III, 21). E questo è una conseguenza necessaria del meraviglioso disegno che li ha resi membri del Corpo mistico, di cui Egli è il Capo. Se poi avessimo un’idea chiara della gloria del corpo risorto di Gesù Cristo, impareremmo, contemplandolo, quali privilegi siano riservati ai nostri corpi nella vita futura. Ma a Dio non è piaciuto mostrarci il corpo trasfigurato di suo Figlio nell’apparato del suo trionfo. Non è questo uno spettacolo per occhi mortali. Tuttavia, durante i giorni che volle trascorrere sulla terra prima di ascendere al cielo, Gesù Cristo risorto si degnò di lasciare che i suoi discepoli intravedessero alcuni raggi della sua gloria. Lo stesso Spirito Santo, per l’incoraggiamento e la consolazione dei fedeli, ha confermato questo insegnamento indiretto rivelandoci attraverso le Scritture, almeno nei suoi tratti generali, la perfezione che sta preparando per il corpo degli eletti. È da questa duplice fonte che i teologi e i Padri hanno tratto le descrizioni che ci forniscono. Ricordiamo, in poche parole, ciò che gli uni e gli altri hanno scritto su questo argomento. – « Il Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non avrà mai più dominio su di lui » (Rm VI, 9). Perciò « … il corpo (degli eletti), seminato nella corruzione, risorgerà nell’incorruttibilità; mortale, rivestirà l’immortalità » (I Cor. XV, 42, 53). Di conseguenza, per le membra come per il Capo, non ci sarà più nulla che predisponga alla morte, nulla che segua la mortalità: né il dolore, né la fame, né la sete, né la fatica; ma una vita piena, sicura di sé, al di sopra di tutti gli incidenti, di tutti i fallimenti e di tutti i cambiamenti (Apoc. XVIII, 8, ecc.): questo è il primo privilegio, l’impassibilità. – Ecco il secondo: il corpo di Gesù Cristo, dalla sua risurrezione, non conosce più gli impedimenti che la legge di gravità oppone al nostro libero movimento nello spazio. In un attimo è in grado di spostarsi da Gerusalemme ad Emmaus, da Emmaus a Gerusalemme e da quella città alla Galilea. Lo vediamo sollevarsi in aria, senza sforzo, sollevato non da una forza estranea, ma per virtù propria. Questa è l’agilità che lo Spirito Santo promette alle membra di Cristo. « Il loro corpo è stato seminato nella debolezza; risorgerà nella forza », completamente liberato da tutto ciò che può paralizzare o ritardare l’esercizio dei suoi movimenti … « Voleranno come aquile, correranno senza fatica, cammineranno senza stancarsi », dicono i nostri libri sacri (Is. XL, 31). – Se la pietra che chiude il suo sepolcro, né le porte dietro le quali i suoi Apostoli stanno chiusi e tremanti, non possono fermare Gesù Cristo risorto, Egli esce, entra all’ora che ha fissato; dove vuole, come vuole. Un raggio di luce non passa più facilmente attraverso il cristallo più puro che attraverso i corpi più solidi. Questa è una meravigliosa sottigliezza che fa parte di quella degli spiriti puri, ed è per questo che i nostri interpreti hanno pensato che sia affermata anche per gli eletti, almeno in egual misura, con queste altre parole dell’Apostolo: « Chi è stato seminato corpo animale, risorgerà corpo spirituale » (I Cor. XV, 44). Sì, come Gesù Cristo, il nostro modello, non conosceremo più barriere; non c’è bisogno che ci allontaniamo dagli ostacoli o che ci sottraiamo ad essi, se non possiamo né evitarli né abbatterli: perché nulla è più un ostacolo per un Corpo spiritualizzato. – Non ho letto nel Vangelo che Gesù Cristo, dopo la sua uscita dal sepolcro, abbia rivelato qualche caratteristica particolare dell’ultima e forse più nobile prerogativa dei corpi risorti, quella che San Paolo chiama gloria e la teologia chiama chiarezza (claritas), luminosità. Ma tre dei suoi discepoli ne avevano visto un’anticipazione, quando sul Tabor Egli si era trasfigurato davanti a loro, con il volto che risplendeva come il sole e le vesti che divenute candide come la neve (Mt. XVII, 2), una pallida immagine di ciò che ci viene promesso da queste parole dell’Apostolo: « Il corpo è stato seminato nell’ignominia, ma risorgerà nella gloria ». Che spettacolo è quello del Corpo di Gesù Cristo appeso alla croce; ammazzato, insanguinato, straziato; che spettacolo è anche quello dei corpi dei giusti mutilati e frantumati dalla tortura, o sfigurati dalla penitenza e dalla morte! Questa è l’ignominia. Ma guardate ora: eccoli qui, che risplendono con incomparabile luminosità intorno al Sole che è l’Agnello. E questa gloria non è solo luce; è la perfetta armonia tra tutte le parti del loro organismo. È quindi una bellezza senza eguali, poiché la bellezza è solo il fiorire dell’essere nell’armonia delle proporzioni, dell’ordine e della luce. – Sarà necessario rimuovere da questi corpi le gloriose cicatrici delle torture subite per preservare l’amore e la fedeltà del Re del Cielo? Dio non voglia! Nel giorno del trionfo, non c’è nulla da ammirare come le lacerazioni ed i fori fatti sulla bandiera nell’infuriare della battaglia. Gesù Cristo, il grande trionfatore, ha conservato la traccia dei chiodi e della lancia. E nessuno oserebbe dire che questo va a discapito della Sua ineffabile bellezza. « Mi sembra – scrive Sant’Agostino – che il nostro amore per i beati Martiri non sarebbe soddisfatto se, in questo regno, non vedessimo nei loro corpi le vestigia delle ferite che hanno ricevuto per il Nome di Cristo; e penso che probabilmente li vedremo. Non sarà per loro una deformità, ma un onore, e come una nuova bellezza che non scaturisce dal corpo ma dalla virtù, e che sarà ancora nel Corpo. Non enim deformitas in eis, sed dignitas erit, quædam, quamvis in corpore, non corporis sed virtutis Pulchritudo fulgebit. « Tuttavia, se i Martiri hanno perso qualche arto, Colui che ha promesso loro che nemmeno un capello del loro capo sarebbe andato perduto, saprà come restituirglielo, conservando i segni lasciati dal ferro che ha colpito questi gloriosi atleti. È vero che non resterà nulla dei difetti che hanno guastato i corpi mortali; ma dovremmo chiamare difetti le nobili testimonianze di una virtù eroica? » (S. Agost., De Civit., L. XXII, c. 19, n. 3). Questo è il pensiero di Sant’Agostino. Sebbene la fede non mi obblighi a credere nella sopravvivenza di queste gloriose impronte, non so quale senso cristiano mi convinca ad ammetterlo e a vedere in esse un complemento di bellezza per chi le porta. Ho fiducia nell’Artista sovrano e gli farei un’ingiustizia se gli negassi il potere o la volontà di fare per i corpi dei suoi fratelli ciò che ha fatto nel suo stesso Corpo.

2. – Da dove verrà questo nuovo modo di essere, così diverso da quello che ci fa gemere quaggiù sotto il peso del nostro misero corpo? Non parlo della prima fonte: è troppo ovvio che, per trovarla, dobbiamo risalire a Dio, principio di ogni bellezza, di ogni luce, di ogni forza e di ogni armonia. Non parlo nemmeno del primogenito dai morti, Gesù Cristo, il Dio fatto uomo: è perché è morto che io risorgerò; è perché è risorto che io uscirò dal sepolcro; e se ho la felicità di partecipare alle glorie della sua Risurrezione, è perché Lui ne ha ricevuto la pienezza. Cerco una Causa, inferiore, senza dubbio, ma più vicina a me, più immediata. Questa causa delle proprietà che ho appena riconosciuto, la trovo indicata in questo testo del grande Apostolo: « Il corpo sarà seminato corpo animale e risorgerà corpo spirituale » (I Cor. XV, 44). No, non è più un corpo animale, che vive una vita materiale come quella delle bestie: così era il corpo dell’uomo al momento della prova e, in un certo senso, anche prima del peccato, causa della sua caduta. Che cos’è allora? Un corpo che partecipa alle proprietà dello spirito. Ma da dove viene questo privilegio, dove affondano le radici di tutte le altre? Ascoltate ancora San Paolo: « Se c’è un corpo animale, c’è anche un corpo spirituale, come sta scritto: ‘Il primo uomo, Adamo, fu fatto con un’anima vivente e il secondo con uno spirito vivificante” ». (Ibid. 44, 45, segg.). È qui che i maestri della Scolastica, e prima di loro Sant’Agostino, hanno visto il principio successivo delle qualità soprannaturali di cui saranno arricchiti i corpi degli eletti. – Lasciate che siano loro stessi a spiegarci cosa abbiano imparato alla scuola dell’Apostolo: « Se –  dice Sant’Agostino – chiamiamo carnale un’anima soggetta all’impero della carne, è giusto che una carne totalmente soggetta all’impero dello spirito porti il nome di spirituale; non perché diventi essa stessa spirito, ma perché lo spirito eserciterà su di essa un impero così meraviglioso e totale, che le toglierà completamente e per sempre la morte, la corruttibilità, il dolore, in una parola, tutto quel peso di debolezza e di miseria che la schiaccia o la ritarda. Non sarà più la salute perfetta di cui talvolta si gode sulla terra, e nemmeno lo stato che ammiriamo nell’uomo prima del peccato. Infatti, sebbene non sarebbe dovuto morire, se fosse rimasto fedele, aveva bisogno di cibo per sostenere la sua vita: era il corpo animale, non il corpo spirituale », perché lo spirito che lo animava non era ancora uno spirito vivificante (S. August. de Civit. L. XIII, c. 20; it. Ep 118, n. 14). Così parlava Sant’Agostino nella “Città di Dio“. Altrove scrive ancora, a proposito dello stesso testo: « Sia che per “primo Adamo” si intenda colui che fu formato dalla polvere, sia che per secondo si intenda Colui che nacque dalla Vergine; sia che ciascuno degli uomini debba essere l’uno e l’altro, il primo Adamo nel corpo mortale, il secondo Adamo nel corpo immortale, l’Apostolo ha voluto fare questa differenza tra l’anima vivente e lo spirito vivificante, affinché la prima faccia il corpo animale e il secondo il corpo spirituale. L’anima vive, in verità, nel corpo animale, ma essa non lo vivifica al punto da sopprimere la corruzione; nel corpo spirituale, invece, poiché aderisce perfettamente a Dio, e con questa adesione diventa un solo spirito con Lui, vivifica il corpo in modo tale da spiritualizzarlo, annientando in esso ogni germe di corruzione, ogni pericolo di separazione » (S. August. Ep. 205, n. 11). – L’Angelo della Scuola non parla diversamente. Chiedetegli perché questa impassibilità, questa bellezza risplendente, questa agilità, questa meravigliosa sottigliezza dei corpi glorificati; a tutte queste domande ha una sola risposta: poiché l’anima è immutabilmente e totalmente sottomessa a Dio, ha di conseguenza un pieno dominio sul proprio corpo; e poiché nulla potrà mai indebolire il regno di Dio sull’anima, nulla prevarrà contro l’influenza potente e salutare che l’anima esercita sul corpo (« Corpus erit totatiter subjectum animæ, divina virtute hoc faciente, non solum quantum ad esse, sed etiam quantum ad actiones, et passiones, et motus et Corporeæ qualitates. » – S. Thom, c. Gent. L. IV, c. 86). – Che cos’è la morte; che cosa sono le infermità, la debolezza, la passibilità? Tante insurrezioni contro il pieno e pacifico dominio dell’anima sul corpo. Pertanto, il corpo del risorto deve essere impassibile, immortale; e poiché nessun agente creato può sciogliere la catena d’amore che lega l’anima a Dio, nessuna forza esterna potrà distruggere la subordinazione che rende il corpo felicemente prigioniero dello spirito. Cos’è questa pesantezza che, in qualche modo, ci avvince alla terra? Un trionfo della materia sulla nostra natura spirituale. « Il corpo corrotto appesantisce l’anima », dice la Sapienza (Sap. IX, 15). Pertanto, l’anima, una volta padrona e pienamente indipendente nell’esercizio della sua facoltà motrice, dovrà sottrarre il proprio corpo a questa tirannia della legge fisica; e quando Gesù Cristo scenderà per giudicare il mondo, noi saliremo liberamente nell’aria per incontrare il trionfatore della morte (1 Tess., IV; 16). Sappiamo quale onta un corpo ribelle possa infliggere all’anima, e con quali ignominiose stimmate la segni, quando siamo abbastanza vigliacchi da cedere ai deliri dei suoi appetiti! Ora la situazione è cambiata. L’anima, bella e piena della luce di Dio, diffonde un bagliore di bellezza in tutto il suo corpo, di bellezza che nessun’altra bellezza naturale può suscitare in noi. – Che altro dire ancora? Per un’anima che è entrata nella gloria, non ci sono più ostacoli che impediscano il movimento del pensiero; con uno sguardo sicuro e fermo entra nelle profondità di Dio: perché il corpo, che essa spiritualizza, non dovrebbe partecipare a suo modo a questo potere di penetrazione? Dio ne ha fatto un corpo di luce, e ogni giorno conosciamo meglio quanto sia sublime la luce nell’aprire una via, anche attraverso i corpi apparentemente più impenetrabili (S. Thom., Suppl,, q. 81, a. 1 e 2; q. 84, a. 1; q. 85, a. 1 – Il santo Dottore non crede che ci possa essere per il dono della sottigliezza quello che ammette per gli altri, cioè una perfezione permanente che scaturisce dall’anima glorificata sul corpo; occorre supplire con un intervento miracoloso dell’Onnipotenza, che peraltro non viene mai rifiutata. Cfr. Suppl. q. 82, a. 2). Per avere l’ultima parola su queste meraviglie dobbiamo tornare al testo di San Paolo. Il primo uomo è stato fatto con un’anima vivente; l’ultimo, con uno spirito vivificante, cioè con uno spirito che prende possesso di tutta la vita dell’uomo e la trasforma a sua immagine e somiglianza (se vediamo nel secondo Adamo solo Gesù Cristo, il nostro Capo (1 Cor., XV. 45), avremmo comunque il diritto di attribuire a ciascuna delle sue membra una partecipazione dello spirito vivificant, vita del secondo Adamo). (1 Cor., XV, 45), avremmo comunque il diritto di attribuire a ciascuna delle sue membra una partecipazione allo spirito vivificante, poiché San Paolo, poche righe più avanti, dice espressamente: Qualis cœlestie, tales et cœlestes, etc.). – Dio, per la consolazione dei suoi figli, ha voluto dare loro più di una volta, in questa terra di esilio, un’immagine dei gloriosi privilegi che riserva loro nella vita futura. La storia dei Santi ci fornisce molti esempi. A volte è un’anima che, correndo verso Dio in un trasporto d’amore, solleva il suo corpo e lo tiene sospeso, come se avesse perso la sua gravità naturale; a volte è la luce interiore che fuoriesce, per così dire, attraverso le membra, come una fiamma dal suo focolare, e le incorona con i suoi raggi. Altri sono stati visti camminare sull’acqua o passare, come se fossero puri spiriti, attraverso i corpi che sbarravano loro la strada; altri ancora sono stati gettati nel fuoco e ne sono usciti vivi, integri, sani, come se avessero lasciato la più rinfrescante delle atmosfere. Sto parlando di fatti attestati da testimonianze inconfutabili e registrati nei documenti più autentici, i processi di canonizzazione: preludi imperfetti, senza dubbio, ma garanzie certe che il cielo ci sta preparando per l’eternità. – Aggiungiamo un’ultima riflessione: è che la natura materiale trova la sua destinazione finale nell’uomo spirituale: essa è fatta per lui. Non dirò in quali forme la sua attività universale e costante sia interamente al servizio dell’uomo. Per il momento è sufficiente sottolineare la sua nobile proprietà di manifestare lo spirito e le cose dello spirito.  San Paolo, nel primo capitolo della sua lettera ai Romani, ci insegna ciò che la Sapienza ci aveva già insegnato (Sap. XIII,1, segg.), come essa riveli le perfezioni del suo autore. Che cos’è nelle mani del vero artista? La rappresentazione dell’ideale attraverso il reale. Sotto l’ispirazione del genio, questo metallo inerte, questa pietra grezza, prende vita e diventa nei capolavori dell’architettura o della statuaria l’incarnazione più pura della bellezza spirituale. Che cos’è per l’oratore, cosa dico, per ogni uomo che gode del pieno uso delle sue facoltà? L’espressione dei pensieri più intimi. La voce, considerata fisicamente, non è altro che corporea, eppure è in essa e attraverso di essa che si rivela e si esprime ciò che di più spirituale e profondo c’è nella mente e nel cuore; tanto le idee e i sentimenti la penetrano e la assimilano. Per dirla in breve, è una legge, anche della nostra vita terrena, che il corpo sia come lo specchio dell’anima, che quest’ultima lo plasmi più o meno perfettamente a sua immagine e si manifesti attraverso di esso. Come possono dunque le anime glorificate, con l’aiuto di Dio Onnipotente, non rendere i loro corpi l’espressione vivida e radiosa di ciò che sono in sé? E che cos’è questo, se non il diffondere su questi stessi corpi le qualità con cui la nostra fede li mostra arricchiti per l’eternità (S. Thom. C. Gent., L. IV.)? Quali sono le leggi della materia che potrebbero sconfiggere la potenza, la sapienza e l’amore di Dio per i suoi eletti?

LA GRAZIA E LA GLORIA (54)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (14)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (14)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO V

CONCLUSIONE (1)

Vediamo ora di riassumere quanto siamo andati dicendo a spiegazione di ciò che i Cattolici intendono per vita cattolica. Nulla di nuovo e nulla di originale; se lo fosse, non potremmo più parlarne come di pensiero cattolico, universale nel tempo e nello spazio. È qualche cosa di antico anzi, quale si trova in S. Paolo e S. Pietro e quale giunge sino a noi attraverso S. Agostino e S. Girolamo, S. Benedetto e S. Francesco d’Assisi, S. Tomaso d’ Aquino, S. Teresa, S. Giovanni della Croce, S. Francesco di Sales e S. Vincenzo de’ Paoli. È precisamente ciò che ha fatto questi Santi i quali, alla loro volta, altri ne hanno suscitati col loro esempio e con la loro influenza. È ciò che ha fatto l’ispirazione di una Giovanna d’Arco, di un Colombo, di un Thomas More, di un Pasteur, di un Pastor, di un Foch; di Dante, Petrarca, Racine; Chaucer, Crashaw, Francesco Thompson; Alfredo il Grande, Edoardo il Confessore, Enrico VI; Dunstan, Langton, Grosseteste, Colet; e per reazione anche di coloro la cui vita nel passato cattolico sembra non aver affatto contribuito alla gloria di esso. È lo spirito che vive oggi in ogni parte del mondo e in ogni condizione sociale, a Roma, a Parigi, a Londra, a Berlino, a New York, come nella foresta africana o nella jungla indiana, o nel villaggio cinese, lo stesso nella fede e nell’ideale morale, lo stesso, grazie a Dio, nei frutti. E questa vita è conseguenza logica di ciò che il Cattolico accetta e che tutto il Cristianesimo ha sempre e dovunque accettato fino a secoli recenti come base del suo credo e della sua stessa esistenza: “Abbiate in voi quel sentire che era anche in Gesù Cristo”. (Filip. II, 5). –  Ecco, per il Cattolico, l’importanza, la giustificazione, la necessità di ciò che si chiama dogma e di un’autorità che sia tanto sicura da renderne stabile la base. Senza un credo ben determinato, senza un’autorità infallibile non potrà darsi terreno solido sul quale costruire la vita ch’egli professa: ciò è provato ogni giorno dalla marea di opinioni e di contraddizioni, di certezze e di corrispondenti recise negazioni, dalle sabbie mobili e dagli edifici su di esse costruiti che cadono in rovina attorno a lui. – Nel Cristianesimo occidentale almeno, e noi non dobbiamo occuparci d’altro che di questo, la sola Chiesa Cattolica resiste intatta. Tutte le altre chiese hanno tanto cambiato e tanto continuano a cambiare che, per disperazione, pretendono essere questa medesima instabilità e queste continue fluttuazioni un contrassegno di verità. Chi parla di evoluzione accordo col progresso dei tempi dimentica che la verità non muta né può mutare. La fede e la pratica della Chiesa cattolica sono un tutto consistente giunte fino a noi, attraverso i secoli passati, adattandosi ad ogni successiva generazione, ma rimanendo inalterate nella sostanza, acquistando anzi in precisione per effetto della cultura e dell’esperienza, ma sempre l’identica e una verità. Sono state conservate dalla grande maggioranza dei Cristiani nel passato e son mantenute dalla grande maggioranza dei Cristiani di oggi in ogni clima e in ogni nazione, in ogni classe e in ogni circostanza. In quella fede e in quella pratica il Cristianesimo è ancora uno, e solamente in grazia loro quella che si civiltà cristiana può vantarsi di superare tutte le altre. –  Il pensiero cattolico, anzi la vita cattolica, si fonda innanzitutto sulla accettazione cattolica un Dio vivo, personale, oggettivo, onnisciente e onnipotente, dal quale tutte le cose create derivano e al quale vanno, in cui e per cui vivono e da cui in tutto dipendono, ma nello stesso tempo un Dio che è l’amore essenziale e che ha una cura personale ed amorosa di ciascuna delle sue creature. Questo Dio, autore di ogni essere e di ogni bene, è il primo principio e il fine ultimo dell’uomo che da Lui viene e a Lui va; in Lui vive e si muove ed esiste. L’uomo è dunque fatto per lo scopo d’amore di questo Dio che è tutto amore, e il raggiungimento di tale scopo costituisce la sua vera ragione d’essere, la meta ultima che gli darà la piena realizzazione di se stesso e perciò la pace. –

Il pensiero cattolico e la vita cattolica si fondano in secondo luogo sull’accettazione cattolica, intera e senza riserve, di Nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, Redentore del genere umano dal suo stato decaduto, Mediatore fra Dio e l’uomo, Amico degli uomini, loro Maestro infallibile, Modello che tutti debbono imitare, Capo del corpo umano, Luce venuta nel mondo, Via, Verità e Vita, Sacerdote e Vittima dell’unico Sacrificio di riconciliazione in cui “la clemenza e la verità si incontrano, la giustizia e la pace si abbracciano ». (Sal. LXXXIV, 11). In relazione a questi due assiomi dai quali non possiamo prescindere, la vita cristiana, distinta ma non mai avulsa dalla vita naturale dell’uomo, può esser considerata da due punti estremi che sono l’azione di Dio e l’azione dell’uomo stesso. Da una parte, il dono di questo Dio d’amore che si prodiga, com’è nella sua natura, all’anima tanto amata; dall’altra, e in contraccambio, nell’accettazione e nell’uso di sì grande liberalità, il dono dell’anima umana al Signore Iddio suo.

1. – Il dono di Dio all’uomo.

In primo luogo, dunque, il dono affatto gratuito dell’amore di Dio all’anima umana. Dio, la cui essenza è amore e che solo per amore può agire, ha amato l’uomo, sua creatura, fin da tutta l’eternità. “Ti ho amato di un amore eterno e perciò ti ho tirato a me pieno di compassione”. (Ger. XXXI, 3). Il Profeta qui non fa che esprimere il vero motivo della Rivelazione divina. Ci ricorda che solo gli occhi dell’amore posson decifrare esattamente la Sacra Scrittura, solo una ragione illuminata dall’amore può interpretare la condotta di Dio nei riguardi dell’uomo, e solo una volontà resa ardita dall’amore potrà afferrare la mano che Dio misericordioso ci tende. Per effetto di quell’amore divino, e perché l’amore, sia da parte di Dio che dell’uomo, non può che desiderare il più e il meglio per l’essere amato, e per il bene di lui, darà ciò che è e tutto ciò che può, il Dio di ogni amore ha fin da principio ha predestinato la sua diletta creatura ad una vita, ad una meta, ad una sorte eterna molto superiore a quella che spetterebbe alla natura umana, e perciò veramente soprannaturale, che si può soltanto definire come partecipazione alla sua stessa vita perfetta, la vita divina.

(« Benedetto Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo il quale ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale, celeste, in Cristo, in quanto ci ha eletti in Lui, prima della fondazione del mondo, a esser santi e irreprensibili nel suo cospetto, per amore avendoci predestinati ad asser figli suoi adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo la benignità del suo volere, sì che ciò torni a lode della gloriosa manifestazione della grazia sua di cui ci fece dono nel suo diletto Figliuolo”. (Efes. I, 3-6).

“Benedetto Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo il quale, secondo la sua grande misericordia, ci ha rigenerati ad una speranza più viva, mediante la resurrezione di Gesù Cristo da morte, ad una eredità incorruttibile, purissima, inalterata, riservata nei cieli per voi”. (I Piet. 1, 3-4).

Tuttavia, per la propria maggior gloria e anche per l’eterna ricompensa e gloria dell’uomo, Dio non ha creduto bene, nella sua infinita Sapienza, d’imporre la sua generosità alla creatura umana ch’Egli ha voluto libera. Fra tutti gli esseri nell’ordine della creazione di Dio, l’uomo solo ha la facoltà di onorarlo con libero ossequio, e una obbedienza spontanea e amorosa è certo il maggior onore che si possa rendere a qualsiasi potenza superiore. –  Dio onnipotente che non vuol contraddire il suo atto creativo ha lasciato libero l’uomo di accettare, o di rifiutare se preferisce, il favore straordinario che gli è offerto, dandogli così il modo di rendere a Lui stesso con quella accettazione la gloria che l’uomo solo può rendergli e di assicurarsi in cambio la gloria che l’uomo solo può conquistare. L’ha lasciato di accogliere il dono o di respingerlo, ma il suo amore non gli consentiva di abbandonarlo poi solo senza aiuti a far la sua scelta. Per puro amore dell’uomo, desiderandolo felice, non contento di dargli il mezzo di sceglier la via retta e di seguirla, Dio ha voluto ancora attirarlo, persuaderlo, scongiurarlo, anche minacciarlo. Perché la sua creatura possa conseguire la vita che le è offerta, e viverla, per quanto consentono le sue condizioni umane, anche sulla terra, Dio ha trovato il mezzo di vivere Egli stesso in ogni anima disposta ad accoglierlo. Né il suo amore si è appagato di questo; ha voluto innalzarla sempre più, attirarla a sé, ricrearla, farla rinascere a un nuovo stato di esistenza. Ecco ciò che la Chiesa Cattolica intende per vita della grazia, quella vita di cui S. Paolo, S. Giovanni e S. Pietro non si stancano mai di parlare. L’uomo nato di donna nell’ordine della natura “rinasce di Spirito Santo” (Giov. III, 5) nell’ordine della grazia: “nati non da sangue né da voler carnale né da volontà di uomo, ma da Dio”. (Giov. I, 13).

(“Voi non siete nella carne, ma nello spirito, se lo spirito di Dio abita in voi”. (Rom. VIII, 9).

“Poiché voi non avete ricevuto spirito di servitù da ricader nel timore, ma spirito di adozione a figliuoli in cui gridiamo: Abba! (Padre). Lo Spirito stesso attesta allo spirito nostro che siamo figli di Dio. E se figli, anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cristo”. (Rom. VIII, 15-17).

“E perché siete figli, mandò Iddio lo spiritò del Figlio suo nei vostri cuori, il quale grida: Abba, cioè Padre. Sicché tu non sei più servo ma figlio, e se figlio anche erede per opera di Dio”. – Gal. IV, 6, 7).

Questo è ciò che intendiamo per vita soprannaturale: è una cosa nuova, un arricchimento della nostra esistenza naturale, che ci innalza ad un’altra sfera, quella di Dio stesso, e dà un nuovo significato al nostro pellegrinaggio quaggiù, una meta oltre quella della creazione, anzi il diritto al raggiungimento di quella meta, purché  vogliamo viver la vita che ad essa conduce. Così Dio, il Creatore, il Conservatore, il Padre, l’Amico nostro è insieme causa della vita soprannaturale in noi e ideale di questa vita. Egli ne è la sorgente, il mezzo, il fine; e noi tanto viviamo in quanto lo amiamo. E siccome per ogni vita è indispensabile un organismo adatto, così all’uomo, per questa sua vita soprannaturale, è dato un organismo soprannaturale corrispondente, inteso a trasformare qualunque azione Egli compia in quanto uomo; i suoi atti così non sono più soltanto semplici atti della natura umana dotati di solo valore naturale, ma sono altresì atti della vita divina ch’è in lui. E come tali sono accetti a Dio, perché provenienti non da una sua creatura qualsiasi, ma da un vero figlio diletto; in quell’ordine superiore diventano meritori, mettono l’uomo in grado di guadagnarsi il premio che spetta ai figli di Dio. È la vita di un Dio d’amore che non può trattenersi dal dare e la cui generosità non conosce altro limite all’infuori della limitata capacità della sua diletta creatura. Questa sua ricostruzione in noi è interamente opera sua, come lo fu la nostra prima creazione; è anzi Egli stesso che vive in noi in maniera affatto nuova, non solo in virtù dell’Esser suo – per potentiam, per præsentiam, per essentiam, — come si esprimono i filosofi, ma in virtù di un’unione ulteriore liberamente donata e liberamente ricevuta. Tutto questo intende il Cattolico quando parla di stato di grazia, di vita della grazia abituale, di inabitazione nell’anima umana dello Spirito Santo con i suoi doni e i suoi frutti e con le grazie attuali che li accompagnano. E questo fu il programma di Dio fin da tutta l’eternità; sotto questo riguardo l’uomo è vissuto fin da tutta l’eternità come pensiero di Dio. Se il disegno divino non gli fosse stato rivelato dall’alto, l’uomo non avrebbe mai potuto immaginarlo, sebbene qualche cosa di simile s’intuisca e s’intraveda nei filosofi del pensiero antico sotto forma di desiderio e quasi di presentimento. È una volta /che questa magnifica realtà gli è stata svelata e che, per la rivelazione della parola stessa di Dio, l’uomo è staio innalzato oltre il mondo della ragione e del senso fino ad un regno dove la verità sola vive senza veli, egli riflette e si accorge come questo apparente eccesso di liberalità sia perfettamente consono alla natura di quel Dio amorosissimo che finalmente conosce. È un miracolo degno in tutto di Lui e del suo amore. Ma l’uomo tradì il disegno di Dio. Con la libertà che gli era propria, l’unica forza che lo distingueva da tutte le altre creature e lo costituiva padrone sopra di esse tutte, e con la quale avrebbe potuto rendere a Dio un onore, una gloria, un servizio che nessun’altra creatura può rendergli, l’uomo calpestò il grande ideale che gli si offriva, respinse la grazia e la perdette. Preferì alla vita soprannaturale quella naturale che è a sua portata, che incomincia e finisce nella morte e che tutto a lui circoscrive. A Dio preferì se stesso, e alla vita eterna la vita di questa valle di lagrime: l’uomo preferì “le tenebre alla luce”. (Giov. II, 19). E con questa scelta deliberata commise un’offesa che, non essendo egli che creatura, mai avrebbe potuto da sé riparare. – Ma l’amore di Dio non si diede per vinto. L’uomo lo aveva respinto, preferendo ridursi allo stato abbietto di semplice uomo naturale; aveva detto al suo Dio che non voleva saperne di Lui; eppure questo Dio d’amore ancora lo inseguiva, e volle ancora venire a lui e riconquistarlo, se comunque ciò fosse possibile, e riaverlo per Sé. Volle scusarlo dicendosi che era cieco e che non sapeva quello che faceva; e decise di vincerlo con un nuovo eccesso di amore. Ma ciò doveva compiersi nell’ordine, secondo quella perfetta armonia che è attributo di Dio e che si riflette in tutta la creazione. Pur amando infinitamente, Egli era anche infinitamente giusto, e perché giustizia fosse compiuta oltre che soddisfatto l’amore e la misericordia, volle che questo dono di Sé, una volta respinto dall’uomo, fosse dall’uomo stesso riconquistato. E come poteva farsi ciò? Ché ormai, come abbiamo veduto, l’uomo naturale non poteva più nulla meritare.

“Come per opera d’un sol uomo entrò la colpa nel mondo e per la colpa la morte, così a tutti gli uomini si è estesa la morte in quanto che tutti peccarono”. (Rom. V, 12). E i morti nulla possono. L’uomo che di propria mano era morto alla vita di Dio non poteva più da sé risorger da morte e riprender la vita che aveva respinto. Ma il Dio d’amore trovò la soluzione, una soluzione che l’amore solo poteva concepire e portare ad effetto.

(“Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figliuolo Unigenito affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Poiché Dio non ha mandato il Figliuol suo nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui”. (Giov. II, 16, 17).

“In questo si è manifestata la carità di Dio verso di noi, che Dio mandò il suo Figlio Unigenito nel mondo, affinché per mezzo di Lui abbiamo vita. In questo è la carità; che senza aver noi amato Dio Egli per primo ci ha amati e ha mandato il suo Figliuolo come propiziazione per i nostri peccati”. – I Giov. IV, 9, 10).

Per redimere i perduti e gli schiavi, per risuscitare i morti alla vita, per restituire al figliuol prodigo un posto nella casa del Padre, e per dare insieme a Sé medesimo in quanto Dio un compenso adeguato a ciò che gli era stato tolto, Dio stesso, nella Persona del Figlio, venne sulla terra a viver la vita dell’uomo e a morirne la morte. Come uomo, veramente uomo, ma puro e immacolato, “in ogni cosa simile a noi eccetto che nel peccato”, Gesù Cristo Figlio di Dio, fatto vero uomo, nella nostra natura sulla terra, rese a suo Padre un perfetto ossequio in nome di tutto il genere umano. In quanto uomo, ma con la forza della Divinità in Sé, chiese perdono al Padre per il male che era stato fatto e immolò in degna espiazione la propria vita umana fino all’ultima goccia di sangue. Fu l’amore a ideare il mezzo, l’amore a compiere il sacrificio volontario, l’amore ad accettare con gioia la riparazione e ad effondersi nuovamente sulla creatura amata.

(« Dio dà a vedere il suo vivo amore per noi, perché essendo noi ancora peccatori, Cristo per noi è morto. Or dunque, giustificati nel sangue di Lui, tanto più saremo a’ mezzo di Lui salvati dall’ira. Giacché se, essendo nemici, siamo stati riconciliati a Dio per la morte di suo Figlio, tanto più, riconciliati, saremo salvati nella vita di Lui. Né solo questo, ma anche ci gloriamo in Dio per opera del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione ”. – Rom. V, 8-11).

Così in Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo, e solo perché tale Egli era nella sua unica divina Persona, l’umanità restituì a Dio servizio ed ossequio perfetto e adeguato, anzi assai più perfetto e adeguato di quello che avrebbe potuto rendere se non fosse mai caduta o piuttosto se Gesù Cristo non si fosse mai fatto uomo. L’uomo offerse così a Dio una soddisfazione divina. In Gesù Cristo, con Lui e per i meriti di Lui, egli poteva rialzare il capo ed esser perdonato e riprendere la sua vita soprannaturale, rimanendo soddisfatte la giustizia e la misericordia. Ecco ciò che l’umanità deve a Nostro Signore Gesù Cristo; ecco l’essenza dei misteri che il Cattolico chiama Incarnazione e Redenzione. Ma non è ancora tutto. Non bastò al Dio d’amore, fatto uomo per amore, cancellare la sentenza che condannava la sua creatura e abbandonarla poi a compier da sola il suo destino come meglio potesse. Nostro Signor Gesù Cristo è realmente vero Dio, e come tale gli spetta di diritto l’uguaglianza col Padre; ma è anche vero uomo, e come tale si è fatto l’eguale dell’uomo e di conseguenza modello dell’umanità intera anche nelle vie di questa vita, con tutta la sua debolezza e le ansie del suo faticoso procedere a tastoni nel buio. –

(Di sé Egli disse: “Io vi ho lasciato l’esempio. Io sono la Via, la Verità, la Vita”. S. Paolo sottolinea con ardore queste parole del Maestro: “Abbiate in voi quel sentire ch’era anche in Gesù Cristo: il quale, sussistendo in natura di Dio, non considerò questa sua eguaglianza con Dio come una rapina, ma vuotò se stesso, assumendo la forma di schiavo, e facendosi simile ,all’uomo; e in tutto il suo esteriore atteggiamento riconosciuto come un uomo, umiliò se stesso, fattosi ubbidiente sino al punto di morire su una croce”. (Filip. II, 5, 8).

“Noi vediamo Gesù che è stato fatto di poco inferiore agli Angeli, per via della morte patita, coronato di gloria e d’onore, affinché per la grazia di Dio a favor di tutti subisse

la morte, giacché ben si conveniva a Colui per mezzo del quale e a cagion del quale ogni cosa è, volendo condurre alla gloria molti figliuoli, render perfetto per via di patimento l’autore della salvezza”. (Ebr. II, 9, 10).

“Noi non abbiamo un Sommo Sacerdote che non possa compatire le nostre debolezze, ma invece è stato provato in tutto a somiglianza di noi, salvo il peccato”. (Ebr. IV, 15).

«Ond’è ch’Egli doveva in tutto esser fatto simile ai suoi fratelli, per diventare misericordioso e fedele sacerdote nelle cose divine, affinché fossero espiate le colpe del popolo. Poiché appunto per essere stato provato lui e avere sofferto, per questo può venire in soccorso a quelli che sono nella prova”. (Ebr. II, 17, 10).

«Poiché quel che era impossibile alla legge in quanto era indebolita per via della carne, Dio, mandando suo Figlio in carne simile a quella del peccato e mandandolo per il peccato, condannò il peccato nella carne”. – Rom. VII, 3).

In altre parole, Gesù Cristo, essendo Dio fin da tutta l’eternità, è anche nel tempo uomo come tutti gli altri, con un’unica eccezione, lo abbiamo già notato. È l’amico dell’uomo, avendo portato sulla terra quell’amore che era in Lui nel Cielo: il Sacro Cuore di Cristo palpita dell’amore di Dio. È il fratello dell’uomo, membro della famiglia umana e con essa solidale, della stessa carne e dello stesso sangue; perciò nulla di umano gli è estraneo: gioia o dolore, vittoria o sconfitta, scienza o ignoranza. In virtù di ciò ch’Egli è e di ciò che ha fatto, Cristo è la sorgente e il seminatore di quanto v’è di buono nel campo dell’umanità. “Della pienezza di Lui tutti abbiamo ricevuto ». (Giov. I, 16). – « Egli è il beato e unico Sovrano, Re dei re, Signore dei signori ». (I Tim. VI, 15). È la pietra angolare del tempio umano, base e coronamento

dell’edificio. È unito ai suoi da un vincolo più forte di quello del matrimonio perché è il Capo vivo del Corpo Mistico vivo. Gli scrittori del Nuovo Testamento, con frasi del tenore delle seguenti, e con una forza che indica com’essi vi annettessero un valore molto superiore a quello di semplici metafore, cercano di esprimere ciò che Gesù Cristo è agli uomini pel solo motivo della sua umanità.

(“Perciò dunque non siete più ospiti e forestieri, ma concittadini dei santi e della famiglia di Dio; edifizio eretto sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, essendone pietra angolare lo stesso Cristo Gesù su cui tutto l’edificio ben costruito s’innalza a tempio santo nel Signore, E voi pure siete parte di questo edificio che ha da essere abitacolo di Dio nello spirito”. (Efes, II, 19-22).

“Il campo di Dio, l’edificio di Dio siete voi”. (I Cor. III 9).

“Poiché nessuno può porre altra base oltre quella che già c’è, che è Gesù Cristo ». (I Cor. III, 11).

“Cristo fu come Figlio soprastante alla propria casa, e la sua casa siamo noi, a condizione che manteniamo salda sino alla fine la sicura fiducia e la speranza di cui ci gloriamo”, (Ebr. III, 6).

“Accostatevi a Lui, alla pietra viva rifiutata è vero dagli uomini, ma scelta e onorata da Dio; e voi pure come pietre vive siete edificate sopra di Lui per essere una cosa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire vittime spirituali, gradite a Dio per mezzo di Gesù Cristo”. (I Piet. II, 4.5).

“Come dunque avete accolto Cristo Gesù il Signore, in Lui vivete, radicati ed edificati in Lui e rinforzati nella fede, come vi era stato insegnato, progredendo in azioni di grazie”. (Col. II, 6, 7).

“Come una donna soggetta al marito è legata per legge al marito vivente; e se il marito muore vien sciolta dalla legge del marito… Così, fratelli miei, anche voi siete morti alla legge per il corpo di Cristo, sì da appartenere ad un altro, cioè a Colui che risuscitò da morte, e ciò perché cogliamo frutti a Dio”. (Rom. VII, 2, 4).

“Perché io son geloso di voi, d’una gelosia di Dio, poiché vi ho fidanzati per darvi, vergine casta, a un uomo solo, a Cristo”, (2 Cor. XI, 2).

“Poichè, come il corpo è uno e ha molte membra e tutte le membra del corpo pur essendo molte il corpo è uno, così anche Cristo. Poiché noi tutti, sia Giudei sia Gentili, sia schiavi sia liberi, in unico Spirito siamo stati battezzati sì da formare un corpo solo, e tutti siamo stati imbevuti di unico Spirito… Orbene, voi siete corpo di Cristo e partitamente siete membra di esso”. (I Cor. XII, 12, 27).

« Poiché come in unico corpo abbiamo varie membra e le membra non hanno tutte la stessa funzione, così noi molti siamo un corpo solo in Cristo; e, per i rapporti reciproci, siamo membri gli uni degli altri”. – Rom. XI)

Così in Gesù Cristo tutti gli uomini sono uno e possono essere uno, come i tralci fanno tutt’uno con la vite, sia che crescan dal tronco o che vengan su di esso innestati.

(“Restate in me ed io resterò in voi, Come il tralcio non può portare frutto da sé medesimo se non rimane unito alla vite, così neppure voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro porta abbondanti frutti, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me è gettato via come il tralcio sterile, e inaridisce”. (Giov. XV, 4, 6).

“Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente”. (Giov. X, 10).

“Io sono la luce del mondo, Chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce di vita”. (Giov. VIII, 12).

Tutte queste considerazioni ci mostrano la vita spirituale come puro dono di Dio che giunge all’uomo per effetto di giustizia e insieme di amore e di misericordia, per i meriti di Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli stesso ne è la sorgente, il sostentamento, il modello; Egli ha provveduto i mezzi coi quali potremo conservarla e svilupparla. Infatti, per evitare che l’uomo nella sua debolezza non comprenda, o nella sua superficialità interpreti male, o nella sua distrazione dimentichi, o nel suo egoismo trascuri la verità vitale che Cristo ha rivelato e per la quale ha sparso il suo sangue, Egli ha provveduto per sempre una guida sicura che la conserverà intatta e viva e che salverà l’uomo dalla sua cecità.

“Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non

prevarranno contro di essa. E io ti darò le chiavi del regno dei Cieli”. (Matt. XVI, 18).

“Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me; e chi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato”. (Luca X, 16).

“Vi ho detto queste cose mentre mi trovavo ancora in mezzo a voi; ma il Paracleto, lo Spirito Santo che il Padre manderà in mio nome, Egli vi insegnerà ogni cosa e vi suggerirà tutto ciò che io vi ho detto”. (Giov. XIV, 25, 26).

“Ho ancora molte cose da dirvi, ma per ora sono al disopra della vostra portata. Ma quando sarà venuto lo Spirito di verità, Egli vi insegnerà tutta la verità”. (Giov. XVI, 12, 13).

“Andate per tutto il mondo, predicate l’Evangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo; chi invece non crederà sarà Condannato”. (Marco, XVI, 15, 16).

Il Cattolico medita questi passi e molti altri simili, ricorda la ben nota verità che “Dio è fedele” e immutabile, e non sa spiegarsi come possano alcuni, malgrado ciò, negare la sua immanente e infallibile assistenza o anche solo dubitarne. Chi fece tali rivelazioni di Sé e della sua vita d’amore, chi impose tali comandamenti alle sue dilette creature, chi diede tali assicurazioni di continua presenza: “ecco che io sono con voi tutti giorni”, non avrebbe mai potuto abbandonar l’uomo alle sue sole risorse a cercarsi una strada nell’oscurità come meglio potesse. Colui pel quale il tempo non esiste, che è con gli uomini oggi come nei giorni in cui quelle parole vennero pronunciate, Colui al quale preme che gli apparteniamo, noi della generazione presente non meno di quei di Betsaida e di Cafarnao, non può averci abbandonato. Lo ha detto Egli stesso, e la sua parola è verità; e siccome crediamo in Lui, noi crediamo pure nel suo rappresentante, chiunque egli sia. – La parola di Dio è verace; la voce che annuncia nel tempo quella parola di verità è, nel pronunciarla, infallibile. Per dubitarne, il Cattolico dovrebbe modificare tutta la sua concezione di Dio, di quel Dio d’amore che per amore si è legato alla sua creatura. Il Suo è un amore che non può ingannare né ingannarsi, che non può venir meno, che, avendo parlato una volta con sicurezza, parla con altrettanta sicurezza per sempre. “Io credo nella Santa Chiesa Cattolica” perché credo nella fedeltà assoluta di Dio. – È questo il primo mezzo che garantisce la vita di Dio nell’anima dell’uomo: la guida sicura della Chiesa. Come Gesù Cristo parlò infallibilmente con le sue labbra umane, altrettanto infallibile è quando parla per bocca di quella Chiesa di cui Egli rimane il Capo vivente. Poi, viene il dono dei Sacramenti e con essi della vita sacramentale. “Con gaudio attingerete acque dalle fonti del Salvatore”. (Is. XII, 3). Così cantava il Profeta, e il Cattolico crede che dal costato aperto di Cristo siano sgorgate quelle sette sorgenti, quei “segni esteriori di grazia interiore”, quegli atti che, compiuti dall’uomo con le debite disposizioni, lo inondano per se stessi di grazie sempre più abbondanti di giustificazione e di salute. Non sono semplici devozioni, né semplici riti, sono segni esteriori di grazie effettivamente conferite all’anima; il Cattolico crede che siano stati istituiti da Gesù Cristo stesso e che, nell’accoglierli, egli riceve dalle mani pietose di Lui e in virtù della sua grande vittoria un aumento positivo di vita soprannaturale che in nessun altro modo potrebbe ricevere. Per effetto della sua unione con Cristo e dei propri sforzi personali, il fedele può acquistare ancora altre grazie, ma la grazia sacramentale egli non può altrimenti guadagnarla da sé: non può aprire la porta se non con la chiave che Cristo stesso ci ha dato, e allora il torrente del suo amore gli inonderà l’anima. Ecco perché nella frequenza ai Sacramenti meglio che in altri modi si manifesta la pratica della religione: per il Cattolico religione e sacramenti sono due termini correlativi e complementari, quasi espressioni di un’unica realtà, e un Cattolico è spesso definite come “uno che si accosta ai sacramenti”. – E fra questi sette sacramenti, uno gli è particolarmente caro. È quello che è insieme Sacramento e Sacrificio, Sacramento dell’Eucarestia, sacrificio della Messa, il “Sacro Banchetto in cui Cristo si fa nostro cibo, e si rinnova la memoria della sua Passione e l’anima si riempie di grazia e riceve un pegno della gloria futura ». Questo sacramento è diventato inevitabilmente il centro attorno a cui circola tutta la pratica cattolica. Sulla parola di Cristo stesso, sempre confermata attraverso i secoli dal suo legittimo rappresentante, il Cattolico crede che nella SS. Eucarestia il suo Signore e Maestro dimora con lui sulla terra e scende nella sua anima e vi rimane, alimentandone la vita con la Sua, anzi assorbendola in Sé di modo che non vive più lui ma in lui vive Gesù Cristo. Assistendo alla S. Messa il Cattolico è con lo stesso Signore Gesù non solo nell’istante in cui essa è celebrata ma anche in quell’ora solenne in cui realmente si compì il Sacrificio del Calvario. È una verità che per essere ineffabile non è per ciò meno vera, e in tutta l’Europa, anzi nel mondo intero, abbondano le evidenze, gli effetti prodotti da quella verità. “Gesù Cristo il medesimo ieri, oggi e per sempre: ecco in una parola la fede cattolica, il pensiero cattolico. La vita nella Chiesa Cattolica non è né più né meno che questo: “Per me la vita è Cristo, e la morte è un guadagno”. È l’atto culminante di un Dio d’amore, l’eccesso cui è giunto Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, nello sforzo di conquistare il cuore della sua amata ma ostinata creatura. Ed Egli ha vinto; si è avverata la profezia: “Da dove sorge il sole fin dove tramonta il mio Nome è grande tra le genti e in ogni luogo si sacrifica e si offre al mio nome oblazione pura. Perché grande è il mio Nome fra tutte le genti, dice il Signore degli eserciti. (Mal. I, 11). – Ma i Cattolici non possono separare la Madre dal Figlio, ché anzi per essi onorar quella è onorare e imitar questo. Per la volontaria adesione di lei, Egli venne in questo mondo; per il “fiat” di lei, s’iniziò l’opera della Redenzione; l’amore della Madre pel Figlio e l’amore del Figlio per la Madre, il naturale fuso col soprannaturale, li legò insieme inseparabilmente in vita, in morte e dopo morte. Per molti anni essa comandò ed Egli le ubbidì. Essa rimase sua Madre sino all’ultimo; infine Egli ci diede a Lei e diede Lei a noi perché ci custodissimo ed amassimo a vicenda. Ella è quindi ora per noi, che le fummo affidati quali figli, avvocata insuperabile presso il suo Figliuolo, e d’altra parte, essendoci essa stata affidata da Lui, onorarla è ancora onorar Cristo. Trattarla come un figlio amoroso tratta una tenera madre è fare quanto ha fatto Cristo sulla terra e quanto Egli stesso ci ha chiesto di fare in sua vece. – Con la Madonna stanno gli Angeli e i Santi. Questi ultimi son pure nostri fratelli, sono parte della grande famiglia di Dio, suoi figli ed eredi, membra di quello stesso corpo al quale noi apparteniamo. Durante la loro vita quaggiù i Santi hanno combattuto la buona battaglia, hanno compiuto la loro corsa, hanno ricevuto la corona di giustizia da Colui che è Giudice giusto. Dal luogo della loro beatitudine essi hanno cura di noi. “Vi sarà gioia fra gli Angeli di Dio per un peccatore che fa penitenza”, Se gli Angeli si rallegrarono alla nascita di Cristo fra noi, cantando “Gloria a Dio nel Cielo e pace in terra agli uomini di buona volontà”; se, quando Egli ebbe fame e sete, vennero gli Angeli a servirlo; se, nell’ora dell’agonia al Getsemani, quando pregò perché si allontanasse da Lui quel calice, un Angelo gli diede nuova forza, se i figli degli uomini hanno i loro Angeli in Cielo che li proteggono, — “guardatevi dal disprezzare alcuni di questi piccoli, poiché vi dico che i loro Angeli nei cieli vedono continuamente la faccia del Padre mio che è nei cieli” —, ancor noi possiamo sicuramente contare sull’assistenza, la preghiera, la compagnia di tutti questi fratelli nelle lotte della vita. « Poiché non è la nostra lotta contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori del mondo delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell’aria”. (Efes. VI, 12).

LA GRAZIA E LA GLORIA (52)

LA GRAZIA E LA GLORIA (52)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO X

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO CONSIDERATA DAL LATO DEL CORPO

CAPITOLO II

La condizione dei corpi resuscitati dal punto di vista dell’essere. – Cosa sarà in comune per tutti: identità, integrità, incorruttibilità.

1 « Ecco – dice San Paolo ai fedeli di Corinto – vi dichiaro un mistero: tutti saremo elevati alla verità, ma non tutti saremo trasformati. » (I Cor, XV, 51. Il testo greco recita: « Non tutti dormiremo, ma tutti saremo trasformati  ». S. Paolo, seguendo questa lezione, parla a nome dei soli eletti, come se dicesse: Noi discepoli di Cristo non moriremo tutti. Quando Cristo apparirà nella sua gloria, ci saranno alcuni che Egli troverà vivi e che passeranno senza morire da questa mortalità alla gloriosa immortalità. Questa è l’opinione comune dei Padri greci, e diversi Padri dell’Occidente l’hanno adottata come propria. Inoltre, non è in contrasto con la sentenza di morte pronunciata su tutti i figli di Adamo. « Anche se i giusti che sopravvivono (alle catastrofi degli ultimi tempi) non morissero prima dell’arrivo del Signore, sarebbe comunque vero che la legge della morte pesa su di loro e che ne subirebbero la pena, se Dio non la rimettesse loro come può fare grazia anche di quella dei peccati attuali. » S. Thom, 12, q. 81, a. 3, ad. 3). – Non ignoro che il testo greco presenta un altro significato; ma nulla ci vieta di accettare quello della Vulgata: perché, oltre a non essere contrario all’altro, esprime una verità dogmatica, chiaramente enunciata dallo stesso Apostolo nel versetto immediatamente successivo, quando aggiunge: « Suonerà la tromba ed i morti risorgeranno incorruttibili e noi, eletti di Cristo, saremo trasformati » (1 Cor., XV. 52). Il pensiero contenuto nei due testi è evidente: c’è nella resurrezione finale un duplice fatto: uno, comune a tutti gli uomini; l’altro, proprio solo dei figli di Dio; un fatto di restaurazione corporea, omnes resurgemmus, mortui resurgent incorrupti; un fatto di glorificazione soprannaturale, non omnes immutabimur, et nos immutabimur. È questa doppia condizione dei risorti che resta da spiegare secondo l’insegnamento della Scrittura, dei Dottori e dei Padri. – Ora, per iniziare con la restaurazione comune, si deve ritenere una verità certa che tutti i corpi degli uomini risorgeranno nella loro identità, con l’integrità delle loro membra, e non torneranno mai più alla corruzione della tomba. – Si eleveranno nella loro identità, cioè saranno gli stessi in modo specifico e numerico. Ho detto: specificamente. Sarebbe una follia sognare corpi che diventino letteralmente spirituali dopo la risurrezione, da materiali che erano nel tempo della prova; e Sant’Agostino (S. August., De Civit., L. XIII, c. 20) giustamente deride coloro che pensavano di poter interpretare in questo senso il testo dell’Apostolo: « È stato seminato come un corpo animale, risorgerà come un corpo spirituale » (1 Cor., XV, 44). Non sarebbe meno contrario alla fede affermare, secondo lo stesso testo, che i corpi risorti, pur rimanendo materiali nella loro sostanza, saranno di una fluidità simile a quella dell’aria, fantasmi senza densità né consistenza. San Gregorio Magno (Moralia, L. XIV, C. 29), che riporta questa strana opinione, la confuta nelle sue opere. Nostro Signore, il giorno stesso della sua gloriosa Risurrezione, l’aveva condannata in anticipo, quando, per rassicurare i suoi discepoli, spaventati dalla sua improvvisa apparizione, disse loro con adorabile condiscendenza: « Perché vi turbate? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio Io; toccatemi e vedete, perché uno spirito non ha né carne né ossa come vedete che Io ho » (Lc. XXIV, 7). Inoltre, l’idea stessa della risurrezione è sufficiente ad escludere un simile errore. Risorgere, infatti, significa riprendere il proprio corpo, quello stesso corpo che la morte aveva separato dall’anima, e non un’altra sostanza materiale, con qualsiasi nome la si voglia chiamare. – Ora questo stesso fatto, indipendentemente da tutte le altre prove, dimostra con evidenza che il corpo dei risorti non solo sarà identico dal punto di vista specifico, ma anche individuale. Supponiamo per un attimo che si tratti di un corpo umano, ma diverso da quello che la morte ha ridotto in polvere: così non c’è più una surrezione della carne, ma una sostituzione. Qual corpo, Gesù Cristo, modello della nostra futura resurrezione, fa toccare a San Tommaso? Quello stesso le cui mani e i cui piedi erano stati trafitti dai chiodi, il cui fianco era stato squarciato da una lancia (Gv XX, 25-27). Vedrò il mio Redentore e il mio Dio nella mia carne – grida Giobbe – vedrò me stesso e non un altro (Giobbe XIX, 25-27). Anche la Chiesa, interprete infallibile del pensiero divino, ha definito, in uno dei suoi Concili, che « tutti, eletti e reprobi, risorgeranno con i corpi che ora possiedono » (Conc. Later. IV, Firmiter.) e richiedeva, in un altro, la solenne professione di « fede nella resurrezione di questa carne che ora abbiamo. Credimus etiam veram resurrectionem hujus carnis quam nunc gestamus (Confessione fid., Mic. Paleologi, ipsi a Clem. VI proposita, et ab ipso in Conc. Lugd. II Gregor. X oblata). – Sì, ci troveremo, per quanto riguarda la sostanza e la disposizione organica delle nostre membra, come siamo e cosa siamo. Lo stesso cuore che l’amore di Dio ha fatto battere nel tempo dell’esilio condividerà in cielo le ardenti emozioni dell’amor gaudente; gli stessi occhi, che erano chiusi per non vedere le vanità della terra, contempleranno un giorno gli splendori del paradiso; le stesse labbra che hanno così spesso baciato i piedi del Crocifisso, si poseranno sui piedi del Salvatore vivente e glorificato; questa bocca che si è aperta alla preghiera, canterà in una lingua divina l’eterno Alleluia. Questa è la nostra speranza e la nostra fede: nessun figlio della Chiesa oserebbe contraddirla. – La piena identità dei corpi risorti con i corpi mortali non è una questione controversa; ciò che è controverso è il modo in cui questa stessa identità debba essere intesa, perché mentre la Chiesa ha definito la risurrezione dell’uomo con il proprio corpo e la carne che ora possiede, da nessuna parte ha determinato più esplicitamente ciò che costituisce l’identità individuale dei corpi. – Tra gli scrittori cattolici del nostro tempo, e parlo soprattutto degli apologeti e dei polemisti, ci sono molti che credono che potremmo risorgere con il nostro stesso corpo, anche se non conserveremmo più una sola molecola che abbiamo posseduta durante la nostra esistenza terrena, a condizione, però, che il corpo del risorto riproduca la stessa forma, le stesse caratteristiche e, per il bene della risurrezione, le stesse caratteristiche e, per dirla in una parola, gli stessi caratteri individuali della nostra mortalità. – Per convincerci di questo, ci invitano a considerare il corpo umano così come l’esperienza ce lo mostra durante questa vita di prova. Da un lato, è certo che le molecole che costituiscono i nostri organi sono in perenne mutamento: tanto che, dopo poco tempo, il rinnovamento è completo. Quelle che possiedo oggi, appartenevano ieri ad altri composti, e torneranno domani nel fondo comune, dove altri esseri verranno ad assimilarle a loro volta. L’organismo umano è come un fiume che scorre sulla stessa sabbia e nello stesso letto, irrigando la stessa campagna, ma i cui flussi si spingono e si succedono continuamente; o meglio, come un fiume che scorre nella stessa direzione o, meglio ancora, come un popolo che, conservando le sue leggi, le sue istituzioni e le sue frontiere, vede, circa ogni trent’anni, nuove generazioni prendere il posto di quelle passate: così è il corpo dell’uomo. D’altra parte, non è meno evidente che, in mezzo a questo incessante flusso e riflusso, il corpo umano non perda affatto la propria individualità. Il corpo dell’anziano è lo stesso di quello che aveva nella culla, che portava nel grembo di sua madre. Un occhio esperto, avendolo visto in questi due periodi della sua esistenza, non potrebbe sbagliarsi. – Cos’è, dunque, che mantiene l’identità di questo organismo, attraverso queste alternative e perpetui scambi di materiali con la natura che lo circonda e lo avvolge? È l’anima che si appropria di tutti questi elementi materiali, che li penetra, li informa e li vivifica; l’anima che è sempre la stessa e che con la sua unione sostanziale li fa partecipare alla sua identità. Se si rompe questa unione, l’idea di permanenza del corpo non ha basi solide. Supponiamo, ad esempio, che uno spirito angelico, come il compagno celeste di Tobia, unisca a turno due corpi assolutamente simili per mostrarsi visibilmente agli uomini; se non ci fosse un intervallo apprezzabile tra l’una e l’altra unione, si potrebbe avere l’illusione di un unico corpo, ma, in fondo, sono due corpi e l’uno non sarà mai l’altro. Il motivo è che lo spirito puro, non entrando nella costituzione dei corpi, è di conseguenza impotente a dare loro l’unità che non trovano nei materiali che li compongono. – Che cosa ci vorrà, dunque, perché l’uomo, nell’ultimo giorno, ritrovi il suo corpo, il suo proprio corpo? Dovrà riprendere le molecole materiali che ne facevano parte durante la sua vita terrena? Niente affatto, quand’anche tutti i materiali fossero diversi, se è la stessa anima che anima il corpo rinnovato; se gli stessi principii, rimanendo in quest’anima allo stato di radice feconda, le restituiscono la pienezza delle sue facoltà di sentire; se la stessa virtù riproduce in esso la stessa forma e gli stessi tratti; è il mio corpo, e ho il diritto di riconoscerlo come mio; perché non è più diverso da quello che ho deposto nella tomba, di quanto l’organismo in decomposizione non differisca da quello dal neonato. Così ragionano questi autori, e la Chiesa, custode della fede, non ha condannato le loro dottrine. – Tuttavia, lo dirò, per quanto questa opinione possa sembrare plausibile a prima vista, non posso darle il mio assenso. A fermarmi non è tanto il peso di considerazioni metafisiche, quanto il rispetto per il pensiero dei nostri antichi Dottori e Padri. Da sempre gli increduli, nel loro desiderio di rovesciare il dogma della Risurrezione, hanno avanzato presunte impossibilità. Come farà Dio a trovare la polvere che era il corpo di un uomo sepolto da migliaia di anni, per farne un organismo identico a quello che ha perso? Qual è la storia di questi atomi umani che, depositati nella terra, passano dall’uomo all’erba dei campi, per essere mangiati dagli animali, e da questi animali ad altri uomini che se ne nutrono; poi, tornando di nuovo a degradarsi, vengono divorati questa volta dai vermi, con i quali diventano preda degli uccelli, per ritornare nella sostanza di questi ultimi all’organismo dell’uomo; e tutto questo senza fine o tregua in cambiamenti e metamorfosi? Che cosa sarebbe allora se ipotizzassimo un uomo abbastanza crudele da nutrirsi solo della carne dell’uomo, così che ogni molecola che entra nel suo corpo appartenga ad un altro uomo? Ancora una volta, si chiede il non credente, chi può dipanare elementi così confusi, e come possiamo restituire a ciascuno ciò che forse era patrimonio di tanti altri? – Non conosco nessun apologeta dei primi secoli, né nessuno dei grandi maestri della teologia, che abbia risolto queste ridicole obiezioni come gli autori di cui ho appena esposto le opinioni. Tutti, all’unisono, suppongono che gli uomini nella Risurrezione riprenderanno gli elementi materiali di cui erano composti i loro corpi (tra gli scolastici, trovo solo Durand che fa eccezione. Ecco perché Suarez, dopo aver ricordato questa particolare opinione, aggiunge: « Communis vero sententia est, de necessitate resurrectionis esse ut corpus resurgentis constet ex eadem numero-materia ex qua prius constitit, Ita D. Thomas… et cæteri scolastici hanc sententiam amplectuntur ». Suar, in II Pa, D. 44, 1. 2, n. 2 e 3). Ma sanno che nulla perisce per Dio: che nulla sfugge al suo sguardo, così come nulla si sottrae al suo sguardo, nulla fuoriesce dalla sua mano onnipotente. Per questo essi non temono che Egli non possa un giorno distinguere ciò che appartenga a ciascuno di noi in mezzo alle ceneri, sparse da mille fortune diverse ai quattro angoli del mondo. Inoltre, le ipotesi formulate dai loro avversari non hanno nulla che li metta in imbarazzo. Infatti, non siamo affatto obbligati a credere che la materia di cui i nostri corpi saranno riformati sia la stessa che avevano nel momento preciso della loro decomposizione; ancor meno, che sia una materia che il turbinio della vita non abbia mai fatto passare in un altro organismo. – Inoltre, sarebbe palesemente assurdo supporre che l’integrità dei corpi rianimati richieda che essi riprendano in sé tutte le molecole successivamente scartate dal momento della nascita a quello della morte. Diciamo di più: l’identità del corpo è nella sua sostanza, e non nelle dimensioni maggiori o minori che può ricevere. Ora, la sostanza corporea può rimanere la stessa, non solo sotto l’andirivieni di molecole, ma con un’incredibile differenza di volume e di massa. Prima di essere il gigante di cui parla la Scrittura, Golia era un bambino molto piccolo; e la stessa quercia che tiene orgogliosamente la testa tra le nuvole era all’inizio solo un umile alberello. Negherete a Dio il potere di recuperare abbastanza elementi primitivi per ricostituire la sostanza umana; e dal centro che le era proprio, l’anima non sarà forse in grado, sotto l’azione dell’Onnipotenza, di rifarsi in un attimo un organismo a misura dell’uomo rinnovato? Le difficoltà non sono quindi di natura tale da costringerci a guardare solo all’anima per l’identità che è oggetto della nostra fede. – A questa testimonianza degli antichi maestri, aggiungiamo quella fornita dalla Risurrezione del Salvatore, esempio e pegno della nostra. Gesù Cristo non ha forse tolto dal sepolcro il corpo che i fedeli discepoli vi avevano preziosamente deposto? Sarebbe inutile rispondere che si trattava di un privilegio proprio di questa carne, perché essa rimaneva, anche separata dall’anima, personalmente unita al Verbo della vita: vi mostrerei infatti il corpo glorioso della sua divina Madre, e vi chiederei se c’è qualcuno nella Chiesa che non riconosca in esso questa stessa carne che non si trovava più nel sepolcro della Vergine immacolata. Perché Dio, che non ha voluto che i resti mortali di sua Madre cadessero in preda alla corruzione nemmeno per un momento, dovrebbe consegnare eternamente quelli dei suoi figli alla decomposizione sempre crescente del cadavere?  – Inoltre, ci sarebbe una grande differenza tra l’identità che persiste nel Corpo vivente, attraverso tutte le mutazioni che non cessa di subire, e quella che avrebbe il Corpo risorto, se la materia dell’uno e dell’altro fosse totalmente diversa. Nel fenomeno del rinnovamento quotidiano, le molecole del Corpo vengono sostituite solo lentamente e in successione: è come un edificio da cui si staccano una ad una alcune pietre che vengono presto sostituite da altre. Ma un organismo ricostruito nella sua interezza, senza che nessuno degli atomi che lo compongono ritorni ai propri tessuti, sarebbe come una casa crollata ricostruita interamente sulla stessa pianta, ma con materiali totalmente diversi. Per me, più medito su questa questione, più mi aggrappo al sentimento dell’antichità cristiana; tanto più che è anche la persuasione comune del popolo fedele. Sì, nei disegni di Dio, l’identità dei corpi risorti non prescinde dal recupero più o meno completo dei principi materiali che li componevano nella loro precedente esistenza, anche se la permanenza dello stesso principio formale è il fattore primario.

2. – Con l’identità affermiamo l’integrità. Ciò che crediamo dei corpi glorificati, non può lasciare dubbi sugli eletti di Dio: non mancherà loro nulla di ciò che rende la perfezione naturale dell’organismo umano. I Santi, le cui membra sono state mutilate dagli incidenti della vita o dalle mani degli uomini o dalla furia dei carnefici, rinasceranno come la natura, o meglio l’Autore della natura, ha concepito l’uomo e lo ha modellato fin dall’inizio. Ciò che Dio fa da sé, non lo fa a metà: come potrebbe allora decidere di lasciare incompleti i corpi che fa rinascere dalla loro polvere, per formarne l’ornamento più bello della Gerusalemme celeste? – Ciò che abbiamo appena detto sul corpo degli eletti, San Tommaso lo afferma su quello dei reprobi. Anch’esso recupererà tutto ciò che fa parte della sua integrità naturale, non per premio ma come castigo (S. Thom., c. Gent., L. IV, c. 89.). È così che il Santo Dottore intende le parole dell’Apostolo: « I morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati » (1 Cor., XV, 52). Così questa corruzione parziale, che risulterebbe dalla privazione di una parte dell’organismo, non coglierà nessuno tra i morti, nemmeno tra coloro che non avranno parte alla risurrezione gloriosa. Questo è anche il pensiero di Sant’Agostino che commenta lo stesso testo. « Cosa significa questa distinzione dell’Apostolo – egli dice – se non che tutti risorgeranno incorruttibili (incorrupus, incorrupti), ma che solo i giusti avranno un’incorruttibilità che nessun tipo di corruzione potrà mai più raggiungere? E perciò, chi non è trasformato, risorgerà nell’integrità delle sue membra, ma per soffrire in esse i morsi del dolore » (S. August., ep. 205, al 446, n. 15.). – A cosa serve, dicevano gli oppositori del dogma, trasportare nella vita futura arti che non esercitano più le loro funzioni, denti che non hanno più nulla da masticare, uno stomaco che non digerisce più, dei piedi che non dovranno più lottare contro la gravità? Questa obiezione, confutata nel II secolo da San Giustino (S. Giustino, Fragmenta ex l. de Resurrect., n. 3. P. Gr., t. VI, col. 1576), altri miscredenti l’hanno ripresa ai nostri giorni, o per attaccare la nostra fede cattolica, o per sostenere singolari fantasticherie (J. Reynaud, nella sua opera “Terre et Ciel”, ha trasportato nella vita futura da lui immaginata, la maggior parte delle funzioni della vita presente, e persino quelle che tendono alla conservazione della specie, perché non comprende un organo che non avrebbe più il suo funzionamento naturale). Sì, lo ammettiamo subito, molte delle funzioni proprie dei nostri organi non saranno più adatte alla vita perfetta che è la nostra speranza. Perché degli alimenti, quando il corpo dell’uomo incorruttibile e immortale non sentirà più né la fame né la sete (Apoc. III, 16), né la perdita di sostanza e di forza che li esigono? Perché questi rapporti, destinati per loro natura a riempire i vuoti fatti dalla morte, quando il numero dei figli di Dio sarà completo, e nulla potrà far scomparire il più piccolo di loro dalla terra dei viventi (S. Matth. XXII, 30)? Ma se le funzioni più o meno grossolane a cui le esigenze della vita mortale li avevano sottoposti sulla terra, devono cessare per i nostri organi, non è questo un motivo per sopprimerle nella vita perfetta. – Io lo comprenderei per alcuni, se ci fosse del vero nel principio di certi filosofi, che non sanno distinguere l’idea del bello dalla nozione dell’utile. Ma chi non vede quanto sia bassa e falsa una dottrina che misura la bellezza dall’utilità? Perché, dunque, le membra dei beati sussisteranno nella loro perfetta integrità, anche quando non saranno più necessarie per le operazioni a cui la natura le aveva principalmente destinate? Rimarranno per condividere la felicità di cui sono stati strumenti e per essere una testimonianza permanente dei meriti acquisiti nell’uso della loro attività. Rimarranno, perché la loro presenza è necessaria per la perfezione del corpo che Dio vuole glorificare (« Cætera ergo membra (quæ deserviunt vel nostræ conservandæ individuæ vel speciei propagandæ), erunt ad speciem, non ad usum; ad commendationem Pulchritudinis, non ad indigentiam necessitates. Numquid quia vacabunt, ideo indecora erunt? Erunt ibi membra integra, etiam quæ hic pudenda sunt, sed ibi pudenda non erunt. Non ibi erit sollicitum integritatis decus, ubi non erit libidinis dedecus ». S. Agost.., serm. 283 in dieb. pasch. 14, n. 4, 6 – Il Santo sottolinea nello stesso testo che, anche nel nostro attuale stato di mortalità, non tutto nell’uomo è per l’utilità. « Barbæ quis usus nisi sola pulchritudo? Speciem video, usum non quæro ». – Cfr. Tertull, de Resurr. carn, c. 60, 61. ): infatti, la costituzione dell’organismo umano è tale che tutte le parti si tengono insieme e che nessuna, di conseguenza, può essere tagliata senza danneggiare l’armonia dell’insieme  (« Deus autem ita est artifex magnus in magnis, ut minor non sit in parvis“): Quæ parva non sua granditate, nam nulla est, sed artificis sapientia metienda sunt: sicut in specie visibilis hominis, si unum radatur supercilium, quam propemodum nihil corpori, et quam multum detrahitur pulchritudini: Quoniam non mole constat, sed parilitate ac dimensione membrorum ». S. Augus, de Civit. Dei, L. XI, c. 22). Rimarranno, perché l’anima stessa non dispiegherebbe tutta la sua perfezione, priva come sarebbe di questi organi. – Un testo di Aristotele, spiegato da San Tommaso, ce lo farà capire meglio. Questo grande filosofo disse dell’anima « che essa è per il Corpo, non solo una causa formale e finale, ma anche una causa efficiente » (Arist., de Anima. I, II, testi 36 e 37). Le bellezze che l’opera rivela all’esterno, l’arte le conteneva già implicitamente in sé, ed è per questo che era in grado di produrle. Così è per l’anima: tutto ciò che vediamo nel corpo e nelle sue varie parti, l’anima lo contiene allo stato latente, come fonte da cui emana. – Come l’opera d’arte sarebbe imperfetta, e l’arte stessa potrebbe essere accusata di impotenza, se l’opera mancasse di una parte della bellezza contenuta nell’arte, così l’uomo non sarebbe perfetto né nell’anima né nel corpo, se lo sviluppo di quest’ultimo non rispondesse pienamente alla potenza formativa contenuta nella prima (S. Thom., Supplem., q. 80, a. 1). Non volete organi senza funzioni, e condannate l’anima, la parte più nobile di noi stessi, a non creare per sé, con l’aiuto di Dio, un organismo che si armonizzi con la sua natura e la sua stessa virtù. Ma, inoltre, quale uomo ha sufficiente dimestichezza con i misteri dell’altra vita per affermare che le membra spiritualizzate potrebbero avere, in assenza delle funzioni grossolane che svolgono quaggiù, una destinazione più consona alla loro nuova condizione?

3. – All’identità e all’integrità dei corpi risorti va aggiunta l’incorruttibilità. Sì, tutti questi corpi estratti dal sepolcro saranno incorruttibili, nel senso che questa parola designa l’immortalità. « E non ci sarà più la morte » (Apoc. XXI, 4) e i morti risorgeranno incorruttibili (I Cor. XV, 52). La sentenza è generale e si estende universalmente a tutti, ai riprovati come agli eletti. Perché questa corruzione che dividerebbe l’anima dal corpo, quando non v’è più lo stato di cambiamento e di cammino, ma quello di immobilità nel termine? Il corpo è unito all’anima perché l’uomo possa subire la punizione dei suoi crimini o ricevere la ricompensa dei suoi meriti; eppure, come insegna la fede e approva la ragione naturale, né la punizione né la ricompensa avranno fine. È ai risorti e non alle sole anime che si dirà: « Venite, benedetti del Padre mio… e…: Via da me, maledetti, andate nel fuoco eterno » (Mt. XXV, 34, 41). – Io so che l’inferno non è la dimora dei vivi, come il Paradiso, ma dei morti. « E il mare rese i morti che aveva; e furono giudicati secondo le loro opere. E l’inferno e la morte furono gettati nel lago di fuoco. Questa è la seconda morte » (Ap. XX, 13, 14). Come sono morti coloro la cui anima è stata unita alla carne; e come possono vivere se sono morti? Non risolverebbe del tutto la difficoltà dire che sono morti, e per sempre, perché hanno perso la vita naturale, eternamente separati come sono da Dio, la vita delle anime. Né basterebbe rispondere che una vita di torture e di sofferenze, senza riposo né godimento, non è tanto una vita quanto una morte (S. Augus., de Civit., L. XIII, c. 2) – C’è, mi sembra, nelle parole dell’Apostolo un significato ancora più profondo. La morte per noi uomini mortali, cioè questa lacerazione suprema in cui si spezzano i legami, in cui avviene la separazione, è solo di un istante. Per gli sfortunati dannati, il morire è eterno. Tale è la forza del tormento che basterebbe a distruggere milioni di vite; ma tale è la potente virtù di Dio che tiene queste anime maledette legate ai loro corpi, che la divisione non può essere completata. È un’agonia senza nome che non è né il tranquillo possesso della vita né la consumazione della morte. Non vivono e non sono morti; stanno morendo, moriranno sempre; ed è per questo che la seconda morte, lungi dall’essere incompatibile con l’unione del corpo e dell’anima, la richiede come sua condizione essenziale.

4. – I teologi, dopo aver affrontato le questioni principali dell’identità, dell’integrità e dell’immortalità, ne sollevano incidentalmente una quarta a cui è meno facile rispondere. Quanti anni avranno i risorti o, per meglio dire, a qual età della vita corrisponderà il loro sviluppo organico? Se dovessimo prendere troppo alla lettera alcune espressioni delle Scritture e dei nostri Libri liturgici, sembrerebbe che essi avranno proprio l’età in cui dovranno lasciare la terra. L’Apocalisse parla di anziani seduti su troni, con corone d’oro sul capo, che circondano il trono su cui siede l’Altissimo (Ap. IV, 4 Segg.); e la Chiesa, in uno dei suoi inni più graziosi, rappresenta i bambini, massacrati da Erode, che giocano sotto l’altare con le palme e le corone. Ma si tratta di immagini che non possono fornire argomenti solidi. Lo stesso testo dell’Apocalisse non mostra forse, accanto agli anziani, quattro misteriosi animali che, notte e giorno, non cessano di glorificare il Dio tre volte Santo? Alcune anime, favorite da visite celestiali, hanno avuto la felicità di vedere Gesù apparire loro nella figura incantevole di un bambino; non concludiamo pertanto che questo sia lo stato di Nostro Signore in cielo. – Due illustri dottori, San Tommaso e Sant’Agostino, sono entrambi dell’opinione che gli eletti, dovendo risorgere nella perfezione della loro natura, rinasceranno tutti all’età in cui l’uomo raggiunge la pienezza del suo sviluppo fisico; cioè all’età in cui Gesù Cristo, il loro esemplare, uscì glorioso e vittorioso dalla tomba. Inoltre, questa regola non deve essere intesa con precisione matematica. Sembra opportuno che nell’aspetto esteriore dei risorti ci sia qualcosa che ricordi la loro vita quaggiù. Ci piace pensare che un Santo Stanislao, per esempio, conservi le grazie della sua giovinezza, e l’anziano Simeone la nobile maestà che lo caratterizzava quando accolse tra le sue braccia il Salvatore del mondo. Questo è tutto ciò che si può dire su un argomento in cui lo Spirito Santo non ha voluto definire nulla. – Anche Sant’Agostino conclude ciò che scrive al riguardo con questa importante osservazione: « Tutti risorgeranno con lo sviluppo corporeo che hanno avuto, o che avrebbero acquisito, nel pieno della loro giovinezza; tuttavia nulla impedisce di ritrovare le forme esteriori dell’infanzia e della vecchiaia, dove non ci sarà né l’ombra di infermità né la minima traccia di caducità. Pertanto, se qualcuno pensasse che ciascuno degli eletti riapparirà nello stato corporeo in cui lo ha sorpreso la morte, non ci sarebbe bisogno di preoccuparsi di contraddirlo » (S. August, de Civit., L. XXII, c. 16; S. Thom, Suppl., q. 81,a, 1). – Ho già sottolineato che la differenza tra i sessi non sarà soppressa, come alcune menti poco equilibrate hanno pensato di poter concludere da un testo di San Paolo, erroneamente interpretato (Ef., XIII, 4.). La donna, come l’uomo, è la creatura di Dio; ella entra, come lui, nel piano primitivo della creazione; come lui, sarà l’ornamento di quella Gerusalemme celeste, di quel regno in cui l’uomo regnerà in Gesù e la donna in Maria, sua e nostra Madre (S. Agostino, De Civit., L. XXII, c. 20; S. Thom, Suppl., q. 81, a.3). – Poniamo un’ulteriore duplice domanda che i più grandi Dottori non hanno considerato come oziosa. Quale sarà l’altezza e la fisionomia degli eletti, reintegrati nella perfezione della loro natura? La risposta alla prima domanda è la seguente: non tutti saranno di uguale statura. Infatti, ciò che la risurrezione deve riparare in ognuno di loro non è solo la natura specifica, ma l’individuo. Ora, sebbene la specie umana abbia dei limiti che sarebbe imperfetto superare o non raggiungere, non richiede di per sé alcuna dimensione specifica. Tali non sono le nature individuali. Ognuno, tra i termini estremi che sono appropriati alla natura specifica, ha un suo sviluppo normale. E poiché i principii individuali differiscono nelle diverse persone, non dobbiamo aspettarci di vedere negli eletti quell’uniformità di dimensioni che sarebbe non meno contraria alle leggi della loro costituzione che a quelle dell’estetica. Ciò che possiamo affermare è che tutti raggiungeranno quella giusta misura al di sopra o al di sotto della quale la bellezza delle forme cederebbe alla minima deformità (S. Thom., Suppl., q. 8l, a d: S August, l. c.). – La risposta è simile per l’altra parte della domanda. Né la differenza di fisionomia sarà distrutta, né le imperfezioni che li contraddistinguono li seguiranno oltre la tomba. Ogni volto dell’eletto, manterrà, anche dopo la sua trasfigurazione, il suo carattere distintivo; ma, pur conservando i suoi tratti fondamentali, raggiungerà l’ideale della sua perfezione. E questa non è una meraviglia così difficile da concepire. L’arte umana, per soddisfare un vano compiacimento, sa realizzare qualcosa di simile. Chi può ostacolare l’opera dell’Operatore onnipotente che riformerà i suoi figli a somiglianza di Gesù Cristo il Primogenito? -Colui che trasforma le anime e conferisce una bellezza divina ai più deformi, sarebbe impotente a idealizzare un corpo senza privarlo del suo carattere distintivo? Per aiutare la nostra fede, ha voluto darci un’anticipazione di questa gloriosa metamorfosi nella vita e nella morte dei suoi Santi. Quante volte ha diffuso sui loro volti, emaciati dal digiuno o sfigurati dalla malattia, uno splendore di bellezza che ha deliziato i felici testimoni di questi miracoli! Eppure, nessuno si sbagliava: erano davvero gli stessi uomini, la stessa espressione facciale, la stessa fisionomia, ma idealizzata, trasfigurata. – Sarebbe temerario aggiungere di sfuggita che anche gli eletti del cielo, con la loro fisionomia, conservano la loro caratteristica naturalezza? Questo, almeno, è ciò che credo sia espresso in un testo di Sant’Agostino. Quando arriva all’esposizione dell’ultimo salmo, il Santo ama riconoscere i beati abitanti del Paradiso nella moltitudine di strumenti che il sacro Cantore chiama a far risuonare la lode di Dio. « Così – egli dice – i Santi avranno ancora le loro differenze in cielo; ma proprio in questa varietà ci sarà consonanza e non dissonanza; ci sarà unità e non divisione. Non vediamo forse il concerto più gradevole derivare da suoni diversi ma non discordanti? Habebunt etiam tunc sancti Dei differentias suas consonantes non dissonantes, id est; consentientes non dissentientes: sicut fit suavissimus concentus ex diversis quidem sed non inter se adversis sonis » (S. August. Enarr. In psalmis 150, n. 7 e 8). – Soffermiamoci su queste considerazioni più generali. – A prima vista, sembrerebbe che non abbia raggiunto l’obiettivo che mi ero prefissato, perché invece di parlare della restaurazione comune a tutti i risorti, ho insistito soprattutto su quella dei benedetti dal Padre. Ma se guardiamo bene, quello che ho appena detto vale, tutto sommato, sia per i reprobi che per i salvati: con la differenza, però, che nel caso di alcuni questa identità e questa perfetta integrità si trasformeranno in punizioni eterne, e nel caso di altri in eterne delizie (« È necessario che i corpi dei morti siano in proporzione alle loro Anime. Ora, le anime dei malvagi sono buone, considerate nella loro natura, poiché questa è la creatura di Dio; ciò che è disordinato in loro è la volontà perennemente deviata dal suo fine proprio. Perciò i loro corpi, per quanto riguarda la loro natura, saranno restituiti alla loro integrità; saranno risuscitati all’età perfetta, con la totalità delle loro membra e senza i difetti che potevano essere introdotti in precedenza o dall’errore della natura o dalle loro infermità. » S. Thom, c. Gent, L. IV, c. 89).

LA GRAZIE E LA GLORIA (53)

LO SCUDO DELLA FEDE (230)

LO SCUDO DELLA FEDE (230)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (4)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

PARTE I

LA PREPARAZIONE

CAPO II

Art. 1

SACRE VESTI.

L’Amitto

Segnasi col segno di croce per porsi, dirò, sotto la croce come sotto l’albero della salute, e venire protetto dall’ombra sua, come colui, che allo scoperto non reggerebbe di presentarsi alla Divinità. Poi impone l’amitto sopra il capo. Come gli antichi guerrieri mettevansi l’elmo in capo, e della gorgiera, di che l’elmo era fregiato, si coprivano a difesa il collo intorno, così dell’Amitto, scopresi il capo, il collo, e lo stende giù per le spalle e sul petto (Rub. Miss. Præp.). L’amitto è un misterioso velo, che significa il Sacerdote dovere solo per Dio riservare gli affetti del cuore, a Lui interamente consacrato, anzi coprirsi come d’un velo il capo, la bocca, il petto, perché niente di guasto, di vano, di falso abbia da offendere colui che è chiamato sul santo Monte a conversare con Dio (Bona, Trac. ant. de Missa., Bened. XIV, De sac. Missæ). L’uomo, così posto al sicuro dagli attacchi del mondo, alza il capo, il cuore, la voce, per combattere le battaglie del Signore, forte per l’armatura della fede, di che risplende terribile al nemico di Dio e degli uomini. Così il Sacerdote resta il capitano della crociata di Dio. Ecco ragione della guerra eterna dell’inferno e de’ suoi contro i Sacerdoti. Bene sta: quando si fa guerra al re, sono i guerrieri, che stan per lui, che ne ricevono i colpi della vita. Il Sacerdote dice perciò mettendosi l’amitto: « imponi, o Signore, al mio capo l’elmo della salute per combattere gli assalti diabolici. » Mai non è da dimenticarsi, che il Sacerdote non solo sacrifica in nome di Gesù Cristo, ma anche lo rappresenta; perché il suo sacerdozio è uno con quello del gran Pontefice eterno Gesù Cristo, il quale è pur la gran Vittima ad un tempo. Il perché il Sacerdote rappresenta Gesù come sacrificatore, e rende immagine di Gesù Cristo come vittima (Durandus Minut. Ep. Ration., div. off. lib. 3, cap. 4.). – Perciò giova qui avvisare, che dopo le altre significazioni simboliche e morali, noi toccheremo delle significazioni, che riguardano Gesù Cristo direttamente; fra le quali una è questa, che l’amitto significa il velo, col quale i Giudei bendarono gli occhi a Gesù, quando gli scaricarono sul volto benedetto quegli orrendi schiaffi, dicendo: « Indovina chi ti ha percosso, o Profeta da burla (Manzi loco cit.). » L’Amitto significa pure la corona di Spine, egualmente che la santa umanità, di che velò sulla terra la sua divina persona (Bona loc. cit. Manzi Del vero ecclesiastico).

Il Camice.

Ecco il bianchissimo camice (alba), simbolo dell’umana natura purificata nel Sangue dell’Agnello immacolato Gesù (Card. Bona trac. an. de Missa.). Il battesimo, la penitenza, poi le sante lagrime, la compunzione e tutti i mezzi di santificazione mirano qui, cioè a riparare i guasti fatti dal peccato nelle anime nostre, ed a restituirle nell’originale giustizia e santità; affinché, purificati per i meriti di Gesù Cristo, compiamo la nostra destinazione, che è questa, di poter giungere ad essere beati in seno a Dio. Dice perciò nell’atto di vestire il Camice: « Lavatemi, o Signore, e mondate il mio cuore, affinché, reso candido nel Sangue dell’Agnello, possa fruire dei gaudi sempiterni. » – Ecco adunque il Sacerdote vestito tutto di bianco, che significa l’uomo dover essere purificato delle braccia, perché si affretti a lavorare a gloria di Dio, e deporre della sua vita continue offerte sull’Altare, che arde in cielo innanzi al trono dell’Eccelso; purificato delle ginocchia, e fatto degno di prostrarsi innanzi all’altare, a presentare all’Altissimo ossequiosa adorazione; purificato dei piedi, affinché cammini diritto sul sentiero della legge divina, sull’orme segnate dall’Uomo-Dio; purificato del petto e di tutta la persona, perché, ricreato in santità, sia degno d’essere assorto in Dio (Idem. Amalarius Ben. XIV, loc. cit. Rupertus Abba. Tuil. de div. off. lib. I, cap. 20. De Alba Hug. Card. in Apocal. cap. 2, I. Durand. loc. cit.). – Il Camice significa anche la veste di Cristo, con che Erode lo vesti per ischerno per farsi trastullo di lui come d’uomo pazzo (Manzi loc. cit.). Bene sta; una vita monda che piace a Dio, è stoltezza agli occhi di coloro, che s’involgono nel fango d’ogni lordura, qui sulla terra. Ahì disgraziati! hanno bruttato in sé la santa immagine di Dio, perciò, senza pure volerlo, sentono ribrezzo di presentarsi a Dio, e per non sentire i lamenti della coscienza, che latra, gridano allegramente: « godiamo, godiamo l’istante presente; » e con brama infocata si ingolfano nei vizi, cercando furiosi nelle soddisfazioni della carne la felicità, che sola si trova in Dio; carnefici della propria pace, ché per andamenti sozzi di vita e mper opere dissolute, diventano feccia e scolatura d’ogni ribalderia, e sì gettano miseramente a disperazione!

Il Cingolo.

Poi il Sacerdote si stringe la vita col Cingolo, che significa l’angelica virtù della purità (Miss. Rubr. de præpar. Miss.), che rende la carne nostra degna di Dio: e, « cingetemi, o Signore, ei dice, col cingolo della purità ed estinguete nella mia carne l’umore della libidine, affinché rimanga in me la virtù della continenza e della castità. » Il voto della castità sposa a Dio il Sacerdote che ha giurato di volere i suoi affetti purificati (Bona Durand. Rutio div. off. lib. 3, cap. 3 De Alba Petrus Bles. Barhon Arcid. cit. 40.) tutti a Lui consacrare, e le sue delizie cercare in Lui solo; ed il Cingolo significa questo legame di caste nozze divine. Come i buoni fedeli appendono quei loro voti d’argento con belli nastri e gala intorno alle immagini care alla divozione dei popoli; così questo Cingolo appunto appende come un voto purissimo all’altare, a piè del Crocefisso, la persona devota e consacrata a Dio, e legata a Gesù unico oggetto delle sue tenerezze di Paradiso (Ben. XIV loc. cit.): e rappresenta pure i vincoli, che legarono Gesù nell’Orto. In tal modo il Sacerdote si lega, e va ad offrirsi con Gesù sull’Altare.

Il Manipolo.

Stende quindi il braccio sinistro a ricevere il Manipolo, e bacia sopra esso la croce. Questo era forse anticamente una pezzuola, di che i fervorosi nostri antichi Padri si asciugavano le lagrime, senza cui non potevano mai celebrare così santi Misteri. Sembra pure che il Manipolo servisse come di un pannolino per astergersi (Alcuinus De div. off. c. quid. signif. vestim.), e presentare con garbo e pulitezza sull’altare i santi vasi al Suddiacono affidati. Esso, colla croce che porta, significa la vita presente, in cui la nostra miglior porzione sono le lagrime ed i travagli, che Gesù ci comparte (Id. Rub. Miss. de præp.). La terra è un esilio per noi creati pel paradiso; la vita è un tempo di prova, e sono meriti di vita eterna le tribolazioni della vita presente. Verrà tempo, e non è lontano, quando sarà per noi gran fortuna l’aver avuto da soffrire con Gesù Crocifisso. Mieteremo allora in gaudio per l’eternità ciò che abbiam seminato lagrimando nel tempo (Duran. Ruper. ab Bona. Psal. CXXV.). Noi adunque, finché siam confinati qui sulla terra, siamo in bando, in pressura, in catene; ed il braccio sinistro, a cui si lega il Manipolo, significa la carne umana; che tiene legata la nostra persona colla terra, in cui dobbiamo espiare le nostre colpe coi patimenti (Ben. XIV loc. cit.). E siccome il Manipolo rappresenta anche la corda, che teneva avvinto alla colonna il benedetto Gesù, mentre Egli sopportava quella tempesta di battiture (Durandus, loc. cit.), ed eziandio la sua santa umanità, per cui restava Egli legato al mondo e soggetto ai patimenti; noi così con Gesù Cristo legati alla terra soffriamo, Lui fissando lassù in cielo dove godremo la vera libertà dei figliuoli di Dio, e diciam flagellati con Gesù Cristo, come il Sacerdote nello stendere il braccio, a cui si stringe il Manipolo: « fatemi degno, o Signore, di portare il Manipolo del pianto, e del dolore, perché con esultanza riceva la grande mercede eterna, che la vostra misericordia ai brevi travagli di questa povera vita apparecchia in paradiso; » e baciamo la mano, che ci manda le croci, e ci santifica i patimenti.

La Stola.

Così l’uom di Dio rinnovellato alla vita in Gesù Cristo, con Lui preparato a combattere la battaglia del Signore, e durarla da forte sotto il peso della tribolazione, pone sul collo segnato di croce la Stola. La Stola esprime il terzo vincolo, col quale fu legato Gesù, quando portava la croce. Essa è un dignitoso ornamento di autorità che si adopera nel presentarsi alle più importanti funzioni: significa la veste dell’immortalità, che, perduta pel peccato del primo Padre, riacquistiamo nei meriti di Gesù Cristo. Adunque, dove nell’anima nostra, spogliata della grazia che la rendeva degna di vita eterna, sovrabbondò il peccato, e del peccato fu stipendio la morte, ora la giustizia di Gesù Cristo, cancellando la nostra ingiustizia, fa che nell’anima nostra sovrabbondi la grazia (Ad Rom. V, 20.); e questa grazia è pegno di vita immortale. La Stola di color vario secondo il variare della solennità d’ogni dì, e splendida di oro e fino brillante di gemme, significa la veste dell’immortale gloria, che in cielo ricorda i vari meriti dei beati. Chi visse vita angelica in carne qui, vestirà il candor degli Angeli in cielo; e belli della luce del color di mite viola di paradiso saranno gli umili e i penitenti: splendidi i martiri dello splendor del Sangue divino: e le anime grandi in carità ricche in quella gloria della stola d’oro del regno dell’immortalità. Tutto questo viene significato dal nobile arredo, che è la ricca Stola, di che si adorna il Sacerdote dicendo: « rendetemi, o Signore, la Stola l’immortalità, affinché, quantunque indegno m’accosti al vostro santo Ministero, meriti pure il sempiterno gaudio ». Qui giova osservare il bel rito, con cui il Sacerdote compone la Stola sulla sua persona. Prende adunque egli questa, che significa la veste dell’immortalità infiorata di tutte virtù, che hanno da render risplendente l’anima nostra eternamente in paradiso, e la indossa formando con essa stretta sul petto una Croce, per farci intendere, che la virtù negli uomini è sincera e sicura solo, quando è saldata nella Croce di Gesù Cristo. Lo possiamo dire francamente: abbiamo diciotto secoli di prove, e sappiamo dalla storia di molte migliaia d’uomini che, chi guarda il Crocifisso, e lo medita, e vi si raccomanda, sotto la Croce di Gesù Cristo, si sente venire giù sull’anima da quelle piaghe santissime un balsamo, che guarisce le due piaghe eterne del cuore degli uomini; la piaga dell’orgoglio vile, e della voluttà schifosa; ma, chi volge le spalle al Crocifisso, con tutta la filosofia in corpo, resta pur sempre l’uomo dell’orgogli o vile e della voluttà schifosa. Non vi è adunque altro me a salvarci, fuorché unirci a portar la croce con Gesù Cristo, obbedienti insieme con Lui fino alla morte (Rub. Miss. praep. Bona, Durand. Ben. XIV loc. cit.) crocifiggendo la propria carne, serbarci immacolati dalle sozzure di questo secolo. Col cingolo ferma al fianco la Stola, il che pare voglia esprimere, che tutte virtù stanno in sesto, massime nei Sacerdoti, e risplendono come i più belli ornamenti agli occhi di Dio e degli uomini, finché campeggiano sopra di una vita monda. Che se d’una carne rinata nel Sangue di Gesù Cristo si fa vitupero di brutto peccato, allora si rompe il legame, che la unisce a Gesù e la compone a santità: e come nel vestimento sacerdotale, rotto il cingolo, cade giù a penzolone dalla persona in disonesto modo ogni adornamento, così, rotta al mal costume la vita, che deve essere santa, cade tutto in disordine vituperevole: lasciandosi poi andare l’uomo ai desideri d’una carne corrotta in fracido di snervamento dell’anima e del corpo, anche il lustro della virtù che sì possedeva, serve a rendere più disonorevoli e più deformi i disordini di una vita vituperata. Il Sacerdote velato dell’amitto, di candida veste interamente coperto, stretto dal cingolo al fianco, col manipolo legato al braccio, adorno della stola, colla croce sul petto, rappresenta l’uomo ricreato in Gesù Cristo, e rigenerato nello Spirito Santo alle opere di vita eterna.

La Pianeta.

Or ecco che veste la Pianeta; che significa la veste nuziale, colla quale solo è permesso comparire ad aver parte al gran convito per noi preparato da Dio (Innoc. INI, Ben. XIV, et Bona De Missa ei Durandus loc. cit.). E la veste nuziale è la carità, la quale colla sua forza e soavità rende leggiero il giogo di Dio (Rubrica Miss.). La Pianeta ha la croce dinanzi, che l’occupa tutta: perché, quando Gesù Cristo s’addossò la croce, coprì colla sua carità la moltitudine dei nostri peccati. La Pianeta significa anche la tunica inconsutile del Salvatore, che fu giocata ai dadi ai piè della Croce (Durand. loc. cit.). La bontà del Redentore per noi ha lasciato che gli giocassero fin l’ultimo de’ cenci che lo coprivano: così dava proprio tutto per noi! Ora il Sacerdote che rappresenta la Chiesa, la prende come il regal vestimento, che convien alla Sposa del Re divino, che ha dato per lei fino la vita (S. Laurentius Justin. lig. Visa de Car.). Perciò il Sacerdote, della Pianeta ricoperto nella persona, ci rappresenta Gesù Cristo, che porta nella Croce il peso delle nostre iniquità (Bona loc. cit.). Colla carità di Gesù Cristo confida di portare con costanza il peso del suo ministero, ed il caro giogo della legge di Dio; dice adunque in atto d’indossarsela, « O Signore, che avete detto: Il mio giogo è soave, ed il mio peso è leggero, fate che io così portar lo possa da meritarmi la vostra grazia. » Così il santo ministro, immediatamente a Cristo congiunto per l’unione dell’immortal Sacerdozio, che Gesù continua in Cielo, e cui esso Sacerdote come suo strumento esercita in terra, deve sempre ardere di quella carità, che in Dio sfavilla uguale ed eterna; la cui figura in terra nella legge antica si aveva in quel fuoco perpetuo, che doveva ardere sull’altare degli olocausti, per bruciarvi il grasso delle ostie pacifiche; il quale fuoco veniva mantenuto dal Sacerdote col porvi ogni mattina le legna (Lev. 6, 12, 13). Ora Cristo accese sulla terra la carità, fuoco spirituale, da quel materiale significato; e il Sacerdote ha da mantenerlo colle legna (chi nol vede?) della Santa Croce, di cui egli ha misticamente caricatala sua persona, e sulle quali rinnova egli ogni mattina il gran sacrificio dell’altare; il qual fuoco della carità donde ha da poter venire, se non dal cielo? Questo indicavano le fiamme, che, cadute nella legge antica di cielo, consumavano i sacrifizi. Ecco adunque il principio e la fonte inesauribile di quella vita di carità, che rende immortale, sempre attivo è più potente della morte, il Cattolicismo; voglio dire il sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, che si consuma vero olocausto dal Sacerdote in un incendio di carità divina. Così egli è pronto all’azione tremenda, questo uomo di Dio. Ha il segno della corona di spine sul capo, la croce sul petto, la croce sulle spalle, la croce sul braccio; la croce sull’uno e sull’altro fianco, le mani piene di sacri crismi, che ricordano le mani piene di Sangue di Gesù Crocifisso, vero rappresentante di Cristo, il sacerdote misticamente con Lui crocifisso; come Gesù si avviava al Calvario portando la croce, egli, recando gli arredi, coì mezzi quali vuole compiere il gran sacrificio, va all’altare.

LA GRAZIA E LA GLORIA (51)

LA GRAZIA E LA GLORIA (51)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO X

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO CONSIDERATA DAL LATO DEL CORPO

CAPITOLO PRIMO

La resurrezione della carne, sulla testimonianza della natura e della fede.

1. Ecco il figlio di Dio glorificato, consumato dalla parte principale di sé: è entrato attraverso l’anima nel possesso della sua eredità eterna: un’eredità di luce, di amore e di godimento inenarrabile. Cosa resta perché l’adozione sia completa ed il capolavoro della grazia sia compiuto? Resta da fare il Corpo, questa parte inferiore ma sostanziale di noi stessi, ad immagine del corpo di Gesù Cristo, l’unigenito Figlio di Dio; cioè farlo risorgere dal sepolcro, unirlo all’anima beata per adornarlo con tutti i doni richiesti da questa alleanza. Finché non siamo ancora liberati dalla schiavitù della corruzione, « noi gemiamo in noi stessi, aspettando l’adozione dei figli di Dio, che sarà la redenzione del nostro corpo » (Rm. VIII, 23). È di questa gloriosa risurrezione che dobbiamo parlare, prima di tutto per dimostrarne la certezza e poi, per quanto ci è possibile, per spiegarne le prerogative e gli splendori. Se considerassimo l’uomo solo dal punto di vista della pura e semplice ragione, sarebbe forse molto difficile, per non dire impossibile, portare delle prove a favore della risurrezione che siano in grado di darne certezza. Tuttavia, in assenza di prove rigorose, ci sarebbero comunque seri motivi per accogliere come una speranza questo ritorno alla vita che sarà la risurrezione dei nostri corpi. I santi Padri, soprattutto quelli che dovettero difendere questo dogma della nostra fede contro gli increduli dei primi secoli (Atenagora, S. Clemente, Minut. Felice, Tertulliano, Cirillo, Gerol., ecc.), ne svilupparono diverse con energia non minore dell’eloquenza, e i nostri grandi teologi, con S. Tommaso in testa, riprendendo le stesse induzioni dopo di loro, non hanno fatto altro che dare loro talvolta una forma meno oratoria e più concisa. – Questa prova della resurrezione della carne, gli Apologeti la richiedevano alla giustizia di Dio. Non è forse necessario che nella vita futura la ricompensa o il castigo corrispondano alle opere buone o cattive? Ora, essi vi risponderebbero, può essere mai che il corpo, una volta consegnato alla polvere, non ne debba mai uscire per unirsi all’anima e con questa nuova unione ricostituire l’uomo? Perché è l’uomo intero che qui fa l’opera del male e l’opera del bene; l’uomo che benedice Dio e che lo bestemmia; l’uomo che si piega alla sua santissima volontà per osservare la legge morale o che si ribella per violarla; l’uomo, in una parola, che ama il suo Dio o che lo oltraggia. Non obiettate che ci siano crimini in cui il corpo non ha alcun ruolo. Non ne conosco nemmeno uno. Infatti, l’unità del nostro essere umano è tale che nessuna operazione dell’anima si svolge in esso senza il concorso degli organi. Né la mente ha un pensiero se non entra in gioco l’immaginazione, né la volontà agisce se la sua libera determinazione non abbia il suo punto di partenza o la sua ripercussione nella sensibilità. – Almeno ammetterete prontamente, e questa sarebbe una prova sufficiente, che, se pur ci siano delle eccezioni, la cooperazione o la complicità del corpo è la regola generale. E la santa Chiesa di Dio lo ha capito così bene che, nelle preghiere con cui accompagna le estreme Unzioni che impartisce ai suoi figli per cancellarne le ultime macchie, parla solo dei peccati commessi con i sensi del corpo. « Che il Signore, per questa santa unzione – essa dice – e per la sua piissima misericordia, vi perdoni tutto ciò che avete commesso di male con gli occhi, con le orecchie, ecc. ». Né mi dite pure che lo strumento cieco di un crimine o di un atto eroico di virtù non venga né premiato né punito: il coltello dell’assassino, per esempio, o la spada del soldato che muore per la sua Patria. Senza rispondere, come potrei, che l’uno è accolto con rispetto, mentre l’altro è respinto con una sorta di orrore, mi accontenterò di far notare quali sentimenti opposti la natura stessa impartisca alle spoglie di un criminale e a quelle venerate di un uomo di grande virtù. Il corpo, infatti, non è uno strumento separato, come l’ascia o la spada: esso è una parte dell’uomo che lo usa; è quest’uomo stesso in uno degli elementi essenziali che costituiscono la sua natura e la sua persona. Dunque, è giustizia di Dio che, nel giorno della retribuzione finale, la carne esca dalla tomba per seguire il destino dell’anima, o nella ricompensa o nel castigo (Athenag., de Resurr., mort., n. 48-24). P. Gr., t. 6. p. 1008, cfr. Thom, c. Gent, L. IV, c. 79). Diciamo di più: anche se il corpo non avesse contribuito in alcun modo agli atti che saranno oggetto del giudizio di Dio, dovrebbe comunque comparire lì con l’anima: perché è l’uomo che ha compiuto questi atti. « L’uomo è, in effetti, un composto di due sostanze; egli deve quindi presentarsi con ciascuna di esse per essere giudicato tutto intero. Egli ha vissuto nella sua interezza; quindi, come ha vissuto, così deve essere giudicato, poiché il giudizio riguarda la sua vita. Qualis ergo vixerit, talem judicari (dicimus), quia de eo quod vixerit habeat judicari » (Tert. De Resurr. Carnis, c. 14, col. 16), dice Tertulliano nel suo linguaggio vigoroso. – Dopo la giustizia, è la sapienza di Dio che esige la resurrezione. Ancora una volta, che cos’è l’uomo? Non ascoltate chi vi dice che è pura materia, più o meno perfettamente organizzata: è un errore troppo evidentemente assurdo e troppo evidentemente degradante. Non ascoltate nemmeno coloro che, per un errore contrario, vorrebbero renderci puri spiriti, racchiusi per un certo tempo nel corpo, ma destinati un giorno a liberarsi da esso, come un prigioniero che viene liberato dalle sue catene, un insetto alato che rifiuta i suoi involucri informi. L’uomo non è né un corpo né un’anima, ma il composto vivente e sostanziale dell’uno e dell’altro, anche se la preminenza spetta all’anima in virtù della sua stessa natura. Quando, dunque, l’anima viene separata dal corpo, è un’opera incompleta, come una magnifica cattedrale il cui coro sia in piedi e la cui navata sia stata abbattuta. Posso mai persuadermi che la Sapienza divina, l’Artefice onnipotente la cui mano ha creato questo capolavoro (Sap. VII, 21), facendo violenza alla natura delle cose, possa lasciare i detriti alla terra e conservare per l’eternità solo la parte maestra (S. Thom. Ibid.)? È ancora una volta alla provvidenza di Dio che i Padri e i nostri Dottori si appellano. In qualsiasi stato dell’umanità, se Dio non l’avesse creata come ha fatto, per un destino soprannaturale, avrebbe dovuto darle la felicità dopo una prova vittoriosamente subita. Ora, senza la risurrezione del corpo, questa felicità non sarebbe completa, né risponderebbe pienamente alle aspirazioni che la natura, cioè Dio stesso, ha posto nel cuore dell’uomo. – Io ho detto che non sarebbe completa, perché la beatitudine, cioè la perfezione finale, presuppone come fondamento la prima perfezione dell’anima, quella che le è propria per natura. Ora, questa prima perfezione su cui poggia la beatitudine, l’anima separata dal corpo non la possiede interamente: infatti, in virtù dei requisiti stessi del suo essere, essa è parte dell’uomo, poiché la sua funzione nativa è quella di essere in esso come forma del corpo (« Anima, cum sit pars humanæ naturæ, non habet naturalem perfectionem nisi secundum quod est corpori unita ». S. Thom, 1 p., q. 90, a. 4; col. q. 76 a. 1). Se, dunque, nessuna parte ha la perfezione della sua natura al di fuori dell’insieme verso cui è ordinata, come potrebbe l’anima trovare la sua suprema perfezione, eternamente esclusa dall’insieme organico in cui ha ricevuto l’esistenza? Così il Dottore Angelico riassume una prova eloquentemente sviluppata fin dal II secolo da Atenagora ed altri Padri (S. Thom., c, Gent., l. c.; de Pot.., q.5 a. 10; Atenag. de Resurr. mort., n. os 15 e 24, l. c.). Ho aggiunto che la beatitudine dell’anima separata non risponderebbe completamente alle aspirazioni del cuore umano. Perché no? Perché il desiderio innato dell’uomo è di essere completo nel suo essere. Da qui quell’istintivo orrore per la morte che può essere superato, è vero, quando il dovere lo richieda; ma che permane anche quando si vola con eroico ardore verso una fine gloriosa. Orrore e desiderio che difficilmente possono essere spiegati, se la separazione dovesse essere per sempre la condizione normale della nostra esistenza e della nostra futura beatitudine (S. Thom., c. Gent., l. c.; Compend. Theol., c. 15). – E ancora, se fosse vero che la compagnia del corpo sia essa stessa un ostacolo allo sviluppo di nobili facoltà, capirei come, nonostante la relativa perfezione che derivi dalla separazione, l’anima, per conquistare la sua suprema perfezione, dovrebbe dire un eterno addio al suo corpo. Ma l’ostacolo non viene dal corpo, bensì dal suo attuale stato di mortalità. « Corpus quod corrumpitur aggravat animam; il corpo che si corrompe appesantisce l’anima » (Sap. IX, 16). Questo è il peso che ci lega alla terra e « abbatte lo spirito capace di pensieri più elevati » (Ibid.). (Che questa mortalità svanisca, dunque, per lasciare l’anima libera di librarsi verso le regioni della luce; ma che non si privi lo spirito dell’uomo, con il pretesto di liberarlo, del suo complemento naturale.  Infine, i nostri Apologeti si appellano alla magnificenza di Dio, giocando con gli splendori della creazione. Che cosa ha voluto Egli fare nel produrre l’uomo? Costruire un ponte, per così dire, tra il mondo dello spirito e quello del corpo; unire intelligenza e materia con un legame permanente. Separando l’anima ed il corpo senza speranza di ricongiungimento, c’è soluzione di continuità, l’accordo si rompe, l’armonia cede il passo ad una dissonanza. Io non trovo più nel piano divino la sua grande e meravigliosa unità, perché la catena di esseri che da Dio è scesa fino all’abisso del nulla ha perso il suo anello più necessario: l’uomo, nel quale si combinavano l’esistenza puramente materiale e l’esistenza spirituale. Non sento nemmeno quel concerto unanime di esseri che hanno tutti una voce per lodare e benedire il loro comune Creatore e Padrone; se il mondo corporeo può ancora fornire un soggetto per la lode e l’adorazione, così non ne è più né lo strumento né l’organo. Anche da questo punto di vista, quindi, è necessario che l’uomo, dopo una momentanea dissoluzione, si ritrovi come Dio l’ha fatto, spirito e corpo, una miscela armoniosa e vivente in cui si riassume tutta la creazione. Quanto sono più forti e più evidenti queste belle convenienze della risurrezione tratte dalla contemplazione della nostra natura, quando il Cristiano guarda la sua carne dal punto di vista soprannaturale! Tra tutti gli Apologeti, Tertulliano ha messo in luce in modo mirabile ciò che l’economia della grazia ha fatto per rafforzare i diritti dei nostri corpi alla futura risurrezione. – Che cos’è in effetti la nostra carne agli occhi della fede? Questo grande uomo ce la mostra come investita di funzioni sacerdotali. Il fine del sacerdozio è far salire le anime a Dio e far scendere Dio verso gli uomini (Ebr. V., 1 seg.). Ora, è per mezzo della carne che saliamo a Dio: essa ci trasporta sulle ali del sacrificio, della mortificazione e della preghiera; è con la sua assistenza, attraverso il suo ministero, col suo ausilio, che ci offriamo a Dio come ostie viventi e che celebriamo le sue lodi. È anche attraverso di essa che Dio viene a noi. Ascoltiamolo dalla bocca dello stesso Tertulliano: « Quando – egli esclama –  l’anima si pone al servizio di Dio, è attraverso la carne che riceve questo onore. È la carne che viene bagnata, perché l’anima sia purificata; la carne che viene unta, perché l’anima sia consacrata; la carne che viene segnata con il segno sacro, perché l’anima sia consacrata; è la carne che si piega sotto l’imposizione delle mani, affinché l’anima sia illuminata dallo spirito; è la carne che è nutrita dal corpo e dal sangue di Gesù Cristo, affinché l’anima sia impinguata con la sostanza divina » (Tertull., de Resurr. carnis, c. 8.). Poi, riprendendo in una breve e calda sintesi i diritti che la natura e la grazia hanno dato alla carne: « Così, ricapitolando, questa carne che Dio ha formato con le sue mani e a sua immagine, che ha animato con il suo soffio a somiglianza della sua vita, che ha stabilito in questo universo per abitarlo e goderne, per comandare a tutte le sue opere, che ha rivestito con i suoi Sacramenti e la sua disciplina; questa carne di cui ama la purezza, di cui approva le mortificazioni, di cui apprezza le sofferenze, questa carne, dico, non risorgerebbe, essa che prende da Dio tanti titoli! Hæccine non resurget, toties Dei? No, no, lungi da noi pensare che Dio abbandoni ad una distruzione senza ritorno l’opera delle sue mani, del suo industriarsi, l’involucro del suo soffio, la regina della sua creazione, l’ereditiera della sua liberalità, la sacerdotessa della sua Religione, il soldato della sua testimonianza, la sorella del suo Cristo » (ibid., c. 9). Ripeto, queste prove, anche con la nuova forza che la consacrazione della carne nel Cristiano conferisce loro, non pretendo di presentarle come assolutamente dimostrative (San Tommaso, sebbene nessuno enunci le prove filosofiche della risurrezione con più forza di lui, si guarda sempre bene dal fornirle come vere dimostrazioni. Nel quarto libro contro i Gentili, c. 79, dice: « evidens ratio suffragatur », « Immortalitas animarum exigere videtur resurrectionem corporus futuram », aggiunge nello stesso luogo. E altrove (Supplem:, q. 75, a. 3, ad. 2): « Ex rebus naturalibus non cognoscitur aliquid non naturale (qualis est ex ipso resurrectio) ratione demostrante persuadente, sed ratione persuadente... ». Ne consegue che le prove tratte dall’ordine della natura « fidei resurrectionis persuasive adminiculantur » – ibidem). Ma come esse ci preparano a credere all’insegnamento infallibile del Vangelo, quando afferma a nome di Dio che la nostra carne, uscita dal sepolcro, sarà di nuovo vivificata dall’anima e non conoscerà più la morte! Questa è la bella riflessione che fa Tertulliano: « Dio – egli dice – ci ha dato la natura come maestra, prima di illuminarci con la sua parola, affinché, istruiti alla scuola della natura, credessimo più facilmente alla sua parola divina » (Job. XIX, 25-27). Noi che abbiamo ascoltato questa grande lezione della natura, impariamo da Dio stesso che cosa riservi nella loro carne, non più a dei semplici servi, ma ai suoi figli; non più ad umili creature ragionevoli, ma a degli dei divinizzati dalla grazia e dalla gloria.

2. – C’è una verità costantemente affermata nei nostri Libri sacri, predicata da Cristo, annunciata dagli Apostoli, custodi e testimoni della sua dottrina, insegnata dalla Chiesa in tutte le fasi della sua esistenza: la risurrezione dei morti. L’Antico Testamento stesso era pieno di questa convinzione: fu questa convinzione a consolare Giobbe, nel mezzo della sua angoscia, mostrandogli da lontano il Redentore della sua carne (« Prærmisit naturam magistram, submissurus et prophetiam, quo facilius credas prophetiæ, discipulus naturæ. » Tertull. de Resurr. carnis, c. 12); quella che rafforzò gli eroici Machabei nell’orrore dei loro tormenti (II Mach. VII, 9 segg.); quella che mostrò a Daniele coloro che dormono nella polvere, risvegliando alcuni alla vita eterna e altri all’eterno obbrobrio (Dan. XII, 2). Che cosa mi importa, allora, delle vane pretese di una falsa scienza e delle pretese impossibilità che essa oppone alla mia fede? Dio, la verità, afferma che risorgerò; Dio, l’Onnipotente, saprà come realizzare ciò che afferma. Per questo mi unisco con tutto lo sforzo della mia anima, e senza ombra di dubbio, alla grande voce del popolo cristiano che canta attraverso i secoli e soprattutto sulle lande: Credo nella resurrezione della carne e nella vita eterna, il dono della vita eterna, Credo resurrectionem mortuorum et vitam æternam », certi che questa voce sia solo l’eco fedele della predicazione degli Apostoli, dei Padri e dei Dottori; un’acquisizione necessaria della parola di Gesù Cristo, il Figlio del Dio vivente, che ci ha detto di sé: « Io sono la resurrezione e la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, io lo risusciterò nell’ultimo giorno » (Gv. XI, 25; VI, 53, 59, ecc.). E certamente, data l’economia della Nuova Legge, i corpi dei figli di Dio dovranno un giorno essere riuniti alle loro anime, glorificati con loro e come loro. L’Apostolo ce l’ha detto: « Noi tutti, per quanto numerosi, siamo un solo corpo, di cui Gesù Cristo è il capo e noi le membra » (Rom., XII, 5; cfr. Lib. V, c. 4). E non è solo attraverso l’anima che siamo parte di Cristo. Lungi da noi commettere un errore che ci attirerebbe il rimprovero dello stesso Apostolo: « Non sapete che le vostre membra sono membra di Cristo » (I Cor. VI, 15). Ciò che il Verbo ha unito a sé quando è diventato uno di noi nel grembo della Vergine è la nostra intera natura, anima e carne. Di conseguenza, Egli vuole che questa natura entri nel suo Corpo mistico, non solo con l’anima, la sua parte principale, ma interamente e senza alcuna divisione. E per suggellare questa felice alleanza, unisce nella più augusta delle vesti il suo Corpo al nostro corpo, le sue membra alle nostre membra, affinché il fedele ed il Cristo siano due in una stessa carne; è anche questa la conseguenza che traeva S, Ireneo da questa presa di possesso del nostro corpo da parte del Corpo di Gesù-Cristo: « da qual fronte si osa negare che possa ricevere il dono della vita eterna, questa carne che si è nutrita del corpo e del sangue del Cristo e che è un membro suo? » – Una conclusione così necessaria e così certa che revocarla significherebbe addirittura minare la nostra fede dal profondo. Non sono io ad affermarlo, ma San Paolo e lo Spirito di Dio attraverso di lui: « Quando vi sarà stato predicato che Gesù Cristo è risorto dai morti, come potrà qualcuno di voi osare dire che i morti non risorgeranno? Se i morti non risorgono, non è forse risorto Gesù Cristo stesso? E se Gesù Cristo non è risorto, vana è la nostra predicazione e vana la vostra fede, e voi siete ancora nei vostri peccati » (I Cor. VI, 12 segg.). Così Gesù Cristo non poteva risorgere solo in parte; è necessario che questo Trionfatore della morte abbia una risurrezione piena, completa, totale, in modo che la morte non sia indebolita ma assorbita nella sua vittoria. Ora, dove sarebbe la pienezza del trionfo di Gesù Cristo sulla morte, se le membra non seguissero il capo; le membra, dico, nella loro integrità, cioè sia le anime che i corpi? Proseguiamo sulle orme del grande Apostolo. Se vedessimo queste membra eternamente sparse e mescolate alla polvere, non saremmo autorizzati a concludere della stessa Testa che è come loro sepolta nelle viscere della terra? Così « il Cristo che esce dalla tomba, può essere veramente chiamato la primizia di coloro che dormono ancora nel sepolcro…. Come tutti muoiono in Adamo, così tutti devono rinascere nel Cristo. » E questa è giustizia: perché se la caduta e la morte del primo capo della razza umana ha portato alla morte dei suoi discendenti, la risurrezione del nuovo Adamo, Capo dell’umanità rigenerata, deve a miglior titolo chiamare il ritorno finale alla vita per la nostra natura. Ma, aggiunge l’Apostolo, « … ciascuno al proprio posto: prima Cristo, come primizia; poi quelli che sono di Cristo » (1 Cor., XV, 20-23). Pertanto, come Dio ha risuscitato il Signore, così risusciterà noi con la sua potenza. Non sapete che le vostre membra sono membra del Cristo? » (I Cor., XV, 14, 15). Che dico: Egli ci risusciterà. « Dio, che è ricco di misericordia per il grande amore che ci ha dimostrato… ci ha già vivificati in Gesù Cristo e per mezzo di Gesù Cristo. Ci ha innalzati con Lui e ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo Gesù » (Ef., II, 4-6). Aprite gli occhi della vostra fede e guardate: ecco nello splendore della gloria tutti coloro che vivranno e moriranno membri del Corpo mistico il cui capo è Gesù Cristo; essi sono là, non ancora in realtà, ma in speranza e di diritto: perché io vi vedo già il Capo, e Voi, Vergine Santissima, la più perfetta e la più unita delle sue membra (« Christo a mortuis excitato, capite nostro, et nos una surreximus, et, sedente capite, una et corpus sedet. S. Giov. Crisost,. Hom. 4 in Efesini, II, 6). – Nei giorni della sua vita mortale, il mio Salvatore conservò come imprigionate nella parte superiore della sua anima le delizie celesti, frutto naturale della visione intuitiva, che regnava su quelle alte vette. Da lì non discendeva nulla nelle regioni inferiori, perché doveva essere la nostra vittima, e per essere vittima doveva soffrire sia nel suo corpo che nella sua anima. Ma, una volta consumato il sacrificio cruento, la gloria rompendo gli argini inondava l’anima, i sensi e il corpo del mio Maestro. – È per lo stesso disegno che la sofferenza e la mortalità dominano ancora nelle membra vive di Gesù Cristo, che sono i fedeli: la passione del loro Capo deve essere completata in loro. Ma quando questa passione totale del Capo nelle membra sarà terminata, la pienezza della vita inonderà l’intero corpo di Cristo e « non ci sarà più la morte » (Ap. XXI, 4). Verrà giorno, quando il Padre metterà tutti i nemici sotto i piedi del suo Cristo. Perciò l’ultimo nemico, la morte, sarà distrutto, perché Egli ha posto tutte le cose sotto i suoi piedi » (1 Cor., XV, 25, 26): cioè, se vogliamo prendere le parole nel loro significato più completo, sotto le membra più infime della sua Persona, che sono i piedi ancora attaccati alla terra. – Così, per la natura delle cose e secondo le ripetute affermazioni dello Spirito di Dio, il dogma della nostra futura risurrezione è una conseguenza dell’incorporazione dei fedeli nella Persona mistica di Gesù Cristo Nostro Signore. Si può obiettare che questo ragionamento si spinga troppo in là, poiché, se portato alle sue conseguenze, condurrebbe a pensare che il Corpo mistico di Gesù Cristo rimarrebbe incompleto, se tutti i corpi degli uomini non si elevassero configurati al suo stesso splendore. Un’obiezione vana che viene risolta da una parola sola: anche se tutti i corpi risorgono, non appartengono più a Cristo, le cui anime sono eternamente separate da Lui. Come può allora il suo Corpo rimanere incompleto, perché non ha membra che non sono e non possono essere sue? – Riportiamo la stessa conclusione generale in una nuova forma. Gesù Cristo disse ai Giudei: « Distruggete questo tempio e io lo ricostruirò in tre giorni…. Ed è del tempio del suo corpo che Egli parlava », secondo l’osservazione dell’Evangelista (Giov., II, 19-21). Gesù Cristo chiama il suo corpo tempio, perché « la pienezza della Divinità abitava in Lui corporalmente » (Col. II, 9). Ma anche noi siamo templi di Dio; templi di Dio attraverso le nostre anime, templi dello Spirito Santo attraverso le nostre membra (I Cor. II, 10): perché la divinità scende dal capo al corpo, dal capo alle membra, per riempirle della sua presenza (Col. II, 10). Ora, il tempio che è Cristo e il tempio che siamo noi non sono due templi separati, ma uno stesso tempio di cui Gesù Cristo è il fondamento e la sua umanità la parte più augusta e sacra. « Non ho visto un tempio nella Gerusalemme di lassù, perché il Signore Dio onnipotente è il suo tempio e l’Agnello » (Ap. XXI, 22). Pertanto, se c’è un solo tempio in cielo, e se ogni fedele è un tempio di Dio, per grazia e gloria noi siamo di quel tempio (“Simul omnes unum templum, et singuli singula templa sumus“. S. Sant’Agostino, ep. 187, al. 57, n. 20 Cfr. Ef. II, 20-22). –  Pertanto, quando Nostro Signore ha detto: «  Distruggete questo tempio e lo ricostruirò in tre giorni », questa ricostruzione, che si riferiva direttamente a Lui, riguarda noi stessi in modo mediato. Non più di quanto il Corpo mistico di Cristo, il tempio di Dio che è l’Agnello, possa rimanere eternamente incompiuto. Ciò che è più o meno il destino dei santuari costruiti con le mani degli uomini, non può essere appropriato al tempio costruito con le mani di Dio. – Membri di Gesù Cristo, templi viventi di Dio, due titoli alla futura risurrezione. Ne trovo una terza, più immediatamente basata sulla nostra condizione di figli di Dio e di fratelli di Gesù, il primogenito del Padre. Ricordiamo il ragionamento di San Paolo nella lettera ai Romani: « Voi avete ricevuto lo Spirito di adozione a figli, con il quale gridiamo a Dio: “Abbah, Padre…” Ora, se voi siete figli, siete eredi, eredi di Dio e coeredi con Gesù Cristo, se solo soffriamo con Lui per essere glorificati con Lui » (Rom. VIII, 15, 17). Partecipando quindi alla figliolanza del Verbo incarnato, dobbiamo nella stessa misura partecipare alla sua eredità. Una parte di questa eredità, non la più eccellente, ma bella e certa, è la glorificazione della sua carne. Perciò, o eredi di Gesù Cristo, rallegratevi nella speranza dei beni futuri e, guardando con gli occhi della fede a Cristo risorto dai morti, vedete cosa vi aspetti, se non degenerate dal vostro sangue. « Ed è per questo – dice l’Apostolo – che viviamo già in cielo, da dove aspettiamo il Salvatore, il Signore nostro Gesù Cristo, che riformerà l’umiltà del nostro corpo e lo renderà conforme alla sua carne gloriosa, secondo quella potente operazione con la quale Egli è in grado di sottomettere tutte le cose. » (Fil. III, 20, 21). – Se la morte, prima di essere pienamente abbattuta, addormenta ancora nella polvere questi figli di Dio, membra vive di Cristo, non temiamo per loro: « essi non sono morti, ma dormono »; dormono, dico, nel Cristo vivente, e il loro risveglio, alla voce dello stesso Cristo risorto, sarà d’ora in poi vita piena ed immortale (Marc., V, 39; I Cor. XV 15; 20). Ed è per questo che, secondo un’osservazione molto consolante di San Giovanni Crisostomo, il campo dei morti porta un nome veramente profetico tra i Cristiani: noi lo chiamiamo cimitero, cioè dormitorio: perché questo è ciò che si intende con il termine greco (κοιμητήριον = koimeterion): da cui si è formata questa parola. Siamo portati lì ed adagiati, infranti, sfigurati, senza forza né vita, ma per riposare all’ombra di Colui che abbiamo desiderato (Cant., II, 3; cfr. Wiseman, Fabiola, 2a parte, c. 3), nella cura della sua potenza e del suo amore, fino all’ora in cui risuonerà il richiamo vittorioso: « Alzatevi, voi che dormite, risorgete dai morti e Cristo vi illuminerà » (Ef. V, 14). E « l’ultimo nemico, la morte, sarà distrutto, perché Dio ha posto ogni cosa sotto i piedi del suo Cristo » (I Cor. XV, 25-26). – Quando e come avverrà questa beata resurrezione dei figli di Dio? Lo Spirito Santo, senza rivelarcene l’intero mistero, non ha voluto tenercene completamente all’oscuro. Una convinzione comune nella Chiesa è che ciò avverrà quando il numero degli eletti, predestinati alla gloria, sarà completo; quando l’edificio del Corpo mistico di Gesù Cristo sarà perfetto, e non mancherà nemmeno una pietra al tempio che Dio si è degnato di costruire per sé con gli uomini; quando, infine, la grande famiglia dei figli adottivi, sparsi nello spazio e nel tempo, sarà riunita al Padre celeste (Ef. IV, 12 segg.). Allora, « in un attimo, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba, i morti risorgeranno incorrotti (« Incorrupti intégritate membrorum, sed tamen corrumpendi dolore pænarum », ha detto Sant’Agostino dei reprobi. Ep. 205, al. 146 n. 15), e noi saremo trasformati ». (I Cor., XV, 52). « Resurget igitur caro, et quidem omnis, et quidem ipsa, et quidem integra. In deposito est ubicumque apud Deum,. per fidelissimum sequestrem Dei et hominum Jesum Christum, qui et homini Deum et hominem Deo reddet, carni spiritum et spiritui carnem. Utrumque jam in semetipso foederavit, sponsam sponso et sponsum sponsae comparavit, Nam etsi animam quis contenderit sponsam, vel dotis nomine sequetur caro. Non erit anima prostituta, ut nuda suscipiatur a sponso: habet instrumentum, habet cultum, habet mancipium suum carmen; ut collectanea comitabitur. Sed caro est sponsa, quae et in Christo Jesu spiritum sponsum per sanguinem pacta est. Hujus interitum quem putas, secessum scias esse. Non solo anima seponitur: habet et caro secessus suos interim, in aquis, in ignibus, in alitibus, in bestiis. Cum in hæc dissolvi videtur, velut in vasa transfunditur. Si etiam ipsa vasa defecerint, cum de illis quoque effluxerit, in suam matricem terram quasi per ambages resorbetur, ut rursus ex illa repræsentetur Adam, auditurus a Domino: Ecce Adam est quasi unus ex nobis factus, vere tunc compos mali quæ vasit, et boni quod invasit  », Tertull. de Resurr. carn., c. 63). Sarà l’ultimo giorno, non di questo o quell’uomo in particolare, ma di tutta l’umanità attuale, novissimus dies: giorno di resurrezione per tutti, di giudizio per tutti, di premio o supplizio totale per tutti (Joan. VI, 32; XI, 24; XII, 48). E non ci sarà più tempo, perché il destino di tutti sarà irrevocabilmente fissato nella morte eterna o nella vita eterna, per sempre.

LA GRAZIA E LA GLORIA (52)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (13)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (13)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO IV

LA VITA DELL’UOMO IN SE STESSO

3. – Sua applicazione.

Nell’amore e nel sacrificio sta dunque tutta la perfezione cristiana; son queste le due forze che fanno l’uomo perfetto secondo l’ideale cristiano. E chi vorrà dire che, con l’aiuto della grazia di Dio, non sia possibile raggiungerlo? “Da voi nulla potete”, verissimo; ma: “Tutto posso in Colui che mi conforta ”. Può esser tanto difficile amare Chi ha dimostrato di essere infinitamente amabile e infinitamente amoroso e quindi infinitamente degno dell’amor mio, la cui Persona è inoltre in perfetta armonia di affinità con la mia propria? Colui che per primo mi ha amato: “In questo è la carità, che, senza aver noi amato Dio, Egli pel primo ci ha amati ”, (I Giov. IV, 10), che ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figliuolo, che ci ha amati fino a farci suoi figli: “Guardate di quale amore ci ha amati il Padre, concedendoci di poterci chiamare ed essere di fatto figliuoli di Dio” (I Giov. III, I)? E d’altronde l’amore ch’Egli mi chiede non è una cosa straordinaria; è l’amore più consono alla mia natura, quello che la innalza al livello più alto. È amore di devozione, diremo anzi di dedizione, a Lui e alla sua causa, l’ufficio più nobile che io uomo possa compiere. È il dono di me stesso a Lui affinch’Egli faccia di me ciò che gli piace. “Dio lo vuole” è stato un grido di guerra e rimane il grido del soldato di Cristo nelle battaglie di Dio e soprattutto in quella battaglia interiore che mai cesserà in lui. In che cosa consistono in pratica quest’amore e questa lotta? Poiché la nostra vita è soprattutto pratica: non possiamo fermarci alla teoria. Per molti di noi, anzi, non esiste teoria, tanto l’anima è assorbita dalla vita, e non possiamo che compiangere coloro che fanno della teoria ad ogni costo, che continuano a porre quesiti e, non avendo né guida né basi né autorità, vanno sempre a tastoni brancolando attorno a loro stessi. Orbene, per incominciare: anche il solo voler amare o desiderar di amare è già per se stesso amare, come dice S. Leone. Non c’è desiderio dove non c’è amore; desiderare è amare. E osservare i comandamenti di Dio, ecco l’amore; gettarsi ai suoi piedi nel nostro nulla, nella nostra debolezza, nella nostra indegnità, guardare a Lui e fidare in Lui, sapere ch’Egli ci riguarda con misericordia e anche con fiducia, domandargli perdono quando l’abbiamo offeso, aspettare con fede dalla sua mano quanto ci occorre, poiché sappiamo benissimo che se il bambino domanda del pane il Padre non gli darà un sasso. E nell’allontanarci da Lui, vivere per amor suo la vita ch’Egli ci ha indicata, ecco che cos’è viver davvero, poiché è amare e dimostrare il proprio amore con la vita. Accettare il dovere che ci si presenta qualunque esso sia, perché Egli ce lo dà a compiere, e nella maniera in cui Egli vuole che lo compiamo, perché così possiamo piacergli, rende anche la cosa più insignificante e la vita stessa, e qualunque vita, degna di esser vissuta. E l’atto stesso di prendere il riposo e la ricreazione, dopo il lavoro quotidiano, e il cibo e il sonno, perché anche queste cose Egli ha disposto e vuole che in esse troviamo piacere, tutto ciò è ancora amare. “Venite in disparte in luogo tranquillo a riposare un poco” fu l’invito amoroso rivolto un giorno da Cristo ai diletti discepoli. No, per la maggior parte di noi, come ha detto S. Paolo più di una volta, la vita d’amore non è difficile quando si abbia conosciuto Colui della grazia di Dio, una volta avutane la visione, nulla vi è di più facile e di più naturale, se è lecito usar questa espressione nell’ambito del soprannaturale, che esercitarsi di continuo così nell’amor di Dio e per tal mezzo crescere in quella perfezione della nostra virilità che sola è degna di questo nome. – È vero che la pratica del sacrificio è più difficile; se fosse cosa facile la natura umana non le darebbe il nome di sacrificio, l’ammirerebbe di meno, non chiamerebbe eroe colui che lo compie nobilmente. Iddio, d’altronde, e la nostra vita cristiana quaggiù per Lui non esigono il sacrificio più che non lo esiga la natura umana in genere. Non domandano che facciamo di esso uno scopo. come se avesse valore di per sé, non vogliono che lo ricerchiamo come unica fonte di perfezione.. “Se distribuissi tutto il mio ai poveri, e dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi la carità, a nulla mi gioverebbe”. (I Cor. XIII, 3). L’unico valore del sacrificio sta in ciò ch’esso deriva dall’amore e a quello conduce. Basta amar Dio e cercare il suo amore e rendersi conto che in questa vita mortale ciò non può farsi senza qualche rinuncia. Molti sono gli ostacoli all’amore di qualunque genere; e chi vuole amare bene deve esser deciso a superarli. Preso in questo senso, il sacrificio appare veramente un bene, atto ragionevole e tollerabile; in breve diventa desiderabile e alla fine anche amato e gustato. È il segreto dei Santi. “O soffrire o morire” esclamava uno di essi. E un altro: “Non morire, ma piuttosto soffrire”, poiché ambedue sapevano l’amore che si cela dietro alla sofferenza e la trasforma in bene prezioso. La madre che ama la sua creatura non esiterà, quando questa sia colpita da grave malattia, a passare lunghe ore accanto al suo letto, incurante della propria stanchezza e della propria sofferenza, che saranno anzi l’unico suo conforto; e non v’è dubbio che l’assiduità e il sacrificio materno non avranno più limite se da quelli potrà dipendere la vita della creatura in pericolo. La stessa eroica generosità si manifesta in ogni campo, quando si ami davvero. Potremo esaltare e ricercare il piacere e l’appagamento di ogni capriccio, potremo perseguire le comodità e l’abbondanza, ma non potremo a meno d’inchinarci con sincera ammirazione dinanzi al sacrificio nobilmente compiuto per un nobile scopo, come dinanzi all’unica vera espressione di vita. Nessuna parola di Cristo ha ottenuto il consenso del mondo intero più facilmente di questa: “Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per l’amico”. Questa e non altra è l’attitudine del Cattolico verso il sacrificio. Egli è guidato e sospinto dall’amore verso Dio, e sopra ogni cosa desidera di esser fedele a quell’amore e di dimostrarlo coi fatti. Ha fiducia, anzi certezza che, sacrificando quanto lo ostacola nell’esercizio di questo amore, darà a Dio quanto Egli chiede, gli sarà accetto, diffonderà la sua gloria e al tempo stesso, sebbene questo non sia che un fine secondario, assicurerà la propria salvezza, consolazione e perfezione. « Chi avrà perduto la sua vita per amor mio la ritroverà”. Tutto questo egli sa perché glielo insegna un’autorità degna di fede e perché lo sente confermato dalla propria esperienza, lo vede nell’esempio di tante nobili esistenze intorno a sé e davanti a sé e soprattutto in quella che di tutte è il modello: la vita dell’Uomo-Dio. Che cosa non sopportò Egli perché il Padre fosse debitamente glorificato e le anime fossero salve, per dimostrare l’amore ardente che lo consumava per il Padre e per gli uomini? E noi, suoi discepoli, incorporati a Lui per il Battesimo, nutriti del suo Corpo e del suo Sangue, chiamati ad aver parte con Lui affinchè “compiamo ciò che manca alla passione di Cristo”, potremo esitare a soffrire in compagnia di Colui che protestiamo di amare, per cagion sua, per amor suo e per quei fini stessi che indussero Lui a soffrire volontariamente? D’altra parte, anche a riflettere alla nostra sola esperienza personale, non dobbiamo riconoscere che la sofferenza non è affatto da ritenersi un male assoluto? Chi non ha mai sofferto merita compassione, chi pone tutto il suo studio nell’evitare la sofferenza è degno di disprezzo, mentre chi molta ne ha avuta in sorte nella vita conquista facilmente il nostro affetto. Sappiamo, inoltre, come alla scuola della sofferenza si apprendano cose che non potrebbero altrimenti apprendersi, e come per essa ci agguerriamo contro ogni genere di male e di falsità. “Nella croce sta la salute, nella croce la vita; nella croce sta la difesa da’ nemici; nella croce l’infusione delle celesti dolcezze”, dice l’autore dell’Imitazione di Cristo. (II, XII, 2), o, come si esprime S. Agostino: “Per i cuori che amano nessuna fatica è troppo gravosa, anzi diventa una gioia, così come gli uomini trovan piacere nelle fatiche della caccia, nelle noie del commercio… Poiché quando un’anima ama, non soffre più, o, se soffre, la sofferenza stessa è amata”. (De bono viduitatis). – Come illustrazione dei pensieri sviluppati in questo capitolo, diamo una preghiera di quel grande Cancelliere inglese, Sir Thomas More, Santo che la Chiesa sta per elevare solennemente all’onore degli altari, definito da alcuni l’inglese più tipicamente rappresentativo, del suo paese che abbia mai esistito. Non era ancor giunta la condanna, ma egli la sentiva venire. Il suo re aveva spavaldamente preso partito contro di lui, sebbene solo un anno prima avesse dato a vedere di amarlo con tutta l’anima. More aveva dato le dimissioni dal suo alto ufficio, e si era ritirato nella casetta di Chelsea sperando di vivervi in pace, coi diletti familiari, il resto dei suoi giorni. Fu durante questo periodo che scrisse a margine del suo Libro delle Ore la seguente preghiera, documento umano quant’altri mai:

Dammi la tua grazia, o buono Iddio,

per tenere il mondo in conto di nulla,

per fissare in Te la mia mente e non curarmi delle vane parole degli uomini,

per amar la solitudine e non desiderare la compagnia del mondo, e a poco a poco ripudiarlo del tutto,

per liberare il mio cuore da ogni cosa di quaggiù, per non desiderar di ascoltare alcun rumore terreno,

perché anzi le fantasie mondane riescan fastidiose al mio orecchio, per pensare a Te con gioia,

per implorare il tuo aiuto umilmente e confidare nel conforto tuo,

per adoprarmi con diligenza ad amarti,

per conoscere la mia miseria e la mia malizia,

per umiliarmi e abbassarmi sotto la tua mano possente,

per piangere le mie colpe passate e soffrir con pazienza, per espiarle, ogni avversità,

per viver lietamente il mio purgatorio quaggiù,

per esser sereno nella tribolazione,

per camminare nella via stretta che conduce alla vita portando la croce con Cristo,

per ricordar sempre i novissimi,

per non mai perder di vista la mia fine che incombe,

per rendermi la morte familiare,

per prevedere e meditare l’eterno fuoco infernale,

per implorar perdono dal Giudice che verrà,

per tener sempre fissa in mente la passione che Cristo sofferse per me,

per ringraziarlo senza posa dei suoi benefici,

per riguadagnare il tempo perduto,

per astenermi da vane conversazioni sulle cose del mondo; e considerare un nulla, per conquistar Cristo, la perdita degli amici, della libertà, della vita, per considerare i nemici come gli amici miei migliori poiché i fratelli di Giuseppe non avrebbero mai potuto fargli tanto bene col loro affetto quanto gliene fecero con la loro malizia e il loro odio.

Questi sentimenti ognuno deve desiderare più di tutti i tesori dei principi e dei

re, cristiani e pagani, riuniti e ammassati insieme.

Nota. — Il Libro delle Ore a margine del quale è scritta questa preghiera è in possesso del Duca di Denbigh e conservato a Newnham. – Ne diamo la dicitura testuale sull’autorità del defunto Cardinal Gasquet.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (14)